Grice e Gaetani: L’implicatura convesazionale di
Catullo -- APVD NEAPOLIM – filosofia italiana – Luigi Speranza (Martano). Filosofo italiano. Grice: “I like Gaetani,
for one, he is a duke – and kept beautiful gardens at Martano – he
philosophised on the ‘ottocento’, as any philosopher from the Novecento would!”
Figlio di Carlo, conte di Castelmola, e Giuseppina Chiriatti. La famiglia
Gaetani annovera oltre al ramo dei Castelmola, anche quello dei Laurenzana, di
cui si ricorda il Barone Di Laurenzana, esponente del movimento radicale. L'insegna
araldica dei Castelmola è costituita da uno scudo forgiato di due strisce blu
ondeggianti che lo attraversano in senso trasversale. I G., prima Caetani,
vantarono alcuni papi, tra cui Bonifacio VIII.
Il padre, Carlo, avvocato, fu ripetutamente eletto tra le file dei
radicali nel Consiglio comunale di Napoli. Da Napoli attiene, fino a tutta la
Grande Guerra, alla cura del patrimonio fondiario in Martano, acquisito dal
matrimonio con Chiriatti. Questa infatti si era trasferita a Napoli dopo l'uccisione
del facoltosissimo padre Paolo, nell'ambito di una torbida vicenda che vide
infine coinvolta la madre di le quale mandante, assieme al prete Mariano, dato
che i due erano in tresca. Diviso il patrimonio tra le due figlie Giuseppina e
Paolina Chiriatti, e la madre stessa, vennero iniziati i lavori di costruzione
del palazzo Chiriatti-G.. A Palazzo Chiriatti-G. la famiglia venne a dimorare mentre
man mano la gestione delle fortune familiari passava in capo a G., che si
impegna in un'ardua opera di bonifica e di razionalizzazione colturale,
culminata con l'acquisto di diversi macchinari ad alta tecnologia. E però
proprio il malfunzionamento dell'attrezzatura finalizzata all'estrazione
dell'acqua dai pozzi, bene capitale nelle aride campagne della zona, a
determinare l'infiacchimento del capitale di famiglia e il progressivo
indebitamento verso il Banco di Napoli, che culmina con la fine del
fascismo. Frattanto G., che si fregia del titolo di duca, a
seguito del matrimonio con la duchessa d'Ascoli, Leopoldina, si dedica alla FILOSOFIA,
mentre, del resto, ha a ricoprire la carica di provveditore a Potenza. La sua
filosofia e ispirata dalla Francia, della che e un grande amatore, nonostante
il fascismo e nonostante la sua adesione al regime, che ad un certo punto ne
impedì la circolazione in Italia. Crociano, segue lo schema tracciato dal
maestro, mentre l'ultimo ricordo della natia Martano e un canto dedicato alle
tradizioni grike, di cui raccomandava appassionatamente la conservazione e il
culto. Nei giorni furenti che
precedettero il Referendum istituzionale appoggia in pubblici comizi la
Monarchia, e per questo paga dazio dovendosi allontanare all'indomani del voto
e rifugiarsi in Napoli, tutto teso negli studi letterari. Altre saggi: Villon
(Napoli); “Un carteggio inedito di F. Bozzelli (G.), L'Aquila, Masseria,
Martano (Lecce); “Un bilancio letterario” (Roma); “Per onorare un maestro: il
Torraca, Napoli); “Catullo” (Roma); L'Ottocento” (Napoli); “La bancarotta del
rosso: commedia in tre atti (Lecce); “Per la venuta del Duce” (Lecce); “Bernardo
Bellincioni, Galatina (Lecce); “Il benedettino-cistercense d. Mauro cassoni nel
Tempio, nella scuola, negli studi (Lecce); “Ricordi di Croce” (Napoli); Vicende tipi e
figure del Casino dell'Unione” (Napoli); Napoli ieri e oggi: passeggiate e
ricordi” (Milano-Napoli); “Apud Neapolim” (Napoli); Fonti storiche e letterarie
intorno ai martiri di Otranto, Napoli. "Catullo" rimanda qui.
Se stai cercando altri significati, vedi Catullo (disambigua). Sirmione,
busto di Catullo Gaio Valerio Catullo (in latino: Gaius Valerius Catullus,
pronuncia classica o restituta: [ˈɡaːɪʊs waˈlɛrɪʊs kaˈtʊllʊs]; Verona, – Roma)
è stato un poeta romano. Il poeta è noto per l'intensità delle passioni amorose
espresse, per la prima volta nella letteratura latina, nel suo Catulli
Veronensis Liber, in cui l'amore ha una parte preponderante, sia nei componimenti
più leggeri che negli epilli ispirati alla poesia di Callimaco e degli
Alessandrini in generale. Indice 1Biografia 1.1Origini familiari
1.2Trasferimento a Roma, vita sociale e letteraria 2 Opera 3Il mondo poetico e
concettuale di Catullo 4Note 5Bibliografia 5.1Rassegnebibliografiche
5.2Traduzioni italiane 5.3Commenti 5.4Studi 6Altri progetti 7Collegamenti
esterni Biografia Il busto di Catullo presso la Protomoteca della
Biblioteca civica di Verona. Origini familiari Catullo da Lesbia, dipinto
di Lawrence Alma-Tadema (1865). Gaio Valerio Catullo proveniva da un'agiata
famiglia latina che aveva contribuito a fondare la città di Verona, nella
Gallia Cisalpina; il padre avrebbe ospitato Q. Metello Celere e Giulio Cesare
in casa propria al tempo del loro proconsolato in Gallia[1]. Per quanto
concerne gli estremi cronologici della sua biografia, San Girolamo[2] pone l'87
a.C. e il 57 a.C. rispettivamente come data di nascita e di morte e specifica
che appunto egli morì alla giovane età di trent'anni. Tuttavia, poiché nei suoi
carmi accenna ad avvenimenti che riportano all'anno 55 a.C. (come l'elezione a
console di Pompeo e l'invasione della Britannia da parte di Cesare[4]), si è
maggiormente propensi a ritenere che egli sia nato nell'84 e morto nel 54 a.C.,
dato per certo il fatto che sia morto a trent'anni. Trasferimento a Roma,
vita sociale e letteraria Trasferitosi nella capitale, si suppone intorno al
61-60 a.C., cominciò a frequentare ambienti politici, intellettuali e mondani,
conoscendo personaggi influenti dell'epoca, come Quinto Ortensio Ortalo, Gaio
Memmio, Cornelio Nepote e Asinio Pollione, oltre ad avere rapporti, non molto
lusinghieri, con Cesare e Cicerone; con una ristretta cerchia d'amici
letterati, quali Licinio Calvo ed Elvio Cinna fondò un circolo privato e
solidale per stile di vita e tendenze letterarie. Durante il suo soggiorno
prolungato a Roma ebbe una relazione travagliata con la sorella del tribuno
Clodio, tale Clodia.[5]. Clodia viene cantata nei carmi con lo pseudonimo letterario
"Lesbia", in onore della poetessa greca Saffo, molto cara a Catullo e
proveniente dall'isola di Lesbo. Lesbia, che aveva una decina d'anni più di
Catullo, viene descritta dal suo amante non solo graziosa, ma anche colta,
intelligente e spregiudicata. La loro relazione, comunque, alternava periodi di
litigi e di riappacificazioni ed è noto che l'ultimo carme che Catullo scrisse
all'amata fu del 55 o 54 a.C., proprio perché in essa viene citata la
spedizione di Cesare in Britannia. Da alcuni suoi carmi emerge, inoltre, che il
poeta ebbe anche un'altra relazione, omosessuale, con un giovinetto romano di
nome Giovenzio. Catullo si allontanò, comunque, varie volte da Roma per
trascorrere del tempo nella villa paterna a Sirmione, sul lago di Garda, luogo
da lui particolarmente apprezzato e celebrato per il suo fascino ameno, situato
nella sua terra di origine e che per questo induceva al poeta distesi periodi
di riposo. Seguì Gaio Memmio in Bitinia: in quella circostanza andò a rendere
omaggio alla tomba del fratello situata nella Troade. Quel viaggio non recò
alcun beneficio al poeta, che ritornò senza guadagni economici, come sperava al
momento della partenza, né la lontananza riuscì a fargli riacquistare la
serenità perduta a causa dell'incostanza e dell'indifferenza di Lesbia nei suoi
confronti. Fu tuttavia una nota positiva la visita alla lapide del fratello, in
occasione della quale scrisse il Carme 101 (a cui si ispirò in seguito anche Foscolo
per la poesia In morte del fratello Giovanni). Catullo non partecipò mai
attivamente alla vita politica, anzi voleva fare della sua poesia un lusus fra
amici, una poesia leggera e lontana dagli ideali politici tanto osannati dai
letterati del tempo[6]. Disprezzava infatti la politica di allora, dominata da
politici corrotti che servivano soltanto il proprio interesse: riteneva dunque
che favorire l'uno o l'altro non significasse niente di meno che aiutare l'uno
o l'altro a perseguire il suo vantaggio personale. Tuttavia, seguì la
formazione del primo triumvirato, i casi violenti della guerra condotta da
Cesare in Gallia e Britannia, i tumulti fomentati da Clodio, comandante dei
populares, fratello della sua celebre amante Lesbia e acerrimo nemico di Cicerone,
che verrà da lui spedito in esilio nel 58 a.C. ma poi richiamato, i patti di
Lucca e il secondo consolato di Pompeo. Una nota da sottolineare è il Carme 52
dove, per usare le parole di Alfonso Traina, "il disprezzo della vita
politica si fa disprezzo per la vita stessa": (LA) «Quid est,
Catulle? quid moraris emori? sella in curuli struma Nonius sedet, per
consulatum peierat Vatinius: quid est, Catulle? quid moraris emori?» (IT)
«Che c'è, Catullo? Che aspetti a morire? Sulla sedia curule siede Nonio lo
scrofoloso, per il consolato spergiura Vatinio: che c'è, Catullo? Che aspetti a
morire?» (Carme) Opera Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Storia della letteratura latina (78-31 a.C.). Marco Antonio
Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum Manutium, 1554. Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Liber (Catullo). Il liber
di Catullo non fu ordinato dal poeta stesso, che non aveva concepito l'opera
come un corpo unico, anche se un editore successivo (forse lo stesso Cornelio
Nepote a cui è stata dedicata la prima parte dell'opera) ha diviso il liber
catulliano in tre parti secondo un criterio di tipo metrico: i carmi da 1 a 60,
sotto il nome di "nugae" (letteralmente "sciocchezze"),
brevi carmi polimetri, per lo più faleci e trimetri giambici; i carmi da 61 a
68, i cosiddetti "carmina docta" d'impronta alessandrina e per lo più
in esametri e distici elegiaci; i carmi dal 69 al 116 sono gli epigrammi
("epigrammata"), in distici elegiaci. Il mondo poetico e
concettuale di Catullo Il poeta Catullo legge uno dei suoi scritti agli
amici, da un dipinto di Stefan Bakałowicz. Catullo è per noi uno dei più noti
rappresentanti della scuola dei neòteroi, poetae novi, (cioè "poeti
nuovi"), che facevano riferimento ai canoni dell'estetica alessandrina e
in particolare al poeta greco Callimaco, creatore di un nuovo stile poetico che
si distacca dalla poesia epica di tradizione omerica divenuta a suo parere
stancante, ripetitiva e dipendente quasi unicamente dalla quantità (in
riferimento all'abbondanza dei versi di quest'ultima) piuttosto che dalla
qualità. Sia Callimaco che Catullo, infatti, non descrivono le gesta degli
antichi eroi o degli dei[7], ma si concentrano su episodi semplici e
quotidiani. Per giunta, i neòteroi si dedicano all'otium letterario piuttosto
che alla politica per rendere liete le loro giornate, coltivando il loro amore
solo ed esclusivamente alla composizione di versi, tanto che Catullo dichiara
nel carme 51: «Otium, Catulle, tibi molestum est:/otio exsultas nimiumque
gestis» «L'ozio per te, Catullo, non è buono;/ nell'ozio smani e ti scalmani»
(traduzione a cura di Nicola Gardini). Talvolta il poeta ostenta il suo
disinteresse per i grandi uomini che lo circondavano e che stavano scrivendo la
storia: «nihil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere» «non m'interessa,
Cesare, di andarti a genio» (carme 93), scrive al futuro conquistatore della
Gallia. Da questa matrice callimachea proviene anche il gusto per la poesia
breve, erudita e mirante stilisticamente alla perfezione. Si sviluppano, originari
dell'alessandrinismo e nati da poeti greci come Callimaco[8], Teocrito,
Asclepiade, Fileta di Cos e Arato, generi quali l'epillio, l'elegia
erotico-mitologica e l'epigramma, che più sono apprezzati e ricalcati dai poeti
latini. Catullo stesso definì il suo libro expolitum (cioè
"levigato") a riprova del fatto che i suoi versi sono particolarmente
elaborati e curati, le poesie raffinate e curate. Una delle caratteristiche
peculiari della sua poetica è, infatti, la ricercatezza formale, il labor limæ,
con cui il poeta cura e rifinisce i suoi componimenti. Inoltre, al contrario
della poesia epica, l'opera catulliana intende evocare sentimenti ed emozioni
profonde nel lettore, anche attraverso la pratica del vertere, rielaborando
pezzi poetici di particolare rilevanza formale o intensità emozionale e
tematica, in particolare come nel carmen 51, una emulazione del fr. 31 di
Saffo, come anche i carmina 61 e 62, ispirati agli epitalami saffici. Il carme
66, preceduto da una dedica ad Ortensio Ortalo, è una traduzione della Chioma
di Berenice di Callimaco, che viene ripreso per mostrare l'adesione ad una
raffinata elaborazione stilistica, una dottrina mitologica, geografica,
linguistica ed infine la brevitas dei componimenti, con la convinzione che solo
un carme di breve durata può essere un'opera raffinata e preziosa. Note ^
Svetonio, Vita di Cesare, 73. ^ Chonicon, ad annum. ^ Carme 113, 2. ^ Carmi 11,
12; 29, 4; 45, 22. ^ Secondo un'indicazione di Apuleio nell'Apologia, 10, la
donna a cui si riferisce Catullo rimase vedova nel 59 a.C. di Quinto Metello
Celere, sicché si può pensare a Clodia. ^ Al riguardo si veda il carme 93: «Nil
nimium studeo, Caesar, tibi velle placere / nec scire utrum sis albus an ater
homo» - «Non mi interessa affatto piacerti, Cesare, né sapere se tu sia bianco
o nero». ^ Eccezion fatta, forse, per i carmina 63 e 64. ^ Morelli Alfredo
Mario, Il callimachismo del carme 4 di Catullo, Cesena: Stilgraf, Paideia:
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Catullo / Gaio Valerio Catullo (altra versione), su LibriVox. Bibliografia di
Gaio Valerio Catullo, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.
Modifica su Wikidata (EN) Gaio Valerio Catullo, su Goodreads. Modifica su
Wikidata Il Liber di Catullo tradotto in italiano, su spazioinwind.libero.it.
Il Liber di Catullo con concordanze e liste di frequenza, su intratext.com. Le
grotte di Catullo, su smugmug.com. URL consultato il 1º maggio 2019 (archiviato
dall'url originale il 9 luglio 2009). Scansione metrica del Liber di Catullo,
su rudy.negenborn.net. La Chioma di Berenice: traduzione di Alessandro Natucci,
su digilander.libero.it. Il carme 64: traduzione di Alessandro Natucci (PDF),
su classiciscriptores.weebly.com. Portale Antica Roma Portale
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secolo a.C.Nati nell'84 a.C.Morti nel 54 a.C.Nati a VeronaMorti a RomaGaio
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Gaetani. Gaetani. Keywords: APVD NEAPOLIM, l’implicatura di croce. Croce,
Catullo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gaetani” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza.
Grice e Gagliardi: l’implicatura conversazionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Marino).
Filosofo italiano. Grice: “I like
Gagliardi; I spent some time with medics at Richmond, talking Greek! Anyhow,
Gagliardi shows why the Angles prefer physician – since ‘medicare’ is such a
trick!” – Grice: “Philosophically interesting bit is that Gagliardi applies
‘medico’ and qualifies it with ‘morale’!” –Nacque a un feudo dei Colonna, nell'area
dei Colli Albani, come riferisce Moroni nel suo Dizionario di erudizione, e
come riferito dallo stesso G. nel in "L'idea del vero medico fisico e
morale formato secondo li documenti ed operazioni di Ippocrate" (Roma). In
effetti, il cognome G. esiste all'epoca a Marino ed è tuttora tramandato. E
impegnato in ricerche morfologiche, microscopiche ed anatomo-patologiche a
proposito delle ossa, compiendo importanti scoperte in questo campo: in “Anatomia
delle ossa illustrata con le nuove scoperte", Roma) descrisse per primo la
struttura lamellare delle ossa. Inoltre effettua alcuni esami e ricerche
comparative tra le ossa umane e quelle del vitello. Descrisse probabilmente per
primo un caso di tubercolosi ossea. La sua opera fu piuttosto lodata, e l'
“Anatomia” fu ristampato. Fece importanti studi sul "mal di petto". Filosofa
sull'educazione morale. Diede anche ammonimenti contro i guaritori ciarlatani e
fornì alcuni suggerimenti deontologici.
Abitava nel rione Sant'Angelo, presso via delle Botteghe Oscure. In
questa strada un suo servo fu ucciso misteriosamente nottetempo. Durante le
villeggiature dei papi presso la Villa Pontificia di Castel Gandolfo G. ha il
privilegio di offrire la frutta al papa. Alessandro VIII gli conferì un titolo
nobiliare, ma non sappiamo quale. I suoi lavori, conservati nelle maggiori
biblioteche di Roma, rivestono un particolare interesse se anche duecento anni
dopo la loro scrittura, il vice-direttore dell'Ospedale San Martino di Genova, Arata,
diede alle stampe una lettera inedita del Gagliardi sull'itterizia. Si ha
svolto un proficuo lavoro di ricerca su G., scoprendo anche una firma del
medico in margine ad un saggio discusso all'Università La Sapienza. Altre opere: “L'infermo istruito nelle
scuole” (Roma); “Consigli preventivi e curativi in tempo di contagio dati in
forma di dialogo” (Roma); “Relazione de' Mali di Petto che corrono
presentemente nell'Archiospedale di Santo Spirito in Sassia” (Roma);
“L'educazione morale” (Roma). “Come sopra l'influenza catarrale che
presentemente regna in Roma e Stato ecclesiastico” (Roma). Si veda
l'annotazione di “Due baiocchi” in "Castelli Romani", Bossi,
Dell'Istoria d'Italia antica, Enciclopedia Treccani G. Sterpellone, I
protagonisti della medicina, Tiraboschi, Storia della letteratura
italiana, Lucarelli, G., Giornale de'
letterati d'Italia, Ros, La "Relazione de' Male di Petto" en el ambiente
anatomo-clínico romano, in Dynamis: Acta hispanica ad medicinae scientiarumque
historiam illustrandam; Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica,
Venezia, Emiliani; Lucarelli, Memorie marinesi, Marino, Biblioteca Torquati,
Ordinamento universitario dello Stato Pontificio Tubercolosi ossea; G., TreccaniEnciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 1 te cose senza profondarvi in
alcuna di efse, ed allora appunto diverrete più capaci di fare maggiori
progressi, e tanto più se vi servirete per regolatore delle vostrej operazioni
di quel saggio avvertimento feftina lente: Esplorerò dunque con private
conferenze l'animo di ciascun di voi separatamente, per meglio accercarmi di
ciò,che vi farà bisogno , non potendo il Medico dare ajuto al suo Infermo s se
prima non avrà ben conosciute le cagioni del suo male, e spero in oggi; e
domani di potere ricavare da voi ciò, che sarà più necessario, ch'Io sappia,
per meglio indirizzarvi. Ritiriamoci ora à fare il privato esame, per potere
Lunedì prossimo dar principio alle nostre Giornate. M Nella quale si
moftra cofa fi ricerchi d'eljena ziale per efere Medico je ciò, che
gli rechi ornamento. Avveddi jeri dal vostro parlare;
che non siete tutti voi di genio uniformi,perche conobbi
bene, che tal'uno di voi non restava persuaso, & altri più ; ò
meno, s’appagavano delle mie ragioni, e riflettendo, che ciò possa nascere
dalla diversità delle vostre menti più o meno sublimi, & animofe. Quindi è,
che prima d'inoltrarmi nel presente ragionamento, stimo necessario di
premettere una breve partizione delli vostri ingegni, à fine di regolare
ciascuno di voi secondo la propria capacità : Ecer tamente , conforme
nell'esterno non vi assomigliate trà voi, così ancora nell'interno sarete
differenti, cioè, che non avrà ciascuno di voi la medesima capacità, &
apertura di mérite ; il medesimo talento, ē spirito, la medesima memoria , e
ritentiva , & il medesimo giudizio, o perspicacia d'ingegno; onde, ciò
suppofto, io non potrò con la medesima misurd, e regola mostrare à tutti voi
ciò, che vi converrà d'essenziale, è d'ornamento per potere diventare veri
Medici. Dunque mi converrà necessariamente dividere left fenziale
dall'ornamento, perche l'effenziale dovrà competere egualmente à voi, che fiete
di mente più sublimi, che agli altri d'inferiore capacità : L'ornameiro poi,
perche non potrà competere egualinente , nè potrà essere in tutti voi uniforme,
bisognerà regolarlo fecondo la propria capacità, e genio di ciascuir di
vois con pensare al modo, che poffino l'ingegni inferiori uguagliare per altra
via ancora nell'ornamento li più subliini ; E ciò servirà primieramente per
dare un'ottima direzzione alle menti di maggior capaci. tà, in farli
conoscere ciò, che si debba di elli premettere d'essenziale , per poscia
potersi avanzare in quello di più, di cui saranno capaci. In secondo
luogoperche non si confondano, & avviliscano le menti meno sublimi, anzi
per istruirle , & ani. marle insieme à fupplire con l'Arte al di, fetto di
Natura, Certo, che ognuno di voi deve avere il medesimo fine, cioè di
divenire Medico; Onde dovrà unitamente con gl'altri incaminarsi per la medesima
strada, e fino à tanto, ch'abbia conseguico il suo in, tento ; Mà perche chi si
trova in forze maggiori trà voi è portato facilmente dal suo spirito ad uscire
dalla careggiata, quindi è, che bisognerà idearsi un caso, che dia un buon
regolamento à tutti unitamente, che sarà il seguente : Vi fia trà voi chi
posseda in contanti due, chi trè , e chi quattro talenti , e che voglia ciascuno
per uso proprio fabricarsi una casa compita, che abbiad d'avere il medesimno
uso, e la medefima fruto struttura, certo è, che li fondamenti
converrà, che li facciate uniformi, il sopra terra dovrà alzarsi eguale, le
stanze doyranno essere di numero, e capacità consimili, altrimenti non avrà la
medesima struttura. In idearsi queste case non potrà l'Architetto eccedere la
spesa di due talenti, altrimenti non potria senza indebitarsi compire la sua
fabrica ,chi di voi hå che due foli talenti; Si dolerà facilmente con
l'Architetto chi ne hà d'avantaggio, perche non gl'abbia delineato fabrica più
sontuosa , à cui facilmente egli risponderà, è meglio, che litalenti vi
avanzinoy che manchino, perche li potrete impiegare in ornato, e così la vostra
farà più bella comparsa ; Sentendo questo voi, che avete soli due talenti vi
dolerete ancora coll'Architetto, che non vi rimarrà cosa da spendere per
ornarla , e perciò la voftra fabrica non potrà comparire bella al pari delle
altre, vi risponderà il medesimo, abbiate pazienza , che vi darò il modo per
far comparire vaga la vostra ancora al pari delle altre : Mă se per
vostradisgrazia spenderete li vostri talenti senza le buone regole
dell'Architettura, é voglia ognuno di voi farsi una casa à suo genio . Vois che
avete quattro talenti vorrete fare il doppio degli altri, vi profonderete più
del bisogno ne' fondamentis farece muri più larghi; l'alzerete più dell' altri;
con tutti li vostri quattro talenti Atenterete à copritla ; con che denari poi
la stabilirete? A che servirii la magnifiċenza della vostra casa , non
potendola in tutto compire per renderla usuale? Tanto peggio seguirà in
voi, che possedete meno, se nella vostra fabrica spetdeste più di quello; che
dovete je po tete; correreste pericolo di non poterla ricoprire, onde vi
rimarria affatto infruto tuosa, Altro inconveniente ancora potrid fascere
si nell'uno, come nell'altro caso, che saria di risparmiare ne' fondamenti
qualche porzione de’talenti per impiegarla nell'ornáto, iii questo modo le
vostre cafe fariano sempre in pericolo di rovina. $e , con tutta la sua bella
apparenzas fatta [ocr errors] ad imitazione di quei Mercadanti, che ciò
che hanno tengono in mostra , e questi sono quelli, che ben spesso si veggono
fallire. Questa fabrica , ch'ora vi hò ideato è appunto la Medicina
Pratica, la quale fi deve da tutti voi apprendere , e nella medema conformità,
affinche ne ricaviate un metodo di medicare uniforme, facile , e sicuro , e se
in apprenderla voi, che siete dotati d'ingegno più subliine degl'altri, vorrete
stendervi più in oltre delli vostri Compagni, vi confonderete con facilità con
tutto il vostro bel talento, perche fzcilmente il vostro spirito grande vi farà
divagare in quelle cose, che apprese in altritempi , che resivi più capaci,
meglio lo capirete, & adatterete al vostro bisogno. Șia per esempio, se in
questo tempo, che attendete alla pratica , vi venisse fantasia di leggere,
& imparare molti, e diversi liftemi, e li varj metodi di medicare, che Lono
nella Medicina , questo vi reccherà confufione, contenendo tanta diversità di
pensieri,d'ideese di modi con tutto che la 7 verità delle cose sia
una sola , onde con Fagione riferisce Lacuna, (a) ch'esclamava à suoi tempi
Galeno : Judicij veri difficultatem liquidò oftendunt tot , tàmque variæ
hærefes, quòt in Arte Medicâ reper riuntur; E tanto maggiorinente, che
quefti distogliendovi da quel bell'ordine, che voi avevate preso in offervare
l'andamenti de? mali con li vostri propri occhi, vi faranno acquistare una
pratica fimile alla vostra ideata fabrica, che non farà côpita, & in
conseguenza non ne potrete cavare quel profitto,che ne riporteranno li voftri
Compagni , li quali à cagione della maggiore attenzione, che hanno in
apprendere quella sola,non divertendosi in altro, se ne approfitteranno bene, e
la loro pratica sarà compita , e potrà avere il suo uso, giacchè al
parere di Cicerone : (6) Affiduus ufus, uni rei deditus, die Ina genium ; &
Artem fæpè vincit ; Sicchè in questa parte eforto tutti voi à non applia care
ad altro , allora che prendete lame pra(a) Comment 1. Aphorism. 1. ex
Lecuno in Epit, (6) Cicero pro Cornel. Balb. 1 [ocr errors]
pratica, che à quell'esercizio, che fate, eccettuatone alcuni tempi destinati
per Ja Notomia, e per la Boštanica, Perfezionati, che farete in detta,
pratica , & appreso, che avrete un metodo facile, e più sicuro di medịcare,
allora converrà di ornarla di altre cose , che abbiano correlazione con la
Medicina , secondo il proprio genio , e capacità, con fermo proponimento però ,
che non vị abbiano da distogliere dallo studio di er fa , nè da confondere ciò,
che auete con li propri occhi offeryato più volte, eţurto ciò, che avețe
appreso per ornamento non l'avrete da profeflare come negozio principale,
altrimenti vi distoglierà da quello , che avevate già acquistato dị buono nella
- Medicina, ma sopra di cio più diffusamente ne tratteremo in ap: presto
Questą praticą, appunto acquistatą, mediante le reiterate esperienze, e
diligenti osservazioni fatte intorno li Malati è quello , che fi ricerca
d'essenziale nel Medico , & oltre di questa ogn'altra cosa, che
s’acquisterà di più gli servirà d'ornamento maggiore : Che sia così,per
consolazione di yoi, che siete d'ingegni meno sublimi, yeniamo alle
prove. La prima sarà con l'autorità d'Ippocrate chiara , e testuale ;
Dice dunque , egli:(a) Ars fane medica jām mihi tota inventa ese videtur, quæ
fic comparata eft, ut fingulas, da consuetudines , temporum occasiones doceat.
Qui enim hoc pactó Artis Medicæ cognitionem habet , is minimum ex, fortuna
pendet , fed & citrà fortunam, çum fortunâ rectè eam adminiftrabit ; Firma
enim eft Ars tota Medica , cjusque prçceptiones , ex quibus conftat dr.
Consistendo dunque tutta la Medicina in sapersi ciò, che sia solito à farsi, e
le congiunture de' tempi, nelle quali fi deve operare, queste chi meglio di voi
le potrà sapere, avendole con li yostri propri occhi più volte osservate? e
bastando ciò per bene medicare, secondo la dottrina d'Ippocrate, sarete dunque
, mediante la vostra buona pratica, allora già divenuti Me(a) Hippocr. in
lib. de loc. in bom.nesa Medici; E fe poi desiderate sentire sopra ciò
più chiaro parere d'Ippocrate , legge. xe De decenti ornatu, dove così vi parla
; Sint cu in memoria tibi morborum curatio. da harum modi, quo
multipliciter, quomodò in fingulis fe habent; bọc enim principium eft in
Medicina , medium, & finis = che sono appunto questi il costitutivo del.
l'essenziale: Sia all'oppofto tal'uno ornato di tut, te le scienze, nià
che non abbia acquistato ancora in Medicina una buona pratica , questi non si
potrà dire con tutte le sue scienze Medico pratico, perche non saprà ben
mcdicare, e gl'accaderà per l'appunto, ciò, che succederia ad un'insigne Geo.
grafo se volesse viaggiare senza la guida , queiti nelli bivj, ò trivj
sbaglierebbe la strada , per non averne la buona pratica , e con tutto , che
possedeffe la situazione di tutto il mondo, in un piccolo tratto di paese si
smarrirebbe; Mà tutto questo con Pesempj più chiari ve lo farò costare,
Tralasciando di riferirvi un lungo Catalogo de' Medici , che hanno scritto
in fola sola Medicina pratica, e che fiorirno con gran lode, mentre
vissero, senza effere ornaci d'altre scienze, perche lo potre te, volendo, con
li vostri proprj occhi rincontrare , leggendo i loro libri ; Vi riferirò solamente
alcuni casi accaduti à Medici, ch'avevano appreffo di noi molta ftima', per
essere versatiliminella buona pratica di medicare, e si poteuano annoverare trà
quelli, di cui parla, Ippocrate nel libro De Arte : Viri hujus Aricis periti ,
re ipfi lubentiùs, quàm vero bis demonftrant ; li quali vennero al cimento con
Medici di maggior grido di loro nelle altre scienze, e ciò , che ne seguì
. Gio: Giacomo Baldini ne fù uno di questi , il quale efsendo folamente
un buon Pratico, e dotato d'isperimentată prudenza , era per li fuoi pingui
guadagni molto invidiato da alcuni di quelli, che li riconoscevano in molte
scienze superiori di gran lunga à lui, s'abbattè egli una volta in un consulto
con due Medici delli più celebri nella facondia, 1 B с рiй
e più versati in molte altre scienze,e per tal cagione poco conto facevano di
lui; Ora questi avevano già premeditati li loro discorsi molto eruditi, à fine,
che meglio comparisse à tutta una nobile Udienza , che vi dovea intervenire, la
poca sufficienza, & infelice modo di di(correre del Baldini, furono sì
lunghi li sudetti eruditiffimi ragionamenti, e s'ina oltrarono tanto in cose
fuori del propofito, che in vece di dilettare annojarono tutta l'Udienza, &
avvedutofi di ciò il buon Pratico, in vece di gareggiare con loro nell'eloquenza
, fece un breve di. scorso, mà tutto indirizzato all'urgente bisogno, conobbe
meglio degl'altri il male, lo confermò con l'autorità puntuale d'Ippocrate,
fece il suo pronostico mortale, che si verificò in breve, venne alla cura ,
propose alcuni rimedj, e terminò il consulto con applauso uniuersale di tutta
quella nobile Udienza , diccndo : : mo, che ha discorso à proposito, e se
ne partì tutto contento, e consolato. Gio [ocr errors][merged
small] 1 1 Giovanni Tiracorda già in questo Archiospedale
degnissimo Decano, che nella pratica Medica aveva quei bei lumi, che felicirano
le cure ardue , si abbattè in un consulto con un Medico catedratico
eruditissimo nelle lingue , c Greca in ispecie, nelle Matematiche, ed ancora
nella Teologia ; L'Infermo era Oltramontano y poco prima giunto in Roma , che
li ainmalaffe, ed in tempo di aria sospetta, il' di cui male fù creduto dal
sudetto eruditiffimo Professore eflere una febbre etica , e con tali, erante
ragioni s'ingegnava di provarlo in ispezie per il pollo basso che aveá, che
fariano per certo bastate à formarne liga gran ležzione in cattedra. In tanto
il buon Pratico Tiracorda penaya in fentire ciò, che conosceva non potersi in
modo alcuno verificare, e dovendo egli concludere , con breve discorso fece
capire essere il male del povero foratieri) una febbre maligna,e di pelimo
costume, che se presto,e validamente non era foc corso farebbe morto, disse
ciò, che con veniva B2 [ocr errors] veniva farsi con
sollecitudine, e l'esito funesto, in breve seguito , ne fù il Giu-
dice, chi di loro avesse meglio conosciu- to il male, Riferirò
per terzo ciò, che seguì ad Antonio Piacenti mio Maestro, la di cui
perizia nel ben medicare è nota , per via vere ancora molti, che furono da effo
ne’loro gravi mali bene assistiti, onde per essere io interessato , non
m'inoltrcrò di vantaggio in lodarlo, e lascierò, che facciano altri quella
giustizia , che le sue gloriose ceneri meritano. Questi ebbe occasione più
volte di trovarsi alsieme co' Professori di molto grido, per le varie scienze,
che possedevano, e vedevo, che il suo configlio, ò era feguitato, ò volendosi
fare diversamente per lo più si sbagliava; Accadde una volta nella cura
di un'Infermo, che pativa di un male graue di testa, creduto da esso procedere
da pienezza d'umori viziofi, che nel basso ventre dimoravano, c per ciò
gl’aveva proposto il dejettorio, che à ciò si oppose chi era versato più di
luiin altre scienze fuori della pratica medicinale, con il motivo, che
l'evacuazione glavria inolto pregiudicato. Stette egli faldo nella proposta già
fatta, quale fù esaminata da altri Profeffori, e conclusa: ed eseguita che fù,
l'efito moftrò d'onde procedeva il male, e chi l'aveva meglio accertato,
posciache mediante l'evacuazione ne rimnase libero. Due gran motivi si
poffono dedurre dalli riferiti casi, uno di confolazione per voi, che non avete
genio ; ò abilità all'acquisto di altre scienze, vedendo, che nella vostra
sfera pratica; abilitati che sarete , potrete ftare à fronte con quelli di più
letteratura di voi, purche abbiate prudenza , e giudizio in sapervi ben
regolare; e l'altro servirà d'avvertimento à voi d'ingegno più perspicaces che
desiderate apprendere tutto lo scibile, à non fidarvi folamente sù quello, ch'è
ornamento Medico, dovendo ancor voi poffedere Fondatamente, al pari degl'altri,
quella buona pratica Medica, ch'è la direttrice del ben curare, senza
[merged small][ocr errors] la quale sono inutili tutti gl'altri ornamenti:
Consolatevi però ancor voi, che bramate d'apprenderli : perche quando saranno
uniti alla buona pratica, vi ferviranno ancor'elli di scorta, e vi faranno
divenire eccellenti Medici, & in prova di ciò non vi mancano esempj di
cafile, guiti, che fanno conoscere quanto accrescano di chiarezza alle nostre
menti le Filosofie sperimentali, la Ģeometria, l'Aftronomia, & altre
scienze, che porfono avere correlazione con la Medici. na, mà per ora potrà
bastarvi l'oracolo d'Ippocrate allora, che scrivendo à Tel, Lalo gli notificò:
Geometria mentem acuit, e longè Splendidiorem reddit ; e nel libro de Aere,
Aquis, & locis ; Ad Artem Medicam Astronomiam ipfam non minimum, fed
plurimum poteft conferre ; Ben'è vero, che rari fono quelli, a'quali datum eft
adire Corintum , perche tutte queste cose averle , poffederle, e maneggiarle à
quel segno, che conviene, cnon più oltre non a ricerca minor prudenza di
quella, che aveva il Re Mitridate iu reggere un Coco [ocr errors]
Cocchio tirato da bravi , e numerosi de strieri, altrimenti andandosene tutte
in pampani , e fiori, che non legano, produrranno pochissimo frutto, quantuns
que fosse vaghiflima la loro prima ap. parenza. Sicché parmi d'avervi à
bastanza mostrato , che l'essenziale del Medico non consiste in altro, che
nella buona, e soda pratica acquistata mediante le re. iterate osservazioni di
ciò, che fiegua nelli progrefli de’mali, e quanto fiac. quisterà di più fia
tutto ornamento. E da questo si possono comprende reli gran vantaggi, che
necessariamente nel ben medicare, non solamente li Gio. uani Praticanti, &
Aliftenti ne riportano dalle continue offeruazioni , che fi fanno negli Spedali
ove sono numerosi gl'Infermi, mà ancora gli Profeffori primarj, che ivi
esercitano, potendo questi, mediante le reicerace osservazioni, che si fanno in
lunga serie di anni, acquistare molta perizia pratica , e franchezza ancora nel
medicare, conforme, che ogn'uno di esli ben se ne avvedeje lo confeffa. E
finalmente, acciocchè non resti quanto vi hò detto infructuofo,converrà, che
ora vi mostri come vi dovrete contenere nell'acquistare detta pratica tutti
assieme, e conformé, fi dovrà regolare ciascun di voi ; secondo la propria
capacità , in quello, ch'è ornamento, mà effendo questi più punti , che
meritano matura riflessione, bisognerà riportarli alla Giornata di domani,
venite però tutti, e voi precisamente, ch'avere più brio, e spici:o più vivace
deglalri preparati di sofferenza, perche sarà Giornata di attenzione, e
mortificazione infieme. [ocr errors][merged small] [blocks in formation]
Nella quale si fà vedere ciò, che dovre farsi da tutti unitamente per ben
confeguire una buona prática, e quello, che dovrà operare ciaschedino secondo
la propria capacità per uguagliarsi a' Comia pagni in quello , ch'è
ornamento. Mi : I dispiace nella Giornata
di jeri accennato, ch'oggi vi mortificherei , perche jacula prævisa minus
feriunt ; Mi persuado , che di già farete venuti preparati per sentire da me
rimproveri sopra li vostri poco lodevoli portamenti, da me più volte osservati,
mà abbiateci pazienza ò perche ciò G fa per voftro bene. Ditemi di grazia
à che fine venite in questo luogo pieno di miserie ? Frana camente mi
risponderete : A prendere la pratica di Medicina; e questa in che modo la
prendete yoi più disinvolti, & allegri , che mostrate d'esfere più
spiritofi degl'altri? Con paffeggiare per lo Spe. daledale, confabulando
trà di voi sopra le novelle di queito mondo? Questo non è il modo da prendere
pratica di Medicina, nella quale si richiede una fomma applicazione, mà più
tosto da divertirvi: Sappiate, che lo Spedale non è luogo da perderci inutilmente
il tempo in divertimenti, e svari, perche è ripieno di aria infetta, chi non
brama d'approfita tarsi non si curi dimorarvi , mà se ne vada in aria migliore,
e più amena di fta, che farà per lui più utile, e sicura , e non mi faccia
cestar bugiardo, poiche in cal guisa continuando, non folamente daria à
divedere che la Medicina sia Arte lunga , mà ancora, che non si possa in conto
alcuno acquistare, essendo questo tutto l'opposto di ciò, che da principio
vimostrai. 15 TMarcello disse, rimproverando li suoi foldati, che non
aveano fatto come e doveano, e poteano il loro uffizio: Mula ta vidi
Romanorum corpora, fed Romanum vidi neminem; e così ancora io potrò direfin'ora
di voi: Multa vidi discipulorum [ocr errors] corpora , fed difcipulum
vidi neminem ; Spero però, che conforme servirono di stimolo a' suoi soldaţi le
parole risentite di Marcello per fare, che superassero nel giorno susseguente
Annibale,cosi le mie moveranno ancora gl'animi vostri in ay. venire ad operare
con più attenzione, e fervore di prima scusandovi del passa perche non
sapevate ancora in che modo vi dovevate contenere ; Qual mutazione, oltreche
recherà à voi gran vantaggio , si perche più prestamente vi sbrigherete, e con
miglior ordine v’im. poffefferete della buona pratica Medica, à cui devono
indirizzarsi tutte le vostre operazioni , sarà ancora di mia somma
consolazione. Prima però di porvi à questo ftudio pratico farà di
mestiere, che possediate , oltre il buon costume, l'Istituzioni Me diche, con
le quali diverrete già iniziati à questo nuovo esercizio, essendo legge
d'Ippocrate di non doversi praticare altrimenti, ordinando egli (a) doppo
aver detto: (a) I* Hippocratis lige : detto: Institutionem à puero
fit moribus generofis , venendo alla Medicina pratica, Hæc verò cum facra fint
, facris hominibus demonftrantur, prophanis verò nefas priùsquàm foientiæ
facris initiati fuerint ; e facendo voi diversamente non potrete capire ciò,
che vi si presenterà d'offer= väbile, e s’aveste ancora appreso la cognizione
de'mali , vi recheria quefta un sommo vantaggio, insegnando Ippocrates ( b )
che Qui autem fignorum cognitio: nem habuerit is: folus ritè ad curationem
aggredietur, caso che nò procurerete , che sia questo il primo vostro studio, e
lo farere ; con discrivere in un libretto di memorie tutti li segni , che fanno
venire in cognizione di quel tal determinato male, con indicarvi quali sono li
essenziali ; ex. gr. dell'Angina, dell' Epátiride &c. é quelli, che sono
distintivi; che fanno conoscere, se sia Colico, Ò Nefritico il male, se fia
vera , ò falfa gravidanza, e così proseguendo in tutti quei casi confimili, che
hanno bisogno di (b) la lib.de Media [ocr errors] [ocr errors] di
qualche segno proprio, che meglio li faccia comprendere , e tutto ciò è
necessario à farsi, perche attorno l’Infermo dalli segni si rinviene il suo
niale , e questi sono neceffarj d'averli à memoria, perche all'ora non si può
ricorrere à leggerli ne’libri, quando sareçe interrogati, che male quello sia ;
Dovrete ancora lasciare in detto libretto di memorie molto spazio di casta
bianca in ciasche, dun caso, doppo avervi descritti gl’accennati segni per
notarvi ciò, che biso, guerà in appresso, Acquistata , ch'avrete la
cognizione de' mali più frequenti, e che vagano in quella stagione, e questo in
breve tempo lo potrete fare , incomincierete ad osservare il modo, con il quale
si curano , & in quel medesimno libretto dove avrete descritti li segni ,
v.g. della Punfura , capitandovi d'osservare il detto male, verrete descrivendo
la cura, e mutazioni, che di giorno in giorno eslo anderà facendo, tanto in
meglio, che in peggio, con tutto ciò , che offerverece di riguardevole,
mà succintamente con qualche contrasegno indicativo,per non fare scrittura
voluminosa. Di dette cure da offervarsi contentatevi di prenderne poche
da principio, e le più facili , per poterle esattamente confiderare, e capire
bene, quali in progresso di tempo l'anderete moltiplicando, e scegliendo
secondo vedrete meglio poterle possedere , e comprendere; Avvertite però non
caricarvenc troppo, nè di tralasciarle, se non ne avete veduto l'evento felice,
ò funesto , quale noterere per meglio impoffeffarvi nelli pronoftici da farsi
in casi consimili, nelle congiunture, che vi si presenteranno . E tutto questo
è coerente al consiglio d'Ippocrate dato nella sua legge, ove dice : Ad bec
longi temporis induftriam accedere neceffe eft, quod disciplina veluti
gravidata felicitèr , & benè crescendo maturus fructus efferat.
Lo studio, che dovrete fare in casa sarà di leggere solamente dui, ò trèlibri
pratici de’migliori , che potreteavere si antichi, che moderni scelti dal
Direttore vostro Macítro, & in quelli procurerete rincontrare se ciò,
ch'avete osservato si uniformi alli loro sentimenti, e noterete, in che cosa
consista il di- . yario, per domandarne sopra ciò la cagione à chi sarà vostro
Direttore nella pratica, ò almeno alli Medici Affiftenti di detto
Archiospedale, che sono già pratici, de' quali ancora vi dovrete prevalere in
molte occorrenze, potendoli avere più pronti, e nel luogo istesso dove vi
esercitate, Mà perche le conferenze accrefcono fervore, e facilitano
insieme li progressi, per cagione dell’utile emulazione, e di sentire da?
Compagni qualche cosa di più, che talvolta non fi sapeva ; Quindi è, che almeno
una volta la settimana vi dovrete congregare tutti insieme per conferire ciò,
che ogn'uno avrà acquistato di più nel suo esercizio pratico, & à questa
conferenza potria avere qualche sopraintendenza il Medico Af fiftente di
guardia, che deve necessaria. mente [ocr errors] mente essere nello
Spedale permanente ; E quando sarete disposti à tal’utile esercizio non avrete
da affaticarvi in cercare luogo à propofito, conforme era neceffario prima,
perche voi, che di presente ftudiate avete avuta la sorte propizia, mediante l'animo
generofo , e magnitico di Monsig. Illuftriffimo Gio: Maria Lang cifi, cho con
tanti suoi incominodi, c con si considerabile spesa, à publico bene, hà
stabilito sì grandiosa, e nobile Libraria , ed in questo medesimo luogo, dove
vi esercitate, potrete ivi radunarvi, e fare con tutti li vostri commodi
l'utilissime conferenze , con quel di più, che ne potrete ricavare da'vn'abbon,
dantislima scelta di libri , che vi si custodiscono d'ogni scienza, & in
particolare, assai più numerofi d'ogn'altra in Medicina. Qual commodo fe
l'aveflimu avuto noi, che ora fiamo avanzati negl'anni, in nostra gioventù,
quanto mai ci faria stato grato; poiche per fare conferenze allora, bisognava
andare in luoghi privati à dare incommodo, e pure si face vano vano
con fervore conforme seguì int cafa del Dottor Girolamo Brafavola, dove
ogni Lunedì si teneva congreffo publico, e si leggevano un difcorso con due
problemi Medici, oltre le conferenze, che si facevano fopra altre materie,
concernenti la Medicina, è detto.congreffo continuò con fervore per molti anni
, e con profitto di chi lo frequentava. Talmente che tutta vostra la colpa
fària se voi ora che avețe derta commodità la trascuraste', non potendosi ciò
attribuire ad altro, e con vostra somma vergogna, che al poco desiderio, che
aveste di approfittarvi. Vi riuscirà più commodo di fare alcune diligenze
intorno alli Malati, che vi fiere scelti da offervare , prima della visita del
Medico Principale, che consor feranno d'interrogarli, con descrivere ciò, che
vi troverete di novità per essere sbrigati , e pronti nel tempo della visita,
nella quale sentirete voi ancora il polso à tutti gl’Infermi del Quartiere per
impoffeffarvi delle differenze di esia C e ciò e ciò farete
con qualche attenzione particolare, per meglio comprendere ciò che nel giorno
vi scorgerete differente dalla mattina , e nelle visite susseguenti, ciò, che
di divario dalle antecedenti, ed in ispecie se più , ò meno celeri, se più, ò
meno eguali , se più , ò meno duri, se più alti , ò più basli , e molte altre
differenze, che avete gia letre nel trattato de' Polfi, ed occorrendovi sopra
di ciò alcuna difficoltà , non abbiare timore di spiegarvi, e di dirlo à chi vi
sopraintende , perche da tutti con somma cortesia vi sarà spianata; Starete
attenti quando s'interrogano li Malati nuovi per rinve- ; nirne l'idea del
male, & offerverete il modo , che si tiene con quelle persone idiote, che
non sanno rispondere à ciò, che si domanda loro , & apprenderete la gran
pazienza, che bisogna averci, per potervene servire ancora voi abbattendovi in
Gimili Infermi idioti. Vi porrete à mcmoria quell'idea, che dal Medico
Principale farà stabilita à quel male, e pet non dimenticarvene la noterere
in un libretto conforme vien praticato da. gl’Afiftenti, con notarvi
insieme il no me dell'Infermo, e numero del letto, invigilerete in sentire , e
capir bene cutte le ordinazioni, che si faranno, con rincontrarne ancora li
suoi effetti, non trascurerete di sentire ciò, che si dice del pronostico del
male, e d'ogn'altra cosa concernente tal'infermità, ed in ispecie in quelli,
che vi siete scelti per osservare, e facendo yoi ciò, che vi hò decco , vi
assicuro , che quell'Arte, che Ippocrate chiamò lunga, la farete divenire più
breve di quello, che vi credevate, potendo yoi in tal guisa con facilità non
solamente apprendere il modo più sicuro di medicare , mà ancora la franchezza
del ben pronosticare, conforme insegna Ippocrate : (0) Eventa igitur per
experientiam cognita prædicenda, id enim gloriam adfert , c cognitu ejt.
facile. *Terminata , che farà la detta visita seguirete il Medico , che
vi conduce inpratica per osservare le visite, che sono per la Città, nelle
quali procurerete di fare le vostre osservazioni nel miglior modo , che vi sarà
permesso. Con il sudetto vostro Direttore, e Maestro conferirete tutte le
difficoltà, che vi occorrono, con animo però decerminato d'apprenderne li loro
documenti, essendo questi li semi di quanto di buono in voi germoglierà à
suo tempoo conforme disse Ippocrate nella sua legge : Doctorum præcepta feminum
rationem habent, non già di contradire con pertinacia à quello, che verrà da
esso detto, e risoluto, ed imiterete in ciò le Api, che succhiano il mele da'
fiori, è non già le Vespi, che pungono con li loro aculei colui, à cui si
approssimano. Credetemi, che la modestia, e li buoni costumi, l'attenzione, e
la docilità ne? giovani formano la base stabile di tutti li loro avanzamenti,
dove, che il mal costume, la pertinacia , la garrulità , e la petulanza affatto
l'atterrano, elanniçhilano. Nelli [ocr errors] [ocr errors] Nelli
tempi poi, che saranno prof fimi alle offervazioni anatomiche comincierete ad
alleggerirvi dalle occupa. zioni Mediche, per attendere con più fervore alla
Notomia, e procurerete in quelle vicinanze di trovare un'Indice delle oftenfioni,
che fi faranno , per istudiare preventivamente ciò, che pu- . blicamente si
dimostrerà, ed in oltre vi troverete presenti à tutte le preparazioni delle
parti, che si faranno in privato, non solo per meglio capire , &
impofseffarvi di quello , ch'avete letto, mà ancora per mostrarvene già
pienamente istrutti quando le vedrete publicamente dimostrare i Non
trascurerete , essendovi occafioni d'aperture de cadaveri, di trovarvi presenti
à quelle, e tanto maggior mente se avrete osservato li mali di quei poveri
defonti, e se non l'avrete visitati, procurerete informarvi delle loro
infermità , perche mediante tali ispezioni verrete meglio in cognizione del
luogo affetto, e di qualche cagione ancora di detto C 3 detto
male, e noterete in succinto nel vostro libretto ciò, che si farà rinvenuto in
quelle di considerabile , acciocchè vi resti memoria per prey aleryene à suo
tempo. Ed affinche meglio le possiate ritrovare , riporterete in un repertorio
per ordine alfabetico ciò , che offeryato avrete, tanto nelle cure de inali,
esiti de’madesimi, che aperture de' cadaveri, senza lasciare nè pure un giorno
di non notarvi qualche cosa offervata, e questo l'andrete bene spesso
rileggendo, à fine non vi scordiate di ciò, che una volta apprendeste.
Quando si faranno l'ostensioni bota taniche non occorrerà, che trascuriate
l'altre vostre applicazioni mediche,perche non richiedono queste
quell'attenzione, ch'è necessaria per la Notomia. E tanto più, che durano tutta
una stagione, onde basterà, che per tal'effetto Jeggiare qualche libro
bottanico, e con l'esercizio oculare ricontriate nell'Orto Medico le più usuali
per meglio conocerle , le quali per voi possono esse re [ocr
errors] re sufficienti con la notizia delle loro virtù.
Impiegato , ch'avrete il primo ane no, con fervore, in fare tutto
ciò, che fin'ora vi hò detto, ristrignerete poscia in una
nota tutti quei mali più essenziali à saperfi, che ancora non avevate
offer- vati, à fine , che capitandovi possiate in quelli continuare
li vostri studj, imitan. do quei Giardinieri, che vogliono
for mare un vago prato di fiori ; Questi colo tivano tutto quel
terreno, e con buona ordinanza vi dispongono li semi, à fine non vi
resti del sodo incolto, ove non nascono fiori , mà sol'erbe
campestri, e che li fiori, che nascono , non resting trà loro
confusi. Quando avrete già offervato ocularmente le cure de' mali
più riguardevoli, e frequenti, e quelle occorsevi di nuovo, l'avrete più volte
ancora rincontrate nelle cose essenziali, uniformi, e che possederete già la
Notomia, elsendo divenuti capaci di meglio discernere ciò, che fate, all'ora
converrà , che [ocr errors] vi applichiate à rinvenire le cagioni de?
mali , e non prima, perche essendo tante , e così diverse tra loro le cagioni descritte
dagli Autori in un medeliino male per la diversità di sì numerosi
sistemi, novamente inventati, che se Galeno à fuo tempo giudicò al parere di
Lacuna che : Judicis veri difficultatem liquido ostendunt tot, tantæque variæ
hæreses, quot in Arte Medicâ reperiuntur ; Che giudizio accertato ne potreste
formare voi ora , che sono cotanto più cresciute, prima d'essere nella pratica
bene istrutti? Oggidi li giovani sono così perspicaci, per non dire arditi, che
li raziocinj, che già udirono da’loro Maestri, quali come buona femenza
dovriano conservare, & aspettare, che con il tempo crefceffero , conforme
ordina Ippocrate nella sua legge: Tempus omnia hæc ad plenam nutritionem
confirmat, in vece di çoltivarli ora non li seguitano più, & in vece di
quelli se ne scegliono delli più vaghi, onde quando ciò abbia da esfere è pur
meglio, che l'apprendiate quandofiete divenuti più suficienti à farlo, ed
all'ora appunto, che sarete à pieno informati dell’idee de'mali, delli loro
sina tomi, del modo, che s’abbiano à curare, e dell'esito , che possono avere,
perche potrete allora con più sperimentato giudizio sceglervi quel raziocinio
intorno alle sudette cagioni morbose più adattabile degl'altri al vostro
bisogno: Sentite di grazia come al proposito ve lo infinua Ippocrate : (d)
Preclara enim res eft, quæ ex opere , quod quis didicit proficifcitur oratio ;
Écon maggior chiarezza in altro lạogo , (e) dove così parla : Ncque priùs ad
ratiocinationis perfuafionem quàm ad ufum cum ratione conjunctum animum
adhibere ; Ratiocinatio enim in eorum, quæ fenfu comprehenduntur recordatione
quadam confiftit ; ed in appreffo : Nullum ex his , quæ folâ ratione concludun-
, tur fructum percipere licet , verùm ex his , qua operis demonstrationem
habent, fallax enim, & ad errorem proclivis affeverario; Ed operandosi da
voi in questo modo, effendo già divenuti più abili, e capaci, da un principio
più accertato ricaverete un ražiocinio è certo , ò per lo meno probabile, dove
che facendosi diversamente con impoffeffarvi prima d'ogn'altra cosa delli
raziocinj in aria, e di bella comparsa, che possono con danno notabile
preoccupare le vostre menti, e quefti effendo Icelti da voi per mero genio ,
fenza saperne il perche, vi faranno dedurre delle conseguenze, che vi pareranno
certe , ed evidenti, le quali in atto pratico le troverete diverse das quelle
ve l'eravate figurate; onde per acquistare pofcia la buona pratica vi converrå
deporli, conforme è convenus to farli da altrui, che se ne sono ayveduri , per
non continuare ne' loro pregiudizj, e sentite come à meraviglia fi ritrovano
costoro delcritti da Ippocrate: (f) Venuste enim cognitionis intelligentia apud
iftos sparsa ejš . Cum igitur hi ex neceffitate indocti exiftant eos ad utilem
*xercitationem cohortor . Mà veniamo all' esempio per caminare con più
chiarezza. S'idei il più bell'ingegno, che frà voi si trova, che il tal male
proceda da un' acido esaltato, è da un calore eccellivo, ne dedurrà subitamente
con la sua perspicacia , dunque và curato con gli alkalici, ò con
gl’attemperanti. Volesse Iddio, che ciò si verificaffe , non avreste per certo
bisogno d'affaticarvi tanto intorno l'Infermi per apprendere la vera pratica ,
perche in questo modo diverreste presto Medici; Mà non è questo il modo da
caminare con licurezza, perche se quella cagione non è accertata farà
neceffariamente incerta ancora la conseguenza da quella dedotta , la quale
potrà talvolta produrre all'innocenti Infermi un nocabile danno, perche Gi
tra{curerà di far quello, che s’è osservato altre volte effer loro di
giovamento per andare in traccia à ciò,ch'è incerto, e so. lamente da noi
ideato. Qual verità udite con che chiarezza si ricava da Ippocrate:(8) Quidquid
artėm artificiosè di&tum ef(d) Hippide deciørd. (e) Id, in lib.de
tracept 1 efem(f) In lib.pracept: eft, (8) Hippocr.de
decobabitki [ocr errors] eft , non autèm factum, viam, rationem artis
expertem arguit.. Opinabile fiquidem fine actione infcitiæ , nullius artis
indicium eft ; Opinatio enim cum præcipuè in Arte Medicâ, eâ quidèm utentibus
crimini vertitur; His verò qui eâ indigent exitium afferty fi namque fuis
verbis perfuafi exiftim mant se opus ex scientia profectum novisse, quemadmodùm
aurum adulterinum igni probatur,tales se ipfi etiàm produnt ; e ciò lo conferma
ancora nella sua legge, dicendo, che la sola opiņione ignorationem parit . Il
modo dunque praticabile più sicuro sarà di dedurre la cagione demali dalla già
accertata cura , osservata più volte profittevole, con que’lumi, che vi
darà di più la Notomia, e quando anche per questa strada non se ne rinvenisse
la più certa, non potrà nascerne quel pregiudizio già accennato , perche la
cura anderà a suo dovere, essendo fatta secondo le buone osservazioni pratiche;
oltre di che caminando voi con quest'ordine non vi regolerete con l'incertezza
dell'opinioni degl'uomini,ogni giorno variabili, mà bensi con la certezza delli
giudizi di Natura, sempre più accertati , come divinamente considerò Cicerone
allorche diffe : Hominum com. menta delet dies, naturæ judicia
confirwsat. Quindi è, che Pittagora non fenza cagione faceva tacere li
suoi scolari sinche aveffero compiti cinque anni di studio , perche voleva ,
che cominciassero à parlare quando appunto capivano ciò, ch'elli dicevano , e
veramente chi presto parla non ha premeditato ciò, che dice, e chi non hà
premeditato ciò, che dice, parla à caso. Per conferma di quanto vi hò
detto, ed à fine non prevarichiate ora, che avere da me sentito dire qual
potesse esfere il inodo facile sì, mà non già sicuro, da prestamente liberarvi
dall'intraprese fatiche, v'addurrò altri sentimenti d'Ippocrate,da’quali non
potrete discostarvi se vorrete essere tenuti suoi veri seguaci, dice egli ( b
:) parlando in termini difare progresso nella Medicina : At vero in Medicina
iampridem omnia fubfiftunt in eaque principium , via inventa eft, per quam
præclara multa longo temporis fpatio sunt inventa, bu reliqua deinceps
invenientur; Si quis probè comparatus fuerit, ut ex inventorum cognitione ad
ipforum investigationem feratur, Qui verò his omnibus rejectis , ac repudiatis
aliam inventionis viam ; aut modum aggrediatur, to aliquid Je invenise
jactitat, is cùm fallitur , tùm alios fallit, neque enim iftud ullo pacto fieri
poteft. Ippocrate dunque vuole, che dalle cose accertate si passi
all'investigazionc di esse,per meglio discernere ciò, che in quelle non fosse
ancora palese,mà non già, che dalle incerte si pasli à fare al. cuna
investigazione , dicendo chiaramente, che chi farà diversamente ingannerà se
stesso , e gl'altri, e tutto ciò vie. ne più precisamente individuato
redarguendo quelli, che dalle cagioni incerte ne vogliono dedurre una certa
cura, come si legge in appresso: At verò nunc ad cos , qui novâ quadam ratione
artem ex přo." propofita materiâ investigant nostra revera
tatur oratio fiquidem eft calidum, aut fria gidum, aut ficcum, aut humidum ,
quod hominem lædit , & eum, qui rectè mederi volet opporret calido per
frigidum, frigido per calidum , ficco per bumidum, & humido per ficcum
opitulari . Exhibeatur mihi aliquis naturâ non admodùm robuftâ , fed
imbecilliore; qui triticum crudum, & inelaboratum edat , quale ex areà
fuftulit, carnes crudas , & aquam bibat , ex qua victus ratione non dubium
eft quin multa , gravia fit perpeffurus. Nàm & doloria bus conflict
abitur, & imbecillo erit corpore, O ventriculus corrumpetur, nequè vitam
diù tollerare poterit . Quodnàm igitur ità affecto præfidium comparandum
Calidum nè , aut frigidum, an ficcum, an humidum? Siquidem horum quodque
fimplex eft. Namque fi quod lædit ab his ipfis eft diversum contrario disolvere
convenit , velut ipfifatentur - Eft enim certifima, & evidentiffima medela
, sublatis quibus utebatur cibis , pro tritico panem exhibere , da
pro crudis carnibus coctas, dj insupèr vinum propi narly
nare, neque fieri poteft , quin his commu: tatis convalefcat ; e questa accertata
cura come si è ritrovata , se non dal vedere, che le sudette cose hanno altre
volte conferito in simili casi? Seguitate pure la strada calcata da'
noftri maggiori, se non volere errare, per la quale ebbe origine, e si è
avanzata la vera Medicina, e questa è quella dell'offervazioni, conforine
chiaramente confessa Ippocrate.(i) dicendo : Neque verò pigeat ex plebeis
sciscitari fi quid ad curandi opportunitatem conferre videatur , fic enim
censeo artem univerfam coma moftratam fuiffe , quod fingula ex fine abi
fervata, ad eadem aggregata fuerint. Animum igitur adhibere oportet fortuit,e
occafioni , qu& plerumque fe offert , quæque cum utilitate, &
lenitudine conjuncta eft, quàm cum sollicitatione, & forti defenfione; e
ricavate pure li vostri raziocinj dalle cagioni de' mali, dalle cure à voi
note, ed in quella conformità, che più vi appagano, che ottenuti in questa
guisa, se non fi) Hipp.praceptiones . [ocr errors][ocr errors] non
dimostrativi , faranno almeno inno- centi, non potendo recare pregiudizio
alcuno, e state fermi in tale proposito, per l'esempio di più d'uno ,
conforme, che diceffimo, à cui è convenuto mutare li raziocinj
delle cure dapoi, che hanno osservato in pratica meglio gl'andamenti de'
mali, e non prima d'allora si sono accertati , che l'opinione era assai
diver- sa dalla verità, conforme nel suo sogno ci fà conoscere
Ippocrate, ( a ) non solo perche li comparvero assai differenti trà
di loro, mà perche la verità dimorava appresso Democrito, che non
s'inganna- va, e l'opinione trà l’Abderiti già pre- giudicati, per
la falla loro credenza, che Democrito delirasse. Appreso, che voi
avrete le cagioni ancora de'mali, all'ora sarete arrivati à qualche
perfezione maggiore , poten- do, rotto già il silenzio Pittagorico,
con fondamento parlare, e con franchezza ancora medicare, resterà
solo d'istruirvi in che modo si dovrà contenere ciasche- duno
(a) Hippo in epiß. Pbilope.2. [ocr errors][merged small] D [ocr
errors] duno di voi in ornare, secondo la propria capacità ciò, ch'avrete
acquistato tutti in commune. > Parlerò prima con voi di mente fu.
blime, e generofa, che vi pare un troppo angusto campo la sola Medicina , onde
per far conoscere a tutti la vostra maggiore abilità, volete stendervi più
oltre, ed all'acquisto d'altre scienze,conforme nelle private conferenze
apertamente diceste, ove tal’un di voi mostrò genio grande d'apprendere le
Mattematiche, altri l'Astrologia', e chi per ornamento le Lingue straniere,
& in ispecie la Grecaj e chi per divertimento ancora l'erudizioni Istoriche
i Mi dispiace d'aver sentito dire, che trà voi yi fia chi lo faccia per
genio grande, perche questo vorrei, che tutto lo ponefte alla fola Medicina's
qual dovrete profeffare, onde viva pur sempre caurelato , e circospetto chi di
voi hà fimit geniono che non gli faccia perdere -Hamore à cid, ch'avrà
dianzi acquistaso; perch'è solito, che chi apprende congenio grande una cosa
nuova, trascura necessariamente ciò, che prima se non per
genio , almeno per impegno lo appagaya . Io per me non posso, nè devo
op- pormi à quanto deliderate, si perche è onefto , sì
ancora perch'essendo all'ora voi già divenuti Maestri vorrete fare
à vostro modo ; Vi dò solo questo conse- glio, che facciate regolare
la vostra in clinazione fempre dalla prudenza , e dal giudizio, e
che non la lasciare in tutta sua libertà, e facendo voi in questo
mo- do non potrete errare, perché le sudette virtù mai non
permetteranno, che fi din ftacchi dalla Medicina già appresa , nè
che nel fare li nuovi acquisti gli rubi quel tempo, già destinato per
lei, e final mente faranno in modo , che non l'ap- prendiate à quel
segno di poterle pro- feffare , mà per solo ornamento, e per
poterne ancora voi discorrere in quella parte , che possa
servire alla Medicina. Mà vediamo d'ajurare , e consolare insieme
voi altri, che restereste altrimena 1 [merged small][ocr
errors][merged small] [ocr errors][ocr errors] timesti, non solamente per la
separazione, che faranno da voi li vostri compagni, inà eziandio per la cagione
di essa . In primo luogo parliamo chiaro intorno a'vostri difetti , per dare à
ciascheduno di essi il suo rimedio , s'è possibile. Dilli s'è poffibile,perche
se sarete affatto inetti, & incapaci mutate mestiere, conforme hò fatto
fare à qualcheduno di simile inabilità, perche altrimenti vi affaticherete in
darno fino , che viverete , mà re, ò la vostra memoria apprende con qualche
difficoltà , tenétela continuamente esercitata , che migliorerà, volendo
Cicerone, (b) che : Affiduus usus uni rei deditus, & ingenium, a artem fepè
vincit ; ò il vostro giudizio non è pronto , ajutatelo con l'attenzione, e
vigilanza, date tempo, che si farà, perche molte piante fioriscono prima, &
altre sono più tardive; ò il vostro discorso è alquanto infelice, e non siete
pronti, esercitatevi nclli discorsi publici , bene imparati à memoria,
discorretela continuamente con li vostri (b) Cicero pro Cornelio
Balbo. [ocr errors][ocr errors][ocr errors] vostri compagni più franchi
di voi, fae tevi animo, & abbiate forma fiducia , che il vostro
timore cesserà. Aspettate ora da me di sapere il modo, che dovre-
te tenere per adornare ancor voi l'ope- ra già fatta , à fine di non
iscomparire trà gl'altri vostri compagni, e con ragione. Già voi non
vi curate d'uscire dal- la Medicina , in questa dunque converrà
trovare l'ornamento, che sia adattato al vostro bisogno, e doppo fatta
matura rifeflione, non trovo miglior conseglio di quello, che fi
ricava da Prospero Marziano Medico di grand’ingenuità , all'ora ,
che ricercando la cagione, per- che li Medici antichi erano tanto
stima- ti, & onorati assai più di quelli, che vivevano à
suo tempo, egli fù di fenti- mento, che procedeffe ciò
per effer stati. glantichi versatillimi ne' pronostici, e non vi
sia discaro à sentire ciò, ch'egli diffe : () Cur prisci Medici tanti habiti
fint apud homines, ut non folùm primas in Ci. (c) Prosper Martian.
2.prediff. perf.23. e [ocr errors] D 3 Ciuitatibus, ac Regnis
tenerent , Regibus Principibusque imperarent , fed etiàm summus honos , Diisque
folis præstari folitus, Medicis tribueretur, admiranda enim circà agrotos ,
& præftitife, & prædixise eft. necessarium ; Sicut vice versâ mirum non
eft ifi nunc adeù vvilitèr tractentur, quando nèc in curando, nèc in prædicendo
quidquam spectabile pr&tent noftri, cum ea faciant tantummodò, a dicant ,
quæ ipfis idiotis sunt manifefia, & tamèn'artis pradantiam noftrorum
temporum continuò jaEtant imperiti , Medicinamque posteriores ditasse
profitentur , fed veniunt excufandi, eo quod antiqua thefauros adhùc non
percepere, quibus tota quidem Hippocratis do. Etrina plena eft; Verùm præfens
liber, [h.c. prædiétionum secundus ) adeò abundat, ur folus paupertatem, cu
miferiam artis noftrorum temporum indicare fufficiat, nam quis nostrum eft qui
centefimam partem eorum cognofcere poffit, qu& antiquiores Medicos
comunitèr prævidere confueviffe in hoc libro teftatur Hippocrates ; Sicchè voi
per fare spicco , & essere molto stimati nella [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] nella professione impoffeffatevi bene de!
pronostici d'Ippocrate , che uniti alla buona pratica acquistata , vedrete, che
vantaggi questi vi recheranno , & effendo stati ricavaci da molte
offervazioni uniformi, accadute in più secoli, non vi serviranno d'ornamento
inutile,mà bensi molto profittevolese necessario, e tanto maggiormente se
spoglierere ancora ciò, che v'è di migliore nell'Epidemj, ed in tutti gl'altri
divini libri d'Ippocrate , per mettervene à memoria più , che potrete , å
fine di serviryene secondo li i bisogni, che vi si presenteranno, e que
sto studio lo farete in quell'ore, nelle quali vi persuaderete, che li vostri
compagni le terranno impiegate all'acquisto d'altre scienzcacciocchè vi cresca
il fervore ad apprenderle con emulazione. Ornati, che sarete tutti nella
conformità, che s'è detto, ogn'uno di voi ne farà la bella comparsa ne
consulti, ed all'ora si conoscerà chi di voi avrà fatta i miglior
elezione del compagno, e si rina contrerà, che voi, ingegni, ch'eravatemeno
apprezzati degl'altri, per la voftra applicazione, e prudenza , certamente, che
non iscomparirete tra gl' altri di maggior talento di voi. Se il modo,
che vi hò proposto non farà buono, e profittevole trovatene altro
migliore,& acciocche lo possiate rinvenire più commodamente sia posto ogn'
un di voi in sua libertà di sceglierlo à fuo piacere. S'avete genio di studiare
prima della Medicina altre scienze, cosa ne feguirà facendosi, che non potendo
sapere ancora cosa vi possa bisognare vi converrà ftudiarle ex profeso, e se
l'avrete apprese con genio à quel fegno, che le pofliate profeffare, ciò, che
studierete in appreffo; con minor piacere , lo subordinerete alla prima, che di
già possedere. te, mà ne seguirà peggio ancora, che tutto farete meglio,
eccettuatone il Medico, conforme vi farò costare in appresso. Se il genio
vi porterà ad apprenderle insieme con la Medicina, che ne feguirà? Ciò appunto
, che accade à chi [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] in
un medesimo tempo getta in un camро semi diversi, e mescolati , e che ne
raccoglierà? Un frutto confuso, e quem sto ancora à voi potrà succedere, poiche
la bella ordinanza è quella, che facilita, e felicita le grand'imprese , dove
che la confusione le preverte , e le annichila. Inoltre s'avrete studiate
le Mattematiche, con gran genio , e studio profondo, e vorrete poi fare il
Medico niuna cosa di Medicina vi appagherà, cercherere in essa le dimostrazioni
evidenti, e non trovandole, che ne seguirà, se non sarete nella pratica ancora
versatiffimi? Che per temenza d'errare vi formerete un metodo di medicare à
vostro modo , con pochi rimedj, creduti da voi sicuri à non poter nuocere , e
semplici, come fono Occhi di granci, Stibio diaforetico, Sperma ceti, un poco
di Caffia , qualche ottava di Tartaro di Bologna, qualche Clistiero, qualche
bevuta d'ac. qua di Nocera , Oglio d'Amandole dolci, Sangue ircino preparato ,
Corno di Cervo filosofico, Giacinto bianco , e cofe [ocr
errors][merged small] cole simili, tutte sicure à non poter nuocere, & in
questa conformità vi regolerete tanto ne' piccioli, ne' gravi, che ne'
gravissimi mali. Questo è un modo sicuro, mà nell'infermità benigne, e
leggiere, non già in tutti i casi gravissimi, ne' quali è chiamato il Medico
per dare un pronto riparo, non già per complimento, per espugnarlo, ò almeno
per retundere la sua veemenza , e questo pretenderete di farlo con cose
innocenti? ch'è il medesimo, che dire con cose attività ? Queste dunque
adoprerete ne' bisogni inaggiori , ne' quali : Melius eft anceps experiri
remedium quàm nullum. Rimedi sicuri vi persuaderetç, che siano quelli, che non
possono fugare il male ? Questa sarà una licurezza inutile, mentre non rileva
il pericolo, sarà sicurezza, per chi assicura, non già per chi deve essere
assicurato , perche se in quefta borasca si sommerge la Nave,non è tenuto chi
assicurò al rifacimento del perduto, mentre che và tutto à danno
dell'aficurato. Un tal modo di operare lo di poca [ocr
errors] lo potrebbe ancora esercitare , chi non sapesse altro di Medicina , perche
già ch'è sicuro non ci vorrà grand'arte per praticarlo, mentre l'arte consiste
in la. per conoscere ciò, che in un caso potrebbe nuocere, e nell'altro
giovare, e per questo effetto si chiama il Medico, onde essendo gl'accennati
rimedi sicuri, e non potendo nuocere à ch'effetto vi sarà bisogno del Medico
per darli? Oltre di che, per parlarvi ingenuamente, questo modo di medicare è
assai confimile à ciò, che fanno coloro , ch’imparano la scherma, che per non
offendere, nè effere offesi adoprano certe smarre senza taglio, ed in vece di
punta acuta hanno ivi un bottone di ferro foderato di pelle, ò cottone , qual
sorte d'arme sicura in tempo di pace, di ch'efficacia sarà all?ora, che
l'inimico ci affalisce con armi pungentiffime, lo potremo offendere , à almeno
difenderci da effo? Credo di nò con questa sorta d'armi sicure, ci converrà per
certo adoprare almeno armi eguali, e se saranno superiori riusci.
ranno [ocr errors] ranno migliori ; il fimile appunto succederia quando
il male grave alfalisse, se questo lo voleste espugnare con l'accennati rimedi
sicuri, combattereste seco con quell'armi appunto senza taglio, e fenza punta,
poco atte à fare validas difesa. E non basterà in questi casi Parme sola
, mà converrà saperla ben maneg. giare, per fare que' colpi sicuri riservati a'
soli Maestri dell'arte, quali come li fapreste fare se mai non aveste
maneggiate simili armi, volendovene talvolta prevalere? Sò, che questa
voce di medicamento sicuro, che non può nuocere'è molto plausibile appresso
alcuni, che la considerano superficialmente, mà capita bene, è molto nociva ,
poiche nel bisogno più urgente non è tempo di passarlela con cose di poca
attività, richiedendo quello ajuti maggiori , ò equivalenti alIneno ad esso, e
tutto ciò, ch'è sicuro. à non nuocere non basta per rimuovere ciò,che
nuoce, onde se non ammazzano direttamente possono almeno indirettamente
nuocere, per la cagione, che non sono sufficienti à rimuovere ciò, che
puol’ammazzare. Ippocrate,che conobbe tal verità assomigliò il Medico al
Governatore della Nave: questi appunto trovandosi in una borasca di mare cofa
dovrà fare ? Deve in primo luogo alleggerire la Nave, con gettar via ciò , che
più l'aggrava, acciocchè tando più galleggiante non venga ricoperta dall'onde;
Voi già mi capircte, onde non occorrerà mi spieghi di vantaggio, potendo
considerare da voi medefimi , che alleggerimento rechino a'corpi, che si
ritrovano nella tempesta del inale, eripieni di viziosi umori, si piccoli , e
poco efficaci medicamenti. Io non pretendo già porvi in difcredito li
dettirimedj, perche in qualche caso possono essere profittevoli : Per esempio
ne' veleni corrosivil'oleofi, ed in qualche altro caso ancora grave sono
utilissime le copiose beure d'acqua, e cose simili, mà che siano sufficienti
questi per per curare tutti li mali, dicovi apertamente di nò ,
perche in molti mali gravi convengono altri rimedi più efficaci, conforme
ordinò Ippocrate : (d) V alentibus verò morbis, valentin natura medicamenta
exbibeantur ; & altrove : Extre. mis morbis extrema remedia optima
funt. Anzi, che se si tralasceranno da voi li più efficaci in quei casi,
che competono per sostituirvi questi più leggieridico, che peccherete
d'omissione gravemente, potendone nascere pregiudizj gravi alli vostri Inferini
in trascurar ciò, che li compete,per dar loro ciò, che non può recare profitto
equivalente al bifogno. E quando il solo differire un rimedio possa recare del
danno, come bene avvertì il divino Ippocrate : (e). Cum enim ab omni ante
aliena fit procrastinatio, tùm verò maximè in Medicina , in qua di. latio vitæ
periculum affert ; quanto maggiore lo recherà l'omiffione , essendo difetto più
conliderabile della dilazione Ne (d) Hipp de loc. in hom. (e)ld.in
epift.ad Crat. Nè per cimore d'essere tacciati di omiffione dovrete fare
d'avantaggio di quello , che fiete tenuti di fare, perche all'ora incorrereste
in un'altro errore , non inferiore al primo, mà come vidovrete in ciò regolare
ve l'insegna Ippocrate nel primo Aforismo in tal guisa: Seipfum præftare
oportet opportuna, & quit decent facientem. Se divenuti Profeffori
d'Astrologia farete ancora il Medico , non vi capiterà Infermo, che non vorrete
alzargli las figura del decubito, non gli darete ri. medj se non che a' buoni
aspetti de' Pianeti, e fuggendo li cattivi,cosa ne seguirà? Che perdendosi
l'occasione pronta d'operare, l'Infermo se n'andrà all'altro mondo à
riconoscere più da vicino li suoi malefici Pianeri, stanteche Occasio præceps,
à quella bisogna , che indirizziate tutta la vostra attenzione, oltre di che vi
servirete d'una scienza più incerta della Medicina per accertare ciò, che in
essa crederete fallace. E se ornati di tutte l'erudizioni Istoriche vorrete
esercitare ancora las Medicina per far pompa in quello, che meglio saprete ,
& è di vostro genio, comincierete à discorrere con li vostri Infermi,ò con
altri, che ivi si troveranno presenti ab Urbe conditâ fino al tempo dell'Impero
Romano, e con vostro sommo piacere , il meno poi , che farete sarà di pensare
all'Infermo , che avete avanti gl’occhi, à cui dovete dare ajuto. Iddio
guardi, che tal’uno di voi , ch'avefse più spirito, che prudenza, s'annojasse
di far ciò, che ho detto intorno l'osservazioni Mediche, e si volesse
porre à fare il Medico senz'avere acquistato un buon metodo di medicare,
affidato solo in una gran scelta di belle, ed efficaci ricette, questi sarebbe
simile à colui, che custodisce delle bellissime armi, mà non le så maneggiare,
ed in conseguenza caderia in uno delli maggiori errori, che si possino mai
commettere nella Medicina , cioè di divenire un gran Ricettante, e de' più
validi, e pronti ri مرور rimedi si Chimici, che Galenici, che
avemo, e non sapendo il modo d'adopee rarli l'applicheria à casa, con tutto,
che fi fosse ideato d'imitare un Capitano, che per conseguire la vittoria fi
serve di valorosi soldati, e questo modo d'ope, rare quanto possa riuscire
dannoso, lo lascerò considerare à voi, per quando farete divenuti già provetti
; solo riflettete ora, che quel Capitano, che non sa comandare li suoi valorosi
soldati, in ve. ce di vittorie riceverà bene spesso delle sconfitte, e quel
troppo ardire indica ignoranza, come afferi Ippocrate: (a) Audacia verò, artis
ignorationem arguit : E in altro luogo :(b) At quod temerè fit nullo modo
fubfiftere videtur, sed nomen tantùm inane efle . Non riuscendo dunque
tanti altri modi ricercati da voi sarà neceilario,che seguitiate quello, che
v'è stato da me proposto, con il quale farete sicuri di abilitárvi à poter
divenire veri Medici E )quan(a) Hippocr. de lege. (b) Idem in lib.
de Arte,pro ftri fore inp Ver ner te, fo fe quantunque
fiatc trà voi d'abilità difu. guali, & in particolare per quel profittevole
uso, che potrete ricavare dalle diligenti, creiterate offervazioni fatte
intorno l'Infermi, non potendosi questo apprendere in altro modo , conforme
giudicò Ippocrate : (a) Usus namque, qui in fapientia , tùm in arte ei adjuncta
, doceri nequit ; e questo di quanta efficacia fia, sentitelada Cicerone: (b)
Aljungant ufum frequentem, qui umnium Magiftrorum precepta fuperaf. Mà
non vorrei, che tornaste ora à contriftaryi, voi, che fiete di natura
malinconici, parendovi forse troppo, quanto v’hò proposto per neceffario in
acquistare la buona pratica , perche se vorrete diyentare veri Medici, ed
eflere compresi nel minor numero di quelli, di cui parlò Ippocrate nella sua
legge così: Medici nomine quidèm multi, re ipfa perpauci , sarà necessario, che
facciate dal canto voftro ogni posibile, & à fine pro(c) Hipp.de
decenti ornatu . (d) Cicero 1.de Oratore . [ocr errors] proseguiare con
maggior fervore li vostri studj, vi mostrerò in domani quella fortuna propizia,
che vi potrà toccare in premio delle vostre virtuose fatiche. Venga pure chi di
voi la desidera ottenere, che gli farò conoscere quella forte, ch'è sempre
favorevole, non essendo soggetta à vicende, à fine, che di efla se ne
innamori. 1 [ocr errors][merged small][merged small] GIORNATA
III. Nella quale si mostra la fortuna , che deve defiderare, e procurare
il vero Medico , e la via più figura per ottenerla, A D
un gran cimento oggi m'espon in volervi mostrare la vostra buona fortuna,
posciache desiderandovela propizia, durevole, e senz'effere soggetta á vicende,
qual potrà essere mai questa fortuna sì prospera Quando nè le grandezze, nè gli
onori, nè le ricchezze, né le delizie, e piaceri,cose cotanto bramatç nel
mondo, la possono in cale stato costituire ? Appena è arrivato l'uomo alle
grandezze, od onori sommi, che questi cominciaio da bel principio à
contriftarlo, alle ricchezze, che l'infaftidiscono, alle delizie, e piaceri,
che questi ancora non gli rechino goja, e confiderabile danno: in somma si
scorge chiaraméte,che Nemo fua forte contentus. [ocr errors][ocr errors]
In conferma di ciò riferisce Ippon crare nella lettera scritta à Damageto , che
Multi fene&tutem exoptant, cumque cò pervenerint gemunt, nulloqae in fatu
firmâ mente perfiftunt . Principes, ac Reges privatum beatum prædicant ,
privatus Re. gium Imperium affe&tat , qui rem publicam regit, artificem
tamquàm periculi expertem laudat , artifex verò illum velut in omnia potentiam
exercentem. E pur questi quan to mai avranno desiderato fimili fortu. ne,
quanto vi ayranno faticato peč conseguirle, & ottenute , che l'ebbero,
punto ne rimasero contenti; Ela cagione di ciò fù, che questi andavano in
traccia della bell'apparenza della fortu. na fallace, non glà della di lei
sostanza ftabile , e quello, ch'è peggiore , la cer. cavano ancora fuor di
strada, conforme nella sudetta lettera fi legge: Rettam enim virtutis viam
puram , minimèque af peram, ac inoffenfam non cernunt ; Questa via dunque
bisognerà , che ancora vi mostri, acciocchè pofliate tutti ottenere il yoitro
intento, ed io uscire dal mio. E 3 cie [merged small][ocr
errors] [ocr errors] cimento con reputazione ; state attenti per non
isbagliarla, perche si tratta di fare acquisto di una fortuna stabile,eterna, e
non soggetta á vicende. Che il Medico debba essere foriu. nato non vi
cade ombra di difficoltà ; mentre , che se fosse diversamente, chi mai fi
vorria prevalere dell'opera di coPii, al quale la forte foffe contraria , Paveffe
affatto abbandonato, e che non gli piovessero addosso da per tutto, che
infortunj, e miserie, da ogn’uno sarebbe certamente sehernito, e per necessità
gli converria mutar mestiere, sicchè è incontrovertibile, che Oportet Medicum
fe forfanatum Mà qual fia questa fortuna, che strada dobbiate tenere in
cercarla, e ciò, che dovrete fare per confeguirla , procurerò ora mostrarvi con
la buona fcorta d'Ippocrate, à fine non possiate sbagliare. Due sorti di
fortune fi ritrovano descritte da Ippocrate, (e) una delle quali (c) 110
lib.de loc:in hom. 1quali è quella, ch'è fuori di noi, & ope* ra
independentemente da noi, e l'altra, ch'è sempre con noi , & opera conforme
noi vogliaino . Quella, ch'è fuor di noi così apa punto egli la descrive
: Sui enim juris eft, Fortuna , nulli imperio paret , neque ad cujusquam votum
fequitur; qudla poi, ch'è sempre con noi l'accenna con dire : Mihi enim foli bi
fortunatè afequi , idemque infortunatè non assequi videntur , qui recte quid ei
malè facere fciunt , e dependendo il bene, ò male operare da noi, la for tuna
dunque, che da ciò resulta, da noi dependerà, e sarà questa per sempre
inseparabile da noi medesimi. La fortuna dunque, ch'è fuori di noi è
quella, ch'è affatto cieca , e non considera il merito di chi benefica, ma dà à
chi più le aggrada di vantaggio ancora di quello, che il beneficato da ella
sappia mai desiderare : Talvolta ad un Contadino avvezzo å zappare la terra, fà
discoprire un tesoro; capace à farlo divenire molto ricco, con tutto, che
le sue 1 E 4 fue brame fossero di pochi soldi; Ad un?
altro ancora più miserabile farà conseguire una grazia nel giuoco, che lo
toglierà per sempre dalle sue miserie, e tutto ciò proviene-, perche vuol fare
à suo modo, giacchè Sui juris eft, nulli imperio paret L'altra poi; che
risiede in noi, è quella, che secondo, che la trattiamo ella ci corrisponderà,
se la vorremo propizia , se variabile, fe peffima, propizia, variabile ; e
pelima ancora l'otterremo, conforme da ciò, che Ippocrate c'insegnò li puol
dedurres & ancora dall'esperienza di coloro , qui rectè quid, vel malè
facere fciunt, giornalmente vediamo. Certamente, che la prima fortuna non
è quella, che deve essere desideratiz, e procurata da voi, che non dovete
zappare la terra , nè tampoco dilettarvi del giuoco, ed anco maggiormente ,
ch'effendo cieca, forda, e per non dispensare à dovere le sue grazie ingrata
ancora , questa non deve effere defiderata da voi, che dovete conseguire il
premio per giu Aizia, stizia , ed à quel segno, che vi si deve
; Oltre di che la sua sola istabilità bafte, rebbe per farvela
odiare, dovendo voi defideíare una forte stabile, e permanen-
te; per non provarne le di lei vicende, Esclusa dunque la prima
forte, neceffa- riamente dovrete contentarvi della se conda;
e tanto maggiormente, che la potrete regolare à vostro
piacere. In trè modi dunque potrete
fabri- carvi la vostra fortuna, ò buona , ò va- riabile , ò
peffima , se la vorrete buona , dovrete operar bene, conforme
v'inse gnò Ippocrate nel detto libro in tal gui- la :
Fortunatè enim affequi eft rectè facere, hoc enim, qui fciunt
faciunt , ed allora cià otterrete , quando scaccierete affatto
da voi li vizj, e farete in modo, ch'ella sem pre ammiri
le vostre virtù, e si ponga in soggezione, quando anche non
voleffe, di operare a'vostri vantaggi. Se poi la
bramerete variabile, fatela conversare con le vostre virtù, e
con li vostri vizj, che imparerà dal diverso modo d'opera
re, che li pratica trà esli ad effere variag bile [ocr
errors] 2 1 ; bile ancor essa. Qual modo l'indicd ancora con
dire : (f) Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluiffem ; cioè se per
via di virtù, e de vizj avesse voluto fare fortuna , non ad vos decem
talentorum gratid, fed ad magnum Perfarum Regem proficiscerer ; con che fece
conofcere ancora l'incostanza di detta fortuna, rimirandosi ella ben {peffo
istabile, sì in quei fervigj, che dependendo dalla volontà di molti con la sola
virtù non s'acquistano, come bene speiso l'esperimentano i Medici condotti; che
nelle Corti, ove trà molti altri la provorno tale Seiano e Bellisario.Se poi
vorrete farla divenite pellima, consegnatela in potere de' vostri vizj, che
apprenderà da questi i loro pessimi costumi , e perima certamente diverrà, ed
udite con quantas chiarezza ve lo dice egli nel libro sopracitato : Qui enim
non reftè quid facis, non fortunate afēqui poterit? quum reliqua , que
æquum eft facere non faciat. Talmente, che la vostra buona fortuna, the
voi do! (f) In epif.Abderir. Hippo dovete procurare è quella
che proviene dalle vostre buone, e virtuose opere, c questa l'avrete propizia,
e ftabile fino, che vorrete , effcndo subordinata al vostro sapere, e volere,
giacchè al parere d'Ippocrate nel luogo sopracitato, effa fi può felicemente
conseguire, da chi sda e vuole: Et facile eft ipfam felicitèr alle. qui, fi
quis fciens uti velint, d'onde faa cilmente n'è nato quel detto: Virtute dua
cey comite fortuna. Non basterà però d'avervi ciò brem vemente accennato,
per potervi cons sicurezza determinare il modo , che dov vrete tenere in
procurare questa buona, e tanto desiderabile fortuna, perche ciò, che vi hò
detto fin'ora , non è sufficiente à farvi capire in che maniera vi dovrete
contenere , allora, che sarete Eper porvi in viaggio per cercarla, e ciò,
che dovrete fare nel progresso di quello , 6 quanto di felice ne potrete
riportare dalla vostra lunga, ò breve navigazione, onde sarà necessario, che
per meglio esaminare li sopr’accennati punti, che cifiguriamo d'essere già
presenti al porta dell'imbarco , e che nel fare detto viaggio mi serva della
seguente ideata maniera per iinitare ancora in ciò Ippocrate, che dovendo
andare a trovare la sua fortuna in Abdera, conforme udirete in appreffo, ancor
egli vi si porcò per mare, ed in una nave non presa à caso, mà scelta da lui
con molta cautela,come si legge nella lettera prima scritta à Damageto, che
comincia : Cum apud te Rbodi ejem Damagete, navem illam vidi , cui Solis
infcriptio inerat , quæ mihi perpulbhra , puppi probè, idoneâ carinâ inAructa ,
muliaque transtra habere vifa eft, tu verò eam comendabas c. cam ad nos mitrito
@c. E tutto ciò, non senza gran mistero, mentre circospetto, e con il buffolo
da navigare avanti gl’occhi deve viaggiare chi cerca la fortuna, e deve
per tale effetto scegliersi un bastimento sicuro. Questo Porto è appunto
il luogo , da dove s'intraprende, il camino verso il Tempio della felicità, ove
dovrete por. ancora tarvi 1 tarvi, per conseguire la
buona forte a. e queste trè navi sono già qui allestite per ogn’uno di voi, che
voglia fare il sudetto viaggio , converrà , che à vostro piacere ve ne
scegliate una di esse, mà prima , che facciate tal'elezione , nella quale
facilmente potreste ingannarvi, fentite da me un breve ragguaglio di tali
bastimenti, del loro modo di viaggiare, de pericoli, che s'incontrano, e dell'
esito, che si hà della navigazione in ciascheduno di efli. Mirate colà à
finiftra, quella si chiama la nave del Sole, ivi la Prudenza regge il timane,
la Giustizia invigila al buffolo , la Fortezza regola l'antenne ela Temperanza
sopr'intende al tutto: ivi non risiedono altro, che virtù,e tutte attente alli
loro assegnati ministerj. Per entrare in questa si ricercano due requiz fiti, e
sono i Attestato di abilità, e provę di buoni costumi , altrimenti chi n'è
privo, non vi fi può imbarcare. L'altro bastimento, che stà alla deftra ,
li chiama la nave di Giano, questa hà [ocr errors][ocr errors] hà
parimente buoni Piloti, che sono le accennate virtù, che regolano la nave del
Sole, mà vi è solamente di male, che vi si trovano alcuni vizj, e tra questi vi
è il proprio interesse, la Politica,la Menzogna, l'Adulazione, il Secondo fine,
vestiti tutti di Zelo, ela Malizia, che s'infinge tutta umile, in somma vi sono
con le virtù mescolati li vizj, che per dimorare insieme con esse conviene loro
di stare molto circospetti, e tramutati in altri sembianti, e per entrare in
detto bastimento, non si ricerca altro attestato, che dell'abilità. Il
terzo poi, situato nel mezzo, che fà sì bella comparsa, si chiama la nave felice
: ivi al timone presiede la Malizia, al bussolo sopr’intende l’Inganno , lw
vele si maneggiano dall'Astuzia, la Maledicenza,e l'Impostura consultano
continuamente trà esse cose gravi, la Lussuria , la Gola, con tutti li vizj
consimili festeggiano , ciripudiano tra loro, ed allettano chiunque vedono- ivi
approfsimarsi ad entrare nella loro nave, dicen do [ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors] do à tutti: Per entrare quì trà noi non si
ricercano tanti requisiti; qui non serye abilità, li buoni costumi non
s'apprezzano, basta, che abbiate genio à gustare de’noftri piaceri, che
subitamente vi ammetreremo, e condurremo in un trata to al porto della
felicità. Vado vedendo, che tal'uno di voi è portato dal proprio genio di
eleggerli questa nave, che ha il nome felice, con tutta l'apparenza di
prosperità, senza pensare più oltre, conforme:(8) Magna pars hominum eft, que
navigatura de teme peftate non cogitat. Mà riflettete bene à ciò, che fate,
poiche non bisogna tosto fidarsi di quel bel nome, e di quella prima vaga
comparsa, conviene ancora ri. flettere al fine, che può avere una simile
navigazione, che ora vi spiegherò. Si ftaccherà questa nave dal porto con
allegria, mà nel viaggio incontrerà molti pericoli , perche non è regolata
dalla Prudenza, e quantunque la Malizia , e l'Inganno facciano quanto
pollo [merged small][merged small][ocr errors] no, (g) Sexeca de
Traxq.Anims.sapoll. 1 no, acciocchè non si sommerga, nulladimeno
questa non potrà sfuggire il passo dell'Ignominia , che stà situato un buon
tratto di camino prima di giugne. re al porto della felicità, (dove bisogna
neceffariamente arrivare per ottenere la buona forte) si rimira ivi uno scoglia
grande, ove è la residenza maggiore di tutti li vizj, hà nella sua estremità,
ver, so il sudetto porto alzate due gran colonne, ove è scritto : Non plus
vltrà, affinche sappiano tutri li vizj, che fino colà possono giugnere , mà che
più oltre è vietato loro il passare. Approdata, che sarà detta naye al sudetto
scoglio, è su, bitamente visitata , e ciò, che di viziosa ivi si trova, con
tutti'li viziosi , e vizj loro viene arrestato, non potendo anda, re più oltre
simil pefte , cosa di buono vi potrà mai essere dove fono tanti vizj,
consideratelo voi? Onde farà necessario, che tutto ivi rimanghi in potere de'
vizj. Che faranno all'ora quei miserabili, che s'imbarcarono in fimile
navę, renduti schiavi de'proprj vizj ; qual fortunaspropizia avranno ritrovato,
quando, che la loro pessima ancora l'abbandonorà, per non restare ancor essa
schiava ed il tormento maggiore, che avranno, farà di rimirare con li propri
occhi tra, passare quelli, che navigano ne i bastimenti del Sole,e di Giano
ancora,fe chi viaggia in questa fi farà regolare dalle virtù ; oh che cattiva
elezione avreste fatto mai se aveste condesceso al vostro genio ! come vi
trovereste, che farele in fimili miserie , privi della libertà, e della forte?
Plinio ciò predisse faggiamente, dicendo, ( a ) che Habet has vices conditio
mortalium , ut advere fa ex fecundis , ex adverfis secunda ne 2 cantur.
Sicchè fuggire, per quanto potete, i simili imbarchi , che vi conducono,
non al porto della felicità, mà bensì à quello ? dell'ignominia , e delle
miserie ; onde bisognerà, che vi scegliare è la nave del ? Sole, ò quella
di Giano per giugnere ti al desiato porto della felicità, per ri, F
tro(a) In Panegir. at Trajan. [ocr errors] 2 [ocr errors] trovare
la vostra buona fortuna Il proprio genio vi farà inclinare talvolta
d'entrare più costo in quella di Giano, con la quale crederete di poter ritrovare
una miglior fortuna, à questo non mi opporrò, perche dove vi è la Prudenza , c
la Giustizia, sc farete à lor modo , con tutto, che vi siano vizi ancora,
questi non potranno molto nuocervi; Mà prima di entrarvi, sarà bene, che
sappiate il viaggio, che fanno, si questa , à cui vi porta il vostro genio, che
quella del Sole, che voi poco gradite, e che tributo portano sì l’una, che
l'altra al Tempio dell'Eternità, affinche meglio fiate informati di tutto,
prima , che vi determiniate all'imbarco. S'incaminerà con prospero vento
la nave di Giano verso il porto della felicità , incontrerà nel camino varie
tempeste , mà la Prudenza, e la Giustizia, che la regolano, le opereranno senza
il disturbo de’vizj, le supereranno tutte con la loro buona condotta; capiterannó
molte, e varie occasioni assai vantag giose, [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] giose, se n'approfitterà più , ò meno chi farà ivi
imbarcato , secondo, che si consiglierà con li vizj, ò con le virtù, fe darà
orecchie a’yizj , & in ispecie al proprio interesse, gli dirà, che tutto
può fare, fe alla Giustizia , se non quello , che deve, ch'è convenevole, e
giusto, arriverà all'accennato passo dell'ignominia si fermerà per iscaricare
ivi tutti i vizj, con tutto quello, che di vizioso fi ritrovi nella ricerca
generale, che ti farà della nave, e se per disgrazia di chi ivi s'imbarcò,
Coffe ftato guadagnato da? vizj, e fossero questi in detto viaggio divenuti
arbitri della sua volontà, resterà ivi tutto l'acquisto fatto,come cosa
proveniente dalla loro viziosa industria, e quel, ch'è peggio, ne seguirà del
mifero passeggierofatto schiavo, ciò, che successe à chi navigò nel bastimento
felice, le povere virtù con l'infelice forte abbandoneranno chi le tradì, chi
le vilipese, e se n'andranno altrove à ritrovare chi meglio le tratti.
Succedendo poi diversamente, è cie l'in [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] F 2 [ocr errors][ocr errors] l'imbarcato abbia fatto
tutto quello che gli fu suggerito dalla virtù fattosi il sudetto espurgo, e
lasciati ivi tutti i vizj, proseguirà la nave il suo viaggio verso il porto
della felicità, dove appena giunta, che si scaricherà tutto ciò, che fi porta
al Tempio dell'Eternità, e lo presenterà la Gloria avanti il Tribunale della
Giustizia eterna, che ivi à tal'etfetto presiede, domanderà questa, se quel
tributo, che si offerisce sia stato in alcun tempo inescolato con robbe viziose
, & inferce , risponderà la Gloria , che quantunque fia venuto accompagnato
da' vizj, nulladimeno, che sia Rato già espurgato à bastanza nel pallo
dell'Ignominia, dove tutto ciò, chew d'inquinato vi era , fù lasciato assieme
con i vizj; non basta, risponderà la Giuftizia, è tributo, che ha avuto
comercio una volta con cose infette, non deve andare à dirittura al Tempio
dell'Eternità, fi consegni al Tempo , che gli faccia fare una lunga , e
rigorosa quarantena onde bisognerà aspettare la discrezio [merged
small][ocr errors] ne del Tempo, quando le vorrà eternare! Il viaggio
poi, che fà la nave del Sole , è bensì più adagiato , perche que fta non naviga
à tutti i venti, hà delle tempefte , mà le supera, perche la regge la Prudenza;
non fà grandi acquisti, mà fono sicuri, perche li regola la Giustizia, nel
passo dell'ignominia non si ferma punto, perche non hà seco li vizj, che la
facciano trattenere per il loro sbarco, giugne finalmente al porto della
fesicicà, non avendo quanto si porta per offerta avuto in alcun tempo comércio
con cose infette, e viziose , appena presentato dall'Umiltà senza pompa avanti
il Tribunale della Giustizia, che questa fubitamente ordinerà , che si
trasporti tutto al Tempio dell'Eternità , eflendo cose pure, e non sospecte
d'inquinamento alcuno, e che fi registri ancora trà gli Eroi il nome di colui,
che l'offerisce, ed ecco la sua fortuna divenuta già stabile, ed eterna, per
goder’ancor'effa i favori dell'Eternità. AveteAvere già sentito il tutto,
ora siete in istato di deliberarvi, e di prendere quel partito , che vorrete
per consiglio mio, imbarcatevi pure nella nave del Sole, se avete tutti li
requisici necessarj, che sono abilicà, e buoni costumi, e se ne siete privi,
procurareli pure à tutto costo, perche farerc più sicuri di portare
offerte , fe non molto considerabili, alimeno sincere, ed affai gradite
dall'Eter nità, se lo farete di controgenio : Durum eft confcendere navim
; sappiare però, che è un quieto vivere, dove l'ainbizione non perturba la
fantasia, l'ira non rode il cuore, l'invidia non consuma le mi. dolle, la
superbia non accieca , e dove finalmente tutti gl'altri vizj non possono punto
nuocere, ftantechè non vi dimorano, l'ingresso vi parer à duro, mà il rimanente
vi riuscirà felice, e quando non aveste altro motivo di sceglierla, vi doyria
animare å farlo , che Ippocrate per andare in Abdera à cercare la sua forte non
fi fervi della nave felice, nè di Giano, mà benisi di questa del Sole, e
la : CO- . [ocr errors][ocr errors] comendò non solo prima
d'averla provata, mà molto più dapoi, dicendo; (b) Cui cum Solis figno, etiam
fanitatem apponito cùm re verâ , prospero numine vee la fecerit . E certamente,
che prospero numine ancor in questa si navigherà per, essere regolata dalle
sole virtù. Se poi sarete risoluti di cercare la vostra forte sù la nave
di Giano, procurerete almeno di non navigare à curti li venti, e terrete
frenato il vostro inte. resse,acciocchè quando la Giustizia non potrà navigare
, esso non ordini il disancoramento, e che quando la Sincerità vorrà operare,
allora l'Adulazione non la turbi, e finalmente difautorerete tutti li vizj, che
ivi ritroverete, e li porrete in catena , come tanti schiavi, altrimenti sotto
specie, ed ombra di virtù v'inganneranno sempre: Fallit enim vitium fpecie
virtutis, umbra. Operando voi in questa maniera, acquisterete più gloria,
che se navigate nella (b) In 1.6 2.epift. ad Damagetum. F4
[ocr errors] nella nave del Sole, perche vi farete saputi ancora difendere
dagl'inimici domestici , e la vostra fortuna restando ammirata del vostro inodo
d’oprare , vi sarà molto propizia , e gli darete voi medesimi stimolo
d'invigilare à vostro favore, vedendo , che operate per eternarla; sappiate
però, che in tutto il tempo di detta navigazione, vi converrà stare
vigilantissimi , e non meno di quelli, che passeggiano sopra precipizj, mà à
far questo hoc opus : bic labor eft. Da queste trè figurate navigazioni,
comprenderete non solo ciò, che nel corso di vostra vita vi potrebbe accadere,
mà il modo ancora di schivarne ogni finiftro, che fosse valevole à ritardarvi
l'acquisto della buona fortuna , perche se voi da bel principio vorrete darvi
in preda a' viziosi piaceri , che progreffi mai potrete fare ? E che fortuna
prospera potrete conseguire? Ed incominciando una volta à gustare le viziose
delizie , non avrete più palato capace di assaporare il nettare delle vir
tù; [merged small][ocr errors] [ocr errors][ocr errors] tù ; la malizia,
l'inganno , e la frode vi sosterranno sino che gl'è à grado , mà alla tine
avendo conseguito ciò, che bramavano da voi , vi lasceranno cadere, anzi forse
ajuter anno, come fanno l'infidi compagni, nel precipizio maggiore delle
miserie, nel quale ritrovandovi, di chi vi dovrece lagnare? forse che della
vostra mala sorte innocente , quando, che voi medesimi ne licte stati glautori.
La vostra fortuna non ha mancato , ella troppo hà fatto per esservi propizia,
ambiva di favorirvi, mà voi all'ora la tenevate lontana, perche credevate, che
il trovarvi in delizie, in ispafli, e viziosi divertimenti, fosse il miglior
negozio, che potreste mai fare : E se talvolta v'infinuava la strada delle
virtù con qualche stimolo interno , voi la rigettavate con dispreggio , onde
meritamente esclama contro costoro Ippocrate : (c) Indoetus autèm qui eft ,
quomodò fortanatè affequi poffit? Si quid enim etiàm affequatur, non
Memorabilem fanè fucceffum babebit ; Qui enim (c) Hippode locis in
bom. 3. A 3 [ocr errors] cnim non rectè quid facit , non
fortunate affequi poterit , quum reliqua , quæ æquum et facere, non faciat;cd
altrove :(d) Ego verò ut fortuna quidem quavis in re non nibil tribuo , ità
certè cenfeo malè à morbis curatis , ut plurimùm adverfam fortunam contingere ;
e nell'epistola à Damagero così dice, parlando di simili sfortunati viziosi:
Eorum res adversas derideo,eorum infortunia intento rifu excipio. Veritatis
enim instituta violant. Se poi vorrete seguitare la strada di mezzo, e
mantenervi amico delle virtù senza discostaryi affatto dalli vizj, e questa con
tutto sia meno pericolosa, non è molto sicura , perche quantunque in essa
farete più ricchezze, stante il fecolo corroto, il buon nome non l'acquisterete
stabile, e di lunga durara, edin conseguenza incostante farà la vostras fortuna
, inercèche tutti quegl’artifici usati, quelli difettucci d'adulazione di
qualche bugiòla à tempo, e di quelle mormorazioncelle coperte, di quel
zeloaf(d) De Arteaffettato, e giustizia con il secondo fine, modi più tosto
appresi da Correggiani ozioli, che da buoni Maestri, scoperti , che saranno
dagl’uomini di stima , e di senno, questi vi perderanno quel concetto, che
prima avevano di voi. Oltre di ciò, che vita mai infelice sarebbe la vostra,
dovendo servire à due Padroni Deo, Mammona : Deo, ch'è il Protettore delle
virtù, & Mammona de' vizj: Nemo poteft duobus Dominis fervire , Deo,
Mammond . Mà dato ancora il caso, che vi riusciffe di farlo, che vantaggio ne
ricavereste mai, mentre le dolcezze dell' ingenuità ve le amareggierà
l'adulazione, quelle della giustizia ve le dissapo, rerà il proprio interesse,
quelle del zelo l'attolicherà il secondo fine, vivereftę continuamente inquieti
, stando sempre vigilanti, che non si scoprissero li vostri difetti, perche
vorreste passare per ingenui , e non sareste , per giusti, e prende reste ogni
arbitrio contro il dovere, con qualche cosa di vantaggio -; ficchè il partito
più sicuro farà di vivere lontani da, 1 da'vizj, e starsene
con le fole virtù ; perche quantunque le ricchezze non vi pioveranno addosso da
per tutto, nè l'aura popolare vi porterà molto in alto, con tutto ciò quel buon
nome, quel buon concetto, che formeranno di voi gl’uomini sensati, non vi sarà
mai tolto, durando sempre stabile ; perche è fondato sù le vostre virtù,
permanenti sù il vostro onore immutabile, che est Splendor virtutis , come S.
Ainbrogio negli Officj asserisce. Onde voi operan+ do bene otterrete la sorte
stabile, conforme ve lo predice ancora Ippocrate, (e) dove così parla :
Fortunatè enim affequi eft re&tè facereshoc autem qui sciant faciunt , e
d'avantaggio, viverete con una somma tranquillità d'animo,perche goderete tutto
quel gran dilettoyche apportano le virtù a' loro seguaci, non potendosi ciò per
altra via conseguire, mentre: (f) Semita certè=Tranquilla per virtutem patet
unica vitæ ; nè per questo non istabilirete la vostra casa, anziche 1
le). Deloc.in hom. [f] Juvenalis forira 10: me ز meglio
degl'altri, e per due ragioni, la prima, per avere fatto li voftri acquisti
onoratamente con le fole virtù; l'altra poi, perche il mondo non è così
spopolato d'uomini, che amano, e seguitano le virtù, quanto da alcuni si crede,
effendovene di molti, onde voi, che se guitare questa buona via ò sarete pochi,
ò numerosi ; se pochi, viverete bene, perche da molti Tarete stimati, fe
poi į farete numerosi, converrà, che li viziosi ancora , ch'avranno
bisogno dell'opera vostra s'accommodina alli vostri retti costumi.
Caminando dunque voi per la via delle fole virtù , potrete senza fallo
conseguire la vostra buona sorte, e por trete allora dire çon ragione
: Nos te, Nos facimus fortuna Deam, coloque locamus
• Dove che caminando voi diversamente, appena vi sarà permesso il
poter dire : Nos facimus fortuna Deam , mundos que locamus,
Stan [ocr errors] Nos te , Stanteche appena sù l'aura
popolare iftabile, in tal caso, la potrete appog. giare, nella quale non si
curò punto Ippocrate di fondare la sua fortuna, come da più motivi si ricava, c
primieramente, da ciò, che scrisse egli à Democrito, manifestandogli, che dal
volgo, disprezzatore delle buone opere, aveva ricayato più tosto riprensione,
che onore, con che fà credere, ch'egli non procurava có compiacergli da
cattivarselo, affinche aveffe detto bene di lui, e l'avesse onorato, perche la
sua politica solo consisteva, in operare, conforme si doveva, ed in far ciò,
che solamente era decente al vero Medico, conforme fi spiegò nel primo de' suoi
Aforismi in tal guisa : Se ipfum præftare oportet, quæ decent facientem; e ciò
in termini prù preciâ l'individua affai meglio in altro luogo , (8) dove così
dice : Neque verò gratiam, qua tibi homines demerearis subtrabo , cum fit
Medici præftantia digna , eorum autem, que per Instrumenta adhibentur, &
de mon (8) Hipp in lib de præcepto monftrationis eorum, quæ
fignificant , reliquarumque ejusmodi memoriam adeffe oportet, quod fi vulgi
tibi audientiam comparare voles, id non valdè gloriosè insti. tuas , neque
tamen cum ostentatione portia. câ fiat, industrie enim impotentiam arguit,
neque certè probo induftriam multo labore partam in alium ufum transferri ,
quod per Se fola ut eligatur grata fit ; Inanem enim fucı laborem cum ambitiofà
oftentationes tibi impones. In oltre tal verità si ricava ancora ,
dall'aver egli ricusato il servigio del potentiffimo Rè Artaserse, mentre certa
cosa'era, che se avesse desiderato d'acquistare l'aura popolare , non doveva
egli ricusarlo, poiche ritrovandosi in un tal posto, senza dubbio alcuno tutta
la Persia saria corsa ad onorarlo, niuno averia potuto più dir male di lui per
tema di non incorrere nell'indignazione del Rè potentissimo Artaferse, onde con
averlo ricusato dà à divedere, che egli non fi curava punto di dett'aura
popolare, nè delle ricchezze, e fortuna, che dacssa provengono, conforme
apertamente fi spiegò nella lettera scritta alli Abe deritani, dicendo ivi: Ego
verò fi omnibus modis ditefcere voluifem viri Abderia tæ , nè decem quidè m
talentorum gratiâ ad vos venirem, fed ad magnum Perfarum Regem proficiscerer ,
ybi &c. E per far conoscere meglio à tutti, ch'egli non caminava per
la via dell'aura popolare, nè delle ricchezze, mà bensì per quella della sola
virtù volle portarsi in Abdera , folainente per visitare, e trattare con
Democrito, e questo perche lo faccffe lui medesimo lo confesso, dicendo : (b)
Eum autem gravibus , firmis moribus ele præditum intelligo ; talmente, che
stimò egli fortuna maggiore quella, che sperava ottenere con trattare con
un'uomo di questa sorta , per apprenderne da esso qualche buon dor cumento, non
solamente de i dieci talenti offertigli dagl’Abderiti,inà ancora di tutte le
ricchezze, e grandezze insie: me della Persią, & udite con quantan
chiz (h) in etir. Abderit. [ocr errors] chiarezza lo dice : (a) Rex
Perfarum nos ad fe vocavit nefcius mibi potiorem of fapientiæ , quàm auri
rationem . E finalmente , acciocchè meglio comprendiate , che quanto v'hò
detto intorno alle trè strade, che vi sono per cercare la fortuna, o qual di
queste dobbiate scegliere, s'uniformi sempre più con i sentimenti del gran
Maestro, confermiamolo ancora con l'accennate trè vie di cercare la fortuna ,
contenute in detta lettera. Primieramente con il quomodocumque ditefcero ci
addita un bivio, cioè tanto la strada, che conduceva in Persia , à fare
acquisto di cesori, e grandezze considerabili, che quella di Abdera , che
allettava all'acquisto di dieci foli talenti ; La prima di queste egli non la
ftimò à proposito, perche conduceva in paesi barbari, inimici, e dove vi era la
peste ; La seconda nè tampoco , perche dubitava, che quel vizio dell'inte,
resse, que' dicci talenti, avessero possuto rendere servile, e schiava la sua
virtù, G cosa (a) Hippo in epiß. Denetr. cosa fece egli per
battere su'l sicuro, fi fabricò la terza via, espurgata da ogni vizio, e prima
d'incaminarti per essa la descriffe in tal guisa all’Abderiti: Mihi verò ad vos
venienti , non Natura , neque Deus argentum promiserit . At nequè vos [viri
Abderite] per vim obtrudite, fedlia berè artis liber â elle finite operâ . Qui
autem mercede operam fuam locant, hi fcien. sias, tamquàm ex priore libertate
manci. pio dantes , fervire cogunt . Oh Ippocrate, se questi tuoi
documenti fossero stati mai dati à rivedere à quel Quinto Petilio Pretore
Urbano, à cui pervennero in mano i libri del dia finganno composti da Numa
Pompilio , certamente che,ò l'averia fatti brugiare, conforme che fece quelli,
o pure ti averia fatto quel favore , che fecero gli Abderiti al suo Democrito,
che lo dichiarorno pazzo, e fi faria servito come Precote delle seguenti
cognecture per dichiararti cale, primieramente avrias dedotto contro di te, che
tu per portarti da Democrito, da cui non potevi sperare bene alcuno, perche
appena aveva un Platano, che lo difendeffe dal Sole, ed un sedile di pietra,
dove potesse sedere, mostrasti smoderato desiderio d'andarvi, conforme costa
nella prima lettera scritta à Damageto , dove così dicit Navem ad nos mittito ,
fed fi fieri poteft, Hon remis , fed alarum remigio instruct amo res enim, eu
amicitia urget. In oltre, che per benc andare in Persia , dove,
oltre offerte sì grandiose , eri tanto desiderato da un Rè potentissimo, cu
fosti prontissimo à rie cusar la chiamata , conforme costa nella lettera da te
scritta ad Hiftano, senza riflettere , che quel potentissimo Rè poo teva
distruggere la tua Patria per tua cagione. Chi dunque procura , ed effettua con
tanta sollecitudine, ed anfietà una cosa, che non gli può recare profitto
alcuno , e ricusa con altrettanta prontezza ciò, che gli può moltissimo
giovare, senza considerare ciò, che può sopravenire di male dal ricusarla ; certamente,
ch'egli si può condannare per pazzo. Saria stata però troppo ingiusta
que [ocr errors] quefta sentenza di Petilio , quando l'avesse cosi
pronunziata , poiche per condannare un'uomo savio per pazzo, prio mierainente
si ricercano più rilevanti prove di queste : in oltre bisognava dargli le sue
difefe', in cui deducesfe lc sue: ragioni prima di condannarlo, nelles quali
faria stato dedotto, primieramente, che non sussisteva in fatto, che da
Democrito non se ne poteva sperare bene alcuno, costando dall'Ippocratica
confeffione , quanto mai di bene egli ne ficavasse , ch'è questo: (b) Tum
ego Democrite præftantisime magna hofpitalitatis tud munera mecum in Co
reportabo, cùm multa me fapientia tua admonitione compleveris. Prçco enim
tuarum laudum rem vertor, quod natura humana veritatem inveftigasti, a mente
complexus es; Acceprâ autem à te mentis curatione discedo ; La grand'ansietà
dunque di andare à fare simili acquisti, non era indizio di pazzia, ma bensì di
somma prudenza , di sommo giudizio. Che poi per noneffere andato in Persia
foffe censurato a torto è chiaro, mentre non avendo alcun bisogno di quanto gli
poteva da ciò risultare, conforme egli confesso: (c) Nos vietu, veftitu, domo,
omnique read vitam neceffariâ cumulatè frui ; Perfarum autem opibus uti , nequè
mihi æquum eft; non doveva esporsi di andare à fervire popoli barbari , ed
inimici, e quanto erano maggiori l'offerte, che gli faceva. no , tanto più lo
costituivano loro schia, vo. E quando vi fosse andąco, cosa mai averia
riportato? Oro, argento, onori sommi, e grandezze, e quetti potevano
paragonarli all'acquisto, che fece, con Democrito, di dottrina, e faviezza di
mente maggiore? Ed essendo egli andato per curare uno creduto pazzo, per
cagione di quel medesimo ei ritornò più savio, e più dotto di quello, che era
prima ; e da ciò fi può dedurre quanto mai bisogna stare cautelato à dichiarare
pazzi coloro che non sono potendo queIti tali talvolta illuminare ancora i
Savja L'or(c) In epif. Hylani. [ocr errors] L'ottima dunque di queste
trè ftrade fi scelse Ippocrate , per acquistare la sua fortuna, e Pottenne
profpera, stabi. le, ed eterna i poiche fino, che il mondo durerà, la fua
fortuna ancora sarà ri. fplendente; per questa voi dunque vi dovete indirizzare
le volere effere suoi veri seguaci, e questa ancor meglio la scorgerete, dapoi,
ch'avrere nella Giornata di domani udita la gran deformi. tà de' vizj, ed il
danno grande , che possono apportare questi al Medico, che caminasse per quella
via , giacchè conto traria juxtà fe pofira magis elucefcunt , GIOR
[blocks in formation] Nella quale si tratta delli vizj , mostrando quanti
pregiudizi poffona apportare al Medico , e le in lui alcuni di esli pana
fcufabili , almeno quelli, che sembrano Ermafroditi. [ocr errors][merged
small] Na dura , ed ardua Provincia og gi intraprendo per voi, dovendo
parlare contro la corrutela del tempi, ' lati, e contro uno stile già
invecerato , con tutto ciò bramando voi sapere da me il vero per non
ingannarvi, dirò con Seneca ; (f) Quaramus quid aprime fa&tum fit, non quid
ufitatissimum, & quod nos in poffeffione felicitatis eterna conftituat, non
quod vulgo veritatis peffimo interpreti probatum fit. Vorrei potcre
scusare ancor io li vizj, conforme fanno quelli, che li rimirano solamente
mascherati con gli abiti delle virtù à fine di consolarvi, sc cofa
G4 [merged small][ocr errors] [ocr errors] 104 Dell'Idea del vero Medico.
cosa difficile vi sembrasse mai il poteryene affatto spogliare. Per esempio
ricoprono la bugia con il manto della prudenza , e dicono, ch'è prudenza di
celare all'Infermi la verità, perche ciò fi fà per loro bene , acciocchè non si
contristino maggiormente del male, che foffrono. Gli adulano ancora talvolta se
defiderano qualche cosa , che non competa loro, con tutto, che possa molto nuocere,
sotto pretesto d'aver carità, ed à fine, che vietandola non
s'inquietino maggiormente, e così vanno ricoprendo molti altri vizi per
renderli familiari, e meno deformi . Mà perche hò promesso di parlarvi con
chiarezza, e fincerità, non potlo, nè devo adularvi. Li vizj li dovrete cenere
per vizj; e le virtù per virtù : Li vizj, e le virtù le dovete considerare ,
come due linee p2rallele, che non possono in alcuna delle loro
particombagiarli, come due contrarj diametralmente opposti, che non possono tra
loro convenire; Dovete con. fiderare li vizj come mostri spaventofi ,
che che avvelenano con l'alito chiunque ad effi fi avvicina , come dunque
ardin, Tete d'accostarvi ad essi per ricoprirli? Mà conceduto ancora ,
che si poteffero mai travestire, ditemi di grazia, viaggiorefte voi con una
comitiva di ladroni, benche fossero travestiti in abito di gatantuomini,
caminereste sicuri di non effere offesi da essi, con tutto, che fossero sì
civilmente adornati a Certamente mi risponderece di nò: Tali apa punto fono li
vizj, poniamoli addosso quelmanto, che volemo, e questo non facendoli mutare il
loro perverfo costume, sempre vizj saranno, sempre nuoceranno di molto ; E
siccome li Leoni, e le Tigri per quante carezze loro fi fac ciano mai
deporranno la fierezza, cosi ancora al parere di Seneca: Vitia nun, quàm bona
fide manfuefcuniş trasmutateli pure in che sembiante volete, anzi, che essendo
questi travestiti , faranno de danni peggiori, perche non potendosi conoscere
per vizj à prima vista, non li potranno subitamente scacciare da
chiKabborrisce, onde ancora trà questi ayeriano all'ora maggior campo libero da
machinare le loro infidie, ed acciocchè meglio putiare scoprire li loro
tradimenti, contentatevi, che ve ne descriva qualch’uno di quelli , che nel Medico
fono più decestabili, e nocivi, con pers mettermi che non servi quell'ording
solito à praticara da chi tratta di esli , perche essendo fregolati non
meritano di effere trattati con buon'ordine, ba. standomi solo di farvi capire
la loro deformità, c quanto erano mai da Ippo, crate odiari, e creduti nocivi
al vero Medico, mentre giudicò essere parte di buona Medicina il saperfi:(8)
Qua faciunt ad demonftrandam incontinentiam quæftuofam, & fordidam
Professionem ixexplebilem habendi fitim , cupiditatem, de traditionem,
impudentiam , fiquidem iftas Spectant ad eorum cognitionem dc.e non già à fine
di seguitare , må bensì di fug. gire fimili diferci. La bugia, inimica scoperta
del ge nerc (g) De decenti babita. nere umano, come tratta li suoi
fidi re. guaci & Li separa, scoperti che sono, dal publico, e privato
commercio de viventi, fà, che niuno presti loro più fede, gli costituisce
infami, e li pone il più delle volte in evidente pericolo di vita, facendoti
publicare ciò, che non fù mai verità, e questa come si potrà scusare nel Medico
in ispecie, in cui ella è reato più grave, che non è in altri Profeffori, sì di
Legge, come ancora di Teologgia, e che ciò sia, veniamone alle prove, Dica una
bugia il Procuratore al suo Cliento gli potrà pregiudicare nella robba, venendo
talvolta à perdere mediante quella la sua lite ; La dica un Teologo, che abbia
di già prevaricato, à chi è da lui diretto nello spirituale, gli farà perdere
l'anima ; La dica il Medico al suo Ammalato, gli farà perdere la robba, la
vita, e l'anima insieme , ed ecco l'esempio chiaro: Dica il Medico al suo
Infermo, il di cui male si avanza : Lei stia di buon'animo, che la sua infer.
mità non è di gran momento , li segni non [ocr errors] nonsono
mortali , Ella guarirà , fi fidi di me, viva pure sicuro, e riposato ; mediante
questa bugia l'Infermo non pensa a' casi suoi, non aggiusta le partite dell'
anima, che premono tanto, non fà téItamento, non dinunzia li suoi crediti, è
ripostini segreti, non accresce diligenze, acciò la sua cura sia allistita da
Me. dici più esperti, si avanza tanto in un tratto nel male, che si sopisce, o
sų aliena di mente, resta incapace à fare cosa alcuna di proposito, e se ne
muore, ed ec che ha perduto la vita , la robba, e l'anima ancora, se per
ispeciale grazia di Dio non fù illuminato à pentirsi de' suoi peccati prima ,
che diveniffe incapace à poterlo fare, e questi sono trè reati nati da una sola
bugia, la quale benche dete ta à fine di sollevargli lo spirito, in vece di ciò
gli hà cagionato un'improvisas morte, per lui così svantaggiosa. Dis spongono
le leggi, che li delitti sono maggiori, e più qualificati, quando li
delinquenti ne hanno commessi numero maggiore, è della medesima fpeçie, ò
CO, equivalenti, ficchè calcolandosi mag. gior numero di tali reati nella
bugia del Medico, che in quella del Legista, e del Teologo, in conseguenza
viene , che è più grave delitto la bugia nel Medi. co , che negl'altri due
sopr'accennati Profeffori. In oltre se il Medico, per persuadere al suo
Infermo, acciò prendesse con maggior fiducia il rimedio da lui propostogli,
affermasse, che quel medesimo avesse giovato ad altrui, e ciò non fosfe vero ,
rincontrandosi poscia la verità, in che discredito rimarria ape preffo à cui
disse tal menzogna, certo è, che non lo terria in avvenire più nel numero de'
veri Medici, mà bensì di parabbolani,de' quali Ippocrate cosi disse: (h)
Virtutis apud ipfos modus eft , id quod deteriùs eft, mendacii enim ftudium
exercent ; e parlando de' Medici menzogneri così disse: (i) Quapropter veritate
nudati, omnem improbitatem, ac ignominiam ing duunt. L'adulazione è vizio, che
s'infinua dol(h) In epiß. Domag. (i) Dedec.bablik, dolcemente, e
con galanteria , è un veleno , che fi beve fraposto con un'apparente netrare, e
questa parimente nel Medico cresce in qualità di reato, posciacchè dica
qualsifia altro Adulatores à taluna, ch'è deforme, non meno di aspetto, che
povera di abilità.: Voi Giete una bellissima, una compitissima , egalantiffima
Giovane, fiete eccellente in molte cose; nelle quali non avete chi vi fuperi ;
le darà compiacimento bensi con formo suo diletto, ma non l'ucci derà ; Dica il
Medico ad una sua Infer. ma, che desidera gustare un grappolo di uva: V. S. ne
puol mangiare un poco , perche bisogna condescendere qualche volta al desiderio
dell'Inferma , quod face pit nutrit , lo faccia pure liberamentes Se la povera
adulata Inferma lo farà, non folamente vi averà compiacimento, e diletto per
allora , mà poscia potrà ancora morire per tal cagione, non è quem sto caso già
da me inventato, mentre si legge in Ippocrate seguito nella figlia di
Eurianatte, che per aver gustata l'uvale crebbe non solo notabilmente il male,
mà se ne morì, dice egligdoppo di avere narrato, che l'era sopragiunta la
refrigerazione delle parti estreme il delirio: (1) Ifta autèm ut ferebant ex
deguftata uva huic contigerat ; potrete dunque voi nel Medico scufare
l'adulazione omicida per conciliarvi la grazia dell'Infermo ? Risponderà
Ippocrate certamente di no, perche dice egli in termini precisi dell'adulazione
nella regola dal vivere: (m) Is velut res horrenda vitari debety a gratia
vitanda per quam unitas deperit. E non solamente è reato gravissimo nel
Medico l'adulazione in ciò, che riguarda la regola del vivere, mà ancora nel
prescrivere medicamenti . V'incontrerete in molte contingenze, nelle quali
gl'Infermi , ò glastanti proporranno riinedi, ed il più delle volte quegli, che
non saranno à proposito, in questi casi avvertirete bcnc à non adulare il genia
di chi li propose', mà doverete fare ciò, che il bisogno richiederà, e non
altri menti: (1) Epid.lib.3./46.2.egroting (in) Do pracipe. [ocr
errors][ocr errors] per adula menti: Conforme ancora, se venendo
proposto da altri Medici ciò, che non vi parerà essere profitcevole
all'Ammala- to, in tal caso non dovereste zione tacere, e lasciar
correre ciò, che fù proposto da altrui , mà bcnsi con tut- ta
civiltà addurre li vostri motivi, cra- gioni, che avete in
contrario, à fine venghino esaminati,essendo questo l'ob- bligo de
veri Medici, conforme Ippo- crate insegnò, dicendo: (n) Qui quid-
quid do&trinâ acceperunt in medium profen & facultate
dicendi utuntur , ad gratiam comparati, & pro gloria,qua indè provenit
decertare parati,doctrinam fuam ad veritatis lucem repurgantes.
Dell'Ateismo vizio esecrando non ve ne saria d'uopo parlarne , perche egli è
cosi repugnante, che chi hà uso di raa gione mi pare assai difficile vi poffa
in effo cadere, con tutto ciò, perche certe proposizioni, che sparse, e
feminate alle volte fi ritrovano in alcuni libri, che vengono da lontani paesi,
potriano alle menti (n) De decohabitu. runt , 1 0
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] inenti di voi, che volete volare troppo i
alto,recare qualche disturbo, non istimo superAuo di dar loro sopra ciò
qualche luine, à fine stieno più circospette, e cautelare, e
particolarmente nel sentire certe proposizioni dirette à ridurre le
operazioni animaftiche alla sola machi26 na, e struttura del corpo fatta
dalla na tura, con sì mirabile artificio, guarda tevene pure da
queste , perche hanno de l'ateismo nascosto, e tenete fermo, che en vi voglia
sempre un primo Movente di . ftinto, e separato dalla struttura, perche
de quantunque la detta struttura fia necef. faria alli moti interni, ed
esterni , nulla- dimeno senza il primo Moyente, che è l'anima
rationale nell'uomo , cessa ogni li moto regolato, come si scorge chiara.
mente ne' cadaveri, ne' quali con tutto, che rimanga la mirabile
struttura , sepa- rata ch'è l'anima dal corpo iyi
ogni mo- le to regolato finisce. Nè
solamente nel leggere ciò , che viene scritto converrà stare cautelati, e
circospetti, mà ancora in quello fi sente [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] riferire intorno alle pazzie di coloro , che, per essere
reputati di singolar dottrina , tralasciorono di credere ciò, che dovevano,
perche non capacitava le loro meni materiali, se non ciò, che con li propri
occhịrimiravano, ò palpavano con le loro mani, contro de' quali Sant' Agostino
fortemente inveisce, chiamanı doli uomini di carne. Spero dunque, che per
quanto leggerete di male in questo genere , ò sentiFete dire, non diventerețe
così pazzi , che vi vogliate assomigliare alle bestie , Je quali, in ciò, che
riguarda il dare un minimo contrasegno interno d'eternità, punto non
s'assomigliano all'uomo,mentrechi mai di effe ha saputo ritrovare il modo di
scolpire, ed intagliare l'effigie brutale di alcuna della sua , ò d'altra
fpecie, come seppe inventare l'industria umana? ed ancora in durissime pietre ,
per conservarla visibile, tale quale appunto ella fù vivente, per secoli
innumcrabili? e ciò donde è proceduto ? se non da quell'interno desiderio ,
che l'uo ) [ocr errors] Puomo hà in fe fteffo
d'eternità. L'Ira è un vizio, che deforma li suoi seguaci, li quali conforme
diffe un sayio Letterato, molto da me stimato, eriverito, fe questi li
potessero rimirare nello specchio , allora, che sono nel suo furore, yedendosi
divenuti così deformi, e trasfigurati in mostri,odierebbono,non solamente cal
vizio , anziche se medesimi; Modo tenuto dalli Spartani,che per fare concepire
orrore all'ubriachezzas conduccyano li loro figliuolini in certo tempo
dell'anno, nel quale fi concedeva libertà d'ubriacarsi, in luogo publico ,
affinche questi vedessero , che deformę spettacolo cagionava tal vizio, per
concepirne in avvenire di esso maggior spavento . Voi dunque per meglio
apprendere à che segno dobbiate tenere lontana da voi l'ira, non accaderà velo
moftri con parole , essendo di maggior efficacia , che rimiriate con li vostri
propri occhi , in chi si trova adirato, più al vivo una tale, c tanta
deformità, giacchè: H 2Segnius irritant animos demiffa per
aures [ocr errors] Quàm quæ funt oculis subiecta fide "libus,
E così comprenderete meglio ancora , se tal vizio sia tollerabile nel Medico,
che deve avere sempre l'animo compofto , conforme comanda Ippocrate de Medico :
Eum quoque spect are oportet, ut animi temperantiam excolat, non taciturnitate
folùm , verùm etiam reliquâ totius vita moderatione , quod ad illi comparandam
gloriam plurimum affert adjumenti ; e più chiaramente, ancora lo comanda in
altro luogo, (a) dove dice: Ne quid perturbato animo facias ; Ed è la cagione
appunto di ciò, perchè il Medico, che deve invigilare con somma attenzione alle
cure de' suoi Infermi, non deve avere la mente turbata, per poter meglio
discernere li partiti megliori, e più profittevoli, che dovrà prendere à prò de
fuoi Malati, ed à tale effetto Ippocrate comanda, che sia incombenza del
Medi co (a] Inlib de decora. co il sedare litumulti, ordinandoli ef
pressamente:(6) Tumultus verbis caftiges, G ad omnia fubminiftrandi te
prome ptum adhibeas. [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Converrà però prima in voi medesimi se mai
foste dall'ira predominati, che sediate li vostri interni cumuli, per poter
muovere più facilmente glaltri con il vostro buon'esempio ad imitarvi. Mà
vi sono alcuni Iracondi, che credono essere cosa nociva alla salute il
ceprimere in un subito li loro primi moti, onde per tal cagione lasciano termin
nare il loro corso : Mà quanto questi s'ingannino lo fà vedere Ippocrate con
dire :(c) Ira contrabit , cor, pulmonem in fe ipsa, din caput, & calida ,
bumidum; il qual testo Vallesio così la spiega : Ira eft furor fanguinis circa
cor c. hinc fit ut fervente Sanguine,cor , pulmo , & caput calefcant
, & repleantur. Nimirùm fanguis fervore tumet, & venas, arteriasque
tumefacit, fed ob vebementem calorem, qui illis in locis eft, co
contrabitur ubi[b] Dodec.hab. [c] 6.Epid.fe5.4., [merged small][merged
small][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] [ocr errors][ocr
errors] H 3 ubique fanguis. Undè fit, ut multis ob iram oculi, du vene
frontis intumefcant, & tota facies rubore suffundarur , eo tempora pulfent
, & caput doleat , quin do febris fuu perveniat . Si persuadono dunque
questi, che gl'accennari danni che cagiona l'Ira à parti sì principali, sia più
vantaggio di pazientarli, che di rimuoverli? Onde non dovrete in conto
alcuno farvi dominare dalla collera, e non solamente per quello che riguarda la
buona direzione della cura, mà ancora li vostri proprj avanzamenti, stanteche
quel povero Infermo pur troppo annojato dal suo male , avvedutofi, che ancor
voi gli accrefcere moleftia, adirandovi per ogni piccola cagionc,se ne disfarà
facilmente per non potervi più soffrire. La Superbia nella Medicina à che
segno sia deforme riflettetelo in Menecrate Medico, che insuperbito forfe per
effergli alcune piccole cure riuscite felici, ed ayer sentito dire, che
Esculapio, in quei tempi rozzi per tal cagione fù annoverato trà Dei, egli
volendolo su pe [ocr errors][ocr errors][merged small][merged
small][merged small] perare, scrivendo ad Agesilao Ř è de Spartani ; pose nella
soprascritta : Ager filao Regi Menecrates Juppitèr ; gli calzò bene però la
risposta, che gli fù data da quel saggio Rè in tal guisa : Menecrati Medico
Agefilaus Rex mentis fanitatem; nè fù ciò sufficiente per reprimnere la sua
superbia , mentre riferisce Leone Sansio, (d) che : Eo furoris in hoc genere
delatus eft , ut quofcumque liberaffet à morbo jurejurando anté sanitatem
rcceptam adıētos , Jecum deindè benevalentes adduceretistatis temporibus
tamquam fervos; atquè jatellites, eâ tamen lege, ut alius quidèm Herculis
insignibus indutus ; alius Apollinis babitum gerens ; alius Mercurii perfonam
fuftinens , alius aliumi mutatus in Deum, Menecratem, utpote Jovem Optimum
Maäimum Dii minorum gentium sequerentur. Onde converrà, che la teniate lontana
da voi , per non essere stimati pazzi, e maggiormente quando vi troverete nell'
auge delle vostre prosperità , perche allora la superbia molto vi potria
nuocere, fc [d] In Florid.9.prafat. [merged small][merged
small][merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged
small][merged small] H 4 se foste da efla dominati, allora vi sforzeria à
distaccarvi dalli vostri più antichi, e cari amici, solamente perche vi
conobbero prima, che le vostre fortune incomincialfero : E pafferia ancora più
oltre allora il suo ardire, fe ella potesse dominaryi à suo modo, meiltre vi
faria prendere tal compiacimento di tutte le vostre, sì grandi, che picciole
opere, come se fossero singolari, e da niun'altro fattibili à quella
perfezzione, che voi fatte l'avrete, senza permettervi punto d'indugiare å
formarne concetto, con forine far fi deve delle cose proprie , almeno fino a
tanto, che dal tempo fiano tolte dalle mani dell'Adulazione, e pofte in quelle
della libera sincerità, à fines che doppo averle ben confiderate dia loro il
suo giusto valore, secondo il quale , e forse meno deve stimare le cores
proprie, chi si trova in prosperità di fortuna , per goder egli il favore
dell'adulazione. Onde in tutti gli stati , e maggiormente in quello di
prosperità, nel quale sarete più oiservati da tutti doveteseguitare l'ottimo
conseglio d'Ippocrate , (e) che dice : Medicum urbanitater quamdam fibi
adjunétam babere convenit, affinche possiate effere da tutti tenuti cortesi,
umani , e senza superbia. La defiftimazione, ed il disprezzo del compagno
è un vizio dependente dalla superbia, onde develi dal vero Me dico abborrire,
al parere d'Ippocrare: Ne superbus , do inhumanus videatur ; E tanto più , che
deve essere d'animo modesto, e cemperato , di ottimi coitumi, umano, e giusto,
conforme egli giudicò nel libro de Medico : E se il Si. gnore diede à voi
maggior talento degl' altri vostri compagni, perche nel coufronto, che ne fate,
in vece di ringraziarlo, mostrate più tolto di biasimarlo, con dire, che
difetraffe in non fare uguale à voi chi è d'inferiore capacità di voi, potendo
il disprezzato rispondervi : Ipfe fecit nos, & non ipfi nos; Dunque, che
colpa è la mia 2 E non avendo voi ragione da dotervene meco,
prendeteveland con Tel Dedec.org. [ocr errors] con chi mi hà fatto
; sicchè fuggire pure fimil vizio, che può ancora paffare più
oltre,inentre da quel disprezzo,da quel- la disistimazione
nascendone il discredi- to del vostro compagno, chi sà, che
non vi facessero divenire pessimi Medici, fer- vendovi di
caloccasione per procurare qualche servigio di colui, che fù da voi
posto in discredito? Olère di che;chi fos- te mai di simile viziosa
natura disprez- zeria ancora bene spesso quelli piccoli mali, che
in breviffimo tempo possono divenire giganti con non piccolo disca-
pito della sua esistimazione. Qando mai potessero
fcufarsi, che non credo , in alcrui li vizj spettanti alla gola,
che sono la crapula, e l'ubriachez- za , nel Medico sempre faranno
molto condannati, perche dovendo egli gior- nalmente opporsi a'
defideri depravati de' suoi Infermi, con ordinar foro las dieta,
come mai potrà persuadergliela, se non gli darà egli buon'esempio?
Fa- cendo più profitto questo di qualunque ragione, al parere di
Seneca, che vuole, che [ocr errors] 1 [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] 20 che (f) Longum iter eft per præcepta,
bre ve, & efficax per exempla. E se poi de' la vostri disordini ne
fossero stati spettatori in li vostri Infermi, come mai potreste per
fuader loro il contrario, di ciò, che voi seco faceste? Se volete dunque essere
ub bediti fiate fobri, e tali certamente dooi vrete essere, se non
vorrete essere peg{ giori de' bruti stessi, perche conforme riferisce
Ippocrate:(g) Sitit quidem Aper, oli sed quantum aquæ appetit, Lupus vero
di. laniato quod Je se obtulit necesario alimento, quiescit; Mà quando
tutto ciò non vi bastasse vi doveria far abborrire que fti vizj la sola
rifellione, che questi poffono ó abbreviarvi la vita, ò per la meno
rendervela penosa, fino, che viverete. co Non essendovi cosa nel mondo
più nociva della Lussuria, chi potrà mai scue farla negl’uomini, quando, che la
vedianio sì moderata , e sì ben' regolata dal solo istinto di natura in quasi
tutte le bestie prive dell'uso di ragione , alla riserva folainente di alcune
poche , trà quali (f) Epift.6. [5] In cpif.Demag: [ocr errors][ocr
errors] ti [ocr errors] quali vi sono quelle , che più s'assomis gliano
all'uomo, che sono li Scimiotti, e Gatti mamoni, rare volte li bruti à
confusione de' sensuali fi veggono do. minati da detto vizio, se
non sono proffimi à quei tempi destinati dalla natura, per la moltiplicazione
della loro fpecie, solamente il Lussurioso è più brutale di effi , che non ha
in ciò hà in ciò tempo determinato, essendo in ogni tempo dominato dal
suo vizio, che lo consuma , & annichila, conforme riferisce Ippocrate : (b)
Ep annorum quidem temporum ordo terminus eft brutis ad choitum, at homo
perpetuò insano libidinis aftrostimulatur. Qual'estro infano di libidine
faria più , che in altri detestabile nel Medico, fe non lo sapeffe reprimere
con la sua continenza , posciacchè dovendo egli giornalmente conversare con
donne conforme avverti l'istesso Ippocrate:() Et omni horâ mulieribus ,
virginibus illi occurrunt; Sicchè Iddio guardi, ch'egli non corrispondesse con
tutta fedeltà à quella (h) In epift.Damage (i) De doc.ork
[ocr errors] per ca. quella somma confidenza , à cui gione della
sua profeflione; viene am- meslo, diverria ogni suo trascorso reato
gravillimo, sì proprio, che della pro- fellione isteffa , talınente, che
l'innocen- te Medicina ancora ne faria calunniaca. Onde voi, che
desiderate far molti pro- grelli in essa , dovrete vivere lontani,
e detestare simil vizio ; Altrimenti perde- reste ogni speranza di
fare un minimo progresso in effa ; Converrà dunque,che fedelmente
offerviate il seguente giura- mento d'Ippocrate : Juro &c.fed
castam, bu ab omni fcelere puram, tùm vitam , tùm ætatem meam
perpetuò præftabo. Ecercamente, che non dovrete fare diversamente,
sì per li vostri avanzamenti, che per profitto delli vostri Infermi, mentreche,
come mai potreste applicare con attenzione alli vostri vantaggi, alle cure de'
vostri Infermi, se le vostre menti in quel tempo divagassero altrove, e fossero
distratte in linili oba brobriosi pensieri ? Confido dunque,che con la vostra
prudenza, e temperanza [ocr errors][merged small] nonnon sarete per
cadere in simili reati , che sono detestati da putti, per essere mancamenti
commessi in mestiere di buona fede, conforme è la Medicina,
L'Ingratitudine è vizio ancor esso detestabile, per essere aborrito ancora dalle
fiere, essendosi osservata tal’una di esse aver usata gratitudine al suo
benefattore ; mà questa sarebbe ancora più detestabile, se nella Medicina
seguisse , che lo Scolare si mostrasse ingrato al suo Maestro, mostreria
certamente, è una natura molto perversa, ò di aver perduto l'uso di ragione,
mentre qual gratitudine mai potria egli sperare, che non l'usò à cui tanto era
tenuto, quali progrefli mai potria fare, allontanandosi da chi gli porge la
mano per sollevarlo, e promoverlo? Credo,che un simile yizio, Ò Giovani
generosi farà sempre lontano dalle vostre menti, conforme deve stare dalla
mente di chi spera divenire Maestro, per il motivo di non aver à ricevere il
fimile contracambio da' suoi Scolari, che stimolati dal suo mal'esempio
faria facile facile loro riuscissero essi ancora ingrati.
Quindi è, chę Ippocrate per esimere li suoi Şcolarida un fimile
obbrobriofo ar- tentato gli faceva obligare con poliza e promettere
con giuramento le seguenti cose: Juro , & ex fcripto Spondeo
planè obfervaturum, Præceptorem quidem , qui me hanc artem edocuit
, Parentum loco ha- biturum , eique cùm ad viftum, tùm etiàm
ad usum neceffaria , grato animo communi- çaturum, & fuppeditaturum,
ejusque poftea ros apud me eodem loco 9.quo germanos
fratres, eofque, libanc artem addifcere volent,absque mercede, fyngraphâ
edoctu [ocr errors][ocr errors][merged small] rum &c. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Da un'altra poco inferiore ingratie tudine
spero vi guarderete voi, che ambite avanzarvi per la via delle virtù , & è,
che se sarete da qualche vostro come pagno fatti chiamare à dar consiglio, ò in
loro assenza sostituiti à curare tal* uno de' suoi Malati , non tramerete
contro loro insidie , per subentrare in sua vece , stanteche tal’enorme
ingratitudia ne, non è usata, fe non da quelli, che sono ignoranti, e che
diffidano per la buona via delle virtù potersi avanzare ; e per tal cagione si
servono di quella del vizio ; Onde con ragione consigliava Ippocrate al Medico
à non prevalersi delli Softituti ignoranti , ftanteche de’loro errori ne resta
debitore colui, che li propone, in questo caso però non ne re, steria punto
debitore, poiche pagheria il mancamento commesso con la sua elpulfionc , &
affinche non abbiate da ri, cevere fimile ingratitudine v'iinpegnerete quanto
meno potrete di promovere ignoranti, e maliziosi , 34 0 fono
e € L'Invidia, che per lo più proviene dalla mancanza di ciò, che
fi desidera, è da altri si vede possedere , come la po. trere seguitare senza
condannare voi stesi inabili à potere conseguire ciò, che bramate , avendolo
potuto ottenere un' altro vostro compagno, questa non vi avyedete, che vi fà
dichiarare da voi medesimi da poco, e codardi ? Onde impiegherete aflai meglio
tutto quel tenipo,e pensieri,che malamente li spregano [ocr errors][ocr
errors] in invidiare il bene altrui, con cercare di conseguire ciò, che
desiderate , per le sue yie proprie, & oneste, e credetemi, che questo
vizio non regna se non negli animi vili, e codardi , trà quali voi, che avete
abilità, e spirito vi dovete vergognare di esservi annoverati,e tanto
maggiormente, che questi viziofi furono da Democrito giudicati ancora stupidi,
ed ignoranti,allorche ad Ippocrate disse:(a) Et certè fufpicor pleraque in Arte
tuâ aut per invidiam, aut per ingratitudinem palàm contumeliâ affici ; & in
appresso dice , Cum fint ignorantes , quod melius eft dama nant , calculoruin
enim fuffragia stupidis attribuuntur, nequè ægrotantes fimùl ap probare
volent, neque ejusdem Artis focii bi teftimonio confirmare , cùm invidia
obfter Gr. Veritatis enim nulla eft cognitio, nei què teftimonii
confirmatio, Ed è certamente cosa assai difficile, i che li seguaci di
simil vizio poffino con tenersi nel semplice desiderio di ciò, che da
essi è invidiato, senza passar più oltre [ocr errors] ne (a) In
epift.Damaget. in procurarlo ancora , e con modi ignominiofi, anziche si
serviranno talvolta della calunnia, e dell'inganno, per confeguirlo, e vi pare,
che simili maniere fiano degne del vero Medico rationale ? Quando Ippocrate (b)
giurò, che : Medicum ratione utentem, alterum numquàm invidiosa calumniaturum?
Mà che siano modi praticati solamente da quelli, che Forensem quæftum fectantur
, trà quali non faria convenevole, che voi fofte annoverati. Mà acciocchè
possiate mantenervi lontani da simile obbrobrioso yizio, sarà necessario, che
vi dia alcuni utili avver. timenti, che sono: Vedendo yoi avanzare qualche
vostro compagno nellinegozj,è cosa nacurale,che fentiate dentro di voi un certo
stimolo, che incomincicrà da principio a farvi contriftare,e questo sarà
appunto il primo seme, che insinuerà dentro di yoi l'invidia per farvi divenire
suoi seguaci, di questo, affinche efla non trionfi di voi, è servitevene
disprone per avanzarvi ancor voi, con imitarlo, se il detto vostro
compagno opererà conforme si deve, ò di remora, fe vedrete ,
ch'egli si avanza per la via del vizio, ed in tal caso, con
riflettere solamente, che à voi non conviene d'in- vidiare ciò,
ch'è disdicevole al vostro onore, detto seme verrà in un tratto di-
Itrutto. In oltre sappiate, che non do- vete rimirare solamente
l'efteriore com- parla, che fà il vostro compagno, mà ancora
dovrete rillettere à quanti disag- gi, che talvolta soffrirà egli per
effajalle fatiche eccellive,all'inquietitudini grane di, alla scarsezza
del tempo, ch'egli hàg che gli toglierà ancora il riposo necessa-
rio, le quali cose se tutte le rifletterete , certamente in vece
d'invidiarlo , più tosto lo compatirete, e direte con Vir- gilio
: Non equidem invideo miror magis. A tempo di Seneca
vi era un certo vizio vagabondo, chiamato da lui Core curfatio, che necessitava
li suoi scguaci andar girando continuamente per las I 2 Città
[ocr errors][ocr errors] Città allo sproposito cercando li negozi senza aver
prima determinato nella loro mente quali, mà solamente quei, che à ventura si
presentavano loro d'avanti, e questo tal vizio lo descrive per
un'inquieta dapocaggine, un perdimento di tempo, con non altro profitto,che
d'una certa stanchezza di corpo,acquittata per tanto girare ora in quà , ora in
là. Galeno, conforine egli riferisce nel principio del suo merodo , fù da
alcuni di quelli, che pareva, che l'anassero più degl'altri , stimolato
fortemente à seguitare questo vizio, dicendogli, che se non tralasciava
d'essere tanto indagatore del vero, e non si accomodava allo stile di quel
tempo, d'andar girando tutta la mattina, à visitare per complimento li Signori,
e la sera d'andare à cenare seco, non saria stato amato, nè averia contratto le
loro amicizie, riferendolo appunto in tal guisa : Me verò ex iis , qui me unicè
diligere funt visi, nonnulli fæpè increpant , quòd plus justo veritatis studia
Jim addiétus , quafi nec mibi ipfi ufui , niec ipfis [ocr errors]
[merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small][ocr
errors][merged small][ocr errors][ocr errors] ipfis in totâ vità fim
futurus , nifi, & ab hoc tanto veritatis indagande studio
defi- ftam, da manè salutando circumeam , vefperi apud
potentes cænem. His enim artibus tum amari , tùm amicitias
conci- liari, tùm verò pro artificibus haberi &c.
Ed in tanto non volle egli condescende- re à farlo, perche la
giudicò per cofa impropria di chi era seguace di ottimo
Maestro, soggiugnendo in appresso da- poi averne commendato
alcuni di que- fti : At horum nemo , nèc mane potentium
fores ipfos falutaturus , nè vefperi cænatu- rus frequentabat , fed ficut
Hefiodus cer, cinit : Namque alium ditem cernens cui
deeft, quod agatur : Ipfe folum vertit tauris, &
semina ponit. Onde fuggirete ancora voi simile
vizio, se desiderate d'essere veri seguaci d'Ip- pocrate.
La Pertinacia, e lo spirito di con- tradizzione sono
due difetti nel Medico di sommo rimarço, e non si possono per
con [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] I 3 conto alcuno in lui scusare ; se vi contaminasse
mai il primo, vi costituirebbe ignoranti, cogliendovi quella bella proprierà,
che hanno li Dotti, ch'è : Sapientis eft mutare confilium ; vi faria anche di peggio,che
vi costituirebbe simili alle bestie, perche farebbe divenire ancor voi incapaci
di ragione , e perciò venendo esclusi dal commercio degl'uomini savj cosa
fareste infectaci di simile vizio? Se poi, che Iddio je me liberi fofte invali
da quel 'cattivo spirito di contradizzione y guai alli vostri Infermi, perche
venendo loro proposto da altri ciò, che si deve, e voi non volendo, che fi
eseguisse , mà più tosto in vece di quello , altra cosa contraria, come
anderebbe l'a cura facendosi à vostro modo, se foste ancora pertinaci?
Ippocrate insegnò à questo propofito ciò che si debba Fare, e che ne risulti di
male facendosi diversamentc , & è:(0) Neque fanè indecorum fuerit fi
Medicus in rei præfentis anguftiâ , circà agrum verfaturz imperitiæ etiam tenebris
circumfufus , alios quoque accerfiri jubeat, quo communi confilio , que in rem
agri sunt disquirantur, & illi ad præfidiorum facultatem operas fuas
confoTint; e cosa ne seguirà seregneranno trà di essi questi vizj? De eo
munimini ambitiosè contendere, se ipfos ludibrio exponere, Sicchè voi , che
sperate divenire veri Medici Ippocratici, vi converrà tenere lontani da voi
tali vizj, che tanto vi potriano pregiudicare. etiam [C]
Hipp.præcept. L'Avarizia fù talmente odiata da Ippocrate, che se avesse
potuto l'averia del tutto sbandita dal mondo, poiche scrivendo à Crateva
erbario famofiffimo de' suoi tempi, così appunto gli manifeftò il suo desiderio
: Quod si Crateurs amaram pecuniæ cupiditatis radicem excindere poffis , ut
nulla ejus reliquia extent, hoc probè teneto, quod unâ cum hominum corporibus ,
etiàm malè affeétos purgaremus, fed hæc quidem in votis habenda : Tanto scrisse
Ippocrate, con tuttoche non gli fossero ancora giunti à notizia li documenti di
Demnocrito , cheportandosi poscia alla sua cura in Abdera da lui medesimo sentì
, trà quali vi fù questo contro l'avarizia: (d) Quinàm enim Leo aurum defolium
in terrum abdidit? Quinàm Taurus , alienum ufurpandi cupiditate , ad prælium
impetu quodam delarus eft &c. e con ragione così esclamava Democrito scorgendo
l'uomo caduto in tal vizio peggiore de'bruti. Quanto mai cresca la
deformità dell'ayarizia in chi è avanzato negl'anni sentitelo da Cicerone:(6)
Avaritia senilis vituperanda eft maximè : Poteft enim quidquañ effe abfurdius ,
quàm quo minus via restat , eò plus viatici quærere? Mà più d'ogn'altro
la saria obbrobriosa nel Medico , perche essendo stato da Ippocrate dichiarato
fimil vizio per male più grave della pazzia, cgli farà tenuto non solo di
crederlo tale, mà ancora di medicarlo, onde se in vece di far ciò lo
procurasse, ecustodisse in femedesimo con diletto , in qual trascorso egli
incorreria? E certamente più grave, e me [d] inefiß.Damag. [e] In
Cat,Maior. [blocks in formation] e meno scusabile faria, che in
ogn'altro, per non aver egli apprezzato li documenti d'un tanto Maestro, che
sono li seguenti: (f) Miserabilis sanè eft humana vita , quòd ad eam totam
intolerabilis are genti cupiditas, velut hybernus flatus pervaferit, ad quem
morbum infania graviarem curandum , utinàm Medici umnes potiùs concurrerent. E
lo dimostra in termini precisi altrove , () dove così saggiamente consiglia :
Neque verò exigenda mercedis cupiditate duci oportet, nifi ut ad artem
edifcendam tuos inftruas , fuadeoque nè in eo inhumanitèr nimis te geras, fed
& opum affluentiam, & facultates refo picias, interdùm gratis cures ,
itaùt memoris gratitudinis potiorem,quàm præfentis existimationis rationem
habeas. Quòd fi thofpiti, vel egeno largiendi occafio se te offerat his , vel
maximè fuccurrendum eft. Qui enim erga homines humanum fe exhibuerit, is artis
amore teneri censetur. Cofa dirà l'Avaro , & altri viziosi leggendo, tanti
ottimi consigli, dati loro da Ippo crate? [f] In epif. Senar. Abderit.
[5] Inlibede prai: [ocr errors][ocr errors][ocr errors] crate 2 Mi
persuado; che quello appunto , che diffe Quinto Pecilio Pretore Urbano,
riferito da Livio, allorche ebbe terto li libri di Numa Pompilio, che erano
stati tanti secoli sepolti : Se fe eos in ignem coniecturum , perche , dos
legi, fervarique non oportere; e questo perched non per altro, perche egli era
Pretore, e non gli compliva, che altri sapessero , che molte cofe, ch'egli
faceva erano mal fatte , poiche que' libri altro non contenevano, che di
rimuovere ciò, che non era ben fatto, e ciò, ch'era sommamente pregiudiziale al
popolo, trattandosi in quelli De diffoluendis falfis religionibus. Questo
vizio certamente non farà scusato da chi è di mente sana , nè da chi ben
riflette à quanti disaggi mai soggiacino li miseri Avari senza potersi sapere
ad utile di chi lo faccino. In beneficio proprio certamente che nò, poiche non
altro, che travagli ne ricavano dal cumulare, che fanno ; A prò degli Eredi 2
nè tampoco, perche se potessero immaginarsi , che gli Eredi volessero
go [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged
small] godere con ispendere liberamente, priveriano fubitamente dell'eredità,
fic. che di questi solamence Padrone ne rimarrà l'avarizia , inentre per
sodisfarla esi cumulano , c questa , che ne farà di tanti avanzi ? facilmente
non sapenda servirsene li consegnerà al lusso, affinche disipandoli in un
tratto ne impingui altri Avari. Ippocrate odiava il lusso grandemente, à
segno , che compose un libro contro di effo, ch'è appunto quello De Decenti
ornatu , nel quale non solamente incarica à Medici di fuggirlo , mà dà ancora
per cagione del lusso il modo di distinguere li veri Medici da Parabolani, de
quali ultimi parlando, così dice: Si enim conventu facto ambitiofa, e quem
fuofâ fuâ profeffione decipientes in urbium circulis verfantur, Quos ex veftitu
, cum cæteris ornamentis, quis cognofcere poterit, quin etiam quò fumptuofiùs
ornati fuerint , cà majori odio adversandi , ab eis, qui eos confpexerint ,
fugiendi ; dove de veri, e buoni Medici cosi ne parla : Quia bus
[ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] bus non ineft exquisitus,
nequè cariofus ornatus, qui fe fe excultus venuftate, cu frugalitate, non tam
ad fuperfluam curiofitatem,quàm ad optimam existimationem, prudentiam, e animi
moderationem compararunt , ad inceflum verò eo femper sunt habitu ; Sicchè dal
Medico seguace d'Ippocrate devesi fuggire il lusso per quanto gli preme la
propria riputazione ; certe mode straniere, e galanti non gli competono , come
si legge (b): Peregrie nus cultus immodicus calumniam tibi com. parabit .
Tiberio s'ingannò, allorche propoftofi in Senato di proibire il gran luffo di
quei tempi, essendo egli di sentimento contrario, persuadendoli, che in
lasciarlo correre à briglia sciolta, da se medefimo si faria stancato, e perciò
disse : Nos pudor , divites satietas, pauperes egestas in meliùs mutet; qual
vergogna ne' suoi {moderati succeffori punto non si mirò mentre in Nerone si
vidde à che segno s'inoltrasse il lufto. Mi persuado però,ch'egli si volesse
ingannare per altro fine politico, mentreche girandosi dal
lusso continuamente la ruota della fortuna , gli compliva più di
vedere tante muta. zioni di stato ne' suoi sudditi, che disau.
torato chi li cagionava, e tanto mag- giormente che avendo questo
vizio un dominio tirannico s'uniformava al suo governo . Tiraneggia
per verità il luffo li suoi seguaci , mentre l'impoverisce e vuole
eliggere da tutti gradimento di quanto male fà loro. Ordina , che
dalla Persia , e dall'Indie sia trasportato un drappo non più
veduto , forza li suoi sem guaci à prenderlo ad ogni maggior co-
ito, e fà, che oltre il gran dispendio ringrazjno quel Perfiano,
quell'Indiano ancora, che lo portò, perche appagò il loro desiderio
, li quali ne resteranno fa- cilmente ammirati, non meno di quello
ne rimanesse Tacito , allorche li Romani per abbassare gl’animi
dell’Inglesi, li fe- cero assuefare à molti costumi loro, e da
essi non più praticati, e l'appresero per foimo favore , mà ben se
ne ayvide Ta- [ocr errors][ocr errors][ocr errors] cito del fine,
che in ciò si aveva dicendo: (i) Que humanitas cenfebatur, cùm efet Species
fervitutis. L'Infedeltà, e Fellonia sono vizi confederati, e detestabili
in ogni qualità di Persone, mà più d'ogn'altro nel Medico, posciache ogn'uno
ciò, che ha di più prezioso, che sono la vita, e l'onore glielo fida; Onde se
csso mancaffe, à cui gli prestò tanta fede, che gastigo mai li potrebbe trovare
de' maggiori, che lo potesse punire à bastanza , avendo commesso un reato di
fimil forta, un mancamento di buona fede ? Sicchè odiateli pure simili vizj
esecrandi, conforme l'abborriya Ippocrate, non volendo insegnare la Medicina à
chi non aveva giurato prima sù tutte le Deità ciò,che segue, cioè: (1) Nequè
cujusquam precibus adducturus , alicui medicamentum letale propinabo , neque
hujus rei author cro , nequè simili ratione mulieri pellum subdititium ad fætum
corrumpendum exhi bebo, (i) In Vita Agricola. 11) In lurejuri
Hippocr. [ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] bebo,
fed caftam, ab omni fcelere puram, tùm vitam , tùm diatem meam perpetuò
præftabo . Sicchè con ragione, e con giusti motivi verrà escluso chi mai in
fimili vizj cadesse dall'effer vero Media co, e degno seguace
d'Ippocrate, Non è piccolo difetto nel Medico l'essere troppo curioso di
quelle cose , che non fanno al suo mestiere, conforme tra l'altre sono li fatti
domestici de' suoi Infermi; onde da tal vizio ye ne dovre. te aftenere,perche
tal curiosità vi potria tenere distratti da quel negozio, à cui dovete
principalmente applicare, ch'è il ben dirigere le cure de vostri Infermi, come
y'astringe il giurainéro d'Ippocrate,ch'è questo:In quafcumque domos ingrediar
, ob utilitatem Ægrotuntium intrabo. Mà di più di questa ancora può efa
fere viziosa la troppa curiosità delle cose moderne, e peregrine, e
particolarmente ne' Medici giovani, che non pofsedono ancora la Mcdicina à
quellas perfezzione , che fi richiede ; onde da questo vizio v'asterrete , sì
perche vi fa [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] ria divagare
inutilmente in cose, che ancora dal tempo non sono state ben digerite , come
ancora vi terria lontani da ciò, che farà necessario di fare, cioè
d'impossessarvi bene di quanto è stato da molti secoli confermato, à segno, che
diverreste periti nelle novità incerte, rimanendo inesperti nell'accertate da
lungo tempo , quali poscia sentendole vi giugneranno nuove ,. sopra di che mi
riporto à ciò, che disli nella secondas Giornata , nella quale mostrai, come vi
dovrete regolare per divenire Medici. Solo ora vi foggiugno quello, che à
questo proposito ne dice Ippocrate, ed affinche meglio discerniate tutto il
vizioso, per tenerlo lontano da voi: (m) Multæ namque ad ambitiofam quamdam
operam comparat& videntur , ea videlicet , qua de nulla re utili quaftiones
agitant ; E quali siano le cose utili nella Medicina, lo spiega in appresso
soggiugnendo : Priusquàm verò ad Ægrum ingrediaris , fac cognitum habeas quid
agendum fet ;. ple(m) De dec.org. che pleraque enim non
ratiocinatione , fed au» dia xilio indigent : E se ciò non fosse chiaro
ida à sufficienza passiamo al libro De Fractua cioè ris, dove
parlando de' Medici , qui sao da pientiam fibi falsò arrogant , così
chiaracha mente dice : Verùm enimverò multa hoc stil modo hac in arte æftimari
folent. Quod la enim peregrinum eft , nèc dùm conftat an en utile fit,
confueto, quod jam norunt utile elle anteponunt , quodque ab ufu communi
day abhorret ei, quod eft probè cognitum ; e non evi vi sia discaro di sentire
quanto mai à ci proposito redarguisce Ippocrate coloro, ei che vanno cercando
le belle idee : (a) ei Hujufmodi igitur , ubi præellem non tàm de vi
curandi ratione cum illis conferrem, verùm, m ut auxilium ferrent audactèr
peterem : Veo d. nuste enim cognitionis intelligentia apud eito istos Sparfa
eft , cum igitur , bi ex necesitait; te indocti existant, eos ad utilem
exercitaci- tionem cohortor, ubi prçceptorum cognitione .: deftituuntur.
L'Ozio padre di tutti li vizj, se non t; lo terrete lontano da voi, vi potria
farperdere tutto ciò, che di buono aveste mai acquistato; Egli è capace di
farvi nauseare le virtù , d'arrestarvi nel mezo della vostra carriera,
d'abbatęrvilo spișito , e finalmente di trasfigurarvi in quella mostruosa
figura, che più sarà di suo genio, e sențite appunto, come ne parla Ippocrate
di questo pessimo vizio: (b) Quod enim otiofum eft , nilque agit ad
improbitatem viam affectat, ad eamque rendit ; Talmente che per divenire voi
yeri Mcdici, dovrete fuggir l'ozio , deftruttore d'ogni yostro bene; c per ciò
farç, vi dovrete ancora astenere dalle frequenti musiche, dalli ridotti de'
Novellifti, e da altri consimili divertimenti, ne? quali non si puol'acquistare
altro, che dį pascere inutilmente la curiosità, ed il proprio genio , e ciò con
ragione fi puol giudicare tempo perduto, perche profitto alcuno da essi non se
ne ricava. Gran infortunio sarebbe della Me. dicina, quando v'entraffe la
Malizia à corteggiarla, avendo questa già impa rato (h) Dedecenti
babits, [ocr errors] rato adimitare tutte le bạone virtù con finzioni
soprafine , ed in che guisa, ne parleremo più diffusamente in appresso;
Solamente ora vi avvertirò, che se tal? uno di yoi reftasse mai inferrato
da fimi31 le vizio diyerrebbe subito uniforme à 1 quei Medici descritti da
Ippocrace :(9) Qui quidem Perfonarum, quæ in Tragediis producyntur maximè
fimiles esse videntur ; mentrechę farebbe tante comparse difi ferenti,
quante gliene dettasse la sua madi lizia nelle congiunture à lei opportune , ci
mà come termineria la tragedia lo moAd stra Ippocrate chiaramente doppo aver N
avvertito, che Orium , ignavia mali tiam quærunt, soggiugnendo: (d) Hi
enim - Sunt, qui fora frequentant , ruditate, ac Ti infcitia sua imponentes,
& circulis Civita tum verfantes ; Talmente che per non cheffer yoi
posti nel numero di Parabolani necessariamente vi converrà fuggire , afe
e detestare fimil vizio . Il timore, e l'ardire , con tuttoche K 2
sem- (c) In Hippocratis lege. (d) Hippoer.de dec. habitu.
[ocr errors][ocr errors] 2. [ocr errors] sembrino trà di loro
contrarj, nulladimeno vengono molto biasimati da Ippocrate nel Medico,
dichiarandoli in lui per segni viziosi d'ignoranza, dicendo egli : (e) At verò
imperitia malus eft thefaurus , malaque opes reconditæ iis, qui ram tùm
opinione ipfi, tùm revera possident fecuritaris animi, du lætitiæ expers,
timiditatis, & audaciæ nutrix; Ac timiditas quidem impotentiam , Audacia
verò artis ignorationem arguit. Perloche non di potrete nè segúitare, nè
scusare, nè anco sotto lpecie nel primo di circospezzione, e nel secondo di
spirito, perche diversi sono trà loro il timore, e la circofpezzione, l'ardire,
e lo spirito . Il timore vi farà perdere l'occasione pronta , che vi si
presenterà di operare per non faperla voi conoscere, ma non già la
circospezzione, che nasce dal poffe dere molto bene ogni danno , ed ogni
profitto, che ne poffino risultare da ciò, che voi farete, onde questa vi
renderà folamente per breve tempo irresoluti, e fino (e) Hipp Text.
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] e fino a tanto, che averete bilanciato il
bene, & il male, e conosciuto, ch'avrete quale delli due prevalga , sarete
prontissimi esecutori di quanto avrete deliberato. L'ardire poi per essere
temerario vi porterà con violenza ad operare , onde non vi farà diftinguere
quando ve ne dobbiate servire , dove, che lo spirito , che vi rende perspicaci,
& accorti, Ve. lo farà ben capire , quando fia tempo. opportuno di farlo,
conforme egregiamente avverti Ippocrate : (f) Temeraria namquè proclivitas, do
promptitudo,quam. vis valdè fit utilis, despectui eft , at confiderandum quando
bis uti liceat. L'Odio è un vizio, che trà li maggiori può divenire il
primo, quando fi stenda fino alli ultimi confini della sua iniquità, cioè alli
benefizj ricevuti, pafsando allora à quell'esecrando reato , che solamente trà
gl'uomini regna, esfendone le bestie più fiere esenti, conforme da tanti esempj
registrari nello Istorie si può comprendere, & in ispecie di (f) In
lib.de Medica [merged small][ocr errors][merged small] K 3 [ocr
errors] [ocr errors] di quel fiero Leone , che nell'Anfiteatro Romano il' véce
di divorare il suo Beriefattore condannato ivi ad bestias, lo difese dalla
violenza delle altfc, mà quellos che si rende più considerabile, si è, che alle
volte' , quanto č maggiore il benefizio, tanto più viene perseguitato
dall'odio, giacchè al parere di Tacito: (g) Beneficia coʻusquè leta sunt , dùm
videntur exfolvi poffe, ubi multum antevenere pro gratia odium redditur;
Darebbe l'animo à voi non dico di seguitare' vizio sì obbrobrioso, e
ripugnante' ad ogni in il pretesto del naturale di chi lo segue ,
inclinato a farlo, per non potersi moderare. Senticenc però prima d'impegnarvi
à ciò, cosa ne diffe ad Ippocrate, quel grand’amatore della giustizia
Democrito:(b) Plerique' verò quæ natur& hoc adSéribentes Benefactorem odio'
habent, co parům abeft ut indignè ferant fi debitores effe puténtur , fed eu
pleriquè artis ignorantiam in se ipfis habeotes, a imperiti (g) Annal.
lib.4. [h]. Epiß. ad Damageexiftentes, id quod meliùs eft purgant intero
stupidus enim fiant suffragia. Talche il solo sospetto
d'essere infetti da un fimile vizio, vi renderia incapaci per
sempre di quanto voi bramate conseguire. Quanto mai sia
difficile d'esprimere tutte le trame dell'ingarinoz ed impostu- ra,
sentitelo riferire da Ippocrate in tal guisa : (i) Difficile eft multorum
malorum machinatricem folertiam verbis exprime- re, cum eorum fit
infinitas quædami din bis cum dolofis conimentis prava mente in-
ter le conversentur; apud eos autèm virtu- tis modus habetur , quod eft
deteriùs; men- dacia enim amant, do in bis fe exercent,
voluptatis ftudium extollunt; legibus mini- me parentes a
Certamente che meglio non fi poteva da Ippocrate esprimere l'inganno
vizio tanto diletto da' maližiofi Impostori, mentre da questi li modi più
improprj, che si praticano sono credati per loro virtù , nè fi seguita da efi
altro studio, che della menzogna, nè fi atten de (i) In
epist.Domaget. [merged small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr
errors][ocr errors] K 4 1. avendo de ad altro, che à piaceri,
e diversi- menti, fenz'alcun timore di gastigo. Le tristizie di
costoro non si pofsono mai à bastanza esprimere, stanteche,
fingen- dosi questi Mcdicis con modi improprj. accreditano li loro
medicamenti , non punto di rossore ne di servirsi di testimoni
corrotti, che con menzogna: attestino il gran giovamento, che das quelli ne
ricevettero con tuttoche non se ne fossero mai prevaluti, nè di ripromettere
ne' mali incurabili quella certa salute, che non è in potere de' Medici,
, quantunque espertislimi , il farla conseguire ; In oltre giudicano
graviffimi, e inortali tutti quei mali, benche di sua natura leggieri , purche
rechino aglo Infermi qualche apprensione, affinche credano questi esfere stati
mediante la. loro virtù risanati , e d'avantaggio , per non essere riconvenuti
d'aver errato ne? pronostici, parlano con doppio linguag. gio , à tal’uno
diranno, che quel tale Ammalato deve necessariamente morife,& ad altri, che
deve infallantemente mie [ocr errors] rllanare, per avere pronto si
nell'ano, che nell'altro evento chi contesti la loro, fimulata perizia in
sapere ben prevedere gl’esiti de' mali; Milantano in oltre costoro i loro
grand’arcani, con i quali fi vantano d'avere refuscitato molti, già fatti
spediti da Medici. Solamente dico. no con verità, che in mano loro niuno.
muoja, perche ridotti che li hanno in: pessimo stato di salute, abandonano li
loro Infermi, non potendoli più lusingare con le solite false speranze di
salute, de' quali prima fi servivano per ifmugnere le loro borse. Per inantenersi
poi in creditozli pongono forto alte protezioni, e sfuggono d'incontrarsi con
Medici dotti, ed esperti, non porendo ftare à fronte con chi ben sa discoprire
la loro ignoranza . Al divino Ippocrate furono note alcune di queste verità,
mentre egli (1) così ne parla : Qui igitus in ignorantia profundo fubmerfi funt
, ij prædicta ( cioè l'operare con ingenuità) minimè percipiunt , cum Medici
nomine iz digni [] Intib.præcepat [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] 'digni re ipfà comprobent ; quàm repente evetti fint
, fortune tamén egentes per die vites quofdam ex anguftiis emergunt
viri- que es éventu nominis celebritatem adepti &c. ed in
appreffo : Qui certè ad curatio- nem non accedunt ; ubi vident miserabilcm
effe affectionem, c ejulatibus plenam, alio- rum-Medicorum congreffum
fugiunt; e in altro luogo: (m) Qui igitur eos reprébena dunt qui
viltis à morbo manus non admo- vent , non minùs adhortantur ad ea fufci-
pienda , quæ attingere fas non eft ; quàm que fas eft , in eoque apud eos
qui nomine tenus Medici sunt admirationem fibi conci- liant , ab
artis verò peritis ridentur. Mà crescerebbe più oltre ancora
l'iniquità di costoro, quando ; che unisfcro alle loro male arci l'ippocrisiaj
conforme che più volte si è osservato' ins ral'uno di essi,che postosi adosso
un'abito di fimulata penitenza, e' čutto umile con li seguenti artificj
procurava di maggiormente accreditarli. Introdotto, ch'egli era
clandestinamente in qualche cura (m) in lib.de Arte, čura,
doppo di aver fatte molie insolite, ed affetrate offervazioni intorno
all'Ammalato, cosi incominciava à parlare : Io coinpatisco infinitamente li
Signori Medici, che lo curano s perche questo è un male'assai oscuro , e
difficile à ben curarsi, non essendo ciò da cutti, fin qui scorgo , che hanno
fatto tutto quello , che sapevano", nè io drdisco di biasimare ciò, che
fino ad ora harino fatto, perche quest'abito ; che porto in doffo non mi
permette di dir male del mio prosimo, nè di togliere la riputazione à Profeffori
cotanto accreditatie tanto maggiormente, che quando anche non foffe ftato fatto
a fuo' dovere ciò, che si è fatto sin’ora', non siamo più in tempo d'impedirlo,
dico bene , che io peccherei mortalmente, se non' dicelli libera.. mente ciò,
che debbasi fatie in avvenire, questo male à conto mio và curato in tal guisa :
Primieramente gli si devono dare i tali, e tali' rimedi , e dipoi develi fare
in questo modo, e ac fi opererà diversamente, io mi protesto che questo
poveroInfermo se ne morirà quanto prima ; e lo. vedrete con vostro
cordoglio. É fe tal uno degli astanti più prudente lo prega- va
d'abboccarsi con li Medici della cura, à fine di comunicar loro questi
suoi sen- timenti, ei ricusava tal congresso, con pretesto ,
ch'essendo odiato da tutti li Medici per la sua ingenuità, e
dottrina non fariano mai condescesi à quanto di buono egli avesse
proposto, onde , che reputava non solamente superduo tale
abboccamento , må ancora non pratica- bile da un suo pari, che deve,per
l'umil- tà, che profetava, effere injinico delle difcordie; onde
avessero pure fatto ciò, che ad esli pareva , e piaceva , bastando-
gli d'aver accennato il gran pericolo, ed il modo insieme più
sicuro da sfuggirlo per mera carità di giovare à quel povero
Infermo così aggravato , non già per in- teresse alcuno, da cui egli
n'era lonta- nisiino. Infinite confusioni cagionarono simili parole
pietose in più cure , stante- che tal’uno de' più creduli, che vi si tro-
vorno presenti, diffe : Sentiste , con che [merged small][ocr
errors] modestia parlava quel sant'Uomo, se non fosse così scrupolofo, oh
quanti errorici averia discoperti, commesli da' noftri Medici ignoranti in
questa cura ! Si vede però, ch'egli intende, perche hà fatto certe osservazioni
particolari intorno all'Ammalato, che non le abbiamo vedute fare da' noftri
Medici. Ed altri di più consigliavano à licenziare tutti li Medici per farlo
curare da esso folo, per-. fuadendofi, ch'egli l'averia certamente guarito .
Quali danni ne riportino li poveri Infermi da costoro, che Medicorum congreffum
fugiunt,gli espresse assai bene, e con pochissime parole Ippocrate nel
sopracitato libro , dicendo ivi; Ægroti verò dolore conflictati in utrâque
improbia tate natant ; cioè in quella dell'ignoranza, e dell'inganno di simili viziosi
Impostori. Quello però, che reca non ordinaria meraviglia si è, che il
popolo più volte caduto à dar fede à fimili viziosi Impostori con danno
notabile, & evidente della propria falute ritorna di bel nuo
nuovo a creder loro , & à restarne insieme nuovamente deluso, conforme
ancora che con tutto abbiano questi nociuto à molti, niuno contro di essi
dell'offesi ne fà risentimento , e la cagione di ciò / non puol'essere altra,
che godono questi quel vantaggio, che hanno le donne di mala vita, da cui ne
s'allontanano molti, che da esse furono danneggiati, nè alcuno contro di esse
ne fà rilentimento proporzionato al male ricevuto', e ciò cre. do, che segua sì
nell'uņo, che nell'altro caso,per la vergogna,che ogn’uno di essi hà di
manifestarsi con atto publico per imprudéte, onde perciò pazienta,e ţaçe.
E finalmente se per disaventura un fimile yizio contaminafle mai il Media co
dotto, ma politico, oh quanti danni ancor peggiori di questi apporteria à
molti, posciacchè inestandosi al ben radicato sapere l'inganno , e l'impostura
, che frutti velenosi mai produrrią unas fimile pianta ? e nocenda questi senza
effere creduti nocivi, non solamente trà l'idioti , mà ancora trå li più
cautelati, e cir. ) ) e circospetti troveriano lo
smaltimento, c per non diffondermi più oltrc, dirò solamente che il Medico
dorco, e politico, quando che fosse divenuto Impostore, avendo egli perduto la
sua ingenuità diverrebbe allora non solamente tiranno de' suoi Infermi, facendo
loro arţificiosamente credere , che da esso depende lą loro falute, anziche la
vita isteffa , e che non poțriano nè pure un momento di più yiyere, quando si
allontanassero dal suo consiglio,& ajuto,mà ancora di tutti gli altri
Professori ingenui , potendoli conculcare à suo piacere per prevalersi egli delle
frodi somminiftrategli dall'inganno, alle quali non potendo contraporre le
proprieşper esserneprivi,conviene loro cedere , per non sapersene schermire,
giacchè Års luditur Arte. Fuggite dunque yoi, che ambite di mantenervi ingenui,
e divenire veți Medici fimil vizio, e voi, à cui specta d'invigilare alla
publica salute. Non tantum tollerate nefas hanc tole lite peftem.
Ded [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Del
miserabile vizio dell’Ignoranza poco sarà d'uopo parlarne, sì perche vi è già
nota la sua deformità, sì ancora perche vi vedo incaminati à gran passi per la
strada della sapienza,solamente vi riferirò per vostra consälazione, affinche
prestamente ne diveniate veri possessori di questa, ciò, che Ippocrace à questo
proposito insegnò, con una bella somi glianza , & è: (n) Non alitèr
enim ac Miniftri , & Miniftræ in domibus tumultuantes, ac ceriantes , fi
quando de repente eis hera adfuerit, attoniti conquiefcunt , fimilitèr etiàm
reliqua animi cupiditates malorum, hominibus funt administre, at ubi fapientia
in conspectum fe dederit, tanquàm mancipia reliqui affe&tus difcedunt.
Insegna parimente Ippocrate nell'iscoprire li seguaci di tal vizio il modo da
conoscere li Medici ignoranti, mà di ciò non devo parlarne, perche il mio fine
è diretto à detestare li vizj , fenza andar cercando li viziosi. Non però
tacere devo il gran danno, che questi apportanoalla povera Medicina riferito da
Ippocrate irel principio della sua legge in tal guisa : Omnium profectò artium
Medicina nobilisfima, verùm propter eorum , qui eam exercent ignorantiam c.
omnibus artibus iàm longè inferior habetur . Finalmente con la
Maledicenza terminerò io ancora di dir male de vizji questa è un vizio assai
incivile, perche opera sempre contro li buoni costumi, e contro la civiltà ,
questa certamente non si dovrà seguitare da voi, venendovi da Ippocrate tanto
proibita nel libro : De Medico, che in tal guisa incomincia: Hoc fcripto Medico
imperamus, eo dicimus, dove tra l'altre cose, che coinanda vi sono le seguenti:
Ut animi temperantiam excolat , non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquâ
totius vitæ moderatione , bom nis, ac honeftis fit moribus, & æquus in omni
vitæ confuetudine fe præftare debeat ; Le quali cose come le potrete osservare,
essendo maledici ? Ed affinchè meglio comprendiate quanto il ben moriggerato
Ippocrate odiasse questo vizio, passia L mo [ocr errors] mo à
rillettere ciò, ch'egli dice nel libro De Arte , il quale comincia così :
Non nulli turpitèr in sectandis artibus artifi. cium suum collocant
, neque id, quod facere Se credunt meo quidem judicio obrinent ,
sed Jue scientia oftentationem faciunt aci E poi soggiugne :
Qui verò ea, quæ ab aliis sunt inventä inhoneftorum verborum arti-
ficia contaminare contendit , nequè quida quàm corrigit, fed
à peritis inventa, apud imperitos traduçit . Is fanè prudentice exiftimationem
tueri velle non videtur , fed potiùs naturam fuam, aùt ignoratiam nem malitiosè
prodere : Solis enim artium ignaris, hoc opus competit, qui ambitiofiùs quidem
contendunt , neque tamen improbie tate suâ ullo modo præftare poffunt, ut
aliorum opera, vel recta calumnientur , vel non recta repræhendant : Eos igitur
, qui in alias artes hoc modo invadunt,coerceant, fi poffint , quibus hæc cura
eft, quorumque id intereft. Vedete voi à che segno odiava il divino Ippocrate
li maledici, che voleya , che fossero ristretti , essendo indegni di convivere
tra uomini di ono. re [ocr errors] [ocr errors] re. Crederei, che
quanto hà detto cosi chiaramente , & al propoliço Ippocrate vi pofsa
bastare per odiare un limil vizio, e tanto maggiormente se rifletterete, che
quanto voi direte di male degli altri, altri ancora ne potranno dire di voi ,
ficchè parlate bene degl'altri, Ò tacete Țacerò ancor Ia per non nausearvi
di vantaggio nel descrivervi la laidezza di tutti gl'altri vizj, sperando , che
ciò, che vì hò detto di questi pochi,pofsa baftare, per farvi prendere odio a
tutti gli altri, ed à quel segno , che li viziofi lo porteranno facilmente alle
virtù, qual? odio pero spererei, che in un subbito deponessero į viziosi , se
spogliati per pochi momenti d'ogni loro difetto, si aboccaflero insieme con
effe, allora cofa disebbono sentiamolo da Seneca; (a) Quidquid opravi
inimicorum execrationem puto ; Quidquid timui Dii boni quantò melius fuit ,
quàm quod concupivi cum multis inimicitias gefi, & in gratiam ex odio
res L 2 dii (a) De Vita beata cap.2. [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] dii buc. quid aliud quàm telis me opposui
dc. Avere inteso come parlerebbero bene li viziosi se avessero la forte
dili berarsi da? loro difetti solamente per breve tempo, approfittatevene
dunque voi, giacchè per sempre, se vorrete, potrete effere di mente capaci di
conoTcere la loro deformità, e fuggirla. Mà quando mai credeste per cosa molto
difficile di potervene affatto spogliare, fate almeno, che con le vostre virtù
vi si fra. meschi solamente tanto di vizioso, quanto communemente si tollera
nell'oro di lega bassa , c non più , che non arriva ad avvilirlo, nè à fargli
perdere il suo vago Splendore. Passerò ora alla seconda parte per
esaminare se li vizj ermafroditi si possino alıneno tollerare nel Medico.
Per vìzio ermafrodito intendo quello, che dalla malizia , e dall'inganno viene
talmente trasmutato in virtù, che difficilmente si potrà discernere, se prima
non si scoprono le sue parti vergognose, che و [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] che fino ad ora non hanno sapuco,
ne potuto ricoprire. Sia per esempio, se la malizia,e l'in-
ganno vogliono , sono capaci di trasfi- gurare così bene la
superbia in umiltà, l'iniquità in zelo di giustizia , che
diffi, cilmente senza l'ajuto del disinganno , che
scopre le loro vergogne , li potranno distinguere. Nel prino caso
si serviran- no facilmente de' seguenti artificj. Da-
rete à suo tempo voi un'opera alla luce, ò vi riuscirà felice
la cura di un male grave, è cosa facile, che ne abbiate del
compiacimento interno, e questo avvan- zandosi più del dovere, è facile
ancora, che palli à farvene qualche poco insu- perbire, di
quell'opera, di quella bella cura, cosa faranno la malizia, e
l'ingan- no per farvene affatto insuperbire ? Ri. copriranno la
piccola vostra superbian con il manto dell'umiltà , & in congiun-
tura, che sentirà lodarvi gl'insinueranno in tal guisa à rispondere :
Questo non so- no cose degne di lode, sono bagattelle, non meritano
d'essere lodare da un Vir: L3 tuofo suo pari, sono parsi di un debbole
ingegno ; Chi sentirà si limili risposte resterà sorpreso da üná tanta umiltà,
ed állora maggiormente s’infervorirà dilo darvi, entrerà nelli meriti della
causazed allora appunto avranno compito il loro negozio,in farvi maggiormente
insuperbire, che cosa converrà fare per iscoprire le vergogne alla in ascherata
superbia , per conoscere se quella umiltà sia stata vera ; ò fimulata;
bisognerà ricorrere al disinganno, che la scopra. Aspetterà questi facilmente
la congiuntura proposito, & in vece di lodaryi dirà tutto quello, che la
finta yostra umiltà aveva già detto di voi, con qualche par, ticolarità di più,
che sarà vera , sì perche il disinganno non mentisce; sì ancora perche i chi è
capace d'insuperbirli, non essendo di gran prudenzaś può in qualche cosa
trascorrere ; Allora sentendosi la superbia toccata sul vivo lacererà in un
tratto il bel manto dell? umiltà, e da se medesima mostrerà le fue vergogne
rispondendo : Come ! non fono [ocr errors] [ocr errors][ocr errors]
ز sono cose degne di lode? sono parti di un debbole ingegno sono
bagáttelle? sono tutte cose d'eterna memoria ; voi non le capice,
perche liete un'ignorantë. Che ne dite ? questa è quell'umiltà, che
una volta parlava così bene; è forse scu- sabbile nel Medico avendo
questa un naturale si fraudolento? Mi persuado , che ora, che la
conoscere ; non la scuse- rete, anzi la biasimerete più costo. Nel
secondo caso se venisse in pen- siero à tal’uno, che Iddio non
voglia, di promovere al servigio d'un'Ipocondria- co da
lui curato qualche suo amorevole, mà dovendosi rimovere chi
attualmente lo serve, e competencemente bene, sen- za l'ajuto
della malizia, e dell'inganno.». non si poiria ciò effettuare. Questi
cacci- vi vizi per servirlo, che cosa faranno ?
procureranno di vestire l'iniquità con abito di zelo di
giustizia, e che diča à quell'Ippocondriaco, ch'è vero, che
viene servito bene da quel suo Ministro, mà che premendogli tanto
la sua salute, il suo zelo, & il suo obligo richiedono
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small] gli procuri sempre li suoi vantaggi, ed in ispecie trattandosi di
propria salute, e di salute, che gli premetanto, per 12 conservazione della
quale il Signor Tale foggetto nel suo mestiere unico, che non hà pari, saria
veramente à propofito , mà non per questo è dovere di far perdere il pane à chi
lo ferve, si dice solamente, che lo sappia , che vi è chi lo servirebbe assai
meglio, caso che capitasse mai congiuntura ; Fatti, che hà l'iniquità questi
projetti ad un'Ippocondriaco, che non brama altro, che vivere, con tutto quel
di più di male, che sentirà dire per altre vie di quel povero
galantuomo, che lo serve,procurate da chi vuole lubentrare;
Credete voi, che non si effettuerà fimile tentativo dall'iniquità? Forse
prima di otto giorni farà espugnata la Piazza, perche tanto si
batterà, che si farà brec- cia, e vi si porrà dentro, e di sì bella
impresa ne trionferà la sola iniquicà. Voglio, che sia vero , che il
Ato ne sia capace, má vediamo un poco se il fine è stato retto, e se il
zelo digiu- stizia 1 che il propo [ocr errors]
[ocr errors][merged small] stizia ne fù egli il primo motore? Chi avrà
procurato simile ingiustizia , certainente, che non sarà molto eccellente nel
suo mestiere, perche chi è tale, è ancora giusto , e prudente, dunque ve ne
saranno de' più esperti di lui. Ciò supposto procuriamo, che il disinganno ne
faccia le sue diligenze, e questo facil. mente farà infinuare al sudetto
Ippocondriaco, che giacchè hà megliorato nella mutazione di quel suo Ministro,
procuri ancora di mutare il Medico , e ne trovi un'altro megliore di quello,
che ha presentemente, e piacendogli tal'insinuazione, cd effettuandola, cosa
dirà colui, quando si vedrà fuori del servigio? fi lamenterà forsi del torto,
che gli ha fatto, avendolo tanto tempo ben servito ? mà di chi si lamenterà?
dovrà dolersi di se medesimo, perche gli è stata fatta quell' ifteffa giustizia
, ch'esso hà procurato foffe fatta altrui; Dà dunque a conoscere chi operò in
questo modo, che non ebbe per fine il zelo di giustizia , perche questo non gli
è piacciuto, mà forse ne [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged
small] ebbe [ocr errors][ocr errors] ebbe qualchedun'altro di quelli, che
low no chiamati secondi fini, cosa ne dite voi di questo vizio ermafrodito
& vi pare di poterlo scusare nel Medico; e se ve ne fofreche non credo ;
tal’uno trá efi to scusereste forse ? Io per me lo scuserei nella forma appunto
, che diffe di fimili viziofi Democrito ad Ippocrate: (b) Cum igitur tot
indigenas; e miferas ánimas videamus quomodò eorum vitam ejusmodi intemperantja
deditam ludibrio. non bao beamus 2 Molte altre frodi,tramåte dalla
malizia, e dall'inganno potrei orá riferirvij fe non dubitäsli, palesate; che
fosseros che tal’uno ( di voi non dico , che siete di ottima inclinazione )
sentendole riferire se ne potesse abusare; onde in ciò procurerò con Tacito più
tosto Artem oblivionis , quàm memoria. Avete già udito la gran deformità
de' vizj, il danno, che apportano a'suoi seguaci, ed il non doverfi seguitare ;
nè fcufare in conto alcuno , che possonofervirvi di motivi efficacissimi per
tenerli lontani da vois purche non si siano di già radicati ne' vostri cuori,
nel qual caso faria necessaria la gran Medicina proposta da Ippocrate per
isvellere affatto li vizj, ch'è la seguente: (C) Equidem omnes animi morbos vehemences(che
sono appunto i vizj) insanias reputo ; cùm opiniones quasdam, da vifa rationi
fufcitant, ex quibus fanéscit s qui per virtutem repurgatur.Preparerò dunque
per la Giornata di domani la sudetta Mediciija,dalla quale se ne avrete bisogno
rimàrrete certamente sanatis casos che nò, preservati almeno da fimili
infezioni, in avvenire . Venite tucci, che vi aspetto con desiderio ; perche
sarà Giornata di molto profitto quella , in cui si parla delle virtù.
[ocr errors][merged small] [blocks in formation] Nella quale. fi discorre
dell'acquisto delle virtà, e del bene , che apportano al vero Medico , e se
alcuna di effe fi poffa in lui cenfurare non Vanto mai sia
infelice, e miferabile la condizione umana,lo dimostra. 110 non
solamente li vizj,mà anca. ra le virtù, posciacchè li primi,che tanto nuocono,
spontaneamente in noi germogliano, e le seconde, che sono così utili,
senza reiterare fatiche, & una lun. ga , & industriosa coltura si
acquistano. Appena nasce l'uomo, che in lui subitamente l'ignoranza si
manifesta, e quel primo vagito , che dà n'è il primo contrafegno , mentre non
ne sà ancora il perche egli lo faccia : Cresce, ela malizia fi scopre, l'ira, e
la gola si manifestano ; S'inoltra nella gioventù , e la lussuria si risente, e
di mano in mano , che gl’anni fi avanzano, li vizj tutti un dop
[ocr errors][ocr errors] doppo l'altro fi veggono germogliare; Con
ragione dunque disse Democrito : (d) Totus homo ab ipfo ortu morbus eft
; e ne assegna la cagione : Talis enim ex materno cruore Sanie
permixto promicuit Infelice , e miserabile dunque condizio ne
umana, che per fare acquisto di ciò, che l'è nocivo, punto non hà
d'affaticar- si, perche spontaneamente li vizj li fan- no possessori
di noi, essendo concepiti, e nascendo con noi medesimi, e questa è
la cagione, perche erunt vitia donec homines, dove, che per ottenere ciò
, ch'è di nostro sommo bene dupplicate fatiche si ricercano; La
prima delle quali consiste nello svellere da noi le tanto im-
poffeffate radici de vizj, e l'altra d'an- dare à poco à poco
introducendo in sua vece li semi delle virtù, e ciò non basta,
perche conviene ancora di cuftodirli fino à tanto, che siano assicurate
bene le loro radici, per non essere dove sono se, mentari suolo
nativo. E perche ò lante virtù spontaneamente ancor voi, ccon
quel(d) In epi.2.Damaget. [ocr errors][ocr errors][merged
small][ocr errors][merged small][merged small]
quella medesima facilità non germoglia.. te in noi per renderci felici?
Conosco, che voi fiere un'attributo divino, ma non per questo, vi dovęte tanto
sdegnare di unirvi con noi, che siamo creati ad im. magine, e fimilitudine di
Dio, conosco ancora, che per ricevervi li richiede abitazione espurgara da ogni
iminondezza, pura, e proporzionata à voi, e se per questa cagione voi state
lontane da noi, la colpa non sarà la vostra, mà bensì di noi medesimi, che
siamo quelli, che vi impediamo l'ingresso, e che ritardiamo si gloriofe
conquiste, che ci possono rendere beati, con trascurare ciò, che voi richiedete
Oggi sì, che voglio far prova di voi per conoscere à che segno liano gli animi
vostri generosi, e se avere ancora acquistato l'uso di ragione , potendo, se
vorrete, ciò che si trova d'infelice in voi commutarlo in prosperità, e ciò,
ch'è disgrazia in fortuna: Accingetevi pure, se ne sarete sprovisti,
all'acquisto delle belle virtù, se ambite divenire Semidei, dicendo
apertamente Ippocrate, (e) ches Medicus Philofophus Deo &qualis habetur ; e
cosa voglia intendere per Medici Filosofi lo spiega divinamente in appresso,
cioè quelli, che habent , quç faciunt ad demonstrandam incontinentiam,
quatuoSam, ac sordidam profefionem, inexplebilem habendi fitim , cupiditatem ,
detraa &tionem, impudentiam ; che sono per l'appunto quelli, che seguirano
le virtù , ed hanno in abbominazione li vizj. Sbandito dunque , che
avrete da voi ogni vizioso inquinamento, e perciò renduti più capaci
dell'acquisto delle eroiche virtù, proporrò in primo luogo ciò, che concerne
alla Religione, come quella, ch'è la suprema di tutte le virtù, & ancora la
loro base fondamentale, in cui sono appoggiate tutte le altre. La
Religione quanto debba essere àc cuore al Medico, sentitelo da Ippocrate:
(f) Hactenus igitur cum sapientia, communionem , eorumque etiàm plurima habet Medicus,
nam & Deorum cognition [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged
small] дет (C, &f) Hippode $65.0TMnem ipfe potiffimùm animo
complectitur , cumque aliis in affe&tibus , & casibus Medicina multum
Deos colere comperitur duc. e tutto ciò lo afferisce dapoi di avere insegnato,
che nella Medicina vi era ancora: Superftitiofi metus aversatio preAantia
Divina . E non solamente à benefizio vostro ciò converrà , che facciate , mà
ancora à prò de' vostri Infermi, perche venendo ogni bene dal Cielo , nelle
vostre più gravi, e pericolose cure converrà , che non vi fidiate della vostra
fola perizia, mà ancora, che supplichiate Dio, che vi assista con la sua santa
grazia à bene indirizzarle; qual pio sentimento si ritrova ancora descritto in
Ippocrate, e dato à coloro, che disprezzando gli ajuti Divini , fi raffidavano
solamente ne' loro incantesimi, à cui cosi parlò risentitamente; (8) Quos
contrafacerc decuerat, facra facere nimirùm , & precari , ad Templa
deducere, Diis fupplicare ; e sotto dice: Maxima ergò, fceleratisima peccata
Deus expiat , dapu rificat (g) De morbo facro.. rificat tuteláque
noftrâ existit ; e non imitando voi la gran pietà di tanto Maestro come potrete
essere annoverati trà suoi seguaci ? A questa viene in seguela la
Prudenza , la quale è una virtù al parere di Democrito riferito da Ippocrate,
che non solamente fà conoscere, e bene distinguere il prasente, mà ancora fà
prevedere il futuro: (a) At folus hominis sensus recta intelligentia eminùs
splendescens. Quod præfens , & futurum eft prævidet; E questa è quella, che
toglie ogni confufione, e libera da qualunque pericolo chi la poisede : Qui
enim hæc ipsa prudenti cogitatione difponunt , ii & facilè liberantur ,
meum risum fubleuant ; E questa non si può ottenere senza prima rimovere da noi
tutti quei vizj, che prevertono la nostra mente, trà quali li principali sono
l'ira , la superbia , l'avarizia , l'invidia, e l'inganno, li quali sono tutti
capaci di farla prevaricare, e renduta che sarà per la mancanza di
M que(a) Epist. ad Damag. [ocr errors] questi quieta, e tranquilla
, la Prudenza con maggior facilità si potrà acquistare. Senza questa
bella virtù, regolatrice di tutte le buone operazioni, non pensate di potere
esercitare la Medicina, perche come vi potrete regolare senza effa , allorche
v'incontrerete in Maláci indiscreti, e disobbedienti, in mali simulati, in
controversie con altri Profeffori, ed in tanti altri emergenti, che vi possono
giornalmente accadere, in quali laberinti vi trovereste? in quante confufioni,
se non aveste la scorta della Prudenza, quali inquietudini provereste se foste
privi di sì bella virtù ? (6) Non poteft effe vita jucunda, à qui abfit
Prudentia , come disle Cicerone; Cni possiede detta virtù hà quanto di buono
poffa mai desiderare, ftanteche (c) Nullum Numen abest fi fit Prudentia.
Quindi è, che Ippocrate fino, che visse non solamente fi fece regolare in tutte
le fue operazioni da questa virtù, come nelle sue memorie si scorge, mà
consiglia li suoi seguaci , e comanda loro insieme à non discostarsi punto dal
suo patrocinio, insegnando ancora il modo per acquistarla, conforme da
moltislimi suoi documenti potrete comprendere , de' quali ve ne riferirò quei
soli, che sono registrati nel libro De decenii habitu , dove doppo aver
descritto il vestire positivo del Medico accreditato, soggiugne : Qui se fe, ex
cultus venuftate , frugalitate, non tàm ad fuperfluam curiofitatem , quàm ad
optimam existimationem, prudentiam, e animi moderationem compararunt; e
passando à ciò, che deve provedersi di necessario con(b) 5.Tufculon. (c)
Juven.fat.10 per il suo mestiere , lo avvertisce, che sia prudente
in farlo, altrimenti : Horum penuria mentis inopiam, at detrimentum affert ;
Vuole anco in appreffo, che usi prudenza in prevedere ciò, che può avere di
bisogno j'Infermo, che non operi con animo turbato, che sedi le confusioni, e
li tumulti, che sgridi l'Infermi disobbedienti,l'intimorisca , mà insieme con
prudenza, che Blandè eos excipiendo, consoletur , confor [ocr errors][ocr
errors] [ocr errors][ocr errors] me ancora, che avverta di non li prevalere di
Sostituti imperiti, affinche de' loro mancamenti non resti esso debbitore, e
quelli , che opereranno in tal guisa cosa acquisteranno? Gloriam tùm apud
majores, tùm apud pofteros fibi comparabunt; e finalmente insegna il modo di
conseguire con facilità la sudetta virtù, soggiugnendo : Qui etfi non multarum
rerum cognitionem habent , earum tamen ufis afliduo prudentiam affequuntur
. Apprendercla dunque ora, che fapete il modo facile per conseguirla ,
caso,che non ne foste proveduti à sufficiene za , per imitarlo anco in
questa. La Giustizia, una delle altre virtù principali confifte, al
parere di Galeno , di dare à ciascheduno ciò, che gli compete: (d) Naturæ
iustitiam in eo confiftere, ut quod unicuique competit distribuat ; E. questa
non la potrete acquistare, se da voi non terrete lontana l'iniquità, con turti
li suoi vizj feguaci, che sono le passioni, l'adulazione, ed altri, che operano
tutto il contrario di ciò, che alla Giustizia piace. Il bene, che
apporta detta virtù è dupplicato, perche non fo- lamente benefica
chi la riceve , mà an- cora, chi l'esercita; chi la riceve ottiene
tutto quello , che deve desiderare, e conseguire, e chi l'esercita non
puoles- sere censurato à ragione, perche le sue operazioni saranno
sempre regolare con giustizia, e tutta quella giustizia, che si fà
, si riceve ancora da altrui, in ciò , che riguarda gli proprj
avanzamenti ftanteche (e ) Fundamentum perpetud coe mendationis,
famæ eft juftitia, fine qua nihil effe poteft laudabile. Meritamente
dunque compete al giusto di fiorire co- me la Palma : Juftus ut palma
florebit, perche conforme la Palma quanto è più caricata di grave
peso, tanto maggiore mente sormonta , così ancora il giusto, quanto
più fi procura deprimerlo, tanto maggiormente viene inalzato.
Questa eroica virtù non solamente viene incaricata
da Ippocrate al Medico [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][merged small] M 3 con (e) Cicero i.de Offic. con
precetti, dicendoli : (f) Æquum autem in omni vitæ confuetudine se preo ftare
debet ; e ne assegna la ragione, fog. giugnendo: Cum omnibus in rebus multum
fit in justitia præfidii; mà ancora fù da lui medesimo seguitata, conforme in
tutte le sue memorie si può rincontrare, trà quali per non dilungarmi, riferirò
solaméte ciò,che si legge in una lettera da lui scritta al Senato di Abdera,
nella quale dicc à tal proposito : Ego verò fi omnibus modis ditefcere
voluiflem viri Abderita , nè decem quidem talentorum gratiâ ad vos venirem ,
fed ad Perfarum Regem proficifcerer , ubi Urbes tote opibus humanis
refertiffime occurrissent; e ne assegna la cagione, perche ei non lo fece
foggiugnendo: Regias autèm opes ignominia mihi futuras, opulentiam Patria
inimicam reportaffem, quibus circumaffuens Urbium Grecia deftructor exifterem ;
Antepofe dunque Ippocrate à sì confiderabiliffimi proprj vantaggi il publico
bene, fù dunqu'egli perciò disinteressarissimo,e come tale (t) De
Medico. [ocr errors] tale fece conolcere à che segno amava la giustizia,
non potendolo chi veramente l'ama con prove più demostrative far costare, che
con quelle dell'essere di. finteressato. Custodire dunque la Giustizia
co. me pupilla delli vostri occhi , perche questa è quella , che vi può rendere
feli. ci, non potendoyi mancare cosa alcuna, quando la vostra mente sia giusta,
come viene espresso in due versi esametri scol. piti sopra la Porta Romana di
Marino mia Patria, Feudo Nobile dell'Eccellentiffima Casa Colonna, che sono:
Hic tibi tuta quies, do que cupit odia virtus. Defisietquè nihil, fo mens
non deficit equa , Infeparabile dalla Giustizia deve effere la
Fortezza, pofciacchè non sempre li potrebbe eseguire ciò, che la prima dispone
senza l'autorità della seconda. Ippocrate diede la legge conforme fi avevano da
regolare gl'Infermi,mà ordinò ancora al Medico fuo Esecutore, che M
4 che in caso di trasgressione de' suoi Malati fi armasse di fortezza per
farla eseguire : (8) Eumque à fuis cupiditatibus deterreat, bu fimul quidèm cum
amaru- , lentiâ vehementèr increpet . E questas virtù come s’acquista ? con
togliere da noi ogni timore, ogni pufillanimità, con invigorire lo spirito, e
rendere l'animo pronto, & obbediente ad eseguire ciò, che li viene dalla
discrera Giustizia ordinato'. Doppio bene parimente ne nasce mediante la
sudetta virtù ; Il primo è , che sono sicuri gl'Infermi curati da chi è giusto
di non essere adulati, ponendosi da essi in esecuzione tutto ciò, che loro
compéte, e non di vantaggio, e l'altro è, che chi la possiede ne riceve stima ,
erispetto,ponendo in sogezzione coloro, con quali si tratta . Örnatevi
dunque voi ancora di quefra neceffaria virtù, dovendo nelle occorrcoze
resistere alli'defiderj dopravaci de voftriInfermi, male avvezziin sanità
ز [ocr errors] à cra (5) Hippode decenti ornatu , [merged
small][merged small][ocr errors] * crapulare giornaliente , e dovendo
opporvi à ciò, che fuor di proposito ver- rà motivato dagli aftanti, come
potreste resistere, se non foste armati di fortezza, e costanza ,
neceffariamente caderefte nell'adulazione con danno sì della loro
Calute', che della vostra riputazione ; oltre di che con pochi
contradittori vi abbatterete , perche conoscendovi di quell'animo
descritco da Orazio ; Juftum ; tenacem propofito virum. Non
Civium ardor prava jubentium, Nec vultus instantis T yramni: Mente
quatit. Per loro quiete più di uno vi lascierà stare senza recarvi
moleftia . La Temperanza è quella virtù, che frena li noftri
(moderati desiderj, e li restrigne dentro i limiti dell'onesto , e ci rende
finalmente padroni di comandare à noi stessi ; Quindi è, che Democrito,
fiinproverando coloro, che hanno defiderj smoderati , (h) disse : Et cùm multis
dominare velint , fibi ipfos imperare ne queunt : (3) Hipp.
epif.Damag,queunt ; Senza questa bella virtù nelle maggiori prosperità non si
puol godere di quelle e Alessandro il Grandes appena ebbe notizia, che vi erano
più mondi, che subitamente si concristòs e perdette tutto quel contento, che
forli aveva ris cavato dalle coniquifte di più Regni , perche gli crebbe
subitamente il delide, rio ambizioso di fare maggiori progrefli. Come
s’acquisti questa virtù linsegno Seneca s ( b ) con dire : Sani erimus , cu
modica concupifcemur, fi unusquisque se numeret , metiatur fimul corpus ,
fciatquè hec multùm capere, nec diù pode ; Nihil tamen æquè tibi profuerit ad
temperantiam omnium rerum, quàm frequens cogitatio brevis avi, a bujus incerti,
quidquid facies refpice ad mortem ; Octima Media cina, e degna veramente di
quel gran Morale per moderare i nostri sfrenati desiderj. E con ottimi sentimenti
ancora si ritrova registraro in Ippocrate in tal guisa: (i) Quod fi quis omnia
, quæ facit pro viribus mente verfaret, vitam ab omni cafu (h) Epif.94.
(i) Inepif. Damago cafu immunem fervaret, se ipfe probè non fcens, fuam
ipfius concrétionem apertè intelligens, cupiditatis ftudium in infini, tum non
extenderet, fed naturam divitem, & omnium alumnam per ea, quæ abundè
suppetunt, sequeretur. Quemadmodùm autèm optimus corporis habitus affectionum
periculum denunciat s lic magnus rerum fucceffüs lubricus eft. Elsendo
dunque tanto utile questa virtù, quanto è desiderabile la propria felicità, la
dovreté bramare, e procurare insieme, e non solamente per vostro proprio bene,
ma ancora delli vostri Infermi; perche se sarece immersi profondamente nelli
vostri fmoderati desiderj, avrete la mente sempre così distratta da quelli, che
à tutt'altro penserete, che à ciò, che possa essere di profitto agli Ammalati,
e se pure lo farete, farà cog mence stanca, per breve tempo, e di paffaggio,
doveche avendo roli delide, rj onesti, questi poco vi affaricheranno la mente ,
onde avrete campo di applicare con più attenzione alle cure, e da [merged
small][ocr errors] [ocr errors] inferioris che eravate al negozio, divers sete
superiori, alleggeriti che ne farete, con notabile vantaggio di chi si
prevalerà dell'opera vostra. E tanto maggiormente, che l'offervanža di si
bella virtù non fù solamente incaricata da Ippocrate a' suoi seguaci,
comandando loro:(2) Eum quoque Ipe&t are oportet, ut animi temperantiam
excolat, non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquả totius vite moderatione
Quòd ad illi comparandam gloriam plurimum affert.adjumenti ; Ed altrove: (m)
Bonum Medicum minimè impellit ut fuam atilitatem quærat , verùm ut potiorem fuæ
existimationis rationem habeat ; Itaques longè satiùs eft à morbo fervatis
exprobrare, quàm perniciosè habentes emungere ; Mà di più per darci esempio la
volle egli medesimo religiosamente osservare, po. sciacchè chiamato dal Rè
Artaserse, e con che promesse !.(n) Auri igitur quana fum volet, reliquaquè
quibus indiget effuse ei (1") De Medico. (m) De precept.
(n) Ix epift... Hellefp.Præfee. 6110 ei exhibeto, di ad nos
mittita, cum Perform rum enim optimatibus eodem erit honore; Şicchè la promessa
confilteva in ricchezze, commodi , & onori à quel fegnio, che ne ayeise
potuto defiderare, cosa rifpo e il modeftiffimo ? (0) Quàm celerrime refcribe,
nos vietu, veftitu , domo, omniquè re ad vitam neceffaria cumulatè frui; Pere
sarum autèm opibus uri neque mibi fquum eft; E scrivendo à Demetrio
manifesto anche meglio la sua moderazione, di, cendoli: (P) Rex Persarum nos ad
fe vocavit nefcius mihi potiorem effe fapientiæ , quàm auri rationem; Chi altro
farebbe itato di animno sì moderato in fimili congiunture, che ad una chiamata
di un Rè potentissimo, alle offerte sì grandiofe si fosse potuto contenere con
quella moderazione Ippocratica di ricusarle? Ne crediate, che Ippocrate non
considerasse li vantaggi , che ne poteva riportare, perche in congiuntura, che
ricusando, per non rendere schiava - la scienza Medica delle venalità, li dieci
talenti offer [ocr errors] tigli (0) In epift.2. Hystania (p) In
epift.Demetr. . tigli dalli Abderitani per la cura di Democrito ,
così loro rispose :(9) Ego verò ja omnibus modis ditefcere voluiffem viri
Abderit , ne decem quidèm talentorum gratiâ ad vos venirem, sed ad magnum
Perfarum Regem proficifcerer, ubi Ürbes tot& opibus humanis refertiffimæ
occurriffent dc. divitiæ non funt pecuniæ undequaquè comparat&; Magna enim sunt
virtutis facra , quæ à juftitiâ non teguntur , Jedin apertum fe proferuntur. Ex
morbis quajtum non facio. Sono tutti questi esempi, che provano un'eroica
moderazione di animo, una somma temperanza, e se è vero ciò, che riferisce
Seneca, (r) che Platonc, ed Aristotele ricavassero più profitto dalli costumi
di Socrate, che dalle sue parole. Questi del nostro Ippocrate sono tali, che
possono bastare à togliervi dalIa mente ogni (moderato desiderio per farvi
divenire seguaci di sì eroica virtù , come è la Temperanza, ed allora potrete con
essa ridervi di quelle vagheapparenze di felicità da alcuni tanto apa prezzate,
consistendo tutte in fottilidima superficie, mentre dentro di se, non altro
contengono, che incommodi. Un legno dorato fà una vaga apparenza,mà dentro di
se, non altro nudrisce, che molte tarle , che lo divorano, nè vi G2 discaro à
sentire ciò, che ne dice Seneça: (S). Et cum auro teita profundimus quid aliud
, quàm mendacio gaudemus ? Scimus enim fub illo auro feda ligna lati. tare buco
omnium istorum, quos incedere altos vides bracteata felicitas eft , infpice , e
disces fub iftâ tenui membrana dignitasis quantùm mali lateat . Sicchè la vera
felicità non consiste nell'esterna apparenza , non nella superficie vaga, må
bensì nel godere internamente una tranquilla calma, che dalla bella apparenza
esterna più costo viene turbata, che dotta. Hò cercato, come si fuol dire
, per mare, e per terra un ritratto al naturale della verità pro
per farvelo vedere, mà non l'hd 17 Epiß.115.
1 1 l'hò potuto ritrovare à proposito, perche, chi l'hà
dipinta con il viso coperto, chi dentro un pozzo al bujo, chi l'hà profondata
anco più bassa, onde non sapevo come fare per farvela vedere , non troyandola
delineata in formas ostensibile . Mi venne in pensiero diricercare in Ippocrate
, fe in occasione, che fù per curare Democrito l'avessi à forte potuto vedere
nel suo emi abbattei per l'appunto nel sogno, che egli fece prima di
andare in Abdera , nel quale al vivo descrive la Verità , ed in quella guisa
appunto, che gli comparve in sogno, (t) ve la descriverò ancora io. Gli parve
di vedere, nel primo spuntare dell'Aurora una bella Dea alta, e risplendente,
ornata positivamente, e senza pompa , li suoi occhi risplendevano come dui
scintillanti stelle, ed avendolo preso per la mano lo conduceva per la Città di
Abdera à passo lento, e finalmente nel disparire, che fece ella gli disse ,
ch'era la Verità , e che nel giorno pozzo, se(1) Is Epift.P
hilop. 3 [ocr errors][ocr errors] seguente lo aspettava da
Democrito do. ve dimorava. Meritano veramente molte circo. stanze di
questo misterioso logno d'efservi interpretare; La prima delle quali è la sua
maestosa bellezza, e questa denota, che la verità è degna di essere da tutti
amata; La seconda il suo ornamento positiuo, e senza pompa significa, che non
hà bisogno di francie, nè di altri abbellimenti superfui ; La terza, li suoi
occhi risplendenti mostrano , che ella abbia necessità di buona vista, dovendo
vedere , e ben discernere li vizj, che la perseguitano; La quarta, con il
prendere per la mano Ippocrate fà comprendere, che non vuole contraere amicizia
con gente di cattivo costume, perche bene li avvedeva, che appreffo ad
Ippocrate non si accostavano nè la bugia, nè l'adulazione ; La quinta il
condurlo à palli lenti inferisce, che chi vuole andare accompagnato con la
verità non deve caminare in fretta, mà adagio , come faceva Ippocrate. La festa
il dire, che lo N aYC [ocr errors] averebbe aspettato da
Democrito, dove ella dimorava, significa, che non ama le grandezze del mondo,
ne vuole fare la fua comparsa, se non in quei luoghi , dove alla è conosciuta ,
e rispettata con fchiettezza, e sincerità. Obella Dea, se questi sono li
voftri fentimenti, date à divedere , che voi fiete troppo folitaria , modesta,
e circospetta; E perche non frequentate luoghi più magnifici, e non vi fate
vagheggiare publicamente ? Forse, che temete di faziare chi vi rimira con il
vostro afpetto, conforme fù detto di Poppea Sabbina bellissima Dama de' suoi
tempi, per non farsi vedere in publico , che col viso coperto ? E finalmente ,
perche non conversate con persone di sfera inaggiore de poveri Filosofi, con
quali domesticamente voi trattate? Sapete come risponderà facilmente la Verità:
lo son contenta di ftarmene così solitaria, perche fono troppo odiata , sentendomi
dire da per tutto : Veritas odium parit ; ed io, che abborrisco di soggiacere à
quest' [ocr errors] odio, per vivere quiera , e tranquilla , son forzata
nel mondo à ftarmene folie faria ; Solamente nel Cielo godo ogni libertà , ivi
sono amata da tutii, ivi sono il Caduceo di eterna pace, e fapete per. che ?
Perche ivi l'Invidia non mi perseguita , l'Adulazione non mi tradisce,
l’Iniquità , è la Malizia non mi possono punto nuocere, come dunque posso io in
Terra liberamente conversare , senza pormi à rischio di perdere quanto ho di
buono, quanto ho di pregiabile, ch'è ciò, che dico. Se io comparisle da per
tutto, non potrei fare di meno di non incontrarmi bene spesso con miei iniqui,
e fraudolenti persecutori, e se questi, che fanno tante prede mi guadagnassero
con lodare la inia bellezza, e mi facesseroprevaricare , non farei più virtù,
onde per mantenermi tale, quale devo essere sono forzata vivere in folitudine
con il mio bene accostumato Democrito. Avrete da quanto vi hò descritto
sin'ora compreso non solamente la bele N 2 lezzalezza della Verità
, mà ancora li suoi divini costumi, onde fi accinga pure ogni uno di voi à
sposarla , perche cosa più bella , ed utile di questa non potrete ritrovare, e
tanto maggiormente, ch'è affai facile à potervi fortire una simile ventura,
bastandole , che finceramente l'amiate, che farà tutta vostrą. Vi avverto però,
ch'ella è gelofillima, ondę vi converrà per conviverci in pace odiare la
menzogna, l'adulazionc, l'iniquità, e l'inganno, altrimenti vi perderefte in
un'istante la sua grazia. Mi perfuado , che lo farete di cuore, perche
Ippocrate , ch'ebbe la sorte, come dilli , di rimirarla una sola volta , ccome
in sogno, ne restò così invaghito di ella, che fino, che visse l'amò
fedelmente, à segno di esporsi ad evidente pericolo di perdere tutto il suo
acquistato concetto; Posciacchè nella cura di colui, ch'era avvezzo di vivere à
suo capriccio, e perciò facilmente fù ferito in testa, confesso candidamente di
averlo curato male, dicendo , ivi : Hoc me latuit [ocr errors]
latuit sectione opus habere , deceperunt aux sèm me future.(a) Biasimerà
taluno di quelli che amano più la loro estimazione, che la Verità questa tua
confeffione publica ò Ippocrate, trattandosi di un'errore di questa forta , c
tanto maggiormente, che niuno ti forzava à palesarlo, e ti diranno : Dovevi
pure prevedere, che la maledicenza avrebbe fatto contro di tè quanto poteva per
iscreditarti, à cui egli rifponderia facilmente, se vivesse, non mi dà
faftidio, che si mormori di me, purche io non tradisca la Verità, hò voluto
lasciare quest'esempio,acciocchè li miei seguaci non cadano in simile errore, e
segua pure contro di me quel male ne så seguire ; Sapete, che danno ne hà
riportato Ippocrate da simile confessione ? Due elogij frà gl'altri, capaci à
renderlo glorioso per tutta l'eternità, che sono li Teguenti: Cornelio
Celso così ne parla di questo fatto : (b) A futuris fe deceptum effc (a)
L16.5.Epid <grot.-7. (b) Lib.8.cap.4. N 3 effe Hyppocrates
memoriæ prodidit , more fcilicèt magnorum virorum ; & fiducian magnarum
rerum habentium; Năm tevia ingenia ; quia nihil habent, nil fibi detrahunt;
magno ingenio, multaque nihilominùs babituro convenit etiàm fimplex veri errò:
ris confeffio; præcipuèque in eo ministerio , quod utilitatis causâ pofteris
traditur, ne qui decipiantur eâdem ratione ; qua quis antè deceptus eft.
Quintiliano ancora lo commenda in tal guisa: (c) Hyppocrates clarus in Arte
Medicâ videtur honeftifimè fecife , dùm proprios quofdam errores confeffus eft
, boc fine , nè posteri peccarent. Certamente, che non avrebbe riportáte
tante lodi Ippocrate, se avesse tenuta celata tal verità, e se non avesse
confessati li propri errori, non li darebbe tanta credenza à ciò, che
dice. Dunque animateyi voi ancora à ree guitare un sì glorioso Maestro, e
non remete dalla Verità , che sposerete , doverne riportare alcun svantaggio,
anzi te (c) Lib.z. cap.8. [ocr errors][ocr errors] tenete per
infallibile di poterne voi ana cora ricavare glorie immortali. Il
difensore maggiore, ch'abbia la Verità è il Disinganno, egli è quello, che
discopre ciò, che si fà contro di essa, che impiega ogni sua attenzione , &
efficacia à suo prò, non prendendosi alcuna soggezione de' vizj, anco maggiori,
in manifestare le loro iniquità; Hà finalmente tal possanza, che qualunque
Verità più occulta la rende palese à tutti Niuno senza il di lui ajuto sarebbe
capace d'avvertire alli proprj errori ; onde converrà se vorrete seguitare la
Verità paffare con esso lui ancora buona corriso pondenza , rispettarlo, e farvelo
vostro amico di confidenza ; Vi avverto però, che se vorrete veramente
confederaryi con il Dilinganno, non dovrere effere ostinati, nè pertinaci nella
vostra opinione, perche altrimenti nel meglio vi abbandonerà , onde converrà di
farvi regolare in tutto da lui , e vedrete come vi favorirà nelli maggiori
vostri bifogni. Se non si fosse fatto regolare Ippo: crate da questa
eroica virtù, come mai fi sarebbe potuto avvedere del sopr’accennato errore, e
d'altri, e proprj, e del Medici suoi coetanei , che egli riferisce ; Certo è,
che se fosse stato pertinace nella sua opinione il Disinganno non gli avrebbe
fatto conoscere la Vericà qual' era , & in ispecie nel caso di
quell'Ancella di anni dodici, nella quale ei confessò,:(d) Hoc cognitum eft rectè
fe&tione opus habere , fecta eft autèm non velut opportebat , fed quantùm
reli&tum eft , pus in ipso factum est ; Et in questo confeffa, che non fù
fatto il taglio à suo dovere . Nel male di Eupolemo, chi gli averia
manifeftato:(e) Hic videbatur biberari pofle, fa unicâ amplå feftione fectus
fuiffet ; E perche non si fece ? Mortuus eft. Conforme ancora nel caso di
quell' Uomo quafi leproso, (f) che andando al bagno di acqua solfurea guarì dal
male,che aveva, mà morì poscia Idoprico per la retrocesfione del primo; E di
Scamandro, (8) à cui gli accelerò la morte un potente folutivo, come avrebbe
possuto dire : Videbatur plus temporis fubstinere potuille. nisi ob vim
pharmaci; E nel figlio di Teoforbo :( 6 ) Huic exulcerats est alvus fortitèr à
magnâ pharmaci vehementia , moru tuus eft autèm tertiâ die poft potionem ;
Nella moglie di Antimaco , à cui : (i) Datum eft potu Elatherium vehementius ,
quàm opportebat, pou mortua eft circà mediam noctem; In quell'uomo Eubeo, (i)
il quale:Cùm bibiffèt pharmacum expurgans fres dies purgabatur, e mortuus eft ;
E nel caso di Artandro, (m) il quale : Sanus erat à catapotio extinctus eft ; E
finalmente in quello di Trinone , (n) lasciando di riferirne altri : Cùm ad
nervum fanè parum medicamentum erodens fuiset adhibitum, opistotono mortuus
eft. Dunque queste utili memorie, che noi leggiamo in Ippocrate tutte le
dovemo al Disinganno, che gliele fece cos nofcere. Ovirtù così sublime, perche
ancora non consigliaste tanti altri Profeffori eccellenti, che scriveffero
ancor esli con questa Ippocraticà ingenuità nello scoprire li propri errori à
pofteri; Quanto bene averia apportato à noi simile verità; Hanno scritto; è
vero, molo te mirabili osservazioni, mà hanno ancora con quelle più tosto
cantato li loro trionfi, che compianto le altrui sventure. Fate almeno, che li
secoli venturi godano di questo bene , & à voi toccherà di ereditäre ò
Giovani ingenui questa purità di scrivere Ippocratica ; se vi uniformcrete
conforme egli fece alli consigli del vostro disinganno: yemo (g)
Epid.lib.5.&gr.15. (h) Ep.lib.5.&gr.17. (1) Ep. lib.s. agr.18. (1)
Ep.lib.5.agro3s. (m) Lib.s. agr.42: (a) Lib.gi .gr.74 7 La
Vigilanza à che segno sia neceffaria nel Medico , ne dà non piccolo contrasegno
il sagrificio, che bramava Esculapio del Gallo, fiinbolo della vigilanza,
volendo facilmente quell'antico Nume della Medicina far capire a suoi seguaci
ciò medianto, che desiderava da essi, più d'ogn'altra cosa , la vi
[ocr errors] ) [ocr errors] vigilanza, e con ragione, stanteche nella
Medicina : 60 ) Occafio præceps; occafio in que tempus non multum ; E se à
prenderla quando si presenta , non li fà con atten zione è cosa facile di
perderla , con dia scapito di ciò, che si poteva ottenere in vantaggio
dell'Infermo ; Quindi è, che Ippocrate dà titolo di ottimo Medico à colui solo;
che prevede le cose future, dicendo :(p) Medicum prænotionem adhibere optimum
effe mihi videtur ; Prenoa scens enim , & prædicens apud ågrotos, da
prafentia, & præterita, & futura ; E questo non già per altra via , che
per quella della vigilanza , si può ottenere. Per conferma di ciò fà à
proposito la somiglianza, che apporta Ippocrate (9) del Medico con il
Governatore della nave, che si ritrova in tempeita, à cui non conviene già
dormire per non sommergersi insieme con il suo baltimento trà l’onde; Ed in
verità yi converrà essere nelle vostre cure molto circospetti, e
vigilanti, non (0) Hipp.Præceptiox. (9) De veteri
Medio. (p) Di Prenot. non essendo sufficiente la fola vostra
pea tizia , mentre che al parere d'Ippocrate: (r ) Bonis autèm Medicis
fimilitudines pariunt errores , ac difficultates; E cresce maggiormente à tempi
noftri tal neceffità per cagione della separazione, che ha fatto la
Medicina dalla Cirugia , e Farmacia, perche fe allora baftava una parte di
vigilanza , dicendo il detto Ippocrate : Nec folùm feipfum præftare oportet
opportuna facientem, verùm, e agrum, affidentes de exteriora, a' quali dovendo
invigilare il Medico, acciò non trascurino di fare ciò, che da esli si deve,
ora maggior obligo gli corre di dupplicarla per questa nuova aggiunta. Nè
vi riferirò, per perfuadervi ad essere vigilanti, l'esempio, che ne diede in se
stesso Ippocrate, per non avervi à ripetere tutto ciò che abbiamo di esso,
mentreche non fi legge nelle sue opere cosa che non denoti una somma
avvedutezza, una grandissima vigilanza , & in ifpecie ne' suoi pronostici,
ne'quali fi puol (r) Epid. lib.6.dift, &: puol dire con
ragione, che ancora de Bercore collegit aurum , onde spero , che con
rincontrarle ocularınente à fuo tema po, sempre più vi crescerà lo stimolo di
efsere vigilanti, e tanto maggiormente ne sarete, quando in quelle leggerete,
(che : Vigilantia verò &c. ad vitæ boneftatem refert . Majorem enim apud
alium fibi gratiam conciliat, fi ad artem traducatur , eique decus, ob gloriam
comparat ; & in appresso: Bonus Medicus vigens ipfus artis opifex
nuncupatur. Della Vigilanza è compagna inseparabile, e fedele la fatica ,
la quale per essere opposta all'Ozio padre di tutti li vizj, li può chiamare
madre di tutte le virtù, e questa nella Medicina è cosi essenziale, che senza
essa è impoflibile di poterli acquistare, esercitare, ed ampliare , A voi
dunque, che desiderate essere veri Medici converrà accingervi à triplicara
facica. La prima vi servirà per fare acquisto della Medicina; La secon
dada per impiegarla nell’efercizio di effa , ela terza finalmente per lasciare
degną memoria di voi in ampliarla à quel fegno', che vi farà permesso dal
vostro ingegno. Già della prima ne fù discorso nella seconda Giornata,
nella quale fù moftrato ciò, che si debba fare per conseguire la buona pratica
; mi resta fola. mente ora da soggiugnervi, che quella sola non può bastare per
farvi vivere ripofati , e senz'altra briga , ftanteche quantunque, fia
sufficiente per potere esercitare la Medicina, nulladimeno per essere ancor voi
annoverati trà Proferfori più esperti, e capaci di dare più accertati consigli
vi converrà infino al fine di voftra vita faticare in fare sempre nuovi
acquisti, restandoyi tuttavia molto da apprendere, sì per incontrarvi alle volte
in mali non più osservari, conforine Celso avvertì , dicendo : Sæpè vero etiàm
nova incidere genera morborum , che per essere la Medicina scienza sì va#a, che
niuno fin'ora ha potuto scoprire li suoi ultimi confini, nè Ippocrate, nd
tampoco Esculapio, che ne furono l'Inventori , conforme egli confessa
ingenuamente :(t) Ego enim ad finem Medicinæ non perveni, etiamfi iàm fenex
fim, nequè enim ipfius Inventor Esculapius. Quale appunto debba essere la
seconda fatica nel professarla, così ve la descrive: (1) Crebro ægrum invife
diligentem considerationem adhibeas, ut iis, qui decepti sunt per mutationes
accurras; Facilior enim tibi cognitio fuppetet , fimula què te promptiùs
expedies • Instabilitèr enim moventur quæ in humidis confiftunt. Questo testo è
così chiaro , che non hà bisogno di dichiarazione maggiore, ris' chiedendo da
voi Ippocrate nell'esercizio pratico la fatica unita alla vigilanza, e facendo
voi in questo modo vi assicura, che minori brighe avrete, perche presto
tirarete à fine ciò, che facendo con trascuraggine vi apporterebbe maggiori
incominodi, La terza fatica è arbitraria, e viene fo(t) In Epif.Democt
(0) De decenti babiru. [ocr errors] folamente abbracciata da quelli
fpiriti investigatori, che hanno unita la vivacità dell'ingegno alla prudenza,
e questi per il desiderio , che hanno di eternare li loro nomi, riescono
in tale opera profittevoli, de' quali credo , che frà voi ve ne farà caluno
abile, dal quale spero non si ricuserà fatica sì gloriosa,abbracciata, e consigliata
insieme da Ippocrate, dicendo: (*) Nunc verò ea , quibus summo studio prudentes
incumbere debent, partim quidèm à majoribus excerpta, partim verò etiàm nunc
per nos inventa ad te fcripfimus. Nè delista taluno di voi, che sia abile
à sì gloriosa impresa d'effettuarla per vedere impallidito di volto, emaciato
di corpo, & invecchiato prima del tempo chi abbracciò fimile fatica;
posciacchè da quell'emaciazione di corpo, da quel pallore di volto, e dal
comparire più vecchio, ch'egli sia, gran benefici ne hà ritratti che
sono,maggior vivacità di mente , senno, e prudenza. Mà (x) In Epif ad
Reg.Demetr. [ocr errors] Mà quando ancora da tal gloriosa cagione ne
risultasse qualche fisico svantaggio, fi bilanci qualsia peggiore, se quefto, ò
pure quello, che ne proviene dall'ozio; e si vedrà senza fallo, che l'oziofi
non solamente sono soggetti ad infermità peggiori di quello fieno gli ftudiofi,
mà ancora , che terminano più presto la loro miserabile vita , onde non è
prudenza il temere ciò, che può recare minor danno per andare in traccia à ciò,
che ne può recare maggiore, e con lo svantaggio di più, che à prò
degl'affaticati Letterati stà sempre preparata un' eternità di gloria, dove,
che à danni de gl’oziofi una perpetua ignominia. Non mi stenderò di
vantaggio in esaminare le altre virtù , che restano perche vi si richiederia
più tempo di una sola giornata, e tanto più , che poffedendo voi le già
descritte vi si renderanno famigliari tutte le altre; Solamente del più bel
frutto , che producono le virtù , ch'è il buon costume, non sarà fuori di
proposito oggi parlarne , stante che che questo da Ippocrate viene
stretta. mente incaricato al Medico , per farvi conoscere insieme à che segno
egli lo profeffava . Il buon costume è un'abito essence ziale per la vita
civile, acquistato solamente da chi poliede un'aggregato di moltiffime virtù',
trà quali risplendong la Prudenza, la: Sincerità, la Gratitu, dine , l'Umiltà,
la Discretezza , la Bez nedicenza , l'Urbanità, e la Conyenienza, e questo
abito deve essere continuato, perche fe la Superbia , l'Ira , l'Ambizione,
& altri vizi di fimile perversa natura l'interrompono, il buon costume
passa fubitamente in cattivo, Chi hà la forte di poffederlo è ricchisiino,
mentre hà un tesoro, del quale quanto più ne fpende , tanto più resta in
capitale ; Per csempio, chi hà il buon costume di lo-, dare, non solamente non
riceve alcun discapito dalle lodi, che dispensa, mà n'è perciò egli ancora
lodato. Devesi nondiineno usare prudenza in non eccedere molto con affettazione
ne' buonicostumi, ftantęche alle volte, quando sono soverchiamente adoperati, e
con affettazione nauseano, & in vece di apportare del bene,fanno del male,
e tanto maggiormente, quando ciò viene regolato da qualche secondo fine, nel
qual caso la lode istessa può essere nociva, e perciò ebbe à dire Tacito ;
Peffimum inimicorum genus laudantium. A che segno sia necessario al Medi,
co il buon costume, mediante il quale viene colta ogni ambiziosa contesa, lo
dimostrò Ippocrațe doppo di aver fatto , conoscere la necessità , che vi sia di
consultare con altri Profeffori li mali oscuri, soggiugnendo : (a) De eo minimè
am. bitiosè contendere , fe ipfos ludibrio exponere; Pofciacchè fimil maniera
non è propria de' Medici racionali, mà solamente di quelli triviali, che :
Forenfem queftum fectantur , conforme egli dice in appreffo. Nè solamente
il mal costume pone in discredito chi lo esercita , mà passt O 2
per [a] De Præcept, و 'per causa sua ancora nell'innocente Medicina
la calunnia ; L'esempio è chiaro : Contrasteranno due Medici tra di loro
acerrimamente, se fi debba, ò no dare un'orzata in un male acuto, se debbali, ò
nò colare,fe prima debba darsi, ò doppoi il seccimo giorno, e se sia
praticabile ayanti, che il male sia terminato, le quali essendo questioni
inutili, e come fi fuol dire , di lana caprina , perche con l'esperienza fi può
rincontrare se ne posfa feguire quel gran danno, che si figura chi contradice,
onde finili contese non poffono à mio credere autenticare al che
l'imprudenza, e mal costume di chi le promove, e picciol male recheriano, se la
colpa di ciò restafse trà li foli Artefici altercanti, il peggio è, che ne
passa alla Medicina la calunnia; Quest'esempio non è stato inventato da me,
ritrovandofi descritto da Ippocrate così bene, che non vi recherà punto di noja
il sentirlo riferire : (b) Que igitur ignorantur bee funtó quanam de causâ in
morbis acutis, quidam Medici toto vita tempore in Ptifanî non colatâ exhibenda
perfeverents rectè fe curare existiment; Quinàm etiàm omni ratione contendunt',
ne ullo modo hordeum æger devoret , quoad indè magnum fecuturum detrimentum
exiftiments morbis (b) De ration. Tic.in morbiacut. tro,
verùm per linteum excolantes ejus fuccum porrigunt . Horum etiam nonnulli ,
nequè Ptisanam craffam , neque succum exhibent, ubi quidem dùm feptimum diem
eger attigerit , alii verò dùm in totum morbus judicatus fuerit ; E ciò, che da
simili altercazioni ne fiegua l'esprime in tal modo : At verò Ars tota magnam
quidèm apud vulgum calumniam fubftinet , ut nullam omninò Medicinam efe
exiftiment a kquidem in acutis morbis, in tantùm inter Te diffentiunt Artifices
, ut quæ alter exhi. bet, veluti optima reputans , etiàm mala alter
exiftimet. Due ingiurie vi farei nel medesimo tempo , se pretendesli
d'insegnarvi il buon costume: una saria di riputarvi male accostumati, che
per ļa Dio grazia non siete, e l'altra di credervi stolidi, ed
incapaci di ragione , per non esservi approfittati di ciò, che vi disli,
detestando quei vizj, che costituiscono il mal cos ftume. Continuare di
buon'animo á fuggire li vizj, e seguitare queste virtù, che vi hò mostrato, e
non dubitate , perche Hi vostri buoni costumi in breve diverranno ottimi, &
acciò possiate conseguire con più facilità fimil sorte vi rappresenterò alcuni
costumi eroici d'Ippocrate, li quali vi potranno fervire di norma in moltissime
vostre occorrenze , che vi si presenteranno facilmente à suo tempo. Egli
fù così esemplare nell'offervanza degli ottimi costumi, che non sò fe trà
Medici ( alla riserva di quelli dia chiarati già Santi) ve ne sia stato, ò ve
ne sia di presente , chi lo possa uguagliare La Pietra del paragone per
cono. fcere se il costume sia ottimo sono li onori, ftanteche honores mutant
mores , onde quando l'onorato non cambia li fuoi costumi in peggio per cagione
dell? onore ricevuto's tenete pure per certo, che ) che il
suo costume sia ottimo. E la ca. gione di ciò è, perche con gli ottimi regna
l'umiltà in grado eroico, e dove è questa , la fuperbia non s'accosta, fa.
pendo per esperienza, che inutilmente impiegheria ogni sua fatica, e la
superbia è quella, che perverte il buon co. stume , mà contro l'ottimo non fi
ci meriti, ) Che Ippocrate abbia ricevuti onori fommi non
trovo fi controverta da ale cuno, mentre fù chiamato dal Rè potentiffimo Serse,
con promesse di ciò, che egli avesse saputo desiderare, oltre di costituirlo
Magnato della Persia, fù cre duto ancora, che discendeffe dal Dio Esculapio,
che fosse in grazia del Rc Demetrio', e di molti altri Potentati, e finalmente,
che ricevesse dagli Ateniefi onori maffimi, non solo umani, mà ancora divini
effo vivente, come costa per Senatus Consulto, ch'è questo : Ut igitur conftet
Populum Athenienfem Græcis femper utilitèr confuluife , utquè dignam pro
meritis Hyppocrati gratiam referat, decrevit Poo 0 4Populus ut is
magnis mysteriis ; Hor fecùs at Hercules Jovis filius publicè initiaretur, O
coronâ aureâ mille aureorum coronaret tur. Coronam ipfam Quinquatribus magnis
in gymnico certamine pręcone proclamante, omnibus Coorum liberis liceat
non fecùs às Atheniensium Athenis pubertatem ageres quod coram Patria
ejufmodi virum proCreavit, Hyppocrates verò, ut Civitatis jis re, victu in
Pritaneo toto vita tempore donetur. E questi commi onori qual mücazione
produsero ne' suoi costumi? niuna appunto, mentre non furono capaci di farlo
insuperbire, come fi legge nella sua lettera , che scrisse già divenuto vece
chio à Democritó : Et ego fanè plus repræhenfionis , quàm honoris ex arte mihi
confecutus videor ; Vedete quanto stimava l'onori maslimi, e se s’infuperbivad
punto di quelli, credendoli inferiori ad una picciola riprensione , dico
picciola, perche delle grandi non n’era capace un’Ippocrate . Più gli premeva ,
per quanto li può congetturare dalla mede fima lettera, la cagione delli
ònori,mentre mostrava di dolersi, che eisendo diyenuto già vecchio non era
potuto ancora giugnere à tutta la perfezione dell' Arre; volendoci forsi con
questo far conofcere, che non sono tanto pregiabili gli onori, quanto è la
cagione, che li produce, ch'è la virtù , la quale dipende tutta da noi, doveche
gl'effetti di quella dipendono dall'altrui volontà; Avendo dunque Ippocrate
resistito à non fare alcuna mutazione nelli suoi buoni coftumi in tanti, e tali
onori ricevuti, è contrasegno evidente, che foffero arri. vati al grado
dell'ottimo , nel quale solamente, come fi è mostraro, sono im.mutabili li
costumi. Che vi sia stato à luo tempo, ò dapoi fino al presente chi
abbia.conseguito limili onori, non se ne ritrova memoria, per quanto fia stata
cercata, onde non hà alcun'altro Medico avuto occasione, doppo di lui di
mostrare ugual costanza del suo buon costume in fimili prosperità; Ricevendo
dunque voi onori, faprece [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] con
l'esempio di un tanto Éroe, confora me vi doyrete contenere affinche le
prosperità, che ne risultano da esli , non vi facciano, conforine appunto
fecero prevaricare li antichi Romani, che fusono ne' primi secoli della
Repúblicas esemplari in bontà, mà avanzandoli pom fcia nelle ricchezze andavano
declinando , e finalmente nell'auge delle loro felicità, e grandezze da buoni
divennes ro cattivi , onde con ragione esclamò Tacito : Felicitate corrumpimur.
Mi di{piacerebbe però sommamente,che simili sventure si verificassero in voi,
perche goderei vedervi tutti esemplari, e degni imitatori d'Ippocrate, non
solamente nella dottrina, mà ancora negli ottimi costumi Mi rimane per
totale conferma del mio intrapreso assunto di corroborare con altri esempi ciò,
che hò proväto con le ragioni ancora. Il primo de'quali sarà di farvi
vedere, con quanta civiltà egli scrise de gli antichi intorno à quelle cose che
effi 11011 [ocr errors][ocr errors][ocr errors] non sapevano, e che
furono dalla sua induftria inventate . Dice egli intorno la regola del vivere :
(c) Alii quidem aliud ättigerunt, totum verò nes unus quidem adhùc ex his , qui
antè extiterunt ; Neque tamen eorum quisquam reprehendendus , quòd invenire non
potuerint ; quin potiùs Jaudandi omnes'; quod quædam inveftigao tione aggreffi
fint ; Neque ergò que recta dieta non funt argüere decrevi , fed his , qué
abundè funt cognità affentiri in animo habeo ; quæ igitur ab iis , qui antè nos
fuerunt reétè di&ta funtzde bis fieri non poteft fi alitèr ferihatur, ut
reétè fcribam, quæ verò non rectè dixerunt fi ea quidem , quod ità non habeant
redarguero nihil profecero ; E cosa abbia fatto in questo caso lo dice in
appresso, cioè: Que non rette fuerint cognita aperiam; Quin etiàm qua corum
nultus , qui antè me fucrunt explicare aggreffus eft qualia fuerint demonftrabo
; Ed altrove con chę prudenza ne parla:(a) Sed nequè de victus ratione
quid quàm [c] Dx viftus ratione lib.i. [d] De ratione vitus
in grutis. [ocr errors] quàm effatu dignum veteres fcriptis
tradiderunt , eamque , quamvis magna res fit, omiserunt s Varia tamen morborum fingua
lorum genera , multiplicemque eorum divid fionem non ignorarunt quidàm. Avete
of servato con che creanza , con che giua stizia; e con che prudenza ne parla
un' Ippocrate de' suoi Antichi, scusandoli in ciò, che non seppero, e non
pregiudicandoli punto in seguitare, e confeffare ciò, che di buono efi dissero;
Si è praticato questo buon costume da alcuni de' noftri Moderni verso li
Antichi? Mi pare di leggere, per dire il vero, più tosto il contrario, anzichè
mi sono avveduto, che taluno di efli há palleggiato con tal fasto invidioso
dace sopra quelle gloriose ceneri, che ne sono rimasto molto scandalizato,
rifettendo, che Ippocrate con li suoi Antichi diversamente faceva, nė vi
riferirò da vantaggio per non farvi nauseare di ciò, che essi ancora hanno
fatto di bene .; Per fecondo vedremo, come egli fi portò in quelle cose,
che lo toccavanoal vivo. Gli pervennero à notizia alcune predizioni
(e) credute da Prospero Mar. ziano suo Espositore accurato, Astro-
loggiche, che appresso gli Egizj si prati- cavano in quei tempi, che
erano alli Greci ancora ignote, le quali non li pia- cevano,
mentre disse : Egnautèm hujuf- modi vates effe nolo ; e con
ragione, per- che gli pervertevano ciò, ch'egli con tanta
diligenza aveva ricavato dalle proprie offervazioni intorno alli prono-
stici de' mali, e che aveva appreso dagl' altri, e pure con
questa modestia si con- tonne : Prædictiones Medicorum
referun- tur permultæ tùm præclar& , tùm admira-
tione dignæ, quales neque equidèm prædixi, neque quemquàm,
qui prædiceret, audivi; e cosi destramente se ne liberò senza
contradirle . Questa maniera sì dolce non è stata già
praticata nel giugnere à notizia tante belle invenzioni
Anatomi- che ; contro la circolazione del sangue cosa non fù
detto mai? Senza possedere un'ottimo costume non fi può lodar
ciò, che (e) Lab.2.Prædi&ionum [ocr errors] che perverte
un'abito fatto da lungo tempo, e che si è praticato per lunga serie di
anni. Per terzo riferirò comę egli firegelaya quando era necessitato à
palesare qualche errore commesso. Questo lo faceya senza individuarne l'Autore,
ece cettuatone li proprj, li quali publicamente confessava , come già fentiste,
parlando del disinganno, e questo, da chi vien praticato Solainente d'Ippocrate
fi racconta fimile ingenuità, & in caso ancora, che abbią apportato laws
morte, Per quarto finalmente per far trionfare la sua gran bontà riferirò
il giuramento, ch'egli fece, che nella Medicina à suo tempo non vi era alcun
Medico razionale, (f) che non fosse di buoni costumi, e questo giuramento, chi
lo farebbe à tempi nostri ? Onde bisogna neç ffariamente confeffare, che unico
fia stato Ippocrate non solamente nella dottrina, mà ancora nell'ingenuità de'
co stumi; [f] In lib.de præcept, [ocr errors][ocr errors] ftumi ;
Sicchè con ogni giustizia li com. pere il principato nella Medicina, che egli
da tanti secoli pofliede. Dovrete yoi dunque per essere tee nuti degni, e
veri suoi seguaci non folaa mente abbracciare,& uniformarvià ciò, ch'egli
scrisfe in Medicina , mà ancora ftrettamente osservare quanto nella morale si
debba fare, ftimando forG il buon' Ippocrate più necessarj li buoni costumi al
vero Medico, delli suoi Fisici docu. menti, mentre questi li lasciò in libertà
di ciascheduno di seguitarli, mà li primi con giuramento forzava tutti ad
offer. varli esattamente, obligandoli a giurare di essere grati, di vita
incolpabili, onorati, casti, giusti, modefti, pudichi, fedeli , e di somma
segrerezza , e sentite sotto che pena l'obligava: Hoc igitur jusjurandum , fi
religiosè obfervavero, ac minimè irritum fecero , mihi liceat cum fummâ apud
omnes existimatione perpetuò vitam felicem degere's & artis uberrimum
fruEtum percipere , quod fi illud violavero, pejeravero , contraria mihi
contingant ; E quan [ocr errors] E quanto mai il buon costume nel
Medl att [ocr errors] mente si può comprendere da ciò,
dice nel libro Di lege : Quifquis enim Medicine scientiam
fibi vere comparare volet eum his ducibus voti fui compotem
fieri oportet natura, dottrina , moribus generofiss è chiunque di
questi ne farà privo, come uomo profano, diverrà im-
meritevole gli sia dimostrata una scien- za sì facra ,
conforme e la Medicina, soggiungendo ivi : Hæc verò cum sacra
fint , facris hominibus demonftrantur , pro- phanis verò nefas,
Sono dunque, secondo la mente d'Ippocrate , effcnziali nel Medico le
virtù morali , e nientemeno di quello fieno li documenti Fisici, ed in
conseguenza ancora come tali apporteranno necessaria- . mente un commo bene al
vero Medico , non potendo esser tale, se non ne farà ornato à sufficienza,
conforme in termi. ni precisi più diffusamente lo dimostra lo stesso Ippocrate
nelli libri De Medico, © De Decenti ornatu, e nel libro De Pre و (
9 ceptionibus , ove affinche non se ne possa dubitare l'attesta con prova
legale, cioè mediante il suo giuramento, ch'è questo : Hoc namque jurejurando
affirmare audeam , Medicum ratione utentem , alterum nunquàm invidiosè
calumniaturum, fic enim animi impotentiam prodit. Verùm id potiùs faciunt , qui
forensem quastum seEtantur . Sicchè per essere veri Medici razionali
dovrete essere ornati di virtù , e non contaminati da’ vizj , conforme sono
quelli, che per essere meri mercenarj non meritano il titolo di vero Media co ,
quantunque fossero nelli documenti Medici versati ; e perciò saggiamente egli
nel libro De Lege asserisce: Non folùm verbo , fed etiam opere Medici
existimationem tueri oportet; ch'è quanto dovevo mostrarvi nella prima
parte. Se poi alcune virtù fi poffino giuftamente censurare nel Medico,
che è la seconda parte del mio discorso, in qualche caso crederei di sì,
conforme con un'esempio riferito da Ippocrate brevemente vi farò vedere.
P TutteTutte le virtù hanno un fine retro, e se fi lasciano operare à
tutto loro potere s'inoltrano con tanto fervore, che da alcune di esse in vece
di ricavarné profitto , se ne riporterà del danno, La Giustizia, & il Zelo,
tra le altre , fe si cferciçano con sommo rigore, & à quel segno, che
arriva la loro autorità. Quefte sono capaci di porre cutto il mondo in sconcerto,
e perciò diffe Salomone:(+) Noli effe juftus multùm; onde è necessario unirlo
alla civiltà per renderle fruttuose.Simili fconcepci appunto potrebboro
giornalmente accadere nella Medicina, fe il Medico si voleffe fervire della
sola Giu. ftizia, del solo zelo con quell'Inferma male avvezzo in fanità à fare
à fuo modo , allorche trasgredendo alla regola di vivere,fosse da esso con
tutta giustizia riprefo, & afpramente sgridato di tal’erróre, cosa se ne
ricaverebbe di profitto da çal giuftiffima,mà indiscreta riprensione? Se non
che, ò l'Infermo facesse peggio in; (1) Ecclef.cap.79 1 [ocr
errors] in avvenire, e che senza alcun profitto perdesse ogni çispetto à chị lo
riprese, ed in questo ca fo giustamente il Medico verria censurato, perche non
si servi in fare una simile riprensione del prudens ziale consiglio
d'Ippocrate, (a) che dice ciò, che deve fare, doppo di averlo afpramente
{gridaco,& è : Simulque cum commonefaciendo , & blandè excipiendo
consoletur ; & altro ve dice : Condonandum aliquid consuetudini ; Quel poco
di dolce, che gli porgerà doppo l'amaro della riprélonę opera tato di bene che
faràche la Giustizia usata divenga profittevole , Il ţimile pariinentě ne
seguirà se voi, con zelo poco discreto , vorrete riprendere taluno , che sia
ricaduto in mali venerci ; questo tale, quanto più lo [griderețe , tanto peggio
farà , bisogna dolcemente che gl'infinuate , e gli facciate capire il danno ,
& il pericolo, che gli può sopravenire da fimili ricidive, le miserie, la
morte penosa inevitabile saranno quelle , che, inlinuate con gius [ocr
errors] (a) In lib.præcept. [ocr errors] dizio, lo potranno più
facilmente perfuadere di fuggire simili errori, perche questi motivi restano
impressi per lungo tempo nella mente , mà le gridate, che passano presto in
oblivione , riescono infruttuose, perche sentendosi con animo irritato , non
s'apprendono quanto: fi dovriano . Molti altri esempi potrei apportarvi, mà
credo , che li riferiti pollino essere sufficienti per farvi capire tal verità
; Volete dunque, che le vostre virtù non fiano censurate , accompagnatele, e
non le fare operare fole, e fate appunto conforme si suol praticare con le
donzelle vistose à fine non si mormori di loro che accompagnate con altre donne
più provetre , e prudenti possono trattare in privato, e comparire in pliblico
senza taccia. Mi persuado che li documenti, le ragioni , e gl'esempj
d'Ippocrate, che vi (hò addotti fin'ora, saranno senza fällo sufficienti a
farvi incaminare per il retto fentiero delle virtù , il quale spianato in tal
guisa , fe à caluno di voi paresse tut tavia [ocr errors]
tavia disastroso, non occorrerà s'affati chi di vantaggio, perche per lui
non fa. ranno à proposito le virtù, e per tanto se ne viva pure à
suo bell'agio con li suoi vizj diletti, nè occorrerà, che in do-
mani quivi si presenti, perche voglio in avvenire parlare solamente a
quelli, che hanno generosamente determinato d'ab- bandonare affatto
li vizj, e seguitare le sole virtù. [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][merged
small][ocr errors] G. I Ô R N Å TA V I. Nella quale s'accenda il modo di
prévalerfi del consiglio delle virtù contra l'infidie. de
vizj, affinchè il vero Medico poffan godere una vita iranquilla , e
lasciare di se doppio morte una gloriufi memoria : [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] On mio contento non ordinario
vi vedo oggi, prima del solito , quì tutti preferiti; posciacchè
averidoviderto nel fine della Giortiada di jeri, che chi nơn s'era già
determinato di seguitare le fole viétừ, non occorreva ch'oggi forfè venuto;
temevo che almeno quelli , che gliscorgevo più pensoli degli altri, foffero
mancati; Mà vedendo quì ancor voi, e più ilari , e disinvolti del consue. to, è
chiaro contrafegno, che le vostre menti, che si ritrovavano nelle Giornate
passate ambigue, non sapendo ancora à che partito appigliarsi, abbiano già
déterminato di seguitar le virtù, avendo jeri gustato, e meditato in
appressoquanto di benc da elle ne possa risultaa re; Onde tutto il giubilo
interno; che voi ora provares non nasce da altro, che dall'essere divenuti
padroni del vostró volere. Spero dunque, che tutti inGeme äverere avuto la
medesima forte d'allontanarvi affatto da' vizj, e di confederarvi con le sole
virtù, e queste fatele ora padrone dispotiche della vostra voz lontà, e non
temere de viżj , che fuor di voi fi ritrovano , che possano essi punto
nuocervi, con tutto che vi tramaffero continue insidie per lo sdegno concepi .
to contro di yoi's che ve ne siete da efti affatto allontanati , perche farà
curau delle virtù il difendervi: Vi säria gran timore quando questi inimici
teneilero tuttavia assediato il vostro cuore, e fiorreffero liberamente
d'intorno alla voftra volontà ; Allora sì che tion potreste fidarvi delle loro
insidie , ftanteche in tal caso le virtù non potriano affiftervi. Vivete dunque
cautelati á non tradire. voi stesli orche ne fiece liberi; e questo seguiria
facilmente quando apriste qual [ocr errors] che segreta porta , per dove
poteffero i'vizj dentro di voi tornare. Per altro faccino pure
fuori di voi quel più , che possono s che punto non vi potranno
danneggiare.L'esempio l'abbiamo chiaro ne i Romani, che fino ch'ebbero Annibale
nell'Italia stiedero con ragione molto mesti, ed affitti per il timore delli
gran danni , che poteva loro apportare, mà appena partito, sollevorno lo
spirito, con tutto che proseguisse à molestarli, e di niuna cola elli ebbero
più spavento, che della guerra intestina, la quale alla fine fù cagione , che
perdelfero la loro libertà. Parerà oggi discorso superfluo il mio,mentre
voi avêdo in abbominazione li vizj;ed essendovi dichiarati seguaci delle virtù,
potrete con la guida di esse consigliare più tosto gl'altri, che aver bisogno
di Direttore, con tutto ciò perche non avete à bastanza ancora acquiftato Puso
di prevalervi di effe , non vi farà infructuoso il sentire da me in compendio
quel bene , che à suo tempo, ed [ocr errors] [ocr errors] in tutti i
vostri maggiori bisogni , questo vi apporteranno , potendo ciò ancoras fervire
per confermarvi di vantaggio della vostra lodevole risoluzione. E
cominciando prima dalla Religione, che con puro cuore profeffate , poiche
Non fi comincia ben se non dal Cielo ; Qucfta non solamente vi darà lume, e vi
fervirà di scorta per quello che riguarda l'eternità, mà vi configlierà di fare
fempre uniti con le virtù, facendovicon chiarezza vedere la deformità de' vizj,
e li gran danni che apportano; Quindi è, che neceffariamente la fapienza deve
ftare unita con la Religione, conforme diffe Lattanzio : Homines ideò falluntur
, quòd aut Religionem fufcipiunt omissá Sapientiâ , aut Sapientia foli student
omissa Religione , cum alterum fine altero non poffit effe verum ; Oltre di che
vi farà conofcere meglio di che forta d'amici avrete da fare elezione, perche
fe vi abbattete con taluno di coloro, che sono affatto increduli di ciò, che
non veggono, v'in [ocr errors] [ocr errors] finuerà, che questi non sono
à proposito per voi , che ci trattiace quanto porta il mero bisogno ; ma non
più oltre, perche questi sono tenuti da Sant'Agostino per tomini carnali ,
dicendo ; In homine carnali tota regula intelligendi est consuetudo cernendi
quod solent videre credunt ; quod non folentznon credunt; conforme ancora, che
fuggiare ogni altro vizioso , è che v'intrinfechiare solamente con chi è
seguace delle virtù, e finalmente vi terrå fempre circospetti in non prestare
fede à ciò,che leggerete, ò sentirete dire; che poffa in qualche parte
alienarvi dal suo vero sertimento Non ritrovandovi ora in istato di
potere profeffare la Medicina , per non essere totalmente esperti in essa , vi
converrà cercare ottimi Direttori, nella di cui elezione consigliandovi con la
Pradenza , v'insinuerà, che vi appoggiate -à quell'appunto, che descrive
Cicerone in tal guisa : Eft igitur adolescentis majores natú vereri, ex iisque
deligere optimos, e probatisimos , quorum confilio , atque au
auctoritate vitantur : Ineuntis enim ætatis, inscitia ferum conftituenda da
regenda prudentiâ eft. V’insinuerà d'avantaggio la giustižia come vi
dovrete contenere per acquistarvi il loro affetto , che sarà, oltre l'accennato
ossequio, di esser loro fede li, e schiecti z di moftrarvi sempre pune è
tutali, obbedienti, e diligenti in tutti li affari, che v'insporranno,
perche operando või in questa guisa, non solamento v'istruifanio con tutto
l'amore, må vi loderanno da per tutto, dalla quale preventiva commendazione
germoglieranno à suo tempo li principi delle vostre fortune', e troveretegià
spianata la ftria da de voftri progreni s állorché principierete à
medicáre. Intraprendendo con questi felici principj l'attual'esercizio
della Medicinás allorche' già farete divenuti esperti , non pafferă lungo
tempo, che molti di prevaleranno dell'opera vostras & allora appunto li
vizj vi comincieranno à muoa vere guerras e Vinvidia farà la prima ämoà
molestarvi. Questa già da bel principio vi aveva fissato adosso li suoi maligni
sguardi , mà non prima di vedervi avanzati si muoverà per suscitarvi contro li
suoi seguaci, e le comanderà, che spargano da per tutto, che fiere troppo
giovani , che non avete ancora pratica sufficiente, e che dicano con finto zelo
: Oh poveri Malati, che si pongono nelle voItre mani, se questi guariscono
seguirà per miracolo, non per la vostra perizia, e se vedrà, che ciò non basti
per arrestaryi ne' vostri progrelli, invigorirà allora li suoi comandi, e farà
disseminare dalli medesimi, che siete veramente infelici, mentre quanti Malati
vi capitano, tanti ne muojono, e che non sanno capire , come siano così pazzi
coloro, che vi chiamano. Sentendovi calunniare à torto in tal guisa, cosa
dovrete fare? Non altro, che consigliarvi con la Prudenza, e con la Giustizia,
che vi favoriranno assai bene : primieramente vi esorteranno a non prendervene
alcun fastidio, perche è affai migliore la vostra forte و
sorte , per essere invidiati , che non è quella delli vostri calunniatori , che
non hanno chi l'invidj, mà appena tal’uno, che li compatisca. Vi consiglieranno
poscia à non prendervela con quei miseram bili , e vili esecutori dell’Invidia
, perche operano come suoi schiavi, non già come uomini liberi, e se foffero in
loro libertà opererebbero come voi, che aba borrite simili iniquicà. Vi
consiglieranno bensì à mortificare l'Invidia in questa forma, cioè, di
contraporle la vostra umiltà, quando d'Invidia vedrà, che voi non siete ricorsi
alla vendetta rarne il suo ajuto, mà in sua vece vi servite dell'Umiltà,
resterà talmente forpresa, e confusa, che si vergognerà in avvenire di
ciinentarsi più sola con voi, avyedendosi di non potervi abbattere ; mà cosa
farà per non cedere? Si unirà con il Dispreggio, e con lo Sdegno per
necessitarvi à ricorrere alla Vendetta. Questi vizj baldanzosi comanderanno à
qualchuno de' suoi petulanti seguaci, cine vi faccia una mala creanza, e vi
mo per implom desti senz'averne data occafione, in queIto caso ricorrete
subbitamente per consiglio alla Prudenza, che vi farà capire, che di
tal'ingiuria , non ne doyete chiedere fodisfazione dalli seguaci del Dispregio,
e dello Sdegno, perche quei, che seguitano questi yizj , come imprudeņti, sono
ancora pazzi, & į pazzinon essendo capaci di discernere ciò che fạnno, non
sono tenuti di renderne conto; Contro li principali dunque, & autori caderà
il vostro sdegno , e questi, come vi consiglierà che li mortifichiace ? Non già
con la vendetta, perche questo appunto desidereriaạo che faceste, cioè, che
ricorreste ad un'altro vizio, che vi tradise, e cogliessę nel mezo per forzarvi
å rendervi à loro discrezione, inà bensì con la sola sofferenza tanto da essi
temuta per il grandanno, che loro apporta, & affinche lo facciate con
aniino generoso vi riferirà li seguenti casi. A Diogene Filosofo Stoico,
mentre stava disputando particolarmente della collera , gli fù da un protervo
giovane fpu Sputato in faccia , sopportò egli il tutto piacevolmente
, e da savio, e solo disse: Io non vado veramente in collera , mà non lasciò
però di dubitare , fe in questa occasione doveffi farlo. Catone mentre
staya difendendo una causa ricevette da Lentulo giovane seditioso ua folenne
sputacchio nella fronte, egli si nettó, e rasciugò la fronte , & armato di
una gran sofferenza, solo diffe: lo affermarò à tutti, ò Lentulo, che fi
gabbano quelli, che negano, che tù abbi bocca. Rifettendo voi dunque
all'ingiuria maggiore della vostra fatta ad uomini di tanta stima, & al
modo, che si conțennero vi si renderà più facile l'esecuzione del confimile
ripiego propostovi dalla prudenza , mediante il quale avvedutosi il Dispregio,
e lo Sdegno, che in vece di quocervi vi hanno accresciuto ftima appresso tutti,
desisteranno ancora eff di più moleftärvi, vedendosi dalla vostra sofferenza
delusi, e vinti, Arriverete al fior degl'anni avan. [ocr errors] zati già
ne' commodi, & in conseguenza con più lautezza nudriti. Allora vorrà
facilmente la lussuria cimentarsi con voi, e per farvi qualche danno
considerabile, vitenderà molte insidie , vi farà trovare occasioni pronte;
procurera, che siate con vezzi, e lusinghe adescati; Allora cosa farere?ftate
faldi,perche sarà contro voi questa una gran guerra, mentre non avrete campo in
quel punto preso di consigliarvi con le virid, ftanteche : Vinum, &
Mulieres faciunt prevaricare Sam pientes., come ben diffe Salomone. State
faldi, che è pur troppo vero, che molti si sono arrenati per questa cagione nel
meglio de’loro avanzamenti : Vi converrà dunque procurare di prevenire
l'infidie della lussuria, e non aspettare di cssere prevenuti da effe , e
questo lo farere , quando sarete prossimi à quel tempo con chiamare à consiglio
generale turte le virtù per risolvere cosa sia efpediéte,che facciate,ò di
accasarvi,e con chi, ed in che tempo, ò di continuare lo Aato libero,e con che
cautele maggiori,La Prudenza, e la Giustizia vi con figlieranno facilmente à
prender mor glie, con il motivo gịultiflimo,che quel la vita, che da voltri
genitori riceveste con voi non si estingua, mà che per la conservazione della
propria specie law propaghiate ne posteri, ed à buon fine ancofa, che non
abbiate tanto da impazzirvi nella vostra vecchiają à cercare l'eredi, conforme
ad alcuni, che non mai fi cușorono del titolo di padre è accaduto; La sola
difficoltà si rifringerà allo sciegliere chi faccia per poi , perche la
Prudenza, e la Giustizia vi vorranng consigliare diversamente da quello si
pratica in alcuni luoghi, dove il folico di cercare chị abbią dotę groffa
, chi sia bella, e fpiritosa; la Prudenza non vorrà, che cerchiate questo, in
primo luogo, mà bensì, chi sia di buoni natali, di perfetta faļute, e di ottimi
costumi, ¢ ben’educata ; e con ragione, perche non deve essere affare di minore
impostanza l'accasarsi, di quello, che sia di fær compra di un cavallo; e se
per comprare un [merged small][merged small][merged small][ocr
errors] [merged small][ocr errors] un cavallo ( che non riuscendo buono fi può
subitamente dar yia) fi ricerca in primo luogo la buona razza, fe fia fano, e
se abbia vizio'alcuno, perche nel pro- : vedersi della compagnia inseparabile
non si hanno da fare fimili diligenze Sicchè trovato che ayrete chi abbia le
condizioni sudette stringete, senza più indugiare , il vostro matrimonio, con
quella dote, che avrà, senza ricercarne d'avantaggio, che farete un'ottimo
negozio, perche quattro faranno le doti, che prenderete, una sola apprezzata ,
e trè inestimabili , per non effervi prezzo, che le uguagli', e saranno, la
buona nascita,la salute, e gli ottiini costumi, con la buona educazione, &
avvertite à non fare diversamente , per non cadere nella sventura di Socrate,
che fi abbatte in una inquietisima Santippa. Circa il tempo in cui lo dovrete
fare viconsiglieranno, che non lo facciate nè troppo giovani , nè croppo
vecchi, mà bensì nell'età virile, ed allora appunto, che ayrete stabilito
un'assegnamento suffi ciente 1 [ocr errors] ciente per
il inantenimento della vostra fameglia, e non prima , pèrche si
ricerca fenno, e cominodica per effere, buon Pa- dre di fameglia.
Non troppo giovani, per non distogliervi da vostri studj, ed
avanzamenti, ne' quali non sarete anco- ra bene stabiliti , nè troppo
vecchi, per non lasciarli, se avrete figliuoli, troppo immacuri, e
senza avyiamento, e per non foccombere ancor yoi fotto il peso del
matrimonio prima di quello , che fareste vivendone disciolti ,
conforme à tanti è accaduto , Şe poi voi adurrete alla Prudenza
, e Giustizia li seguenti motivi, che avete esimervida simile
legame, che sono; ò che già vi è nella vostra fameglia, chi sia atto à
sostenere un simil peso, ò che dubitate , che la moglie, e l'educazione
de'figliuoli vi possano distogliere dalla voftra professione, qualche altro
inotivo à voi folamente noto non crediare, che yi forzeranno già à farlo,
vilascięrano in tutta yostra libertà, vi consogneranno bensì alla Fortezza, e
Tempe Q: per [ocr errors] ranza, } ranza ,
acciocchè vi consiglino, e prestino ajuto in caso, che la Luffuria vi fa. ceffe
qualche violenza . Il consiglio, che quefte virtù vi daranno sarà facilmente,
che siate circospetti, ed appena , che vi sarete avveduti di qualche laccio,
che yi tenderà la Lussuria di troncarlo,e prima che vi poniate il piede, che
siate fempre cautelati nel parlare , ę fentendo qualche parola equivoca,
l'interpreciate sempre à favore dell'onestà, né la crediate detta per voi, che
ricevendo qualche cortesia insolita, la crediate fatta solamente per
isperimentare la vostra modestia, e non ad altro fine , onde la cancellerete subitamente,
acciò la rimembranza di quella non turbi la vostra fantasia ; Che vi moftriate
sempre sostenuti più tosto, che galanti in certe occasioni di confidenze, dalle
quali con bel modo procuriate di liberarvene , che da certi luoghi sospetti,se
ne potrete fare a meno, ne stiate lontani, & andandovi, procuriate efservi
in ore, che vi fieno altri, perche al parere di Seneca : Magna pars
peccatorum tollitur fe peccaturis teftis alibi Aat(a); ed ivi non
vitrattenjate più del bisogno necessarios e sempre con discorsi
serj, ed uniformandovi alli consigli della Fortezza, e Temperanza
non diffidate punto della loro allistenza nelli maggio si vostri
bisogni, che dureranno lino à tanto. che sarà in auge il fervore della
vostra gioventù . Il vizio della gola vorrà aticor'egli fare tutti
li suoi sforzi contro di voi in decto tempo più profpero di vostra
vita, per vedere se vi potesse adescare; e cofa farà a
comanderà facilmente à qualche- dano de' suoi ricchi feguaci , che
facen- do uno de' fuoi sontuolillimi pranzi, o cena;
conviti ancor voi; considero , che vi troverete in quel punto preso
incri- garislimi, perche rifletterete allora , che le
ricuserete tale invito , sarete' tenuti per uomini incivili, che
non gradite li favori, e cortefie, che vi fi fanno; fed
l'accetterete,metterere ad un gran risico Ja vostra
temperanza , onde vi converrà (*) Episi 11.di questo ancora
chiederne preventivo Consiglio s. per aver pronto il suo fano imedio per quando
vi capitaffe il bio fognb. si Consigliandovi preventivamente con la
Prudenzás.per sapere in che modo allora vi dovrete contentere, sarà facilesi
chievi dica;;che se viritroverete in luoo ghi dove sia solito, e che
frequentemente li Medici fiano convitati, & intervenghino in fimili
bancheteis. non ricusate tali inviti s perche quelle cose, che sono folite',
nou recanto alcuna aimniirazione, non facendosene caso,basterà solamente; che
yi sappiate regolare con giadizio in non pregiudicare di molto alla
vostra consueta fobrietás perche nuocerestu e è più li denti nel
masticare , che la gola nell'inghiottire si e diportandovi in tal guisa,la gola
avrà poco guadagnato con voi; Sepois dove voi dimorerete , non fosse in uso, mà
solamente, che di rado li Medici v'intervenissero con modo al fai civile,
che lo ricusiate pure,non man.. candovi legittima scusa, mentre ò la vo(tra
complessione non assuefatta à fimili disordini, ò qualche cura riguardevole,
che avrete in quel tempo, queste vi potranno efiinere onestamente da qualunque
taccia d'inciýiltà . 03.15 Sò che vi appagherete di tal distinzione
saviazfatta dalla Prudenza, effendo. voi capaci di riflettere , che dove i Mea
dici ricevono spesso simili correfie fono molto stimati, ed in conseguenza i
loro difetti non sono con tanta attenzione norati da tutti, come l'opposto
segue dove di detta stima si penuria. E certamente l'esperienza hà fatto
vedere, che nel secondo caso, quando li Medici si sono voluti azardare à fimili
cimenti, se ne sono poscia pentiti, ftante che, ò per non essere cosa solita ,
ò mediante la curiosità di vedere in che modo si regolavano coloro, che tanto
biafie mano la crapula, hanno ritrovato iyi molti spettatori de' loro
portamenti, che li hanno posti in qualche suggezio. R 4 [ocr
errors] ne, he', mediante la quale ; se hanno procutato di contenerli
nella sobrietà, hanno. fentito de'motteggiametitizñiehte da effi graditi, e se
hanno disordinato, gli sono giunti all'orecchie certi sussurri della's fervitů
z che diceva : Il buon Medico che biasima tanto li disordini , egli troppo fà
peggio di noi, andiamo à credere cið, ch'egli dice; Se poi taluno di elle fia
restato gabbato dal vinos non hà troVato già chi l'abbia seusato ; conforme
fece Seneca a favore di Catone; impuitato di fimile vizio, dicendo, che non
poteva essere, che un Catone fi ubriacasses mà quando che ciò fosse stato vero,
in un Catone fimile vizio faria passato in virtù . Mà non si sono già
pentiti quelli ; the civilmente ricufarono fimili inviti, mentre fattisi capaci
coloro, che desideravano di vederli crapolare; dalli giusti motivi apportaci
per iscusa, rimasero più tosto edificati, che disgustati da fiinili repulse, ed
in segno di ciò ne diedero in avvenire attestati di maggior ftima: Ne
ро [ocr errors] [ocr errors] potrei di questi efempj riferire alcuni a
mà, per non dilongarmi troppo , ftimo bene di tralasciarli . Sicche, per
vincere la gola , il partito più sicuro sarà di fuga gire l'occasioni pronte di
crapolare con un'onesta ritirata , conforme la Prudene za configlia :
Stabilito che avrete il vostro itato à quel fegno che potrete ; non solo per
decentemente vivere , e mantenere con decoro la voftra casa j mà ancora con la
vostra economia accrescerla commodamente; allora l'ingordigia , e l'infariabia
lità di cumulare vi comincieranno & muover guerra, e quello, che farà più
formidabile con apparenze vantag: giofe v'infidieranno alla vita , mentre vi
Itimoleranno, e vi violenreranno infieme ad accettare tutto ciò che vi si pre
fenterà davanti , e fe quefto non bastera à renervi nottése giorno occupati, vi
ftimoleranno à procurarne de' nuovi fervigj, e certainente non per altro fing,
che per distruggere in breve il vostro inzia dividuo con una eccelliva fatica,
con una 1 250 Dell'Idea del vero Medico. una continua
inquietudine di animo,con una perpetua schiavitudine, credute tutse dal Mondo
pazzo per felicitàe per prosperità di fortuna Cosa dovrete dunque fare
per rimuovere da voi un sì evidente pericolo di vita, che vi sovrasta 2 Vi
converrà certameute prenderci rimedio prima, che questi nemici facciano breccia
nel vostro cuore., e parlamentino con il vo. ftro desiderio, perche altrimenti
con lo fplendore dell'oro li guadagneranno, ed il suo rimedio ficuro farà, che
quando ' non ifta concento di ciò che hà, e vorrà procurare cofe
maggiori, di consigliarvi tosto con la Prudenza, che questa facilmente lo
quieterà con dirvi : Cofa bramate d'avantaggio a non avete, più di quello vi
bisogna rimirate quanti altri, che hanno accor essi egual merito alvoftro, sono
più attempati di voi, e pure non sono così ben proveduti, come voi fiere:
Ditemi, che tempo avete , che vi avanza , quando appena ne resta tanto ,che
basti per lo studio necessario's e pery il bisognevole riposo ? E quale
di questi due tempi vorrete impiegare nelle cure di più, che deside rate
confeguire ? forse il primo ? La Giustizia se'ue sdegnerà per non esser vostro:
Forse il secondo, che è cutro vostro & come potrete vivere s fapendo voi,
che: Quod caret alterna requie durabile non eft. Riflettete attentamente, che
lo le pioggie curte cadessero sopra pochi campi, in vece di ravvivarli, e
rendera li più fécondi , opprimeciano più costo quanto di verde li ricopres e
che la gran Providenza ,che saggiamente opera, dispensa il publico bene à prở
di cucţi; facendo, che il Sole non per pochi, mà bensi per tutti risplenda', c
finalmente che le taluno vorrå soverchiainente cam ricare il suo stomaco, anco
di dolcissimo cibo , gli converrà ben spesso soffrire aspri dolori di ventre.
Risplende molto l'oro, må riflettere ancora , ch'è più' grave di qualunque
altro metallo , onde neceffariamene ammaffarne di molto non si può
G può senza restarvi affatto oppresli id Breve sotto il suo grave peso, o per
la meno perderci la propria libertà; Quindi è, che faggiamente Curio ricusò
da'. Sanniti tutta quella gran quantità di oro, che gl'avevano portato 5
dicendo foro, che esso credeva cosa più gloriosa il poter comandare à chi
molt'oro possedeva , di quello che fosse il possederne di molto ; volendo in
tal guisa farci ca. pire, che non si poteva cumulare oro in: gran copia, e
mantenere la sua libertà. Il mio configlio dunque è, che freniate il vostro
defiderio, acciò non bramjata nè pure una cura d'avantaggio di quel le, che
potrete commodamente reggere, e tanto maggiormente, che quefta voce Cura
appresso li Latini non significa altro, che Briga, è travaglio, ex eo quod cor
edat, dw excruciet, delle quali conviene ayerne folamente tante,quante baftino
à poterle fofferire, e non più , verificandosi in esse più, che in ogn'altra
cosa quel detto: Ne quid nimis . Sentitene però il parere della Giustizia per
res go: [ocr errors] golarvi fino dove vi potrete stendere;
per non incorrere nella caccia d'insa- ziabili. Voi sarete
facilmente rimasti per ora appagati di quanto vi avrà detto
la Prudenza, à segno, che non vi curerete sentire altro
conseglio, con tutto ciò per convenienza almeno sarete
tenuti,aven- dovi ciò la sudetta incaricato, di sentir-
ne il parere della Giustizia , intorno al vostro regolamento, e con
tale occasio- ne vi potrete consigliare ancora sopra un certo
ripiego, che facilmente il vo- ftro desiderio visuggerirà, cioè di
all.com gerirvi de’ servigi antichi per proveder- vi
de' nuovi di maggior vostro profitto, e minor briga, il quale non
lo dovrete porre in esecuzione senza l'approvazio- ne
della Giustizia. Esposto , che avrete a questa fanta virtù ciò, che
bramate sapere, ella cortesemente y'insegnerà ciò, che dovrete fare intorno al
vostro regolamento, che sarà di misurare in primo luogo le vostre forze , &
il tempo, che vi resta libero, [ocr errors] e poi l'impiego , che vi si
presenta, e se rincongrerete le misure proporzionate trà di loro , accettatelo
pure, senz'alcun timore della taccia d'insaziabili; Vi suggerirà però, che
stiate bene oculati in prenderne le dette misure à suo dovere, affinchè non
reftiate ingaonati, perche . altrimentiaffatto infructuofo riusciria il fuo
configlio,ed acciocchè non segua un tale errore, vi darà lei medefima dug meze
canne, una delle quali la troverete molto scarfa, e l'altra affai vantaggiosa;
con la prima yi ordinerà, che miluriate le voitre forze, & il tempo, che vi
ayanza ; con la feconda l'impiego, che vi li presenta, e prendendo voi le
misure in questa guisa yi assicura la Giustizia , che non potrete errare. Doye
che facendoli da voi diversamente, tutte le altre meze canne , che adoprerete
ve le porgerà il yostro desiderio fatte à suo modo, e saranno tutte yantaggiose
di molto quelle, con le quali misurerete le vostre forze, & il tempo, e
scarsiffime quelle, delle quali yi servirete per misurare l'occasio
ni, [ocr errors][ocr errors] ni , e questa è la cagione de? sbagli, che
fi prendono contro il volere della Giuftizia , c per due capi, (primieramente,
perche chi misura in cal guisa erra per abbreviare la lunghezza di fuá vita ,
divenendo omicida di fe medesimo, sì ancora per il danno,chie nc poffono
riceveré alcunische ad ore affai incongrue, ed à mente stracca gli cocca per
fimilisbagli essere curati. In glçre vi dirà apertamente, che non dovrere
in conto alcuno disfarvi delli servigi antichi per prenderne de' nuovi in fua
veće, perche non avete alcuna giusta cagione di farlo , anziche facendolo,
mostrereite una somma ingratitudine in abbandonare chi in temро de'
vostri bisogni vi fù grato , e chi vi favori ne' vostri avanzamenti, non con
altro motivo, che de' yostri maggiori vantaggi ; se poielli, senza alcuna
vostra colpa, fi alienaffero da voi , in questo solo caso, perche volenti nan
fit injuria, lo potreste fare senz'alcuna taccia d'ingratitudine; e së esercitaste
la Me256 Dell?idea del vero Medica, Medicina in certi luoghi lontani,
dove alcuni li prevalgono di un Medico fino à tanto, che lo vedono incominciare
à far negozj, ed allora se ne disfanno per prenderne à proteggere un altro :
İyi basterebbe pazientare un poco, che vi li presenterebbe l'occasione di
poter: lo fare, mà dove ciò non li costuma vị convien’essere grati, e costanti,
fische sarete capaci di medicare, Con tutto che resterere per qualche
tempo appagati di quanto vi hanno consigliato la Prudenza, e la Giustizia
perche il vostro desiderio yerrà conținuamente bersagliato daļli sudettį ab.
bominevoli vizj, sarà necessario, chcimploriate l'affiftenza della Fortezza , e
Temperanza , acciò perseveriare sempre Itabili nell'offervanza di detto
consiglio, & il maggior bene, che dette virtù vi potranno apportare, sarà
d'infinuaryi diverse istorie di coloro, che per essere Itati insaziabili, nel
colmo delle loro credute prosperità sono mancati, eche infelice memoria di esia
ne fią rimasta trà noi [ocr errors] و [ocr errors] noi,
mentre chi ha lasciato la sua fameglia appena slattata , senza indirizzo, a
senza guida, chi intricata la sua eredità , per non aver avuto tempo in vita di
ben'impiegare li suoi avanzi; chi, doppa fofferta una lunghissina, e
dispendiosa infermità, acquistata per li suoi grans Strapazzi , appena hà
lasciato tanco, che bastasse al suo funerale; e finalmente cosa sia stato detto
di tutti doppo morti, cioè, che non'ınericavano d'essere compatiti, perche
erano morti per colpa loro, avendo voluto abbracciare troppo, e più di quello,
che potevano reggere, çon tutto quello, che la maledicenzą gradita, e senza
timore alcuno så inventare di peggio contro i poveri des fonti, Impresli,
che avrete sì spaventosi esempj nelle vostre menti, con la riferfione, che il
simile seguirebbe in voi, fc cadefte in tali errori, non temeţe più , che
il vostro disiderio possa essere superato da simili vizj , perche questi gļi
serviranno di un gran freno , R Nelle Nelle vostre maggiori prosperită
l'Adulazione ancora vi farà doppia guerra la prima confifterà in ispargere di
voi più lodi di quelle , che meriterete, per risvegliarvi contro l'Invidia ,
quando fi foile mai adormentata, mà trovandovi già premuniti de' buoni
avvertimenti dativi dalla Prudenza, non vi potrà punto nuocere in questo primo
asfalto, e se uniręcę alla fofferenza una profonda , e fincera umiltà,
supererete l'Adulazione, el'Invidia nel medesimo tempo, Màvedendofi da voi la
maliziosa Adulazione fchernita , adoprerà tutte le sue frodi per violentarvi ad
essere suoi seguaci , e per farvi divenire per forza Adulatori, come farà mai ?
Sentite bene; Pren. derà l'occasione di qualche cura grave, nella quale
intervengano molti parenti, & amici dell'Infermo, e vi farà da
queiti porre in angustie di diventare Adulatore per forza, per li
seguenti impulsi : Vi dirà taluna di esli , questo male si aggrava, perche non
gli fate applicare quattro vefficatorja se ne morirà senza questo
[ocr errors][ocr errors][merged small][merged small] questo rimedio, e la colpa
farà tutta yostra, che trascurate un rimedio sì efficace. Un'altro vi dirà:
perche non gli date una buona Medicina da tirare giù ? lo volete lasciar morire
senz'ajuto? ayver, cite, se muore , fentirere, che si dirà di voi, à me basta
di avervelo avvisato. Vi sarà ancora trà essi chị vi ayyertirà, che se gli
cavate sangue morirà certamente, perche non gli conviene; e d'avantaggio vi
dirà , che se lo cayerere lo amazerete, e derro male farà per appunto
un'infiammagione interna , nella quale non conviene ciò, che viene proposto , e
gli sarà necessario quanto viene ritardato. Vedete in chę angustie , in che
laberinţi vi troverefte, se non aveste la Prudenza configliera ? Imitercste
senza dubbio, ò quel Medico, à cui un tempo fà , fù suggerito da un'amico dell'Infermo
, in un caso simile , un certo riinędio, dicendo, che lo proponeva , perche cra
esso ancora mezo Medico ; A cui alquanto alterato gli rispose: & io son
tutto Medico , conviene dunque, che la mecà ce [ocr errors][ocr
errors][merged small] fi: 28 公
1 da al tutto; Io, che sono tutto, non voglio che si dia , non si deve
dunque dare; O pure quell'altro, che ritrovan. dosi in un fimile intrigo»,
doppo aver dette le sue ragioni , senza profitto, rifpose : Giacchè loro
Signori ne fanno più di me, facciano loro la cura , e se ne andiede via, mà ciò
non lodandolo la Prudenza, sentirete dunque da lei , in che forma vi dovrere
regolare. Sentendo riferire da voi questo fatto la Prudenza disapproverà
molta, che chi non è Professore, ardisca così francamente di proporre, ed
escludere quelli rimedj, che in mali sì gravi danno molto da pensare alli
medesimi Professori provetti, e che pongano à cimento li onorati, con modi si
violenti, di diventare Adulatori, e facilmente in tal guisa vi consiglierà:
Dite le vostre ragioni à chi bisogna, con animo composto, e questi, ò fi
appagheranno di quelle , ò nò, se ne resteranno fodisfatti, rimarrà già
terminata la controversia , e potrete fare liberamente à voftro modo, se poi
persisterahtio ancora ostinati nella loro opis nione , allora suggerite, che
tratrandosi di un male sì grave con tante controverfie, desiderate nella cura
di avere altri Professori compagni per meglio risolve. re ciò, che si debba
fare ó e procurate, che con sollecitudine ciò segua y acciòcchè la lunga
dilazione non pregiudichi all'Ammalato, e che ne consulti siano presenti
coloro, che fuscitorno le controversie , affinche sentano con quante
circospezioni sono serviti gl'Infermi, ed ancora se avranno qualche cosa di più
la poffano dedurre à tutti. Facendo voi à modo della Prudens za, non
dovete avere più timore di prevaricare, perche la Fortezza vi assisterà, c
consolerà insieme , l'assistenza sarà di non farvi prendere in questi casi
certi : dannosi ripieghi, che sariano , in vece de' vefficanti d'applicare li
senapismis di un purgante , dare un leniente, ed in tanto d'andare differendo
la sanguigna , facendovi conoscere, che l'operare in questo modo non è da
Medico, mà bensi [ocr errors] 9 [ocr errors] da Adulatore, e che
quancunque questi tali nelli funesti eventi fieno dall’Adulazione tenuti
indocenti, e difefissorio però dalla Giustizia creduti rei di gran colpa s con
tutti quelli, che ne diedero l'occasione, e vi confolerå parimente la Fortezza
con dirvi: Si poffono chiamare tempi felici nella Medicina li presenti, non
vedendoli ora l'Adulazione premiata à quel segno, che era ne' tempi di Galeno,
nè la lincerità così vilipesa; Allora trionfavano li Medici Adulatori, erano
ricchi, e potenti gerano stimati , e riveriti, ogn’uno facęya à gara di fayòrirli,
eli onorati, sinceri, e docti se ne stavano abbandonati, derisi, evilipeli, e
se non fosse stata la mia grand'alistenza,che prestavo loro , nè pure úgo ne
sarebbe rimasto di efli, anzi Galeno isterlo, che non avesse prevaricato per
quanto venivano violentati dall'Adulazione :' So, che presterete fede à quanto
vi dico, mà volendovene accertar meglio di quanto fuccedeva in quei cempi
leggere ciò , che Galeno riferisce nel primo del suo [ocr errors]
me. [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr
errors][ocr errors] metodo, che appunto è questo: Eoque jure fit cum ægrotare
cçperint Medicos advocent , non quidem optimos į utpotè quos per Sanitatem
noscere nunquam ftuduerunt , fed eosy quos maxime familiares habent ; quique
ipfis maximè adulentur , qui du frigidam dabünt; si banc popofcerint, lavabunt
cùm juferint; a nivem; vinum= que porrigent poftremò quidquid jubebitur
mancipiorum ritu facient &c. itaque non qui meliùs arten callet ; fed qui
adulari aptiùs novit apud iftos magis in pretio eft , buic omnia plana's
perviaque funt , huic ædium fores patent ; hic brevi efficitur dives,
plurimùmque poteft &c. Quali violenze oggidì sono cessate , mercèche hanno
imparato molti à proprie spese à non commertere più la loro vita in mano
degl'infidi Adulatori, e perciò essendo mancati per loro l'impieghi, e li gran
guadagni, che in breve facevano,è mancato ancora quel grand'impulso, che vi era
à dover effere Adulatori per essere adoperati, e tutto questo mi costa
per essere io la Fortezza, che affifto à quei ز e. lig a fe ne be
he ni dy 112 to 5, 10 generofi spiriti,che abborriscono l'Adulazione ,
& abbandono quei vili, che se le danno in preda Se poi non bastasse
all'Adulazione d'avervi fatto violentare da parenti, ed amici, mà volesse ancora
farvi forzare dall'Infermo isteffo à divenire suoi fem; guaci , in questo caso,
fatte che avete le diligenze propostevi dalla Prudenza; e. che mediante quelle
egli non resti appagato, la Giustizia non vi violenterà già à continuare il
servigio, vi forzerà bensì à non divenire Adulatore , onde in questo caso, con
tutta civiltàs procurerete ( quando l'Infermo' non deliri) di consegnare ad
altri ciò, che non fà per la vostra riputazione ; ben’è vero, che questi sono
casi rarissimi avendo molte altre cose da penfare l'aggravato Infermo, che di
voler'essere adulato, con tut per farvivedere, che ve ne sia stato
qualcheduvo, che abbia desiderato di cllcre adulato fino alla morte, viriferirò
la presente istoria : Una persona di qualità cospicua, molti anni sono,
dovendosi pro to ciò [ocr errors] [ocr errors] provedere di
Medico; ne scelse uno tutto di suo genio, ed avendolo participato al suo amico
di confidenza ; questi in vece di rallegrarsene seco se ne condolse, dicendogli
apertamente, che poteva fare meglior'elezione , essendovene tanti più esperti
del già eletto 3 replicò à questo: Lolo-sò beniffimo, mà hò voluto pren derne
uno, che faccia à mio modo ancora quando mi trovo ammalato, perche io non poffo
Coffrire quel Medico, che allora mi voglia forzare à fare à suo modo, gli
rispose saviamente l'amico : Signore, chi fà à suo modo quando ft benes:
conviene , che faccia à modo del Medico quando ftà male, non poffo lodare la
sua elezione, con tutto che sia di suo genio, perche si tratta di Medico, à cui
si consegna la propria vita, non già di un servidore di mera comparsa ; che
poco importa di che abilità egli sia, mà non paffarono molti anni, che detto
Signore cadde inferino di lunga , e fiftidiosa malacia, che terminò finalmente,
per essere vissuto à suo inodo in un'ascelfo interno, espurgava della marcia
per feceffo , la vidde l'isteffo Infermo, che diffe, non farà marcii , må bensì
il pangrattato, che hò preso questa mattina lo domandò al suo Medico, che gli
rispose per dargli gufto, quello appunto & Signore, e con quel pangrattato
se ne mori, adulato sempre fino al fine della fua vita. L'Iniquità, e
l'Inganno confederati , nôn porerido più Toffrire, che voi godiare quella bella
tranquillità interna per cagione delle vostre virtù, vorranno ancora effi con
le loro frodi adoperare ogni sforzo possibile per turbarla ; ed in fare ciò vi
toccheranno facilmente nel più vivo, inolestandovi in qualche cosa di vostra
somma premura , e doppo di aver consultato trå fe più danni,risolve, ranno alla
fine di farvi perdere il servigio di quelli, che vi sono più á cuore, € tanto
si adopereranno,e con tanti mezi s'ingegneranno, che finalmente gli riufcirà
ciò, che bramavano i onde voi, senza faperne il perche , e senza averne
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alcuna occafione , essendosi con in? sidie segrete proceduto , all'improviso vi
troverete esclusi da quel servigio da voi tanto prediletto. E che farete
allora? vi dolerete forse con la Giustizia ; che siete stati licenziati à torto
? Avvertite , che facendo in tal guisa imitereste Santippa, che si doleva della
morte di suo marito , perche si faceva morire å torto, à cui il sapience
Socrate rispose : E che desideravi forse, che io foli fatto morire à ragione ?
questa appunto è la mia gloria, che sono fatto inorire à torto. Sicchè alla
Giustizia non vi cooviene ricorrere, må berisi dapoi che fi sarà alquanto
calmato quel senso, che neceffariamente vi avrà apportato una nuova ingrata, ed
improvisa, dovrete ricorrere alla Pradenza per riceverne il suo configlio à
fine di poter più spedicamente restituire all'animo vostro quella bella calma,
che dall’Iniquicà, e dall'Inganno gli era stata rubata : La Prudenza
senrendo da voi tal novità vi consolerà certamente, ftate al [ocr
errors][merged small][ocr errors] allegri, dicendovi , che questa è una's
grazia, che vi fà la Divina Providenza, facendovi capire , che vi dovete
alquana: to staccare da ciò, che nel mondo vi è più caro , per confidare
solamente in lei, che non mai hà abbandonato chi fedelmente la serve. E di che
vi dolete? forse perche perduto avete un servigio à voi caro ve ne restano pure
tanti altri? com- .. partite tra questi il vostro affetto, che così non avrete
fatta perdita alcuna potendone del vostro amore ricevere da molti maggior
ricompensa di prima, ò pure (che sarà meglio ) questo vostro amore non gradito
dagl'uomini accrefcetelo à Dio, che vi recherà molto maggior profitto di quello
, che vi rendeva prima. E se veramente amate di cuore quella casa, che avete
perduta g non vi dovete contristare della perdita vostra , mà bensi della sua ,
avendo lasciato voi, ch'eravate già istrutti da tanto tempo nelle complessioni,
e mali di chi ivi conviveva per prenderne uno affatto novizio , che prima , che
ne qa divenuto 1 capace à quel segno, che voi siete, vi vuole del
tempo affai, & in tanto come anderà? e poi se questo nuovo eletto fù
complice ancor'egli nelli segreti trattati dell’Iniquità, e dell'Inganno , che
bell. acquisto , che averà fatto, prendendo uno di simili costumi in vostra
vece , che fiete uomini di onore, talche non voi, mà chi vi lasciò hà occasione
d'afAliggersi, perche danno à se stesso feçe, non à voi, che per essere esenti
da questa briga ne ricevere sollievo ; chi è pari. mente entrato in luogo
vostro , se pur? egli è complice, come disfi , ayrà molta occasione da
contristarsi per la finderesi, che gli resta di non avere operato come dovea, e
per il timore, che un giorno il fimile possa succedere à lui ancora.Quietatevi
dunque , giacchè rammarico alcuno non vi resta d'averli mal serviti, con questa
ferma fiducia, che in quel sito ( come tante volte è accaduto ) da dove la
malvagità, e l'inganno hanno tolto à viva forza un virgulto , la Giustizia vi
pianterà un vago, e glorioso lauro con [ocr errors] con questo motţo
;Ųno avulo splendidior non deficit alter; molto di più vi potrei dire, se non
lo riputaffe superfluo, poiche gl’animi vostri ben moriggeräti con pochi motivi
si sodisfano, e li calma. no, allorche vengono da accidenti im. provisi
turbati, Udifte come vi consolo bene la Prudenza, e con che fortį motivi
, li quali fe li cerrețę impressi nelļe vostre menti, quantunque vi giungano
simili accidenti in avvenire, punto non vịcontristeranno, avendo questi forza
di disporre gl'animi vostri à foffrirli coftantemente, ed in conseguenza di
fare, che li sudetti vizj delle loro iniquità non trionfino. L'Ambizione
yorrà ancor'effa nell' auge delle vostre fortune tentare, fe potesse fare
con yoi quaļche acquisto; s'ingegnerà di porvi nella mente idee grandiofe ,
viftimolerà à molte imprese, con pretesto di rendervi a' pofteri gloriofi : Per
esempio , fe y'insinuerà di comporre qualche vago sistema di Medicina, qualche
nuoyo metodo di medicare , à qualche altra cosa non pensata , nè tencat fin'ora
da altri, e voi ricorrere subbita. mente alla Prudenza per consiglio, e vedrete
come v'indirizzerà bene ; intorno à nuovi sistemi, e metodi di medicare vi farà
questo dilemma: O ve ne sono trà gl’inventari de' veri,ò nò; Se ye ne sono,
perche non li seguitate? che cosa yolete cercare di megliore della. verità? Se
poi non vi è cosa ancora accertata in quelli, avendoyi per tanti secoli
frayagliato una infinità d'uomini dotti, cosa yi persuaderete di fare di
vantaggio ? non vi avvedete , che indarno faticherefte ancor voi, senza speranza
alcuna di gloria, e se pure la conseguiste saria per pochi momenti; Il sistema,
ed il metodo corrispondono al tutco, e quando questo non regge , e non
suflifte, è se. gno evidente, che le fuc parci costitutive fono difertose;
Impiegate dunque ogni voftra fatica in accertare , e rendere palese qualche
parte di esli, che vi avvedrere, che sia oscura, ò che manchi, la quale benchc
minima , nulladimeno una gran gloria vi apporterà, allorche l'averete
accertata, e rinvenuta , e lascierete tali imprese grandi a' pofteri , che fi
renderanno più facili a'medesimi, ale lorchè acquistate, saranno maggiori
notizie delle loro parti costitutive,di quel, le ve ne fieno al presente; E per
non effere creduți imprudenti scegliere di queste le necessarie , come avvertì
Cicerone, (a) dicendo : Alterum eft vitium, quòd quidàm nimis magnum
gran ) ftudium , multamque operam in res abfcuras , atque
diffaciles conferunt , eafdemquè non necesarias; e quelle ancora, che sieno
proporzionate alle vostre forze, come insegnò Orazio :(b) Sumite materiam
vestrisqui firibitis aquam. Viribus , & verfate diù quid
ferrere cufent Quid valeant humeri. E
perciò vi consiglierà la Prudenza d'impiegarvi in yostra gioventù intorno į a'
ritrovamenti Anatomici , Chimici, of[a] Primo de Officiis. (b] De Arte
Poetica. osservazioni Mediche e d'altre cose utili, che
richiedono ayvedutezza di mente, buona vista , afsiduità , pazien-
za, e sanità, e questi accertati, che sono incontrovertibili, rimangono
per fem- pre, e vi dissuaderà in detta età di dare alla luce
trattati di nuovi modi di inedi. carc,essendo allora appunto come i
frut- ti fuori di stagione, che non hanno tutta la loro
sostanza, dovendosi ciò maturare nell'età avvanzata, e colma
d'esperienze pratiche , dal che si può dedurre la ca-- gione,
perche talvolta ne’libri,che trat- tano di pratica , alcune cose, che vi
fi ritrovano non si verificano punto, e ciò proviene , perche
furono descritte da Medici , che non avevano ancora tutta
l'esperienza necessaria per meglio accer- tarle. Vedendo
questo vizio di non avere { potuto nella vostra persona fare alcun
guadagno, vorrà far prova, se per l'amore, che portate à qualche vostro
figliuolo vi potesse far prevaricare, e vi anderà suggerendo à poco a poco, che
avendo S voi [ocr errors][ocr errors] voi de' buoni
Protettori, gli procuriate, mediante il loro ajuto, qualche titolo nobile ,
qualche carica onorifica superiore alla vostra condizione per inalzarlo, e
dargli insieme attestato del vostro amore, e benche questo non cada nella
persona vostra direttamente, con tutto ciò, venendo procụrato da voi, tanto
sarete tenuti consigliarvege con la Prudenza, anzi con la Giustizią-ancora , e
consigliandovi con queste virtù vi diranno concordemente, che il maggior benc,
che voi potrete fare a' vostri figliuo, li sarà, il procurare con ogni maggiore
judustria , che divengano capaci , e meriteyoli di dette cariche, di detti
titoli, che così, con poco ajuto de' vostri Protettori, potranno à suo tempo
conseguire ciò, che sapranno desiderarc, e gloriosamente, venendo loro ciò
conferito à cagione del proprio mcrito, ed operando voi in tal guisa ,
l'Ambizione nonpotrà trionfare di voi; trionferebbe bensì, quando che voi
usaste violenze in procurar cose, delle quali non ne fossero [ocr errors]
me [ocr errors] meritevoli, nel qual caso ancora quanto farete loro
ottenere sarà per l'appunto consimile à quel titolo nobile, e speciofo, che si
legge nel frontispizio di qualche libro, à'cui la materia rozzamente, senza
dottrina in esso trattata non gli corrisponde, che in vece ne formi concetto di
esso chi lo legge, e considera, lo muoye più tolto al risos e perciò resta in
un cantone derelitto, senza che alcuno più lo consideri, L'Avarizia con
duplicato pretesto di zelo vi assalirà ancor'effa, ftantechę se non avrete
figliuoli, ò nipoti y’infinuerà, che facciate degl'avanzi più che potrete, à
fine di stabilire qualche degna, e grandiosa memoria di voi à prò de' posteri;
fe poi gli averete, li facciate ancora per lasciarli più commodi, ed in questo
frete bene circospecti, poichè Fallit enim vitium fpecie virtutis ,
du umbra; Onde appena, che in voi fentirete certi impulli, certi stimoli
infolici di cumulaà tali effetei, consigliatevi con 13 S2 PruePrudenza, e
con la Giustizia, le quali vi faranno capire ciò, che dovrete fare , c vi
diranno facilmente intorno alla memoria grandiosa, che meditate di
lasciasciare, essere meglio, che la lasciare ale quanto meno magnifica, e senza
alcuno ajuto dell'Avarizia, che grandiosa con viziosi avanzi, perche tutto quel
di più, che mediante il vizio l'accrescerete, in vece di apportarvi gloria , vi
recherà ignominia , e che rispetto al cumulare di vantaggio per li figliuoli, e
nipoti non lo facciate, perche quello lascierete loro di più,acquistato con
Avarizia consumerà ciò, che avrete onestamente acquiftato, in oltre che voi
siete tenuri di lasciar loro tanto, che li bafti à potersi avyanzare ancor'essi
nelle virtù, stante che : Haud facilè emergunt quorum vir
tutibus obftat Res angufta domi . : E v'infinueranno d'avantaggio, che
Ippocrate v'insegnò' chiaramente à tal proposito ciò, che dovete fare,
dicen dovi [ocr errors] [ocr errors][merged small] dovi: (a) Neque
verò exigende mercedis cupiditate duci oportet , nisi ut ad artem
edifcendam tuos instruas; E che quando gli averete duplicato, ò
triplicato ciò, che fù lasciato à voi, e vi bastò per di- venire
virtuosi, sarete giudicari da tutti per buoni Padri di fameglia, e che
av- vertiate bene, che certe ricchezze, che superano la propria condizione,
e per altro non bastano à mantenersi in altra sfera superiore ,
sono pericolosissime, perche à cui fi lasciano , volendosi trat-
tare quefti d'avantaggio di quello, che compete loro, preftamente le
dißiperan- no, conforme l'esperienza quotidiana lo dimostra
ben? fpeffo , per non volere questi tali ad altro impiego applicare
, che à quello dello dispendioso diverti- mento, non
servendo ftrertiffimi Fide- commiffi , nè altri legami inventati
per impedirlo; ftanteche nella medesimais conformità,
che da'viventi si passeggia sopra li sepolcri de’defonti, cosi
ancora per l'appunto si passa sopra le loro vo- [ocr
errors][ocr errors] lon(a) De pracept. S 3. 278 Dell'Idea del vero
Medico. lontà, e che quello, à cui dovrete invia gilare più d'ogn'altra cosa
farà, di lasciarli virtuosi, ben’educati, e con buoni avviamenti, che allora ,
quantunque li lascierete con mediocri commodi, da se medesimi potranno divenire
ricchi, e con questo vantaggio maggiore , che quelle ricchezze, che da se
medesimi fi accumuleranno , non già le disliperan10 , conforme bene speffo in
quelle , che si ereditano succede. Ponderate bene questi consigli, e
servitevene, se volete in tutto abbattere l'Avarizia. Incominciando voi à
porre il piede nella vecchiaja , à cui conviene di cedere, ve ne avvedrete
facilmente, quando che non potrete con quella facilità di prima reggere le
voftre solite occupazioni , ed allora cosa farete? Non altro certamente che di
consigliarvi con tutte le virtù, che v'indirizzinó per qual via dovrete
caminare acciocchè voi , li quali sarete utili alla Republica per la lunga
esperienza, che avrere, possiate più lungamente giovarle. La [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] La Prudenza, come Maestra di tutte le altre
virtù vi dirà, che non è convenevole d'abbandonare tutti quei fervigj di
coloro, che da voi per lungo tempo ne hanno ricavato del profitto nella loro
salute , ed anco lo sperano in avvenire, per la fiducia , che hanno in voi,
efsendo in istato ancora di potere ben'oprare , nè tampoco parte di elli ,
perche faria molto odiofa una tale vom ftra parziale risoluzione ; onde voi non
potendo disfarvene, per non sentire ilamenti dei vostri clienti, vi converrà
perfare di andare sostituendo qualcheduno, che vi poffa alleggerire almeno la
fati ed acciò abbiate facilità in eleggerlo, vi apporterà le trè malime
sostituzioni , che il mondo tutto rimirò nel primo secolo della commune falurcs
cioè : La prima, che fù fatta da Augusto in persona di Tiberio ; La seconda da
Galba in quella di Pilona ; e la terza da Cocceo Nerva in quella di Trajano; ed
in tal guisa facilmente v'istruirà , dicendovi : Nella prima Augusto ebbe
una $4 pelli [ocr errors] pessima intenzione,inentre scelse
un soggetto di reprobi costumi; un Tiberio ben noto per la sua iniquità, ed al
sostituente più di ogn'altro, stanteche: (6) Comparatione deterrimâ fibi
gloriam quafavisse . Nella seconda vi fù ottimo fine, perche fù eletto un
meritevole, solamente si mancò ne i mezi , e di questo ne fù cagione l'avarizia
di Galba, giacchè:(c) Confit at potuiffe conciliare animos, quantulacunque
parci jenis liberalitate, c perciò ebbe l'esito infelices Nella terza
finalmente tutti li requisiti furono ottimi, non vi fù punto di vizioso sì nel
principio, che ne i mezi, e fine , e perciò fù gloriofiflima. Queste , benche
fie00 state sostituzioni maflime, nulladime‘no possono servire di norina ancora
nelle picciole, mentre dalla prima ne ricaverete, che vi sarà che vi sarà
poco bene accostumato; chi farà vizioso non meriterà di essere da yoi eletto ;
Dalla seconda ne dedurrete, che chi elegge deve stare lontano dall'avarizia, e
non esser punto do[b) Tasit. Annal lib. 1. [] Tacit.
Hia.Jib.1. redominato da questo vizio, se brama, che tutto vada
felicemente ; Sicché la terza, in cui concorrono tutte le buone condizioni farà
quella , che si dovrà imitare da voi per fare una degna elezione,mentre non fù
già eletto da Cocceo Nerva Trajano per cagione di parentela , nè di {moderato
amore, che gli portasse , mà bensì per il suo merito, e per la bontà de' suoi
costumi, e non ebbe già per fine principale di gratificare l'eletto, mà
solamente coloro , che doveano effergli. fudditi, e perciò riuscì un'ottimo
Imperatore, e felicissimi tempi furono chiamati quelli del suo Impero. Non
intendo già per questo di consigliarvi d'abbandonare li parenti, gl'amici, e
quelli, che più d'ogn'altro ainate, perche ciò non saria ragionevole, anzi vi
dico, che fiere tenuti à preferirgli ad ogn'altro eguale, ed anco qualche poco
superiore à loro, conforme vi ordinerà la Giustizia isteffa , vi avverto
solamente, che non vi serviate della parentela, dell'amicizia, e dell'amore per
inicroscopio, acciò ز [ocr errors] vingrandischino di molto il
soggetto, che prendete di mira per sostituirlo, altrimenti v'ingannerete , e
chi lo mirerà fenza questi microscopj se ne avvederà molto benes conforine
capirete anco voi istelli rimirandoli fpassionatamente ins fimile forma : E' ud
verso affai trito; mà però che cade molto al proposito quello, che dice:
Quifquis amat ranam, ranam putat effe Dianam; E la cagione fiè, perche
l'amore non solamente så ingrandire il merito , mà ancora så ricoprire li
difetti degl'oggetti amati. Se farere dunque voi la vostra elezione con
rimirare li soggetti calig quali realmente sono 1109 alterati, per quali vi
pofsono parere, non solamente sarà questa gradita , e profitcevole, mi eziandio
riuscirà per voi gloriosa , conforme seguì à Cocceo Nerva, à cui la maggior
gloria , che gli fia rimasta trà tante altre è quella ; di aver'egli saputo eleggere
un Trajano per fuo successore all'Impero , e solo da questi ogn'uno [ocr
errors] ora comprende à qual segno giugnesfero la sua prudenza , il suo
giudizio, e la sua integrità, ed essendo questi documenti della Prudenza per
appunco coerenti à ciò, che Ippocrate c'insegna, cioè :(d) At verò imperitis
nunquam quidquàm procurandum committes. Sin minùs ejus, quod malefactum eft
vituperium in te recidet &c. non potrete da esli punto discoItarvi.
Palliamo ora all'incunbenza, che dovrà avere questo vostro sostituto, il quale
essendo da voi scelto di buoni cos stumi, e dotto, caminerà in curto fecon: do
la vostra direzione, onde profitcevole in conseguenza sarà , à cui l'avrete
proposto, perche ne riceverà da esso un servigio alliduo, animato dal vostro
prático configlio, e di questo ve ne prevalerete da principio ne'casi più
leggieri, per poi, fecondo che v’andrete inoltrando negl'anni, avanzarlo
ne'.gravi, con questo però, che abbiate l'occhio arrento al servigio, con
visitare ancor voi di quando in quando gl'Infermi, per diriga gerli meglio con
li vostri più accertati consigli , e facendo voi in questo modo non solamente
non avranno fcapitato punto li voftri Infermi, anzi che più toito acquistato ,
restando loro tutto il voAro consiglio come prima con l'afiftenza maggiore del
giovine sustituito, che da voi , mediante le vostre occupazioni, non lo
potevano esiggere, e precisamente nelle ore più fastidiose, e tutto questo
benefizio sapete perche lo riceveranno, ftanreche il sostituto fù scelto da
voi, e da voi non preso à caso, mà bensì capato trà li buoni per il migliore,
dove che se fosse stato preso per via di raccomandazioni, e senza la vostra
dependenza , non caminerebbero le cose così felicemente, poiche sdegneria tal
da voi independente sostituto caminare con le yostre direzioni, volendo
far'egli à suo modo, e non saria picciolo favore,quando ve lo facesse, in caso
di qualche controversia , di non ispargere da , che voi siete vecchi
rimbambiti, e che quan; [d] De dec.orn. non [ocr errors] non
fiete più capaci di medicáre, per iscreditarvi con fimili menzogne, e da ciò
qual vantaggio se ne riporteria à prò degl'Infermi, se non che una confusione,
una inquietudine continuata , ponendosi in dubbio talvolta à chi de* due fi
dovesse prestar maggior fede, se al giovane petulante, e scostumato,ò al
vecchio, benche ingiustamente vilipeso; Con ragione dunquc Ippocrate inveisce
contro costoro, che per vie indiretre si avanzano, dicendo: (e) Quàm repentè
evecti fint, fortunæ tamèn ægentes per divites quofdam ex anguftiis emergunt
utrique exi eventu nominis , celebritatem adepti, & in pejus ruentes luxu
diffluunt , quæ in arte nulli rationi reddende sunt obnoxia negligunt ac.
In questo proposito il Disinganno, che hà il cuore sincero vi scoprirà un'altro
pregiudizio delli massimi , che corrono trà alcuni , che non sono nella
professione versati, quali credono per cosa utile nelle cure le controversie,
edissenzioni trà Medici, e dicono, che essendo trà essi discordi, si scopra
allora meglio la verità, confondendoli da quefti tali ciò, ch'è disputa
virtuofa , utile anzichè neceffaria , dalla diffenzionc, e discordia superflua,
e viziosa, nata dal mal costume . Il Disinganno vi scoprirà il tutto, e vi
dirà: la disputa neceffaria è quella, che risulta da qualche indicazione dubbiofa
per meglio discernerla, e questa trà Professori esperti, e di buoni costumi
termina prestamente ; perche seguitandofi da elli solamente il configlio
megliore, in un subito si accertano, le quali ragioni , e quali motivi
prevalgono, se gl’affermativi, ò pure li contrarj, ed à megliori concordemente
si appigliano ; Dovechè la diffenzione, e difcordia , che proviene dal mal
costume, che per lo più viene fomentata da puntigli, e germoglia da picciole
occasioni, non solamente è molto dannofa , inà perche si yà al cattivo, non mai
viene affatto terminata,stanreche in simili contenzioni = Qui velit ingenio
cedere nullus eriti [ocr errors] erit ; ela cagione di ciò n'è,
perche tutto proviene dalle volontà discordi,che non amano di unirsi assieme, nel
qual caso lę ragioni più valide, li motivi più evidenti, ò non appagano, ò non
si vogliono capire, à segno , che alla fine annojarifi del troppo altercare, in
vece della decifione letteraria fi passa qualche volta all' obbrobriosi
improperj, senza ricavarne altro profiețo, che : Şeipfos ludibrio exponere ,
come insegnò Ippocrate , (f) € questo è per appunto quell'ideato bene', che à
prò degl'Infermi se ne riportą da fimili contese, sicchè non v'è altra strada,
che quella della concordia, à cus uniteci il consiglio già propostovi dalla
Prudenza, & approvato dalle altre virtù entrando voi nella vecchiaja, se
bramate con vantaggio,e profitto de' vostri Infermi alleggerirvi dalle fatiche,
nel qual caso trovădoyi aggravati dall'ostinata Discordia , la Giustizia non vi
obligherà à paziétare di vataggio,mà farete, che ogn’uno si serva pure à suo
piacere , (6) Lib. de Praçept. [ocr errors] Inoltrati, che poi
sarete nella vecchiaja , che ve ne avvedrere pur troppo, se non vi vorrete
lusingare, dalla notabile mutazione, che proverete in voi da quello ,
ch'eravate una volta, poiche le forze del vostro corpo languiranno, il vostro
perspicace ingegno, la vostra. gran memoria, la vivacità del vostro fpirito, il
discorso così spedito non si scorgeranno più quelli, che già furono, rincontrandoli
ogn'uno molto mutati. In tale stato inevitabbile, cosa vi converrà fare? Non
altro certamente, che d'imitare quei celebri Pittori, che per non perdere quel
glorioso nome, che per lo passato aveano acquistato, allorche si avvedono, che
i loro pennelli non sono più à dovere regolati dalla tremolante mano li
sospendono per trofei delle loro opere già fatte, e terminano in questa guisa
gloriosamente il loro mestiere. Seneca assomigliò faggiamente la
vecchiaja alla nave, che comincia per la sua antichità à scomporsi,
dicendo: Quem 12 [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] Quemadmodùm in Have, que sentinam trabit uni rime , aut alteri
obfiftitur : Ubi plurimis locis laxari cæperit , q cedere,
fuccurri'non poteft navigio dehiscenti : Ità in fenili corpore
aliquatenùs imbecillitas fuftineri , c fulciri poteft, ubi tamquàm
in putri ædificio omnis junctura dilabitur , Odùm alia excipitur ,
alia difcinditur cir- cumspiciendum eft quomodò exeas . E po- tendo
egualmente la detta nave, che il vecchio, pericolare nel suo
consueto viaggio, converrà dunque ad ambedue prendere il sicuro
porto per prolungare più, che sia poflibile il suo essere. Mà
questo distaccamento vi parerà il più duro, il più difficile di qualunque altra
cosa, che averete emendata in voi sino à quel tempo; sì perche quest'impotenza
insensibilmente se ne verrà ayanzando, onde in un subbito non ve ne potrete
avvedere, e forse non prima di allora , che voi sarete renduti affatto inabili
per la repugnanza grande , che hà Pumana natura à dichiararsi inabile, come
ancora, perche non godendo più T quel е quella bella
perspicacia di mente, quella pronta risolutezza di prima, non saprete così
bene, come una volta, scegliere, e prontamente eseguire li buoni consigli della
Prudenza, e se il buon'abito fatto non vi ajuterà allora à fare tal
risoluzione, infingardamente procrastinando di giorno in giorno ad effettuarla
, farete più tosto voi prevenuti dalla neceflità, di prevenirla ; Sicchè prima,
che voi abbandoniate li negozj; elli averanno lasciato voi's Quindi è, che per
non cadere in fimile obbrobriofa miseria converravvi, per ben consultarla, nè
d'afpettare allora , che la vostra mente farà notabilmente deteriorata, nè, per
eseguirla, quando sarete molto proflimni al non potere più operare, e quanto
queste risoluzioni più generosamente intraprese saranno , tanto più
gloriosamente, e facilmente vi riusciranno, nè crediate , che un simile
distaccamento, con tutto che la nostra natura vi repugni , lo sia impoflibile à
farsi, mentre lì è veduto praticare da più d'uno , e trà gli altri dalMedico
Romolo Spezioli , il quale nel colmo delle sue prosperità, doppo un lungo
servigio della Regina Cristina di Svezia , di gloriofiflima memoria, che
continuò finche ella visse; doppo essere ftato Medico Pontificio della santa
memoria di Alessandro Ottava, incaminatosi già per la via Ecclesiastica,
proseguì questa, e lasciò affatto nell’auge delle sue occupazioni, e della sua
età con generosa risoluzione, contento di ciò che aveva acquistato ,
l'esercizio della Medicina , nè alcuno de' suoi clienti si è potuto dolere con
ragione di lui, perche li abbandonò è vero, mà
per servire folo à Dio, che con quanta esemplarità egli lo
faccia , offenderei non solamente la fua modestia con riferirlo, mà temerei
ancora, con fargliene molti encomj, che non restaffe à bastanza appagato chi
con occhio fincero giornalmente rimira le fue degne operazioni. Nè devo
in questo proposito paffare sotto silenzio il ritiro , che fece Antonio
Piacenti di felice memoria, mio di T 2 let [ocr errors][ocr
errors] lettissimo Maestro, avendo voluto egli tra le altre fue virtù, per
compimento della sua gloria collocarvi questa ancora del bel distaccamento dal
mondo,e nell' istabilirlo mi disse, che lo faceva per prevenire la sua
inevitabbile impotenza, ftimando , che il prevenirla fosse cosa più vantaggiosa
, che d'effere da effas prevenuto per gl’esempj, che aveva offervati in alcuni
, che quantunque decrepiti, e finemorati, con tutto ciò non vollero lasciare di
fare il Medico' più per rendersi ridicoli appreffo li giovani, che punto non li
compativano, che di effere a' suoi Infermi profittevoli, e con ammirazione di
tutti ponevano à pericolo quel buon concetto , che avevano fino allora
acquistato, per un tenuiffimo, c miserabbile premio, del quale non nc avevano
alcun bisogno, per essere già divenuri molto ricchi. Sicchè per isfuggire
simili sventure vi converrà d'andar pensando in tempo opportuno, e quando
ancora sarete con fegtimenti vegeri, à questo buon ritiro, c fino
[ocr errors] la e fino da quel tempo appunto, che.co“ mincierete ad
alleggerirvi le fatiche, perche ciò, che la Prudenza allora vi consigliò fù
tutto preordinato à questo effetto, e la prima diligenza, che vi converrà fare
sarà di agiustare li yoftri affari domestici in quella forina appunto, che
fogliono praticare quei saggi viandanti, che devono sempre stare allestiti per
passare in remotislimi paesi, e che non possono indugiare punto, allorche sono
ayyifati per partenza. Questi tengono sempre pronto ciò, che fà di
bisogno per il loro viaggio, si aggiustano le loro puntuali rimelle , e poi
danno la sopraintendenza generale di ciò, che possedono à chi fedelmente lo
custodisca, ed à tal ministero eleggono un proprio figliuolo,se farà prudente
economo,e fenza vizj,altrimenti un'estranco di provata fedelcà, economia, e
prudenza . Dato un buon fefto , che voi averen te alli vostri affari
domestici in tanto, che anderete vedendo se caininerà tutto à vostro modo , per
poterlo emendare, [merged small][ocr errors] [ocr errors] fe in qualche
cosa difettasse, à fine di non avervi più da inquietare intorno ad csso ,
fupplicherete le virtù, che vi configlino , e preftino il loro ajuto, in questo
penultimo paffo, che dovrete fare, le quali avendovi sempre affiftito per lo
paflato, certamente che non vi abbandoneranno nel meglio, ed allora appun
che vi trameranno infidie la fastidiofaggine, l'impazienza, il sospetto,
l'incostanza, l'amore proprio, con il soverchio timore di ciò, ch'è
inevitabbile , vizj tutti, che aspettano il quando voi farete languenti non
meno di corpo,che di mente, per dominarvi à fuo modo ; nel qual compaflionevole
stato cosa fareste mai di buono, se non ayelte le virtù consigliere?
Queste divideranno facilmente il loro conGglio in sette parti; La prima farà il
quando lo dovrete farê; La feconda il come ; La terza dovë ;La quarta con chi ;
Quinta;con che preparamenti; Sesta, cosa dovrete allora fare; Ela settima, che
cosa fuggire. Primo, ز Primo ; circa al quando, vi dirà la
Prudenza, che allora appunto facciate il vostro distaccamento, quando che
proverete sensibile il peso degl'anni, che la memoria vi anderà notabilmente
mancando, e che fentirete la fatica, benche allegerita, molto molesta , ed
averete allora giusto motivo di pensare solamente à voi stessi , senza più
indugiare à farlo. Secondo, intorno al come lo doyrete fare, vi
consiglierà la Giustizia di usare ogni maggior civiltà possibile in licenziarvi
da tutti quelli, che si prevagliono di voi, con far loro conoscere, che fino à
tanto, che avere potuto, non avete risparmiato nè fatica, nè incommodi per
servirli bene, ma ora, che vi sono mancate le forze, il solo buon'animo, che vi
resta, non lo credere sufficiente per li loro bifogni, e che li confoliate
insieme, che avendoli già voi proveduti di soggetti non inferiori à voi ,
potranno essere da questi in avvenire affai bene affiftiti; Ne
seguirannofacilmente varj atti di reciproca tencrezza, mà fate, dirà la sudetta
virtù, che questi nè vi distolgano dalla risoluzione già fatta, nè vi pongano
in qualche forta d'impegno d'averla in qualche loro occorrenza, ò
imprudentemente da ritrata tare , ò mancar loro di parola. Terzo, nè vi
consiglieranno già , che vi scegliate qualche solitudine remota per fare il
vostro ritiro, mà bensì un'appartamento assolato della vostras casa, nel quale
vi sia minore strepito, anzichè vi dissuaderà la Prudenza, se aveste mai
qualche pensiero d'allontanarvi dal. la Città, d'effettuarlo, per li seguenti
motivi, perche ne' piccioli luoghi non potrete ritrovare tutti quei commodi, nè
godere di quei vantaggi, che nelle fole città vi sono, dove il governo risiede,
la civiltà, e la convenienza rcgnano, doveche al contrario questi mancano, ò
almeno scarseggiano, oltre il correre rischio di penuriare di molte cose,
s'incontrano facilmente de' disguki, à cagione della poca cognizione,
e civiltà, che ivi li suol praticare , & in ispecie con quelli,
che la dottrina, & il valore l’inalzò, essendo perciò molto
dall'inciviltà odiaci, e benche Scipione il Grande nel suo, non tutto
volontario ritiro in Linterno; (perche lo fece per accomodarsi alla
necelli:à di quei calun- niosi tempi) avesse la sorte di essere
stato venerato da molti uomini facinorofi,che ivi accorsero per
ainmirarlo, è stato egli quasi singolare in questo, mentre altri
furono assai diverLamente trattati, trà quali basterà riferirne uno
solo,mirabbi- le per l'accidente, che vi
s'incontro. Venne volontà nel secolo passato ad un' Officiale maggiore di
guerra,doppo molsi illustri fatti felicemente occorsili, di ritirarsi alla sua
picciola patria, già dia venvto vecchio, per godere ivi la sua quiete. Mà
appena giontovi , che incon minciò ad essere deriso, e beffeggiato da quei
rpstici abitatori; Ditali impropri trattamenti se ne rammaricava il valo, roso
vecchio, mà per non prenderla con tanti, andava disimulando. Si suscita.
[merged small][ocr errors][ocr errors] tono in questo mentre alcuni principj di
guerra, ed ecco all'improviso Inviati con sacchetti d'oro, che andavano cercando
quel merito così vilipeso da quella rustica progenie, allora quel meritevole
prendette spirito, e per mortificare li suoi persecutori fece spandere quell'
oro alla vista di tutti, che ammirati attoniti, e confusi ebbero occasione di
ravvederli del loro errore ; mà se quell' oro non compariva , il merito ivi non
già risplendeva. Mà perche avanzandovi nella vecchiaja non potrete sapere
à che segno la vostra salute si di corpo, che di mente vi potranno reggere ;
Quindi è, che per compire faggiamente il corso di vostra vita, le virtù
vi consiglieranno à sceglicre chi potrà essere à proposito per voi, allorche
vorrete vivere solamente à voi medefimi, tanto in caso di felice, che di penosa
vecchiaja , e facilmente yi diranno la Prudenza, e la Giustizia : fceglietevi å
tal'effetto un Direttore spiricuale de' più dottia e discreti, che vi
COR [ocr errors] conservi vivi li yoftri abiti virtuofi. Una amico fido,
e prudente, che vi suggerisca ciò, che dovrete operare, caso che, ve ne
dimenticaste , che sopraintenda.a’ vostri interessi,acciocchè non fieno
trafcurati,per negligenza di chi li maneggia. Un parente amoroso, e
disinteressato, per supplire all'amico, e dare anco soggezione à chi vi serve,
ed un servidore abile, che vi allista con carità , amore, e discretezza, e
questi non basterà , che yeli siate scelti, mà dovrete ancora mane tenerveli
ben’affetti, altrimenti disguftandoli con voi , vi troverete intrigati a, e
sappiate la cagione del disgusto de' trè primi, quale potria effere ;
l’incommodo, senza loro utile, delle frequenti visite, e brighe continue per
voi, mediante le quali annojari , fi potriano facilmente alienare da voi;mà per
rimediare à quefto, non dovrete fare altro, che di fervirvi della potentissima
efficacia di qualche cortesia usata loro si che, se ve ne farà d'uopo, cambierà
in un tratto ogni più dura fatica in ispasso", ogni noja in ز
piacere, ed ogni più grave disaggio in dilettevole divertimento ; caso poi, che
non ve ne fosse molto bisoglio, diportandovi voi con esli grati , essi ancora
verso di voi saranno più diligenti, aslidui , ed affezionati : Munera , crede,
mihi placant, bomines que, Deosque ; E renete pure per certo , che
favolosi sono quei casi, che di alcuni Gentili fi raccontano, che tutto elli
facevano per puro amore, e che l'incommodo maggiore degl’altri era da questi lo
più ricercato; Mà però con il servidore abile, che dovrà stare affiduo con voi,
per tenerlo contento, vi converrà praticare due modi, uno privativo, che
consisterà in non maltractarlo nè con fatti, nè con parole, dovendo voi, che
avrete bisogno di lui, acquistarvi il suo amore, e facendo voi diversamente, in
vece di guadagnaryelo , più tosto lo perderefte, quando che ve qe portasse : E
vero, che difettando egli, lo dovrete correggere, mà pero con maniera umana,
con farglicapire'il suo fallo, non già con ingiuriara To, e caricarlo di
strapazzi, perche venendo trattato da voi in tal guisa , cosa ne seguirà ? O
che vi abbandonerà nel meglio, e voi come rimarrefte? O continuerà a fare
peggio di prima, e voi cam fa avreste acquistato ? E l'altro positivo, che
consisterà in fargli capire, che voilo amate di cuore, e non per solo vostro
vantaggio , mà come fosse un vostro figliuolo, e che ciò sia, lo crederà allora
appunto quando si vedrà trattato bene da voi, comandato con discretezza, c
meglio di ogn'altro glielo farà capire , quando si vedrà regalato da voi con
giudizio , e questo regalo non consisteria in altro, che di usargli
un'amorevolezza pecuniaria , à proporzione del vostro potere, ogni anno nel
vostro giorno natalizio,con promettergli negl'anni venturi sempre di
raddoppiarla, e questa, con tutto che sia una gran cosa in apparenza, voi, che
sarete avanzati negl’ anni, la potrete ufare con più generosità de' padroni
giovani,che sperano di cains pare lungo tempo, & al servidore gli sarà
grato à segno, che non lascerà cosa, che possa giovare à farvi vivere più
luagamente, che non la procuri. Avrà fempre timore , che non vi disgustiare ,
che non patiate , & allora appunto lo avrete già interessato nella vostra
vita, e nericaverete un'ottimo servigio. pare Quinto, oltre li
preparamenti neceffarj già da voi fatti per sostentamento, e
sollievo del corpo, vi consiglieranno facilmente, & in ispecie la Fortezza
, à farne ancora degl'altri per l'animo, non meno necessarj de primi, e questi
saranno di proyedervi di molta sofferen ed ilarità, che facilmente ve ne
bifogncranno , acciò non venga turbata la vostra bella tranquillità di animo,
che goderere, santeche trà mali familiari dell'inoltrata vecchiaja yi fi
annovera quello ancora della fastidiosaggine, e questa non con altro rimedio si
puo curare che con l'abbituara sofferenza ; E perche danneggiano ancora
di molto pell’età avanzata la malinconia, & il di za ,
[merged small][ocr errors] disgusto; Quindi è, che per tenerli lone tani, vi è
d'uopo dell'ilarità , mediante la quale solamente diverrete ad essi
superiori. Sesto , parerà forse cosa impropria à chi udirà , che voi come
Medici provetti possiate avere di bisogno allora del parere altrui
intorno à ciò, che dovfete, ò non dovrete operare, mà fe ben rifletterà , che
non mai fù nocivo ad alcuno il caminare con il consiglio della Prudenza, e
della Giustizia in ispecie, cambierà facilmente parere , e tanto maggiormente,
che niuno in caufa propria puol'essere competente Giudice e più precisamente in
quella età, in cui tutto ciò, che abbiamo di meglio, allora languisce; Le virtù
luderte vi diranno à tal proposito, che non crediate già,che il vostro ritiro
abbia à servire per totale riposo del vostro corpo, 8c acciocchè se ne stia
affatto ozioso, & infingardo, perche passereste in tal caso, da un'estremo
vizioso all'altro, senza profitco alcuno, essendo questo egualmente
nocivo dell' dell'anrecedente, perche, come ben sapete, consistendo
la vita nel continuo movimento de fluvidi , che dentro il nostro corpo si
aggirano , & ancora, che questo venga agevolato dalle pressioni musculari ,
sicchè ogni qualvolta cefferete di muovervi, non avendo tanta forza li muscoli,
in istato di quiete , di propellere , neceffariamente seguirà , che detti
duvidi lentamente scorreranno, e più d'ogn'altro ne' vecchi, impoveriti de'
spiriti, onde in conseguenza ne verrà, che la vira iftelsa ne riceverà del
danno notabile, mancandole ciò, che se le deve , per il suo più necessario
prolongamento, oltre di che ne' vecchi cade un'altra necessità particolare di
doversi muovere, & è, perche tendendo eli alla ficcità, li loro tendini, e
legamenti, atti più dell'altre parti à contraerla , cessando di moverli si
possono irrigidire à segno, che impediscano loro affatto il poter più camminare
, conforme più chiaramente fi scorge in quei vecchi, che à cagione di qualche
loro [ocr errors] indisposizione per lungo tempo forzata-
mente giacciono in letro, li quali, ben- che abbiano superato quel male,
che li teneva al riposo, nel volere camminare si accorgono di
non poterlo più libera- mente fare come prima. Il sudetto ritiro
dovrà servire bensì per riposo, e calma della vostra mente, già stanca
per li so- verchi pensieri, la quale non dovrete', nè potrete
quietare con renderla affaito oziosa , mà bensì con contracambiare
quei di già nojosi con altri più ameni , ! quei cotanto laboriosi, con
altri, che non la stanchino di vantaggio, mà più tosto la ricreino,
conforme in appresso diremo. Mà ritornando al moco
, che vi competerà di fare , questo sarà appunto quello, (vi
dirà la Giustizia ) che altrui di età avanzata voi avrete
consigliato, cioè di farlo in tempi sereni, & aria ri. scaldata
dal Sole, non già irrigidita del- la notte, & allora appunto, che il
vostro stomaco ayerà digerito il cibo, con que- fta avvertenza di
più, che avvedendovi di non potere continuare l'esercizio, a quel segno di
prima, lo modererete, non tutto in un tratto, ma bensì à poco à poco, finche vi
poniare in una regola di poterlo continuare, senza voftro disaggio, & à
quel segno , che lo stimerete necessario , e ve lo permetteranno levostre
indisposizioni, che soffrirete, & acciocchè sia continuato per quando non
potrete uscire à cagione de' tempi fred. di ventofi, ò umidi,lo farete in casa.
Solevano à tal'effetto una volta li vecchi praticare l'esercizio chiamato
dell'attacco, che conGsteya in istringere con le mani un certo ferro foderato
di corame, che era conficcato in due lati prossimi ad un'angolo della stanza,
all'altezza di un'uomo, al quale attaccati , non solamente si distendevano , mà
con maggior agilità ancora movevano faltellando li piedi, modo appreso forse da
Eumene, che ritrovandosi assediato, per avere più agili li suoi cavalli, caso
che gli fosse convenuto fuggire, in un modo assaiconfimile a questo li
esercitaya, mà fù nel fea secolo passato già dismesso
tal'esercizio, con molti altri neceffarj alla salute,e non se ne sà
comprendere altra cagione, se non perche, non erano commodi, stan-
teche strapazzavano il corpo', il che fi congettura dal vedere , che da
allora in qua non si è aèreso ad altro, che à cerça- re questo
commodo, fe pure commodo si potrà chiamare ; (soggiugnerà la
Pru- denza) ciò, che incommoda la salute ; Commodo si potrà dire
una carozza,che posi shule Molle con cignioni lunghi, che non
isbarta punto, allorche le sue ruote urtano ne' faili, per chi foffre il
inale di pietra nella vellica, per chi parisce bru- ciori di orina
, per una giovane gravida, folita di abbortire, perche ò non posso-
no soffrire lo sbattimento, ò è loro no- civo; onde :
conviene , che facciano conformc è loro permesso; Mà per un giovane
sano, à cui lo sbattere gli conferisce alla salute, af-
sodandogli la sua buona complessione commodo non si deve chiamare,mà
ben- si incommodo, perche presto glicla in- [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] ز [ocr errors] 0 el [ocr errors]
.com commoderà. A questo proposito vi riferirò un caso terribile di un
Cavaliere, il quale à cagione di propria commodità non moveva nè pure un dito,
se non gli era accompagnato da chi lo serviva, fi faceva fino imboccare, quanto
mai egli era commodo ; onde lo conduffe la sua pazzia à diventare un tronco,
mercechè volendo una volta muovere un braccio, non lo poteva più fare,un piede
nè tampoco , e come un ciocco gli convenne vivere, se pure quello vivere
li [ocr errors][ocr errors] poteva dire, Dall'esercizio corporale
ritorniamo à quello della mente, la quale, conforme dicemmo, non la dovrete stancare
di vantaggio con cose laboriose ayendo voi à tal'effetto bramato, e procurato
il vostro ritiro, mà nè tampoco converrà di tenerla affatto oziosa, acciocchè
non ritorni à coltivare le specie antiche, non sapendo, che altro fi fare. Nel
principio del vostro distaccamento, come vi suggerirà la Prudenzala terrete
occupata in diverse cose, con il suo rin par [ocr errors][ocr
errors] partimento dell'ore più proprie ad esse. Ne darete alcune agl'esercizj
fpirituali à prò dell'anima vostra , secondo il configlio del vostro
Direttore,qualche altra servirà per l'esercizio corpcrale, e le rimanenti alla
quiete della mente faranno da voi destinate in due maniere , cioè, con leggere
, ò sentirlo , e con il riposo; Li libri da leggere, proprj per tal'effetto,
già ve li sarete scelti , allorche vi preparaste per il ritiro , e si può
supporre, che saranno inorali, prediche, vite più esemplari de' Santi, e cose
confimili, e se vi sarete serbato qualche libro Medico, questo facilmente non
tratterà di altro, che del regolamento della vecchiaja, e del modo conforme si
possa più agevolmente ella sopportare , & inoltrandovi finalmente nella
penosa vecchiaja, non troverete maggior refrigerio, e sollievo, che di
uniformarvi in tutto nella volontà di Dio, e se giornalmente farete qualche
meditazione sopra la morte, vi recherà questa del vantaggio , perche divenendo
perciò superiori [ocr errors] ad effa, non vi potrà punto contristare,
allorche da vicino la scorgerete venire, e tanto maggioripente se meditandola
rifletterere, che se ne viene per togliervi dalle miserie, e collocarvi in
un'eternità di bene, essendo voi vissuti con le buone direzioni delle virtù,
non già con le lufinghe fallaci de vizj. Settimo, finalinente, diranno le
vir. tù , se volessimo rammentarvi tutto ciò, che non è convenevole, che ora
facciate inolto averelimo da dirvi, solamente alcune cose vi avvertiremo, nelle
quali potreste facilmente cadere . La prima delle quali sarà , ( se vorrete
caminare con le buone direzioni della Prudenza ) che avendo voi una volta per
giusti motivi risoluto di lasciare la Professione, non mai più dovrete
pentirvenç, e ritornar di bel ouovo à profeffarla», se non in quel caso
impossibile, che voi cựngiovenifte, altrimenti facendolo acquisterefte ritolo,ò
d'instabili , imprudenti, ò per la meno di superbi, potendosi da ciò
.cognetturare, che allora non lo facesteper impotenza, mà bensì per
isdegno concepito per non vedervi stimati à quel segno, che
bramavate di essere. La seconda, se vi venisse mai volon- tà di
mutare, senza giusta, & urgentili- ma occafione , il vostro già
fatto tefta- mento, mà solamente per motivo di me-
gliorarlo, che non lo facciate, vi coman- deranno la
Prudenza, e la Giustizia in conto alcuno, mentre questo saria
uno delli maggiori infortunj , che vi poteffe allora
accadere, perche se quello , che avrete fatto in tempo , ch'eravate
con sentimenti più vegeti, ora non è di vo- stra
sodisfazione , come potrà fodisfarvi l'altro fatto da voi ,
dapoiche vi siete ritirati, à cagione di debolezza , non nie- 110
di corpo,che di mente la quale entre- rà prestamente, per essere in
quella età sospettosa nella casa della dubietà, mà
ritrovandofi ancora languida , e piena di timore tosto le sembrerà
un laberinto, non sapendone rinvenire la strada das
uscirne, e perciò la sera penserà ad una cosa, e depofta quella,
la mattina ad un' altra, [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] V 4 altra, oggi farà di un
genio, e domani facilmente di un'altro, e durando per qualche tempo così
incostante, non folamente si confonderà, mà s'inquieterà ancora ; onde quel
tempo, che avevate dato alla calma del vostro animo , in questo modo glielo
rubbereste per darlo alla vostra inquietudine , fenza ricavarne un minimo profitto,
perche se pure giugnefte à fine di stabilire la vostra ultima disposizione,
sarà questa assai peggiore della prima, e se non arriverete à compirla ,
l'inquietudini riccute, che giovamento viaveranno apportato ? E quanto dette
virtù vi hanno ordinato, l'esperienza pur troppo l'hà fatto vedere, mentre chi
nel suo ritiro hà avuto simile tentazione, non solamente è vissuto
inquietissimo tutto quel tempo, che aveva destinato alla sua quietc, mà hà
fatto una nuova disposizione del suo avere così intrigata, così confusa, che hà
dato di fe molto da dire . In niun tempo si deve andare in traccia dell'ottimo,
essendo questa distruttivo del bene, mà [ocr errors] 1 mà in
questo stato meno d'ogni altro nel quale è molto espediente di dare
orecchie à ciò, che si legge in Tacito, ed è : Confilium , cui impar erat
fatu per- mifit ; E certamente, che quando siete meno capaci di
risolvere, è pur meglio, che lasciate correre ciò, che faceste di
vostro genio quando eravate più atti, che di mutarlo divenuti meno
sufficienti ancora ad emendarlo. Vi
pregiudicherà per terzo ancora di molto la troppa curiosità, &
in ispecie de fatti domestici , come ben vi avverri tirà
la Prudenza, perche più d'una vol- ta sentirete cose tali, che vi
turberanno notabilmente la vostra quiete,& affinche dal
non ricercarli fi scanzi ogni pregiu- dizio, fate., che quel vostro
amico, quel vostro parente, de' quali da principio parlammo,
gli diano il suo rimedio, ci pensino essi, che meglio di voi lo
faran- (no , e senza inquietudine vostra. E caso poi, che la
necessità portaffe di farvenc consapevoli sfuggano per quanto si
può di dirvelo di sera , per non togliervi 0 [ocr
errors] il riposo della notte. La quarta intorno à ciò, che dovrete
fuggire in caso di qualche incommodo abituato, che da soverchi anni procedere ,
la Giustizia, e la Temperanza vi diranno : Ricordatevi, che una volta in altri
non l'avreste curato, mà folamente mitigato; onde non facciate, che la molestia
, che vi recaffe vi stimoIalle ancora à divenire carnefici di voi medesimi ,
con pretendere di farvelo curare, conforme à più di un Medico avanzato
negl’anni è accaduto , per esserfi voluto esporre al taglio della pietra ,
quantunque ad altri così avanzati in età non l'averiano consigliato.Questa
penfione , che Iddio hà posto sù il gran benefizio della lunga età che vi ha
conceduta , vuole, che da voi fi paghi, altrimenti il fudetto benefizio
mancherà prestamente 5 Limnolesti pruriti esterni , li bruciori d'orina , le
vigilie frequenti, che bene spesso ne' vecchi accadono , fapete pure, che non
vanno curati con rimedi eradicativi, mà mitigar ben fi de [ocr
errors] 1 [ocr errors][ocr errors] devono con cose anodine, trå quali
il latte , amico de vecchi asciutti hà il primato , e per essere
ancora egli il pris mo querimento, che si prende, non è disdicevole
, che non venendo à cagionc del soverchio sonno ritardato, sia
ancora Pultimo, conforme praticò con profitto Fabio Mafsimo nella
sua età decrepiti. Per quinto avvertimento vi
con- verrà stare molto circospetti per non cadere in
certi errori, che li vecchi li stimano sussidi dell'età cadente,
ftante- che provando languidezza di forze fi, portano con
desiderio (moderato à pre- valerli de’yini più generosi, e di
altri più fpiritosi liquori , intorno a' quali vi ricorderà
la Temperanza, che sapete pure quanto di male apportino alla in-
languidita tefta , all’inaridite viscere, e quanto di solfo communicano
alli ni- trofi fluvidi, ed in conseguenza di che danno essi
siano , che voi ben lo sapete, onde in vece di questi vi servircte
più ļosto del perfetto cioccolato , de' buoni brodi,
de' vini gentili, e delicati, c di altri liquori consimili, presi con
moderazione, e con questa distinzione , che effendo taluno di voi grasso, &
avendo disposizione al soverchio sonno prenderà spesso il cioccolato la
mattina, nel doppo pranzo , ò di sera il caffè , ò il the, è la bollitura di
salvia , sc poi sarà dimagrito , e sottoposto à vigilie, las mattina
frequenterà più tosto un brodo con la fetta del pane ivi bollita, e del
cioccolato se ne servirà qualche volta doppo pranzo immediatamente, conforme
ancora in vece del thè, e del caffè ricorrerà all'uso della bollitura dell'orzo
abrustolato, resa grata con qualche odoroso liquore, all'emulsioni fatte in
brodo , con semi di meloni , in particolare fe farà molestato da pertinaci
vigilie. Per fefto , fuggite ogni sorta di be vanda gelata, vi diranno la
Fortezza, e la Temperanza , quantunque la moleIta fete, che alle volte suole
travagliare li vecchi vi rendesse ansiosi di effe, perche sapete pure quanto
danno vi po triano [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] triano recare, & in vece di queste servis teyi
delle bevande attualmente calde , che vi smorzeranno con più facilità
la sete per quella cagione à voi nota, che sciogliono li liquori
caldi più facilmente quei fali, che titillando le papille del gusto
non solamente le costringono, mà recano ancora aridità à tutta la mem-
brana interna del palato , & esofago in- crespandola à guisa di carta
pecora, e questi con il liquore caldo vengono più facilmente
sciolti, & ancora le parti ina- ridite con più prontezza fi
distendono, doveche dalle gelate ne segue l'opposto, e per questa
cagione tali acque sono consimili à quelle , che Quò plus
sunt potæ , plus fitiuntur aqud; E perciò non si sà capire per qual
cagio- ne in particolare ne' vecchi sia stato dif- messo il bevere
caldo tanto praticato dagli antichi Romani , e tanto maggior-
mente, che dall'abuso di dette acque gelate ogn'anno ne seguono delli
casi funesti, coine ben sapete ; Dal soverchio bere,
7 bere, con tutto che non sia gelato, ve no asterrete ancora,
effendoyi noto quanto di male possa apportare alli stomachi debilitati dagl’anni,
potendo non sólamente inlanguidire li fermenti digestivi, mà opprimere insieme
preventivamente quel calore, che stà per finire. L'esperienza dimostra
chiaramente , che le piante annose inaffiate à suo dovere si conservano, mà
soverchiamente più preftamente mancano, Per settimo, v'avvertiranno la
Prudenza, e la Giustizia di non porvi in una regola rigorosa di vivere, con il
motivo della moderazione del vostro esercizio consueto , perche la natura già
affuefatta da tanto tempo à quella quantità di nutrimento, vedendolo tutto in
un tratto notabilmente scemare ne riceveria incommodo considerabile, costando
pur troppo per esperienza , che alcuni vecchi,li quali l'hãno voluta tanto
ristrignere preltamente sono mancati. Quello, che dovrete praticare sarà di guardarvi
da certi cibi di dura cozzione, di cattiva qua qualità atti à poter
nuocere , per altro nella quátirà l'anderete moderando con occasione, &
avyedendovi di non poterla ben diggerire, allora l'anderete scemando, mà però
lentamente, accioca chè non riesca molto fenfibile derta mutazione, perche è
cosa evidente, che allora appunto, che i vecchi allentano di mangiare , poco
resta loro di vita. Peggiore di questo ancor saria, se cadefte in quella
opinione tanto dangosa , che per vivere fano sia neceffario di prender cose,
che non facciano escrementi, mà che con l'odore delle vivande, con qualche
brodo di sostanza, si possa meglio , e con più salute campares di quello si
faccia con tante altre cose piene di parti escrementose, perche la Datara vuole
fi camini per le sue strade ordinarie, vuole da tutti egualmente efiggere ciò,
che brama . Quell'incommodo, che vi reca nel restituire le feccie ella sà per
quali fini lo faccia , non è à caso. Non n'elimè già Alessandro Magno dal suo
fetore, conforme che li suoi Cor teg teggiani adulandolo dicevano ,
perche ella non sà cosa sia signoria, e grandezza fà che la morte (a) Æquo
pulsat pede pauperum tabernas, Regumque Turres. Per tre gran
benefici la natura volle , che vi fossero li tanto odiati escrementi: Primo,
perche dentro di noi si facilitassero mediante queste tante digeftioni, che vi
si fanno , conforme l'esperienze chimiche ad evidenza lo dimostrano, in tante
digestioni fatte con il Fimo, e da quì rifletcete quanto s'ingannino coloro,
che procurano anziosamente à forza di tanti reiterati purganci star-, ne senza;
Per secondo, che nell'uscire che fanno impari à conoscere ogn’uno se stesso, à
che segno debbasi insuperbire chi dentro di se conserva fimili fetidillime
materie; E il terzo per convincere chi non credesse il primo, con farlivedere
quanta fecondità questi rechino alli terreni sterili, che colsuo beneficio
divengonono fertiliffimi , talche erroneaè à priori quell'opinione di potersi
nudrire con cose, che non abbiano escrementi, conforme ancora tale à pofteriori
si dimostra per essersi veduto chi l'hà voluto praticare divenire un marafino,
che in breve fini i suoi giorni. Per ottavo , & ultimo finalmente,
ch'è forse il più forte di tutti, vi diranno le virtù : Guardatevi da quelli
trè gran persecutori de' vecchi, che sono, la caduta, il catarro, & il
corpo soverchiamente lubrico ; La caduta , voi sapere molto bene, che per due
gran motivi è nella vecchiaja più dannosa, che in altre etadi, sì per essere li
vecchi di mi. nor vigore, e li più facili à terminare la lor vita ,
ritrovandosi arrivati allo scorto di effa , sì ancora, perche cadendo come un
tronco ciò, che viene loro percoffo riceve colpo pieno, non venendo riparato
dall'agilità delle mani, nè dallo scanzo della vita , come segue ne' giovani di
maggior agilità di loro, onde per evitare una simile fventura dovrete andare
sempre con il vostro bastone, ne fa [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] farere come alcuni, che l'abboriscono per mofrar braura ,
quando braura più tosto sembreria l'ayere in mano il bastone di comando";
onde non senza mia stero fù chiamato da’ Latini il bastonc della vecchiaja
Scipio, & il prendere Sufcipio. L’occasioni di prendere li catarri à
che segno le dobbiate fuggire, l'efperienza altrui ve ne fece maestri, (vi
suggerirà la Temperanza) mentre osservaIte, che chi li espose all'aria rigida,
chi ftiede in luogo soverchiamente caldo, chi disordinò in cibi grossi, come
sono il formaggio, legumi , & alrre cose consimili furono da essi
moleftati, converrà dunque à voi ancora fuggirli, se non avrete quell'erronea
massima, che ebbe quel Medico, che disordinava molto, sù la fiducia, che niuna
cosa gli potesse nuocere, dicendo, che li Legislatori non sono soggetti alle
leggi, mà gli convenne soffrire la morte immatura per questa sua falsa
credenza; e finalmenre quanto dobbiate stare cautelati, per non incor
rere 1 rere nella foverchia lubricità di ventre, non
occorrerà vi sia suggerito, sapendo i da voi medesimi, che l'abuso de'
dolciu mi, cde'frutti producono fimile indifposizione. L'irascibile
ancora spesso in, citata con l'abuso de' cibi caldi per accrescere pungoli alla
bile , quanto la poffino rendere frequente nell'età avanzata lo sapete assai
bene, con tante altre cagioni, che farà superfluo viliano ram, mentate.
i Essendo voi dunque nel corso della vostra vita camminati sempre con le
dii rezioni delle virtù, avete da sperare fer mamente di potere
incontrare una gloriosa morte, perche esse in quel vostro estremo
bisogno, più che non fecero in é altri,vi assisteranno; La Prudenza vi
farà soffrire ciò, ch'è inevitabile, con animo generoso ; La
Giustizia sperare quel pre7 , mio, che sarà dovuto alle vostre gloriose
opere ; La Fortezza vi darà cuore da refiftere intrepidi ad ogni patimento più
duro ; e finalmente la Temperanza vi consolerà, con farvi vedere, che trà
X 2 quel [ocr errors][ocr errors] ز quelli molti , che
vissero, pochi ne giunsero all'età voftra ; onde voi, che avrete sempre dato
saggio di tanca moderazione, come potrete non contentarvi di essere già vissuti
à bastanza, potendo con intrepidezza dire : Vixi, quem dederat curfum
for tuna peregi; Sicchè felice sarà la vostra morte , & invidiabile
da tutti , nè crediate che fiano per abbandonaryi queste doppo morte , perche
allora più che mai saranno inseparabili da voi,posciacchè quando ancora eravate
viventi si poteva dubitare, che potefte essere, ò nò, prudenti, giusti, forti,
e temperari, perche in realtà potevate dare occasione à dette virtù d'alienarsi
da voi, mà doppo morte, che tal cagione finì, non si potrà più dire di voi, che
prudenti, giusti , forti, e temperati non foste, ficchè resteranno allora da
voi eternamente inseparabili le vostre virtù. E chi mai rimarrà doppo morte più
glorioso di voi? forse il ricco? questo no, perche le sue ricchezze già
al [ocr errors] Ja morte, allora passarono in altri, non sono
più fue; Forse il potente ? nè anco, perche la sua grandezza è
rinchiusa allora den- tro la sua urna , & il suo potere è
diven- tato un niente; Forse chi ottenne fingo- lari prerogative di
natura , come sono la somma bellezza, salute , e robustezza di
corpo? questi nè tampoco, perche quelle già furono, e non sono più
doppo restando un nulla , giacchè : Quod fuit, non eft pro
nihilo reputatur . Solamente dunque chi vive seguace del- le virtù
può sperare di ritenere ancora per se doppo morte quanto gadè in
vi- ta, e fù suo proprio , con tutta quella gloria imınortale, che
acquistò chi visse virtuosamente, de' quali parlando Ip- pocrate
(*) così diffe : Quique hac viâ incedunt gloriam tùm apud majores ,
tùm apud pofteros fibi comparabunt, ch'è quan- to dovevo
mostrarvi. Ed eccoci giunti al fine della festa
Giornata, e convenevole sarà di ripo- sarci,farci, in venerazione
di chi creò l'Universo, giacchè egli ancora requievit die Septimo ab universo
opere , quod patrarat , do benedixit diei feptimo , & fanétificavit
illum [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] X 3 (-) De
decenti babita , è à priori (2) Horat.Carnr. odc 4 fa.
dicom (e) Hipp.de Pracepticx. fo quan
(1) De pracept: fione [d] Epidem.lib.5. @grot.28. ex Valefio.
[e] Epid.lib 5. ægrot.7. (f) Epidilib.5.>.g. ap(4) In epift. Abderit.
(r) Epift.6. rano (d) In Comment Hipfoer. de Fraft. fers (b)
18 epiß. Damogit, alla (a) In epif Philop. K per(a) In
lib.præcepto ch' Th. In lib.de pracept: fprone [b) De
preception. Set era (b) In 2.epiji. ad Domeg.
1 F 3 i [ocr errors] fare 1 (h) Hippocr. de
veteri Medico C2 pra(c) De decerti babits. In. Morale,
DE'FIGLIUOLI e Medica DEL DOTTOR DOMENICO GAGLIAR DI Divisa in due
Parti. PARTE PRIM A Sopra l'Educazione Morale. DEDICATA ALLA SANTITA'DI
N.S. INNOCENZO XIII, Neglectis urenda filix innascitur agris Hor.
Sat. 3. lib. I. In ROMA, MDCC XXII. Nella Stamparia di Pietro Ferri
alla Minerva. Con licenza de'Superiori . [blocks in
formation] [ocr errors] sien L Titolo gloriofifsimo di Padre Universale , it
quale viene fo lamente attribuito all'Altissimo Merito di Voltra Santità
, mi rende più a 3animoso à consagrarle la prcfentc Opera sopra
l'educazione de'figliuoli Morale, e Medica, con ferma speranza , che Ella comc
zelantissimo amatore del buon costume non solamente la riceverà sotto il
potentissimo fuo patrocinio; ma le farà di vantaggio godere gl'effetti della
sua somma clemenza ; mercecche non permetterà già qucsta, che rimanga
infruttuoso ogni qualunque suo documento profittevole allo stradamento
de'figliuoli per farli divcnire amanti dellc virtù, cd aperti nemici de' vizj,
essendo tal desiderio appunto il maggiore che possa avere un'ottimo Pan
dre; mente dal principio del suo Gloriofiflimo Pontificato ha fatto la S.
V. colle operazioni più gloriofe conoscere al mondo tutto; vedendosi tanto il
suo Paterno Zelo, quanto la sua somma beneficenza indiri, zati folamente al
giusto, ed all' onesto, gastigando i 'rei , c premiando i meritevoli: conforme
appunto costumarono tanti Santillimi Pontefici suoi Antca natì di gloriofiffima
memoria. Talmente che l'Eroiche Virtù in V. Beatitudine essendo ereditarie, si
trovano profondamente radicate,e queste di fimin le natura debbono
neceffaria, men, a 4 zarsi, seppure l'ottimo potranno
sormontare. i Nè lì veggono nell' Antichissima , c Nobilissima Famiglia de
Conti ereditarie l'eroiche virtù dc'suoi Maggiori nei foli Sommi Pontefici ;.
mentre risplendono questo ancora , in tutti gli altri, c. con applausi
universali; cssendosi veduti do. po la dcgnissima esaltazione di V.B. al Trono
Pontificio, nc' più a Lei congiunti di Sangue la medesima nioderazione di
animo, ed affabilità princicra ; assegno chc,non senza ammirazione,fan ben
conoscere a tutti, che le presenti felicità non han na a gli animi
generosi, e forti, in cui regnano abituate l'Eroiche Virtù. In tempi
dunque felici, o fortunati,ne'quali la verità svelata pud comparire avanti al
Principe , godo la forte di presentarle prostrato à Santissimi Piedi di V.B. e
consagrarle inficmc qucfte mie fatiche, diret. te non ad altro, che al publico
bene; mostrando queste a Padri di faniglia,non folamente l'obbligo loro, ma
cziandio il modo più facile d'indirizare benc i proprj figliuoli, affinche non
divengano elli viziosi per. turbatori della publica quie te.
ritevole dell'efficace Patrocinio del Principe, essendon'egli di essa
vigilantissimo Custode: Contribuendo dunquc alla felicità del Principato la
buona cducazione de'figliuoli , como cagione della publica quicte; affinchè là
S. V. possa godere tutta quella lunga serie di anni felici , che ardentemente
le bramo con ogni maggiore offequio la supplico à volerlo rendere degno del suo
Supremo Patrocinio, potendo questo accrescere alle sue prove, e ragioni momento
di forza bastevole a renderle più convincenti nel ripulire gli animi rozi,dano,
e baciandole i Santillimi Piedi con profonda venerazione mi umilio. Di
Voftra Beatitudine Omilifs,e fedeliss. Suddito Domenico
Gagliardi. AL C On rilevanti motivi ho intrapre so lo
scrivere sopra l'Educazione de' figliuoli : primieramente, perchè leggendola
Sacra Scrittura ho con chiarezza conosciuto l'obbligo grande col quale da essa
viene aftretto ciascun Padre ad educar bene i propri figliuoli; ordinando
l'Ecclesiastico al 30. Curva cervicem ejus in juventute, fu tunde latera ejus,
dum infans eft, ne forte induret, Ego non credat tibi, Er erit tibi dolor anime
. Doce filium tuum , E'operare in illo , ne in turpitudinem illius offendas; e
trovandomi molti figliuoli era anch'io compreso nel numero di questi .
Incominciando dunque a cercare qual modo foffe il migliore , per sodisfare
a’mici doveri, benc mi avvidi alla prima, ch'era d'uopo conosce per
congetturare meglio ove le proprie inclinazioni li aveffero portati . In
feguela di questo considerai, che indarno si sarebbe affaticato ogni qualunque
ben’esperto educatore, se l'educando difetrasse nella esatta regola del vivere,
quantunque fosse dotato dalla natura di un'ottima indole ; mercecche il
nudrimento , eccedente in quantità, e qualità, potrebbe cagionargli
internamente tal moto inordinato negli spiriti, che fosse capace di togliere
alla sua mente quella limpidezza neceffaria a chi ha d'apprendere la buona
educazione . Si avanzò più oltre la mia mente coi suoi pensieri,
cominciando a meditare se co gli ajuti medici, allorchè già introdotto negli
educandi l'accennato interno sregolamento, si fosse potuto questo calmare; c
con molti lumi ricevuti da Ippocrate, ove tratta de Aere Aere ,
Aquis , EX Locis , arrivò a comprendere, che potevano queste giovaredi molto in
tale occasione. Accertatomi per le fudette rifleffioni, che l'educazione
de' figliuoli poteva trattarsi da un Medico provetto, appartenendo appunto ad
ello più che ad ogni altro il conoscere i temperamenti, donde nascono i
naturali, la regola del vivere, ed il modo di calmare gi’interni moti
inordinati de’fluidi, mi accinsi a tale impresa, non potendomisi addoffare da
critici, che io abbia contravenuto al documento, che insegna Orazio nella sua
Arte poetica a chi brama di scrivere con profitto, cioè: Sumite materiam
veftris qui fcri bitis æquam Viribus , & versate diu quid
fer re recufent, Quid valeant humeri. E per corrispondere con
attenzione, grandezza dell'argomento intrapreso, formai alla prima la
seguente partizione di effo. Divisi primieramente la presente Opera in
due parti, cioè in Morale, c Medica, affinche con facilità maggiore ti
riuscisse di apprendere quanto scris vo trovandolo non confuso. Nella
prima Decade troverai descritti molti avyertimenti, che dò, acciocche chi
voglia accasarsi; possa provederli di ottima moglie; nè ti paja ciò fuori del
nostro proposito ; perchè se non si abbatcerà in una moglie prudente, ed onesta
, duc gran mali riceverà l'educazione de' suoi figliuoli; il primo de'quali
sarà ereditario dicendol’ ArioIto: Di vacca nascer cerva non vede
sti, Ne mai colomba d'aquila, nè figliaonefti E l'altro poi come potrà queste ajutarti
ad educarli bene , fe non sapràche cosa sia la buona educazione, per non averla
mai in se medesima sperimentata? Laonde conviene conchiudere, che la base
fondamentale della buona educazione consista in iscegliersi una ottima
consorte; ed avendola trovata, fi danno parimente molti documenti utili per
mantenerla costante nel suo buon costume ; ed inoltre si mostra di quai modi si
doverd fervire avendo sbagliato alla prima nel provedersi di effa , affinche
molto minori divengano i suoi infortunj. Nella seconda Decade principia.
1'Educazione Morale de figliuoli; ed in questa scorgeranno i Padri di famiglia
quanto siano tenuti d'invigilarci, e quali inconvenienti nascono dalle
loro era, [ocr errors] zio la similitudine de campi, nc'quali fa
vedere di che pregiudizio sia questa, dis cendo: Neglectis urenda filix
innascitur agris E che le Madri non debbansi abu, fare dell'amore verso i
figliuoli, essendo questo trascorso molto nocivo allawi buona educazione, a
segno che, se molti non avessero avuto l'asilo materno per esimersi da
gastighi, averebbero depofti quei vizj,percui poscia divennero infelici .
Troverai parimente documenti facili, e profittevoli, de quali potrà ogniuno
feryirsi sccodo le diverse loro inclinazioni per educarli. E perch'è il compimento
della buona educazione l'istradarli a ciò, che doveranno applicarsi, quindi è,
che si tratta ancora del modo, col quale si doveranno provedere i figliuoli
secondo gl'impieghi, de que quali si conosceranno meritevoli ; e
dandosi il caso per lorosventura, che i genitori morissero, trovandosi elli di
tenera età, si propone ciò, che pare conveneyole a farsi in simili calamitose
cótingenze:e' per non lasciare poi in abbandono i poveri, che non ponnoricevere
tutti quegli ajuti da Macstri conforme possono avere i figliuoli de'bene
Itanti, fiè pensato anche ad essi per dare un ripulimento più universale contro
vizj,essendo tal semenza in tutte le condizioni degli uomini perniciofiffima
per la Republica. Quattro sono gli interlocutori ideali della presente opera
: Sempronio giovane molto accorto, il quale brama d'istruirsi; Mecenate , e
Publio prudenti direttori, ed il Medico provetto , per dilucidare alcune cose
appartenenti alla Medicina. Mi fono servito di Publio ammogliato per la
sperienza grande, chc che si trova colui, il quale per molti an ni
è vivuto in tale stato: di Mecenate sciolto da tal legame, periscoprire quel di
più,chenon può eslere noto, a chi hà moglie,rimirando le cose più sincere chi
si trova in disparte, enon ha abbagliato la vista dalle proprie passioni.
Inoltre raccontando Publio cioca chè costumavası fare in tempi meno rilassati,
farà maggiormente conoscere la differenza de'correnti, & additerà ancora il
modo, che si potrebbe tenere per emendarli,quando questi discordafsero molto da
quelli . Nè potrà dolersi alcuno di quanto io con tutta sincerità procuro di
darti a notizia; essendoche conforme il Medico non può trovare il rimedio
opportuno al male se non forma l'idea giusta, con esaminare esattamente la
natura, cagione, e gli effetti di esso, così ancora nel ritrovare isimedj ai
vizj, che sono mali dell'animo b 2 caca [ocr errors] è necessario
sapere precisamente la natura, le cagioni, e li cattivi effetti di esli ; oltre
di che, non parlando io in particolare di alcuno, ma solamente in
generale diciò, che è detestabile, non si potrà dolere di me se non chi da se
medefimo conoscerà d'essere macchiato di tali difetti,come a tale proposito
disse S. Ambrogio ne'suoi serm.pag.102. Ego non de omnibus loquor Etc. ego neminem
nomino : conscientia fua unumquemque conveniat. Averei potuto ancor darui
la feconda parte; ma per maturare meglio alcune cose contenute in essa ci è
d'uopo di maggior tempo, c per iftabilirle ancor con provo più convincenti; ti
baa Iti per ora un picciolo abbozzo di ella affinchè poffi da questo
comprendere il progresso da me tenuto per compire una educazione più generale .
Quattro sono i punti Medici prinche convenga nel tempo, che sono già
cipali, che si tratteranno nella Decali de terza, in ordine alla buona
educazione; il primo fiè quello , che deesi fare per vantaggio di essa, prima
di concepire figliuoli: Il secondo, cioc [ocr errors] in ito
lif [merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small]
per cola [ocr errors] concetti, e dimorano nell'utero materno; il terzo
che far si debba, dati che sono alla luce, e finattanto, che dura la loro
pucrizia: Il quarto finalmente, ciocche convenga allorchè sono in età, nella
quale dee in effi manifestarsi l'uso di ragione , indugiando questo. Nel
primo si farà vedere assai difficile il potersi avere figliuoli di buona
indole, e docili , se tra marito, e moglie regneranno continue discordie; se
faranno l'uno, o l'altra di essi dediti all'ubriachezza, ed alla crapula; con
dimostrare loro donde ne provengala cagione; oltre le sperienze dimostrative di
ciò. b 3 Nc [blocks in formation] [ocr errors] Nel secondo,
che non debba una deviata madre tenere la medesima vita, che faceva , prima di
concepire; con mostrarle ancora gl' incomodi che può ricevere ella medesima, ed
il feto, che porta riell'utero, per tal cagione, e quanto possa venire
danneggiata la buona educazione da questo. Nel terzo si farà conoscere ,
dati alla luce, di qual latte debbano nutrirsi, e qual regola in cffi debba
tenersi, allorche saranno slattati, per deprime. re quel principio , che si
scorgesse avvanzato in loro a danni della buona educazione; e qual cuftodia
abbia d'aversi di esli , affinche non divengano di cattiva complessione, la
quale sarebbe molto pregiudiziale alla buona educazione, E finalmente nel
quarto , vedendosi questi ne' buoni documenti morali non fare progressi, fi
esamina sela sero avere pofsanza tale da deprimere, o innalzare alcuni
principj in esli, o foverchiamente assottigliati, o più del dovere sopiti;
mediante i quali ne nascesse ostacolo alla mente nell'apprendere, e ritenere i
documenti necessari, e questo sedebba farli con ajuti più efficaci mostrandoci
anche Orazio, che Incultæ pacantur vomere sylve. Nella quarta Decade poi
troverai dieci ragionamenti sopra i vizj, e le virtù, con esaminarsi ancora
ifrutti di ambidue ; e servendo questa come di una appendice all'opera, goderà
il vantaggio di efsere trattata con ragioni, e documenti filosofici, medici ,
morali, e naturali, secondocheayerà d'voро di essi ; & intanto si
sono queste materie poste nel fine , per non dilungare troppo i ragionamenti,
potendo ciò renderli tediosi; ed essendo per altro neceffario il farc:
ben comprendere a tutti quanto di buond, o cattivo nasca dalla buona, o cattiva
educazione; doveva questo non trattarsi solamente di passaggio, conforme si era
già fatto nelle antecedenti conferenze; ma farfene bensì particolari
ragionamenti a parte per dimostrarlo con più di chiarezza, potendone da ciò
risultare un infinito bene; conciosiacosache fàconoscere chiaramente il nostro
Ippocrate nella risposta, che diede agli Adderiti, essere feliciquei Popolizi
quali ben sapeano, che la loro sicurezza non consisteva nelle alte torri,cd in
altre materiali fortificazioni;mà bensì nella bontà de Citradini,e ne'loro
prudenti consigli:spiegandosi ivi : Beati profectò funt populi , qui sciunt
bonos viros suaesse munimenta, nonturres,neque muros, fed fapientum. vi. rorum
sapientia confilia ; É venendo interrogato Socrate nel convivio de'sette
fa fapienti di Platone, qual fosse la più ben munita Città, egli rispose
: Que bonos viros habet . Quale la più felice : In qua præfe&ti focietate
conjunguntur: E finalmente qual fosse la migliore di tutte, egli disse: In qua
plurima virtuti premia proposita sunt . Nè può di ciò dubitarsene, insegnandoci
l'oracolo della Divina Sapienza al 6. Multitudo fapientum fanitas orbis.
Spero finalmente, che saranno ricevute queste mie fatiche con animo benigno da
quei, che sono amanti delle virtù, e se faranno vilipesc da chi ha già fatto
l'abito di āteporre i vizja queste,verranno da essi più costo a loro mal grado
onorate; riputandole di pregionó dissimile a quelle cose solite da essi a
pofporsi; mi basterà, che fiano grate a chi possiede il buon costume, ed utili
a chi brama di acquistarlo, perchè gid sono divenuto capace , che nel mondo
erunt vitia conec homines; con questa diferenza solamente del più, o del
meno,nè io pretendo di vantaggio. Vivi costante nel bene operare per continuare
ad essere felice, e far conoscere agl’infelici viziofi colla tua tranquillità
di animo meglio le loro mi serie. Si videbitur Reverendissimo Patri
Sacri Palacii Apoftolici Magiftro. N. Barcbarius Episc. Bojanen.
Vicefg: APPROVAZIONI. Etta, è considerata del si gnor Dottore
Domenico Gagliardi , intitolata l’Educazione de figliuoli morale ; o medica ;
per commissione dei Padre Reverendiffimo Gregorio Sel. Seri Maestro del Sagro
Palazzo Apoftolico; non ci hò trovarà cosa vervna , chic fia contraria alla
Fede, o clic offenda i buoni costumi . Con verità bensi poffo; c debbo
attestare; che una tale opera per mio sentimento è degna di uscire in luce,
perchè oltre l'effere or: nata di scelta crudizione, e di soda dottrina ; può
essere molto fruttuosa ; ed al publico, ed al privato, spiegandosi ia essa con
dotta; e giudiziola chiarcze [ocr errors] za la maniera di ben educare la
prole, affare di somma importanza , come è ben noto a chi non hà cicco
l'intendimento, ed offuscata la ragione. Cosi ne giudico ; c francamente mi
persuado, che altrimente non ne giudicherà chiunque col leggerla dalla forza
del vero G conoscerà obbligato ad approvare con giusta lode il zelo ben
commendabile, e con eso l'erudito , e saggio faperc del chiarissimo autore, che
per la publica utilità non hà ricusato di addosCarG acl colmo delle sue Mediche
applicazioni una cale fatica, che ben lo palesa non meno versato negli studi
più propri della sua professione, che negli altri, per cui sono degnamente
accreditati i più celebri per fama di erudizione. Io Fra Tomaffo Maria Minorelli
de'Pre dicatori Maestro di Sagra Teologia, « Bibliotecario
Cafanastense Per P Er commissione del P.RñoGregorio
Selleri Macstro del Sagro Palaze zo Apostolico avendo letra , e confiderata
l'opera dell'Eccellentiffimo Signor Doctor Domenico Gagliardi , intitolata
L'Educazione de figliuoli morale,e Medica, non avendo trovato nella medesima
mala fimc repugnanti alla nostra Santa Fede, ed alla bontà de costumi, nè
discordanti da i buoni fondamenti della nostra Professione di Medicina la
considero degna di publicarli con la Stampa questo dì 20. Gennaro 1722.
Michelangelo Paoli IMPRIMATUR. Fr. Gregorius Selleri Ordinis
Prædica corum Sac.Palat. Apoft. Magift. Delle Conferenze,
PSopra l'elezione della Moglie , e sue condizioni più essenziali. Sopra l’età più propria, epro.
porzionata di accasarsi ; e quale sia svantaggio maggiore, farlo prima del
tempo convenevole, 9 nella vecchiezza : Dove la mostra,in che cose
faa esenziale l'uguaglianza nei Matrimonj; e quali jvantaggi nascano dalle
disuguaglianze in queAte. Sopra gli antichi costumi, pras ticati
appreffo alcuni Popoli per la generazione ; ę se sia più vantaggioso lo
scoprire scambievolmente i propri , corporali difetti , prima di
sposarsi, o l'occultarli. Nella quale si mostra , in che modo si maritino
le belle , le ricche , ę le deformi quantingue povere. Nella quale si esaminano piut
distintamente i pregiudizi, che risultano dai matrimonj fatti senza
l'intervento della Pruden74.Sopra i difetti , e le virtu delle
donne. Come si debba regolare
l'uomo colla moglie scelta di ottime qualità. Come si debbano regolare i
saggi mariti con le mogli imprudenti , e viziose . Sopra i ripiegbi prudenziali , che
debbonsi prendere in diverse occorrenze dalle mogli saggie ,
incontrandosi in viziosi, ed indiscrefi mariti, Sopra l'educazione Morale de'figliuoli, Nella
quale si mokra, che co Ta sia edncazione , cui appartengo piid di ogni
altro; e sefia necessario luogo particolare, ove debba farsi . Intorno a quello , che debbas farsi da
Genitori per educar bene i figliuoli .
Intorno all'uffizio, e qualita dell’Ajo, e dei Maestri . Sopra l'educazione delle Pin
gliuole, Sopra l'etd opportuna d'
apa prendersi le scienze, ed il modo più facile per accer tarsi
delle particolari inclinazioni de'figliuoli .
Sopra gl' impieghi , che do vranno darsi da saggi Padri a
figliuoli ben’educati, e dotti. Come debbano i Padri rego larsi nel
provedere i figliuoli ingnoranti , e viziosi. Sopra il modo di ben collacare le
figliuole. Sopra l'educazione de
Pupil li : e come debba ciascuna portarsi verso i suoi Genitorį
defonti, Sopra l'educazione
de'figliuoli poveri, e donde venga questo danneggiata . 539 [ocr
errors] Sempronio , ( Mecenate .
[ocr errors] Sem. Engo talmente af frettato da mici cogiunti a
prender moglie, che non mi lasciano vivere, sti molandomi giornalmente di
farlo; a segno che, per non poterli più sentire, sono in necessità di compiacer
loro : solamente due core mi ritardano; e fono l'educazione de figliuoli, che
possono nascere,e la cura, la quale fi dec avere di esli, efsendo in ciò
inesperto ; per altro mi trovo già pronto a consolarli : istruitemi, Mecenate,
in queste, potendo voi fare due beneficj in un tempo;cioè, d'istruire me,
econsolar' efli, che tanto bramaDo le mie nozze. : А Mer.
Mec. Mà questa moglie,ci è già scelta approposito per voi ? Sem. Ci sono
tante giovani oggidi belle , galanti , e ricche, che essendo anche io giovane,e
commodo di beni di fortuna la posso scegliere a mio genio, e fodisfazione in
brevissiino tempo. Mec. Però non sò se tutte queste belle , galanti, e
ricche, faranno per cala voftra,leggendo in Ateneo che: demens eft , qui oculis
uxorem accipit : come fece appunto Monimo il quale , avendo sposata una
Giovane , senza ricercare prima i suoi costumi, divenne infelicillimo marito; c
dolendosi della sua {ventura con Olimpia madre di Alessandro, lo riprese della
sua trascuragginc, usata nello sceglierla. Sem. E che ! la dovrò prendere
forse deforme , scoriese, e povera ? Mec. Neanco questa farebbe al caso
voftro. Sem. E chi dunquc doverò prendere? Mec. Una's clic lia
donna di propo, fito, Sem, [ocr errors][ocr errors]
Sem. E quelle, che sono belle , egalanti, sono donne ancora di propofito.
Mec. Mà non tutte buone per voi. Sem. Quali saranno quelle, che voi
Itimate buone per me? Mec. Quelle appunto, che sapranno softenere con
senno, e con prudenza la metà del peso della casa, e dell'educazione de
figliuoli; onde quando voi la tropaste di queste qualità avercre risparmiato la
metà del penfiere dell'educazione, e cura de figliuoli; e queste sono appunto
quelle Itimate appropolito da Plauto, in Stiche, ove dice: UI per orbem
cum ambulent Omnibus , os obturens , ne quis meritò maledicat fibi.
Essendo queste ornate di tutte quello desiderabili prerogative, descritte daw
Seneca in O&avia. Probitus , fidesque conjugis , mores, pue dor
placeant inarito. Sem. Io credea , foffe fufficiente, che ja moglie sapeffe far
figliuoli, c chou ogr’una di queste fosse a propofito.Mec. Per farli, lo credo
ancheio, ma non già per educarli bene, e per adempire quanto dee' una vera
madre di famiglia; essendo che per far questo liricerca, che sia dotata di
senno e di prudenza' : vi avvedete voi ora del vostro errore, e che come si
suol dire, ponevate il carro avanti i buovi, con istruirvi nell'educazione de'
figliuoli , senza sapere ciò, che ci vuole per iscegliersi una buona moglie: e
se v'incontrasto in una imprudente, garrula, e contenziosa, à che vi gioverebe
il sapere educar bene i figliuoli, se quanto di buono voi operaste, ella
sarebbe capace distruggere colla sua imprudenza, e garrulità ?, allor sì che
fareste caduto in quella fyentura descritta dal Poeta Saririco : Semper
habet lites, alternaque jure gia lectus In quo nupta jacet, minime dormia
tur in illo . O.pure vi abbatteste in una, che fosse di quella natura superba,
descritta dal me. desimo, la quale dicesfc; Нос [ocr errors] voluntas
; Imperat ergo viro. In questi casi educate bene i figliuoli se potere
. Sem. La bramerei savia, e prudente, ma vorrei, che foffe anche gentile,
e galante ; perche le donne di fattezze grossolane non mi sono mai andate a
genio. Mec. Se questa sarà sana , e prudente non ci hò cosa incontrario,
ma se poi colla sua gentile, e delicata complesfione ci fosse unira qualche
indisposizione di animo, e di corpo, il che suole alle volte accadere, non vi
consiglierei a farlo. Sem. E perche ? Mec. Vi porreste in tal caso a
pericolo di fare una cattiva razza; eredicandog da figliuoli non meno il bene ,
che il inale di effe ; ed hò sentito da Medici, che più dalle Madri, che da i
Padri questo si ritragga, per il nutrimento dato loro quei nove mesi, che li
portano nel ventre nè fi può fperare, che [ocr errors] A 3
che dal seme velenoso del nappello nasca un giglio, o una rosa: non sarebbe
poco, quando meno velenosa germogliasse quella pianta , che dee ello produrre :
e poi voi, il quale vi dilettate de cavalli, dovreste sapere per isperienza,
che quelli nati da cattiva razza, riescono i meno generosi; e perciò dovete
anche riflettere, che il limile poffa seguire negli uomini, come lo descrisse
Orazio. Fortes creant ur fortibus , du bonis : Et in juvencis, eft
in equis patrum Virtus : nec imbellem feroces Progenerant
aquile columbam . Sem. In maggior confusione di prima ora mi trovo, sentendo da
voi , lian neceffario ancora di scegliere una donna savia, e prudente per
moglie; onde, per liberarmi da tanti guai, seguiterò le vostre orme, e viverò
libero da questo legame anche io, e dicano ciocche vogliono i miei
parenti. Mec. Non fatedi grazia, Sempronio, questo sproposito,
Sem. [ocr errors][ocr errors] Sem. E voi perche l'avere fatto ?
Mec. Non aveva allora la sperienzas d'adesso ; nè mi abbatiei in consigliere
sincero; e sappiate , che mi sono pentito più volte, e particolarmente
avanzaadomi negl’anni, di averlo fatto. Sem. E per quali motivi?
Mec. Perche non anderei tanto lambiccandomi il cervello in cerca del mio erede
(briga dolorosa dell'età avanzata) se avesli figliuoli. Sem. Essendo voi
tuttavia robusto, farefte anche in tempo di farli. Mec. E che vi dispiace
forse la mina robustezza, che me la vorreste far perdere? non sono più in
tempo di farli; hò procurato finora di non esser ridicolo, & ora più del
passato son tenuto di farlo, e voi mici varrefte far diventare per cantare di
me forse ciocchè disse il Taffo di Vincilao : Vincilao, che sì grave , e
faggio innante Canuto pargoleggia, e vecchio amants : Queste risoluzioni,
Sempronio , deona fare in gioventù , per poter vedere i suoi figliuoli
bencincaminaci prima di mori. re, essendo che a me potrebbe succedere ciò che
dice Plauto: Poft mediam ætatem, qui ducit uxorem, Si eam fenex
prægnantē fortuitò feceris , Quid dubita's quin fiet parasū
nomen puero . Poftumus? Sem. Dunque saranno ridicoli tani vecchi,
che si accasano,e con giovanette anche belle? Mec. Io non debbo entrare
nei freci altrui, debbo bensi pentire 2 cali miei, ora che ho il pieno uso di
raggione, acquistato cò gli anni; ma questi sono discorsi fuori del nostro
proposito, dovendo voi risolvervi a prender moglie , per non avervi a pentire
poi ancor voi di non averla pigliata ; e per ciò dovere farvi ora istruire in
quello, ch'è necessario per fare un ottima elezione. Sem. E da chi?
Mec. Da colui, che la seppe far ottima , e perciò gode vita felice , e
tranquilla.Sem. Ma io non vorrei, Mecenate mio, palesare alero , che à voi il
mio interno; perche sapete pure qual vento spiri oggidì, che si van cercando id
fecti alcrui per mantenere allegre le nostre notturne assemblee, laonde di
scoprendo le mic debolezze ad un'altro, sarebbe cosa facilissima si
divulgoffero fra molci. Mec. Viverenino in tempi infelicissim mi, re in
Citcà si vasta la secretezza re. gnasse in me solamente, Sem. Mà non
potreste voi solo istruire mi in cucto , essendo vomo di molta fperienza nelle
cose del mondo. Mec. In teorica potrei darvi molti avvertimenti, ma in
cose pratiche nors posso consigliarvi ; perche essendo io sciolto da limil
legune, no ho avuta occasione di approfittarmi in tal faccenda. Sem. Oh
quanto mira meglio colui, il quale stà in disparte, i difetti dongeschi di
quello facciano i mariti! e come giudice spassionato , quanto li distingue
anche meglio! Mec. Voi sapete quanto vi amo, u per: perciò non
lascierei cosa alcuna, che non facessi per consolarvi; mà conos . cendo io, che
meglio potreste essere iftruito in tutto coll'intervento di chi averà navigato
felicemente molti anni per questo gran mare , perche vi amo, dico questo ;
potendo egli molte cose aver conosciute in atto pratico,alle qualinon possono
giungere le mie teoriche. Sem. Se lo giudicare necessario bisognerà farlo
: ma chi sarà ral'consigliere? Mec.Ci sarebbero Publio Roscio,che per lo
spazio di quaranta tre anni, e vivuto in pace con sua moglie. Massimo
trentanove anni parimente, senza contendere,e Silvio Paterno trentadue;ora
sceglietovi, chi volere di questi. Sem. Oh bene avete trovati i parenti
più prossimi à Noè, che sono in questa Città ! quai consigli mi potranno dare
questi vecchi decrepiti, che non firicordano del seguito nel dì avanti; e poi a
tempi loro non usandofi le galanti maniere constumate oggidì, a che mi
fervirebbono i loro ancichi consigli , non pra. praticabili a tempi
nostri? Mec. Tutte queste eccezioni, che da. te loro sono in vantaggio
vostro; per, che, se non si ricorderanno quello , che udiranno da voi, niuno
risaprà i fatti voftri , e se, senza tante galanti maniere di oggidì, fi
feppero far amare dalle loro consorti, insegnando a voi i modi, da loro tenuti,
ci guadagnerere molto in saperli, e se non siete ancora informato della
capacità de’vecchi, apprenderes la da Ovidio, Jura fenes norint , dow
quid liceata que , nefasque, Falque fit inquirant, legumque exa.
mina servent. E da Cicerone , il quale, de Senectute, così parla del Vecchio:
Non facit en que juvenes, at verò multa majora, meliora facit ; non enim
viribus , aut ves locitate corporis res magne gerantur , fed confilio ,
authoritate , fententia , quia bus non modo non arbari , fed etiam auga. ri
senectus folet. Laonde faggiamento l'Ecclef. al 25. dico ;- Corona fenun muba
ta peritia : Sem Sem. Sceglietene dunque uno di quefti a vostro
genio, e quello, che conoscerete più approposito per il bisogno mio. Mec.
Publio sarebbe più al caso, per. che quantunque egli meno si ricordi delle cose
presenti, conforme sono tutti i più vecchi, ha felicissima memoria nel
ricordarsi delle passate:e poi avendo numerola famiglia, e così bene
accostuinata , saprà anche istruiryı nella educazione di essa. Sem.
Attenderò dunque con anfierà i consigli di Publio; ma faprà istruirini incio,
che riguarda la cura, che si dec avere per conservare la prole con buona
falute Mec. L'esperienza, avuta in molte cõgiunture ad esso accaduce lo
averà facilmente renduto capace, a darvi qualche buon consiglio in questo
ancora; ma non già con tanta esattezza cõforme farebbe chi foffe profeffore di
Medicina. Sem. Sarebbe dunque bene u’interveniffe uno di questi; c
difcegliere tra periti il migliore Merg. Mec. Il vostro Dottore è
pratichiffimo, avendo avuti molti figliuoli, è anche ingenuo , e sò che vi ama
di cuore, onde migliore di ello non saprei sccglierlo. Sem. Così è: or
ditemi, come doverò contenermi nelle nostre conferenze? Mec. Domanderete
quando si presenterà l'occasione tutto quello, bramate di sapere; e non vi
vergognate di fare anche quesiti di poco rilievo ; perche non facendoli,
rimarrete con perplessità in molte cose. Sem. Come si farà per informare
Publio,che al Dott. parlerò io modelimo' Mec. Sara inia cura d'informarlo
di tutto, e già che siamo di primavera potremo portarci al mio giardinetto,
contiguo alle mura della Citrà, ove come disse il Petrarca: Non palazzi ,
non teatro , e loggia , Ma in lor vece un abete , un faggio, un
pino, Fra l'erba verde , el bel monte vicino , Levan
di terra al ci el nostro intelletto , E faremo ivi due volte la settimana le
nostre conferenze. Sem. Mà non sarebbe meglio, per approfittarmi
prestamente , il farle tre volte ? Mec. Vicompiacerò anche in questo,
purche le occupazioni degl’aleri lo permettano ; ma voi, Seinpronio, averete
già dato luogo nel vostro cuore a qualche oggetto, perche bramate sapere con
sollecitudine se quefto ci abbia da rimanere,viconsiglierei però quádo ciò
fosse, a spogliarvene prima, per applicare tutto il pensiero a quella, che
converra à yoi, & alla vostra casa , che vientri per meglio
stabilircela , Sem. Non sono determinato ancora, quantunque abbia posto
l'occhio in più parti, onde posso facilmente spogliarmene affatto, e starò con
anfietà attendendo l'avviso del giorno, in cui si darà principio alle nostre
conferenze. DECADE PRIMA CONFERENZA PRIMA Sopra l'elezione
della Moglie, e fue condizioni più ellenziali. Mecenate , Publio,
Sempronio , e Medico. Mec. O notificato à Publio ciocchè voi
bramate da esso, il quale vi copatisce a maggior segno; posciache egli
ancora si trovò in un fimile laberinto,allor che dovea prender Moglie, comc
jeri appunto mi disse, e da lui medesimo sentirere ora con vostra
confolazione. Pub. Quantunque anch'io venifli Atimolato da mici Genitori
ad accasarmi andavo nulladimeno téporeggiado d'effettuarlo;perche apprendeva
fosse schia vitudine grande la vita cognugale, ma la ritrovai, per
verità, assai diversa das quello, che io mi avea figurato ; & efsendo stato
sempre mio costume, anche da giovane di regolarmi col consiglio d'uomini favii
, c provetti, mi portai da un di questi mio amico, che non aveva alcun
interesse in cal affare, per consigliarmi seco , fe dovessi risola vermi a
prender moglie, il quale uditas ch'ebbe tale proposta, cortesemente mi disse:
figliuol mio è tempo ormai , che vi risolviate di farlo ; perche avendo voi già
l’età di venticinque anni poiere esser capace d'indrizare una donna per la
buona strada , quantunque aveste sbagliato in isceglierla nelle cose meno
essenziali, e sappiate, che l'uomo savio bene spesso fa divenire la moglie non
dissimigliante da lui , siccome l'imprudente donna precipita l'uomo poco
avveduto : figuratevi alla prima di dover navigare per un vasto oceano dover
essere voi il nocchiere, che guida la nave : sappiatevi ben regolare
nelle [ocr errors] e di [merged small][merged small][ocr
errors][merged small][merged small][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] nelle tempeste, per non sommergervi ; prendetela sana, ben accostumata,
e di buon parentado, non vi lasciate abbagliare dalla bellezza, dote, e
nobiltà; e risolvetevi ; perche quanto più differirete, altrettanto inaggiore
sarà il morivo di pentirvi della tardanza: raccommandatevi al Signor Iddio,
essendo che: A Domino autem propriè uxor bona , come disie Salomone;
procuratela giovane, nè tardate di vantaggio. Sem. Quanto mi consolo ,
che vi siete ancor voi trovato in fimile laberinto; e son sicuro, che perciò
compatirete le mie debolezze. Pub. Vi comparisco a maggior segno figliuol
mio , fatevi però animo ; perche quantunque paja la vita conjugale alla prima
di un gravissimo peso, quando però questo viene portato concordemento
d'ambedue, riesce molto leggiero, an. zi foare'; e tal fortuna l'hò sperimenta.
--ta io medelimo. Sem. Vi abbatteste à caso in sì buona compagnia, o pur
faceste preventivos [merged small][ocr errors][ocr errors] diligenze per
isceglierla 2 Pub. Le feci certamente esatciflimus per non operare da
balordo ; perche se per provederci de' cavalli, cani, anzi di vili giumenti si
fanno efatte diligenze', acciocchè siano sani , edi buona rizzi; quattro
maggiormente sono neceffario queste nello provedersi di moglie, come
puntualmente si trova registrato in Tcognide, Canes quidem, a afinos querimus
, • Cyrne, dequos Generofos, cu hec quisque vult ex bona progenie
Sibi parare ; uxorem aurcm ducere malam Ex mala progenie non curat 1. Vir
bonus ; modo fibi pecunias multas 1offerat. * Sem. E qual modo teneste in
farle? - Pub. Avendo posto l'occhio ad una Gentildonga modesta,non diriguale
alla mia condizione, & in età nubile, miraccomunaadai di cuorc al Medico ,
che fa. Noriva la mia casa , acciocchè avessesavesle ben Dell'Elezione della
Mog. 19 procurato di accertarsi della sua salute , avvertito à non ingannarsi,
per non ave. re a fare ancor esso la penitenza del suo fallo; posciache se
fosse stata mal sana, dovendola curare, briga maggiore gli averebbe apportata;
senza speranza di premio straordinario ; per esserne egli Itaro la cagione, che
fosse entrata in inia casa; ciò però dilli per ischerzo. m Sem. E detto
Medico, come lo potcs va scoprire, se non l'avesse avuta ini cura ? Pub.
Penetrò tanto, che mi bastò , Sum. Com'egli fece ; Pub.
Avendo confidenza col suo Speziale, segretamente cercò nel di lui libro maltro,
se vi era descritto alcune medicamento, servito per effe lei, e non trovandovi
cosa di rilievo, mi disse : ftiamo bene di salute, perche none, si è mai
purgata . Sem. E leu fosse fervita di qualches altro Speziale? Pub.
Questo non si costumava di fare in quei tempi tanto allo Speziale, quanto
al Medico. Una volta, ch'essi erano ftati ammessi, fino alla morte
continuavano, ed'eravamo per ciò ben serviti; imperciocchè con molto amore effi
s'in. tereflavano ne i nostri vantaggi,conforme comprenderete da quanto
soggiungerò. Non si appagò già l'affezzionato Medico di questa fola diligenza
usata', mà volle far di vantaggio, e fu d'abboccarsi col Dottore, che medicava
in quella casa,introducendo seco discorso sopra la poca salute, che godevano
alcune giovani, ch'egli curava, attribuendone la cagione di ciò al poco
esercizio, ch'esse facevano ; e di poi passò à domandargli, di quali rimedij
egli si prevaleva per conservare in salute quella , che doveva appunto essere
la mia futura fpofa, la quale in appareaza mokravas essere più sana dell'altre;
cui replicò, ch'avendo ella sortito un ottimo temperaméto, no aveva d'uopo
dell'opera lua, & in segno di ciò nel mal de vajuoli da ella sofferto
appena cgli vi fu chiamato nel oel fine', tanto la natura le fu
propizia , che senza alcuno ajuto medico fece il fuo corso felicemente; e con
questa seconda diligenza mi accertò della buona salure, ch'ella godeva.
Sem. Questo favore toccherà à voi, Dottore, di farmelo... Med. Non mi
ponete di grazia in Gmile intrigo ; perche non essendo io si avveduto, non
vorrei errare nello scoprire gli altrui difetti : e poi se îi desse il caso,
che io avelli curato quella giovane, l'onor mio n'anderebbe di mezo ,
discoprendovi la verità delle cose con, fidateini. Sem. Della vostra
avvedutezza punto non dubito: e poi porrò la mira a qualcuna, che non fia
medicata da voi; onde non mi contriftate col recufare di f.2vorirmi ; perche
altrimenti sarete voi cagione, che io non prenda moglie, noa potendomi fidare
meglio di alcun altro in questo, se non di voi. Med. Per servirvi la
vedrò, considererò il suo temperamento, e fisonomia; B 3 mà
mà tante altre diligenze, praticate per Publio, non vi prometto di firle;
perche ora non si costuinano più molte cose, che si facevano allora. Sem.
L'usanze buone non si debbono dismerrere mai, io mi dichiaro con voi, non per
ischerzo, come diffe Publio , mà con tutto il fenno: che se non sarà fana ,
toccherà à voi di curarla senza fperanza di ricompensa , succedendomi per colpa
vostra tale sventura'. Mega Vorrci, Sempronio, che mi mostraste qual
privilegio voi avere più del Dottore di dismettere l'usanze buone; essendo ch'è
pur usanza buona riconoscere col dovuto guiderdone il Medico, il che voi volete
disinertere', obbligandolo di più ad osservare quello, che fa per voi.
Sem. Lo dicevo per animarlo, 20ciocchè lo facesse con più fervore: non già
tutte le cose, che si dicono si fanno. Mec. Questo però non è già premio
, che animi, mà bensì minaccia , che avvilisce più costo ; olore di che non è
già ben ܪ
ben fatto di proporre con tanta franchezza ciò, che non si vuole
praticare, Sem. Non parliaino più di ciò; palliamo al costume ; questo in
che dee cons Giftere, avendomi voi significato, non essere necessario, che la
moglie lia garbata, e galante? Mec. Cerra cofa è, che il buon costume
della donna, non dee coolisterer in questo, mà bensì in aver cura delle casa,
in saperla ben reggere, e gover: nare di cui parlando ne? ;suoi Proverbij
Salomone diffe : Confickeravit. Jemitas domus fue , panem otiofa non comedia Ed
il Nazianzeno nei suoi documenti che da alle vergini, così dice Neque domibus
cxternis olideas , neque menfis. Ed altrove contro le donne più del doc
yere ornate, così parla . Mos eft mulieribus [res pretiofa] domi
manere [ocr errors] Plurimum, & divinis alloqui sermonibus Telaque ,
fufoque ( hoc enim munus eft mulierum)Ancillis opera distribuereservos vitare
, Labiis vincula ferre, oculis,atq;genis: Neq; pedē
exirà vestibula Sepè babere; E Menandro comico greco così dice , Intus manere
mulierem oportet oportet :: Bonam, egredientes autem foras nullius
pretii sunt . Sem. Come scopriste, Publio , che fosse di questo costume la
vostra Conforte? Pub. Avevo in quel tempo un servitore molto affezionato,
& insieme accorto, diedi ad effo segretamente l'incombenza, che lo aveffe
scoperio ; e fi pora tò egli così bene, che in brieve fui informHo
ditutio. Sem.' E come fece? Pub. Conduffe, ove questi sogliono
ricrearsi, un certo fuo conoscente, il quale da molto tempo serviva in quella
casa, e dopo d'essersi insinuato avvedutamente appresso di lui,introdusse
discor. so, come è lor costume, sopra le stravaganze de padroni, &
interrogato, che l'ebbc de cractamenti, che riceveva dal fuo suo,
passò alla giovane, di cui ne diffe un infinito bene, con individuargli alcune
particolarità, le quali denotavano forfe savia, c prudente . Sem. Questi
come poteva essere apa pieno informato delle qualità della gior vane, non
trattando in quei tempi lei padrone con servitori? Pub. I servitori in
ogni cempo sono ftati curiofillimi di scoprire i fatti de'padroni, & anco i
più segreti', come ava vertì Giovenalc. Scire volunt fecreta domis, atque
inda timeri. E siccome sempre vi è stata qualche affezionata corrispondenza tra
essi, e le donne di servigio, onde per questa via, ciocche effi nonodono, ne
offervano, lo penetrano : nè è stato mai possibile, che le donne di servigio
ili fiano astenute dal'non palesare i difetti del: le padrone , almeno a questi
loro favo riti, per mostrare con elli confidenza. Sem. Vi bastò quefta
sola notizia ? Pub. Procurai in oltre rincontrarl24 da più parti prima di
crederla ; pofçiag che che udito efferii da quella casa partita
disguitata una donna , fecidiella prenderne inf rmazione, la quale
contesto le medelime cose,che dette aveva il servitore; ed essendo uniforine à
questo notizie il publico conceito, che di essa fi aveva nel vicinato, mi
appagai del suo buon costuine ie non feci altre dili. genze intorno à questo.
ni Sem Manon sarebbe stato ineglio vi foste informato da qualche Uomo das
bene? Pub. Non lo stimai neceffario , avendo rincontrato da più parti il
medesimo: e poi per dirvela giusta , chi è buonio non è curioso d'investigare
gli altrui difecii; ed anco sapendoli si guarda molto bene dal
publicarli..." Sem. Il vostro Ulisse, Mecenate, sa, rebbe approposito
per iscoprire gli altrui difetti in Mec.. Ma non in questo affare, perche
egli cicala troppo: si ricerca in tale affare chi sia destro, e serio , che
compri, c non venda. Sem. Sem. Palesatemi ora , Publio, qual modo
usaste nell'informarvi della prosapia della vostra Conforte ? Pub. Vi era
in quel tempo un certo sfaccendato investigatore de' fatti altrui, il quale
andava curiosamente cercando le memorie delle antiche famiglie negli Archivi ;
cui feci parlare dau un'amico, è che mostraffe desiderio, tanto delle notizie
della mia famiglia, quanto dell'alcra, con fargli promertere un convencvole
riconoscimento per le sue fatiche'; e per verità in brieve tempo d'ambidue pose
in chiaro quanto circa ad un secolo a poteva tro. vare, e seorgendo verificarsi
ciocchés aveva detto della mia, prestai fedes à quanto aveva ritrovato dellal,
tra; e vedendo, che fiftava quasi del pari tanto nel bene, quanto nel male's
non ini curai fare diligenze di vantag. gio'intorno a questo ancora potendomi
bastare. Sem. Dunque quantunque sapeste, che in quella viera qualche
eccezione, non [ocr errors] [merged small][ocr errors] non ne
faceste caso? Pub. Mà se vi era questa nella mias ancora, come potevo
farne caso, do. vendoci ne' Matrimonj servare uguaglianza. Mec. Credete
forse, Sempronio, che tutti noi descendiamo da Cerari, e che per non interrotta
serie di molti secoli le nostre famiglie siano state sempre illuftri? Se li
potesse ora ritrovare la de. scendenza vera degli Arsaci; e Tolomei, oh quanti
di questi si troverebbero esercitare arti vili, e forse core peggiori ancora .
lo per tal motivo no mi fon punto curato di far ricercare dell'albero della mia
casa , se non l' ulcimo secolo ; e tanto maggiormente, che un mio amico, il
quale si mostrò più curioso di me, bramandolo di due , dopo di avere speso di
molto in ricercare i fatti de'suoi antenati; vi trovò alcune cose, che forse
nulla li piacquero, o fece tralasciare l'opera:solamente queIto guadagno vi
fece, che non milançava più la sua nobiltà , come prima.Som. Di avere però
l'albero della sua casa lo stimo neceffario, affinche i posteri seguirino
i loro illustri maggiori. Mec. Lo credo anch'io , mà però non conviene
farne publica mostra , se uon cui averà trà suoi ascendenti chi abbia goduta la
Sovranità, mediances la quale degnamenre merita la preminenza sopra tutte le
altre una sì illustre famiglia. Potrei riferirvi à questo proposito ciò, che
fece un saggio Prencipe, cui fu presentato l'albero de'suoi antenati; lo rinirò
egli ben bene , & essendoli avveduto , che l'adulazione vi avca innestare
alcune cose ideali, lo fè piantare profundamente in una fund Villa, atfinche da
quello germogliaffed l'albero de'suoi descendenci più glorioso, essendoche lo
fc piantare ivi ad onta dell'adulazione. Med. Licredo anche utili detti
albe. ri per prova della salute goduta dagli asccadenti ; posciache se il Padre
mori ottuagenario , il nonno parimente in età decrepita , conforme anco l'atavo
, ed il tritayo, sarebbe questa una provas grande della perfetta falure
in quella famiglia; e tanto più se questa si proyaffe ancora per parto delle
donne; dove che se fossero morti giovani , e vi foffero regnati tra eli mali
creditarj, farebbe far un cattivo negozio, d'incftare a piante si cattive la
propria. Sem. Riuscirà ora cosa difficile à potersi sapere i difetti del
casato, col quale dov.erò apparentare, per non esserci più quegli avveduti
indagatori dei difetti altrui. Mec. Non dubitate, perche non ci è questa
penuria ; sono stati, e saranno sempre nel Mondo niolti, a quali premono più i
farti altrui , che i proprj, ricavandune da ciò notabile guadagno ; basterà
essere loro grati, perche di quc sto vivono , per altro ne troverete molti: e
poi ci sono ora tanti manoscritti, e libri anche stampati, i quali trattano
delle nostre famiglie, che vi si renderà più facile di quello, che credete, à
Caperlo giusto ; Sc però non averanno, tore scritto con passione,
clivare; il che si difeerne facilmente, non potendosi mai celare questi canto ,
che non si scuoprano. Sem. In questo supplicherò voia favoriemi, avendone
già pratica di molte ; Ini mette solamente pensiere il mor do di scoprire ciò,
che accennò il Dor concernente all'età , che fieno viyuti, & alla
loro falute, ed in questo ancora vi prego , Dottore , che mi ajutiate.
Med. Questa non è incombenza di Medico, dovendo egli cercare i vivi per
'risanarli , se sono infermi ; ma ai morti qual bene potrà apportare,
ricercandoli ? Sem. Apporterete à me il bene, le non lo farcte a defonti,
con trovarmi moglic , che descenda da famiglia sana, ed in conseguenza ancora a
miei descendenti. Mec. Il Dottore ha da fare, non gli date questa briga ;
vi voglio inícgnare io il modo per uscoprirlo; posciache, fc [ocr
errors][ocr errors] se la famiglia, colla quale voi volete app arentare, sarà
illustre, e di antica pro fapia, ci saranno tante lapidi sepotcrali,ove son
descritti i fatti degli ascendenti , ed ivi troverete anche gli anni, che
questi vissero ; se poi saranno famiglie moderne, l'invidia farà palese più di
quello, che bramerete sapere di cfle , ritrovandosi ricche. Sem. Passiamo
ora all'età più propria d'accasarsi. Mec. Voi,Sempronio, vorreste essere
in un sol congresso istruito di tutto; riferrete di grazia,che Publio è
vecchio, ed il Dottore ha le sue occupazioni ; non ci abuliamo della loro
sofferenza.; e poi non è già vostro vantaggio di far lunghe conferenze, perche
meno a apprendono li troppi documenti, di quello si faccia udendone pochi per
volta ; differiamolo dunque alla seguente Conferenza. CONFERENZ A 11.
Sopra l’età più propria, e proporzionata di accasarsı ; e quale
fia svantaggio maggiore , farlo prima del tempo conyenevole,
ò nella vec- chiezza. [ocr errors][ocr errors] Sempronio ,
Publio , Mecenate, e Medico. [ocr errors][ocr errors] Sem.
01, Publio , che avete avuto fortuna nel vostro accasamento, ditemi di grazia:
in qual'età cravate,quádo prédeste moglie? Pub. Appena io avca
terminato l'anno. vigelimo quinto. Sem. E la vostra sposa qual’età
avea? Pub. Era allora appunto entrata nel vigefimo. Sem. Perche non la
prendeste prima?Pub. Perche non mi pareva di avere acquistato ancora turto quel
conosciméto necessario per far passaggio a detto stato. Oltre di che trovando
scritto questo Sacramento per ultimo , ftimai bene d'effectuarlo dopo l'età
stabilita da conferirsi il Sacerdozio, per non errare. Sem. Ma prendono
pur tanti moglie prima di questa età ? Pub. Da ciò forse deriva , che
molti fi lagnano ancora di essersi accafati ; ed è cola facile, che per non
sapersi in quell'età iinmarura regolare con giudizio, e prudenza , incontrino
più disastri, che consolazioni, Sem. Dunque avendo i vecchi più
fperienza, senno, e prudenza de giovani converrebbe aspettarsi a farlo fino
all' età fenile. Pub. Per altri motivi però, apportati da Euripide , non si
dee aspettar tanto, dicendo egli: Et nunc juvenes adhortor omnes,
Ne in senecture nuptias celebrantes [ocr errors] Vix liberos
procreént;nec enim voluptas eft, Sedres inimica
mulieri fenex vir, Ed altrove, Amarus juveni uxori fenex maritus
. Sem. Sono però accaduti à rempi noftri cafi felici ne’vecchi
sposati con le giovani, ed hanno avuto prole. 3 Pub. Questi matrimonj
bisogna , che riuscissero assai infelici anticamente;podi sciacche di
Omero racconta Erodoto į nella di lui vita, che sdegnatoli egli con tro
alcune donne,che sacrificavano à Co. rcre in un trivio, imprecase loro
questo o gran male. Audi flavi Ceres precor, hoc mihi perfi ce
votum: Hanc numquam juveni matronam junge I marito, Sed tremulo fit
nupta feni , cui vertice cani Fundantur crines, E non avendo saputo
augurare loro infortunio peggiore di questo;qual felicisà dunque potranno essi
godere? Potrà [ocr errors][ocr errors] effere tal volta, che le donne di
oggidi fieno divenute più savie di quello fossero allora; o pur,non trovando
alcune di esse mariti giovani fi contentino di quelli, che possono avere ,
senza contristarsene punto; se pure non è qualche caso singolare questo da voi
riferito , il quale non è sufficiente à formare Aato. Sem. Bramerei in
primo luogo sapere da voi , se debba essere uguale l'età dell' uomo à quella
della donna, per servare in tutte le cose perfecta uguaglianza? Pub.
Appunto per cagione di proporzionata uguaglianza , non debbono essere ambidue
di consimile erà , perche deesi, come ben'avvertì Euripide regolar questa dalla
durazione della fccondità , non dagli anni , dicendo egli. Malum eft juvenem
uxorem adolescenti conjungere. Diuturnior autem eft marium vigor ,
Fæmineum verò corpus citiùs puberta. sc deftituitur . Sem. [ocr
errors][ocr errors] Sem. Quefta differenza di età in che doverà consistere , e
quanti anni doverà avere più l'uomo della donna? Pub. Sopra questo
particolare ini persuado , che non si possa dare certa, c determinata
regola;contutto ciò potrà dire il Dottore, quello ch'egli ne senta. Med.
Aristotele pone la fecondità dell'uomo fino all'età di 70. anni, e quella della
donna sino à 50.jma perche ora forse sono le complessioni deceriorate , e
perciò non si osserva, se non di rado giugnere à questo termine, voglio
in ciò regolarmi con quello , che piu } frequentemente suole accadere,il
quale appunto è; rispetto all'uomo incirca al 60.anno ; & alla donna
intorno al 40. talmente che nello spazio di 20. anni, confifterebbe detta
fecondità di più o nell'uomo che nella donna.Ciò ftabilito, ogni qual
volta nou trapali in detrá - proporzione il triplo l'età dell'uomo sempre
farà in uguaglianza g rispetto al sempo di poter generare; purche non C
3 VCI yenga variata da qualche indisposizione morbofa. Sem.
Sicche dunque un uomo di 40. anni farebbe- nell'uguaglianza , prendendo una
giovane, che ne avesse venti? Med. Così è: uscirebbe bensì da calc
proporzione , se la prendesse di 14.anni; poiche trovandoli la donna nell'età
di anni 34.avendone il marito 60. sarebbe già divenuto sterile sei anni prime
di effa. Sem. E se la donna fi accalaffe in età maggiore di quella del
marito , che ne potrebbe seguire da ciò ? Pub. Le riuscirebbe certamente
pii facile di fare à suo modo; imperciocche non prendendosi quella soggezione
del marito , che suole apportare di più l'anzianità, disporrebbe, tụtto à fuo
piacere;ed Iddio guardi,che la diffcrenza degli anni foffe tale, che il marito
le potess’essere figliuolo,allorsi,che lo vor. rebbe tenere, e regolare da
subordinato in tutto à se medesima : e poi è da riflet. tersi, che
difficilmente inducendoli ladonna, se nő è molto stimolata dal senso, à
congiungersi in macrimonio con ginvani di tanta disparità; onde in questo caso
soffrirebbe il povero marito per molti capi penc considerabili: solamente
la gelosia, che ne potrebbe ella avere gli i recherebbe tormento grando; olere
di chc, comc vuole Leonide , sarebbe sen- za prole, e senza moglie,
posciacche egli dice: Conjuge nec frueris,nec
frueris fobole . Sem. Io , che non voglio tanti guai, la bramo più
giovane di mie; mà diremi, Dottore, qual'è l'età competente della donna,per
cffer moglic? Med.La giovane può prendere marito allor'appunto, ch'è atca
à concepire , effédo divenuta già dóna;c può succedere questo alle volte
nell'età di 12. anni, altresì di 13., 0.14.3 e più tardi ancora ; onde in detço
tempo porrebbe divenire sposa. Mes. Sarebbero però quelle di 12., 0
13.anni spose immature; e non só quanto potessero riuscire buone mogli;
poi che [ocr errors][ocr errors] C 4 che lasciando la
conliderazione di do. versi queste scegliere uno stato nel quale conviene
perseverare fino alla morreu, cd in conseguenza averebbero bisogno di più
maturo senno per fare detto passo: e senza riflettere a tanti disaggi, che ponno
incontrare nei primi parri; doinando, come si sapranno bene regolare col
marito, e nell'educare i figliuoli? Med. Hò considerato anch'io queste
difficoltà; mà dall'altro canto è da riAettersi ancora, che prendendoli così
giovanette ; si possono ind rizare, come li vuole ; ed abbiano l'esempio nelle
piante, le quali allorche sono tenere , con facilità grande le poisiamo piegare
a nostro compiacimento ; mà non già questo accade allorche sono indurate
Virgilio parlando di domar la gioventù, dice, che nell'età più tenera con più
facilità succeda. viamque infifte domandi, Dum faciles animi juvenum, dum
mo bilis ætas. Mec. Io mi maraviglio, che. voi co [ocr errors]
me [ocr errors] meMedico non vi opponiate 'a maritag: gi di età si
tenera, potendo meglio di chi non è vecfato in medicina conoscere il danno, che
possa apportare alle cenere giovani similc mutazione di stato Med. Non vi
maravigliare di questo, perche noi circgoliamo nel modo di vivcre colle
consuetudini de? paefi', insegnandoci il nostro Ippocrate, che: dandum fit
aliquid regioni, & confuetudini; e non per questo , che qualche.caso liano
seguito funesto, debbong esse variure, essendoche cziandio consimili cali fe,
guono nelle più adulce, pericolando queste ancora ne parti. Mec: Lasciamo
le consuetudini dan parte, e dicemi di grazia, se inariterelte una vostra
figliuola in età si tenera ? Med. Ci penserei alquanto , & anderei
procrastinando il trattato , fin tanto che li assodasse un poco più negli anni;
c tanto maggiormente, se non fosse ben complessa ; poiche non vorrei, che nel
cominciare si prestamente à far figliuo. li , quello, che dovesse andare in
suo [ocr errors] crc [ocr errors] crescimento , G.deviasle
altrove..' Sem. Si differiranno facilmente quefti maritaggi, per non
ispropriarsi della dote, e voi alori Medici, che fiete renuti alquanto
interessati, forse per ciò differirete di effettuarli. -:" Med. Non fiamo
però sì ftolidi, che non riflettiamo, che la dilazione non paga debito, e che
questo fodisfacendosi fpedicamente ci libera da cravagli di doverlo pagare..
Sem. Qual'età voi realmente credere più propria da prendersi marito? Med.
Se la giovane goderà prospera falute , mi persuado , che intorno al vigelimo
anno lia la più convenevole ; le poi foffe gracile, si potrebbe anche in.
dugiare qualche anno di più, per meglio ftabilirsi; purche non paffalse il
vigefimo quinto; ftantccche facendoli talri. soluzione di accasarsi, per godere
prole sufficiente alla conservazione della fami. glia , ciè d'uopo di
figliuolanza, che fopraviva, e ci fiano ancora de'maschi , e ciò nello spazio
di 20. anni di fecons [ocr errors][ocr errors][ocr errors] dità si può
commodamente ottenere. Semi Talmente che, chi bramasse di avere più
numerola figliuolanza,gli coverrebbe prendere una giovane di 15. anni?
Med. Per istabilire bene la sua casa, non fi dee solamente procurare il nuinero
defigliuoli, mà ancora la robustezza, e vitalità de'medefini; e questi,co. me
vuole Aristocile nel 7. della sua politica, nascendo da Padri giovanetri, sono
di poco vigors, almeno i primogeniti, i quali fogliono per lo più accafarsi.
Quindi è, che Tacito, ove parle de'costumi de'Germani, dice; che tras cffi le
vergini fi maricavano già adulte, cche perciò passasse ne'figliuoli la ro,
bustezza dei genitori. Sem. E l'età dell'Uomo più congrua di accasarsi,
quale sarà ? Med. Quella appunto, che si contiene erà lo spazio di 25.,
30.anni;quando ciò da altro impedimento non venga ri. tardato. Mes, Lo
credo anch'io, che da molte cagioni potrà essere ritardato : im. percioche, se
averà egli impieghi,i quali richiedono applicazione grande, e non si troverà
sufficientemente proveduto di beni di fortuna, per sostentare la famiglia ; fe
non goderà salute competente; se in casa averà molte sorelle, e madre in
particolare, che fosse donna risentita, in questi casi doverà indugiare a
farlo, fin tanto almeno, che si troverà in istato più opportuno, non essendo
convenevole porli sotto ad un giogo di questa forta con simili impedimenti
svantaggiosi alla quiere conjugale. Semi Vorrei sapere, quali danni
risulterebbono,s’io tardasli a prender moglie fino alli anni 35. Mec. Se
voi tarderete tanto, temo, * che non la prenderete più, e per ducor motivi:
primièramente perche trà tana to facilmente' vi potreste deyiare, cd
abbattendovi in qualche donna scaltrita , saprà ben'ella distorvi da tal penfie
ro con le sue arti; e guai a voi, le fi af fomigliaffe questa a quella donna
impu dica,descritta da Salomone al 7. dc' suoi Proverbj, la quale ;
ornatu meretricio prçparata ad capiendas animas; e con quali artificj !
victimas pro faluse vovi, hodiè reddidi vota mea ; idcirco egreffas fum in
occursum tuum, defiderans te vin dere , e reperi ; intexui funibus lectulum
meum , ftravi tapetibus pietis ex Ægypto, aspersi cubile meum mirra , a aloe
br. E poi trovandovi in quell'età, farà facile, che comincierete a rifertere sù
l'incertezza di poter'invecchiare, e facilmente direte ; come anderebbe allora
la niiafamiglia séza’l mio stradaméto;qual pensiero , se non vi distogliesse
affitto, vi renderebbe almeno irrisoluto nell'effettuarlo; onde farc à mio
modo, risolvetevi, e non procrastinate di vantaggio: perche altrimenti vi
seguirà cioco ch'è accaduto à me medeliino, che mi fono invecchiato senza
successione. E sapere , che diranno di voi le donne, elsendovi avanzato negli
anni? Questi è vecchio, che ne vagliamo fare? E perciò converrà allora,
volendola prendere, ассо accommodarvi a chi troverete , con le
condizioni che da ella vi saranno date; dove che adesso farà a vostro modo
quella , che vorrete prendere. Sem. Questo certamente sarebbe svantaggio
grande per me; laonde non bisognerà perderci teinpo. Pub. E tanto più
sollecitamente vi risolverete,sentendo li pregiudizj grandi , ricevuti da cui
tarda moltó a pren. dere moglie,i quali sono anche maggioridi quelli, che
possono accadere à chi lo fà prima del tempo. Sem. Quali sono, Dottore,
questi Matrimonj fatti prima, ò più tardi del dovuto tempo? Med. Li
preventivi sono; se un giovanetto fi accasaffe in età di 15.9 16. anni; e li
tardivison quelli, che si fanno, allorche tal’uno è divenuto già veça
chio, Sem. Quali danni apporterebbe ad un giovane lo accafarli di 15.
anni? Med. Questi accompagnandosi con, una giovanetta coetanea , non
saprebbe [ocr errors] regolare le sue operazioni; c s'egli in quello
primo fervore fregolato pregiudicaffe allo proprio individuo, quanti svansaggi
ne riporterebbe? E qual'indi. rizzi sarebbe capace di dare a suoi figliuoli,
avendo egli bisogno di chi lo dirigeffe? E stando tuttavia in crescimeto,
defraudandofi questo per il diyiamento della miglior parte del suo sanguc
iinpiegata nella troppo sollecitas generazione, come potrebbe convertirli in
suo beneficio ? Oltre di che noll possono fperarsi frutti perferti da simili
piante, le quali non sono arrivate an. cora alla loro perfezione, Pub.
Aristotile nel 7. della sua Politica fà sopra di questo un'ottima riflerfione ;
cioè, che fimili figliuoli, che pajono quasi coetanei a Padri, poco rispetto
portano loro, querclandofi sovente sopra il governo della casa contro di
efli. Med. Ci sono però alcuni cafi, che debbonsi eccettuare
dall'accénata regola , e tra questi sono quelli unichi , cd [ocr
errors] ed antichi rampolli di qualche illustre, e ricca famiglia, che per non
vederlas estinta , fi procura in età tenera di accafarli. Siccome ancora, se si
vedesse un giovanetto ben complesso, che comincialle a deviarhi, non avendo chi
lo tenesse a freno;onde per non vederlo precipitare , converrebbe accasarlo ,
senza indugiare di vantaggio ; ed in questi casi li doverà prendere un'altra
inisura , competendo loro piu tosto una saggias giovane, che avesse qualche
anno di più di loro, affinch'essa regolaffe alcune operazioni concernenti alla
salute , potendo la moglie saggia molto adoperarfi in fimili affari. Sem.
I poveri vecchi allorche foffero robufti, perche non potrebbero divenire fposi
anch'elli? Med. Perche, conforme dice Euripide. Sed, aut feneétus
Veneri valere jubet; Aut Venus senibus molefta eft . Onde per tal cagione
si accelerarebbero la inorte, çssendo anche potenti, e ritrovandosi inabili a
questo , si contri- sterebbero per molte cagioni:primiera-
mente per essersi accinti ad un'impresa, nella quale non riescono abili
perlochę verrebbero anche derisi,e beffeggiati da giovani, e per
non vedersi corrisposti dalle loro conforti con quelle maniere
cortofi, ch'elli vorrebbero, e final mente per essere privi della
bramatas. prole, come descrisse Virgilio ;: Nec dulces natos,
Veneris nec prçmian noris. E vi parc,che questi poffano vivere
con- tenti? Con ragione dunque Blepirone appresso Aristota ne
diceva: -Heu, mihi infeliciis qui senex. cxiftens duxi
uxorem. E Menandro esprimendo le fvcnturc de?. vecchi amanti, così
fayella: Nurde miferius poteft daramante Seine, Hifi
alius fenex amans; Nam , qui frui cupis rebus , à quibus
Propten tempus, quomedò ille non mi Jerefte),
06.01.10 D Mere [ocr errors][ocr errors] arasiit
Mec. Ia questo li credo infelici anch? io, leggendo in Catullo : Er fenis
amplexus culta puella fugit. Ed in Arenco ciocche disse Teognide, ch'è
appunto. Sero Viro juvenis uxor magna calamiras. Cymba fine anchora ,
effractisq; Tudensibus. Pub. Udite ciocche dice Plauto di questi: Tum
capire cano amas fenex nequif fime? Si unquàm vidiftis pictum
amantem, bem illic eft. Ed Ovidio, ch'era informatiffimo de' genj delle
donne di quei tempi, così ebbe a dire : Que bello eft habilis , Veneri
quoque convenir , stas ; Turpe fenex miles', turpe fenilis amor.
Quos petiere Duces annos in milise aforit Hos petir in focio bella puella
viro. Laonde, qnando a vecchi venitfe in fantasia di preader moglie, a
configlino con 2 con Orazio , il qualc dice : Intermiff -
Venus diu Rursùs bella moves:parce precor precor, : Non fum qualis eram.
Sem. Riceveranno questi certamente, prendendo moglie , svantaggi affaimag.
giori di quelli, che incontrano i giovanerti? Med. Senza fallo;
posciacche questi, crescendo loro con gli anni il senno, u la robustezza, vanno
incontro al tempo migliore ; dove quelli sempre più u precipitano nel più
miserabile : or re dere voi, Sempronio , che danni apporta il diffrire
tanto lo accasamento Mec. Ho conosciuto però un vecchio, il qual, essendo
caduto nelle reti di Venere, piangeva dirottamente la sua sventura; e volendolo
io confolare, persuadendomi, che li lagnasse dell'errore commesso; cgli mi
rispose : oh che fallo hò commiffo io a non prendere moglic, quando era
giovane! poiche fe valoroü so mi son portato nell'età inaridica della un
vecchiezza , quanto più farei stato nel , [ocr errors] 2 la verde
giovenile? Gli replicai però: guai à voi, se in quel tempo foste stato così
dedico à fimilc piacere; posciacche vi averebbe farro inyecchiare prima del
ecinpo; dicendoli dell’ainor lafcivo. Ef juvenis juvenes, qui facit ille
fenes. E per meglio illuminarlo gli apportai l'iscrizione sepolcrale di
Menelao, ch'è questas Inter opus medium lafcivå mørte for lutus; Hic
fitus eft , dom init jam Menelaus bumum ; Qui blande. Veneri visa
facraverat Haud aliter vitam ponere juffus eraf. Sem. Or ditemi : questa
uguaglianza come dec essere nelle altre cose? Pub. L'esamineremo in
appresso. [ocr errors] [ocr errors][merged small] CONFERENZA III.
:2 [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Dove si mostra,in
che cose sia esenziale l'uguaglianza nei Matrimonj; quali
svantaggi nascano dalledisuguaglianze in queste.
Sempronio ; Publio , Mecenate's Medico. M [ocr errors]
Sem. I persuado, Publio, che non essendo seguite trà voi, clas voftra
conforte, al. tercazioni,e discors die, averece goduta la sorte di una
perfectisfima uguaglianza in tutte le cose. Pub. In tutte è impossibile
poterlos ottenere ; bafta solamente , che difuguaglianza non sia nelle più
esenziali, nelle quali certamente fui fortunato,ef. fendo di verificato in me
il Proverbio diSalomone: Qui inuenit mulierem bonam, invenis bonum : du auriet
jucunditatem à Domino Sem. E queste quali sono? Pub. La prima è il
genio buono uniforme in ambidue: e questo non potrete credere, quanto mai trà
noi foffe reciproco ; poicche, quanto io volea,senza repugnanza alcuna cra
grato anche ad effa ; ed in quello poteva immaginarini, che fosse stato di sua
sodisfazione, ci concorreva anche la mia, à segno, che delle nostre volontà,
sen'era formata una sola ; onde di noi con ragione si poteva dire, ciò ch'è
registrato nell'Ecclesiastico al 25.,ch'è grato à Dio, ed à gli uomini :
Vir, & mulier benè fibi confentientes . Sem. Sicche dunque se vi
potevate immaginare, che avesse deliderato un, bell'abito, ò una nobile
Stufiglia allas inoda,voi l'avereste compiaciuta prontamente Pub. Non
desideravano le mogli queAte cose in quei tempi, ne'quali non
costu. [ocr errors] costumavano ; bramavano bensì di avej re provisioni
abbondanti di lini, cana pc, e cottoni per farne lavorare copio se
biancherie ; di vedere fatte le provi. i sioni à tempo debito , di quanto
biso gnava per servizio di casa cutto l'anno ; di avere otrimi maestri
per istruire bene i figliuoli; e servitù fedele, e benc accoltumata. Sem.
O tempi felici: non poteva io essere nato allora ! Pub. Ed io vorrei
trovarmi giovane in questi coll'uso di ragionc, cd esperienza , che godo
: Sem. E la seconda quale sarà ? Pub. Che questo genio uniforme fi
ftabilisca sopra le virtù cristiane, e morali in primo luogo; c di poi in tutto
le altre cose utili per lo stabilimento della casa,cd in queste è stata
veramente seinpre singolare; imperciocche vedendo, che bramavo di sodisfare
all'. obbligo, che corre ad ogni benestante, di sovvenire i poveri, essa ancora
facea le sue parti con mia somma consolazio D4 ne ; ne; e nel
rimanente vedendomi artento agli affari domestici, s'ingegnava per quanto
poteva, di sollevarmi in molte cose ; talmentecche hò sperimentato in me ciò,
che diffe. Appollonide : Certè inter homines Non aurum , non regnum , non
divitia. .. rum luxus Voluptates tam eximias prebent , Quam buni marici , &
uxoris pia Volunt as jufta , & legitimè affecta. Sem. Lo credo
anch'io[facendo voi cosi]che potevare godere una perpetua felicità. Pub.
E voi ancora la potrete godere, se farete il medesimo. Sem. I tempi
calamitofi , ne'quali siamo , non lo permettono. Pub. Se dipenderà da
tempi, converrà avere pazienza ; perche farà irremcdiabile; mà se dipédeffe poi
da voi,senza fallo potrete porvi rimedio: or'vediamo,da chi dipenda. I tépi
calamitofi dāneggiano co carestie, pestilézcguerre, terremuoti,c tempeste ; c
queste non effens 20 [ocr errors] effendoci ora crà noi,come
possono corbare il regolamento della propria casa? Onde vedere, che dipende da
noi', non da tempi ; dunque à torto vi lagnate de'tempi ; essendo voi , non
cfli l'origine della vostra infelicità; e se poressero questi parlare ,
direbbero in loro dif colpa: voi ci calunniare à torto, per ricoprire i vostri
mancamenti; perche vi piace tale modo di vivere, e vi dilet. ta,
quanrunque ne moftriate un'appa. rente rammarico. Sem. Si pratica oggidi
fare diversa. mcate d' allora i conviene accomodarli ai più : bisogna averci
pazienza . Puh. Questo è un pretesto peggiore i dell'antecedente; perche
voi conoscere, che fate male; ed avere la cognizione, che non facendolo
fareste felice ; porche dunquc lo fate , dipendendo da voi il farlo, ò non
farlo? Ohcecità ! volere piuttosto effere imitatore di chi voi conofcete; che
faccia male, che di quellig che operano bene; e poi, se voi dite che ci vuole
pazićza,perche vi lagnate? Som. [ocr errors][ocr errors] Sem.
Operavano allora cutti in questa forma? Pub. Io non andava cercando, se
vi era caluno , il quale diversamçare operaffe ; perche volendo prendere
l'esempio da chi lo faceva ; questi solamente rimiravo, per imitarlo.
Mec. Sempronio mio, non vi avanzate più oltre in questo, perche Publio. vi
convincerà di vantaggio ; e vi farà anche conoscere, che i vecchi non sono
storditi, conforme alcuni credono; efsendo che al parere di Plutarco;la mente
in vecchiaja ringiovenisce. Sem. Vi è altro trà le cose neceffarie. da
fervarli uguaglianza ? Pub. Nella ftatura ancora ci vuoly, se non totale
uguaglianza, almeno proporzione ; posciacche, se sarà la spora pigmea, ed il
marito gigante , se ne avyodrà ella ne'parti, ed in alere segrete occasioni
ancora ; laonde à questo proposito parlò Ovidio : Quàm malè inæquales veniunt
ad aran tra juvenci,Tam premitur magno conjuge nuptas minor. : Sem.
Sarebbe dunque bene prendernc prima le misure di ambidue per formarne una
giusta pariglia. Pub. Non è ciò necessario, nè conve. niente ; perche
coll'occhio ancora fi può discernere la notabile disuguaglia, za. Debbo ancora
avertirvi , che li rim cerca la proporzione de'beni di fortuna; ? perche
se vi apparentaste con gence mi lerabile, alla vostra casa coccherebbe il
mantenerla: altrimenti non vi sarà pace con vostra moglic; perche la vora rà
soccorrere di nalcolto, sc non potrà farlo palesemente. Sem. E la Nobiltà
dee entrare ancora essa trà le cose necessarie da ugu2 gliarli ? Pub.
Questa uguaglianza non è ftia mata essenziale , secondo il sentimcnto i di
Platone, registrato nel tive del suo Regno; ovcper teffere la tela della
buo. na discendenza , cgli procura di moa strare, non ricercarli cosa più
effenzia, le [ocr errors][ocr errors][ocr errors] ke ne'maritaggi,
che d’innestare le virtù ; per esempio, al temperamento forte unire il
moderato : onde potendo questa unione formarsi con inferiori di condizione
ancora ; non si ricercheranno nè ricchezze, nè poffanza, nè altre credute dal
mondo vantaggiofe condizioni, per tesserla a suo dovere ; come appunto lo fà
contesfare à Socrates ; perche egli considerava talc affare in ordine al bene
univerfale , non particolare di ciascuno ; persuadendosi, che congiungendoli in
tale forma , fi potesfc porre il mondo in migliore consonanza. Ed in conferma
di questo, cade in acconcio la bella concione , fatta dawa Camulejo Tribuno
della plebe l'anno 310. ab Urbe condita, la quale viene riferita da Livio; e
dimostra questa con vive ragioni tutti quei vantaggi, che possono apportare i
maritaggi scambie. voli trà nobili, c plebei alla Republica. Io però mi
persuado , che più decoroso fia, secondo l'apparenza del Mondo, fceglierla non
plebca. Mec. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec.
Voi dice benc , Publio ; malo colla nobiltà fosse unito il mal costume
scegliere te forte piuttosto una Meffalina, che una ben'educara, c prudente
plebea per vostra consorte? Pub. Questo poi nò ; perche in tale caso mi
perfuado minor caccia, porerne ricevere, sposando una plebea , la quale col suo
buon costume,.c fenno, in brieve tempo fi farebbe conoscere non dissomigliante
à quelle nate nobili; doveche la nobile mal’educata , e viziola, degenerarebbe
in plebea fenza fallo. Mer. Vedete dunque, che la sola nobiltà non dee
attendersi, mentre voi medesimo la posponere al buon coftu. Sem. Vi sono
esempj di nobili savj, che abbiano sposate giovani ignobili? Pub,
Molcillimi. Vifu Teodofio lin. peratore , il quale antepose la figliuola di un
povero Filofofo à cutte le più nobili, riconoscendola meritevole di tale
grandezza , per la fua buona educazioac. Ed Abramo che desiderò, volen
do [ocr errors] 1 70 me. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] do prendere moglie? Uditelo das. Ambrogio : Difce quid in uxore
queratur : "Non aurum , non argentam quafivis Abraham, non poffiones ,
fedt gratiam bons indolis : lib.i. de Abr. cap.9. Sem. Nella bellezza, ò
deformità fi dovrà cercare proporzione? Pub. Qualche forta sarà bene di
procurarla ; perche , fe diforme sarà il inarito , c bella la moglie, dirà ogni
rivale, ammirato di questo; con Virgilio : Mopfo Nisa datur , quid non
fperemus amantes! ! Oltre di che in un continuo tormento di gelosia fi
ponc, chi la prende éon fimile disuguaglianza; e tanto maggiormente , dicendo
Giovenale : Rara eft concordia forma, • Atque pudicitia. 21 che viene
anche confermato dal Petrarca in tal guifa : Due gran nemiche erano
insieme ago gionte: Bellezza, ed'oneftade Oltre di che poi [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Fastus ineft pulcbris, fequitur
superbiaus formam . Sem. Nelle ricchezze fi dee cercare od
uguaglianza? Pub: Quella appunto , che fu detta i dell'ecà , cioè, che
sem pre fiano ad una certa proporzione inferiori quelle della cala, con
cui volete apparentarvi,perche, come disse ben Marziale : Inferior
Matrona fuo fit, Prifce marito, 4 Non aliter fiunt femina,virque
pares.. Sem. Sc uno volcffe prendere moglic in lontani paesi, e di
diversi linguaggi, indurrebbe questo disuguaglianza alcuna ? Pub. Forse
che si, quando non s'incontrasse donna di gran fenno ; perche il costume , e
modo di vivere differenti, prima, che si accomodino a quelli, che troveranno ,
possono fare nafcere molti diffapori ; se pure potranno mai uniformarli; come
ne dubitano Emilio Probo : Non cadem omnibus funt honefta atque turpia , fed
omnia majorum inftitusis, judicant ; nemaque nibil rectum puosat, nifi quod
patriæ moribus convenit. Ed Ovidio così canto: Nefcio que nasale folum
dulcedine cun stos Ducit , immemores non finit effe fui. Beo'è vero però,
che in quei luoghi, fe Veducazione delle giovani fosse mi gliore di
quella del vostro paese, forse che potrebbe questa accrescere vantaggio a
voi. Sem. Se il marito farà dotto, indur. rà disuguagliáza l'effere la
moglie ignorante Pub. Anzi più tolo disuguaglianzas apporterebbc , fe
fosse dotta, ed erudi-$perche come vuole Giovenale ; Non habeat matrona , tibi
qua junctae recumbit Dicendi genus , aut curtum fermones rotatum.
Torqueat enthimema, nec biftorias soins ? omnes, Sed quædam ex libris, non intelli.
Ed udite, come dice l'Ecclesiastico di ques [merged small][ocr
errors] queste al 28. Lingua tertia mulieres vin ratas ejecit, o privavit illas
laboribus fuis ; Qui respicit illam non babebis rea quiem , nec habebit amicum
in quo requieJoar. Mec: Posso a questo proposito riferire ciò, che è
accaduto a tempi noftri. Vi tù un dotto Jurisconsulto, che aveva una sua
figliuola, e volle addottrinarla nelle materie legali,cd avendo acquistato
detta giovane molta perizia in esso le convennc,morto il padre, prédere,inarito,
e si trovò la povera giovane talniente confusa nelle faccende domestiche, che
si pentiva grādemente di avere applicato allo studio, dicendo: che mi serve ora
di sapere le leggi, non avendo įmparato quello, che mi conviene fapele per
governare la casa? Sem. Già fu parlato della uguaglian. za, o proporzione
, ch'essere dee tra l'uomo , e la donna intorno all'età ; ina se portasse la
necessità , che un attempato unico della sua famiglia dovesse prédere moglic,
pornon lasciarla cftinguc: E [ocr errors] re re, ditemi,
Dottore , quale sarà l'età, se non proporzionata , almeno più fe. conda della
donna, con cui dovesse con. giungersi Med. Quella, nella quale più
facilmente li concepisce, ch'è tra i venti, e li venticinque anni. Sem.
Orsù Mecenate risolviamoci ambidue a prendere moglie, potendo ogn' uno di noi
provedersela della medesima ctà, e non permettere , che la vostra famiglia si
illustre fi cftingua in voi. Mec. Credeva essermi già bastantemente
spiegato nella prima conferenza, ma voi non avete capito le mic raggioni,
tornando la seconda volta a configliarmi 'l medesimo, con mostrare premura
maggiore per la mia descendenza, che per me; onde vi torno a dire, che nella
mia età non è più convencvole lo aceafarli; dicendo Euripide : Verùm
fonecta jubet valere Cypridem, Et ipfa rursus senibus infensa est venus.
Quindi è, che Sofocle interrogato allorch'era già vecchio s'egli
esercitava [ocr errors] a più gli atti venerei : Iddio me ne guardi
diffe, che io mi sono guardato un pezzo fa da coresti, come da una impetuofa, e
violenta tirannide, Valerio Mallimo lo riferisce. Sem. Io ne domando
scusa, dichiza randomi non averlo detto a questo fi ne , Delidero ora
faperc i pregiudizj; EI che apportano ne' matrimonj le disus guaglianze; ed in
primo luogo ; fe faranno di genio differenti tra loro. Pub. Dice
Salomone: Melius eft habitars in terra deferia , quam cum mulieu rerixoja,
litigiofa; onde vi potrete i figurare di vedere la casa piena di con
fufione, ove regnano genj differenti; * pofciache ciocche vorrà il marito,
ve nendo ad essere disapprovato dalla mo glie, onon fi effettuerà,
o per la meno I in qualche parte verrà variato, e que Ito medelimo darà
occafionc à discordie perpetue tra effi , fe il marito non averà la prudenza di
Giove , cui Giunone si opponeva sempre come vuoo le Omero,Dum
moliuntur,dum comitur annus est. Sem. Ed il rimedio per questo, quaEin le
farebbe? Pub. Lo diremo a suo tempo. . Sem. Ho conosciuto marici alti
due palmi più delle mogli, e il doppio più i grossi, ne da questa
disuguaglianza ho veduto seguirne inale alcuno. Med. Ed io ; che fon più
vecchio di voi, ho medicato più d'una di questo nel tempo, che stavano per
partorire, ridotte a termine di morte, per non poter dare alla luce i loro
figliuoli, se non dopo alcuni giorni , e coll'ajuto del Chirurgo, e di
queste, alcune sono pei rite. Succederà a quelle di avere parto felice
che nella gravidanza avendo fi avuta inappetenza grande, il feto si sarà
poco nudrito; e perciò rimanendo picciolo, questi non averà ftentato ran
to nel uscir fuori; o pure la cassa del o corpo della madre, con quanto è
neces sario, per rendere meno difficile il parto , sarà stato in queste
proporzionato al bisogno. Ma preventivamente alcu [ocr errors] ne di
queste cose non costumandoli ri. conoscere tra noi , conforme appresso alcuni
popoli li faceva, e perciò, per esimerki da tal pericolo, conviene riAeterle
prima del maritaggio, toccan. do questo a'padri di famiglia. sem. Sc un
bel giovane prendeffe per moglie una donna deformc , che male potrebbe ciò
apportare? Pub. Niuno, quando però foffe egli fodisfatto, e la donna
fosse prudente, e non l'avesse presa per cagione di grofsa dote; perche si farà
quest'invaghito delle sue rare qualità, ed averà egli facilmente appreso da Salomone
ne' suoi Proverbj, che: Fallax gratia , e vana eft pulcritudo : mulier timens
dominum ipfa laudabitur. Sem. E se il motivo di prenderla foffe Itata la
dote Mec. Seguendo per lo più simili deliderij in giovani , i quali
penuriano di beni di fortuna, la pace tra essi dyrerebbe lintanto, che la dote
foffe in picdi: mà appena consumata questa , allo. ra 1 [ocr
errors] racomincierebbero reciproche doglian. ef ze; quelle del marito
sarebbero, diri. trovarsi vicina la moglie deforme, e della donna di non
vedere più la sua dote, Caduceo di pace tra di loro. Sem. Dandosi però
vincolata , ciò non potrebbe seguire . Mec-Non si può ottenere questo in
limili disuguaglianze ; perche vogliono tali sposi libero il danaro, per
vincolarsi cili colla deformità della moglie, finche dura la doce. Sem.
Non so capire perche s'abbiad d'apparcntare con casc men facoliose ; perche
questo apporterà. svantaggio nella dote. Pub. Ma però quiere maggiore,
ove entrerà limile sposa; perche quella giovane , la qual’esce da una casa, ove
con gran laurezza viveva, difficilmente po trà acomodarli alla vostra,
ove 1101 i potrete con quel fasto trattarla ; onde da ciò ne nasceranno
amarezze continuc ; o pure (arece forzato , volendola consolare, ad impoverirvi
prestamente. E4 Sen. of [ocr errors] Sem. Il prendere
una moglie nata in paesi lontani potrebbe forse recare gran vantaggio ; perche
non avendo parenti vicini, sarebbe più ossequiosa al marito, nè lo
disgusterebbe, e ciò farebbe felicità grande. Pub. E voi credete, che 'l
Padre fia sì sciocco, che non penserà ancora di raccomandarla à chi lia
d'autorità , acciocchè le assista in caso di bisogno? c quando avesse cgli
difetrato in questo, credere voi, che chi parte dal suo pae. sc, sia così
insensata di non sapere col suo ingegno trovare chi la protegga in un suo
urgente bisogno? Qual patrocinio cal volta sarà molto più autorevole; ed
efficace di quello, potesse ricevere da suoi congiunti: non v'invaghite di
straniere, se non in caso, che mancare sero donne del paese, ove voi dimorate.
Mec. Sono andato più volte rifectendo, che non sarebbe forse svantaggio lo
sceglierla , non dico da paesi remoti, ma da città convicine, e mi ha
mosso que in questo pensiero Giovenale, con dire Malo
Venofinam , quam te Cornelia [ocr errors][merged small] Grascorum , fi
cum magnis virtutibus be affers Grande supercilium, & numeras in dos
be te sriumphos ; id Perche queste riescono più docili, eve nendo
in città più nobile, gradisco no ?: quanto si fa loro, più delle proprie cita
tadine, e fogliono ancora eslerc meno dedite al luflo , Pub. Vi sono le
sue difficultà in queste i . ancora . Imperciocche Carone, con e tutto
che fosse uomo sì faggio, quanti di guai ebbe con la sua moglie Acrorias I
Paola, quantunquc povera, e nata in ¿ un villaggio ? fu questa superba, vio2
lenta , e debole di mente. Laonde a tal propofito S. Girolamo lib. 1. in
Joviniznum diffe; Nequis putet si pauperem dy xerit fatis fe concordie
providili &c. E bij maggiormēte ora che il lusso ha polto il piede da
per tutto; ne crediare che vorranno vestirc con minore pompa delle E
2 Fu [ocr errors] Junonem autem non adeo accuso, neque irafcor,
Semper enim mihi consueta eft impedire quidquid intelligo, Sem. Ma quale
rimedio ci sarebbe in questo caso per fuggire le discordie? Pub.
Conoscendo' voi il costume di vostra moglie, che sia di contradirvi, come
espresse Terenzio, Novi ingenium mulierum Nolunt ubi velis, ubi
nolis Cupiunt ultro. In questo caso ordinate tutto l'opposto di ciò,
che bramare, per esser ubbidi to. : Sem. E se avesse poco fervore
nellas pictà, e trascurassc alquanto gli affari domestici, scorgendo quancunque
suo marito attcntiffimo a tutto? Pub. Sarebbe segno, che avesse altre
cole, credute da essa di premuras maggiore di queste , che le andasse. ro per
la mente; perche non si trascurano affari si rilevanti, se non da quel. le, di
cui disse Terenzio ;ciccadine, se non s'incontrerà in savie, c prudenti.
Sem. Mi piacerebbe di avere una moglie, la quale mi sollevasse con qualche
storietta ; perche dunque il fatirico dice: Nec historias feiat omnes?
Pub. Perche, con sapere le donne molte storie, essendo cosa facile il poterG
abusare di qualcuna di esse, niun vantaggio vi apporterebbe ; e sappiate che ci
sono libri molto lascivi, i quali non comple in conto alcuno, che da esse si
leggano, confessando tal verità Ovidio medesimo quantunque fosse impudico, con
dire : Eloquar invitus, teneros no tange poetas , Summoveo dores impius
ipfe meas . Callimacum fugito non eft inimicus e mori, Er cum Callimaco
tu quoque Coe noces . Carmina quis potuit tutò legifeTibulli ? Veltua, cujus
Opus , Cintia fola fuit ? Quis potuit lecto durus difcedere Gallo? Er mea,
nefcio quid, carmina tale fo E [ocr errors] [ocr errors] E poi due
cose non si possono fare: die vertirsi nel leggere, e reggere la casas; e
dovendo a voi premere la secondands ( conviene ch'essa abbandoni la prima ;
¢ sappiate, che Giovenale dice a questo proposito Quis ferat
uxorem,cui conftent omania? Mer. Plutarco però dice, che sarebbe di
profitto al marito d'istruire la mo* glie nella geometria, ed in alire cores o
dottrinali, ed onoratissime ; perches ď allora si spoglierebbe affatto delle
leg. gierezze, e vanirà de pensieri , e si aAterrebbe dal danzarc,
Pub. Che la moglie s'istruisca nei buoni documenti morali, e di pietà da mariti
è cosa ucile, e lodevole; maw, che s'impieghi ad apprendere la geomei
tria , quando fi trovare inadre di più fi: gliuoli, non so come le
potesse riuscire avendoli d'intorno , per lo strepito ch' delli fanno ;
se poi fi allontanaffe da elli , ecco che l'educazione loro anderebbe a
male. Sarebbe ciò solamente tollera. bile in una donna itcrile, avendo
servis tà tù sì buona, della quale si potesse ad chiusi occhi
fidare, per divertirsi con tale scienza, c passare la noja che le recherebbe il
trovarsi senza figliuoli; per altro se abbiamo d'aspettare , che las geometria
tolga la yanità donnesca, regnerà questo difetto per sempre nelle donne : e poi
la mia moglie, che nulla sa di geometria, odia la vanità, ed i balli; dunque
possono fuggire detti vizi quelle ancora, che non sono geome tre.
Sem. Vorrei sapere distintamente, che cosa fia questo matrimonio ; perche
dovendomi accasare bramo di esserne informato, per non operare alla cieca in
così rilevante materia ? Mec. L'udirete da me nella venturas
conferenza. CON [merged small][ocr errors][ocr errors] Sopra gli
antichi costumi , praticati apprello alcuni Popoli per la
generazione; e se sia più vantaggioso lo scoprire scambievolmente i proprj
corporali difetti , prima di sposarsi, o l'occultarli..
Mecenate, Sempronio ; Publio e Medico. i Mec. On mi ftéderò
molto nel riferirvilan. tichissima libertà de? Greci, nè tampoco
l'incestuoli modi de' Persiani, praticati ne gli atti conjugali, per non
contaminare le vostre orecchie; mentre i primi a guisa di bestie
moltiplicavano, conoscendo i figliuoli solamen te te le loro madri,
comme scrisse Tzetzes Iftorico Gracorum priùs mulieres per Greciam,
Non quemadmodum nunc , conjungebantur legitimis viris, Sed inftar
jumentorum mifcebantur omnibus volentibus ; Erant igitur unius naturæ
tunc filii , Sobas agnofcentes matres , non patres, Ed i secondi
non avevano orrore di esse. re figliuoli, c mariti, come riferisce Catullo,
Nafcatur magus ex Gelli, matrique nefando Conjugio , con discat Persicum
aruspi cium , Nam Magus ex matre, donato gigne tur oportet
i Si vera eft Perfarum impia religio. Sem. Ma il Cielo
lasciava impunici fi effecrandi delitti Mec. Non già; perche, come si
ricaya dal fudecco Tzetze furono mediante il diluvio puniti, dicendo egli in
appreffo.a Poft illud , quod in Ogygis tempore inci. dit
diluvium , Cecrops acceffit ad Aibenas Gracia, Has Ashenas cū
vocaffet ex Soi Ægypti, Cum multis aliis rebus commoda vis Gracia;
Tùm lege conftituit mulieribus nuptias 5 legitimas, 1M Ex quibus filii
cognoverunt duos pa rentes. Anzi per farvi conolcere , che la
natura stessa abborrisce l'incestuosi connubj, vi posso apportare molci csempj
de bruti, tra quali, non solamente il camelo lo ha in orrore, uno de' quali
ammazzò il suo cuftode , che lo ingannò a coprire la madre, appena avvedutofene
, coine riferiscono Aristocile , ed Eliano ; ma Plinio ancora racconta, che
nellad campagna di Rieti vna cavalla avvedu tasi di questo,
immediatamente si prei cipitasse, e Varrone fcriffe, che un ca vallo per
la medesima cagione faceffe tale impeto contro il suo armétiero, che
l'uccidcffe:e dell'elefante raccora il me deliof desimo avvenimento
Nicolò Lirense. Sem. Ma come faceano a riconoscersi i figliuoli da'
Padri,avendoli cosi confufamente generaci . ; Pub. Appreffo alcuni Popoli,
allorche i figliuoli aveano compito il quinto anno, quei, che più li
assomigliavano a gl’incerti padri, erano tenuti da essi per loro
figliuoli; come racconta Stob. Ser. 42. Sem. Quanto è stato peggiore il
mondo in quei tempi di quello fia oggidi ! Mec. Se voi sapeste il
rimanente, ftu. pirere anche di vantaggio. Sem. Eche, vi sono state altre
scelleratezze ancora? Mac. Contentatevi di non udire altro per ora ; e
lasciate simili notizie , per quando farete più proveito : passiamo aderlo a'
tempi incno infelici. Ristabilito, che fu il matrimonio, s'introduffe da alcuni
popoli il contratto della vendita delle loro figliuole, cioè da' Greci, Traci;
Aliri, Arabi, Indiani, ed al, tri, come da Tiraquello nelle sue leggi
COS [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ·
conjugali si racconta, e Sofocle intro- o duce le donne, che cosi
favellano fo- pra dició: Ubi verò
ad pubertatem hilares perve- nimus Pellimur
foras, atque divendimur Procul à Diis patriis, a parentibus,
Alia quidem peregrinis, alia barbaris. De' quali parlando Pomponio Mela
riferisce, che: proba , formof&que in pretio erant . Sem. In quei
tempi saranno stati con: ienti i padri, nascendo loro figliuole , e non già
mesti, conforme ora sono, che debbono dotarle, mercecch'essi al-, Jora ne
ricevevano utile grande; oltre I di che saranno state anche molto più cu
stodire queste mogli a caro prezzo com* prate di quello si faccia ora, ch'effe b
con grosse doti comprano noi; poiche offervo, che se un cavallo ci costa
molK to, abbiamo somma premura di esso. Mec. L'interessati padri può
effere, di che lo faceffero, ma non già i buoni, che le amavano, e perciò
riflettevano, F [ocr errors] ancora, che se non portavano dote le
loro figliuole, non acquistavano, ovc foffero entrate, dominio alcuno. Ele
mogli fi ftimano c rispettano ancor adeffo da giusti, e saggi mariti , per
questa modelima cagione ; e poi quelle, che portano grosse doci fanno ben farli
portare rispetto anche da’mariri non favj , dicendo Giovenale : Intolerabiliùs
nibil eft, quam fæmina dives. Dicendo ancora Cleobulo appreffo Stobeo: Si
babebis uxorem ditiorem , aut nobiliorem, dominos habebis , non affines. In
oltre si costumava da altre nazioni ancora comprarsi dalle mogli i mariti;
conforme fi ricava da Virgilio; Teque fibi generū Thethis emas omnibus
undis. E Boetio, nel lib.z. de Commenti alla topica di Cicerone, così
parla. Tribus modis uxor habebatur,usu,farre, & coemptione ; fed
confarreatio folis Ponsificibas conveniebat; quæ autem in mamum per coemprionem
conveperat , hæc [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr
errors] mater familias vocabatur &c.; Sem. Si è costumato in alcun
tempo, che non fa corsa tra contracnci dote ale cuna ne’inaricaggi? Mec.
Nelle leggi di Solone, Licur. go, e di Platone fu stabilito questo ; ben è vero
però, che la sperienza has fatto conoscere, che fuccedevano più di rado i
matrimonj , per non effervi il suo fuflidio dotale ; essendocche pochi vi
erano', che volessero soccomettersi al grave pero di essi, senza il follievo
della dote; onde vedendoli dan ciò risultare notabile danno alla Republica , la
prudenza Romana ftabilì con leggi le doti,da consegnarsi alle figliuole , per
sostentare non solamente li peli del matrimonio, ma per allettare maggiormente
ancora, mediante effe, gl uomini a prender moglie, come disse il Satirico,
Veniunt à dote sagitsa . Pub. Erano certamente troppo pregiudiziali
fimili leggi, dalle quali lcfcludevano le dori; c perciò Aristotilo discordò
dall'opinione del suo Macftro Platonc provando ne' suoi Problemi , che fia cosa
obbrobriosa prendere moglie indotata ; e che sia anche gran pazzia di colui ,
che lo facefle , dovendo egli riflettere al peso, che se gli accresce: onde
sopra di ciò interrogato Anafsandro, cgli 'rispose ; che sarebbe divenuto servo
certamente colui il quale bisognoso prendeva moglie indotata; perche in vece di
se solo, dovea alimentare più persone. Quindi è, che con somma prudenza fu
risoluto nel Concilio Arelatcose; che non si dovesse fare matrimonio alcuno
senza dotc , como riferisce il Fontanella. Sem. E' stato costumato da
nazione alcuna il prendere più d'una moglie nel medesimo tempo ? Mec.
Anzi tuttavia dagl'infedeli fi pratica ; ben è vero però, che tra eli le mogli
sono trattate , come schiave , tenendosi racchiuse , e guai a voi, Sempronio,
se vi fosse permesso più di unas moglie , allora vedreste in che travagli
maggiori vi porrebbero le donne , che go [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] godono la libertà, ond'è stato fantisfimo il provedimento , che unica
fia la conforte. Sem. E da chi ebbe origine, questo matrimonio in fimile
forma? Pub. Dal grande Iddio ; posciacche, crcato Adamo, formò Eva, e
glicla died'egli medesimo per conforte; onde ad iinitazione di questo gran
matrimonio dce ogni fedele contentarsi di una's fola compagna, e di rispettarla
ancora, conforme fece il primo marito, il quza le allorche la ricevette per sua
sposas, così disse : Hoc nunc os ex ossibus meis, caro de carne mea , hæc
vocabitur virago, quoniam de viro fumpta eft : quamobrem relinquer homo patrem
fuum, a matrem, adbarebit uxori suæ, derunt duo in carne una; e da ciò
comprendere, quale ftima li debba fare della propria moglie. Sem. Ma
tornando alle doti, queste da principio in che quantità furono ftabilire ? Mer,
Non fu allora ciò determinaco, ben [merged small][merged small][ocr
errors] F 3 ben è vero però, che in appresso, essendo divenute ecceffive,
furono stabilite in una certa quantità, secondo le condizioni delle persone ;.
e particolarmçate nei domini, ben regolati. Sem. E questo viene
offervato? Mec. Qualche volta, ma non sempre; fentendosi assegnate a
caluni in fommas più considerabile degl'altri,quantunque fiano della medesima
condizione Pub. Mi piacerebbe lo stabilimento fiffo , secondo lo fato
delle persone, ma da che proviene questa inosservanza? Mec. Dal lusso
accresciuto, il quale effendosi anch'esso posto tra le spese necessarie per il
sostentamento matrimoniale, viene anche considerato per tale da chi dee
accasarsi ; e perciò dice, tanta dote io voglio , per pocer fare quello, che si
costuma dagl'altri. Pub. Qnando io preli moglie, e per qualche cempo in
appreffo , & contentava ogn’uno di ricevere competente dore; perche questo
lusso di oggidi non non vi era. More [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] Mec. A tempo ancora, che vivevas Gnco Scipione, le doti parimente erano
molto proporzionate al vivere di allora , ascendendo la più pingue, quale ebbe
Magulia, che fu chiamata las dotata, a cinquecento mila affi, come riferisce
Valerio Maffimo. Sem. Non erano dunque si tenui les doti ascendendo a
tanta somma. Mec. Avvertite Sempronio, che gli affi non erano già scudi;
ma solamente ogo’uno di essi arrivava appena al valore di quattro de' noftri
quattrini di rame; onde turci icinquecento mila afli formavano la somma di
circa quattro milas fcudi de' noftri; e poi le più frequenti erano di dieci
mila asli, come ebbe Tacia figliuola di Cesone , il quale non era ignobile, e
cal somma appena ascendeva a scudi ottanta, Sem. Ma da che proveniva, che
corressero doti si tenui in quei tempi ? Mec. Non da altro, che dal non
efservi lusso, Sem. Ma perche non si pone dal Prin cipe [ocr
errors][merged small] F4 cipe sopra di ciò la prammatica ? Pub.
Perche aon ci è bisogno in queIto della sua autorità. Sem. Come non ci è
bisogno? Pub. Ditemi, Sempronio, se voi poteste senza l'autorica del
Principe far cosa, che fosse anche di sua fodisfazione, vi sarebbe bisogno
della sua autorità per farla? Sem. Non ci sarebbe certamente di uopo di
essa. Pub. Or ditemi, s'è in voftra libertà, nel farvi un'abito ,
spenderci 50. ò pur 100. scudi , ed in una carrozzas 500.Ò 1000. in questo vi
astringerà forfc il Principe alla spesa maggiore? Sem. Certamente, che
no; Pub. Perche dunque non lo fate confiftendo in qưesto la prammatica
? Sem. Perche gl'altri non costumano di farlo. Pub. Or dunque
domandate a questi, che pongano efl'la prammatica, non al Principe, il quale
non comanda, che fi ecceda gel lufto,Mec. A questo proposito essendo ftato
supplicato Tiberio , a porre moderazione all'eccellivo lusso, che correvad in
quel tempo, egli negò apertamente di farlo, dicendo come riferisce Tacito:
Pauperes neceffitas, divites fatietas, Nos pudor in melius muter; onde da ciò
comprendete , che noi siamo i padroni di prendere quelle misure, che più ci
aggradano nei nostri trattamenti ; & udite da Tacito medesimo, come mai lo
espresse al vivo nel secondo de' suoi Annali: Cur ergò olim parfimonia pollebat?
Quia sibi quisque moderabatur : non ritrovandoli Gneo Fabrizio, e Quinto
Emilio, che un tondino, ed una saliera di argento, per servirsene nei
sagriticj; per altro tenevano da se lontano ogni luflo , conforme fecero ancora
i Publicoli, i Curj, i Scauri, & altri valoroG uomini, i di cui pensieri
non si aggi. rayano già intorno alle ricchezze, ma bensi agli onorevoli
Consolati alle me. ravigliose Dittature, ed ai Trionfi , per çimagcre immortali
nella pofterità: cos me [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors]
me riferisce Valerio Malimo : Sem. Hò capito a bastanza, e conofco, che
il mancamento viene da noi. Notificatemi ora, Dottore , quali sono questi
difetti corporali delle donne, i quali voi meglio degli altri
conoscerere: Med. Non posso servirvi in ciò, ele sendo che quanto sò di
occulco, non, debbo palesarlo. Mec. Il Dottore è compatibile in questo,
perche s'entrasse egli in disgrazia delle donne, potrebbe dire di aver finito
di fare il Medico; imperciocche, comincierebbero queste a dire, che tutti di
suoi infermi muojono, e perciò sias sfortunatissimo nel medicare, e di
vantaggio sia un vecchio stordito, che non sappia ove si abbia la testa; e
sapere purc, che queste muovono gl'animi colla loro eloquenza più di Demostene;
onde lo porrebbero in una totale defiftimazione, non facendoli scrupulo alcuno
di far ciò quanrunque fosse di pregiudizin grande a professori, il dicui merito
effe non sanno conoscere, per vedersi [ocr errors] [ocr errors][ocr
errors] da effe anteporfi gl'adulatori a questi. Med. Non è questo il
motivo, che mi ritarda il palesarli, ma bensì, l'avere io qualche segreto di
cal’una, che si trova con qualche imperfezione, onde non vorrei , che mi
credesse manca. core di fede , figurandofi, parlaffi di lei: per altro, non mi
ritarderebbe già di farlo quello, che voi avete accennato; perche, se dicessero
mal di me, diverrei Medico fortunato, essendo che non me . dicando , non mi
potrebbe morire alcuno, e per questo riposo ancora goderebbe la mia mente
tranquillità maggio [ocr errors][ocr errors] re. Mec. Queste sono
belle rifleffioni, ma - però ad ogn'uno piace l'effere adopera to, e
questo senza protezione difficile mente si conseguisce. Med. Piacerebbe a
me ancora quan. do ciò non distruggeffe il mio indivi. duo ; e cercherei
ancor io queste pro- tezioni, quando accrescessero dotčrina ; ma non
potendo le stelle cramandare i quci benigai inguda, ch'effe non hanno
onde onde per tal cagione mi persuado, che queste ancora non potranno
addottrinare. Voi conoscere il mio naturale ; di grazia non diciamo
altro. Sem. Se non diremo altro, non termineremo la nostra conferenza, ed
io rimarrò senza essere istruito. Mer. Vi consolerò io , ch'essendo già
vecchio, niū fastidio mi prédo delle doglianze feminili, non curandofi esse più
trattare meco. Vi persuaderete forse, Sepronio, che tali difetti personali
occulti sieno cose grandi , essendo, che il Dottore ricusò palesarveli? questi
non sono altro, per quanto mi vado immaginando, che un poco digobba, la quale
viene ben uguagliata da buftini ripieni nella parte mancante . Sono qualche
palmo di giunta ne'calcagni, per potere coparire al par delle altre ; qualche
piaghetta,ò fistola occulta,o ferore di naso, ò di bocca ; ò pure altro
impedimento, mediante il quale si rendono infeconde: Ma non crediate già, che
tutte le donge abbiano fimili imperfezioni , effen, do [ocr errors]
do solamente alcune poche queste così imperfette. Pub.
E' certamente curioso quel caso riferito a tal proposito da San Vincenzo
Ferrerio nei suoi fermoni. Aveva un giovane sposato una donna , la
quale gli parea di giusta ftatura , rimase poi cgli quando la vide
porsi a letto manca- ta in un momento per metà. Dubito da
principio, che gli fosse stata cambiata, mà miratala bene in viso, si
avvide effe. re la medesima , onde stimò bene dirle, cosa avesse
fatto dell'altra metà della sua persona ; l'accorta non fece altro
, che mostrargli le sue pianelle, ò tram- pani per la loro
grandezza, che appun- to allora si era cavati, i quali non erano
inferiori all'altezza della base di una co- longa. Sem. Fra
tutte l'accennate imperfec zioni, niuna mi darebbe maggior faItidio del fecore
del nalo, ò della bocca ; perche io, che sono dilicato, non potrete credere ,
che avversione ciò mi recherebbe; onde di questo , prima difpofarla, voglio
ben'accertarmi in vicinanza tale, che possa scoprirlo io medefimo. Pub. E
che ? forse temete, udendolo per relazione altrui, d'incontrare las bontà di
quelle donne, che redarguite, perche non avessero palesato il fetore della bocca
de loro mariti, effe rispofero ; che credevano , che tutti gl'uomini odorassero
in quella forma? D.Hier. in Jovin. Sem. Come si potrebbe fare per isco.
prire quefti difetti corporali occulti? Mec. Doverebbero palesarsi
reciprocamente alla prima, altrimenti, essen. do il matrimonio un contratto, vi
farebbe inganno, ciò non facendosi : E fe nei contratti delle compre de'
schiavi, ò cavalli, quando la frode fi scuopre, esli si possono riscindere,
così mi persuado, che sia in questo, cadendo-yil'inganno in cose essenziali
alla fecon- N dità; oltre poi, quando non si poteffc riscindere , quante
occasioni daranno di perpetui disturbi tra di effi fimili diferti.
Sem, [ocr errors][ocr errors] 3 Sem. Şi è dato mai il caso, che
siang palesati questi prima delle nozze? Mec. Molti esempj ci sono, e tra
gli alori, quello di Crate Filosofo Teba. no, cui portando grand'amore
Hipparchia, la quale aveva non inferior genio col Filosofo , che colla sua
doctrina , onde richiedendolo per marito, che, fece egli ? si scoprì il dorso,
cmostrolle la sua gibbosità; e di poi posto in terra il maorello, bastone, e
tasca , che 2veva, le disse: Signora, queste sono tutte le mie supellectili, la
mia defor mirà già l'avete veduta, onde considerate seriamente ciò, che fare
per non. avervene a pentire . La saggia donnarei plicogli, che aveva già
sufficientemen te proveduto ogni bisognevole, e confiderata ogn'altra
cosa, e perciò credeva, che più bello di lui, e più ricco non fosse nato al
mondo; onde che l'avesse pure condotta dove voleva , come sua moglie . Ed il
simile fece ancora nel discoprire la sua gibbofità il Padre di Sergio Galba a
Livia Occellina Daman mol per mo molto ricca, è bella, per
non ingannarla. Sem. Bisogna, che queste non credersero deformità
svantaggiosa la gobbas de’loro mariti , perche hò osservato i figliuoli di
cocefti molto diritti , e belli; mà vorrei sentir riferire qualche caso di
donna, che avesse scoperto all'uomo i suoi difetti. Pub. Vi fu una
giovane bellissima amata teneramente da un Gentiluomo, il quale avédola farta
chiedere glie , fi scusò ella di non poterlo compiacere, onde da simile ripulsa
s'accese di desiderio maggiore , per averlas; mà che fece la savia giovane,
vedendo , ch'egli non defifteva ? gli fe intendere, che lei medesima gli averebbe
palefata la cagione, per la quale ritardava di condescendere alle sue brame, e
c011"certato il luogo , ed abboccatisi insienie gli scoprì il suo petto ,
e felli vedere un canchero , ch'aveva in una zinna, dicendogli,Signore, questa
carne, ch'è incominciata ad incadavcrirli voi amato [ocr errors][ocr
errors] ta [ocr errors][ocr errors][ocr errors] canto! Rinase egli
confuso nel rimira, re tale spettacolo, il quale frenò in gran parte
quell'ardente amore, che le portava's desistendo in avvenire di farla più
importunare. Sem. lo credea , che le donne non fossero facili a scoprire
i loro difetti, sarauno però rari questi esempi : Mec. Il simile credo
anch'io, e da ciò facilmente oasceranno molte contese cra mariti, e mogli ,
d'onde provengono i divorzj, e fe li palesaffero alla prima scambievolmente i
loro difetti, forfe che non seguirebbero; posciache essendune ainbidue
consapevoli, non li pom trebbero allora dolere, se non di loro medefimi.
Sem. Perche non si potrebbero fare ri. conoscere ambidue prima del matrimos nio
per meglio accertarsene? M26. Questo ripiego fu disapprovato, quantunque
lo aveffe proposto Platone; onde che fi dirà apportandolo you?' Evi pare, che
l'oneltà lo debba permettere? Appena le leggi Romane antiche tolle.
G [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr
errors] 98 Conf. 4. Dec. prima il rarono una tale ricognizione nell'uomo,
proibendola efprenainente nelle donne: e re Platone aveffe osservato cioccheri
feriscono Plinio, e Solino, che i cadaveri delle donne galleggiano sù l'ondes
con il ventre all'ingiù, e degli uomini all'opposto, cercamente, che averebbe
appreso dalla natura il documento di doverte, trattare con maggior onestà,
vedendoli naduralmente risplendere un non fo che di modestia in eile, anche dopo
morte. 1. Pub. A questo propofito lessi in Plufarco, con mią grande
ammirazione, ciocch'egli racconta di quelle Vergini Milelie, le quali ,
divenute pazze a cagione d'influenza peftifera,che ivi vagava, erano forzate
dal loro delirio a morire appiccare, e questi spectacoli giornalmente fi
trimiravano nella Città di Mileto ; fenza che le preghiere, e le dagrimé de'
genitori potessero impedirli; solamente il contiglio di un Savio porè
rimuoverlig. e fu di procurare con decreto del Senato, che tutte quelle,che si
sospendessero in avvenire , forfero esposte nude in nezo alla piazza a vita di
ogniiuno:Indusfe nella fancatia di cucina te le giovani tale spavento, ufc4to
sopra di ciò l'editto, che manco affatto Porrido fpettacoto, aftenendoli
age'unas in avvenire di farlo ; perche concerioz per cola assai peggiore
perfere veduta ignuda , benche morta, che vestica ap. piccata . Med. Due
altri fatti poffo riferire anch'io di donne savie : Polisena fu unas di queste,
di cui così ne parla Euripi de, At illa jam moriens tamen
Multum providit , ut honeftè caderet . Celaretque', que celare oculos
virorum oportet i Ed Ovidio ancora, nelle sue Metamor, foli, così
dice della medesima , Tunc quoque cura fuis partes velare, pudendas Cum
caderet , castique decus fervare; pudoris ; E l'altra fu Olimpia madre di
Alessan dro il Grande , che trovandoli proffiina alla morte, con i propri
capelli, e vefti ricopriva ciocche l'onestà non permetteva - Acimirasle
scoperto . Sem. E chc G farà delle belle, delle ricche, e delle brutte, e
povere ancora , come troveranno queste marito? Mes, L'udirete in
appreso. [ocr errors][ocr errors][merged small] [ocr errors][merged
small] [ocr errors] Nella quale si mostra, in che modo si maritino le
belle, le ricche, e le deformi quantunque povere.
Mecenast , Sempronio , Publio , & Medico. Mec. A lunga
sperienzando che hò del mondo, grá cose mi ha fatto conoscere intorno
a_matrimonjoli qua, li per essere contracti, come fu detto, hò scoperto
in effi ancora i suoi scnsali , conforme fono negli alori trafichi. In quei
fatti a doves re de quali già parlammo hò offervato sempre mezana la Prudenza,
la le non già di approveccia di alcuna fensaria per se medesima, come
sogliono qua, praticare gli altri sensali dc' matrimo. nj.
Sem. Quali sono questi altri? Meci Amore , l' Ambizione, e las
Bugia. Sem. Che fofle Amore sensale Ò, 'mezano de' natrimonj' lo sapevo
anch? io; ma questi alori mi giungono nuovi; e come mai l'Ambizionc potià
trattare i matrimoni? Mec. Vi sarà una giovane brutta ral. volca , e
povera , c perciò Amore l'averà abbandonata'; ma perche si trove rà umfratello,
che si potrebbe avanzare nelle armi, ò nelle letrere, che farà l'Ambizione? li
metterà a trattare il di lei matrimonio, e con motivi si efficaci darà ad intendere
, che da quel mari. taggio, ne risulteranno vantaggi tali a prò di quel
giovane, cui la propong, che lo porranno in grandezze, edonorificenze molto
considerabili in breves tempo - Sem. Ma non li avvede, ch'ella è de
forme Mero Mec. In questo l'Ambizione s'inge. gnerà di non
fargliela comparire tanto brocca con mostrarli, che ci sono tante più deformi
di effe, le quali pure hanno trovato marito; e di poi gli caricherà tanto le
specie dell'apparence bene futuro, che arriverà ancora , quantunque. fyfle
brutiifiina a fargliela comparire vaga a segno, che lo farà divenire diella
amante. Sem. Ma questi sarà impazzito, se non diftinguerà ciocche a leoli
esteriori si fa palese. Mec. Credere forse voi,che solamen. ce Amore
faccia impazzire gli Orlandi? l'Ambizione ancora è capace di farlo; e questa
appunto è la sensaria, ch'ella brama: cioè di vedere fuori de'suoi sen. rimenti
anche gli uomini savj, e talvol? ta quelli ancora , che si stimavano capaci di
dare ottimi consigli ad altri. Sem, Ed Ainore, che fensaria ritraer da?
suoi maritaggi? Mes. Non altra ; che di vederli in brieve tra di loro
disgustati, essenda,che come si luol dire per proverbio; chi per amore si
prende, per rabbia li lascia. Sem. Ela Prudenza , che ne ritrae di
sensaria? Mec. Di vederli con perfecta pace tra elli, di sentirli dire
con Aufonio trai di loro : Uxor vivamus , quod viximus', dove teneamus,
Nomina, qua primo fumpfimus in than)lamo : Nec ferat ulla dies, ut
commutemur in Ævo, Quin juvenis tibi fim, tuque
puellas mibi. Sem. Questa per verità è un'ottima fenfaria, che
volentieri si può pagare da curti,e con fomino diletro.Ma palliamo ora
all’Avarizia ; com’enera questa nei matrimoni, vedendosi introdottas oggidi
tanta pompa , e splendidezza in elli , che pajono più costo trattari', u
regolati dalla prodigalirà sua nemica. Mec. Cosi non ci cotraffe: :
vedrete una giovane non solamenté bructa, ma [ocr errors][merged small]
anche mal sana , ricca però affai: e chi mai [poserebbe questa , con cucce le
sue ricchezze, se l'Avarizia non trattasse il suo parenrado ? Sem. E come
mai ella opera ? Mer. Si porrà d'intorno ad un bel giovane, ma povero , e
gl'infinuerà, che quel partito potrebbe farlo divenia re molto riccbi e gli
riempirà la testad fcema, che si ritrova, di molte, ei molte migliaja di scudi;
dicendogli , che potrà allora godere, e stare allegramente; e susurrandogli
qualche altra cosecca di più alle orecchie, lo farà fare in tutto, e per tutto
a suo modo; fenza che gli amici lo possano più rimuovere con tutta la rectorica
di Cicerone, e l'energia di Demostene. Sem. Questi ancora mi sembra un
paz-s zo. Ben è vero però, ch'è caso raro , effendoci fatto divenire
dall'Avarizia i posciache i suoi seguaci non buttando il loro non sono tenuti
pazzi; conformea potrà contestare il Dottore', che conos sce, che cosa fja
pazzia, Mede [ocr errors] Med. Cilono però diverse specie di questo
male; laonde se non sono di quefta fpecie di di:Sipare il loro gli Avari sa-,
ranno di qualche altra; mentre alcuni di essi, per non ispropriarli del danaro
, divengono tiranni di se medefimi i ed inoltre, quanti Avari vi sono stati,
che per leggiere cagioni hanno dato la morce a se incdelimi , e quetti di
riputere: voi forse savj? e tornando al caso proposto, à me pare, che per
avarizia coftui spreghi il meglio, che si ritrovas, ch'è appunto il fiore delli
suoi anni, spofando una donna mal fana, e brutta . ..Sem, Che sensaria mai può
guadagnare l'Avarizia in far questo? » Mer Ella spera di potere acquistare
tanti seguaci di più, quanti poveri arricchisce per questa via, essendoche
quando erano poveri, non potevano : cflere Avari, perche non avevano mo-> do
da cumulare i dove che arricchiti poffono averlo .. Sem. Mà come potrà
avanzare? dicendogli, che faute, che avesse il pa. ren rentado, averebbe
goduto, e sarebbe ftato allegramente , e questo non si può tare da quelli , che
vogliono cumula Meo. Voi non capice il parlar equivoco dell'Avarizia ;
ella non già intende il godere , e stare allegramente dispendiofo , ma bensì
quello di cumulare , creduto da efla , e suoi seguaci piacere , e contento
maggiore di tutti gli alori"; è ben vero però, che in questi cali rimane
ella fovente delusa ; posciache i giovani dislipano tanto in tali occalioni,
che bene spesso si pente l’A. varizia di esservisi ingerita. Semi
Com'entra la Bugia ne'matri. monj? Mec. In quanti se ne fanno, senza le
direzioni della Prudenza essa vuole-ingerirsi, e per un verso; d per Palero ci
vuole avere in questi la sua parte. 7 Sem. Si dice però communemente, che
la Bugia abbia le gambe corte, onde fi fcoprirà, e non potrà perciò fare
breccia. diri Mele 1 Mec. Non è così perche non opera già
sola. Se Amore per esempio trarre. rà un parentado, essa pronta vi accorre, e
si affatica tanto per fare apparire quel. la giovane , per cui si tratta ,
savia, prudente, e di abilirà : ò quel giovane di costumi angelici, e di
abilità sommas; quando per verità farà tutto l'opposto. Sem. Mà quelto in
brieve si può scoprire. Mec. Prenderà ben ella il contratempo, e quando
vedrà che i genj, mediante Amore, saranno cominciari as collegarsit, allora,
ciocche ella dirà , sadà creduto per vero; nè fi pafferà più oltre per
iscoprirlo, quantunque fosse falfifsimo: lo fomina in tali occasioni la Bagia
si affatica tanto; che arrivò as dire un Filoloto, che s'ella non si ri-,
mescolaffe à questo segno si troverebbe per certo il mondo.più spopolaco
notabilinente Sem. E come ? e perche ? Mec. Popolandoli il mondo,
median-> te i matrimonj, quando questa non aju.taffe à farli, oh quanti di
meno ne le guirebbero! Onde per mancanza di effe molto fcemerebbe ; talmente
ch'essad lo mantiene cosi popolato . Sem. Non credo però; che abbia tanta
parte in essi, quanta voi dite. ) Mec. Ed io credo di vantaggio ancora;
imperciocche dicemi: nel mondo, quali sono più numerosi, i buoni, ò i
carrivi? Sem. Questo calcolo non so chi l'abbia fatto : ti dice bene da
pertutto, che gran parte in esso vi sia di cattivi. · Men E credete voi,
Sempronio, che questi trovassero moglie, se la Bugiai non ricoprisse i loro vizja:
Sem. Io credo di nò; Mec. Dunque non facendosi tutti questi, che danno
considerabile apporterebbero alla popolazione del mond? Sem. Ditemi, che
fensaria ella riceve ? Mec. Non altra, che di trionfare allorche li
scuoprono gl'inganni da efsa orditi; e li prende sommo piacere del
lc de discordie, e dissensioni, nate da ciò tra in arirari. Sem. Oh
che razza di gusti deprava Mic. Quéli appunto sono i piaceri, che li
prendono i vizj, non confiitendo in altro, che nel vedere precipitato chiunque
dura loro fede, e perciò non iè bene di prevalerli, Sempronio, della opera loro
in conto alcuno. -- Semi Mirpersuado , che la Prudenza non tratterà fimili
mariraggi, onde pochi faranno quelli, nel quali effa s'in. trometterà : per
efeinpio, se sarà bella da giovane, lascierà trattare il suo pa. rentado
ad Ainore, ed effa fi discolto. rà. Mec. Non è così ; perche la Prudenza
non è già tanto indiscreta, che odj la bellezza, c fe vedrà, che colla beh -
lezza ci fia unica anche l'onestà, ed il buon costume, li tratterà , e
concladerà infieme; ma quando poi fi ávvedesse, che colla bellezza, questi non
ci fossero, allora ne lafcierà la libertà ad A mo more , che le
marici a suo piacere : Sem. Mà ci sono elempj di queste belle accasate
dalla Prudenza? Pub. Tanti appunto, quante donne helle hanno mantenuta la
fede illibata) ai loro mariti; e di queste Plutarco ne riferisce molte,
parlando delle donne illuftri į confessando ancora l'Ariosto nel canto 37. non
esservene stata mai pea nuria di esse, con dire: E di fedeli , e caste ,
e faggie , e forti Stare ne fon, ne pur in Grecia, e ithead
[ocr errors] Roms, Ma in ogni parte, ove fra
gl'Indi, gl’Orti Dell'Esperidi il Sol spiega la chioma; Delle
quai sono i pregi, e glonor mortis Sì ch'appena di mille una
finoma, E questo perche avuto hanno a'lor tempi I Scrittori
bugiardi, invidi , ed empji. lSem. E nci maritaggi con ricche doti s'ingerisce
mai la Prudenza , effendo disuguali di condizione ? Mes. In questi ancora
, quando ritrova, che amili ricchezze fono venu te te per vic
oneste;descritre così da Sene's ca de Vila beat a cap.2 3. Nulli detractas, nec
alieno fanguine cruentas , fine cujufquam injuria parias , fine fordidis
quæstibus, quarum tam honeftus fit exitus,quàm introitus, quibus nemo
ingemifcat , nifi malignus. E non scorgendo di mal cofume chi le poflede, li
conclude ancora; perche come mostró Platone į non induce disuguaglianza
disdicevole las fola disparita di condizione. Sem. Quale farebbe questa
disugua. glianza disdicevole? Mec. Sarebbe appunto, se un nobile, per
cagione della gran dote, volefse sposare l'unica figliuola map educa. ta di un
vile, e sordido arcista; l qual matrimonio non solamente darebbe da dire a
molti, ma ancora per lungo tempo sarebbe privo di potere conversare con uguali,
chi prendesse una fimile Spofa, Sem. Vi fuschi di Te in fimile
congiuntura, che de mormorazioni solamente per qualche tempo duravano, mà
chc che le grosse dori rimanevano per sem., pre; io però non sono di
genio si vile. Méc. Credo, che voi manterrete il decoro di Gentiluomo,má
replico bensis a colui, che punto non lo consideras :: che i figliuoli ancora
riinangono per : seinpre di somiglianti inclinazioni, e co. ituini; essendoli
osservato in molii, che hanno voluto canto digradare dalla lo-> ro condizionc,
con prendere per moglie giovani mal nate , e di poco buon co-> itume',
'credirarsi da loro descendenti » gonj vili, c plebej; cosa alai più dannoia ,
e pregiudiziale , di quello sieno le mediocri picchezze nelle famiglie ile
luftris onůc perciò il poeta Satirico conrra di questi disle,....... 9.
Scilicet expectas, us tradat mater boSo do neftosigilom Aut alios mores,
quam quos babet? E quell'altro anche canto Infequitur leviter filia
matris iter... Olere diche certi matrimonj fatti con tanta disparità di
condizione, se non, averà prudenza la moglie , riescono ang che infaufti a
mariti; come provò Fulvio, il quale avendo sposato una Ichigvå, fu dalla
medeliina tradico, denunziando ove egli era nascosto, csendo tra i proscritti
in tempo del Triumvirato ..., Sem. Vorrei anche sapere, fela Pru-, denza
tratti marrimonj didonne brurce, e ditettofe... * Mec. Questi ancora
maneggia , quando ci trova il suo conto; cioè a dire che quella da voi creduta
deformità non pregiudichi a fare figliuoli, nè alla pace doinestica. Sem.
Io mi perfuado, che la brut. tezza poffa ritardare 'ambidue ; perciocche, come
si potrà amare una donna deforme e non amandoti questa, come li potranno avere
figliuoli, ed esserci la pace domestica di Mec. Dovete sapere , Sempronio
; che due bellezze sono nelle donnc ; una delle quali è di fola apparenza, e
perciò viene detta eftcriore, e l'altra inter, Da, la quale risicde nell'animo:
la pri. [ocr errors] ma si rende inanifesta ad og i uno, che Ja rimira;
la seconda poi, quanto più si nasconde tanto maggiormente risplende'; quale di
queste due voi bramerefte, Sempronio, che avesse il primo luogol nella vostra
sposa ? Sem. Quella , che porelli vedere, we godere insieme. Meci
Questa sarebbe lefterna , che per breve tempo la potreste vedere, er godere ;
essendocche prettamente fier nisce, venendo da' Poeti assomigliatas alla rosas
Collige virgo rofas dum fos novus, o nova pube's, Er memor efto , ruum
fic properare tuum. Ed altri: Rofa viget breve tempus, fi autem pra
terierit Quærens invenies.non
rofas, fed fpinas. E Seneca dinle Anceps.forma bonum
mortalibus , Exigui donum breve temporis , U velox celeri peide
laberis : H 2 8. Ed [ocr errors][ocr errors] Ed il
Petrarca ancora così ne parla Questo noftro caducong fragil bene,
Cb'è vento ed ombra , ed ha nome beliade. L'altra bensì, effendo
radicata nell'ani. ino, non languisce in alcun tempo; anzi che in certe
contingenze fa vedere quanto opera in conservare la pace domeftica. Vi potrei a
questo proposito addurre molti csempj; ma quello riferito da Enea Silvio della
moglie di un celebre Medico Sanesc fa al nostro propofito. Questa era molto
deforme , nulladimeno, per le fue rare viciù, l'amaya suo marito
svisceratamente, chiamandola la sua buona Ladiç; ed appunto d'onde possa ciò
nascere lo spiega Lucrezio, dicendo : Nee divinitùs interdum , Venerisque
sagittis , Deteriore , fit ut a forma muliercula ametur ; Nam facis ipfa
fuis interdum fæminar factis Morigerisque modis , cu mundo corpore cultu
Ur fucile insuefcat fecum vir degere vitam. Sem. Ma effendoci l'efteriore
, per- · che non potrebbero ancor' acquistare 1.1 bellezza interna
coll'industria de’lo"ro mariti? Moc. Onanto siete buono, Sempronio,
che vi volete affaricare in merte, re "il giudizio, ove non sia ; e non
sapite, che fin'ora non è bastato l'animo ad alcuno di porcelo: bisogna pregare
Iddio, che non vi abbarciate in caluna, che penurj di effo; perche altrimenti è
tuito tempo perduto quello, che s'impiega per farlo entrare, ove non sia.
Pub. Sempronio procurare di grazia di stare cautelato; perche questa bellezza
esteriore, che voi tanto bramare, fi uniforma alle volte a quella dei tempi
degl'Egizj, ch'erano belli di fuori, e e brunti al di dentro : oltre di che
apprendere questo utiliffimo documento da S. Girolamo : non facilè cuftodisor,
quod omnes amant, O in quo totius popu. li vosa fufpirant; e canto
maggiormen te , [ocr errors] H 3 .te, che il Nazianzeno la
chiama : temporis, & morbi ludibrium : Santamente, dunque l’Ecclesiastico
dice: Ne respicias in muliere speciem, nec concupiscas mulierem in
fpecie. Scm. Coinc fa la Prudenza a conosce. re, che questo giudizio vi
lia, ove law bellezza non regna? Mec. Lo comprende ben ella allorche
rimira una giovane modesta , circospetra nel parlare, non curiosa, ftabile,
attenta , ed applicata a fare ciocche dee; onde la reputa perciò giudiziosa; mà
le poi la scorge incostante, disapplicata, curiosa', garrula , c vana , que.
Ito le basta per crederla imprudente, c non fi prende penfiere alcuno di
essa. Sem. Ho udico raccontare più volte, che alcune giovani pri na di
maritarsi fieno ftatc tenute per giudiziose, e prudenti, ma che poi fattefi
(pose sieno diveoute l'opposto di quello, che dianzi erano reputate , per avere
sciolta labri. glia a tutti quei vizj, che tenevano ce.Mec. Bisognerebbe con
esattezzas esaminare, per colpa di cuilia ciò provénuto , se di effe, o de i
loro mariti; u se fi rincontraffe , che avessero in ciò peccato i mariti,
sarebbero esse degne di compaffione, dovendo come subordinate regolarli secondo
quello, che a medelimi vedranno operare; potendo ancor esse scusarfi, come
fecero le don. ne Ebrce allorche furono riprese, perche fagrificavano
nell'Egitto, le quali dillero : Numquid fine noftris viris fecimus? fer:
44. Sem. Come Opera la Prudenza per concludere fimili matrimoni?
Mec. Primieramcnte con fare riflettere al giovane, che brama di accasar
fi, quale sia il fine principale del matri,-monio , cioè per ottenere
figliuoli, o che questo non fi orriene mediante los bellezza, ma bensì per la
sanirà del corpo;: onde che non debba quell'anceporsi a questa ; ficcome ancora
cons fare confiderare i danni, che potrebbe qucla bellezza ofteriore
apportare [ocr errors][ocr errors] mariti, li quali provò appunto Uria
per la bellezza di Bersabea ; ed Abramo uomo saggio per isfugirli, che cosa
facelle, avendo Sara per moglie, donna. belliffima , allorche dovea andare in
E. gitto, e fu , Gen.12. Novi quod pulchra fis mulier, & quod cum viderint
te Ægyptii di&turi funt : uxor illius eft, interfcient me, o te refervabunt
: dic ergò obfecro te, quod foror mea fis &c.: Eche quando simili
infortunj, non accadersero per cale cagione , potrebbero per altro succedere
dicendo Leucippo:che la bellezza sia una saetta, la quale ferisce con maggiore
velocità di quellow, che viene scoccata dall'arco : e Ciro che debbali più
temere questa, del fuoco, il quale non offende in qualche distan. za conforme
fa la bellezza; insegnando l’Ecclefiaftico al 9. Propter Speciem mulieris multi
perierunt , & ex bac concipifcentia quafi ignis exardefcit : oltre di che
gli farà ben capire, che non solamente,egli viventesquefta polsa danneggiarlo ,
ma cziandio clinto che sarà , c CON [ocr errors] con qaciti motivi
lo ani nerà a scize glierti per inoglie più costo la laggine, che la
bella. Sem. Mà come dalla moglie belles potrà strapazzarli il maritu
defanto? Mec. Lo comprenderete dal seguente avvenimento riferito da
Petronio Are bitro. Dimorava in Efeso una Matrona, non meno bella, che stimata
da tutti di fomma pudicizia ; ed essendole morto il inarito, non solamente
dirottitfunamente lo pianse, mà, accompagnatolo al sepolcro, delibero volere
ivi termic nare la sua vita con esso ; nè fu porabile, che i parenci , anzi il
Magistrato stesso la potessero rimuovere daral penfiero. Già sofferri. avea
cinque giorni di rigorosa astinenza, quando un sol. dato, il quale cuftodiva
alcuni cadaveri de ladri, ch'erano stari, giustiziati vicino a quel sepolcro,
si avvide di notte, che usciva un cerro lume da unas contigva casetta , ed udiva
insieme ivi piangerl ; vi accorse , cd animalo vi entro, e calato che fu dove
si piangeva, ap [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Conf. 5. Dec.
prima appena vedute due donne'appreffo ad un cadavero, sen tornò in dietro a
prendere la sua poca cena, e ritornato che fu, cominciò a consolarle con
offerire loro quel poco di ristoro, che feco portato avea. La più addolorata ,
la qual'era la sudetra Matrona non mostrò punto di gradire le cortesi
esibizioni del feldato, anziche più costo'raddoppiava ischiamazzi con svellersi
i capelli, e percuoterfi maggiormente il perto : non si perdette egli di animo
per questo , ma fi accosto all'altra, ch'era la fervente , offerendole
cortesemente il vino, che avea ; ed ella non fi moftro canto ritro. fa;
posciache'riftoroffi con quello,e guftò ancora il cibo'; ed indi si pose ad
efpugnare la pertinacia della sua padrona, e tanto le leppe dire, che alla fine
la vinse, eristoroffi anch'ella. Vedendo il soldato, efferli renduta in questo,
passò più oltre', e coll'ajuto della fervente gli riusci di prenderla per
moglie, non dispiacendo alla vedova l'aspetto del fudecco giovane ; ¢ ciò fu
concluso frete [ocr errors][ocr errors] frettolosainente .
Dimorarono tre gior- ni in decto sepolcro i sposi, uscendo ap- pena
di noite tempo il soldato a prove- dere ciocche faceva d'uopo per
alimca- tarsi tutti. In questo montre da' paren- ti degli appiccati
fu portato via uno di quei cadaveri , ed avvedutofene il sole dato
lo palesò alla sua fpofa tutto con- tristato ; dicend le, che non era
coave- niente di aspettare la sentenza del giu- dice , essendo egli
incorso nella pena di vita , per la sua trascurata custodia ;
on. de che gli avesse pure preparato il luo. go per fepelirlo allieme
coll'altro suo inarito, essendo egli già disposto a darli la morte . Ciò udico,
la compaffionevole donna rispose: non sia mai, che io abbia da vedere due de'
mici carifli. mi mariti, defonti nel medesimo tempo; desidero più costo
appiccare il inorto, che di perinettcre, che il vivo perisca: deh prediamo
questo cadavero,e collo? chiamolo, ove manca quello del ladro. Ubbidi
prontamente il soldaco ; e nel di seguente cucco il popolo f maravi.
Conf. s. Doc. prim. gliò, coine inai quel njorto, così teneramente pianio,
fosse stato posto sopra un paribolo: Sem. Talmente che saranno tutte
finzioni quei gran pianti, e schiamazzi, che fanno le donne vedendo morti i
mariti? Mec. Per lo più cosi credo anch'io ; perche, non avendo queste la
prudenzas virile, con faciliià grande fi pongono as piangere, ma noui tono già
così gli uo. mini. Pub. Voi mostrato di non avere letto Filostrato in
Sofijt.: il quale raccontas ciò, che fece Erode il Sofista nella morte di sua
moglie, ch'è questo appunto. Non si contentò egli di averla pianta
dirottilmamente, stando anche sopra terra, ma volle continuare a farlo tutto il
rimanente di sua vita : e come se le inura della sua casa pocessero essere as
parte del suo dolore, le fè tutte vestire di bruno, e la sua casa fu dall'alto
al barlo così bene dipinta a color nero, chu rendca gränd'orrorc: inoltre
volle, che tutti quei, ch'erano al suo servigio fof. sero mori, o per
natura, o per arte: cgli stesso si fè cignere co’carboni il vol. to, per
portare ancora in fronte la di. visi del suo dolore. Tutti i suoi mobili anche
i piatii, e bacili', ne' quali li lavava crano neri . Passò del tempo in questa
bizaria, senza volere udire alcu. no di quei, che volcano persuaderlo a
cambiare risoluzione. Lucio, che gliera amico, gli aveva più volte parlato di
questa materia, mà senza frutto; allas tine una sola parola di scherzo lo
guada. gnò. Le sue serventi lavavano un giorno alla fontana certe rape; le vide
Lucio , e domandò , fe quelle doveano servire per la tavola del loro padrone,
il che affermarono; se ciò è cosi disse Lucio ; riferitegli da mia parte,
ch'egli fa un gran torto alla sua moglie, e che non dee mangiare rape bianche
in casas vestita tutta di nero ; onde che si era infinitamente maravigliato ,
com' egli non riparasse a cosi grave disordine, dovendo il suo bere, cd il suo
mangia. [merged small][ocr errors][ocr errors][merged small] TC re
essere vestiti come lui di gramagliw; ed a queste parole cominciò ad aprire gli
occhi, per vedere, e riconoscere le sue stravaganze, e questi era pur Filosofo
non già donni ! Sem. Iftruitemi di grazia meglio sopra i matrimoni, fatti
senza l'intervento della Prudenza, per non cadervi. Mec. Nella: ventura
conferenza vi consoleremo. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][merged small] 100, avendola me CONFERENZA VI. 6'1 Nella
quale si esaminano più distintamente i pregiudizj', che risultano dai matrimonj
farci fenza in l'intervento della Prudenza. Sempronio, Publio ,
Mecenate © Medico 6,156 OL Uanto mai mi ha contriftato la
storia riferita della cru. dele donna di Efe. fo glio considerata . Pub.
Non bisogna sgomentarsi, Sempronio , per fi lieve cagione ; perche.
primicramenre chi fa , le veridico lia tutto ciò , che in esta si racconta
parendoini molto inverisimile , che li di lci parentis cd amici l'avessero del
cute [ocr errors] to cata, avendo, oltre i natali, Giulio s
1981 Conf. 6. Dec. prima qualche concerto maggiore, per lo
sviscerato amore mostrato verso suo marito; oltre di che, chi potrà mai
credere, che una donna, i dopo efsere stata cinque giorni, con tanta attinenza,
poreise pensare , non che effettuare ciò , che fi lppone facesse : e poi,
quando' realmente fosse ciò foguito , vi posso riferire moltissini esempj
dimogli fedeliflime, le quali o per vero dolore sono morte, quando videro i
loro consorti estipfi, è dettero chiari atteftati del loro fincero , e costante
amore. Laodamia fù una di queste, la quale mori di cordoglio sopra il çadavere
di Protesilao fuo marito , ucciso da Etrore. Ed Artemisia a che segno amò le
ceneri di Mausolo suo marito , che fin volle , stemprate tolle sue lagrimc, dar
loro ricetto nel suo corpo ingojandole a poco a poco! 'E finalinente, per non
diftendermi di vantaggio nel riferirne inolte altre : Peponilla moglie dime
riferisce Xitilino, sotto l'Impero di Vespasiano, aon visse nove anni con suo
marito dentro un sepolcro, ove diede la vita a due figliuoli? e questa lo tenne
lontano dal supplicio, per quanto le fu permesso, non già ve lo mandò. ?
Sem. Tutto va bene; ma però, che una donna, dopo tante lagrime sparse per suo
marito, l'abbia esta condannato al patibolo, mi pare grave, e detestabilc
facro; posciache, se non amava quel cadavero, à che fine bagnarlo di tante
lagrime? e se poi l'era ficaro, come mai ebbe tanto cuore di fare un' atto si
crudele contro di esso, feuzan averle data occasione alcuna? Mec.
Quell'iniqua fantesca fu la cagione di tanta fceleratezza; impercioc" che
la povera padrona, dopo cinque giorni di dolorofa inedia sofferta, non
trovando dalla morte pietà alcuna in voler porre fine ai suoi cordogli, e
vedendosi imporcunara dalle preghiere di essa s’induffe à prendere quel poco
diria ftoro', offertole non già da pareoti , che I l'ave [ocr
errors][ocr errors] l'avevano abbandonata, mà bensì da un cftranco, che fu la
ruina della sua réputazione, perche chi d'altrui preode, se Iteffa vende.
Sem. Mà come! nc anco dentro il repolcro è sicura la pudicizia , ed allas
prcfenza del marito defonto! Mec. Diceva il Re Filippo, che non era
inespugnabile quella fortezza, ove fusse potuto entrare un mulo carico di oro;
e voi credere sicura una donna bella, guardata da una sola fancesca in luogo
remoto ? quando trovandofi già languida è affalita da un soldato armato,
giovane bello , ed avvenente , ristorandola col cibo , adulandola, e
lusingandola insieme con dolci parole. A queIto proposito cade in acconcio il
proverbio di Salomone. Mulierem fortem quis inveniet? E tanto inaggiormente,
quando il marito giace estinto, e per. ciò nè può correggerla, nè punirla. :
Sem. Queste ragioni non mi appaga. no punto, onde per non avere a cadere in
fimili infortunj , bramerei che voi con [ocr errors][ocr errors]
con la vostra solita ingenuità mi scopriIte molti altri pregiudizj, che
potrebbero nafcere , non avendo la Prudenza parte uc'maritaggi ; e perche avete
voi conversato molto in yostra gioventù , vi sarere incontrato facilmente in,
più contrasti nati tra i mariti , e mogli. Mer. Gli hò uditi certamente
fpefso riferire , e letti ancora ; e quantunque non li abbia provati, per
essere vivuto libero, con tutto ciò sono appicno informato di molciffimi
avvenimenti in fimili materie. 1 Sem. Or dunque, in quelli fatti per
opera d'Amore, senza intervento della Prudenza , che vi avere offervato di
inale ? Meo. Ne hò veduci tanti di questi principiare bene, ma poi cambiare
in un tratto la bella apparenza, ed allas fine rerminare infelicemente ancora
. Sem. Come cominciali bene, e poi mutarfi? fe: Chi ben comincia ,
bà la metà dell'opra? Mec. E pur così è seguito ; impera
cioc [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors]
I 2 ciocche alla prima, in quel fervor di afferro, la sposa era tenuta in
pianta di mano; ma appena intiepidito questo de qualche lieve cagione mutava
faccia il tutto, e quel grand'amore in breve pafsava in noja, ed alla fine
questa si avanzava al dispregio. Quindi è che l’Ap. piense disse: 174 Ef modus
, dulci, nimis immodera ta voluptas Tædia finitimo limite semper babet :
Cerne nouas fabulos rident florente colore Piet a, velut primo vere
coruso at bumus, Cerne diu tamen bas, hebetataque lumina fleetas,
Et tibi conspectus nausea mollis erit. Pub. Voi, Sempronio, avete
lascia. to il meglio, cioè, Non si comincia ben se non dal Cielo. E
credete, che facendosi il matrimonio per opera d'Amore senza l'intervento della
Prudenza, sia esso cominciato dal Cielo ? Sem. E perche no, avendol per
fine la la conservazione della propria specie ? Pub. Il fine
è fanto, ma il da voi proposto mezo, per conseguirlo , non è buono;non dovēdosi
ricorrere ad Amore per farci conseguire una buona moglie, ma bensì a Dio,
conforme c'insegna Salomone : Uxor prudens à Domino · Sem. Per quali
motivi si avanzano di poi al dispregio? Mec. Per molti ; lasciando in
disparte l'interesse della dote (molto tenue per l'ordinario nelle donne belle)
promessa, e per lo più non pagata; che suole frea quentemente turbare la pace
domeftica: Il primo de' quali è il dominio, che vuole acquistare la donna bella
sopra il marito; imperciocche come vuole Mcnandro : Superba res eft
pulchra mulier: E pretenderà per giustizia di poterlo efiggere mediante il
favore , che gli hà fatto di prenderlo, essendofi veduta vagheggiare da tanti
altri, che la bramavano per inoglie. Il secondo sarà la gelolia, che apporterà
tra loro una continua guerra.... Sem. Come la gelosia, essendosi pre . fi
per amore? Mer. Amore medesimo , che li uni, per prendersi di elli
diletto, s'ingegnerà di suscitarla ; e per promoverla, ba. sta, che faccia
concepire ad un di effi un minimo sospetto di essere passato in altri
quell'affetto , ch'egli godeva intiero; non essendo altro la gelosia al parer
di Cicerone , che : Ægritudo, 6x quod alter quoque poriatur co , quod ipse
concupicris, e come questa operi uditelo dal Taffo N'arde il marito, e
dell'amore al fuoco Ben della gelosia s'agguaglia il gelo, E va in
guifo avanzando a poco , a poco Nel tormentato petro il folle zelo
, Che da ogni uomo l'afronde in chiuso loco; Vorria celarlo a tutti
occhi del Cielo. Sem. Mà questa Publio potrebbe anche nalcere,
quantunque la Prudenzas avesse avuto parte in detto matrimonio, Pub.
Difficilmente, essendo che aves reb [ocr errors] rebbe ella saputo
scegliere una donna saggia , che avesse colte fiınili ombre, quando fossero
nate nella mente del marito, senz'occasione alcuna , e che non fosse ella stata
capace di suscitarvele. Sem. E come potrebbe far questo una donna?
Pub.Con fuggire ogni eccesso di vanità; insegnando S. Crisostomo nell’onilia
21. al popolo : Ornatus Zelotypia fuSpicionem ingerere folet; cd in appresso,
che ; modeftia ornatus omnem improbar fufpicionem expellis, omni autem vinculo
formius conjugium conciliat. Sem. Vi sono casi seguiti di donne,
ch'abbiano usata tanta prudenza? Pub. Certamenre , che ve ne sono molti
antichi, e moderni ancora: tra gli antichi , la moglie di Focione , di Trajano
, & Alpolia moglie di Ciro, e di Arcasserse, e tra moderni. Madama di
Chantal, come scrive il Padre Cordier uclla sua famiglia Santa , fu unan di
quefte; posciache ella non G vede.rs giammai meglio vestita , che quando
[ocr errors] doveva trattenersi col marito; se doveva egli andar fuori, e fare
qualche viaggio, non ornava mai il suo corpo, che quando cia di
ritorno : le fu detto un giorno, troyandofi lontano da molto teippo il Barone
suo marito: Madamas ogn'un crederà , ch'abbiate vendute le vostre velti, ed i
vostri ornamenti, voi non li fate più comparire, come se dubitafte, che da
alcuno dovessero esservi rubati: non mi parlare di questo rispose ella ,
pofciache gli occhi , a' quali devono piacerc,sono cento leghelungi di quà.
Riferisce anche il medesimo, che la Ducheffa di Gandia Vice-Regina di Catalogna
avesse una somma modederazione nel yeftiré, non curandosi di portare abiti di
fera , nè con oro. Una delle sue confidenti prese parimente un giorno ardire di
così favellarle: Madama di altro non discorre per tuttas questa città , che
della riforina de' vostri abiti, pare', che sempre voi diveniate di minor
condizione di quella, fiecc Aata ; più vi fi accrescono beni di for
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr
errors][merged small] fortuna, meno ve ne service ; cui rispose:2 ine non dà il
cuore di portare nè seta, nè oro, quando il mio marito vas sempre ricoperto di
un'aspro cilizio , ed in questo anche riflettere, quanto operi il buon'esempio
del marito, per frenare la vanità donnesca. Sem. E quelli, che tratta
l'Ambizione senza l'intervento della Prudenzas, che fine fortiscono? Mec.
Pellimo, stante che, non verificandosi punto quanto s'era da essa promeso, li
riinane con moglie deforme, ed indotata ; e di vantaggio ancora, è con molti
figliuoli sulle spalle ; ed alle volte ancora privi di elli', senza speranza di
poterli ottenere, per la poca falua te di fimile consorte . Sem. Se vi
avesse avuto mano la Prudenza, come si potevano fuggire queste disgrazie ?
Pub. Avcrebbe con maggiori cautele questa consigliato, cfaininando
atcentamente, che fondamento potevano avere le milácate speranze; ç
rinvenute le [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] le acree, ed insuffiftenti, averebbe dilsuaso
più costo, di effettuarlo ; ò per la meno nella dubietà di cffe averebbe
assicurato meglio le buone qualità dellas donna, affinche'andando le speranze a
male, fosse piinasto questo di certo : di aver una donna prudente in casa,la
quale quantunquc povera , come vuole Salomone. Sapien's mulier edifcat domum
fuam. Ne averebbe già permesso a Tiberio, che avesse sposato Giulia, las quale
oltre il disprezzarlo, come non uguale a lei; ci faceva lecito di vivere a luo
piacere; conforme riferisce Tacito nel primo de' suoi Anoali. Ne tampoco Silio
averebbe sposaro Meffalina, vivente Claudio, se la Prudenza vi forse
intervenuta:nè già di Claudio Mellalina sarebbe stata conforte. Sem. E li
matrimonj fatti dalla solas Avarizia, che danni possono apportarc? Mec.
Maggiori di quello, che vi potrete mai perfuadere; posciache in tali casi non
li sposa già la giovane, mà bensi la dote i mercè che : veniunt à dote;di
fagitta ; onde considerare voi, come ella ella sarà trattata dal marito, e che
amoal re le porterà; quando l'affetto non è inndi dirizzato alla moglie,
ma bensì tutto alinero interesse ; ed avvedutali effa di E essere
posposta ad una cosa inanimatas, che dirà, e farà mai, troyandosi ricBt
ca ? Sem. Bisognerà ben, che soffrá , I ftia focto l'ubbidienza del
marito .. 1 Mec. Voi fempronio non avere letto Anafsandro , e perciò
parlare in cal # guisa , il qual dice, Si quis pauper pecuniofam uxorem 1
Duxerit, non uxorem , fed dominam habeti [ocr errors]
Cujus eft famulus , de feruus ; E credete forse , che quancunque
paja- no fortunati coloro, che prendono grof. u se dori, realinente
siano sempre? Oh quanto sono infelici ! come conobbs o anche Menandro con
dire : Quisquis uxorem unicam heredem cupit adfcifcere Divitem ,is
vel irasis pænamluit Diis, Vel inf. lix effe vult s-sub nomine for
tunati. Sem. Gran cose si dicono da questi poeti, che fono favole; lo vedo, che
le grosse doti arricchiscono le cafe. Meca Li poesi son chiamati Vates
da’ Latini, qual voce significa anche indo. vino, ed in questo ho osservato ,
che per lo più l'hanno indovinato; oltre di che tra efli vi sono stati Filosofi
celebri. Io non nego, che qualch’uno prendendo groffe doti Gi sia potuto
arricchire; essendosi però incontrato con moglie saggia; mà quanti li fono
finiti di fpiantare per questa medesima cagiore, elsendosi abbattuti in mogli
imprudenti? Sem. E come ciò può accadere, prendendofi quantità grande di
danaro in fimili matrimoni? Mec. Per questo medelimo segue;po. fciache
addolorato diceva Demenao. Argentum accepi ; dote imperium ven didi.
Laonde, comandando esse , sono capaci di darli fondo, con difsiparlo in
bre ale fon ve tempo.; ed eccovi appunto il guadagno, che si ricava
da effe. Sem. Questo però seguirà , quando di incontreranno mariti, che
non sapranno farG ubbidire. Mec. Porrà accadere agl'altri ancora dicendo
Giovenale; Intolerabilius nihil eft , quam fæmina EI dives, i Ed
andare a cozzar con queste ? andate le a riprendere; ed affinche Gate
meglio informato ; udite ciocche dice a questo & propofito
Artemone, fazio, ut fcias Quid periculi fir dotata mulieri convi
cium dicere. Si potranno con facilità maggiore reg. gere bensì quelle, che non
averanno portata dote, come si ricava da un detto greco: Sponfa indotata non
habet libertatem, fiuè audaciam loquendi. Sem. Questo ardıre lo potranno
avere forse le belle. Mec. Lo hanno le brutte ancora re [ocr
errors][ocr errors] fa [ocr errors] saranno ricche , e superbe , come
vien riferito da Gellio , Me miferum, qui Corbulam duxi , & talenta
decem Nanam , mulierculam, cubitalem, cujus Superbia adeò intolerabilis
eft! Sem. Ed in che cosa potrà gettare il fuo la moglie, dovendo essere
soggetta al marito? Mec. Chi è ricca, come abbiam detto, non vuole stare
soggetta ad esso; onde vorrà spendere a luo modo : se vedrà, che una sua uguale
condurrà tre servitori, ella per la sua grossa dore, pretenderà condurne sei,
bramerà anche gli abiti di inaggior valuta; Carrozze più nobili, e suntuose s e
vorrà effe. refrattara in tutte le cose con magnificenza superiore alle altre;
e se il marito non si troverà commodo di farlo, elibirà cfla medesima la sua
dore , per fupplire a quanto bisogna ; e durando molto que, fta vita , anderà
in malora la dore , con tutto il capitale del inarito . Or vedete , che fortuna
s'incontra nel prendersi grof. [ocr errors][ocr errors] is grosse
doti, e che svantaggi ne riceveranno da questa anche i loro figliuoli.
Sem. In questo io vorrei mostrare spirito, e farla fare a mio modo. Pub.
Vi voglio riferire un caso a quefto proposito assai curioso ; Una certas
giovane, che si trovava ricca dote, la prima sera , che cenò col suo marito ,
non volle gustare cosa alcuna , e ftando in tavola molto contristata, le fù
domandato ; da che ciò provenisse , e qual occasione la rendeffe così meftas,'
ella rispose; come volete, che io man. gi, se non vi è l'uomo nero, che
ini ser1 va in tavola ; e non hò piatti d'argen , proporzionati alla
dote, che hò portata : il marito le rispose, che nel giorno seguente averebbe
fatto trovare più d’un uomo nero, i quali l'avercbbero servita , come
desiderava : fec'egli comparire nel tempo del delinare due mori ben neri ,
acciocche la servislero, s'icfierà per tal cagione la giovane a segno, che si
levò di tavola , e nacquero da ciò infiniti disturbi tra di elli,onde vedete
voi, Sempronio, che vantaggi risultano dall'essere risentito in fiinili
contingenze: bisogna pregar Iddio, che la moglie ricca, sia ricca anche di
senno, aliriinenti la casa andrà in malora , quantunque avesse portato il
doppio di dote. Sem. Hò udito sempre dire, che las metà della dore non si
possa alienare, e che li fidecommiffi rimangono sempre in piedi; come dunque
potranno seguire l'accennati dilapidamenti? Mec. Il lusso però oggidì hà
usurpato il privilegio di poter alienare ogni reliduo dotale, e di svincolare
ancora ogni più stretto fidecoaimiffo . Sem. Mà in che modo?.. Mec.
Si fingono pericoli di case, che stanno per cuinare, e per tal cagione di
toglie ogni più stretto vincolo, posto sopra i capitali: mà passiamo ad altro,
perche questa è materia molto lagrimevole. Sem. Talmente che a derro
vostro re alla moglie ricadesse quaich'eredità; con [ocr
errors][ocr errors] converrebbe rinunziarla, per non incorIf rere in fimili
fventure ? Mec. Muta faccia il cafo ; perche la moglie, ch'è vivuta
qualche anno col marito, trovandosi molti figliuoli, ed a vendo già passato
quei primi fervori del. le nozze , ne' quali si spende molto, non averà genio
più a dissipare, ed effen• dosi assodata nel governo della casa, se pur
farà qualche sfarso di più , sarà con i moderazionc , e proporzionato al suo
Itato, Sem. Or io ho capito, come si abbia da scegliere la moglie, che
sia di tutto proposito ; cioè nè povera , nè riccas, e che abbia più cervello,
che bellezza, acciocche non si abbia da dire di essaie : quello mi fu
raccontato una volta, che dicefle la scimmia , effendo entrata nella
bottega di un arteficet, che lavorava modelli di cera, ove prendendo nelle
inani una bella cesta, dopo di averla ac carezzata, e baciata, mettendo
den| tro di essa la mano, c trovatala vota gridò: Oh che bella gefta, mà
de manca il cervello ! K Pube [ocr errors] Pub. Or sì, che
voi la capite per il suo verso; e scegliendola di questa forta allora sì, che
farere forçunato, e potrete dire di avere presa una grandislima dote , conforme
è succeduto a me: evi voglio raccontare ciocche ini seguì nel tempo , che io
era sposo : mi fù domandato da un mio, amico, che dote io avca ricevuto, e
trovandomi sodisfatto delle buone qualità della mia compagna , gli rispofi ; che
credeva di aver ricevuto cento mila scudi ; rimase egli ammirato , sapendo ,
che io non eras folito di milantare le mie cole, nè fimile dote fi costumava
allora, folamente mi replicò: in che corpi li avete ricevuti? cui soggiunfi, in
contanti dieci mida, ed in giudizio il rimanente ; egli di pose a ridere; cd io
non ho avuta sin ora occasione alcuna di contristarmi di ciò. Sem.
Desidererci ora sapere, che altri miali, poffa apportare la Bugia , concludendo
etsa il matrimonio? Mec. Se lo-traria di passaggio , non suolo apportare
danni molto conlidera 1 i bili; mà se poi s'interna nelle cose
cffen ziali, guai a chi si fida di essa ; pofciache se ricoprirà i
mancamenci d'una donna impudica a segno, che quel povero uomo, che la vuole
sposare, la creda una casta Penelope ; effettuandolo diverrà infelice; e se
vorrà fare com parire le ricchezze dello sposo affai e maggiori,
s'ingegnerà ben ella di pro: curarlo, e con infolite maniere : che non ha
fatto a giorni nostri in fimile afa fare! e arrivata fino a fingere le note
dell'avere, nelle quali vi erano regiftra ti molti crediti fruttiferi ,
senza il no* i me de? debitori; con pretesto, che si celavano questi ,
perche , essendo fiignori di qualità, non volevano essere nominati; e
nebanchi ancora non è arrivata a fare apparire grosli depositi in faccia
di Tizio', i quali erano mere imei prestanze, che nel dì susseguente tor
navano a credito di Sempronio suo vefo posseditore? Sem. Bisognerà dunque
vivere molto caurclaro'nci trattati de matrimonj,per K 2 non
[ocr errors] non essere dalla Bugia tradito sin Mer. Udite di più : se
una poverad giovane sarà ingannata da esla's facendole apparire il suo futuro
sporo ricco; che tenga carrozza; si trovi las cafa ben fornita di preziose
suppellettili, a segno che le faccia credere che quel partito sia una gran
fortuna; cadendo. vi in effettuarlo, in un tratto si avvede. rà, che il cutto
fù mera apparenza; pois che appena consumato il matrimonio, sparisce il palazzo
incantato di Armida, e li cavalli, o carrozza tornano al fuo padrone ; : e per
vivere conviene dar di mano alla sua dore, trovandosi il mari10 fpiantato. Vi
voglio raccontare una storiella, nella quale scoprirete l'astuzia usata da uno
di questi miserabili,che con inganni giunse a sposare una ricca giovane. Se ne
stava egli nel giorno fta. bilito per le nozze penlierofo , e mesto, a segno
che la Suocera si mofle a domandargli cosa egli aveva; cui replicò, che
certamente non aveva cosa alcuna ; fco. perte, che furono di poi le fue
miseric,G dolse leco la medesima, ch'era statas da esso ingannata ; replicò il
ribaldo: fignora lei si ricorderà benissimo, che's io le diffi nel tal
giorno, domandando i mi cosa io aveva, che niente le replicai? che
occasione dunque ella ha da dolerlei dime , se le palesai la verità, con
dirle', che nulla avea. Sem. Accadono questi cali? Mer. Cosi non
accadeffero, anzi ve ne sono de'peggiori ancora. Sem. E quali sono
? Mec. Volendo la Bugia accasare un giovane deviato, che farà? comincie.
rà a lodare il suo buon costume, la sua modeftia, a fegno, che lo farà
compa0 rire in iftato d'innocenza cadendo las povera fpofa a
credere questo, tuttaa allegra acconsentirà, non solamente al
matrimonio, mà sicuramente ancoras converserà seco; non dico altro,
che in breve diverrà un cadavero, median- tc i quel malo
;-col-quale l'averà mal concia. Şom. Sono vesiquefi
cali, Dottore? Med K 3 Med. Accadono, e non di
rado;quando però liamo avvisati in tempo, diamo loro il suo rimedio ; ma
allorche il malfattore vuol fare da Medico., la finisce di stroppiare con quei
secreti, che talvolta averà egli in se medelimo provati , i quali applicati in
una compleffione gentile, essendo rimedji mercuriali, potranno in vece di
giovamento apportarle danno notabile. Pub. Questi pregiudizj tempo fà non
seguivano; imperciocche, se allora cal uno cadeva in fimili mali, îi faceva
prima curare , e risanato, ch'era perfertamente prendeva moglie. Sem.
Talmente, che questa Bugia ne matrimoni cagiona danni molto confiderabili,
ond'io procurerò di tenerlas lontaga allorche tratterò il mio
accalamento. Mec, Bisognerà, che stiáre però molto avvertito; posciachc
comparirà travestiça; e sotto specie dį verità per ins gannarvi. Sem, Io fona
un bell'umorcänon cres derò 1121 N derò allora
all'istefa verità, per non di ingannarmi, giacche la Bugia fi vestu dei suo
manto. Mec. Alla verità conviene prestarlo d fede in ogni tempo, mà
però vi è il modo da discernerla, quando cssa sia pura , ò simulata. Sem.
E come? Mec. Quando voi vedrete ingrandire le cose assai più di quello ,
che fieno ve. risimili, ivi ftà nascosta la menzogna, e datele la tara di due
terzi meno di quello vengono rappresentate, che così di poco sbaglierete. E se
vedrete poi in alcune altre ufarsi artificj, c diligenzu u maggiori, di
quello, che convenga, per farvele credere, e voi togliete tre terze parti
a ciò, che fi dice, e credete solamente quello , che rimane, che così
l'indovinerere. Sem. Dovendo io prendere moglie poco fastidio mi prendo
dei difetti de gli uomini , vorrei bensì sapere quei i delle donne,
da' quali doverò guardarini. K 4 Mer. [ocr errors] Mec. Nella
ventura Conferenza farete istruito in questi. Pub. Bisognerà fargli
conoscere ancora le virtù di esse, affinche fappia difcernere quali siano le
buono. [ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] CONFERENZA
VII. Sopra i difetti, e le Virtù delle donne. Sempronio ,
Medico , Mecenate e Publio , M Sem. I persuado Dottore,
che niuno meglio di voi conoscerà les imperfezioni delle donne , effendo
voi meglio di ogni altro informato de' naturali, e tempera menci
loro. Med. Secondo il parere di Democri. to, le povere donne soffrono ,
per cam gione dell'utero, seicento mali di più degli uomini ; come si legge
nella lettem ra da esso scritta ad Ippocrate', over Sexcentum arumnarum mulieri
auctorSem. Io non voglio sapere da voi li mali dell'utero, ma bensì quelli
dell'animo, non quelli, che sono ad effe di moleftia, ma quei che possono
altrui ancora nuocere, conforme sono i loro vizj. Med. Di questi ogni
uno, che per qualche tempo le abbia trattate , ne può effere bastantemente
informato . lotor110 poi al temperamento delle donne, vi poffo ben dire, che
una volta fu promossa questa gran disputa ; qual foffe più caloroso, l'uomo , ò
la donna, e dipoi essersi molto dibattute le ragioni dell'una, e dell'altra
parte, fu detto, che quando la donna non fia di temperamento più caldo di
quello dell'uomo , non si possa mettere in dubio che non sia più callida di
esso ; cioè a dire più astuta Pub. L'aluzia però, quando non è maliziosa,
c fraudolenta, non entra tra i difetti deteftabili; dicendo Teren. zio in
Andria i Aftutum fallere difficile eft. [ocr errors] [ocr errors]
201 [ocr errors][ocr errors] Onde questa può ftimarsi avvedutezžas,
Jodata dall'Ecclesiastico al 19. Aft ut us agnoscit fapientiam.
Mec. Nelle donne però farà sempre detestabile, non essendo
quefte fcarse di malizia, e d'inganni, al parerc di Se1 neca
in Hippolyto : 1 Sed dux malorum foemina , d fcelerum artifex,
E di Plauto in milite : Quid pejus muliere ; atque audacius?
Quid? Nibil. E l'Ariosto così ebbe a dire di effe Non siate
però tumide, efastofe + Donne per dir,che l'uom fia vostro
figlio," Che dalle spine nascono le roje, E d'una
ferid'erba nafce il giglio. Importune', Superbe , e dispettose
Prive di amor; di fede , e di consiglio; Temerarie , crudeli, inique,
ingrate , Per peftilenza eterna al mondo nate. Pub. Piano di
grazia , Mecenaco; cliente perche parlando in tal guifa', correcc
pericolo di essere lacerato dalle donne come fucceffe ad Orfeo, di cui
parlaw Pla 1 Platone ne' suoi simposj. Per tal unas,
che sia stata cattiva tra effe , con questo vostro modo di parlare cosi
generale, pregiudicate a tante illustri femmine degne di eterna memoria, anzi
che as vostra madre medefma, e con essa a voi ancora. Leggere,le opere di
Cristina Pisana, è di Lucrezia Marinelli, che troverete ivi, quanti più iniqui,
escellerari uomini vi sono stati, che donne ; onde ci comple stare cheri; e
tanto maggiormente, che le donne cattive, fono appunto come le vipere, le
quali, sc non vengono compresse, o con altri modi irritate, non mordono già ,
nè avvelenano; ina gli uomini perverfi, non sono già così, assomigliandoli al
lupo quel detto greco: homo homini lupus: da cui non giova punto l'allontanarsi
; perche ello va cercando di danneggiare. E parliamo con tutta sincerità; avete
voi veduto mai alcuna donna andare di. predando i.paffaggieri per terra , ò per
mare, conforme, fanno gli uomini E giacche avere apportato l'Ariosto con
[ocr errors] 1 [ocr errors][ocr errors] tro di esse, perche non riferite
ancoras el ciò, che dice a loro favore? che apporDe tai nella conferenza
quinta, ch'è appunto : E di fedeli , e caste, Saggie, e forti State
ne fon ne pur in Grecia,e in Roma; ti Ma in ogni parte , ove fra gl'Indi ,
6 "gl’orti Dell'Esperide il fol spiega la chioma, Delle
quai sono i pregi, e gi’onor morti, Si ch’appena di mille una fi noma
, E questo, perche avulo hanno a lor sempi Iscrittori
bugiardi , invidi , empj. E finalmente doverebbe bastare ciocche dicono
Socrate, e Platone di esse per frenare la lingua di chi ne dice male,
1 cioè, che sono capaci molce di effe d? amministrare la republica ancora
. Mec. Bisognerà dunque credere, che le donne non abbiano difetti, per
non pregiudicare a qualcuna , che tra esse fia ed Itata buona? Pub.
Io non pretendo difendere les cattive , ma fulamente cancellare lo buone del
numero di queste, nè voglio fcu 1 scusare i vizj, chc
insidiano le donne ; ma se le Virtù non isdegnano di accompagnarsi con effe,
come posso tenerle çelate in pregiudizio di cante? e precisamente di quelle di
cui l'Ecclesiastico al 26. ne fa gloriosi encomj,chiamandole : Lucerna
splendens ; columna aurea super bafes argenteas ; fundamenta æterna: Laonde , Mecenate,
non dobbiamo in conto alcuno dir male delle donne; poffiamo bensì censurare
quei difetti, che le perseguirano; perche facendo in tal guisa non fi potranno
dolere di noi le buone , le quali non danno a' vizj ricerto; no tampoco, se
taluna cadeffe a darglielo, farà contro di noi risentimen. 10 alcuno, per non
dichiararsi da se medelima viziosa : e regolandoci con que. Ita norma faremo
conoscere, che non odiamo le donne, ma bensì quei vizj, che da loro medefimc
debbonli odiaren come loro capitali nemici. Sem. Iftruitemi dunque,
Mecenate, sopra questi vizj, scorgendovi molto informato di effeMec Di alcuni
ne fono informato; ma cutti tutti io non li so: perche mi fido' guro che siano
tanti appunto, quanti so. i no i caratteri Cineli: vi posso riferire li
più principali , che doverebbe fapere ogni marito, per potersi ben regolares
scorgendoli nelle mogli. Il primo di questi è la Vanità, la quale ha un
gran i seguito di altri vizj, a se fubordinati, mà cominciamo ora da
questa, che die ď poi parleremo degli altri. Sem. Che cosa è
precisamente, ed in che consiste questa vanità? :) Mec. Credo, che fia un
vižio, tanto in esse, quanto negli uomini effeminati, diretto a procurare ftima
maggiore, che competa loro in genere di bellezza.in c. 10,4:19.fi Sem.
Spiegatevi di vantaggio affinche possa comprendere meglio quanto avete
detto. Mec. Ciocche dilli mi pare chiaro', con tutto ciò mi spiego più
diffusamente , e dico: che se una donna, ò-un uomo effeminaco deformi
procureranno pre all prevalersi di superfui abbellimenti a
fine di comparire belli, pretendendo das ciò ricevere stima maggiore nel
concetto delle persone intorno alla loro bel. lezza. Questi saranno vani.
Sem. Dunque le belle non saranno vane, non avendo d'uopo di fienili
abbellimenti. Mec. Ponno cadere queste ancoras in detto vizio ; quando
paresse loro di non essere tanto belle, che abbiano a rapire il cuore di tutti,
e perciò effe credessero colla vanità di potere diveairvi a quel segno.
Sem. Come fono numerose le donne di questo genio? Mer. Poche sono quelle,
che non lo abbiano ; la moglie di Publio è tras quefte, che odiano la
vanità. Sem. E che! la vostra moglie, Publio, non si ornava, come le
altre , quando era giovane ?: Pub. Si ornava in quella forma, che io
desiderava, a fine di compiacermi,non già per fare pompa di fa con altri.
Sem. [ocr errors][ocr errors] 1 1 Sem. Come vi contenevate
per firla di perseverare in cotal guisa? posciache a alcune per breve
tempo incominciano a farlo, mà dipoi vedendo le altre , che fi adornano,
b-lasciano trasportare dal i mal costume anch'efle Pub. Avevå ella fomma
venerazione alle fentenze de' Santi Padri, ed affinche meglio le comprendeffc,
l'erano da me spiegate : onde adducendole sopra ciò quella bella sentenza di S.
Cipriano, che dice : Non eft pudica, qua affeet at animum "altorius movere
, etiam Jalva corporis caftitate ; fi afteneva ella perciò dal vestire con
pompa, dovendo uscire di cafa, Sem. Se faceffero tutte cosi, andrebbe la
maggior parte assai positivamente vestira ; imperciocche li mariti per
non u ispendere, non direbbero già loro, che fi ornassero, e
studierebbero giorno ,' notte fentenze contro la vanità. Mes. Che male
ciò apporterebbe loro 2 Sem, Non altro, che si farebbe di ef fe oggidì
poca ftima; essendo che, chi non fa la lụa comparsa, come le altre, non è punto
contiderata , Mec. E te taluna la faceffe con inde. bitarti, chi sarebbe
di queste due più considerata , la yana, ò la modefta? . Sem. Certamente
quella, che più di ornaffe, perche niuna và cercando, come questa comparsa si
faccia , effepdo molto noto quel detto : Unaè bibe'as, quaris nomo,
Sedopor. tet babere. Mec. Si cercano, come anche voi di. ceste, più i
fatti altrui oggidi, che i proprj; onde per questo motivo yi ammetto, che
sarebbe più considerata la ya-na , che la modefta; e poi quando quefti non si
cercassero, non credo già, che i mercanti vogliano donare il loro; onde
dipoi,che averanno aspettato un pezzo, forzati a domandare giudicialmente il
loro nelle publiche udienze vi pare, che possa stare celato? ell'essere conf.
derata in questo modo, vi pare, che posla apportare decoro , ò vituperio?
Pub, [ocr errors][ocr errors] d Pub. Senza queste vostre
rifellioni, di forma cattivo concetto delle vane solamente a rimirarle, şi era
ornata Thamar c deposti avea gli abiti yedoyili più modefti, e Giuda
quando la vide i in quella forma, che concerto ne fè di effa? Suspicatus
eft efe meretricem: Genef. 38. vedere dunque yoi, Sempronio, come sono
considerare le vane da parenti anche più congiunri? Sem. Dicemi, che
altro pregiudizio apporti questa yanicà ? Mec. Quando esce fuori de' suoi
limi. ti, hà due altri vizj, che per l'ordinario noll'abbandonano, e sono la
prodi. galità, e l'impudicizia Sem. Sono queste certamente due peflime
compagne, le quali possono apportare gran male, infidiando alla ro. ba, ed
all'onore; mà è seguitata da alţri vizj? Mer. E più correggiata la yanità
das cu efli, di quello sia un Generale di esser cito da 'suoi Officiali,
posciacche 120 fuperbia, l'invidia, il dispreggio, l'ineganno, con molti altri
di questa perversa natura, a vicende la servono, onde chi è vana, è anche
superba , invidiosa , dispreggiatrice, e fraudolenta, tramando sempre inganni,
e frodi. Pub. In conferina di questo, diffe S. Crisostomo. In Gen.fim
Homilia 41. A corporis cultu innumera frunt mala , arrogantia, que intus
nafcitur, defpectus proximi , faftus spirisus, animą corruptio, voluptatum
illicitarum fomes &c. Sem. Questa vanità fino a che segno potrebbe
tollerarsi nelle donne? Mec. Sarebbe certamente indifcreto quel marito,
che non tollerasse alla moglie giovane una mediocre vanità, quantunquc da
questa fi poffa facilinente fare passaggio alla grande ; dee bensi per tema di
ciò egli ftare vigilante, affinche non trascenda questa i suoi limiti, li quali
le vengono prefissi dall'onesto: e lidee questa tollerare ancora, affinche
s'inducano alcune più facilmente a pren. dere marito. Pub. Sant'Agostino
riprese rigorofa men [ocr errors] [ocr errors] mente Eudicia per
voler andare troppo ncgletta nel vestire, e le fè incendere, che averebbe
dimostrata umiltà maggiore con ubbidire a suo inarito , che a vestirsi di panno
vile, per lo spirito di contradizione , esclamando il Santo : quid
absurdius, quam mulierem de bumi. I li vifte fuperbire ? Sem. Come li
conoscerà, che questa trascenda i limiti prefilli dall'onesto a
Mer. Allorche una donna vorrà rico- prirsi di gioje, e di oro, e quello è
peg. gio, senza riflettere se le sue entrate lia- no sufficienti a
poter fare tante spele, venendone di ciò ripresa da Ovidio poe- ta
lascivo, dicendo: Quis pudor eft cenfus corpore ferre Juos? Ed
altrove. Gemmisque auroque teguntur Omnia , pars minima eft
ipfa puellae fui. E Properzio dice anche di più.
Matrona incedit cenfus induta nepatum Pub. [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] L 3 Pub. Seneca al 7. de Benef. dice ancora : Video
uniones non fingulos fingulis auribus comparatos; jam verò exerci14 aures oneri
ferendo funt ; junguntur interje, & infuper alii binis fupponuntur Non
faris muliebris injania viros fubjegerat , nifi bina ar terna patrimonia
auribus fingulis pependisent. Ma meglio di ogni alero S. Ambrogio : De Nabut.
Ifrael. cap.s. lo fa capire . Dele&tantur compedibus mulieres dummodo auro
ligentur non putant onera effes fi pretiofa funt: non pusant vincula efi, fi in
iis shefauri corufcant : delectant de vulnera , ut aurum auribus inferatur, do
margarita depen. deant c. E finalmente conchiude . Non parc unt dispendio , dum
indulgent cupidisati. Laonde fantamenre dice l'Ecclefiafte ; Averre faciem tuam
à muliere compta. Sem. Må se sarà nobile , non potrà fare di meno,
quantunque le sue rendi. te foffero tenui, di non ornarsi pomposamente,
vedendolo praticare da chi è mcno дobile di ella. Mece [ocr errors]
Mes. Ditemi per cortesia, forle che questa sua nobiltà, senza danaro, potrå
fodisfare il costo di tante pompe? Sem. Mi perfuado che nòsmå pare una
certa cosa, il comparire meno delle alo tre, alla quale, chi è nobile non si
può accomodare. Mec. Anzi queste , per fár comparire maggiormente la loro
nobiltà, non doverebbero soggettarsi a cose vandag per far conoscere inlieme,
ch'essa rin fplenda assai più dell'oro, e delle gioje. Sencite, ciò che diffe a
tale proposito la saggia moglie di Focione ; come riferisce Plutarco nella di
lui vita. Şi trovava un giorno questa illuftre Dama ins conversazione di altre
donne, ornate tutte pomposamentes vi fu chi le disse: perche non era venuta
essa ancor adornata come le altre, cui rispose : che le bastava per ornamento
la virtù di suo marico, al che non seppe che replicare la più curiosa, e vana
delle altre. Pub. A questo proposito dice Aristocile, che il buon
ornamento nelle don ne', non debba già consistere nella pompa, mà bensì
nella modeftia, e nel modo onesto, e decente di vivere ; il quale fu da Aspasia
praticato, come riferisce Eliano , quantunque ella avesse avuto per
mariti due gran Monarchi; cioè Ciro, & Artafferse, ciò non ostante fi feppe
ella così bene guardarc dalla soverchia curiosità, e pompa, che recò am mirazione
a tutto l'universo. Elodando Plinio la moglie di Trajano, non seppe apportare
fatto più glorioso di queIto a suo favore: che di efferli, come donna mantenuta
sempre lontana dallas vanità superflua. Sem. E se l'entrare fossero
sufficienti, potrebbe dirsi vana una, che trascendeffe i sudet i limiti?
Mec. Se la vanità non fosse unira col. la prodigalità, forse che in questa, se
non trascendeffe molto, sarebbe rollera bile, ma il vizio della prodigalità non
le permetterà moderazione alcuna; posciache: Prodiga non sentit pereuntem
fæminas fenfum. E poi credete voi, che'l fine, per cui fi orna a quel segno,
fia sempre onesto? non lo credetre già Seleuco , quel gran Legislatore de'
Locri, il quale fè quefta legge; che non fosse permesso ad altre donne di
ornarsi pomposamente, se non a quelle che volevano amoreggiare, e fare anche di
peggio; e sappiare , che, fù questo un gran rimedio contro la vanità; posciache
divenne quel Dominio per qualche tempo modeftiilimo, spor gliandosi le donne
delle loro fupes Aves pompe. Quindi è, che da saggio padre operò Lisandro, come
riferisce Plutara co, con rimandare a Dionilio tiranno le preziose vefti, che
aveva mandate in dono alle sue figliuole, con tutti gli altri ornamenti; con
fargli incendere; che averebbero più tosto tali ornamenti viruperato le sue
figliuole, in vece di or. narle. Sem. E le ricchissime, che non
soggiacciono al pericolo d'impoverire,perche non poffono fare tutto quello
sfara fo, che bramano? 1 [ocr errors] tutte Mec. Non tutto
quello, che si può, è convencvole a farli. Giovanna di Navarra consorte di
Filippo il Bello, trovandosi in Burges, mortificò molte Dame, che andarono a
visitarla con abiti sontuofiffimi , dicendo loro. Credeas effere in questa
città io solamente la Reging, mà ne trovo mille. Pub Chi brama servirsi
bene delle proprie ricchezze, non dee impiegarle per fodisfare le sue
voglie, ed in cose superflue ; dee ancora pensare and quelle, che sono
maggiormente necef• farie, che ornano l'anima, come insegna S. Cipriano dicendo
: locupletem te effe dicis e utere divitiis , fed ad bonds are tes; divitem te
fentiant pauperes &c. Sem. Se taluna fosse deforme , potrebbe ornarli
più dell'onesto per comparëre bella e Mec. Faccia pure quanto può la
deforme , che fempre scoprirà di vantage gio la sua deformità; e guai a
quelles, povere damigelle, che vi harno a conbattere, perche rimirandofi allo
fpero [ocr errors] chio, deteriorare più costo con quelli
abbellimenti, che li pongono, si per- suadono, che per difetto di
effe ciò deo tivi', non sapendo bere addattarli, ed a questo
proposito cosi parla Giove- nale, Quid Pfecas admifit
, quænam eft culpa puella Si tibi difplicuit nasus tuus?
Sem. Consideriamo i sarti quanti rimproveri riceveranno di vantaggio
Mer. Vi fù uno di questi gli anni scorfi, che avendo portari alcuni abiti ad
una ricca, e deforme, ed allorche se li provava , diffe, che non erano ben fata
ti; perche non le stavano bene al viso ; quel povero uoino vi ebbe un pezzo
fof. ferenza, må alla fine le disse : Signora io gli ho fatti a misura della
sua vita , alla quale vanno benissimo , non già del suo viso; onde questa non è
colpa mia , mà deila natura, se non stanno bene ad effo. Sem. E le
brutte, è belle, che siano adoperando i bellectiglo fanno per vanitá a
Moc. Mec. Questo certamente è molto dubioso; posciache, se lo fanno per
essere stimate più belle, s'ingannano, mentre ogni uno, che le rimira, le
tienes per copie mal dipinto, non già per ori . ginali, e voi sapete ; quanto
lieno più timati gli originali delle copie, quantunque pajano ben
colorite; e poi quel mal odore, che tramandano quegli unguenti posti sul viso,
come le possono rendere amabili? ed udite Plauto, come ne parla, Vei fefe sudor
cum unguentis fociavit illico, Ibidem olent, quafi cum una multa
jura confundit coquus, Quid oleas , nefcias ; nifi id unum male
olere intelligas. E Giovenale così dice: Interea fæda aspectu ,
ridendaque's multo Pane tumet facies, aut pinguia popeana Spirat, hinc
miferi vifcantur Labra marici. Ed in appresso; Tal Tot
medicaminibus , coctaque filiginis Offas
Accipit , & madido, facies dicetur anni ulcus ? E guai a queste
se intervenissero al giuo, .co, che inventò Frine, riferito da E rasmo lib. 6.
Apophtegn.pofciache si troverebbero confufe, e mortificate. Ef sendo ella in
conversazione di donne; tra quali ben si avvide effervene non poche bellettate
, introdusse il giuoco del1e penitenze, uscendo a forie chile doveffe
comandare; e toccando a lci, ordinò, che fosse portato un gran carino pieno di
acqua', e che ciascuna dovesse ja varsi il viso, come ella faceà ; 'non
poterono le altre scufarfi, effendoli'impegnate ad ubbidirç, e ne seguì da ciò
tal metamorfofi,che li domandava il nome ad alcune non riconoscendosi più per
quelle , ch'erano prima. Pub. Bisognerebbe , che leggeffero S.Ambrogio :
Examer. 6. cap. 8. per illuminarsi, ove dice : Deles picturam' mulier , f
vultum tuum materiali candore,oblinius, fi acquifito rubore perfundas : ila la
pi&tur a via, non decoris eft ; illa pi. Eura fraudis , non fimplicitatis
eft ; illance pictura temporalis eft, aut pluvia, aut Judure fergiiur : illa
pi&tura fallit, de ripit, ut neque illi place as , cui placere de
laderas , qui:nielligit non tuum, fed alicnum effe, quod placeas, & tuo
displiceas auctori , qui vidiet opus fuum efl deletun; ed apporia inoltre,
lib.i. de Virginibus, un dilema affai calzante a questo propofito, dicendo,
fepulchra es, quid abscomderis? fi deformis, cur te formosam effe mentiris? neç
tud conscientia , nec alieni gratiam erroris habitura? Şem. Lo faranno
çalvolta le bruite per ricoprire ļa ļoro deformità. Mes. Quanto s'
ingannano queste; posciache in vece di ricoprirla più costo in tal guisa la
rendono palese a tutti; cfsendo che non potendo mai fare in modo, che non si
conosca ciocche di più del naturale si sono poste sul viso, das Joro medesime
si discuoprono per defore mi, çon pregiudizio anche delle bells, Şe
[ocr errors] [ocr errors] se ciò facessero; perche saranno queste ancora
credute di ayere difetti tali, che abbiano d'uopo di essere ricoperti; E se poi
la deformità proveniffe dall'improporzione delle parti, che non è male da
biącca, come la potranno rimcdiare? posciache converrebbe in tal calo inventare
il modo da profilare mcglio il naso, ristringere la bocca, e di slargare la
fronte, ed a questo non potendo ațrivar esse senza maggiormente deformarli,
perche dunque li pongono a garreggiare col Divino Artefice, che così le formò
per fini a lui ben ooti? Sem. Hò udito però, che quelle, che cadono in
fimile errore, sia impoffibile, che possano più aftenersi dal non farlo, e
queste in che modo le coayincereste Publio? Pub. Sono certamente infelici
quelle donne, che non piacciono a se medefime , come disse S. Cipriano , de
Bon. Pud. femper eft mifera, que non fibi places qualis eft. Onde queste
difficilmense potranno convincerli; con tutto ciò, quan: Tollens
ergo quando' mai godessero un momento di mente tranquilla , domanderci
loro, se amano più la bellezza dell'anima, è quella del corpo, e dicendomi,
come è più verifimile , ch'amino più quella dell'anima , apporterei loro
ciocche dicc S. An:brogio : in Examer 6. cap. 8. ergo membra Ch ifti
faciam membra meretricis? Abfit, quod fi quis adulteret opus Dei; grave crimen
admittit , grave eft enim crimen , ut pures, ut melius te bomo , quam Deus
pingat . Grave eft , ut dicat de te Deus, non cognofco 16lores meos , non
agnofco imaginem meam, non agnofco vultum, quem ipse" formavi, Rejicio
ergò quod meum non eft , illum quare, qui te pinxit , cum illo habeto
confortium , ab illo fume gratiam, cui mercodem dedifti. Quid refpondebis ? ed
udite ancora quanto lo detefta S. Cipriano de Habit wirg. Manus Deo inferunt
quando illud, quod ille formavit, reformare, transfigurare contendunt ,
nefcientes quod opus Dei eft omne quod nafcitur:Diaboli, quodeumque mutatur ac,
tu te exi, Jimas impunè Laturum tam improbare meritatis audaciam Dei
artificis offenfama Ut enim impudica circa bomines, du inn cefta fucis
lenocinantibus non fis ,' corruptis, violatisque, qua Dei funt péjor adultera
derineris dc. Sem. Quelle, che fi bellettano, mi persuado certamente, che
non averanno uditi gliaccennati sentimenti di queisti Santi; perche in verità,
sc riflettes sero attentamente a ciò , che questi di cono, fi alterrebbero dal
farlo; mà vor: rei sapere in oltre da voi, Dottore, se pollano queste lordure,
che si pongor Ho le donne sul viso, essere di nocumento alla loro salute?
Med. Sono senza dubio molto dannosi; perciocche se il tingerfi solamenrei
capelli ha apportato a molte la mor- to, come riferisce Gal. de comp.medic.
fec. locos , cap.3. de tinet.capil. oye dice: Non folum enim in periculo
verfatas fape frio -fæminas ; fed mortúas ex perfrigeratione capitis per
hujufmodi pharmaca induéta , Ed Aczio parimeate afferisce , libr. 6.
M CAP 1 cap: 57. di averne vedute morire alcune per tale
cagione apoplettiche, e tabide; quanto più facilmente potranno es. fere
danneggiate da cosmetici , ne' quali entra il solimato? E posso io asserirvi di
avere veduta più di una di queste divenute , ò asmatiche, ò apopletriche, à
paralitiche, ò idropiche in érà proverra; senza poi quel danno, che suode
recare in gioventù a tutte , ne' loro denti ; e gignive; nè preftino fede a
coforo, che fabricano belletti, quantun. que dicano di averli fatti fenza
folimato, poiche le gabbano. Sem. Si che dunque aon gioveranno ne per
l'anima, ne per il corpo? Mas come si doveranno regolare i poveri mariti , fe
queste fi oftinaffero in voleres tutte le cose alla moda 2 Mer. Io non
farei altro, che spiegare loro i seguenti vèrsi di Properzio ar. vocato di effe
: * Quid juvat arnato procedere vitta ca pillo Et tenues Cos vete
movere finns ?Aut quid orontea crines perfunderes
mirra? Teque peregrinis vendere muneribus ? Naturęque decus mercato
perdere cultu? Nec finere in propriis membra nitere bonis
estir's Ed altroye: Nunc etiam infectos demens imitance Britannos Ludis,
o caterno gincta colore caput, E soggiunge : Ut natura dedit, fic omnis
recta figura, Turpis Romano Belgicus ore colar E Plauto ancora, che pone
in derisione queste tante variazioni di mode : dicendo in Epidico
Quid ifta ? Quo quotannis nomina in In veniuntur noua
* Tunicam rallama tunicam spilam Linteulum, Cæcisium,
Indosiatam, Palegiatam. Calšbulan, aut Crocotulam. er. Pub. Allai
meglio facente, Mecenate, a fare intendere loro ciò che dice San Cipriano dihi
de babitu Kirginum ; ovewi . Ceterùm fi tu te fumptuofiùs cumas,
per publicum notabiliter incedas , oculos in se juventutis illícias', fufpiria
adolefcentum poft te trabas , concupifcendi libidinem nuFrias, peccandi fomitem
yuccendas, ut fi ipfa non pereas, alios tamen perdas, velut gladium te, du
venenum videntibus se prabeas * excufari non potes , quafi mente cafta fis, do
pudica s redarguit te cultus improbus id impudicus ornatus , conforme lo fa
conoscere Aufonio in Delia, od ei Delia, nos miramur ,'eft mirabile ,
quod tam Diffimiles eftis ruque , fororque túa ; ?> Hæc habitu casta , cum
non fit caffats videtur, Tu preter cubium nil meretricis habes. Cum caffi
nores sibi fint , buic cultus honeftus, Te tamen, cultus damnat,
caftus cam. Sem. Parfando ora all'ira , queltas noir mi pare, che
abbia tanto dominio i nelle donne, quanto negli uomini, aven do
[ocr errors] do veduto adirati più questi, che quelle alcune volte, che mi sono
abbattuto seco in Gimili contingenze. x Mec. Non doverebbero certamente
le donne adirarfi ; pofciache divengono allora talmente deformi , che più non
si riconoscono , .quanto mai li erasfigurano; onde avendo effe in orrore la
deformità, doverebbero anche odia. re la cagione di essa ; Ma yoi , Sempro,
nio, le averete facilmente trovate in bonaccia, non già in tempo di furore ; e
perciò dite, che vi pajono gli uomini più colerici di esse; fe però vi foste
abbattuto nel vedere adirata Ja moglie di quel povero, Grammatico riferito
lepidamente da Ausonios diversamente para lcreste ; mentre di essa cosi dice:
Anma', virumque docens, atque arma virumque peritus':' Non duxi uxorem ,
fed magis arma do 1 ܢ ܀ Namque dies fotos y Botafque ex ordine ! noctes ::
Liribus oppugnat a, meques meumque Ata [ocr errors] M 3 giam
! Atque , ut perpetuis dotata à Marre duellis risin Arma in me
follit , nec datur ulla quies: Jamque repugnanti dedam me, wide
nique victum Jurget ob hoc folùm, jurgia quod fuOltre di che Salomone, che non
'mentisce, dice ancora: non eft ira fuprà iram mulieris . Sem. Non
saranno però ofinate les donne, che averanno i marici più rifenciti di effe , e
non tanto buoni, come era il sudetto Grammatico? 0:0, Mec. L'oftinazione
alle volte liavanza tanto in effe , che le rende incorre. gibili, come
comprendercte ancora dal feguente avvenimento riferito dal Poga gi. Vi fu una
di queste» che dopo ave. rc ricevuto moltisms bastonate da fuo marito, non
potendola far ritrattare dall'ingiuria, che gli facea, chiamaadolo
pidocchiofo,la calò anche nel poz . 30, fin tanto che poteva parlare
sem.. pre [ocr errors] pre fu percinace nel medesimo disprego gio ;
finalınente, avendo anche la te. ita fommersa nell'acqua, colle unghie de deti
grosli soprappoftę gli faceva cenno di quello , che averebbe colla voce
pronunziato , se avesse potuto Oltre di che il vizio della vendetta facilmente
di collega con esse, dicendo : Giovenale:Vindicta Nemo magis gaudet ,
quam femina. Sem. Le finzioni, e le menzogne and che segno
s'internano acll'animo dona, nesco ? Mec. Nelle donne scaltrite più
affai, che nelle milense:Ben è vero però,che se s'incontreranno in mariti
accorti, apporteranno loro gran danno le proprio finzioni, e menzogne; come
appunto seguì alla moglie di Teodofio à allas quale avendo egli donato un pomo
di eccessiva grandezza , volle ella gratifi care con esso uno de principali
Signori della corte, il quale due giorni dopo mandollo in dono all'Imperatore
;quantunque mostrasse apparentemente di gradirlo n'ebbe per ò egli intern
rammarico;perloche essendo cornato dipoi dall’Imperatrice, domandandole, se
riteneva più quel bel pomo; gli rispose, che lo aveva mangiato, ed avendola
pregata, che avesse fatta matura riflessione a quanto diceva, ella ostina.
tamente confermava il suo derto; allo. ra l'Imperatore per convincerla lo fè
portare in sua presenza, ele disse: Voi Giete una finta donna ; ne mostrò in
av. venire feco più confidenza . Sem. Hò uditi con molto mio rammarico i
difetri donnefchi; consolatemi ora voi, Publio, con riferirmi le Virtù delle
donne, ed in ispecie qvelle, che ponno apportare profitto alli mariti. &
Pub. La Prudenza, e l'Amore Gince. ro sono le principali virtù, che debbono
risplendere nelle mogli. Sem. Ma di queste Virtù sono capaci Je donne?
Pub. Non può dubitarf di ciòyinenero le le ftorie non solamente
profane, ma faa cre ancora lo confermano, e presentemente vediamo anche
risplenderé mole cisime di effe con fimili virtù. Sem. Perche duaque fi
dice tanto ma le delle donne Pub. La cagione di ciò la trovo in Euripide,
il quale dice: Miferrimum eft muliebre genus , femel Nam , quæ
peccant etiam immeritis Dedecorifque funt mulieribus, com
municant vituperium, Mala non malis , Ma questo, e un abuso grande, ed
in. giusto posciache contro di noi altri uomini non si costumà addollarsi a'
buon il vituperio de' cattivi, e qual ragione dunque vuole, che ciò militi
contro di effe ? Ovidio però le difende da tale in. giusta maledicenza con
dire: Parcite paucarum diffundere crimen ist Spectesur meritis
quaque paella fuis. Sem. Voglio credere che donnes prudenti vi
siano ffate ayendo udita rasa omnes: raccontare molci saggi
farci delle Porzie, Cornelie , Paoline, e Paoline, e di altre ; Mà di
queste , che con amore sincero abbianoamato i loro mariti vorrei udirne
riferire qualche altro csempio per meglio accertarmene. Pub. Vi posso
fodistare in questo picnamente, e principiando dal grande, e fincero amore',
che mostrarono a loro mariti carcerarile donne Spartane;men. tre queste andando
a visitarli li ferono vestirc de iloro abici, ed effc rimasero carcerate:
pafferò poi a riferirvi, ciocche fè Cabadis Reina di Persia, la quale parimente
liberò suo marito carcerato con vestirâ ella de' suoi abiti, e rima. nere priva
della sua libertà , c vita ancora · Riferisce parimente il Tarcagnota un fatto
molto riguardevole a tales proposito. Avendo ottenuto per capi. tolazione di
uscire solamente le donne dalla città di Vespergia cariche di quello, che più
loro piaceva, abbandonando queste oro, e supellectili preziose, she avevano, trasportarono
sulle spal. le [ocr errors][ocr errors] le i loro più congiunti. Ed
udite finalmencé un esempio singolare dell'amorce sincero di una saggia Regina,
riferito dal Padre Cordier · Roberto Re della gran Bertagna si trovava ferito
con una laetta velenata , fu giudicato da’Medici per unico riinedio il farla
succhiare da cui avesse voluto esporre la propria vita, per salvare quella del
Re ; la Regina sua moglie fi mostrò prontislima di farlo, ma non voleva in
conto alcuno il Re permetterle, che si esponesse a tal pericolo. Chę fè
l'amorosa moglic ! aspetto, che fosse addormentato , ed allora appunto, sciolta
la ferita , succhiolla intrepidamente, e con tanto felice successo, che rifano
il Re, senza riportarne nocumento alcuno l'amorosa Consorte... Sem.
Persevereranno queste prudenti, ed amorose consorti semipre nella. medesima
forma ? Pub. Se faranno i mariti prudenti in faperle bene diriggere, lo
fåranto, come udirete nella seguente ConfeTenzi. CONFERENZA VIII.
Come si debba regolare l'uomo colla moglie scelta di ottime
qualità. Sempronio , Publio, Mecenase , e Medico
M Som. perfuado, chief sendo la giovane di ottimi costumi,non
civoglia grandparte nel regolarla, po sciacche da se mca delima sapra ben
governarsi. Pub. Non è già così , Sempronio ; quantunque sia buona, ci
vuole anche attenzione in reggerla , affinche non divenga cattiva , perche
conforme fi dice, che prendendo marito, muci sta10, può anche cambiare costume;
im, [ocr errors] L2perciocche il corso è di molti anni, é fi
dee navigare in un mare, nel quale s'in. contrano de' scogli, e continuando la
metafora , descrittami da quel vecchio, che la donna sia la nave; questa quan.
tunque non abbia difetto alcuno, da se fola, e senza chi la indirizzi, a fola
di: screzione de' venti , che sono i suoi pen• ficri, non può giugnere al
defiato porto della felicità , onde conviene, che l'uomo faccia da nocchiere, e
non dor ma; quantunque fia bonaccia.. Sem. Infegnatemi, dunque come do.
vrò regolarmi, per non errare? Pub. Potrò riferirvila direzione del la
quale io fteffo mi sono servito, eve: drete, fe questa vi aggrada. ' Sem.
Avendola voi posta in esecuzio. nc felicemente, poffo fperarne anch'io
profitto. Pub. Ebbi alla prima quest'avverte11za di non addomesticarmi seco
in ecceso fo, ma solamente, quanto bastava per -farle conoscere, ch'io l'amava
, c perciò la rispettava , ferviva, ed oporava s mà mà çon tenere
sempre un tale qual den, coroso fuftegno. Procurava in oltre, ché non
iscopriffe il mio debole, c per fare prova del suo afferto, di quando in
quando, mi facea da essa scorgere penberolo, ed alle volte ancora alquanto
mesto: non li assicurava ella di ricerca. fc la cagione di ciòs solameore dopo
qualche giorno, faccosi animo, mi diss fe: Signore, yorrei vedervi allegro,
comc debbono essere i spost ; fe poffo io sollevarvi in cosa alcuna , eccomi
pronta': comandatemi, ed indirizzatemi che non ricoferò di obbedirvi . Mi senti
a tale corcese offerta immediatamente giubilare il cuore, e le rispoli con
faccia ilare : Signora viringrazio delle obliganti esibizioni, che voi mi fate,
u vi afficuro , che me nc prcvalerò, avendomi molto sollevato con questo voftro
-corcese parlare : E guitai immediatamente di quella confolazione registrata
nell'Ecclesiastico al 26. Gratia mulieris -Sedula delectabit virum fuum,
copaiba ljus impinguabit . Sem. 6 [ocr errors][ocr errors]
Sem. E se fosse entrata in sospetto , che voi non l'aveste amata? Pub.
Questo non poteva crederlo perche, come diffi , la rispettava, cd onorava con
particolare artenzione ; cd essendo ella prudente, ben fi avvedeva, che della
sua persona era sodisfattiffimo; sospettava bensì, come mi riferi dipoi,
il che da altre cagioni ciò veniffc ; u con bel modo tanto fè, che alla
fine un i giorno, dapoi avere presa meco confia denza maggiore ,
interrogandomi sopra ciò, seppe da me la cagione de' mici turbati penfiori ;
cioè : che questi dcrivavano dal timore, che io aveva di non cffere ancor
baltantemente capace di cducare bene i figliuoli, e di non sapere mantenere
fino alla morte il reciproco affetto coniugale a quel segno, che fi dovea
. ! Sem. Che rispofe ella? Pub. Con volto ilare mi replicò, che a
questo dovea anch'effa contribuire la sua parte , ic perciò ca ayefli pur
deposto la metà di detti pensieri , ch'erano tuoi. Sem. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se vi aveffe risposto ; penfiamo ora a
darci bel tempo : figliuoli non po abbiamo quando quefti nasceranno Gi farà,
come li potrà, non ci contriftiamo ora di quello, che non è presente.
Pub. Non fi parlava così in quei rempi, ne' quali il divertimento non erao
anche divenuto affare creduto rilevan. te, ed essenziale, che richiede sfe
giornata intera ; era bensì creduco effenziale il provedere quanto faceva
d'uopo, ed il prevedere ciocche poteva fuccca dere. ... Sem. Vi manrenne la
parola data di sollevarvi , quando sopravenne il bisagno Pub. Fè anche di
vantaggio, pofcix che fcoperto ch'ebbi il suo buon animo, un giorno così le
parlai: Signora mia, voglio, che camminiamo di buon conia certo in reggere la
casa ; abbiamo tansto assegnamiento, che può bastare as Amantenerci nel nostro
stato decorosamente ; pofliamo tenere tre fervitori, due per lei, ed uno per mc
, una ser [ocr errors] vente, ed una matrona, ed avere la noftra
carrozza, che serve ad ambiduc; of dividiamo ora l'incumbenza: voi pen+ ferere
alla tavola, alle biancherie, ed io al rimanente ; dell'esazioni
voglio ne fiare anche voi consapevole per vom ftro governo ;
ficcome ancora dell'esi- to, per caminare di buon concerto tra noi
nello spendere: debiti non voglio ne facciamo, nè avanzi
considerabili fino a tanto, che abbiamo l'assegnamen. to fiffo , c
non amministriamo tutte le rendite; e basterà , che solamente po-
niamo da parte ogni anno qualche cosa, per fupplire alle stagioni fterili,
alle ritardate rescoffioni, ed alle spese straor- dinarie, per non
ritrovarci allora bilo- gnosi di danaro : All'educazione de' fi-
gliuoli penseremo concordemente, al- lorche Iddio li manderà.
Sem. Ed essa accettò queste brighe ? Pub. Anziche mi
ringraziò ; mo- strandofi contentissima, per averla po- fta a parte
del governo. Sem. E se aveffc risposto; io non vo- glio ingerirmi
in questo affare ; pensateci voi, col maestro di casa; perche non voglio
prendermi questo tedio? Pub. Sarebbe stata troppo ardıca simile risposta
in quei tempi, ne quali crano molto rispettati dalle mogli i mariti ,
contentandoli vivere subordinate ad effi , e non succedca già come dice
l'Ecclefiaftico al 26. Mulier si primatum babeat , contruria eft viro fuo;
perche qucfta maggioranza non la godevano. Sem. Mà come riusciva in
quelle cose , che le toccavano di fare? Pub. A maraviglia bene; posciache
aveva la matrona , ch'era donna savia, e consigliandosi con essa lei, divenne
in breve tempo espertisfima in tutte quelle cose, che le appartenevano.
Sem. Chi potrà trovare oggidi quefta matrona non costumandosi più tal servigio
? e poi quando anche si trovassc, diventerei ridicolo, se prendesi, per servire
mia moglie, la matrona . Pub. Perche ridicolo? forse che fa. rebbe cosa
mal fatta? Som. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors]
Sem. Non dico mal facta , mà effendo in disufo , farebbe segnato a dito, chi
l'introduceffe. Pub. Mà da chi? forse da' savj, u prudenti? Sem.
Non credo da questi ; mà bensi da tutti quelli, che non costumano te.
nerla. Pub. Or io di questi non mi prendcrei soggezione alcuna; mi
dispiacereb. be bensì , che i savj biasimassero le mie operazioni ;
imperciocche possono farvi altro dispetto costoro,che non son savj, che di non
conversare con esso voi? E che perdita da ciò riceverefte? ogni qual volta
questo provenga, non per cagione di cosa malfatta, mà più tosto decorosa, ed
onesta, che sono vantag. giose per voi ; nel qual caso efli li renderebbero
meritevoli della censura de' savj. Io vi poffo ingenuamente confessare, che se
non fosse stata in cafa mia la matrona, che avesse indirizato da pria. cipio la
mia consorte , non averci già goduta quella tranquillità di animo fpe
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] rimentata fino al presente; posciacche
questa matrona essendo nata civilmente, e così ancora trattata da me, dando
alla mia conforte buoni conligli, la istruiva ottimamente, e perciò non vi è
stata occasione alcuna di discordie tra noi; il che non sarebbe già seguito, se
fi fosse configliata con qualche donnas ordinaria, e giovane, da cui facilmente
pellimi consigli averebbe ricavati. Sem. Questa matrona itava al fervia
gio attuale? Pub. Quantunque fosse falariata, era però distinta
dall'altra donna, che mi serviva, e faceva molce cofe spontaneamente di più di
quelle, che le toccavano, per l'amore, che portava alla casa, ove sperava
terminare i suoi giorni; non costumandofi licenziare queste , fe non per
cagioni assai gravi, le quali raro volte accadevano ; e quando la Signora partoriva
, essendo pratichisimas; non li può esprimere , che aflistenza le prestava in
tutto quello, lc occorreva ; ed in tempo di malattie cra singola
re; 2 re; oltre di che nell'educare bene i figliuoli, e le femine
in ispecie, cra mol. to eccellente, sapendosi far amare, a rispettare insieme:
or vedere voi quali danni ha apportato privarsi di effe. Sem. Mà perche è
stato dismesso si buon fervigio ? Pub. Io precisamente non lo sò, può
essere, che sia noto a Mecenate. Moc. Io ho udito riferire più voltes che
queste volessero fare troppo lezelaati, e perciò fi fia verificato in esse la
favola di Efopo, ove parla del trattata di accordo fatto tra il lupo, e la
pecor ra,contro la soverchia custodia de' cani; e per verità, vi erano alcune,
di esse, che facevano la guardia alle figliuolo più di quello , che facciano i
cani alle pecore; -mà questo non era motivo fufficiente per dismettere un
servigio cotanto utile al decoro, ed onestà dellas casa, conosciuto ciò, anche
da Tibullo quantunque molto lascivo, mentre egli consigliò: At tu cafto precor
maneas, fanétique pue Aft [ocr errors] dorisa N3
Affideat cuftos fedula femper anus . Sem. Come regalavate, Publio, fperso
la vostra sposa? :- Pub. Oltre le mancie solite del Natale, e del giorno
mio natalizio, che consistevano in dodici piastre per.volta, e quando si
riscotevano grosse somme, fempre qualche moneta di oro le davas, perche mi è
piaciuto , ch'ella 'manegiafle danari. Sem. E che ne faceva 279
Pub. Quando arrivava a cumulare la somma di cinquanta scudi , creava un cenfo,
e la metà del frutcabo di effo dispensava a poveri, c fi verificava in lei ciò,
che dice Salomone delle donne savie: Manum fuam aperuit sinopi , & palmias
suas extendit ad pauperem , dell'altra si serviva per vestirdi:. ;1 Sem.
E le fpilte non se l'era riservate ne' capicoli matrimoniali? LifPubi Questo
non costumava allora... non facendofi tanto consumo di effe,come 'oggidì, che
liveste alla moda . Sem. Eche a non fi vertiva alla moda in quel
temposPub. Si vestiva all'usanza propria det [ paese, quale era di non cangiare
sì di sovente, quella , che correva. Sem. Non è questa la vera
moda, mà bensì quella, che oggi si porta da paeli stranieri, ed indi a pochi
meli, venen, done un'altra, la prima non si usa più , perche le ultiine sono
quelle , che dilectano, ed appagano gli occhi . Pub.E degli abiti di
vecchia moda anche in buono essere che fe ne fa? Sem. Si esitano a quel
prezzo, che fi trova, e con discapito grandissimo, Pub. Come costa questo
vestire all? ultima moda , perche io, che vivo all antica, non ne sono in
formato ? Sem. Costa assai per verità, essendo che bisogna pagare sempre
di più del suo valore quel drappo di nuova moda; mà ad alcuni ciò non da
fastidio, perche i mercanti sono cosi cortesi', che lo danno in credenza. ti
''p Pub. Questa , per parlarvi con tutta fincerità, mi pare la vera moda
diandare in malora; perche estendo sì cari, Conf. 8. Dec. prima ed il
mercante volendo alla fine essere pagato, che si farà allora , non essendovi
danaro per sodisfarlo? Mec. Si mucerà paese, e per verità quando questa
nuova moda non era tanto in uso non si vedevano già i galant' uomini , divenuti
per essa miserabili, nè mutare paese, essendo per loro poco sicuro quello, ove
vestirono a tutta moda. Sem. Con chi coversava la vostra fposa ? ?
? Pub. Con i suoi parenti più proflimi , li quali in giorni festivi, in
occasione di male , ò di altri bisogni venivano as visitarci, ed altresì noi
con effi loro facevamo. Sem. Ma non recavano noja fimili conversazioni
Pub. Anzi erano di sollievo grandislimo; essendoche i capi di casa fi
ritiravano in disparte a difcorrere fopra gť iatereffi domestici;
consigliandosi tras loro, per meglio regolarti, nel far colcivare la campagna,
ne irinvestimenti da da farsi, e nel governo economico della casa :
le donne poi colli ragazzi, ftavano divertendosi tra loro. Sem. Ed in
che? Pub. Nel domandare , che profitto facevano i figliuoli,che belli
premj avevano avuti da loro maestri, e come fi portavano le figliuole ne' loro
lavori, i quali bene spesso portavano seco queste, per farli vedere ; e ciò
serviva per eccitar emulazione tra elli a portarli meglio in avvenire,
lodandosi, e premiandos ancora chi s'era portato benc. Sem. In detto
tempo a costumavad giocare? Pub. Questo non fi faceva , eccettuato, che
in tempo di carnevalc. Sem. Si giocava alle ombre in detto tempo?
Pub. Questo si costumava ; posciache ove si giocava, non vi era Sole .
Sem. Voglio intendere colle carte di fpade , bastoni , coppe, e danari.
Pub. Queste ne pur si conoscevano in quel tempo da esse, e se l'avessero
co no [ocr errors] nosciute', non averebbero giocato con carre
tantó-misteriose, le quali fanno vedere , che le spade, i bastoni, e le coppe ,
malamente adoperate consumano tutto il danaro , .. Sim. Ele conedie li
udivano allora? Pub. Queste erano frequentare', ò'da curiofi forestieri,
è da paesani ožiofi per alcro le donne se n'altenevano ; e se non era
più, che qualche rappresentazione facra, fatta di giorno, avevano rossore di comparirvi.
Sem. Eli passeggi si costumavano ins quel tempo? Pub. Passeggiavano
ancora, mà per essercitare iutto il corpo a beneficio della salute , non già
come si fa oggidi, per 'indolirli folamente la schiena , a cagione di tanti
inchini, che Gi fanno, fenza muovere un paffo. Sem. Lecafe, come erano
bene a dobbate Pub. Asai meglio', che non sono adesso, rimirandovisi
appcfi nelle pareti di effe akuni quadri di carte', ches er [ocr
errors][ocr errors] ga in erano le piante delle tenute, che si
possedevano,dalle quali & ricavava groffi ffimo frutto, ed allora non vi
era tanto luffo; poiche loro, ch'oggidì s'impie in apparenze superflue
d'indorature, e nelle vanità alla moda, fi ipendeva in quei tempi assai meglio
in compre diterreni, e di alcre cose fructifere. Ne si commettevano già furti
di piatti, fottocoppe , bacili, candelieri, ed altri vali di argento ; perche
questi allora. erano. assai meglio custoditi ; effendo pochi elli, che gli
aveano, e perciò di rado ancora venivano adoperati. -Sem. Sapete Mecenate, che
mi crovo confuso a cagione di questo racconto fatró da Publio, riflettendo a
ciò, che sarebbe più utile , mà non lo potrò seguitare, per il diverso costume
introdotto oggidi ; e dichiarandomi volere vivcre così, non troverò moglie;
dall' altro canto a seguitare il modo, che si tiene, sono arrivato a
comprendere , che è molto dannoso per cutti i verfi. Dunque che dovrò fare?Mec.
Di non isbigottirvi punto per qucsto. Scegliete voi il modo, che credece
migliore, e dichiaratevi pure apertamence , che questo volete seguitare e
troverete ciò non oftante moglie, u forse senza d'uopo di ricercare tanto al
minuto il costume; posciache quelles giovane,che si contenterà di essere
tratcata in questa guisa , sarà certamente fac via, e bene accostumata .
Sem. Mà se le altre non la vorranno trattare per non seguitare ciocche effe
fanno, come si troverà ? Mec. Che pregiudizio risulterà a voi & ad
effa da questo, che farebbe la voftra fortuna? anzi voi medelimo lo do. vreste
procurare, affinche non la deviaf. sero dai suoi doveri. Sem. Or io così
farò, e dica ogn'uno ciocche vuole ; perche hò uditi molti mariti sospirare
frequentemente; da che provenisse questo, non lo só precisamente, sò bene, che
senza cordoglio non ti sospira . Or ditemi , che altro doverò fare per
mantenerla costante nel fuo [ocr errors] suo buon costume ?
Pub. Nun altro, che di non darle al. cun mal'esempio, e di tenerla
continuamente occupata in devozioni ; affari do. mestici; e nell'educazione de'
figliuoli; perche la vita oziosa è pessima, dicenda l'Ecclefiaftico: Mitte
illum in operationem, ne vacet; multam enim malitiam docuit otiofitas .
Sem. Come mi dovrò contenere intorno alla devozione? Pub. Le darete in
questo voi huono esempio ,' conforme richiede l'obligo voltro ; imperciocche
tanto io , quanto la mia conforte cravamo favoriti dal medesimo direttore
spirituale , c trequentavamo sovvente le nostre devozioni ; la sera poi colli
figliuoli, e servitù fi recitavano alcune preci, e li leggevano anco libri
fruttuosi per l'anima, ed in oltre da noi si sovvenivano bene spelso i poveri,
e da ciò ne hò ricavato quel bene, che si trova registrato nell'Ecclefiaftico :
Mulieris bona beatus Vir, numerus enim annorum illius duplex . Sen.
. Sem. In che altri affari domestici la tenevate occupata ? Pub.
Effendomi avveduto , ch'aveya desiderio di copiosa biancheria , ordinavo, che
fossero proveduti nelle fiere canape, lini , e cottone, é veden. dole si
rallegrava molto, e li faceva filare, e reffere a suo modo; e ciò per verità la
teneva impiegata qualche ora del giorno , ingegnandosi ancor essa di filare , ò
d'inaspare; e facendosi le bucate in casa, rinnacciava a maraviglia , quanto ne
aveva bisogno, affieme colla matrona ; ed io rimirandola cosi diligente ne
godevo fommamente, vedendo verificarsi in essa quella condizione ancora di
donna saggia, descritta da Salomone: Quafivir lanam, d linum, operara eft
confilio manuum suarum. Sem. La conducevate in Villa? Pub. In certe
belle giornate lo praticavo; anzi che le faceva vedere le nostre tenute, e tutti
quegli stabili, che la casa godeva in campagna, con istuirla ancora, sopra
quello che si poteva fars [ocr errors] fare di van aggio, per
renderli più frutriferi; sopra di che ne ricercavo ancora il suo parere, da poi
che la vidi ben, informata di tutto Sem. E qual bisogno avevate di
configlio donnescovoi, che fiece sì esperto in tali affari? Pub. Il
prendere consiglio giova agli inesperti, e non pregiudica mai a i pratici; e
poi sapere voi il mio fine qual’ era:che, se Iddio mi avesse chiamato a se
prima di essa fosse riinasta informata. di tutte le cose: e sappiate, che le
povere vedove sono gabbate da loro miniftri, quando non si trovano informace
degl'interessi domestici; il che non legue già allorche fanno ciò, che debbas
farsi. Ne crediate già , che sia cosa im, propria alle donne d'essere informate
della campagna, ponendo tra le condizioni di saggia donna Salomone anche questa
: Consideravit agrum, a emis eum: De fructu manuum fuarum planiavit vineam.
Sem. Nell'educazione de' figliuoli, che [ocr errors] che diligenze
usavate Pub. Eravamo tanto io, quanto essas attentiffimi a tutte le loro
operazioni, per poterli di ogni minimo difetto correggere da principio; eflendo
che le piante velenose fi svellano alla primas con facilità grande dalla
terra,mà allorche sono ben radicate v'è d'uopo di maggiore facica. E
riflettendo che tanto si fà, e quanta industria si pones per ridurre docile un
cavallo da maneggio, mi pare che questa sia più necessaria d'impiegarla a pro
de' figliuoli, da quali vantaggi maggiori si ritraggono senza fallo, che da
cavalli . Sem. Come viriusciva facile il correggerli? Pub. Per
verità facilisimo, perche erano docili ; e questo beneficio l'hò riconosciuto
dal buon naturale della madre, il qual passò anche ne' figliuoli; scorgendoli
bene spesso all'opposto i vizj de genitori paffare ne' figliuoli
ancora. Sem. Quale induftria usavate nel di. riggerli ?un canto viera
l'altarino con tutti li suoi Pub. La prima fu d'istruirli nella pie-***
Tu tà cristiana, e d'insinuarla bene ne'lo. si ro cuori ; primieramente col
buono esempio, e poi colle parole; ed era vely ramente di consolazione
grande il vede re quei figliuolini attenti, e divoti nel fare orazioni ;
e di poi, per meglio afficurarmi delle loro naturali inclinazioni, aveva fatto
preparare per divertirli varie cose in una stanza spartata , ove in [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] arneli; sin altro
l'armariuccio con certe armi di legno tinte, che sembravano di ferro ; vi erano
ancora in altra parte din versi giocarelli puerili, ed altrove qual che
libretto in una picciola scanzia ; c nelle ore di recreazione li conducevo ivi,
affinche si divertisfero. Quei ch'erano portati dal genio all'Ecclefiaftico,
correvano alla prima all'altarino, el ornavano in quella forma į che l'ayeano
veduto in chiesa; e ciò serviva per renderli maggiormente attenti alla
devozione: altri poi secondo le loro incli O [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] na. nazioni si divertiyano, coi libri, è
colle armi,e di rado alcuni di efli li spas, favano co i
giocarelli; e stava attentifli- mo osservando quelli, che
persevera- vano nel medesimo genio ; perche con- forme
averete ancora voi osservato, non è fempre uniforme l'inclinazione
de’ra- gazzi, e mi sono finalmente accertato , che quelli,
ove il genio li portava , sono stabiliti in esso divenuti
adulti,col- tivava però sempre le loro inclinazioni, vedendole
disposte al buono. 1 Mec. Gli Archieli foleano condurre i
loro figliuoli ad una fiera, per com- prendere i loro genj, e quei,
che ve- deano desiderosi di provederli de' libri, li
mandavano all'Accademia, quei poi , che aveano compiacimento a
rimirare le armi, li deftinavano per
la guerra Sem. E le figliuole, che facevano ?
Pub. In altra ftanza fi syariavano,afliftite ò dalla Madre,ò dalla Matrona,ove
erano coscinetti, per commodo das cucire ; ferri da fare calzette,
piccio. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Dell'Elezione
della Mog. arr le conocchie, ecommode per filare ; e diverse pupazzine vestite,
ò da spose , ò da monache ; ed ivi ancora chi affifteva loro', fcorgeva
Vinclinazio ni, ch'avevano", rimirando a’ quali di queste cose le portava
il genio ; ed in fatti quella, che si fè monaca, non si divertiva in altro, che
in ispogliare, e rivestire la sua pupazzetta in abito da monaca, e l'altra, che
prendette marito , sempre giocolava colla sua pupazzetta vestira da sposa
. Sem. Felice coppia! non saprei anch' io abbattermi in simile
compagnia. Pub. La troverete anche voi cercandola, perche non è già
estinta nel mondo la razza di quelle di cui parlò l'Ecclesiastico al caj. 26.
Mulier fortis obleEtat virum fuum, de annos vitæ illius in pace implebit.
Sem. Sì bene, mà se per mia sventura m'incontrafí in una , che non fosse così
buona; che doverò fare in sal caso ? Meca, L'esaminereino nella venturas
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] conferenza, nella
quale meglio anche apprenderete il modo, che dovrete tenere in, fare
perseverare la buona, co(tante nel suo lodevole costume avendola scelta per
vostra conforte, CON, the te CONFERENZ A IX. [ocr
errors] Come si debbano regolare i faggi mariti con le mogli
imprudenti, e viziofe. Publio , Mecenate , Sempronio ,
& Medico Pub. O, ch' hò navigato lungo tempo per questo vasto
Oceano degli ammogliati, posso servire di fida scorta a voi,che doyete
entrarvi. Le maffime principali, che dovrete tenere sono queste : primieramente
di operare più col buono esempio, che con semplici parole, confessando Platone,
ed Aristocile che maggiore profitto fi ricavava da ciò, che si vedeva fare a
Socrate, che da' suoi morali documenci. Quindi è, che'Plutarco ne' suoi
ammaestramenti matrimoniali ebbe a dire: che non preten. da il marito di far
divenire la moglie buona economa , s'egli coll'esempio non le mostrerà efferlo
anch'effo : onde non recherà maraviglia, ciocche diffos Ovidio. Dum fuit
Artrides una contentus , illa, Caffà fuit , vitio eft improba
fuftaus viri. Mec. L'esempio però di Socrate appresso la sua moglie
Santippe nulla giovava, Pub. Sapete perche ? Si abbatte il una donna
talmente pazza, che dovea più tosto essere legata colle catene, che ammonita
con esempi, e parole : mà di questo ne parleremo a suo tempo. Or proseguendo il
mio discorso; in secondo luogo deesi togliere ogn'occasione, che possa farle
cambiare di buona in cattiva, perciocche quantunque ottima da principio, per
trascuraggine del marito può divenire peffima, ed in che mo [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] modo uditelo da Euripide.
Sed nunquam nunquam [ neque enim, femel dicam Oportet
prudentes, quibus eft uxor, Ad uxorem in domibus accedere finere
Mulieres, ipfæ enim præceptores funt
malorum. E che più ! Levina donna da principio caftiffima
per la libertà, che le diede suo marito di andare vagando per il
mondo , quanto , quanto si mutaffe mutasse , sentitelo da questo
Épigramma. Cafta , nec antiquis cedens Levina Sabinis, Et quamvis tetrico
triftior ipsa viro, Dum modo Lucrino , modò fe permitrit
Averno, Et dum Bajanis fæpè fovetur aquis, Incidit in
flammam, juvenemque fequuta , relicto Conjuge, Penelopes
venit, abiit Helena. E d'onde ciò avvenne, se non dalla li. bertà,
che le diede il marito ? Nè Mef- salina averebbe già commessa quella
sì enorme scelleragine di sposarli con Silio [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] publicamente, e nel palazzo imperia, le , fe Claudio
Imperatore l'avesse condotta seco ad Oftia; del qualc attentato parlandone Tacito
arrivò a dire : laborabit annalium fides; c credete forse , che se Ottone non
avesse lodata a quel segno la bellezza di Poppea Sabina sua moglie alla
presenza di Ncrone, glie l' averebbe tolta ? non già ; ma il pazzo arrivando a
dire, nel levarsi dalla menfa dell'Imperatore, che se ne andavas lieto a trovare
sua moglic stupore di bellezza, a lui solo concedura, e desiderata da tanti, e
volete chc Nerone, udendolo non s'invaghisse di essa ? Sem. Averanno
forse da tenerli chiu. se le mogli per far verificare, ciocche disse il
Satirico ? Pone feram choibe , fed quis custodiet ipfos Custodesē cauta
eft, & ab ipfis inci pit uxor. Pub. Io non intendo dire questo, mà
folamente di trattarle, come diffe Tacito del popolo Romano , che: nec
tam, tam [ocr errors][ocr errors] fam feruitutem pati poteft, nec
totam libertatem , cioè colla misura di mezo, discreta, e giudiziola e
finalmente conviene compatire molte leggiere debolezze di effe con non farne
calo, di quelle particolarmente, ove non si scorge malizia, e cattivo fine ; ¢
quando mai vi fosse d'uopo di rimedio, non dee questo darsele in publico, nè
con istrepito contenzioso, e riflettere a ciò, che dice Plutarco; che Venere fù
collocata dagli antichi vicino a Mercurio, affinche con arte, ed avvedurezza ,
e non con violenza in tali faccende li procedesse ; e lasciando il profano da
parte, vediamo che rispetto avesse a sua moglie il nostro primo padre Adaino :
dipoi di avere detto, ch'era una porzione di se medesimo; cioè: cara de carne
mea; soggiunse « quamobrem relinquer bomo patrem fuum , & matrem, &adbarebit
ukuri sud, do crunt duo in carne una Gen. cap. 2. Sem. Questo però mi
reca gran tercore, perche se Adamo trattò così bere sua : sua
mnoglie, ed erano nel Paradiso terrestre ; ne- ella poteva essere stata crea .
ta da mano più perfetta , contuttociò ingannò suo marito a segno , che tutti
noi ce ne risentiamo, che farà dunque una figliuola di essa in questo
mondo? Pub. Fu fedotta però dal serpente, allorche Adamo dormiva, onde
apprendetene dà ciò questo documento: di non dormire, quando vi sia il serpente,
che tenti sedurre voftra moglie. Sem. Mà qual serpente ci sarebbe, se io
sposarsi una giovane, che da zitellas aveffe dato sempre saggio di somma mo.
deftia ; ed appena entrata in casa mias, cominciasse a dire ; voglio un'altro
abito alla nuova moda: queste gioje non; sono legate all'usanza; voglio lo
scarabattolo, come hanno le altre mie pari; qual ferpente la tenterebbe
in questo caso, per farla parlare in tal guisa ? Pub. Sarebbero due non
che un fojo, li serpenti; cioè l'eccessiva vanità, e l'ambizione proprie ò
insinuate,e quefti converrebbe scacciarli,er. [ocr errors] Sem. Ed in che
modo? Pub. Voi averece già scelta la giova. CH ne nata da? savj, e
discreti parenti, and mutt quali avrete facilmente manifeftato l'animo voftro
, in che forma la vorretes trattare; accordandomi ciò, mi pare, cosa quasi
impossibile, che una giovane ben'educara possa alla prima avanzarsi
Q a domandare imperiosamente ciocche be brama ; se pure non sarà stata
mal con figliata; da qualch’una poco prudente, i onde per ovviare
questo, converrà , che alla prima stiate attento di non farlas trattare , se
non con quelle, che voiconoscerere savie, e prudenti, delle quali potrete
essere sicuro, che non sarà configliata a questo; ò pure se voi medelimo nolle
darete mal'esempio ; conforme a questo proposito avvertiscePlutarco, ne? suoi
precetti matrimoniali, oye dice'; vir corporis ftudiofus, uxorem reddit
la sciviori cultui deditam ; voluptuofus amas, toriam, & libidinofam
; boni , honestique amator , modeftam , & honeftam: E sog. giugae di
vantaggio; nè putes à super, [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] mo, fuis , profusifque fumptibus uxorem temperaturam ; fi te ad
hæc omnia minimè contemnentem confpiciat', quin potiùs auratis poculis ,
pietifqae cubiculis, mulorum, & equorum phaleris gaudentem videat ; non
enim fieri poteft, ut à mulieribus luxus removeatur, quo viri circumfluunt .
Sem. Mà come farà praticabile il pri se terrà visite publichce ove ogn'
una farà a gara di comparire con mag . gior pompa dell'alere? Pub. Se
conoscerete, ch'ella abbias la prudenza della moglie di Focione, di cui già
parlammo, permetteteglielo pure liberamente; perche farà della natura di quella
, di cui parla l’Ecclefiaftico al cap. 26. Mulier fenfata, tacita non eft immutatio
eruditæ animæ : mà per al. fro, se non farà di tal senno vi porrete ad evidente
cimento di essere forzato a tractarla meglio delle altre , e con pompa
maggiore, per esfere sposa novella. Sem. Ma queste non si potranno
fuggire; imperciocche lo potrebbero incon fra: [ocr errors] trare
inimicizie, ricusa adofi ; ò per la a meno li darebbe moito da dire à tuttaa la
città. Pub. Se non si potranno fugire, e voi permettetele.
[ocr errors] Sem. Mà facendolo poi bisognerà , che seguiti ciocche praticano le
altre. Pub. Non è da porsi in dubio. Sem. Consigliacemi dụnque, che
dovrò fare. Pub. Non mi dà l'animo. Sem. E perche ?
Pub. Perche scorgo più volonterolo voi di queste visite, di quello che
sarà la voftra sposa, compiacendovi forse, che si vedano le vostre grandezze, e
sono molti del vostro genio', che mostrano in apparenza dispiacimento di tal
cosa, che internamente con ardenza la bra. mano; e fanno come diffe Tacito di
Ti. berio : Specie recufantis vebementiffime cupiebat. Sem. Mà è
possibile, che non ci siad mezo termine per isfuggire queste prime vifte, senza
che rimanga alcuno disgutaco? Pub. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][merged small] Pub. Si potrebbe questo trovare,ogni qualvolta però non
abbiate voi compia. çimento di averle. di Sem. E questo quale sarebbe?
Pub. Di condurre la vostra sposa fuofi della città in distanza tale, che non
rioscisse facile alle altre di venirla a visitare. Sem. E chi sà, se la
sposa fi contentasse di questo? Pub. Non vi contenterete voi ; perciocche
una giovane bene accostumatas farà ciocche vorrete : toccate voi ora colle
mani, che i mariti sono per lo più arrefici delle loro ruine, e non le povere
mogli. Sem. Mà andando fuori, e poi tornando , faremo nei medefimi
termini di prima, rispetto à queste visite : Pub. Così credo anch'io ;
pofciache vorrete fodisfare allora al desiderio,che avere di riceverle; mà
udite di grazias, ciò che ne potrebbe nascere di buono da questa vostra
lontananza dalla città : Che intanto voi col vostro giudizio po tre
[merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] trefte
istradarla in modo , che non sarà poi facile, che diça , qucsto voglio,
po: sciache le potrete far ben conoscere i precipizi , che nascono
dall'ecceffivo lusso, ed i danni, che apporta l'ambi, zione;ed
averefte inoltre in quelto men. tre, che dimorerete in villa , tempo
op: portuno d'istruirla ancora nella buona economia, la quale è
l'unico antidoto contro la prodiga vanità. Sem.
Insegnatemi dunque, che dovrò fare fin tanto che staremo in villa?
Pub. Contratto, che averete trà voi quel santo amore conjugale, le farete
comprendere, che guadagno abbia recato alla vostra casa l'efferyi portaticolà,
e che per farle conoscere , che voi non l'avete fatto già per avarizia , ma per
esimervi bensì dalle confuloni, u disturbi, che nascono da tante visite, e
rivisite, che si costumano, donare ad effa la metà di detta somma avanzatas;
affinche ne faccia una soccita di animali, ò la rinvesta a suo piacere, c
commodo, e procurerete , che facendosi detta foccita, non abbia questa
disgrazia alcuna per più anni, con foggiacere voi as quei discapiti, che
l'inclemenza delle Stagioni potrebbero apportarle, e vedrete in atto pratico y
qual amore effa. porrà all'economia. Le prime impresfioni sono quelle , le
quali radicateli negli animi foftri tanto del bene', quanto del male,
difficilmente fi cancellano più, mentre che, Quo fuerit imbut a recens
feruabir odo rem Tefta diu. Sem. Questo mi piace affaislimo;
perche mi concilierà l'amore di essa, edonerò senza fare discapito alcuno ;
mentre ciocche dono, rimane in cafa; mi farebbe discaro bensì, quando andaffe
in börfá de mercanti: Mà se in progrefso di tempo desiderasse qualche abito ,
come mi dovrò regolare? Pub. Dovrete invigilare di provederla preventivamente
di ciocche è necefsario al decente ornato, secondo il voItro grado ; affinche
non sia forzatas [ocr errors] chiedervi cosa alcuna . Sem. Mà se
ciò non ostante lo facesse, hò da negarglielo? Pub. Se voi la scorgerete
attaccatas, al danaro non glielo negate , questo si, che in vece di spendere
voi, date la moneta ad ella, acciocche la spenda a suo modo, Mec. A
questo proposito posso riferire un caso accaduto. Venne voglia ad una donna
civile di farsi una certa scuffia alla moda; il di lei marito, ch' era accorto
, non glie la negò; ben è vero, che le diede il danaro nuovo di zecca per
farsela ; ella cominciò à con, tare, e ricontare dette monete, li le parvero
assai belle, e perciò non s’induceva à spenderle ; le domandò į egli
pallato qualche tempo, se fi cras ancora fatça la scuffia; cui rispose,
che non aveva potuto trovare cosa appropo. fito; le replicò : fatela
quando vi piaci ce, perche il danaro è vostro, e se lo Ha volere impiegare in
altro, fate voi; mà ella non lo spese già per goderselo. P Sem
: [ocr errors] le qua [ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse
liberale ; che non fa. ceffe conto del danaro ? Meo. In questo caso
pariinente non mostrare renitenza in sodisfarla ; dite bensì, che commetterete
fuori, e farété venire merletti più belli, e più alla moda di quei, che sono in
città; perche intanto, ò le passerà la voglia di farsela, ò si murerà la moda ,
come si vede giornalmente accadere, e potrebbe anche darli il caso, che un
giorno fi rendeffe capace di ciocche disse Crate, Filosofo : che ornamentum
eft, quod orhaf:ornat autem quod mulierem boneftiorem reddit. Quindi è, che
secondo quel detto greco : Mulieri ornamentum mores, e non [ocr
errors] durum Sem. E se le venisse tentazione di porfi qualche manteca nel
viso, per comparire più vaga? Pub.Ciò non dovrete tolerarlo in conto
alcuno riso.it Sem. Che averò da fare? sgridarlas .forse, e mortificarla
inleme Pub. [ocr errors] fa Pub. Questo poi nd; pofciache me.
no verrece seco alle brutte, meglio semnot pre farà per voi, ed affinche
possiate di in ciò regolarvi con prudenza, vi rifeac rirò per convincerle
dolcemente, cioc che dice Zenofonte nell'economico, ch' è questo: Die
mihi uxor, nonne hisce legibus matrimonium inivimus, ut quod effet utrique
faculsatum, invicem communica. remus ? annuit illa . Jam ait , fi poftquam tu
tuam portionem bonæ fidei contulifes, ego pro veris gammis fiétitias , prò auro
puro, adulterinum darem , prò torquibus aureis vitrum auri bracteis oblitum prò
monilibus folidis , ligna 'auro, argen to, incruftamentis obducta, num boni
confuleres, aut judicares , me plus tibi contuliffe ; fi talibus technis tibi
imponerem, quam fi quod baberem', uti eft in medium conferrem? quod illa
excipiens , cave , inquit, ne mibi talis fis , neque enim te ex animo amare
pollem; quo audiio ille fic perrexit : atqui nos in hoc potisimum convenimus,
ut alter alteri corporum Noftrorum copiam faceremas, quod P. 2 [ocr
errors][ocr errors] h cum Pub. Nira maltrattato ? cum uxor
annuiset. Sum ne, inquit , tj bi gratior, aut carior futurus, fi corpins boc,
uti eft, nullo medicamento vitiatum Communicem, an fi os,oculofque minio
infestos tibi ofculandum preberem? At ego in. quit uxor; minimum nunquam
attigerim, neque fucatos oculos gratius, quam tuos afpexerim . Et mihi , ait
ille , puta mentem eamdem effe: nec tam mentito (quem tu cerufit, fib:oque
inducis) colore delectari, quam tuo nativa. Quo tam commado fermone caftigata
mulier abjecit omnia tectoria, formaque medicamenta . Onde di questo
convincentissimo ragionamento vi potrete anche voi prevalere per ridurla a suoi
doveri, senza contendere seco, Sem. E se diveniffe fastidiosa, iraconda,
e garrula, che dovrò fare? Pub. Tutto l'opposto di quello , che farà lei,
imperciocche altrimenti sarà la. casa vostra un continuo inferno. Sem.
Come si potrà praticare questo Pub. Non vi potrà fare mai peggio di
uxor. unda , quello, che faceva Santippe a Socrate, e pure la
sopportava , come viene dea scritto da Bigo poeta : Ferendum
eft Socratis exemplo quodcumque peregerit Xantippen, fiquidem
convitia multas moventem , Cum blando argueret,
fædatus defuper Nil nifi deterso, poft tanta tonitrua, dixit
Vertice, se pluviam non ignorante se quutang Sem. Bisognerebb’essere però
Socrate per sopportare tanta ingiuria . Pub. Cominciando ad operare da
Socrate potreste anche voi divenire simile ad esso ; posciache interrogato per
qual cagion'cgli sopportava tanti strapazzi ricevuti dalla sua insolente
moglie, rifpofe : Cum illam domi talem perpetior , infuefco, dw exerceor ,'ut
ceterorum quoque foras patulantiam, et injuriam facia liùs feram; laonde con
sopportare l'in giu [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] P 3 [ocr errors] giurie della vostra moglie, diverreste Socrate
anche voi. Sem. Mà se fosse altera , ambiziosa di commandare, e non
volesse fare ciocche dal marito le veniffe ordinato Pub. Socrate
sopportava questo ancora .. Sem. Mà voi, Mecenate, che non fieţe Socrare,
che fareste? Mec. Vi posso riferire ciocche fecero alcuni in fimili casi,
e con profitto . Vi fu una certa vedova, cui erano morti trè mariti, a cagione
dei gran disgusti dati loro da essa ; non trovava questas più alcuno, che la
volesse prendere per moglie, un giovane alla fine, sapendo ch'era divenuta
inolto ricca la volle sposare ; mà cosa fè questi ? ordinò, che fosse trovato
il cavallo più indomito, che fosse nella città, con ordinare al fuo cocchiero,
che nella mattina feguente alle sue nozze lo avesse fatto andare furiosamente
per il cortile del suo palazzo, e che avesse di poi eseguito puntualmente
ciocche da esso gli fareb, be 1 be stato comandato; in quella
macci na il cavallo fè furie grandi ; venne cuole riosità alla sposa di
vedere da che pro cedesse quel gran rumore, che udivano in si affacciò
alla feneftra, e nel medesimo tempo ancora vi accorse lo sposo, il quale
domandò al cocchiero , la cagione di ciò, cui rispose : Signore, è unas beftia,
che non si può domare, e perciò ogni giorno farà il medesimo; allora egli
comandò, che fosse trucidato, conforme crudelmente seguì; la povera sposa
rimase attonita da sì risoluto comando, c voltatosi lo sposo verso di effa , le
disse : Signora mia, quando le bestie non G poffono domare è necessario di
venire à queste risoluzioni : das dovero, che mutò ella modo di vivere, e di
leone divenne agnella. Vi fù parimente una moglie assai disobediente,alla quale
avendo ordinato il marito, che non fosse uscita di casa ogni giorno, e tornata
di notte, mà vedendo , che colle buone non ricavava profitto
alcupo; udite un giorno quello le fece nel [ocr errors] P 4
tor tornare a casa : teneva'pronte le forfici, e le recise i capelli,
dipoi le disse : oh adesso andare fuori di casa quando volete, che farete una
bella comparsa : sapete voi, che se ne aftenne, ed in avvenire fu più
obediente a suo marito. Sem. Vedete voi, Publio', che con mostrarsi
risentito, si possono anco togliere i difetti donneschi? Pub. Questi sono
casi rariffimi, che felicemente riescano : I più frequenti però fanno vedere il
contrario. Nacque una volta competenza tra il Sole e l'Aquilone, a chi di loro
fosse riuscito più agevole, a togliere da dosso il mantello ad un viandante :
si adoperò con tuttas la sua violenza il secondo, mà, ftringendoselo alla vita
chi lo portava , non fu mai possibile farglielo lasciare : cominciò dipoi il
Sole, senza usare violenza, a percuoterlo coi suoi continuati raggi ; refiftè
egli per qualche spazio di tempo ; mà alla fine & spogliò non solamente del
mantello, ma del giuppone ancora; e da questa ápologo.com, pren:
[ocr errors] i prenderete se riesca più utile la violenob za , ò la
piacevolezza continuata per ri muovere i difetti donneschi : ed
Ovidio che le conosceva bene,così canto: Define, crede mibi,
visin irritare vetado Obfequio vinces aprius ipfe tuo. Sem. E
se fosse ostinata in non volere cedere mai, mai , allorsì , crederei , che
fosse d'uopo prevalera di quel rime dio contenuto in questi due versi :
.. Rendon più frutta donne , afini , e noci A cbi ver loro ha le mani più
atroci . Pub. E da cui apprendeste, Sempronio, modo sì ingiusto, e
villano das trattar le mogli? forse che dall'indiscreto Ercolano Sanese ? il
quale, conforme racconta il Dolce nel secondo del. le istituzioni delle donne,
avendo comprati certi tordi , mentre li stava mangiando con sua moglie, le
diffe ; se aveva mai veduti tordi più grassi di quelli ; vi replicò la moglie ;
ch'erano merli, mà , volendole far capire il marito, ch'erano tordi, non fu mai
possibile, crsendofi oftinata nella sua falsa credenza;alla fine, dopo le
contese, l'Ercolano fi avanzò a percuoterla col bastone, il quale non tolse già
la sua pertinacias; posciache in capo all'anno disse al marito, che in quella
medesima sera era Itata così malamente trattata per quei maledetti merli,
ch'egli diceva essere tordi ; e convennegli fare l'anniversario ancora , con
batterla nuovamente, come accadè in molti anni seguenti. Or vedere, che
profitto apportano le battiture alle donne pertinaci? Poteva l' Ercolano
crederli anche per storni; perche ciò non diminuiva loro già il sapore: mà, se
fosse egli stato sotto la censura di Catone, non averebbe certamente commesso
fimili attentati; imperciocch'egli voleva, che i mariti, che percuotevano le
mogli, foffero puniti col medesimo gastigo, che si dava a coloro,che rubavano
nei tempi dei loro Dei, come riferisce Plutarco. ES. Crisosto. mo nella umilia
26. epift. prima D. Pau. li ad Corinthios, così dice: Neque verberandam uxorem
dico , abfit: ultima nam [ocr errors] 201 [ocr errors][ocr
errors] namque ignominia eft non ejus qui verbe- ratur , fed qui verberat
&c. e dipoi , vos viros illud admoneo , nullum fit tam magnum
peccatum, quod ad verberan- dum uxorem vos compellat , per lo che
meritamente cantò il Guazzo: Offende il Cielose il santo amor
discioglie Quel che con empia man baste la moglie. Sem. E se
si credesse impudica, li ha da fare da Socrate in permetterglielo ? Pub.
Questo poi nò : fi dee bene fare da Socrate in non ingannarsi nel crederla
cale, quando non fosse ; perche alle volte la gelosia fà travedere le ombre per
corpi; e fa credere, anche le menzogne rapportate da uomini sceleraci per cose
vere; ed udite a tale proposito questo prodigioso fatto. Si trovava al servigio
di S.Elisabetta Regina di Portogallo un paggio di ottimi costumi, u perciò da
effa amato, di cui si prevale va per suo elemofiniero ; fu questi ca*
lunniosamente imputato appreffo al Re di soverchia confidenza verso la
sua pa. drona, ed anche reciproca di essa verso . di [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] di lui ; fu data credenza alla calunnia ; onde
il Re adirato fè ordinare ad un fornaciaro, che avesse gettato dentro
l'ardente fornace il primo paggio, che nel di seguente gli mandava; comandò
dunque all’innocente , che si portafíe colà; mà perche udà sonare la campana di
una chiesa, mentre era in viaggio, la sua devozione lo spinse ad andare verso
quella parte ove si trattenne in ascoltare più messe qualche spazio di tempo;
mà, perche il Reviveva impaziente di udire il successo, ftimò bene inviarvi
l'altro paggio calunniatore, il quale, essendo arrivato il primo , conseguì il
meritato gastigo, ch'era preparato per l'innocente : ed arrivato poi il secondo
portò al Re l'avvifo, di essere ftato ubbidito; e risaputali poscia las
cagionedal Re, perche fosse egli indugiato tanto, ben si avvide della sua
innocenza, e della giustizia di Dio. Viene riferito dal P. Crodier. Sem.
Mà corne potrò conoscere d'a. vere occafione di dubitarne con fondamento?
Pub [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Se voi per esempio non
ufafte a ad Jei tutta quella fedeltà dovuta , ò pure se per cafî
faceste conversare gioventù in più vistosa di voi, e con tutta libertà;
allorsì forse forse, che, se non fosse più, che la carta Penelope, ne potreste
alquanto dubbitare. Sem. Ed in questo caso, che dovrei fare per correggerla
, e gaftigarla ancora bisognando?, Pub. Bisogna , ch'esaminiamo prima chi
foffe il reo principale in questo caso, se voi, ò essa? Sem. Sarà essa
lei , perche io voglio, che sia pudica. Pub. Voi volere, chefia, e fate
ogni possibile, che non lia. Sem. E come? Pub. Con darle
primieramente mali esmpio col vostro cattivo modo di operare; e poi con darle
commodo di fare ciocche ella vuole. Credetemi, Semipronio , che le donne, se
non hanno il cattivo esempio dato loro di mariti, ad ditficilmente
s'inducono a far male, Scn 3 d Sentite ciocche dice a
tale proposito Euripide, Stulla quidem fumus mulieres,
non nego, Cum autem infit hoc animis , peccat
ma- ritus Faftidiens connubia , imitari vult Mulier viruń, co aliui
parare ama fium. Ed operandosi in questa guisa , tutto questo procede per
colpa de' mariti, e sentitene ora il parere de' Santi Padri, | S. Agostino così
dice , lib. 2. de adult. conjug. Periniquum effe videsur , ut pudicitiam vir ab
uxore exigat, cum ipse non exhibeat , ed inoltre dice , ui quales volumus
uxores noftras invenire , ipfe nos inveniant , du fi intactam quærimus, intatti
fimus ; c Lactanzio, de vero cul. cap. 2 3. Exemplo continentiæ docenda uxor,
ut fe caftè gerat , iniquum eft enim, út id exigas, quod ipse præftare non poffis;
e poco in appresso, uxorem ejus qui circa corrumpendas alienas uxores occupatur
, exemplo ivcitatam, aut imitari se putare,aut vindicare; e l'uomo di Dio
Giob così parla , fi deceptum eft cor meum fue 2 per per muliere, a
fi ad oftium amici mei infi diatus fum , fcortum alterius fit uxor mea,
od fuper illam incurventur alii , e notare quella parola alii, che
denota, che non sarà un solo. Sem. Ma se per colpa mia non venisse, ed
ella fosse sì pazza , che volcsse trau dirini, che dovrò fare? 1 Pub. Questo
sarebbe caso rarissimo, s poiche avendola scelta di famiglia ono rata;
non facendole mancare cosa alcu. na, e non dandole veruna occalione di
tradirvi, sarebbe una grandiflima ini. quità , fe lo faceffe ; in questo caso
dunt. que da principio dovere stare vigilantes alla di lei custodia con fare
molte caure diligenze. Sem. E da che me ne potrò avvedere? Pub. In
primo luogo dal suo affetto til vero, che s'intiepidirà verso di voi, ef
sendo che questo non può portarlo a dụe gel medesimo tempo Sam.
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse finta, come potrò di.
stinguere il vero dal fimulato affetto ? Mec. Con un poco di tempo ve ne
av. vedreste beniffino, con dirle, che volete fare un lungo viaggio con essa
lei, e cominciando a porre all'ordine ciocche fa di bisogno, per farvi
conoscere risoluto ; può essere, che da principio diffimuli, onde se vedrete,
che in progresso di tempo ella li contristi, almeno in assenza vostra , credere
pure, che qualche cattivo pensiere le va per las mente, essendo quaGi
impollibile , che chi hà simili attacchi, non si rammari. chi allorche dee
allontanarsi; e tanto maggiormente, quando non abbia avu. ta in altri tempi
repugnanza alcuna di viaggiare . Sem. Io che dovranno confiftere
l'accennate diligenze ? Pub. Principalmente in vedere, che fidata servicù
voi avete in casa ; posciache, se farà al vostro servizio qualcuno bizarro, che
faccia spese disorbitanti, di questi non vi fidate punto, che non
ten [ocr errors] di tenga mano, perche d'onde gli vengoo? no l'entrate da
spendere tanto, non ba stando la sola paga per far queste ? licenziatelo
dunque alla prima, e se il ma le da ciò procedeffe , tal volta potrebbe
in questo solamente bastare.In oltre sareb-'. be anche ben fatto, sospettando
voi dela la di lei fedeltà, d'intraprendere qualche viaggio ad onefto titolo di
devozio ne; con andare a visitare qualche Santi tuario ; ed in tale
occasione le userere, delle cortesic più del ordinario, per riscaldare
quell'affetto, che si era inties pidito verso di voi; e fatela girare un gran
pezzo, che così le ritornerà il rens no, che aveva incominciato a perdere; e
voi sapete, Dottore , quanto bene può apportare il viaggiare in questi
casi. Med. Certo è, che allontanandoci da quell'oggetto, che turba l'animo
postro, può quefto più facilmcórc cálmarfi , conforme lo conobbe anche Proper:
zio dicendo : Unum erit auxilium mutatis Cinthia terris Quan
1 [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Quantùm oculis, animo
tàm procul ibis. Amor. Ma per addurvi autoricà più propria vi apporterò
ciò , che ne dice Cornclio Celso : Mutare debere regiones , fi mens redis ,
annua peregrinatione effe jaDandos. Sem. Hò da farne alla prima risenti.
mento, cominciando a sospeccarne con fondamento Pub. Questa è materia
molto gelofa ; onde con prudenza grande doverà cratcarli, e con molta
circospezione. Mec. Così credo anch'io, rifetten. do a ciò, che dice
Ausonio: Toxica zelotipo dedit uxor maca ma wire. Sem. Mà se il caso si
avanzasse tant' oltre, che mi accertalli di tale misfatto? Pub. Due
rimedi ci sarebbero, un o legalc, cl'altro suggerito dalla somma
prudenza , o fancità, Sem. Lasciamo il legale ; l' altro qualid? Pub,
Marc'Antonio Filosofo Impera [ocr errors] bi tore prudentissimo diffimulò,
come rac conta Giulio Capitolino ; il gran torto 1 fattogli da Faustina
sua moglie, dicenddo di esso : tantùmque abfuiffe , ut de cas ejufque
adulteris fupplicium ex lege fumeret, ut illos fibi non ignotos (gran
virtù in chi tutto poteva ) pra ceteris ad ve#rios honores, &
magistratus promoveret s du in iis Tertullum, quem cum ea prandena sem
aliquandò deprebenderat. E S.Paolo Eremita, come vien riferito da Socr. in
fripart. historia lib. 1. cap. 2. Avendo ritrovato la sua moglie adultera, che
fec' egli. Nil aliud , quam tacitè subrifis, jureque jurando affirmavit , fe
nunquam cum ca concubiturum , ad adulterum au tem; tibi, inquit , tam
babeto, & cuma 1 difto adberemum abiit . Mec. Rimali sorpreso da
maraviglia, Dottore, quando lesti nel lib. de cap. util. ex adverfis , come mai
il vostro Carda no autore di esso ;' uomo sì celebre, vi * abbia posto
gli utili , che ne' possa ri portare il marito dalla moglie adultera ;
pour essendoche quanto da fimile misfattorisulta , è tutto danno, e'
vituperio. Med. Non parla ivi il detto autore dell'utile onesto, e
decorofo , mà bensi di quello, che si ricava (per servirmi della frase di
Tacito) Ex induftria facinorofa ; ed avendo egli intrapreso l'affunto di
ricavare da tutte le avverGità quell'utile, che ponno dare, da questo non si
poteva ritrarne altro che un vàntaggio viziolo e detestabile chiamandolo egli
medesimo:surpe auxilium. Sem. E se li moftcafie gelola di me? Pub.
Sarebbe segno, che molto vi amasse, nel qual caso, facendole cono. fcere, che
sono vani quei sospetti, che concepisce di voi, che vivete, comes debbono i
buoni mariti, farebbe colas facile, che deponeffe tal gelosia. - Sem. Ma
se non vivefli offervantiflimo, ed andafli in qualche luogo un poco fospetto,
solamente per divertirmi , mà fenza fare inale alcuno 1 Pub. Evoi
tralasciate di andarvi,che così cesserà ancora.la gelosia; altrimensi quel
vostro divercimento xi.cofterà са [ocr errors][ocr errors] caro ,
togliendovi la pace domesticas; e rifertere di grazia allo spaventofo fuccesso
seguito nell'isola di Lenno; ove, le donne per gefolia z ch’ebbero, che i loro
marici fi foffero invaghiti di alcune belle schiave, congiurarono contro di
essi talmente, che divennero ftudiofamente tutte vedove in una notte : oltre di
che, udite ciò, che dice l’Ecclefiaftico al 26. Dolor: cordis , do luctus
mulier zelotipa : : Sem. Mà se pretendeffe poi,che io so. disfaccffi al
debito matrimoniale di vantaggio , che fosse convenevole, cho dovcrò
fare? Pub. Avendola voi scelta di buoni coo stumi, non avere da temere questo
; se pures non ile darete occasione di farlo! Sem. E quale sarebbe questa
? 15,368 Pub. Potrebb’essere il gran confumo di cioccolata , e
pistachiara , di rosolà, e vini generosi, e di altre cose, che
accendeffero il sangue , che si faceffe in * casa vostra ; orde basterebbe ,
che lo toglie te via ; imperciocche, [ocr errors] Sine Cerere ,
Bacco friget Venus . Sem. E se questo rimedio non baItasse? Pub.
Allor conviene ricorrere alla prudenza , con farle ben capire, che quello
sarebbe il modo da farla divenire prettamente vedova ; e che per non farle
provare una così infelice fyenturas, dovete opporvi alle sue eccedenci
brame... Mer. Ad un certo marito, che si tro. váva spesso in fimili
angustie , gligiovò molto il fare l'astrologo, posciache non mostrava già di
opporli a quanto deside, rava la moglie, ma bensì le diceva , ch' cra d'uopo
trovare prima nell'Effemeri. di, se in quel punto G farebbe generato figliuolo
sano ; ed alle volte le dava ad intendere, che sarebbe nato cieco, altresi
zoppo, onde in questo modo operava tanco, che li bastava per indurre a fare a
suo modo la credula moglie . Sem. E se non volesse applicare a farai
domestici, come mi doycrò conteacre ? Pub. 7 [ocr errors][ocr
errors] #1 Pub. Bisognerà , che voi claminiace boy bene d'onde ciò
provengà ; pofciache, se nascesse per cagione di qualche indis1
posizione di testa sopravenutale il non ad potere applicare i converrebbe,
che voila comparifte, cd in tal caso potrcbI be fupplire la matróna a
quanto ad ella spettava, 18 Sem. Si che dunque non potrò fare di
meno di non provedermi di questa matrona , potendonc avere bisogno grande di
essa? Pub. Questo non è da porta in dubbio, fe bramercte, che la
direzione della vostra casa vada bene, e non vorrete voi medefimo fare da
donna', Sem. E se non provcnifle dall'accennata cagiones Pub.
Doverete anche informarvi, se ciò procedeffe, perche qualcuno voftro favorito
le volefle fare da sopraftante, il che non sarebbe conveniente, ed in tal calo
to doverefte ammonire a defi. ftate, quando nollo vogliate rimuovere, ed allora
vedretc, cho e Ha sarà appli ciui 1 [ocr errors] cata, ò pure
, se si divertisse ia altre cose per dare sodisfazione a voi, ael qual caso non
potrebbe applicare alli facci domestici : per esempio, se vi veniffe voglia, che
imparasse, a sonare, a cantare, e ballare, ò pure qualche linguage gio
straniero , certamente, che non potrebbe ella applicare con attenzione a tante
cose ; onde mutando voi fimile pensiero la vedrete tornare attentissima alle
cose domeftiche, Sem. Mà se non vi fosse alcuna delle fudette cagioni ,
mà che per il suo catcivo nacurale volesse inquietarmi con operare da pazza,
che doverò fare? Pub. S. Crisostomo insegna in questi casi gell’amilia
26. epist. 1. D. Pauli ad Corinthios, che cosa si debba fare: cioè quello,
appunto, che pratica un buono agricoltore nel coltivare il sao campo, il quale,
fe lo conosce sterile, procura di ajutarlo con industria, per farlo divenire
fecondo ; e non per questo, sem mentato che abbia ivi il grano, nafcendovi
dell'erbs.catcive, si duglefe. co, perche le abbia prodotte ; mà beni sì con
sofferenza grande le carpisce a po co a poco , senza danneggiare
punto quel seme di frumento, che ivi vede - germogliato. Or perche non si
ha dad praticare il medesimo colla moglie? fors' ella è meno meritevole
del campo di ricevere simili ajuti ? è forse il seme umano inferiore a quello
del frumento? ed udice ciò, che dice il fudeko Santo: quotiescumque aliquid
molefti domi contigerit, fi quid uxor peccaverit , confolare, cu noli marorem
augere Licèt enim omnia proiicias, nibil, moleftius continger, quàm non, babere
benevoham domi uxorem; licèt quodcumque dixeris peccafuni, nuha lum magis
dolendum , quam cum uxorlu Jeditionem habere. Quod fi inuicemones ra ferenda
funt , multo magis uxoris, fi pauper fi, noli exprobrare fistulta, noli ei
infultare ; fed efto modeftior . Etes nim tuum membrum et Garo una fa&i
cfis. Sed falta eft cbrid auracundai Igitus dolendum eft , nox irafcendum ut e
poi soggiunge. Quod fi vorberaveris [ocr errors][ocr errors] exafperabit
morbum ; afperisas enim mare fuetudine , , non alia afperitate disolui
Sem. E sc le veniffe voglia di vedere tutte le comedie , andare a' festini , c
di frequentare tutti gli altri divertimenti, che doverò fare Pub.
Arendola alla prima assuefatta diversamente, come potrà venirle tale volonca ?
E quando in particolare averà più figliuoli, ò pure farà anche gravida: non li
potrebbe dare altro caso, che le faceftc mutare costume voi mcdefimo, divenendo
curioso , c vagabondo : mantenetevi costaoce nel ben operare i ch'ella ancora
persevererà nelles medefima forma; ed usatele ancora in quei tempi qualche
amorevolezza di vantaggio, per tenerla contenta . Mer. Questo lo credo
anch'io ben fatto, avendo conosciuto un certò marito , cui era discaro, che la
sua moglie, c figliuole fossero andate alle comedies & ad altre publiche
feste, mà che cosas egli faceva ? in cambio di questo , leroy [ocr
errors] o galava in quei tempi frequencemente, dando loro l'equivalente a
quello , che averebbe potuto spendere in fimili died vertimcoti; e
quantunque ad effe dispia cesse per allora di non andarvi, nulladi. meno
vedendo quelle insolite cortelier, si consolavano, e terminato poi
ch'eras # quel tempo, diceva la madre alle fi gliuole : nulla averemmo guadagnato
di buono , se fossimo state alle comedie, dove che da non averle vedute, ne ab.
biamo ricavato molto; e poi per verità erano una volta proibice alle donne
certe feste notturne, come da Tito Livio, lib.g.Dec.4. fi ricava,che in
compendio, e questo: Viri per noctem fæminis, dousenere etati turpiter
miscebantur . Qua nc comperts , fuere S.C. fublata, din mulros animadverfum
fuit. E Svetonio lo conferma nella vita ancora di Octaviano Augusto Sem.
Ditemi finalmente, se uno avefin se pensiere di sposare una vedova , come du fi
doverebbe regolare in diriggerla ? Pim. Se questa averà avuto un
mari [ocr errors] Ate condizioni unite è cosa difficilissima ,co
saggio, sarà facile parimente, che un altro faggio marito la poffa regolare, mà
elsendo stata assuefatta di fare a sno - inodo, non si potrà mai piegare a far
diversamente : posciache una pianta assodata con cattiva piega, non si può più
addirizare. Io non consiglierei a prendere queste per moglie,se non chi(quando
fosse tuttavia in età di farlo) si trovarfe molti figliuoli, e non avesse tempo
d'invigilare attorno ad effi; e che fosse pienamente accertato, che la detta
vedova avesse dato faggio di somma prudenza in casa del defonco marito; e che
in oltre non avesse figliuoli proprj, nè fosse più in iftato di farli, e li
trovaffe prospera falute; mà chi abbia tutte que di trovarla dall'altro
canto non essendoci queste, si prepari-pure a soffrire molti travagli, chi
vorrà applicare a fimili matrimonj , poiche queste fogliono effere troppo scaltrite
. Sem. Vado riflettendo, che molti di Q uesti buoni consigli non saranno
prati [ocr errors] [ocr errors] [merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][merged small] cabili nei nostri tempi, onde se I ddio non
ci provede , non sò come potremo più softenerci in avvenire . Pub. Perche
non sono praticabili forse che non dipende ciò da voi? Sem. Dipende da me
, mà è dura cosa di essere il primo riformatore degli abusi. Pub. Non si
fanno già queste riforme colla corda al collo, come disponevano le leggi di Ligurgo;
c poi non sareste già il primo voi , essendoci i Curj oggidi ancora, ma questi
non si rimirano già per non averli da in mirare; onde questo sarebbe appunto
quello , che vi doverebbe animare a farlo : posciachei non volendovi gli altri
seguitare, non riferterebbero con attenzione a quello, che voi operafte.
Sem. E nella ventura Conferenza sopra clie fi tratterà? Pub. Bisognerebbe
confolave quelle povere mogli-faggie, che G abbattono in mariti viziofi, ed
insegnare loro coinc debbanfi contenere in simile sveninca.CONFEREN ZA X.
Sopra i ripieghi prudenziali, che debbonsi prendere in diverse occorrenze dalle
mogli saggic, incontrandosi in viziosi, ed indiscreti mariti.
Sempronio , Publio, Mecenate , € Medico. Semi mag Iferitemi , Publio
, quali sono i vizj,de' mariti cattivi. Pub. Questi sono
molti, e forse non minori di quelli delle mogli pellime : iinperciocche ,
fe farà egli trascurato, da tal difetto ne verrà il precipizio di tutta la
casa: se prodigo peggio che peggio : se avaro , farà mancare ancora quello ,
che sarà necefsario : fe fcapestrato, guai a quella povera moglie, che dovrà
combattere fe [ocr errors] [ocr errors] seco : se giocatore , fi
porrà a peri. colo in una sola notte di perdere quan, to egli possiede : se lascivo,
non li con. tenterà dell'onesto : fe affatto impotente, poco amore per lo più
suole avere verso la moglie : sc goloso fuori dimo. do, oltre di soggiacere a
continue in. fermità , sarà oppresso anche da dobbiti. Or vedere in che miserie
Gi troveranno le saggie donnc in mano di costoro ? E se per disgrazia fi
abbattessero ancosa in taluno debole di senno, che avesse appresso di se
qualche servitore fcal. trito, il quale lo dominaffe, c lo facesse fare a suo
modo, oh quanti disaggi se converebbe soffrire ! Sem. Come dunque li
doverà regolare una donna saggia , ed attenta col 04rito trascurato ?
Pub. Con ama rlo teneramente, quancunque fi avveg ga della sua trascurag.
gine. Sem. E come lo potrà fare? Pub. La prudenza le infinuerà di
far. lo, per vedere , fe per questa via lo po acres [ocr
errors][ocr errors] réffe indurre ad essere applicato,, perciocche, fe per sua
sventura facefle il contrario, e cominciasse a sgridarlo , certamente ch'egli
si mostrerebbe assai più trascurato ; e credete pure per co. fa certa,
che colle buone più profitto ne ricaverà, che irritandolo. Sem. E se
vedeffe , che ciò non ostanu Te', continuasse ad cssere trascurato , doyrå ella
perfeverare in questo grand'amore? ... Pub. Senza fallo ; anzi che, invece di scemarlo;
più costo, glie lo dee accrescere; poscia sche, se non sarà più , 'che'affatto
iosensato , fi avvedrà alla fine, che lo ama di puro caore ; ed accertatoli di
questo, come potrà fare di meno di non amarla anch'effo ? Platone, allorche gli
fu riferito, che Zenocrate Two scolare enipiamente parlaffe di esso, * *ffpofe
: non essere credibile : ut quem tantoperè amaret , ab eo invicem non di
ligeretur; ed intal proposito dice Sene• Ed Lpift.g. Ego tibi monftrabo
amatorium Dane medicamente fine berba , fine ullius 0 [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] er veneficæ carmine ; fi vis amari , amau. :l Ed udite
anche ciò, che dice S. Ago stino : Nulla est major ad amorem in vitai tio
, quam prævenire amando. Sem. E che le gioverà questo reciproco amore ,
quando le cose domestiche andranno di male in peggio? Pub. Assai più di
quello , che voi credete; imperciocche quando sarà ac. certata di questo
reciproco amore, ed informata insieme dei disordini domestici, in certe
congiunture, che le donne fanno prendere, lo saprà con dolci maniere
ben'effa illuminare. f Sem. Ed illuminato , che fosse, se non sarà capace
di operare di vantaggio, a che gli potrà servire ? Pub. A molte cose ;
imperciocche prenderà ben' ella un'alera simile congiuntura, e ne otterrà ciò,
che saprà bramare; che farà appunto il maneggio dispotico della casa : e vi
pare, che questo amore abbia operato poco a far. le spuntare tanto dominio?
Sem. E se glie lo negasse ? R Pube [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Non è possibile, che ciò
faccia, se pon farà più che inumano . Sem. E se fosse ? Pub. Allora
converrebbe prendersi altre vie, senza però scemare punto del suo cordiale
affetto. Sem. Queste quali sarebbero ? Pub. Essendo egli trascurato
sarebbe cosa facile, che potesse la saggia donna trovare qualche buon canale
fecreto,da far penetrare a chi comanda lo stato, nel qual li trova quella
infelice casa. Sem. Basterà poi questo , per farlo divenire
applicato? Pub. Oh quanto opera tale istanzas fatta da faggia, e pudica
moglie ! si udirå all'improviso dichiarato unEconomo al trascurato marito, e si
verificherà in Jui il proverbio di Salomone : Qui ftultus eft ferviat fapienti
; ò pure quell’al feruus fapiens dominabitur stultis filiis : e recherà
ammirazione, che non potrà penetrare, donde fia provenuta tale istanza, non
potendosi egli mai persuadere, che l'abbia procurata la sofferentiffima moglie.
Ed ecco rimediato a tutto senza strepito, e concesa alcuna;
non dovendosi a queste esporre le fag- gie donne; conformc lo dimostra il
la- crificio, che costumava presso i gentili farsi 2 Giunone Dea
delle nozze, cui non ardevano già le vittime, alle quali non era
stato prima levato il fiele, eget- taro via , per denotare, che non
deb- bano mai marito, e moglie adirarsi in- fieme.
- Sem. Qualche volta però è riuscito alla moglie, che ha mostrato
perto , di ottenere ciocche voleva da suo marito. Pub. Sì
bene dal marito prudente,mà non già dall'imprudente , e vizioso . Santipre non
averebbe già fatto fare a fuo modo , fe invece di Socrate foffe stato marito
suo l'Ercolano, di cui parlammo ; e ragionando noi ora de' mari. ti viziosi, e
mogli saggie, nulla gioverebbe a queste,il mostrare petto;anzi facendolo
doverebbero cancellarsi dal numero delle prudenti. mi Se fosse prodigo, come
ella si [ocr errors] dovrà contenere ? Pub. Oltre di amarlo, come
si è detto di sopra, dovrà guardarsi dal riprenderlo soverchiamente, e con modi
aspri per non irritarlo maggiormente; insegnando Plutarco, che l'austerità della
donna dee, come quella del vino , renderá giovevole, e grata , non già amara, e
dispettosa, conforme quella del. l'aloe. Sem. S'indurrà facilmente la
moglie, per goder ella ancora de' suoi fcialacqui, a non riprenderlo.
Pub. Non è così ; perciocche la donna faggia patisce fuori di modo, nel vedere
dilapidarsi la casa; anzi che procurerà di non goderli per quanto può, u fi
conterrà nel vestire pulita si, ma senza alcuna vanità; mostrando Plutarco, che
l'unico mezo per acquistarli la grazia del marito, fia la vita esemplare,
lontana da cutte le vanità superflue : cu quando il marito, la volefie forzare
a far diversamente, sarà capace di scusarfi con un santo pretesto di
divozione, dal [ocr errors][ocr errors] dal quale venga moffa a
vestirsi di unj abito votivo, cd accompagnerà ancor'a questo astinenze, ed
orazioni, per ottenere da Dio la grazia , che il marito fi ravvegga. Sem.
E le ciò non ostante, egli continuafle nella medelima forma , non sarebbe pur
ineglio, che godesse ancor essa, potendo in tal guisa dar gusto as suo
marito? Pub. Non lo farà essendo prudente; perciocche considererà , ch'
essendo due a dilapidare, più prestamente si darebbe fondo a tutto ; mentre due
deAtrieri, che concordemente corrono al precipizio, poco indugiano a cadervi;
dove che, quando uno di essi è refio, lo può ritardare di vantaggio. Sem.
Sin ora però non iscorgo riparo alcuno. Pub. E credere voi, che il marito
, vedendola così ben composta, e così esemplare nella modestia, a lungo andare
non s'illumini? Quello esempio, çh'egli avrà continuamente avanti gli
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] occhi, sarà di tanta efficacia , che
finalmente lo farà rayvedere : ed udite ciò, che dice Euripide a cale
proposito: Domiperdam etiam virum probibet UXOR Bona , ci
conjuncta , fervat domum. Mà meglio ancora apprenderete tal verità da S.
Crisostomo in Joan. Homil.60. Nil potentius muliere bona ad inftruendum, &
informandum virum, quodcumque voluerit : neque tam lenitèr amicos, neque,
magistros , neque Principes patietur, ut conjugem admonentem , atque
consulentem . Habet enim voluptatem. quamdam admonitio uxoria, cum plurimùm
amet, cui consulit. Multos poffums afferre viros asperos, immises per uxores
mites redditos, & manfuetos; ipfa enim mensa, lector. E conclude:fi prudens
erit, & diligens, omnes vincot. Sem. Tutto questo bene si potrà
ottenere, allorche avrà dilapidato ogni cosa; ed à che le potrà giovare
l'effersi tanto affaticata, allorche averà ricevu., to il colpo facade?
Pub. [ocr errors] Pub. Non è così, Sempronio ; perche se indugiass’egli
molto à ravvedersi, non già trascureranno i propri parenti ò pure colui,
che aveffe con autorità suprema a porgervi riparo, mossi dalla gran sofferenza
della saggia donna. Sem. Ma non sarebbe rimedio più speditivo, che
intentasse la donna il giudizio contro di esso, per farlo dichiarare
dilapidatore? Pub. Questo non farà mai chi è saggia; perche considererà
molto bene, che dopo un simile paffo non vi sarebbe più pace tra loro : e poi
diciamola giusta, per via di liti, se facesse il marito comparire, che in vece
di effere dilapidatore, fosse più costo economo, che cosa se li potrebbe fare ?
sapete pure, che i raggiri non mancano. Sem. Quale sarebbe dunque il
rimedio per ovviare fimil male , quando colle buone non si potesse ottenere
? Pub. Di porre un'altra testa capace à governare bene la casa, in vece
di quella, che governava male, qual sarebbeappunto un'altro Economo, per fare
verificare ciò, che dispone l'Ecclesiaste: Servo fenfato liberi serviant
. Sem. Io bisogna, che parli, come la intendo: ho veduto alcuni Economi
in breve tempo arricchirsi con queste ainministrazioni; onde non vorrei, che
simili economati servissero di apparenza; mà che poi in sostanza le cose
continuaffero nella medesima forina ad andar male; con questa differenza solamente;
che quello , che si deteriora, non apparisca, passando nascostamente in borsa
dell'Economo; il che mi perfuado , che possa esser'errore peggiore del primo ;
mentre facendolo il padrone confumerebbe il suo ; mà l'Economo fi apo
proprierebbe quello degli altri. Pub. E di quelli , che hanno
amministrato con ucile considerabile dell' economato, ne avete veduto
alcuno? Sem. Di questi ancora. Pub. E de' prodighi , chi avete
osservato, che non abbia dissipato tutto il fuo? Serg Sem. A
lungo andare niuno. meh Pube Or dunque complirà alla Repu blica, che vi
sia detto economato; e 1 particolarmente , se la moglie sarà pruI dente, e non
vorrà anch'essa approvece ciarsi di qualche cosa; nel qual caso i non potrà già
l'Economo fare dispotica mente a suo piacere, avendo ch’invigi li
attentamente alle sue operazioni : 0 i poi se questi si arricchiscano, ponno
far lo con altri impieghi onoratamente , essendo uomini di somma
abilità. Sem. Mà non sarebbe meglio, che separasse la sua dote, e riconoscesse
il fuo? Pub. Queste voci di mio, e tuo non sonavano bene alle orecchie di
Platone; e le detesta Plutarco in bocca delle mogli, volendo che tanto il bene,
quanto il inale sia comune tra efli: ed io credo, che questa reciproca
comunanzas fia molco vantaggiosa per il marito; pera che se la moglie crederà
per sue ancora tutte l'entrate della casa, non ispenderà con tanta facilità
queste in cose sus per: [ocr errors] perAue , essendo le donne di
natura tenacissiine nello spropiarsi del proprio. Sem. E se foffe Avaro a
quel segno, che per ingordigia di cumulare moltoro facesse mancare il
bisognevole alla moglie, ed a' suoi figliuoli ? Pub. Questo non dovrebbe
farsi, e da persone civili maggiormente, essendo padri di famiglia ; tanto per
non dire a’figliuoli mal'esempio , quanto perche dee l'uomo civile lasciare a
posteri gloriosa memoria di se medesimo; questa non si acquista già mediante
l'oro viziosamente radunato; perche non sarà più suo dopo morte, passando all'
erede, per lo più prodigo, il dominio di effo, il quale scialacquandolo
ravviverà bensì l'ignominiosa memoria dell'Avaro, che lo cumulò; dicendo
ogn'uno allorche lo vedrà spendere malamente in bagordi , crapole, e luffi :
vedere dove và l'oro dell'Avaro ? onde à che gli sarà servito l'effere stato
tiranno di se medesimo nel cumularlo, e che bei vantaggi ne avrà riportato ?
Quindi è, che non 0. non senza inistero fà da un'ombra del
suo inferno domandare il Dante all'Avaro. Dicci , che 'l sai, di che
sapor è loro 3 Mec. Se l'avesse doinandato à Crasso, averebbe risposto
francamente, ch'era molto amaro amaro, come dice il Petrarca. E vidi
Ciro più di sangue avaro , Che Crafo d'oro,e l'un, e l'altro n'ebbe
Tunto alla fin, che a ciascun parves amaro. Mec. Fu data una bella
risposta à colui, che trovandosi presente al sontuoGislimo funerale fatto dal
figliuolo generoso al Padre zvaro, domandò ad un suo amico : che averebbe detto
il defonto se fosse risuscitato, ed avefle veduti tanti lumi di cera ardere nel
medesimo tempo, quando egli vivente, in casa sua, non pocea Coffrire , che più
di una lucer, na di olio ardeffe ; cui rispose : nullas certamente, posciache
tuito s'impic-. gherebbe in estinguere prestamente col suo fiato quei lumi,
affinche non li logoralsero di vantaggio; ayerebbe bensi [ocr errors][ocr
errors] mu mutato con sollecitudine il testamento; perche tal generoso
erede non gli sareb. be piaciuto. Sem. Vorrei sapere, che dovrà fare la
povera moglie, e come lo potrà amare, trovandosi priva del bisognevole?
Pub. Ciò non oftante conviene, che lo ami, lo serva, e gli faccia tutte le
maggiori finezze poslībili, con mostrarne anche piacere de' suoi sordidi
avanzi, fintanto che sarà divenuta padrona del suo cuore per regolarlo à suo
modo. Sem. E questo appunto egli defidererà; mà in tanto la meschina
patirà doppiamente, facendolo di contragenio. Pub. Abbia un poco più di
sofferenza; perche guadagnato , che avrà l'animo di esso, farà allora ciocche
vuole, essendoci moltissimi esempj di Avari fatti divenire anche prodighi dalle
mogli; onde quanto sarà più facile a renderli persuali, di dover fare le loro
convenienze: Mec. Si racconta dal Sabellico un ingegnosa maniera, della
quale si servi ladem faggia moglie di un Signore molto avatro. Questi per
ammassare quantità im mensa di oro, che si produceva dalle di miniere,
scoperte nel suo dominio, tei nea impiegati à tal opera tutti i conta
dini, che coltivavano la tèrra ; e perciò n'era nata grandissima carestia, per
la quale correva pericolo di essere tagliato in pezzi l'autore di essa, se las iaggia
moglie colla sua prudenza non lo aveffe illuminato. Questa dipoi di csferfi ben
internata nel suo affetto fè dan molti artefici formare coll'oro tante vivande,
quante n'erano necessarie in un sontuosislimo banchetto, e perfezionare
segretamente che furono , invitò fuo marito à definare nel suo
appartamento, e portatovig rimase egli ammirara allas prima, nel
vedere quel sontuoso imbardimento di vivande, tutte di oro, e fi persuadeva,
che ciò fosse itato fatto per ; una.vaga prima comparsa ; mà rimirane. do in
appresso, che non compariva a'.tro, che oro in varie forme di vivaride lavorato
, le disse ; Signora ;, e quan do do verranno le vivande da potersi
mangiare ? Replicogli la moglie, che trovandosi tutti li contadini applicati alle
miniere , non si attendeva più à coltivare la terra ; onde bisognava
accomodarsi à mangiare oro, perche de' soliti comestibili già si penuriavad
affatto ; fi avvide egli del suo errore , e fe dismettere tal lavoro per
attendere à quello, ch'era più neceffario, e dopo piamente utile per la
conservazione del suo individuo. Sem. Essendo il marito scapestrato , che
cosa dovrà fare l'infelice moglie? Pub. Arinarsi di' una santa sofferenza
con amarlo più, che sia possibile . Sem. Maltrattando però anch' ellas con
fatti, econ parole; non sò, come potrà continuare ad amarlo, e
fopportarlo. Pub. Non potendosi cimentare seco la saggia moglie, non
potrà farne di meno; perche altrimentine anderebbe sempre di sotto ; come
accennò Ovidio nel secondo de' Fasti: Quid faciet? pugnet? Vincetur
fæmina pugnans • E parlando altrove d'Ipemnestra , le fe dire : Che
deggio io far del ferro? in che con viene Coll’armi una donzella 2 io più
conformi Ho le braccia , le man, la forza , ib cuore All'ago, all'apo
, alla conocchia, al fufo, Che all'armi crude, e bellicosi ferri . Laonde
sempre meglio farà à soffrire', 1 andandolo bensì illuminando a poco ad
poco con dolci modi, mediante i quali le fiere stesse depongono la loro crudel.
tà; e s'egli non averà un cuore più cru do di quello delleone , non
incrudelirà - certamente contro di essa, raccontando Plinio di questo
animale : ubi sævis, in viros, plus, quam in fæminas fremeres 1 veluti
natura eum docuerit mulieres mi tius, quam viros elle tractandas. E for
tuttavia perseverasse à rampognarla, si serva di quell'avvertimento, che
diero no [ocr errors] no i capitani di Ciro ai suoi soldati : che
venendo i loro inimici alla zuffa gridan. do , con silenzio gli avessero
accolti ; mà se tacendo, andassero efli ad inveftirli gridando; dal che ne cavo
Plutarco layvertimento, che debbano tacere le donne, allorche vedono i mariti
adiraci; quando sono mesti bensì debbano animarli, e dar loro sollievo con
affettuose, ed efficaci parole. Sem. Voglio credere, che la moglie manierosa
lo possa addolcire à fine, che seco non contrasti; mà fuori di casa come lo
potrà trattenere, che non prenda impegni di duelli, ò di riffe ? Pub.
Quello , che seguirà fuori di casa, essa non potrà cercamente impedirlo,
essendoche non dee andargli appreffo; lo domerà bensì in questo caso
qualcun'altro, perche vexatio dat intellecium ; onde maltrattandolo qualcuno, ò
effo altri, in ambidue i modi potrebbe mettere giudizio; poiche, feri.
ceverà, oh quanti mutano vita dopo di avere fofferta qualche disgrazia confi.
de. [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] derabile , e se
offenderà altri, il gasti. go ancora, che gli sovrasterà lo potrebu be far
ravvederc . Mer. Hò conosciuto molti di questi , che hanno perseverato
qualche tempo nelle loro stravaganze, e poi si sono domati, e particolarmente
quei, che hanno sofferte considerabili sventure. Pub. Alcuni di questi
ancora si ravveggono allor , che divengono padri di numerosa famiglia,
crescendo loro il pensiero di provederla , e particolarmente avendo molte
figliuole ; onde non dee mai la saggia donna disguItarsi con fimili mariti; dee
bensì raccomandarli al Signore , che li faccia ravvedere , ed abbandonando le
vanità mondanc, attendere al governo dellas sua casa più diligentemente, che
sia poflibile. Sem. Essendo giocatore, come dovrà regolarsi con esso lui
? converrà che lo seguiti anch'essa per darli sodisfazione? Pub. Per
andare in rovina prestamente, cosi potrebbe fare.Sem. Forse che nò; perche tal
volta perdendo uno, vincerebbe l'altra, e maggiormente, che sogliono le donne
vincere sempre ; onde potrebbero andare le cose compensate, e senza veruno
discapito. Pub. E se perdessero ambidue, bella compensazione , che
seguirebbe! Le donne possono vincere con licurezza solamente quando si
contentino di fares perdite maggiori,terminato il giuoco, è prima di
principiarlo; per altro sono anch'esse soggette alle perdite. Mec. E
curiofo,ciò che accadette una volta in mia presenza : giocava un mio amico con
una donna alquanto atrempata, ed avendo egli carte superiori, io gli disli, che
non le avesse scoperte, e fi foffe fatto vincere, giocando con una donna.
Questi mi rispose, che non las teneva più per donna altrimenti, avendo passico
li quaranta anni, mà bensì per uomo. Sem. Or ditemi , che cosa debbas
fare? Pub. [ocr errors][ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] Pub. Amare, e sopportare il marito, ed i suoi
difetti. Sem. Questa è la solita canzona; mà intanto in una notte
potrebbe giocarsi tutto il suo; ed allora che le averebbe giovato l'amare,
ed il sopportare? I. Pub. Dite voi dunque ciò, che dovesse fare per darvi
più opportuno riparo . Sem. Diricorrere, farqi sentire con iftrepito, per
impedire, che non potefse più giocare. Pub. Oh bene ! É non sapete voi,
che nitimur in vetitum ; onde questo sarebbe à appunto il motivo di fargliene
venire maggior desiderio di prima ; e se avesse dismesso per lo passato
il giuoco à meza notte, di farglielo durare in avvenire sino à giorno, per fare
dispetto all'imprudente moglie. Sem. Mà che dovrà fare questa infei lice
donna? Pub. Non altro, che sofferire , ed amare, più che mai, ed udite
ciò, che dise S. Ambrogio Sec. Offic. Quid tam ino. [ocr
errors][ocr errors] S 2 S [ocr errors][ocr errors] inolitum , atque
impreffum affe Etibus humanis, quam, ut eum amare inducas in animum, à quo te
amari velis? Sem. Penurierà la casa del necessario, non si pagherà la
servitù, i debiti cresceranno, le tenure deterioreranno, anderà tutto da male
in peggio, e questo sarà appunto il frutto del soffrire , ed amare. Pub.
Forse , che lo schiamazzo della moglie, quantunque giugnesse à quel fegno
descritto da Virgilio: Fæmineum clamorem ad. cæli fidera's tollunt.
potrebbe dare riparo à tanti mali? certo che no, mentre, come dicemmo,
diverrebbero maggiori. A tal pro- en pofito cade in acconcio la risposta , che
diede il Re Filippo à coloro, che lo fti- dic molavano à muovere guerra ai
Greci, i quali beneficati da esso sparlavano della sua real persona, che fu
quefta : Quanto peggio farebbero , se fossimo nemici la loro ? Sem. Però
se io fosfi ne. suoi piedi, [ocr errors] non [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] non potrei essere così amoroso di un marito,
che procura di mandare la casa in malora. Pub. E che fareste dunque di
vantaggio? 50 Sem. Sei iniei parenti non mi volesseed ro dare
ricetto in casa loro , me ne sta rei in un appartamento separato , e pro.
1 curerei di non trattarlo più; perche, come si suol dire : occhio non
vede, cuor non duole. Pub. Sarebbe questa certamente una gran pazzia conosciuta
anche da Eui ripide per tale; mentre egli fa dire ad Giunone; non esserci
altro rimedio più opportuno , di questo, per riconciliare gli
animi, che il conversare insieme , dicendo: Ho disegnato a
lunghi lor contrasti Ho giammai di por fine con un modo
Segreto, e nuovo a lor, unırli insieme. i Onde qual vantaggio
riporterebbe dallo ftare lontana dal marito, e di abbandonare affatto il
letto nuzziale , fe non di eternare le discordie? e se non sapete,
che [ocr errors] S 3 che cosa guadagna la donna , con fare la
disgustata, udirelo da Salomone: Qui confundit domum fuam poffidebit ventos ;
onde fi ritroverà alla fine colle mani piene di vento, e questo sarebbe appunto
tutto il guadagno, che averebbe fatto. Mec. Io, che in mia gioventù sono
fato amico di qualche giocatore , il qual faceva grosse perdite , in occalione,
che taluno di effi mi riferiva le sue sventure, non potevo contenermi di non
domandare, se la sua moglie n'era consapevole, e mi dicea, non avere potuto
farne diineno di non palesargliele, allora, che dovendo fodisfare la grossa
perdita già fatta , gli era convenuto più volte chiedere le gioje, per
impegnarle, non trovandosi pronto il danaro; cui replicavo : che schiamazzi
averà fatto ella trovandosi doppiamente disgustata ; e rimaneva ammirato
nell'udire, che qualcuna di effe con prontezza grande glie le dava ; e di
vantaggio mi riferiva, che non vi era già pericolo, che la trovasse colcata,
quando cornava quancunque avesse tardato molto; anzi, che con faccia molto
allegra li dava la buona sera, allorche lo vedeva comparire; e mirallegravo
seco dellas buona sorte, che godeva nelle sue sventure, essendosi abbattuto in
una sì prudente moglie; ne mi poteva contenere, avendo seco confidenza, di non
riprenderlo in tale occasione con dirgli:c voi siete sì crudo, che non avete
comparfione di farla ogni sera tanto parire: troppo fo, mi dicea egli ; perche
se non pensasli ad essa talvolta, che mi trovo sotto nel giuoco,chi sà quando
lo avessi terminato, e che perdita maggiore avessi fatto ; allicurandomi
inoltre che di tanti incomodi, che le aveva recati , ne averebbe avuta viva
rimembranzada à suo tempo, per farla godere, se soprayiyeva ad esso, pensando
di lasciarlas erede, non avendo figliuoli; conforme appunto è seguito ; onde la
sua sofferen· za , fu alla fine rimunerata . Sem. Ed in quei giocatori,
che avevano le mogli risentite, vi siete mai abbattuto? Mec. [ocr
errors] S4 Mec. In questi ancora, e domandan. do loro, che dicevano le
mogli allorche sapevano le loro grosse perdite, vi fu tra questi chi in tal
guisa mi rispose : il maggiore tormento, che io abbia allorche fo qualche
groffa perdita è di vedere inviperita mia moglie, cui chiedendo le gioje, per
impegnarle, me le hà sempre negate ; mà io l'hò mortificata con vendere altre
cose, ch'erano di sua somma fodisfazione ; affinche conoscesse, che io era il
padrone. Pub. Vedere dunque , Sempronio , quanto sia meglio soffrire in
questi casi, che fare risentimento; e voi Mecenate, di grazia cessate di dir
male più delle donne, avendo confeffato, che vene sono delle prudenti ancora
. Mec. Sono però queste di fimile natura rariffime, non contentandosi per
lo più le mogli di farli impegnare le gioje, e particolarmente à sodisfare per
le perdite fatte nel giuoco . Sem. Come debbonsi le mogli regolare,
quando scorgogo i mariti diviati a Pub [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] [ocr errors] mente, Pub. In niuna altra occasione si conosi
sce meglio la donna saggia , quanto in fi questa ; imperciocche le tocca sul
più 1 vivo; onde doverà adoperarvi cutta la prudenza poffibile per
divertirlo. Sine tanto, che il fatto sarà secreto, non dee darsene per intesa;
e se taluna lv rapportasse , che viene tradita da fuo marito , dee ella
replicarle con risentimento: ch'egli l'ama , e crede ferma che per questa
cagione non le possa fare un simile torto, dee però servirsi dell'avviso, per
rincontrare dalle mutazioni , che scorgesse in lui , tanto nell'affetto, quanto
nella stima verso di lei, se debba prestarle fede. Sem. Doverà dunque
lasciar correre trascuratamente, senza darci riparo , male fi considerabile,
una donna in particolare, che non gli da occasione alcuna di farle simile
torto? Pub. Ho udito dire da' Medici, che ci siano alcuni rimedi , che
sono peggiori del male, al quale si applicano ; onde non vorrei, che questo
fosse uno di quelli; palesatemi dunque voi qual credereste in questo caso
essere il suo ri. medio più valido , quando non vi piacciano i più beoigni
. Sem. Di fuggirsene immediatamente in casa de' suoi genitori, con animo
di non tornare più da suo marito. Pub. Questo appunto sarebbe uno di quei
peffimi rimedi, posciacche dandofegli campo libero in avvenire di fare, ciò,
che vuole, accrescerebbe non folamente il male antico, mà ne produrrebbe, anche
degli altri, che sono las totale discordia conjugale, ed il divul. garsi da
pertutto ciò, che non è bene, venga publicato. Sem. Che cosa dunque ella
dovrà fa , per non morire accorata , dimorando in casa del marito ?
Pub. Conyerrebbe , in questo caso principalmente , ch'ella ben apprendesse quel
consiglio dato da Platone as Zenocrate, qual fù : che sacrificate alle grazie ,
per essere più avvenente, che per lo passato ; e così con dolci manie.
re [ocr errors][ocr errors][ocr errors] re [ocr errors][ocr errors]
re potrebbe facilmente conciliarsi il suo affetto ; dicendo Salomone che:
Mulier gratiofa invenit gloriam. E quali debbano essere queste dolci maniere ;
non occorre, che mi diffonda per istruirne le donne, cfsendone di effe maestre:
diro solamente, che se la palma, ch'è un albero insensato arriva, come vuole
Plinio, à piegarsi, allorche stà vicino alla sua palma femina , volete , che il
marito ancora non si renda alle piacevoli maniere di una saggia moglie? Fu
interogata Livia Drufilla da una Dama, perche faceva fare ad Augusto marito suo
ciò, ch'ella volea ; così rispores : perche fo volentieri quello, che io
conosco essere di Cesare in piacere, e non ricerco i fatti suoi , come racconta
Dio. ne. Sem. E se faceffe praticare per casas una sua qualche
donna Atraniera, come la potrà tollerare ? Pub. Anzi la dee, per non
irritare maggiormente l'animo di suo marito, e farle corresie ancora, mostrando
di non essere consapevole di cosa alcuna ; conforme appunto fè Terzia Emilia
moglie del maggiore Affricano, la quale, non solament’egli vivente, diffimulò
di fapere, che suo marito amaya una fuas schiava, mà dopo la morte di
esso las fè libera, e la diede per moglie ad un suo liberto ; come racconta
Valerio Massimo. Ed Omero riferisce di vantaggio, che la moglie di Antenore
aveffe egual cura di un figliuolo fpurio di esso, di quello , che avea de
proprj, per non disgustarfi suo marito. Plutarco ancora racconta nel libro
delle donne illuftri, che Stratonica si prendesse il pensiero di educare bene i
figliuoli di Dejotaro suo marito, quantunque forsero nati da Elettra sua
serya : oltre poi quello, che dice la facra Genefi di Sara, ė di Rebech ab 16.
& 30. Sem. Questo però non lo porrà mai fare una moglie di spirito ;
non potendo questa soffrire un simile torto . Pub. Quefte, che hò
riferite , avevano spirito, cprudenza; ne mi persua [ocr errors][ocr
errors][merged small][merged small][ocr errors] deco, [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] derò, che possiate darvi à credere , che - Olimpia madre di
Alessandro il Grande lie non avesse spirito, e pure questa , venendole
rapportato, che Filippo suo marito era talmente invaghito di una giovine di
Teslaglia, che si credea communemente, foffe ammaliato ; volle conon scerla ,
ed appena veduta, che l'ebbe le disse : Tecum enim philtra babes, quanto mai le
parve bella ! e non fu questa picciola finezza il dire ad una sua rivale, che
rapiva il cuore di tuti. Mec. Io so, che alcuna di queste per aver
ricevute.cortesie obbliganti dalle saggie mogli, sono fervite di mezane , per
riconciliare l'affetto era effe,e i loro mariti : altre poi, che hanno ricevuto
strapazzi,sono state cagione di odj mag. giori tra essi ; onde seinpre hà
giovato alle mogli saggic, di non inafprire maggiormente la piaga con
irritarla. Pub. Un'ottimo ammaestraméto vien dato à queste da Plutarco,
ed è di non allontanarsi mai dal marito, perche facenda altrimenti, la rivale
diverrà af for [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors]
soluta padrona, non solamente del letto mà ancora della casa tutta, Sem.
Mà durerà sempre questo disordine ? Pub. Non durerà, perche la prudente
moglie saprà vincere col tempo las violenza dell'altra, come ben cspreffe Ofeo
Poeta : Capitur ergo ab infirmis celer, Aquilamque brevi testudo
vincit. E la testuggine appunto, essendo Gimbolo della donna onefta, non
recherà maraviglia, se questa ancora frenerà il volo dell'aquila, con aspettare
però l'occafione opportuna, la quale potrebbe essere, allorche li fa dimora in
villas, ove l'amica non fosse presente; ed il maggiore argomento che potesse
addurre per allontanarlo dall'amore impudico, sarebbe appunto di fargli
conoscere colle buone, il cattivo esempio, che ne prendono i figliuoli; con
insinuargli ancora,per giuoco,quel detto di una pudica donna, tratta å forza
dal Re Filippo: deh lasciami andare, gli disse, per [merged small][ocr
errors][merged small][merged small][ocr errors][ocr errors] na , Il che
tutte le donne , portata via la lucer sono simili ; mà se poi imitasse *
quella prudenre Gentildonna Sicilianad di cui fa menzione Lodovico Vives,
nel *' lib. 2. de Christiana fæmina , quanto mai u lo renderebbe à se
affezionato? Questas andava osservando ciò , che facevano i servitori,
che fosse al padrone marito suo più grato, e quello ella facea di sua mano
studiosamente; se bene talora con estrema fatica fua, quello poi , ch'era di
meno travaglio, fatica, e noja, comandaya à servitori. Sem. Mà quando non
fosse deviato altrove il marito, che cosa porrà fare la i donna savia , à fine,
che non ecceda con i essa lei in pregiudizio della propria falute ? Pub.
La saggia donna non dovrà mostrarsi renitente à fodisfare le brame di E fuo
marito ; ben è vero però, che dee'as 1 poco a poco, andargli dolceinente
infio nuando il danno, che potrebbe appor tare l'immoderata frequenza
degli arti conjugali , potendogli questi abbrevia Per que .
re anco la vita con danni notabili della sua famiglia ; e starà ben ella
circospet- ta nell'ordinare vivande, calorose per la mensa, ed
ancora nel tenerlo lonta- no dallo frequente uso del cioccolato,
erosolì. Crescere res poset nimiùm damnofa
libido. Come vuole Ovidio . Sem. Prometteste, Dottore, di mo. strarmi
sino à che segno poffa giugnere l'uomo in pagare il debito matrimoniale senza
discapito della propria salute. Med. Epicuro, Democrito , Averroe, ed
altri Filosofi ancora credettero, che sempre sia molto dannoso l'uso venerco :
Altri poi lo credono solamente, allora, ch'eccede i limiti dell'onesto.
Sem. Or io non voglio andare cercando malanni ; per battere al sicuro mi
contento starmene senza prendere moglie ; perche la propria salute mi dee
premere molto più della moglie. Med. Ditemi di grazia , Sempronio, senza
andare in collera : Voi che avete fpiriti generosi, fe venisse un
esercitoDell'Elezione della Mog. 289 per distruggere la vostra patria, per
salvare la propria vita, abbandonereste la difesa di essa é o pure vi porreste
ad evidente pericolo di morte per difenderla ? Sem. Sarei un gran
codardo, quando l'abbandonaffi; dovendo per sua difesa porre à pericolo la vita
con tutte le mie sostanze Meda E per conservare la vostra specie, la
quale può difenderla ne' suoi bisogni, perche ricusate di farlo? non ponendo
già ad evidente pericolo, nè vita , nè roba , contenendovi dentro i limiti
della moderazione, esponendovi in tal caso solamente à pericolo di soffrire
qualche moderato, e breve disaggio: e se voftro Padre fosse stato di questo
sentimento come farefte voi [ocr errors][ocr errors][ocr errors]
naro ? Sem. Converrà dunque farlo ; mind u questa moderazione nell'uso
venereo, in che doverà confiftere? Med. Primieramente in fuggirlo più,
che sarà possibile la state: dicendo Cel. co 10, aftate in fptum, fi fieri
poteft, abftinen. , dum ; e nell'autunno dice : neque autumno
utilis venus eft ; nel rimanente poi dell'anno non abufandovene sarà sempre
meglio per voi, Sem. Mà da che potrò comprendere tale abuso? Med.
Dalla stanchezza, che riceverete dopo di esso, perseverando questa, per qualche
tempo, nella forina , che descriffe Ovidio di averla osservata in un amante Vidi
ego cum foribus laljus prodiret amator Invalidum referens ;
emeritumques latus, Sem. E cadendo io in questo, che rimedio averò da
praticare? Med. Aftenervene per qualche tempo, dicendo Virgilio nella
Georgica; Nulla magis vires industria firmat Quam Venerem, cæci fimulos
aver tere Amoris, E di questo niuno meglio, che voi ne potrà essere
giudice s purche sia la voItra mente libera, e non preoccupatas
dall [ocr errors] [ocr errors] dall' estro libidinoso . Şem. E per
fuggire questo, qual ri# medio sarebbe opportuno ? Med, Il vitto
moderato, e la moglie - favia sono i veri antidoti per indurre moderazione
nelli cimenti di venere. Pub. Vedere dunque , Sempronio, quanto possa
giovare una saggia donnas nel fare prolungar la vita à suo marito ? prendetelo
dunque à buon fine, quan do la vostra moglie vi frenaffe in que1 fto,
facendolo per noftro bene. Met. Or io non vorrei starmene raffi, dato
alle donne sopra di ciò; perche affai di rado fi riceverebbe da effe tale
beneficenza;vorrei più tosto prendere l'efeinpio dai bruti, i quali , toltone
quei tempi prefisli loro dalla natura, non si ac. costano più alle
femine, nè tampoco ef: se appetiscono i maschi; ed udite come lo conobbe
bene Democrito riferito , Dottore, dal vostro Ippocrate nellas u lectera
scritta à Damageto; Anniversa riorum temporum ordo, brutis quidem
danimantibus coitus finem adfert , homo T2 verò [ocr errors]
[ocr errors] verò infano libidinis stimulo continenter agitatur. Sem.
Dandosi il caso, che il marito fosse impotente, ne viverà contristatas la
povera moglie di questo? Pub. Prescindendo dal rammarico, che averà,
trovandosi priva di figliuoli, credetemi , ch'essendo prudente, non fi prendera
di ciò fastidio alcuno;perche considererà ben'ella, che quel momentaneo diletto
è compensato da molti altri tormenti, che îi soffrono, non solamente nelle
cattive gravidanze, e laboriofi parti , mà quello, ch'è di travaglio maggiore,
nell'educar beoe i figliuoli , de' quali taluno alle volte riesce scapestrato
laonde se rifletterà à ciò che dice l’Ecclefiaftico al 16, Utile eft mori fine
filiis quam impios habere, aidarà pace essendo priva di elli. Sem. Io
conoseo alcune di queste sterili, che non fanno alcro, che sospirare; eso che
volentieri introdurrebbero il giudizio del divorzio. Pub. Ed io conosco più di
una di que [ocr errors] 2 fte, fte, che si
trovano nella medefima nave, le quali stanno contentiflime, e pensano
perseverare col suo marito fino allas morte, quantunque sia impotente. E forse
credono quelle , che il tentare questo divorzio sia qualche delizioso
divertimento ? Sappiano, che converrà loro esporsi à prove, e recognizioni ,
che danno molto da cicalare per tutta la citrà. Ed inoltre, facendo ciò,
mostreranno ancora di essere libidinose,deliderando avere più validi
mariti. Sem. Mà coine ci potrà essere pace i tra simili conjugi?
Pub. Se la moglie sarà prudente, non i ci sarà discordia alcuna ; perche vedenÛ
dofi il marito così impotente, procurerà per altre vie divertirla , se
non fürà del tutto disamorato. Sem. Mi persuado , che poco averà ·
da dolerâi la moglie del marito goloso , * quando però faccia anche ad essa
gufta10 re qualche delicata viyanda? Pub. Non è così; perche la donnas
prudente di questo fi rammarica al parodi tutti gli altri difetti, essendo che
fis mile vizio persevera per lo più fino allas morte ; onde con facilità grande
può far impoverire; conforme si legge nell' Ecclesiastico al 21. Qui diligit
epulas in egeftate erit, qui amat vinum, Q pin. guia non ditabitur . Oltre poi
imali, che suole apportare alla salute. Sem. Mà comc ci potrà dare
rimedio ? Pub. Conosco anch'io, che farà cola difficile il poterlo
affatto rimuovere, mà la prudenza, e l'ingegno donnesco potranno darvi bensì
qualche riparo , con guadagnarsi l'affetto del suo marito, il quale acquistato,
se le réderà à poco à poco facile à titolo di sanità, d'introdura, re qualche
moderazione ia effo : avvertali però, che la servitù rimanga in qual. À che
parte compensata di quegli avanzi della mensa , de' quali soleva partici- ;
parne, altrimenti questa per tal cagione sarà capace suscitare discordie traefo
sa, e suo marito, con inventare infinite menzogne, Sem. 11
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Sem, Ed abbattendosi con
mariti di la mente debole, come hanno da fare per di rimuovere dalla loro
grazia certi servis I tori favoriti, che li dominano ? Pub. La donna, che
colla sua pru. denza può giugnere à rimuovere dal cuore di suo marito caluna,
che lo porfedeya indebitamente, con quanta facilità maggiore potrà allontanare
questi,quando voglia abusarli della dilui grazia ; ed in ciò non occorre
istruirla di vantaggio, essendone espertissimas; basterà solamente accennarle ,
che faccia passaggio delle cose leggiere, e nelle gravi norf operi con violenza
grande, per non porlo in impegno di sostenerlo ; mà venendo l'occasione
opportuna in qualche fuo trascorso rilevante, gli faccia conoscere , ch'ella
non opera per passione, ma bensì per suoi vantaggi. Sem. E se aveffe
anche la Suocera cartiva , la quale consigliaffe suo figliuolo à Itrapazzarla ,
che cosa doverà fare? Pub. Di sopportarla , amarla , erispettarla , come
costuma fare con fuo [ocr errors] [ocr errors] marito ; perche non
nascono già per altra cagione le discordie tra suocera, u nuora , che dalla
gelosia , che hanno le madri , che i figliuoli amino più le mogli ch'esse, da
cui ricevettero l'efsere Sem. Mà se ciò non ostante continuarse à fare il
medesimo, non sarebbe me. glio di metterla in discredito appresso il figliuolo,
à fine che non le desse più credenza ? Pub. Questo non dee fare la donna
saggia'; dee bensì riflettere à ciò, che, fi costumava nella città di Lepidi in
Affrica per meglio imparare à soffrire. Racconta Plutarco, che ivi era
costu che nel giorno seguente alle nozze la sposa mandasse à domandare
alla suocera una pentola, la quale le venivad negara ; e questo si facev'à fine
che, non G sdegnafre, le in avvenire le avesse negato alcuna cosa. Sem.
Converrebbe ora discorrere fopra le stravaganze grandi, che nascono tra i
marişi çattivi, cle mogli peffime , [ocr errors][ocr errors] me ,
[ocr errors][merged small] Pub, [ocr errors] Pub. Non è certamente
neceffario parlarne ; posciacche, à chi darebbes l'aniino di consigliare
costoro, che sono incapaci di ragione ? Bisogna, che tra loro si aggiustino, e
fogliono per lo'. più essere concordi', perche niuno di loro può rinfacciare
all'altro i difetti, elsendone ambidue colmi . Il danno è bensì de' poveri
figliuoli , che non si educano bene, tanto per l'esempio cattivo, che danno
loro, quanto per la direzione, della quale eli penuriano : ben è vero però, che
quando questi li avanzano alle discordie', non effendoci mezo capace à poterli
più riconciliare tra loro, solamente l'autorità del prencipe può impedire le
rovine maggiori che possono nascere per i dilapidamenti delle loro sostanze, 'à
fine și non vedea ce mendichi i loro discendenti. Sem.Sarebbe però un
vantaggio grande, che tutti i mariti catrivi prendesse. ro mogli (imili ad essi
; perche alloran per i buoni rimarrebbero le buone solamente. Pub.
Pub. Succede frequentemente così , essendo questi portati dal loro genio ad
amare simili ad essi, secondo il pro-. verbia : aqualis æqualem delectat, ý
semper à fimili fimile amatur. Il che viene confermato dal Nazianzeno , di.
cendo: Pulli quidem pullis amici , coruique corvis , [ocr
errors] Et furnis sturni , puro autem pretiofus. eft purus : Meglio però
di tutti l'insegna l’Ecclesiaste: Diligit fimile fibi , dow omnis homo fimilem
fibi, omnis caro ad fimilem fibi conjungitur, omnis homo fimili sui sociabitur.
Onde se accaderà, che una catciva giovane prenda un buon marito non sarà già di
sua volontà, mà verrà bensì sforzata da' parenti à farlo, e das quefto nc
nascerà quello appunto, che, dice l'Ecclefiaftico al 26. Mulieris ira , o
irreverentia , & confufio magna: on- ; de guai à chi toccherà limile
infortunio. ; Sem. Mà che potrebbe fare chi li trovafle in simili
miserie?Pub. Di prevalersi di quest' ottimo consiglio, riferito.da Gel. in
Sat.Menip. Vitium uxoris's aut tollendum , aut ferens dum ; perche : Qui tollit
vitium, uxorem commodiorem præftat , qui ferte se fe meliorem facit. Sem.
E cui riuscì il potere far questo in core rilevanti ? Pub. Tra gli altri
à Socrate; come ris ferisce Plutar.de Choib. ira: il quale avendo seco à
defináre Euridemo, quando nel meglio si alzò in piedi Sancippe , e dopo di
avere caricato di villanie socrate roversciò la tavola in terra; onde Euridemo
si alzò in piedi addolorato per partirli; cui Socrate disse con gran Aemma: non
accadè poco innanzi in casa tua, che una gallina yolando fece l' isteffo ? e
pure niuno vi fu , che li contriftaffe disinile avvenimento; perche dunque voi
ora lo fate 2 Sem. Non si è parlato Gin'ora, come fì abbiano da regolare
le povere donne per iscegliersi un buon marito Pub. Nom dçe la donna sceglierli
as suo suo compiacimento il marito; mà bensì riceverlo da' suoi più
congiunti, e di questo ne parleremo nell'educazione de' figliuoli, mostrando le
diligenze, che doveranno farg da' padri å fine di provederle bene. Sem.
Spererei di sapere scegliere las moglie, ora che ini trovo in ciò istruito; mà
sposata che l'avefli mi troverei intricato nell'educare i figliuoli, quando
Iddio me li concedeffe, non avendo ancor appreso à bastanza il modo das
regolarmi per bene diriggerli. Pub. Nella seguente Decade tratteremo di
questo. [ocr errors][merged small] Sopra l'educazione morale de'
figliuoli CONFERENZA nella quale si mostra, che cosa sia educazione, cui
appartenga più di ogni altro; e se sia necessario
luogo particolare,ove debba farsi. Sempronio , Publio ,
Mecenate e Medico. [ocr errors] Sem. N che consiste
l'educazione? Pub. Nello svellere da gli animi de' tcneri figliuoli tutti
quei vizi, che spontaneamente germogliano in elli, e nell inestarvi in
loro vece i preziosi gerini delle virtù ; effepdoche, come ben'er preffe
VIRGILIO nella Georgica parlando degl'innesti ; Pomaque degenerant , fuccos
oblita priores, sem. Come! in noi spontaneamente nascono i vizj!
Pub. Non è da dubitarnę mentre nascono molti vizj con noi medesimi insę.
gnandoci il Profeta : Ecce enim in iniqui, tatibus conceptus fum ; du in
peccatis concepit me mater mea; verità conosciutas, anche da' gentili ;
posciacche Orazio così scriffe: Nam vitiis nemo finè nafcitur.
Optimus Qui minimis ur getur . E Democrito, che ; totus homo ab ipfo are
fu'morbus eft ; ed inoltre, che secondo l'età in noi germogliano i vizi propri
di effe, i quali se non saranno a tempo dçbito estirpaţi, quei della puerizia
fivedranno adulti nelle altre età; ma vie peggio ancora, che vedo verificarsi
ciò che diffe Orazio nell'Odę 6. lib.3. cioè i Ætas parentum pejor avis
tulit Nos nequiores, mox daturos Pro ille eft,
Sopra l'educ. de figliuoli. 303 Progeniem vitiofiorem , E da ciò comprenderece
à che segno debba essere ora l'educazione più esatta di prima. Mec. Ed io
che soglio conversare spesso co' miei amici ho veduto più di una volta, in
occasione, che questi as. pertavano qualche visita di soggezione, verificarli
ciò, che dice Giovenale nella satira, Hofpite ventura ceffabit nemo
tuorum ; Verre pavimentum, nitidas oftende columnas, Arida cum tota
defcendat aranea tela, Hic lavet argentum, vasa aspera fergeat
alter, Vox domini fremit inftantis, virgam. que tenensis.
Ergo mifer trepidas ne stercore fæda cao ning Atria difpliceans oculos
veniensis amici, Ne perfufa luto fit porticus, tamen uno Semodio
foobis , her emendat fervulusE quel ch'è peggio ancora , che vedo verificarli
appresso alcuni ciò, che se gue : Illud non agitas, ne sanctam
filius omni. Afpiciat fine labe domum, vitioqae
carentem, Sem. Vi concorre altro alla cattivas Educazione, che la
trascuraggine ulata in non eftirpare à tempo debito gli ac GE cennati
difetti Pub. Potrebbero anche renderla peg el gior e i cattivi esempj
dati a' figliuoli, luz dicendo Giovenale nell'accennata satira. Sic
natura jubet velociùs, du citiùs nos Corumpunt vitiorum exempla
domeftica magnis Cum subeant animos auctoribus . Quali
cattivi esempi potrebbero a’proprj accrescere gli altrui difetti . Sem. Mà
come possono essere capaci in di cattivi esempi i teneri fanciulli non
distinguendo questi ancora il bene dal male? Pub. Pub. Dice Plutarco
nell'educazione de' figliuoli, che s'imprimono gli ammaestramenti in elli
conforme appunta fanno nella cerà molle i sugelli, e che perciò il divino Platone
saggiamente avertisce le balie à non raccontare loro favole di ogni sorta
, mà solamente u quelle, che ponno essere giovevoli al buon
costume;confermandoci ciò S.Ba, filio, il quale, scrivendo à quei
dellas città di Neocesarea , confessò loro di ellere debitore di
una buona parte della sua divozione alla nutrice, la quale,non
perdendo mai alcun sermone di Gregorio, li serviva di molti belli derti
uditi da esso in tutte le congiuntùre, che se le presentavano per
imprimnerglieli benc nel cuore ancora tenero ; laonde saggia- mente
diffe Focilide : Mentre fanciullo lei, virtute impara , Ma oltre il
malesempio', pregiudicano anche ad elli molto le carrive insinua.
zioni, Sem. Ma questi mali esempi non sa. ranno dati già loro dai
genitori, quants [ocr errors] 3 ci [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][merged small] cunque fossero viziosi; perche
vediamo i ciechi desiderare i figliuoli bene illuminati, ed i zoppi, che questi
liano liberi, e spediti al moto: ne tampoco infinueranno loro cose
cattive. Pub. Così appunto dovrebb’essere, e pure ciò non liegue ;
posciache alcuni hanno voluto insinuare à i loro figliuoJini l'invecchiati
difetti da' quali esli erano contaminaci. Vi furono due di questi, di cui fa
menzione Enea Silvio libr. 1. comment.; che dediti all'ubriachezza procuravano
, appena slactati ch'erano i loro figliuoli, di affuefarli al vino facendone
gustare loro de' più generofi, che si trovassero; ed uno fti, persuadendosi ,
che non averle il suo figliuolo bastantemente bevuto vino di giorno, volle di
notte, in tempo chc dormiva,farglielo ingojare con un cannellino; mà perche
sonnacchioso corceva la bocca ingiuriò aspramente las moglie ; dicendole, che
non era suo fi. gliuolo legittimo, per non affomigliarsi ad esso, cui tanto
piaceva il vino. E vi [ocr errors] ed uno di que [merged small][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] re [ocr errors] recherà
orrore il sentire di vantaggio bu quello, che riferisce S. Gregorio di un li
esecrando bestemmiatore il quale ingi nuava ad un suo figliuolino di
cinque anni di ritrovare bestemmie anche infoJite, e riferisce ancora il
gastigo , che da Dio ricevette per sì detestabile dclitro, Mec. Mà senz'
and are cercando gli antichi esempi ; non ci è stato à giorni noftri un Padre,
che premiava de' suoi figliuoli quello, che cimentandoli co i suoi
fratelli, rimaneya vittorioso nel d fare à pugni ? cosa tanto crudele ,
che non fi racconta già praticata da Gladiatori Romani tra fratelli, Sem.
Le Madri però non saranno state così perverse nel mal'educarli, Pub.
Queste ancora sono state colpevoli di ciò; scrivendosi di Draomirad, :
Principessa molto vana, che per colpa fua diveniffe Boleslao parricida, e
fratricida ; dove che il fratello Vinceslao educato da Ludimilla sua ava
molto fagi gia, e pia divenne un Sanco , come nela la sua vita si
riferisce; e da ciò comprendere quanco di profitto apporti la buona
educazione. Mec. Questo non è da porfi in dubio, scorgendoli anche ne
bruti profittevole; mentre racconta Plutarco, che Licur. go per fare conoscere
tal verità a? Spartani fè comparire due cani , uno de quali era avvezzato per
la caccia, e l'altro, dedito in tutto alla sua naturale inclinazione, non
attendeva ad altro, che à leccare pentole di cucina, e nel mede: simo tempo à
vista loro fè portare anche una lepre, ed un carino di broda : nel vedere il
primo fuggire la lepre li pose a seguirla ; e l'altro se ne andò verso il
catino; soggiungendo egli a’Spartani: così faranno appunto i vostri figliuoli
ancora , se saranno, ò nò istruiti. Quindi è che avendo Tolomeo Re di Egitto
domandato ad un Savio quale foffe las negligenza maggiore, che regnava tra gli
uomini, egli prontamente rispore : ch'era la trascuragginc nell'educare i
figliuoli, mercecche da questa infinitimali ne potevano nascere: Sem. Mà
à chi dev'essere più à cuore questa educazione? Pub. A coloro, cui
dev'essa maggiormente premere, che sono i genitori, e questi debbono con
industriose, e diligenti manière spogliarli d'ogni difetto, e d'andare ne i loro
teneri cuori giornalmente istillando il prezioso liy quore delle virtù,
senza desistere mai; essendoche, come avvertì Plutarco questa voce
costume , pronunziata in lingua Greca, significa anche continuo esercizio, onde
da ciò si può comprendere che non ci vuole trascuraggine nell'educare i
figliuoli. Riferisce ORAZIO, le diligenze in ciò usate da suo padre; verso di
lui lib. 1. Sat. 6. che furono. Sed puerum est ausus Romam portare
docendum; Ipfe mihi cuftos incorruptiffimus omnes Circum doctores aderat , quid
mulia? pudicum, Qui primus virtutis bonos , fervavit ab omni Non
folùm facto verùm opprobrio quo que furpi. Santamente dunque ordina
Salomone ne' suoi proverbj : erudi filium tuum , do refrigerabit te, &
dabit delicias anime tudo Sem. Mà le saranno i Padri talmente occupati,
che non abbiano tempo das poterlo fare? Pub. Se averanno occupazioni più
riLevanti di questa, saranno compatiti, caso che nò, sono tenuti di farlo, e
non facendolo meritano la riprensione del vecchio Crate,qual disse;contro
costoro: Dove andate meschini, d voi, che nel cercare di farvi ricchi movete
ogni pietra; e nondimeno de' voftri figliuoli, a' quali lieto per lasciare le
vostre facoltà, vi prendere poco pensiero ; al che sog. giugne Plutarco, che
questi operano in quella maniera, come se alcuno governaffe bene le sue scarpe,
e de i piedi non fi curaffe punto. Or ditemi di grazias qual potrà essere
l'occupazione più riguardevole di questa ? Sem. [ocr errors][ocr
errors] [ocr errors] Sem. I publici affari, per esempio, oltre il decoro
personale, i quali ricercano somma attenzione, e si può dalli buona
amininistrazione di questi ricavarne molta gloria, e molto lustro, vantaggiosi
ai figliuoli ancora, onde perciò non potranno distrarsi per
educarli bene. Pub. E questo lustro, e gloria se si estingueffe
nc'figliuoli mal educati qual i acquisto averebbero fatto i Padri? Gli
Ateniesi nelle feste di Cerere faceano un misterioso giuoco, ed era , che
comparivano avanti l'alcare quei destinati ad effo à prendere ivi un luine
acceso, qual dovea porgersi ad un'altro , che in una decerininaca distanza lo
stava aspettando, per consegnarlo ancor esso ad altri, che in egual lontananza
lo atrendevano: se il detto lume si foss' estinto prima di giugnere all'ultima
mera , era in libertà di ogni uno beffeggiare colui in inani di cui si
estinguěya. E Platone fu di se. timento nelle sue leggi, che : gignentes,
alentes liberos vitam tanquam 1 lampada alii aliis tradunt. Or
figuratevi ancor voi, che questo splendore, che voi dite debba passare ne' posteri;
come rimarrebbe colui , che per la sua malas educazione lo estingueffe ? in che
ludibrj egli li troverebbe venendo da tutti, beffeggiato ? e sapendosi, che vi
ebbe colp’anche la poca applicazione del padre in educarli, dirà facilmente
qualcuno : quanto era meglio un poco meno di luftro, mà più durevole nella sua
descendenza. Mec. Da questo dunque procederà, che alcuni figliuoli di
uomini illustri sono di costumi tanto diversi da efli , che pajono più tosto
nati dal disonore, averanno quelli facilmente difefcato nell' educarli.
Pub. Plutarco ne adduce ancora un alıra cagione credendo egli che i fi. gliuoli
degli uomini illustri divengano facilmente superbi, ed arroganci; e lo comprova
coll'esempio di Diofanto figliuolo di Temistocle, il quale solevas, dire ne
cerchi, che tutto ciò, che li fos se se piaciuto sarebbe anco al
popolo d'A. tene piaciuto; perche quello , che voleva egli voleva la inadre; e
quello che la madre Temistocie, e quello che Temistocle anco tutti gli
Ateniefi. Sem. Credo però , che più comparibili polfano essere le Madri
se diferteranno in deira educazione, essendoche alcune di esse hanno impiegato
turte le ore del giorno in adornarli, in ricevere, ò fare visite, in passeggi ,
ò conversazioni; talmente che pochissimo tempo potrebbe rimanere loro di badare
a' figliuoli,quando non foffero diftrarte an. che nel giuoco . Pub. Già
sono capace, che premono oggidi ad alcune più i divertimenti, che i propri
figliuoli. E vi pare, Sempronio, che debbanli queste scusare? Non averanno
certameote occasione alcuna di lagnarli , se faranno questi cartivas riuscita
;. perch'esse vi hanno difettato non solamente colla trascuraggine, w cziandio
col mal esempio dato loro ies S. Girolamo scrivendo a Leta non diffgià, che
foss'esfa scufabile, dando a'figliuoli mal esempio, mentre così parla: Nihil in
te, & in patre suo videat , quod fi fecerit peccer . Sem. Non si
potrebbe supplire coiu Maestri, & Aij alla propria trascurag
gine? Pub. Si potrebbe in caso di necessità; mà però è assai differente
l'industria,che adoperano i propri genitori da quellas, che sia l'altrui, ed
eflendo questa à proporzione dell'amore , quanto maggiore sarà quella de'
propri genitori, che più di ogni altro li ainano? Si suol dire ingeniofus amor
, e questo appunto è quello, che li ricerca nella buona edu. cazione .
Sem. Se dunque li può supplire, saranno scufabili quei genitori, che
sostituiscono in loro vece chi lo faccia. Pub. Non per questo però
debbonli affatto allontanare da efsa, senza averci qualche sopraintendenza particolare,
e non usando questa non si potranno mai scusare, Mer. [ocr
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Meg. Siete Publio troppo rigoroso, e questo credo , che proceda , perche voi
foste l'educatore de' vostri figliuoli; mà non sono ora più quei tempi felici ,
ne' quali si pensava di lasciarli più rosto ben educati, che ricchi; non sarà
poco, che abbiano ora i figliuoli un Ajo di ti. tolo , che non li lasci almeno
precipi. tare in tutti i vizj ; onde da alcuni, che sono arrivati a conoscerlo
a è trovato quel santo ripiego di porli nei seminarj, assai giovanetti, e prima
che la malizia fi avanzasle in elli. Pub. Or io non mi sono curato di
porre i miei figliuoli in questi seminarj; perche ho voluto fare a modo del
Profeta , il qual dice : Filii tui ficut novelle oliva. tum in circuitu menja
tuk. Sono questi seminarj fantissimi,istituci ostimi per ap: prendere il rimore
di Dio, mà oh quanto fà di più quel Padre amoroso , ed actento, quella Madre
faggia, e divora, in educarli in tutto , avendoli appreffo di loro ! e questo
ben lo conobbe Orazio ringraziando suo padre della buo V è
C. na sua educazione in tal guisa . Laus illi debetur,à me gratia
major; perche : obiiciet nemo fordes mihi . Mac. Voi aveste però la
fortc,, che vi furono i vostri figliuoli, tanquam novelle olivarum ; perche, se
riflettiamo alli rami di elli, sono simbolo di pace , e tali appunto sono li
vostri ellendo dotati di ottimo naturale ; fe al frur. to, è vero
ch'essendo immaturo , inolto amaro, ma questo con industria diviene anche
dolce, ed il fimile è seguito in elli, essendo giovani; se poi final. mente al
sugo, che da' suoi frutti maturi si esprime, ch'è l'olio, questo non fà alcun
movimento, solendosi dire per proverbio : è cheta come l'olio , e contimnili à
questo sono anche i vostri figliuoli, contro de' quali aon si è senci. to alcun
richiamo fin'ora, e spero, che trovandosi già avanzati negli anni , cresceranno
sempre più in bontà: mà se in vece di novella olivarum Iddio ve li avelse dati,
come piante di mirto, questi non iftavano bene in circuitu menja tud.
Sem. [merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged
small][merged small][ocr errors] [ocr errors] Semi E per qual cagione,
producendo il mirto un fiore gratissimo ? Mer. Sì bene, mà però senza
alcun frutto, ed è pianta dedicata à Venere, e tra esli facilmente si annidano
i serpenti, e se fossero ftati di limile cattiva natura i vostri figliuoli,
Publio, come vi fareste contenuto con efli loro? Pub. Gli averei ben
domati io; perche più fieri de'Leoni non potevano già essere, e pur questi
coll'arre divengono mansueti, e vi assicuro, che non averei fatto da cerusico
pietoso; avendo appreso da Salomone il rimedio qual'è; nos li subtrabere' à
puero disciplinam ; fi enim percufferis eum virgâ, non morietur. ** Més. Sapete
pur, che Dione, con forme racconta Plutarco nella sua vita, per il soverchio
rigore usato , e fatto ufare, nell'educare il suo figliuolo, fu cagione, che
per disperazione cgli si precipitasse da una finestra : il rigore paierno non è
sempre moderato , per cagione, che il più delle volte questo parsa dal
soverchio amore, al foverchio deg no ; e poi i Padri vorrebbero in un
tracto estinguere tutti i difetti de’loro figliuoli, e questi han d'uopo di
tempo preparatorio non meno, che le valide medicine, come fa il Dottore.
Med, Questo è veriflimo, perche dandoli un violento rimedio, senza prepa, sare
prima gli umori, danno maggiore potrebbe apportare ; quindi è che il noItro
Ippocrate c'insegnò : Corpora cum quis purgare volucrit oportet Auida facere
, Pub. Però se Neocle non avesse usato tanto rigore , con arrivar sino à
privare della sua eredità il figliuolo , certamente, che la Grecia non avrebbe
avu. PC to il gran Temistocle, il quale ritrovan. doli in tali angustic
ricavò dalla necefficà la virtù, essendo che bene spesso : veWatio dat
intellectum . GULE Mec. Questo esempio appunto fa conofcere, che sotto
padri tanto rigorofi non possono educarli bene i figliuoli ; fpc posciache avendolo
diseredato lo mandò ancora fuori di casa, e perciò averàalırove trovato chi lo
cducasse con più discretezza; e poi questo fu un bene per accidente, il quale
assai di rado rie. sce con tanta felicità, rimirandosi dall' altra parte
infiniti, che discacciati da' propri genitori , datisi in preda maggiormente de
vizj, terminarono infelicemente la loro vita negli spedali, ò disperati, di
trovare modo da vivere, presero il soldo militare, per foftentarli in quel
breve tempo, che vissero . Pub. Or io sono di questo parere, che debbano
i propri genitori educare i loro figliuoli; perche, se saranno buoni , e
docili, riuscirà facile l'educarli; re poi perversi, ed ostinati niuno credo,
che potrà usare diligenza , ed attenzione maggiore di cfli: saprete pure quel
che seguì tra lo scolare, ed il maestro, fingendo il primo di studiare diceva
sotto voce : tu credi, che io studj, e non istudio, al quale sotto voce anche
risspoodeva il secondo : e cu credi, che jo mi curi di questo che nulla mi
preme. Mec. Voi dite orcimamche, perche fete capace di farlo, e fiete
anche pru. dente, mà come pretendete esiggere tutto questo da un
Padre imprudente, e vizioso, il quale non rifletterà punto à quel
saggio documento di Giovenale registrato nella Satira 14. il quale
è:Maxima debetur puero reverentia, so quid Turpe paras, nec tu pueri
contempferis annos, Sed peccaturo obfiftat tibi filius
infuns, Nam fi quid dignum cenforis feceris ira, Quandoque fimilem
tibi ; te non corpore Bantung Nec vuleu dederit, murum quoque
filius, & cum Omnia deterius tua per veftigia peccer. Pub.
Allorsì, che converrebbe tro- vare chi foffe capace di farlo , per la
ra- gione, che Giovenale medefimo appor- ta successivamente nella
Satira da voi citata : Unde tibi frontem, libertatémque
parensis Cum facias pejora fenex? Wacuumque cerebro Jampridem capul huc venioja cucurbito
quçrat . Mà però, che l'educatore insieme coll' educando dimorassero in propria
casa. Mec. E se in casa propria, oltre il mal esempio, la laurezza del
vivere ritardassero i loro progressi? Pub. Confesso,che in questo caso
converrebbe mandarli fuori, ed in paesi anche remoti; acciocche il mal esempio,
e la trascuraggine grande de' genitori, colà non giungeffero.Mà è possibile,
che questi, a' quali non dev'esser cosa di maggior premura di questa, possano
as proprio compiacinento dare mal efempio a' figliuoli? e poi se non sono
prudenti, perche s'inducono à divenire Padri ? Certa cosa c,che i figliuoli mal
ducati non apporteranno loro altro, che confulione, dicendo l’Ecclesiastico al
22. Confusio pat.is eft de filio in disciplinato. Mer. Il mondo oggi
corre cosi, mol. ti sono. Padri di nome, e solamente perche li hanno generati ,
onde perciò con vie. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] X viene ricorrere ad altri Padri savj, u prudenti ,
che gl' istruiscano, e fuori del proprio nido , essendo ora gran parte de'
genitori divenuti imitatori de' corvi, è dello struzzolo, che gli abandonano,
non già delle aquile, che con tanta attenzione istruiscono i loro polli.
Pub. Polliamo dunque conchiudere , che se i genitori saranno capaci, e
diligenti nell'educare i loro figliuoli, niu. no meglio, di efli potrebbe
farlo; e fe nella casa paterna si vivesse, come conviene non sarebbe d'uopo
cercare altro luogo per educarli,potendosi con profit. to istruire in
effa. Sem. Che doverà fare il buono educatore, sia Padre, è estraneo, per
isvellere da efsi i difetti? Moc. Questo lo vedremo nella seguente
Conferenza. CON [merged small][ocr errors] Intorno à quello, che
debba farsi da' Genitori per
educar bene i figliuoli. Mecenate , Sempronio , Publio , e
Medico мес. . L peso
maggiore, che abbiano i Pa. dri , mi persuado che sia l'educazione dei
figliuoli s perche si tratta di navigare sempre contro acqua, dovendo
opporsi bene spesso alle loro cattive inclinazioni, e superarle à forza
d'ingegno; e si trovano alle volte torrenti si rapidi, che si rende assai
difficilc poterli alla prima superare. Sem. Non mi fono risoluto fin ora
di prender moglie; perche hò consideratoanch'io le molte difficoltà, che
s'incontrano in questi tempi à ben’educare i fi. gliuoli , ne' quali vedo , che
appenas slattati che sono, pretendono di fares à lor modo, senza avere alcun
riguardo à quanto viene ordinato loro da'genitori . Mec. Non vi
sgomentate per questo ; Sempronio mio, essendoci il suo rimedio , quando chi
sopraintende há prudenza, e la prendere, come li suol dire, la lepre col carro.
Vi dirò io sci avvertimenti generali, che vi potranno molto giovare, allorche
sarete Padre di famiglia ; nel particolare poi sarete meglio istruito da
Publio.Ed il primo farà; che tanto voiquanto la vostra con. forte diare loro
buono esempio. Sem. Ed in quali cose ? Mer. In tutte ; perche se
voi sarete in continue discordie con vostra moglie, come potrete correggerli,
quando mai foffero discordanti tra fratelli? se vorrete, che non disordinino
nel nutrirsi, come lo potranno fare vedendovi cra po [ocr errors]
[ocr errors][ocr errors][merged small] polare giornalmente se li bramerece
divori, come potranno essere, se non mostrerete voi coll'esempio, ciò, che
volete , ch'essi facciano 3 E scoprendovi tutti dediti agli spasli, e piaceri,
come pretenderece,che siano applicari allo studio, divagandosi ancor elli
collaa mente nel pensare di fare il simile quanto prima , per imitarvi? non
fate 10 una parola, che quel difetto,che volete da effi (vellere lo rimirino in
voi medeliini, dovendo voi imitare Agricola, quando fi portò al governo
dell'Inghilterra , allorche si trovava molto rilassata, il quale prima da se
medelimo cominciò à dare il buono esempio. Sem. Ed il secondo qual sarà
? Mec. Di trattarli ugualmente tutti, senza mostrare parzialità benche
minima verso alcuno. Sem. Che male potrebbe apportare questa parzialità
paterna Mes. Infinito ; percioche usandola voi, non solamente darette
occasione di odio tra fratelli, ed ecco, che invece [merged small][ocr
errors] che il pre ce di svellere da esli i vizj gli accrescere. ste di
vantaggio, mà ancora, che il diletto sarebbe meno attento degli altri ad
approfittarsi de' vostri buoni docu. menti, persuadendosi egli, che'
compacirete i suoi difetti, per l'amore, che loro mostrate, e gli altri,dal mal
esempio di questo, che profitco farebbero ? Igenitori debbono : imitare il
Sole, e la Luna , che risplendono ugualmente as benefizio di cutri : e sappiate
che la parzialità, che usò David per Ammone fu la sua ruina ; impercioche
questa lo fè divenire incestuoso, e quell'amore troppo tenero, che fè
trascurare tal mi. sfatto,incitò Abfalone à divenire fratri. cida; mancamenti
tutti derivati dalla connivenza paterna. Sem. Il terzo qual sarà ?
Mec. D'accomodare l'animo vostro alla dolcezza, ed al rigore secondo le
occasioni, che vi si presenteranno. Sem. E queste quali saranno ?
Mec. Se voi li vedrete attenti , e che & approfittino dei buoni documenti
che [ocr errors][ocr errors][ocr errors] avete dati loro, in quel tempo
sarà opportuna la dolcezza; mà se poi vedre. te, che trascurino, e diferčino,
dovrete servirvi del rigore per correggerli. Sem. In tutti i loro
trascorsi mi dove. rò contenere ugualmente severo? , Mec. Ci sono alcuni
difetti, de' quali non si dee far caso, essendo prudenza alle volte non darsene
per inceso; altri sì, benche minimi in apparenza, non debbonsi lasciare
impuniti : per esempio una tal inavvertenza, nata più tosto da disapplicazione,
che da disubbidienza è compatibile; mà non già una benche picciola bugia , ò
una finzione maliziosa anche minna, dovendosi quefte con risentimento svellere
affatto dow principio ; perche se prendono piedes non li svellono più ; ed in
correggerli di queste non dovete usare il rigore alla prima, mà bensì colle
buone far loro confeffare la verità, e conoscere il mancamento, e dipoi con
risentimento ainmonirli, facendo loro capire , per quan. to sarà poflibile, la
deformità grande [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr
errors][merged small] di tali vizj, con non perderli sopra quefti più di mira ;
concioliacosache come insegna l’Ecclesiastico al 20. Mores hominum mendacium
fine bonore : du confufro illorum cum ipfis fine intermifione . Sem. Il
quarto quale sarà ? Mec. Di essere tanto voi, quanto las Madre sempre
concordi in ammonirli; perche se un di voi li coreggerà, e l'altra li vorrà
scusaro, non solamente non fi approfitteranno della correzione , mà prenderanno
animo di far peggio, trovando chi li difenda ; ed in questo errore fogliono
cadere frequenteinente le Madri con danno evidente della buona educazione; come
par che l'accenni Salomone ne' suoi proverbj al 29. Puer qui dimittitur voluntati
sur confundit miirem suam : ond'effe , per non cadere in questo, debbono
imitare quelle faggio miatrone del testamento vecchio tra le quali che non fece
Sara per l'educa. zione d'Isac, Rebecca di Giacob, od Anna di Samuele ; siccome
ancora Sansa Monaca, S. Celinia, che fecero ofetime educazioni de' figliuoli,
dilendo- ne da queste nati un S. Agostino, un S. Remigio: tra
le quali merita anche di essere annoverata la pia , e zelance
Madre di S. Andrea Corfini, che non desistè giammai d'industriarsi
Gintanto, che non lo vide di lupo cambiato in agnello.
Sem. Riferitemi ora il quinto. Mec. Dovete parimente tener celato
l'amore, che portate loro, ne tampoco con quotidiani gaftighi far loro credere,
che Giete disamorato affatto verso di essi ; perche il soverchio amore li farà
prendere troppa confidenza con voi ; ficcome alli continui gastighi facendovi
il callo,non li prezzeran più . Quella correzione risentita , fatta à suo
tempo, cou parole, che li pungano, serve as molei di stimolo maggiore ad
operare bene, più di quello che facessero le sferzate . La scimmia, allorche si
moftras madre sviscerata de suoi parti,con troppo ftringerseli al lato li
uccide, e questo segue per lo soverchio amore, che por [ocr errors]
porta loro , non già per isdegno. Il destriero più generoso colle continue
sferzate divien reftio. Ordinariamente de Madri sogliono peccare di troppo
affetto , ficcome i Padri di soverchio rigore; e da ciò ne viene , che più
amorosi li portano i figliuoli verso le Madri, che verso i Padri, de'quali
hanno bensì maggior timore. Sem. Ed il sesto finalmente ? Mec. Di
non farli trattare in assenza vostra con persone, che possano distrug. gere
quanto di buono avere in esli inlinuato; posciache debbono anche credere, che
cutti abbiano da operare in quella forma, che voi prescrivere , che elli
vivano; e se per disavventura udiranno da qualche malvagio consigliero maslime
contrarie alle vostre , quanto male apporterebbero queste infinuandosi in
quelle tenere menti, e non atte ancora à ben discernere qual sia il veleno, e
quale l'antidoto. Ne vi starò so-. pra di ciò à riferir esempj, perche di Umili
miserie ne accadono giornalmen tes [ocr errors] E te, come
voi ben sapere ; vi addurrà solamente ciò che si osserva in un certo
animale (come riferisce il Salier Hs: - Juppon:) che dimora in una
montagna del regno di Gotto nel Giappone, il quale è in
grandezza, e figura fimile al lupo ; viene però ricoperto da un
pelo morbidiffimo al par della seta, e la sua carne è delicatissima
al gusto;entra que- sto animale bene spesso nel mare; mas
se per fua (ventura s'inoltra molio in
effo, diviene pesce, ricoprendosi di squame, de' quali essendone stato
presentato uno al Re di Gotto, che per metà era divenuto squamoso, e nel
rimanente conservava il suo morbidissimo pelo, fè ciò conoscere tal verità. Or
se il conversare co pesci può far divenire un'animal si morbido anch'effo
squamoso,che farà l'innocente giovanetto conversando cou cattivi? Che
apprenderà di buono da quel lacche vizioso? da quel cocchiere scapestrato, è da
altri viziosi? quando non facesse altro discapito, imparerà a correre, ò pure à
guidare land carrozza, oh che belle prerogative di un giovane nato per
governare, e reggere qualche parte del Mondo! Quindi è che rettamente ordina l’Ecclefiaftico
al 7. Difcede ab iniquo , & deficient man la abfte. E S. Agostino scrisse
che : fitcilius eft fortem stare in martyrio, quam in pravå societate .
Sem. I Genitori, Publio , debbono ugualmente essere à parte
dell'educazionc Pub. Certamente, che sì ; mà però in modo, che uniforine
vada la dettaa educazione, e perciò debbono in tutto portarli concordeinenre:
si possono bene tra loro dividere alcune incombenze; per esenipio la Madre,
essendo assidua, e non vagabonda,averà maggior campo d'infinuare loro , ed anco
di fare apprendere in primo luogo ciò che riguarda alli precetti Divini ,
dovendoli allan sofferenza donnesca questa lode, che, per non attediarsi punto
in replicare le medesime cose infinite volte, riescono in ciò lingolari, cd in
segucla d'iftruir. [ocr errors] li nel Galateo oon affetrato, e vano, ma
bensì nel serio , ed in quello, che insegna ciò, che appartiene ad un
gentiluomo cristiano, il quale non solamente è diretto alle cose mondane, mi
alle divine ancora; e sopra tutto al rispecto, e venerazione, che si dee à Dio
in ogni tempo, come dispone l’Ecclesiastico al 2. Serva timorem illius, do in
illo veterafce; perche soggiunge: Quis enim permanfit in mandatis ejus , &
dereli&tus eft? aut quis invocavit eum, & difpexis ilum? Sem. Ed
il Padre quale incombenza doverà prenderli ? Pub. Essendo un poco
grandicelli, e come li fuol dire già smammari, dee il buon Padre cominciare ad
iftruirli in modo, che possano riuscire graci, ed utili alla Republica, come
faggiamence viene avvertito da Giovenale : Gratum eft , quod patria civem ,
popu loque dedifi Si facis,ut patria fit idoneus, utiliser E per fare
questo dev'essere vigilaore',non solamente à rimuovere da elli certi primi
difetti, che sogliono in quell'età manifeítarli, come sono la pertinacia , e
disubbidienza , con certa vivacità di spirito contenziosa , e questo farlo più
tosto con uno sguardo severo , e con minaccie, che con percosse in sì tenera
età ; e qualche volca ancora il togliere loro parte della colazione è un
gastigo molto profittevole ; 'mà divenuti, che saranno alquanto più capaci dee
istillar loro maslime nobili, cd onorate, e replicatamente, à fine, che se le
imprimano bene nel cuore. Pub. E queste quali sono ? Pub. La prima,
ch'è la più essenzia. le, sarà di amare sopra tutte le creature Dio, e di
venerare tutci i Sanri, con fare loro comprendere , che tutto il bene, che
abbiamo, viene da Dio, e che non amandolo, non lo potremo da esso conseguire,
non potendo avere altro, che lui, che ci soccorra nei nostri maggiori travagli:
dicendo appunto l’Ecclefiaftico al 33. Timenti deum non occur. rent
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] rent mala, fed insentatione
Deus illums confervabit, & liberabit à malis , Sem. E dopo questa
? Pub. La seconda farà di amare il noftro prossimo come noi medesimi, e
di non fare altrui ciò, che sarebbe discaro à noi stesi ; e far loro di
vantaggio capire, che ognuno sarebbe miserabile in questo mondo , se non fosse
soccorso dal compagno : e venendo l'occasione di comprare qualche cosa,andare
infinuan. do loro in quel punto questa verità, che se quel povero uomo non
avesse faticato per noi, se sarà farto per esempio , noi . anderemmo nudi , ò
vestiti al più di pampini , con mostrar loro ancora, che conviene sodisfarlo
delle dovute mercedi , affinche possa vivere per averci à servire con
puntualità un'altra volta : Capitando lavoratori di campagna farà bene che
conprendano,che se quei miserabili non iftassero di giorno al sole, e di notte
allo scoperto,non si mangierebbes quel bel pane , nè li berebbe quel buon vino,
che ci portano in tavola, onde [ocr errors][subsumed][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] degli altri. che
debbonsi con prontezza sodisfare, acciocche possano con amore attendere à
coltivare la terra, che li produce mediante la loro industria ; e non perdere
alcuna delle occasioni , che capitano per meglio imprimere in quei teneri cuori
l'amore verso il prossimo, clas puntualità in fodisfare quanto si dee a' poveri
mercenarj. Sem. Offervo però quei, che sono più puntuali in
sodisfare,peggio serviti Pub. Non è così, Sempronio, può effere che vi
sia taluno, che operi con questa ingratitudine, mà nell'universalc offervo, che
chi ben tratta è ben tractato, e poi non ci dee già muovere à ben operare il
proprio vantaggio; mà bensì, perche in coscienza liamo tenuti di sodisfarli
puntualmente, ed udite che grave eccesso commette colui , che traIcura di farlo
: Panis egentium, dice l' Ecclesiastico al 34. vita pauperum eft : qui detrabit
illum bomo fanguinis eft. Qui aufert in fudore panem, quafi qui occidis
pre [ocr errors] proximum fuum . Qui effundit fanguinem, e qui fraudem
facit mercenario , fratres '. funt. Mec. Queste massime sono certamen. te
necessarie , affinche divenuti adulti non si facciano guadagnare dal mal
esempio di alcuni , che costumano di fa. re ciocche non conviene ; e sarebbe
anche necessario nel medesimo tempo d’in. finuare ne'loro animi la benevolenza
neceffaria verso la servitù ; affinche la possano riscuotere reciproca dalla
medefima ; perchè, conforme chiaramente fa conoscere Seneca nell' Epistola 47,
è falso quel detto : Quot servi tot hoftes , dicendo egli : non habemus illos
boftes, fed facimus; per non tratçarli in quellas guila: Quemadmodum tecum
fuperiorem velles vivere. Onde io sono camminato sempre colle massime di questo
grande Uomo nel inorale ; che il servitore: 60lat magis dominum , quàm timeat,
e për cagione di ciò assegna:quod Deo fatis eft, quod colitur, eu amatur ; onde
che più di questo noi non dobbiamo esiggere, Y da [merged
small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] da noftri servitori, e tanto più
che non paseft amor cum timorë mifceri. Pub. Dice questo grand’uomo
cercamente il vero ; perche se non farà reciproco l'amore tra il servidore, ed
il Padrone, avendo continuamente questi. al.lato,continua sarà ancora
l'occasione prossima di rammarico tra efl ; e fatto che averà l'abito in
questo, non potrà più aftenersi di non contriftarlo, per ogni lieve
cagione. Sem. Dunque, Mecenate, al parere del vostro Seneca non si
potranno licenziarei servitori, chcli porteranno male? Mec. Non pretend'
egli questo ; ma folamente, che non fieno i Padroni in fervos fuperbiffimi,
crudeliffimi , dow contumeliofiffimi ; come pocrete vedere nella citata
Epiftola. Sem. Essendo però noi li Padroni, toccherà ad efli soffrire qualche
noftra ftravaganza . Pub. Dobbiamo anche noi riflettere, fino a che segno
possano quest' esferes forferte da cali perchè se le nostre stra-,vaganze
fossero grandi, e continue, ci renderemmo noi meritevoli di
riprenfio. ne : vietandoci l'Ecclefiaftico il farlo al 4. ove così
dice: Noli effe ficut leo in doa mo tua evertens domesticos tuos, &
oppria mens fubjeétos tuos . E c'insegna di van-' taggio , come ci
dobbiamo portare co") fervitori senfati al settimo , dicendoci
: sonladas fervum in veritate operum, ne- que mercenáriun danten
animam fuam. Servus fenfatus fit sibi dilectus , quas ani: ma sua ;
ne defraudes illum libertate, nebo que inopem derelinquas illum,
- Sem. Ma se divenissero a noi importu. ni, contradicendo a
quello, che noi bra. miamo di fare, doveremo anche collea
rarli? Pub. Se saranno fedeli, e parleranno per zelo a bneficio
voftro, dovrete non solamente tollerarli, ma eziandio amar-, li più di prima;
perche farà segno, che non vi adulano,facendo cosa ucile a voi, quantunque la
considerino svantaggiosa a loro medefimi, con moftrarne voi dispiacere ; ed
udite l'oracolo dell'Eccle siasti [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Aico al 33. Si eft tibi seruus fidelis, fortis
bi quafi anima tua : quasi fratrem , fic cum tracta , quoniam in janguine anima
comparasti illum. sibaforis eum iniuftè, in fugam convertetur. É cosa averete
acquistato con perdere per vostro capriccio un servitore tanto fedele? quando
ne trovarete un' altro fimile ad eiro ? & abbiate da me questa certa
notizia, che l'adulazione ne' servitori, si è avanzata a questo segno , per il
dispiacere,che alcuni Padroni mostrano nell'udire la verità fincera : laonde
esli, per non perdere la loro grazia , vengono forzati ad adularli , c tradirli
insieme. Ma vorrei, che questi, che hanno a male di udire da fervitori la
verità, facessero attenta riflessio. be a quello che dice Giob al cap-31. che è
questo: Si contempla fubire judicium cum Servo meo, e ancilla mea, cum
discepia. rent adversus me : quid enim faciam cum Surrexerit ' ad
judicandum Deuse du cum quaferis quid respondebo illi ? Nunquid non in utero
fecit me ; qui & illum operatus eft, & formavit me in vulva unus?
Semp. Sem. Quando però saranno grandi li figluoli li scorderanno di
questi utili avvertimenti . Pub. Non sarà così quando il Padre, oltre il
rammentarli frequentemente', li praticherà esso ancora, dal di cui buono
csempio comprenderanno meglio, che debba farli così.. Sem. Vorrei sapere
, Publio, fe il Pa. dre possa condurre i suoi figliuoli a vedere le
maschere? Pub. Anzi dee farlo, con que sta avvertenza però d'imprimere ne
loro cuori , che quei,che con sembianti sì deformi, e spaventofi si
trasmutano,sono paz. zi, e che quei sconci gefti, e parole oscene,chc dicono,
sono tutticffetti della loro pazzia, con infinuare loro, che divenendo effi
grádinon lo facciano per non essere anch'elli tenuti pazzi. Sole. vano i
Spartani fare ubriacare i schiavi, c li facevano vedere a loro figliuoli, af.
finchè prendessero orrore all’ubriacheza za da quelle pazzie, che da fimile get
tc agitata dal vino fi commetreyades rem ied effendo riuscito a
quelli profittevole; fperarei, che facesse il fimile anco a quefti, e tanto maggiormente
non avendo il mal'esempio da i genitori, perchè se ne aftengono , cd essendo
veriffimo quel detto : Quo fuerit imbuta recens fervabit ode Tefta diu.
Impreffe che faranno da principio ne' cuori de' fanciulli fimili verità,
difficil. mente si cancelleranno più. Sem. E crescendo negli anni, &
avan. zandosi nella capacità, che averaano da fare i genitori? Pub. Di
prevenire tutti concorde mente i mali, ne'quali potessero cadere; insegnandoci
l'Ecclesiastico al 18. Antò languorem adhibe medicinam , per lo che doveranno
porre un antemurale a vizj in questa forma: Già efli averanno cominciato ad
aver l'uso di ragione, e potranno comprendere qual fia il male, & il
beno,cominciando a conoscere gli effetti dell’uno, e dell'altro; : onde venendo
loro questi meglio spiegati comprende ran. ranno con più facilità
qual mostro orrendo sia l'uomo vizioso, e quanto preggiabile sia colui, che
abborrisce i vizi, quanto odiati da cucci siano i primi, ed amati li secondi,
prenderanno in questa forma ancor efi orrore al vizio; efe non averanno
compagni più che cattivi, i quali vadino seducendoli, come potrà cflere, che
non s'incamminino ancor'eff per la buona via ? ed una volta, che fi sono
incamminati per essa colla grazia di Dio, e con l'occhio paterno vigilante sarà
cosa difficile il discostarsi più das quefta . Sem. E delle massime di
onore, e de puocigli cavallereschinon ne discorrere? Pub. E che credete
voi , Sempronio, che le massime di Dio non siano anch'effe di onore, e
cavalleresche? Impoffel fatevi bene di queste, che tutte le altre vengono di
seguito ; non sapete voi, che la prima vircù : Eft vitium fugere, fapientia
prima Stultitiâ caruifle. Datemi uno , che abbia in orrore il via zio, cche lo
fugga, che io lo crederò perfetto in cutro.Sem. Io credeva, che queste matsime
dovessero servire per i figliuoli, che s’indirizano alla vita religiofa,non per
quel. li, che debbono vivere nel mondo, ove senza aver un poco d'inganno pare,
che non a polla convivère; Pub. Quanto ficte in errore ; perchè
ugualmente sono necessarie le mailime di Dio per i Religiosi, che per i
fecolari, dovendo tutti indirizarci per la via dell' ecernità ; nè crcdiate che
godano quelli, che vivono,come voi dite al mondo, van. taggio alcuno di più di
coloro, che ope. rano come si dee; anzi sono infelicillimi , & uditelo
dall'oracolo dell'Eccle. {iastico al 2. V & duplici corde , d. labiis
fceleftis, du manibus malefacientibus, peccatori terram ingredienti duabus
viis. Va disolutis corde, qui non credunt Deo; & ideo non protegentur
ab.co. Va his, qui perdideruns Justinentiam, & qui dereliquerunt vias
rectas, diverterunt inue vias pravas. Et quid facieni cum infpicera esperit
Dominus ? Se dunque lo mafime del mondo faranno differenti da queste
abban, [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] - abbandonatele
puré , che non fanno per voi , perchè come vi troverete senza il -Patrocinio di
Dio? Sem. Dicemi, se in casa ci saranno,oltre i genitori, altri parenti,
li doveran. no ancor questi ingerire nell' educazione Pub. Questi ancora
, ma però più con dare loro buon' csempio, che con pas role; posciache è cola
inolto difficile, che tutti questi siano uniformi nelle buone direzioni di
effa'; oode fe taluno di questi-inlinuasse tal cosa, la quale sembrasse
differente a quella , che udi da'genitori, o ficonfonderebbe, o per lo meno non
prestérebbe la dovuta crea denza a quanto verrà foro insinuato da suo Padre, è
questo lo mostrerò col segucnce. esempio . Nel domare i pola Icdri [ che
"polledrucci anco possono chiamarsi i figliuoli, avendo bisogno'ral volta
ancor esli di effere domati ] fcfaranno diversi li cozzoni, non folamen te ci
vorrà più tempo in renderli docili , ma ancora potranno correre pericolo
di pren. [ocr errors][merged small] -prendere qualche vizio ;
perchè fentendo, oggi una mano più gravę, nel di seguente altra più legiera,e
certe speronate differenti dalle altre , pon comprenderanno così bene quello ,
che doveranno fare; e cal, volca inasprendoli diverranno anche restj. Se questi
paren. ti fossero tutti uniformi, e caminaffero colle medesime direzioni,
potrebb'effere meno male, ma sempre meglio farà , che sia uno solo quel
complesso , & armonia vaiforme de propri genitori savj, e prudenti,
da'quali una sola volontà li forma. i 37. Sem. Voi, Publio, che avete
educa. toi vostri figliuoli da voi medesimo, in, segnatemi di quali documenti
xifiere servito per iftruirli nelle þuo be creanze, cda cui gli apprendelte per
potermene ancor'io prevalere a suo tempo 2 Pub. Per non crrare mi sono
servito di quci, che non possono fallire, aven, doli ricavati dalla Sacra
Scritsura. Sem. E che parla quefta ancora delle buone creanze, che
debbono insegnarli a'figliuoli? Pub. [ocr errors][ocr errors]
Cena Pub. Divinamente ne tratta l' Eccle. El di fiaftico al 31. ove
dice: Utere , quafi himo frugi iis , que tibi apponuntur , ne cum manduces
multum, odio babearis; cela prior causa disciplina , el noli nimius effe,
ne * forsè offendas. Et fi in medio multorum fe. disti prior illis , e
exsendas manum fuam , nec prior pofcas bibere. Sem. E del rispetto, che
debbe avetfi a Maggiori, ne parla ? Pub. Di questo ancora al 32. dicen.
do: Adolefcons loquere in quâ causå vix', fibis interrogatus fueris ; babeat
caput rée Sponfum fuum ; in multis efto quasi infciusi, audi taceus fimul' quçrens
• • In me dio Magnarum non presumas, & ubi sunt fenes non multùm
loquaris : talmente che leggendo voi attentamente la Sacrae Scrittura , potrete
divenire un'ottimo educatore de i vostri figliuoli. Sem. Vorrei sapere
ancora qual vizio giudicace peggiore di tutti gli altri, in un uomo civile, è
facoltoso, sopra il quale fia d'uopo d'invigilarci più, che negli altri, per
porerlo affatto svellere da figliuolis [ocr errors] Pub. Io ho stimato
sempre tutti i vizj per pesimi, non effendoci alcuno di effi tollerabile;
quello però, che ho sem. pre proccurato di svellere con più attenzione da miei
figliuoli, è stato l'avarizia; perchè ho sempre creduto, che, crescendo questa
avesse superato tutti gli alcri, figurandomi l'avaro come una lacuna,che
assorbisce in fe moltiffimi rivi, che debbono scorrerc ad inaffiare, e rendere
fecondi molti campi; onde che, stagnando effi, possono apportare notabile danno
a molti, c.quel ch'è peggio con danno notabile di chi li divia: ed udine, come
a propofito l'efpreffe \'Eccicfiaftico al s.F4 & alia infirmitas peffima,
quam vidi fub Jole : divitia conservala in malum Domini fui , pereunt enim in
afflictione peffima, & in appresso miserabilis prorsùs infirmitas : quomodo
venit,fic revertetur . Quid ergo prodeft ei , quod laborauit in ventum ? Cunétis
dicbus vitæ fua comedit in tenebris , & in con ris multis, & in ærumna,
aique friftitiâ ed il perche lo efpresc Orazio con dire Jemper Avarus eget.Sem.
Ora io, che ho udito tanto, non sarà mai pericolo, che divenga avaro ,
sembrandomi la vita di questi infelicissima . E tornando all'educazione: se il
Padre non fosse capace di educare, ela Madre fosse poco prudente, chi si dove.
rà sostituire in loro vece? Mec. Buoni Maestri, è se saranno ricchi ,
potranno provedersi anche dell' Ajo, di cui discorreremo nella ventura
Conferenza. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA
III. Intorno all'uffizio, e qualità dell'Ajo, Ĉ dei Maestri:
[merged small][ocr errors] V [ocr errors] Sem. Ual'è l'uffizio
dell' Ajo ? Pub. L'Ajo dee at- tendere
precisame- te al costume, ed a ciò ch'è ordina. to ad
effo. Sem. Ed al Maestro, che apparticoche di fire ? Pub. Oltre
quello, che riguarda il costume, dee ancora insegnare loro le scienze, & tutto
quello, che ha da premettersi per il conseguimento di elle. Semp. Ma non
potrebb’essere anche Ajo Ajo il Maestro, giacche attende questi al
costume ancora ? Pub. Alcuni lo praticano ; altri poi più facoltosi
provedono di Ajo, è dit Maestro i loro figliuoli , credendo il far ciò
diligenza maggiore. Semp. Ma realmente, chi di quefti fa meglio?
Pub. Se s'incontrasse un uomo versacissimo nell’una, e nell'altra profesione ,
mi perfuado :, che questi foffe di profitto maggiore, ma per essere raris :
fimi quefti,quindi è, che chi può li provede dell'uno, dell'altro. Sem.
Che condizioni dee avere l’Ajo? Pub. Dovcado egl'istruire nel costume, lo
doverà avere anche otti mo in priino luogo , dovrà essere prus Idente, ed
accorto, industrioso, e diri piego prontojalliduo, crudito nelle ftoorie,
non molto colerico, sostenuto, che di abbia ancora parti da faríi amare ,
fia prarichissimo delle cose del Mondo , e se fosse versato in medicina,
sarebbe anche ile requisito. Sem. [ocr errors] Sem, -Mà trovare
tante parti in un uomo farà cosa molto difficile. Pub. E perciòi rari
fono quei , che facciano l'uffizio loro come si richiede; contenrandoli',
alcuni Padri di averly nobile sì, mà nel riinanente , come si diffe; folamente
di citolo, battando loro di avere l'ombra , e non tutto l'effenziale di efia,
persuadendosi , che questa possa essere sufficiente. Sem. E come,
anderebbe Gmil'educa. zione? Pub. Quafi nella medesima maniera , che se
non ci foffe chi la dirigeffe , porendo fare l'educando a fuo modo . Mac.
lo so, che dovendosi provede re un Signore di qualità dell'Ajo, furongli
proposti diverli ; trà quali vi era un nobile ,'mà poco erudito; un Poera
infigne ; ed un eccellente Geografo, ed Aftrologo insieme ; niuno di questi
volle al suo fervigio ; ricufando il primo, per il motivo, che di nobiltà il suo
figliuolo nè aveva a sufficienza ; al secondo oppose , che Aimava fi fosse
potuto trop. U troppo divagare dal suo ufficio chi at tendeva
a comporre poemi, nè volle il che terzo, perchè dubitava che l'aveffe
fated to troppo girare colla mente, non che avendo altro , che discorrere
seco, che di cielo, e di terra: alla fine gli fu pro* posto un buono
Istorico, eccellente Fi. losofo, e Matcematico , questi disse fà al mio
bisogno: perchè gli mostrerà come fi dee yiyere cogli esempi altrui,
l'insegnerà a tirare le linee recte , ed a prendere col compasso le misure
giuste 3 ; e lo fermo al suo fervigio, Sem. In qual'età li dee porre
sotto la cuftodia dell'Ajo l'educando? Pub. Più prestamente, che si
può. Sem. Mà 'non sarebbe fpefa superdua questa , ponendosi in età, nella
quale non è ancora capace di comprendere i buoni documenti? Pub. Non li
chiama mai spesa super, fua quella, che & fà per educare i pro· pri
figliuoli, essendo ucilisfimo rinvesti. ·mento,perciocchè, acquistato che
averanno elli le virtù si troveranno un gran tesoro, e non soggetto alle
vicende della fortuna; ed in quella età, quantunque non comprendano i buoni
documenti, nulladimeno questi in qualche parte, cominciano ad imprimerli nella
loro mente oltre;di che quanto gioverà, per conoscere le inclinazioni nacive
l'averli ayuci in custodia da çenerį anni? Meç. Si disse tempo fà di uno,
che gettava il danaro avendo posto l’Ajo al figliuolo di età adulta, e divenuto
già alquanto vizioso, perchè non averebbe allora potuto egli più emendarlo,
aven. do prelo già possesso in esso i vizj. Pub. Questo lo credo anch'io
; per. chè le piante tenere sono quelle , che si possono piegare a proprio
compiacimento, dove che le già cominciare ad assodarfi vogliono crescere
co’loro di. fepti , quantunque ci si adoperi ogni in. duftria per emendarli.
Quindi è che l'Ecclefiaftico al7.così ordina. Filii ribi sunt, Erudi jllos,
& curva illos à pueritia illorum. Sem. nes [ocr errors]
Sem. Qual onorario si dee dare all' ile Ajo ? Pub. Non ci è danaro, portandosi
be che uguagli il beneficio, ch'egli apporta , onde deefi generosamente
trattare, Mec. V'era un’mio amico', che solea dire che se avesse trovato
un educatore, a suo modo , per i suoi figliuoli, non solamente lo averebbe
trattato assai bene, mà di vantaggio gli averebbe anche la. sciato nn grosso
legato nel suo tcftamento , per maggiormente animarlo ad impiegare
ogn'industria poffibile pro de fuoi figliuoli, Pub. Costui mostrava
conoscere cer. tamente l'utile maggiore de suoi figliuoli; perchè ben comprendeva,
che rimanendo dopo la sua morte efli bene educati quancunque fossero alquanto
meno ricchi di beni di forcuna , sarebbe questo stato compensato dall'utile
assai più riguardevole, che risultaya loro dalle virtù acquistate, posciache al
pa. rere di Cicerone.Ora:pro Sexto: virtus in [ocr errors] tempeftate
fava quieta eft,lucer in tenebris , expulsa loco manet tamen, atque hş. ret in
patria , Splenderque per fe semper, neque alienis unquam fordibus obfolefcit ,
quale sorte cerçamente non godono le richezze. Sem. In qual modo si hanno
da prevalere della loro industria, e prudenza nell'educarli? Pub. Secondo
l'età si debbono anche regolare. Nè teneri fanciulli con maniere foavi debbono
insinuare loro quello, a che dicemmo essere tenuti i propri genitori, ę
fucceffivamente fecondo vedranno i narurali così debbono opcrare Som. Di
quante fpecie possono essere questi naturali? Pub. E quì presente il
Dottore, che meglio di me potrà fodisfarvi ; iftruite, lo di grazia in questo brevemente
e con termini chiari da capirsi da ogn'uno : Med. Secondo la diversità de
temperamenti sono varj ancora i naturali ; posciache questi da quelli in gran
parta des [ocr errors][ocr errors][ocr errors] derivano, ed effendo
quattro le specie bi principali de temperameati a quattro sorte ancora si
potranno ridurre li naturali de figliuoli, cioè all'igneo , o biliofo, che dir
vogliamo , al femmatico, al melanconico, o al soverchiamente allegro, detto
fanguigno. Ci sono poi altre specie subalterne, che nascono dalle diverse
mescolanze dei liquidi, che nella massa umorale predominano, de quali ora non
ne parlo. Sem. Per meglio distinguerli dunque i doverebbe l'Ajo
essere Medico ancora. Med. Cimancherebbe questo d'averci anche da
impazzire co'ragazzi, forse che non ci danno da fare a bastanza allora che sono
infermi? Sem. Questi naturali sono sempre uniforme in tutte l'età?
Med. Sogliono variare fpeffe volte nelle mutazioni di esse, offervandoli ciò
manifeftamente. Sem. E per quali cagioni? Med. Perchè varia la massa de Avidi,
secondo che ci avanziamo nell'età acquis [ocr errors][ocr errors] 2
3 acquistãdo energia maggiore alcuni fer, menti col crefcere gli anni,
ficcome questa si può scemare ancora accostandoci alla vecchiaja. Sem.
Come si dovrà regolare con chi è di naturale biliosoa, Med. In quefti,
per quanto si può, è sempre meglio servirsi della dolcezza ; poscia che colle
afprezze maggiormente si accendono, ed allora divengono pertinaci. Sem. E
se di questa si abusaffero? Med. Allora la dolcezza dell' Ajo dee cambiarsi
in rigore per far loro conofcere , che nel mele, e nel zuccaro ancora è
nascosto l'amaro.' Pub. Di questo già raggionammo baftantemente nella
paffata conferenzas istruendone i Padri, onde non stiamo.a dilungarci di
vantaggio Med. Siami permesso di aggiungere, a quanto fù detto, una mia
rifeflione, ed è quefta : che le severe correzioni riescono più utili fatte a
sangue freddo, canto per profitto dell'educando quanto per vantaggio dell'Ajo ,
che può senza ira insinuargli le sue più mafurate ammonizioni , e restano anche
maggiormente iinpresse ricevute di mattina a ventre vuoto, essendo la mente
anche più limpida, dove che ricevute allorche si trovano già agitati
dall'errore commesso, non sono cosìcapaci di comprenderle. Sem. Come si
doverà contenere co' sanguigni. Med. Questi sono più facili de primi ad
educarli ; perchè sogliono essere difinvolti ;basterà tenerli frenati in
certi eccelli , ne quali potrebbero cadere', di soverchia allegria, e
curiosità, ed avvicinandosi all'età giovenile tenerli lontani da cose veneree
. Sem. Che potrà fare il povero Ajo allor che sono grandicelli, ed
averanno quei stimoli, che fanno prevaricare anche i saggi? Medi Il
miglior antidoto , che fias contro li stimoli della lussuria c, di condurre
qualche volta i giovani ne noftri Spe. [ocr errors][ocr
errors][merged small] 24 spedali , ed in tempo, che si faccias qualche
amputazione di parti genitali putrefatte, a cagione del morbo gallico: e
cercamente induce loro tale spavento sì crudele spettacolo, che si sono alcuni
di questi spogliati affatto di fimili pensieri, per l'orrore conceputo allorchè
udirono, che da donne era ve. nuto quel tanto male, e che per esse conveniva
soffirire sì atroce tormento di ferro, e di fuoco, e di vantaggio di non essere
più uomo. Sem. Ec i malinconici come vanno trattati? Med. Questi
appunto sono quelli , che fanno fofpirare non solamente i poveri Aji, mà ancora
noi quando essi sono malati; perchè hanno un naturale stravagantissimo, é
maggiormente fe regierà in elli qualche porzione di umore chiamato atrabilare :
bene è vero però, che nell'età tenera non hà tal'umore. quella energia, che si
manifesta colcrefcere essi negli anni, e questi ò danno al byono, e divengono
eroi, ò al pessimo , elo. [ocr errors] [ocr errors] e sono molto
iniqui, e perversi; debmit bonsi dunque con grande industria queili
fti trattare, e senza usar loro molta vios lenza, e più coll'affiduirà ,
e colli efemin pj fatti da lor medesimi leggere, o rifei riti di persone
viventi da loro cono, of sciute, che con aspre sferzate;debbonsi anche
tenere divertiti, & applicaci a più cose, alle quali abbiano genio.
Sem. Come divertiti, & applicati, parendo queste cose contrarie Med.
Divertiti, dico, con far loro prendere aria amena , conducendoliins villa
più frequentemente degli altri, & i applicati alle volte a cose diverse
dallo studio, come farebbe il suono, il quale se sarà di loro genio li
può tenere lontani da que pensieri tetri, che occupa no continuamente le
loro menti; ma di o questo converrà discorrerne più diffusamente a suo
tempo. Pub. Egliflemmatici come van regolati ? Med. Questi sono
quelli, che se non faranno onore all'Ajo gli recano almeno poo [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] pochi travagli; perchè fogliono
essere pacifici, e tardi d'ingegno: Ben'è vero però, che nelle mutazioni
dell'età sogliono alle volte sciogliersi, e divenire un poco più spiritosi, e
fare ancora com petente riuscita. [ocr errors] Sem. Come suole
essere, Publio, di profitto l’Ajo, facendo anche da Maeftro, nelle scienze
? Pub. Se terrà lo stile praticato da Mae. Ari, riuscirà egregiamente
come dicemmo ; ma se vorrà poi insegnare colla medesima maniera le scienze, che
insinua il buon costume,anderà tutto peffimamente. Sem. E perchè
Pub. Lo stile tenuto dagli Aji in istruire nel buon costume è d' infingare
tutto in voce, il quale nulla giova per fare loro apprendere con fondamento le
frienze ; perchè queste sarebbero superficialmente adattate , & à quella
guifas appunto, che G soprapone loro ridotto in fogli al legno, il quale col
tempo di. sperdendol rimane legno ciò, che mo. Atraa [ocr errors]
tre ftrava di essere oro, dove che il Maes po stro, professore esperto, procura
d'in= finuarle nella mente colle sue regole, e collo scritto, affinche
abbia pronto il comodo di ricordarli di quello , che si fosse mai
dimenticato. G Mec. Ora comprendo da che fia pros ceduto, che viaggiando
molti anni fono udj in una Città discorrere alcuni giovani co molto spirito in
ogni scienza, i quali per essere di poca età mi recarono ammirazione ; ma
avendo avuto curiosità alcuni anni dapoi di sapere se profitto maggiore
avessero farto, mi fu risposto, che avevano più tosto deterio. rato;
bisogna dunque che il loro Ajo gli de aveffe istruiti a braccia , e non con fon10
damento. Pub. Nerone, che fu istruito da Seneca in questa guisa, fece
alla prima las < sua bella comparsa, ma terminò poi u peffimamente.
Sem. L'autorità dell' Ajo sin dove fi Atende? Pub.
Tanto'oltre, quanto quella del Padre,dovendo essere amplifima, a fine che f.
rendano ossequioli, & obedienti ad effo, Mec. Le Madri però sono
quelle, che procurano di ristrignerla,imponendo loro, che non li gastighino, nè
li sgridino, ma che li compatiscano se non si approfittano de’loro documenti; e
questo lo fanno per rimore, che non fiammalina, e bene spesso,per questo timore
di male ideale , ne nasce il certo male della possima educazione loro ; perchè
per non disgustarle gli Aji fanno a lor modo, comportando quanti difetti efG
hanno: le saggie madri però lasciano che li gastighino ad arbitrio loro, eli
correggano secondo il bisogno , conoscendo queste per isperienza, quello che
per dottrina ancora conobbe Salomone al prover. 22. ftultitia colligata
eft in corde pueri, d virga disciplina fugabit Cam • Sem. Debbono usare
distinzione alcu, na in questo, secondo l'erà ? Pub. Essendo l'Ajo prudente
saprà re. go: ne [ocr errors] golarsi anche in questo , &
accomoderă i il gastigo secondo l'erà, econ quei mo. di, che conoscerà
effere all'educando più sensibili ; per esempio se lo scorgessc goloso, il
fargli sottrarre qualche pietanza in tavola gli sarà di gran gastigo ; se
giocoliero, togliendoli quell'ora di divertimento, lo toccherà lül vivo; e fe
averà un certo roffore in sentirsi sgridare, questo sarà appunto l'opportuno
suo gastigo ; in somma il migliore sarà quel. lo, che si renderà più
sensibile. Sem. Può l’Ajo per qualche suo af. 1 fare allontanarsi da effo
? Pub. Per quanto meno farà possibilu dee farlo; perche non mancano
scelerati adulatori, i quali, per guadagnarsi la grazia de padroni
giovani,infinuano loro ciò , che può dilettarli , quantun. que lia
pregiudiziale, e per ciò se mai doveffe allontanarsi da effo per qualche tempo,
dee avere di chi possa fidarsi in sua assenza . Sem.E qual sorta di
divertimento deb, bono permettere loro? [ocr errors] [ocr errors]
Pub, :: Pub. Tutti quelli, che non sono viziofi, e fono ad esli geniali,
per esempio il giuoco delle boccie, della palla, del volanıę, ed altri, anche
più laboriosi di questi, competenti alla loro età. Sem. Nel tempo che
sono direrti li fi. gliuoli dall’Ajo possono i Padri educarli ancor effi?
Pub. Se saranno capaci di uniformarfi alle buone direzioni dell'Ajo, pofranno
qualche cosa contribuire ancor essi, L'incombenza loro però è di offeryare qual
profitco facciano, e di sentirne anche il parere di più persone capaci sopra i
loro buoni progrefli , esaminati che li averanno; per altro scorgendo, che yą.
da tutto a lyo dovere non debbono con fondere i figliuoli con documenti diffc.
reori, ne contristare l? Ajo con varjare il loro metodo; bafterà la loro
vigilante Lopraintendenza ; mà muta quando non vogliano come doverebbero,
effimedelimi in tutto instruirli. Sem. Bramerei ora sapere le condi.
zioni che doyerà avere un ottimo Mae. Aro Pub. [ocr errors][merged
small] [ocr errors] 101 Pub. In primo luogo dev'essere di via ta
esemplare, dotto , c prudeme , siccodel me è necessario ancora, che abbia
buo na comunicativa, per farsi ben capire, fia sostenuto,
diligente, e si sappia far 1 amare, e temere, e sia anche pratico delle
tristizie de figliuoli, per non farq gabbare da effi. Sem. Trovandogi un
uomo di tante buone qualità potrebbe anche servire I per maestro di casa, ed
elascore nelme, desimo tempo; perchè facendosi ben ca. pire, indurrebbe
più facilmente i debi, tori a pagare ciò, che debbono particos e larmente
ora, che sono tanto renitenti di farlo, Med. Questo e uno degli errori
mal. fimis perch'essendo talunò ottimo per un impiego 2 con darglicne tanti fi
fa in modo , che divenga trascurato in tutti; essendo grito quel detto;
Pluribus intentus minor eft ad fingula fenfus. Or io coftumo questo s chi mi
serve., faccia solamente l'ufficio suo ; perchè considero,' che non sia
poco,che li riesca in una sola cosa, cosa, ed ho provato con
isperienza, che se taluno procura ingerirsi in più, confondendole tutte , ne
pur una ne farà bene. Pub. Voi Sempronio vi figurate, che fia picciolo
affare l'insegnare a figliuoli le dottrine , e ben picciolo il generarli, mà
non già il farli divenire uomini eccellenti; perchè in un istante si generano,
e con poca fatica , mà per bene addottrinarli non solamente vi è duopo di molti
anni, mà ancora di attenta , ed induftriosa applicazione . Per abbozzare una
statua ci vuole poco, mà per ridurla a somma perfezzione numero infinito di
sealpellate di più ci vogliono; C riflettendo voi al valore della statuas
abbozzata, ed a quello della ridotta a perfezione, ben comprenderete il van.
tagio di più che ne ricaveranno i vostri figliuoli dal Maestro, che istruisce con
profitto. Sem. Io lo dicca a buon fine ; perchè risparmiandosi
qualcheservitore,mi riufciva più comodo di fargli un buono af4 fegnamento ,
acciochè viveffe contea. to. Pub. Glie lo dovete fare senza accrom
(cergli maggiori brighe, se bramare, to che la statua da voi abbozzata abbia
iti ma , e valore grande, Mec. Veramente in quei casi conviene deporre
l'avarizia', ed ogni parkmonia ; e non fare come quel Padre sciocco riferito da
Plutarco, che domandando ad Aristippo ; quanto paga. mento ricercava per
ammaestrare il suo figliuolo, udendo domandare inillo dramme rispose ; questo è
troppo ; perchè con mille dramme potrei comperarç un servo; çoi
saggiamente replicò: duna que averai due servi, tuo figliuolo, e e
quello, che comprerąi: facendogli conoscere, che se non era bene ammacftrato,
sarebbe diyenuto un servo il fuo figliuolo ancora. Sem, Quale farà
l'incombenza del Macftro? Pub. Gjà per quanto appartiene al co. fune
seguirerà quello, che si è detto CON [ocr errors] Аа 1
con cominciare prima da Dio ;' nel rima, nente poi lasciate pensare ad esso,
per; che avendolo scelto pratico, e dotto faprà secondo l'età, e capacità
andarlo itruendo come fi dee: bensi voi di. chiaratevi apertamente com voftri
fi, gliuoli alla sua presenza , che volete,che lo ftimino, ed obbediscano da
Padre, con dargli ogni più ampla facoltà di cor. eggerli, e gaftigarli
severamente in ralo di bisogno; perchè bramare di riconofcere per figliyoli
solamente quei , che studieranno, e faranno passata nelle ccienze 1 Mec. Quanto
fu mai eroico l'atto, che fece l'Imperatore Teodosio ; impercioche avendo
scelto Arsenio per Maestro del fuo figlinolo, ed avendogli detto; Pofthac tu
magis pater ejus quam ego, come riferisce il Baronio all’A.380-avvenne un
giorno, che passando Teodo, 'fio per la camera, oye Arsenio faceva la
repetizione a suo figliuolo, osservò , che il Maestro fe ne stava in piedi, e
lo [colaro affifos ne bo potè coptcnere di non [ocr errors][ocr
errors] non dimostrare ad Arsenio il suo dispia çimento ; veramente gli disse
ini avvcdo, che voi non sapere far bene il vo. ftro uffizio ; tenete, tenere il
grado di Maestro, e non di scolaro : Sagra Mac fta , replicò Arsenio, non
sarebbe punto convenevole, che io mi ponelli a se. dere per dar la lezzione ad
un Imperatore; ciò udito Teodofio tolfe la Coro, na di capo al suofigliuolo,c
comando ad Arsenio , che fedesse ; & ad Arcadio suo figliuolo, che
stasse in piedi colla testad á scoperta, fin tanto che il Maçstro gli parlaffe
, Sem. E se non faceffero tutto quello i profitto, che io defiderasli,
che averò el da fare? Pub, Vedere, Sempronio, parliamo chiaro, i Padri
yorrebbero dopci in bre. yiflimo tempo i loro figliuoli, onde in quefto
non abbiate tanta fretta, lasciateci porre il sempo neceffario per impof
sessarsi bene; må se poi vi accorgette, nel che oon dare tempo al tempo non li
apejet profitrassero, doveţe esaminare d'onds A a 7 prox
, [ocr errors] erro [ocr errors] [ocr errors] provenga la cagione,
e se saranno più Hgliuoli, vedendo , che taluno di edi li di approfittaffe,
e gli altri rimanessero indietro, la colpa non sarebbe del MaeItro, ma bensi
dei figliuoli, e che non applicassero, o che non fossero di mente ancor capace
di apprendere. * Sem. E se la cagione venisse dal Mae. Itro, che fosse
disapplicato , contenzio, so, o troppo bestiale ? Pub. E'voi trovarene
un'altro į mas non date fede loro alla prima ; perchè dopo , che averanno
ricevuto il gastigo verranno a piangere da voi, el dole. che il Maestro
fia bestiale; ma non diranno già la cagione giusta; per çui li ha gastigati; ed
in questo caso avvertite a non dar mai ragione a loro trovandosi
presenti,anzicon volto afpro sgridageli , e dite loro che lo averanno meritato
: informatevi però bene come è andato il fatto , per ritrovare la verità.
Sem. Ma venendo per colpa de figliuoli che averà da fare? Pub,
ranno, Pub. Se saranno disapplicati, vedete ancor voi di usarci diligenza
, con promettere loro premi per animarli ad essere più attenti ; e fe poi
venisse dall'incapacità in qualcuno, bisogna averci pazienza; e rimirate le
dita delle vostre mani, che ancor’esse non sono uguali , e pur la mano turta
insieme fa l'uffizio suo; così parimente sarà la figliolanza, quando venga
secondo la sua capacità impiegata bene. Sem. Dolendosi il Maestro di questo,
e dichiarandosi di non poterci aver più pazienza? Pub. Confolatelo, &
animatelo ad averci ancor effo pazienza, conforme conviene, che P abbiate ancor
voi Mec. Si doleano con Antipatro i MaeAtri, che i suoi figliuoli non
volevano per tante fatiche, e diligenze usate loro , approfittarsi punto dei
loro documenti, e per consolarli egli dicevan che vi era un paese nel mondo,
ove le parole si gelayano in tempo di verno appena uscite dalla bocca, a
cagione digio freddi ecceffivi, che le racchiudevano nell'aria, ma appena
comparfa la primavera,fgelandoli queste allora si udivano.. Non dubitate ,
diceva loro » che verrà ancora in essi la primavera ; ed alloras queste parole,
che odon'ora da voi , fi Igeleranno ancor effe; continuate pura parfare , per
, per uđitne all'ora di vantago Sem. Dovero comparire nel cempo , che si fa
scuola? Pub. Anche, frequentemente s per ve. dere che si fa, per aninarli
insieme a portarfi bene, c tenerli in freno. Sim. Stimate neceffario ohre
di tea net loro il Maestro di mandarli alle fouo: le publiche? Pub. Per
godere di quei vantaggi, che apporta l'emuluzione può essere utile : debbonfi
però avvertire due cofe; la prima , che vadano sempre accompa. gnati dal
reperirore, perchè del fetvis rore in curto non vi dovete fidare, poa tendolo
indurre fare a lor modo:Pal. tra poi che fixno vicini in feuola a come
pa [ocr errors][ocr errors] mpagni bene accostumati, perchè ivi po.
trebbero divenire maliziosi trattando con carrivi. eri Mec. Bisogna
ancora stare molto cau., telato nello scegliere questi reperitori, detçi
comunemente Pedanti, perchè vi è stato tra esfi cal’uno, che insegnaya
of a' figliuoli il fare la fabbatina , il giuoco delle carte, & altri
vizj in vece delle virtù; e vi è stato chi di questi ancora così iniquo , che ha
procurato, che abbandonaffe il figliuolo la casa paterna , dopo d'ayer rubaro
al Padre qualche fomma di danaro considerabile, e seco conducendolo fuori di
stato , per ispre. garla. Onde se non si sappia che siano di ottimi costumi,
non debbonli consesgnare ad effi i propri figliuoli, per non ricevere quella
riprensione, che fece Diogenç Sinopio a quei di Megara, dicendo loro, come
riferisce Eliano, che fi contentava di essere più rosto un ariete della lor
mandria, che loro figliuolo, perchè a custodire quello impiegavano uomini
fedelilimi, & ad iftruire questi ripų [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] A a 4 riputavano abile
chiunque fi folfe loro abbattuto dinanzi. Sem. E le figliuole fi debbono
regola. re nella medesima forma? :) Pub. In alcune cose non vanno
regolate così, conforme udirete nella seguente Conferenza. w
CON [ocr errors][merged small][merged small][merged small] Semn. He
differenza cie tra l'educazione dei С figliuoli, e quella delle
figliuole ? Pub. Primieramen: te, che queste,non dovendosi
incamminare per la via delles fcienze , non hanno d'uopo di tanti maeftri; e
poi essendo diverli i loro vizj, e naturali inclinazioni,debbonsi quefticon
differenti manicre correggere , Sem. ' quali sono questi vizj delle
figliuole 22 Pub. La vanità par che nasca con lo ro, quçfta opera, che
moltissime di effe [ocr errors] cffe sino dalla nascital
par che mostrino compiacimento in fegtir lodare la loro bellezza : ha poi
la maggior parte di cffe, un certo difpreggio, il quale viene da alcuni creduto
per vivacità di fpirito; altre poi fin d'allora moftransi vezzofe, e molto
affabili; e vi sono ancora di quelle, le quali danno a divede. re appena nate
la loro dispettosa rozzez. za , contrafegni tutti non leggieri di ciò, che
possa nell'età pid avanzata ope. rare la loro naturale inclinazione. Sem.
Di correggere tali difetti cui partiene principalmente * Pub. Alle Madri,
che con affiduità amorosa aflifton loro ; dovendo i Padri portarsi giornalmente
fuori di casa per affari, che li tengono alle volte lungo tempo occupati; c
quefte avendo bisogno di una affidua cuftodia da niuno meglio, che dalle
Madrila poffono riccvc, re: debbono però i Padri per quaaco fa. rà perineslo
lorosinvigilarci attenicamene te anch'effi. Sem. Che dovranno fare le Madri in
quella tenera età, nella quale ne put capiscono ciò che loro si dice?
Pub. Poffono far tholco, con impea dire ancora, che non rimirino , ed odino ciò
che non è convenevole; perchè quello, che mostrano inclinazione alla vanità;
non bisogna cominciare ad ornarle vanamente, pe å far loro certi ýczzi
disdicevoli, perchè s'imprimono quelle vanità, e quegli atti con facilità
grande in si tenera età; quelle bensi che mostrano dispettosa rozzezza pof.
fono follorarli con fimili vezzi per inco minciare a poco y a poco
a renderle più [ocr errors][ocr errors] umane. [ocr errors] Sem. E
di poi cominciando a capire , che dovrà farsi? Pub. Allora farà tempo
d'incomina ciare a far loro apprendere , che la bela lezza della donna non confiste
ja altro che nella bontà de'coftumi. Sem. Oh capiranno beneche cosa dano
costumi le picciole figliaole? Pub. Non importa, perchè quantunque allora
pon lo capiscano, nulladime nos [ocr errors][ocr errors] no ,
effe continuando ad udirlo a fuo tempo ben lo comprenderanno; basta che allora
non si secondino le innate inclinazioni loro viziose. Sem. Mà fe la Madre
avesse compiacimento di essere stimata bella, c fpiritofa, e forse anche vana ,
come potrà istruire la sua figliuola diversamente da sè medesima, e che non
abbia da compiacerli anch'essa di ciò ? Pub. Ora entriamo nei guai
grandi, perchè se la Madre non diriggerà bene tal affire, l'educazione anderà
pellina menic. Sem. In questo caso che dovrà farsi? Pub.
Quello appunto, che fù da me praticato, di provederli d'una buona matrona ; e
se questa fù utile alla mia famiglia, essendovi la Madre capace,
evigilance, ; quanto più sarà geceffaria in questo caso, che voi mi
rappresentare ? Sem. Lo credo anch'io; dunque essendo duopo provedersi
della matrona, ditemi quai requisiti dovrà avere per far bene l'uffizio fuo ;
perchè essendog [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] dismesso questo buon servigio, non si potranno
trovare con facilità quelle , che siano esperte. Pub. Non dev' essere
giovane , nè vecchia , mà di età conlistence, Sem. Perchè non vecchia ,
pocendo quest' avere maggiore sperienza del mondo? Pub. E vero , mà la
vecchiaja ancora la può rendere più fastidiosa , e meno attenta : e poi se
dovrà cuftodire le vostre figliuole, che hanno da nascere, chi sà se fosse
allor viva ; e vivendo farebbo decrepita , quale età non lega.molto colla
gioventù, e perciò non sarebbe ad effe accetta,dec ancora essere di buo. ni
costumi, e pia,di parentato civile, ed onoraco , prudente , discreca, attenta,
affezzionata', che sappia ben cucire di bianco , leggere , fcrivere mediocres
mente, e che non sia curiosa di leggere: libri profani, e lascivi. p9
Sem. O che mal farebbe, se leggere ancora l'istorie profane, potcado fervire si
di effe per meglio iftruirlo? Pub, -1 Pub. Le storie profane
non tutge conferiscono alla buona educazione, el, fondovene alcune molto nocive
ad essą come già dicemmo, onde chi sà, che prendendo diļetto in udirne riferire
alGuna di queste, non prendessero amo, re anche l'educande a simile
lectura Sem. E se sapesse la lingua francese , o spagnuola, non sarebbe
maggior van taggio , per insegnare loro quel parla. xe , che oggidi è tanto in
uso ::Pub. Che pretendete ? forse di mari, farle in Francia, o in Ispagna
? Sem. Non lo dico per questo fine, mà veáendo qualche lignora di quei
paeli , o trovandoli con alcuna , che la parlasse, sarebbe da esse capita, e
por trebbero risponderle. Pub, Voi vorreft'educare le vostre fi, gliuole
per far pompa del loro spirito , e non vi accorgete, che quefta non è la sua
strada; e qual nccefficà avete,cheessa converfino , e tratejno con gence
ftraniera s volere forse, che apprendano į cofumi loro diffepsadi dai
noftri? Sem, [ocr errors] [ocr errors] GB [ocr errors][ocr
errors] Sem. Non bramo quefto, mà hò sentito dire , che sia vantaggio grandes e
l'avvezzarle disinvolte, e spiricosc, perchè più facilmente fi maritano
queste, Pab. Voi prendereste moglie di spiritofa, e disinvolta Şem.
Io non già, ora chc sò come debi ba sceglierli. Pub. E perchè dunque
volete incam, minare le vostre figlie per una yia , che voi la ftimate non
recta e non vi avve, dere , che in ţal guisa mostrarefte di amarle poco a
Sem. Il saper ricamare ancora mi per, suado, che la requisto necessario nella
matrona : i Pub. Per far che ? per educarle forse nella vanità e non
sapete, che cosi fa comincia bel bello ; posciache dalla sem ta fi paffa
al’oro, e dall'oro alle perle per formarne ricami di gran valore.Cor. 4,
nelia madre dei Gracchi fe conoscere a quella gentildonna Capuana, la
quale 0 era alloggiata in sua cafa, allorchè moArolle i ricami ida effa
farsi,per mio fvario. bano essere i layori delle Madri, con farde yeder i
suoi figliuoli, ed in qual forma da effa fi aducavano, che non era già nelle
vanità, mà bensì nelle virtù . Sem. Bramerei almeno , che sapesse
insegnar loro un poco fuono, e di canto, Pub. Questo poi sarebbe peggio,
per: che l'educherebbe cantarine, & im. parandolo per vostro syario, non lo
di fimparerebbero già, per non dilectare an, che gl'altri. sem.
Contenendom’io in questo vo. fro antico rigore mi farefte mutare il
mondo. Pub. Io non pretendo tanto : voi mi vichiedere del regolamento
della vostra cafa ;c chcaforse pretendece che da queta debba prendere la norma
tutto il mondo a facciano gli altri ciò che vogliono , mi basterebbe di
ottenere, che voi, che ricercate il mio parere appren. deste ciò, che dovrete
fare, Sem. Io resto perfuafiffimo di quanto dite per benefizio mio, ma
sifetto añ, cora [ocr errors][ocr errors] cora nel medefimo tempo a
quello , che li il mondo dirà, operando diversamente da quanto ora li
costuma dalla maggior parte . Pub. Qual parte del mondo stimate voi, che
sia più saggia, la maggiore, o la minore? Sem. Ho udito sempre dire, che
sia la minore, Pub. Or dunque; perchè da voi medelimo volete porvi nel
numero de i meno saggi? deh seguitate la più sana , e non vi prendere fastidio
alcuno dell' altra , quantunque sia più numerosa : prendete di grazia la
mira verso quò eundi dum, non quò itur. Sem. Rimango persuaso, e quanto
m'insegnafte voglio risolutamente fare. Or ditemi per mia istruzione ; scelto
che averò questa matrona , della quale voglio provedermi prima di prendere
moglie, che averò da fare io, e qual' incumbenza apparrerrà ad essa ?
Pub. Voi, allor che le consegneretç la vostra figliolanza, le direte: che
Bb fia [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors]
lia cura sua d'istruirla principalmente nella pietà , e devozione, e che
rimuova da essa tutti i difetti allorche li ye desse comparire , senza
indugiarvi un momento ; anzi che meglio farebbe an. cora, se preveniffc al
bisogno con semi, narę anticipatamente ne’loro animili preziosa semenza delle
virtù, e che per questo procuri di non perder la mai di vifta : e vedendo
ch'ella li porti diligen. te nel suo uffizio usatele più gratitudine, affinche
non habbia da parerle penosas quella vita tanto soggetta, che farà ; e
credetemi, che il premio è il maggiore incentivo a farci fare con amore quelle
cose, che senza di esso ci parrebbono molto penose. Mec. Questo è
certiffimo, posciache chi mai li porterebbe il primo a scalare una muraglia,
difesa da tanti nemici are mati, se non se {perasse da questo un premio grande
? Sem. Fatto che avrò le mie parti, in che forma essa adempirà le sue ?
Pub.. Nato che sarà alcuno de' vo [merged small][ocr errors][ocr errors]
ftri figliuoli, principierà il suo minister ro con invigilare, venendo
lattato,dal... la balia, a quanto sara necessario, con i fare anche da
soprabbalia , nè permetteo ra già, come dicemmo, chc oda,quan tunque non
le comprenda ancora , cer, i te canzone amorose, nè pure, che fifli i
suoi occhi innocenti a'rimirare certi datti scomposti, & indecenti; perchè
quantunque non siano allora da esso conosciuti per quel che sono , nulla dime,
no in progresso di tempo, conforme fi apprendono le parole, così ancora
può insinuarsi nell'animo qualche cintura noSeminaciva di tali difetti; e
procurando, che D in vece di quelle oda, e rimiri cose profittevoli,cd
oneste, delle quali se ne i apprenderà alcuna particella, resterà questa
a benefizio dell'educazione, e i procurerà ancora nel tempo della lacta
zione colle buone sue maniere , di prin- cipiare ad affezionarselo.
Sem. Che dovrà fare dipoi ? Pub. Già toccherà ad effa
slattarlo, e * si perderà il sonno più di una notte. B b 2 Sem,
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] liri Sem. Sarà bene, acciocche non
lo perdiamo anche noi, di tenerlo in qualche mezanino lontano dalle nostre
stanze, Mec. Per questa cagione sono andato io più volte in collera co i
miei amici , avendo osservato lontani dal loro appartamento i figliuoli anche
lattanti,per timore, come dicean'o , che non turbarsero il loro riposo, e
diceva loro: pere dete pur tanto tempo, e vegliate tanto per il giuoco, e
continue conversazioni, oh bene non potete vegliare un poco pe’ vostri
figliuoli? E se non lo volece perdere voi, cui tanto debbono premere , vi
persuadete forse, che le donne mercenarie di servigio vorranno perdere il fonno?
Dormiranno ben bene, e lasciefanno piangere chi vuole; ma da questo quanti mali
ne saranno seguiti lo faprà meglio il Dottore. Med. lo dalle offervazioni
fatte sono arrivato a conoscere questa verità ; che più fortunati siano nel
mascere, e nel imorire i poveri, che i ricchi; perchè quelli dalle proprie
Madri sono lattaţi, eand custoditi diligentemente con amore;docal ve che questi
sono consegnati alla indi screta servitù, e trattati assai diversadai
mente in tutto ; e posso riferire a que fto proposito di averne curati
alcuni,che caduti dal letto, per trascuraggine del. le balie , ebbero a
perdervi la vita , ed altri, per il gran pianto fi allentarono , negando cal
volta loro il latte le balie, allorche ne avevano bisogno; e per avere loro
ripercosso secretamente il lat. time, quanti ne sono periti? Giccome ancora
quanti ne sono morti af gati per averli tenuti negligentemente nel proprio
letto ? avvenimenti tutti, che afa sai più di rado G odono accaduti tra
po veri , quantunque questi siano assai i più numerosi, che i bene
stanti. Della morte dei ricchi non parlo, perchè ave. rete uoi medesimo
osservato questi, be ne spesso, per li soverchi, e conculcati : rimedj,
dati loro, più facilmente , che i poveri perire, & alle volte in mano
de Ciarlatani. Pub, Se voi dunque avercte amore
per [ocr errors][ocr errors] Bb 3 per i vostri figliuoli non
li terrete lontaa ni dalle vostre stanze in ogni tempo per. che tal vicinanza
darà stimolo maggiore alla matrona di avere per loro più attenzione , &
all'altre donne di fare me . glio il loro uffizio. Sem. Riferitemi ora il
modo, che doverà tenere in appresso per conoscere meglio s'ella, operi a suo
dovere? Pub. Già fu discorso, ma non sarà mai a bastanza, di quello, che
dovrå farli intorno ad imbeverarli ben bene del fan. to cimor di Dio, e
crediate pure per cofa certa, che questo è il fondamento principale della buona
educazione; efsendo esso solamente capace di rimuovere tutti i vizj, non
porendo questi far breccia ove si ricrova benradicato: è vero però, che questo
feme santo noni basta piantarlo solamence, na decli col. rivare sempre con
atrenzione, e fervore, acciocche non perisca, essendo che a poco a poco
germoglia ne teneri par. goletti, ed in questo doverete aricor voi invigilarvi.
In seguela poi dovrà, appe 19 and appena che le figliuole
faranno capa. ci, tenerle impiegate ad apprendere qualche lavoro di quei
necessarj a saperG dalle donne, che sono il cucire , far calzerte, cessere, e
filare, e questi disporli secondo l'ctà, e capacità loro : nel medesimo tempo
impareranno a leggere, e di poi a scrivere, e questa sarà l'incumbenza , che
dovrà avere intorno al lavoro, Sem. O ben le donne civili, e nobili
averaono da teffere, e filare che han. no forse da procacciarsi il vitto con
que. fti lavori Mer. Intorno al filare non avete occasione di
risentirvene, perchè è torna, ta l'usanza di farlo ; non sò però se per
bizzarria, o per profitto ; averere pur veduto, Sempronio, nelle case civili
conocchie sì ben fatre , che fanno venire la voglia di adoperarle anche a noi
al. tri uomini. Sem. Queste le ho veduce certamente, ma però stare
oziose, onde mi perfyadeva, che fossero state fatte per col locarle
dentro i loro scarabattoli nonri: mirandole punto adoperate . Mer. Nonaveranno
filato in presenza vostra, perchè non avendo voi moglie non era tempo ancora,
the imparaste a filare alla moda. Pub. Le caste donzelle in questo s'im:
piegavano anticamente, e tralasciando di riferire, che lo facessero Penelope,
Lucrezia , & infinite Matrone Romane; Alffeandro Magno fi vestiva co gli
abiti teffuti dalle fue Sorelle, come racconka Curzio ; & Augusto non portò
già altri abiti , che quelli, che dalla sua Moglie, Figliuola , e Nepoti
erangli ftati fatti, come riferifce Svetonio: Onde se no li vergognavano queste
di farlo, per qual motivo potranno aftenersene le tanto inferiori ad effe
? Sem. Ma fe non avessero genio di fardo , tanto più non vedendolo
praticarea alle Madri? Pub. Questo genio può farfi venire con riferir
loro qualche bell'esempio, & appunto de racconta uno il Surio nel di
fe fecondo di Maggio, che se coinincies ranno a gustare le cose di Dio
sarebbe assal a propogto: dice dunqu'egli, che andando S. Antonino Arcivescovo
di Firenze, per una contrada di qite!la città vide un buon numero di Angeli,
che formavano come un corpo di guardias e sopra il tetto di una povera
časa ; li ven , ne in pensiere di catrarvi, e di riconoscere l'occasionc
y per cui meritava canto favore da Dio; non vi trovò, che und Madre con tre sue
figliuole , le quali filavano per guadagnarsi un poco di pane, e stavano con
gran modestia : vedendo il Santo il bisogno , che avevano, fc loa to una buona
limosina :-Dopo qualche tempo ripassando per la medesima strada vide, che la
stessa casa era ricoperta di piccioli folletti, armati di tutti quei stromenti,
che fogliono portare li dediti alla libertà del mondo : entrò, evide le
medesime, che passavano il tempo a ridere, scherzare', e motteggiare , e fare
le belle: Riferito questo, si poa trebbe soggiungere loro, che se Iddiogradisce
canto il non stare in ozio in quelle, che sono miferabili, quanto più lo
gradirà in effe, che spontaneamente, e fenza bisogno alcuno lo fanno e
credetemi, che non mancano modi per fare applicare le figliuole, effen. do
queste più docili demaschi. Sem. Oltre il lavoro, che averanno da fare di
vantaggio ? Pub. In tutte le cose deve esservi la buona ordinanza, la
quale tutta dcpende dal sapersi ben compartire il tempo , onde queste essendo
pratiche divideráno Je ore def giorno in questa guisa ; la pri. ma della
mattina , dette che saranno le figliuole, e veftite di tutto punto, sarà
impiegata al servigio di Dio con fare orazione, o sentire qualche cosa di
quanto esso vuole da noi; ciò fatto dcefi ristorare colla colazione moderata il
corpo, per poi passare quelle ore de. ftinate al lavoro; e terminate queste ,
conviene di fare alquanto esercitare il corpo in cose non violence, e
permettendolo il tempo, in aria con affatto [ocr errors] rac [ocr
errors] .. 395 K tacchiusa. Avvicinandosi poscia l'oras del definare
converrà prendersi il nutrimento a proporzione dell'età, e poi dopo di questo è
neceffario godere alquan. to di riposo, per potere alle ore destitiate tornare
al solito lavoro. Sem. Sino a qual'età possono i maschi ftare sotto la
custodia della matrona? Pub. Fin tanto appunto, che, cono. scendo le
lettere dell'alfabeto, possono consegnarli al Maestro, per tenerli in quelle
ore , che dovrà far egli scuola fotto la sua custodia; ben è vero peròs che non
essendovi l’Ajo,possono ritornare, per quelle ore, destinate al diverti
mento, sotto la cuftodia della medelima $ matroni. Semi. Nascendo tra
fratelli, e sorelle qualche contrasto come doverå regolarli la marrona?
Pub. Sogliono i fanciulli vivaci essere molesti alle forelle, e da ciò ne
nascono bene spesso trà loro reciproche aleercam zioni, mà se la matronal
manterrå fotenuta a segno, che non pregdano les [ocr errors][ocr errors]
confidenza , avendone rimore di essa, difficilmente si avanzeranno a contendere
tra loro, ma caso che la sua efficacia non bastasse,dee di ciò farne
consapevole il Padre, o il Maestro , affinchè pensano a prendervi il più
opportuno rimedio con tenerli separati. . Sem. Crescendo le figliuole in
età, e scoprendosi in esse qualche differto donnesco, come li dovrà regolare la
matrona per estirparlo? Pub. Non aspetterà quefta , essendo prudente, che
giungano fimili diffetti a manifestarsi ; perchè come dicemmo procurerà con
preventivi ripari di ab. batterli prima che si manifestino. Sem. Venendo
le figliuole negli anni , ne' quali sogliono alcune cominciare a contristarsi,
e fofpirare, che averà da fam rela matrona? Pub. Le figliuole ben'
educate difficilmente cadono in fimili debolezze; ma quando mai ciò seguisse in
alcuna, alJora si conoscerà il senno, e la prudenza della matrona; posciachè si
saprà inters ! [ocr errors] e nare nella sua confidenza per
consigliarl a far cose non disdicevoli alla sua condi* zione,ed a
lasciarsi regolare dal suo amo. roso Padre. 3 Sem. Ma non sarebbe meglio,
quan. do si vedellero contristate, porle in monastero per compire
l'educazione? Pub. Se sarete sicuro , che colà possano vivere con più
ritiratezza, che in casa vostra , ed abbiano migliori direttrici cui dia
l'animo di calinare le loro passioni, potrebbe farsi ; mà se poi vivessero con
libertà maggiore, qual vantaggio ne ricaverebbero ? Sem. Vivono colà
tanto ritirate, che la porta di rado si apre; ne viene permefso l'ingresso
libero ad alcuno. Pub. Qucfto non basta se gli occhi, c le orecchie
staranno maggiormente aperte; perche per esse po lono entrare le cagioni de'
sospiri: e poi voi, Sempronio,mostrate di non fidarvi della voftra matrona , la
quale totalmente dipende da voi, enon diffidate punto di tanţe servenci
de’monafterj, sopra le qua; [ocr errors] di autorità niuna yoi avere.
Sem. Sarà ben vigilante in questo chi averà cura dell'Educayde, Pub. Voi
y’ingánate$épronio, se crede, te,che l'altrui vigilanza superi quella de
genitori attenti , e capaci : onde mi perJuado , che nella casa paterna queste
ftiano meglio , che altrove, Mec. Voi dite bene,Publio , che fiee te
capace di custodirle come li dee, mà datemi un Padre, ed una Madre, che ad
ogn'altro pensino, che all'educazione delle figliuole , e tanto maggiormente se
non averanno una tale donna capace , e fedele a ben diriggerle, o saranno prive
di Madre, la sola casa pater. na sarà sufficiente a custodirle? Pub.
Credo certamente di no. Mec. Or dunque, che fi hà da fare in questo caso
per non lasciarle a discrezio. ne dell'infida servitù ? o bisognerà, chę qualche
faggia parente la conduca in casa sua, o porle in monasterio , sotto Ja
direzione di saggia Maestra, Pub. Non è questo il rimedio appro;od [ocr
errors][ocr errors] priato al loro male, che congste in una gran passione , la
quale non si : può rimovere da esse senza cósolarle.Ne certamente si
cureranno già di ricevere i queste in casa loro le saggie parenti : e
ricevendole le imprudenti qual vantaggio ne potreste Iperare ? E ponendole in
monaftcro sotto la cura di faggiaMaestra qual bene potranno ricevere da
essa ef$ sendo tra loro discordanti di genio ? fa rebbe più capace tal
una di queste di sedurre altre compagne,a far che si unifor massero al
suo genio , più tosto, che di u mutarlo; onde nè ad esse, nè al monastero oi
tornerebbe conto , che vi entrassero, 1 Intorno poi al sudetto riincdio ne
parleremo a suo luogo , e tempo, Şem. E quelle figliuole, che non avea se
ranno le accennate paflioni ponno eduei carsi ne monasteri? Pub. Se i
loro genitori sarın capaci, ed attenti, e viveranno all'antica, non fra farà
d'uopo cercare altra casa , che las paterna per educarle, come dicemmo
parlando de figliuoli della Conferenzís [ocr errors] 1, della presente
decade ; mà se poi foffe il contrario,non sarebbe buona per esse, ¢ converrebbe
anche fanciulle racchiu. derle in monafterio, affinchè si discostas sero
dalrimirare i mali efsempj domesti ci, specialmente quei, che potrebbero dalle
Madri ricevere , Sem. Vorrei che mi diceste, Mecena, te,in che possono
difettare le Madri nella educazione dellc figliuole? Mec, In due cose
principali, che so. no l'eccessivo amore che portan loro,e la libertà che
vogliono mantenere per fare ancor esse tutto a lor modo. L'amore non le
permetterà di contriftarle, ne riprenderle, e la libertà,che vogliono godere ,
le disanimerà a procurare di farle .vivere diversamente da quello ch'esse
.coftumano, e vi voglio riferire un caso seguito in mia presenza, Si trovavano
in una conversazione alcune gentildonne în tempo di carnevale , le quali
domandavano l'una l'altra quante volte avevano condotte, le loro figliuole alle
commediese per verità non udj già che alcu na if ve le avesse
condotte poche volte; vi fù f, bensì la più attempata dell'altre, che hin disse
in tempo ch'ella era zitella rare tudi volte G costumava condurvele, e se non #
era modeftiffima l'opera, che si recitava cui non potevano già udirla le
zitelle; vi fù chireplicò ancora che non si poteva oggidi far di meno di
non condurle;perchè altrimenti fi contrifterebbero tanto, che non ci si
potrebbe più vivere ; non dico altro,che vedo il mondo andare da male in peggio
come predisse Orazio. Sem. Oh consideriamo come anderà l'educazione delle
cittadine , e dello à plebce ! Mec. Sappiate, che a queste fi è dato da
qualche tempo in qua un'ottimo regolamento, essendosi aperte scuole publiche in
ogni Rione, e mantenute dalla generosità del nostro Prencipe , - ove
vengono dirette da Maestre molto esemplari numerose figliuole,molte delle
quali si tratrengono ivi tutto il giorno; onde non solamente hanno occasione
tutte di apprendere il fanto timor di Сс Dio, Dio, ed il buon
costume, ma eziandio d'approfittarli in molti lavori dooneschi utili, e
necessari per la casa , tenendoli in oltre lontane da quelle occasioni, che
potrebbero in esse introdurre difetti; onde fpererei, che quando questo fanto
istituto giuagesse ad eliere sufficienre anche per le più miserabili,
un'infinito bene, e più universale se ne porelle ricevere Sem. Bramerei
ora di sapere quale sia il tempo più opportuno d'apprendersi de fcienze?
Pub. Si parlerà di questo quando ci rivedremo, [ocr errors][merged small]
[ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] 1 Sopra l' età
opportuna d'apprendersi le scienze, cd il modo più façile per accertarsi delle
par. ticolari inclinazioni de' figliuoli, Sempronio , Publio ,
Mecenate , & Medico, [ocr errors] Pub. A proporzione
delle cose li può chiama. re ànima del monL do ; essendo che questa
lo mäntic ne, clo fà risplen. dete : sconcerto grande certamente formano
quelle cose, che sono prive di efsa. Se per sua sventura veniffe genio ad uno,
che avesse voçe rauca abituata di fare il Musico,non doverebbe certamen
Сс 2 quali deb bago Z S Semo
1 1 [merged small][ocr errors] [ocr errors][merged
small] 3. onde to H fpo. F
2 Dum Sem, A 2 Mec. 127. ÇON:
IOI ani te egli effettuarlo ; perchè non troverebbe, quando anche
giugnesse a saper cantare, chi si prendesse diletto del luo ingrato canto.
Converrà dunque in tutte le cose prendere la sua proporzione giu. sta, con
proccurare attentamente, in fare ciò, di non ingannarli. Sem. L'erà
dunque proporzionatas ne' figliuoli per apprendere le scienze quale sarà?
Pub. Quantunque secondo il loro spi. rito, e capacità deel cio regolare ;
nulladimeno prima di dodici, o tredici anni farà difficile, che questa sia
proporzionata ; e tanto maggiormente, che debbonsi prima applicare ad imparare
la lingua latina , per meglio intenderle. Sem. Ho sentito dire da
qualcuno, che la lingua latina li potrebbe imparare come Gi apprendono gli
altri linguag. gi, o nella manicra, che s'impara la lingna nativa, o dipoi col
sentir parlares altri che la possiedono. Pub. Vedete , Sempronio, se voi
bra. mate fare da buon Padre di famiglia, sia. tc * t'e a mico di
fare poche novità nell'edu care, & istruire i vostri figliuoli, e
fere vitevi di questo avvertimento,che i Maa rescalchi, che non inchiodano i
cavalli da essi ferrati, sono quelli, che pongono il chiodo nella guida
vecchia · Anzi che vi dico di vantaggio,che se vi abbaca tefte per vostra
disgrazia in Maestri, che $ volessero sperimentare modi nuovi per
addottrinarli, non vi prevalete di loro; i perchè avendo i vostri figliuoli
perduto ; tempo in mano di questi, converrebbe farli tornare da capo.
Mer. Vi fu a questo proposito un cer. to Maestro di musica, chiamato
Timor teo, che pretendeva doppia mercede & da quei, che avcano
imparato l'arrej 1 senza buoni fondamenti , adducendone op per cagione , che
doppia facica glicon veniva fare ; cioè, che disimparasfero essi
ciò che avevano appreso, e poi d’indi fegnare loro le vere regole dell'arte
: onde se dupplicata riuscirà la fatica a Maestri nel caso , che non
avessero pre. sa la strada diritta, il fimile seguirebbe Cc 3 an.
[ocr errors][ocr errors] anche a voi per doverli far dilimparare ciocche
malamente apprefero. Pub. E poi,che cosa averebbero a fa. re i figliuoli
allorchè non hanno ancora la capacità di apprendere le scienze e quando mai ne
acquistassero alcuna parte di esse, seguirebbe ciò per la felicità di memoria ;
ina non capirebbero già quello che elli avessero appreso, nè tampoco saprebbero
prevalera di quel documento generale,non ben capito,in molte particolari
contingenze; onde tal'età non sarebbe proporzionata per fare acquisto delle
scienze. Sem. Ma se caluno avesse ingegno, e capacità maggiore degli
altri, perchè non potrebbe questi esserae capace anche nella tenera età ?
Pub. Dee benli avvertirsi di vantag. gio in questi se.convenga allora porli a
fimili laborioli studi ; perchè il buono agricoltore , quancunque abbia un
campo fertilissimo, a suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare ancora , per
non vederlo divenire sterile, e poi chi sà [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] si, che non sia un fiore senza frutto quello,
che comparisce prima del suo tempo 2 e che poi allorche gli altri,erci
đuti di minor ingegno si vedranno cari, chi di frutti, questi non si
rimiri spogliaco di efi? ricordiamoci, che: nil violentum durabile. Met.
Aveva un giovanetto di questi fatto una bella composizione in lode di un gran
Personaggio, e recieztala alla sua presenza con tanto spirito, che ne. i
rimase ogn’uno degl’ascoltanti ammira to; il meno ingegnoso, é fpiritoso,
che vi era tra efli , domandò al suo Maestro, che ivi si trovava presente, sçra
ftaja composta dal detto figliuolo, cui rispoe fe di fi ; e voltatosi
egli a quel Personag gio gli dise : fogliono alcuni avere spirito, c
capacità grande da giovanetti, la quale perdono poi avanzati che sono o
negli anni. Udendo questo il figliuolo 1 rispose prontamente a costui: ma voi
Sigaore, da giovanetto bello spirito, c | capacità che averete ayura !
Rimafer quel Signore in vdir si propra, ed argu Сс 4 ta
ta risposta, la quale fe credere a tutti la composizione essere fata fua.
, sem. Questi ingegni dunque , per quanto ho udito, averanno d'uopo più
tosto di ritegno, che di stimolo. Pub. Voi non dovere dubitare di ciò,
vedendolo praticare giornalınente nella vostra scuola di cavalcare, ove tra i
precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di non lasciare la libertà del
freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli degli altri. Sem. Come mi
dovrò regolare per conoscere, che sieno i figliuoli proporzionati più ad una,
che ad altre scienze? Pub. Dovrece principalmente fare esplorare il loro
genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe corrisponda questo alla loro capacità, e
disposizione naturale. Sem. Come si potrà conoscere, che fia stabile
questo genio ? Pub. Ciò di discerne benissimo; pofciache i figliuoli
dalla più tenera età cominciano a mostrare le loro inclinate egli effettuarlo ;
perchè non troverebbe, quando anche giugnesse a saper cantare, chi si prendesse
diletto del luo ingrato canto. Converrà dunque in tutte le cose prendere la sua
proporzione giu. sta, con proccurare attentamente, in fare ciò, di non
ingannarli. Sem. L'erà dunque proporzionatas ne' figliuoli per apprendere
le scienze quale sarà? Pub. Quantunque secondo il loro spi. rito, e
capacità deel cio regolare ; nulladimeno prima di dodici, o tredici anni farà
difficile, che questa sia proporzionata ; e tanto maggiormente, che debbonsi
prima applicare ad imparare la lingua latina , per meglio intenderle.
Sem. Ho sentito dire da qualcuno, che la lingua latina li potrebbe imparare
come Gi apprendono gli altri linguag. gi, o nella manicra, che s'impara la lingna
nativa, o dipoi col sentir parlares altri che la possiedono. Pub. Vedete
, Sempronio, se voi bra. mate fare da buon Padre di famiglia, sia.
tc * t'e a mico di fare poche novità nell'edu care, & istruire
i vostri figliuoli, e fere vitevi di questo avvertimento,che i Maa rescalchi,
che non inchiodano i cavalli da essi ferrati, sono quelli, che pongono il
chiodo nella guida vecchia · Anzi che vi dico di vantaggio,che se vi
abbaca tefte per vostra disgrazia in Maestri, che $ volessero
sperimentare modi nuovi per addottrinarli, non vi prevalete di loro; i
perchè avendo i vostri figliuoli perduto ; tempo in mano di questi, converrebbe
farli tornare da capo. Mer. Vi fu a questo proposito un cer. to Maestro
di musica, chiamato Timor teo, che pretendeva doppia mercede & da
quei, che avcano imparato l'arrej 1 senza buoni fondamenti , adducendone op per
cagione , che doppia facica glicon veniva fare ; cioè, che
disimparasfero essi ciò che avevano appreso, e poi d’indi fegnare loro le
vere regole dell'arte : onde se dupplicata riuscirà la fatica a Maestri
nel caso , che non avessero pre. sa la strada diritta, il fimile seguirebbe Cc
3 an. [ocr errors][ocr errors] anche a voi per doverli far
dilimparare ciocche malamente apprefero. Pub. E poi,che cosa averebbero a
fa. re i figliuoli allorchè non hanno ancora la capacità di apprendere le
scienze e quando mai ne acquistassero alcuna parte di esse, seguirebbe ciò per
la felicità di memoria ; ina non capirebbero già quello che elli avessero
appreso, nè tampoco saprebbero prevalera di quel documento generale,non ben
capito,in molte particolari contingenze; onde tal'età non sarebbe proporzionata
per fare acquisto delle scienze. Sem. Ma se caluno avesse ingegno, e
capacità maggiore degli altri, perchè non potrebbe questi esserae capace anche
nella tenera età ? Pub. Dee benli avvertirsi di vantag. gio in questi
se.convenga allora porli a fimili laborioli studi ; perchè il buono agricoltore
, quancunque abbia un campo fertilissimo, a suo tempo vi getta il seme, e lo fa
riposare ancora , per non vederlo divenire sterile, e poi chi sà
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frutto quello, che comparisce prima del suo tempo 2 e che poi allorche
gli altri,erci đuti di minor ingegno si vedranno cari, chi di frutti,
questi non si rimiri spogliaco di efi? ricordiamoci, che: nil violentum
durabile. Met. Aveva un giovanetto di questi fatto una bella composizione
in lode di un gran Personaggio, e recieztala alla sua presenza con tanto
spirito, che ne. i rimase ogn’uno degl’ascoltanti ammira to; il meno
ingegnoso, é fpiritoso, che vi era tra efli , domandò al suo Maestro, che ivi
si trovava presente, sçra ftaja composta dal detto figliuolo, cui rispoe
fe di fi ; e voltatosi egli a quel Personag gio gli dise : fogliono
alcuni avere spirito, c capacità grande da giovanetti, la quale perdono
poi avanzati che sono o negli anni. Udendo questo il figliuolo 1 rispose
prontamente a costui: ma voi Sigaore, da giovanetto bello spirito, c |
capacità che averete ayura ! Rimafer quel Signore in vdir si propra, ed
argu Сс 4 ta ta risposta, la quale fe credere a tutti la
composizione essere fata fua. , sem. Questi ingegni dunque , per quanto
ho udito, averanno d'uopo più tosto di ritegno, che di stimolo. Pub. Voi
non dovere dubitare di ciò, vedendolo praticare giornalınente nella vostra
scuola di cavalcare, ove tra i precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di
non lasciare la libertà del freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli
degli altri. Sem. Come mi dovrò regolare per conoscere, che sieno i
figliuoli proporzionati più ad una, che ad altre scienze? Pub. Dovrece
principalmente fare esplorare il loro genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe
corrisponda questo alla loro capacità, e disposizione naturale. Sem. Come
si potrà conoscere, che fia stabile questo genio ? Pub. Ciò di discerne
benissimo; pofciache i figliuoli dalla più tenera età cominciano a mostrare le
loro inclinapo [ocr errors] ruti zioni, & in proseguimento di essa li
van. no spiegando meglio, & alla fine avvici. nandosi al tempo di
risolversi , la palesano espressamente, ed in questo caso è veramente
stabile, e fissa. Oh quanto die si conobbe bene fin da suoi teneri
anni il genjo di Marco Catone : posciache quanrunque venisse
violentato con fiere minaccie a fare cosa da esso creduta di-
sdicevole da Quinto Popedio Latino, si mantennc sempre costante nel suo
senti- mento; il di cui animo intrepido G. avan- zò, crescendo
negli anni; posciache condotto alquanto più grandicello, da
Sarpedone fuo pedante a casa di Silla per visitarlo, e vedendo nel
cortile di decto palazzo la lista de' proscritti, eb. be a
dire : è possibile, che non vi sia chi ammazzi un tiranno sì crudele
comes Silla? domandò egli al suo pedante un coltello, dicendogli ,
che ad esso fareb- be riuscito facile il poterlo uccidere ; perchè
fi poneva a sedere accanto a lui come riferisce Valerio Massimo,
Sem. E se nell'ecà genera avessero mo. stra, strato
qualche inclinazione ad una scien. za, e poi dopo qualche anno li fossero
invogliati di qualche altra , ed alla fine, venuto il tempo da determinarli,
voJeffero apprenderne alera differente da queste, che doverà farsi? Pub.
Questi sono di genio istabile , e non li fiffano mai, onde a qualunque fcienza
si applicheranno, non sarà mai di lor piena sodisfazione , ed in questo caso
consigliatevi con chi ben conosce. rà il loro talento, come sono i Macítri, e
da esli comprenderete in quale fcienza ciascun di loro potrà riuscire più atto,
e fare in modo , che in quella fi applichi. Sem. Ma fe moftraffero non
avervi genio ? Pub. Questo si fa venire con far suggerire loro, che
quella scienza , la qua. Je si crede proporzionata alla loro abilità, sia la
più bella, la più nobile, la più utile, c la più dilettevole, che li
accomoderanno senza indugio a volerla apprendere. Sem. [merged
small][ocr errors][merged small] Sem. Sarebbe necessario, che m'in formaste
ancora sopra la facilirà , che uno possa avere in apprendere più una scienza,
che un'altra Pub. Se voi scorgerece un figliuolo serio, e prudente, per
quel che potrà portare la sua età, divota', e che inclis ni all'ecclesiastico,
questi pare nato per istudiare Teologia, Se serio parimente, e prudente ,
volonteroso di studiare, s che tal volta nelle picciole altercazioni nare tra
fratelli effo fi frapponga , e mostri voler giudicare , chi di loro abbia
corto, o ragione , a questi fate pur studiare Legge, che diverrà un'altro
Bartolo. Se poi obiecterà , sarà riflessivo, tirerà frequenti conseguenze , questi
averà cutti'li buoni requisiti per divenire un'eccellence filosofo . Se lo
vedrere ingegnoso in adattare, e difporre i suoi giocarelli puerili, prendere
misure di alcune cose, il suo genio lo porterà ad apprendere le Marcematiche ;
conforme seguì in Protagora, ed in Biagio Pa. fcali:c fs lo mirerete
sonrinyamente ap [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors]
applicato a disegnare, o rimirar picture, la sua inclinazione naturale lo
porterà a fare il Pittore : finalmente se lo vedrete afliduo nel tempo, che
qualcuno sia malato in casa, e desideroso d'allistergli, c stare con attenzione
ad ascoltare ciò, che dirà il Medico, il genio, e l'abilicà lo portano a
studiare Medicina. Sem. Se sarà nobile però come potrà effere Medico, non
costumandoli das pertutto che questi esercitino cale pro feffionc Pub.
Dunque sarebbe affai fortunato uno de’vostri figliuoli; se fosse Medico; perchè
essendo singolare , che stimas grande averebbe egli, e che belli acquisti
apporterebbe a casa vostra ? Sem. E se tal uno morteggiaffe, che
odoraffero questi alquanto di cattivo? Pub. E voi fate, ciò che fè
Vefpafiano a Tito, allorchè riseppe, che aveva ciò motreggiato, quando pofe la
gabella fopra l'orina , cioè di fargli odorare i danari, che da detta imporzione
furono esatti, e trovò il buon figliuolo, che [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors] il modo di medicar cavalli, alcuni nou 3 che non
avevano alcun cattivo odore, Dita ed il (mile seguirebbe anche in questi.
Mec. Vorrei sapere da voi, Sempro>nio, se vi sia stato alcun nobile, che
abbia imparato a medicare cavalli? Sem. Che voi non lo fipete! essendo.
!ci quel vostro amico, che non solamen te lo sà fare, mà anco l'esercita
, peel rò nobılmente. Mec. Oh Dio buono,per medicare le bestie s’ha da
impiegare senza alcun moc teggiamento un nobile ! e per curare un -2.14
uoino tanto più nobile di esse hà d'ave. mai retinore di essere motteggiato!
più no bile dunque farà creduto da questi of l'esercizio del Manescalco,
che quello del Medico, giacchè quello è esercitato da nobili, e questo da
essi viene abbor. rito? Pub. Hanno dato alla luce libri,sopra bili, tra
quali vi è Pasquale Caraccioli Cavaliero Napolitano, e Marino Gir, zoni
Senatore Veneto ; laonde potrebbero meglio impiegarsi i nobili nello elpi
scrivere di medicina, per imitarc Corne. lio Celso nobile Romano. Med. Vi
è stato anche a giorni nostri Roberto Boile nobile, e ricco Inglese , il quale
non hà risparmiato, ne spefa , ne fatica per accrescere la filosofia
fperimentale ; e quanto di bene egli abbia fatto, le sue opere lo mostrano ,
avendolo queste renduto glorioso a’posteri . Mec. In questo particolare
bisogna , che io parli contro di noi medesimi : per ispregare le nostre
ricchezze in lussi, lo facciamo prontamente ; per impiegarle poi a beneficio
della viriù, non ci sappiamo indurre, perchè pajono ad alcu. ni spregate,
quantunque realmente non fiano. Mà torniamo al nostro assunto. Sem.
Vorrei sapere dal Dottore, da che proceda la varietà dei genj . Med.
Questo secondo il mio debole fentimento credo , che da temperamenti poffa in
gran parte derivare, perchè colui , ch'è malinconico averà genio as cose serie,
il bilioso ad altre più risoluto, il demmático gradirà la quiete, ed
1 [ocr errors][ocr errors] il sanguigno amerà la varietà delle
cose, e poi rifletto, che l'arie ancora, ove al- cuni nascono,
ponno contribuire molto alla determinazione de genj, essendoche vi
sono alcuni luoghi,ove quasi tutti at- tendono ad un solo metiero, ed in
un tal clima li osservano genj affai differen, ti dall'altro;
ben è vero però, che alle volte ancora le altrui fortune fanno ve.
nire il genio più ad una cofa , che ad un'altra per esempio l'essere un
semplice Soldato divenuto Generale, ha fatto venire il genio a più
d'uno di seguitare la guerra : l'avere lasciato un Medico ricchezze
considerabili, ha dato moti- vo a molti di applicare alla Medicina
ed il fimil è accaduto nell'altre profes- sioni. Leggo però che
nella Cina, cd in alcuni altri dominj fuori dell'Europa quefi genj
sono già fissati , non essendo permesso ad alcuno il fare differente
me- stiero da quello di suo Padre., e perciò colà igenj sono
stabili non potendoli yariarere a suo modo. Şem.
E se quedo genio, che taluna do [ocr errors] de'figliuoli hà,
non corrispondeffe alla sua capacità, che doverà farsi? Pub. Questo suole
per lo più corrifpondere, quando nasca spontaneamente, e aon da impegno; perchè
ci potrebb' essere taluno, che avendo genio il suo compagno di applicare, per
esempio alla legge , e questa quantunque non geniale nulladimeno per non
discoftarli da esso, volesse anch'egli ftudiarla , ed in questo caso, vedendo
voi, che non avesse quell'abilità, che tale profes. fione richiede, potreste
farlo allontanare dal detto suo amico per qualche tempo, senza che penetrasse
il perchè, e così il genio , che nasce dall'impegno,fi muterà facilmente,
quando non vi concorra anche il proprio . Sem. Come mi potrò allicurare,
che fia proporzionato il genio, e l'abilità alla scienza , la quale bramano di
acquiItare ? Pub. Niuna cosa vel potrà far meglio conoscere , che lo
profitio , che faran. no ja quclle, perché è impossibile che con
[ocr errors][ocr errors] di concorrendovi l' abilità , ed il genio ,
questo non si faccia anche da principio, ed accertato, che voi sarete di
ciò vivea te pur quieto di mente, che ci è la sua of proporzione. Sem. E
se non ci sarà detto profitto, G doveranno levare da questa per porli ad
apprendere alcra scienza? Pub. Conviene maturare bene fimile si risoluzione,
per conoscere meglio don de proceda il non farsi profitto, poten. do ciò
nascere da due cagioni, cioè,o da fimulata inclinazione, o da inabilirà : se
provenissc dalla prima potrete fare da qualche loro confidente scoprire i
qual fia la loro propria inclinazione, ; dove il genio li porti, e prima
di perdere maggior tempo ponereli in quellas ad essi geniale ; se poi nascerà
dalla inabilità, ovunque li porrete, questa farà sempre impedimento al
conseguimento di essa. Sem. E se procedesse dall'essersipenriti,
ritrovandola più difficile di quello, che se l'erano figurata ? Dd
Pub. [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Pub. Questi
cenereli per istabili, poltroni, che poco di buono ne potrete tiçayare; perchè
ovunque gli applicherere , sempre faranno il medesimo, non avendo fermezza , ge
sofferenza per la fatica, Sogliono però alle volte alcuoi di questi rimetçerli
nella buona strada , quando ciò venisse da una certa pufillanimità di cuore ,
onde farà bene di ajugarli da principio con buoni repetitori, mediante i quali
animandosi , prosegui. ffono poi con profitto , Sem. E se non ayeffe
taluno genio a fofa alcuna, come mi doyero regolare Pub. Vi potrete con
questi regolare a yostro modo , ogni qual volca či liau Pabilità, e l'ingegno ;
perchè sogliono alcuni per modestia in tutço , e per tut: to forromergersi al
volere paternoję queIti riescono per lo più virtuofi , ogni qual voltą abbia
l'ayerţenza di farli applicare a quella scienza, che Gia proporzionata al loro
talento, come già di. femmo Sem. Stimate bene che nel tempo,i che applicano
alle scienze si possano , pare per loro divertimento, far applicare al plin
suonogal canto, o ad altri civili diverčia 0,1 mçnti? open Pub, Şe li yoletę
far divertire day * quells, fateli applicare anche a questi , A Colui, che
applica, e li approfita in cose ferie , non bisogna distrarlo con
çosę amene, perchè le prendeffe cal vol. i ha genio grande a queste come
ande, rebbero , Sempronio mio, le serie an zi che, se ne
moftrassero efli genio,dove. a fe da questo diftorli, con dire loro, che
approfittati, che saranno nelle scienze, * yoi medelimo volere, che si
divețiano o in quelle, ed in turti gli alțri civili orna mengi . In un
caso solamente fi potrebbe ciò permettere, cioè quando il figliuolo fosse di
temperamento molto malin. conico, e çetro per solleyargli l'animo
contriftato, Sem. E se la foyerchia applicazione allo {tudio danneggiasse
la salute, che converrà farsi, Dottore? Med. Primieramente procurerere,
DI? che [ocr errors][ocr errors] illbuono per evitare i nocu.
che si moderi ciocche sarà eccessivo;perchè quello che non fi può apprendere ia
un giorno, fi apprenderà nell'altro, e fe voi vedrete , che ciò non basti,
levateli affatto dallo studio ; perchè è me. glio il figliuolo fano, quantunque
fias ignorance, che dotto divenuto inabile a godere il frutto delle sue
faciche: e non vi fate dare ad intendere da parabolani, che a forza di rimedi
possa superarsi tal incomodo, perchè in tal caso averà due nemici, che lo
perseguiteranno;cioè l'applicazione soverchia, ed il rimedio da taluno credulo,
o malizio. menti di effa, quando lo specifico rimedio consiste nella totale
rimozione dall'applicazione: Sem. Approfftrati che saranno i figliuoli,
che dovrà fare il buon Padre di famiglia per provederli bene? Pub. Ci penseremo
trattanto, e la di. scorreremo in appreffo. CONFERENZA sopra gl' impieghi,
che dovranno darsi da faggi Padri a' figliuoli ben’educati ,, e
dotti. Pub. o sviscerato ainore de Padri verso i figliuoli, li fa
bene spesso cadere in mol. ti eccelli, e partis colarmente allorche
questi nascono ; pofciache fino da quel punto di figurano alcuni di efi , e
senza alcun fondamento, di far loro ottenere grandezze, & onori
confiderabili, e per ciò allora dispongono d'indirizare il primo per l'
Ecclesiastico, a fin che giunga a sublimi posti; di acca fare il fe
con el Dd 3 [ocr errors] condo , e fargli ottenere una groni
lima dote : d'incamminare il terzo per un generalato di esercito: ed al quarto
; c quinto di dat per moglie figliuole ereditieres e ricche, acciocche poffano
passare la quelle famiglic ad ereditarne archie il cognome. Se tali chimere,
senza verun fondamento ideates riuscisfero , oh chie bella cosa che sarebbe!
l'averebbero con quefti modi certamen. té accomodati tutti affai bene : mà
benedetta sia quella volta, che pur una di queste si verifichi in tutto ;
posciachè al destinato per l'ecclefiaftico viene genio di prender moglie; a
quello per la moglie di farsi ccclefiaftico, o religioso; all'altro per
condurre eserciti d'imparate a guidar bene un biroccio ; o muta i fei; ed agli
altri destinati, pet rostegno di famiglie altrui, di rovidare, per quanto
poisono s la propria , con giuochi , é bagordi ; a quali si darino in preda : e
sapete ciò da che nasce dal non avere i Padri appreso bene da Salomone al 16.
quello che debbatio fare , qual'è? Cor. bos st bominis difponii
viam fuam, fed Domini eft. n diriģere grefus fuos; onde per voler fare to tutto
da se medesimi, perciò non poffo. ! nio avere buon fine i loro disegni . of
Mec. Questo l'ho confiderato anche dio più volte, in occasione, che seativa I
dire a Padti: questo l'ho già destinato i per la tal via ; e quello per
quell'altra s # conforme ch'elli fossero stati arbitri del la Providenza
Divina , che regge turto, a difpofitoti assoluti delle inclinazioni de
figliuoli ; é volendo ammonire sopra di ciò talun di quefti , mitróncava il dia
scorso con dire che già poneva da para te gli assegnamenti necessari, e che
pensava ancora alle fpefe straordinarie ; per i quando avessero conseguito quelle
caris che; che bramavano di fare orretiere 2 figliuoli; ed era quelto
trent'aniti primas che le potessero conseguirt , onde mi sembra vano le loro
menti teatri di commedie, ove fiori personaggi paffeggiano · Sem. Non ci
averanno dunque das penfare, i Padri allorche nascono i Ai gliuoli di far
conseguire loro vantaggi? DI 4Pub. Non hanno allora da pensare a questo, mà
bensì di proccurare, che divengano abili a conseguire quella buona sorte , che
Iddio 'averà preparata a meri. tevoli : e perciò fantamente un saggio Padre
aveva in una tela fatti dipingere i suoi figliuoli colla sola camicia, e con
questa iscrizione. Tocca a Dio lo stabilire In che guifa han da
vestire . Volendo significare , che a lui non toccava fare altro, se non
ricoprirli colla ca. micia, affinchè non comparisfero affatto nudi ; nel
riinanentę poi si uniformavi colla volontà di Dio, acciocche li avesse
rivestiti a suo modo, e che questa prima copertura non consisteva in altro, che
nella buona educazione , alla quale dovea cffo pensare; onde non prima , che
fiano educati, ed istruiti questi nelle virtù,possono i Padri comprendere, che
voglia Iddio disporre di eli. Sem. Qual di questi il Signore Iddio averà
disposto per acca farsi? E sem. Quello , che conoscerece più (e frio,
sano, e sensato, e che averà inclina. kizione a questo, perchè avere pur
udito bu qual capacità , e segno ci vuole per prenaf dere moglie? Sem. Se
il primo genito , al quale si suol dar moglie, non avesse tutte queste
condizioni, e foffe volonteroso d'accasarsi, che si averà da fare? Pub.
Se gli mancaffe la sanità, o faviezza sarebbe segno, che Iddio non vo. lesse; e
voi potreste sostituire ad esso chi fosse più capace.. Sem. É se ci fosse
il maggiorasco, che ma potrò far io venendo egli chiamato as [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Farete dal canto vostro tutto quello , che
potrete ; perchè non manca. no, ripieghi in simili contigenze, per farlo
rinunziare a questo, con serbarli un buon assegnamento; mà se poi non vi
riufciffe converrà averci pazienza; perchà vostra non è la colpa , mà di chi lo
chiamò a questo, che non pensò a tanto. Sem. E per l'ecclesiastico, chi
dielli a doverà incaminare, Pub, [ocr errors] Pub. Il più docilc,
dotto, e divoto. Sem. E se non avess' egli tal genio ? Pub.
Sarebbe segno che Iddio non lo volesse per questa via, e voi sostituitene un
altro ad effo, che l'abbia , quartunque foffe men dotto; o pute incominciatead
istradarlo per questa via alla lon. tana, che può essere's che tal genio gli
venga . Sem. É quale sarebbe questa via Pub. Quella della
Avvocatura, se fará inclinato alle materie legali; mà non to fare Avvocato di
dome, perchè cið (crvirebbe a nulla. Sem. Come mi dovrà regolare in far
questo? Pub. D'incaminarlo per la medesima via , che calcarono quelli che
sono riufciti eccellenti in tale professione ; i quali ne'primi anni
cominciarono a rivolta. fé protocolli negli offizj de Notari. Sem. Mà una
persona nobile non potrà far questo. Püb. E percið non potranno forfe
giugnere ancora alla perfezione di quellig che lo fecero: More [ocr
errors][ocr errors] Med. Vannio pure alla guerra ventu. fieri moltissimi nobili
con pericolo giornalmente di morte, e cominciano meri fanci di volontà; perchè
dunques non possono fare ancor questo, nel quale non li incontra un fimile
pericolo, ed il fine ancora, è retrissimo,onoratiffimos crfendo diretto
all'atimigistrazione della giustizia ? sem. E dipoi che dovranno
fare Pubs Prendere pratica delle cause appreffo i migliori Curiali , ed
esercitari in questa, passare a prenderla dagli Avvo. cati con iftare sotto la
loro dettatvra , se forà bisogno : e finalmeiite im poffeffati, che saranno in
detta pratica ascoltare attentamente per qualche tempo i Giudici de primi
tribunali; ed allor si, che po. tranno porsi a fare gli Avvocati , tros Vandofi
colmi di doctrina , e di sperien2à. Sem. Esercitato che averanno
l'Avvocatura che faranno ? Pub. Avendo acquistata perizia maga giore in
tal ministerio , c per averlo lom de. [ocr errors] deyolmente
qualche tempo esercitato , potranno per giustizia , non già per grazia
pretendere i migliori posti della Republica, e di grado in grado avanzandosi,
potranno conseguire ciò, che bra. mano: Sem. E’lsudetto genio come verrà
? Pub. Chi averà amministrato con rettitudine la giustizia, sarà senza
dubio rimunerato da Dio; se lo fè a Salomone per avere solamente mostrato
desiderio di esser giusto,fupplicandolo di ciò,come fi legge al 3. dei Rè: Quia
poftulafti ver. bum hoc , bu non petiffi tibi dies multos ; nec divitias
&c. ecce feci tibi fecundum Sermones tuos &c. fed, hæc que non
poftulasti, dedi tibi : divitias fcilicet, do gloriam; ed udite ciocche dice
per bocca d'Isaia al 51. Facite justitiam &c. ed ins appreffo: Beatus vir ,
qui facit hoc; e nel libro della sapienza al primo : diligite ju, ftitiam , qui
judicatis terram ; come volete dunque che, a questi non dia las vocazione
ancora di servirlo; cffendogli sì grata la sua servitù.Sem. Se taluno di eisi
volesse farsi re, ligioso, che dovrò fare? Pub. Non altro ch'esplorare se
fia vera vocazione, o soggestiones perchè se farà vera vocazioneld, dioè, che
lo chiama; onde a questa non dovete opporvi s perchè si sono veduti gastighi
assai evidenti fulminati contro chi si è opposto al Divino Volcre , : Sem. Come
mi porrò accertare di questa vera vocazione ? Pub. Dovete alla prima
mostrare res nitenza in dargli permissione, che lo faca cia : conducerelo
continuamente con esso voi, ed informarelo sinceramente di tutte le difficoltà,
che potrebbe in. contrare nella vita religiosa ; come anco delle astinenze, ad
altre penitenze, che tra effi fi costumano, con doverfi privare della propria
volontà, allorchè sarà religioso; e se si manterrà sempre saldo, é costante nel
suo proposito, crem dete per certo, che farà vera vocazione. Sem. Mà non
sarebbe bene, che lo condücelli alle conversazioni, alle comig me
medic, ed ai passeggi per divertirlo me, glio, caso che lo vedcili
malinconico? Pub. Questo poi non dovretç fare ; perchè allor îi che
perderebbe quanto di buono egli acquisto nell'educazione; e non facendoli poi
Religioso vi farebbe fofpirare, per averlo voi con defii mo: di improprj
sedotto , E non crediatę gia che facendosi Religioso, per vera vocazione,egli
viverà infelice, anzi che sarà il più contento, e felice degli altri, per, che
godono questi , quando non abbia. no ambizione, ed altri attacchi mog, dagi,
sommą tranquillità d'animo, Sem, Sicchè dunquc sarebbe bene, che facefî
venirç a qualcun aloro ancosa la yolontà di farsi religioso, giacchè elli
vivono così feļici, e particolarmense a quelli, che fossero incapaci di alcu,
no impiego della Republica . Pub. Ayversite, Sempronio, di non far
questo, con modi suggestivi, per fini mondani; come sarebbero, per far di,
venire gli altri fratelli,che sono al secolo più facologi mediapre l'augumento
delo la la sua parte șinunziara , o perchè non saperç a che
impiegarlo, mentre questo non piacerà a Dio, onde contentatevi di dare
solamente a Dio quelli, ch'esso yuole, e non quelli che non fanno per voi, come
sogliono pure troppo effettuar re alcuni, che sc hạnno raluno de figliuo, li
difertosi, o di poco fennolo consacra no a Dio, essendo questo il sacrificio
apo punto di Çaigo , che gli daya le vittiine più magre, e tanto maggiormențe
chę essendo questi turti suoi operarj? come volere, che poslano fervirlo bene,
se non avranno capacità sufficiențe di farlo? Mec, Sarebbero dunque, come
quelle vittime, che si offerivano agl'Idoli di Moloc, ed a quello di Sapurno
dai Gentili, che morivano nelle loro braccia jufocate senza esser capaci di
alçro, che di piançi. Sem. Se paluno & volçís'elimçre da qualunque
impiego per starsene senza pensare a cosa alcuna,che averò da fare? Pub.
Coltui bramerebbe darG all' ozio, e non è volontà di Dio, che stia
l'uo l' uomo ozioso leggendosi nella Geneli al 2. Pofuit eum in paradiso
voluptatis, ut operaretur, e se in luogo di delizie non volle , che stesse
ozioso l'uomo , come lo permetterà nel mondo? quando allorchè ye lo pose gli
disse : In Judore vultus fui vefceris pane tuo, donec rever. teris in terram ;
quale poi fa il danno, che apporta l'ozio uditelo dall'Ecclefiastico al 33.
Multam malitiam docuit otio. fisas; e maggiormente questo può nuocere a chi hà
beni di fortuna', perchè essendo l'ozio il padre di tutti i vizj, che ne
seguirebbe da questo? Allorsi che la buona educazione gli gioverebbe poco; onde
per ovviare a ciò potreste farli suggerire, se bramasse entrare in corte ove fi
sta per lo più a sedere , gon si fatica, ne fi applica a cose di rilievo,
discor, rendosi bensì delle novelle della città, e del mondo,e li fà una vita
neghittosa,la quale farà facilmente confacevole al suo genio, e perciò, che la
provasse un poco: caso poi, che ricusasse questa ancora, allora vedete a chc
aveffe genio, e la. [ocr errors][ocr errors] sciateglielo fare,
perchè sempre sarà meglio, che faccia qualche cosa', che stia coralmente
in ozio ; e tra gl'impieghi onorevoli ci sono la pittura, nella quale alcuni
malinconici i sono con genio esercitati : il lavoro alcorno : il dar las
vernice indiana , ed altre cose simili , confacevoli a chi non voglia
intraprendere affari di suggezione, ed udite ciocchè consigliava ancora San
Girolamo Epist. ad Ruftic. Vel fifcellam texe junco, vel canistrum piecte
viminibus ; più costo che ftare ozioso. Sem. E se tal uno di essi volesse
applicare a far negozj di cambi, e ricambi, edsagl’affitci'de dazj, averò da
permetterglielo? Pub. Ci penserei prima d'accordarglielo; non solamente
perchè nostro Signore Gesù Cristo levò S. Matteo da far simili esercizj, mà
ancora, perchè questi impieghi, che mediante un fallimento, o altri accidenti
del mondo ponno scomodare di molto, non sono negozj licuri, anzi azzardolidimi
in chihà da perdere molto del suo ; che questo lo faccia chi poco può
discapitare di proprio gl’è tollerabile. Sem. Avendo taluno genio alla
caval. lerizza, e li dilettasse di mantenere più cavalli di quelli, che Geno
necessarj,averò da collerarglielo? Pub. Essendo tal genio diretto alle
bestie, quando fi eccedesse nel numero , o nell'amore verso di effe, non
sarebbe tollerabile:nel numero, perchè al parere del Petrarca: in Dial. de
equo; Quot equorum mores totidem equitum pericula; e nell' amore, perchè
gl'uomini quantūque grádi, che vi cadettero, furono di ciò biasi. mati;
tra’quali Alessandro, Augusto, ed altri. Quindi è, che faggiamente dispone il
Deutero.al 17. Rex non multiplicabit fin bi equos ; or dunque come potrà ciò
permcttersegli, essendo anche dispendioso? Sem. Vado or riflettendo come
G rę. goleranno quei figliuoli educati benc da Maestri,criusciti eccellenti
nelle scienze, se non averanno i Padri attcari, e 'capaci di dar loro direzioni
buone in [ocr errors] j tempo, che debbono prendere stato : © che
faranno ancora quci nati da Padri poco nobili, e meno ricchi,effendo d'uopo
riflettere a tante cose per accomodarli bene? Pab, La gran providenza di
Dio supa plisce a questo; effendoche : bong menfi fuccurrit Deus,Allorchè
questi faranno divenuti capaci,cd abili, da loro medesimi comprenderanno qual
ha il volere Divino, ed avanzandosi colla loro prudenza giugneranno felicemcate
fin dove Iddio averà disposto, che arrivino. Sem. Io sono rimasto
sorpreso allo volte nel vedere cerți mal educati, e poco dotti , ed anco per
vie indirctte , giu. gnere a gran posti; ed altri, alle volte quanrunque di
vita esemplarc, meritevoli, e capaci, rimanere indietro, Pub. Questo
ancora è un arcano della Providenza Divina ; posciachc essas I tollererà , che
caļuno s'avanzi per queste ich vie; mà che ? vedendosi questi nell'au, ge
delle loro fortunc cadere a terra, çi i fa credere, che senza il Divino ajuto
for [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] formino la statua di
Nabucdonosor, 12 quale mediante un picciolo falsolino s' atterra, come appunto
provò Sejano. I E quelli poi, che rimirate non avanzarsi, avendo merito, Iddio
conosce, che quel posto,che voi credere, che compete. rebbe loro, e non lo
conseguiscono, non fàrà per loro,effendoche, oc'incontrerebbero delle
disgrazie, o pur sarebbe dannoso alla loro eterna salute, e di quefta
verità non dubiterere punto ; perchè alle volte: honores mutani mores, ondes
chi sà, che in questi non seguisse cosi? se volete udire altre ragioni sopra di
ciò leggete Seneca che tratta diffusamcnte di questo nel libro:quare bonis
viris mala accidant cum fit Providentia . Sem. E che dice di più di
questo? Pub. Tra le altre cose urili dice la Pro. videnza Divina a
coloro, che di ciò si prendono rammarico al cap. 6.Quid habetis quod de me
queri pofitis vos, quibus recta placuerunt? Aliis bona falsa circum. dedi ,
animos inanes velut longo , falla. rique fomnio luff, Auro illos , argento
, ebo [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ebore
ornavi: intus boni nibil eft . Ifti quos profęlicibus aspicitis fi non quâ
occurrunt, sed quâ latent videritis, miferi sunt , fordidi , turpes ad
fimilitudinem parietum fuorum extrinfecus culti . Non eft ifta folida, sincera
folicitas: crufta eft, quidem tenuis . It aque dum illis licet ftare, co
ad arbitrium suum oftendi, nitent , da imponunt cum aliquid incidit , quod
difurbet; ac detegat , tunc apparet quantum alta , ac veræ feditatis alienus
Splendor absconderit. Vobis dedi bona certa, manfura quanto magis versaveritis
, & undique inspexeritis,meliora,majoraque permisi vobis , metuenda
contemnere , cupienda fastidire. Non fulgetis extrinfecus : bona veftra introrsum
obverfa sunt . Non egere feu licitate fęlicitas veftra eft. Ferte
fortiter, bc. · Sem. Sin ora abbiamo discorso intorno al modo da
provederli senza soccorrerli di proprio , vorrei , che ora m’ istruiste come mi
doverò regolare con efli loro nel sovvenirli, vivendo io, e dopo la mia morte
? Pub, [merged small][ocr errors] Ec 3 Pub. Questo è un
prudente quesito, e dev'esaminarsi seriamente, dependendo da questo il
mantenimento ancora della buona educazione acquistata ; posciache bene spesso
conforme diffe Tacito: felicitate corrumpimur. Sem. Come dunque mi dovrò
regola. re coll'ammogliato ? perchè non vorrei pensare al suo mantenimento ,
fentendo giornalmente molci dolersi de loro Pa. dri, che non li provedono in
tempo opporcuno di quanto fa loro bisogno; oltre di che sò ancora, che così
pensa mio Padre trattarmi. Pub. Voi dovrete affegnargli unas convenevole,
c fufficient entrata, che pofsa baftare per il suo mantenimento ; con questa
considerazione di vantaggio di accrescerla, secondo che anderà mul. riplicando
la famiglia. Sem. Mà non averà d'avere qualche cosa di vantaggio del
bisognevole? Pub. Qualche cosarella credo anch' io di fi, perchè accadono
alle volte certe spefarelle impensace, alle quali nonfi farà dato il suo
equivalente assegnamento; mà per altro non debbono i buoni Padri di famiglia
essere molto generoli co'suoi figliuoli ammogliati. Sem. E per qual
cagione? Pub. Perchè dagli affegnamenti soprabbondanti ne nascono il
lusso, las crapola, e cento altri vizj. Sem. Mà se farà ben’educato non
caderà in questi trascorsi . Pub. L'essere ben’educato opererà , che
questi non si dolga del conveniente, e giusto assegnamento fattogli da suo
Padre ; mà per altro fate, ch'egli si ritrovi denaroso, troverà ben più d'uno,
che gli li porrà d'intorno per farglielo spendere in cose voluttuose, onde
toglieregli affatto l'occasione di far questo, che vivererc voi più quieto , ed
egli più fano Sem. Si dovrà quest'ingerire nell'amministrazione
dell'azienda ? Pub. Anzi sarà necessario, che lo facciate istruire in
tutte le cose, dovendo egli, non solamente dopo la vostra mor [merged
small][merged small][ocr errors] te reggere la casa , mà eziandio se mai per
disgrazia voi v'inabilitaste; o pure per la soverchia età volerte attendere
alla quiere. Señ. Ed agl'altri figliuoli dovrà farsi assegnamento per
farli vivere da se ? Pub. Questo nò: li doverece bensì voi provedere di
quanto farà loro'bisogno, al più, che vi potreste stendere; sarebbe d'assegnare
loro un tanto per vestirsi, con qualche cosarella di più, mà non già con
prodiga mano ; perchè l'abbondanza del danaro è la rovina dei giovani, anco ben
educati, e credetemi, ch' io sò qualche cosa in questo particolare, e Mecenate
ne sarà tal-volta informato più di me. Mec. Voi dire la verità, poichè se
un figliuolo di famiglia maneggierà danaro, sarà corteggiato da più d'uno, e
tentato da questi a prendersi divertimenti d'ogni genere, dove che se non
averà, questi Teduttori faranno come le formiche, che non li accofano ove gon è
grano ; come dille Ovidio. Hora [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] Horrea formicæ tendunt ad inania nunquam Nullus ad amisas currit
amicus opes. Sem. Guadagnando taluno di questi, dovrò continuare a fare con
effo lui quello, che fo con gl' altri? Pub. In questo caso voi potreste fargli
da economo , affinchè non ispregasse, con rinvestire in faccia sua i suoi
guadagni , per animarlo ad accrescerli; ed infieme, per eccitare gli altri
fratelli ad imitarlo; e continuerete voi a mantenerlo, essendo la casa non
bisognofa ; mà se non bastassero l'entrate al comune mantenimento, il figliuolo
bene educato spontaneamente vi soccorerà col proprio guadagno; non potendol
prevalere del consiglio di Solone, come riferisce Plutarco: che solamente i
figliuoli, abbandonati da loro Padri, non fossero tenuti, allorche questi
avessero avuto bisogno di esser soccorsi da figliuo, li, efli
didarglielo. Sem. E se uno de miei figliuoli foffo; destinato a qualche
giverno, o 'alera [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged
small] ca. [ocr errors] carica dispendiosa,per servigio del
Prencipe? Pub. In questo caso,Sempronio , con. verrà,che voi facciate
tutti li sforzi por. fibili in soccorrerlo, anche oltre il bisognevole:e per
queste cótingenze debbo. no i buoni Padri avere cumulato danaro per prevalersene,
e non bastando, pofsono anche fare debito; perchè questo si chiama
rinvestimento, che a suo tempo, oltre il decoro , recherà anco utile alla
casa. Sem. Vediamo ora come dovrò lasciarli dopo la mia morte, ed in
primo luogo come averò da contenermi coll' ammogliato; se lasciarlo padrone
libero, o usufruttuario con fare la primoge, nitura ? Pub. Lasciandolo
voi, che sia arrivaco in età affodata, e senza vizj, attento alla casa, e
versato nel maneggio di effa, potreste anche fare di meno di legarlo con
fidecommisso; con tutto ciò, perchè non potrete sapere i naturali de'
figliuoli, che da esso nasceranno, e se [ocr errors] e se sarà in
tempo, per qualche accidca: te di poterlo far esto, non sarebbe male
d'istituirlo, con lasciare ad esso qualche porzione libera, per fargli
conoscere, che non diffidate della sua bontà, ed at. tenzione in moltiplicare
la roba. Sem. Ed agl’altri, che dovrò lasciare Pub. Un Ogorevole
mantenimento per potere decentemente vivere fecon. do la loro condizione, ed a
colui, che foffe capace di avanzarsi nelle cariche, qualche cosa libera per
poterlenc prea valere ne'suoi urgenti bisogni , quando le averà ottenure ; må
dite che farefta di vantaggio voi, Mecenate ? Mes. Avendo veduto , che
alcuni apa pena eftinti i genitori , quantunque fora to la loro dirczione
foffero ftati mode tariflimi in tutto, pull adimeno pelle o pompe
funebri, clutto incominciarona di a slargarli in modo, che non mostravano o
essere più quci di prima , cosi ben disci· plinati nella parhimonia ; questo
dico mi o farebbe, avendoqualche rimedio, acciocche non foffe in tutta libertà
loro di manifestare quel ge nio ch'era quando vivevano i padri fie mulaco,a
fine di precluder loro affatto la via di darsi all'eccessivo lusso. Pub,
Sapete pure quanto sia difficile il volere regolare le cose canto al minuto
dopo morte ? e quante disposizioni si fanno, che non fi osservano dagli eredi?
or come potrete far mai, ch'elli allora fieno buoni economi di quello, che non
è più vostro? Mec. Tutto va bene, mà però certe cose possono farfi
eseguire anche dopo morte , perchè li dispongono in vita, ed allor'appunto, che
sono proprie; onde perchè non le potrei conseguire difpo. nendo, che si dovesse
ogn'anno rinvestire una parte dell'entrate, la quale io credelli soprabbondante
al loro decente. sostentamento? Pab. E che pretenderefte farne di tal
vincolato investimento? Med. Vorrei che dovesse servire per dotare le
figliuole ; e credetemi, che que [ocr errors] [ocr errors] queste
doti d'oggidì, che sono divenute eccessive, sono la rovina delle care, onde
quando queste non si dovessero linen. brare da' capitali mi persuado, che
sarebbero esenti dal deteriorare per questa parte. Farei ancora assegnamento
maggiore a Cadetti, di quello, che alcuni costumano di fare, e particolarmente
a quei, che sono ben incaminati per la strada della letteratura, o militare,
non servendo questo scarso, ed insufficiente assegnamento ad altro, che a fare
maggiormente spregare a primogeniti, godendo più grosse rendite del loro
bisogno con pregiudizio de progressi altrui, perchè in sostanza tutti debbonli,
e gualmente considerare per figliuoli, e fenza demerito alcuno dell'amore
paterno portandoli tutti seco rispettofi. Sem. Voi Mecenat vorreste
reftringere tanto i poveri Primogeniti, che poco rimarrebbe loro per vivere,
perchè una parte dell'eredità paterna la vorreste porre a moltiplico, ed oltre
di questo pre [ocr errors][ocr errors] pretendere ancora di
accrefcere gli assegnamenti consueți de Cadetti;onde stencerebbero i poveri
Primogeniti a vivere anchę mediocremente, Mer, lo non hò preteso di
appor. car ļoro danno alcuuo, ma bensi più fofto giovamento, liberandoli dallas
penosa briga di dover pensare alle dori delle loro sorelle, e figliuoic,
facendo trovare queste pronte in tempo , che ne potranno avere biso, gno,
Şem, Sę tante deligenze si dovranno praticarç per li figliuoli ben educati, e
dosti , che doverà farsi per quei , che non si farango approficcati nell'educa,
zione, e nelle scienze Pub. L'esaminaremo ia appreso, SON
[ocr errors][merged small] Come debbano i Padri regolarsi nel provedere i
figliuoli ignoranti, ç yiziosi, Publio , Sempronio , Mecenate
, & Medico. [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors]
Pub. Alomone non solamente notificò il giubilo grande,che godono i Padri
allorche vedono i lo ro figliuoli ben di. sciplinati , come al 23. dc
suoi Proyerbj dice ; Exultat gaudio paser jufti : qui fapientem genuis
lætabitur inco; Må eziandio espresse il rammarico, che ne hanno quei , che li
vedono viziofi al decimo ferrimo ove dice ; Ira patris filius ftultus,
dolor matris, qua genuit eum. Quindi è, che è, che l'Ecclesiastico
al 16. conchiude: Utile eft mori fine filis , quàm impios habe re.
· Sem. Questi cattivi , e viziosi forse non averanno avuto dircttori nei loro
teneri anni, che gli abbiano ben'educari. Pub. Ci sono di quei, che
l'ebbero an. cora, e pure da essi niun giovamento ne riportarono Sem.
Come è possibile questo? Pub. Dovete voi sapere, che quando il vizio è
radicato nel cuore de figliuoli, e che di la si propaga al capo, ardua impresa
fi renderà il poterlo svellere, perchè fi rende allora effo quali padrone della
volontà ? Sem. Mà perchè questi non possono. coll'educazione estirparsi
dal cuore, e dalla mente quando di effa fi foffero impoffesfati ancora è
Pub. Ardua impresa, come disi farà prenderla con vizj chiamati da Salomone
nelle sue Parabole al 2 2. Stultitia colligata in corde pueri; e tanto maggior.
io figliuoli, pensare allnde mente quando chi n'è contaminato non
coopererà ancor ello per rimuoverli? Sem. E come potrà farac di meno,
avendo avanti gli occhi canti buoni esempj, ed udendo saggi documenti , e
ragioni convincentisfime ! Pub. Si trovano questi talmente accecati, e
sordi, che non veggono, nè capiscono nè esempj, nè ragioni ; e queIto nasce
ancora dal loro naturale , egenio perverso, che in vece di apprende. re, e
vedere con loro profitto li fà porre in deriGone quanto odono, e veggono, come
saggiainente insegna Salomone al 15. de suoi Proverbj: Stultus irridet
disciplinam patris fui, qui autem cuftodit increpationes astutior fiet.
Sem. Questi genj perversi donde nascono ? Pub. Dalla poca cognizione
dell'onefto, e del vero bene , e da questa deriva, che credono ogni qualunque
cosa, che appag! la loro volontà, per onesta, quautunque sia detestabile, ed
avendo, fatto in tal falfa ccedenza l'abito, quc FF Ito
[merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Ito palsa in naturalezza, e genio, per es. ser
divenuta la loro fantasia quasi consimile a quei cristalli con artificio
lavorati, che fanno comparire le cose proporzionate,e belle per i isconcie,e le
íconcie per belle , e proporzionate . Sem. Indicatemi ora qualcuno di
que. Iti vizj tanto perversi. Pub. Se voi scorgerete in un fanciullo
certa crudeltà ferina, qual fù di colui, che con un ago cavava gli occhi a
cerci uccelli : d'altri che feriva col coltello, o bastone il compagno, e
scorgendo sgorgare sangue maggiormente s'infieriva: o pure una certa inclinazione
a trafugare, e nascondere cose non comestibili , prese anco da qualche scrigno:
l'essere pertinace, e perseverante nel non dire mai verità, e fare qualche
danno per imputarlo altrui; overo quantunque corretto,e gastigato più volte il
continuare tuttavia a non volere apprendere cose di Dio, con avere dispiacere
di sentirne anche parlare ; imparando ben l'altre dannose al buon costume : non
rispettare [ocr errors] i i genitori , anzi beffeggiarli di più quanworld
do sono da elli correcci; e tutti questi di fetti crescendo esli negli
anni vedendosi avanzati più rosto, che diminuiti, credete pure, che limili vizj
sono già divenuti padroni del cuore , e della volon. tà. Mec. Vi fù uno
di questi, che in età di cinque anni ammazzò con coltello un fuo compagno,
e non essendo capace, i per essere di sì tenera età, di gastigo, o
proporzionato a tal'eccesso, commesso anche con crudeltà per li
rinovati colpi, a che gli diede, fu fatto caftrare in pe na da quel
Prencipe dominance, dicendo egli, che non voleva razza di simili fiere nel suo
dominio . Sem. Mà hò udito riferire più volte, che pur si rendono máfuete
le fiere ache o più crudeli; com'è poflibile dunque, che questi, in
qualche modo, dall'industrias umana non si possano domare? esaminiamo di grazia,
se vi poress’essere qual che rimedio, per rendere mansueci anco o questi,
o pur datemi sopra cio, per mio Ff 2 re regolamento, qualche
buon consiglio ; perchè , fe Iddio per gastigarmi mi desse un di quefti
figliuoli, io sarci il più infelice uomo tra tutti i vivenci. Pub. Lo
credo, e perciò bisogna, che cominciare da or'a supplicarlo, che non vel dia ,
ed essendo egli sì misericordio. fo, potrete dopo reiterate preghiere an. che
sperarlo ; e voi, Dottore, avete alcun rimedio di quelli, che chiamare eradicativi
per isvellere questi vizj? Med. Se non foffero cotanto radicati spererei
disì, mà farò qualche studio particolare , anche intorno a questi, per vedere
se G trovasse alcuno specifico, almeno, che potesse minorar loro tant' orgoglio
, Pub. Se si trovaffe questo sarebbe gran vantaggio ; perchè allora
coll'educazione li potrebbe fare qualche cosa di più, se non in cutti, almeno
in alcuni di esli , onde pensateci seriamente, e fare qualche sperienza
tractanto , per riferire a suo tempo ciò, che averete ritrovato
giovevole. Sem. [ocr errors] . Elio Sem. Mà intanto
insegnatemi almeno แบ่ง quello, che li potcffe
fare di vantaggio 11 nell'educare questi, perchè poi, che averà ritrovato
qualche rimedio il Dotcore, mi informerà di quello. Pub. Se fi potesse
discernere in tempo, che prende il latte quel figliuolo,in cui la crudeltà
volesse fare progresi, la prima cosa che farei, sarebbe, di mutargli la
nutrice, se fosse donna risentita , e tiera, ed in vece di questa gli farei dal
Dottore scegliere un latte di balia pacifica , e femmatica; effendocche di ciò
me ne porge morivo quello, che seguì all'Imperatore Commodo, il quale per
essere stato nudrito da una donna rifen tita, e barbata come un uomo ,
data* gliela affinchè diveniffe generoso; mà in vece di questo divenne un
gladiatore , per non dilergarfi di altro, che di sangue, j e di
caroificine, ed hà ben creduto talun che appunto detta balia fosse figliuola di
gladiatore. Med. Olrre lo sceglierla proposito,fi potrebbe anch'essa far
nudrire di erbe,ed altri cibi di tenue sostanza, e toglierle ache affatto l'uso
del vino, e slattato che fosse il fanciullo converrebbe non fargli gustare, ne
vino, ne carne per alcuni anni; mà è cosa difficiliffima, per non, dire
impossibile , a conoscer quisto ne? bambini. Sem. A questi sarebbe bene,
fin dalla tenera età cominciare ad usarglı gran rigore per vedere di
domarlo? Pub. Se si verificasse realmente che le vespe muojono nell'olio,
e risuscitano nell'aceto,converrebbe,per estinguere vizj li perniciofi, valerli
più costo del dolce lenitivo, che dell'afpro pungente; contuttociò per
assicurarsi meglio con. viene regolarfi secondo gli effetti, che produrranno in
loro i gastighi ; essendoche xlcuni fanciulli nella tenera era acora
s'infieriscono allorchè fi veggono perciotere colla sferza, onde senza
pro ditco alcuno questi di batterebbero, come insegnò Salomone : ne suoi
Proverbi al 27. fi contuderis ftultum in pila quafi pofanas feriente de super
pile, non aufes retur ab eoftultitia ejus Semo erli che Sem.
Ponendosi questi per la buona via , con deporre gran parte della loro fierezza,
si potrà sperare, che divengano buoni? Pub. Dee sempre temersi, che
possano ricadere nel medesimo eccesso, non potendosi ne anco alle bestię
togliere af. fatto la fierezza nativa, quantunque mostrino essere divenute
mansuete. Mec. Riferirò a questo proposito ciò che seguì di un Leone :
questo era divenuto apparentemente fi mansueto,chę girava per tutta la città
senza recare molestia ad alcuno; mà abbattendosi un giorno in un macellaro ,
che portava sulle spalle un gran pezzo di carne , se gli avventò alla vita, lo
ferìgravemente colle unghie,e se non era pronto a dargli la detta
carne,l'averebbe anche sbranato. Così mostrò la sua fierezza , che teneva di
anzi celata. Sem. E quelli , che mostrano inclinazione al furto ?
Pub. Questi ancora, se Iddio non gli ajuta', termineranno malamente la
lor [merged small][ocr errors] Ff 4 loro vita; effendo cosa assai
difficile, per non dire impoffibile, il poter svellere af. fatto tal vizio ;
perchè quanrunque alcuni non siano forzati dal bisogno, las cattiva loro
inclinazione li porta a rubare, Sem. Si possono questi gastigare colle
sferzate ? Pub. Così fi dee fare, perch'essendo vili di natura, enon superbi
come i primi , dalle percoffe possono ricevere profitto,almeno in aftenersene
per qual che tempo. Mec. Abbiamo l'esempio di colui , che
condannato a morte per ladro, conducendosi al paribolo fè premurofiffima
istanza di rivedere sua Madre, ed oricnura che l'ebbe, avicinoffi tanto ad
essa, che coi denti le svelre un orecchia, dicendole: per colpa voftra io vado
al paribolo, perchè, fe foffi ftato da voi ga. ftigato da piccolo, non vedreste
tale spettacolo, ne tampoco io soffrirei queIta ignominiofa morte. Pub. E neceffario
ancora condurli a 31 2 vedere far giustizia, e con tal
occasione insegnare loro qual gastigo meritano quei, che rubano', e che in
oltre sono semprc miserabili questi infelici, come ben conobbe Salomone al is,
de' suoi proverbj:Alii rapiuni non fua, & femper in egeftate funt ,
Mec. Un simile obbrobrioso speccacolo indusse una volta gran terrore ad uno
quantunque ftolido mendico ; poscia che per essere stato giustiziaco un
monctario falso, aveva una collana appesa al collo di dette monete falsificato
da esso, e credendo il mendico, che per quelle monete foffe fatto morire , al.
lorchè taluno gli esibiva una moneta di argento, la ricusava con allontanarli
da eslo , contentandofi solamente di quelle di rame, che non le aveva vedute
appese in quella collana di vituperio. Sem. Mostrando poco rimor di Dio ,
e meno rispecto a genitori? Mec. Questo appunto, essendo il vi. zio
peggiore di catti, diviene incorrig. gibile per opera de'genitori. [ocr
errors][ocr errors] Sem. E per opera di chi fi potrebbe emendare? Mec. Polemone
essendo giovane fu viziofiffimo a segno che si portò un giarno alla scuola di
Zenocrate, non già per apprendere da esso alcun buon documento, mà bensì per
disturbare più tosto quei, che aveano genio d'apprenderli; avvedutofi di ciò il
saggio filosofo, cominciò a favellare sopra il vivere onesto, e li vantaggi,
che da esso firiportavano, e con tali convincenti ragioni , che rimase sorpreso
il vizioso giovane a segno, che abbandonò i suoi viziosi compagni per seguitare
Zenocra. te, da i di cui buoni documenti, u modo di vivere esemplare, si cambiò
da peffimo , ch'egli era , in ortimo, e da ciò ne deduco, che ancor voi non
dovete indugiare un momento di più, essendo il figliuolo in età capace, di non
mandarlo in qualche esemplare seminario , affinchè , co'i documenti, e colli
buoni esempj apprenda , e miri ciocche fare gli convenga; e proccuracedi non
farlo tornare più a casa vostra, se non averà mutato costume , e state ancor
voi lontano da esso, mostrandovi dif. gustato del suo modo di vivere'; e sapranno
ben quei buoni' directori, ayvezzi a domare fimiliceryelli, allertarlo al bene,
e con modi più spedienti correggerlo, e punirlo, affinchè li emen. di.
Pub. Debbono parimente i Padri ftare cautelati nel gastigare i viziosi loro
figliuoli, divenuti grandicelli, perchè fi potrebbe dare il caso, che questi
sentendosi percuotere, fi rivoltassero contro di effi , e li znaltrattassero
ancora : Sem. Se per disavventurà de poveri genicori rimanessero questi
incorriggibi. li , che fi averà da fare per provederli? Pub, Udite come
mai parla bene a in questo proposito l'ecclesiastico ál 22. Confufio
Patris eft de filio indisciplinato: onde come potrà mai in simile confun fione
régolarsi egli con prudenza! Certa cosa è, che per prender moglie questi
non sono buoni ; per Rcligios- neanco; . de [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] de maneggi della Republica non sono capaci;
talmente che non sapranno, che impiego potessero far loro ottenere. Sem.
Perchè non sarebbero buoni a prendere moglie ; pofciachè chi sà, che divenendo
capi di casa non mettessero giudizio ? Pub. A voi darebbe l'animo di
convivere insieme con costoro, se vi foffero compagni Sem. A me
difficilmente. Pub. Or dunque, perchè volere porli a convivere con una
giovane senza fpe. rienza? ed a che vica infelice fiespor. rebbe questa con
marito si vizioso? E poi roi procurate fare il poffibile per togliere da effo i
vizj, e non essendovi ciò riuscito , pretendere forse far razza de suoi difetti
In quanto poi, che il prendere moglie li possa fare mutar coItume, non è
credibile ; perchè, se Mulieres faciunt prevaricari fapientes, che faranno a
vizioli di questa specie? Ne fi potrà persuadere alcuno, che questi tali non
abbiano già provato le dissolu., sez: [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] tezze di Vegere, perchè i vizj al parere di Seneca non vanno mai foli;
e se quem ste non hanno moderato il loro orgoglio, che più potranno acquistar
di buono conginngendosi in matrimonio Il dir poi, che si prenderanno il
pensiero dei loro tigliuoli nell'educarli, questo è lontano dal vero ; perchè
li vorranno bensì allevare limili adelli, e quando ciò non riuscisse loro
palcsemence, mediante le diligenze usate in contrario dalle Madri, faranno il
possibile nasco, ftamente di conservare in effi, alincno in propri difetci,
acciocche non li dica, che non liano loro degni figliuoli; come ap parisce
dagli esempj dell'ubriaco, e de beftemmiatore riferici di sopra . Sem. E
qualcuno di questi perchè non si potrebbe indirizzare per la vian Ecclefiaftica
Pub. Peasate voi che questi abbias vera vocazione di caminare per queIta santa
via. Sem. Mà se G dichiaraffe, che a volesse indirizare per essa , e mi
pregafle, che [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr
errors][ocr errors] che gl'impetrafli qualche pingue beneficio, averò da
ricusare il farlo 2 Pub. Certamente che sì, perchè quefi farà mosso
dall'intereffe, cioè dal conseguire l'utile del pingue beneficio, non già dal
servire a Dio, come far dovrebbe ; onde farà non diffimile a colui, che brama
prendere moglie, non per il fine del santo Matrimonio, mà per l'intereffe della
pingue dore, che si ritrova colei , che vuole sposare. Mec. A proposito
di groffa dote fece una donna accorta una bella burla al suo futuro sposo: Ella
era per verità alquanto deforme, e perciò più d'uno dicca al giovane, che la
voleva prendere, il qual era molto bello, che l'aveffe rimirata meglio prima di
sposarla,cui rispondea, che li bastava di effettuare il matrimonio , per dare
di mano alla grossa dore , che aveva; per altro, che di tal moglie punto non si
curava i Fù ciò riferito alla giovane, la quale fe portare da una sua
damigella, allorchè fi dovea spofare, una grolla borsa di danaro in Chiesa,
ed aspete [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] aspettò , che il
Parroco avesse domandato allo sposo se la voleva,il quale udito ciò disse,
senza indugiarvi punto: disi; allora l'accorta donna si fe sporgere la
preparata borsa , e tenendola nelle mani, allorchè fu ricercata anch'essa del
suo consenso, nulla rispondeva ; ne fi sapeva che fine doveffe fare quella
borsa; perchè il futuro sposo si speranzava, che dovesse servire per un publico
donativo per effo , ed i Chierici, che fosse la mancia per loro : alla
fine stimolata più volte a rispondere ella disse; se questo fignore si è dichiarato
volersi sposare collas mia dore, questa, mostrando la borsa,essendo parte di
essa, mentre non risponde, è segno , che non lo vuole qual consenso dunque hò
da dare io s'egli brama la mia doce, e non già me? e così confuso, e
mortificato partì il giovane ; onde non vorrei , che facesse il beneficio
ancora il Gmile, di ricusarlo, facendo con esso l'amore a cagione della sua
dote. Pub. E poi dovreste anche rifletreredi quanto scandalo sarebbe un
ecclefiastico vizioso , dovendo cgli essere lo fpechio de'buoni costumi; ne
fperace , che questi,che si muovono per fimile fine possano divenir buoni ;
ponno divenire benli peggiori impiegando il danaro sa. gro in cose
viziose. Sem. E se caluno di questi volesse applicarsi al governo della
Republica, c chiedesse il mio ajuto,per poter e ottencre qualche posto per via
di favori, e di regali; perchè non ho da compiacerlo? Pub. Questo ne
tampoco doverete fare, perchè se fosse d'uopo amministrar la ! giustizia,nó
direbbe già egli quello, che diffe Giulio Cesare : che per un Regno di poteva
far torto alla giudizia, perchè lo farebbe per assai meno, effendo ano
che capace di farlo per sodisfare an folo de suoi viz); onde tanto voi,
quanto chi vi avesse contribuito entrerette a parte di tutte l'ingiustizie, ed
iniquità chia capace di commettere un vizioso. Sem. Che dunque doverei
fare , per non vivere da disperato , quando avelli alcuno di questi?
Pub. [ocr errors] Pub. Mandarlo alla guerra per fargli provare come Gi
vive, cd alle volte qucIta è l'unica medicina di questi cali; perchè se
fono fanguinarj possono faziarsi del sangue de nemici; se attendono alla rapina
nc'saccheggiamenti possono sodisfare la loro ingordigia;se poco cimorati di
Dio, e niente rispettoG a genitori, vedranno quanto temere Gi debba , e
rispetrare un Capitano quantunque non gli abbia creati, o generaci; onde
poirebbe essere, che il Signore Iddio gli toccaffe il cuore, e facesse
comprende, re, che se tanto li fa per un uomo , quant. to di più fi doverà fare
per Iddio, e per chi lo gencrò !e sappiate , che dalle lega gi di Mosè venivano
questi condannati ad esser lapidati dal Popolo, come nel Deuteronomio al 21. Si
genuerit homo filium contumacem, da proteruum, qui non audiat Patris , aut
Marris imperium, co coercitus obedire contempferit, appraben. dent cum, ducent
ad seniores civitatis illius, & ad portam judicii , dicentque ad ços c.
lapidibus eum obruet populus Civis Gg tatis [ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors][ocr errors] taris, ut auferatur malum de
medio ucStric. onde in vece di vedere fimile spettacolo sarà pur meglio
mandarli alla guerra, la quale faggiamente fu difi. nita: Infolefcentis generis
humani tonfura. Sem. E se ricufaffe di andare alla guerra ? Pub. E
voi figuratevi, che vi sia già andato, e fatto prigione ; onde rinchiudetelo in
qualche fortezza : non avendo però commessi ancora reati gravi , affinchè non
siano puniti dalla giustizia con morte ignominiofa; conforme qualche volta è
seguito; e tenerelo ivi fin tanto che camperere, che così farcte sicuro, che
non commetterà gravi eccelsi, trovandosi guardato, e custodito , Non bisogna
però, che prendiate cal risoluzione a sangue caldo, mà fateci matura
riflessione : c regolatevi ancora col consiglio di qualche faggio , e buono
amico, Sem. Per dopo la mia morte comes avero da disporre le cose ?
Pub. Pub. Con lasciare a cattivi figliuoli ma solamente tutto quello, che
non potrei te cogliere loro, non per odio persona le; mà de loro vizjicon
questa condizio. ne però , ch'effendosi ravveduti, dopo un triennio di vita
esemplare, poffino godere un tanto dei frutti della vostra eredità; e
perseverando nel ben operare abbiano ancora d'avere qualche accrescimento
maggiore ; qual perdano intieramente, ed immantinente, ricornando a menare vita
scandalosa. Sem. E se fingeranno di essere divenuti buoni a fine di poter
godere quel i frutto maggiore? Pub. Non sarà meglio, che facciano
così,che operino sfacciaramente male ? de l'interno Iddio solamente lo rimira ;
le l'esterno appena è palese a gli uomini, i quali di questo
solamente pouno appa- garsi; e poi vi è stato qualcuno ancora ,
ch’hà incominciato a menar vita mi- gliore , per conseguire qualche
premio, che poi si è ravveduto da dovero. Mec. Vi è
l'esempio di quel Soldato, che [ocr errors][ocr errors]
bu COM [ocr errors] [ocr errors] che si racconra essere stato
convertito da S.Francesco Saverio : Questi era un pessimo uomo, ed iracondo a
segno, che non averebbc sofferta una parola anche indifferente, che non
l'avesse appresa detta per lui, e volesse anco vendicarsene . Le ainmonizioni,
ed esortazioni faccegli dal Santo nulla giovavano; alla fine li disse
mostrandogli una moneta di oro, se voleva guadagnarsela rispose francamente di
sì : or sù dunque replicò il Santo venire meco , e giriamo d'incor. no l'esercito
; Io la porterò in mano, affinchè la miriate, e voi non avete a fare altro, che
di sopportare con pazienza quello, che udirete dire contro di voi. Fù dato
principio alla grande ope. ra,ed egli rimirando con occhi tifi l'oro, si rideva
di quanto male udiva contro di sè, e cerininato felicemente il giro, guadagnò
il premio. Allora il Santo tiratolo da parte gli disse: figliuolo mio per una
si vile mercede voi avere potuto sopportar tanto, e per un Dio non poteie
sofferire una minima particella diquesto ? il Signore Iddio in quel punto $ gli
toccò il cuore , e fi ravvide per sempre. Sem. Mà se poi i difetti de'
figliuoli non fossero gravi a questo segno, e fos. sero di quelli, che pure non
disdicano ganto, per essere divenuti ormai familiari, potrebbero con questi
proporsi a sudetti ministeri, ed impieghi ? Pub. Spiegatevi apercamente,
quali voi intendere per questi vizj familiari? Sem. Per esempio se caluno
di esli avesse principiato da 14: 0 15. anni a dimorare la maggior parte della
notte fuori di casa, e quancunque suo Padre l'avesse più volte ammonito, che
non lo facesse , ed effo ciò non oftante continuafle ; contraeffe debiti; e
perchè è figliuolo di famiglia, non potendosi obbligare, facesse obbligazioni
dette pagherà. con grandissimo difcapito, senza data , per firmarla dopo
la morte di suo Padre; ed altre cosarelle non tanto familiari; come dir male
del profimo , di mancare alle volte alla parola data ; ne ga: [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] GS 3
[ocr errors] gare ciò, ch'egli averà avuto; e se riyscirà , di gabbare il
compagao nel giuoco; con altri piccioli vizj di questa forte? Pub.
Cofarelle, piccoli vizj voi chiamate questi! E non riflettere,che quando il
giovane li sarà abituato in questi ugua. glierà egli taluno de vizioli di primo
rango: ad uno che sarà avvezzo la maggior parte della notte
dimorare fuori di sua casa, e sarà giovane, voi volere impetrare beneficj
Ecclesiastici, ed im. picghi gelosi della Republica ? Và forse a studiare in
quelle ore, o a farsi la disciplina negli oratorj, quando i studj, e questi
sono ferrari ? e come vi persuadete, che possano adempire l'obbligo loro,
effendo scarf di dottrina , e di buoni costumi, ed applicati a cose, in cui per
la meno inutilmente si perde il tempo a e fatta che averete rifcllione agli
altri loro vizj, che avete apportati ; consigliatevi colla vostra coscienza se
lo potrete fare : mà esaminiamo di grazia donde ciò proceda, e se sia solamente
colpa de figliuoli canto deviamento. Sem. [ocr errors][merged
small] Sem. É' loro certamente; perchè hò sentito lagnarsene i Padri di questo,
col. le lagrime su gli occhi. Pub. Questo fu il pianto del coccodrillo,
che piagneva il suo figliuolo allorchè lo aveva ucciso: come si sono portati
questi Padri nell'educarli? Sem. Certa cosa è, che tante diligenze,
quante ne hò udite nelle nostre conferenze,non le han faute. Pub. Or
dunque, se non gli hanno educati bene, a dolgano della loro trafcuraggine,
perchè viziosi li vollero efli. Sem. Mà che averanno da fare ora?
Pub. Questa penitenza appunto, che Iddio manda loro;di sopportare figliuo. li
viziogi . Sem. Ci sarà pure qualche rimedio? Pub. Ciè certamente,
ed è questo; di fare alli piccioli nepoti ciò,che non fece. ro a loro
figliuoli, cioè di educarli bene; perchè altrimenti, non essendo capacii loro
Padri di fare questo, i vizj non li fyelleranno mai dalle loro famiglie:
Sem. Voi diceste,che questo cocchi al Padre, Pub, [ocr
errors][merged small][ocr errors] Gg 4 Pub. Sibene quando sia capace di
farlo, e vi pare , che questi viziofi fiano abili ad educare i figliuoli a suo
dove-' re? Il loro mal esempio come permetterà, ch'essi apprendano le virtùd
Onde quantunque schiamazzino alle volte redendo i loro figliuoli viziosi,č
incerco se lo facciano per zelo di amore, o per invidia , perchè non possono
essi più con. tinuare fimile vita rilassata essendo vecchi. Sem. Io hò
cap to a bastanza , ed ora compreоdo la cagione; perchè nell'universale non si
possono affatto estirpare i vizj, mà voglio approfittarmene per casa mia, per
non avere anche io a fare il pianto del coccodrillo. Ma le povere figliuole
come si doveranno provedere? essendo gran disgrazia loro, quando capitassero in
mano di simili viziofi. Pub. Esamineremo anche questo , nà non è ora tempo
; perchè richiede affare si rilevante lungo ragionamento. CON
[merged small][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] Pub.
Onfesso ingenuamente che non séza rigione alcuni Pa. driffi contristano ál.
lorchè nascono tan, co loro figliuole ; perchè il penfare a collocarle
bene non è piccolo intrico, chiamandoli questo affare dall'Ecclefiaftico al
7.opera grande dicendovi: Trade filiam, & grandes opus feceris, o bomini
fenfato da illam; posciache saranno state educate alcune di effc col timore di
Dio, senza lusso ,c vagità, modeste comc fi dee, istruite inquanto è necessario
per il buon regolamento di una casa; mà che servirà loro tutto questo , se
capiteranno in mano di un marito imprudente , vizioso, ed indiscreto! e fimile
appunto a quello , ch' ebbe quell'innocente Giustina , il di cui Epitatio
sepolcrale è questo. Immitis ferro secuit mea colla mari. [ocr
errors] Dum propero nivei folvere vincla pedis Durus, ante thorum , quo
nupér nupta coiur, Quo cecidis noftrę virginitatis
honos. Nec culpâ meruisse necem bona Numina testor, Sed jaceo fasi
forte perimpia mei Discise ab exemplo Juftine , difcite pa.
tres Ne nubat fatuo filia veftra viro. Or vedete Sempronio, che
gran facenda è questa ! Mec. La conobbe afrai bene Democr. appresso Stob.
dicendo: Qui bonum generum nactus eft invenis plium, qui verò, malum, fimul
& filiam perdidit: quindi è, che [ocr errors] che saggiamente
fù conligliato da Temiffocle quel Padre, che desiderava das effo fapere , cui
dovesse dar per moglie l'unica sua figliuola; se al dotto povero, o al ricco
vizioso, replicò egli a mè aggrada più l'uomo, che ha bisogno di ricchezze, che
le ricchezze , che hanno bisogno di uomo : come dice Val. Mas. Sem. Mà
quando si sono fatte le dili. gen ze necessarie, e fiè già rincontrato, che sia
imprudére, e vizioso chi la vuole perché non si esclude fimile soggetto ?
Pub. Se voi sapeste quante fraudolenti manifatture Gi fanno, per avere unas
giovane savia per moglie, stupireste; anzi quante più d'imperfezzioni hanno i
giovani, che vogliono accasarli seco, tanto maggiormente queste si adoperano,
tanto si fa,che alla fine riesce fimile facenda. Sem. Mà chi sono questi,
che faranno tante manifatture , non essendo capace un fimil giovane di farle
? Pub. Se non sarà cgli, saranno ben’i suoi congiunti , i quali
raffidati, che per [ocr errors] [ocr errors] Il fingo della futura sposa
cffo possa divenire saggio, tanti ponti di oro le faranno , che alla fine
caderà a dire di sì. Sem. Mà i genitori come lo permetteranno? ·
Pub. Saranno ancora effi sforzati a chinare la cesta, quando colla linguas non
poteffero arrivare a proferire quel doloroso sì. Sem. Saranno dunque
anche i suoi genitori poco prudentia Pub. Oh bene : non fiete voi ancora
a pieno informato dal mondo; mà ne ben Mecenate. · Mec. Ne sono pur
troppo, anzi fono arrivato a conoscere , perchè fi dica insa geniofus amor;
avendo scoperto, che amore aguzza l'ingegno de fuoi fenfali, e rende anche
artificiofa la lingua alla menzogna . Sem. Mà che potrebbero fare questi,
quando il Padre steffe faldo in non volergliela dare? Mes. L'ingegno
agguzzato fi ferve dell'autoricà, e la dispone in modo , che [ocr
errors][ocr errors] niuno più degno di merito si affacci a chiederla, per
rispetto di colui, col quale si tratta : e sapere pure, che in questi cali, per
non fare inimicizie, non li vicne mai alla negativa scoperta , potendovi
costringere ad addurre un ignominiofa cagione,per cui far non si vuole: Siprude
bensì un mezzo, termine, quale è che la giovane pensa di farsi monaca; laonde
in questo mentre dal sudetto pretendente fi fanno affacciare tutti li peggiori,
ed i più scapestrati giovani, che siano nella Città a chicderla,e cutci
inferiori di condizione ad ello; talmente che il Pae dre , che la vorrebbe
maritare, trovan dofi annojato, alla fine li piega, per non che trovare
soggetto migliore, che la fac. i cia domandare : e tanto più, che si tro
verà circondato da consiglieri già guadagnati da chi la pretende. Sem.
Sarà dunque peggiore , e più id svantaggiosa la condizione della donna
nell'accasarsi , che dell'uomo. Pub. Non ci è dubbio alcuno, perchè
l'uomo non è ricercato, ne violentaco per [ocr errors] en
[ocr errors] per parte della donna, mà beasi effa da chi la brama. Mec.
Può essere,che quando voi prendeste moglie ciò non li coftumaffe ; mà ora posso
dirvi di certo, che questo li pratica, essendo seguito in persona mia,
che ho avuto più d'una richiesta fe.voleva accasarmi colla tale, senza
ricer carla. Sem. Or io quantunque non fia versato sufficientemente
nelle cose del mon. do, procurerei segretamente di trovare un giovane
favio,quantunque meno ricco, e la darei a questi; perchè sposata , che fosse,hò
sempre udito dire, che: multa facta tenent, così finirebbe ogni conresa.
Pub. In somma in questi casi, chi più sà, più s'inviluppa nelle difficoltà;
onde alle volte riescono migliori certe risoluzioni fatte senza tante
rifellioni ; c voi Sempronio, non avete detto male; mà non saprete già
scegliere questo giovane savio così all'infretta; converrà dunque che l'impariats,
ed [ocr errors][ocr errors] Ff 3 Ес
Pub. . [ocr errors] 1 [ocr errors] 1 Sem. Come si
doverà dunque fare per conoscerlo? Pub. Il Padre che ha figliuole da mai
ritare dev'essere un Argo, per rimirare nel medesimo tempo cento giovani,
ed offervare i loro andanlegri. Mec. Oggidì però non è necessario averne
tanti ; perchè con soli due occhi moltissimi difetti li possono ritrovare ne
giovani, ed in breve; quantunque non corrano quei calamitosi tempi, che accenna
Giovenale alla satira 13. Humani generis mares sibi noffe volenti
Sufficit una domus , paucos confus me dies, do Dicere te miferum poftquam
illic vec [ocr errors] neris, [ocr errors] Pub. Fatemi piacere
dunque voi, Mecenate,d'istruirlo in questo giacchè fiece più pratico di mè nel
discernere i giova. nili mancamenei correnti; perchè a tempo mio la gioventù
viveva diversamen. te, e perciò fi ftentava più in iscoprire i loro difetti.
Mec. Lo faro, perchè non voglio, ri CU: [ocr errors] cusandolo, che
vi confermiate nellas credenza di qnello , che di me sospettafte,che io fia
nimico delle doone,poscia. chè io ammiro la virtù in alcune di esse, e perciò
non vorrei, che questa mancafse affatto, abbattendosi in viziofi mariti: onde
se voi, Sempronio,vedrere un gio.. vane accompagnarfi, e conversare
continuamente con taluno, conosciuto da voi per vizioso y tencte pur ancor esso
per tale, senza fare altra diligenza; verificandoli quel
proverbio:all'accoppiar ti veggio. Sem. E se fi desse il caso, che questi
non converfaffe con altri? Mec. Questo è difficile oggidì, che fi
conversa tanto; mà se caluno fuggisse le conversazioni,mirate bene la sua firo.
nomia, e se la scorgerete tetra , e inalinconica tenerelo pure per uomo
infociabile, e non senza i suoi difetti proprj; se poi foffe allegro,
disinvolto, e non converfasse oggidi con altri, formatene buon concetto di
esso; perchè lo farà a cagionc , che non troverà coma pa de pagni
bene accoftunati uguali ad effo. Sem. Vorrei qualche altra regola,per
meglio potermene avvedere ; perchè se non conoscefli per viziofi quei, co’quali
egli conversalle, potrei ingannarmi. Mes. Se voi vedrete un giovane stare
in chicfa con poca divozione, e discorserc ivi co i compagni comc farebbe in
piazza, questi farà poco timorato di Dio; se frequenrerà le feste, cd i
passeggi, e rimirerà con grand'arrenzione le donne, in cui si abbaite, farà
egli effemminato ; se dispreggerà i suoi compagni, cvorrà avere sopra di essi
una certa superiorità , farà superbo ; se li piacerà vestire con pompa , sarà
vanos se poi oggi dirà una cosa, c domane ne farà una alıra, farà incostante; e
finalmente se frequenterà i ridotti, ove si giuoca , gran genio egli avrà a
questo vizio; in somma da se medesimo colle sue operazioni manifeftcrà i suoi
difetti. Sem. Starei fresco, se aventi d'accomodare una mia figliuola in
questi tempi, dovendo fare tante diligenze; mi cor. H vers pa
[ocr errors] verrebbe prendere la fantcrna di Diogene, ed andare per la città
dicendo: homi. nem quæro, e caminare più di un giorno per trovare, chi fosse in
cucco; e per turto, senza alcun de'detti diferci. Moc. Mà chi non vuole
affogarla , dee anche servirsi del cannocchiale del Galileo,che scuopre le
macchie del sole. Sem. Io mi persuado, che se i Padri, c le Madri
riguardassero al minuto curti i differti , pochi troverebbero moglie.
Mer. Sarebbe questo la fortuna de i giovani; perchè non trovandola allorsi che
incomiacierebbero a spogliarfi do loro vizj, ed in breve diverrebbero bene
accostumari, ed a tale proposito posso riferirvi ciò , ch'è seguito in una
riguardevole città. Affinchè iCadetti andassero con più fervore, di quello
faccano , alla guerra, cominciarono le donnc a non ammettere alle loro
conversazioni coloro, che non avevano fatte almeno dues campagne in gucrra viva
; conciofiacofache li reputavano vili, e codardi.Servi tale renitepza di Aimolo
grande a tutta la Die la gioventù per andare alla guerra;
segnoche pochi furono quci, che non Si seguitassero i primi, che vi andarono:
" or se una fimile ripulsa molte canti ad andare incontro alla
morte; dovrebbe certament’essere di stimolo maggiore, per andare incontro alla
vita migliore, quando questi non trovasfero inoglie. Pub. Vedete
voi,Semprouio,che sconcerti sono questi, di non potere con facilità come prima
trovare mariti a proposito per le figliuole, c.questo da che na. sce, se non
dalla cattiva educazione della gioventù ? rifecrcte dunquc quano co debba
premcre questo affare anco alla Repubblica, Sem. Io lo scorgo molto bene;
mà che fi dovrà fare ritrovandoci in queste an. [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] Mec. Quello che disse quel Filosofo, che presc per moglie
una donna allai picciola, allorchè fu interrogato, perchè l'avesse scelta così,
egli rispose : perchè del male conveniva prenderne il minore: il fimile anche
dirò io de'mariti difetto Hhafi; di prendere quei che hanno vizj me. no
considerabili , che fono appunto quelli che riescono men disdicevoli alla
condizione del galantuomo. Sem. Maritandofi dunque con questi, che buona
direzione doverà darfcle da genitori? Mes. Debbono i genitori allorche le
maricano non seguitare quel caccivo costume di alcuni , che le consigliano a
farli rispectare, e ftare sostenute con tutti, di non farli sottomettere alla
prima, perchè diverranno, così facendo, infelicissime, quantunque portassero
groffa dote, mà le consiglino bensì nella forma, che fecero i genitori di Sara,
allorchè la consegnarono per isposa al secondo Tobia con groffa dore; ed uditc
ciocchè fecero Tob, 10. Apprebendentes parentes fo. liam suam ofculari funs
eam, & dimiferunt ire monentes eam, bonorare foceros, diligere maricum,
regere familiam, gubernare domum, da se ipsam inreprebensibilē exhibere.
Sem. E se un Padre avesse tre , o quattro figliuole, che si volessero
mari tare [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tare cuite, chc
dovrà egli fare, non efrendo molio ricco? Mec. Maricarle , con dar loro
quella dote più congrua, che può. Sem. Mà li scomoderebbe troppo
privandosi di sì considerabile somma di danaro, o quantità di roba, che con.
veniffe dar loro maritandole turce. Mec. E come potrebbe farac di
me00? Sem. Potrebbe farlo beniffimo con efortarlca fará Monache.
Mec. E se non Gi volessero fare? Scm. Non mancano modi al Padre accorto,
che ci facciago, o colle buones ocolle cattive. Mec. Padre voi chiamare
colui, che vuole sforzare la volontà delle figliuole? chiamatelo Padrigao, non
accorto, màcrudele; perchè qual delitto hanno queste commesso da chiuderle in
vitas. contro il loro genio? Sem. Come chiuderle in vita,
trattantandosi'di darle, e consagrarlo a Dio? Mes, Non si chiama darle a
Dio , [ocr errors][ocr errors][ocr errors] qualia quando la loro
volontà non ci concorra, nè consacrarle a lui, quando non ci sia il lor
consenso : questo li chiamná porle a penare continuamente, non avendole iddio
chiamare a questo stato : ( guai a quei Padri , che lo faranno, perchè del
bene, facendone tanto poco, che non basterà loro , punto non ne parteciperanno:
del male si che ne faranno partecipi di molto, essendo capaci di farlo,
trovandoli in iftato di disperazione. E fappiate, che mi fù riferito un caso
orribile di una di quelle, fatta Monaca per forža, la quale , quando ebbe
eseguito quanto defideraya il Padre, lo chiamò alle grate del Monastero, cgli
disse alle orccchie : fignor Padre or farcte conten. to, che mi avere levata di
casa.in que: fto mondo non ci rivederemo più ; må bensi nell' altro ed in
pellimo luogo, perchè ci danneremo ambiduc . E che vitupero è questo ; per far
godere i maschi, li hanno da porre in disperazione Je feminine? Se voi non
potere dar loro dieci mila sçudi di dorc, dategliene me no, [ocr
errors] cina no , ed acca sacele; quando volontaria. mente non siano
inclinate alla vita reli giosa. Non vi chiederanno già quel tal e giovane
per i sposo, mà vi faranno dire bensì, che la loro vocazione sarebbe
di accasarli . Starà dunque al Padre marii tarle a chi più gli aggrada ;
mà so ben io da che ciò procede. Sem. E da chc? Mec. Dall'eccellive
doti, che corrono, le quali oltre il dispendio,che apportano per le spese
grandi, che si richiedono allorchè â prendono, angustiaao ancora quando hango a
darli altrui nel maricarsi le figliuole. Sem. Or io non voglio
nell'anima. mia questo peccato ; fe li vorranno maricare cutte, le lascierò
mnaritare; mi diremi: che dote farebbe proporzionata, Publio ? Pab.
Quella , che fi foleva comune. mente costumare prima , che foffero inse dal
Prencipe , come già dicemmo ; e se [ocr errors] Hh 4 feaveste
da trattare co persone discrete, potreite anche di loro francamente, che non vi
curate di tanti lussi, e perciò volece dare quella dote, che si costumava in
quel tempo, che questi non vi erano: o fi contenteraano, e voi averete fatto
doppio negozio, essendovi anche accertato di appareatare con gence discreta , e
capace; se poi non lo vorranno fare , averete scoperto , che non sono a
proposito per vostra figliuola, volendo clli vivere con pompa , e lusso
eccellivo. Sem. Questa dote li dovrà consegnare libera ? Pub.
Questo poi nò; perchè potreb. be alienarli , c restare la voftra figliuola
indotata, Sem. E se non vorranno concludere il matrimonio fenza la dote
libera? Pub, E voi sconcluderelo affatto ; perchè è un pessimo segno,
quando si pretenda questo, denotando che ci sia bisogno in quella casa di
danari. Questo sì, che sposata che farà, consegnare allo fpolo quanto gli avste
prometo; perechè non porrere immaginarvi mai, quan. ti difturbi aascono tra
conjugi per quem fta benedetta dote promessa, e non pio gaca ; provando bene
spesso le povero mogli, per tal cagione, molti mali trace tamenti. Sem. E
se non mi trovali il danaro pronio? Pub. Prendcrelo più costo ad
interesse, e perciò i saggi Padri di famiglia sogliono essere buoni econoini,
con met. tere da parte ogni anno qualche fommi di danaro, per essere anche
puntuali allorchè locano le loro figliuolc; e fanno coato allora di fare
vantaggioso rinvs. Itimento. Som. Sarebbe dunqne bene, che s'iq.
dutriassero i Padri di famiglia coi trafichi, e s'impiegaffero con fervore in
fare confiderabili avanzi. Pub. Di far qucfto non sono cenuri in costo alcuno;
bilta ch'elli non fcia. lacquino le loro rendire, perchè li poslono anche fare
avanzi congderabili in questo modo , ellendo che: Parfimonias eft magnum
veftigab. Sem. [ocr errors][ocr errors] 1 [ocr errors] di
; Sem. Almeno lo doverebbero fare, avendone molte da maritare. Pub.
Neanco; perchè il buon Padre re, ed avendole educate bene,molti concorreranno a
prenderle, e con onesta doto,perchè porranno a cõro la buona educazione per
qualche migliajo di scudi, essendo realmente essa l'equivalente;onde saggiamente
diffe. Plauto in Aulu. Dummodo morata rectè veniat dotata
eft fatis, ed Orazio nell'ode 24.li: 3. Dos eft magna parentum
Virtus, metuens alterius oiri Certo federe caftitas. Sem.
Oggidi vogliono però dote, e non chiacchiare. Pub. Sì quelli che
s'innamorano della dote , o vogliono spendere più della loro pollibilità ;
quelli però, chcbramerango avere una moglie saggia, conlide. reranno in primo
luogo le sue buone qualicà, e di queste faranno maggior ca. pitale, che della
dore, la quale è mero bene di fortuna, dove che quelle, non fo
[merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] solamente non sono soggette
alle sue in- costanti vicende, mà sempre crescono di valore , onde
faggiamente Orazio eb- be a dire nella r. Epistola. Vilius argentum
eft auro , virsusibus au- [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem.
E se il Signore mi delle', in 32stigo de mici peccati, una figliuola
risentita', vana, pronta, loquace, contenziosa, che con tutta la buona
educazione non si fosse potuta mutare, volendo questa marito, che averò
da fare? Pub. Trovarle uno simile a Socrate, che fu li sofferente colla
sua dispetrosa Sancippe ; cioè a dire un giovane sodo , prudente, non iracondo,
mà soItenuto. Mec. Vi fu però quel filosofo,il quale diede una sua figliuola
simile a questa ad ug fuo nemico, e ricercato perchè avesse ciò fatto , rispose
: per gastigarlo : Sem. Doverò in quello caso conte. nermi nella moderata
dore ? Pub. Per levarvi di casa una figliuo: la di questa forra, non
dovete reftare per dat [ocr errors] . 492 Conf. 8. Deco feconda la
doro, perche date allo sposo un grande osso da rodere, onde, è di dovere, che
gli diate ancora un poco più di polpa, per consolarlo , cd a fine, che ci abbia
ancora un poco più di soff:renza. Sem. E se questa, la prima volta , che
contrastasse con suo marito, tornaflc a casa mia ? Pub. Voi
immediatamente dovete rimandarla a casa sua, senza darle alcun ricetto, e
sgridarla ancora; acciochè non fi avezzafle a farlo più in avvenire ; con dirle
apertamente, che colà hà da mori. re, perche se il Padre comincierà a dar. le
ricetto, è finira; ogni giorno seguirango'nuovi sconcerti, e perciò il Profeta
saggiamente disse: Obliviscere domum Pa. tris tui. Mec. Un saggio Padre
in fimile avveniincnto fè questo: Si portò egli medelimo colla sposa dal genero
, e gli disse. Per grazia vi chieggo, che per questa prima volta le perdoniate
per amor mio, nà se mai succederà cosa fimilc in avvemire, datele pure quel
gastigo, che vor. гс [ocr errors] rece; perchè io non intendo più
inters porre nè pur una minima parola a suo favore ; anzi che non la reputerò
più per mia tigliuola , trasgredendo i vostri, e miei comandi. Ella , che
credeva, che suo Padre fosse scco andato per isgridare fuo marito, perdè
l'orgoglio a segno, che in avvenire muco modo di vivere. Sem. Se avelli
una figliuola brutta, c mal fina, e volelle marito, che avcrò da fare?
Pub. Primeramente vi dovrete informare col vostro Dottore,se possano i suoi
difetti pregiudicarle nel pártorire, con porre a risico la sua vita ; accertato
che farete di questo , che non poffa seguire, maritätela pure nel miglior modo,
che potretc, darele anche buona dote per avere un uomo di
propofito. Mec. Vi fu molti anni sono una lice per cagione, ch'essendosi
sposata senza il consenso de suoi Genitori una giovane, perchè il di lei Padre
pretendevas darle la dote stacutaria, e lo sporo ne chiedeva di vantaggio ;
essendo che oltre gli altri difetti , che aveva era statas sempre senza denti :
giunse queftas istanza all'orecchie del Prencipe , il quale ordinò che
fossero alla rolitas dote accresciuti duc mila scudi di più , per uguagliarc i
difetti, che aveva la sudetta sposa. Sem. Mà se non si affacciaffe
alcuno, che li voleffe, non si potrebbe stimolare a farsi Monaca? Pub.
Questo sarebbe peggiore facrificïo dell'altre, che volevare dare a Dio, essendo
stata rifiutata da tutti gli uomini; e militando per questa ancora le medefine
ragioni, non lo dovete fare ; se non farà chiamata da Dio a questo stato; onde
la potrete tenere in casa vostra , e procurate, che ha servita più degli altri
voltri figliuoli:non dovendo voi permetrcre che all'interne sue imperfezzioni,
vi si aggiungano anco gli esterni (trapazzi. Sem. E con quelle che
averanno la vocazione di farsi Monache, come mi doverò contenere ?,
Pub. [ocr errors] Pub. Primieramente di far esplorare beo bene la loro
volontà , per accertarvi, le lia vera vocazione, c non disperazione ; perchè
alcune in questa cadono alle yo!ce, e precisamente quando non possono avere
quel marito, che bramano; e scoperto che ayerere, che siano chiamate da
Dio,adocchiare tre, o quat. tro Monasterj de più osservanti, į di diversi
istituti, e fare ad effe leggere le i loro regoles acciocchè sappiano ciò,che -
doveranno fare ; e dipoi dice loro, che fi scelgano quell'istituto,che
piace loro, e fatele pur monacare. Sem. Sarà bene di tenere loro una
conversa per forvirle? Pub. Sc alcuna fosse stroppia, venendole
permesfo,fatelo, per altro non inno. vate cosa di vantaggio di quello, che ivi
fi suole praticare dalle altre ; questo sì che dovrete far loro il livello
costumandosi, e consegnarlo, acciocchè lo faccia. no riscuotere a loro
modo,affinchè nó ab. *biano da stare dopo la vostra mortc all' indiscretezza de
fratelli, i quali foglio [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] [ocr errors] no essere molto trascurati in soddisfarle, e
trattatele in modo, che nő abbiano bi. sogno di soccorso altrui; perchè così
viveranno staccatiffime dal secolo. Sem. E se qualcuna volesse imparare a
cantare,efsendol già dichiarata di far. fi Monaca? Pub. Non permetterei
quefto ; perchè, se poi fi mutasse , ilche sarebbe cosa ficile cantando delle
belle ariette, voi rimarrette colla cantarina in casa; ditele bensì che lo
imparerà allorchè larà Monaca, perchè ivi averà delle altre compagne ancora,
colle quali si potrà esercitare per meglio apprenderlor Sem. E se volesse
viaggiare un poco per il mondo , prima di chiudersi? Pub. Questo neanco
firebbe ben fit. to ; perchè col viaggiare si può vedere, e trattandosi,udire
più d'una cosa, che po. trebbero rimuoverla dal suo fervore, e. quando questo
desiderio procedesse per cagione di divozione, conducerela in qualche luogo de
più vicini,ove sia qual. chc divoro Santuario, per consolarla .
Soma 1 '1 Sem. Se bramasse vestirsi da sposa prima di
monacarsi, e ricoprirli di gioje, hò da permetterlo ? Pub. Alifte por
motivo di potersi fare l'antichissima consuetudines per altro doyendofi sposare
col Signore , non mi pa. jono simili abiti da esso graditi, mà ben. † sì
i più modefti: Una sola riflessione in & favor di ciò ci potrebbe essere,
che si portassero per dispreggio, facendo vedere allorchè li spoglia di
esli per rivestira dei sacri, che li rinunziano tutte le pompe, e vanità
mondane. Sem. Rimanendo redove le figliuole , averò da riceverle più in
casa inia? Pub. Effendo uscire da casa vostra, ed essendosi già
dimenticate, come vuole fil Profeta,di essa, non siete più tenuto di
riceverle :- e perciò fi foleva ancora nei Kriti degli átichi Romani praticare
colle Spose di muoverle nell'uscire dalla casa paterna più volte in
giro affinché si die : menticassero affatto di ritornavi più . 4 Sem. Mà
se rimaneffero vedovc affai giovani,e senza figliuoli,che averebbero da fare
così solc li Pub. [ocr errors] Pub. In questo caso, se volessero
corparvi, mostrerebbe essere crudele quel Padre, che ricusaffe riceverle.
Sem. E volendoli queste rimaritare toccherà al Padre penfarci? Pub. Lo
ponno fare senza il di lui consenso; bene è vero però, che le fuggie figliuole
fogliono col consiglio pacerno regolarsi in tutte le cose, ed in particolare in
affare di tanta premura , conforme è questo. Sem. E se avesse più
figliuoli anche pargoletti potrebbe penfare il Padre prima di morire a qualche
ripiego, affinchè fossero questi ben' educaci;perchè rimaritandoli la loro
Madre poco penlicro Gi prenderebbe di effi il Patrigno nell'edu. carli.
Pub. A questo ci vuole un poco di tempo per rillerrerci bene, onde ne pare
leremo nella seguente.i Sopra l'educazione de Pupilli: e come debba ciascuno
portarsi verso i suoi genitori defonti. [ocr errors][ocr
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Mec. A pena maggiore, che possa avere il Padre moribondo, essendo egli in
sen. timenti, mi persua do che sia questa: di lasciare i figliuoli
pargoletti, dubicando, che non solamente possano esserc danneggiati nella roba,
mà ezian. dio nell'educazione; posciache rifletterà facilmente , che quando la
Madro pallasso alle seconde nozze, poco penGaro li prenderebbe di elli il
Patrigno, ela pro propria Madre molto certamente farebbe dividendo
l'affecto per merà trà elli , cd i figliuoli gencrati col secondo mari. to.
Laonde la loro educazione Iddio sà comc anderebbe. Sem. Mà ti è pur
bastantemente proveduto 'a tali sventure, con Tutori, e Curatori ; come dunque
potrebbe andar male l'educazione di effi, venendo cosi bene affiftiti?
Mec. Può essere , che a tempi antichi li Tutori fossero di giovamento a Pupil.
li : oogidì però tra questi fanno nulla i mediocri; fanno bensì del gran male i
cattivi, e gli occimi, che operino all'antica sono così pochi, che non sò se
arriveranno al numero di quelli buoni , di cui parla Giovenale : Boni
quippe homines numero vix funt totidem quof Thebarum poriæ , vel
divitis oftia Nili. Sem. Udii pur da voi , Publio, nella Conferenza
decima della decade passa. ta;effere utili alla Republicà gli Economi; or come
dunque i Tutori, essendo an [ocr errors][ocr errors] anch'elli
Economi, possono apportarc e questo gran mile. Pub. Tra l'Economo, ed il
Tutore ci è differenza potabile; conciofacosache all'Economo non appartiene
l'educazione de figliuoli; ed essendo egli splendidamente riconosciuro delle
sue fatiche procura di servire con somma fedeltà, per accrescere, o mantenersi
almeno il credito acquistato , a fine di essere ados, perato in altre fimili
contingenze; essendo che per profeffione lo esercita ; dove che il Tutore,
dovendo anche invigilare alla educazione , vedendosi poco, O nulla riconosciuto
delle sue maggiori fatiche, non è cosìgeloso della sua estimazione in cal
ininisterio , per non cu. rara punto di fimile briga inutile ,
fpecialmente chi non opererà per virtù, la qual'è da pochi seguirata, e
maggiora mente se non si vede rimunerata secondo il sentimento di Giovenale, il
quale dice: Quis enim virtutem ample&titur ipfam Prema fi
tollis? Laon. [ocr errors] 0 li 3 Laonde non
recherà maraviglia se eras efli vi saranno de cattivi. Sem. E questi, che
mali potrebbero apportare, Mecenate? Mer. Primieramente di lasciar fare a
figliuoli ciocche eff vogliono , e poi ponno prendere tanto amore alla roba
de’Pupilli, che se vogliono, possono arri. vare ad appropriarsene buona parte
di cffa. Sem. Edin che modo ? Mec. Faranno comparire debiti
antichi, i quali furono gia pagati, ed accordandoli con detti finti creditori,
fi divideranno per metà il furto, dando loro indietro l'antiche ricevure ;
lascic. ranno vendere all'incanto i corpi più frucciferi , ed effi vi faranno
offerire sot. to mano ; & farà cal vendita, nella quale farà grossa
senfaria a lor favore; faranno rinvestimenti con persone fallite , e non senza
considerabilitimi approvesci loro; in somma, per non infpiegarmi di vantaggio,
sarebbe assai meglio, che questi non ci fossero ; perchè almeno se
spregasscro i figliuoli anderebbe per sodisfare i ca. pricci di chi
n'è padrone. Sem. Costumeranno di far questo i più
bisognofi. Mec. I bisognosi lo faranno per biso . gno, ed i non
bisognosi per arricchirsi di vantaggio. Sem. Mà è possibile, che nel
Mondo ci sia gente così iniqua che lo faccia? Mec. Questa è questione di
fatco; di. cendomi il mio Procuratore , che giornalmente accadono liti di
rendiinenti de'conti in cause de Pupilli, e che si vedono prodotti certi libri
di amministrazione così intricati, per ricoprire le magagne, che ben si scorge
essere stati fatti così da gente molto maliziosa . Sem. Talinente che voi
non lodate, che si diano a Pupilli questi Tutori? Mer. I cattivi
certamente noa posso lodarli. Sem. E quali saranno i buoni?
Mec. Quelli, che ricuseranno di ac- cettar qucfte brighe
Sem. I cattivi non sono a proposito, i buoni non vogliono accettarle ; dunque
bisognerà cadere a prédere per necelfità i mediocri, che non fanno nè bene nè
male. Oh confideriain corne p')trà andar bene l'educazion de figliu li !
Mec. E perciò doverebbe ogni b:100 Padre di famiglia aver un amico confidente
di lom na integrità, è che fosse anche informato de fuoi interelli, e que. fti
impegnarlo da molto tempo prima ad accettare, se li delle mai il caso, ch' egli
morisfe in tempo, che i suoi figliuo. li avessero bisogno di guida, che voleffe
fargli carità di tenerli, ed allevarli, come se foffero fuoi ; senza però
discapito di borsa; ed è cosa facile , che prene desse allora l'impegno di
farlo, perchè fi lusingherebbe, che ciò non fosse per seguire in breve.
Sem. Signor Mecenate mio, scusate. mi, se passo taor'olore; vedo oggidi il
mondo così corrotto che dubiterei molto, che l'amico si ponesse anche in luogo
di Padre con isposare la moglie del l'amico rimasta vedova . Mec.
[ocr errors] Mec. Questo non doverebbe farli da un buono amico, Sem.
Questo ancora è di fatto, conoscendone qualcuno , che lo hà bevislimo
praticaco, e lo sò con tutto che io ab. bi. meno anni di voi. M:c. Losò
anch'io; mà questo diceva per vedere di fuggire il maggiôr male; or dunque
bisogna conchiudere, che doppia disgrazia lia, quando i Padri muojono
giovani, Sem. In fimile intrico dunque o biso. gierà , che il Dotcore
trovi rimedio, che in tal erà non si inuoja , o pure tro. Vire chi poffi fedelinente
indirizire cali Pupilli: avete voi, Doctore , un simile rimedio ? Med.
Rimedio per non morire non si è trovato fin'ora; ben è vero però, che a
prolungare la vita con tenersi lon, tani da cerci spropositi massicci , che
possono abbreviarla, a questo si può are rivare. Sem. Ed in che
modo Med. Contenendosi con moderazione nel [ocr
errors][ocr errors] nell'esercizio conjugale; perchè ci so. no taluni, che si
pongono alla disperata in tale facenda, come se nel dì seguente la moglie
dovesse essere loro rubata, senza avvederfi, che ruberà la morte elli alla
moglie , continuando tal vita; oltre poi tanti altri disordini accompagnati a
queste. Bisogna dunque, che viva re. golato chi ha figliuoli di tenera età , e
non li fidi della gioventù ; perchè que. sta tradisce bene spesso, e che
consideri il danno, che apporterebbe alla sua famiglia , con morire prima
d'invecchiarli. Sem. Questo si può fare ; mà se non baftaffe ? perchè hò
veduto morire anchci giovani non aminogliari , e ben regolati ancora ; che doverebbe
dunque farli per terminare la vita non tanto dolorosamente? Pub. Hò udito
riferire, che in alcune città vi lia una specie di magistrato , composto di
persone di sperimentata integrità, le quali invigilano a questo ; onde
introducendoli trà di noi potrebbe con consolar molto i Padri, cui
seguiffc fimil e disgrazia duplicata, per lasciare i figliuo li non atti
ancora a poterli da se regola [ocr errors] re. [ocr errors] Sem.
Questo mi piacerebbe, e vi prometro, che procurerei ach'io di entrare in derto
magistrato. Pub. Se vi avelli da porre io, due di difficoltà ci avrei ;
la prima , che fiere troppo giovanezessendo cariche da con. ferirsi a
persone di provetta e à, e l'al tra perchè voi lo chiedete, essendo che A
finili impieghi, doyendosi conferire a solimericevoli, aleuoi di questi
più toe $ fto li ricusano, che li domandino; ed è a cosa cerca , che colui, che
brama un ins cumbenza, non solamente senza lucro, mà di molto incomodo
ancora', qualche fine vi hà per lo più vantaggioso per se.. medesimo, il quale
potrebbe rendere infructuoso ogni vantaggio, che da ello, si speraffe .
Serth Che averebbero da fare quefti? Pub. Primieramenre d'inventariare
fedelmente tutto quello, che avesse la. [ocr errors] sciato quel defonto,
di eficare poi il superfluo , e non fruttifero, e rinvestire il ritratto in
faccia de Pupilli , con fare le cose chiare, e senza procacciarli emolumento
alcuno . Sem. E che altro? Pub. Di dare fefto immediatamente
all'educazione; con porre nel migliore feminario i maschi, se saranno di erá
ca. paci, e le femmine in un Monastero dei più csemplari. Sem. Ele
rendite chi le amministrerà? • Pub. Un ministro salariato, che fia capace, o
più secondo l'azienda che foffe, i quali rendessero esatto conto ad uno dei detti
sopraintendenti dell'ope. rato ogni settimana, per potersi poi, da più di elli
congregati ogni mese, risol. vere gli emergenti più difficili, che ac.
cadeffero. Sem. E degli avanzi, che si farebbe? Pub. Andarli
rinvestendo , allorche foffero arrivati ad una certa somma, con tutte le dovute
cautele acciocchè fosse. ro fatti a ragione veduta.Sem. Nello stabilirli poi
divenuci adulti chi ci penserebbe? Pub. Quci deputati medesimi, che sopra
intendono all'amministrazione. Sem. E se caluno di questi avesse
figliuolo , o figliola, ed apparenrasse cilin eli: 0 pur faceffe quello che fu
obiettaco a Tutori. Pub. Vi sarebbero sopra di ciò, le suc regole, in
quali casi li dovesse proibi. re, o ammettere tra esli l'apparentarli; perchè
quando mai fossero eguali, che male farebbe l'appareatare con gente scelta, e
capace a bene dirigere. Oltre di che con qual amore di vantaggio liarebbe
amministrata quella roba ; ¢ qual educazione più vigilante riceverebbero questi
in cal casoBafteşebbe, che non entraffero poveri in detra soprainten denza
affinchè non seguissero casi disdif cevali, che daffero occalione di inormo,
rare , ed essendo questi scelti nobili, c bencftanti, non li indurrebbero a far
quelle cose, che furono obiercare a Tucori, c tanto più ch'essendo molti a
for pra [ocr errors] sopraintendere difficilmente tra questi vi
sarebbe chi potesse, anche volendo, defraudare iPupilli in cosa alcuna per la
vigilanza degli altri. Sem. E se in detta amministrazione seguisse
qualche disgrazia, chi sarebbe teauto-a risarcirla? Pub. O questa
seguirebbe casual. mente, senza colpa altrui, ed in questo caso non sarebbe a
ciò tenuto alcuno , mà se poi ci fi scorgesse inalizia ; il delinquence farebbe
obbligato a risarcirla. Sem. A fare ottenere loro buoni impieghi, e
provedecli di cariche proporzionate alle loro condizioni, e capacità, chi vi
doverebbe pensare, fatti aduki ? Pub. Il medesimo inagiftrato, atinchè
con ragione di potessero chiamare quei, che lo compongono veri Padri della
Patria, cgran sollevatori de Pupilli ; mà divenuti questi capaci sapranno da se
medesimi farli strada per il conseguia mento di effe. Sem. Sino a quale
ctà doverebbero Rarc fotto tal depucazione? Pub. 11 [ocr
errors] Pub. Le femmine fino a canto,che fora ossero collocate ; i maschi poi
non sareb* be male in tempi si calamitosi, che vi stessero fino a tanto,
che fossero atti, è 1 capaci di sapersi regolare da se mcdefifoto mi
nell'amninistrazione de loro beni. Sem. E se caluno di questi rimaneffe d
incapace di operare a dovere? Pub. Affinchè non dilapidaffe il fuo,
converrebbe tenerlo soggetto sin tanto, i che vi fosse chi porelle prendere
partii colare direzzione di effi, come sarebbe di qualche fratello di giudizio
, o altro pa• from rente ricco; pio , ed onorato. Sem. Mà questi pareori,
perchè non potrebbero anch'elli prendersi il pensie. iro di amministrare detta
roba de Pupilli, alineno lin tanto, che foffe ftabilico fimile
magiftrato? Mec. I Parenti , Sempronio mio, talia dc quali però, sono
peggiori degli altri, perchè prendono maggior contidenzas colla roba de
fuoi parenti è perciò facilmente se l'appropriano;onde di questi non vi
prevalec, se non quando li scor gere gerete con lunga sperienza,
che siano ve. ramente difinteresati, Pub. dove sono andati quei parenti
antichi , che avevano premura maggiore della roba de loro congiunti,che della
propria : hò veduto io alcuni di que. Iti mettere fuori somme confiderabili di
danaro per folicvarli nelle loro angustic, ed ancor fenza alcuna usura ; ve ne
fu uno tra gli altri, che prese l'amministrazione di un luo cognato, il quale
eras quali che fallito, e lo ripose in piedi, con liberarlo da tutti i debiti
da esso fatti, che ascendevano a fomma molto considerabile. Sem.
Ritornando alla grand'opera di cariià del sudetto Magistrato , mi perfuado, che
in quei luoghi, ove li costu. i Padri morranno senza avere da pensare
all'indirizzo , che dover ango • avere i loro figliuoli divenuti Pupilli.
Pub. Occalione non hanno di ricerca.. re altri inodi : posciache questo
Magiftrato pensa non solamente a diriggere i Pupilli ricchi, ma anche quei che
riman goo [ocr errors] gono con mediocre commodo. Sem. Oh
luoghi fclici, ove la morte non reca tanto cordoglio, divenendo ivi l'amore, e
l'autorità paterna a guisa di fenice, che rinascono, ed alle volce più i
profittevoli a figliuoli di quello, che fos fero prima a cagione dei
Padri trascura#ci, e nel costume , e nell'economia , e se per questi
ancora ci fosse qualche cenfoi se, quanto anderebbero meglio le cose?
Mer. Voi, Sempronio, che non avein te ancora piena sperienza del mondo
vorrelte aggiustarlo in un tratto ; come fogliono fare alcuni zelanti giovani ,
allorch' entrano a governarne qualche particella di efto. Abbiare de me questo
configlio, cavato da Licurgo, che nelle riforme bisogna camminare affai lenta.
mente, e con molta circospezione , per non cadere in peggio. Sem. Che
doveranno fare i figliuoli per mostrarâ grati verso i loro genitori
defonti? Pub. Due cosc, la prima è di mante, gere nel mondo la meinoria
onorovolsdielli, e l'altra, che maggiormente preme, di alleggerire le loro
pene, che possono foffrire nell'altra vita. Mec. La prima dagli Egizi li
praticava con imball mare i corpi de' loro genitori, e questi conservavano anco
gli atavi , i tritavi, con quel auiero maggiore degli ascendenti, de quali
furono eredi, e con quanta stima, c vencrazione universale! che se ac loro
sommi bifogni avessero avuto necessità di danari, impegnando una di queste
mumie, ne trovavano quanti facevano loro bisogno ; perchè avevano il pensiere
di riscuoterle in breve. Gli antichi Romani ancora fabricavano tempj alle
memorie de’loro Padri, o per lo meno ftatue per mano di eccellenti
scultori. Sem. Come si doverà fare per mantenere viva la memoria de
genitori? Mec. Se sono stati illustri per le loro rare virtù, e maneggi,
debbonsi anche imitare da figliuoli, per fare scorgere a chi non li conobbe, di
essere le loro virtù passare in effi; insegnandoci l’Ecclelia. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ftico al 11. che in filiis agnofcitur
vir. Sem. E se avesse dato alla luce opero letterarie , doverà imitarlo
in queste ? Mer. Certamente più in queste che pcll'edificare ville
sontuose, posciache quelle di Cicerone, e di Seneca fono già da gran tempo
distrutte, ma non già i loro libri, i quali continuano i loro anni sempre più
gloriofi alla fama. Pub. Fù interrogato un favio, se fosse più
defiderabile l'acquistare un regno, o l'avere dato alla luce qualche operas
dottrinale, utile a posteri; rispose egli che la seconda ; perchè della prima
non pofsiamo eslerne altro, che meri usufrutruarj, privandoci della proprietà
di esso la morte, dove che della feconda ne Gamo perpetui poffeffori
,accrescendo più tosto la morte il valore di essa, e perciò con ragione diffe
Giovenale : fat. 8. Libera fi dantur populo fuffragia quis să
Perditus ut dubitet Senecam preferre Neroni. Sem. E se non avessero fatto
cofa al- cuna memorabile ? Kka Mer. [ocr errors]
Mec. Debbono i figliuoli incominciare a farl’elli ; perchè diccndoli poi fatte
dal figliuolo del rale, anco i genicori faranno partecipi della gloria di
efsi. Sem. E se fosse stato un gran Capitano, ed il figliuolo non avesse
quel coraggio, che si richicde in tal carica ? Mec. Procuri egli di
uguagliare la fua gloria in cose concerncati alla pace; perchè si dira:il Padre
fè prodezze grandi in guerra, e questi le ha fatte in affari di
pace. Sem. Lasciando debiti più del suo capitale dovrà il figliuolo
fodisfarli del fuo, quando avesse? · Mec. Certamente che sì, per non farlo
dichiarare fallito ; e di vantaggio le fors' egli ne paeli Elvetici, per non
riceverne infamia; cottumandog colà gaftigare anche i defonci , che per malizia
feceto più debiti del loro capitale. Sem. E se avesse ricevuto fuo Padre
qualche ignominioso gastigo?. Mec. Doverà egli allontanarli dos
quel qu I paesc, per non udirne dir male pui blicamente, non potendolo
scusare; per altro se fosse stato' cattivo a quel fcgno , che non avesse
meritaco‘limiles ignominia,doverà colle opere buone, e a gloriofe
cancellare ogni memoria po. co buona di esso; perch' essendo pro? prietà
della luce scacciare le tenebre così ancora delle buone operazioni
pre fenti è di cancellare la memoria delle 8 carrive passate.
Sem. E se lo avesse privato dell'eredi. tà parerna doverà farannullare il
testa. mento , avendo ciò fatto senza cagione? Mec. Sofferendo ciò farà
credere, che certamente lo faceffe fenza cagione , . i poichè facendo
altrimenti, se non l'ebbe allorchè lo fè, la previde, per dichia. rarsi
dopo la sua morte il figliuolo concrario alla sua volontà, e di ciò ne dierono
un memorabil'esempio i figliuoli di Metello, i quali, quantunque esclisfi
contro le leggi, non vollero,per riverenza dovuta ai Padre , far istanza alcuna
in contrario. Sem. Kk 3 Sem. Se un Padre ainoroso de fuoi figliuoli,
ed anche pio, volesse, allorchè stà vicino à morte, far distribuire qualche
fomma confiderabile di danaro a poveri , ma perchè l'amore verso i figliuoli lo
portasse a farne effi consapevoli, per vedere se fossero contenti di ciò, come
dovranno contenerfi in fimi. le affare? - Mec. Uniformarsi in tutto , e per
tutto al volere paterno , c sappiate che Iddio non solameate gradirà tal atco ,
mà lo rimunererà ancora . Pub. Un caso prodigioso si racconta a questo
proposito nel Prato spirituale di un uomo dabene, e fomnmo elemosiniere', il
quale, ritrovandosi vicino a morte, chiamò il fuo figliuolo, cui dopo avergli
fatto vedere una gran somma di danaro disse:figliuolo,che gradirete più, che
vilasci questo danaro, o pure, che vi deputi Gesù Cristo per vostro curatore
rispose il figliuolo: averò più accaro il mio Gesù per curatore : ciò udito
fece dispensare a poveri tutto queldanaro: cosa fè il giusto, e supremo Cu.
ratore? Si ritrovava in Costantinopoli, ove egli dimorava , uno de'principali,
ch'aveva una sola figliuola, la quale per essere ricchissima veniva da molti
desiderata per moglie ; il gran Curatore dell'orfano ispirò alla Madre di essa,
che infinuaffe a suo marito, qualmente la loro figliuola avesse più bisogno di
un uomo faggio, che di ricchezze, e che maritandola a qualche Signore correva
pericolo ch'ella fosse malamente trattata: Piaccque cal consiglio al marito ,
il qnale repplicolle : preghiamo dunque Sua Divina Maesta, che glielo dia a foo
compiacimento, ed andare voi in quefto punto alla Chiesa a supplicarla,e
có. ducetemi quello, che immediatamente entrerà in Chiesa dopo di voi ; qual fù
appunto il pio, e generoso pupillo, dal suo grã curatore arricchito in un
istáte. Mec. Or vedere voi, Sempronio, ch' effetri buoni produce
l'uniformarii colla pia volontà del Padre, e quanto si è detto del Padre doyerà
aacora inrcn. der, [ocr errors][merged small][ocr errors] Kk
4 dersi della Madre, in tutto quello, che apparterrà a figliuoli.
Sem. In che doverà con Gftere il bene che sono tenuti di fare i figliuoli, per
l'anima dei loro genitori? Mec. In sodisfare in primo luogo tutti i loro
debiti, e legati pij, ed adempio re prontamente le loro disposizioni.
Sem. Må se non ci saranno danari pronti, si averanno d'alienare gli effetti? vi
saranno pure i suoi tempi da sodisfar-, li con commodo ? Mer. Sapete che
detti effetti , ne' quali ci è debito; non vanno considerati come propri, e per
ciò, non entrando nell'eredità a favore dell'erede, che gli dee importare, che
si vendano ? fe poi li vuole appropriare a se, ci prenda danari sopra, se non
gli hà, e fodisfaccia chi dee averc;; e se per cagione di detta dilazione
quella povera anima penaffe in. tanto, oh che bcll'amore moftrerebbe il
figliuolo per suo padre, lasciandolo cor. mentare ! Il più chiaro contrafegno
di affetto verso fuo Padre è questo, di ob be [ocr errors] Les
bedirlo sollecitamente in fodisfare cioco che diipone li faccia seguita la sua
morte Pub. Or io sono di questo parere, che non si debba aspettare fino
alla morte a fodisfare i debiti contratti, c le opere o pie, che si
vogliono fare, e maggior meate mi sono confermato in questo leggendo, che
vi fosse un certo uomo civile sì, mà assai povero, non avendo altro, che
quattro Sparvieri avvezzati alla caccia, coi quali si alimentava; vc
nendo egli a morte chiamò tre suoi fi& gliuoli, ene lasciò uno per
ciascuno, di cendo loro, che il quarto lo vendeffero, e ne
facessero tanto bene per l'anima sua morto che fosse. I detti figliuoli
il di venente, per vivere se ne andarono alla caccia coi quattro
uccelli, uno de quali seguitando la preda non tornò più : co-
minciarono a contrastare tra loro di chi fosse il perduto, ed ogn'uno
giurava, che quello, che era ritornato, ed aveves sulle mani
era il suo ; fi accordarono alla fine, che il perduro era quello , che
do- veva impiegarli in beneficio dell'anima del [ocr
errors] ! [ocr errors][ocr errors] del loro comune Padre ; il quale
rimase privo di quel bene. Sem. Oltre di questo doveranoo far
altro? Mec. Avere giornalmente una viva memoria di essi, col
raccomandarli a Dio in tutte l'orazioni, che faranno, fervencemente; perchè non
è picciolo il bene, che da cfli ricevettero, conGitendo in tutto il loro
etlere, e ciò facendo oltre il sodisfare a propri doveri, daranno anche chiaro
indizio deila loro buona cducazione. Sem. Vorrei sapere da voi , Publio,
so la vedova possa essere capace di ben’ educare i propri figliuoli,parendomi
che da principio ne dubitaffe Mecenate, con dire, che non farebbe poco a
dividere il suo amore materno tra i primi figliuoli, e gli altri avuti col
secondo marito, Pub. Perchè nò ; quando ella perseyerasse costante nello
stato vedovile, fosse dotata di senno, e prudenza, ftesse attenta , ed avesse
petio da farsi ftimare, c rispettare da efl, e Mecenatc parlò del
na delle vedove , che prendono altro mari to, non di quelle di cui diffe
Ovidio, [ocr errors] che. bes 01 ol Sustinent in
viduâ triftia figna domo. Sem. A trovare però oggidi chi sia il dotata di
tante virtù sarà cosa molto difficile, dicendo di queste Giovenale. Rara avis
in terris nigroque fimillima cygno. Pub. Si a voi, Sempronio, che
forse of anderete solamente in cerca de diferti ili donncschi, mà non già a chi
brama di trovare le virtù, per approfittarsene, o gi ainmirarle; e non
crediare già, che ogbe gidi le virtù sieno affatto efiliate dal d mondo, anzi
sappiare, che quando paa re, che i vizj (i dilatino maggiormente, do allora è
il tempo , ch'esse li affaticano in trovare ricetto dai più lavj, per
risplendere maggiormente : ed io vi poffo finceramente palesare, che ci sono
presentemente alcune vedove, le quali vivono con tanta csemplarità , che ponno
uguagliarsi alle antiche matrone, delle quali i Scrittori fecero tanti grandi
elogj.Sem. Bisogna che queste vivano molto ritirare ; c da ciò trascerà che, da
me non son conosciute, laonde notificatemi chi sono, affinche possa anche io
fodar. le, ed onorarle, come meritano , ed apprendere insieme dalle loro
operazioni qualche urile documento. Pub. Mostrare certamente troppa cu.
riosità , Sempronio, con volerle conoscore', e se avete deliderio di apprendere
qualche documento dalle loro operazioni , questo lo potrete appagare con udire
le relazioni dell'operato da esse, e tanto maggiormente, che queste non operano
a fine di acquistare gloria, må bensì di bene istruire i loro tigliuoli, e
perciò non fi curaro punto di essere lodate da alcuno, ed a voi è vietato anco
il farlo dall'Ecclefiaftico al 2. dicendo : Ante mortem non laudes hominem
quemquam. Sem. Informatemi dunque del modo, che questo hanno tenatoy e
tragono in educare i figliuoli? Pub. Quefte , Sempronio , sono quela
le res ope mogli,che amarono di vero cuore i loro
mariti, e perciò appresero da Didone ciò, che rifeșisce nel quarto
dell'Enei- di Virgilio : Ille meos primus qui me fibi junxit
ame- Abftulit ille, babe ai fecum, fervetque sepulchro. laonde
quantunque rimase vedove nel più bel fiore degli anni, non vollero
giammai acconsentire a rimaricarsi ; inà bensì rimirando ne'figliuoli
qualche par. ic de’loro genitori collocarono in elli, per tal
cagione cutto il loro materno affetto; e non li potranno mai
baftantemente esprimere le deligenze da esse usare a
pro dei loro vantaggi ; posciache , ia cu- ftodire, ed
accrcfcere le sostanze di clli, che cosa non fanno mai? Sem.
E come possono , essendo mancato il capo di casa, crescerle? Pub. E pure
ciò non ostante , l'hò osfervato in più di una di effe, c quello, che mirende
ammirazione, senza fordida economia , perchè mantengono illo [ocr
errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] ro to grado
decoroso, senza scemarlo puoto: laonde sono meritevoli di quell'encomio, che fè
Cicerone a Craffo , ed a Scevoli, chiamando il primo moderatiffimo nello
fpendere fra i fplendidi , e l'altro splendidiffimo tra i moderati ; vi potrei
anche dire di vantaggio, che avendole osservate e faccillime jipitatrici del
bombice, il quale per formare la sua casa poge tutta la sua miglior softanza in
essa, onde spero, che l'imiteranno anche dopo morte, con divenire farfalle per
volarsene più speditanicnte al Cielo. Sem. Hò udito esaggerare tanto
cótro il luffo nelle passare conferenze ; como mai queste si fanno così bene
regolare in tempi, ne quali ci troviamo.? Pub. Vidifli parimente in
quelle , se ben vi ricorderete , che non mancava presentemente ancora, chi
viveffe net costume ancico, e che non si osservalle da tutti chi operava in tal
forma ; perchè pochi erano l'imitatori di efli, c da ciò nasce, che queste di
regolano con tan. tanta aggiustacezza, perchè vivono a quella
usanza, e se li vagliono di qualby che cosa dello presente, lo fanno con
gran moderazione, e più per salvare una certa apparenza, a fine di non
singolarizzarsi, che per vanità. Sem. Mà nell'educarli di che norma si
servono ? Pub. Di quell' appimnto, di cui già i parlammo , ina con
grandiilima atten#zione ; folamente di vantaggio hò osserte vato, che avendo
quefte già bene im bevuti i figliuoli del rispetto dovuto ad effe
ne'ceneri anni, divenuci poscia più ci adulti, deposto il rigore priiniero si
so no servite più costo della piacevolezza ; coli ed in questo modo hanno
continuato ad elggere curta la venerazione ad else dovuta da
figliuoli. Sem. E nel provederli d'impieghi comc li porrano? Pub.
Volelle Iddio, che con tanto fervore operaffino noi alori Padri conforme esse
fanno' in questo; effendoche taluna li ha così ben accomodaci , che
: non non si è renduta loro fenfibile la perdita fatta del Padre,
trovandosi presen!emente in istato tale, che possono contentarsi. Sem. Oh
fortunati figliuoli; se io fossi nei loro piedi , non mi dimenticherei gianımai
di tanto beneficio ricevuto da effe. Pub. Ed io pasferei più oltre, cioè
a riflettere i disaggi, che averano sofferto, per fare conscguire questo bene,e
quanto averanno cenuto occupata la mente co’pensieri, e quante vigilie averanno
sofferte. Or ditemi, vi pare che qucftc, che operano in tal forma, si possano
paragonare alle antiche Porzie , alle Cor. nelie, alle Avie , ed alle Pauline
che cosa fecero quelle più di queste, che meritarono la corona di pudicizia,
pero effere vivate nella stato vcdovile esem. plarissime e Sem.
Certamente che meritano qucm Ite ancora di esser coronate, e credecemi, Publio
, che questo vostro racconto mi hà sommamente confolatozed animato ingeme a
prendere moglie; perchè se io arrivafli á scegliermi una di queste, morrei
certamente men contristato , avendo chi supplirebbe le mie veci nel ben educare
i figliuoli. Mec. Abbiamo finora parlato della cducazione dei figliuoli
de benestanti, e di quelli de' poveri non abbiamo fatta menzione alcuna.
Pub. Conyerrà certamente discorrere anche di questi, essendo cosa essenziale
ondc lo porteremo alla ventura Conferenza. [merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA
X. Sopra l'educazione de' figliuoli poveri, e donde venga queita
danneggiata. Publio , Mecenate , Sempronio , i Medico.
Pub. He bella cosa fareb. be , se nel monС do ognuno viveffe
conforme richiede l'obbligo cristiano: di non fare altrui, ciò, che a se
dispiace: oh bell’armonia, che nascerebbe da questo allorsì che ciascuno
potrebbe vivere ad occhi chiuli, non trovandosi chi ingannasso il coinpagno ; c
tanre sorte di supplicj , inventare per reprimere', c. gastigare la malizia
degl'uomini rimarrebbero affas. [ocr errors] to oziose; e li ministri di
Giustizia a che | servirebbero, essendo ciascuno retrislimo giudice di se
medesimo? Oh felice, c mi fortunato vivere che sarebbe, essendo ritornato
il secol d'oro, nel quale come lo descriffe Ovidio ne suoi fafti.
Proque metu populum fine vi pudor ipfe regebar, Nullus
erat justis reddere jura labor. E Giovenale nella fac. 6. Cum
furem nemo timerer Caulibus, aut pomis, tu aperto vive.ret borte,
Mà quanrunque fiafi tanto affaticato Platone per farlo ritornare , appena
c rimasto ogni suo pensiero riposto nel ga- binetto delle sue
Idee, senza recare vei runo profitto; onde si può conch iudere, che
questo probabilmente non tornerà [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][merged small] Sem. Mà non fi potrebbe almeno far ritornare quello di
argento ? perchè a sopportare da gran tempo in qua il secolo di ferro, già
divenuto rugginoso, fembra dura , ed insoffiribile cola. L12
Sem. [ocr errors] Pub. Questo è difficile; e non meno, che a far divenire
un pezzo di ferro argento; intorno al cui lavoro tanti ci si affaticano
indarno. Non sarebbe poco se a questo di ferro,che noi abbiano, il quale ben
diceste, che sia divenuto rug. ginoso, se gli potesse dare una ripulitura,
affinchè non comparisse tanto deforme, come presentemente par, che sia diveDuto
• Sem. Facciamolo dunque ; ma da che parte di esso si doverà
principiare? Pub. Da quella più tenera, come abbiamo fatto finora nei
nobili, cioè dalla tenera gioventù, ove la lima può più facilmente attaccare :
cominciate voi dunque a portarmi il lavoro, che io li. merò. Sem. Qiello
, che' mi premerebbe più d'ogni altra cosa, sarebbe che in. cominciassimo a
ripulire un poco i servitori. Pub. La ruggine in questi è troppo dura;
come volete voi, che limi, efsendo di già quefti divenuti adulti; por
[ocr errors][ocr errors] tatemeli giovaneci, che io cominciero limarli.
Sem. E come potranno questi allora discernerli? Offervandoli, che ne pur i loro
figliuoli hanno genio a fare tal meftiero; ideandosi tanco i Padri, quanto
effi, allorchè cominciano a conoscere i vantaggi della vita civile, di voler
parfare ad effa,con avanzarli di condizione. Pub. Dunque se non si sà
precisamente chi voglia incaminarli per questa via, cominciamo da tutti i figliuoli
poveri , che cosi comprenderemo quelli da incaminarsi in cursi li mestieri nel
inedeliino tenipo. Sem. Che doverà farfi in questi prima di ogni altra
cosa ? Pub. Quello appunto, che già dicem. mc:infinuare bene nell'animo
loro il fan. to timor di Dio, base fondamentale di O tutte le virtù
morali, e cristiane Sem. E chi doverà far questo? th Pub. I loro
genitori. Sem. E se questi non ne avessero appreso tanto, che hastaffc
loro ? Pub. Ci sono i Parochi de'quali è incombenza,non solamente di proccurare,
che fieno istruiti i figlioli, mà anche, i genitori medelimi, Mec. Se ci
fosse un fol pastore in una gran greggia di pecorelle, molte ne divorerebbero
di più i lupi ; onde come potranno baltare questi, che sono pochi a
tanci? Pub. Ci sono i Maestri, che supplisco. no ancor ela. Mec. Mà
quelli che non hanno modo da tenerli? Pub.Sogovi tante scuole per i
poveri, che possono ben ivi apprendere ciocche appartiene a questo Mec.
Mà fe trascureranno di andarvi, ed intanto innoltrandosi i vizj come firi.
medierà?. Pub. Colgastigo, che servirà dierempio agli altri, che non ci
cadano, ed a tal effetto ci è per questi la casa di correzione, ove sono
severamente morti. ficati. Mec. Vorrei, che vedeflimo, Publio , se
[ocr errors][ocr errors] fc ci fosse modo di non avere rovente bisogno di
limili gastighi; perchè vado rifcttcndo, che molti pochi sono correcti da eso ;
e quantunque ci licno le forche alzate, tanto i delicti fi comincitono gel
inedefimo tempo. Pub. E che prerendete forse, che nel monda non feguano
delicti? Mec. Non pretendo tanto, mà solamente che sceinino questi più
notubilincnte, ed in conseguenza ci sia meno duopo digastigo. Pub. E come
fareste per procurare che minor numero deili presenti ne leguillero? Mec.
Vorrei in diverse parti della cietà scegliere i più caritativi ; e pii
artetici, che ci foffero in ogni profeflione, ed a questi consegnare , e
raccomandare più di uno dei giovanetti, arrivati in età di poter cominciare ad
apprendere i principi di quell'arte, alla quale 'mostraffero inclinazione, ed
abilità. Pub. E prima di detto tempo chi ne averebbe il pensiero di
andarli istruendo nel beo operare ? Mr. [merged small][ocr
errors][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] Mec. Ci sono pur
tanti pii, cd esemplari operarj , zelantisfimi del buon costume, cui non
recherebbe gran briga l'invigilare sopra di elî, con un ben regolato
ripartimento, li quali per rimediare a'disordini maggiori, che incontrasfero
doverebbero avere chi desse loro assistenza, e braccio autorevole; e credetemi,
che dupplicato bene da ciò ne risulterebbe: cioè, che non anderebbono in quelle
ore vagabondando per la città, e li approfitterebbero insieme di molti buon
iavvertimenti, e cosi la gregge averebbe pastori a proporzione del fuo bisogno:
e fapere pure, che quantunque tanto si operi da questi zelancisfimi nello
svellere i vizi già adulti, nulladimeno per lo più poco, o niente di frutto da
cfsi si ottiene , onde mi parrebbero fatiche con profitto maggiore queste
impiegate, allorchè i vizi sono anco teneri, potendosi allora con più facilità
sradicare; che quando sono già adulti,senza tralasciare però d'invigilare a
fradicare anche questi assodati. Pub. [ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors] Pub. E chi manterrebbe detti figliuoli da
quei artefici; acciocchè l'istruiffero fin tanto, che il loro lavoro meritalse
premio ? Mer. Sarebbe facile qui tra noi a trovarsi il modo, essendoci si
numerose, e considerabili limosine di pane , da diftribuirli a poveri; nè si
potrebbe dubicare in conto alcuno, che questi non folsero tali ; onde sarebbero
con giustizia , e profitto impiegare in essi ; nè potrebbero gli altri dolerli,
perchè verrebbero anche distribuite colla discreta propora zione rispetto agli
altri bisognosi invalidi; ne apporterebbero gran briga cinque, o sei ragazzi di
questi, provedusi già di pane, avendoli in bottega; ecenendo loro gli occhi
sopra, non potrebbero andare vagabondando in cerca de vizj conforme
facevano. Pub, E'pensiero questo da macurarsi meglio per discernere, che
vantaggio conliderabile potesse apportare. Sem. E se avessero genio di
studiare? Mec. [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mer. Di questo
ne discorreremo nel fine. Sem, Or ditemi dunque quali sono i vizj
familiari a ragazzi poveri ? Mec. Possono essere innumerabili, se non
sono sradicati alla prima da qual. cuno, e tanti appunto, quante sono l'erbe
dannose , & inutili, che nascono in una siepe abbandonata da chi la
coltivi. Posciache questi poffono essere primieramente affatto ignoranti dei
misteri della Santa Fede; non hanno in bocca altre parole, che difonckte,
appreses per istrada, e ral volia per essere figliuolini nè pur fapranno i loro
ligniti. cati ; fi afsucfaranno da teneri anni al rubare, e cominciando dalle
core commefibili faran passaggio all'altre ancora ; diverranno poi tanto
impertin nenti, che daranno fastidio a tutti; bu. giardi , fraudolenci,
bestemmiatori, e malizioli a segno, che quabrunque fico no di dieci, e undici
anni saranno già capaci in pratica di tutti i vizj concernenti alla luffuria .
Puo. [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] De i
buos [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] prove, e
do po [merged small][ocr errors][ocr errors] Sem. Ma è poflibile,
Dottore, che in sì tenera età facciano questo? Med. Io più d’uno di
questi ho vedy. to venire zoppi all'ospedale per ca. gione di buboni gallici,
che avevano acquistati con tali viziose ritrovata la verità gli ho anche
mol. to bene sgridati. Sem. Da che diviene questa gran facilità di cadere
in fimili vizj? Med. Lo spiegò Socrate a Teodata bellissima
meretrice,allorche li gloriava di superarlo nel saper sedurre più facilmente
essa i suoi scolari,di quello avess' cgli potuto fare colla sua dottrina in
rimuovere dal suo amore i suoi drudi, con risponderle,che lo credeva , nè punto
fi maravigliava di ciò; perch'ella li tirava all'ingiù , & a seconda del
precipizio con poca sua fatica dove ch'egli dovendoli tirar fuori da questo
aveva d'uopo impiegarvi fatica maggiore; come riferisce Eliano, Sem. Oh
so, che crescendo questi vizj con gli apoi, quanci mali effetti eli
pros [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr
errors] 540 Conf. 10. Dec. feconda produrranno ! riempiranno per la meno le
galee di genec facinorosa, se pur que. fti non anderanno sulle forche; onde
conosco anch'io, ch'è troppo necessa. rio darci riparo, altrimenti di questi
viziosi ne toccheranno ad ogn'uno per servitori, o per arrifti: ma come fi
potrebbe fare almeno , che non cre. scessero di vantaggio? Mes. Se non li
trova il modo, che non vadano vagabondando per le piazze, e di cenerli lontani
da quei, che fono un poco più adulti di essi, sempre correranno tali pericoli;
e perciò lag. giamente ordinò Ligurgo, che i figliun. li fossero allevati per i
villaggi, e gli Egizi non li faceano porre alla mensa per cibarsi, se prima noa
avcano corso a piè nudi due, o cre leghe. Ed appresso i Parci, se i loro
figliuoli non avevano colla frezza colpito, e fatto cadere il pane, che posto
avevano in luogo eminente, non facevano gustar loro altro; conforme ancora
facevano le donne dell'Isole Baleari, ma colla fionda, c CO: [ocr
errors][ocr errors] così li tenevano occupati , affinchè non aveflcro campo di
avanzarli ne'vizj. Ma trovandosi tra noi impicghi con direttori discreti, sarebbero
questi affai più profitcevoli; potendoli eziandio formare scuole d'apprendere
arti, dove fossero istruiti, e nella pierà, & in quel mestiero al quale
applicassero di genio ; ma per opere sì magnifiche crè cose si ricercano , le
quali sono ; l'autorità del Prencipe ; valido soccorso; & allistenza
allidua di uomini pii, ezclanti del buon costume. Sem. Ma vi è pur S.
Michele a Ripas grande ove si fa tutto queito; perchè dunque andate cercando
altro? Mec. Abbiamo certamente tal Ospizio Apostolico utiliffimo, esantißimo,
ove col timor di Dio G avvezzano, e si approfittano ancora in diverse arci, era
sendo usciti di là molti , ch'erano prima senza indirizzo, e modo da
softcocarli, divenuti capaci d'alimentare se medesimi, e le loro famiglie; ma
questo folo non è sufficiente per educare tutri i [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] nigliuoli poveri, che sono nella Città; nè è
poffibile moltiplicarne canti altri confimili ad effo, che foffero fufficienti;
onde bisognerebbe trovare un modo praticabile , acciocche fossero istruiti
nella medesima forma, ma senza ag. gravio di spesa equivalente alla proporzione
di quella . Pub. Tutto si potrebbe fare, ma però se non si toglieffe
prima quello , che dasse loro mal' esempio, gioverebbe a nulla. Meo. Questo
è veriffimo;.perchè entrando caluno al servizio, quantunque fosse semplice, e
di buon costume ,' fe cominciarse a comandargli il suo padione certe cose, che
non li possono dire in pubblico, effendo indecenti, como potrebbe far di ineno
obbedendolo as non divenire ancor esso diviato ? effen. do che: a bove majori
discit arre minor , Se quantunque foffe sobrio, e vedeff: continuamente
banchettare , & a vesse tutto il commodo da disordinare anch' effo, come
non diverrà gologfimo? E par [ocr errors][ocr errors][ocr errors]
last particolarmente se si abbatteffc in chi, come dice Giovenale, Radere
tubera terra Boletum condire, codem in jure na, tantes
Mergere facedulas didicit Sco ap Et cana monstrante gula. Se si accorgerà
poi, che manchi di pa. rola, imparerà anch'esso a farlo dicen. do: se lo fa il
mio Padrone, ben lo posso far arch'io , perchè farà forse oggi di civiltà
prar carlo. Voi dunque, Semi pronio, vidolete attorto dei servirori;
doleceri bensì dei padroni, che gli ac- coltumano viziosi.
Sem. Ma io per la Dio grazia non fò di questo, e pure mi sono
capitati molci cattivi fervitori. Pub. Saranno stati prima corrotti da
altri padroni se non gli avete corrorti voi, e perciò imparare a non mutarli tanto
spesso , potendovi abbattere ins peggiori, i quali non sarebbero più
correggibili: Barbatos licet admoveas, mille inde magiftros.Mec. Non
solamente i servitori si approfittano del mal'esempio de' padroni, ma tutti gli
artisti, e mercanti ancora, dandosi da caluno di esli a questi, invece del danaro,
che avanzano, certe mercaozie, le quali non trovano ad clitare, e le pongono a
prezzi altissimi, e da ciò essi imparano ad alterare i conti, ed in che forma
! Sem. Ma ci sono pure i periti, che li rivedono, e tarano? Mec. Si
bene, ma però elli l'informano, e fanno ben loro capire, che hanno ricevuto, a
ragione di contanti, assai di meno di quello pretendevano di aver dato loro, a
cagione dei prezzi alterati delle robe ricevute. Sem. Sicche faranno un
bel guada. gno questi , che daranno roba in vece di danaro; e ditemi, Dottore,
se ciò si pratica collo Speziale ancora ? Med. Taluno per quanto ho udito
lo fa. Sem. Consideriamo, che buone medicine daranno loro questi, che
sono così malamente pagari. Med. Med. Li poveretti troppo fi
sforzano die a servirli bene; ma certa cosa è, che vo gliono starci in
capitale almeno, c peri ciò non daraano già loro i migliori ri1 nedj.
Pub. I mercanti Moscoviti, prima che it fosse data loro la libertà di uscire
dal El Regno, avevano una bella maniera di contrattare, la quale era di
chiedere soSelamente il giusto prezzo delle loro mer canzic, e guai a
colui, che l'avesse altea si raco; posciache sarebbe caduto in pene sd
gravissime. Mec. Sicoftumerebbe tra noi ancora, 1 se correffe puntualmente
il danaro; må dovendosi tener morto questo più anni, e poi pagarfi Iddio
sà come, bisogna pur, ch'ella pensino al modo, che debbo. no tenere per
guadagnarci ; diano dunSe qne i primi ad edi buon csempio, che fa raono
imitati. Sem. E per fare, che i servitori non divengano viziosi, olcre il
non dar loro mal'esempio, che si potrebbe fare di e vantaggio ?
Mer. [ocr errors] Mm Mec. Bisogn' anche procurare, che non abbiano
occasione di addocrinarli in certe cose, che mal'interpretate da efli, da buone
che sono potrebbero divenire pesime; e vi riferirò a tale proposito un esempio.
Si abbatte un giorno un mio amico, che seco aveva due fervi. tori, ad udire un
certo discorso morale, fatto da un buon religioso, mà molto semplice, sopra il
furto, e venuto al par. ticolare, a che fomma questo doveste giugnere per
essere peccaminofo , avvedutosi egli, ch'erano attentissimi i suoi fervitori in
udirlo, chiese incontinente licenza,con iscusa di dover fare certo ur.
gentislimo negozio in quel punto;mà come egli,ini riferì il negozio era, che
non udifícro questi , che li potesse con ficura coscienza rubare una anche
minima cosa, perchè, come diceva, costoro l'averebbero reiterato tante volte in
un giorno, che in breve mi farei impoverito. Pub. Mi persuado ancora, che
non convenga dar loro il comodo di approvecciarsi malamente, con fidarsi alla
sjeca di cili, dando loro gran maneggio; per [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] perchè la comodità appunto fà l'uomo ladro. Mec. Vi
era uno di questi, il quale prendeva cutto all'ingrosso, e con vantaggio
grande, e dipoi lorivendeva a minuto, ed a prezzo rigoroso al suo padrone, e vi
faceva giornalmente guada. gno considerabile, scusandosi in far ciò,
ch'era per sua industria , perchè non gli aveva ordinato di far
questo il suo padrone. Onde ingannavasi costui in credere di non aver obligata,
ad effo tutta la sua industria, come difatto avea . Sem. Sarebbe dunque
riuscito van taggioso per loro se avessero studiato , ed appreso le buone
dottrine. Mic. Se avessero fatto questo non si porrebbero a servire, come
dice uno di questi al suo padrone, allorchè lo sgrida, ch'era un ignorante, cui
replicó: signore se fossi dotto non servirei , mà bensì averei chi mi
servisle. Sem; Ne hò però ayuti di quei, che sono stati alla scuola, e
sapevano anco ra un poco di latino. Ner. [ocr errors][merged
small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Mm 2 Mec. Mà che
serviva loro questo? Sem. A nulla ; mà però se non mori. vano i loro
Padri si sarebbero tirati aranti nello studio, e forse sarebbono riusciti
uomini dotti. Mer. Vorrei, ch'esaminaflimo ora qual fosse meglio: chei
figliuoli dei poveri s'incaminassero per la strada delle lettere , o pure fi
ponessero da principio ad apprendere le arti, Sem. E che pretendereste
forse voi impedire, che ogn’uno non s'incamini a suo bellagio per la via, che
giudica per se più vantaggiosa? Capece pure, che vi sono stati molti plebci ,
che sono riusciti in esso come accennò Orazio fat.6.1. Multos fape
viros nullis majoribus oj tos, Ei vixise probos , magnis du honoribus
auctos. Mec. Questi non saranno stati però miserabili, perchè dice ancora
GioveHaud facilè emergunt quorum virtutibus ebfas.Res angufta domi.
e poi se taluno di questi, inà molto di rado, è riuscito, oh
quanti sono andati a inale! onde vorrei, che vedeffimo quali di
questi fieno quelli , che possono essere capaci di compire questa
carriera, ed a quali non getti conto. Perchè il sen. tiere delle
scienze, é assai lungo , ed crto, ed ha difficile ancora il suo
ingres- so; come bene lo descrive Silio Italico dicendo.
Ardua faxofo perducit semita clive , Aspera principio, nec enim
mihi fallera, mos est, profequitur labor ad nitendum
intrare volenti. Onde chi non potesse caminarvi fino al fine, che farcbbe
trovandosi nel mezo di esso ? non vorrà tornare indiccro per vergogna, nè potrà
ivi foftentarli., per essergli mancata la provisione neceffaria; onde non sa a
che partito appigliarsi; dove che la via delle arti, efiendo assai più piana, e
più breve, ed ancomeno dispendiosa, li renderà più facile, e [ocr errors]
Mm 3 van. vantaggiosa a questi di poterla cerminare. Sem.
Sicchè dunque farà meglio, e più vantaggioso per loro d’incaminarsi per il
sentiero delle arti, giacchè questo si renderà più facile a poveri di
compirlo. Mec. Così credo anch'io, perchè almeno giugneranno a
guadagnarli il pa. ne più spedicamente, e con minor pericolo di rimanere
inesperti . Sem. Come pensate voi di fare questa scelta, di chi sia
capace d’incaminarsi per essa, e chi per l'altra più piano delle arti . Mec.
Se per esempio ci fossero figliuo. li di mediocre talento de poveri artisti, o
di vedove, che appena colla loro fati. ca arrivano ad alimentarli parcamente,
questi sarebbero perduti, volendoli incaminare per la trada delle scienze, e
maggiormente, se saranno i loro genitori avanzati negli anni ; perchè morendo
questi, chi li softenterà trovandoạ nella carriera a qualcuno di quei, che sono
nel principio del camino può essere, che; torni indietro, econ
ripugaanza grande si ponga ad apprendere qualche arre, quelli, che
saranno però più inoltraci , vergognandosi di farlo, come si trove. ranno i
meschini, non avendo chi più li sostenri ? talmente che per procac. ciarli il
vitto saranno costretti di fare ogni viltà, purchè salvino l’apparenza del
proseguimento di tale impiego , ch' esli si avevano figuraco di voler
esercitare; laonde poftisi in doslo una toghetta,ed un perucchino, ne quali
consiste il loro capitale, tutti lindi si porranno , essendo ignoranti, a far
da guasta mestiere: e vi pare che questi possano apportare utile alla republica,
stroppiando cause, se prenderanno la via legale ? e quello ch'è peggio , che se
per quella della medicina s'incamineranno quanti ne animazeranno impunemente ?
Olere poi il discredito, che ne riceverebbono professioni (i nobili, per
cagione di essi. Sem. Mà perchè se ne prevalgono di questi?
Mec. [ocr errors] Mm 4 Mec. Perchè la maggior parte, chc litigano
sono ignoranti; e simili a questi ancora sono quelli, che si trovano malati;
onde come potranno discerneru questi a che segno giunga la di loro abilità?
ctanto più, che quantunque penuriando di dottrina i guasta mestieri, non si
trovano già scarû di malizia, per dare ad intendere lucciole per lanterne
quando vi sia duopo, essendo questi gran; mensognieri. Sem. Quali voi
crederefte, Mecenate, che potessero incaminarli per la via del le scienze con
sicurezza maggiore? Meo. Quelli solamenre a quali il Padre morendo in
questo mentre , poresse lasciare 'ranto, che fosse sufficience a poter
terminare i loro studj, cche fossero di buono ingegno; perchè se non saranno
cali gertato averebbero quel danaro, e rimanendo mendichi, ed ignoranti, questi
ancora fi porrebbero a fare molce viltà, e perciò l'Ecclesiast. al 27. csclama.
Propter inopiam multi deliquerunt; de'quali così ebbe anco a dire ORAZIO.
Ma Magnum pauperies opprobrium jubet. Quiduis ad facere et
pari, Virtutisque viam deferit arduam. Sem. A chi toccherebbe
di farne la prova del loro ingeg:10 , e capacità ? Mec. Niuno meglio de'
loro maestri , che li avessero cominciati ad istruire sarebbe più a proposito;
mà taluni di questi alle voltc consigliano i poveri Padri con poca carità a
fare proseguire loro l’opera mal’incominciara . Pub. Sapere, Mecenate,
che non è disprezabile pensiero questo da voi apportato, e rifletto ora
anch'io, che il voler porre con tanta facilità i poveri all'acquisto delle
scienze possa essere una delle cagioni, che ritardano più tosto la buona
educazione, e mi inaraviglio che non si dia già dato opportuno riparo a questo
inconveniente, Mec. Sicte pur pratico del mondo, e non riflettere , che
non tutto arriva all' orecchie di chi vi può dare rimedio,perchè se vi
giugnessero tutte le cose, quanti buoni regolamenti si prendereb [ocr
errors][merged small] Res nale fac. 3:bero dalla vigilanza di effo.
Pub. Che imparassero i figliuoli de’ poveri, a leggere, scrivere , e l'abaco lo
stimerei necessario ; mà che questi poi si applicassero alli studi delle
scienze, non avendo nè capacità necessaria, nè modo da foftentarli, ora che voi
ave. te mostrato tanti inconvenienti lo stimo dannoso anch'io. Sem. Come
fecero Publio, quei celebri filosofi antichi, i quali erano affatto privi
de’beni di fortuna, a divenire così dotti; efsendomi stato raccontato di
Diogene, che appena avesse una botte per difendersi
dall'inclemenze dell'aria : e di Socrate, chę altre di calcare sem, pre la
terra co’piedi nudi, appena venisse ricoperto da un sordido mantello.
Pub. Affinchè meglio comprendiate la verità di quanto diffi, dovete sapere, che
considera AQUINO la povertà in due maniere ; ove parla : Contra genti. Jes;
cioè: aut ex coactâ neceffitate, aut ex propriâ voluntate. Questi filosofi da
voi mentovati erano poveri; perchè non [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] si curavano punto de'beni della fortuna, e riputandoli dannosi
non istudiavano di cumulare richezze, quantunque das queste
'venissero adescati . Mentre , che non fece Alessandro il grande per
ri- muovere dalla sua bramata povertà Diogene , quantunque in darno?
Quan, . to non fi adoperò Archelao per fare divenire ricco Socrate
? mà egli per liberarsi dalla di lui generosa importunità li fè intendere , che
in Atene a vile prezzo si vendevano le farine, e che colà le acto que
nulla costavano; e perciò questa voin lontaria povertà, non folamente non li *
contristava, mà serviva loro più tosto di ajuto per la filosofia; come
riferisce 1 Stobeo, fer.93, che confeffalse, l'isteiro Diogene . Anzi
Epicuro passò più oltre, come si ricava da Seneca nell'epift. 2 1.
persuadendosi egli,che la volontaria poi vertà , la quale si uniforma
alle leggi di natura , non debba riputarsi povertà, į inà più tosto
ricchezza superiore a tutte 3 le altre, di qual sentimento , oltre molti
altri filosofi, fù ancora Democrito; men [ocr errors][ocr errors]
tre tre venendo egli interrogato, come ri. ferisce Scobeo, qual fosse il
vero modo da divenire molto ricco, rispose : con divenire povero di
desiderio. Sem. Potrebbero dunque i nostri poveri figurandoli volontaria
la loro forzata povertà, divenire Filosofi ancor efli. Pub. Non è più
quel tempo antico, nel quale i poveri si contentavano audrirli di solo pane, ed
acqua , o di sole erbe, come riferisce Eliano, che faceffe Diogene; onde questa
povertà volontaria, senza un special dono di Dio si renderà impollibile a
conseguirsi . Sem. Vorei sapere, perchè questa povertà forzata abbia da
ritardare l'acquisto delle scienze, c la volontaria più tosto da
promoverlo? Pub. Perchè la forzata contrifta fortemente
l'animo,apprendendo chi la sof. fre di essere infeliciffimo, dove che la
volontaria, riputandoli per feliçità da cui si gode, lo rende sommamente
cranquillo : Laonde chi mai coll'animo con, [ocr errors] tristato potrà
applicare a cose tanto serie, conforme sono le scienze ? le quali richiedono
attenta meditazione da cui brama d'approfittarsene. Quindi è, che Aristotile
nel primo della sua Etica ebbe con ragione a dire: Impoffibile eft indigentem
operari bona; e più chiaramente nel secondo della politica. Impossibile eft
inte digentem ftudio vacare ; c non potendosi i poveri di spontanea volontà
chiamare in digentes,non milita contro di esli l'autorità di Aristotile; perchè
questi hanno ciocche, fà d'vopo al loro necessario sostentamento, ed è ciò
sufficiente per effi , avendolo fatto conoscere Socrate, riferito da Stobeo al
serm. 95. allorchè diffe: Si res 'mea mibi non fufficiunt, du ego ipfis
fufficio, as fic etiam ipfa mibi; al opposto i poveri, che non hanno povero il
loro desiderio ancora , non li appagano punto di ciò, chè si trovano, braman.
do sempre di vantaggio, sembrando loro quanto hanno per esli insufficiente, c
per tale cagione vivono perperuamente contristati. Or ditemi, Sempronio,
se [ocr errors][ocr errors] avere da dire altro intorno al morale?
Sem. Non altro certamente intorno a questo, e credo di avere udito tanto, che
se me ne approfitterò saprò scegliere la noglie approposito, ed allevare nel
buon costume anche i miei figliuoli, che nasceranno. Mi rimane solamente di
sentire dal dottore, quali vantaggi potrebbe apportare all'educazione la filosofia,
e specialmente in quei figliuoli, che ricalcitrano nello approfittarfi de buoni
documenti morali. FIL. Di questo ne tratteremo domani. – “I have a train
to catch.” Grice: “I like Gagliardi. In honest Italian prose, he manages to
write a treatise for the week: the first day (or giornata) and so forth. It is
an empirical ethical treatise along Aristotelian lines of the type I classify
as ‘is’ rather than ‘ought’. Recall that the fundamental question I pose for
pragmatics is why maxims ought to be followed rather than being, as they are,
mainly and ceteris paribus followed! My answer to that is in three stages, and
the first ‘answer, dull and empirical’ is that the maxims ARE, as a matter of
EMPIRICAL fact, followed. This far Gagliardi goes – and succeeds!” – Grice: “He
wrote extensively, knowing British parents, how a father must take care of his
son, or at least find him a good tutor!” Domenico Gagliardi. Gagliardi. Keywords:
“a dull (if at a certain level adequate) answer to the fundamental question
about the conversational categoric imperative”; moralia, etica, mos, ethos –
Grice on morality – morals – educazione – “We learn not to tell lies from our
parents” Hardie, Ethica Nichomachaea, la formazione del carattere. “Empirical fact we’ve learned since childhood
and it would be difficult to diverge from the practice” – “This is a dull
empirical.” -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gagliardi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e Gaio:
l’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Accademy.
Although he appears to have enjoyed a significant reputation, next to nothing
is known about him. Porfirio mentions commentaries on Plato by G. that may have
been edited by his pupil Albino. Gaio.
Grice e Galba: il
principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Mussonio: deportato da
Nerone, pardonato da Galba – Deportato da Vespasiano, pardonato da Tito.
Grice e Galeno:
la scuola d’Antonino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Brought to Rome by
Antonino.
Grice e Galetti:
l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Filosofo. Emporium.
Grice e Galilei: l’implicatura conversazionale -- Eppur
si muove -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pisa). Filosofo. Galileo Galilei. Grice: “His
father was, like mine, a musician.” – “La filosofia è scritta in questo
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico
l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la
lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua
matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche,
senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi
è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Personaggio chiave della
rivoluzione scientifica, per aver esplicitamente introdotto il metodo
scientifico (detto anche "metodo galileiano" o "metodo
sperimentale"), il suo nome è associato a importanti contributi in fisica
e in astronomia. Di primaria importanza fu anche il ruolo svolto nella
rivoluzione astronomica, con il sostegno al sistema eliocentrico e alla teoria
copernicana. I suoi principali contributi al pensiero filosofico derivano
dall'introduzione del metodo sperimentale nell'indagine scientifica grazie a
cui la scienza abbandonava, per la prima volta, quella posizione metafisica che
fino ad allora predominava, per acquisire una nuova, autonoma prospettiva, sia
realistica che empiristica, volta a privilegiare, attraverso il metodo
sperimentale, più la categoria della quantità (attraverso la determinazione
matematica delle leggi della natura) che quella della qualità (frutto della
passata tradizione indirizzata solo alla ricerca dell'essenza degli enti) per
elaborare ora una descrizione razionale oggettiva[N 6] della realtà fenomenica.
Sospettato di eresia e accusato di voler sovvertire la filosofia naturale
aristotelica e le Sacre Scritture, Galilei fu processato e condannato dal
Sant'Uffizio, nonché costretto, il 22 giugno 1633, all'abiura delle sue
concezioni astronomiche e al confino nella propria villa di Arcetri. Nel corso
dei secoli il valore delle opere di Galilei venne gradualmente accettato dalla
Chiesa, e 359 anni dopo, il 31 ottobre 1992, papa Giovanni Paolo II, alla
sessione plenaria della Pontificia accademia delle scienze, riconobbe "gli
errori commessi" sulla base delle conclusioni dei lavori cui pervenne
un'apposita commissione di studio da lui istituita nel 1981, riabilitando
Galilei. La casa natale di G. Abitazione all'800 Abitazione in via
Giusti Dal libretto di battesimo di Galileo riportante come luogo "in
Chapella di S.to Andrea", si credeva fino alla fine dell'800 che Galileo
potesse essere nato vicino alla cappella di Sant'Andrea in Kinseca nella
fortezza San Gallo, il che presumeva che il padre Vincenzo fosse un militare.
In seguito fu identificata casa Ammannati, vicino alla Chiesa di Sant'Andrea
Forisportam, come la vera casa natale. Figlio di Vincenzo G. e di Giulia Ammannati.
Gli Ammannati, originari del territorio di Pistoia e di Pescia, vantavano
importanti origini; Vincenzo G. invece apparteneva ad una casata più umile, per
quanto i suoi antenati facessero parte della buona borghesia fiorentina. Vincenzo
era nato a Santa Maria a Monte, quando ormai la sua famiglia e decaduta ed
egli, musicista di valore, dove trasferirsi a Pisa unendo all'esercizio
dell'arte della musica, per necessità di maggiori guadagni, la professione del
commercio. La famiglia di Vincenzo e di Giulia, contava oltre G.:
Michelangelo G., musicista presso il granduca di Baviera, Benedetto G., morto
in fasce. Dopo un tentativo fallito di inserire G. tra i XL studenti toscani
che venivano accolti gratuitamente in un convitto di Pisa, e ospitato senza
spese da Tebaldi, doganiere della città di Pisa, padrino di battesimo di
Michelangelo G., e tanto amico di Vincenzo da provvedere alle necessità della
famiglia durante le sue lunghe assenze per lavoro. A Pisa, G. conosce Bartolomea
Ammannati che cura la casa del rimasto vedovo Tebaldi il quale, nonostante la
forte differenza d'età, la sposa, probabilmente per metter fine alle malignità,
imbarazzanti per la famiglia G., che si facevano sul conto della giovane
nipote. Successivamente fa i suoi primi studi a Firenze, prima col padre, poi CON
UN MAESTRO DI DIALETTICA e infine nella scuola del convento di Santa Maria di
Vallombrosa, dove vestì l'abito di novizio. Vincenzo iscrive il figlio a Pisa con
l'intenzione di fargli studiare medicina, per fargli ripercorrere la tradizione
del suo glorioso antenato Galileo Bonaiuti e soprattutto per fargli
intraprendere una carriera che poteva procurare lucrosi guadagni.
Nonostante il suo interesse per i progressi sperimentali di quegli anni, la sua
attenzione e presto attratta dalla semiotica, la logica, e la matematica – lo
studio del segno -- che comincia a studiare sfruttando l'occasione della
conoscenza fatta a Firenze di Ricci da Fermo, un seguace della scuola
matematica di Tartaglia. Caratteristica del Ricci e l'impostazione che egli
dava all'insegnamento della matematica: non di una scienza astratta o formale,
ma di una disciplina materiale che serve a risolvere i problemi pratici legati
alla meccanica e alle tecniche ingegneristiche. E, infatti, la linea di studio
Tartaglia-Ricci (prosecutrice, a sua volta, della tradizione facente capo ad
Archimede) a insegnare a G. l'importanza della precisione nell'OSSERVAZIONE dei
dati e il lato prammatico della ricerca scientifica. È probabile che a Pisa segue
anche i corsi di filosofia naturale (fisica) tenuti dal liziio BONAMICI. Durante
la sua permanenza a Pisa arriva alla sua prima, personale scoperta, che chiama
l' “iso-cronismo” nelle oscillazioni di un pendolo. Rinuncia a proseguire gli
studi di medicina e anda a Firenze, dove approfondì i suoi nuovi interessi,
occupandosi di meccanica e d’idraulica. Trova una soluzione al problema della
corona di Gerone inventando uno strumento per la determinazione idrostatica del
peso specifico dei corpi. L'influsso di Archimede e dell'insegnamento del Ricci
si rileva anche nei suoi studi sul centro di gravità dei solidi. Cerca intanto
una regolare sistemazione economica: oltre a impartire lezioni private a
Firenze e a Siena, anda a Roma a richiedere una raccomandazione per entrare
nello studio di Bologna a Clavius, ma inutilmente, perché a Bologna gli preferirono
alla cattedra Magini. Su invito dell'accademia fiorentina tenne due lezioni
circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno, difendendo le ipotesi già
formulate da Manetti sulla topografia dell'Inferno. G. si rivolse allora a Monte,
matematico conosciuto tramite uno scambio epistolare su questioni matematiche.
Monte e fondamentale nell'aiutare G. a progredire nella carriera quando,
superando l'inimicizia di Giovanni de' Medici, un figlio naturale di Cosimo de'
Medici, lo raccoma al fratello cardinale Francesco Maria Del Monte, che a sua
volta parla con il potente Duca di Toscana, Ferdinando I de' Medici. Sotto la
sua protezione, ha un contratto triennale per una cattedra a Pisa, dove espose
chiaramente il suo programma, procurandosi subito una certa ostilità
nell'ambiente accademico di formazione lizia. Il metodo che sigue e quello di
far dipendere quel che si dice da quel che si è detto, senza mai supporre come
vero quello che si deve spiegare. Questo metodo me l'hanno insegnato i miei
matematici, mentre non è abbastanza osservato da certi filosofi quando
insegnano elementi fisici. Per conseguenza quelli che imparano, non sanno mai
le cose dalle loro cause, ma le credono solamente per fede, cioè perché le ha
dette ARISTOTELE. Se poi e vero quello che ha detto ARISTOTELE, sono pochi
quelli che indagano; basta loro essere ritenuti più dotti perché hanno per le
mani maggior numero di testi aristotelici che una tesi sia contraria
all'opinione di molti, non m'importa affatto, purché corrisponda alla esperienza
e alla ragione. Frutto dell'insegnamento pisano è “De motu antiquiora”, che
raccoglie una serie di lezioni nelle quali egli cerca di dar conto del problema
del movimento. Base delle sue ricerche è il trattato, pubblicato a Torino, “Diversarum
speculationum mathematicarum liber d Benedetti, uno dei fisici sostenitori
della teoria dell'IMPETO come causa del moto violento. Benché non si sapesse
definire la natura dell’impeto impresso a un corpo, questa teoria, elaborata da
Filopono e poi sostenuta dai fisici
parigini, pur non essendo in grado di risolvere il problema, si oppone alla
tradizionale spiegazione aristotelica del movimento come prodotto del mezzo nel
quale IL CORPO ANIMATO stesso si muove. A Pisa G. non si limita alle sole
occupazioni scientifiche. Risalgono infatti a questo periodo le sue “Considerazioni
sul Tasso” che avrebbero avuto un seguito con le Postille all'Ariosto. Si
tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi
volumi della Gerusalemme e dell' “Orlando furioso” dove, mentre rimprovera al
Tasso la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del
verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar
rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico
di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del
fantasma poetico. La morte del padre lo lasciando l'onere di mantenere tutta la
famiglia: per il matrimonio della sorella Virginia, dove provvedere alla dote,
contraendo dei debiti, così come avrebbe poi dovuto fare per le nozze della
sorella Livia con Galletti, e altri denari avrebbe dovuto spendere per
soccorrere le necessità della numerosa famiglia del fratello Michelangelo. Del
Monte intervenne ad aiutare nuovamente, raccomandandolo al prestigioso studio
di Padova, dove era ancora vacante una catedra dopo la morte di Moleti. Le
autorità della Repubblica di Venezia emanarono il decreto di nomina, con un
contratto, prorogabile, di IV anni e con uno stipendio di 180 fiorini l'anno. Tenne
a Padova il discorso introduttivo e dopo pochi giorni comincia un corso
destinato ad avere un grande seguito presso gli studenti. Vi sarebbe restato
per diciotto anni, che avrebbe definito «li diciotto anni migliori di tutta la
mia età. Arriva a Venezia solo pochi mesi dopo l'arresto di BRUNO a
Venezia. Nel dinamico ambiente di Padova (risultato anche del clima di
relativa tolleranza religiosa garantito dalla Repubblica veneziana), intrattenne rapporti cordiali anche con
personalità di orientamento filosofico lontano dal suo, come CREMONINI filosofo
rigorosamente lizio. Frequenta anche i circoli colti e gli ambienti senatoriali
di Venezia, dove stringe amicizia con Sagredo, che G. rese protagonista del suo
Dialogo sopra i massimi sistemi, e SARPI, esperto di semiotica. È contenuta
proprio nella lettera al frate servita
la formulazione della legge sulla caduta dei gravi. Gli spazii passati dal moto
naturale esser in proportione doppia dei tempi, e per conseguenza gli spazii
passati in tempi eguali esser come ab unitate, et le altre cose. Et il principio
è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella
proportione che si discosta dal principio del suo moto. G. tiene a Padova
lezioni di meccanica: il suo “Trattato di meccaniche” dovrebbe essere il
risultato dei suoi corsi, che hanno origine dalle “Questioni meccaniche” di
Aristotele. A Padova G. attrezza con l'aiuto di un artigiano che abitava
nella sua stessa casa, una officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbrica
strumenti che vende per arrotondare lo stipendio. Perla macchina per portare
l'acqua a livelli più alti ottenne dal Senato veneto un brevetto ventennale per
la sua utilizzazione pubblica. Da anche lezioni private e ottenne aumenti di
stipendio: dai 320 fiorini percepiti annualmente passa ai 1.000. Una nuova stella e osservata d’Altobelli, il
quale ne informa G.. Luminosissima, e osservata successivamente anche da
Keplero, che ne fa oggetto di uno studio, il De Stella nova in pede
Serpentarii. Su quel fenomeno astronomico G. tenne III lezioni, il cui testo non
ci è noto, ma contro le sue argomentazioni scrive un opuscolo Lorenzini,
sedicente lizio originario di Montepulciano, su suggerimento di CREMONINI, e
intervenne a sua volta con un opuscolo anche Capra. Interpreta il fenomeno della
nuova stella come prova della mutabilità dei cieli, sulla base del fatto che,
non presentando la nuova stella alcun cambiamento di parallasse, essa dovesse
trovarsi oltre l'orbita della Luna. A favore della tesi si pubblica “Dialogo
de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito della Stella Nuova. Ronchitti
difende la validità del metodo della parallasse per determinare la distanza
minima di cose accessibili all'osservatore solo visivamente, quali sono gl’astri.
Rimane incerta l'attribuzione del dialogo, se cioè sia opera dello stesso G. o
di Spinelli. Compose II trattati sulla fortificazione, la breve introduzione
all'architettura militare e un trattato di fortificazione. Fabbrica un compasso,
che descrive in “Le operazioni del compasso geometrico et militare” (Padova). Il
compasso e strumento già noto e, in forme e per usi diversi, già utilizzato, né
G. pretese di attribuirsi particolari meriti per la sua invenzione. Ma Capra lo
accusa di aver plagiato una sua precedente invenzione. Ribalta le accuse di Capra,
ottenendone la condanna da parte dei Riformatori dello Studio padovano e
pubblica una Difesa contro alle calunnie et imposture di Capra, dove ritorna anche
sulla precedente questione della nuova stella. L'apparizione della nuova stella
crea grande sconcerto nella società e G. non disdegna di approfittare del
momento per elaborare, su commissione, oroscopi personali, al prezzo di 60 lire
venete. Peraltro, e messo sotto accusa dall'inquisizione di Padova a seguito di
una denuncia di un suo ex-collaboratore, che lo aveva accusa precisamente di
aver effettuato oroscopi e di aver sostenuto che gl’astri determinano le scelte
dell'uomo. Il procedimento, però, e energicamente bloccato dal Senato della
Repubblica veneta e il dossier dell'istruttoria venne insabbiato, così che di
esso non giunse mai alcuna notizia all'Inquisizione romana, ossia al
Sant'Uffizio. Il caso venne probabilmente abbandonato anche perché G. si e
occupato di astrologia natale e non di astrologia pro-gnostica o previsionale.
La sua fama come autore d’oroscopi gli porta richieste, e senza dubbio
pagamenti più sostanziosi, da parte di cardinali, principi e patrizi, compresi
Sagredo, Morosini e qualcuno che si interessa a Sarpi. Scambia lettere con Gualterotti,
e, nei casi più difficili, con Brenzoni. Tra i temi natali calcolati e
interpretati figurano quelli delle sue due figlie, Virginia e Livia, e il suo
proprio, calcolato tre volte. Il fatto che si dedicasse a questa attività anche
quando non e pagato per farlo suggerisce che egli vi attribuisse un qualche
valore. Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che
credono in quello che vedono. (if you see that p, because you want that p). Non
sembra che, nella polemica sulla nuova stella, G. si e già pubblicamente
pronunciato a favore della teoria elio-centrica di Copernico. Si ritiene che
egli, pur intimamente convinto copernicano, pensasse di non disporre ancora di
prove sufficientemente forti d’ottenere invincibilmente l'assenso della
universalità dei filosofi. Tuttavia, espressa privatamente la propria adesione
al copernicanesimo a Keplero – che pubblica il suo Prodromus dissertationum
cosmographicarum scrive. Ho già scritto molte argomentazioni e molte
confutazioni degl’argomenti avversi, ma finora non oso pubblicarle, spaventato
dal destino dello stesso Copernico, nostro maestro. Questi timori, però,
svaniranno proprio grazie al cannocchiale, che G. punta per la prima volta
verso il cielo. Di ottica si sono occupati già Porta nella sua Magia naturalis
e nel De refractione e Keplero negli Ad Vitellionem paralipomena, opere dalle
quali era possibile pervenire alla costruzione del cannocchiale. Lo strumento e
costruito indipendentemente da Lippershey. G. decide allora di preparare un
tubo di piombo, applicandovi all'estremità due lenti, ambedue con una faccia
piena e con l’altra sfericamente concava nella prima lente e convessa nella
seconda. Quindi, accostando l’occhio alla lente concava, percepii l’astro
abbastanza grande e vicino, in quanto essi apparivano III volte più prossimi e IX
volte maggiori di quel che risultavano guardati con la sola vista naturale. Presenta
l'apparecchio come sua costruzione al governo di Venezia che, apprezzando
l'invenzione, gli raddoppia lo stipendio e gl’offre un contratto vitalizio
d'insegnamento. L'invenzione, la riscoperta e la ricostruzione del cannocchiale
non è un episodio che possa destare grande ammirazione. La novità sta nel fatto
che G. è il primo a portare questo strumento, usandolo in maniera prettamente
logica e concependolo come un potenziamento del sentire – il vedere. La
grandezza di Galileo nei riguardi del cannocchiale è stata proprio questa.
Supera tutta una serie di ostacoli concettuali (cf. Galileo sees that the star
is nice +> without a telescope – I could see the cow from the window) -- utilizzando
suddetto strumento per rafforzare le proprie tesi. Grazie al
cannocchiale, G. propone una nuova visione del mondo celeste. Giunge alla
conclusione che, alle stelle visibili ad occhio nudo, si aggiungono altre
innumerevoli stelle mai scorte prima d’ora. L'universo, dunque, diventa più
grande. Non c’è differenza di natura fra la terra e la luna. G. arreca così un
duro colpo alla visione aristotelico-tolemaica geo-centrica del mondo,
sostenendo che la superficie della luna non è affatto liscia e levigata bensì
ruvida, rocciosa e costellata di ingenti prominenze. Quindi, tra gl’astri,
almeno la luna non possiede i caratteri di assoluta perfezione che ad essa
erano attribuiti dalla tradizione. Inoltre, la luna si muove, e allora perché
non dovrebbe muoversi anche la terra che è simile dal punto di vista della
costituzione? Vengono scoperti i un satellite di Giove, che G. denomina la
stelle medicea. Questa consapevolezza l’offre l'insperata visione in cielo di
un modello più piccolo dell'universo copernicano. Le scoperte sono pubblicate nel
Sidereus Nuncius, una copia del quale G. invia a Cosimo II, insieme con un
esemplare del suo cannocchiale e la dedica dei IV satelliti, battezzati da G.
in un primo tempo Cosmica Sidera e successivamente medicea sidera. È evidente
l'intenzione di G. di guadagnarsi la gratitudine della Casa medicea, molto
probabilmente non soltanto ai fini del suo intento di ritornare a Firenze, ma
anche per ottenere un'influente protezione in vista della presentazione, di
fronte al pubblico degli studiosi, di quelle novità, che certo non avrebbero
mancato di sollevare polemiche. Chiede a Vinta, Primo Segretario di Cosimo
II, di essere assunto allo Studio di Pisa, precisando. Quanto al titolo et
pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di matematico, che S.
A. ci aggiugnesse quello di “filosofo”, professando io di havere studiato più
anni in FILOSOFIA, che mesi in matematica pura. Il governo fiorentino comunica
a G. l'avvenuta assunzione come «Matematico primario dello Studio di Pisa et di
FILOSOFO del Ser.mo Gran Duca, senz'obbligo di leggere e di risiedere né nello
Studio né nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi l'anno,
moneta fiorentin. G. firma il contratto e raggiunse Firenze. Qui giunto
si premura di regalare a Ferdinando, figlio del granduca Cosimo, la migliore
lente ottica che realizza nel suo laboratorio organizzato quando e a Padova
dove, con l'aiuto dei mastri vetrai di Murano confezionava occhialetti sempre
più perfetti e in tale quantità da esportarli, come fa con il cannocchiale
mandato all'elettore di Colonia il quale a sua volta lo prestò a Keplero che ne
fa buon uso e che, grato, conclude la sua opera Narratio de observatis a se
quattuor Jovis satellitibus erronibus, così scrivendo. “Vicisti G.” -- riconoscendo
la verità delle scoperte di G. Ferdinando ruppe la lente. G. gli regala qualcosa
di meno fragile: una calamita armata, cioè fasciata da una lamina di ferro,
opportunamente posizionata, che ne aumenta la forza d'attrazione in modo tale
che, pur pesando solo sei once, il magnete sollevava XV libbre di ferro lavorato
in forma di sepolcro. In occasione del trasferimento a Firenze lascia la sua
convivente, la veneziana Marina Gamba, conosciuta a Padova, dalla quale aveva
avuto tre figli: Virginia e Livia, mai legittimate, e Vincenzio, che riconosce.
Affida a Firenze la figlia Livia alla nonna, con la quale già convive l'altra
figlia Virginia, e lascia Vincenzio a Padova alle cure della madre e poi, dopo
la morte di questa, a Bartoluzzi. In seguito, resasi difficile la
convivenza delle due bambine con Ammannati, G. fa entrare le figlie nel
convento di San Matteo, ad Arcetri (Firenze), costringendole a prendere i voti
non appena compiuti i rituali XVI anni. Virginia assunse il nome di suor Maria
Celeste, e Livia quello di suor Arcangela, e mentre Virginia G. si rassegna
alla sua condizione e rimase in contatto epistolare con il padre, Livia non
accetta mai l'imposizione. La pubblicazione del Sidereus Nuncius suscita
apprezzamenti ma anche diverse polemiche. Oltre all'accusa di essersi
impossessato, con il cannocchiale, di una scoperta che non gl’apparteneva, e
messa in dubbio anche la realtà di quanto egli asseriva di aver scoperto. Sia
Cremonini, sia Magini, che sarebbe l'ispiratore del libello “Brevissima
peregrinatio contra Nuncium Sidereum” da Horký, pur accogliendo l'invito di G.
a guardare attraverso il telescopio che egli ha costruito, ritennero di *non* vedere
alcun supposto satellite di Giove. Solo più tardi Magini si ricredette e
con lui anche Clavius, che aveva ritenuto che i satelliti di Giove individuati
da G. sono soltanto un'”illusione” prodotta non direttamente dal corpo di G.
mai dalla lente del telescopio. Quest’obiezione e difficilmente confutabile. Conseguente
sia alla bassa qualità del sistema ottico del primo telescopio, sia all'ipotesi
che la lente potessero deformer la vision natural all’occhio nudo. Un appoggio
molto importante e dato a G. da Keplero, che, dopo un iniziale scetticismo e
una volta costruito un telescopio sufficientemente efficiente, verifica
l'esistenza effettiva dei satelliti di Giove, pubblicando a Francoforte la “Narratio
de observatis a se IV Jovis satellitibus erronibus quos G. mathematicus
florentinus jure inventionis MEDICAEA SIDERA nuncupavit”. Poiché i gesuiti del
Collegio Romano sono considerati tra le maggiori autorità scientifiche del tempo,
si reca a Roma per presentare le sue scoperte. E accolto con tutti gl’onori da Paolo
V e da Cesi, che lo iscrive nei Lincei. G. scrive a Vinta che i gesuiti avendo
finalmente conosciuta la verità dei nuovi MEDICAEA SIDERA, ne hanno fatte da II
mesi in qua continue osservazioni, le quali vanno proseguendo; e le aviamo “riscontrate
con le mie” e si rispondano giustissime. Però, a quel tempo non sa ancora che
l'entusiasmo con il quale anda diffondendo e difendendo le proprie scoperte e
teorie suscita resistenze e sospetti precisamente in ambito
ecclesiastico. Bellarmino incarica i matematici vaticani d’approntargli
una relazione sulle nuove scoperte fatte da un valente matematico per mezo d'un
istrumento chiamato cannone overo ochiale e la congregazione del sant’uffizio precauzionalmente
chiede all'inquisizione di Padova se e mai stato aperto, in sede locale,
qualche procedimento a carico di G.. Evidentemente, la curia romana comincia
già a intravedere quali conseguenze avrebbero potuto avere questi singolari
sviluppi della filosofia sulla concezione generale del mondo e quindi,
indirettamente, sui sacri principi. Scrive il Discorso intorno alle cose che
stanno in su l'acqua, o che in quella si muovono, nel quale appoggiandosi alla
teoria di Archimede dimostra, contro Aristotele, che i corpi galleggiano o
affondano nell'acqua a seconda del loro peso specifico non della loro forma,
provocando la polemica risposta del Discorso apologetico d'intorno al Discorso
di G. di Colombe. Al Pitti, presenti il granduca, la granduchessa Cristina e Barberini,
allora suo grande ammiratore, da una pubblica dimostrazione sperimentale
dell'assunto, confutando definitivamente Colombe. G. accenna anche alle
macchie solari, che sosteniene di aver già osservate a Padova, senza però darne
notizia: scrive ancora, l'Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e
loro accidenti, pubblicata a Roma dall'Accademia dei Lincei, in risposta a III lettere
di Scheiner che, indirizzate a Welser, duumviro di Augusta, mecenate delle
scienze e amico dei Gesuiti dei quali e banchiere. A parte la questione della
priorità della scoperta, Scheiner sostene erroneamente che le macchie consisteno
in sciami di astri rotanti intorno al Sole, mentre G. le considera materia
fluida appartenente alla superficie del sole e ruotante intorno ad esso proprio
a causa della rotazione stessa della stella. L'osservazione delle macchie
consentì, quindi, a G. la determinazione del periodo di rotazione del sole e la
dimostrazione che il cielo e la terra non sono II mondi radicalmente diversi,
il primo solo perfezione e immutabilità e il secondo tutto variabile e imperfetto.
Infatti, ribadì a Cesi la sua visione copernicana scrivendo come il sole si
rivolgesse «in sé stesso in un mese lunare con rivoluzione simile all'altre de
i pianeti, cioè DA PONENTE VERSO LEVANTE intorno a i poli dell'eclittica: la
quale novità dubito che voglia essere il funerale o più tosto l'estremo e
ultimo giudizio della pseudo-filosofia, essendosi già veduti segni nelle
stelle, nella luna e nel sole; e sto aspettando di veder scaturire gran cose
dal peripato del LIZIO per mantenimento della immutabilità dei cieli, la quale
non so dove potrà esser salvata e celata. Anche l'osservazione del moto di
rotazione del sole e dei pianeti e molto importante: rende meno inverosimile la
rotazione terrestre, a causa della quale la velocità di un punto all'equatore
sarebbe di circa 1700 km/h anche se la terra fosse immobile nello spazio. La
scoperta delle fasi di Venere e di Mercurio, osservate da G., non e compatibile
col modello geocentrico di Tolomeo, ma solo con quello geo-eliocentrico di
Tycho Brahe, che Galileo non prende mai in considerazione, e con quello elio-centrico
di Copernico. G., scrivendo a Giuliano de' Medici afferma che Venere
necessarissimamente si volge intorno al sole, come anche Mercurio e tutti li
altri pianeti, cosa ben creduta da tutti i pittagorici, Copernico, Keplero e
me, ma non sensatamente provata, come ora in Venere e in Mercurio. Difende il
modello elio-centrico e chiarì la sua concezione della scienza in IV lettere
private, note come "lettere copernicane" e indirizzate a Castelli, II
a Dini, una alla granduchessa madre Cristina di Lorena. L'horror vacui
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vuoto
(filosofia). Secondo la dottrina aristotelica in natura il vuoto non esiste
poiché ogni corpo terreno o celeste occupa uno spazio che fa parte del corpo
stesso. Senza corpo non c'è spazio e senza spazio non esiste corpo. Sostiene
Aristotele che "la natura rifugge il vuoto" (natura abhorret a
vacuo), e perciò lo riempie costantemente; ogni gas o liquido tenta sempre di
riempire ogni spazio, evitando di lasciarne porzioni vuote. Un'eccezione però a
questa teoria era l'esperienza per la quale si osservava che l'acqua aspirata
in un tubo non lo riempiva del tutto ma ne rimaneva inspiegabilmente una parte
che si riteneva fosse del tutto vuota e perciò dovesse essere colmata dalla
Natura; ma questo non si verifica. G. rispondendo a una lettera inviatagli da
un cittadino ligure Baliani conferma questo fenomeno sostenendo che «la
ripugnanza del vuoto da parte della Natura» può essere vinta, ma parzialmente,
e che, anzi, «lui stesso ha provato che è impossibile far salire l’acqua per
aspirazione per un dislivello superiore a 18 braccia, circa 10 metri e mezzo. Galilei
quindi crede che l'horror vacui sia limitato e non si chiede se in effetti il
fenomeno fosse collegato al peso dell'aria, come dimostrerà Evangelista
Torricelli. La disputa con la Chiesa Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Disputa tra Galileo Galilei e la Chiesa. La
denuncia del domenicano Tommaso Caccini. Il cardinale Roberto Bellarmino. Dal
pulpito di Santa Maria Novella a Firenze Caccini lancia contro certi matematici
moderni, e in particolare contro G,, l'accusa di contraddire ARISTOTELE con le
loro concezioni astronomiche ispirate alle teorie copernicane. Giunto a Roma,
Caccini denuncia G. in quanto sostenitore del moto della terra intorno al sole.
Intanto a Napoli e stato pubblicato un saggio di Foscarini, “Sopra l'opinione
de' Pittagorici e di Copernico”, dedicata a G,, a Keplero e a tutti gli
accademici dei Lincei, che intendeva accordare ARISTOTELE con la teoria
copernicana interpretandoli in modo tale che non gli contradicano affatto. Bellarmino,
già giudice nel processo di Bruno, tuttavia afferma che sarebbe stato possibile
reinterpretare i passi del LIZIO che contraddicevano l'eliocentrismo solo in
presenza di una vera dimostrazione di esso e, non accettando le argomentazioni
di G,, aggiunge che finora non gliene era stata mostrata nessuna, e sostene che
comunque, in caso di dubbio, si dovessero preferire IL LIZIO. L'anno dopo
Foscarini verrà, per breve tempo, INCARCERATO e la sua Lettera proibita.
Intanto il Sant’uffizio stabilì di procedere all'esame delle Lettere sulle
macchie solari e G. decide di venire a Roma per difendersi personalmente,
appoggiato dal granduca Cosimo: «Viene a Roma il G. matematico» – scrive Cosimo
II a Scipione Borghese – «et viene spontaneamente per dar conto di sé di alcune
imputazioni, o più tosto calunnie, che gli sono state apposte da' suoi
emuli. Il papa ordina a Bellarmino di convocare G. e di ammonirlo di
abbandonare la suddetta opinione; e se si fosse rifiutato di obbedire, il Padre
Commissario, davanti a un notaio e a testimoni, di fargli precetto di
abbandonare del tutto quella dottrina e di non insegnarla, non difenderla e non
trattarla. Bellarmino da comunque a G. una dichiarazione in cui venivano negate
abiure ma in cui si ribadiva la proibizione di sostenere le tesi copernicane:
forse gli onori e le cortesie ricevute malgrado tutto, fecero cadere G.
nell'illusione che a lui fosse permesso quello che ad altri e vietato. Comparvero
nel cielo tre comete, fatto che attira l'attenzione e stimolò gli studi degli
astronomi di tutta Europa. Fra essi Grassi, matematico del Collegio Romano,
tenne con successo una lezione che ha vasta eco, la Disputatio astronomica de tribus
cometis anni MDCXVIII. Con essa, sulla base di alcune osservazioni dirette e di
un procedimento logico-scolastico, egli sostene l'ipotesi che le comete fossero
corpi situati oltre al cielo della Luna e la utilizza per avvalorare il modello
di Tycho Brahe, secondo il quale la terra è posta al centro dell'universo, con
gli altri pianeti in orbita invece intorno al sole, contro l'ipotesi elio-centrica.
G. decise di replicare per difendere la validità del modello copernicano.
Rispose in modo indiretto, attraverso lo scritto Discorso delle comete di un
suo amico e discepolo, Guiducci, ma in cui la mano del maestro e probabilmente
presente. Nella sua replica Guiducci sostene erroneamente che le comete non sono
oggetti celesti, ma puri effetti ottici prodotti dalla luce solare su vapori
elevatisi dalla Terra, ma indica anche le contraddizioni del ragionamento di
Grassi e le sue erronee deduzioni dalle osservazioni delle comete con il
cannocchiale. Il gesuita rispose con uno scritto intitolato Libra astronomica
ac philosophica, firmato con lo pseudonimo anagrammatico di Lotario Sarsi,
attacca direttamente G. e il copernicanesimo. G. a questo punto rispose
direttamente. E pronto il trattato “Il Saggiatore”. Scritto in forma di
lettera, e approvato dagli accademici dei Lincei e stampato a Roma. Dopo la
morte di papa Gregorio XV, con il nome di Urbano VIII saliva al soglio
pontificio Barberini, da anni amico ed estimatore di G.. Questo convinse
erroneamente G. che risorge la speranza, quella speranza che era ormai quasi
del tutto sepolta. Siamo sul punto di assistere al ritorno del prezioso sapere
dal lungo esilio a cui era stato costretto, come scritto al nipote del papa
Francesco Barberini. G. resenta una teoria rivelatasi successivamente
erronea delle comete come apparenze dovute ai raggi solari. In effetti, la
formazione della chioma e della coda delle comete, dipendono dall'esposizione e
dalla direzione delle radiazioni solari, dunque Galilei non aveva tutti i torti
e Grassi ragione, il quale essendo avverso alla teoria copernicana, non poteva
che avere un'idea sui generis dei corpi celesti. La differenza tra le
argomentazioni di Grassi e quella di Galileo era tuttavia soprattutto di
metodo, in quanto il secondo basava i propri ragionamenti sulle esperienze. Galileo
scrisse infatti la celebre metafora secondo la quale la filosofia è scritta in
questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi
“(io dico l'universo)” mettendosi in contrasto con Grassi che si richiamava
all'autorità dei maestri del passato e di Aristotele per l'accertamento della
verità sulle questioni naturali. Giunse a Roma per rendere omaggio al
papa e strappargli la concessione della tolleranza della Chiesa nei confronti
del sistema copernicano, ma nelle sei udienze concessegli da Urbano VIII non
ottenne da questi alcun impegno preciso in tal senso. Senza nessuna
assicurazione ma con il vago incoraggiamento che gli veniva dall'esser stato
onorato da papa Urbano – che concesse una pensione al figlio Vincenzio – G.
ritenne di poter rispondere finalmente alla Disputatio di Francesco Ingoli.
Reso formale omaggio all'ortodossia cattolica, nella sua risposta G. dovrà
confutare le argomentazioni anticopernicane dell'Ingoli senza proporre quel
modello astronomico, né rispondere alle argomentazioni del LIZIO. Nella Lettera
G. enuncia per la prima volta quello che sarà chiamato il principio della
relatività galileiana: alla comune obiezione portata dai sostenitori della
immobilità della terra, consistente nell'osservazione che i gravi cadono
perpendicolarmente sulla superficie terrestre, anziché obliquamente, come
apparentemente dovrebbe avvenire se la Terra si muovesse, G. risponde portando
l'esperienza della nave nella quale, sia essa in movimento uniforme o sia
ferma, i fenomeni di caduta o, in generale, dei moti dei corpi in essa
contenuti, si verificano esattamente nello stesso modo, perché «il moto
universale della nave, essendo comunicato all'aria ed a tutte quelle cose che
in essa vengono contenute, e non essendo contrario alla naturale inclinazione
di quelle, in loro indelebilmente si conserva».[65] Dialogo Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Dialogo sopra i due
massimi sistemi del mondo. Galilei comincia il suo nuovo lavoro, un Dialogo
che, confrontando le diverse opinioni degli interlocutori, gli avrebbe
consentito di esporre le varie teorie correnti sulla cosmologia, e dunque anche
quella copernicana, senza mostrare di impegnarsi personalmente a favore di
nessuna di esse. Ragioni di salute e familiari prolungarono la stesura
dell'opera. Dovette prendersi cura della numerosa famiglia del fratello
Michelangelo, mentre il figlio Vincenzio, laureatosi in legge a Pisa si sposa con
Sestilia Bocchineri, sorella di Geri Bocchineri, uno dei segretari del duca
Ferdinando, e di Alessandra. Per esaudire il desiderio della figlia Maria
Celeste, monaca ad Arcetri, di averlo più vicino, affitta vicino al convento il
villino «Il Gioiello». Dopo non poche vicissitudini per ottenere l'imprimatur
ecclesiastico, l'opera venne pubblicata. Nel Dialogo i due massimi
sistemi messi a confronto sono quello geo-centrico e quello elio-centrico. Tre
sono i protagonisti: due sono personaggi reali, amici di Galileo, Salviati e
Sagredo, nello cui palazzo si fingono tenute la conversazione. Il terzo
protagonista è ‘Simplicio,’ un commentatore di Aristotele, oltre a
sottintendere il suo semplicismo scientifico. Simplicio è il sostenitore del
sistema geo-centrico, mentre l'opposizione elio-centrica è sostenuta da
Salviati e Sagredo. Il Dialogo ricevette molti elogi, ma si diffusero le voci
di una proibizione. Riccardi scrive ad Egidi che per ordine del Papa il
“Dialogo” non doveva più essere diffuso. Gli chiedeva di rintracciare le copie
già vendute e di sequestrarle. Il Papa adirato accusa G. di aver raggirato i
ministri che avevano autorizzato la pubblicazione. L’Inquisizione romana
sollecita quella fiorentina perché notificasse a Galileo l'ordine di comparire
a Roma entro il mese di ottobre davanti al Commissario generale del
Sant'Uffizio. Galileo, in parte perché malato, in parte perché spera che la
questione potesse aggiustarsi in qualche modo senza l'apertura del processo,
ritarda per tre mesi la partenza; di fronte alla minacciosa insistenza del
Sant'Uffizio, parte per Roma in lettiga. Il processo comincia con il
primo interrogatorio di Galileo, al quale Maculano contesta di aver ricevuto un
precetto con il quale Bellarmino gli avrebbe intimato di abbandonare la teoria
elio-centrica, di non sostenerla in nessun modo e di non insegnarla. Nell'interrogatorio
Galileo nega di aver avuto conoscenza del precetto e sostenne di non ricordare
che nella dichiarazione di Bellarmino vi fossero le parole “quovis modo” (in
qualsiasi modo) e “nec docere” (non insegnare). Incalzato dall'inquisitore,
Galileo non solo ammise di non avere detto cosa alcuna del sodetto precetto, ma
anzi arriva a sostenere che nel detto Dialogo mostra il contrario di detta
opinione del Copernico, e che le ragioni di Copernico sono invalide e non
concludenti. Concluso il primo interrogatorio, Galileo fu trattenuto, pur sotto
strettissima sorveglianza, in tre stanze del palazzo dell'Inquisizione, con
ampia e libera facoltà di passeggiare. Il giorno successivo all'ultimo
interrogatorio, nella sala capitolare del convento domenicano di Santa Maria
sopra Minerva, presente e inginocchiato G., fu emessa la sentenza dai inquisitori
generali contro l'eretica pravità, nella quale si riassume la lunga vicenda del
contrasto fra G. e il LIZIO, cominciata con lo scritto Delle macchie solari e
l'opposizione dei LIZII al modello Copernicano. Nella sentenza si sostiene poi
che il documento fosse un'effettiva ammonizione a non difendere o insegnare la
teoria copernicana. Imposta l'abiura con cuor sincero e fede non finta e
proibito il Dialogo, e condannato al carcere formale ad arbitrio nostro e alla
pena salutare della recita settimanale dei sette salmi penitenziali per tre
anni, riservandosi l'Inquisizione di moderare, mutare o levar in tutto o parte
le pene e le penitenze. Se la leggenda della frase di G., «E pur si muove», pronunciata
appena dopo l'abiura, serve a suggerire la sua intatta convinzione della
validità del modello copernicano, la conclusione del processo segna la
sconfitta del suo programma di diffusione della filosofia, fondata
sull'osservazione rigorosa dei fatti e sulla loro verifica sperimentale –
contro il LIZIO che produce esperienze come fatte e rispondenti al suo bisogno
senza averle mai né fatte né osservate – e contro i pregiudizi del senso
comune, che spesso induce a ritenere reale qualunque apparenza: una filosofia
che insegna a non aver più fiducia nell'autorità, nella tradizione e nel senso
commune e che vuole insegnare a pensare. La sentenza di condanna prevedeva un
periodo di carcere a discrezione del Sant'Uffizio e l'obbligo di recitare per
tre anni, una volta alla settimana, i salmi penitenziali. Il rigore letterale
fu mitigato nei fatti. La prigionia consistette nel soggiorno coatto per cinque
mesi presso Palazzo Niccolini, a Trinità dei Monti e di qui, in Palazzo Piccolomini
a Siena. Quanto ai salmi penitenziali, Galileo incarica di recitarli, con il consenso
della Chiesa, la figlia Livia, suora di clausura. Piccolomini favore G., permettendogli
di incontrare personalità della città e di dibattere questioni scientifiche. A
seguito di una lettera che denunci l'operato, il Sant'Uffizio provvide,
accogliendo una stessa richiesta avanzata in precedenza da Galilei, a confinarlo
nell'isolata villa del Gioiello, che possede nella campagna di Arcetri. Si l’intima
di stare da solo, di non chiamare ne di ricevere alcuno, per il tempo ad
arbitrio di Sua Santita. Solo i familiari poaaono fargli visita, dietro
preventiva autorizzazione: anche per questo motivo gli fu particolarmente
dolorosa la morte di Livia. Poté tuttavia mantenere corrispondenza con amici ed
estimatori: a Diodati consolandosi delle sue sventure che l'invidia e la
malignità “mi hanno machinato contro” con la considerazione che l'infamia
ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime grado dell'ignoranza.
Da Diodati seppe della versione in latino che Bernegger anda facendo a
Strasburgo del suo Dialogo e gli riferì di Rocco, purissimo peripatetico, e remotissimo
dall'intender nulla di filosofia che scrive a Venezia mordacità e contumelie contro
di lui. Questa, e altre lettere, dimostrano quanto poco G. avesse rinnegato le
proprie convinzioni copernicane. Dopo il processo scrive e pubblica “Discorsi
e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti la mecanica e
i moti locali”, organizzato come un dialogo che si svolge in quattro giornate
fra i tre medesimi protagonisti del precedente Dialogo dei massimi sistemi: Sagredo,
Salviati e Simplicio. Nella prima giornata si tratta della resistenza dei
materiali. La diversa resistenza deve essere legata alla struttura della
particolare materia e G., pur senza pretendere di pervenire a una spiegazione
del problema, affronta l'interpretazione atomistica di Democrito,
considerandola un'ipotesi capace di rendere conto di fenomeni fisici. In
particolare, la possibilità dell'esistenza del vuoto – prevista da Democrito –
viene ritenuta una seria ipotesi scientifica e nel vuoto – ossia
nell'inesistenza di un qualunque mezzo in grado di opporre resistenza – Galileo
sostiene giustamente che tutte le cose discendeno con eguale velocità, in
opposizione con Aristotele che ritiene l'impossibilità concettuale di un moto
in un vuoto. Dopo aver trattato della statica e della leva nella seconda
giornata, nella terza e nella quarta si occupa della dinamica, stabilendo le
leggi del moto uniforme, del moto naturalmente accelerato e del moto
uniformemente accelerato e delle oscillazioni del pendolo. Intraprende
corrispondenza con Bocchineri. La famiglia Bocchineri di Prato aveva dato una
giovane, di nome Sestilia, sorella di Alessandra, per moglie al figlio di
Galilei, Vincenzio. Quando Galilei incontra Bocchineri, questa è una
donna che si è affinata e ha coltivato la sua intelligenza, sposa di Buonamici,
un importante diplomatico che diventerà buon amico di Galilei. Bocchineri
e Galilei si scambiano numerosi inviti per incontrarsi e G. non manca di elogiare
l'intelligenza di Bocchineri dato che sì rare si trovano donne che tanto
sensatamente discorrino come ella fa. Con la cecità e l'aggravarsi delle
condizioni di salute è costretto talvolta a rifiutare gli invite NON *SOLO* per
le molte indisposizioni che mi tengono oppresso in questa mia gravissima età,
ma perché son ritenuto ancora in carcere, per quelle cause che benissimo son
note. L'ultima lettera mandata di
"non volontaria brevità". Ad Arcetri, assistito da Viviani e
Torricelli. «Vide / sotto l'etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole
irradïarli immoto, onde all'Anglo che tanta ala vi stese / sgombrò primo le vie
del firmamento. E tumulato nella Basilica di Santa Croce a Firenze. Il
Cristenesimo mantenne la sorveglianza anche nei confronti degli allievi. Quando
i seguaci diedero vita al Cimento, esso intervenne presso il Granduca, e il
Cimento e sciolto. Convinto della correttezza della cosmologia copernicana, G.
era ben consapevole che essa fosse ritenuta in contraddizione con il testo
cristiano che sostenevano invece una concezione geocentrica dell'universo. Il
cristanesimo considera le Sacre Scritture ispirate dallo Spirito Santo, la
teoria eliocentrica poteva essere accettata, fino a prova contraria, soltanto
come semplice ipotesi (“ex supposition”) o modello matematico, senza alcuna
attinenza con la reale posizione dei corpi celesti. Proprio a questa condizione
il “De revolutionibus orbium coelestium” di Copernico non e condannato dalle
autorità ecclesiastiche e menzionato nell'Indice dei libri proibiti. Galileo si
inserì nel dibattito sul rapporto fra scienza e fede con la lettera a Castelli.
Difese il modello copernicano sostenendo che esistono *due* verità
necessariamente non in contraddizione o in conflitto fra loro. La Bibbia è
certamente un testo sacro di ispirazione divina e dello Spirito Santo, ma
comunque scritto in un preciso momento storico con lo scopo di orientare il
lettore verso la comprensione della vera religione. Per questa ragione, come
già avevano sostenuto molti esegeti tra i quali *Lutero* e Keplero, i fatti del
LIZIO sono stati necessariamente scritti in modo tale da poter essere compresi
anche dagli antichi e dalla gente comune. Occorre quindi discernere, come già sostenuto
da Agostino, il messaggio propriamente basato nella fede dalla descrizione,
storicamente connotata ed inevitabilmente narrativa e didascalica, di fatti,
episodi e personaggi. Dal che seguita, che qualunque volta alcuno,
nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono litterale, splicito, potrebbe,
errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contraddizioni e
proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora. Poi che
sarebbe necessario dare a Dio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti di un
corpora quasi-umanio, come d'ira, di pentimento, d'odio ed anco tal volta la
dimenticanza delle cose passate e l'ignoranza delle future.” Lettera alla granduchessa
di Toscana. Il noto episodio biblico della richiesta di Giosuè a Dio di fermare
il Sole per prolungare il giorno era usato in ambito ecclesiastico a sostegno
del sistema geo-centrico. Galileo sostenne invece che in quel modo il giorno
non si sarebbe allungato, in quanto nel sistema geo-centrio la rotazione diurna (giorno/notte)
non dipende dal Sole, ma dalla rotazione del Primum Mobile. La Bibbia deve
essere re-interpretata e bisogna “alterar” il “senso” delle parole, e dire che
quando la Scrittura dice che Dio ferma il Sole, voleva dire che ferma 'l primo
mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei
a intender il nascere e 'l tramontar del Sole, lo Spirito Santo dice al
contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati. Nel sistema
elio-centrico la rotazione del Sole sul proprio asse provoca sia la rivoluzione
della Terra attorno al Sole, sia la rotazione diurna (giorno/notte) della Terra
attorno all'asse terrestre. Quindi l'episodio biblico ci mostra manifestamente
la falsità e impossibilità del mondano sistema aristotelico e Tolemaico, e
all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano.. Infatti se Dio avesse
fermato il Sole assecondando la richiesta di Giosuè, ne avrebbe necessariamente
bloccato la rotazione assiale (unico suo movimento previsto nel sistema
copernicano), provocando di conseguenza - secondo Galileo - l'arresto sia della
(ininfluente) rivoluzione annuale, sia della rotazione terrestre diurna prolungando
quindi la durata del giorno. A questo proposito, è interessante la critica
proposta da Koestler, in cui sostiene che Galileo sape meglio di chiunque altro
che se la terra si fermasse bruscamente, montagne, case, città, crollerebbero
come un castello di carte. Il più ignorante dei frati, senza sapere nulla del
momento di inerzia, sape benissimo quel che succedeva quando i cavalli e la
carrozza frenavano di colpo o quando una nave finiva contro gli scogli. Se si
interpreta la Bibbia secondo Tolomeo, il brusco arresto del Sole non aveva
effetti fisici degni di nota e il miracolo rimaneva credibile al pari di
qualsiasi altro miracolo. In base all'interpretazione di Galileo, Giosuè
avrebbe distrutto non soltanto gli Amorrei, ma la terra intera! Sperando di far
passare queste sciocchezze penose, Galileo rivela il suo disprezzo per gli
avversari. Fece analoghe considerazioni in lettere a Dini, le quali destarono
preoccupazione negli ambienti conservatori per le idee innovative, il carattere
polemico e l'ardimento coi quali Galilei sostene che alcuni passi della Bibbia
dovessero venir re-interpretati alla luce del sistema copernicano. Le Sacre Scritture
si occupano di Dio. La filosofia naturale, che fa indagini sulla Natura si fondarsi
su «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni». La Bibbia e la Natura non
possono contraddirsi perché derivano entrambe da Dio. Di conseguenza, in caso
di discordia apparente, non sarà la scienza a dover fare un passo indietro,
bensì gli interpreti del testo sacro che dovranno cercare al di là del “significato”
splicito superficiale (explicatura). Le Sacre Scritture sono conforme soltanto
"al comun modo del volgo", ossia si adatta non già alle competenze
degli "intendenti", ma ai limiti conoscitivi dell'uomo comune,
velando così con una sorta di “allegoria” il “senso più profondo” di un
enunciato.. Se il “messaggio” “letterale” diverge da un enunciato del filosofo
naturale, non lo può mai il suo “contenuto” "recondito" e più
autentico, ricavabile dall'interpretazione delle Sacre Scriture oltre i suoi “significato”
più epidermico. Circa il rapporto tra filosofia e la rivelazione, celebre è la
sua frase: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado,
l'*intenzione* dello Spirito Santo essere d'*in-segn-arci* come si vadia al
cielo, e non come vadia il cielo», usualmente attribuita Baronio. Si noti che,
applicando tale criterio, Galileo non avrebbe potuto usare il passo biblico di
Giosuè per cercare di dimostrare un presunto accordo tra testo sacro e sistema
copernicano o la supposta contraddizione tra la Bibbia e il modello tolemaico.
Deriva invece proprio da tale criterio la teoria di Galileo secondo la quale
esistono *due* sorgenti di *conoscenza* che sono in grado di rivelare la stessa
verità che proviene da Dio. Il primo è le
Sancte Scritture, scritte dal spirito santo in termini comprensibili al
"volgo", che ha essenzialmente valore salvifico e di redenzione
dell'anima, e richiede quindi un'attenta inter-pretazione delle affermazioni
relative ai fenomeni naturali che in essa sono descritti. Il secondo è questo
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico
l'universo), scritto in simboli», che va letto (decifrato) secondo la ragione
(non la fede) e non va pos-posto alle Sancte Scriture ma, per essere *ben* o
corretamente interpretato, deve essere studiato con gli strumenti di cui Dio –
nostro genitore -- ci ha dotati: sentire, il giudicare, il discorrire. Nella
disputa filosofica di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalla
autorità di luoghi delle Sancte Scritture, ma dall’esperienza sensata (a
posteriori) e dalla di-mostrazioni necessaria (dall’assiomi, a priori): perché,
procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la Natura – la fisi
dei grecchi --, quella come ‘dettatura’ (dictature – dettato ed impiegato) dello
Spirito Santo, e questa ‘dettatura’ come osservantissima esecutrice de gli
ordini di Dio, nostro genitore.” La FILOSOFIA – regina scientiarum – La
‘materia’ della filosofia la rende d'importanza primaria (metafisica come
filosofia prima, filosofia naturale come filosofia seconda. La flosofia non pretendere
di pronunciare giudizi su una verità specifica (la porta e chiusa). Al contrario,
se una certa esperienza non si accorda con un assioma, allora e quest’assioma
che deve essere ri-letti alla luce della experienza. Non vi può essere, in
definitiva, dis-accordo tra ragione ed experienza, essendo, per definizione,
entrambe vere. Ma, in caso di *apparente* contraddizione su un fenomeno
naturale, occorre modificare l'interpretazione dell’assioma per adeguarla
all’esperienza. Aristotele – con il suo geo-centrimo -- non differe
sostanzialmente da G.. IL LIZIO ammetteva la necessità di rivedere l'interpretazione
dell’esperienza. Ma nel caso del sistema elio-centrico, Bellarmino sostenne,
ragionevolmente, che non vi fossero una prova conclusive a suo favore. Dico che
quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo (o
nostro sistema pianetario) e la terra nel terzo cielo, e che il sole (elio) non
circonda la terra (gea), ma la terra circonda il sole, allhora bisogneria andar
con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più
tosto dire che “non l'intendiamo” – cf. Grice on metaphor and ‘My neighbour’s
three-year old is an adult”), che dire che sia “falso” (‘You’re the cream in my
coffee”, “My neighbour’s three-year old understands Russell’s Theory of Types”)
quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che
non mi sia mostrata. L’ esperienzia di visione – osservazione -- con gli
strumenti allora disponibili, della parallasse stellare (che si sarebbe dovuta
riscontrare come l’effetto dello spostamento della Terra rispetto al cielo
delle stelle fisse) costituiva invece evidenza contraria alla teoria elio-centrica.
In tale contesto, Aristotele ammetteva quindi che si parlasse di una teoria o
ipotesi o modello elio-centrico solo “ex suppositione” (come ipotesi matematica
geometrica o aritmetica). La difesa di G. ex professo (con cognizione di causa
e competenza, di proposito e intenzionalmente) della teoria geo-centrica quale “reale”
descrizione fisica del sistema solare e delle orbite dei pianete si scontrò
quindi, inevitabilmente, con la posizione ufficiale d’Aristotele. Tale
contrapposizione sfociò nel processo a G., che si concluse con la condanna per veemente
sospetto di eresia" e l'abiura forzata delle sue concezioni astronomiche.
RiAl di là dal giudizio storico, giuridico e morale sulla condanna a G., le
questioni di carattere epistemologico filosofico e di “ermeneutica” che furono
al centro del processo sono state oggetto di riflessione da parte di Grice. che
spesso ha citato la vicenda di G. per esemplificare, talora in termini volutamente
paradossali, il suo pensiero in merito a tali questioni. Contro Feyerabend,
sostenitore di un'anarchia epistemologica, Grice sostenne che Aristotele si
attenne alla ragione più che G., e prese in considerazione anche le conseguenze
etiche e sociali della teoria elio-centrica. La sentenza aristotelica contro
Galilei e razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne
può legittimare la revision. Questa provocazione sarà poi ripresa da Ratzinger,
dando luogo a contestazioni da parte dell'opinione pubblica. Ma il vero scopo
per cui Grice espresso tale provocatoria affermazione e "solo mostrare la
contraddizione di coloro che approvano l’eliocentrismo di G e condannano il
geo-centrismo LIZIO, ma poi verso il lavoro dei loro contemporanei sono rigorosi
come lo sono I LIZII ai tempi di Galileo. Nel corso dei secoli che seguirono, IL
LIZIO modifica la propria posizione nei confronti di G.. Il Sant'Uffizio concede
l'erezione di un mausoleo in suo onore nella chiesa di Santa Croce in Firenze.
Benedetto XIV olse dall'Indice i libri che insegnavano il moto della Terra (“e
pur si muove”) con ciò ufficializzando quanto già di fatto aveva fatto
Alessandro VII con il ritiro di un dicreto. La definitiva autorizzazione
all'”in-segna-mento” del moto della terra e dell'immobilità del sole arriva con
un decreto della Sacra Congregazione dell'inquisizione approvato da Pio VII.
Particolarmente significativo risulta il contributo di Newman, a pochi anni
dalla abilitazione dell'insegnamento dell'eliocentrismo e quando le teorie di
Newton sulla gravitazione risultavano ormai affermate e provate sperimentalmente.
Newman riassume il rapporto dell'elio-centrismo con il LIZIO. «Quando il
sistema copernicano comincia a diffondersi, quale LIZIO non sarebbe stato
tentato dall'inquietudine, o almeno dal timore dello scandalo, per l'apparente
contraddizione che esso implica con una certa autorevole tradizione?
Generalmente si accetta che la terra e immobile e che il sole, fissato in un
solido firmamento, ruota intorno alla terra. Dopo un po' di tempo, tuttavia, e
un'analisi completa, si scoprì che il LIZIO non decide quasi niente su
questioni come questa e che la scienza fisica puo muoversi in questa sfera di
pensiero quasi a piacere, senza timore di scontrarsi con l’adagio, “Master
dixit””. Newman compie della vicenda G. come conferma, e non negazione, del
LIZIO. E certamente un fatto molto significativo, considerando con quanta
ampiezza e quanto a lungo fosse stata sostenuta dai LIZII una certa
interpretazione di questa affermazione fisica geo-centrica, che il LIZIO non l'ha
formalmente riconosciuta (la teoria del geocentrismo, ndr). Guardando alla
questione da un punto di vista umano, e inevitabile che essa dovesse far
propria quell'opinione. Ma ora, accertando la nostra posizione rispetto
all’esperienza, troviamo che malgrado gli abbondanti commenti che fin
dall'inizio essa ha sempre fatto su Aristotele, com'è suo compito e suo diritto
fare, tuttavia, è sempre stata indotta a spiegare formalmente Aristotele o a
dar loro un senso di autorità che l’esperienza può mettere in discussione. Paolo
VI fece avviare la revisione del processo e con l'intento di porre una parola
definitiva riguardo a queste polemiche Giovanni Paolo II auspicò che fosse
intrapresa una ricerca interdisciplinare sui difficili rapporti di G. con la
Chiesa e istituì una Commissione per lo studio della controversia tolemaico-copernicana
nella quale il caso G. si inserisce. Il papa ammise, nel discorso in cui
annuncia l'istituzione della commissione, che"G. ha molto a soffrire, non
possiamo nasconderlo, da parte di uomini del LIZIO. Si cancella la condanna e
chiarì la sua interpretazione sulla questione teologica scientifica galileiana
riconoscendo che la condanna di G. e dovuta all'ostinazione di entrambe le
parti nel non voler considerare le rispettive teorie come semplici ipotesi non
comprovate sperimentalmente e, d'altra parte, alla mancanza di perspicacia,
ovvero di intelligenza e lungimiranza, dei filosofi del LIZIO che lo
condannarono, incapaci di riflettere sui propri criteri di interpretazione del
LIZIO e responsabili di aver inflitto molte sofferenze a G. Come dichiara
Giovanni Paolo II, come la maggior parte dei suoi avversari LIZII, G. non fa
distinzione tra quello che è l'approccio scientifico ai fenomeni naturali e la
riflessione sulla natura, di ordine filosofico, che esso generalmente richiama.
È per questo che G. Rifiuta il suggerimento che gli era stato dato di
presentare come un'ipotesi il sistema di Copernico, fin tanto che esso non
fosse confermato da prove irrefutabili. Era quella, peraltro, un'esigenza del
metodo sperimentale di cui egli fu l’iniziatore. Il problema che si posero
dunque i LIZII sono quello della compatibilità dell'eliocentrismo ed il LIZIO.
Così l’esperienza, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi
suppongono, obbliga I LIZII ad interrogarsi sui loro criteri di interpretazione
di Aristotele. La maggior parte non seppe farlo. Il giudizio pastorale che richiedeva
la teoria copernicana e difficile da esprimere nella misura in cui il geo-centrismo
sembra far parte dell’insegnamento stesso del LIZIO. Sarebbe stato necessario contemporaneamente
vincere delle abitudini di pensiero e inventare una pedagogia capace di
illuminare il popolo. La storia del pensiero scientifico del Medioevo e del
Rinascimento, che si comincia ora a comprendere un po' meglio, si può dividere
in due periodi, o meglio, perché l'ordine cronologico corrisponde solo molto
approssimativamente a questa divisione, si può dividere, grosso modo, in tre
fasi o epoche, corrispondenti successivamente a tre differenti correnti di
pensiero: prima la fisica aristotelica; poi la fisica dell'impetus, iniziata,
come ogni altra cosa, dai Greci ed elaborata dalla corrente dei Nominalisti; e
infine la fisica galileiana. Fra le maggiori scoperte che G. fece guidato dagli
esperimenti, si annoverano un primo approccio fisico alla relatività, poi noto
come “relatività galileiana”, la scoperta delle quattro lune principali di
Giove, dette appunto “satelliti galileiani” (Io, Europa, “Ganimede” e
Callisto), il principio di inerzia, seppur parzialmente. Compì anche
studi sul moto di caduta dei gravi e riflettendo sui moti lungo i piani
inclinati scoprì il problema del "tempo minimo" nella caduta dei corpi
materiali, e studia varie traiettorie, tra cui la spirale paraboloide e la
cicloide. Nell'ambito delle sue ricerche di matematica – geometria ed
aritmetica -- si avvicinò alle proprietà dell'infinito introducendo un celebre
paradosso di G.. G. incoraggiò Cavalieri a sviluppare le idee del maestro e di
altri sulla geometria con il metodo degli indivisibili, per determinare aree e
volumi: questo metodo rappresentò una tappa fondamentale per l'elaborazione del
calcolo infinitesimale. Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su di un
piano inclinato con un peso scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare
all’aria un peso che egli stesso sapeva già uguale a quello di una colonna
d’acqua conosciuta fu una rivelazione luminosa per tutti gli investigatori
della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa
produce secondo il proprio disegno, e che essa deve costringere la natura a
rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così,
colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un
disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria. Galilei fu
uno dei protagonisti della fondazione del metodo scientifico espresso con
linguaggio matematico e pose l'esperimento come strumento a base dell'indagine
sulle leggi della natura, in contrasto con Aristotele e la sua analisi
qualitativa del cosmo. Hanno sin qui la maggior parte dei filosofi creduto che
la superficie della luna fosse pulita tersa e assolutissimamente sferica, e se
qualcuno disse di credere, che ella fusse aspra e muntuosa fu reputato parlare
più presto favolusamente, che filosoficamente. Ora io questa istessa lunare asserisco
il primo, non più per immaginazione, ma per sensata esperienza e necessaria
dimostrazione, che egli è di superficie piena di innumerevoli cavità ed
eminenze, tanto rilevate che di gran lunga superano le terrene montuosità. Già
nella lettera a Welser a proposito della polemica sulle macchie solari, G. si
domandava che cosa l'uomo nella sua ricerca vuole arrivare a conoscere.
«O noi vogliamo specolando tentar di penetrar l'essenza vera ed intrinseca
delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia
d'alcune loro affezioni» Ed ancora: per conoscenza intendiamo l'arrivare
a cogliere i principi primi dei fenomeni o come questi si sviluppano? «Il
tentar l'essenza, l'ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men
vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me
pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle
nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell'intender queste
sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de' particolari, ma tutti
egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o
niuno acquisto dall'uno all'altro. La ricerca dei principi primi essenziali
comporta dunque una serie infinita di domande poiché ogni risposta fa nascere
una nuova domanda: se noi ci chiedessimo quale sia la sostanza delle nuvole,
una prima risposta sarebbe che è il vapore acqueo ma poi dovremo chiederci che
cos'è questo fenomeno e dovremo rispondere che è acqua, per chiederci subito
dopo che cos'è l'acqua, rispondendo che è quel fluido che scorre nei fiumi ma
questa «notizia dell'acqua» è soltanto «più vicina e dependente da più sensi»,
più ricca di informazioni particolari diverse, ma non ci porta certo la
conoscenza della sostanza delle nuvole, della quale sappiamo esattamente quanto
prima. Ma se invece vogliamo capire le «affezioni», le caratteristiche
particolari dei corpi, potremo conoscerle sia in quei corpi che sono da noi
distanti, come le nuvole, sia in quelli più vicini, come l'acqua. Occorre
dunque intendere in modo diverso lo studio della natura. «Alcuni severi
difensori di ogni minuzia peripatetica», educati nel culto di Aristotele,
credono che «il filosofare non sia né possa esser altro che un far gran pratica
sopra i testi di Aristotele» che portano come unica prova delle loro teorie. E
non volendo «mai sollevar gli occhi da quelle carte» rifiutano di leggere
«questo gran libro del mondo» (cioè dall'osservare direttamente i fenomeni),
come se «fosse scritto dalla natura per non esser letto da altri che da il
LIZIO, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità.
Invece i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra
un mondo di carta.A fondamento del metodo scientifico quindi ci sono il rifiuto
dell'essenzialismo e la decisione di cogliere solo l'aspetto quantitativo dei
fenomeni nella convinzione di poterli tradurre tramite la misurazione in numeri
così che si abbia una conoscenza di tipo matematico, l'unica perfetta per
l'uomo che la raggiunge gradatamente tramite il ragionamento così da eguagliare
lo stesso perfetto conoscere divino che la possiede interamente e
intuitivamente. Però...quanto alla verità di che ci danno cognizione le
dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina. Il
metodo galileiano si dovrà comporre quindi di due aspetti principali: sensata
esperienza, ovvero l'esperimento distinto dalla comune osservazione della
natura, che deve infatti seguire a un'attenta formulazione teorica, ovvero a
ipotesi (metodo ipotetico-sperimentale) che siano in grado di guidare
l'esperienza in modo che essa non fornisca risultati arbitrari. Galileo non
ottenne la legge di caduta dei gravi dalla mera osservazione, altrimenti ne
avrebbe dedotto che un corpo cade più rapidamente tanto più è pesante (un sasso
nell'aria arriva prima a terra di una piuma per via dell'attrito). Studiò
invece il moto dei corpi in caduta controllandolo con un piano inclinato,
costruendo cioè un esperimento che gli permettesse di ottenere risultati più
precisi. Anche l'esperimento mentale può essere un utile strumento di
dimostrazione e permise a Galileo di confutare le dottrine aristoteliche sul
moto. necessaria dimostrazione, ovvero un'analisi matematica e rigorosa dei
risultati dell'esperienza, che sia in grado di trarre da questa risultati
universali e ogni conseguenza in modo necessario e non opinabile espressi dalla
legge scientifica. In questo modo Galileo concluse che tutti i corpi nel vuoto
precipitano con una velocità proporzionale al tempo di caduta, anche se
chiaramente non aveva effettuato esperimenti considerando tutti i possibili
corpi con differenti forme e materiali. La dimostrazione va ulteriormente
verificata, con ulteriori esperienze, ovvero il cosiddetto cimento che è
l'esperimento concreto con cui va sempre verificato l'esito di ogni
formulazione teorica. Sintetizzando la natura del metodo galileiano, Mondolfo
infine aggiunge che: «Il vincolo stabilito da G. tra osservazione e
dimostrazione le esperienze fatte mediante i sensi e le dimostrazioni
logico-matematiche della loro necessità – e un vincolo reciproco, non
unilaterale: né le esperienze sensibili dell’ osservazione potevano valere
scientificamente senza la relativa dimostrazione della loro necessità, né la
dimostrazione logica e matematica poteva raggiungere la sua "assoluta
certezza oggettiva" come quella della natura senza appoggiarsi all’
esperienza nel suo punto di partenza e senza trovare la sua conferma in essa nel
suo punto d’ arrivo. È questa l'originalità del metodo galileiano: avere
collegato esperienza e ragione, induzione e deduzione, osservazione esatta dei
fenomeni e elaborazione di ipotesi e questo, non astrattamente ma, con lo
studio di fenomeni reali e con l'uso di appositi strumenti tecnici. La
terminologia scientifica in Galilei Fondamentale è stato il contributo di G. al
linguaggio scientifico, sia in campo matematico, sia, in particolare, nel campo
della fisica. Ancora oggi in questa disciplina molto del linguaggio settoriale
in uso deriva da specifiche scelte dello scienziato pisano. In particolare,
negli scritti di Galileo molte parole sono tratte dal linguaggio comune e
vengono sottoposte ad una "tecnificazione", cioè l'attribuzione ad
esse di un significato specifico e nuovo (una forma, quindi, di neologismo
semantico). È il caso di "forza" (seppur non in senso newtoniano),
"velocità", "momento", "impeto",
"fulcro", "molla" (intendendo lo strumento meccanico ma
anche la "forza elastica"), "strofinamento",
"terminatore", "nastro". Un esempio del modo in cui Galileo
nomina gli oggetti geometrici è in un brano dei Discorsi e dimostrazioni
matematiche intorno a due nuove scienze: «Voglio che ci immaginiamo esser
levato via l'emisferio, lasciando però il cono e quello che rimarrà del
cilindro, il quale, dalla figura che riterrà simile a una scodella, chiameremo
pure scodella. Come si vede, nel testo ad una terminologia specialistica
("emisferio", "cono", "cilindro") si accompagna
l'uso di un termine che denota un oggetto della vita quotidiana, cioè
"scodella". Galilei è ricordato nella storia anche per le sue
riflessioni sui fondamenti e sugli strumenti dell'analisi scientifica della
natura. Celebre la sua metafora riportata nel Saggiatore, dove la matematica
viene definita come il linguaggio (o la semiotica, o i ‘signi’ – il segno -- in
cui è scritto libro della natura: La filosofia è scritta in questo
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico
l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la
lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua
matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche,
senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi
è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. In questo brano Galilei mette
in collegamento le parole "matematica", "filosofia" e
"universo", dando così inizio a una lunga disputa fra i filosofi
della scienza in merito a come egli concepisse e mettesse in relazione fra loro
questi termini. Ad esempio, quello che qui Galileo chiama "universo"
si dovrebbe intendere, modernamente, come "realtà fisica" o
"mondo fisico" in quanto Galileo si riferisce al mondo materiale
conoscibile matematicamente. Quindi non solo alla globalità dell'universo
inteso come insieme delle galassie, ma anche di qualsiasi sua parte o
sottoinsieme inanimato. Il termine "natura" includerebbe invece anche
il mondo biologico, escluso dall'indagine galileiana della realtà fisica.
Per quanto riguarda l'universo propriamente detto, Galilei, seppur
nell'indecisione, sembra propendere per la tesi che sia infinito:
«Grandissima mi par l’inezia di coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto
l’universo più proporzionato alla piccola capacità del loro discorso che
all’immensa, anzi infinita, sua potenza» Egli non prende una posizione
netta sulla questione della finitezza o infinità dell'universo; tuttavia, come
sostiene Rossi, «c'è una sola ragione che lo inclina verso la tesi
dell'infinità: è più facile riferire l'incomprensibilità all'incomprensibile
infinito che al finito che non è comprensibile». Ma Galilei non prende mai
esplicitamente in considerazione, forse per prudenza, la dottrina di Giordano
Bruno di un universo illimitato e infinito, senza un centro e costituito di
infiniti mondi tra i quali Terra e Sole che non hanno alcuna preminenza
cosmogonica. Lo scienziato pisano non partecipa al dibattito sulla finitezza o
infinità dell'universo e afferma che a suo parere la questione è insolubile. Se
appare propendere per l'ipotesi della infinitezza lo fa con motivazioni
filosofiche in quanto, sostiene, l'infinito è oggetto di incomprensibilità
mentre ciò che è finito rientra nei limiti del comprensibile. Il rapporto fra
la matematica di Galileo e la sua filosofia della natura, il ruolo della
deduzione rispetto all'induzione nelle sue ricerche, sono stati riportati da
molti filosofi al confronto fra aristotelici e platonici, al recupero
dell'antica tradizione greca con la concezione archimedea o anche all'inizio
dello sviluppo nel XVII secolo del metodo sperimentale. La questione è
stata così ben espressa dal filosofo medievalista Moody. Quali sono i
fondamenti filosofici della fisica di Galileo e quindi della scienza moderna in
genere? Galileo è sostanzialmente un platonico, un aristotelico o nessuno dei
due? Si limitò, come sostiene Duhem, a rilevare e perfezionare una scienza
meccanica che aveva avuto origine nel Medioevo cristiano e i cui principi
fondamentali erano stati scoperti e formulati da Buridano, da Nicola Oresme e
dagli altri esponenti della cosiddetta "fisica dell’ impetus" del XIV
secolo? Oppure, come sostengono Cassirer e Koyré, voltò le spalle a questa
tradizione dopo averla brevemente processata nella sua dinamica pisana e
ripartì ispirandosi ad Archimede e Platone? Le controversie più recenti su
Galileo sono consistite in larga misura in un dibattito circa il valore
fondamentale e l’ influsso storico che su di lui avevano esercitato le
tradizioni filosofiche, platoniche e aristoteliche, scolastiche e antiscolastiche.
Galileo viveva in un'epoca in cui le idee del platonismo si erano diffuse
nuovamente in tutta Europa e in Italia e probabilmente anche per questa ragione
i simboli della matematica vengono da lui identificati con entità geometriche e
non con numeri. L'uso dell'algebra derivato dal mondo arabo nel dimostrare
relazioni geometriche era invece ancora insufficientemente sviluppato ed è solo
con Leibniz e Isaac Newton che il calcolo differenziale divenne la base dello
studio della meccanica classica. Galileo infatti nel mostrare la legge di
caduta dei gravi si servì di relazioni e similitudini geometriche. Da una
parte, per alcuni filosofi come Alexandre Koyré, Ernst Cassirer, Edwin Arthur
Burtt (1892–1989), la sperimentazione fu certamente importante negli studi di
Galileo e giocò anche un ruolo positivo nello sviluppo della scienza moderna.
La sperimentazione stessa, come studio sistematico della natura, richiede un
linguaggio con cui formulare domande e interpretare le risposte ottenute. La
ricerca di questo linguaggio era un problema che aveva interessato i filosofi
sin dai tempi di Platone e Aristotele, in particolare rispetto al ruolo non
banale della matematica nello studio delle scienze della natura. Galilei si
affida a esatte e perfette figure geometriche che però non possono mai essere
riscontrate nel mondo reale, se non al massimo come rozza
approssimazione. Oggi la matematica nella fisica moderna è utilizzata per
costruire modelli del mondo reale, ma ai tempi di Galileo questo tipo di
approccio non era affatto scontato. Secondo Koyré, per Galileo il linguaggio
della matematica gli permette di formulare domande a priori prima ancora di
confrontarsi con l'esperienza, e così facendo orienta la stessa ricerca delle
caratteristiche della natura attraverso gli esperimenti. Da questo punto di
vista, Galileo seguirebbe quindi la tradizione platonica e pitagorica, dove la
teoria matematica precede l'esperienza e non si applica al mondo sensibile ma
ne esprime la sua intima natura. La visione aristotelica Altri studiosi di
Galilei, come Stillman Drake, Pierre Duhem, John Herman Randall Jr., hanno
invece sottolineato la novità del pensiero di Galileo rispetto alla filosofia
platonica classica. Nella metafora del Saggiatore la matematica è un linguaggio
e non è direttamente definita né come l'universo né come la filosofia, ma è
piuttosto uno strumento per analizzare il mondo sensibile che era invece visto
dai platonici come illusorio. Il linguaggio sarebbe il fulcro della metafora di
Galileo, ma l'universo stesso è il vero obbiettivo delle sue ricerche. In
questo modo secondo Drake, Galileo si allontanerebbe definitivamente dalla
concezione e dalla filosofia platonica per accostarsi invece alla filosofia
aristotelica per cui ogni realtà deve avere in sé stessa le leggi del proprio
costituirsi. La sintesi tra platonismo e aristotelismo Secondo Eugenio Garin
Galileo invece, con il suo metodo sperimentale, vuole identificare nel fatto
osservato "aristotelicamente" una necessità intrinseca, espressa
matematicamente, dovuta al suo legame con la causa divina "platonica"
che lo produce facendolo "vivere". Alla radice di gran parte della
nuova scienza, da Leonardo a Galileo, accanto al desiderio tutto rinascimentale
di non lasciare intentata via alcuna, è viva la certezza che il sapere ha
aperta innanzi a sé la possibilità di una salda cognizione. Se noi
ripercorriamo la Teologia platonica, vi troviamo al centro questa tesi,
largamente e minutamente discussa nel libro secondo: alla mente di Dio sono
presenti tutte le essenze; la divina volontà, che poteva non creare, ha
manifestato la sua generosità col dare concreta e mondana realizzazione alle
eterne idee facendole vivere. La fecondità del concetto di creazione si rivela
nel dono della vita che Dio ha dato, e poteva non dare. Ma la volontà non tocca
quel mondo razionale che costituisce l'eterna ragione divina, il verbo divino,
cui dunque si conforma e si adegua questo mondo il quale, platonicamente,
rispecchia l'ideale razionalità per il tramite dell'intermediario matematico:
"numero, pondere et mensura". La mente umana, raggio del Verbo
divino, è nelle sue radici impiantata essa pure in Dio; è in Dio partecipe in
qualche modo dell'assoluta certezza. La scienza nasce così per il
corrispondersi di questa struttura razionale del mondo, impiantata nell'eterna
sapienza divina, e della mente umana partecipe di questa luce divina di
ragione. Studi sul moto La descrizione quantitativa del movimento
Rappresentazione dell'evoluzione moderna dei diagrammi utilizzati da Galileo
nello studio del moto. Ad ogni punto di una linea corrisponde un tempo e una
velocità (segmento giallo che termina con un punto blu). L'area gialla della
figura così ottenuta corrisponde quindi allo spazio totale percorso nell'intervallo
di tempo (t2-t1). Dilthey vede Keplero e Galilei come le massime espressioni
nel loro tempo di "pensieri calcolatori" che si disponevano a
risolvere, tramite lo studio delle leggi del movimento, le esigenze della
moderna società borghese: «Il lavoro degli opifici urbani, i problemi
sorti dall’invenzione della polvere da sparo e dalla tecnica delle
fortificazioni, i bisogni della navigazione relativamente ad apertura di
canali, a costruzione e armamento di navi, avevano fatto della meccanica la
scienza preferita del tempo. Specialmente in Italia, nei Paesi Bassi e in
Inghilterra, questi bisogni erano assai vivaci, e provocarono la ripresa e
continuazione degli studi di statica degli antichi e le prime ricerche nel
nuovo campo della dinamica, specialmente per opera di Leonardo, del Benedetti e
dell'Ubaldi. Galilei fu infatti uno dei protagonisti del superamento della
descrizione aristotelica della natura del moto. Già nel medioevo alcuni autori,
come Giovanni Filopono nel VI secolo, avevano osservato contraddizioni nelle
leggi aristoteliche, ma fu Galileo a proporre una valida alternativa basata su
osservazioni sperimentali. Diversamente da Aristotele, per il quale esistono
due moti "naturali", cioè spontanei, dipendenti dalla sostanza dei
corpi, uno diretto verso il basso, tipico dei corpi di terra e d'acqua, e uno
verso l'alto, tipico dei corpi d'aria e di fuoco, per Galileo qualunque corpo
tende a cadere verso il basso nella direzione del centro della Terra. Se vi
sono corpi che salgono verso l'alto è perché il mezzo nel quale si trovano,
avendo una densità maggiore, li spinge in alto, secondo il noto principio già
espresso da Archimede: la legge sulla caduta dei gravi di Galileo, prescindendo
dal mezzo, è pertanto valida per tutti i corpi, qualunque sia la loro
natura. Per raggiungere questo risultato, uno dei primi problemi che
Galileo e i suoi contemporanei dovettero risolvere fu quello di trovare gli strumenti
adatti a descrivere quantitativamente il moto. Ricorrendo alla matematica, il
problema era quello di capire come trattare eventi dinamici, come la caduta dei
corpi, con figure geometriche o numeri che in quanto tali sono assolutamente
statici e sono privi di alcun moto. Per superare la fisica aristotelica, che
considerava il moto in termini qualitativi e non matematici, come
allontanamento e successivo ritorno al luogo naturale, bisognava dunque prima
sviluppare gli strumenti della geometria e in particolare del calcolo
differenziale, come fecero successivamente fra gli altri Newton, Leibniz e
Cartesio. Galileo riuscì a risolvere il problema nello studio del moto dei
corpi accelerati disegnando una linea ed associando ad ogni punto un tempo e un
segmento ortogonale proporzionale alla velocità. In questo modo costruì il
prototipo del diagramma velocità-tempo e lo spazio percorso da un corpo è
semplicemente uguale all'area della figura geometrica costruita. I suoi studi e
le sue ricerche sul moto dei corpi aprirono inoltre la via alla moderna
balistica. Sulla base degli studi sul moto, di esperimenti mentali e delle
osservazioni astronomiche, Galileo intuì che è possibile descrivere sia gli
eventi che accadono sulla Terra che quelli celesti con un unico insieme di
leggi. Superò quindi in questo modo anche la divisione fra mondo sublunare e
sovralunare della tradizione aristotelica (per la quale il secondo è governato
da leggi diverse da quelle terrestri e da moti circolari perfettamente sferici,
ritenuti impossibili nel mondo sublunare). Il principio d'inerzia e il moto
circolare Sfera sul piano inclinato Studiando il piano inclinato, Galilei
si occupò dell'origine del moto dei corpi e del ruolo degli attriti; scoprì un
fenomeno che è conseguenza diretta della conservazione dell'energia meccanica e
porta a considerare l'esistenza del moto inerziale (che avviene senza
l'applicazione di una forza esterna). Ebbe così l'intuizione del principio di
inerzia, poi inserito da Isaac Newton nei principi della dinamica: un corpo, in
assenza d'attrito, permane in moto rettilineo uniforme (in quiete se v=0) fino
a quando forze esterne agiscono su di esso. Il concetto di energia non era
invece presente nella fisica del Seicento e solo con lo sviluppo, oltre un
secolo più tardi, della meccanica classica si arriverà ad una precisa
formulazione di tale concetto. Galileo pose due piani inclinati dello
stesso angolo di base θ, uno di fronte all'altro, ad una distanza arbitraria x.
Facendo scendere una sfera da un'altezza h1 per un tratto l1 di quello a SN
notò che la sfera, arrivata sul piano orizzontale tra i due piani inclinati,
continua il suo moto rettilineo fino alla base del piano inclinato di DX. A
quel punto, in assenza d'attrito, la sfera risale il piano inclinato di DX per un
tratto l2 = l1 e si ferma alla stessa altezza (h2 = h1) di partenza. In termini
attuali, la conservazione dell'energia meccanica impone che l'iniziale energia
potenziale Ep = mgh1 della sfera si trasformi - man mano che la sfera discende
il primo piano inclinato (SN) - in energia cinetica Ec = (1/2) mv2 sino alla
sua base, dove vale mgh1 = (1/2) mvmax2. La sfera si muove quindi sul piano
orizzontale coprendo la distanza x tra i piani inclinati con velocità costante
vmax, fino alla base del secondo piano inclinato (DX). Risale poi il piano
inclinato di DX, perdendo progressivamente energia cinetica che si trasforma
nuovamente in energia potenziale, fino a un valore massimo uguale a quello
iniziale (Ep = mgh2 = mgh1), al quale corrisponde velocità finale nulla (v2 =
0). Rappresentazione dell'esperimento di Galileo sul principio
d'inerzia. Si immagini ora di diminuire l'angolo θ2 del piano inclinato di DX
(θ2 < θ1),e di ripetere l'esperimento. Per riuscire a risalire - come impone
il principio di conservazione dell'energia - alla medesima quota h2 di prima,
la sfera dovrà ora percorrere un tratto l2 più lungo sul piano inclinato di DX.
Se si riduce progressivamente l'angolo θ2, si vedrà che ogni volta aumenta la
lunghezza l2 del tratto percorso dalla sfera, per risalire all'altezza h2. Se
si porta infine l'angolo θ2 ad essere nullo (θ2 = 0°), si è di fatto eliminato
il piano inclinato di DX. Facendo ora scendere la sfera dall'altezza h1 del
piano inclinato di SN, essa continuerà a muoversi indefinitamente sul piano
orizzontale con velocità vmax (principio d'inerzia) in quanto, per l'assenza
del piano inclinato di DX, non potrà mai risalire all'altezza h2 (come
prevederebbe il principio di conservazione dell'energia meccanica). Si
immagini infine di spianare montagne, riempire valli e costruire ponti, in modo
da realizzare un percorso rettilineo assolutamente piano, uniforme e senza
attriti. Una volta iniziato il moto inerziale della sfera che scende da un
piano inclinato con velocità costante vmax, questa continuerà a muoversi lungo
tale percorso rettilineo fino a fare il giro completo della Terra, e
ricominciare quindi indisturbata il proprio cammino. Ecco realizzato un
(ideale) moto inerziale perpetuo, che avviene lungo un'orbita circolare,
coincidente con la circonferenza terrestre. Partendo da questo
"esperimento ideale", Galileo sembrerebbe erroneamente ritenere che
tutti i moti inerziali debbano essere moti circolari. Probabilmente per questo
motivo considerò, per i moti planetari da lui (arbitrariamente) ritenuti
inerziali, sempre e solo orbite circolari, rifiutando invece le orbite
ellittiche dimostrate da Keplero. Dunque, ad essere rigorosi, non pare essere
corretto quanto afferma Newton nei "Principia" - fuorviando così
innumerevoli studiosi - e cioè che Galilei avrebbe anticipato i suoi primi due
principi della dinamica. Misura dell'accelerazione di gravità
File:Isocronismo.webm Spiegazione del funzionamento dell'isocronismo nella
caduta dei gravi lungo una spirale su un paraboloide. Galileo riuscì a determinare
il valore che egli credeva costante dell'accelerazione di gravità g alla
superficie terrestre, cioè della grandezza che regola il moto dei corpi che
cadono verso il centro della Terra, studiando la caduta di sfere ben levigate
lungo un piano inclinato, anch'esso ben levigato. Poiché il moto della sfera
dipende dall'angolo di inclinazione del piano, con semplici misure ad angoli
differenti riuscì a ottenere un valore di g solamente di poco inferiore a
quello esatto per Padova (g = 9,8065855 m/s²), nonostante gli errori
sistematici, dovuti all'attrito che non poteva essere completamente
eliminato. Detta a l'accelerazione della sfera lungo il piano inclinato,
la sua relazione con g risulta essere a = g sin θ per cui, dalla misura
sperimentale di a, si risale al valore dell'accelerazione di gravità g. Il
piano inclinato permette di ridurre a piacimento il valore dell'accelerazione
(a < g), facilitandone la misura. Ad esempio, se θ = 6°, allora sin θ =
0,104528 e quindi a = 1,025 m/s². Tale valore è meglio determinabile, con una
strumentazione rudimentale, rispetto a quello dell'accelerazione di gravità (g
= 9,81 m/s²) misurato direttamente con la caduta verticale di un oggetto
pesante. Misura della velocità della luce Guidato dalla similitudine con il
suono, Galileo fu il primo a tentare di misurare la velocità della luce. La sua
idea fu quella di portarsi su una collina con una lanterna coperta da un drappo
e quindi toglierlo lanciando così un segnale luminoso ad un assistente posto su
un'altra collina ad un chilometro e mezzo di distanza: questi non appena avesse
visto il segnale, avrebbe quindi alzato a sua volta il drappo della sua
lanterna e Galileo vedendo la luce avrebbe potuto registrare l'intervallo di
tempo impiegato dal segnale luminoso per giungere all'altra collina e tornare
indietro.Una misura precisa di questo tempo avrebbe consentito di misurare la
velocità della luce ma il tentativo fu infruttuoso data l'impossibilità per
Galilei di avere uno strumento così avanzato che potesse misurare i centomillesimi
di secondo che la luce impiega per percorrere una distanza di pochi
chilometri. La prima stima della velocità della luce fu opera, nel 1676,
dell'astronomo danese Rømer basata su misure astronomiche. Apparati
sperimentali e di misura Termometro di Galileo, in un'elaborazione
successiva. Gli apparati sperimentali furono fondamentali nello sviluppo delle
teorie scientifiche di Galileo, che costruì diversi strumenti di misura
originalmente o rielaborandoli sulla base di idee preesistenti. In ambito
astronomico costruì da sé alcuni esemplari di cannocchiale, provvisti di
micrometro per misurare quanto distasse una luna dal suo pianeta. Per studiare
le macchie solari, proiettò con l'elioscopio l'immagine del Sole su un foglio
di carta per poterla osservare in sicurezza senza danni alla vista. Ideò anche
il giovilabio, simile all'astrolabio, per determinare la longitudine usando le
eclissi dei satelliti di Giove. Per studiare il moto dei corpi si servì invece
del piano inclinato con il pendolo per misurare intervalli temporali. Riprese
anche un rudimentale modello di termometro, basato sulla dilatazione dell'aria
al variare della temperatura. Il pendolo Schema di un pendolo Galileo
scoprì nel 1583 l'isocronismo delle piccole oscillazioni di un pendolo; secondo
la leggenda l'idea gli sarebbe venuta mentre osservava le oscillazioni di una
lampada allora sospesa nella navata centrale del Duomo di Pisa, oggi custodita
nel vicino Camposanto Monumentale, nella Cappella Aulla. Questo strumento è
semplicemente composto da un grave, come una sfera metallica, legato ad un filo
sottile e inestensibile. Galileo osservò che il tempo di oscillazione di un
pendolo è indipendente dalla massa del grave e anche dall'ampiezza
dell'oscillazione, se questa è piccola. Scoprì anche che il periodo di
oscillazione {\displaystyle T}T dipende solo dalla lunghezza del filo
{\displaystyle l}l:[135] {\displaystyle T=2\pi {\sqrt {\frac
{l}{g}}}}T=2\pi {\sqrt {\frac {l}{g}}} dove {\displaystyle g}g è
l'accelerazione di gravità. Se ad esempio il pendolo ha {\displaystyle
l=1m}{\displaystyle l=1m}, l'oscillazione che porta il grave da un estremo
all'altro e poi di nuovo indietro ha un periodo {\displaystyle
T=2,0064s}{\displaystyle T=2,0064s} (avendo assunto per {\displaystyle g}g il
valore medio {\displaystyle 9,80665}{\displaystyle 9,80665}). Galileo sfruttò
questa proprietà del pendolo per usarlo come strumento di misura di intervalli
temporali. La bilancia idrostatica Galileo nel 1586, all'età di 22 anni quando
era ancora in attesa dell'incarico universitario a Pisa, perfezionò la bilancia
idrostatica di Archimede e descrisse il suo dispositivo nella sua prima opera
in volgare, La Bilancetta, che circolò manoscritta, ma fu stampata postuma
«Per fabricar dunque la bilancia, piglisi un regolo lungo almeno due braccia, e
quanto più sarà lungo più sarà esatto l'istrumento; e dividasi nel mezo, dove
si ponga il perpendicolo [il fulcro]; poi si aggiustino le braccia che stiano
nell'equilibrio, con l'assottigliare quello che pesasse di più; e sopra l'uno
delle braccia si notino i termini dove ritornano i contrapesi de i metalli
semplici quando saranno pesati nell'acqua, avvertendo di pesare i metalli più
puri che si trovino. Viene anche descritto come si ottiene il peso specifico PS
di un corpo rispetto all'acqua: {\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname
{peso\;in\;aria} }{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname
{peso\;in\;acqua} }}}{\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname
{peso\;in\;aria} }{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname
{peso\;in\;acqua} }}}. Ne La Bilancetta si trovano poi due tavole che riportano
trentanove pesi specifici di metalli preziosi e genuini, determinati
sperimentalmente da Galileo con precisione confrontabile con i valori moderni. Il
compasso proporzionale Una descrizione dell'uso del compasso
proporzionale fornita da Galileo Galilei. Il compasso proporzionale era uno
strumento utilizzato fin dal medioevo per eseguire operazioni anche algebriche
per via geometrica, perfezionato da Galileo ed in grado di estrarre la radice
quadrata, costruire poligoni e calcolare aree e volumi. Fu utilizzato con
successo in campo militare dagli artiglieri per calcolare le traiettorie dei
proiettili. Galilei e l'arte Letteratura Gli interessi letterari di Galilei
Durante il periodo pisano Galileo non si limitò alle sole occupazioni
scientifiche: risalgono infatti a questi anni le sue Considerazioni sul Tasso
che avranno un seguito con le Postille all'Ariosto. Si tratta di note sparse su
fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi volumi della Gerusalemme
liberata e dell'Orlando furioso dove, mentre rimprovera al Tasso «la scarsezza
della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò che ama
nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle
situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico di questo,
la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del fantasma
poetico. Galilei scrittore. D'altro più non si cura fuorché d'essere
inteso» (Giuseppe Parini) «Uno stile tutto cose e tutto pensiero, scevro
di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma diretta e propria in che
è l'ultima perfezione della prosa.» (Francesco De Sanctis, Storia della
Letteratura Italiana) Dal punto di vista letterario, Il Saggiatore è
considerata l'opera in cui si fondono maggiormente il suo amore per la scienza,
per la verità e la sua arguzia di polemista. Tuttavia, anche nel Dialogo sopra
i due massimi sistemi del mondo si apprezzano pagine di notevole livello per
qualità della scrittura, vivacità della lingua, ricchezza narrativa e
descrittiva. Infine Italo Calvino affermò che, a suo parere, Galilei è stato il
maggior scrittore di prosa in lingua italiana, fonte di ispirazione persino per
Leopardi. L'uso della lingua volgare L'uso del volgare servì a Galileo per un
duplice scopo. Da una parte era finalizzato all'intento divulgativo dell'opera:
Galileo intendeva rivolgersi non solo ai dotti e agli intellettuali ma anche a
classi meno colte, come i tecnici che non conoscevano il latino ma che potevano
comunque comprendere le sue teorie. Dall'altro si contrappone al latino della
Chiesa e delle diverse Accademie che si basavano sul principio di auctoritas,
rispettivamente biblico ed aristotelico. Si viene a delineare una rottura con
la tradizione precedente anche per quanto riguarda la terminologia: Galileo, a
differenza dei suoi predecessori, non trae spunti dal latino o dal greco per
coniare nuovi termini ma li riprende, modificandone l'accezione, dalla lingua
volgare. Galileo, inoltre, dimostrò atteggiamenti diversi nei confronti delle
terminologie esistenti: terminologia meccanica: cauto accoglimento;
terminologia astronomica: non respinge i vocaboli che l'uso abbia già accolto o
tenda ad accogliere. Li utilizza, però, come strumenti, insistendo sul loro
valore convenzionale ("le parole o imposizioni di nomi servono alla
verità, ma non si devono sostituire a essa). Lo scienziato poi segnala gli
errori che nascono quando il nome travisa la realtà fisica o che nascono dalla
suggestione esercitata dagli usi comuni di un vocabolo sul significato figurato
assunto come termine scientifico; per evitare questi errori, egli fissa
esattamente il significato dei singoli vocaboli: sono preceduti o seguiti da
una descrizione; terminologia peripapetica: rifiuto totale che si manifesta con
la sua messa in ridicolo, servendosene come puri suoni in un gioco di
alternanze e rime. Arti figurative «L'Accademia e Compagnia dell'Arte del
Disegno fu fondata da Cosimo I de' Medici nel 1563, su suggerimento di Giorgio
Vasari, con l'intento di rinnovare e favorire lo sviluppo della prima
corporazione di artisti costituitasi dall'antica compagnia di San Luca. Annoverò
tra i primi accademici personalità come Buonarroti, Bartolomeo Ammannati,
Agnolo Bronzino, Francesco da Sangallo. Per secoli l'Accademia rappresentò il
più naturale e prestigioso centro di aggregazione per gli artisti operanti a
Firenze e, al tempo stesso, favorì il rapporto fra scienza e arte. Essa
prevedeva l'insegnamento della geometria euclidea e della matematica e
pubbliche dissezioni dovevano preparare al disegno. Anche uno scienziato come
Galileo Galilei fu nominato membro dell'Accademia fiorentina delle Arti del
Disegno. Galileo, infatti, prese pure parte alle complesse vicende riguardanti
le arti figurative del suo periodo, soprattutto la ritrattistica, approfondendo
la prospettiva manieristica ed entrando in contatto con illustri artisti
dell'epoca (come il Cigoli), nonché influenzando in modo consistente, con le
sue scoperte astronomiche, la corrente naturalistica. Superiorità della pittura
sulla scultura Per Galileo nell'arte figurativa, come nella poesia e nella
musica, vale l'emozione che si riesce a trasmettere, a prescindere da una
descrizione analitica della realtà. Ritiene inoltre che tanto più dissimili
sono i mezzi usati per rendere un soggetto dal soggetto stesso, tanto maggiore
l'abilità dell'artista. Perciocché quanto più i mezzi, co' quali si imita, son
lontani dalle cose da imitarsi, tanto più l'imitazione è maravigliosa.” Ludovico
Cardi, detto il Cigoli, fiorentino, fu pittore al tempo di Galileo; ad un certo
punto della sua vita, per difendere il suo operato, chiese aiuto al suo amico
Galileo: doveva, infatti, difendersi dagli attacchi di quanti ritenevano la
scultura superiore alla pittura, in quanto ha il dono della tridimensionalità,
a discapito della pittura semplicemente bidimensionale. Galileo rispose con una
lettera. Egli fornisce una distinzione tra valori ottici e tattili, che diventa
anche giudizio di valore sulle tecniche scultoree e pittoriche: la statua, con
le sue tre dimensioni, inganna il senso del tatto, mentre la pittura, in due
dimensioni, inganna il senso della vista. Galilei attribuisce quindi al pittore
una maggiore capacità espressiva che non allo scultore poiché il primo, tramite
la vista, è in grado di produrre emozioni meglio di quanto faccia il secondo
mediante il tatto. “A quello poi che dicono gli scultori, che la natura fa
gli uomini di scultura e non di pittura, rispondo che ella gli fa non meno
dipinti che scolpiti, perché ella gli scolpe e gli colora.” Il padre di Galileo
era un musicista (liutista e compositore) e teorico musicale molto noto ai suoi
tempi. Galileo fornì un contributo fondamentale alla comprensione dei fenomeni
acustici, studiando in modo scientifico l'importanza dei fenomeni oscillatori
nella produzione della musica. Scoprì anche la relazione che intercorre fra la
lunghezza di una corda in vibrazione e la frequenza del suono emessa. Nella
lettera a Lodovico Cardi, Galileo scrive: «Non ammireremmo noi un musico,
il quale cantando e rappresentandoci le querele e le passioni d'un amante ci
muovesse a compassionarlo, molto più che se piangendo ciò facesse?... E molto
più lo ammireremmo, se tacendo, col solo strumento, con crudezze et accenti
patetici musicali, ciò facesse...» (Opere XI) mettendo sullo stesso piano
la musica vocale e quella strumentale, dato che nell'arte sono importanti solo
le emozioni che si riescono a trasmettere. Dediche Banconota da 2.000
lire con la raffigurazione di Galileo 2 euro commemorativi italiani per
il 450º anniversario della nascita di Galileo Galilei A Galileo sono stati
dedicati innumerevoli tipi di oggetti ed enti, naturali o creati dall'uomo:
la Galileo Regio, una regione della superficie del satellite Ganimede; l'asteroide
697 Galilea; una sonda spaziale, la Galileo; un sistema di posizionamento
spaziale, il sistema Galileo; il gal (unità di accelerazione); il Telescopio
Nazionale Galileo (TNG), situato sull'isola di La Palma (Spagna); l'aeroporto
internazionale "Galileo Galilei" di Pisa; un gruppo musicale
giapponese, Galileo Galilei; un album degli Haggard dal titolo "Eppur si
muove"; una canzone scritta e interpretata dal cantautore pugliese
Caparezza intitolata "Il dito medio di Galileo"; il sottomarino
Galileo Galilei; una nave da guerra italiana, la Galileo Galilei; la banconota
da 2.000 lire; una canzone Messer Galileo cantata da Edoardo Pachera durante la
52ª edizione dello Zecchino d'Oro; una società, produttrice di strumenti
scientifici, ottici ed astronomici e denominata Officine Galileo; una moneta
commemorativa da 2 euro nel 2014 per il 450º anniversario della sua nascita; un
supercomputer di potenza di calcolo pari a circa 1 PetaFlop, installato presso
il consorzio interuniversitario CINECA e classificato per diverso tempo fra le
prime 500 strutture di calcolo al mondo; una cattedra di storia della scienza
dell'Università di Padova, detta appunto cattedra galileiana, istituita per
Enrico Bellone a cui poi successe William R. Shea che la resse fino al 2011,
più la Scuola Galileiana di Studi Superiori della stessa università, nonché
l'Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti di Padova. Galileo Day
Galileo Galilei viene ricordato con celebrazioni presso istituzioni locali il
15 febbraio, il Galileo Day, giorno della sua nascita. Altre opere: La
bilancetta (postuma), Tractatio de praecognitionibus et precognitis and
Tractatio de demonstration. Le mecaniche, Le operazioni del compasso geometrico
et militare, Sidereus Nuncius, Discorso
intorno alle cose che stanno in su l'acqua, Istoria e dimostrazioni intorno
alle macchie solari e loro accidenti (pubblicato dall'Accademia dei Lincei),
1613 (su archive.org, BEIC) Discorso sopra il flusso e il reflusso del mare,
Roma, Il Discorso delle Comete, Il Saggiatore, Roma, Dialogo sopra i due
massimi sistemi del mondo, Firenze, Due nuove scienze, Leida, Trattato della
sfera, Roma 1656 (su BEIC) Lettere Lettera al Padre Benedetto Castelli, Lettera
a Madama Cristina di Lorena, Lettera a Pietro Dini, Edizione nazionale Opere di
Galileo Galilei, Edizione Nazionale, a cura di Antonio Favaro, Firenze, G.
Barbera, Le opere di Galileo Galilei. Edizione nazionale sotto gli auspicii di
Sua Maestà il Re d'Italia. Firenze,
Tipografia di G. Barbera, Le opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale,
Appendice, Firenze, Giunti, 2013 ss. in quattro volumi: Vol. 1: Iconografia
galileiana, a cura di F. Tognoni, Carteggio, a cura di M. Camerota e P. Ruffo,
con la collaborazione di M. Bucciantini, Testi, a cura di A. Battistini, M.
Camerota, G. Ernst, R. Gatto, M. Helbing e P. Ruffo, Documenti, a cura di M.
Camerota e P. Ruffo (Edizione digitale delle Opere Letteratura e teatro Vita di
Galileo è il titolo di un'opera teatrale di Brecht in più versioni, a partire
dalla prima risalente agli anni 1938-39. Gli ultimi anni di Galileo Galilei è
il titolo di un'opera teatrale giovanile di Ippolito Nievo. Galileo è uno
spettacolo teatrale del 2010 di Francesco Niccolini e Marco Paolini. Film
Galileo Galilei è un cortometraggio sullo scienziato pisano. Galileo è un film
di Cavani. Galileo si chiama anche il film di Joseph Losey tratto dal dramma
Vita di Galileo di Bertolt Brecht. Per testuali parole di Puccianti, Galileo fu
veramente cultore e propugnatore della Natural Filosofia: in effetti egli fu
matematico, astronomo, fondatore della Fisica nel senso attuale di questa
parola; e queste varie discipline considerò sempre e trattò come intimamente
connesse tra loro, e insieme ad altri studi vari, come diversi aspetti e
atteggiamenti di una stessa attività dello spirito: filosofo dunque, anche
perché portò su questa attività la riflessione e la critica; ma non incurante
delle conseguenze o, come ora si direbbe, delle applicazioni pratiche. I
problemi più importanti e centrali lo impegnarono per tutta la durata della sua
vita scientifica, non con continua opera su ciascuno di essi, ma con ritorni
successivi sempre più approfonditi e più generali, e in fine risolutivi» (da:
Luigi Puccianti, Storia della fisica, Firenze, Felice Le Monnier, Fondamentali
furono inoltre le sue idee e riflessioni critiche sui concetti fondamentali
della meccanica, in particolare quelle sul movimento. Tralasciando l'ambito
prettamente filosofico, dopo la morte di Archimede, il tema del movimento cessò
di essere oggetto di analisi quantitativa e discussione formale allorché
Gerardo di Bruxelles, vissuto nella seconda metà del XII secolo, nel suo Liber
de motu riprese la definizione di velocità, già peraltro considerata dal matematico
del III secolo a.C. Autolico di Pitane, avvicinandosi alla moderna definizione
di velocità media come rapporto fra due quantità non omogenee quali la distanza
e il tempo (cfr. Gerard of Brussels, "The Reduction of Curvilinear
Velocities to Uniform Rectilinear Velocities", edito da Clagett, in Grant,
A Source Book in Medieval Science, Cambridge (MA), Harvard University
Press, e Mazur, Zeno's Paradox.
Unraveling the Ancient Mystery Behind the Science of Space and Time, New
York/London, Plume/Penguin Books, Ltd., Achille e la tartaruga. Il paradosso
del moto da Zenone a Einstein, a cura di Claudio Piga, Milano, Il Saggiatore, Grazie
al perfezionamento del telescopio, che gli permise di effettuare notevoli studi
e osservazioni astronomiche, fra cui quella delle macchie solari, la prima
descrizione della superficie lunare, la scoperta dei satelliti di Giove, delle
fasi di Venere e della composizione stellare della Via Lattea. Per maggiori
notizie, si veda: Luigi Ferioli, Appunti di ottica astronomica, Milano, Editore
Ulrico Hoepli, Cfr. pure Vasco Ronchi, Storia della luce, IBologna, Nicola
Zanichelli Editore, Dal punto di vista storico, un'ipotesi autenticamente
"eliocentrica" fu quella di Aristarco di Samo, poi sostenuta e
dimostrata da Seleuco di Seleucia. Il modello copernicano invece,
contrariamente a quanto generalmente ritenuto, è "eliostatico" ma non
"eliocentrico" (vedi nota seguente). Il sistema di Keplero, poi, non
è né "eliocentrico" (il Sole occupa infatti uno dei fuochi
dell'orbita ellittica di ciascun pianeta che gli ruota attorno) né
"eliostatico" (a causa del moto di rotazione del Sole attorno al
proprio asse). La descrizione newtoniana del sistema solare, infine, eredita le
caratteristiche cinematiche (i.e., orbite ellittiche e moto rotatorio del Sole)
di quella kepleriana ma spiega causalmente, tramite la forza di gravitazione
universale, la dinamica planetaria. ^ A proposito del modello copernicano: «È
da notare che, sebbene il Sole sia immobile, tutto il sistema [solare] non
ruota intorno ad esso, ma intorno al centro dell'orbita della Terra, la quale
conserva ancora un ruolo particolare nell'Universo. Si tratta cioè, più che di
un sistema eliocentrico, di un sistema eliostatico.» (da G. Bonera, Dal sistema
tolemaico alla rivoluzione copernicana, E non più soggettiva, come era stata
fino ad allora condotta. ^ Secondo Giorgio Del Guerra, nella casa sita al n. 24
dell'attuale via Giusti in Pisa (G. Del Guerra, La casa dove, in Pisa, nacque
Galileo Galilei, Pisa, Tipografia Comunale. Verosimilmente, Galileo non dovette
avere buoni rapporti con la madre se non ricorda mai gli anni della sua
infanzia come un periodo felice. Il fratello Michelangelo ebbe occasione di
scrivere a questo proposito a Galileo, quasi augurandosene l'ormai imminente
dipartita: «[...] di nostra madre intendo, con non poca meraviglia, che sia
ancora così terribile, ma poiché è così discaduta, ce ne sarà per poco, sì che
finiranno le lite.» Un Tommaso Ammannati fu fatto cardinale da Clemente VII nel
1385, mentre il fratello Bonfazio Ammannati ottenne la porpora da uno dei
successori di Clemente, l'antipapa Benedetto XIII; quanto a Giacomo Ammannati Piccolomini,
cardinal, fu umanista, continuatore dei Commentarii di Pio II e autore di una
Vita dei papi che è andata perduta. ^ Si ricorda un Tommaso Bonaiuti, che fece
parte del governo di Firenze dopo la cacciata del Duca di Atene e un Galileo
Bonaiuti, medico noto al suo tempo e gonfaloniere di giustizia, il cui sepolcro
nella Basilica di Santa Croce divenne la tomba dei suoi discendenti; a partire
da Galileo Bonaiuti, il cognome della famiglia cambiò in Galilei. ^ Così
scriveva Muzio Tedaldi a Vincenzo Galilei: «per la vostra ho inteso quanto
havete concluso con il vostro figliuolo [Galileo]; et come, volendo cercar di
introdurlo qua in Sapienza, vi ritarda il non esser la Bartolomea maritata,
anzi vi guasta ogni buon pensiero; et che desiderate che la si mariti, e quanto
prima. Le considerationi vostre son buone, et io non ho mancato né manco di far
quell'opera che si ricerca; ma sino a qui son venuti tutti partiti, per non dir
obbrobriosi, poco aproposito per lei… Per concludere, ardisco di dire che credo
che la Bartolomea sia così casta come qual si vogli pudica fanciulla; ma le
lingue non si possono tenere; pure io crederrò, con l'aiuto che do loro, di
levar via tutti questi romori et farli supire; per il che a quel tempo potrete
facilmente mandare il vostro Galileo a studio; et se non harete la Sapienza,
harete la casa mia al vostro piacere, senza spesa nessuna, et così vi offero et
prometto, ricordandovi che le novelle son come le ciriegie; però è bene credere
quel che si vede, e non quel che si sente, parlando di queste cose basse.» Obbligatoriamente
l'iscrizione doveva avvenire per gli studenti toscani in quell'Università. Chi
voleva andare in un'altra Università avrebbe dovuto pagare una multa di 500
scudi stabilita da un editto granducale per scoraggiare la frequenza in un
ateneo diverso da quello pisano (In: A. Righini, Op. cit.). ^ Lo
testimonierebbe la coincidenza di argomentazioni esistente tra gli Juvenilia,
gli appunti di fisica abbozzati da Galileo in questo periodo, e i dieci libri
del De motu del Bonamico. (In: Storia sociale e culturale d'Italia, La cultura
filosofica e scientifica, La filosofia e le scienze dell'Uomo, La storia delle
scienze, Milano, Bramante Editrice, Ne descrive i dettagli nel breve trattato
La bilancetta, circolato prima fra i suoi conoscenti e pubblicato postumo nel
1644 (Annibale Bottana, Galileo e la bilancetta: un momento fondamentale nella
storia dell'idrostatica e del peso specifico, Firenze, Leo S. Olschki Editore).
Studi riportati nel Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, pubblicato
in appendice ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove
scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali. ^ Galileo sottopose a
Clavius una sua insoddisfacente dimostrazione della determinazione del
baricentro dei solidi. (Lettera a Clavius). Giovanni de Medici aveva progettato
una draga per il porto di Livorno. Su questo progetto il granduca Ferdinando
aveva chiesto una consulenza a Galilei che dopo aver visto il modellino affermò
che non avrebbe funzionato. Giovanni de Medici volle comunque costruire la
draga che in effetti non funzionò. (Giovan Battista de Nelli, Vita e commercio
letterario di Galileo Galilei, Losanna, con tale Benedetto Landucci che Galilei
raccomandò a Cristina di Lorena riuscendo a fargli ottenere nel 1609 il posto
di pesatore al saggio; il lavoro, consistente nel pesare gli argenti che
venivano venduti, procurava un guadagno di circa 60 fiorini. Lettera a Cristina
di Lorena (Ed. Naz., Vol. X, Lettera N., Alla dote per la sorella Livia avrebbe
dovuto contribuire anche il fratello Michelangelo. (Lettera a Michelangelo
Galilei, Michelangelo... fu versatissimo nella musica e la esercitò per
professione; essendo stato buon liutista non v'è dubbio che fosse allievo egli
pure di suo padre Vincenzo. visse in Polonia al servizio di un conte palatino;
nel 1610 era a Monaco di Baviera ove insegnava musica, e in una lettera datata
del 16 agosto di quell'anno, egli pregava il fratello Galileo, di acquistargli
grosse corde di Firenze per suo bisogno et dei suoi scolari...» (Dizionario
universale dei musicisti, Milano, Casa Editrice Sonzogno). Le spese per i
viaggi in Polonia e Germania furono sostenute da Galileo. Michelangelo appena
sistematosi in Germania volle sposarsi con Anna Chiara Bandinelli e, anziché
saldare il debito per la dote che aveva con il cognato Galletti, spese tutto il
denaro che aveva in un lussuoso ricevimento nuziale. ^ «Mi dispiace ancora di
veder che V.S. non sia trattata second'i meriti suoi, e molto più mi dispiace
che ella non habbi buona speranza. Et s'ella vorrà andar a Venetia questa
state, io l'invito a passar di qua, che non mancarò dal canto mio di far ogni
opera per aiutarla e servirla; chè certo io non la posso veder in questo modo.
Le mie forze sono deboli, ma, come saranno, io le spenderò tutte in suo
servitio. (Lettera di Guidobaldo Del
Monte a Galilei. In: Ed. Naz., Vol. X, Lettera N. 35, Ancora vivente, Galileo
fu ritratto da alcuni dei più famosi pittori del suo tempo, come Santi di Tito,
Caravaggio, Domenico Tintoretto, Giovan Battista Caccini, Francesco Villamena,
Ottavio Leoni, Domenico Passignano, Joachim von Sandrart e Claude Mellan. I due
ritratti più famosi, visibili alla Galleria Palatina di Firenze e agli Uffizi
sono invece di Justus Suttermans che rappresenta Galileo ormai anziano come
simbolo del filosofo conoscitore della natura. (In "Portale Galileo")
^ Per moto «naturale» s'intende quello di un grave, ossia di un corpo in caduta
libera, diversamente dal moto «violento», che è quello di un corpo che sia
soggetto ad un «impeto». ^ L'esatta formulazione della legge è stata data da
Galileo nel successivo De motu accelerato: «Motum aequabiliter, seu
uniformiter, acceleratum dico illum, qui, a quiete recedens, temporibus
aequalibus aequalia celeritatis momenta sibi superaddit», ove l'accelerazione
di gravità è indicata essere direttamente proporzionale al tempo e non allo spazio.
(Ed. Naz.) ^ Con lettera da Verona, l'Altobelli riferiva a Galileo, senza dar
credito, che la stella, «quasi un arancio mezzo maturo», sarebbe stata
osservata. In verità, dietro Antonio Lorenzini (da non confondere col vescovo
Antonio Lorenzini) si celava il Cremonini; cfr. Uberto Motta, Antonio
Querenghi. Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinascimento,
Pubblicazioni dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Vita e
Pensiero, «Nacque in Padova intorno al 1580. Poco più che ventenne professò i voti
nell’Ordine Benedettino, e nei primi anni del secolo XVII si trovava nel
monastero di S. Giustina di Padova, legato in molta intimità col Castelli,
insieme col quale fu discepolo di Galileo, prendendo le parti del Maestro nelle
questioni relative alla stella nuova dell’ottobre 1604.» (Da Museo Galileo). Usus
et fabrica circini cuiusdam proportionis, per quem omnia fere tum Euclidis, tum
mathematicorum omnium problemata facili negotio resolvuntur, opera & studio
Balthesaris Capræ nobilis Mediolanensis explicata. (In: Patauij, apud Petrum
Paulum Tozzium, 1607) ^ Alcuni calcoli astrologici, anche risalenti al periodo
fiorentino, furono conservati da Galileo e compaiono nel volume 19 dell'Opera
omnia (sezione "Astrologica nonnulla", pp. 205-220). Da notare che
per lo più si tratta di calcoli del tema natale, solo in qualche caso
accompagnati da interpretazioni o pronostici. ^ È stata ritrovata una lista
della spesa dove Galilei, insieme a ceci, farro, zucchero, ecc., ordinava di
acquistare anche pezzi di specchio, ferro da spianare e quanto di utile per il
suo laboratorio ottico. (Da una nota di una lettera di Ottavio Brenzoni conservata nella Biblioteca Centrale di
Firenze) ^ Espressione tradizionalmente attribuita da scrittori cristiani
all'imperatore pagano Flavio Claudio Giuliano che in punto di morte avrebbe
riconosciuto la vittoria del Cristianesimo: «Hai vinto o Galileo» riferendosi a
Gesù nativo della Galilea. ^ Il comportamento di Galileo è stato variamente
giudicato: vi è chi sostiene che egli le chiuse in convento perché «doveva
pensare a una loro sistemazione definitiva, cosa non facile perché, data la
nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio» (come se egli non
potesse legittimarle, come fece con il figlio Vincenzio e come se una
monacazione coatta fosse preferibile a un matrimonio non prestigioso; cfr.
Sofia Vanni Rovighi, Storia della filosofia moderna e contemporanea. Dalla
rivoluzione scientifica a Hegel, Brescia, Editrice La Scuola), mentre altri
ritengono che «alla base di tutto stava il desiderio di Galileo di trovare per
esse una sistemazione che non rischiasse di procurargli in futuro alcun nuovo
carico [...] tutto ciò nascondeva un profondo, sostanziale egoismo» (cfr.
Ludovico Geymonat,). ^ «quel mirare per quegli occhiali m'imbalordiscon la
testa», avrebbe detto Cremonini secondo la testimonianza di Paolo Gualdo. (Da
una lettera del Gualdo a Galilei. Scheiner pubblicò ancora sull'argomento il De
maculis solaribus et stellis circa Iovem errantibus. La priorità della scoperta
andrebbe all'olandese Johannes Fabricius, che pubblicò a Wittenberg, il De
Maculis in Sole observatis, et apparente earum cum Sole conversione. Cioè con i
sensi, con l'osservazione diretta. ^ «Egli pensava infatti che una colonna
d’acqua troppo alta tendeva a spezzarsi sotto l’azione del suo stesso peso,
così come si spezza una fune di materiale poco resistente quando, fissata in
alto, viene tirata dal basso. Fu quindi proprio questa analogia fondata
sull’esperienza osservativa a portare il Galilei fuori strada.» (in IL VUOTO – Elisa
Garagnani – Isis Archimede). Salmi che la figlia di Galileo, suor Maria
Celeste, s'incaricò di recitare, con il consenso della Chiesa. Baretti, in una
sua ricostruzione, avrebbe fatto nascere la leggenda di un Galilei che una
volta alzatosi in piedi, colpì la terra e mormorò: "E pur si muove!"
(In Giuseppe Baretti, The Italian Library). Tale frase non è contenuta in alcun
documento contemporaneo, ma nel tempo fu ritenuta veritiera, probabilmente per
il suo valore suggestivo, a tal punto che Berthold Brecht la riporta in
"Vita di Galileo", opera teatrale dedicata allo scienziato pisano
alla quale egli si dedicò a lungo. ^ In Paschini è riportato che: «secondo le
norme del Sant'Offizio» questa condizione «era equiparata ad una prigionia per
quanto egli facesse per ottenere la liberazione. Si ebbe il timore
probabilmente ch'egli riprendesse a fare propaganda delle sue idee e che un perdono
potesse significare che il Sant'Offizio si fosse ricreduto a proposito di esse»
(cfr. pure Alceste Santini, "Galileo Galilei", L'Unità). Conceditur
habitatio in eius rure, modo tamen ibi in solitudine stet, nec evocet eo aut
venientes illuc recipiat ad collocutiones, et hoc per tempus arbitrio Suae
Sanctitatis.» (Ed. Naz.) ^ A Galileo era infatti proibito stampare qualunque
opera in un paese cattolico. ^ Fonti di questa corrispondenza si trovano in:
Paolo Scandaletti, Galilei privato, Udine, Gaspari editore, Antonio Favaro,
Amici e corrispondenti di Galileo Galilei, Alessandra Bocchineri, Venezia, Pubblicazioni
del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Valerio Del Nero, Galileo
Galilei e il suo tempo, Milano, Simonelli Editore, A. Righini, Galileo: tra
scienza, fede e politica, Bologna, Editrice Compositori, 2008, p. 150 e sgg.;
Geymonat, Giorgio Abetti, Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani, Banfi, «Galileo fu invitato alla villa di
S.Gaudenzio, sulle colline di Sofignano, alla fine di luglio del 1630, ospite
di Giovanni Francesco Buonamici, che con lo scienziato vantava una parentela da
parte della moglie Alessandra Bocchineri: la sorella di lei, Sestilia, aveva
sposato a Prato l'anno prima il figlio di Galileo, Vincenzo.» (In Comune di
Vaiano) Fu permessa a Galilei l'assistenza del giovane allievo Vincenzo Viviani
e, dall'ottobre 1641, anche di Evangelista Torricelli. ^ «La prego a condonare
questa mia non volontaria brevità alla gravezza del male; e le bacio con
affetto cordialissimo le mani, come fo anche al Signor Cavaliere suo Consorte.»
(In Le Opere di Galileo Galilei, a cura di Eugenio Albèri, Firenze, Società
Editrice Fiorentina, 1848, p. 368) Anfossi pubblicava–anonimamente–in Roma un
libro in cui le leggi di Keplero e di Newton erano presentate come «cose che
non meritano la menoma attenzione» e si chiedeva come mai «tanti uomini santi»
ispirati dallo Spirito Santo, «ci han detto ottanta e più volte che il Sole si
muove senza dirci una volta sola che è immobile e fermo?» (Sebastiano
Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza, Firenze, G.C. Sansoni, L'edizione
curata da Favaro si basava sulle copie allora disponibili, perché l'originale
non era stato ritrovato (Avvertimento. Il manoscritto originale è stato
scoperto nell'agosto 2018 e pubblicato come appendice a Michele Camerota,
Franco Giudice, Salvatore Ricciardi, "The reapparance of Galileo's
original letter to Benedetto Castelli". L'effetto di parallasse stellare,
che dimostra la rivoluzione della Terra attorno al Sole, sarà misurato da
Friedrich Wilhelm Bessel solo nel 1838. Per il testo della condanna, vedi:
Sentenza di condanna di Galileo Galilei, su it.wikisource.org. Per il testo
dell'abiura, vedi: Abiura di Galileo Galileisu it.wikisource.org. ^ Questa
frase è stata citata in un intervento molto criticato di Joseph Ratzinger (cfr.
"La crisi della fede nella scienza" in Svolta per l'Europa? Chiesa e
modernità nell'Europa dei rivolgimenti, Roma, Edizioni Paoline. Ratzinger
aggiunge da parte sua che: «Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste
affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal
risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale
affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande. Qui ho
voluto ricordare un caso sintomatico che evidenzia fino a che punto il dubbio
della modernità su se stessa abbia attinto oggi la scienza e la tecnica.» ^ Già
chiaramente indicati nella Lettera a Madama Cristina di Lorena granduchessa di
Toscana. L'Accademia del Cimento, fra le più antiche associazioni scientifiche
al mondo, fu la prima a riconoscere ufficialmente, in Europa, il metodo
sperimentale galileano. Fu fondata a Firenze da alcuni allievi di Galileo,
Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani. Si lasci alla storiografia
stabilire, caso fosse mai possibile, se Galileo concepisse il moto inerziale
unicamente come circolare [...] o se ammettesse anche la possibilità in natura
della prosecuzione indefinita del moto rettilineo, anche perché in Galileo non
si può sensatamente parlare di formulazione del principio d'inerzia come se
fossimo nell'ambito della moderna fisica newtoniana, ma solo di alcune
considerazioni preliminari al principio della relatività del moto.» Portale
Galileo, su portalegalileo.museogalileo.it.Testi non compresi nella prima
edizione dell'Edizione Nazionale curata da Antonio Favaro, ma in quella curata
da William F. Edwards e Mario G. Helbing, con Introduzione, Note e Commenti di
William A. Wallace, per Le opere di Galileo Galilei. Edizione Nazionale,
Appendice Testi, Firenze, G.C. Giunti. Bibliografiche Abbagnano, Albert
Einstein, Leopold Infeld, L'evoluzione della fisica. Sviluppo delle idee dai
concetti iniziali alla relatività e ai quanti, Torino, Editore Boringhieri, Gliozzi,
"Storia del pensiero fisico", in: Luigi Berzolari (a cura di),
Enciclopedia delle matematiche elementari e complementi, Vol. III, Parte II, Milano,
Editore Ulrico Hoepli, Paolo Straneo, Le teorie della fisica nel loro sviluppo
storico, Brescia, Morcelliana, Giuliano Toraldo di Francia, L'indagine del
mondo fisico, Torino, Giulio Einaudi editore, George Gamow, Biografia della
fisica, Biblioteca della EST, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, Max Born, La
sintesi einsteiniana, Torino, Editore Boringhieri, Natalino Sapegno, Compendio
di storia della letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia Editrice, Centro
di Studi Filosofici di Gallarate (a cura di), Dizionario dei Filosofi, Firenze,
G.C. Sansone Editore, Ludovico Geymonat (a cura di), Storia del pensiero filosofico
e scientifico, Milano, Aldo Garzanti Editore, Ludovico Geymonat, Lineamenti di
filosofia della scienza, Biblioteca della EST, Milano, Arnoldo Mondadori
Editore, Federigo Enriques, Giorgio De Santillana, Compendio di storia del
pensiero scientifico, dall'antichità fino ai tempi moderni, Bologna, Nicola
Zanichelli Editore, Renato Pettoello, Leggere Kant, Brescia, Editrice La
Scuola, 2014, Cap. III, § 6. ^ David Lerner (a cura di), Qualità e quantità e
altre categorie della scienza, Torino, Editore Boringhieri, Pietro Redondi,
Galileo eretico, Roma-Bari, Editori Laterza, Sentenza di condanna di
Galileo. Giovanni Paolo II. Vaticano, discorsi, Discorso ai partecipanti
alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle scienze, su w2.vatican.va,
31 ottobre Tullio Regge, Cronache dell'universo. Fisica moderna e cosmologia, Torino,
Editore Boringhieri, La dimora natale di Galileo: l’enigma delle tre case, William
Shea, La Rivoluzione scientifica–I protagonisti: Galileo Galilei, in: Storia
della Scienza Treccani, Aliotta e Carbonara, p. 36. ^ Alberto Righini, Galileo.
Tra scienza, fede e politica, Bologna, Editrice Compositori, Lettera da Pisa di
Muzio Tedaldi a Vincenzo Galilei, «mi è grato di saper che haviate rihavuto
Galileo, et che siate di animo di mandarlo qua a studio». (Ed. Naz.) Kline,
Enrico Bellone, Caos e armonia. Storia
della fisica moderna e contemporanea, Torino, POMBA Libreria, Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, La nuova
alleanza. Metamorfosi della scienza, Torino, Giulio Einaudi editore, Andrea
Pinotti, "Introduzione al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo,
tolemaico e copernicano" in: G.
Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, 2 voll., Milano, Fabbri
Editori, Ludovico Geymonat (a cura di), Storia del pensiero filosofico e
scientifico, Milano, Aldo Garzanti Editore, Paschini, Lettera di Giovanni Uguccioni al
Granduca di Toscana (Ed. Naz., Vol. X, Lettera N. Lettera a Fortunio Liceti, 23
giugno 1640. (Ed. Naz., Vol. XVIII, Lettera Galileo Galilei, National Maritime
Museum, su collections.rmg.co.uk. URL consultato l'8 gennaio 2018. ^ Discorso
intorno alla Nuova Stella, In Padova, appresso Pietro Paolo Tozzi,Consideratione
astronomica circa la Nova & portentosa Stella che nell'anno MDCIIII adì X
ottobre apparse. Con un breve giudicio delli suoi significati, In Padova, nella
stamparia di Lorenzo Pasquati, 1605. ^ Antonio Favaro, "Galileo Galilei ed
il «Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova».
Studi e ricerche", Atti del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed
arti, Enciclopedia Treccani alla voce "Ronchitti, Cecco di" ^ Difesa
di Galileo Galilei nobile fiorentino, lettore delle matematiche nello studio di
Padova, contro alle calunnie & imposture di Baldessar Capra milanese,
usategli sì nella «Considerazione astronomica sopra la Nuova Stella del
MDCIIII» come (& assai più) nel pubblicare nuovamente come sua invenzione
la fabrica & gli usi del compasso geometrico & militare sotto il titolo
di «Usus & fabrica circini cuiusdam proportionis & c.» (In: Venetia,
presso Tomaso Baglioni). ^ Antonio Favaro, "Galileo astrologo secondo
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Roma: Le epigrafi svelate, Roma, Edizioni Nuova Cultura, Geymonat, Giovanni
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Pittagorici, e del Copernico, della mobilità della Terra e stabilità del Sole,
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Rivista di Storia della Filosofia, G. Galilei, Il Saggiatore, Per una rigorosa
disamina storico-critica della dinamica relativa, si veda: Protogene Veronesi,
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Editrice Fiorentina, Lettera, in Le opere di Galileo Galilei, a cura di Eugenio
Albèri, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Lettera, in Le opere di Galileo
Galilei, a cura di Eugenio Albèri, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Arcetri,
in Le opere di Galileo Galilei, a cura di Eugenio Albèri, Firenze, Società
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galileiana di scienze, lettere ed arti Arcetri Astronomia Bibliografia su
Galileo Galilei Cannocchiali di Galileo Casa di Galileo Galilei Domus Galilaeana
Fisica Galilei (famiglia) Isocronismo La favola dei suoni Meccanica Metodo
scientifico Micrometro di Galileo Museo Galileo Niccolò Copernico Ostilio Ricci
Processo a Galileo Galilei Relatività galileiana Rivoluzione astronomica
Rivoluzione scientifica Termometro galileiano Trasformazione galileiana Villa
Il Gioiello Vincenzo Galilei Virginia Galilei Vita privata di Galileo Galilei. Treccani.it
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Archivio integrato di risorse galileiane, su galileoteca.museogalileo.it. Museo
Galileo – Firenze, Italia, su museogalileo.it. Conserva gli strumenti
scientifici originali di Galileo European Cultural Heritage Onlinesu
echo.mpiwg-berlin.mpg.de. Scheda su Galileo Galilei accademico della Crusca sul
sito dell'Accademia, su adcrusca.it.Fondo "Antonio Favaro", su
domusgalilaeana.it. Archivio "Scienza & Fede", su disf.org.
Laboratorio storico "G. Galilei", su
illaboratoriodigalileogalilei.it. Lo scherzo d'un uomo di genio dice cose
più serie che non le cose serie dell'uomo volgare; anzi primo indicio della
superiorità è il sorriso. Il volgo andava ripetendo che la caduta di un pomo
preannunziò la scoperta della gravitazione universale: e Byron scherzando di
ceva essere stata la prima volta, da Adamo in qua, che un pomo e una caduta
dessero qualche vantaggio al genere umano. Altro che pomo ! voleva dire il
poeta: esatte premesse occorrono alle grandi scoperte e non il caso. Il
pensiero è una catena e ciò che ai più par caso entra nella serie. Togliete
Galilei e Keplero e avrete soppresso le premesse immediate a Newton. Togliete
Copernico, e li avrete soppressi tutti. Togliete le tradizioni pitagorichealle
univer sità italiane e sparisce Copernico. Dov'è il caso? Il pomo no: una serie
di grandi pensieri che furono grandi scoperte sgombrò le vie del firmamento
all' anglo. Un fatto può essere occasionale, ma per quegli uomini che portano
nel cervello quella preparazione, che rias sumendo la serie, afferra il fatto e
lo trasforma. Così nell'astronomia e così proprio in tutte le altre scienze. To
gliete Bruno e Campanella, e non troverete Vico. Togliete Telesio, e li perdete
tutti. Togliete le tradizioni naturalistiche dell'antica scuola italica— già
greca di origine —e sparisce Telesio. È la me desima serie ed è una riprova
della cognatela tra tutte le scienze. E questa serie non si smentisce neppur
dove la reazione crede spennare le reni agl'ingegni alati. Non fu una reazione
il libro della Ragion di Stato —che creò tanti discepoli-contro il Principe,
che aveva già tutta una scuola, cioè Bottero non ebbe il disegno aperto di
reagire trionfalmente contro Machiavelli? Ebbene, mentre il prete Bottero
mandava ad uno de'più grandi e sventurati ingegni 215 italiani quante
maledizioni gli erano ispirate dalla triplice reazione di Parigi, di Madrid e
di Roma, era nel tempo istesso tirato dalla logica a prendere da Machiavelli la
teorica de’ mezzi, come il secre tario di Firenze aveva preso la teorica
de'fini pubblici da Dante e da Petrarca, ispirati — alla loro volta
—dall'antica tradizione ro mana. Ed ecco la reazione entrare nella serie, come
appunto la santa alleanza insinuava ne 'codici tanti principii della
rivoluzione. E ciò non accade soltanto rispetto ai sistemide'quali l'uno
suppone l'altro anche dove il secondo reagisce al primo, ma alle singole teo
riche di ciascuno, le quali non segnano un progresso che non sia una
conclusione di ciò che si era pensato prima. A che mira, infatti, la critica di
Galilei? A reintegrare l'unità della natura. Ma se Bacone lo chiama filosofo
telesiano, voi dovete ricordare che Telesio non solo aveva propugnato il metodo
sperimen tale, ma tentato comporre il dissidio lasciato aperto da Aristotile
tra materia e forma, come Pomponazzi e Campanella avevano troncato il dualismo
tra intelletto e senso, e Bruno tra natura e Dio. Non è un gruppo, è una catena
nella quale il nome di ciascuno s’inanella nel precedente, e tutti insieme
presentano il disegno della rinnovata natura. Per questi il risorgimento fu
naturalismo, fu ita liano, mentre la scolastica era stata europea. Se dalla
serie e dal proprio posto nella serie voi spiccate il nome di Galilei, vi
accorgerete che resterà il nome di un astronomo più o meno insigne, di un
improvvisatore di qualche teorica, dello scopri tore fortunato di qualche astro
e di qualche istrumento, ma che cosa egli abbia aggiunto al pensiero, per quale
via e con quali effetti voi non saprete dire. Ammirerete un mito e sarà volgare
ammirazione. Voi, in somma, assisterete ai miracoli di un prestigiatore non
alle scoperte del genio. Or sospettate voi che io vi voglia esporre ad una ad
una le pre messe di Galilei e di Klepero per arrivare sino a Newton? che
io voglia indicarvi da quali parti specialmente della meccanica terre stre
emerse la meccanica celeste e come la dimostrazione de'quadrati de' tempi delle
rivoluzioni che stanno fra loro come i cubi degli assi maggiori delle orbite
abbia aperto a Newton la conclusione che la forza era proporzionale alla massa?
Sarebbe riuscire, pel cammino peggiore, a nessuna meta. I dotti · non
imparerebbero una sillaba di nuovo e vedrebbero in espressioni difettive
snaturate quelle forme che chiedono un'analisi esatta, e i meno dotti si
allontanerebbero storditi e infastiditi. Io, dunque,. 216 senza guastare la
serie, debbo dirvi quel che penso io intorno ad al cuni pensieri di quell'uomo
sommo e scelgo — non a caso —i punti seguenti: 1.º Come intese Galilei il
metodo sperimentale? 2. ° Quale valore oggettivo dette egli alla conoscenza? 3.
° Quale fu il risulta mento scientifico e morale delle sue dottrine? Non è poco,
e più che nella cortesia --cosa mediocre— confido nella serietà con la quale
voi ed io vogliamo che sia discusso il pa trimonio glorioso della mente. II. «
Non vogliamo costruzioni scientifiche, non metodi aprioristici, vogliamo il
metodo sperimentale: » Così gridano, e vogliamolo pure, io scrivevo, ma
vogliamolo davvero. Non fu forse proclamato ed eser citato con diverso intento
e diversa fortuna? Non fu fecondo o arido, secondo l'intelletto e la mano che
presero a trattarlo? Non si distin gue dall'empirismo? Bisogna dunque sapere
che è veramente me todo sperimentale. Galilei si trova a pari distanza tra
Telesio e Bacone, due che pro pugnarono il metodo sperimentale senza scoprire
nulla nel mondo naturale, e si trova ad un secolo di distanza da Leonardo da Vinci,
che, professando il metodo sperimentale, strappò più di un segreto alle cose
reali. Perchè dunque l'istesso metodo, arido nelle mani di Telesio e di Bacone,
diventa fecondo nelle mani di Leonardo e di Ga lilei? Ecco il punto. E la
risposta è chiara: — Perchè il metodo non è veramente lo stesso. Per Telesio e
Bacone comincia e resta nel fenomeno e dove al fenomeno aggiunge qualche
ipotesi, è soggettiva, cioè puro ri torno all'antico. Per Leonardo e Galilei
comincia dal fatto e sale alle alte sfere della ragione, mediante il linguaggio
stesso delle cose che è la matematica. La matematica è formale come la logica
—dice Bacone. La matematica è reale come le cose afferma Galilei. Con la
matematica sei arrivato a far girare la terra -è un frizzo di Bacone contro
Galilei. E la terra gira -- grida il pisano. Pur tu ti sei disdetto —rincalza
Bacone. Stolto ! dice Galilei -- potevo disdirmi cento volte, e la prova re sta
e la terra continua il suo giro. 217 Ma chi ti malleva la realtà della
matematica? Il fatto stesso che misuratamente si move, misuratamente per corre
il tempo e lo spazio, nella misura costituisce l'ordine. -La misura è aggiunta.
- La misura è: io la colgo: chi non la coglie non vede il fatto. Telesio non lo
dice. Leonardo lo disse, e scoprì. Telesio e tu non avete scoperto. Il fatto a
voi è stato muto; a noi ha parlato. Fermiamoci. Il divario è grande. Potete voi
dire che sia l'istesso metodo? Fu Bacone l'anglo che intese Galilei o un altro?
Quando si parla di metodo sperimentale, di senso, di fatto, biso gna cogliere
tutto il fatto, il quale non è qualità soltanto, è quan tità; e questi due
termini s'integrano a vicenda, in modo che la quantità si qualifica, e la
qualità si quantifica. Questo pro cesso graduale ed intimo delle cose è
l'evoluzione, e la legge che la traveste, affaticandola di moto in moto, è la
causalità, che in Newton si determina come gravitazione universale. Il fatto
dunque non è fenomeno soltanto, è fenomeno e legge. Così Galilei lo intuisce e
così lo intuisce intero; Bacone coglie un termine solo e mutila il fatto.
L'esperienza che in Galilei è piena, in Bacone è unilaterale; quel metodo che
in Galilei è sperimentale, in Bacone diventa empirico; e quel processo che
nell'uno è fecondo di scoperte, nell'altro è gonfio di precetti pom posi. Ha un
bel rimuovere Bacone tutti quelli ch'ei chiama idoli, se innanzi agli occhi gli
rimane fisso l'idolo peggiore, il fatto eslege. Così aveva fatto Leonardo da
Vinci notando nel fenomeno la legge, e così fa Galilei, entrambi con pochi
precetti e con effetti amplissimi, tirandone l'uno applicazioni mirabili alla
meccanica, e specialmente all'idraulica, l'altro al sistema planetario. E si
ripeta pure che in Galilei l'esperienza naturale è senso pieno, ma quì un fatto
contemporaneo ci deve fermare e impensie rire. Bruno senza i computi di
Copernico, senza il metodo speri mentale e il teloscopio di Galilei, e senza il
calcolo superiore di Newton, non era pervenuto per sola forza di pensiero, alle
medesi me anzi a più larghe conclusioni che non si trovino nell'astronomo
tedesco, nell'italiano e nell'inglese, affermando cose che facevano sgomento a
Klepero e furono trovate poi vere dal progresso poste riore? Il pensiero, da
solo, non valse altrettanto che l'esperienza, e 218 ciò che lo scienziato
induceva computando, il genio non poteva co struire? L'esempio di Bruno, non
bene inteso, potrebbe inficiare la cri tica di Galilei, nè per il genio vale
ricorrere ad eccezioni, che com plicano la quistione e non spiegano nulla. Il
vero è che Bruno intese il fatto e l'esperienza come Galilei, e movendo dal
medesimo punto, l'uno giunse con la logica dove l'altro con la matematica. La
conseguenza è che la matematica è la logica delle cose, e che se rispetto alla
mente, come dice Leibintz, pensare è calcolare, rispetto alle cose moversi
misurata mente vuol dire evolversi razionalmente. Bruno è la riprova, non
l'eccezione. Appena, infatti, il nolano intese il sistema copernicano,
n'esultò, cercò alla matematica la riprova della logica, e come Campanella
scrisse l'apologia di Ga lilei, così Bruno di Copernico. Era dal medesimo punto
di partenza la medesimezza del pensiero logico e del pensiero matematico, con
medesimezza di disegno e di effetti. E-ora si dirà-Cartesio non intese fare la medesima
cosa, cioè costruire la fisica col pensiero, come il nolano, introducendovi la
matematica, come Galilei, e perchè egli riuscì a costruire una fi sica falsa,
disconoscendo Bruno in tutto e in gran parte il disegno di Galilei? Perchè egli
non muove come que due dal fatto, bensì dall'idea astratta, dal puro cogito,
che non è la cosa, ma l'ombra della cosa, e l'ombra ei tratta come cosa salda.
Perciò non solo non giunse per forza di logica, agl’infiniti mondi del nolano,
ma nep pure per forza di matematica a riconoscere l'importanza del siste ma
eliocentrico dimostrato da Copernico e da Galilei. Bacone errò, mutilando il
fatto e attenendosi al solo fenomeno, Cartesio errò, correndo dietro l'ombra
del fatto e improvvisando la legge. L'uno cadde nell'empirismo l'altro
nell'apriorismo. In Bacone riconosciamo il merito di avere insistito sulla indu
zione, e in Cartesio, come dice Comte, il merito di aver convertito la qualità
in quantità, e la quantità continua nella discreta. Ma l'uno e l'altro, non
avendo colto il punto di partenza, non aggiun sero nulla alla scienza della
natura. Justus Liebig, parlando dell'intima gioia degli scopritori - ne gata a
Bacone - nomina Galilei, Klepero, Newton. E perchè non ricorda Bruno? Quanta
non è la sua gioia dove saluta le comete come testimoni della sua filosofia, e
parlando di Copernico, ag giunge qualche felicità essere toccata al secolo suo,
quando dai 219 lidi dell'oceano germanico un grande astronomo sorse a con forto
della sua filosofia. In quella gioia c'è — come ho detto— l’unità del pensiero
logico col matematico, e nella medesimezza de' risultati c'è la cognatela tra
la natura e il pensiero, la quale vuol essere riaffermata, supe rando da una
parte il vecchio idealismo metafisico e dall'altra il positivismo empirico. Ed
ora, dopo il metodo sperimentale, dobbiamo esaminare in Ga lilei il valore che
egli dà alla conoscenza. III. Non è di piccolo momento questo esame; involge il
massimo pro blema della filosofia ed è un punto importante della mente, e dirò,
del carattere di Galilei. Si può formularlo così: Il metodo speri mentale
condusse Galilei a quel relativismo filosofico che dà alla conoscenza un valore
precario, cioè o relativo al soggetto pensante (sofistica) o relativo ad un
certo tempo e luogo (empirismo)? In altre parole: per Galilei nulla di
permanente, di assoluto, di uni versale entra nella conoscenza, o c'è invece
delle conoscenze che per loro necessità intrinseca s' impongono a tutti gli
uomini, e alla natura come agli uomini, e a Dio come alla natura? Ci sono—
risponde il Pisano - e il fatto ci dice che sono, e ci dice che sono le
conoscenze matematiche sian pure o applicate, perchè non mutano per variare di
luogo e di tempo, e perchè tali si riscontrano nelle cose quali si trovano
nella mente. La natura le impone, la mente le sugella, neppur Dio potrebbe
negarle, ma o il sofista o il pazzo. L'affermazione è solenne, e bisogna
lasciargli la parola. Quanto alla verità, egli dice di che ci danno cognizione
le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina.
Nessun divario, dunque, in questo tra la sapienza divina e umana? Di vario di
modo, egli dice, lo ammettiamo, perchè in Dio è sapienza intuitiva quella che
nell'uomo è discorsiva; di numero pure, perchè Dio le sa tutte quelle verità, e
l'uomo una parte; ma di necessità no: sono del pari necessarie per lui e per
noi, e mille Demosteni e Aristotili e-voleva dire—mille Dei non potrebbero
scemare la certezza di una sola di quelle. Partecipa di questa certezza la
scienza della natura, le cui leggi sono matematiche. E il processo fu questo:
Telesio affermò che il 220 libro della filosofia è la natura; Bruno aggiunse
che quel libro è scritto in carattere assoluti: Galilei conchiuse che i
caratteri sono matematici. Anche Cartesio disse come Galilei: Apud me omnia
sunt ma thematice in natura; ma lo disse dopo e timidamente, essendoci questa
differenza tra’due pensatori, che per Galilei le verità mate matiche leggibili
nella natura hanno l'istesso valore per la mente sia divina o umaņa, e per
Cartesio niente è limite alla onnipotenza di Dio, neppure il principio di
contraddizione. Se lo disse davvero o per vivere tranquillo, specialmente dopo
le persecuzioni fatte a Galilei, non - so; ma, certo, l'italiano lo a vanza di
tempo e di fermezza. Delle altre scienze che non sono le naturali Galilei
dubitò, perchè si sottraggono alle matematiche e l'uomo vi mette del suo. Le
abbandonò al relativismo. Ma se tutto è evoluzione e tutto procede da natura,
noi ben pos siamo affermare che i suoi Dialoghi delle Scienze Nuove saranno
quasi prefazione di una Scienza Nuova intorno alla comune natura delle nazioni.
Le teoriche sulla psico-fisi e sulla fisica sociale hanno assai allargato il
campo di applicazione alle matematiche. Noi, è vero, non possiamo mutare le
leggi naturali, ma possiamo forse mutare le leggi sociali e costruire a nostro
talento le società umane? La storia non rientra ogni giorno più nelle leggi
della natura e però della misura? La morale par certo la cosa più im
ponderabile, ed è pure altrettanto graduale e necessaria nel suo processo che
il suo moto si potrebbe dire uniformemente accelerato. Dal pensiero si traduce
nella volontà, dall'azione alle istituzioni, e se rea, dal fastigio all ' imo (1
). Signori, ho esaminato quelli che nella scienza di Galilei mi parevano i
punti principali ed ho tentato liberare dagli equivoci volgari il metodo
sperimentale. Non a pompa letteraria mi sono giovato di rapidi raffronti ma per
delineare quello che fu il cervello più equilibrato di quanti al mondo furono
scienziati. Le conse guenze scientifiche e morali di quella profonda
rivoluzione intel lettuale io ve le ho segnate senza orgoglio nazionale e con
pura coscienza di uomo. Era cosí alto il tema, così pieno di pensiero, di (1 )
Qui manca qualche pagina intorno all'applicazione delle matematiche ai fenomeni
sociali e morali, non potuta trovare. 221 poesia, di storia, di gloria e di
dolori che a me non che il tempo, mancò il volere di divagare. Abbasserei
l'occhio da Telesio, da Co pernico, da Galilei per posarlo sulla politica?
Farei allusioni, rim proveri, programmi? Mail monumento che divisate è
mondiale; una sillaba aggiunta al tema macchierebbe la prima pietra: e, per
rien trare nella mediocrità de ' Parlamenti, invidieremmo a noi questa breve
fortuna che ci solleva a colloquio coi legislatori degli astri. Che sono i
nostri codici, i nostri statuti, i disegni nostri, che durata hanno e che
sapienza di fronte alle leggi onde Galilei sta biliva il ritmo dei cieli,
Machiavelli la vicenda degli Stati, e Vico il corso dell'umanità? C'è qualcosa
al di sopra dei codici ed è la pa rola dei fondatori delle religioni, che
lasciano libri sacri e parlano ai millenarii. Pur viene il secolo che mette
nella pagina più au tentica di quei libri il tarlo del pensiero. Ma qualcuno
c'è stato che senza chiamarsi messia nè profeta misurò una parola a lettere di
stelle, la pose nel firmamento, e nessuno la cancellerà. Come chia mate un uomo
che vi trasmette un libro più duraturo di una bib bia? Alzate il monumento e
non mi chiedete altro. The principle of relativity states that it is im-
possible to determine whether a system is at rest or moving at constant speed
with respect to an inertial system by experiments internal to the system, i.e.,
there is no internal observation by which one can distinguish a system moving
uniformly from one at rest. This principle played a key role in the defence of
the heliocentric syst- em, as it made the movement of the Earth com- patible
with everyday experience. According to common knowledge, the prin- ciple of
relativity was first enunciated by Galileo Galilei (1564–1642; Figure 1) in
1632 in his Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo (Dialogue Concerning
the Two Chief World Syst- ems) (Galilei, 1953), using the metaphor known as
‘Galileo’s ship’: in a boat moving at constant speed, the mechanical phenomena
can be described by the same laws holding on Earth. Many historical aspects of
the birth of the rel- ativity principle have received little or scattered
attention. In this short paper we put together some evidence showing that
Giordano Bruno (1548–1600; Figure 2) largely anticipated Gal- ilei’s arguments
on the relativity principle (Bruno, 1975). In addition, we briefly discuss
Galilei’s silence about Bruno, and the con- nection between the lives and
careers of the two scientists. Figure 1: A portrait of Galileo Galilei by
Ottavio Leoni (en.wikipedia.org). Figure 2: An eighteenth century egrav- ing of
Giordano Bruno (http://www. the history blog . com / wp - content / up-
loads/2012/02/bruno-giordano.jpg). Page 241
Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the
Principle of Relativity The Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo
is the source usually quoted for the enun- ciation of the principle of
relativity by Galileo Galilei. However, its publication in 1632 was certainly
not a surprise, as Galilei had expres- sed his views much earlier, in
particular when lecturing at the University of Padova from 1592 to 1610. Some
aspects of the evolution of Galilei’s ideas, from the Trattato della Sfera ...
(D’Aviso, 1656) in which the Earth is still placed at the centre of the
Universe, towards the Dia- logo, and passing through his heliocentric cor-
respondence with Kepler from 1597 onwards (Galilei, 1890 –1907), are examined,
for ex- ample, by Barbour (2001), Crombie (1996), Cla- velin (1968), Giannetto
(2006), Martins (1986) and Wallace (1981; 1984). In February 1616, the Roman
Inquisition condemned the theory by Nicolaus Copernicus (1473–1543) as being
foolish and absurd in philosophy. One month before, the inquisitor Monsignor
Francesco Ingoli (1578 –1649) ad- dressed Galilei in the essay Disputation Con-
cerning the Location and Rest of Earth Against the System of Copernicus
(Ingoli). This letter listed both scientific and theological arg- uments
against Copernicanism. Galilei only responded in 1624, and in his lengthy reply
he introduced an early version of the ‘Galileo’s ship’ metaphor, and discussed
the experiment of dropping a stone from the top of the mast. Both arguments, as
we shall see, had previously been raised by Bruno, and later were used again by
Galilei, although with small differences, in the Dialogo. In the Dialogo Sopra
i Due Massimi Sistemi del Mondo, Galilei discusses the arguments then current
against the idea that the Earth moves. The book is a fictional dialogue be-
tween three characters. Two of these, Salviati and Sagredo, refer to figures in
the ok that disappeared a few years after the publication of the book. Salviati
plays the role of the defender of the Copernican theory, putting forward Gali-
lei’s point of view. The second character, Sa- gredo, is a Venetian aristocrat
who is educated and liberal, and he is willing to accept new ideas. Thus, he
acts as a moderator between Salviati and the third character, Simplicio, who
fiercelysupportsAristotle. Thenameofthislast character (reminiscent of
‘simple-minded’ in Ital- ian) is in itself a clear indication of Galilean dia-
lectics, which are designed to destroy oppon- ents. Despite being a famous commentator
of Aristotle, Simplicio manifests himself with an embarrassing simplicity of
spirit. Galilei uses Salviati and Simplicio as spokespersons for the two
clashing world views; Sagredo represents the discreet reader, the steward of
science, the one to whom the book is addressed, and he intervenes during the
discussions, asking for clarification, contributing conversational topics and
acting like a science enthusiast. On the second day, Galilei’s dialogue con-
siders Ingoli’s arguments against the idea that the Earth moves. One of these
is that if the Earth is spinning on its axis, then we would all be moving
eastward at hundreds of miles per hour, so a ball dropped from a tower would
land west of the tower that in the meantime would have moved a certain distance
to the east- wards. Similarly, the argument goes that a cannonball shot
eastwards would fall closer to the cannon compared to a ball shot to the west
since the cannon moving east would partly catch up with the ball. To counter
such arguments Galilei propos- es through the words of Salviati a gedanken-
experiment: to examine the laws of mechanics in a ship moving at a constant
speed. Salviati claims that there is no internal observation which allows them
to distinguish between a smoothly-moving system and one at rest. So two systems
moving without acceleration are equivalent, and non-accelerated motion is rel-
ative: Salviati – Shut yourself up with some friend in the main cabin below
decks on some large ship, and have with you there some flies, but- terflies,
and other small flying animals. Have a large bowl of water with some fish in
it; hang up a bottle that empties drop by drop into a widevesselbeneathit.
Withtheshipstanding still, observe carefully how the little animals fly with
equal speed to all sides of the cabin. The fish swim indifferently in all
directions; the drops fall into the vessel beneath; and, in throwing something
to your friend, you need throw it no more strongly in one direction than
another, the distances being equal; jumping with your feet together, you pass
equal spaces in every direction. When you have observed all these things
carefully (though doubtless when the ship is standing still everything must
happen in this way), have the ship proceed with any speed you like, so long as
the motion is uniform and not fluctuating this way and that. You will discover
not the least change in all the effects named, nor could you tell from any of
them whether the ship was moving or standing still. In jumping, you will pass
on the floor the same spaces as before, nor will you make larger jumps toward
the stern than toward the prow even though the ship is moving quite rapidly,
despite the fact that during the time that you are in the air the floor under
you will be going in a direction opposite to your jump. In throwing something
to your companion, you will need no more force to get it to him whether he is
in the direction of the bow or the stern, with yourself situated op- posite.
The droplets will fall as before into the Page 242
Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the
Principle of Relativity vessel beneath without dropping toward the stern,
although while the drops are in the air the ship runs many spans. The fish in
their water will swim toward the front of their bowl with no more effort than
toward the back, and will go with equal ease to bait placed any- where around
the edges of the bowl. Finally the butterflies and flies will continue their
flights indifferently toward every side, nor will it ever happen that they are
concentrated toward the stern, as if tired out from keeping up with the course
of the ship, from which they will have been separated during long intervals by
keeping themselves in the air. And if smoke is made by burning some incense, it
will be seen going up in the form of a little cloud, remaining still and moving
no more toward one side than the other. The cause of all these correspondences
of effects is the fact that the ship’s motion is common to all the things
contained in it, and to the air also. That is why I said you should be below
decks; for if this took place above in the open air, which would not follow the
course of the ship, more or less noticeable differences would be seen in some
of the effects noted. (Galilei, 1953: 217). Note that Galilei does not state
that the Earth is moving, but that the motion of the Earth and the motion of
the Sun cannot be distinguished (hence the name ‘relativity’): There is one
motion which is most general and supreme over all, and it is that by which the
Sun, Moon, and all other planets and fixed stars – in a word, the whole
universe, the Earth alone excepted – appear to be moved as a unit from East to
West in the space of twenty-four hours. This, in so far as first appearances
are concerned, may just as logically belong to the Earth alone as to the rest
of the Universe, since the same appear- ances would prevail as much in the one
sit- uation as in the other. (Galilei, 1953: 132). The possibility that the Earth moves had been
discussed several times, in particular by the Greeks, mostly as a hypothesis to
be rejected. Also an annual motion of the Earth around the Sun had been
considered by Aristarchus of Samos (c. 310 – c. 230 BC). Later, some medi- eval
authors discussed the possibility of the Earth's daily rotation. The first was
probably Jean Buridan (c. 1300–1361; Figure 3), one of the ‘doctores
parisienses’—a group of profes- sors at the University of Paris in the
fourteenth century, including notably Nicole Oresme. Buridan’s example of the
ship, which was lat- er used by Oresme, Bruno and Galilei, is con- tained in
Book 2 of his commentary about Aris- totle’s On the Heavens (1971): It should
be known that many people have held as probable that it is not contradictory to
appearances for the Earth to be moved circu- larly in the aforesaid manner, and
that on any given natural day it makes a complete rotation from west to east by
returning again to the west – that is, if some part of the Earth were
designated [as the part to observe]. Then it is necessary to posit that the
stellar sphere would be at rest, and then night and day would result through
such a motion of the Earth, so that motion of the Earth would be a diurnal
motion. The following is an example of this: if anyone is moved in a ship and
imagines that he is at rest, then, should he see another ship which is truly at
rest, it will appear to him that the other ship is moved. This is so because
his eye would be completely in the same relationship to the other ship
regardless of whether his own ship is at rest and the other moved, or the
contrary situation prevailed. And so we also posit that the sphere of the Sun
is totally at rest and the Earth in carrying us would be rotated. Since,
however, we imag- ine we are at rest, just as the man on the ship Figure 3:
Jean Buridan (www.buscabio- grafias . com / biografia / verDetalle / 576 / Jean
%Buridan). moving swiftly does not perceive his own mo- tion nor that of the
ship, then it is certain that the Sun would appear to us to rise and set, just
as it does when it is moved and we are at rest. (Buridan, 1942: Book 2,
Question 22). Here we agree with Barbour (2001), that what Buridan is referring
to is kinematic relativity. To Barbour, ... we have [here] a clear statement of
the principle of relativity, certainly not the first in the history of the
natural philosophy of motion but perhaps expressed with more cogency than ever
before. The problem of motion is beginning to become acute. We must ask our-
selves: is the relativity to which Buridan refers kinematic relativity or
Galilean relativity? There is no doubt that it is in the first place kinematic;
for Buridan is clearly concerned with the condi- tions under which motion of
one particular body can be deduced by observation of other bod- ies. (Barbour, 2001:
203). Page 243 Alessandro De Angelis and Catarina
Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity Later,
Buridan (1942) writes: But the last appearance which Aristotle notes is more
demonstrative in the question at hand. This is that an arrow projected from a
bow directly upward falls to the same spot on the Earth from which it was
projected. This would not be so if the Earth were moved with such velocity.
Rather, before the arrow falls, the part of the Earth from which the arrow was
projected would be a league’s distance away. But still supporters would respond
that it happens so because the air that is moved with the Earth carries the
arrow, although the arrow appears to us to be moved simply in a straight line
motion because it is being carried along Figure 4: A miniature portrait of
Nicole Oresme included in his Traité de la sphère. Aristotle, Du ciel et du
monde (n.d.) (en.wikipedia.org). with us. Therefore, we do not perceive that
motion by which it is carried with the air. Buridan already expresses some
concerns about the dynamics involved, but his conclusion is that ... the
violent impetus of the arrow in ascend- ing would resist the lateral motion of
the air so that it would not be moved as much as the air. This is similar to the
occasion when the air is moved by a high wind. For then an arrow pro- jected
upward is not moved as much laterally as the wind is moved, although it would
be moved somewhat. (ibid.). Thus, the theory of impetus is not pushed to the
limit in which one would identify it with the prin- ciple of inertia, nor with
a dynamical concept of relativity. A further step was implicitly taken a few
years later by Nicole Oresme (c. 1320 –1382; Figure 4). Oresme first states
that no observation can disprove that the Earth is moving: ... one could not
demonstrate the contrary by any experience ... I assume that local motion can
be sensibly perceived only if one body appears to have a different position
with re- spect to another. And thus, if a man is in a ship called a which moves
very smoothly, irrespective if rapidly or slowly, and this man sees nothing
except another ship called b, moving exactly in the same way as the boat a in
which he is, I say that it will seem to this person that neither ship is
moving. (Oresme, 1377; our English translation). Oresme also provides an
argument against Buridan’s interpretation of the example of the arrow (or stone
in the original by Aristotle) thrown upwards, introducing the principle of
composi- tion of movements: ... one might say that the arrow thrown up- wards
is moved eastward very swiftly with the air through which it passes, with all
the mass of the lower part of the world mentioned above, which moves with a
diurnal movement; and for this reason the arrow falls back to the place on the
Earth from which it left. And this appears possible by analogy, since if a man
were on a ship moving eastwards very swiftly without being aware of his
movement, and he drew his hand downwards, describing a straight line along the
mast of the ship, it would seem to him that his hand was moved straight down.
Following this opinion, it seems to us that the same applies to the arrow
moving straight down or straight up. Inside the ship moving in this way, one
can have horizontal, oblique, straight up, straight down, and any kind of
movement, and all look like if the ship were at rest. And if a man walks
westwards in the boat slower than the boat is moving eastwards, it will seem to
him that he is moving west while he is going east. (ibid.). Also, Nicolaus
Cusanus (1401–1461) stated later, without going into detail, that the motion of
a ship could not be distinguished from rest on the basis of experience, but
some different argu- ments need to be invoked—and the same ap- plies to the
Earth, the Sun, or another star (Cu- sanus, 1985). All this happened before
Copernicus: a dis- cussion of how things could be, not so much
abouthowthingsreallyare. Thisviewpointwould change after Copernicus. In April 1583, forty years after the
publication of the book by Copernicus and nine years before Page
244 Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo
Giordano Bruno and the Principle of Relativity the 28-year old Galilei
was called to the Uni- versity of Padova, Bruno went to England and lectured in
Oxford, unsuccessfully looking for a teaching position there. Still, the
English visit was a fruitful one, for during that time Bruno completed and
published some of his most important works, the six ‘Italian Dialogues’,
including the cosmological work La Cena de le Ceneri (The Ash Wednesday Supper,
1584) (see Bruno, 1975). This latter book consists of five dialogues between
Theophilus, a disciple who exposes Bruno’s theories; Smitho, a character who
was probably real but is difficult to identify, possibly one of Bruno’s English
friends (perhaps John Smith or the poet William Smith)—the English- man has
simple arguments, but he has good common sense and is free of prejudice; Pru-
dencio, a pedantic character; and Frulla, also a fictional character who, as
the name in Italian suggests, embodies a comic figure, provocative and somewhat
tedious, with a propensity to- wards stupid arguments. In the third dialogue,
the four mostly com- ment on discussions heard at a supper attend- ed by
Theophilus in which Bruno—called in the text ‘il Nolano’ (the Nolan), because
he was born in Nola near Naples—was arguing in part- icular with Dr Torquato
and Dr Nundinio, re- presenting the Oxonian faculty. Bruno starts by discussing
the argument relating to the air, winds and the movement of clouds, and he
largely uses the fact that the air is dragged by the Earth: Theophilus ... If
the Earth were carried in the direction called East, it would be necessary that
the clouds in the air should always appear moving toward west, because of the
extremely rapid and fast motion of that globe, which in the span of twenty-four
hours must complete such a great revolution. To that the Nolan replied that
this air through which the clouds and winds move are parts of the Earth, be-
cause he wants (as the proposition demands) to mean under the name of Earth the
whole machinery and the entire animated part, which consists of dissimilar
parts; so that the rivers, the rocks, the seas, the whole vaporous and
turbulent air, which is enclosed within the high- est mountains, should belong
to the Earth as its members, just as the air does in the lungs and in other
cavities of animals by which they breathe, widen their arteries, and other
similar effects necessary for life are performed. The clouds, too, move through
happenings in the body of the Earth and are based in its bowels as are the
waters ... Perhaps this is what Plato meant when he said that we inhabit the
con- cavities and obscure parts of the Earth, and that we have the same
relation with respect to animals that live above the Earth, as do in re- spect
to us the fish that live in thicker humid- ity. This means that in a way the
vaporous air is water, and that the pure air which contains the happier animals
is above the Earth, where, just as this Amphitrit [ocean]1 is water for us,
this air of ours is water for them. This is how one may respond to the argument
referred to by Nundinio; just as the sea is not on the surface, but in the
bowels of the Earth, and just as the liver, this source of fluids, is within us,
that turbulent air is not outside, but is as if it were in the lungs of
animals. (Bruno, 1975: 117). The Dialogue then moves to discussing the motion
of projectiles, and Bruno starts by ex- plaining the Aristotelian objection to
the stone thrown upwards: Smitho – You have satisfied me most suffic- iently,
and you have excellently opened many secrets of nature which lay hidden under
that key. Thus, you have replied to the argument taken from winds and clouds;
there remains yet the reply to the other argument which Aristotle submitted in
the second book of On the Heavens2 where he states that it would be impossible
that a stone thrown high up could come down along the same perpendicular
straight line, but that it would be necessary that the exceedingly fast motion
of the Earth should leave it far behind toward the West. Therefore, given this
projection back onto the Earth, it is necessary that with its motion there
should come a change in all relations of straightness and obliquity; just as
there is a difference between the motion of the ship and the motion of those
things that are on the ship which if not true it would follow that when the
ship moves across the sea one could never draw something along a straight line
from one of its corners to the other, and that it would not be possible for one
to make a jump and return with his feet to the point from where he took off.
(Bruno, 1975: 121). In Theophilus’ speech, Bruno then gives the following reply
(in reference to the ship shown in Figure 5): Theophilus – With the Earth move
... all things that are on the Earth. If, therefore, from a point outside the
Earth something were thrown upon the Earth, it would lose, because of the
latter’s motion, its straightness as would be seen on the ship AB moving along
a river, if someone on point C of the riverbank were to throw a stone along a
straight line, and would see the stone miss its target by the amount of the
velocity of the ship’s motion. But if some- one were placed high on the mast of
that ship, move as it may however fast, he would not miss his target at all, so
that the stone or some other heavy thing thrown downward would not come along a
straight line from the point E which is at the top of the mast, or cage, to the
point D which is at the bottom of the mast, or at some point in the bowels and
body of the ship. Thus, if from the point D to the point E someone who is
inside the ship would throw a stone straight up, it would return to the bottom
along the same line however far the ship mov- Page 245 Alessandro
De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of
Relativity ed, provided it was not subject to any pitch and roll. (Bruno,
1975: 121). He then continues with the statement that the movement of the ship
is irrelevant for the events occurring within the ship, and he explains the
reasons for this: If there are two, of which one is inside the ship that moves
and the other outside it, of which both one and the other have their hands at
the same point of the air, and if at the same place and time one and the other
let a stone fall without giving it any push, the stone of the former would,
without a moment’s loss and without deviating from its path, go to the prefixed
place, and that of the second would find itself carried backward. This is due
to nothing else except to the fact that the stone which leaves the hand of the
one supported by the ship, and consequently moves with its mo- tion, has such
an impressed virtue, which is not had by the other who is outside the ship,
Figure 5: The ship referred to in the dialogue; note that the letters are
missing (math.dartmouth.edu). because the stones have the same gravity, the
same intervening air, if they depart (if this is possible) from the same point,
and arc given the same thrust. From that difference we cannot draw any other
explanation except that the things which are affixed to the ship, and belong to
it in some such way, move with it: and the stone carries with itself the virtue
of the mover which moves with the ship. The other does not have the said
participation. From this it can evidently be seen that the ability to go
straight comes not from the point of motion where one starts, nor from the
point where one ends, nor from the medium through which one moves, but from the
efficiency of the originally impressed virtue, on which depends the whole
differ- ence. And it seems to me that enough consid- eration was given to the
propositions of Nun- dinio. (Bruno, 1975: 123). The experiments carried out in
the ship are thus not influenced by its movement because all the bodies in the
ship take part in that move- ment, regardless of whether they are in contact
with the ship or not. This is due to the ‘virtue’ they have, which remains
during the motion, after the carrier abandons them. Bruno thus clearly
expresses the concept of inertia, using the word ‘virtu`’, in Italian meaning
‘quality’, which is carried by the bodies moving with the ship—and with the
Earth. Bruno’s arguments certainly constitute a step towards the principle of
inertia. We have seen that in La Cena de le Ceneri Giordano Bruno anticipates
to a great extent the arguments of Galileo Galilei on the principle of
relativity. In fact, his explanation contains all of the fundamental elements
of the principle. The idea that the only movement observable by the subject is
the one in which he does not take part, was presented earlier by Jean Buridan
and Nicole Oresme, together with the notion of the composition of movements,
which was alien to Aristotelian mechanics (see Barbour, 2001). Sim- ilar
arguments were used by Nicholas Copern- icus (1543). The main missing
ingredient was the idea of inertia, which explains the fact that projectiles
move along with the Earth. In fact, while there is a continuous line between
Buri- dan, Oresme, Copernicus, Bruno and Galilei, the arguments of Bruno on the
impossibility of detecting absolute motion by phenomena in a ship constitute a
significant step towards the principle of inertia and providing a dynamical
context for relativity. What is new in Bruno, and what brings him almost
exactly to where Galilei stood, is a clear understanding of the concept on
inertia. The arguments and metaphors used in dis- cussions concerning the world
systems were common to different authors, and were largely derived from Aristotle,
Ptolemy and their com- mentators. Often they were used without ref- erencing,
and sometimes they were attributed to the wrong source. For example, in his On
the Heavens, Aristotle uses as experimental argu- ment the one about the stone
that is sent upwards. In their comment on this work, Bur- idan and Oresme used
a modified version of this experiment in which an arrow is sent upwards in a
ship—although this was possibly introduced by an earlier unidentified
commentator/translator. Nevertheless, the description by Galilei of exact- ly
the same ship experiment that Bruno used in the Cena makes it very likely that
Galilei knew this work. The use of the dialogue form with a similar choice of
characters can also be seen as a possible sign that Bruno influenced
Galilei. Page 246 Alessandro De Angelis and Catarina
Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity However,
Galilei never mentions Bruno in his works, and in particular there is no
reference to him in Galilei’s large corpus of letters, even though he
references the ‘doctores parisienses’ in his MS 46 (Galilei, c. 1584),3 a
110-page long manuscript containing physical speculations bas- ed upon
Aristotle’s On the Heavens. Some authors (e.g. Clavelin, 1968) have commented
on Galilei’s silence about Bruno, putting forward reasons of prudence, but as
pointed out by Mar- tins (1986) this can hardly explain the absence of any
mention also in his personal correspond- ence. Furthermore, although Galilei
himself never mentions Bruno’s name in his personal notes and letters, several
of his correspondents do mention the Nolan. In a letter to Galilei dating to
1610, Martin Hasdale tells him that Kepler had expressed his admiration for
Galilei, although he regretted that in his works the latter failed to mention
Copernicus, Giordano Bruno and sever- al Germans who had anticipated such
discov- eries—including Kepler himself: This morning I had the opportunity to
make friends with Kepler ... I asked what he likes about that book of yourself
and he replied that since many years he exchanges letters with you, and that he
is really convinced that he does not know anybody better than you in this
profession ... As for this book, he says that you really showed the divinity of
your genius; but he was somehow uneasy, not only for the German nation, but
also for your own, since you did not mention those authors who intro- duced the
subject and gave you the opportun- ity to investigate what you found now,
naming among these Giordano Bruno among the Ital- ians, and Copernicus, and
himself. Thus, we can say that Galileo Galilei was probably aware of Giordano
Bruno’s work on the Copernican system. When Galilei arrived in Padova in 1592
it is also possible that the two scientists met, because Bruno was a guest of
the nobleman Giovanni Mocenigo in Venice at the time and Galilei shared his
time between Padova and Venice. In 1591, Bruno had unsuc- cessfully applied for
the Chair of Mathematics that was assigned to Galilei one year later. Although
it might be impossible to prove that the two astronomers met, it is hard to
believe, given the motivations and characters of the two men and the
circumstances of their lives during those years, as well as the small size of
the Italian scientific community in those days, that they failed to discuss
their respective arguments con- cerning the defence of the Copernican system. 6
NOTES 1. Amphitrite was in Greek mythology the wife of Poseidon, and therefore
the Goddess of the Sea. 2. See Aristotle (1971: Section 296b). 3. Although Antonio
Favaro, the Curator of the National Edition of Galilei’s works, dates it to
1584, Crombie (1996) and Wallace (1981; 1984) prefer a date of around
1590. We wish to thank Bonolis, Alessandro Bettini, Pascolini, Giulio
Peruzzi and Antonio Saggion for useful suggestions, and the anonymous referees
for directing us to some important aspects that we neglected to mention in the
first draft of this paper. 8 Aristotle, On the Heavens. Cambridge (Mass.),
Harvard University Press (Loeb Classic Greek Lib- rary English translation of
the c. 350 BC Greek original). Barbour, J., 2001. The Discovery of Dynamics,
Ox- ford, Oxford University Press. Bruno, G., 1975. The Ash Wednesday Supper.
The Hague, Mouton (English translation by S.L. Jaki of the 1584 Italian original).
Buridan, J., 1942. Questions on Aristotle‟s On the Heavens. Cambridge (Mass.),
Medieval Academy of America (English translation by E.A. Moody of the c. 1340
Latin original). Clavelin, M., 1968. Galileo‟s Natural Philosophy. Paris, Colin
(in French). Copernicus, N., 1543. On the Revolutions of the Heavenly Spheres.
Nuremberg, Johannes Petreius (in Latin). Crombie, A.G., 1996. The History of
Science from Augustine to Galileo. New York, Dover. Cusanus, N., 1985. On
Learned Ignorance. Minne- apolis, The Arthur J. Banning Press (English trans-
lation by J. Hopkins of the 1440 Latin original). D’Aviso, U., 1656. Treatise
on the Sphere of Galileo Galilei. Rome, N.A. Tinassi (apparently written in
Padova in 1606, in Latin). Galilei, G., c. 1584. MS 46. In Collezione Nazionale
Galileo della Biblioteca Nazionale di Firenze (in Latin). Galilei, G.,
1890–1907. Carteggio. National Edition of the Works of Galileo Galilei, Volumes
10–18. Flor- ence, G. Barbera (in Italian). Galilei, G., 1953. Dialogue
Concerning the Two Chief World Systems. Berkeley, University of California
Press (English translation by Stillman Drake of the 1632 Italian original).
Giannetto, E., 2006. Bruno and Einstein. Nuova Civiltà delle Macchine, 24,
107–137 (in Italian). Hasdale, M., 1610. Letter to Galileo Galilei, dated 15
April. In Galilei, 1890–1907, Volume 10, 314–315. Ingoli, F., 1616. Disputation
Concerning the Location and Rest of Earth Against the System of Coper- nicus.
Rome (English translation by C.M. Graney of the Latin original at http://arxiv.org/abs/1211.4244).
Martins, R. de A., 1986. Galileo and the principle of relativity. Cadernos de
História e Filosofia da Ciência, 9, 69–86 (in Portuguese). Oresme, N., 1377. Le
livre du Ciel et du Monde. Book II, Chapter 25 (manuscript). Paris, National
Library. Oresme, N., n.d. Traité de la sphère. Aristote, Du ciel et du monde.
In the National Library, Paris, fonds français 565, fol. 1r. Wallace, W.A.,
1981. Prelude to Galileo: Essays on Page 247 Alessandro De
Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of
Relativity Medieval and Sixteenth-Century Sources of Galileo‟s Thought.
Dordrecht, Reidel. Wallace, W.A., 1984. Galileo and His Sources: Heri- tage of
the Collegio Romano in Galileo‟s Science. Princeton, Princeton University
Press. 4 Volgareelatino nel carteggio galileiano Sommario 4.1
Galileo epistolografo: volgare e latino. – 4.2 Un confronto con Descartes e
Mersenne. – 4.3 Le lingue dei corrispondenti. – 4.4 Le lettere latine di
Galileo. 4.1 Galileo epistolografo: volgare e latino Per le consuetudini della
respublica litterarum lo scambio epistolare europeo riveste un ruolo
importantissimo, anche in considerazione della censura, in quanto «la lettre
n’a pas besoin d’imprimatur ni de ‘privilège’» (Fattori in Armogathe,
Belgioioso, Vinti 1999, 52).1 Non esistendo ancora i periodici scientifici, le
lettere svolgevano anche tale funzione. Allievi e simpatizzanti, protettori,
principi e cardinali, eruditi ita- liani e stranieri, colleghi ed
ecclesiastici, artisti e letterati, amici e familiari: il carteggio galileiano
comprende tutto questo.2 I destinatari di Galileo sono per lo più in Italia, ma
non mancano corrispondenti stranieri, specialmente in Francia (Parigi e Lione),
in Baviera, a Praga e nei Paesi Bassi: «Per quanto la giurisdizione del 1 Sulla
respublica litterarum e la corrispondenza tra i savants cf. Fumaroli 1988;
Bots, Waquet 1994 (in particolare i saggi di Johns, Fumaroli, Waquet,
Frijhoff); Waquet 1998; Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999 (in particolare l’intervento
di Marta Fattori); Jau- mann 2001; Bots, Waquet 2005; Fumaroli 2015. 2 Breve,
ma puntualissimo, Bucciantini in Irace 2011, 344-9; si veda anche Garcia 2004,
257-65. All’epistolario galileiano è dedicato Ardissino 2010; la studiosa ha
cura- to un’antologia delle lettere italiane dello scienziato (Galilei 2008),
con introduzione di Battistini (L’umanità di uno scienziato attraverso le sue
lettere). Sul registro polemico nell’epistolario si veda Ricci 2015.
Filologie medievali e moderne Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio
galileiano suo epistolario sia di estensione europea, Galileo si rivolge
soprat- tutto alla classe dirigente degli Stati italiani, laica ed
ecclesiastica» (Battistini in Galilei 2008, 13).3 In che lingua scriveva
Galileo le sue lettere? Ci si aspetterebbe che, nonostante la programmatica
scelta del volgare per le sue opere, egli utilizzasse nella corrispondenza con
gli stranieri il latino, lingua franca dell’aristocrazia del sapere. Una
verifica integrale nei volumi dell’EN riserva invece la sorpresa di una
situazione affatto diversa, che riportiamo in tabella: Anni Lettere di cui
scritte in latino da Galileo a Kepler (4 agosto 1597, EN 10, 67; 19 agosto
1610, EN 10, 421) 1 a Brengger (8 novembre 1610, EN 10, 466) a Kepler (28
agosto 1627, EN 13, 374) a Fortescue [Aggiunti] (febbraio 1630, EN 14, 83) 1 a
Bernegger [Aggiunti] (16 luglio 1634, EN 16, 111) 1 agli Stati generali dei
Paesi Bassi (agosto 1636, EN 16, 468-9) a Boulliau(d) (1 gennaio 1638, EN 17,
245) a Boulliau(d) (30 dicembre 1639, EN 18, 134) 3 Cf. anche Garcia
2004, 257: «l’espace de cette république semble se réduire, dans son esprit, à
la seule Italie – c’est-à-dire aux trois villes de la Péninsule les plus
actives culturellement, Rome, Venise et Florence». Filologie medievali e
moderne 23 | 19 58 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e
latino nel carteggio galileiano Su un totale di 445 lettere – manteniamo i
criteri di Favaro, che in- clude anche le epistole-trattato, quali le tre sulle
macchie solari, e le dedicatorie – sono latine soltanto 9 (il 2,02 %). Si
tratta delle lettere superstiti, ma, anche supponendo che la sorte ne abbia
distrutto un numero maggiore in latino che in italiano, i dati sono
inequivocabili. Sappiamo poi che di quelle 9, 2 sono state composte da Niccolò
Ag- giunti su commissione dello scienziato (v. infra). Ne restano dunque 7. 4.2
Un confronto con Descartes e Mersenne Il confronto con Descartes è eloquente.
Charles Adam ricostruisce che nel carteggio superstite «sur un total de 498
lettres, 63 sont en latin» (Adam 1910, 22), cioè il 12,65%. Del resto la
familiarità del fi- losofo con il latino era profonda: Il apprit le latin à
fond, non seulement comme une langue morte, mais comme une langue vivante qu’il
pourrait avoir à parler et à écrire. Il la parla, en effet, quelquefois en
Hollande, et même en France à une soutenance de thèses; et il l’écrivit dans
trois ou quatre de ses ouvrages et un certain nombre de lettres. Quelques- unes
de ses notes mêmes, rédigées pour lui seul et à la hâte, sont en latin. Il
maniait cette langue aussi bien et souvent mieux que le français, le plus
souvent avec vigueur et sobriété, parfois aus- si pourtant avec quelques
gentillesses de style qui rappellent les leçons des bons Pères; lui-même avoue qu’il
a fait des vers, sans doute des vers latins, et une fois avec Balzac il se
piqua de bel esprit et lui écrivit dans un latin élégant ‘à la Pétrone’. (Adam
1910, 22)4 Il latino fu ancor più abituale per Marin Mersenne (1588-1648), che
anche in quanto ecclesiastico (ordine dei Minimi) era più legato alla lingua
antica: su 308 epistole da lui redatte e conservateci sono la- tine il 38, 64%
(119), in francese le restanti.5 Sarebbe interessante uno studio dell’uso
linguistico in tale epistolario che analizzi il tipo di missiva, la provenienza
e la formazione dei destinatari. Accenniamo qui soltanto al fatto che Mersenne,
a cui furono rivolte alcune lette- 4 Al carteggio di Descartes è dedicato
l’ampio volume di Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999; vi si veda in particolare
il saggio di Torrini che compara l’epistolario di Descartes e di Galileo: per
il primo il carteggio fu un luogo privilegiato di discussione filosofica, ben
più che per Galileo. 5 Conteggio nostro dai 17 volumi della corrispondenza
dell’erudito (Mersenne 1945- 1988). Divergono leggermente dalla nostra la somma
indicata nel vol. 17 a p. 107 (330) e quella che si ricava dall’indice delle
missive a pp. 145-9 (317). La lettera nr. 1691 a Baliani ci è tradita in
italiano da una stampa secentesca delle opere di questi, ma si tratta
probabilmente di una traduzione dall’originale latino o francese (cf. il
commen- to di de Waard, Beaulieu). Filologie medievali e moderne 23 | 19 59
Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel
carteggio galileiano re in italiano, non rispose mai in quella lingua; i
curatori del carteg- gio affermano, seccamente, che «Mersenne savait très mal
l’italien» (commento alla lettera nr. 1691). Troppo seccamente, perché egli
comprendeva in verità assai bene l’italiano, come dimostra la tradu-
zione-rielaborazione di pagine galileiane (Les Méchaniques de Gali- lée, Les
nouvelles pensées de Galilée).6 Interessante sarebbe valutare affermazioni di
comprensione o incomprensione di una lingua stra- niera come quelle di Giovanni
Battista Baliani, in cui la grafia sem- bra giocare un grande ruolo. Per
esempio, ha ricevuto da Mersenne una lettera «in lingua francese, ma tanto
chiara ché io l’ho intesa leg- gendola correntemente» (missiva nr. 1429), cioè
è riuscito a legger- la nonostante fosse in francese e nonostante la grafia. Un
mese pri- ma aveva spiegato al corrispondente: «Rispetto alla lingua, in che V.
P. mi deve scrivere, confesso, che mi è più caro che mi scriva in lat- tino,
che già hò preso un poco la pratica del suo carattere. Il france- se però
intendo meno, ancorche intenda assai bene i libri stampati» (missiva nr. 1417;
in nota i curatori ricordano che Torricelli aveva lo stesso problema). Galileo
non leggeva il francese.7 Contrariamente a ciò che era consuetudine e norma
nella respublica litterarum, Galileo fece uso parchissimo del latino per
l’epistolografia. Anche se dobbiamo precisare che era ormai scontata a
quell’altezza cronologica, almeno in Francia e Italia, l’utilizzo della lingua
mater- na per comunicare con connazionali,8 e il carteggio stricto sensu ga-
lileiano – lettere composte o ricevute dallo scienziato – non presenta quasi
eccezioni.9 Anche tra le lettere che nell’EN fanno corona all’epi- stolario
galileiano propriamente detto, ma che fornendo informazioni sullo scienziato
furono raccolte da Favaro, sempre o quasi gli italia- ni scrivono a un
connazionale (foss’anche il papa) in italiano. Analo- gamente si comportano i
dotti francesi (pur con qualche eccezione): Mersenne, Fermat, Descartes si scrivono
in francese. Ricorrono in- vece non infrequentemente al latino i dotti tedeschi
per comunicare tra loro: nell’EN si veda Scheiner che scrive a Kircher, e
Bernegger a tutti i propri connazionali.10 Analogamente, l’olandese Hugo de
Gro- 6 Sul rapporto Mersenne-Galileo (e Descartes-Galileo) si veda almeno
Bucciantini 2009. 7 Cf. anche Favaro 1983, 1392. 8 Pantin 1996, 58: «À la fin
de la Renaissance, les langues vernaculaires (surtout s’il s’agissait du
français et de l’italien) étaient devenues le premier moyen de s’exprimer et
même de raisonner (dans la correspondances scientifiques du début du XVIIe
siècle les allemands sont souvent presque les seuls à parler latin)». Di
diverso parere Battis- tini in Galilei 2008, 13: «pur essendo ancora il latino
la lingua abituale nel trattare ma- terie scientifiche ed erudite, anche tra
connazionali». 9 Paolo Maria Cittadini, che si firma teologo dello Studio
bolognese, si rivolge in la- tino a Galileo (EN 10, 389). 10 Per un’indagine
sulla corrispondenza dei dotti tedeschi nel Cinquecento si veda Lefèbvre 1980.
Cf. anche Leonhardt 2011, 213. Filologie medievali e moderne 23 | 19 60 Galileo
in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio
galileiano ot (Grotius) scrive in latino a Maarten van den Hove (Martino Orten-
sio nell’EN) e a Gerhard Voss (Vossius). 4.3 Le lingue dei corrispondenti
Galileo non si allinea al costume della comunicazione latina con stra- nieri,
mostrando una forte tendenza a evitare la lingua antica.11 D’al- tra parte,
l’adozione dell’italiano da parte di stranieri testimonia la fortuna della
nostra lingua e il suo prestigio.12 Galileo instaura una comunicazione italiana
paritetica – nel senso che entrambi i corri- spondenti scrivono in italiano –
non solo con Clavius e Faber, che vi- vevano stabilmente in Italia da molti
anni (si noti però che in alme- no due lettere il principe Cesi aveva scritto
al secondo in latino), ma anche con Markus Welser,13 l’ingegnere militare
Antoine de Ville (al- lora in servizio della Serenissima),14 Carcavy, Peiresc,
Reael, Lowijs Elzevier,15 Ladislao IV di Polonia, Massimiliano di Baviera, Jean
de Beaugrand. L’effettiva conoscenza dell’italiano da parte dei corri-
spondenti non si può misurare solo dalle missive, per alcune delle quali va
postulato l’intervento di un madrelingua (certamente nel caso di principi e
regnanti, ma anche le lettere di Reael sono troppo ben scritte per non supporre
almeno un correttore).16 Significativo il caso di François de Noailles
(1584-1645).17 Già sco- laro di Galileo a Padova, ufficiale militare e poi non
troppo abile am- basciatore francese a Roma (1634-36), attivo nel chiedere alla
Chie- sa clemenza per l’antico maestro, lo incontrò a Poggibonsi sulla via del
ritorno in Francia e ricevette una copia manoscritta delle Nuove scienze, delle
quali fu dedicatario. Restano 8 lettere da lui inviate a Galileo dall’ottobre
1634 al novembre 1638. Le prime cinque sono in italiano e risalgono al tempo in
cui era diplomatico a Roma: di esse soltanto una è interamente autografa (EN 16,
144), ma probabilmente 11 Nell’inopportunità di riportare dettagliate rassegne
biografiche sui molti personag- gi che nomineremo, rimandiamo una volta per
tutte all’Indice biografico dell’EN (anche del supplemento 2015) e agli indici
di Drake 1995 e di Heilbron 2010, nonché al rege- sto di nomi propri curato dal
Museo Galileo di Firenze, disponibile online e continua- mente aggiornato.
Daremo qui solamente qualche informazione utile al nostro discorso. 12 Cf.
Stammerjohann 2013. 13 Cf. cap. 2, § 5. Quando questi è malato, anche il
fratello Matthäus scrive in ita- liano a Galileo. 14 Cf. Pernot 1984 e Vérin
2001. 15 Scrive in italiano anche a Micanzio. Bonaventure e Abraham Elzevier si
erano in- vece rivolti a Galileo in latino. 16 Diodati scrive a Reael in italiano
(EN 16, 492). 17 Su di lui cf. Favaro 1983, 1317-45. Per i corrispondenti
francesi di Galileo riman- diamo a Baumgartner 1988 e ai riferimenti
bibliografici ivi contenuti. Filologie medievali e moderne 23 | 19 61 Galileo
in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio
galileiano composta o almeno rivista da un madrelingua. Le altre quattro han-
no soltanto la sottoscrizione di pugno del diplomatico. Il 15 gennaio 1636, in
un punto morto delle discrete manovre per il mitigamento della condanna di
Galileo, Noailles si scusa con questi del ritardo nel- lo scrivere: «Potrà
similmente attribuire la cagione dell’haver tardato a scriverli all’assenza del
mio secretario italiano» (EN 16, 377). È al- meno in parte un pretesto, ma ci
informa delle abitudini linguistiche della corrispondenza. La stessa lettera
riporta un breve poscritto au- tografo, che può dare l’idea della competenza
linguistica dell’amba- sciatore, buona, ma nettamente inferiore alla lingua e
allo stile esibi- to nelle altre lettere a Galileo: «Il latore de la presente
li darà nove di me, et quanto gran stima fo de le sue virtù et come sto con
desiderio di servirla in ogni occorrenza». Di fatto, l’uso dell’italiano
sembra, non solo in Noailles, un piacere e un omaggio al maestro degli anni
pado- vani e al grande scienziato. Dopo il rientro in Francia (1636) Noailles
gli scriverà personalmente – cioè senza aiuto di segretari – in france- se
(restano tre lettere autografe). Lettere che – l’ambasciatore dove- va certo
esserne al corrente – Galileo non poteva intendere e di cui restano tra i
manoscritti galileiani le traduzioni italiane.18 A Grienberger e de Groot che
gli si rivolgono in latino, Galileo ri- sponde in italiano. In latino gli
scrivono anche Gassendi (con l’ec- cezione di una missiva italiana composta
insieme a Peiresc), Tycho Brahe, Mersenne, Morin, Abraham e Bonaventure
Elzevier, l’avver- sario Scheiner e parecchi altri.19 Ma non sono conservate le
risposte del nostro (a Tycho non rispose affatto) 20 e dunque non sappiamo in
quale lingua fossero composte. Gli scrissero invece in italiano Martin Hasdale
(tedesco, fu a lun- go in Italia per divenire poi potente consigliere alla
corte di Rodolfo II); David Ricques (polacco o tedesco), Thomas Segget
(scozzese, fu a lungo in Italia; poi a Praga), il greco Demisiani, il cardinale
François de Joyeuse, Krzysztof Zbaraski (nell’EN Cristoforo di Zbaraz), Ri-
chard White (allievo di Castelli, scrive da Londra e si scusa per gli errori di
lingua), Giovanni di Guevara (spagnolo, ma nato a Napoli), Philippe de
Lusarches (maestro di camera degli ambasciatori fran- cesi a Roma), Johannes
Riijusk (cugino del Reael, scrive da Venezia), Francesco van Weert (olandese al
servizio della Serenissima), Justus 18 Cf. l’introduzione di Favaro alle
missive e il supplemento di EN 18, 436. Al ruo- lo dei segretari nella
respublica litterarum accenna Fattori in Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999,
57-8. 19 Raymund Schorer (mercante tedesco attivo anche a Venezia), Theophilus
Mül- ler (tedesco, linceo, da Roma), Beaulieu (non meglio identificato), John
Welles (da Lon- dra), Jan Friedrich Breiner, Michel Coignet, Marek Lentowicz
(che fu studente a Pado- va), Bartholomäus Schröter (tedesco), Jean Tarde,
Filippo d’Assia, Jan Brozek (polac- co), Maarten van den Hove (Hortensius,
olandese). 20 Bucciantini 2003, 87. Filologie medievali e
moderne 23 | 19 62 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino
nel carteggio galileiano Weffeldich (agente degli Elzevier a Venezia), Jean-Jacques
Bouchard (dotto francese che visse molti anni a Roma), Henry Robinson (ingle-
se, fu a Livorno per commercio e abitò per alcuni anni a Firenze). Restano
alcune epistole italiane che Galileo inviò a Leopoldo d’Au- stria (Innsbruck),
a Pedro de Castro conte di Lemos (Madrid), agli Stati Generali delle Province
Unite dei Paesi Bassi (ve n’è un’altra in latino, EN 468-69, di cui parleremo
tra qualche pagina), a Francisco de Sandoval duca di Lerma (Madrid), a Maarten
van den Hove (matematico olandese). Scrivono a Galileo sia in latino che in
italiano Leopoldo d’Austria, Jacques Jauffred21 (una missiva privata è in
volgare, una pubblica è stampata in latino), Benjamin Engelcke (di Danzica, fu
per alcuni an- ni in Italia).22 Gli Stati Generali delle Province Unite dei
Paesi Bassi si rivolgono a Galileo sia in latino che in francese (Reael traduce
per Galileo; una deliberazione dell’assemblea sulla proposta galileiana del
calcolo della longitudine è redatta in olandese e Reael la tradu- ce in latino
per Galileo). Il francese è peraltro usato anche in altre occasioni dagli
olandesi, come quando Huygens si rivolge a Diodati. Il quadro generale
dell’epistolario è dominato dall’italiano, anche perché la maggioranza degli
stranieri aveva vissuto per un periodo abbastanza lungo in Italia durante gli
studi universitari o per altri motivi. Sono dunque stranieri con una vasta
conoscenza personale della Penisola e della sua lingua.23 4.4 Le lettere latine
di Galileo Si esaminerà ora il ristretto gruppo di epistole latine di Galileo
rima- steci. Della corrispondenza tra Galileo e Kepler, di importanza capi-
tale, restano poche lettere, 7 da parte del tedesco, 3 da parte del pi- sano.
Non si incontrarono mai di persona. La comunicazione si svolse sempre in latino
e coprì, per quanto è conservato, un arco tempora- le che va dal 1597 al 1627
(ma le lettere scritte da Kepler non vanno oltre il 1611). I rapporti
scientifici e personali tra i due scienziati so- no illustrati nel dettaglio e
nell’ampio quadro culturale del tempo in Bucciantini (2003), a cui ci
rifacciamo per la nostra analisi. Al tempo del primo contatto epistolare (1597)
nessuno dei due è famoso: Gali- leo è niente più che il solido matematico dello
Studio di Padova; Ke- pler, dopo aver rinunciato alla carriera teologica e
pastorale, è mate- matico a Graz. I due non si conoscono neppure di nome. Per
tramite 21 Su di lui vedi DBI (s.v. «Gaufrido, Jacopo»). 22 Cf. infra in questo
capitolo. 23 Cf. Favaro 1983, 1320-2. Una testimonianza in senso contrario
(ovvero scarsa com- petenza dell’italiano da parte di studenti stranieri a
Padova) è riferita da Mikkeli 1999, 81; ci sembra tuttavia un’eccezione di
fronte alle tante altre. Filologie medievali e moderne 23 | 19 63 Galileo in
Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio
galileiano dell’amico Paul Homberger, Kepler fece arrivare in Italia il suo My-
sterium cosmographicum (1596). «Probabilmente fu lo stesso Keple- ro a
suggerirgli [a Homberger] di destinare una copia allo Studio di Padova, ovvero
di consegnarla a chi in quel tempo occupava la catte- dra di matematica in una
delle università più prestigiose d’Europa» (Bucciantini 2003, 22). E Galileo,
letta solo la prefazione dell’opera, nella quale Kepler dichiara la sua
adesione al Copernicanesimo, de- cise di inviare una lettera di ringraziamento
all’autore per tramite dello stesso Homberger che stava per fare ritorno in
Austria.24 È la missiva del 4 agosto 1597 (EN 10, 67), che contiene
l’importantissima di dichiarazione di Copernicanesimo da parte di Galileo (in
Copernici sententiam multis abhinc annis venerim).25 Importantissima anche in
base alla doppia considerazione che a fine Cinquecento i copernicani si
contavano sulle dita (oltre a Kepler e Galileo, erano Bruno, Roth- mann,
Mästlin, Digges, Harriot, Stevin, de Zúñiga)26 e che prima del- le scoperte del
1610 «le copernicianisme était une opinion extrava- gante et ridicule, et donc
non dangereuse ni ne méritant même d’être condamnée» (Bucciantini 2009, 20). Si
capisce dunque l’entusiasmo di Galileo nell’apprendere che un tale Kepler aveva
le sue stesse idee e pubblicava opere per difenderle e diffonderle, mentre lui,
Galileo, non aveva avuto il coraggio – afferma – di pubblicare le sue osserva-
zioni in difesa del sistema eliocentrico per non fare la fine di Coper- nico, lodato
da pochissimi e deriso dai più. Il latino di questa lette- ra ci sembra un poco
più elevato di quello del Sidereus nuncius, con più frequente subordinazione
(soprattutto frasi relative e infinitive). La gioiosa risposta di Kepler,
contento anch’egli di aver trovato un compagno, è più lunga e stilisticamente
superiore, per quanto non brillante: esclamazioni e interrogative retoriche
vivacizzano il det- tato, che è molto fluido e senza imbarazzi; vi sono finezze
umanisti- che, come l’inserzione di una parola in caratteri greci (αὐτόπιστα).
La strategia culturale di Kepler per l’affermazione del Copernicane- simo
prevede innanzitutto il convincimento dei matematici ed egli si dichiara
disponibile a far pubblicare in terra tedesca gli scritti di Galileo, se questi
teme di farlo in Italia. Ma Galileo, non condividen- do la strategia proposta,
non rispose a questa lettera.27 Stupito del silenzio, Kepler ritentò attraverso
Edmund Bruce di avere nuove di Galileo nel 1599.28 24 Cf. anche Biancarelli
Martinelli 2004. 25 Una dichiarazione di poco precedente (maggio 1597), ma
appena accennata e di- messa, diversamente dalle righe indirizzate a Kepler, è
in una lettera a Jacopo Mazzo- ni (EN 2, 197-202; cf. Bucciantini 2003,
29). 26 Bucciantini 2003, 53. 27 Bucciantini 2003, 73. 28
Bucciantini 2003, 103. Filologie medievali e moderne 23 | 19 64 Galileo
in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano
Giunse poi la stagione del Sidereus nuncius, durante la quale Ke- pler fu il
solo grande interlocutore straniero cui Galileo si rivolse e la cui conferma
delle scoperte ebbe importanza paragonabile soltanto a quella degli studiosi
del Collegio Romano. Oltre alla presa di posizio- ne ufficiale con la
Dissertatio cum Nuncio sidereo, Kepler invia a Ga- lileo una lettera privata il
9 agosto 1610, chiedendo, in sostanza, altri elementi a sostegno delle scoperte
e del cannocchiale. La risposta di Galileo, datata 19 agosto (EN 10, 421), è
significativa. Il nostro è an- cora a Padova, ma ha già ottenuto il posto alla
corte di Toscana e la lettera è pervasa da un’esuberante soddisfazione del
proprio succes- so, «con toni che sfiorano l’autocelebrazione» (Bucciantini
2003, 190): il racconto delle ricompense e dello stipendio ricevuto dopo la
scoper- ta, la protezione e la garanzia del Granduca quanto alle scoperte, il
ti- tolo di filosofo aggiunto ora a quello di matematico, che Kepler non gli
riconoscerà. Galileo non ha molto tempo per scrivergli (paucissimae enim
supersunt ad scribendum horae). Lo stile è solido e non più impac- ciato come
nella lettera del 1597; la scrittura è più fluida, c’è più mo- vimento, con
interrogative e riferimenti eruditi (seppur scolastici, co- me oblatrent
sicophantae) e quasi con affetto per il suo alleato lontano che, pur chiedendo
chiarimenti e testimoni, lo ha appoggiato. In par- ticolare è insolita, in
Galileo, una conclusione come me, ut soles, ama. Con la pubblicazione della
Dioptrice nel 1611 (Kepler fu il padre dell’ottica moderna), termina uno
scambio frequente tra i due: essi non hanno più avvertito il bisogno di
confrontarsi e collaborare rego- larmente, a causa sia di progetti e attitudini
scientifiche differenti, sia di piccole incomprensioni (per es. la stima
riposta da Kepler in Simon Mayr, che dispiacque al nostro).29 Certo, Galileo si
informerà su co- me stia e che cosa faccia l’altro e Kepler prenderà posizione
nelle po- lemiche legate al Saggiatore con l’Hyperaspistes (1625), ma non è più
in gioco una collaborazione stabile e duratura. Le lettere superstiti, in ogni
caso, saltano dal 1611 al 4 settembre 1627 (EN 13, 374-5), al- lorché Galileo
raccomanda Giovanni Stefano Bossi al dotto corrispon- dente perché questi lo
accetti come scolaro. La missiva, non molto in- teressante quanto al contenuto
(una raccomandazione), testimonia il tentativo di riallacciare la relazione.
Nel poscritto Galileo aggiunge: Mitto, cum his complicatam litteris, Orationem
Nicolai Adiunctii, adolescentis in omni humaniore et severiore literatura
excultissi- mi: eam sat scio te magna cum voluptate lecturum, et mirifice fu-
turam ad tuum palatum et gustum. Si tratta dell’Oratio de mathematicae
laudibus, uscita a Roma nello stesso anno dalla penna del giovane Aggiunti,
notevole non solo per 29 I motivi del distacco sono scandagliati in Bucciantini
2003, 198-205. Filologie medievali e moderne 23 | 19 65 Galileo in Europa,
57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano
lo stile latino brillante di cui l’autore dava prova, ma anche per la
celebrazione della matematica come modo di vedere la realtà (una Geometria nos
in rerum notitiam perducit, et sola complectitur studia universa).30 Dopo di
che, morto Kepler nel 1630, il Dialogo lo accuse- rà, pur «con rispetto» (così
la didascalia a margine), di aver creduto a «predominii della Luna sopra
l’acqua, ed a proprietà occulte, e simi- li fanciullezze» (4, 54): come è noto,
un attacco che si ritorce contro Galileo. A rendere incompatibili le posizioni
dei due grandi vi erano idee radicalmente diverse sul cosmo e la posizione
dell’uomo in esso.31 Veniamo agli altri corrispondenti. Johann Georg Brengger
(1559- 1630 ca.), medico di Augsburg, si interessava di problemi scientifici.32
Per tramite di Welser pone a Galileo alcune questioni sui monti lu- nari, cui
Galileo risponde con una lunga epistola in un latino asciut- to l’8 novembre
1610. A sua volta Brengger risponderà estesamente in latino. Una delle due
lettere composte in latino da Niccolò Aggiunti su incarico di Galileo si legge
in EN 14, 83 (datata febbraio 1630) ed è la risposta a George Fortescue.33 Il
15 ottobre 1629 (EN 14, 47) que- sti gli aveva indirizzato una pomposa lettera
latina annunciandogli la pubblicazione delle sue Feriae academicae (1630),
nelle quali, di- scorrendo di ottica, catottrica, matematica e astronomia, adduceva
nonnulla [...] experientia comprobata mea. Lettera pomposa in cui gli elogi a
Galileo, iperbolici, sono intessuti di riferimenti eruditi (il mi- to di Cefeo
e la costruzione del faro di Alessandria su progetto di So- strato). La notizia
più saliente che il mittente vuole comunicare è l’a- ver fatto di Galileo un
personaggio del libro annunciato: In his usus sum artificio Marci Tullii
aliorumque, qui, ut sibi in dicendo auctoritatem concilient, inducunt
colloquentes Catones, Crassos, Antonios, similesque palmares homines. [...]
Igitur ignosce, Vir sapientissime, si disputantem in scriptis meis temet
repereris, 30 Il passo è riportato in Camerota 2004, 570. Secondo Peterson
2015, 130, inviando a Kepler il testo di Aggiunti, Galileo inviterebbe il
corrispondente a rivolgere un’‘atten- zione matematica’ non solo ai cieli, ma
anche alla realtà terrestre. 31 «L’abbandono [da parte di Galileo] di ogni
visione antropocentrica è certamente una delle caratteristiche della sua
filosofia che più lo allontana non solo da Keplero ma an- che da Copernico»
(Bucciantini 2003, 322). «Il progetto galileiano di fondazione di una scienza
copernicana del moto fu fin dall’inizio antitetico e concorrente alla nuova
dina- mica celeste kepleriana. La forza e la tenacia con cui Galileo proseguì
in ogni momento della sua vita le sue ricerche sul moto inerziale all’interno
di una prospettiva cosmolo- gica gli impedirono di accettare le ‘assurde’ leggi
kepleriane» (Bucciantini 2003, 336). 32 Laureato in medicina a Basilea, ebbe
scambio epistolare con Clavio e Kepler su problemi scientifici (cf. Reeves, van
Helden 2010, 43, 220-1; Keil 2002, 610-11; Buc- ciantini 2003, 230-3). 33
Pochissimo si sa di lui: cf. la voce di Ross Kennedy nell’Oxford Dictionary of
National Biography (2004), con bibliografia; Favaro 1883b, 203-10; Besomi,
Helbing 1998b, 3-4. Filologie medievali e moderne 23 | 19 66 Galileo in Europa,
57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano
illos inter qui exquisitis suis artibus occiduum hunc sustentant orbem. Alle
pp. 122-59 delle Feriae è allestito un dialogo (con narratore) tra Ga- lileo,
Clavio, Grienberger – astrologorum huius aevi facile principes – e Ferdinando
Gonzaga. Con la missiva Fortescue ne informa lo scienziato e si scusa per non
avergli chiesto il permesso (Ergo da veniam, serius petenti licet, Vir
spectatissime, quod, inconsulto te, cum tuo egerim nomine). Nella risposta –
che commenteremo – lo scienziato dichiara, con accenti che corrispondono del
tutto ai moduli dello stile encomia- stico, che nostram [...] enim mirifice
incendisti cupiditatem, pregando- lo di inviargli copia del libro non appena
stampato (Cum typographi suam operam absolverint, tuique libri editionem
perfecerint, unum vel alterum exemplar ad nos primo quoque tempore perferendum
cures). Non escludiamo che la parte ‘galileiana’ delle Feriae34 abbia potuto
ispirare Galileo e suggerirgli quell’unicum narrativo che è la sua appa-
rizione come personaggio nel Dialogo sopra i due massimi sistemi (3, 176). In
tale passo, per ribadire la priorità galileiana su Scheiner ri- guardo alla
scoperta della correlazione tra macchie solari e l’inclina- zione dell’asse
solare, Galileo si è servito di un fine stratagemma reto- rico-narrativo, unico
nell’opera: Salviati ricorda dettagliatamente una discussione con Galileo e ne
riporta in modo diretto (con due punti e virgolette) le parole. Un intervento
‘diretto’ dell’autore all’interno del Dialogo dei personaggi. Lo stratagemma è
interessante anche perché è un falso creato ad hoc da Galileo, come hanno
acutamente ricostruito Besomi, Helbing (1998b, 720-37) e come era noto a
collaboratori di Ga- lileo: Benedetto Castelli parlò del passo in questione
come «testimonio falso delle macchie del sole» (lettera del 29 maggio 1632 a
Galileo, EN 14, 358). L’influenza di Fortescue su tale episodio è indimostrata,
ma possibile anche in base alla cronologia della composizione del Dialogo.35
Contrariamente alle sue abitudini, Galileo volle rispondere a For- tescue in
latino (questi era stato al Collegio inglese di Roma dal 1609 al 1614; non
sappiamo tuttavia se Galileo ne fosse al corrente), e si affidò per questo al
provetto latinista Niccolò Aggiunti (1600-1635). Allievo di Castelli a Pisa, al
quale succedette nel 1626 sulla cattedra di matematica, Aggiunti fu anche
precettore di corte, dove conobbe e divenne discepolo fidato di Galileo, tanto
che fu tra coloro che du- rante il processo del 1633 asportarono da casa del
maestro le carte giudicate pericolose. Studiò in particolare i fenomeni
capillari. Uni- ca sua opera a stampa è la già menzionata Oratio de
mathematicae 34 Accenni in Favaro 1883b, 203-10; Besomi, Helbing 1998b, 3 e
Camerota 2004, 206. 35 La parte dell’opera sui movimenti delle macchie solari
(3, 172, 10-187) è stata com- posta «probabilmente dopo il settembre del 1631,
dopo che Galileo aveva letto la Rosa Ursina [opera di Scheiner]» (Besomi,
Helbing 1998b, 47). Filologie medievali e moderne 23 | 19 67 Galileo in Europa,
57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano
laudibus (1627), che fu la prolusione al suo insegnamento universi- tario;
restano manoscritti alcuni altri suoi testi.36 Ebbe fama di otti- mo latinista
e per questo Galileo chiese la sua collaborazione. Ciono- nostante difese anche
l’uso del volgare nella trattazione filosofica.37 Il 30 gennaio 1630 Aggiunti
scrisse a Galileo: «Credo che V. S. Ecc.ma volentieri mi perdonerà così lunga
dilazione, vedendo che io gli pago il debito e in oltre qualche usura: io parlo
della rispo- sta al Sig.r Giorgio [Fortescue], la quale mando a V. S., fatta
con quella maggior accuratezza che ho potuto. Harò caro intender quan- to gli
sodisfaccia. Nella soprascritta basterà fare: Eruditiss.o Viro Georgio de
Fortiscuto. Londinum» (EN 14, 71). Della missiva ci resta la copia autografa di
Galileo. In essa, datata da Favaro febbraio 1630, si ringrazia ampollosamente,
anche con richiami eruditi, per l’onore di comparire come personaggio inter
eximios viros e di essere così celebrato. La lettera è ben nota agli studiosi
galileiani, perché Gali- leo dichiara di lavorare a un arduum opus: magnum
mundi systema, quod trigesimum iam annum parturiebam, nunc tandem pario. E di-
chiarandone il tema (in hoc opere abditissimas maris aestuum causas [...]
inquiro, et, nisi mei me fallit amor, mirabiliter pando), prega il cor-
rispondente di inviargli dati sull’osservazione delle maree: Proinde siquid
habes circa hasce alternas aequoris agitationes diligenti nec divulgata
observatione notatum, ad me perscribere ne graveris. L’altra lettera latina
composta da Aggiunti su commissione di Galileo (16 luglio 1634; EN 16,111) è
indirizzata a Matthias Bernegger (1582- 1640), dotto residente a Strasburgo e
traduttore in latino del Dialogo. Alcuni mesi prima egli aveva scritto a
Galileo annunciandogli la tradu- zione (10 ottobre 1633; EN 15, 299).38 Favaro
ricostruisce che probabil- mente tale epistola non fu consegnata allo
scienziato, perché Benjamin Engelcke (1610-1680), che avrebbe dovuto portarla
di persona, la spedì a Galileo ed essa andò perduta (noi leggiamo oggi la minuta
dello scri- vente); l’Engelke scrisse poi a Galileo informandolo della
traduzione. La lettera di Bernegger è stesa in un latino sicuro e curato, ma
non af- fettato, con la sola iperbole finale di Galileo non Italiae modo tuae,
sed orbis, quem immortalibus tuis scriptis illustrasti, lucidissimum sidus, che
rispecchia lo stile encomiastico. Per la risposta Galileo volle affidarsi anche
in questa occasione ad Aggiunti, che così scriveva allo scienziato il 12 aprile
1634: «Questa qui alligata è la lettera che, in esecuzione del suo cenno, ho
fatta al Bernechero, del quale non sapendo il nome non ho potuto porvelo. Se le
paresse lunga, potrà scorciarla et acconciarla a modo suo. Io l’ho scritta con
mia gran fatiga, perché il considerare in 36 Su Aggiunti, oltre alla voce del
DBI, si vedano Favaro 1983; Camerota 1998; Ca- merota 2004, 21-2 e passim;
Peterson 2015, 128-36. 37 Cf. Camerota 1998. 38 Commenteremo questa
lettera nei cap. 8. Filologie medievali e moderne 23 | 19 68 Galileo in
Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano nome
di chi io scrivevo mi sbigottiva. V. S. nel mio mancamento accusi il suo
comandamento» (EN 16, 82). Ciò testimonia inequivocabilmente che Aggiunti non
ha semplicemente tradotto in latino una risposta re- datta da Galileo in
volgare, ma composto in toto la lettera. Essa sfoggia uno stile brillante,
retorico, erudito. Aggiunti parago- na Bernegger traduttore a un egregius
pictor che abbellisce la figura della persona ritratta: con i latinae elegantiae
colores egli riprodurrà le philosophicae lucubrationes dello scienziato. L’acme
retorico-erudita è raggiunta paragonando la traduzione del Dialogo al ritratto
di Antigo- no sapientemente realizzato da Apelle: essendo il sovrano privo di
un occhio – era appunto soprannominato μονόφθαλμος –, il pittore sfruttò i
vantaggi del tre quarti per nascondere il difetto fisico, come ricorda un passo
dell’Institutio oratoria (2, 13, 12): Habet in pictura speciem tota facies:
Apelles tamen imaginem Antigoni latere tantum altero ostendit, ut amissi oculi
deformitas lateret. Aggiunti si rifà direttamente a Quintilia- no e inscena una
‘cecità’ di Galileo, non fisica, come avverrà più tardi, ma metaforica (difetti
di stile e improprietà di espressione del Dialogo): tuum artificium hoc
pollicetur, ut, citra similitudinis detrimentum, me pulchriorem quam sum
ostendas, et, imitatus Apellem, qui Antigoni faciem altero tantum latere
ostendit, ut amissi oculi deformitas occultaretur, tu quoque, si quid in me
mutilum vel deforme offendes, ab ea parte convertas qua speciosius apparebit. È
evidente la soddisfazione e l’orgoglio per la traduzione latina dell’o- pera
che tante umiliazioni aveva portato a Galileo, soddisfazione e orgoglio
accresciuti dai dolori fisici e dalla perdita della figlia, man- cata pochi
mesi addietro (ma di ciò non si accenna nella lettera): Ceterum deierare
liquido possum, post tot turbas et corporis animique vexationes, quas mihi
pepererunt primum studia ipsa, quae radices artium amarae sunt, deinde
studiorum fructus, qui multo ipsis radicibus amariores fuerunt, hoc tuo erga me
studio nullum mihi maius solatium contigisse. Passi come questo attestano
l’alto livello della prosa latina di Aggiunti: sottolineamo la naturalezza
stilistica con cui l’immagine degli studi co- me radici delle scienze – radici
amare perché intrise di fatica – si tramu- ti nel paradosso dei frutti più
amari delle radici, paradosso in cui sono adombrate le sofferenze e umiliazioni
del processo e dell’abiura. Alle quali Galileo reagisce con nuovi studi e la
stesura delle Nuove scienze: Non tamen his angustiis eliditur aut contrahitur
animus, quo liberas viroque dignas cogitationes semper agito, et ruris angustam
hanc solitudinem, qua circumcludor, tanquam mihi profuturam aequo animo fero.
Filologie medievali e moderne 23 | 19 69 Galileo in Europa, 57-70
Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Bernegger fu sbalordito
dall’eleganza di tale lettera e non subodo- rò che non venisse dalla penna di
Galileo; scrisse infatti a Diodati: Valde me terruit ipsius [Galileo] epistola,
longe tersissima et elegantissima; quam elegantiam cum vel mediocriter assequi
posse desperem, verendum habeo ne magnus ille vir ingenii sui divini foetum in
commodiorem interpretem incidisse velit. Sed iacta est alea (EN 16, 176-7).
Aggiunti morì nel dicembre 1635. Meno interessanti le ultime tre lettere di cui
dobbiamo occuparci. Il 30 ottobre 1637 il dotto Ismaël Boulliau(d)
(1605-1694)39 inviò a Ga- lileo una copia del suo De natura lucis40
accompagnandola con una lettera latina in cui si dichiarava amico di Gassendi e
di Diodati (EN 17, 207-8) e in cui annunciava l’imminente pubblicazione del
Philolaus sive Dissertatio de vero Systemate Mundi. È una missiva di ac-
compagnamento, piuttosto breve e spedita quanto a stile. La risposta di Galileo
(1 gennaio 1638; EN 17, 245), pure in latino, ha lo stesso te- nore: con un
dettato puramente comunicativo informava di aver già perso la vista e di non
poter quindi formarsi un giudizio sulle dimo- strazioni del De natura lucis che
contengano figure; ha però apprez- zato ciò che gli è stato letto e si
interessa del Philolaus. Infine si scu- sa per la brevità e sommarietà della
risposta: Breviter admodum ac ieiune scribo, praestantissime vir: plura enim
scribere me non patitur molesta oculorum valetudo. Quare me velim excusatum
habeas. Una seconda lettera di Boulliau(d) risale al 16 settembre 1639 (EN 18,
103): un puro accompagnamento all’invio del Philolaus, con l’augurio retorico
che utinam Deus, qui alligat contritiones suorum, restituat oculorum lumen tibi
ademptum, nobisque tale damnum resarciat, ut ipse legas libellum, et rationum
seriem sine alienorum oculorum opera dispicias. La risposta latina del nostro,
, è del tutto analoga alla precedente. Ringrazia il corrispondente e apprezza
quanto gli è stato letto, ma non potendo vedere le figure non può giudicare
bene. È latina, infine, una missiva di Galileo agli Stati generali dei Pae- si
Bassi, in cui chiede che sia esaminata la sua proposta per il calcolo della
longitudine in mare ligure. È una lettera non retorica, per quanto contenga
alcuni elementi topici come l’elogio del destinatario: 39 40
Celsitudinum Vestrarum, qui per omnia maria et terras celeberrimas suas
peregrinationes et navigationes cum gloria maxima iam instituerunt et quotidie
porro instituunt, et commercia amplissima ubique quotidie dilatant [...] (EN
16, 469). Su di lui vedi Beaulieu 1984, 377) e Hockey et al. L’opera a stampa
reca la data 1638; non sappiamo dire se Boulliau(d) ne abbia inviato un esemplare
(cui poi fu apposta una datazione posteriore) o una copia manoscritta.
Filologie medievali e moderne 23 | 19 70 Galileo in Europa, 57-70Galileo 291.
HASDALE a GALILEO in Padova. Praga, 15 aprile 1610. Bibl. Naz. Fir. Mss. Gal.,
P. VI, T. VII, car. 120. – Autografa. mor mo Essendo un pezzo che disegnavo di
ritornare in Italia, et particolarmente a Padova et Venetia, più per godere
quella gentilissima conversatione di V. S. che per altro; et tanto più me ne
cresce il desiderio, quanto che veggo nuovi parti del suo felicissimo et divino
ingegno. Delli quali l'ultimo, intitolato Nuntius Sydereus, ha rapito
ultimamente tutta questa Corte in ammiratione et stupore, affaticandosi ogniuno
di questi ambasciatori et baroni di chiamare questi matemathici di qua per
sentire se vi sanno fare alcuna oppositione alle demostrationi di V. S. Però
vanno procurando di havere di quelli occhiali doppiii, per vederne
l'esperienza. re re Io mi truovai, XII giorni fa, a desinare dal Sig.
Ambasciatore di Spagna, dove il Sig. Velsero portò al detto Ambasciatore uno di
questi libbri, mostrandogli molti luoghi notabili di r quello libro. Il Sig.
Ambasciatore mi domandò delle qualità di V. S. Io gli risposi quello che potei,
non già quanto V. S. merita. Mi disse che voleva sentire l'openione del
Kepplero(658) sopra questo libro, sì come credo che habbia fatto chiamarlo. Ma
io questa mattina ho havuta occasione di fare amicitia stretta con il Kepplero,
havendo egli et io mangiato con l'Ambasciatore di Sassonia; et domattina siamo
invitati da quel di Toscana, dove io vado familiarmente di continuo, essendo
quel Signor mio padrone vecchio. Hora gli ho domandato quello che gli pare di
quel libro et di V. S. Mi ha risposto che sono molti anni che ha prattica con
V. S. per via di lettere, et che realmente non conosce maggiore huomo di V. S.
in questa professione, nè manco ha conosciuto; et che con tutto che il Tichone
fosse tenuto per grandissimo, nondimeno che V. S. l'avanzava di gran lunga.
Quanto poi a questo libro, dice che veramente ella ha mostrata la divinità del
suo ingegno; però, che ella viene havere data qualche occasione non solo alla
natione Todesca, ma anco alla propria, non havendo fattone mentione alcuna di quegli autori che le hanno accennato
et porta occasione di investigare quello che hora ha truovato, nominando fra
questi Giordano Bruno per Italiano, et il Copernico et sè medesimo, professando
di havere accennato simili cose (però senza pruova, come V. S., et senza
demostrationi): et haveva portato seco il suo libro, per mostrar allo
Ambasciatore Sassone il luogo. Ma in quello ch’eramo in questi ragionamenti, è
sopragionto un estraordinario di Sassonia al detto Ambasciatore, che ha
disturbata la conversatione. Ma domattina, piacendo a Dio, ci rivederemo, che
senz'altro porterà il medesimo suo libro con quello di V. S., come ha fatto
hoggi, per mostrarlo all'Ambasciatore di Toscana. Seppi poi la morte del Cl.mo
nostro Sig.r Cornaro(661), con mio grandissimo dispiacere, che me mo Vostro
Aff. Fratello lo Michelag. Galilei. De Kepplero non havendo fattione
mentione. Tra accennato e et si legge, cancellato, quelle cose. – Un LORENZO di
CORNARO era morto (Necrologio Nobili, nell'Archivio di 252 r lo scrisse
il S. Ottavio Pamfilio, quale desidero sapere se si truova ancora costì, perchè
gli vorrei scrivere. Et la prego, havendo occasione, di fare un cordialissimo
baciamano al Padre Maestro Paolo et Padre Maestro Fulgentio(662), suo compagno,
et che spero fra alcuni mesi lasciarmi rivedere con qualche carico. Con che
fine le bacio le mani. Di Praga, Di V.
S. Ecc. ma re mo Serv. Devot. Martino Hasdale. Io mando questa per via
dell'Ambasciatore di Venetia. Mi ricordo degli suoi melloni Turcheschi. mor mo
Fuori: All'Ecc. Sig. P.rone Oss. r Il Sig. Gallileo Gallilei, Mattematico di
Padova.Galilei. Galilei. Keywords: “the sun rises in the east” “the sun sets in
the west” “you’re the cream in my coffee” ‘disimplicature’ -- esperienza,
observazione, visione, nature, aristotele, filosofia naturale, fisis, natura,
interpretazione, semiotica, segno naturale, il padre di Galileo – Some like
Galileo Galilei, but Vincenzo Galilei is MY man” – Galileo e Bruno, lizio,
lizii. Refs: Luigi Speranza, “Galileo, Grice e il saggiatore,” The
Swimming-Pool Library, Villa Grice. Galilei.
Grice e Galimberti – l’imaginario sessuale –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Monza). Filosofo. Grice: “I like Galimberti: he has philosophised on amore,
amicus, amicizia – all topics of my interest – while I am into vyse, he is into
the seven capital vyses! He also has spoken about speech: the ‘parole nomade,’
and the ‘equivoci’ of the ‘anima.’ – In general his philosophy is about
nihilism and the idea of man in the age of ‘techne’ (ars).” Il suo maggior
contributo riguarda lo studio del inconscio e il simbolo (contractio), inteso
come la base primeva e più autentica dell’uomo – ‘logica simbolica’. Nasce
a Monza, la mamma maestra di elementari e il padre deceduto. Le necessità della
famiglia l’obbligano a lavorare. Frequenta le scuole superiori in seminario.
Terminati gli studi liceali classici, si iscrive al corso di laurea in Filosofia a Milano. Si
laurea quindi con Emanuele Severino con lode, con “La logica di Jaspers”. Fra i
suoi maestri, anche Bontadini. Studia fenomenologia del corpo con Borgna a
Novara. Insegna a Monza e Venezia. Studia con Trevi.“E se "filo-sofo"
non volesse dire "amante del sagio" ma "saagio dell'amore",
così come "teo-logo" vuol dire dotto *su* Dio e non ‘parola di Dio’,
o come "metro-logo" vuol dire scienzato delle misure e non misura
della scienza?” “Perché per la forma greca ‘filo-sofo’ questa *inversione*
della morfologia nella implicatura? Perché il filosofo greco si struttura come
un logico che formalizza il reale, sottraendosi al mondo della vita, per
rinchiudersi nell’academia, dove, tra iniziati, si trasmette da maestro a
discepolo quesso che lo face un ‘sagio,” e che non ha nessun impatto
sull'esistenza e sul modo di condurla. E per questo cheda Socrate, che indica
come la sua condotta "l'esercizio di morte", ad Heidegger, che tanto
insiste sull' “essere-per-la-morte”, il filosofo si e innamorato più del saper
morire che del saper vivere. Al centro della sua riflessione sta il corpori
degli uomini, che, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica, si sentono un
"mezzo" nell'"universo dei mezzi", riuscendogli sempre più
difficile trovare e dare un senso alla sua vita, alla sua esistenza. Si deve
trovare un senso al radicale disagio, alla tragicità del suo esistere, anche
attraverso il recupero dell'ideale antico greco-romano, evitando mitologie.
Il suo maggior contributo consiste nel porre la dimensione del simbolo (coniactum
– the idea is that you throw two things together so that the recipient may
compare them, one becomes the ‘symbol’ – coniactum – of the other – cf. Grice
on Peirce on symbol) alla base primordiale della ragione conversazionale, che
ha inteso ordinare il simbolo (mito, no logos) – dunque l’ambilavenza delle
cose ma non l’equivalenza generale di significati. Il simbolo (coniactum) è il
sustratto pre-razionale. Rappresenta un caos originario che ragione tenta di
arginare. Siamo razionali (apolineo) per difenderci dal simbolo dionisiaco. Il concetto
fondamentale del simbolo non è l’equi-valenza generale, ma l’ambi-valenza.
Riprende Freud e Jung, fondendone con Nietzsche, Severino e Heidegger. Importante
è stato il costante riferimento a Husserl e Jaspers. Il filosofo cerca la “comprensione”
(verstaendnis – cf.. Grice on ‘understand’ – ‘understanding,’ literally, slang
for a leg) e non la spiegazione (verklaerung) del comportamento umano. La psicologia
filosofica o rationale (l’anima di Aristotele) non può operare una
trasposizione tout-court dei metodi e dei modelli concettuali delle scienze
naturali perché, così facendo, l'uomo verrebbe ridotto a mero evento naturale,
fisico, come ha luogo, per esempio, in psichiatria. Contrario, poi, al
dualismo di Cartesio, Galimberti ha anche fatto riferimento al metodo
fenomenologico e al funzionalismo per consentire altresì, alla psicologia
filosofica o rationale, la comprensione e la descrizione fenomenologica di
quelle strette relazioni che intercedono fra nostri corpori assieme al
significato che queste relazioni comportano. E e tutto ciò lo porterà ad
abolire, di conseguenza, ogni distinzione concettuale fra ”salute“ e
”malattia.” Insiste sull'inconsistenza della contrapposizione tutta occidentale
fra scienza e fede – fiducia -- individuando come questa seconda – la fiducia,
cf. English ‘trust,’ truth’ -- sia in realtà l'elemento fondativo dell'intera
coscienza occidentale, all'interno anche della scienza e della tecnica. Scienza
e fede non dovrebbero mai confliggere, è importante che nessuna delle due
invada il campo dell'altra. Tematizza innanzitutto il passo della Genesi
in cui Adamo è definito "dominatore della Terra, sui pesci dei mari e
sugli uccelli del cielo", collocando l'uomo in una posizione privilegiata
rispetto agli animali e la Natura in sé e legittimandolo a operare su di essi
per alimentare la propria esistenza. In quanto il progresso è l'affermazione di
questo primato umano, la tecnica (Greco techne, Latino, ars) è indubbiamente
l'ipostasi che sigilla costantemente quest'affermazione sull'indifferenza
naturale. La coscienza della techne (Latin ‘ars’) tecnica è formulata come una
risposta alle fatiche naturali, si appellerebbe, dunque, a una condizione
strutturale di eminenza consegnata da Dio e propugnata dalla persistenza di un
animale sui generis. Riconosce la cristianità come il carattere di una
scansione temporale che identifica il passato come spazio del peccato, il
presente dell'espiazione, il futuro della redenzione e salvezza. Questo semplice
modello triadico ha una ricorrenza quasi ossessiva nelle forme occidentali, fra
le quali la medicina (malattia, diagnosi, cura), psicoanalisi (disturbo,
terapia, guarigione), scienza (ignoranza, sperimentazione, scoperta). La triade
è il "coefficiente a-storico" necessario a profilare la possibilità
di un progresso, che si esercita eminentemente nello scenario tecnico. Qui,
l'uomo che soccombe alle fatiche naturali della sopravvivenza, del parto e del
lavoro (così come minacciato nella Bibbia) ha modo di riscattare la propria
difficoltà attraverso mezzi che ne purificano endemicamente l'opera, al costo
di un esaurimento delle risorse naturali. Ma, in fondo, la loro esistenza è
preposta a questo. Non si definisce né "credente" (in senso
cattolico) né "non-credente", ma "greco-romano", nel senso
di colui che vuole recuperare la visione del mondo della civiltà greco-romana,
in modo nietzschiano e heideggeriano (si veda anche Il detto di Anassimandro,
un noto saggio di Heidegger sul pensiero greco arcaico), fondendola però con la
pur antitetica visione cristiana: la morte e la vita vanno pertanto prese sul
serio, e non minimizzate pensando a un'altra vita ultraterrena. La ragione è
importante perché, come nel detto "Conosci te stesso", fornisce
all'uomo il senso del proprio limite. Approfondisce molto la tematica del
concetto di tempo e del suo rapporto con l'uomo. La sua indagine evidenzia come
nell'età degli antichi – eta greco-romana, eta classica -- non si pensasse al
tempo come lineare ed escatologico, tanto meno vi era associata l'idea di
progresso. Essi concepivano l'essere come kyklos (tempo ciclico, l’eterno
ritorno di Nietzsche), come un ciclo in cui ogni evento è destinato a
ripetersi. Nella filosofia greco-romana antica era impensabile che l'uomo
potesse esercitare un controllo sul cosmo, o di imporre su di esso i propri
fini. La dimensione dell'uomo era inserita armonicamente all'interno dei cicli
naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel ciclo
infatti il fine (in greco telos) viene a coincidere con la fine e la forza
propulsiva (in greco energheia, actus) porta all'attuazione dell’ergon,
l'opera, ciò che è compiuto. Il ciclo si manifesta dunque con l'esplicitarsi
dell'implicito.Il seme diventerà frutto solo alla fine del ciclo di crescita e
maturazione stagionale, e il frutto coinciderà con il fine del seme, con il
dispiegarsi completo dell'energia e delle potenzialità implicitamente contenute
in esso. Nel ciclo, in cui tutto si ripete, non si dà progresso: di conseguenza
divengono fondamentali la memoria dei cicli passati e quindi la parola dei
vecchi, deposito di esperienza, e l'educazione, come trasmissione della memoria
e dell'esperienza passata. Tuttavia, l'uomo è da sempre tentato di conciliare
il tempo ciclico della natura con il tempo umano, che è un tempo “scopico” (dal
greco skopein, che indica un guardare mirato). Con questa operazione l'uomo
vuole reintrodurre scopi umani nel tempo naturale, naturalmente privo di scopi.
Emerge qui dunque la necessità propriamente umana di progettarsi, cioè di
gettarsi-fuori di sé verso un obiettivo, cercando di dotare di senso la propria
esistenza. Questa tendenza tuttavia, può armonizzarsi con il “kyklos” solo se
l'uomo vive con la consapevolezza tragica di non poter oltrepassare i limiti
posti dalla natura, primo tra tutti la sua mortalità. In caso contrario, egli
si macchierà di hybris (superbia), la tracotanza, l'unico vero peccato riconosciuto
dalla saggezza greco-romana.In termini esemplificativi, il cacciatore esercita
il suo guardare mirato nel bosco (skopos) e solo in questo tempo progettuale e
nella compresenza di mezzi e fini, il suo arco diventa strumento e la lepre
l'obiettivo. Si tratta di un tempo lineare che si muove tra due estremi: i
mezzi e i fini (la ragione come phronesis or prudentia).V'è tuttavia un elemento
che si inserisce tra questi termini, impossibile da controllare, ovvero il kairos,
il tempo opportuno, che è anche imprevedibilità, e che può determinare o meno
l'incontro tra mezzi e fini. Non è dunque nelle possibilità dell'uomo il
tessere il proprio destino. Egli deve saper cogliere il kairos, la circostanza
favorevole, e in essa espandere sé stesso. Questo equilibrio tra tempo
naturale, umano e del kairos è stato sconvolto dall'uomo nell'età della
tecnica: obiettivo di quest'ultima è infatti quello di ridurre fino ad
annullare la distanza tra mezzi e scopi (in cui si inseriva il kairos,
l'imprevedibile) per realizzare così un controllo e un dominio assoluti sul
mondo, che da cosmo a cui accordarsi è divenuto natura da dominare, e per
portare a compimento una tirannia completa del tempo umano. Con l'età della
tecnica abbiamo scatenato il Prometeo che gli dèi avevano incatenato,
determinando il trionfo del potere della techne sulla necessità (in greco
ananke) della natura, fino alla paradossale situazione in cui la tecnica non è
più strumento nelle mani dell'uomo ma è l'uomo a trovarsi nella condizione
di mero ingranaggio, funzionario inconsapevole dell'apparato tecnico. Riflettendo
sulle modalità in cui l'uomo abita il mondo, approfondisce il concetto di
‘corpori.’ Studiando genealogicamente il concetto di corpo dal periodo romano
antico – quale e la etimologia di corpo? Quella di Platone e terribile: soma
sema -- mette in contrasto le diverse
modalità in cui esso è stato osservato. I corpori – corpus romano, pl. corpora
– corpore -- sono visto come organismi da sanare per la scienza, come forza
lavoro da impiegare per l'economia (body-abled man), come carne da redimere per
la religione, come inconscio (id) da liberare per la psicoanalisi, come
supporto di segni (semiotica corporale – la semiotica dei corpi) -- da trasmettere
per la sociologia – un segno e un medio fisico – l’immagine e percipita per un
corpo – un corpo mittente – un corpo che recive il messagio – semiotica fisica.
L'uomo e capace di cappire significatum ambi-valente (uno senso Fregeiano e una
implicatura – “He is a fine friend +> He is a scoundrel). Questo
significatum ambivalente e fluttuante e quello che il corpo ha da sempre
assunto. Questa ambivalenza del segno fra corpo 1 e corpo 2 nasce dal suo
sottrarsi all'uni-vocità (or aequi-vocita – or aequi-segno) di una teoria
psicologica categorizzante, concedendosi invece una “con-fusione” de un codex di
senso fregiano e un codex di implicatura, con i quali i corpori sono costituito.
Per salvarsi di un panico creato da questa ambivalenza (significatum fregeano,
significatum griceianum), si sigue il principio d'identità, collocando i
corpori di volta in volta sotto un equi-valente generico che gli garantisse uni-vocità
o aequi-vocita (quando l’implicatura e cancellata). Cogliendo lo sfondo in cui
i corpori si mostrano, si evidenzia la legge fondamentale che lo governa,
ovvero lo “scambio” (o ‘con-versazione’) simbolica – il simbolo e il
significatum griceiano -- in cui tutto è re-versibile e non vi è demarcazione
tra significati – questo che Grice chiama la ‘indeterminazione disgiontiva
infinita: il corpo significa che p1 o p2 o p3 o … L'ambivalenza del segno è una
legge inclusiva per cui ciò che è, è sì sé stesso (principio d’identita), ma
anche altro da sé (principio della negazione – diaphoron). In questo modo i corpori conservano la sua
oscillazione simbolica tra vita e morte: oscillazione che non posse eliminarsi
tracciando una violenta disgiunzione tra vita e morte, tra ciò che è (l’ente,
il ‘being’ di Grice) e ciò che non è (vide Grice, “Negazione e privazione).Proposito
conclusive è quello non tanto di emancipare o liberare i corpori dalla
restrizione impostagli dal senso apolineo fregeiano (che non avrebbe altro
effetto che confermare i limiti in cui i due corpori sono reclusi), bensì
quello di restituire i corpori alla sua originaria innocenza. Si è sempre
schierato su posizioni fortemente anticapitaliste, esprimendosi e professandosi
inequivocabilmente comunista. è stato ufficialmente richiamato da Venezia a
volersi attenere alle corrette regole di citazione degli scritti di altri
autori. Questo per aver riportato alcuni brani di altri autori senza citarli
in. Tutto ha avuto inizio quando in seguito a un articolo de Il Giornale è emerso
che aveva copiato "una decina di brani" di Sissa per un saggio. Ha
ammesso di aver violato il diritto d'autore riservandosi di riparare al danno. Ciò
non ha comunque soddisfatto Sissa perché “quello non chiedere scusa, piuttosto
un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi. Con il passare
del tempo sono emersi altri precedenti analoghi. Infatti anche per il saggio su
Heidegger, copia Zingari. I due arrivarono a un accordo che prevedeva
l'ammissione da parte di Galimberti dell'indebita appropriazione intellettuale
nelle successive edizioni del libro e da parte di Zingari l'impegno "a non
tornare più sulla questione". Oltre a Sissa e Zingari sono stati copiati
testi di Cresti, Natoli e Bradatan. Per difendersi, dice che "in ogni ri-elaborazione
però, c'è uno scatto di novità". L'inchiesta giornalistica de Il Giornale ha
accertato che due dei saggi, presentati al concorso a Venezia erano stati
copiati da altri autori. La commissione giudicante composta all'epoca non si
accorse del fatto. Il rettore ha detto che "non ho, ora come ora, estremi
per sollecitare il ministero, deve essere un professore del raggruppamento a
farlo. Di mio posso dire che in ambito umanistico si producono troppi testi e
che questo è uno dei fattori che causano l'impossibilità di fare controlli
accurati. Nello specifico, secondo me dovrebbe essere Galimberti, nel suo
interesse, a chiedere la convocazione di un giurì o comunque a rispondere e a
specificare le sue posizioni.”Nel giugno
la rivista L'indice dei libri del mese ha pubblicato nel proprio sito un
lungo articolo su altri copia-incolla. In particolare il saggio sul mito è
stato indicato come costituito al 75% da un "riciclaggio" di suoi
scritti precedenti, per il restante 25%, una ristesura di intere frasi e
paragrafi, presi da altri autori, quasi identici agli originali. Le accuse
mosse a Galimberti sono poi diventate un saggio, “La mistificazione
intellettuale (Coniglio Editore, ), in Bucci, elenca i nomi dei pensatori da
cui avrebbe tratto parti di testi senza citare la fonte. Vattimo ha dichiarato
al Corriere della Sera: «si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la
spiegazione è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle
frasi che ricorda anche senza virgolettarle. Il sapere umanistico è retorico.
Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati
saccheggiati da tutti. Nella filosofia è tutto un glossare. C'è chi copia dagli
altri e chi da sé stesso».Altre opere: ROMA SERMO ROMANVM -- Milano, Mursia). Agire
(Milano, Apogeo); Amore. Assisi,
Cittadella Editrice,.Tra il dire e il fare. – dire e una forma di fare -- Il viandante della filosofia, con Marco
Alloni, Roma, Aliberti,.Parole d'ordine, Milano, Apogeo,. Amore. Milano, AlboVersorio. Amante, amato,
amico --” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,. “Il bello” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,.
Eros e follia, Mariapia Greco, Lecce, Milella Editore. Fenomenologia del corpo,
Milano, Feltrinelli – cf. Grice on ‘body’ – in “Personal Identity” “I fell from
the stairs” -- Dall'inconscio al simbolo, Milano, Feltrinelli, 2“Equivoci” (Milano,
Feltrinelli); Parole nomadi, Milano, Feltrinelli; I vizi capitali e i nuovi
vizi, Milano, Feltrinelli. Amore, Milano, Feltrinelli. Treccani. Umberto
Galimberti, nato a Monza, è stato professore incaricato di Antropologia
Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Professore
ordinario all'università Ca' Foscari di Venezia, titolare della cattedra di
Filosofia della Storia. Titolo opera: Le cose dell'amore. Il libro è di:
saggistica, cioè appartiene al genere letterario dei saggi. Sommario: Riassunto
per capitoli: “Amore e trascendenza”: La metafora di Dio è sempre stata
collegata alla metafora dell'amore, nel senso che senza la presenza della
trascendenza, cioè che è al di là dei limiti di ogni conoscenza possibile e
quindi superiore alla ragione umana, l'amore perde la sua forza e la sua
capacità di leggere il mondo. Rimane un enigma dove l'amore vede in Dio la sua
trascendenza, e Dio vede nell'amore la sua natura,e questo intreccio non presenta
sentimentalismi ma solo il nesso tra amore e trascendenza. I “Amore e
sacralità”: La sacralità è dovuta dal desiderio dell'uomo di immortalità
e quindi dal desiderio di conservare la sopravvivenza dell'individuo e della
totalità dell'essere. Oltre al sacrificio, un altro modo di sperimentare la
morte della propria individualità è l'orgasmo, l'apice della vita sessuale,
durante il quale l'Io e il Tu si dissolvono, e ciò è reso possibile dalla
fiducia reciproca. “Amore e sessualità”:
Il sesso non è qualcosa di cui l'Io dispone, ma è qualcosa che dispone
l'Io, aprendolo così alla crisi. Nella sessualità, la meta non è il
godimento dell'Io, ma il suo perdersi negli abissi dell'anima, i quali si pensa
siano rimasti disabitati, e che invece possono riapparire durante quel
rinnovamento della vita a cui l'Io cede ogni volta che ha un rapporto sessuale
e quindi nesso con l'altra parte di sé. “Amore e perversione”: La perversione è
sempre stata giudicata negativamente, perché concepita come sinonimo di
devianza, degrado, ribrezzo e ripugnanza. Il perverso non cerca la
trasgressione, ma la sua aspirazione è di raggiungere uno stato dove è
soppressa ogni nozione di organizzazione, struttura, separazione e dl'universo
di differenze da cui prende avvio ogni principio d'ordine. Il godimento del
perverso non deriva dalla sessualità, ma dalla sessualità portata a quel limite
oltre il quale c'è l'incontro con la morte. “Amore e solitudine”: La
mitologia greca aveva divinizzato la masturbazione, perché era espressione
di autosufficienza e indipendenza dagli altri. Ma questo atto venne condannato,
nell'età dei Lumi, dalla scienza medica e dall'economia: la prima sosteneva che
essa provocava malattie, mentre la seconda affermava che era uno spreco.
Osservando invece il fenomeno della masturbazione da un'ottica diversa da
queste due discipline, questo "vizio dell'adolescente" non appare
come un qualcosa da combattere, ma un qualcosa su cui fare leva per integrare
gradualmente la sessualità. "Amore e denaro": La prostituzione
è uno scambio di sesso e denaro che caratterizza il regime sessuale della
nostra società, e che viene alimentato da un desiderio di rapido miglioramento
delle proprie condizioni economiche. Infatti, di fronte al denaro tutto diventa
merce: quando un uomo paga una donna, non le riconosce alcuna interiorità sua
propria, arrivando a considerarla più come un "genere" che come
"individuo". "Amore e
desiderio": L'amore è un'illusione di stabilità emotiva. Questo sentimento
necessita novità, mistero e pericolo, ma deve saper combattere il tempo, la
quotidianità e la familiarità. infatti, la ricerca della sicurezza e
della stabilità porta l'amore al suo degrado, perché così facendo essa non
prevede l'avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la
passione. "Amore e idealizzazione": La percezione della realtà è una
costruzione attiva, dove l'immaginazione, la fantasia, il desiderio, di cui
l'idealizzazione amorosa è una figura, intervengono a trasfigurare i dati della
realtà. Da ciò si deduce che l'oggettività è un'ideale impossibile, e infatti
la convinzione di conoscere l'altro in modo oggettivo è una delle tante
illusioni create dalla passione per evitare la delusione. "Amore e seduzione": Nella vita
quotidiana, la trasparenza riesce ad allargare l'orizzonte e lo scenario
dischiuso dall'immaginazione. Infatti il desiderio si trova in ogni fessura
della realtà che lascia trasparire un'ulteriore senso: quello dell'irreale e
de-reale. Il corpo dell'altro diviene così uno specchio che riflette il nostro desiderio,
e questo corpo non deve essere mai nudo, perché la seduzione si esprime
attraverso le vesti, gli accessori, i gesti, la musica. "Amore e pudore": L'amore prevede
che ad amare e ad essere amato sia il nostro Io, una delle due soggettività
presenti in ogni individuo e che, contro la sessualità generica, impone
la barriera del pudore. Essa però non limita la sessualità ma la
individua, sottraendola a quella genericità in cui si celebra il piacere senza
riconoscere l'individualità. E' importante sottolineare che il pudore non è un
sentimento esclusivamente sessuale, ma ha anche una valenza sociale che si pone
alla difesa dell'individuo contro la pubblicizzazione del privato. "Amore e gelosia": Nella nostra
società, dove la sussistenza dipende sempre meno dalla solidità dei vincoli
familiari, la gelosia è vista come un sentimento arretrato che ostacola
la libertà e la sincerità dei singoli. Essa, cha affonda le sue radici
nell'infanzia non per la progressiva rinuncia da parte del bambino al
possesso esclusivo del padre o della madre, ma perché durante questo periodo
chiunque ha provato sentimenti come la solitudine e la paura di essere
abbandonati, altera la percezione, l'attenzione, la memoria, il pensiero e il
comportamento. Per avere controllo su questo potente stato d'animo, bisogna
separare progressivamente l'amore dalla ossessività, cioè civilizzarla.
"Amore e tradimento": Il tradimento risiede nella fiducia originaria,
dove non c'è traccia neppure del sospetto, perché non sorgono ne l'interrogazione
ne il dubbio. Ma la scoperta di quest'ultimo segna la nascita della coscienza,
e questo atto è indicato dal tradimento. Sono presenti diverse reazioni al
tradimento: 1)la vendetta, che non emancipa l'anima ma la irrigidisce; 2) la
negazione, in cui l'individuo che ha subito una delusione tenta di negare il
valore dell'altro; 3) il cinismo, che fa credere che l'amore sia sempre una
delusione; 4) il tradimento di sé, che porta a tradire sé stessi e le proprie
esperienze emotive; la scelta paranoide, un atteggiamento legato più alla sfera
del potere che a quella dell'amore.
"Amore e odio": L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, e
la sopravvivenza di questo sentimento amoroso non dipende tanto dalla capacità
di evitare l'aggressività, che è il riflesso dello stato di pericolo in cui si
trova la persona che ama, quanto dalla capacità di viverla e oltrepassarla. In
amore, l'individuo può accettare la dipendenza verso la persona amata, oppure
per riscattarla trasforma la passione amorosa in passione aggressiva, carica di
odio, dove il messaggio finale è che non si può fare a meno di questa
persona. "Amore e passione":
A differenza dell'amore, la passione non segue le regole, ignora il
governo di sé, non conosce il limite e non dipende da progetti. Per questo è
possibile dire che l'amore è cristiano, mentre la passione è pagana. La
passione cerca rassicurazione, ma nello stesso tempo vuole essere smentita,
rifiutata e delusa, perché attribuisce all'affetto, alla domesticità, all'amare
e all'essere amato poca importanza. Questo perché la passione conosce il
destino e non lo scambio, in quanto l'altro è considerato solo come materia per
la sua creazione, ovvero la fantasia, la quale si alimenta del dubbio e
dell'incertezza. "Amore e immedesimazione": L'alienazione nell'altro
per amore di sé approda o nell'assimilazione con la persona amata, che porta
alla perdita della propria identità, o nel possesso della persona amata, con la
tendenza ad escluderla dal mondo. Gli amanti chiamano amore questa reciproca
immedesimazione, e questa rinuncia di sé e della propria libertà non esprime
solo un rapporto di dipendenza, ma una vera e propria condizione di
alienazione. Il mantenimento in amore della propria autonomia non solo evita
l'identificazione con la persona amata, ma consente il recupero di se
stesso. "Amore e possesso": La
passione, quando non approda nell'immedesimazione con la persona amata, si
indirizza verso il possesso, che riduce le relazioni della persona amata, e in
cui l'amante non ama propriamente l'altro, ma solo il potere che esercita
sull'altro. Dunque, chi ama per possesso non si accontenta del possesso del
corpo e del godimento sessuale che ne deriva, ma pretende che la persona amata
lasci per lui tutto il suo mondo, e che lo ami non solo per la sua evidente
identità, ma per le sue qualità nascoste. Solo a questo punto il suo desiderio
di possesso è soddisfatto ma, con la sua soddisfazione, anche la sua passione
si estingue, perché non era amore per l'altro, ma era perverso amore di sé.
"Amore e matrimonio": La nostra società è caratterizzata
dall'individualismo, in cui l'individuo vive in base alla sua personale
idea di felicità, senza più subire l'influenza delle norme tradizionali.
Attualmente, l'amore è slegato da ogni riferimento sociale, giuridico e
religioso, e si sta diffondendo la figura de "l'uomo della passione",
che attende dall'amore qualche rivelazione su se stesso o sulla vita in
generale. Da una parte quindi l'amore-passione, che rappresenta l'evasione dal
mondo per raggiungere in sogno la felicità assoluta, dall'altra l'amoreazione
che fonda il matrimonio, che non evade dal mondo ma assume in esso il proprio
impegno. "Amore e linguaggio": L'amore utilizza le parole per dare
espressione a ciò che la logica non sa cogliere. Infatti, i paradossi del
linguaggio dell'amore cercano di infrangerla, perché la logica include la
normalità e la quotidianità, mentre l'amore vuole esprimere l'eccesso,
l'insolito, e non può farlo se rispetta le regole della ragionevolezza. Questo
eccesso concede all'amore nuove libertà di cui ha bisogno, perché essa nasce
quando è totalizzante, e infatti il linguaggio dell'eccesso pretende la
totalità, dove odio e amore possono confluire e passare l'uno nell'altro.
"Amore e follia": L'amore è quasi sempre stato considerato come un
qualcosa posseduto dall'Io. Freud smentisce ciò sostenendo che non esiste una
ragione onnipotente che guida la volontà che governa le ragioni, in quanto la
psiche umana non è razionale. Fu Platone il primo ad interessarsi alle regole
della ragione e agli abissi della follia. Egli con il termine follia indica
un'esperienza dell'anima che sfugge a qualsiasi tentativo che cerchi di
fissarla e disporla in successione. B) Tesi dell'autore: L'amore non può esistere senza un raggio di
trascendenza. C'è una profonda affinità tra il sacrificio e l'atto d'amore.
L'amore non rinnega il sesso e l'erotica. L'amore deve sapere accettare anche
la perversione. La masturbazione è segno
di solitudine. Con la prostituzione ciò che si vuole comprare non è il sesso
ma il potere su un altro essere umano. E' importante saper conciliare il
bisogno di sicurezza (l'amore) e il desiderio di avventura (la passione).
L'idealizzazione amorosa influenza la nostra percezione della realtà. La vera seduzione è possibile solo quando il
corpo non si riduce a quel significato univoco che è il sesso. Il pudore è quel sentimento che difende
l'individuo dall'angoscia di perdersi nella genericità animale. La gelosia è il rovescio della passione,
dell'intimità e della dedizione che caratterizzano l'amore. Il tradimento è il lato oscuro dell'amore,
che però è ciò che gli conferisce il suo significato e che lo rende
possibile. L'odio è il compagno inevitabile
dell'amore, perché esso è la risposta a quella minaccia che è l'amore. A
differenza dell'amore, la passione non conosce limite e regole. L'amore non prevede la rinuncia di sé. L'amore come passione è il desiderio di
potenza assoluta su di una persona. Il matrimonio non è supportato da alcuna
buona ragione, perché nelle cose dell'amore la ragione non ha gran voce in
capitolo. L'amore si affida al linguaggio per esprimere l'intreccio della
nostra anima. L'amore è un cedimento
dell'Io per liberare in parte la follia che lo abita. C) Impressioni riportate
nella lettura: A mio parere, il libro "Le cose dell'amore" è stato
molto coinvolgente per i temi trattati: l'autore, grazie alla sua esperienza di
vita e alla sua abilità di scrivere che non è da sottovalutare in uno
scrittore, riesce a descrivere tutte le sfumature dell'amore senza cadere nella
banalità e nella monotonia, tendendo sempre accesa nel lettore la voglia di
proseguire la lettura. Ciò è favorito anche dal fatto che molti dei temi
affrontati si riscontrano nella vita quotidiana di ognuno di noi, cioè ci
riguardano da vicino perché fanno parte della società in cui viviamo: l'amore
legato al denaro, e quindi al fenomeno della prostituzione, che è un problema
diffuso in Italia; l'amore legato al pudore, un aspetto necessario per vivere
in comunità, che quindi ha una valenza sociale; l'amore legato alla gelosia, la
quale è vista come un sentimento che, in una società in cui sta avvenendo
l'emancipazione dell'individuo, ostacola la libertà e la sincerità dei singoli;
l'amore slegato dal matrimonio, in quanto nella nostra società si sta
diffondendo l'individualismo. Difficoltà incontrate nella lettura: Durante la
lettura del libro "Le cose dell'amore", ho riscontrato delle
difficoltà nella comprensione di alcune frasi o parole. In qualsiasi lettura è
fondamentale capire e interiorizzare tutto ciò che sta scorrendo sotto i nostri
occhi, e porsi delle domande per essere certi di aver appreso tutto in maniera
corretta. Se si tralascia anche un solo particolare perché non lo si riesce a
comprendere fino in fondo, andando avanti nella lettura si svilupperanno sempre
più problemi di condiscendenza. In questo libro ho riscontrato più di una
frase, o semplicemente delle parole, che hanno sollevato delle difficoltà nella
comprensione dei concetti-chiave. Ad esempio, prima di continuare lalettura mi
sono dovuta soffermare su parole di cui non conoscevo il significato e che
ostacolavano la mia interpretazione di questo testo, alcune delle quali sono:
ambivalenza, assedio, avvedutezza, dissoluzione, ineffabilità, millanteria,
parossismo, prevaricazione. In particolare, ho dovuto cercare informazioni
relative al significato di due parole, trascendenza e alienazione, perché
entrambe sono temi importanti affrontati. Era dunque necessario approfondire il
concetto contenuto in queste due espressioni per raggiungere l'obiettivo di
questa lettura: accrescere le nostre conoscenze. Inoltre ho avuto modo di
riflettere in modo più attento e accurato sul termine
"immedesimazione", che era già stato per me oggetto di studio in
alcune discipline, ma non era mai stato così legato alla quotidianità, così
vicino al nostro ambiente di vita. In conclusione, questo libro mi ha dato
l'opportunità di ampliare il mio sapere, e soprattutto mi ha dato l'occasione
di approfondire il concetto di alcune parole, elencate precedentemente, prima a
me estranee. Scheda del libro Introduzione: L’uomo, troppo spesso, tende
a definire l’amore legandolo a significati che, in realtà, non gli
appartengono completamente. Galimberti, attraverso un’attenta analisi, s’introduce
all’interno del sentimento più incomprensibile ed equivocato di tutti i tempi.
Egli non definisce l’amore, ma associa a questo i tanti falsi sinonimi
che gli vengono attribuiti, cercando di dimostrare che i termini non sono
equivalenti ma solo in relazione. Graficamente, dunque, l’amore e i falsi
sinonimi potrebbero essere rappresentati da due insiemi, con un’ampia parte
compenetrata, ma non sovrapposti. Il risultato evidente risulta
essere un passaggio dalla amore è… ad una più ricca ed attenta osservazione di
amore e… definizione abituale di Amore e... L’amore viene analizzato in
tutte i suoi aspetti, dalla trascendenza, sacralità alla perversione,
seduzione, denaro, dal pudore al tradimento, dall’immedesimazione,
possesso al matrimonio, dal linguaggio alla follia. Il sentimento più
oscuro sembra nascere da un incantesimo della fantasia che fa idealizzare in un
essere la persona amata e cessare con il tempo che, favorendo la realtà,
finisce col produrre una disillusione delle aspettative, trasformando la passione,
l'idealizzazione, iniziale in un affetto privo di partecipazione e trasporto.
Le conseguenze, talvolta, possono essere anche molto gravi tanto da tramutare
la passione in una patologia e sostituire ai poeti d'amore degli psicologi. La
vicenda divina è legata anche all'atto sessuale in cui l'uomo trasgredisce,
eccede, cadendo sotto il peso della passione che non rappresenta solo uno
smarrimento del desiderio e di se stesso ma anche un vero e proprio patire.
"il desiderio, per quel che ancora le parole significano, rimanda alle
stelle: de-sidera" (Le cose dell'amore, 1) Come scrive l'autore, l'amore e
la trascendenza vanno di pari passo e dal momento che il significato della
parola desiderio rimanda alle stelle, quando esso con il tempo si estingue, non
c'è più elevazione dell'anima che è in grado, trascendendosi, di lasciarsi
superare. L'amore e la trascendenza, dunque, sono legati non da un rapporto
reciproco, ma dal sentimento che viene sviluppato per le cose che non è
possibile possedere. Il saggio risulta essere molto interessante nelle
tematiche e negli accostamenti tra gli argomenti e permette, attraverso l'uso
di un linguaggio comune di poter essere compreso da diversi tipi di lettore,
trattando ,infatti, un tema senza età e senza la necessità di particolari
conoscenze umane o scientifiche permette a tutti di immedesimarsi, interrogarsi
ed interagire conil testo ed è proprio questa compenetrazione del lettore che
crea una polisemia di significati e sempre diverse chiavi di lettura sia da
altre persone sia dal tempo che muta le circostanze della vita. L'autore riesce
a non abbandonarsi mai in trattati banali o superficiali finendo in discorsi
pesanti ed inconsistenti ma inserisce diverse tonalità che mantengono viva la
curiosità e la voglia di proseguire la lettura. La contemporaneità in cui vive
gli permette di rapportare al testo l'esperienza personale, permettendo che
venga identificata o differenziata da quella altrui. Le tematiche attuali, lo
stile concreto e il narratore in cui è possibile identificarsi mostrano,
dunque, l'ottima riuscita del libro. "Amore non è solo vicenda di
corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella
pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta." (Le cose
dell'amore, 19). conseguenza si tende ad innamorarsi solo delle persone
che la fantasia porta a sognare ed idealizzare e a cadere in depressione o nel
deprezzamento di se stessi se il sentimento non è ricambiato, poiché, senza
l'immaginazione, che influenza la percezione ed esalta la realtà il desiderio
di sicurezza potrebbe far cessare sul nascere l'amore per la paura di non
essere corrisposti. L'amore, tuttavia, nelle sue molteplici identificazioni ha
anche un lato oscuro, riconosciuto nel tradimento. Esso rappresenta sia il
dolore per fine della fiducia, che l'inizio dello sviluppo della coscienza,
infatti, solo chi si concede senza avere la sicurezza di non essere tradito può
provare il vero amore. La coscienza può, emancipandosi, portare al perdono e
decidere di passare oltre oppure può svilupparsi in vendetta, cinismo,
svalutazione o malattia, e dal momento che questa è la strada più percorsa
generalmente è bene che non si realizzi come pratica insincera ma come
reciproco riconoscimento, dove chi ha tradito non cerca scuse e chi ha subito
prende atto ed eventualmente accetta il cambiamento poiché tradire qualcuno,
qualsiasi sia il rapporto che lega, è già una possessione che inizia il
processo di arresto della propria crescita. L'amore e l'odio, invece,
coesistono perfettamente, poiché solo chi ama davvero sa odiare e solo chi odia
veramente è, in realtà, in grado di amare. Essi rivelando che, per vivere bene,
non si può fare a meno d'altre persone, sono i soli, unici e veri sentimenti.
"Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con
l'altro, quanto una relazione con l'altra parte di noi stessi" l'amore e
le caratteristiche che gli vengono associate mettono in relazione l'uomo con la
parte folle del proprio essere da cui si era discostato nel tempo. " Ora
che vi ho detto tutto sull'amore, non crediate che io ne sappia più di voi: il
ragazzino, il bimbo appena nato ne sanno quanto me. L'unica differenza è che
lui, che non ha anni e ancor meno esperienza, crede ancora a ciò che lo
tormenta; mentre noi, che siamo carichi di anni e di esperienza, cerchiamo di
affidarci a essi per rendere meno dolorose le nostre illusioni. Eppure con
tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di lui?" (M. Chebel "Il libro
delle seduzioni") Galimberti conclude la sua opera con questa breve
citazione, in essa è racchiuso, infatti, tutto il significato dell'amore. Un
sentimento inspiegabile che non è possibile conoscere né completamente né in
modo uguale o simile ad altre persone, una sensazione che gratifica i bambini,
poiché nella loro innocenza la vivono senza tormenti e ansietà pur conoscendola
come gli adulti. AMORE È... "l'amore è un fiore delizioso, ma bisogna
avere il coraggio di andarlo a cogliere sull'orlo di un abisso spaventoso"
(le cose dell'amore, 116 Ivi, 120) L'amore è il più importante tra tutti i
sentimenti, dal momento che è possibile associarlo a tutti gli altri. Esso è
difficile da trovare e spesso viene confuso con altri molto simili ma mai
uguali. Solo chi ha il coraggio di lottare, di sfidare, di mettersi in gioco,
di rischiare può ottenere il vero sentimento ricercato o in ogni caso non
vivere nell'illusione, riconoscendo i falsi sentimenti che cercano
continuamente di insidiare un posto che non appartiene a loro. La fatica di
condurre il "gioco" attraverso la strada se pur più reale, più
complicata porta ad una felicità certa e vera che permette di non patire grandi
sofferenze ma solo piccole illusioni riconoscendo che il male apparente non è
in realtà vero male così come ciò che si definisce generalmente come bene non
sempre è il vero bene. Nella Introduzione al suo celebre libro del 1983
Il corpo(Feltrinelli, Milano, pp. 11-16), Umberto Galimberti così si
esprimeva: È forse tempo che la psicologia incominci a pensarsi contro se
stesse a comprendersi al di là della sua nominazione idealistica che la propone
come «discorso sulla psiche, quindi su quell'unità ideale del soggetto che la
grecità ha promosso col termine ????, e a cui la psicologia non s'è ancora
sottratta neppure nella sua più moderna espressione scientifica. Ma
pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel medesimo
terreno d opposizione in cui il conflitto, così come si genera, si riassorbe.
Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici, scavando
il fondo su cui si impianta il radicamento. Questa operazione che rimuove
la solidità delle radici, disloca la psicologia dal luogo che s'è data, quindi
la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla sua origine storica.
Quest'origine è rintracciabile nella cultura greca e precisamente in quel
momento in cui la specificità dell'uomo è sottratta all'ambivalenza delle sue
espressioni corporee per essere riassunta in quell'unità ideale, la psyche, che
da Platone in poi, per tutto l'Occidente, sarà il luogo del riconoscimento
dell'unità del soggetto, della sua identità. Ma questo luogo di identificazione
contiene già il principio della separazioneperché, come coscienza di sé, la
psyche incomincia a pensare per sé, e quindi a separarsi dalla propria
corporeità. La prima operazione metafisica è stata un'operazione
psicologica. Nata con un significato semplicemente classificatorio per
designare quei libri aristotelici che erano collocati dopo (µ?ta) i libri di
fisica (t? f?s???), la «metafisica» ha guadagnato ben presto e coerentemente un
significato topico che designa un al di là della natura, quindi una scienza
dell'ultrasensibile che si differenzia dal mondo dei corpi perché, contro il
loro divenire e mutare, rappresenta l'immutabile e l'eterno. L'idea platonica
è il modello di questa separazione e contrapposizione, e la psyche, essendo
«amica delle idee, incomincerà a considerare il corpo come suo carcere e sua
tomba. Una volta che la verità è posta come idea, l'opposizione tra
ideale e sensibile , tra anima e corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso,
tra bene e male. Valori logici e valori morali nascono da questa
contrapposizione che la metafisica ha creato e la scienza moderna ha mantenuto,
rivelando così la sua profonda radice metafisica se è vero, come dice
Nietzsche, che «la credenza fondamentale dei metafisici è la credenza nelle
antitesi dei valori». A questo punto per la psicologia, pensarsi contro
se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo della sua origine storica,
significa pensarsi contro questa antitesi di valori che non la realtà, ma lo
sguardo metafisico, con cui la psicologia ha generato se stessa, ha instaurato.
È uno sguardo che ancora ospita la psicologia come residuato di quell'idealismo
che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso l'Occidente come suo lungo
errore. Da questo errore la filosofia si è emancipata con Nietzsche che
ha denunciato quel retro-mondo, quell'«al di là inventato per meglio calunniare
l'al di qua», ma non la psicologia, che così rimane la più occidentale delle
scienze e quindi la più metafisica, se per metafisica intendiamo il
pensiero della separazione, il puro d?a ß???e??, da cui nascono quelle
antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate dal discorso
psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e follia. Fattasi
carico della logica della separazione inaugurata dalla disgiunzione platonica
tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol essere coerente a se stessa, non
può parlare del corpo se non impropriamente, se non per un'infedeltà al suo
statuto scientifico, a meno che per corpo non intenda l'idea di corpo che come
scienza s'è data. Ma se il corpo anatomico, a cui questa idea si riduce dopo
che lo psichico è stato separato e autonomizzato, non è luogo in cui la
psicologia si riconosce, allora del corpo la psicologia potrà parlare
propriamente solo se si pronuncia contro se stessa, contro lo statuto della
separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la psicologia è
nata, ha fondato se stessa come scienza, e ancora si conserva. Come luogo
della revisione psicologica, il corpo parla simbolicamente, non nel senso in
cui la psicoanalisi parla dei simboli per ribadire un'altra separazione, quella
tra conscio e inconscio, dove nell'inconscio si ritrova il rovescio
dell'iperuranio platonico, il 'vero' significato di ciò che si manifesta, ma
nel senso di abolire la barra che ha separato l'anima dal corpo inaugurando la
'psico-logia'. Abolire la barra significa mettere assieme, s?µ-ß???e??.
Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce la psicologia come storicamente
s'è pensata in Occidente, la sradica dalle sue radici storiche, che sono
poi quelle metafisiche e idealistiche, e così la costringe a pensarsi contro se
stessa. Questo pensiero che è contro, perché pensa fino in fondo, fino
alle radici, incontra la corporeità che, nel suo sorgere immotivato e nel suo
ambivalente apparire, dice di essere questo, ma anche quello. L'ambivalenza
così dischiusa non è ambiguità, ma è quell'apertura di senso a partire dalla
quale anche la ragione può fissare l'opposizione dei suoi significati ,e quindi
quell'antitesi dei valori in cui si articola la sua logica disgiuntiva quando
divide il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto, Dio dal mondo,
lo spirito dalla materia, l'anima dal corpo. Queste opposizioni
sopprimono l'ambivalenza (?µf?) con cui la realtà corporea originariamente
appare nel suo duplice aspetto, come un Giano bifronte, per instaurare quella
bivalenza (bis) dove il positivo e il negativo si rispecchiano producendo quella
realtà immaginaria da cui traggono origine tutte le «speculazioni». Diciamo
immaginaria perché la realtà non può mai di per sé essere negativa se non per
effetto di una valutazione. Ma se il negativo è da interpretare semplicemente
come il «valutato negativamente», allora la negatività attiene essenzialmente
al giudizio di valore. Proponendosi come questo, ma anche quello, il corpo,
come significato fluttuante, che si concede a tutti i giudizi di valore, ma
anche si sottrae, con la sua ambivalenza li fa tutti oscillare. Luogo e
non-luogo del discorso, esso opera quel taglio geologico nella storia che ne
rivela tutte le stratificazioni. Da centro di irradiazione simbolica nella
comunità primitiva, il corpo, infatti, è diventato in Occidente «il negativo di
ogni valore» che il gioco dialettico delle opposizioni è andato accumulando.
Dalla «follia» del corpo di Platone alla «maledizione della carne» nella
religione biblica, dalla «lacerazione» cartesiana della sua unità alla sua
«anatomia» ad opera della scienza, il corpo vede proseguire la sua storia con
la sua riduzione a «forza-lavoro» nell'economia dove più evidente è l'accumulo
del valore nel segno dell'equivalenza generale, ma dove anche più aperta
diventa la sfida del corpo sul registro dell'ambivalenza. Qui «sfida» non
significa che il corpo si oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che
non si affida a una pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o
riserve che qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire,
ma perché quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua negazione
che, se da un lato ha lasciato il corpo senza senso, senza nome, senza
identità, dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso,
colui che dissolve il Nome e risolve l'identità nelle sue adiacenze: A enon A,
perché questo è il gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con
cui il corpo può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui la struttura
metafisica del sapere psicologico l'ha confinato. Questo recupero è
possibile perché il gioco dell'ambivalenza è aperto prima che il sapere
metafisico fissi le regole del gioco, ma proprio perché le regole vengono dopo,
questo gioco è imprevedibile, perché nessuna determinazione posta in gioco conosce
la sua destinazione. L'unica certezza è quella che non ci si può sottrarre alla
necessità del gioco, non si può dire l'ultima parola sul gioco e fermarlo per
sempre. Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo è una riserva
infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha individuato
nella psyche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno, una modalità
di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso ultimo del
corpo. Qui il corpo si cela non perché nasconde se stesso, ma perché in esso i
segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di ordinarli.
Il volume di senso indotto dai segni del copro prevale infatti sulla
costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere psicologico
s'è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della rappresentazione
psicologica dissolvendola nella pluralità di senso che la sovrabbondanza dei
segni produce. Se ciò non accade, se la psicologia non si pensa contro la
rappresentazione che si è data a partire da quell'alba greca in cui ha preso
avvio l'autonomizzazione della psyche, la psicologia non giungerà mai alla
comprensione dell'espressività originaria del corpo, ma sarà costretta ad
errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua fondazione epistemica,
della sua nascita come scienza. Si tratta di un errore che non investe
solo il sapere psicologico ma ogni sapere razionale quando, sottraendosi alla
polisemia della realtà corporea, si afferma come asserzione incontrovertibile
su di essa. In questo passaggio dalla verità come ambivalenza alla verità come
decisione del vero sul falso, il sapere razionale dimentica di essere una
procedura interpretativa tra le molte possibili per porsi come assoluto
principio, dimentica di essere un inganno necessario per dirimere l'enigma
dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno perverso.
Contro questo inganno il corpo rimette in giuoco la sua natura polisemica
rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come
forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere,
all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne
da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni. In questo
rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e alle economie,
che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, sottrae il loro
senso. Ciò è possibile perché, nonostante le iscrizioni, nel loro immaginario,
abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile
ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta
l'economia di un sapere, il corpo è ambivalente, è cioè una cosa, ma anche
l'altra, per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo, o l'ambivalenza
del corpo sulla frammentazione dei saperi, con conseguente dissolvimento del
loro valore accumulato. Per sfuggire a questa alternativa, che è
inevitabile dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi
una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la
delimitazione del vero e del falso, occorre riguadagnare il terreno su cui il
sapere occidentale è cresciuto. Questa consapevole riappropriazione non è una
regressione, non è l'abbandono del solido terreno del sapere, al contrario, è
la ricostruzione genealogica del suo significato. Riproporre
l'ambivalenza del corpo non significa quindi rifiutare il sapere razionale, né
tanto meno accettarne la resa, ma significa andare alle radici di questo sapere
e scoprirlo per ciò che esso è: nulla di più che un tentativo per far fronte
all'ambivalenza della realtà corporea che, così riscoperta, è ciò che dà
ragionedelle molteplici ragioni. Queste ragioni che i saperi tendono a
soddisfare non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è
scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa,
ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea
custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche. Si tratta
di un senso che sta prima di ogni significato, e che nessun significato
promosso dalla decisione scientifica può abolire, perché è prima di ogni inizio
e continua oltre ogni conclusione. Ne consegue che alla metafisica
dell'equivalenza produttrice di quei significati con cui in Occidente si sono
fatti circolare i corpi secondo quel preciso registro di iscrizioni che di
volta in volta li de-terminavano, e sulle cui determinazioni sino nati i vari
campi del sapere, il corpo sostituisce il gioco dell'ambivalenza, ossia di
quell'apertura di senso che, venendo prima della decisione dei significati, li
può mettere tutti in gioco col corredo delle loro iscrizioni in
quell'operazione simbolica in cui il sapere perde la sua presa, perché la
delimitazione dei campi in cui da sempre si è esercitato si è simbolicamente
con-fusa. Questa è la sfida del corpo, una sfida che è già iniziata se
c'è da dar credito a quella «crisi delle scienze europee» denunciata da
Husserl. Niente di più benefico. Sono i primi effetti di quella violenza
simbolica rispetto a cui quella razionalistica è in ritardo di una generazione,
perché ancora crede in una controparte, e quindi non sa che ogni parte e ogni
controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che
ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere. Ma quando la
realtà immaginaria, prodotta dalle opposizioni polari in cui si articola ogni
sapere razionale, non riesce più a farsi passare per realtà vera, in quel gioco
di specchi che si frantumano a contatto con la polisemia della realtà corporea,
allora si è più vicini all'ambivalenza, non per una contrapposizione dialettica
o per un'opposizione organizzata, ma perché là dove tutte le maschere sono
cadute, compresa quella della bivalenza codificata, ogni termine che ruota su
se stesso si s-termina. Questo è l'esito simbolico che attende l'ordine
strutturale di ogni sapere. E già se ne vedono le tracce. Seguendole, il corpo
consegna ogni ontologia e ogni deontologia alla geo-grafia, alla grafia della
terra, la più dicente, la più descrittiva, quella che non accorda privilegi
metafisici, perché non conosce la mono-tonia del discorso, ma l'ambi-valena
della cosa. Fra tutte le numerose pubblicazioni di
Galimberti, questa è, forse, quella che maggiormente gli ha dato visibilità e
lo ha designato quale uno dei più popolari maitres-à-penser della filosofia
italiana contemporanea. È anche un'opera caratteristica, perché in essa
Galimberti, curatore di rubriche di psicologia su svariate riviste illustrate,
si fa campione di una rivolta della psicologia contro se stessa e cerca di
scalzarne le basi storiche e ideologiche, in nome di un «pensarsi fino in
fondo» che equivarrebbe, nelle intenzioni dell'autore, a un completo
rovesciamento della sua prospettiva e delle sue stesse finalità. Il punto
da cui muove Galimberti per sferrare il suo attacco alla psicologia è che
quest'ultima, «la più occidentale delle scienze, e quindi la più metafisica», è
nata sull'idea della separazione di corpo e psyche che, partendo da Platone,
percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero occidentale. Secondo
l'Autore, la specificità dell'uomo è stata sottratta all'ambivalenza delle sue
espressioni corporee in nome dell'unità ideale, quella - appunto - della psyche,
divenuta l'elemento fondamentale della sua identità. Ma il corpo, per
Galimberti, è portatore di un messaggio ambivalente (non equivoco, ci tiene a
precisare), secondo il quale mostra di essere questo, ma anche quello. Egli non
si prende il disturbo di precisare meglio questi concetti, considerandoli -
evidentemente - di per sé chiari. Afferma invece che l'ambivalenza suggerita
dal corpo realizza una «apertura di senso» (bella espressione, ma altrettanto
vaga del «questo» e «quello»), grazie alla quale la ragione ha la possibilità
di fissare l'opposizione dei suoi significati, ossia l'aborrita «antitesi dei
valori», che ha l'imperdonabile impudenza di voler distinguere il vero dal
falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo. Tale antitesi dei
valori è, per Galimberti, la somma di tutti i vizi della filosofia; riprendendo
il concetto da Nietzsche, egli la ritiene responsabile della lacerazione e
della schizofrenia del pensiero occidentale, del quale traccia una veloce
panoramica per mostrare - con accenti severiniani - che esso è stato un lungo,
deplorevole errore, in quanto basato sulla metafisica e, quindi, sul dualismo.
E il dualismo, si capisce, è un male, perché crea arbitrariamente un al di là,
dal quale poter meglio calunniare l'al di qua; ovvero, per dirla in termini più
razionali, perché si basa su una logica disgiuntiva che sa, vagamente, di
sulfureo (d?a-ß???e??, la separazione, etimologicamente fonda il nome del
Diavolo, «colui» che separa). Questo, dunque, è un punto centrale della
argomentazione di Galimberti: il pensiero che separa è malvagio ed erroneo;
dunque, tutto il pensiero dell'Occidente, essendo dominato dall'idealismo e
dalla metafisica, è un pensiero erroneo e foriero di tristi conseguenze.
La ricetta per uscire da questo vicolo cieco non è, come si potrebbe pensare,
la logica unitiva, bensì il pensiero dell'ambiguità, dove le cose sono queste e
anche quelle, allo stesso tempo; ossia, dove rinviano a una polisemia che può
essere interpretata, volta a volta, in un senso come nell'altro. Anche la
psicoanalisi è una scienza metafisica, anzi, la più metafisica di tutte, perché
reintroduce, attraverso la contrapposizione di conscio e inconscio, la
lacerazione platonica e cristiana tra anima e corpo, tra spirito e materia; e
fornisce una immagine distorta dell'uomo. È a partire da questo punto che
il ragionamento di Galimberti si fa propriamente filosofico, oltrepassando il
campo ristretto della psicologia. Invece di accettare l'ambivalenza del
corpo, la logica disgiuntiva (dell'economia, della medicina, della religione e
della psicanalisi) instaura la sua «bivalenza», dove il positivo e il negativo
si rispecchiano in un gioco di riflessi che rimanda sempre a una rigida
contrapposizione, a una polarità di «interpretazioni della realtà». Ma perché
interpretazioni? Perché, per Galimberti, non esistono il positivo e il
negativo, bensì la valutazione positiva e la valutazione negativa di fatti e
situazioni che potrebbero essere anche i medesimi, guardati però da differenti
punti di vista. Eccoci arrivati, dunque, nel castello del mago Atlante,
dove le cose non sono quelle che sono, ma quelle che vorremmo (o che temiamo)
che esse siano. Come in un labirinto di specchi, a metà fra Borgés e
Pirandello, noi nulla sappiamo delle cose che vediamo e con le quali ci
confrontiamo, bensì emettiamo giudizi di valore che ce le fanno percepire in un
modo piuttosto che in un altro. Rashomon di Kurosawa o Sei personaggi in cerca
d'autore: sia come sia, la negatività è un giudizio di valore; e il corpo, da
Platone in poi, è il negativo: dunque, la negatività del corpo è frutto di un
giudizio di valore. Anche se sostiene di non indulgere a una modalità di
pensiero irrazionalistica, Galimberti sostiene che ogni ragione si serve di una
logica disgiuntiva allo scopo di affermare se stessa, ossia il proprio sapere.
Così, la psicologia afferma la separazione della psyche dal corpo, per poter
affermare il proprio sapere su di essa; esattamente come l'economia politica
afferma la separazione della forza-lavoro dalla totalità della persona, per
poter affermare il suo controllo sulla prima (e a danno della seconda).
Senonché, le opposizioni su cui si articola ogni sapere razionale sono, in
realtà, «immaginarie»: non attengono alla dimensione della realtà, ma a quella
dell'alienazione dalla realtà. Ci si potrebbe chiedere in che cosa questa
realtà ulteriore, questa realtà vera che sta dietro la facciata della realtà
(immaginaria), sia più reale di quella; su che cosa fondi la sua pretesa di non
essere vittima dell'alienazione metafisica; in base a quali criteri la si possa
considerare più concreta, più effettuale della deprecata «antitesi dei
valori». Galimberti non affronta esplicitamente la questione, ma sembra
intuire la possibile critica e anticipa eventuali obiezioni affermando che,
quando il pensiero è capace di accettare l'ambivalenza (e non la bi-valenza,
che è tutt'altro) delle cose, allora cadono tutte le maschere e si è più vicini
alla loro realtà. O meglio, egli non adopera l'imbarazzante espressione «realtà»;
glorifica l'ambivalenza in se stessa, come concetto del tutto auto-evidente;
gli basta impedire che il pensiero duale, oppositivo, bivalente, non riesca a
farsi passare per la «realtà vera». Ma questa «realtà vera», in ultima
analisi, esiste o non esiste? Galimberti non risponde, l'abbiamo già detto; si
limita ad osservare, con ironia un po' pesante, che coloro i quali si attardano
nel pensiero oppositivo - che, dice, è di per sé violento - non sanno di essere
in ritardo rispetto alle lancette della storia: perché credono ancora in una
controparte, e non sanno che «ogni parte e ogni controparte altro non sono che
l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per
affermare il proprio sapere». Vi sono echi minacciosi in questa
affermazione (il trotzkiano «cestino della spazzatura della storia» ove
precipitano i non rivoluzionari, in tempi di rivoluzione), ma anche un po'
patetici (l'ultimo soldato giapponese che continua a combattere nella giungla
per una guerra che è vane questioni, senza rendersi conto di appartenere a una
razza che si è estinta. Si tratta di una posizione quanto mai radicale,
poiché equivale alla condanna senza appello di tutta la filosofia occidentale,
da Platone in poi; anzi di ogni sapere, «dal momento che ogni sapere è
un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene
condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso».
Ma il vero e il falso, in se stessi, non esistono; così come non esistono
le verità di principio, ma solo le verità di fatto. Non esistono verità, dunque
non esistono saperi che possano presentarsi come portatori di verità: i saperi
sono sempre strumentali, parziali, relativi. È incredibile: siamo in
piena sofistica, che Socrate aveva già brillantemente confutato circa
ventitré secoli fa; ma Galimberti ci presenta le sue conclusioni come se
fossero qualcosa di staordinariamente nuovo, riconoscendosi - casomai - un
continuatore radicale dell'opera di Nietzsche. «Queste ragioni che i
saperi tendono a soddisfare - afferma Galimberti con la massima disinvoltura
-non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che
la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura
nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come
luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche». E aggiunge che «si
tratta di un senso che sta prima di ogni significato»; ma, di novo, non ci
spiega in che modo egli arguisca l'esistenza di questo «senso originario», dato
che tutti i sensi che noi diamo alle cose forzano la loro vera
essenza. Arrivati a questo punto, possiamo fare alcune osservazioni
conclusive. Punto primo: che il pensiero idealistico sia stato tutto un
lungo errore, forse bisognava sforzarsi di dimostrarlo e non darlo per scontato
al principio di un libro interamente dedicato alla discussione degli effetti
negativi di un tale errore. Punto secondo: che non esista alcun criterio
di verità, è posizione filosoficamente rozza e semplicistica. Altro è affermare
che la verità è difficilmente accessibile, altro è affermare che ogni verità è
una forma di violenza che i saperi cercano di imporre per fondare se stessi. LA
FILOSOFIA è frutto di sottili distinzioni, di una particolare sensibilità per
le sfumature; ma qui, sulla scorta di Nietzsche, si fa filosofia veramente a
colpi di martello (e non è un complimento). Punto terzo: che il corpo sia
il luogo privilegiato in cui la realtà ci svela il suo volto ambivalente,
aiutandoci a liberarci dalle pastoie alienanti del pensiero disgiuntivo, è -
ancora una volta - posto ma non discusso, e tanto meno dimostrato. Eppure
è fin troppo facile osservare che, se l'introduzione della psyche ha relegato
il corpo al ruolo di negativo, l'esaltazione del corpo che fa Galimberti sembra
ribaltare la prospettiva, senza modificarla «alle radici» (come egli sostiene
di voler fare). Ossia, a questo punto è la psyche che rischia di diventare il
negativo o, quanto meno, il luogo dell'errore, dell'illusione, della disgiunzione.
Ma sarebbe perfettamente inutile muovere una simile obiezione a
Galimberti: egli vi risponderebbe, come ha fatto in più occasioni, che la
psyche non è altro dal corpo, che è corpo anch'essa, perché tutto è
corpo. La sua intera filosofia non è che una assolutizzazione della
corporeità; e, pur di sostenere questa tesi, egli arriva a sostenere, senza
batter ciglio, che l'anima è una «invenzione» dei cristiani, avvenuta nel IV
secolo dopo Cristo (cfr. il nostro precedente articolo Galimberti e la morale, Arianna.
Ma davvero basta dire che tutto è corpo, per eliminare l'antitesi dei valori e
restaurare l'età dell'oro del pensiero (del pensiero?) ambivalente, dove le
cose sono finalmente se stesse e non quello che noi giudichiamo che esse siano? Ora,
è verissimo che la vita, nel suo livello immediato e quotidiano, procede per
giudizi di valore che sono spesso affrettati, imprecisi, immotivati e,
soprattutto, soggettivi. Da ciò, tuttavia, non discende che il rimedio consista
nel proclamare la relatività di tutti i valori e l’inesistenza di ogni criterio
di verità. Questo sarebbe quel che si dice curare il mal di testa con le
decapitazioni. Esistono altri livelli di esistenza - non solo di tipo
razionale, su questo siamo d'accordo con Galimberti -, ai quali è possibile accedere,
e nei quali si può intravedere, pur senza possederlo interamente, un criterio
di verità capace di sottrarre le cose al gioco degli specchi della loro
incessante mutevolezza. Se non credessimo a questo, dovremmo non solo
sospendere ogni giudizio di valore, ma rinunciare a ogni possibilità di
avvicinarci al vero, al bello e al buono; in altre parole, dovremmo ritirare un
rigo su ogni possibilità di fare non solo psicologia, ma anche filosofia. Queste,
e non altre, sono le conclusioni coerenti del ragionamento di Galimberti: per
cui, ad essere rigoroso, egli dovrebbe dichiarare non la riforma della
psicologia, ma la sua soppressione radicale; e, quanto alla filosofia, la sua
estinzione irreversibile. Come è possibile continuare a ragionare in termini
filosofici, se dobbiamo prendere atto che non esistono controparti, ma solo
ambivalenze che è possibile tirare ora in qua e ora in là, secondo il nostro
umore del momento? Si badi: quello che propone Galimberti non è un
pensiero complementare, come lo è - ad esempio - il taoismo, il quale,
giustamente, ci ricorda che non esiste luce senza buio, caldo senza freddo,
gioia senza dolore. No, si tratta qui di un relativismo puro e semplice: io
dico che questa cosa è calda, tu dice che è fredda; forse lo dirò anch'io,
domani, se me ne verrà la voglia; per intanto, abbiamo ragione tutti e due. Io
ho la mia verità, tu la tua; e sappiamo che entrambe sono vere, o che entrambe
possono esserlo, o che entrambe lo sono state o lo saranno. Il relativismo
è una cattiva filosofia, anzi è l'impossibilità di fare filosofia.
Eppure, questi sono gli applauditissimi maitres-à-penser della cultura odierna.Umberto
Galimberti. Galimberti. Keywords: il sessuale, l’immaginario sessuale, sesso, Why
did the Romans need to distinguish between ‘amatus’ and ‘amicus’? -- amore,
follia, jung, simbolo, sole-fallo, simbolo, simboli di jung, I corpi d’amore, I
corpi d’amore sessuale – immaginario sessuale, immaginario collettivo sessuale,
cose dell’amore, platone, il convito, I corpi, I gesti – I gesti dei corpi. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Galimberti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Galli: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Carru).
Filosofo italiano. Celestino Galli. Interesting philosopher. Not to be confused
with Galli.
Grice e Galli: l’implicatura conversazionale dell’amore
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montecarotto). Filosofo italiano. Compiute gli studi
classici con assoluta regolarità, si iscrive alla Facoltà di Filosofia a Roma,
dove ha come maestri, tra gli altri,
Varisco e Barzellotti. Da Varisco apprende il rigore del metodo negli
studi filosofici. Da Barzelotti aprende la passione per le ricerche storiche e
le vaste esplorazioni letterarie. Si laurea sotto Barzellotti con il massimo
dei voti dopo aver discusso “Kant e Rosmini” (Lapi, Citta di Castello); Insegna
a Senigallia, Bologna, e Firenze. In “I principii della scuola, con particolare
riguardo alla scuola elementare” (Il Risveglio Scolastico, Milano). Insegna a
Cagliari e Torino. Figura centrale della filosofia italiana, Galli esordisce
con una ricerca sullo sviluppo della filosofia kantiana e quella di Rosmini;
temi che non solo non si stanca mai di ampliare ma affina in ulteriori indagini.
Esegue vaste indagini sulla storia della filosofia. Socrate, Platone,
Aristotele, Cartesio, Bruno, Leibniz, e Renouvier. «L'uno e i molti” (Chiantore, Torino)
certifica la teoria. Gli procura l'interesse di larga parte del mondo
filosofico italiano per le conclusioni sui rapporti tra il sentimento e la
reflessivita. Ampie le discussioni, e talora vivacissime, su autori
contemporanei, dai quali esige rigore, chiarezza e intransigenza speculativa.
Organo di polemiche e di interventi nella vita della cultura italiana
contemporanea è «Il Saggiatore», da lui fondata, Privo di ambizioni mondane,
sempre affabile, ama la compagnia delle persone colte e la conversazione delle
anime semplici, destinate al bene e alla verità. Confida soprattutto nella
scuola, veicolo ideale per dare alle generazioni nuove volontà, serietà, cultura
adeguata ai tempi. Una scuola che studia, senza divagare e che sappia attingere
costantemente alle fonti del sapere, ama ripetere. Grazie al suo ininterrotto
lavoro di studioso, il mondo accademico italiano ha beneficiato di un numero
impressionante di sue pubblicazioni, fatto di saggi, manuali per le scuole,
opuscoli e articoli per riviste specializzate. Si dedica all'arte e alla
religione, completando, in questa maniera, il panorama delle sue indagini. La
Scuola media statale di Montecarotto ha aggiunto all'intestazione il nome di
"G.". Altre saggi: La
filosofia teoretica dei manuali, Oderisi, Gubbio, Dialettica dello spirito”
(I., Oderisi, Gubbio); “Lineamenti di filosofia, Azzoguidi, Bologna; La
dimostrazione dell'esistenza del mondo esterno e il valore pratico delle
qualità sensibili secondo Cartesio, Oderisi, Gubbio); Renouvier. II. La legge
del numero, D. Alighieri, Milano, Le prove dell'esistenza di Dio in Cartesio
(Valdes, Cagliari);:La dottrina cartesiana del metodo, D. Alighieri, Milano); “La
filosofia di Leibniz: Facoltà di Magistero, Torino, Statuto, Torino); “Studi
cartesiani, Chiantore, Torino); “Cartesio, Chiantore, Torino, “Dall'essere alla
coscienza, Chiantore, Torino); “L’idealismo” (Gheroni, Torino); “PComenio,
Gheroni, Torino); “La Filosofia greca: I sofisti, Socrate, Platone. Torino.
Facoltà di Magistero. heroni, Torino, Leibniz, Milani, Padova); “Carlini ed
altri studi; da Talete al "Menone" di Platone; il problema di
Cartesio, per la fondazione di un vero e concreto immanentismo, Gheroni,
Torino, Corso di storia della Filosofia: Aristotele, Gheroni, Torino, Da Talete
al menone di Platone, Gheroni, Torino, Tre studi di filosofia: pensiero ed
esperienza, sulla persona, su Dio e sull'immortalità, Gheroni, Torino Socrate
ed alcuni dialoghi platonici: Apologia, Convito, Lachete, Eutifrone, Liside, Jone,
Giappichelli, Torino, Linee fondamentali d'una filosofia dello spirito, Bottega
d'Erasmo, Torino, L'idea di materia e di scienza fisica da Talete a Galileo,
Giappichelli, Torino, L'uomo nell'assoluto, Giappichelli, Torino, La vita e il
pensiero di Giordano Bruno, Marzorati, Milano Sguardo sulla filosofia di
Aristotele, Pergamena, Milano, Platone, Pergamena, Milano; Di carattere
pedagogico Filosofia (Oderisi, Gubbio). Idealismo, spiritualismo ed
esistenzialità nella metafisica in Galli; Cartesio, in Italia. Dizionario
Biografico degli Italiani, Volume 51, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Persée. Portail de revues en
sciences humaines et sociales, su persee.fr. There is another Galli, who also
did philosophical studies – but his brother was more famous, the author of
Tabula philologica. Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il
figlio di Cefalo, e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato
parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di
Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché,
a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E
dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì ,
alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus
Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse
imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di
ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con
Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una
faccenda «superiore a ogni negozio»? (4) FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se
vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il
discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore.
Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha
comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene
infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E
bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco,
un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e
alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e
utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi
la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura
tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate?
Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che
Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto
tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto
oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me
stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un
discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte
sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri.
Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha
esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene
seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata,
conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che
non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo.
Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e
nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e
lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato
di declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine
avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu
dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto.
FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come
sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima
che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO:
Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola
per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti
con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella
di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE:
Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello;
ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così , tieni presente
che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente
intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo!
FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di
esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e
andiamo lungo l'Ilisso,(7) poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto
tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto;
tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci
i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a
quest'ora.(8) SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo
sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è
ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo.
SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da
qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia?(9)
SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero
dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No,
circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al
tempio di Agra: (10) appunto là c'è un altare di Borea. 2 Platone
Fedro FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate,
sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come
fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente,
potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava
con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da
Borea (oppure dall'Areopago,(11) poiché c'è anche questa leggenda, che fu
rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì
ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del
tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare
la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso
una folla di tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero di altri esseri
straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà
ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una
sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo
per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in
grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13) quindi mi
sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora
questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto
comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non
queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più
intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più
semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità
fumosa.(14) Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui
volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per
sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è
bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il
luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di
acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle
e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E
se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una
melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di
tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per
distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a
un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una
persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto
da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti
oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE:
Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non
vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che
tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che
conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche
frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra
che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai.
Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la
posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO:
Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che
ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro
passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare
parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione,
ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose.
Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa
dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno
che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro
amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa
cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni
trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché,
tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che
pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di
tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al
sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a
rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere
che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si
innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi
faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una
cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto,
potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere
malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi;
di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene
ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore
degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più
adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che
quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza
corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere,
è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come
si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a
tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più
padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini.
Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti
accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono
discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio
si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad
accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario
parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai
paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere
coloro che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li
affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli
amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di
sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in
intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che
possiedono un qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti
queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai
più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è
trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue
doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi
odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei
disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza
che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più
molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il
carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato,
così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro
passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal
momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile
che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso
rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare
migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le
azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare
odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro
desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna
fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro
che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che
agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me,
innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente,
ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso,
senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco
e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e
cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia
che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere
amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran
conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici
fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma
da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha
bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori,
ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la
massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è
il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di
essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno,
verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca
gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi
è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo
chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua
giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno
partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne
vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non
coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo
stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio,
cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della
loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto
ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono
convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai
rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per
questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli
che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo
atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la
cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe
possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da
ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è
stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia
stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non
è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro,
guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo
leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo,
e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16)
FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io
scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma
dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra
i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te anche
sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che bisognava
dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro, forbito e
puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal momento che mi
è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente soltanto
all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che neppure Lisia
lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia un'opinione diversa,
mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi concetti, come se non
avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose sullo stesso
argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi sembrava pieno di
baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le stesse cose prima
in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i casi nella maniera
migliore. 4 Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli, Socrate: precisamente
in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla di ciò che
meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe dire cose
diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In questo non
potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno parlato e
scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere convengo con te.
FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di queste? SOCRATE:
Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da qualcuno, dalla
bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in prosa.(17) Da
cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino fanciullo, sento di
avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle sue, e non peggiori. So
bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia
ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra fonte io sia stato
riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza ho scordato
proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose bellissime,
nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come le hai
udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di dire cose
diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle contenute nel
libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto che come i
nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale, non solo
mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi
che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse
da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più
scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi
che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che
coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare
l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che
appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili
argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma
la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è
da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò
che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così:
ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non
ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di
maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a
Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! (19) SOCRATE: L'hai presa sul
serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi
che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto
dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione
per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei
capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da
commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar
fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato
anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma
tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò
che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io
sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti
dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE:
Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi
argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO:
Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di
avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non
dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un
giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano
qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a
questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di
nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere
un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai
tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo
giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla!
SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo
essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile
e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO:
Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla
voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così
chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me
il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo
compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di
più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui
molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato
meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno,
saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere
chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto,
fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto:
bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai
più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5 Platone Fedro
cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio
della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si
accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò
che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se
si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama,
stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza
abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento,
esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un
desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose
belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama?
Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci
governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato,
è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo
bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo,
talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro.
Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale,
la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori
di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato
dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte
membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a
chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né
meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla
ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà
sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che
tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro
quale epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi
che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è
ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato
fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è
assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il
desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è
retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato
vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso
nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23)
Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato
divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola,
contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo
sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso
sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono
lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la
causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente
potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare
col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui
bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente
questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno
presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi
favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile
rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò
che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari
a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore
o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è
l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa
parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi
è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci
sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri
altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì
inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da
molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo,
danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie
alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina
filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di
essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in
modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa
condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo
danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova
amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve
considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne
diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché
il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta
alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di
secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di
colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle
attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori
discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un
corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i
nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò
questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare
invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai
nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma
soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che
l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe
che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa
d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se
possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da
conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente
che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze,
e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza
moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di
cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6 Platone Fedro
sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior
parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia
terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere
non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o
molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono
essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana
dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole.
Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo
(credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e
procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare
insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per
chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre
alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più
vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né
di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a
destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare
l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con
piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per
evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al
colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in
fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non
parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando
dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà
elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se
l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a
una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e
dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il
tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte
promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza
di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E
allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato
padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e
follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi,
ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con
la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello
per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come
mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria
precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non
ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di
prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante
di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato
e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le
imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non
avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben
più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una
persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le
proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più
assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai
ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto,
ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante
non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi;
come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo
è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il
discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso
uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e
indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non
ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi,
proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa
credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle
quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico
che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad
essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo
discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che
gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di
essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate,
non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno,
l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo
detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi
sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i
discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te,
o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a
pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci
di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo
discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso?
SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato
quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da
ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che
non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi
commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la
verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me
stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima,
caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre
pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che
«commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli
umani».(27) Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici?
7 Platone Fedro SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso
che tu hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E
perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso
potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero.
SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura
divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal
tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E
se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un
male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse
un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros.
Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano
né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando
alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho
la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei
confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma
Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena,
non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e
subito compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti
sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver
composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista.
Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di
incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la
mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna.
FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE:
Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i
due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile
e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in
precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi
inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro
amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in
mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi
dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus,
forse sì , Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per
timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il
mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere
il più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più
un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai
pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da
me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in
ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla.
SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche
questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per
non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto
vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni
presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di
Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio
di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo
il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non
ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è
assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice,
sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto
in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di
Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi
vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o
nulla. E se parlassimo della Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi
dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi
indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose
note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto
che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una
cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato
"manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro,
applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca
per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti
del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica".
Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il
volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite
l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè
alla credenza umana, la denominarono "oionoistica", mentre i
contemporanei, volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano
oionistica.(31) Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica,
e il nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più
bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio
rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e
profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche
dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su
alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto
degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la
possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai
mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo
giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse,
che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore
bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere
degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza
8 Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta
valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è
oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora,
sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare.
Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che
cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo
assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare
la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato
dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo
invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la
nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i
valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna
intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana,
considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è
il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è
immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita
quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento
che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di
movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però
non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un
principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un
principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è
generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio
perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa
deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se
stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la
terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da
cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si
muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è
l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in
movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà
proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura
dell'anima è questa; ma se è così , ovvero se ciò che muove se stesso non può
essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale.
Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire
quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina
sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di
un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si
immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata
e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati
da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi
guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli
d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la
guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi
bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e
immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto
il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto
e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù
finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e
assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da
sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il
soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato
con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera
adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di
un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si
dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita
delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa.
La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante,
sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del
divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente,
buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e
accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è
brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo,
procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si
prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici
schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi,
quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la
propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e
i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente
felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi
sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando
poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità
della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da
guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo
che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso
l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la
prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte
alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui
rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta
fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in
modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti
avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità):
l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può
essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale
verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la
mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella
di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo
un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché
la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel
giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la
scienza, 9 Platone Fedro non quella cui è connesso il divenire, e
neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da
quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che
è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri
che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del
cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i
cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere
del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una,
seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il
capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua
rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora
solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a
forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che
aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono
sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e
cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una
lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli
aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne;
tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la
contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo
dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è
sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore
dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura
dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea. L'anima
che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce
danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta
per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia
visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia
appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è
legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima
generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si
trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del
bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda
si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e
al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato
o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o
degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad
avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà
confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano
dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino,
all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella
di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia
partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una
peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila
anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella
di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli
secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto
per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al
compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono
al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state
giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro
pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il
tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al
millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della
seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche
finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da
bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a
tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto
idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal
pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra
anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che
ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò
giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo,
secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù
delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali
reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo
realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e
si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più
che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il
discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza
di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi
in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi
di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di
mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza
con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone
belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto,
ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si
sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo
dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora
videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno
avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie
all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche
nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora
vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé,
ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione
sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose
che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù,
ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso
i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si
poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al
seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una
contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più
beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova
di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando
nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e
10 Platone Fedro beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non
rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi,
incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al
ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è
parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava
tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo
colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo
più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che
riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza
(poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le
offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore.
Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di
tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è
corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in
sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando
guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e
a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha
timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato
di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto
d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di
corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di
allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di
acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una
statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai
brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il
flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera.
Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde
l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei
condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata
tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza
si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata
per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a
smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno
restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere
colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del
flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato
e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il
frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e
non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri,
fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze
vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e
le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato
e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile
al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede
la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui
si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros,
gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età,
ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo
presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e
non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano
Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si
può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama
è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di
Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome
dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a
lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato,
sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così
ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace,
onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e
vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione
con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il
suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una
specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di
Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto
guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato
e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se
prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi
mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da
soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del
proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo
verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e
tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è
possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono
la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus
come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo
rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito
di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse
cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo
secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e
una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la
persuasione e 11 Platone Fedro l'ammaestramento portano l'amato ad
assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno
senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza,
ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e
con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente
amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle
e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in
stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo.
Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna
anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga,
questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli
diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il
vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque,
quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e
ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli
occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama
veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e
la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio
e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di
sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede
a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la
visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed
è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce
docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si
trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i
pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con
violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga
li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri
d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti
ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al
male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare
quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione
folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla
natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo
assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che
le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le
redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno,
spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro
voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta
l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla
caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare,
coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e
debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di
nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di
rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi
fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e
trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i
medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la
coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora
più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al
cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del
cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a
terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo
malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza,
umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo,
muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante
segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere
pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non
simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico
di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone
che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a
chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del
tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia;
infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un
buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere
accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza
dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che
tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a
confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò
nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri
luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di
Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante
dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un
soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là
dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo
attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto
la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle
crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama,
ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di
dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in
grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso
nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa
esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed
è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è
sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno
come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo,
giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando
dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire
all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante
fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio
e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua
grande benevolenza. Così , nel momento in cui si congiungono, non è più tale da
rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare;
ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12 Platone Fedro si
oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti
migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia,
essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono
padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male
dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e
leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la
temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più
grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di
filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro
momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le
anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la
scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che
l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente,
poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono
in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne
sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più
grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe
all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col
desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro
mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il
cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino
sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il
viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme
per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti
darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama,
mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere,
dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù,
la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila
anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa
palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a
causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole
poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per
queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera
l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei
fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo
detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del
discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla
filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo
amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros
in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera,
Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il
tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che
Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso.
Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo
proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò
forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo,
la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi
che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava
dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva,
Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il
massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a
lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere
chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso
il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli
uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare
propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a
tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li
devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non
capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico
per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il
consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o
entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita
se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare,
mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto
assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso
scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge,
l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo
scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi
compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa
attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o
un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario
(45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse
egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la
stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi
allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia,
lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13 Platone Fedro FEDRO:
Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il
proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé
lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe
questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e
disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene
e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo
proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia
pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore?
FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire,
vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui
bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi
tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente
chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che
in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e
discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi
due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci
lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci
deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in
questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la
fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle
Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel
dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è
questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si
addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46)
Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che
nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di
loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di
cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine
la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver
bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare
senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire
chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore
riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più
graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre,
secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che
viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella
filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei
discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per
molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E
allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo
proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è.
FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e
decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero
riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho
sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di
apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla
moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che
sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla
verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono
i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per
questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione.
SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi
persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non
conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro
reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi...
FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso
che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino
chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di
essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile
per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in
molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è
forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO:
Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il
male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni,
facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma
l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni
della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi
che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO:
Sicuramente non buono. 14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon amico,
abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto?
Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non
costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio
consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa
dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce
le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte».
FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi
che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra
di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è
un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il
tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO:
C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono
e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai
bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà
mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete.
SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo
di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma
anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle
grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose
serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito?
FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si
parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo
informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai
sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per
iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO:
Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un
Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo
perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno?
Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE:
Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle
stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no?
SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora
buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che
il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli
ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in
movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova
solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che
si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno
sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili
e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa
cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se
cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica
di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di
pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che
non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che
se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione
di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con
precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è
necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado
di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con
le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno
opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa
impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così
. SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco
la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da
ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione
di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque,
amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci
offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO:
Pare di sì . 15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso
di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che
definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa,
poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati.
SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due
discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le
parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne
attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle
Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono,
poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia
come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del
discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito
che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui
sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse
evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste
cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma
esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola
"ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa
cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto"
e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e
siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO:
Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO:
è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la
retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è
evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve
innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere
peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi
nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo,
Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che,
nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba
percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende
parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore
appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni
controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello
che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia
l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo
eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo
ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione
dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè,
quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo
e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una
sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha
costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in
relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente?
Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò
che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO:
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per
noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei
benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE:
Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al
discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende
le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di
amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è
certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE:
E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla
rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche
necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli
argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia
detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza
di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto
questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se
credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso!
SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere
costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non
essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle
estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO:
Come no? 16 Platone Fedro SOCRATE: Esamina dunque il discorso del
tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce
in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida
il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare?
SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che
l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte
lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci
senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene
recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso,
Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi
sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione,
cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In
essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è
conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano
opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO:
E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con
mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è
una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di
mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento
divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro
parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito
l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica
alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa
è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa,
forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada,
abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo
levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in
onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E
almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE:
Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal
biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il
resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a
caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a
coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel
ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in
uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui
si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa
su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o
male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato
chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici,
SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le
idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna
parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa
concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da
un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e
sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della
follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando
la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver
trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a
buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte
destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro,
ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei
nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono
amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di
essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per
sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle
sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare
ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento
li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di
cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa
l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati
abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di
doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti
si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17 Platone Fedro
SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del
discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze
dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una
narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le
verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che
dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il
valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno
fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il
bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi
indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi
indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E
lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia
da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire
grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e
al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le
prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo
da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i
discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO:
Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che
anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come
parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la
ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse
dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59)
FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo
tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle
cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la
povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo
d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi
nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e
potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci
sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni
danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare
per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti
trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere
sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire.
SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena
luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando.
FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo.
SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non
sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE:
Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre
Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da
riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli
vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento
che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare
medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che
direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche
a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura?
SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi
ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che
chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere
diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo
rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un
uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia
come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe
villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in
modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è
necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue
capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni
necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte
a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre
una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della
medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo
che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha
scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più
saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna
essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della
dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza
di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte,
hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono
di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro
discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna
di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se
fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un
qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e
presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero;
ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente
esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto
campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia
come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un
retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una
di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non
mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco.
FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle
sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché?
SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi
celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di
condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle,
oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi,
credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e
giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali
Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per
l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere
dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In
entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra
quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con
arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e
nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù
offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile
che sia così , Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere
la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura
dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli
Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la
natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il
discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO:
Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il
discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di
qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere
esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o
multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua
natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da
che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per
ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è
portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire,
che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo
privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece
persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un
sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con
arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i
suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE:
Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre
persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e
chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà
e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e
tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo
è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo
luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in
virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE:
In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro
proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di
discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi
e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa.
19 Platone Fedro FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così , a quanto
pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo
non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento.
Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono
scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare;
perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere
da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE:
Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è
possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte.
FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida
delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia
quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di
conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che
le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche
le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini
di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo
su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo
motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve
innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il
loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di
seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai
niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando
sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali
discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se
stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a
suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi
discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta
che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti
giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia
discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o
indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è
realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi
di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte,
vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro
scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro
modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo,
Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per
questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche
parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non
procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne
una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato
da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo.
FEDRO: Così , per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso.
SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni
che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro,
si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così
anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e
levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come
abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere
sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità
circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione,
poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su
queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui
si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna
neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile,
ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi
parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità;
poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta
quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono
quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono
ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e
sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose.
SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci
dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che
sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a
quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e
coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il
mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve
dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo
uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli,
e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia
condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non
ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà
subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le
cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così , Fedro?
FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero
sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque
luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o
no... FEDRO: Cosa? 20 Platone Fedro SOCRATE: Questo: «O Tisia, da
tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo
verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo
spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze.
Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo;
altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non
enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di
dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea,
non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo.
E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il
sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli
uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in
modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra
noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non
i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che
discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene,
in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi
tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno
bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si
stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace.
SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque
cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a
proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque
sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e
della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece
sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei
discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le
tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia
tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da
soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai
fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho
sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli
antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome
della divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la
geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine
anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella
grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre
chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti
e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale
fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a
seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava.
Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e
nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli;
quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà
gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato
trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose:
«Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale
danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene.
Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello
che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della
memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza,
perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri
estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco
non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai
tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte
cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più
le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori
di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità
discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio
caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona
venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti
come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una
roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che
parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno
così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla
scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di
tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella
convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo,
dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di
Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare
alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo.
SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di
simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose
vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La
medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino
come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di
ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e
21 Platone Fedro solo identico. E, una volta che è scritto, tutto
quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è
competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e
non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato
ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di
difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole
sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso,
fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura
migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo
te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza
nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi
bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato
di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine.
SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno
pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli
stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli
crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa,
quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul
serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto,
sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi?
FEDRO: Farebbe così , Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli
altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle
cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue
sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente
nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di
difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la
verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a
quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li
scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso
giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa
orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri
giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi,
egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in
ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate,
rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi,
narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così
è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più
bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi
pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di
venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma
abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri
discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la
possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è
molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo
giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo
indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il
rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi,
quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e
ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così
almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE:
Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o
scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che
l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che
non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la
natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e
regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a
un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima
semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con
arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il
discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in
tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o
turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto
giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa...
FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o
scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o
scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande
solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o
meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto,
male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta
la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che
nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco
e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in
versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono
recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a
persuadere), 22 Platone Fedro ma che i migliori di essi siano
realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e
ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati
come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima,
vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che
discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi,
innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi
quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo
nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti
saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io
ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto
ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo
scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi
alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci
ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi
altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a
chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi,
quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può
soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è
in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una
persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome
derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni
dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo
grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome
del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto
fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle
che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo,
incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta
o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci
dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da
parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate (69) il
bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è
ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che
cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei
discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò
non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio
grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli
quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse,
ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo
di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io
riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa'
sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche
la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a
questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e
voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che
tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io
consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non
chi è temperante, possa prendersi e portar via.(70) Abbiamo bisogno di
qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa'
questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo!
23 Platone Fedro NOTE: 1) Celebre oratore ateniese vissuto tra il
quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano 34 orazioni giudiziarie. Il
discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente
fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi
al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca.
3) Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario
precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il
suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2.
5) Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso
per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche
nella Repubblica e nel Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea
Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7)
Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena
estate, a mezzogiorno. 9) Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di
Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle
battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la
fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era
un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato
dagli arconti usciti di carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli
Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà
uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una
di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano
Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva
il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo.
Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da
Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te
stesso» era appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14)
Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che
emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo
scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820
seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo
portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in
italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio
di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo
"atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel
dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da
mantenere nella traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità
dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione.
Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei
fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281.
17) Saffo è la famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il
sesto secolo a.C., autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi
dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una
quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo,
lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal
tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a
quali autori in prosa si allude nel passo. 18) Gli arconti ateniesi, al momento
di entrare in carica, giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone
avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19)
Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni.
L'offerta votiva cui si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata
dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una
critica. 21) Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22)
Il testo greco gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce
melodiosa', e "ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco
paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri
erano amanti del canto. 23) Socrate istituisce un nesso paretimologico tra
"èros" e "róme" ('forza'). Il ditirambo, componimento
lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena
decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di
invasamento non ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal
logos. 25) L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon),
nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre,
sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio
dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima
inseguitore, ora fugge l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di
Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page.
Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi
frammenti. 28. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C.
Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un
carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la
'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera
Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa
da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase
cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso
precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva
mosso. 24 Platone Fedro 29) A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso
santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la
Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. Questo nome designava
in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota
l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania.
31) L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta derivare da
"manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto
"oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a "oieris"
('opinione', 'credenza'), e accostato a "oionistike", ovvero
l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco
paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è
importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da
Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa
e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la
ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco
soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero
rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e
l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che
Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel Timeo si dice che
anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli
fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il
fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e
che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è
preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate
comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per
trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica
veniva identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo
essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le
dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34) L'Iperuranio, il luogo
'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera
dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile,
esso è raggiungibile solo dell'anima. 35) Adrastea, letteralmente
'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del destino; in
Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene qui esposto il
destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi, argomento che
ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo della
Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente
determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della
verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di
verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato
su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per
assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri"
('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'),
"ro-", radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano
una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo
stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude
ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra
"Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da
"pterós" ('alato'), probabilmente suggerito da quei passi omerici
(Iliade libro 1, versi 403-404; libro 14, verso 291; libro 20, verso 74) in cui
si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. 38) è
impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo
"Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso
con 'splendente' o 'divino'. 39) Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di
Dioniso. 40) Zeus, innamorato di Ganimede, bellissimo fanciullo frigio, in
forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece il coppiere degli dèi. Per il
gioco linguistico su "imeros", la nota 36. 41) L'espressione
significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di
per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre
una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il
senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre
differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta
bisognava atterrare l'avversario tre volte. 42) Figlio di Cefalo e fratello di
Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. 43) Ad
Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che
obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio,
avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'),
che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni
di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il
termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto
equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai
compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44) L'espressine, un
po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata
una difficile. 45) Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la
tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i
sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato (594-593 a.C.), una riforma
dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base
al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485 a.C., fu il promotore della
prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue è probabilmente creazione
platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre
discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene
ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le
cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. 47) Sulla
scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno
nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con
Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. 25 Platone
Fedro 48) Omero, Iliade libro 2, verso 361. 49) Per Spartano qui si
intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e lapidario.
50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli altri a
fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era famoso per la
sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore era
notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di
Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità
oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto
vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica;
a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano
pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto
nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in
modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro
di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un
trattato di retorica. 53) Allusione ironica a Zenone di Elea (quinto secolo
a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i
concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e
di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il leggendario re della Frigia che per
avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro
tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere
diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma
citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. 55) Poeta e
sofista contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore,
assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei
più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di
Socrate. 58) Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due
dialoghi di Platone. 59) Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli
di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si
allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a
proposito di Protagora. 60) Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo
dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale
esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo
religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo,
sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane
delle sue numerose opere. 61) Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione
dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile
oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento 9,8
Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio
contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto
secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al
massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità
oratorie. 62) Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni
ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale
del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al
mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate di Cos,
vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina
antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui
e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel
cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un emporio
commerciale greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione, che i
Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba
nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un
valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto
alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta
per lui affidata all'oralità dialettica. 66) «La regione superiore» è l'alto
corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un
eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata
da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto
infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». 67)
I «giardini di Adone» erano recipienti in cui d'estate si piantavano semi che
nascevano entro otto giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte
prematura di Adone, il bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i
«giardini di scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come
una forma di gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla
dimensione orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto. 69) Il retore
Isocrate (436-338 a.C.) fondò ad Atene una scuola in competizione con
l'Accademia platonica; di lui restano 21 orazioni. Isocrate era fautore di
un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in
vista di una spedizione contro i Persiani. 70) Pan, figlio di Ermes, era la
principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in
Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con
sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle
Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da
intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza.Convito
Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Platone
Il Convito 1 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org I APOLLODORO Credo proprio di essere bene informato di
quello che mi chiedete. Infatti, l'altro giorno, me ne stavo venendo in città,
da casa mia, dal Falero, quando uno che conoscevo, vedendomi di spalle, mi
chiamò da lontano e, con tono scherzoso, mi fa: «Apollodoro il falerese,
m'aspetti un momento?» lo mi fermo e l'aspetto e quello: «Ti stavo cercando
ansiosamente, Apollodoro, perché volevo sapere qualcosa di preciso sui discorsi
che fecero Agatone, Socrate, Alcibiade e tutti gli altri, al banchetto,
discorsi d'amore, a quanto pare; me ne ha accennato un tizio che ne aveva
sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo, ma mi disse che ne eri al
corrente anche tu. Lui, in realtà, non ne sapeva molto. Raccontami tutto tu,
quindi, perché nessuno meglio di te, può ripetermeli, i discorsi del tuo amico.
Ma, prima di tutto, c'eri o non c'eri a quella riunione?» «Si vede proprio che
questo tizio ti ha male informato se credi che quella riunione di cui stai
parlando è avvenuta poco tempo fa e che io, quindi, vi abbia potuto
partecipare.» «Credevo di sì.» «E come hai fatto a pensarlo, Glaucone? Non sai
che da parecchi anni, ormai, Agatone non s'è più visto qui e che, d'altra
parte, non ne son passati ancora tre da quando io me la faccio con Socrate, che
gli sto sempre dietro, per conoscere quello che dice e quello che fa? Prima
d'allora gironzolavo qua e là e mi pensavo di far chissà che cosa, mentre ero
l'essere più miserabile che c'era sulla faccia della terra, come te, adesso,
che credi ci siano altre cose da fare meglio della filosofia.» «C'è poco da
prendere in giro. Dimmi, piuttosto, quand'è che c'è stata questa riunione.»
«Eravamo ancora ragazzi e fu quando Agatone s'ebbe il premio per la sua prima
tragedia, precisamente il giorno dopo i sacrifici che lui e quelli del coro
vollero fare per festeggiare la vittoria.» «Allora ne è passato del tempo! Ma a
te chi te n'ha parlato. Proprio Socrate?» «Magari. Fu, invece, la stessa
persona che ne parlò a Fenice, un certo Aristodemo, del distretto di Cidateneo,
uno mingherlino, sempre scalzo. Era presente alla riunione perché era un patito
di Socrate, più di tutti, a quel tempo. Ad ogni modo, di quanto mi riferì
costui volli chiederne anche a Socrate che mi confermò quanto l'altro m'aveva
raccontato.» «E, allora, perché non me lo racconti anche a me? Questa strada
che porta in città è proprio fatta apposta per conversare.» Strada facendo,
così, ci mettemmo a parlare di questo ed ecco perché, come vi ho detto in
principio, sono al corrente della cosa. Se devo, quindi, raccontarla anche a
voi, eccomi pronto, anche perché, quando si tratta di filosofia, sia che ne
parli io o che ne senta parlare, provo sempre un immenso piacere, a prescindere
dal vantaggio che penso di ricavarne. Quando, invece, sento certi discorsi, i
vostri specialmente, discorsi di gente ricca, di persone d'affari, che barba,
ma anche che pena, amici miei, che vi credete di far chissà cosa e poi non fate
il resto di nulla. Può essere che voi, da parte vostra, mi crediate un povero
diavolo e supponiate che, in effetti, io lo sia, ma di voi, io non lo suppongo
soltanto, ne sono convinto. AMICO Sei sempre lo stesso tu, Apollodoro, sempre
che dici male di tutti e di te stesso; io credo che per te, tranne Socrate,
tutti gli altri siano soltanto dei disgraziati, tutti quanti, a
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cominciare da te. Perché poi ti chiamino «il Tranquillo», questo proprio non
riesco a capirlo, con tutti i tuoi discorsi sempre così aspri verso gli altri e
te stesso, tranne, appunto, che per Socrate. APOLLODORO Ah, sì? Io, dunque,
bellezza, dato che penso così di voi e di me, sarei un pazzo e un esagitato?
AMICO Ma ora lasciamo perdere questo, Apollodoro, piantiamola di litigare, e,
come t'abbiamo pregato, raccontaci quali furono questi discorsi. APOLLODORO E
va bene, presso a poco furono questi... ma, aspettate, sarà meglio che
incominci dal principio, come me li ha riferiti Aristodemo. 3
Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Egli mi
riferì di aver incontrato Socrate tutto bello lisciato, con un paio di sandali
ai piedi (cosa stranissima) e di avergli chiesto dove stesse andando tutto così
bello. E Socrate: «A pranzo da Agatone; ieri, infatti, alla premiazione per la
sua vittoria, riuscii a svignarmela perché tutta quella folla mi dava fastidio,
ma gli promisi che, oggi, sarei andato da lui. Ecco perché mi son fatto bello:
lui è un bello e, sai com'è. Ma perché non vieni anche tu, che fa, anche se non
sei stato invitato?» Ed io, così mi riferì Aristodemo: «Va bene, come vuoi.» «E
allora andiamo,» fece, «e cambieremo il proverbio dicendo che ‹a, pranzo, dal
buon Agatone, van senza invito le brave persone›. Del resto, Omero, non solo
l'ha modificato, questo proverbio, ma l'ha addirittura capovolto: infatti,
mentre ci ha sempre descritto Agamennone come un guerriero in gamba e Menelao,
invece, come uno smidollato, ecco che ti fa presentare quest'ultimo, senza
essere invitato, a pranzo da Agamennone, che aveva allora allora fatto un sacrificio
e si stava mettendo a tavola, lui, un mediocre, alla mensa di un valoroso.» E
Aristodemo: «Ma Socrate, corro anch'io, allora, questo rischio, non come dici
tu ma nel senso che scrive Omero, di andare, cioè, io, uomo da nulla, senza
essere invitato, a pranzo da un sapiente. Vedi tu, che mi ci porti, come devi
metterla per giustificarti, perché io non dirò che son venuto da me, ma che sei
stato tu ad invitarmi.» «Ma sì, andiamo, ci penseremo per la strada a quello
che dobbiamo dire.» Si dicevano questo, mi raccontava Aristodemo, quando si
posero in cammino. Ma, lungo la strada, Socrate si fece pensieroso, meditando
chissà su che cosa, e restandosene indietro e quando lui si fermava per
aspettarlo, gli diceva di andare pure avanti. Quando Aristodemo giunse alla
casa di Agatone, trovò la porta aperta e qui, mi disse, gli capitò un fatto
curioso: un servo gli corse subito incontro e lo condusse dove i convitati
erano già tutti seduti, in procinto di mettersi a pranzo. Appena Agatone lo
vide: «Oh, Aristodemo,» fece, «arrivi proprio al momento giusto, per mangiare
un boccone con noi; se è per qualche altro motivo che sei venuto, lascialo per
dopo. Ieri ti ho cercato, proprio per invitarti, ma non sono riuscito a
trovarti. E Socrate? Come mai non è con te?» «Io mi volto indietro,» continuò a
raccontarmi, «e, infatti, non lo vedo più. Dissi, allora, che ero con lui e
che, appunto da lui ero stato invitato a quel pranzo.» «Hai fatto benissimo, ma
dov'è che s'è cacciato?» «Un attimo fa era dietro di me; sarei proprio curioso
di sapere anch'io dove può essere andato.» «Suvvia, ragazzo, non ti sbrighi?»
fece Agatone, «va a vedere dov'è Socrate e tu, Aristodemo, siediti là, vicino a
Eressimaco.» II 4 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org Continuò a raccontare così, che mentre un servo gli dava
da lavarsi per mettersi a tavola, un altro venne a dire che quel bel tipo di
Socrate se ne era andato nell'atrio della casa vicina e se ne stava lì tutto
immobile: «L'ho chiamato,» riferì, «ma lui non vuol venire.» «Ma che
sciocchezze stai dicendo?» gridò Agatone. «Torna a chiamarlo, insisti.»
«Allora, intervenni io,» mi raccontò sempre Aristodemo, «pregandolo di
lasciarlo tranquillo perché era una sua abitudine quella di isolarsi tutt'a un
tratto, e di restarsene immobile dovunque si fosse trovato: ‹Vedrete che verrà,
ne sono certo, ma ora non lo disturbate, lasciatelo tranquillo›.» «Ah, va bene,
va bene, se lo dici tu,» commentò Agatone. «Però voi, ragazzi, ora portateci da
mangiare. Voi mi mettete in tavola sempre quello che vi passa pel capo, se non
vi si sta addosso, ed io non me ne son mai presa troppo la briga; ma oggi, fate
conto come se foste stati voi ad invitare queste persone e me e quindi,
trattateci bene e fatevi onore.» Così mi raccontò che si misero tutti a
mangiare e che Socrate, intanto, non si faceva vivo. Spesso Agatone insisteva.
perché lo mandassero a chiamare, ma lui lo sconsigliava. Finalmente Socrate
fece la sua comparsa e non s'era mica fatto aspettare poi tanto tempo, come di
solito faceva: cioè quando il pranzo era circa a metà. E Agatone che stava
seduto in fondo: «Qua, qua,» esclamò, «Socrate vieniti a sedere vicino a me,
così, gomito a gomito, con un sapiente, io potrò godere della grande scoperta
che hai fatto davanti ai portoni; è chiaro che qualcosa l'hai dovuta pur sempre
scoprire, altrimenti mica ti saresti mosso, tu.» E Socrate, sedendosi: «Sarebbe
una bella cosa, Agatone, se la sapienza potesse scorrere da chi ne ha di più a
chi ne ha di meno, soltanto che ci si mettesse uno vicino all'altro, come
l'acqua che attraverso un filtro passa dal bicchiere pieno a quello vuoto. Se
anche per la sapienza è così io sarò onoratissimo di starmene al tuo fianco;
sono convinto che sarò colmato da parte tua di tanta e bella sapienza, perché,
vedi, la mia, seppure ne ho, è ben misera, assai discutibile, vaga come un
sogno, mentre la tua, invece, così luminosa, così ricca di possibilità, tanto
che, proprio ieri, nonostante la tua giovane età, s'è rivelata e ha brillato in
tutto il suo fulgore davanti a più di trentamila greci.» «Sei un mascalzone tu,
Socrate,» fece Agatone, «ma fra poco ce la vedremo, io e te, in fatto di
sapienza e giudice sarà Dioniso. Intanto, per ora, pensa a mangiare.»
III 5 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org E così, continuò a raccontarmi Aristodemo, Socrate si
sedette e quando ebbe finito di mangiare, insieme agli altri, fece le
libagioni, poi cantarono tutti in onore del dio, compirono gli altri riti
dovuti e poi si misero a bere. A un tratto, mi riferì Aristodemo, Pausania se
ne uscì in queste parole: «Ehi, amici, non possiamo andarci più piano?
Francamente devo dirvi che mi sento male dopo la gran bevuta di ieri e che devo
pigliare un po' di respiro; e così, penso anche per molti di voi: ieri
c'eravate un po' tutti. Guardate, dunque, com'è che ci possiam moderare un
po'.» E Aristofane: «Pausania ha ragione. Non scherziamoci troppo col vino; io
mi sento ancora come una spugna zuppa, per ieri.» E allora intervenne
Eressimaco, il figlio di Acumeno: «Ottima idea. Su, coraggio, voglio sentirne
qualche altro; e a te, Agatone, come va col vino?» «Macché, anch'io niente
bene.» «Benissimo,» s'infervorò Eressimaco; «è proprio una fortuna per me, per
Aristodemo, per Fedro e per tutti quanti gli altri se voi, che in fatto di bere
ce la mettete tutta, oggi non vi sentiate in forma: di fronte a voi, infatti,
siamo dei pivellini. Per Socrate è un altro discorso: lui se la cava benissimo
sempre; sia che oggi si beva o meno, lui è sempre a posto. Ma, dato che, mi
pare, qui, oggi, nessuno ha troppa voglia di bere, io credo che se vi parlassi
dell'ubriachezza e del male che fa, la cosa non vi sarebbe sgradita; come
medico, è chiaro, devo dirvi che ubriacarsi fa male e che io non vorrei mai
bere più di un tanto e darei lo stesso consiglio agli altri, specie quando il
giorno prima s'è alzato un po' troppo il gomito.» «Sicuro,» intervenne Fedro,
quello di Mirrinunte; «sai che ti ascolto sempre, specie quando parli da
medico; e farebbero bene ad ascoltarti anche questi altri, se hanno un po' di
giudizio.» E così si trovarono tutti d'accordo di evitare una sbornia, per
quella volta e bere ciascuno per quel che gli andava. IV 6
Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E poiché,
ora,» riprese Eressimaco, «siamo d'accordo che ognuno potrà bere solo quello
che vuole senza che nessuno stia lì ad obbligarlo, io propongo di mandare a
spasso la suonatrice di flauto, che è entrata ora (che se ne vada a suonare per
conto suo o, dentro, dalle donne) e noi, invece, di restare un po' qui, oggi, a
chiacchierare insieme; potrei anche dirvi di cosa, se volete.» Tutti, allora,
almeno così riferì Aristodemo, approvarono e lo esortarono a proporre
l'argomento. E così, Eressimaco, incominciò: «Inizio come la Melanippe di
Euripide, non sono mie le parole che sto per dirvi, infatti sono di Fedro. È
Fedro che ogni volta, tutto sdegnato, mi dice: ‹Non è una indecenza,
Eressimaco, che i poeti si mettano a comporre inni e canti a tutti gli dei e
che per Amore, invece, per un dio di quella specie, per un dio così grande, non
ce ne sia uno, tra tanti, che abbia scritto un solo verso di lode? Se pigliamo
i sofisti di fama, quello stesso grand'uomo di Prodico, per esempio, ti
scrivono in prosa di Ercole o di altri; e questo sarebbe niente se non mi fosse
capitato tra le mani il libro di un gran cervellone nel quale, costui, non
faceva niente po' po' di meno che l'elogio sperticato del sale e della sua
utilità: di questi elogi ne puoi trovare dovunque, in abbondanza. E pensare che
si spreca tanta fatica per simili argomenti e, poi, per Amore non s'è ancora
trovato nessuno, almeno fino ad oggi, che s'è sentito di celebrarlo degnamente:
ecco come si tratta un dio simile.› Secondo me Fedro ha proprio ragione.
Quindi, è mio desiderio fargli questo regalo e mostrarmi compiacente e, nello
stesso tempo, profittando dell'occasione, niente di meglio, a mio avviso, per
tutti noi, di rendere onore a questo dio. Se siete d'accordo anche voi potremmo
passare il tempo così: ognuno di noi, cioè, io penso, per esempio partendo da
destra, dovrebbe fare un discorso in lode di Amore, si capisce meglio che può;
e che cominci proprio Fedro che è il primo della fila e che, d'altro canto, è
stato lui proprio a darci l'idea per un simile argomento.» «Nessuno sarà
contrario, Eressimaco,» intervenne Socrate, «a cominciare da me che affermo di
essere un esperto soltanto in cose d'amore, né Agatone, né Pausania,
figuriamoci poi Aristofane che tra Bacco e Venere, ci passa la vita, e nemmeno
questi altri a quanto vedo. C'è un fatto però, che noi che siamo seduti
quaggiù, per ultimi, veniamo a trovarci in svantaggio; comunque, se i primi
diranno quel che devono dire e lo diranno bene, a noi basterà. E, allora, buona
fortuna, Fedro, comincia a fare le lodi di Amore.» Al che tutti quanti
approvarono e fecero eco alle parole di Socrate. Ora, quello che ciascuno
disse, Aristodemo non lo ricordava bene e, dal canto mio, io stesso, ora, non
ricordo più, tutto quello che lui mi riferì, tranne le cose più importanti e,
perciò, vi potrò ripetere solo quei discorsi che mi parvero più degni di
ricordo. V 7 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org E, così, il primo a parlare, mi raccontò, fu Fedro che
incominciò presso a poco col dire che Amore è un dio possente, meraviglioso,
tanto fra gli uomini che fra gli dei per molte e tante ragioni ma, soprattutto,
per quel che riguarda la sua nascita: «Egli ha il vanto,» continuò Fedro, «di
essere, fra tutti, il dio più antico e, prova di questo è il fatto che non ha
genitori e mai nessuno ne ha parlato, prosatore o poeta che fosse. Esiodo ci
dice che ci fu dapprima il Caos: la Terra dall'ampio petto, sicura sede e poi
per tutti sempre e, poi, Amore Insomma, secondo questo poeta, dopo il Caos ci
furono queste due divinità: Terra e Amore. E Parmenide così narra la genesi:
Primo di tutti gli dei creò Amore Con Esiodo concorda Acusilao. Quindi, da più
fonti, si conviene che Amore è antichissimo. E, così com'è il più antico, è
fonte, per noi, di grandissimi beni. Io, infatti, non so se vi sia un bene
maggiore che avere, fin da giovani una persona virtuosa da amare o anche
viceversa, che ci ami. E, in effetti, niente come Amore può dare all'uomo quei
principi che valgono per vivere rettamente tutta la vita, non la nascita, non
gli onori, non la ricchezza, niente di questo. Ma a quali principi voglio
alludere?, mi chiedo: alla vergogna per le brutte azioni e al desiderio di
buone, senza dei quali né stati né individui possono mai realizzare qualcosa di
grande e di bello. E, inoltre, io dico che un uomo innamorato, sorpreso a
commettere una brutta azione o a subirla, se la sua viltà non gli consente di
difendersi, non proverà mai tanto dolore se lo vede il padre o l'amico o
chiunque altro, quanto se lo vedesse la persona amata, E lo stesso è per
quest'ultima, che se fa qualcosa di male si vergogna soprattutto se è vista da
chi la ama. Oh, se ci potesse essere una città o un esercito composto tutto di
innamorati, non vi sarebbe modo migliore di reggerlo e di vedere uomini
rifuggire dal male e rivaleggiare tra loro nelle belle azioni; in guerra, poi,
messi uno al fianco dell'altro, anche se in pochi, si può dire che vincerebbero
il mondo intero. Perché l'uomo innamorato sarebbe disposto ad abbandonare il
suo reparto, a gettare le armi sotto gli occhi di tutti, ma non dinanzi alla
persona amata, piuttosto preferirebbe centomila volte morire; e, d'altronde,
abbandonare la persona cara, non prestarle il suo aiuto se è in pericolo, non
c'è nessun uomo tanto vile cui Amore non riesca ad infondere il necessario
coraggio, come se fosse posseduto da un dio e renderlo uguale a chi è
coraggioso di natura. Insomma, lo stesso soffio divino che, a quanto dice
Omero, un dio infonde in taluni eroi, Amore, come un suo dono, suscita in
quelli che amano.E poi, solo quelli che amano sono pronti a morire per gli
altri e non solo gli uomini ma anche le donne. Vedi Alcesti, per esempio, la
figlia di Pelia che per noi greci è la più bella prova di ciò che dico, la
quale fu la sola a voler morire al posto del suo sposo che aveva pure un padre
e una madre; costei fu tanto più sublime, nel suo cuore di donna, acceso,
appunto dall'amore, da far apparire i parenti di lui quasi degli estranei al
loro stesso figliolo, legati a lui soltanto dal nome. E questo gesto fu
giudicato così bello non solo dagli uomini ma anche dagli dei, che questi, pur
concedendo solo a pochi, tra i tanti che compiono belle imprese, il privilegio
di vedersi restituita alla luce la loro anima, consentirono a questa fanciulla
il ritorno alla terra, commossi del suo gesto; questo dimostra che gli dei
apprezzano moltissimo lo zelo e la virtù che nascono dall'amore. Orfeo, invece,
il figlio di Eagro, te lo rimandarono fuori dall'inferno senza che avesse
ottenuto nulla, mostrandogli solo la falsa immagine della sua donna, per la
quale egli era sceso nell'Ade e non gliela restituirono, considerandolo un
debole (suonatore di cetra com'era) perché non aveva avuto il coraggio di
morire per amore, come Alcesti, ma, vivo, era riuscito a penetrare nell'Ade e
con l'astuzia. Ecco perché gli inflissero questa punizione e lo fecero morire
per mano di donne. Non così Achille che onorarono invece e mandarono alle isole
dei beati perché per quanto egli fosse già stato avvertito dalla madre che se
avesse ucciso Ettore sarebbe morto mentre se l'avesse risparmiato sarebbe
ritornato in patria e lì avrebbe finito vecchio i suoi giorni, preferì scendere
in campo per Patroclo, per l'amico che amava e vendicarlo e morire per lui, non
solo, ma per lui morto; per questo gli dei profondamente ammirati gli resero
onori grandissimi, come quello che aveva tenuto così alto nel suo cuore l'amico
amato. Eschilo dice un'inesattezza quando afferma che era Achille l'amante di
Patroclo, lui che non solo era più bello di Patroclo ma di tutti gli altri
eroi, imberbe ancora e quindi molto più giovane di lui come dice Omero. La
verità, però, è che gli dei pur onorando assai questo sentimento d'amore,
volgono più la loro ammirazione, le loro lodi a colui che ricambia l'amore di
chi lo ama, piuttosto che a quest'ultimo. Colui che ama è cosa più divina di
chi si lascia amare, perché un dio lo possiede; per questo gli dei onorarono
maggiormente Achille che non Alcesti e gli dischiusero le isole dei beati. Per
concludere io affermo che Amore è il più antico degli dei, il più degno di
onori, quello che più può infondere agli uomini virtù e felicità, sia mentre
vivono che dopo la loro morte.» Questo, presso a poco, a quanto mi riferì
Aristodemo, fu il discorso di Fedro. Dopo di lui parlarono altri, però non
ricordava molto. E così passò a riferirmi il discorso di Pausania che prese a
dire: «Non mi pare che tu abbia ben impostato il tuo discorso, Fedro, così come
hai troppo semplicisticamente fatto le lodi di Amore. Se, infatti, Amore fosse
uno solo, la cosa sarebbe potuta anche passare; ma il fatto è che non è uno
soltanto e quindi è più giusto precisare prima qual è che bisogna lodare. Ed è
a questo errore che io cercherò di rimediare, in primo luogo dicendo quale
Amore convenga lodare e poi facendone in modo degno l'elogio. Tutti riconoscono
che non si può concepire Venere senza Amore. Se di Venere ce ne fosse una sola,
lo stesso dovrebbe dirsi di Amore, ma poiché due sono le Veneri, due saranno
anche gli Amori. Non sono forse due le dee? Una, la più antica, che non ebbe
madre, la figlia del Cielo, che appunto chiamiamo Celeste, l'altra, più
giovane, figlia di Giove e di Dione, che chiamiamo Pandemia. Ne consegue che
l'Amore che convive con quest'ultima, giustamente vien chiamato Pandemio,
l'altro, Celeste. Gli dei, in verità, bisogna onorarli tutti, ma ora, di questi
due, occorre pur dire quali sono gli attributi. Intanto, ogni azione ha questo
di caratteristico: che per se stessa non è mai bella o brutta. Per esempio:
quello che noi ora stiamo facendo, cioè bere, cantare, discutere, in se stesso,
non è che sia bello, ma lo diventa dal modo con cui questa azione viene
compiuta: onestamente e rettamente, è bella, altrimenti, la stessa azione è
cattiva. Lo stesso è quando si ama: non ogni Amore è bello o degno di lode, ma
solo quello che spinge a nobilmente amare.«Orbene, l'Amore che convive con la
Venere Pandemia, è ovvio che sarà anch'egli Pandemio, cioè volgare e si
comporta un po' alla carlona; questo tipo d'Amore vien prediletto dai mediocri
che non fan differenza a giacersi con donne o giovincelli di cui amano,
oltretutto, più il corpo che l'animo, anzi preferiscono gli esseri sciocchi,
tutti presi come sono dall'atto carnale, senza un briciolo di buon gusto, e
accade così che finiscono per comportarsi come capita, bene o male che sia.
Questo perché un simile Amore deriva dalla Venere più giovane che, nascendo,
s'ebbe i caratteri della femmina e, insieme, quelli del maschio. L'altro Amore,
invece, deriva dalla Venere Celeste che anzitutto non partecipa della natura
femminile ma solo di quella maschile (e questo è l'amore per i giovinetti) e,
in secondo luogo è più antica e immune da ogni forma di libidine. Così, quelli
che sono infiammati da questo Amore, volgono le loro predilezioni al sesso
maschile presi come sono da ciò che, per natura, è più vigoroso e dotato di più
aperto intelletto. E in questa passione per i giovani è facile riconoscere
quelli che sono nobilmente infiammati da questo Amore; costoro, infatti, non si
legano ai giovani se non quando questi hanno già una loro maturità
intellettuale e vedono spuntare la prima barba. Io penso, infatti, che chi per
amarli attende che essi giungano a questa età, lo fa per poter convivere poi
tutta la vita con loro in una dolce intimità e non per ingannarli, per
approfittare della loro ingenuità e sbeffarli, piantandoli poi in asso per
correre dietro a un altro. Anzi ci vorrebbe proprio una legge che vietasse di
aver relazioni amorose con i minorenni, per evitare che si sciupi tempo e fatica
per un esito incerto; con i ragazzi, infatti, non si sa mai come vada a finire,
se faranno una buona riuscita o meno, sia per quel che riguarda le doti fisiche
che per quelle morali. I galantuomini se la pongono da sé questa legge, ma per
i dongiovanni da quattro soldi, sarebbe proprio necessario far qualcosa in
proposito, così come abbiamo impedito, meglio che s'è potuto, che avessero
rapporti intimi con donne di condizione libera. Sono questi che han fatto
degenerare la cosa a tal punto che ora c'è gente che afferma che è brutto
corrispondere chi ci ama; e lo dice proprio perché ha davanti agli occhi
l'esempio di questi tipi, privi affatto di buon gusto e di un minimo di pudore,
giacché nessuna cosa, se è fatta nei dovuti limiti e secondo onestà, può
giustamente tirarsi dietro un qualche biasimo. Negli altri Stati, intanto, le
leggi sull'amore non sonio di difficile interpretazione, regolate da principi
assai semplici, così come concettosi e ingarbugliati sono da noi. Nell'Elide,
per esempio o a Sparta o anche in Beozia, dove la gente non è abituata a far
bei discorsi, viene, molto semplicemente, riconosciuto che è bello
corrispondere chi ama e nessuno, giovane o vecchio che sia, si sognerebbe di
dire che è cosa brutta; questo, a mio avviso, perché non vogliono pigliarsi
troppo la briga di persuadere i giovani, inesperti come sono nell'arte del
dire. Nella Ionia, invece, e in molte altre parti dove predominano popolazioni
non greche, la cosa è ritenuta vergognosa; presso i popoli stranieri, del
resto, proprio per i loro regimi tirannici, anche l'amore che uno può portare
alla sapienza o alla ginnastica, è cosa disonesta. Infatti, io penso che ai
governanti non convenga che sorgano tra i sudditi nobili e forti proponimenti o
salde amicizie o identità di vedute, tutte cose, queste, che è proprio l'amore,
di solito, a far nascere. E questo l'hanno imparato anche qui da noi i
nostri tiranni, come l'amore di Aristogitone e l'intrepida amicizia di Armodio,
abbiano distrutto il loro potere. Pertanto, là dove si ritiene che è cosa
disonesta corrispondere chi ama, ciò è dipeso dalla mediocrità dei legislatori,
dall'arroganza dei governanti e dalla viltà dei sudditi; laddove, invece, la
cosa è ritenuta senz'altro bella, in linea assoluta, è stato per la pigrizia di
chi ha fatto la legge. Quindi, da noi, vige una consuetudine più bella che
altrove ma, come dicevo prima, non è facile, però, interpretarla. «Si
pensi, infatti, che da noi si reputa più bello amare alla luce del sole che di
nascosto, amare, poi, soprattutto, chi è virtuoso e nobile anche se è più
brutto degli altri e che si dà un incoraggiamento straordinario a chi ama, non
ritenendo affatto che la sua sia un'azione vergognosa, anzi è motivo di
orgoglio riuscire nel proprio intento ed è quasi un disonore, invece, fallire
nella conquista e che la legge accorda all'amante, per le sue imprese amorose,
la libertà di fare cose addirittura straordinarie e di riceverne lode, cosa che
se uno facesse con altre intenzioni e per altri fini, si tirerebbe addosso il
biasimo di tutti. Se uno, infatti, volendo farsi dare del denaro da qualcuno o
desiderando ottenere un pubblico impiego o qualche carica, si mettesse a fare
quel che gli amanti fanno per i loro fanciulli, suppliche, scongiuri, per
ottenere quello che bramano, i giuramenti che fanno, tutte le notti che passano
fuori davanti all'uscio del loro amore, tutti i servizi a cui si piegano,
quelli più infimi, cui nessuno schiavo s'adatterebbe, costui si vedrebbe
ostacolato in questo suo modo di fare, non solo dagli amici ma anche dai suoi
avversari che gli rimprovererebbero queste smancerie e questo servilismo,
richiamandolo al dovere e vergognandosi per lui; se tutto questo uno, invece,
lo fa per amore, acquista addirittura pregio e la nostra legge glielo consente,
senza che su di lui ricada biasimo alcuno, come se, in effetti, compisse una
cosa bellissima. Ma quello che è ancora più straordinario è che, a quanto
dicono i più, solo a chi ama è concesso, quando giura e poi non mantiene il
giuramento, di ottenere il perdono degli dei perché, a quanto si dice, in amore
non c'è giuramento che valga. È per questo che sia gli dei che gli uomini hanno
concesso, a chi ama, un'assoluta libertà, come ci provano le nostre leggi.
Tutto questo autorizzerebbe a credere che in questa nostra patria, amare e
corrispondere chi ama è ritenuta cosa bellissima. Eppure quando i genitori ti
mettono alle calcagna dei loro figlioli un pedagogo, col preciso incarico di
tenerli lontani dai loro corteggiatori, quando i compagni e i coetanei fanno quasi
succedere uno scandalo se si accorgono di qualcosa del genere, mentre i più
anziani lasciano che dicano e non intervengono a queste esagerate reazioni, a
guardar bene tutto questo sembrerebbe proprio che qui da noi l'amore sia
considerato cosa del tutto disonesta. Il fatto è, a mio avviso, che la cosa sta
invece così: non c'è nulla di assoluto, come accennai prima, e niente è bello o
brutto per se stesso, ma diventa l'uno o l'altro a seconda che sia fatto bene o
male. Così, l'amore diventa cosa spregevole se, senza alcun buon gusto, uno si
concede a un essere spregevole, è cosa bella, invece, quando lo si fa
onestamente con persona onesta. Ed amante del tutto indegno, volgare, è colui
che ama più il corpo che l'animo, perché costui, infatti, non è costante, preso
com'è da cosa che non dura. Quando, infatti, sfiorisce la bellezza del corpo,
di quel fiore che amava, egli ‹fugge lontano, scompare› e addio promesse e
belle parole. Chi, invece, ama qualcuno per la bellezza del suo animo, gli
resta fedele per tutta la vita, perché s'è congiunto a cosa che dura. Perciò le
nostre leggi si prefiggono di ben individuare tutti costoro per accordare, agli
uni, ogni favore e mettere al bando gli altri e per questo si esortano gli
amanti a insistere nelle loro profferte e gli amati a schermirsi, cercando
così, per questa specie di gara, di stabilire a quale delle due categorie
appartengano gli uni e gli altri. Per questo motivo è ritenuta gran brutta
cosa, prima di tutto, lasciarsi sedurre, così, in quattro e quattr'otto, senza
dar tempo al tempo, che, in fondo, si sa, per tante cose è un gran maestro; in
secondo luogo, lasciarsi incantare dal denaro o dalle prospettive di cariche
politiche, sia che il giovane per qualche violenza subita si intimorisca e si
metta in condizione di non reagire, sia che, prospettandogli la possibilità di
far denaro o di avere successo in politica, egli non vi rinunci sdegnosamente:
infatti, nessuna di queste cose è sicura e durevole, oltre al fatto, poi, che
da esse non potrà mai nascere una lunga amicizia. Quindi, secondo la nostra
legge, non c'è che una strada perché l'amato possa onestamente corrispondere e
compiacere l'amante, ed è questa: come non è affatto vergognoso e umiliante,
per chi ama, sottoporsi per il suo amore, a ogni sorta di schiavitù, così c'è
una sola servitù volontaria, non indecorosa o infamante: quella che ha per
oggetto la virtù. «Ed è norma ancora, da noi, che se uno si mette al servizio
di un altro ritenendo che ciò possa contribuire a renderlo migliore nel campo
del sapere o in qualche altra virtù, questa sottomissione volontaria non è
vergognosa, né servile. Occorre, pertanto, che queste due norme, quella
sull'amore dei giovinetti e quella sul desiderio di acquistar sapienza o
qualsiasi altra virtù, si fondano insieme se si vuole che sia veramente una
cosa bella che il giovane conceda le sue grazie a un amante. Infatti quando
l'amante e la persona amata s'incontrano, ciascuno, ligio a una sua precisa
condotta, cioè l'uno disposto a servire il giovane che gli ha concesso i suoi
favori e a servirlo onestamente, l'altro, con la stessa onestà, a seguire la
volontà di chi lo rende sapiente e migliore e quando il primo sia veramente
capace di dare senno e virtù e l'altro veramente desideroso di educarsi e
d'acquistar, in ogni modo, sapienza, quando questo avviene, quando queste due
direttrici convergono a un unico fine, oh, allora, si è cosa bella che la
persona amata conceda i suoi favori a chi l'ama, altrimenti niente da fare. In
questo caso essere ingannati non è nemmeno mortificante; in tutti gli altri
casi, ingannati che si sia o meno, c'è da arrossir di vergogna. Se un giovane,
infatti, in un miraggio di ricchezza, si è lasciato sedurre per denaro e poi
resta ingannato perché s'accorge che il suo seduttore è povero, questo giovane,
compie un'azione molto spregevole, perché s'è rivelato quel che egli era: un
uomo capace di darsi a chiunque per sete di denaro e questo non è bello. E per
un ragionamento analogo, se lo stesso giovane, invece, si fosse concesso a
persona virtuosa, riconoscendo che sarebbe divenuto migliore proprio in virtù
di quella corrispondenza e poi fosse stato ingannato perché il suo amante s'è
rivelato persona del tutto mediocre, priva di qualsiasi virtù, ebbene questa
delusione è motivo di compatimento; infatti, egli ha dimostrato di esser pronto
a dar tutto se stesso a chiunque, ma per la virtù e pur di diventar migliore, e
questo, certo, è tra tutte, cosa bellissima. In conclusione, il concedersi per
ottenere, in cambio, virtù, è bello. Questo è l'Amore della dea celeste,
celeste egli stesso, degno in tutto di venerazione da parte dello stato come
dei singoli individui, che spinge gli amanti e le persone amate, ciascuno per
quel che gli compete, a preoccuparsi soltanto d'essere virtuosi. Quanto agli
altri amori, provengono tutti dalla Venere Pandemia, volgare. Questo è quanto
ho improvvisato, Fedro, così su due piedi, a proposito di Amore.» Dopo la pausa
di Pausania (guarda un po' che giochetti di parole ti sto a fare, che
m'insegnano i dotti), a quanto ebbe a riferirmi Aristodemo, toccava ad
Aristofane, senonché, vuoi per la pienezza di stomaco, vuoi per qualche altra
causa, costui aveva il singhiozzo e, quindi, era nell'impossibilità di parlare.
Si rivolse, allora a Eressimaco, il medico, che gli era seduto accanto: «Cerca
di liberarmi da questo singhiozzo, Eressimaco,» gli disse, «o, almeno, prendi
tu la parola, finoa quando non si sarà calmato.» «Cercherò di venirti incontro
in un modo e nell'altro; parlerò io al tuo posto e poi interverrai tu quando ti
sarà passato; intanto cerca di trattenere il respiro per qualche minuto e
vedrai che il singhiozzo se ne andrà, oppure bevi un sorso d'acqua, fai dei
gargarismi e, se persiste, prendi qualcosa che ti solletichi il naso e cerca di
starnutire e vedrai che, con un paio di starnuti, per quanto ostinato, ti
passerà.» «Sì, ma tu sbrigati a parlare,» insistette Aristofane, «intanto io
cercherò di fare come tu dici.» E così Eressimaco incominciò: «A mio
avviso, mi par necessario che cerchi di concludere il discorso che Pausania ha
iniziato così bene ma che poi non ha portato a termine. Che Amore sia duplice,
ci sembra distinzione esatta; ma che esso non alberga solo negli uomini
attratti dalle belle creature, ma in tutti gli altri esseri, a loro volta presi
per altre forme, negli animali, per esempio, nelle piante e comunque in tutte
le creature viventi, io credo di averlo dedotto dalla medicina, la nostra arte
e, altresì, come Amore sia grande e meraviglioso iddio, presente ovunque in
ogni cosa umana e divina. Comincerò, quindi, a trattar l'argomento da un punto
di vista medico, anche in omaggio a questa arte. La natura dei corpi è tale che
essi hanno in sé questo duplice Amore; infatti, per il corpo, malattia e salute
sono, come tutti sanno, due condizioni diverse e contrarie e, come tali,
perciò, non appetiscono e non desiderano mai le stesse cose. In poche parole,
altro è il desiderio che prova la parte sana, altro quello che sente la parte
malata. E come Pausania diceva poco fa che è bello concedersi a un amante virtuoso
e vergognoso è, invece, darsi a un dissoluto, lo stesso è anche per i corpi per
cui è cosa bella, anzi doverosa, favorire lo sviluppo delle parti sane di
ciascun organismo (e, in fondo, proprio questo è il compito del medico) ed è
male, invece, farlo per le parti malate per le quali occorre agire con
intransigenza, se si è veramente capaci nell'arte medica. Infatti, la medicina,
per dirla in breve, è la scienza che studia le tendenze affettive
dell'organismo nel suo riempirsi e svuotarsi e chi sa distinguere in queste
tendenze, le buone dalle cattive, costui è un gran medico; chi, poi, queste
tendenze le sappia anche modificare o suscitarne una al posto dell'altra o
stimolarne qualcuna laddove non ve ne siano e invece dovrebbero esservi o,
addirittura, cancellare quelle che vi sono, costui, allora, sarà proprio un
maestro eccellente. Bisogna, infatti, che le parti di un organismo che sono tra
loro incompatibili si riconcilino e trovino una loro reciproca armonia. E gli
elementi più incompatibili sono quelli contrari, freddo e caldo, amaro e dolce,
secco e umido e così via; e poiché ad aver saputo conciliare ed armonizzare
tutti questi contrari è stato nostro padre Asclepio, egli, come dicono questi
poeti e come anch'io sono convinto, è il fondatore di questa nostra scienza.
Tutta la medicina, dunque, come vi sto dicendo, è governata da questo dio, come
del resto la ginnastica e l'agricoltura. Quanto alla musica, poi, basta un
minimo di riflessione perché tutti comprendano che essa si comporta alla stessa
stregua delle altre arti, come anche Eraclito, del resto, forse vuol dire,
sebbene non si esprima in termini molto chiari: ‹L'unità in sé discorde,› dice,
‹con se stessa s'accorda, come l'armonia dell'arco e della lira.› Ora, è
assurdo pensare che l'armonia sia mancanza di accordi o che nasca da elementi
ancora discordanti tra loro. Egli, forse, voleva dire che essa nasce da
elementi prima discordanti, l'acuto e il grave, per esempio, che si son poi
accordati per virtù della musica; infatti, non è certo possibile che l'armonia
risulti da suoni tuttora discordi tra loro quali l'acuto e il grave. In verità,
l'armonia è consonanza e la consonanza è accordo; non è possibile, ora, che vi
sia accordo da cose discordi finché restino tali, come impossibile è che vi sia
armonia quando gli elementi discordanti non abbiano trovato il loro accordo;
così come anche il ritmo, del resto, che risulta dal veloce e dal lento prima
discordi tra loro ma poi armonizzati insieme. E l'accordo fra tutti gli
elementi, come per quelli di prima era dato dalla medicina, così per questi è
dato dalla musica che produce, quindi, tra loro, reciproca armonia e
corrispondenza. La musica, quindi, per quanto riguarda il ritmo e l'armonia, è
scienza d'amore. Non è difficile, poi, individuare nella stessa costituzione
del ritmo e dell'armonia questa sua peculiarità, in quanto in essa non vi sono
le due specie d'amore. Quando però si compongono ritmi e armonie per la gente
(ed è questa, propriamente, ciò che si chiama composizione musicale) o si eseguono
fedelmente melodie e partiture altrui (e questo è virtuosismo), allora sì che
viene il difficile e occorre un bravo artista. E qui si torna al discorso di
prima, cioè che bisogna compiacere alle persone per bene o a quelle che ancora
non lo sono ma vogliono diventarlo e conservarsi il loro amore che è poi quello
bello, quello celeste, l'amore di Afrodite Urania; quello di Polimnia, invece,
è l'amore pandemio, volgare, cui bisogna concedersi con prudenza e che
dobbiamo, a nostra volta, con prudenza concedere per goderne senza tuttavia
farne abuso. Del resto, anche nella nostra scienza è molto importante sapersi
ben destreggiare con i desideri per la buona cucina in modo da saperla gustare
senza poi ammalarsi. E così nella musica, nella medicina e in tutto il resto,
sia nelle cose umane come in quelle divine, occorre tener presenti, per quanto
possibile, l'uno e l'altro amore, dovunque contenuti entrambi. «E anche le
stagioni dell'anno, nella loro successione, son colme di questi due amori e
quando gli elementi contrari di cui parlavo prima, il caldo e il freddo, il
secco e l'umido, cadono sotto l'influenza dell'amore benigno che li armonizza e
li compone sapientemente, allora le stagioni recano abbondanza e salute agli
uomini, agli animali e alle piante e non portano alcun danno. Quando, invece,
ha il sopravvento l'altro amore, con tutta la sua violenza, ecco, allora,
rovine e distruzione ovunque, ecco la causa di pestilenze e di molti altri
simili morbi per gli animali e le piante; e, infatti, il gelo, la grandine, la
rubigine derivano dalla violenza e dal disordine con cui si manifestano queste
tendenze d'amore. La scienza che, attraverso il moto degli astri e il
succedersi delle stagioni indaga questi fenomeni, si chiama astronomia.
Inoltre, tutti i sacrifici e i riti a cui presiede l'arte profetica, nel loro
insieme (sono essi a mantenere un rapporto tra gli uomini e le divinità) non
hanno altro scopo che di custodire e salvaguardare l'Amore; ogni scelleratezza,
infatti, nasce perché non si dimostra buona disposizione nei riguardi dell'amor
benigno, né, in quel che si fa, lo si tiene nella dovuta stima e lo si onora.
Cose, invece, che si concedono tutte all'altro amore, sia per quel che riguarda
i rapporti con i propri genitori, vivi o morti che siano, sia quelli con gli
dei. A queste cose, appunto, l'arte profetica è destinata, per cui deve
sorvegliare gli amori e apprestarne i rimedi; e la divinazione è all'origine
dell'amicizia tra gli dei e gli uomini in quanto, delle tendenze umane, conosce
quelle che si volgono alla giustizia e alla pietà. Dunque, tanto grande e
vasta, anzi, universale è la forza d'Amore, ma quello che si volge al bene con
saggezza e giustizia sia nei nostri rapporti umani che in quelli degli dei tra
loro, ha forza ancora maggiore e ci dà la felicità e ci fa vivere nella
concordia e nell'amicizia con tutti e con chi è migliore di noi, cioè con gli
dei. Forse anch'io ho tralasciato molte cose, mio malgrado, in questo elogio
d'Amore; se l'ho fatto, è compito tuo Aristofane rimediarvi; se, invece, vuoi
onorare il dio in altro modo, fallo pure, dato che il singhiozzo t'è passato.»
E così, mi riferì Aristodemo, cominciò a parlare Aristofane che disse:
«Veramente è passato ma solo con lo starnuto, tanto che io mi meraviglio come
il corpo umano, così ben fatto, abbia proprio bisogno di tanto rumore e
solleticamenti, come lo starnuto. Sta di fatto, però, che il singhiozzo è
cessato appena ho starnutito.» «Ma, mio caro Aristofane,» ribatté Eressimaco,
«sta un po' attento a quel che fai; ti metti a far dello spirito proprio ora
che devi parlare e così mi costringi a stare sul chi va là per ogni tua parola,
nel caso ti saltasse in mente di dirle grosse, e sì che potresti parlar
tranquillamente.» «Hai ragione, Eressimaco,» ammise Aristofane, ridendo, «fingi
come se non avessi detto nulla. Ma non stare sul chi va là mentre parlo perché
io ho proprio paura, non tanto perché, forse, con quello che sto per dire, farò
ridere, il che potrebbe essere anche piacevole e coerente con la mia musa, ma
perché mi farò invece deridere.» «Sì, sì, va bene, Aristofane, tu prima lanci
il sasso e poi nascondi la mano; mettici attenzione, invece, e parla come se
dovessi dar conto di quello che dici; da parte mia, intanto, vedrò di lasciarti
tranquillo.» Per dir la verità, Eressimaco,» cominciò Aristofane,
«io avrei in mente di fare un discorso diverso da quello tuo e di Pausania. Io
credo, infatti, che di tutta questa potenza dell'Amore, gli uomini non se ne
siano accorti per niente, altrimenti gli avrebbero innalzato templi grandiosi,
altari, gli farebbero sacrifici magnifici e, invece, nulla di tutto questo
mentre sarebbe la prima cosa da fare. Nessuno come lui, tra tutti quanti gli
dei, è amico degli uomini, viene in loro aiuto, cerca di curarne i mali, la cui
guarigione, forse, sarebbe la più grande felicità del genere umano. Quindi, io
cercherò di svelarvi la sua potenza e voi, a vostra volta, la rivelerete agli
altri. Per prima cosa, dovete rendervi conto cosa sia la natura umana e quali
siano state le sue vicende; per il passato, infatti, essa non era quella che è
oggi. Nel principio, tre erano i sessi dell'uomo, non due, il maschio e la
femmina, come ora: ce n'era un terzo che aveva in sé i caratteri degli altri
due, ma che oggi è scomparso e del quale resta soltanto il nome: l'ermafrodito.
Esso, infatti, era un essere a sé stante che, nell'aspetto esteriore e nel
nome, aveva dell'uno e dell'altro, cioè, del maschio e della femmina; oggi,
ripeto, non resta che il nome che, per di più, ha un significato infamante.
Inoltre, la figura di questo essere umano era arrotondata, dorso e fianchi
formavano come un cerchio; aveva quattro mani e quattro erano pure le gambe;
aveva anche due facce, piantate su un collo anch'esso rotondo, completamente
uguali e attaccate, in senso opposto, a un unico cranio; aveva quattro
orecchie, doppi gli organi genitali e, da tutto questo, possiamo immaginarci il
resto. Camminavano in posizione eretta, come noi, volendo potevano spostarsi in
qualunque direzione e, quando correvano, facevano un po' come i nostri
saltimbanchi che gettano in aria le gambe e capriolettano su se stessi: e
poiché gli arti erano otto, appoggiandosi su di essi, procedevano, a ruota,
velocemente. I sessi erano tre, perché quello maschile aveva avuto origine dal
sole, quello femminile dalla terra e l'altro, con i caratteri d'ambedue, dalla
luna, dato che quest'ultima partecipa del sole e della terra insieme: perciò
avevano quell'aspetto e si spostavano rotolando, perché somigliavano a quei
loro progenitori. Avevano una resistenza e una forza prodigiosa, nonché
un'arroganza senza limiti, tanto che si misero in urto con gli dei e quel che
dice Omero di Efialte e di Oto, che tentarono di scalare il cielo, va riferito
a costoro. «E così Giove e gli altri dei si consigliarono sul da
farsi ma non seppero risolversi: non era il caso di ucciderli, infatti, come i
Giganti, e di estinguerne la specie a colpi di fulmine (il che sarebbe stato
come far sparire onori e sacrifici agli dei da parte degli uomini) e del resto
non era possibile continuare a sopportare oltre la loro tracotanza. A furia di
pensare, Giove, finalmente, ha un'idea: ‹Ho trovato il sistema,› esclamò,
‹perché gli uomini sopravvivano ma, nello stesso tempo, divengano più deboli e
la smettano con la loro prepotenza. Ecco che li taglierò, ciascuno, in due,›
continuò, ‹così diventeranno più deboli, e, dato che aumenteranno di numero
potranno esserci anche più utili. Cammineranno su due gambe e, se non si
metteranno tranquilli e faranno ancora i prepotenti, li taglierò ancora e cosi
impareranno a camminare su una gamba sola, come nel gioco degli otri.› Detto
fatto, si mise a tagliare gli uomini in due come si tagliano le sorbe quando si
mettono a seccare, o come si divide un uovo col crine. E via via che tagliava,
poi, raccomandava ad Apollo che a ciascuno gli rivoltasse il viso e la metà del
collo dalla parte del taglio in modo che l'uomo, vedendosi sempre la sua
spaccatura, diventasse più mansueto; Apollo, infine, provvedeva a chiudere le
altre parti. Girava la faccia e, tirando la pelle, tutta verso quel punto che
noi ora chiamiamo ventre, come chi fa per chiudere coi lacci una borsa, faceva
una specie di groppo, che legava proprio in mezzo alla pancia, quello che noi
chiamiamo ombelico. Spianava, poi, le molte rughe e modellava il petto usando
un arnese un po' simile a quello che adoperano i sellai per spianare, sulla
forma, le grinze del cuoio: ne lasciava, però, qualcuna, nei paraggi del ventre
e intorno all'ombelico, in ricordo dell'antico castigo. Fu così che gli uomini
furono divisi in due, ma ecco che ciascuna metà desiderava ricongiungersi
all'altra; si abbracciavano, restavano fortemente avvinti e, nel desiderio di
ricongiungersi nuovamente, si lasciavano morire di fame e di accidia, non
volendo far più nulla, divise com'erano, l'una dall'altra. Quando, poi, una
delle due metà, moriva, quella rimasta in vita, se ne cercava un'altra e le si
avvinghiava, sia che le capitasse una metà di sesso femminile (che oggi noi
chiamiamo propriamente donna) che una di sesso maschile; e così, morivano.
Allora Giove, impietosito, ricorse a un nuovo espediente: spostò il loro sesso
sul davanti; prima, infatti, l'avevano dalla parte esterna e generavano e si
riproducevano non unendosi tra loro, ma alla terra, come le cicale. Dunque,
trasferì questi organi sul davanti e, così facendo, rese possibile la
procreazione attraverso l'unione del maschio nella femmina; lo scopo era quello
di far generare e di perpetuare la specie grazie a un simile accoppiamento tra
maschio e femmina; se, invece, l'unione fosse stata fra maschi, dopo un po'
sarebbe venuta sazietà da questo connubio e così, una volta separatisi,
sarebbero potuti ritornare al lavoro e alle altre cure della vita. Da tempi
remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco amore che li riconduce alle
origini e che di due esseri cerca di farne uno solo risanando, così, l'umana
natura. «Quindi, ciascuno di noi è come la metà di un unico
contrassegno, dal momento che fu tagliato in due, come le sogliole, e va
continuamente in cerca dell'altra metà. Ora, tutti quegli uomini che son
derivati dalla divisione di quel doppio essere, cioè, dall'ermafrodito, come
l'abbiamo appunto chiamato, sentono tutti l'attrazione per le donne e da lì
provengono anche la maggior parte degli adulteri; così pure hanno la stessa
origine le donne che vogliono il maschio e le adultere. Invece, le donne che
son derivate dalla divisione di un essere di sesso femminile, sono frigide nei
riguardi dell'uomo e sentono, piuttosto, attrazione per le altre donne e da qui
sono nate le lesbiche. Quegli uomini, infine, che son nati dalla divisione di
un essere maschile, van dietro ai maschi e, finché son ragazzi, per il fatto
che son parti di maschio, amano gli uomini e godono di giacersi stretti
abbracciati con loro. Questi sono i ragazzi, i giovinetti più in gamba, dotati
di un'indole virile; c'è della gente che dice che costoro sono degli
svergognati, ma sbaglia: non per impudenza, infatti, fanno questo ma perché
sono arditi, valorosi e virili e, come tali, cercano il loro simile. E questa è
la prova migliore: in età matura, soltanto costoro diventano dei veri uomini e
partecipano alla vita politica. Da adulti, poi, sono loro ad amare i fanciulli
e se non fosse perché la consuetudine un po' ve li costringe, se dipendesse
dalla loro natura, certo non penserebbero affatto a sposarsi e ad avere dei
figli, anzi sarebbero contentissimi di vivere così da scapoli. Insomma, da qui
nascono quelli che amano gli uomini o si lasciano da essi amare, preferendo
sempre chi ha la loro stessa natura. E quando uno incontra quella che fu la sua
metà, non solo chi si sente attratto verso i fanciulli, ma anche ogni altro,
sente allora nascere in sé quel sentimento di amicizia, di intimità, di amore
per cui non sa più vivere separato dall'altro, nemmeno un istante, tanto per
dire. E questi che passano insieme la loro vita non ti saprebbero nemmeno più
dire quello che vogliono per loro; e io penso che nessuno crederà che sia
soltanto l'attrazione fisica a tenerli così appassionatamente uniti; è certo
che l'anima loro cerca qualcos'altro, che non sa definire ma che vagamente
intuisce. Se, per esempio, mentre stanno dolcemente insieme, comparisse Efesto,
con gli strumenti del suo potere e chiedesse loro: ‹Cosa vorreste, uomini,
l'uno dall'altro?› e vedendoli incerti chiedesse ancora: ‹Non desiderate,
forse, diventare una cosa sola in modo che non possiate mai separarvi, né di
giorno né di notte? Se è questo che volete, io vi unirò, vi fonderò in una
stessa natura così che da due voi diventiate uno e la vostra vita la viviate
come un essere solo e quando morrete, anche laggiù, nell'Ade, possiate essere
uno solo invece di due, uniti da un'unica morte. Vedete un po', allora, se è
questo che desiderate, se è questo che vi basta ottenere.› Dunque. se udissero
queste parole, siamo convinti che nessuno dei due rifiuterebbe, nessuno
mostrerebbe di voler altro, anzi, ognuno penserebbe di aver finalmente udito le
parole che da tanto tempo sognava di ascoltare, diventare cioè di due una sola
cosa, unirsi, confondersi nella creatura amata. E la ragione di tutto questo è
che tale era la nostra antica natura e che noi eravamo uniti; e lo struggimento
per quella perduta unità, il desiderio di riottenerla, si chiama amore. Ripeto,
noi, prima eravamo un essere solo ma poi, per i nostri falli, da dio siamo
stati divisi, un po' come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani.
E c'è da temere che se non saremo obbedienti verso gli dei, verremo ancora
tagliati e vagheremo un po' simili a quelle figure in bassorilievo, segate in
due lungo la linea del naso, che si vedono sulle steli, ridotti come dadi a
metà. Occorre, perciò, che ogni uomo consigli gli altri ad essere pii verso gli
dei, sia per evitare questo male, sia per ottenere quel bene al quale Amore ci
volge e ci guida. Nessuno sia ostile ad Amore (chi lo è, è inviso agli dei);
perché se gli saremo amici, se ci riconcilieremo con questo dio, noi riusciremo
a trovare e a congiungerci con la nostra anima gemella, cosa che oggi capita a
pochi. E non insinui Eressimaco, canzonandomi per questo che sto dicendo, che
io voglio alludere a Pausania e ad Agatone (molto probabilmente essi sono tra
questi pochi e hanno entrambi natura virile). Ad ogni modo io dico, in
generale, di tutti, uomini e donne, che la razza umana sarà felice nella misura
in cui ciascuno realizzerà il suo amore e troverà la sua creatura amata,
ritornando così all'antica condizione. Se questo è il bene più grande, ne
consegue che, nelle presenti condizioni, la cosa migliore è quella che più gli
si avvicina: incontrare l'amante che meglio ci sappia corrispondere. Se,
dunque, vogliamo levar lodi al dio che ci può dar tutto questo, è ad Amore che
dobbiamo inneggiare il quale, per ora, favorisce il nostro incontro con chi ci
è affine e, un domani, ci darà le più grandi speranze che, se noi ci mostreremo
riverenti verso gli dei, ci restituirà l'antica natura e, risanandoci, ci
renderà felici e beati. Questo, o Eressimaco,» concluse, «il mio discorso su
Amore, diverso dal tuo, a quanto vedi. Come ti ho pregato, non starmelo a
canzonare, dato che dobbiamo ancora sentire quel che diranno gli altri, anzi
gli ultimi due, perché non sono rimasti che Agatone e Socrate.» «E
va bene, t'accontento,» rispose Eressimaco, «anche perché il tuo discorso m'è
proprio piaciuto; anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone son ferratissimi
in fatto d'amore, avrei proprio paura, con tutto quel che s'è detto, che
rimanessero a corto d'argomenti. Ma, nonostante questo, invece, mi sento
sicuro.» E Socrate, intervenendo: «Eh, già, Eressimaco, perché tu hai già detto
la tua e bene anche; ma se ti trovassi qui, al mio posto o meglio nella
posizione in cui mi troverò quando Agatone avrà finito anche lui di fare il suo
bel discorso, saprei immaginare la tua paura, e quanta anche, come ce l'ho io
adesso.» «Non m'incanti, Socrate,» fece, di rimando, Agatone, «tu vuoi proprio
confondermi facendomi credere che queste persone son tutte qui ad aspettare
chissà cosa dal mio discorso.» «E io, allora, sono uno smemorato, Agatone,»
replicò Socrate, «se credessi che ora tu hai paura di noi che siam qui in
pochi. Ho visto il tuo coraggio, la tua sicurezza quando sei salito sul podio
con gli altri attori e hai abbracciato con uno sguardo tutto il teatro pieno
zeppo, poco prima di rappresentare la tua opera.» «Ma che c'entra, questo,
Socrate?» ribatté Agatone. «Non mi crederai mica tanto infatuato per una
rappresentazione teatrale, da non capire che per uno che abbia un po' di buon
senso, poche persone intelligenti fan più paura di una folla di sciocchi?» «Non
sarebbe bello da parte mia, Agatone,» insisté Socrate, «se ti pensassi capace
di un pensiero volgare. So benissimo che se ti venissi a trovare fra persone
che tu ritenessi sapienti, ne saresti preoccupato più che se fossi in mezzo a
un mucchio di gente; il fatto è che noi non siamo tali e, del resto, c'eravamo
anche noi, lì, non più che folla tra la folla. Se tu, invece, ti incontrassi
veramente con dei sapienti, ti vergogneresti davanti a loro, se ti accorgessi
di far qualche brutta figura, non credi?» «Certo, dici bene,» ammise. «E se tu
la brutta figura la facessi davanti alla folla, non ti vergogneresti?» A questo
punto intervenne Fedro e: «Mio caro Agatone,» disse, «se stai lì a rispondere a
Socrate, te le saluto le cose che stavamo dicendo, ma tanto a lui non gliene
importa niente, basta che abbia qualcuno con cui discutere, specie poi se è un
bel ragazzo. Con questo non è che io non ascolti volentieri una discussione di
Socrate, ma certo che ora mi sta più a cuore l'elogio di Amore e avere, da
ciascuno di voi, il rispettivo discorso. Pagate al dio il vostro debito e poi
discuterete come vi pare.» «Dici proprio bene, Fedro,» esclamò Agatone; «niente
mi impedisce di parlare; con Socrate non mancheranno certo le occasioni per
discutere.» «Io desidero prima dirvi com'è che intendo impostare
il mio discorso, dopo entrerò nel vivo della questione. A me pare che tutti
quelli che hanno parlato finora non abbiano celebrato il dio ma soltanto posto
l'accento su quanto gli uomini siano felici per quei beni di cui, appunto, quel
dio è la causa; nessuno ha detto chi sia propriamente costui che ci offre tutti
questi beni. Orbene, l'unico metodo giusto per far qualsiasi elogio, di
qualunque cosa, è quello di illustrare prima chi sia, in effetti, quello di cui
si parla e poi di quali beni sia la causa. Ecco perché noi dobbiamo prima
lodare Amore per quel che egli è, poi per i doni che ci reca. Intanto io
affermo che tra tutti i beatissimi dei (se m'è lecito dirlo e non è peccato)
Amore è il più beato perché è il più bello e il più buono. Il più bello
soprattutto perché è il più giovane degli dei, Fedro. Egli stesso ce ne dà la
prova migliore fuggendo dinanzi alla vecchiaia che, tutti sanno, è veloce e ci
casca addosso più presto di quel che dovrebbe. Naturalmente Amore la odia e non
le si avvicina nemmeno da lontano. Giovane com'è, invece, sta sempre con i
giovani e ha ragione l'antico detto che il simile s'accompagna sempre al suo
simile. Ed io, pur consentendo con Fedro in molte cose, non condivido il fatto che
Amore sia più antico di Crono e di Giapeto. Ripeto, invece, che è il più
giovane di tutti gli dei, eternamente giovane e tutti quei vecchi fatti tra gli
dei che raccontano Esiodo e Parmenide, accaddero per opera di Necessità, non di
Amore, ammesso pure che quei due abbiano detto il vero. Non ci sarebbero state,
infatti, mutilazioni, catene e tutte quelle altre violenze se Amore fosse stato
in mezzo a loro, ma solo amicizia e concordia come è ora, da quando egli regna
sugli dei. Dunque egli è giovane e non solo, è gentile. Il fatto è che gli
manca un poeta, un poeta come Omero che ne esalti la delicata bellezza. Di Ate,
per esempio, Omero dice non solo che è una dea ma che, appunto, è delicata
(almeno i suoi piedi sono tali), quando scrive: morbidi sono i suoi piedi che
non accosta alla terra ma ella procede sfiorando le teste degli uomini. E mi
pare che egli ci abbia dato una bella prova della sua delicatezza col dirci che
non cammina sul duro ma sul morbido. Serviamoci, anche noi, per Amore, dello
stesso indizio a conferma che è delicato; egli, infatti, non cammina per terra
e nemmeno sulle teste degli uomini che, poi, tanto morbide non sono, ma tra le
più tenere delle cose che esistono egli procede e dimora: egli, infatti, ha
posto la sua sede nel cuore e nell'animo degli uomini e degli
dei; non però in tutte le anime indistintamente. Se, infatti, ne
trova una rozza, fila via, se gentile invece, vi resta. Dato, quindi, che egli
è sempre a contatto, e non solo con i piedi ma anche con tutto se stesso, con
le più tenere tra le tenerissime cose, necessariamente deve essere
delicatissimo. Il più giovane, dunque, e il più delicato; ma oltre a questo è
duttile. Non potrebbe piegarsi in tutte le direzioni e entrare di soppiatto
nelle anime e così uscirne se fosse rigido; la leggiadria, per consenso comune,
è la prova evidente delle fattezze armoniche e flessuose che Amore possiede.
Infatti, fra l'amore e la bruttezza c'è sempre reciproca guerra. La bellezza
del suo incarnato ci dice che egli indugia tra i fiori, poiché Amore non resta
dove non v'è cosa in fiore o che sia avvizzita, sia essa corpo o anima o altro,
ma dove tutto è fiorito e olezzante, là si posa e dimora. «Sulla bellezza del
dio può anche bastare, per quanto ce ne sarebbe ancora da dire. Ma ora parliamo
delle sue virtù. La cosa che prima di tutto bisogna notare è che Amore non fa
torti a nessuno, né a uomini né a dei e nemmeno ne riceve. Egli non subisce
violenza (ammesso che subisca qualcosa), perché essa non lo tocca, né con
prepotenza fa quel che fa, ma ognuno serve Amore spontaneamente in ogni cosa; e
quando c'è accordo reciproco tra due volontà, ‹le Leggi che sono le regine
degli Stati›, dicono che è giusto. Oltre che la giustizia, Amore possiede in
sommo grado anche la temperanza. Tutti son d'accordo nell'affermare che la
temperanza consiste nel dominio delle passioni e dei piaceri. Ma non c'è nessun
piacere più intenso dell'Amore e quindi se tutti gli altri sono meno intensi,
sono inferiori a lui che, perciò, trionfa e ha il dominio sulle passioni e sui
piaceri e, come tale, è in sommo grado, temperante. Per quanto riguarda la
forza, ad Amore ‹neanche Marte può stargli a fronte›. Non è, infatti, Marte che
conquista Amore, ma Amore che seduce Marte, amore di Venere a quanto si dice; e
chi possiede è più forte di chi si lascia possedere: quindi, vincendo chi è più
forte degli altri, egli è il più forte di tutti. Della giustizia, quindi, della
temperanza e della fortezza del dio, s'è già detto; resta ora da dire della sua
sapienza: per quanto è possibile, bisogna cercare di non tralasciare nulla.
Intanto, per prima cosa per rendere onore alla nostra arte, come Eressimaco ha
fatto per la sua, dirò che questo dio è poeta cosi sapiente da far diventare
tali anche gli altri; in effetti, ognuno diventa poeta se è toccato da Amore,
anche se non ha mai avuto prima a che fare con le Muse. Da qui possiamo trarre
la conferma che Amore, in generale, è buon poeta in ogni genere di produzione
artistica. Infatti, ciò che uno non ha e non conosce, non può certo darlo, né
insegnarlo a nessuno. E, infatti, chi è che vorrà contestare che la creazione
di tutti gli esseri viventi non avvenga per la sapienza d'Amore che genera e fa
crescere tutte le creature? E, inoltre, nell'attività artistica non sappiamo
forse che chi ha per maestro questo dio diviene famoso e illustre, chi invece
non è toccato da Amore resta oscuro? L'abilità nel tiro dell'arco, la sapienza
nella medicina, l'arte profetica, Apollo le ha scoperte sotto l'impulso del
desiderio e dell'amore, così che anch'egli può dirsi discepolo di questo dio,
come le Muse per le loro arti, Efesto per l'arte di forgiare metalli, Minerva
per quella del tessere e Giove, infine, per quella di governare sugli dei e
sugli uomini. Fu cosi che tutte le questioni tra gli dei si appianarono, da
quando Amore comparve in mezzo a loro, si capisce, Amore della bellezza, perché
delle cose brutte non c'è amore; mentre, come ho detto, prima d'allora, molte e
orribili cose, a quanto si dice, accadevano tra gli dei, perché regnava
Necessità. Ma dopo che nacque questo dio, si amarono le cose belle e ne venne
per gli dei e per gli uomini abbondanza di beni. Così, Fedro, mi sembra proprio
che Amore, bellissimo e buonissimo com'è, rechi anche agli altri bellezza e
bontà. Quasi quasi mi vien da dire in versi quello che fa, per esempio così:
pace agli uomini reca, calma sul mare tregua ai venti e, nel dolore, il
sonno. Egli ci libera dal timore di essere estranei a noi stessi, ci dà un
senso di calda intimità, ci invita a partecipare a riunioni come questa, a
feste, a danze, a sacrifici di cui diventa un po' l'auspice, assicura la
benevolenza, allontana ogni rancore, largo in favori, incapace di malvagità,
benigno, buono, esempio ai saggi, ammirato dagli dei, invidiato dagli infelici,
posseduto dai fortunati, padre della Delizia, dell'Eleganza, del Fasto, della
Grazia, del Desiderio, della Bramosia, sollecito verso i buoni, incurante dei
malvagi, nelle fatiche, nelle paure, nelle passioni, nelle conversazioni, è
guida, guerriero, compagno di lotta, salvezza provvidenziale, ornamento di
tutti gli dei e di tutti gli uomini, duce meraviglioso e perfetto che ognuno
deve seguire e celebrare con inni degni di lui, partecipando al suo canto col
quale egli ammalia il cuore degli uomini e degli dei. Questo, Fedro, il mio
discorso in omaggio al dio, svolto un po' celiando, un po' con ben dosata
gravità, secondo le mie capacità.» Quando Agatone ebbe finito di
parlare, raccontò Aristodemo, ci fu uno scroscio di applausi da parte di tutti
i presenti che riconobbero come il discorso del giovane fosse stato degno di
lui e del dio. E, allora, Socrate volgendosi ad Eressimaco: «E così, figlio di
Acumeno, ti sembra ancora fuori posto il mio timore di prima o non ho forse
previsto giusto, poco fa, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato benissimo
e che io mi sarei trovato in un bell'imbarazzo?» «Per il primo punto,» rispose
Eressimaco, «ti do anche ragione, cioè quando dici di aver previsto che Agatone
avrebbe parlato bene, ma che tu, poi, ti trovi nell'imbarazzo questo proprio
non lo credo.» «Ma come faccio a non esserlo, mio caro, e come me chiunque
altro dovesse parlare dopo un discorso così bello e così interessante? Certo in
qualche parte non è stato stupendo come nel resto, ma verso la fine chi non
sarebbe rimasto sbalordito di fronte a tanta bellezza di vocaboli e di
espressioni? Quasi quasi, pensando che non sarei mai stato capace di dire
qualcosa che solo si avvicinasse a tanta bellezza, stavo per fuggirmene dalla
vergogna. Perché il suo discorso m'ha fatto venire in mente Gorgia, tanto da
farmi sentire nella stessa situazione di cui parla Omero, temevo proprio, cioè,
che alla fine Agatone con il suo discorso, gettasse sul mio la testa di Gorgia,
di quel formidabile oratore, togliendomi l'uso della favella e facendomi
diventare di pietra. E ho capito, allora, di essere stato proprio un ingenuo
quando ho accettato di celebrare, insieme a voi, Amore, dicendo che ero un,
esperto su questo argomento, mentre invece, e me ne accorgo adesso, non sapevo
un bel niente, persino come si fa un elogio qualunque. Da quell'ingenuo che
sono credevo che nel fare l'elogio di chicchessia o di qualcosa si dovesse dire
la verità e che questa era la cosa fondamentale; poi pensavo che bisognasse
scegliere, tra le cose vere, le più belle e disporle nel modo migliore; ed ero
tutto contento del fatto mio, sicurissimo che avrei fatto un figurone dato che
conoscevo esattamente il modo di imbastire un elogio. E, invece, a quanto pare,
non è così che si fa un bell'elogio: bisogna al contrario fare le lodi più
sperticate e più belle, corrispondano o meno al vero: si vede che eravamo
d'accordo di lodare Amore, così, per burla, non di farne l'elogio seriamente.
Ed è per questo, credo, che voi tirate in ballo ogni sorta di argomenti e li
affibbiate ad Amore e affermate che egli è questo e quello ed è la causa di un
sacco di cose in modo che appaia bellissimo e perfettissimo ma, è chiaro, a chi
non lo conosce, non a quelli che ne sanno qualcosa. Sfido io che, così, il bel
panegirico è presto fatto. Ma io non conoscevo un simile sistema di far gli
elogi e proprio per questo fui d'accordo con voi di pronunciarne uno anche io,
seguendo il mio turno: la lingua lo promise, non il cervello. E, allora,
statevi bene, perché io un elogio con questo sistema non ve lo faccio, è più
forte di me. La verità, invece, se volete, eccomi qua, pronto a dirvela, a modo
mio, senza far gare con nessuno perché non ho proprio voglia di farmi ridere
dietro. Vedi tu, quindi, Fedro se è proprio necessario un discorso di questo genere
e sentire come veramente stanno le cose, a proposito dell'Amore, con quei
termini e con quello stile poi che lì per lì mi passeranno per la mente.» Ma
Fedro e gli altri, mi riferì Aristodemo, lo invitarono a parlare come volesse.
«E va bene, Fedro, però lasciami prima fare una piccola domanda ad Agatone,
perché voglio mettermi un po'd'accordo con lui e poi parlerò.» «Ma figurati,»
commentò Fedro, «fa pure.» E allora Socrate cominciò presso a poco così:
«Dunque, mio caro Agatone, m'è parso proprio buono l'inizio del tuo discorso
quando hai detto che prima di tutto bisogna esporre quale sia la natura d'Amore
e poi passare alle sue opere; un esordio che mi è proprio piaciuto. Ma ora,
dato che hai così magnificamente parlato su tutto quel che riguarda la natura
d'Amore, dimmi una cosa: Amore, è amore di qualche cosa o amore di nulla? Bada
che non ti chiedo se amore per una madre o per un padre (sarebbe ridicolo
chiedere se Amore sia amore verso la madre o il padre), ma come se ti chiedessi
a proposito del padre: il padre è padre di qualcuno o no? tu, certo, mi
risponderesti, se volessi darmi una risposta appropriata, che il padre deve
essere necessariamente padre di un figlio o di una figlia, non ti pare?» «Ah,
certamente,» ammise Agatone. «E la stessa cosa è per una madre?» Era d'accordo
anche in questo. «E rispondimi ancora,» proseguì Socrate, «a una piccola cosa
per capire meglio dove voglio arrivare: se ti chiedessi: e allora, un fratello,
come tale, è fratello di qualcuno?» «Sicuro che lo è.» «Fratello di un fratello
o di una sorella?» «D'accordo.» «Prova a dire la stessa cosa a proposito di
Amore: Amore è amore di qualcosa o amore di nulla?» «Certo amore di qualcosa.»
«Ebbene,» riprese Socrate, «questo tientelo per te bene a mente e dimmi,
invece: Amore desidera o meno ciò di cui è amore?» «Certo,» rispose. «E quel
che egli desidera e ama, l'ama e lo desidera perché lo possiede o proprio
perché, invece, gli manca?» «Probabilmente perché non lo possiede,» rispose.
«Sta attento,» insisté Socrate, «che non si tratta di probabilità, ma è
necessariamente logico che si desidera quello che non si possiede; quando si ha
una cosa, invece, non la si desidera affatto. Di qui non si scappa ed io ne
sono assolutamente convinto, tu no, invece?» «Ah, anch'io lo sono,» fece. «Ben
detto. Ed effettivamente uno che lo è già potrebbe desiderare di essere grande?
E essere forte uno che è già tale?» «Dopo quel che s'è convenuto, è
impossibile.» «Effettivamente, non può essere privo di queste qualità chi le ha
già.» «È chiaro.» «Eppure,» osservò Socrate, «se uno che è forte, volesse esser
forte o se è veloce, volesse essere veloce o, ancora, se è sano, volesse esser
sano, dato che qualcuno potrebbe pensare, di fronte a un esempio simile o a
casi del genere, che vi siano persone che pur possedendo tutte queste qualità,
tuttavia le desiderano sempre (ti sto dicendo questo per non lasciarci trarre
in inganno); ebbene, Agatone, se ci pensi, costoro che al momento posseggono
queste qualità, è inevitabile che le abbiano, lo vogliano o meno, e se le
posseggono già, come possono desiderarle? Ma se uno dicesse: ‹lo che son sano
voglio essere sano o, pur essendo già ricco, voglio essere ricco e desidero
questo che già posseggo,› gli potremmo rispondere: ‹Tu, caro mio, che hai già
ricchezze, salute, forza, vuoi continuarle ad avere anche per l'avvenire,
giacché, per il momento, tu voglia o non voglia, già le possiedi; pensa un po'
se, quando dici che desideri le cose che hai, tu non voglia dire, invece,
semplicemente, che desideri di possedere anche per l'avvenire quello che oggi
già possiedi.› Credi che non sarebbe d'accordo?» E Aristodemo mi riferì che
Agatone lo ammise. Socrate allora proseguì: «E desiderare che per l'avvenire ci
siano preservate le cose che noi già possediamo oggi, non vuol forse dire amare
quel che ancora non si possiede o di cui tuttora non si dispone?» «Certo,»
ammise. «E quindi, se Tizio o Caio desiderano qualcosa, sarà sempre ciò di cui
ancora non dispongono, che ancora non hanno o quelli che essi stessi non sono o
di cui si sentono privi; non è tutto qui il loro desiderio e il loro amore?»
«Senza dubbio,» fece. «Bene, ricapitoliamo, allora, quanto s'è convenuto.
Amore, prima di tutto è amore di qualcosa e, in secondo luogo, di ciò di cui si
è privi?» «Sì, sempre.» «E adesso ricordati quello che hai detto poco fa, che
cioè l'Amore tende a qualcosa. Se credi cercherò io di ricordartelo: se non
sbaglio, tu hai detto, su per giù, che le questioni tra gli dei s'aggiustarono
grazie all'Amore del bello e che per le cose brutte non c'è amore; non è questo
che hai detto?» «Sì, questo,» ammise Agatone. «E l'hai detto molto
opportunamente, mio caro,» riprese Socrate; «e se le cose stanno così, Amore,
che altro è se non amore del bello e non del brutto?» «D'accordo.» «Ma non
abbiam detto che si ama ciò di cui si è privi, ciò che non si ha?» «Sì,» fece.
«Dunque, l'Amore, non ha la bellezza, ne è privo.» «Per forza.» «E allora? Chi
è privo di bellezza, chi non ne ha, tu lo chiami bello?» «Affatto.» «Se le cose
stanno così, tu sei sempre del parere che Amore sia bello?» «Temo proprio,
Socrate, di non capir più niente di quel che ho detto,» esclamò Agatone.
«Eppure hai parlato bene, Agatone,» incalzò Socrate. «Ma dimmi un'altra
cosetta: quello che è buono, secondo te, non è anche bello?» «Per me sì.» «Se,
dunque, Amore non ha la bellezza e se quello che è bello è anche buono, egli
sarà anche privo di bontà.» «Io non sono in grado di contraddirti, Socrate e
quindi sia pure come tu dici.» «È la verità, Agatone carissimo, e tu non puoi
contestarla; Socrate, invece, sì, lo puoi contraddire e la cosa non è per
niente difficile.» «Ma sì, via, ora ti lascerò in pace. Vi racconterò,
piuttosto, quello che sull'Amore, mi disse un giorno una donna di Mantinea,
Diotima, molto dotta sull'argomento e su un'infinità di altre questioni.
Figuratevi che una volta, con i sacrifici che fece fare agli ateniesi, prima
della peste, riuscì a ritardare l'epidemia di dieci anni. Fu lei a erudirmi
nelle questioni d'amore e quindi, partendo dalle conclusioni che Agatone ed io
abbiamo tratto, cercherò di ripetervi, come posso, a parole mie, il discorso
che ella mi fece. Ebbene, proprio come tu dicevi, Agatone, bisogna definire
prima chi sia Amore, quale la sua natura e poi le sue opere. Ora io penso che
la cosa più facile per me, sia quella di seguire lo stesso metodo che usò
quella straniera quando discusse con me. Anch'io, infatti, le dicevo un po' le
stesse cose che ora mi ha ripetuto Agatone, cioè che Amore è un grande dio, che
è amore di cose belle ed ella cominciò a confutarmi con gli stessi argomenti,
precisamente, che io ho usati ora con costui, cioè che Amore non è né bello
(per usare le mie parole) né buono. Ed io: «Ma com'è che dici questo, Diotima?
Allora Amore è brutto e malvagio?» «Ma che? Ora ti metti pure a bestemmiare?»
fece lei. «Credi forse che ciò che non è bello debba necessariamente essere
brutto?» «Sicuro, io sì.» «E credi anche che chi non è sapiente, sia ignorante?
Ma non ti accorgi che c'è sempre una via di mezzo tra sapienza e ignoranza?» «E
quale?» «Avere un'opinione giusta, ecco, ma senza poterne dare una spiegazione;
non sai,» fece «che questo non è sapere (e come può esserlo se non se ne sa
dare una spiegazione?), ma non è nemmeno ignoranza (e come, infatti, potrebbe
se coglie nel vero?). Insomma, la retta opinione è qualcosa di simile, una via
di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza.» «È vero quello che dici,» ammisi io.
«E quindi non insistere a credere che ciò che non è bello debba essere, a tutti
i costi, brutto e ciò che non è buono, debba esser malvagio. E così anche a
proposito di Amore, visto che anche tu sei d'accordo che non è buono né bello,
non pensare che debba essere malvagio e brutto,» concluse, «ma qualcosa tra
questi due estremi.» «Eppure,» obbiettai io, son tutti d'accordo che è un dio
potente.» «Tutti chi?» ribatté lei, «quelli che non sanno o anche quelli che
sanno?» «Tutti quanti.» «Ma come fanno, Socrate, a dirlo un gran dio,» fece
lei, ridendo, «se affermano che non è nemmeno un dio?» «E chi sono questi?»
«Uno, intanto, sei tu, l'altra sono io.» «Ma come fai a dir questo?» «Semplice.
E tu, infatti, rispondimi: non affermi che gli dei son tutti beati e belli?
avresti il coraggio di dire che qualcuno non è bello o non è beato?» «Santo
cielo, io no,» risposi. «E beati, secondo te, non sono quelli che hanno bontà e
bellezza?» «Sicuro.» «Ma non hai convenuto che Amore desidera le cose buone e
belle, proprio perché ne è privo?» «Già, certo.» «E, allora, come può essere un
dio chi non ha né bellezza né bontà?» «Ah, no, assolutamente.» «Vedi, dunque,»
concluse, «che anche tu affermi che Amore non è un dio.» «Ma,
allora,» chiesi, «chi sarebbe Amore? Un essere mortale?» «Ma niente affatto.»
«Ma allora?» «Come nel caso precedente, qualcosa di mezzo, tra, il mortale e
l'immortale.» «E cioè, Diotima?» «Un demone possente, Socrate, che come tutti i
demoni, sta tra il divino e l'umano.» «E qual è il suo potere?» chiesi. «Quello
di interpretare e di recare agli dei le preghiere e i sacrifici degli uomini e,
agli uomini, i comandamenti e i premi degli dei per i sacrifici compiuti; nel
suo ruolo di intermediario, egli colma l'enorme distanza tra gli uni e gli
altri, così l'universo risulta in se stesso collegato. Da lui procede tutta
l'arte della divinazione, tutta la scienza sacerdotale, per quel che riguarda i
sacrifici e le iniziazioni e poi gli incantesimi, ogni sorta di profezie e la
magia. Dio non scende a contatto con l'uomo ma è attraverso i demoni che egli
parla e ha rapporto con gli uomini, sia quando sono svegli, sia durante il
sonno; e chi è sapiente in queste cose è un ispirato chi invece s'intende
d'altro, esercita, per esempio, una diversa arte o un mestiere qualsiasi, non è
che un manovale. Molti sono i demoni e di ogni specie. Amore ne è uno.» «E suo
padre e sua madre,» chiesi, «chi sono?» «È, una cosa lunga,» fece, «ma te la
racconterò ugualmente. Quando nacque Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto
e, tra gli altri, c'era anche Poro, il figlio di Metide. Avevano già finito di
pranzare, quando giunse Penia, per elemosinare, dato che sontuoso era stato, il
banchetto e se ne rimase sull'uscio. In quel mentre Poro, gonfio di nettare (il
vino infatti non era ancora conosciuto), se ne uscì nel giardino di Giove e,
mezzo ubriaco com'era, s'addormentò. Allora, Penia, sempre afflitta dalle sue
angustie, pensò se non le fosse possibile avere un figlio da Poro e così gli si
stese al fianco e restò incinta di Amore. Per questo Amore è compagno e
ministro di Afrodite, perché fu concepito nel giorno della sua nascita ed è,
nello stesso tempo, amante del bello perché bella è Afrodite. D'altro canto,
per il fatto che Amore è figlio di Poro e di Penia, si trova in questa
condizione. Anzitutto è sempre povero e tutt'altro che delicato e bello, come i
più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo,
vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle
strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt'uno con la
miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e
buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre
pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita
dedito a filosofare, abilissimo imbroglione, esperto di veleni, sofista.
Inoltre né immortale, né mortale, ma, in uno stesso giorno, sboccia rigoglioso
alla vita e muore, poi torna a vivere grazie a mille espedienti e in virtù
della natura paterna; sfumano tra le sue dita le ricchezze che si procura, così
che Amore non è mai al verde e mai ricco. Inoltre è a mezzo tra sapienza e
ignoranza. Ecco come: nessun dio s'occupa di filosofia, né ambisce a diventar
sapiente (ché già lo è), né, del resto, chi è sapiente, si dedica alla
filosofia; d'altra parte, nemmeno gli ignoranti si dedicano alla filosofia, né
ambiscono a diventar sapienti; e questo è il brutto dell'ignoranza, che chi non
è né bello, né buono, né saggio, crede, invece, di esserlo abbondantemente;
naturalmente chi non si accorge di esser privo di qualcosa, non desidera quello
di cui non sente il bisogno.» «Ma, allora,» feci io, «chi sono, Diotima, quelli
che si dedicano alla filosofia, se non sono né i sapienti, né gli ignoranti?»
«Ma è chiaro,» mi rispose, «anche un bambino lo capirebbe che son
quelli che stanno in una posizione intermedia, tra, i primi e i secondi e, tra
questi, c'è anche Amore. La sapienza, infatti, è tra le cose più belle e Amore
ama le belle cose e, quindi, necessariamente, è anche filosofo e, come tale,
sta fra il sapiente e l'ignorante. E la sua origine è un po' la causa di tutto
questo: suo padre è sapiente e pieno di estro, ma sua madre, invece, non lo è
affatto, è ignorante. Tale, Socrate, è la natura di questo demone. Come poi tu
immaginavi che fosse, non c'è da meravigliarsi; per quel che ho potuto capire
dalle tue parole, credevi che Amore fosse colui che si ama, non colui che ama.
Ecco perché, io penso, ti sembrava così bello. Infatti, chi è amato è veramente
bello, seducente, perfetto, degno di ogni felicità; colui che ama, invece, ha
un altro aspetto, quale io ti ho descritto.» Ed io: «E sia,
straniera, tu parli bene, ma se tale è Amore, che utilità arreca agli uomini?»
«È questo che ora cercherò di chiarirti, Socrate. Tale, dunque, è Amore e così
è nato: Amore del bello, come tu dici. Se qualcuno, ora, domandasse: ‹In che
senso, Socrate e Diotima, l'Amore è amore del bello› o più precisamente, ‹chi
ama le cose belle, ama, ma ama che cosa?›» «Che diventino sue,» risposi. «Ma
questa tua risposta,» mi precisò, «esige che si ponga un'altra domanda, di
questo genere, per esempio: ‹Che cosa gliene viene a chi possiede le cose
belle?›» Io risposi che, a una domanda simile, non sapevo sul momento che dire.
«E immaginiamo, allora, incalzò, che uno al posto del bello mettesse il bene e
che chiedesse: ‹Via, Socrate, chi ama il bene, ama, ma ama che cosa?›» «Che
diventi suo,» risposi. «E che cosa gliene viene a chi possiede il bene?» «A
questo,» dissi, «mi è più facile rispondere: sarà felice.» «E, infatti,
concluse, è proprio per il possesso del bene che le persone felici sono tali e
non è proprio il caso di star lì a chiedersi perché uno vuole essere felice. Mi
pare che la domanda abbia già avuto la sua risposta definitiva.» «È vero quello
che dici,» ammisi. «E allora, questo desiderio e questo amore, credi siano un
po' comuni a tutti gli uomini e che tutti desiderano sempre possedere il bene o
pensi diversamente?» «Sì, io credo proprio che siano comuni a tutti,» feci. «E,
allora, Socrate,» continuò, «come mai non diciamo che tutti quanti gli uomini
amano dato che tutti desiderano sempre le stesse cose, ma diciamo, invece, che
solo alcuni amano ed altri no?» «Anch'io me ne meraviglio,» ammisi. «E non devi
stupirtene,» riprese, «siamo noi, infatti, che prendiamo, dell'amore, soltanto
un aspetto e a questo solo diamo il nome generico di ‹amore›, mentre per il
resto usiamo altri appellativi.» «Cioè,» chiesi. «Ecco, tu sai che la poesia è
creazione ed ha un significato quanto mai vasto; tutto ciò, infatti per cui
qualcosa passa dal non essere all'essere, è poesia e, quindi, ogni attività creativa
è poesia e tutti i creatori sono poeti.» «È vero.» «Ma intanto,» continuò lei,
«sai che non tutti sono chiamati poeti, ma con altri nomi; di tutte le attività
creative, solo alcune e precisamente quelle che si occupano della musica e
della metrica, noi chiamiamo poesia; solo questa è poesia e poeti, solo quelli
che si dedicano a questo particolare aspetto della poesia.» «È vero,» ammisi.
«E così è anche per l'amore. In genere ogni desiderio di bene e di felicità è,
per ognuno, ‹possente e ingannevole amore›, ma mentre quelli che cercano di
realizzarlo per altre vie, come per esempio attraverso i guadagni o
l'educazione fisica o la filosofia, noi non diciamo che amano né che sono
amanti, gli altri, invece, quelli che seguono e preferiscono un particolare
tipo d'amore, ne prendono anche il nome generico: amore, amare, amanti.»
«Sembra proprio che tu abbia ragione,» confermai. «Eppure va in giro un certo
discorso secondo il quale gli amanti sono quelli che cercano la loro metà. La
mia opinione, invece, è che non esiste amore né per la metà, né per l'intero, a
meno che, mio caro, non si tratti di un bene; perché gli uomini si lascerebbero
tagliare volentieri e mani e piedi se li credessero dannosi per loro, perché io
credo che nessuno ami le cose proprie a meno che ciò che ci appartiene non sia
il bene e ciò che ci è estraneo, invece, il male; infatti, gli uomini non amano
altro che il bene. Non pare anche a te?» «Per Giove, a me sì,» ammisi. «E,
dunque, possiamo senz'altro affermare che gli uomini amano il bene?» «Sì,»
confermai. «Ebbene, non bisogna aggiungere che essi, questo bene,
desiderano anche possederlo?» «Sicuro.» «E non solo possederlo per un momento,
ma per sempre?» «Sicuro, anche questo bisogna aggiungere,» feci. «Per
concludere, l'amore è possesso perenne del bene.» «È verissimo quello che
dici,» feci. «Ora, se questo è l'amore,» proseguì, «quando è che
la sollecitudine e lo sforzo di quelli che, in ogni modo e in ogni azione, lo
perseguono, può chiamarsi, appunto, amore? Quand'è, insomma, che questo
succede? Sai rispondere?» «Se lo sapessi, Diotima, non sarei così pieno di
meraviglia per la tua sapienza, né sarei venuto da te per imparar tutto
questo.» «E, allora, te lo dirò io: quando si concepisce nel bello, sia da
parte del corpo che da parte dello spirito.» «Bisognerebbe essere indovini,»
azzardai io, «per capire quello che dici ed io, proprio non lo sono.» «Mi
spiegherò più chiaramente,» fece. «Tutti gli uomini, Socrate, hanno in loro,
nel corpo come nell'anima, un seme fecondo e quando giungono a una certa età,
come per un bisogno naturale, desiderano produrre qualcosa; concepire nel
brutto, però, non è possibile, nel bello, invece, sì. Così l'unione dell'uomo
con la donna è procreazione ed è veramente quest'atto una cosa divina, questo
concepire e generare è veramente ciò che di immortale ha la creatura che pure
ha vita mortale. Ma tutto ciò non può avvenire nella disarmonia; e disarmonia,
rispetto a tutto ciò che è divino, è il brutto, come il bello è armonia. Quindi
la bellezza fa da Parca e da Ilitia al miracolo della vita. Per questo, quando
chi ha dentro di sé un seme fecondo, si avvicina al bello, diventa sereno,
atteggia a letizia l'animo suo e allora crea, produce; quando, invece,
s'accosta al brutto, allora, s'incupisce, si chiude in se stesso tutto
afflitto, si ritrae, si ravvolge e non genera ma resta col suo seme fecondo e
ne soffre. Di qui, nella creatura feconda e già ricca, sorge un intenso
desiderio per tutto ciò che è bello perché il bello soltanto libera chi lo
possiede da atroci doglie. Infatti, Socrate,» concluse, «Amore non è amore del
bello, come tu credi.» «Ma, allora, cos'è?» «produrre e creare nel bello.» «E
sia,» ammisi. «Sicuro,» confermò lei. «E perché questo generare? Perché
generare è quanto di sempre rinascente e immortale vi possa essere in una
creatura mortale. E l'immortalità è naturale che si desideri come il bene,
almeno da quel che abbiamo convenuto se è vero che amore è possesso perenne del
bene; ne consegue, inoltre, da tutto questo discorso che l'amore è amore di
immortalità.» Queste cose ella mi insegnava, quando indugiava a
parlarmi di questioni d'amore e, un giorno, mi chiese: «Quale pensi, Socrate,
sia la causa di tutto questo amore, questo desiderio? Non vedi in che terribile
stato son tutti gli animali, sia quelli che camminano sulla terra che quelli
che volano nel cielo, quando son presi dal desiderio di generare, malati tutti
d'amore, prima per il desiderio d'accoppiarsi tra loro, poi per la cura e per
l'allevamento dei loro nati, e son pronti a combattere per essi, perfino i più
deboli contro i più forti e a dare la vita oppure a lasciarsi morire di fame
per nutrirli e a far qualunque altra cosa. Gli uomini, si può dire, che
facciano tutto questo perché dotati di ragione ma, negli animali, donde
proviene questa disposizione all'amore? Sai dirmelo?» E io ancora ad ammettere
di non saperlo. «E credi,» continuò ella, «allora di diventare un esperto nelle
questioni d'amore se non sai nemmeno questo?» «Ma proprio per questo, Diotima,
come t'ho già detto, io son qui, perché so che ho bisogno di maestri. Dimmela
tu, dunque, la causa di queste cose e di tutto ciò che riguarda l'amore.»
«Orbene, se tu sei convinto che l'amore, per natura, tende a ciò su cui più
volte s'è discusso, non devi meravigliarti; anche ora vale il discorso di prima
che cioè la natura mortale tende, sempre, per quanto le sia concesso, di essere
immortale. E le è possibile in un modo soltanto, attraverso la procreazione,
per cui essa lascia sempre un essere nuovo al posto del vecchio, il che succede
anche nella vita di ogni creatura, quando si dice che resta sempre la stessa;
si dice, per esempio, che uno è sempre la stessa persona, da quando è bambino
fino a che è vecchio; in effetti, si dirà che è sempre lo stesso individuo, benché
in lui molte cose si mutino; ma si rinnova continuamente, perdendo sempre
qualcosa, nei capelli, nelle sue ossa, nel suo sangue, insomma in tutto il suo
corpo. E non solo nel corpo, ma anche nell'animo: sentimenti, abitudini, modo
di pensare, desideri, piaceri, dolori, timori, ognuna di queste cose non resta
sempre la stessa in un individuo, ma si rinnova e poi muore. Ma quel che è
ancora più straordinario è che anche le nostre cognizioni non solo nascono e
periscono e quindi noi non siamo sempre gli stessi nemmeno per quel che
riguarda il nostro sapere, ma ciascuna, presa in se stessa, segue, anch'essa
sempre la stessa sorte. Infatti quel che si dice esercitarsi nello studio
presuppone che qualche cognizione possa sfuggire; dimenticare, infatti, vuol dir
perdita di cognizioni, l'esercizio nello studio, invece, suscita un nuovo
ricordo al posto di quel che s'è perduto e salva il sapere in modo che esso
appaia sempre eguale. Del resto è in questo modo che si perpetua tutto ciò che
è mortale, non col rimanere sempre e immutabilmente se stesso, come ciò che è
divino, ma lasciando - ciò che invecchia e vien meno - qualcosa di nuovo al suo
posto in tutto simile ad esso. Ecco, Socrate,» concluse, «in che modo tutto ciò
che è mortale, sia esso corpo od altro, ha la possibilità di partecipare
dell'immortalità; diversamente non c'è altro mezzo. Non stupirti, quindi, se
ogni creatura, per legge naturale, cura e protegge il suo seme, perché in
tutti, questo zelo e questo amore nascono dal desiderio dell'immortalità.»
Ed io sentendola parlare così, tutto stupito, le chiesi: «Ma
sapientissima Diotima, sono proprio vere queste cose?» Ed ella con un fare
tipicamente cattedratico: «Persuaditi pure, Socrate, che è proprio così; basta
che tu faccia caso al desiderio di onori che hanno gli uomini; se tu non
riflettessi a quel che ho detto, ti meraviglieresti della loro follia,
considerando quanto grande è il loro desiderio di diventar famosi e acquistar
gloria immortale per l'eternità e come per questo siano disposti a correre
tutti i rischi, più che per i loro figli e sperperare ricchezze, sopportare
fatiche, sacrificare perfino la loro vita. Credi proprio che Alcesti sarebbe
morta per Admeto o Achille per Patroclo o il vostro Codro per conservare il
regno ai figli, se essi non avessero creduto che sarebbe rimasta immortale la
loro memoria, quale oggi noi la serbiamo? Assolutamente,» disse. «Invece, credo
che ognuno faccia di tutto per ottenere merito imperituro le fama gloriosa (e
questo quanto più si è migliori) affascinato com'è dall'immortalità. E così
quelli che han fecondo il corpo si volgono essenzialmente alle donne e il loro
modo d'amore si risolve nel generare figli e così procurarsi secondo loro,
immortalità, memoria e felicità per tutto il tempo a venire. Quelli, invece,
che han feconda l'anima (e ve ne sono fecondi spiritualmente più di quanto non
lo siano nel corpo), di una fecondità, beninteso che si addice all'anima, ma
quale? la saggezza e ogni altra specie di virtù,» diceva, «di cui tutti i poeti
sono gli artefici, insieme a quegli artigiani che hanno il nome di inventori;
la più alta e più bella forma di saggezza è quella relativa all'ordinamento
dello Stato e di ogni organismo sociale, quella che prende il nome di prudenza
e di giustizia. Dunque, quando uno di quelli, quasi esseri divini, fin da
giovane, ha l'animo fecondo di tali cose e quando, giunto all'età giusta,
desidera creare e produrre, io credo che anche lui vada alla ricerca del bello
in cui generare; perché nel brutto non lo farà mai. Quindi, fecondo com'è,
sentirà maggiore attrazione per le belle sembianze che per le brutte,
figuriamoci poi se, in più, incontra un'anima bella e gentile; quando si
rallegra di questo felice connubio, accanto a una simile creatura egli sentirà
tutto un fervore di ammaestramenti sulla virtù e sul come un uomo per bene
debba comportarsi, iniziando, così, la sua opera di educatore. Infatti, penso
che a contatto con una bella creatura, convivendole accanto, egli esprima e dia
alla luce ciò che da tempo custodiva dentro e, o che le stia vicino o che le
stia lontano, sempre la porta alla memoria e nutre, insieme con lei, ciò che è
nato dalla loro unione; e tra loro nasce un'intimità, un legame molto più
profondo di quello che lega i genitori ai figli, un affetto più intenso dato
che hanno in comune figlioli più belli e immortali. Ognuno preferirebbe figli
simili piuttosto che creature umane e guardando a Omero o a Esiodo o agli altri
grandi poeti non può non provare invidia pensando quale progenie, immortale
essa stessa, essi hanno lasciato, che ha loro assicurato memoria e gloria
eterna o, se tu vuoi, diceva, figli come quelli che Licurgo lasciò a Sparta, a
salvezza di Sparta o meglio ancora di tutta la Grecia; così presso di voi è
onorato Solone per avervi dato le leggi e così altrove, altri grandi uomini,
sia in Grecia che nei paesi stranieri, che hanno compiuto molte e
belle opere, realizzando ogni sorta di virtù. Per questi loro fieli sono già
stati tributati ad essi molti onori, il che mai nessuno s'ebbe per quelli di
carne e di ossa.» «Ebbene, Socrate, io penso,» continuò, «che
anche tu potresti essere iniziato alle cose d'Amore, ma fin qui; a un grado più
alto, a quello contemplativo, cui si giunge appunto passando attraverso questi
stadi, sempre che si proceda sulla via giusta, non credo tu sia adatto.
Tuttavia te ne parlerò egualmente e farò del mio meglio,» disse; «tu cerca,
intanto, di seguirmi come puoi. Dunque,» incominciò a dire, «è necessario,
prima di tutto che chi vuol tendere a questo fine, debba, fin da giovane,
avvicinarsi alla bellezza fisica e, sin dall'inizio, se chi lo guida lo dirige
bene, amare una sola persona e ad essa rivolgere i migliori discorsi;
successivamente dovrà pur rendersi conto che la bellezza che alberga nel corpo
di una persona, è sorella di quella che può esservi in ogni altra e che quindi
se bisogna ricercare quella bellezza che è insita nelle forme visibili, sarebbe
sciocco pensare che essa non sia identica e uguale per tutti i corpi; convinto
di questo deve, allora, sentire trasporto per tutti quelli che hanno belle
sembianze e frenare un po' la sua passione nei riguardi di una sola persona,
riconoscendo come ciò sia meschino e mediocre. Ma, infine, deve ben comprendere
che la bellezza spirituale ha pregi assai maggiori di quella fisica, di modo
che se dovesse incontrare una creatura dall'anima bella ma dal corpo non
florido, se ne contenti egualmente ed ugualmente se ne innamori e le mostri
sollecitudine e sia l'autore di discorsi tali che rendano migliori i giovani,
per cogliere poi, da qui, la bellezza che è nelle azioni e nelle istituzioni
umane e comprendere come essa sia, ovunque, sempre se stessa e persuadersi come
la bellezza fisica sia ben piccola cosa. Dopo le attività umane, si rivolga
alla scienza per conoscerne la bellezza e ammirarne l'ampio dominio sul quale
ormai ella si spande: così non sarà più come uno schiavo, preso d'amore per un
sol giovinetto o per un solo uomo o per una sola attività, non sarà più succube
inetto e meschino ma, rivolto allo sterminato oceano della bellezza e
contemplandolo, potrà dar vita a molti e bei discorsi, a splendidi pensieri
concepiti nell'amore infinito per la sapienza finché egli stesso, rinvigorito e
arricchito, non riuscirà a scorgere che una scienza unica che ha per oggetto la
stessa bellezza. Ma cerca, ora,» continuò, «più che puoi, di farmi
attenzione. «Chi è stato, via via, guidato fin qui nelle questioni
d'amore attraverso la contemplazione delle cose belle, quando sarà giunto al
termine di questa iniziazione, scorgerà, Socrate, a un tratto, una meravigliosa
bellezza, quella stessa che era un po' la ragione di ogni sua precedente
fatica, una bellezza, anzitutto, eterna, che non ha origine né fine, che non
cresce né si consuma e, inoltre, che non è per un verso bella e per un altro
brutta o che a volte sì e a volte no, né bella da un punto di vista e brutta da
un altro, né bella qui e brutta là, come se lo fosse per alcuni e per altri no,
né, questa bellezza, gli apparirà con un volto o con due mani, né come qualcosa
che possa riferirsi ad alcunché di corporeo e nemmeno come discorso o come
dottrina, né come quella che possa esistere in qualche altra cosa, in altri
esseri viventi, per esempio, o nella terra o nell'aria o altrove, ma quale essa
è, in sé e per sé, sempre uniforme e mentre tutte le altre cose belle che di
quella partecipano, nascono e periscono, essa non ha alterazione di sorta, in
più o in meno, non subisce mutamento. E così, quando sollevandosi dalle cose
terrene, in virtù anche dell'amore che si porta ai giovinetti, uno comincia a
scorgere questa bellezza, allora potrà dire di essere vicino alla meta. Infatti
questo è il retto cammino per procedere da soli o insieme a una guida verso le
questioni d'amore, cominciare, cioè, dalle cose belle di quaggiù e, avendo come
fine ultimo questa bellezza, innalzarsi continuamente, come su una scala, da
uno a due, da due fino a tutti i bei corpi e da questi alle belle occupazioni e
poi alle belle scienze, finché non si giunga a quella scienza che di null'altro
è scienza che della stessa bellezza e finché non si conosca, giungendo, così,
alla meta, il Bello in sé. Questo, caro Socrate,» diceva la straniera di
Mantinea, «è il momento della vita che più di ogni altro, per un uomo, val la
pena di vivere: quando giunge alla contemplazione della Bellezza in sé. Se una
volta sola tu riuscirai a vederla, oh, ti sembrerà assai più preziosa dell'oro
o di una veste o degli stessi bei fanciulli e giovinetti che ora guardi non
senza un palpito e per i quali, tu e molti altri, se fosse possibile, rimarreste
anche senza mangiare e senza bere, pur di poterveli sempre contemplare e stare
in loro compagnia. Cosa succederebbe allora,» continuava a dire, «se uno
riuscisse a vedere la Bellezza in sé, in tutta la sua adamantina purezza e non
già quella offuscata dalla carne, dai colori, da tutte le altre vanità terrene,
se gli riuscisse, insomma, di scoprire la Bellezza in sé, divina e uniforme?
Credi forse che sarebbe miserabile la vita di quest'uomo che fissasse quel
punto, lassù e lo contemplasse come va contemplato, congiunto con esso? Ed è
soltanto in quel punto,» continuava, «contemplando la bellezza con quella
facoltà che la rende visibile, che egli potrà dar vita non a parvenze di virtù,
dato che non è a una falsa immagine di bellezza che egli si è accostato, ma a
una virtù vera, per il fatto che egli è nella verità; non pensi, del resto, che
avendo dato vita alla virtù vera e avendola continuamente alimentata, costui
potrà diventare caro agli dei ed essere anch'egli immortale, se mai altro uomo
lo è stato?» Queste cose, Fedro e anche tutti voi, Diotima mi ha detto ed io ne
sono rimasto persuaso e come tale, quindi, cerco ora di persuadere gli altri
che per il conseguimento di tanto bene, non è facile che l'uomo trovi chi possa
meglio soccorrerlo dell'Amore. Per questo io affermo che ogni uomo deve onorare
Amore, come io stesso faccio esercitandomi nelle sue discipline ed esorto gli
altri a fare altrettanto ed ora e sempre esalto la potenza e la forza d'Amore,
nel modo che ne sono capace. Ed ora, Fedro, questo discorso giudicalo, se
credi, come un elogio d'Amore, altrimenti definiscilo pure come meglio ti
piace.» Quando Socrate ebbe concluso, continuò a riferirmi
Aristodemo, e mentre tutti ne elogiavano il discorso, Aristofane stava per intervenire,
perché Socrate aveva a un certo punto, fatto un'allusione sul suo conto a
proposito di una certa teoria. Ma ecco che, a un tratto, si sentì picchiare
alla porta dell'atrio e, poi, un gran vociare, come di gente allegra e la voce
di una suonatrice di flauto. «E, allora, ragazzi, non correte a vedere?»
esclamò Agatone ai servi; «se è gente di casa, fatela pure entrare, altrimenti
dite che abbiam già finito di bere e stiamo riposando.» Dopo un po' si udi
nell'atrio la voce di Alcibiade, ubriaco fradicio, che urlava a squarciagola
chiedendo dove fosse Agatone e che lo conducessero da lui. Egli, infatti,
comparve sulla soglia, sostenuto dalla suonatrice di flauto e da alcuni della
compagnia e s'avanzò verso i convitati, incoronato da una folta ghirlanda di
edera e di viole e con la testa piena di nastri. «Salve, amici,» esclamò, «lo
volete con voi, a bere, un uomo già completamente ubriaco? Oppure possiamo
soltanto mettere questa corona in testa ad Agatone, dato che siamo venuti per
questo e poi filarcela subito? Ieri non mi è stato possibile venire e così
eccomi qua ora, con questi nastri in testa, per passarli su quella di uno che,
senza offesa per nessuno, è il più sapiente e il più bello di tutti. Ma voi
ridete perché sono ubriaco? E ridete pure, tanto lo so; ma, piuttosto, ditemi,
posso o non posso entrare? Berrete con me, o no?» Tutti allora si misero ad
applaudirlo e gli dissero di entrare e di prender posto in mezzo a loro. Anche
Agatone lo invita ed egli si fa avanti sorretto dai suoi amici e, togliendosi dal
capo i nastri, fa le mosse di incoronarlo senza accorgersi che Socrate era
proprio lì, sotto i suoi occhi, al punto che, quando egli si pose a sedere in
mezzo a loro, questi dovette scostarsi per fargli posto. Non appena si fu
accomodato, cominciò ad abbracciare Agatone e a cingerlo di ghirlande.
«Ragazzi,» veniva, intanto, dicendo Agatone, «slacciate i sandali ad Alcibiade,
ché si metta comodo e sia terzo tra noi due.» «Benissimo,» approvò Alcibiade,
«ma chi è questo terzo?» e così dicendo si volse e vide Socrate; a quella vista
fece un balzo: «Santi numi,» esclamò, «ma chi è questo? Proprio Socrate? Ti sei
messo qui per giocarmi ancora qualche tiro e mi compari davanti, al tuo solito,
quando meno me l'aspetto. Che sei venuto a fare? E perché ti sei messo qui e
non vicino ad Aristofane o a qualche altro che voglia fare lo spiritoso? Ma
tanto hai fatto che ti sei piazzato vicino al più bello.» E Socrate: «Vedi un
po' di difendermi tu, Agatone, perché l'affetto di quest'uomo mi sta dando non
pochi fastidi. Da quando, infatti, mi sono legato a lui, non posso più guardare
una persona di bello aspetto, né stare un po' a conversare con nessuno perché,
geloso e invidioso com'è, mi salta su e me ne dice un sacco e poco ci manca che
non mi metta le mani addosso. Sta attento, quindi, che anche ora non me ne
faccia una delle sue e cerca di mettere un po' di pace tra noi e difendimi, se
egli vuol farmi ancora qualche sfuriata, perché comincio proprio ad aver paura
delle sue manie e del suo temperamento eccessivo.» «Niente affatto,» gridò
Alcibiade, «fra te e me, nessuna pace e di quello che hai detto faremo i conti
dopo. Ora tu, Agatone,» riprese, «dammi un po' di questi nastri, ché incoroni
anche lui, questa testa meravigliosa, in modo che non s'abbia poi a lagnare che
ho cinto te di ghirlande e lui niente, lui che nel parlare vince tutti e
sempre, non una volta sola, come te, ieri.» E così dicendo prese
dei nastri e incoronò Socrate, mettendosi, poi, comodo. «E allora
signori,» esclamò quando si fu messo a suo agio, «mi sa che qui volete fare gli
astemi; non ve lo posso permettere; bisogna, invece, bere, così eravamo
d'accordo. Fino a quando non avremo preso l'avvio, i brindisi li dirigo io.
Avanti, Agatone, fa portare una bella coppa, di quelle grandi, anzi, anzi, non
ce n'è bisogno; invece, ragazzo, dà qui quel vaso per tener il vino in fresco.»
Ne aveva, infatti, intravisto uno che conteneva più di otto quartini
abbondanti. Dopo esserselo riempito, se lo scolò per primo; poi disse di
riempirlo per Socrate, soggiungendo: «Amici belli, con Socrate, però, non c'è
niente da fare: più gli se ne versa e più ne beve e non c'è caso che si
ubriachi.» Infatti, appena il servo versò, Socrate prese a bere. Ma Eressimaco,
intervenendo. «Ma così che facciamo, Alcibiade? Vogliamo proprio starcene coi
bicchieri in mano, senza dire una parola, senza cantare un po', vogliamo
proprio darci sotto come tanti assetati?» «Salve, mio caro Eressimaco,» esclamò
allora Alcibiade, «ottimo figlio di ottimo e assennatissimo padre.» «Salute anche
a te,» rispose Eressimaco, «e, allora, che facciamo?» «Ai tuoi ordini, siamo
qui per obbedirti: poiché un medico regge da solo il confronto con molti.
Perciò, comanda quello che vuoi.» «Stammi a sentire, allora,» fece Eressimaco;
«prima che tu venissi si era stabilito che ognuno di noi, partendo da destra,
facesse un discorso in lode di Amore, come meglio ne fosse capace. Noi abbiamo
già tutti quanti parlato, tu, invece, no e dato che hai bevuto, è giusto che
ora tocchi a te; dopo, potrai proporre a Socrate quello che vorrai e lui, a sua
volta, passerà l'invito al compagno che è alla sua destra e così gli altri.»
«Oh, un'ottima idea la tua, Eressimaco,» fece Alcibiade, «solo che non puoi
mettere a confronto il discorso di un ubriaco con quello di gente che s'è
mantenuta sobria; e poi, mio caro, tu ci credi a quello che Socrate ha detto un
momento fa? Non lo sai che è invece, tutto il contrario? Questo qui, se io mi
metto in sua presenza a fare le lodi di qualcuno, uomo o dio che sia, solo per
il fatto che non si tratta di lui, mica me le risparmia le legnate.» «Ma la
vuoi piantare?» fece Socrate. «Per mille tempeste,» rimbeccò Alcibiade, «è
inutile che protesti; in tua presenza io non posso lodare nessun altro.» «E
allora, fa così,» intervenne Eressimaco; «se vuoi, loda Socrate.» «Come dici?»
fece Alcibiade. «Vuoi proprio, Eressimaco, che io me la pigli con questo tipo e
mi vendichi davanti a voi?» «Ma che ti salta in testa,» intervenne Socrate, «di
prendermi in giro con la scusa dell'elogio? Ma che intenzioni hai?» «Dirò la
verità e tu vedi se ti garba.» «Allora, sicuro, la verità te la concedo, anzi
voglio che tu la dica.» «Eccomi subito a te,» fece Alcibiade, «e tu, intanto fa
una cosa: se io non dico il vero, interrompimi se vuoi e dì pure che sto mentendo,
per quanto io, di bugie, non ho intenzioni di dirne. Se, poi, nel riferire i
fatti, io non andrò per ordine, non meravigliarti, perché non è certo facile,
nello stato in cui sono, fare l'elenco ordinato e completo di tutte le tue
stranezze.» «Ebbene, signori, io, Socrate comincerò a lodarlo
così, per immagini. Lui, crederà che io voglia continuar nello scherzo e
invece, le immagini mi serviranno per precisare la verità, non per scherzare.
Comincio col dire, infatti, che egli somiglia a quei sileni che si vedono nelle
botteghe degli scultori, che hanno in mano zampogne e flauti, fatti in modo
che, aprendosi a metà, mostrano, all'interno, immagini di divinità; e soggiungo
anche che somiglia al satiro Marsia. Eh, sì, Socrate, ci somigli proprio,
almeno nell'aspetto, tu stesso non puoi negarlo; e sta a sentire come poi ci
somigli anche nel resto. Non sei forse petulante, e ti posso portare i
testimoni se non vuoi ammetterlo. E non sei un suonatore di flauto? E come
assai più portentoso di Marsia. Lui aveva bisogno dello strumento per incantare
gli uomini a forza di fiato e così, anche oggi, deve fare lo stesso chi vuol
suonare le sue melodie; (quelle che suonava Olimpo, infatti, erano di Marsia,
che gliele aveva insegnate). Insomma le sue melodie, sia che le suoni un
flautista di vaglia o una suonatrice di mezza tacca, sono le sole a
commuoverci, a farci quasi sentire il desiderio di dio, divine come sono e di
iniziarci ai suoi misteri. Tu soltanto in questo gli sei diverso, che senza
strumento, con le sole parole, ottieni lo stesso risultato. Infatti noi, quando
ascoltiamo qualcuno che parla, fosse pure il più bravo oratore di questo mondo,
di quello che dice, non ce ne importa niente, per così dire, proprio niente di
niente; quando invece ascoltiamo te, o anche soltanto un altro che riferisce i
tuoi discorsi, fosse pure un buono a nulla, quanti ne siano, uomini, donne o
giovani, restiamo tutti sbalorditi e affascinati. Quanto a me, signori, se non
temessi di passare completamente per ubriaco, vi direi, dietro giuramento,
quello che ho provato e provo ancora quando questo qui comincia a parlare.
Quando lo sto a sentire, il cuore mi si mette a battere forte, peggio di quello
dei Coribanti, alle sue parole mi vengono giù le lacrime e vedo tutti gli
altri, ma tutti, quanti ne sono, che provano la stessa impressione. Quando
invece sentivo parlare Pericle o altri bravi oratori, mi rendevo conto che
anch'essi parlavano bene, eppure non provavo niente di simile, non mi sentivo
l'anima in tumulto, né turbata al pensiero di essere una ben povera cosa. Ma
per costui, invece, per questo Marsia qui, quante volte mi son sentito come se
non mi fosse più possibile vivere come vivevo. E non dirai mica, Socrate, che
tutto questo non sia vero? Ed io sono convinto che anche adesso, se decidessi
di ascoltarlo, non riuscirei a resistere e proverei le stesse emozioni. Egli,
inevitabilmente, mi farebbe persuaso delle mie molte deficienze e che, perciò,
invece, di badare un po' a me stesso, m'intrigo dei fatti degli Ateniesi. E
così, mio malgrado, io mi tappo le orecchie, come se fossi in mezzo alle sirene
e scappo via perché non voglio mica invecchiare vicino a lui. Soltanto davanti
a quest'uomo io ho provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di
vergognarmi. Davanti a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la
forza di contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di fare, ma poi, appena
mi allontano da lui, ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore
popolare; così lo evito e lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le
cose di cui mi ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe
addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi, so
benissimo che questo mi addolorerebbe assai di più e così, con un
uomo simile, non so proprio come fare. «E così, questi sono gli
effetti che io e tanti altri proviamo per le melodie che questo satiro sa tirar
fuori dal suo flauto. Ma state ancora a sentire come egli somiglia anche nel
resto a quelli cui l'ho paragonato, e quale straordinario potere egli ha.
Mettetevelo bene in testa, costui nessuno lo conosce: ma ve lo farò conoscere
io, dato che mi ci trovo. Guardatelo qui, Socrate, pronto sempre a innamorarsi
dei bei giovanotti, a corteggiarli, a perdere addirittura la testa; mica poi
che capisca qualcosa, non sa proprio niente, almeno dall'apparenza. E questo
non significa essere un sileno? Altro che: lo stesso aspetto esterno di una di
quelle statuette di sileni; ma dentro, se lo aprite, ve la immaginate,
commensali miei, la saggezza che ha? E poi, dovete sapere che a lui, non gliene
importa niente se uno è bello, anzi lo tiene in così poco conto, che non ne
avete l'idea; e se uno è ricco e ha tutto quello che, secondo la gente fa beato
un uomo, egli dice che tutto questo non vale un bel niente, anzi che noi stessi
siamo addirittura delle nullità, questo ve l'assicuro io. E per giunta passa la
vita, poi, a fare il finto tonto e a pigliarsi un po' gioco di tutti. Se poi fa
sul serio, però e si lascia veder dentro, non so se l'avete mai viste le
bellezze che ha. Io però le ho viste, una volta, e mi son sembrate così divine,
così preziose, stupende e straordinarie, che mi sentii soggiogato e pronto a
fare tutto ciò che Socrate avesse voluto. Credendo che egli s'interessasse alla
mia bellezza, pensai che era proprio un'occasione e una bella fortuna la mia
se, cedendogli i miei favori, avessi potuto apprendere da lui tutte le cose che
sapeva: io infatti andavo tutto superbo della mia bellezza. Con queste
intenzioni, allora, io che prima non ero solito restarmene da solo con lui,
senza la compagnia di un servo, un bel giorno congedai il mio schiavo e rimasi
solo con lui. Bisogna che ve la dica tutta la verità e voi fate attenzione e se
dico bugie, Socrate, smentiscimi pure. E così me ne rimasi solo soletto con lui
ed io credevo che egli avrebbe subito attaccato con quei discorsi che di solito
un innamorato fa al suo ragazzino, quando si trovano a tu per tu ed ero tutto
contento. Invece, niente da fare ma, come al solito, parlò con me e giunta la
sera, se ne andò. Vedendo questo, lo invitai, allora, a far ginnastica insieme
a me, cominciai a esercitarmi con lui e speravo di concludere qualcosa. Anche
lui, in verità, faceva i suoi bravi esercizi con me e lottavamo insieme, spesso
senza che nessuno fosse presente. Ebbene, ve lo devo dire? Non ne cavai un bel
niente. E quindi, visto che in questo modo non combinavo nulla, pensai che con
un uomo simile bisognasse adoperare le maniere forti, altro che lasciar
perdere, dato poi che mi ci ero messo, e vedere un po' come andava a finire la
faccenda. E così lo invita a cena, addirittura come fa uno spasimante quando
vuol far cascare la persona amata. Macché, mica accettò subito; tuttavia, dopo
qualche tempo, si convinse. La prima volta che venne, però, volle andarsene
subito, appena mangiato; quella volta io mi vergognai un po' e lo lasciai
andare. La volta appresso, però, gli tesi il laccio e dopo che finimmo di
mangiare, gli impiantai una discussione che si protrasse fino a tarda notte e
così, quando fece le mosse di congedarsi, io gli dissi che ormai s'era fatto
tardi e quindi lo convinsi a fermarsi. Così egli si mise a riposare in un letto
accanto al mio, lì dove aveva cenato: nella sala, nessun altro avrebbe dormito
tranne noi due. Fin qui niente di male nel mio racconto e anzi potrei
continuare a parlare di fronte a tutti ma, a questo punto, io non
vi darei più nulla se, anzitutto, nel vino, come dice il detto (aggiungeteci
pure i bambini o meno) non vi fosse la verità e poi perché mi sembrerebbe proprio
una cosa ingiusta, dal momento che sto facendo l'elogio di Socrate, passare
sotto silenzio il suo nobilissimo comportamento. Oltre a questo, ancora, io mi
sento come uno che è stato morso da una vipera che, a quel che si dice, non
vuol raccontarlo a nessuno, tranne a quelli che sono stati anch'essi morsi, ai
soli, cioè, che potrebbero comprendere e compatire i suoi gesti e tutte le
frasi che si dicono sotto l'influsso del dolore. Ed io che sono stato punto dal
morso più doloroso e nella parte che più duole... al cuore o all'anima o come
vuoi chiamarla, trafitto e punto dai ragionamenti filosofici che penetrano più
profondamente del dente di una vipera specie quando afferrano l'anima di un
giovane non mediocre e lo spingono a fare e a dire qualunque cosa... io che mi
vedo dinanzi un Fedro, un Agatone, un Eressimaco, un Pausania, un Aristodemo,
un Aristofane (e bisogna anche nominarlo Socrate?) e tanti altri, tutta gente
un po' patita e fuori di sé per la filosofia... Eh, sì, per questo, ora, voi
tutti, mi starete a sentire. E mi compatirete per quello che è accaduto allora
e per quanto sto per dirvi ora. E voi, famigli e quanti ne siete, rozzi o
villani, tappatevi con grossissime porte le orecchie. «Dunque,
signori, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, pensai che
non era più il caso di star lì a gingillarsi ma di esprimergli chiaramente le
mie intenzioni. «Dormi, Socrate?» perciò gli chiesi scuotendolo.
«Nient'affatto,» mi rispose. «Sai cos'ho pensato?» «Cosa?» «Che tu mi sembri
l'unico amante degno di me, però mi pare che tu esiti a dichiararti. Però, sai,
io ho deciso; credo proprio che sia da sciocchi non esserti compiacente in
questo, come in tutto il resto, se tu ne avessi bisogno, dei miei amici per
esempio, delle mie sostanze. Perché, vedi, niente mi sta più a cuore che
diventare il più possibile migliore e nessuno, io penso, può far meglio di te
al caso mio. Anzi mi vergognerei molto di più, di fronte alle persone
intelligenti se non compiacessi un uomo simile, che non dinanzi alla gente
ignorante se gli cedessi.» E lui, dopo essere stato lì a sentirmi, col suo
solito fare un po' ironico: «Mio caro Alcibiade,» rispose, «può darsi proprio
il caso che tu non sia uno sciocco se è vero che io ho tutto quello che tu dici
e se c'è in me una specie di potere che ti possa far diventare migliore. Se è
così, devi aver visto in me un'irresistibile bellezza, di gran lunga superiore
alla tua e, rendendotene conto, ora cerchi di far comunella con me, di metterci
le mani addosso e barattar bellezza con bellezza e così concludere, alle mie
spalle, un affare non poco vantaggioso; cerchi, insomma, di pigliarti una
bellezza vera in cambio della tua che è apparente e pensi proprio di scambiare
oro con rame. Ma benedetto figliolo, fa più attenzione, ché tu non t'inganni
nei miei riguardi, dato che io non sono proprio nulla. Il fatto è che l'occhio
della mente comincia a veder chiaro quando s'affievolisce quello del corpo e
per te, ce ne vuole del tempo.» Ed io dopo averlo ascoltato: «Per quel che mi riguarda,
le cose stanno cosi ed io non ho detto nulla di diverso da quello che penso.
Tu, piuttosto, devi decidere quello che è meglio per te e per me.» «Così va
bene,» mi rispose. «In seguito vedremo e faremo quello che ci sembrerà meglio
per tutti e due a proposito di questa faccenda e anche per il resto.» Quanto a
me, dopo quello che aveva detto, e ora che avevo udito la sua risposta, come se
gli avessi lanciato un dardo, pensavo d'averlo già bell'e trafitto. E così,
senza dargli la possibilità di dire una parola di più, balzai su e gli gettai
addosso il mio mantello (infatti eravamo d'inverno) ficcandomi, poi, sotto
quello suo, logoro, e stringendolo nelle mie braccia (sì, proprio costui,
questo essere veramente divino e meraviglioso) e tutta la notte gli stetti
disteso vicino. Nemmeno questo, Socrate, puoi dire che non è vero. Ebbene,
nonostante che io avessi osato tanto, si dimostrò superiore e mi disprezzò
beffandosi della mia bellezza, schernendola; e si che io credevo di non essere
mica poi tanto male, o giudici (sì, giudici dell'insolenza di Socrate); ebbene,
sappiate, ve lo giuro su tutti gli dei e le dee, che io dopo aver passato la
notte accanto a Socrate, mi alzai come se avessi dormito con mio padre o con
mio fratello maggiore. «Dopo tutto questo, ve lo immaginate come
ci rimasi. Da una parte l'idea di essere stato disprezzato, dall'altra la mia
ammirazione per le sue qualità, per la sua saggezza, per la sua forza d'animo.
Mi resi conto di aver proprio incontrato un uomo quale non avrei immaginato,
per rettitudine e per fortezza. E così non riuscii né a pigliarmela con lui e,
quindi, troncare ogni rapporto, né, d'altro canto, a trovare il modo di
conquistarlo. Sapevo benissimo che col denaro non c'era niente da fare: era più
invulnerabile d'Aiace di fronte alle frecce, ed ora anche l'unico modo con cui
pensavo di poterlo conquistare, m'era fallito. Privo così d'argomenti, schiavo
quasi di quest'uomo, come nessuno lo fu mai d'alcun altro, gli stavo sempre
dietro. Tutto questo accadde prima della campagna di Potidea, durante la quale
combattemmo insieme e fummo anche compagni di mensa. Ricordo che alle fatiche
era più resistente non solo di me ma di tutti quanti gli altri; quando poi si
restava bloccati, tagliati fuori, come capita spesso in guerra e così ci
toccava patir la fame, la capacità di resistenza degli altri non era niente al
confronto della sua; quando invece c'era abbondanza, lui era il solo a
godersela veramente; e a bere, poi, vinceva tutti, non perché ci fosse portato,
ma solo quando ve lo spingevano e quello che è straordinario è che mai nessuno
ha visto Socrate ubriaco e di questo, io credo che ne avrete anche ora una
prova. Quanto poi a sopportare i rigori dell'inverno (e lì il gelo non
scherza), era addirittura straordinario. Ricordo che, una volta, durante una
gelata terribile, mentre tutti se ne stavano chiusi dentro e se qualcuno
usciva, s'infagottava fino all'inverosimile e si fasciava i piedi con panni di
feltro e pelli di pecora, lui se ne andò in giro con quel suo solito mantelluccio
che porta sempre, camminando sul ghiaccio, a piedi nudi, assai meglio di quelli
che avevano le scarpe; e i soldati lo guardavano un po' in cagnesco credendo
che, così, egli li volesse umiliare. «E a questo proposito,
bisogna proprio sentire ‹quello che ancora fece e sostenne quest'uomo animoso,›
laggiù, durante la spedizione. Tutto preso non so in quali pensieri, una volta
se ne rimase in piedi, immobile a meditare, fin dal mattino presto e, poiché
non riusciva a venirne a capo, non la smise, ma continuò a restarsene tutto
assorto nelle sue riflessioni. Era già mezzogiorno e i soldati cominciarono a
farci caso e a passarsi la voce, tutti stupiti che Socrate, pensando a chissà
cosa, se ne stava lì dal mattino presto. In conclusione, col calar della sera,
alcuni soldati della Ionia, dopo il rancio, portarono fuori, all'aperto, i loro
pagliericci (s'era, infatti, in estate) per dormire al fresco ma anche per star
lì un po' a vedere se quel tipo se ne fosse rimasto immobile tutta la notte. Ed
egli lì se ne restò fino a che non si fece mattino e non spuntò il sole; dopo
di che, fece al sole una preghiera e se ne andò. E in battaglia, poi, se volete
sentire, perché anche questo bisogna riconoscergli. Quando ci fu quello scontro
in cui i generali mi dettero una ricompensa al valore, nessun altro mi salvò
tranne costui che non volle lasciarmi lì ferito ma riuscì a portarmi in salvo
con le mie armi. Ed io, Socrate, in quell'occasione, insistetti perché la
ricompensa la dessero a te (neanche in questo caso tu potrai riprendermi e
dirmi che sto mentendo). E poiché i generali, considerando il mio rango,
volevano dare a me la ricompensa, tu fosti più zelante di loro perché venisse a
me attribuita invece che a te. E non è finita, signori miei, perché bisognava vederlo
Socrate, quando il nostro esercito fu rotto a Delio. In quell'occasione io ero
col mio cavallo, lui a piedi, con tutte le sue armi. Tra lo scompiglio delle
truppe in fuga, dunque, egli ripiegava insieme a Lachete. Io per caso
sopraggiungo e, vedendoli, grido di farsi coraggio, assicurandoli che non li
avrei abbandonati. In quella occasione meglio che a Potidea, potetti ammirare
Socrate, anche perché, a cavallo come ero, avevo meno da temere. Prima di tutto
dimostrava un controllo superiore a quello dello stesso Lachete;
secondariamente parve anche a me quello che tu stesso, Aristofane, hai detto di
lui che cioè anche là egli camminava come qui, ‹tutto altero gettando occhiate
di traverso›, tenendo sempre sott'occhio amici e nemici, facendo capire a tutti,
anche a distanza, che se qualcuno lo avesse attaccato, egli era il tipo che si
sarebbe difeso strenuamente. E così procedeva sicuro insieme al compagno,
perché è proprio vero che quelli che si comportano così in guerra, i nemici
nemmeno li toccano, mentre incalzano chi si dà a gambe levate. E ancora per
molte altre cose, tutte straordinarie, Socrate andrebbe lodato. Probabilmente,
però, queste altre qualità si possono anche trovare in qualche altro; quello
che invece è meraviglioso è il fatto che lui non è simile a nessun uomo del
passato né del nostro tempo. Ad Achille, per esempio si potrebbe avvicinare, in
un certo qual modo, Brasida e altri e per Pericle potrebbe trovarsi una certa
somiglianza con Nestore o Antenore e non con questi soltanto e altri paragoni
se ne potrebbero far sempre. Ma quanto a quest'uomo, per il suo modo di fare,
per i suoi discorsi, è impossibile trovare uno che gli somigli, nemmeno
lontanamente, né tra i viventi, né tra gli antichi, a patto che uno non lo
volesse paragonare, appunto come dicevo, lui e i suoi discorsi, ai sileni e ai
satiri, ma non certo a un uomo. Anzi, a proposito, i suoi discorsi (me ne ero
dimenticato di precisarvelo prima) sono proprio come i sileni che si
aprono. «Infatti, se uno si mette a sentire i discorsi di Socrate,
all'inizio, gli sembreranno addirittura ridicoli, come sono tutti inviluppati
per il di fuori, da termini e da sentenze, una specie di pelle di satiro
petulante; infatti, non fa altro che parlare di asini da soma, di fabbri, di
sellai, di conciatori e sembra che dica sempre le stesse cose, tanto che se uno
non se ne intende o è uno sciocco, gli riderebbe dietro. Ma se cerchi di
aprirli, i suoi discorsi, e di guardarvi dentro, prima di tutto ti accorgerai
che sono i soli, tra tutti, ad avere un loro senso profondo, poi che sono
addirittura divini, ricchi di ogni virtù possibile e immaginabile, volti al
sublime o meglio a ciò che deve tener presente chi voglia diventare un vero
galantuomo. Questo è quanto ho da dirvi in lode di Socrate, amici miei. Quanto
al biasimo io ve l'ho già mescolato, riferendovi le offese che mi ha fatto; del
resto egli non s'è comportato così solo con me, ma ha fatto lo stesso con
Carmide, il figlio di Glaucone e con Eutidemo, il figlio di Diocle e con molti
altri, tutta gente che egli ha ingannato fingendo, appunto, la parte
dell'innamorato, con la conseguenza che furono, invece, costoro ad innamorarsi
di lui. E questo lo dico anche per te, Agatone, ché non debba cascarci anche tu
in modo che, fatto esperto dalle nostre disavventure, tu possa stare in guardia
da costui e non debba imparare, da citrullo, a proprie spese, come dice il
proverbio.» Appena Alcibiade ebbe concluso, l'ilarità fu generale,
proprio per quel suo modo franco di parlare, anche perché, così, aveva fatto
capire di essere ancora innamorato di Socrate. «Mi sembra, invece, che tu,
Alcibiade, non abbia proprio bevuto per niente,» esclamò a un certo punto
Socrate, «altrimenti non l'avresti rigirata tanto abilmente, nascondendo il
vero scopo del tuo discorso e alludendovi solo alla fine, come un di più, come
se tutto il tuo parlare non fosse stato per seminar zizzania tra me e Agatone,
fissato come sei che io debba amare solo te e nessun altro e che Agatone devi
amarlo soltanto tu e gli altri niente. Ma non t'è andata bene e questa tua
farsa a base di satiri e di sileni è apparsa evidente. Mio caro Agatone, costui
non deve spuntarla e bada tu che, tra me e te, nessuno venga a mettere
disaccordo.» E Agatone, di rimando: «Ah, sì, Socrate, forse hai proprio ragione.
Ora capisco perché s'è venuto a piazzare tra me e te, proprio per dividerci. Ma
sta fresco, anzi, eccomi qua che ti torno vicino.» «Oh, benissimo,» fece
Socrate, mettiti qua, al mio fianco.» «Santo cielo,» esclamò Alcibiade, «quante
me ne fa passare quest'uomo. Vuole sempre stravincere; ma, almeno, mio
straordinario amico, lascia che Agatone resti tra noi due.» «Impossibile,» fece
Socrate. «Infatti tu hai fatto, in questo momento, le mie lodi ed ora tocca a
me farle a quello che mi sta a destra. Quindi, se Agatone se ne viene vicino a
te, non può mica mettersi a fare il mio elogio prima che io non abbia fatto il
suo, ti pare? Piantala, quindi, tesoro, e non essere geloso se elogerò questo
giovane: io desidero molto tesserne le lodi.» «Iuh, iuh, Alcibiade,» si mise a
fare Agatone, «non è proprio il caso che io me ne resti qui, anzi, mi alzo
subito perché le lodi di Socrate io le voglio avere.» «Eh, già,» commentò
Alcibiade, «la solita musica; quando c'è Socrate, niente da fare con i belli.
Guarda un po' anche adesso, come ha saputo trovarsela facilmente la sua
ragione, in modo che costui gli si strofini al fianco.» E così
Agatone si alzò per mettersi vicino a Socrate, quando a un tratto, una numerosa
brigata di buontemponi si fece sulla soglia e trovando la porta aperta perché
qualcuno era uscito, irruppe dentro di filato verso di noi e ognuno si trovò
comodamente il suo posto. Ne nacque un baccano dell'altro mondo e si perse ogni
misura, tanto che ci demmo a bere a più non posso. Allora Eressimaco, Fedro e
qualche altro se ne andarono, continuò a raccontarmi Aristodemo; quanto a lui
fu vinto dal sonno e dormì profondamente anche perché le notti erano lunghe; si
svegliò ch'era giorno e che i galli cantavano. Quando aprì gli occhi, vide che
gli altri o dormivano ancora o se n'erano andati e che solo Agatone, Aristofane
e Socrate erano svegli e bevevano da una grande coppa che si passavano da
sinistra a destra. Socrate stava discorrendo con loro, ma Aristodemo disse che
non ricordava quello che si dicevano dato che non li aveva seguiti fin dal
principio e, poi, perché (almeno così disse) era tutto insonnolito, ma che, in
conclusione, Socrate stava persuadendo i due amici ad ammettere che uno può
comporre ugualmente sia commedie che tragedie e che chi, per vocazione, è poeta
tragico, sarà anche poeta comico. Quelli, costretti ad ammetterlo, ma senza
capir molto, sonnecchiavano. E ci disse che fu Aristofane ad addormentarsi per
primo, poi, a giorno fatto, anche Agatone. Socrate, quando li vide addormentati,
si alzò e se ne andò e lui, Aristodemo, com'era sua abitudine, lo seguì. Giunto
al Liceo si lavò e, come al solito, trascorse il resto della giornata, poi
verso sera se ne andò a casa a riposare. Educazione guerriera Il
filosofo Gallo Galli, voce narrate dell'educazione fascista scriveva: "La
possibilità, la necessità della lotta armata è immanente alla coscienza
nazionale, è presente in ogni momento di questa. …E non c'è dunque educazione veramente,
vigorosamente nazionale, che non sia ache educazione guerriera."Una delle
caratteristiche fondamentale – e forse la piu nuova e significative – che la
scuola italiana e andata gradatamente acquistando e che sta per trradursi in aao
nella piena chiarezza e precision delle idee direttive e della organizzazione
tecnica, e l’impronta guerriera. Nel dominio dell’educazione, in cui tutta la
vita di un popolo si riflette e da cui insieme trae alimento e vigorose
affermazione, si fa valere, cosi, quell’attuarsi categorico della coscienza
nazionale, che e la missione del Fascismo nella storia d’Italia … La coscienza
militare, lo spirito guerreiero, non e qualcosa di diverse della coscienza
nazionale; bensi costituisce con questa un duplice aspetto della elevazione
dell’individuo al disopra del bene proprio particolare, per attuare le ragioni
ideali della vita: un duplice aspetto in quell concetto della vita come
missione, onde l’individuo perisce nelle sue forme superficiale e caduche e si
sostanzia de realta universal ed eterna … Al dispora della nazione non esiste, invero,
non puo esistere una organizzazione che equamente diriga e governi l’atttivita
dei singoli gruppi sociali-nazionale e instauri, attraverso la composizione dei
contrasti, un armónico equilibrio. … La possibilita, la necessita della lotta
armata e immanente alla coscienza nazionale, e presente in ogni momento di
questa; e la coscienza di essa e la preparazione dell’animo atto a combatterla
sono; diremmo quasi, una seconda facia della coscienza nazionale. E non c’e
dunque educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia anche
educazione guerriera. Ma non basta. Il compito specific dell’educazione
guerriera, la preparazione alla lotta armata, ha un suo proprio carattere – in
connessione con la natura e le esigenze di tale lotta – per cui non e soltanto
il riflesso o, direbbesi, l’ombra dell’educazione nazionale, ma da questa in
certo modo si distacca e su essa reagisce, aumentandone e integrandone il
valore; e aumentando e integrando, inoltre, il valore anche dell’educazione
generale. La preparazione alla lotta armata e in vero preparazione: 1) alla
rinunzia piu complete al proprio io particolare; poiche si tratta di ninunzia
alla vita, il primo ed il massimo dei beni e da tutti presupposto; 2) alla
rinunzia – sia pure momentanea e quale mezzo a una superior affermazione –
anche alla propria personalita spirituale, mediante l’obbedienza pronta ed
intera: poiche la lotta e azione e nulla v’ha di piu dannoso e folle che
discutere quando e il momento d’agire. Fornisce quell’agilita e pronezza di
movimenti e quella resistenza alle fatiche e forza muscolare, in cui la lotta
armata ha uno dei suoi mezzi piu essenziali. Non solo; per il riscio che e
inerente a molti esercizi ginnastici, anche si rifugga dale acrobazie – con le
quali si sarebbe fuori dal dominio educativo – essa e buon addestramento
dell’animo alla lotta. L’educazione guerriera ha un contenuto per ricchezza ed
importanza infinitamente superior a quello dell’educazione fistica; ma include
questa necessariamente dentro di se. Giovera in ultima accentare agli sports,
in quanto non significhino virtuosismo, ossia abilita tecniche e capacita
fisiche prese come fine a se stesse, ma si dispongano nel Quadro generale
dell’educazione quale stimolo allo sviluppo dell’uomo. Essi in questo caso sono
il naturale sbocco dell’educazione fisica, o meglio l’educazione fisica nella
pienezza della sua attuazione; poiche accentuano il momento del rischio e del
consequente necessario dominio di se. Ma non bisogna esagerare riguardo al
valore degli sports in ordine all’educazione guerriera. Questa ha il suo
fondamento in un mondo ideale che a quelli e compiutamente estraneo; e si
riferisce ad una condizione di cose in cui ben altro sir ischia che non qualche
slogatura ed ammaccatura, e in cui l’Eroe non attende il plauso, ma si vota
sereno e deciso al sacrifizio che, anche, rimanga oscuro.” Gallo Galli. Galli. Keywords:
il fedro, sull’amore, metafisica dell’amore, fisiologia dell’amore, dialoghi
dell’amore, dialoghi sull’amore, sul bello, l’uno e i molti, unum et multa –
the one and the many – Plato – Aristotle – Parmenides’s aporia – D. F. Pears,
“Universals” in Flew, Rosmini, Bruno, ermetico, Galileo, Serbati, Carlini, idealismo,
idealismo critico, dialettica dello spirito, Renouvier, educazione guerriera,
Sparta, Platone, Siracusa, dorio, guerriero, sacrifizio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galli” – The
Swimming-Pool Library.
Gallio – Roma
antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Giunio Gallio – An
orator with a reputation for his knowledge of philosophy. He adopted Lucio
Anneo Novato, the elder brother of Seneca.
Grice e Galluppi: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Tropea). Filosofo. “Gallupi is a
great one; and much can be philosophised about his philosophy of the ‘parola
come segno del pensiero’” – Grice: “On top, he was a Baron!” -- Eessential
Italian philosopher. Figlio del barone Vincenzo e della
nobildonna Lucrezia Galluppi, entrambi della stessa famiglia Galluppi, una
delle antiche famiglie patrizie di Tropea. Dopo lo studio della lingua
latina, apprese filosofia sotto Ruffa. Trasferitosi a Santa Lucia del Mela,
compì il corso elementare di filosofia e presso il Seminario vescovile della
cittadina peloritana. Intraprese dunque lo studio a Napoli sotto
Conforti. Sposa Barbara d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto
maschi e sei femmine. Trascorreva le giornate di libertà nella residenza
privata di famiglia, cioè Palazzo Galluppi, sulla Strada Provinziale a Caria,
frazione di Drapia, alla biblioteca o al giardino. Pubblicò a Napoli “Sull'analisi
e la sintesi”. Durante i moti aderì alla causa liberale sostenendo la riforma
costituzionale dello Stato e protestando quindi contro l'intervento repressivo
degli Austriaci. Si riavvicina alla monarchia. Insegna Filosofia a Napoli. Membro
dell'Accademia Sebezia e dell'Accademia Pontaniana di Napoli, dell'Accademia
degli Affatigati di Tropea, di quella del Crotalo di Catanzaro e della
Florimentana di Monteleone. Il suo merito maggiore consiste nell'avere
introdotto in Italia Kant. Le Lettere filosofiche furono definite il primo
saggio in Italia di una storia della filosofia. A G. sono dedicati il
Convitto nazionale, il Liceo Classico di Catanzaro e il Liceo Classico di
Tropea. A Tropea, la sua città natale, è attivo il Centro studi
Galluppiani, associazione culturale dedita alla ripubblicazione dell'opera
omnia del filosofo e che di recente ha decretato l'ampliamento dei fini
statutari, fino ad accogliere e curare altre interessanti iniziative di un
certo spessore culturale. Periodicamente, il Centro organizza il
Congresso degli Studi Galluppiani, importante appuntamento di respiro
nazionale, animato da studiosi e saggisti provenienti da tutta Italia.
L'attuale presidente è Luciano Meligrana. Altre personalità di notevole
importanza nella storia del Centro studi Galluppiani sono stati Pugliese e Cane,
filosofo, appassionatissimo studioso dell'opera di Galluppi. Una vera
dedizione, la sua che non è mai venuta meno fino alla fine della sua vita.
Organizzatore infaticabile di seminari, simposi e conferenze, ha cercato di far
conoscere il pensiero del G., favorendo la pubblicazione dell'opera inedita
"La Filosofia della Matematica" la cui edizione lo ha visto anche
quale curatore. Su G. ha pubblicato numerosi saggi ed articoli in quotidiani e
riviste specializzate. Altre opere: “Memoria apologetica” (Napoli,
Vincenzo Mozzola-Vocola); “Grice, ovvero, Sull'analisi e la sintesi” (Napoli, Verriento);
“La conoscenza, o sia analisi distinta del pensiere umano, con un esame delle
più importanti questioni dell'Ideologia, del Kantismo e della Filosofia
trascendentale” (Napoli, Sangiacomo); “Filosofia” (Messina, Pappalardo); “Lettere
filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente a' principii della
conoscenza umana da Cartesio insino a Kant inclusivamente” (Messina, Pappalardo);
“Logica”; “Metafisica” (Firenze, Tipografia della Speranza); “La volontà” (Napoli,
Giachetti); “Storia della filosofia” (Napoli); “Opera compresa in nove capitoli
a cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da Errico Pessina, autore del
Quadro storico dei sistemi filosofici” (Milano, Gio. Silvestri);
“Autobiografia”, “Scritti” (Milano,
Dumolard); La filosofia del Galluppi e le sue relazioni col Kantismo, (Napoli,
Morano); “Lettere filosofiche” (Bonafede, Palermo); “Epistolario Lettere
private. Inedite e rare, Franco Ottonello, Milano, Franco Angeli
("Filosofia e scienza nell'età moderna" Collana a cura della Sezione
di Milano dell'Istituto per la storia della filosofia. Dizionario biografico
degli italiani. Quella specie di deduzione con cui da una causa, che
cade sotto i sensi, deduciamo un efetto, che sotto i sensi
non cade, o da un effetto, che cade sotto i sensi,
deduciamo una causa, che sotto i sensi non cade,
quando la connessione fra la causa e l'effeto non
si presenta a noi come necessaria, è
fondata su questa verità sperimentale, le cause simli producono o
son accompagnate da effetti simili; ed effetti
simili suppongono cause simili. Tutti e
due questi modi di dedurre i fatti, che immediatamente non si sperimentano, costituiscono l’argomento detto di analogia. Si argomenta dunque per analogia,
quando dair osservazione di soggetti simili
si deducono qualità simili, e
quando da cause simili si deducono
effetti simili, o
da effetti simili si deducono cause simili. Ma resistenze,
che si deducono, sono di due manière. Alcune possono essere oggetto di esperie
tua, altre non possono esserlo. Sebbene quando vedo l’acqua, che non ho
ancorabevuto, e
che giudico di aver essa la qualità di estinguermì la sete, non abbia ancora sperimentato in questo caso
particolare la qualità di cui parlo; pure è
essa un oggetto di esperienza, poiché
posso di fatto sperimentarla, bevendo
l’acqua che ho presente. Sebbene prima di vedere la liquefazione della neve,
io la deduco dalla vicinanza del fuoco;
pure questa liquefazione può colpire i
miei sensi, ed essere
un oggetto di esperienza. Ma vi sono infiniti casi,
in cui l’esistenze che si deducono,
non possono divenire oggetto di esperienza. Domandato ad un uomo perchè egli crede un fatto, che succede in luoghi
ove non è, per esempio,
che il suo amico soggiorna alla campagna, o
viaggia per la Francia, egli vi darà per ragione un altro fatto:
allegherà una lettera che ha da lui ricevuto,
alcune risoluzioni che gli vide prendere,
alcune promesse che gli ha sentito fare. Ora in tutte queste deduzioni,
si suppone, che alcuni dati moti dipendono dalla volontà
dell’amico; si suppone in conseguenza, che il suo corpo sia animato da uno
spirito simile al nostro. Ora lo spirito dell’amico, e
le modificazioni inieinc di esso, non
possono giammai divenire un oggetto di esperienza:
noi non possiamo giammai sortire da noi stessi, e
sentire l’anima sua, e ciò che in essa acca(k;
noi dunque qui argomentiamo da una esistenza,
che è
un oggetto sperimentale, ad un altra esistenza,
che per noi non può giammai divenire un oggetto
di esperienza. Quando vedo la lettera,
di cui si parla io giudico,
che fu l’effetto de’ moti del corpo dell’amico, giudico inoltre,
che questi moti furono l’effetto della
sua
volontà. Ora questa volontà io non la posso sentire giammai, risalgo dunque qui da un effetto che colpisce i
sensi miei ad una causa,
che non può giammai divenire un oggetto di esperienza.
Similmente se vedo piangere un uomo giudico che egli è
afflitto, ora l’afflizione di lui non puògiammai divenire
un oggetto di esperienza per ne; io dunque
deduco qui da ciò che sperimento
una causa, che non posso sperimentare.
Ora si domanda: una tal deduzione è es
M legittima? Allora che vedo un uomo, io vedo un corpo simile al mio: se lo vedo camminare vedo questo corpo eseguire certi moti simili a
quelli, che io fo quando voglio camminare,
da ciò conclude, che I
moti del corpo che vedo suppongono una causa
simile a quella, che ho sperimentato, vale a
dire uno spirito, che vuole tali moti. Pare dunque,
che questo
caso possa ridursi alla stessa spezie di quello di sopra,
cioè alla deduzione di una causa simile da un
effetto simile. Ma vi ha qui una differenza, di cui bisogna tener conto. Quando dal vedere un orologio deduco 1’esistenza di un artifice, io ho osservato non solo gli effetti simili, ma anche le cause simili,
vale a dire, ho veduta molti orologi fra i quali ho trovato della similitudine, ed Ito veduto ancora molti artefici di orologi, fra I
quali ho trovato ancora della similitudine.
Ciò non accade,quando da’ moti del corpo di un uomo deduco l’esistenza di uno spirito simile al mio, da cui questo corpo è
animato. Io non ho giammai sperimentato un altro spirito,all’infuori del mio,
quindi non lio giammai sperimentato la similitudine delle cause,
da cui derivano gli effetti
de' quali si parla, io dunque esco qui fuori deirespcnenia:
se avessi
erimontato piìi volte che alcuni moti di altri corpi simili
al mio derivano da spiriti simili al mio, allora la mia deduzione avrebbe lo stesso fondamento dell’analogia,
la quale mi autorizza a
dedurre da effetti che sperimento,simili aquelli che ho sperimentato,
cause simili aquelle che ho sperimentato. Ma qui siamo in un caso diverso;io sono racchiuso nella sola osservazione di una causa
sola: ho sperimentato in me solo che alcuni dati moti procedono
da un atto di volontà. Ma non 1’ho sperimentato in altri,nè posso giammai sperimentarlo; or chi mi autorizza a
concludere da un caso solo una legge costante, ed universaledella natura? Nell'argomento di analogia si conclude per un caso ciò che abbiamo sperimentato costantemente in tutti gli altri ,
che ci son occorsi: ho sperimentato molte volte, che il
fuoco posto in vicinanza della neve la liquefa,
nè mi è occorso alcun
caso, in cui non abbia ciò sperimentato: vedendo
del fuoco posto in vicinanza della
neve concludo, per questo caso particolare,
ciò che ho sperimentato costantemente
nella moltitudine degli altri casi.
Ma quando al veder muovere gli altri uomini giudico,
che sono animati da uno spirito simile al mio,
procedo tutto al rovescio dell’analogia,
poiché da un solo caso, vale a
dire da ciò che sperimento in me,
giudico tutti gli altri. Questa obbiezione merita di esser esaminata, poiché l’analisi
dei motivi de’nostri giudizi
è1’oggetto della logica. Io
ho camminato un numero incalcolabile di volte,
per varie direzioni, ed in vari luoghi: ho sperimentato questo fatto costantemente
unito al mio volere:
ho sperimentato fra il cammino
di una volta equello di un altra una similitudine, ed una similitudine fra l’atto di volere di una volta e
quello di un altra:
ho dunque qui sperimentato, che effetti simili procedono da cause simili, vale a
dire, che il camminare consiste in moti volontari ;
quando dunque veggo camminare un altro uomo io concludo per questo caso
particolare quello che ho sperimentato nella moltitudine de’casi particolari occorsi in me stesso;
non esco dunque
dell’analogia, con cui si concludeda molli ad uno. È
nondimeno incontrastabile ,
che l'illazione non può giammai divenire sperimentale, poiché 1’esistenza della volontà in un altro uomo', che io deduco dal'
vederlo camminare, non può giammai divenire per me un oggetto di esperiaiza come può divenirlo questa illazione:il fuoco che vedo liquefarà la neve a
cui è
vicino: Ma ciò mi sembra,che non tolga alcuna
forza alla deduzione, che
esaminiamo. Quando dal vedere il fuoco posto in vicinanza della neve deduco la liquefazione di questa,
io giudico prima dell'esperienza;
ressere perciò l’illazione di natura a
poter divenire un giudizio sperimentale,non influisce nella deduzione: l’illazione è
vera per me per la sua connessione colle premesse;
non già perchè è un giudizio, il quale
può confermarsi coll’esperienza. Similmente l’illazione
di analogia, con
cui giudico che gli altri corpi umani, fuori
del mio,
sono animati da uno spirito simile al mio, è
vera in forza della sua connessione colle premesse,
e
l’impossibilità che ha questo giudizio di divenire immediatamente sperimentale;
non toglie mica il valore della deduzione. Ma qui conviene aggiugnere
qualche cosa molto importante. Che I
moti chiamati volontari, e che scorgo ne’corpi umani,
non dipendano da una causa meccanica,
ma da una causa intelligente,
mi sembra una verità necessaria della stessa natura delle verità necessarie,
che esprimono le leggi del moto,
di cui abbiamo di sopra parlato. Se
io sono ricco o potate, e deadcro d'innalzare un edifìzio,
mille braccia agiscono, e
la mia volontà ha il suo effetto. La mia voce non ha fatto impressione sul corpo
de’travagliatori, se non die per mezzo dell’aria, e
no nha prodotto nell’atmosfera on’ agitazione suflìciente a
muovere de’corpi molto piìi piccoli di quelli,
che eseguono gli ordini miei;
la mia voce dunque non produce
l’effetto come causa meccanica;
bisogna perciò che un principio diverso dall’agitazione dell'aria,
o dalla mia parola abbia prodotto questo moto ne’corpi,
e che la mia parola abbia determinato
questo princijiio a produrre i moti,
che chiamiamo voloiitai.
Non si può riguardar la mia parola,
se non che o come un molo eccitato nell’aria,
o come l’espressione della mia volontà;
la mia parola non ha potuto come causa meccanica produrre imoti,
de’ quali parliamo,
perchè ciò come abbiamo veduto,è contrario alla legge del moto,
che un piccolo moto ne produca uno maggiore;
al che si aggiunga ,
che la mia parola non avrebbe
prodotto moto alcuno nell’Ottentotto, o
in un altro individuo che parla un linguaggio
diverso dal mio: per la sola espressione
della mia volontà ha dunque potuto la mia parola
determinare ad agire il principio del moto de’corpi
die mi hanno ubbidito. Questo principio è
perciò un’intelligenza, poiché ha conosciuta la mia volontà nelle mie parole.
La proposizione dunque: vi tono alcuni moti ne’ corpi umani dieerti dcU mio corpo, iquali hanno per causa una causa intelligente,
mi sembra di verità necessaria. La proposizione
poi: vi sono alcuni moti ne’corpi umani dècer si dal mio corpo i
quali hanno per causa la volontà di uno spirito simile al mio,
e per conseguenza tali corpi tono animati come
il mio, è di verità contingente, e
poggiata sull’analogia. Concludiamo nell’argomento di analogia si deducono spesso
cause, (M non possono divenir giammai un oggetto di esperienza,
sebbene sieno simili ad altre cause,
che si sperimentano. 2.°
Vi tono nondimeno alcune deduzioni di esistenze, che non possono divenire sperimentali, le quali deduzioni danno verità necessarie in risultamento. Questa seconda parte,della conclusione enunciata,si conferma
da quello che abbiamo detto nell’
Ideologia circa resistenza
dell’assoluto. Questo non può certamente divenire un oggetto
di esperienza, intanto la sua esistenza è
il risultamento di un raziocinio legittimo, in cui una delle premesse è
una verità sperimentale. Noi diciamo; se vi è
il condizionale, et dee
essere l’assoluto. Questa proposizione esprime un giudizio
analitico, e necessario: vi e il condizionale. Questa seconda proposizione esprime un giudizio sperimentale;
vi è dunque r assoluto. L’illazione è
una verità necessaria. L’empirisnto ci riserra nel solo circolo dell’esistenze, immediatamente sporimetitali;nè ci permette di passare da ciò,che cade immediatamente sotto 1’esperienza,
a ciò che
sotto la stessa immediatamente non cade.
Io vi ho fatto vedere il contrario; vi
ho dunque dimostrato la falsità dell’empirismo. L’argomento
di analogia è fondato sul rapporto d’ identità ;
ma l’identità può fra
due cose essere maggiore o minore. L’identità
fra il mio corpo ed il corpo di
un altro individuo, che io chiamo uomo, è
maggiore di quella che passa tra il mio corpo ed il corpo di un cavallo.
Ora si domanda: tino a qual
grado d’identità l’analogìa è un argomento valevole,
cioè un argomento certo ì È questo un problema
di difllcile soluzione.
L’analogia ci rivela dunque 1'esistenza degli altri
q)ìriti simili al nostro. L’esperienza c’insa,
che alcuni motivolontari in noi nascono, o
sono accompagnati da alcune
affezioni interne del nostro spirito;
vedendo in conseguenza
moti siniili in altri corpi umani,
attribuiamo agli spiriti
animatori di tali corpi affezioni simili a
quelle che abbiamo sperimentato in noi.
Allora che sono affetto dal sentimento della
sete, corro a bevere ad una fontana,
che a me si presenta. Se dunque vedo un altro uomo camminare verso una fontana,
e bevere, giudico, appoggiato sull’analogia,
che egli sia modificato dal sentimento della sete,
e che voglia bevere. In queste deduzioni analogiche dovete osservare ciò che vi ho detto circa 1'aspettazione del futuro simile al
passato, ili bisogna distinguere
il sentimento della deduzione meditativa.
La dottrina generale che ivi vi ho spigato,
può applicarsi all’oggetto che ci occupava.
Noi supponiamo ne’nostri simili delle anime alla nostra simile:
noi facciamo tali sup^izioni in forza della I^gc
della nostra immaginazione,
non già in forza de’raziocini,
che abbiamo sviluppato.
Io suppongo l’incontro di due uomini, privi sino a
questo momento di ogni commercio,ancora cògli animali;
ridotti per conseguenza al circolo stretto de’ propri s/entimenti,
e delle proprie operazioni: ciascuno di essi vede nell’altro un essere che gli rassomiglia in tutte le cose,che presenta le stesse forme,
possiede gli stessi organi,ne fa un simile uso;
egli crede dunque il corpo che lo colpisce, animato da uno spirito. Or ecco, secondo la mia dottrina, come si opera questo fatto intellettuale. Io suppongo, che un di questi uomini vegga I'altro camminare,questa percezione risveglia i
fantasmi simili del proprio corpo camminante in varie volte,
e perciò anche i fantasmi del proprio me affetto in tali circostanze da tali e tali modificazioni: queste riproduzioni si fanno con somma rapidità
in modo che non posson essere fissate dall'attenzione, esse sono perciò obbliate l'istante appresso, in cui si
s«n avute,intanto la percezione del corpo simile al proprio detemùna
l’attenzione non solamente ad essa sola,
m’ancora alla percezione simultanea del
proprio me, e lascia fuire le percezioni successive
simili del proprio corpo camminante
in varie volte; la piercezione del
me riprodotta si lega perciò a
quella del corpo presente del mio simile, invece di legarsi
a quella riprodotta del proprio corpo camminante , che si è
obbliata, e questo legame costituisce il
sentimento interno di questa specie di
credenza. L' obblio delle percezioni
riprodotte del proprio corpo camminante in
varie volte, neH’atto che rimane quella
riprodotta del proprio me, fa si, che
questa ultima si associi a quella presente del corpo
simile. La percezione riprodotta del proprio me rimane, perchè la percezione
del corpocamminante e quella del proprio me son
legati naturalmente in una comune
attenzione; essendo associate dalla natura
stessa; qnella riprodotta del corpo camminante
si ccclissa, perchè quella del corpo simile
camminante richiama l’ attenzione. Lo spirito trasporta
dunque fuor di lui col pcnsiere l’idea del proprio me,che egli immagina,e che stabilisce
nel seno di quelle forme, che colpiscono I suoi sguardi, ed a traverso
delle quali il suo sentimento immediato non può penetrare. Egli presta dunque
il suo me al suo simile, 1’anima della vita che respira
in se stesso, e concepisce 1’esistenza di un altro uomo. Tale mi
sembra la spiegazione del sentimento della credenza. Che esaminiamo.
Risulta dalla stessa, che noi concependo ciò che pensano gli altri uomini,non
usciamo mica da noi stessi. Nel' le
nostre proprie idee noi vediamo le
loro maniere di essere, la loro
stessa esistenza. Da ciò avviene, che
1’uomo misura dal proprio spirito quello degli altri, dal che
nascono molti orrori. Noi non possiamo accuratamente determinare lo stato
dei fanciulli; e conoscere perciò l’epoca in cui hanno luògo
leloro abitudini intellettuali. Ma egli mi sembra incontrastabile,
che queste abitudini si formano in loro mediante la rapiditll di talune associazioni.
I fanciulli percepiscono negli altri nomini de’ corpi
simili al proprio: &si sperimentano alcuni moti spontanei
del loro corpo ed altri simili ne
percepiscono nei corpi degli altri nomini;
queste similitudini , ed altre, che si
manifestano piìi tardi, determinano le associazioni di cui ho
parlato. Ma non solamente i moti volontari
che osserviamo negli altri , ci menano a
supporre nel loro spirito alcune medin-
cazioni; ma ancora certi moti e cambiamenti
necessari, che son gli stessi el Tetti meccanici i quali accompagnano
i sentimenti interni dell' anima, come il tremore
e la pallidezza nello spavento, le grida, e le
lagrime nel dolore, il riso, e il tripudio
nella allegrezza. Questi si manifestano
incontanen- te da se medesimi , anche ne’
fanciulli appena nati, principalmente i gridi ed il lamento, che
accompagnano il dolore. Concludiamo. Noi poniamo
per mezzo di alcuni cambiamenti,
che osserviamo ne' corpi altrui pervenire a
conoscere ciò che accade nel loro spirito.
Questa conoscenza può essere meccanica o sia il
risultamenlo del sentimento prodotto da
alcune rapide associazioni, e può essere
ancora V illazione di un raziocinio legittimo di
analogìa. Possiamo dir la stessa cosa in modo breve; questa conoscenza può
essere o istintiva o ragionata. Da ciò si vede, che non è necessaria una
prima convenzione fra gli uomini acciò s’incomincino a intendere fra loro. La
natura ha reso gli uomini tali,che conversando insieme
essi s’iiit elidono naturalmente anche
senza l’istituzione del linguaggio. Seguiamo la
supposizione de’
due'solitari. Sebbene 1'uno abbia compreso ciò che accade nello spirito dell’altro,non
tì è ancora un linguaggio propriamente detto;perchè non si parla,
se non quando si cerca di farsi intendere
,ese 1’ uno de’ due individui ha
penetrato il pensiero dell’ altro ciò è
accaduto senza che questi cercasse a farglielo
conoscere.!due individui di cui parliamo, osservano, eh’eglino sono stati
compresi,ed allora cercano di farsi comprendere , e nascerà cosi il primo
linguaggio. Sviluppiamo questa dottrina. Abbiamo
veduto, che il corpo degli altri
uomini ci presenta alcuni avvenimenti, la percezione
de’quali ci fa conoscere ciò che accade nel loro spirito. Ciò la cui idea
eccita l’ idea di un’altra cosa chiamasi segno. Nel corpo di un altro nomo vi
sono dunque de’segni delle interne modificazioni dello spirito animatore di
questo corpo. Siccome tali segni son tali per la costituzione della
nostranatura, cosi si chiamano segni nor
turali. Vi sono, in conseguenza, de’segni
naturali de’pensieri o modi di essere dello
spirito degli altri uomini. Ma non solamente
vi sono di questi segni naturali de’pensieri altrui;
ma 1’uomo può conoscere , che vi sono, cioè può
conoscere,che con alcuni dati mezzi si può manifestare altrui ciò che si
sperimenta internamente nello spirito proprio. Supponiamo, che uno de’ due
nomini supposti pianga, gridi, si lamenti, senza avere l’ intenzione dì
manifestare all’altro il dolore, che egli sente; intanto 1’altro sapendo, che
questi gridi, e questi lamenti sono soliti ad accompagnare il dolore,
conoscerà da questi segni il dolor dell’altro,
ed accorrerà al soccorso di lui, questi perciò comprenderà
da tutto questo, che egli è stato compreso; e se avviene altra volta,
che si trovi affetto dal dolore,
ed in bisogno del soccorso dell’ altro,
piangerà e griderà coll’intenzione di manifestare
all’altro il proprio dolore. Così gli
uomini incominciano dal comprendersi scambievolmente ;
in seguito conoscono , che sono stati
compresi, e finalmente si determinano a farsi
compren- dere. Cosi si osserva in tutt’i fanciulli comunemente. A
principio essi gridano, e si lamentano costretti unicamente dalla forza del
dolore, senz’aver l’intenzione di manifestarlo con questi segni agli altri,anzi
senza sapere
neppure,che cosa alcuna si possa esprimere col pianto, e
colle grida; ma appresso avendo imparato,che con tali segni si ottiene 1’altrui soccorso, cominciano a
valersene avvertitamente per manifestare
il loro dolore, e ricevere il soccorso
che bramano. Ciò di cui gli uomini
si servono, per manifestare agli altri i
pro- pri pensieri , chiamasi ugno artificiale. 1
segni naturali divengono dunque naturalmente
segni artificiali. Qui ha termine T educazione
della natura per le nostre scambievoli
comunicazicmi. La natura ha insegnato all’ uomo,
che egli può farsi intendere ; e l’ uomo
può non solamente servirsi de’mezzi, che la natura gli ha mostrato per la comunicazione
de’propri pensieri; ma può ancora ritrovarne degli
altri simili. Il primo e più semplice
mezzo di comunicazione che
si offre allo spirito, si è quello di ripetere con
riflessione ciò eh’egli fece dapprincipio, senza prevederne le conseguenze,
cioè di riprodurre quelle azioni, per mezzo delle quali^li si è fatto
comprendere. Così si formerà un primo linguaggio, che può
chiamarsi linguaggio della natura, poiché
esso non si compone se non che
de’si naturali, vale a dire di quei
segni di cui la natura aveva già
senza di noi rivestito i nostri pensieri
spreti, per renderli sensibili agli altri. Il
linguagio della natura è insufficiente per manifestare agli altri
tutt’i nostri pensieri. Noi abbiamo al presente
il linguaggio de’suoni articolari. I filosofi disputano
sull’origine di esso. La quistione si versa sull’esistenza, e
su la possibilità, cioè si cerca;
gli uomini hanno esH da se stessi istituito il
linguaggio. Questa ricerca suppone quest’altra: gli uomini abbandonati austusi
potevano istituire il linguaggio. l nostri sacri libri
c’insegnano, che Adamo, ed Èva furono
creati da Dio in uno stato adulto con delle conoscenze in istato di riflettere, e
di comunicarsi I loro pensieri. Iddio ù
maqiiestò all’ uomo innocente ne’ primi
istanti della creazione. Iddio è dunque l’
autore primitivo del linguaggio. Ma io suppongo', dice Condillac, che qualche tempo dopo il diluvio due bambini dell’uno, e
dell’altro sesso siensi trariati ne’ deserti, avanti che conoscessero 1’ aso
de’ vocaboli. A fare questa supposizione,
egli dice, io sono spinto dal fatto del
giovane di Chartres
rapportato nelle memorie dell’accademia delle
scienze, anno 1703. Era questi del’età di 23 a 24
anni sordo c muto di nascita: cominciò con gran sorpresa di tutta la
città tutto ad un colpo a parlare. Si seppe da
lui; che tre o quattro mesi prima
egli aveva udito il suono delle
campane, ed era stato estremamente sorpreso
da questa sen- sazione novella ed incognita. In seguito gli
era sortita una specie di acqua dell’orecchia sinistra, ed aveva acquistato
l’udito in tutte e due le orecchie. Egli impiegò tre o quattro mesi ad
ascoltare senza nulla dire, assuefacendosi a ripetere sotto
voce le parole, ch’ali udiva, ed
esercitandosi nella pronunciazione, e nelle idee
legate a’ vocaboli. Io non so come questo fatto possa
autorizzare il filosofo francese, a fare la supposizione di
cui parla, se non perché ciò mena a
poter supporre,
che due giovani di sesso diverso sordi e
muti di nascita, possono traviarsi ne’deserti o
ne’boschi, indi incontrarsi, e dopo l’ incontro ricever tutti e
due rudito. Questa supposizione non ha niente
di assurdo; ed è perciò lecito al filosofo di cercare, se in una tale
supposizioneq uesti due giovani possano istituire una società, ed un
linguaggio. A ciò si può aggiungere, che si rapporta, essersi in vari tempi
vari fanciulli trovati ne’boschi; uno ne fu sorpreso nell’Asia l’anno 1334 in
compagnia de’ lupi, un altro dell’età di circa 12 anni in Weteravia, un altro di 16 fu scontrato fra una torma di pecore selvatiche nell’Irlanda, verso alla metà del passato secolo, un altro di nove fra gli orsi nelle selve della Lituania nel 1662:in questo secolo medesimo
uno ne fu scoperto presso ad Hamelen nella Sassonia,
una fanciulla presso a
Lwlla nella provincia di Utrecht,
ed un’altra fu arrotata presso Chalons. Io per altro
non comprendo, come questi fanciulli abbiano potuto
vivere, se sono stati abbandonati, o perduti prima di potersi alimentar da se
stessi, ed in conseguenza prima di avere una lingua. Si potrebbe supporre, che
avevano principiato a parlare, quando si smarrirono; ma che poi nella solitudine avevano interamente obliato quanto avevano imparato. Or si domanda:se due di questi di sesso diverso, si fossero
per avventura incontrati nella stessa foresta,
che sarebbe egli avvenuto? E
per limitarci all’oggetto delle nostre ricerche,
domandasi: avrebbero essi istituito una lingua.
Tralitsciando dunque, sull’origine del linguaggio,
la quistione di fatto, è egli lecito di
esaminare quella della possibili- tà , o di cercare
se gli nomini abbandonati a loro stessi
avrebbero potuto istituire una lingua?
L’esame di una tal quistione è
molto utile, per ben conoscere, e misurare le forze
dello spirito umano, e queste ricerche
ipotetiche ci menano ancora a risultamenti,
che hanno luogo nel fatto reale.
Io aggiungo dippiìi, che alcuni autori anche su l’autorità de’nostri libri divini,
hanno creduto,
che le lingue attuali sieno state istituite dagli uomini coll’uso delle loro forze naturali:
ecco come può essere accaduta la cosa. Nel famoso
avvenimento della
costruzione della torre di Babele, per forza
miracolosa, fu cancellata dalla mente degli
uomini la memoria intera del primitivo linguaggio:
in seguito di un tale miracolo,
gli uomini si divisero a torme secondo i
rapporti di parentela e di amicizia, e si
stabilirono hi diverse parti della terra :
furono dunque abbandonati a se stessi, per istituirsi un
linguaggio; e così perduto interamente il
linguaggio primitivo , dì cui era stato autore Iddio
stesso,le nuove lingue,che nacquero sulla terra, furono un prodotto dello
spirito umano. In questo modo si spiega come gli uomini perduto,
per forza del miracolo, il primitivo
linguaggio, non si sieno più scambievolmente
intesi ne’ linguaggi rispettivi. Questa
opinione ammette un solo miracolo, quale è
quello della memoria perduta del linguaggio
primitivo , lad- dove nell’opinione contraria bisogna
supporre una gran moltitudine di miracoli,
l’uno in forza del quale gli uomini abbianop
erduto la memoria del linguaggio primitivo, e gli altri
con cui Iddio abbia istituito i diversi
linguaggi, che ebbero luogo dopo dell’avvenimento; ora si
potrebbe dire, non e verisimile, che Iddio
moltiplicasse inutilmente i miracoli.
Checché ne sia di tale opinione,
noi esamineremo qui la quistione della possibilifb. il
rispetto che il filosofo
debbe alla religione divina, che c’illumina,
mi ha condotto a questa digressione.
Per esaminar la quistione proposta continuiamo la supposizione di sopra,e
partiamo dal punto ove siam rimasti.
Abbiamo veduto l.°
che gli uomini per natura si comprendono
scambievolmente. 2.° che conoscono di essere stati compresi.
3.° che con ciò si fanno
naturalmente un linguaggio artificiale, che è il linguaggio della
natura. Vale ad ire che fanno uso de’segni naturali, per manifestare agli altri
I propri pensieri. Ma il bisogno non potrebbe spingere gli uomini,
a migliorare ,
cioè ad acrescere questo linguaggio della natura,
ritrovando de’segni analoghi? N pianto ed i gemiti
manifestano agli altri il dolore da
cui un individuo è affetto;
ma non manifestano lyica la causa del dolore.
Ora gli uomini hanno spesso bisogno,
per essere soccorsi, dì manifestare agli altri la
causa del loro dolore: per tale oggetto alcune volte bastano le circostanze:
uno de’due suppposti solitari cade in una
fos.«a egli non
può senza l’al trui soccorso cavarsene fuora: egli
grida -- 1’altro accorre, e si avvede della causa del dolore del suo
simile. Parimente se uno de’ due è inseguito da una bestia feroce,
e grida: l’altro conosce dalla circostanza la causa del dolore del
compagno. Spesso nondimeno la causa del dolore non apparisce dalle circostanze.
Tutti generalmente acquistiamo l’abito, allorché
ci sentiamo in alcuna parte addolorati, di recare colà la mano. Se dunque uno de’due supposti solitari sentirà dolore
in qualche parte ; egli griderà, c
la mano correrà naturalmente alla
parte addolorata :
l'altro accorrendo alle grida, e spingendo per
avventura lo sguardo là,dove è
corsa la mano dell’altro conoscerà il luogo del dolore e
se la causa del dolore fosse una ferita, o
una contusione, o qualche altra cosa visible;
allora conoscerà chiaramente questa causa. Qualora l’uno vorrà porgere all’altro alcuna cosa, amendue stenderanno la mano Tuno per darla,el’
altro per prenderla. Questi moti della
mano potranno da s^i naturali divenire
segni artificiali, così si potrà indicare
la causa del dolore recando la mano su la parte
addolorata;e si potrà da uno de’due individui volendo dire all’altro che non è
vicino qualche cosa;e non volendo o non potendo muoversi,stendere la mano con
entro la cosa che gli vuol porgere. L’altro similmente se cosa alcuna bramerà
aver dal compagno, porgerà la mano vòta per prendere ciò che desidera. Fin qui
non si esce ancora dal linguaggio della natura;ma già siamo al termine di un
altro linguaggio, a cui il primo ci mena.
Vi sono due specie di cose,
di cui gli nomini hanno bisogno di eccitare le idee negli
altri: alcune possono nel momento stesso colpire i
sensi tanto di colui che vuol parlare,
quanto di colui a
cui si vuol parlare; altre sono lontane o
almeno invisibili, e
non esistono nel momento, se non che nello spirito di colui che vuol farsi comprendere: riguardo
alle prime basta,che colui che vuol parlare, cioè che vuol farsi comprendere ecciti
l’attenzione del suo compagno, e la diriga su
1’ oggetto che gli vuol mostrare. Abbiamo
veduto , che il gesto può esser
naturale e divenire un segno
artificiale ;ma alcune volte non è
cosi:supponiamo,che uno de’due solitari voglia mostrare all’altro un oggetto
lontano ma che può esser veduto ; egli
avvertirà il suo compagno per un grido, ed
allora che questi volgerà a lui gli sguardi
, il primo dirigerà Io sguardo su l'
oggetto, che vuole mostrare all’altro, e farà uso del dito,per meglio
mostrargli la direzione,che prende lo sguardo suo:l’altro r imiterà, el a
sua curiosità lo porterà ad osservare ciò che occupa il suo compagno. Questi
gridi, questi gesti, formano una prima spezie di segni
istituiti, che si possono chiamare segni
indicatori. Osservate , che i segni , di cui
parlo , non sono segni naturali, perchè il
grido è naturale nel
dolore e nel piacere:
esso diviene da naturale artificiale per denotare il dolore,
o il piacere. Ma l’uno de’ due solitari avendo
osservato, che 1’altro,
quando egli manda fuori il grido,diriga al
ui il proprio sguardo, fa uso del grido
per obbligare il compagno a fissare su
di lui lo sgiiardo: cos) il grido
si estende a denotare ciò che denota questa proposizione:volgiti
a me: inoltre lo stendere il dito verso l’oggetto che si vuol mostrare non è un
segno naturale, ma un segno analogico, poiché vi ha una similitudine fra il
moto che fa il dito, ed il moto che far
dovrebbe il proprio corpo per ginngerc
all’ oggetto, che si vuol mostrare; questi
due moti avendo la stessa direzione, o
pure, la direzione del dito è
identica colla direzione,
che prende lo sguardo.
Per tal ragione io credo, che il gesto, di
cui parlo, dovrebbe riguardarsi piuttosto come un
segno imitativo, poiché il moto del
dito imita nella direzione il moto
che far dovrebbe
il proprio corpo per giungere pel cammino più corto all’oggetto,
che si vuol mostrare, o
pure imita la direzione dello sguardo;
ma servendo tal gesto ad indicare un
(^etto, che può nello stesso momento colpire I
sensi de' due solitari,
gli si pùò dare il nome di segno indicatore. Questi due segni indicatori ,
di cui parliamo, equivalgono; a
queste diK proposizioni :volgiti a me e
guarda là. Vi ha inoltre de'segni imitativi, i
quali servono a denotare alcune cose future,
od altre
cose che nel momento non possono colpire i
sensi di tutti e due i
solitari. Supponiamo, che uno di questi sia in A,
1'altro sia icmtano ma a
vista del primo in B, che
l’oggetto lontano ma a
vista di tutti e due sia in C; inoltre cl» il primo non potendo muoversi per andare io C
voglia manifestare all’altro che vada in C, e
che prendendo l’oggetto bramato ivi posto, lo rechi a
lui in A; ecco come io immagino,
che la cosa potrà farsi: il primo con un grido ecciterà 1'attenzione del compagno:
indi stenderà il dito nella direzione della linea fra A
e B:
poi la muoverà nella direzione di una linea parallela a
quella fra B e C: con questo moto egli
dirà al compagno che vada da B in C, e
questo moto sarà un segno imitativo del moto che
il compagno dee fare ,
per secondare il desiderio dell’altro'io A:
questo moto, che il compagno dee fare, è
una cosa futura, che non può nel momento colpire
i sensi de’ due solitari:
ecco dunque come con de’segni imitativi si possono denotare gli oggetti assenti. Supponiamo inoltre, che l'individuo
posto in B
si conduca in C: l’altro che si trova in A stenderà il suo braccio da A
verso C in posizione orizzontale, indi
farà un moto col braccio,
imitativo di quello che dee fare
il compagno per prendere l’oggetto posto in C:
dopo di ciò ritornando a mettere il braccio
nella stessa posizione orizzontale, lo ritrarrà a
se con un moto contrario a
quello, con cui rha steso, e
che sarà imitativo di quello, che dee fare il
compagno per venire da C in A. Con I
segni imitative dunque si pò^no denotare le cose invisibili nel
momento. Questi segni imitativi si possono eseguire in vari modi. Così per
denotare una serpe si può su l’arena designare la sua forma, o il suo moto
tortuoso.Abbiamo veduto, che vi sono de’segni naturali delle nostre
interne modificazioni, e che questi segni possono
divenire artificiali , e così costituire un primo
linguaggio, che abbiamo chimato linguaggio della natura.
Abbiamo detto inoltre nell’antecedente, che
1’uomo può con altri segni accrescere
questo linguaggio della natura; ed abbiamo chiamato I
segni,
che accrescono il linguaggio della natura, segni indicatori,
e segni imitativi. Ora qual principio può guidare
l’uomo a ritrovare le ultiqie specie di segni?
Nella logica pura lo spirito è
naenato nel passare analiticamente da una
proposizione ad un’altra, ad una certa similitudine che passa
fra l’una e l’altra; il princìpio
della similitudine è dunque un principio d’invenzione, e
questo principio ha condotto gli uomini, partendo
dal linguaggio della natura, a ritrovare i
segni indicatori, ed i segni imitativi, queste due
specie di segni possono perciò chiamarsi
segni analogici. Difatto fra il moto del miodito,
con cui mostro l’oggetto lontano, ed il moto che dovrei fare col mio corpo,
per arrivare, pel cammino più breve,
all’oggetto, vi si osserva una similitudine:
una certa similitudine si osserva eziandio tra
i segni imitativi e ciò di cui sono l'imitazione. Le
interne modìficazioni dello spirito possono manifestarsi
per mezzo de’ moti del corpo. Il desiderio,
il rifiuto, l’avversione,
il disostosi esprimono per mezzo
de’moti del braccio, della testa, e per mezzo di quelli
del corpo intero, moti piò o meno vivi, secondo la vivacità, con cui ci
portiamo verso di un oggetto, o ce ne allontaniamo. Tutti i
sentimenti dell’anima
possono esser espressi dalle posizioni del
corpo. Esse dipingono di una maniera sensibile
l’indifferenza, l’incertezza, l’attenzione, e
le altre affezioni interne. Ora se ripetendo queste azioni, e
posizioni del corpo, si denota insieme, che esse non si riferiscono ad affezioni presenti,
allora denoteranno le modificazioni, da cui siamo
stati affetti. L’analògia acquista spesso una
grande estensione. Cosi, per esempio,
quando voglio attendere ad un oggetto,
die colpisce i miei occhi, dirigo
lo sguardo verso di esso: questa
direzione è segno dell’attenzione dello spirito; ma io posso
ancora rivolgere la mia attenzione ad oggetti invisibili :se dunque per
denotare questa ultima attenzione, mi servo
della direzione dello sguardo; questo segno
si estende al
di là di ciò, che naturalmente denota.
Allora che io peso un corpo,
lo paragono ad un altro; pesare è dunque
paragonare; ma paragonare non è sempre pesare;
perciò quando per esprimere l’azione intellettuale che paragona, io prendo nelle due mani de’corpi,come fo quando viglio pesarli,
questa azione è trasportata a denotare più
di quello che denotava in origine.
Questa terza specie di segni, che
l’analogìa somministra agli nomini, si possono
chiamare segni figurali. L’ unione de’
segni indicatori, imitativi, o figurati costituisce il
linguaggio analogico. Cosi i segni naturali,
divenendo artificiali,costitoiscono il linguaggio della natura:
gli uomini guidati dal principio della similitudine, partendo dal principio della natura,
inventano il linguaggio analogico.
Ma fa d’uopo considerare l’ultimo linguaggio,
di cui abbìam parlato, in
colui che per parlarlo lo trova: ed in colui che l’intende. Nel primo, il principio della similitudine
guida la meditazione a produrre nuove idee;
nel secondo il principio della similitudine riproduce alcune
idee simili a quelle,
che modificano attualmente lo spirito. Quando colui che vuol parlare fa usoil primo di alcuni gesti,
per denotare alcuni dati pensieri, li,
guidato dall’analogia, inventa questi segni, e
questi segni, e questa invenzione è
un prodotto della meditazione;
ma colui che ascolta intende questi segni in forza del principio meccanico dell’associazione dellé idee. Fra i
principi particolari compresi sotto questo principio generale, si contiene il principio della similitudine:
in forza di questo principio il moto del dito riproduce l'idea del moto simile del corpo intero,e
questa riproduce quella delle modificazioni interne dello spirito legate col moto del corpo intero. Colui che istituisce il linguaggio per farsi intendere èattivo:quegli che intende il linguaggio btituito èpassivo. I
gesti, I moti del corpo, ed i suoni inarticolati costitubeono il linguaggio chiamato
da Condillac linguaggio di aziona. Su di esso debba fare ancora due osservazioni. 1..° un tal linguaggio esiste ancora
e esso accompagna quello de’suoni articolati ;
un oratore parla eziandio coi gesti,
colla posizione del corpo, co’ moti del corpo, e
principalmente co’moti degli occhi.
Ciò che si chbma mimica consiste appunto nell’arte di far concordare il linguaggio
di azione con quello de’suoni articolati. 2.° col solo linguaggio di azione,
anche dopo l’istituzione di quello de’ suoni articolati,alcune nazioni incivilite esprimevano de’ lunghi discorsi. Presso
I Romani I pantomimi rappresentavano de’pezzi interi,
senza proferire una parola, li bisognava dunque,
che i pantomimi,
partendo dal linguaggio della natura prendessero l’analogb
per guida, e così poterono pervenire a farsi intendere.
La scrittura santa ci somministra ne’profeti molti esempi di questo linguaggio analogico di azione.
Così, per darne un esempio, ad ogetto di denotare
che la Giudea ch’era imita con Dio,
sarebbe poi stata da Dio rigettata e
dispersa per la sua superbia ed idolatria,
il profeta Geremia, per l’ordine di Dio,
si cinge con una cintura di lino I lombi,
indi si toglie questa cintura,e
presso l’Eufrate in un forame di una pietra la nasconde:
dopo molti giorni ritorna aprendere la nascosta cintura,
e la trova infracidita in modo,
cf)’ era inutile per qualunque uso. Nella profezia di Geremia si possotm trovare molti esempi di questo linguaggio analogico di azione.Se i
moti del nostro corpo da segni naturali divengono segni artificiali,e
se questo linguaggio può essere accresciuto
dall’analogia, quello de’suoni che da naturali sono ancora divenuti
segni artificiali, non potrà similmente essere accrescinto dall’analogia stessa.
Se il selvaggio, per denotare
il moto che dee fare,
secondo il suo desiderio, il suo compagno, può servirsi del moto simile del suo dito,
perchè per denotare il muggito del bove ,
il belare delle pecore, il rumore del tuono,
non potrà egli adoperare un suono simile.
L'analogia che
1’ha menato all’invenzione dei primi segni,
dee menarlo ancora all’invenzione de’secondi. Il bisogno di denotare questi suoni degli oggetti sonori,
mena il sdvaggio a produrre fuori de’ suoni
imitativi, e così nascono le prime voci
radicali del linguaggio de’ suoni articolati.
Questi suoni non poterono essere dapprincipio se non che monosillabi,come lo prova l’esempio de’ fanciulli.
Ma l’analogia non fu il solo principio del linguaggio de’suoni
alticolati, poiché non sempre si debbono denotare suoni, o cose sonore. Per denotare dunque le cose che non mandano suono,l'analogia fece però conoscere agli uomini,che potevano
servirà de’suoni articolati, per farà comprendere.
Ciò posto se il selvaggio si trovò
nel bisogno di farsi comprendere , se non
trovò altro mezzo per ottenere il suo
fine, se non quello dei suoni, perchè non
potè egli produrre un suono arbitrario ,
il quale poi compreso dall’altro divenne
un segno comune.Per rendere sensibile ciò che dico,supponiamo ,
che ì due solitari immaginati siensi perduti di fbta,e
che l’uno voglia ritrovar 1’altro,
egli conoscerà certamente,
che non potrà far comprendere all’altro questa sua volontà,
se non
che per mezzo di un suono. Egli manderà dunque fuori un grido;
questo grido da principio non sarà, come ognun vede,
se non che un puro effetto naturale. Se
il dolore è
natiiralinente sonito da un suono inarticolato,
dal pianto e dal gemito; perchè il bisogno
di spiegarsi, e di mandar fuori un suono ,
non potrà esser seguito da un suono
quale che siasi?
Noi non poliamo determinar la ragione,
per cui il,
selvaggio manda fuori un tal suono piuttosto che un altro,come volendo camminare non possiamo conoscere la ragione,
perchè abbiamo mosso il piede diritto anzi che il sinistro,
o questo anzi che quello. Questa ragione può consistere,
almeno in parte,
nella varia posizióne meccanica del nostro cervello,
e generalmente di tutto il nostro corpo. Ma
saniamo lo sviluppa della nostih ipotesi.
L’altro selvaggio sentendo il grido, di cui si
parla,accorrea ritrovare il suo compagno, e come amendue avranno
osservato, che un
tal grido ha la forza di far che l’uno ritorni all’altro,
I
due solitari se ne serviranno appostatamente. lu tal caso la voce di cui parliamo ha lo stesso significato
del verbo “vieni.” Può dunque l’uomo ritrovare dei suoni articolati non imitativi,
per denotare agli altri le sue interne modificazioni. Egli può trovarsi nel bisogno di farsi comprendere dal suo simile con un suono:da un tal bisogno
nasce la volontà di mandar fuori un suono.
Questa volontà avrà il suo effetto,
ed un suono sarà da
lui mandato fuori; questo suono sarà tale e
non altro, perchè tale e non altro è
lo stato fisico del corpo,
che produce il suono ,
e lo stato morale ancora dello spirito animatore di questo corpo.Ecco
spigata la nascita
de’suoni arbitrari. Ciò che ho detto è provato coll’esempio de’ fanciulli: eglino innanzi che abbiano appreso a
parlare, quando bramano alcuna cosa ardentemente, nell’atto che si sforzano di acceimarla co’gesti, e
co’ movimenti del corpo, per lo più
proferiscono insieme una qualche voce;
poiché lo spirito quando, si trova in qualchegr
ave bisogno mette ad un tempo tutte le sue facoltà in azione. Questo è comune
alle bestie ancora. Anzi i sordi muti medesimi, benché nemmeno sappiano
di aver voce, ciò non ostante per non so qual movimento meccanico,
mentre s'impegnano di spiegarsi co’lorogesti,
principalmente quando si trattadi cose ,che molto l’interessano, e
che non possono facilmente farsi comprendere ,
mandano anch’essi quando una, e
quando un’ altra voce. Gli uomini possono dunque istituire de’ suoni
articolati analogici, e possono istituire ancora de’
suoni articolati arbitrari. Io li chiamo
arbitrari, non già perchè son pro- dotti
senza una ragion sufficiente; ma perchè
non sono imi- tativi, o
analogici. Qual similitudine, per esempio, può mai trovarsi fra questo suono “cielo,”
ed il complesso delle sensazioni visuali,
che ci desta in una notte tranquilla il firmamento
7£ perchè la costituzione fisica emorale,
in cui si son trovati gl’inventori delle lingue,allora che furono ndl
bisogno, di denotare con un suono uno stesso oggetto, è
stata varia non solamente per la natura ,
eper gli abiti contratti,ma eziandio per I climi, ed I
siti; perciò in diversi luoghi di questo
globo terraqueo nacquero diversi suoni primitivi,
come è provato per le radici di tutte
le lingue cognite. n fatto de’ fanciulli
prova senza replica , che gli uomini
possono arrivare a comprendere il linguaggio
arbitrario. E meditando attentamente su di questo
fatto st può intendere come ciò possa
avvenire. Supponiamo che un fanciul- lo'
abbia appreso il significato del vocabolo gallina, il che può accadere
unendosi da alcuno alla prouunciazionc del vocabolo gallina l’indicazione del
volatile dal vocabolo denotato: supponiamo inoltre, che il fanciullo abbia
veduto una gallina morta e che il giorno seguente ascolti da uno della
famiglia questa proposizione: la gallina jeri morì, si accorgerà che si vuole
denotare l’avvenimento, del la morte della gallina, accaduto, il
giorno innanzi.
Supponiamo ancora che la proposizione: “La gallina
jeri mori”
siasi udita più volte dal fanciullo in modo che egli 1'abbia impressa nella sua memoria
; « che avendo veduto ima cagna
partorita il giorno avanti, e sapendo il signifìcato del
vocabolo tagm, ascolti la seguente
proposizione :“La cagna jeri partorì.”
ecco la serie de’ fatti
intellettuali che in tal caso avranno luogo nello
spirito del fanciullo: l.° egli intenderà
che colla proposizone, la cagna jeri partorì,
si denota il parto della cagna da
lui il giorno antecedente osservato: 2.o. la
pronunciazione del vocabolo jeri, per la le dell’associazione delle
idee, riprodurrà nelsuo spirito l’altra proposizione,
“la gallina jeri mori.” 3.° volendo intendere
il significato di ciascun vocabolo delle
due proposizioni, il fanciullo dirigerà la
meditazione su le stes-se.
4.paragonando le due proposizioni fra di esse, e
coi fatti dalle stesse denotate, non
meno che i fatti stessi fra di loro ,
il fanciullo vede che le due
proposizioni sono identi- che nel vocabolo
jeri] e che i due fatti significati sono
identici
nella circostanza del tempo in cui sono accaduti;
essendo tutti e
due accaduti nel giorno precedente a
quello in cui si parla. 5.° con questi paragoni il fanciullo intenderà il significato
del vocabolo “jeri” isolatamente considerato.
6.° dopo di ciò comprenderà eziandio il significato isolato de’ vocaboli mori «partorì;
poiché avendo compreso il significato in
confuso delle due proposizioni, ed indi
il significato distinto del vocabolo “jeri,” e
sapendo dall’ altra parte il significato
distinto de’ vocaboli gallina, e cagna, conoscerà ,
che i vocaboli mo- ri e partorì sono
destinati a denotare i due avvenimenti, e ne
apprenderà perciò il loro distinto significato.
Questo esempio fa vedere che i
fanciulli meditano prima di apprendere il linguaggio più di quello che comunemente si crede;ech
e le nozioni soggettive d’identità,e
dì diversità sono antecedenti alla conoscenza della propria lìngua, eservono
ai fanciulli per farla loro apprendere. I
vocaboli o denotano gli oggetti de’ nostri pensieri, o
l’ azione dello spirito su di questi oggetti: Pietro è con Paolo, i
vocaboli Pietro e Paolo denotano gli oggetti
de' nostri pensieri ; i vocaboli, con denotano l'azione
dello spirito su dì questi oggetti. Ma ciò
richiede ancora una maggiore
spiegazione. Il vocabolo significa l’azione dello spirito ,
che attribuisce a Paolo il rap- porto di
compagnia con Pietro. Ma acciocché lo
spirito avesse la nozione soggettiva di
tal rapporto, è necessaria la com- parazione di
Pietro con Paolo' riguardo alla loro
esistenza in un certo tempo , ed in
un certo spazio ; questa comparazione aggiunge all'idea
assoluta diPaolo il rapporto di compagnia con Pietro:
la voce con esprime un tal rapporto , e per
questa ragione un tal vocabolo può
riguardarsi eziandio come segno dell’
azione dello spirito che compara. Pur
tuttavia essendo il rapporto un prodotto della
comparazione preliminare all’atto del giudizio,
pare che sia maggior esattezza il distinguere i vocaboli,
che denotano l’azione dello irito,in vocaboli di giudizio ed in vocaboli di rapporto.
£questa distinzione si trova in un opuscolo di Mariano Gigli, intitulato
Metafisica del linguaggio. Secondo questa
osservazione i vocaboli si distinguono in
vocabbli di cosa, in vocaboli di
giudizio ed in vocaboli di rapporto.
Così nella proposizione, “Pietro è con Paolo,” i
vocaboli “Pietro” e “Paolo”
son vocaboli di cosa, il vocabolo i,
esprimendo l’atto del giudizio, è
vocabolo di giudizio, ed il vocabolo “con” è
vocabolo di rapporto.
Esso denota insime l’azione comparativa, ed
il rapporto di questa azione. Secondo
la grammatica generale e ragionata di
Portoreale, i vocaboli si distii^cno in due
classi, alcuni significano gli oggetti de’
nostri pensieri , altri significano la forma , e
la maniera de’ nostri pensieri di cui
la principale è il giudizio. Questa
distinzione mi sembra giusta , cd in
seguito di ciò che abbiamo detto è chiara.
I vocaboli materialmente considerati sono o radicali, o
derivati, 0 toHituiti. Radicali,o primitivi son quelli,
che non nasc<mo da altra voce conosciuta ed usata nella medesima lingua,
come tote, dolce, fuggire ec.
Derivati son quelli, che provengono da voci conosciute
, ed usate, nella medesima lingua , come talare,
dolcezza, fuggitivo ee. Sostituiti son quelli,
che per maggiore chiarezza , e per brevità
si pongono in luo- go di altre voci
conosciute , ed usate nella medesima lingua, come
mio pensante ec. per di me, che
pensa ec. È facile a eomprendei si , che
ritrovati i vocaboli radicali r analogia ha
menato gli uomini a ritrovare i vocal>oti
deri- vati, e sostituiti, e cosi ad accrescere notabilmente il
linguaggio. Difatti quanti nomi sostantivi non si
possono trarre dagli aggettivi, quanti
aggettivi da' sostantivi, quanti nomi
da'verbi, quanti verbi da' nomi ? I
sostantivi nerezza, bianchezza, lunghezza ec.
tutti vengono da nero, bianco, lungo;
gli ag- gettivi
celeste, terrestre, marmo ec. derivano da cielo, terra, mare; I
nomi speranza,amore,dolore, volontà ec. derivano dai verbi sperare, amare, dolere,
volere. 1wirbi velare, vestire ec. nascono da
velo, veste. Inoltre quante parole formar
non si possono dall’unione di due o
più altre? I latini unendo il verbo “esse” a varie
proposizioni, ne facevano adesse, ab- esse,
obesse , inesse , processe, prodesse, subesse; superesse,
interesse. Dall’unione poi di un nome e di un verbo, quanti altri
composti facessero i greci e gli ebrei, e
quanti ne facciano i cinesi, e tutti gli
orientali, è abbastanza noto agli eru- diti.
Tutte le lingue originali, che diconsi lingue madri,
hanno
pochissime radici primitive,per mezzo delle varie combinazioni
di queste compongono un gran numero di vocaboli.
Gli uomini dunque,
per manifestare agli altri i propri pensieri, hanno potuto istituire il linguaggio dei suoniarticolati.
Questa invenzione è la causa principale, che
ha condotto il geqere umano a quel
grado di coltura e di per- fezione,
in cui oggi lo vediamo. Il linguaggio fa
l’analisi del pensiere,
e come sia un valevole soccorso per la meditazione.
Ma indipendentemente
dalla influenza che ha pel progresso delle nòstre
conoscenze, considerato riguardo all’ individuo
che se ne serve,
ne ha una notabilissima considerato riguardo alla
società, e relativamente all’individuo, che ascolta e
riceve le altrui conoscenze.
Il linguaggio può essere considerato come un mezzo,
che fa
progredire lo spirito nella propria meditazione;
ed ancora come un mezzo di comunicazione
scambievole de’ pensieri degli uomini: nel primo caso serve d’istrumento
all’azione meditativa, per ritrovare la verità;
nel secondo presenta allo spirito de’
nuovi materiali per le sue conoscenze.
Gli uomini non potendo esistere in tutti i
luoghi nè in tutti i tempi; segue che non
tutti possono osservare tutti i fatti; un uomo può perciò aver osservato de’
fatti, che un altro non ha osservato. Se dunque il primo comunica al secondo le
sue osservazioni, questi conoscerà de’ fatti che non ha osservato; equest a
conoscenza avrà per motivo 1’altrui testimonianza, e costituisce ciò che
si chiama certezza morale^ Domandate, per esempio, ad un napolitano, il quale
non sia mai uscito di questa città,perche egli creda l’ esistenza di tante
altre città , di Roma, di Milano, di Parigi, di Madrid, di Londra ec.; vi
addurrà per motivo la testimonianza di altri uomini, che hanno veduto le città
nominate, ed egli sarà tanto certo dell’esistenza di queste, quanto lo sarebbe,
se le vedes» co’propri occhi. Non basta,
che un uomo conosca un fatto,
che un altro ignora, è necessario
che abbia la volontà di narrare il vero, afllnchè l’altro non fosse dalla testimonianza del primo ingannato.
Per disgrazia dell’ umanità la volontà d’
ingannare i propri simili si trova
non poche volte negli uomini; e
non poche volte ancora accade,
che gli uomini ingannino non già perchè
vogliono ingannare; ma perchè o
non hanno conosciuta esattamente il vero, o sono
stati da altri ingannati. Da.ciò lo scetticismo ha preso il motivo di combattere la certezza morale.Ma dicano quello che vogliono gli scettici, l’esperienza
ci manifesta queste due verità, l,°un
uomo può aver conosciuto de’ fatti, che
un altro, o non ha potuto conoscere, o
non ha conosciuto.
2.° vi sono alcuni fatti di tal natura, su de’ quali non si trova giammai concordemente fallace la testimonianza
di coloro, che gli hanno osservati. Non si è
trovatagiammai fallace la testimonianza di coloro che sono stati in Napoli
, nello assicurarmi dell’ esistenza di
questa città ; r
esperienza stessa me ne ha assicurato, poiché
essendo io stato in Napoli, ho
ammirato io stesso co’ miei occhi questa
magnifica città, ed ho così trovata
verace l’altrui testimonianza:
la stessa esperienza ho ripetuto circa molti altrifatti.
È dunque una verità di esperienza quella che stabilisce,
essere la concorde testimonianza di altri uomini, circa alcuni
fatti, un motivo leggittimo dei nostri giudizi
Vi sono, è vero, degli uomini che narrano de' fatti,
de’ quali non sono stati testimoni
oculari, e
su de’quali sono stati da altri ingannati ;
e vi sono ancora di quelli,che volontariamente
mentiscono. Ma vi sono eziandìo de’ testimoni non solamente
oculari di alcuni fatti;
ma testimoni tali che non somministrano alcun motivo di dubitare
della loro veracità. È
questa una verità che la propria giornaliera
esperienza ci manifesta. Chiunque non ha
veduto Napoleone Bonaparte,è sicuro nulla
dì meno, per la testimonianza di altri ,
che vi sia stato un uomo così
chiamato , il quale ha esercitato il sommo
potere nella Francia, ha perduto poi il
trono, ed è morto prigioniero nell’Isola di S. Siena.
A suo luogo parleremo de’limiti della
certezza morale: qui mi son ristretto a stabilire
la sua esistenza: per istabilirla ho stimato di salire a’suoi primi
princìpi. Ho fatto vedere, che un uomo, può
intendere un altro,
che l’uomo può voler essere inteso; e
che da ciò nasce il primo linguaggio chiamato linguaggio della natura; che l’analogia può accrescere un tale linguaggio,
e far nascere
ancora alcuni vocaboli radicali analogici;
che il bisogno può menare poi gli uomini a
stabilire altri vocaboli radicali arbitrari; e
che così ha potuto nascere il linguaggio, de’suoni articolati. L’esperioiza m’insegna,
che vi sono delle cose circa le quali altri non s’ingannano,
nè si propongono d’ ingannarmi. Da ciò
concludo, che l’altrui testimonianza ,
cioè il linguaggio volontario degli altri nomini, può
in molti casi, circa ì fatti ,
essere un motivo legittimo de’ nostri giudizi.
Io non posso coesistere a tutte le generazioni,
ed a tutti i luoghi. La mia durata è
breve: il mio luogo è
quasi un punto nello spazio. Intanto vi sono moltissime cose,die m’importa di conoscere,e
che sono accadute prima della mìa nascita,o
che accadono in luoghi più o meno
lontani da quello ove io mi trovo.
La testimonianza altrui mi è
dunque necessaria per l’ acquisto di tali
conoscenze. Il linguaggio de’suoni è
un linguaggio passeggierò e limitato
ad alcuni luoghi. Un uomo, che per
mezzo delle parole comunica agli altri i
suoi pensieri, non può farlo,
se non che nel tempo in cui egli parla,
e
ne’luoghi ne’quali può estendersi il suono delle sue parole.
Un gran problema presentai al genere umano:
il problema consiste a trovare il mezzo
di estendere a tutti i tempi , ed a tutti i
luoghi , il linguaggo limitato della parola.
Voi già comprendete l'importanza del problema enunciato,
e che la soluzione di esso dee formare la seconda epoca,
del progresso delle umane conoscenze
ponendo la prima nella nascita del linguaggio
parlato. I fatti ovvi e ripetuti incessantemente
sogliono destar poco l’attenzione del volgo degli uomini,
e perciò non gli recano sorpresa. Vi ho fatto sopra
osservare quale studio fanno i fanciulli
per apprendere, sin da’ loro primi anni, ill
inguaggio della parola; intanto si crede forse ,
che essi non meditino affatto;
appunto perchè comunemente iiiuno cerca di conoscere come i
fanciulli apprendano tal linguaggio.
E un errore il credere,
che le cose sieno state in tutti itempi,
come sono in un certo tempo; e qui è il
luogo di fare uso di questa importante
osservazione. La
nostra educazione letteraria incomincia, dal
fare apprendere a’ fanciulli le lettere dell’alfabeto; ma v’ingannereste
credendo,che la scrittura,vale a dire,l’arte di dipingere
la parola e di parlare agli occhi, sia stata conosciuta nella prima
fanciullezza del genere umano : noscorsi de’ secoli prima che siensi trovate le
lettere dell'alfabeto: la scrittura non è
stata conosciuta che molto tardi. Siccome questa ci somministra un motivo molto fecondo di conoscenze ,cosi è necessario,dopo di aver cercato l’origine del linguaggio parlato, di cercar quella del linguaggio scritto.Qual mezzo si può
presentare agli uomini,per perpotuafc la memoria de’ fatti accaduti
?In
primo luogo si può osservare un tal mezznello
stesso linguaggio parlato. La propagazione del
genere umano si fa in modo, che
gl’indi' vidui di una età vivono
insieme per qualche tempo coi loro antenati , e
coi loro discendenti. Un uomo può dunque narrare
alla sua fìgliuolanza tanto quello che
egli stesso ha veduto,
quanto quello che c^Ii ha udito da suo padre, da suo avo, ed
a tutti coloro, che sono stati testimoni oculari de’fatti accaduti prima della
sua nascita, e
del tempo in cui egli avesse potuto osservarli, questo uomo essendo il primo testimone di udito, costituisce il secondo anello della testimonianza; gli
altri che ascoltano il fatto da lui narrato ne costituiscono il terzo, il quarto
ec. Così si forma una serie non interrotta
di testimoni oculari, e
costituisce ciò che chiamasi tradizione orale.
La maniera più generalmente adoprata ne’primi tempi,
per osservare la tradizione orale, era quella
di comporre una specie di ode o di
cantico.Cotesta sorte di poesia racchiudeva le principali circostanze degli
avvenimenti , che volevano alla posterità
tramandarsi. Vedasi questo uso stabilito ne’secoli più remoti appo tutte
le nazioni, tanto dell’antico,
che del nuovo continente.
Dopo la sommersione dell’esercito di Faraone nel mare rosso,
Moisè, e gli Istraditi composero un cantico di lode, e
di ringraziamento al Signore, nel quale cantico era espresso
questo memorabile avvenimento, come si legge
nel capo XV. dell’esodo. Al mezzo della tradizione orale,per conservare la memoria
degli avvenimenti passati,si è
aggiunto quello di alcuni grossolani monumenti. L’uso dei primi secoli era di piantare un bosco,
d’innalzare un altare, o
un monte di pietre,di stabilue delle feste,e
di comporre de’ cantici in occasione di avvenimenti
riguardevoli. Quasi sempre davasi a’luoghi ove erano accaduti de’fatti memorabili,
un nome relativo ai fatti ed alle circostanze.
L’istoria di tutte le nazioni somministra molte prove,
ed esempi di queste antiche costumanze. Si vedono i
patriarchi innalzare un altare nei luoghi,
ove era loro apparso il Signore,
piantare de’boschi, fare dei monti di pietra in memoria de’principali ancnimenti della loro vita c
dare a’ luoghi,
ove erano accaduti de’nomi che ne richiamassero
la memoria. Se si consultano gli scrittori profani,questi attestano lo stesso. Ne’contorni di Cadice vedevansi in altri tempi delle pietre ammassate, le quali si dicevano essere i
monumenti della spedizione di Ercole nella Spagna.Tutte queste differenti pratiche
hanno servito a
rinfrescare la memoria de’fatti memorabili, e a
perpetuare le scoperte importanti. La tradizione suppliva allora alla mancanza della scrittura;
I padri
spiegavano a’loro figliuoli l’origine di questi
monumenti,e gl’istruivano de’ fatti, i
quali ne erano stati la cagione. Io chiamo tradizione tanto la tradizione orale,
quanto l’unione della tradizione orale coi monumenti. Fra lo spezie dei
monumenti composti dagli uomini, ad oggetto
di perpetuare la memoria de’fatti passati,
untt. delle principali,
che siasi presentata al loro spirito, è
stata la rappresentazione degli oggetti corporali.
I primi uomini pensarono naturalmente,
d’impiegar questo mezzo, per rendere i
loro pensieri sensibili alla vista, e
cominciarono dal presentare
agli occhi il ritratto degli oggetti,dei quali volevano parlare. Per fare conoscere,per cagione di
esempio, che un uomo aveva ucciso un altro,
eglino
disegnavano una figura umana stesa per terra, ed.
una altra in faccia di quella dritta con un’arma alla mano. Per fare intendere, che alcuno era abbordato per mare in un paese, rappresentavano un uomo assiso sopra una barca,
e
così del resto. Da quello,che degli antichi monumenti è
rimasto, puà assicurarsi, che in prima origine
l’arte dello scrivere consisteva ili una rappresentazione informe e
grossolana degli oggetti corporali. L’uomo di sua natura imita facilmente, ed in ogni nazione vedesi la gente portata a
ricopiare gli oggetti che le si presentano.Le nazioni più selvagge, o
quello le quali hanno minor relazione e
commercio con I
popoli colti, possiedono con tutto ciò una certa idea dell’arte
del disegnare, vale a dire di rappresentare,
beiichò rozzamente, gli oggetti della natura. L’onir brache produce ogni corpo sopra una superficie che gli sia opposta, quando il corpo si oppone al passaggio della Ince, ha somministrate le prime idee del disegno. Tirando su
i limiti dell’ ombra alcune linee, allora che l'ombra
sparisce, la figura descritta con queste linee sarà simile alla
figura del corpo che getta l’ombra. Dopo
le prime esperienze i primi popoli avranno tentato
di rappresentare, e di copiare gli oggetti senza
l’ajuto della loro ombra. Avranno a poco a
poco avvezzata la mano a
lasciarsi guidare dall’occhi o, ed a
seguire le proporzioni suggeritele dalla vista. Il disegno nella sua origine
consisteva solamente nella circoscrizione del contorno esteriorede
gli oggetti. Si tentò dopo di esprimere le parti interiori,che
l’ombra non disegnava ,
come per cagione di esempio una testa,gli occhi,
il naso ec. Il
carbone, la creta ec. avranno potuto somministrare a’ primi
uomini la maniera di disegnare sopra il legno, sopra la pietra
ec. come ancora si saranno eglino esercitati in ciò su la sabbia, su la terra molle ec. Avranno in seguito con l’
ajuto dei sassi, e
di altri strumenti taglienti procurato d’imprimere desegni
sopra le materie solide. La forma che prendono i
corpi molli insinuati ne’ corpi duri, e
l’impronta che lasciano i
corpi duri applicati a’corpi molli,
avranno su^rito a’ primi uomini l’arte del modellare.
Questa avrà a poco a
poco prodotta quella dell’intagliare nel legno,
nella pietra, e nel marmo. In questa maniera il disegno, la scoltura, l’intaglio avranno avuto la loro origine; queste
arti, a mio credere,
hanno preceduto la pittura. Hanno queste rappresentazioni degli oggetti corporali servito per molto tempo
invece della scrittura propriamente detta. Io
chiamo la rappresentazione degli oggetti
corporali, della quale ho parlato, scrittura figurativa.
Questa maniera di scrivere richiedeva molto tempo; si pensò perciò di renderla più semplice,ed invece di disegnare per intero a
cagion d’esempio, un uomo, un albero, un cavallo, si disegnavano le parti principali che li facevano conoscere; come per esempio la testa, la mano ec. Ma questa scrittura fìgurativa non poteva essere suffìcieute per esprimere tutti I
pensieri degli uomini. Vi sono molte cose,
che non si possono dipingere,
come sono lo spirito, le sue facoltà,
le sue modificazioni. È
impossibile di parlare delle cose materiali,
senza unirvi delle idee die non sono capaci d’immagini
; come per esempio, descrivere l’immagine dell’affermazione, e
della negazione? Fa d’ uopo dunque inventare I
segni di queste idee intellettuali e
1’analogia guidò gli uomini a
trovarli. Si concepì una certa similitudine fra alcune qualità,
che si osservano negli uomini, e
quelle che si osservano negli animali, e
per esprimere, che un uomo è
in queste qualità
simile ad un certo animale, si disse più brevemente,
che il tale uomo è un tale animale; cosi per
dire di un uomo, che li è prudente, che li è astuto, che è
fiero e crudele, si dice, che è un serpente, una volpe, una tigre;
disegnando dunque l’immagine di questi tali animali si
disegnano mediatamente le immagini delle qualità spirituali, di
cui si tratta. Una tale rappresentazione costituisce ciò che chiamasi
geroglifico. I Cinesi per cagion di esempio, per denotare che FoAt, primo fondatore del loro impero, era dotato di prudenza, e di sagace ingegno, lo disegnano col capo umano unito ad un corpo di serpente.
Il successore di FoA» di nome Xino,
ad oggetto di
denotare, che egli si applicò all’agricoltura,
ed incominciò a porre i bovi sotto il giogo,lo disegnano col capo di bove unito al corpo umano. Gli antichi denotarono la giustizia, dipingendo
uvergine cogli occhi bendati, tenendo in una delle mani una bilancia, ed in un'altra una spada.
La vergine figura la giustizia;
la bilancia denota che la giustizia consiste a
dare a ciascuno il suo dritto,
la spada significa,
che la giustizia dee infligger la paia dovuta
a’delinguenti, gli occhi bendati finalmente denotano,
che la giustizia non dee
avere alcun riguardo alle persone,
ma deve agire conformemente alla legge,
senza esser mossa da motivi estrinseci.
Si vede qui che la similitudine concepita fra
alcuni modi de’corpi, e le qualità dello spirito, dettò questo geroglifico. La giustizia è
una nozione astratta, e
le nozioni astratte sussistono sole nello spirito;
passa perciò una certa similitudine fra
l’astrazione e
la personificazione, una vergine non è
macchiata da alcuna impurità corporale, e ia
giustizia dee esser monda da qualunque difetto. Quando per dare ad un altro una quantità
di merce, questa si pesa, ciò si fa per dargli
ciò che gli appartiene.
Le similitudini fra alcune modificazioni del corpo,
e quelle dell’animo si deducono da ciò,
che le prime sono i
segni naturali delle seconde. Denotando le prime si denotano mediatamente le
seconde ; e siccome le prime son capaci d’immagini corporali; così lo sono
mediatamente anche le seconde ;e questa rappresentazione mediate costituisce il
geroglifico. Da ciò si vede, che la scrittura geroglifica si è unita alle volte
alla scrittura figurativa, come si vede ne’due esempi di Fohi,e di Xino.
Alle volte è stata impiegata solq come nell’
esempio recato della giustizia. Si
vede inoltre, come questo modo di
scrivere fa le veci delle proposizioni
verbali. Cosi, per cagion di esempio, i
geroglifici rapportati valgono pel significato
quanto queste proposizioni verbali: F(M fu
dotalo di sagacità. Xino pronwtse ¥ agricoltura , e
pose « bovi sotto il giogo,
fa giustizia dà a ciascuno U tuo dritto,
infligge la pena dovuta a'delinguenti,
né si lascia muovere da molivi estrinseci.
Osservate, che ne’
geroglifici enunciati si trovano I segni relativi al sogetto,
al predicato, ed al verbo delle proposizioni
rapportate. Così il capo di forma umana nel primo geroglifico donata il soggetto della
proposizione cioè Fohi, il
corpo serpentino denota il predicato, cioè la segacità, e
l’unione del
capo umano al corpo serpentino denota l’unione del predicato al soggetto significato dal verbo fà. Nel secondo geroglifico,
il corpo di figura umana denota il
soggetto della proposizione cioè Xino ,
il capo bovino denota il
predicato cioè l’aver promosso l’agricoltura, e
l’aver posto i bovi sotto il giogo;
l’unione poi del capo bovino alla forma umana denota l’unione
del predicato al soggetto, espressa dal verbo
promosse. Nel terzo geroglifico,
il soggetto della proposizione è
significato dalla vergine; la bilancia, la spada,
la benda denotano I predicati della proposizione, e
l’unione di queste cose al corpo della vergine denota
l’unione de’ predicati al
soggetto. Da ciò segue, che un geroglifico può esprimere diverse proposizioni, osia una proposizione composta. Ciò si
vede chiaramente
nel geroglifico recato della giustizia. Wolfio riferisce che un certo Comenio,volendo formare il geroglifico
dell’anima, dispose de'punti in modo da
formare una figura simile a quella , che
presenta 1’ombra , prodotta dal corpo umano
su di un piano perpendicolare all'orizzonte,ed opposto
direttamente al corpo umano, ed al lume. I punti, secondo i geometri,
essendo privi di estensione, denotano la semplicità dell’anima. La figura del
corpo umano costruendosi, per mezzo de'soli punti, senza l'intervento di alcuna
linea, denota la sostanzialità dell’anima umana, la quale sussiste
indipendentemente dalcorpo. I
punti, essendo disposti in modo, che necessariamente formano la figura del corpo umano, denotano l’unione dell'anima
col corpo,
la quale unione si forma dall’autore della natura,
indipendentemente dalla volontà dell’anima.
Finalmente questi punti, essendo dispersi in tutta la
figura del corpo umano, denotano la dottrina degli
scolastici, cioè che r anima è tutta in
tutto il corpo e tutta in ciascuna
parte. ir geroglifico comcniano equivale
perciò alle scienti proposizioni. l.° l’anima è
semplice: 2.° l’anima è una sostanza. L’
anima, indipendentemente dalla sua volontà, è unita al corpo.
4.” 1' anima esiste tutta in tutto il corpo, e tutta in ciascuna parte.Dopol’invenzione della scrittura geroglifica portata
al più alto grado di perfezione,
di cui era capace,
restava ancora agli uomini di farp l’ultimo sforzo per ritrovare i caratteri alfabetici,
che sono i segni del suono non già
d(^li oggetti. Vi sono stati in ogni
tempo degli spiriti sublimi,
i quali colle loro invenzioni hanno ampliato notabilmente la sfera
delle umane cognizioni, ed hanno spinto
velocemente il genere umano verso quel
grado di coltura, in cui (^gi
te vediamo. Un vocabolo è un suono o
composto, o semplice: per rendere
durevole questo segno basta dunque stabilire de’
segni permanenti de’ suoni semplici, che compongono i
vocaboli; e per tale oggetto
basta stabilire per segni de’suoni semplici alcune
Ggnre, e la scrittura alfabetica è trovata. Ma
(pianto tempo è egli trascorso, priachè una verità cotanto semplice si
presentasse allo spirito de’padri nostrii. Si voleva
render permanente il linguaggio passaggiero della parola; e
non si pensò di decomporre i suoni
articolari, e di stabilire de’ segni permanenti de’ suoni semplici che
compongono I vocaboli.
Lo spirito intraprese de’cammini lunghi e
tortuosi, per tramandare alla posterità la somma delle sue conoscenze.
La scrittura fu prima
figurativa perfetta indi figurativa imperfetta.
poiché si designarono prima gli oggetti interi,
indi le loro parti principali:in seguito divenne geroglifica,
indi sillabica,e finalmente
alfabetica, lo dico prima sillabica,
e poi alfabetica, poiché penso coll’illustre Goguel autore dell’opera su 1’origine delle leggi, delle arti, e
delle scienze, che dopo la scrittura geroglifica
furono trovati i segni de’ suoni
delle sillabe de’vocaboli
,prima che si trovassero i
segni de’ suoni semplici che compongono i
suoni delle sillabe. In questa maniera di scrivere,
la quale chiamasi scrittura sillabica non s’impiega se non che un solo carattere per iscrivere
ciascuna sillaba, di cui vien composta una
parola. Non si
esprimono allora né vocaboli, né consonanti. Noi, per esempio,
per iscrivere la voce pane impieghiamo
quattro lettere; nella scrittura sillabica
non vi bisognano se non che due
caratteri. Ora supponiamo che la
pronuuciazione del vocabolo pane risvegli r
idea del suono “cane,” e
questo quella del suono sa- ne, e che lo spirito mediti,e
paragoni fra di essi questi suoni:
egli li decompone in sillabe, e trova,
che la sillaba ne è la stessa in tutti e
tre questi suoni, il che gli viene
ancora insegnato dalla stessa scrittura sillabica,
poiché Io
stesso carattere indica il suono della sillaba ne in tutti e tre i
vocaboli enunciati. Questa identità conosciuta mena lo spirito
a
notare la diversità de’ suoni pa, ea, sa, che
sono le prime sillabe di questi vocaboli ;
ma in questa diversità lo spirito trova
ancora una identità nella desinenza:
tutte e tre queste sillabe cadono nel suono “a”:ciò
conduce lo spirito a separare nelle sillabe pa,
ca, sa, il suono “a” dagli altri
suoni che vi si uniscono; e siccome egli ha trovato I
caratteri
de’suoni pa, ea, sa, così troverà il carattere del suono
a, e quelli de’ suoni p, c, s, e la
scrittura alfabetica è già trovata.
Ecco dunque i passi, che ha dovuto
fare lo spirito per ritrovare la
scrittura alfabetica, l.° egli ha conosciuto che la maggior parte de' vocaboli erano de’suoni composti,
e che potevano perciò decomporsi in altri snoni.
2.° egli ha conosciuto, che poteva stabilire segni di segni, e
segni permanenti di segni passaggieri; 3.°
egli ha stabilito de' caratteri, che
fossero segni permanenti del suono delle
diverse sillabe, e così nacque la scrittura sillabica. 4.° ^li ha
conosciuto che la maggior parte delle sillabe
erano de’ suoni composti ancora,e
siccome ha trovato de’ caratteri, che fossero segni delle sillabe, ha trovato
ugualmente de' caratteri, che fossero segni
de’ suoni semplici; c così è nata la
scrittura alfabetica. Alcuni eruditi, frai
quali il citato Goguet, pretendono che i
caratteri alfabetici sieno derivati da' segni geroglìGci, eche questi ultimi
abbiano a poco a poco introdotto il metodo brève
delle lettere alfabetiche. Questa opinione è falsa
sotto un certo riguardo, sebbene possa
esser vera sotto di un altro. Per presentacela
quistione sotto un aspetto filosofico, può
cercarsi: l.°: Lo spirito umano poteva, senza passare per la
scrittura figurativa, e geroglifica, passare immediatamente dal linguaggio
della parola al linguaggio permanente della scrittura
alfabetica? È certo, che poteva, poiché fra i passi,
che egli doveva fare,
partendo dalla considerazione della parola,
per giungere alla scrittura alfabetica, e che
abbiamo di sopra sviluppato,
non vi sono certamente quelli della scrittura figurativa e
geroglifica. Si può cercare S.'': La scrittura figurativa e
geroglifica doveva condurre naturalmente lo spirito
alla serittura alfabetica. La scrittura figurativa e
geroglifica non hanno relazione alcuna con le lettere dell’alfabeto,
e per tal ragione non hanno potuto condurre lo spirito a
ritrovare la scrittura alfabetica. Ma hanno sotto
un altro riguardo potuto influire a questa
invenzione; queste due scritture, come or
ora vedremo , sono imperfette assai, e complicate;lo spirito
accorgendosi della loro imperfezione e difficoltà, ha potato da ciò rivolgere
la meditazione a rendere più semplice, c
facile il sistema de’segni permanenti. Si può cercare 3.° La
figura de’segni geroglifici Jta potuto server
allo spirito, per concepir la figura de' primi caratteri alfabetici.
Le ragioni addotte da Goguet provano, che lo ha potuto.
Paragonando,egli dice, con attenzione quello, che
a noi rimane dei caratteri egiziani, con
le
figure geroglifiche intagliate sopra gli obelischi,
e gli altri monumenti, si ricava che le lettere egiziane tirano da’geroglifici
la loro origine. Nell’alfabeto degli etiopi, e
nelle lettere majuscole degli armeni si trovano
I vestigi assai chiari della scrittura antica
geroglifica. A queste ragioni se ne può aggiungere un’altra. Col progresso
del tempo il rapporto di similitudine tra il geroglifico e
la idea da esso significata,non si è piu
ravvisato. Ciò è accaduto perdue ragioni
l.° alcuni rapporti di similitudine erano
troppo lontani; si esprimeva,per esempio,l’impudenza
per una mosca,la scienza per una formica.
2.° allorché furono moltiplicati I
volumi, si cercò il modo di abbreviare,e
perciò invece del geroglifico primitivo si fece uso di un altro carattere, che noi possiamo chiamare la scritturacorrente de’geroglifici:
esso rassomigliava a’caratteri cinesi;
dopo d’essere stato da principio formato dal solo contorno
della figura, divenne in stanilo una sorta
di nota, hi questo stato il
geroglifico poteva riguardarsi come il
segno del vocabolo. Tosto che si ebbero da’segni permanenti de’vocaboli,poteva
pensarsi di dare de’ segni permanenti alle
sillabe , ed indi a’ suoni semplici di
cui è composto il suono delle sillabe. L’essenza de’caratteri
alfabetici si è l’essere isolatamente considerati,
segni solamente di suoni, non già di idee:
i caratteri, per esempio ,a,e,i,o, u,b,c, ec.,
isolatamente considerati nuli’ altro significano
, se non che alcuni suoni. I
caratteri poi della scrittura fìgurativa,
e geroglifica, non denotano suoni
ma idee, l’immagine di un serpente denota l’idea del serpente, quella
della prudenza ec. Le nostre cifre arabe,1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 0, sono
ugualmente segni d’idee, non di suoni. Essi si leggono
diversamente presso le diverse nazioni, sebbene sieno ì segni delle stesse
idee. Questa differenza è
della massima importanza. Colla divcisa combinazione di un piccol numero di caratteri, si possono scrivere tutti i
vocaboli di una lingua parlata. Ma quando i
segni della scrittura sono segni d’idee non già di suoni,
il numero di questi segni dee corrispondere al numero de’vocaboli;
il che rende il numero de’caratteri molto
grande, e perciò esige uno studio lungo, e
difficile, per apprendere a leggere,e scrivere, come è
provato per l’esempio de’Cinesi. È
questo un grande ostacolo al progresso della conoscenza:
La gente di studio è obbligata a
sottrarre il tempo necessario,
per apprendere le scienze, ed impiegarlo a
saper leggere e scrivere. L’arte di leggere e
scrivere essendo di molto poche persone,
il resto della nazione dee restare nella ignoranza. Dello stesso inconveniente partecipa anche in parte la scrittura sillabica,
poiché il numero de’caratteri, per significare ciascuna sillaba è
di gran lunga maggiore di quello, che è
necessario per denotare I suoni semplici,
di cui il suono di ciascuna sillaba è
composto. Così, per cagion di esempio con questi tre caratteri alfabetici, a, b
,c, si possono scrivere le seguenti sìllabe, ab, ba,
ac, ca, bac, cab. In questo
esempio il numero dei caratteri sillabaci è
doppio del numero de’ caratteri alfabetici. Se supponete quattro caratteri ahabetici,
a, b, c, e,
il numero ddle combinazioni di questi caratteri, presi due a
due, è maggiore del doppio, cosi avremo, ab, ba, ac,
ca, ae, eb,
be, ec. Uno de’ vantaggi dunque della scrittura alfabetica su le altre
scritture si è il piccol numero de’segni, di cui ha bisogno
la prima scrittura. È vero,
che le nostre cifre arabe sono per tale oggetto perfettissime,
mentre con dieci caratteri possono scriversi tutti i
numeri possibili,
ma un tal vantaggio lo debbono alla formazione delle idee da queste cifre designate;
poiché queste idee si formano tutte colla ripetizione della stessa idea che è
quella dell’unità. Un altro inconveniente della scrittura geroglifica si è
l’incertezza del significato. Uno stesso geroglifico può denotare cose
molto diverse fra di esse. Cosi la immagine del serpente dinota questo animale, la prudenza,
e ’universo: l’immagine
del lepre dinota questo animale, il candore, e
la timidità. L’invenzione del linguaggio della parola,
el’invenzione della scrittura alfabetica,
che rende permanente il primo linguaggio di sua natura
passeggierò, fanno che l’uomo possa gettare il suo sguardo in tutti
i luoghi, ed in tutti I tempi. L’esperienza c’ins^a,
che gli uomini possono, per mezzo della scrittura trasmetterci dei fatti che son veri e
che la concorde testimonianza degli
scrittori circa alcuni fatti non si è
giammai trovata fallace. Tutte le gazzette dell’Europa all’ epoca,
in cui Napoleone Bonaparte
scese al trono della Francia annunciarono questo avvenimento. Tutte le gazzette ugualmente hanno annunciato la morte del sommo
Pontefice Pio VII. L’esperienza dei propri occhi
avrebbo potuto assicurare colui, che avesse
dubitato, della veritàdi tali fatti. I
fatti consegnati negli scritti possono colla conservazione degli scritti,
che li contengono, trasmettersi alle future generazioni.
È questa eziandio una verità di esperienza.
Vi sono
dunque de’fatti accaduti in tempi lontani, de’
quali fatti noi possiamo conoscere
la verità.
Il linguaggio passaggiero della parola; quello
permanente della scrittura alfabetica, e
quello dei monumenti, possono dunque circa alcuni fatti, essere
motivi legittimi dei nostri giudizi. Tutti questi motivi concorrono a stabilire
la certezza morale. Credo utile di addurvi un altro esempio, in
conferma di ciò che vi ho detto. Un terribile tremuoto,poi seguito da altri,
cagionò dei danni notabili alle Calabrie, ed ancora alla città di
Messina. Gliabitanti dei paesi danneggiati
furon obbligati di uscire fuori dalle
loro abitazioni, e dì costruirsi delle baracche
per abitarvi; alcuni le hanno costruite
in lontananza dei paesi diruti quali rimasero
perciò deserti. Cosi accadde, per esempio, a Briatico, che fu
costruito di nuovo vicino al mare, e Briatico antico presenta allo
spettatore I segni delle sue mine: altri hanno costruite le nuove abitazioni in
un suolo contiguo all'antico abitato. Cosi accadde a
Tropea, le cui nuore abitazioni furono costruite lungo ed all'intorno della strada detta
dell’Annunciata. Molti , che sono stati testimoni
oculari dell’avvenimento, vivono ancora molti
altri appartengono alle seguenti generazioni: i primi
narrano ai secondi l’orìgine delle mine che
colpiscono i loro occhi , non meno che
l’orìgine delle nuove abitazioni, ciascuno
testimone oculare è istruito dalla esperienza,
che tanto egli, che gli altri testimoni oculari
narrano il vero, e che coloro i qualinarrano il fatto
ad altri, per averlo eglino inteso narrare da’testimoni oculari, narrano il
vero. L'esperienza dunque c’insegna, die vi sono dei testimoni di udito, la di
cui testimonianza è verace,e che la tradizione orale unita ai monumenti può trasmettere alle generazioni future i
&tti accaduti ne’tempi da queste generazioni
lontani. La memoria di questa tremuoto si trova depositata in una moltitudine di scritti,
i quali ancora rimangono, ed icui autori più non sono. La propria
esperienza istruisce dunque cisscun testimone oculare di questa importante
verità: che per mezzo de’monumenti, della tradizione orale e
della scrittura alfabetica, si può conservare
la conoscenza di alcuni fatti passati. Intorno
alle idee politiche del Galluppi ’, e più sulla condotta da lui tenuta
nell’alterna vicenda degli avvenimenti politici di cui è piena la storia di
Napoli nel periodo della sua virilità, non si può dire davvero che
abbondino i documenti, né che abbiano fatto tutta la luce desiderabile
gli studi consacrati a questo lato della biografia galluppiana dal
Tulelli, dal Guardione e ultimamente dal prof. Nicola Arnone. Il quale ha
scritto in proposito una memoria molto accurata, ma per giun¬ gere
a una definizione del Galluppi considerato sottol’aspetto politico, la quale è
in aperto contrasto coi docu¬ menti più sicuri da noi posseduti. Anche il
Galluppi, secondo l’Arnone, sarebbe stato un giacobino! Della
sua dottrina liberale e del suo atteggiamento risoluto in favore delle
pubbliche libertà e contro 1 in¬ tervento austriaco non è possibile
che dubiti chi conosca i frammenti che diè il Tulelli de’ suoi
Pensieri filosofici sulla libertà compatibile con qualunque 1 P.
E. Tulelli, Intorno alla dotte. ed alla vita politica del bar. P. G.,
notizie ricavale da alcuni suoi scritti inediti e rari, negli Atti della
li. Accad. delle scienze mar. e poi. di Napoli. Guardione, Due opuscoli
di P. Galluppi, prec. dallo studio critico Dei concetti civili e politici
apportati da P. G. nella rivoluzione del 1820, Messina, D'Amico, 1906; a
proposito di questo opuscolo, G. Gentile nella Critica, V (1907), pp. 229
sgg.; N. Arnone, P. G. Giacobino, negli Studi dedicati a Francesco
Torraca nel XXXVI anniv. della sua laurea, Napoli, Perrella, 1912, pp.
129-52. forma di governo, e
i due opuscoli Della libertà di coscienza e Lo sguardo d' Europa sul
Regno di Napoli, ristampati dal Guardione. Ma da quel liberalismo al
giacobinismo c’è un bel tratto. Né i documenti dell’Amone
riscoperti 1 nell'Archivio provinciale di Catanzaro bastano a superarlo.
Da questi documenti apprendiamo che nell’ottobre 1799 il Galluppi
chiedeva un passaporto per recarsi a Palermo « per atten¬ dere ad alcuni
di lui affari litigiosi ». Il Re faceva rispon¬ dere dal Segretario di
grazia e giustizia al Preside di Catanzaro, che al Galluppi si sarebbe
accordato il passa¬ porto, « quando non vi sia niente contro il medesimo
». Il Preside si rivolse per informazioni al Vescovo e al
Governatore di Tropea. Il Vescovo, il 16 ottobre, rispose: « Quantunque
apparentemente il suddetto sembri un giovane morigeratissimo, e studioso
anche di materie teologiche, pure non gode buona fama, perché si
pre¬ tende aversi ingoiato con lo studio vari errori della vana
filosofia, per cui fu, anni sono, denunziato sino a Roma, e ne’ pochi
giorni della falsa assunta Repubblica fu im¬ piegato a far traduzioni,
per cui stiede lungo tempo trattenuto nel Pizzo: timoroso poi all’eccesso, si
andiede in Cosenza dopo liberato dal Pizzo; ed ora vorrebbe andarsi
in Palermo, dove ha degli interessi; ma per questi me¬ glio sarebbe
andarvi il padre don Vincenzo [il padre del Galluppi], mentre non debbo
io, né V. S. 111 . mettersi deve in compromesso nelle circostanze nelle
quali siamo ». Tropea tra il gennaio e il febbraio aveva avuto
an- ch’essa il suo albero della libertà e un governo repub¬
blicano. Ma per pochi giorni. AH’avvicinarsi delle schiere 1 Gli è
sfuggita la comunicazione che ne aveva fatta Gaetano Capasso, nel 1896,
alla Riv. Stor. del Risorg. ital., I, pp. 794-95. [Vedi ora, per un'altra
denunzia di pretesi discorsi giacobini del Galluppi, F. Scandone, Il
Giacobinismo in Sicilia (1792-1802), nell'A refi. Stor, sic., G. GIACOBINO ? 113 del Ruffo la
plebaglia aveva abbattuto albero e governo, e uh comitato di cittadini
era andato incontro, il 24 feb¬ braio 1799, al Ruffo a Mileto, a
prestargli ubbidienza. Per la quale il Ruffo volle alcuni ostaggi, che
fece tra¬ sportare a Pizzo. Tra essi venne incluso il Galluppi, che
per altro dopo alcuni giorni fu rilasciato senza nessuna condanna. Aveva,
secondo il vescovo sanfedista ', tradotto qualche documento francese,
forse qualche proclama o decreto dello Championnet; ma la stessa voce
raccolta dal vescovo della gran timidezza del filosofo, ci spiega
molto facilmente perché il Galluppi, invitato dai giacobini della piccola
città, dove forse era solo a conoscere il fran¬ cese (e non lo conosceva
né pur lui molto) * e quando costoro tenevano il campo, non potesse
esimersene, pur non avendo un grande entusiasmo per la causa repub¬
blicana. Certo, non si compromise, se nella ristaurazione non patì
nessuna noia; e se il tenente colonnello don Giovanni de Mendoza,
governatore di Tropea, pur dopo diligenti investigazioni, non riusciva a
trovare nulla a carico di lui. « Mi sono informato », scriveva costui
il 19 novembre al Preside di Catanzaro, « dalle persone più probe e
timorate di Dio di questa ... città; però ho chiamato il decano don
Saverio Polito, il teologo don Michele Grillo, il penitenziere don Vinc.
M. Mazzitelli, il P. M. Carmelitano fra Carmelo Maria Collia ed il
par¬ roco di San Demetrio di questa .... città, e dalle di costoro
estragiudiziali deposizioni, che presso di me si conser¬ vano, rilevai
che il don Pasquale Galluppi è un giovane onesto, probo, e di morigerati
costumi; che frequenta spesso li Santi Sacramenti e la chiesa, ove si fa
vedere attento, e pieno di divozione; e che ad altro non bada, se
non allo studio, essendo anche un giovane virtuoso, 1 Su lui vedi
la stessa memoria dell'ARNONE, p. 134. 5 Vedi la mia pref. al voi.
del Toraldo, Saggio sulla filos. del Gal¬ luppi, Napoli, 1902, p. ix, n.
1. ”4 e da
bene, e che mai diede veruno scandalo; ma, per quanto cercai sì dalli
stessi testimoni, che da altri sapere l’og¬ getto per cui si volesse
portare in detta città di Palermo, non fu possibile sapersi la cagione,
perché da ognuno s’ignorava. Soltanto ho risaputo, che il di lui padre don
Vincenzo è siciliano, ed ivi tiene degli effetti, per cui suole spesso
andarvi anche col suddetto don Pasquale suo figlio : ma non posso fame a
meno farle presente esser stato, per quanto pubblicamente si dice, il
detto don Gal- luppi uno degli ostaggi di questa città chiamati dal
sig. Vicario generale nel Pizzo, ove [si] trattenne molti giorni e
poi fu liberato senza veruna pena ». Il Preside di Catanzaro si
attenne al Consiglio del prudente vescovo, e propose al Segretario di
Stato che il passaporto non fosse accordato. E non fu accordato. Ma
lo chiese poi, invece del figlio, il padre, Vincenzo, che l’ebbe. Segno
che a Palermo avevano realmente bisogno di recarsi, l’uno o l’altro, per
loro interessi di famiglia. Pei quali forse egualmente il Galluppi,
reduce da Pizzo, invece di fermarsi in Tropea, recossi a Cosenza,
di dov’era la moglie, Barbara d’Aquino. Non credo pertanto che
questi documenti catanzaresi bastino a farci annoverare il filosofo
calabrese nella nu¬ merosa schiera dei giacobini contemporanei. Certo
nei Pensieri filosofici sulla libertà, propugnando il principio
della libertà di coscienza e di tolleranza religiosa, egli ha parole
forti contro coloro che dimenticano lo spirito del Vangelo e «non hanno
ritegno di tramutare la reli¬ gione nell’ istrumento del disordine, della
persecuzione e della strage»; e non dubita, ricordando i recenti
fatti del Regno, di scrivere che « se l’universalità del clero e
del popolo di questo bel regno avesse conosciuto il vero spirito del
cristianesimo e la purità delle massime del Vangelo, non si sarebbe visto
un cardinale comandare delle masse di ribaldi e di fanatici, ed innalzare
il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e d’ogni
sorta di iniquità; né si vedrebbero oggi con orrore tanti preti e frati
alla testa delle masnade degli uomini i più infami e più scellerati » Ma
quando il Galluppi scriveva di queste parole — che pur dimostrano
bensì il liberale, ma non il giacobino — a Napoli erano tornati i
francesi con Giuseppe Bonaparte, il cui governo, nel 1806 J , gli aveva
conferito 1’ ufficio di controllore delle contribuzioni; e a Giuseppe era
anche successo il Murat. Tutt’altro che giacobino era apparso a me
qualche anno fa da un suo brutto sonetto pubblicato in un gior¬
nale di Tropea 3 dal prof. Carlo Toraldo 4. Il sonetto in¬ fatti
diceva: Della Patria il dolore, il lutto, il pianto. La
rea sorte fatai veder non voglio. Di Marte, di Bellona il fier
orgoglio. L’augusto trono di Minerva infranto, — Spesso
sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto dal più fier
cordoglio, Pria che de' Franchi vacillasse il soglio.
Dico nel mio pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo.
— Occhi miei, non piangete, — Grido nel mio furore; — io corro or
ora Sollecito a varcar l'onda di Lete. — Ma già l’Angiol
divin, che accanto giace. Di man mi toglie il ferro, e
grid’allora: — Verrà Fernando : tornerà la pace ! Il
primo editore faceva precedere al sonetto le seguenti notizie : « Dal
manoscritto rilevasi che il sonetto mede- 1 Tulelli, op. cit., pp.
109, in. * Arnone, p. 141. 3 L’ Eco di Tropea, a. II,
n. 35, 30 agosto 1902. 4 E da me ristampato con qualche correzione
di punteggiatura, per renderlo un po' meno oscuro, nell’opera Dal
Genovesi al Galluppi, Napoli, 1903, pp. 218-19, n. 1 (2 a ed. in 2 voli.,
col titolo di Storia d. filos. ital. dal Genovesi al Galluppi, Milano,
1930; ora in Opere complete di G. Gentile, a cura della Fond. G. Gentile,
XVIII-XIX, Firenze, Sansoni, voi. II, p. 31). simo fu letto
alla nostra Accademia degli Affatigati (assorta allora ad altissima
fama), alla quale il Galluppi apparteneva col distintivo il Furioso, e
apparisce dedi¬ cato a Ferdinando, come chiusura di un discorso,
letto all’Accademia anzidetta, sul medesimo argomento. Dalla parte
opposta ove è scritto il sonetto, si legge: ‘ Ferdinando Augusto,
principe magnanimo, nell’ impetuoso turbine che minaccia l'indipendenza
nazionale, corri a salvarci. I destini della nostra nazione son legati
alla tua esistenza. — Ferdi¬ nando viene. Napoli è salvo. Il mio discorso
accademico è ter¬ minato’. Firmato: Pasquale Galluppi fra gli Affatigati
il Furioso. Siegue dietro il sonetto dello stesso Accademico.
Riproducendo il curioso documento, mi parve che di¬ scorso e
sonetto si potessero riferire alla reazione del 1799; e, dietro a me,
anche il De Cesare ritenne che il sonetto alludesse alla restaurazione di
quell’anno *. Ma non tutto a quella prima impressione mi restava chiaro
degli accenni contenuti nel sonetto; e le difficoltà ora oppo¬
stemi dall’Arnone mi persuadono che sonetto e discorso vanno spostati di
sedici anni. « Prescindendo », dice l’Arnone che non ha potuto vedere il
giornale di Tropea, al quale io mi riferivo, e le cui notizie ora qui
integral¬ mente riportate mi pare che tolgano ogni dubbio intorno
alla paternità del discorso e del sonetto, « prescindendo dalla loro
autenticità maggiore o minore (?), il sonetto e il brano del discorso
accademico non possono mai rife¬ rirsi alla reazione del 1799. Infatti,
nel sonetto stesso si J R. De Cesare, Taranto nel 1799 e mons.
Capecelatro, Martina Franca, 1910 testr. dalla Riv. Apatia ), p. n: «Il
Capecelatro non fu solo a non aver fede nella durata della Repubblica. Se
egli non andò a Napoli, non vi andò neppure Melchiorre Delfico, chiamato
a far parte della Giunta del Governo, mentre Pasquale Galluppi, che pure
aveva da giovane principii liberali, recitava, all'Accademia degli
Affaticati di Tropea, un brutto sonetto, che si chiudeva: Verrà Fernando
: tor¬ nerà la pace ». trova la designazione del tempo a cui si
riferisce ; giacché, col verso Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio,
l’autore, stanco del fier orgoglio di Marte e di Bellona, deve
asso¬ lutamente alludere alla prossima caduta del trono di
Gioacchino Murat » 1 . Io guardavo bensì al settimo verso del sonetto, su
cui giustamente ha fermato la sua atten¬ zione l’Amone; ma guardavo anche
al quinto: Spesso sedendo al bel Sebeto accanto, che contiene anch’esso
una determinazione cronologica non trascurabile. E poiché era noto
che il Galluppi fu a studiare a Napoli dal 1788 al 1794, pensai che per
soglio dei Franchi si dovesse in¬ tendere per l«appunto il trono di Francia
di Luigi XVI, che cadde quando il Galluppi dimorava al bel Sebeto
accanto. E vedevo nel sonetto un’enfatica e grottesca rievocazione delle
ansie, da cui l’animo dell'autore sarebbe stato assalito fin dall’ 89
quasi presago dei lutti che la Rivoluzione francese preparava alla sua
patria. Non tutto, di certo, restava chiaro, come non tutto
precisa- mente diventa chiaro se s’intende, come propone ora
l’Arnone, che col soglio dei Franchi l’autore designi il trono del Murat.
Ma vien colmato il grande intervallo che rimaneva, secondo la mia
ipotesi, tra il 1789 e il luglio del ’99, quando avvenne il ritorno di
Ferdinando IV a Napoli, che il Furioso avrebbe celebrato. Ma,
se accetto che il v. Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio alluda
alla prossima caduta del trono di re Gioac¬ chino, — e ne argomento in
conseguenza che tra la fine di marzo 1815, quando il Murat dichiarò la
guerra al¬ l’Austria, e il 3 maggio (battaglia di Tolentino) il
Galluppi dovette essere a Napoli — non capisco perché l'Arnone
soggiunga : « A me parrebbe che il discorso accademico potesse riferirsi
al tempo del viaggio di Ferdinando I Borbone pel congresso di Lubiana,
quando appunto 1 Op. cit., p. 139. il8 l’indipendenza del Regno di Napoli era
minacciata dal- l’intervento austriaco ». Quando il Galluppi recitava
il suo discorso accademico è chiaro che Ferdinando non era più
lontano, ma già tornato a Napoli (« Ferdinando viene, Napoli è salvo ») ;
e l’accademia celebra la ristau- razione. È vero che il Galluppi nel '21
trepidò per l’in¬ dipendenza nazionale, a causa dell’ intervento
austriaco a Napoli; ma nel ’2i gli austriaci eran chiamati da
Ferdi¬ nando, che non avrebbe potuto perciò essere cantato come il
salvatore dell’indipendenza; laddove nel '15 il Murat alla legittimità, a
cui s’appellavano gli ambasciatori del Congresso di Vienna e tutti i
principi delle vecchie dina¬ stie, opponeva in Napoli il principio dell’
indipendenza >; e al Galluppi, già murattiano, i disastri
dell’esercito napoletano e l’entrata degli austriaci nel Regno
dovettero realmente parere la più pericolosa minaccia alla indi-
pendenza di questo, finché non si ripresentò Ferdinando, a riavere, dopo
il trattato di Casalanza, dalle mani dell’ imperatore d’Austria le redini
del suo Stato due volte abbandonate. E le preoccupazioni che il
Galluppi, come quanti altri avevano servito il governo francese, dovette,
prima di quel trattato, nutrire gra¬ vissime e angosciose per la propria
sorte, o almeno per l’uificio che da nove anni teneva, possono anche
spie¬ garci la disperazione da cui nel sonetto dice d’essere stato
preso per l’imminente crollo di quel governo. E l’osanna al
Borbone, dopo il trattato di Casalanza, in cui l’imperatore d’Austria
garantiva la sorte di tutti 1 «Volse i suoi maggiori pensieri alle
cose interne; reputando che più dei maneggi e dei discorsi valere gli
dovesse il voto dei soggetti e la forza dell'esercito, in tempi nei quali
menavasi vanto dell’amore dei popoli e della pace. Raccolse in quattro
adunanze i migliori in¬ gegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi
avvenimenti, acqui¬ stata da noi piena indipendenza politica, era suo
debito riordinare il regno senza o soggezione, o somiglianza,, o
gratitudine ad altro stato, così adombrando le tollerate catene per nove
anni»: P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, lib. VII, c. IV, §
68. i funzionari del
passato regime, era pel controllore delle contribuzioni dirette nella
Provincia di Calabria ulteriore l’espressione d'un sentimento sincero l 2
. Né giacobino, dunque, né antigiacobino. Ma liberale e
patriota, se non nel senso del 1799, in quello più antico della
tradizione paesana di Napoli e della posteriore storia italiana.
Del suo patriottismo e liberalismo son documento bastevole gli
opuscoli politici che il Galluppi scrisse nel 1820-1821 in cui ripigliava
le idee dei Pensieri filosofici, rimasti inediti, e scendeva in campo a
difesa della libertà e dell’ indipendenza minacciata dall’Austria. Ma la
lettura di questi opuscoli, o almeno dei due a noi pervenuti e
qualche anno fa ristampati dal Guardione, induce piuttosto a ricollegare
il Galluppi alla tradizione del Giannone, del Tanucci, del Vico e del
Filangieri, anzi che a ricondurlo sotto l’influsso esotico del giacobinismo
rivoluzionario. Nei Pensieri filosofici (di cui si conoscono
soltanto alcuni frammenti pubblicati dal Tulelli) egli aveva già
1 II sonetto pare tuttavia debba riferirsi non al 1815, ma
all’anno seguente. Perché l'Accademia degli Affaticati in cui esso fu
letto, dopo il 1783, come ci è fatto sapere da un suo storico, «
riunivasi raramente; anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nel
1816, nella Chiesa dei Liguorini, cantò del Santo fondatore dell’Ordine »
(forse il 2 agosto quando ricorre la festa del Liguori) : N. Scrugli,
Discorso storico intorno all’Accad. degli Affaticati, annesso alle
Notizie archeologiche e storiche di Portercole e Tropea, Napoli, Morano,
1891, p. 132. Ma le notizie raccolte dallo Scrugli non sono esattissime.
Infatti, secondo lui, l’Accademia degli Affaticati sarebbe stata vietata
nella reazione del '31, e non sarebbe più risorta fino al '48; laddove
nel gennaio 1831 vi fu certamente recitato il discorso del Galluppi che qui
appresso si pubblica. 2 Opuscoli filosofici della libertà
individuale: Della libertà di coscienza e delle conseguenze che ne
derivano riguardo al matrimonio, dell’Autore del Saggio filosofico sulla
critica della conoscenza, Messina, 1820, presso Antonino D’Amico Arena;
Lo sguardo d'Europa sul Regno di Napoli, di Pasquale Galluppi di Tropea,
in Messina, presso G. Papparlardo, 1820. Entrambi gli opuscoli sono stati
ristampati dal Guardione, op. cit., e della sua ristampa io mi son qui
servito. aderito a quelle dottrine liberali, che il Filangieri
aveva propugnate nella Scienza della legislazione. « Per fissare »,
aveva detto, « i dritti del pubblico potere, bisogna partire dal
considerare lo stato di natura come anteriore allo stato politico, se non
in ordine di tempo, almeno in ordine di ragione.... Tutti gli uomini sono
per natura in uno stato di libertà, in cui ciascuno può fare ciò
che gli piace, senza dipendere da un altro, posto ch’egli non offenda gli
altrui diritti. Ogni uomo non ha dunque altro dritto per rapporto ad un
altro che di non farsi molestare nell’esercizio dei propri dritti. Or
questo dritto che ciascuno ha per rapporto agli altri, nella civil
società è confidato al pubblico potere, il quale è custode e vin¬
dice dei dritti di ciascun cittadino contro gli attentati degli altri ».
Movendo da questo principio, a differenza del Rousseau, il Galluppi
separa nettamente il dominio giuridico-politico da quello della
religione. Riconosce che « la potestà politica dee curare che i cittadini
sieno vir¬ tuosi. Ella dee riguardare come un male la depravazione
del loro spirito; dee mettere in opera quei mezzi che promuovono la virtù
ed arrestare i progressi del vizio »; e però può parere che abbia bisogno
del soccorso della religione. Ma è d’uopo distinguere tra virtù e virtù.
« Le leggi, dice Portalis, non dirigono che alcune azioni deter¬
minate; la religione regola il cuore. Le leggi sono relative al
cittadino; la religione s’impadronisce di tutto l’uomo. Ma se le leggi
arrestano il braccio e la religione regola il cuore, dico io, dunque, che
la depravazione del cuore non dee punirsi che dalla sola religione, vai
quanto dire, dal solo Dio che n’è l’autore; ella è dunque estranea
alla sanzione della legge. Se le leggi non son relative che al cittadino,
e la religione s’impadronisce dell’uomo, le leggi devono dunque
contentarsi della sola virtù civile e lasciare alla religione le virtù
dell’uomo.... Egli bisogna distinguere l’uomo giusto agli occhi dell’eterno,
che tutto vede, dall’uomo giusto civilmente. Chi è giusto innanzi a
Dio, lo è anche civilmente, perché la sua legge vuole che si obbedisca
alle potestà costituite; ma si può esser giusto civilmente, senza
esserlo, naturalmente, secondo la religione ». Le opinioni
religiose pertanto non cadono sotto la san¬ zione delle leggi, e
l’irreligiosità non può esser punita Ogni maniera di persecuzione del
resto è contraria allo spirito del Cristianesimo. Intorno al quale il
Galluppi scrive una delle poche pagine eloquenti, che siano uscite dalla
sua penna. « Questa religione divina », egli dice, « annuncia agli uomini
una morale che perfeziona la natura. Lo spirito del Vangelo non è che imo
spirito di fratellanza e di amore. Esso è contrario allo spirito di
persecuzione e di ferocia. Se non siete ricevuti ed ascol¬ tati, dice G.
C. ai suoi discepoli, scuotete la polvere delle vostre scarpe e partite.
I primi banditori del Vangelo non impiegarono altre armi per la sua
propagazione, che la forza della parola. La religione deve avere la sua
sede nello spirito, e lo spirito non rigetta l’errore e non ab¬
braccia la verità, se non a proporzione dei lumi che egli riceve, e
trattandosi di religione, a proporzione della grazia celeste che il Padre
de’ lumi gli dispensa. Le pri¬ gioni, le forche, le mannaie, i roghi non
cambiano certa¬ mente lo spirito dell’uomo, e l’incredulo non lascia
d'esser tale, ancorché vada ad esalare il suo spirito fra i tor¬
menti più crudeli.... L’uomo abusa di tutto. La ministra della pace e
della pubblica tranquillità divenne col pro¬ gresso del tempo in mano del
superstizioso e del fanatico, l’istrumento del disordine, della
persecuzione e della strage. Questo mutamento di condotta, non della
reli¬ gione, che in se stessa è santa ed immutabile, ma ne’ suoi
ministri, fu sorgente d’incredulità ». Nell’opuscolo del 1820 sulla
Libertà di coscienza la stessa questione è ripresa e approfondita sì dal
rispetto 9 - Gentile, Albori. I. speculativo e sì da quello
politico. Vi ritroviamo quella morale kantiana, che è professata negli
Elementi, nelle Lezioni di filosofia e nella Filosofia della volontà :
«La regola della moralità delle azioni è la coscienza uniforme alla
legge»: legge puramente formale anche pel Galluppi. Il quale infatti
soggiunge : « Si può agir male seguendo una coscienza erronea, ma si
agirà male ancora facendo il bene in contraddizione dei dettami di una
coscienza erronea ». E su questi principii, rannodandosi alle dot¬
trine liberali del Filangieri, fonda la sua dimostrazione del diritto del
matrimonio civile abolito nel Regno dal codice del 1819: il quale aveva
stabilito non potersi celebrare matrimonio legittimo « che in faccia alla
Chiesa, secondo le forme prescritte dal Concilio di Trento ». Già
nell'opuscolo precedente aveva provato che « la libertà del pensiero è il
primo diritto inalienabile dell’uomo»; e che tale libertà è illimitata.
Ora, se questa libertà è illimitata, se la moralità consiste nella
conformità della coscienza alla legge, o meglio, della volontà alla
legge della coscienza, ne viene per conseguenza che quelle azioni,
le quali debbono essere necessariamente in armonia col pensiero, non
possono giammai essere forzate; ma debbono rimanere nel campo libero del
privato cittadino. Potrà intervenire il diritto positivo nel culto
religioso esterno; ma non nel culto interno. E in quello esterno
non potrà di certo intervenire per obbligare il cittadino ad un culto
contrario alla propria credenza, bensì per permettere un dato culto e
impedire quindi che venga offeso e turbato da chi non vi si conformi ».
Ma deve 10 Stato permettere tutti i culti ? Tra il
Montesquieu contrario e il Marmontel favorevole alla libertà dei
culti, 11 Galluppi dichiara di non voler esaminare di
proposito 1’ « importante questione », poiché egli si occupa
piuttosto della libertà individuale, e però della sola libertà di
co¬ scienza, laddove la libertà del culto supporrebbe un gruppo
sociale che abbia abbracciato un culto diverso da quello di altri gruppi,
ed esce quindi dalla sfera del diritto indi¬ viduale. Tuttavia ritiene
conveniente che si possa « per ragioni politiche non permettere
l’esercizio pubblico di un culto diverso da quello stabilito ».
Quanto al matrimonio, dato il suo interesse pubblico, esso rientra
nella sfera di attività del potere politico: che « ha il diritto di far
leggi positive sul matrimonio, le quali, lasciando illeso il diritto
naturale, determinino ciò che la natura non determina, e che ha influenza
su la felicità nazionale»; ma deve limitarsi a «prescrivere le
condizioni per la validità del matrimonio come con¬ tratto civile, e
lasciare alla libertà del cittadino, se vuole al contratto unire la forma
religiosa, che T innalza a sacramento ». Altrimenti verrebbe ad esser
lesa la libertà di coscienza, ossia quell’ essenza della morale, che
il Galluppi chiama legge di natura o diritto naturale. Tale
principio a Napoli fu riconosciuto dal codice francese durante il
decennio; e certo quella legislazione, « tranne il mormorio di qualche
fanatico, che osava chia¬ marsi teologo, non produsse fra noi il menomo
disordine ». Ma, tornato Ferdinando, « i superstiziosi spaventarono
la sua coscienza ». Quindi il matrimonio rientrò nel puro dominio
ecclesiastico. E « si fece dippiù », dice il Galluppi: «il Concordato
diede alla Chiesa il potere giudiziario sul matrimonio; potere, che dee
esercitarsi in conformità del codice del Vaticano, e così la sovranità
temporale rimase spogliata de’ suoi sacri ed inalienabili diritti
sul matrimonio ». Il Galluppi, nelle cui parole è agevole sentire
l'eco della tradizione giannoniana, ora che Napoli sembra risorta a più
libera tuta per l’ottenuta costitu¬ zione, parla in nome della filosofia
(«la filosofia non dee oggi temere di alzar la voce contro di questi
abusi ») ; e chiede che il matrimonio torni ad essere per lo Stato
contratto civile; e protesta contro la censura preventiva.
stabilita nella Costituzione spagnuola, per i libri che trattino di
religione. Il secondo opuscolo, assai più importante per la
cono¬ scenza delle sue idee politiche, quantunque rechi anch’esso
sul frontespizio la data del 1820, non par che possa essere anteriore ai
primi del febbraio 1821. Infatti v’ è detto che « un’armata austriaca si
fa vedere in volto minac¬ cioso nella bella Italia » 1 2 ; con accenno
evidente, se non erro, all’ordine del giorno del barone di Frimont (4
feb¬ braio 1821), di cui si ebbe notizia a Napoli tra il 15 0 il 20
di quel mese In quei giorni un altro filosofo napoletano, Pasquale
Borrelli, componeva un inno di guerra, che, messo in musica dal Rossini,
fu cantato al San Carlo la sera del 21 febbraio. La seconda strofa
diceva: O straniero, che guerra ci porti, Chi ti offese
? quell’ ira perché ? Va, rispetta la terra de' forti....
Ma sprezzante 1 ’ iniquo c’ invade, Ha di sangue nell’occhio
il desir. Cittadini, tocchiamo le spade: Qui si giuri
svenarlo o morir ! Il Galluppi dal fondo delle Calabrie rivolge
all’ Europa (ma fin dove sarà giunto ?) il suo opuscoletto,
enfatico nella forma, ma savio ed acuto nella sostanza, per scon¬
giurare anche lui l’invasione straniera e la soppressione delle libere
istituzioni. Rifa brevemente, con giudizi che ricordano l’alta
intelligenza storica di Vincenzo Cuoco, la storia di Napoli dal 1789 in
poi, a conferma del principio, che oppone alle prepotenti pretese
del- 1 Rist. cit., p. 47. 2 Vedi De Nicola, Diario
napoletano dal 1798 al 1823, III, pp. 252 253 (in calce all'Arch. slor.
napol., 1905, fase. 3). l’Austria: che la storia se la fanno i popoli da
sé, e inter¬ romperla ad arbitrio è violenza, e lo stato violento
non è durevole. Tutto, egli dice, « cangia incessantemente
nel mondo ; ma tutto cangia gradatamente... Questo principio igno¬
rato o negletto ha spesso fatto abortire i migliori pro¬ getti di riforme
». I grandi avvenimenti, che pare mutino d’un tratto miracolosamente lo
stato di un popolo, in realtà sono l’effetto d’un « concorso di cause, al
quale l’unione di una picciola causa dà quella forza stupenda, onde
hanno origine gli avvenimenti che formano l’epoche delle nazioni ». Come
dai patiboli del '99 si potè giungere alla libertà del '20 ? Il Galluppi
studia brevemente questo problema. La rivoluzione del '99, per lui, fu la
conse¬ guenza degli errori commessi dal governo borbonico (il
Galluppi parla sempre di Ministero) dopo il 1794; quando, dopo aver
favorito in tutti i modi le tendenze liberali promosse e alimentate dalla
filosofìa, a un tratto, spaventato dalla Rivoluzione francese, che
intanto aveva accelerato il movimento degli animi verso la rigene¬
razione politica, esso volle violentemente arre¬ starsi, e tornare
indietro, e dichiarò guerra al liberalismo, e si propose di ripiombare la
nazione nella barbarie. La venuta dei francesi fu la piccola causa che
fece rovi¬ nare il trono, le cui fondamenta erano state da lunga
pezza lentamente scavate da’ suoi ministri. Così i Giaco¬ bini del 1799,
che s’appigliarono alla massima della perfetta imitazione dei francesi,
senza chiedersi se Napoli fosse preparata alla democrazia, e alla
democrazia fran¬ cese, come 1 ’ Issione della favola, invece di
Giunone, abbracciarono la nuvola. — Giudizio che non è certo quello
di un giacobino. Successe la reazione; e il governo, anzi che
mostrarsi ammaestrato dagli avvenimenti passati, tornò cieco,
feroce, dispotico; e accrebbe quindi sempre più il desiderio
d’un cangiamento. Aggiungi l’azione continua della Francia sulle
cose d' Italia, e gli errori della diplomazia: ed ecco Giuseppe Bonaparte
e Gioacchino, che non sono più i francesi del '99, ma i correttori e
moderatori dispotici della libertà, i quali compiono l’abolizione del
feudalismo nel Regno, e vengono via via elevando la coscienza
civile della nazione. Questa al ritorno di Ferdinando è già matura
per la Costituzione: la cui richiesta per altro è affrettata dagli errori
che toma sempre a commettere il Ministero pur dopo il '15. Fra i quali il
Galluppi non manca di ricordare il « concordato ignominioso, che
annienta tutte le riforme dall’epoca dell’augusto genitore di Ferdinando
fino al suo ritorno fra noi ». Mostrata la necessità storica della
rivoluzione del 1820 e della costituzione che Napoli s’era con essa
conqui¬ stata, il filosofo protesta contro l’intervento straniero,
e minacciosamente esclama : « Un’ invasione è ella facile nelle attuali
circostanze della nostra nazione? Il '99, il 1815 sono gli stessi tempi
per noi del 1820 ? Si è mai veduto in altri tempi, allorché il nemico ci
minacciava, l’agricoltore, l’artista, il prete, il monaco stesso
doman¬ dare l’iniziazione nelle società patriottiche per emettere
il giuramento di vincere, o di morire per la difesa della costituzione e
del trono ? ». Siamo così abituati a rappresentarci il Galluppi,
attra¬ verso i suoi libri meramente speculativi, dove non spunta
mai favilla di passione umana, o un accenno storico, o un’allusione
personale, e attraverso le memorie di quel suo insegnamento universitario,
tutto chiuso, tra il '31 e il '46 (periodo di puro raccoglimento
spirituale per Napoli), nella speculazione sopramondana.: che
questa specie di Galluppi inedito, agitato dalle preoccupazioni
politiche e storiche del mondo in cui visse, ci riesce di uno strano
sapore nuovo e d'un vivo interesse. E ne viene aggiunta una linea
caratteristica e simpatica alla figura del nostro vecchio e caro
scrittore; che viene ad occupare anche lui il suo posto non pur nella
storia del liberalismo italiano, ma in quella schiera di acuti pen¬
satori improntati della più schietta italianità, i quali, rifacendosi
direttamente o indirettamente dal Vico, si opposero all’ astrattismo
antistorico e rivoluzionario di Francia. Lungi, dunque,
dall'apparirci un giacobino, il Galluppi, pel suo modo d’intendere e
giudicare gli avvenimenti contemporanei, ci si presenta come un liberale
del se¬ colo XIX, penetrato del senso della realtà e razionalità
della storia. Né questa figura viene menomamente turbata dal
nuovo documento che qui appresso si aggiunge a queste note: un altro suo
discorso accademico, letto a Tropea (nella solita Accademia degli
Affaticati) in lode questa volta di Ferdinando II, pel suo avvenimento al
trono Discorso che io ho avuto sott’occhio nell’autografo, e trascritto
fedelmente. Esso, ad ogni modo, non può suscitare né meraviglia, né
rammarico in nessuno che ricordi con quali lieti auspicii salisse al
trono il nipote di quel Ferdinando, a cui il Galluppi aveva
inneggiato nel 18x5. « La giovanezza del re », scrisse lo stesso
Set¬ tembrini nella sua Protesta, « la recente rivoluzione di
luglio in Francia, e i movimenti di Romagna, alzarono la nazione a
novelle speranze ». E molto meglio nelle Ri¬ cordanze: «Quando re
Ferdinando II, nel novembre del 1830, saliva sul trono delle Sicilie,
cominciò bene, e a molti parve un buon principe. Ogni giovane a
venti armi è buono, come ogni fanciulla a quindici anni è bella. In
un suo Manifesto dichiarò di voler rammarginare le piaghe che da più anni
affliggevano il Regno, ristorare la giustizia, riordinare le finanze,
promuovere le industrie ed il commercio, assicurare in ogni modo i beni
dei suoi amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia, per
la quale tornarono a le loro famiglie molti esuli, molti pri¬ gionieri,
le speranze crebbero e l’allegrezza fu grande. Gli uomini savi dicevano
che egli aveva fatto una brutta orazione funebre a suo padre; ma gli
davano lode perché scacciò parecchi ministri e servitori, che durante il
regno di Francesco avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché
restrinse le spese della casa sua, tolse via le cacce, e volle vivere con
certa semplicità e parsimonia, che il popolo chiamò avarizia. Pareva a
tutti cortese perché dava udienza a tutti, domandava, rispondeva,
provvedeva subito, e ricordava i nomi di quanti aveva una volta
veduti ». Anche Nerone, uscì a dire, uno di quei giorni, esso Settembrini
tra giovani suoi amici e maggiori d’età: anche « Nerone cominciò col quam
mallem nescire scribere. L’ è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate
che s’usi, e vi riuscirà Borbone come il padre, e come l’avolo ». E
gli diedero del matto '. « Io che sono stato vittima del suo insaziabile
dispotismo » — scriveva Nicola Nisco nell’accingersi alla storia del suo
regno, — « e che ne porto ancora i ricordi ai piedi ed ai polsi, rifarò
con civile orgoglio la storia dei suoi primi anni di regno, i quali
sono andati confusi con quelli che seguirono, massime dopo il
quarantotto, quando la natura borbonica, ride¬ standosi ampiamente in
lui, lo menò a divenire l’avver¬ sione non pure d’Italia, ma d’ Europa ».
E ricordando la soddisfazione generale di quei primi mesi del nuovo
re, raccontava : « Alle acclamazioni dei popoli facevan eco i
prosatori ed i poeti di quel tempo, e nell’entusiasmo della sperata
redenzione, sventuratamente poi tradita, vennero fuori giovani ed uomini
egregi, fra i quali Gia¬ como Filioli, i fratelli Baldacchini, i fratelli
Dalbono, il Ruffo e quella sublime donna, che mai non si conta¬
minò di servo encomio, Giuseppina Guacci. E quando 1 Ricord., c.
V. il 18 dicembre 1830, rimosso ogni ostacolo
derivante da colpe politiche al conseguimento dei pubblici uffizi,
abi¬ litò all’esercizio delle pubbliche cariche gl’ impiegati ed i
militari destituiti per le politiche vicende, concedè ai detenuti in
carcere, espatriati, esiliati e condannati napo¬ letani e siciliani alle
galere e all’ergastolo di ritornare nelle loro famiglie, Saverio
Baldacchini il chiamò in un suo inno, Padre a tutti, che il
gaudio Del perdonar provò; e dall’animo purissimo della
giovane Guacci si elevò quella nobilissima esclamazione Oh !
lieto il sire, Che nell’amor dei popoli riposa » Al
coro delle lodi si unì adunque nel gennaio 1831 anche il filosofo di
Tropea, tuttavia controllore delle con¬ tribuzioni, col seguente
discorso; in cui l’adulazione del suddito par s’indirizzi all’ idea
dell’ottimo sovrano piut¬ tosto che alla persona del giovine monarca ;
onde si direbbe che a tratti assuma il tono dell’ammonimento anzi
che del panegirico. — Alcuni accenni di dottrine filosofiche, che
vi si mescolano, come i riferimenti ai concetti del bello e del sublime,
dimostrano il già sessantenne filosofo incapace di distrarre la mente
dalle sue astratte medi¬ tazioni. E questo è forse l’ultimo scritto, in
cui gh ac¬ cadde di volgere attorno uno sguardo, per esprimere il
suo pensiero su fatti e personaggi contemporanei. 1914.
1 N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, Napoli,
Morano, 1889, II, pp. i, 8. Pel felice avvenimento al
Trono delle Due Sicilie di FERDINANDO II Discorso
Accademico di P. Galluppi Di letizia ripiena, Accademia
illustre, io ti rimiro. Con la rapidità del fulmine l’arrugginita cetra
riprender ti vedo. Il tuo vivo ardore, di scioglier la lingua al
canto, espresso nel tuo volto io leggo. Sì, dell’estro che ti ac¬
cende, l’oggetto io ben ravviso. Un giovine eroe ascende sul trono di
Ruggiero: il dolore, che ingombrava i nostri cuori, sparisce: in tutti i
volti degli abitatori delle Due Sicilie, con vivi ed espressivi colori,
la gioia dipinta si vede. Un grido di letizia dappertutto rimbomba.
Ma non è la gioia il solo effetto, che la comparsa del giovine Re
sul trono ha universalmente prodotto ne’ nostri cuori. Un vivo sentimento
di ammirazione e di devozione verso la sacra persona di lui, si è
immanti¬ nente acceso ne’ popoli di qua e di là del Faro. Ferdi¬
nando II, l’augusto discendente di tanti Re, non sola¬ mente quel
sentimento fa nascere, che, in una ridente primavera, l’aspetto d’una
deliziosa campagna, negli animi sensibili alle bellezze della natura e
dell’arte, suole produrre; ma quel sentimento eziandio produsse,
che in una vasta pianura, la veduta dell’azzurra volta del cielo,
in una notte serena, l'anima colpisce dell’osser¬ vatore attento a
contemplar l’universo. Ferdinando II è dunque un oggetto non
solamente bello, ma sublime. Come bello, la sua PASQUALE
GALLUPPI GIACOBINO ? I3I comparsa sul Trono ha inondato di letizia
il cuore de’ suoi popoli ; come sublime, di ammirazione e di
devozione gli ha colpiti. Il bello ed il sublime producono diverse
affezioni morali: l’uno rallegra, ed in certe cir¬ costanze fa pianger di
tenerezza. L’altro l’ammirazione e la devozione produce. Nondimeno,
quando il sublime si riguarda come una causa, che su la nostra felicità
influisce, all’ammirazione ed alla devozione fa esso succedere la
confidenza e la letizia. Tale è il sentimento, che provano i soldati di
un’armata, quando sanno che il loro generale è uno Scipione, un
Alessandro, un Camillo ; e tale appunto è quello che in noi produce la
vista di Ferdinando II sul trono delle Due Sicilie. Se il
bello ed il sublime l’oggetto sono dell’eloquenza e della poesia, se
senza un oggetto, che sia defl’una e dell’altra qualità fornito, il genio
dell’oratore e l’estro del poeta languiscono; se l'alto personaggio, che
è l’og¬ getto di questa letteraria adunanza, è dell’una e del¬
l’altra qualità eminentemente adorno, con ragione, Con¬ sesso illustre
della città di Alcide *, di estro animato ti veggo, per fare oggetto de’
tuoi canti l’augusto prin¬ cipe, che al Trono ascende di Carlo III. Con
ragione, cogli occhi a me affissi, che dell’onore di esser tuo
oratore son fregiato, attento ti miro. Tu vuoi udir dal mio labbro
la dipintura dell’alto personaggio, che verso di lui attira i nostri
sguardi. Tu brami, che i motivi io ti esponga, che dalla velocità
incalcolabile del pensiero aggruppati insieme, i sentimenti di gioia, di
ammirazione e di devo¬ zione ne’ nostri cuori producono.
Ferdinando II è bello: nel suo volto dipinto si vede la candidezza
deH’anima sua, ed una certa misteriosa espressione del buon senso, del
buon umore, del brio, 1 Tropea, città, secondo la leggenda, di
Ercole. Vedi Nicola Scrugli, Notizie archeologiche di Portercole e
Tropea, pp. 15-17. della benevolenza, della sensibilità e
delle altre amabili disposizioni. Con questa sua bella fisonomia e colle
sue belle maniere, la letizia egli sparge ne’ nostri cuori. Ma non
è questo il punto di veduta, sotto di cui io mi pro¬ pongo di dipingerlo.
Ferdinando II ci ha colpiti di ammi¬ razione e di devozione, ed a questi
sentimenti è successa la speranza e la letizia. Egli è dunque un oggetto
sublime. Un oggetto sublime è grande. Egli è, per conseguenza,
grande. Ma qual grandezza siam noi costretti ad am¬ mirare in lui ? Sarà
forse quella degli Alessandri, e de’ Cesari ? Quella vera grandezza, che
in questi gravi capi¬ tani dell’antichità noi ammiriamo, si trova bensì
nel nostro Eroe. Ma questa non è quella, che più immediata¬ mente
ci colpisce, e che più in lui risplende. Una gran¬ dezza guerriera può
trovarsi negli uomini i più nefandi. Siila non era insieme un gran
capitano, ed mi mostro di crudeltà ? Ferdinando II è grande, perché
conosce i doveri di un Re. Egli è grande, perché adempie i doveri
di un Re. È questo l’oggetto del mio discorso. Parte Prima
Un pensiere è grande, allora che esso è esteso. Un pensiere che,
nella sua espressione la più semplice, com¬ prende tutti i pensieri
particolari, che vi si rapportano, è un pensiere grande; e l’anima, che
lo sente in sé, spe¬ rimenta un sentimento di grandezza. Il sentimento
della grandezza è il sentimento della forza o del potere. Colui che
possiede una verità generale, sente che ha in suo potere tutte le verità
particolari che vi son comprese. Egli è simile a colui che, posto su la
cima di un alto monte, comprende, con un semplice sguardo, un vasto e
variato orizzonte. Floro ci desta un pensiere grande quando ci
rappresenta, in poche parole, tutti gli errori di Annibaie dicendo : «
Allora che poteva servirsi della vittoria, amò meglio goderne ». Una
consimil grandezza si ravvisa nell’ idea, che egli ci dà di tutta la
guerra di Macedonia, quando dice: «Il vincere fu l’entrarvi». Uno
spirito sublime racchiude le verità particolari in una che sia la
più generale, e per conseguenza la più semplice. Ferdinando II,
asceso sul trono de’ suoi antenati, vede, con un colpo d’occhio, tutti i
doveri di un Re: egli li racchiude in un principio generale. Il suo
pensiere è grande: egli che lo concepisce, è grande in conseguenza.
La prima parte del mio discorso accademico è terminata. È terminata
? Accademia illustre, ti credi tu forse, con questo mio breve
parlare, delusa nella tua aspettazione ? Hai tu forse sperimentato un
sentimento dispiacevole, simile a quello che sperimentar suole uno
spettatore di un’azione tea¬ trale, allora che una causa improvvisa lo
chiama in altro luogo, ed interrompe il suo piacere ? Ma cesserà in
te questo momentaneo doloroso sentimento. La rapidità incalcolabile
del sentimento mi ha fatto attraversare, in un baleno, un vasto spazio.
Io non ho potuto arrestare la sua impressione. Lo scotimento prodotto
nell'anima da qualche grande oggetto, l’alza notabilmente sopra il
suo stato ordinario. Si desta in lei una specie di entu¬ siasmo
piacevolissimo finché dura, che le fa compren¬ dere, con uno sguardo, una
moltitudine di oggetti, ma da cui l’anima tosto ricade nella sua
ordinaria situazione. Percorrerò dunque di nuovo, ed a passi osservabili,
lo spazio trascorso. Iddio, eh’ è il legislatore dell’intero
universo, diede all’uomo una legge, e la impresse nel cuore di lui.
L’uomo è dalla sua natura determinato allo stato della civil so¬
cietà. In questo stato solamente può egli perfezionar se stesso, ed
adempiere la sua destinazione. L’uomo ha in se stesso le tendenze, i
mezzi e la legge di vivere nella civil società. La società civile non può
sussistere senza un essere morale, dotato del potere legislativo ed
esecutivo. Un tal essere è il Sovrano. Nelle monarchie semplici, il
sovrano è il Re. Ma Iddio ha voluto l’esistenza della civil società
su la terra, per la felicità degli uomini; 1’esistenza dunque della
sovranità, come ordinata a quella della civil società, è voluta da Dio
per la felicità degli uomini. Queste sem¬ plici riflessioni ci menano
infallibilmente alla conoscenza del principio generale della morale de’
Re. La destinazione dei Re su la terra è di rendere, per quanto è loro
possibile, felici i loro sudditi. Ecco il principio luminoso e
sublime, che tutti racchiude i regi doveri. Ma non udiamo noi
forse questa sublime e consolante filosofìa annunciarsi a’ popoli delle
Due Sicilie, nel primo momento del suo avvenimento al trono,
dall’augusto Ferdinando II ? Ascoltiamo la sua voce sovrana in
quel- l’ammirabile proclama, che destò ne’ nostri cuori l’ammirazione e
la devozione per la sua sacra persona, e che di vera gioia gl' inondò. Il
giorno otto di novembre dello scorso anno 1830 Ferdinando II ascese sul
trono, ed in quell’ istesso giorno egli così parlò a’ suoi sudditi
: « Avendoci chiamato Iddio ad occupare il Trono de’ nostri
augusti Antenati, sentiamo l’enorme peso, che il supremo Di¬ spensatore
de’ regni ha voluto imporre sulle nostre spalle, nel- l'affidarci il
governo di questo Regno. Siamo persuasi che Iddio, nell’ investirci della
sua autorità, non intende che resti inutile nelle nostre mani, siccome
neppur vuole che ne abusiamo. Vuole che il nostro Regno sia un Regno di
giustizia, di vigilanza, e di saviezza, e che adempiamo verso i nostri
sudditi alle cure paterne della sua Provvidenza « *. 1 II
proclama si può leggere nella Collezione delle leggi e de' decreti reali
del Regno delle Due Sicilie, a. 1830, sem. II, Napoli, Stamp. Reale,
1830, pp. 143-.45. A voi, gran Dio, che avete nella vostra mano il
cuore de’ Re, per inclinarlo secondo la vostra volontà sempre
santa, grazie siano rese del prezioso dono, che nella vostra misericordia
ci avete concesso. Non mica nel furore del vostro giusto sdegno, ma nelle
vedute imperscrutabili della vostra misericordia, voi ci avete inviato a
reggere i nostri destini il giovane eroe, che ci sorprende colla
sua sublime sapienza. Egli riconosce che non dee punto abusare
dell’autorità di cui voi l’avete rivestito; che è suo sacro dovere, di
far che regni fra di noi la giustizia, e che egli sia il felice
istrumento delle cure paterne della vostra provvidenza su di noi. Ciò è
lo stesso che riconoscere esser egli destinato da voi a render
felici i suoi sudditi. Ciò è lo stesso che proclamare il principio
generale della mo¬ rale de’ monarchi. Il principe, che così parla a’
suoi popoli, non ha mica il crine canuto: egli è un giovanetto, che
ha appena compiuto il quarto lustro della sua età. Egli è dunque dotato
di un’anima grande ; ed è con ragione, che qual Grande è salutato da’
popoli delle Due Sicilie. Un’anima grande ha solamente potuto concepire
il pen¬ siero sublime, che tutta racchiude la morale de’ Re; ed
un’anima grande ha potuto, invece di essere distratta dallo splendore del
Trono, specialmente in un’età giovanile, concentrar tutta se stessa
nell’espressione de’ propri doveri, ed esserne profondamente
penetrata. Nell’ammirabile proclama il nostro gran Re non
sola¬ mente conosce la sua augusta destinazione nel governo de’
suoi popoli, ma vede ancora i mezzi principali, che debbono fargli
conseguire il gran fine. Egli scovre nel principio le illazioni. Egli
vede, in primo luogo, che gli uomini non possono esser febei, senza esser
virtuosi: egli conosce T intima relazione, che passa fra la virtù e
la Religione; che i sentimenti rebgiosi conducono alla virtù, come la
virtù conduce alla Rebgione. Egli comprende che la vera religione viene in
soccorso della pubblica autorità, e per estendere la sanzione delle
leggi, e per ottenere ciò che esse non possono prescrivere, e per
evitare ciò che esse non potrebbero sempre giugnere ad impedire; ed egli
conclude, che dee proteggere la divina Religione, che c’ illumina. « I
grandi », dice il celebre Massillon, « non son grandi se non perché
eglino sono le immagini della gloria del Signore, ed i deposi¬ tari
della sua potenza. Eglino dunque debbono sostenere gl’ interessi di Dio,
di cui rappresentano la maestà, e rispettare la Religione, che sola rende
rispettabili loro stessi ». Dalla Religione volge il nostro
gran Re lo sguardo alla giustizia. Egli vede che la felicità de’
cittadini richiede una gelosa custodia de’ loro diritti. Egli conosce
che questa custodia è il sacro dovere del potere giudiziario. Egli
è convinto che il Re nell' istituzione di questo potere, e nell’elezione
de’ membri, che debbono comporlo, deve porre la maggiore attenzione che
gli sia possibile. Il cit¬ tadino dee, sotto la protezione della legge, e
del pubblico potere, vivere tranquillo: egli non dee temere che i
suoi diritti sieno violati. Magistrati, a cui la regia maestà
consegnò la spada di Temi, ascoltate la voce del sapiente legislatore.
Tutti i miei sudditi, egli dice, debbono essere uguali agli occhi della
legge '. I tribunali debbono essere un santuario, che la corruzione, la
prepotenza, T intrigo, non debbono giammai profanare. Se i giudici
debbono essere indipendenti nelle loro sentenze, eglino non deb¬
bono essere legislatori. L'accordar grazie ed eccezioni è una funzione
estranea al loro potere. L’impero della legge dee essere
universale. 1 « Noi vogliamo — dice il Proclama — che i nostri tribunali
siano tanti santuari, i quali non debbono mai essere profanati dagl' in¬
trighi, dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o
interesse. Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono uguali, e
procureremo che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia ».
I cittadini non possono essere
felici, se lo Stato non è ricco. Uno Stato, dice un celebre politico, non
si può dire ricco e felic.e, che in un solo caso, allorché ogni
cit¬ tadino con un lavoro discreto di alcune ore può como¬ damente
supplire a’ suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia. Un lavoro
assiduo, una vita conservata a stento non è mai una vita felice. I dazj
eccessivi sono contrarj alla felicità di cui parliamo; ed i dazj debbono essere
eccessivi, allora che il Tesoro generale dello Stato pre¬ senta un voto.
E qui l’anima grande di Ferdinando II ci si mostra allo scoverto. Egli
non dirige il suo sguardo su le pompe de’ Re, su i palagi de’ Grandi, ma
lo dirige su i cenci, e su i tugurj de’ poveri e degl’ infelici. Al
suo penetrante sguardo tosto si svela lo spettacolo doloroso della
soma pesante de’ dazj, che gravita sul suo popolo. La sua grande anima ne
è profondamente penetrata, ma non abbattuta. Le grandi passioni innalzano
l’anima, e scovrire le fanno degli oggetti incogniti agli uomini
ordinari. Ferdinando II vede quasi nel momento stesso il voto
spaventevole del Tesoro generale, ed i mezzi di ripararlo. La grande
opera della instaurazione delle reali finanze, è tosto nella gran mente del
Principe magnammo già delineata. La felicità de’ cittadini richiede
ancora, che lo Stato sia temuto e rispettato al di fuori. Ad un si
grande oggetto conferisce un’armata disciplinata, valorosa ed animata dal
nobile ardore di gloria. E Fer¬ dinando II si fece già ammirar da
capitano, prima di farsi ammirare da Re. Augusta filosofia!
Se io a te consagrai sin da primi anni la mia vita, se non ho avuto altro
scopo ne miei scritti, che di annunciare la verità al genere umano,
se tu vedi che io ardisco di parlare ad un Re, da te non si concepisca
contro di me alcun sospetto, che mi avvi¬ lisca a’ tuoi sguardi. No,
l’adulazione non ha profanato il mio linguaggio. Io non ho prestato al
mio Eroe i miei 10 - Gentile, Albori. I.
pensieri, per formarmi un prototipo di mia immagi¬ nazione. Io gli ho
osservati in lui, che nel suo proclama gli esprime. Io ho dunque, senza
rimorso di arrossire al suo cospetto, il diritto di concludere : Ferdinando
II è grande perché egli conosce i doveri di un Re.
Parte Seconda Ferdinando II adempie egli i doveri di un Re ? Il
tempo, in cui 1 ’ Eroe di questo discorso regna su di noi, non è
ancora di tre mesi; ed egli ha tali e tante cose operato, che con ragione
i sudditi suoi, nella sincerità del loro cuore, 1' hanno unanimemente
acclamato per Grande. Ferdinando II è un personaggio straordinario. Pe’
per¬ sonaggi di tal fatta i giorni sono anni, e gli anni sono de’
secoli. I loro passi sono di una rapidità incalcolabile, ed agli occhi
degli uomini ordinar] sembrano de’ pro¬ digi- Eglino, quando anche la
loro vita fosse molto corta, formano l’epoche della storia; perché
producono quei memorabili avvenimenti, che cambiano lo stato de’
popoli, e fanno a questi percorrere un cammino diverso. I loro nomi
resistono al furore del tempo, che tutto di¬ strugge. Ferdinando II
ascende al trono de’ suoi antenati, nell’aurora della sua vita. Un uomo
ordinario sarebbe stato sedotto dallo splendore del Trono: egli
avrebbe sdegnato le penose cure del governo di un Regno; egli
sarebbe stato colpito dal fasto de’ grandi. Il giovin Eroe chiude gli
occhi alle pompe incantatrici del Trono, ed attento gli rivolge su i mah
del suo popolo. Egli non vuol assidersi in mezzo de’ grandi pria di
piangere cogl’ in¬ felici. Una serie d’infausti avvenimenti produce
torrenti di mali, ed immerge nel dolore e nel pianto gli abitatori
di queste belle contrade. Un muro di separazione s’in¬ nalza fra di noi.
Esso divide i sudditi da’ sudditi. Quelli della parte
sinistra son privi della vita civile, nell’atto che la necessità ne
chiama degli altri, che sono insuffi¬ cienti, alle pubbliche cariche
>. Il potere giudiziario perde tanti ragguardevoli magi¬
strati. L’amministrazione tanti prudenti e savj ammini¬ stratori. La
indizia tanti valorosi campioni. Gran Dio, chi riparerà i nostri mali ?
Voi avete udito i gemiti de buoni e virtuosi cittadini di questo bel
Regno: la vostra voce finalmente dal Cielo si è udita. Popoli delle
Due Sicilie, rasciugate le vostre lagrime : i vostri cuori si
aprano alla gioja. Un Re di un’anima eroica ascende sul Trono: egli
sanerà le vostre piaghe : egli vi farà risorgere a nuova vita. Sì, il
core magnanimo di Ferdinando il Grande è commosso all’aspetto de’ mah di
una gran parte de sudditi suoi. Egli sente, nella sua clemenza, che,
essendo l’immagine di Dio e del Redentore divino su la Terra, dee
qual padre correre ad abbracciare il figliuol prodigo. Egli vede, che la
discordia in un Regno è la sorgente di mali deplorabili, e che un
principio saggio dee farla ces¬ sare. Egli conosce, che i Re debbano
regnare su i cuori de’ loro sudditi. Il memorando decreto del 18
dicembre del 1830 è pubblicato. Il muro di separazione è rove¬
sciato. La gloria di Ferdinando II sarà immortale ». Tacete,
animucce infelici, in cui la calunnia ha posto la sua sede, tacete. Che
cosa mai dir vorrete ? Che il Reai Decreto or ora citato è una finzione ?
Che esso non avrà alcuna esecuzione ? No, l’anima eroica di Ferdi¬
nando II non cape siffatta bassezza. I reali Decreti del dì 11 del
corrente gennaio 3 vi ammutoliscano. Ferdi- 1 A questo punto
d'altra mano, in margine: «La tempesta politica fa traviare dal retto
cammino anche i migliori talenti ». 1 L’atto sovrano del 18
dicembre 1830 portava un indulto in favore dei condannati come rei di
Stato, e di coloro che per ragioni politiche si trovavano esclusi dagli
impieghi civili e militari. 3 Allude ai due decreti nn. 104 e 106,
emanati con quella data da Ferdinando II, col primo dei quali si cercava
di curare le piaghe ALBORI DELLA NUOVA ITALIA nando II
regna senza distinzione, su i cuori di tutti i sudditi suoi. Tutti si
riguardano quasi fratelli, perché vivono sotto T impero di un Re, che è
loro Padre. DalTuna all’altra estremità delle Due Sicilie una sola
voce si ascolta : Viva l’Eroe! Viva Ferdi¬ nando II il Grande! Tutti sì,
tutti son pronti a versare per un tanto clemente Monarca il loro
sangue. La virtù non dee amarsi che per se stessa, e sarebbe,
in buona filosofìa, un distruggerla il riguardarla qual mezzo per la
felicità. Ma è essa una verità incontrasta¬ bile, che l’uomo virtuoso
sarà felice, ed il vizioso infelice. Quale spettacolo più commovente per
l’anima di Fer¬ dinando II di quello che gli presentò la capitale
ne' giorni ix, 12 e 13 di gennajo, e la relazione, che certa¬ mente
gli pervenne, della letizia universale innalzata sino al più vivo
entusiasmo di tutto il Regno ? Il piacere di rendere milioni di uomini
felici, e di vedersi da essi adorato ne ha esso forse un eguale su la
terra ? Il Principe magnanimo intese nel suo cuore, che egli ha tanti
sol¬ dati, quanti sudditi conta il suo regno. Egli vide il suo
Trono immobile, la sua gloria immortale. La grand’opera della
rassicurazione delle reali finanze la dicemmo già delineata nella gran
mente del nostro Eroe. La mano incomincia tosto ad eseguire il
disegno profonde che erano nelle finanze del Regno, sopra tutto
dei do¬ mimi continentali, per « le conseguenze fatali della straniera
usurpa¬ zione: gli avvenimenti disgraziati del 1820#; si esponeva con
leale franchezza il deficit della tesoreria generale di Napoli, che
am¬ montava a 4 345 251 ducati; per colmare gradualmente il quale
si annunziava una serie di lodevoli economie nella milizia e nei
ministeri, oltre straordinari rilasci della cassa privata del Re e
dell'assegnamento della R. Casa; l’abolizione del cumulo degli stipendi;
l’imposizione di una ritenuta ai soldi e pensioni superiori a 25 ducati
mensili; e in compenso pel « sollievo della parte più bisognosa del
popolo » si dimi¬ nuiva della metà il dazio sul macino. Con l’altro
decreto veniva pre¬ scritta « una generale economia nelle spese a carico
dei comuni di qua del Faro per invertirla nella diminuzione de’ più
gravosi dazi comunali». Vedi Collezione cit., a. 1831, sem. I, pp. n-17,
e 18-20. PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? I4I
del pensiere. I Re imprimono alle loro azioni un carat¬ tere di
gloria, che spinge i sudditi ad imitarle. L’idea di grandezza si associa
a quella delle azioni de’ grandi, e l’impero delle idee associate sul
cuore umano è molto esteso. Quindi la virtù, quando si scorge nelle
azioni de' grandi, di qualunque grandezza essi sieno adorni, rende
la virtù rispettabile su la terra. Guidato da questo sublime
pensiere, Ferdinando II incomincia da sé la nobile impresa. Que’ insti
spazj di terra riserbati alla caccia de’ Re son tosto restituiti
al¬ l’agricoltura ». Questa misura diminuisce le spese relative
alla persona del Re, ed aumenta la pubblica ricchezza. Un rilascio è
conceduto dalla borsa privata del Principe: altro ne è fatto
dall’assegnamento della Casa reale. La classe degl’ impiegati è chiamata
ad imitar l’esempio del Reggitor supremo dello Stato: ed il reai Decreto
del di 11 gennaio contenente una diminuzione di dazj, vien tosto a
colpirci di ammirazione e di gioja. Se tali sono le imprese di
Ferdinando II in men di tre mesi, che cosa non dobbiamo noi sperare in un
lungo regno, che gli auguriamo felice ? Egli ha promesso la
restaurazione della giustizia. La sua promessa è sacra ed immutabile. Il
passato ci autorizza a sperare il futuro. Sì, il cittadino vivrà
tranquillo sotto 1 * impero della legge. Il regno di Astrea rinascerà su
le nostre contrade. Ed io non posso trattenermi di finire col poeta
latino: lam redit et virgo, redeunt Saturnia regna, lavi nova
progenies caelo demìititur alto. 1 « Con la pubblicazione del suo
proclama il Giornale ufficiale annunziava le sue disposizioni per
l’abolizione delle cacce »: N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame
di Napoli, voi. II, p. 67. . 1. Il Galluppi è stato detto a ragione
gran riformatore della filosofia italiana ; e aspetta ancora un degno
illustratore della sua vita e del suo pensiero . Noi ne diremo soltanto quanto
è neces sario al disegno di questo lavoro . Nacque a Tropca, in Calabria , il 2
aprile 1770 ( lo stesso anno di Hegel) dal barone Vincenzo e da Lucrezia
Galluppi, una delle più antiche famiglie patrizie di quella cittaduzza. Fattii
primi studi di latino, tredicenne fu mandato a scuola di filosofia e ma
tematica da « un abile maestro » ( 1 ) , tal Giuseppe Antonio Ruffa, che gli
pose in mano la Logica del Genovesi e la Geometria di Euclide; e l'innamorò
talmente di questi autori e di queste disci pline, che il Galluppi , anche
innanzi negli anni , non rivedeva quei libri senza una certa commozione. Ma non
si fermò al Ge novesi ; perchè alcuni suoi compagni l'indussero a leggere la
Teodicea del grande avversario di Bayle. E il Galluppi ne fu in vogliato a
studiare tutto il sistema nelle opere del Wolff, come anche ad applicarsi alla
teologia , poichè nella scuola « si era in trodotto, scrive egli stesso , un
certo misticismo » . 2. Studi teologici e metafisici continuò a coltivare a Na
poli , dove si recò nel 1788 , da Palermo, ove il padre qualche anno prima
aveva condotto la famiglia . Frequentò le lezioni di teologia di Francesco
Conforti, il Sarpi napoletano, e quelle di greco di Pasquale Baffi ; entrambi
vittime gloríose del 1799. Studiò la Bibbia, la storia antica ,
l'ecclesiastica, la patristica, ( 1 ) Vedi il brano autobiografico pubblicato
dal prof. F. PIETROPAOLO nella Rivista di filosofia scientifica di E. Morselli,
&. 1887, e ripubblicato da CARLO TORALDO nel suo Saggio sulla filos. del
Galluppi e le sue relazioni col kantismo, Napoli , Morano , 1902, p. 29 ( dove
per una gvista è stampato amabile per abile ) .
specialmente s . Agostino. Ma, per la morte del suo minor fratello
Ansaldo, dovette nel 1794 rimpatriare per attendere all'azienda do mestica ; e
sposò Barbara d'Aquino di Cosenza , dalla quale ebbe quattordici figli ! Negli
Elementi di psicologia ( 1 ) egli stesso ricorda la sua numerosa figliuolanza,
che nella sua casa non grande gli avrebbe impedito co'suoi strepiti infantili
di studiare la filosofia e le matematiche, senza la sua grande passione per
questi studi. Persistetti, egli dice, e « l'esercizio mi pose in istato , che
io me ditavo tranquillamente, non ostante i giuochi strepitosi, i pianti e le
grida de ' ragazzi > ( 2 ) . Per rispondere alle censure che certi
ecclesiastici avevano fatto di alcune sue proposizioni , pubblicò una Memoria
apologetica (3) Nè tralasciava frattanto di coltivare la filosofia : « ma i
libri filosofici che leggeva, com'egli c’informa, erano tutti della scuola
cartesiana » . Intorno al 1800 lesse Condillac, e « qui cominciò la seconda
epoca della sua vita filosofica . Le opere di questo filosofo fecero cambiare
la direzione dei suoi studi nella filosofia » , « lo compresi , - ci dichiara
il Galluppi, – che prima di affermare qualche cosa su l'uomo, su Dio e su
l'universo , bisognava esaminare i motivi legittimi dei nostri giudizi e porre
una base solida alla filosofia ; che bisognava perciò risalire all'origine
delle nostre co noscenze, e rifare in una parola il proprio intendimento » ( 4)
. 3. Così egli scriveva nel 1822 , quando era molto progredito nella critica
della conoscenza , e aveva, si può dire, approfondito il problema. Forse la
prima lettura di Condillac non gli diede quella netta coscienza, che parrebbe
da queste parole , dell'im portanza della questione gnoseologica . Certo,
l'avviò per questa strada, che è la strada maestra delle filosofia moderna,
facendolo ritornare sul Saggio del Locke. E primo frutto di questi nuovi studi
fu nel 1807 un opuscolo Sull'analisi e la sintesi ( 5 ) ; le due ( 1) § LVI ;
2.a ed. , Firenze, Pagani, 1832, p. 103 . ( 2) Anche il Vico nella sua vita
ricorda con quella sua disinvolta vanità di esser * uso sempre a leggere o
scrivere, o meditare » tra lo strepito de' suoi non pochi figliuoli. ( 3 ) In
Napoli , pei torchi di Vincenzo Mozzola - Vocola . ( 4 ) Autobiografia citata.
(5) Napoli, Giuseppe Verriento , 1807. Tirato in pochi esemplari non messi in
vendita, quest'opuscolo è divonuto oggi rarissimo. Una copia è conservata dalla
Biblioteca Univer sitaria di Napoli, nella Miscellanea Imbriani. I facoltà che occuperanno un posto primario
nella filosofia dello spirito galluppiana. Tutto intento a' suoi studi , e
senza allontanarsi mai da Tro pea, se di là « con l'occhio e col pensiero » ,
come immaginava in un suo affettuoso elogio Luigi La Vista, non si sarà rivolto
« alla prossima Cotrone, ed ai suoi costumi ed alle sue idee trovato un modello
nella vita e nella sapienza del divino Pita gora » ( 1 ) ; certo avrà seguito
gli avvenimenti politici dei for tunosi tempi del decennio francese in Napoli ,
com'è certo che partecipò vivamente con l'animo alle riforme liberali allora at
tuate o vagheggiate. Scrisse anche un opuscolo Su la libertà com patibile con ogni
forma di governo, rimasto inedito . E nel 1809 da re Gioacchino fu nominato
controllore delle contribuzioni della provincia di Catanzaro ( 2) . Della parte
da lui presa alla vita pub blica contemporanea si ricorda pure un opuscolo
stampato nel 1820, Lo sguardo dell'Europa sul Regno di Napoli, in difesa degli
ordini costituzionali napoletani minacciati dal Congresso di Lai bach, e contro
l'intervento straniero . E altri due opuscoli avrebbe indirizzati al Parlamento
napoletano , l'uno Sulla libertà dell co scienza e l'altro Sulla libertà della
stampa ( 3) ; opuscoli ora irrepe ribili, ma che non dovevano contenere niente
di diverso dallo scritto Su la libertà compatibile con ogni forma di governo,
di cui larghi squarci e transunti furono pubblicati nel 1865 ; nei quali il
Nostro mostrasi largo fautore di ogni libertà (4) , 4. Quando scrisse
l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi il Gal luppi ancora non conosceva nulla di
Kant, secondo che egli stesso ci attesta. « La conoscenza di questa filosofia,
egli dice, non cam biò punto la direzione dei miei studi ; io continuai le mie
appli ( 1 ) Memorie e scritti di L. LA VISTA, Firenze, Le Monnier, 1863, pag.
257. ( 2) Vedi quel che no dice P. E. TULELLI in un'interessante memoria
Intorno alla dottrina ed alla vita politica del bar . P. G. - Notizie ricavate
da alcuni suoi scritti ine diti e rari, negli Alti della r. Acc. delle scienze
mor . e pol. di Napoli, I ( 1865 ), 201 e sgg. Il TULELLI pubblicò un'altra
memoria : Sopra gli scrilli inediti del bar, P. G. negli stessi Atti del 1867,
III, 81 e sgg. ( 3) Vedi l'opuscolo più sotto citato di F. S. BISOGNI, Omaggio
, p. 9. (4) Vedi la prima delle due memorie del Tulelli. Pare tuttavia che
nella reazione del '99 il Galluppi , che allora trovavasi a Tropea , non abbia
mantenuta quella condotta che si conveniva a un amico della libertà . Nell'Eco
di Tropea del agosto 1902 II , n. 35 ) il prof. C. TORALDO , al quale pure si
deve il citato Saggio sulla filosofia del Gal luppi con appendice di scritti
inediti, ha pubblicato questo bruttissimo sonetto recitato dal Nostro
noll'Accademia degli Affaticati di quella città : cazioni su l'intendimento
umano, ma profittai molto delle fati che del filosofo di Koenisberg ; io
riconobbi il merito dei problemi elevati dalla filosofia critica , sebbene
trovai insufficiente la so luzione che questa ne avea dato . Le meditazioni da
me por tate su la filosofia critica , elevarono molto più alto i miei pensieri
e mi presentarono delle nuove vedute nella scienza dell'intendi mento umano » (
1 ) . E vedremo infatti quanta parte del criticismo kantiano si rispecchi nel
Saggio filosofico sulla critica della co noscenza , di cui il Nostro pubblico i
primi due volumi a Napoli nel 1819 ( 2 ) , Questa prima conoscenza di Kant
provenne al Galluppi dalle esposizioni nè complete nè esatte del Villers ( 3 )
e del Kinker ( 4 ) e Della Patria il dolore , il lutto , il pianto , La rea
sorte fatal veder non voglio , Di Marto, di Bellona il fler orgoglio ,
L'augusto trono di Minerva infranto , Spesso sedendo al bel Sebeto accanto Col
cor trafitto dal più fler cordoglio , Pria che de' Franchi vacillasse il soglio
, Dico nel mio pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo. Occhi mici, non
piangete, Grido nel mio furore ; io corro or ora Sollecito a varcar l'onda di
Loto . Ma già l'Angiol divin , che accanto giace, Di man mi toglie il ferro , e
grid'allora Verrà Fernando : tornerà la paco ! Il sonetto è conservato su un
foglio volante, che reca dalla parte opposta queste parole che sono la
conclusione di un discorso accademico : « Ferdinando augusto , principe ma
gnanimo, nell'impetuoso turbino che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a
salvarci. I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza .
Ferdinando viene, Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è terminato » . E
poi : « Pasquale Galluppi fra gli Af fatigati il Furioso . Siegue dietro il
Sonetto dello stesso accademico » A me pare che discorso e sonetto possano
riferirsi alla reazione del 1799 . ( 1 ) Le frasi in corsivo di questo passo meritano
particolar considerazione per quel cho si dirà più innanzi del pensiero
galluppiano. ( 2) Pei torchi di Domenico Sangiacomo. Seguirono altri 2 vol.
Messina , Pappalardo , 1822 ; poi un 5.° e un 6. ° , per cui l'opera fu
compiuta, nel 1832 , presso lo stesso Pappalardo. Nel 1833 in Napoli fu
incominciata la 2.a edizione migliorata ed accresciuta . ( 3) Philos. de Kant,
ou principes fondamentaux de la philos. trascendentale, Metz, 1807. ( 4) Essai
d'une exposition succincte de la Critique de la Raison pure ; trad. du l'ol
landais par. J. le F. , 1801; vedi su questi e gli altri primi scritti francesi
sul Kant l'im portante memoria del PICAVET, La philos. de Kant en France de
1773 à 1814 , proposta alla sua trad. della Critica della Ragion pratica
(Paris, Alcan, 1888 ). dalla Storia comparata dei sistemi filosofici ( 1803)
del Degerando. Egli non seppe mai il tedesco ( 1 ) , nè mai conobbe la
traduzione latina di alcune opere kantiane, già ricordata, fatta dal Born (
1796-98 ) ; nè era uscita peranco la traduzione che il cav. Man tovani fece
della Critica della ragion pura ( 1820-26) , e che sarà poi la sua fonte
principale. 5. Nel 1820 pubblico i primi due volumetti di Elementi di filo
sofia contenenti la Logica pura e la Psicologia , e prometteva l'Ideologia , La
logica mista , la Filosofia morale, che infatti uscirono in altri tre volumetti
nel 1826 ( 2) , e una Storia filosofica ragionata, che un avvertimento
dell'editore al quinto volumetto annunziava non si sarebbe piu pubblicata
avendo l’autore « su l'oggetto intra presa un'opera estesa » ( 3) . E questi
libri , i migliori testi di filo sofia per le scuole che si siano avuti finora
in Italia , per i loro squisiti pregi didattici d'ordine e di chiarezza , si
divulgarono presto per tutta Italia , procacciando molta fama al benemerito
autore . Intorno al 1821 scrisse alcune lettere sulla storia della fi losofia
moderna, indirizzate al canonico don Goffredo Fazzari, che nel seminario
vescovile di Tropea insegnava gli Elementi di lui e desiderava da lui stesso di
essere orientato in mezzo al « caos delle opinioni , che al presente scrive il
Galluppi nella prima lettera — agitano il mondo filosofico » , e di essere
sovrattutto informato della filosofia critica. E queste lettere l'autore nel
1827 raccoglieva in un bel libro, piccolo di mole ma che è il primo degno
saggio di storia della filosofia in Italia ( + ) , il quale diede ( 1 ) Nè
soppe tanto di francose da tradurre da questa lingua sonza errori di senso .
Vodi per un esempio curiosissimo la mia prefazione al Saggio citato del prof.
C. TO RALDO , p. IX, n . 1 . ( 2) Aggiunse più tardi gli Elementi di teologia
naturale. Nel 1835 si fece a Firenzo una edizione di tutti questi Elementi di
filosofia con aggiunte dell'autore e note di P.(OMPILIO ) T.(ANZINI) S. (
COLOPIO ), pubblico lettore ; ristampata a Bologna nel 1837. ( 3) Di questa
Storia della filosofia non fu pubblicato poi che il primo volume conte nento il
primo dei duo libri di Archeologia filosofica , che l'autore intendeva
premettere al l'opera. Ne conosco solo l'odizione di Milano, Silvestri, 1847,
nella quale precode l'Elogio funebre scritto da ENRICO PESSINA . ( 4) Lellere
filosofiche sulle vicende della filosofia relatiramente ai principii delle cono
scenze umane da Cartesio sino a Kant inclusicamente , Messina, Pappalardo,
1827. Le let tere in questa edizione erano tredici. Una 14. ne aggiunse l’A.
alla 2.a edizione (Napoli, 1838) , con un Discorso di LUIGI BLANCH per venire
fino al Cousin e al Rosmini. E questa 2. edizione fu riprodotta in quella di
Firenze, Fraticelli, 1842 , che noi citeremo. occasione al Romagnosi ( 1 ) di
scrivere una Esposizione storico -cri tica del kantismo e delle consecutive
dottrine ( 2) . E altre cinque Lettere sull’ontologia indirizzd a un amico tra
il 1820 e il 1822 , dove si adoperò a mettere in chiaro, da un punto di vista
kan tiano, la futilità dell'ontologia wolfiana ( 3) . Ma queste lettere non
sono venute in luce che recentemente . 6. Per tutti gli scritti già divulgati
il Galluppi s'era reso noto per tutta Italia ; e il giovane Rosmini l'11
novembre 1827 , ap pena stampato il primo volume de' suoi Opuscoli filosofici,
glielo inviava da Milano, dichiarandoglisi obbligato se egli , che aveva «
arricchita la filosofia , quella scienza avvilita e profanata nei no stri
tempi, anzi distrutta » , avesse voluto aggradire l'opera e comunicargli «
qualche lume relativo alle materie che sono in esse contenute » . E si stabilì
fra i due filosofi un carteggio assai istruttivo per chi voglia conoscere le
relazioni storiche delle ri spettive loro dottrine ( 4 ) . Varie accademie fin
da prima del 1822 l'avevano aggregato a’loro soci ; fra esse la Sebezia e la
Pontaniana di Napoli. Quivi il Galluppi tornò il maggio del 1831 ; e subito vi
pubblicò una traduzione dei Frammenti del Cousin , con una prefazione e una «
Dissertazione del traduttore , in cui si confuta il domma del l'unità della
sostanza » , ove però son comprese le osservazioni del Galluppi intorno alle
altre dottrine del Cousin non accettate ( 5 ) . « Avendo meditato su di questo
sistema filosofico, ho creduto di trovare in esso delle vedute sublimi, ed
insieme un errore pe ( 1 ) Che ne aveva scritto prima una recensiono nella
Biblioteca Italiana , di Milano, vol. L, p. 163 e ss . ( 2 ) Nella stessa
Biblioteca , LIII, 180 e ss . Vedi Opp. filos . ed . e ined . , di G. D. R. con
annotazioni di A. DE GIORGI, Milano, 1842, pp. 575-605. Su questo scritto e in
generale sul Kantismo in G. D. Romagnosi vedi l'art. del CREDARO nella Riv. di
filos. italiana , an . 1887, vol . II . ( 3) Vedi ciò che ne ho detto nella
prefazione al citato Saggio del Toraldo. Dovo que ste lettere sono stato tutte
cinquo pubblicato per la prima volta . Solo le prime due erano state edito da
F. PIETROPAOLO , Scritti inediti di P. Gall. nella Riv, filos. scient., VII (
1888 ), 128-44. ( 4) Vedi il nostro Rosmini e Gioberti, pp. 75-82 ( Pisa ,
Nistri , 1898 ). ( 5) La filosofia di V. Cousin , trad . dal francese, ed
esaminata dal bar. P. Galluppi , a spese del N. Gabinetto lotterario, 1831 ,
vol. I. Il vol. II è del 1832. A pag. 197 del vol. I si incontra anche una
postilla del tradut tore relativa ad alcune massime morali del Cousin , ricoloso » . Quindi, accompagnando la
traduzione con la detta dis sertazione, ei credeva di porre « il lettore
filosofo in istato di conoscere non solo la filosofia del sig . Cousin , ma di
giudicarla » . Il libro frutto presto molto favore all'eclettismo francese a Na
poli , e specialmente al suo capo , che dal canto suo fece conoscere il
Galluppi in Francia ( 1 ) , e anche fuori per mezzo dell'amico Ha milton, che
in un giornale filosofico di Edimburgo scrisse un ar ticolo sul Nostro . 7. A
Napoli nello stesso anno 1831 fu persuaso da amici a chiedere la cattedra di
logica e metafisica vacante nell'Univer sità . Presentato al ministro degli
interni marchese di Pietraca tella, questi , udito il suo desiderio , l'invito
a cimentarsi a un esame. Ma egli con sdegnosa semplicità calabrese rispose : E
chi c'è a Napoli che possa esaminare Pasquale Galluppi? – L'amico che l'aveva
presentato , rimase sconcertato . Ma il 4 ottobre 1831 il nostro filosofo aveva
il suo decreto di nomina ( 2 ) . « Con che festa noi giovani , narrava il
Settembrini con quanta calca tutte le colte persone si andò a udire la sua
prolusione, e poi le lezioni che egli appollaiato su la cattedra dettava con
l'accento tagliente del suo dialetto ! Ci sono sempre i maldicenti, i quali
dicevano che egli era mezzo barbaro nel par lare, ma in quel parlare era una
forza di verità nuova , ma l'in gegno cra grande, e il cuore quanto l'ingegno »
( 3 ) . Quell'anno stesso aveva dato una novella prova delle sue atti tudini
didattiche dando alle stampe un'opericciuola : Introduzione allo studio della
filosofia per uso dei fanciulli. Ma nel seguente anno, primo del suo insegnamento
, coi primi due volumi della Filosofia della volontà dedicati al marchese di
Pietracatella, poi e --- ( 1 ) Si conservano nella biblioteca del Cousin ,
appartenente alla Ropubblica, le lettere a lui del Galluppi. Vedi l'art. da me
pubblicato su V. Cousin e l'Italia nella Rassegna bibliograf. della letter.
ital. del 1898, VI , 213. Il Cousin fece tradurre in francese dal Peisse suo
discepolo le lettere del Galluppi ; o questi da F. Trinchera le Lezioni del
Cousin Sulla filosofia di Kant, aggiungendovi cgli delle note, come sarà notato
a suo luogo . Un'affettuosa commemorazione del Galluppi fece il Cousin nel 1847
all'Accademia di Francia , o pubblicò nel Journal des Économistes del febbraio
1847, riportato nell'Omnibus di Napoli del 29 maggio 1847, dove il Galluppi
aveva scritto sul Cousin, anno III ( 1835) , pag. 225 . ( 2 ) Vedi FIORENTINO,
Man . di storia della filos., Napoli, 1887, pag. 609 ; L. SETTEM BRINI,
Ricordanze , Napoli , 1898 , I , 75, e il Discorso cit . del BORRELLI, p . 6 .
( 3) Op. cit . , vol. I , pag. 76.
ammontati a quattro , già composti a Tropea, cominciò a puh blicare le
Lezioni di logica e metafisica, dettate all'Università , vero modello di quel
lucidus ordo tanto raccomandato dal Veno sino . Nel 1834 ne compì la stampa in
tre volumi ; di cui fece nel '40 una seconda edizione e una terza nel 1846 ;
ristampata nel 1853 dal Tramater ; e questa stampa noi citeremo. 8. A proposta
del Cousin il 30 dicembre 1838 , in concorrenza coll'Hamilton che ebbe un solo
voto , veniva nominato socio cor rispondente dell'Accademia delle scienze di
Francia. E il 28 aprile 1841 , a proposta del Guizot , Luigi Filippo lo
insigniva della croce della Legion d'onore (1) Ei se ne sdebitava con le sue
Considerazioni filosofiche sul l'idealismo trascendentale, ossia sul sistema di
Fichte , memoria presentata il 1839 all'Istituto di Francia , accademia delle
scienze morali e politiche ( 2) ; e mandando più tardi , poco prima di mo rire
, uno scritto su la teodicea dei filosofi antichi, che fu inserito come il precedente
negli Atti dell'Accademia. Nel 1842 pubblico il primo volume della Storia della
filosofia , annunziata fin dal '26 . Vi si tratta della filosofia greca , non
però secondo la successione delle scuole , sibbene « considerando e cri ticando
le diverse opinioni dell'Antichità » su l'origine dell'uni verso e del genere
umano fino ai neo-platonici . « Una siffatta opera, dice in un elogio funebre
dell'autore un affettuoso discepolo saria stata monumento novello di gloria
italiana , se a nostra disavventura la vecchiezza , le malattie , le sciagure
non avessero di tale infievolito l'animo di lui , ch'ei non potè vederla
compiuta, ed a perfezione condotta » (3) 9. Infatti gli ultimi anni della vita
del nostro filosofo furono amareggiati da sciagure che ne affrettarono la morte
. Già uno dei figli maschi era caduto , com'ei narra , « vittima del furore
d'un giovane sconsigliato » . Ed egli ne aveva scritto e stampato (Mes sina,
1818) l'elogio . Nel 1834 poi gli era morta la moglie . Ora, nel 1844 in una
insurrezione scoppiata a Cosenza perdeva la vita un altro suo figlio, Vincenzo,
che era capitano . Il vegliardo ( 1) Vedi la lettera del Guizot in LASTRUCCI,
P. G. studio critico , Firenze, Barbèra , 1890 , p. 112. ( 2) Stampate in
italiano nel 1841 , da' torchi del Tramater ; un vol. di p. 159 in 4.° Negli
Atti dell'Accademia francese furono pubblicato come la successiva memoria in
francese. (3) Elogio funebre di P. G. , per E. PESSINA, in Op. cit . , p. XIII.
ne fu profondamente addolorato e agli amici che tentavano con fortarlo disse :
« Avrei desiderato che morisse per una causa più nobile e giusta » Morì il 13
dicembre 1846. P. Borrelli , come sopra s'è visto , ne disse degnamente le lodi
presso al letto funebre, il 14, fra una folla di giovani discepoli , che
recarono a spalla la salma compianta alla chiesa di S. Nicola ; e il giorno 21
gli celebrarono funerali solenni nella chiesa di Sant'Orsola a Chiaia , in cui
recitò un'ora zione il gesuita Carlo Maria Curci . Giuseppe Campagna piangeva
la morte del filosofo in un sonetto filosofico, lamentando che con lui si
partisse dalla terra Una favilla dell'eterno lume ( 1 ) . Il 14 marzo 1867
dall'Accademia delle scienze morali e politiche al Galluppi veniva eretto un
busto nella Università degli studi, da lui onorata con molti altri spiriti
magni . 10. Molti scritti aveva ancora in animo di pubblicare , oltre i
ricordati, e molti manoscritti di lui ci son rimasti , ora in depo sito presso
la Biblioteca nazionale di Napoli, i quali fan testimo nianza della larga estensione
degli studi fatti da lui in teologia , storia dell'antica e moderna filosofia ,
filologia greca e latina, sto ria , matematica, astronomia ( 2 ) . Meno vita
modesta e di grande raccoglimento : assorto negli studi, visse veramente per la
scienza , in cui riuscì ad imprimere orme profonde, rinnovando la filosofia
italiana . Egli infatti fu il solo dei filosofi napoletani da noi studiati,
dopo il Genovesi, che esercitasse una influenza molto notevole al di fuori del
regno , su tutti gli studi filosofici nazionali ( 3 ) , ( 1 ) Pubblicato nel
Museo di scienza e lett., X, 348 ; v. DE SANCTIS, La letter . ital. nel sec.
XIX , Napoli, Morano , 1897, p. 96 , e nota del CROCE, p. 208 . ( 2) Oltre la
memoria ricordata del Tulelli , vedi l'olenco dei mss. galluppiani nel
l'opuscolo citato dell'avv. Pietropaolo . ( 3 ) Per la biografia v. anche L.
PALMIERI, Elogio stor . del bar. P. G. con alcuni poe tici componimenti
recitati in un'adunan za tenuta per cura di L. Palmieri in Napoli il di 10 del
1847 , di pp. 32. V'è oltre l'elogio un sonetto del Campagna, un carme latino
di A, Mirabelli, alcune sestine di D. Anzelmi, un'ode latina di Quintino
Guanciali e un so netto « improvvisato dall’egregio poeta sig . Giuseppe
Regaldi che per una congiuntura si trovò presente alla nostra adunanza » , -
Vedi anche la necrologia Morti e morenti di C. CORRENTI, pubbl. nella Rivista
europea del decembro 1846 , ristamp. in Scritti scelti , ed. Massarani, Roma,
tip . Sonato, 1891 , I , 481-83. L'articolo dell'ab. ANTONIO RACIOPPI, Il Bar,
P. G. , nel Poliorama pittoresco, an. XI ( 1847 , 13 marzo e 20 marzo) , n. 32
e 33 ; l'opu scolo di F. S. BISOGNI , Omaggio alla memoria del b. P. G.
nell'occasione che in Tropea il Munic. e la Prov. innalzano una statua
all'illustre filosofo , Napoli, Morano, 1877 ( in 11. Nella quattordicesima
delle Lettere filosofiche il Galluppi, vo lendo determinare le relazioni della
sua filosofia, ch'egli chiama sperimentale, col criticismo kantiano, si fa a
descrivere le varie fasi attraverso le quali era passato il suo pensiero . Ma
la de scrizione non è molto accurata ed esatta. Abbiamo visto come fino circa
ai trent'anni ( al 1800) suoi autori fossero Leibniz, S. Agostino e i filosofi
della scuola di Cartesio ; e si può dire che egli fosse in un periodo di dommatismo
metafi sico , che rimase poi sempre nel fondo del suo pensiero ; non solo
perchè molto più tardi, quando aveva studiato anche Kant , con tro di questo
egli affermava che « la filosofia è essenzialmente dommatica, e non può essere
che dommatica. Essa dee contenere delle verità assolute » ( 1 ) ; ma anche per
altre ragioni: La lettura di Condillac gli fece intendere , che c'era una que
stione preliminare dą risolvere prima di ogni metafisica : ricer care, cioè , i
motivi legittimi dei nostri giudizi , quindi risalire all'origine delle nostre
conoscenze , rifare, egli dice , l'intendimento. Condillac e Locke cangiarono
insomma la direzione de' suoi studi . Segue perciò dal 1800 fino circa al 1810,
quando venne a cono scenza del Villers e del Degerando, un periodo prekantiano
di revisione della conoscenza ; al quale periodo appartiene l'opuscolo
Sull'analisi e la sintesi, 12. In questo egli concedeva al Locke e ai suoi
seguaci, che « tutte le nostre idee hanno origine da' sensi » , che pertanto «
tutte le nozioni universali vengono a formarsi dal paragone degli oggetti
particolari , e ... che le cognizioni particolari ci menano alle no zioni
universali , e non già viceversa » ( 2) . Ma si proponeva la questione « se lo
spirito , tosto che ha for mate le nozioni universali, possa paragonarle,
scovrirne i rapporti, e quindi applicare questa cognizione universale alle idee
parti colari , racchiuse nell'idea universale , che si è paragonata colle
questo opuscolo è pubblicato uno scrittorello inedito del GALLUPPI Sulla
semplice appren sione, pag . 17 e segg. ) . Uno studio biografico ha pure dato
in luce il sig. F. PIETROPAOLO, nel Pensiero contemporaneo di Catanzaro , an. I
, 1899, fasc . 6, 7 e 8. Non c'è riuscito di vedere la biografla pubblicata nel
Giornale dell'equilibrio, 1841, n. 1 (citata dal Palmieri) scritta da P. E.
TULELLI « sopra note comunicatemi questi diceva, accennando molto probabilmente
a questa biografia dall'autore medesimo > ; Atti della R. Accad . d. scienze
morali e polit ., 1865, I , 203. ( 1 ) Letl . filos. , p. 342 . ( 2)
Sull'analisi, p. 20 . 15 altre » ( 1 ) .
Per es . , delle due proposizioni generali ogni cerchio ha tutti i suoi raggi
uguali e ogni corpo è grave, nella seconda tra corpo e gravità non havvi una
connessione necessaria e il loro rapporto non può affermarsi se non mediante il
soccorso dell'espe rienza ; nella prima invece è nell'idea del cerchio la
ragione di affermare l'uguaglianza de' suoi raggi; e fra le due idee v'è un
legame necessario, che non dev'essere attestato dall'esperienza. V'ha dunque ,
conchiudeva il Galluppi, verità generali cui lo spi rito non perviene dalle
verità particolari (sensazioni), « ma per mezzo del semplice paragone delle
idee universali, ch'egli si ha formato » ; e v'ha poi verità generali che
derivano dalla cognizione delle singole verità particolari , che ci fornisce
l'esperienza. Le une costituiscono le conoscenze a priori e necessarie ; le
altre le conoscenze a posteriori e contingenti. Le prime sono principii ana
litici, in quanto si devono all'analisi delle idee“ generali già ac quisite per
l'esperienza ; laddove le seconde sono un prodotto della sintesi delle verità
particolari, non altrimenti che le idee universali . 13. Sicchè già
nell'opuscolo del 1807 il Galluppi era arrivato a quella forza analitica e
forza sintetica di cui farà nel Saggio ( lib . I , § 18 , 34) il fondamento di
ogni giudizio, distinguendolo net tamente dalla sensibilità . In quell'opuscolo
si poteva egli dire an cora puro empirista ? Certo, egli faceva ancora, come il
Locke , derivare dalla sensazione ogni idea universale, e puramente speri
mentale faceva ancora la materia delle conoscenze a priori . Giac chè le idee
generali , fra cui può ammettersi un rapporto neces sario a priori, sono esse
stesse sperimentali a posteriori . Tutta quanta la materia della nostra
cognizione deriva dall'esperienza. Ma un a- priori si ammette nella sintesi ,
che, elaborando il dato immediato dei sensi , ci conduce alle idee universali e
alle cono scenze contingenti, e più nell'analisi che ci fornisce conoscenze
indipendenti dall'esperienza . In quell'opuscolo adunque l'empiri smo crudo cui
il lockismo per mezzo dei sensisti francesi era stato ridotto , non era
accettato. E notevole sovrattutto era in esso questa netta distinzione tra
conoscenze a priori necessarie e co noscenze a posteriori contingenti , fatta
dal Galluppi quando igno rava affatto la distinzione kantiana di giudizi
analitici e sintetici alla quale corrisponde precisamente. Ne pare ch'egli
allora cono scesse i Saggi filosofici sull’intelletto umano dell'Hume , nel
quarto ( 1 ) Ivi , ibid . dei quali
ritrovasi quella distinzione tra i legami di causalità, fon damento delle cose
di fatto e relazione d'idee, scoperte per mezzo di semplici operazioni della
mente, che giustamente si è voluto preluda alla teorica di Kant ( 1 ) . 14. Nel
1819 , nel libro I del suo Saggio, la posizione del Gal luppi si determina
assai più chiaramente. Egli , bene o male, ha già studiato Kant, e combatte l'empirismo
di Condillac, di Elvezio , di Destutt - Tracy ; di quel Tracy , che ancora nel
1827 a Firenze , al dire d'un arguto scolaro del Cousin, rappresentava le chef
et maitre, celui qui l'a dit ( 2 ) ; e dichiarava che la geometria, « questa
scienza pura , razionale, è la pietra immobile su cui va a rompersi la macchina
debole dell'empirismo » (S 36 ) ; e che, infine, « non è vero esattamente » ciò
che egli aveva ammesso o , almeno, non aveva combattuto, nell'opuscolo del 1807
: derivare cioè tutte le idee universali dal paragone delle particolari (S 40)
. 15. Parve a lui che la critica di Kant fosse una vera rivolu zione . « La
rivoluzione kantiana , scrisse nella prefazione del Sag gio (3 ), merita , più
di quel che si crede , l'attenzione dei pensa tori » . Asseriva bensì , che il
criticismo non fosse altro che un neo logismo, sotto il quale non si faceva
passare che una questione vecchia, quella dell'origine delle nostre idee. Ma le
prime parole della sua prefazione erano tuttavia le seguenti : « L'oggetto di
quest'opera è la Critica della conoscenza , o l'esame della realtà della
scienza dell'uomo . Che cosa posso io sapere ?... Son io ca pace di conoscenze
reali ? Quali sono i motivi legittimi di queste conoscenze ? Quali sono i
limiti prescritti al mio spirito , limiti che non gli è permesso di
oltrepassare senza precipitare nell'abisso dell'errore ? Tali sono le ricerche
sublimi ed importanti che mi occuperanno » ( 4) . Ora queste sublimi ricerche,
come tutti sanno, sono appunto quelle del criticismo kantiano ; che se è una
rivoluzione, sarà cer tamente una novità. ( 1) Vedi D. JAJA , Saggi filosofici
, Napoli, Morano, 1886 , pag . 189 e sgg. E a quel saggio di Hame fu il
Galluppi ricondotto dal Kant, nella IX delle sue Lettere filosofiche, per
spiegare, esponendo la critica del concetto di causa fatta da D. Hume, perchè
la lettura di essa svegliasse Kant dal suo sonno dommatico . Ma ivi ( p. 171 )
, ricordando la distin zione di Hume tra cose di fatto e relazione d'idee, non
ne avverte punto la parentela con la divisione kantiana dei giudizi. ( 2 ) Vedi
il mio Rosmini e Gioberti, pag . 14. ( 3) Tom . I , p. 9. Cfr. lib . III , § 76
; tom . III , p. 268. ( 4) Cfr. lib. IV , $ 1 .
Se non che, a giudizio del Galluppi , la critica di Kant , « lungi dallo
stabilire la realtà della conoscenza , tende radicalmente a distruggerla » ;
che i suoi risultati sono essenzialmente scettici ; e quindi una buona dottrina
della conoscenza non può costruirsi se non in opposizione a quella critica .
Una critica, insomma, ci vuole ; ma non quella di Kant. E quale dunque ? 16.
Noi non esporremo ne' loro particolari le teorie del Gal luppi e le critiche
delle altrui dottrine ond'egli stabilisce le pri me. E poichè col Saggio
filosofico la sua dottrina è già fissata , senza seguire l'ordine cronologico
delle opere , possiamo dall'una e dall'altra di esse raccogliere i tratti
caratteristici della sua fi losofia e farne un corpo compiuto. 17. Il Galluppi,
come gli antichi psicologi metafisici ammette un sistema di facoltà dello
spirito ; e a capo di tutte pone la co scienza o sensibilità interna . Questa è
la facoltà per la quale lo spirito percepisce , sente se stesso , il me, la cui
esistenza è una di quelle verità primitive, che ci sono attestate
dall'esperienza, ma non si possono dimostrare ; come già pensarono Cartesio e
Leibniz . Nè vale l'obbiezione che noi non percepiamo se non le nostre
modificazioni, e che l'idea del me si dedurrebbe percið da quella delle
modificazioni, pel principio che non v'ha atto senza soggetto . Non v'ha
sentimento delle proprie modificazioni donde si possa separare quello del
proprio essere ; perchè non si può percepire l'astratto, ma il concreto, non il
dolore, ma il me dolente . Il me adunque è un dato dell'esperienza, che bisogna
ac cettare come una verità primitiva di fatto ; e l'atto con cui lo si apprende
, è la percezione immediata. 18. Qui il Galluppi, ritornando alla posizione
cartesiana, ne sente tutta l'importanza. Egli osserva nel Saggio filosofico,
che il defi nire , come si fa comunemente, l'idea per la rappresentazione dell'oggetto
nella mente, separando cosi l'oggetto dalla mente , e il far consistere quindi
la norma della verità nella conformità della nostra rappresentazione con
l'oggetto esteriore, apre irrepa rabilmente la porta allo scetticismo. « Se gli
oggetti , se la re gione dell'esistenza son separati dallo spirito , chi getta
un ponte per passare dal pensiero all'esistenza , all'oggetto ? Questo ponte si
fa consistere nelle immagini degli oggetti. Lo spirito, dicesi , possiede le
immagini degli oggetti ; ma in questo caso lo spirito non potrà giammai
conoscere la conformità di queste immagini cogli originali, e la verità andrà
sempre lungi da lui » ( 1 ) . Me ( 1) Saggio , lib . I , 8 15 ( I , 37) .
morabili parole , per cui il Galluppi non solo non è un prekan tiano , come
credono i più , ma va innanzi al Kant dei neokan tiani ; del quale egli in
questo luogo discopre espressamente il vizio principale , notando che il
fenomenismo critico è una con seguenza della falsa posizione volgare
dell'oggetto rispetto al sog getto , presunta dalla definizione dell'idea testé
riferita . 19. L'idea del me, a proposito della quale l'autore fa queste
osservazioni, non ci deve esser data da una percezione che sup ponga il termine
percepito opposto al soggetto percipiente : « L'Io ed i suoi modi non sono
separati dall'atto della coscienza , ma gli sono presenti . La coscienza li
prende dunque immediatamente, e fra questa percezione e gli oggetti percepiti
non v'ha alcun intervallo . Questa coscienza , questa percezione è dunque l'appren
sione e l'intuizione della cosa percepita » (§ 16) . E le intuizioni, secondo
il Galluppi , « son vere , non perchè son di accordo cogli oggetti , ma perchè
elleno agiscono immediatamente sugli oggetti , e li prendono » ( 1 ) . Nè
bisogna cercare di definire la percezione, perchè non se n'ha se non una
nozione semplice, e ognuno pud solo rimettersene alla propria coscienza per
istruirsene . Il semplice, adunque , il principio da cui parte il Galluppi, è
questa immediata coscienza di sè , che egli dice percezione o in tuizione ; la
cui verità è fondata nella identità dell'essere e del pensiero, come in
Cartesio . « Tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica della coscienza
di se stesso » ( Saggio, lib . IV, § 3) . 20. Sicchè la filosofia del Galluppi
è un vero soggettivismo , come si può vedere anche dal suo concetto della
filosofia . « Che cosa è mai la filosofia ? Ella è , rispondono alcuni
filosofi, la scienza di ciò che è . In conseguenza ella è la scienza dell'uomo
, del mondo, di Dio. Una tal definizione suppone, che l'uomo possa giugnere a
conoscere se stesso, il mondo e Dio. Ma, dicono altri filosofi, bisogna prima
esaminare se l'uomo può saper qualche cosa ; e su qual fondamento può egli
saperla . La conoscenza dei nostri mezzi di conoscere è certamente una
conoscenza prelimi nare alla scienza delle cose . Da ciò segue che la filosofia
pud riguardarsi sotto due aspetti , o come la scienza delle cose , o come la
scienza della scienza umana . Considerata sotto il primo aspetto , ella può chiamarsi
scienza oggettiva ; considerata poi sotto il se condo, può chiamarsi scienza
soggettiva. Ma se la filosofia è la scienza prima, la quale dee contenere la
legislazione di tutte le ( 1 ) Li investono, dice più innanzi. altre scienze ,
voi vedete bene esser necessario di considerarla nel secondo aspetto . A cið
tende la celebre massima dell'antichità conosci te stesso . Io dunque la
riguarderò come scienza sogget tiva » ( 1 ) . E « scienza della scienza » la
definisce già negli Ele menti di ideologia (S III). Negli Elementi di filosofia
morale (SI) la dice : la scienza del pensiere umano, distinguendola in
teoretica e in pratica , secondo che studia l'intelletto o la volontà . Egli ha
insomma un concetto moderno della filosofia, giustificato dal suo principio :
che è la coscienza di sè . 21. Ma come, partendo da tale principio, egli
costruisce la realtà conoscitiva ? E qual carattere dà al suo soggettivismo la
sua costruzione ? Prima di tutto , avverte giustamente il Galluppi , bisogna di
stinguere l'ordine cronologico delle nostre conoscenze dall'ordine scientifico
( 2) , Noi abbiamo con la prima sensazione e come fonda mento di essa la
coscienza del nostro Io ; ma essa non è certo una coscienza di riflessione ( 3
) . Vale a dire , c'è di fatto questa co scienza che è il Primo scientifico ;
ma non si rivela se non alla riflessione filosofica posteriore , molto
posteriore, cronologicamente. Perchè questa coscienza primitiva si rivelasse
effettivamente, lo spirito dovrebbe cominciare da un giudizio ( lo esisto ), ed
essere già in possesso dell'idea astratta di esistenza , laddove ei comincia
invece da una percezione o sensazione che voglia dirsi . Comincia da una
percezione complessa : dalla percezione del me che riceve delle modificazioni,
dalla percezione del me che percepisce il fuor di me. Ora lo spirito presta
successivamente la sua attenzione ai diversi elementi che compongono l'oggetto
di questa prima percezione, decompone , divide questo oggetto ; poi lo
ricompone di nuovo e forma il giudizio, che è perciò il pro ( 1 ) Lett. filos.,
lett . I ; ediz . cit. , p. 37-8 . Questo stesso concetto è svolto nella
Prolusione del 1831: Introduzione alle lezioni di logica e di metafisica del
bar . P. G. , Napoli, Ga binetto bibliografico e tipografico , 1831, di pp. 30
in-8. ° (ristampata in fronte alle Le zioni di logica e di melafisica , vol. I)
e nelle primo tre di questo lezioni. Vedi puro il suo articolo Filosofia nella
1." dispensa dello Ore solitarie del 1838 (rivista diretta al lora da
Lorenzo Riola , P. S. Mancini e Luigi Curion , più tardi dal solo Mancini), pp.
9-11. Nella Continuazione delle Ore solitarie ovvero Giorn . di scienze morali,
legislat. ed econom. , 1842, fasc . I e II , pp. 7-14, è un altro scritterello
del GALLUPPI: Sul panteismo del signor Lamennais. ( 2) Saggio filos., lib. I ,
§ 22 ; tom . I , p. 49. (3) Ivi, $ 20 ; I , 45 . dotto dell'analisi e della
sintesi della percezione complessa ( 1 ) . Sic chè bisogna ammettere nello
spirito , oltre la facoltà della sensibi lità ( interna o coscienza, ed
esterna) , quelle dell'analisi e della sintesi. 22. Il fuor di me ci viene
offerto adunque dal me, da quella coscienza che cogliendo il me lo coglie
modificato dal fuor di me. Questa coscienza, che il Galluppi dice pure
sensazione, corri sponde , come bene osservò lo Spaventa, alla coscienza
sensibile dell'Hegel ; è l'unità ancora confusa ed indistinta di soggetto ed
oggetto. Allorchè, dice il Galluppi, la modificazione esterna « è percepita col
me, che modifica , io non ho ancora che una per cezione ; ma quando ella è
riguardata come distinta dal me, e poi riunita a lui dall'atto dello spirito ,
io allora giudico » ( 2 ) ( Saggio, lib . I , § 18) . Ora, se conoscere è
questo distinguere e unire , è chiaro che conoscere pel Galluppi non è sentire
( percepire) , ma giudicare . Quindi egli combatte i sensisti, insistendo sulla
dif ferenza sostanziale che corre tra sentire e giudicare, notando come
giudicare importi necessariamente un rapporto , e come non sia possibile
indicare l'impressione esterna, l'organo sensorio che ci manifesta la
conoscenza del rapporto ( 3) . La forza analitica e la forza sintetica dello
spirito sono distinte dalla sensibilità (4) ; come già aveva sostenuto
nell'opuscolo del 1807 . 23. La coscienza sensibile è adunque l'unità fondamentale
del conoscere ; l'unità che è condizione dell'analisi e della sintesi , ne
cessaria a tutti i nostri giudizi . Ma come si giustifica questa unita ? Il
fuor di me è sentito , dice il Galluppi , come un molteplice del quale ciascuna
parte è distinta dall'altra e le modificazioni di una parte non sono, nel mio
sentimento, le modificazioni delle altre . Il tronco di un albero è distinto
dai rami : ciascun ramo è distinto da un altro : il moto di un ramo può stare
senza il moto di un altro e di tutto l'albero ( 5 ) . Questa molteplicità si
raduna nel me, il quale alla coscienza si rivela sempre lo stesso , sia che ( 1
) Saggio filos. , lib . I , § 18, ed Elem . di Psicologia , & VIII . ( 2)
Lo stesso è detto negli Elem , di Psicol., 8 VIII in fine. ( 3) Saggio, lib. I
, § 32 ; I , 69. II Galluppi riferisce un notevolissimo passo dell'Emilio di
Rousseau ( lib . IV) sul valore del giudizio ; passo che conferma la parentela
che col fllosofo ginevrino ha quello di Koenigsberg . ( 4) Ivi, 8 34 ; I , 73.
(5) Elem . d'Ideologia , 8 XXIV , ediz . cit ., p. 56 . ragioni, che giudichi, o che percepisca ;
talchè « il soggetto di un giudizio può avere una composizione fisica ed una
unità logica ( 1 ) che gli vien conferita dal pensiero , che appunto sintetizza
nella sua unità il molteplice fisico . Questa unità del pensiero s'addi manda
unità sintetica , la quale se si ravvicina a quella forza analitica e forza
sintetica che s'è accennata , s'intenderà come un'attività distintiva e unitiva
insieme . E un'attività sintetica originaria dell'essere conoscitore appunto è
ammessa dal Gal luppi ( 2 ) . 24. Ora la coscienza di sè coglie adunque l'Io
che sintesizza , uno e semplice, indivisibile. E l'unità sintetica del me,
suppone percið l'unità metafisica del me stesso che « è la semplicità o spi
ritualità del principio pensante. Senza di essa non sarebbe possi bile la
scienza, poichè la scienza suppone la riunione di tutti i pensieri da' quali si
compone ; ed essendo un pensiere distinto dall'altro , come si farebbe l'unione
di questi pensieri senza un centro di unione ? Ove si incontrerebbero i diversi
raggi del sapere ?... L'agente che costruisce, è necessario che abbia tutti i
materiali della costruzione » . « L’io di Newton , ripete qui il Galluppi, che
ritrova il calcolo sublime è lo stesso io che ha ap appreso la numerazione
aritmetica. Senza l'unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità
sintetica del pensiere, e senza l'unità sin tetica del pensiere non sarebbe
possibile alcuna scienza per l'uomo ( 3) . Questa unità sintetica della
coscienza originaria ha una intrin seca parentela , come ognun vede,
coll'appercezione originaria di Kant. Col quale il Galluppi s'accorda nel
ritenere che « l'essenza particolare specifica dello spirito umano > ci è
ignota affatto ( 4 ) . 25. Ma data questa coscienza originaria, che forza
analitica e sintetica insieme , tutte le nostre conoscenze derivano , secondo
il Galluppi , dai sensi ? Nel libro I del suo Saggio filosofico egli , rife
rendosi allo scritto del 1807, scrive : « Io suppongo in tale opu scolo che
tutte le idee universali derivano dal paragone delle particolari ; ma cið non è
vero esattamente, poichè vi sono alcune idee soggettive > (8 40) . La tesi
degli empiristi che non ammettono nella nostra conoscenza se non elementi
oggettivi, è insostenibile . ( 1 ) Elem . d'Ideol., ivi. ( 2 ) Lettora ad A.
Rosmini, Tropea , 23 aprile 1830, nella Sapienza, rivista di filos. e lettere ,
fasc . del 15 marzo 1885, p. 165. Cfr. il mio Rosmini e Gioberti, p. 79. ( 3 )
Elem . d'Ideol., & XXV, pp. 61-2 ; cfr . Saggio, lib . III , SS 50-1 . ( 4)
Saggio, llb. IV , 8 98 , V, 418. ma In
quell'autobiografia intellettuale che è nella quattordicesima delle sue Lettere
filosofiche il Galluppi dice, che il problema della sua filosofia dell'esperienza
fu questo : « Ma lo spirito umano è un agente ; e colla sua azione non potrebbe
forse sviluppare dal suo interno qualche elemento che egli non riceve , ma che
produce ? E questo elemento soggettivo non potrebbe forse esser tale , che
lasciasse intero l'elemento oggettivo , che cooperando collo stesso non recasse
alcun nocumento alla realtà della conoscenza , l'estendesse e la fecondasse ( 1
) ? 26. Infatti, questa rimaneva la più grave difficoltà del Gal luppi contro
l'a priori: che l'a priori con la sua soggettività scalzasse la realtà della
conoscenza, come rimproverava a Kant per le forme dell'intuizione e
dell'intelletto e come rimproverava al Rosmini per la idea dell'Ente
indeterminato ( 2) . Perchè egli non ebbe il giusto concetto delle categorie
kantiane , ritenendole quasi preformazioni dell'intelletto . Del resto , nella
critica che fa delle idee innate , pure avendo combattuto nel primo libro del
Saggio l’in natismo di Leibniz , si può ben dire che ne accetti il principio ne
gli Elementi di ideologia (8 XXIII) . Egli distingue idee accidentali
all'intelletto e idee essenziali. Le une non tutti gli uomini possono
formarsele, perchè non a tutti è dato di avere le sensazioni che sono il
materiale donde l'analisi può ricavare coteste idee . Le altre non mancano a
nessun uomo, perchè derivanti da sensazioni co muni a tutti . Sicchè anche le
idee essenziali dell'intelletto pre suppongono l'esperienza ; e « se per idee
innate si vuole intendere idee , che non sono il prodotto della meditazione
(analisi) su i sentimenti (sensazioni) , tali idee non hanno esistenza » . Ma,
« se per idee innate s'intendono quelle idee , di cui ogni uomo porta
costantemente in se stesso i germi per isvilupparle , e che ogni uomo capace di
meditare pud in qualunque luogo ed in qua lunque tempo acquistare , idee che ho
chiamato idee universali all ' intelletto, l'esistenza di siffatte idee mi
sembra incontrastabile ... Noi conveniamo con Locke, che tutte le nostre idee
hanno la loro origine ne' sentimenti : conveniamo ancora, che tutte le idee
sono acquistate ; ma crediamo di dover fare distinzione fra idee generali , e
di ammettere alcune idee per l'acquisto delle quali ogni uomo porta
costantemente in se stesso i materiali necessari; da questi germi, che sono
nello spirito si sviluppano le idee essen ( 1 ) Op. cit . , p. 343. ( 2) Vedi
il mio Rosmini e Gioberti, p. 79 e sgg. ziali al pensiero umano, e che si
ritrovano in tutte le lingue » . Donde è chiaro che il Galluppi tiene per
innate nel senso leibni ziano , di attitudini, disposizioni, germi, coteste
idee essenziali all'intelletto , quali sarebbero le idee di corpo , spazio,
causa, unità , numero, ecc .; comecchè tutta la sua Ideologia sia una deduzione
di queste e altre simili idee dalle sensazioni. 27. Ma, quali sono queste
sensazioni o sentimenti portati costan temente da ogni uomo in se stesso ? Se
ogni uomo li possiede co stantemente, essi sono necessari , essenziali
costitutivi dello spi rito . Lo spirito è questi stessi sentimenti. E come
potrebbe es sere altrimenti, se tali sentimenti devono servire alla formazione
di idee essenziali all'intelletto ( facoltà conoscitiva in generale) ? Il
Galluppi dice, che essi sono i sentimenti « che in qualunque luogo, ed in
qualunque tempo modificano lo spirito di ogni indi viduo del genere umano » ( 1
) . Dunque, essi sono immanenti real mente allo spirito , nè questo si può
concepire senza di essi . Ora tal carattere nella filosofia del Galluppi
compete solo ai senti menti del me e del non me inscindibilmente legati fra
loro , costi tuenti il gran fatto , il Primo, dal quale deve cominciare la
filosofia . « Questo fatto è universale per tutti gli uomini, per tutti i
luoghi, e per tutti i tempi. Il complesso de ' sentimenti racchiusi in questo
fatto dee dunque riguardarsi come essenziale all'umano intendi mento » ( 2 ) .
Il quale, fornito della forza di analisi e di sintesi , può con la sua azione
feconda sviluppare da questi sentimenti e così produrre tutte le idee che gli
sono essenziali ( 3) . Ma la stessa produzione è essenziale , se i prodotti
sono essenziali ; tal chè lo spirito , partendo dall'indistinta e oscura
coscienza del me e del fuor di me, non raggiunge il grado dell'intelletto , se
non per questa spontanea produzione che fa , mediante l'attività ond'è for nito
, delle idee di sostanza, causa , corpo, spazio , tempo , unità , numero , ecc.
, di cui ha in sé i germi indefettibili. 28. Intorno al valore di questo
virtuale a priori del Galluppi si può esser tratti in inganno da certe sue
espressioni, dalla sua polemica contro l'innatismo, dal bisogno da lui così
spesso e for temente affermato dell'esperienza, che è esperienza sensibile,
come unica sorgente delle conoscenze reali . Ma bisogna attender bene al valore
della sensibilità nella teoria del Galluppi . La sua sen sibilità è coscienza ,
è sentir di sentire , è l'unità ancora indistinta di soggetto ed oggetto, che
egli concepisce come Primo attivo e ( 1 ) Saggio , lib. III , § 49. Ivi. ( 3)
Ivi. produttivo ; di cui vedremo quanto si gioverà a fondare l'ogget tività
del conoscere . Ora , dato questo Primo come coscienza sen sibile , egli non
può ammettere più un intelletto opposto al senso e ricco a priori di
determinazioni dal senso indipendenti. Perchè l'intelletto è uno sviluppo del
senso e le sue determinazioni es senziali non possono non essere contenute
virtualmente nel senso insieme con l'attività che possa dallo stato virtuale
portarle al l'attuale , fecondandone i germi. E questo è , come tutti sanno ora
o dovrebbero sapere, il vero concetto dell'a -priori kantiano , preparato dalle
virtualità innate di Leibniz ; e in que sto concetto il Galluppi evidentemente
sorpassa e si lascia addietro il kantismo volgare, com'egli l'intese e come
tuttavia si vuol sostenere dai neocrịtici , che concepiscono senso e intelletto
in assoluta opposizione , in un dualismo inconciliabile . Questo punto della
filosofia del Galluppi non è stato studiato e apprezzato ancora abbastanza ( 1
) . La idea essenziale del Galluppi corrisponde preci samente all ' acquisitio
originaria , con cui Kant definiva il suo a priori nella famosa lettera
all'Eberhard, come l'idea accidentale all'acquisitio derivativa . Sono idee
acquisite le idee essenziali come tutte le altre idee ; ma esse sono le
acquisizioni originarie che la coscienza fa per la sua propria attività salendo
al grado del l'intelletto . 29. Fermata questa teoria , il Galluppi ha ragione
di scrivere : « Io non ho ammesso idee anteriori a ' sentimenti, in modo che
non gli suppongano neppure come condizione ; ma ho ammesso alcune idee essenziali
all'intendimento , ed ho stabilito questa dottrina sopra solidi fondamenti...
lo nego le idee innate nel senso di idee anteriori ed indipendenti
assolutamente da' senti menti ; io le ammetto nel senso di idee naturali, o
d'idee per l'acquisto delle quali si possiede una disposizione o virtualità
naturale » ( 2) . E poichè così viene a dire il medesimo del Kant bene inteso ,
a me pare che abbia pur ragione di soggiungere : « Io dunque credo di aver
trovato il mezzo di conciliazione fra i due sistemi contrari su la formazione
delle nostre idee » ; come è merito reale di Kant, che naturalmente il Galluppi
non poteva riconoscere , di avere operato siffatta conciliazione del puro em
pirismo e del puro intellettualismo . ( 1 ) Il meglio che se ne sia detto sono
le tre pagine dello SPAVENTA, nella sua mo moria Kant e l'empirismo ( 1880) ,
rist . in Scrilti filosofici, Napoli, Morano, 1900, pp . 81-114. (2) Saggio ,
lib. III , 8 86 ; tom . III , pag. 303. Per fare intendere meglio la propria
dottrina il Galluppi la raffronta a quella del Leibniz. Conviene con l'autore
dei Nuovi saggi sull’intelletto che lo spirito non è tabula rasa ; « che vi
sono molte idee, che lo spirito ricava dal fondo del proprio essere , meditando
(1) sul sentimento di se stesso » ; non solo gli accorda che sono in noi queste
disposizioni e virtualità naturali, ma am mette certe modificazioni passive o
sia i sentimenti, che contengono i materiali o le condizioni di tutte le idee
naturali ( 2) . E, dichia rando meglio la dottrina del Leibniz , ripete che
riconosce con lui esservi « molte idee essenziali all'intendimento , che
l'anima non ha bisogno di ricavare dalle impressioni de ' sensi esterni, ma che
può ricavare dal proprio fondo » ( 3) . Le idee sono innate come attitudini o
virtualità naturali. E questo ritiene anche il Gal luppi. « Ma io non mi
contento di rimanermi in idee vaghe : io determino le mie espressioni. L'anima
nostra ha un'attitudine , una preformazione naturale per alcune idee ; poichè :
1. ° ella ha originariamente ed incessantemente i sentimenti necessari a for
marsi tali idee ; 2. ° questi sentimenti sono i materiali delle idee , o le
condizioni indispensabili per le idee ; 3.0 l'anima ha origi nariamente nella
sua natura le facoltà necessarie per formarsi tali idee ; 4. ° l’anima ha in sé
originariamente la disposizione, che pone in esercizio le facoltà elementari
della meditazione » ( 4 ) . 31. Data questa dottrina, ch'egli ben dice non
potrebbe esser contrastata dalla stessa scuola di Locke , s'intende agevolmente
perchè il Galluppi continui sempre , in tutte le opere sue , a com battere l'a
- priori kantiano , inteso come parte di conoscenza già formata avanti
all'esperienza ; esperienza , che era per lui , come vedremo, la sorgente
dell'oggettività, della realtà del sapere umano . La filosofia è essenzialmente
dommatica, egli ha detto ; e kan tismo per lui significava scetticismo, in
grazia appunto di quel l'a -priori soggettivo, anteriore ad ogni esperienza,
onde reste rebbe inquinata, secondo la teoria di Kant, tutta la conoscenza.
Pure riuscì anch'egli a certe idee soggettive , che ammise come costitutive
della conoscenza , e innocue , benchè soggettive, allá realtà di essa . Quali
sono cotali idee ? 32. Per rispondere a questa domanda bisogna dare un cenno
delle sue teorie dell'analisi e della sintesi . Queste due facoltà non sono
soltanto , come s'è visto , il fondamento di ogni giudizio , ma ( 1 )
Meditazione dice il Galluppi l'analisi e la sintesi insieme. ( 2) Ivi, pp.
305-6 . ( 3) Ivi, p. 309. (4) Ivi, pag . 812. il fondamento anche di ogni idea
universale. Giacchè ogni idea universale nasce dalla sintesi degli elementi
comuni che l'analisi discopre in più percezioni simili. L'analisi e la sintesi
sono quindi le forze produttive di tutto il conoscere. L'analisi precede ;
segue la sintesi . L'una si presenta sotto quattro forme : come atten zione
propriamente detta , quando lo spirito si ferma a considerare un solo degli
oggetti fornitigli dal senso , escludendo tutti gli al tri ; come attenzione
parziale, quando lo spirito contempla soltanto una parte dell'intero oggetto ,
che gli si rappresenta ; come astra zione modale , quando lo spirito separa il
modo dal soggetto cui inerisce ; e come astrazione del soggetto, nel caso
inverso (1), 33. La sintesi è di tre specie : sintesi reale, quando lo spirito
unisce ciò che gli vien dato congiunto dalla esperienza, cioè la relazione tra
il soggetto e le sue modificazioni, o quella tra causa ed effetto ( epperò v'ha
propriamente due specie di sintesi reale) ; sintesi ideale oggettiva, quando
scopre relazioni logiche tra oggetti reali ; sintesi ideale soggettiva , quando
scopre , come avviene nelle matematiche pure, relazioni logiche tra idee nostre
, non imme diatamente forniteci dall'esperienza ( 2) ; cioè le relazioni tra le
idee generali . 34. La siņtesi non può riunire se non per rapporti , le cui no
zioni devono essere possedute dallo spirito , a mo' di categorie . E alle
quattro maniere di sintesi corrispondono quattro nozioni di rapporti , le
quali, per ciò che s'è osservato, dovrebbero essere di lor natura tutte
soggettive : e sono le nozioni di sostanza , causa , identità e differenza ;
idee essenziali all'intelletto umano, « sem plici vedute dello spirito , le
quali derivano dalla sua facoltà di sintesi » (3) . 35. Rapporto, come aveva
notato il Laromiguière nelle sue Le zioni di filosofia, è l'atto della
comparazione o l'idea che risulta da questo atto . « Ora se la comparazione ,
dice il Galluppi, è una sintesi , e se il risultamento di questa sintesi è
un'idea che non ( 1 ) Elementi di psicologia , $ 25 ; Saggio , lib. II , capo ,
$ 139 . ( 2) Saggio , lib. II , cap . XI, $ 147. Il Galluppi distingue ancora
la sintesi immagi nativa come « la facoltà di riuscire in una percezione
complessa , alla quale non corrisponda alcun oggetto naturalo, diverse
percezioni di cui ciascuna ha un oggette naturale fuori dell'attuale
combinazione ( Saggio , ivi, $ 148, e Psicologia , $ 35) . Ma s'intende cho
questa sintesi non ha valore teorico o conoscitivo, ma solo pratico od estetico
. ( 3 ) Saggio, lib. III , § 46. Alcune dello idee semplici, dice ivi più sotto
, « sorgono dall'attività sintetica e queste sono i rapporti risulta da
un'impressione, e che non ha percið un oggetto reale al di fuori, segue che vi
sono idee semplici, le quali sono sola mente soggettive ed un prodotto della
sintesi » ( 1 ) . Suppongono le sensazioni, ma sono prodotti semplici
dell'attività sintetica dell'in telligenza. Infatti seguono, come ogni idea di
rapporto , al para gone , che è un'azione dello spirito . « Pel paragone non
basta che si abbiano nello spirito insieme due percezioni : è necessaria l'a
zione che riferisce l'una all'altra » ( 2 ) . Parrebbe adunque, che le idee dei
rapporti, queste vedute dello spirito , o modi della sua attività sintetica,
non differissero punto dalle categorie kantiane . Ma l'autore afferma
recisamente il contrario . Non vuole aver nulla di comune con Kant; vuol
fondare una vera filosofia dell'esperienza , e afferma come una delle esigenze
ineluttabili della filosofia , che la connessione fra le esistenze , per cui è
possibile la scienza , non deve essere una creazione dello spirito , bensì un
dato dell'esperien za ( 3 ) ; cioè del senso , che per lui , come vedremo, è
norma dell'og gettività del conoscere . Insomma, nota un suo critico , gli
elementi soggettivi ammessi dal Galluppi son sempre determinati da qualche cosa
di reale che si trova negli oggetti ; e Kant percið è scettico , Galluppi no (
4 ) . 36. Ed in verità esso, il Galluppi, scrive che la stessa connes sione deve
essere un dato dell'esperienza , quando si tratta di og getti esistenti che dan
luogo alla sintesi reale : e che questa sin tesi « riunisce gli elementi reali
di un oggetto reale ; e li riunisce perchè li trova realmente riuniti. Così,
dicendo : Io son sensitivo, riunisco al me le sensazioni : ora tanto l'io che
le sensazioni son cose reali , e realmente le sensazioni son cose reali, c
realmente le sensazioni sono unite al me. Quest'unione non è dunque l'opera del
mio spirito : io non posso fare altro che conoscerla distinta mente . Questa
sintesi copia dunque, dirò così , la realtà delle cose, ed è per cid che io la
chiamo sintesi reale » ( 5) . 37. Or dunque, queste idee di rapporti sono o non
sono un pro dotto dell'attività sintetica del soggetto ? Qui , s'è detto ,
havvi una flagrante contraddizione. Sentire un rapporto, secondo il Galluppi è
un espressione assurda ; e la connessione delle esistenze , che è un rapporto
necessario , non si potrebbe sentire ; eppure si deve . « Se fosse creata da
noi cotestà connessione , scrive il Fioren ( 1 ) Saggio, lib. III , § 47. ( 2)
Saggio , lib. II , 8 147. ( 3) Saggio, lib. II , & 74. ( 4) LASTRUCCI, Op.
cit . , p. 213. ( 5) Saggio , lib . II , § 146 ; cfr . Psicologia , & XXXI. tino (1), la realtà della scienza sfumerebbe
; e Galluppi , impaurito delle conseguenze, contraddice ai suoi principii . Il
nesso tra il me, sostanza , e le sue sensazioni , tra la sensazione e la causa
esterna, cotesto doppio rapporto è sentito . Ei non osa dire sen tito , e dice
: è dato » . La questione è importante e merita ogni più seria considerazione .
38. Prima di tutto bisogna distinguere , come fa il Galluppi , le due nozioni
di causa e di sostanza , da quelle di identità e diver sità. Le une sono un
prodotto della sintesi reale , le altre della ideale ; le une sono dei veri
rapporti reali , le altre semplici rap porti logici . Ora questi rapporti
logici sono veramente creati dallo spirito , nascono per l'attività di questo ,
sono idee dello spirito e nulla fuori di queste idee ( 2) . Di esse l’autore
dice che « lo spi rito non riceve dal di fuori questi elementi semplici ed
essenziali delle sue conoscenze , ma li ricava dal proprio essere » ( 3) , cioè
li produce . Esse corrispondono appuntino alle categorie kantiane . Nè vale opporre
, come altri ha fatto ( 4) , che anche questi rapporti presuppongono
l'esperienza, e ricevono da questa i termini , fra cui intercedono . I termini
fuori del rapporto , ho detto altrove, cioè prima del rapporto , sono termini
del rapporto ? E si badi che dell'esperienza il Galluppi ha un concetto tutto
kantiano, perchè essa consiste , secondo lui , « nel giudizio , il quale vede
un rap porto fra i nostri sentimenti » ( 5) . 39. Il solo errore del criticismo
, che ha de ' semi preziosi di verità, consiste nell’aver troppo generalizzato
riguardando « tutti i modi di connessione fra le nostre percezioni come
soggettivi » , negando la sintesi reale, confondendo l'esperienza primitiva,
cui la sintesi reale dà luogo, con l'esperienza secondaria , scientifica e
comparata , che è produzione soggettiva della sintesi ideale . Dunque, a
confessione del Galluppi stesso ( 6) , egli è schietta mente kantiano nella
teoria della sintesi ideale , come attività sin tetica generatrice delle due
idee di rapporto , identità e diversità , all'occasione delle sensazioni , che
ne sono condizione indispen sabile . ( 1 ) La filos. contemp. in Italia, Napoli
, Morano , 1876, p . 195. ( 2) Psicologia, 8 32. ( 3) Saggio, libro III , § 77.
( 4) LASTRUCCI, p. 213. Il GALLUPPI ( lib. III , $ 77 del Saggio) non parla di
esperienza , ma di sensazioni, supposte cronologicamente como a condizione
indispensabile » delle idee d'identità e diversità . (5) Saggio , III, 76. ( 6)
Vedi anche Lettere filosof ., XIV , p. 347.
Soggettive pur sono le idee di causa e di sostanza . Ma il Galluppi
distingue fra soggettivo e soggettivo . V'ha, egli dice , il soggettivo
rispetto all'origine, e v’ha il soggettivo rispetto al valore ; e altrettanto
dicasi dell'oggettivo. Altra è la questione dell'origine delle conoscenze ,
altra è la questione della realtà loro . « Io dichiaro , scrive l'autore , che
per oggettivo in tendo ciò che nelle nostre cognizioni deriva dagli oggetti che
si conoscono, e per soggettivo ciò che nelle stesse deriva dal soggetto conoscitore
. Questi due vocaboli si prendono ancora in un altro senso, quando si parla
della realtà delle nostre conoscenze : l'og gettivo dinota allora
quell'elemento della nostra conoscenza , a cui corisponde una realtà in sè , ed
il soggettivo dinota ciò a cui non corrisponde nessuna realtà » ( 1 ) . Dunque
le idee di causa di sostanza sono soggettive per l'origine, ed oggettive
rispetto alla realtà, epperò si dicono relazioni reali , laddove, quelle di
identità e di diversità sono soggettive , e per l'origine e pel valore , e son
dette perciò semplici relazioni logiche . E però resta fermo, che anche le idee
di sostanza e di causa siano un prodotto dell'attività sin . tetica
dell'intelligenza, perchè da essa derivano ; il senso è inca pace di darcele .
Se non che esse, invece di avere un semplice valore logico , hanno una
corrispondenza nella realtà , pel nesso, che è tra la sostanza e i modi, tra la
causa e l'effetto . 41. Ma il Galluppi dice che il rapporto della sintesi reale
( sia di causa , sia di sostanza ) è dato dall'esperienza . Si , ma devesi
inten dere, dato rispetto alla realtà oggettiva di cotesto rapporto. Dato in
quel luogo del Galluppi , che pur bisogna metter di accordo con tutta la sua
dottrina, vale solo oggettivo (rispetto al valore). 42. La difficoltà vera è la
seguente : come ciò che è soggettivo rispetto all'origine , può essere
oggettivo rispetto al valore ? Que sto è lo scoglio della filosofia della
esperienza propugnata dal Gal luppi ; ma è pur uopo notare i grandi sforzi
fatti da lui per evi tarlo. S'egli si fosse sempre ricordato dell'osservazione,
dianzi ac cennata , relativa alla comune definizione delle idee : che cioè non
bisogna separare ed opporre oggetto a soggetto, ove non si vo glia incorrere
nello scetticismo , non avrebbe avvertita nessuna dif ficoltà in questa
questione della sintesi , circa la soggettività della sua origine e
l'oggettività del valore. Egli non avrebbe concepito un'oggettività distinta
dalla soggettività. ( 1 ) Saggio, lib . III , $ 46 ; tom . III , p. 159-60 .
43. Di quell'osservazione fondamentale si ricorda certamente nella sua teoria
dell'oggettività di tutte le sensazioni, quando af ferma che la sensazione è la
intuizione dell'oggetto , e sog giunge : « Per non far nascere equivoco in una
materia molto importante, io chiamo intuizione la percezione immediata dell'og
getto , in modo che l'esistenza della percezione supponga neces sariamente
quella dell'oggetto . Se ogni sensazione è di sua na tura la percezione di un
oggetto esterno al principio sensitivo ( 1 ) , se quest'oggetto non è
rappresentato dalla sensazione, esso è dunque reale, come è reale la
sensazione. La realtà dunque del l'oggetto sentito mi è data dall'atto della
coscienza ; il quale mi . dà la realtà della sensazione : ecco dunque la realtà
esterna fra le verità primitive di fatto ; ecco risoluto uno dei problemi fon
damentali nella critica della conoscenza » ( Saggio, lib . II , § 71 ) . In
tutta la teoria dell'oggettività del conoscere si può dire adun que, che il
Galluppi confermi ciò che aveva detto fin dal primo capitolo del suo Saggio
circa la coscienza, o conoscenza prima , conoscenza del me e dei suoi modi ;
coscienza fatta consistere appunto in un'intuizione immediata, tale che « fra
questa perce zione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo » . Pare
che per tutta la sfera della conoscenza immediata ei sia disposto a chiedere,
come aveva chiesto infatti a proposito della comune definizione delle idee in
generale: « Se gli oggetti, se la regione dell'esistenza son separati dallo
spirito , chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza ,
all'oggetto ? » - Argomento insolubile, com'egli dice , ai filosofi dommatici.
44. Senso ed oggetto , sia che si tratti di senso intimo o di senso esterno ,
non si possono scompagnare. Il senso è la misura adeguata e sicura della
realtà, comecchè il dato del senso debba poi venire elaborato dalla forza
analitica e sintetica dello spirito onde si perviene alle idee e a'giudizi. Il
senso costituisce , per le idee e i giudizi cui dà luogo, l'esperienza
primitiva o imme ( 1 ) Il Galluppi non ammette l'incosciente : « La scuola di
Leibniz ammotte delle percezioni di cui non si ha coscienza : alcuni Allosofi
adottano questa opinione ; ma molti altri, co' quali io son d'accordo, non
ammettono alcuna percezione, di cui non si abbia coscienza ... Non si può
percepiro alcun oggetto come un fuor di me, senza perco pire il me, poichè la
percezione di un di fuori è ossenzialmente la porcezione di più oggetti ; se
non vi ha due oggetti , non vi è un di fuori. Se la percezione di un ſuor di me
non è possibile senza quella del me, segue che non possono esservi nello
spirito delle percezioni senza osser sentite ) . Elem . di psicologia , 8 XVII.
16 diata ( 1 ) ; immediata rispetto
all'oggetto , in cui s'appunta imme diatamente nella intuizione.
Dall'esperienza primitiva va distinta poi la comparata, o derivata o secondaria
, la quale consta dei giu dizi d'identità o diversità che noi portiamo sulle
idee offerteci dalla primitiva esperienza : giudizi d'un valore puramente
logico e soggettivo . I giudizi della esperienza immediata hanno per og getto
gl'individui . Questa acqua ha la qualità di estinguer la sete . Questo
calorico liquefà la neve vicina . Sono giudizi particolari, che non si possono
generalizzare, nè possono costituire l'esperienza secondaria , fondamento delle
scienze , se con le impressioni sensibili , coi dati oggettivi non si combinano
quegli elementi soggettivi , che sono le due vedute dell'identità e diversità .
Per dire la propo sizione generale : l'acqua estingue le sete , - io devo, in
seguito alle successive esperienze delle varie acque che m'hanno estinto la
sete , comprendere sotto una nozione generale tutte queste acque , e le azioni
loro di estinguer la sete ; il che significa che lo spirito dee vedere un
rapporto d'identità fra questi soggetti particolari e fra le loro particolari
qualità ( 2) ; rapporto d'identità che il senso non mi può fornire ; perchè
esso non mi dà che successivamente le singole acque. 45. Della scienza si potrà
dire giustamente che è una costru zione soggettiva per mezzo dei materiali
offerti dalla esperienza primitiva. Il Galluppi, in verità , non può attribuire
altro valore che questo , che è il kantiano , alla scienza. Se la conoscenza
vera della natura ci vien fornita dalla scienza , anch'egli deve dire.col Kant,
che lo spirito , legando gli sparsi caratteri datigli dal senso , costruisce il
gran libro dalla natura . Eppure.egli ritiuta ( Saggio , III , S 83) una tal
soluzione. « La distinzione delle due esperienze, egli dice , è della più alta
importanza, per determi nare il valore delle nostre conoscenze » ( $ 78) . È
della più alta importanza, perchè se i rapporti di sintesi ideale
nell'esperienza derivata sono soggettivi , quelli di sintesi reale nell'altra
espe rienza sono essenzialmente oggettivi; in questa esperienza (pri mitiva )
l'esistenze son date allo spirito : egli ne è spettatore , e non il conoscitore
: una connessione fra l'esistenze gli è anche data : egli dee conoscerla , non
ispiegarla o comprenderla » (S 83) . Ma questa distinzione non tocca punto la
soggettività della scienza , in quanto prodotto della sintesi ideale ; anzi la
conferma. Il Gal ( 1 ) Saggio , lib. III , $ 78, tom . III , p. 275 . ( 2)
Soggio, loc . cit. luppi nella epistemologia è un kantiano puro. Checchè egli
ne dica , tale è la sua dottrina. 46. Ed ecco la stridente contraddizione cui
lo condusse il suo voluto sperimentalismo. La scienza , la parte più certa
della cono scenza, è soggettiva ; e la conoscenza sensibile è di sua natura
oggettiva ; che , per lui , è come dire che la scienza è rosa dal tarlo dello
scetticismo , laddove l'esperienza sensibile è certa e reale . Le conoscenze
necessarie ed universali , che sono il pernio di ogni specie di conoscenze,
hanno un valore puramente logico, e le conoscenze contingenti e particolari
sono reali . Il che avrebbe dovuto condurre il Galluppi al più schietto
nominalismo ; perchè se le nostre conoscenze veramente oggettive , sono quelle
dateci dai giudizi particolari dell'esperienza immediata, sfuma la realtà
dell'universale . E un realista il Galluppi certamente non Egli combatte
tuttavia l'empirismo nominalistico di taluni seguaci del Locke, come
l'Helvetius , i quali negano le idee universali , asse rendo che quelle, che
tali appariscono , non sono se non termini generali , vocaboli vôti di senso .
« Perchè , dice il Galluppi , al ve dere un uomo che non abbiamo giammai veduto
, noi diciamo è un uomo ? Se non avessimo un'idea universale di questa specie,
come vi rapporteremmo quest'individuo ? L'esistenza delle idee universali nello
spirito è talmente attestato dalla intima coscienza , che si dura fatica a
supporre che vi sia stato chi l'abbia contra stata » ( Saggio, $ 27 , lib . I )
. Nè anche il Locke , secondo il Gal luppi ( 1 ) , nega le idee universali ; e
come Locke egli è concettua lista . Siamo sempre lì : la cognizione universale
, scientifica ha sì un valore , ma un valore logico . 47. E al Rosmini , che
gli dichiarava in una sua lettera di non vedere « come dal soggetto possa
venire l'universalità e la neces sità delle cognizioni . Il soggetto è essere
particolare e contingente, e non può produrre un effetto maggiore di sè » ;
egli rispondeva, che la necessità che ha luogo nelle cognizioni, è una semplice
« legge logica del pensiero umano » , da non confondersi con la ne cessità
metafisica; legge logica espressa dal principio di contrad dizione , e , come
ogni altra modificazione dell'anima nostra , me ramente soggettiva . E aveva un
bel ribattere il Rosmini , che la necessità logica e la necessità metafisica
non sono in fondo che una sola necessità ( in questo punto è tutta la novità,
non pic ( 1 ) Cita il lib. III , cap. 3. ° del Saggio , dove il Locke spiega la
gonesi delle idee universali . cola , –
del Rosmini verso il Galluppi) : « Io non suppongo mica, replicava il Galluppi,
che vi sia una necessità metafisica distinta dalla necessità logica ; ma
solamente combatto quei filosofi che riguardano quella necessità, che è
meramente logica , come una necessità metafisica , che trasformano la prima
nella seconda..... L'origine di tal necessità ( logica ) mi sembra già
determinata ; essa è nella natura del soggetto ..... noi non dobbiamo cercarne
la causa efficiente, ma arrestarci alla causa formale di tal neces sità » ( 1 )
. La sua scienza , perciò abbiamo detto altra volta , come quella di Kant, s'è
chiusa nella cerchia invalicabile del fe nomeno ; sicchè egli riesce , per la
scienza, a quel criticismo che voleva correggere . 48. Gli sarebbe bastato
estendere la - sua teoria della sensibi lità o meglio dell'esperienza primitiva
alla esperienza secondaria . Non l'ha fatto , perchè gli premeva salvare la
realtà del mondo esterno ; e così s'è messo in disaccordo con se stesso ,
accoppiando al criticismo puro dell'epistemologia il più crudo dommatismo nella
gnoseologia. I due elementi in lui non si fondono, e un'in tima contraddizione
travaglia tutta la sua filosofia. 49. Infatti ammessa giustamente come
soggettiva l'origine della nozione che abbiamo della connessione reale delle
cose ( come sostanza o come causa , sussistenza, egli dice per lo più, ed effi
cienza ), il valore oggettivo delle medesime non può essere e non è infatti nel
Galluppi, che una semplice affermazione dommatica. La percezione del me è la
percezione di un soggetto con le sue modificazioni. Sicchè, egli dice , nella
coscienza del me , – che è il principio della nostra filosofia , è data « 1. °
la connessione fra la percezione e l'oggetto ; 2.º fra il soggetto e la
modificazione ; 3." fra la causa e l'effetto , il che vale quanto dire ,
che in questo fatto primitivo ci è data la base della filosofia , e la realtà
delle nostre conoscenze » ( 2 ) . Su per giù , è sempre questa la dimostra
zione data dal Galluppi della realtà delle connessioni tra sostanza e modi, tra
causa ed effetto. Le connessioni sono reali, perchè il me, termine reale della
coscienza è soggetto (sostanza ) di modifi cazioni, e queste modificazioni a
lor volta sono effetto dell'azione del mondo esterno . Ma i termini noi
possiamo percepire, non i rapporti: e i termini in quanto connessi nel loro
rapporto non pos siamo percepirli , se non applicando ad essi quelle nozioni di
rap ( 1 ) Rosmini e Gioberti, pp. 77-80 . ( 2 ) Saggio , lib . II , 8 74 ; tom
. II , p . 161-2. porto , onde già dobbiamo essere forniti. Chi ci garantisce
che i rapporti, che con queste nostre vedute, di origine soggettiva , noi
scorgiamo tra i termini percepiti , abbiano un fondamento ogget tivo ? Chi ci
costruisce questa volta il famoso ponte di passaggio dal soggetto all'oggetto ?
Chi ci sottrae a quell'argomento inso lubile ? Il dommatismo è evidente . 50.
C'è un passo, nel terzo libro ( 1 ) del Saggio, contro la sin tesi a priori di
Kant , che merita qui speciale considerazione. « Il filosofo di cui parliamo, –
scrive il Galluppi, ha confuso l'operazione sintetica co'suoi prodotti, che
sono le percezioni del rapporto fra le idee paragonate. Allora che lo spirito
rapporta un termine della relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la
quale è il principio efficiente che pone un termine rapportato. Lo spi rito nel
termine rapportato vede un rapporto, ed esegue con ciò un'analisi , indi unisce
questo rapporto , che aveva separato dal termine rapportato allo stesso
termine, e compie il giudizio. Lo spirito , prima della comparazione, non aveva
che il termine della relazione : dopo la comparazione ha un termine rapportato
: l’atti vità sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel termine della
relazione , il rapporto , e questo rapporto è un elemento sogget tivo aggiunto
all'oggettivo » . - Quale che sia il valore di questa osservazione contro il
giudizio sintetico a priori ( io non credo che ne abbia alcuno ; chè il
giudizio è già avvenuto con quella prima operazione dell'attività sintetica ,
che consiste nel rapportare i termini), certo è notevole e giusto il concetto
del soggettivismo dei rapporti accennato qui dall'autore ; ma vi apparisce pure
evidente falso concetto che ei s'è formato dell'oggetto . Ter mine e termine
rapportato son cose differentissime; il primo è un dato , il secondo è il
prodotto di quel principio efficiente, che è la sintesi . Ma il termine è
termine in quanto è termine rapportato ; sicchè il termine si può dire che
venga posto , rità , dall'attività sintetica dello spirito . E questa è la
dottrina di Kant. Ma se il Galluppi ne avesse piena consapevolezza , non do
vrebbe dire , che lo spirito PRIMA della comparazione non aveva che il termine
della relazione. No , non aveva niente : non c'è prima il termine , l'elemento
oggettivo, a cui dopo venga ad ag giungersi l'elemento soggettivo, il rapporto
: termine e rapporto nascono ad un parto, nè lo spirito può percepire il
termine della relazione , senza il rapporto , nè questo rapporto è nulla di con
( 1 ) $ 81 ; tom. III , pag. 283. creto
fuori dei termini ai quali viene applicato . Questo prima e questo dopo, di cui
parla il Galluppi, accusano quella separazione di oggetto e soggetto, quella
opposizione da lui già criticata come punto di partenza donde non sia dato
arrivare a una conoscenza certa . 51. Sicché , anche per le nozioni di identità
e diversità ( alle quali , s'intende , egli si riferisce nel passo ora citato)
il Galluppi si di batte nelle strette della soggettività , come qualcosa di
differente e assolutamente opposta a quella oggettività , che s'era proposto di
fondare contro il criticismo kantiano. Ma le sue velleità empi ristiche rompono
sempre in quel principio fondamentale della co scienza di sè , preso dalla
filosofia di Cartesio, onde si nutrì , come abbiamo notato , la mente di lui
nel suo primo periodo speculativo . E la conclusione del Saggio filosofico è
che tutti i motivi dei no stri giudizii (senso intimo, sensi esterni, evidenza,
memoria, razio cinio e testimonianza degli altri uomini) « hanno per motivo me
diato ed ultimo il senso intimo » : e quindi « tutta la scienza dell'uomo
riposa su la base unica della coscienza di se stesso, e chiunque tenta di
toglier questa base è indegno, che si ragioni con lui ; poichè non si ragiona
col nulla » ( 1 ) . E così nella chiusa delle Lettere filosofiche: « Io ho
poggiato – dichiara l'autore su la veracità della coscienza la veracità di
tutti gli altri nostri mezzi di conoscere ... ; non si può supporre la veracità
di alcun mezzo di conoscere senza supporre la veracità della coscienza, e supponendo
la veracità della coscienza , la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di
conoscere segue necessariamente . Così , secondo me, l'aliquid inconcussum è
nella coscienza, ed essa è la base di tutto il sapere umano » ( 2) . 52. Ma se
si ricordasse sempre, che principio e aliquid incon cussum è la coscienza, il
Galluppi non dovrebbe parlare mai di quella oggettività indipendente dal
soggetto , alla quale vuol ripor tare le relazioni di sostanza e di causalità ;
e in verità non riesce a scoprirne che una origine soggettiva e a darne una
giustifi cazione, come s'è visto , fondata unicamente sul sentimento del me. Si
potrebbe dire , che egli parla di un oggetto soggettivo for nitoci dalla
sensazione, che da lui è detta di sua natura oggettiva . Egli , infatti,
rigetta la distinzione di qualità primarie e secondarie, come arbitraria e
falsa , e sostiene che tutte le nostre sensazioni ( 1 ) Saygio, lib . IV, § 3 ;
tom . V , p. 58 . ( 2) Ediz . cit. , p. 348 .
soggettive , nè più nè meno di quel senso del tatto , in cui Con dillac
indicava il filo d'Arianna col quale si potesse uscire dal labirinto della
soggettività, « convengono in ciò , che tutte sono le percezioni di un soggetto
esterno ; son differenti, poichè sono i modi diversi di percepir questo
soggetto : questi modi diversi di percepirlo costituiscono per noi le diverse
qualità degli oggetti esterni , le quali sono perciò i diversi rapporti di
questi oggetti con noi » ( 1 ) ; e che, « qualunque ipotesi si adotti su la
natura de ' corpi , è incontrastabile che il mondo dei corpi non esiste nel
modo in cui ci apparisce ; e che noi non conosciamo dei corpi se non le qualità
relative » , talchè il pensiero bensì è una realtà in sè ( 2) , « ma
l'estensione non è almeno certo se sia una realtà o un fenomeno » ( 3 ) e
addirittura « la conoscenza che noi abbiamo de ' corpi è meramente fenomenica
> ( 4 ) . E però il Galluppi non può parlare se non di un oggetto soggettivo
, di un oggetto termine essenziale del soggetto . 53. Ma allora perchè
contrapporre oggetto a soggetto , e sin tesi reale a sintesi ideale ? Siamo
sempre nella sfera del soggetto, e l'attività sintetica dello spirito darà
luogo sempre a una sin tesi ideale . Dov'è il punto di separazione tra la res e
l'idea ? Non rampollano entrambe dalla coscienza di se ? 54. Per metter
d'accordo Galluppi con se stesso dovremmo dire , che quello che ei dice sintesi
reale e sintesi ideale non siano se non due gradi della sintesi soggettiva,
qualche cosa di simile della sintesi di primo e di secondo grado, che lo Spa venta
e il Tocco han rilevate in Kant. Vale a dire , bisognerebbe anche la sintesi
reale ritenere pura operazione soggettiva; ma non tanto soggettiva quanto la
ideale, perchè l'una si esercita su una relazione che la coscienza , questo
ultimo motivo , questa. norma suprema della verità , attribuisce al mondo
esterno, lad dove l'altra non ragguaglia che termini aventi un valore logico .
La sintesi reale coglie, diciamo così , i rapporti degli individui , in cui ,
secondo il Galluppi, consiste la realtà ; la sintesi ideale co glie , invece ,
i rapporti che intercedono tra le idee generali, già formate per la forza
analitica e sintetica dello spirito . Di modo che la materia della sintesi
reale è oggettiva, nel senso che di ( 1 ) Elem , di Psicologia , S XVII , pp.
27-28 . ( 2) Non vi ha fenomeni nel santuario del mio essero , dice il
GALLUPPI, Saggio, lib . IV , § 4 ; tom . V, p. 63. ( 3) Iri. ( 4) Saggio , lib.
IV , S 100 ; tom . V, p. 420. cemmo poter avere pel Galluppi l'oggetto ; e la
materia della ideale è una pura formazione soggettiva. E se la coscienza ha da
es sere sempre la fonte della verità , se noi non possiamo parlare di altra
verità , se non di quella che tale apparisce alla coscienza , i rapporti che si
scoprono dall'attività sintetica nella materia og gettiva saranno rapporti
reali, e si potrà pur dire che siano og gettivi pel valore ( poichè il valore è
attestato dalla coscienza) ; e i rapporti che dalla stessa attività sintetica
si scoprono nella materia soggettiva, non possono avere più che un valore
logico , perchè sono rapporti di concetti, ci concetti nel concettualismo del
Galluppi non sono reali . Alla coscienza i rapporti appariscono tali quali
appariscono i termini che essi connettono ; fra termini oggettivi , rapporti
reali; fra termini astratti e soggettivi , rap porti ideali . I termini infatti
non possono essere percepiti per quel che sono, se non coi loro rapporti, coi
quali e pei quali vengono ad essere quei dati termini. 55. Ma allora non
bisogna separare la facoltà dell'analisi e della sintesi da quella della
sensibilità ( o coscienza ), come fa il Galluppi ; perchè la sensibilità come
tale non potrà mai percepire un rapporto , come bene ha avvertito il Galluppi
stesso . Allora bisogna andare molto più addentro , che questi non sia andato ,
nel concetto dell'unità del me. 56. Certo è che il Galluppi, mosso a scrivere
il suo Saggio, che è la sua opera capitale , dal bisogno di assodare la realtà
del cono scere contro la Critica di Kant , non riesce a distrigarsi dal sog
gettivismo nella epistemologia ; e nella gnoseologia vi riesce solo
contrapponendo al criticismo kantiano un oggetto , che non è tale se non per un
dommatismo preso dalla coscienza volgare , e che non può non metter capo nella
tesi scettica del criticismo, appena venga innanzi alla riflessione scientifica
( 1 ) . La sua stessa critica perpetua al Kant, e quell'oscillare continuo tra
le lodi più sincere e il biasimo più acerbo del criticismo, dimostrano
l'acutezza del suo spirito, che intende la gravità del problema sol ( 1 ) Il
Rosmini il 3 giugno 1840 scriveva al p. Giacomo Maso & Roma : « Pare a lei
che la filosofia del prof. Galluppi sia veramente sana ? Noti bene, non metto
in dubbio le intenzioni dell'ottimo calabrese, a cui professo sincera stima ;
parlo solo della sua filo sofia ; di questa dubito , o piuttosto non dubito ;
perocchè agli occhi miei ella si volge in circolo perpetuo dentro al soggetto
-uomo, e nel soggetto -uomo non vi ha nulla d’immu tabilo : manca il punto
fermo a cui appoggiare la leva » . Vedi La Sapienza del 1883, vol. VIII , p.
402. levato dal Kant , e insieme la sua
impotenza ad uscire da quel cer chio sconfortante segnato dal filosofo di
Koenigsberg attorno allo spirito umano ; l'impotenza in cui rimase per non
essere salito al concetto adeguato di quella coscienza, che è il Primo della
sua costruzione filosofica . E dopo quattro libri di discussioni, di polemiche
contro quei filosofi, trascendentali, che non si sa « se siano filosofi che
ragionano , oppure frenetici che delirano » ( 1 ) , il Saggio filosofico
finisce anch'esso nella tristezza del mistero : « La scienza umana è limitata .
Essa può successivamente perfezionarsi. Ma essa non può oltrepassare certi
limiti » . Non fu più reciso l'ignorabimus del Du Bois Reymond ( 2) . 57. E il
primo limite dello spirito umano , secondo il Galluppi, è questo : « noi
abbiamo una nozione generale della sostanza , ma noi non conosciamo affatto la
natura , o come suol dirsi , l'es senza di ciascuna sostanza in particolare ( 3
) . E fin qui ha ragione Kant. Secondo limite : « ignorando le prime sostanze,
ignorar dobbiamo il come le cause efficienti producono i loro effetti ; e
l'efficienza è per noi un mistero » . Dunque nè anche nel ritener soggettivo il
rapporto di causalità aveva poi un gran torto Kant! ( - ) . Ma « tutto quello ,
che è incomprensibile, non è mica assurdo » , avverte il Galluppi ; e questo
basta a salvare la crea zione. Terzo limite : « noi ignoriamo affatto le
qualità assolute de ' primi componenti de'corpi ; noi conosciamo alcune qualità
rela tive di alcuni aggregati delle prime sostanze della materia ... I corpi
non sono tali quali a noi si manifestano » ( $ 100 ). E que sto , in verità, è
un po ' più di quel che sostiene Kant : pel quale, se il noumeno va distinto
dal fenomeno, appunto perchè ignoto , non si può dire che differisca dal
fenomeno stesso . Differirà ? Non differirà ? Se a queste domande si desse una
risposta, non si avrebbe più un noumeno . Qui , dunque, Galluppi è più kantiano
di Kant. Quarto limite : la conoscenza importa successione, processo , passare
da un principio a ciò che ne procede : ma Dio è ne ( 1 ) Passo del Saggio che
il prof. CREDARO raccomanda « a coloro che fanno del Gal luppi un kantiano » ;
ni kantismo in G. D. Romagnosi, in Riv. ital. di filos . del 1887, vol . II ,
p. 59, n. 2. ( 2) Vedi il celebre opuscolo Ueber d. Grenzen d .
Naturerkenntniss, Lipsia , 1872 ; e LANGE, Gesch . d . Materialismus, 3."
ediz ., Iserlohn , 1876 , pp . 148 sogg. ( 3 ) Saggio , lib . IV , cap. X ed
ultimo, & 98 ; tom . V, p . 418. ( 4) Saggio , ivi, $ 99. 250 lui > gazione assoluta di ogni successione
: « in questo essere infinito non vi è alcuna cosa che precede l'altra ; perciò
la sua natura ci è perfettamente inesplicabile ed incomprensibile. I metafisici
intanto non si credono tutti incapaci di comprendere la natura Divina > ; ma
uno di essi , e de' più moderati, il Genovesi , avendo tentato, per esempio ,
di concepire in che modo questo mondo fosse architettato da Dio , non è
riuscito che a una spiegazione contraddit toria . « Il volere spiegare l'atto
creatore intelligente è una con traddizione ; poichè è un supporre qualche cosa
antecedente a (come il Genovesi era costretto a porre in Dio prima l'essere e
poi il conoscere , prima il conoscere e poi il volere o l'ope rare) . Questo è
incomprensibile, e lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua
gloria Proposizioni che non hanno forse il rigore scientifico della Dialettica
trascendentale, ma che riescono , mi pare , al medesimo risultato . Che più ?
Kant riconosce come tutti i filosofi moderni il grande valore delle
matematiche; ma anche in esse il Galluppi trova dei limiti. Noi conosciamo
esattamente, egli dice , le relazioni logiche tra le nostre idee astratte ; e
ne son prova l'aritmetica e la geo metria . « Ma noi non conosciamo tutte
queste relazioni, perchè il loro numero è inesauribile; e la conoscenza di
queste relazioni non si estende quanto le nostre idee » « La nostra scienza è
percið molto limitata sotto tutti i riguardi » ( 1 ) egli conclude : ed è la
conclusione del Saggio intero , vale a dire della sua filosofia sperimentale .
58. Questo mi pare criticismo schietto , sufficiente di certo a fare ascrivere
il Galluppi alla direzione kantiana , pur con tutte le sue più o meno
ragionevoli invettive contro il soggettivismo del Kant ; se anche Alfonso Testa
, che altri disse « l'unico kantiano, che abbia avuto l'Italia » ( 2) , era pur
persuaso che il Kant , distrug gendo il sensismo, non fosse riuscito a
sostituirvi altro che « un sistema soggettivo che distrugge la scienza verace »
( 3) . 59. Molto ha contribuito a mascherare il kantismo galluppiano , e ben
più che le sue dichiarazioni e le sue proteste , che non ( 1 ) Vedi il capo X
ed ultimo del lib. IV del Saygio . ( 2) L. CREDARO, A. Testa e i primordii del
kantismo in Italia , in Rendic. Acc. Lin cei, 1886, S IV, III , p. 241. Vedi
dello stesso CREDARO Il kantismo in G. D. Romagnosi ( in Riv . it. d. filos.,
1887, vol. II, p. 59 n. ) , dove si oppone a chi fa del Galluppi un kan tiano,
uno dei soliti passi del Saggio contro il trascendentalismo. ( 3) Come scrisse
nel suo ultimo libro La mente dell'ab. G. Taverna , Genova , 1851 , p. 82.
hanno o non dovrebbero avere molto valore per la valutazione del critico -,
alcune speciali dottrine , che basta accennare bre vemente. 60. E in primo
luogo : rifiuta nientemeno che la stessa sintesi a priori , che è come dire il
nocciolo sostanziale del kantismo . « La distinzione , che la scuola
trascendentale pone fra i giudizii analitici ed i giudizii sintetici (a priori)
è assurda » . Queste son parole del Galluppi . E qui non si tratta di una
semplice afferma zione. C'è anche la prova. « Se le due idee A e B non hanno
alcuna identità fra di esse , lo spirito non può riguardarle che come distinte,
e senz'alcun legame fra di loro : è impossibile , dun que, ch'egli vi
percepisca un rapporto necessario di convenienza fra di esse : dire in
conseguenza che lo spirito dee percepire neces sariamente un rapporto di
convenienza fra due idee diverse , è affermare, che lo spirito pud pronunciare
una contraddizione evi dente... Tutt'i giudizi necessarii debbono, in ultima
analisi , risol versi nel principio di contraddizione : essi son dunque tutti
ana litici , ed i giudizii a priori non possono essere che necessarii. Ammettere
dei giudizi necessarii non poggiati sul principio di contraddizione , è un
assurdo manifesto . Se lo spirito non vede alcuna contraddizione nell'opposto
di un suo giudizio, egli non può certamente riguardarlo come necessario . I
giudizi sintetici a priori non possono dunque esistere » ( 1 ) . Somiglia non
po ' , a dir vero, al ragionamento di quel tale aristotelico restio agl'inviti
di Galileo di guardare attraverso il cannocchiale ; ma è il ragio namento del
Galluppi ; e questo basta allo storico, il quale dirà che il filosofo di
Tropea, chiuso nel cerchio della logica formale e nel ferreo apriorismo delle
sue regole , non poteva ammettere e non ammise il risultato principale della
Critica kantiana, che è la sintesi a priori. « In effetto , – egli dice negli
Elementi di logica pura (S XV) , – un principio sintetico, puro , a priori come
Kant lo suppone , è una cosa contraria alle nozioni fondamen tali di una sana
logica » . Infatti, egli soggiunge , prescindendo dall'esperienza , nella sfera
delle mie idee , io non posso unire B con A, se non riconoscendo che B è uguale
ad A, o ne fa almeno parte . Che se B eccedesse realmente A in estensione , in
valore , come potrei attribuire ad A, come sua proprietà, tale eccedente di B,
non ritrovato in A ? ( 1 ) Saggio , lib. I , cap . IV , s 116 ; tom . I , p.
241-2. Così la critica del Saggio è confermata negli Elementi con esplicito
appello alle leggi della logica formale, per la quale cer tamente non è
possibile la sintesi a priori kantiana, perchè l'iden tità non è conciliabile
con la differenza, e se la necessità richiede l'identità , rifugge dalla
differenza ( 1 ) . 62. È inutile mostrare il valore della critica galluppiana ,
fon data come quella del Degerando con cui va raffrontata , e quella stessa del
Rosmini, sopra l'intelligenza della sintesi a priori de sunta dalla sola
Introduzione alla Critica della ragion pura (nella 2.a edizione) coi famosi
esempii: 7 + 5 12 ecc. Giova piuttosto ricordare che la vera sintesi a priori
non con siste propriamente nell'unione di predicati a soggetti, onde siano già
belli e formati i concetti ; bensi nella formazione medesima dei concetti:
problema, di cui non s'accorse affatto il Galluppi, a proposito di Kant , ma
riprodusse, del resto , e risolvette egual mente nella sua teoria dell'analisi
e della sintesi , che , munite dei rapporti soggettivi dell'identità e
diversità , servono anzi tutto alla formazione delle idee , e nella sua teoria
del giudizio, essen zialmente distinto dal sentire, e necessario alla
percezione di qualsiasi rapporto . 63. Questa della sintesi a priori è uno dei
motivi prediletti della critica italiana intorno alle dottrine del Kant, e
ricorre spesso nei libri del Galluppi ( 2 ) . Ma non è la sola teoria kantiana
che egli ( 1 ) Ma, so sintesi a priori e logica formale sono assolutamente
inconciliabili , non biso gna conchiudore : dunque, aut aut : o si rifiuta la
sintesi a priori, o si rifiuta la logica formale . Su questo punto si fa ,
secondo me, molta confusione. Vi tornerò su in un mio prossimo lavoro ; qui
voglio solamente aggiungere, che la dottrina della sintesi a priori fa parte
della teoria della formazione delle conoscenze ; laddove la logica formale
studia i rapporti delle conoscenze già formate o delle conoscenze in sè ; e
notare, che se il pon siero non ha da essere un quissimile del vano lavoro
delle Danaidi, non s'ha da far consistere solo in un accroscimento delle
conoscenze , ma anche in un'intuiziono delle già acquisite. ( 2) Un anonimo già
nel 1832 notava in un opuscolo molto arguto e tagliente contro il nuovo
professore dell'Università, che le belle ed acute riflessioni, con cui il
Galluppi combatte nel § XVII degli Elementi della logica pura il giudizio
sintetico a priori, sono tolte da LAROMIGUIÈRE, Leçons de philos. , p. I , 1. 3
e 5. Vedi : Degli Elementi e della Introd . allo studio della filos. del
celebre Bar. Galluppi, giudizio dato all'editore da un suo amico, Napoli , De
Bonis, 1832, 8 37 , p. 42. · L'opuscolo reca la data di Napoli, 14 di cembre
1831. Scritto con molta vivacità e castigatezza di lingua, rimprovera al
Galluppi l'inesattezze di certi suoi esempii presi dalla geometria e
dall'algebra , l'ignoranza in ge nerale delle scienze fisiche e naturali, la
scarna o niuna cognizione dei classici antichi combatta. Anzi, non v'è quasi
teoria esposta nella Critica della ragion pura che venga risparmiata nel lib .
III del Saggio gal luppiano e nelle parti delle altre opere che ne dipendono .
Lo spa zio, il tempo, le categorie, lo schematismo, la dialettica trascen
dentale gli offrono materia di lunghe e energiche discussioni, il cui scopo è
sempre la confutazione del Kant. Aggiungi le fre quenti proteste contro il
trascendentalismo e l'idealismo, che pel Galluppi equivalgono allo scetticismo,
proteste nelle quali il Gal luppi unisce al Kant il Fichte e lo Schelling ( 1 )
, per quel poco che ne poteva conoscere da traduzioni o esposizioni francesi ;
cd è evidente , che il lettore sbadato e il critico ottuso non potes sero e non
possano vedere il filosofo di Tropea che agli antipodi di quello di
Koenigsberg. 64. Il vero è che per un'esatta intelligenza delle dottrine di
questo , il primo incontrava insormontabili difficoltà nei limiti della sua
cultura ; la quale non si estendeva oltre la letteratura filosofica italiana e
francese e alle traduzioni (allora pochissime e affatto insufficienti) che
c'erano in queste lingue delle opere tedesche. Quello che poteva intravvederne
indirettamente, era na turale che gli dovesse riuscire oscurissimo, e restargli
innanzi con tali lacune, che s'egli ne avesse avuto coscienza, non sareb besi
certo provato alla critica della filosofia tedesca. Egli, scrit tore
chiarissimo e pensatore analitico per eccellenza , manifesta mente soffriva
nello studio che poteva fare di quegli scrittori. Nella critica del Fichte,
sforzandosi d'intendere il vero signifi della filosofia , la leggerezza
nell'appigliarsi alla moda francese, e quindi la pedanteria e confusione del
metodo analitico imitato dagli ideologi, e perfino i barbarismi e le im
proprietà di espressione. L'opuscolo pare facesse una certa impressione. Il
Galluppi ri spose col silenzio ; ma i suoi scolari con due opuscoli : Di un
giudizio dato da ignoto giudice sur alcune parole del chiarissimo B. P. G.
appella VINCENZIO MORENO , Napoli, Trani, 1832 ; Al giudizio dato da un anonimo
su talune opere del chiarissimo P. G. risposta di GIUSEPPE PISANELLI, Napoli,
Ruberto o Lotti, 1833. Curioso l'opuscolo del Pisanelli nella parte in cui
difende il Galluppi scrittore, per l'enfatica digressione che vi è contro il
purismo ( pp. 28-36 ). Per questa parte invece il Moreno riconosceva che il G.
non fosse puro elegante e gentil dicitore ( p. 17) ; il che non toglieva ch'ei
fosse, alla sua volta , pessimo scrittore . ( 1 ) Vodi le Considerazioni
filosofiche su l'idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto ( Napoli
, 1841 ). Di Schelling non pare che conoscosse nulla di originale , all'infuori
della trad . francese del Bruno. Del Fichte cita la trad . francese della
Bestimmung des Menschen . cato della costui dottrina dell'Io puro, dichiarava
ai colleghi del l'Accademia francese : Qui l'oscurità alemanna comincia ad
affliggermi; io che non amo ne' discorsi filosofici, se non che la chiarezza e
la precisione , son qui circondato dalle più dense te nebre » ( 1) . E terminava
la sua memoria invocando le regole wol fiane De stylo philosophico, e
domandando agli amici della verità e del progresso della filosofia , se « lo
scrivere i trattati filosofici in un modo più oscuro di quello , in cui è
scritta la Teogonia di Esiodo, è esso un segno di progresso verso la verità o
pure verso l'errore » (2) 65. Altri più recentemente si son lagnati
dell'oscurità di alcuni scrittori filosofici, e si son levati in difesa del
bello stile . Ma, come nel caso del Galluppi , molto spesso l'oscurità che si
vede negli autori , non dipende da un loro difetto, sibbene dalla insufficienza
nostra a intenderli ; chè nessuno è chiaro a chi non sia preparato e non
procuri in ogni modo e con ogni mezzo d'intendere . Comunque, la dottrina del
Galluppi è cosa ben distinta e diversa dalla sua intelligenza e dalla sua
critica del Kant ; e della prima è indubitabile che s'ispira al Kant e non
riesce a risul tati essenzialmente differenti ( 3 ) . 66. In sostanza egli è
più kantiano di Kant. Questi , criticata la ragion pura , nega il valore
scientifico , oggettivo, della meta fisica , ma le riconosce un ufficio
regolativo , e scrive una meta fisica della natura come una metafisica dei
costumi. Ma il Gal luppi si rinchiude in un assoluto psicologismo, per usare
parola giobertiana ; e , pienamente conseguente alla sua filosofia
dell'esperienza, tiene fermo alla dottrina dei limiti della scienza umana ; e
alla metafisica sostituisce l'ideologia. La sua cattedra ufficiale era di
logica e metafisica ; ma egli nella Prolusione an nunzia che tratterà della
filosofia teoretica, ossia della scienza dell'umana scienza , e darà pertanto
la legislazione suprema di tutte le scienze ( 4 ) . « La metafisica tratta ,
egli dice , delle idee essenziali all'umana ragione » ). Nella prima lezione
rifiuta la definizione della filosofia data dal Wolf, sostenendo che egli volle
una ( 1 ) Op. cit . , pag. 23. ( 2) lvi , pag. 133. ( 3 ) Ricordo per semplice
curiosità che sostenne il kantismo del Galluppi CARLO Ro DRIQUEZ , Lett. su la filos
. sogg . ed oggettiva del bar . Galluppi, Messina , 1833, p. 22 ; cui rispose
ONOFRIO SIMONETTI, Analisi critica della Lettera ecc . ( Napoli ), Fernandes
(1834 ), p. 31 e sgg. ( 4) Lezioni di log . e metafsira , p. XI. ( 5) Iri, p .
XIV . definire piuttosto l'infinita sapienza conforme a quel suo enun ciato che
Deus est philosophus absolute summus, e attribuendo alla filosofia wolfiana il
difetto ascrittole appunto dal Kant, di confondere la cosa con l'idea della
cosa. Nella seconda lezione commenta il suo concetto della filosofia come
scienza del « pen siere umano ne' suoi elementi , nelle sue funzioni e nelle
sue leggi » ; nozione , fa notare , della più alta importanza . 67. Prevede la
possibile osservazione : ma è il pensiero il solo oggetto della filosofia ? E
la ontologia, la cosmologia, la teologia naturale , la fisica ? — Queste
scienze, risponde il Galluppi , in parte si riducono alla ideologia, scienza
del pensiero , e in parte escono fuori dal campo della filosofia . L'ontologia
studia « alcune nozioni universali , essenziali all'umano intendimento » ; e la
dottrina delle nozioni , delle idee non appartiene forse alla scienza del
pensiero ? Lo stesso dicasi della cosmologia e della teologia naturale. Sic chè
il Galluppi conchiude : « Tutte le parti dunque della meta fisica appartengono
alla scienza del pensiere umano » . Quanto alla fisica , in parte è filosofia (
psicologia, per le relazioni che que sta scienza studia tra i fatti fisici
quali sono in sè e i fatti fisici quali appariscono a noi , e teologia) ; e in
parte , quale si tratta comunemente nelle scuole, se non può ridursi a rigore
alla scienza del pensiero , « è nondimeno una scienza che le è contigua , e che
serve a rischiarare, ed a perfezionare la filosofia intellet tuale » . Sicché
la metafisica, nel sistema del Galluppi, è bella e ita assolutamente. E se la
filosofia per lui si divide com'è detto nella 3.4 lezione – in filosofia
speculativa o teoretica , che studia l'anima ( soggetto del pensiero) in quanto
conosce , e in filosofia pratica , che studia l'anima in quanto vuole , è
chiaro che nè an che questa potrà essere fondata su alcun principio metafisico.
Il Kant non era arrivato a questo punto. Ma prima di accennare i principii del
Galluppi nella filosofia pratica , bisogna fare un'altra osservazione generale,
che ci pare di non poca importanza . 68. Nella Prolusione il Galluppi ,
vantando le ragioni del me todo sperimentale , avvertiva che non bisogna però
mutilarlo ; anzi prenderlo tutto intero nelle sue specie e ne ' suoi risultamenti
; ne confonderlo con l'empirismo ; giacchè la filosofia intellettuale, co me
egli chiama quella che dovrà insegnare , < non ammette so lamente quelle
esistenze , che cadono immediatamente sotto l'espe rienza ; ma quelle ancora ,
che le esperienze sperimentali suppon gono necessarie . Quindi ella deduce
tanto dall'esistenza del mondo materiale , che da quella del mondo
intellettuale, che a noi si manifesta, l'esistenza eterna di un ' Intelligenza
creatrice . E ciò in modo simile a quello in cui l'astronomia , partendo dal
cielo em pirico , pone un cielo razionale » ( 1 ) . Il cielo razionale sarebbe
il cielo costruito dall'astronomo mercè la forza portentosa del cal colo, della
geometria e del raziocinio , onde si « sbalza dal cen tro del planetario sistema
la terra , e vi si pone il sole ; si tra sforma in masse di meravigliosa
grandezza quei piccolissimi corpi , che sembrano tanti chiodi affissi nel
firmamento, si determina le distanze , le orbite ed i tempi delle rivoluzioni
de' pianeti » ( 2 ) . 69. Sicché, pel Galluppi, anche la filosofia
intellettuale, la ideologia , la filosofia dell'esperienza, con tutti i suoi
limiti , ha il suo cielo razionale ; come l'ha del resto il criticismo con la
sua cosa in sé . Ma la cosa in sè per Kant è un puro concetto limite, di cui
s'afferma l'essere non il come ; che si afferma, non si conosce; laddove il
Galluppi dedica tutta la seconda parte della sua Ideologia, che intitola
Teologia naturale , allo studio dell'Asso luto e de ' suoi attributi , come se
Kant non fosse mai esistito . Il nome di questo qui non ricorre se non nelle
ultime pagine, dove è detto insensato il suo « impegno di contrastarci la
possibilità di una Teologia naturale e filosofica » ( 3 ) , 70. Ma tutta questa
parte evidentemente è non solo in con traddizione con la Critica kantiana, ma
anche con lo stesso Sag gio dell'autore, la cui conclusione riesce a quella
dottrina dei limiti della scienza che sopra vedemmo. Che dire adunque del vero
pensiero del Galluppi ? È vero , come è detto nel Saggio, che lo scrutatore
della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria ? O è vera la teologia
delle Lezioni ? Le due dottrine sono certa mente inconciliabili. E io non
dubito d’asserire , che se il Galluppi non avesse scritto le Lezioni per i
giovani dell'Università in uno de ' periodi di più cupa servitù intellettuale
che abbia attraversato il pensiero italiano, la seconda parte della Ideologia
non sarebbe stata scritta . 7i . « Questa opera , diceva l'autore nella
prefazione delle Le zioni, non è mica la ripetizione dei miei Elementi di
filosofia pub blicati in cinque volumi, nè di altra mia opera antecedente » . E
notava altresì che « serbando le leggi essenziali di un metodo, può questo
ricevere delle variazioni accidentali » . Intendeva egli alludere alla teologia
naturale, di cui trattava per la prima volta ( 1 ) Op. cit . , p. XIX . ( 2)
Ivi , p, XVII . ( 3) Op . cit . , III , 306 . . in queste Lezioni ? ( 1 ) . Si
noti che non parlava di nuovi svolgi menti del suo pensiero , ma di variazioni
di metodo; onde non poteva accennare a parti ora per la prima volta trattate
della sua filosofia che non importassero alcuna modificazione di principii . Si
noti anche, che la seconda parte dell'Ideologia è come appiccicata alla prima.
Solo alla fine della 108. lezione (1. della Ideologia ) l'autore dice : «
L'essere è o finito o infinito ; io divido perciò l'ideologia in due parti ,
nell'ideologia del finito ed in quella del l'infinito » E in questa distinzione
così accennata è tutta la ra gione della teologia naturale o ideologia
dell'infinito , cui son de dicate le ultime dieci lezioni del corso
universitario . Le dottrine non essoteriche hanno ben più stretti legami coi
principii sostan ziali dello spirito d’un pensatore ; e questi le fa sempre
sgorgare specialmente quando siano dottrine così importanti , rispetto a quella
filosofia dell'esperienza, onde il Galluppi si proclamo sempre assertore le fa
sempre sgorgare, bene o male , dalle dottrine per l'innanzi professate, le
pone, bene o male , in ac cordo con esse , per rimanere esso stesso d'accordo
con sè mede simo. Nell'opera del Galluppi nulla di tutto questo . 72. Io
propendo pertanto a non attribuire alcun valore a quella parte delle Lezioni
nel sistema delle idee galluppiane. Non penso già che egli le dettasse e le
pubblicasse contro la sua coscienza, ma certo contro la sua coscienza
filosofica . Egli pensava certamente quanto scrisse e insegno degli attributi
divini ; ma quella parte del suo pensiero non era stata da lui elaborata
filosoficamente ne coordinata quindi alla sua speculazione . Chi ha insegnato e
non s'è trovato nel caso del nostro filosofo , di esser costretto da un
programma a insegnare anche ciò che il suo spirito non ha ma turato e fatto suo
, e insegnarlo quindi nella forma in cui ordi nariamente si dà , e in cui è pur
bene che sia offerto all'intel letto dei discepoli ? Chi non si trova a dover
insegnare qualcosa di più di quello che in buona fede e a rigore potrebbe dir
di sapere , o di quello ond'egli può dirsi veramente persuaso ? Chi oltre a ciò
che, per sè e per altrui , deduce chiaramente da ' propri principii non ha
insegnato qualcos'altro, che da quei principii sinceramente non sa derivare nè
per altrui nè per sè ? Il Galluppi non aveva per sè una teologia più filosofica
di quella che è esposta nelle ( 1 ) Della religione tratta anche negli Elementi
di filos. morale. Ma se la sbriga in un breve capitolo , che non ha nessuna
pretensione filosofica , e si limita a una semplice notizia molto compendiosa
del concetto della religione cristiana.
sue Lezioni; in questa fermavasi il suo pensiero ; ma stimo che non vi
s'acquetasse ; perchè una consapevole o inconscia insoddi sfazione doveva
fargli sentire che nella sua filosofia dell'esperienza non c'era posto per
quella teologia . 73. S'è accennato che sulla fine della teologia naturale l’au
tore si ricorda dell'impegno insensato del Kant di contrastare la possibilità
di una teologia. E che fa egli per combattere l'assunto kantiano ? Scrive così
: « Kant insegna che i giudizii su cui ella ( teologia naturale e filosofica )
poggia, sono sintetici a priori e fenomenici, privi di una assoluta realtà.
Egli dice che le verità necessarie della teologia naturale non sono mica
identiche, ma sintetiche ; e che le verità di fatto non sono che mere apparenze,
che fenomeni privi della realtà noumenica ed assoluta, indipen dente dal nostro
modo di vedere. Io , nella mia Critica della co noscenza ( 1 ) ho seguito passo
passo la dialettica kantiana ; e vo lendo parlar con giustizia , non può
negarmisi, che l'ho invinci bilmente distrutta. Io ho mostrato, che i giudizii
sintetici a priori sono assurdi ; ho mostrato eziandio , che le verità
sperimentali ci danno pure delle conoscenze delle cose in se stesse considerate
» ( 2) . Questo è tutto. Ora, poniamo che sia esatta l'esposizione del pen
siero del Kant . Ma la critica della sintesi a priori non giustifica , tutto al
più , che la posizione dell'assoluto, come avviene per l'ap punto nel Saggio
dello stesso Galluppi ( lib . III , cap. XII) ; dove partendo dalla pretesa
impossibilità dei giudizii sintetici a priori , si dice , contro Kant, che non
è tale neppure il principio : dato il condizionale, si deve dare l'assoluto ; e
si conchiude quindi che il condizionale dell'esperienza è reale in sé , non
fenomenico, e che nella sua realtà è pur data quella dell'assoluto ( 3 ) . E
nel Sag gio tutto finisce li . E la conclusione dell'opera è quella che ab ( 1
) Acoopna al Saggio filosofico . ( 2) Lez ., III , 306. Quindi accenna alle
critiche che alla sua confutazione della sin tesi a priori aveva mosse il
MAMJANI nol Rinnovamento e lo ribatte. ( 3 ) Un'ottima osservazione contro
questa deduzione fa col suo solito acume il Tesia , il quale crede come il
Rosmini che il Galluppi non mova un passo fuori del soggetti vismo. È falsa ,
egli dice, la premessa che il condizionale sotto il rispetto del condizionale
sia un termine dato dall'esperienza. Quosta non ci dà che sensazioni e
sentimenti. Ma le sensazioni non sono il condizionale ? - Si , sono, ma non ci
sono date come tali dall'esperienza . La qualità d'essere condizionale è una
veduta dello spirito , non è nella sensazione, opperò non è trovata nella
sensazione. Vedi Le ricerche apolog. del crist, del popolo dall'ab. G. Bignami
esaminate, Lugano, 1841, p. 33 e seg . biamo vista. Gli attributi divini son
dichiarati incomprensibili. Nè quell'assoluto del Saggio differisce molto dalla
cosa in sè kan tiana . Ma nelle Lezioni non c'è solo l'assoluto, bensì la
scienza del l'assoluto ; e non viene giustificata. La conclusione dell'opera si
limita ad affermare che « mostrando l'oggettività delle nozioni di sostanza, di
causa e dell'assoluto , il criticismo è rovesciato , e la realtà della
conoscenza è stabilita » . Sono le ultime parole delle Lezioni; ma potrebbero
essere a miglior ragione le ultime del Saggio, perchè in quelle s'era cercato
di provare qualcosa più dell'oggettività della nozione che la mente possiede
dell'as soluto. 74. Se la teologia naturale avesse avuto nella mente del Gal
luppi la stessa saldezza dei principii più genuini della filosofia
dell'esperienza, la sua etica non avrebbe mancato di esservi su bordinata.
Invece ne è assolutamente indipendente . Anzi, pure inspirandosi , come si
vedrà , all'idealismo kantiano , non tiene af fatto conto delle esigenze
sentite dal Kant nella Critica della ra gion pratica e nella Fondazione della
metafisica dei costumi. Forse egli non conobbe nulla direttamente di queste
opere , e della mo rale kantiana non dovette avere che l'indiretta notizia
fornitagli dalle solite esposizioni francesi. Non per questo si può dire con
certi critici , che i suoi quattro volumi della Filosofia della volontà « non
contengono nulla di nuovo, anzi , di fronte a Locke ed Hume, ed a tutta la
specula zione contemporanea, segnano un sensibile regresso verso il vec chio
rancidume metafisico e teologico » . Chi giudica così , non deve avere grande
familiarità con questo rancidume, e certo è asso lutamente falsa la sua
sentenza, che la morale galluppiana sia ispi rata all'idealità patristica e
scolastica ( 1 ) . Non si potrebbe dire nulla di più inesatto intorno a quella
morale. 75. Basta una sommaria esposizione per convincersene. Bisogna prima di
tutto osservare , che il Galluppi insegnava nell'Università, come s'è visto ,
filosofia teoretica o , com'egli dice , intellettuale ; e non v'ebbe quindi
occasione di trattar mai la morale. Ma egli aveva pubblicato nel '26 , nel
quinto volumetto del suo ma nuale scolastico , gli Elementi della filosofia
morale ; e prima d'as sumere l'insegnamento aveva scritto La filosofia della
volontà , ( 1 ) Vedi l'art. La speculazione di P. G. , nella Rivista di filos,
e sc. affini di Bolo gna , an. III , vol . V (ottobre 1901), p. 276 . in quattro volumi, che cominciò a pubblicare
nel 1832 ( 1 ) . In essa , secondo che egli dichiara nella Prefazione , si
proponeva di trat tare in un'opera estesa lo stesso argomento di quegli
Elementi, ma col metodo stesso del Saggio filosofico, ossia con la discussione
e l'esame delle varie dottrine relative ad ogni materia . Ma non do veva aver compiuto
il lavoro prima di salire la cattedra di logica e metafisica ; e non pare che
vi sia potuto più tornare ; sicchè non tutte le parti del volumetto degli
Elementi vi sono riprese e no vellamente trattate con quella maggiore
larghezza, che l'autore s'era proposta. E il disegno di essa , delineato sulla
traccia degli Elementi, gli rimase colorito meno che a metà . 76. Nella
Filosofia della volontà comincia dal distinguere nel l'uomo l'agente fisico
della natura , « disposto o mosso ad operare pel fine della propria felicità ,
>> e l'agente morale, disposto o mosso ad operare dal principio del
proprio dovere » . Distingue anche i movimenti « che nel corpo umano si
osservano » , in mec canici, che non dipendono dalla volontà , e volontari, per
cui sol tanto l'uomo può dirsi agente. Chiama quindi filosofia della vo lontà «
quella scienza che fa conoscer l'uomo considerato come un agente » ; e divide
questa scienza in quattro parti : « nella prima, dice , esamino l'uomo
considerato generalmente come un agente ; nella seconda l’esamino sotto
l'aspetto di agente morale ; nella terza sotto l'aspetto di agente fisico ; e
nella quarta finalmente l'esamino riguardo alla sua esistenza in uno stato
futuro, dopo il fenomeno della morte ; e ciò in conseguenza della sua virtù e
de' suoi vizi » ( 2) . Questo il disegno. Ma delle quattro parti ideate i primi
tre volumi dell'opera e il primo capitolo del quarto trattano solo la prima ;
gli ultimi due capitoli di questo quarto volume e del l'opera iniziano appena
la trattazione della seconda, com'è svolta negli Elementi; e della terza e
della quarta non c'è nulla ; laddove negli Elementi l'una ( intitolata De'
mezzi per esser felice, cap . VI) è trattata con relativa larghezza , e
dell'altra c'è pure un cenno col titolo : Della religione. Sicché, quantunque
l'autore appaiasse questa sua Filosofia della volontà col Saggio filosofico,
come l'opera con tenente la sua filosofia pratica accanto a quella contenente
la ( 1 ) I primi due volumi , pp. 338 0 452, nel 1832 presso C. L. Giachetti in
Napoli ; il 3. ° vol , di pp. 388 nel 1839 presso la stamperia Tramater in
Napoli; e il 4.° di pp. 361 nel 1840 ivi . La dedica del 1. ° vol. , a S. E D.
Giuseppe Cova Grimaldi, marchese di Pie tracatella , reca la data di Napoli 30
aprile 1832. ( 2) Ed. cit. , I , 6-7 . a sua filosofia teoretica ; è evidente,
che se la Filosofia della volontà presenta discusse con grande ampiezza
questioni brevemente accennate negli Elementi, di questi non può fare meno chi
voglia acquistare un concetto compiuto delle teorie pratiche gal luppiane ; e
in essi deve principalmente attingere quella parte di coteste teorie , che
spetta più propriamente alla morale. 77. Dal disegno stesso dell'opera maggiore
si scorge un pre gio non comune in questo ramo della filosofia del Nostro :
voglio dire la pienezza del suo concetto dello spirito pratico . Egli, com'è
chiaro già da quelle semplici indicazioni, non vede tra la felicità e il dovere
quella dualità inconciliabile, in cui si dibatte l'etica prima di Kant e nello stesso
Kant; quella dualità che finisce ine vitabilmente, secondo l'uno o l'altro
pensatore , o con la nega zione dell'uno o con la negazione dell'altro
principio , o nel con cetto puramente utilitario o in quello del puro
disinteresse . Il Gal luppi vede che sono due i fini dell'umano volere : due
fini però conciliabili tra loro , sì che uno non importi la negazione
dell'altro . L’uomo infatti è agente fisico e agente morale insieme ; e per es
sere agente fisico non cessa di essere agente morale ; e viceversa : segno
manifesto , che tra i due fini non c'è opposizione assoluta. La confutazione
perentoria dell'utilitarismo dal punto di vista etico sta in questo concetto ,
che il Galluppi vide nettamente, come apparrà meglio dalla notizia che ora ne
daremo. 78. Tutta la prima parte della sua filosofia pratica s'aggira adunque
intorno all'attività in generale dell'uomo : è, come noi diremmo, una semplice
psicologia pratica. Parla quindi del desi derio, della volontà, dell'influenza
della volontà sull ' intelletto, e viceversa, e in generale dei principii
motori della volontà , e della libertà umana . Questa è la trattazione più
ampia, e occupa quasi per intero il secondo e il terzo volume della Filosofia
della volontà ; non avendo voluto il Galluppi lasciare senza risposta nessuno
degli argomenti che sono stati addotti contro l'esistenza del libero volere .
79. Della volontà il Nostro dice che non può definirsi. Ne fa una facoltà,
avvertendo bensì , che « le diverse facoltà , che concepiamo nel nostro spirito
, non sono certamente tanti agenti diversi : esse non sono che lo spirito
stesso considerato relativa mente ad una determinata specie di modificazioni,
che avvengono in lui » ( 1 ) (I , 15-16) . Si potrebbe intendere per volontà la
facoltà ( 1 ) Quindi, secondo l'autore, è volontà « il nostro spirito stesso
considerato relativa 262 CAPITOLO VII di volere ; ma questo come ogni atto
semplice non può definirsi, e non se ne può altrimenti avere la nozione che «
dirigendo la nostra attenzione sul sentimento che abbiamo di questo atto » ,
ossia ricorrendo alla nostra personale coscienza. La volontà senza gli atti di
volere è indeterminata come volontà ; è lo spirito stesso in generale . La
determinazione della volontà è la produzione de ' voleri particolari ; e
siccome, dice Galluppi stesso, lo spirito è il principio efficiente de ' voleri
, così può dirsi tanto che lo spi rito determina se stesso , quanto che la
volontà determina se stessa ( I , 51 ) . 80. La volontà, come notò gia Locke,
va ben distinta dal de siderio. Un idropico , malgrado il desiderio di bere ,
si astiene dall'acqua . Egli dunque desidera di bere , ma non vuol bere . In
tali casi vi sono desiderii opposti , fra i quali la volontà si deter mina. Pel
Galluppi tra desiderio e volere c'è una recisa differenza . Quello non è , come
ordinariamente si crede , un fatto d'attività dello spirito , ma, come oggi si
direbbe , un fatto puramente emo tivo ; quel misto di piacevole e di spiacevole
onde lo spirito è af fetto per la percezione d'una sensazione in se stessa
piacevole , ma assente , e però causa d'un dispiacere tanto maggiore, quanto
più lontano è il futuro, in cui si pensa che essa sarà provata ( 1 ) , Quando,
come fa il Wolff ( 2) , si vede nel desiderio uno sforzo, un'avversione,
un'inclinazione, o ci si contenta di metafore fallaci, o si confonde col
desiderio il volere, onde i movimenti corporei sono l'effetto. Sforzo,
tendenza, inclinazione , allontanamento son tutti vocaboli, che applicati
all'anima non presentano alcun senso ( 8) . ( I , 65) . 81. Come dal desiderio,
la volontà va distinta dall'intelletto ; sicchè può parlarsi di un'influenza
esercitata dalla volontà sul l'intelletto , come di un'influenza esercitata
dall'intelletto sulla volontà. Quanto alla prima , il Galluppi vede un potere
della vo lontà perfino nelle sensazioni, in quanto lo spirito « può esporre o
pure sottrarre i propri sensi all'azione de ' corpi esterni ; e quindi
procurarsi o privarsi di alcune date sensazioni » ( 4) . Quindi mente a quella
specie di modificazioni, che abbiam chiamato voleri » ( I, 24 ). Insomma, gli
atti singoli presuppongono un quid nella natura dello spirito ; o questo quid è
la volontà . ( 1) Filos. d. vol., I , 63 e ss . (2) Psych , emp., SS 279 e 281.
( 3) Filos. d . vol. , I , 65 . ( 4) I , 112. L'autore s'accorge che questo
potere della volontà si esercita indiretta ci parla di sensazioni volontarie e
sensazioni involontarie ; e come i desiderii sono un effetto delle sensazioni ,
trova che vi sono e desiderii volontari e desiderii involontari; e come anche i
fan tasmi seguono le sensazioni , anche tra i fantasmi pone la stessa
distinzione nel campo dell'immaginazione. 82. Quando si passa dalla sensibilità
alle facoltà dell'analisi e della sintesi , non si tratta più di un potere
indiretto , ma im mediato della volontà sull'intelletto ; e dicesi attenzione ;
nel cui studio l'autore si trattiene con diligenza e acutezza , che fan degne
quelle pagine di esser lette ancora , pur dopo tanto progresso nella conoscenza
dei fenomeni psicologici . E come l'analisi e la sintesi sono le due attività
spirituali onde vengono prodotte tutte le conoscenze, l'impero su di esse vale
l'impero su tutto il co noscere . 83. Che più ? L'associazione è anch'essa
volontaria e involon taria. L'abito , questa seconda natura morale , può dirsi
anch'esso volontario , quando consta della ripetizione volontaria di atti vo
lontari ; e conferisce a quell'educazione onde ognuno è responsa bile , poichè
egli ne è l'artefice. I giudizii temerarii sono colpevoli, perchè volontari ;
in essi l'attenzione si volge a fantasmi , cui non dovrebbe rivolgersi , e
l'uomo vuol manifestare i giudizii che da quei fantasmi deriva , confondendo
l'immaginare col giudicare. Infine , da questo impero della volontà
sull’intelletto la distin zione dei moralisti di ignoranza vincibile e
invincibile ( 1 ) . 84. In quanto all'influenza dell'intelletto sulla volontà ,
è chiaro : che la vita dello spirito , come nota il Galluppi , comincia dalle
sensazioni . Ora queste , secondo che sono piacevoli o no , deter minano lo
sviluppo dell'attività dell'anima ( 1 ) ; suscitano i desiderii che influiscono
sulla volontà. Quindi nasce il problema : in quanti modi l'intelletto influisce
sulla volontà ? E se ciò che nel no stro spirito dispone o eccita la volontà
all'atto di volere, dicesi principio attivo della volontà, si domanda : quanti
sono i prin cipii attivi della volontà ? E non sono riducibili tutti ad un solo
principio , come sue varie modificazioni ? 85. Elvezio concentrò tutti i
principii dello spirito nella fi sica sensibilità . Ma, « annientata così tutta
l'attività dell'anima, e mente ; ma non vede che pertanto in questi casi
trattasi d'un impero del volere sul corpo , e non propriamente sull'intelletto
. ( 1) Tutta questa dottrina dell'influenza della volontà sull'intelletto è
anche negli Elem . , capp. II-VII. l’uomo riguardato come solamente sensitivo
ed animale , la virtù negli scritti di Elvezio scomparve dall'universo, e vi fu
rimpiaz zata da un grossolano egoismo » ( 1 ) . L'uomo per Elvezio è tutto ciò
che le cause esterne lo fanno essere . Egli ricava le conse guenze logiche più
rigorose dal sensismo del Condillac, che uso tutti i riguardi per la morale e
per la religione, ma non ragionò coerentemente al suo principio della
sensazione trasformata . Elvezio parte dallo stesso principio , e ne deduce
illazioni che fanno or rore (2 ) 86. Ma, come è falso nella filosofia
intellettuale che tutto sia sensibilità fisica o da essa derivi , com'è falso
ridurre il giudizio che è attività sintetica e analitica, al mero fatto passivo
della sen sazione, così è falso nella filosofia pratica non distinguere dalla
passività del senso l'attività e la libertà della volontà , e non ri conoscere
l'origine soggettiva del dovere ( 3) . 87. Non è vero che tutto lo spirito sia
sensibilità ; e perciò il presupposto elveziano è privo di fondamento . Non è
vero che i piaceri e i dolori che agiscono sul volere , sieno in ultima ana
lisi sempre piaceri o dolori fisici provenienti da sensazioni ; è
incontrastabile, che vi sono anche piaceri o dolori intellettuali provenienti
da pensieri ( 4) . Quindi una prima divisione dei prin cipii motori della
volontà o motivi : desiderii inriflessi, quelli in cui lo spirito è passivo , e
principii riflessi, in cui lo spirito è at tivo. I primi si possono dire anche
semplicemente desiderii, gli altri , ragioni ( 5) . I principii irriflessi si
possono ridurre a sette ; appetito fisico ( fame, sete , amor fisico ),
desiderio della propria ec cellenza, curiosità , sociabilità, desiderio della
gloria , emulazione e potere, affezioni. 88. La ragione è principio di atti
volitivi come principio eco nomico e come principio morale ; o , come il
Galluppi dice , in quanto esamina ciò che conviene alla nostra felicità , fa il
cal colo dei beni e dei mali , e dirige le nostre azioni a produrre un certo
stato dell'anima ; e allora si chiama prudenza ; e in quanto ci mostra il bene
e il male morale , e ci comanda di far l'uno e non far l'altro ; e allora può
dirsi ragione legislatrice della nostra volontà (6) 89. I principii della
prudenza sono quattro : un piacere che ci priva di maggiori piaceri è un male ;
un piacere che ci pro ( 1 ) Op. cit . , I , 175. ( 2) I , 193. ( 3) I , 194. (
4) I , 238 . ( 5) I , 286-7. ( 6) I , 318.
duce maggiori dolori , è un male ; un dolore che ci libera da mag giori
dolori , è un bene ; un dolore che ci produce maggiori pia ceri , è un bene ( 1
) . 90. A questo punto l'autore si propone la questione della li bertà , alla
quale , come s'è detto , dedica la maggior parte del l'opera sua , ma della
quale noi ci sbrigheremo in poche parole . Questa è la parte più vecchia della
sua filosofia, e una delle meno logicamente dedotte dai principii della sua
speculazione . In essa egli sentì la forza del pregiudizio come impedimento
insormonta bile alla visione della verità più evidente ; e ci si vede la soprav
vivenza di una vecchia dottrina, che mal si connette all'orga nismo del nuovo
pensiero ; anzi vi rimane aggiunta e giustap posta come membro morto che
l'artificio collochi al posto di quello che manca in un corpo vivo . 91. Dal
suo concetto dell'unità metafisica dell'Io, dal suo con cetto delle facoltà
come semplici principii costitutivi della natura dello spirito , il Galluppi
avrebbe dovuto esser condotto a più elevato e concreto concetto della libertà,
che non sia quello da lui ancora difeso a forza di sottigliezze ingannevoli e
d'illusorii ragionamenti. Egli vede la distinzione tra sensibilità , intelletto
e volontà, di cui fa tre facoltà distinte , ma pur facendole scatu rire
dall'unico Io , non giunge a scorgerne la recondita unità . E veramente ,
separato l'intelletto dalla volontà, da cid che v'ha di umano, di spirituale
nella volontà , non è possibile altro con cetto di questa , all'infuori di quel
vuoto volere , che è il fonda mento della libertà bilaterale. 92. Questa è la
libertà a cui giunge il Galluppi : la libertà per cui nell'atto stesso che
vogliamo , potremmo non volere ; quel po tere, che non si esercita , e la cui
essenza stessa è di non esercitarsi nel momento stesso che lo sentiamo ( 2) .
Questa libertà del volere è determinata nettamente dal suo confronto con la
necessità del sillogismo . La coscienza ci attesta, che noi non siamo liberi di
tirare o non da due premesse quella data conclusione , laddove ci attesta il
contrario rispetto ai singoli atti del volere . E siccome ( 1 ) I , 318. Nella
Filosofia della volontà tutto finisce con la enumerazione di queste leggi.
Negli Elementi invece, come si disse, tutto il capitolo VI è dedicato ai Mezzi
per esser felice ( pp. 210-292). Quivi fra i piaceri intellettuali si annovera
il piacere estetico ; e quindi i 88 71-85 contengono una breve trattazione di
estetica. ( 2) Elem . , V, 123. « La libertà , io dico, è il potere di volere,
o di non volere un og getto percepito ; Filos. d. vol. , II , 811. la coscienza è quel fatto fondamentale, a cui
il filosofo deve sem pre far capo, la sua testimonianza basta a provare la
realtà della libertà ( 1 ) . Tutti gli argomenti contrari non reggono alla
critica 93. Ma negli Elementi il Galluppi , prima di appellarsi al te stimonio
della coscienza, ricorre a un argomento , che rivela su bito la paternità
kantiana. Nella coscienza del dovere e del pre mio o delle pene che spettano
alle azioni si comprende , egli dice, la coscienza della nostra libertà . « Non
si comandano le azioni necessarie , come non si comanda ad un sasso il cadere
se non è sostenuto . Le azioni necessarie non sono riguardate come meri tevoli
nè di premio, nè di pena.... La coscienza della legge in teriore contiene la
coscienza della propria libertà . Il comando suppone in colui , a cui è diretto
, il potere di eseguirlo e di non eseguirlo » . Devi ; dunque , puoi, aveva
detto Kant . 94. Non bisogna , del resto , porre il Galluppi fra le anticaglie
pel suo concetto della libertà . L'indeterminismo anzi è una delle con cezioni
oggi alla moda ; e non manca in Italia di rappresentanti ; i quali si sforzano
di combattere il concetto della direzione unica ed unilineare degli atti del
volere , ponendo nello spirito un irri conciliabile dualismo, che lacera
internamente l'unità dell'indi viduo umano, e sta quasi condizione necessaria,
se non sufficiente , della libertà morale ( 2) . E ancora uno dei più acuti
psicologi che abbia l'Italia , afferma che il concetto del volere libero , «
cioè non coatto estrinsecamente (libertas a coactione), nè intrinsecamente (li
bertas a necessitate) è una verità , la quale, sebbene accanitamente combattuta
da molti e sotto molti rispetti , resterà sempre incon cussa per chi , scevro
da pregiudizii e forte nelle convinzioni morali , non si lascia smuovere da'
sofismi ne turbare dalle difficoltà » ( 3) . Il vero è , che una questione mal
posta non può aver mai la sua vera soluzione ; e potrà sempre far accettare or
l’una or l'altra di due opposte soluzioni. Quella del libero arbitrio è stata
ap punto una questione mal posta, per l'indeterminatezza del con cetto del
volere , su cui si fondava. Giacchè, se si determina rigoro samente il volere,
è impossibile escluderne la ragione , e non vedere quindi , che se han torto
gl’indeterministi a difendere la libertas ( 1) Filos., II , 21 , 329 e passim ;
cfr. gli Elem ., V, 123. ( 2) Vedi la lodata opera del prof. IGINO PETRONE, I
limiti del determinismo scienti rico , Modena, 1900, pp. 105-6 ; 2.a ed .,
Roma, 1903, pp. 110-111; cfr . BOUTROUX, De la con lingence des lois de la
nature, Paris, 1895 , pp . 123 e sgg. ( 8) BONATELLI, Elem . di Psicologia e
logica , Padova, 1895 , p. 210. a
necessitate, non hanno minor torto i deterministi a combattere la libertas a
coactione : gli uni perdendosi in una vuota creazione dell'intelletto astratto
, gli altri rompendo nello scoglio fallace del meccanismo. E dire che non è
mantato chi ponesse bene la questione , e le desse quindi una soluzione da
soddisfare le oppo ste esigenze e dissipare tutte le difficoltà ! 95. Stabilita
, comunque , l'esistenza della libertà morale, si tratta pel Galluppi di
risolvere questo problema: esiste un bene e un male morale ? E ne chiede la
soluzione , anche questa volta, alla coscienza . L'esistenza del bene e del
male morale, e per conseguenza di una legge morale naturale, è una verità
primitiva attestataci dalla nostra coscienza ( 1 ) . Darne una dimostrazione è
impossibile, senza avvolgersi in circoli viziosi , al pari di chi vo lesse
provare allo scettico l'esistenza e la realtà del nostro cono scere . La
coscienza ci dice che esiste una legge morale naturale, ossia necessaria ed
originaria che si dice dovere : indipendente dalla legge positiva , come
dall'opinione altrui , valida nel segreto dell'anima nostra . Donde viene a noi
la nozione di essa ? Chi indipendentemente dalla legge positiva mi comanda di
non ucci dere un uomo, di rendergli il deposito , che mi ha confidato ? È la
mia ragione , la quale comanda alla mia volontà . « Son io che comando
interiormente a me stesso . Questo comando non mi viene dunque dal di fuori ;
ma dall'interno del mio essere » . Il predi cato dei giudizii morali è l'idea
del dovere ; e questa idea viene da noi , dice il nostro filosofo , non dagli
oggetti. « La nozione del dovere , egli dice anche esplicitamente , è una
nozione soggettiva essenziale alla nostra ragione » ( 2) . Meglio non si
potrebbe dire. Altro che rancidume, e idealità patristica e scolastica !
Nessuna più esplicita e più coraggiosa proposizione avrebbe potuto pro
nunziarsi in omaggio al moderno, al vero soggettivismo . Sog gettivo il dovere
, ma anche essenziale : questa è la giusta defini zione non solo del vero
soggettivo, ma anche del vero oggettivo , dopo Kant, quando bene s'intenda . E
nella morale il Galluppi riproduce Kant bene inteso , senza esitazioni e senza
limitazioni. Annunziata la soggettività del dovere egli dice con accento di
sincerità commovente : « È questa una verità per me evidente , e credo che tale
sembrerà a chiunque vi rifletta di buona fede » ( 3) . ( 1 ) Filos. d. vol .,
IV , 38. ( 2) IV, 41 . Il corsivo è dello stesso Galluppi. ( 3) Ivi . Tutto ciò
trovasi anche negli Elementi, V, 91 .
96. La nozione del dovere rende la ragione ragion pratica o legislativa
(tutta terminologia kantiana, come si vede). Essa è essenziale alla ragione, e
perciò potrebbe dirsi innata. Ma non sono già innati i principii della morale ,
ossia i singoli doveri . Non uccidere : se questo precetto fosse innato ,
dovrebbe esser tale anche l'idea di omicidio, la quale ci viene invece
dall'esperienza. « L'uomo è però costituito di tal natura , che la nozione del
do vere sorte, nelle occasioni , dal suo proprio fondo » ( 1 ) . Insomma, quel
che vi ha di a priori in Galluppi, come in Kant , è la forma del giudizio
pratico ; e la materia è data dall'esperienza . In che consista il dovere, non
è determinato in quella nozione sogget tiva ed essenziale , che costituisce la
Ragion pratica. Di a priori nello spirito e quindi di essenziale nei fatti
etici non havvi che il predicato onde si giudicano le azioni morali : cioè
appunto la forma. Soggettivista come Kant, Galluppi è del pari formalista nella
morale . 97. « La nozione del dovere, egli dice , sorte dall'interno di noi
medesimi, ed applicandosi alle azioni che si presentano allo spirito
costituisce quei giudizii, che sono precetti o comandi » ( 2) . « Questi
precetti, in conseguenza, son proposizioni sintetiche; poi chè essi sono un
prodotto necessario della sintesi della ragione, che aggiunge ad alcuni dati atti
liberi l'elemento del dovere... Questi giudizii , sebbene suppongano alcuni
dati sperimentali, non sono però sperimentali; essi possono, in conseguenza,
riguardarsi come giudizii a priori » ( 3) , - Questa dottrina non ha bisogno di
commento. In essa l'implacabile avversario del Saggio filosofico riconosce la
verità del sistema di quel grande uomo, com'egli lo chiama nella Morale , che
fu Kant ( 4) , « In varie parti delle mie opere filosofiche, dice nella
Filosofia della volontà ( 5) , io ho mo strato l'assurdità de' giudizii
sintetici a priori , ammessi dalla scuola di Kant ; ma i giudizii sintetici di
cui ho io parlato nelle mie opere di filosofia teoretica, sono giudizii
teoretici , non già giudizii pratici » . E negli Elementi di morale, al $ 37 :
« I giu dizii sintetici a priori teoretici mi sembrano assurdi . Ma dal l'esame
profondo della nostra facoltà di volere son forzato di am mettere i giudizii
sintetici a priori pratici, i quali son precetti. Mi sembra impossibile lo
stabilire altrimenti la moralità delle azioni » . ( 1 ) Elem ., V, 92. (2) Ivi,
ibid. (3) Filos. della vol. , IV , 46 ; Elem . , V, 120. ( 4) Elem ., V, 75. (
5) IV, 46 . 98. Fuori di questo soggettivismo morale il Galluppi , come il
Kant, non vede altro che eudemonismo, o morale dell'interesse, come egli dice ;
e questa gli pare soltanto una morale apparente (1). Quando s'intende la
giustizia come un interesse bene inteso, si fi nisce necessariamente col
sommettere la giustizia a qualche cosa che non è la giustizia . Distinguendo l'interesse
bene inteso dal male inteso , « non si pongono in opposizione due interessi
diffe renti ; al contrario, si pone in fatto, che non vi ha che un in teresse
unico , che l'uomo giusto e l'uomo ingiusto hanno egual mente in veduta ; e che
fra essi non vi ha che questa differenza , che l'uomo giusto è un uomo accorto
, e l'ingiusto un imbecille » ( 2) . 99. Ora contro questa concezione morale
militano tre argo menti. 1. ° « La volontà dell'uomo virtuoso differisce
intrinseca mente da quella dell'uomo vizioso » . Laddove nella morale del
l'interesse la volontà di entrambi è unica ; perchè entrambi vo gliono la cosa
stessa : il proprio utile . 2. ° La virtù vera è una dote del volere ; e nella
morale dell'interesse, invece , sta tutta nell'accortezza dell'operare ; poichè
col cuore più perfido si può saper fare il proprio utile ( 3 ) . 3. ° La legge
morale dee essere asso luta ed universale . Invece la morale utilitaria « è
fondata su la situazione ipotica dell'uomo , la quale, cambiandosi, cambia pari
menti nell'uomo il principio di direzione, e la virtù diviene vizio , il vizio
virtù » . Sicché la morale utilitaria è falsa , distruggi trice di ogni vera
virtù si privata che pubblica ( 4 ) . La virtù è causa della felicità ; poichè
, se diviene mezzo, cessa di essere virtù ( 5) . 100. La morale è
essenzialmente disinteressata : la virtù è amabile per se stessa,
indipendentemente dal premio, che la segue. Ma « la coscienza di averla
praticata dev'essere un piacere puro distinto dal piacere preveduto dal premio
, ed indipendente da questo » ( 6) . Nella Filosofia della volontà ( 7 )
l'autore sostiene che se il principio dell'utile non può produrre la virtù ,
nondimeno può concorrere col principio del dovere a produrla. Non manca
tuttavia di notare che tale concorrenza « non impedisce, che l'azione sia
prodotta dal principio disinteressato del dovere; poichè il princi ( 1 ) Filos.
d. vol., IV , 104. ( 2) Op. cit . , IV , 105 . ( 3) Il Galluppi non ammetto che
dall'utile proprio possa nascere l'utile altrui , che l'egoismo, come ora si
direbbe, possa generare l'altruismo . « L'uomo nulla può amare fuori di se
stosso se non per se stesso » . Fil. d . vol ., IV, 105 . ( 4) Op. cit . , IV,
107-9 ; Elementi, V, 8 32, pp. 98-103. ( 5) IV , 113. ( 6) IV , 147. ( 7 ) IV, 164.
270 CAPITOLO VII pio dell’utile in tal caso toglie solamente o diminuisce gli
ostacoli all'esercizio della virtù » ( 1 ) . Sicché , insomma, non è una vera e
propria concorrenza : l'azione morale è effetto unicamente del principio del
dovere assoluto e universale, categorico. Pare che il Galluppi si opponga alla
rigidezza razionalistica della morale del Kant ; ma in realtà sono d'accordo
nella medesima dottrina. 101. Negli Elementi l'autore pare accenni veramente al
Kant, dove dice ( § 33) : « Alcuni filosofi alemanni hanno preteso che
l'ubbidienza al dovere dee esser l'effetto del puro rispetto della ragione per
la legge , senza alcuna specie di piacere , nè di amore. Una tal dottrina è
falsa , e contraria alla testimonianza irrefraga bile della coscienza » . Ma
egli spiega così il suo pensiero : « Non si dee esser giusto e benefico , per
esser felice ; poichè anche quando la moralità non fosse una sorgente di
felicità , non si do vrebbe abbandonare . Ma più la virtù sarà pura e
disinteressata, più vivo sarà il piacere , che risulta dalla coscienza di
averla praticata ..... Il piacere unito all'esercizio del proprio dovere di
spone all'azione doverosa la volontà dell'essere ragionevole..... Ma non
bisogna confondere le conseguenze di un fine col fine stesso .... L'uomo
virtuoso vuole il dovere per se stesso : e questo è il fine ultimo della sua
volontà ; egli , in conseguenza, non fa il dovere per lo piacere ; ma il
piacere non lascia di accompa gnare la pratica del dovere » . Ora questa
dottrina è in opposi zione a un kantismo mal inteso : al kantismo cui s'allude
dallo Schiller nel famoso epigramma sullo Scrupolo di coscienza . Ma il Kant,
in verità, non ammetteva meno del Galluppi quel piacere che consiste nella
soddisfazione che ci dà la coscienza d'aver adem piuto il proprio dovere; ma
come il Galluppi teneva a distinguere questo piacere morale consecutivo
all'azione virtuosa dal piacere patologico a cui uò essere ispirata un'azione
non virtuosa (2) ; ad affermare che il sentimento morale è conseguenza non
principio ( 1 ) IV , 165. ( 2) P. es. nella prefazione alla Tugendlehre scrive
: « Ich habe an einem Orte ( der Berlinischer Monatsschrift) den Unterschied
der Lust, welche pathologisch ist, von der moralischen, wie ich glaubo, auf die
einfachsten Ausdrücke zurückgeführt. Die Last nähmlich , welche vor der
Befolgung des Gesetzes hergeben muss, damit diesem gemässgehandelt werde, ist
pathologisch , und das Verhalten folgt der Naturordnung ; diejenige abor , vor
welcher das Gesetz hergeben muss, damit sie empfunden werde, ist in der
sittlichen Ordnung » . Werke ( ed . Rosenkr. ), IX , 221; cfr . Krit. pr. Vern
. , in Werke, VIII , 152-3. della
moralità . Il Kant bensì osservava che il piacere per l'atto virtuoso compiuto
e il rimorso per il delitto presuppone che si sappia apprezzare il valore del
dovere e l'autorità della legge mo rale'; ond’è che la legge morale è il
fondamento di questi senti menti, non viceversa. Si deve essere , dice il Kant
, almeno per metà di già galantuomini per potersi fare un’idea di tali
sentimenti . Osservazione che mi pare perentoria contro ogni specie di
eudemonismo. Sicché, anche per questo rispetto, la morale del Galluppi
riproduce quella del Kant. 102. Nella morale Galluppi si attiene al criticismo
del saggio filosofico. La sua morale, come quella di KANT, è indipendente
dall'esistenza di Dio. All'ateo, con la sola considerazione dell'umana natura
può provare l'esistenza del bene e del male morale, in dipendentemente dalla
considerazione dell'utile. Perchè l’ateo, qualora non voglia esser sordo alla
voce della coscienza, non può non riconoscere una legge morale, che gli comanda
di esser giu sto e benefico . Giacchè il dovere si conosce per se stesso , è un
elemento semplice di tutte le verità morali, che sgorga dall’intimo di noi
stessi. Le difficoltà da altri incontrate a dedurre dalla natura umana per sè
considerata la legislazione morale, derivano dalla inesatta e incompleta
comprensione di questa natura ; cui si attribuisce solo il principio dell'utile
e si nega il principio morale. Si parte dal principio che nella natura umana
non vi può essere altro principio razionale di azione che quello della pro pria
felicità ; ora qual meraviglia che partendo da un principio insufficiente a
generare il dovere non si giunga ragionando con conseguenza ad una verità
pratica? Anzi, secondo Galluppi, l'idea del divino non è sufficiente a
spiegarci l'origine del do vere : perchè una conoscenza teoretica non è
sufficiente a generare un principio pratico. 103. Ma, diceva il Genovesi, la
ragione umana è fallibile : è spesso traviata dal personale interesse. Eppero i
suoi dettami non possono essere norma delle nostre azioni . E il Galluppi
replica , che questo scoglio non si evita certo con la tesi dell'origine di
Cfr. del resto questo passo del GALLUPPI: « I difonsori della moralo
dell'interesso bene riguardano il rimorso come motivi, che debbano determinar
l'uomo a fare il proprio dovero ; ma noi sostenghiamo, che l'uomo virtuoso dee
fare e fa il proprio dovore per se stesso , indipendentemente dagli effetti che
seguono dalla pratica della virtù e da quelli del vizio. Filos. vina della
morale. Perchè la legge morale bisogna sempre che sia conosciuta dagli uomini ;
e conosciuta , naturalmente, per mezzo della loro ragione . Nè maggior valore
ha l'argomento a cui ar restavasi il Tamburini : che non si può concepire legge
senza legislatore. Il legislatore, dice Galluppi, è essa la ragione, in quanto
ragione pratica. Un ultimo punto d'incontro del Galluppi col Kant è il seguente
. Secondo il filosofo italiano è un principio essenziale della ragion pratica
che la virtù è degna di premio , il vizio è degno di pena: giudizio sintetico a
priori. Ora, se noi crediamo a questo principio , dobbiamo pure credere
all'immortalità del nostro spirito ; perchè l'uomo virtuoso in questa terra non
è sempre felice, nè sempre sfortunato il malvagio. Che il vizio dev'esser
punito intanto è indimostrabile, come che la virtù debb’esser premiata. E
indimostrabile, perchè è un giudizio sintetico . Ma è legge inalte rabilmente
impressa nella realtà del mio essere ; è la voce di quella ragion pratica, che
è la legislatrice delle nostre azioni , e che non ci pud ingannare, se la virtù
non è nome vano . Uno stato è necessario in cui quel principio abbia il suo
valore reale , la sua piena esecuzione . Inoltre , io trovo nel santuario del
mio essere la necessità d'una ricompensa della virtù e d’una punizione del vi
zio ; vi trovo pertanto la necessità di un giudice supremo. Vi è dunque
un'intelligenza suprema, infinita , assoluta , che si manifesta a tutti gli
esseri intelligenti . Questo supremo legislatore e giu dice è Dio. È, comesi
vede , su per giù , la teoria kantiana dei postulati della ragion pratica. 105.
Ma Galluppi sente la difficoltà che s'oppone a una deduzione teoretica da
un'esigenza morale, e si domanda : possiamo noi su la semplice esistenza delle
nostre affezioni in noi, stabilire la realtà degli oggetti di esse ? Anche al
Kant si affacciava un problema simile ; e fa escogitare quella teoria del
primato della ragion pratica sulla ragion teoretica, che è una vera rinun zia a
ogni diritto di vero e proprio filosofare , e perciò a ogni fondamento
filosofico della stessa morale. Il Galluppi non fa motto di questa teorica ,
forse convinto della sua manchevolezza, e tenta ogni via per distrigarsi dalla
difficoltà ravvisata. Ma non pare che le ragioni trovate lo persuadano bene.
Giacchè , infine, Elem . Vedi le ottime osservazioni di MATURI , Principii di
filosofia, Napoli, si prova a dimostrare l'immortalità dell'anima, indirettamente,
dimostrando che non si può provarne la mortalità . Se pure que sta può dirsi
dimostrazione. 106. Egli dice in sostanza, dopo qualche esitazione :
l'esperienza ci mostra che gli oggetti delle nostre affezioni sono reali. Ma
fra le nostre affezioni c'è la tendenza alla immortalità ; dunque l'anima è
realmente immortale. Bisogna riconoscere che in gene rale le nostre tendenze
naturali non sono defraudate del loro oggetto . Una di queste tendenze è la
curiosità . E non possiamo noi forse, dice Galluppi, spesso soddisfare la
nostra curiosità. Questo spesso , veramente , guasta, e non poco ,
l'argomentazione dell’autore ; il quale si contenta di constatare con
l'esperienza : « non vi ha alcuna tendenza nel cuore umano la quale non possa
qualche volta raggiungere l'oggetto cui ella tende. Qualche volta! Dunque
l'asserzione dell'immortalità dell'anima non è nulla d'apodittico : è meramente
problematica . Per dirla schietta, il nostro filosofo è convinto che « il domma
dell'immortalità » im porti alla filosofia morale come il più fermo sostegno
della virtù infelice ed un freno potente alla licenza del vizio » ; ma chiuso
nel suo sperimentalismo, ignaro degli espedienti mal fidi del Kant, non sa
fondare teoricamente il suo principio , non sa darne una giustificazione filosofica
; più filosofo nella sua impo tenza degli odierni prammatisti, che con la
maggiore disinvoltura creano una metafisica per uso e consumo della morale,
quasi che lo spirito avesse fine più degno del vero. Quasi che il bene potesse
fare a meno di essere il vero bene. Stabiliti comunque i suoi principii
generali della morale, che , come s'è notato , sono principii essenzialmente
formali, come tutti i principii soggettivi, si può rimproverare al Galluppi
ch'egli ne deduca i singoli doveri. Ma anche in questo egli s'accorda col KANT,
la cui Dottrina della virtù, nella seconda parte della metafisica dei costumi,
per quanti sforzi facesse l'autore di salvare il suo formalismo , è in assoluta
contraddizione col principio for male da cui si vuol derivare. Il formalista
così nella logica come nella morale deve lasciare alla storia il compito di
dare un con. tenuto alle leggi soggettive, epperò necessarie ed universali,
dello spirito. Certo , con tutti i suoi difetti , che non sono solamente suoi,
anche nella morale il Galluppi rappresenta un progresso immenso Elem . della
filos. morale, cap. sui filosofi precedenti. In conchiusione, egli con le sue
ispirazioni kantiane, co'suoi studi accuratissimi su tutta la moderna gno
seologia post-cartesiana si libera dalle angustie del sensismo e dello
spiritualismo dommatico ; e inizia in ITALIA un nuovo periodo speculativo ; nel
quale il nostro pensiero, rinsanguato delle idee più vitali della filosofia
tedesca. si solleva col SERBATTI e col Gio berti a un'altezza non più toccata
da noi dopo i grandi pensatori del Rinascimento.Galluppi.
Pasquale Galluppi. “Galluppi errs in calling natural semiotics, ‘il linguaggio
dell natura,’ since no tongue is involved!” But we can forgive him for that
since he genially realizes, unlike King Alfred, that one can use ‘dire’, ‘con
questo moto del ditto, egli dice al compagno che vada da B in C” Segno
figurato, motto dei bracci quando imito il moto de pesare para figurar
paragonare. – Grice: “Gallupi’s scheme is a complex, and much better than
Locke. He notes that ‘natural’ can apply to ‘sign’, and it is a natural fact
that men will start using ‘natural’ signs in an artificial way – this he calls
‘natural sign’ – in that it is already an utterer making the gesture, as when
he sneezes, intentionally. Galluppi has always in mind the dyad, what he calls
il ‘compagno’ – so he plays with fifty variants on a theme. A makes a gesture –
with the finger, with the arm --. Galluppi speaks of the ‘proposizione’ being
communicated even in these cases – a ‘grido’ is equivalent to the proposizione
that the compagno is to ‘turn his attention towards the utterer’ – In the
‘natural’ sign, as used in communication, we are already in the realm of the
artificial – only a black cloud naturally means rain – Galluppi hardly dwells
on a ‘grido’ signifying pain in a natural way. He notes that we progress. And
he keeps looking for the reasons in the utterer and the addressee for all this.
So like me, he looks for a motivational rationale – a ‘semantic’ freedom – or
‘prammatica’ as he would say. Since he is an illuminista, he is only concerned
about this in terms of a minimal taxonomy of signs. So between the signs used
in communication he distinguishes three types: the imitative, the indicative
(different criteria) and the figured sign – not figurative – ‘segno figurato’ –
when a lot of pantomime takes place. It is only THEN that he explores the
arbitrariness: one loses one’s compagno, and utters, “Where are you?” – so
since this worked, they agree that ‘Where are you’ will mean, “I lost you –
where are you?” --. And then we have a full lingo – or semiosis. He rightly
thinks that his is an improvement over Lucrezio!” Pasquale Galluppi. Galluppi. Keywords: gesto,
grido, gemito, moto del ditto, dolore, causa del dolore, circustanza, segno
naturale, segno istituito, segno commune (istituito per la comprensione mutua),
segno arbitrario, segno artificiale, segno imitative, segno indicatore, segno figurato,
segno analogico, segno figurativo -- gesto della mano, lo sguardo, communicare,
sentire, volere, Gentile, il canone nella storiografia filosofica italiana –
Gentile su Galluppi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per
Il Club Anglo-Italiano,The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Grice e Galvano: l’implicatura
conversazionale dell’arte naturale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like
Galvano; he has philosophised on aesthetics, on ‘spirit and blood,’ and on polytheism,
citing Sallust!” Frequenta la scuola a via Galliari, animata da Casorati. Fonda L'Unione Culturale di Torino. Promuove il “Movimento Arte Concreta” – cf.
Arte Astratta – Insegna all’Accademia Albertina. Dizionario Biografico degli
Italiani. FONDAZIONE GIORGIO AMENDOLA E ASSOCIAZIONE LUCANA CARLO
LEVI Pino Mantovani Luca Motto
Albino Galvano Fare, pensare, vivere la pittura"i Pmm gr s m
dz de 2zpA—A_t} PA "o Scritti di PINO
MANTOVANI LUCA MOTTO ALESSANDRO BOTTA ADRIANO OLIVIERI
G. Fare, pensare, vivere la pittura Aver
puntato il senso della propria vita sui segni e sui colori sarà
stata magari una puntata inutile ma non elusiva e non insincera | [ALBINO
GALVANO, 1980] FONDAZIONE GIORGIO AMENDOLA
AssociaziIoNE LUCANA IN PieMONTE Carto LEVI MOSTRA D'ARTE
TRENTENNALE DI G. Torino, marzo-giugno 2021 presso la Sala Mostre
dell’Associazione Lucana Carlo Levi e della Fondazione Giorgio Amendola
Con il Patrocinio di Con la collaborazione di REGIONE
CONSIGLIO wc I GALLERIA | NE } CITTA DI TORINO olii MIN FEONIE DEL
PIEMONTE att Sen DEL PIEMONTE Il 2020-21 è stato un
biennio segnato dalle notevoli difficoltà imposte dalla pandemia da
Covid-19. Alla luce delle molte restrizioni, la Fondazione Amendola ha cercato,
nel limite del possibile, di proseguire con le proprie attività di
divulgazione e promozione culturale adattando spazi e metodologie alle
esigenze del periodo, rispondendo all'emergenza coronavirus con
iniziative dinamiche e creative, passando per la fruizione digitale per
permettere agli utenti di restare a casa, come le disposizioni
prescrivono, senza perdersi dei contenuti culturali. Sotto questa
prospettiva e, nonostante le molteplici difficoltà, il lavoro svolto per
ricordare, a trent'anni dalla sua scomparsa, l'artista torinese Galvano è
stato importante. La Fondazione Amendola ha ritenuto opportuno offrire
alla città di Torino e non solo, la possibilità di accedere gratuitamente
all'incontro con l’opera artistica e intellettuale di una delle figure di
spicco del panorama artistico italiano della seconda metà del novecento.
L'iniziativa, di rilievo nazionale, ha permesso di raccogliere artisti e
intellettuali di tutta Italia che hanno collaborato con G. e che tuttora
ricoprono un ruolo fondamentale nella produzione culturale del nostro
Paese.Prospero Cerabona Presidente della Fondazione Giorgio
Amendola Studi, Convegni, Ricerche della Fondazione Giorgio
Amendola e dell’Associazione Lucana Carlo Levi 54
Presidente Fotografie delle opere PROSPERO CERABONA MARCO CORONGI
Curatore mostra e catalogo Direttore Responsabile PINO MANTOVANI PROSPERO
CERABONA Scritti di Redazione PINO MANTOVANI, LUCA MOTTO, BOTTA,
ADRIANO OLIVIERI DOMENICO CERABONA, MARIA SOFIA FERRARI Progetto
ed allestimento PINO MANTOVANI, LUCA MOTTO, EDITRICE IL
RINNOVAMENTO —” Fotocomposizione © EDITRICE IL
RINNOVAMENTO Ente promotore Fondazione Amendola
VIDEOIMPAGINAZIONE GRAFICA DI TESTI E IMMAGINI Associazione Lucana in
Piemonte Carlo Levi VIA TOLLEGNO TORINO Si ringraziano per il prestito delle
opere e la collaborazione: Galleria del Ponte (Torino), Civica Galleria d'Arte
Contemporanea Filippo Scroppo (Torre Pellice), Stefania e Testa, Liliana
Dematteis, la famiglia Maggiorotto e tutti gli altri prestatori che hanno
preferito restare ano- nimi. Si ringrazia Francesca Barzan per la
realizzazione delle docu-interviste. Sommario Albino
Galvano e la pittura Pino Mantovani Albino Galvano: la fedeltà alla
pittura Luca Motto Da discepolo a interprete. Albino Galvano e Felice
Casorati Alessandro Botta Gli occhi fervidi e il sapore di
cenere. Albino Galvano: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Adriano
Olivieri Opere esposte ARTE DI VENEZIA
GATMAZH TEAOZ GANATOZ XXVI: ESPOSIZIONE
INTERNAZIONALE D G. BIENNALE Foto Giacomelli -
Venezia FOTOTECA ASA. G. e la pittura Pino
Mantovani Da pittore, Albino Galvano pone tre livelli
d’inda- gine; come qualsiasi artista intelligente, se non fosse
che, nel caso suo e di non molti altri, i tre livelli si presentano
specialmente complessi e coltivati con con- sapevole separatezza e
problematica interconnessione: Il primo livello comporta chiedersi
che pittore Galvano sia stato e, ovviamente, interrogarsi sulla
specie e sulla qualità della pittura (delle pitture) che ha messo in
opera nel lungo percorso, sicuro e tortuo- so, che lo ha impegnato
pressoché ininterrottamente. Il secondo livello comporta mettere a fuoco
la concezione (le concezioni) ch'egli ha elaborato della pittura,
in quanto da critico (e autocritico: nella sua scrittura, l’autoritrattoè
un vero e proprio genere!) si è occupato dell’arte, in particolare della
pittura, conuna intensità, una pervicacia, una curiosità sempre
sveglia, direi aggressiva, in un'epoca provocatoria e insieme
minacciata dalla condiscendente banalizzazione. Ma, forse, il nodo
più difficile da sciogliere è quale rapporto ci sia tra il praticante
pittura (‘[...] è questa l’arte — scrive di sé nel ‘46 — della quale
ab- biamo, bene o male, una qualche esperienza vissuta e [...] non
crediamo se non ai discorsi che nascono da questa esperienza”, dove si
radica anche la mi- litanza del critico) e il teorico che usa gli
strumenti del filosofo, dell’antropologo, dello psicanalista, dello
storico (da competente, eppure mai imprigionato dallo specialismo? e
anche meno dall’appartenenza'*) 1 Sipuòdaffermare che
ogni suo scritto è occasione per una au- toanalisi. Come, d'altra parte,
che l'autobiografia non è mai cro- naca contingente, invece occasione per
andare oltre la cosiddetta evidenza dei fatti, per indagarne radici e
proiezioni. 2 A. Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue, in
“Tendenza” n.1, Torino, ripubblicato in A. Galvano, La pittura, lo
spirito e il sangue, a cura di G. Mantovani, Il Quadrante, Torino; in A.
Galvano, Diagnosi del moderno, a cura di A. Ruffino, Aragno editore
Torino. 3. G. Gallino, in Attraverso il Novecento: Albino Galvano,
Atti del Convegno, Torino 1997 a cura di M. Pinottini. Bulzoni
editore, Roma: "Se ... l’eclettismo diventa una condizio- ne
dell'esercizio dell’arte, è anche la qualificazione dello status
dell’intellettuale, che, in ogni specifico ambito d'indagine, è sol-
lecitato a non perdere di vista la visione d'insieme dei problemi. La
polemica di Galvano contro la specializzazione, quale esclusiva procedura
del sapere, risponde a tale regola metodologica. In- dubbiamente, in ogni
attività culturale, è necessaria una partico- lare competenza, ma, al di
là del suo confine, s'impone l'esigenza del controllo unitario dei suoi
esiti e delle sue interpretazioni”. A. Ruffino, (Com)plessi galvanici, introduzione
a Diagnosi del mo- derno, cit.,: “Contro lo specialismo, ... Galvano
ha sferrato una controffensiva senza tregua e a tutto campo: sul
pia- no pratico, opponendo al tecnicismo la tèchne (nel suo caso
quella pittorica); sul piano morale, opponendo alla provvisorietà
della posa il rigore della presa di posizione (ma mai irrigidita in
partito preso); sul piano estetico, opponendo ai miraggi di progresso
illi- mitato espressi dal Funzionale le ragioni dell’Organico, capace
di suscitare creazioni vive”. 4 Interessato “da una parte
all'eredità del tardo romantici- A. G. con Mariacarla e Pino Mantovani,
Racconigi, 1980. per affrontare la pittura, alla quale riconosce
una singolare centralità. Tutti questi temi mi hanno per
decenni accom- pagnato e sollecitato. I miei primi interventi su
Galvano pittore risalgono, infatti, all’inizio degli Ottanta: data 30
novembre 1980, la presentazione ad una personale presso la Galleria
Maggiorotto di Cavallermaggiore, seconda di una serie dedi- cata ai
protagonisti del MAC torinese; ma già nel marzo dello stesso anno avevo
tracciato, con la collaborazione dei miei allievi in Accademia, un
quadro della pittura degli anni Cinquanta a Torino nel Museo Civico di
Casa Cavassa a Saluzzo’, sulla falsariga delle indicazioni che Galvano
aveva for- nito a T. Sauvage? per una storia ancora regionale
dell’arte italiana nel Dopoguerra; e nel 1983 sul catalogo della mostra
Arte a Torino, nel smo e del decadentismo: Mallarmé e Bergson, ‘esoteristi
e filosofi della vita’, psicanalisi ed esistenzialismo, dall'altra alla
severità dello storicismo crociano e all'esempio del rigoroso metodo
cri- tico negli studi di storia dell’arte [...] Lettore di Klages, di
Jung o di Guénon, ma anche studioso di Kant e di Hegel” (A. Galvano,
Perché non possiamo non dirci crociani, in “Numero”, n. 3, 1953. At-
tento a Freud come a Jung. Curioso delle storie, nel tempo e nello
spazio, pronto a coglierne, nella comune umanità, le differenze e le
istruttive potenzialità. 5 PitturaaTorinoneglianni cinquanta, a
cura di G. Mantovani, cata- logo della mostra, Museo Civico di Casa
Cavassa, Saluzzo. 6 T. Sauvage (pseudonimo di A. Schwarz) Pittura
italiana del Dopoguerra; Ed. Schwarz, Milano 1957, il testo fu
ripubblicato con integrazioni e il titolo La pittura a Torino dal ‘45 ad
oggi, in “Let- teratura”, n. 1, Torino 1960, successivamente in A.
Galvano, La pittura..., cit. pag. 135 segg; e A. Galvano, Diagnosi...,
cit., pagg. 393 segg. 7 Arte a Torino, 1945-1953, a cura di
M. Bandini, G. Mantovani, F. Poli, catalogo della mostra, Torino salone d’onore dell’Accademia Albertina,
dedicavo a Galvano il mio intervento, anche oltre gli anni definiti
nel titolo. Mi troverò, pertanto, a incro- ciare in queste pagine scritti
pubblicati in un arco di tempo di circa quarant'anni, con il
proposito, spero non solo narcisistico, di organizzare in di-
scorso unitario contributi sparpagliati e spesso di non facile
reperimento. Proprio dalla presentazione Maggiorotto — poi
variamente elaborata per occasioni ulteriori dedicate appunto al MAC,
come il catalogo per la esposizione del MAC torinese sempre curata dalla
galleria Mag- giorotto alla Expo Arte — Fiera Internazionale di
Arte Contemporanea di Bari (1982), la presentazione del catalogo
Albino Galvano, Proferio Grossi, Luiso Sturla, Artecentro, Milano 1994,
fino al saggio sul movimen- to torinese nel volume per la mostra
MAC/ESPACE TORINO È VIa S. GIULIA 12 TORINO Pre.
A. PARISOT |F. SCROPPO Bollettino «Arte
Concreta» e n. 12, 1953. all’Acquario di Roma—mi parlogico
cominciare, non tanto perché uno dei primi approcci al tema —
allora potevo anche contare sul rapporto diretto con Galvano, ma devo
dire che la sua disponibilità non era invasiva e tanto meno arcigna rispetto
alle inter- pretazioni che venissero proposte del suo impegno —
quanto perché vi si pongono i fondamenti del mio interesse per l'artista
/critico / filosofo. L'incipit che sceglievo allora mi pare sia ancora il
migliore possibile; non mio, intendiamoci, invece proprio di Albino
che 8. Loscrittosarà rielaborato come prefazione a A. Galvano,
La pittura, lo spirito e il sangue, cit. 9 P. Mantovani,
Pittori concreti a Torino, in MAC-ESPACE - Arte concreta in Italia e in
Francia, 1948-1958, a cura di L. Berni Canani e G. Di Genova, catalogo
della mostra, l'Acquario Romano, Roma, ed Bora, Bologna.
così aveva concluso un asterisco sul Bollettino “Arte
Concreta”, n.12, 195310 ; “E scopriremo che è un programma [quello
del MAC le cui premesse erano già nei romanzi dei tempi della
nonna? Tanto meglio, almeno avremo evitato l'equivoco più antipatico che
grava sull'arte astratta: che si tratti di cosa moderna 0, peggio,
d'avanguardia”. Una fulminante risposta al nemico Leonardo Borgese
che sul Corriere della Sera, aveva definito A’ rebours di Huysmans, “un
vecchio romanzo dell’800”, fonte peraltro “di tuttele velleità estetiste
dell'avanguardia”: fornendo unovvio spunto polemico — non saprei
quan- to consapevole, nel caso addirittura masochistico — a chi da
anni si occupava del rapporto tra le cosiddette “avanguardie” ela linea
dal Romanticismo al Simboli- smo; ma anche agli amici di Milano che si
riconoscevano nel programma di Sintesi delle Arti pubblicato nello
H | FIL sintesi allo studio b 24
dal 21-2 al i: se ? i fi 5
5! È s7 A. G. riproduzione di
Verso Occidente, Biennale di Venezia 1952. stesso Bollettino, che
prevedeva “il diretto concorso di tecnici e artisti, sul piano della
stretta collabora- zione, per il raggiungimento finale d’un concreto
il quale aderisca alla funzione in armonia di colleganza fra il
mondo della forma, lo spazio e l'applicazione pratica dell’opera
collettiva”! viva il design, la grafica e l'estetico diffuso, dunque.
Come non bastasse, Gal- vano conclude l'asterisco citato rigettando
qualsiasi attualismo:” Che bel giorno quello in cui potremo
lavorare in pace al compito che la storia ci ha affidato, certi che nonè
sulla misura della contingente attualità 10
L'asterisco, cioè l'osservazione, la messa a punto marginale è il
contributo che Galvano sceglie per intervenire criticamente liberamente
sui Bollettini del MAC (e altrove). 11 E Passoni, Le arti e la
tecnica, “Arte Concreta”, ried. anastatica, a cura della galleria
Spriano, Omegna. che il nostro lavoro verrà giudicato!”. Il fatto è che
Galvano non intende escludere tutta la complessità di rimandi e
proiezioni, soggettivi ed oggettivi, che i linguaggi dell'immagine —
specialmente quando non siano troppo condizionati da tecniche o
ideologiche motivazioni — si portano dietro e dentro, e che, del
resto, la cultura moderna indaga con particolare impegno e analizza con
rinnovata strumentazione, mentre altri linguaggi dell’immaginario—la poesia,
la narrativa, lamusica — stanno sperimentando a tentoni forme
“nuove” (o vecchie !? o antiche, al punto d’essere “originarie”!).
Neppure, d'altra parte, egli intende abbandonare la pittura come
linguaggio specifico, proprio quella tradizionale (tela, carta o
qualunque supporto piano, disegnoe colore, gesti e tracce a formar
figure !4); per quanto metta in conto uno spostamento dall’iconico
all’aniconico, dal descrittivo all’evocativo, dall’allusivo all’emblematico,
dal geometrico al rit- mico al gestuale; ciò che non precluderebbe
peraltro “la possibilità di uno scambio e di una penetrazione
sempre possibili nell'esercizio di una lettura figurativa per elementi —
segno, colore, movimento, materia ecc. “Confessiamo di essere segretamente
d'accordo con Bor- gese [quando invita a rileggere A’ rebours]. Perché...
l'essere agli antipodi [delle scelte di Huysmans e delle preferenze in
pittura del suo eroe Des Esseintes] è troppo vitalmente legato a ciò
che rifiuta per non riprenderlo su di un piano meno esterno: e le
cita- zioni dalla Blavatzky e da Steiner del Kandinsky della
‘Geistige’, l'appartenenza a circoli teosofici di Mondrian giovane, il
fatto che uno dei primi scritti italiani sull'arte astratta sia di J.
Evola sono ben significativi di un rapporto ambivalente — di rifiuto per
la ca- rica letteraria, moralistica o immoralistica, del simbolismo
speso alla spicciola nell’allusività delle immagini e della messa in
scena, e insieme di accettazione di quel gusto di allusioni e suggestioni,
di segrete corrispondenze tra immagini e speculazioni — che — nel- le sue
due facce: sensualmente umbratile l'una, simbolicamente intellettuale
l’altra — tra il 1890 e questa metà del nuovo secolo hanno ostinatamente
tentato di aprirsi una strada — sia pure af- fidandosi alla romantica
barca ‘ebbra’- dalle varie forme di resa alla prosasticità del realismo”.
Ancora dall'asterisco citato di Gal- vano in “Arte concreta”. Azzardo
un'ipotesi (certo suggestionato dal recente catalogo della mostra La regione
delle Madri. I paesaggi di Osvaldo Licini, Elec- ta, Milano, 2020, in
particolare dal saggio di S. Bracalente, Licini oltre la geometria: una
primordiale genesi del mondo): che Galvano non abbia ignorato “Valori
primordiali”, e in particolare l’opera di F. Celiberti, anche lui
proveniente da studi di storia delle religioni, tanto importante per
Licini proiettato dalla fine degli anni Trenta oltre la geometria,
specialmente nell’incrocio tra teosofia, esisten- zialismo e
fenomenologia (Paci e Banfi), e per comuni interessi per Spengler,
Klages, Guénon ... e per l'alta poesia romantica. 14 “Dipingere con
colori e pennelli ... è stata una costante del mio lavoro nei suoi vari
cicli, anche quando come spettatore ho pregiato e difeso esperienze varie
e opposte. Ma è certo che, se tra il '75 e il ’78 ero venuto via via
recuperando alla mia pittura quell’attaccamento alle gidiane nourritures
terrestres che confessa- vo in un altro mio scritto, nei quadri qui
presentati esse hanno perso ogni ghiottoneria che non sia quella
dell'occhio contemplan- te: in bocca è solo sapore di cenere. Ciottoli,
fossili: l'eco della vita in ciò che non ha vita o non l’ha più”. A.
Galvano, Autopresenta- zione della Personale, Piemonte Artistico Culturale,
Torino). Libretto di iscrizione a magistero.
— non diversi da quelli che consentono la valutazione di ogni
buona pittura”! Perfino le ‘’ giuste ragioni” concesse ai concretisti
milanesi sembrano far parte di un gioco alquanto provocatorio, portando
il discorso dal livello tecnico a quello culturale ed etico, di una
eticità sempre esposta, in un certo senso negativa (“demoniaca”, nella
cultura occidentale, di radice inevitabilmente cristiana anche nella più
spinta laicità). Già l’anno precedente, nelnovembre del ’52,
firmando con Biglione, Parisot e Scroppo quello che a ragione o a
torto è considerato il manifesto del movimento torinese, Galvano aggira
gli ottimistici programmi dei milanesi, espressi nei manifesti dell’ Arte
Organica, del Macchinismo, del Disintegrismo, dell'Arte Totale!’
che sanno ancora tanto di Futurismo, e dichiara che carattere essenziale
nella scelta dei nuovi adepti è la “responsabilità liberamente assunta
sul limite più impegnativo ... di lotta contro ogni conformismo e
pigrizia intellettuale” nel campo della pittura come in diversa
applicazione estetica e pratica, senza com- promessi e “senza pudore”. Il
fatto è che Galvano (e A. Galvano, presentazione della
collettiva, Bordoni, Galva- no, Jarema, Parisot, Scroppo, Galleria del
Fiore, Milano 1954. 16 Cfr. “Arte Concreta n. 10.
“L'unico atteggiamento ragionevole è quello di lavorare at- tendendo
colla sincerità di chi sa che lo spirito ama le posizioni estreme ed
attive , non i compromessi”. (A. Galvano, L'evasione, in “Il Selvaggio”,
15 gennaio 1940, ripubblicato in A. Galvano, Dia- gnosi del moderno (a
cura di A. Ruffino), cit., pag. 28. con lui i pressoché coetanei
Adriano Parisot, Filippo Scroppo, Paola Levi Montalcinie i più giovani
Anniba- le Biglione e Carol Rama, per nominare tutti i torinesi che
aderiscono più o meno convinti al MAC)ha dietro le spalle una ventina
abbondante d’anni di lavoro non ovviamente mirato allo sbocco astratto.
Basta pensare alla frequenza orgogliosamente esibita fino
all'ultimo della scuola di Felice Casorati (sul quale elabora una
piccolamaimportantemonografia che punta non poco sulla stagione
simbolista — sull'argomento si rimanda all'intervento in questo catalogo
di Botta), al rapporto con il neoimpressionismo dei Sei, in va-
riante espressionista; al fatto che egli medita, continua a meditare sul
significato e sul valore della scelta “moderna”, essenziale, inevitabile,
ma problematica nelle ragioni, nei modi, negli obiettivi; infine, che
ha una formazione teorica e storica — aggiungerei una struttura
psicologica ed una educazione — che non gli consentono di utilizzare a
cuor leggero la strategia del manifesto, di ascendenza futurista, e in
genere le dichiarazioni programmatiche!8: una questione di
carattere e di stile oltre che di metodo e di cultura. Del resto, Albino
Galvano aveva già affrontato il tema in testi antecedenti di alcuni anni,
ne utilizzo uno in particolare:” La pittura, lo spirito e il sangue”,
che uscì nel 1946 sul primo ed unico numero della rivista
“Tendenza”, nell’ambiziosa prospettiva dei direttori responsabili — lo
stesso Galvano e Pippo Oriani — Rivista mensile di Arti figurative!. Certo
esistono di Galvano saggi più importanti come quelli che elenco
innota?°, dove il tema è affrontato con argomentazioni analitiche e
storicamente complesse, ma continuo a trovare snodo esemplare nella
vicenda dell'artista il brevesaggio citato. Anche la data è importante, a
guer- Il dubbio, lo scetticismo, l'ambiguità come tensione fra
op- posti sono fondamenti del suo metodo, che non è irrazionale,
in- vece di un razionalismo critico che mai cede allo schema
ideolo- gico o alla rigida consequenzialità. Nonacaso ho
scelto il titolo del saggio come titolo per la citata Antologia di A.
Galvano, edita dal Quadrante, Torino. Diversi saggi di grande respiro, Galvano
pubblica negli anni immediatamente successivi alla seconda Guerra
mondiale. Elenco in ordine cronologico quelli ripubblicati sull’Antologia
citata, consenziente l’autore: Aspetti del problema estetico dell’esistenziali-
smo, Atti del Congresso internazionale di Filosofia, Castellani e C ed.,
vol II, Roma, 1946; L'esistenzialismo, a cura di E Castelli, Mi- lano
1948; Storicità e significato dell’arte “astratta”, in “Archivio di
filosofia”, vol. I, Milano 1953, “Galleria di Lettere ed Arti”, n. 4-5,
1953; Medioevo e Romanticismo, “Questioni” n. 2, 1955; Vita e forma in
alcune ricerche di estetica contemporanea, Atti del IIl Congresso In-
ternazionale di Estetica, Venezia 1956, edito dalla “Rivista di Esteti-
ca”, Torino 1957; Le poetiche del simbolismo e l'origine dell’Astrattismo
figurativo, Studi in onore di L. Venturi, Roma. All'elenco si aggiungono
i saggi pubblicati in successive occasioni: in partico- lare sul catalogo
della Antologica postuma: Omaggio a Albino Galva- no, a cura di P.
Fossati, F. Garimoldi, M. C. Mundici, catalogo della mostra, Circolo
degli Artisti, Torino 1992 e, con scelta assai più am- pia ma ancora
lontana dalla completezza, sulla recente antologia: A. Galvano, Diagnosi
del moderno, cit. ra appena finita; come significative le
collaborazioni, che elenco per segnalare la ricchezza e la varietà
dei contributi, intesi a coprire in tutta la loro estensione le
cosiddette Arti figurative: C. Mollino e U. Mastro- ianni, Monumento ai
Caduti per la liberazione d'Italia; R. Chicco, ... et le tableau quittè
nous tourmente et nous suit; I. Cremona, Dal cannone alla Secessione; A.
Dra- gone, Disegni, acqueforti e acquerelli di Cino Bozzetti; P.
Oriani, Franco Costa; C. Mollino, Gusto dell’Architettura organica; O.
Navarro Il messaggio della cultura; ancora A. Galvano, Woyzeck di Georg
Biùchner, P. Oriani, Breve discorso su due films di Cocteau. Aggiungo — e
non è un dato secondario—dopo una pagina redazionale, quindi di
Pippo Oriani “che proviene dall'esperienza futuri- sta” e dello stesso
Albino “che proviene dal purismo casoratiano e dal neoimpressionismo
venturiano”, dove si rivendica, dalle due parti inconciliabili (ma
l’inconciliabilità è segno di forza, di utile tensione) la gratuità
dell'atto creativo rispetto alla riflessione critica, e l'autonomia del
giudizio critico rispetto alle generalizzazioni dell'estetica, in un tempo
storico che minaccia di deludere chi aveva sperato che la fine del
regime politico e culturale comportasse il recupero pieno della libertà e
la sua pratica esplosiva. L'avvio del saggio è forte, al solito
compromesso, e ancora una volta lo propongo: “L'appello della pit-
‘LA PITTURA, LO SPIRITO E IL SANGUE L'appello della pittura
risuona dal profondu del nostro sangue — ancora con quell’urgenza —
come nei quindici anni quando sostituiva in camuff:imenti impegnati
sino alle estreme ragioni della possibile azione, gli slanci religiosi o
i presentimenti sessuuli. Ma le vie dell'Eden sono perdute, e sarà vano
lo sforzo di ricostruire un itinerarioche approdi al- l’innocenza
d'allora, che vi riscatti la sin troppv chiara coscienza del carattere
composito e compro. messo di ogni atto umano che non sia di
rinunzia: il peccato fondamentale dell’arte. Invano da anni
l'estetica crociana, non per nulla irritata con il « fanciullino »
pascoliano troppo chiaramente preanunciante le scoperte freudiane {e
contro Freud i erociani si armeranno della più ipocrita in-
comprensione) cerca di riprendere e di legittimare, con la sterilizzata
convinzione del carattere « teore. tico» dell’arte, il troppo scoperto «
alibi » kan- tiano del « bello come simbolo del bene morale ».
Credo siu venuto il momento di confessare schiet- tamente che il bello,
proprio questo bello artistico che ci brucia sin dalla giovinezza ogni
possibilità di rassegnazione e di conformismo, è piuttosto il «
sim. bolo del male morale ». Tanto, anche eticamente. dla questa
franchezza non perderemo nulla. Soltanto Nietsche ha insistito con
sufficiente chia- rezza su questo carattere, profondamente « vitale
» e perciò profondamente « immorale » dell'attività artistica:
contro il quale assai poco mi paiono va- lere le due obiezioni che
implicitamente o esplici- tamente vengono mosse dagli idealisti e dagli
spiri. tualisti. Se per i crociani — ma credo che in Gen- tile
l'implicita ammissione, inevitabile data l’iden- tificazione di arte e
sentimento e l’inseparabilità dell'agire dal conoscere, di quanto sì è
detto, fosse più che sospettata dall'autore anche se la reto. rica
di cui sempre fu ammalato gli impedì di am- metterlo in termini chiari;
che tuttavia non man- cano nei più diversi fra i suoi seguaci o
avversari- seguaci: dal primissimo Abbagnano disciogliente tatto il
reale in irrazionalità, appunto con una re- ducetio ad absurdum
dell’attualismo, all'Evola, al più recente Spîrito — se per i crociani,
si diceva, la scappatoia di ridurre l’arte a pura conoscenza,
giocando sul doppio ruolo confuso insieme del- l’« intuizione » permette
di evitare lo spinoso prò- blema, i recenti spiritualisti — ma
anche fra di. loro lo Stefanini, ad esempio, ammettendo una.« in-
sufficienza dell’arte alla vita» — pur nella auto- ì enza in ordine al
proprio valore peculiare, finisce collo svalutare moralmente l’arte —
candi- damente invece sermoneggiano sulle comuni radici del bello e
del buono (nel secolo scorso queste niaiseries di solito avvenivano su di
uno sfondo ontologistico vagamente giobertiano, oggi lo gnoseo-
logismo idealistico generalmente è rispettato anche dagli spiritualisti
che dell’idealismo dovrebbero es- ser avversari) e ci avvertono
che il tormento del- l'urtistu che insegue con il diuturno lavoro
il fan- tasma che sempre gli sfugge è profondamente mo- rale!
; Dio volesse che fosse veramente così. E che si potesse sul
serio sperare che all'artista, dopo la conquista su cui ha tutto giocato,
della propria immagine, fosse anche riservato per soprappiù il
paradiso delle religioni e delle etiche! Sarà meglio invece
guardarci chiaramente in fac- cia e chiederci se veramente per il
puradiso provvi. sorio della bellezza non giochiamo la salvezza della
nostra anima — ammesso che «questa espressione abbia un senso: quello
cristiano, + quello di una etica « laica » (ma generalmente è
cripto-eristiana anch'essa) — riconoscere per che cosa abbiamo
scommesso; chè le conseguenze del nostro « pari » atiche se lo avremo
perduto non diventerunno duv- vero peggiori per quest’atto di
franchezza. Rimane inteso che su questa rivista, che non è
dedicata a studi filosofici, non potremo farlo che sotto l'angolo della
pittura; ma poichè è questa arte della quale abbiamo, bene 0 male. una
qual che esperienza vissuta e poichè d'altra parte non crediamo se
non ai discorsi che nascono da questa specie d'esperienza, la cosa non
sarà fuori posto. La coscienza rimane inquieta. E poichè
sente che tutto nel problema implica la discussione delle
CAROL RAMA Disegno - 1944 Da «Tendenza», 1946,
disegno di Carol Rama. tura risuona dal profondo del nostro sangue
— ancora con quell’urgenza — come nei quindici anni quando
sostituiva in camuffamenti impegnati sino alle estre- me ragioni della
possibile azione, gli slanci religiosi o i presentimenti sessuali”.
Geniale, perché collega direttamente, intimamente la pittura (ma in
genere i linguaggi creativi) alla natura, al sangue appunto,
affermando “il carattere profondamente immorale dell'attività artistica”
già sostenuto da Nietzsche, negato o perlomeno arginato invece da
Idealisti e Spiritualisti; e insistendo sulla “presenza di una
volontà — non risolta nella pura contemplazione, né risolvibile, dato
ilsuo orientamento verso l’immagine [...] La cosaè particolarmente
evidente nelle arti figu- rative e la multiforme e aperta a direzioni
divergenti attività [...] ne è il paradigma [...] Ed è appunto ciò
che è sfuggito all’idealismo, a causa della artificiosa distinzione [...]
di teoretico e di pratico, come al confu- sionismo attualistico che
confinando l’arte nella sfera dell’immediato sentimento cade di fatto in
un troppo semplicistico naturalismo. La distinzione fra teoretica e
pratica è certo valida, ma all’interno di ogni singolo atto spirituale
nella sua integrità, ché la vita spirituale presenta questi due aspetti
come facce sempre distinte, sì, ma sempre inseparabili”.
Conclude Galvano (e in questa direzione trova sostegno nella
fenomenologia di Alain?!, ne “L'Imma- culée Conception” dei surrealisti e
in Breton, più che nella poetica di Valery, almeno quando troppo
insiste sul pieno controllo cosciente dell'artista nell’elabora-
zione dell’opera): ‘Qui [...] bisogna pensare [...] ad una volontà tutta
inconscia, individuante e non ancora individuata (come[...] Schopenhauer
presentiva) e ad unopposto momento rappresentativo che solo
giustifi- ca il valore estetico dell'immagine raggiunta negando nel
sogno l’ebbrezza del movimento fisiologico”. Con un salto di
parecchi anni, dal 1946 de La pittura, lo spirito e il sangue ad una
autopresentazione Utilissimal’ampia citazione in proposito da uno scritto
ine- dito di A. Galvano, riportata da F. Garimoldi Albino Galvano:
pro- getto di una nuova cultura, in Omaggio a Albino Galvano, cit., nota
12: “[in Alain ovvero Emile Chartier] l'accento cadrà ... molto più
che nell’estetica idealistica, sul momento del fare che su quello del
conoscere , e sulla resistenza del mezzo sentita come condizio- ne
positiva ed essenziale al sorgere del fantasma artistico, fanta- sma che
non sarà più un'immagine al tutto congiunta a priori ad una materiale
estensione che la traduce, ma che sorgerà insieme all'atto di esecuzione
e che soltanto a posteriori rispetto a que- sto avrà la sua concretezza “
... “L'opera non nasce nella testa o nel cuore, nell’intelletto o nel
sentimento, per poi essere realizzata nella pietra o sulla tela, ma,
direi, nel vivo pulsare del sangue al polso quando questo gioca le
resistenze e le tensioni, gli scatti e le flessioni del pollice e della
mano nell’urto con il resistente ma- teriale. La scultura e la pittura
sono meno la realizzazione visiva di un'immagine mentale che la materiale
traccia lasciata da un gioco di ritmi fisiologici”. Sarà in particolare
Merleau-Ponty a sviluppare il tema, per esempio negli studi dedicati a
Cézanne. lino Vieeate colla (o crlize pus (olenda,
cuni (aza sr net&uk' a fr suina und la gut rin % NAM (dA Pene
più 0 me0 Ara la rr tn he Ut forata ME TISHOI: RE Peas LA LALA
Les al caso TU fi e fa dii Lo val poco comi pila
est; ua dn AA Prima pagina della lettera di A. G. a Adriano
Villata, 1980. del 1980 — scritta a mano “quasi si trattasse di
una lettera destinata solo all'amico [il “Caro Villata”,
gallerista], nella quale ci si può confidare e divagare come l'umore o la
nostalgia suggeriscono” —, Galvano ritorna sul rapporto fra il concepire
e il fare, tra il fare e il decodificare il senso in più o meno
risolutive lettere; ancora una volta mettendosi in gioco, ma senza
alcuna intenzione di assumere valore esemplare o chiedere scusa 0
simpatia, esponendosi in tutto lo spessore di sensibilità e intelligenza,
di impossibilità (a meno che non si scelga o si accetti la rinuncia) di
sottrarsi all'impulso profondo. E anche senza compiacimento
narcisistico: ci si esprime non per coltivare l'emozione ma per darne
testimonianza e, per quanto possibile, esporla a sé e ad una analisi non
priva di crudeltà, comunque oggettiva. È interessante seguire il
filo del discorso, che nella scelta del tono dimesso non è meno
teso del solito. Prima motivazione del movimento pendolare
tra pittura e scrittura, così esposto al giudizio e all’ironia dei
colleghi dell'una e dell'altra banda: l'appartenenza “ad una generazione
[quella di Cremona, di Maccari, di Mollino, per restare tra amici] e ad
un ambiente Ripubblicata in A. Galvano, La pittura, lo spirito e il
sangue, cit., pag. 29 e segg.; e in A. Galvano, Diagnosi del moderno,
cit. , All'inaugurazione di una sua personale, inizio anni ‘70.
in cui questo male, se male, era quasi una ragione di orgoglio”.
Era la generazione dei nati all’inizio del secolo, che raccoglieva dai
protagonisti del rinno- vamento dell’arte (secessionista o
avanguardistico, rappresentato per Albino, in primo luogo e per
sempre, dal maestro Felice Casorati), una eredità che era non meno
di esperienza materiale che di elaborazione intellettuale, un
atteggiamento aperto, anzi tentato da molteplici contraddittorie curiosità
e linguaggi espressivi (ma il quasi suggerisce l’affacciarsi di
qual- che incrinatura nella certezza adamantina esibita dai
predecessori, forse anche per il confronto inevitabile con una
generazione successiva che tornerà a proporre arroccamenti
specialistici). Seconda motivazione: ‘[...] Tutto quantohai
odiato o amato nei giochi e nella noia dell'infanzia alimenterà
peruna vita quanto produrrai, buono o meno chesial....] I nutrimenti
terreni avranno un bel essere filtrati in parole, in segni e colori, in
note, in spettacolo, il loro repertorio non muta, non lo hai scelto, ma
ne sei stato scelto, e tu sei quello che essi ti hanno fatto, la
tua libertà non può consistere che nell'essere loro fedele sino alla
fine, libertà di adesione non di ripudio, e libertà nella misura in cui
con il tuo ripensamento e il tuo scavo li trasformi da passivo esser
fatto in attivo assecondamento della sorte che essi ti hanno
assegnato, in obbiettivazione in cui il loro oscuro sgorgo, la loro
inconscia matrice, si chiarisce nell'opera, nel segno formato e
consegnato all'oggetto che ti rivela agli altri e in cui assumi
responsabilità di confessione e di 10 proposta”.
Insomma, è proprio il rilancio dal fare al pensare e dal pensare al fare
che definisce una identità intuita come destino e accettata come
scelta. Ma se rimane “ovvio” il rapporto fra i nutri- menti
terreni e ciò che uno diviene e fa nel tempo, è anche vero che “una
immagine retrospettiva di sé è sempre un’interpretazione che porta il
peso della mutata identità dell’interrogante, del penoso carico di
nostalgie, ricordi, rimpianti e rimorsi [...] e ogni interpretazione,
specialmente nell'impegno auto- biografico, è anche una falsificazione”,
per quanto cerchi di evitare tanto l’apologia ideologica quanto la
“disgustosa e mimetica” confessione personale. Giusto nel mezzo,
fra le due citazioni del 1946 e del 1980, nel 1960 (è il caso di
ricordare che è il tempo della svolta neodada e pop che mette in
crisi e addirittura annichilisce alcuni dei pittori più con-
vinti), Galvano mostra d’avere di questo destino ironica e malinconica ma
anche dura consapevolezza. Del fallimento egli tesse un sistema, secondo
i miti di Prometeo e Sisifo, riscoperti come”moderni” dal
Romanticismo all’Esistenzialismo. “Finis picturae? [...] Il punto si
identifica [...] con questo estremo di coscienza contraddetta e irritata:
la certezza che la via senza uscita dell’arte oggi non ha [...] nemmeno
l'alibi della professione, del successo, del guadagno, ma soltanto il
fascino senza illusioni di una fedeltà a un impegno individuale, quasi di
una scommessa con la propria intelligenza e con la possibilità e i limiti
del nostro stesso temperamento!”. Diventano così esemplari
l’ultima e penultima produzione di Galvano pittore, alla quale viene
dedi- cata in questa mostra una intera sezione, iniziata verso la
fine degli anni ’70 con i ciottoli le foglie i frutti, i relitti,
proseguita con “i paesaggi (rocce, alberi, isole), i nudi, le macchie[|...]”:esemplare
neltentare una trascrizione di archetipi, congelati inluoghi comuni della
pittura, tipi, generi e maniere (il fascino baudeleriano dei luoghi
comuni!). Ma già muovevano nella stessa direzione ireos e cespugli d'inizio
‘70 — tracce che regrediscono attraverso lamemoria nella gesticolazione
elementare — e prima i segni asemantici, prima ancora (siamo nella
seconda metà dei ‘60) le bandiere, i nastri, i nodi e così via: tutte
figure emblematiche, primarie e coltissime, che niente hanno a che fare
con la semplificazione, la banalizzazione pop. La pittura ivi
coincide con la costruzione delle im- magininominabili (nona caso
varianti dell'icona della cosa, anzi del frantume, astratta da qualsiasi
contesto, su un fondo bianco che è il segno di una definitiva
separazione dallo scorrere fenomenico), e insieme la pittura è
automatismo oggettivo, registrazione fredda della emozione costruttiva
(se non creativa): infatti presentata tipicamente come nodo, descrizione
dell’a- 23 A. Galvano, La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi,
cit. »m®) da cor. 4 È "ut me rematori) E ua
Br su : Pa ù LE a Con Gorza a
Palazzo Te, Mantova zione dell’annodare, avvolgere, intricare-intrigare,
0 dello sciogliere e liberare (vedi la bellissima immagine
scattata, credo, alla galleria Martano). Ma è tutta la vicenda di
Galvano pittore e critico che val la pena di ripercorrere in mostra, sia
pure per cenni e con discutibili tagli. Danotarel’uso ch'egli
fa dell’insegnamento casora- tiano: del maestro, Galvano non assume
passivamente il “platonismo”, consapevole che il rapporto di Felice
con la pittura è dal principio e resta nel tempo un rapporto “decadente”,
che diventa eticamente “sano” e formalmente “classico” solo per un atto
di volontà tanto mirabile quanto falsificante; sarebbe meglio dire
critico, con vettore opposto, sia pure, a quella che sarà la scelta di
Galvano. Che il travestimentosia storicamente giustificato su un modello
rispettabilissimo come quello gobettiano, non vuol dire che la sua
sostanza più vera non debba essere riconosciuta nonostante,
attraverso la corazza ideologica e formale ritrovando il nucleo
profondo, ’malato”ma straordinariamente vitale. 11
Del Galvano degli anni’30-inizio ‘40, sarebbe da approfondire
l’espressionismo — che del resto condivi- de con altri della sua
generazione: Nella Marchesini, Paola Levi Montalcini, Piero Martina,
Italo Cremona, Carol Rama. In tal senso ci si potrebbe chiedere che
peso abbia avuto, localmente, Spazzapan che esaltava l'ispirazione e
deprecava l'istinto (viene in mente la teoria di Klages, che insiste
sulla attrazione magnetica traimmagine e “anima”, ben distinta, l’anima
ispirata e creativa, dall’istinto che è del corpo, come dalla
volontà decidente e dotata di facoltà riflessiva che è dello spirito”); e
anche Carlo Levi, l’unico dei Sei che partecipi intimamente
all’espressionismo europeo, e, fuori sede, i romani, Scipione in
particolare al quale Albino dedicò una bellissima recensione nel ‘40,
che è lo stesso anno della prima edizione del Casorati. In un
saggio intitolato Perché non possiamo non dirci crociani, in “Numero”, 3,
1953, Albino Galvano sottolinea che la sua generazione “decadente”
deve a Croce specialmente questo: d'essere stata messa nella
condizione di “accettare senza malafede e senza rimorsi i dati di quella
cultura di tardo romanticismo che, così feconda quanto a ricchezza e
sottile sensibi- lità di ricerche particolari, tanto si è dimostrata
inca- pace di una sistemazione totale... [insomma di poter essere]
decadente malgrado Croce, grazie proprio al riscatto che il metodo
crociano offriva”. Che è un modo ottimo anche per comprendere come
coerenza di sistema e incoerenza pragmatica siano in Galvano
strettamente congiunte in dialettica tensione: la co- erenza consistendo
nella allarmata coscienza critica, nella responsabilità che non può
consentirsi “nessuna comoda complicità”, l’incoerenza nell'essere
ogni scelta un esito che, per quanto imperfetto, è sempre
compromesso e rappresentativo. Come a dire che la vitalità della ricerca
costituisce un valore, non meno che l'aspirazione ad una sistemazione che
finalmente rappresenti una “identità”, forse meglio “la libertà di
essere identici al proprio destino”. Perciò Galvano non intende, tanto
meno come pittore, tagliare i ponti col passato (il suo passato, oltre
che la storia); invece semina il cammino di tracce, di residui, vorrei
quasi dire fisiologici, di lapsus, così che in ogni momento il
cammino sia ripercorribile o almeno riconoscibile, ma anche sostituibile.
Egli, in effetti, sa che nulla va distrutto e non consuma sacrifici
liberatori. Per lui in particolare (adatto il titolo di un
importante saggio del ’63), La sublimazione astrattista non liquida
l'erotismo del Liberty, semmai ne prende le distanze, per poterlo
rimettere in circolo, come in un processo alchemico in perenne
rinnovamento. Così Galvano passa necessariamente da un con-
cretismo geometrizzante, che di fatto ironizza — ma non banalizza - la
geometria come privilegiata ma- 24 A. Galvano, Per
un'armatura, Lattes, Torino 1960, pag. 87. nifestazione della
razionalità e della chiarezza, ad un concretismo informale che libera la
possibilità di una pittura scritta usando il campo come tabula rasa
0 pagina intonsa, dove il gesto può scorrere ed intricarsi, e/o come
dimensione praticabile in tutto il suo spessore magmatico, a sua volta
ironizzato dalla scoperta di una ritmica, di una metrica
essenziale. Come adire che è nella pittura (nell'arte) chesi
realizza, assumendo evidenza di mito visivo — feticcio laico —
l'unico progetto possibile senza illusioni razionaliste e moralismi
ideologici. Un momento certamente fondamentale, sarei tentato
di dire il perno sul quale ruota il resto è quello attorno al’60: quando
la “natura” del gesto s'incontra felicemente conlo schema, generando una
concrezione araldica, l'intenzione simbolica con il simbolo ricono-
sciuto nella memoria collettiva; ennesima variante della tradizione
dell’ornato, raccolta e riavviata dal Liberty: insieme puro gesto e
automatismo assolu- tamente impuro. In questa mostra, il momento
avrà adeguata evidenza. Ma è anche vero che Galvano si guarda bene
dal protrarre artificiosamente quel momento (diciamolo pure,
straordinario, quasi senza confronto in Italia), tanto che si prenderà
negli anni immediatamente successivi, dal ‘62 al ‘65 circa, una
pausa di riflessione che produrrà anziché pittura saggi teorici che
culminano in Artemis Efesia, per riprendere il filo (la matassa) della
pittura con proposte (in appa- renza) assai differenti: le bandiere, i
nastri, 1 padiglioni, gli anelli di Moebius. Che cos'è la
pittura per Galvano, allora? Scrive di lui nel 1974 l’amico /
avversario Giulio Carlo Argan, che ha scommesso sul progetto
ideolo- gico, vincente almeno per un certo periodo storico: “Egli
non risponde una volta per sempre, con una definizione filosofica:
infatti ciò che vuol sapere è che cosa sia la pittura in questa precisa condizione
della cultura, della coscienza, dell’esistenza, e quale sia il suo grado
di vitalità, quali le sue possibilità di sopravvivere in uno spazio ogni
giorno più ristretto”. Non gli si potrebbe dar torto, se non fosse
che proprio l’opera e ciò che la sottende, l’opera come atto
critico, questo è appunto il suo contributo filosofico, e anche la sua
testimonianza sapienziale, che trascrivo da una autopresentazione del
19822: “Dunque [la pittura], una meditazione sulla morte
imminente [...] o il recupero della gioia ottica nello spazio ripercorso
in termini di colore e di luce, sia pure della luce irreale della memoria
e del sogno? O la scenografia di ambigue emersioni dall’inconscio?
Davvero non saprei dirlo, e, forse, è inutile porsi le domande. Forse
anche soltanto la monotona iterazione 25. G.C. Argan,
in catalogo della personale, Galleria Unimedia, Genova Galvano,
Autopresentazione, in catalogo della mostra, Piemonte Artistico
Culturale, Torino 1982. 12 di una passione per il
dipingere, che ripercorre con insistenza sigle che non è più capace di
vivificare colla curiosità e il gusto avventuroso della
giovinezza”. Tante pitture, allora, e però tutte mirate ad essere
presenza di pittura e non illustrazione di concetti. Pittore concettoso,
a volte, mai concettuale nel senso di illustratore di concetti :
aggiungo,nel segno di una ine- ludibile, per quanto mascherata vocazione
poetica.” Devo citare, almeno una volta, Edoardo Sangui-
neti, allievo e amico, grande estimatore di Galvano: “Mi trovo [...]
forzato a pensare che, alle radici del lavoro di Galvano, come artista e
come studioso, stia un'immagine — è la parola giusta — che accenna
all'uomo come animale che è capace di immagine. E dunque un’antropologia
fondata sopra la facoltà della visione”, In formula perfetta,
a conclusione di Storicità e significato dell’arte astratta (1953),
Galvano aveva già precisato:“L'opposizione affermata da Mallarmé tra
la concretezza della vue e l’allusività delle visions, l'affermazione di
Alain che il poeta è l'opposto del visionario perché sa di non vedere
sino a che la mano non abbia realmente costruito nello spazio
l'oggetto che la passione progettava, sono divenute nella co-
scienza del pittore concreto l'imperativo di una scelta tra il peso della
memoria e la libertà pericolosa di una iniziativa tutta affidata al
risultato”. F. Garimoldi, nel saggio più volte citato”, sottolinea che
Galvano pone come centro dell’arte “l’insoluto rapporto fra
espressione ed enigma” (che cosa di più chiaramente collocato sulla linea
romanticismo-simbolismo come la vede Albino?), citando una
autopresentazione del La seconda parte di questo scritto
elabora liberamente tre miei testi: in ordine cronologico, Témoignage de
notre dignité, in Fi- gure d'Arte, artisti a Torino dagli anni ‘50, a
cura di A. Balzola, R. Cavallo, E. Ghinassi, P. Mantovani, Alberti ed.,
Pescara 1991; A proposito del pittore Albino Galvano, in Attraverso il
Novecento. Albi- no Galvano, 1907-1990, a cura di M. Pinottini, Bulzoni
ed., Roma 2004; Albino Galvano pittore, catalogo della mostra, Galleria
del Ponte, Torino, 2010. 28 E. Sanguineti, Contro la ragione,
“La Stampa”, 10 marzo 1990. Un libro singolare, dove Sanguineti è figura
nodale nella messa in circolo della “linea liberty” ancora nella seconda
metà del ‘900; li- nea che Casorati, Cremona, Mollino e Galvano avevano
mantenu- ta viva con originali apporti nella prima metà del secolo, è
L'altra faccia della luna — Origini del neoliberty a Torino di Elvio
Manganaro, Libria ed., Melfi 2018. Al libro citato devo la conoscenza di
un te- sto di Galvano: Processo alla pittura in “Il Selvaggio”, 15
novembre 1938, che dà originale contributo alla interpretazione della
vicenda artistica della sua generazione, che “si gioca tutto nello spazio
che separa le Uova del 1914 da quelle del 1920, o tra l’”Icaro senza ali
e le ali senza volo del Sogno...”, di Casorati naturalmente, perché
proprio Casorati era “appartenuto paradigmaticamente ai due mondi [...]
quello della figlia di Iorio e quello della Jeune Parque”... (E.
Manganaro, L'altra faccia della luna, cit., pagg. 168-170). 29 A.
Galvano, Storicità... cit., 1953. 30 EF Garimoldi, A. G. Progetto
di una nuova cultura, in Omag- gio..., cit., pag. 15.
‘77%:"Si dà arte solo quando il non differente operare a fini
strumentali o di puro edonismo è impedito e stravolto dai sedimenti di
una vicenda individuale che s'insinuano e dominano dove pretendeva
condurre il gioco la razionalità del progetto decisionale. A que-
sta condizione in ogni tempo si è cercato di opporre la dignità
dell’autocontrollo [...], certo vanamente, ma anche proficuamente perché
[...] la possibilità di coinvolgere gli altri [...] non consiste se non
nel pun- tualizzato istante di tensione in cui lascia materiale
traccia di segno o di tocco quel gioco d’insidie; l'istante in cui
l’inspiegata vicenda interiore si fa immagine ed emblema”.
Con Bartoli a Palazzo Te, Mantova, 1988. Nota
bibliografica La discutibile scelta di privilegiare la
pittura come via di accesso alle molteplici attività di Albino
Galvano, obbliga a segnalare gli autori che hanno af- frontato il caso
con particolare intelligenza e puntuale cultura filosofica.
E. Sanguineti, in catalogo Antologica, 1979; R. Tessari, nello
stesso catalogo, e Galvano e il mito, in Figure d'Arte, cit. 1991; G.
Carchia, Prefazione a Arte- mis Efesia, nella riedizione del 1989, cit.;
P. Fossati, F. 31 Autopresentazione, mostra personale, Galleria
Weber, Tori- no 1977. 13
Garimoldi, M.C. Mundici (a cura di), catalogo della mostra al Circolo
degli Artisti, cit. 1992; A. Balzola, Galvano e D'Adda: l'immagine
matrice, in Figure d'Arte, cit. 1991; G. Gallino, pagg. 27-46 e F. Salza,
Albino Galvano e Jung, in“ Attraverso il Novecento”, cit. 2004; A.
Ruffino, Introduzione in Albino Galvano — Diagnosi del moderno, cit.
2018. A parte, segnalo il “ritratto” che ne fa Paolo Fos-
sati, con riferimento prevalente agli anni Sessanta e Settanta,
presentando Omaggio a Albino Galvano nel 1992; e le memorie che in circa
trent'anni di colloqui — non di rado centrati su Casorati, Cremona e
Galvano — ho potuto raccogliere da Gino Gorza, l'unico artista di
generazione successiva che per cultura e gusto potesse essere accostato a
Galvano. Fu proprio Gino a volere una mostra comune — con il
significativo titolo di Sincronie — a Mantova in Palazzo Te, nel 1988;
riannodando il filo della presentazione che Albino gli aveva
dedicato dieci anni prima, per l’Antologica nello stesso luogo.
Ricordo all’inaugurazione del 1988 la presenza di Francesco Bartoli,
documentata anchein una fotografia dove il geniale interprete di Licini
sembra inchinarsi al geniale interprete di Artaud. Più recentemente,
sempre al Te, una giornata di studio dedicata a Bartoli è stata
anche l'occasione per rievocare la figura di Galvano con Roberto Tessari.
Anche Tessari è mancato. Prova di ritratto Uomoriservatissimo,
comea volte chi non si neghi alla mondanità, anzi se la imponga come
esercizio. La leggendaria disponibilità (senza ombra di
debolezza) realizza una delle forme più aristocratiche dell'etica (per
discrezione in maschera di rigore pro- fessionale). Essenziale un fondo
di malinconia, come misura di una perdita irreparabile, e di nostalgia
per una totalità irreversibilmente frantumata. Tra distacco
soggettivo e oggettiva commozione scorre l’impurità di un continuare a
vivere, si scrive in tracce stenografiche il diario di un sedotto ... e
di un seduttore per forza (di un gentiluomo piemontese).
Sensualissimo lettore; scrittore capace di costruire macchine
logiche come trebbie di tortura, e di avvolgere in sontuose inestricabili
ragnatele (costante una specie di dolcezza, cui tanto meno resistono
rigidi baluardi): trascurabile vi è l'inganno, perché la circonvenzione
è ignobile, specialmente d'incapace. Come un dovere coltiva
il diletto: su questo piano potrebbe essere magistrale se non fosse
troppo fine e pericoloso un tal modello. Nel suo sistema, la
pittura rappresenta il “concreto”. Distratto semmai da irridu-
cibile curiosità, non è mai astratto. Ireos, sassi e conchiglie
sigillano una storia so- stanzialmente coerente, perché osano confronto
con il principio e la fine: così su una pietra tombale si posano
cose e il tempo vissuto, relitti nudi, epifanie senza velo.
Omaggio a Albino Galvano Catalogo mostra antologica,
Palazzo Chiablese, Torino, 1979. Catalogo mostra antologica, Circolo
degli Artisti, Torino. Atti del convegno, a cura di M. Pinottini, Torino,
1997. Antologia di scritti di A. G., a cura di A. Ruffino, Aragno
editore, 2018. Electa Piemonte ATTRAVERSO IL
NOVECENTO: G. a cura di Marzio Pinottini
BIBLIOTECA DI CULTURA / BULZONI G.: la fedeltà alla pittura Luca
Motto Il magistero casoratiano e la prima figurazione
Galvano nacque a Torino l’anno d'esecuzione delle Demoiselles d'Avignon
di Picasso che segnò l’imporsi e il susseguirsi delle avanguardie: « che
nel bene e nel male problematico [...]dovevanocaratterizzare,
inconcomitanza concrisi umane, politiche e sociali ben più gravi,
ilnostro secolo sino a porre oggi il problema della “morte
dell’arte” qualunque cosa si intenda sottolineare con questo termine
apocalittico»!. Galvano pur muovendosi nel solco della modernità,
affondava le sue radici in una meditata e personalissima assimilazione di
riferimenti pittorici dell'Ottocento e del primo Novecento, ben
lontano dalla reazione e dall’inattualità. Apparteneva all'ambiente casoratiano
e alla sua scuola «divenuta il centro di un'opposizione cortese, tacita
che non esclu- de — la cosa è molto torinese — rapporti amichevoli
o per lo meno corretti con gli avversari»?. Nel decennio
1918-1928 venne segnata la tempe- rie di una Torino moderna (tuttavia non
futurista) di seguito enunciata in pochi assunti utili a
comprendere l’ambiente artistico nel quale il giovane Galvano s'in-
trodusse: la comparsa di Felice Casorati alla Promotrice del 1919 come
artista rivoluzionario e di rottura; la «breve esistenza » di Piero
Gobetti e il suo cenacolo antifascista; le polemiche e la reazione
dell'ambiente cittadino alle scelte di «gusto» antinovecentiste di
Lionello Venturi rivolte all'arte di nuovi «primitivi», gli
impressionisti; il fugace percorso del gruppo dei Sei di Torino
(coagulato e promosso dal duo Persico e Venturi)che rinunciarono a «Roma
madre» per «Parigi amica»; e la vitalistica apertura culturale europea
del finanziere, collezionista e mecenate Riccardo Gualino.
Dopo un precoce apprendistato con il pittore Giovanni Pisano e il
maestro di disegno Vannini, l'educazione di Galvano all'arte
contemporanea si svi- luppò suriviste di settore (in
particolare”“Emporium” e “L'art vivant”) e attraverso la frequentazione
delle Biennali veneziane. Alla rassegna del 1928 Galvano poté
osservare dal vivo la pittura di Felice Casorati che rappresentò «la
scoperta del mondo nuovo e spre- giudicato che si apriva alla nostra cultura:
l'ingresso del mondo “moderno”»*. Al termine del 1928 si
iscrisse alla Scuola Libera di Pittura di Casorati (sorta a Torino nel
1921 e struttu- ratasi maggiormente dal 1927 nella nuova sede di
via Galliari, antistante l'abitazione di Riccardo Gualino) e la
frequentò fino al 1930. Il suo magistero, lontano da
1. A. Galvano, Autobiografia, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura
di), Albino Galvano, catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Re- gione
Piemonte, Torino Galvano, Torino e i «Secondi futuristi», in A. Galvano,
Dia- gnosi del moderno. Scritti scelti 1934 - 1985, a cura di A.
Ruffino, Nino Aragno editore, Torino 2018, p. 344. Albino
Galvano (al centro, seduto) e (da sinistra, in piedi, tra gli altri)
Filippo Scroppo, Daphne Maugham, Rina Galvano, Danila Cremo- na, Felice
Casorati, Carol Rama, Leopoldo Bertolè, Valpellice 1949. «Ogni
sistematicità d'accademia»°, non fu solamente estetico ma anche pregno
dell'eredità etica e politica gobettiana: un debito verso quel «fanciullo
puro» che esigeva «fedeltà e non lacrime»®. Per Galvano il punto
fondamentale della sua formazione fu il trovarsi par- tecipe di un
ambiente che lo salvò «tanto dal rischio di un'adesione acritica al
regime imperante [...] e da quello ben più grave [...] di un'immersione o
som- mersione nella Torino di quel tipo di borghesia che amava in
pittura Giacomo Grosso». L'insegnamento del «platonico» Casorati, pervaso
«d’una signorile severità», verteva su l’«insieme» e il «tono».
Dalla monografia Felice Casorati di Galvano (1940, editore Hoepli,
Milano) si legge che il Maestro consigliava agli allievi di «imparare a
vedere il più semplicemente possibile [...] la forma di quella
determinata massa tonale, di quella determinata massa
chiaroscurale, non la forma dell'oggetto» [...]. La forma serve qui
a distruggere la linea ed a passare al colore [...]»*. Il clima
della scuola di via Galliari fu efficacemente narrato da Lalla Romano ne
Una giovinezza inventata: «Verso sera venivano sovente visite: Alberto
Rossi, Mario Soldati, Carlo Levi. Levi ridacchiava — con noi —
sull'indirizzo classicistico della scuola, dove gli allievi più ambiziosi
preparavano un bozzetto per il quadro. Rideva ma affettuosamente. C'era
una base culturale comune: il disprezzo per il fascismo».I nomi
citati sono solo una parte delle personalità con cui Galvano, all’inizio
degli anni Trenta, instaurò un duraturo rapporto amicale sulla via del
confronto artistico, tra gli altri: Paola Levi Montalcini, Sergio
Bonfantini, Riccardo Chicco, Italo Cremona, i Sei e 5
P. Gobetti, Iniziative d'arte a Torino, in “L'Ordine Nuovo”, 27 dicembre
1921. 6 F. Casorati, in “Il Mondo”, Galvano, Autobiografia Galvano,
Felice Casorati, cit. pp. 369, 371. O) L. Romano, Una giovinezza
inventata (1979), Einaudi, Torino Argan, ma anche Carlo Mollino,
Massimo Mila, Leone Ginzburg e Franco Antonicelli. La pittura
postimpressionista di Galvano del decennio Trenta e fino al 1945 si
orientava in un «con- traddittorio intento di tenere insieme i valor
plastici di Casorati e quelli dei Sei» il cui risultato «pesante e
impastato» fu autocriticamente espresso dall'artista stesso!°. Anche una
certa l’arte d'oltralpe praticata da stranieri fascinò Galvano (Maurice
de Vlaminck, Ko- stia Terechkovitch, Christian Krog), mentre i
rimandi nostrani furono indirizzati alchiarismo lombardo eai
tonalisti romani. «Quei loro mezzi [...] misi sfasciava- no ed
intorbidivano tra le mani, rimanendo parentele d’accatto o esperimenti di
lettura, ed enorme riusciva la dispersione e la perdita di tempo»"!.
Un repertorio antinovecentista di temi iconogra- fici ricorrenti
segnò quel periodo: «pesci, molluschi, conchiglie, vecchi libri
accartocciati, crocefissi e acquasantiere barocchi, nudi tortili come
molluschi e paesaggi incerti tra quegli andamenti sinuosi e un
modesto cezannismo che era nell’aria»!“. Galvano s’inserì nel
circuito espositivo nel 1929, anno in cui le arti si avviavano verso la
loro fasci- stizzazione di forma con l'istituzione del Sindacato
Fascista a cui venne affidato il compito di gestire le manifestazioni
espositive periodiche sul territorio nazionale. Il rapporto con la
società artistica di un Novecento sarfattiano (a un passo dallo
smantella- mento definitivo) e della retorica celebrativa di Stato
era destinato tuttavia a un sostanziale fallimento. A Torino
Galvano esordì nell'alveo casoratiano in due mostre della scuola nel 1929
e nel 1930. Dal 1930 al 1942 furono regolari le sue presenze alle
espo- sizioni annuali della Promotrice di Belle Arti con più sporadiche
puntate alla Società degli Amici dell’arte (1931, 1932, 1934).
Il critico Emilio Zanzi, in una recensione riguar- dante
un'esposizione di vendita torinese del 1934, sagomava i tratti pittorici
del giovane Galvano: «[...] sfuggito anzitempo alla disciplina rigorosa
della scuola di Casorati. Il Galvano in certe composizioni di
nature in silenzio ricorda la chiara e sapiente pittura del Maestro, in
altri quadroni ricerca l’effetto della pennellatona agile ed abile, cara
passione di qualche post-impressionista»". Alle rassegne
di carattere nazionale Galvano prese parte alla I e alla Il Quadriennale
romana (1931 e 1935) dove vi fu una discreta rappresentanza torine-
se e piemontese: Felice Casorati e il suo discepolato (Paola Levi
Montalcini, Nella Marchesini, Sergio Bonfantini, Emilio Sobrero), Daphne
Maugham, A. Galvano, Autobiografia cit., p.18. 11 A. Galvano,
in catalogo della mostra, Galleria La Giostra, Asti 1952. 12.
Ibid. 13 E. Zanzi, in “La Gazzetta del popolo”, 1934
16 Albino Galvano e Filippo Scroppo alla I Mostra
Internazionale dell'Art Club, Palazzo Carignano, Torino 1949.
parte dei Sei (Carlo Levi, Francesco Menzio, Enrico Paulucci),
Giulio Da Milano, Umberto Mastroianni, Italo Cremona. Alla Biennale di
Venezia del 1930 Galvano presenziò con un’opera nella stessa sala
di Casorati e allievi, mentre nell'edizione 1936 espose isolato (a
Gigi Chessa scomparso nel 1935 venne dedicata un'ampia retrospettiva,
Menzio e Paulucci comparivano attigui). In questo periodo
sono da indagare infine le par- tecipazioni alle quattro edizioni del
Premio Bergamo (1939-1942). Fuuna manifestazione, insieme al Premio
Cremona, che svelò la dialettica artistica italiana: due componenti
antitetiche dello stesso volto del regime. Il primo (promosso da Giuseppe
Bottai), più elitario, «si riallacciava a un versante dell’arte italiana
colto, internazionale e post-impressionista»!* suscitando polemiche
nell’ala più intransigente del fascismo; il secondo (voluto da Roberto
Farinacci) era sintonizzato sull'onda delle mostre hitleriane.
AII Premio Bergamo del 1939 (in giuria Casorati, Funi, Longhi e
Argan) il terzo riconoscimento venne suddiviso tra cinque concorrenti: si
evidenziava la presenza romana di Giuseppe Capogrossi e quella
piemontese con Menzio, Paulucci, Galvano e Piero Martina (era presente
anche Nicola Galante, non premiato). Al secondo Premio Bergamo del
1940 Galvano ricevette una particolare menzione e il suo dipinto fu
acquistato dal Ministero dell'Educazione Nazionale. Galvano espose anche
alla terza (1941) e alla quarta edizione (1942, vincitore l’intimista
Menzio), la rassegna scandalo della Crocifissione di Guttuso,
reinterprete drammatico e rabbioso di un’iconografia mutuata dal sacro:
anticipazione in chiave cubista della militanza postbellica.
Il ventennio Trenta-Quaranta contrassegnò inol- AA.VV, Gli anni del
Premio Bergamo: arte in I talia intorno agli anni Trenta, catalogo della
mostra, Bergamo, Electa, Milano 1993, p. 58. tre il
compimento della formazione intellettuale di Galvano che si laureò nel
1938 (con Angiolo Gambaro e Nicola Abbagnano) con una tesi sulla
pedagogia della religione: primo atto dell’approfondito con- fronto
con le tematiche spiritualiste, antropologiche e filosofiche (in primis
l'influenza di Benedetto Croce e Henri Bergson). Tra le sue
prime prove di critica d’arte si possono menzionare il breve scritto del
1932 su Armando Spa- dini in “L'Arte” diretta da Venturi; il saggio del
1934 su Luigi Spazzapan in “Orsa”; le collaborazioni con il
periodico milanese “Le arti plastiche (1933) e la reda- zione delle
cronache d’arte torinese per “Emporium” (1938-1942). Si ricordano inoltre
i volumi del 1938 (per l'editore fiorentino Nemi) L'arte egiziana antica,
L'arte dell'Asia occidentale e centrale, L'arte dell'Asia
orientale; la monografia Felice Casorati edita da Hoepli (nel 1947
uscirà una seconda edizione) e Tre nature morte: Casorati, Menzio,
Paulucci pubblicato a Torino nel 1942. Fu assistente alla Cattedra
di pittura di Paulucci all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino
nel 1942 e da quell’anno, fino al 1978, insegnò storia e filosofia
negli istituti liceali. Tra inumerosissimi allievi con i quali mantenne
profondi legami si ricorda in particolare Edoardo Sanguineti.
Dalla fase espressionista verso l'astrattismo 1945-1951 AI
termine del conflitto bellico per Galvano e gli artisti della sua
generazione s'impose il confronto con l'avanguardia, l'Europa e il
moderno. «Moderna non è soltanto l’arte prodotta nel periodo in cui
viviamo, ma quella che di voler essere moderna ha program- matica
intenzione! [...] Che assume come categoria predicativa l'affermazione di
“novità” rispetto ad una situazione di cultura storicamente
conclusa. [...] Il concetto di moderno si chiarisce, così come un
concetto “etico” [...] per cui l'avversario non è un modesto o nullo
artista, ma il traditore di una causa totale, il reazionario che non
merita pietà e al quale non giova la buona fede». Queste lucide
affermazioni di Galvano aiutano a delineare un settore della sua
linea di pensiero che contribuì ad animare il vivace dibattito degli
intellettuali torinesi, fautori di quel compatto blocco culturale che,
tra il 1945 e il 1947 tentò una ricostruzione «morale e civile» della
società. La posizione politica di Galvano dopo la Liberazione fu
abbastanza distante dall’ideologia estetica del fronte comunista. L'urto
«non era tanto fra tradizione e innovazione, anche meno tra astratto (o concreto)
e figurativo [...] ma tra militanza “costruttiva” ed autonomia “critica”
[...]»!9. 15 A. Galvano, Moderno, in
Enciclopedia Universale dell'Arte, vol. IX, Fondazione Cini, Roma-Venezia
1963. 16 G. Mantovani, Il malessere dell'arte, in A. Galvano, La
pittura, lo spirito e il sangue, a cura di G. Mantovani, Il Quadrante
edizioni, E; Negli anni postbellici il complesso
confronto- scontro con Croce era ineludibile e la posizione di
Galvano (sviluppata in anni più tardi nel fondamen- tale scritto Perché
non possiamo non dirci crociani, 1953) merita qui qualche breve accenno.
L'intuizione pura, come atto teoretico astorico, non poteva
prescindere dalla soggettività dell’«opera manuale». La polarità
non sussisteva tra il bello crociano, simbolo del bene morale e il suo
opposto, quanto tra lo «spirito» (il momento razionale - contemplativo) e
il «sangue» (il principio vitale inconscio che in ultimo
concretizza l’opera con il linguaggio scelto). Scriveva Galvano nel
numero unico del periodico “Tendenza” (1946, coideato con Pippo Oriani):
«Questo bisogno del sangue che ignora l’astratto spirito e gli anatemi
e le accuse di “naturalismo” degli idealisti o quelle di
“immoralità” degli spiritualisti è essenziale all'opera di pittura. Essa
cade o sussiste con il sangue non con lospirito»!. L'attività di critico
d’arte seguitò in quegli anni anche su quotidiani come “La Nuova
Stampa” (nel 1946) e “Mondo Nuovo” (nel 1947 e 1948). Tra il
1945 e il 1949 la pittura di Galvano si aprì ad una fase espressionista
slargandosi e semplifi- candosi in campiture bidimensionali dai
contorni lineari marcati e attraverso l’uso di un cromatismo
timbrico. In un testo di autopresentazione del 1952 l'artista esplicò:
«Così quando, intorno al 1941, Guttuso guardando a Picasso, Birolli e
quelli di “Corrente” sbirciando l’espressionismo, diedero altro
indirizzo alla pittura italiana, mi trovai in ritardo rispetto a
quei coetanei e ai loro discepoli molto più giovani di me, e con un
bilancio piuttosto negativo. [...] Tentavo così una soluzione in un breve
periodo di esasperazione “espressionistica” del segno, dove l’“illusivo”
si tra- sformava in “allusivo” a quelle immagini che potevo
considerare mie». Galvano puntualizzava inoltre di essere
stato tentato verso «esperienze varie di carattere cultu-
ralistico, fra cui un primo richiamo al liberty che allora fu aspramente
rimproverato da certi critici (A. Podestà) come incomprensibilmente
anacronistico ma che almeno come recupero critico, rappresentava
un'anticipazione di interessi e recuperi diventati di moda un ventennio
più tardi». Nella Torino della Ricostruzione gli spazi
esposi- tivi erano esigui; molto spesso sorgevano in simbiosi con
una libreria come per esempio la Galleria Faber, dove Galvano nel 1945
partecipò ad una Antologica di Maestri contemporanei. Alla personale di
Galvano del 1946 presso la Libreria del Bosco «ci troviamo di
fronte ad un artista dalle varie esperienze», denotava
Torino Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue, in
“Tendenza”, n.1, 1946. 18. A. Galvano, Galleria la Giostra
cit. 19 A. Galvano, Autobiografia Gatto su “L'Unità”, e proseguiva:
«riesce spesso a lievitare le acquisizioni culturali ed a tradurle
in efficienti risultati creativi». Il molteplice approccio stilistico,
confessato dallo stesso Galvano nell’auto- presentazione del 1979, è qui
confermato: «leggero impressionismo, decorativismo un po’
orientale, [...] motivi che tendono a risolversi in figurazioni quasi
astratte». La fase pittorica più recente, concludeva Gatto, «pare
indirizzarsi verso una pittura dominata da una volontà ed un’ansia di
sintetismo formale»?. Alla Biennale di Venezia del 1948 (la prima
edi- zione al termine del ventennio fascista nella quale emersero
le linee essenziali degli sviluppi dell’arte moderna europea) Galvano
partecipò su invito con cinque opere (nudi e nature morte del 1947-48) in
sala con Martina e Paulucci. In quell’edizione fu parecchio vasta
la partecipazione di artisti torinesi sulla via dell’astratto: Sandro
Cherchi, Mario Davico, Franco Garelli, Gino Gorza, Paola Levi Montalcini,
Umberto Mastroianni, Mattia Moreni, Adriano Parisot, Carol Rama,
Filippo Scroppo. All’edizione del 1950, nuova- mente su invito, Galvano
fu presente con tre opere (in sala con Birolli, Corpora, Moreni,
Morlotti, Turcato, Vedova, Zigaina). Nel quadriennio
1948-1951 si registrarono nume- rose partecipazioni dell'artista a rassegne
nazionali di verifica diretta degli sviluppi artistici
contemporanei, tra cui la Quadriennale romana del 1948 e la mostra
collettiva Arteastratta e concreta presso la Galleria Nazio- nale d’arte
moderna di Roma nel 1951(il comitato ese- cutivo era composto da Joseph
Jarema, Palma Bucarelli e Giulio Carlo Argan). Il testo di Galvano in
catalogo analizzava la ricerca concretista propria e dei torinesi
verso una direzione lontana dal «formalismo astratto» insenso stretto e
intesa attraverso la «‘“proiezione” nelle strutture dell'oggetto stesso
di una carica emotiva, che asua volta presuppone la totalità spirituale
dell'artista impegnato, ed impegnato “responsabilmente”, in una
prospettiva, in una scelta, in una “Weltanshaung”, cioè in ultima analisi
in un punto di vista etico e metafisico [...]. Non può perciò stupire che
anche a Torino siano proprio gli artisti più responsabili di fronte a un
loro mondo interiore a volgersi a questa pittura. Superfluo cercar
nel dato estrinseco del gusto un’unità “munici- pale” o di gruppo: se mai
l’unità “torinese” di questi pittori è nella condizione di cultura cui lo
stesso schivo etalvolta un poco scontroso raccoglimento della città
in cui essi lavorano, è, per taluna delle ragioni accennate,
propizia»”!. Rilevanti furono inoltre le sortite
extranazionali del 1951. In occasione della mostra nizzarda,
Peintres de Turin, Galvano definì forme e colori delle sue com-
20 S.Gatto, Mostra d’arte. Galvano al Bosco, in “L'Unità”,
31 mag- gio 1946. 21 A. Galvano, in Arte astratta e concreta,
catalogo della mostra, Galleria Nazionale d’arte moderna, Roma
1951. Con Enrico Paulucci, Albino Galvano e Filippo Scroppo. Confe-
renza al Circolo degli Artisti, Torino 1967. posizioni come
«feticci laici», «costanti di sentimenti e impulsi» che non necessitavano
di riportarlo «a una rappresentazione esteriore e imitativa». «La
topografia spirituale di questo mondo che non è né meccanica né
architettonica, ma piuttosto organica e determinata soprattutto dalla
tensione tra le forze elementarie vitali pressanti, da una parte, e
l'aspirazione religiosa o me- tafisica dall'altra, che vuole dominarle e
oggettivarle nello spirito delle tradizioni filosofiche e religiose
alle quali nei miei quadri faccio a volte allusione anche attraverso
i titoli stessi». Al Premio Parigi (itinerante anche a
Cortina d'Ampezzo) il critico Luigi Carluccio seguitava di rimando:
«[...] L'artista si è portato sempre su posi- zioni di ricerca mantenendo
tuttavia vivo il dialogo fra i suoi istinti pittorici e le sue meditazioni.
[...] Il temine “feticcio laico” [...] annota con felice incidenza
che all'origine degli impulsi e dei sentimenti è sempre vivo lo stesso
dibattito tra la pressione vitale di forze elementari, naturali, e
l'aspirazione ad ordinarle in una ragione metafisica»?3. Il
rivolgersi all'arte d'oltralpe (già a partire dalla mostra Arte francese
d'oggi, Roma e Torino 1947) ebbe degli echi a Torino con le sei edizioni
della rassegna Pittori d'Oggi Francia- Italia (1951-1961) promosse
da Carluccio e alle quali Galvano partecipò alla prima (1951) e
alla terza (1953), così come figurava ai due Premi Saint Vincent
(1948-1949) messi in piedi dalla fronda democristiana capeggiata da
Carluccio in re-Carluccio, in Mostra Nazionale del Premio Parigi 1951,
cata- logo della mostra, Cortina d'Ampezzo 1951 e Parigi
Con Chessa e Matteis. azione al Premio Torino del 1947,
troppo polarizzato a sinistra secondo il critico. È di vitale
importanza ricordare infine il ruolo di Galvano come animatore culturale
nel clima di fermento postbellico, dapprima impegnato attivamente
come promotore dell’Unione Culturale (sorta nel 1945, raccolse
intellettuali antifascisti tra cui Giulio Einaudi, Massimo Mila, Franco
Antonicelli, Lionello Venturi e tra gli artisti Casorati, Menzio,
Levi) e nel 1949 come propugnatore di due rassegne artistiche: la I
Mostra Internazionale dell'Art Club a Torino e la Mostra d’arte
contemporanea di Torre Pel- lice. La prima — con presidente Casorati e
segretario Scroppo, organizzata dalla sede torinese dell'Art Club,
un'associazione apartitica internazionale — mirava a presentare le nuove
voci artistiche italiane e di diversi stati esteri. La seconda, aveva
sede a Torre Pellice, che «pur nella modestia delle proprie
possibilità, possiede, come centro delle Valli Valde- si, una secolare
tradizione di cultura che ha i suoi particolari caratteri di pensiero e
di ispirazione»”4. Era stata ideata insieme a Filippo Scroppo, artista
e critico valdese, (nativo della Sicilia ma inseritosi dalla metà degli
anni Trenta nell'ambiente cittadino) e da Leopoldo Bertolè notaio e
illuminato collezio- nista di moderno. La Mostra d’arte
contemporanea — appuntamento estivo annuale protrattosi per un
24 Mostra d'arte italiana contemporanea, catalogo della mostra,
Collegio Valdese, Torre Pellice 1949. 19 quarantennio
al quale Galvano espose assiduamente—trasformòla cittadina della
provincia torinese in un polo culturale aggiornatissimo sulle
ricerche artistiche nazionali e con qualche non rara puntata
internazionale. Il Movimento Arte Concreta 1952-1955
Il «confuso ribollire di tendenze astratteggianti»?, che imperava tra il
1947 e il 1951, andò delineandosi verso l’elusione dell’astrazione su
base mimetica in favore del concretismo. Una lucida definizione
della corrente venne offerta da Gillo Dorfles in uno scritto del
1951, il così detto manifesto del Movimento Arte Concreta, (MAC) fondato
a Milano nel 1948 insieme a Bruno Munari, Gianni Monnet e Atanasio
Soldati. Dorfles precisava il concetto di concreto «che non cer-
cava di creare delle opere d’arte togliendo lo spunto o il pretesto dal
mondo esterno e astraendone una successiva immagine pittorica, ma che
anzi andava alla ricerca di forme pure, primordiali, da porre alla
base del dipinto senza che la loro possibile analogia con alcunché
di naturale avesse la minima importanza»”. L'adesione formale al
MAC di Galvano eun gruppo di giovani torinesi — Annibale Biglione,
Adriano Parisot, Filippo Scroppo e in seguito Carol Rama e Paola
Levi Montalcini — avvenne nel 1952. A Torino il coagulo del
Movimento rappresentò una sfaccettata unione di poe- tiche, abbastanza
distante dal rigore costruttivista delle soluzioni compositive lombarde
che fondava le sue basi nell’Astrattismo storico internazionale e locale
degli anni Trenta. In questa sede non è possibile analizzare la
presa di coscienza sulle radici dell'avanguardia delle personalità
torinesi e ci si limita al solo caso di Galvano. Nel 19471] distacco
di Galvano dal comitato promo- tore del Premio Torino (la prima
manifestazione locale di arte attuale italiana dopola fine della
guerra)non avven- ne solo per posizioni politiche. Come chiariva
Giuliano Martano, nel catalogo della mostra Arte concreta a Torino
1947-1956, per una parte di artisti si trattava di una scelta di «lettura
in quelle matrici dell'avanguardia europea [...]quasiin contrapposizione
alle matrici trovate allora in un neonaturalismo e del “Fronte nuovo
delle arti”»”. Per Galvano e il discepolato della scuola di
Caso- rati, alla quale riconoscevano la creazione di «una terra
concimata pronta a recepire, stratificazione di cultura
altezzosasevogliamo, maattenta[...]. Aveva purelasciato ineredità una figurazione
latente, una scansione dell’og- getto che verrà dai torinesi lentamente e
sofferentemente decantata»°. Unosmarcamento, dunque, intotalebuona
25 T.Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra 1945 — 1957,
edizio- ni Schwarz, Milano 1957, p. 129. 26 G. Dorfles, Manifesto
del MAC, ora in Arte concreta a Torino 1947 — 1956, catalogo della
mostra, Sala Bolaffi, Torino 1970. 27, G. Martano, in Arte concreta
a Torino 1947 — 1956 cit. 28. Ibid. pace del Maestro,
che anche Galvano intraprese: la via verso l’astrattismo ben circoscritta
e lineare. La sua poetica, tra i torinesi, era la più distante
dal concretismo «proprio perché non è mai d'origine speri- mentale
ma la sua “avanguardia” si pone sempre come una verifica dello
sperimentalismo. Si pone insomma come contrasto immediato fra una realtà
esterna [...] ed una realtà interna quasi avida di controllare im-
mediatamente sul terreno stesso dell’accadimento, la validità
dell’accadere, e di controllarlo appunto in via sperimentale»?
Gli aspetti strettamente contenutistici della pittura di Galvano
della prima metà degli anni Cinquanta erano in diretto contatto con i
suoi interessi in quanto studioso di filosofia e storia delle
religioni. Andreina Griseri notava che gli entusiasmi per il
Kandinskij volto all’astratto e per il primo Kupka giungevano «a una
presa di posizione nell’ambito dell’arte non figurativa, chiarita in
numerosi scrit- ti, in cui il Galvano lumeggia la derivazione dalla
secessione di Klimt di molta arte contemporanea in una interpretazione
nuova dei rapporti art nouveau- Liberty e astrattismo»?°. Degli scritti
galvaniani degli anni Cinquanta ai quali Griseri si riferisce
citiamo almeno: Storicità e significato dell’arte “astratta”
(1953), Dal simbolismo all’astrattismo (1953), Le poetiche del
Simbolismo e l'origine dell’Astrattismo figurativo (1956). Gli
intendimenti del manifesto del MAC torinese del 1952 furono piuttosto
netti. Più in generale erano incontrapposizione con il dibattito dilagante
in quegli anni che scindeva gli artisti tra formalisti e realisti,
con- tro il neopicassismo ed estranei al «pudore» del com- promesso
dell’astratto-concreto di Venturi. A livello localelalororicerca era
indirizzata all'emancipazione dall’orbita casoratiana, dal neoimpressionismo
dei Sei e dal secondo futurismo con il quale condividevano lo
spirito avanguardistico, ma certamente non gli in- tenti. Biglione,
Galvano, Parisot e Scroppo firmarono il testo programmatico, con la
responsabilità di «lotta contro ogni conformismo pigrizia intellettuale».
«Se il nome stesso di “arte concreta” [...] sta a significare il
desiderio di rigore di chi ha rotto ogni ponte con tradizioni
storicamente esaurite [...] per sostituire la loro ricerca d'una diretta
“presentazione” di oggetti in cui si vengano obiettivando i bisogni
spirituali dell’uomo, come negli strumenti del suo lavoro quo-
tidiano si proiettano i suoi bisogni materiali [...]»®. Galvano,
pur immerso in una personalissima ricerca non figurativa, nel periodo che
all'incirca si estende tra il 1952 e il 1954, sviluppò una
maggior 29. Ibid. 30 A. Griseri, Albino Galvano, in
Dizionario Enciclopedico, Utet, Torino 1957. 31. A. Biglione,
A. Galvano, A. Parisot, F. Scroppo, in “Arte con- creta” n. 9, 15 novembre
1952, ora in L. Caramel, Mac Movimento Arte Concreta 1948 - 1958, Electa,
Milano 1984, p. 58. 20 adesione al MAC. Lo spazio dei
suoi dipinti, asciugato dall'andamento curvilineo delle partiture, si
popolò di forme squadrate dalla linearità spigolosa. Tutta- via, la
freddezza costruttivista e il rigore logico del concretismo erano solo
apparenti; l'artista puntava al contrario «ad un'arte che preservi il
dialogo tra gli schemi astratto-geometrici e quelli
compositivamente più liberi, moduli grafici e forme archetipiche
non direttamente razionalizzate»”. Un precoce avvicinamento
ai concretisti lom- bardi lo si data già al 1950. Galvano fu presente
a Milano in due collettive: con Filippo Scroppo (1950, presentati
da Gianni Monnet) presso la Libreria Il Salto, cenacolo della pittura
concreta milanese e alla Terza mostra di pittura astratta italiana.
Astrattisti milanesi e torinesi allestita alla Galleria Bompiani
(1951, dove esponevano i piemontesi Costa, Davico, Mastroianni, Parisot,
Scroppo, Spazzapan). I mag- giori rappresentanti della corrente di
entrambe le regioni figuravano, Galvano compreso, anche alla II e
III Mostra d’arte contemporanea di Torre Pellice del 1950-51.
L'allineamento al MAC di Galvano fu palesato anche dalla sua
presenza ad esposizioni promosse dal gruppo. La sortita d'esordio dei
torinesi (Biglio- ne, Galvano, Parisot, Scroppo ai quali si
aggiunsero anche Mario Davico, Mario Merz e Ugo Giannattasio)
avvenne alla Saletta Gissi di Torino con la mostra Pittori
astratto-concreti di Milano e Torino. Non fu però la prima presenza
organica del concretismo in città poiché già nel 1950 presso la Galleria
il Grifo si affacciarono alcuni esponenti milanesi così come alla
Quadriennale Nazionale d’Arte di Torino dove comparve una nutrita schiera
di astrattisti tra cui anche Galvano. Commentando la mostra presso
Gissi, sul bollettino “Arte concreta” n. 9, Galvano esibiva la profonda
sicurezza di una non superficiale accoglienza nell'ambiente cittadino e
rilevava la sfaccettatura di posizioni della compagine torinese che
collimavano in una base comune di principi. «Principi che possono
riassumersi in una profonda fiducia nella capacità dell’uomo ad
esprimersi e a comunicare con gli altri uomini, attraverso il puro
linguaggio delle forme, attraverso l’organicità e la coerenza ch’esso sa
imprimere ad un discorso i cui vocaboli non hanno bisogno di essere
immagini e finzioni per legarsi a una sintassi espressiva e, nei
casi più felici, poetica»®. La politica espositiva del gruppo
torinese non 32. L Mulatero, in P. Mantovani, I.
Mulatero (a cura di), Lucide inquietudini. Storie singolari
dell’astratto-concreto tra il '50 e il ‘70, Civico Museo d’arte
Contemporanea di Calasetta, Calasetta 2016, p. 26. 33 A.
Galvano, Mostra di pittori concreti di Milano e Torino alla Saletta
Gissi, in “Arte concreta” n. 9 cit., ora in L. Caramel, Mac Movimento
Arte Concreta 1948 — 1958 cit., pp. 58-59. Con
un'opera dalla serie i Nastri. ebbe seguito se non l’anno
successivo alla Galleria 5. Matteo di Genova. L'eccezione è rappresentata
da Galvano che figurò in svariate mostre organizzate dal MAC, si
ricordano qui le principali: Pitture di Albino Galvano in un esperimento
di sintesi, presso lo Studio b24 di Milano nel 1953 (valla pena
rimandare agli «asterischi» galvaniani di quel periodo, quasi
«privati manifesti» sui bollettini “Arte concreta” n. 12 e 14 che
chiariscono la sua posizione all’interno del movimento) e lo stesso anno
a Torino da Gissi esposero pittori concretisti italiani e francesi
(Gal- vano presentò collages polimaterici di ascendenza
prampoliniana); sempre al Torino l’anno successivo Galvano fu presente ad
una mostra allestita dallo Studio b 24 in occasione del Salone
dell'Automobile. Si menziona a parte la collettiva presso la
Galleria il Fiore di Milano del 1954 dove Galvano espose insieme a
Bordoni, Jarema, Parisot e Scroppo. Nello scritto introduttivo al
catalogo elaborò stringenti analisi nei riguardi di un’«arte figurativa
che non ripeta ma continui la natura», invitando il visitatore a
riflettere «che l'apparente chiusura ad una più ovvia comunicazione di
queste opere nulla intende precludere alla possibilità di uno scambio e
di una penetrazione sempre possibili nell'esercizio di una
21 lettura figurativa per elementi, segno colore, mo-
vimento, materia, ecc., non differenti da quelli che consentono la
valutazione di ogni buona pittura»*. Non sono da dimenticare infine
le presenze alle Biennali veneziane del 1952 e del 1954 con la sua
produzione concretista e la ripresa espositiva alle rassegne della
Società Promotrice di Belle Arti di Torino (1951, 1953, 1954).
Dall'Informale al neoliberty floreale 1955- 1965 Il «logico
passaggio all’astrattismo»” di Gal- vano culminò tra il 1952 e il 1954 in
una fase di «tensione tra impaginatura attenta alle squadra- ture
neoplastiche e colore tonale impastato». La vibrazione cromatica delle campiture,
ottenuta attraverso una libera stesura di pennellate, lo portò a un
lento e graduale sfaldamento delle sue strut- ture
geometrico-architettoniche a favore dell’indi- pendenza dell'immagine e
al protagonismo di una componente espressiva. Sul piano formale il
gesto pittorico si faceva emancipato e l’organicità della materia
riprendeva vigore. Si segnò qui il definitivo passaggio di
Galvano all’Informale, lontano dall’interpretazione del neona-
turalismo propugnata dal duo Carluccio-Arcangeli (è proprio nel 1955 che
furono presentati a Torino i giovani artisti informali presso la Galleria
La Bussola nell'esposizione Niente di nuovo sotto il sole, titolo
che rivelava la volontà di mantenere una continuità con il passato
e la natura). L'evoluzione del concretismo impose a Galvano
(e alla compagine torinese del MAC) un binario doppio di direzioni
che nonsiindirizzò all’antipittura quanto piuttosto alla scelta di
rimanere «dentro la pittura» nell’opzione di un astrattismo lirico che lo
condurrà verso l’Informale. Un Informale, sosteneva Galvano, affine
alla «declinazione di un linguaggio asemantico in cui tuttavia potessero
trovare esito quelle allusioni simbolistiche che già avevano un posto ben
rivelato dai titoli dei miei quadri del periodo astratto-concreto Rica
pe Una delle prime esposizioni che offrirono un Galvano
smarcato dall’astrattismo di matrice con- creta fu la personale (undici
opere del 1954-56) alla Biennale di Venezia del 1956 mirabilmente
introdotta da Giulio Carlo Argan. «La radice comune della sua
pittura [...]è la distinzione netta tra i concetti di forma e immagine.
L'idea di forma è inseparabile dall'idea di arte come rappresentazione,
implica sempre un contenuto di nozioni, un riferimento alla natura,
un 34 A. Galvano, in Bordoni, Galvano, Jarema,
Parisot e Scroppo, catalogo della mostra, Galleria Il Fiore, Milano
1954. 35 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 20. 36 A.
Galvano, in Bordoni, Galvano, Jarema, Parisot e Scroppo cit. 37 A.
Galvano, Autobiografia cit., p. 20. processo dioggettivazione.
L'idea diimmagine supera ildualismo dioggetto e soggetto, la relatività
costante di quod significat e quod significatur; mira a designare
un assoluto valore d’esistenza, a sostituire alla rap- presentazione
un'immediata semantica». Seguitava Argan: «La sua è la ricerca di
un'immagine che non abbia determinazioni dirette o indirette nel
mondo esterno, che non si manifesti per via di similitudini o
allegorie, che dichiari esplicitamente le sue origini e le sue ragioni
esclusivamente umane, che si ponga ad un tempo come noumeno e come
fenomeno. [...] Così la materia, non la forma, diventa mito ed
immagine; e la materia è il colore, ma anche il segno, la linea, il
punto». Nel 1957 Galvano venne invitato da Carlo Lu- dovico
Ragghianti per una personale alla Galleria La Strozzina di Firenze.
Nell’autopresentazione l'artista tenne a ribadire ancora una volta le
convinzioni e la coerenza del suo percorso pittorico che lo avevano
condotto all’Informale. La «formazione spirituale» si era compiuta,
esplicava Galvano, «attraverso la mia adesione alle correnti non
figurative, a quel- l'inversione” del simbolismo nell’astrattismo che
ho cercato di spiegare storicamente in sede critica. Perciò a
Kandinskij e al Kupka del 1913 [...] agli americani Pollock e Tobey, ai
polimaterici di Prampolini. [...] L'unico germe di “manifesto” è quello
sul “feticcio laico”. “Feticcio” cioè metafisica, ma “laico” cioè
an- timetafisica”. Credo si possa essere antimetafisici solo nella
misura in cui si è contro le false metafisiche. Nel caso dell’arte contro
la falsa “ispirazione”, l'evasione sentimentale...»°. Tra il
1956 al 1962 il mezzo informale di Galvano virò verso accezioni
neoliberty. La copertura totale della tela della prima fase si distillò
per mezzo di uno sfondo neutro solcato da grafismi pittorici
orientati sempre meno verso un'immagine quanto in direzione di
archetipi floreali e calligrammidi scrittura gestuale. Galvano
recuperava, seppur allusivamente, attraverso una nuova definizione di immagini,
la figuratività «trasformando o meglio puntualizzando i ‘feticci
laici” in “emblemi”»‘° esplicitati in forme larvali di iris, i fiori
paradigmatici del Simbolismo. Sul finire del decennio Cinquanta e
fino al 1965, oltre alle regolari presenze alle Promotrici torinesi
e alle mostre annuali di Torre Pellice, si segnalano la puntata
alla collettiva berlinese presso la Maison de France del 1957, le
partecipazioni al V Premio Bergamo dell’anno successivo, ai Premi
Arezzo (1960) e Fiorino. (Firenze 1960) e alla Quadriennale romana
del 1963. Di particolare rilevanza in quel periodo furono
38. G. C. Argan, in catalogo dell’ XXVIII Biennale di
Venezia, Venezia 1956. 39 A. Galvano, in catalogo della
mostra, Galleria La Strozzina, Firenze 1957. 40 A. Galvano,
Autobiografia cit., p. 20. 22 Nel
1972. due mostre. La personale del 1960 presso Galleria Il
Canale di Venezia presentata da Edoardo Sanguineti che così ultimava il
suo scritto: «I fiori Mallarmé ci costringono anche a riguardare di nuovo
in faccia la posizione dell'artista las que la vie étiole, portando
cosìla pittura ad assolvere a un compito, molto forte e molto
importante, di smascheramento dell'avanguardia, nella forma, secondo le possibilità
“moderne” di uno “estraniamento”»*!. Nella collettiva
(Galvano, Scroppo e Levi Mon- talcini) alla Galleria il Quadrante di
Firenze, Gillo Dorfles, accogliendo gli enunciati di Sanguineti,
alluse altresì ad un significato orientaleggiante delle pitture di
Galvano che avevano: «accolto nella loro matrice compositiva quasi il
“vuoto” il sunyata di certa arte zenista, purrimanendo lige a una
composta scansione di ritmi dell’Abendland»”. Pittore dunque
in «senso tradizionale» si definiva Galvano che ricusava le forme
antipittoriche, schiuse alla strada dell’arte-oggetto (della quale si
interessò in sede teorica), per abbracciare una «simulazione
d'avanguardia». Un profondo disagio lo condusse, tra il 1962 e il 1965, a
compiere una pausa dalla pittura causata probabilmente dal cortocircuito
innescato a causa di intendimenti antitetici perseguiti dal
parallelo mestiere di critico e di artista. Come rimarcava Argan:
41 E. Sanguineti, in catalogo della mostra, Galleria Il
Canale, Venezia 1960. 42 G. Dorfles, Tre pittori torinesi, in
Albino Galvano, Paola Levi Montalcini, Filippo Scroppo, catalogo della
mostra, Galleria Il Qua- drante, Firenze 1962. 43 A. Galvano,
Autobiografia cit., p. 21. Con Filippo Scroppo. «la
confluenza dei due percorsi di pensiero (e la sua pittura è tutta
pensiero) sono difficili e interiormente sofferte[...]»*.
Assumono infine un ruolo fondamentale nella produzione saggistica
di Galvano i due volumi pubblicati in quel periodo: Per un’Armatura
(Lattes, 1960) e Artemis Efesia. Il significato del politeismo
greco (Adelphi, 1966). Sono opere difficilmente classificabili che
attingono alla filosofia, alla storia delle religioni, alla psicoanalisi
e all’antropologia. I due studi affron- tano il problema dell’interpretazione
sia culturale che psicologica di un passato che ci coinvolge
direttamente e sono al tempo stesso «processo di autoanalisi in me-
rito al rapporto tra una figura-feticcio — un’armatura tardomedievale e
un idolo greco — e l’area psichica della coscienza». Il
decennio 1955 -1965 fu certamente per Galvano la fase più feconda di
collaborazione con periodici e riviste tra cui le torinesi “Sigma”,
“Cratilo” e come redattore di “Questioni” (già “Galleria di Arti e
Lette- re”)con Vincenzo Ciaffi, Mario Lattese Oscar Navarro per
l'editore Lattes. Una menzione a parte merita il 44 G. C. Argan,
in catalogo della mostra, Galleria Unimedia, Genova 1974.
45M. T. Roberto, Albino Galvano, Dizionario biografico degli
italiani, Treccani, Milano 1988. contributo Le tigriimpagliate (1959)
peril primo numero della rivista “Azimuth” fondata da Piero Manzoni
ed Enrico Castellani. Per “Letteratura” nel 1960 Galvano pubblicò
La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi, un lucidissi- mosaggio che
inquadrava, da testimone diretto, l’arte torinese del dopoguerra.
Successivi furono i notevoli contributi sulla situazione artistica
cittadina tra cui: Per lo studio dell'Art Nouveau a Torino (1960), Torino
e i “secondi futuristi” (1962) e il più tardo La pittura a Torino
all’inizio del secolo ?°. Bandiere, Nastri, «Griffonages» e Segni
asemantici 1966- 1974 Nel 1966 con l'esposizione Erbe e
Bandiere, presso la Galleria Botero di Torino, Galvano sentì «il
bisogno di affiancare e poi sostituire gli emblemi ispirati alla
natura con quelli di carattere artificiale più spogli e tendenti in
qualche modo a una nuova astrazione». In mostra le forme organiche dai
tratti guizzanti dell'ultimo Informale di Galvano furono accostate,
in un felice trait d'union, con la nuova produzione attraverso la serie
delle Bandiere. In uno scritto critico perla suddetta mostra Gilda Chepes
sottolineava: «Le sue erbe alghe, le sue flammulae, più che
bandiere, sembrano, ad analizzarle, vive, agitate da sentimenti, da
spasimi da aneliti, da desideri»**. L'artista perseverò nella
coerenza linguistica della sua ricerca che ancora una volta, nei più
nuovi risvolti, non si collocò in un'immediata e netta inserzione
in correnti o gruppi operativi. Gli estesi panneggiamenti
svolazzanti dai colori accesi che si stagliavano su fon- di neutri
riecheggiavano quasi un'antica tradizione araldica. I riferimenti
pittorici non erano di certo estranei al linearismo sensuale del Liberty,
anche nella sua declinazione decorativa, rammentando inoltre
suggestioni neobarocche. Un commento di Carlo Mollino, riguardante
un'architettura baroccheggiante di Galvano dipinta degli anni Quaranta,
potrebbe restituire puntualmente le atmosfere delle recenti
Bandiere espresse in uno: «scenario di questo tempo immobile nella chiara
decisione di un arabesco che non si placa che in un ordine senza
indulgenza, ma vivo di un amore disincantato»? Furono ancora
le Bandiere ad essere esposte nel 1968 per una personale a Cremona alla
Galleria d’arte I Portici. Gli stendardi svolazzanti davano la prova
di una profonda conoscenza degli allora attuali linguaggi pop e
forniscono anche un «grave riverbero di anti- chità» rendendo l’immagine
«imminente e insieme assente che par scelta e fabbricata per un
pubblico Tutti gli scritti qui citati sono reperibili in A. Galvano,
Dia- gnosi del moderno, cit. 47 A. Galvano, Autobiografia
cit., p. 21. 48. G. Chepes, in “Borsa Arte”, 1966. 49
C. Mollino, in S. Cairola, Arte italiana del nostro tempo, 1946.
senza tempo e d’ogni tempo [...]. Proprio per questo [...]è significante
perché carica di intenzioni contrad- dittorie e fortemente drammatiche,
nella dialettica che stabiliscono tra l’esperienza passata e l'avvento, e
la necessità del presente»”. Dal1968Galvanosirivolse alla
nuova serie pittorica dei Nastri mantenendo una viva tangenza allo
sviluppo formale del periodo MAC. L'oggettivazione del dato
geometrico si sostituì con una figurazione elementare di armonica
tridimensionalità sull’estensione della tela. Le masse sventolanti e
libere, nelle quali si evidenzia una ben nota propensione per l’ellissi e
il semicerchio, proseguivano l'indagine sullo spazio volumetrico.
Giuliano Martano asseriva appunto di un'«astrazione intellettuale, in cui
i segni, i ghirigori, sono veri e pro- pri simboli codicillari, incognite
d’equazione, libertà della memoria. [...] Nastri che si dipanano nel
quadro senza né capo né coda e sono le bandiere di prima rese a
brandelli, sono una forma chiusa che si apre, che da circonlocuzione
diventa interlocuzione»?”!. Presso la Saletta d'Arte contemporanea
di Cu- neo, nel 1972, Galvano presentò questa figurazione
elementare di volute concave e convesse di recente produzione, che si
palesavano, secondo Giorgio Brizio, «dall’uso parco e strettamente
pensato delle timbrici- tà cromatiche. Basandosi su toni primari,
operando esclusivamente sulla opacità della parte in ombra, Galvano
può, in una suddivisione doraziana dell’in- fluenza tonale, usare la
direttrice cinetica del timbro per equilibrare il dinamismo globale della
partitura spazio-occupato, spazio-vuoto»”. Nel 1974 la
personale alla Galleria Martano di Torino assunse il significato di una
ricapitolazione, dal MAC al presente, in cui gli elementi nastriformi
si erano evoluti, tra il 1973 e il 1974, in forme dall’aspet- to
cellulare e in moduli verticali e curvilinei. Tracce realizzate a
carboncino, impreziosite da lievi velature scariche di colore,
campeggiavano solitarie sulla tela; la dimensione gestuale fu affiancata
dall'espressione intellettiva dell'atto primario del dipingere.
Questi moduli nella linea filogenetica della sua pittura non-
figurativa «appaiono anche maggiormente legati ai dettami grafici di una
cultura passata attraverso “quell’inversione del simbolismo
nell’astrattismo” [...] che riaffiora con l’organicità delle sue forme
così tese ed essenziali, rispondenti ancora una volta a quella
logica interiore che resta come la matrice vera di ogni opera di
Galvano»”. Lostesso anno una sala personale della 25° Mostra
d'arte contemporanea di Torre Pellice venne dedicata a 50
E. Fezzi, in catalogo della mostra, Galleria d’arte I Portici, Cremona
1968. 51. G. Martano, Albino Galvano, in “Pianeta”, 1968.
52. G. Brizio, in catalogo della mostra, Saletta d'arte contempo-
ranea, Cuneo 1972. 53. A.Dragone in “Stampa sera”, Galvano che vi
espose una ventina di opere. L'artista presentò efficacemente al pubblico
la sua recente svolta pittorica: «ho sentito il bisogno di logorare la
forma, di intercettarne la presunzione di organicità, sgranan- done
il supporto disegnativo in pochi cenni grafici su cui il colore nonagisse
più come elemento qualificante ma soltanto come sottolineatura allusiva.
[...] Come nel ritmo stesso delle vicende vitali, a una stagione di
estroversa aggressione della percezione dello spet- tatore si avvicendava
una fase di ripiegamento sulla discrezione, sulla riserva, sultono
contenuto». Coevi furono i Griffonages e i Segni dell'alfabeto asemantico
lavori con scritte quasi illeggibili rese «come puro segno e gioco
lineare [...] non senza un, fra ironico e intenerito, strizzar l'occhio
al “concettualismo”»59. Sempre nel 1974 si ebbe la personale
genovese alla Galleria Unimedia per la quale Saguineti imple- mentò
la troppo riduttiva definizione del Galvano “doppio”, critico e pittore,
trascendendo anche nella saggistica e nella filosofia e invitando a
vedere «con totale persuasione [...] la forza della sua lezione
[...] rispecchiata, con eguale fedeltà, nelle sue pagine e sopra le
sue tele». Il discorso si reiterava anche nello scritto critico di Argan
che chiudeva con un interro- gativo dal quale Galvano non si discostò
mai: «Che cos'è la pittura?». «Ciò che vuol sapere è che cosa sia
la pittura in questa precisa condizione della cultura, della coscienza,
dell’esistenza, e quale il suo grado di vitalità, quali le sue
possibilità di sopravvivere in uno spazio ogni giorno più ristretto»”.
Tra la ripresa dopo l'interruzione pittorica e il 1974 si ricordano
infine le puntuali presenze a collettive con cadenza annuale come la
Promotrice delle Belle Arti e le mostre del Piemonte Artistico e
culturale di Torino; le rassegne estive di Torre Pellice e due edizioni
dell’Incontro di artisti piemontesi e liguri a Bordighera Dal 1975 si
reimpose per Galvano un nuovo approccio rivolto alle forme naturali: la
ripresa di una figurazione espressionista pervasa d’un realismo
quasi visionario e il fascino recuperato, come confessò lo stesso
artista, per le gidiane «nourritures terrestes». Galvano sembrò
sentirsi quasi responsabile d'un tradimento verso la pittura
allorché, per coerenza, operò una «sintesi tra l’ele- mento naturale e il
non figurativo che gli consentì 54 A. Galvano,
Personale di Albino Galvano, in 25° mostra d’arte contemporanea, catalogo
della mostra, Scuole comunali, Torre Pel- lice 1974. 55 A.
Galvano, Autobiografia cit., p. 21. 56 E. Sanguineti, in catalogo
della mostra, Galleria Unimedia, Genova 1974. 57 G.C. Argan,
in catalogo della mostra Galleria Unimedia, cit.
SZ Nella bottega dell'antiquario.
un'impaginazione astratta servendosi di forme non inventate, non di
natura cerebrale ma veramente esistenti», Riemerse, con la
serie dei Cespugli (fino al 1977 circa), la fascinazione per i cespi di
iris, tema dominante di inizio anni Sessanta, ma questa volta non
più giocato con la «gestualità irruente» del colore spremuto direttamente
sulla tela, eredità del linguaggio informale, ma attraverso un
sedimen- tato approccio di sottili velature di pittura a olio
utilizzata come gouache che si rifaceva alle delicate tinte dei moduli di
qualche anno precedenti. Gli sfondi bianchi svuotati erano percorsi
esplicita- mente da segni grafici e scritte che sembrarono
dischiudere uno spiraglio perfino alla poesia visiva. Fu Galvano stesso,
riferendosi a questi la- vori — esposti in una personale del 1977 presso
la Galleria Weber di Torino — a parlare di «archetipo floreale»
dove «il fiore dell’iris scandisce l’intrico dei segni, grafismi di
parole o di immagini, altre volte rigidamente modulari o, almeno non
anco- ra piegati all’allusione significativa. ‘“Cespugli” Spinardi,
in catalogo della mostra, Piemonte Artistico e Culturale, Torino perciò
in contrapposizione ai glifi dell’”alfabetico asemantico” e dei
griffonages che li avevano, verso la fine del 1974, preceduti»®?.
Dal 1978 e fino al concludersi del decennio seguì la serie dei
Motivi vegetali (Ciottoli, Foglie, Frutti, Relitti). La riappropriazione
di una rappresentazione ottica- mente realistica fu solo apparente; il
candore neutro dei fondiesaltava una suggestione di
tridimensionalità attraverso la scansione prospettica degli oggetti.
Tali elementi solitari erano estraniati dal loro contesto naturale
e inseriti negli spazi illusori di questa pittura d’assenza.
Sul cadere diogni riferimento a contenuti simboli- ci «o anche solo
sentimentali» della pittura di Galvano, ne scrisse Renzo Guasco in un
testo che introduceva lagrande mostra retrospettiva dell'artista
organizzata a Torino nel 1979 dalla Regione Piemonte. Tali opere,
per Guasco, «non sono più emblemi né simboli che rimandano a un ulteriore
significato. Per essi si può forse parlare di “sospensione di senso” (per
usare un termine di Barthes), di un muto stupore di fronte alla
vita e alla natura. Le foglie morte e i relitti di Galvano rifiutano il
significato, e quindi ogni commento, o spiegazione. Il cespuglio spezzato
è solo un cespuglio spezzato; le foglie, anche se rosse, autunnali, non
sono les feuilles mortes»®. Con avvio del decennio Ottanta ne
i Paesaggi (Rocce, Alberi, Isole) vi fu il riutilizzo di una
stesura cromatica che spesso occupava l’intera tela con un
conseguente recupero dell'effetto tonale. Gli spazi desolati, le «muse
inquietanti», che Galvano propose in questa fase suggerirono a Paolo
Fossati richiami alla pittura metafisica. «Luoghi, intanto, vuoti,
svuotati di allotrie presenze, come è giusto siano le radure vuote
e silenti, per il camminante che vi si ferma a pensare e meditare. Luoghi
di pensiero e di inconsci sofismi: con i relativi feticci oppure
archetipi, teste in gesso di eroi, manichini nel pictor optimus; rami
sassi acque per Galvano»®!. L'artista in età avanzata,
provato dalla difficoltà dell’offuscamento della vista, con le serie di
guazzi su carta di Nudi e Macchie sperimentò infine, una pittura
liquida fatta di segni colantiin un'inversione di «sgor- bi cromatici di
netta matrice informale»? Nel 1988 confessava ai lettori del catalogo
della Galleria Micrò (una delle sue ultime mostre): «Ancora una volta
ho voltato gabbana e me ne scuso a chi può dare fastidio, Galvano,
in catalogo della mostra, Galleria Weber, To- rino 1977. 60
R. Guasco, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura di), Albino Gal- vano cit.,
p. 16. 61 P. Fossati, Per un omaggio a Galvano, in P. Fossati, F.
Garimol- di e M. C. Mundici (a cura di), Omaggio a Albino Galvano,
catalogo della mostra, Circolo degli Artisti, Torino, Electa, Milano
1992, p. iz. 62 A.Galvano, in catalogo della mostra, Galleria
Micrò, Torino 1988. ma vorrei ricordare che vi è stata una
mia stagione di “eriffonages” [...] che a questi fogli ultimi molto
si apparenta, anche se là il segno prevaleva, monocromo [...].
Perciò dico a mia difesa — il diritto di difendersi è sempre riconosciuto
ai colpevoli — “versatilità, ca- pricciosità sì, incoerenza no”»®.
Molti furono gli spazi espositivi torinesi che ac- colsero le
personali di Galvano inquadrando la sua ultima fase pittorica, tra cui:
la Galleria Weber (1977), il Piemonte Artistico e Culturale (1982), la
Galleria Cittadella (1981 e 1984) e la Galleria Micrò (1988).
Occasioni extracittadine rilevanti furono presso la Galleria Morone di
Milano (1979), la Galleria Villata a Cerrina Monferrato (1980) e la
bipersonale insieme a Gino Gorza presso Palazzo Te a Mantova (1988).
Si rammentano poi l’antologica presso la Galleria La Cittadella di Torino
con opere dal 1930 al 1950 (1976); la vasta esposizione del 1979
organizzata dalla Regio- ne Piemonte presso Palazzo Chiablese di Torino
che esplorava l’intera carriera dell'artista (corredata da un
notevole apparato critico in catalogo) e le mostre retrospettive del 1989
e 1990 alla Galleria Accademia di Torino. Costanti furono
inoltre le partecipazioni a collet- tive come alla Promotrice torinese
(dal 1975 al 1979), alla Galleria Martano (1976) e all'esposizione
Torino tra le due guerre presso la Galleria d’arte moderna di
Torino. Infine, nell’ambito della rinnovata attenzione perlostoricizzato
Movimento Arte Concreta, Galvano figurò in svariate mostre a:
Cavallermaggiore (1980), Torre Pellice (1983), Gallarate (1984), Aosta
(1987). Albino Galvano morì il 18 dicembre 1990 a Torino
all’età di ottantatré anni. La dichiarazione conclusiva sugli
intendimenti di una pratica pittorica perseguita per l'arco di una
vita intera è affidata a Galvano stesso e permette di afferrare almeno un
aspetto di questa multiforme e primaria figura di artista, critico e
intellettuale italiano del Novecento. «Di una sola coerenza credo di
poter- mi vantare, ma è coerenza che in qualche modo mi sequestra
al di fuori di tanta arte contemporanea: la fedeltà alla tela, al colore
ai pennelli. In parole povere ho sperimentato molto, forse troppo e
troppo disper- sivamente, ma non mi sono mai sentito vicino alle
ricerche di chi avevarifiutato o cercato un'alternativa ai mezzi tecnici
— che poi vuol dire anche espressivi — di una tradizione che va dal Cinquecento
agli impressio- nisti, ai fauves, agli espressionisti. Fedeltà o
incapacità di uscire dalla routine? Non sta a me deciderlo. Ne
rivendico la responsabilità o il merito». 63 bid. 64
A.Galvano, in catalogo della mostra, Palazzo Te, Mantova 1988.
26 Seconda metà anni Settanta.
Alla presentazione del volume "La pittura, lo spirito
e il sangue", 1988. Da discepolo a interprete. Albino Galvano
e Felice Casorati Alessandro Botta “Quando, a
vent'anni, mi presentai alla Scuola di via Galliari, cioè allo studio di
Felice Casorati, avevo dietro le incerte aspirazioni dettate da una
pretesa mia attitudine al disegno [...]. Poco, ma abbastanza,
insie- me alla passione per la storia dell’arte, perché seguis- si
con attenzione sulle riviste (specialmente “Empo- rium”) le Biennali
veneziane del 1926 e del 1928 che mi educarono al gusto per l’arte
contemporanea”. Con queste parole Albino Galvano apre la sua auto-
biografia scritta per una mostra retrospettiva torinese del 1979,
definendo sin da subito le proprie origini di formazione e circostanze di
aggiornamento. Nato nel 1907, “anno in cui, con le Demoiselles’ di
Picasso, l’arte occidentale vedeva chiudersi il ciclo iniziatosi alla
fine del duecento”? si iscrive al liceo classico Cavour insie- me a
Giulio Carlo Argan (“eravamo vicini di banco”), e presto interrompe gli
studi per dedicarsi interamente alla pittura, seguendo inizialmente le
indicazioni di ar- tisti intercettati attraverso le conoscenze
familiari.‘ Un temperamento vivo e curioso, il suo, che più
che seguire le letture e gli studi che il percorso scola- Stico gli
impongono, preferisce accrescere le proprie conoscenze con una formazione
isolata, fatta di letture personalissime: “Mi seppellivo cinque-sei ore
al giorno in biblioteca — sostiene in un'intervista —. Lì incomin-
ciai a leggere ‘La Critica’. Nel’25 avevo letto Bergson” 5
Nell’atteggiamento che caratterizza il giovane artista, concentrato ad
inseguire le proprie passioni piuttosto che le strade già battute, si può
forse leggere una conti- nuità nella scelta di rivolgersi a Casorati come
maestro, una decisione non così scontata in una Torino dove gli
orientamenti estetici erano ancora influenzati dall’in- gombrante figura
di Giacomo Grosso e dall’insegna- mento della paludata Accademia
Albertina. Galvano ha una fascinazione improvvisa verso
l'artista torinese, arrivata attraverso l'osservazione di-
1 A. GALVANO, Autobiografia, in N. PizzETTI, G. Givone (a
cura di), Albino Galvano, catalogo della mostra (Torino, Palazzo
Chia- blese, 21 dicembre 1979 - 13 gennaio 1980), Regione Piemonte,
Torino 1979, p. 17. 2 Ibidem. 3 G. C. ARGAN, Albino
Galvano [presentazione], in XXVIII Bien- nale di Venezia, catalogo della
mostra (Venezia, giugno - ottobre 1956), Alfieri Editore, Venezia 1956,
p. 213; “Non eravamo tra i pri- mi della classe: troppe cose
c'interessavano, che non avevano nulla a che fare col programma, e ne
discutevamo per interi pomeriggi, dimenticando le versioni di latino e i
problemi di matematica. For- se quell’amicizia di ragazzi ci costò
qualche esame a ottobre ma, almeno per me, non fu un'esperienza inutile”
(Ibidem). 4 Galvano parla di “un apprendistato presso il Vannini,
ma- estro di disegno a cui ero stato indirizzato dal pittore
Giovanni Pisano amico di famiglia, che avevo avuto spesso occasione
di veder al cavalletto” (A. GaLvano, Autobiografia [1979], cit., p.
17). ©) [Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], in P. Fossati,
F. GarmoLpi, M. C. Munpici (a cura di), Omaggio a Albino Galvano,
catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 23 gennaio - 1°
marzo 1992), Electa Piemonte, 1992, p. 140. Ud
Albino Galvano alla mostra personale di Palazzo Chiablese, Torino,
1979. Archivio Storico della Città di Torino, fondo "Gazzetta del
Popolo". retta di alcuni suoi dipinti presenti nelle
collezioni del museo cittadino: “Alla Galleria di Torino — sostiene
egli stesso nell’autobiografia del 1952 — mi erano cioè pia- ciuti
piuttosto i bianchi di tempera con il rosso dei co- ralli o il cielo
spugnoso del bozzetto per il ‘Ritratto del- la signora Wolf” che il
neoquattrocentismo del ‘Ritratto della sorella’”.. Prime indicazioni
attestabili dopo il 1926, sintomatiche di un interessamento che si
rafforza man mano e che è destinato a diventare decisivo per il suo
ingresso nella scuola dopo la visita alla Biennale veneziana del 1928,
nella quale Casorati espone,” oltre ad otto dipinti, anche due statue
destinate al proscenio per il teatro Gualino. Galvano è colpito, in
questa occa- sione, ‘“[dal]l’azzurro o il paglierino di stoffe e legni
in ‘Daphne’ che le pose ricercate dei nudi”. 6
A.GALVANO, [autobiografia], in Albino Galvano, catalogo del- la mostra
(Asti, Galleria La Giostra, 1952), Asti 1952, p.n.n.; rela- tivamente ai
dipinti di Casorati citati si veda il catalogo generale dell'artista G.
BERTOLINO, F. PoLi, Felice Casorati. Catalogo generale. I dipinti (1904-1963),
2 voll., Allemandi & C., Torino 1995, nn. 188 (1922), 250 (1925). Da
qui in poi citato come (Bertolino, Poli). 7 A. GALVANO,
[autobiografia] [1952], cit., p. n.n. Relativamen- te alla Biennale del
‘28 scrive: “Quella del 1928 volli visitarla di persona e vi fui impressionato
specialmente da Felice Casorati, sicché decisi, scoperto che abitava a
Torino, di iscrivermi alla sua scuola.” (Ip., Autobiografia [1979], cit.,
p. 17). 8 Ibidem;inquell’occasione, oltre al Ritratto di Daphne
(1928) (Ber- tolino, Poli 328), Casorati espone l’opera Ragazze dormenti
(o Mozart) (1927) (309), ricordata da Galvano nel suo racconto
autobiografico. L'ingresso alla scuola, avvenuto
probabilmente verso la fine dell’anno o all’inizio di quello
successivo, lo vede inserirsi in un ambiente già consolidato, ac-
cresciuto notevolmente d’iscritti rispetto al nucleo fondante di stretto
discepolato del suo studio “che sta tra l'accademia e il monastero” del
1921.!° La “Scuola libera di pittura”, inaugurata nel 1927 in via
Galliari 33, è ormai una realtà pubblica, che riunisce maestro e
allievi e li vede impegnati come fronte coeso nelle esposizioni cittadine
e nazionali.! La serietà e la dedizione alla pittura sono le
ca- ratteristiche fondamentali che danno l’accesso alla scuola: lo
si ricava dalle impressioni che risuonano con continuità tra i commenti e
i ricordi degli allievi che in tempi diversi affrontano l’alunnato
casoratia- no.! Galvano non fa eccezione: “L'accoglienza fu, come
era nel suo stile, di una signorile severità”.! Ma, al di là delle
incertezze iniziali, il maestro sem- bra essere più colpito dalla
spiccata vivacità intel- lettuale del giovane allievo piuttosto che dalle
sue capacità pittoriche: “credo che — sottolinea Galvano
raccontando di se stesso — abbia avuto subito per l’uomo la simpatia e la
stima che poi sempre mi di- mostrò, forse assai più scarsa la fiducia
nelle mie possibilità di pittore, il che mi fu ottimo stimolo a
intestardirmi e ad impegnarmi a fondo”! Tra la fine di ottobre e
l’inizio di novembre del 1929 lo scolaro “intelligente ma noioso,
predicatorio”, secondo il ricordo di Lalla Romano (anche lei
discepola di Casorati),'° presenta le sue opere per la prima volta
con il gruppo di allievi alla II Esposizione d’arte allesti- ta nello
studio di via Galliari. L'esposizione “intima”, alla sua seconda
edizione, è aperta al pubblico di inte- ressati (a visitarla, sono
perlopiù personalità del milieu intellettuale antifascista cittadino) e
vuol essere una “raccolta dei lavori più notevoli eseguiti dagli allievi
nello scorso anno”.!° La prova generale della scuola non sembra però
garantire a Galvano l’accesso all’im- 9 Galvano, a molti anni di
distanza, fissa la sua presenza nella scuola “dalla fine del 1928 a
quella del 1930” (A. GaLvano, Auto- biografia [1979], cit., p. 17).
10 P. GOBETTI, Felice Casorati pittore, Torino [1923], p. 91.
11 Perunostudiosulla scuola di Casorati e sulle vicende espo-
sitive della stessa si veda V. CavaLLaro, La scuola di Casorati, tesi di
laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli Studi di Torino,
2012, relatore: F. Rovati; F. Poi, V. CavaLLaro (a cura di), La scuola di
Felice Casorati ed Andrea Cefaly, catalogo della mostra (Catanzaro,
Complesso monumentale di San Giovanni, 26 ottobre — 26 novembre 2017),
Rubettino, Soveria Mannelli 2017. 12 testimonianze e memorie
dei suoi discepoli, in C. Pianciola (a cura di), Il critico e il pittore.
Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni, Fano 2018.
13 A. GALVANO, Autobiografia [1979], cit., p. 17. 14 Ibidem.
15. L. Romano, Una giovinezza inventata, Einaudi, Torino, 1979, p.
192. 16 E. PauLuccCI, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le
Arti Plastiche”, 16 novembre 1929, p. 2. Su questo
argomento si veda A. BOTTA, Felice Casorati nelle. minente esposizione
alla Galleria Valle di Genova — or- ganizzata probabilmente da tempo e
inaugurata nel gennaio del nuovo anno -, che vuol essere l’occasio-
ne per riunire una selezione più stretta degli allievi.!” Dovrà attendere
ancora qualche mese, in primavera, prima di assistere alla presentazione
di un suo dipinto (accolto per accettazione dalla Giuria) alla Biennale
del 1930.!* Riuniti attorno al maestro, gli allievi di Casorati —
otto in totale — occupano la sala 30, attigua alla fortu- nata e discussa
retrospettiva di Modigliani ordinata da Lionello Venturi, che non manca
di far nascere alcune corrispondenze e letture parallele con le opere dei
ca- soratiani. Da questo momento in poi Galvano
incomince- rà ad essere presente con continuità alle mostre della
scuola. Una conferma che arriva già a poche settima- ne di distanza con
la partecipazione alla 88° esposizione della Società Promotrice delle
Belle Arti con ben quattro dipinti. Ancora alla fine dell’anno il suo
nome si regi- stra tra gli allievi presenti alla III Esposizione d’arte
di via Galliari,' mentre nel gennaio del 1931 viene segna- lato
come uno dei “casoratiani” che espongono - que- sta volta senza il maestro
— alla mostra torinese degli “Amici dell’ Arte”. Se fino a
questo momento le opere di Galvano non sembrano sollecitare più di tanto
l'interesse della critica — forse perché il modello del maestro è
troppo riconoscibile nella sua pittura —, l'occasione della I Qua-
driennale d'Arte Nazionale di Roma del gennaio 1931 apre ad un
interessamento che coinvolgerà da lì in poi anche il giovane artista
torinese, presente con il dipinto Estate, riprodotto per l'occasione
sulla nota rivista mi- lanese “La casa bella”?! Galvano,
ancora coeso al gruppo almeno fino al marzo di quell’anno (la sua
presenza è confermata in una mostra di “scuola” allestita alla galleria
Milano), Esposizione dei pittori Casorati, Bay, Bionda, Bonfantini,
Mar- chesini, Maugham, Mori, prefazione di G. Pacchioni, catalogo
della mostra (Genova, Galleria Valle, 20 gennaio - 3 febbraio 1930),
Ge- nova 1930. 18. Sitratta del dipinto Paese con un ponte;
cfr. Catalogo XVII Espo- sizione Biennale Internazionale d'Arte 1930, catalogo
della mostra (Venezia, maggio - novembre 1930) Venezia 1930, sala 30, n.
18. 19 Cfr. E. Pautucci, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in
“Le arti plastiche”, 16 gennaio 1931, p. 2. 20 Cfr.E. ZANZI,
Cronache torinesi. La mostra degli “Amici dell’Ar- te”, in “Emporium”,
vol. LXXIII, n. 433, gennaio 1931. pp. 50-51. 21. P. Torriano, Cronache
d’arte. Note alla I Quadriennale, in “La casa bella”, marzo 1931, p. 57.
Relativamente alla partecipazione degli artisti piemontesi alla rassegna
romana si veda L. IAMURRI, Levi, Paulucci e gli altri. Presenza torinesi
alla Quadriennale, in M. Cossu, C. MicHELLI (a cura di), Cultura
artistica torinese e politiche nazionali 1920-1940, catalogo della mostra
(Roma, Galleria Nazio- nale d'Arte Moderna, 16 dicembre 2004 - 13
febbraio 2005), Electa, Milano 2004, pp. 58-60. 22. Cfr. Bay,
Bionda, Bonfantini, Casorati, Chicco, Cremona, Donati, Galvano, Levi,
Maugham, Marchesini, Mennyey, Mori, catalogo del- la mostra (Milano,
Galleria Milano, 1° - 15 marzo 1931), Milano Copertina del catalogo della
mostra alla Galleria Milano, Milano 1931. incomincia a dar segni
di cedimento rispetto allo sta- tuto casoratiano e nei confronti della
scuola. Un di- Stacco progressivo che si rende evidente
nell'esercizio Stesso della pittura, che lo vede ricercare una
propria indipendenza e nuove vie di espressione. La Promo- trice
del 1931 diventa per lui un terreno di confronto nel quale presentare le
più recenti ricerche, filtrate at- traverso nuovi modelli nel frattempo
subentrati e ma- turati, chiariti con lucidità — a distanza di anni —
dallo Stesso artista: Mi affascinavano il tentativo di
ricostruzione formale del mio maestro e, contemporaneamente e
contradditto- riamente, gli esiti dell’impressionismo e postimpressio-
nismo, sia nelle loro accezioni originali sia nelle riprese locali dei
Sei e, in genere, la pittura di colore e di tocco, ovviamente legata a
una visione naturalistica. Nel du- plice e, in certo senso,
contraddittorio intento di tener Insieme i valori plastici di Casorati e
quelli cromatici dei Sei il risultato diveniva naturalmente pesante,
impasta- to, anche perché subivo fortemente l'influenza di una
certa pittura francese [...], o meglio di una pittura che si faceva in
Francia spesso da stranieri, [...] che allora agli inizi degli anni
trenta mi affascinava dalle pagine di “L'Art Vivant”.®
Assente il maestro, Galvano è presente con tre ope- re. La Composizione
con figura, in particolare, riprodotta 23. A.
Galvano, Autobiografia [1979], cit., p. 18. 29 sia in
catalogo che sulla rivista “Emporium”,’° mostra gli esiti
dell'aggiornamento condotto sugli esempi dei post-impressionisti francesi
e sulle proposte figurative dei “Sei” (sciolti ufficialmente, come
gruppo, proprio nel 731), che si riconoscevano nella linea di
rinnovamento dell’arte contemporanea tracciata da Lionello
Venturi.® Il passaggio, da questo momento in poi, è breve.
Complice un disfacimento generalizzato della scuola stessa, il pittore,
alla mostra degli “Amici dell'Arte” al- lestita nell'autunno del medesimo
anno, è considerato già da tutti un ex allievo.?? Ma la sua fedeltà al
maestro e l'amicizia che li lega lo vedranno partecipare ancora ad
una mostra di “scuola”, allestita nel teatro di Pavia all’inizio del
1932. Accanto agli ex compagni, Galva- no diventa una presenza
eccentrica. Le sue opere, che spaziano tra i generi (dalla natura morta
al paesaggio), mostrano la sua indecisione circa la strada da
intra- prendere, alla luce delle più recenti scoperte, passando “da
l’espressionismo a l'impressionismo senza un atti- mo di
esitazione”. La “rottura” con Casorati — 0 presunta tale —,
coin- cide con il suo esordio di critico e con il suo avvicina-
mento a Lionello Venturi, al quale viene introdotto dal suo compagno di
studi Giulio Carlo Argan.* Nel lu- glio del 1932 Galvano pubblica il suo
primo contributo sull’illustre rivista trimestrale “L'Arte”, che a
partire dal 1930 vede Lionello impegnato nella condirezione accanto
al padre Adolfo. La presenza del figlio, pro- fessore all’Università di
Torino, apre il periodico al di- battito sulle arti contemporanee, fino a
quel momento escluso dai contenuti tradizionali della rivista. Il
saggio Armando Spadini e il gusto degli impressionisti? mostra l'avvicinamento
di Galvano alla critica venturiana, già evidente nel titolo del
contributo (che riecheggia il più celebre volume del 1926)" e che si
conferma nei conte- nuti e nel soggetto stesso dell'articolo.
24 E. ZANzZI, Cronache torinesi. Dopo ottantanove anni... L'Esposi-
zione Interregionale della Promotrice di B. A., in “Emporium’”, vol.
LXXXIV, 443, novembre 1931, p. 307. 25 Alberto Rossi, sulle pagine
de “L'Italia letteraria”, sottolinea come Galvano sia ormai “teso a
tutt'uomo alla ricerca di costru- zioni personali” (A. Rossi, Una mostra
interregionale, in “L'Italia letteraria”, 12 luglio 1931, p. 4), mentre
Emilio Zanzi, su “La Gaz- zetta del Popolo”, rileva come la distanza -tra
allievo e maestro- sia ormai sensibile sia da un punto di vista cromatico
che formale: “Il giovane Galvano - fa notare - sta liberandosi dai grigi
e dalle tristezze casoratiane e ora si esperimenta, con accortezza e
con gusto, nelle esperienze di Matisse e di Friesz” (E. z. [E.
Zanzil], L'arte al Valentino. La terza Mostra regionale del Sindacato
delle Belle Arti, in “Gazzetta del Popolo”, 14 maggio 1931, p. 6).
26 Cfr.e.z. [E. Zanzi], Agli “Amici dell'Arte” pittori, scultori,
ar- chitetti, decoratori. La mensa degli avieri ideata da S. E. Balbo, in
“Gaz- zetta del Popolo”, 10 ottobre 1931, p. 7. 27,
P.A.Sornini, Alla mostra Casorati II, in “Il Popolo di Pavia”, 27 gennaio
1932, p. 3. 28 Cfr. A. GALVANO, Autobiografia [1979], cit., p.
17. 29 In., Armando Spadini e il gusto degli impressionisti,
in “L'Arte”, vol. III, nuova serie, IV, luglio 1932, pp. 318-331.
30 LL. VENTURI, Il gusto dei primitivi, Zanichelli, Bologna 1926.
Accanto all'impegno pittorico, piuttosto in crisi in questo periodo
(“per una dozzina d'anni, mi mossi un poco a casaccio”), Galvano intraprende
gli studi universitari presso la Facoltà di magistero. Una scelta
che è dettata non tanto dalla sua ben nota passione per le materie
letterarie e filosofiche o dalla sua curiosità innata, ma più
semplicemente da “problemi economi- ci” che lo obbligano “in fretta e
furia a prendere una laurea e ad iniziare l'insegnamento in istituti
privati” La fine del suo percorso di studi, che si conclude con una
Tesi sulla pedagogia della religione discussa con Angiolo Gambaro e
Nicola Abbagnano, coincide con la ripresa dell'attività di critico ma
anche di saggista,” che si fa particolarmente intensa a partire dal 1938
e che lo vede collaborare con le riviste “Il Selvaggio” ed
“Emporium”. AI di là dell'abbandono della scuola di Via Gal-
liari, Casorati resta per Galvano un solido punto di riferimento, non
tanto come esempio figurativo o di pratica pittorica da seguire, ma come
rappresentate di un modello culturale autorevole e indipendente pre-
sente in città. L'amicizia tra i due, avviata alla fine degli anni Venti
e riconfermata in più occasioni, sembra in questo giro di anni
intensificarsi ulteriormente, antici- pando il sodalizio che porterà alla
pubblicazione della monografia per la collana “Arte Moderna Italiana” di
Scheiwiller nel 1940, dedicata integralmente al mae- stro.” A
partire dal 1938 (fino al 1942) incomincia a col- laborare con “Emporium”
occupandosi di curare la sezione Cronache torinesi del mensile. Questo
nascente incarico gli permette di affrontare e commentare l’atti-
vità artistica piemontese, confrontandosi con un uni- verso legato ad una
rivista nota ed ampiamente diffusa e discussa. Casorati è sempre presente
nei suoi articoli: viene seguito passo passo da Galvano sia nelle vesti
di pittore che di organizzatore culturale, offrendo in spe- cial
modo la propria attenzione all'impresa della galle- 31 A.GALVvano,
[autobiografia] [1952], cit., p. nn. 32. [Intervista di L. Lanzardo
ad A. Galvano], cit., p. 138. 33. Da ascriversi sempre al rapporto
con Venturi sono i tre vo- lumi di Galvano, apparsi a partire dal 1938
per l'editore Nemi di Firenze (L'arte egiziana antica [1938]; L'arte
dell'Asia occidentale e centrale [1938]; L'arte dell'Asia orientale
[1939]), pubblicati nella collana “Novissima enciclopedia monografica
illustrata”. 34 “Casorati [...] sapeva rispettare la
personalità dell'allievo anche quando non era affatto d'accordo sulla
visione dell’allie- vo. Infatti quei pochi che sono venuti fuori
tra i molti che c'erano - Bonfantini, Chicco, Paola Levi
Montalcini, ed io, ci siamo subito allontanati da Casorati pur restando
suoi amici, pur essendo sem- pre aiutati da lui sul piano pratico per
mostre ed esposizioni. [...] Ma la Montalcini ed io siamo passati negli
anni Cinquanta all’a- strattismo, poi all’informale, tutte cose che
Casorati... ma non ci ha mai tolto né la sua amicizia né la sua
protezione. In questo era veramente un grandissimo signore” ([Intervista
di L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p. 141). 35 A. GALvano,
Felice Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie A - Pittori - n. 4,
Ulrico Hoepli, Milano 1940. 30 ria “La Zecca”,
avviata dal maestro a Torino insieme a Enrico Paulucci in via Verdi
15.5 Se appare piuttosto chiaro come Galvano tenti — con i
mezzi a sua disposizione — di promuovere e so- stenere l’amico Casorati
nelle sue molteplici attività, il maestro, dal canto suo, cerca di
aiutare il suo ex-allievo nel suo percorso di pittore. È lo stesso
Galvano a di- chiarare apertamente, molti anni più tardi, come la
sua affermazione al Premio Bergamo sia in realtà frutto di un aiuto
arrivato dallo stesso maestro: “Casorati era molto potente [...] mi fece
accettare [al Premio Berga- mo], mi fece sempre dare qualche premio, per
cui mi trovai agganciato”. Presente con continuità dal 1939 al
1942, Galvano si aggiudica per ben tre anni i pre- mi in denaro del
concorso. Solo nella seconda edizio- ne non compare tra i vincitori, ma
la sua opera viene acquistata dal Ministero dell'Educazione Nazionale a
titolo di incoraggiamento. Il. Verso la fine del 1940
è data alle stampe la mo- nografia “Felice Casorati” scritta da Albino
Galvano, apparsa per le edizioni Hoepli di Milano.* La pub-
blicazione si inserisce all’interno dell’ambiziosa col- lana “Arte
Moderna Italiana” inaugurata nel 1925 e coordinata da Giovanni
Scheiwiller, immaginata per raccogliere — uno dopo l’altro — gli artisti
italiani più noti del tempo, attraverso piccole monografie
illustra- te, introdotte da un testo critico che viene di volta in
volta scelto dall'editore o dall'artista protagonista del volume. In
questo caso, è infatti Casorati a suggerire il nome del giovane critico a
Scheiwiller, incaricandolo di aggiornare radicalmente la precedente edizione
di Raffaello Giolli, ormai vecchia di quindici anni.” La
piccola monografia di Galvano non si colloca, all’epoca, come una novità
di genere nella letteratura artistica del pittore, ma rientra in un
panorama già piuttosto sedimentato di studi sul maestro, che si oc-
cupano di fornire uno sguardo complessivo sull'intera produzione
raggiunta sino a quel momento. Il volume 36
Ip., La collezione Della Ragione, in “Emporium”, vol LXXXVII, 520, aprile
1938, p. 220; Ip., Torino. Maccari alla “Zecca”, in “Em- porium”, vol.
LXXXIX, 531, marzo 1939, pp. 161-162. In., Torino. Mostre alla “Zecca”,
in “Emporium”, vol. XC, 537, settembre 1939, pp. 161-163; Ip., Torino.
Mostre alla “Zecca”, in “Emporium”, vol. XC, 538, ottobre 1939, pp.
203-204. 37. [Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p.
138. 38. A. GALVANO, Felice Casorati, cit. Per uno studio sulla
mono- grafia si veda A. Botta, Albino Galvano e Felice Casorati. La
mono- grafia per la collana “Arte Moderna Italiana” di Giovanni
Scheiwiller, tesi di specializzazione, Università degli Studi di Udine,
2014- 2015, relatore: F. Fergonzi. 39 R. Giotty, Felice
Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie A - Pittori - n. 4, Ulrico
Hoepli, Milano 1925. lo studio di Giolli, infatti, limitava necessariamente
l'indagine sull'artista alla prima metà degli anni Venti. di
Gobetti del 1923,‘ che si propone come una rico- struzione cronologica
del percorso artistico (nonostan- te la limitatezza della produzione
casoratiana) apre la strada a numerosi tentativi di interpretazione e
ordi- namento dell’opera del maestro, non limitati alle pub-
blicazioni di carattere monografico (il caso successivo — come si è detto
— è quello di Giolli) ma rintracciabili anche all’interno di contributi
meno estesi che, a par- tire dal saggio di Venturi uscito il medesimo
anno su “Dedalo”, diventano sempre più frequenti nei tempi a
venire, anche sotto forma di presentazioni nei catalo- ghi delle
esposizioni.” La critica contemporanea studia la produzione
di Casorati secondo principi e approcci molto differen- ti che,
verso la metà degli anni Venti, tendono a farla rientrare in quel
processo di costituzione di un'arte nazionale ufficiale: un’annessione ai
“pittori del Nove- cento” (non pienamente condivisa dall'artista) che
sarà esplicitata nell'articolo di Margherita Sarfatti apparso su
“La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” nel marzo del 1925* e che
contribuirà a determinare una lettura della pittura di Casorati divisa
“tra estetica e lettera- tura”, destinata a rimanere ancora per molto
tempo identificativa del suo lavoro. Intorno agli anni Trenta
il lavoro di Casorati rien- tra già nell'ottica di una ricostruzione
storica più am- pia dell’arte italiana ed internazionale: le
pubblicazioni della Sarfatti, di Virgilio Guzzi, di Vincenzo
Costanti- ni, di Anna Maria Brizio e — poco più tardi - di Ugo
Nebbia, esaminano Casorati secondo una prospettiva generale (con le
inevitabili ed ulteriori opinioni con- traddittorie), ma sono tutte
piuttosto concordi a identi- 40 P. Gost, Felice Casorati pittore,
cit.. 41 L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in “Dedalo”, IV, fasc.
IV, Settembre 1923, pp. 238-261. 42 Ip., Mostra individuale
di Felice Casorati, in XIV Esposizione Internazionale d'Arte della Città
di Venezia, catalogo della mostra (Venezia, aprile - ottobre 1924), Carlo
Ferrari, Venezia 1924, pp. 88-89; G. PACCHIONI, Felice Casorati, in
Exposition d'’artistes italiens contemporains, catalogo della mostra
(Ginevra, Musée Rath, feb- braio 1927), Stabilimento grafico Foa, Torino
1927, p. n.n.; A. Rossi, Felice Casorati, in 21 Artistes du Novecento
Italien. Deuxième exposi- tion du Novecento italien, catalogo della
mostra (Ginevra, Galerie Moos, giugno-luglio 1929), Richter, Ginevra
1929; M. BERNARDI, 25 opere di Felice Casorati nel salone de La Stampa,
catalogo della mostra (Torino, gennaio 1937), Tipografia del giornale “La
Stam- pa”, Torino, 1937, p. n.n. Per una ricognizione sulla fortuna
critica Casoratiana si veda P. THeA, La critica e Casorati: profilo e
antologia, in M. M. LAMBERTI, P. Fossati, Felice Casorati 1883-1963,
catalogo della mostra (Torino, Accademia Albertina, 19 febbraio - 31
marzo 1985), Fabbri Editori, Milano 1985, pp. 141-167. 43. M.
SARFATTI, Pittori d'oggi. Felice Casorati, in “Rivista illustra- ta del
Popolo d’Italia”, 15 marzo 1925. 44 In. Storia della pittura
moderna, Paolo Cremonese Editore, Roma 1930; V. Guzzi, Pittura italiana
contemporanea. Origini e aspet- il, Bestetti & Tumminelli, Treves,
Roma-Milano 1931; V. COSTAN- TINI, Pittura italiana contemporanea dalla
fine dell’800 ad oggi, Ulri- co Hoepli, Milano 1934; A. M. Brizio,
Ottocento Novecento, Utet, Torino 1939; U. NEBBIA, La pittura del Novecento,
Società editrice libraria, Milano 1941. ARTE MODERNA ITALIANA N.
5 ALBINO GALVANO FELICE CASORATI
1940 - XIX ULRICO HOEPLI . MILANO EDITORE
Felice Casorati, Ulrico Hoepli, Milano 1940. ficare
nell'opera del medesimo una tendenza interna e personalissima alla
corrente novecentista. Le difficoltà nel rintracciare una linea
condivisa per la sua arte era già stata evidenziata da Giacomo
Debenedetti (intellettuale torinese, come Gobetti, “pre- stato” anche lui
alla critica d’arte) con l'articolo Casorati e la critica d'arte del
1933, nel quale sottolineava come “L'arte di Casorati pare fatta apposta
per isconcerta- re gli schemi che la più ‘scientifica’ critica d'arte
s'è data come sicuri oramai ed incontrovertibili”,’° evi- denziando
nelle conclusioni tutte le contraddizioni di una generazione: “Linea,
dunque, no: forma plastica, no: colore, no: o quanto meno né la linea, né
la forma, né il colore intesi come schemi esclusivi ed esaurien-
ti, nell'accezione data dai critici, che di quegli schemi si sono fatti,
non pure gli interpreti, ma i banditori. E questa è l’involontaria
polemica del Casorati contro la critica d’arte”. Davanti a
questo insieme di opinioni e approc- ci differenti, Galvano si dimostra
sin da subito molto perplesso verso i suoi predecessori, affermando
in maniera categorica come “Ciò che è mancato più ad una critica
concludente su Casorati è appunto [...] una comprensiva ‘lettura’ delle
sue pitture”,‘ e sintetizzan- 45 G.
DEBENEDETTI, Casorati e la critica d'arte, in “L'Italia lettera- ria”, 15
gennaio 1933, p. 4. 46 Ibidem. 47 A.GALVANO, Felice
Casorati, cit., p. 28. do poi, nelle prime pagine della
monografia, i termini di questa fortuna critica — che è anche
incomprensio- ne — sedimentata verso l’artista, almeno fino alla
metà degli anni Venti: Casorati ha goduto di un momento di
fortuna quando la sua pittura, forse proprio perché meno urtante a
prima vista di quella di altri pittori di avanguardia, ebbe tutti i
suffragi e specialmente a quelli della critica che voleva essere alla
pagina, ma salvando il rispetto per la tradi- zione [...] Erano i tempi
in cui la pittura del novecento appariva come uno sforzo neoclassico in
polemica con l’arte futurista da una parte, con l’aneddotismo elegante
dall'altra, [...] la pittura di Casorati [...] ebbe una sua funzione in
Italia per liberare il medio pubblico dagli en- tusiasmi per Grosso, per
Sartorio, per Dall’Oca Bianca.* Rispetto ai precedenti studi la
posizione di Gal- vano è fin da subito ben chiara: risiede
nell'approccio preferenziale con cui affronta l’opera di Casorati,
total- mente inedito sino a quel momento, che viene ribadito in più
punti della monografia. In apertura del volume il critico-pittore
sottolinea come la sua analisi non si circoscriva a una rilettura
analitica e distaccata della produzione casoratiana, ma si sviluppi
attraverso una consapevolezza fondata sul ricordo della propria
formazione: “Casorati pittore — scrive richiamandosi ai suoi rapporti col
maestro — è stato per molti della mia generazione una esperienza di
importanza capitale in ordine alla formazione del gusto e
all'orientamento di una cultura non soltanto limitata a fatti di specie
figurativa. La pratica di di- scepolato presso di lui e la frequente
consuetudine di Casorati uomo, hanno valso ad alcuni di noi come
un'esperienza fra le più profonde e decisive anche per quanto riguarda la
vita morale”! L'insegnamento di Casorati, oltre a fornire una
solida base di rudimenti pittorici insieme agli stru- menti per uno
sviluppo individuale delle personalità artistiche, è la chiave — sempre
secondo Galvano — per la comprensione stessa dell’opera del maestro,
chiarita metaforicamente in un passaggio del testo: “Casorati è uno
di quei pochissimi artisti che dopo il rapimen- to delle muse non
rimangono incoscienti di quanto in loro è avvenuto; lo capiscono ed
aiutano a capirlo agli altri”.°° Un concetto che viene ribadito, in
maniera ancora più chiara, verso la fine del suo lungo contri- buto
per Scheiwiller: “Non molti di noi [allievi] hanno saputo da quelle
parole imparare a dipingere decente- mente, ma certo tutti a leggere i
suoi quadri un poco meglio”. Con queste premesse Galvano
vuole dimostra- re come la vicinanza al maestro gli permetta di
avere 48 Ivi, p.7. 49 Ivi, p.d. 50 Ivi, p. 6.
51. Ivi, p.32. 32 una visione privilegiata, lucida e
fedele del suo lavoro, elevando la lettura delle opere ad un’originalità
vicina alle intenzioni del maestro, più di quanto gli altri pos-
sano avere. AI di là degli schieramenti e dei tentativi di
cate- gorizzazione che, a più riprese, hanno interessato il la-
voro di Casorati — tra assimilazione al gruppo novecen- tista, ascendenza
neoclassica 0, ancora, appartenenza alla poetica metafisica —, Galvano
sceglie il sostantivo “Platonismo” per riassumere gli esiti figurativi
ottenu- ti dall'artista a partire dagli anni Venti,"
un’indicazio- ne che gli permette di liberarsi da ingombranti etichet-
te sino a quel momento attribuite all'opera del pittore. È
un'affermazione di Casorati a suggerire a Gal- vano le basi per
un'interpretazione platonica delle sue opere: il critico recupera
esplicitamente una dichiara- zione del maestro che risale al 1921
espressa a margine di un catalogo della Galleria Pesaro, nella quale
chiari- sce le proprie intenzioni —quasi programmatiche — di
esercizio pittorico: “Dipingere la verità, dimenticando la realtà
superficiale” 5° Un concetto che viene succes- sivamente ribadito da
Casorati, spogliato delle sue im- plicazioni categoriche (rinnegate in un
secondo tempo dallo stesso pittore)? in una successiva
dichiarazione, fatta a dieci anni di distanza e riportata nel
catalogo della prima Quadriennale romana, con la quale l’ar- tista
sottolinea ancora una volta come il suo distacco dalla realtà dei
soggetti sia prerogativa fondante del suo lavoro: “la mia pittura è
staccata dalla vita”.> La posizione “platonica” di Galvano pone
il la- voro di Casorati in netto contrasto con la pittura degli
Impressionisti (che godono invece di una notevole for- tuna, verso gli
anni Trenta, a Torino), collocando il mo- vimento francese e il maestro
torinese su due fronti op- posti — sia da un punto di vista lirico che
tecnico —: un 52 sto di Casorati preferiremmo
ad ognuna quella di ‘Platonismo (Ivi, p. 6). 53 F. Casorati,
[Dichiarazione], in Arte italiana contemporanea, catalogo della mostra
(Milano, Galleria Pesaro, ottobre - novem- bre 1921), Alfieri &
Lacroix, Milano 1921; ora in In., Scritti intervi- ste lettere, cura di
E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2004, p. 11. 54 “Scrissi allora
nel catalogo alcune parole per spiegazione del mio lavoro e quasi per
contrappormi all'arte di quel tempo: affermavo di voler dipingere la
verità, dimenticando la realtà apparente; di voler indulgere agli errori
che spesso sono la sola ragione dell’opera d’arte... Queste parole furono
definite un’ere- sia estetica; in fondo, però, esse volevano spiegare il
carattere di immobilità, di impassibilità dei contorni decisi di forma,
in con- trapposto al più o meno degenere impressionismo di
sfarfalleg- giamenti colorati, di indecisione ottica, di ricerca del
movimento nel vibrare continuo della luce” (F. CASORATI, in G. MascHERPa
[a cura di], Felice Casorati e il religioso, catalogo della mostra
[Milano, Galleria San Fedele, Milano, 1 marzo - 8 aprile 1983], Milano
1983, p. 12). 55 E. CASORATI, Presentazione, in Prima
quadriennale d'arte nazio- nale, catalogo della mostra (Roma, Palazzo
delle esposizioni, gen- naio - giugno 1931), E. Pinci, Roma 1931; ora in
In., Scritti interviste lettere, cit., p. 23. “E infatti se
dovessimo trovare una parola per definire il gu- IN
rifiuto che è categorico e si muove sulla falsariga delle indicazioni già
enunciate dall'artista nella citata pre- sentazione del 1931: “non ho mai
capito il movimento ‘qui déplace les lignes’, e adoro invece le forme
statiche [...] la mia pittura nasce -per così dire- dall'interno e
mai trova origine dalla mutevole ‘impressione’ }° consi- derazioni che
vengono caricate di significati filosofici, anche in questo caso, da
Galvano: Al Protagorico impressionismo per cui misura di tutte
le cose è l'uomo individuale, si contrappone dunque il Pla- tonico
Casorati richiamandoci all'ordine di una pittura dove le cose appaiono
reali in quanto hanno la maneg- giabilità di ciò che dal flusso delle
sensazioni è ritagliato per opera dell'intelletto. Scodelle o uova, teste
o seni var- ranno come categoria.” Al “degenere
impressionismo” Casorati contrap- pone, secondo Galvano, “i suoi
caratteri di immobilità, di impassibilità, di contorni decisi, di
‘forma’”.* Alle premesse teoriche fanno seguito le prime
verifiche sulle opere che, a differenza dei precedenti Studi, non seguono
uno sviluppo strettamente crono- logico ed organico della produzione
casoratiana, ma si Muovono più liberamente, procedendo secondo
l’an- damento del discorso. | Come nelle antecedenti
occasioni di studio, l’ini- z10 dell'attività pittorica viene fatta coincidere
con le Opere del 1909, che gli valgono le prime attenzioni da parte
della critica alla Biennale di Venezia ed alla mo- Stra degli Amatori e
Cultori di Roma. Le considerazio- ni che investono il dipinto Le vecchie
(1909) e La cugina (1909)? sottolineano nelle ricerche di Casorati “un
sen- so drammatico della vita teso in un’acuta analisi psico-
logica in cui non manca una punta di sensualità [...], Ma temperata in
una specie di serenità letteraria”’,9 Motivi che si pongono in continuità
con le formulazio- Ni espresse in precedenza sia da Gobetti che da
Ventu- Il, attenti entrambi a rilevare l’attenzione psicologica ed
il senso letterario di queste prime composizioni.‘ ._ Il salto a
questo punto si fa subito brusco: l’esclu- Silone di tutta la produzione
degli anni della guerra (che coincide con il suicidio del padre di
Casorati e con le nuove responsabilità di capofamiglia verso le due
Sorelle e la madre) è in linea con le volontà dell'artista, che sceglierà
di non conservare le opere di quel perio- do, contraddistinte da un
simbolismo e sintetismo de- Corativo piuttosto anomalo.
56 Ibidem. 957 A. Galvano, Felice Casorati, cit., p.7.
98 Ivi, p. 6. 59 (Bertolino, Poli 40, 50). 90 A.
GALvaNnO, Felice Casorati, cit., p. 9. 01 Cfr. P.Gosetti, Felice
Casorati pittore, cit., p. 93; L. VENTURI, Mostra individuale di Felice
Casorati, in XIV Esposizione Internazio- nale d'Arte della Città di
Venezia, cit., p. 88. 33 Un passaggio su Le signorine
(1912), che “libe- ro questa volta da preoccupazioni di ordine
realistico ed orientato verso una completa subordinazione alla
composizione”, permette a Galvano di transitare di- rettamente su Tiro al
bersaglio del 1919, anticipando i problemi di annullamento della terza
dimensione già evidenti nel dipinto. Per Galvano Tiro al
bersaglio rappresenta un’opera cruciale, da cui parte tutta la produzione
più celebrata dell'artista, quella del periodo immediatamente suc-
CESSIVO: l’opera significativa ‘Tiro al bersaglio’ (1919) [...].
In essa il colore e la linea collo scomparire di ogni ricerca della
terza dimensione assumono per la prima volta una organicità che è
davvero il segno dell’impostarsi nella pittura di Casorati dei problemi
di cui anche oggi essa si nutre. Ridotto il qua- dro, colla completa
scomparsa delle ricerche chiaroscurali e mancando ancora l'ulteriore
ricerca spaziale, ad un sem- plice tappeto di tinte piatte, si comprende
facilmente come linea e colore divengano funzione l'uno dell'altro,
tendendo a uno stato in cui la visione inquietante del pittore
raggiun- ge uno dei più intensi suoi momenti” Il dipinto, in
realtà, aveva sino a quel momento goduto di una fortuna alterna: tacciato
di futurismo nella prima presentazione pubblica del 1919, è per
Gobetti un’opera dai “rapporti formali [...] indecisi” ancora legata alla
produzione dalla prima metà degli anni Dieci, un lavoro insomma, che
Casorati realizza come “prova per testimoniare a se stesso la fine
del suo estetismo e la sua incapacità di fermarsi ormai
all'episodio”. La rivalutazione di Tiro al bersaglio, nei fatti trova,
prima di Galvano, un precedente mol- to prossimo all'uscita della
monografia Scheiwiller: nell'agosto del 1940 Italo Cremona (anch’egli vicino
a Casorati, pur non essendo mai stato allievo della sua scuola), in
maniera analoga a Galvano ragiona sull’im- portanza del colore e sul
principio di astrazione pre- sente nel dipinto, che anticipa le opere più
compiute e celebrate degli anni Venti: sottrarre le cose dai
variabili accidenti della luce per pe- netrare invece il colore secondo
un processo di intelli- gente astrazione. [...] In quella curiosa vetrina
di oggetti [...] vivono infatti quei bianchi spettrali, quei colori
—fin- ti-, che sovente ritroveremo nell'aria rarefatta dove re-
spirano le sue figure, anche quelle delle parate familiari che Casorati
ha sovente composto con sincera affettuosi- tà ma che appaiono pur sempre
affacciate a una ribalta, in uno scenario freddamente preordinato, sul mondo
dal quale l’artista le ha volontariamente allontanate.”
62 (Bertolino, Poli 71). (Bertolino, Poli 140).
A. GALVANO, Felice Casorati, cit., pp. 10-11. 65 P. GOBETTI, Felice
Casorati pittore, cit., p. 96. Ibidem. I. CREMONA, Felice
Casorati, in “Primato. Lettere e arti d’Ita- La rivalutazione del
dipinto si pone verosimil- mente in linea con le volontà dello stesso
Casorati: l’o- pera, che dal 1919 trova collocazione stabile
nell’abita- zione dell'artista, è ripresentata nel 1929 ad una
mostra degli allievi e riprodotta per volere dello stesso mae- stro
come prima tavola nella monografia Scheiwiller.® Un interessamento che
viene letto da Galvano come un “Segno che una pittura senza volume ed una
pittura di colore sembra ancora a Casorati rivelatrice del senso
profondo della sua arte”. Le opere realizzate a partire dal 1921
aprono la di- scussione sulla funzione e l’importanza del colore
per Casorati, che viene ampiamente discussa nel testo e che
caratterizza da qui in poi tutta la monografia come lettura univoca del
decennio successivo. Accanto ad una premessa platonica, che si confronta
nuovamen- te con le opere Meriggio (1923), Lo studio (1923) e Con-
certo (1924), allontanandole da facili letture estetiche,” Galvano vede
in “quegli slarghi formali” di pittura un anticipo di “un’esperienza di
tono che sarà chiarissima intorno al 1931-32”.
Contrapponendosi alle interpretazioni — che vede- vano nella linea
e nella forma plastica le caratteristiche fondanti dell’opera di Casorati
— Galvano valuta la pit- tura del maestro come una pittura essenzialmente
di colore,” spingendosi a verificare le intenzioni dell’arti- sta e
giustificare la scelta di determinati soggetti e for- me piuttosto che altre,
proprio in funzione del colore: “Vi sono dei quadri di Casorati, e
talvolta proprio i più formali a prima vista, come ‘Daphne”? [...] che
non si afferrano in tutto il loro valore se non riferendoli al co-
lore. Casorati ama le forme semplici perché sono quelle che permettono al
colore di stendersi con la sua miglio- re ampiezza. È strano come questa
semplice verità sia stata tanto spesso fraintesa, non mancando del resto
di contribuirvi la stessa interpretazione che il pittore ha dato
della propria opera”. Una sensibilità tonale che porta il critico ad
accostare come esempio di ‘“straordi- lia”,
I, 11, 1 agosto 1940, p. 19. 68 ‘è quanto mai significativo a
questo proposito il fatto che il pittore abbia tenuto in tempi recenti
non lontani ad esporre, ad introduzione e quasi chiave di sue opere più
recenti, quel ‘Tiro a segno’ piatto e ritagliato fra tutti che volle
anche ad inizio di queste riproduzioni” (A. GALVANO, Felice Casorati,
cit., p. 24). 69 Ibidem. 70 “Il ‘nudo’ e gli analoghi
‘Concerto’, ‘Meriggio’, ‘Studio’, ci presentano un mondo che si presta ad
essere interpretato in modo equivoco, come estetistico, da chi non tenga
presente che per Ca- sorati quelle platoniche accolte di figure femminili
ignude, anche se esse presentano molta eleganza, non hanno veramente
valore per questa eleganza ma solo per lo snodarsi ritmico dei
volumi” (Ivi, p. 12). Cfr. (Bertolino, Poli 212, 215, 226).
71. A.GAlvano, Felice Casorati, cit., p. 13. 72 “La forma
serve [...] a distruggere la linea ed a passare al colore: essa è, se si
vuole, il punto di partenza, ma è proprio il colore è il punto di arrivo”
(Ibidem). 73. (Bertolino, Poli 328). 74 A.GALVANO,
Felice Casorati, cit., pp. 13-14. 34
ARTE MODERNA ITALIANA | FELICE CASORATI II
ed. del volume Felice Casorati, Ulrico Hoepli, Milano 1947. nario
pre-casoratismo” l’opera di Jan Vermeer e di Ge- orges de La Tour
piuttosto che quella di Ingres, riferita dallo stesso pittore come
modello di riferimento alla propria pittura nel “Referendum sul quadro
storico” del 1929. A sostegno di questa sua tesi sul colore
Galvano recupera ancora una volta i ricordi dell’insegnamento del
maestro, affrontando questioni di metodo e di pra- tica pittorica vissuta
nello studio dell'artista, dove l’os- servazione dei modelli veniva
condotta non tanto sulla forma degli oggetti, ma sui valori tonali dei
medesimi: ci limiteremo a notare come quanto resti nel ricordo
di chi è stato alla scuola di Casorati verta essenzialmente su due
punti: l'insieme e il tono. E soprattutto l’insie- me come forma il più
sintetica possibile in funzione del tono. La forma intellettualistica di
un oggetto, proprio ciò che interessa di più al pittore formale o classico,
è ciò che Casorati consiglia all'allievo di disimparare, la for- ma
che l'allievo deve imparare a vedere il più semplice- mente possibile è
la forma di quella determinata massa tonale, di quella determinata massa
chiaroscurale, non la forma dell'oggetto.” 75
F. CASORATI, [Risposta al referendum sul quadro storico], in “Le arti
plastiche”, 16 dicembre 1929; ora in Ip., Scritti interviste lettere,
cit., p. 22. 76 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 14. Analoghe
impressioni sì ritrovano in L. RoMAnO, La scuola di Casorati, in “L'Arte”,
XXXIII, La discussione sul colore offre a Galvano il punto
di partenza per affrontare le influenze cézanniane che, secondo una
critica assodata ormai da tempo, avrebbe- ro avuto un ruolo capitale
nell'evoluzione del lessico pittorico casoratiano, soprattutto per il
genere della natura morta.” È Venturi, nel 1923,” a offrire
per primo quest'in- terpretazione, individuando nell'esperienza
diretta di Casorati alla Biennale del 1920 (dove, su 28 dipinti di
Cézanne presenti, erano ben sette le nature morte) il passaggio di svolta
tra Le uova sul tappeto verde del 1914 e Le uova sul cassettone del
1920:”? “Le ‘uova’ [...] del 1913 sono un motivo di bianco su verde, le
‘uova’ del 1920 sono un motivo di forma geometrica solida e chiara
sopra un volume scuro”.8° Per Galvano, l'avvicinamento al maestro
di Aix è da intendersi come “esperienza più morale che pittorica”,
nella quale l'evoluzione delle sue natu- re morte rappresenta un processo
interno alla pittu- ra stessa piuttosto che il risultato di
quest’incontro: “[Uova sul cassettone] non si spiega con un
riferimento al costruire tonale del Provenzale nella sua essenza
sti- listica” — puntualizza Galvano - “ma solo col metterlo In
relazione a quello che la pittura di Casorati fu prima d'allora” 8
Secondo il critico, più che un precedente sti- listico, la lezione di
Cézanne offre la verifica di nuove possibilità espressive; un punto di
vista che trova con- ferma — più tardi — nelle stesse dichiarazioni del
pittore, che ripercorrono l’incontro con i dipinti alla Biennale
del 1920: Tutta la grandezza del Maestro di Aix mi si manifestò
im- provvisa. L'emozione che ne provai fu enorme e non fu
un'emozione di sbalordimento o di stupore, che anzi mi sentii preso da
quel senso di calma, di fermezza, di equi- librio, che solo le opere dei
grandi può dare. Equilibrio! Compresi che nella sua pittura trovava il
giusto equilibrio il problema posto e sviluppato in un senso
dell'Impressioni- smo e il grande opposto risolto da tutta la tradizione;
com- presi l'aberrazione di una certa critica che non si staccava
di insistere sui problemi di Cézanne: capii che proprio, che Specialmente
in quei difetti era il germe della sua grandez- fasc.
IV, luglio 1930, p. 380. 77. Relativamente a questo genere si
vedano P. Fossati, Nature morte di Casorati, in M. M. LamBERTI (a cura
di), Casorati. Mostra antologica, catalogo della mostra (Milano, Palazzo
Reale, 27 mar- ZO - 20 maggio 1990), Electa, Milano 1989, pp. 29-38; G.
BERTOLINO, Dal repertorio di oggetti alle prime nature morte (1910-1920),
in ID., F. PoLI (a cura di), La natura morta nella pittura di Felice
Casorati, cata- logo della mostra (Iseo [Brescia], Sale dell’ Arsenale,
24 maggio-20 luglio 1997), Electa, Milano 1997, pp. 11-22.
78. L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in “Dedalo”, cit.
79 (Bertolino, Poli 114, 162); relativamente alle opere si veda In
particolare M. M. LAMBERTI, Scherzo: uova (o Le uova sul tappeto verde) e
Le uova sul cassettone, in In., P. Fossati, Felice Casorati 1883- 1963,
cit., pp. 62-64; 79-80. 80. L. VENTURI, Il pittore Felice
Casorati, in “Dedalo”, cit., p. 254 ù A. GALVANO, Felice Casorati, cit.,
p. 33. Ivi, p. 16. 35 za. Compresi che
Cézanne era il pittore della rinuncia e che la rinuncia era la
forza della pittura moderna. Non cambiai modo di dipingere, ero troppo
inconsciamente orgoglioso per tentare un cambiamento di rotta che non
avrei potu- to fare in alcun modo. Credetti allora di approfittare
della grande lezione di Cézanne proprio irrigidendomi sulle mie
posizioni e cercando solo in profondità.* La monografia
Scheiwiller, pensata per aggiorna- re la precedente di Giolli, in realtà
affronta solo margi- nalmente la più recente produzione del maestro,
soste- nendo per le opere più prossime la piena attuazione del
proposito coloristico în nuce già nei primi anni Venti. Ai ricordi
della Biennale del 1924, e soprattutto a quella del 1928,* Galvano
contrappone le opere espo- ste nei primi anni Trenta: per La lezione
(1929), Susanna (1929) e Lo straniero (1930) pone l'accento su come
pre- valgano in questi dipinti “certe note di rossi improvvisi, il
taglio in controluce, il gusto, almeno nei due primi, di accostare il
nudo ad una figura maschile vestita, un de- siderio di atmosfera serena
che suggerisce lontananze chiare e assolate” .8# Motivi pittorici che,
spogliati degli elementi accessori (come la copertina del
“Selvaggio” nella Lezione o, ancora, le pantofole rosse di
Susanna), trovano un'ulteriore compiutezza in Daphne (1934) e
Ragazza in collina” delle collezioni dei Musei Civici di Torino,
“soluzioni più aneddoticamente umane [...] dove il motivo del controluce
sulla finestra aperta so- stituisce figure familiari o umilmente umane ai
mani- chini, mentre il paesaggio si fa sereno [...] ricavato da
quei campi di Pavarolo ormai cari all’artista”.* Come già
sottolineato da Maria Mimita Lamberti, l'apporto di Galvano si dimostra
poi piuttosto illuminan- te nell'individuare nel tema del nudo una
possibile linea di lettura della sua produzione, sino a quel momento
tra- scurata rispetto al genere più discusso della natura morta.
83 Il passo è riportato in L. Caruccio, F. Casorati,
quaderni d'arte del Centro Culturale Olivetti, Ivrea, All'insegna del
pesce d'oro, Milano 1958, p. 22. 84 ‘Noi veniamo
dall'esperienza della generazione per cui i quadri del ‘24
rappresentarono lo scandalo dell'adolescenza che ancora confondeva la
classicità coll’accademismo e che scorgeva in quei quadtri, visti alle
esposizioni colla famiglia deplorante o pronta al riso di fronte alle
stranezze dell'arte moderna, pur qual- che cosa di inquietante e di
tentatore che non si poteva dimenti- care [...] i quadri della biennale
del ‘28 rappresentarono invece la scoperta del mondo nuovo e
spregiudicato che si apriva alla nostra cultura” (A. GaLvano, Felice
Casorati, cit., p. 15). 85 (Bertolino, Poli, 366, 368, 396).
Erroneamente Galvano attri- buisce il titolo Lo studio al dipinto La
lezione esposto alla Biennale del 1930. L’opera verrà distrutta
nell'incendio del Glaspalast di Monaco del 1931. 86
A.GAlvano, Felice Casorati, cit., p. 22. 87 (Bertolino, Poli 531,
592). Galvano, in realtà, indica il secon- do dipinto con il titolo
Estate. Cfr. A. Galvano, Felice Casorati, cit. p.iz. 88
Ibidem. 89 M.M.LAMBERTI, I nudi nello studio, in Ip. (a cura di),
Casorati. Mostra antologica, cit., pp. 13-28 (13).
Galvano vi riconosce una traccia di continuità che, a
partire dalle Signorine del 1912 (opera che, secondo il critico, non è da
intendersi come “gruppo” ma come insieme di figure isolate), arriva sino
alla Venere bionda del 1934, “punto di arrivo e di dissoluzione di
quello che si potrebbe chiamare il ‘tonalismo’ di Casorati”:”
secondo Galvano il motivo del nudo in Casorati si presenta “come figura
essenziale, come una forma ele- mentare, categorica, simile a quelle
delle scodelle, delle uova, dei libri”, caratteristiche che, alla pari
dei sem- plici oggetti che popolano i suoi dipinti, permettono
quegli “slarghi formali” di pittura, oltre alla “possibi lità di un tono
uniforme”? capaci di confermare la sua sensibilità di colorista.
III. A distanza di sette anni dalla pubblicazione la
monografia di Galvano su Casorati viene ristampata,” aggiornata in alcune
sue parti e rivista totalmente per quanto concerne l'apparato
iconografico. È il 1947. Tra la prima uscita e la riedizione,
l’interessamen- to che il discepolo dimostra nei confronti del
maestro è continuo e si attesta già dall'inizio del 1941 con mo-
dalità simili a quelle che avevano contraddistinto il suo
precedente impegno sulle riviste nazionali. Vi si affiancano però
nuove prospettive lavorative. Proprio nel 1941, accanto alla sua attività
di pittore e di critico (che in questi anni, oltre alla corrispondenza
per “Em- porium” e alla collaborazione per “Il Selvaggio”, si
amplia con due contributi sulla rivista “Le Arti”) Gal- vano è impegnato
nella nuova veste di assistente alla cattedra di “Pittura” di Enrico
Paulucci presso l’Acca- demia Albertina di Torino, assegnata
contestualmente anche a Felice Casorati per l'insegnamento di “Com-
posizione pittorica”. Incarichi che vengono entrambi costituiti ad
personam dal Ministero dell'Istruzione nel contesto dei provvedimenti
avviati da Bottai a favore delle Accademie artistiche. Sono questi,
inoltre, gli anni nei quali Galvano va consolidando una sicurezza
economica stabile — tanto auspicata negli anni Trenta — grazie
all'insegnamento nelle scuole superiori: prima come professore di figura
disegnata nei licei artistici piemontesi e poi, dal 1942, come docente di
filosofia e storia nei licei classici e scientifici. La
mostra Casorati Menzio Paulucci, inaugurata nel novembre del 1940 alla
Galleria Cigala di Torino, è l’oc- casione per tornare a parlare di
Casorati sulle pagine di 90 A. GaLvano, Felice Casorati, cit., p.
18; cfr. (Bertolino, Poli 501). sa: «Ivi, p. 20.
92 Ibidem. 93 Ip, Felice Casorati, Arte moderna italiana n.
5, Serie A - Pitto- ri - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1947. 94
Cfr. F. Darmasso, Casorati e l'Accademia Albertina, in M. M. LAMBERTI, P.
Fossati, Felice Casorati 1883-1963, cit., pp. 199-205. 36
Copertina e pagine del volume Tre nature morte. Casorati
Menzio Pau- lucci, Carlo Accame, Torino 1942. “Emporium”,
presente in questa circostanza con due pittori torinesi protagonisti
della scena artistica citta- dina (reduci entrambi dall'esperienza del
gruppo dei “Sei” ), sicuramente vicini a Casorati ma mai allievi
di- retti del maestro: il quarantaduenne Francesco Menzio e il più
giovane (di poco) Enrico Paulucci, con il quale Casorati ha intrapreso da
tempo un rapporto di stretta collaborazione.” Il sodalizio
dei tre artisti, che non vuol essere un principio di ricerca comune ma
piuttosto un impegno di politica culturale condivisa, si ripropone più
tardi, in modo analogo, con una mostra allestita alla Galleria
Genova del capoluogo ligure nel febbraio del 1942. La circostanza è
anticipata da una pubblicazione autono- ma di Galvano, intitolata Tre
nature morte e stampata dalla tipografia Accame di Torino (che pubblica,
nello 95 A. Galvano, Casorati, Menzio, Paulucci, in
“Emporium”, XCI- II, 554, febbraio 1941, pp. 93-95. Stesso
anno, la monografia su Casorati di Italo Cremo- na), in un elegante
edizione in folio che riporta come Sottotitolo i nomi dei tre pittori
torinesi.’ In questa oc- casione — che si propone di presentare
sinteticamente tre opere dei rispettivi pittori, con tanto di
riprodu- zioni a colori — Galvano sceglie la natura morta come
genere esemplificativo della produzione degli stessi. Un'operazione che
nell’introduzione viene definita come “didattica”” e che si pone in
aperta polemica nei confronti della tendenza a considerare questo
genere come motivo poco adatto alla pittura moderna: “ad Ogni
esposizione abbiamo sentito deplorare l'eccessiva presenza di nature
morte o esaltare per il loro scom- parire di fronte ai quadri di figura”.
Una difesa per l'autonomia e dignità del genere pittorico, che non
si risparmia nel chiamare in campo i precedenti noti di Cézanne,
Manet ed ancora Renoir. La questione, in realtà, non è nuova, ma
prende le mosse da un pensiero espresso dal maestro quasi quindici
anni prima, che rappresenta verosimilmente il pretesto per il contributo
di Galvano, che mostra que- sto taglio così inaspettato. Sulle pagine del
quotidiano torinese “La Stampa”, Casorati lamentava nell’artico- lo
La crisi delle arti figurative i medesimi problemi di accettazione della
natura morta da parte di pubblico € critica, con presupposti che
sembravano essere gli stessi avanzati ora da Galvano nella sua
introduzione: Ho sentito dire ed ho letto purtroppo parecchie volte
questa frase: troppe nature morte, troppe mele, troppi aranci, troppi
pomodori ecc. [...] poveri oggetti, [...] vo1 siete i modelli più docili
e più esigenti degli artisti [...] Nei momenti più disperati della mia
vita di arti- Sta, io ho potuto riconciliarmi con la pittura dipingen-
do umilmente una scodella, un uovo, una pera”.? . La scelta della
natura morta casoratiana — vero- sImilmente selezionata da Galvano —
ricade su Le pere verdi del 1941,!% presentata probabilmente per la
prima volta in questa sede: un’opera che gli permette di riba- dire
il principio coloristico sostenuto nella monografia del ‘40, che viene
qui chiarito con un'attenta analisi 96 Ip.,
Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Carlo Accame, Torino,
1942. 97 “La presentazione di ‘Nature morte’, dovute a tre fra i
più autentici pittori operanti oggi a Torino, potrà anche apparire,
ed essere criticata, come una iniziativa a carattere tendenzioso e
po- lemico. Non sarà forse il caso di affermare che essa ha piuttosto
un intento didattico? E proprio di educazione del pubblico: degli
intelligenti (almeno in potenza, chè degli ostinati per limitazione
Naturale di possibilità, per passione di parte o per difficoltà di
Sclogliersi da presupposti culturali privi di validità non occorre Hr a
comprendere le ragioni per cui, su di una falsa impo- azione di
presupposti, può passare per atteggiamento polemico 9, peggio, di
conventicola, il semplice intento di chiarificazione Intellettuale e
critica” (Ivi, p.n.n.). 8 Ivi, p.nn. "i F CASORATI, La crisi
delle arti figurative, in “La Stampa”, 29 ra raio 1928; ora in Ip.,
Scritti interviste lettere, cit., pp. 19-20. (Bertolino, Poli 682).
CY della sua pittura (non priva di tecnicismi del
mestie- re), che si concentra sui valori tonali e sugli accordi
cromatici presenti nel dipinto, che sottendono sempre — secondo Galvano —
a problemi ed equilibri di natura compositiva: Sul fondo
rosa e paglia un accordo di due verdi: crudo e spento, e le chiazze
rugginose e calde della putredine che intacca i frutti; solo dal colore
prende realtà il fascino di questa natura morta, eppure il colore qui non
evocherà a nessuno la categoria della ‘forma aperta’ o la scioltezza
di un pittoricismo abbandonato: chè Casorati è anche ora il pittore
delle forme assolute e degli elementari geometrici, ma il colore ne
rivela, per distinguersi dei campi continui e dilatati, la purezza, anzi
il purismo, di impaginazione e ce ne propone la più castigata
presenza. [...] i colori si subordinano ad una ragione
compositiva a priori [...] in essa si giustifica quel disporsi graduale
di intensità pittorica che può far apparire persino sordo (e tale
veramente sarebbe se non servisse a concentrare ogni attenzione
sull’interno ordinarsi del gruppo centrale, ma pretendesse di disporsi
sul medesimo piano di ‘bel colo- re’ dei toni vicini) il colore locale;
necessario a staccare nel castigato e serrato gioco compositivo della
frutta ritagliati sul fondo chiaro, dove più i toni non si distinguono
nella vibrante luminosità, la bruciata profilatura delle foglie.!®!
Di respiro ben diverso, invece, è il contributo Fe- lice Casorati
(e i torinesi) apparso un anno più tardi, nel 1943, sulla rivista
“Pattuglia” di Forlì.!® Nel numero di maggio-giugno, dedicato interamente
alle arti figura- tive e curato da Giovanni Testori, Galvano traccia
un bilancio della situazione artistica torinese: accanto a
considerazioni su Casorati in linea con la monografia Hoepli del 1940,
abbandona i ricordi della scuola di via Galliari proponendo una lettura
totalmente rinnovata, alla luce dei più recenti sviluppi espositivi.
Menzio e Paulucci rappresentano qui (insieme agli altri “Sei”, che
però non vengono nominati) i “giovani pittori che si erano stretti
intorno a Casorati” e che, seppur non direttamente allievi dell'artista,
non “rinnegavano il debito contratto col primo ideale maestro, né erano
da lui sconfessati: anzi la stima, l'amicizia e la valutazione dei
diversi ed ugualmente validi risultati, da parte del più anziano
rimanevano intatti od accresciuti”."° Una A.GALVANO, Tre nature
morte. Casorati Menzio Paulucci, cit., p. n.n. 102
In., Felice Casorati (e i torinesi), in “Pattuglia”, 7-8, maggio- giugno
1943, pp. 15-16. La rivista, mensile del Guf di Forlì, viene inaugurata
nel 1941 e riporta nel sottotitolo la dicitura “Mensile di politica, arti
e lettere”. L'articolo di Galvano viene pubblicato nell'ultimo numero
della rivista, curato Giovanni Testori e in- titolato “Omaggio alla
pittura”, che si proponeva di fornire un bilancio dell’arte italiana del
‘900. La rivista viene interrotta e se- questrata da Mussolini per i suoi
contenuti non in linea con le direttive -in campo figurativo- imposte dal
regime. 103 Ivi, p. 16. 07 ee (E I TORINESI)
E condizioni che determinarono a To- ‘20: sei anni dopo l'altra polemica
fra rino l'orientarsi della pittura degna L. Venturi, a proposito
del di quest'ultimo, di eu- proposito del
valore positivo tentici pittori. Condizioni in cui la eri. tivo delle
influenze parigine sull'arte tica ai pose di per se stessa come po-
—ita'iana non ebbe significato diverso. Ora lemica: © in cui da polemica
fu l'one- —P. Gobetti e L. Venturi furono appunto stà stessa della
critica. La guerra del tra | primi ad esaltare l'opera di Ca 14-18 era
terminata. Lo stile «libe- sorati. A dispetto danque delle av ty » in
architettura, il neo-pre-ralfuel- versioni del borghese e delle ammira
lismo tipo «In arte libertas» da cui zioni dell'aggiornato, che esalta
insie pure avevano mosso î primi passi pit- e Carrà 0 © Casorati,
l'e tori validi come Modigliani e Spadini figurativa di quest uveva
esaurita ogni pretesa alla forma- —srebbe un significato diverso, e in
certo zione di una coscienza figurativa nella senso opposto, n quello in
cui si è banalità di un'acquiescenza in cui i svolta la comune esperienza
della più fermenti di possibilità che più tard' vi viva pittura italiana?
In parte si deve scoprirà l'accorto senso del « perver- rispondere
affermativamente pEr eg sai 16 gin lettuale per quello
Hgurativo sano ogni evasione dal fatto pittorico, E che sioo al 1928 la
pittura di Casorati quanto per queste esperienze avveniva —anche nelle
punte di estrema avanguar- ordine a le possibilità della linea cur- —.ija
come in certi distrutti. di- me di questo è quel complesso frea- —pinti,
n quanto si dice. sotto l'influenza F. Casorati: “Ragazza,. (1937) diano
avveniva, in modo anche più vol- —gel gusto di Kandiski, cerca i proprii
gare è fatuo, mancati Sant'Elia e Boocio riferimenti non in un mondo
mediterra- : ma in uno nordico {quasi a fedeltà i
H È È; i figurativo di Martino Span-
Torino poi: Thover seguitava a eredere viti e di Defendente Ferrari che
guard Memet o di Bestlovea, a confeadero assai più che quello,
volto verso il l'eleganza lineare di Modigliani con
di Gaudenzio), non in un'umanità l'imperizia del bambino (e se mai si
assertrice di proporzionata statura mul sarebbe dovuto rimproverargli un'ele-
rondo det orizzonte, ma nel panza sin troppo vicina » preoccupazio-
tormento di sentirai oppressa da È ni ostetistiche e contenutistiche
simili amine mirror quelle che limitavano fl eritico) inau- ciò di dramma
per la propria persona, guraodo quella tradizione di contenu- in quanto
finita, Il sottile Tinguaggio tismo ad oltranza e di cauto e garbato,
formale, la ricerca d'equilibrio compo- ma fondamentalmente deciso, « fin
de sitivo, l'astratto rigore della sintesi po- non recevoie » mel
riguardi di una vi- Loveno sì! suggerire, insieme @ certo conda
pittoricamente valide a cui si at- codenze illustrative (i libri aperti,
i tiene con un'ostinazione che ha per io csrtigli) o agli accorgimenti
‘tecnici, meno 2 merito della consequenzialità come l'uso della tempera
verniciata, ri- quel poco di csi valga la pena di (91 —rorimenti al
quattrocento, mostro. sn menzione della critica d'arte del quo- non
poteva sfuggire ad ‘una tidiani oggi ancora a Torino. più accorta
l'assoluta continuità spi- Un panorama, come si vede, sostan- rituale che
legava il mondo d'allusioni rialmente simile a quello del resto
crepuscolari è le eleganze cstotizzanti d'Italia, in cui tuttavia, in
quegli delle « Vecchie» o delle « Signorine» anni dell'immediato dopoguerra,
Tori. attraverso 1 paradossi pseudoformali ba ipo ipa delle « Scodelle »
è delle « Uova » nella maniera particolare e gerto senso, doppia
redazione, a tappeto ed s vo- fispetto al resto d'Italia, polemica, su
tume. a questo muovo mondo di non di un doppio piano, intellettuale e
figu: —1meno quintessenziate definizioni umane Rene a pi o spaziali,
anche se nel silenzio di IO) essere esemplificata PO quelle quinte
prospettiche ora quei pro- sizioni reciproche de «La Ronda fili
proponessero le loro cadenze non di « Rivoluzione Liberale ». Cinscuno
più per la via analitica dei compisci vede quanto diversi gli
orientamenti menti particoleristici, ma per quella umani e culturali. Ma
è tipico che pro? —delle sintesi ellittiche. prio fra Cardareti un'occe.
Eppure una così diversa afferma- sione polemica, sul Leopardi, portò a
zione in ordine a scoperte pittoriche, una discussione do andava ben una
tanto dialettica decisione nel de- oltre i termini della cortesia. Siamo
nel finire il proprio mondo indipendente. F. Casorati: “ Bambina. (1932)
Felice Casorati (e i torinesi), "Pattuglia", 7-8 maggio-giugno
1943. lettura della scena artistica cittadina che esclude
total- mente i primi discepoli dell'artista — che continuano nel
frattempo a dipingere ed esporre, non solo a Torino — preferendo invece
soffermarsi poi sulle “anomalie” figurative (intese rispetto al tracciato
casoratiano) pro- poste da Luigi Spazzapan e Italo Cremona.
Il rapporto tra allievo e maestro, che è innanzi- tutto di
amicizia, rimane solido negli anni a seguire, nonostante le scelte di
Galvano si avviino, nel frattem- po, verso un fronte non figurativo della
pittura, che lo vedono abbracciare l’astrazione ed aderire nel 1950
al Mac (Movimento Arte Concreta), fondando insieme ad Annibale
Biglione, Paola Levi Montalcini, Adriano Parisot, Carol Rama e Filippo
Scroppo la sezione tori- nese del gruppo. Accanto alla sua
attività di critico militante, più orientata verso le verifiche nel
frattempo ottenute con- testualmente in pittura, tornerà solo raramente
ad inte- ressarsi di Casorati, soprattutto in occasione di letture
complessive e bilanci di un'epoca, che sembra ormai essere lontana nel
tempo.!% 104 Cfr. A. Galvano, Felice Casorati, in S.
CAIROLA (a cura di), Arte italiana del nostro tempo, Istituto Italiano
d’Arti Grafiche, Bergamo 1946, pp. 18-20; In., La pittura a Torino dal
'45 a oggi, in “Letteratura. Rivista di lettere e di arte contemporanea”,
43-45, gennaio-giugno 1960, pp. 55-76; ora in Ip., La pittura, lo spirito
e 38 mente da ricerche solo per certi riguar- questi
sforzi di giovani della cultura mona, Anch'egli amico di Casorati: ma pre
riuscito a cogliere il momento di di parallele, grazie
all'autenticità della universitaria e in tutt'altra la lezione che ne ha
appreso. spontanen concretezza pittorica. Senza realizzazione figurativa
è della schiet ritorno! Un rigore, un'incisività, un'analitica nì- che del
resto questo gli abbia impedito tezza di linguaggio fantastico da essa
Nacque così il gruppo dei «Sei»: —tidenza di segno, una predilizione per
quell'accorta coscienza teorica della po- presupposia, s'inseriva nel
dialogo della —Menzio, Chessa, Levi, Paolucci, Galanta —quei profili nettissimi
che gli permettono sizione di gusto in cui il suo mondo fi- italiana di
quegli anni con una © Jessie Boswell.,Fntro e fuari le vi- di dare evidenza
allucinante di inganno gurativo sì determina e del rapporti di validità
di proporzioni che tuttavia man. —cende del gruppo, Francesco Menzio isivo alla
riproduzione dei i og- esso col movimento «surrealista», (di tiene
integro il valore dell'esperienza risultò allora e tale si mantiene, come i:
distribuiti poi questi in un ardine cui, per una curiosa ‘e significativa
» a della la personalità più dotata che fosse ap- di fantasia di rara coerenza
suggest vicenda gli interessi destati a Torino memoria 0 più rigorosa-
parsa, da Casorati in qua, fra i pit- rispondere a furono proprio nella cerchia
dei col monte impegnata in un bilanelo della tori torinesi. Un mondo di
compiaci- più profondamente che gene- laboratori dell'originariamente
pittura. Tutti da « Fanciullo ad- —menti delicati, di edonismo controllato
—rano l'inquietante mondo delle ansocia» sano» Seleaggio, per brev'ora
torinese dormentato » del "21, allo « Studio » del —© schivo,
sceglie usa sun umanità d'ele- i oniriche e dei senza si ppunto, sino alle
recenti realizzazioni 122, al « Concerto » del ‘24. ne henno zione in
volti di giovani donne 0 di gnilicato, dei soprasensi di cui non si itettoniche,
nella sede della società nti i risultati più vivi. Poi el si bambini. Da
questo punto di partenza —dà lettura , ma « cl Ippica di Carlo Mollino) che
tatti 1 suoli hnocorse che i valori di tono e di ero appena le due
esperienze opposte, ma frata» per via di quegli emblemi pit- lettori
conoscono, ma erano pur utilizzabili în assai più —concordanti nella
dissoluzione di ogni e- —torici in cui però Cremona è quasi sem- ALBINO
GALVANO concreto discorso di quanto non si lamento estrinsecamente
contenutistico, facesse dagli epigoni del peggior otto- del rigoriamo
formale casoratiano in- cento. Si affermò che i Macchiaioli tu- torno al
‘23, e del fervore cromatico de rono fra gli artisti autentici della no-
gli impressionisti intorno al ‘29 per- === stra tradizione; si riconobbe
che un ar- —misero a Menzio di scontare in puro tista ostile o almeno
appartato di fron- sollecitazioni pittoriche quei dati del te a ricerche
futuriste, metafisiche © sentimento, si defini una visione tanto neoclassiche
era un grande pit- personale quanto coerente dove la mu i si riscopri
l'im- sicalità del colore e la freschezza del pressionismo. Îl
necclassiciamo, nel È È «po
vecento » milanese, che qualcuno git si che delicati non impedirono, anzi
fa- definiva nooromantico, sì innestava, con vorirono lo spiegarsi di una
confes- Tosi, in una tradizione di pittura a- —sione umana piena di
melanconica no- perta. Soffici non più cubista predicava —biltà nel
reiterato e come ansiosamento ed esemplificava un ritorno alla natura
interrogato indagare intorno alla con- in cui l'esperienza di Cézaane non
eselu- sistenza pittorica di quelle persone di deva quella di Fattori: a
Torino, do- drumma, così sottilmente lirico e di ve già ‘intorno a
Casorati una scuola cosi pausate parole, che si muovona tendeva a ridurre
a grammatica il sua nelle composizioni famigliari di Menzio.
figurativo, attraverso l’inse- Tanto Casorati che Menzio del resto
guamento universitario, Îl mecenatiamo —qutt'altro che paghi o chiusi
nell'au di un collezionista, i più rapidi con- tosoddisfazione: anzi
entrambi sempre tatti con Parigi, rapporti col gruppo sofferenti dei
limiti 0 della milanese di Persico anch'esso partito —contiagenti
stanchezze che potessero cc- in battaglia contro il neoclassicismo,
appannare il gelido speo- la lezione degli impressionisti fu at- chio di
formalismi eidetici del primo, tinta direttamente ai grandi modelli:
© Manet, Renoir, Cézanne, in un preciso pida dell'altro. inquietudine che
ci spie senso importante due notevoli carollari). ga il piegare verso più
riscntite ao Enrico Paolacei: * Piazza Navona .. l'affermazione che
Cèzanne non meno nitide pro- veva reagito all'impressioniamo, ma lo
filature lineari di Casorati dopo il ‘30, veva continuato e che perciò la
tradi- —come le | ritorni, e, meno zione più viva di movimento an- , da
monotonia le ripetizioni dava proprio cercata in quel discorso —1delle
cose meno valide di Menzio. ln rapido ed atmosferico si, ma tutt'al. modo
assai diverso, ina con accanita tro che occasionale e vedutistico che era
commovente dedizione ad un'ideale stato proprio dei pittori che abbiamo
di pura pittura che escludesse tanto citato piuttosto che dei Monet, dei
Pis- ogni intrusione intellettualistica quento surro, del Sisley.
Secondo: che quel- ‘ ogni dispersione decorativa Enrico Pao l'adesione
all'impressionisno non po. Iucci è venuto sempre più approfon teva che
importare, da una parte, con- dendo una visione grata © improvvisa,
Van Gogh al più libero «fsuvinmo », rivivere il gusto degli
impros- che-dn qualche modo e sia pure unilate; sionisti, proprio di
questa fase della ralmente, il linguaggio di Cizanne ave- pittura
torinese, possono essere riat- ivano continuato, Gli strilli dei varii
taccati, in senso diverto, Piero Mar- Ojetti per i «salti in lunghezza da
tina, temperamento delicato di colorista Giorgione n Braque »
naturalmente non eu cui è stata decisiva l'influenza di si contarono! Ma
intanto quello che te nf gie gi importava fu che la esemplificazione
cento personale una trepida, © vitale dei frutti di quest'esperienza cul-
come smorzata, elaborazione di ogni da- turale fosse data proprio da quei
gio- to tonale degli oggetti, e Luigi Spazza- vani pittori che sì erano
stretti intorno pan la cui origine è le cui esperienze è Casorati, pur
non più così ragazzi istriano diedero ad una veramente pro da diventar
suoi allievi nel senso sco- digiosa capacità di trasfigurare |pit-
lastico della parola, © che ora nell'inì- —1toricamente, attraverso la rapidità
della ziare un lavoro diversamente orientato, —acchia e del segno, ogni
dato ogget- e vano il debito contratto col tivo una truculenza
cspressionistica re- primo ideale macatro, nè erano da Jui =—mota dal
raccoglimento degli altri to- sconfessati: anzi la stima, l'amicizia
rincsi e dalla pacata visione dell'im- © la valutazione dei diveral ed
ugual. =—pressioniamo. È di questo suo pecu- mente validi risultati, da
parte del —liare atteggiamento ci restano molti mo- più anziano rimanevano
intatti od ec- menti d'espressione mirabile, speci
cootrapporre ai della mano facile è dell'illustra <
incomprensioni fra chi incegue un me- tone occasionale. desio sforzo
d'arte, ala pur attra- Opposta invece, per intento e per ri verso
divergenti esperionze di gusto. È all'impressionismo l'esperienza
i sultato, altrettanto si può dire dell'attenzione a —Dittorica
inieressantiesima di Italo Cre- Francesco Menzio: ‘ Ritratto ,,
Nel 1963, alla scomparsa del pittore, Galvano traccerà un ricordo del
maestro, a margine del catalo- go della 14° mostra d'arte contemporanea
di Torre Pelli- ce. Non più il colore o il tono, ma quei valori
umani e di rispetto per le diversità appresi durante gli anni di
via Galliari animeranno, in conclusione, questo suo “omaggio” di
discepolo: “poiché fu anche la coscienza di questa libertà, prima ancora
morale che estetica, che da Felice Casorati alcuni di noi ricevettero
come l’inse- gnamento più prezioso, ci è caro chiudere col richiamo
ad esso questo saluto al Maestro. Chè le sue opere par- lano, per il
rimanente, senza bisogno di commento”!°. il sangue, a cura di G.
Mantovani, Il Quadrante Edizioni, Torino 1988. 105 A.
GaLvano, Omaggio a Felice Casorati, in 14° mostra d'arte con- temporanea,
catalogo della mostra (Torre Pellice, Collegio Valdese, 3 - 28 agosto
1963), Tipografia Subalpina, Torre Pellice 1963. Gli occhi fervidi
e il sapore di cenere Albino Galvano: Decadentismo, Simbolismo,
Art Nouveau Adriano Olivieri Approssimarsi all'opera
letteraria di un uomo di cospicua cultura quale fu Albino Galvano,
significa penetrare in una eletta densità speculativa sorpren-
dente se commisurata a un intellettuale defilato in vita e ricorrente
oggi nella ferma e attenta riflessione di pochi storici. Come ebbe a
dichiarare Galvano stesso In una autopresentazione del 1980, non gli si
perdonò l'ambiguità di essere scrittore e pittore aggravata dalle
stigmate dell’intellettuale, categoria in cui finì suo malgrado per
giovanile quanto vocazionale passione per la cultura. Proprio
nell’ambiguità, nel marcare un confine ideologico sottile, ordinandosi
orgogliosamen- te in disparte insieme alla generazione degli
eclettici Cremona, Mollino e Maccari, ci pare che Galvano trovi un
eccentrico terreno di appartenenza sul quale edificare una propria
filosofia personale sistematica- mente relata all’erudizione
antropologica, filosofica, religiosa e pedagogica. Formazione altresì
integrata agli interessi misteriosofici - Galvano stesso ebbe a
definire le proprie opere “evocazioni esoteriche” — vagamente connessi
alla cultura torinese d’inizio secolo e, in modo maggiormente probante,
con lo Studio di Casorati in via Galliari dove conobbe Daphne
Maugham che, dopo avere respirato l’aria mistica della parigina Académie
Ranson, si era trasferita a Torino dove la sorella Cynthia con Cesarina
Gurgo Salice, Bella e Raja Markman si dilettavano già, oltre che di
danza, di teosofia. Redattore e pubblicista prolifico, Galvano — che
inizia allora ad interessarsi a Rudolf Steiner e Madame Blavatsky — batté
gli argomenti indigesti alla cultura del suo tempo facendo di sé un
Intellettuale atipico che, come ricordava Sanguineti, ISpirò idee
ereticali nei propri allievi. Autore di pochi libri, che punteggiarono
una carriera meno prodiga di quella del compagno di studi liceali Argan,
nel 1932 conobbe Lionello Venturi che lo accolse come collaboratore
de “L'Arte” facendogli inoltre pubblicare alcuni studi sulle civiltà
extraeuropee?. L'equivocità tra critica militante e pratica
pittorica fu un banco di prova sul quale verificare, tra continui
rilanci e azzardi, la reciproca tenuta delle parti. In questo assiduo
riversarsi delle specificità discipli- nari consiste per Galvano il senso
estremo della sua Pittura, votata alla vanità dell'atto privato,
smagata da Ogni velleità economica e promozionale ma cro- S!uolo
rovente dal quale estrarre i concentrati succhi di un'urgenza
creativa. L'incessante ritorno all'arte . ni n GALVANO, La pittura a
Torino dal ‘45 a oggi, in “Letteratura”, I, “n 0, p. 99-76. Poi in: “La
pittura, lo spirito e il sangue”, P.MAN- ia la cura di), Il Quadrante
Edizioni, Torino, 1988, p. 155. Poi R i ALVANO, Diagnosi del moderno.
Scritti scelti 1934-1985”, A. UFFINO (a cura di), Nino Aragno Editore,
Torino, 2018, p. 393. | L'arte egiziana antica, Firenze, 1938;
L'arte dell'Asia occidentale centrale, Firenze, 1939; L'arte dell'Asia
orientale, Firenze, 1939. 39 è,
Al Liceo Gioberti di Torino, 1961-62. dA EdO
a ad. come artificio, come fare in sé autosufficiente, fu
per Galvano un difettivo rimedio all’insanabile scissura della
natura umana divisa tra spirito e materia, tra razionalità e intuizione,
e un’imperfetta occasione di confronto tra individui sul piano
partecipabile ed empirico dell'immagine che, pur sempre aderente
alla condizione fabrile, trova la propria natura più autentica
nell'essere essa stessa divisa tra creazione e imitazione. L'attività
poietica, l'agire sulla materia intesa sui presupposti estetici gettati
da Alain (pen- satore scomunicato da Croce), sottrae il discorso di
Galvano dall’osservanza teoretica idealistica come dall'impegno etico
esistenzialista e, abrogando di fatto la condanna platonica dell’arte,
accetta il va- lore estetico come simbolo del “male”. L'arte trova
allora la propria eretica ragion d'essere nella forma materiata, così
come l’idolo o il feticcio sarebbero la divinità in presenza e non
l’ipostasi divina. Per questo la pittura per Galvano rappresenta
enigmaticamente il “dio visto di spalle”. Quando Mosè chiese al
Signo- re di mostrargli la sua Gloria il Signore gli rispose: «Farò
passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome”
[...]. Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun
uomo può vedermi e restare vivo [...]. Tu starai sopra la rupe:
quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti
coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le
mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”». L'espediente
divino narrato nell’Esodo biblico?, fatto laicamente
3 i La Sacra Bibbia, cap. 33, vers. 19 e segg.
Cesare Saccaggi, Alma Natura, Ave!, pastello su carta applicata su tela,
68x125 cm., 1898, GAM Torino. reagire con esperienze disposte alle
“proiezioni”, tra cui l’idea del dio pagano che non tace non parla
ma accenna, sarebbe da intendersi per Galvano — che si era laureato
presso la facoltà di magistero di Torino discutendo con Gambaro e
Abbagnano una tesi su “La pedagogia della religione” — come
metafora dell'immagine (il “dio visto di spalle” appunto), quale
unica possibilità mondana di riconquistare l’unità primigenia dell’uomo.
L'azione esercitata dall'artista nelle condizioni oggettive della materia
è, più di una tecnica operativa, un’alchimia - ai filosofi Galvano
preferisce Jean Baptiste van Helmont e Cesare Della Riviera — che
permette il verificarsi di un'unione tra l'esperienza concreta bloccata
nell'immagine e l’'epifania del dio inteso non in senso
devozionale. Sì tratta in sostanza dell’allontanamento dall'idea
crociana di un'arte che esisterebbe autenticamente solo nell’intuizione e
non nella funzione estrinsecante della materia. L'arte sfugge così al
concetto di rap- presentazione candidandosi come opportunità che
contemporaneamente apre allo sguardo rinserrandosi nell’enigma, nella
manifestazione del trascendente. Galvano percorrerà incessantemente
questa terra di frontiera: come filosofo, come storico, come
pittore. Prodromo del percorso pittorico fu l’alunnato presso
Felice Casorati, scelto peril linguaggio sufficien- temente decantato,
sintetizzato e affrancato dal dato naturalistico per mezzo di
un'operazione intellettuale capace di conferire un ordine platonico agli
oggetti dispensati dalla polverizzazione cromatica impressionistica. Una
lezione estetica essenziale quanto l’austero contesto della scuola.
Esemplarità che si concretizza inunalto profilo morale e umano che
Galvano ritiene in dissolvimento nell'arte moderna con la quale si
conclude un ciclo plurisecolare aprendosene un altro, tumultuoso nel bene
ma anche nel male, dal quale si sentì definitivamente estraneo
dall'inizio degli anni Sessanta. Il mondo del secondo dopoguerra sarebbe
affetto da una crisi di moralità alla quale potrebbe unicamente fare
fronte una presa di responsabilità politica, artistica, religiosa,
speculativamente limpida ed esente da posizioni compromissorie e
accomodanti come quelle sostenute dagli artisti che vogliono
salvare i valori della tradizione pur dichiarandosi moderni.
L'intera modernità e l’idea stessa di progresso tecnico aGalvanorisultano
ree di edificare, intorno a un fulcro di ragioni economiche (Marx) e
sessuali (Freud), un presente depauperato dall’opportunità della
variazio- ne imprevista. A una totalità di costruzione legata alla
forma, tipica del Medioevo, si avvicenda insomma una totalità d'impiego
legata allo scopo, decisamente avvilente come comproverebbe per inverso
il moder- no carattere apologetico della narrazione tecnica e
scientifica. Giudizio estendibile al fatto estetico per cui all'arte come
atto fabrile, tipico del Medioevo, si avvicenda l’arte come atto
intellettuale, peculiare del Rinascimento e dei secoli successivi fino al
XVIII. Seguirà il periodo reazionario e tradizionalista del
Romanticismo, caratterizzato dal recupero program- matico degli archetipi
(Jung) medievali ma rivissuti Per un'armatura, Edizioni Lattes,
Torino, 1960. Senza il contesto sociale entro il quale quegli
ideali Sl erano formati. La spontaneità medievale diviene nel
Romanticismo programma culturale e come tale sarà ereditata dal
Decadentismo e dal Simbolismo, il Soggettivismo dei quali impronterà di
sé l'Espres- Slonismo. Le avanguardie appaiono dominate dalla
pulsione oppositiva alla tradizione elevando a sistema l'efficienza
produttiva di un “nuovo” codificato come autoreferenziale, programmatico
e inintelligibile ma ‘ncapace di emanciparsi dal dato naturale
nonostante esaurirsi dell'esperienza storica dell’arte illusiva.
Gli €pigoni dell’astrazione storica, i concretisti, sarebbero
Invece esonerati da questa soggezione insieme alle Tetoriche idealistiche
riuscendo, in piena ricostruzione etica e umana, a calarsi completamente
nel dato resi- duale figurativo, ossia all'evidenza del fatto
pittorico. Fu l’esperienza che Galvano intraprese dal 1948 al 1953,
con l'adesione alla branca torinese del MAC, €sauritasi per lui nella
spontanea affermazione delle forme curvilinee tipiche del Liberty su
quelle rette e Spigolose dell’astrazione concretistica. In
una sorta di personale contropartita agli inte- lessi spiritualistici e
antropologici, Galvano pensa a Artemis Efesia, Edizioni Adelphi, Milano,
1966. un'arte come luogo del verificarsi del mito capace di
portare a definitiva decantazione la sua inclinazione espressionistica
(rubricata dal Pallucchini) estraendo- ne la forza panica trasfigurata in
una rinnovata spinta metafisica. Sein ambito artistico risulta evidente
come egli abbia risolto insé l’apprendistato casoratiano non
assorbendone che un clima d'insieme, metabolizzando l'aspetto
decadentistico della pittura del maestro celata sotto la rigorosa
adesione a una norma di cristallina evidenza estetica ed etica, sul piano
dell'esercizio critico volle incrinare dialetticamente il sapere
con- solidato al fine di cogliere unitariamente il senso più
autentico della modernità. Accostandosi ai testi suoi maggiori, nei quali
dispiega un cospicuo sforzo storico ma editati in un periodo a loro
sfavorevole — “Per una armatura” (1960) e “Arthemis Efesia” (1967), si
hala sensazione di essere dinanzi a un affascinate quanto
indefinibile prodotto letterario —saggio, disquisizione filosofica, colta
divagazione, eccentrico soliloquio, introspezione analitica — che,
pensando alla continua permutazione tra scrittura e pittura, indurrebbe
a pensare a una creazione letteraria con statuto indipen-
denteecreativo rifiutato da Galvano incline, viceversa, a una
critica intesa come emanazione di un'attività immanente all'atto
creativo. Permane tuttavia l’eco dell'idea crociana della storiografia e
della critica che, pur non aggiungendo nulla all'opera ma
limitandosi a sancirne la validità poetica secondo l’idea del
philo- sophusadditusartifici- contrapposta all'idea dell’artifex
additus artifici sostenuta da Annunzio e Conti sulla scorta di Ruskin e
Pater -—, attribuisce facoltà filosofiche e artistiche alla soggettiva
sensibilità intuitiva dello storico. Coscienza “temuta e avversata”*
Croce è, per Galvano, un'autorità intellettuale che in cambio di
una piattaforma teoretica esige la partecipata condanna delle opere che,
passate al vaglio di un accurato approccio metodologico, risultino
prive di valore poetico. Nell’acido corrosivo dell'ironia e
dialettizzando gli argomenti con lo storicismo, Croce condanna il
Decadentismo nelle accezioni mistiche, estetizzanti, irrazionalistiche e
in quella che crede inconsistenza filosofica e spirituale, includendo
in quel termine tutto ciò che tende a sviluppi formali astratti e
condannando di fatto la fitta rete culturale e relazionale della
modernità. Nonostante ciò Croce avrebbe il merito di avere reso
accessibile e ripercor- ribile questa fitta topografia anche nella
declinazione contraddittoria e fragilmente raffinata del vituperato
Decadentismo. Accettando la condanna crociana, Galvano confessa la
propria passione per decadenti, esotici, erotici e apostoli
misteriosofici, ponendosi scientemente in una giurisdizione infernale
come critico e come artista nato dalla linea evolutiva del
Simbolismo. Identifica anzi quello straordinario mo- mento storico come
un estremo malinconico balenio della civiltà al crepuscolo, un'epoca di
transizione divisa tra spirito e carne, abitata da alcuni tra i più
eletti spiriti dell'umanità capaci di creazioni difformi ma compiute e
che lo sperimentalismo modernista delle avanguardie esaurirà.
In una sorta di ribellione alla figura paterna, Galvano
trasgredisce la raccomandazione crociana di non leggere Rimbaud,
Mallarmé, Valéry e risco- pre, anteriormente a Cremona?, il modernismo e
la linfa vitale del Decadentismo attraverso il quadro metodologico
del filosofo abruzzese inclusivo di fatti estetici anche diametralmente
opposti alle sue idee. A Galvano, come alla sua generazione, fu quindi
im- possibile non dirsi crociano proprio per l'opportunità 4
A. GALVANO, Perché non possiamo non dirci crociani, in “Nu- mero — Arte e
letteratura”, V, n. I-II, gennaio-marzo 1953. Poi in: “Omaggio a Albino
Galvano”, catalogo della mostra, Circolo de- gli Artisti, Torino,
gennaio-marzo 1992, P. Fossati, F. GARIMOLDI, M. C. MunpiCI (a cura di),
Electa, 1992, pp. 116-120. Poi in: A. GALVA- NO, “Diagnosi del moderno”,
cit., p. 37. 5 I. CREMONA, Il tempo dell'Art Nouveau, Firenze,
1964. 42 che quella metodologia offriva nel
sistematizzare l’intera storia. Quello che invece depose fu lo
spirito conciliante dell'estetica di Croce buona, al più, a ba-
nalizzarsi nell’idea diunmuseoimmaginario.Quando negli anni Sessanta ebbe
il proposito di approfondire l’immagine cultuale e psicologica
dell’efesina Arte- mide, partì dalla fascinazione prodotta su di lui
da un pastello di Cesare Saccaggi, “Alma Natura, Ave!” (1898),
opera collocabile allora, quando uscì il libro, e tuttora, in un filone
di gusto piuttosto sospetto. Con una serie di pubblicazioni’, si renderà
così protago- nista, a partire dagli anni Cinquanta, del rinnovato
interesse per l’arte Liberty dalla quale trarrà ben più diuna semplice
ragione di studio quanto invece, nella pratica pittorica, una viva
permutazione in allusioni enigmatiche irriducibili a ogni
interpretazione, quali il fiore di iris, destituite dal ruolo di metafore
e sim- boli. Questa continuità formale si chiarisce anche come
continuità semantica quando si consideri come Galvano e Cremona abbiano
ricondotto l’arte astratta in un comune svolgimento con il Simbolismo e
con il Liberty che, di quest’ultimo, ful’espressione impiegata sul
piano della fabbricazione. Da cui il transitare di Galvano dalla fase
concretistica a quella informale e, più in là negli anni, a quella
araldica di nastri e bandiere per giungere appunto agli iris.
Trascorrere stilistico da non leggersi come eclettismo quanto piut-
tosto come legittimo susseguirsi tra la carica allusiva assegnata ai
reticoli cromatici astratti e la sensibilità decorativa trasformata in
materia fermentata fino alla disgregazione dalla quale estrarre infine
nuovamente il ritmo danzante delle forme arabescate. Il Simbolismo
gli consente di riversare il misticismo nella propria opera di pensatore
e, soprattutto, di pittore. L'arte assume quindi un valore emersivo di
forze morali (leggi spirito) — del “bene” nel momento crociano, del
“male” più tardi in modo nietzschiano — prima ancora che estetiche (leggi
sangue); diade debitrice al suo filosofo di riferimento Ludwig Klages,
altro intel- lettuale trascurato in Italia quanto sospettato di avere
incubato l'ideologia autoritaria tedesca quando invece più coerentemente
dovrebbe essere pensato come un epigono del romanticismo intuizionista.
L'arte tenta un'indiretta conciliazione tra spiritualità e
artificio consegnando alla storia un’estrinsecazione autentica- mente
creatrice e non solo la copia di una copia; non una rappresentazione ma
un esserci immanente. La volontà di accogliere quel “male” come
necessario gli viene dalla presa coscienza di un'’artisticità, che
arde 6 A. Galvano, Dal simbolismo all'astrattismo, in
“Galleria di lettere ed arti”, n. 4-5, 1953; Le poetiche del simbolismo e
1 ‘origine dell'Astrattismo figurativo, in “Studi in onore di L.
Venturi”, vol. II, 1956. Articoli specifici ai quali aggiungere:
L'erotismo del liberty e la sublimazione astrattista, in “Cratilo”, n. 3,
1963. i Gabetti Isola, Casa di Erasmo, Torino, 1953-1956.
inlui fin dalla giovinezza, radicata proprio nelle opere Create
tra XIX e XX secolo e nelle elaborazioni più irrazionalistiche. Come
quella immoralità sia aperta a fertili risultati lo si comprende
appoggiandosi all’in- terpretazione che Galvano offre delle Artemis:
bianca come simbolo coadiuvante di perfezione conchiusa ma Statica,
nera come simbolo avverso di imperfezione e INCompiutezza ma dinamica e
che in potenza può Jenerativamente aprirsi a una riserva di
possibilità eventualmente immanifeste. Per traslato, quindi, la
hegatività del Simbolismo si apre a una plenitudine di risultati. Permane
tuttavia il concetto di fondo che la Pittura, come prodotto di una
volontà impossibilitata a realizzarsi nell’ideale, sia il risultato di
una caduta la Cul spoglia materiale sarebbe prova di vanità e
disvia- mento. Come s'accennava sopra, Galvano si smarca dall'idea
di un'arte quale esempio del bello estetico e del bene morale, per lui
non più coincidenti, ma accetta la disperata affermazione dell'immagine
come 43 “ ” a »
l Me. È È n IS 18 la . t
: LI è» ® î unico possibile
risultato dell'impulso proiettivo delle aspirazioni individuali o sociali.
Pittura che in ultima istanza è anche piacere sensoriale, vocazionale
istinto a testimoniare (Baudelaire), “vizio assurdo”, vanitas;
pittura come atto cultuale che mantiene in gioco la proiezione degli
archetipi, la ricchezza delle imma- gini aderenti al mistero, almeno per
quel poco che la contemporaneità consente, poiché ilmondo nega ogni
giorno più spazio alla pittura mentre il pensiero bor- ghese, incapace di
slanci estetici e metafisici, permette che in questa duplice assenza si
innesti la tecnica, la pianificazione, la sterile sistematicità. Per
Galvano la nostra epoca è irrimediabilmente scissa dal significato
iù autentifico della vita, dalla sua forza feticistica poiché ha fatto di
quel mondo, in cui la presenza del dio era costante, una favola bella
l'iconografia della quale non è che una lontana immagine
idealizzata priva, per i moderni, di ogni accenno oracolare. Queste
ragioni filosofiche, di estremo interesse, dovettero apparire
perlomeno eterodosse all'atto della loro formulazione, divise tra
esistenzialismo e fenome- nologia e affacciate all’abisso del mondo
preclassico, alle profondità eraclitee. Scostatosi
dall’irrazionalismo di Klages, Galvano non intese fare di sé un
anti-razio- nale quanto piuttosto un convinto a-razionale, come
indica la personale concezione di arte in equilibrio tra ragionevolezza e
vaticinio, secondo un fare né pienamente consapevole poiché eroticamente
privo di volontà intellettiva, né tantomeno completamente
incosciente poiché contemplativo. Pertanto l'ipotesi di Galvano fu più
aderente alla poetica di Mallarmé piuttosto che al pensiero di Valery,
perché dove il primo disidratando e affinando la parola poetica
pose le condizioni per un superamento del modello simbolistico aprendo di
fatto alle avanguardie, il secondo immaginò la creatività come un
processo logico ricondotto alla piena luce della razionalità, alla
consapevolezza dell'atto. Esaltando cartesianamente l’intellettoela
coscienza, il processo creativo per Valery è un'attività spiegabile
analiticamente senza ricorrere a misticismo, vitalismo e spiritualismo.
Carnalità, sessualità e sensualità - Croce aveva biasimato la sen-
sualità nell'opera di Mallarmé come priva di “anelito d’innalzamento”” —
furono invece le pulsioni vitali del Simbolismo che interessarono Galvano
e che la razionalità, in un prolifico ripiegamento autoanaliti- co,
dovrebbe avocare a sé integrandole senza ripulse pregiudiziali.
Speculazione intellettuale e artistica che rivela tutta l’enigmaticità di
Galvano che oscilla tra i termini affermati da Mallarmé, e ripresi da
Alain, di “vision”, intesacome vaghezza di ispirazione, e “vue”,
intesa come concretezza dell'oggetto in sé risolto. Se da una parte,
sull'esempio di Mallarmé — il quale pre- cipitò le parole nell’assoluta
perentorietà delle pure idee aspirando infine a una “poésie sans les
mots”® -, Galvano pare decidersi per la “vue” aderendo al
concretismo astratto come pars construens dalla quale pretendere risposte
formali di esito certo, dall'altra, per mezzo del multiforme divenire
della sua pittura, apre obliquamente alla possibilità allusiva
dell’appa- rire, accettando di fatto unesito provvisorio prossimo
al concetto di “vision”. L'oscillazione dalla vaghezza creativa
all'evidenza intellettuale di forme e colori è l’unica risposta
contingente possibile per Galvano che decide di non decidere tra i
termini antitetici asseriti, approfondendolo sguardo nell'oscurità della
creazio- ne e della vita. Medesimamente il Galvano scrittore
affronta il passato eludendo la descrizione analitica delle epoche
storiche portandone bensì all’emersione 7. B. CROCE, Poesiae non
poesia, Laterza, Bari, 1950, 5° edizione riveduta, pp. 318, 319.
g S.MALLARMÉ, Divagations, Bibliothèque-Charpentier, Eugène
Fasquelle Éditeur, Parigi, 1897, p. 297. i reconditi meccanismi,
le contraddittorie spinte pul- sionali; un’organica prassi opportuna a
increspare la ricerca storica attraverso una molteplicità di punti
di vista culturali posti in reciproco dialogo e liberamente
sollecitati. Il rischio nell’approcciare oggi la figura di
Galvano è quello di appiattirne il pensiero, come già avvertiva
Sanguineti nel 1990°. L'illustre allievo aveva compreso come il decadentismo
pittorico di un Moreau o lette- rario di un Huysmans fossero considerati
dal maestro un indispensabile momento storico. Galvano mostra
insomma un’idiosincrasia per quelle “mortificazioni crepuscolarmente
schifiltose”!° che avevano impedito ai Campana, agli Onofri, agli Ungaretti
e ai Montale di superare, senza rifiutarne la “carica panica e
mitica”, il naturalismo panteistico dell’Alcyone dannunziano.
InItalia, l'assenza del dissolutivo lavacro simbolista si era in sostanza
ripercosso nella crociana deplorazione categoriale per l’arte moderna
insieme all’illusione di potere produrre un'opera estetica autenticamente
nuo- vaeludendo il peccato originario del Decadentismo. Il
tentativo di emanciparsi dal prestigio delle autoritates latine che aveva
tentato D'Annunzio richiamandosi ai romantici tedeschi, apriva gli occhi
di Galvano ai presocratici e alla filosofia moderna
(dall’irrazionali- smo alla scuola ermeneutica) che del classicismo
aveva assunto il senso vitalistico, indefinibile e misterioso di
una natura come rivelazione del divino. Da cui l’idea di una suprema
ragion d'essere trascendente alla quale l’arte, per Galvano, dovrebbe
aprirsi ma che invece nelle enunciazioni contemporanee gli pare,
con buona pace di Eco, rinserrarsi in un'opera chiusa. Con un piglio da
lettura sociale dell’arte, Galvano scrive dell’esaurimento dei rapporti
storici tra committenti e artisti e di come ciò abbia mutato
l'originaria destinazione d'uso delle opere, ridotte così a gratuite
provocazioni. Conseguentemente proponeva le dimissioni delle categorie di
giudizio elaborate perle arti visive del passato da sostituirsi con
un equivalente delle letture psicanalitiche tentate da Sartre su
Baudelaire e da Lacan su Poe. Restato sempre un pittore tradizionalista,
Galvano si dichiara disin- teressato a certi sviluppi artistici lasciando
intendere come il problema dell'effimerità dell’arte contempo-
ranea—compreso l'amato astrattismo geometrico—sia anche un problema della
storia dell’arte come disci- plina. Su come debba essere poi questa
storiografia Galvano non si pronuncia se non dichiarando che il
problema della storia dell’arte debba essere anche e SANGUINETI, Contro
la ragione, in “La Stampa”, 10 marzo 1990, p. 7. 10 A.
GALVANO, catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Tori- no, dicembre
1979-gennaio 1980, p. 108. 11 Ibidem. soprattutto il
problema dell’uomo! Sovvengono le parole destinate a grande fortuna
critica che avrebbe scritto Hans Belting nei pamphlet intitolati “La
fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte” (1983) e nel
successivo “Das Ende der Kunstgeschichte. Eine Revision nach zehnJahren”
(1995)nei quali auspicava la fine della storiografia artistica
tradizionale a favore di proposte olistiche e antropologiche avvedute
delle mutate circostanze sociopolitiche, del rimescolamento di
cultura alta e bassa, della suggestione determinata dai linguaggi
mediali, dell’emergere di realtà culturali prima marginalizzate,
dell’obsolescenza della funzio- ne assegnata al lavoro manuale,
dell’alterato ruolo di musei e gallerie d’arte. La prospettiva delineata
da Galvano si tinge di accenti acri quando denuncia la pacifica
cittadinanza ottenuta dagli ismi ridotti alla non nocenza di prodotti da
supermarket immersi in una rete di opportunità economiche e di
complicità professionali. Un terreno culturale desolante che assume
una disillusa trasposizione nella sua pittura ultima, nei paesaggi
desertificati, nella scelta estrema del silenzio creativo come opzione possibile
nonché parzialmente intrapresa. Facendosi anticipatore di posizioni
storiografiche di superamento della cano- nica divisione tra antico e
moderno e concentrando il periodo rivoluzionario dell’arte d'avanguardia
tra il 1907 e il 1925, in una sorta di personale à rebours Galvano
esprime l'opinione secondo cui i movimenti artistici successivi si
sarebbero attestati su posizioni di assimilazione manieristica piuttosto
che di irriverente Sovversione peculiare degli ismi nei riguardi della
tradizione rappresentativa. Delinea unastoria dell’arte moderna parallela
più complessa e connettiva come avrebbero potuto scriverla gli artisti ai
quali infine delega idealmente il compito futuro di creare un'ar-
te che, restando nell’ambito non figurativo e senza Impossibili riflussi,
riesca coerentemente a ristorare i Valori artistici e umani del passato.
Galvano insomma invoca il diritto anon essere moderno, o peggio
ancora d avanguardia, evitando di lavorare sulla contingenza e
rifiutando l'egemonia della critica per privilegiare, In senso
dichiaratamente anticrociano, la poetica degli artisti che al lavoro
intellettuale uniscono la prassi. Insieme alla proposta per un
rinnovamento della Storiografia artistica Galvano ne affianca un’altra
di Natura conservativa consistente nell’idea di salvaguar- dare le
opere minori del modern style, perlomeno gli Oggetti e gli arredi non
ancora distrutti (di Cometti Per esempio). Immagina la documentazione
degli edifici Liberty finendo per invocare l'allestimento di Una
retrospettiva sull’Art Nouveau internazionale, ma ù A. Gauvano,
«Cosa nostra», in “Sigma”, Ln1, primavera 64, pp. 63-70. Poi in: “Omaggio
a Albino Galvano”, 1992, cit., Pp. 130-133. Poi in: “Diagnosi del moderno”,
cit., p. 59. avveduta del caso italiano e piemontese nel dettaglio,
da allestirsi nella rinata Galleria di Arte Moderna di Torino (1960).
Caduta nel vuoto la proposta sarà pro- prio Galvano a scrivere un
articolo sull’Art Nouveau a Torino! e poi, insieme a Giorgio Balmas e
Lorenzo Guasco, a curare nel 1978 al foyer del Piccolo Regio una
mostra dedicata alla pittura torinese all’inizio del secolo. Sorta di
doveroso omaggio a uno stile di vita prima ancora che d’arte nel quale
confluirono la vita delle forme collettive e l’individualità creativa.
Dissentendo da Croce, l'interesse di Galvano per gli oggetti si
approssima alle idee espresse da Giovanni Gentile nella prolusione al
corso universitario di storia della ceramica pronunciato nel Palazzo
Comunale di Faenza nel 1928 nel quale il filosofo, saldando arte e
vita, rivendica la dignità estetica dei prodotti artigianali e
industriali di qualità. Si consuma qui l'ennesima contraddizione di un
crociano affine alle idee di Gentile che pur biasima per densità
retorica. Sensibile alle arti dei periodi di transizione e avvedu-
to della caducità dei giudizi, compresi i propri, per Galvano ogni
critica obiettiva deve essere sempre un’autocritica. Augurandosi
l'avvento di un esegeta capace di rileggere l’arte tra i due secoli, così
come Sanguineti seppe fare con la letteratura, Galvano rammenta
come la sua generazione abbia vergato parole sferzanti su Bistolfi fino a
pochi anni addietro valutato un artista di statura europea. Ma fu anche
la generazione di quei giovani i quali, raggiunti i vent'anni nella terza
decade del XX secolo, quando dovetteroimmaginare una ribellione la
fantasticarono conle parole di Rimbaud, Gide, Lawrence e Huysmans
il cui Des Esseintes sembrò essere allora il prototipo di un esteta come
Carlo Mollino. Dell’amico, stimato oltre che come professionista di genio
anche come dilettante d'eccezione, Galvano ammirò la capacità di
governare con la formazione culturale crociana e il rigore razionale
tipico della sua professione, gli umori sensuali, avventurosi e ambigui
del suo animo capace di rievocare il ritmo aperto e biologico del
Liberty restituendolo nella voluttà degli interni arredati, nell'armonia
architettonica dei pieni e dei vuoti, nella eterogenea e immaginosa
commistione di elementi organici e funzionali. Un'omogeneità che il
termine “surreale” illustra solo parzialmente e che trova una segreta
corrispondenza nelle opere di Cremona come nei molluschi, nelle
conchiglie, negli antichi libri accartocciati e nelle acquasantiere
barocche che Galvano dipinge negli anni Trenta e Quaranta. L'identità
autopoietica generata da Torino si manifesta nella condivisione
spirituale prodotta da A. GALVANO, Per lo studio dell'Art Nouveau a
Torino, in “Bol- lettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle
Arti”, nn. 14-15, 1961. questa generazione d’eccentrici
intelletti, nella speci- fica formazione di un genius loci come Galvano e
nel progetto della Bottega d’Erasmo che Gabetti e Isola disegnano
in forme intellettualistiche neo-liberty nel 1953. Proprio in quell’anno,
“A Rebours” di Huysmans diverrà per Galvano il pretesto per puntualizzare
le proprie posizioni all’interno del Mac e più in generale nel modo
di intendere il Decadentismo!. Quando Leonardo Borgese consigliò agli
astrattisti concreti, in chiusura della recensione alla mostra di
Galvano allestita presso lo Studio B 24 di Milano nel 19535, di
rileggersi il celebre romanzo di Huysmans nel quale, a suo parere, ci
sarebbe stato il necessario per decodi- ficare la loro poetica, gli
aderenti al gruppo accolsero l'esortazione come una blasfemia da
respingersi inte- gralmente. Galvano ritenne legittima la protesta
dei compagni astrattisti apparendogli chiaro come Borgese
incaricasse l’ipocondriaca, solitaria ed estetizzante vita del
protagonista narrato nelromanzo, diesprimere un'e- pidermica quota di
edonismo e di sensualismo ribelle ai disvalori della società
positivistica industrializzata e scientifica, votata al profitto, al
commercio, al nuovo capitale borghese. Dopo di che Galvano,
confessando di aderire parzialmente al pensiero del capitano della
brigata anti-astrattista Borgese, s'inalvea in una lettura
sorprendentemente sincretica aperta al riconosci- mento dell’ambivalenza
del rapporto tra astrazione e Simbolismo. Al rifiuto delle suggestioni
emotive del Simbolismo, l’astrattismo, secondo Galvano, ne
intellettualizzerebbe le allusioni ele “corrispondenze” (termine
apertamente rimontante a Baudelaire) come strumento oppositivo al
dilagare prosastico del reali- smo. L'astrattismo del dopoguerra
ridurrebbe quindi ai minimi termini la carica letteraria aumentando
quella metafisica, riscattando la tradizione dei padri nobili
dell’astrazione primonovecentesca e tesaurizzando nel contempo (sulla
scorta della ricostruzione filogenetica di Pevsner) la lezione di Toorop,
Gauguin, Munch e Klimt insieme a quella degli antesignani Runge,
Blake, Antonelli, Ciurlionis, Kupka; in sostanza dei precursori che evocarono
ancora le leggi del mondo fisico consentendo agli evoluti linguaggi non
figurativi di divincolarsi più recisamente dalla mimesi. Negli anni
tra le due guerre, sull'onda della fenomenologia e della psicologia della
forma, si assisté a un aurorale revisionismo storiografico dell'Art
Nouveau — anche Edoardo Persico ebbe in animo di scriverne una
storia!° 14. A. GALVANO (asterisco di) in, ‘Pitture di A. Galvano
in un esperimento di sintesi” (testo anonimo), Milano Studio B 24,
“Arte Concreta”, bollettino n. 12, seconda serie, febbraio 1953. Poi in:
P. Fossati, “Il movimento arte concreta 1948-1958. Materiali e
documenti”, Martano Editore, Torino, 1980, pp. 62, 63. 15 L.
BorcEse, “Corriere della Sera”, 1° gennaio 1953. 16 A. Pica,
Revisione del Liberty, in: “Emporium”, a. XLVII. n. 8, vol. XCIV, n. 560,
agosto 1941, p. 66. 46 — ma sarà con gli anni
Sessanta e Settanta che diverrà condivisa acquisizione la carica
anticipatoria ricoperta da Mackmurdo e dalla cultura figurativa a partire
da Blake. Anima nera del concretismo, Galvano assume un ruolo
sovversivo nel movimento proponendo ine- dite e intelligenti aperture di
senso che tuttavia non giungeranno a ispirare un prolifico dibattito
all’interno del gruppo infragilito dalle difformità tra la posizione
intellettuale rigorosamente metodica dei milanesi e gli arrovellamenti
sulla materia fortemente allusiva espressi dalla linea torinese.
Risalendo alle sorgenti dell’arte astratta, Galvano riannodò, in antitesi
alle let- ture formalistiche, le affinità con le fonti spiritualiste
di Decadentismo e Simbolismo e — pensando alla densità mistica
nell'opera di Huysmans sfogata in occultismo e cattolicesimo — con le
citazioni della Blavatsky e di Steiner scritte da Kandinsky, con la
prossimità di Mon- drian ai circoli teosofici, con il lirismo magico di
segni e colori dell’orfismo di Kupka e, non ultimo, con uno dei
primitesti dedicati all’astrazione scritto da Julius Evola. Dandy
autoironico votato alla marginalità, Galva- no disseminò il proprio
percorso di tracce sulle quali indugiare, trascorrendo liquidamente da
una disciplina all'altra in modo stupefacente per un intellettuale
ani- mato da pura vocazione pedagogica ma riottoso alla metodicità
dello studio scolastico. Attribuire un senso univocoal suo pensiero
equivarrebbe a fraintenderne la filosofia e l’idea stessa di un'arte come
autosufficiente e spontaneistico operare nella ferita aperta tra
vitali- smo e intelletto che l’atto artistico non riesce tuttavia a
cicatrizzare. La civiltà intera corrisponde per lui alla fenomenicità
delle immagini da essa prodotte che, in sostanza, aprirebbero al mistero
quale autentico even- to metafisico. Intendendo come piani
dell’emersione archetipica i segni dell’arte — della quale
l’idealismo si limiterebbe a coglierne l'aspetto teoretico, Alain
quello pratico e l’Esistenzialismo quello etico — sarebbe troppo
semplicistico archiviare la passione di Galvano per Decadentismo,
Simbolismo e modern style, come l'infatuazione culturale per un'epoca
vesperale. Egli si sente invece custode ed erede di quella
lacerante contraddizione, di quella genesi oppositiva, di quella
disperata tensione verso uno spirituale fatalmente arreso alle forme
dell’estetismo, di quella magnifica e perduta sfida, tanto da riversarne
la forza vitale nella personale proteiforme pittura così come nelle
pro- gressive illuminazioni della sua letteratura filosofica e
artistica. Opere esposte1 Lettrice sdraiata -— 1931 — olio su tela
— 63,5x81 cm 2 Autoritratto - 1940 ca — olio su tela
— 23,5x18 cm 3 Astrazione - 1950 — olio su tela —
50x60 cm et adi 4 Il giorno olio su tela
100x80 cm Pacato — 1954 — olio su tela — 90x110 cm
6 Composizione in nero — 1954 — olio su tela — 90x110 cm
/ S.t.-1956-olio su carta — 34x48 cm $
Ercole ed Anteros — — olio su tela — 85x115 cm 9
Omaggio a Van De Velde - 1959 — olio su tela — 80x90 cm
10 Ir1s — 1960 — olio su tela — 105x95 cm 58
10Y1-1960- olio su tela — 95x110 cm 3 F
12 Calligramma — — olio su tela — 100x85 cm
13 Fiori di lago — 1962 — olio su tela — 100x120 cm
14 Le jardin de cet astre — 1962 — olio su tela — 132x116 cm
15 Ireos — 1962/65 — olio su tela — 130x115 cm
16 Proposta — — olio su tela — 135x122 cm 17
Pavese — 1967 — olio su tela — 120x110 cm 18
Farfarello e Malambruno — 1967 — olio su tela — 80x60 cm 19
Gonfaloni — 1968 — olio su tela — 95x80 cm 20 Nastro
n. 25 — 1968 — olio su tela — 90x80 cm 21 Nastri —
1969 olio su tela — 60x50 cm 22 Nastri colorati —
1969 - olio su tela — 110x100 cm 23 Nastri — 1970 —
olio su tela — 60x50 cm 24 Nastri — 1970 — olio su
tela — 60x50 cm MALI 25 Nastri — 1970 —
olio su tela — 60x50 cm ter» IG MOFBEE
sie Tre ir" Saitta Sl
26 Segni asemantici (dittico) - 1973 — olio su tela — 110x90 cm
pari #1 =$ Re |a te n ; 26 Segni
asemantici (dittico) - 1973 — olio su tela — 110x90 cm
27 Artemis — 1974 — olio su tela — 120x110 cm
28 Maioresque cadunt - 1974 — olio su tela — 90x80 cm
TITO sal - — olio su tela — 70x50 cm
30 s.t.olio e carboncino su tela — 80x60 cm
31 Ireos - 1977 — olio su tela — 70x60 cm —_—— mr
LIIII:5 ——_—_ T=—r-—-r®x
(i 32 Iris n. 2 - 1975 - acquarello su carta — 40x30 cm
Sa Cespu glio — 1974 — acquarello su carta — 40x30 cm
34 Glotre du lon
g desir idees —- 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm
35 Fiori — 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm
VRREET L6 LL AIA USD GOG VE o VERDE IL I BEILET DART DIG SPARI DIO RR pia
I I LITIO ODE LIL 36 Fiori acquarello su carta — 40x30 cm
37 Une Fleur — 1975 — olio su tela— 70x70 cm
38 Scrittura - 1976 — acquarello su carta — 60x50
cm 39 Sassi e foglie olio su tela — 80x80 cm
40 Foglie morte — 1978 — olio su tela — 80x80 cm
41 Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 40x30 cm
Labrit, © di DASIO LT R EDLI u DILODIAT
42 Ciottoli e rocce — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm
43 Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm
” — hu ro iiriiRRRE
44 Rocce e ciottoli — olio su tela — 80x80 cm
45 Rocce e sassi — — olio su tela — 80x80 cm 46
Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm 47
Rocce e sassi — 1982 — olio su tela — 80x80 cm Opere in
mostra 01 — Lettrice sdraiata —— olio su tela — 63,5x81 cm
02 — Autoritratto — 1940 ca — olio su tela — 23,5x18 cm 03 —
Astrazione — 1950 — olio su tela — 50x60 cm 04 — Il giorno — olio
su tela — 100x80 cm 05 — Pacato — — olio su tela — 90x110 cm
06 — Composizione in nero — 1954 — olio su tela — 90x110 cm 07 —
s.t.-— 1956 — olio su carta — 34x48 cm 08 — Ercole ed Anteros —
1956 — olio su tela — 85x115 cm 09 — Omaggio a Van De Velde — — olio su tela — 80x90 cm 10 — Iris-— —
olio su tela — 105x95 cm 11 — Fiori
olio su tela 95x110 cm Calligramma olio su tela — 100x85 cm
13 — Fiori di lago —- — olio su tela — 100x120 cm 14 — Le
jardin de cet astre — — olio su tela —
132x116 cm 15 — Ireos — 1962/65 — olio su tela — 130x115 cm
16 — Proposta — 1965 — olio su tela — 135x122 cm 17 — Pavese
— — olio su tela — 120x110 cm 18 — Farfarello e Malambruno — 1967 —
olio su tela — 80x60 cm 19 — Gonfaloni — 1968 — olio su tela — 95x80
cm 20 — Nastro n. 25 - 1968 — olio su tela — 90x80 cm
21 - Nastri — 1969 — olio su tela — 60x50 cm 22 — Nastri
colorati —- 1969 — olio su tela — 110x100 cm 23 — Nastri — 1970 —
olio su tela — 60x50 cm 24 — Nastri olio su tela — 60x50 cm
25 — Nastri - 1970 — olio su tela — 60x50 cm 26 — Segni
asemantici (dittico) — 1973 — olio su tela — 110x90 cm 27 — Artemis —
1974 — olio su tela — 120x110 cm 28 — Matoresque cadunt — 1974 —
olio su tela — 90x80 cm 29 — s.t.- 1974 -— olio su tela — 70x50
cm 30 — s.t.— 1974 — olio e carboncino su tela — 80x60 cm
31 — Ireos — 1977 — olio su tela — 70x60 cm 32 — Iris n.
21975 — acquarello su carta — 40x30 cm 33 — Cespuglio — 1974 —
acquarello su carta — 40x30 cm 34 — Gloire du long desir idees —
1975 — acquarello su carta — 40x30 cm 35 — Fiori —- 1975 — acquarello su
carta — 40x30 cm 36 — Fiori - 1975 — acquarello su carta — 40x30
cm 37 — Une Fleur — 1975 — olio su tela — 70x70 cm 38 —
Scrittura — 1976 — acquarello su carta — 60x50 cm 39 — Sassi e
foglie — 1978 — olio su tela — 80x80 cm 40 — Foglie morte olio su
tela — 80x80 cm 41 — Ciottoli acquarello su carta — 40x30 cm
42 — Ciottoli e rocce — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm 43 —
Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm 44 — Rocce e
ciottoli - 1981 — olio su tela — 80x80 cm 45 — Rocce e sassi — 1981
— olio su tela — 80x80 cm 46 — Rocce e sassi — 1981 — olio su tela
— 80x80 cm 4/ — Rocce e sassi — 1982 — olio su tela — 80x80
cm Finito di stampare nel mese di marzo 2021 da GARABELLO
ARTEGRAFICA (SAN MAURO TORINESE). Grice: “I don’t see why Italians are obsessed
with art, but Speranza is Italian, so let it be. Speranza thinks conceptual
artists are the only ones – such as Keith Arnatt – worth analysing. In his more
snobbish ways, he thinks to mould the male body was Pliny’s idea of art –
bronze statuary of the ‘nudo maschile’ – Painting comes only second or third,
and only because of the desegno – i.e . the line of beauty, which is – as
shape, where ‘kallon’ resided for the Greeks!” -- Albino
Galvano. Galvano. Keywords: arte naturale, Gallupi, Peirce, Grice. By uttering
x (gestus), U means that p” gesto, gestus, Grice’s use of gesture. il concreto,
l’astratto, Sraffa’s gesture. Il gesto di Sraffa, l’implicatura di Sraffa. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Galvano: implicatura concreta”– The Swimming-Pool
Library. Luigi Speranza, “Grice e Galvano”.
Grice e Gangale: l’implicatura conversazionale del
dia-letto e la dia-lettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cirò Marina). Filosofo italiano. Grice: “I like
Gangale; the fact that I taught for years in front of the martyrs memorial
helps!” Porta a termine gli a San Demetrio Corone. Si iscrive alla facoltà di
Filosofia di Firenze. Si laurea con “La logica della probabilita”. Iniziato in
Massoneria, nella Gran Loggia d'Italia. Porta
avanti la difesa dell’idioletto e del dialetto. Opere "Rivoluzione Protestante"
(Torino, Gobetti); “Calvino (Roma, Doxa); “Apocalissi della cultura arabresca”
(Roma, Doxa); “Il Protestantesimo in Italia” (Roma, Doxa); “Il dio straniero” (Milano,
Doxa); “Giacomo della Marca” (Napoli); “Salve regina”; “Fragmenta ethnologica
arberesca medio-calabra, Soveria Mannelli, Rubbettino. “L’arbërisht: l’utopia. According
to Louis Hjelmslev, semiotics is first and foremost a hierarchy. Its
distinguishing feature is that it is guided by a dynamic principle by which it
is split into dichotomies at all levels, yielding expression and content,
system and process, denotative and non-denotative semiotics, and, within the
latter, metasemiotics and connotative semiotics. This text may be
reproduced for non-commercial purposes, provided the complete reference is
given: Sémir Badir (2006), « The Semiotic Hierarchy », in Louis Hébert (dir.),
Signo[online], Rimouski (Quebec), http://www.signosemio.com/hjelmslev/semiotic-hierarchy.asp.
2. THEORY top 2.1. The terms semiotics and semiotic [n.] designate two a
priori dissimilar things. By semiotics, we mean a field of study in which we
can formulate a method for analyzing signifying phenomena, as well as a theory
including all the particulars of this analysis. By semiotic [sg.], we mean the
result of a semiotic analysis. So for example, there is a musical semiotics
that seeks to map out music as a comprehensive signifying phenomenon. And furthermore,
from a synchronic perspective (the music of a given period and culture), if not
from a panchronic perspective (music in general), we can say that music is
itself a semiotic [sg.], being possessed of both a system (distinctions in
pitch, duration, timbre, and so forth) and a process (consistent relations
between sounds in their various aspects). According to Hjelmslev, the
acceptations of semiotics and semiotic must be articulated in relation to one
another. Semiotics as a field of study is (ideally) conformal to the results of
its analyses. As such, it is also endowed with a system and a process. In order
to preserve the distinction between the two terms, we must understand that
semiotics as a whole contains specialized individual semiotics [pl.], some of
which are useful in developing theories and methods (the ones that Hjelmslev
calls metasemiotics), while others are meant to be articulated into semiotic
hierarchies (this is the role of what he calls the connotative
semiotics). Francis Whitfield, the English translator of Hjelmslev's
works, drew up a chart showing the semiotic hierarchy with its constituent
parts (in Hjelmslev; also translated into French in Hjelmslev). The class
of objects The class of objects NOTE: THE LIMITS OF GRAPHICS The
above chart shows only one aspect of the functions identified between semiotic
components: their paradigmatic functions (the relations between classes and
their members). A more complete diagram designed to include the distinguishing
features of semiotics would also show the syntagmatic functions (relations of
implication) that operate between the different components. Tree diagrams do
not really lend themselves to this kind of representation. This is one
difficulty that Hjelmslev himself was unable to completely
resolve. SEMIOTICS AND NON-SEMIOTICS In his first work, Principes de
grammaire générale, written in French, Hjelmslev sets out the principle of
classification that is operative in any language [langage]. "Categories as
such", he writes, "are a fixed quality of language. The principle of
classification is inherent in all idioms, all times and all places"
(trans. of Hjelmslev). Thus linguistics, with its three levels of analysis
(phonology, grammar, and lexicology) is a science of categories. However
he adds that "the science of categories must disregard the categories
established in logic and psychology and venture right into language's territory
to find the categories that are characteristic of it, that are specific to it,
and that are not found anywhere outside language's domain" (trans. of
Hjelmslev). Hjelmslev soon extended this domain to include languages other than
verbal ones, but not to the point of including any system of
classification. The semiotics [pl.] make up this larger domain, and they
are distinguished from other systems of classification by a certain uniformity
(or homogeneity) that forms the basis of their analysis at all levels. We
find this uniformity first between the components of any semiotic. By custom,
these components are called the expression plane and the content plane. The
reason for this is that as a general rule, expression forms are visible in the
object (they are "expressed"), whereas it is in the content forms
that signification resides (the semiotic object "contains" content
forms). However, this is beside the main point, which is that we always analyze
a semiotic object (usually a text) uniformly, with an initial distinction
between two components. In other words, for Hjelmslev, as for Saussure, neither
expression nor content can be given predominance; they must both be analyzed
together (Hjelmslev). ISOMORPHISM AND NONCONFORMITY It is true that
Hjelmslev subsequently states that the semiotic planes must also not be
conformal to one another; otherwise the distinction between them is nullified
(Hjelmslev). It would require too many theoretical details to explain the
principle of nonconformity here. Suffice it to say that this principle is not
directly related to the issue addressed in this chapter, which is hierarchical
organization, and that, furthermore, nonconformity does not in any way
interfere with the isomorphism of the semiotic planes (that is, their
structural parallelism). Although it doesn't simplify matters any, we must
acknowledge that a diagram of semiotics actually postulates a classification
that is itself non-semiotic: It is a symbolicclassification, for it can be seen
as either an expression plane (the terminology Hjelmslev adopts in his theory)
or a content plane (the meaning assigned to each of the terms it presents), and
each of these planes is conformal to the other. PARADIGMATIC FUNCTIONS In
one aspect of semiotic analysis, we use paradigmatic functions to establish
distinctions within the individual semiotics. A paradigmatic function can
always be expressed as two elements in an either... or...relation: "either
this or that". In a semiotic, any element of any magnitude (a sound, word,
sentence, idea, or abstract feature) can be analyzed in terms of these
functions. There are three possible results: two constants are identified;
there is no constant identified, so that the elements involved remain as
variables; one of the elements is considered to be the variable of the
other. The three types of paradigmatic functions either this or that, one
excludes the other constant ↓ constant complementarity either
this or that, it makes no difference variable ↑ variable
autonomy either this, or more specifically that constant –|
variable specification For example, in French, the masculine and
feminine are two constants (of content) with respect to animate beings.
Conversely, with respect to inanimate elements, they are regarded as variables.
In French we refer to cities, which have no designated grammatical gender,
sometimes as feminine and sometimes as masculine. And finally, with respect to
the class 'sex' itself, each one has a variable, since sex has been selected as
the constant of content. Naturally, linguistics aims first to establish
constants, in either a relation of complementarity or of specification. From a
paradigmatic standpoint, the expression plane and the content plane are
complementary in semiotics (e.g., in a verbal language), whereas in a symbolic
system (e.g., in a computer programming language) they are autonomous. Another
aspect of semiotic analysis identifies relations between elements. A
syntagmatic function can be expressed as two elements in a both... and...
relation: "both this and that". Once again, three kinds of
syntagmatic functions may be identified: if one element is present, the other
must also be present, and vice versa;
one element does not have to be present for the other to be present; one
element is required for the other to be present, but not the reverse. The
three kinds of syntagmatic functions both this and that, by necessity
constant ↔ constant solidarity both this and that, by
contingency variable – variable combination this necessarily
accompanied by that variable → constant selection A
verbal sentence is the necessary association of a noun phrase and a verb
phrase; they are the two syntagmatic constants of the sentence. Conversely,
there is no consistent relation between the categories of verb and adverb: the
verb can be present without the adverb, and the adverb can modify something
other than a verb (an adjective, such as pretty, in very pretty). The verb and
the adverb are variables relative to one another. On the other hand, an article
requires a noun, but the reverse is not true; in this relation, the noun is the
constant and the article is the variable. From a syntagmatic perspective,
there is always solidarity between expression and content. If the analysis
identifies an expression plane for a given object, then it must also identify a
content plane, and vice versa; otherwise, the object in question would not be a
semiotic object (something we are not supposed to know before we begin our
analysis). NOTE ON LINGUISTIC LAWS Necessity in syntagmatic
functions is quite relative; it depends on the corpus under study. Caution
would prompt us to speak of consistency rather than necessity, as language is
replete with exceptions, and its rules are subject to rhetorical
non-compliance. We are keeping this term nevertheless, if only to emphasize the
predictive intent of linguistic analysis: whatever consistencies have been
recorded in attested texts must still be valid for future
texts. DENOTATIVE SEMIOTICS AND NON-DENOTATIVE SEMIOTICS Natural languages
are the first object of semiotic analysis. Their systems are identified through
the paradigmatic functions, and their processes through the syntagmatic
functions on both planes, expression and content. When analyzed, texts are
equivalent to processes, since they constitute chains of semiotic elements that
are put into relation with one another. Semiotic analysis can be applied
secondly to other kinds of language, with no theoretical adjuncts, and it is
from this extension that it has earned the name semiotics. But in
addition, semiotic analysis can be applied to a third kind of target: forms of
language that cannot be reduced to two planes (their components are not even in
number). These languages [langages] are termed non-denotative. There are two
kinds: the metasemiotics and the connotative semiotics. A metasemiotic is
rooted in a semiotic equipped with a control plane, so to speak. Through this
plane, each element of content takes on an expression in a denominative
capacity. This is what we are doing when we say that in a certain
advertisement for French pasta (to take a famous example used by Roland
Barthes), the yellow and green colours on a red background (the colours of the
Italian flag) signify "Italianicity" (Barthes, 1985, p. 23).
Italianicity is a metasemiotic expression used to designate the signification
of visual elements (colours). The same function is in operation when we
say that the expression arbor signifies "tree" (Saussure, 1959, p.
67), except that in this case, both expression and content take on metasemiotic
expressions through the use of distinct typographical markers (italics and
quotation marks) and different languages (Latin and English). In this case they
are called autonyms. Metasemiotic control helps us to avoid any equivocation
between expression and content in our analysis. Finally, metasemiotic
expression also has a power of generalization, by allowing categories to be
designated. When we talk about the verb, as we do in linguistics, we are
attributing a name to several syntagmatic functions grouped under this common
denominator. To put it another way, the metasemiotic expression verb can be
used to describe a syntagmatic function that is analyzed in each particular
verb (Badir). It can be helpful to include this control plane in a
specific semiotic, for the human mind seems to be adept at juggling
metasemiotic expressions (writing being the prime evidence of this, and so very
complex). This is how a metasemiotic is formed: one of the planes is the
control plane, and the other is the object semiotic. By doing this, the
metasemiotic once again becomes a binary structure, but with two tiers (in the
table below, E stands for expression, C for content). Metasemiotic
structure metasemiotic control plane (E) object semiotic (C)
expression plane (E) content plane (C) CONNOTATIVE SEMIOTICS
The plane that is affixed to a semiotic does not always perform a control
function, however. In fact, we can always affix a third plane to a semiotic in
order to account for anything that has been missed by the analysis, anything
that is considered to be a special case or exception. Variants are
the evidence of this analytical shortcoming. If we wish to account for them in
some way nonetheless, then we define them as invariants within special or
narrowed parameters that Hjelmslev calls connotators. The third plane, then, is
formed by considerations that were not selected in the first-tier analysis
(called denotative). This plane is ordinarily held to be a content plane,
since it is assumed that semiotic objects cannot be intrinsically modified by
these considerations. (One senses a delicate point here, that is admissible
only at the discretion of the analyst). Connotative structure connotative
semiotic denotative semiotic (E) plane of connotators (C)
expression plane (E) content plane (C) For example,
Hjelmslev maintains that any given language may be analyzed equally well
through its written texts or its oral utterances; in other words, that its
rules of syntax, its morphological formations and vocabulary are common to oral
as well as written productions. Certainly anyone can see that this assessment
is not ill founded. Nevertheless, there are distinctions, which have inevitably
been left as variants in the linguistic analysis. Ensuring compatibility
between the analysis of these variants and the first-tier analysis is a matter
of establishing a plane in which orality and writing can be included as two
paradigmatic invariants of content of a particular type: orality and writing
are set up as connotators. In this way, the first-tier analysis remains valid,
although it can always be customized with respect to the newly established
paradigmatic function (Hjelmslev). From a broader perspective, we can use
connotative semiotics to specify which tier of specialization to use for a
particular semiotic analysis, as semiotic analysis is not apt to be applied
indiscriminately to any element of language (this is only true of its
theoretical components, in particular, the ones presented here). In linguistics
we begin by recognizing the plurality of verbal languages, basing our analyses
on distinct corpora for each language. It is the role of connotative semiotics
to establish each language as a connotator. So when we speak of the
"linguistic analysis of French", French is a connotator, as it
determines in which particular case the analysis is valid. At this time,
the theory of semiotic hierarchy has been developed extensively only in the
application for which Hjelmslev initially intended it: the metasemiotic
hierarchy of verbal languages (as illustrated in Whitfield's tree diagram,
reproduced in section 2.1). Metasemiotic hierarchy with languages
[langues] as the object semiotics expression plane analysis content
plane analysis internal semiologies paradigmatic perspective phonology lexicology syntagmatic
perspective "morphology" grammar external
semiologies paradigm of historical and geographic connotators
historical and dialectal phonology historical lexicology and
dialectology comparative and historical grammar paradigm of social
connotators sociolinguistics, linguistics of written language
paradigm of psychic connotators pedolinguistics, psycholinguistics, study
of language disabilities paradigm of cultural connotators rhetoric, stylistics,
narratology internal metasemiologies phonetics
semantics external metasemiologies physics and physiology of
sound extrinsic interpretations We will start by discussing the
table entries. In the hierarchy there are two columns dividing the analysis
into two components, labelled expression plane and the content plane.
However, this subdivision does not hold throughout (as in the case of
comparative grammar), either because two different semiotic analyses bear the
same name in practice, or because the analysis is non-semiotic, as it turns
out. The hierarchy is divided into rows representing the object semiotics.
First they are divided by their rank in the hierarchy (semiotic or
metasemiotic), next by distinguishing the denotative semiotics (addressed by
the internal semiologies) from the connotative semiotics (described by the
external semiologies). Lastly, the denotative semiotics are divided into
paradigmatic and syntagmatic functions. It should be noted that the
hierarchical structure shown here is reversed in actual practice, where one
always proceeds by progressive expansion, beginning with denotative analysis,
or more specifically, paradigmatic analysis. In this table, languages are
denotative semiotics from the standpoint of the internal semiologies and
metasemiologies; however, they are treated as connotators from the standpoint of
the external semiologies and metasemiologies. The operation of the latter is
dependent on the former. In addition, the metasemiologies regulate
the semiologies by allowing us to verify whether they are adequate to account
for the facts of language [langage]; however, there is no one-on-one
correlation between internal semiology and internal metasemiology, nor between
external semiology and external metasemiology. For example, a semantic analysis
can provide the basis for a lexical derivation or for a narrative schema. And
the physiological analysis of sound can be used as a descriptor for a
phonological invariant (e.g., using the physiological feature palatal to
designate an invariant) or as a means to describe child language (e.g., the
term "labial click", which describes the onomatopoeia produced by
babies 12 months old, also known as the "kissing sound" – this
example is cited in Jakobson). Morphology should be understood in a
specific sense, not entirely removed from the common meaning, but in a narrower
sense. Morphology deals with what Hjelmslev calls the functions between
grammatical forms in his Principes de grammaire Générale. Finally, note that
while linguistics can be considered as one metasemiotic among others, there can
be no objection to adopting the point of view that semiotics provides cultural
connotators for a comprehensive linguistic analysis. These two perspectives are
compatible in glossematics (Hjelmslev's theory of language) and are even seen
to be complementary, to the benefit of semiotics. top BADIR, S., Hjelmslev,
Paris: Belles-Lettres. BARTHES, R., "Rhetoric of the Image", in The
Responsibility of Forms. Critical Essays on Music, Art, and Representation,
trans. Howard, New York: Hill and Wang, HJELMSLEV, L., Principes de grammaire
générale, Copenhagen: Bianco Lunos Bogtrykkeri, HJELMSLEV, L., Prolegomena to a
Theory of Language, trans. F. Whitfield, Madison: University of Wisconsin.
HJELMSLEV, L., Résumé of a Theory of Language, Madison: University of Wisconsin
Press, HJELMSLEV, L., Nouveaux essais, Paris: Presses universitaires de France,
JAKOBSON, Child Language: Aphasia and Phonological Universals, The Hague:
Mouton, SAUSSURE, F. de, Course in General Linguistics, trans. Baskin, New
York: Philosophical Library. Grice: “I like Gangale. Of course, the Italians
adored him because he got Danish citizenship; also because he understood
Hjemlslev as nobody does! Gangale was practical; he was into his ethnic
minority. He formed good philosophical bond with Gobetti, against Croce and
Gentile. It is obvious that those who know the Gangale of the Albanian studies
won’t make a connection with his fight for protetantism and his adventures with
Italian philosophy, with Doxa and Conscientia – but he got his doctorate and he
was able to immerse in Hjelmslev’s glottology like nobody else did!” Giuseppe
Gangale. Giuseppe Tommaso Saverio Domenico Gangale. Gangale. Keywords: il
dia-letto e la dia-lettica, idiolect, dialect, ethno-lect, idio-letto,
dia-letto, ethno-letto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gangale: dall’idioletto
al dia-letto” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Garbo: l’implicatura conversazionale e la
fisiologia dell’amore -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I like Garbo;
for one I like Firenze, for another I like a Renaissance man – I’m one!” Grice:
“Garbo is extremely interesting at a time when physis did mean ‘nature’ – the
physicist and the physician were the natural philosophers! At Oxford Transnatural
philosophy was created against Natural Philosophy,” – Grice: “Garbo made the
greatest comment on “Love unrequited” by G&S – by focusing on a ditty by
Cavalcanti – Boccaccio loved the pretentious prose by Garbo on ‘eros,’ ‘amore,’
and ‘cupidus.’ –“ Studia sotto Alderotti a Bologna. Figlio di Bono, medico e
chirurgo. Sotto il consiglio del padre, fu allievo a Bologna di Alderotti, suo
cognato, poi uno dei più importanti rappresentanti di un riorientamento della
filosofia, all che Garbo diede un contributo importante. Studia sotto Alderotti
per un breve period. Torna presso la casa paterna a Firenze a seguito della
guerra tra Bologna e Ferrara e fu iscritto, a fianco del padre, nella gilda di
Firenze di medici e farmacisti. Le condizioni politiche migliorate gli
consentirono di riprendere i suoi studi e si laurea, successivamente si sposta
a Bologna, dove insegna. Quando Orsini scomunicò Bologna e, quindi, escluse i
cittadini bolognesi dal frequentare lo studio generale, fu, ancora una volta,
costretto a lasciare Bologna. Si transferice a Siena, con l'insolitamente alto
stipendio di 90 fiorini d'oro come "dotore del chomune di Siena". Saltuariamente
si recasse a Bologna nonostante la scomunica. E fu a Bologna che completa il
suo commento su una parte del libro del Canon di Avicenna, tanto da guadagnare
il soprannome di "espositore.” Torna a Bologna, inizia la sua “Dilucidatorium
totius pratice scientie” un commento sul Libro I del Canon. Insegna a Padova, a
causa del "propter malum statum civitatis Paduae" (come afferma nel
suo commento ad Avicenna), riprese a peregrinare tra un'università e l'altra
(anche se è un percorso poco chiaro, a causa delle scarse informazioni fornite
dai biografi e dell'assenza dei documenti). Torna a Firenze e completa
Dilucidarium. Sulla scia dell'esodo della Facoltà di Filosofia da Bologna a
Siena, venne nuovamente nominato dal Comune di Siena, questa volta con uno
stipendio annuo esorbitante di 350 fiorini d'oro, più 100 fiorini, perché teneva
letture a casa sua, la sera. Lavora al suo commento al trattamento con piante
medicinali nel libro II di Avicenna, Canon, cioè "l'Expositio super
canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis
Avicennae", che complete dopo il ritorno a Firenze. Commenta sul “Donna mi
prega” di Cavalcanti. Questo commento è conservato in un manoscritto di
Boccaccio ed è stata tradotta in una versione in lingua “volgare”. A causa dell'invidia dei suoi colleghi di
Bologna, fu accusato di essersi appropriato del commento a Galeno di
Torrigiani. Le lezioni riscuotevano
molto successo, allora i suoi colleghi, invidiosi, dettero il compito a un
allievo che viveva con il medico di spiarlo; quest'ultimo scoprì che prepara le
sue lezioni basandosi sul comment a Galeno di Torrigiani, che conserva
segretamente. Il plagio e reso pubblico, addiruttura Ascoli ne fece scherno con
i suoi allievi, e G. e costretto a allontanarsi da Bologna. Sia Tiraboschi che Colle
notarono delle incongruenze cronologiche della vicenda. Torrigiani e co-etaneo
e collega del medico alla scuola di Aldreotti, e successivamente si fece
certosino in tarda età e solo da quel momento, o dopo la sua morte, avrebbe
potuto prendere i suoi scritti. L'episodio,
probabilmente, indica l'atmosfera ostile – tossica -- in cui era immerso G. a
Bologna, per questo è plausibile che decidesse di accettare l'offerta di Padova,
che dopo la crisi causata dalla guerra contro Enrico VII, cerca insegnanti di
fama. Tornato a Firenze, incontra Mussato in preda a un malanno, che
probabilmente aveva conosciuto in precedenza a Padova e che era a Firenze in
veste di ambasciatore di Padova. A Firenze, la sua stima di filosofo si riprese
dai colpi bassi inflitti dai bolognesi; mostra un ritratto cordiale, sapiente
ma non scontroso, con un atteggiamento affidabile e umano, che cercava di
capire i segreti della natura e molto disponibile, questa era la maniera in cui
appariva ai fiorentini. Descritto come una persona arguta in episodi riportati
da Petrarca, che non conosceva direttamente, ma che aveva avuto contatti con G..
Pesso un cimitero, rispose a dei vecchi che lo volevano schernire con queste
parole. La disputa è ingiusta, qui: infatti voi siete più coraggiosi perché
siete a casa vostra. (Rerum memorandum libri, risposta simile a quella di Cavalcanti
nel Decameròn. Un altro episodio, invece, fu la volta in cui un uomo prende in
giro il suo piccolo cavallo dicendogli: "e gli insegni a camminare, ma
dove hai imparato quest'arte?", e G. rispose: "A casa
tua". Quanto torna scrisse le "Recollectiones in Hippocratem de
natura foetus" (Venezia), con la "Expositio super capitula de generatione
embryonis" di Tommaso Del G., suo figlio, e la "Expositio in
Avicennae capitulum de generatione embrionis" di Torre. Il trattato di G.
mostra quanto fosse dipendente dall'astrologia araba. Distingue l'anatomia
dalla fisiologia. Indaga la causa delle malattie ereditarie, dicendo che
dipendono da un vizio organico del cuore, dal quale ha origine lo spirito che
il seme del padre trasmette al nascituro. Tratta anche di argomenti molto
discussi dai filosofi del secolo, come la trasmissione dell'intelligenza tra
generazioni, dell'origine del calore animale e della nascita di piante e
animali per “fermentazione.” Dice nell'Expositio che torna a Firenze non per la
crisi di Siena, ma per altri motivi di cui non si hanno documentazioni. Per
Tiraboschi e Colle, G. non sarebbe mai uscito dall'Italia, mentre De Sade dice
che ad Avignone avrebbe incontrato Ascoli.
Quest'ultimo è il motivo della grave colpa di cui Garbo, insieme al figlio, fu
macchiato dopo il plagio già nominato. Ascoli venne allontanato da Bologna e
sospeso dall'insegnamento poiché accusato di eresia, successivamente giunse a
Firenze con la fama di mago e negromante, al servizio del duca Carlo di
Calabria. Ascoli scrisse "Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de
Sacrobosco", che si ritiene fosse trattato che egli porta sul rogo,
trattato che fu aspramente criticato da Garbo che gravemente accesi di rabbia e
d'odio contro di lui, perché invidiosi che d'Ascoli fosse preferito come medico
dal duca Carlo. I. Garbo accusa Ascoli di fronte al vescovo d'Aversa e
successivamente lo denuncia all'inquisizione. Questo spinse il duca di Calabria
ad allontanare Ascoli dalla sua corte e dopo fu arrestato dall'inquisitore
Bonfantini. L’accusa era di essere "alieno dal vero dogma della
fede". Ascoli fu bruciato sul rogo. E evidente la responsabilità di Garbo
in questa condanna, per invidia e non per motivi religiosi. G. muore poco dopo
l'esecuzione d’Ascoli. Questo, dice Grice, e causato da un incantesimo di
vendetta lanciato da Ascoli. Altre opere: La figura di G. campeggia se
non come il più grande filosofo di Firenze, sicuramente come quello più
nominato, sia nel bene che nel male, a prescindere dal valore che possono avere
le sue opere a livello della storia della filosofia, infatti rappresenta,
nell'opinione comune, il tipo ideale di filosofo, sia con i suoi pregi, che con
i suoi difetti. Tra le opere che sicuramente possiamo attribuirgli ci
sono ricettari, commenti e trattati. Tra
i vari, ci sono i "Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima
commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis
scientiae noncupatur" (Venezia), dedicati agli studenti bolognesi che
l'avevano seguito a Siena; "Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus
et mensuris nec non de emplastris et unguentis" (Ferrara) insieme ad un
trattato sulla lebbra di Gentile da Foligno e uno sulle giunture ossee di
Gentile da Firenze, ampio commento ad Avicenna, Abū l-Qāsim az-Zahrāwī e
ar-Rāzī. In questo e in altri testi, rileva molte inesattezze di Avicenna e
parla con tono di ammirazione dei antichi greco-romani. Altre opere invece non sono state stampate:
"De militia complexionis diversae"; una "quaestio" sulla
flebotomia secondo Ugo da Siena (Bergamo, Biblioteca civica) "Recolectiones super cirurgia
Avicennae" (Modena, Bibl. Estense); Tractatus podagre (San Candido, Bibl.
della Collegiata). E non va dimenticato il commento alla canzone "Donna mi
prega" di Cavalcanti: "Scriptum super cantilena Guidonis de
Cavalcantibus" ("De natura et motu amoris venereis cantio cum
enarratione Dini de Garbo", Venezia, introvabile). Il commento riguardo a
“Donna mi prega” considera l'amore (eros) da un punto di vista strittamente patologico,
come passione, e anche se a volte tende a sovrapporsi a “Donna mi prega”,
esponendo le idee sull'amore di se stesso (“amore proprio”) che quelle di
Cavalcanti, resta un importante document. Suddivide il testo in tre parti.
Nella prima parte, Garbo dimostra quante e che sono le cose, che dello amore si
dicono. Nella seconda parte, Garbo filosofa di quelle, che esser ne determina.
Nella terza parte, la chiusa, Garbo dimostra la sufficienza di quelle cose,
ch'egli ha dette. Nella seconda parte, la più importante, si segue la
dimostrazione sulle *otto* caratteristiche dell'amore: I) dove si produce
(nell’appetito sensitivo); II) chi lo genera? la disposizione naturale del
corpo dell’amante – per non fare menzione digli influssi di Marte su Venere)
quale virtù ha l’amore, dato che è passione d'appetito? Nulla. IV) Quale e
l’effetto dell’amore? La morte che impedisce
le operazioni della virtù vegetativa) quale e l’essenza dell’amore? E una
passione naturale). Che alterazione provoca? Infermità, malinconia, morte. VII)
Che spinge a filosofare sull’amore, dato che non si può celare la passione? Lo
spirito platonico) Se l'amore (o strittamente, l’amare) si dimostri via il
sentire? Si. È evidente che parli come filosofo aristotelico. Per G., l'amore è
una malattia, una passione dell'appetito sensitivo, che può causare a sua volta
molte altre malattie, e per questo va curata, con la dimenticanza e
l'allontanamento, l'"accidente fero" di Cavalcanti è il maligno
influsso di Marte, in congiunzione col Toro e la Bilancia, quando si trova
nella casa di Venere. Altre opere: “Dynus super quarta Fen primi cum
tabula” (Venezia: Lucas Antonius Giunta Florentinus); “Expositio super tertia,
quarta, et parte quintae fen IV. libri Avicennae” (Venezia: Johann Hamann für Andreas
Torresanus); “Dilucidatorium totius pratice medicinalis scientie Expositio
super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis
Avicennae (Venezia); “Recollectiones in Hippocratem de natura foetus; “Dilucidatorium
Avicennae (Ferrara) Expositio super parte quintae Fen quarti Canonis Avicennae (Ferrara,
André Beaufort); “Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae
Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur
(Venezia); Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de
emplastris et unguentis (Ferrariae); “De militia complexionis diversae; di cui
un saggio è pubblicato da Puccinotti; Recolectiones super cirurgia Avicennae (Modena,
Bibl. Estense); De generatione embrionis; Dizionario biografico degli italiani.
Boccaccio, Cavalcanti’s Canzone “Donna me prega” and Dino’s Glosses The
enigmatic, indeed disturbing figure of Cavalcanti exercised the imagination of his
contemporaries, especially of his fellow poets. Without naming him once, Dante
talks about Guido in his youthful work, the Vita nuova, telling us that
Cavalcanti was the “primo de li miei amici” (VN III), and that he was one of
those who replied poetically to Dante’s first sonnet. Dante also refers to
Guido’s senhal, Gio- vanna/Primavera (VN XXIV). The whole of Dante’s treatise,
as a specifi- cally vernacular composition, is dedicated to this first friend
(VN XXX). Amongst Dante’s Rime, also, there is a companionship sonnet addressed
to Cavalcanti, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io,” to which the older poet
responded in verse. The most memorable mention by Dante occurs in canto X of
Inferno, where Guido is the “grand absent,” asked after by his damned father,
Ca- valcante de’ Cavalcanti. The accent in the exchange is on Guido’s implied
“altezza d’ingegno,” shared with Dante (X.59), and his disdain for some- thing
— unspecified — which Dante by now was pursuing (poetry? theol- ogy?). The poet
later resurfaces as an allusion in Purgatorio XI.97–99, where, in an object
lesson in humility, literary primacy is passed through the Guidos, presumably
from Guinizelli through Cavalcanti, and on to (perhaps) Dante himself. Guido
Orlandi, who wrote the enquiry sonnet, “Onde si move e donde nasce Amore?”
which occasioned Cavalcanti’s famous reply, the doctrinal canzone “Donna me
prega,” paints a picture of the poet in “Amico, i’ saccio ben che sa’ limare,”
stressing Guido’s verbal prowess, but also his consid- erable intellectual
ambition, verging on vanity. Cino da Pistoia, however, in “Qua’ son le cose
vostre ch’io vi tolgo?” reacts angrily to an accusation of plagiarism coming
from Guido, and hints that his own humility is more appropriate than
Cavalcanti’s self-importance. Amongst the other, almost contemporary poets who
mention Cavalcanti is Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), in whose astrological
apology the Acerba, he seemingly takes Guido to task, in detail, for an erroneous
analysis of love’s http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 1
Heliotropia http://www.heliotropia.org
workings (particularly the function of the irascible appetite, Mars) con-
tained in “Donna me prega.” Chroniclers, too, were fascinated by him, but as
much for his propen- sity to engage in partisan violence as for his
intellectual eminence. His contemporary Dino Compagni refers repeatedly to the
powerful Cavalcanti clan’s readiness for street-fighting, and refers
specifically to Guido’s ex- ploits, including his failed attempt on the life of
Corso Donati, who had re- portedly organised an assassination plot against the
poet on the pilgrimage route to Compostela. Dino characterises Guido as
“cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio.” Giovanni
Villani, writing con- siderably later, draws attention to the prickly nature of
Guido’s intelli- gence: “era, come filosofo, virtudioso uomo in più cose, se
non ch’era troppo tenero e stizzoso,” a description of the philosopher-poet which
al- most exactly parallels Giovanni’s description of Dante himself. Amongst the
later novella writers, Sacchetti would include Cavalcanti as the butt
(literally) of a practical joke by a small child (Trecentonovelle LXVIII), a
jape which in turn is reminiscent of a Boccaccio novella (Decameron VIII.5).
Cavalcanti figures in the early commentary tradition of the Comedy, in
particular as a response to the pilgrim’s discussion with Cavalcante de’ Ca-
valcanti in Inferno X, and the reference to the two Guidos in Purgatorio XI. He
also figures to some extent in elucidations of the two lonely, anon- ymous
Florentine “giusti” in Inferno VI.73. Commenting upon Inferno X, Guido da Pisa
(1327–28) says of Cavalcanti “Fuit enim iste Guido scientia magnus et moribus insignitus,
sed tamen in suo sensu aliqualiter inflatus. Habebat enim scientias poeticas in
derisum” [This Guido was great in knowledge and celebrated in character, but
nevertheless somewhat puffed up as to his opinion of himself. For he despised
the poetic discipline]. Guido da Pisa’s interpretation of Cavalcanti’s
“disdegno” (Inferno X.63) as essentially poetical will be influential amongst
subsequent commentators. The Ottimo commentary points to Guido’s common
intellectual in- terests with Dante (“similitudine d’abito scientifico”).
Later, when discus- sing the two Guidos passage in Purgatorio XI, the
commentator opines: “E Guido Cavalcanti si può dire, che fossi il primo, che
[le] sue canzoni fortifi- casse con filosofi[ch]e pruove, come si mostra in quella
sua canzona, che comincia: ‘Donna mi prega, perch’io deggia dire.’” The
Selmiano (1337), commenting upon Inferno X, again points to Cavalcanti’s
intellectual im- pact: “Guido fu tenuto del maggiore ingegno e più alto che
allora fosse uomo di Firenze.” The greatest contribution to the myth of Guido
Cavalcanti comes from Boccaccio, who views the poet essentially through the
distorting prism of http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 2
Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Dante and the early Dante
commentators. In the “Introduzione alla quarta giornata” of the Decameron,
Boccaccio justifies his own persistence with amorousness, even in his more
mature years, by claiming that such a trait was shared with Guido Cavalcanti,
Dante and Cino da Pistoia in their old age. He even suggests that he could
supply the biographical justifications to prove it (“istorie in mezzo”). The
most consistent account of Cavalcanti, however, occurs in Decameron VI.9 where
Boccaccio applies to Guido a widespread anecdote, with a “lethal” punch-line,
which Petrarch, amongst others, had used some ten years previously in the Rerum
Memorandarum (II, 60) about Dino del Garbo, the famous Florentine physician.
The tale, now firmly attached to Cavalcanti, thanks to Boccaccio, will
subsequently pass into the Dante commentary tradition when Benvenuto da Imola
glos- ses the two Guidos passage in Purgatorio XI. The Decameron tale has been
frequently discussed and minutely ana- lysed: what concerns us here is
Boccaccio’s preliminary portrait of the poet: oltre a quello che egli fu un de’
migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale, si fu egli
leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto e ogni cosa che far volle e a
gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare; e con questo era
ricchissimo, e a chiedere a lingua sa- peva onorare cui nell’animo gli capeva
che il valesse. [...] Guido alcuna volta speculando molto abstratto dagli
uomini divenia; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri,
si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in
cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. (Decameron) Creatively
interpreting Dante, in order to give the punch-line extra signifi- cance,
Boccaccio deliberately confuses (or rather suggests that the vulgar throng
confuses) Guido with his father, Cavalcante de’ Cavalcanti, for it is
effectively the latter who is amongst the “Epicureans” who “l’anima col corpo
morta fanno” (Inferno X.15). A very similar portrait of the poet is given in
the Esposizioni, where Guido is described as: uomo costumatissimo e ricco e
d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun altro nostro
cittadino: e oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon
filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore [scil. Dante], sì come esso
medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon dicitore in rima; ma, per ciò
che la filosofia gli pareva, sì come ella è, da molto più che la poesia, ebbe a
sdegno Virgilio e gli altri poeti. (Esposizioni X.62) The phrase “ebbe a
sdegno” clearly shows Boccaccio’s debt to Inferno X.63: “Forse cui Guido vostro
ebbe a disdegno,” and to the view amongst early commentators, initiated by
Guido da Pisa as we have seen, that the http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf
3 Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org disdain was for
poetry, not theology. It is this Boccaccian portrait, with a distinctly Dante
colouring, which will inform Filippo Villani’s much later biography of
Cavalcanti in the Liber de origine civitatis Florentie [Book of the Origin of
the City of Florence]. As we have seen, the anecdote in Decameron VI.9 had been
previously used by Petrarch, who places Dino del Garbo as its protagonist. Dino
was, in addition to being a notable physician (a pupil of Taddeo Alderotti at
Bologna), a lecturer on materia medica at various universities. He had a number
of commentaries to his credit, including a reading of the third and fourth fen
of the fourth book of Avicenna’s Canon, dealing with surgery (a relatively new
area for medicine, traditionally hostile to the knife). He also wrote a general
handbook, based on book one of Avicenna, the Dilucidato- rium totius pratice
medicinalis scientie [Clarification of the Whole Prac- tice of Medical Knowledge].
According to Giovanni Villani, Dino was very touchy about his academic
standing, and took a mortal dislike to Cecco d’Ascoli, at the time a lecturer
on the astronomy of Sacrobosco and Alca- bitius at Bologna, who publicly
accused him of having plagiarised a dead colleague, Torrigiano de’ Torrigiani’s
commentary on Galen. Indeed, Vil- lani suggests that Dino was instrumental in
the passing of the death sen- tence on the astrologer: “molti dissono che ’l
fece per invidia” (Cronica X.41). Popular opinion had it that Dino’s own
puzzling death, very shortly after the astrologer’s execution, was the result
of a posthumous necro- mantic revenge on Cecco’s part. Cecco wasn’t the only
one to have an interest in Guido Cavalcanti’s canzone “Donna me prega.” Dino del
Garbo wrote a detailed Latin com- mentary on the poem, heavily indebted to
Avicenna, Haly Abbas and Ar- istotle, which was partially imitated and adapted
in a vernacular version unconvincingly attributed to Egidio Romano. Medical and
philosophical interest in Cavalcanti’s canzone would continue into the
Renaissance, with Ficino, amongst others, clearly in debt to it. Dino’s
commentary (no later than 1327) was certainly known to Boccaccio. Indeed, it
has been con- vincingly argued by Antonio Enzo Quaglio (“Prima fortuna della
glossa garbiana a ‘Donna me prega’ del Cavalcanti,” in GSLI 141 (1964): 336–68)
that the unique surviving manuscript of the commentum (an insert in Vatican
Chigiano L. V. 176, ff. 29r–32v) is a Boccaccian autograph. This particular transcription,
one of the later documents reinserted into the manuscript, dates from
approximately 1366, judging by the evolution of Boccaccio’s handwriting studied
by Pier Giorgio Ricci (Studi sulla vita e le opere del Boccaccio, Milan-Naples:
Ricciardi, 1985, p. 295 [and plate XIII]). The entire MS is reproduced
phototypically in colour by Domenico http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf
4 Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org de Robertis (Il
codice Chigiano L. V. 176 autografo di Giovanni Boccaccio, Rome-Florence:
Alinari, 1974). However, already in the Teseida (1339–41), Boccaccio shows some
fa- miliarity with the commentary. Perhaps he had obtained the glosses from
Dino’s close acquaintance, the poet and jurist Cino da Pistoia, who had known and
corresponded poetically with Cavalcanti, and who had been teaching Roman law in
Naples whilst Boccaccio was a student canonist there. The commentary, entitled
Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus [Writing on the Canzone of
Guido Cavalcanti] has been ed- ited and published as an appendix by Guido
Favati (Guido Cavalcanti, Rime, Milan-Naples: Ricciardi, 1957, pp. 359–78). An
earlier, sectionalised English summary translation and secondary commentary can
be found in Otto Bird, “The Canzone d’Amore of Cavalcanti According to the Com-
mentary of Dino del Garbo” (Mediaeval Studies 2 (1940): 150–203 and 3 (1941):
117–60). In Italian, there is a fine translation and commentary of the glosses
by Enrico Fenzi (La canzone d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi antichi
commenti, Genoa: Il Melangolo, 1999, pp. 187–219). In the Teseida, Boccaccio
furnishes substantial ecphrases of the abodes of Mars and Venus, the tutelary
deities of the two rivals for the hand of Emilia, Arcita and Palemone. The
description of the temple of Venus in book VII, octaves 50 ff., prompts an
immensely long authorial gloss, part of which is on the nature of love itself.
In keeping with Boccaccio’s implied fiction that the glosses are by somebody
else, he refers to himself in the third person as the “author” and reserves the
first person for the fictive commentator. The gloss labours on through the
various symbolic, almost personified qualities (à la Roman de la Rose)
propitious to erotic passion till it reaches the figure of Cupid, or desire:
Alcune ne pone quasi confermative dello appetito eccitato per le sopra- dette:
tra le quali pone Cupido, il quale noi volgarmente chiamiamo Amore. Il quale
amore volere mostrare come per le sopradette cose si ge- neri in noi,
quantunque alla presente opera forse si converrebbe di di- chiarare, non è il
mio intendimento di farlo, perciò che troppa sarebbe lunga la storia: chi
disidera di vederlo, legga la canzone di Guido Caval- canti Donna me priega,
etc., e le chiose che sopra vi fece Maestro Dino del Garbo. (Teseida, gloss to
VII.50) What is important here is that, for Boccaccio, the poet’s canzone and
the physician’s glosses were already intimately linked, presumably in a single
document (as would be the case in the much later Chigian MS transcribed by
Boccaccio himself). The Teseida self-commentary then continues, after this
parenthesis, with further enumeration of the “author’s” selection of symbolic
qualities, beginning with an elucidation of Cupid’s darts. But the
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 5 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org first sentence of this continuation shows that
Boccaccio was still thinking in terms of technical definitions of love borrowed
from other sources: Dice sommariamente che questo amore è una passione nata
nell’anima per alcuna cosa piaciuta, la quale ferventissimamente fa disiderare
di piacere alla detta cosa piaciuta e di poterla avere. The phrasing about
fervent desire, in this definition, is reminiscent of a remark in Dino’s commentary:
est passio quedam in qua appetitus est cum vehementi desiderio circa rem quam
amat, ut scilicet coniungatur rei amate. (Favati, 371) [it is a certain passion
in which there is appetite along with fervent desire concerning the thing which
it loves, so that it may join with the thing be- loved] But the presence in
Boccaccio’s gloss of the adjective “nata” (even though it could be construed
here as meaning merely “arising”) almost certainly betrays an older source,
namely the opening definition in Andreas Capel- lanus’ De arte honeste amandi
(late 12th cent.): Amor est passio quedam innata procedens ex visione et
immoderata co- gitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia
cupit alte- rius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius
amplexu amoris praecepta compleri. (De amore I.1) [Love is a certain inborn
passion arising from the beholding of and un- controlled thinking about the
beauty of the other sex, on account of which the person desires above all else
to enjoy the embraces of the other person and, by common desire, fulfil all the
commandments of love in this embrace] Andreas uses the term “innata” to
describe erotic passion twice more, in quick succession, clearly wanting his
readers to understand that its endo- genesis is an important part of his theory
of love. “Innata” in the De amore is clearly adjectival in function, as shown
by the following participle “pro- cedens”: but “nata” in the Teseida may be
more in the nature of a past participle. The lexical fragment survives,
however, despite its possible change of status, as a tell-tale sign of
Boccaccio’s prior reading. For Boc- caccio, conflating the two sources was
tempting, because Dino is clearly indebted, for substantial elements of his
treatise, to the chaplain’s opening remarks on love, as the characteristic
initial combination “passio quedam” already demonstrates. Boccaccio was not
reading Cavalcanti and Dino del Garbo as an inno- cent, then, but rather as
somebody who had already come across authori- tative, if somewhat obsolescent
definitions. The problem for the compiler of the Teseida glosses is that the
two definitions do not match. Andreas
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 6 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org believed that love was intrinsic (“innata”), the
line which Guinizzelli would famously take in his canzone “Al cor gentil,”
whereas Dino, following Ca- valcanti, declares that this passion was definitely
exterior in origin “cau- sans ipsum principaliter est res extrinseca” (Favati,
p. 360). Boccaccio at the time of his writing of the Amazon epic seems totally
unaware of the in- consistency between these auctoritates. One might doubt that
Boccaccio had anything more than circumstantial knowledge of the existence of
Dino’s commentary. In other words possibly he hadn’t read it. But certain of
the key words (“appetito” and “generare,” markedly Aristotelian terms, though
present in the De amore, are simply not used as technicisms in An- dreas) imply
that he has a good idea of the philosophical slant of Dino’s vocabulary. Unlike
Cino da Pistoia, who is quoted unambiguously in the Filostrato (V.62–65) and
Rime (XVI.8 and 13), textual traces of Cavalcanti in Boc- caccio’s fictional
and creative works are rare and tantalising. The meagre harvest of possible
(and hardly provable) intertextuality has been traced by Letterio Cassata,
passim in hisedition of Cavalcanti (Guido Cavalcanti, Rime, Anzio: De Rubeis,
1993, esp. index, p. 353). Vittore Branca furnishes more detailed examples
(Rime I, IX, XI, XIII, XXIV; Teseida X.55–57 etc.) in Boccaccio medioevale e
nuovi studi sul Decameron (Florence: Sansoni, 1992, pp. 254–57). One could add
to this list, tentatively, perhaps. There is possibly a hint that Boccaccio had
a “cultural memory” of the opening of “Donna me prega” when writing the
Filocolo, for Florio’s love is there de- scribed by an experienced Ascalion as
“sì nobile accidente” (III.5.2). It could be, however, that this particular use
of “accidente” (generically a very common term in the early Boccaccio) derives
from a reading of Dante’s Vita nuova, where the distinction between substance
and accident in love theory, probably as an echo of Cavalcanti, is also made
(VN XXV.1). Another possible reprise of Cavalcanti occurs in the Teseida
sequence which generates the gloss which mentions “Donna me prega” and Dino del
Garbo’s glosses. In octave 53 of the seventh book, Boccaccio describes the
musical and visual environment of Venus’ garden, indicating Palemon’s soul in
prayer as it visits the bower: ripieno il vide quasi in ogni canto di spiritei,
che qua e là volando gieno a lor posta... (VII.53.6–8) Though “spiritus” was a
technical term in medicine, referring to the transmission of vital and animal
forces through the body, the diminutive “spiritelli” is a characteristic
Cavalcantian usage, denoting the hypostatic emanations of fragmented
consciousness characteristic of the “anima
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 7 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org sbigottita.” Guido even parodied this verbal tic in
a sonnet, “Pegli occhi fere un spirito sottile.” More persuasive again, in
terms of intertextuality with Cavalcanti, is one of Boccaccio’s early Rime
(XXI): Biasiman molti spiacevoli Amore e dicon lui accidente noioso, pien di spavento,
cupido e ritroso, [...] Though Vittore Branca does not expressly say so in his
commented edition of the Rime in volume V of Tutte le opere (Milan: Mondadori),
this sonnet seems to parodically contrast a pessimistically Cavalcantian view
of love in the first quatrain with a more Guinizellian, positive stance in the
remain- der. All in all, though, compared with the massive early presence of
Dante, and later of Petrarch, the verse of Cavalcanti seems to have had little
prac- tical impact on Boccaccio. He seems to have been much more interested (as
the layout of the glosses and the title of the autograph Chigiano LV 176
transcription shows) in “Donna me prega” as a vehicle for Dino del Garbo’s
commentary, rather than as a composition in its own right. The Dino del Garbo
commentary became more useful to Boccaccio when he came to write the Genealogie
(ca. 1360 in its first version) and the Esposizioni (1373). By this time, his
appreciation of the question of sub- stance and accident, and of intrinsic and
extrinsic causality, had markedly improved, though his interest is still
anything but scientific. The Genealo- gie passage occurs in the biography of
Cupid, begotten from the illicit cou- pling of Mars and Venus, in IX.4. Cupid
had been the figure, as we have seen, who had given rise to the mention of Dino
del Garbo’s glosses on “Donna me prega” in the Teseida. This time, though used
much more ex- tensively, the Garbian source is not explicitly acknowledged. Est
igitur hic, quem Cupidinem dicimus, mentis quedam passio ab exte- rioribus
illata, et per sensus corporeos introducta et intrinsecarum vir- tutum
approbata, prestantibus ad hoc supercelestibus corporibus aptitu- dinem. Volunt
namque astrologi, ut meus asserebat venerabilis Andalo, quod, quando contingat
Martem in nativitate alicuius in domo Veneris, in Tauro scilicet vel in Libra
reperiri, et significationem nativitatis esse, pretendere hunc, qui tunc
nascitur, futurum luxuriosum, fornicatorem, et venereorum omnium abusivum, et
scelestum circa talia hominem. Et ob id a phylosopho quodam, cui nomen fuit
Aly, in Commento quadri- partito, dictum est quod, quandoque in nativitate
alicuius Venus una cum Marte participat, habet nascenti concedere dispositionem
phylocap- tionibus, fornicationibus atque luxuriis aptam. Que quidem aptitudo
agit ut, quam cito talis videt mulierem aliquam, que a sensibus exterioribus
commendatur, confestim ad virtutes sensitivas interiores defertur, quod
placuit; et id primo devenit ad fantasiam, ab hac autem ad cogitativam http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf
8 Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org transmictitur, et
inde ad memorativam; ab istis autem sensitivis ad eam virtutis speciem
transportatur, que inter virtutes apprehensivas nobilior est, id est ad
intellectum possibilem. Hic autem receptaculum est specie- rum, ut in libro De
anima testatur Aristoteles. Ibi autem cognita et intel- lecta, si per
voluntatem patientis fit (in qua libertas eiciendi et retinendi est) ut tanquam
approbata retineatur, tunc firmata in memoria hec rei approbate passio (que iam
amor seu cupido dicitur) in appetitu sensitivo ponit sedem, et ibidem, variis
agentibus causis, aliquando adeo grandis et potens efficitur, ut Iovem Olympum
relinquere, et tauri formam su- mere cogat. Aliquando autem minus probata seu
firmata labitur et adni- chilatur; et sic ex Marte et Venere non generatur
passio, sed, secundum quod supra dictum est, homines apti ad passionem
suscipiendam secun- dum corpoream dispositionem producuntur; quibus non
existentibus, passio non generaretur, et sic large sumendo a Marte et Venere
tanquam a remotiori paululum causa Cupido generatur. (Genealogie IX.4.6–9)
Rather than provide a translation into English here, we can go straight to
Esposizioni V litt., 162–67, which is an outstanding example of Boccaccio’s
self-volgarizzamento. The passage occurs in Boccaccio’s literal commen- tary on
the episode of Paolo and Francesca, and is occasioned by Dante’s famous line
“Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende” (Inferno V.100). Whereas in the
Teseida Boccaccio indulges in a long account of Cupid’s iconography and
dismisses (“per ciò che troppa sarebbe lunga la storia”) the aetiology of love
with a curt reference to Cavalcanti and Dino del Garbo, here in the Dante
commentary he inverts the process, omitting the lengthy account of details
Cupid’s portrait (“alle quali voler recitare sarebbe troppo lunga storia”) so
as to concentrate on the explanation of love’s workings. The passage is
prefaced with an apparently perfunctory explanation of Aristotle’s tripartite
distinction of the kinds of love (Ni- comachean Ethics VIII.3), of which more
later. Only the very last periods suffer any change from the content of the
earlier Genealogie text. The cor- responding passage in the Esposizioni, the volgarizzamento
of the Gene- alogie text, reads: Ma, vegnendo a quello che alla nostra materia
apartiene, dico che questo Cupidine, o Amore che noi vogliam dire, è una
passion di mente delle cose esteriori e, per li sensi corporei portata in essa,
è poi aprovata dalle virtù intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine
a doverla rice- vere. Per ciò che, secondo che gli astrologi vogliono, e così
affermava il mio venerabile precettore Andalò, quando avviene che, nella
natività d’alcuno, Marte si truovi esser nella casa di Venere in Tauro o in
Libra, e truovisi esser significatore della natività di quel cotale che allora
nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere essere in ogni
cosa venereo. E di questo dice Alì nel comento del Quadripartito che, qualunque
ora nella natività d’alcuno Venere insieme con Marte parti- cipa, avere questa
cotale participazione a concedere a colui che nasce una
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 9 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org disposizione atta agl’inamoramenti e alle
fornicazioni. La quale attitu- dine ha ad aoperare che, così tosto come questo
cotal vede alcuna femina, la quale da’ sensi esteriori sia commendata,
incontanente quello, che di questa femina piace, è portato alle virtù sensitive
interiori e questo pri- mieramente diviene alla fantasia e da questa è mandato
alla virtù cogita- tiva e da quella alla memorativa; e poi da queste virtù
sensitive è tra- sportato a quella spezie di virtù, la quale è più nobile intra
le virtù apren- sive, cioè allo ’ntelletto possibile, per ciò che questo è il
recettaculo delle spezie, sì come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi,
cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di
sopra è detto, portato v’è se egli avviene che per volontà di colui nel quale è
que- sta passione, con ciò sia cosa che in essa volontà sia libertà di ritenere
dentro questa cotal cosa piaciuta e di mandarla fuori, questa cotal cosa
piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria la passione di
questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore, o vero Cupido. E pone
questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell’appetito sen- sitivo e
quivi in varie cose adoperanti divien sì grande e fassi sì potente che egli
fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse
volte il costrigne; e alcuna volta, essendo meno aprovata questa cotal cosa
piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E così non è da Marte e da
Venere generata questa passione, come alcuni stimano, ma, secondo che di sopra
è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a rice- vere questa passione secondo
le disposizioni del corpo: la quale attitu- dine se non fosse, questa passione
non si genererebbe. The translation diverges only at the end. Out goes the
Ovidian reference to a love-struck Jupiter preparing to ravish Europa
(Metamorphoses II.846– 75), clearly inappropriate for a commentary to a
Christian poem, and in comes a limp and vague reference to shameful behaviour.
Similarly, the very last concessionary formula of the Genealogie passage,
conceding at least the indirect operation of Mars and Venus, is removed in its
entirety, leaving the earlier categorical denial of astral influence intact.
But what of the content? The making of such contentious horoscopes, predicting
a libidinous disposition, could be dangerous. Villani intimates that one of the
reasons for Cecco d’Ascoli’s misfortune at the stake was his disconcertingly
accurate prognosis for his patron, the duke of Calabria, that his daughter
Giovanna, the grand-daughter of Robert the Wise and future queen of Naples,
would be subject to scandalous erotic excesses on account of her birth under
the sign of Mars in the house of Venus. Though at first sight, Boccaccio is
implying that his source in both pas- sages is the Genoese astronomer Andalò
del Negro (almost certainly dressed up as Calmeta in Filocolo V.8) and that he
is quoting from Ptol- emy’s commentator Haly Abbas and from Aristotle’s De
anima, a large section of this treatment, including the reference to these
auctoritates, is in fact lifted from various, almost contiguous places in
Dino’s glosses. The http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 10
Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org opening sentence is an
extremely reductive paraphrase of a section of Dino’s commentary where the
physician indicates the role of the stars in creating the dispositions of the
soul. Dino writes: Alia res concurrit ad causandum aliquam passionem, que est
res ex- trinseca que suam ymaginem vel speciem causat in virtute sensitiva, ad
quam cognitionem vel apprehensionem consequitur appetitus talis vel talis, in
quo appetitu iste passiones fundantur. Ideo auctor, ut complete ostenderet que
est res generans istam passionem, primo ostendit que est dispositio naturalis
corporis que reddit hominem aptum ut faciliter istam passionem incurrat;
secundo ostendit que est res extrinseca ex cuius ap- prehensione consequitur in
appetitu passio amoris. Secunda ibi: “Vien da veduta forma”; vel posset
incipere ibi: “D’alma costume.” In prima parte quod dispositio naturalis, per
quam aliquis inclinatur ad incurrendum faciliter in aliquam passionem, ex
principiis proprie nati- vitatis hominis contraitur et, inter ista principia
nativitatis alicuius, pre- cipua et principalia sunt corpora celestia: nam, ut
dicit Philosophus in Phisicis, homo hominem generat et sol; et in De
Generatione Animalium dicit quod in spiritu genitivo est natura existens
proportionalis ordina- tioni astrorum. (Favati 363) [Something else is involved
in causing any passion, and that is an exte- rior thing causing its image or
“species” in the sensitive faculty, upon the cognition or apprehension of which
there follows an appetite for this or that, in which appetite these passions are
established. So the author, in order completely to show what is the thing which
generates this passion, first demonstrates what is the natural disposition of
the body which makes man suitable for incurring this passion easily; secondly
he demon- strates what is the external thing from whose apprehension the
passion of love follows in the appetite. The second starts “Vien da veduta
forma”; or can start at “D’alma costume.” In the first part he shows that the
natural disposition, by which some- body is inclined to incur some passion, is
contracted from the principles of a person’s own birth, and, amongst these
principles of a person’s birth, the foremost and most important are the
heavenly bodies: for, as Aris- totle says in the Physics, man and the sun generate
man; and in The Ge- neration of Animals, in the generative spirit a nature
exists proportion- ally to the ordering of the stars] Boccaccio’s reference to
his astrological mentor, Andalò del Negro, is an opportunistic amplification of
a far less specific passage in Dino. The Garbian passage, commenting on line 18
of the canzone, reads: Hoc autem ostendit in verbo illo quod premisit cum dixit
“La quale da Marte viene et fa dimora”: nam ista passio dicitur procedere a
Marte isto modo, quoniam astrologi ponunt quod, quando in nativitate alicuius
Mars fuerit in domo Veneris, ut in Tauro vel in Libra, et fuerit significator
nativitatis eius, significabit natum fore luxuriosum, fornicatorem et om- nibus
venereis abusivis scieleratum; unde quidam sapiens qui dicitur Aly,
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 11 Heliotropiain “Comento
Quadripartiti,” dicit quod, quando in nativitate alicuius Venus participat cum
Marte, dat inamoramentum, fornicationem, luxu- riam et talia similia, que omnia
pertinent ad passionem amoris de quo loquitur auctor in hac cantilena. (Favati
363) [He shows this, however, in that word he placed before when he said “La
quale da Marte viene et fa dimora”: for this passion is said to proceed from
Mars in this way. Astrologers claim that, whenever, at the birth of somebody,
Mars is in the house of Venus, as in Taurus or in Libra, and there is a person
to do the child’s horoscope, he will signify that the child will be lustful, a
fornicator, and wicked in all venereal excesses. Whence a certain sage called
Haly in his commentary to the Quadripartitum says that, when at the birth of
somebody Venus participates with Mars, it grants enamourment, fornication, lust
and such like, which all are con- cerned with the passion of love which the author
talks about in this can- zone.] Boccaccio’s reference to Andalò is rather
disingenuous, if the evidence of the Calmeta episode of the Filocolo is to be
believed. For there the empha- sis in that passage is almost entirely
astronomical, with no hint of judicial astrology, and the authorities consulted
are almost certainly limited to Ptolemy’s Almagest, Andalò’s own
Introductorium, rather than the simi- larly titled work by Alcabitius, and to
the Alfonsine Tables. Of Haly’s commentary to the Ptolemaic Quadripartitum
there is not a trace. Boccac- cio’s early astrological culture, under the sway
of Andalò, has been exam- ined in an important study by Antonio Enzo Quaglio
(Scienza e mito nel Boccaccio, Padua: Liviana, 1967) and its narrative
consequences (possibly more tending towards judicial astrology) in the Filocolo
have been investi- gated by both Janet Levarie Smarr and Stephen Grossvogel.
The adventi- tious references to Haly in the love definition in the Genealogie
and Espo- sizioni are a sure sign that the late Boccaccio, whilst acknowledging
his youthful enthusiasms, was now passively accepting and reproducing Dino’s
quotes and mentions, rather than referring to material he knew and remembered
intimately and at first hand. What then follows in Boccaccio’s account, namely
the sequence of inter- iorisation, comes from Dino’s gloss to line 21. Dino’s
ordering of the inner processes is, according to Otto Bird, untypical, yet
Boccaccio accepts it without demur: Hic autem est ordo in apprehensione humana,
sicut declaratum est in scientia naturali: quod primo species rei pervenit ad
sensus exteriores, ut ad visum vel auditum vel tactum vel gustum vel olphatum,
deinde ab illis pervenit ad virtutes sensitivas interiores, sicut pervenit ad
fantasiam primo, deinde pervenit ad cogitativam et ultimo ad memorialem. Ab
istis autem virtutibus procedit postea ista species ad virtutem nobiliorem, que
virtus in homine est altissima inter virtutes adprensivas, et ista est virtus
possibilis. (Favati 364–65) [For this is the sequence in human apprehension,
just as it is declared in natural science. First of all the “species” of the
thing reaches the exterior senses, for instance sight or hearing, touch, taste
or smell, thence from these it reaches to the inner sensitive faculties, so it
comes to fantasy first, then comes to the cogitative and lastly to the
memorative faculty. From these faculties this “species” reaches to the nobler
faculty, which in mankind is the highest amongst the apprehensive faculties,
and this is the possible faculty] Dino then provides a brief explanation of the
difference between the intel- lectus agens [active intellect], the reasoning
function of individuation and universals, and the passive or possible
intellect, merely concerned with the processing of species resulting from
sensibles. The discussion is not otiose, for Dino is aware of Cavalcanti’s
dramatic positioning of love right at the crucial borderline between rational
and sensitive activity. Boccaccio is not at all interested in such technicalities,
and moves on to a matter of much greater concern, namely the question of the
relationship between love and will. The relevant passage from Dino glosses
Guido’s assertion that love is “di cor volontate,” but Boccaccio
characteristically leaves out Dino’s pro- fessionally inspired mention of the
difference of opinion between Aristotle and Galen concerning the seat of the
sensitive faculties, in the heart or in the head. Dino writes: Et nota quod
istum appetitum vocavit voluntatem, que videtur intellectui attinere, ut
ostenderet quod, licet amor fiat in aliquo ex dispositione na- turali per quam
quis inclinatur ad incurrendum faciliter hanc passionem, tamen fit etiam ex
proposito et per electionem, quod pertinet ad volun- tatem, que est libera et
liberi arbitrii, cum se habeat indifferenter ad op- posita; et est simile hic,
sicut etiam est in aliis passionibus ut, verbi gra- tia, de ira. Nam aliquis,
licet sit dispositus ex natura ad faciliter incurren- dum in iram, tamen per
voluntatem potest se retrahere ab ea, et potest etiam in eam incurrere; et
simili modo etiam de amore. (Favati 364) [And note that he calls this appetite
the will, because the latter is seen to appertain to the intellect, in order to
show that, although love can happen to somebody through a natural disposition
whereby that person is in- clined easily to incur this passion, that person
does so nevertheless on purpose and by choice, and so that is a case of will,
which is free and by free choice, when it is faced equally with opposites. And
it is the same here, just as it is with the other passions, like anger, for
instance. For somebody, even though he may be disposed by nature to get angry
easily, nevertheless through his will he can draw himself back from it, and he
can even indulge in it; and it is the same with love. For Dino, the question is
one of classification: given the working of erotic passion specifically in the
sensitive appetite, it follows that engaging in or disengaging from love is
necessarily a voluntary act, and therefore in part subject also to the operations
of the rational soul, where choices are made. Boccaccio’s rewording changes the
emphasis substantially towards moral philosophy: love is no longer an
ineluctable force, and the potential lover, being free to choose, is therefore
responsible for his own actions in this field as in any other. Love, as a
phenomenon of the soul, is consequent on an initial act of the will, by
accepting or refusing to be drawn further into passion. Though Boccaccio’s
direct quotations from the Garbian glosses are all located in a compact area,
he may have been encouraged to under- line this aspect by his reading further
on in the commentary, for Dino re- fers to the will obliquely later on, drawing
on Haly’s Pantechne, to state more clearly than elsewhere the voluntaristic
nature of passion: amor est sollicitudo melanconica, similis melanconie, in qua
homo iam sibi inducit incitationem cogitationis super pulcritudinem quarundam
formarum et figurarum que insunt ei. (Favati) [love is a melancholic anxiety,
similar to melancholy, in which a man ac- tually brings upon himself the
rousing of cogitation upon the beauty of certain forms and figures which are
within him.] A fragment of this reading of Dino can be found in the Decameron,
when Boccaccio describes the aegritudo amoris of the pharmacist’s daughter Lisa
(X.7.8), as she struggles with cumulative “malinconia.” What is more important
in the Garbian gloss is the accent on the will. The lover “sibi inducit
incitationem.” And later again, Dino will return to the topic, to explain why
nobles have a greater propensity for erotic pas- sion than those whose
existence is marred by the struggle for economic survival: Secunda causa est
quia, licet in amore, quando est multum impressus, appetitus non sit liber, imo
est servus et ducitur secundum impetum huius passionis, tamen in principio,
quando incipit hec passio in appe- titu, adhuc appetitus est quasi liber, ita
ut possit amare et possit desistere ab amore. Et ideo initium huius passionis
incipit multotiens ex proposito. (Favati 373) [The second cause is because,
though in love for instance the appetite, when it is much pressed, is not free,
indeed it is enslaved and is led by the impetus of this passion, nevertheless
in the beginning, when this passion starts in the appetite, at that point the
appetite is almost free, so that it can love or desist from love. And so the
beginning of this passion fre- quently starts from choice.]
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 14 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org Whereas in the Genealogie the highlighting of the
question of free will served no particular purpose, and was not set within a
moralising context, in the Esposizioni the moral discussion is crucial.
Boccaccio has a precise task, for he is explaining the sin of those who “la
ragion sommettono al talento” (Inferno V.39). Boccaccio’s own prior
interpretation of this line is rather odd: Eran dannati i peccator carnali, Che
la ragion sommettono al talento, cioè alla volontà. E come che questo si possa
dire d’ogni peccatore inten- dere, per ciò che alcun peccatore non è che non
sottometta, peccando, la ragione alla volontà, vuol nondimeno l’autore che per
quel vocabolo “carnali” s’intenda singularmente per i lussuriosi. (Esposizioni
V litt. 46) Boccaccio, never very consistent when adopting others’
philosophical sys- tems or terminology, seems to see no difference here between
“will” and “desire.” He seems to have no real understanding of the complexities
of appetition. Perhaps he was thinking of the passage in Dante’s Vita Nuova
XXXIX, where the poet admits to a struggle between appetite (“cuore”) and
reason (“anima”). Maybe he is using “volontà” to stand for “voglia,” the term
Meo Abbracciavacca uses when he writes “e qual sommette a voglia operazione”
(Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Milan-Naples: Ricciardi, 1960, vol. I,
p. 337). It is no surprise, therefore, to find that Boc- caccio now moves
straight from his paraphrase of Dino del Garbo on love and will to a discussion
of whether Paolo, “atto nato ad amare” (Espo- sizioni V litt., 168) was obliged
to fall in love with Francesca. Boccaccio freely admits that Paolo was
“flessibile,” in other words easily swayed, be- cause of his complexion. It is
the same concept Boccaccio applies to Dante’s amorous disposition in the Chigi
version of the Trattatello: “inchinevole molto a questo accidente” (again a
fairly Garbian formula), but when it comes to the famous line: “Amor, ch’a
nullo amato amar per- dona” (Inferno V.103), the moralist suddenly swings into
action: Questo, salva sempre la reverenzia dell’autore, non avviene di questa
spezie di amore, ma avvien bene dello amore onesto (Esposizioni V litt. 169)
Here Boccaccio is returning to the Aristotelian distinction between the three
varieties of love (Nicomachean Ethics VIII.3) with which he had prefaced his
discussion in the Esposizioni. There, he had indicated that the sensual love
indulged in by Paolo and Francesca is the morally inferior “amore dilettevole,”
where the pleasure principle is foremost. It is a defi- nition totally missing
from the Genealogie account of Cupid, even though it had been promised much
earlier (III.22.8). Now he claims that Fran- cesca’s declaration of the
inevitable reciprocity of love is misplaced, for such reciprocity can only
happen with “amore onesto.” He backs this up with the definition to be found in
Purgatorio XXII.10–12 (where Statius’ love for Virgil causes a corresponding
affection in the older poet). But the lovers of Inferno V are seekers of
pleasure only, not seekers of goodness (the “amore onesto” of Aristotle). But
why did Boccaccio, between the Genealogie and the Esposizioni accounts,
suddenly introduce the Aristotelian distinction? What does it have to do with
Dino’s commentary? Once again, Boccaccio has been searching around in the
glosses, and has found that the next argument Dino engages in is concerned with
is the dual nature of love. One is the common definition: uno modo comuniter et
large, secundum quod est quedam passio per quam inclinatur et movetur appetitus
in aliquam rem que videtur sibi bona propter complacentiam eius, ratione
cuiuscumque actus illius rei: et isto modo non accipitur hic: nam amor est
circa multa, de quo amore non est presens intentio. Et de omnibus amicis ad
invicem est hoc modo amor: quia amici amant se ad invicem, et tamen non amant
se amore de quo est hec presens intentio; et potest etiam esse amore in uno
respectu alterius, et tamen non erit amicitia inter eos: omnis enim qui est
amicus alicui amatur ab illo, sed non omnis qui amat aliquem amatur ab illo; et
ideo, licet omnis amicitia sit cum amore, non tamen omnis amor est cum
amicitia. (Favati 371–72) [one way commonly and widely defined, according to
which it is a certain passion by which the appetite is inclined and moved
towards something which seems good to it on account of its pleasurability, by
reason of whatever agency of that thing: and it is not accepted in this way
here: for love concerns many things, about which love it is not Guido’s present
in- tention to speak. Concerning all mutual friends, love is of this kind: for
friends love each other reciprocally, and yet they do not love each other with
the kind of love which is the topic here; and it can be a question of love in
one regarding the other, and yet there will not be friendship between them: for
everybody who is a friend to somebody is loved by that other person, but not
everybody who loves somebody is loved by that person, and so, even if every
friendship is with love, not every love is with friendship.] In his round-about
way Dino is dealing here with the distinction between love “per
concupiscentiam” [for desire’s sake] and “per amicitiam” [for friendship’s
sake]. The first is properly the subject of Guido’s canzone, whereas the second
is Aristotle’s true friendship, what Boccaccio calls “amore onesto.” Dino’s
purpose is to go on to define the pathology of the illness that derives from
amorous excess, the so-called “ereos,” richly in- vestigated by Massimo
Ciavolella (La “Malattia d’Amore” dall’Antichità al Medioevo, Rome: Bulzoni,
1976) and before that by John Livingston heliotropia.org/02-01/usher.pdf
16 Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Lowes (“The Loveres
Maladye of Hereos,” Modern Philology 11.4 [1914]: 491–546). Boccaccio, uninterested
in the minutiae of such medical matters (though he refers to them in his
Valerius Maximus inspired episode of Giacchetto Lamiens in the novella of the
Count of Antwerp (Decameron II.8.44–48), retains the distinction but uses it
for a moral purpose. Paolo and Francesca were free to retreat from their
passions, as theirs was an “amor dilettevole.” Their obstinate refusal to avail
themselves of the free- dom of choice inherent in the birth of such sensual
passion led to their damnation. This issue of free will clearly exercised
Boccaccio, for he re- turns to it belatedly in the allegorical exposition to
the canto. The com- mentator has been explaining why carnal sinners, guilty of
excess in what is otherwise a natural process, are punished more lightly than
the other damned souls, in a circle further from the pit of hell and nearer to
God. He then has another go at defining the relative roles of astrological
disposition and free use of the rational faculty of choice: L’origine del
quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia nell’attitudine a questa
colpa datane da’ cieli; la quale parrebbe ne do- vesse da questo scusare, se
data non ci fosse la ragione, la quale ne dimo- stra quel che far dobbiamo e
quel che fuggire, e, oltre a ciò, il libero albi- trio, nel quale è podestà di
seguire qual più gli piace. (Esposizioni V all. 78) But this moralistic view of
erotic passion, prompted by a public reading of the Paolo and Francesca episode
and shaped, selectively, by Dino del Garbo’s glosses to Cavalcanti’s canzone,
represents a very late position, beginning with the first redaction of the
Genealogie, and perhaps impli- citly coeval with some of the thinking behind
the remedia amoris of the Corbaccio. Boccaccio’s earlier allusions to the
Inferno V episode seem to show, instead, that the involuntary nature of love,
propounded by Fran- cesca, prevails. In the Filostrato, for instance, after
much sighing and tearful pillow-soaking, Troiolo finally admits to his friend
Pandaro the cause of his melancholy: he has fallen in love. Boccaccio’s writing
at this point is saturated with reminiscences of the Paolo and Francesca
passage from Inferno V. Troiolo is grateful that Pandaro is inclined to hear of
his “martiro,” rhymed with “sospiro” (Dante: “sospiri” and “martiri”) and is
responding to Pandaro’s “priego” since he is incapable of opposing a “nie- go”
(Dante: “priega” and “niega”). Troiolo then indicates how love took over:
Amore, incontro al qual chi si difende più tosto pere ed adopera in vano, d’un
piacer vago tanto il cor m’accende, ch’io n’ho per quel da me fatto lontano
ciascheduno altro, e questo sì m’offende, (Filostrato II.7.1–5) This is a clear
echo of Francesca speaking of how love “al cor gentil ratto s’apprende [...] e
’l modo ancor m’offende” (Inferno V.100–02). Boccaccio in paraphrasing “Amor,
ch’a nullo amato amar perdona” here, further em- phasises the involuntary
nature of such passion. The same emphasis can be seen in the Filocolo: in the
“court of love” in book four, Clonico has asked the queen for a judgment on
whether an unrequited or a jealous lover should be more pitied. The queen
passes sentence, saying that the unrequited lover will finally get his reward,
for true love induces inevitable reciprocity in the beloved: ché, ben che ella
si mostri verso voi acerba al presente, e’ non può essere ch’ella non vi ami,
però che amore mai non perdonò l’amare a niuno amato. (Filocolo IV.38.11) The
same concept lies behind that other enamourment clearly inspired by Dante’s
Paolo and Francesca, the Ovid-inspired passion of Florio and Biancifiore in
Filocolo II: their love, too, is caused by Cupid’s agency, they too are
apparently coerced by mutual delight. Florio clearly considers that such a
situation is universal, and affects not only mortals but gods: Padre mio, sì
come voi sapete, né il sommo Giove né il risplendente Apollo, da voi ora
davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all’amorevole passione
resistenza; né tra’ nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato,
che da simile passione non fosse oppresso. (Filocolo) But perhaps the most
memorable examples of such love apologies come in the Decameron. In the novella
of the count of Antwerp, the queen of France lays bare her passion for the
count: Egli è vero che, per la lontananza di mio marito non potendo io agli
sti- moli della carne né alla forza d’amor contrastare, le quali sono di tanta
potenza, che i fortissimi uomini non che le tenere donne hanno già molte volte
vinti e vincono tutto il giorno, essendo io negli agi e negli ozii ne’ quali
voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore e divenire innamorata mi sono
lasciata correre. (Decameron) Though the power of love is emphasised, a subtle
change has now taken place. We now get at least a fleeting admission that an
element of volition was involved (“mi sono lasciata correre”). When we come to
look at the famous justification of Ghismonda, caught in flagrante with
Guiscardo by her jealous father (Decameron IV.1.31–45), we see the same refined
con- cession. Her speech begins with a reminiscence of the Paolo and Francesca
episode, audible in the pairing “né a negare né a pregare sono disposta.”
Ghismonda, at various points, then outlines the sheer power and durabil- ity of
the passion which has overtaken her: Egli è il vero che io ho amato e amo
Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amer e se appresso la morte
s’ama, non mi rimarrò d’amarlo. (Decameron) Though the wording has been
altered, the influence of Francesca’s per- during love in Inferno V is clear:
“ancor non m’abbandona” and “che mai da me non fia diviso”. But then the speech
gets down to detail. It is Ghismonda’s youthful appetite, whetted by previous
marriage and now enforced celibacy, which causes her to cede to her desires:
Sono adunque, sí come da te generata, di carne, e sí poco vivuta, che an- cor
son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disi- dero,
al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato
maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto desidero dar com- pimento.
Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello che elle mi
tiravano, sí come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. (Decameron) Yet,
here again, we can see that Boccaccio clearly imagines there to be a moment of
decision, an instance of rational choosing, even if the flesh (and the
sensitive faculties) are predisposed to “incur such passion.” To sum up then,
the evidence for Boccaccio having read Dino del Garbo early on in his career,
earlier than the Teseida, is quite strong. The gloss on “Donna me prega” is not
associated, as one might imagine, with an interest in Cavalcanti’s vernacular
verse, but rather with its availability as a con- venient manual, accessible to
a non medical scholar, on the “maladye of hereos.” For this reason, perhaps, it
became associated with Boccaccio’s constant re-reading of the Paolo and
Francesca episode from Inferno V. What changed over time was the quality of
Boccaccio’s reading of Dino, starting from an opportunistic level, where the
distinction between Capel- lanus and Del Garbo is hardly felt, and ending with
an interpretation which consciously develops the potential in Dino’s
understanding of the role of the will. The moment of transition, however timid,
seems to take place in the years of the Decameron. Grice: “So here is charming
Cavalcanti writing a charaming love lyrics (Donna mi preigha) and Garbo in his
worst Aristotelian jargon destroying it. I dealt with Blake (“love that never
told can be”) and the best thing is to leave poetry to poets (cf. Austin
rebuffing Nowell-Smith’s inability to understand Donne). The physiology of love
is beyond philosophy. But in philosophy, unlike any other discipline, we
respect history, and the longitudinal history of philosophy ensures that every
philosopher will be familiar with the idiocies Plato makes Socrates says in
Convitto about Cupido, Cupidine, Amore, Eros, Erote, Anterote, and Mars, qua
symbol of maleness. In Italy they were concerned about astrology. Since the
future queen of Naples had been born under the House of Mars, she will possibly
be a whore!” -- Aldrobrandino Del Garbo.
Garbo. Keywords: appetitus, appetitus sensitivo – spiegatura dell’amore in
termine aristotelichi – amare, sentire, il patico – fornicazione –
latino/volgare – Boccaccio – Petrarca – Alighieri – Cavalcanti --. de militia
complexionis diversae, eros, amore, malattia, Aristotele, passione, ragione,
appetite sensitive, amore, sentire – re-cognosenza da parte dell’amato
dell’amore dell’amante – via senso? Marte – self-love, other-love, amore
proprio, amore a se stesso, amore all’altro. Refs.: Luigi Speranza, “Garbo e
Grice: amore, passione, implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gargani: l’implicatura conversazionale d’Eurialo
e Niso; ovvero, dell’empatia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice: “I like Gargani;
many of his essays are pretty interesting: he’s written on the ‘sense’ of
‘true,’ and on the ‘endless phrase,’ – la frasse infinita – which according to
Griceian principles, must rely on implicature, since it involves a communicational
impossibility!” -- «È un fatto che gli uomini hanno prodotto assai più cose di
quanto siano propensi ad ammettere; ma ciò che essi hanno eretto nella forma di
costruzioni concettuali elevate e sublimi, come se fossero separate dal caso e
dal disordine, corrisponde ad un uso che essi hanno fatto della propria vita.”
Aldo Giorgio Gargani (Genova), filosofo. Si laurea a Pisa sotto Barone.
Collaborando con Lepschy, allora professore all'University College di Londra, e
conducendo le sue ricerche al Queen's sotto la guida di Geordie McGuinness. È stato il massimo studioso italiano di
Vitters, e ha contribuito alla diffusione della filosofia di D. F. Pears. I
suoi ambiti di studio sono stati prevalentemente la filosofia del linguaggio,
l'estetica, l'epistemologia, e la psicoanalisi. Di particolare interesse è
anche il suo tentativo di una scrittura filosofica narrativa, come in Sguardo e
destino” (Laterza, Roma-Bari); “L'altra storia” (il Saggiatore, Milano); Il
testo del tempo” (Laterza, Roma-Bari). Altre
opere: “Esperienza in Vitters” (Le Monnier, Firenze); “Hobbes” (Einaudi,
Torino); “Vitters” (Laterza, Roma-Bari); “Il sapere senza fondamenti. La
condotta intellettuale come strutturazione dell'esperienza commune” (Einaudi,
Torino ); “Vitters a Cambridge” (Stampatori Editore, Torino); “Kafka” (Guida,
Napoli); “Lo stupore e il caso” (Laterza, Roma-Bari); “La frase infinita” (Laterza, Roma-Bari); “Il
coraggio di essere” (Laterza, Roma-Bari); “Stili di analisi” (Feltrinelli,
Milano); “L'organizzazione condivisa. Comunicazione, invenzione, etica”
(Guerini, Milano); “Il pensiero raccontato” (Laterza, Roma-Bari); “Una donna a
Milano” (Marsilio, Venezia); “Il filtro creative” (Laterza, Roma-Bari); “Dalla
verità al senso della verità” (Plus, Pisa); “Mondi intermedi e complessità”
(Ets, Pisa); “Il gesto” (Cortina, Milano); “La filosofia della cura” (ASMEPA
Edizioni, Bentivoglio); “L'arte di esistere contro i fatti” (Lamantica
Edizioni, Brescia); “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere
e attività umane” (Einaudi, Torino). Altri contributi Relazione d'aiuto,
sintonia comunicativa e organizzazione sociale, in Il vaso di Pandora, Dialoghi
in psichiatria e scienze umane, Fondazionalismo e antifondazionalismo, Relativismo
e nuovi paradigmi filosofici, Inquietudine, empatia, identità e narrazione
(Pordenone). Eurialo e Niso coppia di amici, guerrieri troiani nella mitologia
greca e nell'Eneide di Virgilio Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni
Questa voce o sezione sugli argomenti mitologia romana e personaggi immaginari
non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Eurialo e
Niso Nisos Euryalos Louvre LL450 n2.jpg Eurialo e Niso (1827) di Jean-Baptiste
Roman, Louvre SagaCiclo Troiano ed Eneide Nome orig.Euryalus e Nisus
Epitetoinsigne per bellezza (Eurialo), fortissimo in armi (Niso), Irtacide
(patronimico di Niso) 1ª app. inEneide di Virgilio, I secolo a.C. circa
(Eurialo) Sessomaschi Luogo di nascitaTroia (Eurialo), monte Ida (Niso)
Eurialo e Niso (in latino Euryalus e Nisus) sono due personaggi che compaiono
in due episodi dell'Eneidedi Virgilio. Giovani guerrieri profughi di Troia,
costituiscono un grande esempio di amicizia e di valori che Virgilio teneva a
riportare in vita con la sua opera. Il particolare rapporto che li lega è
definito dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va
inteso come serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e
l'affettuosità omoerotica. Non è l'unico caso nel poema: anche tra gli italici
nemici dei troiani vi è una coppia siffatta, quella costituita dai due giovani
latini Cidone e Clizio. Il mito «… Appresentossi in prima Eurïalo con
Niso. Un giovinetto di singolar bellezza Eurïalo era; e Niso un di lui fido e
casto amico.» (Virgilio, Eneide, traduzione di A. Caro, V, 425-428)
Eurialo Eurialo (figlio di Ofelte, un troiano morto durante la guerra di Troia
nonché lontano parente di Priamo) è il più giovane dei due amici, poco più che
un fanciullo, e con la sua grande bellezza riesce sempre a ottenere il favore
degli altri. Partecipa alla gara di corsa a piedi durante i giochi
funebri per Anchise, nel quinto libro dell'Eneide, a fianco dell'amico Niso e
riesce a vincerla grazie all'aiuto del compagno. Nonostante le proteste di
Salio, un altro corridore, che è inciampato a causa di Niso, Eurialo sfrutta le
sue lacrime e il suo bell'aspetto per far sì che gli spettatori parteggino per
lui. Nel nono libro affianca nuovamente Niso nel tentativo di raggiungere
Enea, passando per l'accampamento dei Rutuli addormentati. I due giovani,
approfittando dell'occasione favorevole, compiono un'ingente strage di nemici.
L'inesperienza di Eurialo si dimostra quando il giovinetto ruba
nell'accampamento nemico diversi oggetti di valore, tra cui uno splendido elmo.
Saranno proprio quei trofei a mettere a repentaglio la vita di Eurialo; da una
parte il riflesso dell'elmo attirerà l'attenzione del nemico Volcente sui due
compagni, dall'altra il peso del bottino ostacolerà il giovane in fuga dai
soldati nemici. Eurialo muore trafitto dalla spada dello stesso Volcente in un
bosco vicino all'accampamento rutulo. In quel momento Virgilio richiama
alla mente un altro paragone con il candido corpo esanime di Eurialo, ossia
l'immagine di un fiore purpureo reciso da un aratro o un papavero che abbassa
il capo durante la pioggia. NisoModifica Niso appartiene a una famiglia
illustre: è infatti figlio - al pari di Ippocoonte e dell'omerico Asio - del
nobile troiano Irtaco che aveva sposato Arisbe, la moglie ripudiata da Priamo, chiamata
anche Ida. Egli è, rispetto a Eurialo, più maturo ed esperto, avendo combattuto
insieme ai fratelli nella guerra di Troia. Nel poema è ricordata tra l'altro la
sua passione per la caccia, trasmessagli da entrambi i genitori. Compare per la
prima volta nel quinto libro al fianco di Eurialo nella gara di corsa, in cui
scivola, ma aiuta il compagno a vincere grazie a uno stratagemma.
Successivamente, nel nono libro, Niso si fa avanti per uscire dall'accampamento
dei troiani assediati dai Rutuli e raggiungere Enea, ma Eurialo vuole seguirlo.
Dapprima Niso non acconsente ritenendo il ragazzo non ancora pronto per
affrontare un'impresa tanto rischiosa, ma, data la sua insistenza, parte con
lui. Entrato nel campo nemico, Niso vi uccide parecchi giovani italici sopraffatti
dal sonno, dal vino e dall'inesperienza, imitato poi da Eurialo. Tenterà
invano di salvare l'amico fatto prigioniero dai cavalieri di Volcente. Il suo
affetto per il giovinetto lo spinge a vendicarne la morte; egli riuscirà
nell'intento cadendo però a sua volta. Quinto libro - La gara di
corsaModifica La prima apparizione di Eurialo e Niso risale al quinto libro
dell'Eneide, durante la gara di corsa a piedi svoltasi a Erice nei giochi in
onore di Anchise, il defunto padre di Enea. L'episodio è peraltro tratto dalla
gara avvenuta nell'Iliade fra Odisseo, Aiace d'Oileo e Antiloco, vinta da
Odisseo. Niso si porta in testa, ma scivola inavvertitamente su una pozza di
sangue sacrificale, probabilmente sparso da Eneaprima della celebrazione dei
giochi. A quel punto Salio, un altro partecipante, tenta di correre per
il primo posto, ma Niso, mosso da un profondo affetto per l'amico, fa uno
sgambetto all'avversario che finisce a terra. Di conseguenza Eurialo
sorpassa Salio e vince la gara. Irritato per la vittoria ingiusta di
Eurialo, Salio si lamenta da Enea, ma il pubblico, commosso dal pianto e dal
bell'aspetto di Eurialo, parteggia per il giovinetto. Enea consegna
comunque un premio di consolazione a Salio e a Niso, rispettivamente una pelle
di leone africano e uno scudo forgiato da Didimaone, e offre al giovane
vincitore il premio che gli sarebbe spettato di diritto, ossia un cavallo con
borchie. Nono libro - La sortita notturna e la morte dei due giovaniNella
sortita notturna del nono libro, Virgilio s'ispira a quella di Diomede e Ulisse
nel decimo libro dell'Iliade, dove i due achei sorprendono nel sonno il giovane
re trace Reso e dodici suoi guerrieri. L'esercito di Turno sta cingendo
d'assedio la cittadella dei Troiani sbarcati nel Lazio; Enea, alla ricerca di
alleati, si è recato tra gli Etruschi. Niso si propone di uscire per andare a
raggiungere Enea e avvertirlo del pericolo imminente, ma Eurialo vuole rimanere
al suo fianco, pur sapendo di essere ancora molto giovane per un'impresa così
rischiosa e di poter avere ancora una lunga vita davanti a sé. Dopo aver
ricevuto il consenso dei compagni riguardo alla loro proposta, Eurialo e Niso
si preparano a partire per la loro missione. Ascanio, il figlio di Enea,
promette loro grandi premi, tra cui tazze e cucchiai d'argento, cavalli,
armature, donne e schiavi, mentre gli altri troiani li equipaggiano con armi
adatte all'impresa. I due amici penetrano nel campo dei Rutuli
addormentati. Niso mette al corrente Eurialo della sua intenzione di farne strage
e passa immediatamente all'azione, aggredendo un amico intimo di Turno, il
borioso re e augure Ramnete, che stava russando nella sua tenda su un cumulo di
sontuose stuoie, e con la spada lo colpisce alla gola; introdottosi quindi
negli alloggiamenti di Remo, altro importante condottiero italico, sgozza
l'auriga disteso sotto i cavalli per poi staccare la testa al suo signore
coricato nel letto e ancora al bellissimo giovinetto Serrano riverso a terra
nel suo sonno di ubriaco dopo aver dedicato al gioco dei dadi buona parte di
quella che sarebbe stata la sua ultima notte. Questi sono i più noti tra i
numerosi guerrieri che finiscono vittime di Niso. Anche Eurialo non
resiste alla tentazione di uccidere qualche italico; un certo Reto, svegliatosi
improvvisamente, cerca di nascondersi dietro un cratere, ma viene ucciso
proprio da Eurialo. A questo punto Niso esorta il compagno a cessare la strage;
i due troiani escono dal campo nemico. Eurialo porta via con sé alcuni oggetti
di valore, tra cui l'elmo di Messapo (un alleato italico dei Rutuli, che non è
tra le vittime). Proprio per la vanità di Eurialo i due amici vengono
avvistati da un drappello di trecento maturi cavalieri rutuli guidato da
Volcente; accade infatti che i bagliori dell'elmo e il suo vistoso pennacchio
attirino l'attenzione dei nemici, che incominciano allora a inseguire la coppia
di troiani, rifugiatasi nel bosco. Gli uomini di Volcente si sparpagliano
quindi attraverso passaggi sconosciuti a Eurialo e Niso, che cercano una via di
fuga. Improvvisamente Niso si ritrova da solo e, correndo a ritroso per
cercare l'amico, lo vede circondato da soldati italici. A quel punto,
disperato, scaglia le sue armi contro i nemici e riesce a uccidere Sulmone e
Tago, due cavalieri di Volcente, il quale, non capendo chi possa essere
l'autore di quelle uccisioni, si scaglia su Eurialo con la spada, trafiggendolo
mortalmente. (LA) «Talia dicta dabat; sed viribus ensis adactus
transabiit costas et candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque
per artus it cruor, inque umeros cervix conlapsa recumbit: purpureus veluti cum
flos succisus aratro languescit moriens lassove papavera collo demisere caput,
pluvia cum forte gravantur. Mentre così dicea, Volscente il colpo già con
gran forza spinto, il bianco petto del giovine trafisse. E già morendo
Eurïalo cadea, di sangue asperso le belle membra, e rovesciato il collo,
qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero
ch'a terra il capo inchina.» (Traduzione di Annibal Caro) Niso allora
grida disperato e si scaglia con tutta la sua violenza contro Volcente,
conficcandogli quindi la spada nella bocca spalancata e uccidendolo. Il giovane
viene però attaccato dagli altri soldati presenti e, morendo, si getta sull'amico
e si dà finalmente pace. At Nisus ruit in medios solumque per omnis
Volcentem petit in solo Volcente moratur. Quem circum glomerati hostes hinc
comminus atque hinc proturbant. Instat non setius ac rotat ensem fulmineum,
donec Rutuli clamantis in ore condidit adverso et moriens animam abstulit
hosti. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque ibi demum
morte quievit. In mezzo de lo stuol Niso si scaglia solo a Volscente,
solo contra lui pon la sua mira. I cavalier che intorno stavano a
sua difesa, or quinci or quindi lo tenevano a dietro. Ed ei pur
sempre addosso a lui la sua fulminea spada rotava a cerco. E si fe'
largo in tanto ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava, cacciogli
il ferro ne la strozza, e spinse. Così non morse, che si vide
avanti morto il nimico. Indi da cento lance trafitto addosso a lui,
per cui moriva, gittossi; e sopra lui contento giacque.» (Caro)
Conseguenze della morte di Eurialo e NisoModifica Sùbito dopo la morte di
Eurialo e Niso, Virgilio interviene nella narrazione, assicurando ai due amici
un eterno ricordo da eroi tragicamente sconfitti: Fortunati ambo! Siquid
mea carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae
Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. Fortunati
ambidue! Se i versi miei tanto han di forza, né per morte mai, né per tempo
sarà che 'l valor vostro glorïoso non sia, finché la stirpe d'Enea possederà
del Campidoglio l'immobil sasso, e finché impero e lingua avrà l'invitta e
fortunata Roma. (Caro) I corpi esanimi di Eurialo e Niso vengono portati
all'interno dell'accampamento rutulo, e quivi sottoposti a decapitazione.
Le teste recise dei due giovani vengono quindi conficcate su lance e portate
davanti al presidio troiano con grande clamore. In seguito la Fama
avverte la madre di Eurialo della morte del figlio. Ella, sconvolta dalla
notizia, corre fuori di casa strappandosi i capelli e urlando. Ha così inizio
un commovente discorso in cui sembra rimproverare il figlio per non averla
nemmeno salutata per l'ultima volta prima di partire per la sua pericolosa
missione, e rimpiange di non aver potuto guidare le sue esequie e rivedere il
suo corpo. La donna sembra non aver più nemmeno la forza di vivere e
implora di essere uccisa dai Rutuli, trafitta dalle loro frecce. L'ultima
memoria a Eurialo e Niso è offerta dai troiani che li rimpiangono con gemiti e
lacrime e riportano in casa la madre di Eurialo. Vittime di Eurialo e
NisoModifica Vittime di Eurialo Le vittime di Eurialo, tutte uccise nel campo
dei Rutuli, sono perlopiù anonime; fanno eccezione: Abari Erbeso Fado
Reto (l'unico che non viene ucciso nel sonno). Colpito di spada al petto, muore
vomitando l'anima insieme al vino e al sangue. Vittime di Niso Cavalieri uccisi
in scontro aperto (3): Sulmone, colpito mortalmente da un dardo al petto
Tago, ucciso con un dardo che gli trapassa le tempie Volcente, il comandante,
cui Niso conficca la spada nella bocca spalancata Guerrieri sorpresi nel sonno:
Ramnete, augure e re italico Remo, condottiero rutulo Lamiro e Lamo, guerrieri
rutuli al seguito di Remo Serrano, giovanissimo guerriero rutulo famoso per la
sua bellezza, anch'egli al seguito di Remo In questo elenco vanno aggiunti i
tre servi di Ramnete e l'auriga di Remo: ma il verso 328 «armigerumque Remi
premit aurigamque sub ipsis», da alcuni tradotto «sopprime l'auriga ed armigero
di Remo» è da intendersi per altri come «sopprime lo scudiero di Remo e
l'auriga», quindi il numero complessivo delle vittime di Niso può variare da 12
a 13. In ogni caso Niso è, dopo Enea e Turno, il guerriero che uccide più
nemici nel poema; e tra gli italici che egli sorprende nel sonno sono ben
quattro quelli che subiscono la decapitazione, ovvero Remo, Lamiro, Lamo e
Serrano. Virgilio mette anche un certo Numa tra gli italici uccisi nel
sonno, ma solo nella sequenza che descrive la scoperta della strage. Per molti
studiosi il punto in questione sarebbe uno dei tanti sfuggiti alla revisione
definitiva dell'opera: e poiché Numa viene citato insieme a Serrano, si pensa
che il poeta abbia scritto erroneamente "Numa" in luogo di
"Lamo" o "Remo". Peraltro in un passo del libro X il nome
Numa ritorna, insieme a quelli di Volcente e Sulmone: quest'ultimo viene detto
padre di quattro giovani guerrieri catturati da Enea, che poco dopo appunto
uccide, in mezzo ad altri nemici, un guerriero chiamato Numa, e il figlio di
Volcente, Camerte, biondo signore di Amyclae. Raffronto con
l'IliadeModifica Nel compiere la strage, i due giovani vengono paragonati dal
poeta a un leone vorace che entrato in un ovile affonda i denti sulle inermi
pecore; la similitudine proviene dal modello omerico con la strage dei Traci.
La pagina del massacro compiuto dalla coppia troiana si caratterizza però
soprattutto per la presenza di particolari cruenti, come l'immagine di Reto che
vomita la sua anima intrisa del vino bevuto, e le decapitazioni operate da Niso
(Diomede riserva questo trattamento a Dolone e non ai Traci addormentati); il
giovane eroe tuttavia si astiene dall'incrudelire sulle teste recise delle sue
vittime, divergendo in questo da altre figure epiche (Agamennone e Achille
nell'Iliade; Turno e lo stesso Enea nell'Eneide). L'immagine di Eurialo
morente, col giovinetto che piega il capo come un papavero, è anch'essa mutuata
dall'Iliade, ma richiama un altro passo, quello dell'agonia di Gorgitione, uno
dei figli di Priamo, ucciso in battaglia da Teucro nell'ottavo libro del poema.
Il testo virgiliano contiene anche alcuni tratti di comicità nera (l'augure
Ramnete, amante del fasto, che non riesce a prevedere la propria morte; e
l'uccisione del bizzarro auriga di Remo, sorpreso mentre giace tra i suoi
stessi cavalli). Benché l'episodio della sortita notturna sia modellato
su quella compiuta da Odisseo e Diomede, i troiani presentano tratti che
rimandano più ad Achille e Patroclo per il rapporto che li unisce, ovvero
quello di due guerrieri-amanti. In Niso peraltro si può riscontrare una
personalità molto simile a quella di suo fratello Asio nell'Iliade,
caratterizzata da audacia e irruenza; oltretutto anche Asio soccombe dopo aver
tentato di vendicare un commilitone caduto, Otrioneo, al quale però non è
sentimentalmente legato, così come non risulterebbe avere un coinvolgimento
erotico col proprio auriga, destinato a perire subito dopo di lui. [1].
Interpretazione dell'episodio Affiora in questi versi lo sgomento di Virgilio
di fronte agli orrori della guerra, che miete lutti su lutti. La guerra non è
tra buoni e cattivi: i troiani cercano una nuova patria, gli italici si sentono
minacciati. In nessun altro punto del poema soccombono così tanti eroi giovani:
se si eccettuano Volcente e i suoi due cavalieri, padri di famiglia, tutti gli
altri personaggi dell'episodio vanno incontro a morte prematura, non ci sono
solo Eurialo e Niso, dato che i guerrieri che i due troiani uccidono nel sonno
sono più o meno loro coetanei: in IX, 161-63 si dice infatti che Turno sceglie
per l'assedio 1.400 giovani («bis septem Rutuli muros qui milite servent /
delecti, ast illos centeni quemque sequuntur /purpurei cristis iuvenes auroque
corusci»). Gioventù che va di pari passo con l'imprudenza: i Rutuli si lasciano
sopraffare dal sonno, un elmo sottratto da Eurialo ai nemici sarà all'origine
della sua morte. Ma morire giovani in guerra significa anche guadagnarsi la fama
eterna, e a questo provvede Virgilio che manifesta lo stesso senso di rispetto
per tutti i caduti: guerrieri aristocratici come Niso, Remo e Ramnete (che pur
bollato dal poeta in un primo tempo come superbus per l'ostentazione del suo
doppio potere è uno degli italici che Virgilio metterà tra le vittime
maggiormente rimpiante dall'esercito italico, essendo indiscutibile la sua
amicizia per Turno), e soldati di estrazione non nobile come Eurialo e
Serrano. Fortuna dell'episodioModifica Nell'Orlando furioso di Ludovico
Ariosto i due giovani soldati saraceni Cloridano e Medoro compiono una sortita
notturna nel campo dei cristiani per cercare il cadavere di Dardinello, il loro
signore caduto in battaglia, e vi uccidono diversi nemici sorpresi nel sonno.
Fin qui Ariosto segue Virgilio: diversa è la conclusione, che vede soccombere
il solo Cloridano, mentre Medoro è destinato a essere salvato dalla bella
Angelica; inoltre mancano descrizioni relative al ritrovamento dei guerrieri
uccisi nella strage. Eredità culturaleModifica A Eurialo e Niso sono
stati dedicati due crateri di Dione, uno dei satelliti di Saturno. Massimo
Bubola ha preso ispirazione dall'episodio virgiliano per una sua canzone
scritta in collaborazione con i Gang e da questi incisa in primis, intitolata
Eurialo e Niso, in cui si narra di due giovani partigiani - omonimi della
coppia di personaggi virgiliani - autori di una sortita notturna contro i
nazisti. Anche in questo caso la vicenda si conclude con la morte di entrambi
gli amici. FontiModifica Publio Virgilio Marone, Eneide, libri V e IX.
NoteModifica ^ Asio è invece molto più legato al principe troiano Deifobo, che
subito dopo la sua morte decide di vendicarlo Iliade (Monti)/Libro XIII -
Wikisource, su it.wikisource.org. URL consultato il 23 giugno 2021. Voci
correlateModifica Temi LGBT nella mitologia Irtaco Arisbe Asio (figlio di
Irtaco) Ippocoonte (figlio di Irtaco) Salio Volcente Cloridano Medoro (Orlando
furioso) Ramnete Remo (Eneide) Serrano (Eneide) Lamiro e Lamo Reto Cidone e
Clizio Decapitazione Reso Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons
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Portale Letteratura Portale Mitologia Scienza e
filosofia della complessità. Studi in memoria di Aldo Giorgio Gargani A cura di
Angelo Marinucci, Stefano Salvia, Luca Bellotti Collana “I Tempi e le Forme”
(Carocci) Aldo G. Gargani: la filosofia come analisi delle possibilità di
Alfonso Maurizio Iacono Introduzione di Angelo Marinucci e Stefano Salvia 1.
Determinismo, linearità, prevedibilità. Il problema dei tre corpi da Newton a
Poincaré di Stefano Salvia Genesi e sviluppo di un problema scientifico/La
prima formulazione esplicita del problema/Dalla geometria analitica all’analisi
algebrica/La controversia intorno a 1 r2/Il problema dei tre corpi ristretto/Il
Sistema solare è stabile?/Dall’analisi algebrica alla meccanica analitica/La
meccanica razionale e l’analisi classica/Il teorema di Poincaré: limite
invalicabile o nuovo spazio di possibilità? 2. Il problema della previsione in
un sistema deterministico classico di Andrea Cintio Introduzione/Il problema
dello studio delle evoluzioni temporali/Sistema dinamico/Il determinismo e il
problema delle previsioni delle evoluzioni/Evoluzioni caotiche/Dalle singole
orbite alle famiglie di sistemi/Il problema della previsione e la dipendenza
sensibile dalle condizioni iniziali 3. Ordine e caos nella scienza moderna di
Leone Fronzoni Introduzione/La riscoperta del caos/Le biforcazioni/Coerenza e
autorganizzazione/La turbolenza/Stati coerenti localizzati: i solitoni/La
sincronizzazione/Coerenza e disordine nella meccanica quantistica/Entropia e
complessità/Network/Conclusioni 4. Su Turing, gli algoritmi, le macchine, la
prevedibilità di Luca Bellotti Alan M. Turing (1912-1954): una brevissima
biografia/Una digressione: Penrose contro Turing/Algoritmi/Macchine di
Turing/Un’osservazione finale: sulla prevedibilità del comportamento delle
macchine di Turing 5. Come il futuro dipende dal passato e dagli eventi rari
nei sistemi viventi di Giuseppe Longo Introduzione/Storia e dipendenza dal
cammino in fisica: qualche confronto/La memoria: un esempio d’invariante
storicizzato/Gli osservabili biologici e le loro dinamiche evolutive/Verso il
futuro: sapere e imprevedibilità/ Tracce invarianti di una storia/Spazi
relazionali costruttivi e invarianza/Conoscenza del presente e invenzione del
futuro/Il ruolo della diversità e degli eventi rari/Conclusione 6. Possibilità
e realtà tra fisica e biologia di Angelo Marinucci Introduzione/Fisica classica/La
meccanica quantistica/La biologia/Conclusioni Bibliografia Gli autori Scienza e
filosofia della complessità: Studi in memoria di Aldo Giorgio Gargani, a cura
di: Angelo Marinucci, Stefano Salvia, Luca Bellotti, Carocci, Roma, 2020
Abstract Il volume raccoglie i contributi, ampiamente elaborati, presentati al
convegno Possibilità al di là della determinazione. Matematica, fisica e
filosofia della complessità, tenutosi all’Università di Pisa in memoria di Aldo
Giorgio Gargani. Dello studioso scomparso nel 2009 sono ben noti gli interessi
filosofici per la questione, nata nella fisica moderna e in altri saperi,
dell’emergere – in sistemi complessi – di possibilità che vanno,
irriducibilmente, al di là della determinazione.Aldo Giorgio Gargani. Gargani. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero,
dell’empatia, scambio, organisazzione condivisa – communicazione – implicatura
come condivisa – empatia – d. f. pears --. Mcguinness, Gargani on Grice –
ragione – Treccani -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gargani” – The
Swimming-Pool Library. Gargani.
Grice e Garin: l’implicatura conversazionale del
rinascimento -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rieti). Filosofo italiano. Grice: “Garin is a
serious student of what we may call the longitudinal, rather than latitudinal,
unity of Italian philosophy! If ever there is one!” -- Italian philosopher, author of a very rich,
“La cultura filosofica del rinascimento italiano.” And “L’umanesimo
italiano”Grice was Lit. Hum. Oxon, so he knew. Linceo. Studia sotto Limentani.
Frequenta il Liceo classico Galileo. Si laurea sotto Limentani. Vari studi
sull'Illuminismo che confluiranno nel volume sui moralisti inglesi. Subito dopo
la laurea sostenne e vinse il concorso per insegnare nei licei, cosa che
continuò a fare fino a quando vinse la cattedra da ordinario all'università.
Tra i commissari del concorso liceale c'era Guzzo, una figura che costituirà un
punto di riferimento per Garin quanto meno fino ai primi anni del dopoguerra. I
suoi riferimenti culturali non erano costituiti da intellettuali e politici
come Gramsci, ma da filosofi di matrice spiritualista e cattolica come
Lavelle, Senne, Castelli Gattinara di
Zubiena, Sciacca e lo stesso Guzzo. Iscritto al Partito Nazionale, pronuncia al
Lyceum di Firenze una commemorazione a Gentile. Una svolta nelle prospettiva
politica, filosofica e storiografica (le tre cose non vanno separate) si ha con
l'uscita dei Quaderni del carcere di Gramsci, che hanno fortemente influenzato
la sua filosofia nel costante riferimento alla concretezza del pensiero, e con
la pubblicazione delle Cronache di filosofia italiana”, fortemente sollecitato
da Laterza. Storico della filosofia molto legato al rigore filologico e al
lavoro sui testi, rifiuta la definizione di filosofo; è tuttavia considerabile
tale proprio in virtù delle sue polemiche anti-speculative e come influente
teorico della storiografia filosofica. Insegna a Firenze. Si ttrasferì a Pisa a
causa dei perduranti disordini della rivolta studentesca iniziata nel '68, di
cui non condivideva le modalità di lotta e che considerava espressione di
astratto rivoluzionarismo. La sua infaticabile avidità di letture
filosofiche lo rese consigliere prezioso. L’Accademia dei Lincei gli ha
conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Altre opere: “Giovanni Pico
della Mirandola. Vita e dottrina”; “Gli illuministi inglesi. I Moralisti; “Il
Rinascimento italiano”; “L'Umanesimo italiano”; “Medioevo e Rinascimento”; “Cronache
di filosofia italiana”; “L'educazione in Europa”; “La filosofia come sapere
storico”; “La filosofia nel Rinascimento italiano”; “La cultura italiana tra
Ottocento e Novecento”; “Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano”; “Storia
della filosofia italiana”; “Dal Rinascimento all'Illuminismo” “Filosofi italiani”; “ Rinascite e
rivoluzioni”; “Lo zodiaco della vita”; “Tra due secoli”; “Cartesio”; “L’Ermetismo
del Rinascimento”; “Gli editori italiani tra Ottocento e Novecento”; “La cultura
del Rinascimento”. Ciò non toglie che l'importanza della interpretazione del
Rinascimento che Garin ci dà nei suoi scritti e ci documenta nelle sue
edizioni, pubblicazioni, finissime traduzioni di testi umanistici di ogni tipo
(filosofico, politico, critico, letterario) possa essere, senza iperbole,
confrontata con l'importanza della evocazione del Burckhardt» in Cantimori,
Studi di storia, Torino, Einaudi, la Repubblica, Mecacci L., La Ghirlanda
fiorentina e la morte di Gentile, Adelphi, Milano, su lincei. Fondo G., Il
percorso storiografico di un maestro, Firenze, Le Lettere, Biondi, Dopo il
diluvio. G., l'ombra di Gentile e i bilanci della filosofia, in Un secolo
fiorentino, Arezzo, Helicon,,Olivia Catanorchi e Valentina Lepri, Dal
Rinascimento all'Illuminismo (Atti del convegno Firenze), Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura,. Ciliberto, G.. Un intellettuale nel Novecento, Roma,
Laterza,. Raffaele Liucci, Quelle ombre sul delitto Gentile in "Treccani
Magazine", La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile,
Adelphi, Milano, "Il Gramsci di G., in Archetipi del Novecento. Filosofia
della prassi e filosofia della realtà, Napoli, Bibliopolis, Umanesimo e
umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di G., Milano, FrancoAngeli, Treccani
Enciclopedie Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Eugenio Garin, su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Opere di G.. Negli ultimi anni della sua vita,
quando con ritrosia era portato a far¬ ne un sobrio bilancio, G. insisteva
a dire di essere stato so¬ prattutto un insegnante. «Ho sempre
insegnato», ripeteva. E insegnante lo era stato da giovanissimo, appena
ventenne, dei giovani della scuola di avviamento al lavoro di Fucecchio,
delle ‘ragazze di buona famiglia’ delle Mantellate di Firenze, alle quali
faceva lezione sorvegliato, giovinetto tra giovinette, da una severa
suorina, dei suoi quasi coetanei del Liceo Cannizzaro di Palermo, poi di quelli
del Liceo scientifico Leonardo da Vinci di Firenze, mentre, precoce in tutto,
sostituiva uno dei suoi maestri, Sarlo, neH’insegnamento universitario di
Filosofia teoretica. Aveva, insomma, sempre insegnato e, come si dice, in
ogni ordine di scuola dall’università in giù. Non saprei dire di G.
insegnante di liceo. Vorrei dire solo qualosa di G. docente universitario.
Credo che ognuno possa sostenere, e con ragione, di aver conosciuto e di
aver avuto un suo G.. Non già perché egli avesse la facoltà di adattarsi
a chi per dovere o per diletto lo volesse ascoltare. Anzi. Ma perché
ciascuno era messo in grado di reagire a quell’incontro con il proprio
carattere, con la propria formazione, con è scomparso G.. Al maestro
fiorentino e alla sua opera la Biblioteca Roncioniana aveva dedicato un
convegno (cfr. Giornata di studi, omaggio a G., «Bollettino Roncioniano»;
del convegno sono poi usciti gli atti: G.. Il percorso storiografico di
un maestro del Novecento, a cura di F. Audisio e A. Savorelli, Firenze,
Le Lettere). Pubblichiamo qui un ricordo di G., che Maurizio Tonini ha
letto neha cerimonia svoltasi in Palazzo vecchio , aha qua¬ le sono
intervenuti il Sindaco di Firenze, Domenici, Cacciali, Ciliberto, Luzi e Rossi.
Il testo è apparso neha brochure Per G., Napoli, Bibliopoli, edita a cura
diTonini e Francesco Del Franco, che si ringraziano per averne
acconsentito la ristampa in questa sede. Tonini le proprie
attese. In altre parole egli non intendeva plasmare l’ascoltatore, ma
solo offrire occasioni, occasioni cui ognuno doveva e poteva rispon¬ dere
a suo modo, liberamente. Non che il suo insegnamento fosse univo¬ co,
uguale dappertutto e per tutti: era un insegnante troppo navigato per
sapere che una cosa era far lezione agli studenti di Lettere e filosofia
assieme, un’altra ai soli filosofi, come ci chiamava, un’altra cosa ancora ai
laureati e laureandi. Sapeva bene che era diverso rivolgersi ai
colleghi in un convegno di studio, o parlare in una casa del popolo,
oppure rivolgersi a tutti, ai cittadini, come spesso gli è capitato proprio qui
nel Palazzo Vecchio della sua Firenze. Cambiavano i contenuti, mutavano i
toni, mai il carattere, l’alta professionalità, medesima sempre la
passione. G. non ha mai spezzettato il pane della cultura: ovunque, o a
chiunque avesse da parlare o da insegnare, lo sconosciuto studente che si
presentava all’esame, l’amico e collega, lo studioso straniero, il giovane
laureato, tutti meritavano sempre la stessa attenzione, il medesimo
trattamento. Sì che nella sua produzione letteraria le conferenze lincee e le
lezioni al Collège de France stanno insieme agli scritti, diciamo,
d’occasione, senza che il lettore ne colga, se non con l’aiuto di
riferimenti bibliografici, la loro provenienza e la loro
destinazione. Niente gli era più alieno, fisicamente e metaforicamente,
dell’espressione ‘prendere per mano’. Garin non prendeva per mano nessuno: apre
un libro, i cui capitoli anda narrando di volta in volta. Un libro sempre
nuovo. Per chi sapeva apprezzarlo, quel libro conduceva a altri libri,
poi a una collana, infine a una biblioteca, spesso la sua. Un libro somigliante
a quello di un autore a lui carissimo, Laurence Sterne, La vita e le
opinioni di Tristram Shandy, fatto di parentesi, di divagazioni apparenti,
di vie traverse che sembrano far perdere di vista il contenuto promesso
fino a farlo dimenticare, ma che in realtà indicano tutto ciò che è
necessario per cominciare, più tardi altrove, la lettura. Come in un
libro ciascuno, per proprio conto, doveva specchiarvisi, trovarvi, se
volete, la propria strada, senza ammiccamenti né scorciatoie. E come con
un libro, ciascu¬ no instaurava con lui un rapporto individuale: per
quanto paradossale, la sua lezione non consentiva alcuna lettura corale,
alcuna possibilità di dispense, alcuna versione ufficiale. Considerava la
cultura, lo ha scritto, la «conquista di una più profonda coscienza di sé». E
l’università era cultura. In questo senso il suo non è mai stato un
insegnamento demagogicamente democratico, né si è mai considerato un
missionario, né ha considerato il proprio lavoro una missione. Piuttosto un
funzionario, come amò talora definirsi, civettando con il motivo del
trasferimento della sua famiglia a Firenze, che assicurava un viaggio su
un treno sicuro, tecnicamente aggiornato, ben condotto, ma che, al pari
di un capotreno, non era, e non si considerava, poi re¬ sponsabile se i
viaggiatori scendevano alle stazioni intermedie e prendevano altre direzioni.
Non credo si sia mai sentito coinvolto nelle scelte al¬ trui, né voleva
esserlo. Non si prestava, pur avendone le doti, a essere il pifferaio
fascinatore di candide giovinette e di timidi giovinotti. Lo avrebbe
considerato un tradimento, un traviamento del suo compito, che era
appunto, e solo, quello di insegnare la filosofia, di insegnare a capirne
la storia, di fare cultura, ma sempre altro da convincere o da portare su
una strada che non fosse già in qualche modo segnata, e segnata indivi¬
dualmente, in chi lo ascoltava. Un pescatore anche, ma un pescatore
che gettava reti larghe e profonde nelle quali si aspettava che i pesci
entrassero spontaneamente, mai che venissero catturati. I suoi pesci
erano e dovevano essere studenti maturi — non venivano infatti da un esame che
ne aveva certificato proprio la maturità? — che egli considerava suoi
pari, almeno per quel che riguar¬ da il cartesiano bori sens, la bona
mens, la cosa più diffusa e più equamente distribuita tra gli uomini, sì
che la differenza tra lui e noi riguardava, ga¬ lileianamente,
l’estensione del sapere, non la capacità di comprendere. Il severo,
severissimo Garin, che tanto spaventava le matricole, era un benevolo
confessore dell’ignoranza dei suoi studenti. E quelli più maturi
imparavano subito che la migliore risposta alle domande che fioccavano in
aula era quella di confessarla subito quella ignoranza, anche quando si
era quasi sicuri della risposta (ma chi era sicuro di fronte a Garin?).
Certo, quell’estensione del sapere costituiva una barriera, una
differenza di cui era consapevole lui e consapevoli noi, una barriera quantita¬
tiva, ci faceva credere, scalabile e riducibile, quasi come una differenza
di età, mai come un’inattingibile diversità, che mai si trasformava in
pater¬ nalistica condiscendenza. Quella barriera si sgretolava nella
generosa disponibilità a fornire indicazioni e libri, al reiterato prestarsi a
spiegare non solo le tematiche del proprio corso, ma a offrirsi di
guidare piccoli gruppi alla lettura dei testi (Hegel, Kant o Husserl) dei
corsi di altri colleghi che ci risultassero particolarmente difficili. Il
grande intellettuale non dimen¬ ticava in nessuna occasione la sua
professione: non solo nel rigido adem¬ pimento dei suoi obblighi di
docente, nella proverbiale puntualità, nella scrupolosa preparazione dei
corsi (i ‘bauli’ di libri che partivano anzitempo per la montagna), nella
paziente e tanto prodiga lettura dei capitoli delle tesi di laurea, nella
curiosità con cui ogni anno rinnovava l’incontro con i suoi giovani
interlocutori. Aveva trasformato una precoce vocazione in una professione, in
un affetto per il proprio lavoro, prima ancora che per chi dovesse
usufruirne, in una disciplina che scherzosamente at- G. La lezione
di un maestro tribuiva alle lontane origini savoiarde, ma che forse è la
chiave per cogliere la sua straordinaria e mai dismessa operosità, la
freschezza di ogni suo intervento. Garin non è mai stato altro che un
insegnante: poche, modeste e occasionali le cariche accademiche, nelle quali
emergevano un’insofferenza e una scontrosità imprevedibili nel professore,
altrettanto rare quelle istituzionali o editoriali e solo al termine, o
quasi, della sua carriera scolastica, nessuna, ovviamente, carica
politica, in un uomo che aveva, come sapete, una grande e perdurante
passione civile, per la sua scuola, per la sua città, per il suo paese.
Credo che nulla gli sarebbe apparso più estraneo e spiacevole di esser
considerato a capo di qualcosa, fosse un istituto, una rivista o una cordata
accademica. Di fatto non c’è mai stata una scuola di G., ci sono stati, e
ci sono, tanti che hanno studiato e si sono laureati con lui, che hanno
lavorato con lui, che hanno condiviso aspetti e momenti del suo lavoro,
che si sono incontrati con lui, ma niente di più. Incauti giovinetti, invidiavamo
gli allievi di Dal PRA, che il maestro radunava a S. Margherita o sul
lago di Garda, cui apriva la «Rivista critica di storia della filosofia»,
la collana del centro milanese di storia della filosofia. O quelli di Paci, che
si ritrovavano su «aut aut», che si incontravano nelle edizioni del
Saggiatore, ricordavamo e ricono¬ scevamo quelli di Banfi o quelli
emergenti di Geymonat, che attendevano a imponenti opere collettive, e tanti
altri che andavano sorgendo vicino e lontano. G. non aveva nulla: non ha mai
diretto opere colletti¬ ve, non ha mai organizzato convegni né li ha
fatti organizzare, mai collane editoriali. Quando ciò è avvenuto, in tarda età,
con l’ISTITUTO NAZIONALE DEL RINASCIMENTO o con il «Giornale critico della
filosofia italiana», tutto si è potuto e si può dire, fuori che fossero
espressioni di una scuola o di un gruppo che in lui si riconoscesse o che
in lui fosse ricono¬ scibile. Neanche quando alla Scuola Normale di Pisa
gli si è offerta l’opportunità di cogliere ancora una volta una straordinaria e
entusiasta messe di giovani studiosi, è venuto meno il carattere del suo
insegnamento. Lì, come in S. Marco e poi in Piazza Brunelleschi, non ha
mancato di offrire opportunità, un’occasione irripetibile, anzi,
generosamente resa disponi¬ bile, ma sempre e solo per chi aveva modo e
voglia di coglierla e di realizzarne le potenzialità, ma lasciando a ciascuno
la libertà di decidere, di interpretare quell’incontro, di farne ciò che
voleva. Il severo Garin non rimproverava mai: non gli sarebbe mai venuto
in mente di riprenderci, come capitava al suo amico e collega CANTIMORI o
a RAGIONIERI, se mancavamo a una seduta
di seminario e venivamo sorpresi in biblioteca o, peggio, al bar. Ma neppure
gli sarebbe venuto in mente di TONINI portarci nello stesso bar a prendere
un aperitivo o un caffè, come capitava spesso con Cantimori e
occasionalmente con Ragionieri. Non voleva essere né un padre, né
un maestro di vita. Non credo neppure che volesse additarci un modello:
era piuttosto una lezione di maturità, di piena e consapevole democrazia
intesa come rigoroso rispet¬ to dei ruoli, quella a cui ci chiamava, e
che per molti era anche la prima. Il suo dovere era quello di insegnare,
del nostro dovevamo rispondere noi. Scendeva dalla cattedra per aiutarci
a leggere un testo, per offrirci un’indicazione, per mostrarci un passo
di un libro, sedeva tra noi a discutere di Cartesio o di Platone, e la lezione
poteva proseguire nella Biblioteca di Facoltà, o vicino ai tavoli della
Nazionale o tra i libri di Seeber, ma senza mai abdicare alla sua
funzione: non sarebbe mai sceso a discutere con noi il corso dell’anno
seguente, la sua organizzazione, le sue modalità. A ciascuno il suo. Non
discuteva le nostre scelte di vita, i propositi di lavoro, le carriere.
Li considerava su un altro piano, nel quale l’insegnante non doveva né
poteva intromettersi: li accettava. Al massimo inarcava le ciglia, come
nei lavori che gli sottoponevamo, e abbiamo continuato a sottoporgli,
quando un impercettibile segno di lapis segnalava i dubbi e gli errori di
sintassi. Cittadino di forti passioni civili, le lasciava tutte, fuorché
quella di insegnare, fuori dall’aula. Era facile sapere come la pensa, lo
leggevamo su «Paese sera», su «l’Unità», su «Rinascita», lo seguivamo nelle
Case del popolo, al Circolo di cultura, ma non si è mai innescata, con lui, una
forma qualsiasi di intesa, di complicità, oserei dire, che prescindesse
da quella unica e prevalente di insegnante e studente. G. ci ha lasciato
centinaia, migliaia di pagine in cui ci ha insegnato come ricostruire figure
di pensatori grandi e piccoli, da ASTORINI a Cartesio, da CITTADINI a
Giovanni PICO della Mirandola. Ha ricostruito squarci del nostro passato
culturale e civile, da CROCE a GENTILE, da GRAMSCI a LABRIOLA, da CAPPONI a
VILLARI, ci ha dato testi e momenti del nostro passato filosofico che
hanno costituito e costituiscono un’eredità operante, viva e vitale per ognuno
che voglia fare una professione simile alla sua. Non ci ha potuto
lasciare, ed è purtroppo destinato a perdersi, quello che gli pareva più
importante: la sua lezione. Mi accorgo, nel concludere, di aver ricordato
una scuola, un’università che non c’è più. Non saprei dire se l’attuale, nella
quale molti di noi si trovano ora, sia migliore o peggiore di quella. Mi
auguro, e lo auguro soprattutto ai più giovani, di potervi incontrare ancora un
insegnante come G. L'insidia implicita nel concetto stesso di genere letterario ha non di rado contribuito a falsare la prospettiva necessaria a ben collocare la produzione filosofica
dell’umanesimo. Eta in cui vennero predominando preoccupazioni critiche, in cui tutta l'attivita
spirituale e impegnata a costruire una respublica terrena, degna pienamente dell'uomo nobile,
trova la sua espressione piu alta in opere di contenuto in largo senso moralistico
e di tono retorico, in cui non solo si consegna un modo di concepire la vita, ma si difende
e si giustifica polemicamente un atteggiamento originale in ogni suo tratto. Per questo chi voglia andar cercando le pagine esemplari dell’epoca,
le piu profondamente espressive, dovra
rivolgersi, non gia a testi per
tradizione considerati monumenti letterari, ma
alle opere in cui veramente si manifest6
tutto 1'impegno umano della nuova civilta.
Cosi, mentre chi prenda a scorrere
novelle umani- stiche non potra non
uscir deluso da talune, piu che
imitazioni, traduzioni, o meglio raffazzonamenti,
di modelli boccacceschi, quali troviamo, tanto
per esemplificare, in un Bartolomeo Fazio,
pagine di insospettata bellezza, capaci di
colpire ogni piu raffinata sensibilita, ci
si fanno incontro nei trattati e nei
dialoghi di Poggio Bracciolini, e perfino
nelle opere di un filosofo di
professione, dall’andamento talora scolasticizzante,
qual & Ficino. E proprio il
Ficino della Theologia platonica, presentando
gli uomini travagliati dalla malinconia
della vita e desiderosi che tutto sia
un sogno (wforsitan non sunt vera
quae nunc nobis ap parent, forsitan in
praesentia somniamus»),2 defmisce nei suoi
particolari espressivi un tema di
larghissima risonanza in tutta la
letteratura europea. Sempre FICINO, nel
Liber de Sole, pur parafrasando talora l’orazione
famosa dell'imperatore GIULIANO, fissa i
momenti di quella «lalda del sole))
che, attraverso Leonardo da Vinc, arriva fino
alPinno ispirato di Campanella. Leonardo
rimanda esplicitamente all'apertura del terzo
libro degli Inni naturali del Marullo;
ma chi veramente, ancora una volta,
in una prosa di grandissimo
impegno, ci offre tutti i temi di quella si. «L'omo nato nobile e in citt& libera»- come
diii PICCOLOMINI. FICINO, Opera, Basileae,
per Henricum Petri. (Theol plat.). lenne
preghiera di ringraziamento alia fonte di
ogni vita e di ogni luce, e
proprio Ficino. Del quale e la non
dimenticabile raffigu- razione di una
tenebra totale, ove e spento ogni
astro, che fascia lungamente i viventi, finche
di colpo il cielo si apre per
mo- strare colui che e sola forma
visibile del Dio verace. E ficiniana
e 1'opposizione del carcere oscuro e
della luce di vita, della te nebra
di morte e dei germi rinnovellati
dalla luce e dal calore solare, in
cui si articolera il metro barbaro di
Campanella. Ma per rimanere agli scritti
di un medesimo autore, ALBERTI, non
grande imitatore del BOCCACCIO, raggiunge
invece la sua piena efficacia quando
costruisce i suoi dialoghi, e sa
essere perfettamente originale pur intessendoli
di reminiscenze classiche. Perfino la tanto
celebrata Historia de
Eurialo et Lucretia di Enea Silvio perde tutto il suo colore innanzi alle pagine dei Commentarii'*e sono piu facili a dimenticarsi i casi
di Lucrezia che non le stanze delle antiche regine divenute nidi di serpi, o le porpore
dei magistrati romani rievocate fra Tedera
che copre le pietre rose dal tempo,
o i topi che corrono la notte nei sotterranei di un convento e il papa che caccia sdegnato i monaci ne- gligenti. Per non dire di quella feroce presentazione dei cardinali, fissati in ritratti nitidissimi con rapide Imee
mentre per complottare trasferiscono nelle
latrine la solennita del conclave.
Poggio consegna a trattati di morale
narrazioni scintillanti di arguzia, spesso
molto piu facete di tutte le sue
Facezie. I mari di Grecia percorsi
sognando di Ulisse, il fasto delle corti
d'Oriente, le belve africane, i fiumi
immensi, et per Nilum horrifici illi
anguigeni crocodiliw, si alternano a
discussioni erudite sulle iscrizioni delle
Piramidi nelle lettere agli amici e
nel taccuino di viaggio di quel
bizzarro e geniale archeologo che fu
Ciriaco dej Pizzicolli d'Ancona. E forse il
grande Poliziano ha scritto le sue
pagine piu belle nella prolusione al
corso sugli Analitici primi d' Aristotele e
nella lettera alPAntiquario sulla morte del
Magnifico Lorenzo. Lettere dialoghi e trattati,
orazioni e note autobiografiche, sono i
monumenti piu alti della letteratura del
Quattro cento, e tanto piu efficaci quanto meno 1'autore si chiude nelle
i. «La novella era un genere troppo
definite, troppo condizionato nelle sue linee
essenziali da una tradizione ormai piu
che secolare, perche il Piccolomini potesse
eluderne il colorito e gli schemi»
(PAPARELLI, Enea Silvio Piccolomini, Bari, Laterza).
forme tradizionali, quanto piii si impegna
nel problema concrete che lo preoccupa,1
o si accende di passione politica nel
discorso e nell'invettiva, o si dimentica
nella confessione e nella *lettera.
Poliziano, che della produzione letteraria
del suo tempo fu il critico piu
accorto e consapevole, e che ha
dichiarato con grande precisione i suoi
princlpi dottrinali nella prefazione ai
Miscellanea, nella lettera al Cortese e,
soprattutto, nella grande prolusione a
Stazio e Quintiliano, ha visto molto
bene come alPumanesimo fossero intrinsiche
particolari maniere espressive. Proprio nelle
prime lezioni del suo corso sulle
Selve di Stazio, con la cura minuta
che gli era propria, si sofferma a
dissertare abbastanza a lungo intorno a
due forme letterarie tipiche, Fepistola e
il dialogo,2 accennando insieme al genere
oratorio, da cui gli altri due si
distaccano pur non senza svelare un'intima
parentela. L'epistola — egli dice — e
il colloquio con gli assenti, siano
essi lon- tani da noi nello spazio
oppure nel tempo: e vi sono due
specie di lettere, scherzose le une,
gravi e dottrinali le altre («altera
ociosa, gravis et severa altera))).3 Ma
1'epistola deve essere sempre i. In
una compilazione erudita come i Dies
geniales di Alessandro d'Alessandro la
discussione filologica si inserisce con
eleganza fra il « ritratto» e il
«ricordo» senza togliere a questi alcuna
grazia, cosi che la discus sione di
un testo classico si colloca nella
descrizione di un compleanno del Pontano
o di una cena di Ermolao Barbaro,
o fa seguito a una lezione romana del
Filelfo (cfr. CROCE, Varietd di storia
letteraria e civile, n, Bari, Laterza. A
proposito del dialogo e dell'epistola come
forme caratteristiche dell'umanesimo e da
vedere quan to dice WALTER RttEGG,
Cicero und der Humanismus, Formate
Untersuchungen iiber Petrarca und Erasmus,
Zurich, Rhein-Verlag, anche se a proposito
della sua tendenza a ricondurre tutto
a CICERONE e da tener presente la nota
che CROCE stese appunto
sull'opera del Rxiegg (Mommsen e CICERONE,
in Varietd cit., pp. 1-12). 3. II
commento del Poliziano e nel ms.
Magliab. vn, (Bibl. Naz. Firenze). II
testo in questione e a c. 4V-5V
(«est ergo proprie epistola, id quod
ex Ciceronis verbis colligimus, scriptionis
genus quo certiores fa- cimus absentes
si quid est quod aut ipsorum aut
nostra interesse arbitremur. Eiusque tamen
et aliae sunt species atque multiplices,
sed duae praecipuae . . . altera
ociosa, gravis et severa altera. Atqui
neque omnis materia epistolis accommodata
est... Brevem autem concisamque esse
oportet simplicis ipsius rei expositionem,
eamque simplicibus verbis. Multas epistolae
inesse convenit festivitates, amoris
significationes, multa proverbia, ut quae
communia sunt atque ipsi multitudini
accommodata. Qui vero sententias venatur
quique adhortationibus utitur nimiis, iam
non epistolam, sed artificium oratorium. Epistola
velut pars altera dialogi. . . maiore
quadam concinnatione epistola indiget quam dialogus imitatur
enim hie extemporaliter loquentem at
epistola scribitur»). breve e concisa,
semplice, con semplici espressioni, ricca
di brio, di affettuosita, di motti,
di proverbi (amulta proverbia, ut quae
communia sunt atque ipsi multitudini
accommodata»). Ne la lettera deve prendere
un tono troppo sentenzioso e ammonitorio,
altri- menti non si ha piu una
lettera ma una elaborata orazione («iam non
epistolam, sed artificium oratorium))). L'epistola
e come la battuta singola, e die
rimane quasi sospesa, di un dialogo
(«velut pars altera dialogi»), anche se
deve essere formalmente piu cu- rata
del dialogo, che per essere schietto
deve imitare ii discorso improwisato,
mentre Tepistola e per sua natura
discorso medi- tato e scritto. In tal
modo un carteggio viene ad essere un
dia logo compiuto e vario; e non va
dimenticato come proprio il cu- rioso
epistolario del Poliziano ci offra un
esempio caratteristico di simili colloqui.
Non a caso, con la sua grande
sensibilita critica, il Poliziano batteva
proprio su queste forme: ad esse
infatti si pu6 ricondurre quasi tutta
la piu significativa produzione latina in
prosa del Quat trocento, poiche anche
il diario, il taccuino di viaggio, si
confi- gura di continue come lettera
ad un amico. Cosi, per ricordare
ancora V Itinerarium di Ciriaco d'Ancona,
noi vi troviamo ripor- tati di peso
i temi e le espressioni medesime
delle epistole.1 6 stato detto, ma
non del tutto giustamente, che «PUmanesimo
fu una rivoluzione formale»;3
in verita la profonda novita
formale aderiva esattamente a una rivoluzione sostanziale che
facendo centro nella CONVERSAZIONE CIVILE,
nella vita civile, po- i. Itinerarium:
ego quidem interea magno visendi orbis studio,
ut ea quae iamdiu mihi maximae curae
fuere antiquarum rerum monumenta undique
terris diffusa vestigare perficiam. Hinc
ego rei nostrae gratia et magno utique et innato visendi orbis desiderio.
Epist. Boruele Grimaldo (ins. Targioni, Bibl.
Naz. Firenze): «cum et a teneris
annis summus ille visendi orbis amor
innatus esset ...» Del resto tutta 1'
opera di Ciriaco e una serie di
variazioni di questo appassionato motivo:
summus ille visendi orbis amor, antiquarum
rerum monumenta vestigare, quae in dies
longi temporis labe . . . collabuntur
. . . litteris mandare. La sete
di conoscere il mondo, il bisogno di
vincere spazio e tempo, di riconqui-
stare ogni piu lontano frammento d'umanita
e di sottrarlo alia morte, e insieme
questo senso concrete del passato trovano
in lui una espres- sione singolare.
Nella medesima epistola a
Bruni abbiarno in sieme notizia di un'iscrizione
inviata da Atene
(ex me nuper Athenis) e della difesa di Cesare contro Bracciolini
spedita dall'Epiro (ex Epyro hisce nuper
diebus. Cosl, appunto, il Riiegg, («der
Humanismus ist eine formale, nicht eine
dogmatische Revolution»). neva il colloquio
come forma espressiva esemplare.1 E se
la lettera deve essere considerata velut
pars altera dialogi, Fattenzione si
polarizza sul dialogo: ed in forma di
dialogo e in genere il trattato, di
argomento morale o politico o filosofico
in senso lato, che rispecchia la vita
di una umana respublica e traduce
perfetta- mente questa collaborazione voita
a formare uomini ccnobili e liberi,
che costituisce 1'essenza stessa della
humanitas rinascimentale. La quale celebrandosi
nella societa umana tende a persua-
dere, a far culminare ogni incontro
in una trasformazione degli altri
attraverso una riforma interiore raggiunta
per mezzo della politia litteraria.Limiti e
prolungamenti del colloquio ci appaiono da
un lato la notazione autobiogranca,
dalTaltro il pubblico discorso, 1'orazione,
che attraverso la polemica arriva
all'invettiva. I cancellieri fiorentini, Salutati
e Bruni, ci ofFrono esempi insigni di
questo intrinsecarsi di letteratura e
politic, di questa prosa che deU'efficacia
e potenza espressiva si fa un'arma
piu valida delle schiere combattenti. La
lode famosa di Pio II alia saggezza
di Firenze, e ai suoi dotti
cancellieri le cui epistole spaventavano
Gian Galeazzo Visconti piu di corazzate
truppe di cavalleria, non e che la
proclamazione del valore di una propaganda
fatta su un piano superiore di
cultura in una societa educata ad
acco- gliere e a rispettare la
superiorita della cultur. L'incontro di po
litica e cultura a Firenze e a
Venezia ritrova la valutazione della
«retorica» di un Poliziano e di un Barbaro,
e giova a defimre un'epoca che
cercava i suoi titoli di nobilta al
di fuori dei diritti del sangue. La «
virtu», che non e certamente un bene
ereditato, e sempre intelligenza, humanitas.,
e cioe consapevolezza e cultura. Anche
quando, nelle discussioni non infrequenti
sulP argomento, si riconosce il valore della milizia,
s'intende una sottile dottrina, ove il
valore personale del capo e intessuto
di sapienza. Federigo da Montefeltro —
e poco ci importa se il ritratto
sia fedele — e profondamente addottrinato,
e sa che i poeti descrivendo le
battaglie possono divenire anch'essi maestri
delParte della guerra. Alfonso il Magnanimo
reca seco al campo una piccola
biblioteca, e pensa sempre a poeti e
a filosofi, e sa che la parola
bene adoprata, ossia veramente espressiva,
e piu potente di ogni esercito.
i. C'& appena bisogno di
ricordare che si tratta dei titoli delle
opere di Matteo Palmieri e del
Guazzo. E ancora il titolo di un'opera
significativa, quella di A. Decembrio in
cui si rispecchia la scuola del
Guarino. II suo motto, racconta Vespasiano
da Bisticci, era che un re non
letterato, e un asino coronato. II
che non significa, si badi, che ser
Coluccio fosse un vuoto retore, o
Alfonso un re da ser- mone, ma
che la cultura era, essa, viva ed
efficace e umana, e perfetta espressione di
una societa capace d'accoglierla. L'uomo
che nel linguaggio celeb ra veramente se
stesso -- l'uomo si manifesta uomo
essenzialmente nella parola ,come si costituisce
in pienezza definendosi attraverso la
cultura (le litterae che formano la
humanitas), cosi raggiunge ogni sua
efficacia mondana mediante la parola
persuasiva, mediante la «retorica» intesa
nel suo significato profondo di medicina
dell'anima, signora delle passioni, educatrice
vera dell'uomo, costruttrice e distruttrice
delle citta. Tutto e, veramente, nel
Quattrocento retorica)), sol che si ricordi
ch, d'altra parte, retorica e umanita, ossia
spiritua- lita, consapevolezza, ragione, discorso
di uomini; perche', veramente, il secolo
dell’umanesimo e il Quattrocento, in cui
tutto fu inteso sub specie humanitatis,
e humanitas e umano colloquio, ossia
tutto il regno delle Muse figlie di
Mnemosine — che e il piu vero e
il piii bello dei miti. Con
semplicita francescana frate Bernardino da
Siena, che vede in ser Coluccio un
maestro e in Leonardo Bruni un amico,
scriveva cristianamente le medesime cose:
«non aresti tu gran piacere se tu
vedessi o udissi predicare Gesu Cristo,
san Paulo, santo Gregorio, santo Geronimo
o santo Ambruogio? Orsu va, leggi i
loro libri, qual piu ti piace .
. . e parlerai con loro, ed
eglino parleranno teco; udiranno te e
tu udirai loro». E, come dice
altrove, le lettere ti faranno signore.
II grande Valla parlera di un
sacramentum\ il modesto Bartolomeo della
Fonte dira di un divinwn mimen: quel
«nume» che da agli uomini anozze e
tribunali ed are. Per questo le litterae
sono una cosa terri- bilmente seria,
e la responsabilita di un termine bene
usato & gravissima, e non v'e
posto per Fozio. Per questo la poesia
in senso vichiano e da cercarsi la
dove si traducono e si consegnano i
discorsi essenziali per la vita delFuomo.
i. Cosi FLORA, Umanesimo, « Letterature
moderne», -Ecco — secondo il Fonzio —
quello che ottiene la parola: «fidem
inter se homines colere, matrimonia inire,
seque in una moenia cogere viribus
eloquentiae compulit». Per tal modo
quella «poesia» che talora & lontana
dai versi e dalle novelle, e presente
ed altissima nella pagina di un
filosofo o nell'appassionata invettiva di un
politico. La dolcezza del dire (dulcedo
et sonoritas verborum), la luce della
forma (lux orationis), che si invoca
per ogni espressione di vera umanita,
vuol far «poesia» di ogni umano
discorso; e nel momento in cui riesce
a tanto toglie ogni privilegiato dominio
alle dettere oziose. Perfino un oscuro
erudito come CASSI d'Arezzo sa dirci che
in tal modo nell'eloquenza si unificano
tutte le umane attivita, e tutto in
essa si umanizza dawero, e non perche come
taluno ha fan- tasticato, si celebri
solo il letterato ozioso, ma al
contrario perche 1'uomo e presente in
ogni momento dell'agire: perche, faccia
egli il matematico, il medico, il
soldato o il sacerdote, sempre e
innanzitutto e uomo, e il suo sigillo
umano imprime ad ogni sua opera umanamente
esprimendola, ossia rivestendola della lux
orationis. Di qui l’importanza centrale
che vengono ad assumere le trattazioni
sulla lingua, sulla sua storia, sulla
eleganza? ove la discus- sione grammaticale
si trasforma di continuo in discorso
finissimo di estetica: e quel trapassare
dal vocabolario, e magari dal reper-
torio ortografico — basti pensare al
Perotto o a Tortelli — nel- Panalisi
critica e nella dissertazione storica.
Mentre, contemporaneamente, la storia, che
intende farsi vivo specchio della a
vita civile)), e per eccellenza eloquente
discorso, ossia prosa politica e trattato
pedagogico-morale. Bellissima cosa & infatti
— come afferma Bruni — raccontare
1'origine prima e il progresso della propria
citta, e conoscere le imprese dei
popoli liberi (est enim decorum cum
propriae gentis originem et progressus,
turn libe- i. « Quasi unum in
corpus convenerunt scientiae omnes, et
rursus tem- poribus nostris . . .
eloquentiae studiis studia sapientiae coniuncta
sunt» (da una lettera del Cassi al
Tortelli, contenuta nel Vat. lat. e
pubblicata da GAMURRINI, Arezzo e
rUmanesimo, Arezzo, Cristelli, miscellanea in
onore del Petrarca dell'Accademia Petrarca).
2. A proposito delle eleganze del
Valla scrivera il Cortesi, De hominibus
doctis, ed. Galletti, Florentiae, Giovanni
Mazzoni, conabatur Valla vim verborum exprimere
et quasi vias ... ad structuram
orationis». rorum populorum... res gestas
cognoscere). Cortesi, in quel felice dialogo
De hominibus doctis, che e una vera
e propria storia critica della letteratura
del secolo XV, appunto discorrendo delle
storie del Bruni, batte su questo
incontro della verita con 1'eleganza, che
e tutt'uno con queH'armonia di sapienza
ed eloquenza che Benedetto Accolti celebr6
quale dote precipua dei Fiorentini e del
Veneziani del suo tempo nel dialogo
De praestantia virorum sui aevi. Per
la stessa ragione per cui tutto
sembrava divenir dialogo, tutto anche e
libro di storia; e storia e, ancora,
colloquio con le eta antiche, con i
grandi spiriti del passato. Bruni
nell'introduzione ai Commentarii confessa che
la grande letteratura clas- sica fa
si che i tempi lontani ci siano
piu vicini e piu noti dei tempi
nostri (mihi quidem Ciceronis Demosthenisque
tempera multo magis nota videntur quam
ilia quae fuerunt iam annis sexaginta),
e dichiara che e compito della storia
immettere nella nostra vita e nel
nostro colloquio il passato, farlo vivo
con noi (quasi picturam quondam . .
. viventem adhuc spirantemque). Palmieri
innanzi alia vita di ACCIAUOLI ci insegna
che la storia e una specie di
immortalita terrena di quanto in noi
e, appunto, vita mondanala storia &
culto e salvezza di quella parte
mortale che le lettere redimono da
morte dilatando la societk umana oltre
i limiti del tempo e salvandola
dalPoblio e dal destino.2 Ill
Si aprono qui, tuttavia, a proposito
della prosa latina, due que- stioni
fra loro strettamente connesse e che
sembrano in qualche modo, gia nella
loro impostazione, venir contrastando con
quei i. Cosi nel De studiis et
litteris (in HANS BARON, BRUNI Aretino
humanistisch-philosophische Schriften, Leipzig). Una
giusta valutazione dell’opera storica di BRUNI
presenta B. L. Ullman, BRUNI and
humanistic historiography, « Medievalia et Humanistica
» (e, per quanto si e sopra osservato
su retorica, politica e storia, son da
vedere i tre saggi di HANS BARON,
Das Erwachen des historischen Denkens im
Humanismus des Quattrocento, «Hist. Zeitschrift»;
di RUBINSTEIN, The
Beginnings of Political Thought in
Florence: A Study in Mediaeval Historiography,
« Journal Warburg Inst. »; di CANTIMORI,
Rhetoric and Politics in Italian Humanism,
«Journ. Warburg Inst.»; « Corpoream vero partem
non om- nino negligendam ducunt, sed
tamquam suam in terra recolendam, ideo-
que desiderant illam oblivioni et fato
praeripere ...» caratteri stessi che si
sono voluti definire: come, infatti,
parlare della «umanita» di una
produzione che si serve di una lingua che nessuno ormai usa
e che, dunque, gia nel mezzo espressivo pone
come suo canone l’imitazione; in che modo
una filosofia mimetica, ricalcata su modelli ciiceroniani,
poteva ol- trepassare i limiti della
erudizione? Ma i due gravi
problemi, del latino umanistico e dell’imitazione classica,
gia tanto dibattuti, hanno oramai offerto
anche 1'avvio a una soluzione. Quanto
infatti si obbietta intorno alPuso del
latino, in luogo del volgare, e ad
una presunta frattura che si opererebbe rispetto
alia tradizione trecentesca, deve essere
corretto con Posservazione che i generi
di prosa a cui ci riferiamo —
orazioni, trattati, epi- stole politiche,
dialoghi dottrinali — avevano sempre fatto
uso del latino. Non e quindi esatto
dire che da un presunto uso del
vol gare si torna al latino; e
vero invece che al latino medievale
defi nite barbarico, e cioe goto o
parigino, si oppone un altro latino
che si determina e si definisce
rispetto ai modelli classici. II quale
latino, che si dichiara — come dice
esplicitamente il PLATINA — integrate da
tutta la piu feconda tradizione
postciceroniana, ivi compresi i Padri della
Chiesa, intende rivendicare i diritti di
una lingua nazionale romana contro
Puniversalita di un gergo scola-stico (lo
stile parigino), ed innanzi tutto
nel campo di una produzione costantemente
espressa in latino. Giustamente il SANCTIS sottoline la frase del VALLA
che proclama lingua nostra il latino vero, che si contrappone al latino gotico dell’uso medievale. La quale
« nostra lingua romana degl’umanisti, che si precisa
con caratteri propri cosi rispetto al
latino classico come a quello barbaro,
va vista per quello che essa
veramente e, anche rispetto al volgare:
«un nuovo latino, in cui la
complessita antica cede il posto alia
scioltezza moderna)). Il latino degl’umanisti, lingua veramente viva che aderisce in pieno a una cultura affermatasi attraverso una consapevolezza critica che
si collocava chia-ramente nel tempo
defmendo i propri rapporti cosl col
mondo antico come con il Medioevo; il
latino deigrandi umanisti, lungi dal
rappresentare una battuta d'arresto o un
momento di invo- i. Cosi nella
prefazione alle Vite, che riportiamo per
intero. Rilievi utili in proposito ha
il Sabbadini sia nella Storia del
ciceronianismo (Torino, Loescher), come nel
Metodo degli umanisti (Firenze, Le
Monnier). luzione, si colloca nella
storia stessa del volgare. Il latino insegna
al volgare l'eleganza la misura la forza e 1'eloquenza, e il volgare imprime
ne’ filosofi umanisti le leggi del suo andamento piano, della sua sintassi sciolta, dei
suoi trapassi intuitivi, della sua eloquenza
interiore. Fra il latino, in cui si rispecchia pienamente tutto un atteggiamento culturale, e il volgare v’e una collaborazione che del resto
si traduce quasi materialmente nel fatto
che gli autori spesso scrivono 1'opera
loro in latino e in italiano. Non
sempre si e posto mente al fatto che
dal Manetti al FICINO gli stessi trattatisti, siano pur filosofi, stendono anche in volgare le loro meditazioni.
E come il loro latino e davvero una
lingua low., cosi il volgare che
adoperano non e per nulla oppresso da
una imitazione artificiosa di modelli
classici. Giungiamo cosi a quello che
forse e il punto piu delicato ad
intendersi dell'atteggiamento di questi
quattrocentisti: Vimita zione degl’antichi. Che la posizione assunta dagl’umanisti
rispetto agli autori classici sia
alimentata da una preoccupazione storica e
critica; che essi siano dei filologi desiderosi
innanzitutto di comprendere gli autori del
passato nelle loro reali
dimension! e nella loro situazione concreta: e cosa ormai in complesso pacifica. Ora gia questo
defmisce il senso di quella imitazione che indica un atteggiamento molto caratteristico. ACCOLIT
dichiara nettamente la parita di valore
fra i nuovi autori e i classici.
Poliziano nella polemica col CORTESI, che
e un testo capitale, confutera tutte
le istanze del ciceronianismo, e proclamera
il valore di un'intera tradizione aff
errata nel suo sviluppo, rivendicando il senso di tutto il periodo piu tardo della FILOSOFIA
ROMANA (neque autem statim detenus dixerimus
quod diversion sit»). Ma dira soprattutto
1'enorme distanza fra una poesia che
fiorisce come li- bera creazione su
una cultura meditata e fatta proprio sangue, e l'imitazione pedestre — ilia poetas facit, haec simias.SPONGANO, Un capitolo
di storia della nostra prosa d'arte,
Firenze, Sansoni, E cosi sono spesso
notevoli le version! di scrittori celebri
come latinisti: TAurispa che traduce
Buonaccorso da Montemagno, Donate ACCIAIUOLI che
volgarizza il BRUNI, e cosi
via. interessante ritrovare, distesi e
volgarizzati, i concetti di un Valla
e di un Poliziano nei filosofi francesi.
Per esempio Joachim du Bellay, scrivendo
a meta del sec. XVI, dopo aver
tratto dal Valla il concetto che Roma fu grande per la lingua imposta
all'Europa non meno che per l’impero (“la
gloire du peuple Romain n'est moindre
- comme a dit quelqu'unen l’amplifacation L'Umanesimo e in questa singolare imitazione-creazione, come 1'ha chiamata RUSSO:
l'umanita fatta consapevole attraverso il rapporto stabilito con gl’altri uomini
nell'operoso sforzo di
raggiungere una sempre pifc alta forma di vita. Di qui, appunto, il particolare carattere delle sue piii felici espressioni letterarie.
de son langaige que de ses limites»)> eccolo riprendere POLIZIANO: «immitant
les meilleurs aucteurs, se transformant en
eux, les devorant, et apres les avoir
bien digerez, les convertissant en sang
et nouriture ». Solo cosil’imitazione e giovevole allo scrittore.
Autrement son immitation ressembleroit celle du singe.
Cfr. WEINBERG, Critical prefaces of the
French Renaissance, Northwestern University
Press, Evanston, Illinois, Russo, Problemi
di metodo critico, Bari, Laterza, G.
Antonio Nacque a Rieti il 9 maggio 1909, figlio di Francesco e di Teresa
Barbagli. Il nonno, intendente di Finanza, si era trasferito dalla Savoia
in Toscana con l’Unità d’Italia; la madre era originaria di San Giustino nel
Valdarno; il padre – allievo di Girolamo Vitelli, in rapporti amichevoli con
Pasquali, che scrisse il suo necrologio su Atene e Roma – era un giovane e
valente filologo, con particolare interesse per la storia del romanzo greco,
per Teocrito e per i commenti a Teocrito. La guerra e la fine prematura e quasi
improvvisa – morì il 26 luglio 1920, a poco meno di quarant’anni – ne
stroncarono la carriera e costrinsero il figlio ad assumersi, precocemente,
pesanti responsabilità. Garin ebbe, anche per questo, un'infanzia e
un'adolescenza assai difficili e tormentate, che ebbero un peso nel rafforzare
i toni disincantati e pessimisti del carattere, controllati, in genere,
dall'ironia e anche dal sarcasmo, pronti però a esplodere nei momenti di
particolare amarezza o di maggior contrasto con i tempi in cui gli toccò di
vivere e di lavorare. Fin da quegli anni – duri e mai dimenticati –
comprese però quale era la sua vocazione e individuò nei libri, e in uno studio
assiduo e «disperatissimo», la bussola con cui avrebbe costruito, con tenacia,
la propria vita: bruciando le tappe, si iscrisse a soli 16 anni, nel 1925, alla
facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Firenze e si laureò col
massimo dei voti in filosofia il 25 giugno 1929 con una tesi su Joseph Butler,
preparata sotto la guida di Ludovico Limentani. A Firenze aveva compiuto anche
gli studi elementari e medi, frequentando il Liceo Galilei, nel quale aveva
insegnato il padre e dove incontrò Maria Soro, nata a Sassari il 20 agosto
1908, che sarebbe poi diventata sua moglie, con rito civile, il 17 luglio
1930. Garin era nato a Rieti in seguito al trasferimento in quella
città del padre, che come professore di liceo aveva girato, si può dire, tutta
l’Italia; ma si considerò sempre fiorentino e conservò per tutta la vita un
ricordo assai vivo degli anni liceali e, soprattutto, di quelli trascorsi nella
facoltà di lettere di Firenze. In quel periodo fece incontri decisivi dal punto
di vista sia personale sia scientifico, e non solo in ambito filosofico;
stabilì rapporti con personalità come Pasquali, e conobbe compagni di studi ai
quali restò legato tutta la vita, italiani e non italiani: Jacob Teicher,
Nicolai Rubinstein, Cesare Luporini, il quale, nel 1979, rievocando gli anni
della sua formazione (Qualcosa di me stesso, in Cesare Luporini, a cura di M.
Moneti, numero speciale de Il ponte, LXV [2009], 11), ricordò come il giovane
Garin eccellesse già allora su tutti, e fosse più avanti degli altri coetanei
per maturità e sapere. In quegli stessi anni, G. conobbe due
maestri che incisero segni profondi nella sua mente e nella sua personalità
intellettuale e scientifica: Francesco De Sarlo e, soprattutto, Limentani, che
lo avviò agli studi sull'Illuminismo inglese pubblicati nei primi anni Trenta,
confluiti poi nel volume L'Illuminismo inglese. I moralisti (Milano 1942). Dopo
aver insegnato nel Regio Convitto delle Mantellate negli anni 1929-30 e
1930-31, G., ottenuta nel 1930 l’abilitazione in storia e filosofia riuscendo
tredicesimo nella graduatoria generale, fece il concorso per l'insegnamento di
filosofia e storia nei licei per «sedi determinate», e lo vinse, dopo essere
stato esaminato da una commissione presieduta da Guzzo. Prese servizio il 16
settembre dello stesso anno come professore straordinario di filosofia e storia
presso il Liceo Cannizzaro di Palermo, dove rimase fino al 15 settembre 1934,
quando – dopo molti tentativi giustificati da motivi sia familiari sia
scientifici – fu trasferito a Firenze per insegnare, come professore ordinario,
filosofia e storia al Liceo scientifico Leonardo da Vinci. Gli anni
palermitani furono assai importanti e fecondi per Garin: per gli incontri umani
e intellettuali che fece e per le ricerche che condusse, preparando
l'importante volume Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, pubblicato
a Firenze nel 1937, ma già pronto fin dal 1935. Fu a Palermo che scrisse in
gran parte il suo primo libro di argomento umanistico, servendosi delle
«eccellenti biblioteche pubbliche» della città, e frequentando la Biblioteca
filosofica a Palazzo Reale, col «suo singolare fondatore e direttore, il dottor
Amato Pojero, l'amico di Giovanni Gentile e primo editore dell'Atto puro, il
bizzarro 'filosofo' noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a
fissarla per scritto» (Una collaborazione lunga una vita, in Belfagor, LIV
[1999], 6, p. 732). A spostare Garin dagli studi iniziali
sull'Illuminismo inglese verso le ricerche umanistiche e rinascimentali
contribuì una pluralità di fattori: certo agirono la presenza, e il magistero,
di Limentani, che in quegli stessi anni stava studiando il BRUNO 'inglese'
sulla scia della importante monografia su La morale di Bruno. Ma alla base di
quello spostamento ci furono due altri motivi, forse più rilevanti: la
centralità assunta a quella data dall'Umanesimo e dal Rinascimento nella
ricerca filosofica europea intorno a problemi decisivi come la libertà, e la
dignità, dell'uomo; il rapporto tra uomo, mondo, Dio; il carattere e il
significato dell'esperienza umana. È stato, peraltro, G., in un testo degli
anni Settanta (lettera a Saveria Chemotti del 16 febbraio 1978, la cui minuta è
conservata presso il Fondo G.della Scuola Normale Superiore di Pisa), a
segnalare la complessità delle questioni che, negli anni Trenta, si
concentravano nella discussione sul Rinascimento: domande di ordine sia
filosofico sia religioso, ma tutte convergenti in una generale interrogazione
sul significato dell'uomo e del suo destino, in un momento tragico della storia
del mondo. È in questo contesto che si inseriscono sia il saggio su PICO
sia il saggio su La "dignitas hominis" e la letteratura patristica
(in La Rinascita I [1938], 4, pp. 100-146) in cui questo intreccio di
motivi si presenta in modo esemplare, con un netto primato della problematica
di tipo religioso – anzi esplicitamente cristiano – e, simmetricamente, con un
consapevole distacco dalle impostazioni di tipo idealistico, comprese quelle
risalenti a Gentile. Come testimoniano anche i molteplici richiami
alla interpretazione Burdach – messa in
circolazione in Italia, anche da Cantimori –, a quella data G. era su un'onda
assai diversa rispetto a Gentile che, pure, fin dal primo momento apprezzò
molto i suoi lavori su Pico, invitandolo a collaborare al Giornale critico
della filosofia italiana, sul quale aveva cominciato a pubblicare con un saggio
su L’etica di Butler. Non si trattava solo di una distanza di ordine
storiografico, evidente, per esempio, nella importanza che già in questi anni G.comincia
ad assegnare alla tradizione ermetica, avviando una ricerca che avrebbe continuato,
sia pure con toni e forme assai diverse, fino ai suoi ultimi anni -- il saggio
su Una fonte ermetica poco nota. Contributi alla storia del pensiero
umanistico, destinato a essere ripreso e profondamente modificato, uscì
originariamente in La Rinascita. Al fondo, rispetto a Gentile, c'era una forte
distanza di carattere strettamente filosofico, come risulta dai principali
riferimenti filosofici di G. in questi anni: Senne, Marcel, Gilson, Lavelle,
forse il più importante di tutti, quello al quale si sentì a lungo più
vicino. Sono tutti autori di area francese e di matrice cristiana,
convergenti, sia pure con toni differenti, nella prospettiva di un
esistenzialismo religioso che appare ben presente negli scritti storici di . sul
Rinascimento di questo periodo, pur mediati, e filtrati, da una armatura di
carattere filologico ed erudito molto forte già in quegli anni (ne è una
conferma il ricco e aggiornatissimo corredo bibliografico del libro su Pico).
Mancano, invece – con l'importante eccezione di Cassirer, presente già nel saggio–
riferimenti altrettanto significativi ad autori di area tedesca, a cominciare
da Heidegger che, in quegli anni, era invece interlocutore privilegiato di
altri importanti esponenti della generazione di G., come Luporini, suo amico
fin dagli anni della Università, ma assai diverso sia per interessi filosofici
che per le strade che avrebbe poi preso sul terreno politico. È una
mancanza che non stupisce, se si considera che la cultura di matrice francese
fu una componente centrale della formazione di G., e che essa – insieme al
pensiero inglese, ma con maggiore forza – ebbe un ruolo centrale nella sua
attività scientifica e anche editoriale, come testimonia l'imponente opera di
presentazione e traduzione di testi capitali del pensiero francese svolta insieme
alla moglie – da Rousseau a Malebranche, a d'Holbach e gli
Enciclopedisti. Il primato della cultura di matrice francese era, del
resto, un tratto diffuso della generazione di G. e, in modo particolare,
dell'ambiente culturale fiorentino: quello che si esprimeva in istituzioni di
notevole rilievo come il Gabinetto Vieusseux – di cui in quegli anni era
bibliotecario e direttore Eugenio Montale –, e la Biblioteca Filosofica di
Levasti e Marrucchi, una personalità notevole, alla quale G. rimase sempre
legato e che ricordò in pagine molto intense, rievocando quell'ambiente e
quell’atmosfera, in cui viveva il ricordo di una figura come Carlo
Michelstaedter, alla quale anche Garin dedicò, a più riprese, molta
attenzione. Tornato a Firenze, nell'anno accademico ha un incarico di
filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e filosofia. Ottenne, poi, la
libera docenza in storia della filosofia. Quando per effetto delle leggi
razziali Limentani dove lasciare la cattedra di filosofia morale, la facoltà
decise di non chiamare su essa un altro ordinario, ma di conferire l’incarico a
G., come il miglior discepolo di Limentani. Nei modi possibili in quei
tempi difficili, G. espresse pubblicamente la sua fedeltà al maestro con cui si
era formato, tenendo una conferenza presso la Biblioteca Filosofica di Firenze
in cui attacca a fondo ogni forma di storicismo – identificato con il
relativismo – rivendicando, da un lato, il valore della lotta, e
dell'‘ostacolo’, sulla scia di Senne; ribadendo, dall'altro, e con massima
energia, la distinzione tra vittima e carnefice, tra perseguitato e
persecutore, che nessuna Provvidenza storica avrebbe mai potuto, in alcun modo,
risarcire. Dopo la morte di Limentani, ne redasse poi un commosso necrologio,
pubblicato in opuscolo insieme alla bibliografia dei suoi scritti (Limentani,
Firenze). Aveva, intanto, cominciato a partecipare a concorsi per ottenere una
cattedra universitaria, che riuscì a vincere nel 1949, quando risultò primo
ternato in quello per professore straordinario alla cattedra di storia della
filosofia dell'Università di Cagliari (la commissione era formata da Aliotta,
presidente, Lamanna, segretario, Abbagnano, Banfi, e Spirito). Precedentemente,
aveva partecipato, venendo dichiarato «maturo», a tre altri concorsi, banditi,
rispettivamente, dall'Università di Messina e dall'Università di Napoli
(quest’ultimo si svolse in due tornate, per l’annullamento, a causa di un
ricorso, dei risultati della prima). Difficili sul piano accademico e
anche personale, quegli anni furono però fertilissimi dal punto di vista
scientifico: oltre a una serie di saggi assai importanti usciti, in genere, su
La Rinascita diretta da Giovanni Papini (con il quale ebbe, allora, un rapporto
intenso), G. pubblicò due importanti antologie: la prima, Il Rinascimento
italiano (Milano), commissionatagli da Volpe e stampata nella collana
dell'ISPI; la seconda, “Filosofi italiani” (Firenze), uscita come pubblicazione
dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. Si tratta, in entrambi i
casi di opere fondamentali, destinate a lasciare una orma profonda negli studi
rinascimentali. Ma lette con attenzione – e tenendo conto della inclinazione
dissimulatoria tipica dell'epoca –, esse svelano con precisione quali fossero
gli atteggiamenti filosofici e politici di Garin in quel momento: una posizione
nettamente antifascista, trasparente nelle pagine dedicate alla critica del
tiranno; un profondo interesse di tipo religioso, già emerso nei primi saggi
rinascimentali della seconda metà degli anni Trenta, e ora pienamente
dispiegato nella lunga Introduzione ai Filosofi italiani, a cominciare dalle
pagine scritte sulla morte, discorrendo di Salutati. Sono anni, e
temi, nei quali la nota religiosa risuona con particolare forza e vigore, e non
solo nei testi sull'Umanesimo. Nel 1947 pubblicò per una piccola casa editrice
fiorentina, Cya, una antologia di testi tolstoiani – Ultime parole –, nei
quali è affermato con nettezza il primato della 'riforma interiore' come
condizione di ogni riforma di tipo economico e sociale. Sarebbe stato, del
resto, lo stesso G. ricordare che anni prima, nel pieno della guerra, attraversa
una vera e propria crisi di tipo religioso, subendo a fondo l'influenza di
Tolstoj. Sul terreno scientifico è una inclinazione che si rivela, oltre che
sul piano del linguaggio, nel forte ruolo assegnato in quegli anni a
Savonarola, un autore che gli fu sempre carissimo, ma che arriva ad affiancare
al Platone della Repubblica per il Trattato sul reggimento di Firenze.
In questi anni spicca anche il lavoro di presentazione e di traduzione
dei testi fondamentali di Pico: De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno
(Firenze); Disputationes adversus astrologiam divinatricem -- un'impresa
imponente, che contribuì a mutare in profondità sia l'immagine tradizionale di
Pico, sia quella corrente del Rinascimento, ponendo le basi della
interpretazione generale che G. avrebbe proposto nel saggio, “Der italienische
Humanismus,” pubblicato nella collana diretta da Grassi per l'editore Francke
di Berna (ristampato poi nel testo originale presso Laterza). Furono
lavori resi possibili anche dal forte sostegno di una figura singolare, ma più
importante di quanto in genere si pensi, della cultura italiana di quegli anni:
Enrico Castelli, il quale – oltre a pubblicare le traduzioni di Pico
nell'ambito dell’Edizione nazionale dei classici del pensiero italiano promossa
dal Regio Istituto di studi filosofici da lui presieduto e del quale G.fu anche
segretario della sezione toscana –, si impegnò con molta tenacia e costanza, a
tutti i livelli, per fargli ottenere un distacco dal Liceo Vinci che gli
consentisse di svolgere con maggiore tranquillità il suo lavoro. G.
sottolineò più volte che non c'è un rapporto meccanico tra storia della cultura
e storia politica, precisando, per esempio, che la crisi e la fine
dell'idealismo crociano si compiono nel 1968, non nel 1945. Non c'è però dubbio
che con la fine della guerra sia iniziata una nuova fase della sua lunga vita
sul piano sia intellettuale sia politico. Dopo un periodo connotato
dalla vicinanza a posizioni di tipo liberal-democratico (come appare chiaro
dagli articoli che nel 1946 pubblicò sull'Italiano), si avvicinò infatti, sia
pur progressivamente, al Partito comunista italiano, senza mai iscriversi a
esso, ma diventandone, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei
principali intellettuali di riferimento. Alla base di questo netto
spostamento di campo ci furono motivazioni di ordine intellettuale e di natura
politica. Sul primo punto, fu decisivo, nel 1947, l'incontro con le
Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che recensì subito su Leonardo, la
rivista di cui, dal 1946, era diventato redattore – cioè, in effetti,
direttore –, avviando un intensissimo colloquio che sarebbe continuato lungo
tutta la sua vita e che avrebbe inciso sia sulle sue ricerche umanistiche sia
sulle Cronache di filosofia italiana pubblicate per i tipi di Laterza nel 1955
(ma preparate dagli articoli usciti alla fine degli anni Quaranta su Leonardo e
sul Giornale critico della filosofia italiana fondato da Gentile e diretto
allora da Spirito). Dal punto di vista strettamente politico, per
quanto possa apparire paradossale, in quella scelta agì il profondo, e mai
venuto meno, interesse religioso di G.: e infatti profondamente LAICO, NON
LAICISTA. Ritene necessario distinguere con chiarezza ciò che è di Cesare e ciò
che è di Dio, anzi pensa che dalla confusione dell'uno e dell'altro potesse
derivare una degenerazione di entrambi. Dopo il 18 aprile 1948, il partito
della Democrazia cristiana gli apparve come la realizzazione concreta di questo
rischio, con la ripresa, e il potenziarsi, di quelle tendenze che durante il
Regime si erano espresse nel clerico-fascismo, contribuendo, a suo giudizio, a
corrompere il carattere morale degl’italiani. Perciò considera negativamente
l'inserzione dell'articolo 7 nella Costituzione repubblicana, ma fu per questi
stessi motivi che si avvicinò al Partito comunista: per una scelta di ordine
anzitutto morale e, alle origini, religiosa. Pur nel dissenso con il Partito
comunista nella valutazione dell'articolo 7, G. vide in esso la forza più
intransigentemente schierata a favore di una concezione laica dello Stato e, in
genere, della vita, contro il riaffiorare e l'imporsi di una nuova forma di
clerico-fascismo, dannosa, ai suoi occhi, sia per la politica sia per una
autentica esperienza religiosa. I due piani – quello culturale e quello
politico – si intrecciarono e si potenziarono a vicenda, nella concretezza del
suo lavoro, sia in quello sul Rinascimento sia nelle ricerche sulla filosofia
italiana. A quest'ultima aveva già dedicato, per incarico di Gentile, due
volumi pubblicati da Vallardi. Si tratta dell'opera: La filosofia, da non
confondere con la Storia della filosofia uscita per i tipi di Vallecchi: uno de
suoi libri più belli, più vivaci, più liberi. Le Cronache di filosofia
italiana erano, in effetti, un'altra
cosa: una sorta di autobiografia di una intera generazione, quella nata al
tornante del primo decennio del secolo – la stessa di Bobbio, nato anch'egli,
come G., e autore di Politica e cultura, l'altro grande testo 'autobiografico'
della loro generazione. A considerare oggi quegli anni, non appare casuale che
due intellettuali di quel livello abbiano avvertito, nello stesso momento, la
necessità di confrontarsi con la propria storia, sia pure da punti di vista
diversi e con strumenti differenti. In G., assai più che in Bobbio, e infatti
presente la lezione di Gramsci. Sul piano del metodo, anzitutto: La filosofia
come sapere storico (Bari) si conclude con un lungo saggio su Gramsci, nato
come relazione al Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma l'anno prima,
ma anche sul piano del merito, cioè di specifiche valutazioni di uomini e cose,
come Palmiro Togliatti rilevò nella sua recensione a Cronache di filosofia
italiana (Rinascita). Non solo: la lezione di Gramsci, in forme assai
mediate e controllate, è visibile anche negli scritti che G. dedicò al
Rinascimento negli anni Cinquanta e fino alla fine degli anni Sessanta del
secolo scorso. Nonostante che, in questo caso, i giudizi di Gramsci e G.
fossero, proprio nel merito, profondamente differenti.
L’UMANESIMO CIVILE, IL ’68, IL TRAMONTO DI UN MONDO Quando si parla
di G. si pensa, in genere, alla sua interpretazione del Rinascimento come 'umanesimo
civile'. È giusto, ma riduttivo per due ordini di motivi. In primo luogo, essa
svolge funzioni e ruoli diversi, anche a seconda del mutare dei contesti
storico-politici. In secondo luogo, a cominciare dagli anni Settanta G. riformulò
in modo profondo la sua interpretazione, dislocando l'Umanesimo civile in zone
progressivamente laterali, rispetto al nucleo centrale del suo discorso (in
questo senso è fondamentale Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali,
Roma-Bari: uno dei suoi lavori più importanti, insieme a La cultura filosofica
del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, uscito per i tipi di Sansoni,
nel quale spicca in apertura il saggio – capitale dal punto di vista
dell'Umanesimo civile – su I cancellieri umanisti della Repubblica fiorentina
da Salutati a Scala, pubblicato originariamente in Rivista storica
italiana. All'interpretazione del Rinascimento come Umanesimo civile G.
lavorava, in effetti, fin dagli anni Trenta, in convergenza con le ricerche di Baron,
del quale fa pubblicare su La Rinascita un importante saggio. Ma allora esso
aveva una funzione parallela, anzi secondaria, rispetto ai motivi ermetici che
G. tendeva maggiormente a valorizzare, anche in relazione a
quell'esistenzialismo religioso nel quale allora si riconosceva. Negli anni
Cinquanta e Sessanta il quadro muta in modo deciso, e l'Umanesimo civile
diventò il motivo dominante della sua interpretazione, come appare
dall'antologia, fortemente lodata da Cantimori, Prosatori latini del
Quattrocento (Milano). I motivi messi a fuoco nella seconda metà degli anni
Trenta erano ripresi, e anzi energicamente sviluppati, a cominciare dalle
tematiche magiche e astrologiche, cui dedicò nei primi anni Cinquanta due saggi
fondamentali; ma essi ora venivano riformulati (per esempio, cambiò in modo
consistente il giudizio sull'astrologia) ed inseriti in una prospettiva che
privilegiava, in primo luogo, la dimensione mondana, terrestre – appunto,
'civile' del Rinascimento –, dando rilievo centrale al problema del rapporto
tra 'vita contemplativa' e 'vita activa', e valorizzando in questa luce i
grandi cancellieri fiorentini come Salutati e Bruni. Ne scaturì, in
quegli anni, una nuova immagine del Rinascimento, entro cui assunsero valore
centrale discipline come LA RETORICA, l'arte della memoria o esperienze
filosofiche prima trascurate, o non comprese in modo adeguato, come, per
esempio, il lullismo. Su questo sfondo, G. si pose in termini nuovi
rispetto agli scritti degli anni Trenta anche il problema della genesi e dei
caratteri della scienza moderna, sforzandosi di mostrare come un moto di
cultura strettamente legato nelle sue origini alla vita delle città italiane
debba considerarsi una delle premesse del rinnovamento scientifico moderno
(come scriveva nella Premessa al volume Scienza e vita civile nel Rinascimento
italiano, pubblicato con Laterza: una linea di ricerca, sia detto tra
parentesi, che non ebbe ulteriori sviluppi, anche per i mutamenti che, di lì a
poco, avrebbero sconvolto il mondo storico, coinvolgendo a fondo anche il mondo
storiografico). In questa accentuazione della dimensione civile agì
certamente la lezione metodica di Gramsci, che appare con ancor maggiore
chiarezza nei lavori che G. dedicò, negli stessi anni, alla filosofia
contemporanea, specie a quella ITALIANA. Sono importanti, da questo punto di
vista, sia La cultura italiana (Bari); sia, e soprattutto, quello sugli
Intellettuali italiani (Roma), che
costituisce, per molti aspetti, il vertice della presenza, e della influenza,
di G. nella cultura, e anche nella politica, italiane. Se si
considera il corso della sua vita, si può azzardare un giudizio: forse furono
proprio quelli gli anni in cui G. riuscì a stabilire, nel complesso, un
rapporto positivo con il proprio tempo storico, e non solo per i molti
riconoscimenti pubblici che ebbe in quel periodo, dentro e fuori l'Università,
in Italia e all’estero. E diventato professore ordinario di storia della
filosofia medievale a Firenze (insegnamento che aveva tenuto per incarico dal
1941 al 1945 e dal 1947-48 al 1948-49); nel 1955 era poi subentrato a Lamanna
come titolare della cattedra di storia della filosofia presso la stessa
Università. Riconoscimenti, e onori, altrettanto importanti stava
avendo anche al di fuori dell'Università. Socio effettivo dell'Accademia
toscana di scienze e lettere 'La Colombaria', ne era anche segretario generale;
il 23 luglio 1965 e eletto socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei,
diventandone socio nazionale il 23 novembre 1979; il 10 luglio 1975 ricevette
dalla British Academy la Serena medal for Italian studies (gl’ultimi italiani
che l'avevano ottenuta – scrive, con orgoglio, al direttore della Scuola
Normale comunicandogli la notizia – erano stati Longhi e Bandinelli). Al
fondo, però, pur considerandosi anzitutto un insegnante, G. era, a suo modo, un
animal politicum, e avrebbe voluto essere un cittadino. Negli anni Cinquanta e
per larga parte degli anni Sessanta riuscì a esserlo come non gli era accaduto
prima e non sarebbe più successo dopo, intrecciando un'attività scientifica di
alto livello con un impegno civile assai intenso sui temi che gli interessavano
maggiormente, a iniziare dalla scuola, su cui intervenne anche con una
relazione molto dura letta al Teatro Valle di Roma il 3 giugno 1960,
pubblicandola poi in volume, “La cultura nella società italiana” (Torino).
Negli anni successivi la situazione muta profondamente; quell'equilibrio,
sempre fragile e precario, si incrinò e G. si distaccò, progressivamente, fino
a contrapporsi, dai movimenti culturali e politici che, a cominciare dal 1968,
avevano cominciato a scuotere il paese fin dalle fondamenta, nel bene e nel
male. Il punto più aspro del contrasto, anzi la vera e propria rottura, si
produsse quando – si legge in una lettera del 16 novembre al preside della
facoltà di lettere, Sestan (minuta nel Fondo Garin della Scuola Normale
Superiore) – e costretto a interrompere la lezione per il contegno oltraggioso
e provocatorio di uno studente. Fu una scelta assai meditata, anche se
amara, quella di lasciare l’Università di Firenze, che era stata la sua alma aater,
trasferendosi, nell'anno accademico 1974-75, alla Scuola Normale Superiore di
Pisa come professore – e anche questa scelta è significativa – di storia della
filosofia del Rinascimento. Come scrive al direttore della scuola, Bernardini,
sarebbe stata quella la conclusione migliore – certo la più onorevole – di un
lungo insegnamento» (minuta, ibid.). Questo non significa che da quel
momento si sia disinteressato della filosofia contemporanea, a cominciare da quella
italiana. Anzi: pubblica, con l'editore barese De Donato, un saggio importante,
Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia, riprendendo in forme nuove il
problema del positivismo e riaprendo, in generale, la questione del rapporto
tra eredità positivistiche e filosofia, nelle sue varie diramazioni. Ma il saggio
non ebbe un successo paragonabile a quello tributato al volume sugli
Intellettuali italiani. Nel giro di pochi anni, la situazione era profondamente
mutata e i temi trattati in quel testo, pur così importante, avevano perso peso
e rilievo nel dibattito filosofico italiano, che stava ormai aprendosi, e su
vasta scala, a nuove tendenze estranee alla tradizione nazionale, nel pieno di
una crisi che investiva lo stato italiano fin dalle fondamenta. Effettivamente,
un intero mondo sta cominciando a finire. Tanto più colpisce, in questa
situazione, il saggio che in controtendenza, G. dedica a Gentile
pubblicandone, con l'editore Garzanti, le Opere filosofiche. Aveva ormai 82
anni: nel 1979 era uscito dai ruoli dell'insegnamento, nel 1984 era andato
definitivamente in pensione, nel 1986 era diventato professore emerito della
Scuola Normale; nel 1988 aveva lasciato anche la presidenza dell'Istituto
nazionale di studi sul Rinascimento assunta nel 1978. E dunque diventato un
libero studioso sciolto da qualunque vincolo di ordine istituzionale, e forse
anche questo contribuisce a spiegare la libertà – e l'atteggiamento 'non
conformista', si potrebbe dire – con cui si confronta con Gentile nella
lunghissima Introduzione che premise ai testi, spiegando il senso della sua
scelta. Non era un'impresa facile. I rapporti di G. con Gentile e con
Croce sono infatti assai complessi e si modificarono, e complicarono, con il
tempo. Si possono però in sintesi individuare alcuni elementi di ordine
generale. Dal punto di vista filosofico egli si sentì, al fondo, più vicino a
Gentil. Basta leggere le pagine che gli dedicò nella “Storia della filosofia”,
e accostarle a quelle scritte nello stesso testo su Croce, per vedere come ne
apprezzasse la posizione e quanto fosse invece distante da Croce. Certo, come
dimostrano le Cronache, il suo giudizio sull’idealismo si approfondì col tempo
e divenne assai più ricco e articolato. Ma la distanza di G. dalla 'filosofia
dello spirito' non venne mai meno, perché essa coinvolgeva un punto centrale,
allora e poi, della sua posizione. Alle origini, le ragioni di
quella scelta stavano precisamente qui. Sul piano filosofico Gentile appartene
a quella filosofia della libertà, specie di matrice francese, in cui Garin
riconosce il carattere principale della filosofia e anche le proprie radici filosofiche.
Filosofia della libertà: cioè azione, praxis, atto, volontà. Sono i motivi che
erano presenti anche in Marx, quelli che gli avevano fatto apprezzare Gramsci,
sentire affine la ricerca dei Quaderni del carcere, e che, nel volume,
sottolineò anche in Gentile, vedendo anzi nella sua lettura di Marx la via
attraverso cui si era affermato nel nostro paese il principio della praxis,
dell'azione, della volontà. È per queste stesse ragioni – strutturali,
non contingenti – che G. fu, invece, in sostanza, lontano da Croce, pur
apprezzandone il rapporto stabilito tra politica e cultura e l'immenso lavoro:
non ne condivideva la concezione del circolo spirituale; lo sentiva distante
per l'incapacità di afferrare la intima, e insuperabile, tragicità della vita;
rifiuta la dissoluzione dell'individuo empirico, che invece per lui era
fondamentale. Certo, con il tempo maturò un giudizio assai più
ricco di quello espresso negli anni Quaranta; ma alcuni elementi – in cui si
esprimevano un distacco, e un dissenso, perfino di ordine generazionale – non
vennero mai completamente meno. In occasione del centenario della nascita di
Croce, scrive un bel saggio sui suoi rapporti con Serra (Serra e Croce, in
Belfagor) e, pur facendogli ampi riconoscimenti, non ha esitazione a
schierarsi, proprio per questi motivi, dalla parte di quest'ultimo. Con il
'68 iniziò una profonda trasformazione del mondo storico, destinata a incidere,
in vari modi, nel mondo storiografico, compreso quello di G., che operò
mutamenti profondi nella sua posizione, a cominciare dalla concezione
dell'Umanesimo civile, che nel ventennio precedente era stato il centro della
sua interpretazione del Rinascimento. Ora venne configurandosi come un ideale;
anzi una ideologia nobile e importante, ma pur sempre una ideologia (come
appare nel Ritratto di Bruni aretino in Atti e Memorie dell'Accademia Petrarca
di Lettere, Arti e Scienze di Arezzo), mentre assunsero rilievo essenziale
altri temi, altri autori, come risulta chiaro dal libro Lo zodiaco della vita.
La polemica sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento (Roma-Bari), che
raccoglieva quattro lezioni tenute al Collège de France. Fin dall'inizio della
sua attività G. aveva dato rilievo alle tematiche magiche, astrologiche,
ermetiche, sistemandole, poi, nel contesto dell'Umanesimo civile. Ora esse
ridiventarono centrali, con una particolare sporgenza dei testi e dei motivi di
carattere astrologico. Alla base di questo c'era, come sempre in G., un
convincimento di ordine teorico. A lungo era stato persuaso che
nella cultura europea fosse stata presente, e dominante, quella che egli
chiamava la 'linea Pico-Sartre', secondo cui l'uomo «non ha una natura (una
"specie", una "forma"), ma […] è un atto che si sceglie»
(per riprendere una sua battuta contenuta nella lettera a Amoroso [minuta nel Fondo G. della Scuola Normale
Superiore di Pisa]). Era un convincimento coerente con la sua filosofia della
libertà, della praxis, del primato della volontà. Negli ultimi anni furono
proprio questi capisaldi che si infransero e vennero meno sbalzando in primo
piano, al posto dei cancellieri fiorentini, filosofi come Pomponazzi e,
soprattutto, Alberti, sostenitori, l'uno e l'altro, di una concezione
totalmente disincantata dell'uomo e della vita, ridotta o a gioco privo di
senso o a una eterna vicissitudine di uomini, di cose, di sorti. E qui si può
osservare come in un microcosmo in che modo lavora G., e quanto fosse profondo
nella sua ricerca l'intreccio tra autobiografia e storiografia, a loro volta
sostenute da una posizione teorica precisa, ma destinata, al tempo stesso, a
importanti variazioni e mutamenti. ALBERTI e s infatti sempre al centro della
sua attenzione, ma venne a lungo inserito nella prospettiva dell’Umanesimo
civile, mentre negli scritti dell'ultimo periodo si configurò come uno dei
principali esponenti di una concezione che vede nell'uomo niente altro che un
ludus deorum, per riprendere l'espressione utilizzata da Platone nelle Leggi e
ripresa nel De fato da Pomponazzi. Sono precisamente questi temi, e queste
espressioni (citate puntualmente nello Zodiaco della vita, e rafforzate dalla
scoperta che fa di alcune Intercenali inedite di Alberti, pubblicate su
Rinascimentonel), che attrassero G. quando si convinse che la linea Pico-Sartre
si era infranta ed era stata sconfitta. Né è facile dire quanto in queste
posizioni storiografiche avesse inciso la crisi che fin dalla fine degli anni
Sessanta sta travagliando il mondo storico, dandogli progressivamente il senso
– e poi la persuasione – che una intera epoca della cultura europea stava
tramontando, dissolvendo quegli ideali e quelle utopie che ne avevano sostenuto
il cammino, specie nei momenti più gloriosi come il Rinascimento e
l’Illuminismo. In un intreccio profondo di autobiografia e
storiografia, le pagine dell'ultimo G. sono solcate da toni assai disincantati
e pessimistici. Ma neppure in questi anni, e in questi scritti, egli si
presenta al lettore in toni disarmati o vinto: troppo forte era stata la
persuasione di un primato della praxis, dell'azione, della volontà perché essa
potesse venire mai integralmente meno. Stava qui la sorgente originaria della
sua personalità fin dagli anni Trenta, e a essa – nonostante tutto – aveva
cercato di restare fedele, dipanando il filo essenziale della sua esistenza,
nelle diverse situazioni in cui gli toccò di vivere, per quasi un secolo.
Quando morì, a Firenze non aveva
smesso di pensare all'utopia di un mondo diverso: come gli avevano insegnato a
fare i rappresentanti più eminenti dell'epoca alla quale aveva dedicato tanta
parte della sua esistenza. E. G. Il percorso storiografico di un maestro
del Novecento, Giornata di studio, Prato, Biblioteca Roncioniana a cura di Audisio
- A. Savorelli, Firenze (si vedano in particolare i saggi di Cesa, Momenti
della formazione di uno storico della filosofia e di C. Vasoli, Gli studi di E.
G. Su Pico; G. e il Novecento, numero monografico del Giornale critico della
filosofia italiana; Ciliberto, G. Un intellettuale nel Novecento, Roma-Bari; G.
Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Convegno, Firenze, a cura di Catanorchi
- Lepri, con Premessa di Ciliberto, Roma-Firenze; Il Novecento di G., Atti del
Convegno promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con
l’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, a cura di Ricci - Vacca, Roma. Grice:
“Don’t expect philosophical insight from Garin. He is at most an amanuensis.
But like Gentile, it is helpful, if you are into minor philosophers, or minor
figures, to go through the indexes of his many compilations. As with Gentile’s
Storia della filosofia italiana, Garin’s is just as boring. Garin makes it more
difficult in that he uses two or three words which we don’t use at Oxford:
‘pensiero’ for philosophy, ‘intellectual’ (‘intelletuali italiani del
novecento’) and ‘culture’ (cultura italiana del ottocento’). By these
monickers, he is attempting to include as philosophers people who we should
not!” Eugenio Antonio Garin. Eugenio Garin. Garin. Keywords: cicerone come
umanista – umanesimo e unamenismi – garin, umanista del Novecento – umanisti e
il ritorno dei filosofi antichi – umanesimo, ovvero, il primo secolo del
rinascimento – il ritorno dei filosofi antichi – retorica umanista – castelli e
garin -- le griceianisme est un humanism!” humus, human, homo sapiens, homo
sapiens sapiens, human vs. person, sapientia, persona -- human, umano,
umanesimo – filosofia romana -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garin – umano,
troppo umano – The Swimming-Pool Library.
Grice e Garroni: l’implicatura
conversazionale di Pinocchio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo. Grice: “I like Garroni; he writes very Griceianly: on lying, on
Pinocchio, on semiotics, on Kant – ‘quasi-Kant’ --, and on sense perception
(‘senso e paradosso’, ‘immagine, figura, communicazione’). Inizia la sua
attività in Rai, dove era entrato per un invito di Gualainsieme come
intervistatore e autore di trasmissioni sulla filosofia. Affianca a questo
lavoro l'opera intellettuale di critica e di riflessione sull'estetica,
grazie anche alla sua frequentazione del mondo artistico dell'epoca anni
cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi d'arte. Insegna a Roma.
Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai margini della vita accademica, con “La
crisi semantica dell’arte” (Roma, Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento
dell'estetica italiana dopo Croce, culminante in una innovativa traduzione
della Critica della facoltà di giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza
di tematiche estetiche (l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura
Arnheim, Macherey, Mannoni, Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo
linguistico di Praga e collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle
riviste cinematografiche Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia
Einaudi.Cura Benedetto, Bottari, Melis,
Fieschi, Vacchi, Greco ecc. L’estetica è una "filosofia non
speciale" il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni
artistiche ("il bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad
una visione e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza
del “senso” (il sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la
portata iudicativa (e non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che
trascendono lo stato empirico delle scienze e vivono operanti nel meglio degli indirizzi
novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli. (L’orizzonte di senso). Altre
opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica ed estetica. L'eterogeneità
del linguaggio e il linguaggio cinematografico” (Bari, Laterza); “Progetto di
semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari, Laterza); “Pinocchio uno e
bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla
"Critica del Giudizio"” (Roma, Bulzoni); “Ricognizione della
semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e linguistica” (Bologna, Il Mulino); “Senso
e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica.
Uno sguardo-attraverso” (Milano, Garzanti); “Sul mentare e il mentire”
(Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi di estetica” (Roma-Bari,
Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti a Emilio Garroni” (Pietro
Montani, Parma, Pratiche Editrice); "Interpretare", in Il testo
letterario. Istruzioni per l'uso, Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà
di giudizio” (Torino, Einaudi); “Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti
sul cinema: pubblicati dalla rivista "Filmcritica"; Edoardo Bruno e
Alessia Cervini, Torino, Aragno, Creatività, introduzione di Paolo Virno,
Macerata, Quodlibet); “La macchia gialla’ (Milano, Lerici, Dissonanzen
quartett. Una storia” (Parma, Pratiche); “Racconti morali, o Della vicinanza e
della lontananza, Roma, Editori riuniti); “Sulla morte e sull'arte: racconti
morali, Parma, Pratiche); Lettere alla TV”, Monteleone, Storia della Radio e
della Televisione italiana, Marsilio; Una puntata, tratta da Rai Teche, del
programma TV "Arti e Scienze", in cui G. parla del Bauhaus e
intervista Zevi e Gropius Presentazione
della mostra dell'Autoritratto; Articolo de La Repubblica; Intervista che
riassume la nozione di estetica come "filosofia non speciale".
L'intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche. Treccani L'Enciclopedia italiana".
Legalità / Creatività.: G. legge Kant di Romeo Bufalo, in Studi di estetica,
Bologna. LORENZINI, Carlo (Collodi). – Nasce a Firenze, primogenito di
Domenico, originario di Cortona, cuoco del marchese Carlo Leopoldo Ginori
Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina) Orzali, figlia del fattore dei
marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri (frazione di Collodi). Degli altri nove
figli di casa Lorenzini sopravvissero il terzogenito Paolo, Maria Adelaide,
Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del L., Ippolito. È probabile che il
L. abbia frequentato le scuole elementari a Collodi, dove risulta ospitato fino
al 1836 dagli zii materni Giuseppe e Teresa (forse per le disagiate condizioni
della famiglia a Firenze); l'anno successivo, con il sostegno economico del
marchese Ginori, entrò nel seminario di Colle di Val d'Elsa. Nell'agosto 1842
decise di interrompere gli studi in seminario, iscrivendosi nel maggio
dell'anno successivo al corso di retorica e filosofia delle Scuole pie di S.
Giovannino a Firenze. Terminato il corso nell'autunno del 1844, trovò subito un
impiego nella libreria Piatti di Firenze, nella quale aveva già svolto lavori
saltuari per potersi mantenere agli studi. La libreria, anche casa
editrice, era fra le più importanti di Firenze e frequentata da molti letterati
e patrioti liberali, tra i quali G.B. Niccolini, principale autore delle
edizioni Piatti, considerato dal giovane L. uno dei grandi scrittori italiani.
Il L. aveva incarico di redigere notizie, recensioni e bollettini bibliografici
per il catalogo delle novità della libreria e strinse profonda amicizia con G.
Aiazzi, amministratore dell'impresa ed erudito bibliotecario della
Rinucciniana, al quale restò legato tutta la vita. Aiazzi avviò il L., che già
nel 1845 ottenne l'autorizzazione alla lettura dei libri proibiti, alle
ricerche di biblioteca e d'archivio e ne accompagnò le prime prove come
cronista teatrale nella Rivista di Firenze e come critico musicale nell'Arpa
musicale, periodi co milanese animato da C. Tenca, dove il 29 dic. 1847
apparve il primo articolo firmato del L., L'arpa. Nel marzo 1848 il L.,
insieme con il fratello Paolo e con Giulio Piatti, proprietario della libreria,
si arruolò nel II battaglione fiorentino e combatté a Montanara: di questa
prima esperienza militare rimangono, nelle Carte collodiane, tre lettere ad
Aiazzi, già notevoli per lucidità d'osservazione e descrizione. In estate
il L. tornò a Firenze e dovette trovarsi un altro impiego anche per poter
aiutare la famiglia colpita dalla malattia del padre, che morì alla fine di
settembre a Cortona. Per interessamento di Aiazzi fu nominato
"messaggiere" (segretario, commesso) del Senato toscano e arrotondò
il modesto stipendio con un'intensa attività di collaborazione a diverse
testate, in particolare, al periodico democratico Il Lampione (1848-49) di cui
fu tra i fondatori. Qui pubblicò numerosi articoli, per lo più non firmati, tra
i quali spiccano alcuni pezzi anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la
serie di ritratti intitolata "fisiologie" in cui già con matura
incisività satirica tratteggiava caratteri e tipi contemporanei, come quelli
contrapposti del "codino" e del "crociato" (cioè il falso
volontario): in essi più che "mazziniano sfegatato" (come lo definì
Martini, p. 168), manifestava tendenze repubblicane e democratiche derivate da
Mazzini solo "in termini generali" e in "modo indiretto"
(G. Candeloro, C. Collodi nel giornalismo del Risorgimento, in Studi collodiani,
p. 68). Nella primavera del 1849, con il ritorno dei Lorena nel
Granducato, il L. dapprima rinunciò all'impiego (o ne fu allontanato), poi, in
giugno, fu reintegrato, ma la sua condizione lavorativa dovette restare
precaria, tanto che l'autunno dell'anno successivo si dedicò alla traduzione
dal francese del romanzo La figlia dell'archibugieredi M. Masson che apparve a
puntate nel periodico milanese l'Italia musicale, per il quale nel 1850 compì
un lungo giro tra Emilia e Lombardia come critico corrispondente; con quella
rivista continuò a collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a
Milano per i suoi impegni giornalistici) e il 1852, quando perdette
definitivamente il suo impiego. Con il 1853 l'impegno del L. come
giornalista e pubblicista si intensificò ulteriormente ed egli divenne una delle
firme di punta del periodico artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui
collaborava anche I. Nievo). Nel periodico fiorentino venne pubblicando
articoli di critica musicale, teatrale e letteraria (tra cui, nel 1854, una
feroce stroncatura del poema Rodolfo di G. Prati che anticipava di netto le
prese di posizione negative di F. De Sanctis e G. Carducci sul poeta trentino)
e prose umoristiche: tra l'altro, condusse una battaglia contro la pittura
accademica convergendo sulle posizioni dei macchiaioli, i cui più importanti
esponenti (T. Signorini, A. Tricca, S. Ussi) incontrava e frequentava al caffè
Michelangiolo. Il tutto "con uno stile rapido e di presa immediata, che si
segnala per il valore e la modernità del linguaggio" (Marcheschi, in C.
Collodi, Opere, p. LXXX). Contemporaneamente, fondò e diresse il periodico
teatrale Lo Scaramuccia, per il quale aveva reclutato collaboratori di livello,
tra cui P. Fanfani e il giovane P. Ferrigni (Coccoluto Ferrigni), poi famoso
con lo pseudonimo di Yorick. Ormai dedito a tempo pieno alla sua attività
di pubblicista e scrittore, estese il raggio delle sue collaborazioni
giornalistiche a periodici quali Lo Spettatore (cui collaboravano, tra gli
altri, G. Giusti, N. Tommaseo e R. Bonghi) e al giornale umoristico La Lente, in
cui per la prima volta usò lo pseudonimo di Collodi (nell'articolo Coda al
programma della Lente, 1856). Il L. coltivava anche ambizioni di
scrittore teatrale e nel 1853 compose il dramma in due atti Gli amici di casa
ispirato a un episodio reale e in cui si ritrovano evidenti influssi del
romanzo Beppe Arpia di P. Emiliani Giudici: tentò invano (1854-55) di farlo
rappresentare, ma il testo fu bloccato dalla censura, cosicché più tardi poté
pubblicarlo (Firenze 1856), ma non riuscì a farlo mettere in scena. Sempre nel
1856 scrisse e pubblicò (ibid.) Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno.
Guida storico-umoristica, nato come opuscolo-guida per viaggiatori in occasione
dell'inaugurazione della ferrovia Leopolda, che collegava appunto Firenze a
Livorno. In esso il L. contaminava e stravolgeva, tentando un'inedita forma di
giornalismo umoristico ispirato al modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C.
Collodi, Opere, pp. XV-XIX), il genere "popolare" del romanzo e
quello "borghese" della guida di viaggio. Così la narrazione
romanzesca, che procede in modo parodisticamente caotico e con l'intreccio
ingarbugliato della narrativa d'appendice, è inframmezzata da divagazioni con
informazioni utili o curiose per il viaggiatore sulle diverse località toccate
dalla ferrovia. Confortato dal buon esito di critica e pubblico del
Romanzo in vapore, il L. si dedicò alla stesura di un'altra opera romanzesca di
carattere parodistico, I misteri di Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense
dall'ottobre 1857, preannunciata dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo
stile vivace e spontaneo. Il romanzo, che restò (forse intenzionalmente)
interrotto al primo volume, intendeva essere sin dal titolo parodia della
narrativa d'appendice alla E. Sue (I misteri di Parigi), ma si risolve, senza
il consolante lieto fine del romanzo popolare, in un'amara critica della
società fiorentina, moralmente e politicamente decaduta, condotta con uno stile
fortemente espressivo e satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali.
Durante la stesura di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua
intensa attività di pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse
l'incarico di segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da
G. Servadio, facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze
e intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano
Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa nell'ottobre del 1857 la sua attività di
segretario della Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove
ripartì improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione
amorosa) la primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico
del periodico L'Italia musicale. Nella capitale sabauda nell'aprile del
1859 si arruolò nell'esercito piemontese e partecipò come soldato semplice alla
guerra. Dopo l'umiliante armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu
posto in congedo e ritornò a Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a
collaborare come "cronista settimanale" al giornale La Nazione,
diretto dall'amico A. D'Ancona, espressione del gruppo moderato che faceva capo
a B. Ricasoli. E proprio dalla cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli
venne chiesto di scrivere una replica all'opuscolo La politica napoleonica e
quella del governo toscano del conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri,
uscito (con la falsa indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di
dicembre del 1859. In esso, con un violento attacco contro i toscani
filopiemontesi, i plebisciti e il partito unitario, si propugnava l'istituzione
di un Regno dell'Italia centrale, da assegnare, secondo il desiderio di
Napoleone III, a Gerolamo Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il
sig. Albèri ha ragione!( Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a
Firenze alla fine di dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del
professore bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando
come sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei
Toscani. Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e
di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato
della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La
Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi
successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione (dal 15 maggio 1860) del
quotidiano umoristico Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e
direttore (fino al marzo 1861, mentre il fratello Paolo ne era
l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione del giornale
interrotto nel 1849, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non solo
del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo lealismo
annessionistico. A questa amara e disillusa evoluzione politica
corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione
lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il
L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a
segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi,
nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté, nel giugno 1881,
chiese e ottenne di essere collocato a riposo. Le non onerose
incombenze del suo impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con
crescente intensità delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore
teatrale e, infine, di cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860,
recandosi a Milano per contattare Tenca e il gruppo del periodico Il
Crepuscolo, fu cooptato come segretario aggiunto nella Commissione promotrice
del Panteon italiano, cui era collegato il progetto di un'edizione nazionale
delle opere di Dante. Nel 1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle
porcellane di Doccia, steso (probabilmente per iniziativa del fratello Paolo,
direttore della fabbrica Ginori) come guida storica e illustrativa
dell'industria dei marchesi Ginori in occasione dell'Esposizione italiana che
si tenne quell'anno a Firenze. L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza
fedelmente la linea espositiva di un analogo volumetto compilato ancora da
Albèri circa vent'anni prima, era anche un "elogio della politica
illuminata dei marchesi Carlo ("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per
migliorare le condizioni di vita dei propri operai" (Marcheschi, in C.
Collodi, Opere, p. XCIII). Sempre nel 1861, ne Il Lampione, apparve la
commedia Gli estremi si toccano, in seguito ampliata (probabilmente nel 1867) con
il titolo La coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno
trasformismo, e in novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli
amici di casa, rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di
commedia in tre atti: l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime
consenso ricevette la vivacità linguistica del testo. Al teatro il L.
continuò a dedicarsi per tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio
(dal 1862 faceva parte della Società d'incoraggiamento teatrale e il 23 sett. 1867
nella Gazzetta d'Italia apparve un suo importante articolo tecnico sulla
Censura teatrale in Italia) sia come critico e in qualità di autore. Nel 1870
pubblicò a Firenze la commedia in tre atti L'onore del marito, rappresentata
per la prima volta al teatro Niccolini nel 1872, rivolta non tanto alla
condanna dell'adulterio quanto a sottolineare la vitalità della borghesia
attiva rispetto all'infiacchita e oziosa aristocrazia italiana. In quel periodo
attese anche alla stesura della commedia in quattro atti Antonietta
Buontalenti, che non risulta essere stata rappresentata; al 1872 risale inoltre
la composizione della commedia in due atti I ragazzi grandi, rappresentata con
scarso successo a Firenze nell'agosto dell'anno successivo. Subito trascritta
in forma di racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a puntate nel
Fanfulla nella primavera del 1873 con il significativo sottotitolo Bozzetti e
studi dal vero. Con esso per un verso si indicava il registro di spietata
lucidità con cui erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio,
dall'agiatezza e dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il
"vero" che si prefiggeva il L., più che quello del naturalismo
letterario, era quello nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente
chiaroscurato en plein air della contemporanea pittura toscana. Del
resto, anche nell'intensa attività giornalistica esercitata dal L. nel
quindicennio che va dall'Unità al 1876 (in particolare in La Nazione, La
Gazzetta del popolo e, dal 1871, nel Fanfulla), la sua attenzione di notista
politico e di osservatore e commentatore di costume andò concentrandosi, con
toni progressivamente amari e disillusi, sull'esame dei problemi, dei conflitti
e degli scandali dell'Italia appena unificata, con attacchi sempre più ironici
e velenosi contro personaggi e provvedimenti politici (come M. Coppino e la sua
legge sull'istruzione elementare, Q. Sella e la tassa sul macinato, il corso
forzoso e la politica fiscale dei governi della Destra) e soprattutto contro
tipi, costumi e mentalità dominanti, fino all'acme paradossale e sferzante
della Delenda Toscana, sarcastica lettera aperta a M. Minghetti, pubblicata il
30 genn. 1876 nel Fanfulla. Qui, in risposta alla ventata antitoscana
successiva alla polemica sul privilegiato esercizio delle ferrovie, era esposta
la paradossale e sferzante proposta di sopprimere la Toscana stessa,
cancellandola dalla carta geografica del Regno d'Italia. A questa
oltranza polemica, pagata peraltro cara dall'impiegato L., diffidato, in quanto
dipendente del ministero degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi dal
pubblicare articoli politici, seguì un deciso cambiamento di attività e di
orizzonti. In primo luogo, al giornalismo etico-politico militante
subentrò una fase in cui il L. si dedicò al riordino e alla pubblicazione in
volume del meglio della propria produzione pubblicistica (racconti e cronache)
nelle raccolte, dai titoli programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano
1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (Firenze 1881). In esse riunì, senza alcuna
revisione, semplicemente legate con il "filo di refe", come avvertiva
non senza autoironica civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più
tipiche della prosa giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature
e tagli narrativi" (Asor Rosa, p. 554) a formare un antinaturalistico
ritratto "alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè,
"dal vero" non a "figurine intere" ma con i tratti
essenziali dei "profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e
nasi). Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre
così acuta, ai fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne
precisandosi in una più chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio.
Proprio per questo nel 1868 fu nominato dal ministro E. Broglio membro straordinario
della giunta per la compilazione del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa
alla quale, peraltro, dette scarso contributo. Il L. si indirizzò,
dapprima casualmente e occasionalmente, poi con impegno, assiduità e adesione
personale sempre più convinti, verso la letteratura per l'infanzia. Questa gli
offriva un terreno di illimitata libertà fantastica in cui superare la grigia
realtà del presente e insieme la possibilità di una sua piena partecipazione al
clima "fortemente pedagogizzante" del "mondo morale e
intellettuale del tempo", dominato da un "bisogno incoercibile di
guardare al di sotto della superficie" delle cose (Asor Rosa, p. 555), dal
quale prendevano le mosse i due diversi ma in fondo convergenti filoni della
letteratura verista e della letteratura moralistica e normativa alla De Amicis.
L'occasione per quella svolta fu offerta nel 1875 al L. dalla dinamica casa
editrice fiorentina dei fratelli Paggi, all'avanguardia nel fiorente mercato
dell'editoria scolastica, che gli propose di tradurre i Contes e le Histoires
di Ch. Perrault, nonché le favole della Contessa di Aulnoy e di Jeanne-Marie Le
Prince de Beaumont. La versione, condotta dal L. con leggere variazioni
rispetto agli originali e con stile piano ed elegantissimo, uscì l'anno seguente
con il titolo Racconti delle fate e le illustrazioni di E. Mazzanti. Da
allora, pur riprendendo la collaborazione al Fanfulla (1878) e continuando la
sua attività di critico teatrale, il L. si mosse quasi esclusivamente nel campo
della letteratura scolastica e per ragazzi. Così, sempre presso Paggi pubblicò
con discreto esito i due libri di lettura Giannettino (1877), che sin nel
titolo riprendeva il fortunato romanzo pedagogico Giannetto di L.A. Parravicini
(1837), e Minuzzolo (1878): entrambi erano storie di bambini discoli o
svogliati, ricondotti alla scuola e alla normalità dalle famiglie e da
esperienze che li inducevano a riflettere (lo schema è già quello di Pinocchio,
ma le peripezie dei due protagonisti si svolgono sullo sfondo della Firenze contemporanea).
Ormai accreditato tra i più ricercati autori di libri scolastici e per
l'infanzia, il L. (che per le sue opere pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina
a cavaliere della Corona d'Italia e nel 1880 ricevette da A. Conti, assessore alla
cultura del Comune di Firenze, l'incarico di compilare i libri di testo per le
scuole fiorentine) si dedicò con insolita metodicità alla compilazione di una
lunga serie di opere che configuravano una sezione autonoma, personale e
sistematica, all'interno della "Biblioteca scolastica" della casa
editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie di volumi imperniati sulla
figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di Giannettino: Italia superiore
(1880), seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato all'Italia centrale e nel
1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La grammatica di Giannettino (1883);
L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di Giannettino (1885); fino a La
lanterna magica di Giannettino (1890). Con la loro formula innovativa questi
testi costituirono una novità ben accolta dal mondo scolastico, ma non sempre
apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del ministero della Pubblica
Istruzione (cfr. Raicich, p. 74 n.): le diverse discipline, infatti, erano
esposte in forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso apertamente
dialogica nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del testo e
rendere l'apprendimento il più possibile piacevole e
"naturale". Al centro di tale intensa attività vanno inquadrate
la nascita e la complessa vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di
Pinocchio. Il libro nacque per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L.,
che lo voleva tra i collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di
cui era animatore e che era stato fondato nel 1881 da F. Martini con
l'ambizione di rinnovare la letteratura infantile italiana. Il L., ormai stanco
e disilluso, rispose controvoglia inviando all'amico i primi tre capitoli di un
testo intitolato La storia di un burattino (dallo stesso L. definito, con la consueta
autoironia, "una bambinata"), pubblicati nei numeri di luglio del
Giornale. I capitoli successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al 27
ottobre: la vicenda si concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la
presunta morte del burattino. Forse per le insistenze di Biagi e certo per il
successo riscosso dalla storia, il L., dopo molti dinieghi, si decise a
proseguire la narrazione, il cui seguito, con il titolo ormai definitivo di Le
avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal
cap. XVI) dal febbraio 1882. La pubblicazione proseguì a ritmo irregolare
durante tutto il 1882 per concludersi (con il XXXVI e ultimo capitolo) nel
gennaio 1883. Velocissima fu invece la pubblicazione in volume, che uscì nel
febbraio successivo presso Paggi, con le illustrazioni, di nuovo, di Mazzanti;
sempre presso Paggi apparvero, e andarono presto esaurite, una seconda edizione
nel 1886 (lo stesso anno in cui E. De Amicis pubblicava Cuore), una terza
(1887) di cui non restano esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione
uscita vivente l'autore fu quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad &
figlio concessionari della Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto
personalmente tutte queste edizioni, che pure furono stampate con il suo
consenso; è certo, però, che nel corso delle varie ristampe il testo fu
alterato da refusi e banalizzazioni. Se ci si limita alle sole
circostanze esterne della composizione e della pubblicazione di Pinocchio,
dunque, può risultare fondata la qualifica di "capolavoro scritto per
caso" risalente a P. Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in
un'efficace formula critica la constatazione che la straordinaria qualità
espressiva della "bambinata" ha finito per mettere in ombra il resto
dell'intensa carriera letteraria e giornalistica del L., il quale, se non
avesse scritto il suo capolavoro, sarebbe comunque restato, al di là delle sue
ambizioni teatrali, uno dei protagonisti della narrativa umoristica e
soprattutto del giornalismo della seconda metà dell'Ottocento. In
realtà, nell'archetipica polisemia della fiaba e con l'enigmatica perspicuità
del capolavoro, in Pinocchio convergevano, in una struttura insieme
profondamente coesa, traballante e sfuggente, tutte le componenti e le
esperienze della vita e della carriera letteraria del L.: dalla sua lunga
militanza come scrittore satirico e bozzettista (trasfusa nelle numerose figure
e figurine che animano l'universo del burattino), alla sua intensa attività di
autore di testi scolastici (da cui deriva il registro scherzoso e colloquiale
con cui è condotta la narrazione), alla sua ricerca di una lingua non
letteraria e mediana, che trova piena realizzazione nel toscano
"vivo" in cui la celebre fiaba è narrata. Di tutto ciò non si
accorsero né i contemporanei, che decretarono a Le avventure di Pinocchio un
successo crescente ma circoscritto all'esiguo spazio della letteratura
infantile, mentre la fortuna editoriale della "bambinata" veniva
crescendo fino a farne il libro più letto e tradotto al mondo dopo la Bibbia,
né gli antesignani della critica collodiana (da P. Hazard, a Pancrazi, a B.
Croce, fino ad A. Savinio e A. Baldini), i quali, rivolti a indagare e
rivendicare Pinocchiocome capolavoro della letteratura mondiale, non si curarono
di ricostruirne i nessi con la vita e la carriera del suo autore. Negli
anni della composizione e pubblicazione di Pinocchio, il L. proseguì la
collaborazione al Fanfulla (fino al 1897) e assunse parte sempre più attiva
nella gestione del Giornale per i bambini, di cui divenne direttore nel biennio
1883-85 e nel quale pubblicò racconti e novelle quali Chi non ha coraggio vada
alla guerra. Proverbio in due parti, La festa di Natale e Pipì lo scimmiottino
color di rosa, quest'ultima confluita con altri racconti e memorie, tra cui il
brioso dialogo Dopo il teatro, nel volume Storie allegre pubblicato nel 1887,
sempre presso Paggi. L'anno prima era morta la madre, presso la quale il
L. ancora viveva, e per lui fu un colpo da cui non riuscì a riprendersi. Gli anni
successivi furono i più tristi e solitari della vita del L. che, già minato nel
fisico, venne sempre più chiudendosi in se stesso e isolandosi nel suo
lavoro. Il L. morì a Firenze improvvisamente, la sera del 26 ott.
1890. Dopo la sua morte, su incarico del fratello Paolo, il grammatico e
lessicografo purista G. Rigutini ordinò e raccolse in due volumi (Note gaie e
Divagazioni critico-umoristiche, editi entrambi a Firenze nel 1892) gran parte
delle prose sparse del L., intervenendo con arbitrarie correzioni e aggiunte ai
testi. Rigutini e il fratello Paolo, inoltre, passarono in rassegna la vasta
raccolta delle sue carte, provvedendo a distruggere quasi tutte le lettere
(private o d'argomento politico) che avrebbero potuto nuocere all'onorabilità
del L. e di molti viventi, e soprattutto molti inediti, al fine di
salvaguardare "il buon nome del Collodi scrittore" (cfr. Paolo
Lorenzini [Collodi nipote], pp. 70, 74). Le non molte carte sopravvissute
furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito, alla Biblioteca nazionale di
Firenze. Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale, N.A., 754: Carte
Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di carte è custodito presso
l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad Marzocco di Firenze, erede
della casa editrice Paggi (cfr. M.J. Minicucci, Tra l'inedito e l'edito delle
carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti del I Convegno
internazionale,( 1974, Pescia 1976, pp. 381-403). Altri documenti sono presso
l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di Livorno e
presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono conservati
presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi Collodi
giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze 1981;
Pinocchio e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a cura di
R. Maini - M. Zangheri, Firenze 2000). Tra le testimonianze biografiche
contemporanee, i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente nel Fanfulla
della domenica e nella Domenica fiorentina, 2 nov. 1890; i profili premessi dai
curatori a due successive edizioni delle Note gaie del L. (a cura di G.
Rigutini, Firenze 1892, pp. V-XVI; a cura di I. Cortona [Lorenzini], ibid.
1911, pp. III-XL); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C. Collodi, in
La Lettura, marzo 1907, pp. 184-190; F. Martini, Confessioni e ricordi (Firenze
granducale), I, Firenze 1922, pp. 168 s.; inoltre P. Lorenzini, Collodi e
Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio. Vita e opere
del Collodi, Milano 1993; B. Traversetti, Introduzione a Collodi, Roma-Bari
1993; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano 1995,
pp. LXVII-CXXIV. Manca un'edizione completa delle opere del L.: il progettato
Tutto Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto interrotto al primo volume
(Firenze 1948); la più ampia raccolta attualmente disponibile è quella delle
Opere, a cura di D. Marcheschi, che nella Bibliografia delle opere di C.
Collodi dà conto delle numerose edizioni e ristampe dei testi giornalistici e
delle opere minori (narrative e teatrali) del L.: va inoltre ricordata la
ristampa anastatica della Grammatica di Giannettino, a cura di F. Geymonat,
Firenze 2003. De Le avventure di Pinocchio si segnalano solo le edizioni
di particolare rilievo: le due edizioni critiche, la prima a cura di A.
Camilli, Firenze 1946 (basata sull'edizione Paggi del 1883); la seconda, a cura
di O. Castellani Pollidori, Pescia 1983 (fondata sull'edizione Bemporad 1890 -
l'ultima rivista dall'autore -, ma corredata delle varianti delle precedenti
stampe e dei manoscritti dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F.
Tempesti (tutte pubblicate a Milano) nel 1972, nel 1983 e nel 1993, corredate
da un ampio commento e da ricchi apparati documentari; infine, quella compresa
nella raccolta di Opere, a cura di D. Marcheschi, cit. (pp. 359-526), con ampio
corredo di note (pp. 916-1003). Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con
introd. di S. Bartezzaghi e prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano 2002) con
introd. di P. Italia (pp. VII-XXII) e prefaz. di V. Cerami (pp.
XXII-XXVII). Per il resto si rinvia (anche per la letteratura critica)
alla Bibliografia Collodiana (1883-1980)di L. Volpicelli (Pescia 1980), da
integrare con la citata Bibliografia di D. Marcheschi (pp. 1119-1130,
aggiornata al 1994), alla consultazione del catalogo della Biblioteca
Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli su C. Collodi e Pinocchio
(on-line su internet), gestiti dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi di
Pescia. La storia degli studi critici sul L. (in gran parte contributi su
Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da Collodi a L.: sulla
fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di Collodi, a cura di
G.E. Viola - F. Rovigatti, Roma 1990, pp. 55-64; Pinocchio tra due secoli.
Breve storia della critica collodiana di R. Bertacchini, in C. L.- Collodi nel
centenario. Atti del Convegno, Roma-Pescia( 1990, Roma 1992, pp. 121-164.
Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli della critica
collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature enfantine en Italie,
in Revue des deux mondes, 15 febbr. 1914, pp. 842-870; P. Pancrazi, Elogio di
Pinocchio [1921], in Id., Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze 1923,
pp. 201-205; B. Croce, Pinocchio, in Id., La letteratura della Nuova Italia, V,
Bari 1939, pp. 361-365; P. Bargellini, La verità di Pinocchio, Brescia 1942; A.
Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia, Milano 1944, pp.
177-195; V. Fazio Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze 1945; A. Baldini, La
ragion politica di "Pinocchio" (1876), in Id., Fine Ottocento.
Carducci, Pascoli, D'Annunzio e minori, Firenze 1947, pp. 118-124; P. Pancrazi,
Capolavoro scritto per caso[1948], in Id., Scrittori d'oggi, 5, Segni del
tempo, Bari 1950, pp. 165-171. Inoltre, va ricordato l'impulso dato allo studio
della personalità e dell'opera del L. dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi,
a Pescia, soprattutto con una lunga serie di congressi scientifici: Studi
collodiani. Atti del I Convegno internazionale,( 1974, Pescia 1976; Pinocchio
oggi. Atti del Convegno pedagogico,( 1978, Pescia-Collodi 1980; "C'era una
volta un pezzo di legno". Atti del Convegno "La simbologia di
Pinocchio", Pescia( 1980, Milano 1981; Folkloristi italiani del tempo del
Collodi(, Pescia( 1982, a cura di P. Clemente - M. Fresta, Montepulciano 1986;
Pinocchio fra i burattini. Atti del Convegno internazionale, ( 1989, a cura di
F. Tempesti, Firenze 1993; Pinocchio sullo schermo e sulla scena. Atti del
Convegno internazionale,( 1990, a cura di G. Flores d'Arcais, Firenze 1994;
Scrittura dell'uso al tempo del Collodi( 1990, a cura di F. Tempesti, Firenze
1994; Pinocchio nella pubblicità(, Pescia( 1995, a cura di P.F. Bernacchi,
Firenze 1997; Sterne e Collodi. Atti della tavola rotonda,( 1995, Lucca
1999. Per il centenario della morte del L. vanno ricordati il volume
promosso dalla Banca Toscana, C. Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di
R. Fedi, con introduzione di L. Comencini e Suso Cecchi D'Amico, s.l. [ma
Firenze] 1990 e le citate pubblicazioni dell'Istituto dell'Enciclopedia
Italiana a Roma: il catalogo C. L. oltre l'ombra di Collodi; e gli atti del
Convegno C. L.- Collodi nel centenario. Tra gli studi dell'ultimo
decennio: M. Raicich, Di grammatica in retorica. Lingua scuola editoria nella
Terza Italia, Roma 1996, pp. 3-7, 71 s., 74, 231; G. Cives, Pinocchio tra
realtà e sogno, in F. Cambi - G. Cives, Il bambino e la lettura. Testi
scolastici e libri per l'infanzia, Pisa 1996, pp. 279-314; E. Giachery, Tre
compari intorno a un burattino, in Id., La letteratura come amicizia, Roma
1996, pp. 137-146; M. Gómez del Manzano - G. Janier Manica, Pinocchio in
Spagna, Scandicci 1996; A. Asor Rosa, Le avventure di Pinocchio, in Id., Genus
Italicum. Saggi sull'identità letteraria italiana nel tempo, Torino 1997, pp.
551-617; P. Citati, Il ritratto di "Pinocchio", in Id., Ritratti di
donne, Milano 1997, pp. 148-160; G. Cives, Da "Pinocchio" a
"Cuore": due fortune molto diverse, in Scuola e città, XLVIII (1997),
pp. 13-23; M. Farnetti, I notturni di Pinocchio, in Id., L'irruzione del vedere
nel pensare. Saggi sul fantastico, Pasian di Prato 1997, pp. 71-86; G.
Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano 1997; D. Lanza, Lo stolto. Di Socrate,
Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Torino 1997, pp.
170-175; F. Tempesti, Pinocchio, in I luoghi della memoria: strutture ed eventi
dell'Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, pp. 115-137; V.
Spinazzola, Pinocchio & C., Milano 1997 (in partic. pp. 9-97); P.M. Toesca,
La filosofia di Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria
di burattino, in Forum Italicum, XXXI (1997), 2, pp. 459-486; L. Pizzoli, Sul
contributo di "Pinocchio" alla fraseologia italiana, in Studi
linguistici italiani, XXIV (1998), pp. 167-209; R. Randaccio, La "Legge
shandyana del nome" nei personaggi di C. Collodi, in Riv. italiana di
onomastica, IV (1998), pp. 59-69; R. Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in
Nuova Antologia, 1999, n. 2122, pp. 244-253; G. Biffi, Alcuni interrogativi su
Collodi e Pinocchio, in Studi cattolici, XLIII (1999), pp. 522-526; R. Campa,
La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio",
Lucca 1999; Sterne e Collodi, Lucca 1999 (testi di R. Bertacchini, D. Marcheschi,
F. Tempesti); E. Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la tradizione
delle guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi d'inchiostro. Note
su viaggi e letteratura in Italia, Udine 2000, pp. 69-84; T. Iermano, Da
Parravicini a De Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra
Risorgimento e Italia umbertina, in Studi piemontesi, 2000, n. 2, pp. 345-362;
M. Carosi, Pinocchio. Un messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma
2001; A. Gnocchi - M. Palmaro, Ipotesi su Pinocchio, Milano 2001; S. Moret,
Pinocchio e le "pinocchiate" in Francia, in Levia gravia, III (2001),
pp. 77-88; L. Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi
piemontesi, XXX (2001), 2, pp. 295-314; M. Villoresi, La letteratura poliziesca
e del mistero ambientata a Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in
Archivi del nuovo, 2001, n. 8-9, pp. 65-83; M. Scollo Lavizzari, Della
disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti, s. 5, ottobre-dicembre 2002, n.
20, pp. 322-339; F. Geymonat, Una grammatica di buon senso, in C. Collodi, La
grammatica di Giannettino, a cura di F. Geymonat, Firenze; Marello, La dubbia
efficacia del paternalismo induttivo, ibid., pp. XIX-XXII; O. Castellani
Pollidori, In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia,
Roma 2004, ad ind.; Il giro di Pinocchio in due giornate. Convegno
internazionale di studi, Pisa. Proietti Ho intervistato G. presso la sua
casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso, insieme al mio relatore Amoroso,
di scrivere un saggio i sull’estetica di G.. G., molto gentilmente, non solo ha
concesso l’intervista ma l’ha rivista e mi ha fornito indicazioni importanti
per la stesura della tesi. G., nei suoi testi c'è stato un progressivo
spostamento di interesse dalla semiotica all'estetica, in che modo lo
descriverebbe? Come lo motiva? Io mi sono occupato molto prima di estetica che
di SEMIOTICA. Ma quando ho cominciato ad occuparmi di SEMIOTICA, l’interesse
non e rivolto solo alle opere d’arte, anche se l’occasione e questa. Perché mi
sono occupato di SEMIOTICA? Sono stato attratto anch’io nel vortice della MODA
della SEMIOTICA. Ma forse ho anche qualche motivo serio per farlo. Provengo
dalla cultura estetica imperante in Italia, di tipo crociano, dove l’arte viene
riportata all’intuizione, e non si dice quasi nulla di più. Non si sa in alcun
modo come l’estrinsecazione di questa intuizione si strutturi e sia
analizzabile. Lo stesso Croce nelle sue opere critiche conduce analisi critiche
vere e proprie in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e quasi nient’altro.
Anche i tentativi che sono fatti sulla scia 2crociana nell’ambito di arti
particolari, nell’architettura da parte di Zevi , nella musica da parte d’altri
e così via, servirono fino a un certo punto, perché resta pur sempre quelle
categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto meno si puo sapere, come
pure e nella mente di Croce, se e quando un’opera d’arte e veramente un’opera
d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera d’arte riuscita e un’opera
d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte. Appunto questo intuizionismo
mi urta. Non a caso mi avvicinai in un [Questa intervista nasce dunque come
appendice al saggio di Ferrari, Estetica e FILOSOFIA in G, Pisa. Zevi, Saper
vedere l’architettura, Einaudi, Torino] primo momento a Volpe, citato già nel
mio saggio e ampiamente discusso insieme al pensiero di Anceschi, di Formaggio
e di molti altri. Perché Volpe? Perché in lui c’e l’esigenza di riportare
l’opera d’arte a un uso specifico del LINGUAGGIO. In VOLPE insomma l’opera si
presenta come analizzabile, ed effettivamente Volpe conduce ANALISI SEMANTICHE,
piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali analisi
semantiche si occupano inoltre anche di varie arti non linguistiche.
L’appendice alla Critica del gusto, che riprende il tema del Laocoonte
lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è
un caso che al proposito si citi Brandi, che non e mai un semiotico, anzi e un
accanito ANTI-semiotico, e tuttavia pone le basi di un’autentica analisi
dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzo tuttora moltissimo Brandi, che ho
sempre letto. Insomma: mi interessa di poter disporre di una teoria che
permettesse di analizzare, sì, la struttura delle opere, ma anche la loro struttura
COMUNICATIVA. Ero tuttavia contrario al modo semplicistico allora adottato
frequentemente, di prendere pezzi materiali di opere e classificarli come SEGNI
(per esempio, nell’architettura,
«capitello», «colonna», «base», e così via), e ho tentato invece un’impresa
molto più difficile e in qualche modo più fine, che però si dimostra anch’essa
fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi sforzo cioè di produrre una
semiotica formale mediante operazioni analoghe a quelle che si conducono sul
linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali, non materiali. Monemi e
fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma unità formali costitutive
della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma una autentica leggibilità
dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla sua costituzione. Non
pretendo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di un’opera a giustificare la
sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è un'altra cosa, volevo solo
analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere opera d’arte o altre cose,
anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho intrapreso dunque questa
impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono accorto che quel lavoro puo
forse essere interessante come mero esperimento, ma non porta a niente. In
realtà non porta a niente né la semiotica materiale di tanti altri, né la mia
semiotica formale. Ho avuto una vera e propria crisi teorica dopo aver scritto
Progetto di semiotica, saggio semioticamente troppo ambizioso. La crisi si
risolse con Ricognizione della semiotica, che è una dichiarazione di abbandono
sostanziale della semiotica e un’apertura più decisa, anche se già più che
affiorante nei saggi precedenti, verso altri orientamenti. Una precisazione
importante. Mi sono distaccato dagli studi di semiotica sulla base di un
accorgimento ancora più fondamentale, vale a dire: tento di utilizzare
opportunamente gli strumenti linguistici anche per i linguaggi non verbali e di
arrivare a soluzioni non ovviamente identiche, ma ANALOGHE, nella definizione
del loro codice, e mi sono accorto a un certo punto che neanche il codice
linguistico è un vero e proprio codice. C’è, sì, una parte codificata,
fonematica, monematica e grammaticale. Ma, nell’uso, poi, il linguaggio è
creativo, continuamente si amplia, muta, e così via. E mi sono convinto che
sarebbe stato assurdo pretendere qualcosa di [ G., La crisi semantica delle
arti, Officina Edizioni, Roma. Volpe, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano. G.,
Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi non-verbali, Problemi
teorici e applicativi, Laterza, Bari. G., Ricognizione della semiotica. Tre
lezioni di, Officina Edizioni, Roma] più da linguaggi chiaramente ancora meno
codificati, come per esempio il presunto linguaggio figurativo. Mi ha
allontanato dalla semiotica, inoltre, l’approfondimento della filosofia di
Kant. Naturalmente, mi ero da sempre occupato di Kant e in particolare della
terza Critica, e ho tenuto sull’argomento vari corsi di lezioni. E via via che
ando maturando una mia interpretazione di Kant, essa e sempre più in collisione
con una prospettiva semiotica. Non che le opere non siano analizzabili, ma sono
analizzabili con strumenti diversi, non con strumenti propriamente semiotici.
Ma questo è un altro discorso. Come reputa di inserirsi nella tradizione
kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi riferimenti imprescindibili
in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi sono stati e sono i suoi
interlocutori privilegiati? Il riferimento più significativo è SCAVARELLI.
Scaravelli dà un’interpretazione fulminante della terza Critica, mettendo in
evidenza cose che non sono mai state viste, e che invece, dopo aver letto
Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare anche un autore, un po’
più antico, che pure dice cose molto interessanti: BARATONO, che
sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio come
un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e
quindi della scienza. È insomma una parziale anticipazione di Scaravelli. Un
ultimo riferimento notevole è MATHIEU, che è giunto a risultati analoghi nei
riguardi del cosiddetto Opus postumum. Questi sono i miei più importanti
riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato anche molte
opere di studiosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da Hinske a
Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un certo
punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani si
sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia
tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano
molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho,
e ottimi. Per esempio MARUCCI, con cui ho avuto anche una corrispondenza che,
come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica». Con Marcucci
sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i suoi saggi e
io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se non siamo sempre d’accordo,
soprattutto sul punto fondamentale dell’interpretazione del principio estetico
della facoltà di giudizio. Ma spesso è più [Le considerazioni più rilevanti
sulla terza Critica sono in: Scaravelli, Osservazioni sulla «Critica del
Giudizio», poi in Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze. Cfr.
Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del
Giudizio, in «Logos. Mathieu, La filosofia trascendentale e l’ «Opus postumum»
di Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino; Kant, Opus postumum, a cura di
Mathieu, Zanichelli, Bologna. G., Marcucci, Lettere kantiane, in «Studi di
estetica»] proficuo non essere d’accordo, che l’esserlo. E ancora: Amoroso. Con
Amoroso ho scambiato idee, ho letto il suo saggio su Kant che apprezzo molto.
Per esempio, ci siamo visti in occasione di un seminario kantiano a Palermo, e
abbiamo parlato a lungo. E ancora Makkreel, che ho conosciuto a Salle, e Rocca,
che mi interessa molto. A proposito di Salle, proprio lì Amoroso ed io
scoprimmo, chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di
disappunto, che stavamo entrambi traducendo la terza Critica, rispettivamente:
Critica della capacità di giudizio e Critica della facoltà di giudizio. Ma dovrei
ricordare alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è
sempre stato uno scambio molto forte su problemi kantiani: Giacomo, Montani,
Catucci, Velotti, che ha scritto un bel saggio che si occupa largamente di
Kant, recentemente edito da Laterza. E soprattutto Hohenegger, con il quale ho
lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e
nella stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. Rocca è un caso per
me leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è per
fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme oltre
che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di
Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio stesso
della facoltà del giudizio. Eppure Kant dice, mi pare più volte e chiaramente
in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della facoltà di
giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da quello. Il
caso di Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di DESIDERI, che è senza
dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’ complicato
qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è uscito un suo saggio,
in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione, che a lui sta bene, al
contrario di Rocca. Ebbene, [ Cfr. G., Estetica ed epistemologia. Riflessioni
sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni, Roma, (2a ed. con una Premessa
dell’autore: Unicopli, Milano); Marcucci, Epistemologia ed estetica in Kant, in
«Physis». Amoroso, Senso e consenso. Uno
studio kantiano, Guida, Napoli, Seminario promosso dal Centro Internazionale
Studi di Estetica e svoltosi a Palermo, Grand Hotel des Palmes, Tema del
convegno: Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente
all’uscita di Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di Tedesco, Aesthetica,
Palermo, Hanno introdotto la discussione Amoroso, Ferraris, G., Russo.
Partecipanti: Carbone, Carchia, Angelo, Giacomo, Diodato, Ferrario, Goldoni, Griffero,
Kobau, Lombardo, Mattioli, Mazzocut-Mis, Montani, Pimpinella, Pizzo Russo, Salizzoni, Tedesco,
Tomasi, e Velotti. La relazione di G. e altre relazioni e comunicazioni sono
state poi pubblicate in «Aesthetica Preprint». A Cerisy si svolgono le attività
del Centre Culturel International cerisy.asso.fr). Il Colloquio su L’Esthétique
de Kant si svolse. Gli atti sono stati poi pubblicati in Kants Ästhetik, hrsg.
H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin. Kant, Critica della capacità di giudizio,
a cura di Amoroso, BUR, Milano. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura
di G. e Hohenegger, Einaudi, Torino; Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza,
Laterza, Roma-Bari; Rocca, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia; Desideri, Il passaggio estetico. Saggi
kantiani, Il Melangolo, Genova] curiosamente non ho mai avuto rapporti
personali con lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in concorsi o
cose del genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo ultimo saggio
che questa idea gli è venuta leggendo una serie di saggi, fra cui il mio, ma
anche quelli di altri che negano recisamente questa tesi. Non capisco bene il
perché. In ogni caso posso dire che con Desideri sono idealmente» in rapporti
di discussione. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità di una storia
dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso si prendono in
considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e per
un certo verso anche in Senso e paradosso, si argomenta intorno alla
possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come estetici scritti
prima del XVIII secolo, rilettura nella prospettiva del senso che è a Lei
propria. Come ritiene quindi fattibile una storia dell'estetica? E con quali
limiti? Non ho mai scritto una STORIA DELL’ESTETICA (Grice: “Bosanquet, a
minor, has!”), né mi è mai venuto in mente di farlo, e ormai non la scriverò
neppure in futuro. Però cominciano a uscire dei lavori interessanti, cioè
esempi di una storia dell’estetica calibrata in modo diverso rispetto a quello
tradizionale: una storia dell’estetica che non presume di trovare un’estetica
dappertutto, tale e quale, così come si è costituita nel secolo XVIII. Si è
ormai consci che si debbono fare distinzioni opportune. L’oggetto stesso della
cosiddetta riflessione estetica, in senso molto lato, è diverso nei vari tempi,
non è affatto identico a quello che noi chiamiamo opera d’arte bella, una
categoria nata storicamente in un certo tempo. Ci sono, come dico spesso nei
miei saggi, somiglianze, identità parziali, ma anche differenze, talvolta molto
forti, tra i vari oggetti sui quali si esercita la cosiddetta riflessione
estetica. Questo significa che non si può scrivere una storia dell’estetica
come storia di una disciplina e che però si può forse delineare un panorama di
tutti quei fenomeni che, in qualche modo, hanno analogie con ciò che noi, poi,
abbiamo chiamato opere d’arte bella e che richiedono parimenti un principio non
intellettuale. Su questa base è nata una subcollanina laterziana di Cultura
Moderna, da me diretta, dedicata ai problemi dell’estetica e dell’altro
dall’estetica, dove sono usciti alcuni ottimi saggi, per esempio quello di
Angelo sull’estetica della natura e dell’ambiente. Dunque, estetica fino a un
certo punto, che non si occupa di opere d’arte, ma di oggetti diversi che
possono essere sottoposti a giudizi di tipo diverso, che non sono sempre, o
quasi mai, puramente estetici, ma coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza.
E’ uscito poi un saggio di Guastini sull’estetica ANTICA, particolarmente
interessante, perché riesce a chiarirla senza mai dimenticare che la LA
FILOSOFIA ANTICA non possiede una vera e propria estetica, non solo perché non
sia sanzionata come disciplina, ma perché i suoi [G., Estetica. Uno
sguardo-attraverso, Garzanti, Milano; G., Senso e paradosso. L’estetica
filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari; La serie di Laterza si chiama:
«Temi per l’estetica» ed appartiene alla collana «Biblioteca di cultura
moderna»; Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte
ambientale, Laterza, Roma-Bari] problemi erano alquanto diversi. Ebbene, in
quel saggio si vedono bene, come le dicevo, e differenze e analogie. Insomma:
questo è appunto un modo di fare storia dell’estetica senza pretendere di fare
la storia di una disciplina, ma piuttosto la storia di un qualcosa di cangiante
che circola nella riflessione e che tuttavia richiede una qualche condizione
comune, qualcosa come il principio soggettivo della facoltà di giudizio. E del
resto io stesso, il mio saggio, l’ho intitolato L’arte e l’altro dall’arte, con
questa precisa intenzione. Nei suoi più recenti saggi, Lei lamenta il fatto che
l'arte non riesca più ad essere esemplificatrice di una prospettiva di senso:
essa sarebbe solo una reduplicazione e sostituzione dell'esistente. In che modo
valuta questi cambiamenti? Ritiene inoltre che vi siano nell'arte propensioni
opposte a questa tendenza generale? Sull’arte ho poco da dire, ho poco da dire
perché... Guardi, io mi sono interessato moltissimo di arte e storia dell’arte,
occupandomi dell’arte antica e moderna, dai greci fino ai nostri giorni,
compresa l’avanguardia novecentesca. Mi sono avvicinato di più all’arte che si
sta facendo allora e ho scritto anche qualche saggio in onore di pittori che mi
interessavano. Ma questo interesse artistico è un po’ scemato col tempo.
Perché? Un po’ per mie traversie intellettuali, non sempre testimoniate in
saggi, che mi hanno portato su altre strade. Un po’ perché credo che il
giudizio che ho dato sull’arte attuale come riproposizione dell’esistente, con
l’aggiunta di trovate e trovatine più o meno lodevoli, sia abbastanza valido.
Io non so se esistano casi che facciano pensare il contrario, può darsi, non so
dirglielo. Fino adesso non ne ho incontrati... qualcosa di «carino», sì, una
invenzione che richiama l’attenzione... però tutto sommato mi pare che l’arte
nella sua generalità tenda precisamente a quella riproposizione dell’esistente,
attraverso i mezzi tecnologici oggi a disposizione. Le stesse installazioni,
per esempio, che pure sono qualche volta opere di grande interesse, sono spesso
la raccolta di oggetti trovati, ma con intenti diversissimi rispetto a
Duchamps, e richiamano sempre l’esistente tale e quale, o quasi. In effetti è
significativo che anche in quelle opere ci sia spessissimo un te- [Guastini,
Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari; G.,
L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Roma-Bari; Pochi giorni dopo l’intervista,
G.mi ha inviato una e-mail con la bozza di quello che sarebbe stato davvero il
suo ultimo saggio: G., Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi,
Laterza, Roma-Bari. Cfr. G., Relazione interna, relazione esterna e
combinazione delle arti, relazione presentata al Convegno della Biennale Lo
scambio delle arti, Venezia, poi in: Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, cit.;
G., Senso e non-senso, conferenza letta a I Coloquio Latino-americano de
Estética y de Critica di Buenos Aires e alla Facultad de Arquitectura Diseño y
Urbanismo, poi in: G., Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda,
Castrovillari; G., Crispolti, Greco, Biblioteca di Alternative Attuali, Roma; G.,
Arte mito e utopia: 11 dipinti di Bice Lazzari, Tipografia Fonteiana, Roma; G.,
Il mito negativo e la pittura di Vacchi, Officina, Roma; Benedetto, Amore Uno:
6 acqueforti, presentate da G., Il Torcoliere, Roma; Benedetto (104 opere dal
1963 ad oggi), Galleria d’arte internazionale Due Mondi, Roma] levisore, quasi
che si volesse richiamare l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul fatto
che quello che si mostra è proprio quello che potremmo incontrare andando in
una casa che non conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per il
futuro. Può darsi che tutto cambi, basta che emerga una personalità di talento,
che faccia del nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la verità,
io non credo molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I talenti
sono un fatto, ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri tempi
sono tempi di degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali.
Insomma, se l’arte mi pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia degl’artisti,
ma piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono all’orrore ormai
quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine televisiva o
telematica. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad Heidegger e
Wittgenstein) è Dewey. I riferimenti a Dewey, pur significativi, sono più
circoscritti rispetto a quelli nei confronti di Heidegger e Wittgenstein. Per
quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni sull'autore di L'arte come
esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e Wittgenstein? Ognuno ha i suoi
filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato detto da Verra, Wittgenstein e
Heidegger sono i due filosofi più importanti. Questo forse sarà un giudizio
estremo. Senza dubbio ce ne sono altri importanti, ma sicuramente questi sono
tra i pochi più importanti. Io trovo motivi di interesse per un certo verso più
in Wittgenstein che in Heidegger. Heidegger non lo accetto per molti aspetti,
ma certo ha intuizioni e riflessioni notevoli. In ogni caso mi hanno aiutato
entrambi, o almeno lo spero, a capire come stanno le cose con la filosofia e
con il problema stesso della filosofia. E qui allora vorrei citare ancora una
volta un altro filosofo, che non cita più nessuno: CARABELLESE. Carabellese è
stato per me un insegnamento fondamentale. Il modo di ricercare di Carabellese
nell’ambito filosofico e stupefacente: la lettura del testo, lo smontaggio del
testo, e lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta non senza qualche
coartazione qua e là, ma in ogni caso con serietà e profondità. Confesso di preferire
di gran lunga questo metodo a quello di certi filologi che capiscono a metà.
Quella era la sua caratteristica principale. Io tento di ispirarmi a quel
metodo, anche se l’ammissione può nuocermi presso i filologi. Pazienza. Cito
Dewey per una ragione semplicissima. Perché l’estetica di Dewey è un estetica
precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non un’estetica
dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma certe
esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello del
giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla esplicitamente
di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con l’arte,
assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il pranzo in un
ristorante francese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una crociera,
e così via. Però cito molto anche Brandi. Brandi, come le dicevo, è stato molto
impor- tante per me, anche per il superamento della semiotica30, ma soprattutto
per alcuni 29 Sul problema interno della filosofia, cfr. Carabellese, Che cos’è
la filosofia?, in «Rivista di Filosofia»; Per le critiche alla semiotica, cfr.
Brandi, Segno e immagine, Milano, Il Saggiatore] aspetti filosofici della sua
estetica, guarda caso proprio in riferimento allo schematismo kantiano, e per
la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere d’arte. Basta leggere i suoi
Dialoghi, l’Architettura barocca, il Duccio, eccetera eccetera, per rendersene
conto. Da sempre Lei ha alternato alle
opere filosofiche, opere di narrativa. C'è stata un'influenza tra i due ambiti?
L’argomento dei miei scritti narrativi mi imbarazza leggermente, dato che
cadono del tutto al di fuori dell’ambito dei miei lavori. Tuttavia non mi
imbarazza dirle che li ho scritti con la stessa attenzione degli altri scritti,
e, per di più, che essi meritavano forse un’attenzione maggiore, al di fuori
della ristrettissima cerchia dei miei lettori, come dire?, «convinti». Non è
uno sfogo da autore deluso. E’ una convinzione, credo non immotivata, che non
nasce affatto dalla delusione. Ora lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i
due ambiti. Senza dubbio, non può non esserci, perché sono sempre io che
scrivo, quell’io che ha una certa storia, personale e culturale, e che è
arrivato a certi risultati, buoni, cattivi o mediocri, questo non importa, in
fatto di comprensione. E tuttavia ciò che scrivo nelle opere narrative non
serve a spiegare nulla dei miei saggi. Anzi sarebbe una fonte di
fraintendimento utilizzare quegli scritti per capire i miei saggi filosofici.
Sono semmai gli scritti narrativi che esigerebbero una spiegazione ulteriore da
parte dei saggi filosofici. Infatti si pongono in una posizione più arretrata.
Sono, per così dire, una fabulazione interna di chi deve arrivare ad una vera
comprensione cui non arriverà mai. Sono racconti di personaggi in qualche modo
nevrotici e metafisici. Per esempio, ho usato queste due parole nel sottotitolo
del libretto Racconti morali: «lontananza» e «vicinanza». Ebbene i miei
personaggi oscillano precisamente tra la lontananza dal mondo e la vicinanza al
mondo, ma non si pongono mai il problema se questa oscillazione sia superabile,
e quindi non arrivano mai a una comprensione critica della vicinanza con gli
oggetti del mondo, né si pongono il problema se sia possibile guardare da
lontano il mondo intero. In questo senso preciso sono racconti metafisici che
intendono lasciare insoddisfatto il lettore con quella scrittura elaborata,
saltellante, ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte
intenzionali, ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono
fatalmente ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che
non hanno capito [Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma, 1945;
Brandi, Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi,
Torino, 1956; Brandi, Celso o della Poesia, Einaudi, Torino, 1957. 32 Brandi,
La prima architettura barocca: Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza,
Bari, Brandi, Duccio, Vallecchi, Firenze, 1951. 34 G., La macchia gialla,
Lerici, Milano, 1962; G., I tasmaniani, Bucciarelli, Ancona, 1963; Garroni,
Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma, 1990; G., Racconti morali o
Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma, 1992; G., Sulla
morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma, 1994. Garroni si dedicava
non solo alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni dipinti sono riprodotti
nel libro- intervista: G., Doriano Fasoli, Il mestiere di capire, Edizioni
Associate, Roma; G., Racconti morali, cit.] ciò che io chiamo «il
guardare-attraverso». E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa del
genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro a
quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni
tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una
sorta di postfazione, ai testi filosofici.
G. non è stato soltanto uno dei filosofi italiani più importanti del
secondo dopoguerra, ma anche una figura di intellettuale complessa e
sfaccettata. Trovandosi di fronte alle sue molteplici attività e ai suoi
svariati interessi, si sarebbe tentati di concentrarsi – per i fini di questo
focus di «Syzetesis» dedicato ad alcuni Momenti di filosofia italiana – sui suoi
contributi più convenzionalmente etichettabili come “filosofici”, quali quelli
dedicati all’interpretazione del pensiero critico di Kant, tralasciando tutto
il resto: le pratiche di narratore e di pittore (attraversate da specifiche
auto-tematizzazioni teoriche e oggetto di riflessione saggistica), l’interesse
per la psicoanalisi e la linguistica, gli interventi sulle arti visive, la
letteratura e la musica – talvolta affidati a quotidiani, settimanali o
cataloghi –, i numerosi saggi, sempre incisivi, su temi di grande impegno,
dalla creatività alla spazialità, dalla verità alla menzogna1. A questi diversi
aspetti dell’attività di Garroni potrò in effetti fa- re solo qualche cenno,
tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero se- condo un’angolazione in cui
il confronto con Kant ha certamente un posto di rilievo, ma solo in funzione di
quella che mi sembra la vera vocazione o passione dominante di Garroni, e che
il titolo di una lunga intervista concessa a Doriano Fasoli poco prima di
morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il mestiere di capire2. L’impegno
costante a capire – capire quello che la vita e la storia ci mettono davanti,
capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a essere un homo sapiens”3, capire
i prodotti della cosiddetta cultura, capire o com- 1 La bibliografia più
completa degli scritti di G,, curata da A. D’Ammando, è dispo- nibile sul sito
dell’associazione “Cattedra internazionale Emilio Garroni” E. Garroni-D.
Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma
2005. 3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?,
testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi
psicoanalitica, Borla, Roma 1992, pp. 7-16; Garroni ha poi rielaborato questo
testo in uno dei suoi ultimi scritti, uscito postumo, La mente, il corpo, le
cose, in P. Carignani-F. Romano (eds.), Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e
mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Franco Angeli, Milano; Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale
prendere la stessa attività di capire e comprendere, cioè la filosofia –
è strettamente legato in G. alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza”
che ho messo nel titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da
intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo”
dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la filosofia, nella
prospettiva critica adottata da G., ha ben poco da dire), ma neppure come una
dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona
volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione antropologica, possiamo
acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro: per Garroni, come
vedremo, il senso dell’espe- rienza è piuttosto un dover essere4,
trascendentalmente ineludibile ma per niente garantito nei fatti, un compito
etico irto di difficoltà, intima- mente paradossale, e sempre strutturalmente
pronto a rovesciarsi in non-senso. 2. Per chiarire ancora qualcosa a proposito
del titolo di questo inter- vento (la sua seconda parte, “l’estetica come
filosofia non speciale”), è bene ricordare che per Garroni l’estetica non è
affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con un proprio oggetto
epistemico o materia- le, ma riguarda le condizioni di possibilità di fare
esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle ricerche
scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte, semmai,
è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare5. Per Garroni,
infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non
empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività
empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano
a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piutto- sto il compito di «guardare-attraverso»6
le esperienze determinate, per 4 Cfr. E. Garroni, Sul dover essere del senso,
in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso, Garzanti, Milano 1992
(seconda ed., Castelvecchi, Roma 2020, con un’in- troduzione di S. Velotti),
pp. 245-270, testo presentato originariamente al convegno dell’Associazione
italiana di studi semiotici “Semiotica ed epistemologia delle scienze umane”
(Siena, 23-25 settembre 1988). 5 Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso.
L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari 1986, in particolare p.
179 ss. 6 Garroni usa il termine “guardare-attraverso”, con il trattino, per
sottolinearne l’uso tecnico, quale traduzione del durchschauen usato da L.
Wittgenstein nel § 90 delle Philo- sophische Untersuchungen, ed. by G. E. M.
Anscombe and R. Rhees, Blackwell, Oxford 1953 (Trad. it. di R. Piovesan e M.
Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi 1967, p. 60: «È come se
dovessimo guardare attraverso i fenomeni [die Erscheinungen durchschauen]: la
nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma alla ‘possibilità’ dei
fenomeni»). 269 Stefano Velotti risalire alle loro
condizioni di possibilità intellettuali e non intellettua- li, tra cui appunto
una condizione estetica, come orizzonte di senso dell’esperienza nella sua
totalità indefinita e indeterminabile. Il com- pito di capire è inteso
innanzitutto proprio come questo «guardare- attraverso» i fenomeni per
comprenderli, cogliendone le condizioni di senso. Il cosiddetto «problema
interno della filosofia»7 – con un’e- spressione ripresa questa volta da
Pantaleo Carabellese, che Garroni ammirava e le cui lezioni aveva frequentato
da studente alla Sapienza negli anni Quaranta – è infatti per Garroni un
problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della filosofia, cioè
il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla quale, a un
tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare un proprio
altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. 3. Vorrei partire, però, da
qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci permette
di intravedere l’urgenza anche contingente, socio-biografico-culturale, di
quella passione per il capire stesso, che Garroni non considerava affatto
un’esigenza contingente. Da giovane, Garroni aveva lavorato per diversi
programmi televisivi della RAI, in parte dedicati alle arti, in parte ad altre
questioni (ricor- do, per esempio, un bel documentario del 1960 su Adriano
Olivetti, con quella che divenne la sua ultima intervista). Lavorava alla RAI
per necessità, non per vocazione, per quanto la RAI di allora fosse cultu-
ralmente molto più ricca di quella di oggi. Sono tanti i programmi che potrei
citare a cui Garroni lavorò negli anni Cinquanta e Sessanta: tra gli altri,
Piazze d’Italia, Musei d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e scien- ze, Le
tre arti, e soprattutto L’Approdo, iniziato come trasmissione radio- fonica nel
1944, con la direzione di Adriano Seroni e Leone Piccioni, diventato programma
televisivo dal 1963 (come “settimanale di lettere e arti”), più tardi
accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui comitato direttivo si
trovavano alcuni dei più importanti intellettua- li dell’epoca (Riccardo
Bacchelli, Carlo Bo, Emilio Cecchi, Roberto Longhi, Giuseppe Ungaretti, a cui
bisognerebbe aggiungere altri col- laboratori di spicco)8, per non menzionare,
nella RAI, la presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte significative,
come Carlo Emilio 7 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 130. 8 Cfr. A.
Dolfi-M. C. Papini (eds.), L’Approdo: storia di un’avventura mediatica,
Bulzoni, Roma 2006 e A. Grasso-V. Trione, Arte in TV. Forme di divulgazione,
Johan & Levi, Monza 2014. 270 Il senso dell’esperienza: G. e
l’estetica come filosofia non speciale Gadda (tra il 1950 e il
1955) o, più tardi, di Andrea Camilleri, coetaneo di Garroni, o ancora di
Umberto Eco, che di Garroni sarà, negli anni, un costante interlocutore.
Garroni dà conto della sua attività televisiva in un’interessante in- tervista
del 1994, da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma
credo invece rivelatrice del suo atteggiamento inflessibil- mente volto al
capire: un curatore o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti –
dice lì Garroni – deve essere certamente colto, «ma c’è di più: deve essere,
nel campo della letteratura, delle arti figura- tive, della musica, oltre che
colto, anche intelligente»9. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di
programmi culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve
capire. Deve insomma essere qual- cuno, precisa però subito Garroni, che sia
«capace di far vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far
vedere o capire qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono
affatto»10. Emerge qui quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la
bana- lità e la semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come
un tratto costante di Garroni, che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso:
non solo una prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa,
scrupolosa, controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per
una pratica che oggi seduce molti, anche i filo- sofi: occupare una casella
nell’esistente, dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche
minima particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la
massima riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo –
naturalmente – di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di
capire. Questo compito – inteso da Garroni come un compito intellettua- le,
culturale ed etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non
solo l’estetica come «filosofia non speciale», cioè come filosofia tout-court,
benché spesso praticata in una sua forma obliqua anche in relazione all’arte e
alla letteratura; non solo il rapporto con la psico- analisi o lo studio del
linguaggio, su cui sono nati, rispettivamente, il lungo sodalizio con Armando
B. Ferrari e la duratura e profonda ami- cizia con Tullio De Mauro; ma anche
l’attività giornalistica e, come vedremo – nelle modalità proprie, non certo
assimilabili a quelle filosofico-argomentative – le stesse pratiche pittorica e
narrativa. G. esordisce nel 1962 con un libro di racconti scritti negli anni 9
L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino 1994, p.
275. 10 Ibidem. 271 Stefano Velotti Cinquanta, a
cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera singolare, La
macchia gialla11, titolo ripreso da un’incisione di Dürer, riportata sulla
copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che indica un punto del
suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice: «Là dove c’è la
macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore, direi,
insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo a una
lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro filosofico-estetico
– La crisi semantica delle arti12, su cui non posso soffermarmi. Né mi
soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo autoritratto di
Garroni, un autoritrat- to verbale dell’autore da giovane (o non più tanto
giovane, dato che aveva 37 anni), a cui seguirà venti anni dopo un secondo
autoritratto, questa volta dipinto (su cui tornerò in chiusura). I curatori
della colla- na “Narratori” dell’editore milanese Lerici erano due nomi di
grande rilievo del mondo poetico-letterario, Romano Bilenchi e Mario Luzi, i
quali presentarono giustamente questa notizia biografica, o autoritrat- to
semi-ironico dell’autore da quasi-giovane, come segnato da «acume» e «humour».
Ne riporto qualche riga, che suggerisce una motivazione anche socio-biografica,
per reazione all’ambiente di provenienza, di quella passione per il “capire”
che ho indicato come la passione domi- nante di Garroni: Sono nato a Roma nel
dicembre del 1925, in un ambiente ab- bastanza sciatto e approssimativo, che
non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia, tanto più che certa
piccola bor- ghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue tenerezze.
Oltrepassata la trentina mi sono accorto che anche la mia for- mazione
culturale è caratterizzata dalle stesse contraddizioni: una cultura apolide e
spregiudicata e nello stesso tempo lacu- nosa e assai provinciale. Mi sono
laureato nel 1947 in filosofia presso la Facoltà di lettere e filosofia
dell’Università di Roma, 11 E. Garroni, La macchia gialla, Lerici, Milano 1962.
Il testo, con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito
dell’associazione “CiEG - Cattedra internazionale G.” 12 Ma, come ha scritto Ammando all’interno di
un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di Garroni (Il circolo estetico
e il guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di G. – Roma”), a cui
rimando anche per un’analisi della Crisi semantica delle arti, «[s]i potrebbe
affermare, in proposito, che “crisi”, al pari di “oriz- zonte” e “senso”, è una
parola cara al pensiero di Garroni, almeno sotto il profilo del problema
dell’arte e del suo statuto (quanto mai incerto e problematico)». Il senso
dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale
con la quale intrattengo ancora rapporti abbastanza scialbi. Ho
pubblicato saltuariamente saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte
su riviste specializzate, settimanali e quotidiani. La saltuarietà del mio
lavoro scientifico oggettivo dipende in parte da una certa attitudine alla
dissipazione, e in parte dalla mancanza di tempo. Da molti anni collaboro
infatti alla tele- visione dove ho fatto un po’ di tutto dedicandomi
prevalente- mente in questi ultimi tempi alla redazione e presentazione di
rubriche d’arte, con intenti (dico io) nobilmente divulgativi13. A queste
parole si potrebbero accostare quelle scritte oltre trent’anni dopo, su richiesta
del Manifesto, che aveva invitato ventisei persona- lità della cultura a
raccontare la propria esperienza personale di una visita a un museo. Garroni
scelse la Galleria nazione di arte moderna di Roma: Non so se fosse possibile
negli anni trenta – con la cultura licea- le imperante, bene che andasse, in
assenza di una mentalità più ariosa, volta a capire, non a accettare, con
giornali e riviste non specialistiche di livello assai modesto – che un museo o
una galleria d’arte potessero essere immediatamente formativi per un ragazzo.
Anche le famiglie da cui provenivano erano per- lopiù ignoranti e
disinteressate a tutto ciò che non fosse stret- tamente tradizionale, compresa
la stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e di fatto semisconosciuto,
che vissuta come genuina cultura. Non era un atteggiamento conservatore
retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è riuscito poi a combinare
qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. A otto-dieci anni, ero in balia
della cultura e dei gusti mediocri della mia famiglia, e della cosiddetta
borghesia romana cui essa apparteneva, e fui condotto più volte da certi miei
zii, che si ritenevano intenditori d’arte, alla Galleria nazionale d’arte
moderna [...] Voglio solo dire che quella galleria fu, negli anni trenta, il
luogo della mia diseducazione. Il fatto è che una galleria o un museo non
formano nessuno, se non si è già preparati a formarsi mediante ipotesi, anche
sbagliate. Ma lì, in quelle visite sinistre, non erano in gioco ipotesi o sforzi
per capire, ma solo meschine e dogmatiche edizioni del mondo dell’arte ne
varietur. È strano che, crescendo, non mi sia allontanato per sempre dalle arti
figurative. [...] [Così che la] Galleria nazionale d’arte moderna, ha avuto il
me- rito, con il concorso determinante dei miei zii, di farmi capire 13 E.
Garroni, La macchia gialla, cit., risvolto di copertina. 273
Stefano Velotti come non si guarda un quadro. Che è
un’abilità indimenticabi- le, come andare in bicicletta14. Abbandono ora queste
incursioni biografiche – che pur nella loro rapidità credo siano indicative del
modo in cui Garroni si situava nei confronti della realtà, e quindi anche della
sua attività filosofica – per cercare di indicare sinteticamente il nucleo
centrale della sua rifles- sione più matura, intorno a cui si raccolgono
questioni complesse e interessi anche eterogenei. 4. Ho già ricordato Pantaleo
Carabellese – che, al di là degli esiti del suo «ontologismo critico», Garroni
considerava «uno dei pochi inse- gnanti che ho avuto all’Università che fosse
anche un grande filosofo»15 – perché è probabilmente uno dei tre punti di
riferimento italiani più significativi per il suo pensiero, insieme a Luigi
Scaravelli – per l’inter- pretazione di Kant – e poi, su un altro piano, a Cesare
Brandi. Era stato infatti proprio Carabellese, in un articolo del 1921, ad aver
criticato sia Gentile, sia Croce (come poi farà anche con Spirito e Calogero)
per non aver colto il «problema interno della filosofia», la domanda, cioè, con
cui la filosofia diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la
sua possibilità, le sue pretese. In una postilla del 1942, Carabellese spiegava
così l’incomprensione da parte di Croce e di Calogero del problema da lui
sollevato: Il vero è che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del
Croce) continuano a porre il problema della filosofia come pro- blema del suo
oggetto, cioè non pongono veramente il problema interno della filosofia, ma
soltanto e sempre il suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono
questo con quello. Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa
dimostra o consente, come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storici-
smo) d’accordo fanno, non è risolvere il problema interno della filosofia, ma
non porlo neppure, ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non
si ricerca neppure, che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa
dimostra16. 14 E. Garroni, “Il piccolo Ottocento italiano”, in F. De Melis
(ed.), La scoperta del museo. Ventisei guide sulla via dell’arte,
Manifestolibri, Roma 1995, pp. 111-113, corsivi miei. 15 E. Garroni-D. Fasoli,
Il mestiere di capire, cit., pp. 35-36. 16 P. Carabellese, L’ontologismo
critico. Primi saggi II, Che cos’è la filosofia, Signorelli, Roma 1942, pp.
78-79. 274 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica
come filosofia non speciale Il problema della riflessione sul
senso, per Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama «il paradosso
della filosofia» nel suo libro del 1986, intitolato appunto Senso e paradosso.
L’estetica, filosofia non speciale. È forse il libro più impegnativo che
Garroni abbia scritto, e certamente uno snodo centrale nello sviluppo del suo
pensiero. Lì Garroni cita Carabellese e il suo articolo del 1921, e la replica
di Croce dello stesso anno, sostenendo che entrambi facciano valere un’esigenza
legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la filosofia è a se
stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la filosofia si
conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza e del fare
concreti e storici. Entrambi, in sostanza, inten- devano rifiutare l’idea di un
luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della parzialità e
complementarità delle loro posi- zioni, che se rettamente intese si compongono
in quello che Garroni chiamerà appunto il «paradosso fondante della filosofia».
Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigurava una antinomia non
risol- ta, formulata da Garroni in questo modo: Un problema interno della
filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un suo
luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da
Carabellese]; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e
questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabel- lese
insignificante]17. Garroni fa notare che il rischio che correva Carabellese,
che pure po- neva un problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo
frettolo- samente, era quello di considerare la filosofia, in quanto si pone il
suo “problema interno”, come una sorta di meta-linguaggio che si e- sercita su
un linguaggio oggetto già compattamente costituito (una me- tafisica, o un
sistema, quale era per lo stesso Carabellese il suo «onto- logismo critico»),
perdendo di vista proprio quel paradosso che pure aveva fatto emergere e
trasformandolo così in un paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le
esigenze di Carabellese e di Croce è inve- ce comprendere la filosofia come
«risalimento», o come quel «guardare- attraverso» che risale dalla concretezza
dei fenomeni, dall’interno dell’e- sperienza concreta in cui stiamo, alle loro
condizioni di possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia
da qualche parte, e senza 17 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 131.
275 Stefano Velotti però neppure vederla disciolta
nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso» deve essere inteso dunque
come «un guardare-attraverso nel guardare, non un semplice guardare a meno di
un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty, Garroni
riassumeva così la sua posizione: «Una filosofia di questo tipo include la
propria stranez- za, perché non è mai del tutto nel mondo e tuttavia non è mai
fuori del mondo»19. Questa stranezza, questo paradosso fondante, era presentato
da Garroni come una posizione fedele alla tradizione critica, in quanto opposta
a posizioni metafisiche, nella specifica accezione di “non criti- che”, sia di
stampo razionalistico, sia di stampo ingenuamente pragma- tista o empirista.
Negli anni in cui in Italia Richard Rorty e il suo neopragmatismo sembravano
raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo specchio della natura era
stato presentato da Gianni Vattimo e Diego Marconi, che aprivano la loro
introduzione sottolineando come questo libro si presentasse esplicitamente come
«epocale»20), Garroni vi scorgeva una delle due prospettive metafisiche, non
critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un lato, infatti, è
certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa di una God’s eye
view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno “veramente” le cose
nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse che tra noi e il
mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o intuitivi,
presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa situazione al di
fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di chi proponeva
l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari – come Hilary Putnam
– per confutarlo: per Garroni, porlo e comunicarlo è già confu- tarlo;
immaginarlo o escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non
escogitato. Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione
op- posta e complementare, apparentemente demistificante, di chi, co- me il
neopragmatista Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra,
cioè inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze,
culturali storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che
avanzano pretese universali, e dovremmo conside- 18 E. Garroni-D. Fasoli, Il
mestiere di capire, cit., pp. 37-38. 19 Ibidem. 20 R. Rorty, Philosophy and the
Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton 1979 (Trad. it. di G.
Millone e R. Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bom- piani,
Milano 1986, p. V). 276 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e
l’estetica come filosofia non speciale rare piuttosto la filosofia
come un genere letterario tra gli altri. Garroni replica: Rorty avrà anche
ragione, ma commette un unico errore, affer- marlo. È questo quel «taciuto
guardare-attraverso» – negato in teoria, e quindi fatto valere metafisicamente
come un ritorno del rimosso – a cui alludeva Garroni nel passo citato poco
sopra dell’intervista con Fasoli, cioè la pretesa di stare sempre alle
determinatezze dell’esperien- za, di sbarazzarsi di ogni riferimento alla sua
totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella stessa
pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in volta di
esperienze solo con- tingenti e determinate21. Per Garroni, infatti, non si
tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in
aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le
chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto
dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta,
saremmo cose tra le cose22. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso
i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti
nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di
affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende
le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza
nella sua totalità indeterminabile. 5. È questo movimento che Garroni ravvisa
in Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger (sulla scorta dei quali la
filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma
che inclu- dono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere23).
Questo paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del-
l’esperienza e può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate
da Kant, in particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che,
nel modo più schematico, Kant formula in questo modo: (1) Tesi: il giudizio di
gusto non si fonda su concetti, ché altri- menti se ne potrebbe disputare
(decidere mediante prove). 21 Questa argomentazione, qui appena accennata,
viene sviluppata da E. Garroni nel primo capitolo di Estetica. Uno
sguardo-attraverso, cit., pp. 11-53, anche in relazio- ne ad alcuni autori
classici e a diversi autori contemporanei. 22 Su questo punto potrebbe aprirsi
un confronto con il diversificato universo di alcu- ni nuovi
realismi-materialismi oggi in voga (per esempio quello della flat ontology),
che propongono una visione degli esseri umani proprio come “cose tra le cose”.
277 23 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 132. Stefano
Velotti (2) Antitesi: il giudizio di gusto si fonda su concetti,
ché altri- menti, malgrado le differenze dei giudizi, non se ne potrebbe
neppure discutere (avanzare l’esigenza del consenso necessario di altri con
tale giudizio)24. L’antinomia può irrigidirsi in una contraddizione, oppure
essere com- posta (non eliminata, ma compresa e resa praticabile), come fa
Kant, spiegando che nella prima tesi si tratta di concetti determinati, nella
seconda di concetti indeterminati. Ora, la struttura di questa antino- mia, e
il modo in cui Kant la compone, è omologa a quella che Garroni fa valere, per
esempio, in relazione al linguaggio (il motivo per cui Rorty non può affermare
quel che l’uso stesso del linguaggio confu- ta). Un saggio dedicato a De Mauro,
L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, si apre con una frase che
annuncia la riproposizione della struttura dell’antinomia kantiana della
facoltà di giudicare, che Garroni proporrà poco dopo: Che il linguaggio sia
stato talvolta considerato atto creativo in- dividuale e irripetibile oppure
realizzazione o replica, secondo regole, di possibilità già interamente
previste non è semplice- mente un’alternativa fondata su due ipotesi esclusive
e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È qualcosa di più [...]25, in quanto
entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro esclusività – fanno valere
«un’esigenza che [...] non può neppure essere lasciata cadere»26. E infatti
poco dopo Garroni riprende anche la forma stessa dell’antinomia kantiana,
enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte: Tesi: l’uso
del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole, prima di ogni
sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non potremmo usarlo e
non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del linguaggio presuppone
l’indeterminatezza del- 24 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Id. Werke in
zehn Bänden, vol. VIII, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft,
Darmastad 1975 (Trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Critica della facoltà
di giudizio, Einaudi, Torino 1999, §56, p. 173). 25 E. Garroni, L’arte e
l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza, Roma-Bari 2003, p.
241. Il saggio era già stato pubblicato nel volume a cura di F. Albano Leoni et
al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1998. 26 Ivi, p. 89.
278 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come
filosofia non speciale 27 Ivi, p. 92. 28 Ivi, p. 91. 29 Ivi, p.
105. la sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché
altrimenti non potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e
intenderci [...]27. L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il
linguag- gio così e così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso
tempo lo usiamo nella sua totalità possibile indeterminata»28 o, detto ancora
altri- menti, «per un verso il linguaggio richiede come una sua propria condi-
zione l’indeterminatezza e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega
in favore delle sue determinazioni»29: non si darebbero espressio- ni
linguistiche determinate, dotate di questo o quel significato, se non le
comprendessimo come tali, cioè nella loro determinatezza, e dunque a condizione
di un riferimento a una totalità indeterminata che le rende possibili e che
esse “negano” in quanto, appunto, determinate. È questo il nodo a cui Garroni
arriva sempre, che indaghi il lin- guaggio o la percezione, l’organizzazione
della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o la natura
dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello studio assiduo
e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui dialettica
presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una pagina, in
questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste riflessioni
sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che per questo
motivo mi permetto di citare dif- fusamente: Ma l’analogia tra questa antinomia
[kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si ferma
tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni “concetto
determinato/ concetto indeterminato” e “determinazione/indeterminatezza” del
linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro
argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di
giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è
possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che Scaravelli
ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio della quale
facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la ragione,
dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e tuttavia
sono altrettanto indispensabili 279 Stefano Velotti
alla conoscenza empirica). Infatti la nostra conoscenza d’esperien- za,
che è, sì, intellettualmente e sensibilmente determinata (pro- cede, per quanto
le è dato, mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni di diversi
leggi sotto leggi più potenti), non sarebbe possibile se non si inscrivesse
innanzitutto nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità indeterminata
delle possibili conoscenze determinate – Kant scrive di “una conoscenza (di
oggetti dati) in genere” –, se insomma, sull’occasione di rappresentazioni
deter- minate, come nel caso esemplare dei cosiddetti giudizi di gusto, non
avessimo coscienza forzatamente non intellettuale che una conoscenza
d’esperienza è possibile. Esperienza possibile, però, non nel senso della
possibilità della conoscenza in genere della prima Critica, (che ci dà appunto
solo una tessitura analitica), ma nel senso che è possibile e ha in generale
senso cercare di deter- minarla intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza
sotto il principio della facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della
conoscenza d’esperienza possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né
tantomeno possiamo fare una conoscenza di esperien- za. Non si fa esperienza di
un’esperienza in genere. Ne sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza
determinata, cioè non la cono- sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn
(senso o senti- mento comune, che abbiamo in comune, che ci assicura a priori
della comunicabilità universale delle rappresentazioni e delle conoscenze), il
quale esibisce sensibilmente e indirettamente ciò che non è propriamente
esibibile e che la ragione può soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea
indeterminata di una totalità, viene in qualche modo messa in scena sensibilmente
mediante la facoltà di giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso
comune o il gusto, cioè mediante il sentire (esteticamente dunque) l’interna
indeterminatezza del determinato30. «Sentire l’interna indeterminatezza del
determinato» è uno dei modi per capire in che modo il paradosso fondante della
filosofia fa della fi- losofia, come estetica non speciale, una riflessione sul
senso dell’e- sperienza. Se vogliamo restare sul piano linguistico, possiamo
dire in- fatti che dare significato ai concetti è determinarli, per esempio me-
diante uno schema empirico o trascendentale, sempre a condizione di mettere in
gioco un simultaneo e inevitabile riferimento all’inde- terminato, alla
totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza, che solitamente resta
implicita, e magari viene negata (come accadeva in Rorty), proprio in virtù di
un surrettizio riferirvisi. 30 Ivi, pp. 110-111. 280 Il senso
dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale 6.
Il gioco delle parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è
affrontato da Garroni in molte altre occasioni, ma viene tematizzato
direttamente in una conferenza del 1988, poi pubblicata in appendi- ce al
volume del 1992, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il titolo Sul dover
essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il senso dai
significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come anticipazione
estetica dell’esperienza entro cui i significati possono significare, ma un
problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso che rende possibile
e traspare in ogni significato determinato, non rischiamo infatti di
«parificar[e] tutti [i significati] nel loro essere varianti di sensatezza,
‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’ nel loro
proprio far senso?». Come se la filosofia critica, spinta fino a questo punto,
rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso condiziona
[...] Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i significati
storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi,
convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo
problema, Garroni lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte
l’antropologia in relazione all’etno- centrismo32: l’irrinunciabile rispetto
che l’antropologia moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti,
d’altra parte, di parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza,
togliendole “serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente
inaccettabili, avevano però almeno il pregio di prendere le culture nella loro
serietà33. Ma era proprio questo ciò su cui si interrogava Garroni: non tanto
la questione delle culture altre, ma della nostra stessa cultura. E con-
cludeva così: Le considerazioni appena svolte non hanno [...] una vera e pro-
pria conclusione. Si può dire solo questo: che si è forse messo in luce qui un
nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del paradosso 31 E. Garroni, Estetica.
Uno sguardo-attraverso, cit., p. 268. 32 Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso,
cit., p. 268 ss. 33 Si potrebbe sostenere che negli anni Novanta questo
imperialismo della sensatezza sia stato proclamato (e poi smentito) da Francis
Fukuyama nel suo libro The End of History and the Last Man (1992), mentre
l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro serietà, e
tuttavia prenderle così “seriamente” da negargli una dimensione comune di senso
– veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash of
Civilizations and the Remaking of the World Order (1996). Le due posizioni,
insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non
composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica degli
ultimi trent’an- ni, «Studi di estetica» 1-2 (2014), pp. 339-367. 281
Stefano Velotti in cui consiste la filosofia, vale a dire:
che il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come
non-senso, in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla
[...] Forse il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse,
ritroviamo – come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici
estetiche del senso e le radici etiche del dover-essere34. Il problema del
“prevalere” della sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso
in non-senso è strettamente legato al problema spinoso della perdita di
esemplarità dell’arte, della questione, cioè, se l’arte, a partire dagli anni
Sessanta del secolo scorso, non abbia pro- gressivamente ceduto a un’aderenza
sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua
ottusità, il suo darsi di fatto, come mero “accompagnamento” del senso, avendo
per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella «regola che
non si può addurre» di cui parlava Kant nel §18 della terza Critica; una
«regola» indeterminata che, non potendosi “addurre” – formulare o esplicitare –
può essere, appunto, solo “esemplificata” in un esempio singolare,
inassimilabile a un esempio inteso come membro di una classe. 7. Nell’ultimo,
breve e denso libro di Garroni – Immagine Linguaggio Figura35 – troviamo spunti
inediti, ma anche una nuova sintesi di decenni di studi e ricerche. È un libro
bello e importante, che attende ancora di essere esplorato a fondo, in tutta la
sua fecondità, anche in relazione a ricerche in atto nel panorama nazionale e
internazionale, ma che qui non posso affrontare in modo minimamente adeguato.
Ricorderò solo che il perno intorno a cui ruota è la nozione di «im- magine
interna» che ha preso forma attraverso «l’assiduo ripensamento del cosiddetto
“schematismo” kantiano»36, e che non è confondibile in alcun modo con l’idea di
poter spiegare qualcosa – della percezione o del riferimento al mondo –
rimandando a immagini che avremmo nella testa. Distinte dalle «figure» (che
nell’uso comune chiamiamo “imma- gini”, ma che non possono essere altro che
elaborazioni, esteriorizza- zioni e riduzioni delle «immagini interne»), le
«immagini interne» sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per scorci
sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte,
rielaborate e ricordate nell’imma- ginazione. È da escludere quindi ogni
obiezione legata alla presuppo- 34 E. Garroni, Estetica. Uno
sguardo-attraverso, cit., p. 270. 35 E. Garroni, Immagine linguaggio figura.
Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari 2005. 36 E. Garroni, Immagine
linguaggio figura, cit., p. ix. 282 Il senso dell’esperienza:
Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale sizione
indebita e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di
“figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro
tornano anche temi antichi – come quello, centra- le, della metaoperatività, un
concetto già introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della
semiotica37. Era l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito
cognitivo, sotto il titolo di “metarappresentazioni”38, ma che in Garroni si
estendeva già all’in- tero ambito dell’operare umano (un operare che è senso-motorio,
pragmatico e corporeo, percettivo e cognitivo). In analogia e in corre- lazione
con la funzione metalinguistica – che è sempre implicata nelle funzioni di
primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una
funzione operante solo mediante un linguaggio di primo livello – Garroni
introduce la nozione di metaoperatività come interna e presupposta in tutte le
operazioni umane e praticabile solo mediante esse. È ciò che distingue, in
sostanza, un’operazione del tipo “stimolo-risposta” da un’operazione che
include già dentro di sé una generalizzazione. Piantare un chiodo con un
martello è sì un’opera- zione determinata, concreta, e dotata di uno scopo
preciso, ma – come operazione umana – contiene già dentro di sé una famiglia o
una classe di operazioni possibili (qualcosa, dunque, che potrebbe essere
chiamato uno «schema operativo»39). In Immagine linguaggio figura la nostra
capacità metaoperativa viene reinterpretata e specificata40 pro- prio in
relazione al lavoro di quella che Garroni chiama complessiva- mente «facoltà
dell’immagine», che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di
un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza
degli oggetti del mondo), sia dell’imma- ginazione nella sua specificità (delle
immagini in quanto riprodotte o ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione
e immaginazione sono tutte «immagini interne», costitutivamente dinamiche, non
fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile,
37 E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma 1977, p. 70 ss. 38
Cfr. per esempio D. Sperber (ed.), Metarepresentations. A Multidisciplinary
Perspective, Oxford University Press, Oxford 2000. 39 Una formulazione molto
simile dei rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e
metaoperazione – all’interno di una prospettiva “enattiva” sulla perce- zione,
a cui credo sia riconducibile per molti versi anche quella proposta da Garroni
– è possibile riscontrarla nei lavori di A. Noë. Per un confronto, su questi
temi, tra Garroni e Noë, cfr. S. Velotti, Tecnica, in G. Ferrario (ed.),
Estetica dell’arte contempora- nea, Meltemi, Milano 2019, pp. 149-170. 40 E.
Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 18 ss. 283 Stefano
Velotti dunque distinte dall’immagine-segno materialmente intesa,
la «figu- ra», appunto, e che è invece sostanzialmente statica. Proprio
l’attività artistica, che mette pur sempre capo a «figure» (per quanto possano
essere mobili, processuali, evanescenti, eventuali) è considerata da Garroni
come il venire in primo piano di questa dimensione metao- perativa – una
rielaborazione della kantiana «conformità a scopi senza scopo» – interna a ogni
operazione determinata. Ma nel corso di questo «ripensamento del cosiddetto
“schematismo” kantiano» vengono in primo piano questioni spesso prima
trascurate, come quella della corporeità, e viene messa a punto una nozione che
mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se non di sfuggita e
appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza41, come quella di
«aggregato». Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente di uno
schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque
precedere – in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto – anche il
costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e
proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento
degli oggetti, non come membri di una fami- glia o di una classe (che presuppongono
appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di
note concettuali), ed è invece costituito «solo percettivamente» da «un insieme
di casi effettiva- mente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi
di numero finito, anche se via via crescente»42. Un aggregato può essere
costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e tal-
volta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che
stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente di tipo
affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di eventi e
cose amate, preoccupanti, esaltanti 43. Né la funzione dell’aggregato si
esaurisce all’interno della prima infan- zia, o nelle ipotesi relative a una
“infanzia dell’umanità” o in forme di “pensiero magico”, se, come nota Garroni,
[A]ncora oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo
alle considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di D. W. Winnicot in
Senso e paradosso, cit., p. 274. 42 E. Garroni, Immagine linguaggio figura,
cit., p. 11. 43 Ibidem. 284 Il senso dell’esperienza: Emilio
Garroni e l’estetica come filosofia non speciale sere evitati
paradossi liminari, che denunciano in un certo sen- so la persistenza
dell’ufficio, pur intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè
dell’unione di due termini diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione
unitaria e non più risalibile. Ba- sterebbe pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione
tra incondizionato e condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del
loro richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere
e non-essere, alla questione russelliana di “classe e classe di tutte le
classi”, e così via44. 8. Voglio però, in conclusione, mostrare un altro
autoritratto di Garroni, molto diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio
e consegnato, con «acume» e «humour» alla bandella della Macchia gialla, perché
credo che nelle pagine di Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro
regi- stro, una sua importante eco. È un polittico dipinto da Garroni tra il
1983 e il 1984, sulla soglia dei sessant’anni – dopo aver subito una seria
operazione chirurgica –, composto da 13 comparti, che formano un quadrato di
115 cm per lato. Collezione privata 44 Ivi, pp. 12-13. 285
Stefano Velotti Alcuni comparti rappresentano frammenti del
proprio corpo, vis- suti come oggetti estranei e familiari a un tempo. Figurano
anche stru- menti di studio e di affezione – dalla Critica del giudizio a Tempo
e rac- conto di Ricoeur –, “cose” amate, come il Dissonanzen-Quartett di Mozart
(che dà anche il titolo a un suo romanzo-saggio45). Ma questo è solo un primo
riconoscimento di figure presenti nel dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione46.
Quando dicevo che la passione dominante di Garroni era quella di capire, di
comprendere, pensavo anche a questo dipinto, che credo tro- vi una sua
ricomprensione filosofica proprio in un passo del suo ultimo libro, nelle
riflessioni sul corpo e su “cosa si prova ad essere un homo sapiens”.
Un’operazione chirurgica diventa nelle mani di Garroni un’oc- casione per
elaborare, anche operativamente e metaoperativamente, e non solo
linguisticamente e intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi
proprio per non subire soltanto l’esperienza comunque subita, ma per
esercitare, appunto, quel “dover essere del senso” già articolato verbalmente.
Quel che mi interessa è mettere in contatto questa ope- razione pittorica, con
un passo che, mi pare, le corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella
complementarità tra determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo
pensiero. Non è possibile, scri- ve Garroni in alcune notevoli pagine del suo
libro47, mirare a cogliere l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo
solo attraverso il deter- minato. E poi si pone una possibile obiezione: È
vero: momenti di apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza
percettiva intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che
non riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo
aggrovigliato. Forse “vedremmo”, per così dire, solo l’indeterminato e ci
sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di ogget- ti?
Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di pato- logie gravi,
quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno
perfino il senso della nostra identità (ma parimenti dovremmo escludere il caso
estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti), il riconoscimento
non 45 E. Garroni, Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma 1990. 46
Una densa e attenta interpretazione di quest’opera è stata avanzata da A.
Olivetti, dice [...]. Primi appunti su un Autoritratto di Emilio Garroni,
pubblicato nel catalogo della mostra Emilio Garroni – Un Autoritratto, 4-15
dicembre 2006, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del
Comune di Roma. 47 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 33.
286 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come
filosofia non speciale viene meno neanche nel caso di un risveglio
depresso e confu- so. Si tratta piuttosto di una sensazione di estraneità degli
og- getti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come oggetti
indipendenti e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità modifica il
riconoscimento, non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro piede
presuppone un riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo – è il
nostro piede e per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene
depotenziato e in certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe
esserci estraneo, ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia
cosiffatto e ci appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose
del mondo, esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito,
languoroso e stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato
di Garroni, tenden- te piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento,
si lascia anda- re anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del
venten- nio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a
cambiare i parametri della vita pubblica, «la “mente” dei cittadini»): Ormai si
è istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto
l’arte, di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma
soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche,
l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la “mente” dei cittadini, di
cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo
politico di trista attualità ho messo termine a questo breve saggio49. La
“facoltà dell’immagine” di Emilio Garroni e il suo contributo alla
ricerca contemporanea sulla percezione , i “contenuti non
concettuali” e l’immaginazione . 1 Il saggio
di G., Immagine Linguaggio Figura 2 , è in parte una
ripresa e un ripensamento di alcuni temi trattati quasi trent’anni prima
in Ricognizione della semiotica Da una rielaborazione dei problemi
abbozzati in questo volume del 19 77, e grazie a un’assidua
interpretazione e rielaborazione del pensiero kantiano, Garroni arriva a
precisare il rapporto tra le due dimensioni irriducibili della sensibilità
e dell’intelletto in termini di «“facoltà dell’immagine”» 4 ,
da un lato, e di linguaggio e concetti, dall’altro. Nonostante
Immagine Linguaggio Figura nomini fin dal titolo il problema della
relazione tra queste due dimensioni correlate ma kantianamente
irriducibili dell’esperienza umana , lo statuto del linguaggio non è qui
affrontato nella sua problematicità complessiva all’interno di tale
esperie nza, ma solo in relazione all’«immagine interna», che deve essere
considerata «la premessa e la garanzia della realtà del significato delle
parole del linguaggio» 5 . Naturalmente, 1 Relazione tenuta
al convegno di studi “Emilio Garroni: determinazioni e dissonanze”,
Chieti, G., Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e
ipotesi , Roma-Bari, Laterza. 3 I D ., Ricognizione
della semiotica. Tre lezioni , Roma, Officina. 4 I D .,
Immagine Linguaggio Figura , cit. p. ix, dove Garroni precisa: «Chiamerò
complessivamente ‘immagine interna’ sia il precedente di un’immagine
(sensazione), sia l’immagine in quanto attualmente prodotta (pe
rcezione), sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata -rielaborata
(immaginazione), per distinguerle complessivamente dalla ‘figura’
esteriorizzata, per esempio, mediante un disegno. […] Perciò mi capiterà di chiamare
la facoltà che ne è responsabi le ‘facoltà dell’immagine’, tale da
riunire in sé sensazione, percezione, immaginazione». 5 I D
., Immagine Linguaggio Figura , cit. p. 57non bisogna cadere
nell’errore di considerare le «immagini interne» come «figure», (
Bilder , pictures ) che avremmo nella mente. G. conosce bene la critica
wittgensteiniana a quest’idea tradizionale e insostenibile. Anzi, si
potrebbe considerare la teoria dell’«immagine interna» come una lunga e
meditata replica a chi confonde la critica di Wittgenstein con un rifiuto di
attribuire ogni valore cognitivo o semantico alla nostra attività
percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio. Per integrare quanto
è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor tuno tenere presente
l’articolo che Garroni ha dedicato a Minisemantica
di Tullio De Mauro 6, caratteristicamente intitolato
L’indeterminatezza semantica, una questione liminare 7 . Sia sul
versante della percezione e dell’immagine, sia su quello del linguaggio e
dei concetti, troviamo infatti in quest’articolo quella
correlazione di determinato e indeterminato che è forse il nodo teorico che G. ha
pensato più a fondo e nelle sue molteplici articolazioni: il «paradosso
fondante» della filosofia, ma a nche dell’esperienza comune - di cui G. parla
prima nella voce i Paradossi dell’esperienza scritta
per l’Enciclopedia Einaudi , e poi in Senso e paradosso
8 - non è altro che un’a ntinomia inevitabile,
modellata sull’antinomia della facoltà di giudiz io della terza
Critica kantiana. La relazione paradossale tra determinatezza e
indeterminatezza è al centro sia della trattazione della facoltà
dell’immagine, sia della facoltà del linguaggio. Qui vorrei, per un
verso, mostrare quale aspetto abbiano assunto nell’ultimo libro certi
problemi già impostati in Ricognizione della semiotica
– creando 6 MAURO , Minisemantica,
Roma-Bari, Laterza; G. , L’indeterminatezza semantica, una
questione liminare , in Ai limiti del linguaggio , a cura di LEONI
, GAMBARARA , GENSINI , PIPARO ,
R AFFAELE SIMONE , Roma-Bari, Laterza 1998, poi in G.,
L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica ,
Roma-Bari, Laterza, da cui cito. G., I paradossi
dell’esperienza , in Enciclopedia Einaudi , vol.
XV, Sistematica , Einaudi, Torino; I D ., Senso e
paradosso. L’estetica, una filosofia non speciale , Roma-Bari,
Laterza così un asse verticale, o di profondità temporale, all’interno de lla
ricerca stessa di G.; per altro verso, però, vorrei tentare qualche rapido
confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati in Immagine Linguaggio
Figura e la filosofia contemporanea, soprattutto di area analitica,
con qualche riferimento anche all ’ambito della psicologia cognitiva e
discipline affini. Con il corrodersi della “ filosofia linguistica ” ,
infatti, - o, se si vuole , con l’apertura della linguistic turn
al non linguistico – quest’area di ricerca
emersa negli ultimi 40 -50 anni ha permesso di riscoprire il problema della
percezione e dell’immaginazione, creando ambiti disciplinari anche molto
specialistici su questioni strettamente interconnesse: dal problema della
natura della mental imagery 9 a quello dei cosiddetti
“contenuti non concettuali” della percezione (in cui un ruolo di rilievo
assume anche la percezione e la cognizione degli animali non umani, da sempre
tenuta presente da G.); da quello della natura delle rappresentazioni mentali a
quello delle numerose prestazioni assegnate oggi in ambito analitico e
cognitivistico all’immaginazione. A lungo considerata
in area analitica come una “facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta,
da qualche anno a questa parte l’immaginazione è al centro di molte aree
di ricerca: se ne parla i n relazione ai “giochi di far finta” (games of make
believe) – sia nel campo delle arti che in quello più generale
dell’esperienza comune 9 Cfr. l’ampio contributo di
THOMAS , Mental Imagery , in The Stanford Encyclopedia
of Philosophy, a cura di ZALTA plato.stanford.edu/archives/win2011/entries/mental-imagery/.
Si tratta di un buon contributo, ma è sintomatico che proprio allo schematismo
kantiano Thomas dedichi uno spazio molto ridotto, e limitato alla schematismo
trascen dentale dell’intelletto della prima Critica :
aggrappandosi alla famosa asserzione kantiana secondo cui lo schematismo è
«un’arte nascosta nella profondità dell’anima umana, il cui vero impiego
difficilmente saremo in grado di strappare alla natura per esibirlo
patentemente dinanzi agli occhi» (B181), Thomas mette da parte il problema
concludendo che Kant, «in attempting to grapple with problems about the nature
of mental representation that the Empiricists had failed to solve, left the
process of image formation, and the nature of image itself, deeply misterious. Cfr.
WALTON , Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of
Representational Arts , Harvard, (trad. it. di NANI , Mimesi
come far finta, Milano, Mimesis- , alle ricerche sull’autismo (considerato da
alcuni come una “patologia dell’immaginazione”), a quelle sull’empatia e
sulla simulazione, ai cosiddetti “paradossi della ‘finzione”, della
“suspense” o della “resistenza immaginativa” , e ai tentativi, o alle rinunce,
di fornire una nozione unitaria di immaginazione che ne comprenda le varie
declinazioni: un’immaginazione pr oposizionale e non proposizionale, una
“ricostruttiva” e una “creativa” , e così via 11. Immagine
Linguaggio Figura è stato scritto senza note e senza riferimenti
espliciti ad altri autori o ad altre ricerche contemporanee. Ma è
tutt’altro che un libro estemporaneo o isolato. Anzi, G. lo ha potuto
scrivere liberamente, quasi “di getto”, solo perché erano almeno
trent’anni che andava elaborando quei pensieri. Abituati
ormai a pensare, come è d’uso nella filosofia analitica, sotto
l’ombrello di etichette generalizzanti, che identificano certi assunti teorici
di fondo nei confronti dei quali occorrerebbe definirsi
– nel caso della mental imagery , per esempio, il
primo discrimine che troviamo è quello fotografato dall’annoso e
fuorviante dibattito tra sostenitori delle teorie “analogiche” e
delle teorie “proposizionali” -, la riflessione di Garroni sembra
condotta in isolamento, e risulta difficile da collocare sotto
un’etichetta univoca. Mentre non credo che le etichette servano davvero,
in quanto tali, a far progredire la comprensione dei problemi, credo invece che
un confronto sostanziale tra le proposte di G. e quelle elaborate in ambito
anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi gli schieramenti. In ogni
modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di Garroni in quel
dibattito – che nel bene e nel male è sempre più
ristretto, specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi, ma altre
volte utile a chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che lì,
magari, non sono contemplate -, potremmo orientarci verso l’ambito delle
teorie “enattive” (enactive) della percezione e delle 11 Per
il nuovo interesse suscitato dall’immaginazione in ambito anglosassone negli
ultimi decenni, e le relative indicazioni bibliografiche, rimando a
VELOTTI , La filosofia e le arti. Sentire, pensare,
immaginare , Roma-Bari, Laterza, in particolare il cap. 3immagini
mentali, che costituiscono una “terza via” – non computazionale
- rispetto a quelle “analogiche” e a quelle
“proposizionali”. Come che stiano le cose rispetto a questi orientamenti,
il confronto approfondito e sostanziale tra le riflessioni di G. e le teorie
della percezione, delle immagini mentali, dell’immaginazione –
nel loro ruolo in ambito cognitivo, semantico, estetico, artistico
– è un lavoro ancora da fare. Qui offrirò qualche spunto in
relazione al problema dei cosiddetti “contenuti non concettuali” della
percezione, cominciando però dallo sviluppo interno al pensiero di G.
stesso, e in particolare d all’insoddisfazione per la semiotica
denunciata nel ’77 . Alla domanda se «la semiotica [sia] sufficiente a se
stessa», G. rispondeva di no, perché la
semiotica non poteva indagare il problema delle condizioni grazie a cui un
qualcosa diviene segno 12 . Lì G. invocava la costruzione di una «semantica
trascendentale» come metateoria di una «semantica empirica» e di una «semantica
logica», e indicava il suo «oggetto specifico» nei «significati
trascendentali», cioè negli «“schemi dell’immaginazione” , affrontati in sede
di schematismo trascendentale nella Kritik der reinen Vernunft »
13. G., d’altra parte, già avvertiva – avendo pubblicato
l’anno prima Estetica ed epistemologia 14. l’insufficienza
dello schematismo trascendentale della prima Critica , valido
solo per (le condizioni de)la conoscenza in genere ( überhaupt
), ma non per comprendere la conoscenza effettiva o determinata, e
rimandava al « principio trascendentale soggettivo, creativo e
costruttivo » 15 indagato da Kant nella terza Critica. Nella
Premessa a Immagine Linguaggio Figura si dice che l’enigma
dell’immagine interna, il 12 G. , Ricognizione , cit.,
p. 33. 13 G., Ricognizione. G., Estetica ed epistemologia.
Riflessioni sulla Critica del Giudizio di Kant , Roma,
Bulzoni, nuova ed. con una nuova Premessa, Milano, Unicopli. G.,
Ricognizione , cit., p. 38, c.vo nell’originale.vero e proprio tema
centrale del libro, ha preso forma attraverso « l’assiduo ripensamento
del co siddetto ‘schematismo’ kantiano» 16 . Dunque, una continuità con
l’opera del ’77, ma certamente anche un’importante discontinuità: lo
schematismo trascendentale, quello dei concetti puri dell’intelletto, passa
decisamente in secondo piano nell’ultimo libro, mentre a venire in primo
piano sono lo schematismo empirico - quello cioè che permette di pensare
la costruzione dei concetti empirici a partire dalla percezione, che Kant nella
terza Critica chiama «esempio» - e lo schematismo
«simbolico» – quello che funziona per analogia, in
relazione a concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo
delle cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del
nostro lin guaggio 17 . Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili
grazie alla distinzione - disponibile solo a partire dalla terza
Critica – tra uno schematismo «oggettivo» e un
«libero schematismo», si intrecciano sempre nella produzione effettiva di
enunciati e figure significanti, ma devono essere distinti a livello analitico.
Già nella Ricognizione della semiotica G. metteva in chiaro
come lo schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni concezione
ingenuamente referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una direzione di
ricerca che poi si preciserà nel tempo. Si diceva: Il ‘referente’ non è
la cosa s tessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle
e configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l’ ‘operazione’
a sua volta è questo stesso concreto manipolare, che non può essere
disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le nostre
manipolazioni delle cose, cioè dal nostro ‘prendere le distanze’ dagli stimoli
immediati, e che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e
parlarne 18 . 16 G., Immagine Linguaggio Figura , cit.,
p. ix. 17 Cfr. KANT , Critica della facoltà di giudizio , ed.
it. a cura di G. e H OHENEGGER , Torino, Einaudi, in particolare l’
introduzione dei curatori. Sull’analogia in Kant v. CAPOZZI , Le
inferenze del giudizio riflettente in Kant: l’induzione e
l’analogia , “Studi kantiani”, XXIV (2011), pp. 11 -48. 18 G.,
Ricognizione , cit., p. 69.È evidente, mi pare, che «l’operazione»
di cui si parla include anche la nostra nativa attività percettiva che verrà
poi indagata attraverso il problema della costituzione, della natura e della
funzione delle «immagini interne». Distinte dalle «figure» (che non possono
essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini
interne), le immagini interne sono innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni
attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di
queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da
escludere quindi ogni obiezione legata alla presupposizione indebita e
circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta
spettatore di “figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. È
invece questa operazione percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i
regresso all’infinito, anche se naturalmente non pretende di dare
una spiegazione , in termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un
ruolo decisivo gioca qui la nozione di metaoperatività
introdotta in Ricognizione della semiotica 19 e poi
ripresa, anche terminologicamente, in tutta la sua importanza, solo
trent’anni anni dopo. È interessante come, anche in questo caso, G.
anticipasse uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il t
itolo di “metarappresentazioni” 20 , ma che in Garroni si es tende già
all’intero ambito dell’operare umano (un operare che è pragmatico e
corporeo, percettivo, cognitivo). In analogia e in correlazione con la funzione
metalinguistica – che per G. è sempre implicata nelle
funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur
sempre una funzione che può essere solo interna al linguaggio di primo
livello – G. introduce la nozione di metaoperatività
come interna a qualsiasi o perazione umana. È ciò che distingue, in sostanza,
un’operazione del 19 G., Ricognizione , cit., p.
70 sgg. 20 Cfr. Metarepresentations. A Multidisciplinary
Perspective, a cura di SPERBER, Oxford genere stimolo- risposta da
un’operazione che include già dentro di sé una generalizzazione. P
iantare un chiodo con un martello è sì un’operazione determinata,
concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma – come
operazione umana – contiene già dentro di sé una
famiglia o una classe di operazioni possibili (qualcosa, dunque, ch e potrebbe
essere chiamato uno “schema operativo” ): “ piantare questo ch
iodo”, per l’uomo, suppone “piantare i chiodi in generale” , cioè un
comportamento operativo – metaoperativo rispetto a
quello – volto alla fabbricazione di strumenti e alla
determinazion e di variabili operative; e il “piantare chiodi in
generale” suppone ul teriormente l’“ operare in generale in vista d i
possibili variabili operative” , cioè un comportamento specificamente
metaoperativo. 21 Persino l’operare per prova ed errore –
tipico del comportamento animale non umano - suppone nell’uomo un
piano, una consapevolezza di operare per prova ed errore. S appiamo che
proprio l’attività artistica è considerata da G. come l’esemplificarsi di
questa dimensione metaoperativa, e che questa dimensione metaoperativa
non è altro che una riformulazione della kantiana «conformità a scopi senza
scopo». La terza parte di Ricognizione della semiotica è
tutta incentrata sui cosiddetti linguaggi artistici, che linguaggi propriamente
non sono, non solo in quanto privi di un codice, ma in quanto
strettamente condizionati da un’operatività e da una metaoperatività
irriducibili a linguaggio. Tutte le arti di cui Garroni lì parla
brevemente – dall’architettura alla musica, dalla poesia
alla narrativa alla pittura – sono indagate a partire dal modo in
cui in esse prende corpo questa nostra capacità metaoperativa, di per sé
inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in tutti i prodotti
umani, e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa nozione di “ stile
” viene riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici
metaoperativi. In estrema sintesi, questa capacità metaoperativa viene
caratterizzata come una condizione 21 G., Ricognizione
, cit., p. 94nozioni diverse, quali gli oggetti che Winnicott ha chiamato
«transizionali» 27 , di quelli che Dummett ha chiamato «proto-pensieri» 28 ,
che sono analoghi poi a quelli che alcuni studiosi – a
partire da Evans 29 – chiamano “contenuti non
concettuali” della percezione (c ontraddicendo, dunque, l’idea
fatta valere da Maurizio Ferraris secondo cui la tradizione kantiana
avrebbe decretato l’equivalenza tra epistemologia e ontologia, cioè
l’assimilazione di tutt o il reale, di quel che c’è, a quel che possiamo
conoscerne grazie ai nostri “schemi concettuali” , gettando così le premesse
del radicale prospettivismo e costruzionismo nietszscheano secondo cui
“non esistono fatti ma solo interpretazioni”, e di qui del p ostmoderno, del
neopragmatismo alla Rorty, del decostruzionismo secondo cui niente è fuori dal
testo, e così via) 30 . affidata a un principio estet ico che esprime
un’originaria adesione del soggetto all’esperienza, e insieme un’anticipazione
distanziante di questa». 27 Già in Senso e paradosso ,
cit. p. 274, GARRONI si era riferito in un altro contesto agli oggetti
transizionali di Winnicott («mediatori tra il narcisismo infantile, o primario,
e le relazioni oggettuali», obbedienti a «“quel principio di confusività”
[…] che violerebbe appunto “il principio aristotelico di non contraddizione”»)
accostandoli da un lato all’ Unheimliches freudiano e, dall’altro,
alla paradossale unità di determinato e indeterminato che ha nell’opera d’arte
e nell’esperienza estetica una sua manifetsazione esemplare: «Non c’è
esperienza ben determinata, apparentem ente solo ovvia, che non presupponga una
condizione di transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi tipici
oggetti transizionali non sono che concretizzazioni di un
paradosso-senso. Qui si legittima […] anche la creatività […] che viene
esemplar mente e più tipicamente esibita oggi, per noi e dal punto di
vista di una riflessione estetica, da ciò che chiamiamo “arte” ed “esperienza
estetica”» DUMMET , Origins of Analytical Philosophy , Harvard,
ed. it. a cura di PICARDI , Origini della filosofia analitica ,
Torino, Einaudi: «Il proto-pensiero si distingue dal pensiero vero
e proprio che è esercitato dagli esseri umani per i quali il linguaggio ne è il
veicolo per il fatto di non essere separabile dalle attività e
circostanze presenti. […] non possiamo dare una spiegazione soddisfacente
della nostra capacità di base di apprendimento e di orientamento nel
mondo trascurando il livello dei proto-pensieri. EVANS , The Varieties of
Reference, Oxford. FERRARIS , tra i
tanti testi e articoli in cui sostiene questa tesi, si veda da ultimo il
Manifesto del nuovo realismo , Roma-Bari, Laterza 2012. Per una
discussione più articolata di questadel l’esperienza che funziona come « unità
costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e operative», in
dichiarata corrispondenza a « quell’unità estetica delle rappresentazioni
di cui si occupa Kant nella Kritik der Urteilskraft. A questo punto
abbandono il libro del ’77 per vedere come queste problematiche vengano
riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel libro del 2005. Il nuovo
strumento teorico che Garroni ha messo a punto, al di là del riferimento al
principio di una «conformità a scopi senza scopo» quale senso e sentimento
comune (il Gemeinsinn kantiano), è la nozione di «immagine
interna», proprio a partire da una rielaborazione del libero schematismo della
terza Critica. Qui la nostra capacità metaoperativa resta una
nozione importante, ed è esplicitamente richiamata nel testo 23 , ma viene
reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che
Garroni chiama complessivamente «facoltà dell’immagine» , che è
responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di un’immagine), sia
delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del
mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in
quanto riprodotte o ricordate- rielaborate). Quella che nel ’ 77 veniva
chiamata per lo più «operazione» è qui inn anzitutto l’attività di questa
«facoltà dell’immagine» , dal livello senso-motorio e non ancora associato
effettivamente al linguaggio e ai concetti, fino al suo pieno intrecciarsi con
linguaggio e concetti, ma pur sempre all’interno di una non riducibilità
dell’una dimensione all’altra. Sensazione, percezione e immaginazione
sono tutte «immagini interne» costitutivamente dinamiche, non fissabili
in un’ icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile,
dunque distinte dall’immagine -segno materialmente intesa, che Garroni chiama
«figura», e che è invece sostanzialmente statica. G. Ricognizione ,
G. Immagine Linguaggio Figura , cit., p. 18 sgg Una delle nozioni di
maggior interesse che emerge subito – assente, direi,
negli scritti precedenti – è quella di «aggregato». Si
tratta di qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere
– in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto
– il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, e di
classi. Un aggregato è ciò che offre una prima possibilità di riconoscimento
degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che
presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una
pertinentizzazione di note concettuali). Un aggregato è invece costituito «solo
percettivamente» e costituisce «un insieme di casi effettivamente sperimentati
o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via
crescente» 24 . Un aggregato può essere costituito da oggetti assai
diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza,
ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro
un’unità non chiaribile intellettualmente di tipo affettivo, emozionale,
fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amat e, preoccupanti,
esaltanti”. Mi sembra di poter dire che G. stia cercando di dar conto, con
una rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una “sintesi
dell’apprensione” 26 , ancora priva di un’unità conc ettuale, della
comune radice di G., Immagine Linguaggio Figura , cit., p. 11
25 Ibidem. 26 Ma G. segnala una revisione
tendenziale dell’estetica trascendentale kantiana a un livello molto più
radicale e produttivo, già da Senso e paradosso: «Con la riflessione
estetica della Critica del Giudizio , il problema dell’immaginazione
viene in primo piano: nasce u n nuovo schematismo – lo
schematismo libero, senza concetti, dell’immaginazione
– come capacità originaria di organizzazione delle
percezioni. Di conseguenza tende a ridimensionarsi notevolmente la
primitiva Estetica trascendentale , nonché la stessa
Logica trascendentale , della Critica della ragion pura . Per
esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello
spazio e del tempo non è che un aspetto, forse non il più
originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua elab
orazione nell’immaginazione (non più soltanto ‘produttiva’ e ‘riproduttiva’, ma
anche ‘creatrice’), non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali
rispetto a una ‘materia’ sensibile. Il centro della questione, di fronte a
quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla
relazione tra «aggregato» e «oggetto transizionale», mi sembra che uno degli
esempi portati in Immagine Linguaggio Figura non lasci adito
ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive G., «prima che il linguaggio
costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione di
un’intelligenza prev alentemente senso-motoria», si può ipotizzare che si
producano, nel la manipolazione degli oggetti, […] riconoscimenti, usi e
aggregati di oggetti in essi variamenti disposti. Un burattino può essere
riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un vivente,
oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una cope rtina o un lenzuolino
possono essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per coprirsi e
stare al caldo, e insieme come utero della madre, il suo abbraccio, il
suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non ancora
propriamente conosciuto e dominato; e così via. In questi casi
l’aggregato è lontanissimo dalla formazione di una futura tassonomia
intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non
fosse preceduta da quello. 31 Se queste forme prelinguistiche di
aggregazione e riconoscimento sono però contrassegnate da una vocazione
al linguaggio e all’organizzazione concettuale, ci si può chiedere se
siano pensabili anche senza questa teleologia evolutiva e se non siano
per caso da pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune
specificazioni, delle rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie
di animali non-umani. A questi, infatti, G. riconosce non una vera «percezione
interpretante» – come quella umana -, ma neppure si
sente di relegarli in un «ambiente» nettamente distinto da un «mondo» – come avevano fatto Scheler e
Heidegger sulle orme di von Uexküll. Forse la distinzione vale per
l’ambiente sensoriale della zecca, ma sarebbe diff icile dire la stessa
cosa di un cane o delle grandi scimmie. tesi rispetto a Kant, rimando a
VELOTTI , Storia filosofica dell’ignoranza , Roma-Bari, Laterza.
G., Immagine Linguaggio Figura. G., Immagine Linguaggio Figura. Un mondo, senza
darne qui un’impossibile definizione e accettando della parola solo
l’indicazione di un senso complessivo della vita e delle cose che la avvolgono,
è attribuibile anche agli animali non-umani. Solo che sembra presentarsi
non come mondo in immagine, ma come comportamento, in cui la sensazione, visiva
o non visiva, svolge una funzione segnaletica e non formativa, essenziale, ma
non caratterizzante propriamente una co siddetta “immagine del mondo”. 33
Mi sono soffermato brevemente sul tema della percezione infantile e degli
animali non-umani perché è diventato forse l’argomento più forte
portato dai sostenitori dei contenuti non concettuali della percezione 34 .
Questo confronto tra le posizioni di Garroni e quelle dei sostenitori dei
“contenuti non concettuali” (un’espressione che Garroni non usa mai)
richiederebbe uno studio specifico, come anche la relazione tra l’
«aggregato» e i «proto -pensieri» di Dummett, una nozione elaborata proprio per
dar conto di rappresentazioni che non sono dipendenti dal linguaggio, proprie
sia dunque degli infanti, sia degli animali non-umani (anche se credo che sia
necessario, anche per Dummett, distinguere tra proto-pensieri suscett ibili di
diventare pensieri, o “vocati’ a diventarlo, e quelli che non lo sono).
Se menziono i possibili punti di convergenza della riflessione di G. sulla
irriducibilità della percezione al linguaggio con quella di alcuni filosofi di
tradizione analitica e psicologi cognitivi, non è per mostrare che il pensiero
di G. sta al passo con i tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di
pochissimo interesse. Il fatto è che Garroni mette in luce –
spesso senza portare fino in fondo i dettagli dell’analisi –
aspetti, implicazioni e dimensioni del problema che potrebbero essere
molto fecondi se messi a contatto con la ricerca contemporanea propria di
quelle diverse tradizioni. Vorrei sottolineare che non si tratta solo di un
generico auspicio di integrazione di prospettive diverse, ma di confronti
concreti 33 G., Immagine Linguaggio Figura , cit., p.
44-5. 34 Non solo in EVANS , cit., ma soprattutto, tra gli altri,
in C. A. B. PEACOCKE, Does perception have a nonconceptual content?
, in “Journal of Philosophy”, e Phenomenology and nonconceptual content ,
in “Philosophy and Phenomenological Research”, e già anche in DRETSKE ,
Naturalizing the Mind , MIT che potrebbero portare a risultati
sorprendenti forse anche in termini di nuove acquisizioni conoscitive. Farò due
esempi: il primo, già accennato, riguarda proprio i contenuti non
concettuali. Il secondo riguarda invece l’indeterminatezza delle immagini
mentali A. È indubbio che le principali ragioni che hanno portato la
filosofia della linguistic turn a occuparsi di fenomeni non
linguistici, e in particolare di contenuti percettivi non concettuali, è legata
a una serie di ragioni che trovano corrispondenze abbastanza puntuali in
Garroni. E tuttavia, nonostante la loro raffinatezza, spesso queste analisi
sono incapaci di vedere aspetti della questione che una riflessione filosofica
come quella di Garroni aiuta a scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al
dibattito sui contenuti non concettuali sono svariate: 1. La possibilità,
riconosciuta da Garroni con la nozione di «aggregato», di rappresentare nella
percezione stati di cose contraddittori o impossibili da un punto di vista
proposizionale e concettuale: l’esempio che si fa di s olito sono le
figure di Escher, o la « l’illusione della cascata» di Crane 35 , ma
l’aggregato di G., come abbiamo visto rapidamente, coglie questa
possibilità percettiva innanzitutto al livello dell’immagine interna, e
nella sua necessità – non solo come fatto
accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura
36 . 2. Un secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale ha
sostenuto che il contenuto della percezione è « unit-free » 37 :
percepisco una distanza CRANE , The Waterfall Illusion , in
“Analysis”, Cfr. il capitolo 8 di Immagine Linguaggio Figura , in
cui G. analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di alcune
figure , e il «ruolo primario nei riguardi della varia
interpretabilità del percepibile» giocato dalla «indeterminatezza percettiva»
propria delle immagini interne in relazione al mondo
reale. PEACOCKE,
Analogue content , in “Proceedings of the Aristotelian Society”,
determinata tra me e un oggetto senza per questo dover usare un’unità di
misura. E queste rappresentazioni sono irriducibilmente non-concettuali.
G., di nuovo appoggiandosi – qui implicitamente - a
Kant, usa un’ argomentazione analoga per mostrare come la percezione ci
appaia legittimamente come soggettiva e oggettiva a un tempo, senza che ci sia
nulla di contraddittorio o ossimorico, in quanto la percezione «fornisce valori
oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere
poi esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad
evidenza delle cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori
oggettivi è nostro [e questo avvertimento è non
concettuale: nota mia] e, tanto più, la nostra misurazione
non sta nelle cose , ma dipende da un’unità di misura
da noi stabilita idonea per l’esplicitazione [concettuale]
di quei rapporti» 39 . L’avvertimento dei valori quantitativi privo di un’unità
di misura è dunque la condizione, non concettuale (estetica, direbbe G.
con Kant) di ogni misurazione oggettiva e concettuale. 3. Un terzo argomento,
avanzato da Evans e poi ripreso da molti, è la maggiore «finezza di grana»
della percezione rispetto alla “ grana ” dei contenuti degli
atteggiamenti proposizionali. Qui è facile riferirsi di nuovo a G. nella sua
rielaborazione del pensiero kantiano, ma non tanto in relazione agli aggregati,
quanto al libero schematismo e a quelle che Kant chiamava «idee estetiche» (una
modalità esemplare di «immagine interna», che Kant stesso designa come
«intuizione interna»: « dal punto di vista estetico l’immaginazione è libera,
al fine di fornire, ma in modo non ricercato […] una copiosa e inesplicita
materia [ Stoff ] all’intelletto, che questo, nel
suo concetto, non prendeva in considerazione » 40 ) . E
l’analisi, centralissima, che Garroni dedica al libero schematismo, non
si limita a un riferimento alle ope re d’arte (che sono, per Kant, « espressioni
di idee estetiche»), ma 3KANT , Critica della facoltà
di giudizio , cit. § 25. 39 G., Immagine Linguaggio
Figura . KANT , Critica della facoltà di giudizio ,
cit., § 49, c.vo mio si allarga alla stessa costruzione di schemi per
concetti empirici. G. precisa infatti che lo stesso schema [lo schema
empirico, l’immagine -schema o, nel linguaggio della terza Critica
kantiana, l’ «esempio» ] è possibile dentro il quadro del
rapporto dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di
certi tratti caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici
percepibili di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non
sullo sfondo di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no, percepibili
o no, c onfusi nell’indet erminatezza della totalità 41 . Non si tratta,
è vero, di una percezione non relazionata ai concetti (dato il rapporto
dell’immaginazione con l’intelletto) , ma è anche vero che qui nessun concetto
determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e anzi un
concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire da una
totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o
concettualmente classificati. Nella prospettiva di Garroni, la maggiore
“finezza di grana” della percezione verrebbe vista in un quadro più ampio
di quello analitico e cognitivista, che ha conseguenze antropologiche,
semantiche, di teoria dell’arte, mentre probabilmente potrebbe guadagnare
a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il
dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al
precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da Michael Ayers 42
, e riguarda la possibilità di acquisire e apprendere concetti empirici. Se non
si dessero contenuti non concettuali, o il nostro ragionamento sarebbe
circolare (coglieremmo già concettualmente contenuti percettivi di cui invece,
per ipotesi, dobbiamo costruire i concetti), oppure dovremmo supporre un
innatismo fortissimo e insostenibile. La 41 G.,
Immagine Linguaggio Figura , cit. p. 98. 42 C. A. B. PEACOCKE
, A Study of Concepts, MIT, e Does perception… , cit.; AYERS,
Sense experience, concepts, and content – objections to
Davidson and McDowell , in S CHUMACHER, Perception and Reality:
From Descartes to the Present , Paderborn, Mentis, 2ripresa da parte di G.
delle considerazioni svolte da Eco nel suo Kant e l’ornitorinco
(che a sua volta si riferiva a Garroni) fornisce un modello per la formazione
dei concetti empirici proprio a partire dai contenuti non concettuali, in forma
di aggregati, che permette un riconoscimento percettivo anteriore alla
costituzione di uno schema empirico, correlato a un nome comune. Veniamo al
secondo esempio. Discutendo di immagini mentali, alcuni autori di provenienza
analitica hanno sostenuto che una delle caratteristiche che le differenzia
dalle figure ( pictures ) è la loro indeterminatezza.
Sembrerebbe, questo, un tratto che li avvicina alla tesi di G. sul reciproco
correlarsi di determinatezza e indeterminatezza. Ma non è così. Lo scopo di chi
usa questa argomentazione 44 è quello di sostenere che le immagini
mentali, essendo indeterminate, sono più simili a descrizioni che a
figure. L’argomento di Dennett è abbastanza noto, e rig uarda il numero
delle strisce del manto di una tigre: in un’immagine mentale il numero
delle strisce di una tigre può essere indeterminato, mentre in una figura
le strisce devono essere numerabili, e dunque determinate. In una descrizione,
il numero delle strisce può essere indeterminato (“questa tigre ha
numerose strisce sul manto”), dunque le immagini mentali sono più vicine alle
descrizioni che alle figure. Un’autorità sulla mental imagery
come Thomas – insieme a molti altri - sostiene
che questo argomento non è valido, perché un’immagine mentale di una
tig re potrebbe avere un numero determinato di strisce, solo che uno
potrebbe non fare in tempo a contarle perché l’immagine mentale svanisce
velocemente dalla coscienza. Inoltre, anche una figura di una tigre
potrebbe rendere impossibile contarle, in quanto sfocata o sommaria, e
43 G., Immagine Linguaggio Figura. Tra gli altri, DENNETT
, Content and Consciousness , London, Routledge & Kegan Paul;
PYLYSHIN , What the mind’s eye tells the mind’s brain: A critique of
mental imagery , “Psychological Bullettin”; tra i critici di questa
argomentazione, TYE , The Imagery Debate , MIT, anche una tigre
reale – presente alla percezione attuale e non
immaginata -, data la natura frammentaria, confusa e sfuggente delle sue
strisce, porrebbe molti dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra evidente
come Dennett e gli altri autori abbiano colto solo di sfuggita un carattere
delle immagini mentali o interne e ne abbiano tratto una conclusione affrettata.
E come le contro-argomentazioni di Thomas (insieme a quelle di molti
altri) si mantengano sullo stesso livello, senza prendere neppure in
considerazione la relazione, ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze,
colta da G. tra determinatezza e indeterminatezza delle immagini
interne e il loro rapporto con le figure .
L’indeterminatezza dell’immagine interna – così come viene pensata
da Garroni - non è una figura sfocata o mancante di alcuni particolari, o
addirittura una figura che sarebbe determinabile se solo avessimo il tempo di
esaminarla nella nostra mente. La correlazione essenziale tra determinatezza e
indeterminatezza che la caratterizza è condizionata dal fatto che è
un’immagine dinamica e multimodale (visiva, olfattiva, tattile, uditiva,
mnemonica, affettiva, viscerale, e così via) e dunque non è in nessun
modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita o evanescente . È
piuttosto un’operazione nativa e attiva, che, nel caso della percezione
visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi luminosi a cui è
sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai movimenti saccadici e
di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe neppure un’immagine
retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta attivamente e
selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione interpretante» sullo sfondo
di un contesto – oggettivo e soggettivo - che si
allarga da quello visibile a quello non visibile, fino ad estendersi alle
altre caratteristiche non presenti (associazioni con altri oggetti e memorie
percettive). I l problema dell’indeterminatezza condizionante
dell’immagine interna non è tanto se possiamo contare o meno certi suoi
elementi, quanto quello di darne un resoconto teorico adeguato, che, per esempio,
non si 45 T HOMAS , Mental Imagery , cit., nota
31illuda di poterla considerare come l’imma gine interna di un oggetto
già definito e isolato dagli altri oggetti, dal mondo soggettivo e oggettivo e
dal sentimento della totalità dell’esperienza in cui siamo avvolti. Si
possono anche costruire modellini della percezione più semplici, avendo
in vista la costruzione di macchine per il riconoscimento automatico di certe
caratteristiche oggettuali nel mondo, ma senza illudersi che quei modellini riproducano
effettivamente la percezione umana. Per concludere, vorrei citare per esteso
quel che scriveva Garroni nel già citato articolo sulla indeterminatezza
semantica a proposito del senso stesso di una riflessione filosofica. Credo che
quel che diceva allora a proposito del linguaggio e dei linguisti, potrebbe
essere ripetuto per la percezione e i percettologi, come suggerisce
l’ultimo esempio che ho portato: Si metteva in dubbio prima che
potessero esistere puri linguisti [o puri percettologi, potremmo dire].
Forse è proprio vero: non esistono. Anzi, se l’antinomia che essi
inevitabilmente incontrano e si sforzano di comporre è sempre presente
esteticamente in loro e in tutti noi, linguisti e non linguisti,
nell’anticipazione, all’interno dello stesso uso, del linguaggio in
genere nella sua totalità indeterminata, è forse addirittura possibile
sostenere che la cosiddetta ‘filosofia’ si inscrive necessariamente in ciò
che abbiamo detto ‘coscienza implicita del linguaggio’. È infatti difficile dire
cosa sia la filosofia istituzionalmente ma che essa nasca da un qualche sforzo
di comprensione dell’esperienza e del linguaggio, consustanziale
all’esperienza e a linguaggio, nella stragrande maggioranza dei casi solo
una precomprensione o un avvertimento oscuro di una comprensione, questo
sembra tutt’altro che campato in aria. Ciò comporta una differenza
rispetto a una linguistica che non vuole saperne, di filosofemi? Forse
no, se la differenza va cercata in positivo, in una determinazione dall’alto di
principi e metodi. Forse sì, se invece va cercata in negativo, nell’esclusione
che principi e metodi possano essere qualcosa di assoluto e unilaterale,
si ispirino poi alla indeterminatezza o alla determinazione. Ciò pare
plausibile soprattutto se essa fa emergere più nettamente la coscienza
implicita che ogni nostro uso del linguaggio […] non è solo un uso
particola re […] ma contiene una componente di indeterminatezza che lo fa
essere paradossalmente proprio quell’uso e permette di descriverlo proprio come
quell’uso determinato, nello stesso uso effettivo , in tutti i
sensi. Non sarebbe per caso anche un contributo non del tutto insignificante,
da un punto di vista etico e politico, non sospettabile di ideologismo, alla
promozione di una cultura non dogmatica, non settaria e non particolaristica?
46 46 G ARRONI , L’indeterminatezza
semantica. 2Emilio Garroni. Garroni. Keywords: l’implicatura di Pinocchio, Freges
Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via Latin cognate ‘sentire’ -- senso, senso
fregeiano – senso freegan – “Fregean sense” – Do not multiply senses -- mentire/mentare/meinen/mean -- messagio,
message, semiotic – sender, recipient, message, emittente, mittente,
recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to ‘out’ -- ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gartida: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, G. Succeeds
Boulagoras as head of the sect of Pythagoras. He had spent some time away from
Crotonne and returned to the city that had been badly damaged as a result of a
feud between the Pythagoreans and their opponents. He was so upset by what he
found that he is said to have died of a broken heart. Gartida.
Grice e Gatti:
l’impplicatura conversazionale poetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Grice: “I like Gatti. Gatti is a good’un; for one, he
philosophised on Aristotle’s Poetics, something we hardly do at Oxford! And
many other things, too!!” -- Nato di Stanislao e Marianna De Nigro. Studia a
Napoli sotto Puoti ed ebbe, come colleghi, Cusani e Sanctis. Collabora a “Il concetto di progresso.” E a
“Filosofia,” il baluardo del hegelianismo a Napoli. Le fondamenta del suo
pensiero sono da ritrovarsi nell'eclettismo di Cousin, sul quale scrisse “Di
una risposta di Cousin ad alcuni dubbi intorno alla sua filosofia.” Sostiene
che vi sia un fondo di verità comune a tutte le scuole filosofiche e reputa
indispensabile fonderle in un'unica sintesi. Abbandona la filosofia cousiniana avvicinandosi
in maniera decisa all'Idealismo tedesco. Dall’idealismo nasce la convinzione
secondo la quale lo sviluppo interiore della coscienza e l'evolversi della
storia provengono entrambe da un principio comune: la legge universale della
ragione. Influenzato da Hegel e da Schelling, considera la filosofia attuabile
solo all'interno della realtà storica in quanto è la scienza generale di tutto
l'esistente. Si indirizza verso l'estetismo in “L’arte.” Critica la dottrina
aristotelica secondo la quale l'arte è una riproduzione (mimesi) della natura,
contrapponendole la filosofia hegeliana che ritiene l'arte riproduzione (mimesi)
del sovra-sensibile, delle idee, del noetico. (“L’estetico e mimesi del
noetico). In “Della filosofia in Italia” si sofferma sul pensiero e la cultura
italiani contestualizzandoli nella filosofia europea. Esauritosi il periodo
florido della diffusione della scuola hegeliana, la rivista del Gatti andò
incontro ad un lento declino e fallì anche nella creazione di una nuova testata
editoriale chiamata Rivista napoletana di politica, letteratura, scienze, arti
e commercio. Altre opere: “Della
fenomenologia”; “Fichte e il concetto di scienza; “La filosofia della storia in
Grecia”;“Filosofia”. Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. treccani. Si è detto, ora non saprei più da chi la
prima volta, e poi da moltisièsovente ripetuto che VICO autore di un sistema che
i suoi contemporanei non poteano intendere come quello che dovea esse re la
scienza di un'altra età, e il frullo di nuovi germogliamenti dello spirito, non
aveaperquestaragione potuto raccoglierein vita il premio di quella gloriacheinepotipiù
idoneia giudicare dellapoteoza dellasua mente e del valore delle sue dottrine, glidoveanoalarga
mano prodigare dopo lamorte. Or questo modo di considerer la cosa è senza fallo
giustissimo quando vel filosofo napoletano ,come in tutti i filosofi del mondo,
anziintuttiquelliuominichesonosi più che mezzanamente sollevati
sull'universale, si voglia sceverare due parti es senzialmente diverse insieme,
e che congiunte solo per accidente, co. stituiscono una dualità permanente
nell'unità stessa dell'individuo. Di queste due parti, l'una tulla relativa è
determinata dalle condizioni esteriori della vita,da'luoghi eda'tempi a cui
siappartiene, dagli uo. mini da'qualisiè circondato, dall'educazione stessa che
si è ricevuta, dagli studii a cui più si è piega talamente, dal primo
librochesiè letto, dalle prime impressioni d'infanzia, dalle seguenti
occupazioni dallafamiglia, da'parenti,dagliamici. L'altra parte
sottrattaatul te queste contingenze non si appartiene veramente a njun luogo o
tempo determinato ma a tutti del pari, nè ha da farsullacon
alcunaspecialecondizionedi vita. Laprima di queste due parti scende insieme col
corpo nel sepolcro e dopo della morte non se rimango no più tracce, la seconda
per contrario sopravvive all'ultimo giorno ed assicura all'uoino
coll'immortalità la perpetuità della sua presenza fra'più lontani nepoti.
Similmente in ogni sistema per quanto nuovo e profondoefruttifero essosia, trovasiunaparte
che è direltamente determinata non solo dalle proprie particolarità dell'indole
e dell'ingegno delsuoautore, ma siancora da quelle del luogo e del tempo in cui
venne fuori, inmodo che di questi conservandosempre la special fisonomia , ne
parlecipa spesso agli errori e a'pregiudizii. Questa è quella parte caduca de’ sistemi,
la qual e non sopravvive mai a quelle condi zioni speziali che le hanno dato origine,
eche, quando quelle son cambiate, non ba più niun valore, ed è condannata
all'obblio imman. cabile delle età posteriori, quando caduta nel dominio
dell'istoria, non fa più partedella scienza viva e feconda di conseguenzeedi applicazioni
le cui tracce si scorgono presenti, quasi all'insaputa di tutti, in ogni ramo
del sapere e in ogni manifestazione della vita. Conciossiachè non solo ogni nazione,
ma ogni secolo haunasua impronta particolare, ha uno special modo di veder le
cose, una sua propria lo gica, per la quale anche aquell ecose che tiene per vere
dalleetàpre cedenti, non giunge per i medesimi procedimenti, ma peraltrevie,
per altri melodi, per argomentazioni e prove di diversa natura. L'altra parte, quasi
l'altro elemento costitutivo di ogni gran sistema, è per contrario indipendente
da ogni condizione di luogo e di tempo, nonhainsénulla che sia momentaneo o relativo,
ma stadi per se come un frammino della verilà assolula che mai non rivelasi
lulla intera e nella sua irionfatrice purità nè alla mente di piano uo m o , nè
alle investigazioni di niun secolo , imperciocchè è la conquista ideale
dell'umanità che a fierissimo sudore della sua fronte ne va a po co a poco
conquistando ora una ora un'altra parte in mezzo a errori ed acolpe, amensogneedaviolenze,ainganni
ed a pregiudizii d'ogni maniera. L'edifizio intanto del sapere
insepsibilmentema irreparabil. mente sia ccresce , atteso che lo spirito
umano non d'altra cosa aiulato che dall'opera del tempo , va d'ogni sistema
sceverando le parti false e vane e relative a cerle determinate contingenze, va
spogliando della superflua ed incomoda scoria quella parte di eterna verità che
in ciascuno si rac chiude, la fa diffinitivamente sua e la trasmetle come sacro
deposito e in dubitabile acquisto alla seguente ,che facendone suo
pro,l'arricchisce di nuovi progressi,ne'quali quelli che vengono dopo di essa
banno ad esercitare il medesimo lavoro di purificar l'eredità ricevuta e di
accrescere il patrimonio. Cosi la pianta fec ondissima della scienz acresce di
secolo in secolo con non interrotta germinazione , non altrimenti che cresce un
albero fra leassiduecure dell'agricoltore cheneinnaffiae lelama diligentemente
le radici ,e a suo tempo ne taglia colla scure i sermenti vecchi ed isutili. Questaèquell'aureacatenadicui,senon
vado errato, parlava Platone nell’ACCADEMIA, per la quale l'un secolo trasmette
all'al tro l'eredità del sapere , come un sacro deposito che esso è tenuto di
accrescerea suo potere e tramandarloalsus seguente;benchènon tutti
isecolipossono ugualmente a ccrescere quel deposito, non intuttigli elementi
secondarii e contingenti che circondano i frammenti della verità eterna son
della medesima natura e nella medesima proporzione con essa. E questo è pure
quell'ecletismo pon artificiale , quale può farloun uomoouna scuolae che omancadicriteriooneha
uno in cerloesirisolve più tostoinsincretismo, ma reale ed istorico il quale hapersuo
autorelospiritoumano stesso che di secolo in secolo va sceverando da sistemi la
parle condizionata e temporanea da quella che come frammento della verilà
assoluta dee restare senza alterazione niusa in suo perenne dominio. Cosi il
frullone abburrattando la farina de discevera il fiore dalla crusca inutile , e
cosi molte verità da' tempi non dico di Arislotile nel LIZIO ma di PARMENIDE DI
VELIA e di ZENONE DI VELIA (VELINO), sono rimaste tuttavia sulla terra , dove
che tutto l'insieme di que'sistemi non è adeguato nè alla forma nè al fondo del
pensiero di generazioni cosi lontanead essiperdistanzadiluoghieperdiversitàditempi.
Secondo queste considerazioni è indubitato che in tutto l'insieme del sistema
del VICO trovasi una parte di un valore assoluto che è ri masta per sempre
nella scienza ,ed a cui eran troppo immature le menti de'suoi conleinporanei, i
quali o no a neinlesero affattoosolone frantesero e ne misconobbero la
vera importanza. Ma accanto a que sta un'altra ceneha per la quale il filosofo napoletano
legasi diretta menteco'suoitempi, echemeglio intesaevie piùapprezzatada' coe.
lanei non ha più per noiniun valore , ed è caduta come cosa vieta in
dimenticanza. Sicché a lui, come a tutti igrandi uomini,è avvenuto che per una
parteè uomoassolutamentede'suoi tempi,econessi perquella partesièmorto, dove
cheperun'altraè contemporaneo de'suoi nepoti , e per essa a se medesimo
sopravvive. Non giả che i puovi filosofi da lui abbiano preso il concetto della
filosofia dell'isto ria,come alcunisono andatidicendo, credendo
cosidiaccrescere, quando invece diminuivan la gloria e impicciolivan lavera
grandez za di colui che voleano magnisicare. Conciossiache picciolissima glo
ria,eche soloapochi, eforseaniuno anche dei mediocrissimie mancata, si è quelladicomporreun
sistemache adaltriinunaltro secolo piacerà poi di seguire. Ma grandissima si è
quella d’indovina re e quasi divinare tutta una scienza per la quale la
pienezza de' tempi non è ancor venuta , ed a cui un'altra età dovrà essere
condotta per i nuovi progressi dello spirito , comunque per altre vie , per
altri metodi e come per dialettica deduzione di principii di diversa natura ,
siccome appunto èavvenutoperlafilosofiadell'istoria molto tempo dopodel VICO, che
primo la presenti. Ma non potendo, com'eranaturale, presentir tutto ,procedette
senza metodo e senza principii proporziona. ti da cui dedurla ,sol per
induzione da fatti troppo speciali ,e in mez zo a tali tendenze intellettive
che rendeano impossibile qualunque ancorchè immaturo saggio diquelle
costruzioni speculativesu cui solo potea la nuova scienza solidamente
stabilirsi.Sicché cadde e rima. se infruttifero l'isolato tentativo sino a che
la stagione più propizia non fu giunta ,a cui non furono nascoste levere vie
che poteano condurre allanuova terrapromessa,scovertadalungida
unarditissimonavi. gatore che per difetto de'necessarii aiuti appena vi avea
potuto appro dare,manon prendernesicuramentepossesso.Quasiparechelospi
ritotravedendo dilontanolanovellascienza,avesse fattoun primo tentativo per
conseguirla , m a destituito degli altrezzi e delle armi che a quella conquista
si richiede a no , avesse dovuto temporpeamente mettersi giù dell'opera per
fornirsi in silenzio de'mezzi che gli abbisogna vano, e quando ebbeli
tutti presti ed apparecchiati, ritornare con m a g gior confidenza all'interrotta
impresa, eriuscirvicon migliorsuccesso. Non si vede egli talora quando già la
fióe dell'inverno si avvicina m a ancora la primavera è di lungi ,un solitario
fiorellino quasi racco gliendo i primi caloriche si cominciano
amuovereperlegelateaiuole, spuntare tra'bronchi eirovi ancora arsidal freddo e bianchi
dalla Deve? M a quel primo sforzo e troppo precoce della natu ra riman solo,
nèèseguitoda altri sino a che alla stagione avanzata, nuovitorrenti di calore
tutte compenetrando le zolle più mature ,covrono di famiglie innumerevoli di
fiori la faccia de'prati e i dossi delle colline. Qui m a g gioreèlacopiae la bellezza,
ma piùammirato è il fiore del febbraio, infrulluoso e solitario indizio d'una
ricchezza a venire di cui tutti lar gamente godranno , m a che poca o niuna
maraviglia non saprà più ri svegliareaglisguardiassuefatti. Se poi prendiamo
quel sistema di VICO nel quale appunto
ha tra scesoiconfini del suotempodivinandol'avvenire,vitroveremoma pifestada
pertutto la presenza del giureconsulto nepoletano dellafine del decimo settimo
secolo , e accanto a que'principii che si veggono diventati proprietà eterna
della scienza e son passati quasi nella c o scienza universale del genere
umano,ne troveremo altria cui nessuno piùnonsaprebbeattribuirealcunvalore,echesipossondire
caduti per terra e dispersi come cadono e sono disperse dal vento le poche fo
glieseccheche ancora si trovano insu'ramideglialberia mezzono vembre per
lasciare nudo il tronco che alla nuova primavera di più rigogliosa vegetazione
si dovrà rivestire. Troveremo lui aver messo a capo del suo sistema un dualism
I cui duetermininon possonostare insieme, quello cioè di una mente ,di una
ragione, di un mondo delleideechefacollesueproprieleggiilmondo de'fatti, e quello
di una volontà estranea di cui la scienza non puòtenere niunconto, essendo che i
suoi atti appuntoperessere volontarii non si possono sottomettere a niuna
costruzione scientifica,cioè a priori,ma sono essen zialmente contingenti.
Troveremo lui aver detto che la sua scienza del lastoria è una vera teologia
delle idee divine , la qual cosa se può es serverainaltrisistemi, appuntonelsuoèfalsa.Troveremo
averegli traveduto il principio che la storia dell'umanità si va facendo per
mezzo di un successivo passaggio da una fortuna più materiale a una più
spirituale,dauna piùoscuraeincertadisèauna più chiaraepiù consapevol e, ma non
aver potuto vedere né il come nè le leggi d i questo cammino , nè tutte le sue
conseguenze, nè tutto l'insieme delle sue applicazioni. Troveremo che dopo di
aver veduto la correlazione che è tra le idee e i fatti , la concepi però a
rovescio dicendo che l'ordine delle idee dee procedere secondol'ordine
dellecose,ilche sepureè veroinunsenso tutto psicologico eaposteriori,è
falsissimo, anzi privo affatto di senso,negli ordini dell'ontologia e
dell'istoria.Or lutto quanto illibro della scienza nuova procedendo a questo
modo svela costantemente agli occhi del riguardante la presenza di due uo
mini,l'uno giureconsulto napolelanodeldecimo settimosecolo,e l'altro filosofo divinatore
di un pensiero che dovea esser quello di al tri secoli a venire, e predicente
una scienza che egli stesso non in tendeacheamezzo.Ma nelle altre opere questa dualità
scomparisce, o almeno il secondo e nuovo uomo si eclissa tanto darestar quasi tutto
intero il campo al primo, cioè all'uomo dotto dell'età incuigli era sortito di
vivere. Le opere contenute nel volume il cui titolo è in capo di questo scritto
sonopiùtostodiquesta seconda specieche del la prima , quantunque non bisogna
dimenticare quello che del resto è quasi inutile di dire , cioè che la parte
più universale dalla sua mente non si nasconde mai tanto che e'non si veggano
sempre e da per tut topresenti le tracce di quello spirito che ha pensato il primo
sulla terra una scienza dell'istoria. Io non parlerò delle diverse orazioni su varii
subbietti, delle quali le latine son tradotte in italiano da Pomodoro, che con
tanto amore si è volto il primo tra noi a dare una raccolta compiuta delle
opere del filosofo napoletano. Neppure parlerò della sua vita scritta da lui
medesimo e che anche trovasi nel presente volume,importante sopra tutto per
questo,che in essa trovasi delinea -la la storia intima della mente del VICO, e
vi si assiste alla generazio ne di tutto il sistema nato nel suo pensiero (
cosa straordinaria e quasi incredibile ) non di un principio metafisico , che
dee essere la sua vera sorgente , m a più tosto da particolari considerazioni
sull'insieme del DRITTO ROMANO e sull'istoria di ROMA. L'opera di cui più
particolarmente mi propongo di ragionare quella dell'antichissima sapienza
degli Italiani,la quale se pure io non m'inganno stranamente, non solo ci
rappresenta più chiaro VICO del suo secolo, ma noncirappresentaaltrochequesto, nèmaisenzalei
dee e le teoriche che erano in voga a quell'età,e fino senza i pregiudi zi i e
gli errori del tempo non sarebbe stata concepita , nė mai , neppure iltitolo, potrebbeorasaltarenellamentediniuno.Io
non parlo delle speciali teoriche professatevi,di cui alcune si hanno o poco o
niun v a lore, e altre ne hanno uno grandissimo m a non si appartengono a VICO
propriamente, anzi a tutta la filosofia da PARMENIDE DI VELIA a Leibnitz e dal
Leibnitz all'Hegel, ma quello che merita di esser considerato come pro prio di
lui , si è il modo di deduzione e il procedimento con cui vi è pervenuto , pel
quale una volta messosi, ne ha tirato delle conseguenze istorichee creduto di giungereaunaseria
scoverta filosologica, quan tutto riposava sopra due o tre falsi supposti che
sono il perno intorno a cui si aggira tutta l'opera, e ne formano non meno la
conchiusione che labase. Or ecco in che consiste tutto ilsistema. Nell'uso di
alcune voci e modi di dire de’ LATINI VICO ha veduto o creduto di vedere un
profondo significato metafisico, che dimostrava un gran progresso fatto in
questa scienzapressoilpopolo che in quelmodo parlava; dall'uso che essi
facevano delle voci causa eeffetto vero e fallo , ed altre simili egli deduce
il sistema metafisico di cui quelle lo cuzioni erano l'immagine e che dovea
trovarsi nelle menti dico loro che le avean irovale e che cosi le adoperavano.
A questa prima scoverta poi tutta filosofica di sua natura,se ne veniva ad
accoppiarecome perconsegnenza un'altra filologica o istorica intorno al popolo
che era giunto a cosi profonda sapienza,a cosi riposta dottri na da essere
autore e di quella filosofia e di que'modi di parlare. Certo IL ROMANO non potè
essere, delquale sisa indubitatamente non avere atteso ad altro sino al tempo di
Pirro che all'agricoltura ed alla guerra, diche è mestieri di risalire più
indietro sino al popolo da cui quello di ROMA ricevette con la lingua quelle
locuzioni, e lui senza più dichiarare popolo di profonda dottrina, e presso il quale
la metafisica avea dovuto giungere a uno non comune grado di eccelleoza. Nè
lastoria ci può la sciare lungamentein certinellascelta, sapendosiche i due popoli
con cui I ROMANI ebbero ab antico più strelte relazioni si furono i Joni della
Apao. Questa serie di dedazioni ci mena alla giustificazione nel titolo
dell'opera, DELL’ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGL’ITALIANI, ciò sono i Joni e gli
Etruschi, i quali per questa via si scovre aver dovuto essere dollissimi in
metafisica, e poichè da essi presero I LATINI gran parte della loro lingua, si
trovò questa come per eredità o più presto per invasione straniera picha di
concelli metafisici,comunque il popolo che la parlava ne fosseesso medesinioin consapevole,
ničsi potesse dasèsolo sollevarea tanla altezza.Ne qui le deduzioni istoriche
si arrestano,anzi partendo da quel lepremesse, siè condotti assai più lungi, fino
acongetturare che gli Egiziani quando fioriva appresso di essi e l'imperio e la
potenza e l'ar. dimento delle lontane spedizioni,navigando per il mare interno
che lutto signoreggiavano, avessero doyuto dedurre floride colonic per le cosle
diquelle, ecosiportare in Toscana la loro filosofia. Quivi poiessendo surto una
ssa i gran regno che diede il nome a lulto quel tratto di mare che Lagna di
Toscana fino a REGGIO l'Italia, anche la lingua degli Etruschi si dovette per
quello diffondere, e di questa più dovellero prendere i popoli più vicini del LAZIO.
Per la qual cosa non si dec credere che Pitagora avesse dalla Ionia portato in
Italia la sua filosofia, m a sibbene esser venuto in Italia ad impararla , e
sol dopo di essersi ammaestrato nella metafisica italiana, cio è etrusca, la quale
non era altro che l'egiziana, essersi stabilito in CROTONE e qui vi fondato la scuola.
Di quila sua filosofia si sparse, cando necessariamente imprimendo le sue trac
ce nella lingua, della quale gran parte passò poi a’ LATINI, iu guisa che sc ci
ha voce latina di filosofica signicazione, quella si dee tenere essere stala
prima in Egillo, poi in TOSCANA e quindi passala in Magna Grecia. Per questomodo
ne'fossilidellalingualatinasitrovatuttalasapienza degli Etruschi, e dalla
notomia di quelli noi possiamo ricavare tutta la anctafisica che era in voga
sulle rive di ARNO prima che il TEVERE ba e magna Grecia e gli Etruschi, dei quali
d'altra parte si sa che furon popoli dottissimi, gli uni avendo dato nascimento
alla filosofia italica dell'antichissima sapienza degli altri facendo ampia
fede la purità del la loro religione, l'augusto concetto che essi aveano
dell'ente supremo, i sontuosi sagrisizii, la teologia civile onorata , la
naturale praticata, e con questo l'architettura antichissima e semplicissima,a
far testimo. nianza che essi furon dotti nella geometria prima de’ Greci.
gnasse la città de'sette colli. Con un passo di più m a senza allontanar ci dal
sistema del Vico,anzi seguendolo fedelmente, solo affidandoci al l'uso di poche
parole latine, noi possiamo esser sicuri di essere in pieno possesso della
cosmologia e teogonia egiziana. Ho voluto insisterealquantopiù a lungosullevere
pretensioni di questo libro del filosofo napoletano ,sol perchè basta l'esporle
nettamen leperchèsene veggano chiaro i lati deboli che sono nè più nèman co che
tutti isuoi lati, la cui poca consistenza połea essere nascosta un secolo e
mezzo fa, m a ora non ha più scudo che la possa difendere da piun colpo della
moderna critica. In alcuni punti poi esso ha contro di sè un inimico domestico
e cognato nel VICO della scienza nuova, il quite lecondotto da altre
divinazioni più vicino alla scienza de'nostri tempi epiùlontano a quella
de'suoi, poevade'principiiiqualinegano le basi su cui poggia tutto il libro
dell’ ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGL’ITALIANI. E in fatti in quel sistema che più lo
ravvicina a noi e più lo stacca da'suoi contemporanei, egli riconosce tutta
l'opera del popolo nella formazione delle lingue , e quasi lo riguarda senza
ambagi come una creazionespontancadiquello, quando spiega tutte le diversitàchesono
fra le une e le altre per mezzo della diversità che passa fra la natura o
icostumi de'differenti popoli. Ma questo principio che veduto in tutta la sua plenitudine
esvolto secondo il rigore della logica sarebbe stato fecondissimo d'importanti
conseguenze, non gl'impedi di arrestarsi m a ravigliato innanzi alle locuzioni
che a lui parvero troppo metafisiche DELLA LINGUA LATINA, per tal modo che dimentico
del popolo edelmon do delle nazioni, ostinatamente volle vedere in quelle
l'opera meditata de'filosofi che dopo di averlo composte e sanzionate
coll'autorità del loro sapere, le sparsero e le feccio adottare al popolo , da
cui poi le ebbero in eredità gli altri che la dottrina e ingran parte la lingua
diquelloereditarono. Ora non iprincipii,comunque ancora incerti, dell ascienza nuova
condussero VICO aquestascried'idee, ma sibbc ne la filosofia del suo tempo ,
contro la qualc egli in gran parte prote stava, e tutto il general modo
concuisiri guardavano allora le cose, e cheeglisenza saperloe senza volerlo, etalvoitapurvolendo
ilcontra rio, avca comune con tutti.Ora uno de'punti principali della
filosofia del secolo passato si è il non aver riconosciuto in
piente l'opera sponla nea dell'umanità e l'aver veduto da pertutto il prodotto
volontario e riflesso e però consapevole e determinato dello spirito. Nel fatto
della società civile non vide altra cosa che UN CONTRATTO con cui gli uomini si
erano volontariamente convenuti fra sè divivereinsieme per il maggior comodo e la
maggior sicurezza di tutti; nelle religioni non vide che il trovato de’ pochi per
contenere i molti, e farlipiegare coll'au torità di esseri superiori agli umani
, a quelle cose che essi avean risoluto essere di universale vantaggio o di
loro particolare utilità; nella poesia e nelle arti non vide che l'occupazione
di alcuni uomini di più squisita immaginazione e di maggiore ozio che gli
altri, i quali per loro proprio diletto e per altrui si decideano didarsia quell'esercizio,
seguitando delle regole parte tirate dalla natura stessa delle co se,e parte stabilite
per reciproca convenzione fra quelli che si era no volti al medesimo non so se
mestiero o passatempo ; finalmente nellelinguenon iscorse altro che unsottilritrovatoeunauniversa.
le convenzione degli uomini , iquali essendosi accorti di avere l'organo delle
voce vie più pieghevole che quello degli altri animali, si erano
risolutamentedecisi, non senzaesame, divolermettereaprofittoquel Ja
flessibilità della gola , e servirsene senza più a render più facili e
speditelelororeciprocherelazioni. Da questa teorica non era lungo il cammino da
percorrere per giungere all'ipotesi,o per dir meglio,al laconchiusione del VICO,
ilquale,come primasifuimbattuto in locuzioni che gli par vero avere del
filosofico in sé , subito giudicò non il POPOLO IGNORANTE, ma sibbene
ifilosofiaverne dovuto esseregliautori. Di che senza por tempo in mezzo,si
diede a ricercare dove doveano poter esser que’ filosofi da cui eran venuti
parlari filosofici a un popolo che non ha filosofia , e trovolli nell'ETRURIA e
nella Magna Grecia e, risalendo, nella patria de’ Faraoni. Maisistemi
talvoltasoncuriosi davvero; e curiosissimi sieran questi, i quali negavano le cose
più ovvie, il fatto, la storia, la vita, l'uomo, per accordar tutto a’ filosofi;
razzanobilissimae d'ogni considerazione degnissima, ma cosipocodi sua natura
operativa e fattiva da non poter creare non che tutta una Jingua,un solverbooun
articolo. Ora ilfattosièche il popolo,equi, intendiamoci bene, popolo valquanto
genere umano o spirito umano, il
popolo adunque in cerle cose non è da meno e in certe altre è da più
de'filosofi. Ancora non si dee credere che nello spirito de'filosofi trovi
siassolutamentepiùdiquello che ènello spiritodiogniuomo,cioè nel popolo. E se
nelle coloro menti trovasi tutta chiara ed aperta la teorica della ragione e
degli elementi che la costituiscono,e la scienza delle sue leggi e del nodo
come esse operano,la mente del popolo per mancare di quella teorica o per
ignorar quellascienza non è men ri. schiarata dalla medesima ragione , nè men
costituita dagli stessi ele. menti,nè men regolata dalle medesime leggi ,
conciossiache se cosi non fosse, la filosofia non sarebbe più la scienza dello
spirito umano , ma lascienzadello spirito de’ filosofi; il che, seiononm'inganno,
do vrebbe sufficientemente nuocere alla sua importanza;la sola differen• za che
passa tra il filosofo e colui che non è filosofo ,si è che l'uno sa
quelcheegliha, laddovel'altroloha senza saperlo; l'uno possiedee pur possedendo
e usando della sua possessione,non ha mai posto mente a quel che egli
possiede,dove che l'altro non solo possiede ma si è occupatodisapere lanatura, il
valore, le leggi, l'importanza, gli elementi, il modo di operare, le relazioni
e le condizioni di quello onde egli è in possesso. Ora le lingue son come figliuole
di due madri,cioèsonoilpro. dotto di due cause che operano ngualmente nella
loro formazione, v a le a dire delle attitudini naturali e delle fisiche
condizioni degli orga ni della voce da un lato, e dall'altro della natura
morale dell'uomo e delleleggisostanziali dello spirito.Dicheogni lingua senella
parte puramente esternae fonetica de'suoni,della lorotrasformazione e cor
ruzione,edel loropassaggio adaltrisecondariiederivati,eintutto quello che
riguarda l'istoria naturale della parola , segue invariabil mente le leggi
naturali dell'organizzamento fisico della gola, in quanto al contenuto interno
di essa parola rappresenta tutti i principii psicolo gici del pensiero, tuttiglielementi
ontologiciche in esso si rinchiudono, esecondoleleggi logiche del pensiero stesso
coordina e dispone l'espressione estrinseca di tutto quello ch e il pensiero ha
lavorato , e che nelle misteriose profondità della mente è stato
apparecchiato.Certo si nella formazione che nell'esplicamento delle lingue non
tutto si può ridurre e principii razionali,e qualche cosa ci ha che si sottrae
all'ana lisi e dipende da quella parte inesplicabile dello spirito
umano, che senza essere ilprodotto o l'espressione di una o di un'altra sua
legge determinata, risulta dall'azione nė descrivibile nè determinabiledi tutte
quante insieme, e dall'opera simultanea di tutte quelle forze in cui si appalesa
la vita nelle sue infinite manifestazioni. Ma oltre a questa parte che si
sottrae ad ogni investigazione e ad ogni esplicazione scientifica, l'edificiodiognilinguaèlegatoper
la parteestrinsecaal le leggi anatomiche e fisiologiche del corpo,e per
l'intrinseca alle leg. gi morali dello spirito, in modo che siccome ogni
sintassi nel coordina mento delle parole e delle frasi è regolata dalle leggi
logiche del pen siero, e cosi ogni etimologia rinchiude in sè un sistema
compiuto di tutte le categorie dellaragione ; e siccome non può trovarsi nello
spiri to più o meno di quel che trovasi nella lingua , in cui talti i suoi ele
menti raggiungono un'esistenza estrinseca ed oggettiva, e cosi non tro vasi
nelle lingue nè più né meno di quel che sia nello spirito nel qua leessee le categorie
dicui esse sono l'espressione hanno la loro esistenza intrinseca e soggettiva. Per
la qual cosa non ci è nulla che sia meno arbitrario e meno convenzionale delle
lingu , nè ci LA LINGUA DI POPOLO COSI BARBARO o selvaggio che non rappresenti
e non contenga in sé un intero SISTEMA DI LOGICA [RUSSELL – STONE-AGE
METAPHYSICS], e UN INTERO SISTEMA DELLE PIU RECONDITE CATEGORIE DELLA RAGIONE. Ben
si vede da quesle cose che egli è possibile di rendere ragiona di quelle parole
latine che sembrano contenere un significato più a stratto e metafisico, senza
avere a ricorrere all'ipotesi di un popolo progredito assai oltre nelle vie
della dottrina e della filosofia, da cui I ROMANI nè dottiné filosofi abbiano
dovuto ricavarle. Già l'ipotesi di VICO incontra nel fatto di tali difficoltà
che niuno oggidi ancorchè men che mediocramente iniziato in certi studii, non
avrebbela concepita nella mente senza voler che di lui si dicesse col proverbio
che egii fossesi posto a pestar l'acqua nel mortaio.E in prima le parole su cui
spezialmente cadono lo investigazioni filosofiche e istoriche di VICO sono di
origine e di formazione cosi puramente latina che e'non si ve de che cosa
abbian da fare con esse gl’etruschi o į Jonii , o come a b bia poluto saltare
altrui in mente che I ROMANI lc abbiano prese dalle costoro lingue, o almeno imitato
da essi il modo di adoperarle. Tan!e più che se in ana lingua si possono
trovar parole di origine straniera, il modo di adoperarle non è ma istraniero
opresoin prestanza da altri, MA PROPRIO DAL POPOLO CHE LA PARLA, il quale
nell'usarne, imprime in esse il suggello della propria nazionalità e le fa sue,
senza dire che un popolo per imparare da un altro ad usare secondo un concetto
metafisico le sue proprie o le altrui parole, dovrebbe innanzi imparare da quello
tutto il sistema della sua metafisica, quando nonsivuolri conoscere che ogni
lingua, qualunque siesi il popolo che la parla, e indipendentemente da ogni
dojtrina acquisita, è naturalmente e spontaneamente l'espressione di un sistema
di metafisica riposto nel fondo dellaragione, e che costituisce l'essenza stessa
di essa ragione. Per VICO intanto i Latini aveano a ogni modo dovuto imparar
qnelle parole e que'modi di dire du altri popoli più dotti che essi non erano,
e questi popoli non poteano essere che i Jonii e gli Etruschi popoli dottissimi
e con cui I LATINI aveano strette relazioni. Vediamo ora quelche non già ioounaltroma
tutto il sapere del secolo in cui viviamo oppone senza paura di contradizione
al più dotto napoletano del XVIII secolo. Ne è possibile d'incominciare questo
esame senza fermarsi in primo luogo ad un'improprietà di linguaggio che niente
nonpuò giustificareecheinnessunsistemaeinnessuna ipotesi non si può difendere.
E veramente non vi è niuno il quale abbia mai p e n satoa'Joniioal dialetto jonicoper
sostenerelaparenteladifiliazio netra il Greco e il Latino, e le colonic greche di
cui parla VICO, ca cui attribuisce nella formazione della lingua latina un'importanza
che non si hanno maiavuta, noneranodiJuniima di Dori.Ilfatto sloricochelastoria
latina èposterioreallagrecaunitoall'altrofatto della relazione di simiglianza
fra le due lingue avca condotto alla con chiusione che l'una lingua dovesse
essere derivata dall'altra,nè lasciato alcunluogoadubitarequalesidovesse
esserelamadreequalelafi gliuola fra la più giovine e la più vecchia. La stessa
argomentazione poi avea fatto determinare più particolarmente questa relazione
di m a ternità fra il latino e il dialetto eolico, che èquello fra dialetti della
Grecia chepiù diaffinitàsiha collalingua delLazio.Intantolenuo vescovertedella scienza
delle lingue hanno dimostrato questa ipotesi impossibile, havno scoverto nel LATINO
tracce di maggiore antichità che pel Greco si nel sistema de'suoni
e si nelle forme grammaticali non che nella genesi etimologica e nello stato
attuale delle parole ; hanno scoverto la stessa specie e lo stesso grado di
aslioilà , e talvolta anche maggiore,che è tra il Greco e IL LATINO trovarsi
eziandio fra le duelin gue classiche ed altre ancora o meno conosciute o quasi
del tutto igno te prima di a questi ultimi tempi, sicchè è stato forza di
ricorrere all'ai. tra ipotesi di una lingna più antica di esse lulte , da cui
come da comune stipitetutte quanteesse, elealtreadessesimilidiscen dessero ,
allontanandosene quale più e quale meno , quale in una e quale in un'altra
cosa, ma ritenendone tutte e la general fisonomia, e il sistema grammaticale, e
il comune materiale delle radici, in mezzo a quelle differenze che debbono
fra’i varii rami di uno stesso tronco essere cagionale dalle speziali
condizioni fra cui ciascuno di essi si è venuto separatamente formando ed
esplicando , sicché la relazione di parentela è rimasta , anzi la famiglia si è
trovata cre sciutadimoltialtrimembri creduliprimaaffattoestranei,masiè trovato
quella parentela essere di fraternità e non già di filiazione. N ė si può
negare che il dialetto eolico sia quello tra gli altri dialetti dell'antica Grecia
che più si rassomiglia al LATINO, ma invecedi con chiuderne che questo sia nato
da quello,si è dovuto inferirne che esso è come l'anello intermezzo, ilpunto di
passaggio tra le due diverse forme di una medesima lingua, appunto come la storia
naturale ci dimostra molte specie di animali , molte famiglie di piante, le
quali sono l'anello intermezzo fraduespeciedi versedelmondoanimaleotra due
diverse famiglie del vegetabile, equasicome ilponte percui mezzolanatura che
non procede per salti,dall'una è passata all'altra.Cerlo molte paro le si
possono trovare nel LATINO che vi si sono introdotte direttamente dal Greco, ma
queste o sono di data assai più recente o sirisesconoa oggetti speciali, ad usi
e invenzioni,a trovati comunicati dal conımercio e dalle esterne relazioni tra
due popoli in quell'epoca e a quella parte della lingua a cui si riferiscono le
investigazioni etmologiche e istoriche delVico. Di parole straniere che per accidente
sienpassatedauna lin gua a un altra ancorché di diversa indole e di diverse
famiglie se ne trova in tutte le lingue, m a si è questo un fatto tutto
contingente di cui sirende ragioneper mezzodel fatto delle esterne relazioni senzache
nulla se ne possa conchiudere per la forniazione della lingua stessa. La
parola kalamos che è ab antico nel Greco per dinotare la penna o uno strumento
aguzzo , una capna qualunque da scrivere,non è di origine greca, nèsenetrovala radice
nelle lingue affini al greco, ma èdi patria affatto straniera, parendo essere nè
più nè manco che il semitico Kalem che in Arabo dinota la penna. Certoverisimilmente
è da crederecheavendoi Greci antichissimi appreso da'Fenici, popoli di stirpe e
di lingua semitica, l'arte dello scrivere abbian preso anche da essi il nome
dello strumento da esercitare la nuova arte. Ma dove sono le parole greche ,
eoliche, e joniche, come impropriamente il filosofo napoletano direbbe,
corrispondenti a quelle con cui I LATINI esprimeano non già un utensile
materiale, lo strumento di un'arte ignota prima e poi appresa, ma i concetti
più intimi e più astratti dello spirito senza di cui il pensare stesso è
impossibile? Le medesime cose, ma adassai più forte ragione si vogliono ripetere
per l'Etrusco. Che da questa lingua si sieno potute introdurreuel LATINO delle parole
relative ad usi della vita e a cerimonie sacre , è cosa che facilmente sipuò
concedere massime chi pensi che molti riti religiosi dall'Etruria hauno dovuto
passare in ROMA, ma non èpossibileditras formare questa azione tutta estrinseca,
questa introduzione accidentale di alcune speciali parole , in un'azione più
internaequasi primitiva dell'Etrusco sul LATINO.Vero èche questa non è
propriamente l'idea di VICO, nè la conchiusione a cui egli intende di giungere
coi suoi procedimenti etmologici. E già la qui. stione delle lingue era così
poco avanzata , anzi così poco sopposta a' tempi del VICO, che non ad essa la
sua mente si rivolse , non di es sa egli si occupò come conseguenza e
coronamento della sua ipote si, ma sibbenedi quelladella filosofia. Einfaltinon
altrovechein questo punto egli vide l'importanza della sua scoverta , e assai
più che nel libro stesso v'instette nelle sue riposte a varie obbiezioni
mossegli allora contro con una critica, che non vedea,e in gran parte non
poteavedere i veri puntidebolieimpossibiliasosteneredi tutto ilsistema. Quivi
si vede che il Vico pensava di aver fatto una stupenda sco verta istorica ,
perocchè vi è detto chiaramente che essendo gli Etruschi cosi doltissimi in
cosi remotissima eti , come si vedea manife. b'o da' modi di dire metafisici
che sol dalla loro lingua avean poluto passare nella latina , si dovea credere
fermamente che la dottrina non avea poluto passare dalla Grecia in Italia, ma
si da questa , cice dall'Etruria in quella , e quindi coordinando tutte le
parti del siste na , ne conchiude che Pitagora non avesse portato allronde la
soa fi losofia inItalia,quando alcontrariosiavea dacredere che venulo quivi ad
appararla , riuscitovi poi dottissimo , si fosse fermato nella Magna Grecia a
formar la sua scuola , sicchè quest'antichissima silo. sofia che la
rappresentava avea dovuto passare dall' Etruria nel La. zio e dal Lazio nella
Magna Grecia , e in Etruria avea dovuto primitivamente venire dall'Egitto. Ecco
perchè io diceva più sopra che secondo questo sistema, le vere origini di certe
parole e modi di dire della lingua latina si convengono cercarle senza più
nella patria deiFaraoni.Ma tuttequeste ipotesiriposano sul falsoconcelloche
ogni vocedi un contenuto edi un valore metafisico supponga un sistema
metafisico divenuto popolare nel popolo che la parla , ogni sistema metafisico
debba essere stato da un popolo portato nel l'altro. Se i Greci non avean
potuto escogitarlo da sè , ma riceverlo da Latini, e i Latini
dagliEtruschi,egli Etruschi dagli Egiziani, non so perchè non si abbiano da
spingere anche più oltre le investi gazioni,ecercare daquale angolopiùremoto
dellaterra avessedo vato venir trapiantata sulle rive del Nilo. La
scienza moderna che è meno corriva alle ipotesi , e comunque sia spesso
accusata di sognare , più riconosce l'importanza de' fatti prima di edificare
un sistema , va più guardinga in questa qui stione degli Etruschi, e non
ostante la grande abbondanza de'falli che sono a sua disposizione ,non ha
sapulo per anche decidere che cosa eglino fossero stati e donde venuteci , nè
che cosa si fosse la loro lin gua ,se cioè semitica o di origine arja ,nè che
relazioni si abbia avu ta la loro civiltà coll'egiziana. A ogni modo le
induzioni per cui giungeva ilVico allesue opinioni intorno all'Etruria niunoè
ora cheardirebbedicrederledialcun peso o diprenderle in sulserio. Ben
sonostatialcunipiùmodernichelehannosostenute,e avregnac chè l'istoria dimostri
come cosa quasi indubitata che la civillà tenga nel suo corso ilmedesimo
cammino che il sole cioè da oriente în occidente, han voluto che i primi principii
d iessa fosseropassatidal l'Etruria nellaGrecia,ma han cercato con
fatlieargomenti edo cumenti che a VICO mancavano di sostener la loro teorica
,comunque non sieno mai riusciti a sostenerla tanto da farla aceellare almeno
permediocremeuteprobabilea'piùdottiinquestematerie. Enonha guari abbiam veduto
mancare a'viviio Napoli uno deisuoi ultimi sostenitori,uomo
picchissimodiabbondanteerudizione istorica,ina corrivo non so se ad:ingegno o
per la natura stessa del suo spirito. ad abbracciar le opinioni più strane e le
meno simili alle più comune . mentericevute. Spessosièripostocome
unaspeciediamorproprio Nazionale a sostenere colesta emigrazione del sapere
dall'Etruria nella Grecia.quasi peraggiungereunaltro periodo
digloriaallegloriedel l'istoria italiana E veramente pjente non è più giusto o
più sacro quantoquel sentimentoper cui un popolosistudia diaccrescerei tesoro
delle sue grandezze non meno presenti che future o passate,
diquesteperpetuarelaricordanza nellamemoria degliuomini.Ma per esser gelosi
custodi di questo tesoro noi altri Italiani non abbiamo afarviolenza allaistoria,
evolervendicareanoiquelche nonciap partiene,tantopiùchequellodicui non
sipuòdubitarechesiano stro è più che bastevole a non farci desiderosi di
altro.Or la nostra ve ra e indubitata istoria incomincia da Peoma ; ilche mi
sembra itd'an lichitàabbaslanzaremota,eunagrandezzaabbastanza gloriosapera. Versenea
contentare. Tutto quello che è prima diRoma, e già è assat in certo che cosafosse,nonci
appartiene. E veramente Italia nonera ancorailpaeserinchiuso tra le Alpie il mare,
nė Halianieranoi Greci dell'estremità meridionale, I Siculi o gli Aborigeni del
Lazioo gli Etruschi, Celti o gl'Iberi, sealcun trattogl'Iberine occupavano, ma
beneeranoessigl ielementi primordialiiqualistrituraliefasiin sieme dall'opera
del tempo e dalla forza assimilatrice di ROMA ,d o veano comporre il popolo
dicui ha fatto l'istoria LIVIO, Macchiavelli e Botta;lavoro lentoe
gigantescoele con diver se proporzioni e solto diverse condizioni si è operato
per altri popoli ancora; perquestaso laragionei Macedoni eran Greci, e Alessandr
oche sefosse nato du'secoli prima sarebbe stato barbaro, fualsuo
Innanzi di conchiudere questo scritto che avrebbe potuto esser piùbreve, machepotrebbe
prolungarsi ancora dimolto, noncredo essereinutileper megliofarcomparirelavera
naturadelleobiezioni chehomosseal filosofo napoletano, il ricordarecomeeglinon
a veapercosaaffattonuovailmodo dellesue investigazioni etimologi che , anzi fin
dal principio del suo scrillo afferma che egli è per fare quel medesimo per la
lingua latina che avea già fatto Platone per la
greca,ilqualedalleetimologieecomposizione delle parolediquella avea voluto
scourire l'antichissima sapienza de'popoli che l'avean parlata. Senonchesiformava
VICO un conceltoassairistrettodal Cratilo se credea a questo solo ordinato quel
dialogo , il quale abbraccia tutta quanta la quistione della lingua ,della sua
origine e del suo valore,coordinandola colla teorica socratica delle idee.Ben è
vero che Platone anche delle etimologie si occupa in quel dialogo , e che ,ove
non il fa ironicamente e come per istrazio , intende di cavare delle in .
duzioni intorno a'primitivi concetti del popolo fra cui quelle parole a . veano
avuto nascimento. Ma adonore del filosofo ateniese, si conviene confessare che
ilmetododellesuericerchenondeviavada'giusticon fini,nèpoteacondurload
induzioniofalseoimmaginarieo arbitra rieocontrarieallagenesi delle
lingueoripugnantialla vera palura. Della metafisica che inquellesipuò
trovare.Non abbiamnoiveduto che ogni lingua contiene in sè un intero sistema di
metafisica , ma di netafisica spontanea che in quella si trova all'insaputa
dello stesso p o t e m p o il rappresentante dello spirito e della civiltà
della Grecia , e u n a delle più alte figure dell'istoria greca.Cosi le felci
gigantesche del mondo antidiluviano non sono ilcarbon fossile ma debbono
divenirlo, poiché , collo scorrere del tempo e coll'azione invisibile delle
forze naturali si macerano a poco a poco , le differenze scompariscono, e da
ultimo si trovano riunite in una sola massa che dee poi divenire uno de'motoripiù
irresistibilinelle mani dell'uomo; ma leproprie tà che fanno onnipotente il
carbon fossile non si appartengono alle umide foglie delle piante naufragate
nel diluvio . Così le glorie q u a si mitologiche de’ Pelasgi e de' Rasena ,
de' Tirreni e de'Siculi non siappartengono a'discendenti del popolo di GIULIO
CESARE e di Trajano. polo che la parola , e che ve l'ha senza saperlo ,
depositata? Imperocchè le lingue figliuole tulle dell'identica natura dello spi
rito e dell'identica struttura degli organi della voce sol differisco no nella
loro composizione in quanto che quell'identica natura vede da diversi o opposti
lati le cose , e diversamente concepisce le relazioni obbiettive che passano
fra quelle.Per la qual cosa si può dalla natura di una lingua scovrire il modo
in cui il popolo che prima l'ha parla la concepiva le relazioni fra le cose, e
ilmodo con cui iconcetti meta fisici che presiedono segretamente alla
composizione di essa si presen tarono al suo spirito.E sequestolavoroèancora
oggi pienod'incer tezzeedidifficoltà, seeraimpossibilea'tempi di Platone, che
fae glicotesto? Basta che il discepolodi Socrateabbia vedulounaverità che solo
ilontanissimi nepoti poteano dimostrare ,e tentato un lavoro per compiere
ilquale,moltissimi secoli di esperienze e di scoverte non han potuto
somministrare finora tuttiimezzi necessarii. Ma non cre dea Platone che una
setta di filosofi avesse introdotto nella lingua i concetti metafisici, apziliattribuivaalpopolo
stesso, che egli per le esigenze del suo linguaggio filosofico, chiamail legislatore,
il quale nella successiva costruzione della linguave liveniva spontaneamente e
però inconsapevolmente trasfondendo. Në pensò mai Platone che da filosofi di
altra nazione dovessero quelle parole tirar la prima loro ori gioe,e quindi
esser passate a'primitivi abitatori della Grecia,che per essereancora ignoragtinonle
avrebbero potutemai più ritrovareda sèmedesimi. Sonquesteledue ipotesi sucuièfondato
il libro del l'antichissima sapienza degl'Italiani, ma nè dell'una nè
dell'altranon è colpevole l'autore del Cratilo, Seiohotroppoinsistitosu questecose,
non ègià perdesiderio eheioavessidiappiccare un'inutilegiornata colmaggiore
de'filosofi napoletani,ma siper voler mostrare col suo esempio come camminando
il sapere collandare del tempo, e trasformando s i quasi in ogni secolo
lasuafisonomia,evedendo gliuomini nelle diverse età sempre diver
samentepurlemedesimecose, lagrandezza de'grandiuomininon si vuol misurare dal
numero delle verità che eglino possono ancora inse guarea'lontaninepoli, acuipureessendo
grandissimi, nonpossono lalvolta insegnare più niente,ma sibbene
dal grado a cui eglino si so no innalzati al di sopra de'loro contemporanei ,
dalle nuove vie che prima degli altri hanno aperle allo spirito, nelle quali
altri cammi p ando sonosi arricchiti di verità ad essi rimaste ignote , e dagli
sforzi con cui hanno potuto faticosamente e oscuramente veder da lungi quel che
alle seguenti generazioni è stato poi agevole di veder chiaramente e di loccare
con mano , senza che per questo si possano dir sempre seguaci de'primi, alleso
che avviene soventi volte che una verità giunta alla sua maturità e alla
pienezza de'tempi, si mostri per nuove e più facili
vieancheaspiri!imenoalli,quando altempocheeratuttaviaimma lura appena si era
svelata per astrusissi mi sentieri alla potenza divina trice di solitarii
ingegni. Chi è più grande di Aristotile ? m a quale è oggiscolarecheintutte
lespezialiquistioni non ne sappiaepiùe meglio del maestro di coloro che sanno ?
O quale è scuola filosofica a cui basterebbe il proporre la massima parte
de'problemi della scienza inquelmodoappuntoin cuisitrovanoproposti
nell'Organoene'libri della Melafisica, anche in quei punti in cui il pensiero
arislolelico quanto alla sostanza delle cose è identico col moderno ?
L'altra cosa su cui io voleva insistere siè questa ,che un uomo pec
quantograndeeglisia,perquantos'innalzialdisopra de'suoicon temporanei e de'suoi
tempi, par non si può mai taplo da questi separare che la più parle delle sue
idee, anzi esse tulle non abbiano in quellilalorora dice,siche eglinon
puòmaisepararsi dalgeneral modo d'intendere dell'età che lo vide nascere, anziappuntoperque
slo ègrande , che egli tutta la compendia ed esprime , aprendole le vie agli
altri nascoste che la legano coll'avvenire. Se non che se tul
teleideede'suoitempiinlujsiriflollono, insiemeconquelle anche gli errori e i
pregiudizii comuni penetrano nel suo spirito , nè per quanto egli se ne
distacchi può giunger mai ad emanciparsene intera menle . Di che si vede quanto
sia grande la semplicità di coloro che siappoggiano all'autoritàde'grandi
uomini inque'punticheeglino. hanno in comune con tutta la loro generazione e
che non costituisco no la loro vera e più squisita individualità.Molle volle mi
è avvenuto di udir dire a proposito di speziali quistioni ; o siele voi più
grande di Dante Alighieri il quale pensava appunto cosi come voi negate
di consentire.Or cerloilcanlore de'tre regni dellamorle si fuilpiù grande uomo
del suo secolo,nè ci ha oggidi chi in potenza di menle e grandezza di
comprensione poelica possa venire con lui in paragone , ma
ilpubblicislaeilfilosofo del XIII secolo era figliuolo delmedio
eroeaveacinquesecolidieducazione filosoficaed isloricamenodi noi, e il
cilladino di Firenze nato l'anno di grazia mille duecento sessantacinque in
molte cose non potea non pensare come frale Cipolla e Guccio Imbralta.Or chi è
che vorrebbe piegarsi innanzi all'autorità di questi nomi ?Cerlo,che io mi
creda,niuno. Quesle cose poi che si dicono dell'antorità de'grandi uomini van .
no deltealmedesimo modo dell'autorità dell'istoriaingenerale. La sentenza di
Tullio che dice l'istoria maestra della vita è veris ima se
s'intendeinunsenso,ma fontedimoltierrorises'intendeinun altro. Verissima è in
un senso universale e scientifico in quanto che l'istoria facendoci come
assistere allo spellacolo delle diverse generazioni clic si sono succedute
sulla terra,ci rende quasi contemporanei del pas
sato.Permezzodiessanoipossiainoalloraformarciunconcello ge nerale del cammino
del genere umano ,e delle leggi ideali che presie dono alsuccedersi
dellecivilti, delleleggi,degliistituti,delle religio ni, degli stati e di tutte
quante sono le manifestazioni dello spirito u - mano.Allora noi partendo da
queste considerazionipossiainocom prender
il posto che anche no i occupiamo nella storia del mondo , d e terminare
le nostre relazioni con le generazioni che si sono prima di noi
affaticalesullaterra,edivinarquellecheabbiamocollealtreche dopo di noi
bagneranno col loro sangue e coloro sudori la patria dell'uomo. In questo senso
veramente la sloria è maestra della vita, come quella che ne porge il più
stupendo ammaestra in e n t o che si possa , la comprensione della vila slessa
in tulle le sue manifestazioni, in tuttelesuerelazionicolpassalo,colpresenteecoll'avvenire.Ma
inet ta e principio d'inganni è quella sentenza presa in un senso più ristrello
edempirico,quasivolessedireche lastoriainsegnaagliuominico. gli esempii
de'tempi passati a sapere come eglino si abbiano da con durre ne'casi agli
antichi simiglianti,Il credere a questa specie di
aulorilàistoricadipendedalla falsa supposizioneche gliavvenimenti si ripelano o
si possanoripeterenelle medesimecondizioni, ilcheè tantofalsoquanto
èfalsoilcrederecheilgenereumanononsimuo va , e che l'istoria non cammini. Ora
ogni clà ha suoi proprii fatti e un'indole sua propria per la quale anche i
fatli che sembrano rasso migliarsi in certe esterne condizioni, sono
diversissimi di significato e divalore.Ilprincipiochenienteèma luttosi
fa,nientepermanema tultosimuove,spezialmentenellastoriaenelcammino delgenereuma
no si verifica.Ben la nalura fisica ne'rivolgimenti cosmici e tellurici si
ripete,la natura morale dell'umanità non mai.A coloro iquali dicono:
bencosìdeeavvenireperchècosìaltravoltaèavvenuto,ben sipuò rispondere che
appunto perchè altra volta così è avvenuto non può più avvenire al medesimo
modo.Dove il genere uinano cosi continua. mente agitandosi finalmente abbia da
giungere , chi è che possa pre vederlo,oqualeè filosofiache lopossaalmeno
verisimilmentepre dire? Ma quando si pensa quel che era la famiglia umana al
tempo delre de'reAgamennone,pernon salirepiù alto, e quale oggi è divenuta ,
chi non si sente di naufragare coll'anima in uti Oceano senza fondo, allorchè
volge il pensiero a coloro cui se parerà
da noi la medesima distanza che divide noi dagli eroi dell'Iliade L'Italia
era pervenuta al decimosesto secolo e nella letten ratura e nelle arti ad una
eccellenza , che niuna delle mo derne nazioni ha forse potuto raggiungere e che
emulava se non uguagliava quella de' giorni più felici della Grecia. La poesia,
la pittura, la scoltura e l'architettura quasi facea no a garaper adornare di
opere eternamente duratureun pae se che già per tanti riguardi parea prediletto
dal cielo , e le interne agitazioni e le discordie civili di tanti piccoli e
fio renti stati pareano quasi cote che affilavano gl' ingegni, af forzavano gli
spiriti e rendeanli più pronti a concepire e a ritrarre squisitamente il bello
. Intanto , fra queste potenti pa lestre che aveano esercitato l'infanzia e
l'adoloscenza delle no stre menti,venne l' età più matura e quasi la virilità
dell' in tendimento , nella quale l'uomo, ovvero lo spirito umano, chè qui
suona il medesimo, si rivolgein sè stesso per conoscere da presso quello ch
'egli è , e quello che le altre cose sono, le quali in fino a quel punto è
stato contento ad ammirare ed a servirsene per sè e per le sue immaginazioni.
Allora inco mincia la filosofia, la quale di necessità dee sorgere dopo la
poesia, siccome la Grecia e l'ITALIA col fatto ne fanno pro va . Nè si potrebbe
addurre in contrario la scolastica che è antichissima , e certo precedente alla
poesia, perchè quella , oltre che confinava da presso con la teologia, più
presto che esser l' effetto spontaneo , per così dire , del pensiero nazio nale
, lavoravasi nel seno della chiesa e nel silenzio de' chio stri , senza che il
pensiero laicale vi avesse alcuna parte . Il quale , quando fu venuto il tempo
propizio, si fece da sè una filosofia che veramente dalla scolastica fu
diversa. Costantinopoli non cadde in vano per noi; perchè la sua rovina che fu
quasi l'ultimo crollo della civiltà antica servi ad arricchirci di gran numero
di monumenti dell'antica sa pienza a noi tuttavia ignoti , e a compensar con
usura i nostri padri dell ' ospitale accoglienza per essi accordata ai
fuggitivi figliuoli d'una nazione illustre e generosa , che dopo quattro secoli
d'oppressione, dovea riacquistar l'indi pendenza , e , bella delle memorie
passate e del presente trion fo, ricomparire sul fortunoso teatro del mondo,
sorgendo , come Lazaro , dal polveroso sepolcro che avea accolto il suo
cadavere . So bene che da alcuni si è creduto il risorgimento degli studii
classici e la conoscenza più intera dell'antica civiltà essere stati più presto
di nocumenlo che di utile alla mo derna , parendo loro esserne stato impedito
il libero cam mino degli spiriti, e turbata l'originalità del pensiero mer cè
l' innesto violento d' un vecchio ramo sovra un più gio vane tronco . Ma
costoro non pensano che la civiltà di un secolo non è e non può esser un fatto
isolato e da sè ma che è iotimamente legata a quella de' precedenti mercè l'
aurea catena delle tradizioni , e che ogni secolo dee, in quanto può , legarsi
col passato e argomentarsi di perfezionarne l'opera, piuttosto che separarsene
e disdegnare di riconoscerlo , o pretendere superbamente anzi puerilmente di
incominciar tutto da capo , e rifar da sè l'opera a cui le generazioni pre
cedenti han lavorato .Però il risorgimento degli studi classici . e la
conoscenza dell'antichità , innanzi che nuocere, ha do vuto perfezionar
l'edifizio della civiltà moderna , nè in fatto pud negarsi che a risorgimento
delle antiche lettere sieno dovuti in gran parte i subiti progressi che le
scienze fecero tra noi . Quando si furono rotli i cancelli un po' stretti fra
cui la scolastica volea talora chiusa l'intelligenza, quando si fu meglio e vie
più direttamente conosciuto il pensiero dell'an tichità , ed ecco sorgere di
presente una nuova filosofia, alla quale si può dire che avessero posto mano di
conserva il pensiero antico e il moderno, la sapienza greca e lo spirito
italiano. I più profondi ingegni della penisola si misero a quest' opera,
lavorando insieme, quale in uno e qualein un altro modo , al comune e nobilissimo
scopo, e tosto si vide venir fuori dal loro numero il celebre triumvirato di TELESIO (si veda), CAMPANELLA (si veda), e
BRUNO (si veda), i quali tutti e tre videro la luce in questa meridional parte
d’Italia . Comune ebbero la forza della volontà , l'ardire dell'inge gno e la
potenza della mente; ma il primo restò indietro agli altri due , imperciocchè
la sua opera fu puramente ne gativa , laddove questi poterono crear de sistemi
che nè il tempo nè i seguenti sforzi dello spirito umano non giunse ro a far
dimenticare. A così bei cominciamenti fu possibile di sperare splendidi destini
per la filosofia italiana , ma la speranza anche allora, siccome spesso è, fu
ingannatrice, e l'avvenire mancò a così lieti principii . Del qual fatto non si
può trovare altrove la ragione che nelle condizioni della storia italiana e
nella intima natura della nostra filosofia . E, in vero se, come abbiam veduto,
la filosofia comparve in Ita lia quando il pensiero era abbastanza maturo per
siffatta ma niera di studii , quando questo momento fu arrivato, la na zione
incominciò a declinare . Quella maravigliosa abbon danza di vita che avea
alimentato il movimento dello spi rito e favorito l'innalzamento di tante
piccole nazionalità, nel cui seno eran comparse prima la poesia e le arti , e
poi la scienza , incominciava a indebolirsi e venir meno. AL XVII secolo la
conquista era compiuta; le antiche forme di reg gimento eran cadute o avean
perduto della loro importan za; e le nostre sorti incominciarono ad esser ,
quando più e quando meno , legate a quelle di altre nazioni. Strana cosa è
l'ammirazione di taluni storici , siccome DENINA , per la beata tranquillità ,
per i giorni di serenità e di pace che spuntarono a rallegrare il bel cielo
dell' Italia . Più stra na ancora è la maraviglia del TIRABOSCHI il quale non
sa comprendere come la letteratura , le arti e in gran parte le scienze sien
volte in basso stalo allora a ppunto che la pa ce di cui finalmente godea
l'irrequieta terra italiana , facea sperar nuovi progressi e quasi un novello
secol d'oro al nostro paese . Costoro non intendevano che quando una nazione
cade, cade di necessità con essa tutto quello che è intimamente collegato con
la sua vita e col suo essere . E in fatti allora la bella prosa italiana fini,
allora la poesia spirò sulle labbra di TASSO, e le arti andarono ogni di più
declinando. Allora incominciò la corruzione onde il sei cento è rimasto celebre
nella memoria degli uomini , sic come età di decadenza. E' sembra che l'antico
spirito let terario si rifuggisse un momento in Toscana per morir no bilmente
nel paese stesso che l'avea veduto sorgere , sic come la pittura cercò un asilo
in BOLOGNA e parve di nuo vo levar il capo fra le mani de' tre CARACCI, di RENI,
del GUERCINO e d'altri. Ma questo fu come l'ultimo sforzo del gladiatore ferito
, o come l' ultimo canto del cigno che si muore . Egli è facile il concepire
come una filosofia, la quale derivava da un movimento al tutto italiano, e che
pe rò era legata alla fortuna del pensiero onde ella avea da nascere, dovesse
cader di necessità il giorno stesso che quel pensiero veniva a perdere la
nazionalità e l'indole origina le . Il medesimo senza fallo sarebbe avvenuto
nell'antichità, ove la Grecia fosse caduta il giorno stesso che il gran disce
polo di Anassagora bevè la cicuta , perciocchè allora a Platone dell’ACCADEMIA e
ad Aristotile del LIZIO sarebbe mancato il tempo di compari re , siccome mancò
tra noi dopo la morte de Socrati italiani. Dopo questo tempo non comparve, si
può dire, nessuno il cui nome fosse degno delle antiche glorie, e le menti ita
taliane sembravano comprese da una mortale stanchezza, quando venne fuori tra
noi VICO quasi a protestare in nome di tutti e mostrare al mondo che il fuoco
sacro del pensiero non era già spento nel bel paese ma solo nascosto sotto
tiepide ceneri. Tra una gran folla di eccel lenti giureconsulti che fiorivano
di quel tempo in Napoli, dalla meditazione del diritto romano egli seppe
innalzarsi alla scienza delle leggi universali che reggono il cammino del
genere umano sulla terra , e dalla meditazione d'una sola città alle leggi
supreme della civiltà e del corso di tut ta quanta l'umana famiglia. Ma poichè
egli precorreva di due secoli i suoi contemporanei, fu non curato e poco avuto
in pregio da quelli , ed è stato sol da' posteri onorato condegnamente alla sua
grandezza ; gloriosa ma pur tar da e , che è più , inutile ricompensa al merito
degli uo mini veramente grandi , e a' sudori per esso loro sparsi in pro di chi
o non li comprende e per ignoranza o per mali gnità li dispregia , ovvero di
chi più non può giovarli . Parecchi anni dopo del VICO, e immensamente a lui
infe riore , comparve in Napoli GENOVESI . Del quale spiacemi di dover parlare
in modo che a molti sem brerà per avventura o affatto ingiusto o troppo severo
. Im perciocchè io penso che il suo merito, almeno comefilosofo, chè in quanto
economista non so , sia stato più del giusto esagerato de' suoi compatriotti, i
quali eran pure que' me desimi che avean veduto il Vico morir nella miseria , e
poco o niente avean creduto alla sua grandeza. GENOVESI poi, sendo prete ,
credeasi in certa guisa mail'obbligo di rico noscer l'antica metafisica,ma nè
seppe intender quello che veramente di più profondo trovavasi in essa , nè il
più delle volte seppe spogliarla dell' aridità delle forme, non ostante che non
poco pretendesse alla leggerezza dello stile , e fino alle facezie e alle
arguzie il più spesso di cattivo gusto e di sdicenti alla gravità delle materie
per esso lui trattate. Nato poi nel XVII secolo e fiorendo ne' principii del
XVIII , credeasi parimenti obbligato di seguir le dottrine del suo secolo ,
senza scorgere le conseguenze a cui quelle menavano . Per tal guisa mentre come
teologo avea in 198 napzi AQUINO (si veda), intendea come filosofo seguitare l’EMPIRISMO
di Locke e il RAZIONALISMO di Cartesio , allora nuovi e in voga oltremonti, e a
cui l'alta mente del Vico avea mosso infin dal principio potentissima guerra.
Diviso fra due estremi così opposti in sieme , e' travagliavasi pure a volerli
conciliare , e parvegli che l'autore del sistema delle monadi potesse
maravigliosa mente servire al suo scopo , e così volea conseguir la gloria ,
tanto per lui ambita , di libero pensatore e di teologo ; ma il tentativo
riescì vano alla prova . Chi in fatti apra i suoi libri di leggieri si potrà
accorgere d'un continuo vacilla re e di una enorme confusione, per la quale il
lettore si tro va , siccome l'autore dovea essere , in una strana tenzone di
discordanti dottrine che ben sono accoppiate insieme , ma non sono e non posson
essere ricondotte all'accordo e all'armo nia . E, in vero, quale è la teorica
onde egli ha arricchito la scienza ? quale è il sistema che si chiama dal suo
nome ? quale la scuola che ha fondata ? Se pure non voglia dirsi , come si
potrebbe in certo modo affermare, che egli sia sta to il primo che
incominciasse a introdurre fra noi la filoso fia del XVIII secolo , la quale
dovea poi più largamente spandersi e acquistar quasidiritto di cirtadinanza .
Concios siachè , spezzato il legame sacro che avrebbe dovuto legarci a' nostri
più antichi, rotta la tradizione e in certo modo spenta presso il più gran numero
la ricordanza delle passa te glorie filosofiche, parve più facil cosa il
domandare ol tremonti bella e fatta la filosofia , innanzi che travagliarsi a
crearla da sè; tanto più che tra noi l'uso delle profonde me ditazioni era
venuto meno , ei sistemi che lavoravansi oltre le alpi , tra per la loro comoda
facilità e per la popolarità che la letteratura francese ogni di più andava
acquistando, divenivano anch'essi popolari in gran parte dell' Europa. Or
questa filosofia era derivata direttamente da' sistemi del Bacone e del Locke ,
e più indirettamente da quello del Cartesio. Cartesio avea continuato nelle
astratte regioni della filosofia l'opera incominciata dalla Riforma in quelle
della religione, più astratte eziandio e al tempo stesso più positive delle
prime, che era senza più l'idea della libertà del pensiero . Cosiffatta idea era
nata da prima in Italia , do ve non chiedea altro che la libertà del pensiero
filosofico; anzi in sulle prime si fu contenti a quella solo della libera
discussione contro l'Aristotile delle scuole, salvo a costruire un nuovo
edifizio con le vere dottrine dello stesso Stagirita ovvero di altri filosofi
dell'antichità, siccome spesso si vide fare. Ma la Riforma, confondendo i
limiti di cose diverse , domandò la libertà della discussione religiosa , il
che era distrugggere la religione medesima , la quale per sua es senza è
fondata sulla fede , sulla credenza e sul mistero, talchè sì tosto che la
discussione e l'esame incomincia, la religione finisce, dove tra il credere e
il non credere , tra il si e il no , alcuna transazione non è possibile, e ogni
ana lisi l' uccide. Della religione avviene lo stesso che d'una leggiadra
fanciulla dalle guance rosee e da' capegli dorati , la quale sembra contaminata
dal solo sguardo troppo cupi do e indagatore dell'uomo; ma non si tosto
l'abbiam pos seduta e contemplati a nudo i misteri della sua bellezza , ogni
prestigio è finito . Così accade delle religioni , e tutte quelle che finora
hanno imperato in su la terra, vere e fal se , ne son argomento. I libri sacri
degli Ebrei eran conser vati nel luogo più recondito e segreto dell' arca ; l '
Egitto che può dirsi per eccellenza il paese della religione , è la patria de'
simboli e de' geroglifici , e in Grecia solo pochi savi dopo faticose prove
erano iniziati a' misteri di Samo tracia e di Eleusi . In somma è strana cosa
il credersi obbligato ad aver pure una religione e non volerla fondata sul
principio dell'autorità. E in questo veramente il principio cattolico è
superiore alle dottrine de protestanti e a quelle delle altre selte del
cristianesimo , come quello che non soffre di discen 200 dere ad alcuna
transazione , ma riconosce in sè la fonte di ogni vero , poggiandosi in sulla
autorità che è potentissi ma, come quella che ha per sè la costante tradizione
e l'im mutabilità delle dottrine. Ben cammina lo spirito umano , ben fa spesso
de' progressi nel suo cammino, e le scoperte si succedono e i costumi s'
ingentiliscono e le scienze si arricchiscono, e quasi pare che ogni verità sia
destinata a cedere il luogo ad un'altra nuova, e che lo spirito dell'uo me sia
in continuo movimentoed agitazione per avvicinarsi il più che a lui è conceduto
all' unico e immutabile vero , Ma dove è questo vero ? chi mai può dire di
averlo ve duto , o chi mai potrà vederlo e indicare agli uomini la meta di
tutti i loro sforzi in su la terra , siccome il sepolcro di Gerusalemme a'
Crociati e le coste di S. Domingo a COLOMBO? Cotesto continuo moto , coteste
secolari agi tazioni stancano l'anima , la quale ha sovente bisogno di fermarsi
pure a qualche cosa di fermo e indubitabile, e di trovar come un'oasi in cui
riposarsi dalle fatiche del suo penoso viaggio fra le certezze e i dubbi , fra
le affermazioni e le negazioni dell' intelligenza . Or la Riforma distrugge
questa proprietà assoluta ed es senziale d'ogni religione, gettandola in un
pelago più con trastato ancora che quello della scienza , e in una bolgia di
più inestricate e spaventevoli quistioni. Ma queste ardue pretensioni della
riforma furono rendute ancor più estreme dal Cartesio , il quale spinse tant'
oltre il desiderio della li bertà che volle quella stranissima di dubitar di
tutte quanle sono le cose create e le increate fipo delle sue conoscen ze ,
delle sue idee e quasi di sè medesimo, per cercar poi, se gli fosse riuscito,
di costruir da sè quello stesso che erasi dilettato con una nuova voluttà a
distruggere. E veramente uno smodato desiderio di azione sernbrami dover esser
in chi si piace di distruggere quello che egli ha intorno , per aver poi l'illusione
del creare , e , che è più strano ancora, creare partendo dal dubbio ; nuovo e
titanico esempio d' un sublime veramente dinamico, Che cosa è egli quindi
avvenuto ? Cartesio dovea egli so . lo ricostruir da sè l ' edifizio della
realtà e dell'universo con solo i mezzi che il ragionamento gli porgea . Ora e'
ci ha nella realtà delle cose alcuni fatti, siccome la religione , l'isto ria ,
le arti, i quali non sono opera dell'intendimento ovve ro della logica. E' ci
ha nella vita delle cose e degli avve nimenti che non potrebbero derivare e non
derivano dalla intelligenza individuale dell'uomo , quale essa alla logica e
alla psicologia apparisce, ma sibbene da altri principii e da altri motori , a
cui non si può che per diverse strade per venire . Per la qual cosa chi si
argomenti di costruir la realtà delle cose con solo le armi che quelle più
ristrette scienze gli concedono , e' non ginngerà mai ad avere essa realtà ,
quale nel fatto è, ma si quale con i suoi mezzi la si può formare, e priva
delle sue più nobili parti, come quel le che di gran lunga son superiori ad
ogni costruzione in dividuale . La quale difficoltà si può muovere a quasi
tutta quanta la filosofia moderna, e nonsolamente a quella del Cartesio a cui
essa è indubitamente debitrice di si superbe pre tensioni. Or delle due cose l'
una può avvenire; o che la fi losofia riconosca la sua impotenza e rinunzii
alla superba impresa, ovvero che presumendo troppo altamente di sè, nieghi di
riconoscer come vero quello che essa non ha po tuto creare. Egli è inutile il
dire che non potendo la prima ipotesi verificarsi per esser la scienza troppo
superba di sua natura e troppo sicura del fatto suo , resta che la seconda si
avveri . Pur tuttavia il Cartesio , siccome suole avvenire, per essere il
primo, non giunse alle assolute negazioni di cui era pure nel suo sistema il
germe , che poi seppe altri logicamente tirarne , allorchè si vide al fatto
qua' si erano le estreme , ma pur legittime conseguenze delle dot trine
cartesiane. Succedeva intanto in Inghilterra qualche cosa di simile a quello
che in Francia , comunque le forme potessero esser diverse. Quivi il Bacone
avea dichiarato quasi vana ogni scienza , il cui obbietto non potesse cader
sotto l' impero de’ sensi, quando Locke cercò modo di applicar questo me todo
alla conoscenza dell'intendimento umano , e fu di necessità costrello a vedervi
solo quello che ci ha in esso di più apparente, cioè il fatto stesso della
sensazio ne . Dalla quale , per sofismi che la scienza adoperi , non giungerà
mai a cavare altro che fatti singolari con cui è impossibile di venire ad
alcuna spiegazione probabile di fatti più alti e di più riposta natura, siccome
sono le religioni , le arti , l' istoria. Pure il Locke si ostinò nel suo cammi
no ma non seppe o non volle o temè di venire al termine estremo a cui quello
conducea . Non io vorrei entrar mal levadore della verità d'alcun sistema , nè
far l' apologista di una più presto che d'un' altra filosofia , ma mi sdegno di
certi acciecamenti della scienza e della cieca sicurtà con cui sovente si
ostina a perdurare in una via , quando bene si vegga ch'essa non possa condurre
se non alla negazione assoluta di certi fatti i quali essa scienza dovrebbe
bensì spiegare ma negare giammai, ove non volesse , come Ales sandro fece del
nodo gordiano , non sciogliere ma tor di mezzo, negandole , le difficoltà.
Pertanto quando il sistema del Locke ebbe passato lo stretto e ſu giunto sulla
terra a lui ospitalissima della Francia, non fu chi non gli facesse buon viso ,
e venne accolto non già siccome quegli che giunge nuovo in terra straniera , ma
come un antico amico che dopo lunga lontananza si riduce in patria . E veramen
te sua patria era per esso quella del Cartesio. E' si dice che ogni idea cerca
per per sua natura di venire ad atlo ed es ser messa in pratica. Or se ci ha
filosalia al mondo, de la quale si può affermare che abbia raggiunto il suo
scopo, è certamente quella della sensazione . Conciossiachè la rivolu zione di
Francia si argomento di rifare la civil comunanza secondo quelle dottrine, e
tulto un paese e una nazione no bilissima per amore di quelle fu veduta pronta
ed apparec chiata a rinunziare un bel giorno alla sua istoria , alle sue
tradizioni, alle sue antiche grandezze e alle passate glorie . Concessioni
senza fallo enormi , ma pur logiche , e per le quali può dirsi che Marat,
Danton , Robespierre e gli altri fossero gli estremi e più conseguenti
discepoli del Locke, del Condillac, del Voltaire e dell' Elvezio; sebbene al
fatto siasi veduto ove quelle teoriche peccassero, e come è pur mestieri di
tener saldi certi altri e più antichi principii , chi vuol conservare in vita
le umane società . Tale si era lo stato delle cose in Francia quando l'ITALIA
legata oggimai a' destini della politica straniera,cercò ezian dio fuori disua
casa una filosofia bella e fatta, e potè leggermente trovarla , siccome
l'abbiamo descritta , in Francia dove come in un nuovo Eden, cercammo l'albero
della scien za e della verità, benchè il frulto che ci regalo fosse morta le
per noi , come quello che fini di distruggere ogni germe di forza e di natio
vigore nella patria di Gregorio VII e di ALIGHIERI Vero è bene che la filosofia
della sensazione non può dirsi che in Italia fosse stata accettata ciecamente e
compiutamente , ma pur tuttavia ebbe abbastanza di forza per insinuarsi nell'
universale, e produrvi certa maniera di debolezza morale che è l'effetto della
mancanza d'ogni idea più elevata e più generosa. Ma comunque avesse avuto fra
noi gran numero di ammiratori e di adepti, pure, le più alte menti italiane non
si piegarono ad ab bracciarla compiutamente ancorchè non avessero saputo di
scostarsene del tutto. Solamente più tardi e quando già quel la filosofia
incominciava a venir meno nella sua stessa patria, si videro comparir tra poi i
saggi di COSTA (si veda), di GIOIA (si veda) e del napolitano BORRELLI che a
quel le dottrine più da presso si accostavano; tre menti temprate in modo da
non intendersi come abbiano potuto nascere nel la patria d’ALIGHIERI,
BUONARROTI, E VICO. I due ultimi – GIOIA
e BORRELLI -- scrivendo in una lingua a mezzo barbara , intendevano l'uno di
spandere e divulgar nell' universale la parte più positiva della logica del
Condillac, e l'altro di rianimare le teoriche del Cabanis , mercè qualche
dottrina , già forse combattuta e dimenticata, del Locke. D'altra parte il
primo, dico COSTA, purista ma pedante in letteratura , crede che la medesima
lingua che era servita ad ALIHGIERI per narrare i tre regni misteriosi della
morte, e descriver fondo a tutto l'universo; la medesima lingua che era servita
a MACHIAVELLI per disvelare i segreti della politica, e a VICO per dividare il
passato e l'avvenire , e far la Divina Commedia della vita , siccome ALIGHIERI avea
fallo quella della morte; polesse impunemente esser condotta a raccontare le
lepide trasformazioni della celebre statua, che a forza di odor di rosa dovea
tornare uomo, come quella dell'antico Prometeo, mercè la fiamma del sole. Tolta
per tal modo al pensiero l'originalità e l'indole nazionale , la letteratura di
rimbalzo dovea sentire i cattivi ef fetti dello stato morale del paese. Già
essa avea perduto la sua antica grandezza al XVII secolo , la sua fulgida
stella era tramontata , e quel soffio divino che ne' secoli prece cedenti avea
animato le nostre lettere parea si fosse ritira to dal cielo dell'Italia in
mezzo alla corruzione che invadea d' ogni parte. Per la qual cosa il XVIII
secolo , trovatici in queste condizioni, ci polè facilmente vincere , chè la
strada era fatta, aperta la breccia , e agevolmente si potea una cor ruzione
sostituire ad un'altra , un nuovo ad un antico vi zio . Allora si giunse
perfino a sostenere che l'italiana era quasi una lingua morta la quale non
potea più bastare ne alle nuove esigenze, nè alle nuove idee del secolo , nè
agli andamenti più svelti e più liberi del pensiero moderno, sic chè bisognava
al postuito rifarla , provvedere che ringiova nisse e sopperire alla sua
manifesta povertà . Non è chi ignori come CESAROTTI si e il massimo campione di questa
infelicissima scuola , e come con questo scopo dettò certo suo trattato che
intitolo: Saggio sulla filosofia delle lingue. Se non che giunta la cosa a
questo estremo punto , bisognava di necessità che , secondo il corso ordinario
degli umani eventi, ritornasse indietro. E già nella Francia in un altro ordine
di cose una maniera di reazione era incominciata , concios siachè l'opera
dell'impero può affermarsi non essere stata altro che una possente reazione
contro gli anni prossima mente passati, e una ricostruzion di quello che negli
eccessi della rivoluzione stato era distrutto e che pur meritava di esistere.
In ITALIA, strana cosa ! questa reazione incomincia DALLA LINGUA. Già poco
innanzi PARINI, ALIFIERI, e qualche altro aveano incominciato a levar la voce
contro la servitù dell'imitazione straniera, ma poichè il male non era an cor
venuto a quel punto estremo a cui le cose um ane deb bono arrivar per ritornar
indietro, le loro parole furono im produttrici di effetti immediati in su le
menti de' loro con temporanei , perchè le parole eriandio de' più grandi uomini
non possono riescir proficue ove non trovano gli animi ap parecchiati a
riceverle, e la pienezza de' tempi non è giunta per esse. E in vero quando le
cose furon più mature, del le voci men possenti di quelle che ho citate
poterono ope rare ciò che a'primi fu negato, chè trovarono un eco più fa cile
nell' universale . Vero è che quelli i quali osarono per i primi di opporsi
alla corruzion generale furon coverli di ogni maniera di ridicolo da' dotti del
tempo e regalati, per più derisione, de’ titoli di pedanti (che forse erano) e
di pu risti . Ma tutto fu indarno, perchè i puristi mostrarono un coraggio da
onorar qualunque eroe , e niente valse contro di essi. Or e' bisogna confessare
che costoro, non si credendo che i paladini delle parole , combatteano
veramente, senza pur sospettarlo, l'invasione dello spirito straniero , e, se
eran pedanti , significa che anche i pedanti possono talora aver ragione contro
le pretensioni della filosofia. Duraya giá da alcun tempo questa reazion
grammaticale contro la letteratura allora corrente , quando dalla remota
Calabria s' intese risuonare una voce , che protestava contro la filosofia del
senso e le sue eccessive pretensioni. Colesta da voce era quella di GALLUPPI,
rapito pur testè alla scienza a cui avea consacrato religiosamente la sua vita.
Per ben giudicar questo filosofo è d' uopo distinguere esattamente ciò che egli
ha negato da ciò che ha affermato, cioè la sua polemica col sensualismo dal suo
sistema . Con ciossiachè il suo vero merito si è quello d' essere stato il pri
mo in Italia a sentir la necessità d' una filosofia più ampia opporre alle
minute investigazioni del Condillac, delTracy e degli altri di quella scuola .
Cotesto è il vero merito di GALLUPPI, e PER QUESTO SOLO GLI E DOVUTO UN POSTO
NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA. Vero è che le sue armi sono il più delle
volte domandate alla scuola scozzese, o eziandio à quel medesimo Locke che era
il vero padre delle dottrine le quali egli volea combattere ; ma cotesto non
diminuisce nè il suo merito , nè l'obbligo che la filosofia italiana gli dee
avere. Medesimamente egli si è il primo che abbia in cominciato a divulgare fra
noi il nome e il sistema del Kant, e comunque non manchi chi sostiene che egli
me desimo non fosse giunto a penetrare compiutamente in tutti i misteri e gli
andirivieni e i tragetti della psicologia kan tiana , pure è cosa indubita che
egli si fu il primo ad occu parsene seriamente . Certo è , come innanzi
vedremo, che altri è riescito meglio di lui nell' investigar la mente del fi
losofo prussiano e nel misurar tutto il valore e le possibili applicazioni di
quelle teoriche, ma certo è pure che il vanto di essere stato il primo,eziandio
in questo , non può negarsi al calabrese. Quanto poi al suo proprio sistema
composto in parle dalle teoriche del Locke e in parte da quelle del Reid
[CITATO DA H. P. GRICE, “PERSONAL IDENTITY” – Mind, repr. PARRY], non credo che
volendo esser giusti si potrebbe parlarne con alcuna ammirazione .
Conciossiachè debolissima è la sua psicologia , e quasi nulla l' ontologia , la
quale egli spesso non sa distinguere da quella , e sì confonde stranamente le
quistioni che all'una e all'altra scienza si appartengono. Più confusa eziandio
è la logica , che egli discerne in logica pura e mista ovvero applicata, mercè
della qual distinzione che in niun modo non saprebbe sostenersi , è riescito a
trattar della prima delle pure forme del raziocinio, e ad ammassar nella seconda
un gran numero di quistioni di psicologia e di ontologia, che non sapea come
allogare altrove . Non parlo dello strano metodo con cui movendo dalla logica
pura e passando per la psicologia e l' ideologia, giunge alla mista, perchè
quello in cui mostrasi chiaramente tutta la debolezza delle sue teoriche , è
l'applicazione che pure si argomenta di farne alla morale e all'estetica .
Nell'estetica , per esempio, di cui si occupa sol di volo a proposito della
teorica della volontà , senza punto curarsi de' più alti problemi che in essa
si possono discutere , s'in trattiene a sostener l'opinione , un po' veramente
troppo vo luttosa , che il bello può esserci rivelato dalla sensazione del
tatto non altramenti che da quelle della vista e dell'udito, quasi non fosse chiara
la differenza che è tra certi sensi più altaccati alle necessità della vita e
però men nobili, da certi altri che servendo meno immediatamente al corpo son
più liberi, e, se così può dirsi , più spirituali . Del resto e' si può dire
che GALLUPPI non ha veramente una certa teori ca sul bello e sulle arti ,
ovvero se pur l'ha , dubito forte non sia quella del Blair e SOAVE, autore di
un'intera enciclopedia d'istituzioni elementari per l'educazione della povera
gioventù italiana, filosofo , matematico , grammatico, relore, novelliere ,
moralista e SOMASCO, che per molto tempo continuò e continua ancora in gran
parte, ad infestar co' suoi libri , i seminarii, i licei e le scuo le italiane.
Quanto poi al suo sistema sulla morale e sul di ritto, GALLUPPI non può dirsi
che siane uscito più felice mente che nelle altre parti della sua filosofia , e
chi volesse prendersi giuoco di lui potrebbe leggermente qui , come al trove,
trovarlo ad ogni pagina in contraddizione con sè me desimo. Non son molti anni
passati che il nostro filosofo in cominciò a pubblicare per le stampe
un'istoria della filosofia , ma sembra che per mancanza di soscrittori
l'edizione non potesse andare innanzi , sicchè dovette smetterne il pensie ro ,
e l' opera morì ia sul nascere . Se in questa , come nelle altre cose ,
l'induzione è buona, e si può indovinare che la scienza non vi abbia perduto
gran fatto ; chè l'autore vi fa cea mostra d' un'erudizione non molto riposta.
E' mi ricor da fra l'altro che nell'introduzione tentava ancora egli un'in
terpetrazione del mito di Prometeo, e giunse per non so che strane congetture a
persuadersi che il celebre prigioniero del Caucaso si era un anticore
dell'Attica, che aveaprima insegna to a quelle genti i primi rudimenti di
agricoltura e sopratut to la coltivazione del grano . Davvero mi sembra enorme
non veder altro che questo in Prometeo inchiodato al Caucaso, per le mani di
Mercurio , per comando di Giove e per decre to immutabile del destino, e mi
sembra più che enorme di struggere il più profondo mito dell'antichità , e
conver tire il figliuolo di Giapelo in un mietitore , con una rovinosa
metamorfosi che trasforma di botto il capo d'opera del teatro di Sofocle in
poco più di un' egloga. GALLUPPI e chiamato a dettar lezioni di filosofia nella
regia Università di Napoli, e la scelta del governo fu facilmente accompagnata
dagli applausi unanimi di tutti , imperciocchè si aspettavano cose grandissime
da un uomo la cui riputazione potea dirsi gigantesca tra noi , e sul cui merito
tanto più si giuraya, in quanto niuno avea ardito di dubitarne o di esaminarlo
seriamente. Ma ora dopo se dici anni di esperienza deve esser conceduto di
affermare che l'aspettazione pubblica è stata delusa, ed anche il suo
insegnamento non ha condotto a nulla di durevole. Quale si è in fatti la scuola
che egli ha fondata ? quali le verità che ha dato a svolgere a' suoi scolari ?
quali applicazioni si son potute fare della sua filosofia al diritto, alle
arti, alla politi ca , all'economia ed alle scienze naturali ? Per me io tengo
che una filosofia la quale non è feconda di applicazioni di ogni maniera, e che
si condanna a restare nel circolo delle quistioni puramente psicologiche, non
meriterebbe il super bo nome a cui aspira , e più presto dovrebbe aversi quello
di logomachia di scuola. Or tale si è quella del professor na politano. Però
non dee arrecar maraviglia se le sue parole uon hanno avuto un eco , se il suo
insegnamento è stato per duto , e se, fra tanti discepoli che han frequentato
la sua scuo la , non ce ne ha pure uno di cui si possa dire : costui conti
nuerà l'opera del maestro ; chè nessun'opera il maestro ha incominciata,
nessuno scopo si era prefisso, e niente vi ha di più inutile che le parole da
lui pronunziale per sedici anni sulla cattedra. Non ricorderò che di volo i
nomi di MANCINI, TEDESCHI, GRAZIA, e WINSPEARE. De’quali i due primi ,
siciliani, non possono dirsi , e sopratutto il primo, che seguita tori , ma nè
interi nè profondi, dell' eclettismo, e, poveri non meno di erudizione che di
potenza di mente, possono rassomigliarsi più presto a due scolari che non si
ardiscono dilungarsi dalle peste del maestro. Il terzo , calabrese di patria, è
un antico militare che ha finito per consa crare i suoi giorni alla filosofia ,
ed ha , già sono qualche anni passati, dato fuori per le stampe un'opera in cui
intende a richiamare in onore e il Locke e la filosofia dell'esperienza , ma
pur con tali modificazioni che agli occhi dell'autore do vrebbero allontanar le
conseguenze a cui que' sistemi finora han condotto , e che agli occhi degl'
intendenti di ta' discipli ne servono solo a metter l'autore , a sua insaputa ,
in con tradizione con sè medesimo , e l' un principio del suo siste ma in
opposizione con l'altro. WINSPEARE (si veda), giureconsulto di rinomanza in
Napoli, si è ancora egli rivolto agli studi della filosofia, e come frutto
delle sue meditazioni pubblica “Saggi di filosofia intellettuale”. La sua “Introduzione
allo studio della filosofia” contiene un compendio dell' istoria di cotesta
scienza da Talete in fino al Kant . I suo “Dizionario della Ragione” e un
dizionario di filosofia che si propone lo scopo di fermare per sempre le parole
della scienza e il loro significato , affine di renderne il valore così certo e
indubitato come è quello delle matematiche, e distrugger così alla loro
sorgente le quistioni e le difficoltà che lacerano da tanti secoli il seno
della filosofia. Imperciocchè e' sembra che l'autore ha per ferma la celebre
opinione di quasi tutto il XVIII secolo , e che ora alcuno non oserebbe di
sostenere, esser cioè le più profonde quistioni filosofiche niente altro che
controversie di parole, sicchè, fermato bene il valore di queste , abbiano
quelle immantinente da cessare. WINSPEARE traduce i “Nuovi Saggi” del
Leibnizio, dove da un vero modello della LINGUA FILOSOFICA ITALIANA, ancora
così povera tra noi (non credano i lettori che io esageri) , pro ponendosi di
più di venir mostrando ne' suoi comenti quello che ci ha di buono e quello che
ci ha di vieto e di rancidu me metafisico nelle pagine del filosofo tedesco.
Ancora qui non fo quasi che ripetere le modeste parole dell'autore. WINSPEARE
expone il sistema del Reid. E qui immagini il lettore il sistema del filosofo
scozzese, che non suole esser creduto , ch' io mi sap pia, de' più oscuri ed
astrusi, esposto compendiosamente dal nostro barone, in un gran volume in
quarto; chè questa è la dimensione dei suoi fratelli già venuti alla luce.
Secondo WINSPEARE e' non ci ha che due uomini al mondo a cui la scienza abbia
veramente da essere obbligata; e di costoro il primo visse , già sono trenta
secoli passati, in Atene, e l' altro nacque in Iscozia. Questi due uomini sono
Socrate e Reid . Solo il Leibnizio potrebbe esser terzo tra costoro, ma egli è
troppo lordato di metafisicume per essere accettato interamente dall' illastre
giu reconsulto ; e però, come è detto , e' si propone di purgarlo. Salvo
adunque il greco, lo scozzese e il tedesco, così purificalo , tutti gli altri
uomini che han consacrato la loro vita alla scienza e che son giunti a rendere
immortali i loro nomi, voglionsi tenere comepericolosivisionarii, i quali
ovvero s'ingannano per difetto di giustezza di mente , ovvero si lasciano
strascinare dalla loro immaginativa. A purgar la scienza da questi malaugurati
sogni è sopra tutto ordinata ľ opera del WINSPEARE. Innanzi di lasciar Napoli
non posso trascurar di ricordare il nome di un uomo, forse poco conosciuto
altrove, e che eziandio tra noi non risuona molto, ancorchè il meritasse . Ma
in tutte le cose la fortuna è signora , ed anche per giun gere alla gloria è
necessaria certa maniera d'impostura. Co stui è COLECCHI, il quale, sendo già
profondo matematico, allorchè si rivolse seriamente alla filosofia non si potè
star contento all' empirismo che forse prima avea seguito, e si rivolse in
quella vece al sistema del Kant. Con ciossiachè non ci ha niente in quella
filosofia che possa ap pagar la mente di un matematico usata alle astrattezze e
a ricercar le proprietà più essenziali e immutabili delle cose, laddove le
analisi severe ed aride del Kant più ritraggono da' metodi matematici e vie
meglio possono contentare le menti che a quelle sono avvezze. COLECCHI sa penetrarvi
così addentro , che quasi le fece sue proprie , e spesso osò modificarne alcune
parti e mutarne alcune altre : tanta è la dimestichezza che egli ha acquistata
col suo autore , ancor chè ardisca di rinnegarlo e levi alto la voce a sostener
che e' non è kantista, per alcune divergenze che separano in sieme le loro
dottrine . Ma, che che egli si dica, non si po trebbe seriamente da altri
dubitare seegli sia o pur no. Due sono i punti principali della filosofia del
Kant, e l' uno si è la sua teorica della ragione soggettiva, e l'altro dove
distin gue la parte mutabile e l'immutabile delle umane conoscen ze, quella cioè
che da' sensi deriva e quella che trae altron de la sua origine ; cominciando
egli dal porre come fonda mento del suo sistema che tutto il sapere incominci
con l'esperienza ma non tutto da quella derivi. Cotesto è forse il più
importante e il più vero di tutti i principii kantiani , comunque sia assai più
antico della critica della Ragion Pura . Il Leibnizio, fra gli altri, avea già
insegnato l'anima escir dalle mani del Creatore con tutte quante le idee
necessarie ed assolute, come quelle che compongono la sua propria essen za ; ma
che, oscurate e quasi sepolte sotto il peso della ma teria , han bisogno che
l'esperienza venga a discovrirle e quasi a far che lo spirito se ne avveda,
benchè da quelle non derivino. A questa guisa appunto lo scultore, se una
figura fosse impressa da natura nelle parti più interne d' una pie tra, ove
questa tagliasse e levigasse, non sarebbe egli autore di essa figura , ma si
cagione che quella fosse manifestata. E, assai prima del Leibnizio, la medesima
dottrina può tro varsi insegnata da altri più elegantemente e con maggior di
sinvoltura. Platone nel suo nobilissimo dialogo del Fedone, nel quale narra ,
come tutti sanno , della morte di Socrate e delle cose da lui discorse con i
discepoli e con gli amici in nanzi di ber la cicuta , dimostra siccome è nelle
nostre menti un' idea prima dell' uguaglianza (autò pò trov ) così astratta e
generale che non si può in niun modo confondere con l'idea di duecose qualunque
che sieno eguali insieme, come due pietre, due leyni o altro. Perchè dove
quella è tale che noi sempre allo stesso modo la concepiamo e di necessità non
possiamo comprenderla altrimenti col pensiero , questa per contrario è mutabile
, sendo che il fatto quotidiano ne mo stra che quelle medesime cose , che pur
ieri ne pareano uguali, ne sembrano altra volta disuguali, senza dire della
differenza de' giudizii de' diversi uomini, a cui le stesse cose appaiono
diversamente. Onde egli conchiude l'uguaglianza assoluta non si dover
confondere con quella delle singole cose a cui questo attributo ci sembra di
convenirsi. Le medesime cose Platone dimostra del bello , del giusto , del vero
e di altre cosiffatte idee, che non si possono confondere con gli obbietti
sensati , a cui si trova che solo per contin genza alcuno di que' modi di
essere si può attribuire, e che sono come un debil raggio di quegli eterni tipi
che sopra di esse cose mutabili vengonsi a riflettere , e che di quelli solo
per accidente partecipano ( METÈYouTQ ). Se non che que sti obbietti mutabili e
contingenti son come lo strumento per cui mezzo l' anima giunge ad aver
coscienza delle idee , sendo che, ogni volta che le cose uguali, belle, vere e
giuste le son mostrate da' sensi, si vengono risvegliando in lei itipi eterni a
quelle corrispondenti , i quali pur erano in lei ab eterno, ma si vennero
oscurando il giorno che ella , lasciata la sua celeste dimora , discese nella
prigione del corpo la tal guisa, secondo il divino Platone , il sapere è solo
ricor danza, e l'apparare è ricordarsi. L'altro punto principale della
filosofia del Kant, e pro prio a lui solo , si è la teorica della ragione che
egli tiene per subbiettiva e inetta a farne conoscere altro che le appa renze,
e non mai la sostanza delle cose . Teorica d'importanza principalissima, come
quella da cui dipende il sapere se l' uo mo ha diritto a credere di poler
giungere alla conoscenza di qualche verità , ovvero se, condannato a vivere fra
illusioni e apparenze, dee rendere immagine del cane della favola, il quale
credea un altro cane da lui distinto la sua propria immagine che vedea
riflettuta nelle onde del ruscello . Chi concede questo punto al Kant, gli dee
conceder tutta la sua filosofia e dee esser tenuto per kantista, siccome io
affermo di COLECCHI, quali che fossero in parti secondarie le loro di vergenze
. II COLECCHI pubblica un gran numero di articoli su di versi subbietti di
filosofia speculativa e morale che poi ha raccolti in due volumi col titolo di
quistioni filosofiche, ove assai spesso prende a combaltere GALLUPPI, e se il
faccia con buon successo , e se gli avvenga sempre di riportar facile vittoria
sul nemico èinutile il dirlo. Conciossiachè il si stema slegato e debole del
filosofo calabrese mal potrebbe resistere a colpi serrati della dialettica del
suo avversario. A questi due volumi dovea tener dietro un terzo di quistio ni
estetiche , di cui mi riesci di aver le bozze di stampa per le mani , poichè il
libro non potè veder la luce . Cotesta este tica , come tutto il sistema del
nostro filosofo , è quella me desima del Kant; un deserto di astrazioni senza
mai incon trare un'oasi ove lo spirito possa alquanto rinfrancar le forze .
Egli è quasi che inconcepibile come quel divino rag gio che domandiamo
bellezza, e che risplende misteriosa mente nelle volte de' cieli e negli occhi
delle fanciulle , pos sa esser materia su cui s'innalzino de' formidabili
edificii di aride astrattezze , con le quali è al postutto impossibile di dar
pure una spiegazione del bello e dell'arte, alla guisa che è impossibile di
trovare il mistero della vita nel cada vere , o quello della luce nelle tenebre
. Mentre questa fortuna si aveano in Napoli le discipline filosofiche , nelle
altre parti d'ITALIA non mancarono di esse re , ove più e ove meno,
splendidamente coltivate, e in que sti ultimi tempi videro levarsi chi di gran
lunga si lasciò in dielro i Napoletani. In Italia è succeduto al nostro vivente
un fatto il quale è in manifesta opposizione con quello erasi veduto finora
nell' istoria della nostra filosofia , la quale in fino dalla più remota
antichità , ha avuta nel mezzodì della Penisola un' indole diversa che nel
settentrione. Colà il razionalismo ha dominato , qui la scienza ha più presto
incli nato al positivo e alla pratica; quasi queste due diverse ten denze della
filosofia si fossero geograficamente diviso il ter reno . E in vero mentre
nell'una parte venivan su LA SETTA DI CROTONE E QUELLA DI VELIA, nell' altra la sapienza
etrusca s'introducea in ROMA, che può dirsi il paese per eccellenza della
politica, della guerra e della legislazione. Vero è che in processo di tempo i
due estremi si andarono ravvi cinando , e l' idealismo si accostò al suo
contrario e quindi risultò l'indole vera della FILOSOFIA ITALIANA, che è
insieme speculativa e pratica , come quella che domanda i principii ma non
dimentica le applicazioni , e , se intende di levarsi. sino al cielo in su le
ale della speculazione non perde però di vista la terra . Se non che è
innegabile che non ostante il ravvicinamento di queste due maniere di
filosofare, pure la differenza non fu mai cancellata del tutto, e i filosofi
del mezzodi restaron sempre più razionalisti , e più pratici quel li del
settentrione ; testimonii VICO e BRUNO da una parte, MACHIAVELLI e POMPONAZZI,
per non citarne in fioiti, dall'altra . Ora al nostro vivente , come dicevo ,
il fat to inverso si è veduto avvenire , chè i filosofi Napoletani non si son
saputi dipartire dalla psicologia , e quelli della più alta Italia hanno ardito
di sollevarsi infino all' ontologia ; quasi il coraggio delle ardue
speculazioni , venuto meno a noi , si fosse rifuggito appo gli altri. E questi
sono SERBATTI, ROVERE, e GIOBERTI. SERBATI ricorda in certo modo i nostri buoni
filosofanti delle scuole, i quali chiusi fra le mura di un chiostro ,
alternavano la vita fra la preghiera e la meditazione , e vedeano scorrere in
silenzio i loro giorni senz'altro pensiero che quello della chiesa e della
scienza. Così il no stro abate, pievano di un piccolo villaggio in quel di
Novara, si è dedicato tutto quanto alla religione e alla filosofia, con una
fede e un' anbegazione che ricordano altri tempi ed altri costumi . Egli era
già conosciuto per altri scritti di filosofia speculativa e di diritto pubblico
e naturale , quando pubblica per le stampe una sua opera sull'origine delle
idee la quale per la profondità delle dottrine , per la forza della dialettica
e per l'erudizione non comune di cui è ricca nel fatto dell'istoria della
filosofia, e massime della scolastica, merita bene di essere allogata fra le
più importanti che in questi ultimi anni han veduto la luce. Gran danno che sia
di faticosa lettura per l'abbondanza non felice e del lo stile e delle parole .
Il problema che l'autore principalmente discute in questo suo saggio è quello
onde è travagliala tutta la filosofia, e che più specialmente occupa la
moderna, dico la questione della realtà della conoscenza. Gran cosa è veramente
cotesta che molesta siffattamente la scienza . Noi siam circondati anche a nostro
malgrado da una tur ba infinita di diversi obbietti ordinati quale alla
soddisfazio ne de' nostri bisogni , e quale a render lieti o miserevoli i pochi
giorni che dobbiam passare su' lagrimosi campi della terra , che pur tanto
amiamo ed a cui niente non ci avrebbe da legare. Or chi mai ha dubitato della
realtà di tutte queste cose ? Certo se a taluno venisse talento di farlo e di
dubitar seriamente se esista la donna che egli ama , l' inimico che odia , le
catene che legano i suoi piedi o l'oro che brilla nella sua scarsella , e' non
si dubiterebbe pure un momento di di chiararlo mentecatto , e condurlo di
presente all' ospedale dei matti . Or la filosofia si è condannata di buona
voglia a du bitar di queste cose e ad ignorar quello la cui ignoranza fa rebbe
stimar folle un uomo agli occhi de' poveri di spirito. Nè è da credere peròche
vengada modestia questo dubbio della scienza , anzi è figliuolo della superbia.
Conciossiache la filosofia non vuol già conoscere le cose alla guisa medesi ma
che gli altri uomini, ma si bene rendendosi ragione e chie dendo una
spiegazione possibile di tutto che l'uomo pud sa pere. Quindi è addivenuto che
essendo gli obbietti esterni parte della conoscenza, la si è imposto il dovere
di non cre dere diffinitivamente in essi , o almanco seriamente dubitar ne in
fino alla dimostrazione. E però si è messa con una calma edificante a discutere
la questione di sapere se ci ha niente che esista fuori dello spirito. Soventi
volte le armi le son mancate per provar quello che volea sapere, e allo ra più
presto che essere incredula a sè medesima o infedele alla sua divisa , ha
consentito ad accettare il nulla con una rassegnazione da disgradare un
anacoreta , e a conchiudere che il genere umano s'inganna visibilmente allorchè
crede alla realtà delle cose . O alliludo ! Or l'opera di SERBATTI è
precipuamente ordinata all'esame di una cosiffatta quistione, a cui egli giunge
incominciando da una rassegna istorica de' varii sistemi antichi e moderni che
su lo stesso problema si son travagliati , i quali tutti esamina con gran
sottigliezza e con mirabile profondità ed erudizione . Di scute da prima la
quistione dell'origine delle idee nella mente; quistione strettamente legata
con quella della realtà della conoscenza, e fa vedere in una maniera non tolta
da altri , come i filosofi di lutti i tempi sono andati errati in questo , o
per eccesso o per difetto , dappoichè alcuni non vollero riconoscere alcuna
idea primiliva nello spirito , ed altri cre dettero di vederne in maggior
numero che veramente non sono . Lontano dall'errore degliuni e degli altri , SERBATTI
ni ne ammette sol' una , cioè ľ idea dell'essere , forma uni versale de' nostri
pensieri, idea primitiva e necessaria dello spirito , la quale non ne suppone
alcun'altra prima di sè , ma bene da tutte quante le altre è supposta , come
quella che alla loro formazione è necessaria . Or su questa idea riposa la
realtà delle conoscenze, sendo che essa rinchiude il con cetto dell'esistenza ,
anzi è l'esistenza medesima ; per suo mezzo noi possiamo giungere dal mondo de
pensieri a quel lo dell'esistenza, da' concetti a ' fatti. Non io qui intendo
di difender l' una ovvero l'altra opi nione, ma poichè mi propongo solo di
raccontare, non posso tralasciar di riferire una opposizione cheè stata fatta
alla teo riea detta di sopra . Quale si è la difficoltà arrecata in mezzo dagli
avversarii della realtà ? Noi non sappiamo le cose , e'di cono, ma sì le idee
che ne abbiamo; o come si passa all' obbietto da quella rappresentato ? su qual
ponte si supera la distanza che è da un'idea ad un fatto ? Or la vostra idea
dell'essere, si è opposto a SERBATTI, non è punto diversa dalle altre , e
indarno vi dibattereste a dimostrare che è di differen te natura; e, se è vero,
come è, che la è generale e necessa ria , non è però vero che a differenza
delle altre idee di que sta medesima natura , sia di per sè stessa obbiettiva e
atta a porci in relazione con le cose reali . Sicchè l' antica quistione non è
stata per voi risoluta , anzi rimane tultavia intera , po tendosi opporre
all'idea dell' essere le medesime difficoltà che alle altre idee, non ostante i
vostri sforzi per sostenere il con trario . Vero è che l'autore , dopo cinque
faticosi volumi , con una rara, non so se io dica superbia o modestia ,
dichiara che non è leggiera cosa l'intendere la sua dottrina , e che egli in
vano si è studiato, per l'impossibilità della cosa , di esser chiaro e
intelligibile . Non tacerò che a taluno è sembrato di vedere nell' opi passa
dall'idea e nione di SERBATTI una pericolosa teorica da cui agevolmen te si può
sdrucciolare nel panteismo . Ma a questo proposito fa d'uopo por mente a tre
cose; la primache siffatte conse guenze senza fallo non sono state pensate dal
suo autore , e che se egli giungesse mai a persuadersi che quelle legitti
mamente si possono far discendere dalle sue opinioni , certo pon indugerebbe
pure un momento a ritirarle. La seconda cosa si è che non si vogliono tormentar
troppo le parole le sentenze degli scrittori per condurli in una maniera o in
un'altra a certi estremi punti a cui quelli non vogliono giungere e a cui
regolarmente non si potrebbe menarli sen za i sottili sforzi d'una dialettica
che può divenire per que sto petulanti ; chè da tutto si può giungere a tutto.
Ultima mente non bisogna dimenticare che il panteismo oggidì è lo spauracchio
universale, e che troppo facilmente si crede di poterlo trovare in tutte le
opinioni; e se è vero che parecchi de'sistemi moderni v’inchinano, è pure
strano vederlo sem pre e da per tutto. ROVERE pubblica in Parigi il “Rinnovellamento
dell'antica filosofia italiana.” Oltre al nome dell'autore che già risuona
nella nostra penisola, cotesto titolo contribuì non poco a chiamar l'attenzione
dell'universale sul saggio di ROVERE. Conciossiachè si credette di vedere certo
orgoglio nazionale , e quasi una bella virtù cittadina nell'idea di richiamare
in onore e in vita la nostra antica filosofia. La ste rilità pedantesca de'
nostri filosofi non avea fatto escirle loro scritture dai limiti della scuola,
e privatili così d' ogni maniera di popolarità in un paese in cui gl’uomini
consacrati specialmente agli studii filosofici, non sono abbastanza numerosi,
perchè levi gran grido nell' universale un saggio di materie così speciali. Ma
questa difficoltà ROVERE riesci a superar felicemente . Or vediamo qual sia la
sua idea. I filosofi italiani non solo sono slati primi nell’ordine del tempo a
incominciar la guerra contro la scolastica, da cui poi dovea venir fuori la
filosofia moderna, ma ancora sono entrati innanzi agl’altri per la profondità e
dottrina con la quale seppero eziandio trovare il vero metodo con cui
unicamente le scienze speculative possono giungere a glorioso porto,
riconducendole all'osservazion della natura, da cui le astrattezze della scuola
aveanle allontanate; metodo di cui la filosofia moderna mena gran vanto come
della più bella delle sue invenzioni , e della sola armecon cui sipossa
giungere alla scoperta della verità . Ancora fecero di più, e non contenti ad
indicare altrui la strada che si ha da tenere, si posero animosamenle in quella
, e ri ducendo ad atlo il pensiero del loro metodo , riescirono a crear de '
sistemi a niuno secondi di quanti ne ' tempi posle riori si son veduti venir
fuori. In questi sistemi certamente molte cose sono da rigettare, molte da correggere
e da mo dificare , ma molte sono eziandio accanto alle prime, le quali meritano
ben altra cosa che dispregio e noncuranza. La fi losofia moderna avrebbe da
studiare attentamente in quelli per tirarne tutto il buono che vi è , e far
tesoro delle altis sime verità che soventi volte han costato a' loro scoprilori
la libertà o la vita . Sopratutlo gl ' Italiani non dovrebbero lasciar perire
sotto a' loro occhi la grande opera incomin ciata da' loro avi con tanto ardire
e potenza di mente, anzi dovrebbero alacremente continuarla , e in vece di
tener die tro astraniere filosofie e trapiantarle siccome piante di al tro
clima della loro patria, dove mai non potrebbero alli gnare siccome frutto
indigeno e nazionale, bisognerebbe che si adoperassero a tult' uomo di
richiamarli in vita e risve gliar la nobile tradizione d'una scienza pur nata
fra essi . Le altre parti del saggio di ROVERE son destinate a svolger la vera natura di
questo metodo, che , secondo lui , è quello dell ' osservazione , il quale a
molti può parere non acconcio a condurre la scienza là dov'essa dee pervenire ,
e che a me sembra egli confonda troppo con i procedimenti I delle scienze
naturali. Ancora ne viene mostrando l' appli cazione a parecchie quistioni
speciali , che egli si studia di risolvere seguendo per lo più le orme de'
nostri antichi filo sofi. Per menon esaminerò sino a che punto i grandi filo
sofi italiani del risorgimento abbian seguito il metodo di os servazione,
siccome ROVERE l' intende, nè se questo me todo, sì utile d'altra parte alle
scienze fisiche, sia sufficiente alle metafisiche, chè cotesto mi menerebbe
lungi dal mio pro ponimento e getterebbe in quistioni che non ho in animo di
discutere ; solo dirò qualche cosa del proposto risorgimento della nostra
antica filosofia . L'idea di ROVERE si è di ri chiamar in vita tra noi le
nostre tradizioni filosofiche, per chè la scienza si abbia nella penisola un
tipo veramente ita liano e un'indole nazionale. Egli è indubitato che ogni pae
se ha da natura una particolar fisonomia,per la quale si di stingue da tutti
gli altri , e che siccome è impossibile di can cellare del tutto così è vil
cosa di non rispettare come up dono della Provvidenza, e di non custodir
gelosamente come un sacro pegnocontro ogoi invasione straniera. Nè questa
differenza d'indole si mostra solamente ne' costumi e nelle abitudini di ogni
popolo, negli istituti e nelle maniere este riori della vita ma eziandio in un
modo speciale di vedere e d' intendere e di rappresentarsi le cose . Gli obbietti
sì del mondo fisico che del morale , si possono giustamente chia mar poligoni,
in quanto che ciascuno ha molti diversi lati, e può , rimanendo sempre il
medesimo , esser considerato in mille guise diverse , e produrre , secondo
queste diversi tà , mille diverse impressioni. Or quanlo più le cose posso no
essere variamente riguardate , tanto più vasto campo ha l'indolenazionale di
ogni popolo di spaziarsi e mostrarsi aper tamente. Nella letteratura, per
esempio , esercita vastissimo impero, perchè quella abbraccia tutta la vita ,
nè ci ha cosa che possa esser considerata sotto più diversi aspetti che la vita
umana e i suoi infiniti accidenti , da cui ogni letteratu ra direttamente sorge
, facendo ritratto dalle più intime qua lità di essa vita . Per contrario poi
quanto meno di realtà è negli obbietti che cadono sotto la considerazione e Y
opera dello spirito , e quanto più essi son semplici o astratti; tanto più si
viene a restringere il campo in cui l'indole nazionale si può mostrare. Cosi,
appena se ne può scorgere le tracce nelle matematiche e nelle scienze naturali,
occupandosi quel le di astrazioni nude e di semplici concetti e queste delle
qualità fenomeniche ed esterne de'corpi, quali cadono sotto i sensi. Ma
altrimenti avviene della filosofia perchè i prin cipii comunque razionali di
cuiessa si occupa, son pieni di vitae di valore, comequelli che debbonoservire
alla spiegazio ne di tutti i fatti umani e cosmici dell'universo , dell'uomo e
delle civili comunanze. Certamente non ci ha nè ci po trebbe essere una verità
italiana e una tedesca, ma ci ha una diversa maniera per gl’Italiani e per i
Tedeschi d'intendere i medesimi veri , di considerar gli stessi fatti generali
, sic come di dare più importanza a una specie di essi innanzi che ad un'altra.
Di qui deriva che si può giustamente parlare d'una filosofia inglese, francese
o tedesca , dicendosi, per esempio, che la tedesca èpiù idealista e razionale,
dove che l'inglese inclina in quella vece a starsene più dappresso a ' faiti ed
è quindi più sperimentale o empirica ; differenze che trovandosi nell'indole
della scienza, mostrano che ci abbia da esserne un'altra corrispondente
nell'indole delle due nazioni. In questo modo solamente si può intendere la na
zionalità della filosofia , sendo però necessario di far due os servazioni su
tal proposito. La prima si è che non bisogna credere alla necessità di un
intero isolamento scientifico , ov vero credere che ogni idea straniera possa
esser contagiosa e opporsi al libero procedimento del pensiero indigeno e na
zionale. La verità non è pianta che germoglia in un solo paese, ma in tutta la
terra, nè è proprietà di un solo uomo o d'un solo popolo ma di tutto quanto il
genere umano; ciascuno può trovarne una parte, e tutti gli uomini sono ob
bligati di riconoscerla per tale, ove che la sia , e di abbrac ciarla e farle
plauso e festa. E' bisogna cercarla da per tutto, e lo spirito allorchè è forte
e sicuro di sè medesimo , le darà a sua insaputa quell' atteggiamento
particolare ,e quasi direi quel colore morale cheèfigliuolospontaneo
dell'indole di uno o di un altro paese. Laseconda avvertenza da fare è che ogni
consiglio su tal proposito dee tornare quasi inu tile , e che quindi debba
riescir vano il raccomandare ad un popolo di custodir la sua nazionalità nella
filosofia . Basta es sere veramente un popolo sano e robusto e sentirlo e glori
arsene per avere untipo da sè e conservarlo senza fatica, e quasi non
avvedendosene , in tutte le parti della vita ed eziandio nella filosofia. Ma se
un paese è debole e corrotto , se già ha perduto la sua indole nativa , i
consigli de'dotti saran vani, perchè avendo quelloperduto la suaoriginalità
nelle al tre cose,non gli sarà possibile dicustodirla nella filosofia più
presto che nella letteratura , nella politica e nelle arti . Del resto ho
voluto dir queste cose più presto a proposito di ROVERE che contro di lui
perchè nè l'uno nèl' altro de' due rimproveri gli si può fare. Quanto poi
all'idea d' incomin ciar la scienza ove l'hanno lasciata i nostri maggiori ,
certo GL’ITALIANI d'oggidi avrebbero ben torto di dimenticare i no bilissimi
lavori de'loro padri e le dottrine onde hanno splen didamente arricchito la
scienza , ma è da vedere se per far questo si convenga rinunziare a tutto
quello che lo spirito umano ha scoperto in processo di tempo, perchè non è ve
rosimile che sieno tornati vani tutti i suoi lavori per tre se coli e più.
Credo che non sia questa strettamente l'opinione del nostro autore, ma domando
se vi si potrebbe giungere partendo dalla sua. Eccomi finalmente arrivato a
quello de' filosofi italiani no stri contemporanei che è giunto ad ottenere una
fama uni versale fra noi. Ciascuno intende che io parlo di GIOBERTI, il cui
nome da qualche anno risuona univer salmente dall' uno all'altro estremo della
penisola . Quindi è che ciascuno si è creduto in diritto di dar la sua opinione
e il giudicarlo a sua posta , onde egli si è trovato esposto a ' più
contraddittorii giudizii , alla più inetta critica , alle noiose esagerazioni
del dispregio ed a quelle ancor più no iose della stupida ammirazione. Quanto a
me, nemico come io sono d'ogni opinione eccessiva che si lasci volenlieri ac
cecare all'odio e all' amor di parte , a' nuovi ed a' vecchi pre giudizi , dirò
franco il mio parere per un uomo di un merito grandissimo, quantunque io credo
che sia ancor troppo pre sto per poterlo ben giudicare, e che di lui meglio i
posteri che i contemporanei potranno portar sentenza , perciocchè intorno a
molte sue dottrine bisognerebbe aspettare i suoi nuovi schiarimenti e la prova del
tempo . Intanto per por tare in fin da ora un giudizio più o meno esatto di
quello che egli è, sarebbe mestieri di esaminare sottilmente il suo yalore come
scrittore, come filosofo e come politico. Io, se condo il mio istiluto, non
posso toccare che pe' generali della due prime parti e quasi niente della terza
. Come filosofo, GIOBERTI appartiene senza fallo alla no bilissima schiera de’
BOTTA, de’ LEOPARDI e degli altri che in questi ultimi tempi han cercato,
ritirando la lingua italiana a'suoi principii, di renderle l'antico splendore ,
la forza, l'e leganza e la vivacità che ammiriamo ne'nostri grandi scrit tori
de'secoli passati , e che le aveano negato la fiacchezza degli animi e i
pregiudizi comuni del secolo XVIII e de’pri mi anni di quello in cui noi
viviamo , e che ancora regnano appo la maggior parte de ' filosofi di cui
innanzi è discorso , la cui lingua, e più ancora lo stile , si penerebbe a
crederlo italiano , e si direbbe compassionevole , se la pretensione non non lo
rendesse più tosto ridicolo. COSTA può dirsi il primo che in questi ultimi
tempi tratta di filosofia con correzione di lingua ed eleganza di stile, ma
oltre a questi pregi , non si può dire che abbia nessuna di quelle doti che co
stituiscono il grande filosofo. La medesima cosa può affer marsi di ROVERE la
cui lingua è pura, lo stile esalto ed elegante. M invano si cercherebbe altro
nella sua prosa. SERBATTI, senza aver nè l'uno nè l'altro di questi pregi, è di
una tale abbondanza, che e'si potrebbe comodamente ridar re alla metà i volumi
delle sue opere senza chiedergli il sa grifizio pur d'una idea. Tull'altra cosa
è di GIOBERTI nelle cui pagine si trova ben altro che purezza ed eleganza sola
mente; qui è ricchezza smisurata , nobiltà e vera eloquenza , tanto che si
potrebbe citar de' passi da valer come modello da imitare. Conservando il tipo
originale e l'antica grandezza della nostra lingua, e’la tratta pur tultavia
come la lingua d'un popolo che è ancor vivo, che ancora ha uno splendido posto
nel mondo, e che forse a nuove e più luminose sorti è destinato da Dio . Chè
nella nostra penisola accanto a quelli che nel fatto della lingua si lasciano
andare ad ogni maniera di novità, ci ha degli altri che per paura di
corromperne la natia purezza, non si vorrebbero allontanare da' limiti del
trecento , e si spaventano d'ogni innovazione, come se fosse morta la lingua
parlata da ventiquattro milioni d'uomini. Niuno di questi rimproveri non può
farsi a GIOBERTI, a cui niente manca per esser giustamente allogato tra i
filosofi di prim'ordine . Pure non saprei negare che, sia effetto del l'ardente
immaginativa, sia naturale impazienza e difficoltà di contenersi , si abbandona
talora un po ' troppo alla sua ine sauribile abbondanza, sì che si sarebbe
inclinati a trovare il suo stile in certi luoghi aleun poeo declamatorio . Non
su che spirito di sofisma viene talora segretamente a turbarne l' ordinaria
chiaroveggenza , per modo che per volere aver troppo compiuta vittoria de' suoi
avversarii e spingerne le opinioni alle più lontane e assurde conseguenze,
scaglia con tro di essi ogni maniera di opposizioni e di ragioni e di ar
gomenti , della cui perfetta convenienza si potrebbe talora dubitare. Ma questo
non giunge ad oscurare per niente gli altri pregi grandissimi che sono in lui .
Dalle cose che abbiamo così brevemente discorse intorno alla presenle filosofia
italiana, si può vedere come i nostri filosofi, attenendosi strettamente solo
alle questioni psicologi che , ovvero non osando che modestamente occuparsi di
quelle di altra natura , si son tenuti lungi da' più alti problemi ontologici
sull'origine , l' essenza e le leggi della realtà , quistioni in cui risiede
tutta la grandezza e l'importanza della filosofia e che l'hanno sollevata a un
sì alto posto nel l'antichità e nel medio evo. In questi ultimi tempi i Tede
schi sono stati i primi ad avvedersi che la scienza si era messa per vie troppo
ristrette , e che per renderle il suo antico valore bisognava senza più
ricondurla sul terreno che altra volta avea occupato , da cui le modeste pre tensioni
della psicologia l'aveano scacciata , e in cui solo potea incontrarsi con
quelle quistioni che più potentemente importano al genere umano, e riacquistar
così la vita e l'im portanza primiera. Quest' obbligo la scienza deve
indubitata mente a ' moderni Tedeschi, quali che siano state le conse guenze a
cui sono giunti . GIOBERTI ha tenuto il medesimo cammino , ma con mezzi
alquanto diversi , ed è venuto a conchiusioni di ben altra natura . Anch'egli
vuol giungere ad una scienza più compiuta che esca dalle aridità psicolo giche,
e che, piena del senso della realtà e della vita, cerchi di pervenire alla
causa prima e reale d'ogni causa e d'ogni fenomeno, riproducendo nell' ordine
ideale della scienza l'ordine reale della generazione. Movendo dalla teologia
cristiana, egli si è sforzato di ricondurre la scienza all' ontolo gia , in
modo da conservarla d'accordo con la religione, e in vece di adoperar come i
Tedeschi che fanno entrar la reli gione nella filosofia e vogliono col mezzo di
questa spiegar la , egli , per opposto cammino, seguendo i più antichisistemi
ortodossi, ha voluto sottomettere la filosofia alla religione , in guisa che
fosse questa obbligata a riconoscer da quella ogni suo valore . Il suo punto di
partenza è una formola sin letica , la quale , benchè d'accordo col
Cristianesimo , anzi, appunto perchè è di accordo con esso , spiega l'uomo e
l'u niverso e le loro relazioni con Dio , onde poi discendę ogni ordine d'idee
e di fatti, il pensiero e la natura , le società e le civili istituzioni , la
scienza a l'arte . Io non mi fermerò su ' varii punti del sistema , nè sulle
varic applicazioni che egli va facendo del suo principio , nelle quali dimostra
una potenza di mente mirabile e delle conoscenze non punto ordi narie , ma non
posso tacere che soventi volte, siccome è moda oggidì, si lascia strascinar
troppo all'amore del sistema, e a certa smania di costruzioni a priori , le
quali son certamente del dominio della scienza , ma che oggi si sogliono
condurre fino all'esagerazione. Per questo rispello gli antichi mi pa iono ben
superiori a 'moderni, perchè Platone ed Aristotile si occupano anch'essi di
costruire l'universo a priori e per mezzo delle idee , ma sanno bene fermarsi
alle generalità senza discendere a taluni troppo minuti particolari , i quali
sfuggono alla scienza e non si possono senza esagerazioni far discendere
comodamente da' principii generali. E chi sa se nell'universo , come nell'uomo,
non ci ha un punto in cui l'impero assoluto della legge ha termine , e quello
dell' arbitrio , del capriccio e dell'accidente incomincia? Certo è giusto di
volere co' principii razionali spiegar le leggi e le . generalità delle cose,
ma è strano il pretendere di spiegare ugualmente i più piccioli fatti, la
cagione necessaria e razio nale d'ogni avvenimento , d'ogni legge, d'ogni
fenomeno, d'ogni istituzione, d'ogni onda che la forza de'venti scaglia contro
le rive , d'ogni foglia che la brezza dell'autunno fa . cadere dal ramo ;
allora si potrebbe ripetere il detto di Na poleone, che un brieve limite separa
dal sublime il ridicolo . Vediamo ora qual sia la formola suprema e creatrice
del sistema di GIOBERTI. Ogni filosofia , egli dice, la quale muova dalla
nozione semplice e astratta dell'essere, dee necessaria mente smarrire la
diritta via . Siffatla nozione , come quella che si può applicare al Creatore e
alle creature, senza alcuna diversità, e che però nulla può produrre, conduce
all'ipotesi d'una sostanza unica , cioè al panteismo. Ora la teorica del
panteismo è falsa perchè non risponde a tutte le esigenze della scienza , nelle
applicazioni non trovasi d'accordo con la vera natura delle cose, distrugge la
morale, ed è contraria al cristianesimo che è la veritàperfetta ela parola
stessa di Dio. Però è mestieri trovar modo di escire di questa peri colosa
ipotesi, la quale ha potuto soventi volte sedurre le più belle intelligenze e i
più profondi spiriti. Ove la causa che conduce al panteismo eziandio quelli che
meno vi vorrebbe ro pervenire , chi ben guardi la troverà nel punto stesso onde
muovono, giacchè la nozione dell'essere in astratto non può menare alla realtà.
Per la qual cosa a fio di cansar l'errore , è d'uopo aggiungere all'idea
dell'essere qualche altra nozione che sia nello stesso tempo primitiva e
sottopo sta all'altra. Se non fosse primitiva rispetto al nostro spiri to , non
potremmo acquistarla altrimenti, essendo la nozione dell' essere di sua natura
improduttiva; d'altra parte se non fosse sottoposta ad essa nozione dell'essere
e quasi da essa ingenerata, e' si cadrebbe io un dualismo assoluto non meno
assurdo dello stesso panteismo. Ma fortunatamente è facil cosa trarre l'essere
dal suo stato astratto , considerandolo siccome concreto e creatore , perchè l'
essere così conside rato rinchiude in sè l'idea di un effetto, cioè di un'esistenza
che non fa parte della natura di quello , ma che essendo un libero prodotto
della sua volontà , è legato con esso lui mercè il vincolo della creazione .
Per tal modo e ' si avrebbe un sol principio da cui partirebbe lo spirito ,
cioè l'idea dell' essere puro e necessario che crea l'esistenza contingente, e
questa verità -principioprodurrebbe un principio-fatto, cioè la realtà
dell'esistenza. Così l'autore invece di partire dalla nozione astratta
dell'essere , è partito da quella dell'essere che per mezzo della creazione
produce altre esistenze a lui sottopo ste, ed ha espresso il suo principio
supremo con la formola: l'essere crea l'esistenza; e con questo mezzo ha
evitato ilpan teismo , ponendo il concetto della creazione come il lega me fra
l'essere assoluto e l'esistenze contingenti. Pur tutta via questo mezzo non è
paruto a tutti soddisfacente; già non è mancato chi ha detto che il suo sistema
era la teorica dello Schelling battezzata e fatta cristiana , ed altri altre
difficoltà hanno arrecato in mezzo. Cone è egli possibile di costruire a priori
una filosofia mercè diun principio il quale contie ne in sè un dato
essenzialmente contingente e di fatto, quale è quello della creazione ? Se si
considera l'idea della creazione legata di necessità con quella dell'essere, e
allora si cade senza più nel pantei smo, o almeno nella sentenza assai vicina a
quello della ne cessità della creazione ; se poi si considera essa creazione
come un fatto empirico e contingente, è impossibile allora di farla discendere
dal concetto dell'essere , e dedurla da esso ; anzi , essendo essa libera e
volontaria , il principio si dovrebbe esprimere altrimenti, dicendosi
piuttosto: l'essere vuol creare l'esistenza ; nel qual caso potrebbe domandarsi
: chi v'insegna questa volontà dell'essere ? domanda a cui è difficile di
soddisfare senza cadere in Cariddi per evitare Scilla . Conciossiacchè se si
risponde che l'insegna il fatto , la formola a priori è distrutta, e si cade in
uo circolo vizio so , col quale si verrebbe a dire che l' essere ha voluto
crear l'esistenza , perchè esiste , e che l'esistenza esiste , perchè l'essere
ha voluto crearla . Se poi, mutando strada, si rispon de che non già il fatto
ma la nozione stessa dell' essere rin chiude il concetto della creazione, e allora
si giunge diritto , come inpanzi dicevamo, alla necessità di essa creazione.
Non insisterò più a lungo su questa discussione, che, come tutte le altre , ho
voluto toccar solo di passaggio, ma osser verò invece alcuna cosa sull'indole
generale della dottrina di GIOBERTI. Nati in un tempo che è succeduto ad un
altro di strani rivolgimenti ed inuditi rumori, e che ancora è in certo di sè
medesimo e più incerto del suo avvenire , noi possiam dire di assistere al
contrasto di due opinioni , le quali si disputano ostinatamente l'impero
dell'intelligenza . L'una, che è la meno seguitata, è essenzialmente conserva
trice, e non crede nè al presente nè all'avvenire, ma sogna caldamente il
passato , i secoli scorsi e quasi il secol d'oro della favola. L'altra, che
domina appresso l'universale, non ha fede che nel presente e nell' avvenire,
dispregia e deride tullo quello che non è nato pur ieri, e ciecamente crede al
progresso infinito delle umane generazioni , al cammino dello spirito sempre
trionfanle e vittorioso. GIOBERTI non può essere accusalo nè dell'una nè
dell'altra estrema opinione, e il suo modo di vedere e giudicar le cose può
dirsi essenzial mente conciliatore dell'antico e del moderno. Non egli du bita
che lo spirito umano cammini , ma non crede che lutto quello ci ha di bene
sulla terra sia nato ieri ; nè dubita che lo spirito progredisca, ma non crede
che ogni suo mo vimento sia un progresso; in somma il passatonon è per lui
unicamente l'antecedente cronologico del presente, o un ca davere senza vita e senza
importanza, anzi egli vuole che se ne faccia altamente conto come di cosa che
contiene in sè i germi del nostro essere presente, e che non venga punto messo
in dimenticanza nelle nuove combinazioni si della scienza e sì della vita
pratica. Nè punto diverso da questo è il principio delle sue opinioni
politiche, nelle quali ammira il passato ma non lo crede bastevole a
corrispondere a tutte le esigenze del presente , ammira il medio evo in tutto
quello che ha di grande, di nobile e digeneroso ma pon vuole per questo la
ricostruzione del castello feudale; vuol bene che la politica italiana sia
degna del nostro secolo ma non chiama ugualmente degne del secolo tutte le
utopie . Questi sono i filosofi italiani degni di essere ricordati da chi
voglia tessere un quadro dello stato in che trovasi oggi la scienza fra noi .
Il quale , come si può vedere, se non è da esserne troppo superbi, non è neppur
tale da doyercene ver gognare, perchè accanto a nomi mediocri o poco maggiori
della mediocrità, se ne trova pure altri , come quello di SERBATTI e GIOBERTI,
degni di fare onore a qualunque tempo e a qualunque paese. Un'osservazione però
sorge natural mente da tutto quello che finora abbiamo discorso, cioè che se ci
ha de sistemi e de’ FILOSOFI ITALIANI, non ci ha però una filosofia o una
scuola italiana da mostrar le dottrine domi nanti universalmente, poichè
dottrine comuni veramente non ce ne ha, ma ciascuno ha le sue proprie , e
nessuno giunge a diffonderle in modo da formare una scuola forte ed upita da
contrapporre ad un'altra .La medesima cosa mi ricorda d'aver fatto osservare a
pro posito del teatro , ove dicevo che ci ha bene de' drammi e dei drammaturgi
in Italia , ma non un dramma italiano , da po terne indicare l'indole generale.
Sarebbe lungo cercar le ra gioni di questo fatto , ma quanto a' sistemi
filosofici, non può nascondersi che ciha un punto essenzialissimo in cui tutti
o almeno i più importanti si accordano , e questo è l' essere ugualmente
ortodossi e cattolici. I nostri antichi non erano generalmente così solleciti
di trovarsi d'accordo con la reli gione , e spesso con le prigioni, con
l'esilio e co' roghipa garono la pena del loro ardimento . Oggi in mezzo alla
co mune eterodossia delle scuole moderne, e soprattutto delle tedesche , i
filosofi italiani si studiano di mantener collegate amorevolmente la fede e il
pensiero, la religione e la scien za , e compensano con la propria ortodossia
gli errori de'loro predecessori , i quali signoreggiano oltremonti e trovano
nuovi seguaci e arditi rinnovellatori massimamente nelle scuole di Germania .
Certamente sarebbe cosa assurda il negare che la filosofia tedesca in questi
ultimi anni abbia renduti straordinarii ser vigi alla scienza, e fattole fare
de'passi che mai non saranno perduti per il pensiero umano. Certamente in que'
sistemi sono altissime verità, profonde escogitazioni, fortunate e fe conde
applicazioni a tutti i diversi ramidel sapere e della vita , ma accettarli
interamente come veri è cosa enorme ed insoffribile. Insoffribile soprattulto
per poi Italiani la cui mente è dotata da natura di forme troppo originali per
sofferire qualunque maniera d'imitazione , senza che tosto ritorni in
caricatura, ed al cui pensiero, naturalmente chia rissimo e bisognoso di realtà
e di vita , mal si convengono le astrazioni soventi volte troppo vôte de'
Tedeschi, e la col trice di tenebre onde al concello alemanno piace spesso di
avvilupparsi. Oltre a ciò si potrebbe dire che assai male prova ha fatto la
filosofia tedesca , quando dopo tante pro messe e sì grandi rumori , si è
mostrata inetta a fermar niente d'intero e di durabile, e ora quasi venuta meno
, tace profondamente , e quasi non ha un'idea o una parola comuni per farsi
intendere, e le scuole deboli e divise internamente o più non vivono o vivono
di una vita che molto si rasso miglia alla morte. Forse che il dottor Fausto ha
ragione tut tavia di lagnarsi della loro impotenza e della vanità degli sforzi
per esse fatti. Prima di conchiudere sentomi spinto come di viva forza a
ricordare un nome, che pochi forse sanno e che niuno ha obbligo di conoscere ma
che io non voglio tacere , solamen te perchè colui che il portava ora più non
vive , e perchè al tra meno sterile testimonianza di amicizia non gli posso ren
dere. Io non so se le poche pagine scritte da CUSANI giungeranno a'posteri, e
molto più dubito delle mie , ma de sidero che i contemporanei sotto i cui occhi
potrà cadere questo scritto , sappiapo che fra’giovani che ora fra noi si oc
cupano di filosofia nessuno forse fu fornito più di lui di mente veramente
filosofica, la quale con più sodi studii e con la malurità degli anni avrebbe
forse , anzi senza forse , dato frutti degni di vera gloria . Nè vorrei che di
lui si giudicasse da quello che finora avea stampalo , perchè chi il conobbe
può far giudizio sicuro di quello che un giorno avrebbe potuto fare se gli
fosse bastata la vita. Non so altri che faccia bene e splendidamente sperare di
sè , ma non dubito che fra tanti dovrà sorgere alcuno degno degli antichi e de'
nuovi nomi , perchè giovami di credere, e i fatti mi confermano nella mia
opinione, che la sacra fiaccola della scienza non sia , non che spenta,
affievolita nella patria del Vico , del Campanella e di Giordano Bruno. Grice:
“Gatti is a difficult one to catalogue – not at Oxford! He is a man of letters
and action, by man of letters we mean Lit. Hum. And Gatti, being the snob he
was, would rather be seen dead than referred to as merely a ‘philosoopher’ – He
edited the Museo di FILOSOFIA e letterature – and his passion (if he had one)
was Vico – and more, to criticse oters. He would not speak of ‘italian
philosophy,’ but of ‘philosophy in Italia’! – He wrote on Rovere, and other
philosophers – but he was always ready to grade them: “Genovesi, infinitely
inferior to Vico” – Incredibly that this philosopher is talking the same lingo
as Machiavelli or Dante!” – His exegesis of Vico is good – he refers to the
Bruno, Campanella and Telesio as the celebrated triunvirato, and there are
references to some obscure philosophers in his prose – about which he writes
little to enthusiase his reader!” -- Stanislao Gatti. Gatti. Keywords: poetica,
Vico, Filosofia Italiana, Scritti filosofici – implicature italiane – il vico
di Gatti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gatti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gaudenzio: il filosofo musicista – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He
writes an important work on the theory of music that survives in parts. Grice:
“And then I played the piano!” – Gaudenzio.
Grice e Gaudenzio: il portico romano -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Brescia). Filosofo italiano. The philosophical interest of his
essays lies in his discussion of natural law, for which he borrows from the
Porch. He argues that through the use of reason anyone can come to a knowledge
of his moral obligations.
Grice e Gauro – Roma antica
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. He appears to have been a pupil of Porfirio, who may have
dedicated one of his essays to him.
Grice e Gedalio – Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. A pupil of Porfirio, who dedicates his
commentary on Aristotle’s Categories to him.
Grice e
Gelli: l’implicatura conversazionale della difficultà di mettere in regole la
nostra lingua – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo. Grice: “I like Gelli; he is a difficult philosopher, in a typical
Italian fashion, mixing semiotics, philosophy, philology, and literature! His
reflections on Adam’s tongue (lingua adamitica) is genial – and he proposes a
distinction, which I often ignored, as Austin did, between ‘sweet language’
(lingua dolce, qua expression, or materia) and ‘content’ (forma) – The issue
was central for Italians: Tuscan Italian was THE lingua because it was the
sweetest – at least to Florence-born Gelli’s ears!” “Ricordati un poco di Palmieri,
che era tuo vicino, che fece sempre lo speziale, e non di manco s'acquistò
tante lettere ch'e' fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore al Re di Napoli;
la quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì rara, che in un
uomo di sì bassa condizione, cadessono così nobili concetti di dare opera agli
studi, senza lasciare il suo esercizio; e mi ricorda avere inteso che quel re
ebbe a dire: pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli speziali vi son
così fatti.”. Figlio di Carlo, un agiato mercante di vini originario di
Peretola e trasferitosi a Firenze col fratello, nacque in San Paolo. Esercita per tutta la vita il mestiere di
calzolaio e studia filosofia da amateur – cf. Grice, “Gioccatore di cricket
amateur e filosofo profesionale” -- Discepolo di Francini, Verini, 3 Ficino e
poeta di ispirazione savonaroliana, e vicino alla filosofia piagnona, participa,
anche se in disparte, alle riunioni dell'Accademia, agli Orti Oricellari.
Fedele a Cosimo I, ricopre cariche pubbliche di scarso rilievo, dapprima in
qualità di magistrato delle arti, poi come membro del collegio dei dodici
Buonomini, organo consuntivo del governo mediceo. Membro degli Umidi. Ne
approva la trasformazione in Accademia Fiorentina l'anno successivo e ne fu
console. Ivi tenne la sua prima lezione, commentando un passo sulla lingua di
Adamo, tratto dal Paradiso di Dante. Tenne saltuariamente lezioni su Dante e
Petrarca. Le sue opere più famose sono I capricci del bottaio, ragionamenti fra
un bottaio e la propria anima (inserito nel primo indice dei libri proibiti) e
La Circe, un dialogo fra Ulisse e i propri compagni trasformati in animali. Tra
le tesi sostenute nelle sue opere vi sono quelle della discendenza diretta da
Noè dei fondatori di Firenze, dovuta probabilmente all'influenza sul G. degli “Antiquitatum
variarum volumina XVII”; un falso confezionato d’Annio da Viterbo, e quella
della superiorità della lingua fiorentina sulle altre. --- nominato da Cosimo I lettore ordinario
della Commedia presso l'Accademia e recita nove letture dantesche, pubblicate
con cadenza annuale, che hanno grande influenza sugli interpreti d’ALIGHIERI
durante tutto il Cinquecento fiorentino. Altre saggi: “L'apparato et feste
nelle nozze dello Illustrissimo Signor Duca di Firenze et della Duchessa sua
Consorte”; “Egloga per il felicissimo giorno 9 di gennaio nel quale lo
Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di Firenze”; “La sporta”
“Dell'origine di Firenze”; “I capricci del bottaio”; “La Circe”; “Ragionamento
sopra la difficultà di mettere in regole la nostra lingua”; “Lo errore”;
“Polifila”; “Lezioni pubblicate”; “Sopra un luogo di Dante, nel Purgatorio
della creazione dell'anima rationale”; “La prima lettione di G. fatta da lui
l'anno, sopra un luogo di ALIGHIERI nel Paradiso”; “Spra un sonetto di M Petrarca”;
“Spra que'due Sonetti del Petrarcha che Lodano il ritratto Della Sua M. Laura”;
“Sopra ‘Donna mi viene spesso nella mente’ di Petrarca”; “Tutte le lettioni fatte
nell'Accademia Fiorentina,” Letture sopra la Commedia d'ALIGHIERI, Delmo
Maestri, Opere di G.i, POMBA, Mutini, I dialoghi morali di G. in "Storia della
letteratura italiana V", Motta, Maestri; Mutini. G., Dialoghi, Scrittori
d'Italia, Bari, Laterza, F. Reina, Delle opere di G., Società tipografica de'
classici italiani; Gamb; G. , La Circe, Venezia, Alvisopoli; G., “La Circe e i
Capricci del Bottaio (Milano, Silvestri); G. Opere di G., Firenze, Monnier, Negroni,
“Lezioni petrarchesche” (Bologna, Romagnoli); Negroni, Letture edite e inedite
di sopra la Commedia di ALIGHIERI, Firenze, Bocca, Fabre, La Circe di G.,
Torino, Salesiana; Barbi, “Trattatello dell'origine di Firenze” di G. (nozze Gigliotti-Michelagnoli), Firenze,
Carnesecchi, Ugolini, Le opere di G., Pisa, Mariotti, Bonardi, G. e le sue
opere, Città di Castello, Lapi; Ugolini,
G., Scritti scelti, Milano, Vallardi, Fresco, G., I Capricci del Bottaio,
Udine, Tip. Del Bianco; Bontempelli, G., La Circe e i Capricci del Bottaio,
Istituto editoriale italiano, Sanesi,Opere G. (Torino, POMBA, Tissoni, G.,
Dialoghi, Bari, Laterza, Alesina, G., Opere, Napoli, Rossi, Bonora, “RETORICA E
INVENZIONE” (Milano, Rizzoli); Montù,
“Gelliana”. Dizionario biografico degl’italiani. che essere scaciato e
fuggito da ogni Àno, come s ifarebbe una fiera. A. tuparli come un filosofo Giusto;
che l'inuidia è quela, la quale piu che altra cosa guasta il confortio humano;
e tanto peggior i efeti produce quanto e la è in huomini piu ingeniosi piu valenti,
ma egli e di gia alto ilsole, io nochetu tilieui, pieno. 0 wadi à le tue
faccende, con un'altra volta ragioneremo di questo pius ellamipare?
sie. Orgliè troppo innanzi giorno à levarsi, questi fratiminori hanno questo
costume, di sonar sempre il mattutino in su la mez sarameglioleuarji, machefaroiopoi,
egli è tanto di quià leuatadisole, chemirincrefcera, ma iopotreiuedere, fel'animamiauolesseparlar
meco. Anchora che io comincio a dubitare, che fe joseguito, ela non mi facciimpazzare,
e non èdafarsebeffe, perche secondo me, tutiquei che impazzano, impazzan' nel'anima,
nel corpo, et cosi farà forse questa mia àmeseiole credo cosi ognicosa. Eccoelam'
ha cominciato à dire, che si puo esseresauioe dotto senza sapere lingua grea carolarinas
che è nnacosaches' io la dicessi fra questi doti moderni, io sareiu celato proprio
comeun. gufo, io permenonho mai sentito dire, che esi pos faeferefanio in volgare,
ma pazzofibeneset non OVELLA lasquiladisanta Croce co E una dimostratione
grandißima d'un disagio non picolo, esarà dunque bener addormentarsi un poco bene
che il tempo che si dorme, è come perduto, anzi è pocomeno, che sel'huomo fufe morto,
Operò S 0 an za notte chel'hucmo é apunto in Julbuondeldors mire; benche àloro che
neuanno à leto come i pol tidae'poca noia, niente di manco nell'uniuersale far.
I fi n'homaine duto huomo alcuno che nefiaftato fatto stimagrande, se
non sa qual cosa in grammatica; ficheiononleuò cosi credere, maio potreiforseno
l'hauereinte sabene, e' fara dunque meglio uedere seelauolese ragionare al quanto
meco, e potrò dimandarnela, Anima mia, ò anima mia cara, uo gli ãnoi fauelar ancshotamane
un poco insieme A. Di gratia Giusto, che io non ho piacere alcuno maggior di questo
perche mentre che io miftòraç coltainme medesimaà parlare teco, io nounengo
astare occupatainque I concetti nili, & bası, che tu hai la maggior parte del
tempo; ne manco t’ho a ministrare spiriti et forze, finare quei tuoi zoccoli,
et que i tuoi bariglioncin. iG. Io non mi marauiglio punto di cotesto, che io lauoro
anchora io malsolen tieri; anzinonfo cosa che misiapiugraue, ale i non che melo
fafarela maledettfaorzy, io non darei mai colpo. A. Er chevoreftitu? startisempre,
Guruerotiosamente? G. No, mai o consumerei al tempo in qualcosa, che mi diletafsejd
oue i lavorare mied'affanno et di fatica. A. O pensa quelo che egli è àmè, essendo
molto piu contro ala natura mia, che a la tua. G. Io non sò cotefto, coueggoche
Idioda pocihe l'huomo hebbe pecato, uoledodar glipartede la penitentia, cosi come
egli haue uada. toala donnail partorir con dolore; gli diffestuman geraiil pane
del sudore delupleotuoj dando gliilla let poco a poco nel opinione mia.
O tuti marauigliaui, quando iotidicena ľaltro giorno, che egli eraprufa tica, à
un huom foare un paio di zoccoli, che Ai Ahahuediuedi, che tuuienià vorare per la
piu graue, & piu faticosa cosachpeo To tessedargli studiare mezo ARISTOTELE,
eccolaragione; tu l'hardetta da uuere. A. Egl ièiluero, ma il fato la sta contentarsidi
quelo che è necessario solamente non cercare il superfluo, che è quello, che reca
cada mille pensieri di futilià l'huomo, & lo tiene sempre occupato in terra,
negli lascia maialzare la facia ra, acontentarsi del poco; perche chifacosigurue
con pochi pensieri ,et è lieto il piu del tempo uatoinme, quãtomisiastatoutile il
contentarmi di o quelocheioho, accomodandola uoglia a la fortuna, be et se io hauesi
uoluto uiuer, òueftir meglio, e' miera a forza, òfar qual cosa dishonesta, ò andarastarecon
me altri. A. Mal per i gran maestri, Giufto, feglihuo 2.1 il gode al 1 da
teàtes per che lo studiare e naturale, Qvé pro Pas prio del'huomo, gloinuiaala perfetione
sua, & bra 'illauorare gliè'una penitentia. G. E bisognapur ancohauer
alcielo; dondeusc iprimieramente l'animasua, eo - doueeladesideradiritornar'; &
fappi Giusto che il maggior bene, & la piu util cosa che si possa faro agl'huomini
in questa uita, è'auezarglia buon'ho pernondir o sempre, G. Io lo credo certamente
perche io ho pro minifussindicotestauogliatuti, che bisogn arebbe pochicheglirestano,
ul mendo inferuitis per ogni picolo prezzo, laqualeco Sa non solsegia farequel sapientissimo
filosofo di Diogene, che
cheesiseruissinda loro, perche e'non sono se non le moglie immoderate, ò
della degnità, ò del poter ben mangiare, & bere suntuosamente uestire; che
fanno, cheunb uomo ,che ragionevolmentepuoui uereunsessanti anni (dequalinedieci,
ò dodecipri mi, non conosce quelche èfifacia; & delrestone dorme la metà) uendeque
essendogli detto da Alessandro Magno, che eichiede sequellocheuolena, Orche tue
togli sarebbedator ispose cheancorche fussi cosi ponero e'non gli mincaua cosa alcuna,
machesegle leuaffed'innanzi,percheglitoleusilsole,laqual
cosanonerainpotest:suadidargli. G. Certa mente che il dependere da se stesso e'una
cosa bellissima, etuorrebbesieseramicode signori, minor giaseruo, honorando gli
oubbidendogli peròfem pre,comequeglicherēgonointerrailuo godi Dio, et quando un
puruuole innalzarsi, debbecercardi farlocon le virtù,& non conferuire, pensando
non di mcno, chien ogni stato, glihabbiaà mancarjem pre qualcosa.A. Non tidoleradun
quedeltuo; & sappi certamente che non è stato alcunoin questo mondo, douenon
sia qualche incômodo, &aqual che cosache dispiaccia altrui. ne sipuoritrouareal
cuno, checometuhaidetto, nonglimanchiqual, chetutiglistati daglı huominiera
noàunmodo; Et diceuaàciaschedunoman caso la mente una cosa, e quelle primiera mente
desidera. Verbigratia, un pou crostro piato desidera sola mente di eser sano, dapotere
guadagnarsi la uita, pernonhauereàireaccatando; chréfano& non hanulla, hauerdichepoteruiuere;
per non hauerà lauore; ch ihadicheuiųere commodamente, has uer tanto che ei possatenere
una caualcatura c u u nragazzo, & chi haquestohauer qualchedigni tà, à maggioranzasopraglialtri;
& dipoessere Principe, & chi e Principe finalmente, potereper
petuarsiinquello Stato, & nonhauereàmorire. A. Non'tidolereadunquetu, dihauereà
lavorare un pocosedognunomancaqualcosa. G. L ha sereà lauorare un poco sarebbe un
piacere, mafem prezcomehoàfareio, che ho poco è nulla; e cosa. G. Con questa ragioneuoleuagiaprouare
unoamicomio 'undi Spetto. A. Ecco che tu fai pur ancortu, comegli altri, m a
dimmi un poco che uorrestitu ? che ti manch'egle? A. Cinquanta ducati d’ıntrata.
& staremmipoiaffaiacconciamente. A. E quando tuhaueßicotestoanchorpoitimanchereb
bequalchealtracosa,e desiderereftıla, cometu faihorquestaperche cometuhaidetodatsetesso,
inqualsiuogliastato, si ha sempre qualcosainanzi agliocchi, chseidesiderapensandocomel'huomo
79 tha, dhauersiacontentare; nientedimancopoi quando tu l'haitunonticontenti,
macomincia. de siderarneun'altra; ficheprudentementediseun trattou nuostro Cittadino,
aunocheentrauain un disordine grandissimo per comperareun podere',
cheglieraaconfino. Tudonerestipensare, chetu haihauercanfini, e
checomperatoquesto, tun'ha raiaconfinoun'altro, del quale tí uerra la medefima
uoglia. G. Io credo certamente, cheinogni statosiadepensieri; mapiue
maggioriinuno cheinun'altro. A. E' non è gia il tuo undiquegli chen'habbiao
demaggiori fidianzi fu dato al'huomo per penitētia desuoipeç Cat. t . si di
quegli ce hanno le uoglie disordinate, & chenon
sicontentanodiquclchesiconuie nealostatoloro,comehauena Adam , quandogli
duuennequesto,maachisiaccomodail camminar patientementein quellauitacheeglièstatochia
mato; nonauuiengiacoli, G. Comenò, hauen doioaniveresolamentedellauorare, checom’iodir
2 , qualpuoeserepuidolce cosa, cheuiueredella faticadellesuemaniwediche Dauit Profeta
ch'erapurRe, cometusai, chiamò questifimilibeati, &
fappifinalmentequesto,che quante piu cose fihajatantepiufiha hauer cura;
Brèmoltopiugraue & faticosoilpensierodigo Hernarelecoses uperflue, che la dolcezza
del polle derle; e quanti piuserpiòpiulaworatorisihatan tipin , cheognibuo
mon'haunramo; benfai, che èl'hamaggioreuno che un'altro; Ma ecciquesta differentiadaifaui,a
imatti; cheifauiloportancoperto, & ipazziin mano di forte che lo uede ogn’uno.
G. Ehtuuuoi tábaid.A. Stafermo, iotelouoprouareinte stesso, quante uolte fetuandatoaspasopercasa,po
nendoipiedinelmezodemattoni,& cercando, conognidiligentiadinon
toccareiconuenti? G. Omilleuolte,& fommiposto à contarei corenti del palco,&
àfareseialtrecose da bambini.A. o dimmiunpoco, setuhauesi fatto cotestecosefuo
riifanciullinontisareb boncorsi dietro, comefan noàipazzi? G. Permiafe, chetudiiluero;
car non uòpiu negare dinonhauere ilmio capriccio anch'io; anzi tengo hora per uerißimo
quel prouenbio, che io ho piu volte sentito dire, che tiprunimicisiha, come bendiceuaquel
FILOSOFO, Mi lasciamoandarequestiragionamenti, e'mipa
rechenoin'habbiamoparlatoàbastanza, Tornia moun pocoàqueglidihiermattina,chenoilasciam
2 mom perfetti; perälchetudubitauidianzi,chese tumicredesi, ionontifaceßitenerepazzo;
come seancortu non'hanesilatua parte,comeglialtri. G. Otoquest'altrafeela ti piace;
cheuorraitu dire, cheognounosia pazzo? A. Pazzono; Ma che ogn'uno ne sentasi. G . O questo è
quafi quelmedesimo. A. Sappi Giusto .0 sela pazzia F A. lotiuo direancorapiula,
chetutrouueraipo chihuomınıal modochehabbino lasciato fama, che setu consideri bene
lauitaloro, nonhabbinoqual che uolta portatoilramoloro scoperto, maperche
ceglieriuscitolorobenfato, nesonostatilodat, ima iononuòchenoi fauelliamo piu di
questo, torniamo al ragionamento nostro, dimmiun pocodondehar tusaputo, che non
sai grammatica a non hai studiato, che ilauorare fusse dato da Iddio. G. Si quanto
à le parole; maapenetrar poibeneisensibilogna altro. A. Eibafta, che tu non harestidificulànel
intendere le parolė; masolamentenella inteligentia de’ sensi; la qual
cosasel'hanno ancor quegli, che le leggonoingre coo in latino che tu non ti credesiche
dereunalinguayé's’intendinoancututigli Autori, tuttelescientiechesonoin quela, perche
àfare questo, bisogna l'aiuto de preccettori de fuffeundolorein ogni casasisentirebbe
stridere.'! ,anostropri mipadri per penitentia & paritionedeladisúbi
dientialoro? G. O non losaitu, chelaitanteuol teletomco quelit Bibia che io ho.A.
O comela intenditu? G. Perche non uuoitu cheiolainten da? non sartucheel lae in
volgare? A s i sò. G. O per che me ne domandi? A. Perfarticonfeffa
requelchetuhaidetto, eccodunquecheselescien tic, & la feritura facra fußıno
in uolgare, tulein tenderesti per inten. 2 you 4 2 GL’INTERPRETI, anche pors'intendono con fatica
grande, simile auuerebbe medesimamente, s'elefußınoinuolgare; maamebastaperhora,
chetuconosca, chenonsonolelingue, chefanno glihyominidoti, malescientie;&
che le lingue s'imparano, per acquistar le sciencie, che sono in quelle. G. E t
PERO NON SI PUO EGLI ESSERE DOTTO SENZA INTENDERE LA LINGUA LATINA, dove e le fon
tutte, che uuoituim parare nella noftra A. Mera 1 cede ROMANI che ne le traduffono,
se LA LINGUA LATINA ne è ricca; e colpa de TOSCANI, che non han no maifatto conto
de la loro, feelane è pouera: G. il fato stà, felacolpaviendz la lingua, che
non sia tanto copiosa di uocaboli, ch'elenon nifi poßino scriuere. A. Oefe ne fa
di nuouo; e mettonfiinuso, dimanoinmano secondoibiso-. gni. G.
oèeglilecitofarede le parole nuoueina una lingua? A siin quelle che non fono morte;
G dacoloro solamente dichielefono propri.e G. Et qualichiamitumorte? A. Quelle che
non si parlano naturalmente in luogo alcuno; comeso-, nohoggi, la greca, e LA
LATINA, e in questaàco lorocheniseriuonpoer non esere elalaloronatit à propria,
non è lecito fare parole di nuouo. G. O percheno nè egli ancor lecito à
queiforestieri, che la fanno? A. Perche non el sendoelalor naturale; non lefanno
in modo chel'hab in gratia, se la natura producesse tutte le sue coseper
fette, non bisognerebbe l'arte, & fel’artepotese farle perfettedasestessa
non bisognarebbe la natura, ma che bisogna piu, non , e gli Hebrei dagli Egitti,
non haitumar sentitochee'no si puo dire cosi alcuna che non sia stata detta prima
ma I ROMANI, chi erano altri huomini, e d'altro giudicio, che non sono hoggi i Toscan,
amando piu leca Ponmente alcuneche
n'hannofattecerti moderni nella nostra, come medesimi tàgioucuolezza, mar,
cigione& fimili.G. Tu giudichiadunqueche nonsarebbeerrorefarn enellanostrae?
A. Non de chi l aparla naturalmente, anzisarebbecosalo-, deuole. Dimmi un poco,
credituche la lingua greca, ò LA LATINA, fusin cosi perfete e copiose di uoceboli
da principio, comeelefurno poi nel colmoloro, e quando fiorirnoinlorotant ipregiati
scrittori? G. Non credere. io. A. Sianecerto, perchee nonsiritrouacosa alcuna 2
fra queste che sonoeserci tateda noi; chesiastate nel principio, ò prodotta
perfetta di la natura, ò ritrouatada l'arte; perche sequestosi potesefare, l'unadilorofarebbeinus
no; che fecionoancordelepa rolenuoue CICERONE BOEZIO see uolsero METTERE NELLA
LINGUA ROMANA LE COSE DI FILOSOFIA e di
logica? G. Che le cauorono da altre nationi? A. Bensaichesi. G. Etdachi?A. Dai Greci,
Eri Greci lhebbeno daglı Hebrei OPINTO feloro proprie (come è giusto ragioneuole) che
Paltrui, studiauan solamente le lingue esterne, per Canarne, seuiera nulla di buono,
arrichirnelai loro. G. In uerità che in questo mi pare che efuf fino molto da lodare.
A. Ricercaunpocobene tutte le cose antiche conuedraichesitrouapochis fimi ROMANICHE.
G. In questo merito noeglino al quanto d'efferescusatinon essendo come tu di quella
la lingua loro.A. Anzimeritono d'essereripresi doppiamente, non ti ricord aegli
haucrmai sentito dire che CATTONE MAGGIORE leggendo certe cose scriteda Albino Romano
in lingua greca, trovando nel principio che s’iscusa del non hauerle scrite con
quella eleganza che doueua, dicendoche e cittadin ROMANO Ornato in Italia, e
molto alieno dalla lingua greca; non, o lo fare. G. Veramente che queste sono ragions
tanto uere che i o per me non saprei contradirti. i A. Vedi quanto I ROMANI cercano
di nobilita rela lingualoro, che e' non istımauanomancolar
recareinquelaqualchebela opera,chesotopore, scriuesjein greco,comfeannoque fli Toscani
in latino, chenonè la lingualoro. perche faccino quantoeifannoeinonfiuedemaineiloro
scrittiquelcandore,ne quelostilechee'neilatini proprii 2 .
solamentenonloscusò;masene vise, dicendo herAlbino, tuhaiuolutopiurostoha
wereàchiedereperdono d'unoerrorefato,cheno > 3 coloroiqua
lihaueuasottopošoconlaforzaqual che Cità,è qualche prouincia àl'imperio ROMANO.
G. Oani miea pensieri ueramente santi, e PAROLE DEGNE D’UN CITTADINO ROMANO, perchel'ufitio
uerode Cnta dinièsemprein qualunchemodosi puogiouareàla patria ala qualenoinonsiamo
manco obligati, che, apadrıQ àlemadrinostre. A. Et perquesto è hoogiin pregio tanto
la lingua loro, cheritrouan dosiin quella buona parte dele scientie, chiuuole, acquistarle,
bisognaprimacheimparı;quelladoue, seinostri Toscani traduceßino medesimamente quel
lenellanostra,chidesiderad'imparare,non hareb, beaconsumare quattroòseide primi
suoi migliori annii n imparare una lingua perpoterpoicolmez: zodiquellapassarealescientie,
oltradiquestolefi imparcrebbonopiu facilmente conmaggiorfis curta, perchetuhaiàsaperequestocheenons'im
paramaiuna lingua esterna, inmodocheelasi plega bene,comelasuapropria, &
fimlmente al'imperio lovo qual che Cità,
ò qualche Regns, che questo si ailnero, leggafiil proemio che fa BOEZIO nella sua
tradurrione de PREDICAMENTI d’Aristotele douee dice che essendo huomo consulare,
et non atto à la guerra, cercherebbe di instruire i fuor Cittadini con la dottria;
che non speraudmeri fare manco, neejere meno utile à quegli, insegnando lorol'ari
de la greca sapientia, che 2 e 2 non si parlamaitanto sicuramente,necontantai
facilità,a setunonmicredi, pontrenteaquesti. che tu conosci, che danno opera à LA
LINGUA LATINA, chequandoe’uogliono parlare in quella è par proprio che egli habbino
àaccattare le parole, con tanta dificultà, e tanto adagio fauel'ano. G. Tudi;
ilnero, ma questo de ROMANI e certamente unmo) dobelissimo, àtradurenellalingualoro,dimolte
cosebele; accio che che desideraua intenderle fusse forzato à impararla,
cosielaueniseàfpar-, gersi per tuto il mondo.A. Enonfecion sola mentequesto; mainmentre
cheétennonol'impe riodelmondo,eilafaceuanoancoraimparareàla maggior partede loro
sudditi quasi per forza. G. Et comefaceuano? A. Haueuano fattoperlegge, che qualseuolesse
imbasciadere non potesseellere udito IN ROMA se ei NON PARLA ROMANO, oltre
àquestochetutelecauseche perla qualcosatuti Nobili di qualsiuogliare grone, &
tutti gli Auuocati,& tutti Procura forierano forzati ad impararla. G.
Oiononmi marauiglio piu che ROMA diuentassesi grande, fe. Teneuan diquestimodine
l'altrecose. A.Diquelo nonuoloragionarti, perchelecosebelle che causa noditutoilmondo,
ne fanno chiara testimoniázs: 11 EMA 3 siagitauanoinqual a fiuogliapaese,
sotoiloroGouernatori,& turtii i procesisi douessino scriuere in LINGUA
ROMANA; F irü .nessuno chescrinese in Egittio, ne. Greco chescriuefle
in Hebreo, ne LATINO (come io t'ho deto) chsecriueffeingreco,f& e
purecen’e's nostatisonopochissimi, G.Odondehannocauato adunchei Toscani questausanzadiscriuereingră
matica, perdireamodotun A. Daloinordi nato amor proprio, non de la patria, ò della
lin gualoro, imperòche cofi facendo, fisonocredutief Jerestatitenutipiu ualenti àchiunquele confidera.G. O costume'uerämen
telodeuole, ò Citta diniueramenteamatoridellapa trialoro.A. Oquesto costume Giusto
nonfuso lamente de Romani; madituttelealtregenti:cer capurequantotuuoi, chetunontrouerai
quasi mai Hebreo me quel Medico che iobaueuagia?ilqualeperpa rore dotto, mi
ordinaua certe ricctte con certinomi tanto difusati, che mifaceuon marauigliare,
infra lealtreiomi ricordounamattina chemiordinòno sochericetaperquela postemationfeai
cherohebbi,doue infral'altrecosene n’entrauauna, chee' chiamaua Rob, un'altra Tartaro,e
un'altraAl tea, per le quali mi credettii oche bisognasse mandare pereseinqueste
Isolenuouega porlunaera. Sapa; l'altra Grommadebotte, conl'altraMal ud.A.
Otulhaipropriodetto Giusto, concofil mondo, fetuconsideribene, nonèaltro,tutto,che
unaciurma, mafer Toscani attende fino a tradur. N. G. Che fannoe',co 22 relefcientie nella loro lingua,
10nonfodubbioalcu no, cheinbreuissimotempo, elauerrebbein maggiorre putationecheelanonè,
percheefiuedeche zao bontà gliauuiene solamenteperlabellez. 2 me elapiacemolto, G ehoggimoltoatesadefide
rata ,& questo fuanaturale, laqualcosanonconoscen doiforestieri, ben sepessocoluolerlatropporipulire
laguastano, ondeauuien proprioàlei, comeà unadonnabela, che credendosi far piu bella
conil lisciarsi, piufiguasta.G. Ocomepuoauueni-. requesto? A. Dirottelo, mentrecheecerca
noperfarlapiuornata di fare le clausule simili a quella de LA LATINA e vengono àguastarequelasua
facilità & ordinenaturale, nelqualeconsistela bellezzadiquella, oltre a questo
piglieranno al cuneparolenfatequalcheuoltadal Boccaccio, ò dal Petrarca, benche
divado, le quali quanto mancole trouano usate daeßi, tanto paionolor piubele; co
efarebbongouari, altrefi, fouente, adagiare,fouer chio, & fimili, perchee' non
hanno per natura ne il vero significato, neiluerofuononell'orecchio, le pongon quasi
inogniluogo @bene spesofuor dipropofito, & cofileuengonoàtorelasuabel
lezzanaturale. G. 1odubitochefee non glisan noimmitarein altro,e’nonsipossadirelorocome
dise PippodiferBruncllescoà Francesco dela Luna, che uolendosiscufared'unoarchitrame,ch'e
olihaueuafattosopralaloggiadegl'innocenti, che laruvigneinsino in terra, col
direchel 'haueua Cauatodeltempiodesan Grouanni,glirispose,tu, l'haiimitato appunto
nel brutto. Maselalinguae diquella perfettionechetudizdonde uiene, chemot tidiquestiliteratibiasiman
tanto coloro, chetra ducono qual cosa inquela? A : Etconcheragio mi? G. Dicon che
la lingua non è atta, ne degna che si traduca in lei cose simil, &
chesitoglielo void riputatione, & auxilisconsi molto. A. Tut tele lingupeerle
ragioni che io ti dißi dianzi, sano atte ad ESPRIMERE I CONCETTI, G i bisogni
dico lo socheleparlano;& quandopureelefußınoal trimenti, queichel'usanolefanno,sichenonmial.
legare piuquestascusa,cheelanonuale. G. O qual cagioneadunchepuoesere,cheglimuonaa
direchelecoseche liscono,
fitraduconoinuolgarefiauui & per don diriputatione? A. Quellache iotidissi l'altrogiorno,cheeracagioneditantial
trimali, malainuidiamaladetta,e il desiderio ch'egli hannodeesertenutidapiu degli
altri. : G. Certamente iocredochetudicailnero, perche iomiricordocheri trouandomiaquestigiornidoue
eranocertilitterati, & dicendouno che Bernardo Segni haueuafatto uolgare la
RHETORICA ad Aristotele, unodilorodise cheeglihaueuafatoungran male; &
domanda codelaragionerispose,perche:
enoistabene,ch'ogniuoloarehabbiaasaperequel lo, che un'altro fiharaguadagnatoin
moltianni con gran fática; supelibri grec. LATINI A. O parole disconuenienti. Io
non nodirfolamentea u n Christiano, ma a chi un che é huomo, sapendo che quanto
noisiamoobligatiadamarciascunocagio uarcl'unà l'altro, etmoltopiual'animacheal con
poalaqualenonsipuofarmaggiorbenechefaci kitargliilmododelointendere.G.
Maftafalda e mi ricorda chediconoun'altracosa.A. Etches G. Dicono chelecosechesi
traduconod'una lingua in un'altra, nonhannomaiquella forzanequella bellezza, cheele
hannonellaloro. A. Eleron hannoanche quella nellaloro, chel'hannonel’als
tre,percheognilinguahalesueargurie,& lefue. capresterie, laToscana forsepiuchel'altre,
et chinenuol sedere, leggadoue Dāte,òrl PETRARCA han detto qual cosa che l'abia
anchoradeto qual che Poeta LATINO, etuedràchepassaronlor dimoltevolteinnāzi, etcherarissimifonquelliche
Jonrimasti. adietro.G. Si, maneletradutionifa debbe attēderepiualsensochealeparole.
A.1056 che si traduceper cagionedelesciēze, etnõperue. Derla forza è la bellezza
delle lingue, et se'non gr | fur fecofii ROMANI, cheteneuonlalorlinguaperlapru
bella del modo, nöharebbonotradottolecosedi Ma gone Cartaginese, & dimolti altrinela
loro, nei nonlofaperaltro,senonpen chelecose fueessendoconferuaredallelettere,che
non uengon meno le uoci, fienointesedatuttoil mondo G. Tugiudicheadunche cheil condurre
lescientienelanostralinguafiabenee?Ai An ziaffermo chenonsiposafarcosapiautilenepin
lodeuole, perche lamaggiorparte deglierrorina scono dal'ignorantia,&
douerebbonoi Principiat tenderci, conciòsiachesienocomepadride popolis Etal padre
nons'appartienesolamente Grecfimilmente
chfeurontantsouperbi, & tan 92 tofiuana glorianadellaloro, che chiamanontut
tialtrebarbare, quelle degli Egittij;o de Caldei.
Nientedimancoesidebbecercareneltradurre oltreal'eferfideledi dir lecose piu ornatamente
che sepuo, eoperòènecesarioaunochetraduce Saper benel'una lingual'altra,G
dipoipoffe derbenequelecose,òquelescientiechseitraduco 30, perpoterledirebene Gornatamente
secondo imodidiquellalingua, percheàuolerdirelecose
inunalinguaconimodidel'altre,nonhagratis alcuna,da se questofioferuaffe, iltradurenonfaa
rebbeforsetantobiasimato- G. E diconooltredi questo chesifacontroal'intentionedel'authore.
A. O comepuoesserequestochesifacontro àl'in tentionedellauthore.A.
Ocomepuoessereque Stose chiunquescriue gouernare ifigliuoli, mainsegnarloro
coregerli, seno 2 STŮ VINbyCo. 93 noglion farquestoditutelecosee'douerebbonals
mancofarlodiquele chesononecessarië 2 e .G.Et qualisonqueste? A. Leleggi, cosilediuineco
mele humane. G. Et cheutilitàarecherebbeque stoaglihumani?A. Comecheutilita! Quanto
fa rebbonoeglinpiuamatori & piu defenforidele coseappartenentia la Religione
Christiana? se le comincia sino à leggere da puti, et dimaninma nofi esercitasinoinquele,
comefannogli Hebrci; la qual cosa non si puo fare, non leh auendob entrở dotteinuolgare,& beneacconcie:G
Non marauiglia fegli hebrei fannotutisiben'parlaredel
lecosedelaleggeloro,òuadinsiàuergognarei Christiani, che insegnon leggere dilorofigliuoli
ò insule letere di mercantia,òınsucerteleggende dano poter impararuisucosanessuna;
doueedoue rebbono laprimacosainsegnarloroquello, cheap partienea l'esere Christiano,
sapendochequeleco sechesimparanoneprimianni, sonoquele,chesi ritengono sēprepiuche
l'altrenella memoria.A. Etoltreaquesto, conquantapiureuerentia,
attentionesisarebbeàgliuficidiuini see's’inten defequel chedicono. G.
Certamente che questo èuero. A. Dimmi conche diuotione, òconcheani mololo danogli
huominiIddio, nõintendendoquel chesidicono,tufaipurilfauellaredeleputte,ca de papagalinonsichiamafauellare;mammita
gratiadisam Girolamoche traduseloroognicosainquellaline gua; comeueroam.
Store della patriafunt.G. Cene tamente Animimia, chequestainaopinionemi
piacemolto.A. Ellati puòpiacerecheelaé'an choradi Paulo Apostolo,
chescriveàCorintiche doueuonoancoresidirealcuniloroofitijinhes
breo,com.diroloidiora Amen, sopralabenedition
uostra,seeglinonintendequelchesidice che fruttonecauerae’mu? G. o dachevenne
adun que,chequandoquestecosefuronocanatelaprima uoltadihebreo,elenonfuronomoffeinvolgare?
A. Perche all'horaperlamescolanzadelemolte genti Barbare, cheeranoinqueitempi perlaItas
tia, noncieraaltralinguachelalatina,laqualefuf seintesa,quafipertutto, Guedichee
nonsitrous fcrituraalcunadiquei tempifenoninquestame tione di suonosolamenteperchee'nonintendono
quelcheesidicono (conciosiachefanelareproa priamentesia esprimereparole,chefagnifichinoi
conceti, quello, cheintendecoluichefanela) adunqueilnostroleggere, òçantaresalmi,nonin
tendendo quelchenoicidiciamo,èsimileaungrac
chiarediputte,ècinguettaredipapagallinesoia ritrouare alcunaaltrareligionechelanostra,che
tengaquestimodi,imperòchegli Hebreilaudande noiddiainhebreo,i Greci, ingreco; I
LATINI; IN LATINO, conglisciauoniinistiauone,
volgare, cosilesacrecomeleciuili.A. Dala maritia de Preti,
defrati,chenonbastandolos roquellaportionedelledecimechehaueuaordina,
toloroIddioperlegge, àuoleruiuertantofurtuo: Jamente comee'fanno,celetengonoafcolecce
deuendonoàpoco poco, comesidiceàminuto, inquelmodo, peròchee'uogliono,spauentandogli
huominiconmillefalfiminacci, iqualinonsuonan cosinela leggecomeegliinterpretano',dimas
niera che egli hannocanatodimarioà pouerises colaripiuchelametadiquel
> desima, chseonolecosesacre,maquestobastu,circa
àleleggidiuine.Veniamohoraalehumanefe ele, fonoquellechehannoàr egolare gli huomini,&
secondo l'arbitrio delle qualisidebbeuiuere, perche
hannoelenoaesereinunalingua,chesiintenda perpochi? I Romani che le feciono, &
n'ebbonotā te da Greci, nonlefecionperòinaltralinguache laloro;&
cofisimilmenteLigurgo,Solone, & gli altri, che dette noleleggiatuttala
Grecia, nonle fecionperòinaltralingua,cheinquelacheusana noipopoliloro .G.O
s’elefonocosinecessarie cometudi, dondeuienėcheelenonsitraduconoin che
eglihaueuano. G. Eh questo èunmalechemiparechesidia nonsolamenteàisacerdoti,ma
aognuno, anzi non cehnom chepensiadaltrofenoninchemodo
&potefjecauareedánaridelescarfeled'altri,e sto metterglinelasua,egliebëuero,chei PretieFra
ti, egoi Notaichelo fannocon le parole sonpiuuse lentideglialtri. A. Ehimeeno sarebbe
uenuto lorfatrocosiagevolmente, seglihuominihanesi nohauutopiucognitione
delescrituresacre, chee’nonhanno. Etlac agionechenonfi traduco no l'humane, è fimilmentelampietàdimolti
dotto rij@ auocati, checiuoglionuenderelecosecommu ni, & perpoterlo farmeglio,
hannotrouato questo belghiribizzo, cheicontrattinonsipoßinfarein uoloare, mi solamenteinquelalorobelagramma
tica, chelaintendonpocoeglino, comancoglialtri; somemurauigliocertamente, chegli
huomini hat binmaisopportatotanto una cosasimile, sotola
qualesipuofaremilleinganni. G. Etchee'non senefaforse, esarebbemoltopiuutile, cheefifaces
finonella nostra lingua,perchel'huomointende rebbequelchee facese,& cosii testimoni
quello cheeglihannoàtestificare& vorrebbonouederlo fcriuereal'hora, nòche pigliaßinoinomi
solamente, et poilodestēdesinoinsulprotocoloàloro piacimë to, mettendoàogniparolaunacetera,chesecondo
me nonèaltro ch'ununcino, dovenon intendendo
quelchefifaccino,bastalorosolamentediresi,ego nonpensanoalec onditioni chespessouisi
comprendono; dondenasconopoimillepiatt. A , Etper questomicredoiochelofacino; ondetiuodirque
' G47 totu uuoi. Ma de Preti,ede Fratinon udio gia chetudicamale; perchesecondocheio
hointeso purdaloro, enons'appartieneàisecolari,ilripren dergli ftochenoinon
cipoßiamomancodoleredeSacere dotic,ordegli Auuocati, ches ifarebbonoisuddi
tidique I Principi, cheuolesinucderelorol'acquç Gil Sole.G. Diquestitilasceròiodire.
A. Eccounadiquelle opinionicheficre deil mondoessereuera,pernonhauerl'intendimen
todelleletere sacre. Dimmiunpoco, nonsiamonoi tutifigliuolidi Dio,e
conseguentementefrate. glidiChristo? G. Sifiamo. A. Etifrategls nonsonoequaliin
quantofrategi? G. Sisono. A Adunque ancora noicome Chriftianifi
gliuolidiDio,fiamoequali, e àl' unfratelos'ap partieneriprenderel'altro. G.
Corestoèuero;ma eglihanno quella degnitàdelsacerdoria, cheglifa piudegnidinoi. A.
Oqualpuoesseremaggior dignitàchel'eserefigliuolidi Dio;uuoitucheilmi
norlumecuoprail maggiore? eglièmaggiordegni tàl'effer Christiano, chel'efer Sacerdote,ò
Prin. cipe, i quali sono ofituidatida Dio, & fannogli huominiministridiDio,tusaipurecheeglièpiues
ferfeigliuolo d'unprincipe, cheesseresuominifiro. G. Adunque io sono da piu che
il Papa. A. Que stonò; cheegliè primieraměte Christiano cometes in questo noisiateequali;
mapoiperesesreta toeleto particularmětedaIddio, persuominiftróz
egli vieneaesereinuncerto mododapiudite, per la qual cosa tu debbihonorarlo,cometuomaggiorez
manonperquesto peròtièprohibitodipotereriprē dereglierrorichee'fa, c &ommettecomehuomo,
e come Christiano purch'efifacia,conquellari uerentiacheinsegnalacarita Gloamoredel
prof fimo, etchequestosiailuero, tunehailo esempioin Paulo Apostolo, il qualedicecheriprese
Pietro, che era fuo maggiore,percheeglierariprensibile
subitoòeglimiraculosamětecadeuamor to,òeglin'eraportatoda Drauoli farebbe da far
loro comequelsoldato, che hauendotoltoàun Fratelametà dicertopanno,
cheeglihaueuaaccattatoperueftirsi, etminaccian doloil Fratedirichiedergliloildi
del Giuditio,gli tolequelresto; dicendo;poicheiohotanto tempoà pagarlo, iouoglioancorquest'altro.
G. Inueritachequestatua opinionenonmidispiace, maiononuogiadırlaz perche oltreàl'autorità
egli hannoancoralaforza,& fannodipoiconl'arme,
ueggiēdochenonuaglionpiuloroles communiche; come nella primitiua chiesa ; chequädoeimaledina
nouno,di senonhaueßinoaltrearmi te che cheleloromala ditioni, e .G. Ehime, che
nonpossonoancorfaredeglialtrimiracolich'eifa Ceuano. A. Benlodises. AQUINO
quando essendogli detto da Papa Innocētio, cheha .A. Certamen e '
OK gustatopartequádoe' furapito elterze Çıelo) dicellechenodesiderauaaltro,
che 2 Heuaunmontedidanariinnanzi,& contauagli; Tuuedi Thomaso, la Chiesa
no puo piu dire come el ladiceuaanticamente; Argentum & aurumnon eftmihi, Eglirispose;Ne
anchefurge etambula. GOtufaitantecoseanimamia, chetumifaiueramë temarauigliare,
& seimoltopiudotta, etpiuualen te; che io non credena; ma dimmiun poco; comehai
tufatoàsaperlesẽzame; chemihaipurdetto, che noisiamo una cosa medesima, et chementrechetu
seiunitame co non puo operarefenoninme?A .O Giufto, quesatarebbe
cosatroppolungt; io uoglio che noi indugiamoaunal trauolta, cheegl è gia di,
tempo che tunadiale facende tue G. ohime. tudi il uero, egli edichiaro affatto,
oh come paffa uiailtempoche l'huomo non seneauuedde quando sefa, ò si ragiona di
qual cosa che piacia altrui. V andoio consider
tal uota meco med RAGIONAMENTO IH FRA cosmo BÀRTOLI E G.
SOPRA LE DIFFICOLTÀ DI NEHERE IN REGOLE UL NOSTRA UNCSVA.AL MOLTO REVERENDO MESSER PIERFRANCESCO 6IAHBULLARI amico SUO canssuno GIOVAN BATISTA GELLI. Da poiche voi volete pure, messer Pier Francesco mio onoratissimo, che io vi racconti il ragionamento stato tra messer Cosimo Bartoli e m quello stesso giorno che voi novamente fusto rieletto nel numero di quegli uomini che debbono riordinare e ridurre a regola la nostra lingua fiorentina;
ed, a gli amici non si può né debbo negare cosa alcuna che giusta sia, mi sono risoluto in tutto porlo in iscritto, ma
semplice e puramente come e' nacque allora in fra noi, e a guisa pure di dialogo, a cagione che e la cosa sia meglio intesa, e si fugga il lungo fastìdio di quella tanto noiosa replica:
disse egli, e
risposi io. E perchè voi sapete come noi altri la occasione in su che egli è nato, senza replìcarvela ora altrimenti, dico solamente che usciti de la Accademia accompagnando messer Cosimo a casa sua, sopraggiuntovi da la
sera, e desiderando fuggire quella crudezza de Farla che comunemente apporta la notte, passammo in casa, e appressò ne lo scrittojo. Dove ragionando di varie cose, e eadendo, non so in che modo, in su quello che si erd il di fatto ne l'Accademia, voltatosi messer Cosimo a me, riguardatomi
alquanto, cominciò sorridendo a dirmi cosi: BariolL Io ho bene assai chiaramente conosciuto oggi, GeUo mio caro, esser sommamente vero quanto
disse il Cosimo Bartoli, contemporaneo del Gelli, e
uomo di molta dottrina e di molta fama
a' suoi tempi. Fu ambasciatore per Cosimo I alla Repubblica di Venena.
1a
c^ere die lasciò son degne di escer tenute,
pia che non si fa, in pregio. diyinìssimo nostro ALIGHIERI
in persona di
Adamo nel Paradiso: Che nullo effetto
mai razionabile, Per lo piacere uman,
cbe rinovella Seguendo il cielo, fu
sempre durabile. Gonciossiach' io ho
veduto dispiacerti oggi si fattamente ciò
che Fanno passato tanto ti piacque, che con ogni tao studio
e
ingegno hai pur fatto quasi che forza di non esser di nuovo eletto in quel piccol numero e scelto, che debbo ordinare e formare LE
REGOLE DI QUESTA LINGUA NOSTRA; non per vietare
o tórre ad alcuno la libertà e la facoltà di parlare e di scrivere a senno suo,
ma solo perchè, essendoci alcuni Accademici
assai differenti ne la pronunzia e ne
la seri tia- ra, chi vorrà pure
apprendere la vera e natia lingua fiorentina,
abbia almanco dove ricorrere a vedere il modo e la forma de V una e del’altra cosa comunemente iisata in Firenze.
Il che nascendo pur da sincerità di mente e da desio
di giovare altrui, non può essere giustamente se non lodato.
E perchè le cose degne di loda si debbon sempre far volentieri,
non so io veder la cagione che ti abbia fatto cosi
fuggire una impresa tanto onorata. Ricordandomi averti sentito più volte dire, che tu porti si grande amore a questo nostro parlare, il quale,
quando egli è favellato puro e senza mescuglio di forestiero ne la nostra pronunzia
propria, ti pare si bello,
che tu non puoi in maniera alcuna credere o imaginarti che e' fusse più beilo udire o CESARE
o CICERONE
o qoal altro Romano si sia, che alcuni di veri e nobili cittadini
di Firenze, i quali per la loro grandezza abbino avuto il più del tempo a trattare di cose gravi,
e a mescolarsi poco col VOLGO, CHE HA LINGUA MOLTO
PIU BASSAe parole tìIì e plebee: dove,
per V opposi to,
costoro hanno parole scelte e facili,
che oltre a la naturale dolcezza, di questa lingua, apportano
un certo che di grandezza e di nobiltà; e massimamente
quando essi parlatori hanno atteso a le lettere, esercitandosi
ne gli studj, come ne' tempi de la
tua fanciallezza. Qnesto periodo soTercfaiamente
lungo è guasto andie per questo
gerundio ; invece del quale dicendosi
ricordami, tornerebbe meglio. erano Bucellai,
Biacceto, Canacci, Corsi, Martelli, Vettori
e altri litterati che allora si
raganavanoaTorto de'Rncellai, doye to, quando
ponevi tal volta penetrare io maniera
alca- na, stavi con quella reverenza
e attenzione a udirli parlare tra
loro, che si ricerca proprio a gli
oracoli, E di più mi ricorda ancora
averti sentito dire che andavi si
volentieri, quando ci venivano ambasciadori,
a udirli fare V orazioni, essendo in
qoe' tempi usanza che parlassino la
prima volta
pubblicamente.Di che sopra modo ti dilettavi, si per la differenzia
che tu senlivi tra le lingue loro e
la nostra, e si per udire la maniera
de le risposte che si facevano o
per il Gonfaloniere che fu un tempo
Piero Sederini, o per il segre- tario
de la Signoria, che era messer
Marcello Virgilio, uo- mo non meno elegante
e facondo ne la nostra lingua che
ne la latina, e non manco bel
parlatore che si fosse Pier Soderini.
Sovviemmi oltre a questo, che vivendo
Ruberto Ac- cia joli e Luigi Guicciardini,
andavi spesso a starti con loro, dii;endo
che, oltra i dotti ragionamenti, essendo
e T uno e r altro litteratissimi,
ti pigliavi si gran piacere de lo
udir- gli favellare, parendoti che e' si
fusse cosi ben conservata in loro la
grandezza e la bellezza di questa
lingua. De la qual cosa lodi ancor
oggi Jacopo Nardi per le lettere che
e' ti scrive ; e messer Francesco
Vinta, agente ora de lo illustrissi- mo
ed eccellentissimo Duca nostro appresso la
eccellenzia del signor don Ferrante
Gonzaga, parendoti (secondo che tu affermi)
che egli, ancora che Volterrano, scriva
in quella pura e sincera lingua
fiorentina che tu hai sempre tanto pregiata. Queste cose, G. mìo caro, per parermi tutte,
contrariea quanto oggi ti ho visto
fare, mi inducono a maravigliarmi si
grandemente di questa tua mutazione, che,
se non eh' io considero che tu
sei uomo, cioè variabile e mutabile
come è la natura di tutti, io
non saprei quello che avessi a dirmi
di te, se non (parlandoti piacevolmente
e liberamente, come noi sogliam fare
insieme) che tu medesimo non sai
ancora quello che tu ti voglia.
Gelli. Messer Cosimo mio carissimo,
voi mi siete venuto a dosso
improvisamente col principio d' una orazione
tanto consideraia e cosi bene
affortificata da tante praoTe, ehe io
non 80 qoasi donde avenni a pigliare
il Inogo o la via da poter rispondere.
Tattavotta, concedendoTÌ quello che è da
concedere, cioè che io sono umuo, la
natora de' quali non è fidamente
yariabile e matahile, come yoi diceste,
ma e tanto sottoposta e atta ad
errare, come voi forse voleste dire e
per modestia non lo diceste, che, si
come canta la santa Chiesa, ogni nomo
è mendace e pieno di errori ; e
negandovi, per Topposito, ciò che è da
negare, cioè che tale malamente sia nato
in me dal
non sapere io medesimo quello che io mi voglio, vi
rispondo, per isgannarvi, che se mai
approvai per vero quel detto che
Umvìo dMe mnUar proposito^ lo approvo ora
e tengo verissimo; poiché, eletto io ancora
lo anno passato (come voi dite) a
dare regola a questa lingua, co- minciai
a considerare la cosa miAio più
diligentemente che io non aveva fotte
sino a qnell' era. Bartoli. Egli
è il vero che questo detto è
molto spesso in bocca a quegli uomini
che pare che abbino qualche qua- lità
più de gli altrL Nientedimanco,
se e' si considera bene il significato
di questo nome Sapiente, non pare a
me che e' si debbia cosi approvare
questo motte come tu di'. Perchè, non
volendo dire altro lo esser savio,
che le avere una vera scienzia e
certissima cognizione de le cose, a
chi è savio, perchè egli ha di
già conosciate il vero essere di
quelle, non accade mutar proposito. Perchè
il mutarsi conviene so-lamente a colui che
senza aver conosciuto 0 vero, rùsolutosi
troppo tosto, vede poi finalmente, o
per sé e per T altrui ammaestramento, di
avere errato; e non volendo mantenersi
nel preso errore, è costretto a mutar
proposito. OeìU. Voi dite il vero.
Ma il conoscere perfettamente la verità
de le cose non è si agevole,
come voi forse vi imaginate:
anzi, per il contrario, è tanto difficfle,
che alcuni filo- sofi usaron dire che di
ciò che dicevan gli uomini non era
vera cosa alcuna ; ma che quello
che e' chiamavano vero, era quel che
pareva loro. De la quale opinione non
è però da curarsi molto; si perchè e'
si leverebbon via tutte le scienzie ;
e si ancora per averla e dottamente
e argutamente riprovata e annullata
Aristotile col dire che non essendo
vera cosa alcuna, veniva ancora similmente
a non esser vero qael che dicevano
eglino. Sì che, se bene si paò
chiamare solamente savio chi conosce le
cose secondo il vero esser loro, e'
non è però inconveniente che a questi
tali ancora bisogni a le
volte mutare proposito, se non per il non aver conosciuto la verità,
per la occasione almanco de'
tempi: i quali continovamente vanno si variando tutte le cose, che assai manifestamente si vede esser tal volta
bene il fare uno effetto in un
tempo, che in un altro non è
ben farlo. Benché questa non è
propriamente la causa per la quale io
ho mutato proposito ; ma solamente lo aver
considerata la cosa molto più che io
non. ave va prima, e lo averla
discorsa fra me medesimo molto più
diligentemente che in sino al- lora.
Bariolù E con quali ragioni ?Perché
io so molto bene che il discorrere
non è altro che una esamina che
fa sopra le cose quella nostra parte
superiore, da ia quale noi acqui- stiamo
il nome di animali ragionevoli, considerando
non meno ciò che fa per una
parte, che tutto quel eh' appartiene a
V altra. GeUù Le ragioni e le
diflicultà che non solo mi hanno
fatto levar via V animo daquesta
impresa, ma ancora giudicarla quasi impossìbile,
sono e molte e molto potenti; e
quanto più vi pensava intorno, più mi
se ne offerivano sem- pre a la mente
de l’altre nuove. Di maniera che io
posso dire, che e' sia avvenuto
propriamente a me in questa cosa,
come avviene a chi vede da lontano
una torre o altra cosa simile; che
quanto egli la riguarda più di
discosto, tanto gli pare minore e più
bassa; e dipoi, appressandosele, quanto più
la guarda da presso, tanto gli
apparisce continovamente maggiore e più
alta. Cosi ancora io, mentre che io
stava lontano al mettere in atto questa
formazione de le regole, me la
imaginava piccola cosa ; ma quando poi
tentammo porla ad effetto, quanto più
la considerai, tanto più mi parve
difficile. Imperocché, dovendo principalmente esser
questa opera d'una Accademia Fiorentina, mi
si appresentava subito a l' animo, che
e' bisognava che ella fusse con tanta
arte e con tal dottrina, che gli
uomini non avessino a dispreizarla.
e ridendosi di noi e di quella,
dire con Orazio in nostra ver- gogna:
Parturient tnontes; nascetur ridieuhu mtu.
Sovveniyami dipoi, che questo nome di
Accademia era per generare ne gli
animi de le persone una espettazione
tanto grande, che e' sarebbe al tutto
impossibile il corrispon- derle: laonde,
ove egli è consueto non solamente
scusare gli errori che qualche volta
si riconoscono ne le composizioni de'
privati, ma difendergli arditamente, affermando
che chiunque opera merita di esser
lodato, in questa nostra im- presa comune
avverrebbe tutto V opposito. Perchè i
forestieri, che ci vogliono esser maestri,
per far vero il detto del vulgo
che t più dotti manco sanno, si porrebbono
con ogni industria a cercar di
attaccar lo uncino ; e gli errori,
ancora che minimi, chiamerebbono sempre
gravissimi. E il farla in ogni sua
parte con tanta considerazione, che alcune
cose non potessino esser chiamate da
molti errori, credo che sia al tutto
impossibile. Bartoli, O questo perchè?
Getti. Pela diversità de' nomi e
de le pronunzie che si traevano per
le città di Toscana ; ciascuna de
le quali pregiando più le sue cose
che quelle d'altri, stimerebbe e ter- rebbe
errore quello che in Firenze sarebbe
regola. Ma per meglio esplicarvi ancora
questo capo, mi bisogna comin- ciarmi da
un altro principio. Ditemi chi fa l'
una l'
altra; o le regole le lingue, o le lingue 1q regole?
Bartoli. £ chi non sa che le lingue fanno le regole, essendo
quelle innanzi che queste; e non
essendo fondate queste m altro, né
avendo altra pruova che le confermi,
se non r autorità di esse lingue?
GeUL E da questo, essendo egli
come egli è vero, nasce che e'
non si può far regola alcuna che
sia veramente rego- la non solo a la
lingua toscana, ma ancora a la
fiorentina: e uditene la ragione. Tutte
le lingue del mondo sono, come voi
vi sapete, o variabili o invariabili.
Le invariabili sono quelle che non si
mutarono mai, per tempo o cagione alcuna, ma
da quel di che elle ebbero principio,
insino a che elle furono al mondo, sì favellarono
sempre in qoel me- desimo modo: come
è quella che gl’Ebrei stessi chiamano
sacra, cioè quella de la Bibbia, la
quale dal suo nascimento sino al di
d' oggi si è conservata sempre la
medesima ap- punto. E se bene Esdra,
loro sacerdote, dopo la servitù ba- bilonica
vi aggiunse punti ed accenti per
farla più agevole a leggere, non mutò
egli per questo né lo idioma né
la pro- nunzia; laonde la medessima lingua
favellano ogfl^i tutti gli Ebrei, in
qualunche parte del mondo e' si truovino,
che fa- vellarono i loro scrittori,
e particularmente Mosè, il quale è il più antico che elli abbino. La qual cosa
è veramente maravigliosa : perché, non
si mutando quasi le lingue per altro
che per mescolarsi que'cbe le parlano
con genti d'al- tro idioma, quale è
quella che dovesse essere più alterata
e più variata che la ebrea?
Gonciossiachè i Giudei, dopo la cacciata
loro di Jerusalem, sono già MGGGG
anni, senza regno, senza patria e
senza luogo dove fermarsi, sieno andati
continovamente errando sino agli estremi fini
della terra, e mescolandosi, a guisa
di peregrini, con tutte le generazio- ni
che il sol vede sotto il suo
cielo. E nientedimanco quella lor lingua
é per tutto quella medesima. Bartolù
Ger lamento che ella è cosa fuori di
natura, e che non può attribuirsi se
non a Dio. Il quale, avendo dato
la legge in quella, e fattovi
scrivere tutte le cose sacre e
divine, ha voluto, per indubitata
testimonianza de la santis- sima fede
nostra, che ella duri incorrotta sempre.
G., Di queste dunque si fatte
lingue non occorre che noi parliamo,
essendo manifestissimo a ciascheduno, che
elle possono agevolmente ridursi a regole,
o pigliandole da gli scrittori o
prendendole pure da l’uso, perchè è
tutt' uno. Ma le lingue che io
chiamai variabili non si favellano sempre in
un modo;
anzi vanno variando e mutandosi di tempo in tempo, quando in peggii
e quando in meglio, secondo gl’accidenti che accaggiono in quelle provincie a chi
elle sono e private e proprie,
é secondo che e'vi vengono ad abitare genti d'un'
altra lingua: come avvenne, verbigrazia, in
ITALIA, ne
la venuta dei Gotti e Vandali, a LA LINGUA
LATINA. E queste tali, od elle sono
morte, cioè mancate, e non
si hagionambnto intorno alla lingoa;
parlano più in laogo alcuno, ma
si truovono solamente su pe' libri de
gli scrittori; od elle sono vive, e
si parlano an- cora e usano in
qualche paese, come è, verbigrazia, a
Firenze LA LINGUA NOSTRA. Di queste ultime
due maniere tengo io per cosa certa
che le morte si possine agevolmente
mettere in regola; ma de le vive,
che e' non sia solamente difiQcile il
farvi regola alcuna perfetta e vera,
ma che e' sia quasi al tutto
impossibile. Bartoli. £ per che cagione?
Gellù Dirowelo. Né voi né altro
mai di sano intelletto mi negherà
che, avendo a farsi regole d' una
lingua, e' non si deU)a pigliarle da
lei, quando ella fu favellata meglio
che in alcuno altro tempo; essendo
cosa pur ragionevole, quando si hanno
a pigliare per regola le operazioni
d'una cosa, pigliarlequando ella opera
meglio; il che le avviene quando ella
è nel suo perfetto essere. E chi
sarebbe mai quello, se non forse qualche
stolto, che avendo a pigliare per
esemplo le operazioni d' un uomo, pigliasse
quelle che e' fa ne la puerizia,
quando i sensi suoi interiori, per
essere di troppa umidità ripieni quelli
organi ne' quali e' fanno lo ufizio
loro, non potendo porgere a lo
intelletto la facultà che a perfettamente
operare gli è necessaria, non ha esso
uomo libero l’uso de la ragione, e
vive più tosto secondo la natu- ra,
che secondo la mente sua? o veramente
le azioni che egli fa in quella
parte de la vecchiezza, ne la quale
i sangui, per il mancamento del caldo
e de V umido naturali, raffred- dati e
diseccati più del dovere, non somministrano
a' medesimi sensi gli spiriti atti ed
accomodati a le loro operazioni? Ninno
certamente, mi penso ; ma sì bene
quelle che egli fa ne la sua
età migliore: la quale indubitatamente sarà
nel mezzo e nel colmo de la sua
vita; come poeticamente lo mostra il
divinissimo nostro Dante, dicendo essersi
accorto, che la vita nostra era una
oscurissima selva di ignoranzia : Nel
mezzo del cammin di nostra vita ec.
Bartoli. Bella certo e dottissima
considerazione. Ma sta saldo, G.; e
prima che tu proceda più oltre,
dimmi: come si potrà egli trovar già
mai, parlando, come e' pare che la
faccia, propriamente ed esattamente, questo
colmo de la vita e questo essere
più perfetto, ne le cose generabili e
corruttìbili? Le quali si come misurate dal
tempo, essendo sempre in moto continolo,
non vengono a stare già mai in
uno stato medesimo, se non in uno
instante si indivisibile, che e' non
è possibil segnarlo in maniera alcuna:
per il che viene a essere- più
che impossibile, che e' vi si troovi
dentro fermezza. Gellù Confesso io
ancora che questo è vero , se voi
intendete per la fermezza il mancare^d'
ogni moto. Ma questo non è quello
che io voglio inferire. Anzi dico,
che in tutte le cose le quali
dopo il principio loro salgono al
sommo e sapremo grado de la loro
perfezione, conviene di necessità concedere,
avanti che elle comincino a
scenderne, un certo spazio di tempo ;
nel quale elle non salghino e non
ìscendi-no, ma stiano, in quanto ad
essa perfezione, quasi che ferme, e
in uno stato medesimo: essendo di
necessità che in fra due moti
contrari si truovi sempre un po'
di quiete; perchè altrimenti, o non
finirebbe mai l'uno, o non comincerebbe
mai l'altro moto. E questo lo potete
voi chiaramente cono- scere in un sasso
tratto a lo in su; il quale,
poi che con la sua gravitade ha
superato la forza di quella aria che,
fessa violentemente dal braccio di chi
lo trasse, correndo con grandissima
celerità a richiudersi perchè quel luogo
non restì vóto, continovamente lo pigne
in su, se egli non si fermasse
alquanto, non tornerebbe mai a lo in
giù. Goncios- siachè, non si fermando,
egli anderebbe sempre a lo in su;
e andare in su e tornare in giù
in un tempo medesimo (rispetto a la
natura de' contrari, che non patisce
che eglino stiano insieme in un
medesimo tempo, in un subietto medesimo)
non è possibile. Adunque egli è
necessario in tutte le cose che dopo
il principio loro hanno accrescimento e
dicresci- mento di perfezione , che e'
si ritraevi tra V uno e l'
altro nn certo spazio di tempo, nel
quale elle restino di acqui- starne
più, e non comincino ancora a pèrderne:
il qual tempo è chiamato da' filosofi
lo stato, ed è cosa osservata molto
da' medici ne le infermità umane. Ma
se voi volete vedere ancor meglio
questo che io dico, leggete quella
parte del Convivio del nostro ALIGHIERI,
dove e' tratta de la etÀ del’acino,
e resteretene capacissimo. Bartolù Orsù,
sta bene: ma che vnoi ta dire
per questo? GeUi, Yo'dire, tornando
al nostro proposito, che non si
potendo sapere ne le lingue vive
quando sia questo loro stato e questo
colmo de la loro perfezione, egli non
si può ancora conseguentemente farne regole
perfette e intere. Perchè, se bene
e' si può sapere mediante gli
scrittori di quelle quando meglio che
mai elle si siano favellate per il
passato , nessuno è però che si possa
promettere per il futu- ro, che insino
a che elle non mancano, elle non
si possino favellar meglio, e cosi
che e' non possino surgere' ancora alcuni
scrittori che le scrivine molto meglio.
Come potete voi mai sapere quale sia
il mezzo o lo stato d' una cosa,
de la quale, se bene voi avete
il principio noto, voi non potete
però non solamente sapere quando abbia
ad essere il fine suo determinatamente,
ma né anco imaginarvelo per con-
ìetture ; come forse la vita e
de V uomo e di molte altre
cose, le quali quando sono arrivate a
la lor vecchiezza, agevolmente si può farne
la coniettura quando abbia a essere
la morte loro; non essendo però di
quelle, a chi è concesso da la
natura il rinovellarsi, come, verbigrazìa,rerbe e
le pianle la primavera. Ma le lingue
non sono di queste. Resta dunque, non
si potendo saper lo stato de le
lingue che vivono, che e' non se
ne possa ancora formar regola alcuna
ferma e vera: il che non avviene
de le già morte, come ne avete
lo esemplo chiaro ne la latina. Ne
la quale considerando i gramatici cbe
ne hanno scritto quale fusse stato il
processo suo, e giudicando, come è il
vero, il colmo di quella essere stato
NE L’ETA DI CESARE, CICERONE E VIRGILIO; perchè ne'
tempi di ENNIO e di PLAUTOsi vede che
ella era ne lo augumento, e in
quegli poi di SVETONIO e di TACITO,
nel discrescimento, FONDARONO TUTTE LE REGOLE LORO SOPRA IL PARLARE
DI CERSARE, CICERONE E VIRGILIO, affermando che ciò che
si dicesse per lo avvenire ne la
maniera de' sopra detti, sempre sarebbe DETTO
BENE E LATINAMENTE, e massime secondo CESARE e CICERONE;
per esser lecito e conceduto a' poeti
lo usare spesso molte cose ne' versi
loro, che non si comportano ne la
prosa. Ma questo non si
può fare ne la lingua fiorentina, e molto manco ne la toscana,
che vivono ancora, e non hanno scrittori
da fondarvi lo intento sno, non si
sapendo se elle sono ancor per- venute
al colmo de Varco. Bartoli, E
se questo non si può fare per
via de gli scritti, chi vieta che
e' non si faccia almanco per via
de lo uso? G.. E di quale
uso? Oh questa è l' altra difficultà,
e non punto minore de la precedente.
Bartoli. E perchè? GeUi. Perchè
ne' tempi nostri non avviene di
questa lìngua QUELLO CHE NE’ TEMPI DE’ ROMANI AVENNE DE LA LATINA;
che essendo propria d'una nazione che
domina allora ad una grandissima parte
di questo mondo, era tanto stimata e
onorata da ciascuno de' soggetti loro,
e in Italia massimamente, che e' non
si trovava nohile alcuno e da farne
stima, per qual si voglia città, il
quale non si ingegnasse di parlar LA LINGUA
ROMANA. SI perchè chi non sapeva era
da essi chiamato BARBARO, cioè persona
inculta e
di rozzi e aspri costumi; e si ancora per ì
bisogni che occorrevano giornalmente ne le
faccende é private e publiche; avendo
comandato I ROMANI in tutte le loro Provincie,
che e' non si potesse agitare causa
alcuna criminale o civile, né far
procèsso od ìnstrumento alcuno, se non
in lingua latina. Ad imitazione de'
quali, per quanto io n'ho inteso dire
da Benci, che da venticinque anni in qua ha usato molto la Francia,
e come voi vi sapete, oltra le
pratiche mercantili ha qualche cognizione ancora
de le speculative, ordinò il padre di
questo re, che e' si facesse cosi in
franzese per tutto il dominio suo: il
che osservatosi fino ad ora, ha tanto
migliorata e fatta più bella e ricca
quella lingua, che
è una maraviglia a chi lo considera.
£ il re che vive, Arrigo II,
imitando le vestìgio del padre, oltra il
fare osservare quello ordine, fa ancora
e carezze e cortesie grandissime a
chi traduce in essa, 0 fa opera
di arricchirla e farla perfetta.
Bartoli. Bella impresa e degna
veramente d'un principe, amare e onorare
la sua lingua: atteso massimamente che
nessuna può sormontare e venire in
riputazione senza il favor del principe
suo. Non sarebbe dunque stato
diflScile a ehi avesse voluto mettere
in regola la lingua latina in que'
tempi ehe ella era yiva, poi che
gli bastava osservare solamente Io uso
e il modo che tenevano i cittadini
romani : p^chè non era in que'
tempi ehi ardisse pre^rre la sua
lingua a qoeUa, e non confessare che
la vera pronunzia e il vero modo
del favellare era quello de' ROMANI,
altrimenti detto latino. Ma non può
questo avvenire a noi de la nostra,
essendo in To- scana tanti
principati e tanti signori; li stati de'
quali, se non in tutto, hanno pure
in parte ciascuno, come io dissi in
quella mia traduzione a lo illustrissimo
e reverendissimo Cardinale di Ferrara,
qualche favella e pronunzia propria, varia
e diversa da tutte le altre, e
parendo a ciascuno che la sua sia
meglio. Perchè noi non ci abbiamo
imperio alcuno cosi grande, che e'
muova come I ROMANI le città sottopo- steli
a cercare spontaneamente di favellare e
onorare quella lingua che favella chi
le comanda. Gonciossiachè, quando ben la
Toscana tutta fusse comandata da un
signor solo, lo imperio suo, per
avere ì confini si presso, non
sarebbe mai di tanta grandezza, che
e' fusse oiiorato e temuto quanto era
allora quel de' Romani. Imperocché i
suggetti a loro, essendo privi d' ogni
speranza di scir mai di tale servitù,
non aveado principe aieuno a lo
intorno dove ricorrere quando e' pensassero
di ribellarsi, erano necessitati, se non
per amore, almeno per timore, a far
ciò che piaceva à' ROMANI. Bar Ioli. Io
cedo, e confesso, quanto a la
grandezza e forza romana, che egli è
vero tutto quel che tu di'. Niente
dìmanco, e' si vede pur manifestamente
ne' tempi nostri, che molte persone
di quakhe spirito, i»8i fuor d' Italia
come in Italia, s' ingegnano con molto
situdio di apprendere e di favellare
questa nostra lingua non per altro
che per amore. G. Egli è vero
che quello che ne la età de'
Romani faceva la forza, lo fa oggi
la bontà e la bellezza di questa lingua.
Ma perchè coloro che la desiderano e
cercano per loro stessi come cosa buona,
la appetiscono edamano in quella *
Intende la tradniione dell' operetta di
Simone Porzio del modo di orare
cristianamente. Qui parla di cose dette
nella lettera dedicatoria.maniera che si
desidera ed ama il bene, ella è
ancora dipoi seguitata e adoperala come
esso bene, cioè da ì meno, e
non da i più. Ma datò che e'
fosse il vero che ognuno cer- casse
di favellare in lingua toscana, e
desiderasse che e' se ne facessi
regole, donde si arebbe poi a
cavarle, non ci essendo ciltade alcuna
che signoreggi tutta Toscana? Perchè i
Luc- chesi, i Pisani, i Sanesi, gli
Aretini, e qualunque altra città di
questa provìncia, direbbe sempre che la
vera lingua e pronunzia losca fusse
veramente la sua; e il cavare una
parte di esse regole da una città e
V altra da un' altra, sce- gliendo,
come dicono alcuni, il meglio, per fare
un composito di tutte quante, sarebbe
cosa molto difiScile, e poi forse
anche non approvata e non osservata,
non ci essendo chi la comandi.
Bartoli. Oh, io non penso però
che il luogo donde cavare le regime
abbia molta difBcultà; non essendo se
non raris- simi que' che volendo imparar
la lìngua piglino altri autori che
Dante, il Petrarca e '1 Boccaccio ;
i quali essendo pure tutti e tre
di Firenze, mostrano assai manifestamente donde
sì debba imparar la lingua. Non
ostante che alcuni, poco amici per
avventura del n<Mne nostro, hanno voluto
privarci del Petrarca e del Boccaccio,
facendo questo ultimo da Certaldo e
quello altro Aretino, senza avertire che
ser Pe- tracco padre di messer
Francesco, come cittadino che egli era,
ebbe per moglie una de'Ganigiani, e
luogo tempo fu cancelliere alle
Riformagioni ; e che Petrarca stesso
dice di sé medesimo: SMo fossi stato
fermo a la spelonca Là dove Apollo
diventò profeta, Fiorenza avria forse oggi
il suo poeta; e che Matteo
Villani dice ne la Cronica che e'
seguitò dopo Giovanni suo fratello :
« Questo anno furono coronati poeti
due nostri cittadini fiorentini; Petracco,
vecchio; e Zanobi da Strata,
giovane. E che il Boccaccio, nel suo
libro de' Fiumi, quando e' ragiona de
l'Elsa, dice: et quum oppida plura
hinc inde ìabens videai, a dexlro, modico
elatum tumulo, Certaldum, vetus msiellum,
Unquii: cujus ego libens memorùiffi
celebro, sedes qtUppe et natole solum
nu^o- rum meorum futi, anUquam illos
susciperet FloretUia eives. GelH, Egli
è vero che, non si stimando qaanto
a la lin- gna, altri scrittori che
questi fiorentini, rispetto (credo io) al
non si esser trovato mai in queste
altre favelle, non sola- meate ehi gli
pareggi, ma nò par chi si appressi
loro, e' pare certamente da confessare che
la lingua fiorentina tenga il principato
ne la Toscana ; nìentedimanco. BartolL Sta
fermo, G., e non dir cosi; che
noi ci recheremo a dosso una invidia
troppo grande. Perchè e' non si può
nò debBè negare che ne' tempi nostri
medesimi non ci siano stati de'
forestier, * e fuor di Toscana, che
abbino scritto in questo idioma si
eccellentemente, che e' ne sono stati
lodati.. Geìlu Si, ma se voi
avvertite bene, vedrete che i più
celebrati fra questi tali sono selamenle
quegli stessi che hanno saputo più e
meglio imitare gli scrittor fiorentini ;
e non son però stati molti : e
di questi ne avete alcuno, che per
aver si bene imitato ed espresso i
concetti altrui con gli stessi modi e
parole de gli autori, que' dotti de L’Orto, pigliando
la metafora da quegli scultori che
attendono più a improntar V altrui
che a sculpire di loro artifizio,
usavano di dir tra loro: costui ha
formato. Ma voi ci avete ancora un'
altra cosa, che dimostra meglio
epiù chiaramente quel che voi dite:
che tutti o la maggior parte de'
forestieri con- fessano e acconsentono
tacitamente, che la lingua che e'
cer- cano e tengon buona ò solamenle
la Fiorentina; io intendo di quella
che favellano i nobili e veri
cittadini fiorentini che hanno qualche cognizione
o di lingue o di scienzie ; e
non di quella che usano i plebei,
e gli uomini che hanno cognizione di
poche altre cose che di quelle che
si conven- gono loro come animali. Perchò,
non vi crediate però che la plebe
di Roma, quando fiori la lingua
latina, favellasse con quella leggiadria
che facevano e CESARE E CICERONE. Bartolù
Certamente no ; anzi si legge di
Cicerone, che i Romani stessi lo
ammiravano, maravigliandosi grandemente * H
monicipalismo a que' tempi faceva non
conoscere che non son forestieri fra
loro quelli che abitano il paese fra
le Alpi e il lilibeo. SOtt
de la 8oa eloquenzia. Ma quale
è questa cosa che ta volevi dire?
GeììL II non si esser trovato
ancora scrittore alcuno di Toscana, che
abbia avuto ardimento a dire di avere
scritto ne la sua lingua propria,
come dissero Dante e il Boccaccio, r
uno nel Convivio, e V altro nel
Decamerone, e come fanno ancor oggi
molti Fiorentini. Di maniera che e'
non si truova opera alcuna, che si
dica scritta in lingua Pisana, Sanese,
Lucchese, Aretina, o di qual si
voglia altro luogo toscano: e pure
hanno avute queste città scrittori di
non piccola fama. Laonde non può
avvenir questo per altro, se non
perchè questi tali conoscono molto bene
la lor lingua naturale non esser
quella che si stima oggi e pregia
cotanto. E se bene essi hanno ancora
imitato gli scrittor nostri, quanto è loro
stato possibile, e' npn V hanno però
voluto confessare aper- tamente e liberamente,
giudicando, per avventura, che ciò non
fusse molto onor loro. Anzi, perchè
se e' l'avessero chiamata Fiorentina, e'
non sarebbe parato loro avervi parte
alcuna o pochissima , e' l' hanno chiamata
Toscana o vulgare; volendo, col chiamarla
cosi, dare a intendere a le persone,
che ella si parli vulgarmente per tutta
la Toscana. Il che si vede che
non è vero. E altri dipoi non
Toscani, per avervi ancor eglino parte, l’hanno
chiamata italiana. Bartolù Sta fermo.
Cello, che ALIGHIERI ancora egli fu di
opinione che ella si dovesse chiamare ITALIANA,
in quel libretto suo D VULGARI ELOQUENTIA, se
io mi ricordo bene. Gellù Ehi
messer Cosimo, non vi ho io detto
più volte che cotesto libro non può
essor di Dante, ma che e' conviene
che qualcun altro l'abbia finto, sotto
il colore di quella promessa che ne
la Dante nel suo Convivio? Il che
non può veramente esser nato da
altro, che da lo avere troppo arden-
temente desiderato chi ne fu lo autore,
che V onor de la lingua fusse
generalmente comune di tutta la Italia ,
e non particulare di Firenze solo. Ma
se voi forse non ve ne ricor- date,
avvertite che que'litterati de l'Orto
de'Rucellaì,dispuT tando, ne la venuta di
Papa Leone, col Trissino (perchè egli
fu che ci condusse la prima volta
questa opera} sopra lo essere o non
esser ella di Dante, gli facevano centra MifiioMAMBaro
irtouio alla limooa* quella, non
variati né alterati in maniera akona,
come omo, Urrà, mare e simili ;
e ana grandissima quantità di quegli
altri dove si varia scrfo una
lettera, come leggo e aequa, che a'
Latini son lego e aqua, G.
Questa fo, come dite voi, nua
esposixione assai stravagante, e da uomini
che, desiderando introdurre cose nuove,
volsero mostrare che ciò fusse fatto
con qualche motivo ragionevole. Ma non è
già venuta di qui la diversità della
pronunzia, la quale molto prima si
variò, che e' venisse a campo si
stran precetto. BarioU. E donde venne
dunque la orìgine? GeUi, Dicono
alcuni diligentissimi osservatori de le
cose di questa lingua, e io lo
confermo con esso loro, che in alcune
città e luoghi particolari di Toscana,
per naturale proprietà si costuma di
mettere Vo in quelle parole ne le
quali in Firenze si mette l' u; di
maniera che, dove noi di- ciamo suslanza,
singutare, particulare, speculare e specular-
tivo, quivi si dice sostanza, singolare,
parlicolare, speco- lare e specoUUivo: e
cosi ancora di mettere Ve dove noi
altri mettiamo V i, costumandosi
ordinariamente dire in Firenze, principe e
UUerato; e quivi prendpe e letterato:
la quale pronunzia arreca a gli
orecchi de' Fiorentini un suono cosi
sgarbato e tanto spiacevole, che e'
non si traeva tra noi chi l' usi,
se non alcuni, e ben pochi, che
per proprio comodo loro seguitano la
pronunzia così fatta ; non si curando
non solamente di dare od accomunare
ad altrui quello che era solamente
de' Fiorentini, ma di adulterare e
imbastardire una lingua mantenutasi pura e
schietta sino a' di nostri, e
solamente bella e leggiadra, quando manco
vi si accompagna voci o pronunzie di
forestieri. Bartolù Certamente che questa,
né a' tempi nostri né a quegli
de li antichi, per quanto se ne
vegga da le scritture, non fu mai
pronunzia fiorentina. £ chi non lo
crede, avvertisca e osservi bene, come coloro
che fecero stampare
in Firenze quel Cento novelle, avuto
poi univer- salmente in tanta reputazione e
tanto pregiato, essendo tutti cittadini
fiorentini nobili e veri, e avendo
cotanti testi antichi e buoni, e tra
gli altri uno che é oggi in
guardaroba di Sua Eccellenza, scritto,
vivendo ancora il Boccaccio, da uno de'
'Mannelli, e non solamente copiato da
lo originale de lo anlore, ma
riveduto ancora e corretto da lui
medesimo; avyertisca, dico, e osservi, come
sempre dissero principe^ liUerato, iustanzia
e partieulare, come ordinariamente si dice
in Firenze. G., Ritrovandosi, adunque,
in Padova alcun di questi tali nel principio
deHa Accademia de gli Infiammati, dove
non era per buona sorte alcuno
veramente Fiorentino (che e' non sarebbe
forse seguito questo disordine); e mettendo
in uso col favellare e con lo
scrivere questa lor naturai pronunzia,
scoperta però primieramente fra gli
Intronati; i Lombardi e i Yeniziani,
che cercavano di pronunziare toscanamente,
credendosi che quella fusse la vera,
cominciarono non solo a celebrarla, ma ad
usarla, ed a trasferirla ne le loro
stampe. A la qual cosa si aggiunse
presto che alcuni altri non Toscani,
per ispogliare la Toscana di questa
gloria, cominciarono a mescolare in essa
molte parole, le quali, al giudizio
mio, né si favellarono nò si
scrissero mai in Toscana; e oltre a
questo, cercarono ancora dì mutarle nome.
£ perchò se ella si dicesse lingua
Tosca, essi che erano forestieri non
ci avevano parte alcuna, cominciarono a
chiamarla chi, come il Trissino, Cortigiana,
e chi Itala o Italiana, come il
reverendissimo Sadoleto; persona dottissima veramente
e eloquentìssima, ma appartata e in
tutto aliena da questa professione. E
di costoro non voglio io veramente dir
cosa alcuna; ma solo che io mi
maraviglio oltre a modo di alcuni
Toscani, che avendo molto più rispetto
al comodo proprio, che a la verità,
per la servitù forse che e' tengono
con alcuni di questi tal,sono concorsi a
chiamarla Italiana essi ancora l non
si curando di vendere per si vii
pregio l'onore e la gloria propria; e
non avendo avvertenza che
i Genovesi, i Milanesi, que' del Lago Maggiore, i
Bergamaschi, una gran parte de' Romagnuoli,
i Marchigiani, i Norcini, gli Abbruzzesi,
i Pugliesi, i Calabresi e altri infi-
niti popoli de la Italia, fanno fede
manifestissima a chiunque favella loro, che a
gran torto ò posto nome a la
lìngua nostra ITALIANA. E come
potette più in cotesti tem|M (lasciando
or le querele da banda) V antorità
di cotestoro, che ifoella de' Fiorentini,
se il principio de la lingua e
il fonie è in Firenze, e fondato
in sa gli scrittori fiorentini? GtXtL
I Fiorentini, attendendo in cotesti tempi
quasi tutti a la mercanzia, a la
quale sempre è stata molto inclinata la
città nostra, e forse |mù per bisogno
che per natura, rispetto a la
magrezza del paese ; non davano opera
alcuna, se non pochissimi, a la
lingua latina, e molto meno a la
greca ; e cosi non venivano a considerare
la propria » e a riconoscer l'arte
e lo studio che avevano usato in
essa ALIGHIERI, il Petrarca e il
Boccaccio: anzi, quando leggevano questi
autori, attendevano pio le istorie, che
altra cosa. Di maniera che, se vi
ricorda bene, crono molto più stimati
allora i Trionfi del Petrarca, che le
Canzoni e Sonetti suoi. Ma In alcune
altre città toscane, dove per la
fertilità e grassezza del lor paese
non è il guadagno si necessario, attendendo
que' cittadini a gli studj de le
buone lettere, cominciarono a considerare
molto (Nrima di noi ne' nostri
scrittori la bel- lezza di questa lingua,
e ad osservare ne lo scriverla quelle
terminazioni e quelle concordanzie de'
singolari e de' plura- li che que'
nostri avevano usate. Bene è vero che
per la lor favella natia pronunziando
non come noi, e mescolandoci ancora
qualche parola de le loro, ce l'hanno
condotta a r essere che voi medesimo
vi
vedete. Lo avere adunque i nostri atteso a la mercatura
e non a le lettere , e la moltitudine
de' travagli che sempre ci sono stati,
fecero per lungo tempo restare in
dietro e quasi che perdersi interamente
gii avvertimenti e l'arte usata da'
tre sopra detti ne la nostra lingua;
e i primi che cominciassero in
Firenze a riosservargli, e ne la
fovella e ne la scrittura, furono
quegli stessi litterati che usavano a l'
Orto de' Rncellai. E ricordami che e'
non potevano restare di maravigliarsi di
alcuni litte- rati poco avanti la loro
età, che avevano composto in versi e
in prosa di questa lingua senza
alcuna osservazione; parendo loro impossibile
che, avendo pur veduti gli scritti di
que' tre famosi, e' non avessero
aperti gli occhi a le loro
osservazioni, e non si fossero accorti
in quanta corruzione fosse incorsa
la beHìssima lingua che noi inrliamo.
Da co- storo avvertiti Rocellaì, Alamanni,
Baondelmonti, Guidetti e aiconi altri, i
qaali» praticando con esso Cosimo» si
trovavmo spesso a rOrU» con qoe' più
vecchi, c«ninciarono a cavar foori le
dette consi- derazioni, e a metterle tanto
in atto, che la lingua n' è poi
tornata in quel pregio che voi
vtdele. BarloU, Tu di' il vero,
GeUo mio caro; perchè e'mi rioor* da
che da venticinque anni in dietro non
erano versificatori io Firenze, se non
tre o qoattro; a' qnali, senza avere
altri- menti oensiderazione akana di terminazioni
di parole , di concordanzie di numeri,
o d' altra cosa che faccia bello, ba-
stava solamente che e' rimassero e fusser
versi. £ chi lo vuol vedere e
toccar con mano, legga le rappresentazioni
che si facevano in que' tempi: le
quali quando io considero chenti elle
sono, e quanto non solamente poco
verisimili, ma impossibili e mostruose, mi
fanno tenere per di poco giudizio e,
per dirla cosi fra noi, molto goffi
tutti coloro che potevano stare a
udirle ; e mi iinno credere che
se elle si
facessero oggi cosi, i fanciulli, non che altri, uccellerebbono si a la scoperta i
compositori, che e' se ne rimarrebbono
in- teramente per lor medesimi. eretti.
E da che vi pensate die nasca
questo, se non da r essere oggi
in Firenze cosi gran numero di
persone che hanno bonissima cognizione de
la lingua latina e greca? le quali
essendo state necessitale ne lo impararle,
a vedere i veri poeti, hanno assai
chiaramente conosciuto che cosa sia poesia,
e quanto sia verbigrazia, centra i
precetti de Tarte il ridurre tutta la
vita di uno uomo, o pur le
azioni di venticinqoe o trenta anni,
in due o tre ore di tempo
che si consuma nel recitare. E a
cagione che e' non si abbia a
dire de' casi loro quel motto di
Orazio Delfinum silvis appingit, fluctibus
aprum, non hanno solamente lasciali
cotesti errori, ma sbanditili ancora in
tuUo da le loro composizioni, e si
sono ridotti a quello uso buono che
avevano i Latini e i Greci. Olire a
questo, avendo appreso per via di regole quelle due lingue.
31S miaoiiAanno ummo aua c4HMM6eiido
quante e quali nano le parti del
pariare, e in cbe modi elle debbino
accompagnarsi , cominciano a favel- lare tanto
rettamente e con tanta leggiadria, che
io mi persuado gagliardamente, la nostra
lingua esser molto Tidna a quel sommo
grado de la perfexione, oltra il
quale non si può salire. BartoU.
E se cori è, die cosi la tengo
io ancora, perehè non si può eDa
adunque mettere in regole, e farla
perfetta alilittoT GM. A le cagioni
che io ve ne ho di già
assegnate, si aggiagne questa altra ancora,
che non è di poco momento: ed è
il non avere in su che fondare e formare esse regole;
eonciossiachè in su gli scrittori non
si può, non avendone noi alcuno che
si possa tenere per bello e per
buono tutte quello che egli ha usato.
Perchè, cominciandoci da qne' tre primi
che sopra gli altri sono approvati, Bante,
oltra lo esser poeta, ebbe dal secol
suo rozzo e duro molte e molte parole
lasciate oggi in tutto da Y uso.
H medesimo avviene al Boccaccio, nel
qoal sono e modi e parole che,
se ben fìiron belle in quel secolo,
l' oso di oggi non le
riceve. E il Petrarca,
se bene ha la sua lingua assai più purgata, per essere (come io dissi in Dante) poeta, per le molte licenzie che a'
poeti son concedute, non è materia conveniente a formarne le regole per la prosa. BarUAL Io non so, Gello mio, come questo sia da concedere; perchè, se bene da que' primi due, rispetto a le licenzie
poetiche, non si posson trar buone regole, il Boccaccio è por tanto bello e tanto pregiato universalmente, ch'io non so perchè tu lo sfugga. GéUU. Il
Boccaccio, per quanto ne dicono questi suoi, si imaginò di usare i tre stili: l’alto, nei
Filocolo; il mediocre, ne la Fiammetta; e il basso, nel Decamerone. Il che se bene gli successe o no, non ci accade ragionarne ora. Basti
che la più approvata de le sue cose è il Cento novelle; opera beila certo e piacevole, ma non da essere in tutto imitate
rispetto ad alcune costruzioni che, per non esser piaciute a Toso, son restate del
tutto in dietro, e ad una infinità di parole che sono oggi aborrite e fuggite da gli scrittori: come, yerbigrazla,
bwma pezxa ìa Intogna,
gravenza, abUawBa, niquUoso, avaecio, autorevole, contezza, deliberanza, sezzaio.
M a che
sto io a contarle a toì che ri faceste sopra la tavola
y e le notaste già taile quante?
BartoU. Certamente queste si fatte voci non solamente si usano oggi da molto pochi, ma elle non sono
ancora più
accettate per fiorentine, e pare che elle offendine
altrui r orecchie, se pur si truova
qualcuno che V usi. G.. Non si
possono adunque le regole toscane cavare
da gli scrittori. Bariolù Gavinsi le
fiorentine (che de V altre non tocca a
noi) da l’uso di Firenze G. £ questo
anche mal si può fare; dovendosi
(come io dissi non molto avanti)
pigliar V uso non d'ogni tempo, ma
de la età dove la lingua fu nel
suo colino. Il che non possiamo saper noi altri,
poi che e la è viva, e va
a T insù ; avvenga che voi
forse, come alcuni forestieri, vi
persuadia- te che ella fusse nel sommo
grado ne la età di que' tre
scrittori. Bartolù Questo no; anzi
tengo per fermo che ella fusse nel
nascimento, e che ella avesse quasi
principio da essi tre, per essere
stati Dante e 1 Petrarca i primi
in questi paesi che cominciassero avere
tanta notizia de la lingua latina più
de gli altri uomini, che e' ne
furono chiamati suscita- tori e ritrovatori;
come apertamente si può vedere nel
pri- vilegio conceduto ad esso Petrarca,
quando publicamente fu coronato nel
CamfMdoglio: e Petrarca e Boccaccio de la
greca, de la quale non si ha in
Italia notizia alcuna ne la età loro,
se non piccola e defettiva. Laonde
bramandola questo ultimo sommamente, condusse a Firenze un Greco, per quanto si legge ne la sua vita, che glie la insegnasse,
e una quantità di libri greci,
lasciati poi da lui stesso dopo la
morte a la libreria del nostro Santo
Spirito. Costoro adunque, mediante la
cognizione di queste lingue, cominciarono a
parhire rettamente e ordinatamente, migliorando
e inalzando tanto il nostro idioma da
quello che egli era, per quanto veder
se ne può in que' che scrissero
avanti a loro, che noi possiamo liberamente
tenere e dire, che il vero
nascimettto e principio di questa libgtta
fa solunente dalor tre: ma che e'
non foron già poi segniti né imitati
ne lo allegarla secondo i modi posti
da loro, imperoceliè chi venne dopo,
non essendo dato a gli stadj^ noA
eomiderò lecostrocioni e le terminazioni
osate da lèro» e iMcMla di tempo
in tempo cadere in ^ella barbarie die
iMd eenllm- mo non son molti anni.
Ma io dico bene> che poi the
g^i uomini hanno ricomincialo a
considerarla, come fecero qnegli de
r Orto, e ad osare i modi de tre
nostri Inmi ella é tanto migliorata a
poco a poco, che io la tengo oggi
nsolto piA bella universalmente, che eOa
non era ne' tempi loro ; e che
se eglino scrissero cosi bene allora
(^il che fn molto più da impotare
a lo ingegno loro che a 4a
bontà de la Ikigoa), scriverebbero molto
meglio oggi : non essendo necessitati
da la povertà Òe la lingua, che
oggi^ è ricchissima^ ad osare quelle
parole che più non piacciono, eqoe'
modi ohe son fuggiti da' nostri
orecchi ; di modo c^e nel volto
ancora del Petrarca non si scorgerebbero
q«e' pochi avvegnaché pic^ eolissimi nei,
che i ben purgati giudizj vi
riconoscono. GelU. Io credo che voi
giudichiate bene, e che la cosa stia
come voi dite. Ma io voglio andare un
passo più là, e dire, che essendo
ancor vìva la lingua nostra, e in
maggiore speranza di avere a vivere,
che eUa fosse fom ancor mai, egli
non si può affermare che la nstnra
(la quale iton si stracca e non
invecchia mal, anzi, se bene ella
varia talora alquanto, è por sempre
quella medesima) non possa e non
abbia ancora a produrre de gì'ingegni
simili a loro; i qoali, trovando la
nostra lingoa in molto maggior perfezione
che non la trovmrono i sopradetti,
serivino non solamente bene cernie qoelli,
ma forse ancora assai meglio di loro»
Bartolù £ questo similmeiite mi par
di credere, essendosi veduto ne' tempi nostriche in quaiuncàe faciità, e particnlarmente ne
la architettura, pittura -e scoltura, ha
la nostra città generati aiconi che
non solo haano paseggiaU i famosi
antichi, ma forse ancora avanzatili in
^oalohe cosa» G. Non si poò donqoe
dire dM ella sia ne lo stato
Mio> veggendosi come di giorno in
gèomo olla va «i soo augomento; e
potendosi agevdmente far conieltara da te cose
che soprareiigoDO, ehe ella abbia ancora
a farsi più ricca e saolto più
beUa. MartoU. E q«ali Mm questo cose Gello?
GeUù Molte e molte sono, messer
Cosimo; e dae sopra tatto l'altre.
L'nna de le quali è la moltitadine
grande di ei^oro che oggi si danno,
in Firenze a la lingna latina; i
quali imparando quelle con regola, avellano
dipoi ancora reg<^tamente la nostra, e
con leggiadria; e da questi imparando
gli altri, mossi da quello ingenito desiderio
ohe ha ciascuno di non volere, in
quello che egli può, essere in
maniera
alcuna soprayanzato da i suoi pari,
faranno di mane in mano la lingua
più bella più onorata, si col parlare
e si col tradurre, arrecandoci le scienzie
e V arti che elli imparano ne l'
altre lingue. L'a&tra è il cominciare
i principi e gli uomini grandi e
qualificati a scrivere in questa lingua
le importantissime cose de' governi de
gli Stati, i maneggi de le guerre
e gli altri negozj gravi de le
faccende, che da non molto in dietro
si scrivevano tutti in LINGUA LATINA.
Perché, non vi date a intendere ehe
una lingua diventi mai ricca e beila
per i ragionamenti de' plebei e de
le donniciuole, che faveUan sempre
(rispetto a lo avere concetti vilis6imi)di
cose basse: chò e' sono solamente gli
uomini grandi e virtuosi, quelli ehe
inalzano e fanno grandi le lingue;
imperocché, avendo sempre concetti nobili e
alti, e trattando e maneggiando coae
di gran momento, e ragionando bene spesso
e discorrendo sopra quelle in prò e in
contro, persuadendo o dissuadendo,
accusando o lodando, e talvolta ancora
ammo- nendo e insegnando, fanno le lingue
loro copiose, onorate, ricche e leggiadre.
Per queste due cose adunque, ancora
che altre cagioni non ci fossero, si
può giustamente sperare ^M la nostra
lingua abbia a essere ancora un
giorno tanto pregiata appresso molti che
nasceranno, quanto sono oggi appresso di
noi e la greca e la latina. £
conseguentemente concludo, che non essendo
ella ancor pervenuta a lo stato suo,
non se ne possa far regola, che in tempo non molto lungo non abbia a scoprirsi defettuosa, e non più tale quale oggi forse ci apparirebbe. Si come avviene, per esemplo, ne la pittura; dove i ritratti de
giovanetti, se bene
gli soniigliono interamente quando e' son fatti y
non vi corre però gran tempo che,
cambiandosi lo aspetto del ritratto nel farsi egli nomo, tanto varia
la effigie, che non lo somiglia più, né
apparisce più qnel medesimo. BartolL
Orsù, pongbiamo per le tante cose
allegate da te, cbe a r Accademia
non si convenga il fare queste regole
: vuoi tu però affermare al tutto,
che una persona privata e particolare,
lasciando favellare ad arbitrio loro
qualonche città e luogo de la
Toscana, senia difettargli o ripotargli da
meno per questo, non possa almanco da
i tre primi nostri scrittori e da
T uso di
Firenze formare le regole, che a'tempi d'
oggi insegnino favellare rettamente a'Fiorentini
stessi, e a chi pur volesse imitar?
GeìU. Oh questo no, messer
Cosimo; perchè io mi credo pure, che
un solo, in suo nome proprio e
non di Accade- mia,
con tutte quelle avvertenzie che voi avete dette, sicuramente
le possa fare. Bartoli, E con qoal
ordine? o in che maniera?
Geìli, Dirovvelo: ma perchè voi mi
intendiate più
facil-mente, avvertite che questa lingua, come quasi tutte l'altre cose di questo mondo, ha
due parti principali; la materia, cioè, e la forma: la materia sono le parole de
le quali ella è fatta; e la forma è qod modo e quell' ordine col quale son conteste
e tessute insieme l' una parola con Y
altra, che si chiama ordinariamente la
costruzione. Di queste due parti la
materiale, o de le parole, non tengo
io per molto difficile a metterla in
regola; ancora che ella abbia forse
bisogno di lungo tempo, rispetto a lo
aversi a fare un vocabolista di tutte
le voci che si usano, come aveva
già cominciato il nostro Norchiaio, prima
che morte gli troncasse il volo. Ma
de la costruzione, o volete dire de la forma, ne la quale consiste tutta la bellezza e la leggiadria de la lingua, e appresso
di noi è per avventura molto più dolce che ne' nostri
vicini, non so io come ella possa
mostrarsi meglio che da gli esempi
de' tre scrittori Bartolù Oh Gello,
e' mi ricorda, a questo proposto de
la dolcezza de la testura del parlar nostro,
che messer Alessandro Piccolaomini,
persona dottissima e tanto rara qaanto lo sai,
ritrovandosi in casa mia, e leggendo
aicani scritti dì questi nostri, rivoltatosi
a me, disse: come può e' mai
essere, messer Cosimo mio,
che non essendo le patrie nostre più lontane
V ttna da V altra che trenta miglia, noi altri non abbiamo le
clausole cosi dolci e gli andari
tanto piani e si ordinati,
quanto gli veggiamo e sentiamo in voi
Fiorentini? G. £ voi vedete bene
che tutti costoro che fino ad oggi
hanno fatto le regole del parlar
toscano, distendendosi ne le declinazioni
solamente, si hanno passato la costruzione
senza parlarne se
non pochissimo, come cosa troppo difficile e ad essi forse mal riuscibile. Laonde, circa il formarequeste regole,
non maffaticherei molto ne là prima parte; ma dichiarate le parti de la orazione, e dimostrate le declinabili
e le indeclinabili, e gli esempli de'
verbi, massimamente con quella diversità che
è tra l'uso moderno e quello che
e' dicono de' nostri antichi, me n'andrei
tutto a la costruzione.
Ne la quale, consistendovi (come ho detto)
tutta la importanzia di questa lingua,
vorrei io certamente usare
una diligenzia più là che estrema, togliendo
da' tre sopra detti tutto quel che
fusse ben detto. Il che, al giudizio
mio, solamente sarebbe quello che V
uso di oggi si ha man- tenuto;
essendo l’orecchio nostro inclinato naturalmente
a lasciar sempre le
cose aspre, dure e difficili, e seguitare le dolci e le facili. Per la qual cosa, giudicando io che oggi si favelli meglio in Firenze che in nessun
de' tempi passati, attribuisco molto a l'
uso, non di Mercato e del vulgo vile, ma de' nobili e qualificati de la nostra città, come io dissi poco di sopra. Bartoli. Questo è appunto l'
ordine stesso e il modo che il nostro GiambuUari tenne in quelle sue regole, che egli, già son tre anni, donò a lo illustrissimo signor Don Francesco
de' Medici primogenito di Sua Eccellenza. G. Voi dite il vero, che il GiambuUari che mi è quello amico che voi sapete, me le conferi molte volte, e massimamente
r anno passato, quando eravamo in questo maneggio: e perchè e' mi parve sempre che egli avesse trovato la vera via, e con una diligenzia maravigiiosa
fatto ciò che
fosse possibile farsi in questa materìa, però metto io a campo di nuovo lo stesso modo die egli ha tenuto.
Ma perchè non le comunica egli ora mai con la stampa a taUe le genti che le desiderano? BartoìL Sta di buona TogUa, Geiio, che io ne Tho tanto contaminato
che egli finalmente mi ha dato non
solo esse reg(^9
ma e libera e pimia licenzia che
io ne &ccia la vof^ia mia. E cosi fra non molti giorni comincerò a fturle stampare,
che di tanto son convenuto col Torreatmo.
GM. Sollecitate dunque, messer Cosimo mi,
perché farete gran benefizio a chi desidera imparar dal buono. Maperchè
noi siamo oramai vicini a l'ora
de la nostra cena, rimanetevi con Dio,
che a casa sono aspettato.
Bartolù Dì grazia, cena con esso meco. G. Non questa sera, messer Cosimo, che dovendo trovarmi
in un altro luogo, non posso mancar de la mia promessa.
Restate con la buona notte. BmtkdL Poi che cosi ti piace, va' ool oom
di Dio. Tanto fu, messer Pierfranoesoo mio
onorando, il ragionamento
che avete chiesto; e messer Cosimo nostro ve ne può render testimonianza: Catene adunque come di cosa vostra, che io ve ne fo un presente, e vivete felice
ricordandovi che G. è vostro. Di Firenze. Come ora
si direbbe importunato, o seccato. Velia
Crusca non è con questo significato. Io non
credo, magnifico signor Consolo, prudentissimi Consi glieri, e voi altri
virtuosissimi Accademici e maggiori miei ono randi, ? che con voi, i quali
sapete i nostri ordini, e come più per imparare esercitandomi,che per insegnare
ad altri,io sia salito oggi in questo luogo,sia di bisogno che io ne faccia
seusaalcuna.Ma perchèforsequalcundiquest'altriuditoripo trebbeingiustamente
incolparmidipresunzione,essendoioil primo che dopo due si dottissimi e
famosissimi uomini, mes ser Francesco Verini filosofo eccellentissimo, e Andrea
Dazi tanto nella greca e latina lingua celebrato, sia salito sopra que sta
onorata cattedra, non vi sarà grave comportare che in escusazione e scarico mio
io dica loro alquante parole. Nobilissimi uditori, iquali tirati dalla fama dei
valenti uomini che insino a questo giorno hanno letto in questa nostra Acca
demia siate venuti qui,se ilritrovarci in cambio di quegli oggi m e, il quale
sa re i molto più atto a tacere che a parlare, v i a r recherà maraviglia,non
dovete perciò incolparmi di presunzione. Imperò che avendo ordinato questi miei
maggiori Accademici, che per esercizio nostro,per esaltazione di questa nostra
lin gua nativa,e per imparare a esprimere in quella inostri con cetti, ciascuno
di noi legga una volta quello che più gli piace, ha voluto la sorte che io sia
ilprimo a dar principio a così lode devole,eseionon me neinganno, utilissimoesercizio.Nè
debbe. Le parole e maggiori miei onorandi mancano nella 2^ T. La 1a T.,
ingiustamente potrebbe. 3 La fa T., auditori. certamente esser preso
questo se non per buono e felicissimo augurio di questa nostra Accademia.Perciò
che se le cose che fa la natura sono più ferme e più stabili che quelle della
fortuna, per procedere quella con ordine e questa senza,ed essendo l'or. dine
della natura 'andare sempre dallo imperfetto al perfetto (si come noi
manifestamente veggiamo verbigrazia ? nella creazione dell'uomo, dove e l l a
fa primieramente un pezzo di carne , il quale è solamente animato d'anima
vegetativa come le piante,da im e dici chiamato embrione, e secondariamente
infondendovi l'anima sensitiva*lo fa animale,e finalmente gli dà l'anima razionale,la
quale è l'ultima perfezione sua),dovrà senza dubbio questa nostra impresa aver
anch'ella felice successo,da che io,che sono il più insufficiente di sì bel
numero, sono il primo a darle principio. Se dunque voi non,udirete oggi da me
cosa degna de'passi spesi da voi a venire in questo luogo,non mancherete però
di venire a udire quest'altriche dopo me leggeranno ; da i quali, per esser
queglio e per natura e per professione di gran lunga più sufficienti che non
sono io, caverete tal frutto, che di que. stie di quelli vi ristorerà
largamente.La lezione nostra sarà unluogo d’ALIGHIERI nelXXVI
capitolodelParadiso;ilquale, per trattare alcune cose del parlare, mi è parso
molto al pro posito nostro,essendo questa nostra Accademia stata principal
mente ordinata per utilità di questa lingua,o per dir meglio, usando le parole
stesse del nostro Boccaccio nella quarta gior nata,di questo nostro
fiorentino,volgare. Presterretemi adun que grata udienza come avete cominciato,
se non per altro, almeno per dare animo a coloro che dopo me leggeranno; da i
qualisenzacomparazionecaveretemaggiore dilettoSemaggior frutto.Ma vegnamo alla
nostra lezione. La 1a T.,di quella. ?
verbigrazia è della 2a T. 3 La 1a T., solamente è. 4 Nella 2a T. manca
sensitiva. s La 1a T., l'ultima sua perfezione. quegli è della 2a T. 7 La 1a
T.,che io non sono. 8 La 11 T., caverete e diletto maggiore ecc.
conosciuti,dico,iviziiepurgatosi”da essi,asceseper contem plazione sopra
i cieli alla gloria de'beati. Intra i quali trovato il primo nostro padre A d a
m o, 4 come desideroso di sapere, lo . dimandò di alcune cose ; fra le quali fu
questa,che io oggi ho preso per materia del nostro ragionamento, cioè qual
fusse lo idioma o vero il linguaggio nel quale, quando ei fu fatto da Dio,egliprimieramente
parlò.Allaqualedimanda rispose Adamo in questa maniera: La lingua ch'io parlai
fu tutta spenta Innanzi che all'opra 5 inconsumabile Libero, sano e
dritto 3 è tuo arbitrio, Fosse la gente di Nembrot intenta.6 Che nullo effetto
? mai razionabile Per lo piacer uman,che rinnovella, Seguendo il cielo, fu
sempre & durabile. Avendo il divino nostro poeta Dante, poeticamente
parlando, nel suo discendere allo Inferno conosciuto tutti i vizii e i p e c
cati, che cosi per malizia e per matta bestialità come per umana incontinenza e
fragilità si possono commettere,ed essendosene nel passare del Purgatorio in
cotal modo purgato, ch'egli era tornato1in quello stato della innocenza nel
quale fu creata da Iddio l'umana natura ; là dove la parte nostra inferiore,
irra . zionale e mortale, alla superiore, razionale e immortale, stava
obbediente, nè punto ardiva la sensitiva e carnale, dalla origi nale giustizia
regolata, levarsi e combattere contro allo spirito; tal che dal suo precettore
gli fu detto: fallo fora non fare a suo senno; | La 1a T.,che tornato era.
2Cr.Libero,dritto,sano. •La 1aT.,purgato. * La 1a T., Adam . 5Cr.oora.
8Cr.lagentedi Nembrotteattenta. • Cr, affetto. 8Cr.semprefu. Opera
di natura è ch'uom favella;' Poi fare a voi,secondo che viabbella. Pria ch'io
scendessi all'infernale ambascia, Donde s vien la letizia che mi fascia.
Elle*sichiamò poi,eciòconviene; Però che l'uso umano 5 è come fronda In
ramo,che sen va,ed altra viene. Da queste parole di Adamo caviamo noi oggi tre
principali conclusioni.La prima è,come la sua linguasispenseemancò tutta,
innanzi che Nembrot cominciasse a edificar la torre ; cosa molto contraria alla
volgare oppenione.La seconda,la ragione perchè si mutino i parlari. La terza,
la risposta a una obie zione che se gli potrebbe fare,dove egli adduce alcuni
esem pli in confermazione di quanto egli ha detto,come largamente si vedrà nel
nostro ragionamento.Cominciamo ora adunque a esaminare la prima,con l'aiuto di
Colui dal quale depende ogni nostra sufficienzia. Avendo l'onnipotenteIddio,nellaproduzione
delmondo,creato tutte le cose insieme con l'uomo,non perchè elle fossero in lor
medesime solamente, maperchèelle fosseroancor principio del l'altre,
ciascheduna di quelle della sua specie, non tanto nel generarle, quanto nell'instruirle
e governarle,bisognò ch'egli le .creasse nel loro perfetto essere.Dalla quale
ragione mossi dis sero alcuni dottori ebrei che il mondo fu creato di
settembre; perciò che allora pare che tutti gli alberi,insieme con l'erbe,
abbianocondottoaperfezioneifruttiloro.Fu adunque(lasciando stare l'altre cose)
creato l'uomo da Dio nel suo stato più per fetto, e in quanto al corpo e in
quanto all'anima. In quanto al corpo,sano,bene complessionato,e di età di
trenta o tren +Cr.Operanaturaleèch'uom favella. 2Cr.El. öCr.Onde. M a ,
cosi o cosi, natura lascia Un : s'appellava in terra il sommo bene, Cr. El. 5
Cr. Chè l'uso de'mortali. ancor è della 2a T. 1 6 tacinque anni, secondo
la maggior parte dei dottori, acciò che ei fusse atto alla generazione.E in
quanto all'anima, ripieno di tutte quelle scienze, alla cognizione delle quali
si può na turalmente pervenire, acciò chè ei potesse insegnare a quegli che
nascessero di lui tutte quelle cose che sono necessarie alla vita e al bene
esser nostro. Con questa cognizione pose Adamo inomi
convenientiatuttelecose,secondolaloronatura;eformò uno idioma,o vogliam dire
uno parlare,con ilquale ei po tettemanifestareaidescendentiisuoiconcetti.Ma
qualfusse questa lingua, non si sa già manifestamente per alcuno scrit tore.
Gli Ebrei, come si legge ne’loro dottori sopra lo XI del Genesi, ove il testo
dice che alla edificazione della torre di N e m brot si parlava in terra d'una
sola lingua, dicono questa essere stata la loro, ed essersi così dal principio
del mondo miraco losamente conservata intera e incorrotta (la qual cosa a nes
sun'altra è avvenuta giammai "), per avere parlato Iddio sempre -ma i a
Moisè e a g l i altr i suo i profeti in quella ; e questo è ancora confermato
da loro'con l'autorità dei loro Cabalisti,la quale può molto appresso di
loro.Il che nasce dalla opinione ch'egli hanno, che quando Iddio dette la legge
a Moisè sopra ilmonte Sinai,egli:glidesseancoralainterpretazionediquella, e gli
manifestasse molti altri profondi misterii, contenuti e n a scosi sotto la
lettera di quella, si come scrive Esdra nel suo primolibro.Ma dicano ch'egligli
comandòsch'einonscri vesse altro che la Legge,e l'altre cose dicesse a bocca a
quelli che reggevano ilpopolo.Per laqual cosa,disceso dal monte, solamente le
rivelò a losuè;e Iosuè dipoi a i settantadue più vecchi del popolo;e quelli
dipoi per ordine successivo le re velaronoailorodiscendenti.E
questadicanoesserelascienza Cabala,che non vuol dire altro che ricevuta a bocca
per suc cessione. Questa oppenione ebrea ha molte difficultà. Primiera 1
giammai è della 2a T. · La 18 T., e questo ancora confermano. 3 La ja T., esso.
* Cioè, dicono ; cosi, appresso , scrivano per scrivono, e simili.
5La14T.,eglicomando. mente,sicomescrivanoiloroTalmudisti,'e'non parech'eisia
vero che questa lingua ch'egli usano,e nella quale è scritta? la Legge, sia la
lor prima e antica lingua.Imperò che Esdra, loro sommo sacerdote, nella
restaurazione del tempio dopo la servitù Babilonica,5 temendo che se gli
avveniva loro un'altra avversità simile, la Legge totalmente non si perdesse,
ragunò tutti i savi loro; e fece scrivere quella, e ciò ch'ei sapevano
appartenente a quella, in settantadue volumi. Ne'quali si legge che, per essere
stati tanto tempo in quella servitù, mutarono molto il modo dello scrivere e
dell'antica favella loro, e tro varono nuovi caratteri e nuovi punti, i quali
sono quelli ch'egliusano oggi;equesto ancorapare,chesentaS.Girolamo nel prologo
sopra i Libri dei Re. La ragione, per la quale ei dicano che Iddio parlo in
quella, non è d'alcuno valore; i m però chè quasi tutti i loro scrittori, o la
maggior parte, sopra iProfetidicanoIddiononaverparlatomai aquellivocalmente, ma
quando egli ha voluto manifestare qualcosa o a Moisé a aglialtri,avere loro
formato nella mente uno concetto,per il quale egli hanno inteso pienamente la
volontà sua.'L'autorità Cabalistica,dalla servitù Babilonica in qua,non ha
avuta molta fede; imperò che allora molti di loro, e per la servitù, e per la
loro natura ch'è molto superstiziosa,come scrive Apuleio nel primo libro
de'Floridi, scrissero di molte cose (dicendo di averle avute da iloro
Cabalisti),che sono manifestamente contro alla lorleggeecontro alla ragione
naturale;come sileggenelloro TalmutBabilonico,ilqualenonèaltrocheunoraccoltodi
sen tenzie dei loro sapienti di quel tempo.Aggiugnesi ultimamente a questo, che
secondo essi medesimi la loro lingua, con loro insieme, ebbe così nome da Eber
figliuolo di Sem ,figliuolo di Noè , al quale nella divisione della terra toccò
l a Giudea ; il c h e ·La 1aT., pererrortipografico,ha
Tamuldisti;diquilosconciodella2a, che ha Tamulisti. 2 La 18 T., hanno scritto.
i La 1a T., la Babilonica servitù. mai è della 2a T. La 1a T., la sua volontà.
delle. 6 La 1a T., I Caldei,o vero Assirii,dall'altra parte
dicono similmente che la lor lingua fu la prima che si parlasse mai ; e
certamente ellaètantosimileallaebrea,come diceSanGirolamo? nelpro logo di sopra
allegato,ch'ei si potrebbe fare coniettura ch'elle fussero già stateo una
medesima.E in confermazione di questo adducanoquesteragioni, conl'autoritàdi Beroso
Caldeo,'ediMna seae Damasceno, e d'Ieronimo Egizio.Primieramente e'dicano che
non si truovano scritture innanzi al diluvio,se non nella lingua loro;e queste
esser certe cose di astronomia, insieme con la pre dizione del diluvio scritta
da Enoc,figliuolo di Iared,bene cin quecento anni innanzi a quello,in certi
pezzi di terra cotta, ac ciò che leacque non l'offendessero.E similmente dicano
essere nel MonteGordeo’inArmenia,incertisassi,dovedopo quellosifermò l'arca,
scritte in quel luogo da Noè in memoria di tanto caso alcune cose;"e
illuogo ancor nella loro lingua chiamarsi Mirmi Noa, che tanto vale uscita di
Noè. Aggiungano a questo,che Abramo,ilquale fu primo a dare principio al popolo
ebreo, fu da Dio primamente cavato di Caldea.Plinio pare che fusse ancor egli
di questa oppenione, scrivendo che le lettere assirie 3 Male le stampe Masea ;
e la 12 T., con errore più grave, facendo di due scrittori uno solo,Masea
Damasceno.Anche nel Giambullari,Origine della lingua fiorentina
(Fir.,1549,p.19),trovasi quasi l'errore stesso, cioè Mnassea Damasceno.
Mnasea,geografodellafinedel3°sec.avantia Cristo, e Niccola di Damasco o
Damasceno, storico dei tempi di Augusto, sono citati,insieme con Beroso Caldeo
e con Girolamo Egiziano,da Giu seppe Flavio nel primo libro delle sue Antichità
Giudaiche, là dove ei parla del Diluvio. fu'circa trecento anni dopo
ildiluvio.Si che ei pare più ra gionevole, ch'ella avesse principio allora
quando ella ebbe il nome, ch'ellasifusseparlataprimatanto tempo.E così,come voi
vedete, questa loro oppenione è molto dubbiosa. 1 il che fu non si legge nelle
1a T. La 1a T., S. Ieronimo. 3 La 1a T., che ella fusse già stata. 4 Caldeo
manca nella 2a T. 6 cotta manca nella 2a T. ? Giuseppe Flavio, loc. cit., lo chiama
Monte de'Cordiei. 8 alcune cose manca nella 1a T. sono eterne:la quale non
di manco non è senza molte diffi cultà. Imperò che molti istoriografi degni di
fede, e particular mente Iustino nel secondo della sua Istoria,tengono che la
prima terra che fusse abitata sia la Scizia,e conseguentemente la lor lingua
parimente sia stata o la prima. Il nostro Dante,parendogli che ciascuna di
queste oppenioni fusse dubbiosa e incerta,sicome per il testo si vede,fu d'un
altro parere diverso ; e a ciò lo indusse la esperienzia, maestra delle
cose.Imperò che vedendo egli per lescritture le lingue di tempo in tempo
variarsi, in modo tale che come egli scrive nel suo Convito) se quei che
morirono cinquecento anni sono, risuscitatitornasseroalleloro cittadi,eicrederebbonoche
quell fosserodastranegentioccupate,perlalinguadaloro discor dante.E non potendo
però per questo persuadersi che dal prin cipiodelmondo
allaedificazionedellatorre diNembrot,dove corsero circa due mila . anni, sempre
si conservasse un m e d e simo modo di parlare, induce Adamo a rispondere che
quella lingua,la quale eiprimieramente parlò,sispense e mancò tutta, innanzi
che le genti di Nembrot cominciassero a edificare la torre. Per la quale
risposta si può chiaramente vedere che il libro Della volgare eloquenza,tanto
da alcuni Lombardi lodato,e tra dotto (per dire come loro) in lingua italiana,
non è di Dante, ma da qualcuno altro stato cosi composto,e col nome di esso
Dante mandato fuora.Con ciò sia cosa che quivi sidicas che la prima lingua,che
parlasse Adamo,fuquella che usano oggi gli Ebrei, e che ella durò insino alla
edificazione della torre di Nembrot ; dove qui dice Dante il contrario. Oltr'a
di 5 La 1a T., 022 que sto, quivi si biasima il parlare fiorentino, il
quale Dante nel suo Convito loda massimamente. Le quali contradizioni non credo
iomai che Dante non avesse vedute, o vedutole, accon 1 La 1a T. ha soltanto
stata . ? Le stampe hanno dalloro ;ma parrebbe qui meglio convenire dalla loro.
i della torre, manca nella 2a T. *La 1aT.,dumilia. dice . sentite e
scritte.E questo basti per intelligenza della nostra prima conclusione.Or
vegniamo alla seconda: Che nullo effetto 1 mai razionabile, Per lo piacere
uman,che rinnovella Seguendo il cielo, fu sempre ? durabile. Rende la ragione
Adamo perchè si mutino e variino i par lari; e comincia da questa dizione che,
dicendo che nullo effetto razionabile,cioè nessuna cosa fatta dall'uomo, il
quale si chiama animal razionale,per lo piacere umano,cioè per il desiderio e
per loappetitoumano:questovocabolopiacerehanellanostra lingua duoi significati;
primieramente e'si piglia per ogni sorte di diletto; e appresso, perchè a tutte
quelle cose che noi de sideriamo, ottenute che noi le abbiamo, ne seguita la
diletta zione e il piacere, ei si piglia ancora per il desiderio e per
loappetitochenoiabbiamodiunacosa;sicome noiveggiamo usarlo dal Boccaccio in
molti luoghi,e particularmente nella novella di Rustico e di Alibec,dove ei
dice:cheper disporla a' suoi piaceri, cio è alle sue voglie: ed in questo
significato l'usa qui Dante, dicendo:per lopiacere umano,cioè per ildesiderio
umano,che sirinnova esimuta,seguendo ilmoto del cielo, fu sempre durabile.E qui
con grandissima arte egli aggiunse sempre; imperò che ei si truovano molti
effetti dell'uomo, si come sono le scritture,le statue e la fama, Che trae
l'uom del sepolcro e'n vita il serba, come disseilnostro Petrarca,lequaliduranotantotempo,che
gli uomini,per non vedere ilfineloro,l'hanno chiamate eterne; ma non però sono
durabili sempre.La qual cosa mirabilmente espresse Dante medesimo in un altro
luogo, dicendo: Tutte le vostre cose hanno la morte 3 Come che voi;* ma celasi
in alcuna Che vive 5 molto, e le vite son corte. 1 Cr.affetto.
2Cr.semprefu. ö Cr.Le vostre cose tutte hanno lor morte. i Cr. Siccome voi. 5 Cr.
Che dura. E cosiharenduto laragioneperchèiparlarisimutino.Ma per
maggiore intelligenza di questa sua ragione, è di necessità vedere per quello
che l'uomo si chiami razionabile,e in che modo le sue voglie, seguendo i moti
del cielo, si mutino. D e vetedunque saperecheilCreatorediquestouniverso,perfarlo
più bello ch'ei poteva, fece in quello di ogni sorte creature ; e quelle
dispose tra loro con tanto ordine,cominciandosi dalla prima materia che riceve
lo essere di tutte le cose,e salendo di grado in grado in sino all'ultima
forma, ch'è Iddio, il quale 1 dà l'essere a tutte,che ifilosofi
l'assimigliarono a i numeri;i quali sono tra loro disposti con tanto ordine,
ch'ei non si può tra loro inframettere unità alcuna senza variargli. Intra
queste cose, alcune o furono da lui fatte perfette, e alcune imperfette.
Perfette si chiamono : quelle che furono da lui create incor ruttibili,e in
certo modo eterne, ed ebbero tutte le perfe zioni che si convengono alla loro
natura insieme con lo essere, sì come sono, infra i corpi, i cieli, e infra
gl'intelletti, quello dell'angelo.Imperfette poi si chiamono quell'altre,che
furono da luicreate corruttibili e mortali,e che non ebbero da prin
cipiotuttalaloroperfezione,ma sel'hannoacquistataconil moto e con il tempo,e oltr'a
questo sono sottoposte a tutte le alterazioni che arrecano seco imoti celesti;
si come sono, tra i corpi, le piante e gli animali, e tra gl'intelletti, quello
del l'uomo,per essere col suo corpo mirabilmente unito.E questo fece il sommo
Fattore, perchè a questo universo non mancasse alcuna sorte di creature, acciò
che le perfette con la loro bel lezza e perfezione di natura ci tirassino alla
contemplazione di esso Iddio sommo,e le imperfette, poste a lato a quelle,ci
ren dessino la loro bellezza più maravigliosa e più desiderabile. L a qual cosa
veggiamo noi che usano ancora 6 nei loro canti i m u . sici,mescolandovi delle
consonanze imperfette, perchè quelle r e n dino poi le perfette più dolci e più
grate a gli orecchi de gli iLa 1aT.,che. 2 2a T., alcune ne furono. 3 La 1a T.,
chiamo io. * La 1a T., Imperfette chiamo io ecc. 5 La 1a T., che ancor
fanno. ascoltanti.Ma perchè questo
sommo benefattore e padre volle che ogni cosa potesse acquistare la perfezione
sua, dette a cia scuna un valore e una virtù per la quale ad essa si
conducessi, e una voglia e un desiderio ardentissimo che a quella le ti rassi;
si come agli elementi uno valore che gli spigne a quei luoghi dove ei sono
sempre perfetti, come alla terra lo andare alcentro, ealfuocoalconcavodellaluna,làdoveegliève
ramente fuoco; (imperò che,come noi abbiamo da Aristotile nel primo delle
Meteore, questo che noi veggiamo non è fuoco, m a è una soprabbondanza di
calore,sicome è ilghiaccio nell'acqua una soprabbondanza di freddo); e alle
piante uno principio in trinseco,' per il quale elle si nutrissero ed
aumentassero e po tessero generare dell'altre simili a loro;? e agli animali
uno principio di moto intrinseco, per il quale ei potessero fuggire quelle cose
che fossero nocive e disconvenienti alla natura loro, e seguir quelle che
fosser loro salutifere e convenienti, insieme con un desiderio innato che gli
spingesse a cercarle. Questo principio nelle piante e negli animali è stato
chiamato dai filo sofi natura, che altro non vuol dire, che quella potenza onde
ha origine e principio quel moto,per il quale egli acquistano le loro
perfezioni.E desiderando similmente ancor che l'intel letto dell'uomo
acquistasse la sua perfezione, gli diede una po tenza o vero facultà, con la
quale ei potesse similmente acqui starla,chiamata dai filosofi discorso o vero
ragione.Imperò che l'intelletto dell'uomo non ha da natura altra cognizione che
quella dei primi principii,insieme con ildesiderio dello inten dere,ch'è lasua
perfezione:iquali,sìcome noi abbiamo da Ari stotile nel quarto della sua Prima
filosofia,' sono le conclusioni che sono parimente chiare e note a tutti
gl'intelletti, subito ch'egli hanno inteso itermini loro,come sarebbe
questa:egliè impossi bile che in un medesimo tempo una cosa medesima sia e non
sia; perchè ciascuno intelletto,subito ch'eisa che cosa è essere,e che 1La
1aT.,uno intrinsecoprincipio. ? La 1a T., dell'altre a loro simili. 3 La 1a T.,
valore. 4 La 2a T., della sua Filosofia. 40. Vol.II. cosa è non essere,sa
che questa conclusione è vera per proprio lume intellettuale, e non l'impara
per esperienza o per esercizio alcuno. Onde bendisse il nostro Dante nel suo
Purgatorio: Da questa cognizione intellettuale de iprimi principii,come da cosa
nota,partendosi l'intelletto dell'uomo, con una potenzia ch'egli ha va
discorrendo e raziocinando (se così dir si puote) all'intelligenzia delle cose
ch'ei non intendeva,ed empiesi di intelligibili,doveprimaeracome una tavola
rasa;ecosìviene ad acquistare la sua perfezione. Questa potenzia nella nostra lingua
si chiama ragione; e da lei è l'uomo poi chiamato ra zionale, così come
quell'altre cose, che io prima vi dissi, per acquistare la loro perfezione con
la natura, son chiamate n a turali. Questo nome razionale ? non si può dare
all'Angelo, a n cora ch'egli abbia lo intelletto,per essere quello • d'una
natura pura intellettuale; la quale fu creata da Dio con tutte le sue
perfezioni, cioè piena di tutte le specie intelligibili (onde non
sel'haacquistare conalcunasuaoperazione,comel'uomo);e che oltra di questo è 8
di tanta virtù,che quando Iddio gli a p presentasse qualche nuovo
intelligibile, ei lo intenderebbe s u bito per semplice lume
dell'intelletto,nel modo che intendiamo noi iprimi principii,e senza alcun
discorso,e tutto perfetta menteinunoinstantee in uno tempo
indivisibile;enonprima una parte e poi l'altra, si come fa l'intellettonostro
ne l’in tender suo,o per non essere di tanta perfezione; m a farebbe in quel
modo che fa uno lume,quando egli è portato in una stanza buia, che la illumina
tutta in uno istante, e non prima una parte e di poi un'altra. E per questo
dicano alcuni teologi che gli Angeli che peccarono non si sono mai potuti
pentire ; i m p e r ò c h e ne l'intender suo, non è nella 1a T. Però là
onde nasca 1 l'intelletto Delle prime notizie, uomo non sape. 1Gr. vegnd . ? La
1a T. manca di questa parola. 3La1aT.ha:perchèegliè.
·La18T.,enonsel'haavuteacquistare. 5La1aT. hasolo: Oltra a di questo egli è ecc.
intendendo quegli ciò ch'egl'intendano per semplice 'apprensione
d'intelletto, lo intendano immutabilmente, e senza mai potere variareemutare
illoro intendimento;sicome ancora noi non possiamo mutarci di quelle cose che
noi intendiamo per semplice lume d'intelletto, come
sonoiprimiprincipii;ilchenon avviene di poi di quelle che noi intendiamo per
discorso di ra gione.E peròsichiama l'Angelo creatura intellettuale, el'uomo
creatura razionale e discorsiva. E perchè,in quanto al corpo, l'uomo è composto
di questa materia elementare della quale sono composte tutte le altre cose
sotto la luna, la quale m a teria è obligata e sottoposta alle alterazioni che
inducano i moti celesti in lei,egli è da quegli insieme con l'altre cose di
versamente disposto.Onde cosi come la terra altra disposizione riceve dai cieli
il verno, quando ella ha a corrompere i semi e generare le cose, e altra la
primavera, quando ella si ha a vestire di erbe e di fiori, così la complessione
nostra altrimenti è disposta in uno tempo,e altrimenti in un altro;onde l'anima
nostra razionale,in quanto ellaè fondata in su questa nostra complessione
corporale,altre voglie ha in un tempo,e altre in un altro. Imperò ch'ella è
tanto mirabilmente unita con quello,che l'operazioni che ancor totalmente
dependono da lei mentre ch'ella è in esso corpo, si attribuiscano al tutto; onde
dice il Filosofo nel primo Dell'anima, che chi dicesse : l'anima mia odia,o
l'anima mia ama, sarebbe come dire:l'anima mia fila,ol'animamiatesse.E
seciònonfusse,cioèchel'anima seguisse la disposizione del corpo,egli ne
avverrebbe,sicome apertamente pruova Galeno in una operetta ch'ei fa di questa
materia, che l'operazioni degli uomini sarebbero tutte a un modo medesimo;3di
che manifestamente si vede il contrario. Imperò che le anime nostre nella loro
sustanzia,e,come dicono questi teologi, in puris naturalibus, sono tutte in un
medesimo modo e d'una medesima virtù;ma pigliano poi diversi costumi, secondo
la complessione de'corpi ne'quali elle sono incluse,
1La1aT.,perunasemplice. 4 La 1a T.,con manifesto errore,mutabilmente. 3La1aT., a
un modo. e hanno diverse voglie, secondo che quegli si variano per
i moti celesti.E questo basti per la seconda parte del nostro ra gionamento. Or
vegniamo alla terza e ultima. Risponde dottissimamente in questa ultima parte
Adamo a una tacita obiezione, che se gli sarebbe potuto fare; la quale
Ma,cosiocosi,naturalascia Poi fare a voi secondo che v'abbella. Per le quali
parole voi avete a considerare che l'uomo è c o m posto di due nature,o vogliam
dire di due parti;con l'una delle quali,laqualeèl'animaincorporea, immortale, razionalee
li bera,egliè simile alleIntelligenzie celesti;econ l'altra,laquale è il corpo mortale
e irrazionale, è simile agli animali bruti.E ciò fu dalla natura fatto con
mirabile artificio; imperò che avendo ella fatto in questo universo delle
creature irrazionali,corporee e mortali, e delle razionali, incorporee e d i m
mortali , e non volendo che siandasse da l'uno estremo all'altro senza mezzo,le
fu necessario fare l'uomo, che con una parte communicasse con 1 Opera di
natura3 è ch'uom favella; può,non leggesi nella 2a T. ? naturale, manca nella
2^ T. 3 Cr. Opera naturale. è questa. Potrebbe dire alcuno:A me non pare che
questa tua ragione, Adamo,conchiuda e sia bastante;imperò che tudi'che iltuo
parlare mancò per essere effetto dell'uomo, e gli effetti dell'uomo col tempo
mancano tutti,per esser esso uomo ,ch'è la loro causa ,
caducoemortale;enessunoeffettopuò esseredimaggiorperfe zione che la sua causa.
Questo è ben vero, che gli effetti che procedano semplicemente dall'uomo non
sono sempre durabili; m a il parlare non è di questi. Imperò che non è suo effetto
totalmente, ma è sua propietà naturale;' le quali così fatte pro pietànon
siseparano mai dallaspecie loro,sìcome lacalidità dal fuoco, e la frigidità
dall'acqua. Dunque come di'tu ch'ei mancasse per esser suo effetto ? Alle quali
parole così risponde Adamo: queste, e con un'altra con quelle . E
però il parlar suo, insiem e con l'altre sue operazioni, si può similmente
considerare in due modi. Primieramentesi può considerare come sua proprietàna
turale; e questo è il parlare istesso in genere,non si ristrignendo
piùaunomodocheaunoaltro;'einquestomodoeglinon mancherà mai all'uomo,ma sempre
che saranno uomini, sempre parleranno;e di questo non parla qui
Adamo.Secondariamente si può considerare come cosa dependente dalla parte
libera e r a zionale dell'uomo ; e questo è il modo del parlare (e non il par
lare),come sarebbegreco, latino,o toscano;e in questo modo è egli effetto
dell'uomo, e variasi e mutasi secondo che pare a gli uomini.E però disse il
Filosofo che i nomi sono stati posti alle cose,secondo ch'è piaciuto a gli
uomini.E questo è quello chedicequiAdamo,chemancòemutossi.Onde diceneltesto:
Opera di natura è ch'uom favella, cioè : egli è cosa naturale all'u o m o il
parlare ; m a così o così, m a più in questo modo che in quello,natura lascia
poi fare a voi, secondo che vi abbella, cioè secondo che vi piace;chè cosi si
gnifica questo verbo.Il quale è verbo provenzale,che a quei tempi era in uso ;
e dal medesimo Poeta ancora fu usato,? nella medesima significazione, nel
Purgatorio in persona di Arnaldo di Provenza, che fu nei tempi suoi compositore
molto famoso, sì come noi veggiamo per le parole del Petrarca ne'suoi Trionfi.
E così è soluta questa obiezione.Ma per maggiore dichiara zione di questo
testo, voglio che noi veggiamo per quello che il parlare sia stato dato dalla
natura solamente all'uomo, e non ad alcun'altracreatura,ese
egliènecessarioono;imperò che la natura, così com'ella non manca mai nelle cose
necessarie, non abbonda ancora mais nelle soverchie. ' La 1a T., non si
ristrignendo più a questo modo che a quello. 1La 1aT.hasolo:ancorausato.
Avendo la naturà fatto l'uomo, in quanto al corpo, il più imperfetto e debole
di alcun altro animale (il che forse le fu 3 ancora mai, non è nella 1a
T. forza, per volerlo fare più prudente che alcun altro,donde gli
bisognò farlo di più temperata complessione),ne avviene che ogni minima cosa
l'offende; il che non fa così agli altri animali.Oltr'a di questo,avendogli
dato lo intelletto in certo modo imperfetto e ilminimo tra le intelligenze,come
noi abbiamo dal Filosofo nel libro Dell'anima,e desiderando ch'ei potesse
conseguire la perfezione e dell'uno e dell'altro,le fu necessario concedergli
il parlare, con il quale ei potesse chiedere i bisogni del corpo, e apparare le
cose necessarie alla perfezione dell'anima. Voi vedete, in quanto al corpo, ch'einasce
ignudo, ehassia vestire della pelle degli altri animali, a procacciarsi il
cibo, e a fabricare le case,dov'ei possa difendersi da quegli incommodi che
arrecano'seco le varie stagioni de'tempi.Vedete ancora di poi,in quanto
all'anima,che gli bisogna apparare molte cose,se non necessarie allo
essere,almanco al bene essere della sua vita,
senzalequaliellasarebbemiseraeinfelice.Ilchenon avviene a gli altri animali;'
perciò che ei sono vestiti dalla natura, e per tutto truovano i cibi
convenienti alla lor vita ; e senza alcuno maestro, ma solamente da naturale
instinto guidati, si sanno fare le case, e ciò che fa loro di mestieri a
conservarsi. Vedete la rondine, che quando viene il tempo di fare i suoi
figliuoli, sa per natura fare il nido ; e di poi, veggendogli nati
ciechi,vaacercare lacelidonia perguarirgli. E le formiche similmente sono da
lei spinte,quando ifrumenti sono sparsi su per l'aie, a pigliarne e riporgli
nelle lor buche. Che bisogno adunque avevano glianimali di parlare? Chè, seeisono
d'una specie medesima,hanno bisogno di sìpoche cose, e tutti a un modo,e son
spinti dalla natura a cercarle:e se ei sono di varie specie,non convengonoinsieme.
Ma all'uomo è egli certamente stato necessario ;imperò che egli ha bisogno di
tante cose,e quanto al corpo e quanto all'anima,che nessuno se le può
procacciare per sè solo; e però è stato bisogno che si accozzino insieme molti,
e che l'uno sovvenga al bisogno dell'altro. Il che non 4 La 1a T., Il che a gli
altri animali non avviene. 2 La 1a T., è dalla natura spinta a cercare. 3 La 1a
T., hanno di sì poche cose bisogno. si saria potuto fare senza questo
mezzo del parlare,con ilquale l'uno possa manifestare all'altro i suoi bisogni
; e per questo la natura l'ha dato solamente all'uomo,come quella che non manca
mai'nellecosenecessarie.E peròèquichiamatodalPoetail parlare operazione
naturale dell'uomo, cioè necessaria alla n a tura sua.E se alcuno mi
opponesse,dicendo che ci sono an cora de gli animali che parlano,si come gli
stornegli, le gazze, i papagalli,e non solamente l'uomo,si risponde che il loro
non èparlare,ma èunaimitazionedivoce;imperòcheeinonin tendono ciò che ei
dicano,e dicano sempre quelle parole che egli hanno nell'udire imparate,o a
proposito o no ch'elle si sieno. E se alcun altro dicesse : C o m e di'tu che
il parlare è solamente dell'uomo ?non abbiamo noi nelle sacre lettere,in molti
luoghi, ch'e'parlanoancoragliangeli?dicocheilparlarenon s'appar tiene
all'angelo,come angelo.Imperò che gli angeli sono spiriti, e sono loro
manifesti iconcetti l'uno dell'altro; ma se eglino alcuna volta hanno parlato,
ei l'hanno fatto per manifestarsi a noi e per bisogno nostro, e hanno preso
corpi, dal ripercoti mento de i quali hanno formate le voci o vero suoni,e con
la lor virtù le hanno poi terminate e fatte significative; si come ei fecero
nell'asina di Balaam, la quale coi suoi strumenti natu rali faceva la voce,e
l'angelo la terminava e faceva significativa. Avete du nque veduto come il parlare
è solamente dell'uomo, e com'ei sia sua operazione e proprietà naturale. Della
qual conclusioneioprobabilmentecavo una particularlodedellano stra
lingua;equesta siè,ch'ellasiapiùpropria all'uomo,che alcun'altrachesiparli.E
chequestosiailvero,lopruovocosì. Tanto quanto una operazione è all'uomo più
propria e secondo la sua natura, tanto glièanco più facileemen faticosa; il parlare
nostro gli è men faticoso e più facile che alcun altro; a dunque gli è più proprio,
e più secondo la natura sua.E che La 1a T. ha:imperò cheei no nintendonociòcheeidicano,cheèil
propriodelparlare.E cheeisia il vero, avvertitechee' diconosempre quelle parole
ecc. i La fa T.,che mai non manca. ? La 1a T., gli storni. questosiailvero,
ponetemente chenessuna lingua èpiù fa cile a imparare,che la nostra.Pigliate
uno che non sappia altra lingua che lasua,emenateloinTurchia,nellaMagna,fraSpa
gnuoli,Francesi o Schiavoni,o tra quale altra gente sivoglia; e poi lo menate
tra noi. Voi vedrete (e questo ne dimostra la esperienzia) ch'ei non imparerà
di qual si voglia lingua tanto in uno anno, quanto ei farà della nostra in uno
mese. Il che non avviene per altro, che per la facilità d'essa, e per la pro
prietà ch'ella ha con la natura umana.Un'altra cagione si po trebbe forse ancor
dire che fusse quella, per la quale questa nostra lingua s'impara così
facilmente.E questa siè,per avere tutte le sue parole che finiscono in lettere
vocali ; le quali per essere, come scrive Macrobio, quasi che naturali
all'uomo, si mandon più facilmente alla memoria che l'altre,e ancora più
lungamente si ritengono.Donde nasce forse ancora quella m a ravigliosa
bellezzach'ellaha, scrivendo Quintiliano,chequante più lettere vocali ha una
parola, tanto è più dolce e più grato il suo suono. Seguita Adamo ilparlar
suo;e per confermazione delle cose ch'egli ha dette adduce per esemplo,che
innanzi ch'ei morisse, gliuominimutaronoilnomeaDio;edoveprimalochiama vano
Uno,gli posero nome El.Nelle quali parole ei fa quella bellaargomentazione
cheilogicichiamanoamaiori;laquale io credo che noi potremo ? chiamare dalla
parte più importante. Fa dunque Adamo questa argomentazione, per volere provare
che la sua lingua mancò, dicendo: Se Iddio, il quale è sola mente stabile e
immutabile in tutto questo universo, a mio tempo mutò nome, che credete voi che
facessero l'altre cose, le quali sono in sempiterno moto e continuamente si
variano ? Di poi dice che noi non ci debbiamo maravigliare diquesto; con ciò
sia cosa che l'uso umano continuamente si muti e si varii in ciascuna
operazione nostra. E assomigliandolo alle frondi, fa una comparazione tanto
dotta e tanto bella, che io 1La1aT.,eifaunaargomentazione. 2 Così le
stampe; ma forse la lezione vera ha da essere potremmo. 3La
1aT.hasolo:conciòsiachel'usoumanocontinovamentesimuta. Pria ? ch'io scendessi
all'infernale ambascia, cioè: prima ch'io morissi e discendessi nel
Purgatorio,o vero nel Limbo,dove andavano tutte l'anime di coloro che crede
vano l'avvenimento di Cristo.Ambascia è quella infermità che iGreci e iLatini
chiamano asma,e ancora da noi toscanamente si chiama asima;la quale è una
difficultà di alitare, che, se condo Aezio nell'ottavo, nasce dall'avere
ristretti i meati del polmone (cioè quei luoghi dove passa lo spirito a
rinfrescamento del cuore),e ripieni di materie grosse eviscose;'o veramente
nasce da debolezza di virtù naturale. Galeno nel quarto libro
De'luoghiinfettidicech'ellapuòancorprocedereda infiamma zione di cuore;e dà lo
esemplo di coloro che hanno la feb bre,e di coloro che si sono affaticati nel
correre, i quali, per avere acceso ilcalore nel cuore ed eccitatolo,'patiscono
que sta difficultà di respirare. E perchè ancora coloro che sono rinchiusi in
luoghi che non abbino esito,o son ripieni di vapori grossi, patiscano questa
difficultà, si dice per similitudine che gli hanno l'ambascia. Ora perchè
ilLimbo,come voi avete da Dante medesimo, è un luogo appiccato con l'Inferno
nel ventre della Terra; e ne'luoghi che sono sotterra,per esser ripieni di vapori,che
il sole continuamente tira da quella, si respira con difficultà, dice qui
Adamo: Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè,al Limbo tra gli altri
santi padri.Questo luogo ancora nelle sacre lettere è chiamato il seno di
Abramo ; e la cagione è , perchè Abramo fu il primo,che lasciati gl'Idoli
venissi al cultos perme nonsapreichealtralodedarmele,senondirech'ella' è
di Dante ; perciò che io non ho mai visto ancora autore al cuno che in questo
l'avanzi.Dice adunque il testo: 1 La 18 T., che dire ella ecc.
?Malela2aT.,Prima.3 La 1a T.,di materia grossa e viscosa. La 1a T., escitatolo.
5 La 1a T., venne al vero culto. di Dio;onde gli fu promesso che
del seme suo uscirebbe la redenzione del mondo. E però coloro che
morivano,andando in questo luogo, si diceva che gli andavano a riposarsi nel
seno di Abramo, cioè nella promissione che fu data da Dio ad Abramo. Dice
adunque Adamo: pria ch'io scendessi a questo luogo,il sommo bene, cioè Iddio,
Donde vien la letizia che mi fascia, cioè, da cui viene la mia beatitudine
(imperò che, come noi a b biamoin San Giovanni alXVIIcapitolo, altrononèvitaeterna
chevedereIddio), era chiamato dagliuomini Uno. Il quale nome
glifupostodaqueglipersimilitudine,eper alcune proprietadi cheha l'unità con
Dio,sìcome è,essere semplice, indivisibile, non essere numero, ma principio di
tutti,e mantenere tutte le coseinessere;perchè,come voi avete da BOEZIO, tanto è
una cosa, quanto ella è una; le qualitutte cose sono in Dio. Im però che egli è
semplice e indivisibile; non è alcuna di queste cose che noi veggiamo,ma
principio di tutte,e mantienle in essere continuamente ; e molte altre
proprietà simili al l'unità , comesileggenelladottrinapitagorica.E
perògliposerogli uominiquesto nome Uno;perchènonpotendoporglinomi che
significassero la sua sustanzia (perchè nessuno conosce il Padre , se non
ilFigliuolo,come noi abbiamo in San Matteo allo XI ), gli ponevano di quegli
che significano ? qualche sua proprietà. Dipoi,lasciandoquestonome Uno,lochiamaronoEl,cioèDio;
il quale nome gli fu ancora posto per una proprietà sua. I m però che
considerando gli uomini la maravigliosa potenza de le opere sue, lo
assimigliarono a l'ardere del fuoco, non si ritro vando infra l'operazioni
delle cose naturali potenzia alcuna che superiquelladelfuoco.Onde
diceiltesto:Ellesichiamdpoi. Avvertite che tuttiitesticheiohovistidicano:Eli
sichiamo poi; ilche non può stare;imperò che Eli vuol dire Iddio mio; 1 La 28
T., ha ;ma la lezione è mal sicura, poiché il passo nella stampa è guasto, e
potrebbe non essere stato emendato interamente nelle correzioni a detta
edizione. In quella del Doni, le parole a l'unità mancano. La fa T., significavano.
donde la sentenza non quadrerebbe a dire:ei si chiamò poi Iddio mio.Anzi
sichiamò El, che vuol dire Iddio.E per fare il verso intero disse Elle,e non
El,come ei devea;e usò qui lo Elle in quel modo ch'egli usò nel XXIII canto del
Pur gatorio lo m , dicendo : Ben avria quivi conosciuto l'emme. Questo nome El
fu ancora posto a Dio per una sua proprietà; perchè tanto è adireEl,quanto
potenteeconservatore.E per questa cagione una gran parte degli angeli,per
essere stati da Dio ordinati e deputati a governare e mantenere questo uni
verso,hanno incluso nel nome loro questo nome diIddio El; nè senza quello si
possono nella ebraica lingua proferire, si come è Gabriel,che vuol dire grazia
o vero virtù di Dio, Raf fael,medicina di Dio,e così va discorrendo de gli
altri.La qual cosa non è senza gran misterio,come potrà ben vedere chi vorrà
diligentemente esaminarla nel santissimo Reuclino e nell'uni
versalissimo'Agrippa.Di poiseguitailtesto:eciòconviene,e questa è cosa
conveniente;però che l'uso umano Dottissimamente e con grande artificio
assomiglia il Poeta i c o stumi dei mortali alle fronde.Imperò che,come
voisapete,le fronde si generano e cascano da gli alberi per la disposizione che
fa il sole con l'altre stelle, appressandosi o discostandosi da quegli; e così
le nostre voglie, sì come noi abbiamo a suf ficenzia di sopra dichiarato, si
mutano e si variano secondo la disposizionecheilcieloinduceneinostricorpi.E
questobasti per dichiarazione di questo testo. Se altra volta ne fia data
occasione,noi c'ingegneremo di sodisfarvi maggiormente per la grata audienza
che voi ne avete prestata; della quale somma mente vi ringraziamo. 1 La 1a T.,
e universalissimo. Grice: “The issues Gelli addresses are interesting, but
hardly Oxonian.” Grice: “Gelli is considering ‘our tongue’ (nostrra lingua) and
conversing on how difficult it is to set it to rules – not impossible, though.
Cf. my procedures. Gelli is confused about ethnicity. The Roman ethnicity is
different from the Latin ethnicity, -- or rather the Latin ethnicity involved
more than the Roman ethnicity – yet he uses freely and undistinnctly ‘lingua
romana’ and ‘lingua latina’ – or ‘latino’ meaning sermone – otherwise, he
refers to ‘i romani’ – never to ‘I latini’ – the thing is – with who is he
contrasting them? With the fioreusciti fiorentini like himself, the flourished
Florentines – lingua fiorentina – but he seems to prefer lingua toscana – he
accepts that lingua napoletana is quite a different thing, since he himself
cared to translate from ‘lingua napoletana’ to ‘lingua toscana’ – more
interestingly, he is into Toschani (thus spelled) --. And here comes the myth
which some have called evangelist. Etruria as the cradle of Tuscany, and Hebrew
and Adam’s tongue as the ‘lingua primigenia’. Gelli is clear about the nature
of language – made for ‘uno possa manifestare all’altro i suoi bisogni. Like
Plato, he revels in the dialogic form, of a cooper with his own soul – what
about Boezio and Cicerone, he asks. They are different. Cicero tried to ENRICH
(make piu ricca) the lingua he thought was the ‘piu bella del mondo’ – Boezio
the same. But the Toschani are not Romani – and so the cooper can do as he
wishes!” Giovan Battista Gelli. Gelli. Keywords: sulla difficultà di mettere in regole la nostra lingua, lingua,
linguaggio, Grice on English, idiolect, dialect, Language, ---. Noe – origine
della lingua, la lingua di Adamo – la lingua fiorentina -- Accademia agli Orti
Oricellar, la lingua dei romani, le regole nella PROSA di Cesare e Cicerone, le
regole nel tempio di Ennio, Glauco, Svetonio, e Tacito, Virgilio, Alighierii. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Gelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gellio: il portico romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Arriano dedicated the discourses of Epitteto to Gellio, who
presumably takes at least an interest in the Porch. Lucio Gellio. Gellio.
Grice e
Gemmis: l’implicatura conversazionale del console – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Terlizzi). Filosofo italiano. Grice: “I love Gemmis.” Grice:
“Gemmis is a good example of how an Italian philosopher differs from a
philosophy don at Oxford – ‘don’ is derogatory; whereas de’ Gemmis is a barone!
– And he writes about ‘reason,’ ‘ragione’ – with Abate Genovesi --; unlike a
‘don’ at Oxford who would over-do reason to keep a post at his college!” –
Grice: “In them days, Italian illuminists took reason very seriously, and
possibly ‘light,’ too!” Ferrante de Gemmis (Terlizzi), filosofo. Figlio del
Barone di Castel Foce Tommaso de G. Si trasfere in Napoli affidato al pro-zio, dove
studia dai più prestigiosi precettori. Allievo di GENOVESI (si veda), di cui
divenne amico e con cui mantenne una cospicua corrispondenza epistolare
raccolta nelle Lettere familiari del celebre illuminista. Si laurea a Napoli, si
introduce negl’ambienti più esclusivi della corte partenopea istituendolo erede
universale. Morto il pro-zio, e nominato a Cava de' Tirreni. A Terlizzi si
dedica ai suoi studi di filosofia e da vita ad una fervida attività culturale
rivelandosi l'esponente primario dell'illuminismo. Istituì una gruppo di gioco,
vero e proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca filosofica e di
attuazione pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo
l'approvazione reale perché sospetto centro di idee liberali, il gruppo di
gioco dovette chiudere, ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente
per anni grazie anche all'incoraggiamento di GENOVESI. Governatore de promosse
il riscatto della città dal diritto di molitura che ha la duchessa di Giovinazzo.
Fonda il Conservatorio delle Orfanelle a la scuola con reale approvazione. E
inoltre incaricato da Ferdinando I di Borbone al riordinamento
dell'amministrazione della Città, che fu divisa in tre ceti in base ai ranghi. Srive
saggi filosofici e una “Tavola di Storia della Filosofia” (Napoli, Soc. Letteraria).
Gaetano Valente Feudalesimo e feudatari Terlizzi nel Settecento, Molfetta,
Mezzina, Cabreo de G., Biblioteca Provinciale G., Bari Ruggiero Di Castiglione,
La Massoneria nelle Due Sicilie e i fratelli meridionali, Gangemi, Roma. FERRANTE DE
G. Figlio di Tommaso de G. Si trasfere nella capitale affidato al pro-zio, dove
studia grammatica, eloquenza latina, logica, e matematica dai più prestigiosi
precettori. È anche allievo di GENOVESI (si veda), di cui divenne amico e con
cui mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere
familiari del celebre illuminista. Laureatosi a Napoli si introduce negl’ambienti
più esclusivi della corte partenopea, essendo istituto erede universale. Nominato
dal Re a Cava de' Tirreni. ATerlizzi si dedica ai suoi studi di filosofia e da
vita ad una fervida attività culturale rivelandosi esponente primario
dell'illuminismo della regione. Istituì una gruppo di giocco a Terlizzi, vero e
proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca filosofico e di attuazione
pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo
l'approvazione reale perché sospetto centro di idee liberali, il gruppo dove chiudere
ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche
all'incoraggiamento di GENOVESI. Ha un grave incidente per la caduta da un
calesse, per cui subì una difficile operazione e a stento salva la vita. Governatore
di Terlizzi e promosse il riscatto della città dal diritto dell'ius moliendi,
diritto di molitura, che aveva la duchessa di Giovinazzo. Fonda il
Conservatorio delle Orfanelle e apre una scuola con reale approvazione. È
inoltre incaricato da Francesco I di Borbone al riordinamento
dell'amministrazione della Città, divenuta regia. Scrive numerose saggi filosofici,
e una "Tavola della storia della filosofia” pubblicato a Napoli nella
stamperia della Soc. Letteraria. Ne scrive la biografia Bisceglia pubblicata
nel "Dizionario degli uomini illustri del Regno". Muore a Terlizzi,
largamente stimato, ed e sepolto nella cappella nobiliare de G. di Terlizzi. Ferrante
de Gemmis. Gemmis. Keywords: il console, tavola cronologica della storia
universal, vita e opinione, prejudici e predilezioni- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gemmis” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gennadio – il divino -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Marsiglia). He argues
that the divine is the only incorporeal being, but that souls and angels are
material. Gennadio.
Grice e
Genovese: l’implicatura conversazionale della tribù – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Genovese; for one, he
has explored the philosophy of ‘vincoli,’ which is all that my theory of
communication is about!” Grice: “Genovese has explored the etymology of
‘tribe,’ as originating with Romolo!” Gricce: “Genovese has punned on Kant’s
silly ‘pure reason,’ surely what Kant meant was a pure critique of reason –
since ‘pure’ is hardly synonymous with ‘theoretical,’ which the treatise is all
about! When Kant goes on to write Part II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’
HARDLY impure!” – Studia a Pisa e Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato
alla teoria dei sistemi, entra in contatto con Luhmann. La teoria sociologica
costituirà da allora una parte importante della sua riflessione. Membro della Fondazione
per la critica sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli
individui e lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della
rivista. Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola
di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in
“Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno”
(Napoli, Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura
scettico-relativista con un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla
funzione, appunto relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo
di questo passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra
scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse
per la teoria dei sistemi. La forma
compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù
occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Boringhieri), e:Un
illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino,
Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di
Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica
dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca
hegeliana. Questa linea è approfondita,
in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo,
nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino
e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la
teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione,
potere” (Napoli, Cronopio), a tutt’oggi
la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare
ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il
destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi”
(Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e
intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello
della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono
dapprima con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva”
– keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il
mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta
il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma
epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia
una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in
una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o
apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso
diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma,
Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto,
insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono
le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis).
Altre saggi: “Modi di attribuzione” (Napoli,
Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione
impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto).
“L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un
saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a
disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a G., le Giulio
Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La
Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. G. è quasi costretto non
semplicemente ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno
con le peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili,
indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci
sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un filosofo, senza che mai si possano individuare
luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il
sopravvento». Le due leggende troiana e romulea. Il primo popolo, ossia i Ramni,
i Tizii e i Luceri.– La plebe. Dopo la rivoluzione portata nella storia
tradizionale romana dal l'olandese Perizonio, con le sue Animadversiones
historicae, e dal Beaufort con la sua famosa Dissertation sur l'incertitude des
cinq premiers siècles de l'histoire romaine, lavori che si succedettero alla
distanza di mezzo secolo, la critica, che era rimasta ne gletta nell'evo antico
e nel medio, perchè riguardata o inutile o incapace di produrre frutti fecondi,
comparve un elemento neces sario nello studio di quella storia tradizionale. E
di quei due critici va detto ciò che in una pubblicazione recentissima. La
prima edizione delle Animadversiones venne in luce ad Amsterdam,e quella della
Dissertation beaufortiana ad Utrecht. Storia di Roma narrate da Bonghi, Manifesto
di Brioschi, Giorgini e Minghetti. Questitresignorirecanoilseguentegiudizio sulla
Storia Romana di NIEBUHR: Amalgama felice di erudizione e di critica, l'opera
del Niebhur (sic) era fatta col sentimento che vi domina, non tanto per dare
una nuova direzione allo studio delle antichità, quanto per ispirarne l'amore
». Questo giudizio dimostra che gli autori del Manifesto non sono storici. Ma
appunto perchè non sono tali, avreb bero potuto astenersi dal profferire sul
fondatore della critica storica moderna un giudizio che dilàdelle Alpi fará
un'impressione tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudiziodegli scrittori
del Manifesto, con trapponiamo quello del Savigny e dello Schwegler, la cui competenza
insiffatto argomento non èscono sciatadaalcuno. Savigny, ne'suoi “Vermischte-Schriften”,
così parla della storia romana del Niebuhr:«L'opera del Niebuhr ha impresso alla
trattazione della storia dell'antichità un carattere affatto nuovo (Niebuhrs
Werk hat der Behandlung der Geschichte des Alterthums einen ganz neuen
Charakter verliehen -- Essa ha inalzato l’ideale della storiografia e fissato
l'indirizzo di ogni ricerca nel campo Rivista di Storia Italiana. Origini
Romane. 13 I. I critici: loro scuole: Niebuhr, Schwegler, Mommsen , Bonghi. I.
ragione, aparernostro, del Niebuhr; che, cioè, questisi propo nesse più
d'inspirare l'amore allo studio delle antichità romane,che di dare a quello
studio un indirizzo nuovo. L'opera del Niebuhr mirasoprattuttoaquesto
secondoscopo;quantoall'altro,delde stare l'interesse per lo studio delle
antichità,esso rampollava natu ralmente dal primo ; mentre la critica del PERIZONIO
e del Beaufort, pel suo carattere negativo, non poteva prefiggersi che
quest'ultimo scopo. Sebbene però ilconcorsodellacritica fosse, dopolacomparsadel
l'opera del Perizonio, generalmente ammesso,esso non fu usato da tutti secondo
l'ufficio suo. E se i più se ne giovarono per ret tificare od anche per
abbattere del tutto la tradizione romana, non mancarono anche coloro che se ne
servissero in senso op posto, che è a dire, in difesa di essa tradizione. Fra questi ultimi vanno segnalati Kobbe (“Römische
Geschichte”), Gerlach e Bachhofen (“Geschichte der Römer), Newmann (“Royal
Rome,” ecc.) e Duruy (“Histoire des Romains”). Gli altri scrittori, e sono il
maggior numero, si divisero in due scuole:all'una vanno ascritti iseguaci del NIEBUHR,
all'altraisuoi correttori. Oggi il campo è tenuto dai secondi , in mezzo ai
quali spiccano le due splendide figure di Schwegler e di Mommsen. Costoro sono
pure campioni di due metodi diversi nel l'applicazione della critica alla
storia tradizionale romana. Il metodo dello Schwegler è severamente analitico.
Egli espone prima la tra dizione in tutti i suoi minuti particolari e con le
sue variant. Poi, nel paragrafo successivo, assoggetta la tradizione ad un
rigoroso esame critico, diretto a scovrirne la genesi,e ilcarattere degli ele
menti che concorsero a crearla. In questa diagnosi spicca, colla potenza di
acume dello scrittore, la sua meravigliosa erudizione. Dopo di avere ben
fermato il concetto della leggenda e del mito, e fissate del secondo le
categorie diverse (mito etiologico, etimologico, ecc.), egli procede a
classificare geneticamente i singoli elementi della tradizione romana, e ci
dice quali debbano ascriversi delleantichità romane -- Schwegler (Röm. Gesch.) aggiunge:«
La Storia Romana del Niebuhr, opera sotto ogni rispetto classica, non solo
diede una nuova direzione allo studio dell'antichità fatto sinora, ma è ancora
il punto di partenza e il fondamento a tutte le ricerche future, alle quali
egli segnò l'indirizzo e diede il più fecondo impulso (Seinerömische Geschichte,eingrossartiges,injeder Beziehung
classisches Werk, ist nicht nur der Brennpankt und Abschluss der bisherigen, sondern
auch der Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern Forschungen, zu denen es
den Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben hat). alla leggenda,
quali all'una o all'altra forma del mito, e quali deb bano aversi in conto di
storici. Non oseremmo asserire che in questa minuta classificazione Schwegler
cogliesse sempre nelsegno. Ma dobbiamo pur dichiarare che in essa nulla
apparisce mai di co scientemente arbitrario; di maniera che si potrà dissentire
da una data sua opinione, perchè faccian difetto gli argomenti con cui c o m
provarla, non già perchè gli argomenti siano stati usati a sproposito. L'opera
di Schwegler, comparsa or fanno 30 anni, è rimasta, a parer nostro, fino ad
oggi insuperata. Il metodo delMommsen ètuttol'oppostodiquello dello Schwegler.
Qua il racconto tradizionale è preso in esame capo per capo ; là di esso non è
fatto nemmen parola. In luogo della tradizione, abbiamo un racconto ricostruito
dalla critica, senza però che estrinsecamente apparisca traccia di siffatto
lavoro.Non vi è dubbio che questo m e todo presenti maggiori attrattive
dell'altro,perocchè escluda ogni processo dimostrativo; ma appunto perciò porta
anche maggiore responsabilità a chi lo segue ; e offre più largo campo alle
censure. La Storia romana del Mommsen ne incontro difatti di vive ed acerbe,
sebbene il valore generale della sua opera fosse da tutti rico nosciuto. La
polemica suscitata da essa torna poi a grande profitto della critica storica, perchè
essa diè occasione al Mommsen di lumeggiare alcuni luoghi oscuri della Storia
romana, mercè una serie di monografie storico-critiche, che egli raccolse col
titolo di “Ricerche romane” – “Römische Forschungen.” Il metodo di Schwegler
trova in questi ultimi giorni un am plificatore fra noi,in Ruggiero Bonghi.La
sua Storia di Roma, da molti anni aspettata, ha cominciato ora a comparire in
luce col primo volume. Il chiarissimo autore premette ad esso una lettera in
risposta al manifesto dei triumviri che aveano promosso la pub blicazione della
sua opera.In questa lettera egli dice, che « gli pa reva strano e vergognoso
che una storia tutta nostra non avesse mai ritrovato in Italia chi dopo gli
antichi avesse intrapreso di narrarla.Veramente, gli storici nazionali di Roma
antica non mancano, come non mancarono i critici, e da Lorenzo Valla ad Atto
Vannucci trovasi una schiera numerosa di dotti che a quello studio applicarono
l'ingegno e la dottrina. In questa schiera spiccano i nomi di ORIOLI, di
UCCELLI, di ROSSI, di CANAL, di CANINA, le cui opere dimostrano, che noi non ci
eravamo con tentati, come afferma il Bonghi, di tradurre prima Rollin, poi
Niebuhr e Mommsen . E se la letteratura nostra mancasse pure di codeste opere,
non basterebbero le pagine inspirate che sulla storia romana dettarono il MACHIAVELLI
e il VICO, per ismentire il basso concetto che il Bonghi reca della
storiografia italiana? Il volume che abbiamo davanti non contiene sufficiente
materia, perchè si possa dire fin d'ora in quale misura l'aspettazione
dell'opera sia stata soddisfatta. Perché l'autore, amplificando, come si è
detto, il metodo dello Schwegler , premette alla critica storica la critica
letteraria della tradizione. All'esame di ciò che vi può es sere di storico
nella tradizione e della genesi sua, egli manda innanzi la ricerca della sua
forma primigenia. Per ora non abbiamo che la sua dichiarazione di avere
scoverto « in una selva selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di congetture,
di questioni d'ogni fatta qualche sentiero non ancora battuto »; lo che acuisce
il desiderio di averesott'occhi la seconda parte del volume, che avrebbedo vuto
comparire insieme con la prima , con la quale ha comune il subbietto, e della
quale è l'anima. L'autore stesso riconosce che lo scompagnare le due parti,
come si è fatto, « avrebbe reso meno facile ai lettori di comprendere il suo
disegno. E così appunto è avvenuto. Ed io devo confessare che questa difficoltà
è nata anche in me, sebbene il lungo esercizio mi abbia reso in certo modo fa
migliare questo studio. Dopo illavoro diligentissimo di Schwegler, a me era
parsa meno necessaria quest'opera di gran pazienza e fatica, come l’autore
stesso chiama e con ragione,l'esameminu tissimo cui sottopose la tradizione.E
perchè a ciò solo non si rimane l'opera sua nel volume pubblicato,ma qua
elàeglifuindottodallo sviluppo della sua analisi, ad entrare nel merito storico
della tradizione, la separazione della seconda parte dalla prima è ancor più
deplorata.Senza di essa noi avremmo,per esempio,chiaritosubito la teorica, con
la quale l'autore chiude il suo discorso sulla leggenda di ROMOLO, e che messa fuoriamo
di assioma storico,anoi è parsa mancante della necessaria chiarezza, per
poterci risolvere ad accettarla. Eccola con le parole stesse dell'Autore : «
Del rima nente,ènecessario,dic'egli, tenere ben distinte queste tre dimande. Prima,
se una leggenda contenga elementi storici. Seconda, quale sebbene pero
l'Italia abbia fatto il dover suo in questo impor tante studio, ciò non iscema
l'interesse che desta nei dotti la com parsa di un'opera, dettata da una mente
che della sua grande potenza avea dato saggi copiosissimi nelle discipline più
svariate. la storia sia stata. Terza, come la leggenda sia nata. Noi
abbiamo obbligo di rispondere di no alla prima dimanda,se ci si prova che debba
essere negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a tempi
molto più vicini ai nostri, che non sono quelli della fondazione di ROMA, non ne
abbiamo il modo — di rispondere nè in tutto nè in parte alla seconda ed alla
terza ». Come si vede, questo giudizio riesce alquanto oscuro, particolarmente
perché gli manca una dichiarazione di termini, senza la quale non se ne può
misurare il valore. Che cosa intende BONGHI per leggenda? Ciò che noi chiamiamo
leggenda, i Tedeschi chiamano Sage, ma la differenza sta tutta nella forma,
mentre un solo ne è il concetto. Ora il concetto della leggenda è questo. Cioè,
il ricordo di un evento notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di
canti popolari, dall'una all'altra generazione, e colorito dalla fantasia per
modo da imprimere ad esso un carattere prodigioso. Il nucleo della
leggendaèadunque storico. Il mito, invece, è tutt'altra cosa. In luogo del
fatto storico che costituisce l'essenza della leggenda, nel mito abbiamo come
elemento essenziale e come motivo genetico una data idea, resa concreta e
sensibile per mezzo di un intreccio di fatti immaginarii. Ora, nella tradizione
romana leggenda e mito trovansi mescolati insieme, e il lavoro della critica
consiste in cio appunto, di sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi
dagli invo lucri che hanno impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo
lavoro, che non è meno improbo, e per la storia è assai più utile di quello
fatto dal BONGHI nel primo volume della sua opera, e già tentato da molti. Ed è
in esso che apparirà nel vero valor suo l'opera dell'illustre storico. Il
presente volume si chiude all'anno 283 della fondazione di Roma. Ed ecco la
ragione che BONGHI dà di questa fermata. -- Succede, dice BONGHI, non
addirittura il primo fatto certo della storia interna di ROMA, ma quello
de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta la sua storia anteriore è
spiegata, e tutta la sua storia posteriore,è,se mi si permette la parola,
preformata. L’elezione dei tribuni nei comizii tribute. Per ciò che riguarda la
certezza del fatto accennato, notiamo che esso, tanto rispetto alla sua
cronologia, quanto rispetto al suo stesso contenuto, è tutt'altro che
sicuro.Fatti certi dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi che quelli i
quali sono attestati da documenti autentici. Ed essi sono : la fondazione del
tempio federale di Diana sull'AVENTINO, avvenuta sotto il regno di Servio
Tullio : il trattato federale stipulato da Tarquinio il Juniore coi
Sabini : il primo trat tato di navigazione e commercio conchiuso da Roma con
Cartagine subito dopo il bando di quel re. E il patto federale conchiuso da
Roma colle città latine sotto il secondo consolato di Spurio Cassio. Questi
sonoifatti,chesiponno chiamarcerti,perchèqualcunodegli storici maggiori
dichiarò di avere visto il documento originale in cui erano consacrati. Tale
qualifica non può essere data alla lex Publilia, il cui contenuto forma ancor
oggi obbietto di disputazioni fra i critici. Il Bonghi ci dice fin d'ora
com'egli spieghi il tenore di quella legge, ed io sono curioso di sentire con
quali nuovi ar gomenti egli suffragherà una opinione,che oggi è abbandonata dai
più; e cioè, che prima della lex Publilia i tribuni della plebe fos sero eletti
in altra sede fuorchè nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi
esprimemmo il nostro avviso sul tenore della lex Publilia, e rimandiamo il
lettore a quel nostro libro, non essendo il caso di
ripeterquiciòchescrivemmoaltrove.— Un'ultima osservazione. BONGHI dice, che il
fatto del 283 è quello dei fatti certi più antichi di Roma, che spiega tutta la
sua storia anteriore.Aspetto di avere la dimostrazione di questo asserto prima
di giudicarlo. Per ora, la mia opinione, è che al disopra di quel fatto (badisi
che qui si parla di fatti interni) ci stia l'altro della creazione del
tribunato della plebe, da cui tanto la lex Publilia, quanto le successive leges
tribuniciae e manarono come prodotti necessarii di un fattore comune. Il primo
problema che si affaccia alla critica nello studio delle romane origini, è come
avvenisse l'innesto della leggenda troiana nella leggenda romulea, perchè è
fuor d'ogni dubbio che l'una e l'altra traessero origine da fonti diverse. E
mentre la romulea è creazione paesana, nata sui luoghi stessi che sono la scena
del suo racconto, la troiana è indubbiamente importazione straniera. Però non
tutti gli elementi di questa seconda leggenda sono nati di fuori. Dal momento
che l'eroe troiano ha posto piede nel Lazio, la leggenda lo mette in relazione
con le popolazioni indigene, facendogli imprendere una serie di guerre coi
Latini, Sabini ed Etruschi.Ora, se tolgasi il protagonista che è un personaggio
favoloso, il racconto di quelle guerre racchiude indubbiamente elementi
storici, che la sciati inavvertiti da CATONE e da Dionisio, furono segnalati e
lumeggiati dall'autore dell’ “Eneide.” Infatti,mentre presso idue primi,le
lotte combattute da Enea si presentano come guerre dinastiche, nelle quali i
popoli appariscono come stromento delle ambizioni di questo o di quel principe.
Presso VIRGILIO quelle lotte assumono fin da principio la proporzione di una
guerra di stirpi italiche,in cui sono adombrati gli sconvolgimenti
politico-sociali onde il Lazio fu teatro nella età pre-romana. Quel Turno che
negli altri racconti figura come capo dei Rutuli, nell’ “Eneide” comparisce
come duce di una intera confederazione di città italiche e di popoli di diversa
stirpe. Alla sua chiamata accorrono iguerrieri di Laurento,Ardea, An tenne,
Crustumerio, Tiburi, Atina, Preneste, Gabii, Anagnia, e con essi gli Aurunci,i
Volsci,i Sabini, i Falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea, seguendo il
consiglio d’Evandro, rivolgesi ai Tirreni,iquali eransidirecenteliberatidal
tirannoMezenzio, divenuto ora alleato di Turno. E col loro ausilio, conquista
Laurento. Ora, levando da questo racconto la parte leggendaria che è la
intromessa di Enea, chiaro apparisce il contenuto storico di esso.Ivi troviamo
adombrati, da un lato,iprogressi della conquista etrusca nella valle inferiore
del Tevere, e dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere
il paese dalla servitù straniera.Alla quale impresa i latini trovano ausiliarii
non pure nelle città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe
sabellica che la primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui
la parte avuta nella liberazione del Lazio frutta una stanza nel Set timonzio.
Così per mezzo di VIRGILIO noi siamo posti in grado di spiegare la presenza dei
Sabini sul Quirinale e sul Capitolino, comple tando la tradizione romana, il
cui contenuto storico, purificato da gl’innesti leggendarii,consiste nel
presentarciidue popoli,latinoe sabino, viventi già l'uno presso l'altro sul
Settimonzio, e riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme dopo di essere stati
lungamente in guerra fra loro. Ancora nei tempi storici, noi troviamo gl’etruschi
imperanti nella Campania ; prima di arrivare nella valle del Vol turno, essi
aveano dovuto trarre in loro potere la valle inferiore del Tevere, che è a dire
, il LAZIO. Senza l'Eneide non sapremmo come questo paese ricuperata avesse la
sua libertà.L'Eneide ci apprende che ricuperolla per mezzo di una insurrezione
popolare capitanata da un eroe. Quest'eroe è TURNO. Enea gli ha strappato dal capo
il lauro dei prodi. Ma l’Eneaitalicoèunmito;Turno invece è persona rimasta viva
nella tradizione di un popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore d’Enea la
critica storica sia stata messa sulla via di riconoscere in TURNO un EROE
ITALICO, e di rendergli la sua corona. Dopo questa digressione, che non c'èparsafuoridiluogo,ve
niamo ora a risolvere il problema della confusione avvenuta di due
leggende,tanto diverse l'una dall'altra, sia perla fonte da cui emanano, sia
pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica, non --
Ennius dicit Iliam fuisse filiam Aeneae,quod si est,Aeneas arus est Romuli »
Servio,ad Æn.,VI,778. sa nulla nè dell'una nè dell'altra leggenda. Prima che la
boria destata dalla potenza di Roma, introducesse il troiano Enea nelle romane origini,
a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi, di
instituti e di consuetudini di antiche che si trovavano esistenti da tempo
immemorabile, senza che fosse stato riferito ab antiquo come fossero nate,la
fondazione di Roma erasi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si
figura la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire,per mezzo di un
fondatore epo n i m o . Una città che no ma vasi Roma, dove a a dunque, secondo
il concetto dell'antichità, avere avuto per fondatore un Romo, progenie divina
al pari di tutti i fondatori eponimi. Ed a noi fu serbata questa tradizione
semplice della origine di Roma, la quale biamente la più antica. Ne dobbiamo è
indub la conoscenza al grammatico FESTO, che la tolse dallo storico Antigono. «
Antigonus, italicae historiae scriptor, ait, RHOMUM quemdam nomine, Jove
conceptum urbem condidisse in Palatio , ,Romae eiquededissenomen».Così Festo
all'articolo Romam . La tradizione romulea, nella quale l'eponimo ROMO diventa
ROMOLO e gli è dato Remo per fratello,e l'uno e l'altro sono aggregati alla
dinastia dei Silvii che regnava ad Alba Lunga e ripeteva la sua origine da
Enea; questa tradizione era dunque ignota all'antichità.Lo stesso ENNIO non la conosce
che in uno stato ancora embrionale, giacchè ENNIO dà alla madre di Romolo, Ilia,
Enea per padre. Pero , il concetto inspiratore della leggenda è già nato col
poeta rudiese, come è nato l'intrecciamento delle due leggende Ora come avvenne
questa sovrapposizione . della leggenda troiana alla romulea? La ragione
psicologica del fatto fu data già da VICO in quella boria delle nazioni, le
quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di potenza, non sdegnano
loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. VICO accenna anche la
capitale cagione che indusse i romani, quando andarono in cerca di origini
fastose, a fissare la mente sulla leggenda di Enea.Ei laattribuisce alla fama
strepitosa che ebbe per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema di
Omero e della introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via
che si fece percorrere al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale fu la causa
inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altri
impulsi. Quando il Senato romano, verso la fine della prima guerra punica,
inter venne nella contesa fra gl’etoli e gl’acarnani, e giustifica la sua
intromessa in favore dei secondi, osservando che gli Acarnani erano il solo
popolo greco, il quale non avesse partecipato alla guerra contro i Troiani progenitori
dei Romani , era l'orgoglio nazionale che ispirava quella dichiarazione.
Similmente, quando il senato accetta l'amicizia offerta dal re Seleuco, ponendovi
per condizione che liberasse i Troiani da ogni tributo ; e quando Flaminino ,
nel pre sentareidonativideiRomani aiDioscurieadApollo,chiamòisuoi concittadini
col nome di Eneadi, è sempre l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle
due leggende. Ma allorquando la politica militare di Roma ebbe prodotto in
seno Altri fattori vanno considerati. E , soprattutto, la parte che nella
propagazione della leggenda di Enea in Italia ebbero le numerose colonie greche
dell'Italia meridionale, e più specialmente Cuma, che oltre ad essere la più
antica e la più vicina al Lazio, era di pro venienza diretta dall'Asia Minore,
e precisamente dalla Misia, luogo finitimo alla Troade. E come le colonie
greco-italiche divennero al trettanti centri propagatori del culto di Afrodite
Alveias, dea dei naviganti, con cui la leggenda di Enea è intimamente collegata,
cosi l'oracolo della Sibilla cumana divenne ilcentro propagatore dei fausti
vaticinii, onde la religione della dardanica Afrodite confor tava nel suo
esilio la famiglia degli Eneadi. Già nell’ “Iliade” è fatta allusione a quei
vaticinii, dicendosi che la famiglia di Enea era serbata ad un nuovo e
splendido avvenire, mentre quella di Priamo era stata destinata alla
perdizione. Ora , in questa promessa di un glorioso avvenire serbato alla
progenie di Enea giace il motivo riflesso dell'amalgama delle due leggende
troiana e romulea. Roma costitui se stessa obbietto dei vaticinii sibillini, e
dichiarò avvenute in se stessa le promesse fatte ai discendenti di Enea. Già ENNIO
presenta in questo modo il fatto, dicendo che Troia era risorta in Roma, e non
andrà guari che la repubblica innalza a domma nazionale l'origine troiana della
potente metropoli. alla Repubblica i suoi effetti liberticidi, e la
maestà quiritaria che era in bocca a tutte le nazioni straniere, ed era oggetto
di terrore e di riverenza universale, scomparve dal popolo per riassumersi in
un uomo, l'orgoglio nazionale passò in seconda linea per cedere il primo posto
all'interesse dinastico creato da un usurpatore.Il grande anello di
congiunzione fra la leggenda di Enea e la dinastia dei Cesari è quel famoso
Julo, che comparisce nella genealogia degli Eneadi, or quale figlio, or quale
nipote di Enea. E cosi nell'uno,come nell'altro grado, sembra siavi stato
introdotto dai Giulii stessi, dopo che fu sorto il giorno di loro grande
fortuna. Infatti, gli scrittori più an tichi della leggenda non conoscono quel
nome , sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio di Enea,chiamandolo
ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome, che ricorda
quello della patria Ilio,suggerì l'idea della finzione genetica,ed Ilo diventò
facilmente Julo progenitore degli Julii. Ciò spiegherebbe il fatto del comparir
di quel nome per la prima volta negli scrittori cesarei. C o m un quesia
dell'origine sua, venne un giorno che il popolo romano apprese per bocca di
Caio GIULIO CESARE, ch'esso avea nel suo seno una progenie di celesti, e che
dalla morte di Romolo in poi essa avea camminato fuori del diritto divino, nel
cui sentiero era ora chia mato a ritornare. Il giorno in cui Cesare, essendo
questore,recitò dalla tribuna del Foro il panegirico di sua zia Giulia, fu
decisivo per le sorti di Roma e del mondo. E là che egli annunzia al popolo
stupito, che la sua famiglia eraaduntempoprogeniedidèiedire.«Amitae meae Juliae
maternum genus ab regibus ortum,paternum cum Diis immortalibus conjunctum
est.Nam ab Anco Marcio sunt Marcii reges, quo nomine fuit mater, a Venere
Julii, cujus gentis familia est nostra. Est ergo in genere et sanctitas regum
qui plurimum inter homines pollent, et caerimonias deorum, quorum ipsi in pote
state sunt reges » (1). Quando GIULIO CESARE recita questa orazione non avea
che 32 anni di età , e non avea fatto ancora il suo ingresso nella politica
militante, comecchè avesse già coperto parecchie magistrature.Ma l'uomo che
avea osato fare pubblicamente l'apologia della regia potestà e pro clamare la
origine divina della sua famiglia, avea già intuito il futuro e divisato di
rivolgerne a suo profitto il realizzamento. Nel seguente anno , infatti, lo
vediamo stretto in lega con Pompeo , e SVETONIO, Caes ., avviato a compiere il
cammino trionfale che da Farsaglia lo condurrà a Munda, e metterà nelle sue
mani l'impero del mondo. Riassumendo per tanto le cose in sinquidette, notamo che
se la leggenda romulea è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta
per antichità la leggenda semplice,riferitada Antigono,che Roma avesse avuto
per fondatore un eroe eponimo progenie di celesti, e cioè, che fosse nata nello
stesso modo in cui l'antichità si figura l'origine di tutte le città
greco-italiche: che la leggenda ro mulea, sebbene nata sul suolo romano,
mostrasi nelle sue parti es senziali come il prodotto di una invenzione
riflessa, avente in mira di spiegare sistematicamente le origini di nomi, d'instituti
e di consuetudini antiche che si trovavano esistenti da tempo immemorabile,
senza che fosse stato riferito come avessero avuto nascimento : che la leggenda
troiana, divulgata in Occidente per mezzo delle colonie italiche e degli
oracoli sibillini, fu introdotta nella leggenda romulea, quando la boria
destata nei Romani dalla loro potenza li obbligo ad andare in cerca di origini
fastose da sostituire alla ori gine volgare trasmessa loro dai maggiori. E come
la discendenza di Enea era stata creata per soddisfare l'orgoglio di un popolo
conquistatore, cosi essa e scaltramente usufruita da GIULIO CESARE per
legittimare la sua opera liberticida. Un altro problema non meno interessante
della fusione delle due leggende troiana e romulea,per mezzo della quale si
spiegò l'ori gine della città di Roma,è quello che concerne la formazione del
suo primo popolo. La tradizione romana spiega questa formazione in un modo
semplicissimo. Romolo, dopo che ebbe per la morte di Tito Tazio raccolta nelle
sue mani la sovranità sui socii Sabini del Settimonzio, parti il popolo in tre
tribù, e pose a ciascuna il nome del duce che aveala capitanata. Ai suoi pose
pertanto il nome di Ramnenses ; ai seguaci di Tazio il nome di Titienses, e a
quelli diLucumone,cheavealoaiutatonellaguerra contro i Sabini,il nome di
Lucerenses. Quanto alla nazionalità, la tradizione ne at tribuisce una propria
a ciascuna tribù.I Ramnenses di Romolo sono per lei Latini ; i Titienses di
Tazio sono Sabini, e iLucerenses di Lucumone sono Etruschi. Però, se la
tradizione è concorde ri spetto alla origine dei due primi nomi, non lo è
rispetto a quella III. del terzo. Il Lucumone di CICERONE
diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il titolo
dignitario e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re di
Ardea. Queste va rianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui riposa
co desta tradizione. Livio se la sbriga, dicendo il nome dei Luceri di incerta
origine. Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza l'origine
dei Luceri , la filologia dichiara impossibile la derivazione dei Ramni da
Romolo, avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la origine dei
nomi sarebbe cosa di poco interesse, quando ad essi non si annettesse la
origine della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il
nome della terza tribù ro mana, si è prodotto come testimonio della origine
etrusca di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione
romana uscisse fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco,
e fosse quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi
abbandonata, e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza
etrusca deiLuceri,non arrestandosiaquestoresultamentonegativo,hapur risoluto
positivamente la questione, dimostrando che iLuceri devono essere
tenutiincontodiunaschiattalatina;ondelanazionero mana sarebbe stata composta di
due elementi etnici omogenei , il latino e il sabino, ramificazioni entrambi
del gran ceppo italico,chePrima della pubblicazione della Storia Romana di
SCHWEGLER ,l'origine etrusca dei Luceri era ammessa dalla maggior parte degli
storici. Tra i fautori di essa vanno ricordati: Feodor Eago, Untergang der
Naturstaaton,WACHSMUTH, Aeltere Geschichte des römischen Staats, GÖTTLING, Geschichte
der römischen Staatsverfassung, USCHOLD, Geschichte des trojanischen Krieges. KORTÜm,Römische
Geschichte, BECKER, Handbuch der römischen alterthümer, WALTER, Geschichte des
römischen Rechts, SCHÖMANN, De Tullo Hostilio,PUCCELLI, Altreviste sugl’antichi
popoli italiani, Cortona, VANNUCCI, Storia dell'Italia antica, Fir., L'origine latina,
anzi albana, dei Luceri è ammessa da Niebun, Römische Geschichte, da SCHWEOLER,
Römische Geschichte, –da NIEMEYER, De equitibus romanis, BREDA, Centurie-Verfassung
des Servius Tullius da KLAUSEN, Aeneas und die Penaten dal Römische Alterthümer,
Mommsen si limita ad osservare, non esseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere
la origine latina dei Luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären),
sagen,als das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine
latinischeque Glelmaeidnidaendare in cerca Röm. Gesch. Ihne invece è scettico, e
dice che è fatica sprecata dall'ag del vero su una questione nella quale le
fonti ci lasciano al buio, e che non si gu2a0d.agna nulla giugnere un'opinione
nuova a quella degl’antichi, Röm. Gesch., Leipzig, dal LANGE, parer nostro, che
Ihne non ha bene studiato la quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna
qualche cosa da questa aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere
chiarito il significato del nome di questa terza tribù. Lucere vuol dire
risplendere; Luceri equivarrebbe adunque ad illustres. E questo appellativo ben
si addice alla nobiltà di Alba, la quale, dopo la distruzione della loro
patria, fu trasferita nel Settimonzio ed ebbe per sua stanza il Celio. Cid
dimostra,a immigro in Italia dopo iljapigicoe prima dei Raseni. Noi
diremo gli argomenti coi quali si impugna la origine etrusca dei Luceri ; indi
ci faremo a dire quelli coi quali si dimostró la loro origine latina, e la loro
provenienza da Alba Longa. Prima di tutto, vuolsi avere presente, che la
origine etrusca dei Luceri non è che una mera presunzione, mancante di una
tradizione positiva, e desunta da dati estrinseci ed accidentali, che pas sati
sotto il crogiuolo della critica, non danno alcun frutto. L'uno di questi dati
fu somministrato da certa analogia che si riscontra fra il nome della terza
tribù e quello di Lucumone , che è titolo gentilizio e dignitario presso gl’etruschi.
E come il nome del colle Celio si è voluto spiegare derivandolo da un duce
etrusco per nome Cele Vibenna,ilquale,secondo alcuni (Varrone),altempo di
Romolo, secondo altri (Tacito), al tempo di Tarquinio Prisco, sarebbesi sta
bilito con una grossa schiera dei suoi connazionali nel Settimonzio; cosi il
nome Luceri che portavano gli abitanti del Celio si spiego per mezzo del titolo
di Lucumone che portava il Vibenna. L'altro dato è ancor più arbitrario, in
quanto che fu desunto dalla ubicazione geografica di Roma,quasicheilfattodeltrovarsiRoma
in mezzo a tre schiatte diverse, generar dovesse necessariamente l'ef fetto,
che essa componesse la sua cittadinanza con ciascuna delle tre schiatte, per
modo che esse vi fossero rappresentate tutte pro porzionalmente. A questo
concetto subbiettivo si contrappone vitto riosamente per ciò che riguarda il
contingente etrusco, il famoso motto del trans Tiberim vendere, e del senso
latissimo che esso acquisto e mantenne per lungo volgere di secoli, anche dopo
che gli Etruschi erano caduti sotto la dipendenza di Roma, ed il Tevere cessa
di essere un confine politico. In verità,che se gli Etruschi avessero dato a
Roma un contingente proporzionale della sua cittadinanza, quel motto diverrebbe
uno strano enimma. Perchè esso non si riferisce tanto alla divisione politica
dei due stati, romano ed etrusco, quanto alla differenza di nazionalità, avvertita
e vivamente sentita nella lingua, nelle istituzioni politiche e civili, e nei
costumi dei Romani. Ma se i dati estrinseci su cui fu eretta l'ipotesi della
origine etrusca dei Luceri non giustificano siffatta conghiettura, le prove
intrinseche dimostrano addirittura la sua falsità. Queste prove si de sumono
dalla lingua e dalla religione dei Romani. È ovvio,che se gli Etruschi avessero
dato un proprio contributo alla formazione del popolo romano, in tal caso la
lingua latina dovrebbe somministrare la chiave per decifrare le inscrizioni
etrusche, ed essa stessado vrebbe contenere tale copia di voci etrusche da
assumere il carat tere di una lingua mista, ossia, di una lingua formata di due
diversi organismi ; ma nè il latino aiuta a spiegare l'etrusco, nè nella co
stituzione organica della lingua del Lazio apparisce alcun vestigio di miscele
eterogenee;chè,anzi,la caratteristica peculiare della lingua latina è la
straordinaria uniformità della sua struttura; lo che attesta la uniformità
della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce l'esame delle istituzioni
religiose di Roma. Se i Luceri fosserostatiunatribù etrusca,lareligione romana
conterrebbe traccie di divinità e di culti etruschi,come ne presenta di
divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento successivo della terza tribù alle
due prime dovesse avere per effetto la mutua comunicazione dei rispettivi
culti, come cið era avvenuto prima fra i Ramni e i Tizii, ossia fra Latini e
Sabini. Ora, la religione ro mana non presenta una sola divinità e un solo
culto che vesta un carattere etrusco. Anche lo stato d'inferiorità, in
che,rispetto alla tribù dei ramni e dei tizii, trovasi la tribù dei
Luceri,portato al grado da tenere costoro fino al tempo di Tarquinio Prisco
esclusi dal Senato, contraddice alla ipotesi che i Luceri entrassero fin dal
l'origine di Roma a formar parte del primo popolo, e compissero di questo la
compagine etnica recando nel suo seno l'elemento etrusco. Questo stato
d'inferiorità si spiega invece in modo semplice e na turale, quando ammettasi
che la tribù dei Luceri fosse costituita dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e
che quindi entrasse più tardi a formar parte del primo popolo. Alla posteriore
aggregazione dei Luceri alle due primitive tribù, e allo stato d'inferiorità
dei primi rispetto alle seconde accenna il verso di Properzio. Hinc Taties Ramnesque
viri, Luceresque coloni. Non mancano poi le prove dirette, dimostranti che i
Luceri , oltre ad essere e n trati posteriormente nel consorzio dei Romani e
dei Tizii,sono pure di origine albana. Tito Livio (II, 33), parlando degli
stanziamenti condotti dal re Anco Marcio sul colle Aventino, osserva che egli
assegn ai vinti Latini per sede quel colle, perché gli altri quattro, il
Palatino, il Capitolino, il Quirinale e il Celio (il Viminale e l'Esquilino
furono aggiunti alla città solo dal tempo di Servio Tullio) erano già popolati
; e cioè, il colle Palatino dai Romani primitivi, ossia dai Ramni. E il
Capitolino e il Quirinale dai Sabini, e il Celio dagl’Albani. Ora, se questi
ultimi ebbero per loro stanza il Celio, non saprebbesi davvero dove collocare
iLuceri,quando non siammettesse che i Luceri e gli Albani fossero la stessa
cosa. La critica adunque negando la origine etrusca dei Luceri, ha messo in
sodo il fatto che la nazione romana venne composta di due elementi
etnici,anzichè di tre,il latino,cioè,e ilsabino.Questa composizione spiega il
carattere che distingue la nazione romana dalle altre na zioni italiche. Questo
carattere è il prodotto della fusione di due stirpi che parevano fatte apposta
per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il popolo romano riceverà la
frugalità, lo spirito religioso, la severità dei costumi, il principio della
patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi. Sono la base di granito e il
duro cemento che i sabini apportano all'edifizio romano (1). Se nel sabino
prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina lo spirito di
sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il se condo non è radicale.
E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina derivò quel lento,
ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana, che formd di essa
la più grande creazione politica della civiltà antica. Ma le tribù dei Ramni,
dei Tizii e dei Luceri non formano tutto il popolo romano. Accanto a loro
comparisce, come parte costitutiva di esso popolo,la plebe,la quale,dopo di
essere rimasta a lungo in uno stato di semi-dipendenza dal primo popolo , ossia
dal patriziato, fini col prevalere su di esso, ed obbligarlo a seguire la sua
via. Ora, come sorse questo ceto sociale? Ecco il terzo problema che ci
proponiamo di risolvere in questo breve nostro lavoro. I Romani non erano
ignari di questo prezioso patrimonio che avevano ricevuto dai Sabini. Ce lo
attesta Catone per bocca di SERVIO. Sabinorum mores populum romanum secutum CANOTE
dici SERVIO ad En. Vedi Devaux, Études politiquessur les principaux événements del'histoire
romaine, Paris. La quistione dell'origine della plebe e studiata
particolarmente da STRESSER,Versuch über die römischen Plebejer der ältesten
Zeit, Elberfeld, PELLEGRINO, Ueber den ursprünglichen Religionsunterschiedder Patricier
und Plebejer, Leipzig, lune, Forschungen auf dem Gebieteder römischen Verfassungsgeschichte,
Frankfurta. KRUSZYNSKI, Die römische Plebs in ihrer politischen Entwickelung vom
Ursprunge bis zur völligen Gleichstellunng mit den Patriciern, Lemberg, SCHWEGLER,
Römische Geschichte. TOPHOFF, De plebe romana, Essen. WALLINDER, De statu
plebejorum Romanorum ante primam inmontem sacrum secessionem quaestiones, Upsaliae.
Lange, Verbindung der plebs mit dem patricischen Staate nei Römische
Alterthümer, Berlin. Gli storici antichi erano affatto all'oscuro intorno il
fatto della origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa che essi sapessero
era che la plebe erasi trovata sempre in uno stato d'antagonismo verso il
patriziato. Da ciò la definizione negativa che essi davano della plebe,
chiamandola il ceto in cui gentes civium patriciae non
insunt.Perqualviapoil'antagonismo fossenato,oinaltriter mini, come la plebe
avesse avuto origine,ciò essi riguardavano come una quistione oziosa, imperocchè
a loro paresse assurda l'idea che fossemai esistito uno Stato romano senza
plebe;onde per loro era un assioma, che patriziato e plebe fossero nati e
cresciuti insieme collo Stato romano. Contro questa presunzione stava però il
fatto, non considerato, della condizione giuridica diversa in che trovavansi
due ceti sociali all'infuori del patriziato, la quale attestava che essi non
erano nati insieme nè allo stesso modo. Accanto alla plebe,trovasi, cioè, nei primi
tempi dello Stato romano, la clientela, caratterizzata e distinta dalla plebe
dalla forma speciale della sua dipendenza. Mentre la dipendenza della plebe
avea un carattere impersonale e comprendeva ilceto nella sua generalità,quelladellaclientelaimpe
gnava giuridicamente l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto
perciò esso nomavasi “cliente” -- da cluere, klúeiv, dipendere -- in quanto che
fosse ascritto alla gente di un patrono,e da questo dipendesse. Che se nel
giure politico plebei e clienti trovansi originariamente costituiti nella
stessa condizione negative. Nel giure privato, la condizione loro era assai
diversa. Il cliente nè possedeva del proprio, nè poteva stare in giudizio;
mentre ilplebeo possedeva su questo campo piena personalità giuridica (civitas
sine suffragio); di guisa che, quando per la costituzione di Servio Tullio, il
censo divenne il fattore del diritto di suffragio,questo diritto iplebei
conseguirono, mentre i clienti ne rimasero orbi come per il passato. Ora,
questa differenza esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente
spiegare fuorché ritenendo,che l'origine loro fosse,rispetto al tempo e al
modo, diversa. La clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e
l'inferiorità della prima rispetto alla seconda dimostra che la forza, che creò
la sottomissione dei due ceti, eser citò sui vinti ridotti in clientela un
impero più assoluto che su quelli ridotti in istato di plebeità. Perchè il
cliente conseguire potesse iljus suffragii faceva mestieri che il dominium ,che
egli te nevacome peculium,glifosse assegnatocomeliberaproprietàexjure
Quiritium.Ilqualeattoequiva leva in certo modo ad una manumissio censu. Ora, se
l'istituzione della clientela è più antica che quella della plebe, è forza
cercarne l'origine nella prima conquista che frutto ai Ramni edaiTiziiil dominio
del Settimonzio. Gli abitanti primitivi di quella regione devono avere formato
il nucleo della clientela romana, che le ulteriori conquiste vennero via via
ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori conquiste, corse, rispetto agli ef
fetti sociali, forte differenza. Se la prima non produsse che dei clienti e
degli schiavi, le successive produssero particolarmente dei plebei. Già
l'interesse politico consigliava i conquistatori a tempe rare verso i nuovi
vinti il rigore dell'antico jus gentium ; e noi non abbiamo memoria della piena
applicazione di quel diritto che verso la città di Collazia. E se alle famiglie
imperanti fosse pur piaciuto di partire i novelli sudditi fra le genti romane,
traducen dole sotto la loro clientela, la monarchia dovea opporsi a questo uso
della conquista che avrebbe con pregiudizio della regia potestà accresciuto in
modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi erano poi questi vinti?
Erano Latini : appartenevano, cioè, a quella stirpe che avea coi ramni formato
il nucleo della cittadi nanza romana ; erano dunque connazionali dei Romani.
Che se co storo aveano avuto pei vinti Albani tale riguardo, da ammetterli nel
loro consorzio religioso e politico, perchè vorrassi ammettere che verso gl’altri
popoli latini, sottomessi pure colle armi, applicassero in tutto il suo rigore
il diritto della guerra? E ove pure si ammettesse che questo rigore fosse
usato, come ci renderemmo ra gione del sorgere di questa plebe e della
importanza sociale che venne improvvisamente acquistando, così da presentarsi
come un potente appoggio della monarchia, e da ricevere da questa servigi e
beneficî che schiuderanno all'avvenir suo il più vasto orizzonte? Non
dimentichiamo che questi plebei son Latini. La tradizione stessa ci dice quando
e per opera di chi i popoli del Lazio caddero sotto ladizionediRoma.La
distruzionediAlbaLonga,eiltramuta mento dei nobili Albani nel Settimonzio ,
portarono per effetto lo scoppio di ostilità fra le città latine, erettesi a
vindici della loro antica metropoli, e Roma che pretende, come conquistatrice
di Alba Longa, di essere riconosciuta anche come erede della sua [Livio ci ha
trasmessa la formula deditionis di Collazio, che egli attinse verisimilmente
dai C o m mentarii Pontificum : « Rex interrogavit: dedistisne vos populumque
Con latinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina
humanaque omnia in meam populique romani dicionem? Dedimus ». Livio, I, 38. La domanda
del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista di Storia Italiana.] egemonia
sulla confederazione latina. La grossa guerra scoppia sotto Anco Marcio. Non è dubbio
che questi, prima di scendere in campo, approfittasse delle gelosie esistenti
fra l'una e l'altra città latina, e che sono effetto di ogni confederazione a
base ristretta, per rompere il fascio con promesse e lusinghe date a tempo e a
luogo. Senza ciò, non potremmo avere ragione della sua facile e completa
vittoria.Ora che cosa fece Anco Marcio di questi nuovi vinti? Gli storici
antichi ce lo apprendono in modo chiaro : « Ancus Marcius, dice CICERONE, quum
Latinos bello devicisset, adscivit eos in ci vitatem. E LIVIO, completando il racconto
di CICERONE, osserva che Anco segui rispetto ai vinti Latini il costume regum
priorum , onde anche allora parecchie migliaia di Latini furono introdotti
nellacittadinanzaromana: «tum quoque multis millibus Latinorum in civitatem
acceptis. Non cicuriamo del racconto tradizionale , che fa materialmente introdurredaAncoinRoma
questivinti, eas segnare ad essi per sede il colle Aventino e la valle Murcia .
In questo racconto, la prolessi storica è manifesta: che sappiamo in modo in
contestabile, chefinoallafinedelIII°secolodiRoma,l'Aventino fu disabitato. Ma
lasciando da parte questo particolare, ciò che va considerato nel racconto
tradizionale è il fatto della cittadinanza concessa d’Anco Marcio ai vinti
Latini. E perchè, nè questa era la prima guerra combattuta vittoriosamente da
Roma contro i Latini, e nemmeno era la prima volta che della vittoria fosse
fatto quest'uso; ne emerge,e Livio avvalora l'induzione nostra,che se la conquista
d’Anco da il maggior contingente al ceto plebeo, essa non ne inizio la
formazione, come suppone Niebuhr, seguito in cio da Schwegler, da Lange e d’altri.
Bonghi, per ora si limita a dire, che non credechela plebedovesse lasuaorigine
adAnco,e promette, che procurerà altrove di esporre donde sia nata l'opinione
di una condotta rispetto a'vintinei re di Roma, cosi diversa da quella che per molto
tempo appare propria della città nel seguito della sua storia ».E perchè insin
d'ora egli dichiara esposta a molti e gravi dubbii cosi larga concessione di
cittadinanza, il desiderio di sapere quale opinione l'insigne storico porti sul
gravissimo tema della ori [Lo fece abitare la “les Icilia de Aventino
publicando”. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il quale attesta
di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di bronzo che
sorgeva nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox ., X , DeRep., Liv.] gine della
plebe romana rimane più fortemente sentito.Comunque sia perd dell'opinione del
Bonghi su ciò, noi rimaniamo saldi nella nostra, laquale, oltre ad avere il suffragio
delle fonti, ha pure in suo favore la condizione sociale da cui la romana plebe
fu costituita. Il plebeo romano è agricoltore. Egli non è nè commerciante nè
indu striale;queste arti,che nell'antichità erano assai meno considerate
dell'agricoltura, sono professate in Roma peculiarmente daiclientie dai
liberti. Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata dalla tradizione
in più modi. Ora, essa ci dice che Servio Tullio, per poter avere l'appoggio
della plebe alla sua esaltazione al trono, chiamòincittà i rurali, e per bocca di
CATONE ci dice che gl’agricoltori formavano il nerbo della fanteria romana.. Ma
un testi monio che serve per tutti, è l'antica istituzione che le adunanze
plebee, ossia i comizii tributi,non sipotessero tenere cheneigiorni di mercato
(nundines), e che ogni proposta di legge dovesse pubbli carsi tre giorni di
mercato (trinundines) prima di essere messa a partito Anche la condotta tenuta
dalla plebe nella sua lotta col patriziato conferma questa condizione sua. Gli
storici qualificano siffatta condotta colle parole modestia, verecundia e
patientia. Sono doti codeste che appariscono più proprie di coloro che
attendono alla col tura dei campi, che di coloro che praticano l'industria e il
commercio. E se le contese sociali di Roma non degenerarono in « Ex agricolis viri
fortissimi et milites strenuissi migignuntur -- Catone, De re rustica , Praef.,
MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia. Rutilius scribit Romanos instituisse nundinas,
ut octo quidem diebus in agris rustici opus facerent,nono autem die intermisso
rure ad mercatum legesque acci piendas Romam venirent,et ut scita atque
consultafrequentiore populo referrentur,quae trinundino die proposito a
singulis atque universis facile poscebantur. Ci sia permesso di riportare su
l'influenza educativa dell'agricoltura un brano di una conferenza che tenemmo
all'Esposizione Nazionale di Milano, col titolo : L'industria nei suoi rapporti
colla civilta. Gli economisti, dicevamo, sogliono distinguere due specie di lavoro.
Quello che agisce sulle cose, e quello che agisce sugl’uomini. Questa distinzione
non è esatta. Se tolgasi il lavoro puramente intellet tuale,ogni altro agisce
ad un tempo su gli uomini e su le cose. Questa duplice azione viene esercitata
sopratutto dall'agricoltura e dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti
ritrarremo la ragione psicologica del nesso intimo che esiste fra l'industria e
la libertà. « L'agricoltore riguarda la terra come fonte unica della ricchezza
; essa è per lui una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo
vediamo affezionato al suo suolo, ivi fissato in istabile sede, ed unito in
pacifico consorzio co' suoi conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo
colla terra che lo nutre nacque ilprimo concetto di patria,come dai
consorziigeneratidall'agricolturaebberooriginoiprimi stati. Ma la terra non è
per l'agricoltore solo una provvidenza, essa è per lui anche un mistero. E
questo lato misterioso sarà una sorgente feconda di superstizioni, che egli
porterà facilmente anche nei negozi civili, o nelle maggiori contingenze della
vita pubblica. Quei soldati di Nicia e Demostene, che una notte ricusarono di levare
il campo da Siracusaerifugiarsia [Livio, CICERONE, de Rep. Riassumendo
pertanto le cose dette intorno la formazione della plebe romana, diremo,che
sebbene la genesi di quel ceto non possa essere chiarita in tutti i suoi particolari,
tuttavia hannosi dati positivi, I quali rilevano di che elementi fosse formato,
e la ragione po litica che indusse i vincitori a trattare i vinti con una
generosità di cui non si ha esempio nella storia dell'antichità. Questi dati ci
dimostrano ancora che la istituzione della clientela precedette quella della
plebe, e ci spiegano il diverso trattamento avuto dai primi vinti rispetto ai
secondi. Catania, perchè quella notte comparve in cielo un ecclisse lunare,
erano agricoltori dell'Attica. E l'es sere essi rimasti in quel luogo portò per
effetto lo sterminio della flotta e dell'esercito ateniese, e la ro vina di
Atene. Del resto, non è da meravigliarsi che l'agricoltore sia superstizioso.
Quel grano che egli consegna alla terra per riceverlo moltiplicato, non gli
dice come sia avvenuto il fatto della moltiplicazione sua mentre questo evento
che ogni anno si rinnova gli stordisce l'intelletto, altri fenomeni del mondo
fisico, dinaturadeleteria, gli riempiono l'animo disgomento e di terrore. L'uragano
cheglidevastailcampo; la grandine che gli distrugge le messi, gli appariscono
mandatarii di forze arcane che gli fanno la dallo stesso principio che aveva
dato nascimento alle gerarchie ipercosiniche ebbero origine le gerarchie
sociali, trasformate ben presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un
altro. Egli è il mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico
d'imperare in suo nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e
comprende nel suo culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che
la sua pace.Quanto diverso è il magistero civile che si consegue dall'industria
! Anche l'industriale ritrae dalla natura fisica la materia del suo lavoro. Ma
questa materia in luogo di essere per luiunmistero,èinvece una rivelazione.
Essa gli rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può
trasformare i pro dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni,ma può anche
sorprendere i segreti di essa e svelarli. Si, l'intelligenza gl'insegna ch'egli
può perfino combattere contro la natura,ora congiungendo mari da lei divisi,
ora atterrando baluardi da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora
sopprimendo colla vaporiera e coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può
chiamarsi servo della natura, l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai
possibile che quest'uomo, al quale l'impero della natura è troppo grave, possa
rassegnarsi a sopportare l'impero di un suo simile ? » guerre civili,
come avvenne in tutti gli altri Stati dell'antichità conjattura della loro
libertà, cio e particolarmente dovuto al carattere longanimeepaziente della plebe
romana, la quale, convinta del suo diritto, lascia che il tempo ne facesse
maturare la coscienza anche nei suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco
patito oggi per essere più sicura della vittoria domani. guerra , e contro le
quali egli non sa difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo
educherà alla sommes sione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del
mondo fisico è riposta quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle
teocrazie. Le due specie divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo
alla luce, l'altra negli abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle
forze benefiche e malefiche della na tura.Createlespecie, e facile creare una simbolica,
per mezzo della quale spiegare i diversi fenomeni e momenti della natura
fisica. In questa simbolica vediamo attribuita una importanza affatto speciale
al fenomeno della fecondazione terrestre. I latini simboleggiarono quel
fenomeno in una festa nuziale divina chesirinnovava ognianno nel mese di dicembre,
quando la natura si raccoglie in sè, e serba in istato latente le sue forze per
ispiegarle rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i saturnali, la più
popolare delle feste romane, durante la quale era concesso anche agli schiavi
di ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì ai Saturnali la
nascita del Cristo, e non poteva collocare in migliore luogo la comparsa
dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali davanti a
Dio. La clientela sorse colla conquista del Settimonzio, ossia, colla for
mazione del primo stato. E clienti diventarono i prischi abitatori di quella
contrada. La plebe surse invece col primo sviluppo che con seguì lo stato
romano fuori del Settimonzio, nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu
fatta cogli Albani, e fu eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba
Longa possedeva verso le città della lega latina. Sia la riverenza che tributar
si volle all'antica metropoli; sial'interesse político,che
consigliavalalarghezzaverso i vinti Albani, per poter più facilmente ridurre le
città latine ad accomodarsi alla nuova padronanza. E l'una e l'altra ragione
portano per effetto, che gli Albani venissero dai vincitori accolti nel loro
consorzio religioso e politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa
larghezza non poteva essere usata verso le altre città la tine, e cið per più
ragioni. Prima di tutto, va considerato il carattere d'inferiorità che,
rispetto alla loro importanza, si manifesta fra esse città e Roma. Se
eccettuisi Alba Longa, che ha una posi zione privilegiata rispetto alle città
latine confederate, queste son tutte sul piede di una piena eguaglianza
vicendevole. E però, nessuna di esse puo invocare dal vincitore un trattamento
eccezio nale accampando privilegi anteriori che non erano stati posseduti.
Però, se la eguaglianza delle città vinte fra loro non dava luogo a sperare che
iljus gentium non sarebbe stato applicato verso di esse in tutto il suo rigore,
vi erano altre ragioni che creavano questa speranza, la quale ebbe poi nel
fatto sua piena conferma. L'una di queste ragioni era riposta nella
connazionalità esistente tra vinti e vincitori, Roma, dovesse la sua origine
all'atto geniale di un fondatore, o alla deliberazione di un'assemblea, non
poteva dimenticare che dal Lazio erano partiti i suoi primi fondatori, i Ramni;
e che dal Lazio , essa avea tolto i suoi costumi e le sue primitive
istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Albani, la latinità di Roma
ebbe rafforzato il suo contingente, onde avvenne che i rapporti morali fra lei
ed il Lazio si facessero più forti e più sentiti. I quali rapporti non poterono
rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria trasse le città latine
sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse monarchico concorse a mitigare
la sorte dei vinti. Importa ai re di rivolgere a loro profitto questa novella
forza che ora introducevasi nello Stato, per potere col mezzo di essa mettere
un freno alle tendenze invaditrici del patriziato. Cosi, pel concorso di due
circostanze, che apparentemente contraddiceansi, i vinti Latini ebbero pur
essi da Roma un trattamento eccezionale. Non furono ascritti nel consorzio
gentilizio come i nobili Albani , ma non vennero nemmeno degradati allo stato
di clientela. Diven tarono invece plebe, che vuol dire massa disorganizzata (da
pleo, plenus). Ma non e lontano il giorno, che essa conseguirà pure un
organismo suo ; e allora il nome non rappresentando più la cosa, non le rimarrà
che come ricordo storico. E sarà il giorno, in cui, per opera di Servio Tullio,
al principio teocratico che cinge in nome del diritto divino di una cerchia di
ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il principio timocratico, che
aprirà quella cerchia per attribuire il privilegio al censo. Fu questa la prima
breccia aperta nella cittadella del patriziato; dopo di essa,la espugnazione
della fortezza diventava quistione di arte strategica, che è a dire, qui stione
di tempo. Bologna, giugno. Ma se la plebe nel suo nascere non avesse posseduta
la persona litàgiuridicacheimplicavailjus commercii,essanonavrebbe po tuto
pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la
riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata
la ragione politica di crearla.Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution,
self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical
illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Genovesi: l’implicatura conversazionale della logica pei giovanetti – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Castiglione del Genovese).
Filosofo. Grice: “I like Genovesi.” Grice: “Genovesi is a good’un – he reminds
me of Oxford – his treatise on logic he called ‘per gli giovenetti,’ which is,
as Piaget would say, as it would.” Grice: “Genovesi reminds me of Strawson, or
rather of myself teaching logic to Strawson back in that infamous term of
1938!” – Grice: “I like Genovesi; I don’t think Socrates taught logic to
Alcebiades; he couldn’t teach since the ‘dialogue’ is hardly the way to do it;
and then Socrates did not teach logic to Plato; Plato did not teach logic to
Aristotle, since the dialogue is not the way to go – so it is possibly
Aristotle who first ‘taught’ logic to Alexander – this would indicate that he
felt the need to change the form from silly dialogical exchanges to actual
propositions that Alexander could swallow – “Sign” is what stands for something
– a word is the sign of an idea – the idea is the sign for a thing.” – and so
on. “Some things imply others; others IMPLICATE others.” – Grice: “Genovesi has
an interesting bunch of things to say about logic, but then any writer of a
‘tractatulus’ in logic would: so he explores the natural/conventional
distinction as applied to signs, and then the affirmation and negation, and
pragmatic concerns with obscurity and ambiguity – and sophismata – and complex
‘causal’ propositions, -- quite a genius – and if a palaeo-Griceian, if I may
myself say so!” Il padre lo indirizza in tenera età verso gli studi. E affidato
agli insegnamenti di Niccolò G., un congiunto, medico tornato da Napoli, il
quale lo istruì in filosofia peripatetica – del LIZIO -- e quella cartesiana. Nel
corso degli studi filosofici, si innamora di Angela Dragone. Questo amore non
trovò l'approvazione del severissimo genitore il quale condusse immediatamente
il figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei
Padri Agostiniani dove segue gli insegnamenti filosofici d’Abbamonte, appassionandosi
al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno dove incontra Doti, dal
quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si trasfere a Napoli, dove
intraprese dapprima la carriera forense, che lascia presto. Fonda una scuola
privata di metafisica e teologia. A Napoli e in contatto con VICO e ottenne la
cattedra di metafisica. Alcune sue posizione contenute in “Elementa Metaphysicae”
furono dai suoi nemici considerate eretiche, e dovette servirsi dell'intervento
dell'arcivescovo di Taranto Galiani, e di Benedetto XIV per conservare l'abito
talare. In seguito a queste denunce lascia l'insegnamento della metafisica a
Napoli, per passare all'etica, cattedra tenuta in passato da VICO.
L'evoluzione dalla metafisica- all'etica prosegue con il passaggio all' “economia”
quando si compì la trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso
ebbe a scrivere nella sua autobiografia. Insegna'commercio e meccanica, con
fondi privati da Intieri, la prima cattedra di economia di cui si abbia traccia
in Europa, se non consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni
venti Professorei n Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo
lavoro come economista è stato quello più fecondo, tanto che G. divenne un
autore fondamentale. Si diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta
allo spirito e al costume della Contro-Riforma: gli spunti di polemica
antigesuitica e anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell'autonomia
di un sato laico contro ogni interferenza del cattolicesimo, ai primi elementi
di una teoria delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché,
sul piano letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e
coraggiose. In pratica, fu l'inizio della vera rivoluzione culturale che
si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo
caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini dciviltà
in tutte le sue manifestazioni. In questo ambito, la filosofia politica di G.e decisamente
di tipo riformatore, un anglofilo sotto spoglie francesi. Nella sua filosofia, persegue
un compromesso tra idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo di salvare
gli essenziali valori religiosi della filosofia cristiana. Riceve
l'influenza del nuovo panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con
studi ed esperimenti il concetto della pubblica felicità, consistente nel far
uscire l'uomo dallo stato d’oscurità (Illuminismo, che in Francia era già in
atto: Les Lumières). Prese coscienza della decadenza culturale, materiale e
spirituale dopo il periodo d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della
necessità di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a
nuovi splendori. “Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi
teologici e che cominciava ad avere in orrore studi si turbolenti, e spesso
sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai
permanentemente di non pensare più a queste materie. Per tale motivo, abbandona
la metafisica e si dedica all’economia affermando tra le altre cose, che
l’economia deve servire ai governi per alimentare la ricchezza e la potenza del
stato. Ritiene che per favorire il benessere “sociale” sia necessario
promuovere la cultura e la civiltà, per questo motivo è il primo cattedratico
ad impartire le sue lezioni in italiano. Docente di economia politica, occupa
una cattedra istituita appositamente per lui di commercio e meccanica a Napoli
da Intieri. Soggiorna più volte nel palazzo proprio di Intieri a Massaquano per
lunghi periodi dove si rifugiava per trovare "la musa ispiratrice" e
lì infatti scrisse alcune sue opere. Sostiene che anche le donne e i
contadini abbiano diritti alla cultura poiché questa è uno strumento
fondamentale per realizzare l'ordine e l'economia nelle famiglie, e di
conseguenza nella società, è inoltre importante anche l'educazione degli uomini
e in particolar modo lo sviluppo delle arti e delle scienze, contrapponendosi
all'idea di Rousseau per il quale il progresso costituisce la fonte di tutti i
mali. Denuncia anche la presenza di un numero eccessivo di persone che vivono
esclusivamente di rendita e affronta tematiche importanti come problemi di
debito pubblico, inflazione e circolazione monetaria. Il suo pensiero economico
è espresso in Lezioni di commercio o sia di economia civile e considerate una delle prime opere di
filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per alcune riforme
fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del
protezionismo governativo su commerci e industrie. Tenne sempre le sue lezioni
in italiano grazie alla sua passione per il civile: viene ricordato per essere
stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i suoi corsi e per
essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e di logica in
italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo studio
dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento Genovesi è
ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche questo
un mezzo di incivilimento. Altre opera: Lezioni di commercio (Milano,
Fondazione Mansutti). Altre opera: Elementa metaphysicae mathematicum in morem
adornata, Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi
dell'arto logico-critica, Venezia) Meditazioni filosofiche; Lettere
filosofiche; Lettere Accademiche;
Memorie Autobiografiche; Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della
diceosina o sia della Filosofia del Giusto e dell'Onesto; Delle Scienze
Metafisiche per li giovanetti; Altre opere da ricordare sono La logica per i
giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari, che
testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato
dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo
pugliese. Corpaci, G.; note sul pensiero politico, Giuffrè, Peter Jones,
Reception of David Hume in Europe, Continuum, Palatano, Rosario; Genovesi,
Antonio. Antonio Genovesi: teoria del commercio, LUISS University Press,.Antonio
Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. 10 maggio. Lucio Villari, Il
pensiero economico di G., Le Monnier, Chines, Loredana. Su alcuni aspetti
linguistici degli scritti di G., Pensiero politico, Davide Alessandra, Antonio
Genovesi: uno dei padri dell'illuminismo meridionale, su historiaiuris.com,. M.
Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia
dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede bibliografiche di C. Di
Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa, Luigino Bruni, Voce
"Antonio Genovesi" in Il Pensiero Economico Italiano, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana Treccani. Bruni e Zamagni, Economia civile, Il
Mulino, Bologna,. A. M. Fusco, G. e il suo mercantilismo rinnovato, in A. M.
Fusco, Visite in soffitta. Saggi di storia del pensiero economico, Napoli,
Editoriale Scientifica, Galasso, Il pensiero religioso di Antonio Genovesi,
Rivista storica italiana, G. Genovese, Contro le "Penelopi della
filosofia". Note sulle Lettere accademiche di Antonio Genovesi,
L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le autobiografie di G.
L'acropoli, D. Ippolito, G. lettore di BECCARIA, Materiali per una storia della
cultura giuridica, C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel
pensiero di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, M.L.Perna, Eluggero Pii
e l'edizione delle opere di Antonio Genovesi Dialoghi e altri scritti. Intorno
alle Lezioni di Commercio, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee
politiche e sociali, A. M. Rao, Etica e commercio: i Dialoghi di G. nell'edizione di Eluggero Pii, Il pensiero
politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, Wolfgang Rother, Antonio Genovesi, in Rohbeck,
Rother: Grundriss der Geschichte der Philosophie, Die Philosophie des 18.
Jahrhunderts, Italien. Schwabe, Basel, Villari, G. e la ricerca delle forze
motrici dello sviluppo sociale, «Studi Storici», E. Zagari, Il metodo, il
progetto e il contributo analitico di G., Studi economici, Gleijeses, Napoli
nostra e le sue storie, Società Editrice Napoletana, Napoli, Pietro Napoli
Signorelli, Treccani, Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Antonio Genovesi, sConferenza
Episcopale Italiana. Opere di Antonio
Genovesi / Antonio Genovesi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Opere di Antonio Genovesi,. Luigino
Bruni, Genovesi, Antonio, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero:
Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Saverio Ricci, G. in Il contributo italiano
alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
Barbagallo, G., Estratto da: Rassegna Storica Salernitana. G. 1 2 non è
uno di quei filosofi, che fanno compiere un passo innanzi al pensiero
filosofico. A paragone del grande Vico, che si gloria di aver avuto
maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue opere con profondo rispetto,
G. apparisce come uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che VICO
ha tra i suoi contemporanei e tra gli uomini più illuminati delle
generazioni successive; i quali ebbero un certo sentore di alcune teorie
di lui, concordanti o no con dottrine congeneri di altri pensatori e da
annoverare tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i
problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire, non ebbero
senso. Se pertanto nella storia del pensiero il Vico rappresenta quello
che egli rappresenta a’ nostri occhi di storici che han penetrato il
significato di quei problemi, il Genovesi dopo di lui è un arresto o una
de¬ viazione. Quella vena speculativa altissima nello
scolaro Discorso tenuto al Teatro Verdi di Salern, ì n occasione del
monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione del
Genovesi. L’illustre VICO, uno de’ fu miei maestri, uomo d’immortai
fama per la sua Scienza Nuova » (Lez. di Comm., Napoli, Il nostro Vico
nella Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste
ma¬ terie [su Omero] facciano onore all’ Italia » (Logica e Metafisica,
Milano, Classici italiani, ALBORI DELLA NUOVA ITALIA è inaridita. Il pensiero
ha cambiato strada, abbandonando gli ardui argomenti con cui s’era
cimentato. Ma il paragone col Vico storicamente non è
giusto. I due pensatori in verità appartengono a due piani storici,
da uno dei quali non si passa all’altro direttamente. Se il G. non ebbe
occhi per vedere i problemi del Vico, neanche il Vico, dalla parte sua,
ebbe occhi per vedere quelli di G.. Uomini di tempra diversa, con
diversi interessi spirituali, si può dire che il maestro abbia pensato
sempre al cielo, e lo scolaro alla terra. L’uno non si guarda mai attorno
se non come uomo privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge
alla sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si
assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle gioie e dai
dolori della vita quotidiana. Dove non sono in verità gli attori del
dramma che egli ama studiare e nel cui studio concentra infatti le
energie più potenti della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra
i coetanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non è di questo
mondo. Quantunque il suo animo, propria¬ mente, sia a questo mondo legato
così strettamente come nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con
sguardo penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente a
intendere il significato, e in questo mondo appunto agogni con titanico
sforzo a conquistarsi razionalmente, col pensiero, un suo posto. Ma
questo mondo egli vuol vederlo sub specie aeterni, come mondo che è sempre
lo stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti sempre
diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con immutabile legge.
L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita intorno a lui,
nella scuola e fuori della scuola; nelle città e nelle campagne; nello
Stato e nella Chiesa; a Napoli, per tutta Italia, e di là dalle Alpi.
L’istruzione del popolo e l’educazione dei giovani; l’agricoltura e il commercio;
l’economia del Regno, e i problemi della feudalità e della manomorta; il
problema della moltitudine degli ecclesiastici eccessiva in rapporto alla
popolazione; e poi la questione giurisdizionale e l’ardente lotta
anticuria- lista in difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte
le questioni che erano all’ordine del giorno nella Napoli del tempo,
o che uno spirito alacre ricavava da quelle a cui la pubblica opinione
s’interessava. E poiché i paesi allora alla testa della cultura europea
erano insieme Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano
in quelle lingue i più letti, celebrati e discussi, ecco quelle
lingue, insieme con le classiche, a cui Vico si era limitato, studiate e
possedute con animo pronto a seguire il movimento della letteratura straniera
in ogni campo di ricerche filosofiche e sociali. Allargato quindi
enormemente l’orizzonte. Non più quel carattere antiquato e accademico
della scienza tradizionale, nel cui cerchio si muove ancora il Vico,
modernissimo per la sostanza de’ suoi problemi, arcaico per la forma
(lingua ed erudizione) E la modernità segna la fine di quel chiuso
provincialismo, onde lo scrittore napoletano si era sentito sempre
cittadino di Napoli. G. guarda più in là del Garigliano e del Tronto.
Egli si sente italiano; e come italiano, partecipe dell’unica società
europea della cultura. Italiano e moderno, si lascia alle spalle il
vecchio mondo tradizionale dell’accademia fratesca e teologizzante
e dell’angusta provincia, e respira largo, apre le finestre della
scuola della letteratura e del pensiero, e vive nel tempo suo e si sforza
d’interessare gli uomini, tutti, al sapere e al lavoro dell’
intelligenza. Siamo, come dicevo, in un piano diverso da
quello della pura filosofia. Qui si può dire che la filosofia ri-
nunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per risorgere in forma
più adeguata alle sue esigenze più profonde. Ciò che è tante volte
avvenuto nella storia; e avviene continuamente nella vita. Il pensiero
sale, sale, si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e
corpulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana, per
ridiscendere tosto al concreto della realtà che con quell’astrazione ha
cercato di definire e più perfettamente possedere: alla realtà che è corpo e
fantasma, e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto
dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di ogni esistenza
e di ogni luce. Il progresso è pur sempre in certo modo regresso; e se si
volesse andare avanti, avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel
vuoto. Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare la
terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come l’Anteo della
favola, da gigante che ha già la forza per rialzarsi: che ha, in altri
termini, un certo grado di coscienza filosofica. Vogliamo sentire dallo
stesso G. qual fosse il suo ideale di cultura ? Basta leggere un suo
Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, che
pubblicò innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari per
far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi per giustificare
la nuova via per cui egli si metteva, dopo aver anche lui pubblicato i
suoi libri di Logica, di Metafisica e di Teologia in lingua latina. In questi
stessi libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze innovatrici
del G. e il carattere dominante del suo pen¬ siero filosofico, del quale
ci proveremo qui appresso a dare un sommario cenno ; ma ancora non è
avvenuta la radicale conversione per cui la mente dello scrittore,
dopo che ebbe trovato negli studi economici e sociali una ma¬ teria
più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma storica, e ritrovò
propriamente se stesso. In questo Discorso G. propugna una sorta
di filosofia reale, com’egli dice, e cioè pratica ed applicativa: come
dire una filosofia non propriamente speculativa e filosofica; e prende a
partito tutti i più celebrati filosofi della tradizione e le loro
dottrine. Esalta bensì la ragione come quella che più di tutte le nostre
doti ci rassomiglia a Dio », « la sola cosa, per cui l’uomo si
solleva sopra tutto ciò ch’è in terra»: la ragione, «arte universale »
governatrice di tutte le arti e strumenti onde l’uman genere arricchisce
la vita e viene ogni dì perfezionando il sistema dei mezzi diretti ad
accrescerne il benessere. Ma ne addita nelle astratte speculazioni
e schernisce i deviamenti già nell’antichità derivati appunto
dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni oziose, sottili,
astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e l’ammirazione dei
semplici e a procacciare una riputazione fallace. « Poiché
gli uomini quanto son più semplici, tanto sogliono più stimare quel che meno
intendono, i dialettici ed i metafisici. I don Chisciotti della
repubblica delle lettere, combattenti con gli indistruttibili giganti
delle chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo ingegno,
loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usur¬ parono il
premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca fatale, che riempì ne’
vecchi tempi d’indiscreti sofisti la Grecia, e ne’ secoli assai più
vicini buona parte dell’Europa. Eppure, la prima e più antica filosofia era
stata una « filosofia tutta cose ». I più antichi filosofi erano stati
i legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi di
etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di tutti i buoni
cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi della società, così
dovevano aver parte alle cure e alle fatiche » pel bene pubblico e
domestico. Vennero dopo i tempi di corruzione, in cui prevalse la massima
che l’ozio fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia
infi¬ nita di coloro che sono «peste del vero sapere e della virtù»;
«i quali si credettero nati o per garrire inutilmente, o per disputare di cose
inintelligibili, o per mettere empiamente in ridicolo le sante ed utili
cognizioni, le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà ».
Vennero i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti de’ sogni dei
poeti, o mercanti de’ propri»; vennero i metafisici, «Penelopi della
filosofia, implicati in disciorre quelle tele, che eransi tessute colle
loro mani » ; verniero i dialettici, che « tendevano indissolubili
lacciuoli alla ragione istessa per cui andavan fastosi, e come
seppie gittavan del negro, sotto cui il vero e il falso prendesse
un sol volto ». Socrate, — il gran Socrate, di cui fu detto che richiamò
la filosofia dal cielo in terra e a cui infatti gli uomini devono di
sapere che tutto quello che si vuole intendere essi non lo possono
cercare se non nel pensiero, cioè in se medesimi, — dal G. non è
ricordato qui se non come colui che insegnò la più ricca e la più
bella possessione dell’uomo essere l’ozio. Dei suoi scolari non gli
giova menzionare altri che Aristippo e Diogene il Cinico, corruttori del
costume. Di Pitagora a scherno ricorda la monade e il binario; e l’uno di
Parmenide; e l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme di
Platone e le entelechie di Aristotele; ed altre cosiffatte «bambole
di ragione » degli altri più celebrati filosofi. Che dire poi della
filosofia medievale ? Non si può leggerne la storia « senza aver pietà
della debolezza del- l’ingegno umano ». Poveri scolastici ! «Vestono
corazze di carta, che stimano del più fino metallo; e combattono
con i mulini a vento, come con i Giganti distruttori dell’uman genere. Un estro
ignoto gli rapisce fuor del nostro mondo. Sembra che sieno i maestri di
ogni altra cosa, fuor che di ciò che ci appartiene o c’ interessa
». In questa caricatura della storia della filosofia super¬
fluo avvertire lo strazio che G. fa
delle più importanti dottrine dei maggiori pensatori. Voglio solo riferire in
proposito un altro periodo, tipico documento degli stravolgimenti storici
di questa invettiva, e insieme dello spirito che la moveva:«La materia
prima, che Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagli Arabi, fu
di sì vivi e vaghi colori arricchita in mano di Abelardo, e di alcuni
altri, che divenne una Divinità, la quale poi il più empio e il più
freddo de’ filosofi del passato secolo, si studiò di adornare con un
sistema geometrico ». Allusione a Spinoza, che pure G. aveva studiato con
grande interesse. Alle quali cose quante volte io penso », conchiude il
nostro filosofo, « forte mi meraviglio, come gli agricoltori, i pastori e
tutti gli altri coltivatori delle arti per cui l'uman genere si sostiene,
abbian potuto tollerare in pace una razza di uomini, i quali, lungi di
dar loro il menomo ri¬ schiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’
frutti della loro industria godevano, pare che si ridessero delle
loro fatighe, o che gli riguardassero come animali di altra specie, fatti
da Dio in forma umana per servire a’ loro piaceri ». Lode a
Bacone, che proclamò la necessità di ristaura- zione dalle fondamenta
tutto il sapere, e dimostrò che « si poteva essere filosofo con assai
gloria, senza essere peso inutile agli altri uomini ». Lo studio della
natura, l’esperienza, « gran maestra delle utili cognizioni », la
geometria « nutrice di tutte le arti » vennero in grande onore. L’ Europa
cambiò faccia. Ogni nazione ha il suo Ercole, uccisore dei mostri che la
infestano. L'Italia ha GALILEI. Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa
a questa nuova scienza, forse perché con maggior vigore questa
potesse irrompervi a rendere più glorioso il rin- 1 Cfr. la sua
lettera a Sterlich; dove racconta come potè studiare 1 ’Etica di Spinoza:
Leti, fam., ed. Napoli, novamento che il Regno, ristaurato dal primo dei
Borboni, doveva promuovere. G. ha qui un concetto che rammenta
l’hegeliano spirito del mondo. « Egli è veramente un certo Genio, che
discorre per le nazioni, e che in dati intervalli le anima, e le
raccende, quello che o primamente mena, o estinte ravviva le lettere
e le belle arti ». Ma questo Genio, secondo G., « vuol essere
sempre accarezzato, sollecitato e alimen¬ tato. Può dirsi che la
curiosità, la più utile molla del- l’animo umano, il dischiuda dal suo
guscio, la gloria l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione
l’aguzzi e ’l rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’alimenta
». Insomma, il rinnovamento del pensiero richie¬ deva a Napoli le più
propizie condizioni create dalla nuova vita impressa allo Stato dal nuovo
Regno. Grande infatti il progresso già avvenuto in Napoli,
delle arti, delle scienze, della ragione che le alimenta. Ma « un certo
lezzo dell’antica barbarie » (prisci vestigia ruris) è rimasto tuttavia
attaccato agli scrittori. La ragione non è pervenuta ancora alla sua
maturità: è ancora tutta nell’ intelletto, e deve passare nel cuore
e nelle mani. È bella, non è operatrice; adorna, non utile. Bisogna
che diventi pratica e realtà; come può solamente quando « tutta si è così
diffusa nel costume e nelle arti, che noi l’adoperiamo come sovrana
regola, quasi senza accorgercene » : come accade alle bestie, in cui « la
cognizione è tutta uso, perché è l’arte di Dio lavorante su la materia,
ed in Dio non ci sono Enti di ragione»: cioè le astrattezze che si
annidano nel cervello dei filosofi. I dotti napoletani hanno bensì
coltivato lo studio delle leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei
dialettici: questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla
vita. Tutta una forma di sapere, in cui, insomma, secondo il G.,
c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è cuore; e c’è cattivo gusto.
Manca, diremmo oggi, il senso scientifico; e gl'ingegni si credono più grandi
quando sono ammirati come incomprensibili, che quando stimati come
utili. La pratica dell' insegnamento (insegnava già egli da
sedici anni) aveva dimostrato al G. che Napoli era un semenzaio di nobili
e glandi ingegni ; ma i migliori ingoiavano avidamente la nuova filosofia
prima di digerir la vecchia. Avvezzi alle sottigliezze vane e alla «
ciarleria », troppo ancora se ne compiacevano per fare il debito onore
alle scienze sode, feconde, che avevano già trasformato la cultura
inglese, francese, olandese. Sacrifichiamo dunque « una volta la
seduttrice e vana gloria dell’astratta speculazione al giusto desiderio
della parte più grande degli uomini, i quali ci vogliono men
contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il divin dono della
ragione perché intendiamo, che il vero sapere non è di sì gelosa natura
che voglia essere di pochi ». Esso deve giungere al popolo. Il quale ha
bisogno di essere illuminato, e non seguito nella sua naturale ritrosia
alle novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento tenace alla
tradizione. Deve essere indotto a profittare delle osservazioni e delle
invenzioni dei dotti. Deve essere ingentilito, rianimato, spronato ad elevarsi.
E si deve quindi operare su di esso non con le leggi che non cambiano
gli uomini, sì con la « savia educazione e coltura di questa sì
preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia a sbucciare dal suo
guscio. Curare l'educazione. È uno degli articoli principali
dell’apostolato del G. 1 ; poiché i contemporanei, a suo giudizio,
curavano più i « testi di fiori » e le piante Sulla educazione e
istruzione popolare vedi Lez. di Comm., parte I, cc. VI e Vili; e Logica,
Senza educazione «oltre¬ ché non è possibile, che la popolazione si
aumenti.... ma, pure dove avviene che cresca, la repubblica si potrà ben
dire aumentata di semi¬ uomini, ma non di forze» (Lez. di Comm.,
peregrine che avevano per avventura ne’ loro giardini, che non i figli. E
raccomandava la massima diligenza nella scelta dei maestri, poiché molto,
a suo giudizio, mancava per questa parte il Regno di Napoli.
Bisogna sentire il ritratto vivo che ce ne ha lasciato: « I
maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’urbanità e l’aria nobile, piena
di verecondia e de’ tratti d’onore: sovente i loro moti, gesti, tuono di
voce e tutto il lor volto, che suol esser lo specchio dei ragazzi,
spira tutt’altra cosa che gentilezza: la loro lingua è più fre¬
quentemente un gergo corrotto de’ vari dialetti del nostro Regno, che la
bella e nobile della pulitissima Italia: finalmente, dirò io che il lor costume
sia sempre il più puro e il più santo ? Inoltre, quasi tutti si studiano
di coltivar assai più la memoria de’ loro allievi che la ragione e
il cuore. Un solecismo o barbarismo in lingua latina è da loro più
severamente punito, che molti a’ gentiluomini sconvenevoli barbarismi e
irragionevolissimi solecismi di ragione e di costume. Si adirano anche
spesso, gridano e fanno dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono
senza misericordia, e gli trattano più da servi, che da figli: tutte cose
più atte a fare o stupidi o villani o zotici e feroci i ragazzi, che ad
allevargli nel sapere, nelle virtù, nella nobiltà. Questi medesimi
difetti trovansi ben anche spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io
ho sentito dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore
agli esseri ragionevoli : che i fanciulli si curan colle
mazze». 3. — Un filosofo che parla questo linguaggio umano,
familiare, e che pensa come s’è veduto, dei filosofi e dei loro sistemi,
evidentemente non è un filosofo di professione. Sarà un filosofo che avrà
qualche cosa da dire più e meglio dei filosofi di professione; ma non
potrà facilmente an¬ dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di
quelle Si che sono le idee e le maniere per loro più
rispettabili e venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto
fa¬ stidio verso le questioni che formano il nutrimento e il vanto
dei loro cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in mezzo ad essi: ma
vi starà a disagio, e se ne trarrà fuori, spontaneamente o per necessità,
appena se ne presenti l’occasione. G., nato nella terra di
Castiglione 1 ’ Ognissanti, fu avviato quattordicenne agli studi di
filosofia da un suo stretto congiunto, che gli insegnò per due anni
filosofia scolastica e per un terzo anno filosofìa cartesiana (filosofìa
di moda allora nel Napoletano); quindi, poiché il padre lo volle
ecclesiastico, obbligato ad apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli
ordini minori, promosso suddiacono. Chiamato questo anno a insegnar
rettorica nel seminario di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo
conto con gran fervore ; finché nel '37 sarà ordinato prete J'e
un’eredità allora conseguita gli consentirà di recarsi l’anno appresso a
Napoli, per appagare in quella Università e nella consuetudine degli
illustri letterati della metropoli la sua sete ardentissima di sapere. A
Napoli frequentò molti corsi; tra gli altri, fino al *41, quello di Vico;
di cui, ci racconta un anonimo biografo, aveva già da un anno letta la
Scienza Nuova : « Il perché corse ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la
sua servitù, ebbe l’onore della sua amicizia » Insoddisfatto della
filosofìa che s’insegnava, disegnò programmi suoi, e aprì una sua
scuola privata; finché nel '41 il Cappellano Maggiore monsignor Galiani,
che era l’uomo che poteva intenderlo, gli affidò l’incarico d’insegnare
nell’ Università Metafìsica. Aveva letto Malebranche, Locke, studiato
Spinoza 1 Note di A. Cutolo alle Memorie autobiogr. del G., in
Ardi. stor. nap. 2 Cutolo, Noie cit. e Leibniz; e dettava
agli alunni, come volevano i rego¬ lamenti del tempo, le sue lezioni in
latino. Ne nacquero gli Elementi di Metafisica in lingua latina,
pel metodo geometrico con cui la dottrina e esposta (metodo, si
sussurra, caro ai protestanti), per le novità che conteneva, per le
concessioni che faceva al razionalismo, per quello scetticismo moderato
che vi dominava, procurò all’autore ire e per¬ secuzioni dei censori
ecclesiastici, aprendo una serie di contestazioni teologiche, che
alienarono sempre più il suo animo dagli studi che rimanevano in Italia,
e sopratutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei frati.
Ma ecco che nel '44 il Galiani gli viene in aiuto pas¬ sandolo
dall’ incarico di Metafisica alla cattedra ordinaria di Etica :
insegnamento più conforme all’ ingegno del Genovesi, e da lui infatti
tenuto per un decennio con grande efficacia per l’eloquenza delle sue
lezioni, la mo¬ dernità della dottrina, la ricchezza e praticità delle
que¬ stioni trattate. Pure alla Metafìsica nel '45 s’aggiungeva in
cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino. E queste opere
si ristampavano e si diffondevano in Italia e fuori d’Italia. Nondimeno
l’autore nel '65 poteva scrivere a un amico : « La Metafìsica (mia) fatta
pei teo¬ logi e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici,
come neppure piace a me. E con tutto ciò, la Logica e la Metafìsica
s’insegna in molti collegi di Francia, e in quasi tutte le scuole di
Germania» '. Avevano fortuna; poiché questi libri rispondevano al bisogno
delle scuole, e nel loro andamento eclettico e largamente informativo
ben s’adattavano alla tendenza media degli studiosi non risolutamente
moderni ma neppur ciecamente chiusi nella tradizione, e disposti quindi a
conciliare nova et vetera 1 Leti, jam., II, 67. e farsi una
filosofia senza compromettersi; ma, come si vede, non finivano di contentare
l’autore stesso. Anche i due libri De iure et officiis eran nati dalla
scuola e per la scuola (in usum tironum) ; e del pari altri due
brevi compendii latini di Logica e di Metafisica. Ma quando al G. sarà
possibile avere una scuola a modo suo, intorno a materie nuove,
indirizzate a pub¬ blica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli
non scriverà più latino. Che gioia quando fu istituita per lui,
nell’ Università, la cattedra di « Commercio e Economia », fondata dal
suo vecchio amico, facoltoso e autorevole, il fiorentino Bartolomeo
Intieri, studioso di macchine agricole e di questioni economiche: ingegno
pratico alla toscana, avverso a ogni oziosità speculativa ! Allora
il G. si sentì davvero maestro, e veramente filosofo. Grande
l’attesa nel pubblico per il nuovo insegnamento ; ma potente altresì
l’estro del nuovo insegnante e l’im¬ peto e il calore della sua
eloquenza. Quando tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento nella
vita del G. e nella storia non soltanto della cultura napoletana ma della
scienza europea. Poiché questa del G. fu la prima cattedra istituita in
Europa di Economia politica: dovuta, s’intende, non al semplice
intuito d’un privato ma al movimento degli studi che la situazione
economica del Regno di Napoli aveva prodotto. In una lettera dello stesso
mese il Genovesi scriveva a un amico 1 : « Nel dì 5 corrente feci il mio
discorso preliminare, 0 sia l'apertura alla nuova Cattedra del Commercio con
uno straordinario concorso, tuttoché io non avessi fatto invito. Parlai
un’ora, non solo senza niente aver mandato a memoria, ma senza aver
niente scritto di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso fu
ricevuto con applauso, e subito diffuso per tutta la città. È stata
Leu. falli., I, 108. bella ! Alcuni volevano
copiarselo, e io non ho potuto lor dire, che dopo averlo letto n’aveva
perduto anche l’originale.... Il giorno seguente cominciai a
dettare. Grande fu la meraviglia in sentir dettare italiano ;
sicché, essendomene accorto, nello incominciare la spiegazione
dovetti cominciare dai pregi della lingua italiana, e urtar di fronte il
pregiudizio delle scuole d’Italia.... La scuola è stata sempre piena in
guisa che molti non ci hanno trovato luogo ; ma la maggior parte sono
uditori di barba, e di vari ceti. Gli scriventi sono circa cento.... Gran
moto è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domanda¬
vano libri di economia, di commercio, di arti, di agricoltura ; e questo è buon
principio ». Da questo corso, che il G. proseguì finché le
forze gli bastarono (morì, ma un anno prima per malattia aveva dovuto
lasciare la cat¬ tedra), trassero origine le belle Lezioni di Commercio
ossia di Economia civile in due volumi, che rimarranno tra le opere
classiche della nuova scienza: opera riboccante d’ingegno, di erudizione,
di brio e di amore del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica
istru¬ zione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del com¬
mercio della Gran Bretagna di John Cary con un Ragionamento del Commercio in
universale e lunghe e impor¬ tanti annotazioni del Genovesi sul commercio
del Regno, e altri scritti minori. In questi stessi anni il
laborioso scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle
sue opere latine. Sono del '58 le sue Meditazioni filosofiche, che
arieggiano quelle di Cartesio; ed ebbero l’ammirazione del Baretti 1 ; e del
'59 le Lettere filosofiche ; come 1 Da leggere l'articolo che gli
dedicò nel 20 numero della Frusta Letteraria: dove il Baretti giudica il
libro con questi termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, Fra le tante
migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra lingua, io non ne
conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli del Galileo, del '64 le Lettere
accademiche. Imprende a scrivere in italiano un Corso di filosofia. E
volle scriverlo per i giovani (com’egli stesso faceva sapere a un amico)
« che son curiosi di sapere se le scienze potessero così parlare
italiano come una volta parlarono greco e latino. Il mo¬ tivo che mi
muove, è una massima, che può stare che sia falsa, ma 1’ ho nondimeno per
vera, cioè che ogni nazione che non ha molti libri di scienze e di arti
nella sua lingua è barbara ». Perciò in Francia nell’età di Luigi
XIV s’era cominciato a scrivere di filosofia in francese. Perciò aveva
seguito l'esempio l’Inghilterra. E altrettanto si cominciava a fare in
Germania. Dove non si scrive nella propria lingua, dice il Genovesi,
si accenderà magari mi lume grande e brillantissimo, ma questo
resterà « nondimeno sepolto in que’ lanternoni da antiquari d’onde non
tralucono che pochi tenebrosi raggi. E nelle stesse Lezioni di Commercio
inculcava come che sia tanto pregno di pensamento e di vera
scienza quanto è questo primo tomo di questo nostro ampio, sublime ed
aggiustatissimo filosofo G.». A Baretti non andava lo stile di G.,
seguace della scuola toscaneggiante del Di Capua: «Una cosa però
disapprovo in lui assolutamente, e questo è lo stile suo.... perché troppo a
studio intralciato e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero.
Com' è possibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue
tanto stimabili meditazioni, — com’è possibile che un uomo il quale è
una aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un pollo quando
si tratta di esprimere i suoi pensieri? Come mai un G. ha potuto
avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi secchi e
tisici uccellacci di Toscana ? Eh, G. mio, adopera gli abbindolati stili del
Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà ghiribizzo di scrivere qualche
accademica diceria, qualche cicalata, qualche insulsa tiritera al modo
fiorentino antico e moderno; ma quando scrivi le tue sublimi Meditazioni,
lascia scorrere velocemente la penna....; e lascia nelle Frammette e
negli Asolani e ne’ Galatei, e in altri tali spre¬ gevolissimi libercoli
i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché.... e tutte quell’altre
cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri muffati gram- maticuzzi
vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra dello scrivere ».
1 Cfr. la pref. alla Logica italiana. certissimo assioma politico che una
nazione non sarà mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti,
nelle maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i
libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà dipendere da
una lingua forestiera; la quale, non essendo intesa che da una
picciolissima parte del popolo, tutto il resto sarà fuori della sfera del
lume delle lettere. Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre
idee e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere in
un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? Finché in un paese le scienze
saranno in un gergo stra¬ niero alla maggior parte del popolo, avremo
sempre, dice il G. -, « molte scuole inutili, molto tempo perduto,
molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie, né ha possibile
di avere delle buone teste ». Con questo ideale di una scienza che
penetri il popolo per svegliarne e metterne in moto tutte le forze
morali ed economiche, il G. voleva scuole e quando furono da Napoli
espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica istruzione ed egli a tal fine
invitato a scrivere un Piano di riforme 3, non dimenticò nelle sue
proposte le scuole del popolo —; voleva metodi razionali e semplici
perché fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c ai
giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vecchia letteratura e le
discussioni vane della filosofia in¬ feconda, si rivolgessero alle
ricerche sperimentali e alle arti più necessarie alla vita; e voleva,
come sè visto, libri in italiano, attraenti e di facile lettura. Ma
aveva pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il popolo
dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle coscienze i
convincimenti morali e la fede religiosa che ne Per questo Piano, vedi
gli appunti che ne pubblico G. M. galanti, Elogio stor. di A. G., Firenze, è
sempre il fondamento, potesse aprire la strada a quel rinnovamento che
egli auspicava: potesse infondere negli uomini e nelle nazioni la fede
nella ragione, di cui egli era l’apostolo. Tutto il suo sistema
riformatore era in¬ somma ispirato a una filosofia. Della
qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di Logica e di
Metafisica, che, bene accolti dai contemporanei e più volte ristampati (è
almeno da ricordare 1 edizione che della Logica volle curare il Romagnosi),
sono entrati a far parte della letteratura filosofica nazionale, si
scorgono i lineamenti anche da chi non ricerchi i ponderosi volumi latini, che
li precedettero e prepararono. G. è un empirista, ma non e un
sensista, e tanto meno un materialista. Combatte le idee innate, ma
cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto, e la ragione, che
l’uomo che medita trova in se stesso come attività sovrana, libera,
signoreggiatrice, col suo giudizio, dell’universo, vede conforme a una
ragione creatrice universale, divina L’uomo per essa è immor¬ tale.
Per essa destinato a vincere il dolore, a superare ogni difficoltà, a
viver felice. Questa ragione infatti non è fredda astratta intelligenza.
Essa è energia ( energetico , dice G.) perché è anche passione, cuore i.
Non 1 Come empirista, G., pur non ripudiando ogni
metafisica, insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche
speculative alle questioni essenziali per una concezione sana e morale
della vita. Insi¬ stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano.
Vedi Gentile, Stona della filos. ital. da G. a Galluppi, Milano, Treves,
’ dov'è particolarmente studiata la dottrina della conoscenza di G..
Oltre i luoghi ivi citati (voi. I, p. xm), e le frequenti di¬ chiarazioni
che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1 infecondità delle più
astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi Logica, Notevole in special
modo la lett. a Saffiotti. Vedi Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri,
Logica, Vedi Logica, distrugge la passione; una passione infatti si
combatte con un’altra passione. E poiché ogni essere è ragione, e
soffre e aspira a godere, essa, non essendo individuale, ma comune e
universale, stringe in un vincolo di amore gli uomini.
Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione
leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche per G. i corpi, scomposti
negli elementi semplici di cui sono formati, si riducono a sostanze
spirituali, attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non sono
altro che fenomeni, nostre sensazioni. Lo spirito è attività : è
quella stessa forza che è in tutte le cose che sono in natura, e che
tende ad espandersi. In noi questa forza si svela nella ragione, che è
prima di tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza è attiva
e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio, a trionfare.
Il mondo non è, infine, se non questo svolgimento della ragione, che nel suo
progressivo prevalere è cultura sempre più intensa e sempre più diffusa;
è benessere in cui lo spirito viene ritrovando e procuran¬ dosi le
condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è amore degli altri, insieme
coi quali ogni uomo viene adempiendo in comune il destino della sua
natura, la libera vita della ragione. Questa la fede del G..
Questa la sorgente dell’entusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo
dalla cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,
infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il segreto della
potente azione da lui esercitata sul suo tempo, promovendo nuovi studi,
animando i giovani alla lotta contro il vecchio mondo: contro la
feudalità in favore dei lavoratori della terra e della nascente
borghesia; contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il
pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la religione;
contro tutto ciò che nel pensiero e nelle istituzioni impedisse 0 ostacolasse
il libero sviluppo del lavoro, della civiltà, della ragione. G.
non fu un rivoluzionario; ma fu un educatore di rivoluzionari, che quando
scoppierà in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di obbe¬
dire alla voce del vecchio maestro accogliendone una scintilla anche a
Napoli, e quindi suscitando il glorioso incendio della Repubblica
Partenopea, celebrazione di una grande fede idealistica ancorché
astrattamente gia¬ cobina, santificata dal martirio 0, uomini di
grande accorgimento ed equilibrio, come Galanti e Cuoco, con più
profonda intelligenza dell’ insegnamento di G., ne trarranno argomento a
una più realistica concezione politica della libertà necessaria al popolo
napoletano: poiché vedranno come il maestro aveva veduto, che
questa libertà non poteva essere vitale, se non era forte della forza di
uno Stato ben ordinato e potente: di uno Stato infine in cui tutta
l’Italia, prima o poi, doveva unirsi tutta in un corpo solo tra l’Alpi e
il mare. Questa idea di un’ Italia unificata dal Galanti, il
più fido dei discepoli del Genovesi, passò al Cuoco, e dal Cuoco,
come oggi sappiamo, passerà al Mazzini; ma era stata preconizzata a
Napoli dal Genovesi. La cui com¬ memorazione io non potrei meglio
concludere che rileg¬ gendo una sua pagina del 1757, a proposito della
sicurezza necessaria al commercio, e impossibile senza una fiotta
militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno di Napoli, che
era tuttavia il maggiore e più potente Stato d’Italia: «Vorrei io»,
scriveva nel detto anno il G., «in questo luogo dire un pensiero, che
ho sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo tuttavia; ma io temo
ch’egli non sia per incontrar male 1 Sulla scuola del G. e la sua
importanza storica, A. Simioni, Le origini del Risorgimento politico
dell' Italia meridionale, voi. I, Messina, Principato, presso coloro, che niuno
amore hanno e niun zelo nutriscono per l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò
pure in qualunque parte sia per prendersi da chi non guarda più in
là del proprio utile. « A voler considerare l’Italia nostra, e
dalla parte del suo sito, e da quella degl’ ingegni, e per quello che ha
ella altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e come dilacerata,
si converrà di leggieri, ch'ella tra tutte le nazioni di Europa sia fatta a
dominare; perocché il suo clima non può esser più bello, né più acconcio
il suo sito rispetto alle terre e al mare che la circondano, né più
perspicaci e accorti e destri e capaci di scienze e di arti e duranti di
gran fatiche, e oltre a ciò più amanti della vera gloria, i suoi popoli,
di quel ch’essi sono. Ond’ è dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto
addietro al- l’altre nazioni in tutto ciò, che par suo proprio, ma divenuta
in certo modo serva di tutte quelle che il vogliono? Ella non è stata di
ciò causa la sola mollezza, che le conquiste de’ Romani v’apportarono; perocché
questa morbidezza, che le ricchezze e la pace v’avevano introdotta, non
durò lungo tempo; ma la vera cagione del suo avvilimento è stata quell’averla i
suoi figli medesimi in tante e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha
perduto il suo primo nome e l’antico suo vigore. Gran cagione è
questa della ruma delle nazioni. Pur nondimeno, ella potrebbe meno
nuocerci, se quei tanti principati, deposta ormai la non necessaria
gelosia, la quale hanno spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero,
sperimentata e al comune d’Italia e a se medesimi funesta, volessero meglio
considerare i propri e i comuni interessi, e in qualche forma di
concordia e di unità ridursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder
rifiorire il vigore degl’ Italiani. Potrebbe per questa via aver
l’Italia nostra delle formidabili armate navali, e di tante truppe
terrestri. che la facessero stimare e rispettare non che dalle potenze
d’oltremare, che pure spesso l'infestano, ma dalle più riguardevoli che
sono in Europa. Ella non vorrebbe ambire altro imperio, che quello che la
natura le ha circoscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il
suo. Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e le
industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti nuovo abito e
la pristina bellezza prendere. Se questi sensi s’ispirassero ai pastori
di tutte le sue parti, forse che non sarebbe questo un voto platonico. E
mi pare che i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri
gelosi, che per massime vecchie che son passate ai posteri più per
costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi ch'erano: e quelle
cagioni di reciproci timori, che potevano una volta essere ragionevoli, sono
ora non solo vane, ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si
considerano. Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le
cose sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla
concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e vero interesse
suol riunire anche i nemici: non avrà egli forza da riunire i gelosi
? Rettor del Cielo, io chieggo Che la pietà che ti condusse
in terra. Ti volga al tuo diletto almo paese » ». Al
Genovesi dunque, il più filosofo dei grandi riformatori italiani del
Settecento, spetta il merito di essere stato il più italiano di tutti.
Egli scosse il petto dei giovani, e vi infuse una fede nella civiltà che
è scienza ed è libertà. Egli indicò agl’ Italiani 1 * Italia, che non
c’era, ma co-1 Carv, Storia del Comm. della Gran Bretagna, Napoli. Pagina
celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa nelle sue Letture del
Risorgimento Italiano.minciava a presentirsi, ed egli l’annunziò,
insegnando come le si potesse preparare la via. E la sua voce si
riper¬ cosse di generazione in generazione, finché l’Italia venne.
E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando la letteratura
alla vita, la filosofia all'uomo, ammazzando l’accademia e l’ozio ancorché
dotto ed elegante, educando il popolo a credere nella cultura, a
servire l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte.
Fulgido esempio i martiri. Stato laico e veramente sovrano, religione
tutta rivolta alla vita dello spirito, libera da ogni cupidigia e pretesa
mondana; libera la ragione, rispettata come cosa sacra la scienza, e la
scuola che la promuove. E di là dal breve confine della provincia,
per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata, consa¬ pevole di una
sua missione civile. Questa la scuola del G.. Perciò gl’ Italiani devono
ricordare il suo nome; perciò devono annoverare G., lui così
modesto, così riservato e chiuso tra la scuola e i libri, tra i padri
della patria. E nella scuola italiana particolar¬ mente deve esser
ricordato come esempio ed ammonimento contro la pseudoscienza astratta
dalla vita sempre rina¬ scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in
vita Antonio Genovesi e furono perseguitati dalla sua dialettica e
dal suo frizzo, hanno cambiato veste, e non natura. E contro di
essi bisogna ancora combattere, ancora difendersi. Perciò Genovesi è
vivo. G. Nasce a Castiglione (ora Castiglione del Genovesi), piccolo
paese dell'Appennino campano a pochi chilometri da Salerno, primogenito dei
quattro figli di Salvatore e di Adriana Alfenito. La famiglia, un tempo
benestante, era decaduta da "civile" in "basso" stato, e
viveva con i modesti proventi del lavoro del padre calzolaio e di una piccola
proprietà. Allo sforzo di recuperare una condizione economicamente più solida e
socialmente più prestigiosa, nonché alle strategie familiari in uso nella
società del tempo e della zona, si deve la precoce destinazione del G. alla
carriera ecclesiastica, realisticamente accettata dal ragazzo come unica strada
percorribile per accedere agli studi superiori e a una professione
intellettuale, per la quale si sentiva particolarmente tagliato, poi vissuta
sempre con autentica adesione a una religiosità profondamente sentita. Affidato
a parenti membri del clero locale, il G. compì i primi studi nel paese natio,
praticamente da autodidatta, completando il corso di lettere latine a tredici
anni. Seguirono tre anni dedicati alla filosofia, dapprima quella scolastica,
per la quale maturò un rapido rifiuto, poi quella cartesiana, sotto la guida di
un medico suo parente, Niccolò Genovesi, a sua volta allievo del medico
cartesiano napoletano N. Cirillo. Le due autobiografie redatte dal G. e rimaste
incompiute e inedite in vita (la prima si ferma al 1748: Autobiografia I, in P.
Zambelli, La formazione; la seconda al 1755: Vita di A. G., in Illuministi
italiani) ci trasmettono il ritratto di un adolescente vivace, intelligente e
ricettivo, fortemente motivato allo studio per curiosità intellettuale e
desiderio di primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica. Nello stesso
tempo fu iniziato al gusto della letteratura dai consigli di un altro amico del
luogo, S. Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta la vita, per i
poemi cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il nascere di un
altrettanto intenso interesse per la storia. Ma il padre sorvegliava
attentamente che il ragazzo non si concedesse distrazioni. La rigidezza paterna
ebbe modo di manifestarsi più duramente quando il giovane si innamorò, ricambiato,
di una giovane compaesana, Angela Dragone. Per impedire che questo amore
cambiasse i programmi di vita del giovane, il padre gli impose il trasferimento
a Buccino (sempre non lontano da Salerno), in casa di parenti, mentre la
ragazza fu costretta al matrimonio con un pastore. Il G., pur profondamente
addolorato e deluso, trovò conforto nella maggiore apertura e possibilità di
contatti che il nuovo ambiente, sempre provinciale ma più aperto e animato, gli
offriva, e nell'amicizia con l'arciprete G. Abbamonte, che migliorò la sua
preparazione classica e stimolò l'interesse per la teologia e il diritto civile
e canonico. Prende gli ordini minori. Nel frattempo, spinto dalla
necessità di rendersi indipendente economicamente, con l'appoggio
dell'arcivescovo di Salerno Capua, che ne aveva apprezzato le doti esaminandolo
per il diaconato, ottenne l'insegnamento di retorica presso il seminario della
città, dove rimase due anni. Ordinato sacerdote, l'anno seguente, fornito del
modesto capitale di 600 ducati ereditato da uno zio materno, insieme con il
fratello Pietro, destinato alla carriera forense, si trasferì nella capitale
del Regno, dove avrebbe trascorso tutto il resto della vita, allontanandosene
solo per brevi periodi di villeggiatura. Abbandonato rapidamente il progetto di
intraprendere anche la professione forense, che gli parve avere "poca
conformità […] con le massime del puro cristianesimo" (Vita), insofferente
del formalismo giuridico e dell'ambiente del foro, scelse definitivamente gli
studi filosofici. Frequentò le lezioni Martino e Vico - di cui già conosce la
Scienza nuova -, conobbe DORIA (si veda), si legò di amicizia con BUONAFEDE,
che lo descrive, in quei primi anni napoletani, in un acuto ed efficace profilo
(Ritratti poetici, storici e critici di vari uomini di lettere, Venezia).
Lasciò inattuato il progetto di un'opera ispirata a Platone, La repubblica
divina, per rivolgersi avidamente alla cultura anglo-olandese, ai neoplatonici
di Cambridge, a J. Le Clerc, a Newton, a Locke (progettando una traduzione dal
francese del Cristianesimo ragionevole), al giusnaturalismo. Nel 1739 aprì una
scuola privata, in cui insegnare i suoi "nuovi piani di filosofia e di
teologia", in particolare il "piano di un'etica" (Vita), frutto
delle riflessioni di quegli anni. Cominciò a maturare in quest'esperienza - che
durerà tutta la vita - la vocazione pedagogica che caratterizzerà tutta
l'attività del G. e che si realizzerà in un metodo d'insegnamento dinamico, in
cui l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del docente sollecitava e promuoveva
l'apprendimento in interazione costante con i giovani. Il carattere innovativo
e il successo della scuola gli procurarono l'amicizia e la protezione di M.
Cusano, di G. Orlandi e, soprattutto, del cappellano maggiore C. Galiani, autentico
iniziatore della nuova cultura newtoniana a Napoli, fondatore dell'Accademia
delle scienze e promotore della riforma universitaria, da poco avviata.
Attraverso il Galiani, il G. ottenne il primo incarico universitario, come
professore straordinario di materie metafisiche, e cominciò a insegnare nel
novembre 1745. Era nel frattempo approdato a una visione filosofica fondata su
un "eclettismo programmatico", che tendeva alla serena composizione
di un costante atteggiamento apologetico con la più totale disponibilità verso
i portati della cultura innovatrice, di cui si appropriava con onnivora
curiosità. Ne dette la prima dimostrazione nel manuale degli Elementa
metaphysicae (Napoli), prima tappa dell'ambizioso progetto di un corso completo
di filosofia. Proprio per queste caratteristiche, nonostante la sostanziale
ortodossia e l'approvazione del revisore regio Orlandi, l'opera e duramente
attaccata dagli ambienti ecclesiastici. La protezione del Galiani e la
disponibilità ad accettare di chiarire le proprie posizioni in una Appendix
pubblicata salvarono G. dalla denuncia
al S. Uffizio. La polemica però accrebbe la sua notorietà a Napoli e fuori del
Regno; divenne abituale frequentatore del salotto letterario di M. Di Sarno,
bibliotecario di José Joaquín marchese di Montealegre (duca di Salas), primo
segretario di Stato. Le tesi esposte nella Metafisica attirarono l'attenzione
di Conti, con il quale il G. avviò uno scambio di lettere filosofiche sulla
natura delle idee, stampate (poi in Letterefamiliari, Venezia. Passa alla
cattedra di etica, con buon successo per la rinnovata affluenza di studenti.
Nello stesso anno pubblicò, in collaborazione con G. Orlandi, cui si devono le
note scientifiche, gli Elementa physicae di P. van Musschenbroek, ai quali
premise una Disputatio physico-historica de rerum corporearum origine et
constitutione, agile e precisa sintesi delle idee scientifiche dall'antichità
al presente. La manifesta adesione al newtonismo si colloca tuttavia ancora
all'interno di una visione spiritualizzante e ortodossa, che connette la
visione del cosmo di Newton al vitalismo di Cardano e di Campanella e con la
platonica anima mundi. L'opera ebbe grande fortuna, come pure il contemporaneo
manuale di logica Elementorum artis logico-criticae libri V(Napoli), che gli
procurò gli elogi di L.A. Muratori, con il quale avviò un carteggio, quasi
totalmente perduto, destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e
più pericolosi attacchi si andavano preparando nel clima di scontro
determinatosi a Napoli a causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre
il tribunale dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale G.
Spinelli. Pubblica la seconda parte della Metafisica, dedicandola a
Benedetto XIV con l'evidente scopo di garantirsi un'autorevole tutela, e nel
contempo portava a compimento la stesura del manuale di teologia cui attendeva
dai primi anni Quaranta: gli Universae theologiae elementa. Quando si rese
vacante la cattedra di tale disciplina, G. ritenne di avere giusto titolo per
concorrervi con buone probabilità di successo. Ma la sua candidatura provocò
violente opposizioni. In base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate I.
Molinari, la Curia romana volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di
Napoli ne affida la revisione a Barba. Nonostante i suoi timori, anche questa
volta G. riusce a evitare la denuncia per eresia, soprattutto in virtù
dell'appoggio dei gesuiti, ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua personale
amicizia con il padre provinciale della Compagnia e del fatto che, sul piano
dottrinale, si definiva mezzo molinista in materia di grazia. Ma in questa
occasione fu assai tiepido l'appoggio del Galiani, che gli impose la rinuncia
non solo alla cattedra, ma anche all'insegnamento privato della teologia e alla
pubblicazione degli Universae theologiae elementa, provocando la decisione del
G. di abbandonare "studi sì turbolenti e spesso sanguinosi"
(Vita). Il G. continuò a insegnare etica fino al 1753, mentre proseguiva
il completamento della Metafisica con un quarto volume, dedicato al
giusnaturalismo. Reinterpretando Grozio e soprattutto Pufendorf, G. vede nel
giusnaturalismo le basi per rinnovare un'etica razionalmente e scientificamente
fondabile, in grado di definire il quadro di valori di una società mercantile,
i cui problemi si venivano ormai collocando al centro dei suoi interessi. La
persecuzione di cui era stato oggetto, oltre ad allargare la cerchia delle sue
frequentazioni amichevoli a personaggi come Raimondo di Sangro principe di
Sansevero e Felice, gli aveva offerto infatti l'occasione di entrare a far
parte del cenacolo che in quegli anni si era venuto a creare intorno a INTIERI.
Ormai avanzato nell'età, questo abile e fortunato imprenditore toscano, amico
di C. Galiani e cofondatore dell'Accademia delle scienze, ritiratosi a poco a
poco dalle sue multiformi attività, aveva raccolto intorno a sé vecchi e
soprattutto nuovi esponenti dell'intellettualità napoletana, come RINUCCINI,
ORLANDI, GALIANI, con i quali aveva avviato una fruttuosa consuetudine di
discussione, tesa a stimolare non solo la circolazione delle idee in rapporto
con la cultura internazionale, ma anche l'attività di collaboratori più giovani
e la loro concreta azione nel contesto politico e sociale del Regno. Il
cenacolo dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e commentare l'Esprit
des loisdi Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di quegli anni emerge con chiarezza
l'auto-rappresentazione di questo gruppo di intellettuali come forza operante
nel nuovo contesto politico: la ritrovata indipendenza del Regno, che appare
loro come conditio sine qua non per l'avvio di un processo di cambiamento e di
modernizzazione. Vero e proprio manifesto del programma riformatore del
gruppo, incentrato sull'ineludibile nesso teoria-prassi, che ne costituì la
novità immediatamente percepita dai contemporanei, fu il Discorso sopra il vero
fine delle lettere e delle scienze, maturato durante la villeggiatura nella
villa intieriana di Massa Equana, e pubblicato all'inizio dell'anno seguente a
Napoli insieme con il Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far
rifiorire l'agricoltura di U. Montelatici e con la Relazione dell'erba orobanche
di P.A. Micheli. G. operava così la sua scelta di campo, presentandosi come
l'interprete più convinto di quel programma e il più attivamente impegnato
nella sua realizzazione. Requisito indispensabile per il progetto di
riforma era la diffusione di una nuova cultura scientifica, economica,
tecnologica, posta al centro degli interessi di una intellettualità nuova. A
essa, come campo di indagine, ma anche di azione, doveva rivolgersi la
"studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli studi forensi e da
speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza cosmopolita di
idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di osservazione e di studio
dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui viveva. A questa
istanza della cultura intieriana corrispose il progetto che meglio ne
rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione presso l'Università
di Napoli di una cattedra di meccanica e commercio- cioè la prima di economia
politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un lascito di 7500
ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a condizione che essa
venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in lingua italiana e
che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del clero regolare. La
nuova cattedra e inaugurata con grande affluenza di pubblico. G. presentò il
nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi sviluppato nel ragionamento sul
commercio in universale, pubblicato in estratto e poi in apertura della Storia
del commercio della Gran Brettagna scritta da John Cary (Napoli). Questo
grosso centone in tre volumi conteneva pure la traduzione dell'Essai sur le
commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M. Butel-Dumont (Paris), i quali
avevano a loro volta tradotto e aggiornato l'Essay on the state of England di
J. Cary (Bristol), e la traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's
treasure of commerce di T. Mun (London), corredate dalle ampie e ricche
annotazioni dello stesso G. e da altri suoi saggi (Ragionamento filosofico
sulle forze e gli effetti delle gran ricchezze e Ragionamento sulla fede
pubblica) destinati a ricomparire negli Elementi del commercio e nelle
posteriori Lezioni di commercio o sia di economia civile.
Contemporaneamente G. procedeva alla stesura del suo corso biennale di Elementi
del commercio, che anche nel titolo riecheggiavano gli Eléments du commerce di
F.-L. Véron de Fortbonnais. Ambedue le opere avevano un palese carattere
propedeutico, non solo per i destinatari, ma in certo modo per lo stesso autore,
che nel suo sforzo di informazione e acquisizione di nuove competenze sembra
lavorare in parallelo con i suoi allievi e lettori. Il discorso genovesiano
assolveva a una duplice funzione: definire contenuti e linguaggi della nuova
cultura economica; tracciare le linee di un programma di politica economica per
il governo, nel quadro dell'assolutismo illuminato, che viene considerato come
la garanzia istituzionale delle riforme. Esso si articola sulla polarizzazione
tra il cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta ampiezza e
tempestività di letture, e il patriottismo, consistente nell'attenzione alle
specifiche condizioni del Regno, su cui misurare l'effettiva validità degli
interventi. Sul primo versante i termini di confronto scelti da G. furono la
Spagna e l'Inghilterra. L'una, studiata attraverso le opere di G. Uztáriz e B.
de Ulloa, per le evidenti analogie con la situazione del Regno; l'altra,
proposta come il modello più avanzato di economia mercantile, nel quale erano
ormai operanti le strutture della moderna circolazione di merci, monete e idee.
Su di essa G. si documentava con ostinata puntualità, trovando la referenza più
significativa nei Political discourses di D. Hume. L'elemento di mediazione
culturale, approdo dei riformatori napoletani alla koinè illuministica degli
anni Sessanta, era costituito dalle opere e dai dibattiti francesi, da J.-F.
Melon a Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro versante, il G.
articolava una serie di proposte operative per una conoscenza sperimentalmente
e statisticamente fondata delle reali condizioni del Regno (andamento
demografico, natura e produttività dei terreni, configurazione della proprietà
attraverso il catasto, strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano collaborare
gentiluomini e parroci, intellettuali e proprietari, creando una rete di
società agrarie e scientifiche diffuse sul territorio e radicate nella società
provinciale. La politica economica di un paese povero di materie prime e del
tutto marginale nel commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo
qualitativo e quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso
libero dai vincoli interni. L'adesione piena del G. alla liberalizzazione
del commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave
carestia che colpì il Regno, attraverso la pubblicazione dell'Agricoltore
sperimentato di TRINCI (Napoli) e delle Riflessioni sull'economia generale de'
grani (Napoli; traduzione della Police des grains di C. Herbert, Berlin), da
lui prefati e commentati. La fiducia nella possibilità di realizzare le riforme
si scontrava, tuttavia, con la crescente consapevolezza della natura
strutturale degli ostacoli che vi si opponevano. La concentrazione delle terre
nelle mani di una nobiltà feudale ancora detentrice di poteri giurisdizionali e
di un clero numericamente eccessivo, attaccato ai propri privilegi, impediva la
formazione di una proprietà contadina, che ormai appariva a G. la condizione
necessaria perché si sviluppasse non solo l'iniziativa economica, ma pure
l'auspicata mobilità sociale. Sono quindi i problemi della società civile
quelli cui il G. guarda con maggiore attenzione nell'ultimo quinquennio della
sua vita, che rappresenta un'ulteriore scansione della sua attività. Il
suo impegno politico e culturale si caratterizzava per una sempre più
accentuata polivalenza di funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione
di maître à penser. All'insegnamento universitario e privato si aggiunsero
infatti le consulenze per Tanucci e per la giunta degli Abusi, sui problemi più
scottanti del momento: dalla liberalizzazione del commercio dei grani ai
trattati di commercio, dalla monetazione alla redazione dei nuovi piani di
studio per le scuole ex gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della
battaglia giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle
decretali); per l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative
regie, per la lotta alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività
editoriale, relativa alla pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì
tutti gli aspetti della sua attività di studioso e di insegnante. Ne fece parte
un corso completo di "istituzioni filosofiche per i giovanetti", in
italiano, articolato nella Logica (Napoli), nella Diceosina, osia della
filosofia del giusto e dell'onesto (Napoli), nelle Scienze metafisiche. Contemporaneamente,
il G. stendeva i Dialoghi morali e le note all'Esprit des lois. In questo
contesto si collocano le tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di
economia civile, cui il G. lavorò direttamente: le due napoletane, e quella
intermedia, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle Lezionifanno da
contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due edizioni delle
Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o
gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si amplia a un
riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che nascono da
questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più compiuta di
un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna, attraverso
la quale il G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali della sua
riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in una sintesi
complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni intellettuali e
politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti recepiscono anche le
spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche, le Lezioni si
presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un vero e proprio work
in progress di letteratura militante. Il G. colloca le problematiche
dell'economia in un più ampio quadro di considerazioni sulla società, sulle sue
dinamiche, esaminate negli aspetti antropologici e psicologici, secondo una
linea storicizzante alla quale contribuisce con una sua versione della teoria
stadiale, per approdare a un più ampio affresco della situazione del Regno. Il
confronto tra gli Elementi e le tre edizioni delle Lezioni mette in luce
l'evoluzione del suo pensiero sui temi più caratterizzanti, dalla popolazione
al lusso alla tassazione, e l'intensificarsi della polemica antifeudale e
anticuriale. Diventa centrale il problema della comunicazione, elemento
caratterizzante della società e del vivere civile e di conseguenza della
lingua, alla quale dedica anche una riflessione teorica nella Logica, e dei
mezzi, delle sedi, delle modalità attraverso le quali essa può realizzarsi e
costituire l'asse portante della formazione dell'opinione pubblica.
La morte lo colse a Napoli il 12 sett. 1769. Negli anni seguenti la
sua opera fu oggetto di aspri attacchi e di appassionate difese, culminate
nell'elogio storico dedicatogli dall'allievo G.M. Galanti (Napoli). Larga ma
diversificata fu l'eco della sua opera nelle altre aree d'Italia e di Europa.
Nonostante la fortuna dell'edizione milanese delle Lezioni, sulla quale furono
esemplate tutte le successive ristampe, in realtà l'opera genovesiana non venne
apprezzata nella Lombardia asburgica, proiettata verso la fisiocrazia, perché
considerata troppo farraginosa e legata ai problemi di una società
sottosviluppata. In Francia l'annunciato progetto di PINGERON di tradurre le
Lezioni non ebbe seguito. In Germania, invece, vennero tradotti sia la Storia
del commercio (Leipzig), sia le Lezioni, a cura rispettivamente di A. Witzmann
e di C.A. Wichmann. Molto più ampia fu invece la diffusione dell'opera
genovesiana, sia filosofica sia economica, nella penisola iberica. In Spagna,
infatti, apparve una traduzione in castigliano delle Lezioni, a cura di V. de
Villava, mentre nei paesi di lingua portoghese i suoi corsi di filosofia
costituirono la base dell'insegnamento universitario per tutto l'ottocento.
Edizioni: Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F.
Venturi, Milano-Napoli; Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G.
Savarese, Milano 1962; Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e
dell'onesto, a cura di F. Arata, Milano 1973; Scritti, a cura di F. Venturi,
Torino 1977; Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, Varese 1977
(rist. anast. dell'ed. Milano 1768); Scritti economici, a cura di M.L. Perna,
Napoli; Se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati. Lettere
accademiche, a cura di G. Gaspari, Carnago; Lezioni di commercio o sia di
economia civile con gli "Elementi del commercio", a cura di M.L.
Perna, Napoli; Dialoghi e altri scritti. Intorno alle "Lezioni di
commercio", a cura di E. Pii, Napoli. Fonti e Bibl.: Le carte genovesiane
conservate si trovano a: Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIII.B.39; ms. XIII.B.92;
ms. XIV.B.53; Arch. di Stato di Napoli, Casa reale antica. Diversi, f. 868;
ibid., LII, Affari gesuitici, ff. Altamura, Archivio Biblioteca Museo civico,
Fondo Serena, Carte Genovesi; Arch. di Stato di Milano, Piani di economia
pubblica, Autografi, 164; Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di Napoli, Arch. di
Stato di Torino, Materie economiche. Zecche e monete, n. 9. Inoltre, copie
manoscritte della Theologia sono conservate a Bari, Biblioteca nazionale, ms.
III.16; Ibid., Biblioteca provinciale De Gemmis, Fondo De Gemmis; Fano,
Biblioteca civica Federiciana, Fondo Collegio Nolfi, ms. 9; Macerata,
Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms.; Napoli, Biblioteca oratoriana dei
gerolamini, ms. Varie lettere sono conservate a: Firenze, Arch. stor.
dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio, b. 23; Ibid., Biblioteca nazionale,
Autografi Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi Piancastelli; Milano,
Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B.231; Modena, Biblioteca Estense,
MC.103.1; Ibid., ArchivioMuratoriano, filza 65; Ibid., Autografoteca Campori;
Torino, Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla; Vienna,
Österreichische Nationalbibliothek, Mss. Lettere; Racioppi, A. G., Napoli; G.M.
Monti, Due grandi riformatori del Settecento, A. G. e G.M. Galanti, Firenze
1926; Studi in onore di A. G., Napoli; Villari, Il pensiero economico di A. G.,
Firenze 1959; A. Potolicchio, Postille autografe inedite alla
"Logica" di A. G., in Atti dell'Accademia di scienze morali e
politiche della Società nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, LXXIII
(1962), pp. 1-67; F. Corpaci, A. G. note sul pensiero politico, Milano 1966; O.
Nuccio, Un grande riformatore napoletano. A. G.: scienza economica e problemi
di rinnovamento sociale a Napoli nella seconda metà del XVIII secolo, Roma; M.
Agrimi, A. G. e l'Illuminismo riformatore del Mezzogiorno, in Belfagor, Badaloni,
Antonio Conti, Milano 1968, ad indicem; M. De Luca, Gli economisti napoletani
del Settecento e la politica di sviluppo, Napoli, passim; M.T. Marcialis, Note
sulla "Disputatio physico-historica" di A. G., in Annali delle
facoltà di lettere, filosofia e magistero dell'Università di Cagliari, XXXII
(1969), pp. 301-333; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1; M. De
Luca, Scienza economica e politica sociale nel pensiero di A. G., Napoli, Garin, A. G. storico della scienza, in Id.,
Dal Rinascimento all'Illuminismo, Pisa 1970, pp. 301-333; R. Villari, A. G. e
la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, in Studi storici; E. De
Mas, Montesquieu, G. e le edizioni italiane dello "Spirito delle
leggi", Firenze 1971; P. Addante, A. G. e la polemica antibayliana nella
filosofia del Settecento. Contributo di ricerche storico-filosofiche, Bari
1972; P. Zambelli, La formazione filosofica di A. G., Napoli; Economisti
italiani del XVIII secolo, Roma Arata, A. G.:una proposta di morale
illuminista, Padova 1978 (rec. di G. Imbriglia, in Boll. del Centro di studi
vichiani, X [1980], pp. 225-232); P. Zambelli, A. G. and eighteenth-century
empiricism in Italy, in Journal of the history of philosophy, Piscitelli, Il
pensiero degli economisti italiani nel Settecento sull'agricoltura, la
proprietà terriera e la condizione dei contadini, in Clio, XV (1979), pp.
245-292; D. Demarco, Il dibattito settecentesco sulla popolazione in Italia, in
La popolazione italiana nel Settecento. Relazioni presentate al Convegno su: La
ripresa demografica del Settecento, … 1979, Bologna 1980, pp. 539-590; A.
Pennisi, Filosofia del linguaggio e filosofia civile nel pensiero di A. G., in
Le forme e la storia, I (1980), pp. 321-380; V. Ferrone, Scienza, natura,
religione, Napoli, Taranto, Il progetto di G. e l'economia civile di V.E.
Sergio: un modello di sviluppo borghese, in Nuovi Quaderni del Meridione; Marcialis,
G. tra Wolff e Locke. Metafisica ed empirismo nella "Ontosophia"
genovesiana, Cagliari, Pii, A. G.: dalla politica economica alla politica
"civile", Firenze, Battista, La storiografia su G. oggi, in Quaderni
di storia dell'economia politica, III (1985), pp. 277-296; M. Bazzoli, Il
pensiero politico dell'assolutismo illuminato, Firenze 1986, pp. Garin, A. G.
metafisico e storico, in Giorn. critico della filosofia italiana, Bellamy, Da
"metafisico" a "mercatante". A. G. and the development of a
new language of commerce in eighteenth-century Naples, in The languages of
political theory in early-modern Europe, a cura di A. Pagden, Cambridge, Battista,
Sul popolazionismo degli economisti meridionali prima di Malthus, in Le teorie
della popolazione prima di Malthus, a cura di G. Gioli, Milano; Fatica, Il
lavoro come mediazione tra l'uomo "civile" e la natura: alcuni
problemi di "police" in G. e nei suoi referenti culturali, in
Prospettive Settanta; M.T. Marcialis, Natura e sensibilità nell'opera
manualistica di A. G., Cagliari 1987; A. Pennisi, Grammatici, metafisici,
mercatanti. Riflessioni linguistiche sul Settecento meridionale, in Teorie e
pratiche linguistiche, a cura di L. Formigari, Bologna 1987, pp. 83-107; Id.,
La linguistica dei mercatanti, Napoli 1987, pp. 137-198; V. Ferrone, I profeti
dell'Illuminismo, Bari, Galasso, La filosofia in soccorso de' governi, Napoli, Pagden,
La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli nel
secolo XVIII, in Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della
cooperazione, a cura di D. Gambetta, Torino; Marcialis, Legge di natura e
calcolo della ragione nell'ultimo G., in Materiali per una storia della cultura
giuridica, Robertson, The Enlightenment above national context: political
economy in eighteenth-century Scotland and Naples, in The Historical Journal,
Perna, L'universo comunicativo di A. G., in Atti del Convegno Editoria e
cultura a Napoli nel XVIII secolo, Napoli. Antonio Genovesi. Genovesi.
Keywords: logica per gli giovanetti, critica della ragione economica, scambio
conversazionale --. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Genovesi: critica della ragione economica” -- per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e
Gentile: l’implicatura conversazionale d’Enea all’inferno – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Taggia). Filosofo italiano. Grice: “It
seems every philosopher has a catabasis – as Eneas did!” “Falamonica spends a
‘stagione’ in hell, too!” -- “I do like Falamonica – the way he makes
‘Aristoteil’ rhyme! “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di
tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico
Aristotil.” – Grice: Falamonica is interesting: there is Socrates teaching
Alcibiades, and Socrates teaching Plato, and Plato teaching Aristotle, and
Aristotle teaching Alexander!” Venne in contatto coll’astrologia. Compose i
Canti, poema dottrinale in terzine di 42 canti, chiaramente derivato dalla
Commedia di Dante. Grice: “It is a fun philosophical comedy: “E vidi alfin
colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi
contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere: “Canti. Dizionario
Biografico degli Italiani. Di antica famiglia genovese, che negli anni
1460-1480 entrò nell'"albergo" dei Gentile (e da qui è l'origine del
doppio cognome con il quale è conosciuto: cfr. Grendi), nacque a Genova, nella
contrada di S. Pancrazio, intorno al 1450, da Pancrazio e da Violantina
Piccamiglio. Nulla si sa intorno alla sua formazione ed ai suoi studi. Il
primo documento nel quale è nominato è il testamento del padre. In una data
incerta della fine del sec. XV si trasferì in Spagna, dove svolse attività
mercantile. Durante il soggiorno spagnolo fu tra i protagonisti della rinascita
del lullismo, partecipando alle attività della scuola di Jaume Janer a
Valencia. Fu promotore di iniziative editoriali, fra le quali la pubblicazione
del Liber artis metaphisicalisdello stesso Janer, una sorta di
summaenciclopedica del lullismo, stampata a Valencia; dalla dedicatoria
apprendiamo che il F. studiò le dottrine di R. Lullo con Janer. Da un'altra
dedicatoria, quella di Alfonso Proaza, un altro importante membro della scuola
lulliana di Valencia, alla Disputatio Remondi christiani et Homerii sarraceni del
1510, apprendiamo che il F. si era dedicato anche a studi di astronomia e di
medicina, e che sollecitò Proaza a pubblicare testi di Lullo. Il F. fu inoltre
in possesso di manoscritti di Lullo, del quale subì l'influenza anche nei testi
letterari di cui fu autore. Diciotto sonetti di argomento religioso,
appartenenti alla tipica tradizione poetica catalana fra XV e XVI secolo e nei
quali è anche rilevabile l'influenza delle opere poetiche di Lullo, furono
pubblicati per la prima volta nell'edizione di Valencia del 1514 del Cancionero
general. Nell'edizione del 1520 del Cancionero (quella da noi consultata) sono
suddivisi in cinque sonetti "sobre ecce homo", un sonetto "in
dialogo de Dio", un sonetto "de trinitate", un sonetto "a
la verge Maria par les guerres dela sglesia", cinque sonetti "en llor
del glorios nom de Iesus" e cinque sonetti "en llahor del nom dela
gloriosa verge Maria". Non si sa di preciso quando il F. rientrò a
Genova, dove morì presumibilmente in una data compresa fra il primo e il secondo
decennio del sec. XVI. In vecchiaia ("Lasciando a dietro il
sessagesim anno") si dedicò alla stesura di un poema, che ci è stato
tramandato ed è stato pubblicato con il generico titolo di Canti. In
quarantadue canti in terzine, di cui il primo ha la funzione di proemio, il F.
costruisce un poema dottrinale secondo il modello dantesco del viaggio nei
regni oltremondani. Ma la particolarità del testo del F., cui non manca una
certa abilità nella costruzione del discorso in poesia, è data dall'aver scelto
come guida del viaggio proprio Raimondo Lullo, il filosofo cui aveva dedicato
molti dei suoi studi durante il soggiorno spagnolo. Nei quarantadue canti
troviamo trattati i temi più caratteristici della filosofia lulliana. I primi
canti sono dedicati alla divisione e descrizione dell'universo ("de'
cieli, de' elementi, de' minerali, de' vegetali, degli animali, dell'uomo, de'
morali"), cui seguono canti sulla divinità e sul messaggio cristiano
("pronostico della cristiana religione, della divina essenza, della
generazione e spirazione eterna, della creazione del mondo, della natura
angelica, della incarnazione, della concezione, della passione, de' sacramenti,
della predestinazione"), sull'uomo e i suoi peccati ("del divino e
mondano amore, dell'usura, del giuoco, dello scandalo e della fama"), e,
in ultimo, i canti del vero e proprio viaggio nei regni dell'oltretomba
("dell'inferno, del purgatorio, del final giudizio, del paradiso").
La storia del testo dei Canti è stata piuttosto tormentata: ricordati negli
Annali della Repubblica di Genova di Agostino Giustiniani, già Uberto Foglietta
nei Clarorum Ligurum Elogia lamentava l'inaccessibilità del testo, che si
credette perduto durante i secoli XVII e XVIII. Venne data la notizia del
ritrovamento del poema, che venne descritto nella Storia letteraria della
Liguria da Giambattista Spotorno. Dopo alcuni saggi di pubblicazione, i Canti
vennero finalmente editi, in una veste non particolarmente curata, a cura di
Giuseppe Gazzino (Genova 1877). In questa edizione i Canti sono accompagnati da
un canto in terzine Alla Vergine e da tre sonetti In nome di Lei, che fanno
parte di quelli già pubblicati nel Cancionero. Fonti e Bibl.: R. Soprani,
Li scrittori della Liguria, Genova 1687 (reprint, Bologna), p. 49; (segnalazione
in G. Spotomo, Storia letteraria della Liguria, II, Genova 1824, pp. 189-204;
Giorn. stor. della letteratura ital., XIV [1889], p. 333); S. Caramella, B. G.
F. (contributo alla storia del lullismo nei primordi del Cinquecento), in Dante
e la Liguria. Studi e ricerche, Milano 1925, pp. 127-176; E. Levi, Un poeta
italo-catalano del Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans, XXII
(1936), pp. 681-685; M. Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de
filosofia, II (1943), pp. 504 ss.; D.W. McPheeters, The Italian poet and
lullist B. G. in XVIth century Valencia, in Symposium; Zambelli, Il De audito
cabalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, Firenze 1965, p. 127; L.
Grillo, Seconda appendice ai tre volumi della raccolta degli Elogi di liguri
illustri, Genova 1976, pp. 183 s.; M. Pereira, Bernardo Lavinheta e la diffusione
del lullismo a Parigi nei primi anni del '500, in Interpres, V (1983-1984), p.
256; E. Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, in Mélanges de l'Ecole
Française de Rome, M.-A., - Temps modernes,CRIT ICA. SOPRA UN POEMA di
Bartolommeo Falamonica. N o n sono che pochi anni dacchè si scopri un poema di
B a r tolomeoGentile Falamonica,uomo ligure,daluiscritto tra il 1470 e il 1490.
Il Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato di quell'uomo con
assai lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua , che andava
smarrita. Il sig. Spatorno nella recente sua Storia lette raria della Liguria
dà un'analisi di quel Poema,che merita per,ognirispetto d'essere conosciuto.Il
manoscritto oggi trovasi presso il marchese Giancarlo di Negro , p a trizio
genovesc, amatore e cultore di ogni ottimo studio. Il poema del G. non ha
titolo. La materia dice Giustiniani ė tutta filosofica, con interpretazione di
leggi pontificie e cesaree. Lo stesso attesta Spatorno. L'A.incomincia dal
favellare de'Cieli; e iprimi suoi versi sono questi: Nel tempo che s'inclina
ilfiore e l'erba, 38 TARIETA': WY > Perdar lecarespoglieal'aspraterra,
Partendo dalla età dolce e superba , Lasciando addietro il sessagesim '
anno ... Vedea che l'error m 'avea condotto 39 Aristotil ... Intanto gli
apparve dalle parti occidentali una gran Stella in formadiromito,dinome
Raimondo (Lullo) spiegò il suo desiderio di conoscere la verità , e di lasciare
alcun vestigio di sè dopo morte ; e Raimondo disse:stasecuro. e lo condusse al
Sole,acciò lo guidasse ne'Cieli. Per man mi prese Tornava senza onor
dallamia guerra Con tutte mie speranze sparse al vento , De'miei passati giorni
indarno spesi, Ch'ogni piacere in me restava spento... 2 motor che mi costrinse
il senso E mi condusse in una oscura valle. Iviilpoetaudìprimaun
suonodiguerra;poiunaltro come di favelle che parlavano del Cielo e della Terra.
e > Nel Il Canto vede Saturno, poi Marte, poiGiove; e il Sole gli dice : Già
presso al fin che tutto il mondo atterra. Allor mi ritrovai tutto scontento A
volgerealmioverobenlespalle... Ed eccouscir del Ciel, nonsosiofalle Un gran E
vidi ch'eran Spirti in quel deserto Qual dicea in prosa, e qual cantava in
versi. E conobbe tutti esser poeti , e in tanto numero E vedi alfin colui che
fra'mortali Più degno par di tutto quel Collegio , Levarsi contra tutti e
batter l'ali , Questa è la introduzione , e costituisce il primo Canto del
Poema. Nel II Canto si trova in luogo , dal quale si vede sotto i piedi la Luna
e i Pianeti; e sentiva il movimento delle sfere.VideilcerchiodelleStellefisse
edaciòprende occasione di parlare degli Astronomi , il più moderno dei quali è
il Regiomontano , morto nel 1476, ed afferma non essere possibile l'eternitàdel
mondo. Ma qui conviene omai fermar le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti.
Ne dice però una lunga lista di greci e latini: nd ram menta alcun italiano.
"Ei li lasciò tutti per gire a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad
Aristotele, di cui dice Perquellestradeluminose e.terse Ch'ionon
potealasciarlavia serena. Il Sole dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere
gli oggetti terreni. E inquesto Canto, e nel VI parla dell'aria,!della dell? E
la lussuria il buon smeraldo affrena; Vedi l'assenzio,ch'apre e scalda e
sciolve: Che già della bell'arte han fatto vizio... Vacuando idenari,e non gli
umori. Nel Canto IX ragiona della vitasensitiva degli animali e delleproprietà
delle varie specie. E le cicogne d'empietà nemiche... ecc. d'onde prende
occasione di parlare della empietà degli u o mini, Che gli uomini son fatti
fere ed orsi: Qual strazia , qual uccide, qual graffigna. Cosi servate son le
sacre norme. Le cose accennate formano la prima cantica del poema ; ed
incomincia la seconda parlando dell'uomo. Alzato già del Ciel a tanto lume
, acqua e del fuoco. Nel VII parla de minerali,e delle supposte aque?
tempi meravigliose virtù delle pietre preziose ,dicendo terra ,
Stringel'acanto> e falevenesalde; Tempo era omai d'entrar nel mio volume :
Dove trovai del mondo tanta parte· Finchè io ti mostri la mia casa propria. Nel
Canto IV visita Venere, Mercurio, e la Luna ; e fa molte dimande di fisica, elerisolvecolla
dottrinape= ripatetica che allora correva. Nel canto V parla degli elementi ; e
vi s'introduce così: Era mia vista di luce si piena, Son gli ametisti incontro
all'ebriopoto , Contra ilvenenoilgran giacinto è noto. Nel Canto VIII parla
della vegetazione, e delle proprietà vereo immaginarie dellepiante. Torna
l'altea la gran durezza in polve. cec. E contro i Medici. Falcon
leale,eladralaperdice... Adulterate son le cose sante ... La
genteritornatasimaligna, Come si mostra in le passate carte , Ch'io vidi in lui
siccome linea al punto Quanto Dio crca , e quanto poi comparte , Ogni
mondana ed immortal bellezza ... Nel Canto Il parla della immortalità e libertà
dell'ani ma ,e delle idee e degli affetti. Ogni pensier, e quanto qui s'adopra
opra In questa nostra carne per sua forina (l'anina) Il lume della vita è la
scienza .. Questa partefilosoficaè chiusa con un pronostico della Religione
cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il poeta ;e come questi
nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia spaventato il suo duce
, esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s' incende , si volge al'Eterno, e
lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terra piena di tirannide, disimoniayd'inu
gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio tutto mondano ; Creato per
usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando s'aggiorna O somma
vita, dove son raccolte Ligate qui col tempo , e là disciolte ; Eterno libro ,
in cui si nota e scrive E posto già il tuo nome tutto in vano. E commette al
poeta di palesare queste cose a tutto il mondo
escriverlealettered'oro;minacciandochese gliuomini non ritornano buoni, saranno
preda dei Maomet tani,che alloraaveano presa Otranto.Questa secondaCan
ticatermina coi seguenti versi. Che nulla per di fuora par si scopra. Nel I I I
Canto espone il difetto delle virtù , e spezialmente della carità , onde
l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto sua giornata. 1. Canti I V , V e
V I trattano di cose morali . Nobil naturà , in cui si trova giunto Le
vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si fanno dive ; Fammi
sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra . Ch e per
ricchezza l'uom non è giocondo : Un fonte di sospetti è signoria...
Seguilipochi,e non lavolgargente... Da poimi vidituttii sensi presi: Con un
gridar che uscia da que'paesi Oh ! mondo pravo , torna , tornia, torna.
Ed ecco allor m'apparve quel divino Miomastroantiquo (Lullo). I Canti I e
II trattano della essenza divina secondo la dottrina e le sottigliezze degli
Scolastici. Nel Canto III il poeta si sforza di mettere in versi la generazione
del Verbo, e la spirazione eterna,giusta gli astrusi concetti delle scuole.
NelIVragionadellacreazionedelMondo;nelV della natura angelica con tutte
ledivisioni gerarchiche. Nel VI e VII tratta della incarnazione del Verbo. Poi
dellaconcezione, seguendolanotasentenzadiScoto Più degno, più eccellente, più
gentile , Di non veder la sua vision divina fermazione,dellaEucaristia, dela Penitenza,edelleIna
dulgenze. Nel Codice autografo , dice il sig. Spatorno , è Jasciato in bianco
ciò che apparteneva agli altritre Sacra menti.Favellaposciailpoeta
dellapredestinazioneedel l'amore divino emondano. Quest'ultimo lo ispira contro
Usura in pravi volentier s'annida ... E cresce questa piaga al mondo ognora.
Quanto son pianegià le vie di morte ! Ne’susseguenticanti inveiscecontro
ilgiuoco; indi ra. giona delloscandalo e della fama. La terza parte del Poema
ha per soggetto ilMondo ir. visibile, e comincia dall'Inferno. E più
decente ancora all'Infinito. Della più mite dottrina poi si mostra seguace
rispetto ai fanciulli morti senza battesimo. Che poco curan giàdiveder Dio Di
quanto in sè contien filosofia. In due Canti espone la passione del Redentore ;
nè pia. ceranno a tutti le disperazioni della Vergine a piè della croce.In
duealtriCanti ragiona delBattesimo, dellaCon I La Cantica terza abbraccia la
parte teologica ; e comin cia così. Eragià fattosicom'uom selvaggio. Non hanno
danno alcun , se non quel bando Giocando insieme tutti e giubilando , Non
hannopiù sospiro alcun,nè stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno
al mondo i più viziosi. E lisuppone occupati M Busura. Secondo
differenzia di peccati. A guardia de'superbistannoileoni,de'lasciviiporci;
de'golosi gli orsi: Viensi poial Giudizio universale Così montaro inCiel
disquadrein squadre. Ilpoema si chiude col Paradiso partito in seicapitoli. Nel
I si parla della felicità de'Giusti. Nel IIsono ricor
datituttiipiùcelebripersonaggi dell'anticaalleanza;fra quali ètaciuto
diSaloinone,che secondo l'opinionedel b.Alessandro Sauli si teneva per dannato.
NelIII si trattadegli Apostoli, dei Discepoli e degl'Innocenti, Nel IV
parlandosi de' Martiri cosi dice di S . Lorenzo . Felice tu , mia Genoa , che
l'onori , Eccelso cavalier di Cristo atleta. Giorgio chiamato, e vera insegna e
duce Di nostra gran Liguria. Flegias,Cocito,furie d'Acheronte, Aletto con
Megera e Tesifone. Lascio la Stige , e Lete , e Flegetonte, Ed ogni simulacro
de Poeti Seguendo solo l'ortodossa fonte. Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito
Il Purgatorio delFalamonica ha forma di anfiteatro; le grotte che rinchiudono
le anime , sono dispostesotto gli scaglioni, e sopra questistanno demonii in
sembianza di animali. La valle tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva,e d'ogni
male carca E le corone d'uno e d'altro impero Correr fra l'onde , e naufragar
con elle ... E come il balenar seconda il tuono. M a l'invito del Giudice
eterno agli Eletti, dice il signor Spatorno,sa troppodiquellelicenzedantesche
pena si perdonano all'Autoredella incomparabil Commedia. E
Roma,ovefursparsiisuoidolori. E di S. Giorgio. > cheap Cerbero lascio ,
Minos e Plutone , Da riveder qual fosse quello e questo. Cið gli frutterà
guerra presso gli adoratori d'ogni cosa di Dante. Venite a me del nome mio
maacipio, Diletti e benedetti dal mio padre. Che come miei fratelliio vi
recipio. Felice ancor la Spagna , dov'ei nacque , Nel V Canto si
parla ancora de martiri. Nel VI de' dottori, monaci,ronitieconfessori,ediquesti
l'ul timo è s. Bernardino di Siena. Di Bernardino parlo ,che a l'uscita Di
questa schiera il più moderno parve , Fra tanta moltitudine infinita. E chiama
s.Anna Ava del Figlio , e Socera del Padre Miserere di un cuor che in
tes'adombra ! e dichiarando di sottomettere l'Opera sua al giudizio di Santa
Chiesa. G. B. Nostro celeste in Ciel... Chiude poi ilcapitolo e tutto il
poema, volgendosi a Dio , e pregandolo Ch'io la rimetto a lisuoi santi piedi.
Tale è l'analisi che ci ha data del poema del Fala monica ilsig.Spatorno.Non
poteva questa essere più ampia dovendo costituire parte di un articolo della
sua Opera. Ma egli ha lasciato maggior desiderio del medesimo, poi chè pare
anoi, che altri passi, e forse più felici, dovreb b'essocontenere, se, comedicegli,
questo poemadopola CommediadiDante,eprima dell'Orlandofuriosodee tenersi per la
migliore composizione poetica che in quel l'intervallo l'Italia abbia avuta.
Noi speriamo che il signor di Negro lo comunicherà al Pubblico colle stampe. E
vidi alfin colui che fra’ mortali più degno par di tutto quell collegio levarsi
contra tutti e batter l’ali. Dico Aristotil posto in sì gran pregio di lor
filosofanti un lume acceso E pur dal ciel si trova dato in spregio si ch’io
restai fra me tutto sospeso con l’alma or. Falamonica. Bartolomeo Fallamonica Gentile.
Gentile. Keywords: Enea all’inferno, parodies of the Divine Comedy, Raimondo Lullo,
Bruno e Lullo, il libro dell’amante e dell’amato, ars amative. Commedia
filosofica. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gentile: l’implicatura conversazionale -- implicatura dell’atto – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Castelvetrano).
Filosofo italiano. Grice: “Do not multiply the senses of ‘state’ (normative,
prerogative) beyond necessity.” Grice: “It’s difficult to assess the philosophy
of Gentile; he is a Peirceian, like me –. He ie into ‘conventional sign’ and
‘natural sign’ – and considers intersubjectivity as a way to suprass the type
of Berkeleyan idealism – his tradition is Plathegel, mine is Ariskant!” Grice:
“The roots of Gentile’s philosophy are in Hegel’s logic, as are Bradley’s,
Bosanquet, and Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist philosopher. He
taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics as the process of
an objectified thought. Gentile’s actualism or actual idealism claims that only
the pure act of thinking or the transcendental subject can undergo a dialectical
process. All reality, such as nature, God, good, and evil, is immanent in the
dialectics of the transcendental subject, which is distinct from the empirical
subject. Among his major works are “La teoria generale dello spirito come atto
puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.” Gentile sees
conversation is a concerted act that overcomes the apparent difficulties of
inter-subjectivity and realizes a unity within two transcendental subjects.
Actualism was pretty influential. With Croce’s historicism, it influenced two
Oxonian idealists discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet and R. G.
Collingwood (vide: H. P. Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The Nature of
Metaphysics, London, Macmillan). Insieme a Croce uno dei maggiori esponenti del
idealismo, nonché un importante protagonista della cultura, fonda L’Istituto
dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma della pubblica istruzione (Riforma
Gentile). La sua filosofia è detta attualismo. Inoltre fu figura di
spicco del fascismo italiano. In seguito alla sua adesione alla Repubblica
Sociale Italiana, fu assassinato durante la seconda guerra mondiale da alcuni
partigiani comunisti dei GAP. «Era un omone che ispirava grande simpatia;
con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati sopra un faccione rosso
acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un filosofo: così mi apparve,
benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi di religione, freschi di
lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece l'impressione di un
vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità sull'indiscusso ruolo di
patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Figlio di Giovanni e Teresa
Curti. Frequenta il ginnasio/liceo "Ximenes" a Trapani. Vince quindi
il concorso per posti di interno di Pisa, dove si iscrive alla facoltà di
lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri, tra gli altri, Ancona, professore
di letteratura, legato al metodo storico e al positivismo e di idee liberali, Crivellucci,
professore di storia, e Jaja, hegeliano seguace di Spaventa, che influirono
molto su Gentile. Dopo la laurea, con massimo dei voti e ottenimento del
diritto di pubblicazione della tesi, ed un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene
una cattedra in filosofia presso il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si
sposta a Napoli. Sposa Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro
matrimonio nasceranno Federico Gentile, i gemelli Gaetano Gentile e Giovanni
Gentile junior, Giuseppe Gentile, e Tonino Gentile Ottiene la libera docenza in
filosofia teoretica. Ottiene poi la cattedra a Palermo, dove frequenta il
circolo di POJERO (si veda) e fonda “Nuovi Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo,
Pisa, Roma e Milano. Durante gli studi a Pisa incontra Croce con cui
intratterrà un carteggio continuo. Uniti dall'idealismo (su cui avevano
comunque idee diverse), contrastarono assieme il positivismo e le degenerazioni
dell'università italiana. Insieme fondano “La Critica” al rinnovamento della cultura italiana.
L'attualismo ha configurazione sistematica. Divenne membro del Consiglio
superiore della pubblica istruzione. All'inizio della prima guerra mondiale,
tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a favore della guerra come
conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la passione politica che gli
stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella del
filosofo che parla “ex cathedra”, ma quella
dell'"intellettuale" militante, che si rivela al pubblico. Partecipa
attivamente al dibattito politico e culturale. E tra i firmatari del manifesto
del “Gruppo Nazionale Liberale”, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di
ex combattenti forma l' “Alleanza” per le elezioni politiche, il cui programma
politico prevede la rivendicazione di uno stato forte, anche se provvisto di
larghe autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi
burocratica, il protezionismo, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi
«inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e
tanto meno interpretare i sentimenti più schietti e nobili». Fonda il “Giornale
critico della filosofia italiana”. Diviene
consigliere comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene
nominato anche assessore supplente alla X Ripartizione, A. B.A ., ovvero alle “Antichità”
e alle “Belle Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia
dei Lincei. G. non mostra particolare interesse nel confronto del
fascismo. Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere
in Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si
riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e
come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del
Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato
forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato
in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per
l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene
nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma Gentile,
fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge
Casati di più di sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al
Partito Nazionale con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale.
Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato
a presiedere la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello
Statuto Albertino (poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento
giuridico dello stato). Resta fascista e pubblica il “Manifesto degli
intellettuali” in cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione
degli italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo
manifesto sancisce l'allontanamento di Gentile da Croce, che gli risponde con
un tipico “contro-manifesto”. Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per
le numerose cariche, esercita un forte influsso sulla cultura italiana,
specialmente nel settore filosofico. È imembro dell'Istituto Treccani. A
Gentile si devono in gran parte il livello culturale e l'ampiezza della visione
dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti a collaborare alla nuova impresa
3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché nell'opera si deve coinvolgere
tutta la cultura italiana, compresi molti studiosi notoriamente anti-fascisti,
che ebbero spesso da tale lavoro il loro unico sostentamento. Riesce in tal
modo a mantenere una sostanziale autonomia, nella redazione dell'Enciclopedia
Italiana, dalle interferenze del regime. È coinvolto nell'istituzione del
Giuramento di fedeltà al regime che causerà l'allontanamento di alcuni
dall'Università. Inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fonda il Centro
nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus Galilaeana a Pisa. Non
mancano comunque i dissensi col regime. In particolare, la sua filosofia subisce
un duro colpo alla firma dei Patti Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato.
Sebbene riconosca il cattolicesimo come una forma della spiritualità, ritiene
di non poter accettare uno stato NON laico. Questo evento segna una svolta nel suo
impegno politico militante, è inoltre contrario all'insegnamento del cattolicesimo
nel ginnasio e nel liceo. Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le sue opere a
causa del loro riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del cattolicesimo come
una mera "forma dello spirito” -- totalmente inferiore alla filosofia: ‘theologia
ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi sono anche alcune velate
critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri, Gioberti e Manzoni.” Degna
di nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo
dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia, impegnandosi anche presso
Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de' Fiori e opera dello scultore
anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa, come richiesto da alcuni
cattolici. Comincia una lunga polemica contro Vecchi, che Gentile accusa
di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e
negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e
popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe.” “La Roma
antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice
intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo
alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli e
di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo
schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato
laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ -- Nel Discorso
del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi
e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica
dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei
suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I
vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è
compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che
intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo
governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi
collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile
ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune
questioni rimaste in sospeso con il governo precedente. Severi rispose a
G. lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i
contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si
fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la
proposta. G. replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. G. respinse in
un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo un incontro
con MUSSOLINI sul lago di Garda si convinse ad aderire alla Repubblica Sociale
Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di
riformare L’Accademia dei Lincei che e assorbita dall'Accademia. Venne qui
tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi politici per cui
desideravo restare in disparte. Ma egli mi assicura che io potevo benissimo
restare in disparate. Ma dovevo fare una visita al mio amico che desidera vedermi
ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona. Negare
questa visita non e possibile. Feci comodamente il viaggio con Fortunato. Ebbi un
colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo. Dissi tutto il mio
pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico
aspetto. Credo di aver fatto molto bene all’Italia. Non mi chiese nulla, non mi
fece offerta. Il colloquio fu a quattr'occhi. La nomina fu poi combinata col
ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale. Non accettarla
sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita. Sostenne
la chiamata all’armi e la coscrizione militare nell'esercito della RSI,
auspicando il ri-pristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta
di Mussolini. Intanto il figlio, Federico G., capitano d'artiglieria del
Regio Esercito, e internato dai tedeschi in un campo di prigionia a Leopoli in
condizioni particolarmente severe. F. G. e l'unico ufficiale italiano del campo
a non ricevere la posta di ritorno. F. G. aveva aderito alla RSI, ma non aveva
accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare
in Italia da civile. G. elogia pubblicamente al condottiero della grande
Germania, e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse. Pochi giorni
dopo, Federico G., venne trasferito in un campo meno duro. Infine, gli e
permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa
della RSI, riceve diverse missive contenenti
minacce di morte. In una in particolare era riportato. Tu sei responsabile
dell'assassinio dei cinque. L'accusa e riferita alla fucilazione di cinque renitenti
alla leva rastrellati dai militi della R. S. I. -- fucilazione orchestrata da Carità,
che detesta G., ricambiato. Ha infatti minacciato di denunciare le eccessive
violenze del suo reparto allo stesso MUSSOLINI. G. non e assolutamente
collegato con tale evento. Il governo repubblicano gli offre quindi una scorta
armata che però G. declina. Non sono così importante, ma poi se hanno delle
accuse da muovermi sono sempre disponibile. Considerato in ambito resistenziale
come il filosofo del regime, apologo della repressione e di un regime ostaggio
di un esercito occupante, è ucciso sulla soglia di Villa di Montalto al
Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista. Il commando si apposta circa
nei pressi della villa. Appena giunse in auto, il gappista Fanciullacci si
avvicina, tenendo sotto braccio un saggio di filosofia – “Apperance and
Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi così credere un
filosofo. Abbassa il vetro per prestare ascolto. E subito raggiunto dai colpi
della rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta, l'autista si diresse
all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo moribondo. G., colpito
direttamente al cuore e in pieno petto, in breve spira. E un episodio che divide
lo stesso fronte di resistenza e che è al centro di polemiche non sopite,
venendo infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola
esclusione del Partito Comunista, che ri-vendica l'esecuzione. E sepolto nella
basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo
l'attentato, le autorità della R. S. I., dopo aver sospettato all'inizio lo stesso
Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su
Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti
morali. Grazie al diretto intervento della famiglia, gl’arrestati sono rimessi
in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi
gentiliani. La filosofia di G. e da lui denominata “attualismo” o idealismo
attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè
l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo
quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il
filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non
c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un
pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità
di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme
al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e
l’antitesi dell’oggetto.Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il soggetto,
pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi”
–Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista
(naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e
materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una.Qui è evidente
l'influsso dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e
anche dell’ “immanentismo” (contro il transcendentalismo) più che
dell'hegelismo.Di Hegel, a differenza di Croce, che era fautore di uno
storicismo assoluto (o idealismo storicista), per cui tutta la realtà è “storia”
e non “atto” in senso aristotelico (energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What
is actual”), non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto
idealistico relativo alla auto-coscienza.La auto-coscienza è considerata il fondamento
del reale. Anche vi è un errore in Hegel nella formulazione della “dialettica”.
Ma questo non consiste unicamente, come afferma Croce. Croce infatti sostiene che
"tutto è Spirito". La critica di Croce non è sufficiente.Gentile
sostiene che Hegel confunde la dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha
individuato correttamente) con la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia
forti residui della dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e
delle scienze. Gentile inoltre non accetta la “dialettica dei distinti” (A
distinto da B) che Croce, in base al adagio che "non ogni negazione è
opposizione") introduce posto accanto alla “dialettica degli opposti"
(A opposto B). Infatti G. ritiene la
‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica
propria.Questa invece si esplica in un “atto” in cui utilizza la dialettica (A
opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa dialettica si esplica quindi nel
rapporto dell’impiegare e l’impiegato.Recuperando La Dottrina della scienza di
Fichte, Gentile afferma che lo spirito (anima, forma) è fondante in quanto
unità di autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il principio e la forma della
realtà diveniente, non esistente (Gott im Werden – dall’divenire all’essere). La
dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la soggettività (il soggeto)
rappresentata dall'espressione --
intention-based semantics -- (tesi) e l'oggettività (oggeto) – cf.
inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism scientism. (antitesi), cui fa
da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto puro si fonda sull'opposizione
della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato” – cfr.
implicans – implicatum. impiegatore – impiegante – impiegato --. La prima è una
dialettica materiale– implicans/impiegante --, la seconda una logica formale –
l’impiegato --.Gentile dedica la sua attenzione al tema della soggettività
dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato l'espressione è il
prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione, dall'altro l’espressione
è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non analitico – or divisso -- che
coglie tutti i momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni
caratteri del questo che Grice chiama il discorso razionale o la conversazione
come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo la filosofia di
Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà esiste solo
nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un idealismo
soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo), sebbene Gentile
tende a respingere tale definizione, non essendo quell'atto preceduto né dal “soggetto”
né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente con l'Idea stessa, e a
differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un
"cattivo infinito" è in realtà immanente (non trascendente) all'esperienza,
proprio perché l’atto puro e creatore d una esperienza (datum). Gentile e un
ideologo del regime.La filosofia politica di Gentile è fortemente attivista e attualista (cioè
trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente inter-soggetivo dello
scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero» (lo pratico e lo
speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una ‘dottrina’
condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in Gentile troviamo il
primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso tempo, un
recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa come
Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione
meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per
Gentile, ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua
dottrina è di tipo «spiritualistico». La dottrina non è la sola qualificazione
politica che dà dello speculative.Gentile infatti e un ‘liberale’ -- nonostante
sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del
regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un
stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo
o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso
nel suo processo storico. Un individuo e ‘libero’ se esplica la sua moralità nella
forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia
italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo
all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico
-- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo
kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra
storica, la quale governa l'Unità d'Italia.Impone un governo autoritario (concezione
ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare
l'individualità dei singoli, quella che Gentile definisce come la spinta alla
disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto,
per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come
"stato educatore". Se Gentile voglia uno stato totalitario vero e
proprio è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del
regime, Gentile fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che
accoglie tutto in sé.Con il regime si può avere vero "liberalismo" in
quanto riporta al valore primigenio del Risorgimento. Gentile dimostra un forte
approccio storicistico, secondo il quale il regime trade la sua legittimazione
dalla storia, sarebbe appunto una vera fase storica, non una mera mistica o
dottrina o ideologia. Il Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un
"atto di fede".Il campione di suddetto atto di fede e Mazzini:
anti-illuminista e romantico, anti-francese, spiritualista e nemico dei
principi materialistici. Lo stato giolittiano rappresenta invece un tradimento
dei valori risorgimentali.Per rompere questo “status quo” degenerativo del
processo italiano e necessario una rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma
anche statale, perché va a colmare una lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste
molto sulla novità di questa rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione,
ha una consapevolezza mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò
dipinto come un vero eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella
di creare l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a
grandi imprese. Questo nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti
tentò di imprimere a una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica,
mediocre e furbastra. In quanto ideologo, Gentile sostiene che la dottrina
revoluzionaria si deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso
l'istituzione del Gran Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire
dall'italianità (e non il contrario). Il fine è che nella società italiana non
vi siano più contra-dizioni, nessuna differenza tra cultura italiana e cultura
della dottrina. Bisogna arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in
ambito lavorativo. Attraverso
l'istituzione della cooperative e la corporazione,
la quale deve sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la
collaborazione o cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di
Mazzini, oltre che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme
realizzazioni saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia,
progettate nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i
problemi economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza
provocare fratture all'interno della società, ed evitando una lotta di classe
(classe bassa, casse media, classe alta) grazie alla “terza via” della
dottrina. Gentile sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea
una riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur riconoscendosi
nella R. S. I., invita pubblicamente il “popolo sano” ad ascoltare “la voce
della Patria”, esortandolo alla pacificazione e ad evitare una “lotta
fratricida", di cui comunque non vedrà la fine. Il gentilismo fu una
delle cinque correnti culturali del regime, assieme alla sinistra "rivoluzionario"
di Malaparte, Maccari, Bottai, e Marinetti; la dottrina clericale; la mistica
di Giani, Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo pagano di Evola. Per
l'idealista Gentile, a differenza di Croce, che ritene il Marxismo solo
"passione politica", causata da uno sdegno morale a causa delle
ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia derivata da
Hegel. Gentile afferma infatti che la concezione materialistica della storia è
costruita da Marx sostituendo la Materia -- la struttura economica -- allo
Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà, che comprende la
materia (all'interno della Filosofia della natura), come momento del suo
sviluppo.Secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con l'assoluto, si
finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il fatto
economico) la funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa dialetticamente
ed è determinato a priori rendendo così determinato a priori l'empirico: la
struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia marxiana sia
pertanto una errata filosofia della storia hegeliana "rovesciata",
però la filosofia di Marx possiede ugualmente un pregio: è una "filosofia
della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che Gentile cura, il
"Moro" infatti critica il materialismo volgare.Questo concepisce
metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come mero ricettore
dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo Gentile, Marx, attribuisce alla “prassi”,
considerata come attività sensibile umana, la funzione di far derivare a torto
il pensiero medesimo.I filosofo di Treviri infatti considera il pensiero una
forma derivata dell'attività sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Gentile
sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto del pensiero,come
atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a crearlo.Gentile
riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la
filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico della prima,
negandone i nessi con la psicologia e con l'etica. L'educazione deve essere
intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che realizza così
la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si possono
fissare le fasi o prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o tutore, il
quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo
compito sulla scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica
sarebbe come cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è
alla base dell'educazione. Al maestro o tutore è richiesta una vasta cultura e
null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa
che si forma continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e
ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee) deve risolversi in
unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune partecipazione alla vita
dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore (tutore) verso
l'educando (tutee – Gentile qui usa una forma romana, ‘educando’ – cfr.
‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale. «Il
maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello
spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il
tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro,
proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero
ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica),
facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati.Questi concetti ispirano
la riforma scolastica attuata da Gentile in veste di ministro della Pubblica
istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi desideri.
Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma scolastica
sono in particolare la concezione della scuola come membro fondamentale dello stato
(viene infatti istituito un esame di stato che sancisce la fine di ogni ciclo
scolastico, anche se gli studi sono effettuati in un istituto privato) e il
predominio delle discipline del gruppo umanistico-filologico.Gentile fu
ministro della pubblica istruzione e mise in atto la sua riforma scolastica, e
definita da Mussolini "la più riformante delle riforme", in
sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era fortemente meritocratica e
censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione
della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di
tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai migliori e rigidamente suddivisa a
livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’
per il popolo. I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli,
o comunque a quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse
di studio perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire
gli studi (cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica
e messa in secondo piano, poiché e una materia priva di valore universale, che ha la sua importanza
solo a livello ‘professionale’.Difatti Giovanni Gentile, a differenza di Croce
che sosteneva l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla
scienza, pur criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le
materie letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al
dialogo, con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di
Enrico Fermi nel gruppo dei "ragazzi di via Panisperna", che divenne
anche amico del figlio Giovanni Gentile jr., coetaneo del Majorana) e cercò di
instaurare un confronto costruttivo con il scientism.L'”obbligo” scolastico fu
innalzato a 14 anni e fu istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni.
L'allievo che termina la scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra
il ginnasio/liceo classico e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo
il ginnasio-liceo permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita
di Bologna.In questo modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi
– l’elite, la classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo
fu rimosso completamente). Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce.Anche
Gentile nel complesso mostrò posizioni poco ricettive verso il femminismo
("il femminismo è morto" dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i
licei dovessero formare i "futuri capi" guerrieri.Nel triennio
dell'istruzione classica viene poi introdotta, in sostituzione, la filosofia,
adatta alla elite o classe dominanti e alla futura classe dirigente, ma non al
popolo minuto. Gentile è un filosofo della secolarizzazione e della risoluzione
della trascendenza in prassi in ciò accomunato a Marx -, determinante
addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa che ne fece Gramsci.
Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche Gentile
«format la cultura filosofica italiana.”. Di tutt'altro avviso Sasso, secondo
il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi politica
di Gentile, la cui «passionale» adesione alla dottrina «fu filosofica, forse, a
parole ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere studiato, sostiene
Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa «e la dottrina non
c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia di Gentile e la «fascistizzazione
dell'attualismo» e pertanto una «deformazione dell'idealismo”. Al di là della
sua appartenenza politica, si attribuisce comunque a Gentile un notevole spessore
filosofico. Gentile fu fascista e pagò con la vita la sua fedeltà alla dottrina.
Ma fu anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino
Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi sull'opera di Gentile e create
l' “Istituto di studi gentiliani” e la "Fondazione Giovanni Gentile"
a Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche dal Severino, che ravvisandovi
una condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la
considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. Gentile e
certamente un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo
europeo.Gli venne dedicato un francobollo delle Poste italiane, unico tra le
personalità di primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte
della Repubblica Italiana. L'assassinio di Gentile fu una carognata
ingiusta e vigliacca. Gentile non era fascista. Che gli antifascisti furono dei
acasotto perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero il
coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano minato.Cavaliere
di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e
Lazzaronastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del
gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce
insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italianastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone
dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere di II classe dell'Ordine
dell'Aquila Tedesca (Germania nazista)nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere
di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania). “L'atto del pensare
come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana” (Firenze, Sansoni); La
filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze,
Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema di logica come teoria
del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli scritti durante la guerra)
Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di
religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Frammenti di
storia della filosofia”; “La filosofia dell'arte”; “Introduzione alla
filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo V. Cicero e con
introduzione di E. Severino, Bompiani, Milano
Di carattere storiografico Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini
detto il Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”;
“Telesio; “Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in
Italia”; “Il tramonto della cultura siciliana; Giordano Bruno e il pensiero del
Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Gino
Capponi e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti
del Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; Bertrando Spaventa; Manzoni e
Leopardi; Economia ed etica; Giovanni Gentile un filosofo scomodo; L'insegnamento
della filosofia nei licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza
filosofica” “I problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico
del dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola
laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto
degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia
religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella
Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in
l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si
trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale
fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato
etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo;
si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato
L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni
de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e
polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; Giovanni
Gentile Scritti per il Corriere. Note Vi
è chi attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe
posto l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico
letteraria (L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono
questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero
numerosi enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere
della Sera. 10 giugno.). Cit. di Geno
Pampaloni tratta da Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Marcello
Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit. in Eugenio Di Rienzo, Storia
d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le
Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile.
Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, "Nuova Storia
contemporanea", Dello stesso autore,cfr. "Giovanni Gentile. Al di là
di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del
ministro", Chieti, Solfanelli,,Scheda senatore GENTILE Giovanni
Paolo Simoncelli41. Amedeo Benedetti, "L'Enciclopedia Italiana
Treccani e la sua biblioteca", Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui Ripubblicato nel 1991 come Giordano Bruno e
il pensiero del Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S.
saggi cult. cont. Giordano Bruno. LE
VICENDE DELLA STATUA «De Vecchi, Cesare
Maria», Treccani Paolo Simoncelli207.
La scelta di campo, Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le
bufale, l'Opinione, 30 marzo Paolo
Mieli, Gentile criticò in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo
vano Paolo Simoncelli43. Paolo Simoncelli40. Paolo Simoncelli34. Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo; "Giovanni Gentile" di Gabriele Turi; Giovanni Gentile in
“Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia”Treccani Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo23. Francesco Perfetti,
Assassinio di un filosofo24. Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo, Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile,
Palermo, Sellerio, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo26. Vettori, Giovanni G., Editrice Italiana,
Roma, Simonetta Fiori, dirigere la casa editrice Sansoni esecondo la
testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano prigioniero in Germania,
in La Repubblica, Antonio Carioti, Quando Gentile s'inchinò a Hitler per
salvare il figlio, in Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese la
grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", "Historia",
Raffaello Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo
Mondadori Editore, Milano56: "Gentile, sdegnato, ha minacciato di
denunciarlo a Mussolini" Elio Chianesi,
La Benvenuti non volle mai raccontare i precisi particolari, dal suo punto di
vista: «Questa è una cosa che non dirò mai. Perché potrei fare rovesciare tutte
le cose. Perché non è come è stato detto. Come è andata l’azione dei Gap io non
lo voglio dire. Me l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho rivelato mai a nessuno».
Vedi un intervento della Benvenuti anche in M. C. Carratù (). Paolo Paoletti, "Il Delitto
Gentile" esecutori e mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da
Giuseppe Martini "Paolo" uno dei due esecutori
materiali"...Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiese se
era il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa parte, non
attraverso i due finestrini posteriori..."
Resistenza: "Angela", la ragazza col fiore rosso Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi
che Gentile doveva morire, in Corriere della Sera, «Per fare in modo che i gappisti incaricati
dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso
l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai
partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile
imbarazzo.» (Teresa Mattei)
Luciano Canfora, "Giovanni Gentile nella RSI" in La Repubblica
Sociale Italiana Poggio, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, Antonio
Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. doveva morire, sul Corriere della
Sera,: "L'omicidio di Gentile, anziano e inerme, suscitò una forte
impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con l'astensione dei comunisti.
Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione, scrisse un articolo per
dissociarsi." Maria Cristina
Carratù, E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile,
La Repubblica, 24 aprile Renzo
Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a
salvarsi", articolo su "Historia", Ecco le carte che assolvono
l'archeologo Romano302. Gabriele Turi, "Giovanni Gentile" Così
Gaetano Gentile ricordò il suo intervento presso la prefettura: «Quella sera
stessa, per desiderio di mia Madre, io mi recai dal capo della Provincia e gli
parlai della voce [di rappresaglie] diffusasi in città, esprimendogli la ferma
e calda preghiera di mia Madre che quel proposito, se effettivamente esisteva,
venisse abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati. Dissi anche, naturalmente,
come a me sembrasse in fondo superfluo dover esprimere tale preghiera proprio
in quella stanza in cui ancora quella mattina la voce di mio Padre si era
levata a deplorare la tragica inutilità di un metodo, dal quale non poteva
seguire che il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e
rappresaglie. Era ovvio poi che, indipendentemente dalla eventuale
giustificazione politica o militare di atti simili, nulla del genere poteva
aver luogo in occasione della morte di mio Padre, alla quale si doveva da parte
del Governo e delle autorità fiorentine questo gesto di rispetto delle sue
convinzioni e del suo costante atteggiamento».
Firenze: due consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su
liberoquotidiano. 15 novembre 16
novembre ). «Attualismo», Enciclopedia
Treccani Diego Fusaro, Giovanni Gentile
Sull'importanza della riforma della dialettica idealista di matrice
hegeliana in Gentile, si veda quest'intervista a Gennaro Sasso. L'intervista è
compresa nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche. Bruno Minozzi, Saggio di una teoria
dell'essere come presenza pura, Il Mulino, Gentile quindi contestava a Fichte
la trascendenza dell'Io assoluto rispetto al non-io, e di restare così in un
dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo da un
agire pratico dilatato all'infinito ("cattivo infinito"), fermo alla
contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un idealismo
soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di religione,
Firenze, Sansoni). Giovanni Gentile, Benito Mussolini, La dottrina del
fascismo. Nicola Abbagnano, Ricordi di
un filosofo, Marcello Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, Vito
de Luca, Giovanni Gentile e il liberalismo, Mussolini, Gioacchino Volpe,
Giovanni Gentile, Fascismo, Enciclopedia Italiana. Augusto Del Noce,
L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in
"Giornale Critico della Filosofia Italiana", G. Belardelli, Il
fascismo e Giuseppe Mazzini Giovanni Gentile, Manifesto degli
intellettuali fascisti Giovanni Gentile,
"Ricostruire" in Corriere della Sera, Cfr. Libertà e liberalismo
("Conferenza tenuta all'Università di
Bologna"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A.
Cavallera, Firenze, Le Lettere, Il pensiero pedagogico di Giovanni
Gentile La riforma Gentile, su pbmstoria. Si veda anche ne Il fascismo al
governo della scuola, in Annali, Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli, «[Boffi:] Qual è il criterio su cui si è
fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle iscrizioni? — Gentile: Questa
limitazione non c'è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola
d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e
risponde alla necessità di mantenere alto il livello di dette scuole
chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero
degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti ragioni didattiche,
quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma
soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un diverso indirizzo
nella loro attività. Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son
valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di
commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino nella
esplicazione delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine della
Nazione che finora li ha spinti a disertare le scuole industriali, commerciali
e professionali per seguire la scuola umanistica.» (R.Sandron, Il
fascismo al governo della scuola, iscorsi e interviste, Ferruccio E. Boffi, Giuseppe
Spadafora, Giovanni Gentile: la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di
pedagogia e altri studi, Armando Editore, 1997261. Enrico Galavotti, La filosofia italiana e il
neoidealismo di Croce e Gentile, Homolaicus.
Il mistero di Ettore Majorana Eleonora Guglielman, Dalla scuola
per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo femminile della riforma
Gentile e i suoi precedenti storici, in Da un secolo all'altro. Contributi per
una "storia dell'insegnamento della storia" (M. Guspini), Roma,
Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata, con alcune
varianti, sulla rivista "Scuola e Città" con il titolo Il liceo
femminile Manacorda D'Amico, Katia Romagnoli, Donne, la Resistenza
"taciuta". L'esclusione delle donne nella società fascista G. Gentile, La donna nella coscienza moderna,
in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le
donne nel regime fascista, G.
Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio Provinciale
Pubblica Lettura, De Grazia, Le donne nel regime Giovanni Gentile, La riforma
della scuola in Italia, Milano citata in: Manacorda Le omissioni, qui tra
parentesi tonde, sono nel testo di Manacorda. Noce, Gentile. Per una
interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino, Giovanni Bedeschi, Il ritorno del maestro, sta
in Il Sole 24 ore Domenica, 1Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile,
Bologna, il Mulino, Martin Beckstein,
Giovanni Gentile und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation
einer idealistischen Philosophie, in «Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica
I» Filosofia: A Firenze Convegno Studi Gentiliani Fondazione Gentile | Dipartimento di
Filosofia | SapienzaRoma Liberiamo la filosofia di Giovanni Gentile dalla
faziosità del '900 Emanuele Severino:
Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto
Quotidiano È Gentile il profeta del la
civiltà tecnica. «I nemici di Giovanni
Gentile», puntata de Il tempo e la storia, documentario Rai Emanuele Severino, dalla quarta di copertina
de L'attualismo, Milano, Giunti, Nicola
Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli,
"La partigiana Fallaci fa a pezzi l'antifascismo", pubblicato da Il
Giornale. Monografie principali Armando Carlini, Studi gentiliani, VIII di Giovanni Gentile, la vita e il
pensiero a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici,
Firenze, Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio
Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, Luciano
Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio,Augusto
del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione transpolitica della storia
contemporanea, Bologna, Il Mulino, Hervé A. Cavallera, Immagine e costruzione
del reale nel pensiero di Giovanni Gentile, Roma, Fondazione Ugo Spirito, Gennaro
Sasso, Filosofia e idealismo. IIGiovanni Gentile, Napoli, Bibliopolis, Hervé A.
Cavallera, Riflessione e azione formativa: l'attualismo di Giovanni Gentile,
Roma, Fondazione Ugo Spirito, Giorgio Brianese, Invito al pensiero di Gentile,
Milano, Mursia, Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, il
Mulino, 1998 Gennaro Sasso, La potenza e l'atto. Due saggi su Giovanni Gentile,
Firenze, La Nuova Italia, 1998 Hervé a. Cavallera, Giovanni Gentile. L’essere e
il divenire, SEAM, Roma, Paolo Mieli, Una rilettura liberale di Giovanni
Gentile, da "Le storie, la storia", Milano, Rizzoli, Daniela Coli, Giovanni Gentile, il Mulino, Sergio
Romano, Giovanni Gentile, un filosofo al potere negli anni del regime, Milano,
Rizzoli, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio
politico, Firenze, Le Lettere, Gabriele Turi, Giovanni Gentile. Una biografia,
Torino, POMBA, Hervé A. Cavallera, Ethos, Eros e Tanathos in Giovanni Gentile,
Pensa Multimedia, Lecce, Hervé A. Cavallera, L’immagine del fascismo in
Giovanni Gentile, Pensa MultiMedia, Lecce, Marcello Mustè, La filosofia
dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Alessandra Tarquini, Il Gentile dei
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prassi assoluta. Analisi dell'idealismo gentiliano, Napoli, Orthotes,. Paolo
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Gentile, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
Giovanni Gentile, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. Giovanni Gentile, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giovanni Gentile, su
accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. H Questa soluzione
della trascendenza è cara, s'intende, ai :filosofi che per la loro indole amano
starsene alla fine stra a godere dello spettacolo che essi contemplano, ma di
cui non hanno la responsabilità (né merito, né demerito). Nella strada la gente
ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra il filosofo (che come tale deve
essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si rende conto e si frega le mani.
Il vecchio ideale di Lucrezio, che è alla base della eterna leggenda del
filosofo che si libera delle passioni e rinunzia all'azione per chiudersi nel
pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius
spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st iucunda voluptas sed quibus ipse
malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam belli certamiua magna tueri per
campos instrncta tua sine parte perieli: sed nil dulcius est, bene quam munita
tenere edita doctrina sapienlum tempia serena, despicere unde queas alios
passimque videre errare atque viam palantis quaerere vita.e, certarc ingenio,
contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas
emergere opes rerumqne potiri. O miseras hominum mentes, o pectora caeca. L'etica
come legge. Disciplina. Positivismo ed empirismo. Legge. Prammatismo. Prassi e
teoria. -Oggetto del volere. Volontà- autoctisi. Praticità del conoscere. Unità
cli teorico e pratico. L·atto. L'individuo. Senso realistico e senso
idealistico della individualità. Individuo e società. Comunità immanente ali'
individuo come sua legge. La comunità ideale e la gloria. Vox populi. La concretezza dell'individuo. La
conquista dei valori. li processo d<>IJa individualità. La particolarità
dell'individuo nello spazio e nel tempo. Il carattere.Velleità, volere,
carattere. Il carattere attraverso la condotta empirica. Critica del concetto
della molteplicità degli atti o l'unità del volere. Presente ed estemporaneo
nel carattere. Trascendentalità del carattere.Il coraggio civile. - i> La
socialità origmaria.Società trascendentale o società in interiore homine. Alte"
e socius. Dalla cosa al socio. Il dialogo intemo, o trascendentale. Il momento
dell'alterità. La dialettica pratica. La crisi dell'Universo. sare più al
clovere che ai doveri - 0. Il bene e il male. La categoria etica e
l'esperienza. Dialettica dell'Io. - 3. li nulla. -Unicità della categoria
logica. La legge dell'uomo: Pett.sa/ Intendere e amare. Intendere pratico. La
categoria etica. Il senso morale e la sua inattualità. Dovere e doveri. - 8.
Errore di metodo nell'etica. Necessità cli pen --Lo Stato. Concetto dello
Stato. Nazione e Stato. Diritto. Governo e governati. Autorità e libertà. Il
liberalismo. Etica e politica. Stato etico. Moralismo, Stato ed econoraia .
Economicità dell'uomo e quincù dello Stato. - 2. Umanità dell'operare
economico. - 3. Operare utilitario o utile? Umano e subumano. Il corpo e
l'anima. Naturalità dell'utile. Le scienze della logica dell'astratto. Lo
schema del naturalismo nella logica dell'astratto. La forma mate matica
dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. -L'edonismo. - 12. Moralità ed
eudemonia.Natura e Spirito. Economia e politica. Stato e religione. Rapporto
essenziale tra i due termiai. Laicità. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. - 4.
Immanenza della religione nello Stato. Stato e scienza. Scienza e filosofia; e
rapporto di questa con lo Stato. - 2. Necessità cli questo rapporlo. Cultura.
Scienze naturali. L'obbligo di critica della filosofia. Immanenza della filosofia
nella politica dello Stato. Lo Stato e gli Stati. Libertà e infinità dello
Stato. - 2. P!ui:alità degli Stati, unità dello Stato. - 3. Critica del punto
di vista intellettualistico. Concreto punto di vista pratico. Il riconoscimento degli altri Stati e il
Diritto internazionale, - 6,_ )La guerra. -7.) La pace e la collaborazione
umana. -fil Impero e ordine nuovo. Xl.-LaStoria. La Storia come storia dello
Stato. Storia dell'uomo. Statolatria. Autocritica dello Stato. Rivoluzione.
L'Unico. Umansimo del lavoro. Famiglia. Categorie
di lavoratori e rappresentanza politica.-LaPolitica. Definizione della
politica. Etica e politica. Im possioilità cli un'etica apolitica. Il privato
e il pubblico. La teoria dei limiti dello stato. Stato autoritario e democrazia.
L'anarchismo e il Jiberalis1:no. Bellum omnium contra omnes. Guerra e
pace.Ordine. Senti mento politico. Genio politico. La politica del fanciullo.
La politica in ogni forma di attività umana. Politica dell'arte. Politica della
scienza. Politica della lede. - 18. Chiesa e proselitismo. La dottrina della
tolleranza. -La politica diritto e dovere. p. 93 l:).'DICE 19r
XIII. - La Società trascendentale, la morte e l' im mortalità. 11 motivo della
fede nell’immortalità. Immortalità e religione. L'equivoco. Illusioni. - 5.
Fuga tn01-t1s. - 6. La difficoltà del problema e la soluzione. La morte.
L'immanenza dell'azione.NUOVI INDIZI DI HEGELLOSIGKEIT ITALIANA Bollami
dell' Università di Leida in un suo interessante opuscolo, qualche anno fa
mettev a in, mostra una lunga fdza di evidenti spropositi commessi da
filosofi con¬ temporanei di ogni risma nel parlare di Hegel. E dopo
avere rilevato con 1 ’ Herbart, con l’Alexander, col Barth. col Taggart,
che Hegel non concepì mai la follìa 4 Lde- durre dal pensiero auro ciò
che non è puro pensier o (realtà naturale e realtà storica), ma volle
solo sistemare logicamente, — comunque poi si giudichi questa sistemazion e
e la sua possibilità. — la cognizione necessariamente empirica della
natura e della storia, soggiungeva: «Intanto anche F. Paulsen in vólliger
Hcgellosigkeit afferma (nel suo Kant, p. 177) che Hegel deduce a priori
la stessa natura ».Di questa Hegellosigkeit, che non saprei davvero
come tradurre in italiano, di questo stato d' hegeliana innocenza,
cosi caro tuttavia agli studiosi di filosofia italiani, fu dato
recentemente dal Croce 2 qualche cenno' significativo dove si mostrò con
quanta competenza sia stato spesso giudi¬ cato in Italia 1 Hegel da
quelli che volevano passare per 1 Alte I ernunft unii netto
I’erstami, Leiden. Critica. Saggi critici. suoi avversari. Una prova
recentissima ne ha avuta però lo scrivente per aver curata una nuova
ristampa degli Lh - menti di filosofia 1 di Francesco Fiorentino secondo
la pri¬ mitiva edizione del 1877, dall’autore più tardi
parzialmente rifatta e radicalmente mutata nell’ indirizzo dottrinale.
Al¬ cuni (tra i quali uomini dotti nella storia della filosofia)
han rimproverato il nuovo editore di aver voluto dare un Fiorentino
hegeliano, laddove il Fiorentino dagli studi degli ultimi anni della sua
vita era stato costretto ad ab¬ bandonare le dottrine di Hegel per
accostarsi al neokan¬ tismo. E un insegnante di liceo, a chi proponeva il
libro per testo scolastico, opponeva senz'altro ch’egli non po¬
teva adottare «un libro prettamente hegeliano!)). Molto
probabilmente l’unico fondamento di quest’as¬ serzione, che io denuncio
soltanto per richiamare ancora una volta l’attenzione sulla comune
Hegellosigkeit, è in ciò, che questo libro è stato ristampato per cura
mia, e da me consigliato ai colleghi dei nostri licei. Ma, trala¬
sciando i motivi che mi hanno indotto ad additare il ma¬ nuale del
Fiorentino, nella sua forma originaria, come l ’unico , fra quanti ne
abbiamo in Italia, degna , ancoraci es ser m esso nelle mani dei giov ani
e tolto a base d’un p j nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che credo di
avere sufficientemente accennati nella mia prefazione alla detta
ristampa), qui voglio solo annunziare, col debito permesso dei colleglli
accusatori, che il libro del Fioren¬ tino nella prima edizione non è
punto hegeliano; e che la differenza tra la prima e la seconda edizione
non è divario tra hegelismo e kantismo, ma tra kan¬ tismo ed
empirismo spenceriano. Poiché ne avevo l’occasione, a me parve
opportuno to¬ gliere di mano ai giovani, che cominciano a riflettere
su cose filosofiche, un libro, — raccomandato al nome di Francesco
Fiorentino, per tanti titoli benemerito della cul¬ tura filosofica
italiana, — nel quale s’insegnava a riflet¬ tere su verità di questo
genere : « Kant intende • per a priori soltanto ciò che non‘è derivato
dalla sperienza, ma che invece è condizione indispensabile, perchè la
sperienza 1 Torino, Paravia, 1007: voi I: Psicologia e
Logica sia possibile. Egli non investiga, se questo a priori abbia
potuto originarsi da una associazione di esperienze ante¬ riori
accumulate, trasmessa poi per eredità; nè poteva ai suoi tempi, e prima
del Darwin, porre il problema in questi nuovi termini. L ’q trio ri
kantiano è una funzione dell o spinto , non già un dato : e questo
ritenghiamo anche noi : ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si
possa cercare di spiegare la genesi», un libro, in cui si dichia¬
rava che l’d priori kantiano è una semplice fer¬ mata al concetto dell’
attività preformata a compiere certe funzioni, senza di cui la
sperienza non si farebbe; e che « la filosofia moderna.... domanda: come
si è preformata ? E cerca di trovar la risposta in due fattori:
l’asso¬ ci a z i o n è e la eredità; la prima che accumula, la
seconda che trasmette. Per loro mezzo, l’a priori dell’individuo sarebbe
ciò ch’è poste¬ riori per la specie» (23* ed., pp. 30-31 n.).
E altrove : « Se il fine etico, che è la vita comune, è stato il
risultato di una lunga lotta per l’esistenza, è pur sempre vero che
cotesto primo acquisto viene oggi trasmesso come eredità, che
gl’in¬ dividui trovano, e non debbono più riacquistare » tp. 288
n.). Proposizioni che si equivalgono nei due campi della conoscenza e
della pratica, e di cui lo stesso Fio¬ rentino. ci dice la fonte, dove
avverte (p. 304) che «nella filosofia dello Spencer ogni a priori è
sbandito, e tutto è spiegato con l’adattamento, o con la trasmissione
eredita¬ ria ». E tutta la seconda edizione è ispirata a questo
prin¬ cipio della negazione di ogni assoluto a priori: onde si
costruisce nèi primi capitoli una teoria psicologica della conoscenza che
non occorre qui valutare. Quello che non ha bisogno certamente
d’ulteriore schiarimento, è che tale negazione dell'a priori e tale
confusione del problema psi¬ cologico con lo gnoseologico, non può a niun
patto ac¬ cettarsi come integrazione del kantismo. C’era un
Fiorentino, che pur poteva presentarsi ai gio¬ vani, e che io ho rimesso
in luce; un Fiorentino che non s’era lasciato sfuggire il vero punto di
questa questione fondamentale dell'a priori, che è pòi il problema di
vita o di morte per Io spirito, e quindi della scienza e della
moralità Nella prima edizione lo stesso Fiorentino aveva detto « Vuoisi
avvertire, che l’o priori non si deve inten¬ dere come qualche cosa di
preesistente, di preformato.... ma come una funzione essenziale dello
spirito » (nuova ediz., P 33 )- Aveva discusso, opponendole l’una all
altra, le dot¬ trine di Kant e di Spencer intorno all’apriorità o
aposterio¬ rità della coscienza, e aveva dimostrato che non se ne
può dare nessuna derivazione empirica perchè « la coscienza è un
rapporto tale, di cui nel mondo esterno non si trova il cor¬ rispondente;
ed è un rapporto semplice, che non si può de¬ durre dalla risultante
delle nostre rappresentazioni. L’Io, la coscienza è originaria. 11
fondamento dell'esperienza non può essere attinto mediante l’esperienza »
(57). E questo fondamento è nella coscienza e nelle sue categorie. « Se
tutto derivasse davvero da dati sperimentali, nè l’idea di sostanza, nè
quella di causa, quali noi le concepiamo, sarebbero ammissibili. Questo
mi pare puro e schietto kantismo ; e se. il con¬ cetto d’una possibile
integrazione di Kant per via delle ricerche psicogenetiche è uno
sproposito, che oggi non ha più bisogno d'essere dimostrato tale, mi pare
anche evi-, dente che ricondurre il manuale del Fiorentino a’ suoi
principii fosse dovere imprescindibile d’ ogni nuovo edi¬ tore, hegeliano
o non hegeliano. Perchè, dato e. non con¬ cesso che empiristi si possa
essere per proprio conto, certo per nessuno è più sostenibile una svista
di questo genere per cui, appunto a proposito dell interpretazione
di Kant, una questione gnoseologica si scambia con una questione
psicogenetica. Hegel, dunque, non c’ è entrato proprio per nulla,
be ci fosse stata del Fiorentino un’edizione hegeliana ante¬ riore
alla kantiana, chi sa!, avrei preferito il Fiorentino hegeliano al
kantiano. Ma gabellare per hegeliano quello che ho dovuto e potuto
scegliere, francamente, mi pare indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo,
anche nella prima redazione del suo manuale il Fiorentino rende
omaggio al fantasma della materia opposta all’attività formale
dello spirito; e nell’etica, invece di correggere il timido forma¬
lismo kantiano col formalismo assoluto, crede di compierlo con l’eudemonismo
aristotelico. Non importa: sempre meglio, infinitamente meglio Kant, anche se
non perfezio¬ nato, che Spencer! Si sente, per esser sinceri,
negli Elementi del Fiorentino un’eco lontana dei Principii di filosofia (1867)
dello Spaventa. Ma non più che un'eco, nel paragrafo sull’auto-coscienza.
Ma, se Hegel s'avesse a rannicchiare in quell'autoctisi della coscienza
accordata con tutto il formalismo astratto accettato e difeso dal
Fiorentino, io ritengo che potrebbero andare a braccetto con lui
tutti i kantiani più scrupolosi del mondo.Genovesi comincia a pubblicare
in Napoli i suoi Elemento, metaphysicae. Vico ha due profonde intuizioni
fon¬ damentali: una intorno alla potenza costruttiva dello spirito,
per cui anticipò il principio di soggettivismo kantiano; P altra intorno
al concetto dell’ assoluto come sviluppo nella natura e nel pensiero, per
cui anticipò il principio della nuova metafisica dimostrata dalla
Lo- >jica di Ucgel. Ne’ 6tioi Elementi di metafisica il Geno¬
vesi invece si mostra seguace di un incoerente sincre¬ tismo, in cui la
monadologia leibniziana s’ accoppia con l’empirismo di Locke. Così la
tradizione del grande pensiero di Vico è spenta sul nascere, e finita
con 1’ uomo che nella solitaria meditazione del diritto, anzi di
tutto lo spirito come vive nella storia, aveva attinto una forza
speculativa che lo pose al di sopra e fuori del tempo suo, episodio
solenne nella storia del pen¬ siero italiano. Gl’ interpetri del pensiero
di Vico non furono nè i suoi coetanei, nè i suoi immediati
successori nella filosofia italiana in genere e napoletana in
ispecie. La vera interpetrazione cominciò in Germania col Jacobi, 1
dopo Kant, e fu compiuta in Italia in quel fervore di pensiero nuovo, che
venne suscitato dall’ hegelismo, da Bertrando Spaventa. Tra Vico e
Spaventa — i cui primi scritti cadono attorno al 1850, — per tutto un
secolo, c’ è un’ inter¬ ruzione nello sviluppo dell’ idealismo iniziato
dalle opere di \ ico ; nella quale il pensiero napoletano si appropria
ed elabora per conto suo la moderna filosofia europea. Questo
movimento, che riempie tutto il secolo che va dalla metà del secolo XVIII
alla metà del XIX, può essere designato dai nomi dei due pensatori che
aprono e chiu¬ dono tale periodo, Dal Genovesi al Galluppi. E così
appunto s’intitola la monografia, nella quale ho cercatq d’illustrare
tutti gli studi speculativi più notevoli di cotesto periodo. 3
Può recar meraviglia, che la ricerca sia così limitata dentro i
brevi confini di spazio accennati dai nomi stessi del Genovesi e del Galluppi,
e corrispondenti ai confini del reame di Napoli, ila chi ponga mente alle
condizioni d Italia per tutto il tempo del dominio borbonico, alle
piofonde differenze civili e politiche e letterarie, in una paiola,
storiche, tra la parte meridionale e il resto della penisola, troverà
ovvia e storicamente esatta la linea da me tracciata intorno ai pensatori
che ho studiati e Vedi lo scritto Voti den gòtlUchen Lìingen unii
ihrer Offenbarung (1811), in Werke, Leipzig. Sul kantismo vicinano
cfr. specialmente Tocco, Descartes jugé par Vico in Reme de
métaphy- sigue et de morale del luglio 1896, pp. 568-78, e gli scritti da
me citati nel Discorso premesso agli Scritti filosofici di B. Si’avknta
Na- poli, Vedi tfli Scritti Studi di letteratura , storia , filosofia ,
pubbi. da B. Crock, voi. I (Napoli, Edizione della Critica). considerati
come formanti una speciale serie storica a sé. 3. Pel
carattere generale della loro filosofia questi pensatori costituiscono
una continuata corrente di em¬ pirismo, a cominciare dal Genovesi stesso,
in cui ben presto il principio critico dominante nell’ empirismo
lockiano corrode ogni concetto metafisico, fino ad COLECCHI, filosofo abruzzese
pochissimo noto — benché i suoi scritti consacrati all’ interpretazione
di Kant, quelli specialmente relativi alla filosofia pratica,
possano ancora esser letti con profitto — il quale, pur combattendo la
«filosofia dell’esperienza» del Galluppi dal punto ili vista del
kantismo, insiste tuttavia su talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare
alla Critica Mia ragion pura in un senso decisamente empirico¬
oggettivo. Ma tutti quosti empiristi si potrebbero dividere
in due generazioni: 1 una di ideologi e l’altra di criiicisti; e
tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della filosofia scozzese e di
eclettici. Tra gl’ ideologi scrittori come DELFICO, BORRELLI e BOZZELLI meritano
certamente di esser posti accanto agl’ ideologi contem¬ poranei francesi,
ai Cabanis, ai Destutt de Tracy, coi quali essi formano quasi una sola
famiglia, rispecchian¬ done spesso il pensiero pur senza ripeterlo. Anzi
il Bor- relh e il Bozzelli stanno, 1’ uno per la sua genealogia del
pensiero (com’ ei chiamava la sua filosofia dello spirito) e per la sua
critica di Kant, e 1’ altro pel suo tentativo di morale
intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei francesi; di 8 ‘
ba,la a " a dala di P“*»bUM*lone delle opere di quest!
filosofi e al tempo (leir influenza da essi esercitata; giacché per a
nascita due degli ideologi furono più giovani dei criiicisti.
il cui valore nondimeno fu giustamente rivendicato nella
storia della filosofia dall’ ottima monografia del profes¬ sore F.
Picavet su Les idéologues. Una pari rivendicazione in prò dei confratelli
italiani vuol essere in parte il mio lavoro, mediante una larga
notizia e uno schiarimento delle loro dottrine. Onde ci son rimasti
documenti notevolissimi in libri ed opuscoli estremamente rari, nelle
riviste del tempo e in mano¬ scritti ancora inediti. 4. In mezzo
alle due generazioni alcuni pensatori levano la voce contro le tendenze
materialistiche, palesi o nascoste, proprie del pensiero
speculativo di questi ideologi, traendo autorità e argomenti dalla
filosofia del senso comune del Reid o dall’ eclettico spiritualismo
del Cousin e della sua scuola. Non hanno nessuna origina¬ lità di
dottrine : ma con le loro esposizioni e coi loro commenti di molti libri
francesi, eco, per quanto fioea, di celebri filosofie europee, valgono a
suscitare o pro¬ muovere un moto di studi e di partecipazione al
lavoro filosofico straniero, onde a poco a poco si ringagliardisce
la fibra del pensiero napoletano, e si prepara una scuola di veramente
alto e libero filosofare: da cui uscirà l’e¬ stetica di Francesco De
Sanctis e la metafisica e la storia della filosofia di Bertrando
Spaventa. In questa parte la mia monografia studia scrittori mediocri,
testi¬ moni di cotesta preparazione al risveglio filosofico po¬
steriore. 5. Nella seconda generazione campeggiano due figure
principali: P. Galluppi e 0. Colecchi: due kantiani, di cui si può dire
che la vita speculativa si consumi tutta nella meditazione del
criticismo. Ed entrambi riescono per due vie opposte al medesimo
risultato, che è di accettarlo sostanzialmente e di farne penetrare
profonda¬ mente lo spirito nella filosofia del loro paese. Il
Galluppi À combatte sempre, o quasi sempre, un Kant
immaginario con le armi del Kant reale ; e il Colecchi combatte con
le armi stesse un immaginario Galluppi, o almeno un Galluppi che non è il
vero, poiché non vede di lui che la dichiarata opposizione al kantismo, e
non scorge mai il valore intrinseco delle dottrine da lui professate.
Dalla curiosa situazione di questi due pensatori, che genera altre
false posizioni nella filosofia italiana successiva, nascono, com’è
agevole pensare, due conseguenze: 1° che la scuola dei galluppiani
continuerà a combattere Kant e tutta la filosofia tedesca posteriore,
sempre meglio conosciuta in grazia dell’influsso francese già
accennato; 2° che la scuola del Colecchi e dei tedescheggianti con¬
tinuerà per un pezzo a disconoscere il vero valore del pensiero del
Galluppi e di quella filosofia italiana, che da lui prende le mosse :
ossia della rosminiana e giobertiana. 6. Se da queste ricerche si
sottrae la parte che con¬ cerne il Genovesi e il Galluppi, si può dire
che esse scoprano una regione presso che sconosciuta nel campo
della filosofia moderna. E poiché anche del Genovesi e del Galluppi
questo studio analitico della serie in cui essi rientrano, pono sotto una
luce in parte nuova e in parte più chiara il significato e il valore, può
pure af¬ fermarsi, che l’insieme di queste ricerche colmi una
lacuna nella storia della filosofia italiana, anzi della europea. Vico,
infatti, e l’interpetrazione di Vico, i due termini al cui intervallo
coleste ricerche si riferiscono, non sono due capitoli della storia della
filosofia italiana, ma due capitoli della storia della filosofia europea:
ed è difetto gravissimo quello che può notarsi in proposito in
tutte le recenti storie straniere della filosofia moderna. A. Genovesi,
M. Delfico, P. Borrelli, F. P. Bozzelli, P. Galluppi e 0. Colecchi sono
nomi ai quali, una volta conosciuti gli scritti a cui sono legati, devesi
pur rovare un posto, e non degl’ infimi, nel quadro degli u imi
tentativi dell’empirismo naturalistico e materia¬ listico del secolo
XVIII e delle feconde discussioni suscitate dalle Critiche di Kant in
ogni paese civile. « Il trionfo dell’ Idea » in Italia :
Antonio Tari e Floriano Del Zio Fin dal 29 ottobre 1860 B.
Spaventa era stato nomi¬ nato professore di Filosofìa nell’ Università di
Napoli ; e la sua nomina — scriveva a lui stesso il De Meis, da
Napoli — era stata accolta in questa città « con una commovente
impazienza dai giovani e dal pubblico ». Ma 10 Spaventa chiese ed
ottenne di tornare e restare qualche tempo a Bologna, dove nel maggio era
passato, da Mo¬ dena, a insegnare Storia della filosofìa, per farvi
almeno 11 primo corso semestrale e « non mancare al suo
dovere verso quella Università». A Napoli, dopo una rapida corsa
nel novembre, non andò se non negli ultimi mesi dell’ anno appresso. Era
a Torino dall’aprile, perchè eletto deputato di Atessa (ma la sua
elezione fu annul¬ lata il 25 giugno per eccedenza del numero legale
di deputati professori, * quando gli pervenne la seguente 1
Già pubblicato nella Critica del 1906; ma qui ristampato con molte
aggiunte. * Vedi per questi particolari il mio B. Spaventa, Firenze,
Vai- lecchi, 1925, p. 109. lettera di Floriano Del Zio, che è un
curioso documento delle disposizioni degli animi verso 1’ hegelismo
nella gioventù colta di Napoli, da cui lo Spaventa era atteso :
Napoli, 30 giugno 61. Amico carissimo, Mi prendo
licenza di togliervi con questa mia una piccola parte del tempo che cosi
lodevolmente sacrate alla scienza. E per due ragioni. Per
procurarmi il bene di aver vostre novello, e per dirvi poi alcunché sul
trionfo dell’ Idea, alla qualo abbiamo data la nostra fede.
Sono pervenute qui in Napoli parecchie copie del nuovo libro di
Vera (V Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro scritto con molta
spiritosità, e che non solo porrà a dovere 1’ intelletto superficialissimo
degli ecclettici francesi, ma farà pure il suo buon effetto in mezzo al
dilettantismo filosofico de’ nostri dominatici. Si comincia a sentire
come il Pensiero sia P infinita misura e forza, che, battuto ogni
positivismo storico e morale, eleverà ad armonia vivente Essere e Spirito,
Natura ed Umanità. — Son persuaso p. es. che il signor Pes¬ ame, che
tanto ride dell’ Jissere-per-si — e della Fila ridotta a Pensiero da De
Meis, cesserà di sparlarne così frequeu- temeute, dopo che avrà
contemplato il gaio spettacolo che ha dato di sé Monsieur Jauet.
Come Hegel disse che ai tempi della Rivoluzione francese una nuova
vita, un nuovo sole sorgevano per risplendere in mezzo agli uomini, noi
possiamo dire che oggi il suo proprio principio filosofico, l’Assoluto
Spirito, è la forza che dovrà consapevolmente invadere ogni cosa, e
chiarificare le creature tutte quante di un raggio della idealità
infinita. Affrettatevi, amico, a partecipare alla gran vittoria. Felice
voi, che siete sì bene apparecchiato a questa lotta, che chiude nel
proprio grembo 1’ adempimento della libertà assoluta dell’ Uomo, e
quel regno di giustizia e di amore, a cui tutte cose corrono come al
bacio dell’ Universo, giusta il bel dotto di Schiller: Diesen Kur der
ganzen IVelt ! Il punto però che nel libro del Vera avrei
desiderato più estesamente sviluppato, è quello della pluralità dei
mondi. I,a dottrina di Hegel su questa materia non può essere
difesa che movendo dal principio dell’ Unità della Coscienza di
si dello Spirito, unità che, nel presupposto della pluralità de’
mondi, avrebbe fuori di sè i circoli della vita siderea oltre¬ tellurici
; e cesserebbe d’ essere in conseguenza la pieua ed una Coscienza di sè.
A questa è necessario che tutto 1* essere sia suo sapere. La
dottrina poi dello Spirito assoluto, ne andrebbe, in quel presupposto,
interamente falsata. Noi non conosceremmo pili l’Assoluto, come vuole
Hegel, ma l’Assoluto umano. E, non potendo darsi ripetizioni nello
spirito, si dovrebbero porre, post’ i mondi come innumerabili,
intellezioni intinite, infinita¬ mente diverse, dell’ istesso Assoluto. E
dove sarebbe l’idealità, 1’ unificamento di esse? Se si risponde:
nell’Idea medesima dell’Assoluto — , altri potrebbe osservare che quest’
idea ap¬ punto è quella che deve essere concreta nell’Umanità. L’U¬
nità della Rivelazione universale dello Spirito sarebbe sempre un
postulato. Krause immagina una sintesi superiore do’ pianeti e delle
stelle; ma la comunione dell’Umanità terrestre colla solare è sempre data
da lui come un’ intuizione, come un desiderio! Anche il
signor Tari, riconosce nella sua Lettera la necessità della pluralità de’
mondi. Ma in questa ipotesi vedo sempre che 1’ indeterminato piglia il
Inogo del sistematico, e che il fantastico si sostituisce alla scienza.
Diventa oramai neces¬ sario di approfondire maggiormeute 1’ infinito
matematico nel- 1’ influito filosofico, e sottomettere cosi 1’ astronomia
al con¬ cetto della finalità assoluta, lo Spirito. La
lettera però del Tari appunto perchè, com’ ei dice, tiene il germe
del suo proprio sistema, avrebbe dovuto essere più lunga e scritta più
chiaramente. Vi prego intanto mandarmi una copia della vostra
prolu¬ sione alla storia della filosofia italiana, perché n’ ebbi ili
dono nell’anno scorso una copia dal vostro fratello D. Silvio; ma
quando scesi in Basilicata per 1’ insurrezione, la sperdei a Potenza, e
non ho potuto procurarmene un’ altra. Se poi con questa mia preghiera
dovessi riuscire indiscreto, allora usa¬ temi la cortesia dirmi presso
chi è vendibile a Torino, perchè sarà mia cura farla richiedere da librai
napoletani. Quando portate a stampa il vostro libro su Gioberti f
Esso dovrà levar grido straordinario, secondo che mi accennano i
comuni amici, e per quanto ancor io presagisco dal vostro ingegno. Date
presto ; e nel frattempo compiacetevi di tenermi di tanto in tanto consapevole
de’ vostri stndii, e segnatemi • quelle opere che possono
concorrere all’ aumento vero della scienza. I miei ossequi a
Tari ed all’ egregio De Sanctis. Se posso attestarvi in alcunché la uiia
devozione, comandatemi libe¬ ramente. Vostro amico
Flokiano Dei. Zio. AH’ Egregio Spaventa Deputato al
Parlamento Italiano in Torino. II libro, da cui il Del Zio
prende le mosse, è 1 ’ Hé- gélianisme et la Philosophie (Paris, Detken
1861), che il Vera, allora professore di Storia della filosofia
nell’Ac¬ cademia di Milano, aveva pubblicato poco innanzi per
ribattere le critiche mosse ali* hegelismo da Paul Janet e da altri
scolari del Cousin. — Enrico Pessima, già di¬ scepolo del Galluppi, dal
Galluppi era passato al Gio¬ berti e dal Gioberti al Krause; e mormorava
contro Hegel e gli hegeliani 1 . La lettera di Tari, a cui il
Del Zio accenna, è un articolo, uscito appunto nel fascicolo della
torinese Rivista contemporanea, col titolo: De’ rapporti del
Kantismo collo stato della filosofia in Alemagna, Lettera filosofica. Il
difetto di chiarezza la¬ mentato in questo scritto dal Del Zio, e
divenuto poi sempre maggiore e sempre più caratteristico del- P
ingegno del Tari, — che ingegno ebbe e una certa bizzarra genialità —
aveva fatto dire allo Spaventa, in una lettera a suo fratello Silvio,
dell’8 marzo 1858: «Ho letto molti mesi fa un articolo di
Totonno... Un 1 Vedi il mio B. Spaventa, p. 114; Spaventa, La
fllos. ital. in re¬ lazione con la fllos. europea,' p. 275 e una lettera
dello stesso Pes- sina nella Critica articolo filosofico, come puoi
immaginarti, sopra un punto di estetica. Mi pare che abbia studiato
finora per imparare a non farsi capire. I tedeschi non sono facili
a comprendersi, e la colpa è un po’ anche loro. Ma i più difficili
tedeschi sono facilissimi di fronte a Totonno; il quale mi pare che abbia
preso da costoro più i di¬ fetti che i pregi. Ti dico, in confidenza, che
sono ri¬ masto trasecolato; e che, dopo tanti anni e con tanto
ozio, mi aspettavo qualcosa di meglio da lui »*. « Dopo tanti anni
! » S’erano conosciuti a Cassino, quando Bertrando insegnava a
Montecassino (tra il 1838 e il 1840); e il secondo giorno, seduti
fraternamente sulla sponda d’ un letto, Bertrando apriva così la
conversa¬ zione: «Dunque, che ne pensate delle categorie kan¬
tiane?»-. Da lui lo Spaventa aveva appreso i rudimenti del tedesco ; e,
col suo aiuto, acquistato familiarità con la letteratura filosofica
tedesca. Nella quale il Tari, chiuso dal 1849 al 18G0 nella solitudine di
un villaggio (Terelle, in provincia di Caserta), s’era sprofondato,
accumulando una meravigliosa erudizione. Questa però non valse in verità
a rischiarare il suo pensiero. Il quale dall’assoluto idealismo di Hegel
finì nell’agno¬ sticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui
credette si '_ lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo
e 1’hegelismo; in quanto il divenire della logica pre¬ suppone un
principio, che, essendo fuori del divenire, è fuori della logica; e non
si può chiamare Volontà, nè Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro;
poiché ogni nome importerebbe conoscenza, quindi un movi¬ mento di
pensiero, quindi il divenire. È un’ essenza p 'ri SPAVBNTA ’ Dal
184i al i8G1 < leU < scruti e (toc., ed. Croce,» Cotuono, Le lettere
di A. Tari in diresa dell’ « Innomina¬ bile», Iranl, Vecchi, non
battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. « An- ch’ io, Bpecie di
Lohengrin, difendo il santo Graal. Sapete qual’ è? La dotta ignoranza,
che Hegel chia¬ mava l’ignoranza dotta». Non è questo il
luogo di chiarire questo innominabi- liBmo o limitiamo, — com’ egli anche
lo chiamò, — del Tari *. Giova piuttosto ricordare un aneddoto dello
Spa¬ venta. Il quale, richiesto di consiglio da uno scolaro del
Tari per una dissertazione di laurea circa il diritto di punire, il 29
settembre 1882, gli scriveva : « Ti vo¬ levo suggerire di chiedere
consiglio al nostro caro Tari. Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da
lui il di¬ ritto di punire? Mi ricordo di aver detto a Tari, quando
fu nominato professore ordinario (nel 1873), che la sua nomina era in
contradizione coll’ esistenza dell’Innomi¬ nabile, principio, essenza,
natura, causa di ogni cosa e avvenimento. Figurati il diritto di punire!»
1 . — Il Tari, che di questa lettera doveva aver notizia dallo
scolaro, rispondeva a questo: « Par¬ liamo ora un pò del quesito, con cui
mi tenta 1’ ami¬ cissimo Bertrando Spaventa. Eccolo: —Come
concilie¬ remo il diritto di punire con la dottrina dell’ Innomi¬
nabile? — Se fossi profeta, o figlio di profeta, di rimbecco direi : Vade
retro, Satana. Noli tentare Tariiim admiratorem tuum! —- Ma, non essendo
Gesù, nè gesuita, mi contento di rispondere con un tibi quoque. Ossia:
— Anche a te, o pensatore liberissimo, fa intoppo questa pietra di
giuridico scandalo? Anche a te metterebbe conto salvar capra e cavolo ;
cioè la capra della Feno¬ menalità di ogni fatto umano, ed il cavolo
della pretesa * V. le mie Orig. della / Uos. contemp. in Italia,
III, pari. II, pp. 28-37. * COTI’GNO, Leu. cit M p. 43.
Giustizia Assoluta? Eppure ricordo che, disputando
con me di questo brocardico, uscisti in questa categorica sentenza: — La
pena non è che una valvola di sicu- rezza che la società impiega a
garentirsi di chi la in¬ sidia 1 . E di fatto, il voler costruire a
priori un ma¬ nifesto modus rivendi essenziale, epperò cangevole
etno- crono-topograflcamente è marcia follia. La Idea Giustizia
Assoluta anzidetto, s’ ha a lasciare nel natio concavo della luna,
insieme al cervello dei tanti Astolfì dell’in¬ natismo. Chi ben pensa,
riconosce la deplorevole povertà di siffatte deduzioni... Diritti e
doveri, Pene e ricom¬ pense non giacevano in seno a Giove, a mo’ delle
uova dell’aquila esopiana, ad aspettare che lo scarafaggio umano le
facesse rotolare nel basso mondo; ma si for¬ marono, con un quasi
stillicidio psicologico, a poco a poco scavandosi un bucherello nel
naturale egoismo... E tutta la giustificazione delle pene, da
quella del ta¬ glione e quella penitenziaria, che è ancora in
Werden si riduce a formare la necessità di salvarsi al bosco dalle
belve accoppandole, ed alla città dai birboni ren¬ dendoli incapaci di
nuocere. Ora quali sono i birboni? ** U1 e 11 busil tis; e qui interviene
P Innominabile a comporre la gran lite, illuminando i legislatori sul
da fare in sullo sdrucciolo del dispotismo, dove si trovano
sempre... Il codice penale, non che un bene in sè, è un necessario male,
presso a poco simigliante alla chirurgica estirpazione di un arto, il
quale, se curabile, anche a dilungo, l’operatore rispetta
religiosamente... Un inno- mi 'n^ 10 S , paventa avrà l )ure
" sa[0 '(«està frase. Ma la valvola per del delino, ! V ? Cbe
neCessaria ' c °“>« necessaria era l'insidia dello s r n e a,,a
| S0Cie,A: d ’"' ,a necf8sUà Andata su"» natura o spirito,
ossia sul concetto concreto del bene. Il genuino pensiero dello spaventa
intorno all'assoluta giustificazione della pena é ne suoi Principi di
dica, ed. Gentile, p. 102 sgg. minabilista può solo
affermare, in barba a tutti i dot¬ trinari criminalisti del mondo, come
qualmente il bar¬ baro Kedivè egiziano funzionerà legalmente, da par
suo, fucilando e forse impalando 1’ eroe Arabi pascià, reo di non
aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed in- neggerà al magnanimo
Umberto, il quale, facendo grazia all’abietto Passannante, confondeva
molti tirannelli stra¬ nieri e mostravasi anche dappiù del Re
Galantuomo suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente il
palo, in Occidente 35 legislazioni che aboliscono il car¬ nefice (v. ult.
lett. di Victor Hugo): chi ha ragione? Secondo l’illustre prof. Vera ha
ragione il palo!... 1 Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a
modo mio, rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmo- deo
Spaventa »*. — Avviatosi per la sua striida, il Tari, dunque, negava
coraggiosamente jT diritto come diritto. Poeto-1’ assoluto di là dal
divenire, nel divenire, ch’egli vedeva indirizzato a un Nirvana
iperindividualistico, non poteva trovare niente d’ assoluto. Per lui il
magnifico proemio dello Spaventa ai Prineipii di etica (1869) in¬
torno al rapporto dell’assoluto col relativo, e quindi al concetto dell’
assoluta relazione (per cui 1’ assoluta giu¬ stizia non solo comporta, ma
richiede per la propria realizzazione tutti i modi di esistema cangevoli
etno-crono- topouraficamentc), non era stato scritto. E come in
quel concetto è il segreto dell’ hegelismo, era naturale che egli
non riuscisse ad orientarsi e a vedere la nullità del suo
Innominabile in quanto tale, in quanto sostanza, cioè di qua dallo
spirito. Il Tari fu insomma de’ tanti che girarono attorno a
1 A. Vbra nel 1883 pubblicò un opuscolo La pena iti morte (risi,
nel Sappi filosofici, Napoli, Morano, 1883. pp. 37-381, dove svolgeva le
ragioni del sistema hegeliano in sostegno della pena di morte. *
COTUONO, Hegel, ricevendone magari ispirazione e suggestioni fe¬ conde,
senza scoprire il principio vero del suo pensiero. Molti si ritrassero
presto sconfortati dall’impresa; etra questi il Del Zio, che con tanto
entusiasmo nel ’61 studiava le opere e la letteratura hegeliana; e ansiosa¬
mente aspettava gli scritti dello Spaventa (la prolusione letta a Modena
sul Carattere e sviluppo della filosofia italiana del secolo A VI sino al
nostro tempo ‘ e la Filo¬ sofia di Gioberti, di cui il I» volume usci nel
1863) per fede vaga che indi potesse venirgli la luce. Il Del
Zio allora si preparava a un corso di lezioni, sulla Enciclopedia di
Hegel. Al quale infatti proluse alcuni mesi dopo con una enfatica
lettura, la quale, come documento aneli’ essa de’ tempi, merita d* essere
ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia delle
scienze filosofiche di Hegel; letta in privato con¬ vegno ne’ dì 16 e 18
novembre 1861*: scritto pieno di giovanile entusiasmo e di ardore
filosofico. Oltre le opere del Vera, fin allora pubblicate, l’Autore vi cita
ed esalta 1 aurea operetta di Karl Werder (Logile, als Commentar u.
Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1 Abili, Ber¬ lino Idèi) « restuta
incompiuta con grave danno di co¬ loro che s’ iniziano alla filosofia
hegeliana » (p. 22); i Esquisse de logique di K. L. Michelet (Paris,
1866); e 1 Risi, in Scritti filosofici, ed. Gentile pp. 115 sgg.
Giorgio Pallavi¬ cino, a una figliola del quale lo Spaventa aveva
privatamente Im¬ partito qualche lezione, gii scriveva per questo
opuscolo: Amico pregiatissimo, l.a ringrazio della sua
Prolusione — un magnifico lavoro — il quale rnfiìf. -u- l Sn me . *' (le
?. l . ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande Opera eli Ella sta
meditando. Ammiratore di Vincenzo Giohprti. posso io non ammirare il suo
degno interprete: II. Spaventa? lo l’ammiro e i amo! Giorgio
Palla vicino. * Napoli, S. Marchese, IMI, di pp. 8-1 In 16». Reca
quest'epigrafe: « Essere, sapersi e volersi come la Personalità eterna
dello Spirito, ecco il line della lilosofla ». di questo le lezioni
Ueber die Persònliehkeit Oottes u. Unsterblichkeit der Seele, oder die
ewige Persònliehkeit des Geistes (Berlin, 1841) ; le quali « quando
furono pub¬ blicate, tenevano aspetto di polemica negativa in rap¬
porto a certi donimi dell’ intelletto ; ma 1’ avanzato sviluppo della
scienza ha tolto loro il senso irreligioso, che gli avversarti accaniti
dell’ hegelianismo volevano a forza vedervi dentro. E debbono così
considerarsi come la teorica potente della nuova sintesi dall’ umanità
» (p. 41): ciò che appare, nota il Del Zio, dell’opera maggiore del
Michelet, Die Epvphanie der ewigen Per- sònlichkeit des Geistes (in tre
diali., 1844, 47 e 52). A proposito del problema hegeliano del punto di
partenza fenomenologico e logico della filosofia, l’Autore
dichiarava di sperare che le difficoltà sarebbero state da lui
sciolte più chiaramente nelle note a una sua traduzione del System
der Wissenschaft, ein philosophisches Eincheiridion (Koenigsberg, 1850)
del Rosenkranz : « che avrei di già pubblicata senza la tirannide
borbonica, o la guerra che tutto il mondo ha fatto e fa presso noi al
libero pensiero» (p. 23). Un altro suo lavoro concerneva la filosofia
di Krause, la quale, specialmente per mezzo di Ahrens (il cui Corso
di diritto naturale , 1838, era molto letto dagli avvocati di Napoli, ed
era stato anche tradotto già due volte in italiano, da Francesco
Trincherà e da Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi « in qualche modo
popolare nelle nostre province ». « Le sue Lezioni sul sistema della
scienza (Vorlesungen nb. System der Philos., 1828)», dice il Del Zio, « e
1’ampio sviluppo enciclo- 1 Corso Ul Diruto naturale o della
ftlos. del dir. traci, da Fr. Trin¬ cherà, Napoli. 18-11, e Capolago,
1812. Nuova trad. eseguita sulla quarta ed. dal prof. V. De Castro, 2.
voli., Napoli, Stab. Tip. dell'An¬ cora, 1860. Più tardi la sesta ed.
(uscita in ted., Vienna, 1870-71) fu Irad. in italiano da A. Margllieri,
Napoli pedico eh’ egli tentò dare a tutto lo scibile rivelano in classico
modo il fermento incommensurabile dal quale era travagliata 1’ intera
Allemagna alla vigilia dell’ ap¬ parizione d’ Hegel sul teatro della
scienza. Ma in Krause c’ è il presentimento della scoperta, che fu fatta
invece da Hegel »; e questo giudizio era il « risultamento di una
conveniente disamina » . « A tanto speriamo di adempiere più tardi,
pubblicando un nostro lavoro, che ha per ti¬ tolo: Studii sul rapporto
del Sistema della scienza di Krause a quello di Hegel » . Appunto per
quella certa popolarità che il Krausismo aveva acquistata anche nel
Napoletano, il Del Zio stimava opportuno che fosse di¬ scussa la sua
teorica generale da’ cultori della filosofia. « Se non cominciamo a
disputare pubblicamente sulle nostre convinzioni speculative, il trionfo
della scienza e il progresso della nazione non saranno nè liberi nè
universali » L’opuscolo era dedicato Alia gioventù napoletana con parole
di questo tono : « A voi dedico, o fratelli, questo piccolo lavoro, il
quale non è altro che il programma dell andamento scientifico, a cui
dovrebbe avviarsi, se¬ condo le mie convinzioni, il nostro paese, per
essere in armoniu coll’ indirizzo generale della scienza in Eu¬
ropa. Se vi parrà vero, Voi, più che me, potrete con¬ durlo ad atto,
perchè 1’ amico vostro, comechè giovane, è già percosso dai dolori dell’
animo e dalle sofferenze lei corpo che 1’ opera dissolutrice della
tirannide seppe in molti generare negli anni scorsi». Continuava an¬
nunziando che, accettato il suo programma, tre fiamme divine sarebbero
venute ad accendere 1’ anima dei gio¬ vani napoletani : tre sedendovi d’
un unico sole, il libero Pensiero ; le tre fiamme della Filosofia, della
Rivoluzione, dell’Amore. «Colla prima darete fine alla
superstizione del Papato, la più maligna fra quelle che ancora corrodono
lo spirito moderno. Colla seconda scrollerete il Dritto divino ed ogni
altra specie d’irragionevole im¬ perio. E coll’ ultimo tramuterete le
rovine in creazione eterna di bellezza e di verità ; costituirete I*
Italia, e getterete il fondamento alla fratellanza democratica di
tutta Europa». Svolto brevemente il concetto della
Fenomenologia dello spirilo, per mostrare come lo spirito sia
necessa¬ riamente condotto dalla sua interna dialettica al punto di
vista del sapere assoluto, il Del Zio schizzava con pochi tratti l
’ideale della scieina, a cui egli invitava con molto calore : «
Deliberando di seguirmi fraterna¬ mente nel mondo del sapere, renderete
testimonianza dell’ istinto divino che move lo spirito del nostro
tempo, e della vita novella d’Italia resa a sè stessa ed alla sua
naturale grandezza... Il nuovo metodo dell’insegna¬ mento filosofi co è
il metodo della morte e dell’ amore assoluto», della morte alle cose
finite e a se stesso, e dell’ amore per 1’ assoluto, in cui lo spirito
deve rina¬ scere. Quindi combatteva le obbiezioni mosse all’ hege¬
lismo «dalla corta vista dell’intelletto 1 o del sentimen¬ talismo
ipocrita della santocchieria » . Ai filosofi dell’ in¬ telletto, del
pensare finito addebitava la loro incosciente predilezione dello
scetticismo e del nullismo: e dimo¬ strava che « non solo il sapere
assoluto è possibile, ma che esso è 1’ unicamente possibile » ; poiché
ninna realtà finita, naturale o spirituale, può dirsi conosciuta
fuori del sistema, in cui essa va concepita. Ai mistici di buona o
di mala fede, cercava d’ additare il carattere intrinsecamente religioso
della filosofia hegeliana, nella quale la verità della religione non è
negata, ma trasfi¬ gurata e fatta valere per la ragione, assolutamente.
In- 1 Intelletto (Verstand), nel senso di Hegel.
fine, combattendo anche lui il pregiudizio, allora sal¬ dissimo
tra i giobertiani di Napoli, del primato italico- e della filosofia
nazionale, sosteneva, a simiglianza dello Spaventa, ohe « la grandezza
del nostro spirito non è tanto nel sapersi precursore di tutto
l’incivilimento occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne
il successore eterno ». Si ammira Vico: ma egli « travagliò por
tutta la vita per provare che uno spirito solo regge il mondo delle
nazioni, che una è la mente dell’ Uma¬ nità, e che un piano ideale
stringe in armonia assoluta la totalità de’ fatti politici e le forme
svariatissime del- 1’ intera vita sociale». «La storia della filosofia è
dav¬ vero un’ opera unica, una sola attività produttrice... Le
frutta abbondanti di quei primi pensieri filosofici, che gl’ italiani del
XV e XVI secolo destarono nella coscienza umana sono appunto i grandi
sistemi della fi¬ losofia moderna... Nutricandoci del supere e della
vita europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri,
celebreremo la festa di commemorazione a quel Risor¬ gimento, che il
papato e l’Impero soffocarono nel sangue di tutta la Penisola» : sopra
tutto a Bruno, la cui vita randagia per 1’ Europa, ma cominciata in
Italia e in Italia tragicamente finita, sembra al Del Zio il sim¬
bolo divino del corso storico della filosofia mo¬ derna nel mondo. E col
ricordo della vita del Bruno e un invito a vendicarne la morte facendo
tornare in Italia la sua filosofia arricchita nel suo secolare
viaggio, termina questa prolusione. Cinque giorni dopo
leggeva nell’ Università la prolu¬ sione al suo corso lo Spaventa,
tornando a trattare il tema : Della nazionalità nella filosofia. Fiorenti
Waddingtoìi e D. Spaventa Affrettando col desiderio la
pubblicazione dell’ impor¬ tante carteggio della marchesa M. Fiorenti
Waddington tuttavia posseduto dalla famiglia di Francesco Fio¬
rentino, gioverà spigolare tra le carte dello Spaventa, alcune lettere e
ricordi di questa egregia donna, che non ci paiono inutili alla storia
della fortuna di Hegel in Italia. Quando la Florenzi entrò in rela¬
zione con lo Spaventa aveva passata la sessantina, essendo nata nel 1802:
da Schelling era giunta fino a Hegel : dall’ ammirazione del Mamiani, per
la conver¬ sazione frequente col Fiorentino, che da Bologna andava
spesso a Perugia ospite suo, era potuta passare a quella del critico
severo della prefazione, che il Mamiani nel 1844 aveva premessa alla sua
traduzione del Bruno di Schelling 1 . Prefazione desiderata da lei, che
ne caròla promessa con un certo imperio di belletta che. ancor pos¬
siede, come il Mamiani scriveva al suo fratello Giuseppe il 7 aprile 1844
;* prefazione piaciuta già allo stesso Schelling. 3 Ma ben presto la
marchesa tedescheggiente e libera pensatrice e il conte italianissimo e
cantore dei santi cattolici, s’ erano accorti di non potersi intendere.
Già in una lettera del 1846, 4 il Mamiani le rimprove- ' Vedi B.
Spaventa, Saggi di critica. Napoli, Gliio. 1867, pp. 366 sgg. Intorno
alla Florenzi v. le mie Origini della, fllos. contemp. in Italia III,
parte II, pp 37-50. * Mamiani, Leti, dall’ esilio a cura di E.
Viterbo. Roma, 1809. 1, 211. * In una sua lettera a un suo amico,
del 26 dicembre 1845, il Ma- raiant scriveva: «Quantunque lo vi discorra
della tllosolla tedesca moderna con gran franchezza di giudicio, lo
Schelling non se ne tiene punto mal soddisfatto, e scrivendo alla
traduttrice, che è la march. Florenzi, ha detto di me parole
onorevolissime » (op. cit. I, 320). Cfr. il Bruno stesso, ed. I.e
Monnier, 1859, p. 213. * Leti, cit.. Il, -10. Cfr. la lett. al
fratello rava di ragionare un po’ alla tedesca, e , non avendo alla mano
ragioni ferme ed evidenti, essersi rairolta della nebbia del suo grande
maestro, lo Schelling. L’ anno ap¬ presso le scriveva: « ìli congratulo
molto con voi dello studiare indefesso che fate e dello involgervi
coraggiosa tra le tenebre sacre della metafisica dello Schelling».
1 Era quasi un addio dalla spiaggia a chi si avventurava per il
rischioso viaggio! Sul principio del 18GB, la Fiorenti aveva
pubblicato i suoi Filosofemi di Cosmologia e di Ontologia (Perugia,
V. Bartelli) ; e il Fiorentino, che doveva scriverne una recensione,
nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P. di Torino, del 20 aprile
1863, a. IV, pp. 250-52), la incitò a mandarne un esemplare allo
Spaventa. Quindi la seguente lettera : Signore,
Se un nostro amicissimo, e molto suo conoscente, non m’ in¬
coraggiasse a mandarle il mio libretto testé stampato, io non oserei
inviarglielo. Esporlo al giudizio d’ uno de’ più distinti lilosofi è al
certo temerità più die grande. Ma io mi affido più assai all’ indulgenza
di cui sono capaci i grandi uomini, e temo maggiormente i piccoli.
Ardisco ancora dimandare il suo leale, franco giudizio e la sua severa
censura; ed ancbo la disapprovazione mi sarà più cara assai di qualsiasi
com¬ plimento. È dunque sotto l’egida del nostro amico che il
mio libretto vieue a cercarla. Mi abbia per iscusata s’ io l’incomodo
por cosa di sì poco valore; ma, le ripeto, io riposo nella
indulgenza sua. Me le offerisco e raccomando. Perugia, li 20
marzo 1863. Obb.ma M. Marianna Florbnzi
WAnDiNcroN. Lo Spaventa in ricambio le mandò il suo volume
Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, starn- 1
Lett., li, 314. pato 1’ anno innanzi ; a cui la Florenzi
fece gran festa, diffondendolo nel circolo di letterati e filosofi, 1 che
si raccoglievano intorno a lei. € Dono prezioso, scriveva
all’ autore il 9 maggio del '63, di cui mi valgo per miu istruzione e
per ammirare uno de’ più grandi filosofi (o il più grande), che ora
dia fama alla nostra nazione » . Da altre lettere della colta
gentildonna si rileva che tra gli ammiratori guadagnati da lei allo
Spaventa, de¬ siderosi di leggere i suoi scritti, v’ erano anche
delle donne. Tanto poteva 1’ esempio della Florenzi ! Il 25
maggio questa mandava allo Spaventa un suo piccolo discorso sojrra l'
Eleroyenia che doveva essere stam¬ pato coi Filosofemi. Era instancabile
: quando, nel giugno 1864, lo Spaventa le ebbe mandata la memoria su
Le prime categorie della logica di Hegel, ella poteva annun¬
ziargli un suo nuovo lavoro, che avrebbe toccato anche quell’argomento
(Saggio di psicologia e di logica, Fi¬ renze, 1864): «Mi preme sempre di
leggere le cose sue, e per questo ho indugiato a dirmene grata e
ricono¬ scente. Non ho parole per esprimerle quanto quella lettura
mi abbia soddisfatta. Un ingegno come il suo non poteva a meno di
escogitare fino al fondo l’argo¬ mento trattato, ed in vero non c’ è
nessuno che abbia penetrato tanto addentro la dottrina e le intenzioni
di llegel, il più formidabile dei tedeschi filosofi. «Ella ha
ragione: chi è mai entrato sì puramente nella scienza del filosofo?
« Tanto più piacere mi ha recato il suo scritto in quanto che io
aveva già compiti due capitoli del libro che scrivo ora : Il divenire e V
essere e il non essere, pen- 1 Cfr. la Necrologia che scrisse di
lei il Fiorentino, in Scritti vari, Napoli, 1876, p. 410-1.
siero ed essere. Quanta istruzione io posso ricavare da lei
! Dunque, per tutto il piacere e per tutto 1’ utile ri¬ cevuto io ne la
ringrazio di cuore ed anima » (Lettera del ló giugno ’64). In
una poscritta d’ una delle sue lettere la Florenzi scriveva allo
Spaventa: «Vi prego di fare il grande sforzo di rispondermi al pili
presto » . Lo Spaventa, in¬ fatti, era tardissimo a scrivere, anche se
chi aspettava era una dama così gentile. Il Fiorentino badava a
fare le sue scuse. Così, in una lettera allo Spaventa del 19
novembre 1804, gli scriveva : « Alla marchesa Florenzi ho parecchie volte
detto quale sia la vostra indole, perciò non ho durato fatica a
persuaderla della vostra trascu- ranzn nello scrivere. Ella ha sotto i
torchi due saggi, uno di logica e 1’ altro di psicologia, ed aspetta di
averli in pronto per rispondervi. Credo che li avrà prima che il mese
finisca. Li ha composti con l’intendimento di dare due lavoretti
elementari, e mi sembrano molto giu¬ diziosi e precisi e chiari, da
qualche capitolo almeno che ho scorso, correggendo gli stamponi che le
venivano quando io ero colà. A proposito di lei, che cosa avete
fatto per l’Accademia, di cui mi parlaste costà? Io non le ho detto
nulla, com’ era vostro desiderio ; e sarebbe cosa ben fatta se si potesse
effettuare, perchè veramente è una donna meravigliosa per 1’ ardore che
ha per la scienza » . Lo Spaventa aveva pensato di premiare
la nobilissima operosità e il virile animo, onde la Florenzi
proseguiva gli studi filosofici, facendola ascrivere all’Accademia
delle scienze morali e politiche di Napoli. Nomina che la scrittrice
gradì molto, e ne fregiò il frontespizio de’ suoi libri pubblicati dopo
il 1865. Primo il Saggio sulla natura (Firenze, 1866), che è dedicato
appunto allo Spaventa: non per orgoglio , ma soltanto perla fiducia...che
gl’ ingegni, quanto più sono alti , tanto maggiore in¬ dulgenza tisano
alle persone di buona volontà. Gliene chiese licenza il 14 dicembre 1865
con una lettera molto mo¬ desta, dove sono espressi gli stessi sentimenti
della de¬ dica a stampa, e da cui s’ apprende che il Saggio era da
tre mesi in tipografia. Nell’aprile del ’G6 fu a Napoli il'cav.
Evelino Wad- dington, marito della marchesa, ed ebbe dallo Spaventa
liete accoglienze. «Egli se n’è tornato», scriveva il Fiorentino, «
contento di aver conosciuto un uomo del vostro ingegno e con quella
franca ed ingenua indole, che è segno infallibile». E come a Napoli si
prepa¬ rava, in occasione d’ una esposizione di cotone, un Con¬
gresso scientifico italiano, la Florenzi contava di venirci anche lei;
come infatti ci venne: «Ebbi la vostra me¬ moria 1 che ho letta con
grande attenzione per racco¬ glierne quell’ utile che sogliono apportare
i vostri scritti. Evelino fu molto contento di conoscervi e lo sarò
pur io fra poco, perchè ai primi di agosto contiamo di essere costì
nuli’ ostante gli eventi del monito. « Mi faceste dire di fare un
qualche piccolo discorso per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho
tracciato alquanto, e per distenderlo vorrei la certezza se si fa o no
codesto Congresso. « Io presumo che no, stante 1’ imminenza
della guerra ; nulla di meno vi prego a scrivercene una riga ; ed
ancora più mi preme sapere se vi troverete in Na¬ poli a quell’epoca, o
alla campagna, ed in quale cam¬ pagna, od in quale città ; infine, mi
direte dove dimo¬ rerete » (15 giugno ’6G). 1 La dottrina
della conoscema di G. Bruno, pubbl. negli Atti dell'Acc. delle Se. mor. e
poi. di Napoli del 1865; risi. In Saggi di cri¬ tica pp. Un’ ultima
lettera del 8 agosto 1867, ha un certo in¬ teresse, per l’accenno che vi
si fa al discorso Della immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi
pubblicò nel maggio 1868 : « Io mi preparo o mi sono già
preparata a scrivere un opuscolo sulla immortalità dell’anima:
problema scabroso! ma che voglio sostenere perchè sento 1’ im¬
mortalità dentro di me e voglio essere immortale a tutti i costi. Sarà
dolorosa ai feuerbachiani miei amici 1 la mia assoluta
opposizione». Nè anche gli amici hegeliani, non feuerbachiani, d’
I- talia fecero plauso all’ assunto della marchesa. E lo Spaventa
alluderà forse, con quell’ ironia che gli era propria, al discorso poco
persuasivo della Florenzi, quando nello stesso maggio 1868, scrivendo al
De Meis, la chiamava: « la nostra immortale Marchesa, — immortale
almeno come, socia della Beale nostra Accademia » . ! L’intimo
pensiero dello Spaventa sull’ immortalità dell’ anima individuale
apparisce dal principio d’ una malinconica lettera da lui scritta al De
Meis il 13 luglio 1880 ; dove ricorda la sua prima figliuola morta
a tre anni : Napoli, 13 luglio 80. Mio caro
Camillo, Spero che la festa di quel sant’ nomo del De Lellis, 3
tuo omonimo concittadino e la tua, ti riconoilieranno cogli amici.
In particolare io conto sulla reminiscenza, anche involontaria, di que’
maccheroni al pomidoro; di quella Irittata e di quelle cocozzelle, oramai
divenuti celebri no’ nostri annali domestici. Via de’ Fiori a San
Salvario, n... 4 . Il numero non lo ricordo 1 II Ff.ii* *riiach,
coni' è noto, nel Gcdanhen iiber Tod und Sterb- li chheil (183(1)
sostenne la mortalità dell'anima. J v. scritti filoio/lci. ed.
Gentile, p. 303 n. 8 San Camillo De I.ellis, di Bucchianico, patria
del De Meis. • Recapito dello Spaventa a Torino. Il numero era 23.
Isabella Scano. moglie dello Spaventa, a lui sopravvissula, morta più, e
non ho tempo (li consultare la signora Isabella, che attende alle
faccende di casa. Non lo ricordo; ma fa lo stesso: ricordo il luogo, il
prato, la soala, il piano, le stanze e il mio tavolino da lavoro, e tutte
le miuchionerie che scrivevo : le cose futili e le serie; il mio chiodo
Bolare e i misturi he¬ geliani svelati ; e te che venivi ogni giorno,
angelo consola¬ tore, e le chiacchiere che facevamo insieme; e la mia
povera prima Mimi e lo sue ultime parole: — Papà lavorai — Papà
lavora! — Io non so so (|uella casa sia rimasta ancora in piedi; oramai
non vedo piti Torino da circa vent’ anni : ma ella sus¬ siste tuttora
qui, come forse non ha mai meglio esistito iu realtà, nel mio cervello,
o, come (licevano una volta, nell’ a- nima mia; o non si dileguerà se non
quando questo cervello (Papà lavora, Papà lavora), non ci sarà piti. E
che ne sarà! Che significa nou esserci pi fi i Diverrà proprio nullaf
Eppure è stato ed è. O ci è proprio uu modo di essere che non è
sussisterei E sussistere cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine umana ha
trovato lo consolazione: — tutto nasce e perisce, è vero, ma gli atomi
restano, e son sempre quelli, non mutali mai. — Bella scoperta! me li fo
fritti gli atomi, io. Troppo serio per la festa di San Camillo ;
troppo malinco¬ nico, anzi. Ma va e freua la mia fantasia!...
Lo Spaventa, non occorre dirlo, non era materialista. Ma nella
concezione hegeliana della natura e dello spi¬ rito non trovava posto per
lo spiritualismo astratto, e quindi neppure per l’immortalità
personale. 3. Il primo scolaro (li B. Spaventa (F.
Fiorentino). Battaglie carducciane ancddote. Nella nota
polemica del 1876 con l’Acri il Fiorentino dice di aver conosciuto tardi
lo Spaventa, e poco prima i suoi libri. « Letti i suoi libri, intravidi
un altro mondo, e mi parve rinascere. Allora ero professore a
Maddaloni, e stavo a Napoli. Tra i molti che si preparavano a combatterlo
c’ero io; ma, lettolo, mi sentii tirare verso lui, e capii che i suoi
avversarii non valevano neppure i suoi calzari. Quale fu la mia
maraviglia, quando dai più sinceri riseppi, ch’ei non avevano lotto nulla
di lui, e che lo combattevano, perchè volevano combatterlo, senza sapere
perchè! ». 1 Allora infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma,
quando, sullo scorcio del ’62, andò a Bologna professore di Storia
della filosofia, non E aveva visto che due volte o tre. * * L’ultima di
queste ne ebbe consigli e suggerimenti circa gli studi per cui la
Biblioteca Universitaria di Bologna avrebbe potuto offrirgli E
opportunità. Giacché dallo Spaventa egli fu stimolato a intraprendere
quelle ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da cui pro¬
vennero le sue opere più importanti. E quando si di¬ visero, lo Spaventa
dovette annunziargli il libro, che allora stampava, Prolusione e
introduzione alle lezioni di filosofia , dove il Fiorentino avrebbe
trovato uno schema della storia della filosofia italiana. Glielo
inviò poi infatti con una lettera, della quale possediamo la
risposta : Mio carissimo amico, La vostra lettera e il
vostro libro lungamente aspettati mi sono arrivati carissimi. Mi son
messo subito a leggerlo, e posso dirvi di averne scorsa quasi la metà; se
non che intendo rifarmici sopra, come prima avrò satisfatto l'impa¬
ziente desiderio con questa prima lettura. Voi mi riuscite sempre
profondo e stringato ragionatore ; oogliete nel criticare il nodo del
sistema, c ne mostrate lo scioglimento cosi luci¬ damente che meglio non
si può. lo vi ho sempre tenuto, e vi tengo a ninno secondo nell’arto
difficilissima della critica filosofica, eh’ è quella appuuto, di cui noi
Italiaui abbiamo ' La fllos. contemp. in Italia, Napoli,
specialmente bisogno, serondochè voi avete maestrevolmente notato. Le
considerazioni su la lìlosofia nazionale sono esatte, e l’indole della
filosofìa del Risorgimento, che io ho letta fino al Bruno, è scolpita cou
molta fiuezza, e contorni assai rilevati. Le osservazioni su
l’antichissima sapienza degl’i¬ taliani del Vico, e ricavate qunuto al
fondo dalla Scienza nuova, sono inappuntabili ; ed a rifiutarlo
bisognerebbe di¬ sconoscere la teorica della parola dal Vico medesimo
adottata. Io mi rallegro di tutto cuore con voi, mio carissimo
amico, ed auguro all’ Italia molti uomini che vi rassomiglino.
Negli scrittori, come negli uomini, a me piace la lealtà del
manifestare le proprie convinzioni, quali che si fossero; la coscienziosa
ricerca nel formarsele, ed il saldo proposito del sostenerle. Ora invece
si scrivacchia e si cinguetta a spro¬ posito, e più ilei nomi e
dell’autorità si fa caso, che non della verità eterna ed immutabile. Voi
siete molto opportuno nelle condizioni poco prospero del nostro paese, e
gran bene potrete fare. Esperto come siete di gran parte delle
nostre città, dovete conoscere meglio di me, che cotesta o nessuna
può spingere e continuare il movimento della italiana filo* sofìa. Qui se
ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano pochi uditori, alle altre della
mia facoltà meno che pochi, o nessuno. Per buona ventura è venuto qua a
continuare i suoi studi filosofici un bravo giovane delle provincia
meri¬ dionali, un tal Donato Jaja, quel medesimo che mi accom¬
pagnava, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno, e buona volontà,
eh’è ancora più rara no’ nostri giovani. Altri vanno e vengono più per
curiosità che per vaghezza ili studio: sono le comete di tutte le
cattedre. Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione che
lessi qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa costà.
Me no aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia com¬ petente,
altrettanto voglio che sia ingenuo e franco. Voi sapete che io non mi
sdegno dell’essere appuntato e corrotto: amo la verità più del mio amor
proprio... A libri filosofici qui si sta molto male, e sebbene mi
sia stato promesso che qualcheduno dei più necessari si farebbe
venire, pure io ci conto molto poco per la scarsezza dell’as¬ segnamento
di cui gode questa Universitaria Biblioteca. Avrei bisogno di buoni
espositori di Platone e di Aristotile, perchè questo anno mi occupo della
filosofia greca, e intanto, tranne alcuni commentatori antichi, non si
trova altro. Ho fatto ve¬ nire «lei mio la esposizione della Logica
aristotelica di Bar- thólemy; ina a far venire tutto a proprie spese come
si riescef ìi questo per me un gran contrattempo, c, senza le
vostre prevenzioni, quasi inaspettato o iuusputtabile. Chi diamine
poteva credere che la dotta Bologna viveva ancora in pieno Medio
Evo» pi Pomponazzi ci è il solo libro dell'Immortalità. I
mano¬ scritti di Boccaferrato versano più su la tisica aristotelica,
che su la metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a leggere, e
a parer mio ili poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto Krigena, e
Patrizzi, che costà non mi era riuscito avere. Oopo che avrò letti
questi, mi metterò a studiare la storia della filosofia indiana del
Colebrooke, che voi mi diceste buona. * 1 Mi dimenticai l’altra volta di
dirvi, che Vittorio Cousin scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio
lavoretto in¬ torno al Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo
suo. È piuttosto una lunga lettera, di cui io ho copia, che vi
manderò, se vi aggrada leggerla. Parla altresì del Vera.® Ecco quante ve
no ho dette, e forse vi avrò annoiato: ma io sentiva il bisogno di
trattenermi con voi, e P ho fatto alla mia usanza, e senza riserva. Io,
oltre all’ammirarvi, vi amo assai, e stimo che questo all’etto che vi
porto renila più scusabili le molte ciarle che faccio nello scrivervi.
Quando avrete tempo scrivetemi, perchò mi è caro comunicare con
qualche spirito privilegiato ed amico in tanta solitudine in cui vivo. Se
potessi in qualche cosa adoperarmi per voi, mi terrei fortunatissimo di
farlo. Addio, adunque, mio carissimo amico, ed amate Di
Bologna, 12 del 1863. Il tutto vostro Francesco
Fiorentino. 1 Enrico Tommaso Colebrooke (1765-1837), celebre
indianista, pre¬ sidente della Società Asiatica londinese, autore degli
Kssai/s on thè Vedas and on thè phtlosophu of thè llindous nel I voi dei
Miscclla- neous Essaj/s (London, 1837, 3.» ediz., 1873); — e a parte:
Essays on thè relii/ion and phtlos. of thè Hlndous, 3.» ediz., London,
1858. 1 Tra la corrispondenza Inedita del Cousin ci sono lettere
del Fiorentino: vedi Gentile, Albori delta nuova Italia, I, 150.La
Prolusione al corso di storia della filosofia (letta il 25 novembre 1862)
fu dal Fiorentino pubblicata nel Progresso di Napoli (a. IL voi. II,
1863, pp. 22-33) ; ma non venne più ristampata. È infatti ancora un
do¬ cumento della fase giobertiana del pensiero del Fio¬ rentino,
quantunque vi appariscano le prime tracce dei nuovi studi e delle nuove
tendenze dell’ autore. Giova riferirne qualche brano: Il
pensiero, o signori, regola il mondo o lo riempie, perché esso è la
pienezza ed il vigore dell’ essere : è la sua compe¬ netrazione, e la sua
identità. L’ essere senza il pensiero è spar¬ pagliato, disterminato, e
però incompiuto e Unito. Imperocché l’essere compie se medesimo
geminandosi, vale a dire facen¬ dosi principio e fine; ed il mezzo, pel
quale esso si pone e conclude, è il pensiero, la relazione, l'identità
suprema... (p. 23). Se non che esso nel mondo inorganico si
occulta inconsa¬ pevole, eil in certo modo seppellito, comincia ad
agitarsi operoso nel vegetale, si va sempre pifi disimpacciando dal
grave involucro della materia nella forma dell’animale; e si sveglia
libero e padrone di sé filialmente nella coscienza umana... Il pensiero
divino che trasparisce attraverso tutto il creato, si che ogui cosa,
secondo la frase biblica, appaia piena dello spirito di Dio, non parla
poi e non si rivela am¬ piamente, se non nella coscienza dell’uomo. Il
resto della natura è parola scritta, rinchiusa, direi quasi
cristallizzata: l’uomo solo è parola viva e palpitante... (p. 24)
La dualità di natura e spirito non è insuperabile. Essa inette capo
« nell’ unità cosmica ». E in virtù di questa la natura tende allo
spirito; che comincia bensì aneli’ esso come forza individua partecipante
all’ uni¬ versità del cosmo ; ma esso si generalizza pensandosi.
...Do spirito è l’attuazione compiuta dell’unità cosmica, e ciò che
questa è in potenza, ed esso è in atto. Or quando lo spirito si abbia
assimilato la natura e sé stesso per quella serie di sviluppamenti che va
spiegata nella Fenomenologia, egli, a rendere scientifico il suo processo
spontaneo ed in- cosoio di sé, si rifà sopra il cammino fatto. E può
rifarsi in tre modi. Quando rigira sè in sò, dà luogo a quel ripensa¬
mento che si dice riflessione psicologica; e quando si ripete su la
natura, partorisce la riflessione detta dal Gioberti ontolo¬ gica. Ma
sopra eoteste due guise di riflettere, ve u’ ba una terza, che lo vince
di pregio e di amplitudine, vale a dire la riflessione logica, nella
quale lo spirito si rivolgo su la sua azione medesima, sul proprio
pensiero... su la natura e 10 stesso spirito è Dio, ossia l’unità
vera, l’unità che non è il moltiplico, ma lo fa. Se l’unità cosmica fosso
tutto, 1’ ul¬ timo grado del pensiero sarebbe la riflessione psicologica
e l’ontologica, e la logica non sarebbe possibile. V’è logica,
perché v’ha un assoluto perfettamente uno; v’è la logica, perchè v’è
Dio... Da logica è dunque l’unità finale della cosmologia e della
psicologia, come la protologia n’ era stata 1’ unità primitiva. L’ unità
assoluta, 1’ unità cosmica, 1' anima, 11 concetto; ecco le quattro
gradazioni, per le quali passa il pensiero speculativo, produceudo una
scienza eh’è la prima e la massima, e che comprende la protologia, la
cosmologia, la psicologia e la logica. . (p. 2fi) Venendo
alla storia della filosofia, il Fiorentino di¬ chiara che il disegno
della storia si deve modellare su quello della scienza : sicché la storia
dev’ essere essa medesima un sistema. « Una storia che non fosse un
sistema ma un’ imbastitura di fatti racimolati qua e là, non sarebbe
meritevole di tanto nome». Quindi la con¬ nessione da preferire tra i
vari sistemi è quella logica. So bene io essersi talvolta tenuto
conto o della successione cronologica, o della continuità etnografica;
confesso che queste maniere contengono qualche parte di vero ; che
il tempo maturi ed incalzi le deduzioni della logicn ; che la
scienza alcune volte si sviluppi come un dramma vivente in una nazione:
nondimeno il pensiero, essendo di natura estem¬ poranea ed eslraspaziale,
mal si potrebbe acconciare tra questi angusti cancelli... Egli è da
maravigliaro intanto come fra tanti che hanno trattato la storia della
filosofia quasi uiuno abbia fatto capo dellu genesi logica dei sistemi,
salvo l’Hegel in cui celesta legge si appalesa inflessibile come
il fato; e nelle cni mani la storia si trasforma in una geometria,
dove nulla viene lasciato all’arbitrio del pensatore. Hegel
accorcia e distende i sistemi come il Procuste della favola,
affinché tutti ripetessero costantemente il ritmo prescelto della
trico¬ tomia. Il Richtor inchina per contrario a sostenere l’au¬
tonomia delle scuole e dei sistemi ; sminuzza, taglia i nervi, e leva di
mezzo ogni addentellato. Nel primo 1’ uniformità ò monotona, nell’altro
la varietà rimaue disordinata ed inor¬ ganica. Contemporaro però questi
due estremi, badare alla continuità del pensiero universale, senza
disconoscere l'in¬ fluenza individuale, è proprio mettersi sul giusto
mezzo, ed in postura convenevole, onde si possa portar giudicio
sopra i sistemi. E qnando dico sistemi, io non guardo alla breccia
(f), ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla
convinzione del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento
della sua opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali
cause lo abbiano sforzato a questa credenza... (p. 29) La storia
della filosofia presuppone un sistema, che sia come il regolo con cui
conviene riscontrare e mi¬ surare le dottrine. E dalla maggiore o minore
ampiezza del criterio di una storia, dipende il valore di questa.
Hegel ha immedesimato la storia della filosofia col suo si¬ stema,
affermando non essere tutti gli altri se non momenti del suo, e
(singolare ardimento!! egli non si è peritato di pian¬ tare le colonne di
Ercole della filosofia ! L’avvenire giudicherà di lui, provando coi
fatti, se dopo la grande Enciclopedia ancora allo spirito umano qualche
cosa rimarrà da fare. Infine il Fiorentino toccava la questione di
una filo¬ sofia italiana contestata dagli storici stranieri.
Mettendo n rassegna le nazioni filosofiche di Europa, Hegel
tripartisce il mondo della filosofia moderna, maiorasco ina¬ lienabile,
tra l’Inghilterra la Germania e la Francia... Il Cousin di poi, n cui non
tornava conto una terza nazione, non avendo una tripartizione a fare,
ridusse le partite, e diede luogo a due nazioni soltanto, alla Germania
ed alla Francia... Il professore di Berlino e quello della Sorbona si
trovano peri» d’accordo nel diseredare l’Italia. E perchè 1 Forse Telesio
e Galileo non parlarono mai del metodo spe¬ rimentale ? Giordano Bruno
non mosse dall’unità della sostanza prima ancora dello stesso Spinoza?
Campanella non iniziò la osservazione psicologica? K Vico non partì dalla
conversione del vero col fatto, statuendo il fondamento più solido
cito potesse avere la filosofia? Nulla di tutto questo, o signori;
tre termini bisognarono all’ Hegel, due al Consin, e per noi non rimase luogo.
L’Italia, se diamo retta alle divisioni di oltremonte non ha fatto mai
nulla, non ha pensato mai a nuli», e sola, spogliata del comune retaggio
dell’urnan go- nero, ella è costretta a stare spettatrice stupida od
ingloriosa delle maraviglie altrui. Troppo beata, se il passato della
Ger¬ mania o della Francia potesse diventare il suo presente;
troppo venturosa se, chiamata dalla straniera magnanimità, le venisse
consentito di spigolare nel campo, ove a si larghi manipoli hanno gli
altri mietuto. Mi rincresce, o signori, di dover prorompere in
parole amare verso uomini al cui ingegno porto di cuore molta ri-
vegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover rinfre¬ scare titoli
lunga stagione abusati, quando la gloria dei padri fu chiamata a coprire
la riprovevolissima inerzia de’ figli. No, io protesto, signori, die noi
non vogliamo addormentarci sugli allori dei nostri padri, che noi non
vogliamo farci belli della loro gloria, fragile schermo alle immeritate
rampogne... (p. 31) Il Fiorentino ricordava la « gran sollecitudine
» che a Napoli egli aveva visto « affaticare gl’ intelletti traen¬
done argomento a bene sperare e ad asserire che forse la filosofìa era «
deputata a maturare i fati della patria». Faceva voti cho quel «
desiderio ardentissimo » si dif¬ fondesse da Napoli per tutta Italia ; «
lieto di poter proseguire l’impresa, che qui (a Bologna) inaugurava
il suo illustre predecessore»; cioè lo Spaventa. Infine, una
patriottica perorazione : Por gli altri, o signori, la scienza può
essere forse un ad¬ dobbo ed un decoro, por noi italiani è desiderio di
riscossa, è condizione indispensabile di vita. Noi non sapremmo
pas¬ sarcene senza tralignare dalla nostra antica fierezza, senza disconoscere
la missione nostra nella storia. E poi grandi cose ancora ne avanzano a
fare, nè potremmo meglio allenarci, che fortificandoci la mento di
profondi studi. Nella infanzia dei popoli era la fede che operava
prodigi, e remica possibili le Crociate; nella loro virilità non si possono
aspettare altri miracoli, che lineili della scienza... Un pensiero che
non fosse progenitore fecondo di magnanimi fatti, io lo
disdegnerei; ma esso avventurosamente non sarebbe nemmeno da dire
pensiero, si bene fantasma vano, e passeggero capriccio. Io nel filosofo
anzi tutto voglio guardare l’uomo coni’esso è, e voglio trovarcelo
vergine, schietto, maschio e vigoroso. Io batto le mani a Socrate che
combatte u Potidca, sento un cotal orgoglio di coltivare la scienza elio
mantenne serena la fronte di Giordano Bruno avanti al rogo: applaudo a
Kicbte che lascia la cattedra di Jena e corre sui campi di Lipsia; e
non so rifinire di ridurmi nella memoria Sl’acteria, Mestre e Cur-
tatouo, ove siete caduti voi, Santarosa, Poerio e Pilla, va¬ lorosi
ingegni, valorosissimi cittadini. Sì, o giovani, di profondi veri e
di magnanimi fatti noi abbiamo bisogno, e 1’ Italia sarà. Addoppiate gli
sforzi... Per¬ corriamo di conserva e con alacrità 1' arduo arringo
della scieuza, e siamo certi di cooperare in tal guisa potentemente
al riscatto della patria nostra. La scieuza lo iniziò, ed essa
indubitatamente lo coronerà, snebbiando le nienti, aprendo il cuore a piò
candidi alletti ed utlbrzando le braccia della no¬ vella ed adulta
generazione. Un ultimo sforzo ancora, e quanto prima il Ponte di Rialto
risuouerà dell’ eco dell’ inno nazionale cantato sulle serve lagune
dell’Adriatico, e le piume dei nostri bersaglieri si agiteranno al vento
che spira dai sette colli (pp. 32-33). Dagli studi sulla
filosofia greca pel corso universitario annunziato nella lettera del 12
gennaio 1863, fatti sotto l’ispirazione dello Spaventa, uscì il Saggio
storico sulla filosofia greca (Firenze, Le Monnier, 1864), dove il
gio- bertiuno di tre anni innanzi, autore dell’ opuscolo 11 Panteismo
e G. Bruno, si palesava hegeliano e scolaro dello Spaventa, di cui
infatti metteva a proposito la memoria su Le prime categoi'ie della
Logica ili Hegel. Così il Fiorentino si staccava coraggiosamente
da’vecchi amici di Napoli : onde nella conclusione del Saggio (p. 302)
accennava: «Devoto alla verità, non mi ter¬ ranno del certo impastoiato
nè vecchie preoccupazioni, nè codarde paure». Non gli mancarono, infatti,
silenzii sdegnosi e tacite rampogne, seguite da una rottura, che fu
la prima origine della polemica scoppiata dodici anni dopo con l’Acri e
il Eornari. Nella seguente lettera ne abbiamo il più antico
documento: Mio carissimo amico, Vi so infinitamente
grado di llo coso gentili che mi dito del mio libro, o non vi nascondo
che le vostro parole mi sono valso di sprone efficacissimo a seguitare.
Voi sapete di quanto peso io tenga il vostro parere? o come lo
anteponga ad ogni nitro che potessi avere in Italia, o anche (V oltre¬
mente 5 onde me n* è venuta allegrezza o buona voglia da non potersi
misurare. Per me la filosofìa è stata sempre un amore, e perciò mi vi sou
messo in buona fede, e senza preoc¬ cupazione di partigiano. Non timido
amico del vero, io dirò sempre aperto il mio modo di vedere; ed in ciò
debbo confessare che voi mi siete stato esempio e conforto. Delle
altrui dicerie non mi brigo; conserverò P amicizia a chi me la continua
non ostante il dissidio delle opinioni, coni’ è mio costume; uon mi dorrà
di perdere amici, i quali pretendessero d impormi un treno, e di
vincolarmi con pastoie, che Panimo mio, non che nou comportare, anzi
disdegna. Questo anno mi occuperò «Iella filosofìa tedesca, e
epocial- nmnte di Kant, lo cui opere ho già tutte, oltre ad altre
espo¬ sizioni, tra le quali quella del Cousin. Sopra tutto ho in
pn.'gio il vostro lavoro su Kant e Rosmini, dove mi pare ve¬ dere il
kantismo scolpito con tutP i suoi pregi e le sue la¬ cune. Mi
vo procacciando i nostri filosofi «lei Risorgimento, per occuparmene in
un lavoro che ho in animo di stendere que- st’anuo medesimo. Ditemi voi
se le biblioteche di Torino, dove siete stato, ne hanno qualcuno, e
quale; perchè potrei chiedere al Ministro che fossero di mano in ninno
mandati a questa hibliot«^ca por studiarli... Vi ricordo e
rnccomando da ultimo l’affare della Metafisica 1-1 — Gentili:. Storia
della filosofia. Aristotile del Bonghi, avendo egli ora il
tempo di de¬ dicarsi alla continuazione di quella stampa. Add.o, uno
ca¬ rissimo amico, e ricordate ed amate Di Bologna,
Il tutto rostro £—5S-Svt*-- —
Addio. Dal lavoro su Kant e Rosmini dello Spaventa
ossia La filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofie
italiana (Torino, 1860, rist. in Scritti filos pp. 1- 9) il Fiorentino
aveva mostrato nel Saggio di avere ben compreso il valore della categoria
kantiana. Ma poco vantaggio potè certo cavare dalla esposizione
< Cousifr^Li «fe filosofìa di Kano che - 18« era stata pure
tradotta in italiano da F. Irmctiera eredità, probabilmente, dei primi
studi di Napoli, avan alla conoscenza dello Spaventa. Della tradurne
della Metafisica di Aristotele, di cui il Bonghi aveva pubblicati i
primi sei libri a Torino nel 1854, il Fiorent.no in¬ sieme col Bonatelli,
che allora gli era collega a Bologna procurava di rendere possibile, con
una sottoscrizione . resto della stampa, anzi la pubblicazione completa,
con hTristampa della prima parte; ed è a deplorare che non ‘ S
riusci», e che Jop» il Bonghi ne .1*» *»b.n. donato il pensiero,
quantunque la sua interpretazione non sia senza difetti.
TTT^ale che allora pubblicavano a Napoli il De Sancii» e .1
Settembrini. Il corso 1864-65 fu in effetti consacrato a Kant.
Della prolusione è notizia in quest’ altra lettera, dove il Fio¬
rentino torna a lagnarsi del silenzio del Fornari, dando a divedere
quanto pur ne soffriva il suo animo affettuoso': Carissimo
amico, ...Io sono venuto qua a passarvi le feste, ed ieri,
appena, arrivato, vi ho trovato la vostra lettera rinviatami da
Bologna. Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le
va¬ canze ve ne lasciano il tempo. Ho letto a Bologna una
prolusione su Kant, di cui questo anno mi occupo precipuamente. Sarà
stampata a Firenze in un nuovo giornale scientifico, elio ha per titolo
La civiltà italiana, e eh’è diretto da De Gubernatis. Quando ne
avrò gli estratti, ve ne manderò uno subito. Se voi voleste
scrivere qualche rosetta, o in qualche modo valervi di questo nuovo
giornale, so che De Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc un bravo giovane,
che io ho conosciuto, e che vi ammira molto. Sapete voi, che,
avendo mandato il mio libro ad alcuni a Napoli, non ne ho avuto neanche
risposta! Che voglia dire, non so ; ma mi par barbara usanza il voler
imprigionare la mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e rinunzio
vo¬ lentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono con¬
ciliarsi con l’amore della verità. Por la soscrizione ili Bonghi vi
rinnovo le premuro, perchè egli sta aspettando che io gli rimandi i
manifesti. So come si vada incontro ad inconvenienti, ma noi non
assumiamo nessun obbligo personale. Addio, mio carissimo amico, ed
amate Di Perugia, 26 dicembre 1861. Il vostro afet.mo
sempre F. Fiorentino. La Civiltà italiana pubblicò nei primi
tre numeri (I trimestre, gennaio 1865) il discorso del Fiorentino :
Em- manuele Kant ed il mondo moderno; come pubblicò di lui stesso
il 19 febbraio 1865 (n. 8) lo scritto su I dia- 1 Cfr. quello che
se ne dice nella Filos. contemp., p. 139. Ioghi di Rucellai;
dall’aprile al giugno dello stesso anno (II trimestre), le lettere
Stilla Scienza Nuova di Vico / e nel luglio, il discorso Dell’armonia del
concelto di Dante come filologo, come storico, come statisla (II
semestre, nn. 1 e 2): lavori tutti ristampati più tardi dall’ autore,
salvo il primo, negli Scritti vari (1876). Del discorso su
Kant dimenticato conviene riferire qualche pagina, la quale dimostra
quanto il fiorentino avesse profittato della lettura degli scritti dello
Spaventa. Ecco, per esempio, come poneva il problema kantiano
: jjji sperienzu prima di Kant era stata smaltita siccome il
fondamento più stallilo della scienza, o come le colonne di Ercole, di là
dalle quali non era dato allo spirito umano travalicare senza pericolo
d’imminente naufragio. Kant ri¬ flette, clic la sperieuza è tiu fatto, e
ebe perciò non può essere primitivo; essendo un risultamento, del quale
si può e si deve cercare la guisa e la ragione del nascimento. Egli
adunque propone una domanda nuova nella storia della tìlosoiìa. coni’è
possibile la sperienzat E più generalmente ancora: coni’ è possibile il
conoscerei Con la quale domanda 1 oriz¬ zonte della scienza si trova
onninamente cangiato, e i vecchi filosofi seriamente imbrogliati. Il
Galluppi, che primo in Italia giudicò convenevolmente il movimento
kantiano, si accolse di questa novità di problema, e con la Bolita sua
semplicità di linguaggio la espose così: — Prima di Kant la filosofia
era dommutio .1 o scettica: con lui comincia una nuova forma, la
critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano la sperieuza, o no;
Kant uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma disse: come si formai II problema
così mutato non versava più sull’esi¬ stenza del fatto, ma sul suo
nascimento; e cotesto è la mu¬ tazione più sostanziale che Kant avesse
recato in mezzo nella scienza filosofica. I.a Scolastica
mutuava or dalla tradizione religiosa, or dalla storia, or finalmente
dalla filologia il contenuto della sua scienza: presupponeva l’anima, il
mondo, Dio, i loro attributi, la loro origine, e vi attagliava una forma
scientifica per pal¬ liare l’intrinseco difetto. Cartesio se ne sdegnò, e
sopprimendo quel vuoto ingombro, fece capo alla coscienza, dove credette
trovare il punto stabile, sul quale puntellando la leva onni¬ potente del
pensiero si mettesse in grado di smuovere il mondo antico, e di
sfasciarlo. La filosofia sperimentalo sotterra¬ tagli ridusse lo spirito
a tavola rasa, e vi disegnò sopra le prime linee della scienza nascente.
Kant sorpassò l’uno e l’altra, e soffiò su tutto il sapere precedente,
perfino su la coscienza di Cartesio, pertìuo su la sperienza di Locke ;
es¬ sendoché entrambe contenevano degli elementi variabili, ed
egli, messo su l'avviso dalle rigide deduzioni di limile] non voleva più
far entrare nella scienza nulla elio avesse sembianza di
mutabilità. Esposte rapidamente la unificazione del
molteplice, onde nell’esperienza kantiana s’intuisce il sensibile e
onde si giudica per mezzo delle categorie le intuizioni, il fiorentino
dimostra come la vera unificazione ancora non sia compiuta, essendosi
passati dall’ opposizione della materia e della forma dell’intuizione a
quella di intuizione e categoria. Il legame primitivo, ove si
rannoda il multiplo sì della sensibilità, come della intuizione, è
l’unità trascendentale della coscienza. E badiamo che non ci tragga in
inganno il nome medesimo di coscienza, di cui Kant si vale in due
si¬ gnificazioni ben differenti. Questa coscienza trascendentale ò
primitiva ed originaria; producondo gli opposti, non può ella essere un
opposto; se no, si andrebbe all’infinito. L’altra coscienza di soconda
muno vien oontraseguata con la giunta di empirica, ed è una fattura di
quella primo, come ogni altro fenomeno: va costruita con la forma del
tempo, con le categorie di possanza, di causa, di relazione, e via via.
La coscienza empirica, insomma, ò posteriore assai alla coscienza
trascendentale, la quale sola ò unità originaria e feconda. L non è
senza ragione se ho ribadito questa distinzione, essendo capitalissima
nel sistema che stiamo abbozzando, il vero merito di Kant non è di avere
trovato i concetti a priori, ma di avere posto a capo della sintesi
quella eli’ ei chiama energia porlentota, vale a dire la unità sintetica
originaria della coscienza. L’illustre prof. Spaventa lia con molto
aocorgimento messo in sodo questo punto, criticando la esposizione che il
Ro- smiui aveva fatto del Kant. Non è gii che gli opposti sieno
dati, e che lo spirito, trovandoli, se ne impadronisca e li vada
elaborando: questo processo ci era prima di Kant, ed egli lo ha
sorpassato, vedendone la insufficienza. Imperocché quale conoscenza
potessi avere, posto che i termini, ond ella si compone, fossero stati
accoppiati per caso e alla rinlusaf Data da uua parte la intuizione,
dall’altra la categoria, e poi lo spirito che le sforza ad un’ unione
innaturale, o per lo meno arbitraria ; non si vede che il giudizio
sarebbe un’imbastitura come quella che descrive Orazio, e non già
un processo dello spirito, il cui carattere specialissimo è l’intimità?
Se lo spirito adunque unisce gli opposti, è perchè entrambi scaturiscano
da una sorgente comune, e perchè il riunirli è per lui una scria
necessità. Ma Kant non fu coerente a questo concetto della
sua energia portentosa. Confusa la coscienza trascendentale pura
con l’empirica, ritenne impossibile la deduzione logica delle categorie,
che ripescò perciò empiricamente attraverso i giudizi ; stralciò il
pensiero dall’ essere, fa cendo della sua attività una forma affatto
vuota ; e finì nel noumeno inconoscibile. E la conseguenza è
giusta, ogni volta che si ammetti' un pensiero che non pensa nulla, e, di
rincontro, un essere che non può essere pensato. Se non che lo sbaglio
sta appunto in questa concessione. Un pensiero vuoto non è : un
essere non pensato non è: sono due astratti, ai quali voi
accordate, con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir
mai cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?
Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo balenato
alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non co¬ noscerlo ed io vi
replico con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile a conoscere di questo punto
oscuro. Esso è l’oggetto del pensiero spogliato di ogni determinazione,
vuotato di ogni contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’
identità pu¬ ramente astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu
crea¬ tura vostra?. Nè le altre due Critiche riescono a sanare
pienamente le conseguenze prodotte da questa opposizione risorta
tra pensiero ed essere nella Critica della ragion pura. Nella
stessa Civiltà italiana (II sem., n. 10, 17 set¬ tembre 1865) il
Fiorentino inserì una recensione del primo di quei tanti libri che poi
Ruffaele Mariano venne compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo
Eraclito, € saggio di filosofia hegeliana » (Firenze, 1865). Recen¬
sione benevola verso il giovine autore, nella quale giova rilevare due
osservazioni, che mostrano già nel ’65 ben determinate le due direzioni
divergenti degli scolari del Vera da una parte e di quelli dello Spaventa
dall’ altra. Una è questa : « Perchè chiamate rivoluzionaria, in
senso di... retriva la filosofia di Rosmini? Perchè dir filastrocca
quelln del Gioberti? Questo acerbo procedere verso due illustri italiani,
quando anche si fondasse sul vero, non sarebbe certo modesto consiglio il
tenerlo. Nè veggo che l’essere hegeliano debba di necessità far avere in
poco conto le loro dottrine, perchè la critica imparziale e seria,
che P illustre prof. Spaventa ha fatto dell’ uno e dell’altro, prova il
contrario». L’altra è anche più notevole: «Ammesso come pre¬
feribile [a quello di Lassalle] il giudicio di Hegel sopra Eraclito, non
v’ha proprio nulla a ridire, specialmente su la relazione che P Hegel
pone tra Eraclito e P ultimo degli Eleatici? E forse vero che Eraclito
segni un progresso sopra Zenone? Pare che, Eraclito essendo stato
prima di Zenone, la dialettica obbiettiva di quello sa¬ rebbe apparsa
alla coscienza speculativa prima della dialettica zenoniana ; onde
l’andamento storico, per lo meno, sembra essere stato da Hegel capovolto.
Dico ciò, allinchè l’egregio Mariano si tenga in guardia inverso la
eccessiva fiducia nell’ autorità di maestri, per grandi che fossero. Le
colonne di Ercole dell’ ingegno umano. bisogna tenerle discoste più che si può
; e se si potesse affondarle nell’Oceano, tanto meglio. Anche lo
Spa¬ venta era di quest’avviso. Nel 1865 il Fiorentino si
accinse al suo lavoro sul Pomponazzi, pur continuando all’Università i
corsi sulla filosofìa tedesca moderna. E scriveva allo Spaventa:
Mio carissimo amico, È trascorso gran tempo che manco <li
vostre nuovo, non ostante die vi abbia scritto durante le vacanze, quando
il Settembrini mi fece sapere ch’oravate a diporto nella cam¬
pagna. Ora che il oholèra si sente a Napoli, io sono divenuto inquieto
per causa di qualche amico elle vi ho, e più d ogni altro per causa
vostra. Levatemi da questa iuquietitudine scrivendomi due parole che
m’informassero della vostra salute. Io sono tornato qui prima della
riapertura della Università, e vi ho riprese le mie lozioni. Ho passate
le vacanze qualche giorno a Ravenna, un po’ a Firenze, un po’ a Perugia,
e poi il più del tempo in villa. Sto esponendo la filosofìa
tedesca da Kant in qua ; e ciò alla Università. Sto preparando una
biografia ilei Pomponazzi ricavata dalle sue opero medesime, per leggerla
nella Società di Storia Patria, di cui faccio parte. Se questa prima
non dispiacerà, o non parrà inutile, ne farò qualche altra di
qualche pensatore più importante che abbia insegnato a Bo¬ logna. Oltre
l’Acbillini, chi altro mi suggerireste voif Forse potrei farla ancora del
Cromonini, che, stato a Ferrara, può dirsi delle stesse provinole di
Emilia: del Zabarella no, eh’è stato soltanto a Padova. Io poi a queste
biografie, elle leggerò nella Deputazione di Storia Patria, aggiungerò
per conto mio la esposizione e la critica del contenuto filosofico dei
loro libri, compiendo di ciascuno una monografia. Che ve ne pare
t ...Col medesimo ordinario vi spedisco un libretto conte¬
nente alcune mie lettere su la Scienza Nuova. Le scrissi per compiacere a
De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per la sua Civiltà italiana. Non
sapendo se abbiate o no avuto quel periodico, ve le mando così radunato,
come le feci estrarre; e vi prego di accettarla come
testimonianza della mia sincera stima ed amicizia. Addio adunque,
datemi presto vostre nuove, e ricordate ed amato Di Bologna,
30 novembre 1865. Il vostro afi.mo amico P. Fiorentino.
E questo il primo disegno del Pomponazzi, la cui biografìa fu prima
inserita negli atti della Deputazione di Storia Patria per le provincie
di Romagna (1867), e poi riprodotta in capo al volume pubblicato nel
maggio 1868. Il 19 giugno 1867 il Fiorentino, che diventava sempre
più intrinseco dello Spaventa, tornava a darne notizia all’ amico : « Io
aspetto la nuova ristampa [della tua memoria] sul Campanella, 1 perché
essendomene quest’ anno occupato nel corso scolastico, sono
desideroso di vedere come tu l’hai trattato. Ora sono attorno ad
una monografia sul Pomponazzi, attorno a cui raggrup¬ però i più celebri
suoi contemporanei. Me lo stampa il Le Monnier... Me ne dà cinquanta
copie e 150 lire pei libri che mi sono occorsi ». E il 26 aprile 1868: «
La stampa del mio libro è finita, e sono attorno a scrivere due
parole di conclusione, per le quali ho aspettato di ri¬ leggere tutto il
libro, che non avevo riletto, nè ricopiato, dopo scrittolo. A Firenze,
nella Magliabechiana, trovai di Pomponazzi un manoscritto inedito col
titolo di Quae- sliones ammostiate : * le chiesi al Napoli. 3 Mi promise
di spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi turba non poco,
non potendo sbrigare subito la stampa. Ma¬ ledetta fiaccona
degl’italiani! ». 1 III Saggi ili critica, Napoli, 1867.
5 Cfr. Fiorentino, Pomponazzi, p. 509. «Federigo Napoli,
allora segretario generale del Ministero della I. P.Uscito il libro, il
Fiorentino, mandato che l’ebbe allo Spaventa, ne attendeva con la solita
ansietà un giudizio. E giudice, in altro campo, era stato quell’anno lo
Spa¬ venta a Bologna, tra ire, sospetti e timori, di cui un’eco
risuona anche nella lettera qui appresso riferita del Fiorentino. Era
stato col Brioschi e il Messedaglia a fare quella ispezione alla
Università, di cui parla il Carducci in Ceneri c faville ; e aveva
riferito lui al Mi¬ nistero. Mio Carissimo amico, Ilo
ricevuto i manoscritti del Gatti, che ho consegnato subito al Siciliani,
uonchè lo due dispense che mi mancavano, e di cui ti ringrazio
vivamente... Non ho visto incora l>e Meis, ma fari) di tutto per
leggere la lettera di venti pagine: 1 ci dovrà essere una epopea
intera. Qui si fa un grati dir male di te per la famosa relazione:
* io uon l’ho letta, e se non la leggerò, non me ne sto al detto di
nessuno. Mi si è detto cose, alle quali, come puoi pensare, non ho potuto
dar credito: tra le altre cose che voi avete dato una patente d’ignoranti
a tutta l’università in massa, e che in difetto di scienza, si va in
cerca di popolarità nello associazioni politiche, lo per me, se fosBe
vero il detto, nou protesterei per l’ignoranza, che sento di averne una
grossa dose in corpo, nm protesterei per la popolarità, perchè non
no ho avuto mai gran voglia ; e se si acquista nei cliilie, ci vorrà un
pezzo prima che me ne tocchi un briciolo. Manco male se si acquistasse
dormendo, perchè allora potrei averci delle pretensioni. Fuori di
scherzo, quello che si bucina qui, e che ha prodotte molte ire, nò senza
ragione se fosse vero, 1 La lettera al De Meis che fu pubblicala
col titolo Paolotttsmo, positivismo e raslonallsmo , c che é qui appresso
citata. « Si allude a una Relazione da lo Spaventa presentata al
Ministero della P. I. in seguito ad una inchiesta da lui fatta in
commissione col Brioschi e col Messedaglia, nell’ Università di Bologna,
iter ragioni d'ordine politico, nel 1868. Un articolo del Carducci su
questa faccenda, pubblicato Dell'Amico del popolo, di Bologna, del 29-H0
luglio iami. si può vedere nel volume teneri e faville, serie I: Opere, è
qnell’aver messo sotto nini tuie cntegorin, e tutti in un fascio, i
professori bolognesi, lo sono nn mezzo proscritto, perchè sapendomi tuo
amico, o si guardano di me, o mi tempestano a tutta furia.
Lasciamo questa miseria. Ho letto i documenti che il Berti lui
stampato della vita di Bruno. Il processo veneto, se non e stato
adulterato il contenuto, fa mostra di poca fer¬ mezza, o non so persuadermene.
Che cosa ne dici tu! Gli hai visti! 1 Ho tra le mani pure la
seconda edizione delle opere di Comte, e voglio leggerla tutta, perchè ne
ho Ietto soltanto esposizioni, benché assai larghe. Il mio
libro è (inito, almeno le correzioni ultime le mandai una settimana fa,
ma ancora noi vedo. Appena uscirà, scriverò a Firenze, che di là stesso
te ne mandino mia copia, per far più presto. Tu poi leggila col tuo
comodo, e dimmene il tuo parere, quando potrai. Capisco che hai molto da
fare, o che non puoi tutto quello che vuoi. Mi prometto di
avere qualcosa di tuo pel giornale; qualcosa del Settembrini, fosse anche
tuia pagina. Il Siciliani spesso me ne fa premura... Io non solo non ti
ammazzo, ma ti rin¬ grazio, e col vecchio adagio ti ripeto: meglio tardi
che inai. Non credo però a quel « subito », con cui vuoi darmi ad
in¬ tendere che mi scriverai del lavoro di Labriola.* * Sii
contenterei che fosse tra nn mese. Hai avuto il libro del De
Meis! 3 Dopo il Don Chisciotte non ho letto libro che mi avesse fatto
rider tanto : le cause del riso sono spesso gravide di grandi pensieri.
Mi piace molto, ma molto. Qui l’hanno con lui tutti, il dott. Rossi
perchè noi trova abbastanza filosofo, le donne per essere state chiamate
animali domestici, e portino i bambini per essere stati ingiuriati
1 II Fiorentino, esaminali più lardi gli atti del processo veneto, si
confermò Infatti nel sospetto che fossero adulterati. Vedi un suo scritto
nel Oiorn. napol. di fllos. e teli., luglio 1878. * Non saprei dire
a qual lavoro si alluda. * Il Dopo la laurea del l)e Meis
(1808-69). per tignosetti. La contessa Gozzadiui 1
gli scrisse una lettera, nella quale si firmava: « l’animale domestico di
Gozzadini*. Addio, mio carissimo Spaventa, veglimi bene come te
ne voglio io Di Bologna, 19 maggio ’68. Aff.mo
tuo amico F. Fiorentino. Lo Spaventa dovette rassicurarlo sul
contenuto della famosa Relazione. Quindi quest’ altra lettera del
Fio¬ rentino : Mio carissimo amico, Ero
capacitato anche prima, che tu non potevi aver detto tutta quella roba da
chiodi di questa Università, che altri diceva, ed i pih credevano, lo
perù, come amico, mi tenui in obbligo di informartene, non per conto mio,
ma per tua regola. Tu puoi già pensarti, che con gli altri ho detto,
e gridato, e asseverato, esser impossibile che tu avessi voluto, e
potuto dire quello che non era; e elio la verità poi non si può, nè si
dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto bene, perchè mi ha
snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’in¬ tendo, propendeva sempre a
darti ragione, e non ci era bi¬ sogno di altri eccitamenti. Io dunque non
solo non ti ammazzo, ma neppure ti muovo un rimprovero, molto meno poi
per mie personali considerazioni, lo sono un misto di stoico, di
cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so quale prevalga
pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti non voglio applausi;
dunque, mi sento in grado di resistere ad ogni tentazione. Ad una sola
cosa non resisto, ed è il bisogno di voler bene agli amici, e di dir loro
franca, ed anche brusca la verità. Tu avrai dovuto ricevere a
quest’ ora una copia del mio Pomponazti; perchè io, vedendo il ritardo di
Le Monnier a spedirmene le copie, commisi ad un mio amico di
spedirne 1 Maria Teresa G., di cui scrisse la Vi la 11 marito,
Giovanni Goz- zadini (Bologna, Zanichelli, 1884), con pref. di G.
Carducci. V. pure Carducci, Opere, III, 369 ss.
una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo
commotlo nel leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die
tu possa, perchè da nessuno me lo aspetto piìi aspro e più
istruttivo. Chi mi dica: bravo, non ini mancherà; ed anzi più me lo dirà
chi meno me ne crederà degno, nè io ho da peccar contro la modestia per
accettarli, o per pronunziarmeli io stesso; ma chi mi mancherà di certo
sarà chi mi dica: qui hai sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio:
queste pagine avresti dovuto bruciarle intere intere. Kbbene, voglio che
quest’uno non mi manchi, e dovrai essere tu. Mettiti al naso
l’inseparabile occhiale, aggrotta le ciglia, prendi quel cipiglio mezzo
tragico che hai nella fotografìa di Napoli ; e per dir tutto in una
parola, figurati di scrivere una pagina di quella relazione, per la quale
vivrai eterno tra gli archivi del Mi¬ nistero, e poi scrivimi un
letterone quanto quello che scrivesti a De Meis. Più male parole ci
troverò, e più te ne renderò grazie. A proposito, quella tua
lettera, con partito unanime, fu li¬ cenziata alla stampa, riseoandone
certi nomi propri, e certe espressioui che ricordavano il Candelaio di
Brano... Io mi oc¬ cuperò in alcuni articoli successivi dei tuoi lavori.
Vorrei farne tre o quattro, o quanti me ne verranno, per far notare
lo sviluppo della filosofia italiana secondo la tua critica, che a me
pare una vera scoperta. Ma aspetto prima di finire le lezioni, perchè tu
sai che questa rivista non è tanto facile... Addio, mio carissimo
Spaventa, e veglimi bene come te no voglio io Di Bologna, 3
giugno 1868. Ajff.mo tuo amico F. Fiorentino. La
lettera dello Spaventa, stampata nella Rivisiti Bo¬ lognese, , che allora
il Fiorentino pubblicava con l’Al- bicini, il Siciliani e il Panzacchi, è
quella al De Meis, col titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo
(rist. in Scritli filosofici, pp. 291 sg.). Gli articoli che il
Fio¬ rentino aveva in animo di scrivere sulla scoperta dello
Spaventa, non furono più scritti. Ma egli se ne occupò qualche anno più
tardi in quello inserito nell’itoh'a dell’ Hillebrand. STORIA DELLA
FILOSOFIA E poiché abbiamo accennato alle brighe
universitarie bolognesi del 1868, di cui fu tanta parte il
Carducci, diamo pure un altro curioso brano di lettera del Fioren¬
tino, diretta allo Spaventa poco dopo la sua partenza da Bologna, dove si
serba il ricordo d’una polemica del Carducci col De Meis e col
Fiorentino: « Io sono stato poco bene, parte per la stagione
che corre, parte ancora per una certa polemica, nella quale ci
siamo trovati De Meis ed io, e di cui non so se ti è pervenuto rumore. Or
dunque, hai da sapere, che il Carducci, credendo dall’articolo di De
Meis, intitolato Il sovrano, 1 offesa la dignità del suo partito, gli
scrisse contro nell’-Amico del popolo parole aspre. Gli diede del-
l’imbecille, chiamò citrullerie le cose dette dal De Meis... L’ articolo
non era firmato ; ma io sapeva esserne stato autore il Carducci, per aver
questi scritto le stesse cose in una lettera particolare al Siciliani. s
Risposi io, di¬ cendo... potersi combattere le opinioni, senza
insultare le persone. Il Carducci si rivolse contro di me una prima
volta ; ed io lo avvertii privatamente, che lo avrei jHinto sul vivo. Non
si stette a questo avviso, e ripigliò da capo una tirata contro di De
Meis e di me ad un tempo » (18 marzo 1868). Il Fiorentino
replicò, ed ebbe, a quel che sembra, l’ultima parola. Ma, «tutto ciò mi
ha irritato», egli scriveva nella stessa lettera, « ed il povero De
Meis n’era rimasto seriamente afflitto : dopo avuta la rivincita,
che tutta Bologna ha approvato, si è rinfrancato ; ed ora * Pubbl.
nella Rivista bolognese del 1868. * Documenti dell’amicizia del
Carducci per P. Siciliani sono i giudizi del primo sul Rinnovamento della
filosofia positiva in Italia del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II,
Opere , VII, 362-68: e le af¬ fettuose parole Alla bara di P. Siciliani,
in Ceneri e faville, s. Ili, Opere, XI, 313-316. è
allegro e sta bene... Eccoti descritta la nostra battaglia, eh’è finita
con nostro decoro». Quegli articoli il Carducci non li volle pili
ristampati. Ma insieme con quelli del Fiorentino sono stati rin¬
tracciati dal Croce, che ha così potuto tessere la storia di questo
aneddoto. 1 In un’altra lettera di due anni appresso (25 maggio
1870) del Fiorentino allo Spaventa si legge ancora: « Io sono sul punto
di rientrare in lizza col Carducci, che mi ha provocato con una nuova
lettera insolentissima. Questa nuova contesa, alla quale non ho potuto
sot¬ trarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi de¬ finitivamente
da Bologna ». Nel novembre 1871 il Fio¬ rentino, infatti, si fece
tramutare nell’ Università di Napoli, come professore di Filosofia della
storia. Ma non aveva lasciato Bologna quando cominciò a
lavorare intorno al Telesio. Ecco infatti che cosa scriveva allo Spaventa
il 14 gennaio 1869: Mio carissimo amico, Sono passati
sei lunglii mesi che uè ti ho piti visto, nò ho avuto tue nuove, tranne
questa che mi diede tuo fratello, che tu eri stato a villeggiare negli
Abruzzi. Ora è cominciato un anno nuovo, e voglio ritentare se tu, chi
sa, volessi pure incominciare una vita nuova. Dalla parte mia non
voglio mancare di mandarti i miei augnrii, tra i quali non ultimo
quello di scrivere un poco più frequentemente agli amici. Vedi, che non
ho detto di pensare o di voler bene ad essi, perchè so che per questo
riguardo non ci è bisogno di miglioramenti. Io quest’ anno mi
occupo di Leibniz o di Spinoza princi¬ palmente, poi dei seguaci, e, se
mi avanzerò il tempo, di Ma¬ lebranche. Mi servo, oltre alle opere loro,
di varii espositori e critici, tra i quali della stupenda storia di
lCuiio Fischer. 1 Vedi B. Crocb, Documenti carducciani: una
dimenticata potè- mica tra II Carducci, F. Fiorentino e A. C. De Mele, nella
Critica vili (1910), pp. 401-421. t
Avrei intenzione di scrivere quulclie cosa sul movimento
telesiano, ed ho scritto per avere alcuni manoscritti che ri¬ guardano
Telesio, e che si trovano parte costà, parte a Firenze. 1 lo aspetto
sempre il tuo parere sul mio libro; parere, che per essere più aspettato,
e piìì pregiato di tutti, si fa lungamente desiderare. Ma verràf Lo
spero. Hai letto che cosa ne scrisse Franti sul Centralblatt?
Egli stesso mandommi con molta cortesia un numero di quel gior¬
nale, dove ci era la sua rivista sul mio libro. Con De Meis ci
vediamo spesso, ma egli non è in grado di darmi tue nuove, più che io non
sia riguardo a lui. La neve ieri si è fatta vedere la prima volta in città:
tu però quest’anno non verrai a goderne lo spettacolo. Io quasi
quasi sarei tentato di pregare che a qualche professore saltasse in
capo di tribuneggiare per la tassa del macinato, per vederti comparire in
commissione straordinaria. Ma non vorrei poi il danno del prossimo: in questo
sono cristiano. Tra questi giorni scriverò a Vera per invitarlo a
scrivere qualche cosa su la nostra Rivista. 11 Siciliaui, con le
suo velleità ortodosse, n’ò uscito, come saprai, ed io e l’Albicini
vorremmo tenerla in piedi, anche uu po’ più decorosamente. Con te non ci
vogliono inviti; ma, lo so purtroppo, non c’è neppure da far grande
assegnamento. Addio, mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche
per dire a chi mi doumnda di te, che sei vivo o sano. Di
Bologna, 14 del 1869. Aff.mo tuo amico F. Fiokentino.
L’articolo del Franti sul Pomponazzi uscì nel Cen- tralblait del 30
ottobre 1868, e fu tradotto dal Tocco e pubblicato in Italia, in una
difesa dell’opera del maestro contro gli attacchi della Civiltà Cattolica
(nella Rivista contemporanea di Torino, a. 1860, voi. LVI, pp. 247
58). Del Telesio si torna a parlare in una lettera del 9
novembre 1869 : « Tocco ti ha mandato la prima dispensa 1 Vedi L.
Settembrini, Epistolario, con pref. e note di F. Fio¬ rentino, 3.* ed.
Napoli. delle sue Lezioni, * 1 e so che aspetta il tuo giudizio. Io
ho cominciato a scrivacchiare le prime pagine di un lavoro sul Telosio,
che non so come mi potrà riuscire. Aspetto la tua memoria completa su P
Etica di Hegel. 1 Quanti più ne conosco, tanto più ti stimo e ti
voglio bene. Dimmi ora una cosa; vorrei dedicare a te ed a De Meis
questo mio lavoruccio sul Telesio, quando' sarà finito: accetteresti tu
la dedica? Tra me e te non ci sono timori di adulazione, o di altri
secondi fini : è una pubblica professione di stima e di amicizia,
che mi piacerebbe di fare...». Il primo volume del Telesio
(18<2) fu dedicato, infatti, allo Spaventa: non solo come
testimonianza di amicizia, ma come dovere di gra¬ titudine e di
giustizia: di giustizia verso chi aveva scritto i saggi sul Bruno e sul
Campanella ; di grati¬ tudine per l 'insolita luce che scintillava da
essi, e da cui il I iorentino era rimasto colpito. In questi studi
storici sui filosofi italiani del risorgimento il Fiorentino infatti non
fu, come s’è detto, se non uno scolaro dello Spaventa: da lui avviato e
da lui guidato. Ecco come cou lo Spaventa si consigliava per
pre¬ pararsi al primo corso di Filosofia della storia da tenere a
Napoli : Camerino, 26 luglio 1871. Mio carissimo
amico, Ti Borivo da Camerino, per sapere come stai, poiché
non mi iti dato di rivederti a Bologna, dove sperava poter passare
qualche giornata cou te. Avevo anzi desiderio di discorrere 1 F.
Tocco, Lezioni di filosofia ad uso de’ Licei, Bologna, R. Ti¬ pografia,
1889, con pref. del Fiorentino. 1 il proemio a gli Studi sull'mica
di Hegel era uscito nel 1869 nella Riv. bolognese; ma l’anno stesso fu
ristampalo con gli Studi negli Atti della R. Acc. delle se. mor. e poi.
di Napoli; e il tutto fu ripub¬ blicato da me nel 190-1 col titolo di
Principti di Elica (Napoli, Pierro). teco seriamente, per sapere che cosa
avresti creduto meglio, ch’io potessi insegnare nel corso dell’unno
venturo in coleste Università. Tu sai meglio di me i bisogni, i
desideri!, ed anche i gusti di costà, lo per me vorrei far poche chiacchiere
sui generali, e, detto quel tanto eli’è indispensabile come in¬
troduzione, entrare a dirittura nel tema, che sarebbe, salvo tuo avviso
in contrario, il mondo grimo. Dol mondo orientale so poco: avrei bisogno
di studiare prima; ed il tempo, per questo anno almeno, mi manca. Della
Grecia conosco qualche cosa, e con questi tre mesi di studio mi
preparerei suffiiiien- temente. Che cosa ne dici tu? Quali libri mi
consigli di leg¬ gere ? lo sto rileggendo gli storici greci ; e dopo
averli riletti testualmente, uii gioverò del Grote e del Curtius. Per la
parte letteraria ho il Milller (Ottofrodo); per le religioni, la
Storia di Alfredo Minirv; per la parte filosofica, il Zeller; per
arte greca forse mi gioverebbe il Winckelmann, ...a noi so, perchè
ancora non lMio lotto. Da tutti questi potrei attingerò, si sa, i
materiali; ma U resto è da fare. Le poche linee di Hegel nella Filosofia
Mia storia mi servirebbero di traccia: sui tuoi consigli poi faccio
largo assegnamento. Intanto comincia dal darmene qualcuno, e fa
presto... Tutto tuo F. Fiorentino. Aggiungo qui
appresso un altro gruppetto di lettere o frammenti di lettere dello
stesso Fiorentino allo Spa¬ venta, di cui trassi copia alcuni anni fa
dalla carte dello Spaventa ora depositate presso la biblioteca
della Società napoletana di storia patria ; poiché anche queste
lettere e frammenti / gettano qualche luce sugli studi, sulle passioni,
sulle idee, che si agitavano in Italia in¬ torno allo Spaventa.
(Pisa). — Ieri sera parti di Pisa Silvio, ed a quest’ora sarà a
Milano, e domani parlerà a Bergamo. Si trattenne con me la giornata d’
ieri, ed arrivò qni avantier- sera. Sta benissimo, e me ne sono consolato
tanto. Gli dissi elle ti avrei scritto stamattina ed al solito ti
mando queBta lettera col liciti. 1 K la tna lunga lettera? 15
rimasta tra i pii desiderii, di cui è lastricato, dicono, 1’
inferno. Io ho scritto una risposta all' accademico linceo Pietro
Hu- cione. 1 Si sta stampando a Napoli, e vorrei che tu ne
guardassi le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto al Zumbini,
perchè te la mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo delle mie solite.
La presunzione e P ignoranza nel Ferri si bilan¬ ciano tanto, che non so
a quale delle due dare la preferenza. Aspetto tua lettera dopo
letto questo articolo: mi preme sapere il tuo giudizio, e ti do piena
facoltà di mutare, e di cancellare anche qualche cosa, die non ti paia
conveniente, o inesatta. (Portici, 9 settembre ’73). — Ieri
tornai da Soma, dove la¬ sciai Silvio che stava benissimo. Ho trovato qui
una lettera dello Zeller, clic mi annunziava la sua venuta a Napoli.
Oggi P ho visto, ed ho insieme saputo dal Labriola, che tu sei a
Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è parlato di te, ed egli de¬ sidererebbe
di conoscerti di persona, come ti conosce di fama. Dimora questa
settimana... (Pisa, 31 dicembre ’7(i) — Prima che tramonti l’ultimo
sole ili questo anno, e sta già per tramontare, voglio scriverti.
Il tuo ostinato silenzio avrebbe scoraggiato ogni altro, non me,
ohe quando si tratta di te, il peggio che possa pensare è, che il
calamaio l'abbi o smarrito, o asciutto come la sabbia. Kccoci ora intesi
: tu taci, io scrivo. Io sto bene, e tutti di casa pure, salvo la
Tuta 3 eh’è un po raffreddata. E tu? E donna Isabella? E Camillo e
la Mimi f 4 Speriamo che stiate bene, ed auguriamo che stiate
meglio. Pisa 1501 ** 0 ’* malenla lico, che insegnava nella Università
di lll0R0, '° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli amici dello
Spaventa applicato tale nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni nel
Olorn Napol. di filo.,, e leu , aveva rilevato lo strafalcione dal
j ,, commesso nel trascrivere f.V. Antologia, voi. XX, 1872) l'epitrrafe
della tomba del Cusano in S. Pietro In Vincoli leggendo: Promise* Pelei
lìucionts [invece di retri — bucionisj non fefetut eum » HestItuta
Trebbi, moglie del Fiorentino. * Isabella Scano moglie dello
Spaventa; Camillo e Mimi tigli. Ln disfatta del nostro partito mi
ha commosso non por me, che sai quanto io stimi il genere umano in massa;
ma pe miei amici, per tuo fratello specialmente, che non ha alte
vita, si può dire, che la politica. Ne sono stato costernato, ancora è
scemata l’impressione. Nicotor» è dunque 1 arbitro dell’Italia, e tutti,
o quasi, gli si curvano, gl. si prosternano innanzi. Quanta viltà 1
Quanta corruzione! Vaie il pregio < curarsi del prossimo! E una
terribile domanda : piò si conosce il moudo, e piti si devo disprezzare:
Leopardi non aveva torto. Ma... c’ è un ma; ed io ti confesso che non mi
“ ,re “ do - con tutte le ragioni in contrario. Mi sono chiuso, vivo
tra. miei ed i libri, non vedo nessuno, non conosco e “ conosciuto,
e mi sento beato in questo silenzio ed in questa oscurità. 11 mio
Niuarello cresce eh’è una delizia, ad ha tonto alletto e tanto
accorgimento, che mi diverte e mi ristora, tess’io vederlo giovane fatto
come il tuo (.umilio Non Io perchè, mi sento ora più legato alla vita,
come non Cì iTn povero 1 Settembrini f A casa mia ci fu lutto come se fosse
morta persona nostra: lessi la notizia su la Gazze a dell’Emilia, ed
insieme appresi la scondita di bihio. colpi in una volta. Ma Silvio
tornerà alla Camera, e al Mi¬ nistero, se il senso dell’ onestà non sarà
spento nel nostro nomilo ; il povero Settembrini non tornerà piu .
• Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale napoletano; è
la sola cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo questo tr Che3 U
rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di filosofia pei Licei: il
Morano mi è stato addosso, e finalmente mi ci sono piegato. È cosa molto
ardua, ed il noti poterti allargare quante vorresti, toglie gran parte
della scioltezza del pensiero, ed anche dello stilo. Farò alla meglio e quel
eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise lo sbaglio di un f..U,
munirò ...» »». «,•«•*> fogli, ora con la spada alle reni
ni’...calza per la tonti n u azione. i n settembrini
mori addi 3 novembre 1878. Il Fiorentino non scrisse poi l'articolo
di cui parla in questa lettera; del rimpianto scrisse P°' ,, u Scriui va
.u di tener, polii, ed atte (Napoli, Morano. 1873; e V Epistolario
(ivi, 1883), premettendo agl. uni e all'altro belle e affettuose
prelazioni. All’ Università faccio nu corso di Etica, ed lio riletto la
tua memoria su l’Etica di Hegel. Hai visto il giudizio portato dal
Berlini 1 su di te, o di Hegel f Ci ho avuto molto gusto, perchè la sua
autorità non è sospetta, come In mia, appresso la filosofia italiana.
Povero Bortini, spento anche lui 1 Scrivimi, se puoi, e se vuoi:
lascio la cosa al tuo arbitrio ; non cosi, il volormi bene che in mezzo a
tanti disiugauni mi preme e mi giova assai. Alla tua famiglia
di tanti augurii anche da parte della mia, e tu credimi sempre, e non a
parole. S. — Vedi se puoi sorivere qualche cosa pel Giornale
napoletano. (Samhinse, 25 agosto 1877). — Ed ora un’altra
notizia. L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha scritto
su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una recensione di un
uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono vo¬ tato a te
anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo, pos¬ sessore de’
documenti della storia antidiluviana, non sa farsi capace della mia
polemica contro il vice-gesh, ed il vice- Fornari; cioè contro il
Fornari, e l’Acri. Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14
mesi, è venuto fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica,
e come c’entri coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva
convalidare. Non ho nessuna intenzione di rispondere, qua¬ lunque sia il
libro, che ancora non conosco, se non per la receusione dell’arciprete
noetico». 1 Su G. M. Berlini (1818-1876) v. lo mio Origini della
fllos. contemp. in Italia. 1,* 129-201. Il giudizio cui alludo 11
Fiorentino, é contenuto in una lettera del Berlini al prof. P. Merlo,
pubblicala nel Giornale napoletano di fllos. e letl. (ottobre 1876) IV,
823, dov’é detto: « Vi ringra¬ zio di avermi mandato lo scritto dello
Spaventa, che io considero corno il più serio e il più chiaroveggente
degli Hegeliani d'Italia. Volendo lo terminare un corso di filosofia
elementare ad uso de’ licei... mi sono creduto in obbligo di tener conto
delle dottrine di quel valentuomo, tanto più che io sono sempre in questa
persuasione, che II restringere il vocabolo scienza a significare
puramente i risultati dell'esperienza, dell'osservazione e
dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni valore scientifico alle
discipline speculative, sia non solo arbitrario, ma contradittorio...
Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad Hegel, o per dir meglio,
al suo metodo, e a quella sua assoluta, e direi quasi eroica fiducia
nelle forze della ragione umana ». STORIA DELLA FILOSOFIA
(Pisa). — Prima di scordarmi, ae hai por¬ tata la Vita di Giordano
Urlino, 1 dalla al Betti che me la porterà: se no, mandala a Domenico
Morano, affinchè me la l'accia pervenire. li Bruno si sta
copiando, e dentro questa settimana co- mincerò a mandare il manoscritto.
Spero che tu hai con¬ certato pei caratteri, pel formato, per la carta.
Se non avessi ancora stabilito niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il
tuo ritorno. Il Peipers mi ha risposto che a Gottinga si
conserva sol¬ tanto il manoscritto delP Oratio coneolatona ; ma non mi
dice neppure s’è autografo. Quest’ orazione io la trovai a Roma tra
la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed è rarissima. Vale
la pena di far veniro il manoscritto? Nota che a Gottinga, la copia stampata
non l’hanno neppure. L’edizione del Gfrorer ! non si trova in
commercio : il Zeller uii ha mandato la sua, la quale però è mancante
della quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so se mi
riuscirà pescarla. Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve Umbrie
idearum. Ho riscontrato il Buhle : non dice nulla di manoscritti :
porta un catalogo delle opere abbastanza esatto. Ho trovato qualche
altra notizia sul Bruno uelPAoidalio. 3 Dopo che tu partisti di
Roma, riseppi che nell’archivio della congregazione di San Giovanni
decollato c’ era la no¬ tizia del giorno della esecuzione del Bruno, e
che questa data non corrisponde a quella generalmente ritenuta (17
Feb¬ braio 1600).* * Mi è stata promessa una copia, benché quei
fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia ag¬ giunge, che a
nessun patto si volle convertire. Come sai, questa notizia è un documento
autentico, perchè finora non c’ è altro che la lettera di quel furfante
dello Scioppio. I.a Vita scritta da D. Berti (Torino, Paravia,
1888). * Ossia il volume degli Scritti latini del Bruno, pubblicati
nel 1838 (frontespizio 1831) da A. Kr. Gfrorer a Stoccarda. *
Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine del Bruno, ed.
naz , I, p. XX. * Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle
Opere latine del Bruno a cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze.
1891). Inoltre il cav. Podestà 1 * mi disse, che a lui
orati venute sot- t’occhio parecchie carte mauoscritte concernenti il
Bruno: non sapeva però dove. Cercai una giornata intera, ma ce ne
vo¬ levano delle dozzine di giornate, ed io avevo fretta di
tornare. Il Podestà mi promise di continuare le ricerche: se no, ci
andrò io per lina settimana. Mi ci sono messo, o voglio
riuscire. Tornato tjiti, trovai Nino ammalato di febbre gastrica:
com¬ parvero lo macchie difteriche; in un giorno si pennellarono
tre volte; due altre volte il giorno appresso: disparvero. Ma come
fossi stato io d’animo, tu puoi pensarlo. I nervi mi ballano ancor», o
tra giorni andremo in campagna, in una villa che ho trovata in iptel di
Lucca. Ilo avuto i titoli di Bàrbera, 5 quelli del Siciliani non
ancora: conosco gli uni e gli altri; ma r/itid agenduml Sono tra
l’in¬ cudine e il martello, e non so a qual partito appigliarmi.
E tu dimorerai a Napoli? Ovvero andrai in campagna, e dovei Vorrei
saperlo. Il Labriola mi ha mandato un suo articolo su la libertà; 3
* e vorrebbe ne dicessi qualche parola: mi ci trovo imbrogliato.
Capisco il Labriola, quando parla, non lo capisco quando Bcrive. Non ha
stabilità di pensiero, ondeggia in aria, ed ha la pretensione di parere
elaborato, come egli mi scrive. Capisco Herbart, non capisco lui.
L’oscurità non è nelle parole, o nello stile, è dentro la testa.
Ilo letto il discorso di Silvio, e poi Insita sdegnosa lettera
all’Opinione, tritai maturità ili pensiero nel primo, e qual forza di
carattere nella seconda! Il discorso appartiene al mondo moderno, ma la
lettera è di altri tempi, ed ora non tutti possono gustarla.
Salutamelo tanto, anche da parte della mia famiglia, che fa lo
stesso con te. 1 11 bibliotecario Bartolomeo P. <m. noi 1910),
allora nella Vltt. Emanuele di Roma. ’ Luigi Bàrbera,
che fu professore di Filosofia morale nella R. Uni¬ versità di
Bologna. * Del concetto della libertà, studio psicologico,
nell'Archivio di sta¬ tìstica del 1S78 (risi, in Lakkiola, Scritti
cori, ed. Croce, M’ero dimenticato di raccomandarti il Persiani. È
impaurito, perché il relatore 1 non sei tn, ina un lombardo (forse il
Teneaf), e par che dalla Lombardia non si riprometta gran che di bene.
Son certo però che tn potrai njutarlo sempre. (Pisa, 22 marzo
1877). — Avantieri ti scrissi a Napoli, ed ora avendo saputo che il Betti
ò stato chiamato per tele¬ grafo, ti rescrivo da capo, e ti manderò
questa lettera per mezzo suo. Io non gliela posso portare di persona,
perchè sono al¬ quanto infreddato a causa della lezione d’ieri.
Tu che sei la fenice dei Presidenti, specialmente quanto a
prudenza, vedi se non entra fra le attribuzioni presidenziali quello che
ti chiedo io. Ho bisogno di venire a Roma, perchè il primo volume
è finito, e per continuare la stampa voglio esser certo che il
ministro non adduca cavilli : nel qual caso pianterei 11 la baracca.
Premesso ciò, e visto e considerato che il Ministero ha premura pel
Siciliani, e poca o punta premura pel concorso di Torino, visto e
considerato, che sta alla chiaroveggente perspicacia del Presidente il
decidere se necessiti la convo¬ cazione del concilio: io riproporrei che
tu ci convocassi; che, convocati nell’ interesse del pubblico erario,
stimoli i padri ecumenici di Roma a finir la eterna questione di Torino;
e son certo, come ogni dottor Pangloss, che tutto andrò per lo meglio
in questo perfettissimo mondo, tranne il mio raffreddore che sempre piò
s’ inasprisce. Ed ora che ti ho detto il mio desiderio, tu con
quell’occhio critico che ti rende (che cosa dico!) che ti rende
piuttosto singolare che raro, farai quel che crederai. Ed orn
da capo, ma su di un altro argomento, una notizia. Nell’ultima puntata
(stile mamianico) della Filosofia delle scuole italiane, il sullodato
Conte scrivendo all’amico Ferri, sai che cosa gli dico f Che in tutta
Europa (le pelli rosse e gli Zulus non ci vanno compresi) a parlare di
Platouo e delle idee non ci sono rimasti altri che loro due. Povero
Platone ! Chi glielo avrebbe detto, che dopo tante feste, e tanti
conviti, 1 Nel Consiglio Superiore della P. I., di cui Carlo
Tenca, come lo Spaventa, faceva parte, e da cui il Persiani aspettava 1’
abilitazione all' insegnamento. tanti commensali (a 20 franchi
l’uno) che lo ringiovanirono, lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai,
finita la digestione del pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee
non ne vuol sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino
quello ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate
anche loro al materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo
aspettavo, che sareste rimaste platoniche lino ad aver trovato un marito,
o un facente funzione; ma il Finali, il Monabrea, il Borgatti, tutta
gente massiccia, chi avrebbe mai creduto ohe avrebbero lasciato nelle
peste il Conte ed il suo illustre oommilitonef Vista la
brutta china, direbbe il Sella, io proporrei (il raffreddore mi ha dato
un diluvio di proposte) che il Ma- miani ed il Ferri siano impagliati, e
ben conservati nell’atrio dell’Accademia de’ Licei con questa memore
iscrizione: QUESTI BIPEDI IMPLUMI ULTIMI DELLA SPECIE
ESTINTA RIMASERO platonici, ESSI SOLI IN EUROPA DOPO IL
PRANZO PLATONICO Dopo della qual cerimonia vorrei che l’Accademia
prelodata a voti unanimi incaricasse il poeta pindarico B. Spaventa
perchè ne celebrasse condegnamente l’eroismo. E diamine 1 Alle Termopili
furono treceuto finalmente, eppure Simonide s’incaricò di cantarne: qui
si tratta di line soli, in Europa, non contro schiere barbariche, ma
contro eserciti di dotti, e non ti paro che ci sia più materia di canto?
Ridettici bene, e poi dimmi il tuo avviso. Tu duuque hai
leggicchiato il mio amico Marino! 5 Beato te, 1 Scolare dell’
Istituto superiore di Magistero, allora fondato a Roma: le quali — era la
prima volta che si vedevano tante signorine in una Università — frequentavano
alla Sapienza le lezioni di D. Berti. * Su questo pranzo v. le mie
Orig. della fllos. contemp., I, 1 p. 117. * Una critica che I.uigi
Marino (che fu poi professore di Filosofia morale nella Università di
Catania) aveva pubblicata degli Elementi di flloso/la del Fiorentino.
che hai tanto tempo da marineggiare. Io l’ho qui il
suo libro, ma non mi è avanzato un briciolo di tempo: ed ho una sua
lettera autografa, che impaglierò pure. Povero giovane! Mi ha scritto con
una ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo abhraccerei. Abbracciarlo sì,
ma leggere no. Non gli ho neppure risposto, ed ho fatto male. Volevo
leggere prima e poi scri¬ vere. La bestia che sono stato! Bisogna fare il
rovescio: uè senza un perchè i metodi moderni fanno precedere la
scrittura alla lettura. Berti, p. es., fondatore della moderna
pedagogia prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese iu
qua, a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.
A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui, perchè
Camoeraceneie, che vuol «lire di Cambrai, egli l'ha tradotto della
Sorbona : facendo poi una dottn osservazione, che cioè il Bruno or*
saltato a piè pari dentro la rocca dol- 1’ aristotelismo eco.
E poi vorrei sapere, perchè dice che il De immenso, è un libro, uno
tA’ tanti in cui è divisa l’opera De monade, nu¬ mero et figura; quando
il De immenso ole. contiene otto libri, ed il De monade, che sarebbe il
contenente, non contiene nè otto, nè due, perchè è un libro solo, unico
tiglio di madre vedova. Sono piccoli nèi, lo so, ma che dimostrano
una piccolissima cosa: il precetto pedagogico che testò avevo 1’onore di
dirti, cioè ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse scrisse, e
poi spese, nello stampare, il tempo che doveva impiegare nella
lettura. 11 Barzelletti 1 però assicura eh’è il gran capolavoro
della critica italiana : così mi han dotto, perchè io, al solito,
non 1’ ho visto ; e poiché 1’ articolo sarà tradotto certamente
dnl- l’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la festa che
faranno quegli eruditi di laggiù. A furia di scrivere, mi sono
snebbiato un poco il capo, ina temo forte di averlo annebbiato a te;
legge di compen¬ sazione. Quando io mi trovavo a discorrere di lilosotia
col Berti, rimanevo muto: tu eri più fortunato di me, avevi il
pretesto di andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il 1 Nell’
art. sulla Filoso/la in Italia pubbl. in una rivista inglese, e poi
tradotto nella Muova Antologia del 15 febbraio 187».tabacco, »e tornassi
deputato, per non dovermi ingoiare quelle forti dosi di filosofia
scientifica, che mi somministrava il nostro Berti, m’imparerei a fumare.
Meglio lo stomaco sconvolto, elle il cervello come un mulino. Spero bene
però che non sarò costretto a nessuno di questi tormenti. Non mi
dicesti se Morano ti diede o no la prima parte del Manuale ili moria
della filosofia. Fattelo ilare, e leggic¬ chialo: invece di Marino,
potresti dure un’ occhiata al libro mio. Vorrei sapere se quel tanto è
sullìciente per la coltura generale, o s'ò dippiit, o di meno. Mi
servirebbe di norma per le altre duo parti (Portici). Ha lettera dal
Zeller, che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che faceste
insieme felicemente. M’incaricò pure di dirti tante cose per la
lettera che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla
mattina nlla sera, e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e
non che siamo a due poli opposti. Ha la ricetta : si è fatta la
bobba, ma non li’ è venuta fuori la storia delle prove dell’esistenza di
Uio. Per un concorso a una cattedra universitaria, della cui
commissione faceva parte il Fiorentino ed era presidente io Spaventa, questi lo
aveva pregato di raccogliere gli appunti per una relazione sulla
voluminosa Storia delle prove dell! esistenza di Dio di Romualdo
Bobba. Il Fiorentino, il 19 aprile 1879, da Pisa gli rispondeva. Letto il
tuo, piò volte espresso, desiderio, ho posto mano alla lettura del
Itobbu. Un corto estro maccaronico mi invase alla prima pagina; ma ho
lasciato il poema lutino ai primi due versi e mezzo. Eccoteli:
Iufainem, liertrunde, iubes supportare laborcm, Insipidimi
scilicet putidumqiie ingoiare bobatam ; Obediain tamen
etc. Esto prendendo appunti; ma che diavolo vuoi appuntaret Finirà
prima la pazienza mia, che le sue sciocchezze. È un pover’ uomo, e noi
uccideremo un morto. (Pisa. — E poi c’è il secondo libro della Legge
morale di Crescenzio: il titolo è
Francesco Fiorentino. Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn
secondo libro della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa
miracoli. Ma la cosa non Unisce qui : il terzo libro sarai tu. 1
u in persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana, tu
sarai un libro di un’opera. Non so se l’opera avrà molti altri libri : a
congetturare dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa
in 100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole, il veronese
Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri personaggi minori.
Ogni libro costa 20 centesimi : ed io per ora sono venduto a questo
prozzo : tu iorse salirai a cinque soldi ; o calerai a tre, secondo che P
opera seguirà il processo ascensivo o il discensivo. Il bello
consiste ne' documenti. Nella copertina 1 autore dimostra che io sono causa di
parecchie depredazioni e grassazioni nei pressi di Casale. La mia influenza
venefica s è esercitata, per non so quale selezione, su la provincia di
Ales¬ sandria: e la tua! Probabilmente verso Girgenti, o in quei
pressi. Che non ci sii stato non preme, l’etica hegeliana è come la
filossera, si estende per salti di 70 chilometri la volta. Delle
stroncature, come oggi si direbbe, dei De Cre¬ scenzio ormai chi se ne
ricorda più ? Ma c’ è sempre qualche De Crescenzio in giro, pronto a
dimostrare, come quattro e quattro fanno otto, che il tal filosofo
o il tal altro sovverte la legge morale, il buon senso, o le leggi
fondamentali della logica ecc. Ma il filosofo può accogliere siffatte
dimostrazioni con lo stesso buon umore del Fiorentino. Intorno al
Fiorentino v. le mie Origini della filosofia contemporanea in Italia. Giovanni
Gentile. Keywords: Reale Accademia d’Italia, what does ‘fascista’ applies to –
philosophically? To ‘state’ – how is it defined philosophically? Opera complete
frammenti di storia di filosofia 3 volls -- - Refs.: Luigi Speranza, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice – Luigi Speranza, “Grice e Gentile:
implicatura conversazionale” -- Conversation and inter-subjectivity. – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Gentile.
Grice e
Gentile: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Trieste). Filosofo italiano. Grice: “I love Gentile; like me, he is interested
in Aristotle’s immotum motor, and the idea of number in Plato – but he extends
his views to all the rest of philosophy of language; if Vitters wrote a
‘trattato,’ so did Gentile!” – Si laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova,
Vigevano, Padova e Trieste. Fonda il Bollettino filosofico. Considerato il
fondatore della "scuola padovana" di metafisica neo-aristotelica. Altre opera: “La dottrina platonica delle
idee numeri e Aristotele” (Pisa: Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti
metafisici della morale di Seneca” (Milano: Vita e pensiero); “La metafisica
presofistica; con un'appendice su Il valore classico della metafisica antica,
Padova: MILANI); “La politica di Platone, Padova: MILANI); Institutio: sommario
storico di filosofia dell'educazione, Verona: La Scaligera); “Umanesimo e
tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti); “Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica:
testo ad uso degli istituti magistrali e dei giovani maestri, Milano:
Marzorati); “Filosofia e umanesimo, Brescia: La scuola); “Il problema della
filosofia moderna, Brescia: La scuola); “Come si pone il problema metafisico,
Padova: Liviana); I grandi moralisti, Torino: Edizioni Radio Italiana); “La
riforma silenziosa della scuola: il completamento dell'istruzione primaria ma
inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se e come è possibile la storia della filosofia,
Padova: Liviana); “Storia della filosofia -- Periodo antico e medioevale -- Dal
Rinascimento fino a Kant -- La filosofia contemporanea -- Padova: RADAR); Saggi
di una nuova storia della filosofia, Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia,
Padova: MILANI). Dizionario biografico degli italiani. G.occupa sicuramente un
posto importan-te nella storia della filosofia del secolo scorso, ma – se fin
dall’inizio non vogliamo avanzare discorsi di carattere celebrativo o
commemorativo, quanto innanzitutto teoretico – forse dovremmo dire, più
correttamente e semplicemente, che egli occupa un posto importante nella storia
della filosofia. Il senso di questa affermazione, e la ragione per cui vale la
pena di rinnovare, anche in questa sede, la riflessione sul maestro patavino, è
che egli ci rimette davanti alla struttura essenziale del filosofare. La sua
concezione della filosofia come “problematicità pura” si di-mostra infatti quale
dice di essere, veramente “classica”, in quanto, evidenziando in tale
problematicità quella che non può non essere con-siderata la caratteristica
fondamentale e imprescindibile del filosofare, mostra di possedere essa stessa
un valore permanente ed attuale.Ricordato come fondatore della scuola padovana
della metafisica classica, Gentile, proprio in virtù del riconoscimento dell’attitudine
problematica del filosofare, poté affrancarsi dalla sua formazione
idealisti-co-attualista e aderire alla scoperta aristotelica dell’Atto puro
quale princi-pio divino trascendente l’esperienza. Egli sviluppò così una
posizione ori-ginale che, giunta a maturità speculativa negli scritti padovani
del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla corrente neoidealista,
ancora attiva soprattutto nel pensiero di Spirito, anche dalle due filosofie di
ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia neotomistica, nelle sue
va-rie declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e la filosofia neoclassica di
Bontadini. Le sue opere più significative, in particolare Come si pone il
problema metafisico (Padova), Breve trattato di filosofia
(Padova) e Trattato di filosofia (Napoli), non sono tuttavia solo
innovative per l’epoca in cui sono state concepite, ma, come si accennava,
restano a tutt’oggi testi vivi e parlanti, che, nella radicalità del domandare
su cui si fondano, appaiono in grado di raccordare la prospettiva metafisica
anche alla sensibilità esigente e inquieta del nostro tempo Sent
from the all new AOL app for iOSLa fecondità della problematicità pura non è
peraltro esaurita dai suoi esiti metafisici: il “domandare tutto che è un tutto domandare”
è ben più che una formula descrittiva della natura della filosofia, è un vero e
proprio “metodo”, che il maestro patavino dispiega nei più diversi ambiti del
suo impegno teoretico. E che anche nel nuovo millennio merita attenzione. Di
questo domandare filosofico vogliamo dunque continuare a va-gliare la profondità
speculativa, a cominciare dai “saggi” qui raccolti, che intendono sviluppare i
motivi di interesse riscontrati nel pensiero di Gentile da alcuni studiosi che
lo hanno, direttamente o indiretta-mente, conosciuto. Questa stessa
problematicità può del resto essere assunta anche come chiave di lettura dei
contributi che presentiamo, essendo ravvi-sabile quale principio animatore, ora
espressamente tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno ripensamento
dei vari aspetti dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso risulta subito
evidente nell’articolo di Berti, uno dei primi e forse il principale tra gli
allievi, che in un saggio denso di ricordi, si sofferma su uno scritto
apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro, forse
l’ultimo, dedicato alla possibilità di pregare il Motore immoto. Si tratta
infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti essenziali
l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per ripensare le due
caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la trascendenza e
l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per ritrovare in
quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del “domandare
tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla Causa suprema ordinatrice del
cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive e oranti. Il
tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al centro del saggio
di Maria Cristina Bartolomei, che di tale domandare indaga le potenzialità, sia
come ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica, sia come fulcro di
“fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori contemporanei, evidenziandone,
pur nella distanza e divergenza delle posizioni, la comunicabilità e
l’inaspettata consonanza su punti fondamentali. È quanto si verifica con Adorno,
a proposito della legittimità della problematica metafisica e delle
caratteristiche di apertura e processualità che connotano la conoscenza dei suoi
oggetti, i concetti; con Badiou, per la specifica intenzione di verità che
distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con Weischedel, sotto il profilo della
necessaria radicalità dell’interrogare filosofico, che, anche laddove non giunga
ad esiti metafisici o teologici, non può non avvertire la realtàdel mistero che
lo sollecita. In tutti questi casi – conclude l’Autrice – la posizione di
Gentile, interloquendo costruttivamente con linee di pensiero profondamente
differenti da quella propria della metafisica classica, dimostra una inesausta
vitalità filosofica.Il terzo saggio, redatto da Gabriele De Anna, affronta il
problema del valore morale dell’azione cercandone la soluzione nelle pagine
del Trattato di filosofia , e rinvenendola nel ricorso all’uso pratico dell’intelli-genza
che coglie il principio nell’esperienza, e quindi una normatività nel reale. In
questa lettura l’importanza della problematicità gentiliana emerge specialmente
nel farci intendere come il manifestarsi del principio, e quindi del “valore”,
sia inseparabile dall’esperienza, intesa come atto che precede e trascende
continuamente la distinzione soggetto-oggetto nella sua costitutiva tensione al
sapere. Ma essa ci fa anche meglio compren-dere la prospettiva metafisica di
Gentile, che si presenta come ripresa della concezione aristotelica, ma allo
stesso tempo accoglie dal pensiero moderno l’attenzione al ruolo del soggetto,
si dice “classica”, ma non è per questo “oggettivista”, come altre, più note,
versioni della stessa. Una particolare declinazione dell’azione morale è
costituita dalla pra-tica pedagogica, un altro dei grandi temi della riflessione
filosofica gen-tiliana, cui è dedicato il quarto e ultimo saggio, frutto della
riflessione comune di Carla Xodo e Mirca Benetton. La pedagogia di Gentile è una
pedagogia umanista, poiché «l’umanesimo – egli scriveva – che è ricerca di
classicità, si attua come paideia , cioè come sforzo di realizzare
nelle più diverse situazioni storiche l’essenza dell’uomo», e pertanto non è un
si-stema compiuto, ma una sollecitazione a riprendere instancabilmente la
ricerca speculativa sulla verità della persona, ulteriore espressione di quel
domandare radicale in cui si traduce ogni serio impegno filosofico. Le Autrici
sottolineano come in questa prospettiva, considerando l’essere umano nella sua
integralità, l’umanesimo, anziché contrapporsi, si possa intrecciare
fecondamente, anche in ambito scolastico, con la scienza, la tecnica, e le
attività professionali, persino manuali. L’indicazione è di preziosa attualità
e ci fornisce un’altra conferma della potenza del domandare filosofico, che
percorre tutti questi testi. In essi possiamo infatti vedere tale domandare
vigorosamente rinno-varsi tramite la voce di Gentile. D’altra parte, a sua
volta, lo stesso Gentile, in un necessario scambio di ruoli, tramite questo
domandare, persiste a interrogare e a interrogarci. Ci auguriamo che possa
profi-cuamente interrogare anche l’attento lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords:
storia della filosofia period antico – filosofia romana, la preghiera, segno
dei romani – italici antici – pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’
in latino classico ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Gentili: l’implicatura conversazionale della filosofia romana arcaica – filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Valmontone). Filosofo. Grice:
“I love Gentile, and Austin and Ryle do too – he is a classicist – from central
Italy therefore he FEELS Roman – he has explored the beginnings of
philosophical thinking in Lazio, as opposed to the old schools of Velia,
Crotone, and Agrigento --.” Si laurea a
Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di studi sulla
metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent il Liceo
Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli, laureandosi
sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia e alla sua
tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico "Virgilio"
di Roma. Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma, G. ne fu subito
conquistato e Perrotta lo volle come assistente. Dal suo maestro Gentili apprese l'arte della
filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza significativamente
gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra cui Rossi e Privitera
che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono pacato delle lezioni
ex cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può, anzi, dire che
bifronte fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o intransigente,
giocoso o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari. Bbasava
l'insegnamento sulle sue ricerche. Gli
anni non sono facili, sono anni di studio intensi e febbrili per lo studioso
che culmineranno, insieme ai volumi sulla metrica, con una serie di lavori sui
lirici: oltre alla già ricordata antologia Polinnia, il saggio Bacchilide.
Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato
insieme al quale divenne coautore della teubneriana edizione dei Poetae
elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu rappresentata dalla chiamata a Urbino
dove nello stesso anno venne inaugurata la Facoltà di Lettere grazie
all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca (Istituto Nazionale del Dramma
Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo spettacolo nel mondo antico, Roma,
Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero antico” Bari-Roma, Laterza. Cfr. G.,
Eric R. Dodds mentitore? “La idea della comunicazione nella tradizione
classica" Treccani. La cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo
romano il rapporto è stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della
filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico. L’arco
di tempo della difficoltà dei rapporti e non solo. Tensioni, incomprensioni e
scontri non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci
di dissenso da NERONE, che sono le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche
con ciò che la mentalità comune pensa dell’imperatore: ma qui la nostra analisi
si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima trova
resistenze nella CONCRETEZZA tradizionale dei Romani. L’astrazione filosofica
suscita sospetti diffusi, come se si tratta di un imbroglio, un raggiro. Non
mancarono le espulsioni dei filosofi a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre
la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene., perché giudicati pericolosi per
la società romana. Soprattutto tale appare quel Carneade sul quale si interroga
don Abbondio nella notte degl’imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita
la retorica, cioè la tecnica del parlare bene, che pure e d’importazione greca.
Svetonio ci racconta delle difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo
che nel 161 a.C. un decreto del Senato bandisce dalla città insieme retori e
filosofi non-romani. Ma la novità culturale non si arresta per decreto: e la
tecnica retorica riprese fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente
apprezzata anche dai Romani, purché fosse rigorosamente controllata
dall’aristocrazia. E così accadde che nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola
di retorica a Roma, per iniziativa di un personaggio non molto famoso: PLOZIO
GALLO. E. la scuola dei rhetores Latini, della quale parla anche CICERONE, per
testimoniarci dei successo che essa riscontrava presso i allievi di allora e
del suo rammarico per non potervi accedere: Arpinate e infatti trattenuto da
altri maestri, che lo indirizzavano allo studio della retorica SOLO IN GRECO,
come una volta si fa. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di PLIOZIO
GALLO? Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i
consiglieri di CICERONE agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto
didattici, quanto politici. La scuola dei retori latini rischia agl’occhi loro,
e agl’occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso
centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al
potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di PLOZIO
GALLO col popolare MARIO, in anni di contrasti fortissimi in Roma, culminati
nella guerra per il diritto di cittadinanza degli Italici. È sempre CICERONE a
informarci, nel trattato intitolato “De oratore”, dell’esistenza di questi
maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di LUCIO LICINIO CRASSO che,
allora censore, li aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. E una
scuola di impudenza e di perdita di tempo, agl’occhi di Crasso e dei suoi amici.
Essi andano ripetendo che la mente divene ottusa e si rafforza la loro
pericolosa sfacciatagggine, mentre i retori si proponeno esattamente il
contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare, spiegare il perché
delle cose e dei problemi. Il genere di insegnamento consiste sostanzialmente
in una sintesi di filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura
completa. Si dove trattare quindi del superamento di una preparazione
esclusivamente tecnica e precettistica, a vantaggio di una formazione globale
dell’oratore. Questi divenne così il depositario di una cultura in grado di
fargli reggere con competenza il timone della repubblica romana. È in questo
contesto culturale e sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si forma
CICERONE. E. Badi?n, nella recensione al volume Gli storiografi latini
tra mandati in frammenti, Atti del Convegno, Urbino, a cura di Boldrini,
Lanciotti, Questa, Raffaelli (Studi Urb. n.s. B ), pubblicata in Am. Journ.
Philol., una recensione per altro biliosa e insieme presuntuosa, nella
stragrande maggioranza dei contributi, dedica al saggio 'Storiografia romana
arcaica' appena due parole: "the long essay in unoriginal mediocrity, e.g.
a potted survey by G.": un giudizio drasticamente negativo, non sorretto
da un'ombra di argomentazione; diverso evidentemente il parre di Musti, che ne
ha inserito un lungo brano nel reading, da lui curato, La storiografia greca.
Guida storica e critica, Bari. Certamente ognuno, nel recensire un saggio, ha
il diritto di giudicare come crede il saggio che recensisce. Ma ha il dovere di
motivare con una qualche analisi il proprio punto di vista, se non altro per
mettere in grado il lettore di comprendere il senso critico del discorso. Se il
Badi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere il suo dissenso o il suo
scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto necessario que quale liquida
molto perentoriamente la sto l’intervento. Ma quando egli definisce sic et
simpliciter "non ad una "rassegna raffazzonata", il suo giudizio
in uno stato originale" il mio discorso, debbo pensare che egli d'ira,
provocato forse dal fatto che io non ho citato il suo saggio riducendolo abbia
espresso 'The Early Historians', in Latin Historians, ed. Dorey, London, che,
esso si, ? realmente una rassegna, certo ben informata e corretta ma senza
alcuna pretesa di originalita. Egli stesso del resto lo presenta come
un'esposizione panoramica intesa a riproporre alla storiografia una tem?tica da
essa obliterata. Faccio notare, d'altra parte, che questo suo saggio stato da
me citato, a proposito della cronaca pontificale, nel volume che ho scritto in
collaborazione scorso storico nel pensiero greco e G. con Cerri, Le teorie del
di Roma, ricerche la storiografia, e che rappresenta l’edizione arcaica, delle
dettato infon certa ricon "prag definir? Dunque, giudizio dato mente dotta
m?tica" "non sull’argomento. solo un risentimento che, prima ancora
che a gl’effettivi contenuti di questo ingiusto, del mio tipo appare un
rispetto sa che la studio. alla tecnica di tipo Come quella da nel soleo ? me
allora ed tucidideo-polibiano. una nuova tesi, l’opera storiografia
'isocratea'? possibile proposta illustrata, indico come originale che riconduce
di Che cosa io intenda quella che con questa storiografia degl’Annales di FABBIO
PITTORE Pontificum di Fabio chiarito in un precedente saggio, sulla rivista II
Verri, al quale di proposito avevo rinviato all’inizio dell’intervento nel
Convegno di Urbino ora ripubblicato in Communication Arts in the Ancient World,
ed. Havelock e Hershbell, New York. E avevo esaustivamente pubblicato frammento
delle varie ancora: puo dirmi programma tico di il Badi?n se la mia Sempronio
Asellione interpretazione del con una nuova A questo punto sarebbe doveroso da
parte del Badi?n tornare sull’argomento per dimostrare, se ? in grado di farlo,
che l’impostazione del mio discorso ? effettivamente priva di qualsiasi
originalit? e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee altrui.
Universita di Urbino Letteratura: addio al insigne studioso di metrica. Accademico
dei Lincei e professore emerito ad Urbino Roma,
(Adnkronos). G., insigne studioso della letteratura classica e in
particolare della metrica, e' morto a Roma. L'annuncio della scomparsa e' stato
dato dall'Accademia dei Lincei di cui era socio. Nato a Valmontone (Roma). Professore
dell'Universita' di Urbino, dove ha insegnato i classici, nella Facolta' di
Lettere che insieme al rettore Bo ha contribuito a istituire. E' stato
fondatore della rivista ''Quaderni urbinati di cultura classica', di cui e'
stato a lungo direttore. Filologo rigoroso, G. si e' dedicato allo studio
della lirica e della metrica arcaica, curando anche edizioni critiche di testi
di diversi poeti. Tra i suoi libri ''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori
a Virgilio'', ''Metrica greca arcaica'', ''La metrica dei greci, l'edizione
critica di Anacreonte, ''Bacchilide. Studi', ''Aspetti del rapporto poeta,
committente, uditorio nella lirica corale greca''; l'antologia ''Polinnia.
Poesia greca arcaica'' (in collaborazione con G. Perrotta). La vasta
bibliografia di G. comprende anche ''Le teorie del discorso storico nel
pensiero greco e la STORIOGRAFIA ROMANA ARCAICA' (in collaborazione con Cerri),
''Storia del mondo romano'' (in collaborazione con Pasoli e M. Simonetti), ''Lo
spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro romano arcaico'',
''Storia e biografia nella filosofia antica'' (in collab. conCerri) e ''Poesia
e pubblico nella antichita”, che che e' valsa all'autore il Premio
Viareggio-saggistica (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E CONTEMPORANEITÀ: G.
NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI DEL NOVECENTO «Kein Volk der Geschichte, auch das
begabteste nicht, läßt sich isoliert betrachten. Ein jedes wird durch äußere
Anstöße aus zuständlichem Dasein in geschichtliches Leben übergeführt. Weder
seine äußere noch seine innere Geschichte kann verstanden werden, ohne die
Fäden zu verfolgen, die es mit außen verbinden».(Usener). Il senso vero di una
vita piena è quello che essa imprime di più anche sulla quotidianità: la
ricerca. Ricerca. Ricerca. Ricerca. Il possesso che noi abbiamo di certi
principi (che a loro modo sono verità) è labile e sfuggente – e non appena noi
ci illudiamo di stringerlo, ecco scom-pare».(Anceschi). G. ha visto comparire vari ampi e impegnati
ricordi ad opera di alcuni tra i colleghi e allievi più vicini. Con attenzione
e devozione vi sono evocati i momenti e i contributi più significativi nella
carriera scientifica del grande classicista; nel riper-correrla si dà davvero
la possibilità di posare lo sguardo sulla storia della filologia classica, via
via italiana europea. A tutti comune è il riconoscimento del forte valore
innovativo nell’incessante attività critica e filologica di G., con la
fondazione dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», vera e propria officina
intellettuale dove su impulso del fondatore e direttore la filologia classica,
senza mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica, si apre al confronto
serrato non solo con l’archeologia, la storia e l’ermeneutica, ma anche con
discipline emergenti quali l’antropologia, la semiotica, la linguistica e la
sociologia della letteratura. A tale sensibilità può ben connettersi la visione
che G. elabora della traduzione, nella
ricerca e nell’asserzione di una teorica eminentemente pragmatica -- Così
Catenacci -- e quindi una poetica non astratta, non prefigurata su schemi di
modelli già esperiti, così sempre tendendo a «una poetica aperta che si
costrui- sca gli strumenti adeguati ad una maggiore portata di comunicazione»:
il problema del tradurre è così definito nei termini «di quell’idea cui aspira
l’antropologia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture,
visioni del mondo, strutture linguistiche e sistemi grammaticali diversi e
distanti nel tempo» 2 . Una prospettiva che nello studio e nella ‘traduzione’
dall’antico (e dell’antico) a G. certo si schiuse in relazio- ne e risposta
alle sfide prodotte dai grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo
antropologico appunto, degli ultimi quattro decenni del XX se-colo: una
prospettiva di ‘apertura’ nell’analisi e negli strumenti applicati
all’interpretazione dei testi antichi, e in particolare della Grecia di età
ar-caica, che mi è sembrato potesse essere bene espressa dalla prima citazio-ne
in esergo, di un altro grande innovatore degli studi classici al volgere di un
secolo, Usener. Il passo proviene da un discorso rettorale bonnense riproposto
in occasione del Congresso inter-nazionale della FIEC tenutosi a Bonn, e
richiamato da Gentili nel famoso saggio L’arte della filologia. A
differenza della fortunata citazione nietzschiana d’incipit («filologia è
quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da
parte, lasciarsi tempo, divenire lento»), il rimando a Usener è passato
piuttosto inosservato. G. si rifà alla Rede bonnense, dal
titolo Philologie und Geschichts- wissenschaft 4 , discutendo
della prevalente natura ‘storica’ o ‘scientifica’ della filologia classica e
rinvenendo «una impostazione sostanzialmente corretta del problema» nella
distinzione attribuita a Usener, «che delimitò i due campi specifici della
ricerca, riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del testo e
all’indagine storica l’interpretazione globale del mondo antico» 5 . La
prolusione di Usener si apre con un panorama della storia degli stu-di classici
sin dal XVI secolo francese e ugonotto 6 , subito poi riservando 2
G. 1989, 61, dalla relazione presentata al convegno La traduzione
dei testi classici . Teoria prassi storia (Palermo 6-9 aprile
1988), nei cui Atti poi comparve (Gentili 1991). 3 All’interno
della Festschrift per il convegno curata da W. Schmidt
(Schmidt 1969, 13-36); al congresso bonnense Gentili presentò il fondamentale
intervento L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella
dimensione del nostro tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura
orale (Gentili). 4 Usener 1907. 5 Gentili, 299. 6
Che la riflessione sulla storia della filologia classica sia strettamente
connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale è ben chiarito nella
postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer Wissenschaft verzeichnet
nicht bloß Leistungen. In ihrer Geschichte entfaltet sich ihr Begriff, der
nicht unberührt bleiben kann von dem Wandel der Generationen. Die
wissenschaftliche Arbeit bedarf der Selbstbe-sinnung, will sie nicht ziellos in
der Unendlichkeit des Einzelnen umhertreiben." grande rilievo al genio di
Bentley («zur Grundlegung einer Wissenschaft […] die Wege dazu hat erst das
Genie Rich. Bentleys gebahnt»), pur rico-noscendo solo alla cultura tedesca,
nel fatale trapasso, la decisiva spinta perché lo studio dell’antichità
classica si costituisse «zu einer geschlossenen philologischen Wissenschaft».
Grazie soprattutto all’impegno di dotti come Melantone e Camerarius, la
centralità della Pa-rola proclamata dalla Riforma si era rivelata determinante
per assicurare la presenza dell’insegnamento del greco nelle nuove scuole volte
primaria- mente alla formazione dei pastori evangelici, finché nei rifondatori
della letteratura tedesca (Klopstock, Lessing, Hamann, Herder) «der
gottergebene idealistische Sinn des norddeutschen Protestantismus»,
laicizzandosi, risultò fecondo per la rinascita della cultura e della scienza
tedesca grazie a figure come Winckelmann, Reiske, Heyne 7 . L’organica
sistematizzazione delle varie discipline volte al fine della
Rekonstruktion des Altertums secondo l’intuizione dei grandi
edificatori e teorizzatori dell’ Altertumswissenschaft , Wolf e
soprattutto Boeckh, nel corso del XIX secolo si fece altresì modello per le
nuove filologie applicate alle varie letterature d’Europa, come pure per le
discipline storico-filologiche volte allo studio del ben più antico patrimonio
di cultura e civiltà delle lingue mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte
dell’enorme ampliarsi delle co-noscenze non solo all’interno dell’ Altertumswissenschaft
, con diretto rife-rimento al mondo classico nelle sue varie epoche e aspetti,
ma soprattutto all’esterno, negli orizzonti aperti dalle antiche civiltà del
Vicino Orien-te rivelate dall’archeologia, Usener riconosce l’impossibilità di
isolare la civiltà greca dall’attenta considerazione di quegli influssi, certo
determi-nanti nella genesi almeno dell’arte greca: «heute zeigen die Reste
Babylons und Ninivehs verglichen mit den griechischen und italischen
Gräberfunden jedem, der Augen hat zu sehen, von wo jene hellenische Kunst
[…] ihre Anstöße und auf lange hin nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In
realtà a Usener preme soprattutto mettere in rilievo che il concetto stesso di
storia si è enormemente ampliato, al di là della tradizionale identificazio- ne
nella «pragmatische Entwicklung der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und
Völkern», ormai annettendo territori ignoti, nati dall’indagine delle origini
delle lingue, dei credi, dei costumi, dei miti («die unbegrenz-te Ferne einer
vorgeschichtlichen Geschichte»). In tale condizione appare al professore
bonnense ormai impossibile aderire a una costruzione della filologia quale
quella boeckhiana. La filologia, egli afferma, non può più essere intesa come
scienza storica, perché radicalmente mutata è la visione stessa della storia
propria del tardo XIX secolo 8 . La filologia è piuttosto da 7 Onde
se «la moderna poesia italiana e francese è figlia degli studi umanistici, la
letteratura tedesca è invece legata alla nostra filologia in uno stretto
rapporto di sorellanza» (Usener). 8 Usener è in proposito molto chiaro:
«Es bleibt also dabei: eine geschichtlicheconsiderarsi «ein Studienkreis», un
insieme di discipline che vertendo sulla parola scritta, e così assolvendo alla
funzione di arte o metodo di decisivo valore nel fissare i contenuti della
conoscenza storica, costituisce «die letzte Voraussetzung aller geschichtlichen
Forschung» 9 : una filologia come tecnica dell’interpretazione che, potenziata
dalla prospettiva comparatista, assunse forse agli occhi di Usener i tratti di
«una sorta di antropologia» 10 . Ho indugiato sul saggio di Usener perché
l’insieme della sua opera, spesso poco apprezzata dal mondo filologico tedesco
contemporaneo, gode da anni di crescente attenzione 11 , anche in ragione degli
interessi ‘trasversali’, comparativi e religionsgeschichtlich che
l’attraversano e innervano, non privi di influssi sullo sviluppo della teologia
dapprima protestante e poi cattolica nella Germania del XX secolo 12 , e forse
anche sulle origini degli studi novecenteschi italiani di storia delle
religioni e di storia del cristia-nesimo 13 . Notevole è, nelle pagine di
Gentili sull’arte della filologia, il suo ri-farsi a Usener. Sin dal titolo, a
Nietzsche esse intendono forse associare proprio il filologo bonnense, quasi
provocatorio (in una prolusione rettorale) nel definire Kunst
l’essenza dell’attività filologica 14 , pri- Wissenschaft ist die
Philologie nicht. Sie konnte und mußte als solche erschei-nen zu der Zeit, als
die Geschichtswissenschaft in ihrem heutigen Begriff noch nicht vorhanden war
[…]. Es war die Zeit, wo die moderne Geschichtswissenschaft zuerst ihre Blüten
trieb. Alles hat seine Zeit». 9 «Wenn es also wahr ist, daß der Boden
aller geschichtlichen Wissenschaft das geschriebene Wort ist, so folgt, daß die
Kunst, welche dasselbe feststellt und deutet mittels ihres grammatischen
Vermögens, die letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen Forschung ist. Diese
Kunst haben wir in der Philologie erkannt» (Usener). 10 Così Momigliano
1985, 166. 11 A partire soprattutto dal seminario del febbraio 1982
presso la Scuola Nor-male di Pisa coordinato da Arnaldo Momigliano e subito
pubblicato come Aspetti di Hermann Usener filologo della
religione (Arrighetti [et al.] 1982). Sono apparse negli ultimi anni
edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali Usener 1993; Usener
2008; Usener. ssai notevole e davvero anticipatrice, nonché oggi di particolare
attualità, è la lettera del dicembre 1888 al teologo bavarese I. von
Doellinger, nella quale Use-ner afferma che «lo scopo ultimo ed inespresso dei
miei sforzi è quello di aiutare a preparare l’unità della Chiesa della nostra
nazione», passo su cui attira l’attenzione Momigliano. È opportuno ricordare
l’attenta, e assai poco nota, presentazione che del
Le-benswerk di Usener, «grande maestro che l’Italia colta quasi
ignora», diede Pesta-lozza 1909 (che cito dall’estratto), sulla rivista del
modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno: su
Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano
primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle religioni,
vd. i riferimenti in Benedetto 2008. 14 Non sorprende il dissenso,
rispettoso ma chiaro, che subito espresse il trenta-quattrenne Wilamowitz circa
la visione della filologia presente nella Rektoratsre-de ,
prospettandone una ben diversa: «Die alte Poesie (und natürlich ebenso
Rechtmariamente volta a fondare l’affidabilità della parola scritta
. La centralità del testo, oggi preferiamo dire: quel testo visto da Gentili
come «struttura complessa di materiali linguistici, di implicazioni
metrico-ritmiche, refe-renziali e pragmatiche» 15 nel cui processo
interpretativo «una pluralità di discipline» è coinvolta (uno
Studienkreis , appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare in rassegna l’ampia,
varia, settantennale attività scientifica di Bruno Gentili 17 , si cercherà
piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il rapporto con
la figura di Gennaro Perrotta e in genere con gli studi italiani di filologia
classica nella prima metà del Novecento, la produzione degli anni ’50 e ’60, e
la serie di saggi «di portata fondativa» 18 scritti da Gentili tra la
metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, nei qua-li evidente è una svolta
per gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi
della traduzione dall’antico.2. L’esordio di Gentili si ebbe nel pieno della
Seconda guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con Silvio
Giuseppe Mercati, dedi-cato soprattutto a passare in rassegna quattro
inesplorati codici delle Storie di Agazia conservati in biblioteche
italiane (tre Vaticani e un Marciano) 19 . In quegli anni drammatici il giovane
studioso li collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova
edizione critica dell’opera 20 , in vista del-la quale non tace anzi
l’intenzione di provvedere a «un nuova collazione accurata» di un manoscritto
Vulcaniano conservato nell’allora inaccessibile Leida 21 . Il netto cambiamento
di interessi e «una decisa virata ver- und Glaube und Geschichte) ist tot:
unsere Aufgabe ist, sie zu beleben […] dann empfinde ich, daß Philologie
doch etwas für sich ist, oder wenigstens ihr τέλος hat» (lett. in Dieterich
– Hiller von Gaertringen – Calder), e cfr. Sassi. G. «Philologie in dieser Auffassung ist nicht
eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis» (Usener). 17 Sin d’ora
rimando alle molte informazioni e osservazioni desumibili dal
Ri-cordo di G. di Angeli Bernardini; Catenacci; Cerri; Lomiento; G. A.
Privitera, commemorazione lincea dell’11 aprile 2014, ac-cessibile on line
presso lincei.it/ files/documenti/Privitera_commemorazio-ne_G. .pdf
; Tedeschi. Cerri. Non si tratterà di Gentili editore e critico del testo, tema
che di per sé richiederebbe apposita discussione. Gentili. Come chiaramente
lascia intendere la chiusa dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto appare
chiaro che la sola finora ad avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica ed
anche il metodo è quella del Niebuhr, in quanto si fonda sul valore effettivo
di una parte della tradizione. Ma l’uso di tutto il materiale manoscritto,
secondo gli intendimenti che ho esposto, trae con sé la necessità di una
recensione del testo di Agatia, che si fondi su basi più complete e quindi più
solide. E questo compito, se le forze non mi verranno meno, spero di poter
assolvere». 21 Vd. in particolare p. 168: «occorrerebbe perciò una nuova
collazione accurata Sent from the all new AOL app for iOSso la poesia
greca arcaica» 22 si legano all’incontro con Perrotta, dal 1938 sulla
cattedra romana di Greco come successore di Romagnoli e impegnato nel
rinnovamento su modello crociano dello studio della lirica greca ( Saffo
e Pindaro. Due saggi critici uscì presso Laterza), ma attento
altresì all’esegesi puntuale di frammenti e ritrovamenti papiracei, in
particolare con interventi accolti nei pasqualiani «Studi italiani di filologia
classica» (nota è in particolare la polemica intorno al ‘poeta degli epodi di
Strasburgo’) 24 . Un’importante rassegna ad opera di Perrotta su La
filologia classica nell’ultimo ventennio , apparsa per il Natale di Roma in un
volu-me promosso dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Perrotta), se è priva
non solo di elogi ma si può dire di qualsiasi menzione del morente Regime, è
peraltro chiarissima sin dalle prime righe nell’affermare che il «vero
progresso» segnato nel precedente ventennio dalla filologia classi-ca in Italia
è spiegabile perché essa «ha sentito profondamente l’influsso dell’estetica
moderna, anzi di tutto il pensiero moderno», con sicuro ri-ferimento al
crocianesimo e in genere agli orientamenti antipositivistici: «superate le
polemiche del periodo precedente, la filologia classica ha preso un nuovo
indirizzo vivificata dalle correnti nuove della cultura moderna, è divenuta
meno arida e pedantesca», e finanche «abbondano i saggi critici, che una volta
avrebbero destato scandalo». Dopo un rapido ma attento ragguaglio di commenti,
edizioni critiche ed edizioni di papiri pubblicati nel periodo considerato,
l’articolo si conclude appunto notando che mentre «in qualunque campo la
filologia classica italiana può sostene-re dignitosamente il confronto con
quella delle altre Nazioni», proprio «nel campo della critica letteraria, essa
supera di gran lunga la filologia classica di qualunque altro Paese del mondo»
25 . Cinque anni dopo, nell’Italia e nell’Europa, presentando ai let-tori
insieme al condirettore Funaioli la nuova rivista «Maia» («nome caro a due
grandi poeti, a Gabriele d’Annunzio e a John Keats»), in sostan-ziale
continuità e coerenza con se stesso Perrotta indicherà la via della ripresa
dello «studio della civiltà antica, per noi moderni» in un «rinnovato
umanesimo», fondato sull’incontro tra l’eredità del classicismo europeo
del manoscritto, che mi propongo di fare quanto prima»; si tratta del Cod.
Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius per l’ editio princeps del testo
greco del De impe-rio et rebus gestis Iustiniani imperatoris libri
quinque , uscita a Leida (cfr. Dewitte). B. Vulcanius (B. de Smet), e professore
nella nuovissima università di Leida. Lomiento Su circostanze e contesto della
successione illuminanti scorci in Canfora Sulla quale, e sulla persuasiva
identificazione in Ipponatte sostenuta da Per-rotta, vd. Gamberale 1994, 75;
Sisti 1994, 43-45; Morelli. Perrotta 1943 Sent from the all new AOL app
for iOSdegli ultimi due secoli (la tradizione gloriosa di Goethe e di Humboldt,
di Winckelmann e di Schlegel, di Shelley e di Keats, di Hölderlin e di
Nietzsche, di Foscolo e di Leopardi, di Carducci e di Pasco-li») e una pratica
filologica che, nutrita di adeguata consapevolezza critica e storica,
trascendesse le mai del tutto sopite conseguenze delle polemiche, e dei
connessi schieramenti, che avevano lacerato gli studi classici italiani
d’inizio secolo: Il nostro ideale è il filologo che abbia l’abnegazione d’un
grammatico alessandri-no e l’entusiasmo d’un umanista del Quattrocento, la
tecnica filologica e il senso storico dei grandi filologi dell’Ottocento, il
senso artistico e la coscienza critica dei migliori critici letterari dell’età
nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo storicismo, la
filologia senza il filologismo, la critica estetica senza l’estetismo e il
vacuo filosofismo. Non manca subito di séguito una citazione da Nietzsche,
dalla qua-le risulta «la filologia nel suo senso più elevato rappresentata,
come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia poetica. Né manca un richiamo
a Nietzsche, in quella stessa prima annata di «Maia», nell’ampia e intensa
commemorazione che Perrotta dedicò nel decennale della morte a Ettore Romagnoli
28 , accostato a Nietzsche nell’accesa e ‘immaginifica’ giovinez- za di filologo
29 , quindi rievocato come professore universitario a Catania 26
Funaioli – Perrotta . Che punto nodale del «discorso sulla filologia» sia «la
divisione o meno delle competenze tra filologia e critica letteraria in senso
lato» rimarrà, con altra prospettiva, costante elemento di riflessione per
Gentili: cfr. G.. L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche filologo è messa in
rilievo da Gigante, il quale anche suggerisce che mediatore per il filologo
italiano della conoscenza di Nietzsche possa essere stato Croce; un’emendazione
del giovane Nietzsche («oltre a giudicare il carme nel suo insieme con la
finezza e la profondità ch’erano proprie del suo genio») è lodata e accolta in
Perrotta. Un certo paradossale irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in
cui poté ancora esercitare un sensibile influsso negli ambienti culturali»,
onde «egli affermò sempre più polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al
verbo crociano […] com-memorò entusiasticamente il Romagnoli, proclamò
ripetutamente la indipendenza dei supremi valori poetici da ogni
condizionamento ambientale e culturale» noterà Paratore (appunto a intendere
«quella sopravvalutazione della critica let-teraria che è sembrata così
singolare in un uomo di così severa formazione filolo-gica» è dedicata la
commemorazione lincea di Paratore 1963a, in gran parte rifusa nel
profilo Perrotta in Grana). È utile citare il passo: «Federico
Ritschl soleva dire che Nietzsche giovinetto concepiva una dissertazione
filologica come un romanzo. Il grande filologo non intendeva certo, con queste
parole, spregiare l’attività filologica di Nietzsche giovane, del quale egli
presagì il genio. Ma un intuito profondo gli face-va scoprire in Nietzsche
qualche cosa di singolare, di acceso e di appassionato, che non faceva
assomigliare le sue dissertazioni, pur dottissime e condotte con metodo
impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un uomo dotato di molta
immaginazione(attraverso la testimonianza del fraccaroliano e romagnoliano F.
Gugliel-mino), in particolare quando leggeva con predilezione i lirici
greci, e, traducendoli, comunicava agli uditori con la scelta felice delle
parole e delle espressioni, che potessero rendere con maggiore adesione il
pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e anche con l’inflessione della
voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento era sobrio, scevro
d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse dibattute dai
filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta interpretazione
di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione all’essenziale 30 . Il
1948 fu anche l’anno in cui, a cura di Perrotta e del suo as-sistente G.,
uscì Polinnia , antologia della lirica greca ad uso dei licei
destinata a grande fortuna nella scuola italiana della seconda metà del
Novecento, sino alla recente e rinnovata terza edizione del 2007. Non fu la
prima antologia dei lirici greci destinata alla scuola e impostata con rigore
scientifico. Dopo che i programmi del 1923, con la riforma Gentile, più
decisamente aprirono ai lirici le porte dei licei, si diffusero antologie
sco-lastiche «nate in un periodo di estetica esasperata, di olimpico dispregio
per tutto quello che si chiamava (e la parola era oltraggio) filologia», come
vollero osservare prefando i loro Lirici greci scelti e
commentati (1940) Giuseppe Ugolini e Alessandro Setti che a quell’andazzo
con efficacia e serietà reagirono, avendo per modello essenzialmente
Aglaia , la nuova an-tologia della lirica greca da Callino a
Bacchilide pubblicata nel 1937 da Bruno Lavagnini (1898-1992) 31 . In
sede di valutazione storica è giusto rilevare che «ad Aglaia
si sono ispirate tutte le antologie successive che si finirà sempre per
mettere, anche senza averne affatto il proposito, perfino in una dissertazione
filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva spesso a Romagnoli
giovane» (Perrotta 1948, 93). Le pagine di Perrotta sono in parte ripro-dotte
nella sezione su Romagnoli in Grana 1969, II, 1448-1459. 30 Nel
Profilo di Bruno Gentili premesso da Carlo Bo al I volume dei
ricchissimi Scritti in onore di Bruno Gentili , Romagnoli ricorre accanto
a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in Gentili l’«uomo dotato di
spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono soltanto gli scrittori e in
modo più specifico i poeti. La sua straordinaria perizia filologica è
strettamente collegata al suo gusto e alle sue doti di creatore. Tutte cose che
si possono riscontrare nella storia della sua formazione, perché accanto a uno
dei suoi primi maestri, Ettore Romagnoli, a un certo punto si è accostato uno
studioso come Gennaro Perrotta» (in Pretagostini 1993b, I, XXVIII ).
31 Nella Prefazione a Ugolini – Setti 1940 due sono
«tra i lavori scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati utili
«per il loro carattere più spiccatamente scientifico»: oltre all’antologia di
Lavagnini si fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da ravvisarsi l’
Antologia della melica greca pubblicata nel 1904 con pre-fazione del
maestro G. Fraccaroli, attenta e informatissima ma ormai invecchiata a fronte
delle scoperte papiracee accumulatesi nei decenni successivi. Del libro di
Ugolini e Setti oltre trent’anni dopo uscirà un’edizione ampliata e rinnovata,
in seguito ristampata: Ugolini – Setti 1972 possono definire serie, a
cominciare da Polinnia » 32 , senza dimenticare che in pieni anni
Trenta la volontà di chiarire agli alunni di liceo l’«enigma psicologico» di
Saffo e della sua passione dettò all’antologia di Lavagnini toni ben più diretti
33 di quanto dieci anni dopo accadrà a Perrotta (cui si deve la sezione
su Saffo in Polinnia ), e più in linea con le posizioni cui Gentili
espressamente approderà negli anni Sessanta. I cenni di Perrotta alle «gioie
leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo riemergere delle preoccupazioni
per la difesa della poetessa dalle accuse di immoralità tor-nano a
riflettere ambagi e premure proprie peraltro dei più noti studiosi di Saffo tra
metà del XIX e metà del XX secolo, da Welcker a Valgimigli 34 : impostazione da
Perrotta stesso a suo tempo esplicitamente confutata in Saffo e Pindaro
35 . 32 Così Degani 1995, 30. 33 Nell’introduzione alla sezione su
Saffo in Lavagnini 1937, 116, si dice che «Saffo visse facendo della sua casa
un centro di culto ad Afrodite, alle Muse, e alle Cariti. Le più nobili e le
più belle fanciulle di Lesbo e dell’Asia vicina venivano a lei per essere
ammaestrate nella poesia e nel canto, ed essa vive tutta in questa compagnia di
fanciulle. Anzi l’affetto per le scolare assume un trasporto così im-petuoso e
sa trovare accenti così caldi da prendere i colori della passione di sesso,
sicché la Lesbia resta ancora, almeno in parte, un enigma psicologico per noi,
che siamo così lontani da quel suo mondo». Ivi è inoltre il rimando alla
trattazione che del tema Lavagnini aveva dato nella sua precedente
Nuova antologia dei frammenti della lirica greca (Lavagnini 1932,
171), dall’ incipit e dalle tesi assai esplicite, e con esplicito rifarsi
a Freud nell’individuare in Saffo «una invertita : essa trasferì sopra
creature del medesimo sesso il potenziale affettivo ( libido secondo la
termi-nologia di Freud) che avrebbe dovuto normalmente rivolgere su persone del
sesso opposto». Al di là dell’interpretazione di Saffo, le pagine di Lavagnini
meritano di essere particolarmente segnalate in relazione alla prima (s)fortuna
italiana della psicanalisi, quando si pensi che la «Rivista italiana di
psicoanalisi», diretta da E. Weiss, fu fondata in quello stesso 1932 e
soppressa due anni dopo: ricco di infor-mazioni in proposito, benché talora
disorganico e confuso, Zapperi 2013. 34 Per più ampi riferimenti su molti
dei temi qui e di seguito trattati rimando a Benedetto 2012. 35 Cfr.
Perrotta 1935, 28-31, in pagine non prive di sarcasmo e oggi dimenticate:
«Infine, non giovano a nulla le discussioni, interminate e interminabili,
sull’amo-re e sulla purezza di Saffo. I Welcker e i Wilamowitz hanno difeso la
poetessa nobilmente, ma non si sono accorti che nel loro zelo appassionato essi
stessi non erano troppo lontani dai grammatici dell’età romana, da quel Didimo
che disser-tava dottamente an Sappho publica fuerit […] In
realtà, Saffo non ha bisogno di essere giustificata: essa che, se potesse udire
i suoi accusatori e i suoi difensori, non intenderebbe neppure i termini della
questione. La soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz non risolve nulla […]
Quando per spiegare il tiaso amoroso di Saffo, si parla di un convento, di un
pensionato di fanciulle, di un conservatorio di musica e di declamazione, e
perfino d’un salotto letterario, e perfino d’un club estetico di
donne, non si spiega nulla; e per giunta non si mostra né senso storico, né
gusto irre-prensibile […]. E, ancora peggio, si è costretti a ridurre ad
elemento secondario, ad ammettere a mala pena, facendo di tutto per togliergli
ogni importanza, l’amore di Saffo per le amiche; ma per Saffo l’amore era
tutto». Significativo il pieno consen Sent from the all new AOL app
for iOSLa parte curata da Gentili comprende tra gli altri Alceo, Anacreonte e
Bacchilide, i tre autori di cui più egli si occupò tra la fine degli anni ’40 e
la fine degli anni ’50. Nella difesa che Gentili fa (come già Coppola e
Perrotta negli anni ’30) dell’allegoricità del famoso frammento alcaico ora
208a V. citato da Eraclito stoico («nella nave è rappresentato lo Stato, cioè
la città di Mitilene, minacciata dalla rovina») 36 , tra affinità e differenze
piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla ‘pragmatica dell’allegoria
della nave’ 37 . Superando i vincoli ancora operanti in
Polinnia connessi al tradi-zionale confronto ‘estetico’ con Orazio,
tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a riconoscere
nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più idoneo e perciò
scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di «trasmettere il
messaggio in un linguaggio velato e allusivo comprensibile solo
dall’uditorio dei compagni» 38 . Crocia- namente priva di introduzione sia
generale, sia ai singoli poeti 39 , Polinnia riserva
particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano lo spazio
e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze di lunghe
e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri del testo, e
apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina, magari in una
nota», sì da divenire per un liceale «il primo impatto reale con la metrica
greca» 40 . Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella passione
per gli studi metrici che la scarna premessa Ai lettori
rivela: Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con
favore. Essa ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non
è possibile sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come
purtroppo credono ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che
permetta ad ognuno d’inter-pretare i versi come vuole, ma una scienza che è
facile imparare, purché sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura
metrica, ci siamo presa la libertà di segnare gli ictus dei piedi,
benché agli ictus non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento
dinamico, ma l’accento musicale. Poiché la lettura metrica è indispensabile:
coloro che traggono, dalla giusta constatazione che la nostra lettura con
gli ictus non corri-so riservato in nota alle posizioni esegetiche
di Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso contrario, il
Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia di lui nella
psicanalisi». 36 Perrotta – Gentili 1948, 198-199. Sulle
Allegorie omeriche del non altrimenti noto Eraclito nell’àmbito
dell’esegesi antica di Alceo, e in particolare sul tema delle immagini
marittime e il loro uso con significato politico da parte del poeta di
Mitilene, rimando alla messa a punto di Porro 1994, 22-23, 55 sgg. e 105 sgg.
37 È il capitolo XI in Gentili Gentili Si ricordi per confronto la
collana laterziana degli Scrittori d’Italia , priva d’introduzione e di
qualsiasi apparato interpretativo. Senza introduzione generale e ai singoli
poeti sarà anche la successiva edizione del 1965: Perrotta – Gentili 1965. 40
Sono parole dalle pagine molto belle, di tono e sapore memorialistico, che alla
metrica di Polinnia dedica Di Benedetto 2001, 141 sggsponde
alla lettura degli antichi, la pessima conclusione dell’inutilità di ogni
lettura metrica, fanno un’imperdonabile rinunzia, che generalmente tende a
nascondere la pigrizia o l’ignoranza. Non diverse considerazioni, e non diversa
passione didattica, animano la prefazione a La metrica dei
Greci (1952), il libro che rappresentò «lo sdoganamento» di tale
disciplina «nella scuola e, più in generale, negli studi classici italiani» 41
. Val la pena rileggere l’inizio di quella prefazione: È sentita in Italia la
mancanza di un manuale di metrica ad uso dei non iniziati. Tale mancanza ha
nociuto sino ad oggi all’insegnamento di questa disciplina soprattutto nelle
scuole medie, poiché spesso i docenti, mossi da uno strano scetticismo considerano
di scarso interesse la conoscenza della metrica greca, talora ritenen-dola del
tutto estrinseca alla poesia, pura invenzione di alcuni studiosi moderni 42
anche perché già vi si rinvengono temi e motivi che ispireranno per decen-ni
l’indefessa indagine metrica di Gentili: In realtà la metrica non è né
estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni. Come ho già dimostrato nella
mia Metrica greca arcaica , alcune teorie metriche dei moderni,
quelle più attendibili, sono già contenute nella migliore tradizione dei
metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo ai fini della critica
testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del testo poetico. Poiché
metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente connesse, in funzione
reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle forme metriche con
pregiudizi scolastici. Soltanto dimenticando gli schemi e seguendo i metri nel
loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore e la necessità dello
studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce apprezzamento per il
valore dei metricisti antichi 43 e la visione non ancillare degli studi
metrici, da intendersi non 41 Catenacci 2014, 448. 42 Gentili
Circa venticinque anni dopo, tra le cause dell’isolamento in Italia dello
studio della metrica greca «nel ghetto degli specialisti e guardato al pari di
una disciplina esoterica con sospetto e diffidenza», Gentili tornerà a cita-re
l’idea largamente diffusa «della impossibilità di costruire per la
versificazione greca una teoria coerente ed univoca», inoltre aggiungendo
l’influsso avuto dalla nostra cultura degli anni Trenta «che aveva reciso alla
radice ogni altro impulso all’indagine critica che non procedesse nel solco
della teoria estetica dell’arte»: cfr. Gentili 1979a, 681. 43 Sensibilità
critica in cui Cerri 2014, 232 ravvisa l’indizio di una attitudine
‘an-tropologica’ già allora in qualche modo operante nella filologia di
Gentili: «Contro l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non
solo rivaluta le teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa
costantemente su di esse la propria trat-tazione […] è del tutto evidente che
ciò avviene non solo e non tanto perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e
azzeccate, ma soprattutto perché le assume come testimonianza diretta di una
sensibilità ritmico-musicale diversa dalla nostra, di un linguaggio
fonico-gestuale specifico di quella civiltà e di quell’orizzonte mentalecome
meramente funzionali o subordinati alla critica del testo, ma in-dispensabili
innanzitutto per una piena comprensione dell’antica poesia, nella convinzione
«che la metrica non sia un fatto esteriore, ma in funzio- ne della poesia stessa»,
come è poi ribadito all’inizio dell’ Introduzione . Lì è anche subito
affermata l’unità ritmica del verso antico, la sua strutturale unione con la
musica, onde «posta l’unità del verso greco, non sarà più legittimo parlare di
piedi, ma soltanto di cola » 44 . Rievo-cando di recente le lezioni di
metrica tenute da Gentili alla Sapienza nell’immediato dopoguerra, G. A.
Privitera ha colto nella «prospetti-va storica» l’aspetto che in quelle
esercitazioni più colpiva, quando «a differenza dei trattatisti, che nei
manuali si limitano ad esporre le loro interpretazioni, Gentili citava anche le
opinioni dei metricisti antichi e dei metricisti moderni» 45 : come con
ampiezza appunto avviene in Me-trica greca arcaica , il volume del
1950 dedicato a Gennaro Perrotta, anch’esso aperto dalla rivendicazione della
metrica come «una scienza al pari delle altre discipline classiche», tutta
«nella migliore tradizione della filologia ellenistica» 46 . Conoscenze ampie
sugli studi metrici degli ultimi centocinquant’anni attestano i primi due
capitoli del libro, dove dapprima ( Studi metrici: brevi cenni ) Gentili
delinea con ricchezza di esempi e osservazioni lo svolgersi delle principali
analisi e teorie me- triche da Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel secolo
scor-so» sulle orme di Bentley e di Porson) a Westphal 47 , a Usener 48 , a
Wila- 44 Gentili 1952, 1-2. 45 G. A. Privitera, commemorazione
lincea, cit. supra , n. 17. 46 Gentili 1950. Ho consultato la copia
conservata presso la biblioteca del Cen-tro di papirologia ‘Achille Vogliano’
(Dipartimento di studi letterari, filologici e linguistici dell’Università
degli Studi di Milano), con ex libris dello stesso Voglia-no (segn.
Vgl.II.B.61), in quegli ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto
incompiuto La lirica eolica e Pindaro nella critica di Gottfried
Hermann . 47 La cui «Entdeckung eines indogermanischen Urverses»
già è lodata in Usener 1907, 15. 48 Di Usener è rammentato con interesse
il trattato Altgriechischer Versbau: ein Versuch vergleichender
Metrik (Usener 1887), con la sua «analisi comparativa del-la
metrica greca con la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di Usener
consistono di una rassegna, desultoria ma affascinante, volta a dimostrare la predi-lezione
dei popoli indoeuropei per una struttura metrica base in otto sillabe ancor
ravvisabile nei testi sanscriti, avestici, nelle più antiche ricostruibili
forme metriche greche e latine, nei canti popolari germanici, slavi
settentrionali e meridionali, li-tuani: nota è l’icastica reazione negativa di
Wilamowitz alla lettura del libro («In metrischen Dingen vermag ich nicht in
kurzem meine Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht […]. Ich kann
überhaupt das einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch keine
urgriechische Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine urgriechische
Religion», lett. del 13 ottobre 1887 in Dieterich – Hiller von Gaertringen –
Calder III 1994 2 , 46). Dal punto di vista della linguistica storica e della
metrica comparativa indoeuropea severo giudizio sul lavoro di Use-ner dà
Campanile 1982, cfr. anche Morelli 1996, 50 sgg. e 83-87 Sent from
the all new AOL app for iOSmowitz, a Schroeder, a Maas 49 . Il successivo
capitolo ( Metrica e musica ), prendendo spunto dai lavori di R. Westphal
volti a «applicare le leggi dell’isocronia musicale ai metri greci», tentativo
fallito ma assai noto in Italia per l’applicazione che ne diede Romagnoli nei
suoi Poeti lirici 50 , si segnala per la riflessione sulla
centralità del rapporto metrica-musi-ca, cioè poesia e musica, e sulla
necessità di considerarlo storicamen-te, alla luce delle svolte nella storia
della cultura greca dall’arcaismo sino a Timoteo e poi all’età ellenistica,
quando «il distacco della musica dalla poesia è definitivo; questa sarà
destinata quasi sempre alla lettu-ra» 51 . Noti sono i meriti di Perrotta nella
rinascita degli studi italiani di metrica antica 52 , nei quali «egli raggiunse
una competenza che lo pose in una condizione di assoluto predominio in Italia».
Così Ettore Para-tore all’indomani della morte del collega grecista nell’ateneo
romano, rimarcandone la visione della metrica quale «premessa indispensabile
per l’intelligenza di un altissimo testo poetico» e osservando la pro-fonda
coerenza della «esemplare e severa scienza metrica del Perrotta» con l’intera
sua concezione degli studi classici («nella metrologia del Perrotta veramente
filologia e critica si dànno la mano in una sintesi tra le più feconde») 53 :
nel timbro certo ‘romano’ ma già storiografica- 49 Cui già allora Gentili
imputa gravi limiti metodologici, per la sopravvaluta-zione ‘empirica’ dell’
observatio metrorum e il connesso «profondo scetticismo per tutti i
problemi metrici di Urgeschichte »: Gentili 1950, 20 sgg. 50
Particolarmente il secondo volume ( I Poeti Lirici. Terpandro, Alceo,
Saffo , Bologna 1932) è costellato di «traduzioni in segnatura moderna della
realizzazione sonora», cioè vere e proprie trascrizioni per musica dei
frammenti dei tre antichi autori; almeno da un punto di vista storico non a
torto Stella 1972, 171 indica come merito di Romagnoli «quello di avere
richiamato l’attenzione fin dai primi anni del Novecento sul binomio
poesia-musica , in stretta interdipendenza di nota e parola, nei poeti
greci fino all’età ellenistica», e di aver così dato «avvio ad una
compren-sione profonda e meno letteraria di Saffo e di Pindaro, di Eschilo e
Aristofane: indicava nuove strade per future ricerche». Le indagini sulla
musica greca anche in età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd.
Martinelli 2009. 52 Messi in rilievo da Albini 1963, 111, il quale anche
ricorda che «quando la morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul
saturnio», sul contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli 1996, 70
sgg. Resta il paradosso, segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio,
che «nella produzione di Gennaro Per-rotta, anche tenendo conto delle notazioni
occasionali e delle scansioni fornite in Polinnia , i contributi di
carattere metrico risultano nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se
rapportati all’importanza che egli annetteva notoriamente alla materia e agli
anni spesi nelle relative ricerche fin dall’adolescenza». 53 Paratore
1963b, 7-8. È visione che si ritrova bene espressa anche nell’esordio del I
capitolo di Metrica greca arcaica : «Critica testuale, metrica,
interpretazione estetica sono problemi che devono essere affrontati
contemporaneamente dal fi-lologo classico; essi rappresentano una unità
indissolubile, inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici alessandrini
se essi, unitamente all’esame critico delmente atteggiato della valutazione di
Paratore, «la più grande scuola di metrologia classica fiorente in Italia»,
derivata da Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di Bruno Gentili.
L’esperienza di Perrotta me- tricista non può disgiungersi dal magistero
pasqualiano 54 . Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su
problemi importanti di metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo
contributo su Pasquali e la metrica nell’àmbito del convegno del 1985
Giorgio Pasquali e la filologia clas-sica del Novecento : Ricordo con perfetta
lucidità l’esame metrico cui fui sottoposto al nostro primo incontro: mi chiese
se ero in grado di scandire un carme di Bacchilide o di Pindaro; risposi
affermativamente. Non ne fu del tutto convinto; mi porse il testo di
Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente il quinto epinicio, chiedendomi
prima in quale metro fosse composto. Risposi: «Dattilo-epitriti» e lessi tutta
intera la prima triade strofica. Ne fu sorpreso, forse perché dubitava che un
giovane non formatosi alla sua scuola fosse in grado di superare questa
difficile prova 55 . I colloqui con Pasquali, avvenuti a Firenze nell’immediato
dopoguerra, si incentrarono (continua Gentili) quasi esclusivamente su un
problema che particolarmente angustiava il grande filologo, quello cioè «delle
re-sponsioni impure nei lirici corali e nei cantica della tragedia
e della com-media del quinto secolo», in relazione soprattutto alla soluzione
data da P. Maas in due articoli dove «egli crede di poter negare le responsioni
impure in Bacchilide e in Pindaro, correggendo ar-bitrariamente il testo nei
luoghi dove esse appaiono» 56 . Ciò che qui conta mettere in rilievo è la persuasione
che Gentili trasse da quegli incontri dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile,
«di affrontare il tanto discusso problema delle libere responsioni fra strofe e
antistrofe non più nella pro-spettiva astratta e schematica indicata da Paul
Maas ma in una prospettiva più attenta alla fenomenologia del rapporto
metro-ritmo melodico» 57 : che cioè, più in generale, Pasquali già avesse
testo, curarono nelle loro edizioni critiche la divisione in strofe, in στίχοι
e in κῶλα dei cori lirici, tragici e comici […]. Se oggi il filologo
moderno dissentirà da essi nell’interpretazione, non potrà certo dissentire nel
metodo. Conoscere, dunque, la metrica di un poeta significa poter intendere più
profondamente la sua stessa poe-sia, significa poter penetrare nell’intima
armonia e musicalità del verso». 54 «Tratto ereditato da Pasquali»
lo dice Gamberale 1994, 77. 55 Gentili 1988, 79. Per la centralità nella
ricerca metrica di Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così
denominati nel secolo scorso da R. Westphal», nella dialettica tra
individuazione di cola unitari e sistematizzazione metrica
otto-centesca di origine boeckhiana vd. e. g. Gentili – Giannini
Così Gentili 1950, 21, in un passo e in un contesto che sembrano conservare
qualche traccia delle conversazioni con Pasquali di quegli anni (la prefazione
reca la data del 30 settembre 1949, ma Gentili informa il lettore che la prima
parte del libro era già in bozze). Si ricordino le polemiche degli anni
seguenti con Maas circa luoghi bacchi Sent from the all new AOL app
for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia lirica sia essa monodica o corale e
la musica erano i mezzi di comunicazione di una cultura che, attraverso il
linguaggio poetico, i ritmi e le melodie, trasmetteva oralmente i suoi messaggi
in pubbliche audizioni 58 . In parte riguardante l’àmbito delle responsioni, e
in polemica con Maas, fu l’intervento di Gentili compreso nella raccolta di
contributi in memoria del maestro («Maia» 15, 1963) 59 : «alcuni problemi qui
discussi», è detto in apertura, «furono non di rado il tema preferito da
Gennaro Perrotta nelle conversazioni con i suoi allievi, i μετρικώτατοι»,
particolarmente negli anni 1947-1951. L’articolo è interessante anche per
l’attenzione che di-mostra, pur con vari dubbi, verso la colometria antica
quale attestata dai pa-piri di Anacreonte e di Bacchilide, già in qualche modo
preludendo a quel- lo che diverrà, soprattutto dagli anni Ottanta, uno degli
àmbiti di studio più cari a Gentili e alla sua scuola 60 .3. Come per l’Italia
e il mondo, così per Bruno Gentili gli anni Sessanta videro prepararsi e poi
compiersi svolte decisive. Poco dopo la precoce scomparsa di Perrotta
(settembre 1962), Gentili divenne all’Università di Urbino ordinario di
Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da alcuni anni, sin
dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui fu subito «figura
cardine» 61 . La prolusione urbinate del 18 giugno 1964, pub- blicata l’anno
successivo con il titolo Aspetti del rapporto poeta, commit- lidei
in cui «la presunta corruttela del metro, per la responsione non perfetta»
aveva condotto il filologo tedesco a ritenere corrotto il testo, difeso
ammettendo la re-sponsione impura in Gentili Gentili Il racconto di Gentili va
naturalmente letto tenendo pre-sente la frattura tra Pasquali e Perrotta su cui
vd. Morelli; dal no-vembre 1948, su sollecitazione di Pasquali, erano ripresi i
rapporti epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina Gentili 1963 (poi nei
monumentali Studi in onore di Gennaro Perrotta ). Nella stessa
Gedenkschrift non manca un breve contributo di P. Maas, una nota
metrica di argomento ‘moderno’ datata Oxford, 31 ottobre 1962: Maas 1963. Anche
per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame delle carte segnalate in
Lehnus 2010a e Lehnus 2010b. 60 Una quindicina d’anni dopo Gentili
osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli antichi sia di scarso
valore e di nessuna utilità per noi […]. Ma, ch’io sappia, nessuno sino ad oggi
ha realmente dimostrato la validità di questa asser-zione. Il disprezzo e il
totale rifiuto delle teorie antiche è una moda invalsa negli studi metrici del
Novecento» (Gentili 1979a, 688). Dello sviluppo degli studi sulla colometria
antica guidati da Gentili negli anni successivi sono testimonianza molti
contributi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»: come sguardo d’assieme
vd. Pretagostini, Gentili – Perusino 1997 e più di recente la Tavola
rotonda; breve consuntivo del dibattito in corso in García Novo Sugli studi
classici a Urbino dapprima nella Facoltà di Magistero poi in quella di Lettere
e Filosofia vd. il profilo di Colantonio – Bravi 2006tente, uditorio nella
lirica corale greca , presenta un chiaro carattere pro-grammatico 62 e
introduce quell’insieme di temi che «nel tempo si rivelerà più produttivo e
tipicamente ‘gentiliano’» 63 . Fin dalle prime righe del sag-gio è messo in
evidenza il valore di «strumento di conoscenza del reale» proprio della
produzione poetica nella cultura greca del tardo arcaismo, il suo farsi «guida
orientativa nell’evoluzione della società greca, nelle forme del linguaggio e
dell’arte del poetare» per motivi non estrinseci ma stret-tamente connessi alla
centralità del rapporto diretto tra il committente e il poeta che
particolarmente connota la poesia corale. La funzione del mito, e dunque il
tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela quando ci si rifaccia al
professionismo del poeta e alla funzione celebrativa costitutiva-mente propria
della sua attività, volta a «scegliere una leggenda appropriata all’occasione»,
a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio la relazio- ne tra racconto
e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale significato e un valore
esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo storicamente determinato e aperto
alla necessità dell’interpretazione, possono corretta-mente configurarsi il
rapporto mito-attualità e il rapporto mito-gnome, e può considerarsi superato
«il problema dell’unità dell’epinicio e in genere del carme corale sul quale
per più di un secolo dal Boeckh in poi la critica si è tormentata nella
disperata ricerca di un’unità logica o estetica». Era, quello dell’unità
dell’epinicio, il problema centrale della critica pindarica quale intuíto e
sviscerato dalla grande filologia tedesca del XIX secolo, e che Perrotta aveva
posto tematicamente al centro della sezione pindarica in Saffo e Pindaro,
dedicandovi una rilettura di oltre cento pagine attraverso l’intera produzione
del poeta di Tebe, frammenti compresi, infi-ne giungendo alla constatazione
dell’assenza di unità sia estetica sia logica nelle odi pindariche.
Sostanzialmente riprendendo la visione romagnolia-na di Pindaro come «poeta del
mito» 64 , l’interpretazione di quel «poeta puro, più che poeta-moralista o
poeta-filosofo» 65 è infine da Perrotta per intero riportata all’interno
della dicotomia crociana poesia/non poesia, senza arretrare dinanzi alle
necessarie conseguenze di quella scelta critica: Non poeta dei giuochi, nè
della gnome; non poeta dell’etica e della politica dorica; non poeta della saggezza
di Apollo delfico. Ma poeta grandissimo del mito sentito religiosamente come
miracoloso eroismo e miracoloso prodigio. Questa defini-zione dell’arte
pindarica costringe a ripudiare come non poesia buona parte dei versi del
poeta. Questo forse dispiacerà; e si dirà che Pindaro è ridotto ad essere, a
questo modo, un poeta frammentario, e si deplorerà ch’egli è stato
rimpicciolito e diminuito. Ma una più serena considerazione convincerà, che,
anzi, il poeta è 62 «Una specie di manifesto per la Scuola
urbinate» lo definisce Angeli Bernar-dini 2013, 16. 63 Catenacci 2014,
449. 64 La cui derivazione da Burckhardt sottolinea Paratore
Perrotta stato accresciuto, perchè l’unico modo di onorare un poeta è quello di
esaltare la sua poesia. Isolare le parti impoetiche, non che fargli torto, è un
servigio reso al poeta stesso 66 . Non a caso subito Perrotta richiama per
confronto il caso della poesia dantesca («naturalmente continueranno ad
esistere gli ammiratori dell’architettura, dell’unità, dell’armonia dell’epinicio
pindarico, proprio come non mancano gli ammiratori dell’architettura, della
struttura, della concezione del mondo dantesco») 67 , a proposito della quale
con maggior valenza paradigmatica Croce aveva teorizzato e applicato la
necessaria dis-tinzione – valida per ogni autore e opera letteraria – tra la
dimensione pro-priamente ‘poetica’ e quella ‘allotria’, attinente «una varia
interpretazio- ne filosofica e pratica» 68 .Trent’anni dopo, nel 1965,
disegnando il percorso per un profondo rinnovamento degli studi italiani su
Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse alle ipoteche critiche
della prima metà del secolo, Gentili in certo modo proietterà all’esterno il
tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo «nel mondo dei valori che il poeta
in rapporto al suo pubblico e alla funzione sociale della poesia era portato a
interpretare» 69 . Discernere nella orazione urbinate i fili di una nascosta
dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva di giustificazioni, quando si
pensi che il saggio Aspetti del rapporto poeta, committente,
uditorio nella lirica corale greca , nato da quella prolusione e poi pubblicato
in più sedi, per la prima volta comparve nel volume di «Studi Urbinati»
contenente gli Scritti in onore di Genna-ro Perrotta 70 aperti da
una pagina di presentazione di Gentili stesso, alla quale segue un inedito
perrottiano, una nota critico-testuale a un passo di Lucano, in duello con una
atetesi di Housman nel pasqualiano baluginare di «due varianti antiche» 71 .
Significative le parole introduttive di Gentili, che indicano nel maestro un
modello di «vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi», mentre
pur non si può tacere l’esigenza di porre nuove domande alla grecità arcaica e
classica: 66 Perrotta E così prosegue: «gli uni e gli altri si riterranno
i soli capaci d’intendere i poeti, pur essendo incapacissimi d’intendere
qualunque poesia, perchè per poesia intendono l’allegoria, oppure la così detta
‘poesia d’idee’, oppure perfino una rac-colta di massime belle e utili».
68 Mi limito a rimandare in proposito, come testo esemplare, all’
Introduzione di Croce 1921, che cito da una ristampa laterziana
sostanzialmente immutata del 1943. 69 Saranno poi i temi fondamentali di
molte, famose pagine di Poesia e pubblico nella Grecia antica ,
soprattutto nel cap. VIII Poeta-committente-pubblico, ovvero la
norma del polipo . 70 Gentili 1965a. 71 Perrotta 1Chi gli fu vicino
e poté, anche fuori della scuola, ascoltarlo nella conversazione abi-tuale,
sempre viva e piena d’intelligenza umana, apprese, oltre che il rigore
scien-tifico della ricerca, il vivo impegno a dare un senso di attualità ai
nostri studi, oggi, nelle prospettive del nostro tempo, diremo l’impegno a
comprendere nell’inesauri-bile mondo della grecità arcaica e classica la
problematicità dei rapporti di valore culturali e civili, quali uomo-scienza,
uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della nostra inquietudine e per i
quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se dobbiamo, tra i rottami inutilizzabili
del vecchio umanesimo e tra gli automi della odierna civiltà industriale,
riproporre una nuova dimensione dell’uomo, dell’uomo non come strumento ma come
fine 72 . La seconda parte del saggio discute un buon numero di passi, perlopiù
di Pindaro, anticipando traduzioni destinate all’antologia Lirica
corale greca. Pindaro Bacchilide Simonide , che uscì per Guanda nel 1965 73 ;
il saggio originato dalla prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione
sostanzialmente immutata, a mo’ di introduzione dal titolo Poeta e
com-mittente . Nuovo è però l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che
intercetta le curiosità ‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti,
un po’ provocatoriamente invitandoli a una nuova lettura dei poeti della lirica
co-rale greca: In un momento di crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi
d’avanguardia, giu-stificati, entro certi limiti, dalla buona intenzione di
trovare linguaggi più idonei ad interpretare la realtà presente, ha forse un
senso riproporre una nuova lettura dei poe- ti della lirica corale greca,
Pindaro, Simonide, Bacchilide. La scelta non è casuale, ma ha un suo
significato che sarebbe stato eluso se ci si fosse limitati a ripresentare i
poeti della lirica monodica, troppo consunti dalla tradizione ermetica. Premeva
invece offrire, nei limiti consentiti dall’indole della collana, un panorama
delle op-poste tendenze ideologiche e artistiche che animarono la poesia del
tardo arcaismo greco, cioè di un’epoca culturale caratterizzata da una profonda
crisi evolutiva nella quale la poesia, come solo rare volte nella storia della
cultura occidentale, divenne strumento di conoscenza del reale […] 74 . Si
tratta dunque di una affermazione di ‘contemporaneità’ della lirica greca
ancorata a solide e rinnovate basi filologiche e storiche, proposta in un’epoca
di crisi e trasformazione tra le più incisive e impetuose del se-colo, come
oggi sappiamo. Se può forse anche rimandare qualche eco dei 72
Parole che in parte torneranno trent’anni dopo nell’introduzione premessa da
Gentili alle Giornate di studio su Gennaro Perrotta . Si può aggiungere
che nella premessa agli Scritti urbinati in onore del maestro, Gentili
segnalava che alcuni di essi costituivano i primi contributi di collaboratori
del neocostituito «Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e
latina» presso l’Università di Urbino. 73 Gentili 1965c. Ho consultato
presso la Biblioteca centrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano una copia appartenuta a Luigi Alfonsi, con dedica manoscritta di Gentili
datata «Urbino 18.11.1965». 74 Con l’ultimo periodo si apre il saggio in
«Studi Urbinati» clamori suscitati dalla beat generation di A.
Ginsberg, il cenno iniziale agli «sperimentalismi d’avanguardia» nell’àmbito
della poesia contempora-nea, ai loro eccessi e alle loro ragioni,
essenzialmente rinvia alla neoavan-guardia italiana di quegli anni, la cui fase
preparatoria si suole riconoscere nel dibattito culturale sviluppato sulla
rivista milanese «Il Verri», fondata nel 1956: sin dall’inizio diretta da
Anceschi, se n’era avviata nel 1962 una seconda serie presso l’editore
Feltrinelli, sedendo nel comitato di redazione letterati poeti e studiosi
destinati a fama e fortu-na nei successivi decenni (Nanni Balestrini, Renato
Barilli, Eco, Giuliani, Guglielmi, Porta, Sanguineti). I nomi appunto intorno a
cui nel 1961 si era aggregata l’antologia poetica I
Novissimi: poesie per gli anni Sessanta (con testi di N. Balestrini, A.
Giu- liani, E. Pagliarani, A. Porta, E. Sanguineti), con il successivo
passaggio al Gruppo 63, più eterogenea e conflittuale formazione: intorno alla
metà degli anni Sessanta poli entrambi di definizione e diffusione della
neoa-vanguardia italiana, poetae novi avversi contemporaneamente
a ermetismo e neorealismo 75 , volti (i più) alla destrutturazione sperimentale
di lingua e forma come unica modalità di espressione di/in una realtà svuotata
di sen-so e accettata come tale 76 . Presentando il primo numero della nuova
serie de «Il Verri» (febbraio 1962), L. Anceschi salutava il determinarsi di un
evidente mutamento nel panorama della poesia italiana contemporanea. A una
maniera «che fu giustamente detta anacoretica , o ermetica ,
o chiusa , non senza certe tentazioni di involuzione neoclassica» e che
intendeva la poesia «come fuga o rifugio; come estrema voce del soggetto
nascosto e introverso […] come sintesi illuminante, pregnante, e veloce nel
rigore calcolato, coltivatissimo, e raro della parola», si sostituiva ora il
diverso atteggiamento e sentimento «di una poesia dissacrata, estroversa, che
si ritrova in un mondo di oggetti reali, affidata talora alla casualità del
sin-tagma, talora ad un ritaglio significante dell’effimero, di modi analitici,
a struttura complessa e multipolare, tale che […] può farsi capace di una
critica di vita, di un’azione per la trasformazione dell’uomo»: egli avver-tiva
insomma il farsi avanti di una poesia, e di una stagione di poesia, «come
accrescimento della vitalità , e nuove tecniche, e volontà di for-me aperte, e
speranze di una maggior portata di comunicazione…» 77 . Il saggio già apparso
in «Studi Urbinati» fu da Gentili subito ripubblicato 75 Nonché
«uniti e avvinti (per impulso d’Anceschi) nel programma di approfit-tare della
prima congiuntura economica favorevole dopo secoli – il famoso boom »:
così Alberto Arbasino in Anceschi – Campagna – Colombo, 338. 76
«Sganciato il linguaggio da intenti determinati e da precise responsabilità
semantiche, lo scrittore appare attirato non tanto dalla mancanza di senso quanto
piuttosto da ciò che sembra lecito chiamare il possibile verbale, ossia
l’estrema libertà di invenzione linguistica. La parola comunica non dei
significati, ma le pro-prie avventure e peripezie, percorre lo spazio senza
fine del desiderio, del gioco e del godimento», come efficacemente sintetizza
Curi 2014, 100. Sent from the all new AOL app for iOS appunto
su «Il Verri» 78 , all’interno di un numero monografico Classicità e
contemporaneità contenente contributi anche di altri studiosi del mon-do
antico 79 . Il fascicolo era introdotto da un intervento di Anceschi, da sempre
attento a «scoprire in modi non fortuiti una zona antica e nuova della
classicità» 80 , qui volto a riflessioni di singolare lucidità e preveggen-za,
oggi certo più inoppugnabilmente attuali di cinquant’anni fa: Le infinite
maniere con cui nel secolo son stati sentiti i classici testimoniano già esse
di un continuo vivere dei classici al di fuori della astrazione, ormai
incredibile, di eterne, immobili esemplarità. Che senso avrà la lettura dei
classici in un mondo in cui l’Europa non sia più il “cervello del mondo” ma
solo, se sarà possibile, una delle sue fibre, una delle
voci di una cultura che si è aperta, aperta al riconoscimen-to delle ragioni di
tutti i popoli, di tutte le tradizioni? La cultura europea in certi suoi
esponenti della metà del secolo scorso sembra aver intuito la possibilità del
determinarsi di una situazione di questo genere […]. Questa è la situazione in
cui siamo, qui dobbiamo vivere, e in questo ordine recuperare i nostri antichi
81 . Particolarmente appropriati, nel contesto del numero de «Il Verri»,
ri-sultano dunque sin dall’inizio del saggio di Gentili i rilievi sulla
‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente della lirica corale, tra le varie
forme della poesia greca arcaica, e sull’almeno apparente maggiore
accessibilità dei grandi poeti della lirica monodica (Saffo, Alceo, Anacreonte)
anche se il loro volto è apparso spesso da noi alterato da un certo estetismo
deca-dentistico che ha ancor più accentuato, a suo modo, quell’idea astratta e
astorica della lirica greca che abbiamo ereditato dalla nostra cultura
classicistica. Il culto della “poesia pura” idoleggiò in essi quella che fu
ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o addirittura
la “poesia del frammento” conden-sata in un’immagine di pochi versi superstiti.
Il riferimento è qui alla importante, benché spesso indiretta presenza dei
maggiori lirici monodici nella letteratura italiana dalla seconda metà
77 Anceschi 1962, in partic. 14 sgg. 78 Gentili 1965, 80-97.
79 C. Del Grande ( Grecità ); C. Diano ( Ritorno a Plutarco ); E.
Pasoli ( Per una lettura dell’epistola di Orazio a Giulio Floro ); G. C.
Giardina ( Note per l’esegesi di Orazio lirico ); A. Mele ( Orazio e il
significato culturale del classicismo latino ). 80 Cit. in Nisticò 1997.
81 Anceschi 1965, 4-5. Quanto una ben diversa visione della Grecia come
«anti-ca madre comune» fosse in àmbito filosofico italiano ancora viva pochi
anni prima testimonia ad esempio il volume di Barié – Sini 1959, dove a fronte
del «senso della crisi dei valori oggi tanto diffuso nella coscienza dei
contemporanei, che nessuna generazione del passato potrebbe probabilmente
reggerne il paragone», si propugna un ritorno alla Grecia, che «vagheggiata
dall’Umanesimo al Romanticismo come il felice e radioso mattino della nostra
storia, sembra non avere mai deluso chi ricerchi in essa i germi del modo
occidentale di considerare e vivere la vita» (17dell’Ottocento, non solo e non
primariamente nelle traduzioni 82 . A Car-ducci in particolare, e per vari
aspetti già al Foscolo 83 , si deve «la riscoper-ta, nelle immagini e nei
metri, dei lirici greci, di Alceo e Saffo, già di leo-pardiana memoria, e poi
di Alcmane […] come modelli di poesia pura» 84 , all’origine di un ricco e
complesso processo di ricezione, ancora non ade-guatamente studiato, che
attraverso Pascoli 85 e D’Annunzio conduce sino ai Lirici
greci tradotti da Salvatore Quasimodo , usciti a Milano in prima edizione nella
tragica primavera del 1940, introdotti da un saggio critico del ventinovenne
Luciano Anceschi. A Milano Anceschi si era formato con Antonio Banfi, subito
segnalandosi con il volume Autonomia ed ete-ronomia dell’arte
(1936) 86 , radicale presa di distanza dall’intuizionismo estetico crociano e
dalla sua incapacità di comprendere le poetiche del Novecento 87 . Come il
coetaneo Carlo Bo (1911-2001) per la corrente ‘fio- 82 Tra le quali
per più ragioni merita ricordare quella che Felice Cavallotti (1842-1898),
allora già famoso deputato dell’ Estrema , dedicò a Canti e
frammenti di Tirteo. Versione letterale e poetica con testo e note preceduta da
un’ode a Gio-suè Carducci , Milano 1878, con prefazione, interessante per il
rifiuto della ‘metrica barbara’ («il tentativo – che non data da oggi – di
ricondurre la poesia italiana alla esteriorità dei metri greci e latini, mal
saprebbe giudicarsi alla stregua di alcune splendide ispirazioni di Enotrio»),
e per l’attenzione alla fortuna di Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare
nel mondo tedesco (lingua che Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico
liceo milanese di Porta Nuova), finanche citando «la versione olandese in versi
di Bilderdijk»: ma nella costituzione del testo adottando «per base la volgata
di Enrico Stefano – del 1566 – che ancora oggi fra tutti i distillamenti di
cervello della critica germanica rimane la guida del testo più fida e più
sicura». 83 Del Foscolo si ricordi almeno la visione dei versi
della Coma catulliano-calli-machea come poesia
lirica sin dalla dedica a G. B. Niccolini («non credo che l’an-tichità ci
abbia mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che
li pareggi») della traduzione e commento de La Chioma di Berenice
poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo (1803): ivi il
Discorso quarto. Della ragione poetica di Callimaco si chiude
nel nome di Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saf-fo nei superstiti rari
vestigi a fronte di Orazio e di Catullo. Sul ‘pindarismo’ fosco-liano dal
commento alla Chioma di Berenice attraverso i Sepolcri
sino alle Grazie come riflessione sul nesso che lega lirica antica
e moderna vd. Benedetto 2006. 84 Nava 2007, 90; qualche utile elemento si
trae da Tomasin 1997. 85 Fondamentali soprattutto i Poemi
Conviviali (del 1904 la prima edizione in volume) sin dal liminare
Solon (1895), su cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato
commento in Treves Un àmbito di
particolare interesse è quello della sperimentazione pascoliana ispirata ai
metri della lirica greca, cfr. Giannini 2009 e ora Capone – Giannini 2015.
86 Lo stesso anno de La poetica del decadentismo di W.
Binni, per il cui influs-so sugli studi pindarici degli anni Quaranta di M.
Untersteiner vd. Lehnus 1989. 87 Sui fondamenti filosofici e critici del
precocissimo anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa 2007, cap. I ( La
nuova fenomenologia e la nozione di poetica ); su Anceschi, la critica di
ispirazione fenomenologica e la sua connessione con la neoavanguardia (come già
con l’ermetismo critico) utile profilo in Orvieto 2003, 1090-1095 e
1104-1110rentina’ dell’ermetismo, sul versante ‘milanese’ Anceschi fu figura di
spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori della
singolare intensità della parola nella poesia di Quasimodo: ‘poetica della
parola’ sul-la cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai
Lirici greci del 1940, dicendola erede dell’«esperienza complessa
della poesia dopo Hölderlin, Poe, Baudelaire, e, per noi in special modo,
Leopardi» e, soprattutto, scor-gendone l’antecedente nella «pura e libera voce
dei lirici greci». Anceschi si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico
svoltosi per secoli intorno a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che
nella cultura euro-pea «non ci fu mai la felice e piena stagione dei lirici
greci». Quella stagio- ne ora è giunta, cosicché «nella ricerca di una poesia
veramente nuova e contemporanea » e soprattutto «nella
aspirazione al raggiungimento di una rigorosa purezza lirica »
l’‘ermetico’ Quasimodo può pienamente espri-mere se stesso traducendo Saffo
Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè «la purezza di quell’antica
sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della poesia». Senza
sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione della
terribile crisi della civiltà europea 88 , risuona l’appello alla lirica greca
come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente assicurata
dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa aspirazione
di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni composizione
poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla no-stra
coscienza come un tutto è, appunto, la lirica – per la prima volta
nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la parola
(qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove era anche danza e
musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia unitaria di ritmi. E
solo l’immaginazione più libera può darci un’approssi-mazione felice a quel
segreto. Se pregevole appare la sottolineatura del concorrere di parola, danza
e musica nel definire la particolare natura della lirica greca, è indubbio che
il suggerire compatibilità o addirittura sovrapponibilità tra ‘poetica della
parola’ cara agli ermetici novecenteschi e scarni testi dei lirici
greci conservati per fragmina («qualche parola altissima, e
interrotta») si risolve in una forzatura critica a danno del concetto e della
realtà di ‘frammento’ propri della filologia classica: all’indomani della
guerra pubblicamente lo segnalò Manara Valgimigli (1876-1965) 89 , peraltro con
Quasimodo e 88 Consapevolezza che ad esempio si esprime nel
richiamo a un’illuminante frase di P. Valéry: «… une civilisation a la même
fragilité qu’une vie. Les cir-constances qui enverraient les oeuvres de Keats
et celles de Baudelaire rejoindre les oeuvres de Ménandre ne sont plus du tout
inconcevables: elles sont dans les journaux» (22-23). 89 Valgimigli
1946 (1957). Dopo aver ricordato che dei lirici greci «per tra-dizione
medioevale diretta, oltre la silloge teognidea e quella pseudofocilidea, e
oltre i quattro libri degli Epinici di Pindaro […] tutto il resto lo abbiamo o
per ciAnceschi in rapporti epistolari già in quel 1940, e da subito ben disposto
verso l’impresa traduttoria del poeta ermetico e i suoi risultati 90 . Quan-do
Gentili, nel saggio pubblicato nel 1965 su «Studi Urbinati» e su «Il Verri»,
polemicamente alludeva a quell’impresa nei termini su citati («il culto della
“poesia pura” idoleggiò in essi [ scil . i grandi poeti della lirica monodica]
quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poe- tica per
eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” condensata in un’immagine
di pochi versi superstiti»), i Lirici greci di Quasimodo
erano nel pieno della loro fortuna: mentre proprio nel 1965 era definita la
for-ma ne varietur delle versioni dai lirici nell’edizione
mondadoriana degli Opera omnia del poeta, tra vivaci polemiche di
recente laureato dal Pre-mio Nobel (1959), quelli erano gli anni in cui se ne
radicava e diffondeva la presenza nelle scuole italiane, particolarmente dopo
l’istituzione della Scuola media unica. Soprattutto dai primi anni Sessanta e
nel successivo decennio si può dire che in Italia nella percezione comune,
anche gene-ricamente colta, la lirica greca coincise con i Lirici
greci di Quasimodo, opera anzi che già all’indomani della morte del poeta
(1968) si prese a riconoscere come la sua migliore 91 . La stessa scelta da
parte di Gentili di tazioni indirette, oppure, dove siamo stati più
fortunati, per ritrovamenti papiracei; a ogni modo, per frammenti» e che in
realtà anche la lirica era «tutta intessuta e ragionata nel mito», Valgimigli
pienamente riconosce le ragioni storico-culturali di quell’equivoco, il
‘fascino singolare’ esercitato sui ‘lirici nuovi’ dagli antichi poeti in
frammenti: «ora, se io penso a quelle che furono ai principi del Novecento le
teoriche dell’intuizionismo, del futurismo, del frammentismo, non credo peccare
di temerità né di irriverenza se tra le cause di questo incontro di poesia
greca e poeti nuovi oso porre anche questa umile e strana combinazione, cioè
del casuale stato frammentario e quindi, in certo senso, alogico,
anticontenutista, antisintattico, e, vorrei aggiungere, anticantato di certa
poesia lirica greca». 90 Quanto sopravvive dei carteggi
Quasimodo-Valgimigli e Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto
– Greggi – Nuti 2012. Val la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da
Padova, 6 giugno 1940, su carta intestata «R. Università di Padova/Seminario di
Filologia Classica») con cui Valgimigli rin-graziava il poeta per l’invio di
una copia degli appena pubblicati Lirici greci : «Caro Quasimodo /
Ho avuto il libro. Grazie. Certi versi mi hanno ridato la consolazione di un
nuovo cantare. Sopra tutto, come già Le scrissi, c’è quel pudore schietto, quel
pudore senza inganni, quella limpidezza liquida, che erano e sono qualità
insolite e ignote. Di alcuni punti e modi, di alcuni suoni di parole, assai mi
piacerebbe par-lare con Lei. Anche mi piacerebbe scrivere di questo suo libro.
Ma dove, in questi giorni feroci? Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E
auguriamo bene al nostro paese e alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in
Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 100-101). 91 Così per primo E.
Sanguineti, uno dei protagonisti della neoavanguardia, che in chiusura
dell’ Introduzione alla sua importante antologia einaudiana
Poesia italiana del Novecento (1969) accomuna in iconoclastico
dileggio antiermetico le versioni quasimodee al famoso saggio di Carlo Bo
Letteratura come vita (1938); appunto perché gli antichi lirici
risultano «volgarizzati, mediante il Quasimo- Sent from the all new
AOL app for iOSantologizzare e tradurre per Guanda i poeti della lirica corale
(Pindaro, Bacchilide, Simonide) fu con ogni evidenza determinata dal fatto che
si tratta appunto degli autori non presenti tra i Lirici di
Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica sottesavi, come peraltro
Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato: Entro i limiti di una
pura (attuale e antica) idea della poesia perciò fu
osservata la scelta dei testi […]. Naturalmente è ben definito il senso anche
delle esclusioni di poeti disposti a mettere a servizio della «celebrazione» la
magnificenza di uno stile espertissimo, come Pindaro; o, come Bacchilide, abile
e colto in una dolcezza di analisi descrittive. E sempre, poi, un rigore senza
concessioni ha voluto la esclu-sione, o, almeno, la limitazione nella presenza
di poeti «semi-lirici» (giambici o elegiaci, gnomici o politici) troppo
disposti alla sentenza , all’ esortazione o alla narrazione :
a indubbie condizioni di prosa 92 . Venticinque anni dopo la comparsa dei
Lirici greci prefati da Anceschi, Gentili propugnava e realizzava
il rovesciamento di quella prospettiva cri-tica 93 ; ci si può quindi chiedere
perché il grecista urbinate abbia scelto pro-prio la rivista diretta da
Anceschi per ripubblicare e più ampiamente divul-gare il saggio Aspetti
del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Quanto si
è prima accennato circa i convincimenti maturati da Anceschi nel corso degli
anni Cinquanta, e poi sempre più all’inizio dei Sessanta, rende chiara la
risposta: «nemico di ogni posizione cristallizza-ta» 94 , Anceschi soprattutto
con «Il Verri» individuò come primario compi-to del critico «quello di
risolvere la situazione in cui si trova, e di cui sente l’ansia e
l’instabilità» 95 . Non solo sin dai primi anni del dopoguerra egli si
do, con i tratti deformanti della poetica ermetica», su quindici poesie
antologizzate da Sanguineti tredici sono tratte dai Lirici greci ,
definiti «il suo più vero contribu-to originale alla poesia del nostro secolo»
e «uno dei documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica».
92 L. Anceschi, Introduzione in Quasimodo 1940, 22.
93 Con espressioni che sembrano anche direttamente rispondere a quelle di
An-ceschi del 1940: «per questa via era difficile accostarsi ai lirici corali
del tardo ar-caismo greco, particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide,
più elaborati, più consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi
nei contenuti etici, politici e artistici, indissolubilmente legati a un
particolare ambiente e ad una determinata occasione che stimolarono e
condizionarono il loro canto» (Gentili 1965c, 15). 94 Anceschi – Campagna
– Colombo 1998, 331: «Anceschi – si sa – era nemico di ogni posizione
cristallizzata […]. Non sconfessava l’ermetismo, in cui si era riconosciuto e
che lo aveva visto nascere come critico militante, ma non intendeva lasciarsi
rinchiudere in esso. E magistrale […] era la sua capacità di muoversi in
territori ambigui, d’incerta definizione, non ancora riconosciuti, e di porsi
come punto di riferimento per chi cercava la sua strada». 95 Anceschi
1956, saggio con cui si apre il primo numero de «Il Verri» nell’au-tunno di
quell’anno, riproposto nella nuova serie de «il verri» nel 1996; sulla
con-dizione della letteratura italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra
le ultimeera convinto (come Quasimodo del resto) dell’esaurimento della
stagione ermetica, ma tornò ad affrontare i Lirici greci e la
sua stessa introduzione dieci anni dopo, riscrivendola nel 1951 per una nuova
edizione mondado-riana. Molte qui sono le novità, sin dall’avvio. Anceschi
lascia intendere di essere all’origine dell’incontro di Quasimodo con la lirica
greca (come peraltro già le pagine del 1940 lasciavano sospettare) 96 , prende
atto del de-finitivo isterilirsi dell’ermetismo, contestualizza la traduzione
quasimodea nel suo valore e nei suoi limiti storicamente determinati: Ma che
cosa si son fatti i lirici greci nella lettura di Quasimodo? Essi furon letti,
è evidente, nel gusto particolare di una certa tendenza alla poesia del tempo
[…]. Era un momento in cui la verità della poesia ci sembrava tutta compresa
nella veloce intensità della lirica in una estrema lucidità di contatti tra
oggetti lontanissimi e lon-tanissimi tempi della memoria; e gli antichi
frammenti (la giustificazione della vali-dità del frammento è
sempre la prova di resistenza delle estetiche) ci confermavano con la loro
forza che la poesia non sta nella struttura, non sta
nella «musica esterio-re», non sta nel «contenuto morale» o nella
«narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può andar perduto, eppure una
bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4. Importante novità rispetto
all’introduzione del 1940 è il richiamo al saggio «incompiuto e bellissimo» di
Renato Serra (1884-1915) Intorno al modo di leggere i Greci ,
pubblicato postumo da Valgimigli nel 1924 su «La Critica». Ispirate dalle
contradditorie reazioni che il primo volu-me della traduzione commentata
dei Lirici greci del Fraccaroli (1910) gli avevano suscitato
97 , le pagine di Serra sono soprattutto una riflessione sulla fine del vecchio
classicismo («il calco in gesso dell’Ellade serena, dell’Ellade perfetta, che
aveva fatto le delizie di tante generazioni, dagli umanisti fino al Carducci, è
andato in frantumi»), sul nuovo «desiderio di realtà» suscitato dall’incessante
lavoro di filologi e archeologi, sulla inquie- manifestazioni
dell’ermetismo e il dogmatismo neo-realista, e sulla risposta libera-toria che
la rivista trovò in una ‘fenomenologica’ concezione della letteratura «che
rinnova continuamente la propria consapevolezza in rapporto al concreto mutare
delle situazioni» torna ad esempio Anceschi 1967. 96 «Non dimenticherò
certo facilmente il giorno – davvero molto lontano, or-mai – in cui, parlando
con Quasimodo, mi venne fatto di associare, secondo certe ragioni, due idee
familiari e carissime, che, in quel momento, sollecitavano in modo singolare la
mia mente; voglio dire: l’idea della prima lirica greca, e quella della poesia
italiana contemporanea. Fu, credo, un giorno dell’autunno 1938»:
l’introdu-zione anceschiana del 1951 è ristampata in Quasimodo. Ho davanti a me
i Lirici del Fraccaroli. Che cosa è dunque l’interesse di que-sto libro?
L’intendimento nuovo di mettere sotto gli occhi dei lettori comuni questi
avanzi venerabili della lirica greca, sì che ognuno possa vedere e giudicare
senza scrupoli quel che sono sostanzialmente e quel che valgono. Con questo
animo l’au-tore ha dato e il pubblico ha ricevuto, molto lietamente, come
sapete, il libro. Per-ché dunque invece di partecipare a questa lietezza io
resto malinconico e dubitoso ad ascoltare l’eco beffardo di una ironia
lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;» Sent from the all new AOL app
for iOSta grecità da loro rivelata, consentanea al gusto fin de
siècle («coi prefidi-aci, con la civiltà micenea e con la cretese, con le
fasce delle mummie e con gli ostraka dei monticoli egiziani, e insomma con
l’insistenza su tutto ciò che la Grecia può dare di più crudo, barbaro,
romantico, positivo, con-trastante col vecchio ideale gelato»), e soprattutto
sulle opportunità svelate da questo diverso, modernissimo ‘bisogno di antico’:
Realtà, come dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la differenza profonda
fra la nostra generazione e quelle che l’han preceduta. Le statue, le
fotografie, le imma-gini, i processi, i costumi, in somma la vita nella sua
indifferente nudità ha preso il posto degli aoristi del maestro di seminario e
delle figure di Longino […]. Una cosa è chiara, direi quasi a priori ;
che con tanta voglia di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale della
grecità, i pensieri e i motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi e le
formalità, quest’ora dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora citati
del saggio di Serra provengono dal fascicolo de «Il Verri» dedicato a
Classicità e contemporaneità , che si apre con estratti da Intorno
al modo di leggere i Greci 98 . Sugli appunti di Serra si sofferma il
liminare Intervento di Anceschi. Nel giovane critico cesenate
caduto sul Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi del modo di
sentire e vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di chi ha
compreso «che non ha più alcuna utilità per noi una lettura
assoluta dei classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi,
con cui i classici ci possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi
vivono ancora per noi, e che molti e diversi possono essere i gesti del nostro
rapporto con loro. E su questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento.
Sono evidenti le consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa
presenza dei classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e
l’attività di Gentili in quegli anni come filologo e come docente. Ne è
conferma la scelta di continuare a pubblicare su «Il Verri» gli articoli di
maggior impegno teorico e programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di
Cultura Classica»: in particolare i due saggi L’interpretazione dei lirici
greci arcaici nella dimensione del nostro tempo e Prospettive
critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici . Il
primo (Gentili 1970) 99 pienamente si presenta al lettore ‘nella
dimensione del nostro tempo’, subito prospettando l’ineludibile «grosso
problema di fon-do che è il problema stesso della sopravvivenza del mondo
classico nella nostra cultura», letto all’interno del più radicale tema della
‘morte della storia’ nelle società a tecnologia avanzata e pervasiva degli
ultimi decenni 98 Serra 1965. 99 Già in «QUCC», con il
sottotitolo Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale :
Gentili 1969del XX secolo. Quaranta e più anni dopo, sono riflessioni che
colpiscono per lungimiranza, e per estraneità agli ideologismi allora correnti
come a qualsivoglia ‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In
concreto, quale senso può avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà
tecnolo-gica che rifiuta la storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e
alienata come è definita dai sociologi, perché ha tolto al mondo,
irrevocabilmente, le sue proprie dimensioni storiche? Il risultato di questa
situazione irreversibile è a tutti noto: la grande crisi dei valori etici,
politici, espressivi. Se volgiamo per un attimo lo sguardo alla cultura
contemporanea e agli ultimi movimenti delle neoavanguardie europee, lo stato di
crisi dell’espressione ha forse toccato i suoi limiti. L’articolo enuclea e
propone con chiarezza i principali elementi caratte-rizzanti il rinnovamento a
livello internazionale degli studi sulla lirica gre-ca arcaica, sulla spinta
soprattutto dei lavori di E. A. Havelock, muovendo dal riconoscere che «dato
comune alla lirica greca, e in generale alla poesia greca sino alla fine del V
sec. fu il tipo di comunicazione cui fu affidata, comunicazione non scritta ma
orale», e che una poesia orale «comporta modi di espressione e atteggiamenti
mentali diversi dalla poesia di comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una
‘tecnologia di scrittura’ rinvenibile «in contesti poetici di altre
culture orali», solita affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche,
estranea all’«uso dell’io idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della
poesia latina e poi moderna, connessa invece a una «psicologia della
performance poetica che mira a pubblicizzare il personale e il
soggettivo per renderlo immediatamente percepibile e coin-volgere
emozionalmente l’uditorio» attraverso la ricca serie di immagini e metafore
proprie del linguaggio della lirica arcaica. La presenza del mito ne riflette
la funzione, «tessuto connettivo della cultura orale e strumento sociale di
interazione tra passato e presente, fra tradizione e attualità, tra poeta e
uditorio», sì da delineare un tipo di poesia prammatica per la sua funzione e i
suoi scopi parenetici, didattici e celebrativi, sollecitata nella scelta dei
temi dalle vicende della vita militare e politica, dalle reali situazioni della
vita sociale, dei simposi, delle feste religiose e degli agoni atletici,
vincolata alle richieste di un committente o a un uditorio di “amiche” e di
“amici” di un thiaso di ragazze o di una consorteria politica di identico rango
sociale. Si trovano qui compendiate e illustrate con efficace consapevolezza
critica le linee guida che per mezzo secolo ispireranno l’amplissimo la-voro di
Gentili e della sua scuola sulla lirica greca arcaica 100 . È opportu-no
sottolineare la volontà di Gentili di legare l’interpretazione dei lirici
greci, così rinnovata, a una prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa,
protesa sul futuro e infatti più volte ribadita nei decenni successivi,
100 Esemplare l’esposizione in Gentili 1990 Sent from the all
new AOL app for iOSl’idea cioè «cui aspira l’antropologia contemporanea,
dell’interpretazione come comunicabilità fra culture diverse e distanti nel
tempo». Il rifiuto, all’inizio dell’articolo, sia della «interpretazione
umanistica tradizionale della poesia greca come eterna storia naturale del
gusto e dell’arte» sia del ‘neoumanesimo etico’, e in definitiva la presa
d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo tradizionale» in un contesto
culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo, mira all’affermazione di un
diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi ma variamente concordanti di
Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con «lo sforzo di capire in
concreto la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo una linea critica
attenta all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le domande, le
cate-gorie e gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla lessicologia
semantica alla psicologia sociale e alla psicologia della storia, dalla socio-logia
all’antropologia», e il vero tema risulta infine «il problema concreto
dell’uomo nella sua vita individuale e sociale» 101 .Allo scopo evidentemente
di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di una costante
riflessione concernente passato (dell’oggetto) e presente (dell’interprete),
«contro il pericolo di arbitrari travestimenti» 102 , il saggio si chiude con
una breve citazione da T. S. Eliot 103 , cara a Gentili, che la ripeterà in
futuro. Si tratta di un passo proveniente da un saggio del 1920 (
Euripides and Professor Murray ), violento attacco dello scrittore contro le
traduzioni euripidee approntate per la scena dal famoso grecista, accusato di
adottare per le proprie versioni un obsoleto stile tardo-otto-centesco incapace
di trasmettere la sostanza del testo greco e di renderlo comprensibile nel
presente (opinione ben espressa dalla devastante frase finale: «è per il fatto
che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio
morto»): è giusto aggiungere che, quali siano stati moventi e intenti della
stroncatura di Eliot, le traduzioni di Murray proposte on the stage
furono grandemente popolari per decenni, e anzi «it was largely due to Murray
that Greek tragedy established itself as a permanent feature of the theatrical
landscape» 104 . L’intervento fu incluso 101 Sul significato di
fondo dell’opera di Gentili da individuarsi nella «applica-zione alla filologia
testuale dell’antropologia culturale», al fine di porre «la spiega-zione dei
testi, della loro struttura e dei singoli passi, nel quadro illuminante della
cultura complessiva cui furono funzionali» vd. soprattutto le osservazioni di
Cerri 2014. 102 Con riferimento a quanto sembra alle interpretazioni
idealistiche e estetiz-zanti della lirica greca contro cui più polemizza
Gentili. 103 «Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al
suo posto con le sue definite differenze dal presente e tuttavia in modo così
vivo che esso sia tanto presente a noi come il presente». 104 Cfr.
Garland 2004, in partic. 161-163. Su Euripides and Professor
Murray vd. ora i rilievi di Morwood 2007, 139 sgg.; sui ben noti,
profondi interessi di Eliot per le letterature classiche e soprattutto per
Virgilio, e sull’importanza nella costru-zione e nell’autorappresentazione del
poema The Waste Land (1922) del concetto Sent
from the all new AOL app for iOSda Eliot nella raccolta Il bosco
sacro ( The Sacred Wood ), rivelata nel 1946 alla cultura italiana
dalla traduzione di Luciano Anceschi, che premise una lunga introduzione
(datata marzo 1945!) 105 dove non manca di essere menzionato
Euripides and Professor Murray , da Anceschi accostato al saggio
«incompiuto e bellissimo di Serra Intorno al modo di leggere i Greci
» per la comune avversione verso «quel tipo ambiguo di
traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi anni del secolo e
che […] non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né tanto meno quelle,
certo più rigorose, dell’arte» 106 . Bersaglio di Anceschi, subito dichiarato,
è «il prof. Romagnoli», esempio più noto della «filologia poetica di fine
secolo», appunto quella « filologia poetica , che è riuscita a ridurre i
liri-ci greci ad una farsa domenicale» a suo tempo già attaccata dallo stesso
Anceschi (direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco scomparso)
nell’introduzione ai Lirici greci del 1940 107 , priva invece
di riferimenti al certo in Italia ancora ignoto intervento di Eliot contro
Murray traduttore: lo si troverà poi citato, in chiusura, nella rielaborata,
quasi palinodica pre-fazione anceschiana del 1951 108 . Il terzo ampio e
importante contributo che Gentili in quegli anni ripropose sulla rivista di
Anceschi ( Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca
dell’età dei lirici : Gentili 1972) è per intero dedicato a discutere i
radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del Novecento nel
definire «l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio prima di tutto
registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi comuni della
vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti»,
particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio» proprio nell’àmbito
degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia dell’estremo persistere
della «critica del gusto» e in di fragment
(«these fragments have I shored against my ruins») vd. il profilo di
Martindale 1999. 105 Anceschi 1946. 106 Anceschi 1946, 32.
107 L. Anceschi, Introduzione in Quasimodo 1940, 24-25.
Questo il passo: «Quasimodo sembra perciò essere veramente il più adatto – oggi
– per una impresa così ardua – necessariamente – difficile […] in reazione a
certa filologia poetica , che è riuscita a ridurre i lirici greci
ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento bellissimo:
Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene / Mezzanotte: l’ora
vola; / io son qui sopita e sola )», dove il riferimento è natural-mente al
famoso frammento saffico 94 D. = 168b V. 108 In Quasimodo
2004, 333, dove Eliot «nel saggio su Euripide» è menzionato accanto a pensieri
sul tradurre di Leopardi e di Pound. Pochi mesi prima della comparsa in
italiano de Il bosco sacro , il richiamo al Murray di Eliot a
proposito delle traduzioni dai lirici greci prodotte in Italia tra Ottocento e
Novecento da «certi filologhi non so come invasati dal dio» era già in L.
Anceschi, Presentazione in Anceschi – Porzio 1945, 15-16
(dove come traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle, compare
in realtà il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo, Erinna,
Eschilo, Virgilio, Ovidio, Catullo).generale di «quel gusto del lirismo
novecentesco che ha dominato la cul-tura italiana tra il 1920 e il 1940» è
indicata l’ancora presente «tendenza a ricondurre il testo originale al gusto
del lettore e non viceversa a guidare il lettore verso il testo originale»,
così procedendo a un’operazione «che an-nulla le categorie del tempo e dello
spazio in vista di una contemporaneità falsa ed artificiale». A rinforzo dell’osservazione
e come monito «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» in cui possano
cadere le traduzioni, Gentili torna a menzionare il passo di Eliot contra
Murray già citato al termine dell’articolo di due anni prima (
L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo ).
È interessante notarlo, inte-ressante e paradossale. Originario intento del
brano, e in genere di Euri- pides and Professor Murray , era
l’accusa dello scrittore Eliot al grecista Murray di essere privo dell’‘occhio
creativo’ 109 capace di render vivo Euri-pide con una traduzione inglese
adeguata ai tempi e alla perduta centralità dell’educazione classica 110 .
Anceschi nel presentare la traduzione italiana ravvisò in Murray l’equivalente
inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più illustre di quella ‘filologia
poetica fine di secolo’ a lungo di voga in Italia, colpevole di
aver travestito gli antichi poeti nelle forme di un linguaggio che non
sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile linguaggio di Utopia che
ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e oggi ancor più ci
meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare di uno sfatto e
maldestro residuo di discepolato carducciano 111 . 109 È opportuno citare
per intero nel contesto originario il brano, con cui il sag-gio di Eliot si
conclude: «Abbiamo bisogno di una digestione che assimili insieme Omero e
Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno studio accurato
degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo bisogno di un occhio
che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal
presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia tanto presente a noi come
il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il fatto che il professor
Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto».
110 Eliot 1920 (1946), 142-143: «Negli ultimi anni del diciannovesimo
secolo e fino ad oggi, i classici han perduto il loro posto di pilastri del
sistema politico-socia-le […]. Se i classici devono sopravvivere e giustificare
se stessi, come letteratura, come elementi del pensiero europeo, come
fondamento per la letteratura che spe-riamo di creare, sono proprio sfortunati
per il bisogno che hanno di persone capaci di chiarirli. Se di Aristotele si
può dire che è stato un pilota morale dell’Europa, noi abbiamo bisogno di
qualcuno […] che ci spieghi come sia materia vitale per noi il rinunciare o no
a tale pilota. E abbiamo bisogno di un gruppo di poeti colti che abbiano, almeno,
opinioni sul dramma greco, e se esso sia o no di qualche utilità per noi. Si
deve dire che il professor Gilbert Murray non è l’uomo adatto per ciò. I poeti
greci non avranno il più insignificante effetto di sollecitazione per la poesia
inglese, se appariranno solamente travestiti in un volgare avvilimento
dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne». 111 Anceschi
1946, 32 n. 1: discorso che, Anceschi tiene a precisare, «non si rife-risce ad
un letterato di bella educazione e di civilissimo spirito, come il
Valgimigli»Per l’Anceschi del 1945, come per quello del 1940 e parimenti del
1951 (e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti grottesche
traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli 112 venne dai Lirici
greci di Quasimodo, frutto di «acuto, inatteso, e ormai da molti anni
pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo» 113 , fonte di
poesia nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di lì a
poco esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più nota
e fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle
proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra
della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore. Riscoperto
da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a quella operata
da Quasi-modo con i lirici greci, Euripides and Professor
Murray è invece evocato da Gentili come alleato contro gli «arbitrari
travestimenti» realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo. Lo si nota
non per ossessione ‘fon-tistica’ 114 o gusto della minuzia paradossale,
ma come indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo che nei
decenni centrali del Novecento la versione quasimodea dei
Lirici ebbe, come presenza immanente e come termine di confronto
positivo o negativo, non solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello
filologico e accademico 115 . Nel caso di G. una tale presenza e un tale
confronto dovettero sin da giovane caricarsi di più intense risonanze, quando
si pensi che la prima (e pressoché unica) re-censione dei Lirici
greci di Quasimodo ad opera di un grecista accademico fu di Perrotta,
nell’ottobre 1940. Dimenticata dopo la guerra in 112 Ottime in
proposito le osservazioni di U. Albini, Prefazione , in Perrotta –
Al-bini 1972, V : «Le due traduzioni dei lirici greci che hanno
contrassegnato la prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli ed E.
Romagnoli, due studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di rievocare
la bellezza e la grandezza dei classici antichi […]. Si voleva spalancare una
grande finestra sul mondo antico, offrire le chiavi di un mondo paradigmatico,
richiamare al passato come premessa e garanzia per l’avvenire. Se le
riprendiamo in mano oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente
indecifrabili. Lessico, movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi…».
113 Dall’introduzione di Anceschi del 1951 ora in Quasimodo 2004, 324.
114 Pare certo che Gentili sia giunto al saggio di Eliot attraverso
Anceschi, che lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe
più avanti è del resto citata l’introduzione all’edizione 1951 dei
Lirici greci . Ancora nella postuma Premessa di L.
Anceschi, Brevi parole, su un modo del tradurre a Mariotti
2001, le versioni di Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni
floreali del prof. Murray, non meno che da quelle di certi nostri
professori-poeti», e si ha un interessante ricordo personale delle «traduzioni
dai Frammenti dei tragici greci [1925] che lessi ai tempi del
liceo, lontane ormai, ma non dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore
che rimase esente dalle rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie
degli esuberanti traduttori liberty del suo tempo». 115 Anche
in questo senso non è fuori luogo osservare, come più volte fece Marcello
Gigante, che «la traduzione dei Lirici greci ha conquistato
un posto ben definito nella storia degli studi classici ragione della sede
in cui fu pubblicata 116 , la recensione di Perrotta non si limitò a rilevare
errori e spropositi della traduzione («Bella cosa, se Quasi-modo sapesse un po’
meglio il greco!»), ma soprattutto seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo
quella di «un poeta, un modernissimo poeta che vuol tradurre i lirici greci
modernamente, e riesce così a conservare ad essi la semplicità antica»: da
contemporaneo Perrotta comprese cioè il ‘novecentismo’ dei Lirici
greci , la loro pertinenza (come Anceschi dirà del «classicismo post-simbolista»
di Eliot) a «una zona di dignità anticamente moderna, di classiche aspirazioni,
che è movimento proprio a gran parte dell’Europa civile tra gli anni 1919-1939»
117 .Sono osservazioni utili, credo, a contestualizzare e meglio valutare
l’attenzione, pur critica, che Gentili spesso manifestò verso i
Lirici greci quasimodei nonché verso significato e influsso nella
cultura italiana del Novecento di quella modalità di accesso alla poesia greca.
Nel saggio di Gentili compreso nell’annata 1972 de «Il Verri» alle versioni di
Quasimo-do dai lirici è accostato il Pindaro di Leone
Traverso, cioè la traduzione delle odi e di una scelta di frammenti che il
grecista e germanista L. Tra-verso (1910-1968) aveva pubblicato nel 1961 per
Sansoni 118 . Va ricordato che sede originaria di Prospettive
critiche nell’interpretazione della cul-tura greca dell’età dei lirici fu
l’imponente numero in due tomi di «Studi Urbinati» (1971) per intero dedicato a
ospitare Studi in onore di Leone Traverso 119 , con
Dedica di Carlo Bo, di cui è altresì presente il saggio
La cultura europea in Firenze negli anni ’30 . Vi si rievoca il clima
degli anni di formazione fiorentina di Traverso, poi professore di Lingua e
letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i giovani poeti e scrittori (Bo,
Bigongia-ri, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a «Il Frontespizio» e a
«Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo, prima di tutto come
esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e organicamente volta
perciò alla traduzione 120 : «anni lontanissimi dove la poesia era una sorta di
religio- 116 Si tratta de «Il Bargello. Foglio d’ordini della
Federazione fiorentina dei Fasci di combattimento», periodico cui collaborarono
molti giovani intellettuali anche vicini all’ermetismo. La recensione ai
Lirici greci è comunque segnalata nelle bibliografie di Perrotta
in Studi Perrotta 1964, 663 e in Perrotta 1978, 397; sul tema vd.
Benedetto 2012, 40 sgg. e passim . 117 Anceschi
1946, 21; ricordo in proposito il recente, ricco catalogo Mazzocca 2013.
118 Traverso – Grassi 1961. 119 Gentili 1971. 120 Cfr. Bo
1971 (in origine conferenza pronunciata a Firenze nel 1967); nel I tomo è
l’ampio saggio di Macrí 1971, dove particolare attenzione è riservata alla
rigorosa formazione filologica classica di Traverso («addetto, nella
distribuzione dei nostri compiti generazionali, alla specula
ellenico-germanica»), alla sua ammi-razione per Perrotta e alla intrinsichezza
con Pasquali, alla lunga consuetudine con Pindaro, letto e tradotto «non con un
rifacimento o rimpasto contemporaneizzante di tipo idealistico
pseudostoricistico (poesia e non poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la
critica sposava le stesse passioni e le stesse ricerche dei poeti» 121 . Già
coinvolto in una polemichetta con Quasimodo ( duce Lavagnini) ancor prima
dell’uscita dei Lirici greci , intorno all’interpretazione di ὤρα
come giovinezza nel famoso fr. 94 Diehl di Saffo ( Tramontata è la
luna ) 122 , Tra-verso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato»
dell’1 luglio 1940. Pur notando qualche «arbitrio» e «difetto» nella resa del
greco, sin dall’ incipit egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici
(«perfettamente adeguata al gusto del nostro tempo»), alla sua modalità e
ispirazione: Tralasciati i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al
giro d’una polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone,
Senofane, ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’
estranee al nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione,
come ufficiali quali Pindaro e Bacchilide – egli isola di quella poesia
una zona che più evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in
tutte le civiltà letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione
anzitutto lo stato in cui più di frequente furono tramandate quelle
reliquie – naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario)
123 . Forse memore di quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra
erme-tico di Traverso, Gentili assimila Lirici greci di
Salvatore Quasimodo e Pin-daro di Leone Traverso come «prove
più rappresentative di un’esperienza letteraria intesa come problema
d’immagini, d’invenzione linguistica, di ricerca di stile». Mentre in Quasimodo
la «vera “fedeltà” di traduttore è nella libertà del movimento linguistico e
ritmico» con il conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto
originale-traduzione 124 , l’assai più ricca è morto, ecc.) ma di colpo,
al centro e al cuore dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione
tipica della critica ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi
inoltre che «non diverso (pur computata la diversità della preparazione
filologica) fu il possesso della lirica greca da parte di Quasimodo». In una
vivace intervista del novembre 1981 O. Macrí ebbe a ricordare Traverso
all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo gruppo pre-ermetico al
caffè San Marco […] infusi del demone delle letterature straniere», insieme
naturalmente a Carlo Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere fiorentina per
seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla letteratura
francese, maestro Luigi Foscolo Benedetto, anche di Luzi» (Tabanelli 1986, 65).
121 Sono parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un articolo
di Carlo Bo, Ma dove va la poesia? , apparso sul «Corriere della
Sera» dell’11 marzo 1987, ora in Bo 1994, 1610. 122 I testi della
disputa, avvenuta su «Corrente di vita giovanile» del 29 febbraio 1940, sono
ora disponibili in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 138-140. 123 Traverso
1940; la recensione è ora ripubblicata in Benedetto – Greggi – Nuti 2012,
143-144. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a Traverso, come a tutti i
primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la validità di poesia italiana,
indipendente, che ne risulta». 124 E quindi, come da molti è stato
osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del poetare
Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e filologica
sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di Sofocle, ha
come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della lingua greca
che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale scivolare «in una
sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il senso e in un
preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza anche se il
calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata» 125 . Pur tra loro sotto
molti aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono agli
occhi di Gentili accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana
e artistica dei lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una
«fedeltà emotiva» incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della
distanza che lo separa da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i
successivi decenni della sua intensissima attività scientifica, di filologo e
di traduttore, la risposta scelta da Gentili fu ri-nunciare a soffermarsi sul
«problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o intraducibilità
in assoluto», e invece, per così dire ‘fenomenologicamente’, «investire sul
piano prammatico il problema del-la traducibilità» 126 . Si tratta di pagine di
grande rilievo, dove sono indi-viduate priorità e finalità concernenti «il
discorso della traducibilità dei lirici, dei modi e delle tecniche del
tradurre», nel rifiuto dell’assunzione a modelli di specifiche poetiche del
tradurre, affermando l’impossibilità di «prescindere dalle reali situazioni di
cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al traduttore pone il
lettore moderno», e definendo esigenze di vasto e pur rigoroso valore
comunicativo, destinate (come già si è visto) a essere ribadite e di continuo
inverate nel lavoro di Gentili dei decenni a venire: Una poetica non astratta e
irreale, non prefigurata su schemi di modelli già espe-riti, ma una poetica
aperta del tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una maggiore
portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre dai
125 G. Le considerazioni a proposito di Traverso, e delle tra-duzioni di
Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà all’originale, torneranno in B. G.,
Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2
, LXVIII . 126 Gentili richiama in nota «il pregevolissimo saggio»
di Mattioli 1965, com-preso nel numero speciale Classicità e
contemporaneità , dove anche si aveva la fondamentale prolusione urbinate
Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale
greca . Il saggio di Mattioli si conclude con alcune considera-zioni di tipo
teorico, a partire dalla convinzione che «la soluzione univoca (tra-ducibilità
assoluta o intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto», e
che perciò risposta sul piano teorico non si può dare ma «il problema si
risolve soltanto in un contesto prammatico», cioè sul piano delle molteplici
risposte della storia. Alla tradizionale domanda ‘si può tradurre?’ Mattioli
propone di sostituire domande quali ‘come si traduce?’ e ‘che senso ha il
tradurre?’, cioè «sostituire alla domanda di tipo metafisico la domanda di tipo
fenomenologico» greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della
traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più
ampia di quella idea cui aspira l’et-nografia contemporanea della traduzione
come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche,
sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo […]. Poiché fedeltà alla
poesia o fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la
comprensione totale del testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei
suoi registri linguistici e metrici […] ma anche di tutta la realtà
extralinguistica e situazionale dell’enunciato poetico 127 . Senza passare
dettagliatamente in rassegna l’intero saggio, bastino al-cuni richiami a temi
che in futuro variamente continueranno ad occupa-re Gentili. Così
l’interrogarsi su una versificazione italiana adeguata alla complessa struttura
metrica delle strofe di Pindaro e di Bacchilide conduce Gentili a sostenere la
preferibilità del verso libero delle grandi odi dannun-ziane 128 , finanche
segnalando le possibilità aperte dal «verso “dinamico” e “atonale” della poesia
dei Novissimi», e in effetti nell’antologia Lirica corale
greca del 1965 lo stesso Gentili aveva tentato «di risolvere il
movi-mento dei metri simonidei con le tecniche metriche della poesia
contem-poranea dei Novissimi» 129 : va detto che un profondo interesse per le
strut-ture metriche della poesia italiana soprattutto ottocentesca e
novecentesca sin dall’inizio caratterizzò i «Quaderni Urbinati di Cultura
Classica» 130 . La 127 G. Sono affermazioni che ritorneranno,
insieme a parte dell’intero saggio, nell’ Appendice II. La traduzione dai
lirici. Alcune osservazioni sul problema del tradurre in Gentili1984
(2006 4 ), (e cfr. anche supra n. 2). 128 Si ricordi la
scelta del verso libero per la traduzione delle Pitiche , con
l’os-servazione che «le grandi odi delle Laudi del
D’Annunzio, particolarmente il verso libero della Laus vitae ,
scandito da strofe di 21 versi, offrono sotto il profilo tecnico un modello
esemplare di versificazione per l’esuberante dovizia delle forme ritmi-che,
tali da riecheggiare […] i molteplici schemi della metrica pindarica» (Gentili,
Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2
, LXIX - LXX ); e si ricordi altresì la lunga citazione da
Maia , con l’apparizione del «monarca de-gli Inni», al principio
dell’ Introduzione alla postrema fatica Gentili – Catenacci –
Giannini – Lomiento 2013. 129 Lo rileva Bernardini 1966, 144. In àmbito
diverso ma non estraneo si tenga presente, dello stesso Gentili, l’importante e
innovativo lavoro Cultura dell’im- provviso. Poesia orale colta nel
Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica (Gentili
1980), poi riproposto in altre sedi: nella conclusione si esprime vivo
interesse per esperienze contemporanee quali «l’affermarsi, in America, di
un’avanguardia poetica, che si definisce “postmoderna” e trae il suo alimento
dai contributi sulla poesia orale forniti, in questi ultimi decenni, non solo
dall’antropo-logia culturale, ma anche e soprattutto dalla più autorevole
filologia classica ameri-cana, rappresentata dagli studi del Parry, del Lord e
dell’Havelock» (poi in Gentili 1984 [2006 4 ], 29-30). 130 Già nel primo
numero si ha l’articolo di Pinchera 1966, 92-127, che si apre lamentando
l’effetto negativo sulle «indagini critiche relative alla storia delle forme
metriche» prodotto dalla «dittatura culturale esercitata per vari decenni in
Italia da Benedetto Croce».riflessione sull’eclissarsi nel secondo dopoguerra
del neoumanesimo di W. Jaeger è occasione per evocare il contemporaneo «crollo
dell’esperienza critica crociana», la cui presenza più autorevole nel settore
della classicità e più coerente con l’orientamento crociano è riconosciuta in
G. Perrotta, particolarmente per Saffo e Pindaro (1935) 131 . Circa
la più generale posi-zione critica del maestro, Gentili tiene a mettere in
rilievo che «pur ade-rendo senza riserve al canone dell’interpretazione
estetica dei lirici, aveva tuttavia saldissime basi filologiche e storiche, non
era in altri termini una critica del gusto», giacché il crocianesimo operava in
lui come una sorta di sovrastruttura, sul tronco più vi-tale di quella viva
metodologia critica introdotta in Italia da Giorgio Pasquali, che portava in sé
già latenti i fermenti di un approccio linguistico, psicologico e
antro-pologico alla cultura classica: la ricerca filologica costituiva soltanto
il momento preliminare e necessario di un’indagine il cui fine era
l’intelligenza del mondo an-tico nella viva concretezza della sua cultura 132 .
Nel prosieguo del contributo, Gentili brevemente si sofferma sull’innova- tivo
apporto soprattutto degli indirizzi di Dodds e di Vernant allo studio della
cultura greca arcaica, infine indicando il problema cardine della ricerca sulla
cultura e la poesia di quell’età «nel corretto rapporto tra livello sincronico
e livello diacronico della ricerca», il che è stimolo per accennare alle note
riserve verso gli studi pindarici di E. L. Bundy, e poi di D. C. Young. Ad essi
Gentili rimprovera un’analisi limitata ai soli aspetti sincronici delle
strutture linguistiche e formali, tale da precludere «la possibilità di
comprendere gli aspetti situazionali ed extralinguistici della
performance della lirica pindarica». Alcuni anni dopo, più ampia-
mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova critica «il fastidio che
suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale, intesa a repe-rire le
costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione dei singoli contesti
ed alla impostazione ideologica dei diversi autori» 133 : è per noi
interessante il confronto lì istituito con «quella critica estetica che ebbe in
Italia come suo massimo esponente G. Perrotta», a tutto vantaggio
131 In nota è menzionato il contemporaneo saggio su Saffo di M.
Valgimigli (1933), «da noi la prova più rilevante di una critica del gusto
permeata di evoca-zioni e suggestioni letterarie della cultura italiana fra i
due secoli». Significativo è, nella stessa nota, il richiamo invece favorevole
all’intonazione anticlassicistica dei frammenti dal saggio di Serra
Intorno al modo di leggere i Greci pubblicati da E. Raimondi nel
numero de «Il Verri» 1965 su Classicità e contemporaneità ; si consi-deri
anche che del 1965, in occasione del cinquantenario della morte, è il saggio di
Carlo Bo La religione di Serra , poi accolto nel volume
La religione di Serra e altre note di lettura , Firenze 1967. 132
Gentili 1972, 30. Su crocianesimo e Pasquali in Perrotta, analoghe espressio-ni
vent’anni dopo in Gentili 1996, 12. 133 Su questi temi vd. poi almeno
Gentili 1984 (2006 4 ), 156-157dell’approccio del maestro, «una critica
estetica che non è puro estetismo impressionistico ed intuizionistico, ma una
critica del gusto corroborata da un’acuta sensibilità storica» 134 . L’articolo
del 1972 si chiude confer-mandosi come «proposta di una diversa lettura dei
lirici, che recuperi nella storicità delle relazioni fra poeta e uditorio il
significato originario del loro messaggio». Una proposta di cui si tiene a
sottolineare il caratte-re antidogmatico, inteso a rispondere alle esigenze
critiche del presente: «Ma, di là da una falsa pretesa di un equivoco
oggettivismo metasto-rico, essa non presume di essere definitiva. Al contrario,
consapevole del divenire storico della critica, si affianca alle precedenti
proposte, già esperite, in una modalità di lettura più coerente con l’orizzonte
culturale del nostro tempo» 135 .Assai più dei due precedenti interventi
accolti su «Il Verri», nel 1965 e nel 1970, Prospettive critiche
nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici è attento al
tema della traduzione, e alle ricadute delle varie correnti critiche del
Novecento su teoria e prassi delle traduzioni dai lirici greci. Al ‘piano
prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della traduzione, di taglio
antropologico, Gentili rimarrà fedele, ulteriormente approfondendo la
riflessione negli anni, sì da scorgere nel traduttore «uno “sciamano” che non
conosce confini sino al punto da divenire un altro da sé e di cogliere il
momento puntuale in cui significante e significato si compenetrano» 136 , nella
fedeltà alla «norma dannunziana di avvicinare il lettore all’opera e non
viceversa» 137 . La presenza di contributi di Gentili 134 Gentili
1979b; sul conflitto tra gli indirizzi di E. L. Bundy e della scuola ur-binate
di B. Gentili, le considerazioni di Lehnus 1988. Ampia analisi delle posizioni
di Bundy e di Young, con frequenti richiami a Perrotta e in nome (come noto)
della riproposizione di una ‘lettura estetica’ degli epinici, è nel lavoro di
Bonelli 1987, con ricca bibliografia. 135 Gentili 1972, 38. Analogamente,
e fenomenologicamente, si concludeva il già citato Mattioli 1965, 128: «Altre
risposte (traduzioni e idee del tradurre) segui-ranno in futuro per le quali
sarebbe arbitrario stabilir regole o far previsioni come lo sarebbe per l’arte
del futuro», e perciò «a questo punto si può fermare il discorso, non solo
perché si presenta come abbozzo di una futura ricerca, ma anche perché i
discorsi conclusi in questo àmbito di studi sono palesemente insensati».
Si veda già Mattioli 1963 per la proposta di «una impostazione fenomenologica
della ricer-ca», considerata particolarmente necessaria e opportuna nel campo
dell’antichità classica proprio in ragione dello «scacco che ha ricevuto il
tentativo, compiuto in Italia, di trasportare sic et simpliciter l’estetica
crociana nella interpretazione delle letterature classiche». 136
Gentili, Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano –
Giannini 1998 2 , LXIV . 137 Così in Gentili 2002, dove anche
è ricordato il giudizio di Perrotta 1935, 97, per il quale D’Annunzio fu «non
solo il traduttore ideale di Pindaro, ma il poeta italiano che meglio di tutti
ha saputo riecheggiarne l’arte, intendendola pienamen-te». Più positivo si fa
nel citato articolo il giudizio sulla traduzione pindarica di L. Traversosu «Il
Verri» non andrà oltre i primi anni ’70 138 , ma sino alla vigilia del-la morte
di Anceschi (maggio 1995) durarono i rapporti epistolari, come oggi sappiamo
grazie alla pubblicazione dei diari riferiti agli ultimi anni del professore
bolognese 139 , che molte volte sino agli estremi suoi giorni continuò a
tornare con il pensiero alla traduzione di Quasimodo dei Lirici
greci e al suo significato storico e culturale 140 .A quella stessa
seconda metà degli anni ‘60 fecondissima di idee e di propositi appartiene il
numero d’avvio dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», come espressione
del Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica latina
diretto da G. e connesso al CNR. Un effettivo riesame dell’attività
scientifica di Gentili comportereb-be una sistematica rilettura non solo dei
contributi e degli interventi del direttore dei Quaderni ma più in
generale delle principali linee di ricerca espresse dalla rivista, del loro
permanere, mutare ed evolvere nel corso di cinquant’anni. Mi limiterò a
richiamare due contributi di Gentili su Saffo ospitati nei «Quaderni Urbinati
di Cultura Classica» a distanza di oltre quarant’anni l’uno dall’altro, per
così dire ai due poli cronologici dei Qua-derni di Bruno Gentili.
Il primo è La veneranda Saffo , del 1966 141 , che 138
Sino a Gentili – Cerri 1973: sull’importanza dell’articolo per successivi
lavo-ri di Gentili sulla storiografia antica vd. Bernardini 2013, 16. 139
Oltre a un cenno in un’annotazione del 3-5 settembre 1989 («Eccellente scritto
di G. sulla “Repubblica”. Lo riporto integralmente. Ancora una volta acu-te
considerazioni sulla oralità – e sulla situazione degli studi umanistici»,
cfr. Anceschi 2006, 109), si veda soprattutto quella del 2
gennaio 1993 («Lettera molto lusinghiera di G.. Conosco l’ironia, ed è tale da
non accettare ambiguità. Ecco un uomo che dice quello che pensa», cfr.
Diari Anceschi/2 2006, 9). Nell’Ar-chivio Anceschi presso la
Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna sono conservate 26 lettere di Bruno
Gentili: cfr. Campagna 1998, 513; si tratta della presenza più am-pia per un
filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti 26 lettere), del quale
sulla rivista anceschiana vd. Plauto e il “metateatro” antico
(Barchiesi 1969), con la premessa: «sulla tentazione erudita […] prevalse
l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello che è più
che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula stessa del
“Verri”, “classicità e contemporaneità”». 140 Così l’11 marzo 1995, a
meno di due mesi dalla morte: «Con Quasimodo ho avuto una frequentazione
amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai problemi con vivi
impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati tanti anni; per
altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la forza della mia
vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale […]. La
traduzione dei Lirici Greci fu una esperienza radicale alle
origini, che ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come un problema
fondamentale della poesia. Da quel momento la discussione è aperta, e mi pare
con qualche frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso continui. Penso
che questa esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della relazione
complessa tra traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi riguarda,
costitutiva di un modo di vedere che continua ad operare» ( Diari
Anceschi/2 2006, 92). 141 Gentili 1966 (confluito in forma
abbreviata nel cap. XII di Gentili 1984 [2006 4prende spunto dal famoso fr. 384
V. (verosimilmente) di Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è
supposto) «l’ incipit di un car-me dedicato all’illustre
concittadina» 142 . Era il frammento cui s’era volto Perrotta dopo aver
espresso il proprio rifiuto verso «la soluzione dei Wel- cker e dei Wilamowitz»
a difesa della ‘purezza’ di Saffo: Molto meglio, per chi voglia davvero
intendere e onorare Saffo, ricordare il fram-mento di Alceo che dice (63 D.):
«Saffo pura, dal dolce sorriso, dal crine di viola». L’omaggio devoto
dell’insolente cavaliere di Lesbo basta a farci sicuri che né bia-simi né
malignità aduggiarono mai la vita mortale di Saffo. Altro non è da ricercare:
non si può pretendere di giudicare con le nostre idee moderne, né giudicare una
donna di Lesbo con i pregiudizi di un Ateniese […]. Ognuno vede quanto sarebbe
ingiusto rimproverare alla poetessa i suoi amori per le amiche, mentre nessuno
rimprovererà al suo compatriota e contemporaneo Alceo gli amori per Lico. Ma
più importa questo: Saffo è soprattutto una poetessa, anzi è soltanto una
poetessa per noi; soltanto la sua poesia noi dobbiamo giudicare, e soltanto in
essa noi possiamo trovare la sua immagine. Ora, alla sua poesia possiamo
accostarci con animo puro: essa è pura, perché poesia, e altissima poesia 143 .
Al passo, per molti aspetti paradigmatico dell’interpretazione perrottia-na di Saffo,
Gentili non fa diretto riferimento, rifacendosi invece all’ultimo articolo di
Walter Ferrari, l’allievo prediletto di Pasquali «inviato come as-sistente di
Perrotta a Roma ma morto assai giovane nel 1940» 144 . Se merito
dell’intervento di Ferrari era stato sottrarre l’interpretazione
dell’epiteto ἄγνα all’àmbito della «castità profana» 145 , caro a «tutte
le mitiche specula-zioni sulla purezza degli amori di Saffo» e a tutte le
«moderne idealizzazioni della sua poesia» 146 , dimostrandone invece il senso
arcaico «limitato esclu-sivamente alla sfera del sacro», d’altra parte – rileva
Gentili – l’indagine di Ferrari sfociava in una idealizzazione di Saffo
sostanzialmente coerente «con l’orientamento critico di stretta osservanza
crociana prevalente in quei tempi», rappresentato al meglio dal Saffo e
Pindaro di Perrotta, «scritto appena cinque anni prima» 147 . Nel varare
la fortunata avventura dei «Qua-derni Urbinati di Cultura Classica», dalla
‘purezza’ di Saffo Gentili decide 142 Degani – Burzacchini 2005,
241. 143 Perrotta 1935, 31. 144 Canfora 2005, 216. 145
L’articolo di Ferrari era ricordato a proposito del «significato di ἀγνός»
anche nella I edizione di Polinnia , 202 ad loc . 146
«Questo verso famoso, che sarà da attribuire ad Alceo, è innocentemente
responsabile di tutte le mitiche speculazioni (soprattutto da noi) sulla
personalità di Saffo che poeti, critici e filologi ci hanno somministrato a
partire dalla Saffo “dal riso morbido, dall’ondeggiante | crin di viola” del
Carducci sino alla casta Saffo del Valgimigli»: così Gentili l’anno prima, in
occasione del rifacimento della sezione su Alceo per l’edizione di
Polinnia del 1965, 224 (anche in Gentili – Catenacci 2007a, 196).
147 Gentili 1966, 37-38di prendere le mosse: da quello stesso frammento,
si può aggiungere, scelto ad introdurre la sezione su Saffo nei
Lirici greci di Quasimodo («o coro-nata di viole, divina / dolce
ridente Saffo»). In conformità ai principî deli-neati nel saggio dell’anno
precedente Aspetti del rapporto poeta, commit-tente, uditorio nella
lirica corale greca , dove si poneva in primo piano la necessità per il moderno
lettore di comprendere la funzione e il fine proprio del carme lirico, il senso
dell’apostrofe è rintracciato attenendosi «al senso reale del contesto
alcaico», così leggendo nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla dignità
sacrale della poetessa quale ministra d’Afrodite», con precisa allusione «alla
funzione religioso-sociale nell’ambito del tiaso» 148 . L’inveterato tema degli
amori di Saffo è radicalmente riesaminato alla luce di carattere, aspetti,
scopi del tiaso saffico «nelle sue giuste proporzioni storiche e sociali anche
mediante l’apporto di analoghe esperienze di altre culture». Il riconoscimento
dell’esistenza nella dinamica del tiaso di «pre-cise “unioni” per così dire
ufficiali fra le ragazze» tali da non escludere «probabilmente un rapporto di
tipo matrimoniale» è posto da Gentili in relazione a una testimonianza di
Simone de Beauvoir circa la presenza a Singapore e a Canton ancora in anni
recenti «di molte comunità femminili che nelle convenzioni e nelle pratiche di
culto sembrano ripetere antichi modelli culturali molto simili a quelli delle
comunità della Lesbo arcaica», e cioè «des lesbiennes reconnues […] se marient
entre elles et adoptent des enfants». Gentili offre qui un geniale esempio di
«interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo»,
come suonerà il ti-tolo dell’intervento al congresso di Bonn del settembre
1969: al di là di eventuali dubbi circa la sostenibilità del confronto,
comunque verosimile, conta mettere in luce l’efficacissima reazione ermeneutica
che lega antico e contemporaneo illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul
futuro, quando si pensi in che misura a distanza di pochi decenni in molti
Paesi oc-cidentali quegli antichi modelli culturali si siano concretizzati
nella rifles-sione giuridica, nella legislazione e nella prassi sociale.
Esempio forse tra i più chiari di quanto i classici, e il rinnovamento della
loro interpretazio- ne, abbiano contribuito a porre lontane, e meno lontane,
basi della (post)moderna sexual revolution 149 , con tutte le forzature e
gli arbitrî propri di tali ardui e complessi intrecci di tempi e di culture.
Dell’attenzione di Gen- 148 Gentili 1966, 46 sgg. Importanti in
quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei «Quaderni Urbinati di
Cultura Classica» a proposito di significato e contesto del partenio di
Alcmane, a partire soprattutto da Gentili 1976 (poi rifuso nel cap. VI
Le vie di Eros nella poesia dei tiasi femminili e dei simposi in
Gentili 1984 [2006 4 ]); sul più ampio tema delle iniziazioni femminili l’assai
più recente volume Gentili – Perusino 2002. 149 In luogo di rifarmi alla
sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to, spesso ideologicamente
determinata, ricordo il capitolo Klassieken en seksuele
vrijheid nel bel libro di Veenman 2009, 273-291: con particolare
riferimento a una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in differenti
epoche, sino alle più recentitili a questi temi e alle loro ricadute e
implicazioni, è infine testimonianza Saffo ‘politicamente corretta’
, l’articolo del 2007 (in collaborazione con C. Catenacci) dove la ribadita
posizione critica che ammette la presenza nei carmi saffici di elementi
avvaloranti la pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e paideutico
150 è volta a contrastare «una nutrita serie di lavori ispirati ai
gender studies » di recente diffusisi soprattutto negli (e dagli) Stati Uniti,
e intesi a sostenere che «Saffo non si rivolgeva a giovinette, ma a sue
coetanee in una forma di libera attrazione omosessuale, e non svolgeva nessun
ruolo né paideutico né religioso all’interno del gruppo». Un corag-gioso
intervento, di grande valore metodologico e rilevanza storiografica, per il
quale una tale Saffo politically correct va respinta,
al pari della Saffo otto-novecentesca votata alla purezza, giacché
«rappresentazione astorica e forgiata su istanze manifestamente attualizzanti»
151 .Nel quadro del crescente interesse nei «Quaderni Urbinati di Cultura
Classica» dell’ultimo ventennio per questioni di storia e metodologia degli
studi classici, alcuni anni fa apparve un articolo di C. Miralles, dal
titolo The use of classics today , aperto dall’indubbia constatazione
«the huma-nities are losing ground and classical studies are in retreat» 152 .
Al di là dei suggerimenti proposti, e dell’enorme differenza di tempi e
condizioni, torna in mente «il vigile e costante impegno a dare un senso di
attualità ai nostri studi» caro a Perrotta, da Gentili più volte ricordato
nelle com-memorazioni del maestro. Nel salutare la recente rinnovata edizione
di Polinnia è stato giustamente e autorevolmente rilevato che
«in tanto rin-novamento, Gentili e la sua scuola non hanno dimenticato né che
la poesia greca si può avvicinare solo attraverso la storia e la filologia, né
che essa ha comunque uno straordinario valore estetico. G. non ha rinnegato le
sue radici, semplicemente da esse è nato un albero capace di produrre fiori non
prevedibili all’inizio – se Perrotta sarebbe contento di lui? Difficile dirlo»
153 . Forse, e per molti motivi, si può azzardare una risposta positiva.
Benedetto si devono determinanti apporti nell’elaborazione di teoria e prassi
della moderna sessualità liberata, Veenman mostra quanto soprattutto negli
ultimi due secoli i classici hanno aiutato a capire e denominare
l’omosessualità -- de klassieken hielpen homoseksualiteit te begrijpen en te
benoemen. – Catenacci 2007b; circa la storia della fortuna e della ricezione di
Saffo mi limito a rinviare alle incisive osservazioni di Most 1996. 151
Va detto che in generale la critica più recente sembra avvertire una quantità
crescente di aporie circa il significato del contesto comunitario, il gruppo
ristretto e omogeneo tradizionalmente attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e torna
ad osservare che «mentre nel caso di Alceo la dimensione di gruppo ristretto è
evidente e spiega ade-guatamente gran parte – se non la totalità – della sua
poesia, nel caso di Saffo è più difficile da delineare senza rischiare
attualizzazioni indebite» (Michelazzo 2007). 152 Miralles 2009, in
partic. 23-24. 153 Bettini 2010, 336Albini 1963 = U. Albini,
Gennaro Perrotta † , «Gnomon» 35, 1963, 110-112.Anceschi 1946 = L.
Anceschi, Primo tempo estetico di Eliot , in T. S.
Eliot, Il bosco sacro. Saggi di poesia e di critica , con uno
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Milano-Napoli Veenman, De klassieke traditie in de Lage Landen ,
Nijmegen Zapperi, Freud e Mussolini. La psicoanalisi in Italia
durante il regime fascista , Milano. Grice: “I know Gentili’s type – once in
love with Greek, you cannot be a honest Latinist. So he found that everything
Roman had to be Hellenistic, -- see his notes on the Saturnio – this of course
irrirtates and rightly so Latinists – there are Roman ways which are not
Hellenistic ways. Geymonat has analysed this in social-class terms in his
history: Athens remained the finishing school for the ‘figli’ of the ‘migliore
famiglie romane’ – and the circle of Scipione Emiliano was pro-hellenic, but
Cato won: Latin remained the lingo!” Grice: “It also shows the unfairness of
academia for the poor – only the poor learn at Oxford, and I was fortunate enough
to have Hardie – but imagine you are born near Urbino and decide to study
classics at Urbino and you have Bruno Gentili as your teacher in “Latin
literature” and all he teaches you is how Hellenistic it all is! I hope you are
not poor and that you don’t have to LEARN at Urbino!” -- Bruno Gentili. Gentili.
Keywords: implicature, il rettore latino – la chiasura della scuola di
rettorica a Roma di Crasso e Plozio –
Cicerone – una perdita di tempo che chiude le teste dei Romani. G.: Apri!, la
rettorica a roma: i primi e gl’ultimi semestri – Plozio – la guerra di Mario
per l’apertura della cittadanza agl’italici --- la chiasura di la scuola di
rettorica di Crasso. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Gerratana: l’implicatura conversazionale del contratto sociale – filosofia
italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Scicli).
Filosofo italiano. Grice: “I like Gerratana; for one, he translated Rousseau,
and I have been called a contractualist, if not like Grice [G. R. Grice].”
Grice: “Gerratana carefully edited Pintor’s oeuvre.” – Grice: “I like
Gerratana; they – Italian philosophers, generally -- philosophise on the
working people – operaio --; at Oxford we usually do not!” Partecipa alla
resistenza a Roma, nelle file dei GAP, legandosi a Salinari e Pintor,
conosciuto al corso allievi ufficiali di Salerno, e ricordato in “Sangue d'Europa.”
Prende parte alla ricostruzione del PCI romano e si laurea a Roma. Insegna a
Salerno e Siena. Studioso sobrio e rigoroso del marxismo, cura Labriola e
Gramsci. La sua edizione, con un'accurata ricostruzione cronologica, archiviò
definitivamente l'edizione tematica. G. mette in luce lo stile
"frammentario" e "antidogmatico" di Gramsci. Altre opera:
“L'eresia di Rousseau, Roma, Editori Riuniti), Il marxismo, Roma, Editori
Riuniti); “Labriola di fronte al socialismo giuridico, Milano, Giuffrè editore);
“Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti); “Quaderni dal carcere. Treccani
L'Enciclopedia italiana". Biografia di G. nel sito dell'ANPI Associazione
Nazionale Partigiani d'Italia. Si è svolto a Roma il 18 e 19 novembre
nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Roma Tre, un convegno
di studi in memoria di un importante esponente del pensiero politico italiano, G.
Essenzialmente noto per aver curato l'edizione critica dei Quaderni del carcere
di Gramsci, G. e in realtà uno studioso politicamente appassionato e uomo
politico di estrema cultura. Merito di questo convegno è stato l'aver messo in
luce tanto l'impegno politico e morale di un uomo quanto l'eclettismo, la
vivacità intellettuale e la serietà di un pensatore troppo poco conosciuto in
fin dei conti, la molteplicità variopinta dei suoi contributi scientifici e la
continuità e coerenza del suo impegno, politico ed intellettuale. Il
convegno è stato organizzato dalla Societea Gramsci – di cui Gerratana fu
co-fondatore, assieme a Tortorella,
Baratta e Liguori. Le giornate, divise
per sessioni tematiche, hanno ricordato la figura di Gerratana nella sua
complessità: partigiano antifascista a Roma negli anni della Resistenza,
giornalista negli anni giovanili, curatore e studioso di molti classici della storia
della letteratura, della filosofia e del marxismo (dalla cura dell'edizione
critica degli Scritti politici di Labriola a quella degli scritti estetici di
Marx ed Engels, ai contributi su Rousseau, Machiavelli, Lukács, Lenin), ma noto
in tutto il mondo anzitutto come curatore e studioso del pensiero di Gramsci
(dall'edizione critica dei Quaderni, all'approfondimento dell'indagine sulle
categorie sociali e politiche della riflessione gramsciana e la cura – assieme
al suo più stretto collaboratore, Santucci – del volume sugli scritti
gramsciani dell'Ordine nuovo). Non è facile informare esaurientemente sul
convegno, credo proprio per la personalità e la grande vivacità intellettuale
di G., emersa nella sua complessità lungo la due giorni di lavori.
L’evento ha messo alla prova intellettuali e ricercatori, ha dialettizzato
l'ascolto reciproco di relatori e pubblico, fra i quali si è avuto un confronto
sereno ma anche serrato, indubbiamente appassionato. Ne è risultato – e ne va
il merito agli organizzatori – un evento generoso per ricchezza e poliedricità
delle tematiche affrontate, per l'eterogeneità degli accenti che si sono
avvicendati (secondo l'esperienza politico-culturale di relatori e pubblico),
quanto infine per la vastità dei territori culturali esplorati (dalla storia –
italiana e internazionale, alla filosofia, alla politica). Su tutta
l'iniziativa s'è aggirato lo spettro benevolo di Gramsci, della sua vicenda
umana come anche di quel lascito inesauribile che è la sua produzione
culturale. E di Gramsci G. non è stato solo il curatore e il promulgatore, ma
anche un indimenticabile interprete. Gli anni e la formazione giovanile:
partigiano antifascista ed intellettuale engagé Questa introduzione credo
consenta di comprendere forse più chiaramente il contesto e lo spirito in cui
il convegno di questi giorni ha trovato spazio. Anche la presenza e
il saluto delle istituzioni che con la IgsItalia hanno permesso il convegno –
contrariamente al solito – sono stati sentiti ed interni al tema in oggetto
dell’incontro. La figura di Gerratana è stata difatti ricordata con stima
sincera e rispetto da Cecilia D'Elia (Assessora alla cultura della Provincia di
Roma) e Domenici (Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università
di Roma Tre). Elia ha sottolineato la rilevanza di questo convegno su G. –
figura complessa, in cui ricerca politica e ricerca della libertà si
intrecciano –, studioso che sempre volle tener connesso l'impegno pratico e
l'impegno teorico, combattente antifascista negli anni della Resistenza, uomo
che diede un contributo decisivo alla costruzione della democrazia in Italia.
Sulla stessa linea d'onda Domenici ha salutato con piacere l'evento in ricordo
di G., anzitutto perché questa facoltà contribuisce a "formare i
formatori": ed è stato forse fra i più grandi meriti di G. l'aver
decisamente contribuito a divulgare la genesi del pensiero pedagogico-educativo
di Gramsci, a partire dalla cura dell'edizione critica dei Quaderni di Gramsci.
Non pochi interventi hanno messo in luce i meriti di G. riguardo la
divulgazione del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci. In particolare
ricordiamo qui l'intervento di Santarone, Coordinatore del CESME di Roma Tre,
che ha messo in luce il valore generale degli studi di pedagogia della
tradizione marxista che delineano quella fondamentale concezione della
formazione umana come "sviluppo onnilaterale dell'uomo". Un tale
impegno risulta ancora più fondamentale in epoca di globalizzazione
capitalista, sottolinea Santarone, in cui il lavoro dell'uomo e la sua
formazione paiono ormai finalizzati unicamente ai processi di valorizzazione di
capitale, i centri di formazione ed istruzione di massa vengono de-finanziati
mentre nel contempo si sostengono economicamente scuole e "poli di
eccellenza" privati, volti a creare le future élite e classi dirigenti.
L'impegno di G. come intellettuale engagé è stato sottolineato in molti
interventi nel corso del convegno, fra cui quello di Liguori che – in apertura
dei lavori – si è soffermato sulle ragioni della scelta dell'espressione
gramsciana filosofo democratico come carattere fondamentale dell'animo e
dell'impegno di G.. Tale formulazione sta ad indicare un pensatore che non si
chiude nella propria torre d'avorio, ma contribuisce attivamente alla creazione
di un senso comune di massa, un uomo «convinto che la sua personalità non si
limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di
modificazione dell’ambiente culturale» (Q). É questa essenzialmente l'immagine
che Liguori ci ha voluto restituire di G.: un pensatore che non si accontentò
del «pensiero proprio, "soggettivamente" libero, cioè astrattamente
libero», ma che operò per l’unità di scienza e vita come «una unità attiva, in
cui solo si realizza la libertà di pensiero», secondo un «rapporto
maestro-scolaro, filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i
problemi necessari da impostare e risolvere», un uomo che concepì la propria
attività intellettuale come rapporto di «filosofia-storia» (ibidem), un uomo il
cui impegno politico e la cui elaborazione teorica sono stati la testimonianza
della migliore tradizione del comunismo e del marxismo italiani. Ha
fatto seguito l'intervento di Demurtas, che ha illustrato i criteri e i temi
sulla base dei quali si è svolto l'intervento di riordino dell'archivio di G. assieme
alla collega Salvatori (di cui è stato letto un contributo), e che ha
sottolineato come grazie al riordino delle carte e dei documenti sia ora
possibile svolgere ricerche e approfondimenti sull’attività di G.. I documenti
archiviati, difatti, coprono un arco di 61 anni, sono circa 300 fascicoli, che
si è deciso di suddividere in 8 partizioni tematiche fra studi e attività, e
fra queste risultano particolarmente rilevanti le quantità di fascicoli
dedicati a Gramsci e a Labriola e da cui si evince una grande meticolosità nell'elaborazione.
Ha concluso la prima parte di introduzione ai lavori del convegno la lettura
della lettera di saluto del Presidente della Repubblica Napolitano in cui è
stato espresso «il più vivo apprezzamento per la scelta di ricordare un insigne
studioso, cui va il merito di aver contribuito, con l'edizione critica dei
Quaderni del Carcere di Gramsci. È stata poi la volta del primo relatore, Musci
(studioso dell'Istituto Gramsci per gli studi storici) che ha ricostruito gli
anni giovanili di G., in particolare quelli degli studi universitari e della
polemica con Croce, sottolineando una tendenza di G. a considerare gli eventi
storici attenendosi ai fatti, alle formule logiche e alla loro riproducibilità,
ma senza prescindere del tutto dalla "situazione psicologica" in cui
questi si svolgono e che spesso si maschera in concetti. Ma G. non fu solo un
intellettuale impegnato. Fu un partigiano. Questo hanno ricordato le successive
relazioni della mattina proseguite con i due contributi "di memoria
storica" di Reichlin e Prestipino–, significativi per la nota
autobiografica in essi contenuta, che ha permesso una comprensione più
articolata del senso dell'impegno politico di Gerratana negli anni della lotta
di liberazione nazionale dal regime fascista. Medaglia d'Argento per l'impegno
negli anni della lotta di Liberazione dell'Italia dal regime fascista, la
narrazione di quei mesi è stata emozionante nell'intervento di Reichlin. Che ha
ricordato gli anni giovanili della "passione politica" (tema che è
stato ripreso anche da Tortorella in chiusura dei lavori del convegno) e le
vicende dell'inverno '44 in cui, nella Roma occupata dai tedeschi, Reichlin
incontrò G.; con Pintor formarono una cellula, e G. divenne loro dirigente,
nome di battaglia "Santo". Furono quelli gli anni in cui nacque un
sentimento nuovo, l'antifascismo, ed una nuova cultura, quella dell'impegno.
Come allora – ha concluso Reichlin – il popolo italiano, nonostante appaia fiacco
e corrotto, tuttavia continua ad esprimere degli intellettuali, e questi
dovrebbero anch'essi prendere il proprio posto di combattimento. G. fu dunque
un partigiano antifascista con un deciso interesse per la storia e la filosofia
politica. Ma anche un giornalista. La tendenza all'impegno culturale trovò uno
sbocco concreto in questa attività – su cui si è soffermata la relazione di
Prestipino –, quando cominciò a scrivere su "La voce della Sicilia". Prestipino
ha raccontato di un "comunista", un uomo di «innata modestia», che
non firmava i suoi articoli, direttore di giornale cordiale ma austero, «un
intellettuale pensoso». Gerratana: uomo di cultura, filosofo democratico,
marxista Non solo di politica, ma anche di letteratura e di filosofia si occupò
G.. La sua natura di intellettuale a trecentosessanta gradi è stata
ben messa in luce da tre relazioni in particolare, quelle di Voza, Savorelli e
Burgio. Voza ricorda come si svolse in Italia un ricco dibattito sul tema della
"lotta per il realismo", che nel dopoguerra espresse una
"tendenza" la quale si affermò in molta parte dell'intellettualità.
Nacquero le poetiche neorealistiche della "cronaca" e del
"documento" come ricerca di un massimo di "oggettività" di
contro all'influenza di suggestioni lirico-decadentistiche. Nel passaggio dalla
crisi del neorealismo al realismo si colloca il contributo di Gerratana, che
riteneva quest'ultimo un fondamentale strumento teorico-culturale. In risposta
all'intervento polemico di Croce De Sanctis-Gramsci? (“Lo Spettatore
Italiano”), G. stende per "Società". De Sanctis-Croce o De Sanctis-Gramsci?
Appunti per una polemica e sviluppa il ragionamento nell'Introduzione
all'estetica desanctisiana desanctisiana (“Società”). Egli ha come riferimento
la positiva valutazione di Gramsci del realismo desanctisiano, fondato
sull’analisi del contenuto artistico in connessione alla lotta culturale.
Difatti Gramsci coglie nel De Sanctis un modello di critica letteraria che lo
rende emblema della concezione di un'estetica realista e anticipatore di una
concezione marxista dell'estetica. Alla base della sua concezione vi sarebbe la
ricerca di unitarietà fra La Scienza e la Vita (titolo di un famoso saggio
desanctisiano, più volte citato da Gramsci nei Quaderni), cosicché De Sanctis
si discosta dalla concezione speculativa dell'estetica di Hegel. In tal senso
la tendenza estetica di De Sanctis, secondo Gramsci, era "istintivamente
materialista", ciò perché la sua attività critica non era «frigidamente
estetica» (Q). Per tali ragioni De Sanctis resta, per Gramsci, un modello di
come nella stessa coscienza critica, pur rimanendo distinti, possano confluire
convenientemente giudizio estetico e valutazione di una tendenza
artistico-culturale, cosicché G. condivide l'appello gramsciano del «ritorno al
De Sanctis» (Q), intendendo con ciò la necessità di assumere verso il rapporto
arte-vita un atteggiamento di stretta connessione, così come lo intendeva De
Sanctis ai suoi tempi. Nella seconda parte del suo intervento Voza ha ricordato
come sempre nel '53 Gerratana abbia steso il saggio Lukács e i problemi del
realismo (“Società). Si ricordi che con la pubblicazione di Il marxismo e la
critica letteraria di Lukács giungeva anche in Italia quella poetica
dell'estetica marxista che si poneva come obiettivo la costituzione di una
nuova letteratura in una società socialista – dunque la necessità di definirne
la natura e il ruolo che in essa avrebbero dovuto ricoprire gli intellettuali.
Gerratana mise in luce due diverse idee di realismo: come metodo (di impronta
lukácsiana) e come tendenza (di memoria gramsciana), specificamente come
tendenza culturale che esprime un atteggiamento programmaticamente orientato
verso la realtà piuttosto che verso la sua evasione. La lotta di G. per il
realismo, conclude Voza, alla luce del carattere complesso che intendeva
conferirgli, alludeva in certo modo alla "lotta per l'egemonia" così
come delineata da Gramsci e alle nozioni di "progresso intellettuale di
massa" e "riforma intellettuale e morale". Se l'intervento
di Voza ha posto in luce la capacità di Gerratana di dar conto anche di questioni
legate alla scienza estetica, l'intervento di Burgio ha affrontato la lettura
critica da parte di G. del pensiero di Rousseau, ripercorrendo le tappe di
sviluppo ed il senso della sua produzione del ginevrino. Burgio ha illustrato
come G. e Rousseau siano stati legati da un "lungo rapporto di
fedeltà", particolarmente significativo per il fatto che G. scelse di leggere una parte degli scritti
rousseauiani – quelli politici – e perché non mancò mai d'interrogarsi
sull'attualità di questi testi, pur leggendoli entro una prospettiva storica.
Questa è la ragione per cui si tratta di un Rousseau sempre "diverso"
a seconda delle diverse fasi della ricerca di Gerratana, che possono delinearsi
anzitutto secondo un ordine cronologico. È degli anni '40 la Prefazione di G.
al Contratto sociale, in cui egli denota il maggior valore di questo testo
rispetto ai Discorsi – «reazione sentimentale al compromesso della cultura
illuministica con la realtà sociale iniqua e corrotta del tempo». Il moralismo
di Rousseau appare tuttavia a G. storicamente attuale in forza dei valori sui
quali si impernia – un valore sopra ogni altro, la libertà. D’altra parte,
sottolinea G. , «non la libertà estenuata dal completo esautoramento da cui
sembrerebbe condannata da una lunga e ormai logora tradizione liberale, bensì
una libertà resa concreta dalla stretta connessione con l'uguaglianza»;
piuttosto una libertà la cui essenza costitutiva è precisata dal riferimento
all'idea di eguaglianza e di legge, ciò che consente a Gerratana di riformulare
il tema della libertà in chiave collettiva, sociale, vincolandolo al criterio
della giustizia e della autonomia politica della società. Negli anni
caratterizzati sul piano teorico dalla polemica fra il PCI e Bobbio – G. prende
parte alla discussione sul tema della transizione dalla democrazia al
socialismo (rispetto al quale Rousseau veniva chiamato in causa da Della Volpe
come ispiratore dello stato democratico e socialista). Egli interviene con una
prosa misurata e sobria: Rousseau è il tramite teorico-pratico dell'evoluzione
della democrazia borghese in senso socialista; quello di Rousseau è dunque un
programma di «massimizzazione della democrazia», non di
"anticipazione" del socialismo. Il discorso di G. muta decisamente
nella seconda parte degli anni '60, quando stende l'Introduzione alla
traduzione del Discorso sull'ineguaglianza (Riuniti), sullo sfondo della quale
pare di intravedere le lotte sociali che sfoceranno nel moto studentesco ed
operaio. Non si tratta più del tema della transizione, nota Burgio, ma della
trasformazione sociale nel suo complesso e non è più il Contratto al centro
della riflessione di G., ma il secondo Discorso. G. stende un saggio con al
centro nuovamente l'interesse per il Contrat (Sul nesso Rousseau-Hobbes, in
“Studi politici in onore di Firpo”, Angeli): Rousseau è ancora il padre della
democrazia moderna (costituzionalismo) e viene contrapposto a Hobbes, teorico
dell'oppressione assolutista. Burgio indica infine un possibile mutamento di
prospettiva nella lettura di Rousseau da parte di G., facendo perno sul testo
rousseauiano: se gli scritti privilegiano il Contrat (classico del
costituzionalismo e del governo della legge, letto – nota Burgio – in chiave
fondamentalmente montesquieuiana), il contributo del '68 trova il suo oggetto
nel secondo Discorso e qui emerge la consapevolezza di G. del versante
distruttivo del progresso, della civilizzazione e della cieca tendenza degli
uomini a far valere le proprie istanze particolaristiche. Infine
ricordiamo il contributo di Savorelli sul “Labriola di Gerratana”, che si è
soffermato sull’intento di G. di sottrarre il pensiero di Labriola dalla
lettura che ne faceva la tradizione crociana e liberale. Negli anni '60 G.
riconsidera Labriola alla luce della polemica con lo spontaneismo dei movimenti
e con la contestazione del marxismo ‘storicista’, mentre negli anni
dell'arretramento del movimento operaio, mentre si profilava la crisi del PCI –
G. si preoccupa per le degenerazioni della politica («sistema di aggregazioni
corporative di interessi locali», per l’emergere in Italia della «disinvoltura
pragmatica» di spregiudicati «mestieranti», «avventurieri» e «giocolieri»), destinate
a spingere le masse verso il riflusso e l’apatia. Savorelli sottolinea come le
attualizzazioni cui G. volse il pensiero di Labriola non furono una forzatura;
al contrario il richiamo a Labriola, al critico sferzante della società
italiana e delle sue classi dirigenti, era sinistramente profetico
dell’accelerazione impressa in quel decennio ai fenomeni degenerativi di lungo
periodo. Infine nell’ultimo Labriola Gerratana scorse l’intuizione di problemi
(imperialismo, globalizzazione, regresso della democrazia, «crisi della cultura
popolare», ritorno del misticismo), che sarebbero ancora i nostri (V. G.,
Labriola e la politica, “Studi storici”). Diniha concluso la serie di
testimonianze sulla vita e l'impegno culturale di Gerratana raccontando della
comune esperienza negli anni dell'insegnamento universitario a Salerno. Dini ha
letto una pagina dedicata da Racinaro a G. nella quale quest’ultimo è descritto
come uomo poco diplomatico, amante di una verità da pronunciare senza
mediazioni, uomo poco tenero anche con i cari, amante della filosofia
illuminista, in particolare del Kant di Cassirer; e la sua stessa vita
accademica si caratterizzava per la puntualità "kantiana", il forte
senso del dovere e il rigorismo morale, quasi draconiano, che fu messo in luce
anche durante gli anni all’Università di Salerno. D’altra parte il rigorismo
morale di G., secondo Dini, sarebbe stato trasferito in modo eccessivamente
rigido contro quella società che si stava rivoltando in quegli anni di
sommovimenti sociali e popolari, dacché ne risultava un rigorismo spesso
astratto. Dini ha inoltre ricordato che G. riprese l’attività universitaria a
Salerno sotto sollecitazione di Colletti, che ne promosse l’ingresso, ritenendo
questo rapporto G./Colletti un esempio del minimo “rigorismo ideologico” di G.,
della sua concezione “aperta” del marxismo – evidente anche nella ricostruzione
non sistematica dei Quaderni. Il quadro non sarebbe completo se non
si accennasse a un altro tema (assieme all'indagine su Gramsci) che ha
attraversato l'evento: l'impegno di G. come intellettuale marxista. Questo
aspetto è stato messo in luce essenzialmente da due relazioni, quella di
Frosini e quella di Michele Filippini. Quest'ultimo ha discusso due aspetti
peculiari della cultura filosofica di G., l'esser insieme democratico e
marxista, e si è soffermato soprattutto su due esempi emblematici di ciò, un
dialogo fra Gerratana e Colletti ed un lungo articolo di G. sul saggio di
Althusser sugli Apparati ideologici di Stato. Ma è stato
soprattutto Fabio Frosini a ricostruire le linee del marxismo di G., a partire
da Ricerche di storia del marxismo. Il testo, che è in realtà una raccolta di
saggi già pubblicati altrove, ha una sua sistematicità. Nella Prefazione al
volume Gerratana sottolinea che il principale denominatore comune degli otto
saggi è il rapporto fra marxismo e movimento operaio, fino ad affermare che
«marxismo e storia del marxismo fanno tutt’uno» (Ricerche). La loro unitarietà
sarebbe dunque nell'idea stessa di storia del marxismo. Il marxismo di
Gerratana pare a Frosini ben sintetizzato da un passo della Prefazione: «Nei
confronti della pratica sociale l’analisi scientifica si distingue dalla
raffigurazione ideologica perché non è solo, come questa, funzionale alla
prassi, ma al tempo stesso è funzionale alla comprensione di questa prassi» (p.
X), che mostra l'imprescindibile reciprocità di prassi e teoria scientifica
atta comprendere la prassi. In conclusione, secondo Frosini il marxismo di G. che
emerge dalle Ricerche è confinato nel piano di una generalizzazione sempre
provvisoria e da riprendere ogni volta in condizioni solo parzialmente
ripetibili; e questa sarebbe l’unica condizione per rispettare l’apertura
costitutiva di una verità che si definisce nella pratica, a contatto con la
politica di massa. G., politico (e) gramsciano La terza
sessione del convegno si è incentrata essenzialmente sul rapporto fra G. e
l'impegno politico per un verso, la cura delle opere e lo studio del pensiero
di Gramsci dall'altro. Presieduta da Vacca, la mattinata si è aperta con
l'intervento di Albertina Vittoria sull'esperienza di G. alla Fondazione
Gramsci – con cui il filosofo ha collaborato sin dagli anni della sua
fondazione e che abbandonò negli anni '90 –, esperienza complessa e non esente
da dissidi teorico-culturali. Vittoria ha messo in luce di Gerratana l'impegno
di studioso e insieme quello di "organizzatore della cultura", come
anche l'attività di uomo politico di partito. Non si può dunque isolare
l'attività di G. all'Istituto Gramsci dal resto dell'impegno: quello editoriale
come anche quello nella Commissione culturale del PCI. Già dal '44 egli era
considerato un militante anche sul piano culturale e subito dopo la
Liberazione, Gerratana collaborò a "L'Unità", a "Rinascita",
fece parte del Comitato Stampa e Propaganda del PCI. Fu, con Platone e
Trombadori, collaboratore di Onofri, allora responsabile della Commissione
Propaganda del PCI; nel '49 fu responsabile delle “Edizioni Rinascita” e dopo
la fusione fra queste e i Riuniti” cominciò la sua collaborazione con la
"Fondazione Gramsci" (fondata a Roma) come studioso di filosofia.
Sono questi anche gli anni del rapporto con Colletti e Cerroni. Nel '54
l'Istituto Gramsci diviene “Fondazione”, nel '56 – anno della "svolta"
del XX Congresso del PCUS, degli eventi di Ungheria e del «Manifesto dei 101» –
Gerratana resta in accordo con le posizioni di Alicata e Togliatti. Si
organizza il primo convegno di studi gramsciani, evento che dà il via all'opera
di divulgazione del pensiero di Gramsci, alla cui base era la necessità di
riarticolare teoricamente il legame fra movimento operaio e democrazia. Sono
per G. gli anni dell'impegno per l'Edizione critica dei Quaderni del carcere,
impegno che aveva a monte l'intento di offrire un contributo alla garanzia
dell'indagine critico-filologica. G. divenne poi direttore del "Centro
studi gramsciani" dell’Istituto Gramsci, avente come obiettivo la cura
degli scritti di Gramsci nel loro insieme e dal '77 l'attività
"gramsciana" ebbe soprattutto come fine un riordino in quindici
volumi dell’opera del comunista sardo. Sono degli anni '80-'90 i dissapori con
la nuova direzione dell'Istituto, quella di Vacca (la diatriba che si incentrò
soprattutto su una diversa datazione dei Quaderni sul piano metodologico, ma Vittoria
rileva anche come il dissenso fosse in generale culturale e politico). La crisi
giunge all'apice: G. vuole dimettersi, dimissioni successivamente ritirate,
sebbene da allora in poi continui a lamentare il fatto che vi fosse un tacito
dissenso sul suo lavoro. Furono questi gli eventi che infine condussero G. all’abbandono
dell'Istituto Gramsci. É pur vero che Gerratana sarà essenzialmente
ricordato per esser stato curatore, interprete e divulgatore del pensiero di
Gramsci, con l'edizione critica dei Quaderni del 1975, ciò che l’ha reso noto
in tutto il mondo. Da questo evento, difatti, si è avviato a livello
internazionale un approfondimento dei testi e della riflessione di Gramsci, con
l'edizione dei Prison Notebooks (curati da Buttigieg, intervenuto su questo
tema) e l'avvio in America degli studi su Gramsci come scienziato politico,
tema su cui è intervenuto Coutinho. I due contributi hanno mostrato ciò che in
apertura di questa relazione si è tentato di individuare come spirito del
convegno: poliedricità degli accenti pur su tematiche affini, partecipazione
rispetto al tema affrontato (giacché il pensiero di Gramsci è indagato come
cosa viva), esigenza di dialettizzare la riflessione di Gerratana con gli
eventi politico-culturali che vedono oggi coinvolti i paesi di provenienza dei
relatori. Cosicché se per Buttigiegl'edizione critica si è rivelata uno stimolo
per dar vita ad una ricerca che appagasse l'esigenza di riscoprire il pensiero
di Gramsci come cultura "aperta" e dei riferimenti validi per il
pensiero democraticoprogressista; per Coutinho, grazie all'edizione, il
pensiero di Gramsci si è mostrato come nuova fonte per indagini di scienza
politica alla luce della contemporaneità – dal marxismo alla "filosofia
della prassi", al rapporto di questi con i processi di trasformazione
sociale. In particolare Coutinho – docente di teoria politica all’Università
Federale di Rio de Janeiro –, ha messo in luce come il valore dell'edizione dei
Quaderni stia essenzialmente nella capacità di porre in luce come Gramsci nel
suo operare filosofico adotti, come marxista, il punto di vista della totalità.
Negli scritti di G. che Coutinho prende in esame emerge la trattazione
prevalente, non casuale, di due tematiche gramsciane, rivoluzione ed egemonia.
Le due nozioni sono a tal punto interconnesse che quella di egemonia consente a
Gramsci di «arricchire e sviluppare il concetto marxiano di rivoluzione» (V.
Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”). A questi due concetti gramsciani
principali se ne dialettizza un terzo (che in certo modo li tiene insieme
entrambi), quello di stato allargato, che – secondo G. – viene adoperato da
Gramsci per «allargare il ruolo politico delle masse», per «concepire un
processo di estensione delle democrazie, in connessione con il concetto di
egemonia» (V. Gerratana, Stato, partito). Come nel pensiero di Marx e di Lenin,
anche in quello di Gramsci vi è un nesso filosofico-politico che tiene assieme
egemonia e Stato da un lato, la rivoluzione dall'altro. Secondo Gerratana
Gramsci modificò la propria concezione della rivoluzione nel corso
dell'evoluzione del suo pensiero: se negli anni giovanili questa venne intesa
come volontarismo soggettivista, già negli anni de L’Ordine Nuovo Gramsci
avrebbe dato vita a una vera e propria «teoria organica della rivoluzione»
(Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”), in particolare a seguito
dell’influenza del pensiero di Lenin. In questo secondo momento Gramsci avrebbe
tenuto conto anche del peso delle condizioni oggettive in cui opera la volontà.
In generale secondo Gerratana sia Gramsci che Lenin concepirono l'egemonia come
superamento della dimensione corporativa in cui opera la classe; ma quel che
Gramsci riconosce a Lenin è anzitutto l’aver integrato questo concetto (la
teoria dello Stato-forza) con la dottrina dell’egemonia. Secondo Coutinho
Gramsci dà vita in tal modo ad una generale teoria dell'egemonia, ed è qui che
Gerratana offrirebbe il suo più importante contributo: «per Gramsci le forme
storiche dell’egemonia non sono sempre le stesse e debbono variare a seconda
della natura delle forze sociali che esercitano l’egemonia. Egemonia del
proletariato e egemonia borghese non possono avere le stesse forme né possono
utilizzare gli stessi strumenti. Sviluppando l'elemento del "consenso"
proprio dell'egemonia gramsciana, G. distingue l’egemonia borghese, che si basa
su un consenso passivo (o manipolato), e l’egemonia proletaria, che necessita
un consenso attivo. Accenniamo infine ad altre due relazioni che hanno chiuso
il convegno, quella di Aldo Tortorella e quella di Chiara Meta. Tortorella si è
concentrato essenzialmente su due aspetti portanti della personalità dello
studioso gramsciano, la passione politica e il rigore morale. Ha indicato in G.
non uno studioso come altri, ma un uomo che la cui vicenda intellettuale è da
porre dentro una storia specifica e collettiva: quella della Resistenza e della
nascita del PCI. È proprio attraverso la storia di queste vittorie e tragedie
collettive che si è sviluppata la trama della vita personale e intellettuale di
G.. Tortorella ha messo in luce la profonda inquietudine che s'aggirava
nell'animo di G., al di là dell'apparente serenità scientifica ed il suo
“rigorismo”. Se una distinzione per lui esisteva fra politica (come etica
pubblica) e morale (come etica privata), tuttavia il rapporto fra queste era
per lui molto stretto (non a caso si era espresso sempre in modo contrario
rispetto a guerre di aggressione presuntivamente “etiche” o a qualsiasi
violazione dei diritti umani per ragioni politiche). La concezione etica cui G.
fa riferimento non è quella di Cartesio, tantomeno quella di Spinoza, ma in
diretta connessione con la sua passione politica, dove la politica era intesa
come un'impresa razionale. La passione politica, difatti, poteva avere due
diversi contenuti: volgersi a favore o contro le dittature, e G. scelse questa
seconda strada. In questi anni è nato dunque un modo nuovo di intendere la
libertà come effettualità, anzitutto come libertà dai rapporti di dominio sul
piano materiale. L’intervento di Meta ha infine affrontato la ridefinizione del
concetto di persona nella riflessione di G.. Nel corso della relazione, Meta ha
mostrato come G. abbia risposto positivamente all'interrogativo sull'esistenza
o meno di una teoria della personalità nel pensiero di Gramsci a partire dallo
scritto Unità della persona e dissoluzione del soggetto ("Critica
Marxista"). Indagando gli scritti gramsciani alla luce dell'elaborazione
marxiana delle Tesi su Feuerbach e di Miseria della filosofia, G. ricorda che
Gramsci – in Q 10 dal titolo emblematico «Che cosa è l’uomo?» – argomenta che
l’uomo è essenzialmente un processo, precisamente «il processo dei suoi atti»
(Q). D'altra parte l’individuo entra in rapporti con gli altri uomini
«organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici
ai più complessi». Così lo sviluppo e costituzione della
"personalità" di ciascuno è da intendersi come acquisizione di
coscienza di tali rapporti e insieme modificazione di sé in relazione al
modificarsi di tali rapporti: difatti «ognuno cambia se stesso, si modifica,
nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui è
il centro di annodamento». Ed è proprio G., secondo Meta, uno dei
pensatori che più avrebbe colto questa natura dialogico-relazionale della
filosofia gramsciana, che intesse tutta la trama dei Quaderni. Sottolineiamo
infine un ultimo aspetto che ha qualificato questi due giorni di confronto intellettuale:
la ricchezza del dibattito. Il convegno ha messo in luce come sia possibile
recuperare una trasversalità reciproca nel modo di concepire il rapporto fra
relatori e pubblico, fra ricerca e scienza, fra passato e presente.
Quest'ultimo aspetto è stato la cifra indiscutibile del convegno: non si
è trattato di esposizioni accademiche di "memoria", ma di un
confronto vivo con l'eredità intellettuale di G., che ha riportato all'ordine
del giorno l'attualità della ricerca e della riflessione sulla scienza
storico-politica del passato al fine di comprendere la politica e la cultura
del nostro tempo, finanche alla luce d'uno sguardo internazionale. Su molte
questioni poste dai relatori il pubblico è difatti intervenuto: dal rapporto
fra G. e Calvino (Durante), G. e Rousseau (Ausilio), G. e Colletti (Liguori),
al rapporto fra il pensiero di Gramsci e Lukács (Caputo), alla dialettica fra
organicità e frammentarietà nei Quaderni del carcere (Eleonora Forenza). Lea
Durante ha ricordato come la stretta amicizia fra G. e Calvino risalisse ai
primi anni '50. Nonostante fossero intellettuali provenienti da una diversa
impostazione culturale, tuttavia avevano l'uno verso l'altro reciproco rispetto
ed in comune l'esperienza partigiana. Durante si è soffermata sul carteggio G./Calvino
in merito al suicidio di Pavese, in cui Calvino rifiutava la lettura di questo
evento come d'un gesto irrazionale, ma riteneva andasse letto piuttosto
all'interno di una storia collettiva, emblematico di una "faglia" di
questa storia: la volontà di risolvere l'attività politica degli intellettuali
entro l'orizzonte collettivo, ciò che è impraticabile. La sottoscritta è
intervenuta cercando di porre in luce come la “fedeltà” di G. a Rousseau nel
corso di mezzo secolo possa spiegarsi anche relativamente all'unitarietà
dell'opera rousseauiana, a un rapporto complementare fra i Discorsi e il
Contrat, da cui emerge un pensatore che per un verso è interno alla modernità
borghese, per l'altro ne comincia a cogliere, prima di altri, i rischi ed i
limiti. Caputo si è dialettizzato con la relazione di Voza confrontandosi sul
merito della concezione lukácsiana del realismo e rilevando da un lato che
l'autore fa ancora parlare di sé e dunque è tutt'altro che un "cane
morto", dall'altro la necessità di riconsiderare la battaglia di G. per il
recupero di De Sanctis non tanto in contrapposizione a Hegel quanto in funzione
dell'esigenza di liberarsi della lettura crociana dell'autore. Liguori è
intervenuto sul rapporto fra G. e Colletti, affermando che fra i due
intellettuali – sebbene legati dall’amicizia – non vi era solo una distanza, ma
una radicale contrapposizione teorica. Infine Forenza ha interloquito in
particolare con la relazione di Buttigieg, sottolineando il valore
dell’edizione critica dei Quaderni di G. nella sua capacità di porre in luce il
carattere frammentario della riflessione gramsciana dei Quaderni, l’attualità
dialogica di un processo conoscitivo inteso come “ritmo” e “sviluppo”, la
centralità della tensione nell’organicità dell’opera carceraria e il valore del
“frammento” come elemento del processo. Ma uno dei contributi che più ha emozionato
è stato quello di Manacorda, intervenuto per ricordare che in quello
"Zibaldone" che pure sono i Quaderni vi è un'unità assoluta, che
ritorna nelle pagine pedagogiche, e ha riguardato l’indagine gramsciana sulla
formazione dell’uomo nuovo, fondata sul principio dell’unità di «braccia e
cervello» (Q). Questa ricerca coinvolge la questione (che l'umanità si porta
dietro da millenni) di cosa sia la “natura umana”. Da sempre alla base vi è una
sua declinazione come duplice, cosicché quella duplicità dell'attività umana
trova spazio in una duplicità sociale (gli eroi da una parte come
intellettuali, la plebe dall'altro). Quell'unità fra i due elementi che si
ricerca nella filosofia antica viene rotta dal cristianesimo, che ha separato
drasticamente anima e corpo (così come nella struttura sociale ha diviso cleres
e milites), e da allora ci trasciniamo questa duplicità, che pure oggi biologia
e fisica negano esistere del tutto. Storia passata e futura: la lezione di G.
serve ancora In questa due giorni di convegno si sono succeduti ricercatori,
storici, docenti di filosofia, intellettuali di orientamento politico affine ma
niente affatto identico, esponenti di rilievo dell'odierna intellettualità
italiana che sono (o sono stati) spesso insieme politici e uomini di cultura,
che hanno partecipato alla costruzione della storia democratica del nostro
paese; e che si sono interrogati sul contributo culturale di G. come lezione
viva, esempio per la storia politico-culturale dell'Italia futura. Un evento da
e per G., dunque: antifascista, organizzatore di cultura, interprete di
politica e filosofia, pensatore infaticabile ed aperto, sebbene saldo quando
necessario nelle sue convinzioni, pronto alla lotta, all'ascolto come anche
alla rottura. Gli interventi dei relatori hanno riportato alla luce (alcuni
affettuosamente alla memoria) la riflessione di G. come frutto della
contraddittorietà della modernità: di quella terra dissestata e martoriata che
è stata l'Italia negli anni della lotta partigiana, di quella storia che si è
radicata nella consapevolezza dell'inaggirabile dialettica fra libertà ed
eguaglianza sociale. Ecco: discutere e ricordare in questi giorni Valentino
Gerratana ha significato parlare insieme della nostra storia passata e delle
prospettive future per questo paese, che ha trovato in una figura come
Valentino un indimenticabile esempio di caratura morale, coerenza politica,
onestà e intellettuale, amore per la vita, per il progresso, per l'eguaglianza
sociale, per la dignità umana e per la libertà – e questa storia, in fondo, non
è di uno. Ma di tutti noi. Valentino Gerratana. Gerratana. Keywords. Rousseu,
Grice on social justice, Gramsci, Labriola, Grice’s ontological Marxism, eresia
di rousseau, labriola a fronte del socialismo, il metodo di gramsci – gappismo
– G. A. P. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gerratana” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Geymonat: l’implicatura conversazionale del temperamento romano – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I
like Geymonat – he calls himself a neo-rationalist, like Canova – whereas I go
for the real thing! Plato!” – Grice: “Geymonat has explored the origin of
infinity in the triangle of Tartaglia.” – Grice: “Geymonat has explored what he
calls ‘the images of man’ – Grice: “Geymonat has a curious essay on darkness
(‘tenebre’) – and a longer essay on ‘reason.’ – Grice: “Like me, Geymonat has
explored the philosophy of probability – from Latin ‘probare’ – and he was an
anti-fascista1” –Figlio di Giovanni Battista, un geometra liberale di origini
valdesi. Frequenta la scuola privata del Divin Cuore e poi l'Istituto Sociale,
un liceo classico torinese gestito dai gesuiti, dal quale fu espulso l'ultimo
anno di corso a causa di un tema su Giovanna d'Arco non in linea con
l'ortodossia e così conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour. Si laurea
a Torino con “Il problema della conoscenza nel positivism” sotto Pastore e
sotto Fubini lcon “Sul teorema di Picard per le funzioni trascendenti intere”. La
sua scelta di unire, nella sua ricerca, filosofia e logica, tenute separate in
Italia dall'imperante cultura idealistica del tempo, quella gentiliana che, con
la sua riforma della scuola, privilegia la cultura umanistica, e quella
crociana, con la sua concezione svalutativa della scienza, creatrice, ad avviso
del filosofo abruzzese, di un “pseudo-concetto”, mostra l'apertura europea
delle prospettive di ricerca intravista allora da G. e la sua estraneità al
provincialismo culturale italiano. Un rifiuto che egli estese anche alla
politica del regime allora dominante. Assistente di Analisi algebrica
nell'Torino ma avversario del fascismo, rifiutò l'iscrizione al partito
fascistacio è di prendere la cosiddetta tessera del pane vedendosi così
preclusa la possibilità di una carrier statale. Si avvicinò altresì a Martinetti, non tanto per comunanza di
prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno
civile e morale, essendo stato tra i pochissimi filosofi a rifiutare il
giuramento di fedeltà al Fascismo. Come Ayer. Anda in Vienna per approfondire
la dottrina del Circolo di Schlick, e
pubblica “La filosofia della natura”
e “Nuovi indirizzi della filosofia.” e iscritto clandestinamente
al Partito comunista, si guadagna da vivere insegnando matematica nella scuola
Leopardi di Torino, dove Pavese insegna italiano. Con il nome di battaglia Luca
fu partigiano in Piemonte nella Brigata Pisacane e, dopo la Liberazione,
assessore comunista al Comune di Torino, quando, vinto il concorso a cattedra,
e nominato professore a Cagliari. Insegna a Pavia e Milano. Fonda il Centro di
studi metodologici a Torino. Ebbe uno stile di pensiero razionalista ateo. La
sua filosofia può essere inquadrata nel filone del neopositivismo (ebbe diversi
contatti con il Circolo di Vienna), da lui ri-elaborato nell'ottica del
marxismo! Nell'evoluzione della sua filosofia, si possono tracciare due fasi.
Nella prima fase, approfondisce temi tipici del positivismo. Nella seconda
fase, si sforza di analizzare la realtà oggettiva ed a questo scopo utilizza
concetti caratteristici del materialismo dialettico. Interpreta la
concezione della matematica di Galilei come un strumento d'interpretazione
della realtà. Approfondisce alcuni temi teorici come quello della causalità, il
fondamento della probabilità, il continuo, l’intuizione, centrali
nell'epistemologia. Politicamente fu vicino inizialmente al Partito Comunista
Italiano, da cui si allontanò poi per aderire a Democrazia Proletaria e
successivamente ai movimenti che diedero vita al Partito della Rifondazione
Comunista. Nel corso di questo viaggio politico ha partecipato alla Fondazione,
a Roma, dell'Associazione Culturale Marxista e collabora nella rivista Marxismo
Oggi (Teti). Ha compiuto alcune ricerche sul teorema di Picard e sul
teorema di Carathéodory per le funzioni armoniche. In “Neo-razionalismo”,
spiega che un'indagine efficace della realtà, e svolta solamente tramite lo
strumento della ragione. Per fare
questo, propose di scarnificare la razionalità di ogni verità e da ogni sistema
di riferimento assoluti. Il neoilluminismo, capeggiato da Abbagnano e coinvolgente
numerosi altri filosofi italiani, rappresentò per Geymonat il suo corso del neo-razionalismo,
che avrebbe dovuto accogliere i metodi e i risultati della scienza, perseguendo
un duplice obiettivo: ummanizare la scienza e concretizzare la filosofia – e
l'utilizare un'impostazione storicistica al posto di quella metafisica. Per
storicismo, intese l'analisi storica della struttura di un modello scientifico. Pur
condividendo inizialmente l'anti-idealismo di Popper, sostenne che vi era la più
manifesta e totale incompatibilità tra il marxismo e l'epistemologia
popperiana. Alle sue accuse di essere il filosofo ufficiale
dell'anti-comunismo, reo di difendere i regimi liberali, Popper gli rispose: “I
nostri intellettuali dicono che vivono in un inferno, mentre di fatto questo
mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al paradiso come lo è ora
il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione Sovietica, si dice alla gente
che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono moderatamente contenti; è
questo, credo, l'unico aspetto per il quale la società sovietica è migliore
della non-sovietica. Si deve a Geymonat l'introduzione in Italia di Kuhn.
Altre opera: “Il problema della conoscenza nel positivismo” (Torino, Bocca); La
nuova filosofia della natura in Germania, Torino, Bocca, “Per un nuovo
razionalismo, Torino, Chiantore, Neo-razionalismo. Torino, Einaudi, Galilei,
Collana Piccola Biblioteca Scientifica, Torino, Einaudi, La filosofia della
scienza, Feltrinelli, Milano); Filosofia nella storia della civiltà, con Renato
Tisato, Garzanti, Milano, Storia della filosofia, Garzanti, Milano, Il materialismo
dialettico, Editori Riuniti, Roma, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano); “Paradossi
e rivoluzioni. scienza e politica, Giorello e Mondadori, Il Saggiatore, Milano,
La probabilita, con Feltrinelli, Milano, Kuhn e Popper, Dedalo, Bari. Lineamenti
di filosofia della scienza, Mondadori, Milan); “Le ragioni della scienza” (Laterza,
Roma-Bari, La libertà, Rusconi, Milano, La società come milizia, Minazzi, I
sentimenti, Rusconi, Milano, Filosofia, scienza e verità, Rusconi, Milano, La
Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis,
Mario Quaranta, Il poligrafo, Padova, Dialoghi sulla pace e la libertà, Cuen,
Napoli, La ragione, con Minazzi e Sini, Piemme, Casale Monferrato, Attualità
del Marxismo. Quaderni di Città Futura, Ancona); “Storia e filosofia
dell'analisi infinitesimale, Boringhieri, Torino. Regny, «Corrado Mangione:
breve storia di una lunga amicizia», «AppendiceL'Associazone Culturale
Marxista», in Attualità del Marxismo. Filosofia e dintorni, Intellettuali non
fate ideologia. L'Occidente non è quest'inferno, Dario Antiseri, articolo su
«Il Mattino di Padova», lincei. G. Mario Quaranta, Geymonat filosofo della
contraddizione, Sapere, Padova, Mangione, Scienza e filosofia. Saggi in onore
di Geymonat, Garzanti, Milano, Pasini, Rolando, Il neo-illuminismo italiano.
Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Minazzi, Scienza e filosofia in
Italia negli anni Trenta: il contributo di Persico, Abbagnano e G. . Bobbio,
Ricordo, "Rivista di Filosofia" Merlo, Consuntivo storico e
filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf
(Cnr), Genova, Minazzi, “La passione
della ragione” Thélema Edizioni Milano-Mendrisio, Mario Quaranta, Una ragione
inquieta, Seam, Formello, Minazzi, Filosofia, scienza e vita civile inGeymonat,
La Città del Sole, Napoli, Minazzi, Contestare e creare. La lezione
epistemologico-civile di Geymonat, La Città del Sole, Napoli, Silvio Paolini
Merlo, Nuove prospettive sul "Centro di Studi Metodologici" di
Torino, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Maiorca,Scritti
sardi. Saggi, Cagliari, Minazzi,G., un Maestro del Novecento. Il filosofo, Edizioni
Unicopli, Milano, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi
sul pensiero italiano del Novecento, il Mulino, Bologna, Minazzi, G.
epistemologo, Mimesis Edizioni, Milano
Positivismo logico Circolo di Vienna Scuola di Milano. Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. G., in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Massimo Mugnai,
Scienza e filosofia: G. e Preti, in Il contributo italiano alla storia del
Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.Articoli della stampa
italiana su L. G,, dal Sito Italiano per la Filosofia L'eredità intellettuale di
G. (Preve). La setta di Crotone rappresenta un movimento filosofico
di livello scientifico molto superiore a quello delli
precedenti. Per la verità non tutti lo storici della filosofia
italiana sono d'accordosu ciò. Taluni sostengono infatti che Pitagora (il quale non lascia
nulla di scritto) sia stato il fondatore di una setta analoga all'orfismo, che non di un vero e proprio
movimento di pensiero scientifico-filosofico come il di J. L.
Austin. Essi affermano che soltanto mezzo secolo dopo la morte del fondatore la setta comincia ad interssarsi di filosofia. Oggi però si ritiene dai più che l'interpretazione ora accennata sia eccessivamente
critica, e si preferisce ritornare all'interpretazione tradizionale, che attribuiva proprio a Pitagora la
maggior parte delle concezioni. La ricchezza del suo
sapere ci è del resto attestata d’Eraclito, che polemicamente lo define
polymathés, erudito. Anche noi dunque ci atterremo alla tradizione, pur riservandoci di trattare la reazione dei
Crotonesi ai Veliani rappresentata
da Filolao. Pitagora si trasfere nella “Magna Grecia”, e precisamente a Crotona in Calabria,
dove e fiorita un’ importante scuola di filosofi medici medic.
A Crotona fonda una setta che ha un notevole peso, essendo legata al partito aristocratico. La
setta e organizzata sulla base di regole
rigorosi che esigeno dagli scolari un lungo periodo di tirocinio
prima di essere ammessi ai segreti. Su questa base si crea
la divisione fra acusmatici od ascoltatori e matematici,
partecipi degl’insegnamenti che in seguito si accusarono a vicenda di non essere
i veri depositari delle dottrine del maestro. L'insegnamento di Pitagora e
circondato da grande rispetto, e si ripone in lui una fiducia illimitata, tanto che a lui
si rifere l’”ipse dixit” (autòs efa). Una sommossa provocata dal partito
della plebe caccia i filosofi da Crotona. Pitagora fugge
a Metaponto e muore. Sul grande filosofo sorsero numerose leggende,
alcune delle quali note ad Aristotele. Queste accentuano
il carattere religioso della sua figura, facendone poco meno che un semi-dio,
e sono particolarmente care a quella filosofia misticheggiante,
attraverso Numenio e Giamblico. La realtà accertata dagli storici
è che, dopo l'espulsione da Crotona, si organizzarono varie sette.
Esse hanno lunga vita e danno notevoli sviluppi. Le più celebri sono
la scuola di Filolao e quella d’Archita, che
fiore a Taranto, dominando anche la città.
Di Filolao ci sono pervenuti frammenti,
che dopo lunghe discussioni vengono oggi ritenuti autentici,
e che costituiscono la base per ricostruire
la dottrina di Pitagora. Archita, uomo di
straordinaria va- stità di
interessi, fu legato da amicizia con Platone.
Platone ricorda Archita
affettuosamente nella VII Epistola, ed esercita per suo tramite gran
influenza sull'Accademia. Né l'influsso della setta di Crotona si limita alla filosofia ed alla scienza, ma si risente
fortemente in tutte le manifestazioni della filosofia.
All'acustica si possono far risalire molte delle teorie musicali tramandateci dagli Elementi armonici d’Aristosseno ed al pitagorismo
esplicitamente si richiama Policleto, amico
di Fidia, che nel Canon sviluppa una teoria artistica basata sulla
concezione del del corpo bello
come giusta proporzione delle parti. Legato a
Crotona e pure Ione di Chio. Questa dottrina si impernia su di un pensiero
fondamentale. El numero e il principio di tutto. Tutte le cose che si conoscono hanno numero.
Senza numero nulla e possibile pensare, né conoscere. Dovremo ora cercare, innanzi tutto, di comprendere il
significato filosofico di questo pensiero. Poi di svilupparne le conseguenze matematiche e fisiche.
Alla fine del capitolo accenneremo al
valore intrinseco della teoria, e al
significato della crisi scientifica formatasi
nella scuola prima ancora della
cacciata di Pitagora da Crotona. Pitagora prende forse le
mosse dalle ricerche ioniche sul principio
e in particolare dalla teoria dell'àpeiron
d’Anassimandro. Una più acuta sensibilità ai
problemi etico-religiosi (quali l'opposizione del
bene e del male nel mondo, la
vicenda della colpa e del riscatto),
stimolata probabilmente dall'incontro in Italia con
i culti misterici, e d'altro canto una
maggiore attenzione per le leggi formali
e modali della realtà, cui diedero impulso
le sue prime ri- cerche acustiche,
dovettero però fargli apparire inadeguato
il principio unico dei naturalisti ionici.
Per rendere conto di questi più
complessi problerill, Pitagora sdoppia
il principio in due opposti. Da una parte il principio del limitato, del finito, dell'unitario, che rappresenta
l'ordine, il cosmo, il bene; dall'altra
il principio dell'il- limitato,
dell'infinito, che raffigura
il disordine, il caos, il male. La sua grande intuizione consiste
nel vedere nel numerola chiave e
la struttura ultima di un assetto della
realtà. Col termine “numero” i crotonesi
intendeno soltanto il numero intero. Non fanno particolari
indagini sulla natura di queste unità,
limitandosi a rappresentarle con un punto,
circondato da uno spazio vuoto. Proprio questa rappresentazione spaziale
facilita il passaggio, caratteristicamente
arcaico, dalla concezione del numero come
chiave e rapporto alla sua concezione
come costituente fisico elementare delle
cose. Il problema essenziale diventa
allora, per i crotonesi, quello di
cogliere il modo con cui dalla
collezione di più unità si generano
tutti gl’esseri. Le leggi della formazione
dei numeri venne considerate come leggi
della formazione delle cose, e. si ritene
di poter trovare in esse la vera
ragione esplicativa del mondo fisico e
morale. La più importante di tali
leggi e costituita - secondo i crotonesi - dal- l'opposta
struttura dei numeri dispari e di
quelli pari. L'antitesi dispari-pari venne cosi
assunta a principio di una serie di
altre opposizioni, che spezzano il mondo
in due: limitato-illimitato (opposizione che
e stata il problema iniziale, ma puo
ora venir spiegata sulla base dell
'antitesi precedente); uno-molti; destra-sinistra;
luce-tenebre; buono-cattivo; immobile-mobile;
retto-curvo; quadrato-rettangolo. Alcune di
queste opposizioni hanno palesemente un carattere
fisico (quella per esempio di luce e
tenebre; da essa scaturiva la
raffigurazione del cosmo come costituito da
un fuoco centrale, immerso in un'estensione
illimitata di nebbia); altre invece un
preciso carattere morale. Questa presenza
di significati multipli finiva con
l'infondere ai numeri in generale, e
a certuni di essi in particolare, un
vero e proprio valore magico-simbolico. Così
“V” veniva assunto a rappresentare il matrimonio,
essendo la somma del primo numero dispari,
il III, con il primo numero pari,
il II (l'I veniva considerato come «
parìmpari »servendo a generare sia i
numeri pari che i dispari); il IV
e il IX venivano
presi come simboli della giustizia; il VII
dell'opportunità; e così via. Di
derivazione crotonesi è un trattato di
medicina intitolato “Sul numero sette,” “Peri
hebdomadon,” che cerca appunto nei rapporti
settenari la spiegazione della struttura
dell'organismo e delle sue affezioni. Qualcuna
di queste concezioni è pervenuta fino
a noi, onde si attribuisce per
esempio a VII un significato speciale etico
e fisico (VII sono i ·vizi capitali,
sette le opere di misericordia, in
varie malattie si ha la «settima»,
ecc.). La purificazione religiosa, che forma -
almeno in un primo tempo il fine
principale dell'insegnamento pitagorico, era
cercata essa pure attraverso la
contemplazione dei numeri. Questa venne
pertanto a possedere un doppio aspetto: filosofico
e mistico. La peculiare nobiltà dell'ascesi
pitagorica consisteva appunto nel fatto che
a ogni sua tappa doveva corrispondere
la conquista di un più alto gradino
del sapere. Il carattere mistico delle
ricerche matematiche costituì per molto
tempo un notevole impulso al loro
sviluppo, e insieme un im- pedimento al
loro caratterizzarsi come ricerche puramente
scientifiche. In particolare, la concezione
ora spiegata spinse i pitagorici a
studiare la geometria per via aritmetica.
Ne sorse una disciplina che, per il
suo doppio ca- rattere, e chiamata «
aritmo-geometria ». Essa e fondata sulla
convinzione che da un lato. fosse
possibile ricavare le principali caratteristiche
delle figure a partire dal numero dei
punti (supposto, in ogni caso, finito)
che le compongono, e dall'altro fosse possibile-
viceversa- ricorrere alla forma delle figure
per illustrare le più recondite proprietà
dei nu- meri. Di qui la distinzione
dei numeri in vari tipi. Per esempio:
triangolari polig6nali quadrati c~ bici. Al
numero triangolare X venne attribuita
un'importanza speciale, come somma dei
primi quattro numeri naturali. I dispari venneno
chiamati « gnomoni», per la possibilità
di rappresentarli informa di gnomone (cioè
squadra). Questa rappresentazione permise di
scoprire che ogni numero dispari è la
differenza di due quadrati; per esempio:
• • • • • • • • • • • • • • • • 7 = 42-32 Varie testimonianze
·- tra cui quella di Proclo ·- ci
dicono che Pitagora e il primo a
comprendere la validità generale del
teorema che ancor oggi porta il suo
nome, e che, per taluni casi particolari
(per esempio quando i cateti valgono III e IV,
e l'ipotenusa V), era noto già prima
di lui. Non sappiamo però quale
ragionamento servisse a Pitagora per
provare l'importante teorema. Certamente la
dimostrazione riferita negl’ “Elementi” d’Euclide non
fu ideata dal filosofo di Crotone. IV
La dottrina che i numeri sono il
principio di tutte le cose » trovò
pure conferma negli studi di acustica.
Stando alla più antica tradizione dobbiamo
infatti ammettere che Pitagora riuscì a
scoprire i principali intervalli musicali.
Sarebbe giunto a questa notevolissima scoperta
dallo studio sperimentale delle corde
sonore, e dalla constatazione che nei
principali accordi il rapporto fra le
loro lunghezze è espresso da numeri
interi molto semplici. L'acustica venne in
tal modo a costituire una specie di«
aritmetica applicata», come l'astronomia
costituiva una «geometria applicata». Il
quadro delle ricerche scientifiche risultò
pertanto suddiviso in quattro rami
fondamentali: aritmetica, musica, geometria,
astronomia. 1 L'astronomia pitagorica - - parte
dall'ammissione di un fuoco centrale
immerso in una sconfinata nebbia di
tenebre. Intorno a tale fuoco si
pensava ruotassero dieci corpi (notiamo
l'intervento del numero 10): la Terra,
l'Antiterra (invisibile), la Luna, il Sole,
i cinque pianeti allora conosciuti, e il
cielo delle stelle fisse. I movimenti
ciclici di questi corpi produrrebbero -
secondo Pitagora - una meravigliosa armonia,
che noi però non riusciamo a
percepire a causa della sua continuità.
La loro ciclicità sarebbe la causa
del ritorno periodico di tutte le
cose. Questa ripartizione costituisce il
lontano antecedente del celebre « quadrivio », che
starà alla base dell'istruzione nelle
scuole del medioevo. successivi l'astronomia
pitagorica portò a concezioni di grande
interesse scien- tifico; degna di particolare
menzione l 'ipotesi eliocentrica, ideata per
la prima volta da Aristarco di Samo. Ricordiamo
infine la teoria secondo cui tutto il
cosmo sarebbe sorto dal fuoco centrale
e ritornato in esso per poi nascere
un'altra volta. Con riferimento ad essa, i
pitagorici chiamavano «anno cosmico» l'intervallo
di tempo impiegato dal cosmo per
nascere e ritornare nel fuoco. La
teoria pitagorica dell'anima, malgrado la
sua ambiguità, ebbe notevoli riflessi sui
filosofi posteriori. Da un lato alcune
testimonianze ci dicono che l'anima veniva
concepita dai pitagorici come «armonia» del
corpo, nel preciso senso in cui si
parla di ar- monia dei suoni emessi da
uno strumento musicale. Secondo questa
interpreta- zione, l'anima doveva venire
necessariamente pensata come mortale, poiché -
spezzato lo strumento - anche l'armonia
viene a cessare. D'altro lato sappiamo
però che uno dei cardini della
filosofia pitagorica era costituito dalla trasmigrazione
delle anime (metempsicosi), e questa
suppone ovviamente che l'anima non muoia
con il corpo che la ospita. Un
frammento del medico Alcmeone (che visse
a Crotone e fu legato ai circoli
pitagorici) afferma che l'« anima è
immortale per la sua somiglianza con
le cose immortali ... la luna, il
sole, gli astri ». 1 Come risolvere
l'apparente contraddizione? Probabilmente bisogna
ritenere che i pitagorici ammettessero due
specie di anime: una costituita dal
tempera- mento psichi co, legato
indissolubilmente al corpo e destinato a
morire con esso; l'altra da un principio
immortale o « anima-dèmone ». In ogni
vita si avrebbe una stretta rispondenza
tra le due anime; questa rispondenza
verrebbe però a cessare coll'uscita dell'anima-dèmone
dal corpo. Tale uscita sarebbe da lei
de- siderata per raggiungere la purezza di
una vita interamente spirituale. A tali
dottrine si ispirava il « modo di
vita pitagorico », altamente lodato da
Platone per la sua unione di teoresi
e di ascesi; la metempsicosi in
particolare determi- nava il più famoso dei
divieti rituali pitagorici, quello di
mangiare la carne di certi animali,
nei quali potrebbe essersi incarnata
un'anima. Anche dio veniva concepito dai
pitagorici come anima; e precisamente come
« anima del mondo » che circola
continuamente in esso e perciò è
presente in ogni luogo. Il rapporto
dio-mondo restò tuttavia molto incerto
nella filosofia pitagorica, sicché non
possiamo cercare in essa un vero e
proprio sistema teolo- gico. Ad Alcmeone si
deve la notevolissima sco- perta che il
centro della vita organica e mentale
va localizzato nel cervello. Quanto abbiamo
finora riferito basta per farci comprendere
la complessità dell'insegnamento pitagorico. Se
in taluni punti esso può apparirci
ingenuo, in altri casi contraddittorio, ciò
non deve farci sottovalutare l'importanza
dei temi ivi abbozzati, che ricompariranno
ampliati e sviluppati nei più diversi
indirizzi filosofici e scientifici. Notiamo,
per esempio, che l'idea di cercare nei
numeri, cioè nella matematica, la
spiegazione di tutti i fenomeni,
ricomparirà potenziata nell'epoca moderna e
formerà per molto tempo la « spina
dorsale » di tutta la ricerca
scientifica. Vi è chi sostiene, esagerando
forse le cose, che le più celebri
teorie della fisica-ma- tematica moderna (per
esempio la teoria della relatività
generale) non costituirebbero altro che il
proseguimento del programma pitagorico. Ma,
a parte ciò, noi troviamo nella
matematica di Pitagora un carattere
speciale che la differenzia notevolmente da
molte altre concezioni posteriori, pur esse
accentratesi sulla ricerca matematica. Il
carattere cui voglio riferirmi, suol venire
indicato col termine «discontinuità». Si
dice che la scienza di Pi- tagora è
una matematica del discontinuo, perché essa
si fonda esclusivamente sui numeri interi
e su ciò che può venire espresso
con i numeri interi (per esem- pio
sulle frazioni ordinarie, e non, invece,
sui numeri irrazionali). Secondo essa,
l'accrescimento di una grandezza procede
per «salti discontinui», essendo im- possibile
aggiungere qualcosa che sia minore dell'unità.
Taluno giunge a riconoscere nelle teorie
quantistiche moderne una soprav- vivenza
dell'antica eredità pitagorica sotto forma
dì concezione discontinua dell'energia. Lasciando
da parte le reminiscenze pitagoriche
presenti nella fisica moderna, va detto
però ben chiaramente che l'aritmo-geometria
di Pitagora non ebbe vita lunga nella
scienza greca. La sua fine fu
provocata, per l'appunto, dalla crisi di
quell'idea di discontinuità che costituiva -
come s'è detto - uno dei suoi cardini
fondamentali. La grande crisi fu causata
dalla scoperta che le figure geometriche
sono co- stituite non da un numero
finito, ma da una infinità di punti.
(Le teorie moderne, che tornano ad
un'idea rinnovata di discontinuità, sosterranno
implicitamente che la geometria classica -
proprio perché parla di una infinità
di punti - non trova esatta applicazione
nella realtà.) Il primo « fatto
geometrico » che costrinse i pitagorici
a riconoscere che le figure sono
costituite da infiniti punti, è proprio
connesso a quel medesimoteorema che porta
il nome di Pitagora. Ed infatti,
applicando detto teorema ad uno dei
due triangoli isosceli in cui è
diviso un quadrato, si dimostra facil-
mente che il lato e la diagonale
di tale quadrato non possono avere
alcun sot- tomultiplo comune, cioè sono
incommensurabili. Orbene proviamo a supporre
che un segmento sia generato
dall'accostamento di una serie finita di
punti (pic- coli ma non nulli, e
tutti eguali fra loro, come allora si
immaginava): ne se- guirebbe che uno
qualunque di questi punti risulterebbe
contenuto un numero intero, e finito,
di volte (per esempio m volte) nel
lato e un altro numero in- tero, e
finito, di volte (per esempio n
volte) nella diagonale. Lato e diagonale
avreb- bero dunque un sottomultiplo comune,
e non sarebbero - come si era dimo-
strato - incommensurabili. La loro
incommensurabilità esige pertanto che es- si
siano costituiti da una infinità di
punti. La leggenda racconta che il fatto
scandaloso, ora riferito, fu gelosamente
custodito per vari anni tra i segreti
più pericolosi della setta. Esso fu
rivelato fuori della scuola pitagorica da
Ippaso di Metaponto, una delle figure
più notevoli dell'antico pitagorismo. Pastosi
a capo degli acusmatici per la
moderna irre- quietezza del suo ingegno che
mal tollerava il dogmatismo della setta,
egli sarebbe stato vicino ad Eraclito
per l'idea che il fuoco è il
principio di tutte le cose, e si
sarebbe schierato dalla parte dei
democratici nei moti che condussero alla
cacciata dei pitagorici da Crotone. Per
avere rivelato la natura delle grandezze
incommen- surabili, Ippaso sarebbe stato cacciato
ignominiosamente dalla scuola, ed a lui
anzi i pitagorici avrebbero eretto una
tomba come ad un morto. Secondo la
tra- dizione su di lui sarebbe caduta
anche l'ira di Giove, il quale lo
fece perire in un naufragio; la sua
triste morte non impedì tuttavia che
lo scandalo si diffondesse rapidamente tra
i cultori di matematica e finisse per
scuotere dalle fondamenta l'intera concezione
pitagorica. Questa crisi verrà resa ancor
più acuta dalla
scoperta delle antinomie di Zenone sul
movimento e sulla divisibilità. Per uscire
da essa, i maggiori scienziati greci
non troveranno altra via se non
quella di scindere completamente la
geometria dall'aritmetica, interpretando la prima
come studio del continuo e la seconda
come studio del discontinuo. Il rapporto
tra continuo e discontinuo resterà, per
tutta la storia del pensiero umano,
un problema molto difficile e molto
dibattuto; verrà, anzi, considerato come
uno dei più astrusi «labirinti» della
ragione. L'averne intuito l'esistenza e la
difficoltà va dunque considerato come un
merito, e molto notevole, dello spirito
greco. Il primo passo della ragione
umana si compie, in ogni ricerca, col
porre a nudo le difficoltà ivi
esistenti, per gravi che esse siano,
non col nasconderle. Solo chi le
conosce, non chi le ignora, può
sentirsi spinto a cercare i mezzi
indispensabili per risolverle o, comunque,
dominarle; e questa ricerca è la
molla più decisiva del progresso scientifico.
Oggi si riconosce quale autentico fondatore
della scuola eleatica il grande Parmenide,
nato ad Elea. Parmenide scrive un poema
allegorico, “Sulla natura,” “Perì physeos,” di cui
ci sono pervenuti alcuni interessantissimi
frammenti che, integrati da varie
testimonianze, ci permettono di ricostruire
con sufficiente sicurezza il suo pensiero.
Data la vicinanza di Elea ai maggiori
centri del pitagorismo, è indubitato che
Parmenide subì, in forma più o meno
diretta, l'influenza di questo indirizzo di
pensiero. Taluni storici, accentuando questo
legame, giunsero a presentarcelo come un
pitagorico, distaccatosi dalla scuola di provenienza per
divergenze di ordine filosofico. Tale
interpretazione ci costringerebbe a vedere in
gran parte degli argomenti eleatici, come
ad esempio nelle aporie di Zenone, un
intento polemico soprattutto antipitagorico. La
gravità di questa conseguenza lascia
tuttavia perplessi molti autorevoli critici.
Si ritiene oggi piuttosto che la
critica di Parmenide fosse rivolta in
generale contro tutte le filosofie ioniche
ed italiche del molteplice e del divenire,
di cui egli rilevava acutamente la
contraddittorietà: nel tentativo di spiegare
razionalmente la realtà, e di modellare la
ragione sui dati dell'esperienza, tali
filosofie dovevano ammettere una serie di
opposizioni e di alterità di cui però
si assumeva la coesi- stenza. Ora - osserva
Parmenide - se di una qualsiasi cosa
si dice o si pensa che « è »,
di ciò che è diverso od opposto
ad essa si dovrà dire o pensare
che «non è»: e com'è possibile
riconoscere realtà alcuna a ciò che
non è, se non si vogliono violare
le leggi immutabili del discorso e
del pensiero? La grandezza della filosofia
di Parmenide, quella grandezza che costituì
un fecondo punto di partenza per il
pensiero successivo e anche un difficile
problema la cui soluzione era tuttavia
indispensabile per poter progredire, sta
proprio qui: nell'aver cioè individuato
nella sua radice filosofica l'ambiguità
della speculazione ionica edita- lica, e
nell'aver posto in primo piano il problema
della verità del linguaggio e del
pensiero, il problema della « via »,
cioè del metodo, che linguaggio e
pensiero dovevano percorrere per giungere
alla realtà. Il metodo vero costruisce
cono- scitivamente la realtà, l'essere, perché
elimina gradualmente dal pensiero tutti i
contrassegni di irrealtà, di non-essere, che
vi si erano infiltrati: la molteplicità
nello spazio, intesa come differenziazione
di parti, la molteplicità nel tempo,
intesa come differenziazione di momenti, il
vuoto inteso come assenza di realtà,
la generazione e la distruzione intese
come limiti dell'essere. Partito dal riconosci-
mento logico e metodologico delle esigenze
del pensiero e del discorso, Parme- nide
giunge al culmine della via a dichiarare
l'impensabilità, l'inesprimibilità e l'inesistenza
del non-essere, e la parimenti assoluta
esistenza dell'essere, che condiziona la
possibilità di pensare e di dire il
vero. All'essere non potrà venir riferito -
sempre per l'opposizione or ora ac- cennata
- alcun attributo, che possa in qualche
modo diminuirne la positività, assimilandolo
al non-essere. Ci si dovrà limitare a
dire che esso è uno, invaria- bile,
immobile, eterno. Qualche critico moderno
però (come Untersteiner) ha ritenuto che
Parmenide avesse concepito l'essere come
«totalità>> e non come «unità».
L'erronea interpretazione del suo pensiero
sarebbe dovuta alla falsa testimonianza di Teofrasto
che attribuisce a Parmenide il sillogismo: «
Quello che è oltre l'essere non
esiste; quello che non esiste è
nulla; dunque l'essere è uno.» L'attributo
dell'unità, con cui polemizzò Aristotele,
risalirebbe solo a Melissa. Come possiamo
conciliare la concezione parmenidea dell'essere
col fatto incontrovertibile che l'esperienza
ci presenta ad ogni piè sospinto
degli esseri molteplici, variabili, temporanei?
Di fronte a questo stato di cose -
risponde Parmenide - non vi è altro
da fare che respingere la nostra
spontanea fiducia nell'esperienza, riconoscendo
che essa costituisce per l'uomo una
via di conoscenza fallace e illusoria. Al
mondo dell'esperienza è appunto dedicata la
seconda parte del poema di Parmenide.
Confutate « le opinioni dei mortali
», quali si erano espresse nelle
precedenti cosmologie naturalistiche basate sul
divenire, Parmenide non rinuncia tuttavia a
costruire una propria spiegazione di questo
mondo, di cui aveva di- chiarato la
radicale inconsistenza di fronte all'assoluto
essere. Molto si è discusso fra gli
studiosi sul significato da attribuire a
questo sconcertante aspetto del pen- siero
parmenideo: fra le più recenti, le due
posizioni estreme sono quella del Raven,
secondo cui l'eleata, impegnato nella
polemica contro l'indebita confu- sione di
razionale e di empirico tipica dei suoi
predecessori, avrebbe voluto costrui- re una
cosmologia a base puramente empirica, da
affiancare alla dottrina logico- razionale
dell'essere in modo da isolare ancor
più chiaramente i due momenti; e
quella dell'Untersteiner, che ritiene che
il mondo dell'essere e il mondo del-
l'esperienza siano unificati nel pensiero
di Parmenide dal medesimo metodo ra-
zionale, in grado di individuare il
fondamento di realtà presente anche nel se-
condo: una realtà, tuttavia, che si
differenzia da quella assoluta in quanto
immersa nel tempo, e che ne
costituisce perciò soltanto una immagine.
In ogni caso se ne può concludere
che per Parmenide solo la ragione è
un mezzo di conoscenza veramente efficace;
solo essa, rompendo la crosta delle ap-
parenze, può farci cogliere l'unità
profonda del reale. L'opposizione tra razio-
nalismo ed empirismo, che tanti sviluppi
avrà nella storia della filosofia, trova
proprio qui la sua prima radice.
L'essere di Parmenide è stato interpretato
da taluni in senso idealistico, da
talaltri in senso materialistico. Enttrambe
queste interpretazioni svisano, però, il
pensiero del grande eleata, non tenendo
conto che esso antecede, in realtà,
ogni consapevole distinzione tra idealismo
e materialismo. L'affermazione di Parme- nide
che più si presta ad una
interpretazione materialistica è quella che
ci presenta l'essere come sferico (cioè
come una sfera piena). Evidentemente Parmenide
pensa alla sfera, perché la superficie
sferica non è limitata da alcun
perimetro né inter- rotta da alcuno
spigolo. Non si può tuttavia negare
che la sfericità ora accennata vada
accolta con la massima cautela; se
infatti la interpretassimo alla lettera, ca-
dremmo in contraddizione con tutto
l'insegnamento di Parmenide, perché sa- remmo
costretti ad ammettere l'esistenza di un
non-essere (o vuoto), che è al di là
dell'essere sferico, e lo limita. Essa va
intesa invece come identità e assolutezza
dell'essere lungo tutte le direzioni; come
è stato recentemente osservato, la sfera
di Parmenide è più simile allo spazio
curvo einsteiniano che al solido euclideo
che siamo portati a raffigurarci.
L'interpretazione idealistica è d'altra parte
esclusa perché se il pensiero scopre
l'essere, certamente non lo crea; anzi
è piuttosto l'esistenza dell'essere a
rappresentare la possibilità e la
condizione del pensiero, che in esso
culmina e con esso deve identificarsi.
Parmenide ha due grandi discepoli: Zenone e
Melisso. Il contributo da essi arrecato
all'affinamento del pensiero del maestro
assicura loro un posto assai ragguardevole
nella storia della filosofia. Entrambi si
adoperarono a difenderne le tesi sia
pure svolgendo in direzioni opposte la
tensione che vi era implicita: Zenone
cioè approfondendo la problematica dellogos
nella sua crescente autono- mia, Melisso invece
sviluppando il tema dell'essere nella sua
assolutezza sostanziale. Zenone di Elea e un
ingegno acuto, sottile, e vigorosamente polemico.
Per gl’argomenti ideati a difesa dell'unità
(intesa come omogeneità e con- tinuità non
divisibile in parti) ed immobilità
dell'essere, e per il suo metodo di
discussione, Aristotele, che li discusse a
lungo nella “Fisica”, lo considera il
fondatore della dialettica. L'originalità del suo metodo consiste
nell'assumere a punto di partenza la
tesi da confutare e nel dedurne
rigorosamente tutte le logiche conseguenze,
per mostrarne la contraddittorietà e di
conseguenza l'assurdità della tesi. Si occupa
di politica e contribue notevolmente al
buon governo di Elea. Muore con
grande fierezza per aver cospirato contro
il tiranno della città (Nearco o
Diomedonte). Sullà sua fine si tramandano
vari particolari che ne confermano
l'eccezionale coraggio. I celebri argomenti di
Zenone a difesa della filosofia di
Parmenide mirano a provarci che, se la
negazione del movimento e della molteplicità
può a prima vista apparire assurda,
l'ammissione di essi conduce tuttavia ad
assurdità ancor più gravi, nascoste, ma
non risolte, dal linguaggio ordinario. Il
perno di tali argomenti consiste nella
dimostrazione che, sia nella nozione di
movimento, sia in quella di pluralità,
si annida il delicato concetto .di
infinito. Immaginiamo che un mobile debba
spostarsi da un estremo all'altro di
un I Ecco, per esempio, una versione
dei suoi ultimi istanti: « Antistene,
nelle Successioni, rac- conta che Zenone,
dopo aver denunziato come cospiratori gl’amici
del tiranno, fu da questi in- terrogato
se c'era qualche altro complice. Egli rispose:
" Tu, la rovina della città.
" E poi, rivolto ai presenti,
esclamò: "Mi meraviglio della vostra
viltà, se siete servi della tirannide
per timore di questo che ora io
sopporto." Da ultimo, mozza- tasi coi
denti la lingua, gliela sputò addosso.
I cittadini allora, incitati da questo
esempio abbatte- rono il tiranno. »dato
segmento: prima di aver percorso. tutto
il segmento, dovrà averne percorso la
metà; prima di questa, la metà della
metà, e cosl via all'infinito. In
modo ana- logo, se il «piè veloce»
Achille vuole raggiungere la lentissima
tartaruga, che lo precede di un
tratto s, egli dovrà percorrere: innanzi
tutto quella distanza s, poi il
tratto s' percorso dalla tartaruga mentre
Achille percorreva s, poi il tratto
s" percorso dalla tartaruga mentre
Achille percorreva s', e così via
all'infinito. Nel- l'un esempio come nell'altro,
il fatto- in apparenza semplicissimo - del mo-
vimento, si frantuma dunque in infiniti
moti, sia pure sempre più piccoli ma
non mai nulli. Proprio questa loro
infinità è causa di profonde difficoltà
concettuali, che non possono non rendere
perplesso qualsiasi uomo disposto al
ragionamento. Quanto all'argomentazione di Zenone
contro la molteplicità, essa si svolgeva
così: supponiamo che esistano due entità
A e B distinte; per il fatto di
essere distinte, queste due entità devono
risultare separate da uno spazio intermedio
C. Ma C è distinto tanto da A
quanto da B, e quindi esisteranno altri
d).le elementi D ed E che separano
rispettivamente C da A e da B,
ecc. Poiché ciò può venir ri- petuto
all'infinito, se ne conclude che l'ammissione
di due entità distinte conduce di
necessità all'ammissione di infinite entità.
Al fine di porre luce sulle
difficoltà logiche di quest'ammissione, Zenone
passava poi a dimostrare come, partendo da
essa, si debba giungere a negare l'esi-
stenza di qualsiasi lunghezza finita. Ed
infatti- così ragionava- se gli elementi che
costituiscono un segmento AB sono infiniti,
o essi sono nulli, o non sono
nulli; nel primo caso la lunghezza del
segmento non può essere che nulla (perché
la somma di infiniti zeri è zero); nel
secondo non può che essere infinita (per-
ché a suo parere la somma di
infinite quantità diverse da zero sarebbe
infinita). É ingiusto considerare questi
ragionamenti zenoniani
(e gli altri che, per brevità, siamo costretti a
tralasciare) quali semplici sofismi o pseudoragionamenti.
In realtà, essi attirano efficacemente la
nostra attenzione su talune gravissime
difficoltà dei due concetti di movimento
e di lunghezza, dovute all'inevitabile in- troduzione
dell'infinito, sia allorché si scompone un
intervallo di tempo (o il moto
attuantesi in qtJ.esto tempo), sia allorché
si scompone un segmento. Questi argomenti -
che venivano ad aggiungersi alle difficoltà
già ricordate nell'ultimo paragrafo del
capitolo III, connesse alla scoperta delle
grandezze incommensurabili - suscitarono presso i
greci una tale diffidenza nei confronti
dell'infinito, da persuaderli a compiere
qualunque sforzo pur di escludere tale
concetto- per lo meno nella forma di
« infinito attuale » 1 - da ogni seria
costru-I Si dice che una grandezza variabile
costi- tuisce un infinito potenziale quando, pur
as- s~mendo sempre valori finiti, essa può
crescere al di là ~i ?gni limite;
se per esempio immaginiamo di suddividere
un dato segmento con successivi di-
mezzamenti, il risultato ottenuto sarà un
infinito pot~nziale perché il numero delle
parti a cui per- ventamo, pur essendo
in ogni caso finito, può crescere ad
arbitrio. Si parla invece di infinito
attuale quando ci si riferisce ad un ben
determi- nato insieme, effettivamente costituito
di un nume- ro illimitato di elementi;
se per esempio immagi- niamo di avere
scomposto un segmento in tutti i suoi
punti, ci troveremo di fronte a un
infinito attuale perché non esiste alcun
numero finito che riesca a misurare
la totalità di questi punti. zione scientifica.
Oggi noi abbiamo imparato, con l'analisi
infinitesimale e con la teoria degli
insiemi, a trattare con disinvoltura
l'infinito matematico (sia l'infi- nito
potenziale sia quello attuale); proprio
perciò tuttavia ci rendiamo conto che
le difficoltà incontrate dai greci erano
effettive, non artificiose, e possiamo affer-
mare con piena consapevolezza che non
erano certo dovute a volgari errori
di logica, non erano dei « sofismi
» nel senso usuale del termine. Dal
punto di vista dell'eleatismo, il metodo
scelto da Zenone per difendere le
posizioni di Parmenide poneva tuttavia la
premessa di una loro crisi e di
un loro superamento. Lo spregiudicato uso
logico-matematico che egli faceva del logos
non si muoveva più sulla via di
una identificazione del logos stesso
all'essere, del riconoscimento di una
realtà scoperta dal pensiero ma in
cui il pensiero doveva confondersi; Zenone
poneva piuttosto le premesse per uno
svincolamento del discorso logico-matematico
dalla realtà, e lavorava quindi
oggettivamente alla rottura di quella unità
discorso-pensiero-essere che caratterizzava la
«vera via» proposta dal grande maestro
di Elea. La figura di Melisso è
assai diversa da quella di Zenone.
Nato a Samo quasi contemporaneamente a
Zenone, egli trascorse tutta la vita
nella propria isola, ove ricoprì importanti
cariche politico-militari. Basti ricordare che
fu capo della flotta con cui Samo
sconfisse gli ateniesi. La sua permanenza
a Samo co- stituì, in certo modo, il
ponte ideale attraverso cui l'insegnamento
eleatico per- venne dalla Magna Grecia
nell'Asia Minore. La lunga lotta fra
Mileto e Samo può del resto
contribuire a spiegare l'abban- dono melisseo
della tradizione ionica; una tradizione,
tuttavia, che continuò ad operare
indirettamente nel suo pensiero condizionando
in senso realistico la sua riforma
dell'eleatismo, in contrapposizione all'indirizzo
prevalentemente logico che quest'ultimo aveva
assunto in Zenone. Più che alla
difesa delle teorie del maestro, Melissa
si dedicò infatti al loro sviluppo e
alla loro integrazione. Abbandonatane l'iniziale
carica logico-verbale e metodica, Melissa
si propose una più coerente deduzione
dei caratteri sostanziali e antologici dell'essere.
Egli fu il primo ad insistere sul
suo carattere di unità, che rappresentava
più adeguata- mente in senso spaziale e
temporale la «totalità» dell'essere parmenideo,
e so- prattutto sulla sua infinità. Melissa
afferma in proposito che non è
possibile interpretarlo come sferico (per
le difficoltà accennate alla fine del
paragrafo n) bensì lo si deve
concepire come infinito o illimitato sia
nello spazio sia nel tempo. Per
analoghe ragioni egli negò che si potesse
ammettere,. nell'uno, una qualsiasi sofferenza
o dolore o altra passione, perché ciò
provocherebbe in lui una specie di
perturbazione e quindi ne diminuirebbe
l'unità e immobilità. Quest'ultimo argomento
sembra mostrare come Melissa, sulla traccia
della teologia di Senofane e della
tradizione ionica, dovette interpretare l
'unico essere come dotato di vita:
una vita, probabilmente, identica al
pensiero, secondo l'equa- zione parmenidea che
abbiamo già esposto. Secondo la tradizione,
Melissa avrebbeanche definito l'essere come
incorporeo, il che contrasta con la sua
infinita esten- sione spaziale e con la
negazione eleatica del vuoto : ciò
mette a nudo in realtà una profonda
contraddizione dell'eleatismo, che non poteva
concepire la realtà come puramente
intelligibile ed incorporea, ma tuttavia
tentava di attribuirle tutte le
caratteristiche di pura intelligibilità richieste
da un pensiero filosofico ormai maturo.
L'incorporeità dell'uno melisseo significava
dunque soltanto che esso era invisibile
e illimitato da qualsiasi forma o
corpo tangibile; e significava al tempo
stesso il portare al limite una
contraddizione già implicita in Parmenide
del cui superamento avrebbe grandemente
beneficiato il pensiero posteriore. L'avere reso
l'essere infinito nello spazio e nel
tempo impediva a Melissa di accettare
la bipartizione parmenidea tra realtà
atemporale e mondo sensibile temporale: a
quest'ultimo doveva venir negata qualunque
sia pur secondaria sussistenza, ed è infatti
alla negazione dell'esistenza e della
concepibilità delle cose sensibili che
Melissa dedica alcune delle sue
argomentazioni più suggestive. Perché una
cosa qualsiasi, egli dice, possa essere
conosciuta, pensata ed esistere, essa
dovrebbe essere sempre identica a se
stessa, assolutamet?-te immobile ed immuta- bile
nello spazio e nel tempo, giacché una
minima modificazione ne farebbe una cosa
diversa e così via all'infinito; dovrebbe
dunque avere le stesse caratteristiche
dell'uno. Proprio questo argomento, che egli
intendeva come una sfida contro il
pluralismo, sarebbe stato rovesciato e
raccolto dalla corrente estrema del plura-
lismo, quella atomistica: si può dire
infatti che l'atomismo attribuì alle sue
in- finite unità fisiche proprio tutte le
caratteristiche dell'uno melisseo, ad eccezione
dell'immobilità che non era più necessaria
dato il riconoscimento del vuoto. Con
Zenone e con Melissa, l'arco dell'eleatismo
si conclu<i.e così, sia sotto la
spinta di contrapposte esigenze logiche e
naturalistiche che esso aveva cercato di
stringere in una compatta unità, sia
per l'insorgere di problemi che esso stesso
aveva per la prima volta portato in
luce e chiarito, ma che non potevano essere
risolti nel suo ambito. L'eleatismo era
comunque destinato a restare una pietra
miliare nel pensiero greco, un imperativo
richiamo alla soluzione di alcuni fra
i più profondi problemi filosofici. La
sua importanza fu enorme anche nella
storia del pensiero scientifico, soprattutto -
come abbiamo più sopra spiegato - per
quanto riguarda l'affi- namento delle esigenze
logiche. Vale la pena ricordare le
parole con cui questo contributo degli
eleati è sottolineato in una recente,
autorevolissima, storia della matematica,
Eléments d' histoire des
mathématiques del gruppo Bourbaki: Il tenore degli scritti filosofici subisce un
brusco cambiamento : i filosofi affermano o
preconizzano (o tutt'al più abbozzano vaghi
ragionamenti, fondati su altrettanto vaghe
analogie), a partire da Parmenide e so-
prattutto da Zenone essi " argomentano
" e cercano di ricavare dei
principi generali che possano servire di
base alla loro dialettica: appunto in
Parmenide si trova la prima affermazione
del principio del " terzo escluso
"; e le dimostrazioni " per
assurdo " di Zenone di Elea sono
rimaste celebri. » Anzi, il richiamo so-
pra ricordato di Aristotele a Zenone
come fondatore della dialettica, sembra
appunto riferirsi all'attribuzione all'eleate
della scoperta e dell'impiego della
reductio ad impossibile in metafisica
(suggerito peraltro a Zenone, probabil- mente,
dall'impiego che di tale forma di
ragionamento veniva fatto dai mate- matici
pitagorici. Nato ad Agrigento intorno al49o
e morto verso H 430, Empedocle riassunse
nella propria vita tanto la ricchezza
di umori della sua terra natale,
quanto la grandezza e l'ambiguità del
suo pensiero. L'entusiasmo per la natura
e la varietà dei suoi fenomeni, il
profondo senso religioso che connetteva
uomini, dei e fysis in intimi legami;
la violenza delle passioni politiche,
l'ansia della salvezza e il senso del
tragico: di questi caratteri della Sicilia
greca Empedocle fu, prima che interprete,
pienamente partecipe. Capeggiò la fazione
democratica della sua città; esiliato nel
Peloponneso, si recò in seguito ad
assistere alla fondazione di Turi, dove
poté probabilmente incontrare Protagora, Erodoto
ed Ippodamo; non è da escludere un
suo contatto diretto con gli eleati.
Seguendo l'uso ar- caico, scrisse in versi;
uno dei suoi poemi, Sulla natura
(Perì Jjseos), trattava argo- menti cosmologici
e naturalistici, l'altro, le Puriftcazioni
(Katharmoi), aveva ca- ratteristiche spiccatamente
mistico-religiose. Il rapporto cronologico fra
queste opere e quelle di Melissa e
di Anassagora è incerto; sembra tuttavia
che egli le abbia composte prima di
quest'ultimo. La tensione fra i due aspetti
della perso- nalità di Empedocle - tuttavia,
come vedremo, profondamente interrelati - ap-
pare già dall'argomento dei suoi due
poemi; e si riflette in quanto ci
è noto della sua vita, pur attraverso
le molte leggende di cui fu ben
presto ammantata. Stu- dioso di fysis,
amava presentarsi come profeta e capo
religioso, e vagava per le città di
Sicilia seguito da turbe di seguaci
entusiasti; teorico di biologia e di micina
- anzi fondatore di una scuola di
medicina scientifica - si considerava però
guaritore e iatromante alla stregua di
Apollo, e vantava la capacità di ope-
rare miracoli; conoscitore attento ed
esperto delle technai, si atteggiava
tuttavia a mago. Interessante è il
caso del suo intervento a Selinunte:
la città soffriva di un'epidemia, dovuta
alle acque infette del suo fiume, che
veniva attribuita agli dei; accorsovi,
Empedocle risanò la città con incantagioni
e magia (di fatto rea- lizzando la
confluenza di altri due fiumi a monte
di Selinunte per purificare le acque del
primo). «Sciocchi! giacché non hanno
pensieri di larga veduta; essi credono
che possa nascere ciò che prima non
era o che qualcosa possa perire e
andar del tutto distrutta ... E
un'altra cosa ti dirò: non c'è nascita
alcuna di tutte le cose mortali, né
alcuna fine di morte funesta; ma solo
mescolanza e cangiamento di cose commiste,
e nascita si chiama fra gli uomini.
» In queste parole Empedocle esprime
limpidamente la misura della sua
accettazione dell'eleatismo e insieme le
prospettive della sua soluzione. L'impossibilità
che ciò che è derivi da ciò che
non è o vi si dissolva si
impone al filosofo di Girgenti come il
requisito fondamentale della realtà e della
pensabilità del mondo; e perciò egli
non può considerare se non come follia
il pensiero pre-eleatico. Tuttavia, proprio
in Melisso egli trovava la chiave del
riconoscimento della molteplicità del mondo;
giacché bastava riconoscere i caratteri dell'
«uno» melisseo -l'identità nello spazio e
la permanenza temporale - a un certo
numero di realtà distinte, perché da
esse si potesse dedurre l'intera varietà
del molteplice. Certo, tale soluzione
cozzava pur sempre contro gli imperativi
logico-metodici di Parmenide; ma, come si
è visto, Melisso aveva già avviato la
loro ontologizzazione, cioè la loro
trasformazione in realtà spazio-temporale: aveva
insomma avviato, nel linguaggio dell'epoca,
la trasformazione dell'essere in «pieno».
Da questa prospettiva melissea prendeva
propriamente le mosse Empedocle - come ha
messo in luce il Calogero - giacché
essa corrispondeva alla sua esigenza di
dar conto del mondo, nella sua
varietà quale si offre ai sensi,
nella sua segreta unità quale è colto
dall'anima, nella sua realtà cui il
pensiero non può rifiutarsi. Nel suo
presentarsi alla nostra osservazione, la
realtà appare indefinitamente diversa eppure
connessa da ritmi, da cicli, da
permanenze che ne formano la struttura
unitaria; così come accade per l'organismo
vivente, mutevole eppure uno, la realtà
appare un tessuto variegato di poche
sostanze semplici, un divenire scandito dal
ciclo delle stagioni, della generazione,
degli astri. Fedele per istinto alla
verità dell'osservazione, Empedocle concepiva
dunque il mondo come un organismo
unitario vivente e senziente, del quale
nessuna parte poteva venire arbitrariamente
amputata e tutte dovevano avere una
loro profonda giustifica- zione. Se questo
punto di vista ilozoico doveva trovare
una spiegazione non mitica, una più
universale razionalizzazione, occorreva infondervi
i requisiti melissei del vero; occorreva,
una volta reso molteplice l'« uno»,
trovare un'armonia tra questo vero
molteplice e la molteplicità dell'esperito.
Da questa esigenza nasce il sistema
cosmico di Empedocle, una delle più
potenti sintesi teoriche del pensiero
greco. Alla base del sistema stanno i
quattro elementi, o piuttosto « radici
» come li chiama Empedocle stesso con
un termine che meglio corrisponde alla
sua vi- sione vitalistica del mondo: la
terra, l'acqua, il fuoco, l'aria (o
meglio l'etere). Tali elementi non sono
nuovi nella filosofia presocratica: si
pensi all'acqua di Talete, al fuoco
di Eraclito e così via. In tutti
questi pensatori il processo era consistito
nell'assumere una zona dell'osservazione empirica
alla funzione pri- vilegiata di principio o
arché di .fJ'Sis; nel rendere quindi
assoluti alcuni dati dell'esperienza per
usarli come chiave di comprensione e
di spiegazione dell'e- sperienza nella sua
totalità. Identico è l'approccio fondamentale
di Empedocle: un'analisi dell'osservazione lo
porta a scoprire in ciò che è
osservato alcune costanti fondamentali, che
una volta generalizzate e rese assolute,
valgono a spiegare l'osservato - di cui
sono costituenti essenziali - e l'osservazione
stessa - di cui sono canoni
imprescindibili. Merito specifico di Empedocle
è tuttavia quello di aver isolato,
sia dall'osservazione diretta sia dalla
precedente riflessione naturalistica, tutte e
solo quelle costanti che potessero valere
da ra- dici, senza che si fosse
costretti, contro l'imperativo eleatico, a
postulare il mu- tamento di una radice
in qualcosa diverso da sé (come
avevano dovuto fare i monisti ionici),
né ad immaginarne un numero eccessivo,
che avrebbe ostacolato la semplificazione e
quindi la possibilità di comprensione
dell'esperienza. Ad ognuna delle quattro
radici Empedocle attribuiva dunque lo
status del- l'« uno» melisseo: l'infinità e
l'immutabilità nello spazio e nel tempo,
l'essere ingenerati e imperituri, e di
conseguenza l'assoluta realtà e intelligibilità.
Ciò non significava tuttavia negare la
realtà degli infiniti altri oggetti
dell'esperienza: ogni singolo ente è il
risultato di una mescolanza delle radici,
la sua nascita è la formazione della
mescolanza e la sua morte ne è
lo scioglimento; benché in tali mescolanze
le radici entrino sotto forma di
porzioni frazionali, neppure nella minima
di esse perdono alcuna delle loro proprietà.
L'individualità specifica di ogni composto gli
deriva dalla diversa proporzione dei
componenti (così ad esempio le ossa
sono formate da due parti di acqua,
due di terra, quattro di fuo- co; il
sangue dal miscuglio perfetto I :I :I
:I). Si è visto in questa dottrina
di Em- pedocle un'anticipazione della chimica,
il che può anche essere accettato
qualora non si dimentichi, però, che
le radici empedoclee non solo erano
concepite come viventi ma anche come
divinità creatrici, in stretto rapporto con
la cosmogonia orfica. Se le quattro
radici potevano spiegare, nel loro vario
comporsi, la molte- plicità del mondo, esse
non davano tuttavia conto del suo
infinito divenire, del formarsi e dello
sciogliersi dei composti; unificavano cioè
il reale in senso sin- cronico ma non
diacronico. Empedocle introdusse quindi altri
due principi, questpiù spiccatamente dinamici:
« amicizia» e « discordia». Come le
quattro radici rappresentavano una
generalizzazione dell'osservazione naturale, così
queste due «forze» rappresentano una
generalizzazione dell'esperienza psichica, e
perciò allargano a tale settore la
capacità di comprensione e di spiegazione
del sistema. Nel mondo di Empedocle
non era tuttavia pensabile una distinzione
radicale delle due sfere, come abbiamo
osservato in sede introduttiva, ma
piuttosto una diversa funzionalità della
medesima realtà: come le radici sono
a loro volta viventi, così « amicizia
» e « discordia » sono coestese
e coeterne ad esse, e dunque non
meno di esse «reali». «Amicizia·»
simbolizza nel sistema l'attrazione del
dissimile, cioè l'impulso che spinge le
diverse radici a fondersi reciprocamente dando
luogo a composti sempre più stabili;
«discordia» rappresenta invece l'attrazione del
si- mile, cioè la forza che spinge
ogni radice a restare coesa a se
stessa, sciogliendo qualsi.asi composto. Questi
due principi sono stati interpretati come
cause in senso aristotelico e anche,
modernamente, come le forze elettromagnetiche
di attrazione e repulsione. Benché anche
questi siano possibili sviluppi del
pensiero empedocleo, va ribadito che nel
suo quadro «amicizia» e « discordia»
rappre- sentavano soprattutto le funzioni
essenziali di una realtà vivente, in
cui causa e causato, forza e materia
non potevano essere distinte se non
in modo simbolico, non erano che
aspetti profondamente connessi di un unico
mondo; mentre poi esse rappresentavano
l'aggancio più immediato, come vedremo,
alle vedute religiose e morali, che a
quel mondo non potevano certo essere
eterogenee. Funzione primaria delle forze
nel sistema era comunque quella di
promuovere il divenire. Poiché tale
divenire non poteva dar luogo ad
alcun mutamento dei suoi contenuti
fondamentali, secondo il divieto eleatico,
esso non poteva pre- sentarsi che come
ciclo: solo nel ciclo si dà infatti
ripetizione perpetua dei me- desimi eventi e
delle medesime strutture, solo il ciclo
concilia le sembianze del divenire
(l'esperienza umana non può carpirne che
una piccola frazione e ha dunque
l'impressione del mutamento) con la verità
del permanere, rivelata a chi penetri
nell'intimo della natura. Nel periodo
cosmico di assoluta prevalenza di «amicizia»,
ognuna delle radici è così strettamente
congiunta alle altre che nessun singolo
ente sussiste di per sé: «Non v'è
discordia né infausta contesa nelle sue
membra ... Non più si distinguono in
esso le agili membra del sole, né
la forza villosa della terra, né il
mare, tanto fortemente sta legato nei
fitti segreti del- l'armonia, d'ogni parte
uguale e per tutto infinito," sfero "rotondo
che gode della sua solitudine circolare.
» Nello « sfero » è facile
individuare l'« uno» eleatico, non tuttavia
visto come unico possibile assetto della
realtà, ma conquistato dalla vittoria di
un'armonia di schietta derivazione pitagorica;
qui emerge anche il valore religioso
e morale di «amicizia», che significa
concordia e pace nel cosmo e fra gli
uomini. Agli antipodi sta il trionfo di «
discordia», che vede ognuna delle radici
ritratta in se stessa e ostile alle
altre, il che parimenti significa la
fine del mondo quale noi lo esperiamo
e comporta la negazione dei valori
etico-religiosiFra i due opposti regni, stanno
le vaste regioni in cui «discordia» viene
prevalendo su «amicizia», e quindi scioglie
le radici dal loro complesso senza tuttavia
contrap- porle del tutto; qui si situa
una prima generazione del molteplice; e
l'altra dove «amicizia» si a.dopera a
ricomporre l'unità senza poter ancora
scacciare del tutto «discordia», sicché il
processo di unificazione è ancora frammentato
in una mol- teplicità di enti: ed è
questa la seconda generazione del mondo
che noi osser- viamo. Va detto che
mentre il ciclo nel suo insieme è
determinato dalla neces- sità (ananke), la
formazione dei singoli composti è affidata
al caso (ryche) e che quindi la
natura che noi esperiamo consta della
sintesi di necessità e di caso.
Questa veduta è importante per la
comprensione di molte posizioni della
scienza naturale greca. Come si articoli
concretamente il ciclo nelle due fasi
intermedie è mostrato più chiaramente da
Empedocle a proposito degli organismi
viventi, cui andava il suo prevalente
interesse (non a caso è possibile
paragonare l'intera vita cosmica alle
sistole e diastole del cuore, e lo «
sfero » appare assai vicino all'«
uovo » origi- nario presente nel culto
orfico ). All'inizio del ciclo di «amicizia»,
in un mondo ancora dominato da «
discordia», si venivano formando membra ed
arti separati: « Sulla terra spuntarono
teste senza colli, ed erravano braccia
nude prive di spal- le, vagavano occhi
soli sprovvisti di fronti»; poi queste
membra si congiungono a caso dando
luogo a mostri d'ogni specie: «e
molti esseri nascere con doppie facce
e petti, e buoi con facce d'uomini, o
invece sorgere busti umani con teste
bovine, e forme miste di maschi e
di femmine, provviste di membra villose.
» Ma la gran parte di queste
forme viventi perivano, sopravvivendo solo quelle
più adatte alle condizioni di vita
perché meglio organizzate nella propria strut-
tura. È interessante notare che in
questo processo è assente qualsiasi idea
di finalismo preordinato; i viventi si
aggregano a caso, ed è la selezione
naturale che decide della sopravvivenza di
alcuni di essi. Nell'opposto processo di
«di- scordia», che viene disgregando l'unità
cui «amicizia» era finalmente giunta, si
formano dapprima creature complete, omogenee;
ma una separazione successiva dà luogo
alle creature del mondo in cui
viviamo, differenziate per sessi e per
la prevalenza in esse di una delle
radici (così nella costituzione dei pesci
prevale l'acqua, ecc.). Abbiamo già visto
come la struttura del nostro organismo
fosse interpretata da Empedocle mediante la
composizione delle radici in diverse
proporzioni. A spiegare la compenetrazione
reciproca delle radici, e i maggiori
fenomeni vitali, quali la respirazione 1
e il movimento del sangue, Empedocle
concepiva I Il resoconto della respirazione
va ripor- tato per la sua originalità
e tipicità. Il sangue si muove entro
pori i cui fori terminali sono abba-
stanza piccoli da non permettergli di
fuoriuscire, sufficienti però per lasciar
entrare l 'aria nel corpo. !utta la
spiegazione è costruita per analogia con
ti funzionamento della clessidra o pipetta
per il travaso dei liquidi da un
recipiente all'altro. Al- lorché il sangue
si ritrae dai pori, esso attira
l'aria che irrompe nel vuoto così
formatosi: si ha così l'inspirazione.
Quando il sangue torna ad af- fluire,
esso espelle l'aria dando luogo all'espira- zione
l'organismo come percorso da una fitta
rete di pori o canaletti (una teoria
in parte derivata da Alcmeone), la cui
struttura e le cui dimensioni giocavano
altresì una parte importante nel meccanismo
della sensazione. Esso è spiegato dal
filosofo di Agrigento mediante gli efflussi
materiali che ogni corpo emette e
che, giungendo a contatto del senziente,
possono o meno penetrare attraverso i
pori nel suo organismo a seconda
delle reciproche dimen- sioni; g~i efflussi sono
determinati dall'attrazione del simile, che
spinge le radici a ricongiungersi
attraverso la varietà dei singoli enti.
La spiegazione è da un lato meccanicistica,
dall'altro vitalistica perché appunto fondata
sull'intrinseca «ani- mazione » del corporeo;
di conseguenza Empedocle attribuiva la
sensazione, sia pure in gradi diversi,
a qualsiasi ente, perché ognuno, anche
quelli ai nostri occhi inanimati, era
in qualche misura partecipe della grande
vita del cosmo. Il pensiero non è
per Empedocle qualitativamente diverso dalla
sensazione. Contro le scoperte alcmeoniche, ed
introducendo una veduta destinata ad eserci-
tare profonda influenza, egli pose la
sede del pensiero e dell'attività razionale
nel sangue, esattamente in quello più puro,
prossimo al cuore che ne è la fonte.
Poiché il sangue, come si è visto,
consta di una mescolanza perfetta delle
radici, esso è il più atto a
riflettere la struttura del mondo,
essendole più omogeneo. Non v'è ovviamente
per Empedocle opposizione tra pensiero e
sensi, giacché entrambi convogliano, con
meccanismi fondamentalmente analoghi, il messaggio
profondo di una natura che non può
essere fallace in alcuna delle sue
manifestazioni. Poiché l'uomo è omogeneo al
mondo, la verità della sua conoscenza
del mondo non di- pende né dai metodi
né dai linguaggi che egli impiega; in
tal senso, sparisce il problema della
«via» parmenidea e del suo sempre
difficile rapporto con il reale. L'uomo è
generato dalle stesse radici e animato
dalle stesse forze che generano e animano
il mondo nella sua totalità; egli
riflette il mondo in se stesso, lo
« com- prende» proprio perché ne ritrova
dentro di sé l'immagine rimpicciolita. Il
san- gue è pensiero perché il sangue è
principio vitale e secondo Empedocle conoscere è
propriamente vivere fino in fondo la
vita dell'universo, sperimentarne la molte-
plicità e l'unità, l'eternità ciclica, gli
intimi legami che tutto quanto lo
connettono. Sparita così la tensione tra
vero e reale, tra uomo e mondo, tra
mondo e divi- nità, sparisce anche la
presunta contraddizione tra i due aspetti
della personalità di Empedocle, quello «
fisico » e quello « magico ». Ragione
e mito non sono che due forme di
un identico conoscere, due funzioni di
un'unica realtà. La conoscenza razionale è esposizione
discorsiva ed analitica della molteplidtà
del mondo quale essa risulta dall'azione
di« discordia?> e ci è rivelata dai
sensi; ma il suo scopo è quello
di rivelarci la verità di questa
molteplicità dando conto dell'unità che la
informa e della necessità che la
domina. D'altra parte, la conoscenza mitica
è penetrazione intensiva di questa unità e
necessità, è il porsi per così dire dal
punto di vista dello « sfero »
che simbolizza l'unità da un punto di
vista sia fisico, sia religioso, sia
morale; è drammatica consapevolezza, tuttavia,
della necessità del ci-do e dd
molteplice, nel loro decadere dall'età
aurea e nel loro fatale tornarvi. 1 Di
qui le « purificazioni », di qui
la dottrina pitagorizzante della metempsicosi
che adegua la sorte dell'anima al
ciclo cosmico. E la via alla
purificazione etico-reli- giosa è ancora una
volta, per Empedocle, quella di vivere fino
in fondo la vicenda -per il singolo uomo,
il dramma- dell'uno e dei molti, del tempo
e dell'eterno, della necessità e del caso;
la via della purificazione è quella che
conduce nel cuore profondo della natura
che sola giustifica l'uomo e il suo
destino, che sola gli. concede conoscenza
e potenza nel tempo, salvazione
nell'eternità. Sicché la leg- genda della
morte del filosofo sparito nella voragine dell'Etna
bene esprime, sotto questo aspetto, la
vocazione del pensiero empedocleo. Si
intende così anche il senso dell'ambiguo
atteggiamento di Empedocle verso le
technai, e del suo interesse profondo per
quelle che consentissero un immediato
controllo della natura (la. medicina, le
tecniche manifatturiere, la fisica; mentre
la matematica gli doveva sembrare
irrimediabilmente lontana dal mondo della
vita e quindi sterile). Non v'è nulla
di più ingiusto dell'immagine trasmessaci dalla
tradizione di un Empedocle abile medico
e tecnologo che ciarlatanescamente am- mantava
di magia i suoi successi per
guadagnarne in prestigio. In realtà, l'oppo-
sizione fra technai e magia sarebbe
sembrata assurda ai suoi occhi. Al
culmine della sua capacità di penetrazione e
di controllo, la techne aderisce così
compiutamente all'intima vita del mondo da
diventarne, dall'interno, una forza agente:
il «mi- racolo» è una possibilità di
fysis che techne porta alla luce (non
troppo diverse dovevano essere le vedute
degli alchimisti rinascimentali). Techne si
situa dunque al crocevia di conoscenza
razionale-discorsiva e conoscenza mitico-intensiva;
come il problema del rapporto tra
uomo e mondo, tra conoscenza e realtà
s'era tendenzialmente annullato nell'unità della vita del cosmo,
così a techne, allorché muova dalla
consapevolezza della struttura del reale, basta foggiarsi via via
ad immagine e simiglianza della natura per poter
penetrare sempre più profonda- mente in
essa, per paterne acquisire un sempre
maggiore controllo. Disvelandosi all'osservazione
dell'uomo, la natura gli aveva donato
la conoscenza; offrendosi ad una techne
che ne sappia comprendere i segreti,
essa gli concede l'accesso alla potenza:
sicché alla fine, nel volgere del
ciclo, l 'uomo diviene « profeta,
bardo, medico e principe », pari agli
dei immortali, come Empedocle proclamava di
se stesso. Data la natura della
conoscenza e delle technai, è chiaro come
per il filosofo di 1 «V'è un oracolo
del fato, antico decreto degli dei,
suggellato da larghi giuramenti: se mai
alcuno dei demoni (anime) che ebbero
in sorte lunga vita, macchi le sue
membra di sangue col- pevole, o seguendo la
"discordia" empio spergiuri, vada
errando tre volte diecimila anni !ungi
dai beati, nascendo nel corso del
tempo sotto tutte le forme mortali,
permutando i penosi sentieri della vita
... Uno di essi sono anch'io,
fuggiasco dagli dei ed errante, perché fidai
nella folle "di- scordia" ... Da
quale onore e da quale ampiezza di
felicità, così bandito mi aggiro fra i
mortali! » (La traduzione di questi
frammenti, come di quasi tutti quelli
empedoclei citati, è del Mondolfo.) Ma
v'è la via del ritorno: « Ma
alla fine essi vengono sulla terra
fra gli uomini come profeti, bardi, me-
dici e principi, e poi assurgono al
rango di dei degni d'onore ... Io
vengo nelle vostre città quale un dio
eterno, non certo mortale, coperto d'ogni
onore. Agrigento non si ponesse il problema
della logica e del metodo. Il metodo
che egli in effetti usa va era
essenzialmente analogico: acute inferenze
dall'osservazione quotidiana, sia biologica (il
palpito del cuore, lo sviluppo dell'uovo,
il meccani- smo della respirazione), sia
fisica 1 (la riflessione, l'evaporazione, il
ciclo stagiona- le), sia tecnica (il
travaso dei liquidi, la manifattura dei
vasi, la miscelazione dei colori), gli
offrivano lo spunto per audaci
generalizzazioni cosmiche. Tuttavia ai suoi
occhi queste estensioni non avevano nulla
di arbitrario, basate com'erano sulla
certezza di una fondamentale unità e
significatività di tutte le manifestazioni
della natura (una certezza, come abbiamo
visto all'inizio, a sua volta ricavata
dall'esperienza immediata, sia sensoriale sia
psichica). Allo stesso modo, l'espres- sione
linguistica di Empedocle non poteva che
tentare di riprodurre, grazie ad una
poesia potentemente sintetica e visualizzante, la
vita del mondo nella sua ricchezza;
anche qui, l'immagine poetica (la
trasvalutazione delle radici in divinità o
in «membra» del mondo, l'affiorare ovunque
dello psichico, del vivente, dell'orga- nico)
riposava sulla profonda verità che per
questa via si tentava di rivelare.
Tale dunque la risposta empedoclea al
nodo di problemi che si sono esposti
in sede introduttiva: una delle più
grandiose sintesi mai elaborate dal
pensiero greco ed anche una delle più
affascinanti ipotesi scientifiche. Il rischio
che Empe- docle si assumeva era d'altro
canto totale quanto il suo sistema: o
quest'ultimo si rivelava davvero capace di
spiegare l'intero universo, o sarebbe
crollato tutto quanto, perché l'agrigentino
non offriva - né, date le sue
premesse, avrebbe potuto farlo - alcuna
regola di pensiero e di metodo
esterna al sistema ed atta a
modificarlo, a criticarlo, a renderlo più
comprensivo. La potenza del genio di
Empedocle, in tutta la sua ambiguità,
si esercitò sul pensiero greco ed
oltre; e « dinanzi a lui, » ha
osservato il Bignone, « le prospettive
del mondo greco si scompongono stranamente:
è già un antico rispetto a Tucidide,
che è di pochi lu- stri più giovane
di lui; e sarà, dopo più secoli,
quasi un contemporaneo rispetto a Platino
e Porfirio ». Subito rifiutato dal
miglior pensiero filosofico-scientifico del v
secolo, da Anassagora ad Ippocrate, che
vedeva nel dogmatismo dell'esperienza, nel
vitali- smo mistico, nel rifiuto di ogni
strumento razionale di tipo logico-metodologico
il più mortale pericolo per un libero
progresso della ricerca, il sistema di Empedo-
cle apparve tuttavia a lungo come
l'unico che potesse garantire una sicura
base speculativa alle scienze nascenti,
dalla biologia alla fisica, l'unico che
ne assicurasse l'universalità. Così all'inizio
del rv secolo la dottrina dei quattro
elementi, la con- cezione organicistica
dell'universo (che presto significò anche
visione finalistica), il prevalere della
qualità sulla quantità, finirono per
trionfare della scienza ionica e passarono
in gran parte al platonismo del
Timeo, all'aristotelismo, alla medicina I
Il sole è il luogo dove l'emisfero
terrestre, che agisce come una lente,
riflette e concentra il fuoco emesso
dall'emisfero etereo; il mare è il
«sudore» della terra: sotto l'azione del
calore; la terra stessa è stata
disseccata dal calore al pari di un
vaso d'argilla; e così via. siciliana di
Filistione. Tramite questi canali, e sia
pure con aggiustamenti progres- sivi, tali
vedute percorsero un lunghissimo cammino,
fino ad affacciarsi al rinasci- mento e
alle soglie dell'età moderna. Qui tornarono
a scontrarsi con il meccanici- smo di tipo
democriteo, e risultarono questa volta
soccombenti senza però lasciar del tutto il
passo. Poco sappiamo della vita di
Filolao: nato a Crotone attorno alla
metà del v secolo, e ivi formatosi in
ambiente pitagorico, egli si trasferì a
Te be dove sul finire del secolo
lo troviamo a capo di una fiorente
scuola pitagorica, in rapporto con il
gruppo socratico-platonico ad Atene. Questa
presenza di Filolao a Tebe, congiun-
tamente all'esilio peloponnesiaco di Empedocle,
ci rivela un rifluire della filosofia
italica nella madrepatria greca, localizzato
non a caso nelle poleis che combattevano
Atene nella guerra del Peloponneso: il
pensiero ionico-attico si trovava così in
qualche modo circondato non meno di
quanto lo fosse, in senso
politico-militare, la sua metropoli. Come
abbiamo già avvertito, i frammenti di
Filolao sono stati a lungo con- testati
per vari motivi filologici, alla cui
base stava tuttavia la constatazione che
essi anticipavano un importante aspetto del
platonismo, e dunque la preoccu- pazione
che questo potesse risultarne sminuito
nella sua originalità. L'autenticità dei
frammenti è stata per fortuna rivendicata
dal Mondolfo e dalla Timpanaro- Cardini; ed
è chiaro, secondo una più corretta
visione storiografica, che il genio di
Platone risulta tutt'altro che diminuito
dalla consapevolezza che egli seppe fondere
in una sintesi critica gran parte dei
risultati del pensiero filosofico-scienti- fico
del v secolo, pur conferendo ad essi
la propria originalissima impronta. D'al- tra
parte, già questa considerazione impone di
dare alla figura di Filolao il posto
che gli compete fra i protagonisti della
filosofia preplatonica. Il problema centrale
di Filolao è analogo a quello di
Empedocle, ma i suoi punti di
riferimento speculativi sono meglio definiti, e
il suo approccio alla realtà è più
chiaramente delimitato dall'eredità pitagorica di
cui egli si faceva portatore. Certo, il
pitagorismo originario era stato travolto,
in campo matematico, dalla crisi degli
irrazionali, in campo fisico-filosofico, dalla
critica parmenidea al molte- plice e dalla
sua incapacità a soddisfare i nuovi
requisiti logico-metodici. Vedremo all'inizio del
capitolo xn come si svolse, attraverso
il v secolo e fino ad Archita,
il processo ricostruttivo delle matematiche
pitagoriche, al quale Filolao stesso diede
un importante contributo. Qui ci interessa
piuttosto il suo sforzo di ricostruzione
del pitagorismo come sistema globale del
mondo, compiuto innestando sul tronco di
quella tradizione la più matura
consapevolezza posteleatica. Si trattava
innanzitutto di salvare entrambi i termini
della diade costitutiva di uno e
molteplice, di limite e illimitato, dove
il primo termine assicurava la verità e l'intelligibilità
del secondo ma dove il secondo
garantiva l'estensibilità del primo al
mondo del reale, la sua presa
sull'esperienza, conferendogli quindi una
concretezza e una funzionalità sepza le
quali esso sarebbe stato confinato alla
sfera delle aspirazioni etico-religiose. Ma
non bastava più, dopo Parmenide, con- trapporre
la serie dell'uno e del limite alla
serie dei molti e dell'illimitato; giac-
ché su quest'ultima sarebbe poi gravata
la dichiarazione di assurdità e di
irrealtà, che avrebbe vanificato la
tensione insita nella diade. Il problema
di Filolao era dunque quello di
calare il principio di unificazione e di
verità profondamente all'interno della struttura
molteplice dell'esperienza, in modo da
garantirne con ciò stesso la realtà;
era di trasformare i termini della
diade in modalità e struttura intima
di un unico mondo, di cui essi
potessero dar conto nella sua to- talità.
La chiave più ovvia per la soluzione
del problema era, agli occhi di
Filolao, quella offerta dal numero.
Generato dall' «uno», e governato da leggi
che sempre all' «uno» potevano riportarsi
senza contraddizione, il numero era
tuttavia atto a fungere da limite al
molteplice perché ne rifletteva in sé
la struttura; ma la riflet- teva in
modo tale da renderla omogenea all'«
uno» e alla sua legge. Si consideri
ad esempio la decade (il numero
dieci): secondo l'analisi di Filolao, essa
comprende in sé tutti i possibili rapporti
aritmo-geometriciche si originano a partire dall'unità
ed è perciò stesso atta a comprendere
e ad organizzare il molteplice.! Ma
Filolao non poteva più arrestarsi alla
generica veduta pitagorica del nu- mero
come natura delle cose. Occorreva che
fosse davvero possibile, leggendo il libro
della natura, scoprirne i caratteri
aritmo-geometrici; da un punto di vista
complementare, occorreva dare una più
precisa dimensione spaziale al numero e
concretarla di una sussistenza corporea.
Perciò, partendo dall'assioma aritmo-geo- metrico secondo
cui l 'unità rappresenta il punto, il due
la linea, il tre la superficie, il quattro
il solido, Filolao diede un impulso
originale e deciso alla geometria so- lida,
giungendo a costruire un certo numero di
figure semplici che si potevano age- volmente
riportare alle modalità fondamentali dei numeri.
Queste figure si assicu- ravano una prima
realizzazione grazie alla loro applicabilità ai
movimenti e alla con- figurazione degli astri, e,
tramite l'astrologia pitagorica, allo stesso
assetto del divino. x Più efficaci di
ogni spiegazione critica sono le parole
di Filolao sulla decade: «L'essenza e
le opere del numero devono essere
giudicate in rap- porto alla potenza insita
nella decade; grande è in- fatti la
potenza (del numero) e tutto opera e
com- pie, principio e guida della vita
divina e celeste e di quella umana,
in quanto partecipa della po- tenza della
decade; senza questa, tutto sarebbe in-
terminato, incerto ed oscuro. Conoscitiva è
la na- tura del numero, e direttrice e
maestra per ognuno, in ogni cosa che
gli sia dubbia o sconosciuta. Per- ciò
nessuna delle cose sarebbe chiara ad
alcuno, né per se stessa, né in
rapporto alle altre, se non ci fosse
il numero e la sua essenza. Ora
questo, 74 armonizzando tutte le cose
con la sensazione nel- l'interno dell'anima,
le rende conoscibili e tra loro
commensurabili secondo la natura dello
gnomone, in quanto compone o scompone
i singoli termini delle cose, così
delle interminate come delle ter- minanti.
Né solo nei fatti demonici e divini
tu puoi vedere la natura del numero e
la sua potenza dominatrice, ma anche in
tutte, e sempre, le opere e parole
umane, sia che riguardino le attività
tecniche in generale, sia propriamente la
musica» (trad. Timpanaro-Cardini). Da varie
testimo- nianze risultano le ingegnose deduzioni
di natura sia aritmetica e geometrica,
sia fisica, dalle quali Filolao traeva
conferma al dominio della decade. A questo
punto tuttavia Filolao avvertiva l'esigenza
di una semplificazione del mondo fisico
che era assente nella tradizione
pitagorica, e riconosceva nel si- stema
empedocleo il più potente strumento in
questo senso. È propriamente nel- l'assunzione
che ne fece Filolao che le radici
di Empedocle si trasformarono in
«elementi», avulsi ormai dalla vita del
cosmo ed inseriti su di una più
fredda strut- tura numerico-geometrica. Nei
quattro elementi, infatti, e nello «
sfero » che li riassumeva, Filolao
vide il veicolo ideale per la
conquista del mondo fisico da parte
dei suoi solidi geometrici. Per via
analogica, il cubo trovò il suo equivalente
nella terra; il tetraedro nel fuoco;
l'ottaedro nell'aria; l'icosaedro nell'acqua; il
dodecaedro, infine, nello « sfero ».
Da un altro punto di vista, ciò
equivale a dire che gli elementi
trovarono il proprio limite, la propria
forma, la propria armonia, infine la
propria razionalità nelle rispettive figure.
I molteplici oggetti dell'espe- rienza e le
loro mutazioni si presentavano ormai come
aggregati degli elementi e dunque come
composizione di forme geometriche semplici;
ma, imbrigliati dal limite, armonizzati
dalla figura, il loro variare nulla
più aveva di misterioso o di
irrazionale, sempre riconducibile com'era, sia
pure per vie complesse e non tutte
esplorate, alla legge del numero. Filolao
giungeva dunque a modificare così l
'assioma pitagorico che i numeri sono
le cose: « Tutte le cose hanno un
numero; senza questo, nulla sarebbe
possibile pensare, né conoscere. » Le
cose hanno un numero perché, come in
un universo cristallografico, hanno una
figura-forma che le delimita e che è
riconducibile a rapporti numerici; 1 e
perché sono inserite in un'armonia cosmica
che ne ritma il divenire e che
è anch'essa riconducibile al rapporto
(logos) numerico. Nel frammento che abbiamo
ora citato Filolao compie un'altra
fondamentale deduzione: poiché la nostra
conoscenza, se vuol essere ve- ra, non
può che muoversi dall'« uno» e seguirne la
legge, poiché il nostro pensiero non
può che essere -e di fatto, nella
tradizione pitagorica, è -logos mathematikòs,
ecco che il numero instaura la sua
suprema armonia fra pensiero e realtà, fra
uomo e mondo; ecco che il linguaggio
dell'uomo è identico al linguaggio di
fysis, e basterà affinarlo nel medesimo
senso per decifrare fysis tutta intiera.
Così egli ristrutturava il pitagorismo in
modo da adeguarlo alle esigenze
posteleatiche e insieme ne allargava
l'orizzonte fino a includervi le necessità
di spiegazione naturalistica. Più rigoroso,
sebbene meno ricco di quello empedo- cleo,
il suo sistema si prestava a
brillanti deduzioni cosmologiche, ma, posto
a confronto con i problemi del
significato e della vita, era spesso
costretto a sce- I È interessante a
questo proposito la fi- gura di Eurito,
un pitagorico del v secolo spesso
associato a Filolao. Eurito era famoso
fra i suoi contemporanei perché, assegnato
a qualsiasi og- getto reale un determinato
numero (non sappiamo come lo ottenesse),
egli dimostrava in un modo caratteristico
la necessità naturale del rapporto fra
l'uno e l'altro: si provvedeva di un
pari numero di sassolini, tracciava la
figura dell'oggetto in que- stione e
incastr11va lungo il suo perimetro tali
75 sassolini (il numero atto a
definire la figura del- l'uomo era per
esempio 250). Variando le dimen- sioni
dell'oggetto, il numero di sassolini, che
ne esprimevano i rapporti essenziali, non
cambiava. In tal modo Eurito voleva
stabilire visivamente la relazione, tipica
anche del pensiero di Filolao, tra numero
e forma limitante gli enti reali: il
nu- mero, tradotto in forma, era quindi il
principio di individuazione e anche di
intelligibilità della na· tura. gliere la
via del superamento mistico alla maniera
del primo pitagorismo; oscil- lazione
riconoscibile lungo tutto l'arco della
riflessione naturalistica di Filolao. L'«
uno», ipostatizzato fisicamente nel «fuoco»,
sta al centro del cosmo; dal suo
rapporto con l 'infinito circostante- un rapporto
paragona bile al processo del- la inspirazione ed
espirazione - si è generato tutto quanto il
cosmo, che, come ab- biamo visto, consta
di una sintesi inscindibile di « uno
» e molti, di limitante e illi- mitato.
Rinnovando la meccanica celeste della
tradizione pitagorica, spinto a un tempo
dall'esigenza astronomica di spiegare le
eclissi e da quella mistica di asse-
gnare all'« uno-fuoco» il posto centrale
dell'universo, Filolao fece audacemente della
Terra un pianeta eccentrico e mobile
come gli altri, anticipando così di se-
coli la veduta di Aristarco. La
medesima ambiguità si riscontra nell'ipotesi
di un decimo pianeta, l' Antiterra,
in aggiunta ai nove conosciuti: si
trattava, da un lato, di costruire un
modello di meccanica celeste atto a
spiegare fenomeni quali la maggior
frequenza, in uno stesso luogo, delle
eclissi di luna rispetto a quelle di
sole; e, dall'altro, di trovare un
'ulteriore conferma al valore universale
della decade. Analogamente ad Empedocle,
Filolao riteneva poi il sole percepito
dai nostri sensi un semplice riflesso
focalizzato del «fuoco » centrale. Filolao
fu anche attento cultore di biologia e
di medicina: operando nel solco della
tradizione alcmeonica, egli accoglieva da
un lato alcune posizioni del sistema
vitalistico di Empedocle, dall'altro, grazie
proprio a quella tradizione, appariva più
vicino all'empirismo esprimentesi nella medicina
cnidia; né poteva riuscirgli agevole la
trasposizione dei punti di vista
aritmo-geometrici al campo della vita.
Proprio per questa complessità di
approccio, appaiono nel filosofo di Crotone
germi interessanti di teoria medica; essi
passeranno in Platone e in alcune
opere del Corpus hippocraticum, e per
un altro verso nella scuola siciliana
di medicina, ma non troveranno una
diretta continuazione per il progressivo
abbandono, da parte del successivo
pitagorismo, delle ricerche più propriamente
naturalistiche. Un primo movimento analogico
permette a Filolao di ravvisare nel ritmo
della vita organica una stretta affinità
cosmogonica. Principio costitutivo della vita è
lo sperma, il calore originario; principio
del corpo è dunque il calore, così
come il «fuoco» lo era del cosmo.
D'altra parte la respirazione introduce nel
corpo l'ele- mento freddo necessario ad
equilibrare tale calore, proprio come
l'inalazione del- l'illimitato circostante da
parte dell'« uno» originava l'universo. Gli
stessi organi principali del corpo sono
racchiusi in uno schema quaternario analogo
a quello degli elementi, ed essi sono
visti come rispettivamente egemonici nelle
varie classi di viventi. Il cervello,
cui corrisponde il pensiero, è così
egemonico nel- l'uomo (qui è chiara
l'eredità alcmeonica); il cuore, cui
corrisponde il principio della vita
sensibile, è egemonico negli animali
(prevalendo qui l'ispirazione empe- doclea); l'ombelico,
che presiede alla crescita dell'embrione e
alla vita vegetati va, contrassegna la
classe delle piante; i genitali, infine,
da cui proviene il seme fecon- dante, individuano
tutti i viventi in quanto tali. In
senso più propriamente medicFilolao costruì
un'eziologia in cui i maggiori agenti
patogeni, di derivazione cni- dia, erano la
bile (vista come siero delle carni),
il sangue e il flegma o catarro che
si originava dalle urine ed era
comunque il prodotto di una infiammazione.
I fattori scatenanti i processi morbosi
erano poi ravvisati, alla stregua della dottrina
alcmeonica, nell'eccesso o nella scarsità
di alimenti, di esercizio fisico, dei
fattori ambientali necessari alla vita
dell'uomo. La teoria dell'anima era in
Filolao strettamente connessa alla concezione
del- l'organismo: l'anima rappresentava infatti
da un lato il respiro vitale, il
principio di refrigerazione che temperava
il calore corporeo e dava luogo alla
vita; dall'al- tro essa era l'armonia che
scaturiva dalla tensione degli opposti elementi
fisici - come dalle corde di uno strumento
musicale - e li teneva connessi nel
miracoloso equilibrio della vita. L'anima
era dunque la presenza dell'armonia
universale nel corpo vivente, e d'altro
canto l'espressione intrinseca dei diversi
fattori che si componevano armonicamente a
dar luogo alla vita stessa. Così
strettamente legata all'equilibrio transeunte
della vita organica, l'anima individuale
non poteva sopravvivere al dissolversi
nella morte degli elementi corporei che essa
armo- nizzava; ancora una volta, per
giustificarne l'immortalità secondo il dettame
pitagorico, Filolao era costretto ad un
trascendimento religioso della propria dottrina.
Al contrario di Empedocle, Filolao veniva
così offrendo al pensiero sia filo- sofico
sia tecnico-scientifico uno strumento d'indagine
dotato di una enorme po- tenzialità: quello
cioè dell'analisi formale e modale della
realtà, e della sua tradu- zione nei
termini della logica aritmo-geometrica. In
questo senso, era fondamentale il suo
apporto allo sviluppo della matema- tica,
che poteva ormai procedere sulla via della
specializzazione arricchita della certezza che
qualsiasi sua scoperta avrebbe comportato
oggettivamente una più vasta e profonda
comprensione della realtà, avrebbe comunque
rivestito un signi- ficato universale. E
parimenti fondamentale - anche se destinato
ad un meno im- mediato successo - era il
suo contributo alla fisica, che per
la via della matematiz- zazione era avviata
ad una intelligibilità, ad un rigore
nuovi; un rigore persino superiore a
quello della fisica atomistica, che, come
ha osservato il Rey, avrebbe dovuto
basarsi sulla meccanica, una disciplina molto
meno progredita nel pensie- ro greco di
quanto non lo fosse l'aritmo-geometria
pitagorica. Se in epoca moderna
matematizzazione e concezione atomica della
fisica erano destinate a riunirsi, dando
luogo al « sistema del mondo »
proprio della scienza a partire dal
Seicento, nel mondo greco pitagorismo ed
atomismo restarono però a lungo
contrapposti. Ciò è dovuto anche
all'ambiguità che abbiamo visto sottendersi
a tutta la speculazione di Filolao.
Il logos mathematikòs non era soltanto,
e non tanto, un metodo del pensiero
quanto la struttura essenziale, garantita,
dell'universo; il numero non era tanto
uno strumento euristico dell'uomo quanto
una realtà originaria, primale, che garantiva
la validità della scienza, ma soprattutto
la condizionava al riconoscimento di sé,
principio dogmatico del conoscibile prima
che del conoscere. Già per la
matematica, questa natura del numero creava
una situa- zione di privilegio necessariamente
ambigua: giacché essa veniva trasvalutata
in una sorta di teologia razionale,
secondo un processo che sarà comune a
Platone vecchio e a tutto il
successivo pitagorismo, sempre più alieno
dalla ricerca empi- rica, sempre più
portato a rifiutare il contatto così
fecondo tra la matematica stessa e le
discipline tecniche e naturalistiche. Nel
senso di Filolao, assolutizza- zione delle
matematiche voleva dire dunque anche loro
isterilimento sul piano scientifico-tecnico, e
contemporaneamente condanna ad uno status
non scientifi- co delle technai di
controllo della natura, dalla meccanica
alla biologia. L'accen- tuarsi della natura
mistica del numero - che all'origine aveva
anche significato l~ preoccupazione di una
saldatura tra uomo e mondo, tra
conoscenza e realtà - avrebbe scavato un
solco sempre più profondo tra il
pitagorismo e le tendenze più vive del
pensiero, conducendo da ultimo alla fusione
tra un pitagorismo teologiz- zante ed un
parimenti infiacchito platonismo. Filolao, con
tutta la sua ricchezza di interessi metodici
.e scientifici, era certamente lontanissimo
da tali esiti. Ma la sua
impossibilità di liberarsi da talune
ambiguità di fondo lo poneva già, nono-
stante tutto, su questa via. Gorgia nacque a Lentini.
La tradizione ci raccontà che e discepolo
vuoi dei pi- tagorici vuoi di Empedocle.
Senza dubbio riuscì a conquistarsi la
stima dei suoi concittadini, tanto è
vero che fu da essi inviato come
ambasciatore ad Atene per chiedere aiuto
contro Siracusa. Viaggiò per tutta la
Grecia, facendo ovunque sfoggio della sua
sottilissima arte dialettica che era basata
su una tecnica analoga a quella di
Zenone. Scrisse varie opere, fra le
quali ci limitiamo a ricordare l'Elena e
il trattatello Intorno al non ente o intorno
alla natura (Perì tou me ontos é perì
Jjseos). Nella prima viene svolta, con
molta abilità, la paradossale difesa della
celebre eroina, scagionata da ogni colpa
per l'abbandono della casa del marito,
e viene intessuto l'elogio dell'onnipotenza
della parola, specie quando essa è
guidata dalla retorica: « La parola è
un gran dominatore, che con piccolissimo
corpo e invisi- bilissimo, divinissime cose
sa compiere; riesce infatti a calmar la
paura, e a eli- minare il dolore, e
a suscitare la gioia, e ad aumentare
la pietà.» Nell'altra opera Gorgia espone,
una triplice tesi: a) nulla è; b)
se anche qualcosa fosse, non sa- rebbe
conoscibile; c) se poi fosse conoscibile,
non sarebbe esprimibile, «poiché il mezzo
con cui ci esprimiamo, è la parola;
e la parola non è l'oggetto, ciò
che è realmente; non dunque realtà
esistente noi esprimiamo al nostro vicino,
ma solo parola che è altro
dall'oggetto». La critica della vecchia filosofi
di Parmenide è qui evidente; essa si
fonda sull'equivocità del termine « essere»
usato ora nel senso di « esistere» ora
invece nel senso puramente copulativo. Ma
più ancora di questa critica è impor-
tante la chiarezza con cui si pongono
i problemi della conoscibilità e dell'espri-
mibilità (cioè i problemi se tutto
ciò che esiste possa, per il solo
fatto di esistere, venire conosciuto e
venire espresso). Abbiamo parlato, a
proposito sia di Protagora sia di
Gorgia, di critica al- l'eleatismo. Tale
critica investì certamente il tentativo
dell'eleatismo di stringere in una rigida
unità l'ordine del pensiero e del
linguaggio con quello della realtà
percepita e vissuta, e vi contrappose
la relativa autonomia di questi due
momenti. Ciò premesso, la critica moderna
tende tuttavia a non sottovalutarei legami
che connessero i maggiori sofisti
all'eleatismo, e non solo nel senso
che la situazione di crisi creata da
quest'ultimo rappresentò il loro punto di
partenza. Nell'ordine logico, i sofisti accettarono
infatti i requisiti di verità imposti
dall'eleatismo, quali l'identità tautologica (di
cui la orthoépeia protagorea sarebbe una
versione raffinata) e la pregnanza di
significati esistenziali e copulativi del
verbo «essere». La rivendicata autonomia
dell'esperienza vissuta si tradurrebbe pertanto
in una sizioni professionali variano da
individuo ad in- dividuo, sicché ognuno,
possedendone alcune, è privo delle altre,
la capacità di contribuire a con- 93
servare e perfezionare l'organismo sociale
deve essere considerata presente in tutti
gli individui normali. rinuncia a controllarla
con strumenti logici, e in un suo
abbandono alla psico- logia dell'individuo a
sua volta stratificato nella convenzione
sociale. Questo atteggiamento si tradusse,
da un lato, in una certa incapacità
della sofistica di comprendere l'originale
rapporto di logica ed esperienza che
si veniva realiz- zando nella scienza
contemporanea (di qui la polemica di
Protagora e di Gorgia contro la
geometria, la fisica e, indirettamente,
contro la medicina); dall'altro, nella
tendenza a considerare il momento
irrazionale del profitto e della forza come
primario nell'ordine sociale, trascurandone le
esigenze etico-storiche. Questo non toglie
nulla alla fecondità dell'atteggiamento critico
della sofistica, ma certamente sottolinea
la vastità del compito di ricostruzione
scientifica, filosofica e storico- sociale che
spetterà al pensiero greco dopo il
fallimento eleatico, l'esaurimento della
filosofia della natura e la critica
sofistica. Non sappiamo se a Crotone,
quando vi approdò Callifonte, l'asclepiade
di Cnido, cui abbiamo fatto cenno nel
secondo paragrafo, già esistesse una scuola
di medicina o se la sua fondazione
si debba a questo scienziato venuto dall'Orien-
te. È certo, tuttavia, che la scuola conobbe
una rapidissima fioritura. Già il figlio
di Callifonte, Democede, si guadagnò la
fama di miglior chirurgo del mondo
greco, e, fatto ritorno alla nativa
costa ionica, impose alla corte del
re di Persia la supremazia della
nuova scuola ellenica su quella tradizionale
d 'Egitto. Toccò al crotoniate Alcmeone,
nato verso il 540, di portare la
scuola al suo massimo livello scientifico.
E soprattutto toccò ad Alcmeqne -che
il Wellmann ha definito a buon
diritto pater medicinae grecae - di
rinnovare profondamente il pensiero scientifico
ellenico, condizionandone lo svolgimento lungo
tutto il v secolo. A contatto
attraverso la sua scuola con le
esperienze maturate dalla historle ionica
nel VI secolo, egli entrò d'altro
canto in relazione con le filosofie i
tali che che sullo scorcio di quel
secolo si sviluppavano rapidamente: il pensiero
di Senofane da un lato, il
pitagorismo dall'altro. Dalla critica senofanea
al sapere umano, Alcmeone derivò la
consapevolezza, via via affinatasi, che
l'osservazione empirica non può immediatamente
offrire la chiave della conoscenza, che
la verità non si rivela tutt'intera a
chi si limiti a descrivere la natura.
Con il pitagorismo, Alcmeone mantenne
rapporti su di una base di autonomia,
da scuola a scuola; insofferente del
carattere settario, dogmatico, della dottrina
e della prassi pitago- rica, egli rivolse
contro di esse la sua critica teorica
e la sua azione politica demo- cratica. Fu
tuttavia profondamente interessato non solo
dai progressi che i pi- tagorici facevano
compiere alle. scienze naturali, ma
soprattutto dal loro tentativo di scoprire
leggi dell'esperienza che fungessero da
principio di organizzazione e di
interpretazione dei fenomeni osservati. Ecco
dunque che sul tronco dell'empirismo
ionico, cui per altro restava solidamente
ancorato, Alcmeone veniva innestando una
problematica e una consapevolezza nuove, la
cui carenza aveva sempre frenato, come
s'è visto, i progressi di quell'empirismo.
Proprio con la dichiarazione di questa
acquisita consapevolezza si apre l'opera di
Alcmeone: «Delle cose invisibili, delle
cose mortali gli dei hanno immediata
certezza, ma agli uomini tocca procedere
per indizi (tekmdiresthai). » Bastava un
tale punto di vista gnoseologico ad
infrangere l'illusione dell'immediata trasparenza
dell'esperienza, ad aprire la via ad
una osservazione critica dei fenomeni e
ad un più attivo intervento dello
scienziato nella loro interpretazione. Alcmeone
si valeva del principio così scoperto
nel vivo della propria ricerca scientifica,
e d'altra parte era la ricerca
stessa, divenuta criticamente più vigile, a
confermargliene la validità. Nel campo dei
fenomeni naturali egli non vedeva più
alcun « elemento »alcuna coppia di
contrari, alcuna arché che di per sé
valessero a spiegare la natura e la
vita. Da biologo, egli riconosceva
piuttosto nell'empirico una indefinita
molteplicità di principi attivi o «
qualità », vale a dire di stimoli
capaci di de- terminare nell'organismo una
certa reazione fisiologica (l'amaro, il
freddo e così via); di conseguenza,
non v'era continuità fra organismo
senziente e il suo ambiente, ma il
rapporto fra l'uno e l'altro era
quello di stimolo e reazione (questo
è il significato della « sensazione per
contrari » attribuita ad Alcmeone, in
contrasto con la «sensazione per simili» che,
come s'è visto, fu tipica di
Empedocle). Parallelamente, Alcmeone scopriva,
grazie alla pratica coraggiosa- mente scientifica
della dissezione, che la funzione del
percepire è nell'uomo bensì diffusa nei
vari organi di senso, ma che essa
viene poi coordinata da un organo
centrale, e precisamente dal cervello. Con
questa scoperta Alcmeone non solo compiva
un progresso di fondamentale importanza per
tutta la biologia greca, ma trovava
altresì una decisiva conferma al proprio
punto di vista gno- seologico: la funzione
del cervello spezzava di fatto il
legame immediato fra uo- mo e mondo,
fra conoscenza e realtà. Ed Alcmeone rendeva
esplicita questa con- seguenza dichiarando che,
se la «sensibilità» è una proprietà
di tutti gli organi- smi viventi, la
funzione del « comprendere », cioè
del ridurre a sintesi significa- tiva
l'esperienza, e del «prender coscienza»
della sensibilità stessa è propria
esclusivamente dell'uomo. Il valore di
queste asserzioni si po.trà intendere appie-
no ove si ricordi che ancora una
generazione più tardi la dottrina della
centralità del cuore conduceva Empedocle a
conclusioni estremamente antitetiche. In ogni
modo, profondo era il solco così
apertosi fra l'uomo e la realtà che
egli vuol comprendere e trasformare. Il
mondo dell'esperienza riacquistava la sua
concretezza, e l'esperienza stessa veniva
riconosciuta incapace di dare spontaneamente
conto di sé. Così, lo scienziato
riconquistava un'autonomia e una possibilità di
comprensione e di controllo sul mondo,
scoprendo un punto di vista ad esso
eterogeneo. Ma Alcmeone si avvide di
una conseguenza decisiva di questa
situazione: la realtà si faceva a un
tratto opaca agli occhi dello scienziato;
la sapienza, intesa come perfetta
trasparenza di tutto il mondo all'uomo,
restava ormai solo una proprietà degli
dei. In termini di metodo scientifico,
la sapienza doveva allora venir sostituita
dall'indagine, la rivelazione dalla congettura,
l'os- servazione e le analogie che essa sembrava
offrire dovevano essere integrate dal
metodo dell'indizio e della prova. Quando
Alcmeone poneva il tekmdiresthai, il
proceder appunto per indizi, congetture e
prove, come metodo tipico della conoscenza
umana, egli conferiva una consapevolezza
teorica alla prassi della me- dicina, che
doveva interpretare l'esperienza per ritrovare
in essa un significato, un valore di
sintomo, e risalire così all'unità della
malattia e delle sue cause: una consapevolezza
che, come s'è visto, fece sempre
difetto ai cnidi. Sulla base di
queste prospettive teoriche, Alcmeone poté
anche offrire alla medicina una dottrina
fisio-patologica e un'eziologia unitaria cui
i cnidi non avevano potuto pervenire. Le
infinite «qualità» (4Jnàmeis) agenti
nell'organismo, formano nel loro stato
normale un composto (krasis) omogeneo ed
armonico (isonomia). La malattia nasce
dalla rottura di tale equilibrio e
dal prevalere patolo- gico (monarchia) di
uno solo di questi principi, oltre
che per l'azione di una mol- teplicità
di fattori ambientali. È importante notare,
per l'influenza che questa veduta ebbe
su Ippocrate, che Alcmeone lasciò
indefinito il numero delle 4Jndmeis, senza
irrigidirle né nello schema quaternario degli
elementi proprio della scuola empedoclea,
né in quello degli « umori »
sviluppatosi nella tarda scuola di Cos.
Queste determinazioni negative, le uniche
che ci restano delle 4Jndmeis alcmeoniche,
sono tuttavia importanti, perché gettano il
seme di una embrionale chimica fisiologica,
consapevole della molteplicità degli elementi
e dei composti (come ribadirà anche
Anassagora) e attenta soprattutto alla loro
sempre variabile funzionalità nelle sintesi
organiche. D'altra parte, rompendo anche
qui con tutta la tradizione
della_bsiologia, Alcmeone affermava l'irreversi- bilità
dei processi biologici e dunque l
'impossibilità del ciclo: « Gli uomini
per ciò periscono, che non possono
congiungere il principio con la fine.
» Troppo innovatrici erano tuttavia le
sue intuizioni, perché Alcmeone ne potesse
trarre tutte le conseguenze. La via
del metodo scientifico era stata indicata,
ma un lungo cammino doveva essere
ancora percorso perché quel metodo potesse
essere sviluppato e consolidato. Il
problema del rapporto fra pensiero e
realtà, fra teoria ed esperienza era stato
posto senza che le strutture di quel
rapporto potessero essere compiutamente
analizzate e rese esplicite. Questa
mancanza di una chiara elaborazione teorica
spiega come l'eredità alcmeonica si sia
suddivisa in due filoni diversi e
contrastanti. Da un lato, infatti, essa
fu riassorbita dalla fysiologia italica e
siciliana, che utilizzò alcune delle sue
conquiste scientifiche contestandone altre e
soprattutto annullandone via via la carica innovatrice
dal punto di vista del metodo.
Attraverso Empedocle, questo filone dell'eredità
alcmeonica passò, sul finire del v
secolo, alla scuola italica di medicina,
di cui diremo più ampiamente al
capitolo xr. L'altro filone ci interessa
qui più da vicino: tramite l'autonoma
ricerca medico-biologica, esso rifluì
nell'ambiente scientifico ionico-attico, e dunque
nel suo crogiuolo ateniese, destandovi
immediatamente l'interesse delle più vive correnti
di pensiero. Ad Anassagora la lezione
alcmeonica apportava la veduta dell'alterità
del conoscere rispetto al conosciuto,
dell'inesauribile concretezza del mondo empirico,
del tekmdiresthai come metodo della
conoscenza; agli scienziati che si
raccoglievano intorno al filosofo, ai medici
come lppocrate, Alcmeone insegnava l'importanza
metodica del sintomo, la centralità del
cervello, le basi fisiologiche della
patologia; agli uomini di cultura, agli
storici come Tucidide, egli trasmetteva
analoghi spunti metodici, e ancora il suo
rifiuto della ciclicità, la sua
concezio"ne - così suggestivamente trasferibile
alle vicende umane- dell'armonia come salute,
della monarchia come sua rottura patologica
Seguendo questo secondo filone dell'eredità
alcmeonica, occorrerà quindi tornare nell'Atene
della metà del v secolo, dove si
venivano intrecciando i nodi di tutto
il pensiero scientifico greco e grazie
a ciò si ponevano le premesse per
le sue conquiste più alte.Nel seguire
al capitolo vn il filone alcmeonico
che si svolgeva attraverso Anassagora e
culminava in Ippocrate, accennammo anche al
permanere di una scuola medica in
Magna Grecia e in Sicilia, nella
quale l'eredità di Alcmeone doveva però
esser ben presto sopraffatta dal prepotente
influsso della fysiologia di Empedocle. Quest'ultima
era in effetti tale da condizionare
sia nelle premesse sia nei metodi la
ricerca medico-biologica, promuovendone a un
tempo lo svi- luppo e indirizzandolo verso
esiti estremamente insidiosi. La concezione
del inondo come un organismo vivente
pareva infatti assicurare la fondazione più
universale e più valida alle scienze
biologiche; e la riduzione del mondo
stesso a quattro elementi primari, o
archai, sembrava a sua volta offrire
uno strumento decisivo per la comprensione
della struttura del corpo e delle sue
affezioni. La metodica da porre in
opera era pure esemplificata da Empedocle:
si trattava di battere la via
dell'analogia tra microcosmo e macrocosmo,
di riportare cioè co- stantemente i
fenomeni organici alla struttura di fondo
del corpo e la struttura del corpo
a quella dell'universo, ritrovando in
quest'ultima una garanzia di ve- rità e
una premessa per ulteriori spiegazioni.
Entro tale orizzonte la scuola italica
si sviluppò lungo la seconda metà del
v secolo, finché sullo scorcio di
quello stesso secolo e nei primi
decenni del IV, Filistione di Locri
la condusse al suo definitivo assetto
dottrinale e metodico. Importante in senso
dottrinale l'elaborazione della teoria del pneuma
o «respiro», principio vitale che animava
la struttura elementare sia del corpo
sia del cosmo, e che valeva a spiegare
molti fenomeni patologici quando la sua
circolazione or- ganica risultasse anomala. Ma
soprattutto importante, dal punto di vista
metodico, era la traduzione in senso
biologico degli elementi empedoclei, che
certamente Filistione derivava dalla scuola
ma cui egli conferì una forma
destinata a domi- nare per lunghi secoli
il pensiero naturalistico. Non immemore
della lettera al- meno dell'insegnamento
alcmeonico, e impegnato più direttamente di
Empedo- cle nell'osservazione dei fenomeni
organici, Filistione trasformò gli elementi
in « qualità » o principi organici
attivi (c!Jndmeis): così la terra veniva
espressa dalla djnamis «secco», l'acqua
dall'« umido», il fuoco dal« caldo», l'aria
dal« fred- do »: queste c!Jndmeis erano
secondo Filistione la forma specifica con
la quale la struttura elementare
dell'universo si manifesta nell'organismo umano;
grazie tuttavia alloro legame univoco con
gli elementi, esse non potevano diventare,
come in Anassagora ed in Ippocrate,
stati relativi e mutevoli degli oggetti em-
pirici, bensì restavano principi stabili e
necessari dell'empirico stesso. Il processo
analogico con il quale Filistione giungeva
alle quattro qualità era strettamente
affine alla deduzione empedoclea degli elementi,
e non occorrerà tornare a descri- verlo; e
la sua critica più pertinente, dal
punto di vista del metodo della
medicina empirica, fu del resto anticipata
dallo stesso Ippocrate in Antica medicina,
come si è visto al capitolo vn.
L'importanza storica della rielaborazione di
Filistione e la ragione del suo duraturo
successo stanno da un lato nell'aver
offerto alla biolo- gia uno strumento di
spiegazione e di semplificazione dei fenomeni
pur sempre dogmatico ma tuttavia assai
più riconoscibile nella concretezza dei
processi or- ganici di quanto lo fossero
gli elementi empedoclei (ad esempio il
«calore vitale» e il suo eccesso
patologico rappresentato dalle febbri si
spiegano meglio con le vicende della
qualità« caldo» che con la materia
«fuoco»); d'altro lato, toglien- do dalla
fysiologia empedoclea quanto vi era di
materialistico e in fondo di mec-
canicistico, Filistione ne troncava i pur
possibili legami con l'atomismo e la ren-
deva assai meglio accetta al prevalente
indirizzo qualitativo del pensiero platonico
e soprattutto aristotelico. Un'altra importante
evoluzione egli faceva poi subire
all'organicismo del filosofo di Agrigento.
Mentre quest'ultimo non aveva mai compiuto
esplicita- mente il passo che portava dalla
concezione vitalistica del mondo al ricono.sci-
mento di un finalismo in esso
operante, Filistione trovava, ad esito
delle sue ri- cerche anatomiche sull'organismo,
proprio questo grande principio esplicativo:
che la natura, e soprattutto la natura
vivente, è organizzata in funzione di
un si- stema di fini, che questa
organizzazione si ritrova allivello di
.tutti gli organi, e che dunque l'indagine
biologica non deve vertere tanto sul
« che cosa » e sul «come»,
quanto sul «perché» finale dell'assetto dei
fenomeni studiati. Nel trattato sul Cuore
(Perì kardies) - dove tra l'altro,
nonostante la sua grande dottrina anatomica,
egli rifiuta Alcmeone per Empedocle e
pone l'intelli- genza nel cuore stesso - Filistione
concepisce quest'organo come la costru- zione
mirabile di un « buon artefice »,
che tutto ha predisposto affinché la
vita potesse aver luogo nel migliore
dei modi. L'incontro di queste dottrine
con il platonismo, concretatosi in quello
fra Filistione e Platone avvenuto in
Sicilia ver- so il 36o e dunque
all'inizio del periodo di elaborazione del
Timeo, doveva ave- re conseguenze incalcolabili
per la scienza della natura greca. Attraverso
Platone, passarono infatti ad Aristotele,
che le adottò ancor più risolutamente
del maestro, e grazie a lui
conquistarono una egemonia per lungo tempo
quasi incontrastata. Ma prima che tutto
questo avesse luogo, le posizioni della
scuola italica fa- cevano sentire la loro
pressione sulla stessa scuola di Cos
postippocratica, e oc- correrà ora seguire
gli estremi tentativi di quest'ultima di
salvare la techne, «l'an- tica medicina »,
da così agguerriti avversari. Già si parlò
nel capitolo v dell'opera di Filolao,;
qui vogliamo ancora accen- nare ai
progressi compiuti, nell'ambito della matematica,
dal filosofo e scienziato Archita, vissuto
a Taranto tra la fine del v
secolo e la prima metà del IV,
ultima figura di statista pitagorico. Egli
resse per lungo tempo la sua città
incrementan- done la prosperità e la
potenza militare, facendone la prima della
Magna Grecia. Si ritiene che Archita
abbia applicato la propria dottrina
matematica alla mecca- nica militare, e,
poiché sappiamo pure che fece uso di
strumenti meccanici per ri- solvere problemi
geometrici, si può dire che per primo
(e sfortunatamente con pochi imitatori per
molto tempo) egli intuì la fecondità
teorica e pratica di una rela- zione
fra matematica e meccanica. Profonda fu
l'impressione che la personalità di Archita
suscitò in Platone in occasione del
suo soggiorno a Taranto nel 3 89.
In campo matematico, Archita riprese il
problema di Delo secondo le linee
tracciate da Ippocrate di Chio, e lo
portò a soluzione mediante la rappresenta-
zione strumentale di figure geometriche in
movimento. La soluzione di Archita è
troppo complessa per essere qui riportata:
da essa risulta comunque che egli era
familiare con i processi mediante cui
si generano cilindri, coni e altri
solidi di rivoluzione, e che fu il
primo ad usare consapevolmente il concetto
di luogo geometrico. In questo modo,
Archita offriva il primo esempio di
applicazione della geometria dello spazio
alla soluzione dei problemi di geometria
piana, e insieme dava inizio alle
ricerche che concluderanno alla teoria
delle coniche. Ma quello che va messo
in maggiore rilievo, è lo spregiudicato
coraggio con il quale Archita faceva
ricorso - nonostante la polemica·platonica - a
tutti i metodi e gli strumenti che
permettessero di far progredire la ricerca.
Parimenti ardite le sue impostazioni in
aritmetica e in acustica: quanto alla
prima, egli contribuì a sviluppare il
concetto che il numero è essenzialmente
un rapporto, perciò in- dipendente dalle
condizioni di commensurabilità e razionalità,
e poté quindi tor- nare a rivendicare la
supremazia dell'aritmetica fra le scienze
matematiche; quanto alla seconda, egli
scoprì che il suono è dovuto al
movimento e all'urto dei corpi, e che
l'aria è un corpo atto a ricevere
la vibrazione e a propagarla La tradizione,
che fa di Archita uno dei maestri di
Eudosso, anche se dubbia, vale certamente a
simboleggiare la funzione del tarantino nel
passaggio dalla ma- tematica del v secolo
alla grande fioritura che ebbe luogo
nel IV. I filosofi romani, prevalentemente agricoltori e guerrieri, non si occupsno affatto
né di problemi speculative. Il loro interesse
si concentra tutto sul problema giuridico,
per l'evidente importanza del diritto nella costruzione di uno stato efficiente.
La conquista romana della Macedonia li porta a contatto immediato
colla filosofia. Questo t tutt'altro che armónico. La penetrazione in Roma della filosofia infatti costituie un pericolo per lo stato romano,
minacciando di alterarne quei caratteri che costituie la base stessa del suo successo come
civilizazione.. Gl’elementi conservatori, come Catone, se ne avvidero immediatamente e cercano
di opporre una seria resistenza. Un senatoconsulto
ordina che i filosofi emmigrati a Roma come esuli della
Macedonia, fossero cacciati da Roma. Atene invia a Roma una missione diplomatica, formata da tre
filosofi (Critolao, rappresentando il Liceo, Diogene
di Babilonia, il Portico, e Carneade, l’Accademia).
Essi approfittarono di questo soggiorno per esporre nel
Campidoglio le proprie dottrine sullo giusto. Ottennero un enorme successo, soprattutto Carneade, la cui oratoria, ricca di sottili argomentazioni dialettiche, riusce
a conquistare la parte più intelligente dell’elite
romana. Famoso è rimasto il discorso di Carneade sul contrasto fra
il giusto e il vero, dimostrato proprio con l'esempio di
Roma, che fonda la propria potenza sul territorio
strappato con la violenza ad altri. Questa non e l'ultima ragione per cui I
filosofi ateniesi, conclusa la loro missione, furono ordinati a lasciare
Roma. È noto che questi due ostacoli non riuscirono a
fermare il processo iniziato. Nel corso di pochi decenni,
la situazione muta radicalmente. I membri delle migliori famiglie romane accorrono sempre più numerosi a
studiare filosofia dagli schiavi che frequentano I circoli d’influenti
personalità politiche. A Roma e per oltre
un decennio Panezio, rappresentanti del Portico. Panezio
si lega particolarmente al circolo di Scipione Emiliano,
detto L’Affricano minore. Questo circolo – il primo circolo filosofico
romano -- comprende oltre allo storico Polibio,
i maggiori rappresentanti della. cultura
romana del tempo: Terenzio, Lucilio, Caio
Lelio, Quinto Elio Tuberone, ecc. Roma
comincia a diventare un centro culturale
di notevole importanza. E erroneo tuttavia ritenere che
la filosofia, con i successi ora
ricordati, sia effettivamente riuscita a imporre
a Roma la propria stampa.
Che non sia stato così ce lo dimostra il
fatto semplicissimo. Mentre il greco si e
rapidamente diffusa in tutto il mondo
mediterraneo orientale (per esempio in
Egitto), tanto da diventarvi l'unico mezzo
di comunicazione della cultura, nulla di
simile accadde a Roma. Nel campo linguistico, la
resistenza del gran Catone riporta piena vittoria. I
romani ‘filosofano’ in latino, arricchizzendo
il vocabolario. La civiltà mediterranea finì
a poco a poco per diventare latina. Nel
campo della filosofia le qualità più
caratteristiche del temperamento indigeno romano -
buone o cattive che fossero - non
andarono sommerse. La ripugnanza per la speculazione
astratta (‘scolastica’), l'interesse volto più alla conclusion
pratica che alla premessa, la spiccata attitudine
del filosofo romano all’azione, fanno sentire il
peso della loro influenza. I notevoli riflessi
di questo temperamento caratteristico dei
romani hanno conseguenze nell'ambito della ‘filosofia romana.’
Ora può essere opportuno - per dimostrare
l'immediata efficacia che tale spirito ha sugli
stessi studiosi premettere qualche cenno intorno a filosofi
partico- larmente significativi: Polibio e
Strabone. Polibio fu invia,to a Roma
come ostaggio dalla lega achea e vi
rimase per oltre sedici anni, nei
quali ebbe modo di assimilare profon-
damente lo spirito di quel popolo.
Scrisse in greco le Storie (in
quaranta libri) sulle imprese di Roma;
opera solitamente considerata come un
grande trattato, oltreché di storia, anche
di geografia descrittiva, per l'enorme
ricchezza di notizie riferite sugli usi e
costumi dei vari popoli presi in
esame. Orbene il modo con cui è
concepita quest'opera è una prova evidente
che Polibio intende la ricerca scien-
tifica in maniera .completamente diversa
dai suoi connazionali. Proprio nulla,
infatti, lo interessano le teorie generali
e tanto meno le ipotesi sulle zone
lontane e mal note del mondo; esse
non meritano la sua attenzione, perché
prive di im- mediata utilità. Secondo lui,
ogni indagine seria deve essere
giustificata da un ben preciso scopo
pratico. Il compito, per esempio, che egli
si propone è quello di istruire i
romani intorno al mondo mediterraneo in
cui hanno svolto e svolge- ranno le
loro conquiste: tutto ciò, dunque, che
fuoriesce da questo programma non può
che apparirgli privo di senso e
dannoso allo sviluppo della ricerca. Da
un punto di vista metodologico merita
di venire notato che la storiogra- fia
di Poli bio presenta alcune affinità
con quella di Tucidide: la ricerca
tenace della certezza, l'analogia- da lui
resa esplicita- con il metodo della
medicina, la rinuncia ad ogni abbellimento
retorico. Ancora più profonde sono tuttavia
le differenze che lo separano dal
grande ateniese. Polibio credeva nella
diretta fruibilità della storiografia come
magistra vitae, nella autonoma significatività
delle informazioni riferite quanto più
possibilfedelmente, e si ricollegava in tal
modo alle teorie sia di Isocrate sia
di Teofrasto. Gli era ignoto lo
sforzo di com- penetrazione tra ragione e
fatti che Tucidide aveva cercato di
attuate nel suo me- todo storiografico,
convinto com'era che solo da esso
potesse scaturire quella essenziale verità
della storia la cui «utilità» era
certamente meno immediata ma più fondata
e più generalmente feconda. In tal
senso la storiografia di Polibio sta
a quella tucididea esattamente come la
filosofia ellenistica sta a quella del
v e del rv secolo. Strabone visse
un secolo e mezzo dopo (63 a.C.-25
d.C.). Nato ad Amasea nel Ponto da
una famiglia di sangue misto greco-asiatico,
fu anch'egli fortemente influenzato dallo
spirito romano (come ce lo dimostra
la decisione con cui so- stenne il
dominio politico di Roma). Compì lunghi
viaggi e scrisse una Geografia
(Geograftkd), ampio trattato in diciassette
libri. Ebbene, questo trattato dimostra, non
meno della storia di Polibio, il
nuovo tipo di interessi che anima il
suo autore: brevissima è la parte
dedicata all'aspetto matematico della geografia;
ricchissimeLa filosofia postaristotelica e
diffuse sono invece le notizie sugli
usi, le istituzioni, la storia dei
paesi via via presi in esame. La differenza
fra l'indagine di Strabone e quella
compiuta dai geo- grafi alessandrini di
qualche secolo prima non potrebbe essere
maggiore. L'og- getto di studio ha
conservato lo stesso nome, ma il modo
con cui è condotta la ricerca
dimostra che il significato stesso della
scienza è completamente mutato. L'espressione
più caratteristica dell'interesse prevalentemente
pratico del filosofo romano nell'ambito delle ricerche,
è l'eclettismo. Non che esso sia nato
per opera del filosofo romano, né che tutti
i filosofi romani sono direttamente o
indirettamente legati ad esso. Ma nell'ambiente
culturale di Roma, l’ecclettismo trova le ragioni
del suo successo. Il
suo più illustre sostenitore e Cicerone. Per
trovare un esempio di filosofo romano
che non ha compiuto alcuna concessione
all'eclettismo, bisogna riferirsi a Lucrezio. La particolare posizione di Lucrezio non è
che la conseguenza logica della sua
adesione a un sistema o dottrina. Già sappiamo, infatti,
che una dottrinapuo essere un unico indirizzo
dmantenutosi costantemente fedele alla propria
concezione teoretica, e. g. del giardino, senza
evoluzioni interne, e questa sua stessa
staticità esclude che abbiano potuto
sorgere seri tentativi di conciliazione fra
esso e gli indirizzi avversari.
A parte Lucrezio, però, è difficile scoprire
filosofi romani che non mostrino qualche venatura
di eclettismo (forse Catone il minore, il perfetto stoico). Espli-
citamente eclettico è l'amico del avvocato Cicerone, ma
anche del genio militare Marco Terenzio Varrone; atteggia-
menti eclettici caratterizzeranno i grandi filosofi
romani rappresentanti del Portico e del Cinargo, e del Liceo e l’Accademia.
del periodo del principato. Un po' di
eclettismo, mescolato con molto della “Scesi”, puo
venire ritrovato quasi dovunque tra gli uomini più rappresentativi e
gli spiriti più raffinati della filosofia romana,
come per esempio in Orazio, che riusce ad esten-
dere la propria concezione eclettica fino ad includervi anche molte dottrine filosofiche
caratteristiche degli epicurei. L’eclettismo ebbe
le sue prime affermazioni nella cosidetta Accademia
e nel Portico. Esso rappresenta
un tentativo di soluzione della crisi che la
filosofia stav attraversando a Roma, e rispecchiò una
diminuita fiducia da parte di ciascuna delle
sette - nei propri principi..
Da questo punto di vista possiamo giustamente
sostenere che l’ecceltismo esprime un rilassamento del
rigore e la gravitas dello spirito filosofico, una
profonda stanchezza e una mancanza di
originalità. Esprime anche, però,
la raffinata consapevolezza dei pericoli cui va incontro qualsiasisistema filosofico coerente, e la convinzione
di poter
trovare, su di un piano meno rigido che quello dei principi
generali, la via per una comprensione e per una
soluzione a un problema più interessanti per il filosofo romano concreto. Da
student, Cicerone ascolta
con molto interesse le lezioni di filosofi
che,come Filone nell'Accademia e Posidonio nel
Portico, sostenneno la necessità di un'evoluzione
filosofica in senso eclettico, e si lascia
da essi facilmente convincere che qualcosa
di buono si trova di fatto in varie
dottrine, specialmente nei loro precetti
d'ordine pratico, che
il più delle volte coincidono,
pur venendo fatti derivare da pri11cipi molto diversi
e in apparenza quasi antitetici. La
adesione del avvocato Cicerone
all'eclettismo fu dunque immediata e totale, sembrandogli che esso dovesse costituire il frutto più maturo dell'ormai plurisecolare travaglio filosofico. Proprio questo atteggiamento largamente comprensivo gli consente
di studiare con sincero interesse tutta
la storia della filosofia romana,
sforzandosi con impegno e intelligenza di renderla
accessibile ai romani. Il suo perfetto possesso della
eloquenza latina permitte a Cicerone in particolare, di
trovare espressioni eleganti e so-brie per
le più difficili formulazioni tecniche. La filosofia, dice
nelle Tusculanae
disputationes, è rimasta fino ad oggi negletta,
e su di essa le lettere nostre, non ha portato nessuna luce.Ma io debbo illuminarla ed esaltarla, così che, se io sono stato di qualche utilità ai miei concittadini romani
nelle faccende attive della vita, puo esserlo
anche, se mi riuscirà, standomene ozioso. Se Cicerone ha il torto di dimenticare, in queste parole, il
contributo dato alla filosofia romana da Lucrezio,egli riesce tut-
tavia
ad esprimerci molto bene l'animo con cui si
accinge a scrivere questo o quello saggio o dialogo di
filosofia. È un dovere che Cicerone compie per colmare un
gravissimo vuoto nelle letttere romane. Cicerone sente che,
se anche non introduce Nessun concetto originale,
il semplice riuscire a mettere in
circolazione, tra I suoi amici, un patrimonio così
serio come lo e la filosofia costituie un merito di cui
i concittadini dovranno
essergli grati. E di fatto gliene saranno grati non solo i concitta-
dini, ma tutta la cosidetta civiliazione occidentale (senza
gallilei) anche i posteri, poiché i suoi
scritti rappresenteranno per molti secoli
una delle principali fonti per la
conoscenza del pensiero filosofico.Tra le principali
saggi e dialogi di
Cicerone ricordiamo, oltre le Tusculanae (Le Tusculane),
il “Delle leggi”, “Le deffinizioni del bene e del male,
“La natura degli dei,” “Sui uffizi), il
Sogno di Scipione e la sua fonte, La repubblica, Ortensio,
(un'esortazione alla filosofia che influenza profondamente
Agostino, e che era un'imi- tazione del
Protrettico di Aristotele), ecc. E callunniante asseverare
che Cicerone si limita a presentare le filosofie altrui senza apportarvi nulla di suo.
Cicerone le ri-pensa dal suo punto di vista,
le espone in modo tale da poterle
utilizzare a favore della concezione
eclettica. Ora utilizza Platone, ora Aristotele,
ora invece la Scessi o ilPortico e conclude.Qui si accenna al fatto che Cicerone si accinse a scrivere opere filosofiche solo quando venne escluso
dalla vita politica per l'affermarsi del primo triumvirato e, in seguito, per il trionfo di Cesare.
Proprio Cicerone aveva pubblicato, postumo, il
poema di Lucrezio, e tale dimenticanza
è dovuta probabilmente alla posizione
dichiaratamente anti-giardino da lui assunta in
sede filosofica.
con un generico probabilismo, che ammette proprio come unico criterio di verità il consenso dei filosofi (prova evidente -secondo Cicerone
-
che esistono delle idee innate, a tutti comuni). In queste molteplici
discussioni, non prive talvolta di incoerenze l'una rispetto all'altra, nel difficile ecomplesso lavorio di selezione e
coordinamento delle tesi,
una preoccupazione appare costantemente presente
in Cicerone: quella di rendere ogni romano consapevole
dell'immenso valore della filosofia.
Solo la filosofia, infatti, può farci cogliere
il valore esatto di essere umano, delle nostre conoscenze;
solo la filosofia ci insegna a
guardare con effettiva serenità la vita,
mostrandoci con chiarezza ove risiede la vera
felicità . Non v'è dubbio che,
per il senso pratico dei romani, questa
capacità della filosofia dialettica costituie la
sua più seria giustificazione: unica
giustificazione – il pro e il contra -- veramente sicura e
da tutti accettabile Marc’Aurelio Antonino nacque
a Roma . Salì al trono imperiale alla
morte di Antonino Pio di cui era
figlio adottivo; E convertito al portico dalla
lettura di Epitteto. Scrisse il “ad seipsum,” una
delle più interessan i opere filosofiche
della sua epoca: Colloqui con se
stesso (Ta eis heaut6n), ordinariamente
nota col titolo di Ricordi (in dodici
libri). Le note dominanti della sua filosofia-
nella quale emergono sempre più chiari i
caratteri dell'ultima Stoa - sono un disprezzo ascetico
di tutti i beni esteriori e una
profonda religiosità. L'essere divino non è
semplice fato, ma è soprattutto provvidenza
universale. Il rapporto dell'uomo con dio
è un rapporto di effettiva parentela,
che di conseguenza viene a legare fra
loro tutti gli uomini. Oltre ai
caratteri ora accennati, è tuttavia
presente in Marco Aurelio un carattere
nuovo, evidentemente connesso proprio al
tipo di vita attiva, gravida di responsabilità, che gli tocca in sorte
come capo dello stato. Non a caso - egli pensa l'uomo occupa la propria carica,
ma perché espressamente postovi dalla provvidenza dl divino. L'uomo ha quindi
il dovere di agire con tutta la necessaria energia, di non sottrarsi ai compiti
-- per quanto difficili e ingrati affidatigli da tale provvidenza. È la forma
mentis del cittadino romano che si inserisce in quella del filosofo del
portico. Né fra le due sorge alcun contrasto. Anzi, esse riescono a fondersi in
una mirabile armonia, permeate entrambe da un senso di vivissima religiosità.
Neanche il filosofo romano, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, sa
sviluppare a fondo la preziosa eredità degl’ingegneri. Essi rivelarono senza
dubbio grandi capacità nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi
edifici, ma non riuscea a comprendere l'interesse della vera e propria
ingegneria meccanica, né avvertirono l'importanza pratica di ricerche
direttamente o indirettamente rivolte alla scoperta di nuove fonti di energia.
Il fatto appare tanto più singular quando si pensi che proprio risale la
massima invenzione tecnologica dell'antichità: il mulino idraulico.È un fatto
che non sembra spiegabile se non facendo appello alla difficoltà di comprendere
i vantaggi che avrebbero potuto provenire dallo sfruttamento sistematico delle
varie forme di energia naturale, mentre esse apparivano. Assai più costose
dell'energia umana (schiavi) e animale. Per quanto riguarda lo scarso interesse
dimostrato dal filosofo romano verso gl’ artificiosi congegni esposti negli
Pneumatikd di Erone, va inoltre osservato che la via da percorrere, onde
giungere ad una lorutilizzazione su vasta scala, non puo non apparire troppo
lunga e difficile al filosofo romano - come appunto gl’ingegneri romani --
direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche immediate. L'abbandono di
tale atteggiamento richiederà una profonda trasformazione sociale e culturale,
che ha inizio solo parecchi secoli più tardi. Fra gli filosofi romani che
scriveno saggi di ingegneria di qualche pregio, il più importante è
Vitruvio, ingegnere militare di Giulio Cesare e Ottaviano. Il suo saggio
principale, “De architectura", reca evidenti gl’ultimi sviluppi
della matematica e dell'astronomia e le tracce dell'influenza degl’ingegneri.
Vitruvio ricorda infatti esplicitamente Ctesibio,
riferendoci parecchie sue invenzioni (la pompa, una balestra ad
aria compressa, l'argano idraulico, ecc.). Il
voluminoso trattato di Vitruvio s’articola in libri che esaminano una gamma
assai vasta di argomenti: dalla preparazione filosofica richiesta
all'architetto ai problemi specifici concernenti la costruzione di edifici
pubblici e privati, all'idraulica, alle macchine da guerra. È inoltre ricco di
richiami storici, di indicazioni giuridiche, di massime morali, e costituisce
una preziosa fonte per studiare la cultura tecnologica, e in generale i
costumi dell'epoca. In essa sono tuttavia riscontrabili alcuni non lievi
difetti. Pur sforzandosi di risultare tecnicamente chiaro e cercando ove
necessario d’introdurre nuove espressioni adatti al linguaggio tecnico,VITRUVIO
non può nascondere talune pretese stilistiche, che spesso rendono oscura la
dizione, ove accanto a volgarismi e plebeismi si trovano espressioni ampollose
e ricercate. Inoltre Vitruvio non è padrone sicuro della materia di cui tratta,
onde non solo non riesce a portare contributi nuovi, ma spesso suscita anzi
l'impressie di non comprendere bene, egli stesso, le ricerche che si sforza di
esporre. Gli è che la vera tecnica non si identifica con la pura e semplice
pratica; essa è scienza applicata, e, come tale, richiede dai suoi cultori una profonda
preparazione scientifica. Ma questa non poteva essere presente in chi aveva
manifestamente studiato troppo poca matematica.
Più che di ingegneria la cultura romana si era
occupata di agricoltura, su cui ci sono giunti i trattati di Catone, di Varrone
e di Columella. Fu proprio una disciplina tecnico-scientifica parallela
all'agricoltura ad avere in Roma gli sviluppi più originali:
l 'agrimensura, detta gromatica dalla
groma, lo strumento che gli agrimensori
romani usavano nella misurazione dei terreni. Il codice Arceriano ci
ha conservato una parte delle opere degl’agrimensori da cui si possono
ricavare i vari interessi dei agrornatici ed i loro importanti compiti. Ad essi
e ffidato il compito di costruire gl’accampamenti, fondare le città e le
colonie, misurare l’altezze dei monti e le larghezze dei fiumi nelle campagne
militari, far applicare le leggi agrarie e stabilire le confische ed i tributi.
Apposite scuole erano istituite nel principato romano per istruire questi funzionari
imperiali nella geometria, intesa nel suo aspetto pratico, nel diritto,
nell'arte militare e nei rituali religiosi che accompagnavano
le loro opere. Fra i maggiori autori agromatici possiamo
ricordare Balbo, famoso per aver condotto a termine l'opera di misurazione di
tutta l’Italia che era stata iniziata con Cesare, Igino, e infine Sesto Giulio
Frontino, una volta console sotto Vespasiano e Traiano, autore anche di
un'opera di arte militare sugli Stratagemmi e di un'opera sugl’acquedotti
di Roma, “De aquis urbis Romae”. Grice: “Geymonat, for
some reason, is obsessed with science as we at Oxford are not. Indeed, he wrote
a LOOONG history of “THOUGHT”, which is a word we don’t use at Oxford. The
French and Latin types in general use it – pensée – the idea is something like
science, mathematics, philosophy, you name it. So, his remarks about how the
ignorant Romans started philosophy is interesting. According to Geymonat it was
a generational thing. Catone did not want to do anything with it – for reasons
of ‘state’, Geymonat says, i. e. philosophy would be subversive, as it indeed
is. The odd thing is that it attracted the knock knock it’s the youngest
generation knock knock knocking at the door. The Senate forbade philosophers in
161 and five years later Carneade and two more arrived and that changed things.
Geymonat makes two comments. For one, the best youth – I figli delle migliore
famiglie romane – would have something like the Americans call a Rhosdes – they
would go to Athens as a ‘finishing school’. But what was interesting is that
Scipione Emiliano started a club in his palazzo – more like a villa – where
Polibio Terenzio, Cirilio, Tiburone, Elio, Celio attended --. The third
terribly interesting comment Geymonat makes is twofold. For one, those Greek
slaves who called themselves philosophers (Strabone and Polibio, are the only
two he quotes) did write, respectively, history and geography, but ‘tuned to
the Roman ear’. Geymonat speaks of ‘il temperament romano’ which he
characterizes in a fourtfold way: concretto, interested in the conclusions –
conclusive, rather than the premises – prattico --. So the history by Polibio
is only one that may interest a Roman, a far cry from Thucydides philosophical
prose! And the geography of Strabone has no information on calculus and
measures – only bits about institutions of people the Romans might conquer –
nothing about foreign distant lands! The second most notable remark is then
that Scipione Emiliano paid lip service to the Hellens – Catone’s ‘resistenza’
won in the end – as is seen by the mere fact that Latin was retained as the
lingua romana – in romano – unlike the Empire of the East where Greek was
adopted – So with the fall of the Eastern Empire, the West became bilingual.
The rough tongue of the Latins survived this fashion for things Hellenic! –
Geymonat spends enough time on what Cuoco calls ‘filosofia italica antica’ – it
starts with Crotone and Metoponto – where Pythagoras settled. With his theorem
he underwent a crisis, and philospophy traveled to VELIA with Parmenide and his
lover, Zenone, and Melisso – reductio ad absurdum, and tertium exclusum. Then
there was Girgenti, and that crazy one, Empedocle, who however wrote some witty
things about the four elements (in verse! Like Parmenide). Then there’s
Filolao, educated at Crotone under Pyhathogras but himself from Taranto, and
himself teacher of Archita of Taranto. Then there is the sophistical movement
started with Gorgia of Lentini – and Siracusa – So, ‘philosophy’, as we know
it, had an Italic origin, and is molded in the language of the conquering
Romans! Ludovico Geymonat. Geymonat. Keywords: ragione -- temperamento romano –
concretto – pratico – Catone – il trionfo di Catone con la lingua latina – la
gioventu romana entusiasta con Carneade – I Scipioni ellenisante – la gioventu
delle megliore familie – grand tour a Grecia! -- il teorema di Picard, il
teorema di Caratheodory per le funzione armoniche. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Geymonat” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Ghersi – filosofia italiana
– Luigi Speranza
(Celle Ligure). philosopher -- curator of The Swimming-Pool Library at Villa
Grice, Liguria, Italia. Ghersi has an interest in Grice’s philosophybut finds
Strawson pretty enjoyable, too!Theere’s something about the Oxonian nonsensical
philosophical humour that Ghersi appreciates like none other. Ghersi often
makes candid fun of some of Grice’s inventions, such as that of the
conversational “common-ground status”!Ghersi enjoys the full-time paradoxes of
the bald king of France. Ghersi’s favourite humorist is J. K. Jerome, but also
enjoys Wodehouse.And finds Dodgson just fascinatingThe Swimming-Pool Library is
mainly organised along Ghersis’s personal tastes, as a personal library should!Ghersi
is not particularly appreciative of poetry, but will enjoy the ballad set to
piano! Ghersi’s favourite genre is drama, since “it is so clear in
implicature.” Grice is a frequent contributor to cultural circles and societies
and a host like none otherVilla SperanzaSperanza appreciates Ghersi’s talent to
infuse enthusiasm in all type of endeavours --. Keywords: love, soul, life,
inghilterra. Refs.: Ghersi e GriceGrice e Watson --. Refs. BANC MSS 90/135c.
Vide Speranza.Vide SperanzaVide SperanzaVide Speranza. – The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Ghezzi: l’implicatura conversazionale dei tordi ubriachi – diritto artificiale –
filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Milano).
Filosofo. Grice: “I love Ghezzi: he has explored ‘turdus,’ as in ‘sturdy,’
‘drunk as a thrush’ – but also a count who was condemned by the church; he has
explored the history of masonry – in Italy it started in Calabria – from a
semiotic point of view, ‘il segno del compassso,’ – and he has explored on
Ayax’s ‘nichilismo razioale’ – among many other topics – also an ‘epistemology
of willing’ – epissttemologia della volonta --.” Grice: “Typically of Italian
philosophers, he has explored Italian
history, ‘ceneri del diritto,’ and a confrontation between people and
‘stato’. Si laurea a Milano sotto Bobbio con “La Filosofia del Diritto.” Gran
Maestro Onorario del Grande Oriente d'Italia. Marginalità e Società, ell'Università degli Studi dell'Insubria (sede
di Como). Sociologia della Devianza. Studia il positivism giuridico dal punto
di vista del concetto di diritto. Affrontato il tema del pluralismo dei valori
e degli ordinamenti giuridici, del federalismo, criminalità, devianza,
marginalità e pluralismo nell'ambito della Sociologia del Diritto Penale, sulla
giustizia e sulla legittimità degli ordinamenti giuridici, con particolare
riferimento alla figura del "deviante giuridico", introducendo i
concetti che porteranno alle teorie della "divergenza” sociale, marginalità,
Si rileva essersi principalmente dedicato al tema del nichilismo giuridico,
proponendo una visione nichilista, definite come “l’assenza del valore” -- del
tutto neutra circa la potenzialità “regolatrice” e la potenzialita ordinatrice
di una norma. L’approfondimento del nihilismo assiologico o valuativo risulta
essersi svolto attraverso il confronto con filosofi contemporanei di questo
ambito, tra cui Ferrari, Severino, e Giorello. Scetticismo. La Rivoluzione del
Diritto come Estetica, in estensione del suo libro Il Diritto come Estetica. Nel
volume è stata inclusa, come Appendice, una Raccolta di diversi saggi di
filosofi contenenti riflessioni ed approfondimenti interamente riferiti a G.. Altre
saggi: “Socialismo e sociologia giuridica: "Centro lombardo studi
socialisti, Milano, “Devianza tra fatto e valore nella sociologia del diritto”
(Giuffrè, Milano); “Federalismo, I e II,
Patera Palermo Editore, Diversità e
pluralismo. La sociologia del diritto penale nello studio di devianza e
criminalità, Raffaello Cortina, Milano, “Il segno del compasso. La massoneria e
i suoi persecutori attraverso simboli, idee, fatti e processi, Mimesis, Milano.
“Le Ceneri del Diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia,
Mimesis, Milano. Le lacrime di Hiram. Autobiografia incompleta di un Libero
Muratore, Edizioni della Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia, Milano “La
Scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Mimesis, Milano Federalismo laico e democratico, Mimesis,
Milano; “I tordi ubriachi” Un viaggio iniziatico, Mimesis, Milano, Sociologia giuridica del lavoro, Mimesis,
Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della
volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Mimesis, Milano Della vita e della
morte. Vulnerant omnes ultima necat, Mimesis, Milano; “Nichilismo razionale e
mistico. Indicazioni per il nuovo mondo, Mimesis, Milano); “Stranieri, ospiti,
alieni, alienati e pluralismo culturale” (Mimesis, Milano); “Nichilismo come
valore senza valori, Mimesis, Milano); “Abusi di stato: Risarcimento del danno
al cittadino, Mimesis, Milano); In ricordo di Riccardo Bauer, di G, e Arduino,
C.R.E.A., Milano; “Educare alla democrazia e alla pace. Bauer. Scritti scelti, L.I.D.U.,
edizioni Raccolto, Alle origini
dell'Umanitaria, Ghezzi e Canavero Raccolta Edizioni-Umanitaria, L'immagine
pubblica della Magistratura italiana, di Ghezzi Giuffrè, Milano Curatele. “Etica
contro politica”; G., edizione Iesi, Ferrari, Ghezzi,‘’Diritto, cultura e
libertà. Atti del convegno in memoria di Renato Treves’’ (Milan), Giuffrè,
Milano, Studi preliminari di sociologia del dirittoTheodor Geiger, G.,
Nicoletta Bersier Ladavac e Michele Marzulli, traduzioni di Leonie Schröder, Mimesis,
Milano); “Criminologia” (Mimesis, Milan). Pubblica amministrazione. Diritto
penale. Criminalità organizzata, Osservatorio permanente sulla criminalità
organizzata, CParano, Giuffrè Editore, Stefano Carluccio, In ricordo di G.,
anima della Società Umanitaria, su Critica Sociale. 1 Dei delitti e delle pene.
Rivista dell'Agenzia del territorio, L'Agenzia, rif. Archivio Università degli
Studi dell’Insubria. Cura “Studi preliminari di sociologia del diritto” (Mimesis,
Milano); “Socialismo e sociologia giuridica: introduzione Arduino, Centro
lombardo studi socialisti); La scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia
del diritto, Legge di Hume e tesi giusnaturalistica: un’antitesi teorica nel
pensiero di Norberto Bobbio, su dialettica e filosofia. Etica contro politica, di Elias Diaz, G.,
edizione Iesi, L' immigrato
extracomunitario non marginale. Una ricerca empirica sul territorio Milanese,
in ‘’Marginalità e Società’ Berzano, Gallini, Giovani E “Violenza:
Comportamenti Collettivi in Area Metropolitana, Ananke, con richiamo ad art. di
G. in “Marginalità e Società, II”. Le
ceneri del diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis,
Milano, al Ghezzi fa riferimento Rosario Minna in Crimini associati, norme
penali e politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè, G., Federalismo Laico
e Democratico, Mimesis, Milano Arturo Colombo, Franco Della Peruta “et al.”, in
Cattaneo: i temi e le sfide, Ed. Casagrande, Milano, Con riferimento al
Federalismo del Ghezzi: “mentre ci sarà chicome Ghezzi pur con tagli molto
diversi, collegherà la prospettiva degli Stati Uniti d'Europa con l’altra
formula cattaneana degli Stati Uniti d’Italia.»
Edmondo Bruti Liberati in "PostfazionePotere e Giustizia",
richiama G. in: Governo dei giudici. La Magistratura tra diritto e politica, E.
Bruti Liberati et al., Feltrinelli, Berzano, Gallini, cita di G. “Alle origini della labelling theory e del
concetto di devianza”, da Marginalità e società, Ghezzi e Balboni, Mimesis,
Milano, Cirus Rinaldi fa suo il concetto di Devianza di G.. “come sostiene G. essa
svolge un ruolo euristico [empirico] non solo nella spiegazione di fenomeni di
stigmatizzazione di intere categorie, ma anche penetrando nella
marginalizzazione, che agisce all’interno delle categorie” in Devianze e
crimine. Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, Cirus Rinaldi
e Pietro Saitta, PM edizioni, Scrive Marzulli, BRÜCKE als sein Ordinamento
sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come
estetica, in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca,
Bolognini, Mimesis, Ferrari, in Ciò che resta. Le ultime parole di G., in
Sociologia del Diritto, Fascicolo gennaio, ed. F. Angeli, Emanuele Severino, nel capitolo 4 di Dispute
sulla verità e la morte (Rizzoli) prende a riferimento un libro di G. (Il
Diritto come Estetica) e s’intrattiene lungamente sul pensiero
dell’autore. Giorello si intrattiene sul
testo del Ghezzi (“Il Diritto come Estetica”), lo commenta, ne riporta il
pensiero, secondo cui « "la morale non è altro che una forma
dell’estetica"» e ricorda la figura "nihilista" dell'autore. Da
"Introduzione" di Giorello, Piacere, Diritto e Burocrazia. In ricordo
di Morris Ghezzi, inGhezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come
estetica, Furio G. e Balboni, Mimesis, Milano, Il Diritto come Estetica.
Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo del
dubbio, G.. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica (Mazzullo, ‘’Prefazione’’,
“Appendice“: saggi di: Isabella Merzagora, Riflessioni di una criminologa
prestata alla filosofia del diritto, Dorado, El devenir del derecho:
reflexiones acerca de las concepciones jurídicas de Ghezzi, Il futuro del diritto: riflessioni sulle concezioni
giuridiche di G., Metodo di ricerca sul
rischio sociale, Vitale, Esistenzialismo e Nihilismo come confini
aperti del Giurispositivismo; Enrico Damiani di Vergata Franzetti, Il Diritto
come Estetica, Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Ghezzi. Ciò
che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Simonetta Balboni e Furio
S. G., Mimesis, Milano, “Prefazione” di Mazzullo, “Introduzione” di Giorello,
In “Appendice” saggi di: Isabella Merzagora, Claudia Roxana Dorado, Vitale, Damiani
di Vergata Franzetti. Michele Marzulli, "BRÜCKE als sein” Ordinamento
sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come
estetica." in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una
ricerca, Bolognini, Mimesis, Vincenzo
Ferrari, Ciò che resta. Le ultime parole diGhezzi, in Sociologia del Diritto,
Fascicolo, ed. F. Angeli, Rinaldi e Saitta, Devianze e crimine, Antologia
ragionata di teorie classiche e contemporanee, a cura di, PM edizioni,,Rosario
Minna, Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici,
Giuffrè, Sociologia del diritto
Filosofia del diritto Criminologia. zi Le doverosità statutarie ritualirischianoc,
on il passaredel tempo, di perderela loro dimensione rilevanza originaria, per
trasformarsi in meri adempi mentrio utinari, prividi quella dimensione
creativa, costruttiva, propositiva che ne aveva motivato l a nascita. Dunque,
anche per quanto riguarda la nostra relazione morale si rischia di far scivolar
e lentamente nell’oblio le istanze storiche, che nei accomandarono
I'introduzione, per affronter la comeuna incombenza, neppure moltopiacevolee,
comunque retoricamente orientata riempire semplicsi paziscenograficei non ad
essere strumento di autoriflession inedividuale di riflessione collettiva per
la fratellanza tutta sul passato, nonché potente strumentodi stimolo creativo per
affrontare con consapevolezzale realtà future. Pur troppopiù che un rischio tale
situazione si e negliuliimi tempi manifesta t ac o m e avvenimento. Conseguentement
pea r e necessario, prima di entrare direttamente nella sostanza delle questionsiulle
quali riflettere, ricordare brevemente il significatto tradizional e profondo
della relazione morale propria della libera moratoria del Grande Oriente d'ltalia.
Per comprendere tale significato è necessario conoscere funzioni e competenze di
chi e preposto alla sua stesura; ossia del Grande Oratore Rituali, Costituzione
Regolament di el Grande Oriente d'ltalia come ognuno di noi, al calice divinoe
assoggettar ma il volere del destino. Johann Wolfgang Goethe
assegnano al Grande Oratore competenze in campo iniziatico, culturale e giuridico
(ex art. 119 Reg.). In oltre il Grande Oratore, in quanto Oratore e, competente
as volgere queste stesse funzion ainche ex art. 36 Reg., funzione i competenze che,
per altro, salvo le elencazionei semplificativ reiportateda quest'ultim aorticolo,
nella sostanza della materia disciplinatta endonoa coincidere. Pertanto la
relazion e morale da discutere in Gran Loggia ex art. 28, letter ad, Cost., in
quanto assegnata nella sua stesura al Grande Oratore e previament esaminata (ex
art. 38, lettera f, Cost.) in riunione di Giunta del Grande Oriented'ltalia, non
può che consistere in un sistematico espletamenta onalitico e propositivdo elle
funzionei delle competenze del Grande Oratore. Risalendo, poi, alla tradizione storica
all'interno della quale nacque l’Istituto delle relazioni morali, e facile comprender
ceome esso fosse, al contempou, nasorta di biiancio criticodelle attivita svoltee,
soprattutto, della loro incisivita sia all'interno, sia all'esterno dell'lstituzione,
nonché un programma ed un impegno di attività per il futuro. Dunque, da un
lato, il Grande Oratoree tenuto nella propriarelazionemoralea richiamare l'attenzione
della Comunione sui temi, che repute maggiormente rilevantpi er la stessa, privilegiando
nael meno uno,e, dall'altra parte, ad analizzare la moralità interna, dei suoi
componenti, dei fratelli tutti nelloro insieme, per evidenziarne a correttezza caomportamentale,
che non può essere intesa come mera correttezza giuridica. Conseguentemente la presente
relazione morale verrà idealmente divisa in due parti, l’una riguardante la
situazione morale e giuridica della nostra comunione, e de credo, a tutti
evidente quanto sia necessario un generale richiamo in questa direzionem, entre
l'altra rivolta aite mitrattatei da trattare in ambito iniziatico, FILOSOFICO, culturale,
sociale. Per meglio svolgere soprattutto questa seconda parte della relazione morale
ho reputato opportuno non far scaturire i contenutti e matic di a u n mero
lavoro solitario dell'ufficio del Grande Oratore, confortato al più dalle
riflessioni della Giunta, ma mi e parso opportune, oltre che maggiormente
proficuoai fini dell'individuazion dei un corretto quadro di attivitae di
aspettative in materia, rivolgermi direttamenta ei fratelli della Comunione impegnatsiul
territorio nazionale nel campo dell'elaborazione de,lla proposizione dell'organizzaziod
nelle iniziative iniziatico, culturali, che sono proprie della nostra tradizione.
A tale fine, organizzo un incontro aperto a tutti i Fratelli che avessero desiderio
di partecipar vai, Massa Marittima presso la R. L. Vetuloniae colgo questa
occasione per ringraziare i Fratelli della R. L. Vetulonia per la loro calorosa
accoglienza, nonché tutti i partecipanti all'incontro per i preziosi contribut
fiorn i t i alla discussione. L'incontro ha visto la partecipazione numerosa di
molti Fratelli come singolic, ome rappresentandti associazion ciol legate alla nostra
lstituzione e come operatori culturali. I lavori sono stati pienamente soddisfacent
pier tuttii partecipantei d,in particolare per me, in quanto mi hanno fornito numerose
ed utili indicazionpi er la presente relazione morale. Nel ringraziara encora, dunque,
tutti i Fratelli, che hanno contribuita olla buona riuscita dell'iniziativa,
posso sin da ora comunicare che intendo continuare su questa strada anche in future
ed auspico una partecipazion sempre piue stesaa questo modello di incontro.
L'immagine sterna della Libera Muratoria L'immagine profana della Libera Muratoria
per lunghi anni, soprattutto in Italia, e stata offuscata dai pregiudizi, dalle
calunniee, talvolta, anche dalla congiura del silenzio perpetrate contro di noi
dai nostri nemici storici, ossia dai seguaci di integralis meidi totalitarism piolitici,
religiose, i FILOSOFICHE dii ogni colore. Tutta via, pur troppo, però, troppo spesso
per insipienz ai gnoranza o d’invidia la calunnia e dil disprezzo sono nati anche
dal nostro stesso seno e si sono diffuse nel mondo profane grazie ad un masochistico
cupio dissolvoi adun diffuso atteggiament poassivo ed autocommiserativo, peggio
ancora, ad una profanità penetrate tra le nostre colonne ad opera di fratelli, che
erano e sono rimasti p i e tragrezza. Fortunatamente questi fenomeni, sebbene
ancora presenti, soprattutto ad opera di fratelli inveterat di a lunghi anno
negli antichi vizii, come giustamente ha piu volte ricordato il
nostroVenerabilissimo Gran Maestro, tendon a non avere più presa sull'opinione pubblica
profana grazie soprattutto alla decennale politica di chiarezza, di trasparenze
a di impegno civile intra pres daall'attual Gran Maestranza. Se cosi si puo
dire, la battaglia per I'affermazione della nostra legittima presenza nella
società democratica italianae per la costruzione di una nostra imagine pubblica
positive è stata vinta. Oggi i mass-media distinguono quasi sempre con rigor etra
Grande Oriente d'Italiae massoneri e irregolaroi deviate, riportano fedelmente,
anche se ancora con non sufficiente frequenza, le nostre opinioni e le nostre
iniziative ci riconoscono uno spazio nell'informazione, che, sebbene da
estendere, ha tuttavia gia il carattere della correttezza. Anche le istituzion piubbliche
hanno mutato atteggiamentnoei nostril confronti, riconoscendo cin taluni
ambiti, che storicamente ci appartengono, come interlocutori qualificati
(partecipaziona ecommissioni, comitati pubblici, etc.); i messagg di elle massime
Autorità dello Stato alle nostre manifestazion si ono ormai diventa te una felice
consuetudine, sempre piu frequentemente politici ed amministrator piubblici partecipano
alle nostre iniziative culturali e le Comunioni massoniche estere guardano alla
nostra realtà con rispetto ed ammirazione. In sintesi, la società civile ci ha restituito
il ruolo che storicamenti en ltalia e sempre stato nostro. Poiché, però,
nessuna Conquista nella storia umana e definitiva e quandoci si ferma a
contemplare compiaciuti risultatir aggiuntisi rischiadi perdere quanto si è faticosamente
conquistato, non solo è necessario perseverare nell'impegno sino ad ora profuse
nella costruzione della nostra imagine pubblica, ma e altre sì indispensabili entensifica
ruelteriormente in modo operare attraverso un radicamento sempre piu profondo
sempr epiù rigoroso tale impegno e, soprattutto, della nostra imagine nell'azione
sociale effettiva, nella nostra reale presenza storica, nelle azioniche
quotidiana menctei ascuno di noi deve compiere per essere degno della maestranza
cui appartiene. Nelle attuali societa postmodern e l'immagine è molto, talvolta
quasi tutto, ma non è tutto. Oltre all'immagin serve anche la sostanza da cui
tale imagine dovrebbe derivare. In particolare, proprio nella via iniziatica liberormuratori
all’immagine non dovrebbe essere il vuoto simulacro di irrealistiche
aspiraziono i diabiliingannim, a la Fedele icona della realtà, di cio che vogliamo
esseree siamo come Liberi Muratori e come appartenenatil Grande Oriente d'ltalia.
Pertantole azioni di markefrng sono senza dubbio necessarie in una societa come
la nostra, per corsa da apparenze sempre più invasive m, a eproprio la nostra natura
iniziatica e tradizionala e imporcdi i essere cio che desideriama opparire P.
erraggiunger qeuesto obiettivoe indispensabil perogettared, a bravi architetti,
una fattiva presenza nella società in cui viviamo; una presenza che sia
significativa, ttraverso le nostre opere.dei valori che da sempre rappresentiamo.
La arepresenza avrà la prevalente componente individuale, ciascun Libero Muratore
e chiamatoa fare come singolo la propria parte di lavoro, a dare con il proprio
comportamento il buon esempio, ma dovrà essere accompagnat ea sor retta anche
dalla presenza dell'lstituzione liberomuratoria nel suo insieme per risultare
maggiormente incisivae persistente nel tempo: il mondo modernoe sempre più
istituzionalizzato ed anche noi dobbiamo adeguarci a questa tendenza sociologica
d, el resto, la tradizione altro non è che una istituzion liazzazion deeisingoil
comportamenti. La situazione interna della nostra Comunione si presentaa, d una
analisai pprofonditas, ostanzialmente positive e ricca di prospettive per il
futuro, anchese le fastidiose turbolenze profane di taluni fratelli, più animat
di a spirito di riva l s ache di collaborazion pe o, tre b b ef a r pensare il
contrario. Fortunatamen ti erisultati concret ci onsegui tpiarlano più e meglio
di qual sia spiette golezzo o d i qualsi assi composto dissenso. La Comunion es
i present ai n costante quantitativa, crescita sia sia qualitativea segna I'affermarsdii
un deciso ringiovanimendto eisuoiaderenti Quest'ultimdo atonon deve essere trascurato
non soloe non tanto perch eil futuroe dei giovani ma soprattutto perche sono le
vecchie generazioni che manifestanmo aggiori difficoltà ad abbandonaruen
modello di Libera Muratoria non consononé alla nostra tradizione iniziatica ne
alla realtà storica attualment esistente. Nel generale panorama, non solo
nazionale, di diffusa disaffezion veersoI'impegno associazionistico (Rotary Club,
Lions, partiti politici, chiese, etc.) ed, in particolare, verso quello liberomuratorio
conforta constatare come il Grande Oriente d'ltalia si ponga in contro tendenzae
riescaa catalizzare I'interesse l'adesione di notevolei qualificate forze giovanili.
O. vivamente tali adesionsi ollecitanuon rinnovatoi mpegno per garantire al
nostro interno un ambiente semprepiù favorevole ad una crescita iniziatica comune.
Le adesioni scatur i sconod a aspettative e l e aspettative piu diffuse sono
proprio quelle che hanno caratterizzato la nostra storia: una elevate qualità iniziatico-esoterica
qrande unita ad una capacita di presenza sociale. Simbolicament pearlandop,
urtroppole note iniziatich deel Flauto Magico di Wolfgang Amadeus Mozart sono troppo
frequentement pero fanate dall'irromperneella Comunione di comportamen atinimati
dalla tipica profanità deitre Compagndi 'Artecheuccisero Hiram. La Libera Muratorianon
puo essere né la camera di compensazione delle frustrazion pi rofanee neppure
un campo di futili contese di natura condominiale l;a Libera Muratoria è una
scuola di perfezionament ion dividua l e finalizzato a l bene dell'Umanita d; i
questa nostra caratteristica non possiamo mai smarr i r nel a memoria a pena d
i negare la nostra stessa natura. Per questo motive e necessario stigmatizzare negativamente
quei comportamentci he, nascendo da uno smisurato narcisismo personale p,
ongono il proprio io in posizione assolutae tentano di imporre il proprio modo
di vedere come I'unico corretto.Tali comportamentni on solo contrastano con il
nostro basilare principio di tolleranza, manche con quella visione relativam,
olteplice, checi e propriada sempre. Non meno deprecabil si ono quei profani comportamenti
che mercanteggiancoarriere, grembiulie riconoscimenti, prescindend do a
capacità, convinzioni i d, e e e progettoi perativi. Deve risultar eb e n
chiaro a tutti che le funzion iniziatich ed organizzative, chesi ricoprono in
Loggia e nell'lstituzionien, genere, sono servizi prestati alla comunitàe non
orpelli, gerarchieo privilege di a esibire, se non ancheda ostentare.
esibizionei d ostentazionsi i configurano come veri e propriabusi delie
funzioni ricoperte. Se vissute correttamente tali funzioni debbono essere intese
comeonerie, per tanto, non dovrebbero da readito ad alcun litigio in
sedeelettoraleo di nomina alle medesimen; onvi dovrebbei,n fattie, ssere Nessun
interesse personale a ricoprire qualsiasi una funzione l;'unicointeresse lecito
e quellodi servire la comunità. stratificatea cumulativadella verità, Ulteriorniegativitcài
giungonop,oi, dallaormainval sabitudindeiesternarien sedeprofanai conflitti
interni alla nostra Comunione. Questo comportamento, certamente favorito dai moderni
mezzi di comunicazion dei massa (lnternet, e-mails, ms, etc.) , induce prendere
posizione, il proprio pensier so enz a inte r porr pe rima una giusta pausa di
riflessiones o: no veramente convinto di quello ch-escrivo? Risponda elvero quanto
affermo? E'opportunaoffermarloF? Accioilbene della nostra Comunità affermandolo?
Etc. L'azione dello scrivere costaormai così pocafatica ed è così immediatcaheprecede
il pensiero stessos: i agiscesenzauna sufficien t reiflessione I . danni d'immagin
peernoi tutti, pot,a causa dell'impulsi virtà razional deeipochis, i diffondono
profani, trai che leggono iunquele nostresternazioni, spesso anche senza riuscirea
capirle, ma sempre comprendend cohe siamoco involt in scontri completamenp terofania,nche
peggiori dlquellpi roprdi ella normale profanità. Particolarmenr tieprovevolaeppare,
poi, I'uso ormai diffusodi giuridicizzarie contenziosi . -giuridica, interni,
abbandonand lao noslra tradizionme orale i,niziatice a ritual p, iùche e di in asprirei
tonidegli scontrbi e noltrequanto dovrebbesserelecito tr aFratelli
nell'lniziazion Sé. Emprepiù spessoI, nottret, ali conflitti non si fermano all'interno
della nostra giustizia massonica, ma fuoriescono, per'approoare direttamenatei
Tribunadliella Repubbliclataliana Della illegittimiatà nche giuridicadi tali comportamenst
ii diràinseguitop, erorabasti sottolineari le degrade moralede-lltaradizionme-uratoria,
l comportamen dtei scritti sono decisament reiprovevoli come esempio Luminoso I.nfattic,
on estrema algradodi Apprendist Laibero Muratorre icordal recipiendario: ll. secondo
dovere è di praticarela virtù, di soccorrere i vostri Fratelli d, i prevenirele
loro necessità, d i a lleviar e le loro disgrazie e d i assiste r l cion i
vostri consigli e co l v ostro affetto. e ueste virtù, che nel mondo profane sono
considerate qualità rare, sonotra ioi soltanto il compimento di un dovere
gradito. ll terzo dovere è quello di conformarvai lte leggi dell'Ordinedei
Liberi Muratorie ai Regolamentdii questa Loggia, La nostra Comunione non dovrebbe
rappresentarueno spaccato della nostrasocietà, ma raccogere solo ilmeglio c,he inessagiàvive,
pe riniziareun percorsodisempre crescent peerfezionamento. ll Libero Muratore non
può rappresentare il cittadino medio,ma deve aspirare ad essere l'élite della
società. Fortunatamenltae maggioranz daella nostra comunioneè composta da fratelli
meravigliosi, che si distinguono per profondità iniziatica e generosità civile.
Poche piete gîezzenon possono rovinare quantoi più hanno levigato. La giornata di
Massa Marittimhaa evidenziat Io'esigenzdai rifletterien torno ad
unanumerosaseriedi temi, chepaionocrucial pierla nostra Comunionien quésto particolare
momentostorico C. ertamentie temi individua eticheo raverrannoes postni
onsononuo viallanostra Tradizione, ppure sembranonon ancora completamenpteadro neggiati
da tutti. In convergenz caonlei stanze che da piirparti della Comunion leibero muratorisailevanol,
apresente Gran Loggia è dedicate all'Etica della libertà ed all'etica della
responsabilità. Non può sfuggire soprattutti onunambito come ilnostroc, henon
dovrebbe riprodurrie vizi della società profanam, a proporsi chiaîezzi al
rituale di iniziazione I'ispirazion weeberiana, che anima questo tema. Weber fu,forse,
il più illustre sociologioedesco della prima metà del secolopassato efucertamente
-postindustriale un acuto osservatore critic dellasocietà e burocraticac'hein
quegli annisi stave formando all'ombra della minaccia dellegrandi dittatur europee,
allora nascentlil. Messaggido ell'illustrse ociologeo videnziava, primo
poterec'hetendevanao spersonalizzare le decision piolitichien dividuali e
lerelatrvseceltem, asubitodopo richiamav Ia'attenziona enchesullasolitudinde ell'esserue
mano di fronte alcrescent peoliieismdoei valori del mondo modernop;oliteismo,
chetuttorain esorabilmente organizzazionsiociali.Tuttaviaa fronte di un
politeismo dilagantenell'estremo soggettivismo, Weber concentrl a apropr i a
analis si u l comportam enrtao zional e e sul momento etico, per matéiializzar
e dei valoriun comportamento orientato ad un relativismo operativoi ,spirato a
à una organizzazione tutta umana e democraticda ellèsocietà W. eberaf frontail tema
fondante delle società moder Àec:omepossano funziona rele società industriali
di massanel rispetto delleindividualit pàersonaluimane? E',dunque,in questo quadroche
I'etica dellalibertàr, i volta allatuteladel singolo essereumano, deve coordinarsei
conciliars cion I'etica della responsabilità, fìnalizzata gli interessci ollettiveid
istituzionalNi. ulladi più attuales, oprattuttoa, llalucedei present pi
roblemdi i sviluppo economico sostenibile di benessereo, t tutela dellelibertà individuaeli
di sicurezzad, i partecipazione democraticea di esigenze di governo p,er citare
solo pochi esempi. Al di là,. comunque d, eg L sipecificciontenut ciulturali eberianiiil
sempiice richiamao questo Autores prime un elemento fondante della Tradizion leiberomuratoria:
a a parlare da trasmettere cheessi rivetano. in luogo,i mèccanismi burocratic diel
incalzae rischiadi sprofon darnel nichilismlo e dalnulla I'impegno
civile e sociale sostenuto da un'etica radicata nella nostra cultura
iniziatica, ossia individuale, personale, propriadi ciascun LiberoMuratore. La
nostraTradizione iniziatica ci assiste ed accompagna nelle impegnative prove, che
I'attuale realta storicaci presenta e, noi, peressere all'altezzadita leTradizioned,
obbiamo essere capacidi re interpretarla a l presente, non d i ripeterla al
passato. La Tradizione e tale perche si pon e fuor i dalla storia in un a
perenn e attualitan, onin un richiamo cristallizzato ad un singolo attimo del tempo
passato. La centralitaeticadel nostrolevigarela pietra grezza di noi stessisi
impianta sulle due colonne DI UNA PROFONDA CONOSCENZA FILOSOFICA e di una altrettanto
profonda consapevolezza morale. lgrandi insegnamenti che ci giungo nodai
simboli, dai riti, dalla sapienzae dai lavori dei nostri Fratelli passatae dalla
nostra lstituzione HANNO NATURA EMINENTEMENTE FILOSOFICA e morale. Dunque, ciascunodi
noi devecostruirsciome un attento conoscitoredei nostri insegnamentim, a anche
come un ferreo e rigoro soportatoredi comportamentisi pirati alla nostrapiu
rigida moralità.Troppo spessosi sentono talun i Fratelli vantarsidi conoscenz esoteriche,
poi, il loro comportamenteo paragonabilae quello dei peggior pi rofani.Troppo
spesosi assiste alleiamente ledi talunifratellpi erl'assenzad insegnamenti poi,
massonci, e loro persistenta essenza non solo a dibattitei convegnim, aanchee soprattutto
agli stessi lavori di Loggia. Troppo spesso sia scoltano taluni fratellli amentarsdii
quelloche non ottengono dalla Libera Muratoriae non domanda rsciosaessidanno allaLiberaMuratoriaT.
Uttiquesti comportamenti rivelano una assenza di vera e profond amorale libero
muratori a Dell'assenz da i conoscenza non e ne p pure il caso di parlare.
Fortunatamen ta efronte di queste degenerazio nl ai gran parte dei Fratellsi i
distingu epe r i mpegn oe serietà nel percorrere la via iniziatict a radizional
deella Libera Muratoria. Per favorire la crescita della nostra lstituzione necessario
in, una societa dimassa, giuocare suigrandi numerie, quindi, selezionare dai
grandi numerii migliori uomini, per inserirlai l nostro interno. Se si
raffrontano quantitativamenite Massoni dell'ottocento italianoa quelli attualied
entrambi alla rispettiva dimensione numerica dellasocietà, nella quale viviamoe
vivevanoc, i si accorgeche oggi noi siamo molto sotto dimensiona Nt i on credo
che si poss a pensa r ec h egl i italian di i oggi siano peggior di i quelli d
i ieri, forse , come sembra no testimoni artealunenostre realtainterne al Grande
Oriente è, vero il contrario E.dallorae nostra carenza non dare la possibilitai
migliori di entrare nella nostril stituzione. questa Su comunicazion è ecentral
e e molto s i e fatto in tale direzione si a attraverso incontr pi ubblici, sia
grazie ad un a ricca pubblicistica, sia, in fine , attraverso la presenza sui
mass media. Non si deve r a l lenta r s l’impegni on queste direzioni, ma tale
impegnopotrebbetrovarefattoridi moltiplicazionaet traverso un sistematico
coordinament noazionaledegli interventiI. noltreil moltiplicarscio ordinatodi
una rete associazionistica sul territorio nazionalepotrebbedivenireun utile strumentoa,
l contempod, i diffusione dei nostril principei di informazion ientornoallenostre
iniziative, ma anchedi selezione di coloro cheintendono avvicinarsai noi. A
questa selezion esternadeibussantdi eveanche corrisponderuena selezioneinterna dei
Fratelli. Non casualmentegli insegnament liberomuratorvi engonoim partitsi u
tre gradi (Apprendista, Compagno d'Arte, Maestro) p, ertantonon puo essere il
mero trascorrere del tempo a determinarei passaggdi i grado. Solola
conoscenzadelgradonelqualesi lavorapuodaredirittoad aumentdi i salarioc,
omebene esprime la nostra Tradizione e, la conoscenza s caturisce dalla somma
del lavoro individuale con quello di Loggia. Pertantola selezione non puoche avvenirea
seguito di una costantepresenza in Loggiae di un sistematico lavoro personale di
ricerca. Le Logge dovrebbero lavorarein tuttii gradi, nonsoloin quello di
Apprendista e ,d, in particolare, i lavori in terzo grado dovrebberoessere valorizzati,
affinchesi possaconstata reche il Grande Orientee composto da Maestri c, he
lavoranonel loro gradoe non in gradodi Apprendistal.l grado di Maestro e il
vertice della nostril stituzione, pertantod , eve informarela maggioranza dei
lavori ritualidi Loggia per evitare che le ritualitadi altri gradi prendano il
sopravvento, snaturando nlea forza iniziaticail: avorida Apprendistra estano
per Apprendi satinchese fattida Maestri. ln questi ultimi anni il Grande Oriented'
ltaliaha promosso una crescent organizzazion deella Comunio neal fine di
potenziar nela presenza socialee la capacita internadi creicita qualitativae quantitative
In.fattis, emprepiùnumerosei culturalmente rilevantsionostatii convegnil, etavolerotondee
gli i n cont r si i a pubblic si i aprivati; l a nostra p resenz a sul
territorio e stataraî forzata da consistent i impegni per fornire a i fratell s
i e di dignito sem; a necessi t a ancor a s i a una maggiore partecipazioni
enterna a i lavor i della Comuniones,iaunapiu adeguata organizzazione storiche.
Rispettoal tema della partecipazione ai lavoridi Loggianon mi sembrasi debba insisteremoltoper
costituzionalech, e megliorappresentlei attuali esigenze evidenziarnela
doverositaolt realla necessità T. uttaviapare opportune ribadire come la
radiceprofonda della Libera Muratori ari si e dane i tre gradi dell'Ordine e
non negl i ulterior gir a di dei Riti , i quali, al massimo , possono essereconsiderati
delle articolazionsi pecificheD. unque, nessuna camera rituale puo sostituire
sopperi realla carenzadi lavori nei primitre gradi. Questa riflessione dovrebbe
convincere tutti i Maestri Venerabi la i promuovere un consistente incrementodi
lavoriin cameradi Maestro,al fine di espandere pienamentele potenzialita
iniziatichdei dettacamera. Riguardo, poi , alla nostra organizzazione costituziona
l ei nterna , pa r e necessario constatare com egli episod i cei d occasio n a
li in terven tdi i riforma normative, sovrappos tai d un tessuto già di
disposizioni spes Ào si constatala stradala contraddittorio
carente, abbianoormairesa evidente la necessitàdi una organicae completari scrittura
della nostra Costituzionee deinostrRi egolamenti. Infattir, isultasubitochiaroa
chiunque studila nostril stituzionceome alla struttura iniziatic (aLogge, Gran Loggiae,
tc.) della nostra Comunion sei sovrappongaper dalla nostra appartenenza precisa
ad una realtà storicau, nasovra struttuar associazionistica di inevitabile
sapore profanoP. oichenone possibil peorsfiuori dalle esigenz seloriche dalla societàc,
uisiappartienae pieno titolo, la struttura iniziatica deveper necessità coordinarsci
on l'oîganizzazion perofanal associazioni, società commerciaolib, blighfiscalei
. di pubblica sicurezzaq, uoteas sociativelo, cazionimi moòiliari, etc.) dalmo delloconfederale
originarivo ersoun modello federale piùo meno centralizzaìo. neirecentpi
rowedimendti adegua menatolle normative fiscali mposte allealsociazioni
civiles, i a d ella Liber a Muratoria , sia del rapporto che intercorre
pertanto traquestedue realtàstoriche. Dobbiamo stupircci heancheil
nostroapparatonormativo, quello conseguentemennteo, nscambinoi gradi percarriere,
grembiuli i peronorifìcenzee le norme per strumenti di prevaricazion Lea. Libera
Muratori saialimentadiidealie di spirito diserviziofraterno. In ultimo, ma nonultimo.
A chiusuradi questa relazionme oralemi sembra opportuno
ricordardeuespecifichtematiche, sono dovuteaffrontarein
questoprimoannodellanuova Gran Maestranza. prima intorno allatroppoeslesacontenziosigtàrudiziaria
ed al degradocomportamentale, derivato e, mersi in occasion ed el rinnovodelle
cariche di é iunta e continua tpi ervicace mente anchenel Corso delcorrenteanno.
La seconda investe irapporttira Ordine Corpi Ritualei dhaportato allastesuradi
nuovi Protocoldli' lntesa. Procediamco on ordine. ll primotemaaffronta I'ormadi
iffuso mal costum dei ricorrerealla giustizia ordinaria perpresuntedisarmonie
in materia libero muratoria, prima anche di esperire il foro domesticeo di
cercare concordiafraterna,come dovrebbe essere nostro dovere fare. Inolt;e, tali
scontrigiudiziarisi connote naoncheper la violenza, la ripetitivite à la
caparbiareiteraziondei atti,citazionei, sposti, richiest de i accertamentin via
preventivaed in via risarcitoria, querele,richiestedi prowedimentiourgenzae
quant'altro consenta I'articolato ordinamentgoiudiziario si sommaancheun
corrispondente di massa (giornalil,eúere,siti internet, esigenze socialei
giuridichdeipendenti etc.) ai e giuridic armonicae,ntrola qualesvolgereinostri architettonici
finedi costituireuna unità istituzionale lavori D' el resto tale problemaha naturaTradizional
peo, ichenon nasceoggrm, aciaccompagna storicdi el compagno naggeio della Massoneri
OaDerativa. La Tradizione costituzionale della Muratoria Universale, Infattil, e
Loggesovranesiunisconoc, onservandlaopropriasovranitàp,erformareuna Gran Loggiam,
ail sistemaè lentamentsecivolato, lnoltre,ha naturaevidentemente federale.
comeperaltroè awenuio anchenellecostituziosntiatal (iSvizzera, U.S.A., In
sintesis, i è materialealla Costituzion feormaleorigtnariaC.iòha sovrappost uana,
cosìdetta dai giuristi C, osîituzione prodottoincertezzeinterpretativea,d
esempiointorno all'autonomidaelle Logge, comebenesi e evidenziato dallo Stato ltaliano.
Maanchea presclnderdealleantinomied, allelacunee dalle oscuritàdeinostritestinormativil,tempo,
comeè notoai giuristiè, nemicodelleleggie: ssocorrementrele leggirestanofermec,
ristallizzate nellaloro immobilitàIn. Questi ultimai nniabbiamo assistit aollerapidetrasfor,
Àazioanni,coraínfieri,siade a società n o n adeguarsai lle nuove esigenze. Owlamente
I'adeguamento deve esserefatto in modo organtcoe sistematictoe, nendo anche conto
delle dimension ci rescendtiella nostral stituzioned, elle regolamentazioni,
che si sonodate le altre Massonerie stranieree, delle normative degli ordinamengtiii
ridici statalie sovranazionali. .. Una ultima riflessjonmei portaaricordaraetuttiiFratelliche,comunquela,LiberaMuratorinaonpuò
divenireuna organizzazion perofana. Essa è e deve restareuna lstituzione TradizionaleIniziaticaper
il perfezionamento dell'essere umano. CiÒ, erò,presuppone non iniziatico, simbolico
e rituale, debb a ancheche i Fratelli avivanoinquestospiritoe, italianoP.
eraltroall'iperattivismgioudiziariJprofano fenomenodi comunicazione e-mails,
ms, etc.), perlo più anonimo, tendentea screditare la nostra lstituzionaédín, particolaie,
alcunsi uoi esponendtii verticeN. Onpare necessariso offermarsui llaprofaniteà,
spessoa, ncheilliceitàgiuridicdaitali comportamenstie,mbra,inveceo, pportuno sotlolineare
comeessirendanodi dominio pubúicole nostre conte sei n terne, violando non
certo il segreto massonico, poiché non viè nu l l ad i segre i oi n simili
miserie umane,ma umiliandoil buongusto,il dirittodei fratellai d una
immaginepubblica internodistesoed alla riservatezzadelle proprieproblematiche
f,ositiva, di fàmiglia. La litigiosità ed ancor più I'accanimenntoel la
litigiosità -una sono pessimbi igliettdi a visitae forniscono immagine Oriente d'ltalia.
finedi evidenziar qeualidebbanoessere i comportamenti correùiinialematerianella
nostra Comunioneln. Nostra lstituzioneT.utti possono percepire idanniche questsi
considerati Poiché il Grande Oratore traipropricompitiistituzionali quello
haanche di interpretare e di custodirle leggiho reputatomio
precisidoverecompiereun lavorodi esegesigiuridicasullenostrefontinormativea, l
chesi La riguardala riflessione chène è connessoe deteiioratdaella
comportamenairirecanaol Grande daitempi ad un clima breve, risulta evidenteche
la nostraTradizione non consente un facile ricorso alle giustizie or6inariein
materia liberomuratorie, comunquen, on tollera una eccessiv animosita neldifenderàl"
proprie presunte ragioni. Se non e possible parlare dell'esistenzna el nostro ordinamento
giuridicodi una vera e propria clausolacorx promissorai assimilabil ae quelletipichedell'associazionism
proófanoe, tuttavia evidente come il ricorso alla grustizia ordinaria venga costantementv
eistoe vissuto comeun comportament poatologicoe talvolta anchecomeuna vera e
propria colpa massonica L.asituazionesi aggravaper I'attoiequalorail giudizt o
massonico o anche solo quello profano di aalui torto; poiche in tàle caso si
evidenzia senza equivocei d incertezzeun comportamento non fraterno nei confrcnti
del convenuto. Al fine dichiarirei l più possible tali tematiche ho provveduto
ad una analisi delle nostre fonti di diritto, analisiche gia evidenzia quantosopraesposto,
ma che raccomandapiù puntualmi odifiche normativenei nostril regola menta il
fine di rendere esplicita a, nche sul piano associazionistico,
nostroordinamentgoiuridicodi unaclausola compromissoria. ll pareresulle fonti
del diritto libero muratorio del Grande Oriente d'ltaliae sul vincolodei
Fratellai limitarsni
eicontenziosaillagiustiziadomesticavieneriportatonell'allegato n.1. ll secondo rilevante
temaaffrontatoin questoanno massonicori guardai Protocoldl i'lntesatra il
Grande Orient ed’Italiae di Corpi Ritual ai desso aderenti Pur troppo anche i
comportamenti che hanno costretto ad affrontaretaletematicanon sono certo
commendevolei rivelanoilmaisopitotentativo delle arganizzazioni ritual di
i costituirsciomeuna MassonerianellaMassoneria, come un livello superiore di
controllò dell'Ordine Libero Muratorio dei primi ed unici tre gradi,
contravvenendo in tale modo alle regole massoniche internazional mentrei
conosciute. Pertantoi nuovi Protocollid'lntesasi sono rigorotamenteispirati
all'applicazion delle normative internazionali in materia ed hanno inteso
pericolosa, correggerela anchese tra Ordinee CorpiRituali nuovi Protocolli di'lntesasifondanosu
quattro forseinconsapevoltee,ndenzaegemonicadei Corpi Ritualsi ull'Ordine. Al finedi
ristabilirIe'equilibrio principbi enprecisi: L'Ordineo, ssia il Grande Oriented'ltalia,
svolgeuna indiscutibiled originaria' funzioni eniziaticamente fondantee
giuridicamente legittimante regolarizzantreispettoai Corpi Rituali. | Corpi Ritualihannotuttiparidignitadi
fronteal Grande Oriented'ltaliae, pertantoi, Protocolli, specifiche peculiarit
daovutead oggettive differenze storiches, onougualipertuttii Corpi Rituali.
Ordinee Corpi Ritual gi odono della più assolutae reciproc autonomiaE. ',
quindi, fattoobbligoai Corpi Ritualdi i astenersdi a qualsiastiipodi
interferenzaedingerenzadirettaod indirettanellavita dell'Ordine ed in modo
particolare nei momenti istituzionadlii sceltae di rinnovodegliorganiinternidi
governo dell'Ordinestesso.A tale fine è parso necessarioritenere incompatibili
dell'Ordine de I Corpi Rituali. l-e normative interne dei Corpi Rituali devono
essere conformi alle normative massoniche internazionalmenrtie conosciute
particolare, ed, in a quelle proprie del Grande Oriente d'ltalia,nonche,
ovviamentea,nchealledisposizioni di leggedellaRepubblicaltaliana. La bozzadei
Protocoll di 'lntesatra Grande Oriente d'ltaliae Corpi Rituali viene riportata
per esteso nell'alleganto. A conclusion dei questa relazione morale sia lecito ricordare
con profondo doloree fraterno rimpianto il Fratello Bent Parodi di Belsito gia
Grande Oratore Aggiunto che nelle imminenze del Solstizio d'inverno e passato
all'Oriente Eterno. La sua immensaculturasi univaad una profondadedizioneagli
idealilibero muratori,ma soprattuttocoloroche hanno avutoil privilegiodi
conoscerloda vicinohannopotutoapprezzare quanta nobilta generosita e d amore
fraterno albergasserno el suo animo. Nel rimpianto di un fratello ed
amicoscomparsovoglio dedicareal suo ricordo queste mie brevi riflessiondiiun tempogiovanileormaiperduto:
RINTOCHI Se le campanesuonanos, egnando il miofato; seilgiornoe
lanottecircolarmente si avvicendano; Conil triplice fraterno saluto. se il mare
arrotola cadenzatriicciolbi ianchi; se i montiforzanolavoltadelcielo, lo ridoe
piangoe bevoe negoildomani. L'orizzonte guida alla madre, ma tu sei un rigido
segmento. IL GRANDE ORATORE. Prima di formulare alcune precisazioni intorno
alle principali critiche rivolte, soprattutto in sede di postfazione, al mio
scritto, voglio ribadire che sono infinitamente grato ad Emanuele Severino, ad
Agostino Carrino ed a don Paolo Renner per l’attenzione, che generosamente
hanno voluto de- dicare al mio lavoro. Le obiezioni, infatti, che mi sono state
rivolte hanno arricchito la ricerca con contributi seri e proficui per la
conoscenza umana; conoscenza che non può che scaturire da serrate critiche,
severe obiezioni, profondi dissensi, diversità metodologiche ed euristiche,
divergenti punti di vista e ripensamenti vari. Ma senza indugiare oltre è tempo
di commen- tare queste critiche. Ogni affermazione presuppone anche la propria
negazione: luce e tene- bre, dritto e curvo, finito e infinito, piace non
piace, etc.. La dialettica degli opposti appare una fenomenologia, per così
dire ontologica, ossia propria della struttura mentale dell’essere umano. Ciò
non significa che il dualismo sia dotato di un fondamento maggiore o minore del
monismo, ma sem- plicemente, che né l’uno, né l’altro sono dotati di alcun
fondamento non dogmatico, non assiomatico. Conseguentemente fidare in un
paganesimo monista di dei, semidei, eroi ed uomini divinizzati, come propone
Carrino, o in un dualismo giudaico-cristiano, che separa il divino dall’umano,
è scelta meramente arbitraria e priva di un solido sostegno logico od em-
pirico, nonché, meno che mai, metafisico o religioso. Probabilmente nel
pensiero o, meglio, nella rivelazione cristiana la sintesi teologica, il
ponte tra fisico e metafisico avviene attraverso la figura del Cristo,
che viene considerato vero uomo, ma, al contempo, espressione della trinità
divina. Afferma, infatti, Cacciari,
commentando Emo: Lo sforzo teologico di Emo consiste, dunque, nell’intuire
nella Croce stessa (non oltre la Croce o dopo la Croce) la Resurrezione1. Si
tratta, tuttavia di una Resurrezione/ rivelazione di natura puramente
spirituale e, conseguentemente soggettiva, poiché tale rivelazione di pas-
sione e di morte nulla ha mutato nella realtà empirica del mondo, se non il
modo di pensare e di credere dei fedeli e solo dei fedeli: si continua a
nascere, soffrire, morire, fare violenza e guerra, elargire misericordia ed
amore esattamente come nell’era precristiana. Del resto neppure la diviniz-
zazione dell’’essere umano (pagana o meno), con buona pace dell’amico Carrino,
nulla ha mutato nel panorama delle sciagure e delle piacevolezze empiriche, se
non la superbia dell’approccio, basti pensare alla tragedia greca. Inoltre
anch’essa si presenta come una conoscenza di fede (leggasi scelta arbitraria)
Le affermazioni del presente saggio, per essere correttamente comprese, devono
essere considerate solo come ipotesi scettiche di riflessione, tut- te
possibili, ma nessuna fondabile su solide basi conoscitive, e non come
asserzioni sostenibili alla luce di baluardi inconfutabili; ciò sarebbe in
evidente contraddizione con il presupposto fondante tutte le ipotesi che hanno
natura nihilista/nichilista. Ė ovvio che alla luce di tali presupposti teorici
qualsiasi critica si voglia muovere al saggio non può che avere na- tura
esterna; infatti una critica interna affonderebbe inesorabilmente nelle sabbie
mobili di posizioni incerte, si velerebbe nella nebbia di affermazioni tutte
possibili e nessuna certa. L’empiria vorrebbe imporre come certezze le
affermazioni della perce- zione umana, ma tali percezioni derivano dalla
struttura organica dell’es- sere umano, propria del mondo, che noi crediamo di
conoscere e, comun- que, nel quale viviamo; ma di tale mondo nulla si conosce,
salvo il nostro percepito ed il nostro percepito è presupposto di se stesso,
pertanto non testabile a sua volta empiricamente. Il reale, ammesso che esista
un qual- che referente empirico da attribuire a tale termine, potrebbe essere
anche molto diverso e maggiormente composito, come dimostrano altre forme di
percezione animale ed ulteriori possibili modalità ipotetiche percettive, da 1 Cacciari,
“Prefazione” ad A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici. G. - P.S. Trappola
senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 139 come viene immaginato
dall’essere umano. In altre parole, il saggio, pro- blematizzando il fondamento
euristico del metodo empirico, problematizza proprio anche l’a priori kantiano
e dubita delle sue categorie. Ciò tende a porre la ricerca empirica sul
medesimo piano di quella metafisica in quanto entrambe fondate su un a priori
indimostrabile. Infatti, giustamente Ema- nuele Severino parla di una struttura
originaria, che implica per necessità l’eternità, ed è proprio e soltanto a
questa struttura, che si può chiedere il fondamento dell’esistenza del soggetto
e dell’empiria. In termini religiosi il problema non muta: il divino intende
permeare l’umano in modo empi- ricamente comprensibile, trasformandolo? Pare
che ciò sino ad ora non sia mai avvenuto. In termini filosofici si ripete il
medesimo quesito: il meta- fisico riesce ad entrare nel fisico, trasformandolo
dialetticamente? Anche in questo caso la risposta sembra sino ad ora essere
negativa. Dunque il dualismo non può tramontare, almeno come ipotesi.
Ovviamente a questi dubbi mostra il fianco anche l’indiscutibile visione morale
di Kant: non fondabile teoreticamente a priori e per necessità re- lativa nella
sua comportamentalità pratica umana; infatti l’illustre filosofo cerca di
fondarla, pur fugacemente ed in modo quasi silente, nell’antropo- logia umana
del mi piace, nell’estetica, che appare essere la dimensione più originaria
(strutturale? ontologica?) dell’essere umano. Ma un macigno an- cora più grande
e pesante ostruisce la strada dell’etica, della morale (kan- tiana e non
kantiana) e del diritto: il tema del libero arbitrio. L’eventuale assenza di
libero arbitrio nell’essere umano cancella d’un solo colpo ogni dover essere ed
ogni prospettiva teleologica. Certo non si può asserire l’as- senza del libero
arbitrio, ma purtroppo non è neppure possibile affermare la sua presenza. Nel
dubbio, e scommettendo, fideisticamente, sulla possibile esistenza del libero
arbitrio, ciascuno può scegliere la propria convinzione e, quindi, la propria
strada da percorrere, ma dovrebbe anche avere ben chiaro che la sua scelta non
ha alcun fondamento euristico, ma solo esteti- co, ossia soggettivo e,
pertanto, è esclusivamente riferibile e vincolante per il solo soggetto, che ha
compiuto tale scelta. Il tema diviene centrale nel mondo del diritto, se si attribuisce
a quest’ultimo, come nella prospettiva di Carrino, una dimensione teleologica;
ma il telos (τέλος) è un fine, ossia un valore, una scelta ed è proprio
dell’assenza di fondamento etico o di qual- siasi altro tipo dei valori, delle
scelte, che si sta discutendo in questa sede. Di fronte al tema teleologico del
diritto pendono almeno due interrogativi, una di natura prevalentemente
politica e l’altra di natura eminentemente teoretica: Cui prodest; a chi giova,
a vantaggio di chi va la scelta compiuta? E, con affermazione ancora più
radicale: per quale motivo si dovrebbe re- putare superiore, più auspicabile in
assoluto il Cosmos, l’ordine rispetto al Caos, il disordine, quando, come
dimostra il pur discusso, in sede di scien- za fisica, principio di entropia, è
quest’ultimo quello verso cui si muove il nostro universo? Sono mere preferenze
soggettive, estetiche, appunto. Il diritto è ideologia e l’ideologia è arbitrio
personale o collettivo. Riguardo, in fine, all’interpretazione data da Renner
delle affermazioni di Emo, penso che vi sia stato un fraintendimento, cosa, per
altro, non stu- pefacente data la generale oscurità e frammentarietà dell’opera
di questo Autore. Emo si muove nello spirito del Deus absconditus di Nicolò Cu-
sano e, soprattutto, nel solco dell’attualismo gentiliano, pertanto compie una
sorta di rovesciamento lessicale nel significato delle parole: ciò che afferma
come negativo viene ad esprimere una positività, ciò che è invi- sibile assume
il ruolo di realtà visibile, al contrario, il visibile si annienta, ciò che è
nulla è il vero essere e ciò che appare essere è nulla, etc.. Per- tanto tra
fede e scienza prevale euristicamente la fede, in quanto, negando l’apparente
realtà dell’essere può accedere alla realtà reale del nulla, che si presenta
come il vero essere, perché privo di presenza in quanto assoluto. A conferma di
questa pur complessa interpretazione testimoniano alcune affermazioni di Emo:
“L’incoscienza dei vegetali, delle specie viventi, è la loro unità panica col
tutto, che è appunto il paradiso terrestre, il giardino dell’Eden. Il dramma
della coscienza, che è il dramma della Presenza, è la cacciata dal paradiso
dell’unità panica, è il dramma della separazione, della negazione; ma appunto
perché la separazione è negazione, noi, mediante la negazione, possiamo
ritornare all’unità. La fede è fede nella potenza, nella sacralità della
negazione. La nostra colpa è la trasgressione e la sepa- razione; separazione
cioè negazione.”2. Ed ancora: “Il Dio nascosto, il Dio negativo, è già
implicito nel cristianesimo, religione antichissima che ha origine insieme
all’uomo; religione del Dio sacrificato che, per la logica stessa della sua
situazione, diviene religione del Dio che si sacrifica, cioè si nega. Il Dio la
cui attualità ed atto e realtà è il negarsi. Ed a sua immagine e somiglianza
sono gli uomini e il mondo.”3. Per quanto poi riguarda l’interpretazione che
Renner attribuisce al mio concetto di estetica (mi piace/non mi piace) debbo
dire che riflette esatta- mente quanto desideravo esporre. Infatti, con
estetica non intendo né un fugace capriccio, né una ludica superficialità e
neppure una occasionale propensione, bensì un profondo appagamento, un convinto
compiacimento dell’animo, un radicato benessere spirituale, una persistente pace
con se stessi. In sintesi, è un concetto che si avvicina molto al kalos kai
agathòs 2 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici. Emo, op. cit., p.39.G. - P.S. Trappola senza uscita: una riflessione
sulle critiche ricevute 141 καλòς καì αγαθός degli antichi greci, nel quale ciò
che era bello aveva buone probabilità di essere anche buono. A mero titolo
esemplificativo penso possa essere utile all’interpretazio- ne fornire da parte
mia uno scenario concettuale per meglio comprendere i dubbi, che permeano le
affermazioni empiriche, ma anche quelle metafi- siche, che agitano questo
lavoro. Naturalmente tale scenario è ispirato ad alcune convinzioni proprie di
chi scrive, che, ovviamente, si presentano ar- bitrarie, soggettive, relative,
come quelle avanzate da qualsiasi altra perso- na. Procedendo con ordine, pare
doveroso iniziare il discorso da ciò che si crede di percepire vivendo: un
continuo movimento, oscuro nel significato, ma soprattutto, senza fondamenti di
certezza non solo sulla sua origine e direzione, ma addirittura anche sulla sua
stessa esistenza. Il treno della vita non consente discese ai passeggeri: non
possiede porte d’uscita e le finestre sono sigillate; non compie fermate; non
avvertì del- la partenza, ma neppure prevede stazioni d’arrivo. I passeggeri
ignorano come sia loro capitato di salirvi; non conoscono il luogo nel quale si
tro- vano e non sanno neppure nulla di se stessi: come funzionino, siano solo
il percepito o si sdoppino in soggetto ed oggetto; siano Tutto, un terminale del
Tutto o parte tra parti. Sentono, ma non hanno accesso alle fonti del sentire.
La fonte si localizza, oscillando tra spazi successivi, ed immagina le
successioni, il tempo. Eppure non vi è ancora forma, ma puro sentire senza
immagine: chi sente? Chi o cosa fornisce l’immagine, quando si presenta?
Tuttavia una qualche forma di immagine deve pur esistere come riferimento sia
del sog- getto, sia dell’oggetto, affinché anch’essi possano assumere una
propria immagine. La forza, l’energia oscilla senza sosta tra se stessa ed una
qualche forma, modulando la propria vibrazione, ma la forma è instabile e si
liquefa con- tinuamente nella forza, come ghiaccio nell’acqua. Se la forza
osserva vede la forma, che non esiste in se stessa, se non è osservata. Il
mondo sembra un osservatorio permanete, che osserva se stesso in un circolo
tautologico, che esiste nell’osservarsi e l’osservarsi è il solo esiste- re.
Forza e forma, due volti del medesimo fenomeno. La forma si dissolve nelle
metamorfosi e la forza persiste, ma non esiste come massa senza alienarsi nella
forma. Tra i due enti si instaura un vizioso legame mutualistico indissolubile,
nel quale il soggetto crea l’oggetto, ma l’oggetto modifica a sua volta il
soggetto. L’incontro dei due enti produce il fenomeno della consapevolezza, che
è solo consapevolezza di se stessi, ossia del soggetto/oggetto. Un se stesso,
oscillante tra tutto e parte, tra onda e particella, tra forza e forma, tra
energia e massa, che non ha identità fissa. Un soggetto indeterminato come
l’oggetto privo di osservatore, che è sog- getto di se stesso. Soggetto ed
oggetto sono due indeterminazioni, che si determinano reciprocamente, dando
vita al percepire da parte sia dell’uno che dell’altro. Il senso è la selezione
dei fenomeni, che costruisce oggetti e soggetti. Il tavolo si occulta sotto la
tovaglia, ma la tovaglia è materiale coprente men- tre significa pasto per
l’essere umano, ma l’essere umano è entità bipede senza piume, se avesse le
piume sarebbe un capo indiano o un uccello, ma un capo indiano o un uccello
esistono, il primo sia in India sia in America il secondo nel cielo, ma India,
America e cielo sono solo terra ed aria e terra ed aria sono composti di
elementi chimici, ma gli elementi chimici sono energia e massa, ma energia e
massa sono vibrazioni. Le forme si dissolvono. La trappola è l’apparire di un
ente, che fugge oltre le quinte (forse ver- gognandosi della propria oscenità –
fuori dalla scena) di un essere, il quale esiste nell’oscillare del nulla, al
di là dell’essere e del nulla (“[...] è nel determinato essente che il Nulla è
Essere”4). L’indeterminato si determina, sentendo se stesso, ma torna
indeterminato appena cessa di sentire; ecco perché non ha senso, perché è e
resta indeterminato, salvo che per se stesso per un breve lampo di sensazione,
non di senso.L’arco del cielo è sorretto da due colonne. Dal lato destro, la
metafisica fornisce abissale profondità a stelle, galassie e mondi; dal lato
sinistro, l’empiria avvicina l’abisso, presupponendone il fondo anche senza
poterlo raggiungere. L’empiria ci accompagna quotidianamente, nella vita di
tutti i giorni, fornendoci informazioni intorno all’ambiente, nel quale
viviamo, ed a noi stessi, alla nostra nascita, vita e morte. Informazioni che,
quasi sem- pre, non soddisfano per la loro oscurità ed incompletezza. L’essere
umano possiede un corpo, di cui manca il libretto d’istruzioni per l’uso. I
problemi del dolore e del senso dell’esistenza non trovano risposta certa e,
forse, non possono neppure trovarla in quanto argomenti sottratti alla ricerca
em- pirica. Non è possibile verificare/falsificare il valore di un biologico,
che si decompone progressivamente e diviene nutrimento di altro biologico. Il
proprio e l’altrui si fronteggiano fieramente come anelli di una catena, che li
tiene separati, ma strettamente legati; come componenti, appunto, di una
catena, di cui non si conosce né l’origine, né il fine e neppure il senso del
suo esistere. Di fronte al mistero l’empiria si arrende e si asserraglia nelle
sue deboli certezze pratiche, tecniche e strumentali, ma l’essere umano non
demorde e cerca risposte con o senza verificabilità/falsificabilità empirica.
Si apre a questo punto il mundus imaginalis1, ma anche l’Universo dell’i-
deazione, della creatività, della fantasia umana, la cui immaterialità è un suo
elemento costitutivo, proprio per sfuggire ai dubbi dell’empiria, non 1
L’espressione è usata da Henry Corbin per indicare una realtà intermedia tra
fisica e metafisica, tra materia e spirito, una sorta di sintesi tra i due
termini, che non relega il trascendente nell’ambito dell’inesistenza. 16
Il diritto come estetica un inconveniente. Purtroppo anche questa via si trova
ostruita per l’essere umano, in quanto diretta o verso una conoscenza superiore
ed incompati- bile con quella umana o verso una conoscenza individuale,
soggettiva e, quindi, incerta, relativa e prospettica. In sintesi, sia
l’empiria, sia la metafi- sica svelano l’unica conoscenza umana possibile,
quella propria di Socrate e narrata da Platone nell’Apologia: so di non
sapere2. Può la psicologia umana accettare un verdetto tanto duro sul senso
della propria vita? Evidentemente no ed, infatti, le elaborazioni metafisiche
si sono moltiplicate, articolate e complicate nel tempo, mentre gli studi em-
pirici hanno continuato il loro corso senza aspirazione di completezza e di
assolutezza. Il fondamento di qualsiasi discorso continua a sfuggire e le
affermazioni fisiche e metafisiche restano come appese nel vuoto e da nulla
sorrette. Forse è proprio questa loro collocazione priva di alto e di basso,
che ne impedisce la definitiva caduta o, forse addirittura, che rende priva di
senso la domanda stessa sul fondamento. Un dato empirico tuttavia è certo: la
psicologia umana tende verso la certezza anche a costo di rinunziare al mondo
dei cinque sensi. Dunque, il metafisico è, in qualche misura, conna- turato con
l’essere umano come il fisico; è una componente, per così dire, strutturale
dell’antropologia. Nel mondo dell’etica, cui il diritto sino ad ora è
appartenuto, queste medesime problematiche hanno dato corpo all’ideologia ed
all’utopia, alla norma morale ed a quella giuridica, al diritto naturale ed al
diritto positivo, alla giustizia ed alla legalità, alla validità ed
all’efficacia del diritto, al do- ver essere ed al mi piace/non mi piace. Tutte
queste alternative esprimono la tensione tra il vissuto reale e le aspirazioni,
i desideri del soggetto. In particolare, l’ultima alternativa ricordata apre la
strada, che conduce dal diritto come obbligo al diritto come estetica. Lo smascheramento
del dover essere avviene con la constatazione empirica, che le scelte umane
sono 2 “Infatti, operando con una logica (quella apofatica) che nega ogni
proposizione assertiva (ed esaustiva) in merito alla verità di qualsiasi ente –
ma invece proponendovi l’inclusione di ogni possibilità – si giunge a questo
risultato che auspicava Nicolò Cusano con il suo De docta ignorantia. Si giunge
a un non-sapere che include ogni sapere e viceversa: allo stesso modo in cui
l’Essere-Uno – che non è un essere specifico – include in sé tutti gli esseri a
cui conferisce l’esistenza. Ma questo sapere non è, gerarchicamente, estraneo e
al di sopra dell’uomo – che ne verrebbe in qualche modo dominato e esautorato –
ma assolutamente intrinseco all’uomo stesso che ne è, pienamente, partecipe,
pur essendone abissalmente lontano. Così come il molteplice è l’espressione
ontologica dell’Uno di cui è la manifestazione teofanica”. C. Bonvecchio, Le
meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del monoteismo,
Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 14-15.Premessa 17 guidate dal piacere e non dal
dovere, anche se talvolta i due termini coinci- dono. Dover essere e piacere
divengono i due poli reali del disagio esisten- ziale umano e,
contemporaneamente, anche il tentativo di risolverlo. Solo di un tentativo
purtroppo si tratta. Il diritto come estetica non esclude, e non può escludere,
la dimensione metafisica, ma rafforza la descrittività empirica del
comportamento umano, consiglia maggiore consapevolezza psicologica dei limiti
conoscitivi uma- ni ed apre nuove prospettive di regolamentazione sociale. Ogni
demistificazione è un atto di liberazione della conoscenza, ma non è possibile
illudersi di poter superare gli ostacoli ultimi, che oscurano una visione sia
assoluta, sia relativa del mondo, cui apparteniamo. La dea Ananke (Aνάγκη), la
dea Tyche (Τύχη), le Parche, il Fato, il Destino, la Divina Provvidenza intanto
sorridono, interrogandosi intorno al determini- smo ed all’indeterminismo.
Ringraziamenti Al termine di questo mio lavoro voglio rivolgere un particolare
ringra- ziamento ad Emanuele Severino per la sua grande cortesia e
disponibilità ad ascoltare le mie riflessioni; ad Agostino Carrino per il
fraterno impegno con il quale ha setacciato i concetti del mio scritto,
evidenziando proble- matiche a me sfuggite, ed a Don Paolo Renner, che, tra i
moltissimi suoi impegni di misericordia, ha voluto aggiungere, con antica
amicizia, anche quello verso il mio scritto. Capo di Ponte, 11 novembre 2015La
frase, come risulta dalla lettera, riguarda esclusivamente l’Albero della
scienza, della conoscenza del bene e del male, non anche l’Albero della vita,
che pure era presente nel Giardino dell’Eden2. Di quest’ultimo, dunque, Adamo
ed Eva erano legittimati a mangiarne i frutti. Per ora la no- tazione può
apparire irrilevante, ma in seguito risulterà determinante, poi- ché evidenzia
che nel Paradiso terreste i nostri progenitori erano immortali ed, infatti,
compartecipavano della conoscenza divina. La prima evidenza che colpisce il
giurista nella narrazione biblica della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso
terrestre, dall’Eden è il concetto di colpa, la quale, per necessità logica,
presuppone ed è indissolubilmente legata ai concetti di conoscenza e di
responsabilità. Se l’albero, del quale mangiano il frutto, è l’albero della
conoscenza del bene e del male, ossia della consapevolezza morale del proprio
comportamento, non si compren- de come sia possibile emettere da parte di una
divinità come da parte di un essere umano un verdetto, una sentenza di condanna
per azioni commesse 1 Genesi, 2, 15-17. 2 “Ora il Signore Dio sin da principio
aveva piantato un paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da lui formato. Produsse
il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi;
inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso, e l’albero della scienza
del bene e del male”. Genesi, 2, 8-9. da esseri inconsapevoli, per così
dire, innocenti dal punto di vista sia del- la volontà, sia della conoscenza,
in quanto, appunto, ignari dell’esistenza stessa del contenuto dei concetti di
bene e di male: disobbedire poteva essere sia bene, sia male. Se la ragione, da
cui la teoria giusnaturalistica ritiene di dedurre le norme giuste, è la
ragione divina nell’uomo e non la ragione empirica, questa dottrina non può
essere definita come razionalistica. [...]. Se è la ragione conoscitiva a
statuire norme, su cui si fonda il valore del bene e quindi il disvalore del
male, allora la distinzione fra bene e male è una funzione della conoscenza che
statuisce norme, cioè della ragion pratica. [...]. In questa versione, il
concetto risale fino al mito dell’albero della conoscenza: è infatti la
conoscenza del bene e del male data a chi gusta i frutti di quell’albero.
[...]. L’essenza di Dio è nel fatto di sapere ciò che è bene e ciò che è male;
sapendolo, egli vuole anche che si faccia il bene e di ometta il male. Il suo
sapere coincide con il suo volere e la sua ragione è una ragion pratica: è
questa la ragione divina di cui l’uomo si appropria col peccato originale3. Ma
è proprio questa la ragione di cui si appropria, mangiando la mela, l’essere
umano o, piuttosto, esistono due diverse ragioni, quella divina, universale, e
quella umana, particolare, ed è della conquista di quest’ul- tima, che il mito
dell’Albero della conoscenza del bene e del male parla? Probabilmente
l’interpretazione della simbologia biblica deve spingersi oltre, più in
profondità, del concetto di acquisizione della responsabilità (conoscenza del
bene e del male) attraverso la colpa: un colpa che non pre- suppone
apparentemente l’esistenza di alcuna responsabilità e scaturisce da una
disobbedienza ad un comando. Forse, è proprio la nostra cultura, ormai
atavicamente assuefatta ad una eteronomia incentrata su divieti e sanzioni, a
condurci sulla strada di una interpretazione colpevolizzante del mito della
mela. Forse, il peccato originale altro non è che il nostro stesso esistere
come esseri umani e non divini e la metafora della mela, intesa come
nutrimento, atto tipico e specifico dell’essere vivente, sembra richia- mare
simbolicamente questa interpretazione. Probabilmente il senso esoterico del
brano biblico nasconde significati, che non sono meramente giuridici, ma
sconfinano nella riflessione filosofi- ca e nella materia teologica. Ogni
condanna prevede una responsabilità, che scaturisce direttamente dalla
consapevolezza e dalla conoscenza sia dell’azione che si compie, sia della
norma, che la vieta: so ciò che faccio e conosco ciò che si può fare e 3 H.
Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino 1975, pp. 90-91. ciò
che non si può fare; ciò che si può fare è bene, ciò che non si può fare è
male. Ma bene e male possiedono almeno due diverse dimensioni: quella assoluta
del bene e del male universale e quella relativa del bene e del male propria di
colui che agisce, del suo modo di sentire, di vedere, di giudicare gli eventi
ed i comportamenti. Dio disse di non mangiare: sembra un comando eteronomo e,
quindi, in quanto tale, pare contrapporre un divieto divino ad un giudizio e
compor- tamento umano. Questa interpretazione, per altro condivisa anche da Alf
Ross (1899-1979)4, viene rafforzata dalla presunta sanzione comminata: se ne
mangerai morirai. Ma si tratta effettivamente di una norma giuridica o morale
dotata di sanzione oppure si tratta di un mero avvertimento, della descrizione
di una sorta di legge naturale, come quelle che derivano da teorie scientifiche
e che prevedono, ad esempio, il moto degli astri? In altre parole si tratta di
un comando o di una descrizione? Per rispondere alla domanda è necessario
risalire alla situazione di Adamo ed Eva rispetto a Dio nell’Eden. Non era una
situazione di separazione, ma di unione; non vi era individualità, ma
comunione; conseguentemente, l’unica conoscen- za esistente era quella divina,
che permeava, proveniente da Dio, anche Adamo ed Eva. Conoscere e volere,
dunque, erano la stessa cosa non solo per Dio, ma anche per Adamo ed Eva ed in
una tale situazione un comando eteronomo è del tutto privo di senso; in primo
luogo, perché non può essere eteronomo, in quanto vi è comunione, ed, in
secondo luogo, perché un co- mando comporta volontà diverse, mentre, in questo
caso, come vi era una sola conoscenza così vi era anche una sola volontà.
Desiderando il frutto dell’albero, torniamo alla realtà del sospetto, cioè allo
svincolare la conoscenza dall’amore e ad impiegarla ai fini dell’autoafferma-
zione dell’individualità. Una conoscenza contemplativa è una conoscenza del
buono, del bello e del vero. La conoscenza contemplativa è una conoscenza della
pace, perché è la conoscenza del riconoscimento dell’altro, dunque non può
essere a fin di male. La conoscenza contemplativa che Dio propone all’uo- mo,
sua immagine, è una conoscenza sapienziale, che ha in sé una dimensione
assiologia, cioè di valutazione del bene e del male. Ma l’uomo ha questa co-
noscenza già in quanto amico di Dio, sua immagine, e può sempre contem- 4 “Il
peccato nacque quando l’uomo violò il divieto, assolutamente arbitrario e
irragionevole, di Dio di mangiare il frutto di un certo albero che gli avrebbe
dato una conoscenza che era di Dio stesso. Peccato significa dunque
disobbedienza, pura e semplice volontà propria, autodecisione e per questo
peccato Adamo ed Eva e la loro discendenza venivano puniti in eterno nel modo
più crudele. Tutti dovevano subire l’ira di Dio ed essere affetti dal peccato
originale”. A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano 1972, p.
19. plarla nell’albero della conoscenza del bene e del male. Il bene e il
male sono conosciuti dall’uomo insieme a Dio, suo Creatore, e in lui. Anzi,
l’unica giusta conoscenza del bene e del male è quella che l’uomo contempla in
Dio. È con gli occhi di Dio che l’uomo vede il bene ed il male. Ma guardare con
gli occhi di un altro e gioire di questa intimità è proprio delle persone che
si amano. Nell’a- more è la tendenza a conoscere attraverso l’amore dell’altro
e con il suo amore. Proprio nel fatto che l’uomo può guardare l’albero della
conoscenza del bene e del male, perché proprio lì in qualche maniera si
incrociano gli sguar- di tra Dio e l’uomo, c’è la possibilità dell’idolatria,
quindi di una tentazione. Guardare può diventare desiderare, e desiderare
prendere5. Il rapporto tra Dio e l’essere umano in quella dimensione di
equilibrio creazionistico, tutto racchiuso nello spazio/tempo divino dell’Eden,
era di completa compartecipazione, e non proprio di identità (a sua immagine e
somiglianza). L’identità dell’immagine non appartiene ad un semplice fenomeno
visivo, ma si estende anche alla dimensione cognitiva, sebbene non in modo
completo (somiglianza). Il derivato non partecipa a pieno titolo di tutti i
caratteri del derivante, ma certo ne incarna una rilevante porzione.
Conseguentemente Adamo ed Eva non erano privi di conoscenza e, quindi, anche di
responsabilità, ma partecipavano della medesima cono- scenza divina, della
conoscenza propria dell’Uno e del Tutto. L’uomo abbandonerà Dio e la proposta
della tentazione acquisterà sempre più un aspetto di verità [...]. Poiché
l’uomo non è più nella contemplazione dell’albero della conoscenza, ma è ormai
scivolato nella logica della posses- sione, gli rimane solo il male, ossia la
necessità di possedere. Sganciandosi dall’amore, da quella intimità con Dio
nella quale ha potuto conoscere che cosa è bene e che cosa è male per lui,
finisce essenzialmente posseduto dalla necessità di possedere per salvarsi6. La
conoscenza divina, della quale erano compartecipi nell’Eden Adamo ed Eva, era
universale, assoluta, non prospettica, ma posseduta a tutto ton- do nella
dimensione della totalità degli eventi di un Essere, che racchiude in sé ogni
evento7. Il comando, dunque, di non mangiare la mela, la proibi- zione non si
presenta come un atto di volontà eteronoma rispetto ad Adamo 5 M.I. Rupnik,
Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua, Lipa, Roma 2011, vol. I, pp.
227-228. 6 M.I. Rupnik , op cit., p. 230. 7 “Il Dio degli Dei, lo Spirito
assoluto, permane in eterno, al di là della conoscenza che può averne la
religione in questo mondo. La storia non è il luogo del divenire della
coscienza divina suprema”. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p.
74. ed Eva, ma come una informazione, un avvertimento, una descrizione di
ciò che avviene quando dall’unità si passa alla molteplicità, quando l’asso-
luto cede il passo al relativo. Né vi è sanzione nel monito di Dio; ciò che
appare come condanna altro non è se non descrizione di ciò che accade nel
relativo, di ciò che produce, di ciò che è il relativo, ossia l’umano. La mela
è un frutto commestibile, che allieta e nutre il palato umano, quindi potrebbe
simboleggiare quella conoscenza tutta umana e relativa, richiamata anche dalla
leggendaria mela di Isaac Newton (1642-1727), in contrapposizione ad una
conoscenza divina ed assoluta. Adamo ed Eva, mangiando la mela, decidono di
abbandonare l’unione con il divino, per vivere una propria vita separata,
individuale ed autonoma, dotata, quindi, di una propria conoscenza soggettiva e
prospettica, non più oggettiva e completa. Nel racconto del peccato originale,
la tentazione spinge l’uomo a spostare l’attenzione da Dio all’albero – cioè
dalla persona all’oggetto – e a fissarsi sull’oggetto. Prima l’uomo parlava con
Dio e a Dio, poi comincia a contrat- tare con la tentazione, per finire col
ritrovarsi a desiderare l’oggetto – l’albero – come se fosse la sua salvezza.
L’interlocutore ontologico dell’uomo non è più un principio agapico assoluto,
ma una realtà oggettuale. L’uomo diventa ciò che contempla. Come è il suo
interlocutore fondamentale, così è l’uomo. Poiché l’uomo è una realtà
dialogica, non può fare a meno del dialogo, ma tutto dipende da chi è
l’interlocutore di questo dialogo. Se è un oggetto, l’uomo diventerà sempre più
un oggetto. Percepirà se stesso come un oggetto e si rela- zionerà agli altri
come ad oggetti. Anzi, li considererà come suoi oggetti. Ogni peccato commesso
dopo il peccato originale sarà un passo ulteriore in questa reificazione
spersonalizzante dell’uomo8. La ribellione al comando divino (meglio, l’avere
ignorato la descrizio- ne divina) non consiste nell’infrangere un divieto, ma
nel desiderare una propria personalità individuale, separata dal Tutto,
soggettiva, ma questa soggettività si trasforma in oggetto del Tutto;
abbandonata la soggettività del Tutto ciò che resta, come parte, è una
soggettività relativa, ossia una reificazione rispetto al Tutto: il peccato
originale, infatti, si presenta come separazione, rottura del Tutto nelle sue
molteplici parti, come oggetti della soggettività universale. Una prima rottura
nel creato (diversa la rottura dell’Uno prodotta dalla creazione, poiché essa
fu anche rottura, salto qualitativo, di sostanze: so- miglianza con Dio, non
identità) era già avvenuta con la comparsa di Eva: 8 M.I. Rupnik, Dire l’uomo.
Persona, cultura della Pasqua, cit., pp. 233-234. Mandò dunque il Signore
Dio ad Adamo un sonno profondo; ed essendosi egli addormentato, gli tolse una
delle coste, e ne riempì il luogo con della carne. E con la costa che aveva
tolta ad Adamo, formò il Signore Dio una donna, e gliela presentò. E disse Adamo:
“Ecco, questo è un osso delle mie ossa, e carne della mia carne; questa sarà
chiamata virago, perché è stata tratta dall’uomo. Perciò l’uomo lascerà il
padre e la madre, e si stringerà alla sua moglie, e saranno due in un corpo
solo”9. Tale rottura, tuttavia, non si manifesta come irrimediabile, poiché
frutto di una medesima sostanza, la costola di Adamo appunto, che riconduce ad
unità ciò che appare altro, diverso, separato (saranno due in un corpo solo;
rebis di alchemica ispirazione). Ed, infatti, è proprio questo diverso,
separato in apparenza, ma pur sempre composto della medesima sostanza, a
patrocinare ed ad attivare la rottura: è il due che rompe l’unità e la rompe
per attrattiva verso l’individualità, una individualità nuova, il due, appun-
to. Il serpente sembra rappresentare questa attrazione verso il particolare,
verso la separazione (diavolo da diabolos, διάβαλος, colui che divide). La
massa della materia (il serpente) si separa nelle sue parti, forme e qualità
dall’energia omogenea e priva di forme (la Divinità) o, se si preferisce, i
corpi si separano dallo spirito universale. Pare di vivere nel mito l’equa-
zione di Albert Einstein (1879-1955) della conversione, dell’oscillazione,
della compresenza (tra?) di energia e massa in un sistema fisico, che ha su-
perato la visione propria di un materialismo legato solo al visibile, all’og-
gettivato: E=mc2. Henry Corbin (1903-1978) ben sintetizza il tema
dell’individualizzazio- ne, dell’oggettivizzazione nel paradosso (ossimoro?)
dell’unità molteplice: 9 È la visione della molteplicità nell’unità.
[...]. È la visione dell’unità nella molteplicità. Le due interpretazioni si
completano l’un l’altra necessariamen- te: l’ontologia integrale presuppone nel
perfetto Saggio la visione simultanea dell’unità nella pluralità e della
pluralità nell’unità. È attraverso questa simul- taneità che si effettua la
differenziazione seconda, quella stessa in forza della Genesi, 2,
21-24. quale il pluralismo metafisico si trova fondato a partire dall’Uno
– senza di esso non vi sarebbero i molti, ma caos e indifferenziazione10. I
nostri simbolici progenitori, Adamo ed Eva, nell’abbandonare la cono- scenza
divina, assumono, come loro conoscenza specifica, quella umana e, dunque,
divengono prigionieri di tale conoscenza limitata, che comporta anche la
comparsa di fatiche, dolori e morte. La separazione è un divenire altro dal
Tutto, conseguentemente, all’immutabilità dell’Essere subentra il divenire con
le sue opposizioni, polarizzazioni: essere e non essere, fatica e riposo, dolore
e piacere, morte e vita, etc.. Il divenire non può esistere senza l’alternarsi
di manifestazioni diverse, ossia, soprattutto, non può esi- stere senza la
morte, intesa come termine di una manifestazione ed inizio di una nuova
manifestazione. La morte, dunque, come nell’ammonimento di Dio, è
indissolubilmente legata alla conoscenza umana, simbolicamente rappresentata
dal cibarsi della mela. A questo punto risulta ormai eviden- te che Adamo ed
Eva non potranno più cibarsi dei frutti dell’altro albero presente nell’Eden,
dell’Albero della vita, dei quali sino a quel momento potevano godere. I frutti
dell’Albero della vita donano la vita eterna, ma la conoscenza ed il divenire
umani impediscono l’eternità, ciò che è eterno non conosce solo la parte, ma
conosce direttamente il Tutto, e non diviene, ma permane sempre immutato uguale
a se stesso. La parte, in quanto limi- tata non può sfuggire alla morte.
Particolarmente penetrante si presenta la puntualizzazione di Friedrich W.
Nietzsche (1844-1900): L’albero della conoscenza. – Verosimiglianza, ma non
verità: parvenza di libertà – è per questi due frutti che l’albero della
conoscenza non può venir scambiato per l’albero della vita11. Alle
considerazioni mitologico-religiose sino a questo punto svolte pos- sono ora
essere aggiunte altre ed ulteriori considerazioni di natura più stret- tamente
filosofica. Se il divenire condanna, prima, la parte a distinguersi da un’altra
parte e, successivamente, la stessa parte ad essere se stessa e, poi, a
trasformarsi in altro, allora il divenire appare come un alternarsi di essere e
di non essere. Il tema è antico e vide già contrapposti il pensiero di Eraclito
(535 a.C.-476 a.C.), con il suo tutto scorre, panta rei (πάντα ρει), a quello
di Parmenide (544 a.C.-459 a.C.), sostenitore di un Essere che non può non
essere. Effettivamente anche nella realtà empiricamente rilevabile il non 10 H.
Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 39. 11 F. Nietzsche, Umano,
troppo umano II, in Opere 1870/1881, Newton, Roma 1993, p. 797. essere
è di problematica individuazione. Rilevabile, invece, con estrema facilità è
l’essere e l’essere altro come espressione del divenire. Ma a livel- lo logico,
secondo il principio di identità, l’essere è solo se stesso e l’essere altro
non è continuità dell’essere iniziale, ma un diverso essere a sua volta uguale
solo a se stesso. La logica parmenidea, ampiamente sviluppata ai nostri giorni
da Emanuele Severino12, nega nella sostanza il divenire e co- struisce una
logica di identità degli eterni, che si separa e distingue dalla logica
dialettica del divenire. La logica degli eterni si addice ad un mondo
metafisico, proprio del divino; mentre la logica dialettica, empiricamente
verificabile/falsificabile, pare tipica degli esseri umani. Commentando Corbin,
Claudio Bonvecchio in proposito ricorda: [...] oltre che teologica – la
modalità catafatica [affermativa n.d.r.] di rap- portarsi al divino ha
costruito una vera e propria logica (di ascendenza aristote- lico-scientifica).
Anzi, si può affermare che si è affermata come la base stessa della logica
occidentale in quanto sostiene (apoditticamente oltre che dogmati- camente) –
nella costruzione del discorso – la possibilità di affermare in manie- ra
indiscutibile le caratteristiche di un ente. Caratteristiche che ne esprimono
la verità che si ritiene assoluta, se si ottemperano determinate condizioni
logico- razionali (principio di non contraddizione, principio del terzo
escluso, etc.). Tuttavia, questa verità [...] non consente mai un rapporto
partecipativo con l’Essere. Infatti, esclude dal discorso [...] la dimensione
dell’Essere che è l’u- nica che fa di un ente un ente esistente13. Ciò che
conta tuttavia, ai fini delle presenti riflessioni non è tanto l’af- fermarsi
nella storia umana dell’una o dell’altra logica, quanto piuttosto la
constatazione che anche a livello filosofico emerge la possibilità di un
dualismo logico non dissimile da quello evidenziato nell’episodio biblico del
Giardino dell’Eden. Sul piano filosofico il legame tra l’Albero della conoscenza
del bene e del male e quello della vita appare ancora più indissolubile che nel
testo bi- blico. Infatti, è la stessa logica conoscitiva umana del divenire,
che trascina con sé, come compagna inseparabile, la morte. Ciò che diviene
possiede un inizio ed una fine, prima non esiste, poi esiste, quindi torna nel
nulla. Non è questa la logica conoscitiva del divino, nella quale ciò che è, lo
è per sempre, dall’eternità e nell’eternità. Scrive Massimo Donà: 12 Cfr. E.
Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano 2006. Ed anche del medesimo
Autore: L’identità del destino, Rizzoli, Milano 2009. 13 C. Bonvecchio, Le
meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del
monoteismo, cit., p. 12. [...],
nel testo biblico l’Albero della Vita o delle vite, al plurale, come dice in
verità l’Antico Testamento – a indicare, molto probabilmente, l’infinito
distin- guersi del principio – allude ad una verità che solo l’Albero della
Conoscenza avrebbe potuto spingerci a ridire. Facendoci innanzitutto tradire
quel senso di infinita apertura verso un futuro sempre ancora possibile che
caratterizza ap- punto l’Albero della Vita. Ossia, la speranza in una
rigenerazione in grado di negare la definitività connessa ad ogni supposto
improbabile compimento; in primis quello costituito dalla morte. Ecco perché
l’Albero della Conoscenza avrebbe reso mortale il soggetto che avesse voluto
cibarsi dei suoi frutti. Perché il logos umano, troppo umano, da quest’ultimo
(dall’Albero della Conoscenza) rappresentato, è costitutivamente portato a
credere nell’intrascendibilità delle distinzioni e dunque a fare dello stesso
distinguersi in quanto tale il principio incontrovertibile dell’esistere. Per
questo, proprio dicendo tale intrascendibilità, il logos avrebbe dovuto comunque
riconoscere il limite costitutivamente caratterizzante il suo stesso orizzonte,
concependo anche quest’ultimo come essenzialmente limitato – os- sia, distinto.
Finendo così per negare finanche la sua stessa intrascendibilità. Ed
instituendo l’impossibile per eccellenza: ossia un nulla posto di là dalla po-
sitività di tutto quel che è – un nulla concepito, esso medesimo, dunque come
positivo. E perciò valevole come perfetta metafora del male assoluto14. Dunque,
non solo la riflessione religiosa, si potrebbe dire teologica, ri- leva la
presenza, almeno potenziale, nell’essere umano di ben due diverse logiche, ma
anche l’analisi filosofica giunge alla medesima conclusione. Alla logica
dell’Essere Assoluto si giustappone la logica del divenire, dell’essere altro.
La prima si presenta meramente razionale, priva di possi- bilità empiriche di
verifica/falsificazione, tutta dispiegata intorno a principi considerati
indiscutibilmente veri ed evidenti senza ulteriori necessità di- mostrative;
principi che nella terminologia kantiana possono essere definiti a priori. La
seconda, invece, completamente costruita a posteriori, grazie alla percezione
empirica del divenire, alla rilevazione, si potrebbe dire, sempre in
terminologia kantiana, categoriale degli eventi. Quest’ultima lo- gica si
limita a descrivere una realtà fenomenologica umana e, come tale, relativa,
quindi, senza pretese di accesso conoscitivo ad ipotetiche realtà assolute e
metafisiche. L’indissolubile legame, sostenuto dalla logica dell’Assoluto, tra l’Albe-
ro della Conoscenza e la realtà di separazione sembra ribadito dalla Bibbia
anche nell’episodio simbolico della costruzione e del crollo della Torre di
Babele. L’unione tra terra e cielo, già simboleggiata dall’albero, qualsiasi
albero (Yggdrasil, l’albero di Natale, etc.), viene ricercata, in questo caso,
14 M. Donà (a cura di), Parmenide. Dell’essere e del nulla, Albo Versorio,
Milano 2012, pp. 94-95.attraverso un’opera di architettura, che sfida altezza e
forza di gravità, ma nel crollo di questo asse umano-divino si dissolve
l’universalità della pa- rola, intesa anche nella sua accezione più estesa di
logos, la sua capacità creatrice e comunicatrice universale. La terra era tutta
d’una sola lingua e d’una sola parlata. [...]. Ma il Signore discese per vedere
la città e la torre che i figli di Adamo stavano edificando, e disse: “Ecco, è
un popolo solo, ed ha una lingua sola per tutti; hanno cominciato a far questo
lavoro, né desisteranno dal loro pensiero sinché non l’abbiano condotto a
termine. Andiamo dunque, discendiamo, e confondiamo ivi le loro lingue, così
che nessuno più comprenda la parola del prossimo suo”15. Il Tutto diviso in
parti si differenzia e perde di unitarietà. Ciascuno divie- ne consapevole di
sé, ma solo di se stesso; gli altri mutano in esseri ignoti, estranei. La
metafora della confusione delle lingue, ancora una volta, non suona come
condanna divina, ma come descrizione delle conseguenze de- rivate dalla
separazione delle parti dal Tutto16. L’essere umano, in quanto parte del Tutto,
non ha né colpe, né meriti, ma solo caratteri suoi propri, che si separano e
divergono da quelli divini: 15 Genesi, 11, 1 e 5-7. 16 “Diventare un solo
popolo, sotto una istituzione – la lingua sola – è qui, chiaramente,
l’espressione della hýbris degli uomini, del loro istinto auto- idolatrico:
così chiaramente che non viene nemmeno detto, ma sottinteso. Ma la questione
più interessante, sulla quale ha richiamato l’attenzione Stefano Levi della
Torre nel suo splendido e illuminante Zone di turbolenza, è se la misura presa
da Dio – la dispersione su tutta la terra e la confusione delle lingue – sia la
punizione per un grande male (come nel caso di Caino reso ramingo e fuggiasco)
o la garanzia di un grande bene. L’interpretazione di Stefano Levi, in breve, è
che la distruzione della città dell’onnipotenza, la moltiplicazione delle
lingue, rese incomprensibili l’una all’altra, e la dispersione dei popoli in
lungo e in largo sulla terra, tutto ciò è una moltiplicazione delle culture e
delle istituzioni, un antidoto all’idolatria del pensiero e del potere unico,
una garanzia di pluralità delle visioni del mondo e del modo di vivere nel
mondo. Secondo questa profonda interpretazione, la civitas maxima non è altro
che idolatria”. G. Zagrebelschy, La virtù del dubbio, Editori Laterza,
Roma-Bari 2007, pp. 134-135. è relativo e non assoluto; è finito e non
infinito; possiede una conoscenza limitata e non universale. In conseguenza di
queste considerazioni risulta chiaro che gli avvenimenti drammatici, che videro
come scenario il Para- diso terreste, non possono essere incasellati nella
concatenazione di eventi, che accomuna il diritto e la morale: alla colpa
consegue la responsabilità del soggetto agente, al quale, proprio in quanto
responsabile, viene appli- cata la pena. Questi concetti vengono chiaramente
espressi a livello sia morale che giuridico da Alf Ross (1899-1979): L’idea che
esista una responsabilità morale, è identica all’idea della respon- sabilità
giuridica, è l’espressione di una prescrizione normativa per cui la colpa viene
collegata con le conseguenze della colpa, cioè con la pena che qui si chiama
riprovazione17. Ed ancora in modo più esplicito: Quando si fa valere una
responsabilità, ciò avviene sempre con la motiva- zione che qualcosa fu commessa
che, secondo un determinato ordinamento normativo, non sarebbe dovuta accadere,
qualcosa di riprovevole o proibito che, di conseguenza, dà motivo a quella
reazione che consiste nel far valere la responsabilità18. Nel caso dell’Eden,
come si è detto, non pare che ci si trovi in questa situazione, non solo perché
viene meno l’uso tecnico della terminologia giuridica (colpa, responsabilità),
ma anche, e soprattutto, perché manca la norma vincolante, il divieto. Infatti,
l’interdetto pronunziato da Dio, proprio per il suo carattere che unisce
conoscenza e volontà, non può essere considerato un comando, ossia una norma,
ma più semplicemente una informazione, un avvertimento, al massimo, un
consiglio. Si tratta cioè di una frase ipotetica (se mangi la mela divieni
mortale) tesa a de- scrivere gli avvenimenti conseguenti all’azione segnalata
come perico- losa. Del resto, come avrebbe potuto Dio formulare un comando a
dei soggetti che, prima dello strappo, della rottura, partecipavano della sua
stessa conoscenza e volontà? Dunque, se non vi fu comando, norma, non vi fu
neppure colpa, in quanto mancò la violazione, la disobbedienza. Vi fu, invece,
responsabilità per l’azione compiuta, ma la natura umana di Adamo ed Eva
avrebbe potuto consentire loro di compiere una scelta diversa? La risposta deve
essere rinviata, in quanto strettamente dipen- 17 A. Ross, Colpa,
responsabilità e pena, cit., p. 49. 18 A. Ross, op. cit., p. 29.
dente dalle convinzioni intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio.
Ovviamente, se non vi fu colpa non è neppure possibile reputare la tri- ste
condizione umana come una pena inflitta dal Creatore alle proprie creature.
Piuttosto si tratta di considerare la stessa natura umana come caratterizzata,
nei propri intrinseci limiti, in quanto parte di un Tutto mol- teplice e
differenziato, appunto, anche in qualità diverse. Per fornire un paragone pur
imperfetto: rispetto alla media statistica degli esseri umani il fenomeno
dell’albinismo è minoritario ed, in quanto tale, appare come uno svantaggio
genetico, ma può veramente essere considerato sempli- cemente uno svantaggio
esistenziale o potrebbe anche essere visto come una articolazione qualitativa
del genere umano, dotata a propria volta di taluni vantaggi soggettivi, sui
quali tendiamo a non soffermarci per pigrizia culturale? L’interpretazione di
comando (norma), di colpa e di, conseguente, punizione (pena) divina pare
prodotta da una cultura umana troppo governata da una autoflagellazione di
natura, prima, etica e, poi, giuridica; del resto, questa interpretazione
prevalente punitiva della cac- ciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre ed
anche della distruzione della Torre di Babele e relativa confusione delle
lingue non può stupire in un mondo sempre più giuridicizzato, quale è il mondo
attuale. Che la parte ed il tutto siano distinguibili sia teoreticamente, sia
empi- ricamente è nozione inconfutabile anche, ad esempio, a livello geometri-
co; così come è inconfutabile che la parte, almeno quella umana, possieda una
consapevolezza, più o meno veritiera, del proprio esistere (cogito ergo sum) e
non certo solo per l’autorità di René Descartes (1596-1650); altra e ben
diversa questione è comprendere se esista e che caratteri manifesti la
consapevolezza di se stesso propria del Tutto. Certo la parte partecipa del
Tutto e, quindi, pare arduo pensare che ad una limitata consapevolezza della
parte non corrisponda una illimitata consapevolezza del Tutto, pur tuttavia
nulla può essere escluso senza l’evidenza di prove comprensibili alla mente
umana ed, inoltre, resta comunque impregiudicato il tema della qualità, delle
caratteristiche di questa eventuale consapevolezza. Lo Spirito, Dio, l’Energia
sicuramente non possiedono un carattere di autocoscienza, di consapevolezza
uguale a quello proprio dell’essere uma- no, ma neppure la massa (materia
individualizzata) possiede livelli omo- genei di autocoscienza, di
consapevolezza, almeno per quanto si conosce attualmente, nelle sue molteplici
articolazioni, nelle sue diverse parti. I minerali, i vegetali, gli animali e
l’animale umano percepiscono se stessi ed il mondo a loro presupposto esterno
in modi molto diversi ed in modi altrettanto diversi reagiscono, interagiscono
con l’ambiente circostante. Il Tutto, come somma di tutte le singole parti o
come entità ulteriore, può, e secondo quali modalità, percepire se stesso?
Una possibile risposta passa attraverso il concetto di Spirito o di Energia
che, permeando ogni cosa, ogni fenomeno, pur in quantità e, forse, anche in
qualità diversa, consente questa generale, universale consapevolezza eterna di
sé; una sorta di anima individuale, ma universale (sembra un ossimoro, ma è
solo prospettiva di- versa), di anima mundi. Bene e male rappresentano una
dualità, che acquista significato solo in un mondo scisso, a sua volta, in un
bipolarismo oscillante tra un polo, espressione di assoluto, ed un secondo
polo, espressione di relativo, il qua- le subisce il giudizio del primo: buono
o cattivo, appunto, rispettivamente nelle sue singole e molteplici
manifestazioni comportamentali. Quest’ulti- mo bipolarismo non riguarda solo la
distinzione tra dover essere ed essere, ma si articola ulteriormente in quel
dualismo del dover essere perennemen- te in tensione tra valori assoluti e
valori relativi: i primi frutto della dimen- sione assoluta del Tutto ed i
secondi propri della dimensione relativa delle parti del Tutto. La dimensione
relativa della bipolarità etica consente solo l’espressione di formule
valoriali a contenuto soggettivo, cioè proprie del soggetto, della parte che le
esprime; del resto anche la dimensione assoluta non riesce a fornire un
contenuto etico certo, ma si limita a proporre for- mule o dogmatiche oppure
vuote di contenuto, prive di precise indicazioni comportamentali, come, ad
esempio, il noto broccardo del diritto romano intorno alla giustizia: unicuique
suum tribuere. Il problema irrisolto riguar- da il significato, cosa si intenda
per suum, oltre, ovviamente alla discutibi- lità del principio generale, che
potrebbe anche consistere nell’attribuire a ciascuno l’altrui e non il proprio
o, addirittura non riconoscere l’esistenza di un proprio. Il problema può
essere superato solo distinguendo la cono- scenza umana, cui si riferiscono
queste aporie, dalla conoscenza divina, che, in quanto assoluta, non può incorrere
in esse. Certo tale conoscenza non può competere all’essere umano se non per
fede o per rivelazione, ma qui il tema si complica, poiché nella storia della
cultura umana spesso l’e- sistenza stessa dell’Assoluto, del metafisico, in
quanto non empiricamente percepibile e, quindi, problematico per la conoscenza
umana, è stata messa in discussione. Pertanto questo argomento si è sviluppato
secondo due di- versi percorsi culturali, l’uno monista e l’altro dualista; il
primo sostenitore di una realtà unitaria, nella quale fisica e metafisica si
sintetizzano o si escludono a vicenda, ed il secondo portatore di una visione
separata dei due piani del reale, anche se in qualche modo comunicanti tra
loro; ma di ciò si tratterà tra poco. Oltre alla possibilità alternativa
dell’esistenza di una logica divina e di una umana si presenta anche l’ipotesi
di una vera e propria assenza di logica, come risultato dell’inconoscibilità
dell’Assoluto; un Assoluto che è solo silenzio, oscuramento della conoscenza
umana, come suggerisce Ni- colò Cusano (1401-1464) con l’ipotesi del Dio
nascosto (absconditus): Né ha nome, né non ha nome, né ha nome e non nome. Ma
quanto può dirsi disgiuntamente e copulativamente, per accordo o disaccordo,
non gli conviene, per incommensurabilità di sua infinità, perché è principio
uno, anteriore ad ogni concetto su esso formulabile19. Abbandonato il Paradiso
terrestre da parte di Adamo ed Eva, non solo subentra la logica umana, il
divenire e la morte al posto dell’unione con il divino, l’eternità statica e la
vita eterna, ma la rottura porta con se stessa anche l’estraneazione
dall’Assoluto, che assume una dimensione impe- netrabile, misteriosa.
L’Assoluto creatore si pone prima di ogni creato e di ogni creatura e, quindi,
anche prima di qualsiasi logica e razionalità. L’Increato non appartiene al
mondo empirico, ma neppure al metafisico pensato od al metafisico alienato
nella creazione. Esso appartiene solo a se stesso ed all’insondabile abisso,
che separa l’Assoluto dal relativo, il Tutto dalle sue parti. 19 N.
Cusano, Il Dio nascosto, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 37. Carcharias Taurus è
il nome scientifico del meglio conosciuto squalo toro, il quale possiede una
caratteristica, che può farlo assurgere ad icona, ad emblema della natura
biologica. Lo squalo toro, infatti, è noto per prati- care il cannibalismo
intrauterino; ossia l’embrione dominante si nutre delle uova e degli altri
embrioni presenti nell’utero materno. Tale pratica non può stupire nel mondo
biologico, giacché il biologico si nutre solo di altro biologico (salvo la
fotosintesi clorofilliana). La vita è, dunque, indissolu- bilmente legata alla
morte in un perenne solve et coagula, nel quale vige la locuzione latina mors
tua vita mea. La fine di un essere vivente costituisce la possibilità di
sopravvivenza per un altro essere vivente. Talvolta, poi, il ciclo vitale si
esaurisce direttamente con la procreazione, evidenziando in tale modo
l’irrilevanza della vita del singolo individuo e la sua funziona- lità
esclusivamente orientata alla continuazione della specie. Lo scenario di morte,
nel quale viene ambientata la vita biologica, si completa anche con la lotta
per la vita, che pervade, permea ogni entità vivente. La lotta si dispiega
all’esterno dei corpi per l’approvvigionamento di cibo, che si concretizza in
una forma di dominio del più forte sul più debole, ma anche al loro interno,
poiché miliardi di microorganismi (batteri, virus, funghi e parassiti vari)
combattono continuamente, senza sosta contro le difese immunitarie dei corpi,
che li contengono, per la propria sopravvivenza. Talvolta, pur nelle loro
ridottissime dimensioni, riescono ad avere il so- pravvento, dimostrandosi più
forti del loro ospite, ma, più frequentemente, soccombono, eppure non si
estinguono, se non raramente, grazie alla loro facilità riproduttiva e
sovrabbondanza numerica. Cannibalismo e lotta si presentano, dunque, come la
struttura (si po- trebbe usare anche il termine ontologia se non fosse troppo
compromesso con visioni metafisiche) profonda della natura del biologico. Non
si creda, poi, di sfuggire a questa struttura con facili moralismi legati a
forme, più o meno radicali, di alimentazione vegetariana o vegana, poiché anche
il mondo vegetale, come quello animale è vivente e, come non si comprende la discriminazione
etica tra animali sacrificabili e non sacrificabili, così non si comprende
la sacrificabilità a fini eduli della vita vegetale, ma non di quella animale.
Potrebbe esservi una spiegazione solo in una ipotetica gerarchia delle
esistenze biologiche, che ponga l’essere umano al vertice e il vegetale alla
base, ma allora non si giustifica perché tale gerarchia debba saltare un
gradino, quello animale, appunto, nella scala delle sacrificabilità
gerarchiche. Lo stato permanente di guerra, che caratterizza il mondo
biologico, è aggravato dalla precarietà programmata della sua esistenza, la
quale si deteriora e consuma progressivamente lungo tutto il corso dello
sviluppo della vita. L’adagio latino, che indica l’inesorabile trascorrere
delle ore, vulnerant omnes, ultima necat, ben descrive l’itinerario tra la
nascita e la morte, funestato non solo dalla ricerca cannibalesca del cibo e
dalle insidie date da malattie ed infortuni vari, ma, soprattutto, dal decorso
del tempo e dal disgregarsi dei corpi, che accompagnano l’essere biologico
verso la sua estinzione, la sua fine. Per sintetizzare l’orizzonte esistenziale
del bio- logico basti ricordare la locuzione latina attribuita ad Agostino
d’Ippona (354-430), ma molto più probabilmente di Bernardo da Chiaravalle
(1090- 1153), con la quale si descrive la nascita dell’essere umano: inter
faeces et urinam nascimur. La nascita, dalla cellula all’essere umano, è una
cruenta rottura dell’individualità, una separazione di materiale organico, una
fuo- riuscita di un ente da un altro ente, il numero uno che produce un altro
uno, dando il via con il numero due alla catena dei molti. Quanto, poi, alla
morte basta visitare ospedali, case di riposo per anziani e cimiteri per
chiarirsi le idee intorno al dolore, al decadimento psico-fisico ed...
all’approvvigiona- mento alimentare di microorganismi, vermi ed insetti vari,
messi in fuga solo dal fuoco liberatore della cremazione. Il tragico
disvelamento della triste condizione del biologico, in genera- le, ed umana, in
particolare, è presente in quasi tutte le religioni, le quali, infatti, tendono
a costruire speranze in un mondo non più biologico ed a porre al centro dei
vari culti il concetto di sacrificio: sacrificio, in epoche arcaiche, non solo
animale e vegetale, ma anche umano, a favore del divi- no. Il Cristianesimo,
con ulteriore lucidità intorno alla condizione umana, poi, ha addirittura
capovolto i termini del mistero sacrificale, rovesciando ed integrando il
sacrificio umano nei confronto della divinità con il sacrifi- cio divino in
favore dell’essere umano. Nell’Eucarestia rivive svelata l’on- tologia del
biologico umano e la sua speranza di redenzione, liberazione attraverso il
sacrificio del Cristo1. Il fedele cristiano, infatti, beve il sangue 1 “Ma se
Cristo ha ripristinato il sacrificio umano e il cibarsi della vittima, questo è
accaduto a lui e non a un fratello, perché Cristo ha instaurato la suprema
legge e mangia il corpo del Redentore; si nutre del divino per sfuggire
all’orrore del biologico, per aspirare ad una vita priva di dolore ed eterna in
Dio2. Il Cristo dovrebbe risanare la frattura tra divino ed umano, ricostruire
il ponte crollato, riportare la riconciliazione e l’unione tra le parti ed il
Tutto. La struttura del nostro mondo è stata descritta con estremo realismo da
Baruch Spinoza (1632-1677): Per diritto e istituto naturale, non intendo altro
che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali
concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un
certo modo. Così, per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare
e i grandi mangiano i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i
pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. È infatti
certo che la natura, assolutamente considerata, ha pieno diritto a tutto ciò
che è in suo potere, e cioè che il diritto della natura si estende fin là dove
si estende la sua potenza, essendo la potenza della natura la potenza di Dio,
il quale ha pieno diritto ad ogni cosa: ma, poiché la potenza universale
dell’intera natura non è se non la potenza complessiva di tutti gli individui,
ne segue che ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo
potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la
sua determinata potenza. E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa
si sforzi di persistere per quanto può nel proprio stato, e ciò non in ragione
di altra cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a
pieno diritto, e cioè, come ho detto, ad esistere e a operare così come è
naturalmente determinato. E qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli
uomini e tutti gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di
ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi
e i sani. Tutto ciò, infatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua
natura, questo fa di pieno diritto, dell’amore, per cui nessuno dei fratelli ne
ha riportato danno, ma tutti hanno potuto gioire di questa restituzione.
Succedevano le stesse cose dei tempi antichi, ma sotto la legge dell’amore. Per
cui, se non hai un profondo rispetto di ciò che è stato compiuto, distruggerai
la legge dell’amore. Che cosa quindi accadrà di te? Sarai costretto a
ripristinare ciò che c’era prima, ossia atti di violenza, assassini, azioni
illecite e disprezzo per il fratello”. C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus,
Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 225. 2 Il sangue, la carne, il vino, il
pane, l’acqua, il cielo sono simboli magici sino dai tempi più antichi: “Se
avviene che io sia sopraffatto, quando bevi acqua o mangi pane, l’acqua
assumerà il colore del sangue davanti a te, e il pane prenderà davanti a te il
colore della carne, e il cielo prenderà davanti a te il colore del sangue. Horo
figlio dell’Etiope stabilì dunque questi segni tra sé e la madre; poi si recò
in Egitto, essendo pieno di magie”. E. Bresciani (a cura di), Testi religiosi
dell’antico Egitto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, p. 397. Il testo è
ambientato ai tempi del faraone Ramesse II, XIX dinastia, 1293-1190 a. C.. Cfr.
anche. J.G. Frazer, La crocifissione del Cristo, Quodlibet, Macerata 2007; S.
Peverada, Il sacrificio del Dio Bambino. Edipo e l’essenza del tragico,
Mimesis, Milano 2004. in quanto agisce nel modo a cui è determinata dalla
natura, né può comportarsi altrimenti3. Non sempre la potenza coincide con la
grandezza, come dimostrano i microorganismi, tuttavia il senso di Spinoza è
chiaro: ciascuno è per natura se stesso e si comporta secondo la propria
natura; la gazzella è gazzella ed il leone è leone (preda e predatore), ma
anche l’essere umano è tale ed il pazzo od il criminale altro non sono che una
particolare espressione di essere umano. La struttura della natura assegna a
ciascuno caratteri ben precisi, tutti equivalenti nell’articolazione molteplice
della natura, ma ta- luni dotati di una potenza maggiore di altri ed i più
potenti prevalgono sui meno nel breve periodo della conquista del nutrimento,
per, poi, comunque soccombere anch’essi sotto i colpi dell’invecchiamento,
dell’indebolimen- to, delle malattie e della morte. Ovviamente dietro questa
visione si agita un fiero determinismo, di cui ci occuperemo in seguito, per
ora interessa notare che la natura non si presenta benigna ai nostri occhi, ma
la sua strut- tura ci appare profondamente malevola, matrigna. Questa però è la
mera visione propria della prospettiva umana, alla quale manca, come si è detto
in precedenza, la prospettiva globale, quella divina, e, soprattutto, è viziata
da un ragionare antropocentrico di fronte al Tutto, all’universale. Sarebbe
facile ironia sbeffeggiare, dal punto di vista etico, il diritto naturale alla
luce dell’empiria del nostro mondo biologico, ma, forse, è proprio la vi- sione
etica, che dovrà essere messa in discussione nel rapporto tra visione monista e
dualista del reale. In questo senso appaiono particolarmente il- luminanti le
parole di Giacomo Leopardi (1798-1837) nel Dialogo della natura e di un
islandese: Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo
è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di
ma- niera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione
del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe
parimen- ti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in
lui cosa alcuna libera di patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare
a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che
distrugge, non gode, e a poco andare è di- strutto medesimamente; dimmi quello
che nessun filosofo mi sa dire: a chi pia- ce o a chi giova cotesta vita
infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che
lo compongono?4. 3 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino
1980, pp. 377-378. 4 G. Leopardi, Operette morali, Rizzoli, Milano 2008, p.
288. La visione del mondo di Spinoza e le domande di Leopardi hanno il
grande pregio di rappresentare un limpido, inequivocabile e coerente esem- pio
di monismo immanentista del reale (Deus sive Natura). Nel pensiero monista non
si tratta, per lo più, di eliminare uno dei due termini dell’al- ternativa, ma
di ridurli entrambe ad unità, di sintetizzarli entro un unico termine. Tale
unico termine può relegare il mondo empirico all’ambito del- la pura illusione
(Velo di Maya, espressione con la quale Arthur Schopen- hauer – 1788-1860 – si
richiama alla religione induista), all’ambito di un sogno che potrebbe
appartenere anche solo al soggetto che lo percepisce; il mondo esterno potrebbe
esistere solo nell’esperienza di chi lo vive (sogget- tivismo filosofico: esse
est percipi). Spinoza esprime l’indiscutibile merito di unificare il mondo
senza sacrificare la sua dimensione empirica, ma am- pliandolo ad un Tutto, che
tutto comprende, seppure nell’incertezza di non riuscirne a descrivere ogni
specificità, ogni particolarità, ogni individualità. Infatti, poiché la virtù e
la potenza di Dio, e le leggi e regole della natura sono i decreti stessi di
Dio, si deve senz’altro credere che la potenza della na- tura è infinita e che
le sue leggi sono tanto ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo
stesso intelletto divino5. L’intelletto umano, ma soprattutto il suo
sentimento, di fronte ad uno scenario tanto deludente e tragico della vita si è
posto la domanda del senso, del significato di tanto dolore. Poiché nel mondo
del percepibile attraverso i sensi non fu, e non lo è tuttora, possibile
trovare risposte sod- disfacenti, la ricerca si è avviata verso l’immateriale,
verso un reale imma- ginato solo nella mente, ma non soggetto a
verifica/falsificazione empirica. L’operazione si è fondata su un modello
dualista di negazione del sensibile e di contemporanea affermazione del suo
esatto contrario: soffro la morte ed allora affermo l’esistenza della vita
eterna, a mero titolo d’esempio. Una approfondita descrizione ed analisi di
tale operazione, applicata alla religione ed, in particolare, al Cristianesimo,
la si può trovare nell’opera di Ludwig Feuerbach (1804-1872)6. Ragione e fede7
si sono contese questo mondo astratto dell’immagina- rio, che ha duplicato
l’universo, spiegando il senso del percepibile senso- rialmente attraverso il
non percepibile sensorialmente. 5 B. Spinoza, Trattato teologico-politico,
cit., p. 153. 6 Cfr. L. Feuerbach, L’essenza della religione, Einaudi, Torino
1972; del medesimo Autore, L’essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano
1971. 7 Cfr. J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006. Sul
piano razionale sono stati elaborati assiomi, principi primi imme- diatamente
evidenti, ma non dimostrabili, concetti a priori, ossia ancora non
dimostrabili, ed operazioni logiche, teorie e teoremi, ossia descrizioni di una
qualche realtà esistente, validi solo se vengono accolti i presup- posti non
empirici, dai quali prendono le mosse. Del resto, è ormai noto dai teoremi di
incompletezza di Kurt Gödel (1906-1978), che è possibile definire formule
logiche, che negano la propria dimostrabilità, cioè siano autoreferenziate. Si
tratta di teoremi di logica, che hanno prodotto notevoli conseguenza in ambito
matematico e geometrico, ma che possono essere estesi a qualsiasi sistema
formale. Particolarmente significativo ai fini delle riflessioni qui svolte
sembra essere il secondo teorema di Gödel, quello relativo alla
indimostrabilità di un sistema coerente attraverso la sua stessa coerenza,
ossia la coerenza si presenta come una sorta di petitio pricipii (le premesse
già contengono ciò che si deve dimostrare) e/o di tautologia (af- fermazione
vera per definizione) indimostrabile, appunto. Sull’argomento sono interessanti
anche le parole di Bertrand Russell (1872-1970): I grandi scandali della
filosofia della scienza sono sempre stati, dopo Hume, la causalità e
l’induzione. Ad ambedue tutti ci crediamo, ma Hume mostrò che la nostra
credenza è una fede cieca che non poggia su alcuna prova raziona- le. [...]. Se
noi sottolineiamo il fatto che la nostra credenza nella causalità e
nell’induzione è irrazionale, dobbiamo inferire che non sappiamo se la scienza
sia vera, e che da un momento all’altro essa potrebbe anche cessare di darci
quel controllo sul nostro ambiente per amor del quale essa ci piace8. La
ragione, dunque, duplica il mondo secondo il modello proprio di René Descartes
tra res extensa e res cogitans: la prima riferibile ai cor- pi fisici e la
seconda al pensiero dell’essere umano. La distinzione pare speculare a quella
tra materia e spirito, ma ne diverge perché, mentre la distinzione cartesiana
potrebbe sussistere anche all’interno di un sistema immanentista monistico,
tutto incentrato sull’essere umano come modello di unificazione, nel quale i
due termini tendano rispettivamente ad identifi- carsi con l’alternativa
concreto/astratto, la separazione tra materia e spirito, invece, è per necessità
dualista, in quanto le due realtà si escludono vicen- devolmente come
espressione di mondi diversi: fisico e metafisico. Martin Heidegger (1899-1976)
va oltre nella critica e sottolinea come Descartes dualizzi il mondo,
presupponendo, ma non dimostrando, il trascendente: 8 B. Russell, Saggi
scettici, Longanesi &C, Milano 1975, pp. 37-38. Cartesio non si fa
offrire il modo d’essere dell’ente intramondano da questo ente, bensì, in base
a un’idea di essere non disoccultata nella sua origine e non dimostrata nel suo
diritto (essere = esser-stabilmente-sottomano), prescrive per così dire al
mondo il suo essere autentico. Non è dunque primariamente il ricor- so a una
scienza, guarda caso particolarmente apprezzata, come la matematica, a
determinare l’ontologia del mondo, bensì l’orientazione fondamentalmente
ontologica verso l’essere inteso come esser-stabilmente-sottomano, alla quale
la conoscenza matematica soddisfa in modo eccezionale. Cartesio opera così
filosoficamente in modo esplicito la commutazione degli esiti dell’ontologia
tradizionale sulla fisica matematica moderna e sui suoi fondamenti trascen-
dentali9. Del resto anche Werner Heisenberg (1901-1976) rileva la problematici-
tà euristica della divisione cartesiana soprattutto alla luce del principio di indeterminazione.
In realtà non erano in gioco soltanto degli esperimenti fisici, ma autentiche
posizioni filosofiche. Qui la vecchia concezione, radicata fin da Cartesio,
del- la divisione tra un mondo oggettivo, svolgentesi nello spazio e nel tempo,
e un’anima da esso separata, in cui esso si rispecchia, entrava in conflitto
con le nuove vedute, alla cui luce non era più possibile compiere quella
divisione nel rudimentale modo precedente10. Oltre la ragione, meglio,
prescindendo dalla ragione, però, si è presenta- ta all’essere umano, come via
d’uscita dalla sua malasorte e dalle incertez- ze del quotidiano vivere anche
un altro strumento mentale: la fede, spesso interpretata più come un dono
divino che come una conquista personale11. Nell’ambito della fede il campo
sembra apparentemente occupato in modo completo dalle religioni, ma non è
possibile tacere che anche talune con- vinzioni filosofiche (paradosso di
Zenone, negazione del divenire di Ema- nuele Severino) od anche scientifiche
(teoria delle stringhe, delle brane, 9 M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori,
Milano 2011, p. 143. 10 W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica
moderna, Sellerio Editore, Palermo 1999, p. 95. 11 “La fede essenzialmente una
negazione implicita o violenta di una realtà o della realtà. La realtà è per
tutti una prigione: ma, fortunatamente, una prigione male custodita. Ora, la
fede insegna a negare queste muraglie, insegna il modo di fuggirle, ecc. La
scienza è invece una affermazione di questa realtà; il modo che essa ci insegna
di liberarci della realtà è appunto quello di affermare la realtà. La fede
invece vuole insegnarci a fuggire la realtà, insegnando a negarla. La scienza
appare come superiore alla fede, appunto perché essa è una liberazione dalla
negazione”. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teorici 1925 -1981, Marsilio,
Venezia 1989, p. 5. degli universi paralleli e multidimensionali) sono
sorrette più da dogmi, da assiomi logici, da teorie indimostrabili e da
convinzioni personali che da prove empiriche. Esempio tipico di dualismo è
rappresentato dal sistema filosofico di Pla- tone (428 a.C.-348 a.C.). Il mondo
empirico si presenta come l’ombra di una realtà metafisica ideale, nella quale
la perfezione dei modelli informa di sé le copie degradate della realtà in cui
vive l’essere umano. Gli arche- tipi, le idee delle qualità e degli Enti
emanano perfezione, immutabilità ed eternità e sono questi a presentarsi come
la vera ontologia del mondo, che nelle forme terrene manifesta tutta la propria
imperfezione e provvisorie- tà. Il mondo fisico, come brutta copia del mondo
iperuranico, metafisico, spirituale, privo di spazio e di tempo, posto oltre la
volta celeste e sede delle idee, produce una duplicazione consolatoria,
sottraendo il concetto di verità alla percezione dei sensi ed attribuendolo
all’elaborazione razionale. Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di
quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché
bisogna pure avere il co- raggio di dire la verità soprattutto quando il discorso
riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore,
informe ed intangibile, contem- plabile solo dall’intelletto, pilota
dell’anima, quella essenza che è scaturigi- ne della vera scienza. Ora il
pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, così anche il
pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per
cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e con- templando la verità
si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima
al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé,
vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al
divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma
quella scienza che è nell’essere che veramente è12. Il mito della caverna e
delle sue ombre, proiettate sulla roccia, descrive una conoscenza limitata,
tutta ed esclusivamente umana, che può presen- tarsi completa solo nel momento
in cui riesce ad uscire all’aperto e con- quistare la luce delle idee pure: una
conoscenza, dunque, non empirica è quella sostenuta da Platone, poiché
quest’ultima altro non sarebbe che una falsa conoscenza. Dentro una dimora
sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce [...], pensa di
vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciul- li, incatenati gambe e
collo, [...]. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d‘un fuoco e tra
il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa 12 Platone, Fedro,
in Tutto Platone, Laterza, Bari 1967, vol. I, p. 755. pensa di
vedere costruito un murricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono
davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. [...].
Immagina di vedere uomini che portano lungo il murricciolo oggetti di ogni
sorta sporgenti dal margine, [...]. Strana immagine è la tua, disse, e strani
sono questi prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone
possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre
proiettate dal fuo- co sulla parete della caverna che sta loro di fronte?13.
Come si è già fatto cenno, il pensiero religioso presuppone già di per se
stesso un dualismo del reale: la realtà divina crea la realtà umana ed esse
vivono separate nella costante tensione di quest’ultima verso la prima: il
ritorno alla casa del Padre. Esempio particolarmente significativo in questo
senso è il pensiero gnostico. Sono molteplici le correnti gnostiche, alcune
risalgono al mondo antico ed altre fioriscono nell’alveo del Cristianesimo, ma
comunque tutte hanno in comune alcuni caratteri identificativi. In pri- mo
luogo, il mondo umano rappresenta un degrado rispetto a quello divino. In
secondo luogo, lo spirito, la scintilla divina che alberga in ciascun essere
umano è racchiusa, come in una prigione, dal corpo fisico, ossia nella ma-
teria. In terzo luogo, è aspirazione comune di tutte le scintille racchiuse nei
corpi umani di risalire al cielo per ricongiungersi con la perfezione eterna
del divino. La dottrina di Simon Mago (I secolo d.C.), descritta con spirito
critico cristiano da Ireneo (130 d.C.-202 d.C.) sembra particolarmente utile
per rilevare gli elementi gnostici più caratterizzanti di questo pensiero: Se
infatti alcuni caratteri presentano chiara impronta gnostica (ostilità degli
angeli [= arconti] verso Dio e verso l’uomo, imprigionamento dell’elemento
divino nel corpo umano), altri sembrano estranei a questa esperienza: diviniz-
zazione di Simone, cioè del capostipite della setta, e di Elena, e la loro
pretesa immortalità; mancanza di una specifica colpa che spieghi
l’imprigionamento dell’elemento divino nel corpo; redenzione del credente solo
grazie alla cono- scenza della natura divina di Simone, mentre nell’esperienza
gnostica è fon- damentale il riconoscimento dell’elemento divino che ogni
gnostico reca in sé; assenza del Demiurgo, creatore del mondo, e della
componente giudaica in genere: il personaggio femminile non è Sophia ma ha nomi
greci, Ennoia ed Elena. Anche tenuto conto che la notizia di Ireneo presenta
una dottrina che appare influenzata da tratti tipicamente cristiani e perciò
non è di facile apprezzamento, si ha l’impressione che con Simone siamo sulla
via che porta allo gnosticismo vero e proprio, senza esserci ancora giunti14.
13 Platone, Repubblica, in Tutto Platone, cit., vol. II, p. 339. 14 M.
Simonetti (a cura di), Testi Gnostici in lingua greca e latina, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 2001, pp. 6-7. Ovviamente anche il Cristianesimo
dualizza il mondo nell’attesa di una sua riunificazione alla fine dei tempi. Il
non senso del mondo empirico cer- ca, dunque, spiegazione in un dualismo
astratto, ma non per questo meno probabile del monismo empirico o
soggettivistico. Comunque se i dualismi concreto/astratto e fisico/metafisico
rappresentano probabilmente l’origine del concetto stesso di dualismo del
reale, molti altri dualismi percorrono sia le visioni dualiste che moniste del
mondo. Si pensi alle coppie luce/tenebre, finito/infinito, eternità/tempo,
perfetto/ imperfetto, che per il loro stesso carattere simbolico aprono le
porte alla via metafisica, poiché in esse è già insito, sottointeso un mondo
migliore che si contrappone ad uno peggiore, ma anche la coppia vita/morte
prepara a problematiche di rottura o di continuità dell’essere umano, ossia
ancora a problematiche filosofiche e religiose. Del resto, è la stessa
razionalità nu- merica, che indica il nascere del dualismo con la presenza del
numero due dopo il numero uno; tale presenza consente l’emergere di tutti gli
altri nu- meri ed, in effetti, rotta l’unicità dell’Essere, il dualismo muta
rapidamente in pluralismo e nel mondo empirico prende il via il divenire e lo
scorrere del tempo; lo si è già visto in precedenza nella vicenda gnoseologica
del Giardino dell’Eden. Tra i molti dualismi esistenti, alcuni appena
ricordati, ne emerge uno particolarmente significativo, poiché favorisce la
dualizzazione del reale, sebbene venga generalmente considerato di natura
metodologica e non on- tologica, quello tra giudizi di fatto e giudizi di
valore15. Si tratta della nota Grande Divisione di David Hume (1771-1776),
nella quale si distingue ciò che può essere predicato di falsità o di verità
attraverso la verifica empirica, sono i soli giudizi di fatto, e ciò che può
essere predicato di buono o di cat- tivo, di giusto o di ingiusto, di bello o
di brutto, in quanto non sottoponibile a verifica empirica, sono i giudizi di
valore. Il dualismo immediatamente evidente tra oggettività empirica e
soggettività umana, nasconde un altro dualismo ben più rilevante per la visione
dualistica del reale, quello tra valori relativi e valori assoluti; infatti
questi ultimi non possono che pre- supporre per avere senso nella loro
indiscutibile veridicità una dimensione a sua volta assoluta, alla quale essi
appartengono. Tale dimensione può essere anche meramente razionale, ma più
frequentemente ha natura tra- scendente e religiosa. Immanuel Kant (1724-1804),
infatti, accanto ad una ragion pura e pratica pone anche una dimensione
noumenica. 15 M.L. Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en el
pensamiento de Norberto Bobbio, Universidad Externado de Colombia, Bogotá
2007. Nell’antinomia della ragion pura speculativa si trova un contrasto
simile [impossibilità del sommo bene secondo regole pratiche e, quindi
fantasiosità ed inutilità della legge morale, n.d.r.] fra necessità naturale, e
libertà nella cau- salità degli eventi del mondo. Esso fu tolto col dimostrare
che non c’è un vero contrasto se gli eventi, ed anche il mondo in cui essi
avvengono, si considerano (come appunto si deve fare) soltanto quali fenomeni;
perché un solo e medesimo essere, agente come fenomeno (anche davanti al
proprio senso interno), ha una causalità nel mondo sensibile, che è sempre
conforme al meccanismo naturale; ma rispetto allo stesso evento, in quanto la
persona agente si consideri nello stesso tempo come noumeno (come intelligenza
pura, nella sua esistenza non determinabile secondo il tempo), può contenere un
motivo determinante di quella causalità secondo leggi naturali, libero esso
stesso da ogni legge na- turale16. I valori assoluti conducono direttamente nel
mondo divino dell’igno- to, del noumenico, appunto17, mentre quelli relativi si
situano nel giudizio morale dell’individuo umano, che tuttavia, può essere a
sua volta conside- rato come una entità noumenica. Questi ultimi, dunque,
rivelano immedia- tamente la propria natura soggettiva, ossia legata al
pensiero del singolo essere umano, che solo una ottimistica visione illuminista
può reputare espressione di una razionalità universale e, quindi, omogenea. Il
sogget- tivismo valoriale apre la strada al nichilismo, ma di ciò si dirà più
oltre, per ora bisogna meglio comprendere la distinzione posta alla base della
separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Per quanto riguarda i
giudizi di fatto il problema si presenta di sempli- ce soluzione, giacché
possono definirsi tali solo quei giudizi sostenuti da percezione empirica.
Ovviamente esistono delle difficoltà anche sulla stra- da dell’empiria, poiché
sempre di giudizi trattasi, ossia di percezioni sog- gettive filtrate
attraverso la struttura categoriale propria della conoscenza umana, che
possiede almeno due caratteri limitanti la presunta oggettività esterna al
soggetto: quello biologico, anatomico, e quello culturale. Potreb- be
sussistere anche un terzo limite, quello psicologico, se si attribuisce una
propria autonomia individuale o collettiva alla mente come entità separata dal
cervello. Si pensi alla distinzione tra conscio, inconscio ed inconscio 16 I.
Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari1972, pp. 139-140. 17 “[...]
la realtà oggettiva della legge morale non può esser dimostrata mediante
nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion teoretica, speculativa o
sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse rinunziare alla
conoscenza apodittica, quella realtà non potrebbe venire confermata mediante
l’esperienza e così dimostrata a posteriori; e tuttavia essa è stabile per se
stessa”. I. Kant, op. cit., p. 59. collettivo18. Una ulteriore difficoltà
è data dai limiti assoluti, non categoria- li, della percezione umana: le unità
di misura di Max Planck (1858-1947) ed, in particolare, il tempo (tp), la
lunghezza (lp) e la massa (mp) di Planck costituiscono l’attuale, e, forse,
definitivo limite di rilevazione empirica, al di sotto del quale è impossibile
o, ancora forse, anche privo di significato procedere19. Riguardo ai giudizi di
valore si presenta qualche ulteriore difficoltà. Tra- lasciando i valori
assoluti, in quanto appartenenti ad un mondo separato da quello umano, ad un
mondo umano assolutizzato o all’individuo sempre assolutizzato, pare opportuno
soffermarsi sulla natura dei giudizi di valore relativi, soggettivi. Questi
ultimi generalmente vengono identificati come un dover essere, ma cosa
significa dover essere a livello del singolo sogget- to? Parrebbe un impegno
inderogabile, morale, non motivato da particolari interessi personali. Eppure
la scelta di un qualche sistema etico e dei suoi 18 “[...] l’incosciente
razionalmente comprensibile [...] consiste per così dire di materiali
artificialmente incoscienti, è solo uno strato superficiale, e [...] sotto di
questo vi è ancora un incosciente assoluto, che non ha nulla a che fare colla
nostra personale esperienza, che dunque sarebbe un’attività psichica autonoma,
opposta all’anima cosciente e perfino agli strati superiori dell’incosciente,
non tocca – e forse non toccabile – dall’esperienza personale, una specie di
attività psichica superindividuale, un incosciente collettivo, come io l’ho
chiamato, in contrapposto con un incosciente superficiale, relativo o
personale”. Cfr. C.G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia
moderna, Einaudi, Torino 1971, p. 111. 19 “[...] la gravità quantistica è
proprio la scoperta che non esistono punti infinitamente piccoli. Esiste un
limite inferiore alla divisibilità dello spazio. L’Universo non può essere più
piccolo della scala di Planck, perché non esiste nulla che sia più piccolo
della scala di Planck”. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La
struttura elementare della cosa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p.
201. “Analogamente a come, secondo la teoria della relatività, non si può
parlare in modo sensato di velocità il cui valore superi quello della velocità
della luce, così non si può nemmeno parlare sensatamente di una indicazione di
posizione la cui imprecisione sia inferiore al valore di 0,5. 1013 cm”. W.
Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 103. Ed ancora:
“Se partiamo dall’idea che le leggi della natura contengono realmente una terza
costante universale nella dimensione della lunghezza, e dell’ordine di 1013 cm,
allora dovremmo aspettarci di poter applicare i nostri concetti usuali soltanto
a regioni dello spazio e del tempo che siano grandi rispetto alla costante
universale. E dovremmo attenderci fenomeni di un carattere qualitativamente
diverso quando nei nostri esperimenti ci avviciniamo a regioni nello spazio e
nel tempo più piccole dei raggi nucleari. Il fenomeno dell’inversione temporale,
di cui si è discusso e che, fin qui, è risultato soltanto da considerazioni
teoriche come una possibilità matematica, potrebbe perciò appartenere a queste
minimissime regioni”. W. Heisenberg, Fisica e filosofia, il Saggiatore, Milano
2015, p. 165. valori scaturisce da preferenze personali, legate
all’ambiente in cui il sog- getto è stato educato e/o vive (consuetudinarietà
del comportamento, etc.) e dalle proprie individuali attitudini (propensioni
caratteriali, gusti, etc.), non certo da timore di ricevere punizioni o dal
desiderio di ottenere utilità di qualche tipo per se stesso o per qualcun
altro, poiché, in tale caso, non si sarebbe in presenza di un dover essere
morale. Dunque, in concreto il dover essere consiste in una scelta
comportamentale, che appaga il sog- getto agente almeno da un punto di vista
morale. Potrebbe, infatti, in esso sussistere un conflitto tra un appagamento
contrario al dover essere morale e l’appagamento dell’ottemperanza al medesimo.
Ovviamente il conflitto interiore si risolverà in favore dell’appagamento più
forte, della tensione emotiva più potente. Ma se di appagamento si tratta, il
concetto di dover essere non presenta alcuna propria autonomia di significato,
poiché si iden- tifica semplicemente con il concetto più immediatamente
verificabile in via empirica di mi piace. Del resto, è lo stesso Kant a fornire
indicazioni in questa direzione: Invero, ogni inclinazione e ogni impulso
sensibile sono fondati sul senti- mento, e l’effetto negativo sul sentimento
(mediante il danno che avviene alle inclinazioni) è anche sentimento. Quindi
possiamo vedere a priori che la legge morale, come motivo determinante della
volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un
sentimento che può esser chiamato dolore; e qui ora abbiamo il primo, e forse
anche l’ultimo caso nel quale, con i concetti a priori, possiamo determinare la
relazione di una conoscenza (qui è conoscenza di una ragion pura pratica) col
sentimento del piacere o del di- spiacere20. Il dover essere altro, dunque, non
è che un mi piace, nobilitato dall’es- sere riferito ad una forza od ad una
entità esterna al soggetto. Si riferisce la propria scelta ad un obbligo
inderogabile esterno, radicato nella trascen- denza della ragione, del
metafisico o del divino. Si sdoppia il mondo per dare oggettività anche alle
scelte soggettive ed, in tale modo, tranquilliz- zare se stessi della bontà
della propria opzione e presentare agli altri tale opzione non come un
arbitrio, un capriccio personale, ma come una ogget- tiva necessità etica, come
un comando eteronomo irresistibile, in quanto doveroso, a pena di riprovazione,
disonore, colpa, peccato, rimorso, etc.. Esempio tipico di questo processo è il
concetto di obiezione di coscien- za, proprio di taluni ordinamenti giuridici,
che con tale motivazione esen- tano alcune persone dal tenere, in una data
situazione, il comportamento 20 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p.
90. prescritto per legge, ma contrario ai convincimenti etici delle
medesime. Ciò spiega anche il tentativo di taluni autori21, che comunemente dai
divi- sionisti viene definito con l’espressione fallacia naturalistica, di
superare la Grande Divisione di Hume, unificando i due termini, fatti e valori,
in un’unica entità di natura oggettiva. In questo modo tutti i valori divengono
assoluti, gli uni perché trascendenti e gli altri perché immanenti ed empi-
ricamente verificabili; l’essere soppianta il dover essere, ma quest’ultimo,
sotto le sembianze dell’essere, mantiene la propria funzione di guida delle
azioni umane e di giudizio morale. Un tale passaggio diviene impossibile se si
prende atto che il concetto di devo coincide, semplicemente si identifi- ca,
con quello di mi piace. Del resto, è Hume steso ad indicare questa come la vera
e profonda natura del dover essere: Ora, niente accomuna il bello naturale e
morale (entrambi causa di orgo- glio), se non questo potere di produrre
piacere22. Il piacere, quindi, è all’origine del dover essere, ma, se questa è
l’ori- gine, pare opportuno riportare un po’ di ordine nel vocabolario e
chiama- re i concetti col proprio nome senza tentativi di mistificazione.
L’etica, la morale, ma anche il diritto altro non sono che articolazioni
specialistiche dell’estetica; talune diversità le distinguono, ma, in ultima
analisi, sono semplicemente espressioni estetiche del soggetto agente. Inoltre
questa de- mistificazione non solo opera favorevolmente sul piano pratico, in
quanto, svelando la natura estetica, ossia soggettiva e relativa delle scelte
umane, ne mina anche l’arroganza integralista ed intollerante, ma consente
anche una migliore utilizzazione metodologica della Grande Divisione. Infatti,
sostituire ai dualismi buono/cattivo, giusto/ingiusto il dualismo bello/brut-
to significa conservare l’elemento soggettivo del giudizio, anzi rafforzar- lo,
ed inoltre radicarlo anche in una realtà umana individuale o sociale
empiricamente analizzabile. Si apre in questo modo la strada allo studio delle
strutture motivazionali dei soggetti, alle psicologie individuali, all’e-
ducazione, alla cultura ed alle tradizioni. Tolti i valori dall’empireo della
razionalità astratta, della religione, della metafisica e ricollocati, come en-
tità estetiche, all’interno del soggetto agente e della società cui appartiene,
divengono fondamentali gli studi psicologici, antropologici e sociologici per
spiegare le scelte comportamentali. Il dualismo della Grande Divisione permane,
ma non necessità più di giustificazioni non empiriche (almeno in 21 Cfr. G.
Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover
essere dall’essere, Giuffrè, Milano 1969. 22 D. Hume, Trattato sulla natura
umana, Bompiani, Milano 2001, p. 599. uno dei suoi due termini) e non
produce più neppure quello sdoppiamento del mondo, che faceva sospettare una
sua natura ontologica, e non mera- mente metodologica, proprio per l’ambiguità
oggettiva/soggettiva del do- ver essere, dei giudizi di valore. La Grande
Divisione, nella versione essere – mi piace/non mi piace l’essere, giudizi di
fatto e giudizi di estetica, riesce a separare, a distinguere con chiarezza il
primo temine come oggettivo ed il secondo come soggettivo; ossia, il primo,
come empiricamente sussi- stente all’esterno del soggetto giudicante ed, il
secondo, empiricamente sussistente all’interno del medesimo soggetto;
ovviamente la prova empi- rica dell’esistenza e della qualità di quest’ultimo
giudizio consisterà, sarà data proprio dalla espressione, dalla manifestazione
di piacere o di dolore esternata del soggetto. Alla luce di quanto detto sino a
questo punto pare chiaro che non esi- stano dimostrazioni affidabili per
propendere decisamente a favore della tesi di una realtà monista o di una
realtà dualista; d’altronde non è logico pretendere una dimostrazione empirica
dell’esistenza di un mondo che, per definizione, non è empirico, né
l’affermazione che il mondo empirico sia l’unica realtà esistente, in quanto
verificabile empiricamente, può essere considerata qualche cosa di diverso da
una tautologia. Forse, l’ontologia del mondo è e non è monista; è e non è
dualista, ma oscillano e coesistono contemporaneamente entrambe le realtà, come
sembra suggerire la fisica subatomica con la coppia particella/onda ed ancor
più con l’equazione, già ricordata, di Albert Einstein E=mc2, nella quale energia
e massa sembrano essere due aspetti della medesima realtà, come potrebbero
essere anche spirito e materia. Anche in questo contesto appare significativo
il fatto che, secondo la mec- canica quantistica, la conservazione dell’energia
da un lato, che esprime la sua esistenza atemporale, e il manifestarsi
dell’energia nello spazio e nel tempo dall’altro sono due aspetti opposti
(complementari) della realtà. In verità, essi sono sempre compresenti, ma in
concreto ora l’uno ora l’altro esplicano la loro azione in modo predominante23.
La riflessione di Wolfgang Pauli (1900-1958), sopra riportata, apre la strada
ad una visione non più oggettivizzata in modo statico del reale, ma, bensì,
oscillante in modo instabile, con frequenze diverse, sia in se stessa, sia tra
soggetto ed oggetto24. Se il mondo non fosse un fatto, ma una mera 23 W. Pauli,
Psiche e natura, Adelphi, Milano 2006, pp. 36-37. 24 “Laddove il vecchio tipo
di spiegazione della natura, partendo dal presupposto di un osservatore
indipendente, assumeva un decorso totalmente determinato dei possibilità
oscillante continuamente a pendolo tra dualismi indissolubili tra loro, quali
soggetto/oggetto, determinato/indeterminato, assoluto/relativo,
visibile/invisibile, finito/infinito, etc., allora neppure una logica
dialettica potrebbe rendere ragione degli eventi, poiché mancherebbe comunque
il momento di sintesi. Si aprirebbe, invece, una finestra su una visione del
mondo instabile, in pendolare mutazione perenne. Una sorta di metamor- fosi
continua, come nell’opera poetica di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 18 d.C.):
Vi sono creature, o grandissimo eroe, il cui aspetto fu trasformato una sola
volta e per sempre rimase in questa trasformazione; ve ne sono altre, a cui è
data facoltà di mutarsi in più aspetti, come a te, o Proteo, abitatore del mare
che circonda la terra. Ti videro, infatti, ora quale giovane, ora quale leone;
ades- so eri irruente cinghiale, adesso un serpente, al cui contatto si provava
paura; alcune volte le corna ti fecero toro, spesso riuscivi ad apparire pietra
e spesso anche albero; talvolta, assumendo l’aspetto di acque fluenti, eri
fiume; talvolta, l’opposto delle acque, fuoco25. Ovviamente ad una tale visione
si accompagnerebbero inevitabilmente le domande intorno alla illimitata variazione
delle metamorfosi o alla loro natura evolutiva o non evolutiva oppure, ancora,
alla loro ripetitività cicli- ca secondo il principio dell’eterno ritorno di
nietzschiana memoria. Forse, il futuro ci riserva la necessità di una profonda
revisione dei no- stri processi logici, ad iniziare dal principio stesso di
identità. Per ora basti prendere atto almeno di quanto la conoscenza
scientifica ha ormai empiri- camente appurato: Con l’aiuto di queste particelle
[particelle α] Rutherford riuscì nel 1919, a trasmutare nuclei di elementi
leggeri; poté, per esempio, trasformare un nucleo di azoto in un nucleo di
ossigeno aggiungendo la particella α al nucleo d’azoto ed espellendone nello
stesso tempo un protone. Fu questo il primo esempio di processi su scala nucleare
che ricordassero quelli dei processi chimici ma con- dussero alla trasmutazione
artificiale degli elementi. Il successivo sostanziale fenomeni naturali, la
fisica odierna è giunta a un nuovo tipo di spiegazione della natura: è il caso
cieco, privo di finalità, la probabilità primaria che non può essere ricondotta
a leggi deterministiche. Secondo questa concezione la probabilità primaria
appare legata in modo essenziale al fatto che l’osservatore influenza i
fenomeni attraverso la scelta del dispositivo sperimentale, dal momento che la
misurazione comporta per legge di natura interazioni incontrollabili con
l’oggetto da misurare. Questa concezione sottolinea quindi con forza l’elemento
della libertà nei processi naturali”. W. Pauli, op. cit., p. 163. 25 Ovidio, Le
metamorfosi, Bompiani, Milano 1992, vol. I, p. 453. Monismo e dualismo
del mondo 51 progresso fu, come è ben noto, l’accelerazione artificiale dei
protoni per mezzo di congegni ad alta tensione ad energie sufficienti a
produrre la trasmutazione nucleare. Erano necessari a questo scopo voltaggi di
circa un milione di volt, e Cockcroft e Walton riuscirono nel loro esperimento
decisivo a trasmutare nuclei dell’elemento litio in quelli dell’elemento
elio26. Il sogno antico degli alchimisti diviene sempre più reale, contempora-
neamente, le forme si presentano oscillanti non solo a livello di particella e
di onda, appaiono sempre meno stabili e l’energia sembra giuocare contro il
principio d’identità.Il tema del libero arbitrio e del suo corrispondente
opposto, il servo ar- bitrio, tormenta da sempre, con un dubbio sino ad ora
irrisolto, i pensieri dell’essere umano e percorre tutta la storia della
filosofia1. Senza presun- zione di poter risolvere tale dubbio, conviene
tuttavia, per affrontare l’ar- gomento con sufficiente chiarezza, tentare
qualche definizione e qualche precisazione intorno ai concetti in discussione.
In via preliminare, dunque, pare opportuno prendere le mosse dal noto confronto
storico tra Erasmo da Rotterdam (1466-1536) e Martin Lutero (1483-1546),
rispettivamente sostenitori, il primo, dell’esistenza del libero arbitrio ed,
il secondo, della sua negazione. Erasmo formula una precisa definizione di
libero arbitrio: [...] noi qui definiremo il libero arbitrio come un potere della
volontà umana in virtù del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che lo
conduce all’eterna salvezza, sia, al contrario, allontanarsene2. La
contestazione di Lutero non si fa attendere ed è completamente in- centrata
sulla salvezza operata esclusivamente dalla Grazia di Dio e non conquistata
attraverso le opere umane: 1 2 Innanzitutto Dio è onnipotente non solo
per il suo potere ma anche per la sua azione, altrimenti sarebbe un Dio
ridicolo. In secondo luogo sa tutto e prevede tutto, perciò non può né errare
né fallire. Se il nostro cuore e la nostra intelli- genza approvano pienamente
questi due punti, siamo obbligati ad ammettere, per una conseguenza
ineluttabile, che non siamo stati creati per nostra volontà, ma per necessità;
e perciò non facciamo ciò che ci piace in virtù del nostro Cfr. M. De Caro, M.
Mori, E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia
filosofica, Carocci Editore, Roma 2014. E. da Rotterdam, Saggio o discussione
sul libero arbitrio, in F. De Michelis Pintacuda (a cura di), Libero arbitrio.
Servo arbitrio, cit., p. 57. libero arbitrio, ma ciò che Dio ha previsto
da ogni eternità e che fa accadere secondo il suo proponimento e il suo potere
infallibili ed immutabili3. Sia Erasmo che Lutero incentrano la questione
intorno alla salvezza spi- rituale ed alla Grazia di Dio, ossia si muovono in
ambito religioso, teolo- gico, tuttavia, mutando i nomi e sostituendo al nome
Dio quello di Natura, di scienza, di necessità causale, di assenza del divenire
o di inesistenza del tempo, i termini del problema non variano e continuano a
contrapporsi, anche se mascherate in Erasmo da formule religiose di stile,
proprie dell’e- poca, per evitare conseguenze repressive, le due medesime
posizioni: il monismo umano ed il dualismo divino. Mentre per Erasmo l’essere
umano può conoscere e decidere il proprio agire, per Lutero, invece, la
conoscenza non implica anche la volontà, la scelta. Una definizione estesa di
libero arbitrio potrebbe essere la seguente: es- sere soggetto autoreferenziato,
cioè giustificato nella propria esistenza da se stesso; autonomo, ossia
legislatore in proprio delle proprie regole di vita, e detentore di una
possibilità di volere e di agire incondizionata da fattori esterni al soggetto
medesimo. L’autoreferenzialità risponde all’esigenza di fornire un’origine ed
un senso in proprio della vita del soggetto. L’autono- mia esprime il rifiuto
di regole non condivise, provenienti da altri soggetti (eteronomia). La libertà
di volere e di agire intende descrive l’inesistenza di condizionamenti sia
psichici, mentali, sia fisici. La definizione deve per necessità presentarsi
radicale ed estrema, poiché nell’alternativa libero o sevo arbitrio sembra
impossibile prendere in considerazione posizioni in- termedie, per così dire,
moderate, in quanto o la libertà c’è o non c’è, una libertà limitata
corrisponde ad una non libertà, sicuramente almeno rispetto ai limiti posti, ma
anche in generale, poiché lede un principio, la libertà, che, per la
salvaguardia della dignità umana, non può che essere assoluto, come è assoluto
il soggetto individuale, unico ed irripetibile. Del resto, l’assolutezza
empirica del soggetto individuale è chiaramente palesata dal fatto che è solo
su di esso che si fonda ogni conoscenza del mondo ed è da esso che si manifesta
qualsiasi forma di azione, ogni agire. Naturalmente per soggetto individuale
non si intende esclusivamente l’essere umano, ma qualsiasi entità esistente,
capace in qualche modo di conoscere ed agire (minerali, piante, animali, entità
non visibili,...?). La definizione sopra illustrata parrebbe far propendere,
alla luce della percezione empirica del nostro esistere, per l’inesistenza del
libero arbi- 3 M. Lutero, Commento di Martin Lutero al saggio di Erasmo, in F.
De Michelis Pintacuda (a cura di), trio. Infatti, l’essere umano è
condizionato dal suo stesso vivere entro una forma, una realtà corporea da lui
non scelta, ad esempio non possiede ali per volare, può non apprezzare il
proprio aspetto fisico, rendersi conto di non possedere talune abilità
intellettive (difficoltà di apprendimento, scar- sa fantasia, etc.) o
funzionali (carenza di arti, difficoltà respiratorie, aller- gie, etc.), etc.,
e l’elenco, è bene ricordarlo, si presenta come meramente esemplificativo. Ma
un colpo ancora maggiore alla libertà umana è dato dall’impossibilità di scelta
di quando, dove, da chi e se nascere, con il conseguente condizionamento dato
dall’ereditarietà del patrimonio gene- tico e dalla casualità della condizione
sociale dei genitori, inoltre neppure il momento della propria morte è frutto
di libera scelta (salvo il suicidio, forse). Naturalmente tutto ciò alla sola
luce della conoscenza umana, che non può escludere qualsiasi cosa si possa
immaginare nella duplicazione metafisica del mondo, anche la libera scelta di
nascere, si pensi alla dottrina della reincarnazione e della metempsicosi,
operanti nel pitagorismo, nel mito platonico di Er, in talune sette gnostiche,
nell’Induismo, nel Buddi- smo, etc.4. Comunque, empiricamente parlando, le
uniche certezze che si presentano riguardano la nostra forma, il nostro inizio
e la nostra fine5. Sia 4 “Secondo costoro, che appartengono alla setta cui la
ragione è più amica [aristotelici], le anime beate, liberate da ogni
contaminazione materiale possiedono il cielo. Ma quelle che, sotto l’effetto di
un segreto desiderio, da quella dimora vertiginosa e da quella luce perpetua
hanno gettato uno sguardo in basso verso i corpi e verso ciò che chiamano
quaggiù la vita si sono a poco a poco trascinate verso le regioni inferiori,
per il solo peso di questo pensiero terreno. Quando abbandona lo stato di
perfetta immaterialità, questa vestizione del corpo fangoso non è tuttavia, per
l’anima, improvvisa, ma graduale, ed essa si impoverisce impercettibilmente e
con lento degrado dalla sua purezza uniforme e assoluta, mentre s’ingrossa con
certi accrescimenti di sostanza siderale. Infatti, in ciascuna delle sfere
situate al di sotto del cielo, l’anima si riveste di un involucro etereo, di
modo che attraverso tali involucri si adatta, progressivamente, ad unirsi a
questo nostro rivestimento di sostanza terrena e pertanto, per un numero di
morti pari a quello delle sfere che attraversa, l’anima perviene a quello stato
che quaggiù in terra è chiamato vita”. A.T. Macrobio, Commento al sogno di
Scipione, Bompiani,, Milano “I mortali sono gli uomini. Essi si chiamano i
mortali perché possono morire. Morire significa essere capaci di morte in
quanto morte. Soltanto l’uomo muore. L’animale cessa di vivere (verendet). Esso
non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né dietro di sé. La morte è lo
scrigno del nulla, vale a dire di ciò che sotto tutti gli aspetti non è mai
qualcosa di meramente essente, ma che, nondimeno, è essenzialmente in quanto
l’essere stesso. In quanto scrigno del nulla, la morte è il riparo nascosto
(Gebirg) dell’essere. Chiamiamo ora i mortali i mortali, non perché la loro
vita terrena cessi, bensì perché sono capaci di morte, essendo essenzialmente
nel riparo nascosto dell’essere. Essi sono il rapporto lecito il paragone,
siamo come una entità di forma predeterminata, che, nel percorso della sua
caduta dall’ultimo piano di un grattacielo al marciapie- de sottostante, pensa
di essere libera di poter fare ciò che vuole. Ma esiste veramente questa
libertà lungo il tragitto della caduta (vita)? Per poter ri- spondere a questa
domanda converrà ora approfondire anche il concetto di servo arbitrio. Il
determinismo comportamentale o della volontà può presentarsi sotto diverse
sembianze. Quando si afferma di poter fare una certa cosa, di poter compiere
una data azione si possono intendere referenti empirici diversi, come bene
illustra Ross, individuando tre condizioni necessarie per la sus- sistenza
dell’agire: L’agire attuale richiede quindi il verificarsi di tre gruppi di
condizioni: quel- le costituzionali, quelle occasionali, e quelle
motivazionali. Possiamo anche dire che esso presuppone che l’agente abbia sia
la capacità, sia l’occasione, sia la volontà o il motivo per compiere l’atto6.
Ad esempio, per poter nuotare è necessario saper nuotare (capacità), disporre
di uno specchio d’acqua (occasione) e, finalmente anche, volere, decidere di
nuotare (volontà, motivo). A rigore solo quest’ultimo requisito riguarda
direttamente il tema del libero arbitrio; il tema deterministico, in- vece,
coinvolge tutti e tre i gruppi di condizioni. Infatti, il determinismo non
riguarda solo la volontà, ma anche le condizioni soggettive (capacità) ed
oggettive (occasioni) dell’individuo. Comunque, per semplificare un tema sin
troppo arduo, conviene tralasciare queste ulteriori condizioni e soffermarsi
solo sulla volontà. La volontà può presentare almeno tre forme di ipotesi di
condizionamento: 1) la scelta non è riconducibile al soggetto agente (volontà
divina); 2) la scelta è condizionata da fattori immateriali (cultura,
educazione, morale, inconscio individuale o collettivo, psicologia, etc.); 3)
la scelta dipende dalla struttura biologica, biochimica dell’essere umano (si
pensi all’uomo macchina di Julien Offray de La Mettrie (1709- 1751) ed agli
studi medici intorno alla causalità chimica nella struttura organica umana). È
possibile ipotizzare anche altri fattori di condizion- amento, ma, data la loro
particolarità concettuale, sarà più opportuno trat- tarli in seguito; ora è
bene tornare al fattore di condizionamento metafisico. L’esistenza di una
volontà divina prevalente su quella umana presup- pone l’accettazione di una
visione dualista del mondo (fisica e metafisica), essenzialmente essente con
l’essere in quanto essere”. M. Heidegger, La cosa, in A. Pinotti (a cura di),
La questione della brocca, Mimesis, Milano 2007, p. 63. 6 A. Ross, Colpa,
responsabilità e pena, cit., p. 264. senza la quale l’esistenza del
divino non è pensabile. Se Dio tutto ha creato, quindi, tutto conosce e tutto
vuole, allora la volontà umana in altro non può consistere che nella volontà
stessa di Dio. Tale posizione fu compiu- tamente espressa dall’occasionalismo
di Arnold Geulincx (1624-1669) e di Nicolas Malebranche (1638-1715).
L’occasionalismo, negando un qual- siasi collegamento tra la res estensa e la
res cogitans cartesiane, sosteneva che le azioni umane altro non erano che
occasioni della manifestazione della volontà divina, l’unica ad essere libera.
In questa visione le azioni umane e la dimensione psichica si presentano come
due orologi perfetta- mente sincronizzati dalla volontà divina, ma indipendenti
l’uno dall’altro. A rigore, data l’evidente derivazione platonica di questo
pensiero, il mondo umano potrebbe essere anche inesistente oppure, seguendo la
convinzione nella onnipotenza creatrice di Dio, apparso solo in questo preciso
istante in cui, tu lettore, stai leggendo questo testo, con tutti i tuoi
ricordi e le tue sensazioni. L’unica certezza dell’esistenza di questo mondo
deriva dalla certezza della fede in Dio7. Ovviamente il determinismo appena
descritto è strettamente legato ad un pensiero religioso. Prendendo ora in
considerazione il pensiero immanentista, si presenta un determinismo tutto
incentrato sulla concatenazione degli eventi attra- verso il nesso di
causa/effetto. La prima considerazione da manifestare ri- guarda la natura di
tale nesso e la sua stessa esistenza. Già Auguste Comte ne metteva in evidenza
la natura metafisica e lo sostituiva con delle leggi generali di comportamento
degli eventi: Se, più tardi cambia [l’essere umano, n.d.r.] le sue concezioni
in proposito, è unicamente perché, allontanato, attraverso l’esperienza e la
riflessione, dalle illusioni primitive, rinunzia assolutamente a penetrare il
mistero del modo di prodursi dei fenomeni, di cui la sua natura gli impedisce
per sempre ogni cono- scenza, per ridursi ad osservare le leggi effettive. Ed
invero, se anche oggi, con tutte le nozioni positive acquisite, volessimo, per
il più semplice fenomeno, 7 In termini moderni questo problema è stato
affrontato sotto l’aspetto dell’autoreferenzialità causale: “I fenomeni più
elementari dal punto di vista biologico, incluse le esperienze percettive, le
intenzioni di fare qualcosa e i ricordi, presentano nelle loro condizioni di soddisfazione
una struttura logica particolare. [...]. Le condizioni di soddisfazione del
ricordo non si limitano, se le esamino nei dettagli, all’occorrere effettivo
dell’evento, ma richiedono che il ricordo stesso, delle cui condizioni di
soddisfazione è parte l’occorenza dell’evento, sia stato causato da tale
occorenza. Possiamo esprimere la peculiarità di tale struttura dicendo che sia
i ricordi sia le intenzioni sia le esperienze percettive sono causalmente
autoreferenziali. Ciò significa che il contenuto dello stato stesso si
riferisce allo stato ponendo un requisito causale”. J.R. Searle, La mente,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 154. tentare di concepire per
quale potere il fatto che chiamiamo causa generi quello che chiamiamo effetto,
saremmo inevitabilmente portati a realizzare immagini analoghe a quelle che
sono servite di base alle prime teorie umane8. Il nesso causale non viene
negato dalle leggi generali, ma semplicemente contenuto entro il limite del suo
significato di costanza, di ripetitività negli accoppiamenti temporali dei
fenomeni, senza indagare e pregiudicare il motivo, si potrebbe dire la causa,
di questo legame; ossia possiede natura meramente descrittiva e non anche
esplicativa: rileva il fenomeno, ma non ne spiega il senso. In altre parole, il
principio causale si presenta come il risultato del principio induttivo, sul
quale si fonda tutta la ricerca empirica, ma che, non essendo a sua volta
verificabile/falsificabile in via empirica, deve essere accolto a priori. Un ulteriore
affinamento del principio caus- ativo passa attraverso la dimensione
probabilistica delle rilevazioni em- piriche9. Conseguentemente le leggi
generali causali si sono trasformate negli studi scientifici in probabilità
statistiche di accoppiamento dei feno- meni, trasformando il nesso
causa/effetto in un mero nesso probabilistico a frequenza variabile. La potenza
di questo strumento metodologico (leggi generali causali) ha creato in un primo
tempo negli studiosi una baldanzosa presunzione di poter conoscere in anticipo
tutti gli eventi futuri e tale pre- sunzione ha indotto a pensare che un
generale determinismo governasse gli eventi10. Tuttavia ben presto il principio
probabilistico, in generale, ed, ancor più, in particolare, quello
fisico-quantistico di indeterminatezza di Heisenberg11 hanno, almeno in parte,
ridimensionato questa presunzione e riaperto il dibattito intorno al libero
arbitrio. 8 A. Comte, Opuscoli di filosofia sociale, Sansoni, Firenze 1969, pp.
182-183. 9 “Dobbiamo dire che generalmente i dati rendono il risultato
probabile. La causalità regge, diremo, in ogni esempio che abbiamo potuto
provare: perciò regge probabilmente anche in esempi non confermati. Ci sono
gravi difficoltà nel concetto della probabilità, ma per ora possiamo trascurarle.
Almeno finché è senza eccezione disponiamo così di un principio logico”. B.
Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi & C. Milano 1975, p.
38. 10 “Vi sono relazioni così invariabili tra eventi diversi avvenuti nello
stesso tempo o in tempi diversi che, dato lo stato di tutto l’universo in un
tempo finito, per quanto breve, ogni evento precedente o seguente può essere
determinato teoricamente in funzione degli eventi dati durante quel tempo”. B.
Russell, op. cit., p. 210. 11 “Al posto della precisione della posizione
subentra dunque in questa interpretazione l’immagine di una nuvola di materia,
il cui diametro sta nell’ordine di grandezza di 1013 cm e la cui densità
decresce dal centro verso l’esterno suppergiù al modo di una curva di Gauss”. W.
Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 101. Il
nesso causa/effetto degli eventi è stato per lungo tempo centrale
nell’alternativa determinismo/ indeterminismo, sino al punto da relegare il
tema della libertà del volere ed il relativo indeterminismo nell’ambito delle
questioni metafisiche e degli errori di logica. In proposito Nietzsche si
esprime in modo estremamente chiaro: La credenza originaria di ogni essere
organico è forse addirittura questa, che tutto il resto del mondo sia uno e
immobile. Da quel grado originario del pensiero logico è lontanissimo il
pensiero della causalità: anzi, ancora oggi, noi pensiamo in fondo che tutti i
sentimenti e le azioni siano atti della libera volontà: se un individuo
senziente si osserva, considera ogni sensazione, ogni mutamento come qualcosa
di isolato, ossia non condizionato, privo di senso, che affiora in noi senza
legami col prima e col dopo. Dunque, la
fede nella libertà del volere è un errore originario di ogni essere organico,
che esiste sin da quando esistono in esso gli stimoli del pensiero logico; e
allo stesso modo è un errore originario e ugualmente antico di ogni essere
organico la fede in sostanze non condizionate e in cose uguali. Ma, in quanto
ogni metafisica si è occupata prevalentemente di sostanza e di libertà del
volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali
dell’uomo – come se fos- sero però verità fondamentali12. Estremamente
interessanti in merito si presentano i più recenti studi biochimici e
neurologici. In particolare, poiché i neuroni per scambiarsi scariche
elettriche attraverso le connessioni sinaptiche necessitano di ener- gia, che è
loro fornita dal glucosio e dall’ossigeno trasportato dal sangue, è possibile
misurare l’attività cerebrale attraverso l’incremento distrettuale di tale
flusso. Ciò si ottiene grazie a metodologie di esplorazione funziona- le del
cervello quali la tomografia a emissione di protoni per il consumo di glucosio
(PET – positron emission tomography) e la risonanza magnetica funzionale, per
il flusso ematico (fMRI – functional magnetic resonance imaging). Un
esperimento specifico, condotto da Libet (1916-2007) e finalizzato a misurare
il, così detto, potenziale di prontezza (ossia il cam- biamento elettrico
cerebrale del soggetto, ormai da tempo dimostrato, in presenza di movimenti
volontari) sembra giuocare a favore di un determi- nismo inconscio. Infatti, il
distretto cerebrale corrispondente al movimento volontario in esame si attiva
550 msec prima dell’atto presupposto volon- tario. Dunque, sembrerebbe che un
impulso inconsapevole anticipi l’azio- ne, ma la volontà di agire diviene
consapevole 100-150 msec prima della effettiva manifestazione nel mondo esterno
dell’azione stessa. 12 F. Nietzsche, Umano, troppo umano I, in Opere 1870/1881,
cit., p. 529. Si può ritenere che le azioni volontarie comincino con
iniziative inconsce, che vengono borbottate dal cervello. La volontà cosciente
quindi selezione- rebbe quali di queste iniziative possono proseguire per diventare
un’azione, o quali devono essere vietate e fatte abortire in modo che non
compaia nessun atto motorio13. Ciò comporta che l’esperimento consente anche di
ipotizzare, in que- sti istanti consapevoli, una attività di veto del soggetto
nei confronti del processo messo in atto per giungere all’azione ed il vietare
è pur sempre espressione di libero arbitrio, come il fare. Tuttavia è possibile
obiettare, non solo e non tanto, che il concetto di causa non coincide con
quello di correlazione, ma, soprattutto, che il concetto di conscio non si
identifica con quello di arbitrio. Infatti, è possibile essere consapevoli che
la casa, nella quale ci si trova, stia per crollare, ma ciò non comporta né che
si pos- sa agire sul crollo, né che si possa compiere liberamente la scelta di
restare o di fuggire. Il punto da dimostrare, in relazione al libero arbitrio,
riguar- da la scelta, ossia l’origine dell’eventuale veto, non la
consapevolezza o meno dell’azione. Del resto, tale dimostrazione scientifica
pare logicamen- te impossibile, poiché la verifica/falsificazione empirica può
rilevare solo i nessi, gli accoppiamenti causali, ma tali nessi possono essere
considerati pressoché infiniti, quindi non sottoponibili tutti ad una
sistematica speri- mentazione. Soprattutto non possono essere presi in
considerazione, per ovvia impossibilità, i nessi ignoti e non immaginati come
possibili dallo scienziato. Conseguentemente si può solo empiricamente
affermare che l’eventuale veto all’azione nei precedenti 100/150 msec all’azione
stessa può essere libero, ma può anche essere determinato da un nesso causale
ignoto (l’assenza di nesso causale è solo assenza di nesso noto o ipotizza- to
come possibile); ciò prescindendo da tutti i molteplici condizionamenti noti14.
13 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina
Editore, Milano “Nessuna libertà assoluta dunque, bensì uno spazio di manovra
limitato dalla nostra eredità biologica, dal luogo e dal tempo in cui ci siamo
trovati a nascere, dalle esperienze familiari, dalla banda criminale a cui
abbiamo voluto aggregarci, o dall’associazione differenziale a cui siamo stati
esposti, insomma: uno spazio di manovra limitato dalla nostra storia, nostra in
quanto in gran parte costruita da noi”. I. Merzagora Betsos, Colpevoli si
nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2012, p. 101. Cfr. anche E. Soresi, Il cervello anarchico, UTET, Torino
2013. L’Autore affida lo studio delle relazioni intercorrenti tra mente e corpo
ad una nuova scienza, la psico-neuro- endocrino-immunologia (PNEI). Intorno a
detta scienza vedere anche P. Lissoni, Teologia della scienza, Editore Natur,
Milano 2003. Vi è poi un ulteriore impedimento logico alla
dimostrazione empirica dell’esistenza del libero arbitrio: quest’ultimo è
caratterizzato da assenza di nessi causativi estranei alla volontà stessa del
soggetto agente, ma ciò si- gnifica che la volontà dovrebbe essere indagata
prima della sua manifesta- zione empirica e ciò non è possibile per definizione.
L’assenza di fenomeni empirici non può essere studiata con metodologia
empirica; il nulla fisico non può essere né falsificato, né verificato, ma solo
rinviato o non rinviato a realtà trascendenti, immateriali, metafisiche.
Cercare la causa di una vo- lontà significa già presupporre il determinismo,
poiché la volontà è libera solo se priva di cause, salvo la volontà stessa del
soggetto agente (autore- ferenzialità ed autonomia), ma nulla è privo di cause
nel mondo fisico ed una volontà del tipo indicato non può appartenere al mondo
fisico; anche la scelta soggettiva, presupposta libera, è ancorata all’essere
soggettivo, alla sua psiche ed al suo corpo, ossia ai condizionamenti culturali
e materiali sia ambientali, sia personali. L’indagine sul libero arbitrio è,
dunque, una indagine sul nulla o sul metafisico; non è possibile ipotizzare
l’esistenza di un libero arbitrio senza duplicare il reale in entità
trascendenti la fisicità, si- ano esse divine o meramente mentali astratte, non
risiedenti comunque nel corpo dell’individuo agente. La consolatoria
conclusione di Libet in argo- mento pare indirettamente confermare le
considerazioni appena formulate: La mia conclusione sul libero arbitrio –
libero davvero, in senso non deter- ministico – è che la sua esistenza è
un’opinione scientifica altrettanto buona, se non migliore, della sua negazione
in base alla teoria deterministica delle leggi naturali. Data la natura
speculativa di entrambe le teorie, quella deterministica e quella non
deterministica, perché non adottare il punto di vista che abbiamo il libero
arbitrio, almeno finché non compaia – ammesso che compaia – qualche evidenza
che realmente lo contraddica? Questo ci permette, almeno, di proce- dere in un
modo che accetta e accoglie i nostri più profondi convincimenti e il comune
sentire, che ci dicono che il libero arbitrio lo possediamo15. Resta il
problema che solo il determinismo può essere assoggettato ad indagine empirica
e non anche l‘indeterminismo! Conseguentemente, con- scia o inconscia che sia
l’origine di un’azione, il tema da affrontare resta la presenza o l’assenza di
libertà nella dimensione sia conscia, sia incon- scia e questo tema rinvia, per
il libero arbitrio, ad un livello immateriale privo di quell’origine
deterministica propria del mondo fisico: il mondo si duplica necessariamente
per rispondere alla domanda, ma la necessità, in questo caso, ha natura logica,
non certo empirica. Il punto focale di questa 15 B. Libet, Mind time. Il
fattore temporale nella coscienza, cit., p. 160. discussione non sembra,
dunque, essere il nesso di causa ed effetto od an- che le leggi costanti e
generali di comportamento e neppure le probabilità statistiche di accoppiamento
dei fenomeni, ma, piuttosto, il fattore con- dizionante l’esistenza stessa del
concetto di scelta, ossia il fattore tempo: se scegliere significa generare
azioni successive in alternativa tra loro, le azioni di questo tipo si possono
produrre solo in un sistema in movimento, ossia condizionato dal tempo. I
sistemi acronici sono privi di movimento e, quindi, anche di scelte, ma di ciò
si parlerà più oltre. Al determinismo neuro-biologico, appena considerato, può
aggiungersi una ulteriore forma di determinismo, nel quale determinante non
appare il nesso causa/effetto, ma la totalità dell’essere con i propri
caratteri e le proprie qualità, già e per sempre dispiegate nelle sue parti
specifiche ed individuali. Questo determinismo si presenta espresso con rigore
da Spi- noza, come in parte si è già visto, nella sua sintetica espressione
Deus sive Natura. La totalità della Natura, governata dalle proprie naturali
leggi, determinazioni, assurge al ruolo di divinità impersonale. Il problema
non riguarda più tanto la catene causativa degli eventi, ma i caratteri
peculiari, con linguaggio moderno si potrebbe dire genetici, delle sue parti, i
quali, per necessità, non possono che estrinsecarsi nell’attività di queste sue
parti, nelle azioni, se si tratta di animali e di animali umani. Ognuno esiste
per sommo diritto di natura, e conseguentemente per sommo diritto di natura
ognuno fa quelle cose che seguono dalla necessità della sua natura; e perciò,
per sommo diritto di natura, ognuno giudica cosa sia bene e cosa sia male, e
provvede alla sua utilità secondo il suo giudizio, e si vendica, e si sforza di
conservare ciò che ama e di distruggere ciò che ha in odio16. Esponente di
questa tendenza deterministica di pensiero pare essere an- che Nietzsche, come
risulta con evidenza dal seguente brano: Che gli agnelli non amino i grandi
uccelli predatori non sorprende nessuno: ma non autorizza certo a rimproverare
i grandi predatori per il fatto di cacciare gli agnelli. E se gli agnelli
dicono tra loro: “Questi predatori sono malvagi; e chi è rapace il meno
possibile, anzi chi è addirittura l’opposto, un agnello cioè, non dovrebbe
essere buono?”, non possiamo certo biasimare questo criterio di edificazione
ideale, anche se i predatori stessi considereranno la cosa con un 16 B.
Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, Editori Riuniti, Roma “Infatti,
alla natura di una cosa non appartiene nulla se non ciò che segue dalla
necessità della natura della causa efficiente, e tutto ciò che segue dalla
necessità della natura della causa efficiente accade necessariamente”. certo
scherno e si diranno probabilmente: “Noi non li odiamo affatto, questi buoni
agnelli, anzi li amiamo, niente è più squisito di un tenero agnello”. –
Pretendere dalla forza che essa non si manifesti come forza, che essa non sia
volontà di sopraffazione, volontà di oppressione, di potere, che essa non sia
sete di nemici e di resistenze e di trionfi, è tanto assurdo come il pretendere
dalla debolezza che essa si manifesti come forza 17. I rapaci e gli agnelli di
Nietzsche si sovrappongono idealmente ai pesci grandi ed a quelli piccoli di
Spinoza, nell’evidente tentativo di evitare, at- traverso il determinismo della
forza, della potenza insita in ciascuna entità vivente, il giudizio morale. Il
vivente si trasforma in un indifferenziato Tutto, nel quale minerali, vegetali,
animali ed umani rivestono ciascuno il proprio ruolo predeterminato ed
esplicano le diverse potenzialità volitive ed operative, che sono state loro
assegnate dalla loro stessa natura, senza poter sfuggire ai limiti imposti da
quest’ultima. La forza necessitante è consustanziale all’individualità: la
pietra non possiede organi riproduttivi e, quindi, non può riprodursi, ma si
moltiplica per frantumazione; la pianta non ha gambe per camminare e, dunque,
vive sempre nel medesimo luogo; la maggioranza degli animali non possono opporre
il dito pollice alle altre dita della medesima mano, conseguentemente non
possiedono manualità ed hanno sviluppato inevitabilmente attività artigianali
limitatissime; l’es- sere umano vive respirando ossigeno e muore se respira
anidride carboni- ca. A causa di questa particolarità può abitare
esclusivamente su pianeti simili, per caratteri atmosferici, alla Terra. Questo
determinismo sembra paragonabile all’opera di un tiranno, che imprigiona i
propri sudditi entro carceri diversi in qualità per ciascuna categoria di essi,
ma anche per cia- scun individuo di ciascuna categoria (ad esempio esseri umani
nati senza braccia o diabetici). L’unica differenza consiste nella fonte del
vincolo: mentre nel caso della Natura il determinismo si presenta autonomo,
cioè proprio della natura stessa, nel caso del tiranno esso è eteronomo, ossia
proveniente dall’esterno del soggetto agente. Per descrivere la diversità dei
due modelli attraverso la tripartizione sopra ricordata del significato di
poter fare qualcosa, proposta da Ross, si deve dire che il modello determi-
nista spinoziano non lascia spazio né all’occasione, né alla capacità, né alla
volontà, mentre il modello del tiranno inibisce solo l’occasione. Oltre a
questa ipotesi determinista è possibile formulare almeno altre due ipotesi. La
prima strettamente legata alla visione di un mondo governa- to da rigide leggi
causali in sviluppo cronologico progressivo, in sintesi, un 17 F. Nietzsche,
Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma mondo programmato in via
di sviluppo; la seconda, invece, frutto della vi- sione di un mondo acronico,
privo di tempo. Non pare il caso di soffermarsi ulteriormente sulla prima
ipotesi, già trattata in precedenza, se non per dire che tale ipotesi può
essere presa in considerazione sia dal punto di vista della Totalità di un
Essere (realtà, mondo) in sviluppo determinato e pro- gressivo, ed è di questo
che qui si discute, sia dal punto di vista dei singoli gruppi, delle singole
catene di nessi causali, come l’ipotesi è stata discussa in precedenza e come è
usata in ambito strettamente scientifico. Il mondo in sviluppo causale conserva
la variabile tempo, mentre l’ulteriore ipotesi determinista, che si tratterà
ora, non prevede l’esistenza di tale variabile. Il tempo non esiste.
L’affermazione sembra forte, controintuitiva, ma anche falsificata
dall’evidenza empirica del divenire, eppure da Parmenide a Severino, molti
filosofi hanno percorso questa strada. La qualità non me- ramente logica delle
affermazioni di Heidegger, consiglia di orientarsi, per esemplificare il tema,
verso questo filosofo: Il tempo ha sempre funzionato come criterio ontologico
o, meglio, ontico nella distinzione ingenua delle diverse regioni dell’ente. Si
delimita qualcosa che è temporalmente (i processi della natura e gli
accadimenti della storia) rispetto a ciò che è non temporalmente (le relazioni
spaziali e numeriche). Si è soliti distinguere un senso a-temporale delle
proposizioni rispetto al decorso temporale delle enunciazioni. Infine si trova
un abisso tra l’ente temporale e l’eterno sovratemporale e ci si ingegna nel
gettare fra essi un ponte. Temporale equivale qui in entrambi i casi ad essente
nel tempo, una determinazione che, tra l’altro, è abbastanza oscura Il panorama
del tempo heideggeriano si presenta come una estensione spaziale, nella quale
si manifestano gli essenti, si illuminano, per poi scom- parire nuovamente
dietro il sipario del tempo. L’ente che reca il titolo di esser-ci è
rischiarato. È solo in base al ra- dicamento dell’esser-ci nella temporalità
che diventa intelligibile la possibilità esistenziale di quel fenomeno, che
all’inizio dell’analitica dell’esserci abbiamo contraddistinto come
costituzione fondamentale: l’essere-nel-tempo. Il tempo sfuma e con esso si
affievoliscono anche le sue articolazioni in passato, presente e futuro. In
fondo è solo la memoria che consente una simile distinzione. Dunque, la
principale prova dell’esistenza del tempo ha natura psicologica: ricordo,
quindi, ho vissuto il passato, ma, a parte Heidegger, Essere e tempo, Heidegger.
De libero o de servo arbitrio? 65 l’ipotesi di Malebranche di un mondo
creato da Dio attimo dopo attimo, l’organizzazione cronologica degli eventi
potrebbe essere determinata dal- la forma categoriale, di kantiana memoria,
della nostra conoscenza: cono- sciamo attraverso la categoria del tempo, che in
questo caso risiederebbe in noi e non fuori di noi; avrebbe una esistenza
solamente gnoseologica, non anche ontologica. Russell avanza proprio questo
sospetto: La differenza che sentiamo [...] tra cause ed effetti è una semplice
con- fusione, dovuta al fatto che ricordiamo gli eventi passati ma non ci
capita di ricordare i futuri. L’indeterminatezza apparente del futuro su cui
fanno assegnamento alcuni sostenitori del libero arbitrio, è soltanto il
risultato della nostra ignoranza rela- tiva ad esso. Il libero arbitrio in ogni
significato importante deve essere compatibile con la conoscenza più completa. La
nostra conoscenza del passato non è basata interamente sulle deduzioni causali,
ma deriva in parte dalla memoria. È un puro caso se noi non abbiamo memoria del
futuro. Si deve ricordare che la previsione supposta non creerebbe il futuro
più di quanto la memoria non crei il passato20. Risulta evidente che Russell
costruisce il proprio ragionamento sulla indifferente reversibilità dei
fenomeni di causa e di effetto, proprietà che è tipica delle operazioni di
fisica teorica; inoltre, nell’accogliere questa ope- razione riduce
necessariamente la funzione tempo ad un indifferenziato presente. Probabilmente
la posizione privilegiata di un filosofo, che è stato al contempo anche un
insigne matematico, ha consentito a questo Autore di vivere pienamente le
suggestioni di fisica teorica, che i tempi agitavano. Se il mondo è privo di
divenire e di movimento, che rappresenta una delle possibili forme del
divenire, è anche privo di tempo, poiché non è pensabile divenire e movimento
senza tempo. Riappaiono i fantasmi del- la scuola eleatica e della formulazione
del principio di identità assoluta, ontologica: l’essere è e non può non
essere. Se l’identità non può essere nientificata nell’essere altro, ossia non
essere più se stessi allora il divenire è pura illusione psicologica. Queste
riflessioni di natura filosofica, nel se- colo passato hanno trovato sostegni e
conforto anche in campo scientifico: L’equazione di Wheeler-De Witt, secondo
l’interpretazione più diretta, ci dice che l’universo nella sua interezza è
simile a una enorme molecola in uno stato stazionario e che le diverse
configurazioni possibili di questa molecola mostruosa sono gli istanti di
tempo. La cosmologia quantistica diventa l’estre- Russell, La conoscenza del
mondo esterno, cit., pp. 224-225. ma estensione della teoria della
struttura atomica e, simultaneamente, com- prende il tempo. Domandiamoci di
nuovo quali conclusioni possiamo trarne in relazione al tempo. Le implicazioni
sono quanto mai profonde. Il tempo non esiste. Esiste soltanto la mobilia del
mondo che noi chiamiamo istanti di tempo21. L’equazione sopra richiamata, detta
anche di Einstein – Schrödinger, cerca di conciliare la meccanica quantistica,
che necessita di un tempo definito, con la relatività generale, che lo nega,
per descrivere la gravitazione quantistica. Johon Wheeler (1911-2008) e Bryce
De Witt (1923-2004) nel tentare questa difficile operazione, non ancora
completa- mente risolta, evidenziarono, forse anche in parte inconsapevolmente,
che la funzione tempo si presentava come problematica e lo stesso concetto di
tempo poteva essere messo in discussione. Del resto, già la teoria einstei-
niana della relatività, proponendo la relatività, rispetto all’osservatore, del
tempo, non poteva che presupporre non solo l’assenza di un tempo asso- luto, ma
anche l’irrilevanza conoscitiva di un prima e di un dopo (rispetto a cosa?), di
cui l’indifferenza di Russell per il passato ed il futuro ne sono una coerente
espressione. Ma se passato e futuro si propongono come in- differentemente
intercambiabili, la realtà nel suo insieme, il Tutto, non può che possedere
un’unica dimensione temporale: il presente. Dunque, è nel solo presente che si
può discutere del libero arbitrio in questa ipotesi deter- minista. Il solo
presente trasforma il tempo in una sorta di spazio (spazio/ tempo, appunto),
nel quale gli eventi non trascorrono, ma sono collocati, dispiegati, come tanti
libri in una libreria. Ciascuno può narrare la propria storia, ma sempre
quella, il cui finale è ben noto sin dall’inizio e, comun- que, immodificabile.
In questa ipotesi i fenomeni possono essere solo de- scritti, non anche voluti,
ed il libero arbitrio non viene meno né per catene causali predeterminate di
eventi biologici, biochimici, neurologici etc., né per la natura necessitante
dei caratteri e delle potenze dei singoli enti, ma semplicemente perché non
esiste il tempo ed il divenire, quindi non ha sen- so parlare di scelte libere
o condizionate, che siano. Il mondo si presenta come una pellicola
cinematografica, il cui movimento illusorio è dato dallo scorrere della
successione dei singoli fotogrammi, in se immobili, statici, o, se si
preferisce un paragone più naturalistico, come una prateria unifor- me, della
quale è possibile descrivere sassi, piante, animali ed umani, che vi
alloggiano, ma completamente priva di ogni arbitrio umano o divino 21 J. Barbour,
La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi, Torino. Cfr.
anche P. Yourgrau, Un modo senza tempo. L’eredità dimenticata di Gödel e
Einstein, il Saggiatore, Milano 2006. De libero o de servo arbitrio?
(salvo che divina non venga considerata la prateria stessa). Questa totale
assenza di arbitrio e ben descritta da Ross: Ognuno deve agire esattamente a
quel modo che è determinato ad agire. Il nocciolo del problema può chiarirsi
con la storiella del ladro, il quale si difendeva dicendo che, essendo egli
determinato ad agire così come aveva agito, e non avendo egli alcuna
possibilità di sfuggire alla necessità ineluttabile della legge della
causalità, sarebbe stato assurdo e ingiusto punirlo. E il giudice gli
rispondeva: sì, Lei ha ragione. Il Suo comportamento era determinato e Lei non
ha potuto sfuggire alla necessità che governa tutto l’universo. Lo stesso vale
però per la società e per me in quanto suo rappresentante. La società è
determi- nata a difendersi da aggressioni come la Sua e perciò io Le infliggo
una pena. Il contesto della storiella si colloca all’interno di un
condizionamento governato dalla catena causale, ma si adatta ancora meglio ad
un mondo privo di tempo, nel quale non ha neppure senso parlare di scelte e
tutti si manifestano per quelli che sono, collocati in quel luogo da sempre e
per sempre, in una eternità non data da un tempo infinito, ma da una completa
acronicità. Riguardo al libero o servo arbitrio ogni proposta di soluzione del
proble- ma non può che essere considerata una semplice ipotesi di lavoro,
poiché le eventuali soluzioni non si prestano ad una verifica empirica;
pertanto l’affermazione o la negazione del libero arbitrio deve essere
considerata una mera proposizione a priori. La verifica/falsificazione empirica
del determinismo o dell’indetermini- smo risulta metodologicamente impossibile
a causa, oltre a quanto prece- dentemente già sostenuto, anche per
l’irripetibilità dell’atto presunto voli- tivo. Infatti, se nel tempo to si
presenta l’alternativa tra il compiere l’azione A o l’azione B e si compie
l’azione A, nel tempo t1 si potrà forse anche compiere l’azione B, ma ciò non
dimostra che la si poteva compiere anche nel tempo to. Per poter raggiungere
questa dimostrazione si dovrebbe poter ripetere la scelta dell’azione, questa
volta B, nel tempo to, poiché la ripetiti- vità dell’esperimento in questo caso
non riguarda una serie di eventi simili (solo simili: ogni evento varia
rispetto ad un altro almeno per il tempo nel quale si realizza, oltre che per
la sua configurazione interattiva), ma la scel- ta stessa dell’evento da
mettere in essere. Poiché è la scelta, non l’oggetto della scelta, da
sottoporre a verifica/falsificazione empirica, dovrà essere possibile ripetere
l’atto dello scegliere, non ciò che si è scelto o non scelto, ma ciò risulta
impossibile per l’unidirezionalità presunta del tempo: dal 22 A. Ross, Colpa,
responsabilità e pena, cit., pp. 184-185. presente pare possibile accedere
solo al futuro ed impossibile tornare nel passato, almeno per una concezione
assoluta del tempo23. Il tempo in mo- vimento unidirezionale, dunque, impedisce
di trasformare il libero arbitrio da concetto a priori in concetto a
posteriori, condannandolo in tale modo alla dimensione metafisica. Oltre all’impossibilità
empirica di raggiungere certezze in questo cam- po, si presenta anche un
ulteriore impedimento, questa volta di natura lo- gica: se il determinismo
descrivesse, corrispondesse effettivamente alla realtà, alla struttura del
nostro mondo, allora essere monista o dualista ed, addirittura, essere
determinista o indeterminista sarebbe una condizione imposta
deterministicamente. Pertanto prima di affrontare il tema del com- portamento e
delle convinzioni individuali si dovrebbe descrivere e spie- gare il modello di
sistema, nel quale comportamenti e convinzioni sono collocati. Se il sistema è
deterministico saranno condizionate, non libere, anche le azioni e le
convinzioni, che in esso si agitano, ma, viceversa, se il sistema è
indeterministico le azioni e le convinzioni ad esso afferenti po- trebbero
essere anch’esse libere oppure vincolate da un determinismo cau- sativo interno
al sistema stesso (è il caso del principio di indeterminazione, che opera solo
a livello subatomico). Tuttavia, per sapere se un sistema è o non è
deterministico si devono analizzare empiricamente le azioni e le con- vinzioni
che lo compongono. Risulta evidente il corto circuito che si crea: per
conoscere del sistema si deve conoscere delle azioni e delle convinzio- ni che
lo compongono, ma per conoscere delle azioni e delle convinzioni che lo
compongono si deve conoscere il sistema. Si è in presenza di una evidente
petitio principi, che impedisce ulteriori conoscenze. 23 Questo esperimento
mentale risulta valido solo nella realtà a dimensione umana, ove il tempo è
assoluto (tempo assoluto newtoniano), a livello di fisica teorica, invece,
perde di validità o perché il tempo diviene relativo e consente viaggi almeno
nel futuro (teoria della relatività einsteiniana), o perché addirittura il
tempo è proprio considerato inesistente (teoria quantistica a loop). “A livello
fondamentale, il tempo non c’è. L’impressione del tempo che scorre è solo
un’approssimazione che ha valore solo per le nostre scale macroscopiche: deriva
dal fatto che osserviamo il mondo solo in modo grossolano”. C. Rovelli, La
realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello
Cortina, Milano. “Il tempo non è che un effetto del nostro trascurare i
microstati fisici delle cose. Il tempo è l’informazione che non abbiamo. Il
tempo è la nostra ignoranza”. DIRITTO ARTIFICIALE L’ambito culturale del
diritto presenta un ulteriore dualismo rispetto a quelli precedentemente
affrontati: il dualismo diritto naturale, diritto po- sitivo, meglio,
artificiale. Tale dualismo non si discosta dal modello di duplicazione del
mondo, ispirato ad una visione speculare, ma perfetta, della realtà empirica:
al concreto corrisponde l’astratto; al particolare il generale; al visibile
l’invisibile; al finito l’infinito; al relativo l’assoluto; al fisico il
metafisico; all’umano il divino. Questa specularità opera anche nel campo del
diritto e genera, a fronte del diritto positivo, imposto dalla forza degli
esseri umani dominanti, un diritto assolutamente giusto, detto natu- rale. Ovviamente,
il processo potrebbe essere interpretato anche in senso contrario: il diritto
naturale, per specularità, ispira la produzione del diritto positivo, che,
tuttavia, si presenta relativo ed imperfetto, ossia non necessa- riamente
giusto, ma solo valido ed efficace, rispetto al modello imitato. La differenza
tra i due diritti è tutta giuocata intorno ai concetti contrapposti di
assoluto/relativo e di giusto/ingiusto. Si tratta, dunque, di evidenziare
l’origine, la fonte di questi concetti, rispettivamente nei due tipi di
diritto. Il diritto naturale propone come propria fonte la dimensione assoluta
dell’Essere, sia esso Dio, la Ragione o la Natura. Non cambiano molto i
caratteri di queste tre denominazioni, che, sostanzialmente, esprimono il
medesimo referente; ciò che muta è solo il necessario dualismo del rea- le,
implicito nel concetto di Dio, a fronte della duplice compatibilità dei
concetti di Ragione e di Natura sia con la realtà dualista che con quella
monista. Infatti, la Ragione può appartenere solo al mondo fisico, può dua-
lizzarsi nella res cogitans e può anche risiedere nel mondo metafisico; la
medesima riflessione può essere svolta intono alla Natura, che può essere vista
come una realtà completamente immanente o come il corrispondente degradato di
una realtà trascendente. Non conviene addentrasi nella discussione intorno ad
una Natura me- tafisica, giacché non si avrebbe alcun strumento di riscontro
delle affer- mazioni, se non il proprio o l’altrui personale convincimento.
Conviene quindi appoggiarsi ad un concetto di Natura immanente e procedere
con lo strumento della constatazione empirica. In questo limitato ambito
si incontrano due diversi significati dell’espressione diritto naturale. Da un
lato, si intende descrivere la costanza di comportamento degli eventi na-
turali: la legge di gravità, le condizioni che fanno franare una montagna,
scoppiare un temporale, sollevare le maree, morire un essere vivente, etc.. In
questo significato l’espressione è semplicemente descrittiva di ciò che avviene.
Dall’altro lato, invece, la stessa espressione acquista una valenza
prescrittiva di comportamenti, che possono essere seguiti o violati a livello
umano (se si accoglie l’ipotesi dell’esistenza del libero arbitrio), ossia sono
relativi, ma che a livello dell’Assoluto si impongono come inderogabili,
necessitanti, poiché a tale livello conoscenza e volontà coincidono. Detta
inderogabilità si traduce nel mondo umano in valorialità assoluta sul piano
morale e, tuttavia, non necessitante su quello fisico come le leggi naturali,
descrittive di fenomeni. Ancora una volta la scriminante passa attraverso il
libero arbitrio: se esiste, la legge naturale non è necessitante, se non
esiste, lo è ed, in quest’ultimo caso, scompare la differenza tra i due
significati dell’espressione, che resta solo descrittiva. A livello empirico è
facilmente constatabile che i comportamenti umani non sono omogenei, uniformi,
ma divergono, anche profondamente, gli uni dagli altri (ciò che è bene per gli
uni è male per gli altri e viceversa) e tale constatazione è stata portata da
taluni autori come prova evidente dell’ine- sistenza del diritto naturale in
quanto prescrizione giuridica assoluta. Come una sgualdrina, la legge naturale
è a disposizione di tutti. Non esiste ideologia che non si possa difendere con
un appello alla legge naturale. E a ben vedere come potrebbe essere altrimenti,
dal momento che il fondamento ulti- mo di ogni diritto naturale risiede in una
immediata percezione privata, in una contemplazione evidente, in una intuizione?
Non può la mia intuizione essere buona quanto la vostra? L’evidenza, assunta a
criterio di verità, spiega il ca- rattere assolutamente arbitrario delle
affermazioni metafisiche. Essa le innalza sottraendole alla forza del controllo
intersoggettivo, aprendo completamente la porta alla libera fantasia e al
dogmatismo1. La prova empirica permane in tutta la sua validità, ma mostra il
proprio limite, ossia resta solo empirica, e come tale, non può escludere che
il diritto naturale non sia monolitico, ma, bensì, pluralista od, addirittura,
ni- chilista. In queste due ultime ipotesi la contraddittorietà dei diritti
naturali non dimostrerebbe la loro inesistenza, ma semplicemente il loro
carattere variabile in dipendenza da fattori a noi ignoti: tempo, luogo,
individui inte- 1 A. Ross, Diritto e giustizia, Einaudi, Torino 1965, p.
246. ressati (perché mai il diritto naturale dovrebbe essere egualitario
ed uguale per tutti?), etc.. L’empiria, tuttavia ci riconduce ad osservare la
realtà naturale, nella quale vive l’essere umano. Come si è già detto, il
panorama è desolante e fortemente immorale agli occhi della nostra attuale
cultura umana: il più forte vince sul debole, il cannibalismo governa tutto il
biologico, il com- portamento etico risulta indifferente alla buona o cattiva
sorte umana, al premio o alla pena e la morte trionfa su tutto e su tutti.
Sembra che nella natura e nella vita non vi sia alcun senso. Infatti già
Giobbe, il personaggio biblico, si interrogava: Perché mai fu data all’infelice
la luce, e la vita agli amareggiati d’animo? I quali anelano la morte – che pur
non viene – come si cerca un tesoro [nascosto]; i quali si rallegrano oltre
ogni dire, allorché hanno trovato un sepolcro? [Perché fu data la luce]
all’uomo, la cui via è nascosta, avendolo Dio circondato di tenebre?2. Il senso
lo si è dovuto trovare ancora una volta nello sdoppiamento del mondo, nella
dimensione metafisica, religiosa. Comunque, stando alle rile- vazioni
empiriche, non pare che vi sia molto da mutuare dal diritto naturale per la
vita umana. Anzi, è proprio l’orrore della natura che ha indotto l’es- sere
umano a cercare differenti modelli di comportamento, modelli artifi- ciali, non
naturali. Il diritto positivo rientra nel novero di questi modelli.
L’artificialità si è sostituita, per motivi forse deterministici, etici o forse
anche utilitaristici, alla naturalità. Il dibattito intorno alla natura benigna
o maligna di questo mondo appassionò in passato molti autori tra i qua- li è
possibile ricordare Leibniz, quale sostenitore dell’affermazione che questo è
il migliore dei mondi possibili in quanto creato da Dio, e François-Marie
Arouet, detto Voltaire, che contesta tale posizione da un punto di vista
filosofico. L’affermazione di Leibniz si presenta evidentemente metafisica e
teologica, ossia a priori, mentre la critica di Voltaire si muove in ambito
filosofico ed empirico, ossia a posteriori, tanto che quest’ultimo Autore la
affida anche ad un rac- conto satirico, Candide, ou l’Optimisme. 2 Giobbe, 3,
20-23. Signori – disse Cocambo – voi dunque pensate di mangiare un gesuita
oggi; molto bene, nulla è più gustoso del trattare così i propri nemici. In
effetti il diritto naturale ci insegna a uccidere il nostro prossimo, ed è così
che si agisce in tutto il mondo. Se non esercitiamo il diritto di mangiarlo, è
perché abbiamo altro per fare un buon pranzo; ma voi non avete le nostre stesse
risorse; certo è meglio mangiare i propri nemici anziché abbandonare il frutto
della propria vittoria a corvi e cornacchie. Ma signori, voi non vorreste
mangiare i vostri amici 3. Si ripresenta il solito dualismo ontologico,
umano/divino, e valoriale, bene/male, di cui il dualismo diritto
naturale/positivo ne è una diretta de- rivazione. In ambito immanentista
monistico il dualismo riesce ad essere risolto attraverso l’artificialità
dell’agire umano, attraverso l’homo artifex che crea sempre e solo, pur sotto
sembianze diverse, un diritto artificiale. Una delle principali caratteristiche
dell’essere umano è quella di creare artefatti materiali ed immateriali,
oggetti ed idee, ossia di essere un artefi- ce; è questa una sua particolarità
congenita, che lo distingue da altre entità naturali, in particolare animali.
Dunque, quando si tratta di esseri umani la naturalità coincide con l’artificialità.
È naturale per l’essere umano essere artificiale. La mano impugnò prima il
pugno, poi la spada e la pistola per difendere il proprio corpo. La mente ideò
il diritto per rendere più certi i rapporti interpersonali. In questo modo
nacque il diritto positivo, che è artificiale per definizione, ma anche il
diritto naturale, se espressione della creazione umana di un modello ideale, è
ugualmente artificiale e frutto di istanze etiche tutte umane. La coscienza è
un livello di sistema, una proprietà biologica pressoché allo stesso modo in
cui la digestione, o la crescita, o la secrezione della bile sono livelli di
sistema, proprietà biologiche. In quanto tale la coscienza è una ca-
ratteristica del cervello e perciò è parte del mondo fisico. La tradizione contro
cui mi batto dice che, essendo gli stati mentali intrinsecamente mentali, non
possono per ciò stesso essere fisici. Io sostengo invece che, in quanto
intrinse- camente mentali, essi sono un certo tipo di stato biologico, e dunque
a fortiori sono fisici4. La posizione di Johon R. Searle è evidentemente
materialista rispetto alla mens cogitans, pertanto rispecchia un modello
monista e immanentista del reale. Conseguentemente, in un tale modello tutto il
diritto è solo arti- ficiale, ossia umano e, quindi, relativo alla cultura dei
luoghi e dei tempi 3 Voltaire, Candido o l’ottimismo, Publidue, Bolzano
Novarese Searle, La mente, cit., p. 104. in cui sorge. In tale visione il
diritto naturale è frutto della mente umana esattamente come il diritto positivo
e, pertanto, entrambe possono essere definiti diritti artificiali.
Paradossalmente potrebbero essere anche definiti come naturali, poiché
l’artificialità è una componente naturale, congeni- ta dell’essere umano5. È
bene precisare che il carattere umano di artifex non coincide con l’espressione
latina homo faber fortunae suae, poiché quest’ultima presuppone un libero
arbitrio che la prima ignora: non è pre- cisabile sotto quale spinta l’essere
umano crei manufatti ed idee. Ciò detto, si tratta di evidenziare in cosa si
diversificano questi due tipi di diritto (naturale e positivo), che manifestano
la medesima origine, quella umana. Il diritto naturale esprime la speranza,
sempre viva nell’essere umano, di accedere ad un mondo perfetto ed immutabile
di giustizia; aspirazione che, per altro, come si è visto, ha prodotto la
duplicazione del mondo reale. In questo caso l’accento non viene posto né sul
carattere della perfezione, né su quello dell’immutabilità, bensì sulla
giustizia. Cosa è giusto? La ri- sposta risiede nell’origine stessa del diritto
naturale artificiale. Il giudizio del singolo essere umano determina il
contenuto concettuale del sostantivo giustizia. Esso, dunque, si manifesta come
soggettivo e trascina con sé la relatività propria dei giudizi soggettivi. Non
si tratta di un valore assolto, ma semplicemente dell’espressione di
un’opinione, di una preferenza; ciò spiega ampiamente il suo, già ricordato,
carattere variabile. Per approfon- dire ulteriormente il discorso, quindi, si
dovrà abbandonare il giudizio in se stesso, il suo contenuto, per rivolgere
l’attenzione verso il soggetto che lo ha espresso, verso i suoi interessi, i
suoi gusti, la sua cultura. Infatti, è nel soggetto ed esclusivamente nel
soggetto, che è possibile comprendere non solo la variabilità dei contenuti del
giudizio di giustizia, ma anche la qualità di questi contenuti. Storicamente
gli esseri umani hanno prodotto da sempre utopie sociali tranquillizzanti, che
potessero fungere da faro verso il quale rivolgere, di- rigere la vita in
comunità. Dalla Repubblica di Platone al De Civitate Dei di Sant’Agostino
d’Ippona, all’Utopia di Thomas More, alla Città del Sole di Tommaso Campanella
(1568-1639), alla Nuova Atlantide di Francis Bacon (1561-1626), alle Avventure
di Telemaco di François de Salignac de La Mothe-Fénelon, al Comunismo di Karl
Marx, al movimento New Age dell’Era dell’Acquario, e l’elenco è 5 Cfr. G.
Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck,
Feltrinelli, Milano 1979. Vedere anche M. Foucault, Le parole e le cose.
Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli Editore, Milano 1980. solo
esemplificativo, l’interesse per una società giusta si è sviluppato attra-
verso i secoli, chiedendo conforto ora all’assoluto metafisico ed ora al rela-
tivo immanente. In quest’ultimo caso l’accento è stato generalmente posto sui
valori della libertà e dell’eguaglianza, sia in alternativa, sia in equilibrio
instabile tra loro6. Il desiderio di far prevalere il valore della libertà o
quello dell’eguaglianza, come il cercare un equilibrio tra i due, è espressione
di precise situazioni sociali e personali indagabili empiricamente. Basti pen-
sare ai diversi interessi di potere ed economici, nonché agli altrettanto di-
versi gusti ideologici, culturali e religiosi, presenti nelle menti dei singoli
individui e nelle relative organizzazioni sociali. Ovviamente i singoli orga-
nizzati in gruppo dominante, più forte, tenderanno a far prevalere le proprie
visioni nell’ambito sociale e, per raggiungere più agevolmente tale scopo,
possono avvalersi non solo del diritto positivo, ma anche, in funzione di
sostegno, di quello naturale. Di contro, i singoli appartenenti al gruppo
dominato, recessivo, più debole, tenteranno di opporsi alle visioni valoriali
dominanti e, per fornire maggiore forza alle proprie idee, faranno appello ad
un ipotetico diritto naturale, giusto per definizione. Il diritto naturale,
dunque, può svolgere alternativamente una funzione sociale di rafforzamento
metafisico del diritto positivo vigente o di contral- tare, sempre metafisico,
al diritto positivo dominante. La contrapposizione tra gruppi sociali dominati
e recessivi si manifesta, quindi, già nella dua- lizzazione tra diritto
naturale e diritto positivo, ma si esprime in modo più evidente intorno ai
concetti di ideologia e di utopia, così come vengono espressi da Mannheim:
[...] le utopie trascendono la situazione sociale, in quanto orientano la con-
dotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto. Ma esse non
sono ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasfor-
mare l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni. Ad un
osservatore che abbia di esse un concetto relativamente estrinseco, questa
distinzione teoretica e del tutto formale tra ideologie e utopie sembra offrire
poche difficoltà. Determinare in concreto quale, in un certo caso, sia
l’ideologia e quale l’utopia è invece estremamente difficile. Noi ci troviamo
qui di fronte all’applicazione di un concetto che implica dei valori e dei
modelli. Per riuscire a questo, uno deve di necessità partecipare ai sentimenti
e alle finalità dei partiti in lotta per il potere su di una realtà storica7.
In sintesi, le ideologie esprimono prevalentemente l’opinione consoli- data dei
gruppi dominanti, mentre le utopie quella dei dominati; in questa 6 Cfr. C.
Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino Mannheim, Ideologia e utopia, il
Mulino, Bologna 1970, pp. 197-198. dualizzazione si manifesta all’incirca
il medesimo rapporto che intercorre tra diritto positivo e diritto naturale ed
anche in questo caso, sia l’ideologia che l’utopia sono realtà meramente umane,
relative, pur aspirando ad una dimensione assoluta. Ovviamente la distinzione è
solo indicativa, poiché non è sempre agevole individuare chi veramente domini e
chi sia vera- mente dominato ed in che misura. In ogni caso, il diritto
naturale, al pari dell’utopia, si presenta come una speranza, come una istanza
politica od etica; se si accoglie il dualismo fisica/metafisica, umano/divino,
come la voce, l’ombra empirica del metafisico, del divino. In questo modo il
diritto, in quanto organizzazione della forza fisica degli esseri umani nella
storia, si trasforma in forza anche morale attraverso un dover essere
eteronomo, la cui fonte è superiore a quella umana. Ma proprio quando viene
meno, si prosciuga, con lo svilupparsi del soggettivismo individualista, questa
fonte eteronoma ed il diritto aspira a divenire autonomo (democrazia o nichili-
smo, poco rileva), si indebolisce anche la sua forza morale ed il dover es-
sere perde di senso in favore del mi piace, come si dirà in seguito. A questa
perdita di senso corrisponde un progressivo evaporare del diritto naturale ed
una corrispondente identificazione del diritto positivo tout court con la forza.
Il diritto positivo, ma anche quello naturale, finalmente gettano la maschera e
si svelano come espressione della potenza dei gruppi sociali dominanti, che
possono agire, nel perseguimento dei propri fini, attraverso la violenza, il
convincimento od il condizionamento culturale. Sotto questo profilo le
differenze tra dittatura, monarchia, oligarchia e democrazia risul- tano
marginali, poiché anche quest’ultima, operando attraverso il principio
maggioritario, si distingue solo quantitativamente e non qualitativamente
dall’uso della sopraffazione sul singolo individuo dissenziente. Un ulteriore
tentativo mistificatorio trova espressione attraverso la se- parazione del
concetto di ordinamento giuridico da quello di Stato, come se un diritto
potesse esistere come fonte originaria di doveri, di obblighi, senza il
supporto coercitivo di uno Stato, e come se le regole imposte dallo Stato
potessero vivere di vita propria senza lo Stato che le ha generate. Si è ancora
in presenza di una duplicazione, che assegna al diritto una propria natura
trascendente rispetto all’immanenza dello Stato. Immanen- za e trascendenza
continuano ad essere i protagonisti di questo dilemma tra autonomia ed
eteronomia, tra relativo ed assoluto, tra umano e divino. Ma il dilemma è
destinato a restare tale, poiché la scelta non può avva- lersi di prove né
empiriche, né logico-razionali. Le prove empiriche sono impercorribili,
incompatibili con le realtà non empiriche e quelle logico- razionali non
possono descrivere un mondo governato da una logica e da una ragione diverse da
quelle umane. La scelta resta, dunque, arbitraria, affidata ad assiomi, a
fede, la cui origine risale sempre e solo al soggetto, alla sua personale
convinzione, illuminazione ed, in quanto tale, ad esso relativa. Più in
generale, tutto il mondo empirico si manifesta sempre e solo come relativo al
soggetto che lo percepisce. Lo stato di natura, come si è detto, consiste in
una perenne lotta per l’esistenza e la sopravvivenza, che genera una generale
incertezza nei sog- getti consapevoli intono alla propria sorte. Da ciò
scaturisce l’esigenza e, contemporaneamente, il desiderio di costruire una
propria sicurezza di rapporti, sicurezza in gradazione crescente dal mero
impegno morale al diritto. L’artificialità non si limita, dunque, all’ideazione
del diritto, ma lo organizza anche in istituzione, cioè in una entità astratta
permanente, che persiste nel tempo con il mutare dei soggetti umani che la
compongo- no. Esempi tipici di tale organizzazione sono l’ordinamento giuridico
e lo Stato, che nelle società contemporanee tendono praticamente a coincidere,
anche se, come si è visto sopra, originano da un tentativo mistificatorio di
duplicazione. In altre parole, il diritto, inteso come tecnica di trattamento
dei conflitti intersoggettivi umani, si organizza in un sistema burocratico
istituzionalizzato. Il diritto, quindi, diviene tecnica e si produce e si
applica attraverso pro- cedure burocratiche, a loro volta determinate dal
diritto stesso. Il diritto ge- nera se stesso attraverso procedure ed artifici
linguistici, quali i concetti di doverosità e di obbligo. In realtà, può dirsi
diritto solo quel comportamento concretamente messo in essere nella convinzione
del soggetto di adempie- re ad un dovere giuridico. Le procedure legislative
sono solo canali per convogliare o mediare il consenso dei soggetti intorno
alle proposizioni normative e queste ultime sono indicazioni, segnali per
l’azione o la non azione, ma la norma resta il fatto concretamente
materializzato dell’azione compiuta e non perseguita da sanzione. Si potrebbe
dire che il diritto altro non è che l’opinione giuridica del soggetto intorno
ai comportamenti da tenere. Il comportamento conseguente a tale opinione potrà
anche essere sanzionato, ma ciò non potrà cancellare la natura giuridica di
tale opinione e del conseguente comportamento. Ciò spiega anche come il diritto
natu- rale possa considerarsi diritto al pari di quello positivo, non solo in
quanto entrambe artificiali, ma anche perché entrambe soggettivi, esistenti solo
nella convinzione di obbligatorietà del soggetto agente. Tornando ora al
diritto come tecnica burocratica pare opportuno preci- sare che la burocrazia
si forma come strumento di garanzia della certezza e della velocizzazione delle
procedure, ossia come strumento il cui fine è il raggiungimento dei fini propri
dell’organizzazione, cui viene applicata. Nel nostro caso il fine dovrebbe
consistere nella realizzazione della giustizia, ma si è già detto che,
purtroppo, il concetto di giustizia resta di conte- nuto vago e, comunque,
relativo al pensiero dei singoli soggetti agenti. In queste condizioni la
burocrazia ha buon giuoco a fare quello che Severino denunzia essere la
tendenza di qualsiasi tecnica: il trasformarsi da mezzo in fine. Tanto il
capitalismo, quanto il diritto sono forme di volontà destinate a di- ventare,
da scopi, mezzi della tecnica. La tecnica è destinata a prevalere stori-
camente, e questo prevalere è appunto il rovesciamento in cui la tecnica – da
mezzo della volontà giuridica, o capitalistica, o democratica, o di ogni altra
forma di volontà – diventa lo scopo di tali forme; si che, anche per quanto ri-
guarda la volontà capitalistica e la volontà giuridica, non sarà più il
capitalismo a servirsi della tecnica (e della volontà giuridica) per
incrementare il profitto, e non sarà più (posto che lo sia stata) la volontà
giuridica a servirsi della tecnica (e del capitalismo) per realizzare un certo
ordinamento giuridico, ma sarà la tecnica a servirsi della volontà del profitto
e della volontà giuridica per incre- mentare all’infinito la propria potenza8.
La tecnica incrementa se stessa perseguendo obiettivi sempre più estesi ed
ambiziosi, sino al punto di dimenticare gli obiettivi stessi e di espandersi
per una propria logica di espansione. La burocrazia segue questo medesi- mo
modello espansionista e diviene la referente di se stessa. Natalino Irti, pur
sollevando vari dubbi intorno alla posizione di Severino, in particola- re
riguardo alla capacità di tenuta dei giuristi e della scienza giuridica, in
quanto detentori della decisione e della scelta (ritorna il libero arbitrio con
il diritto), riconosce il pericolo del pantecnicismo: Insomma, se l’Apparato
tecnico-scientifico è incremento indefinito della ca- pacità di raggiungere
scopi, chi decide, nel silenzio della politica e del diritto, i concreti e
determinati scopi, a cui quella capacità può dare soddisfazione? Non rischia
forse, quell’Apparato, di risuscitare gli antichi dei, i quali, risolvendo in
se stessi il tutto, non hanno bisogno degli effimeri scopi dell’uomo? Così il
cammino, aperto dal giusnaturalismo, si chiuderebbe nel giustecnicismo9. La
risposta alla prima domanda potrebbe essere: nessuno. Le decisioni potrebbero
estinguersi nel dominio di procedure, che, una volta decise, per- mangono per
sempre immutate, perpetuando se stesse. La seconda doman- da si limita a
proporre un inconveniente della tecnocrazia, la sua tendenza 8 E. Severino,
Atto secondo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Edizioni
Laterza, Roma-Bari 2001, p. 80. 9 N. Irti, Atto primo, in N. Irti, E. Severino,
Dialogo su diritto e tecnica, cit., pp. 20-21. al metafisico, ma la
risposta giunge dal noto broccardo latino: adducere inconveniens non est
solvere argumentum. Lo sviluppo dei sistemi informatici, poi, moltiplica queste
tendenze espansioniste autoreferenziate a scapito dei fini, cui erano stati
preposti. Valga l’esempio dei sevizi bancari, che, svolti da persone fisiche,
forni- scono informazioni e prestazioni variabili; parzialmente sostituiti dai
ban- comat, ampliano il servizio sotto il profilo degli orari di apertura, ma
lo complicano con operazioni a computer autogestite dalla clientela e da co-
dici segreti; completamente sostituiti da sistemi informatici, obbligano la
clientela entro rigidi schemi e variabili predeterminate, vincolanti per la
prestazione del servizio, con limitato, se non inesistente, accesso ad un dia-
logo, ad una trattativa personale intorno alle condizioni di erogazione dei
sevizi medesimi. La tecnica ha cancellato il servizio in nome del suo stesso
sviluppo tecnologico. Ciò che vale per la tecnica, vale anche per il diritto,
in quanto tecnica: si estende senza sosta, occupando aree sociali sempre più
ampie; la giuridicizzazione del mondo moltiplica le controversie civili ed i
reati; si creano aspettative di certezza sempre nuove, ma sempre anche
frustrate dall’inevitabile varietà del mondo, che non conosce limiti. Inutil-
mente l’artificialità del diritto si affanna a prevedere futuri comportamen- ti
possibili da governare, i comportamenti continuano a moltiplicarsi alla stessa
velocità delle regole e l’unico risultato resta l’inflazione normativa, ossia
l’estendersi della tecnica giuridica. Da un lato, la tecnica giuridica tende a
soppiantare nella regolamentazione sociale tutte le altre tecniche. Dall’altro
lato, accoppiata ai modelli informatici, si disumanizza e fornisce vita ad un
nuovo diritto naturale, non più divino, ma pur sempre metafisico. L’essere
umano, per natura, pone domande, nei sistemi informatici deve solo fornire
risposte; le domande le pone il computer. I termini dei proble- mi li determina
il computer e le soluzioni pure. Non si è ancora completato questo processo di
disumanizzazione, ma con i ritmi di sviluppo attuali della tecnologia i tempi
della sua realizzazione probabilmente non saranno lunghi. La tecnica, dunque,
si assolutizza, prima, come alibi egualitarista di de- responsabilizzazione
decisionale umana, poi, come vera e propria delega di decisione autonoma, in
fine forse, come effettiva capacità decisionale autonoma. La regolamentazione,
che indirettamente viene generata dalle decisioni informatiche, diviene
diritto, un diritto completamente artificiale, che spodesta sia il diritto
positivo che quello naturale. Ma questo nuovo diritto, che si appresta a
nascere, ha i caratteri del suo genitore informati- co: immateriale,
trascendente l’essere umano, onnipotente, onnipresente ed assoluto.Il
metafisico sembra potersi materializzare su questa Terra attraverso
l’informatica ed il diritto naturale riconquistare la propria autonomia tra-
scendente attraverso una nuova dualizzazione: umano/informatico. Questa nuova
legge naturale è meramente descrittiva, come quella divina, poiché anche in
essa conoscenza e volontà coincidono: ci si deve attenere alla maschera dei
comandi e delle domande o non si ottiene risposta e servizio; in metafora, devi
nuotare se non vuoi affogare. Il dover essere del diritto naturale, per così
dire, di derivazione etica cede il passo al dover essere dei fenomeni naturali,
delle frane, delle inondazioni, della fisica e della chi- mica. Questo diritto
naturale informatico non manifesta doverosità etiche o giuridiche, ma necessità
empiriche. L’alienazione dell’umano avviene nella tecnica, ed in particolare in
quella informatica, attraverso una etero- nomia imposta per necessità e non più
per scelta. Il libero arbitrio viene negato nei fatti e nella loro
ineluttabilità. Forse, nella ciclicità delle alterne vicende del futuro potrà
rinascere un nuovo umanesimo, che dovrà portare con sé anche l’emergere di un
nuo- vo diritto positivo o, forse, la rinascita competerà ad una nuova fede
tra- scendente ed al relativo diritto naturale oppure, sempre forse, lo
strumento giuridico potrà non essere più considerato idoneo a gestire le
conflittualità umane, le incertezze prodotte dalla natura ed i suoi orrori.
Probabilmente il mutare della prospettiva potrà dipendere da un nuovo salto
culturale, da un nuovo paradigma, per usare una espressione di Thomas Kuhn
(1922- 1996)10. Del resto anche Foucault, nelle sue ricerche archeologiche
intorno al sapere, alla conoscenza umana ha individuato taluni di questi salti
cul- turali. Essa [la natura] si rivela omicida in quello stesso movimento che
la destina alla morte. Uccide perché vive. La natura non sa più essere buona.
Che la vita non potesse più essere separata dall’omicidio, la natura dal male,
e i desideri dalla contro-natura, era quanto Sade annunciava nel XVIII secolo,
del quale egli esauriva il linguaggio, e nell’età moderna, la quale volle lungamente
con- dannarlo al mutismo. Si perdoni l’insolenza (verso chi?): I 120 giorni
sono il rovescio vellutato, meraviglioso, delle Lezioni d’anatomia comparata.
Co- munque sul calendario della nostra archeologia hanno la stessa età11. 10
Cfr. Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee
della scienza, Einaudi, Torino 1978. 11 M. Foucault, Le parole e le cose.
Un’archeologia delle scienze umane, cit., pp. 300-301.Anche il concetto stesso
di natura subisce le mutazioni culturali proprie del soggettivismo e del
relativismo umano: la natura ora appare madre ed ora matrigna, ora si manifesta
come benefica ed ora come malefica (indif- ferente nell’ipotesi leopardiana),
ora generatrice ed ora omicida, probabil- mente perché possiede contemporaneamente
tutti questi aspetti. Il giudizio dipende dal punto di vista dal quale la si
osserva, ossia non è possibile per l’essere umano raggiungere una conoscenza
complessiva, completa, universale, si potrebbe dire olistica. La stagione, la
temperie culturale delle varie società umane consente, poi, il prevalere di una
visione, di un con- vincimento, di una interpretazione rispetto ad altre,
diverse ma altrettanto possibili, secondo un modello di trasformazione, di
sviluppo non ancora ben identificato, secondo un modello di salto culturale
molto simile ai salti quantici propri della fisica teorica. Le strade che
conducono ad una posizione nichilista o nihilista (si vedrà in seguito la
differenza tra questi concetti) sono almeno due. L’una provie- ne dal riconoscimento
del pieno ed insindacabile soggettivismo delle scelte umane e conduce al
pluralismo, al relativismo dei valori. L’altra origina nella convinzione del
divenire della storia e della vita umana e porta a quel trionfo logico del
nulla, del non essere, che attualmente sembra approdare ai lidi della
tecnocrazia. Entrambe le strade, tuttavia, si aggirano nel mede- simo panorama
ambientale: la fine dell’Assoluto, dell’ episteme (επιστήμη – ciò che si
impone), del trascendente, dell’immutabile, dell’Essere che non può non
essere1. Questo panorama è stato descritto con estrema lucidità da Nietzsche e
sintetizzato nell’espressione: Dio è morto. Cerco Dio! Cerco Dio! [...]. Dov’è
andato Dio? – gridò – Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi ed io! Noi
tutti siamo i suoi assassini. Ma come ab- biamo fatto? [...]. Che cosa abbiamo
fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? [...]. Non vaghiamo
attraverso un nulla infinito? Non avver- tiamo l’alito dello spazio vuoto?
[...]. Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non
sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dei si
putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non
dobbiamo divenire dei noi stessi, per essere degni di lei?2. 1 “Non ci si ferma
più soltanto al sentimento della mancanza di valore e di senso del divenire, né
a quello dell’irrealtà del divenire. Il nichilismo diventa ora esplicita
incredulità per qualcosa come un mondo eretto al di sopra del sensibile e del divenire
(del fisico), cioè metafisico. Questa incredulità per la metafisica si vieta
ogni sorta di via traversa per giungere a un mondo dietro il mondo o a un
sopramondo”. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2010, p. 75.
2 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere 1882-1895, Newton, Milano 1993, pp.
121-122. Già in passato, narra Plutarco (46 d.C.-127 d.C.), all’epoca
dell’impe- ratore romano Tiberio (42 a.C.-37 d.C.) correva la leggenda che un
certo Thamus, capitano di una nave sulla rotta dall’Egitto verso Roma, si fosse
sentito chiamare da una voce tonante, che alla sua risposta gli ingiunse di
riferire a Tiberio che il Grande Pan era morto. Fine di un’epoca? Simbo- logia
astrale della precessione della presunta stella fissa Sirio? Avvento del
Cristianesimo al posto delle antiche divinità? Altro? Poco importa la risposta;
ciò che conta è il concetto di fine di un mondo e delle sue certezze al
subentrare di un altro. La morte cancella il passato ed apre le porte al
futuro: nuovi dogmi, nuovi concetti, nuovi metodi di ricerca, nuove cre- denze,
nuovi valori, nuove leggi. Si rinnovano le basi della conoscenza umana e delle
sue modalità esistenziali, individuali e collettive. Dio è mor- to simboleggia
la fine del mondo trascendente, dell’assoluto, del divino e dell’eteronomia e
prepara l’avvento di un nuovo mondo immanente, rela- tivo, umano, autonomo. Il
punto centrale da affrontare riguardo alla fine del vecchio mondo ed alla
nascita del nuovo, ossia all’origine ed alla forma del nichilismo, è rap-
presentato dal soggettivismo, che Heidegger analizza nel suo sviluppo da
Protagora (486 a.C.-411 a.C.) a Descartes, sino a Nietzsche. Il soggettivi- smo
genera un nuovo assoluto, quello umano, sul quale fondare il senso e le scelte,
ma tale assoluto si presenta privo di certezze, di verità, poiché relativo; si
è costretti dentro un ossimoro tra metafisica del soggetto e fisica del
soggetto oggettivato, identificate entrambe nell’essere umano. L’alter- nativa
è stringente: o si accoglie una nuova metafisica o si rinunzia al senso ed alla
verità tradizionale e consolidata, per percorrere la via nichilista, sulla
quale trovare un nuovo senso privo di verità e di valori. Heidegger esprime con
evidenza questa difficoltà: La metafisica moderna, in balia della quale sta o
sembra inevitabilmente stare anche il nostro pensiero, in quanto metafisica
della soggettività fa passare per ovvia l’opinione che l’essenza della verità e
l’interpretazione dell’essere si determinino per l’opera dell’uomo in quanto è
il soggetto vero e proprio. A pensare in modo più essenziale, tuttavia, si vede
che la soggettività si de- termina partendo dall’essenza della verità come
certezza e dall’essere come rappresentazione. E prosegue in modo ancora più
esplicito: Ora, che l’uomo erri, dunque che non sia immediatamente e
costantemen- te in pieno possesso del vero, significa certamente una
limitazione alla sua essenza; di conseguenza, anche il soggetto – come tale
l’uomo funge nel rappresentare – è limitato, finito, condizionato da altro.
L’uomo non è in possesso della conoscenza assoluta, non è, pensando in termini
cristiani, Dio3. Se il soggettivismo si trasforma in un nuovo assolutismo della
verità, presupponendo a priori come veritiera ogni affermazione soggettiva, si
è solo costruita una nuova metafisica immanentista, ossia priva di dupli-
cazione trascendente. Ma una tale metafisica appare ancora più infondata di
quella trascendente. Infatti, l’immanentismo fisico possiede il carattere della
fattualità, ossia di poter essere sottoposto a verifica/falsificazione em-
pirica. La verifica empirica del soggettivismo narra solo posizioni e scelte
relative ai soggetti che le esprimono, pertanto un suo eventuale assoluti- smo
verrebbe falsificato proprio in via empirica. Ci si deve rassegnare; la via
soggettivista non può che avere come compagno di viaggio il dubbio e come meta
l’incertezza. Si tratta di capire se la psicologia umana è in grado di
sostenere un tale peso esistenziale e se è possibile organizzare una società
priva di verità e di valori assoluti. Se questa è la dimensione umana sarebbe
strano rispondere negativamente ai due precedenti quesiti. Tutta- via non
appare strano che il genere umano abbia tentato di evitare un tale salto nel
dubbio e nell’incertezza attraverso la duplicazione metafisica del mondo. Ma
questa duplicazione può trovare una qualche giustificazione ed, ancor più, un
fondamento, se non logico almeno antropologico. Ciò, in- vece, che è chiaro è
che con l’avvento del soggettivismo, inevitabilmente, viene meno anche l’Assoluto.
Infatti, l’Assoluto, creando il relativo, stacca una parte dal Tutto, genera
un’altra unità, che, sommata alla prima, l’uno, risulta due, la pluralità. In
tale modo, automaticamente, anche l’Assoluto diviene parte di quel Tutto
composto da Creatore e Creato. Il Tutto si esten- de, si diversifica e
l’Assoluto si relativizza; ossia muore. La scienza moderna esprime alle proprie
origini un principio metodo- logico, che passa sotto la denominazione di Rasoio
di Occam (novacula Occami) dal nome di William di Ockham. Questo principio ha
trovato varie formulazioni tra le quali la seguente pare la più adatta al tema
qui trattato: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. In sintesi, si
tratta di scegliere tra due alternative, a parità di fattori, quella più semplice,
più immediata. La domanda, dunque, da porre potrebbe essere: è necessario
duplicare il mondo per spiegarlo? In una visione immanentista sembrerebbe
inutile la duplicazione, giacché i nessi causali e le leggi co- stanti,
universali, nonché probabilistiche, paiono poter rispondere ad ogni quesito,
salvo quello dell’origine del mondo stesso, dell’Essere; ma un tale 3 M.
Heidegger, Il nichilismo europeo, cit., pp. 234 e 237. interrogativo
dalla duplicazione viene solo rinviato al metafisico e, quindi, privato di
risposta per non senso della domanda o, più semplicemente, per misteriosità
impenetrabile del metafisico. Le risposte causali e le regolarità
comportamentali, però, si limitano a descrivere i fenomeni, e non giusti- ficano
né la loro esistenza, né la loro finalità, ossia non riescono a fornire senso,
significato alla realtà immanente. Non è questo un difetto dell’em- piria, ma
la sua naturale caratteristica, che consiste nella mera descrittività dei
fenomeni osservati, i quali sono rilevati come privi di finalità nella loro
immediata dimensione dell’attimo presente. Dunque, in una visione imma-
nentista del mondo, a maggior ragione se priva di libero arbitrio, ma anche se
dotata del medesimo (l’empiria si limita a descrivere le scelte non a mo-
tivarle valorialmente), manca completamente il senso della vita, il motivo
dell’esistere: ciò che esiste, esiste perché esiste. Ovviamente una simile
carenza di senso non può soddisfare la presunzione umana e, tanto meno, placare
i timori dell’ignoto. L’essere umano aspira all’assoluto, all’infinito per se
stesso e teme la morte in quanto nulla. Per esorcizzare aspirazioni frustrate e
timori è necessario trovare un senso all’esistere e, possibilmen- te, anche una
sopravvivenza post mortem di questo esistere. Conseguente- mente la
duplicazione del mondo diviene necessaria per giustificare, per attribuire una
qualche finalità alla vita e per calmare le angosce esistenziali; è
antropologicamente e psicologicamente necessaria, non certo teoretica- mente,
come si è già visto. Al contrario, teoreticamente dovrebbe valere il principio
del Rasoio d’Occam e, quindi, reputare inutile, o almeno, poco probabile, la
duplicazione, in quanto operazione meramente mentale al pari di qualsiasi altro
sogno, credenza, ideologia o fantasia. Presa confidenza con il panorama,
conviene ora porre attenzione alla strada da percorrere. Max Weber (1864-1920)
indica la prima (pluralismo e relativismo dei valori). Si tratta di constatare
l’emergere nel mondo occi- dentale moderno di un politeismo di valori, che pone
fine all’unità ideolo- gica, che fu propria della Res publica christiana4. 4
“La Entzauberung der Welt sfocia nel politeismo dei valori, con cui Weber
certifica la destinale pluralizzazione degli ordinamenti della vita, ossia la
perdita di universalità della ragione occidentale. Quella di Weber è la
assunzione radicale della sentenza di Nietzsche Dio è morto, ossia la
consapevolezza di vivere in un mondo senza dei e senza profeti tipica di
un’epoca che ha mangiato all’albero della conoscenza. I valori supremi di
ordine religioso che avevano avviato il processo di razionalizzazione si
svalutano irrimediabilmente nell’epoca del compiuto disincanto, ossia del
nichilismo compiuto”. F. Fusillo, Nichilismo e sovranità, in R. Esposito, C.
Galli, V. Vitiello (a cura di), Nichilismo e politica, Editori Laterza,
Roma-Bari 2000, p. 188. Nichilismo e nihilismo 85 [...], respingendo come
cosa estranea e ostile ogni santità e ogni bene, ogni legalità etica o
estetica, ogni significatività della cultura o valutazione della personalità,
pretenderebbe [questa concezione n.d.r.] tuttavia, ed anzi proprio perciò, la
sua propria dignità immanente nel senso estremo della parola. Quale che possa
essere la nostra presa di posizione nei confronti di tale pretesa, in ogni caso
essa non può venire dimostrata o confutata con i mezzi di nessuna scienza. Ogni
considerazione empirica di questi argomenti condurrebbe, come ha osservato il
vecchio Stuart Mill, al riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola
forma di metafisica ad essi corrispondente. [...]. Tra i valori, cioè, si
tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma
di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra dio e il
demonio. [...]. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile
anche se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’altro che nel
dover cono- scere quell’antitesi e nel dover quindi considerare che ogni
importante azione singola, ed anzi la vita come un tutto – se essa non deve
procedere da sé come un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente
– rappresenta una concatenazione di ultime decisioni, mediante cui l’anima
(come per Platone) sceglie il suo proprio destino – e cioè il senso del suo
agire e del suo essere5. Il mondo sociologico weberiano è animato da una
pluralità di soggetti individuali e collettivi, che perseguono propri interessi
e proprie valuta- zioni, non richiamandosi necessariamente a legittimazioni
trascendenti, Anzi cercando nell’azione razionale, ossia umana, rispetto al
mezzo od al fine il senso, il significato dell’agire. Questo senso diviene in
tale modo meramente immanente e, quindi, patrimonio esclusivo del soggetto
agente. Il soggettivismo si impone come scelta politica e giuridica, ma anche
come procedura burocratica. In Weber si possono già leggere le prime avvisaglie
di quello che la burocrazia potrà generare come tecnica fine a se stessa; è
possibile intravedere il fantasma della tecnocrazia disumanizzante6. Ma ai fini
del nichilismo ciò che maggiormente interessa è il richiamo alla molte- plicità
degli interessi, delle prospettive e delle ideologie sociali, poiché da tale
molteplicità scaturisce anche il relativismo soggettivo delle stesse. Molti
valori non significano certo nessun valore, ma comunque incrinano 5 M. Weber,
Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, pp. 331-333. 6
“La burocrazia è di carattere razionale: la regola, lo scopo, il mezzo,
l’impersonalità oggettiva dominano la sua condotta. Il suo sorgere e la sua
espansione hanno perciò avuto ovunque un senso rivoluzionario – che rimane
ancora da esaminare – come di solito avviene per la penetrazione del
razionalismo in tutti i campi. Essa annientò le forme strutturali di potere che
non avevano un carattere razionale in questo senso specifico”. M. Weber,
Economia e società, Edizioni di Comunità Milano 1995, p. 101. il monolitismo
sociale e ne cancellano la legittimazione trascendente. Le società umane si
presentano molteplici come molteplici sono gli esseri umani. Severino
intraprende, invece, per giungere al nichilismo la strada del divenire che
nientifica l’Essere. L’Essere è immutabile quindi non divie- ne, ciò per
Severino non significa, come per Spinoza, che il movimento è illusione, ma che
il nulla non esiste; ciò comporta l’assenza di tempo nel pensiero spinoziano di
contro ad un emergere ed eclissarsi dell’Essere nel tempo, senza mai divenire
nulla, in quello severiniano. Questa posizione di Severino incide anche sul suo
concetto di libertà e di nichilismo. Il libero arbitrio dell’essere umano
immutabile si fonda sulle infinite vite che po- trebbero apparire e che non
sono apparse; ossia si fonda non sull’alternarsi del divenire tra essere e
nulla, ma sulla possibilità di manifestasi dell’Esse- re. La libertà è in
questo modo pura contingenza dell’apparire: La possibilità non è nell’essere,
ma nell’apparire dell’essere [...]. Se vivo eternamente tutte le vite che avrei
potuto vivere – se ho già da sempre deciso tutto ciò che avrei potuto decidere
– nell’apparire entra peraltro solamente que- sta vita che vivo. Ma entra
soltanto questa perché tutte le altre restano nascose, o perché non esiste
alcun’altra vita? O anche: esistono altre mie vite, oltre questa che appare? E
se esistono, sarebbero potute apparire invece di questa che appare? In tale
possibilità risiede il fondamento della libertà dell’uomo; che dunque può
essere libero, solo se è pensato come l’eterno vivere tutte le vite che
potrebbe vivere7. La natura non empirica dell’Essere di Severino appare
evidente, ma essa scaturisce non da una duplicazione del mondo, ma dalla
negazione, operata con gli strumenti della logica, del divenire, del passare
dall’essere al non essere nel tempo. La nozione di nichilismo esprime la medesima
esigenza di non dare realtà al nulla. Un Essere tutto pieno ed eterno in se
stesso non diviene, quindi può trovare disvalori solo nell’altro, ossia nel
nulla di sé. Siamo prossimi all’autoreferenzialità chiusa delle monadi di
Leibniz, ma in Severino l’accento non viene tanto posto sull’autoreferenzialità
di una molteplicità di Esseri, tutti equivalenti, di pari dignità e, quindi,
ingiudi- cabili nella loro autonomia, ma piuttosto sul divenire, che,
consentendo il nulla, relativizza appunto nel nulla qualsiasi affermazione,
qualsiasi scelta. 7 E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995,
p. 165. Cfr., per una certa analogia di pensiero, C. Bruce, I conigli di
Schrödinger. Fisica quantistica e universi paralleli, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2006. Nichilismo e nihilismo 87 Il nulla consente la
negazione dell’assoluto e rende tutto relativo, contin- gente, occasionale, in
breve, nichilista. Nichilismo significa affermare che le cose sono niente,
ossia che il non- niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha
identificato le cose al niente: affermando che escono e tornano ad essere
niente. Il mondo è la dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio e
l’Uomo hanno la capacità di operare l’identificazione del non-niente e del niente.
Forza-cultura, religione-ateismo, cristianesimo-anticristianesimo, meta-
fisica-antimetafisica, materialismo-spiritualimo, moralismo-immoralismo,
assolutismo-democrazia, capitalismo-comunismo, servo-padrone, umanesimo-
tecnicismo formano i grandi contrasti che si svolgono all’interno della comune
alienazione nichilista dell’Occidente8. Severino è portatore di un monismo
immanentista non empirico, nel quale libero arbitrio e nichilismo si
identificano col problema del divenire e, quindi, giuocano la loro presenza o
assenza intorno all’impossibilità di esistere del non essere e
all’impossibilità di non esistere dell’essere; possi- bilità ed impossibilità
tutte logiche ed, appunto, non empiriche. Oltre il bivio nichilista tra la
strada di un pluralismo valoriale soggettivo e la negazione del divenire si
presenta un ulteriore bivio, quello tra l’eguale fondamento e dignità di
qualsiasi scelta, di qualsiasi valore e l’inesistenza stessa dei valori.
L’equivalenza di tutti i valori conserverà il nome di ni- chilismo, mentre la
vera e propria completa assenza concettuale di entità 8 E. Severino, op. cit.,
p. 137. In merito ai passi citati in testo, con una comunicazio- ne personale
del 6 marzo 2016 via mail, Emanuele Severino precisa quanto segue: “Lei
[Ghezzi] considera quanto si dice nel mio saggio Essenza del nichilismo intorno
al libero arbitrio. Ma in Destino della necessità (1980) mostro che questa
posizione è un residuo di nichilismo e va superata. Quando uso la parola essere
(quasi sempre o sempre con l’iniziale minuscola) intendo gli essenti, qualsiasi
essente, empirico o no. Mostrando che l’essere sè degli essenti (in quanto esso
è ciò la cui negazione è autonegazione, ossia in quanto è la struttura
originaria del destino della verità) implica l’eternità di ogni essente, si
mostra anche l’essere della dimensione non empirica degli essenti. Ma il
decisivo è che l’eternità non è un presupposto, ma è implicata con necessità
dalla struttura originaria; ed è questa necessità che si tratta di discutere.
Questa necessità esclude di essere relativizza- ta e messa accanto alle varie
posizioni filosofico-culturali. Il suo saggio afferma l’esistenza del soggetto
e del suo sentire. Ma la struttura originaria chiede in base a che cosa si
afferma tale esistenza (e l’esistenza del ricco panorama culturale espresso dal
suo saggio, e dunque l’esistenza del mondo) richieste analoghe, si intende,
vanno rivolte a tutta la cultura filosofica e scientifica”. Ulteriori precisa-
zioni in argomento sono presenti anche nella Presentazione di Emanuele Severino
a questo saggio. definibili come valori verrà chiamata nihilismo. La
distinzione potrà appa- rire più chiara se applicata al nichilismo giuridico.
Nella visione dualista del mondo al diritto positivo, come si è visto, si contrappone
una giustizia, la cui fonte si afferma superiore. L’Assoluto, come analizza
senza timore Irti, tuttavia, si è ritirato nelle sue varie forme (Dio, la
Natura, la Ragione) dalla conoscenza umana, conseguentemente, la volontà
dell’essere umano è stata abbandonata ad una completa solitudine. Solitudine
nelle scelte, soggettività delle medesime e relativismo dei valori perseguiti.
Irti constata questo fenomeno nel diritto e, quindi, ne mette in discussione la
capacità legittimante di comportamenti, che, privi di copertura giuridica, si
identifi- cano con la violenza e con la volontà di potenza del più forte. Gli
Dei si sono ritirati, e non offrono più al potere il fondamento di legitti-
mità. Il potere rimane affidato a se stesso, alla capacità di sostenersi e di
rea- lizzarsi. Il successo della volontà è, appunto, un succedere, un semplice
e nudo accadere, che trae fondamento dalla propria fatticità9. Il diritto
abbandona la dimensione di conoscenza, per divenire volontà, volontà di potenza
e quest’ultima risulta indistinguibile dalla forza, dalla violenza10. La
volontà di potenza non conosce altro imperativo che la pro- pria affermazione
ed espansione. Il dover essere morale e giuridico cede il passo al
confronto/scontro, alla lotta tra le diverse potenze, per determinare quale sia
la maggiore11. [...] il nichilista della volontà di potenza non può auspicare
alcun esito, avendo congedato la categoria del dover essere. Può solo aspettare
l’esito dello scontro storico delle volontà, e non potrà condannare alcunché12.
Una volta abbandonata la categoria del dover essere, il campo, da un punto di
vista pratico, fattuale resta a completa disposizione della forza, ma dal punto
di vista concettuale si deve affrontare il tema di come il dover 9 N. Irti,
Nichilismo giuridico, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, p. 49. 10 “Il falso
contrasto tra diritto e forza deriva da una concezione metafisica del diritto,
dal diritto inteso come un potere sovrannaturale, come un potere vincolante che
crea ed impone dei doveri. Questo potere vincolante superiore viene opposto
alla forza, cioè al potere concreto”. K. Olivecrona, Il diritto come fatto,
Giuffrè, Milano 1967, pp. 107-108. 11 “Sul rango decide il quantum di potenza
che sei; il resto è viltà”. F. Nietzsche, La volontà di potenza, in Opere
1882-1895, Newton, Milano 1993, p. 939. 12 V. Possenti, Nichilismo Giuridico.
L’ultima parola?, Rubettino, Savoria Mannelli 2012, p.
146. Nichilismo e nihilismo 89 essere viene meno e con cosa viene
sostituito. La risposta a quest’ultimo quesito verrà affrontata nel prossimo
capitolo, per ora basti concentrarsi sul primo. Il dover essere può
semplicemente perdere il proprio carattere assoluto o scomparire completamente,
come concetto inesistente o falso. Si è già visto come il soggettivismo renda relativi
i contenuti comportamentali del dover essere e, quindi, ne vanifichi la forza
vincolante, imperativa. Il dover essere resta in vita, ma persiste come valore
individuale, non generalizza- bile, non imponibile a terzi. Però è dato anche
il caso che il dover essere si dissolva come entità concettuale. E può
dissolversi come entità solo teorica od anche come entità pratica; come
affermazione priva di senso o come affermazione falsa. Il dover essere comunque
scompare, ma secondo mo- dalità differenti. Un esempio articolato ed eloquente
di queste tematiche è dato dalla dia- triba sviluppatasi tra la Scuola di
Uppsala, che annovera tra i propri mas- simi esponenti Alex Hägerström
(1868-1939) ed Karl Olivecrona (1897- 1980), e Theodor Geiger (1891-1952). La prima
osservazione che Geiger muove alla scuola di Uppsala riguar- da il carattere
solo teorico del nihilismo proposto. In questo caso si tratta di nihilismo e
non di nichilismo, poiché il presupposto risiede nell’inesisten- za dei valori,
non nella loro generale equivalenza, indifferenza. Chi è criticamente
illuminato è necessariamente un nihilista teorico dei va- lori. Egli ha
compreso che le idee di valore non sono altro che orientamenti emotivi
indebitamente oggettivati. Egli sa che i valori non appartengono alla realtà
temporale-spaziale, che i giudizi di valore non possono pertanto essere altro
che oggettivazioni errate di valutazioni primarie soggettive, traduzioni di
situazioni emotive in enunciazioni conoscitive teoriche13. Gaiger propugna un
nihilismo anche pratico, che cioè abbandoni l’uso dei giudizi di valore anche
nelle discussioni politiche intorno alle decisioni da prendere; non si tratta,
in breve, per questo Autore, solo di teorizzare la fine dei valori, ma anche di
operare senza l’uso giustificativo dei medesi- mi. In questo modo si potrà dare
vita a quello che da Geiger viene definito illuminismo critico e che, a sua
volta, può generare una democrazia sobria, ossia fondata esclusivamente su
discussioni e scelte intorno ai fatti e sulla base dei meri fatti. 13 Th.
Geiger, Saggi sulla società industriale, U.T.E.T., Torino 1970, pp. 553. Vedere
anche M.L. Ghezzi, Un precursore del nichilismo giuridico: Theodor Geiger e
l’antimetafisica sociale, in Sociologia del Diritto, 2007/3, pp. 5-46. [...] la
persona criticamente illuminata deve sapere su quali questioni non si può
sapere niente, quali siano i problemi sui quali non può esprimersi con la
pretesa di validità oggettiva, essa deve conoscere in breve i limiti naturali
posti al processo conoscitivo. Essa ha da mantenersi scettica dinanzi alle as-
serzioni altrui e rigettare tutte le asserzioni presentate con intenti
pragmatici. È pragmatica ogni asserzione che pretenda di motivare teoricamente
una finalità dell’agire (di dimostrarne l’esattezza), o suggerisca tacitamente
tali finalità14. La seconda osservazione riguarda la predicabilità o meno di
verità/falsi- tà dei giudizi di valore. Mentre Hägerström, ma soprattutto i
suoi discepoli e primo fra tutti Olivecrona, sostengono l’inesistenza di una
teoria che for- nisca significato alla domanda sulla veridicità/falsità dei
valori e, pertanto, la domanda risulta priva di senso, neppure formulabile;
Geiger, invece, afferma l’esistenza di senso della domanda, in quanto la teoria
esiste, ma è falsa e, quindi, anche la risposta risulta falsa. Chi asserisce la
veridicità di un valore non formula una proposizione priva di senso, ma intende
soste- nere l’esistenza concreta di ciò che afferma, cioè della fattualità dei
valori; pertanto, per Geiger, non si tratta di una proposizione priva di senso,
ma di una proposizione falsa, poiché ciò che afferma non esiste, è fantasia, è
desiderio soggettivo. Chi giudica non può esprimersi sulle qualità di valore
dei fenomeni, quando è dimostrato che i fenomeni non posseggono alcuna qualità
di valore. Valore e non-valore non sono inerenti all’oggetto stesso, ma gli
sono attribuiti dal soggetto dell’esperienza. [...]. Il giudizio di valore non
è che una esplosione emotiva rivestita della forma linguistica di una
enunciazione oggettiva15. È evidente che mentre Hägerström si muove su un piano
meramente logico, nel quale dovrebbero operare solo teorie verificabili e la
veridicità dei giudizi di valore non è verificabile, ossia su un piano sul
quale le teorie non falsificabili o falsificate sono già state scartate;
Geiger, invece, opera nel mondo empirico dove il primo passo da compiere è
proprio la verifica/ falsificazione delle ipotesi e delle relative teorie16.
Empiricamente la do- manda intorno alla veridicità dei giudizi di valore è
stata posta e continua 14 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, Geiger,
op. cit., p. 554. 16 “Ora una ideologia è per definizione qualcosa di
unilaterale perché è determinato dalla prospettiva particolare di colui che
pensa. Secondo questo si dovrebbe dire che tutte le ideologie sono false .
[...]. L’ideologia è determinata dalla prospettiva corrispondente alla
posizione sociale di colui che la pensa quindi è pensiero unilaterale. Essa non
soddisfa i requisiti dell’oggettività posti dalle scienze naturali e quindi è
teoricamente falsa”. Th. Geiger, op. cit., p. 142. Nichilismo e nihilismo
91 ad essere posta, pertanto si tratta di falsificare la teoria che la regge ed
è proprio questa la conclusione a cui giunge Geiger. La differenza appare minima,
ma non irrilevante e tutta impostata sul piano del discorso svolto e sui tempi
cui si riferisce l’affermazione (prima o dopo la verifica empiri- ca). Del
resto, il tema fu affrontato in senso generale anche da Heisenberg, riguardo
alla costruzione di teorie attraverso l’accoppiamento di simboli a fenomeni: Il
procedimento della scienza naturale è raffigurato come l’applicazione di
simboli a fenomeni. I simboli possono, come in matematica, essere combinati
secondo certe regole, in tal modo le affermazioni sui fenomeni possono essere
rappresentate da combinazioni di simboli. Perciò una combinazione di simboli in
disaccordo con le regole non è falsa ma priva di significato. L’ovvia
difficoltà di questo ragionamento è la mancanza di un criterio ge- nerale che
indichi quando una proposizione debba essere considerata priva di significato.
Una chiara decisione è possibile soltanto quando la proposizione appartiene ad
un sistema chiuso di concetti e di assiomi, il che nello sviluppo delle scienze
naturali costituisce piuttosto l’eccezione che la regola17. L’equivoco,
dipendente sia dalla difficoltà di definizione dei concetti, in quanto legati
alle teorie di cui sono figli, sia dall’impossibilità di verifi- ca empirica
degli assiomi su cui si fondano le teorie (concetti ed assiomi non chiusi), non
può stupire. Infatti, come afferma Michel Foucault (1926- 1984), le parole
(simboli) e le cose (fenomeni) non coincidono dal crollo della Torre di Babele
in poi: Nella sua forma originaria quando fu dato agli uomini da Dio stesso, il
lin- guaggio era un segno delle cose assolutamente certo e trasparente poiché
asso- migliava ad esse. I nomi erano deposti su ciò che indicavano, come la
forza è scritta nel corpo del leone, la regalità nello sguardo dell’aquila,
come l’influsso dei pianeti è stampato sulla fronte degli uomini: mediante la
forma della simi- litudine. Tale trasparenza fu distrutta a Babele per castigo
degli uomini. Le lin- gue furono separate le une dalle altre e rese
incompatibili solo nella misura in cui venne anzitutto cancellata la
somiglianza alle cose, la quale aveva costituito l’originaria ragione d’essere
del linguaggio. Tutte le lingue che conosciamo non vengono da noi parlate che
sullo sfondo di tale similitudine smarrita e nello spazio da essa lasciato
vuoto18. Riemerge il solito dualismo tra divino ed umano, tra conoscenza asso-
luta e conoscenza relativa, tra certezza e dubbio. Tuttavia, ritornando ora 17
W. Heisenberg, Fisica e filosofia, cit., p. 90. 18 M. Foucault, Le parole e le
cose, cit., p. 50. alla polemica tra la Scuola di Uppsala e Geiger,
probabilmente essa ne sottointende un’altra ben più rilevante e di natura
politica; non è possibile, infatti, dimenticare le simpatie della Scuola di
Uppsala ed, in particolare, di Olivecrona per il nazismo di fronte alla
posizione social-democratica di Geiger, sostenitore della Repubblica di
Weimar19. In conclusione, il nichilismo come il nihilismo scaturiscono dalla
fine della credenza in verità assolute, siano esse trascendenti od immanenti,
ossia dalla fine della duplicazione del mondo. Questa fine può giungere
attraverso una relativizzazione dei giudizi di valore od una loro completa
soppressione, ma, in ogni caso, l’antica via eteronoma rispetto all’essere
umano non può più essere percorsa. Si tratta, quindi di costruire una nuova
strada autonoma, che tenga conto della fluidità, della varietà, dell’incer-
tezza, ma anche dell’arbitrarietà dei giudizi di valore. Si tratta di capire se
sono effettivamente necessari o, almeno, utili per la convivenza sociale e se
non possono essere sostituiti da altre e diverse entità in grado di guidare
l’agire umano, ammesso che esista la possibilità di guidarlo attraverso la
volontà umana. Tralasciando ora i dubbi intorno all’esistenza o meno del libero
arbitrio, chi scrive è convinto della possibilità di compiere questa
ricostruzione comportamentale anche senza i giudizi di valore in ambito sia
morale, sia giuridico, ma questo è argomento del prossimo capitolo. Cf.r.
K. Olivecrona, I problemi del tempo visti da uno svedese. Inghilterra o
Germania?, in Lo Stato, 3/2014, pp. 173-195. L’estetica è una disciplina
che studia, dal punto di vista trascendente, il bello in sé, mentre, dal punto
di vista immanente le sensazioni umane che si manifestano nell’alternativa bello/brutto.
Il bello in sé, il Sublime conduce subito verso il metafisico, la perfezione
delle idee, una realtà per- fetta non appartenente alla realtà umana. Il
semplice bello e brutto sono, invece, giudizi tutti umani intorno a ciò che
piace o non piace. Già Aristo- tele (384 a.C.-322 a.C.), nella Poetica
(ποίησις, poiesis, il cui significato è fare, creare) evidenziava come il
parametro attraverso il quale giudicare un’opera d’arte fosse la produzione o
meno nel soggetto di una percezione gradevole, di piacere. Sembra poi in
generale che la poesia l’abbia prodotta due cause, e tutte e due naturali.
Infatti è proprio della natura umana, sin dall’infanzia, l’istinto
dell’imitazione e che tutti godano innanzi ai suoi prodotti, e l’uomo
differisce specialmente dagli altri animali come quel genere che più sa
imitare, e questo è il mezzo con cui si procaccia le prime cognizioni. E che
ciò sia vero è mostrato dai fatti, perché mentre certi oggetti, così come sono
in natura, ci riescono sgradevoli, le loro riproduzioni invece, quanto più sono
esatte, ci danno diletto, come le forme degli animali più ripugnanti e dei
cadaveri1. Aristotele definisce l’arte come capacità di suscitare piacere
attraver- so l’imitazione, ossia attraverso il primo strumento umano di
conoscenza. Dunque, riporta al soggetto che conosce la decisione intorno al
bello ed al brutto. In particolare, sottolinea che una imitazione perfetta
dell’orrore naturale può risultare piacevole e questa sensazione pare essere il
fonda- mento del diritto positivo come estetica. Il diritto positivo è
decisamente disumanizzante in quanto generale ed astratto, mentre l’essere
umano è particolare e concreto, pertanto non può essere giudicato con canoni
stati- stici, medi, ma deve essere indagato in tutte le sue particolarità
individuali, personali, ammesso che ciò sia possibile, se si intende
comprenderne vera- 1 Aristotele, La poetica, La Nuova Italia Editrice, Firenze
1940, p. 10. mente il comportamento. Tutto vero; ma la natura, con il suo
diritto natu- rale, è ancora peggiore, poiché sembra colpire a caso, in modo
arbitrario, senza una qualsiasi giustificazione; giustificazione che, seppur
arbitraria, spesso anche ipocrita e sempre soggetta ad errore, il diritto
positivo tenta di fornire. Dunque, Aristotele ha ragione a sostenere che il
bello può scaturire anche dall’imitazione del brutto naturale; in questo senso
si indirizza anche un autore più recente quale Thomas De Quincey (1785-1859):
Ci asciughiamo le lacrime, e abbiamo forse la soddisfazione di scoprire che
un’azione disgustosa e indifendibile sotto il profilo morale si rivela, se
valutata secondo i criteri del gusto, un atto meritevole2. Non deve stupire il
divario tra dover essere ed estetica, perché il primo è frutto di una
duplicazione metafisica o razionale del tutto estranea (sal- vo che per il
concetto di Sublime) al secondo. Pertanto, abbandonata ogni duplicazione del
Mondo, il vero divario esistente, che tuttavia accomuna dover essere ed
estetica, riguarda la diversità che intercorre tra il sentito individuale,
personale ed il sentito indotto a qualche titolo (minaccia, edu- cazione,
tradizione, etc.) dall’ambiente circostante il soggetto. Ma si tratta di un
divario più apparente che sostanziale, poiché sussiste solo a livello
individuale, infatti, a livello collettivo, viene colmato dal gusto prevalente
dei gruppi sociali, che riescono ad assicurarsi il dominio sugli altri gruppi.
[...] la situazione nell’estetica non è dissimile da quella nell’etica. In en-
trambe le sfere di valori i criteri di valutazione del gruppo influenzano le
nostre decisioni, in entrambe sono stati interiorizzati nella voce della
coscienza o in quello che gli psicoanalisti chiamano il super-io. C’è una
creatura ansiosa na- scosta in noi che domanda posso fare questo?, oppure può piacermi
questo?3. Questa creatura è il nostro sdoppiamento, che non ci consente aperta-
mente di porci come unici giudici delle nostre azioni. È lo sdoppiamen- to
dell’eteronomia. Si cerca sicurezza in un parametro comportamentale esterno ed,
in quanto tale, presupposto oggettivo. L’autonomia non con- cede
giustificazioni esterne all’agire; si agisce palesemente per seguire il proprio
gusto, sia che esso sia originario, sia che sia stato indotto dall’am- biente o
dal determinismo. Tuttavia lo sdoppiamento appare più evidente 2 Thomas De
Quincey, L’assassinio come una delle belle arti, TEA, Milano 1990, p. 25. 3
E.H. Gombrich, Ideali ed idoli. I valori nella storia e nell’arte, Einaudi,
Torino 1986, p. 94.nella visione del bello metafisico, del Sublime, espresso da
Platone attra- verso l’esempio di un letto inteso come mobile d’arredo, di un
letto come quadro e dell’idea di letto: Questi nostri letti si presentano sotto
tre specie. Uno è quello che è nella natura: potremmo dirlo, creato, creato dal
dio. – Uno poi è quello costruito dal falegname. – Sì, disse. – E uno quello
foggiato dal pittore. Non è vero? – Va bene. – Ora, pittore, costruttore di
letti, dio sono tre e sovrintendono a tre specie di letti. – Si, tre. – Ebbene,
il dio, sia che non l’abbia voluto sia che qualche necessità l’abbia costretto
a non creare nella natura più di un solo e unico letto, si è limitato comunque
a fare, in un unico esemplare, quel letto in sé, ossia ciò che è letto. Ma due
o più letti di tal genere il dio non li ha prodotti, e non c’è pericolo che li
produca mai4. L’idea del letto in sé o del bello in sé non si differenziano,
sono entrambe metafisiche, assolute e perfette, quindi rappresentano il
corretto parametro verso il quale rivolgere l’attenzione per sapere cosa è
letto e, ciò che in questa sede più interessa, cosa è bello. In questa
prospettiva la dualizza- zione del mondo si è compiuta completamente e
l’eteronomia diviene un elemento strutturale del sistema interpretativo del
mondo, in generale, e di quello umano, in particolare. L’ulteriore
duplicazione, quella tra dover es- sere ed estetica, si è probabilmente
prodotta sia per contenere l’arbitrarietà evidente del senso estetico, sia per
quell’illusoria pausa che intercorre tra la constatazione che una cosa piace e
l’azione che ne segue. In questa pausa potrebbe celarsi il libero arbitrio, che
potrebbe far rinascere la distinzione secondo il principio: ho agito in un modo
che non mi piace perché era mio dovere farlo! Purtroppo non abbiamo conoscenze
idonee né per escludere che in quel momento nel soggetto il dovere coincidesse
con il piacere, ma neppure che questa pausa concettuale tra sensazione ed
azione esista e sia governata nella libertà. Tralasciando ora i problemi
metafisici legati al Sublime, in quanto frutto della solita duplicazione del
mondo già più volte discussa, pare interessan- te approfondire il termine
estetica, il cui significato deriva dal sostantivo greco αίσθησις, che indica
un sentire, una sensazione e dal verbo, sempre greco, αισθάνομαι, che significa
percepire attraverso la mediazione dei sensi, ossia ricevere stimoli che
producono sensazioni. L’essere umano percepisce in continuazione sensazioni
provenienti dal mondo esterno attraverso i suoi cinque sensi fisici, ed è
questa la base sulla quale si fonda il metodo empirico di ricerca; ma
percepisce anche sensa- 4 Platone, La Repubblica, in Tutto Platone, Editori
Laterza, Bari 1967, p. 427. zioni interiori, sentimenti provenienti da
precedenti esperienze, da ricordi, da pregiudizi, da preconcetti, da convinzioni
personali, da tutto ciò, in sin- tesi, che può essere considerato il suo
vissuto mentale. Queste due fonti di sensazioni non sono e non possono essere
rigorosamente separate, poiché insistono sull’unitarietà del soggetto che
percepisce. La percezione fisica viene selezionata, filtrata e completata dalle
propensioni della mente, sino al punto di rendere indistinguibile la percezione
fisica in quanto tale dal percepito e vissuto mentale. La questione, poi, si
complica ulteriormente, poiché la percezione occupa anche il campo del sogno e
del ricordo, con i loro stati dubbi, incerti di realtà empirica. Le percezioni
esterne presuppongono l’esistenza di un ambito circostan- te il soggetto, dal
quale partono gli stimoli che colpiscono i sensi. Non si può, tuttavia, essere
certi, che questo ambito esterno esista veramente fuori dal soggetto, poiché
ciò che si percepisce altro non è che una immagine, una sensazione mentale. Del
resto, non è neppure possibile asserire con certezza l’inesistenza del mondo esterno,
sempre per il problema che a giu- dicare è una entità soggettiva non oggettiva.
L’oggettività nella percezione umana è impossibile, per la stessa natura umana
di soggetto. Si è già osservato che alla mente non si presentano che percezioni
[...]. Ora, siccome le percezioni si distinguono in due generi, impressioni e
idee, questa distinzione solleva una questione, con cui avvieremo la nostra
indagine sulla morale: è dovuto alle idee oppure alle impressioni il fatto che
noi distinguia- mo la virtù dal vizio, e dichiariamo un’azione biasimevole
oppure pregevole? Questo escluderà tutti i discorsi e le dichiarazioni
arbitrarie, riconducendoci a qualcosa di preciso e di esatto in merito al
presente argomento5. La percezione, dunque, è legata ai sensi, l’acqua fredda
produce una sensazione di freddo, mentre l’impressione esprime la
predisposizione, il giudizio del soggetto verso il percepito: il freddo mi
produce sollievo dall’afa estiva o mi disturba perché abbassa la temperatura
dell’ambiente. Conseguentemente l’Autore non esita nella sua risposta, come del
resto era prevedibile data la Grande Divisione di cui è artefice ed alla quale
ha fornito anche il nome: [...] è impossibile che la distinzione tra bene e
male morale possa essere compiuta dalla ragione; poiché quella distinzione ha
sulle nostre azioni un’in- fluenza di cui la sola ragione non è capace. La
ragione e il giudizio possono, infatti, essere la causa mediata di un’azione,
destando o guidando una passione: 5 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani,
Milano 2001, p. 903. ma non bisogna pretendere che un giudizio di questo
genere, sia vero o sia fal- so, possa accompagnarsi alla virtù o al vizio6.
Hume non si limita a negare la predicabilità di vero/falso all’ambito mo- rale,
ma affronta anche la natura di questo ambito, di queste impressioni, ed appare
con evidenza che la sua analisi conduce direttamente al principio del piacere
come scriminante tra bene e male. La prossima domanda è: di quale natura sono
queste impressioni, e in che modo agiscono su di noi? È qui impossibile non
esitare, ma dobbiamo dichia- rare che l’impressione che sorge dalla virtù deve
essere gradevole, e quella che deriva dal vizio sgradevole. In qualsiasi
momento l’esperienza deve convin- cerci di questo. [...]. Una rappresentazione
teatrale o un romanzo bastano a darci esempi di questo piacere, che la virtù ci
procura; e del dolore, che nasce dal vizio7. Risulta chiaro che sia
l’alternativa buono/cattivo, sia quella bello/brutto dipendono dalle
impressioni umane, ossia sono legate alla percezione di piacere o di dolore.
Nell’essere umano la percezione è unitaria, non esisto- no due diverse forme di
percezione, come può dimostrare l’empiria, forse possono esistere due diverse
forme di impressioni, se elaborate nella mente e quindi non sottoponibili,
almeno per ora, a verifica/falsificazione empiri- ca. Dunque, se non si
desidera procedere ad una ulteriore duplicazione, pri- va in questo caso di
motivazione, che avrebbe un sapore formale incentrato sul mero linguaggio
(dover essere o mi piace) e non su fatti, tra percezioni e conseguenti
impressioni morali ed estetiche, si deve concludere che vi è un’unica
percezione ed i due ipotetici tipi di impressioni coincidono tra loro e sono un
solo ed unico tipo di impressione; ossia la morale altro non è che una forma
dell’estetica in quanto fondata, come l’estetica, sul piacere. In questo caso
la prova empirica è possibile poiché si tratta di impressioni prodotte da
percezioni, sensazioni empiriche, salvo sempre, ovviamente, la duplicazione
strutturale del mondo in fisico e metafisico. Se le percezioni esterne,
produttrici di impressioni esterne, provengono dalla presupposta esistenza di
un mondo esterno al soggetto percipiente, da dove provengono le sensazioni
interne, ammesso che abbiano natura diversa da quelle esterne? La risposta
potrebbe risiedere nella capacità del- la mente di apprendere, ricordare e
rielaborare il percepito ed il sentito, in qualunque modo venga percepito e
sentito: fisico o metafisico. Certa- 6 D. Hume, op. cit.., p. 915. 7 D. Hume,
op. cit., p. 931. mente la tradizione, l’educazione, le convinzioni
religiose e scientifiche dovrebbero giuocare un ruolo centrale nella
determinazione delle sensa- zioni interiori e nel giudizio su quelle esteriori.
Commozione, attaccamen- to, repulsione, amore, odio, etc. possono essere
conseguenze di precedenti esperienze: il fuoco mi ha scottato e provo una
repulsione nell’avvicinarlo. Ma anche preconcetti, superstizioni, credenze si
presentano come sensazio- ni interiori e possono avere un’origine culturale:
provo paura alla vista di un gatto nero, perché sono convinto che porti
sfortuna; provo gioia per aver trovato un quadrifoglio, perché penso che porti
fortuna. Searle affronta il tema immediatamente nel suo significato empirico;
le impressioni umane determinano il comportamento, in presenza del libero
arbitrio, attraverso le sensazioni di piacere o di dispiacere. Dunque, le
sensazioni di piacere o di dispiacere si collocano all’origine
dell’intenzionalità, che per sua stessa natura è sempre e solo cosciente;
pertanto la domanda da porre diviene la seguente: come funzionano nei
particolari gli stati intenzionali? L’Autore, pur reputando che resti un
mistero il funzionamento dell’intenzionalità, tuttavia fornisce alcune
interessanti riflessioni ed indicazioni in merito. [...] ogni stato cosciente
presenta un certo grado di piacere o dispiacere. Per meglio dire, occupa una
certa posizione sulla scala che include le nozioni ordi- narie di piacere e
dispiacere. Così, per ogni esperienza cosciente che qualcuno abbia, è sensato
chiedergli: È stato piacevole? È stato bello? Sei stato bene, male, ti sei
annoiato, ti sei divertito? È stato disgustoso, delizioso o deprimen- te? La
dimensione piacere/dispiacere si estende pervasivamente a tutti gli stati di
coscienza8. Si deve notare che la dimensione piacere/dispiacere ha natura
empiri- ca, ossia può essere sottoposta ad un processo di
verifica/falsificazione, pertanto passare da un giudizio di valore ad un
giudizio estetico comporta anche la reintroduzione della metodologia empirista.
Ovviamente non ri- guardo all’oggettività del giudizio, ma all’impressione
prodotta dalla sen- sazione percepita. Infatti, un giudizio morale, se non si
identifica con un giudizio estetico, se non è un giudizio estetico, non può
scaturire da una sensazione produttrice di impressioni di piacere/dispiacere,
non solo per Kant, ma per sua stessa definizione, in quanto il dover essere,
per essere morale, deve essere anche privo di interesse personale. In modo
diverso si presenta la doverosità giuridica, che può anche essere sostenuta da
un interesse personale, e, proprio per questo motivo, sembra appartenere più 8
J.R. Searle, La mente, cit., p. 128. al mondo dell’estetica che a quello
della morale. Ma è bene continuare con Searle, che precisa il concetto di
percezione: Dovremmo concepire la percezione non come qualcosa che crea la
coscien- za, ma come qualcosa che modifica un campo di coscienza preesistente9.
Siamo vicini concettualmente alla res cogitans di Descartes, ma lontani dalla
sua astrattezza; infatti in Searle tutto ruota intorno ad una sensazio- ne
rapportata ad una percezione non necessariamente autoreferenziata al soggetto
percipiente; in breve, soggetto ed oggetto vengono posti in cor- relazione, non
rigidamente separati. Pare un timido tentativo di riduzione del dualismo
soggetto/oggetto. Ma ciò che più conta riguarda direttamente lo stato mentale
cosciente, che altro non è che l’espressione delle proprie condizioni di
piacere/dispiacere. L’esser vera sta alla credenza come l’esser appagato sta al
desiderio o l’esser realizzata sta all’intenzione. Propongo di descrivere tale
fenomeno nel modo seguente: ogni stato intenzionale con direzione di
adattamento non nulla pos- siede condizioni di soddisfazione. Possiamo
considerare gli stati mentali come rappresentazioni delle proprie condizioni di
soddisfazione10. Searle è esplicito; la separazione fatti/valori comporta, per
i fatti, la pos- sibilità di rispondere a verificabilità empirica, mentre, per
i valori morali o estetici, negata questa possibilità, produce la mera
soddisfazione o insod- disfazione personale del soggetto agente. La Grande
Divisione persiste, ma ridimensionata entro un vocabolario, che meglio la
descrive. La sepa- razione tra giudizi di fatto e giudizi di valore non
esaurisce la serie delle possibili divisioni. Infatti, subito subentra anche la
sottodivisione giudizi di valore e giudizi di estetica, come si è già visto.
Tuttavia, mentre la pri- ma divisione regge alla prova empirica come scriminante
fra i due tipi di giudizio (solo i giudizi di fatto sono empiricamente
verificabili/falsifica- bili), la seconda suddivisione (giudizi etici/giudizi
estetici) non trova altra giustificazione che il tentativo di recuperare,
attraverso il giudizio etico, di 9 J.R. Searle, op. cit., p. 141. 10 J.R.
Searle, op. cit., p. 154. “Come è possibile che io abbia sete d’acqua?, vale a
dire che abbia un desiderio il cui contenuto è bere acqua. [...] la risposta si
fornisce mostrando la connessione essenziale tra intenzionalità e condizioni di
soddisfazione. Ciò che fa del mio desiderio il desiderio di bere acqua è che
sarà soddisfatto se e solo se berrò acqua. Non si tratta di un’osservazione
psicologica che predice cosa mi farà sentire bene, ma della definizione del
contenuto intenzionale pertinente”. Ibidem, p. 171.valore, un metafisico
assoluto, trascendente od anche solo razionale. Del resto, risulta chiaro che,
rispetto alla sua origine, il giudizio di valore non è altro che un giudizio
estetico, poiché scaturisce da condizioni di soddisfa- zione o, se si
preferisce, da sensazioni percepite e produttrici di impressioni
(piacere/dispiacere). Le sensazioni, dunque, producono dei giudizi estetici
(impressioni), ri- assumibili sinteticamente nell’alternativa mi piace/non mi
piace. Si tratta ora di vedere se questi giudizi estetici, oltre all’origine,
possiedono anche i medesimi caratteri dei giudizi di valore. Sia i giudizi
estetici che i giudizi di valore esprimono una dimensione meramente mentale, ma
mentre i primi dovrebbero essere finalizzati a manifestare un piacere
personale, i secondi, invece, dovrebbero svolgere la funzione di governo del
comportamento. Ma il giudizio di valore che cosa è? Vi è una sola alternativa
possibile: o è un valore assoluto, in qualche modo trascendente, che è giunto
all’essere umano dal di fuori per illuminazione, per rivelazione, per
quant’altro di immaginabile; oppure è un valore relativo, nato nella mente del
soggetto agente e caratterizzato dalla sue preferenze. Si tralasci ancora il
primo caso, che resta indimostrabile empiricamente e che, comunque, deriva
sempre dalla duplicazione del mondo, e si affronti il secondo caso. Esso non si
distingue dal giudizio estetico: è soggettivo nel medesimo modo; porta giu-
stificazioni solo apparentemente diverse alla propria adozione; infatti, al di
là di giustificazioni autonome od eteronome, funzionali, utilitaristiche,
pietistiche, anagrafiche, culturali, etc., la scelta finale altro non è che una
preferenza personale, un equilibrio tra le convinzioni e le scelte possibili,
che soddisfi il soggetto, lasciandolo emotivamente tranquillo. Il giudizio di
valore è un giudizio estetico formulato in modo diverso, poiché pone l’accento
sul comportamento da tenere e non sul piacere nel tenerlo, ma la forma non
riesce a mascherare il piacere di fondo, che si colloca all’origine delle
scelte etiche; dunque, poco conta la forma funzio- nale, ciò che importa è,
invece, la matrice, la natura comune, unitaria, che li caratterizza. Inoltre la
loro sovrapponibilità perfetta è anche confermata dal modo in cui se ne può
venire a conoscenza: per sapere quali siano i giudizi estetici e di valore di
un soggetto non è possibile fare altro che porre la domanda al soggetto
medesimo od osservarne il comportamento, pre- supponendo (sperando) che il
pensiero sia coerente con l’azione. Tuttavia i giudizi estetici presentano un
vantaggio empirico su quelli di valore: il giu- dizio estetico produce un
immediato senso di piacere nel soggetto, piacere che è empiricamente verificabile;
al contrario, il giudizio di valore aspi- rerebbe ad essere disinteressato e,
quindi, il piacere non dovrebbe essere percepibile nell’imperativo del dovere.
Ciò ovviamente nasconde il piacere originario della scelta etica, ma,
soprattutto, lascia intendere l’estraneità alla verifica/falsificazione
empirica del giudizio di valore, in quanto asso- luto, a priori, arbitrario.
Anche il giudizio estetico è e resta arbitrario, ma esso riconosce la propria
origine empirica nel piacere e, quindi, può essere studiato anche senza
duplicare il mondo. Demistificare il giudizio di valore significa svelarne
l’egoismo e la volontà di potenza, che nasconde. Il pathos dell’aristocrazia e
della distanza [...] il duraturo e dominante sen- timento totale e basilare di
una specie superiore e dominante nei confronti di una specie inferiore, di un
sotto, questa è l’origine dell’opposizione tra buono e cattivo. (Il diritto
signorile di imporre nomi, risale così indietro nel tempo, che si sarebbe
autorizzati a ritenere l’origine della lingua stessa come espressione di
potenza di chi era al potere: essi dicono questo è questo e questo e con un
suono impongono il loro sigillo a cose e avvenimenti e, così facendo, se ne
impossessano)11. Il giudizio di valore ha una lunga storia dietro le spalle di
violenza, di persecuzioni, di soprusi, di processi, di torture, di eresie, di
condanne capi- tali proprio per questa sua tendenza a porsi fuori
dall’immediato giudizio umano individuale, per questa sua costante aspirazione
all’assoluto, anche quando si manifesta palesemente come relativo, come appunto
avviene nell’ambito del diritto. Infatti, quando il giudizio di valore prende
vera- mente atto della propria relatività, si apre il capitolo del nichilismo e
del nichilismo giuridico. Il giudizio estetico, invece, non sembra manifestare
questa tendenza: esso è relativo e tale resta, almeno nella attuale cultura
occidentale, eppure i due giudizi sono un medesimo giudizio, che, più cor-
rettamente dovrebbe essere definito solo giudizio estetico12. Per continuare
ora la marcia verso il diritto estetico si devono svolgere alcune
considerazioni intorno al diritto. Non si tratta certo di aspirare ad una
compiuta definizione di diritto, che ha affaticato vanamente genera- zioni di
giuristi, quanto piuttosto di estrarne alcuni caratteri, che possono
evidenziarne la natura. Kelsen individua chiaramente due aspetti diversi, ma
fondamentali, del diritto: la validità e l’efficacia. 11 F. Nietzsche,
Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 49. 12 “[...]
quello che vale per i giudizi di valore sensoriali e estetici vale anche per
quelli morali, di cui fanno parte quelli politici e sociali”. Th. Geiger, Saggi
sulla società industriale, cit., pp. 452-453.La possibile indipendenza della
validità della singola norma giuridica dalla sua efficacia indica nuovamente la
necessità di distinguere con chiarezza fra i due concetti13. La validità
attiene alla vincolatività giuridica della norma, l’efficacia, invece, alla sua
capacità di manifestarsi nella realtà operativa umana. La validità appartiene
al mondo delle convinzioni, mentre l’efficacia a quel- lo dell’empiria.
Efficace è una norma che viene applicata da coloro cui è diretta, rivolta;
valida è una norma che viene considerata appartenente all’ordinamento giuridico
vigente, ossia in essere in un certo luogo e tempo (si tratta sempre di
convinzioni personali). In entrambe i caratteri la realtà, tuttavia, non può
essere tralasciata: è evidente per l’efficacia, ma è altret- tanto evidente
anche per la validità dell’ordinamento giuridico, che o si impone o non si
impone come efficace. Come è impossibile nella determinazione della validità di
astrarre dalla re- altà, così è anche impossibile di identificare la validità
con la realtà. [...]. Nel senso della teoria qui sviluppata il diritto è un
determinato ordinamento (od organizzazione) della forza14. Il diritto, dunque,
si presenta sia come valore (validità), sia come forza (efficacia), ma anche la
validità a livello di ordinamento giuridico, ossia di cambio di regime politico
o sociale, si riduce ad efficacia, in breve, a forza. Certo, la validità cerca
di pilotare l’attenzione verso il giudizio di valore, verso il dover essere,
verso la vincolatività, verso la doverosità, ma il depi- staggio non è sufficiente
a far scomparire la forza, la violenza (sanzione), come principale carattere
identificativo del diritto. È al vincitore che appartiene il vinto, con la sua
donna e i suoi figli, i suoi beni e il suo sangue. La violenza è il primo
fondamento del diritto, e non c’è diritto che nel suo fondamento, non sia
tracotanza, usurpazione, prepotenza15. La forza del diritto è, dunque, mera
forza bruta, mera violenza, alla qua- le è difficile resistere, senza subire
gravi danni materiali. Il mito dell’ob- bligo giuridico, della doverosità,
prima, morale e, poi, anche giuridica, non descrive fedelmente il fenomeno
diritto, ma lo cela dietro un immateriale velo di spontanea subordinazione, di
impegno interiore, che poco o nulla esprime del reale. Nel dover essere la
fantasia imperversa libera da qualsia- 13 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina
pura del diritto, cit., p. 104. 14 H. Kelsen, op. cit., pp. 101-102. 15 F.
Nietzsche, Verità e Menzogna, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 103 si
vincolo empirico verso poli opposti di intensità, che vanno da una razio-
nalità morale dubbiosa, moderata e tollerante ad un integralismo fanatico ed
intollerante, e di qualità, di contenuto variegato e molteplice. Sia i giuristi
che i filosofi sono perfettamente consapevoli del fatto che la forza vincolante
del diritto non è un elemento del mondo spazio-temporale che li circonda, del
mondo empirico. L’ovvia conclusione a cui dovrebbe portare tale constatazione è
che la forza vincolante esiste soltanto nell’immaginazione degli uomini. Ma la
convinzione della sua esistenza reale è talmente radicata che una simile idea
non è stata quasi mai formulata. Al contrario la nozione di forza vincolante
intesa nel senso tradizionale ha continuato, e continua tutto- ra, a costituire
una della assunzioni fondamentali di tutte le teorie giuridiche correnti16. Il
diritto è l’organizzazione della forza operata dal gruppo sociale domi- nante,
sia esso politico, economico, etnico, religioso od anche solo mag- gioritario;
neppure la democrazia, infatti, è estranea a questo contenuto del diritto.
Pertanto, la burocrazia, come organizzatrice di questa forza, svolge un ruolo
dominante nel diritto, anzi, il diritto come procedura, come applicazione
procedurale e processuale è burocrazia, tecnica buro- cratica con tutti i
problemi disumanizzanti, che sono già stati evidenziati nel rovesciamento della
tecnica da mezzo a fine. Anche il diritto rischia e talvolta subisce tale
rovesciamento. Basti pensare al detto latino: Fiat ius et pereat mundus. Il
diritto, secondo questo broccardo, deve trionfare in quanto tale, costi quello
che costi; si presenta come un imperativo cate- gorico di kantiana memoria, che
ha perso la sua funzione di trattamento dei conflitti sociali17 e si è
trasformato in un valore assoluto, metafisico, da mezzo è diventato fine. Non
si tratta, dunque, di descrivere il diritto quale si vorrebbe che fosse, ma di
attenersi rigorosamente al diritto quale esso effettivamente è nella realtà
umana. In questa direzione il diritto si manifesta come l’espressione di una
preferenza individuale, che, sommata ad altre preferenze individuali omogenee,
riesce a raggiungere un punto critico di forza, a produrre una forza dominante,
sulla base della quale si impone nel contesto sociale e si organizza secondo il
modello burocratico. Questa scelta personale, spesso detta ideologica, altro
non è che una prefe- renza estetica del soggetto, che risponde alla domanda: mi
piace o non mi piace? L’organizzazione, che ne deriva, dunque, in nulla si
discosta dagli stili e dai canoni estetici, che hanno accompagnato l’essere
umano lungo 16 K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967, pp.
9-10. 17 Cfr. V. Ferrari, Funzioni del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari
1987. la storia nelle sue avventure culinarie, musicali, letterarie,
architettoniche, pittoriche, scultoree, etc.. Non casualmente, infatti, non
solo il nichilismo giuridico ha fatto la sua comparsa all’orizzonte delle
nostre società con- temporanee, ma anche i modelli, le regole, i canoni, gli
ordini estetici, con la modernità, sono precipitosamente tramontati. Il
nichilismo si converte, a parte subjecti, in solipsismo giuridico. Il diritto è
scelto da me; accettando l’inizio, anche accetto le procedure, con cui si
svolge l’intero ordine di norme. Scegliendo l’inizio di un regime democratico
accetto il criterio della maior pars, e procurerò di scendere nel conflitto e
di inserirmi in una od altra delle forze in campo18. Il solipsismo è l’essenza
stessa del nichilismo; la piena consapevolezza dell’autonomia individuale
umana19; il riconoscimento dell’irriducibilità del soggettivismo ad
oggettività; la constatazione che l’individuo è il referente ultimo ed
indiscutibile di qualsiasi scelta. L’individuo osserva se stesso e, senza la
duplicazione del mondo, resta solo con se stesso, con le proprie speranze, con
le proprie opinioni, con il proprio senso estetico, ma anche con le proprie
angosce e con un profondo senso di impotenza, che certo non riesce ad essere
compensata dalla volontà di potenza insita nel nichilismo. Non deve stupire che
il nichilismo ed ancor più il nihilismo dei valori terrorizzi i gruppi sociali
dominanti. Sono, infatti, essi che governano più facilmente, velando la forza
ed il potere con lo strumento del dover essere etico, morale e giuridico, che
riescono a meglio celare i propri interessi e le proprie preferenze estetiche
sotto una parvenza di universalità, di bene comune, di giustizia oggettiva.
[...] la teoria del nihilismo dei valori è altrettanto pericolosa quanto alcuni
secoli orsono lo è stata la nuova immagine astronomica del mondo, e cento anni
fa la teoria genetica e a suo tempo ogni rivoluzionamento delle rappre-
sentazioni abituali. A lungo andare tale pericolosa verità non potrà rimanere
celata; gradualmente si imporrà, e sarà pericolosa soltanto nella misura in cui
durante un periodo di transizione provocherà disorientamenti passeggeri. Con il
graduale adattamento degli atteggiamenti pratici di vita alla nuova visione
teorica il pericolo verrà superato. Per ciò che concerne in particolare
l’incom- bente pericolo del nihilismo dei valori, di una disgregazione morale,
io non riesco a vederlo. Nessun nihilismo dei valori potrà far sì che il nostro
standard 18 N. Irti, Nichilismo giuridico, cit., p. 139. 19 Cfr. V. Frosini,
L’ipotesi robinsoniana e l’individuo come ordinamento giuridico, in Sociologia
del Diritto, 2001/3, pp. 5-15. morale sia più disgregato di quanto già non lo
sia a causa dello scisma delle rappresentazioni morali20. La Grande Divisione
di Hume si trasforma, come si è visto preceden- temente, facendo cadere il
termine giudizi di valore e sostituendolo con il termine giudizi di estetica.
Ciò produce un certo vantaggio nel campo della tolleranza, poiché è a tutti
noto e da quasi tutti accettato che i gusti sono personali e non discutibili
(de gustibus non est disputandum), per- tanto non ha senso affaticarsi a
convincere gli altri della maggiore bontà dei propri gusti, della bontà
dell’arrosto piuttosto che dello stufato o del bollito, della bellezza dello
stile architettonico romanico piuttosto di quel- lo gotico o barocco. Il
soggettivismo appare in tutta la sua sfrontatezza e taglia la strada a
qualsiasi tentativo di oggettivizzazione. Ma ciò vale tanto per il prossimo,
quanto per il soggetto medesimo e questo fatto (si tratta di un fatto l’origine
personale dei giudizi) mina alla radice ogni presuntuosa pretesa di verità
assoluta. Solo l’ottusità cerebrale potrà consentire con- vinzioni personali
certe ed intolleranti delle, altrettanto possibili quanto le nostre, scelte e
ragioni estetiche altrui. Il nichilismo ha in parte contribuito a costruire
questa strada ed in altra parte ne è la conseguenza. Il nihilismo, poi, ne è lo
sviluppo logico più radicale, ma anche più concreto e coerente. L’inesistenza
fattuale, oggettiva dei valori non poteva più trovare pudica copertura
nell’ipotetica equivalenza di qualsiasi valore. Il soggettivismo non produce
tante oggettività diverse, non produce alcuna oggettività. Il soggettivismo, se
rende il soggetto consapevole dei propri limiti, dovreb- be guidarlo anche
verso una revisione critica delle proprie convinzioni, prima che verso la
censura delle convinzioni altrui. Il nihilismo non è né caos, né arbitrio
capriccioso, ma semplice consapevolezza dei propri limiti conoscitivi e questi
limiti, nella loro varietà, forniscono il panorama del multicolore teatro
umano. La pazzia è una forma particolare dello spirito e aderisce a tutte le
dottrine e le filosofie, ma ancor più alla vita di ogni giorno, poiché la vita
stessa è colma di follia ed è sostanzialmente irragionevole. L’uomo aspira alla
ragione solo per potersi creare delle regole per lui stesso. La vita in sé non
ha regole. Questo è il suo segreto, questa è la sua legge sconosciuta. Quello
che tu chiami cono- scenza è un tentativo di imporre alla vita qualcosa che
risulti comprensibile21. 20 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit.,
p. 559. 21 C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino
2013, pp. 227-228. Il diritto come estetica La partita intorno al
nihilismo la si può giuocare solo se si considera fuorviante la duplicazione
metafisica del mondo; è, infatti, solo nell’ipotesi metafisica che i valori non
sono giudizi, ma fatti di una oggettività assoluta, tanto assoluta da essere
trascendente. Il dualismo cartesiano, razionale (res cogitans/res extensa),
potrebbe anche sussistere, giacché nulla impedisce in via teorica che le scelte
estetiche siano frutto di autonoma elaborazione mentale. Intorno al tema del
determinismo o dell’indeterminismo, poi, la caduta della categoria del dover
essere e della sua sostituzione con il giu- dizio estetico, non muta la
prospettiva, che resta come scelta necessaria nel primo caso e libera nel
secondo. Evidentemente si avranno due diversi giudizi estetici: l’uno condizionato
dal sistema e l’altro espressione della scelta, della preferenza del soggetto
singolo. Resta sempre aperto il proble- ma se il soggetto può essere
completamente libero da condizionamenti di qualsiasi tipo, a cominciare da
quelli culturali, ma questi condizionamenti potrebbero anche essere intesi
proprio come i limiti personali, individua- li della conoscenza. Deve risultare
ben chiaro che né le ipotesi trascen- denti, né quelle immanenti e neppure il
determinismo e l’indeterminismo possono essere sostenuti da
verifica/falsificazione empirica; al massimo è possibile affermare che ciò che
si verifica empiricamente è empiricamente verificabile: una tautologia, come è
evidente. Il nichilismo, tuttavia, viene visto da Nietzsche, e non solo da lui,
come un mostro incombente, come una sciagura del nostro mondo occidentale, ma
una tale visione negativa appare eccessiva a chi scrive: Pensiamo questo
pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e
scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza finire nel nulla: l’eterno
ritorno. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (il non senso)
eterno!22. È bene ripeterlo; il nichilista ed il nihilista dovrebbero mettere
in discus- sione le proprie scelte, non le altrui, che rispondono ad un
soggettivismo esterno ed estraneo al nostro e, quindi, si presentano
insindacabili, in quan- to autonome. L’educazione in questo ambito è destinata
a trasformarsi in autoeducazione, in autocontrollo, in autolimitazione, non
certo in arbitrio verso il prossimo, sul quale non si potrebbe vantare alcun
titolo, come il prossimo non può vantare alcun titolo verso il soggetto agente.
Risulta evidente che etica, morale, diritto, sinteticamente, dover essere, in
questa cornice risultano privi di senso, ma ciò non significa, che la vita 22
F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2006, pp. 13-14. Il
diritto come estetica 107 umana sia priva di senso. Significa soltanto che il
senso non è dato, non può essere dato, da valori né morali, né giuridici, ma solo
dal soggetto stesso, ammesso che abbia senso interrogarsi intorno al senso di
un essere, di un esistere che si presenta come dato ineluttabile, ineludibile,
come un dato primo, come una singolarità, si potrebbe dire con espressione
propria della fisica teorica. Un diritto estetico è solo espressione di una
maggiore consapevolezza intorno alla realtà, non certo di un imbarbarimento dei
costumi. Se, infatti, il diritto estetico è mero frutto di una descrizione,
come pare che sia, e non di una scelta valoriale, allora già esiste nei fatti,
come sostiene chi scrive, e nulla muta nell’averlo smascherato, se non una
maggiore chiarezza sul- la natura e i limiti del diritto. Il diritto estetico è
un diritto positivo, che non si nasconde dietro né la trascendenza
universalistica dello Stato, né la doverosità metafisica della norma, ma prende
atto della propria origine arbitraria umana. Del resto è interessante
riflettere intorno al fatto che già in epoca romana si discuteva
sull’identificazione di ius come ars. L’idea di associare alle artes la
conoscenza del ius appare infatti, sia pure di fuggita e in modo
concettualmente marginale, in due testi di Tacito e di Gellio, entrambi,
curiosamente, riferiti a Labeone [...]. La connessione fra ius e ars era stata
infatti, tempo prima, una bandiera [...] degli studi giuridici di Cicerone.
Quando Celso scriveva non poteva pensare che a lui23. Naturalmente, all’epoca,
il termine ars non corrispondeva all’attuale si- gnificato di opera artistica,
tuttavia, nella interpretazione di Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43 a. C.)
esso descriveva l’elaborazione di un metodo, di una teoria tecnico-logica
universale, di una dottrina razionale. Tale dot- trina, frutto
dell’interpretazione giuridica, spostava sulla ragione umana il contenuto
normativo e, quindi, consapevolmente o inconsapevolmente il diritto, pur
sembrando trasformarsi in una forma di conoscenza e non di volontà, in realtà
diveniva una elaborazione dei giuristi, una scelta relativa, arbitraria,
soggettiva, come tutte le scelte umane. Nota infatti senza esitazioni Guido
Alpa: Un po’ di sano realismo consente di dissacrare i dogmi
dell’interpretazione, o, meglio, di strappare il velo dell’omertà su dogmi
interpretativi. Questi dog- 23 A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in
Occidente, Einaudi, Torino 2005, p. 385.Il diritto come estetica mi tacitando
le coscienze, restituiscono tranquillità al giudice, danno conforto al dottore.
Tutti questi schemi o espedienti possono essere considerati per l’appunto
schemi o espedienti da parte di altri interpreti, e quindi la linea del lecito
e dell’arbitrio tende a spostarsi o a non riconoscersi. Nella più parte di casi
essa coinciderà con la linea che la maggioranza degli interpreti dirà essere
collocata nella posizione corretta24. Il soggettivismo, di cui
l’interpretazione è un aspetto, esprime nel diritto estetico tutta la propria
potenzialità delegittimante di Stati, ordinamenti giuridici e norme giuridiche
non condivise, ma semplicemente subite. Poiché l’origine dell’autorità, la
fondazione o il fondamento, la posizione della legge possono per definizione
appoggiarsi alla fine solo su loro stessi, sono anch’essi una violenza senza
fondamento. Il che non vuol dire che siano ingiusti in sé, nel senso di
illegali o illegittimi. Non sono né legali né illegali nel loro momento
fondatore. Eccedono l’opposizione del fondato e del non fondato, come di ogni
fondazionalismo o di ogni antifondazionalismo. Anche se il successo di
performativi fondatori di un diritto (ad esempio, ed è più di un esempio, di
uno Stato come garante di diritto) suppongono delle condizioni e delle
convenzioni preliminari (ad esempio, nello spazio nazionale o interna-
zionale), lo stesso limite mistico risorgerà all’origine supposta delle
suddette condizioni, regole o convenzioni – e della loro interpretazione
dominante. [...] il diritto è essenzialmente decostruibile [...] perché il suo
ultimo fondamento per definizione non è fondato25. Ancora una volta per
discutere del fondamento si deve uscire sia dal soggettivismo, sia,
conseguentemente, anche dall’empiria, per entrare in una qualche forma di
duplicazione mistica del mondo. L’alternativa, sem- pre possibile resta il
nichilismo/nihilismo, ma anche del nichilismo/nihi- lismo si può avere una
versione metafisica ed una non metafisica legate alla sorte dell’Essere e
dell’Ente: inesistente, il primo, (metafisica come affermazione infondata); in
dissoluzione, il secondo, (come espressione empiricamente
verificabile/falsificabile). Se l’Essere è inesistente la me- tafisica diviene
priva di fondamento, mentre l’Ente, dissolvendosi nel non essere, appartiene al
mondo dell’empiria. Tuttavia la dimensione metafisi- ca può anche sopravvivere,
monoteisticamente, con un Essere molteplice, 24 G. Alpa, Interpretare il
diritto: dal realismo alle regole deontologiche, in J. Derrida, G. Vattimo (a
cura di), Diritto, Giustizia e Interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1998, p.
210. 25 J. Derrida, Diritto alla giustizia, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura
di), op. cit., pp. 16-17 Il diritto come estetica 109 ad esempio, nel
Cristianesimo, con una Divinità una e trina e, nella Gnosi, con il progressivo
alienarsi, decadere del divino nella materia, (in alterna- tiva politeista: con
una molteplicità di Esseri equivalenti) oppure con un Ente cristallizzato, che
si manifesta immutabile. Ma anche la negazione, il Nulla, se dotato di
esistenza, di presenza e non di assenza, vincola alla metafisica. Si sarà già
capito che il nichilismo rimane impigliato nella metafisica fino a che, anche
solo implicitamente, si pensa come la scoperta che là dove crede- vamo ci fosse
essere, c’è, in realtà, il nulla. Così, dove credevamo ci fossero principi
della legge c’è solo l’arbitrio del legislatore o dell’interprete, la de-
cisione infondata, e per questo essenzialmente violenta, che deve essere resa
accettabile dalla finzione delle affabulazioni, o da una accettazione motivata
misticamente (nella versione kierkegaardiana del nichilismo). Una definizio- ne
non metafisica del nichilismo si può invece formulare richiamandosi all’e-
spressione con cui Heidegger caratterizza la storia del nichilismo
nietzschiano: nichilismo è la vicenda nella quale dell’essere come tale non ne
è (più) nulla. Nichilismo, se non deve (e non può) intendersi come la scoperta
che al posto dell’essere c’è il nulla, non può che pensarsi come la storia
(senza fine – senza conclusione in uno stato in cui al posto dell’essere c’è il
nulla) in cui l’essere, asintoticamente, si consuma, si dissolve, si
indebolisce26. Il Nulla è entità metafisica al pari dell’Essere, tuttavia,
paradossalmente, tale negazione dell’Essere, del Principio può trasformarsi,
capovolgendosi, in affermazione a livello di teologia negativa. Scrive,
infatti, Andrea Emo (1901-1983): Il principio. Dobbiamo cominciare con un principio.
Ma, nessun principio è definibile od oggettivabile. Dobbiamo dunque cominciare
con la rinuncia ad un principio, il che equivale ad una negazione del
principio. Ed è appunto questa negazione che è il principio. Il cogito. Come
passare da questa negazione alla presenza. Dobbiamo contemplare l’origine della
negazione. L’assolutezza della presenza consiste in questo: che essa non è
presenza in quanto presenza di qualcosa, ma è presenza per sé, in quanto cioè
nega ogni cosa. Nega ogni cosa che non sia la presenza stessa. Il suo essere
pura presenza è un essere presenza di... che è un essere presenza di nulla,
quindi è un negarsi, appunto perché è un ridurre a presenza27. 26 G. Vattimo,
Fare giustizia del diritto, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), op. cit., p.
286. 27 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., pp.
18-19110 Il diritto come estetica La negazione diviene, metafisicamente,
affermazione proprio per la sua alienazione da qualsiasi affermazione. Ma
questa affermazione negativa della metafisica si distingue dall’affermazione
positiva dell’empiria, poi- ché mentre quest’ultima è oggettivata,
individualizzata, è parte di un tutto, la prima, invece, è puro soggetto, privo
di specificazioni e qualità empiri- che, proprio perché le trascende come puro
Essere. In questa logica nega- tiva conoscenza e volontà, pur coincidendo, si
connotano come non cono- scenza e non volontà. Ovviamente, l’ipotesi si
capovolge nella metafisica positiva, nella quale conoscenza e volontà si
presentano come assolute, e scompare nell’empiria, ove la negazione è
metamorfosi, ove il nulla è essere altro. Tuttavia anche nella metafisica
negativa il nulla sembra sci- volare nell’altro, tanto altro da essere al di là
della fisica e della metafisica, ossia del pensiero umano, ma questo altro è a
sua volta nulla, almeno per la dimensione conoscitiva umana, che non riesce a
comprendere un altro non umano e fatica ad immaginare una nullità, una assenza
assoluta. Tornando ora in modo più stretto al tema del diritto, è possibile
riassu- mere quanto detto nel seguente modo: se conoscere e volere coincidono a
livello metafisico, nella realtà fisica possono sia coincidere (Spinoza), sia
non coincidere (volontà di potenza) e lasciare spazio a scelte soggettive. Il
diritto, inteso come estetica, consente di non rinunziare al diritto, pur rela-
tivizzandolo, e di affidare al singolo soggetto l’adesione o meno al diritto
dominante, che in questo modo non rappresenta più una obbligatorietà, ma
l’alternativa tra una vita omologata, ma sicura (forse), ed una vita origina-
le, deviante, ma pericolosa. La norma estetica può essere obbedita o disat-
tesa. Il disattenderla, senza possedere una potenza, una forza sufficiente a
piegarla alla propria volontà, significa soccombere alla forza dominante.
Disattendere il diritto diviene una scelta come tante altre, della quale si
possono subire le conseguenze, generalmente sgradevoli. Il determinismo o la
volontà di potenza governano comunque il sistema umano, ma almeno non
sopravvive l’inganno di un mitologico dover essere, frutto dell’ulterio- re
sdoppiamento nel soggetto che agisce e nel soggetto che guida l’azione.
Nichilismo/nihilismo, in sintesi, sono la demistificazione del mondo ed il
diritto estetico è ciò che resta del diritto dopo questa demistificazione, che,
tuttavia, è solo empirica e, quindi, non può fornire certezze assolute. Ma
l’incertezza, il dubbio sembrano proprio essere il sigillo della condizione
umana. Infatti, la duplicazione del mondo, dei piani della conoscenza e del- la
volontà si presenta come una possibile via di fuga dall’incertezza, dalla
solitudine angosciante dell’individuo; ma, al contempo, è anche la misura
fisiologica del biologico, della stirpe animale ed umana. La duplicazione,
dunque, si manifesta sia come una contromisura psicologica ed
artificiale Il diritto come estetica 111 alla condizione umana di assenza
di senso esistenziale, sia come naturale moltiplicarsi e perpetuarsi della
vita. La singola cellula aliena parte di se stessa, scindendosi in due cellule.
Dalla madre fuoriesce per espulsione viscerale la prole. Le scissioni, il
sacrificio di parte del proprio corpo per generare il corpo dell’altro è un
processo traumatico di riproduzione, che tendenzialmente volge verso
l’infinito, salvo eventi esterni ed imprevi- sti, che ne interrompono lo
sviluppo. Dall’uno scaturisce per rottura un secondo uno, il due, ed, una volta
iniziata la pluralità, automaticamente, sopraggiungono gli altri numeri (3, 4,
5, 6, ..., infinito). Anche l’infinito, come idea, è richiamato da questo
processo moltiplicativo, ma, come in matematica, è una duplicazione
(finito/infinito) espressione di un processo al limite, che mai si compie, che,
per sua stessa natura, non può compiersi, giungere al termine, altrimenti
cadrebbe la duplicazione stessa e resterebbe solo il finito. La vita propone la
tentazione dell’infinito, ma, subito, infligge la disil- lusione. Ogni
duplicazione si presenta come speranza e si accomiata come sconforto. Resta
solo un soggetto, della cui identità tutto o quasi si ignora (dell’oggetto,
poi, non vi è neppure certezza della sua stessa esistenza), con il proprio
sentire incomunicabile se non attraverso l’atto comportamentale. Un sentire
percorso da limiti organici, stimoli, motivazioni, giustificazioni, condizionamenti,
influssi misteriosi, comandi metafisici, etc., ma pur sem- pre riducibile ad
una semplice alternativa: mi piace/non mi piace. Nella solitudine dell’essere è
questa l’unica certezza; una certezza dal contenuto vario e variabile, come
vari e variabili sembrano essere i singoli soggetti; una certezza che può
essere definita estetica. Morris Lorenzo Ghezzi. Morris L. Ghezzi. Gezzi. Keywords:
i tordi ubriachi, i tordi, tordo, “drunk as a thrush/newt” turdus ubriacus –
sturdy – I tordi -- nihilism about values, Mackie, Inventing right and wrong,
Hare, emotivism, Grice, The conception of value, valitum – valore – axiology,
stato federale, federazione, fascismo, il fascismo e la autobiografia d’Italia
– Gobetti – statocentrale – diritto – diritto naturale e diritto artificiale –
assiologia, codice valoriale, fierezza, onore, massoni, bruno, Alighieri, conte
Cagliostro, bobbio, nihilism, nichilismo, pena e castigo, Beccaria, delitto,
delinquent, delinquenza, devianza, diritto come estetica. -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Ghezzi: l’implicatura del tordo” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Ghisleri: l’implicatura conversazionale dell’atlante filosofico – federalismo
contro-rivoluzione – lo stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cascina
Sant’Alberto). Filosofo. Grice: “Whereas to many, Ghisleri’s best work is that
on Ancient Rome and counter-revolution, I treasure the details: ‘the pen is
like a sword’ – ‘the pen and the sword.’ “The pen is my sword.’ Note that the
first is a mere simile – as used by Ghisleri, but his executor turns it into a
metaphor just by eliding the ‘like’ (“come”). Grice: “I like Ghisleri – a
typical Italian philosopher; wrote on geography, on ‘la penna d’oca,” and a
fabulous history of Roman philosophy!” -- “He was into politics, too!” L'Italia non è
studiata, non è conosciuta dagli italiani. Dobbiamo rifare la nostra educazione
politica e civile sulla base di una nuova e più razionale conoscenza del nostro
paese. Dobbiamo studiare l'Italia regione per regione nella natura del suolo, nella
sua topografia, ne' suoi prodotti nelle sue industrie, ne' suoi dialetti, nelle
sue tradizioni, nelle sue varie necessità politiche e sociali.” Fonda La
Società dei Liberi Pensatori (L’'Associazione Nazionale del Libero Pensiero Bruno)
di chiare simpatie democratiche e repubblicane. Iniziato in Massoneria, l'anno
seguente entrò nella Loggia "Pontida" di Bergamo e fu affiliato alla
Loggia Cattaneo di Milano. G. diede alle
stampe una nuova rivista mensile, Cuore e critica, rivolta all'educazione
civile e agli studi sociali ed espressione di un'avanguardia intellettuale
impegnata nella costruzione di una coscienza repubblicana e progressista. Sorta
a Savona, la redazione della rivista si trasferì a Bergamo, in coincidenza con
il trasferimento del G. al Sarpi di quella città. Si dedica con assiduità agli
studi di geografia e di cartografia, che aveva cominciato a coltivare quando
insegnava a Matera. Allora si era sentito mortificato nel constatare che nelle
scuole italiane venivano adottati atlanti stranieri, assai carenti nel trattare
la geografia storica dell'Italia. Dopo aver pubblicato il “Piccolo manuale di
geografia storica” (Bergamo) volle perciò cimentarsi in un'impresa che non era mai
stata tentata: la realizzazione di un testo-atlante che desse il dovuto rilievo
all'evoluzione storico-geografica dell'Italia. Al progetto fu interessato lo
stabilimento "Fratelli Cattaneo di Bergamo" che, grazie al successo
delle iniziative editoriali promosse da G., si trasformò in Istituto italiano
d'arti grafiche e s'impose nel settore della cartografia. G. concepì il suo
atlante in modo da offrire per una stessa regione molteplici carte e cartine
con le denominazioni e le divisioni topografiche proprie di ogni epoca. L'apparizione
dell'atlante fu salutata dalle lodi di esperti e studiosi, ma suscitò anche
riserve di parte del mondo accademico, che rimproverava al G. superficialità e
la commistione tra la geografia fisica e la storia dei popoli, delle civiltà,
delle esplorazioni, dei commerci. Commistione del resto ricercata dal G. che,
in polemica con il tradizionale approccio alla geografia e senza sentirsi
condizionato dai limiti angusti dei programmi scolastici di allora, perseguiva
metodi nuovi nello studio e nell'insegnamento della materia. Tenne la cattedra
di filosofia nel Liceo di Lugano. Giornalista, fu direttore di «La geografia
per tutti» e «Le comunicazioni di un collega».Di idee mazziniane, recepite
soprattutto nella versione che ne proponeva Saffi, in campo politico fu vicino
ai movimenti rivoluzionari e collabora con Gaudenzi alla fondazione del Partito
Repubblicano Italiano. Tuttavia Ghisleri non fu un ideologo sistematico: una
sistematizzazione del suo pensiero è soprattutto opera di Conti. Diresse la rivista Preludio di stampo
filosofico positivista e progressista. Diresse L'Italia del popolo. Al Congresso del Partito Repubblicano, tenuto
a Forlì, intervenne con una relazione su La questione meridionale e la sua
logica soluzione. Demofonti, La riforma nell'Italia del primo Novecento: gruppi
e riviste di ispirazione evangelica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Vittorio
Gnocchini, L’Italia dei Liberi Muratori, Milano-Roma, Mimesis-Erasmo. Altre saggi:
“La Scapigliatura democratica: carteggi” (Masini, Milano), L'archivio di G. fu
ritrovato da Masini ed è depositato presso la Domus Mazziniana di Pisa.
Democrazia come civiltà. Il carteggio G.-Conti, Antonluigi Aiazzi, Libreria Politica
Moderna, Firenze, Tripolitania e Cirenaica dai più remoti tempi sino al presente,
Emporium, novembre, Tripolitania e Cirenaica, dal Mediterraneo al Sahara,
monografia storico-geografica, Società Editoriale Italiana, Istituto Italiano
d'Arti Grafiche, Bergamo, Le meraviglie del globo esplorato e le zone non
ancora conosciute Letture geografiche Società Editoriale Italiana, Milano, Bagdad
e la Mesopotamia nel passato e nell'avvenire, Emporium, giugno, Lombroso nella
vita intima, Emporium, luglio 1917 L'ultima colonia africana della Germania,
Emporium, Atlante scolastico di Geografia moderna astronomica-fisica-antropologica,Istituto
Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo (a cura dei professori Magg. G. Roggero, G. Ricchieri,
G.) Saffi. La vita, gli studi, l'apostolato, Libreria politica moderna, Roma, La
questione meridionale nella soluzione del problema italiano, Libreria politica
moderna, Roma, “Testo-atlante di geografia storica generale e d'Italia in
particolare, espressamente compilato per le scuole italiane conforme ai loro
programmi- I Mondo Antico; II Storia Romana; Fratelli Cattaneo e poi Istituto di
Arti Grafiche, Bergamo. Medio Evo, Evo Moderno e contemporaneo Atlante
d'Africa, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Antipode, a Radical Journal
of Geography, Berardi, Verso un nuovo Risorgimento. Il Carteggio tra G. e
Belloni, Acireale-Roma, Bonanno, Dizionario biografico degli italiani, L'Italia risorgimentale di G., Milano,
Angeli, Benini, Vita e tempi di G., con appendice bibliografica, Manduria,
Lacaita, Tomasi, Scuola e liberta in G.: con una scelta di lettere inedite
dell'archivio G., Pisa, Nistri-Lischi, G.: mente e carattere: L'Italia e la
rivoluzione italiana, Milano, Sandron Editore, Treccani. G., su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Opere di G.,
su Liber Liber. Opere di Arcangelo
Ghisleri, su openMLOL, Horizons. ANTROPOGEOGRAFIA. Antiobb oe.sti b
vicbndb storiodb DBLL'I- TAbiA 6RTTKNTRI0NALB. Avanzi di armi e di
strumenti di pietra primitivi, preistorioi (punte di soioe» epeoie di
asole oon.) e poi di bronzo e di ferro» nonobè avanzi di palafitte, di
abitazioni umane, dei pasti, di oggetti diversi ritrovuti In più
luoghi nel sottosuolo, dimostrano ohe l'Italia settentrionale fu abitata
nelle età più remote, anohe prima^ del xieriodo storioo, quand'ossa era
io gran parte oooupata da foreste e da paludi. Ma di oodesci
primissimi aoitanti ben pooo» quasi nulla Allorché si oominotano ad
avere documenti sto- rfoi sulle popolazioni dell* Malia
settentrionale questa si trova abitata in qualche tratto delle Alpi
centrati dai Reti, di stirpe etrusoa» ohe la¬ sciarono il loro nome alle
Api Retiohe; ma per massima parte del resto, sopratutto nel
bassopiano Padano (dove sono attualmente il Piemonto, la LombardÌa»l'Bmilial»
dal OtltioÒollif da ouÌ venne appunto il nome antico éìOallia ei$alpina.
Nella attuale Liguria, invece» erano i Liguri, ohe si ore- dono
afnni alla stirpo Iberica» e nella parte orientale 1 Kensff» di stirpe
Illirloa, il ouÌ nome sioon- Borva appunto anohe attualmente.
l Romani più tardi si sovrapiiosoro agli abitanti e li
assimilarono; non oosl però ohe non si distinguano anoora» soprattutto nei
dialetti» le tracce delle antiche genti nel vari oompartimenti.
Pinal- roente nel medio evo avvennero lo Invasioni bar¬ bariche. Ma
i Oérmanici invaoori, rolatlvamento I>oohl di numero» invece di far
soomparire ia popolazione vinta, si ooufusoro oon essa» adottandone la piviltà
e la lingua o lasoiando di sO appena { ricordi in certi nomi (ad es. Lombardia
dai Longobardi). Nell’800 d. U. Carlo Magno» re del Fronohl,
vinti i Longobardi, fu dal PonteHoe di Roma incoronato Imperatore
Augusto, considerato cioè quale erede dell'autorità e dei diritti
dell'impero Romano d’Oecidontei il quale, almeno di nome, durò fino
al jprinoipio del 13ii0, vale a diro por diooi seooli. H}' in baso a tali
diritti ohe Carlo .Magno e i suoi Huooessori pretesero al dominio
dell'Italia e spooiulmente deiritalia sottoritrioiialo e della centrale» mentre
'l' Italia meridionale oontfnuò per oiroa due seooli a
oonslderarsiinolusaneirimpero d'Oriente» greoo-bisantino. ~ Passata» Uopo
raen di un sooolo, la oorona imperiale dai diretti di- Noendenti dì
Carlo Magno ai ro Germanioi anche l'Italia settentrionale e oentralo fooe
parte del oosiddetio Sacro Romano Impero della nazione Germanica e
fu divisa in feudi, assegnati ai vassalli dei sovrani tedoaohi. Questi però si
trovarono in lotte continue tanto oói Pontefloi di Roma, quanto
oolle popolazioni» soprattutto delle città; le quali, cresciute in
potenza e rionhezza oon le industrie e ool oommorol. vollero ornanoiparsi
e governarsi sotto forma di liberi Comuni. Alcuni di ouosti, oome
Milano e le città marittime di Ve- nesia e di Genova acquistarono, colla
libertà» una importanza e potenza, una gloria e prosperità sempre
maggiore. Disgraziatamonto. però» le lotte fra oittà o oitt.à o quello
intorno tra lo olassl scoiali, prepararono la trasformazione dei
oomuni in signorie» e mantonnero l'Italia divisa e militarmente debole»
proprio nel moatroaldi là delle Alpi, in luogo del frazionamento dei
feudi e del oomuni, si costituivano doi forti regni unitari e
nazionali» ohe volgevano gU occhi cupidi all’UaHa» giunta allora al colmo
della floridezza eoonomioa e oivile. Cosi fu ohe dalla fine
del 1400 Tltalia fu Invasa Uni Franoesi. d.'igli Spagnoli» dai Todesohl.
Bonza ohe gli Stati Italiani opponessero valida resistenza D'allora
In poi soltanto*11 Piemonte sotto la Gasa di Savoja e la repubblica di
Venezia poterono oonsorvaro la loro indipendenza» mentre 11 diioato
di Milano fu occupato dagli stranieri e anohe gli nitri stati minori
(Ducato di Parma, di Modena, Murobesato di Mantova eoo.) orano ad essi
indiret- laiuonte soggetti. Dulia metà del 1500 fin al
prlnoipio del 1700 do¬ minò 008 ) nell'Italia settentrionalu la Spagna»
a oiG suooedette l'Austria, mentre una parte d*d- l'RmiUa (la
cosiddetta Romagna» oon Bologna, Ravenna» Ferrara) apparteneva alto
stat^/dolla Chiosa. — Alla flne del 1700 1« rivoluziono Francese e quindi
l'epoca Napoloonioa portarono anohe nell'Italia settentrionale grandi
mutamenti. Pur troppo però il Congresso di Vienna del 1815 assegnò la
tradita reptibblloa di Venezia oon la Lom¬ bardia airAustria, mentre la
Casa di Savoia ag- U Liguria al Piemoote ed alia Sardegna, le
derivava il titolo del itegno. tla l’e- rimento per la liberaiione
nazionale trovò nel Piemonte e nell* Italia settentrionale mtri e
focolari maggiori e s’iniziarono le ria unità e l’indipendenza, l’ultima
delle . tra coronata dalle gloriose vittorie del li Vittorio
Veneto. (Ved. Atl. tav.). 22. Sdpbbfioib b popolazionb. Sopra
una superfloio ohe si può oaloolare, entro ai oonfiiii fisioi, di circa
132 000 kmq., ha ora una popolazione che ei calcola di circa 18
700000 di ab. pi codesta superfloie i oonBni del Regno inelu'
devano finora soltanto lOiUOO km> oiroa, mentre ora ne inoludono IZ7
000 ; e includevano otre» 16 milioni 0 >/z di ab., mentre ora la
popolazione, per i nuovi acquisti (oiroa 1 milione e i/il o per il
oaturale aumento annuo, si oaloola di oiroa 18 milioni. Tale popolazione
tende continuamente a crescere, nonostante la forte emigrazione di
alcuni compartimenti, soprattutto del Veneto, del Piemonte e della
Lombardia. La densità dunque dell’Italia Bettentrio- nale
entro ai nuovi oonBni del Regno ri¬ sulta in media 141 ab. per kmc^.,
mentre entro ai vecchi confini sarebbe di IBO. L’Italia settentrionale ha
perciò una densità superiore alla media di tutta Italia, che nei
1921 risultò di I2fj ab. per kmq. ed è fra le regioni d’Europa più
popolose. La densità tuttavia è inuguale, perohò in certe
province supera 200 e In quella di àlllano arriva fino a 002 ab, per kmq.
mentre in altre e speoial- mente nelle regioni montuose può soendero
a mono di 60 por kmq. — Oltre a oio 6 da osservare ohe, aehbeue la
popolazione per le indusirie tenda ad aumentare nello città, anche la
popolazione eparea deU'ltalia settentrionale 6 assai numerosa e
vive in case sparse e in pioooli villaggi, ohe dànno alle sue campagne un
aspetto molto dille- rento da quello dell’Italia meridionale e
della Bioilia. Delle città deli’ Italia settentrionale
consi¬ derate nella cerchia del comune, una supera ormai i 700 000
ab-, Milano — una e^cra già '/; milione, Torino — una supera 300000
ab., Genova — due superano 200 000, — Trieste e Bologna — una vi
s’avvicina, Venezia — due superano 100000, Padova e Ferrara, mentre
altre due vi si avvicinano, Brescia e Verona. La popolazione di
quasi tutte le città dell’Italia settentrionale tende a
crescere. 83 Gruppi ni liroua
kazioràlitX btraviera — Abbiamo già detto ohe nelle valli Alpine
Pie¬ montesi (speoialmonte in Val d’Aosta e nelle valli dpi
Valdesi) si parla tuttora franoeee da oiroa SS mila individui : i quali
sono però di eentimenti nazionali perfettamente italiani. —
Ugualmente legati alla nazionalità italiana sono quelli ohe par¬
lano tetteeoo nelle valli intorno al m. Rosa (Qros- soney. Alagna,
Maougiiaga) oiroa 4mila; — nell'alto- piano dui Sette Comuni in provinola
di Yioenza, oiroa 3 mila; — e nella Gamia, circa 8 miU. mentre
inve-ie li popolazione tedeso.a dell’Alto Adig^ oompatta nelle valli
superiori, oaloolata circa ZOO mila Individtii.ò stata finora delle piò
ostili contro l'Italia. — Finalmente nel Friuli orientale si tro¬
vavano finora entro i confini del regno oiroa -tO mila Sloeeni
ispnoialmente intorno a Cividale) anoh'essi nazionalmente fedeli
all’Italia : ma oltre ad essi si trovano Inoluai entro 1 nuovi confini
del regno d’Italia, noi baoino dell’Isonzo, nella otttà e nel re¬
troterra di Trieste, nellTstriao nello Statodi Fiume oiroa i/i milione di
Ulaoi (Sloreni e Croofi) finora molto ostili agli Italiani.
24. OoOUFàZlONI OBOLI ABITANTI
PBO- DOTTi - IsTRCzioME. (V’cd. Atl. tav.).L’agricollura occupa il
maggior numero di abitanti ed ò in più luoghi agricoltura in¬
tensiva, con vigneti (specialmente in Pi^ monte) ed orti e veri giardini
per la colti¬ vazione dei fiori (in Liguria), — con campi ohe dànno
un prodotto por ettaro pan a quello dei paesi più progrediti
dollaTerra, — con risaie (speoialmonte in provinoia di Novara), —
con prati irrigui (mar- oite) specialmente nella bassa Lombardia,
ohe permettono il girando allevamento del bestiame e l’industria pel
cas«i;?cto (nel Lo- digiano, come pure nel Parmigiano); — fi¬
nalmente con cana;i«/t, soprattutto nell’E¬ milia, — con la coltura della
barbabietola da zucchero (nell’Emilia, nel basso Veneto e altrove).
Gli olivi dànno copioso prodotto nella Liguria e i gelsi diffusi in tutto
il bassopiano permettono uno sviluppo della bachicoltura, che rendo
l'Italia unode^aesi di maggior produzione dellaseta nella'Terra.
La Venezia Tridentina darà all’Italia grande quantità di
tranarneoou i nosoni, oue si trovano uu- nbe in altri luoghi, ma non
eooossivamonte al>- londanti nulla zona alpina. — La pesca t>
fonte abbastanza importante di guadagni lungo le coste
dell’Adriatico e nelle lagune (ealli di Gomaoohio eco.); ò pooo frutti fra
invece nel mar Ligure. Ma l’occupazione che subito dopo all’
a- griooltura ha raggiunto nell’ Italia setten¬ trionale uno
8vilup(K) grandissimo ò Tindu- sfria nelle sue svariatissime
manifestazioni. Sotto questo riguardo l'Italia settentrionale
supera senza confronto il resto d’Italia e può gareggiare con le regioni
più industriali dol- Pestero, nonostante la mancanza di mate- ' rie
prime (metalli, carbone, cotone eoc.)o)io è uno degli ostacoli maggiori
alla prosperità eoonomioa del nostro paese. Alla mancanza di
carbone mal si provvede con le ligniti o con il poco petrolio dell’Emilia
e molto più efficacemente, invece, ma sempre in modo inadeguato ai
bisogni, con le energie elet¬ triche ottenute dai corsi d’acqua.
Iva le industrie piti importanti e sviluppate sono quelle
metallurgiche o mecoaniohe per fusione e lavorazione di metalli e
fabbrioazione di maooliine, di automobili, di navi, specialmente a
Milano, a Torino, a Genova e dintorni (8. Pier d’Arena. Savona eoo.), a
Venezia, a Trieste ed anche in altre località, come nel Bergamasco e nel
Bresciano. Non meno importanti sono le induatrie teeaili:
soprattutto della eeta, a àlilano. a Como e altrove, in modo da
gareggiare con I piu progrediti paesi della Terra sotto questo riguardo ;
del ootone, pure nel Milanese e nelle province di Torino, di
Novara, di Como, di Bergamo, di Genova. Por la lana hanno
acquistato fama soprattutto i dintorni di Biella (prov. di Novara) o di
Schio (prov. di VIoenza). Delle induetrie alimentari ha preso
grande svi- gliingova dalla qua foioo mo'
appatj»^ { •uoi 06 ^crre pe quali fu 5 Piave e
d luppo negli ultimi anni quella iJello xùcchero di barbabietola
specialmente nell’Elmilia, nel Veneto o in Liguria. A (lenora sono anche
numerose le fabbrlohe di pa*r«. R nell'Sìmilia sono (famose le t
alum trix di Modena e di liologna. Terzo grande ramo d’oootipazione
degli abitanti nell’ Italia settentrionale sono il commercio e la
navigazione ; il primo age¬ volato dalla posizione goograflna, e
dalla rete ormai assai svilupjjata ui strade, e spe¬ cialmente di
ferrovie, ohe s’intrecoiano in tutti i sensi e_ traversano, come
abbiamo veduto, le Alpi e gli Appennini. Ad esse s’aggiungeranno Io
vie d’acqua interne, specialmente quella Padana. La
navigazione ò occupazione delle pili antiche per gli abitanti dei
litorali della Liguria o del Veneto, dove sorsero nel medio evo le
più potenti città marinare di quei tempi. Uenclib superati ormai sulla
Terra e nello stesso Mediterraneo da altri d’altre regionij i porti
di Genova, Venezia e Trieste gareggiano con i maggiori od è a
crederò furmamente che avranno uno sviluppo commerciale sempre più
intenso. Por tutte questo ragioni l’Italia setten¬ trionale
supera le altre parti d’Italia in ricchezza e in generale anche nelle
varie formo di vita civile. Wistruzione vi è no¬ tevolmente
sviluppata, d’ogni ramo o grado: gli analfabeti, sebbene pur troppo
non manchino, sono in generalo in numero mi¬ nore ohe altrove,
soprattutto nel Piemonte tu su 100 ab. d’oltre 6 anni), nella Lom¬
bardia (13 su 100) e nella Liguria (17 su 25. Rboio.vi stobiohb b
divisioni aumini- STRATivB. — Come già abbiamo detto, l’I- tiilia
settentrionale si divide in 8 compar¬ timenti 0 regioni storiche :
Piemonte. Liqu- ria ool Nizzardo, Lombardia, Canton Ticino, che
costituisce la parto maggiore della Sviz¬ zera italiana, Venezia propria,
Venezia Tri- dentina, Venezia Giulia con lo Stato di Fiume, ed
Emilia, con la piccola repubblica indipen¬ dente di S. Marino.
Di questi compartimenti o regioni sto¬ riche (delle quali il Canton
Ticino o il Niz¬ zardo, oltre a S. Marino, non fanno parte del
Regno d’Italia) diamo qui sotto la su¬ perfìcie e la popolazione, secondo
il cen¬ simento del 1921. Si noti, però, ohe tale superfìcie e
popolazione corrisponde alla somma di quelle delle provinole (che
sono le maggiori oiroosorizioni amministrative del Regno) ; ma i
uonfìni di queste non sempre corrispondono ni oonfìni fìsici, et¬
nici 0 storici dei compartimenti. In fìne al volume diamo in una
tabella i dati statistici particolari per le varie pro¬
vinole. Si noti poi ohe la popolazione che indi¬ chiamo fra
parentesi per le varie città nella | descrizione dei vari
compartimenti corri¬ sponde a quella della cerchia del comune, non
del centro principale abitato, che h la città vera. Tra l’una o l’altra
di tali cifre vi sono assai spesso differenze gran¬ dissime, ohe
rileveremo a mano a mano quando l’occasione se ne presenterà.
Dati statistici relativi alle ragioni dell’ Italia
settentrionale. Entro 1 nuovi confini politioi e
amministrativi. Superficie Popol. nel 1921
In km> assol. relat. l’iemonto
29 8b6 3 88S 000 116 Liguria . . .
. S 280 1 S'IO flOO 248
Iximbardia 24 180 S uo ooo 211
Vanesia propria . 28 010 4 2IS OOO
150 Venezia 'Tridentina . 18 800 645
000 47 Venezia Giulia 8 iOO OiO
flOO 103 Emilia . . . . 21 848
3 012 000 138 RepubhItQt di 8. Marino 00
12 OOO 200 Nizzardo ool Principato
di Monaco . 600 200 OOO 290
Svizzera italiana 8 8J0 170 000
43 Dati piò speolfioati, soprattutto per
lo'province. Si trovano in aopendioo at fasotoolo.
lo - IL PIEMONTE. r Confini e nosloni generali. —
Il Piemonte (In S latino ftdemontium, oioO paese > pie’ di monti) si
T può dire all'insrosso limitato a H, a WeaN dalla { crosta
dell’Appennino Ligure e dello Alpioocideu- 1 tuli 0 t'entrali fino alle
sorgenti dolla Tooe e al 4 lago Maggioro. Verso R. il Ticino lo divide
soloiJ in parte amministrativamente dalla I.ombordia, <| perohò
a questa appartrngono la Lomellioa o il I cosi detto Oltrepò Pavese,
formante il curioso ou- 4 neo di Bobbio. '4 Pisioaraento
ooraprondo: la sona alpina; la pla-iL nura piemontese da Ounoo ai Ticino,
Il paeso ool- J linose del Monferrato e la pianura di Marengo. Y
Divisione in province. — II Piemonte, di oul / sopra abbiamo
indioato la suporfloie e la popole-'V alone a>soluta o relativa, ò
diviso in t province: ili Torino (!• per superlicfe e per popolaaione)
ohe 'I abbraooia l'angolo NW del compartimento, cioè gran parte
delie Alpi Ponnlne, tutte le Graie ita- . liane e parie dolio Cozie, un
tratto piano luogo il Poe le colline sulla destra del fiume; —di
Cuneo (Z» per Slip.. 4* per popolaz.) ohe oooupa l’angolo' SW ; —
di A.le%8andria (4* por sup. o 2» por pope- ’ laz.) por niussima parto
formata dal Monferrato;! — di Novara (»• por sup. e por popola:.) a
NE, , par.e alpina e parte piana. Occupazioiij degli abitanti
e prodotti. — I vi-, gneti ^ecialmentc del Monferrato e lo] risaie
aoì Vercellese, dànno i prodotti più caratteristici del Piemonte. Il
quale ha ' grande sviluppo anche industriale a To¬ rino e dintorni
(industrie metallurgiche e > meccaniche), nel Diellese per la
tessitura di • lana, in parecchi luoghi per filatura e les-J silura
di cotone, in Valsesia per cartiere^ Città principali. — Torino
6'20) capitale de l Piemonte, è per alcuni anni (dal 1881 a j 1885)
già capitale del regno d’Italia, o entro] deU'tilt.i valle del Po e delle
relazioni cora-J meroiali terrestri dell’Italia con l’Buropa oc-1
cidentale à, dopo Milano, la più iniuatriale] città d’Italia. Si
distingua da tutte le^altrej grandi oitt& italiane per la re^olarith
delle vie o le sue costruzioni tuoderno. Torino Tu oiilU 'Ini
risor|;irapnio itahiiiio r pa¬ tri» t' 'lliiKtrl uomini, comi- U
ih'ranso, Kali'O, liio- (mrtl. IVAmifiio e, superiore a tutti. Camlilo
(;.i- yn,,r HiiI rioinn nnlle 41 Kurerir» /> la hasllina ohe
oontiene le tomtie dei re e prinoipi di Casa Barola flno a Carlo
Alberto. Impila provincia di Torino sono da ricordare an-
oorii: /rrea(12) allo sbocco dolla valle d’Aosta, città d'orisine romana
di notevole importanza storica _ e Aosta I Mianch'essa d'origine romana e
capo- luogo doila bellissima valle, a oui^dà il nome. Cuneo
(30), allo sboooo delle etrmle dei passi di Tenda e dell' Argenterà.
Sostenne oon esito felice otto assedi dei Francesi. Nella sua
provincia è Saluteo (16), giàrapoluogo di un Uarohesato, patria di Silvio
Pellioo. Novara (60), molto commerciante. Sotto le sue mura
avvennero importanti battaglie nel 1613 e nel 1849. Grande centro di
pro- iluzione di riso. Nella sua provincia: ttirl/a (13),
soprannominata la àlanohostor d'Italia, per le sue numerose e Ho-
renii industrie. — VtretUi (36), antiohisaitna città sulla ferrovia
Torino-àlilano, in territorio fertilis¬ simo: centro del mercato del
riso. Alessandria (78), fondata dalla Lega Lom¬ barda contro
Federico Barbarossa alla con¬ fluenza della Bormida eoi Tànaro,
nella pianti rar di Marengo : ebbe in passato no¬ tevole importanza
strategica. Nella Rum provincia: Asfi (àO), città
antichissima, repubblica dei medio evo; centro vinifero del Pie¬
monte. patria di Vittorio Autori. — Aeaui (15), fa¬ mosa per le sue aocue
termali, da cui ha li nome. — Uanal* Monferrato (35), sulla destra dei
Po, già oapiiale del ducato di Monferrato. Importante centro
vinloolo. 2o . LA LIGURIA. Confini e nozioni generali —
La Liguria fl- slonmente oooupa il versante dell’ Appennino e delle
Alpi Idguri rivolto al mare, arrivando a W en¬ tro I oonfini politioi o
amministrativi fino alla valle della ifoja e ad K verso la Tosoana (Ino
alla foce della .Magra. Etnograficamente però ed anche am-
inliiistraciraraente la Liguriapassa in qualohepunto al di là della
cresta spartiacque. Oonlina perciò con la Pranoia, oon il Piemonio, por
breve tratto oon la lx>mbardia, in causa del cuneo di Bobbio,
oon l'Emilia e oon la Tosoana. Divisione In province. — Ni divide
in duo pro- rinoe : di Oenova a E (la maggioro per sup. e par
popol.) e Porto Maurizio a W. Occupazioni degli abitanti e
prodotti. — Suolo ristretUL moatuoso e naturalmente poco fertile.
Gli abitanti però seppero trarne il maggior profitto, ooltivandolo a
giardini ed orti, che dànno, per il clima, fiori e legumi
primatiooi, ohe si spediscono in altre regioni d'Italia od all’estero. Altri
prodotti abbondanti sono : olio, castagne, vino e a- riimi.
Le industrie prinoipali sono quelle el ferro e dei cantieri navali
a Genova, a S. Pier (l’Arena, a Savona ed alla Spezia; poi quelle
ohiraiebe (zucoherifloi), del cotone, eco.. Ma la riochozza di Genova b
il commercio marittimo, che supera quello di tutto il resto
d’Italia. Città principali. — Genova (300), sorta nel punto
della costa ligure pili opportuno per le oornunicazionì ool bassopiano
Padano, è il primo porto e insieme una delle pili belle citth d'
Italia. Edificata ad anfiteatro su per il monte, ohe salo subito dal
mare, manca di spazio por allargursi ; e le costruzioni anche per
l'ingrandimento del porto furono assai difficili e costose. Un tempo ora
pure piazp forte ; ora non pili. I molti e son¬ tuosi palazzi le
meritarono il nome di Su¬ perba. Decaduta dalla sua prima potenza e
dal suo splendore dal 1600 in poi, riacquistò tutta la sua importanza nel
secolo passato con l’unità d’Italia, oon l’apertura del oanale di
Suez e con i trafori del S. Gottardo e del Sempione. Ora Genova è rivale
di Marsiglia e si sviluppa sempre più, anche por le industrie Vi nacquero
Cristoforo Colombo e Giuseppe Mazzini. Nell.a sua (Tovincla:
8. J-Her d’Arma (SOI, ò quasi un sobborgo di Genova, oon rInoinaM
fon¬ derie ed oltloiiio sidertirgioho. — àfaronaiTò), sooon-
deporto della Riviera, molto ingrandito; si può oon- siderarooome ti
porto del Piemonte — Npezia( 90), pruno porto militaru d'Italia, si trova
In fondo ad un golfo ampio o ben riparato, cinto da ripide mon¬
tagne, o«ronato da forti,e chiuso danna diga a Ror d'acqua ^sta
diventando anche centro industriale. — Molte altre cittadine minori,
amenissime, Af- bmga, Sestri Levante, lìapallo eoo., sono stazioni
olimatloho di fama internazionale.j Porto Maurizio (9) è il
(piooolo c^oluogo della provincia a cui dà il nome. E’ diviso da
Oneglia{S) quasi somplioemonte dal tor¬ rente Impero, alla cui foce;fe il
piooolo,porto comune.Nella provinola ben piti imiràrtante oo'me'
città ò S»N RaunlSO), rinomata stazione olimatioa, oome la Tlolna
Bordighera (li), — yentimigiia ò a pojiii' km. dal oonflna franoese;
grande mordalo di (lori. Arcangelo Ghisleri. Ghisleri. Keywords: atlante
filosofico, tavola I, tavola II, tavola III, -storia romana, eta romana –
classe V ginnasiale -- storia romana e filosofia, memoria di Cattaneo,
rivoluzione con Rensi – Mazzini, mazziniano – lo stato italiano – stato
federale – federazione -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghisleri: storia
romana e filosofia”– The Swimming-Pool Library.
Grice e Giacchè: l’implicataura conversazionale dell’altra
visione dell’altro – Barba, Bene, e Fellini antropologo -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I like
Giacché; for one, he philosophises on theatre, which any Sheldonian should
appreciate!” Grice: “Giacché is what I would call a philosophical
anthropologist.” Grice:”Giacché has an ability with language: “l’altre vision
dell’altro,” for example – difficult to translate, but genial nonetheless, or
perhaps genial because uneasily translatable!” – “He has philosophised on
spectator and participant, which is conversational in tone – there’s no
monologue, but dialogue --.” “He has criticised authoritarian types of
performances like traditional teaching which he has compared to religion!”
Insegna a Perugia. Si occupa di varie problematiche socio-culturali quali
condizione giovanile, devianza, comunicazione di massa, solitudine abitativa,
politica culturale. Saggi: Una nuova solitudine. Vivere soli fra integrazione e
liberazione, Roma); “Lo spettatore partecipante. Contributi per un'antropologia
del teatro, Guerini, Milano, Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani,
L'altra visione dell'altro. Una equazione fra antropologia e teatro, Ancora del
Mediterraneo, Napoli, Ci fu una volta la sinistra. Ovvero il silenzio dei
post-comunisti, Asino, Roma. CURRICULUM di Piergiorgio Giacchè (Perugia,
16.04.46), Professore a contratto (incarico gratuito), docente di “Etnologia
europea: patrimonio culturale immateriale” presso la Scuola di Specializzazione
in Beni demo-etno- antropologici, Università di Perugia, Firenze, Siena e
Torino (sede di Castiglione del Lago, PG) - anni accademici TITOLI DI STUDIO E
INCARICHI ACCADEMICI Laurea in lettere (indirizzo moderno), con tesi in
Etnologia conseguita nell’anno acc. 1969-70 presso l’Università degli studi di
Perugia, con voti 110/110 e lode. Abilitazione all’insegnamento delle materie
letterarie nelle scuole medie inferiori - titolo conseguito il 3.2.1973 con
voti 100 su 100. Borsa di studio quadriennale (dal 1.11.77 al 31.08.76) per
“ricerche nel campo sociale”, usufruita presso l’Istituto di Etnologia e
Antropologia culturale dell’Università di Perugia. Titolare di contratto
quadriennale presso la Facoltà di lettere e filosofia della stessa università.
Addetto alle esercitazioni presso la cattedra di Etnologia della stessa
Facoltà, per gli anni accademici Ricercatore confermato dal 1° settembre 1981
al 28 dicembre 2004, presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia culturale
dell’Università di Perugia; in tale ruolo ha condotto seminari, cicli di
lezione, moduli didattici e progetti speciali (in prevalenza sui temi della
devianza, della condizione giovanile, della società dei consumi e dello
spettacolo, dell’antropologia e sociologia del teatro) fino all’anno acc.
1994-95, in cui è divenuto affidatario di un Corso di Antropologia teatrale
(unico corso attivato in Italia), riconfermato per tutti i successivi anni
accademici. E’ stato altresì docente affidatario del corso di Antropologia
culturale presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di
Perugia, nell’anno accademico 1998-99. Professore associato presso il
Dipartimento Uomo & Territorio – Sezione antropologica ; docente di
Fondamenti di Antropologia e di Antropologia del teatro e dello spettacolo
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di
Perugia, Professore a contratto, docente di Antropologia culturale presso la
Facoltà di Scienze della Formazione della L.U.M.S.A. di Roma – corso per Educatori
professionali, sede di Gubbio – anni accademici
Professore invitato, nel quadro del progetto “Socrates”, presso
l’Université Libre de Bruxelles - facoltà di Scienze Sociali e di Filosofia e
lettere Visiting Professor presso l’Università di Malta, Facoltà di Scienze
della Formazione. Professore invitato, nel quadro del progetto “Socrates”,
presso l’Université Paris VIII – Département d’Etudes théâtrales Professore
invitato dall’Université Paris VIII per un seminario da tenersi presso il
laboratorio di Etnoscenologia della Maison de l’Homme – Paris Nord Membro della
Commissione per la Procedura di valutazione comparativa per il reclutamento di
un ricercatore presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di
Cagliari, M05X – Discipline demoetnoantropologiche. Docente del Dottorato
Internazionale in Antropologia ed Etnologia (A.E.D.E.) CONSULENZE,
COLLABORAZIONI E ALTRI INCARICHI ISTITUZIONALI Consulente socio-antropologico
per alcuni programmi R.A.I. della Sede Regionale dell’Umbria: “Decentramento e
sviluppo urbanistico”; “Anticamera” (novembre 1980 - aprile 1981); “Aperitivo”
(aprile-luglio 1982). Consulente antropologico del Centro Regionale Umbro per
le Ricerche Economiche e Sociali, nel 1978 (Ricerca sulla “popolazione reale”).
Consulente del Comitato Regionale Umbro Radiotelevisivo e curatore di numerose
indagini sul sistema dell’emitttenza locale e sull’ascolto radiotelevisivo (
dal 1978 al 1989). Consulente e collaboratore del Festival Internazionale del
Teatro in Piazza di Santarcangelo di Romagna . Consulente e collaboratore del
Teatro Studio 3 di Perugia, Consulente e collaboratore della 1^ Rassegna
Internazionale del Teatro di Strada (Montecelio di Guidonia). Consulente
artistico e scientifico del festival di teatro, musica e cinema “Segni
Barocchi” di Foligno (edizioni 1985, 1986, 1987). Consulente del Teatro San
Geminiano di Modena, poi centro teatrale “Dramma Teatri”. Consulente e assistente, in qualità di
antropologo del teatro per il periodo 27 settembre- 30 ottobre 2013, della
rappresentazione teatrale de “La escuela de la escena y la escena de la escuela
jesuita en el siglo XVII” a cura di Bruna Filippi, nel quadro del congresso De
los Colegios a las Universidades. Las ensenanzas jesuitas y sus relatos
cotidianos, organizzato da la Universidad Iberoamaricana de Ciudad de Mexico
(Città del Messico). Membro del comitato scientifico dell’International School
of Theatre Anthropology diretta da Eugenio Barba, con sede a Holstebro,
Danimarca. Membro del gruppo di lavoro internazionale di Sociologia del teatro,
con sede presso l’Université Libre de Bruxelles, Belgio (dal 1992 fino al suo
scioglimento nel 1995). Membro del gruppo di lavoro della Maison de Sciences de
l’Homme (E.H.E.S.S.) “Spectacle vivant et sciences humaines” Membro del comitato
scientifico della quinta sezione di ricerca “Créations, Pratiques, Publics”
della Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (dal 2002). Membro del
Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto di Psicosomatica
Psicoanalitica “Aberastury” di Perugia (dal 2000). Membro del Comité de
Rédaction de “L’Ethnographie. Noveaux objets, nouvelles méthodes. Revue de la
Société d’Ethnographie de Paris” (dal 2002). Collaboratore della rivista “Lo
straniero. Arte Cultura Società” diretta da Goffredo Fofi (dalla sua fondazione
– 1997 – ad oggi); già redattore della rivista “Linea d’ombra” (1982- 1997) e
co-direttore de “La terra vista dalla luna” Collaboratore della rivista “Gli
asini. Educazione e intervento sociale”, diretta da Luigi Monti, dalla sua fondazione
– 2010. Membro del Comitato scientifico della rivista trimestrale “Catarsi.
Teatri della diversità”, dalla sua fondazione – 1996. Membro del Comité
scientifique de la revue trimestrelle “Théâtre Public” (dal 2013) Presidente
della Fondazione “L’Immemoriale di Carmelo Bene” (dal 2002 al 2005). Membro
della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero per i Beni e le Attività
Culturali (dal 2005 al 2007). Membro della Commissione di valutazione dei
progetti di cofinanziamento per lo spettacolo – Ministero per i Beni e le
Attività culturali. Consulente della Regione dell’Umbria – Assessorato alla
Cultura, con l’incarico di ricognizione ed esplorazione del settore teatro nel
territorio regionale (luglio 2010 – settembre 2011). Membro della Commissione Consultiva
per il Teatro – Ministero per i Beni e le Attività Culturali (dal 2011 al 2013)
Membro del Comitato Scientifico della Fondazione Centro Studi “Aldo Capitini”
di Perugia (dal 2012). Membro del Comitato scientifico PerugiAssisi, candidata
a capitale europea per il 2019. CORSI E SEMINARI DIDATTICI SPECIALI
Partecipazione, in qualità di docente, ai seguenti corsi o seminari: • Corso
biennale per la formazione di tecnici della ricerca sulle tradizioni popolari
nella regione umbra (Perugia, 1974-75). • Primo corso regionale di preparazione
e aggiornamento per operatori socio-sanitari impegnati nell’attività di
prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza (Bologna,
27 e 28 settembre 1977). • Corso regionale per operatori culturali nel settore
del cinema (Orvieto, dicembre 1977 - giugno 1978). • Corso di riqualificazione
professionale per operatori audiovisivi: il videotape (Foligno,
febbraio-ottobre 1978). • Corso di formazione professionale per i 28 diplomati
di scuola media superiore (schedatori) previsti dal progetto di “catalogo unico
regionale dei beni bibliografici” (Perugia, maggio 1978). • Corso di formazione
professionale per i 46 diplomati di scuola media superiore (ordinatori di
biblioteca) previsti dal progetto “sistemi bibliotecari comprensoriali”
(Perugia, luglio 1978). • Corso Animatori Q/1 - Seminario sulle comunicazioni
di massa (Spoleto, 23 - 26 giugno 1984). • Seminario residenziale “L’Atelier:
centro internazionale di ricerche artistiche” (Volterra, 1 novembre - 23 dicembre
1984). • “Soglie: esperienze di confine tra attore e spettatore”,
seminario-laboratorio per studenti e insegnanti delle scuole medie superiori
(Perugia e Todi, novembre 1990 - aprile 1991). 4 • Corso di Formation
Doctorale Esthetique, Sciences et Technologies des arts della Université Paris
VIII à Saint Denis (lezioni del 15 e 22 gennaio 1991). • Corso di Scenografia
della Facoltà di Architettura e del Dipartimento di Musica e Spettacolo
dell’Università “La Sapienza” di Roma (lezione “Teatro, gioco, narrazione”,
progetto teatrale per insegnanti delle scuole materne (Perugia e Città di
Castello, febbraio e marzo 1991). • “L’attore consapevole. Seminario
teorico-pratico sull’arte dell’attore” (Fara Sabina, Rieti, 25 - 31 gennaio
1993). • “La società italiana del dopoguerra”. Seminario di aggiornamento per
gli italianisti polacchi, organizzato dall’Ambasciata d’Italia, dall’Università
Jagellonica di Cracovia e dall’Istituto Italiano di cultura di Cracovia
(Cracovia, 20 – 23 settembre 1993). • Corso di aggiornamento A/41
dell’I.R.R.S.A.E. dell’Umbria (Perugia, lezioni del 4 marzo 1994). • Seminario
di Antropologia del teatro per gli allievi della Scuola Civica d’Arte
drammatica “Paolo Grassi” (Milano, Corso Universitario Multidisciplinare di
Educazione allo sviluppo, “La cultura del confronto”, organizzato dall’Unicef
di Roma (lezione del 20 aprile 1995: “Uomini e teatro: culture del mondo a
confronto”). • I Corso di aggiornamento sulla didattica del teatro nella scuola
- Seminario internazionale su Scuola e Teatro (Marcellina, Roma, 19 - 21
ottobre 1995). • Corso di aggiornamento per insegnanti delle scuole medie
superiori della regione Lazio (Roma, novembre 1995 - giugno 1996). • III Corso
Universitario Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo, organizzato
dall’Unicef di Bari (lezione del 28 marzo 1996). • Università del Teatro
Euroasiano, sessione dedicata alla “Storia sotterranea del teatro
contemporaneo. Solitudine, tecnica, drammaturgia e rivolta” (Scilla, Reggio
Calabria, 9 - 16 giugno 1996). • “Le età del teatro. Corso triennale di storia
e cultura teatrale” - II anno: Dalla Commedia dell’arte alla Riforma goldoniana
- organizzato da Emilia Romagna Teatro (Modena, Teatro Storchi, ottobre -
novembre 1966). • Corso Uni-Tea 1997: “Figli della storia e maestri del teatro”
(Parma, 5 febbraio - 19 aprile). • Corso d’aggiornamento per docenti e
dirigenti di ogni ordine e grado, organizzato dal C.I.D.I. Versilia e dal
Provveditorato agli studi di Lucca e intitolato “Letteratura teatrale e scuola”
(Forte dei Marmi, Convegno-seminario “La musa fra i banchi di scuola.
Esperienze e modelli di relazione / incontro fra teatro e scuola” (Cervia, 11 -
13 aprile 1997). 5 • Università del Teatro Euroasiano, sessione dedicata
alla formazione dell’attore e intitolata “Apprendere ad apprendere” (Scilla,
Reggio Calabria, 1 - 8 giugno 1997). • Corso Uni-Tea 1998, “Oplà noi viviamo!
Tecniche originarie e tecniche nuove nel teatro d’attore” - seminario interno
al Corso di Sociologia dell’Educazione dell’Università di Parma (Parma, 19
marzo 1998). • “Vedere Fare Pensare Teatro, per una formazione dell’educatore
teatrale”, organizzato dall’E.T.I., dal Teatro delle Briciole, dal G.S.A
Fontemaggiore, dal Teatro Kismet OperA e tenutosi in tre sessioni a Bari (25 -
29 marzo 1998), a Isola Polvese - Perugia (17 - 21 aprile 1998) e a Parma (8 -
12 maggio 1998). • Corso d’aggiornamento per insegnanti degli Istituti medi e
superiori su “1968 - 1969. Gli anni della contestazione” (Parma, 24 marzo
1998). • « Sulla verticalità del verso », seminario di e con Carmelo Bene,
organizzato dall’Ente Teatrale Italiano (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). •
“Criticando criticando. Laboratorio d’analisi dello spettacolo”, organizzata in
collaborazione con l’Associazione Nazionale Critici di Teatro (sessione
dedicata al Teatro Ragazzi - Bagnacavallo, 4 giugno 1998; sessione dedicata al
Teatro di Ricerca - Reggio Emilia 29 giugno 1998. • “I mestieri e le lingue del
teatro”, Seminario di autoapprendimento per operatori dell’area penale esterna,
organizzato dal Teatro Kismet e dall’Università di Bari, con il patrocinio del
Ministero di Grazia e Giustizia (Bari, 2 - 3 luglio 1998). • “Teatro e Carcere:
l’esperienza della Compagnia della Fortezza” - conversazione con P. Giacchè e
Armando Punzo, in collaborazione con l’E.T.I. (Volterra, 21 luglio 1998). •
Ciclo di incontri organizzati dall’Istituto Sardo per la Storia della
Resistenza e dell’Autonomia (ottobre-dicembre 1998) “Rivelazioni e promesse del
‘68”; relazione su “Il ‘68 e il teatro” (Cagliari, 20 novembre 1998). • “La
magia del leggere”, Corso di aggiornamento per insegnanti e genitori della
Scuola Elementare “Ciro Menotti”, Villanova di Modena (26 marzo 1999). • Corso
di aggiornamento per insegnanti delle scuole elementari del comprensorio Valle
Umbria (Foligno, 23 aprile 1999). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della
Compagnia della Fortezza”, nel quadro di “Maggio cercando i teatri” organizzato
dall’E.T.I. (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1999). • “Il verso dannunziano e il
concerto d’autore”, seminario con A. Asor Rosa, C. Bene, P. Giacchè (Roma,
Teatro dell’Angelo, 24 novembre 1999). • Ciclo di incontri “La parte dello
spettatore” (relatore del 1° incontro – Faenza, 22 gennaio 2000). • Corso Uni
Tea 2000, “Il teatro come disagio antropologico” (Parma, 27 gennaio 2000)
6 • “Divenire teatro”, incontri su Antonin Artaud organizzati dal Centro
Teatro Universitario di Ferrara. Relatore del 3° incontro: “Artaud fatto Bene”
(Ferrara, 17 aprile 2000). • “Politica e società nel 2000”, ciclo di incontri
di formazione politica (Roma, aprile – giugno 2000). Relatore del 5° incontro:
“Minoranze e movimenti nell’Italia del dopoguerra”, insieme a G. Fofi (Roma, 29
maggio 2000). • “Incontri in scena. Per un’indagine sull’antropologia
dell’infanzia” (Vicenza, Teatro Astra, 20 ottobre – 24 novembre 2000),
organizzati dalla compagnia “La Piccionaia – I Carrara” con la collaborazione
dell’Università di Cà Foscari di Venezia. Relatore del 2° incontro:
“Antropologia dell’infanzia” “L’utopia del teatro vivente. Living Theatre”
(Siena, 7 marzo 2001), nel quadro di incontri organizzati dall’Università degli
studi di Siena attorno ai “Cinque sensi del teatro. Cinque trasmissioni
monografiche sulla filosofia del teatro” (Rai-Pontedera Teatro). • “Strumenti
innovativi per favorire l’inclusione sociale”, lezione inaugurale (“Altro è
narrare”) del corso organizzato dal Centro Solidarietà di Modena (CEIS) e da
Emilia Romagna Teatro (Modena, 19 ottobre 2001). • Giornate di studio per
l’inaugurazione della sezione di ricerca “Créations, Pratiques, Publics”,
presso la Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (St. Denis, 23 – 23 maggio
2002). • Conferenza sul Living Theatre, nel quadro del seminario “Maestri del
‘900. Gli uomini e le idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo”
organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 28 gennaio 2003). •
Conferenza su Carmelo Bene o delle provocazioni del genio, nel quadro del
seminario “Maestri del ‘900. Gli uomini e le idee che hanno fatto la storia del
teatro contemporaneo” organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine,
13 febbraio, 2004). • “Le risorse della diversità”, seminario organizzato da
Proteo Fare Sapere e dal Movimento Cooperazione Educativa (Firenze, Educandato
SS. Annunziata). • Corso per attrici “Il corpo del testo”, organizzato da
Emilia Romagna Teatro Fondazione; docente di Elementi di antropologia e cultura
del teatro e spettacolo (30 ore di Antropologia del Teatro nel biennio
2004-2005). • Seminario sulle “Quattro lezioni sul teatro” di Carmelo Bene,
organizzato dalla Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene” e dall’Università
di Lecce (Lecce, 19 marzo 2004). 7 • Dimostrazione-conferenza “L’attore
compositore: Mejerchol’d e la biomeccanica teatrale”, organizzata dal Centro
Internazionale Studi Biomeccanica Teatrale (Perugia,. • Quattro giornate di
lavoro teatrale: incontri, dimostrazioni di lavoro, spettacoli Pontedera,
Teatro di via Manzoni), nel quadro di “Generazioni Festival 2004”,
organizzazione e cura della Fondazione Pontedera Teatro. • Seminario dell’Ecole
des Hautes Etudes en Sciences Sociales, “Carmelo Bene. Voir la voix, écouter le
visible”, coordinato da B. Filippi e G. Careri (Parigi, Institut National
d’Histoire de l’Art, 8 novembre – 20 dicembre 2004); comunicazione Le Sud du
Sud des Saints,, 15.11.04. • “Teatro in forma di libri”, incontri organizzati
dal Teatro Due Mondi – Casa del Teatro (Faenza, novembre-dicembre 2004). •
“Arte dello spettatore”.Corso di formazione per insegnanti, organizzato dal
Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore (Perugia, Teatro Sant’Angelo,
novembre 2004 – aprile 2005). • Seminario orientativo sul settore spettacolo,
organizzato dalla Fondazione Emilia- Romagna Teatro nel quadro della Laurea
specialistica “Progettazione e gestione di attività culturali” della Facoltà di
lettere e filosofia dell’Università di Modena (lezione del 17.3.2005). •
Seminario di studio nel quadro della Mostra “Carmelo Bene. La voce e il
fenomeno. Suoni e visioni dall’archivio”, organizzato dalla Fondazione
L’Immemoriale e dal Comune di Roma (Casa del Teatri-Villino Corsini, 29 aprile
– 26 giugno 2005); comunicazione L’ultimo Bene. La verticalità del verso,
7.5.05. • Incontro seminariale “Parole chiave per il teatro” (Lecce, 22 ottobre
2005), organizzato dai Cantieri teatrali Koreja. • “Un’antropologia della
memoria” Conferenza dibattito sul libro di C. Severi Il percorso e la voce
(Perugia, Palazzo dei Priori, 23 novembre 2005). • Corso “Salute mentale,
Antropologia e Teatro: confronto su un’esperienza di pratica laboratoriale” (Perugia,
Parco di S. Margherita, Padiglione Neri, 13.12.2005), organizzato dal Centro di
Formazione della ASL 2 di Perugia. • “Pasolini antropologo” (Gubbio, Biblioteca
Comunale Sperelliana, 17 dicembre 2005), nel quadro del ciclo di incontri
“Pasolini e la nuova barbarie. Conversazioni su un testimone del nostro tempo”
organizzato dal Comune di Gubbio (dicembre 2005 – aprile 2006). • “Atelier
intensif S.P.O.T. (Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre)”, organizzato nel quadro
del Master Europeen conjoint en Etude du spectacle vivant, coordinato
dall’Université Libre de Bruxelles e organizzato dalla Universitad de La Coruña
- Spagna (6 – 18 febbraio 2006); docente di un corso di 15 ore di Antropologia
teatrale. 8 • “Teatro come impegno civile”, seminario-incontro con Marco
Paolini organizzato dai Cantieri Teatrali Koreja (Lecce, 10 giugno 2006) •
Laboratorio di ricerca interdisciplinare – Quello che ci fa la vita che
facciamo, nel quadro del “50° Seminario di Louis Chiozza”, organizzato
dall’Istituto di Psicosomatica “Aberastury” e dalla Scuola di specializzazione
in Psicoterapia psicoanalitica di Perugia (Città di Castello, Palazzo Vitelli,
22 febbraio 2007). • “Quadri concettuali per l’analisi del sistema cultura –
Seminari di studio”, organizzati dalla Fondazione Mario Del Monte di Modena
(febbraio – aprile 2007); comunicazione su L’antropologia e il “teatro” della
cultura (Modena, Teatro delle Passioni, 29 marzo 2007). • “L’ultimo Bene”,
conferenza-lezione nel quadro delle attività didattiche speciali della Fondazione
Accademia di Belle Arti di Perugia (Perugia, 17 maggio 2007). • Seminario di
studio “Economia della cultura, sviluppo umano e politiche culturali”, a cura
del CAPP (Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche), Modena, ottobre 2007-
gennaio2008; comunicazione su La domanda di teatro. Una prospettiva
antropologica (Modena, Facoltà di Economia, 17 dicembre 2007). • S.P.O.T. II
(Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre) “Espectàculos y dialogo entre culturas: La
adaptacioòn y la escena”, organizzato nel quadro del Master Europeen conjoint
en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de Bruxelles e
organizzato dalla Universitad de Sevilla - Spagna (28 gennaio – 8 febbraio
2008); docente di un corso di 8 ore di Antropologia del teatro e dello spettacolo.
• Laboratorio Interculturale di Pratiche Teatrali (III edizione in
collaborazione con l’International School of Theatre Anthropology, organizzata
dal Teatro Potlach, Fara Sabina (Rieti), 13 – 26 ottobre 2008); comunicazione
su L’antropologia dello spettatore, 14.10.08. • Seminario – Convegno “Omaggio a
Carmelo Bene” (Centro Teatro Ateneo – Dipartimento Arti e Scienze dello
Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di Roma, 12 – 14 novembre 2008);
Prologo al seminario e comunicazione dal titolo A scuola da Bene, 12.11.08. •
“Il potere di tutti. Conversazione su Aldo Capitini” (Perugia, Sala Miliocchi,
14 febbraio 2009), organizzata dall’Associazione “Vivi il borgo”, dalla Società
Operaia di Mutuo Soccorso e dalla Fonoteca Regionale “O. Trotta”. • Giornata di
studi “La religione dell’educazione. Don Milani e Aldo Capitini”, organizzata
dalla L.U.M.S.A. di Roma, Facoltà di Scienze della Formazione (Roma, Aula “Edda
Ducci”, Piazza delle Vaschette, 1° aprile 2009). • Seminario “Migrazioni.
Prospettive etnografiche sullo Stato italiano”, organizzato dal Dipartimento
Uomo & Territorio – sezione antropologica (Perugia, Facoltà di Lettere e
Filosofia, Palazzo Manzoni, 16 aprile 2009). 9 • “Voler Bene al cinema.
Omaggio a Carmelo Bene” (Bellaria, Cinema Astra, 4 giugno 2009), nel quadro di
“Bellaria Film Festival 2009. • Seminario interdisciplinare su: “Grotowski e la
ricerca invisibile” (Perugia, Istituto Aberastury, 20 giugno 2009. • “Bruciare
la casa“, incontro-colloquio con Eugenio Barba (Isola Polvese (PG), 8 settembre
2009), nel quadro di “Terre di confine. Lo spazio del teatro”, progetto a cura
di Linea Trasversale. • Séminaire doctoral collectif - Centre d'Etudes
Féminines et d’Etudes de Genre/ CRESPPA-GTM : « Théâtre du genre : production,
performance, spectacle » (Parigi, CNRS , 4 dicembre – comunicazione su
“Travestissement à théâtre: masculin, féminile ou neutre? “). • Séminaire
“SPACE-Supporting Performing Arts Circulation in Europe “- Session Paris (ONDA,
Paris, 3 – 6 février 2010), Comunicazione “Europe Toolbox: quelle boîte pour
quels outils?” • “Cinema e teatro non si incontrano mai, se non all’infinito”
(Bergamo, 17 febbraio 2010) incontro seminariale nel quadro de “Il teatro vivo.
Introduzione al teatro contemporaneo: Corso di Alti Studi Teatrali – XI
edizione, 2009-2010”, organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo. • “La Festa
nelle culture dei popoli: criteri di autenticità” (Gubbio, 19 marzo 2010), nel
quadro del ciclo di incontri “La Festa nella Festa dei Ceri”, per la
celebrazione del 850° anniversario della morte di S. Ubaldo. • Introduzione e
partecipazione al XI Seminario Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury su
“La vocazione minoritaria”, condotto da G. Fofi (Perugia, 14 maggio 2010). •
Incontro seminariale su “Lo spettatore partecipante” nel quadro del progetto
“Paesaggio con spettatore” a cura di R. Vannuccini e organizzato da ArteStudio
per il Festival dei Due Mondi – Spoleto 53 (Spoleto, Palazzo Comunale, 25
giugno 2010). • Coordinatore del IX Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto
Aberastury “Dialogo con Sctutatori d’anime di Carlo e Rita Brutti” (Assisi, 23
febbraio 2011). • Incontro-conversazione “Radicalism: Piergiorgio Giacchè
speakes about Carmelo Bene with Dora Garcia” (Venezia, Padiglione Spagnolo
della Biennale Arte, 4 giugno 2011), nel quadro della performance THE
INADEQUATE: ogni giorno un artista in scena (Padiglione spagnolo, 54th
International Art Exibition – Venice Biennale, 1 giugno - 27 novembre 2011). •
Relatore e conduttore del XIII Seminario Interdisciplinare dell’Istituto
Aberastury su “L’anima del mondo viene prima del mondo dell’anima? (Perugia, 11
giugno 2011). • Dialogo teatrale – incontro tra un antropologo e un avvocato su
Teatro Trattamento Carcere, nel quadro di “Stanze di teatro in carcere 2011.
Rassegna intinerante di Teatro Carcere in Emilia Romagna” (Modena, Teatro delle
Passioni, 29 ottobre 2011). 10 • “La congiura della creatività”,
seminario pubblico con P. Giacchè e R. Sacchettini, organizzato dal collettivo
Nevrosi (Agliana, PT, Teatro Il Moderno, 28 gennaio 2012). • Incontro con Marc
Augè in dialogo con Piergiorgio Giacchè, organizzato dal Circolo dei lettori di
Perugia (Perugia, Sala dei Notari, 29 marzo 2012). • Incontro con Piergiorgio
Giacchè e Giuseppe Di Leva (Piccolo Teatro Grassi di via Rovello, Milano, 12
luglio 2012), nel quadro di “Visioni di Bene. Voce, teatro, cinema, televisione
secondo Carmelo”, Milano, 12 – 15 luglio 2012. • “Memorie del sottosuolo. Il
teatro raccontato da spettatori speciali: Piergiorgio Giacchè su Carmelo Bene”
(Giardino del MUSAS, Santarcangelo di Romagna, 13 giugno 2012), nel quadro di
Santarcangelo 12 – Festival Internazionale del Teatro in Piazza – 13-22 luglio
’12. • “Raduno degli artisti della scena: Punctum e tempo, dalla fotografia
alla scena”, incontro seminariale a cura di Claudio Morganti, organizzato dal
Teatro Metastasio Stabile della Toscana, nel quadro del festival “Contemporanea
12: le arti della scena” (Prato, spazio Magnolfi, 6 ottobre 2012). •
Incontro-Lezione – TITOLO - per il seminario residenziale Università Elementare
de Gli asini nel quadro di “Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia
aprile 2014) • Seminario su “La parabola dell’animazione teatrale” nel quadro
della seconda edizione della Summer School di Arti performative e Community
care (Carpignano Salentino, 20 – 29 agosto 2013). • Incontro con Piergiorgio
Giacchè e Alessandro Leogrande condotto da Giovanna Casadio, intitolato Vizi
privati e pubbliche virtù, nel quadro della decima edizione del “Festival
Lector in fabula: Privato, Pubblico, Comune” Conversano, 11-14 settembre 2014
(Conversano, BA, Auditorium di San Giuseppe, 12 settembre 2014). • Conferenza
Orizzonti e vertici del “viaggio del teatro” nel quadro della XVII edizione de
“IL TEATRO VIVO. Progetto di promozione e diffusione del teatro contemporaneo”,
organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo (Bergamo, 5 dicembre 2014). •
Conferenza Dal Living Theatre all’Odin Teatret, nel quadro di “Effetti
collaterali. Ciclo di incontri per la formazione degli operatori e del
pubblico”, organizzato dal Teatro di Sacco di Perugia (Perugia, Sala Cutu, 18
dicembre 2014). • Incontro-Lezione “Essere giovani, essere attori” (Pistoia,
Piccolo Teatro Mauro Bolognini, 11 aprile 2015) per il seminario residenziale
Università Elementare de Gli asini “La cultura di massa dall’emancipazione
all’alienazione”, nel quadro di “Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia
9-12 aprile 2015). • Corso residenziale “Si deve, si può. Ruolo delle minoranze
etiche tra globale e locale” - primo modulo Dove va il nondo? Analisi del
presente: il globale e il locale (Lamezia Terme, 3-4-5 luglio 2015); Progetto
Spring organizzato dalla Comunità Progetto Sud in collaborazione con le riviste
Gli asini e Lo straniero. Relazione: “La mutazione antropologica: dal locale al
globale e ritorno”. 11 • Corso di formazione per docenti presso
l’Istituto Omnicomprensivo “D. Alighieri” di Nocera Umbra (PG): intervento
formativo di due ore sul tema “Giovani Oggi” (1° aprile 2016). • Corso d
formazione per docenti “Teatro come cultura delle differenze”, organizzato dal
1° Circolo didattico di Marsciano (PG) e dal Teatro Laboratorio Isola di
Confine; conferenza “A scuola da Pinocchio” (Marsciano, Sala E. De Filippo, 14
giugno 2016). Curatore e ideatore dei seguenti progetti o seminari speciali: •
“La casa de l’Odin”, Ciclo di conferenze sulla cultura teatrale e
sull’antropologia del teatro (Valencia, Barcellona, Castellon e Madrid, marzo -
aprile 1983). • “Apriamo un salotto: appuntamenti di restaurazione culturale” -
tre cicli di conferenze sulle attività e sulla politica culturale (Perugia,
marzo - giugno 1984). • “Storia & Geografia. Corso effimero di educazione
permanente” - cinque incontri dedicati a Gabon, Germania, Iran, Argentina e
Umbria, per favorire l’integrazione degli studenti stranieri (Perugia, febbraio
- maggio 1985). • “La parte dell’altro. Teatro ed esperienze antropologiche” -
ciclo di conferenze e seminario conclusivo con E. Barba (Perugia, febbraio -
aprile 1989). • “Altro e Teatro” - ciclo di conferenze e relazioni di ricerca
sugli ambiti contigui al teatro (Perugia, febbraio - maggio 1990). • “L’età
dell’oro. Per un teatro giovane” - incontri e discussioni fra giovani gruppi
teatrali (Parma, 17 - 20 aprile 1994). • “Il primo giorno. Scuola di teatro a
scuola” - convegno/laboratorio sul rapporto tra il teatro nella didattica
scolastica e la pedagogia del teatro (Parma, 5 - 8 novembre 1997). •
Coordinatore del seminario “L’infanzia ritrovata. Lo sguardo dell’artista nel
presente che muta” (Parma, 14 gennaio - 25 marzo 1999), all’interno del Corso
Uni-Tea 1999. • Coordinatore del seminario laboratorio “Curare gli affetti. Il
teatro come legame sociale. Un percorso tra luoghi e non luoghi” (Parma, 27
gennaio – 6 aprile 2000), all’interno del Corso Uni-Tea 2000. • Curatore
(assieme a G. Fofi) del ciclo di incontri “L’arte contro lo stato. Lo stato
delle arti” (Santarcangelo di Romagna, 8 – 16 luglio 2000), nel quadro del XXX
Festival “Santarcangelo del Teatri”. • Curatore (assieme a F.Orlandi) del Corso
di aggiornamento per insegnanti della Scuola Media Superiore “Oralità,
Narrazione, Teatro: In Principio era il verbo”, organizzato da Emilia Romagna
Teatro – Fondazione (Modena, Teatro delle Passioni, 26 gennaio – 23 marzo
2006). • Curatore (assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontri video
spettacoli con il Teatro delle Albe”. (Spello, Palazzo Comunale e Teatro
Subasio, 16 – 17 maggio 2006), organizzato dal Teatro stabile di innovazione
“Fontemaggiore” di Perugia. 12 • Coordinatore (assieme al prof. L. Mango)
del Laboratorio di osservazione dello spettacolo contemporaneo, nel quadro del
Festival Internazionale ESTERNI (Terni, 20 – 30 settembre 2006). • Curatore
(assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontro con Santagata o
Morganti” (Terni, Officine Ex-Siri, 22 – 25 settembre 2007), organizzato dal
Teatro stabile di innovazione “Fontemaggiore” di Perugia nel quadro del
festival Es-Terni 2007. • Ideatore e curatore di “Bene Detto. Oratorio e
Laboratorio sull’arte di Carmelo Bene” (Oratorio: Mondaino (RN), 1° settembre
2009 – Laboratorio: Mondaino (RN) luglio 2010), organizzato da L’arboreto.
Teatro Dimora, con la collaborazione dell’Ass. Liminalia di Perugia e di B.
Filippi e S. Pasello. • “I tagli e le ferite. La poetica della politica e
viceversa”, Incontro con gli artisti italiani nel quadro di “Vie. Scena
contemporanea festival”, organizzato dall’E.R.T. (Modena, Biblioteca Delfini,
16 ottobre 2010). • Curatore e conduttore del meeting “Per Ora Labora” sulla
condizione lavorativa dell’attore teatrale, nel quadro del Cantiere delle Arti
(Modena, Biblioteca “Delfini”, 15 ottobre 2011). • Ideatore e curatore di
“InizioAzione.Vacanze scolastiche per allievi attori delle scuole di teatro”
(per una ricerca sulla motivazione teatrale), nel quadro del Festival VIE 2012
dell’E.R.T. (Rubiera, Corte Ospitale – Modena, Biblioteca “Delfini”, 25 – 28
maggio 2012). • Curatore e coordinatore dei sei incontri del
seminario-laboratorio “Il grande attore e il piccolo spettatore” a cura del
Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia e del Dipartimento Uomo e
Territorio – sezione antropologica – dell’Università degli studi di Perugia
(Perugia, Teatro Brecht, 7 marzo – 2 maggio 2013). • Curatore di “Autocritica”,
quattro incontri fra critici e attori per il Cantiere delle Arti, nel contesto
di Vie Scena Contemporanea Festival 2013 (Modena, Biblioteca “Delfini”, 23
maggio – 1 giugno 2013). • Curatore e coordinatore del laboratorio per
spettatori “Piccolo pubblico”, organizzato dal Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore
di Perugia nell’occasione delle repliche degli spettacoli del Progetto
Interregionale di promozione dello spettacolo dal vivo “Teatri del presente”
(Teatro Brecht di Perugia e Teatro Clitunno di Trevi, novembre e dicembre
2013). • Curatore e direttore scientifico de “Il Centro della Visione. Per
un’accademia dello spettatore”, progetto organizzato da Kilowat Festival a
Sansepolcro (AR), dal dicembre 2013 a luglio 2014. • Ideatore e curatore del
progetto “Verso Capitini, per un Colloquio corale”, prodotto dal Teatro Stabile
d’Innovazione “Fontemaggiore” di Perugia (da aprile 2014 ancora in corso: prima
sessione presso il Teatro Drama di Modena 17-18-19 ottobre 2104; seconda
sessione presso il Teatro Brecht di Perugia 23 dicembre.2014). 13 •
Ideatore e curatore del convegno “Il teatro della critica” (Pistoia, 14 e 15
novembre 2015), organizzato dal Centro Culturale “Il Funaro” e
dall’Associazione Teatrale Pistoiese. CONVEGNI • Convegno su “L’Italia e
l’Umbria dal Fascismo alla Resistenza: problemi e contributi di ricerca”
(Perugia, 5 - 7 dicembre 1975). • Convegno internazionale su “Droga. Dalle
esperienze ad una proposta concreta. Aspetti terapeutici, sociali e
legislativi” (Firenze, 14 - 17 aprile 1980). • Incontro seminariale “Musica,
Possessione, Spettacolo” (Greve in Chianti, Firenze, 15 - 17 maggio 1981). •
Seconda sessione dell’I.S.T.A. - International School of Theatre Anthropology
(Volterra, 8 agosto - 6 ottobre 1981). • Convegno di studi su “Improvvisazione
e spettacolo” (Firenze, 21 ottobre 1981). • Convegno di studi su “Vedere ed
essere visti” (Volterra, 26 - 28 febbraio 1982). • Convegno di studi su “Come
si potrebbe vivere. Corpo e linguaggio” (Vicenza, 22 maggio - 4 giugno 1982). •
Giornate della cultura e della partecipazione (Barcellona, 17 - 18 giugno
1983). • Convegno di studi su “Elogio dei fiori: tecniche personali e
creatività” (Volterra, 9 - 11 dicembre 1983). • Mostra-Convegno “Spoleto come
titolo” (Spoleto, 7 - 9 marzo 1985). • Simposio “Le maître du regard”, nel
quadro della terza sessione dell’I.S.T.A. (Paris, Malakoff, 20 - 21 aprile
1985). • “Incontri di lavoro con Richard Schechner” (Pontedera, 24 - 26 aprile
1985). • Convegno-seminario su “Cosa narrare e come narrare” (Bellaria-Igea
Marina, 29 - 30 luglio 1985). • Convegno Nazionale di Psichiatria “Crisi e
costruzione delle conoscenze” (Massa, 4 - 6 ottobre 1985). • Convegno “Le forze
in campo. Per una nuova cartografia del teatro” (Modena, 24 e 25 maggio 1986).
14 • Quarta sessione dell’I.S.T.A. - “Il ruolo della donna nel teatro
delle diverse culture” (Hostelbro, 17 - 22 settembre 1986). • Convegno
Nazionale di Antropologia delle società complesse (Roma, 27 - 30 maggio 1987).
• Quinta sessione dell’I.S.T.A. - “Tradizione dell’attore e identità dello
spettatore. Dialoghi teatrali” (Otranto, 1 - 14 settembre 1987). • Convegno su
“Teatro e Emergenza. Quattro incontri” (Bologna, 11 - 13 dicembre 1987). •
“Natura e buongoverno del teatro. Convegno Nazionale per il rinnovamento della
scena italiana” (Milano, 20 e 21 ottobre 1988). • 1° Encuentro de Artes
Escenicas sobre perspectivas, necesidades, metodos, limitaciones y alternativas
para la investigacion y esperimentacion (Mexico D. F., 23 - 26 gennaio 1989). •
Convegno su “La presenza misconosciuta. Nuovi progetti di teatro” (Frascati, 17
- 19 marzo 1989). • Giornate di studio su “Grotowski, la presenza assente”
(Modena, 6 e 7 ottobre 1989). • 2° Congresso Mondiale di Sociologia del Teatro
(Bevagna, 27 - 29 ottobre 1989) • Seminario Internazionale “A la recerca d’un
espai teatral contemporani” (Olot - Catalunya, 28 - 30 giugno 1990). • Sesta
sessione dell’I.S.T.A. - “Università del teatro euroasiano. Tecniche della
rappresentazione e storiografia” (Bologna, 28 giugno - 18 luglio 1990). • XIIth
World Congress of Sociology (Madrid, 9 - 13 luglio 1990). • Convegno di
fondazione di “Mantis. Centro per la ricerca sui linguaggi del comportamento
funzionale” (Palermo, 15 e 16 dicembre 1990). • Convegno su “Culture immigrate
e teatro in Europa. Analisi dei fenomeni interattivi fra culture immigrate e
culture europee” (Bologna, 16 novembre 1991). • Seminario-convegno della
Università del Teatro Euroasiano (Padova, 7 e 8 marzo 1992). • Convegno
internazionale su “Teatro Europeo: quali percorsi formativi” (Torino, 14 - 17
maggio 1992). • 3° Congresso Internacional de Sociologia do Teatro (Fondazione
Gubelkian, Lisbona, 30 ottobre - 2 novembre 1992). • Convegno su “La piazza
nella storia. Eventi, liturgie, rappresentazioni” (Università di
Salerno-Fisciano, 9 - 11 dicembre 1992). • Seminario-convegno della Università
del Teatro Euroasiano - “Drammaturgie parallele” (Fara Sabina, 21 - 30 maggio
1993). • Giornate di incontri e di studi “Per Carmelo Bene” (Perugia, 13 - 16
gennaio 1994). • 1° Congresso Nazionale “L’antropologia e la società italiana”
(Roma, 28 - 30 aprile 1994). 15 • Convegno “L’identità collettiva e la
memoria storica: un confronto tra Italia e Polonia”, organizzato
dall’Ambasciata d’Italia e dall’Università di Varsavia (Varsavia, 16 – 18
giugno 1994). • Convegno di studi su “L’altra via dell’intelligenza. Teatro e
valore” (Terza Università di Roma, 11 e 12 ottobre 1994). • 1° Convegno Europeo
Teatro e Carcere - “Immaginazione contro emerginazione” (Milano, 21 - 23
ottobre 1994). • Convegno su “I sommersi e i salvati. Come, perché, dove e per
chi fare teatro?” (Terza Università di Roma, 4 e 5 marzo 1995). • Convegno
internazionale per la fondazione del Centre International d’Ethnoscènologie
(Paris, 3 - 4 maggio 1995). • Convegno su “Pacifismo, disobbedienza civile,
obiezione di coscienza: il ruolo della Comunità di Capodarco” (Lido di Fermo,
13 - 14 maggio 1995). • Congresso Europeo della Biennale Théâtre Jeunes Publics
- “Pourquoi aller au théâtre aujourd’hui?” (Lyon, 3 - 5 giugno 1995). •
Convegno su “Teatro antropologico e Antropologia teatrale” (Scilla, 25 giugno
1995). • Convegno su “Tradizione e modernità al sud” (Gallipoli, 14 agosto
1995). • Convegno Internazionale su “Teatro e Scuola: Università ed Educazione
al Teatro” (Roma, 18 - 19 ottobre 1995). • Convegno “Teatro e Scuola fra
espressività e percezione” (Modena, 15 - 16 novembre 1996). • 5ème Congres
International de Sociologie du Théâtre (Mons, 20 - 23 marzo 1997). • Convegno
Nazionale su “Arte del narrare, arte del convivere. Incontro tra immigrati,
educatori e artisti narratori” (Palermo, 3 - 5 aprile 1997). • Convegno di
studio “Creativi si nasce? Teatro e creatività nei possibili percorsi della
riforma scolastica” (Palazzolo sull’Oglio - BS, 16 - 17 ottobre 1997). •
Convegno su “Le letterature popolari. Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti
teorico- metodologici” (Fisciano e Ravello - Università di Salerno, 21 - 23
novembre 1997). • Convegno su “Il gioco del teatro. L’animazione trent’anni
dopo” (Torino, 21 - 22 aprile 1998). • Convegno “Processo federalistico delle
istituzioni meridionali e mediterranee” (Messina, 24 aprile 1998). •
Convegno-Seminario “Carmelo Bene e Gabriele D’Annunzio. Sulla verticalità del
verso” (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Acting, Life, and Style”,
convegno per un progetto internazionale di ricerca organizzato dall’Italienska
Kulturinstitutet “C.M. Lerici” e dal Teatervetenskapliga Institutionen della
Universitet Stockholms (Stoccolma, 9 - 13 settembre 1998). 16 • 3°
Convegno Europeo di Teatro e Carcere: “Verso il Duemila, il cammino di
un’utopia concreta” (Milano, 27 - 31 ottobre 1998), tavola rotonda su “Il
costringimento e il suo doppio” (30.10.98). • Convegno “Io sono la prima
attrice. Crocevia di esperienze tra teatro e handicap” (Milano). • Convegno “Un
teatro per domani”, all’interno della X edizione di Galassia Gutemberg Mostra
mercato del libro e della multimedialità (Napoli, Mostra d’Oltremare, Galleria
Mediterranea, 21 febbraio 1999). • Convegno di studio per dirigenti e docenti
della scuola “Il Corpo - la Macchina tra avventura, traduzione, mistero”
(Calcinate, Bergamo, 21 - 22 maggio 1999). • Congresso “Le Corps du Théâtre. À
partir de la Méditerranée: organicité, contemporanéité, interculturalité”
(Bologna, 13 e 14 ottobre 1999), organizzato dalla Maison de Sciences de l’Homme,
Ente Teatrale Italiano e D.A.M.S. dell’Università di Bologna. • Encontro
Internacional de Novo Teatro para Crianças e Adolescentes – “Percursos” (Lisboa
– Portugal, Centro cultural de Bélem). • “Per un teatro popolare di ricerca”,
convegno organizzato da La Corte Ospitale (Rubiera, 23, 24 e 25 giugno 2000). •
Primo Convegno Internazionale di Studi “I teatri delle diversità e
l’integrazione” organizzato da Ass. Cult. Nuove Catarsi (Cartoceto –Ps, 14 – 15
ottobre 2000). • Convegno Internazionale “Intrecci tra Educazione Arte Natura
nella prospettiva della conversione ecologica” (Amelia, 29 marzo – 1 aprile
2001), organizzato dalla Casa Laboratorio di Cenci. • Giornate di studio e di
ricerca “I Sud e le loro Arti” (Arnesano, 6, 7 e 8 settembre 2001, organizzato
dal Comune di Arnesano (Le) e dall’Università di Lecce. • Convegno “Il cinema
al limite, al limite il cinema” (Perugia, 9 novembre 2001), organizzato da
Batik-Perugia Film Festival. • “Ho sognato che vivevo. Teatri della
trasformazione e dell’esclusione. Esperienze di teatro con protagonisti non
comuni (pazienti psichiatrici, carcerati, portatori di deficit, immigrati) a
confronto con studiosi e amministratori”, (Arena del Sole, Bologna) convegno
organizzato dall’Azienda USL Bologna Nord e dalla Regione Emilia-Romagna. •
Convegno di Studi “Antropologia e poesia” (Fisciano-Ravello, 2 – 4 maggio
2002), organizzato dall’Università degli studi di Salerno e dall’A.I.S.E.A.-
Sezione di Antropologia e letteratura. • Convegno “Per un nuovo Teatro in
Italia e in Europa” (Roma, Teatro Valle, 16 e 17 maggio 2002), organizzato
dall’Ente Teatrale Italiano nel quadro di “Cercando i teatri 2001-2002”.
17 • Convegno “Residui illimitati” (Bergamo, Chiesa di S.Agostino, 21
giugno 2002), organizzato da Il Teatro Prova nel quadro del festival “Non
voglio perdere la meraviglia. Teatri e arti tra diversità e alterità”. •
Convegno Internazionale “Le arti del ‘900 e Carmelo Bene” (Torino, Galleria
Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 24 – 27 ottobre 2002), organizzato dalla
Regione Piemonte e dall’Organizzazione per la Ricerca in Scienze e Arti di
Torino. • Convegno Internazionale “Performing Through – Tradition as Research
at the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards” (Vienna, Theater des
Augenblicks, 28 – 29 giugno 2003. • Non solo per piacere. Pratiche teatrali.
Adolescenti. Giustizia. Convegno nazionale sulle esperienze di teatro con
minori in area penale interna ed esterna (Bologna, Maison Française, 28
febbraio 2003), organizzato dal Dipartimento Musica e Spettacolo
dell’università di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna e dal Centro Giustizia
Minorile per L’Emilia Romagna e Marche. • Colloque International
d’Ethnoscénologie (Parigi, Université Paris 8, 12 – 14 settembre 2005) •
Convegno “L’Attore”, organizzato da Primafila e InScena con il patrocinio delle
Segreterie di stato per il Turismo e gli Istituti Culturali – Repubblica di san
Marino (Sala SUMS, 23 e 24 settembre 2005). • Giornate di lavoro e di studio
nel quadro dell’Assemblea Generale di IRIS - Associazione Sud Europea per la
Creazione Contemporanea (Modena, Palazzo Comunale). Controscuola. Riflessioni
ed esperienze pedagogiche”, convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero”
(Roma, Museo di Roma in Trastevere, 4 – 5 febbraio 2006). • International
symposium on tracing roads across “Living Traces – Performing as a Shared
Reality” (in the occasion of the 20th Anniversary of the Workcenter of Jerzy
Grotowski and Thomas Richards), Teatro Manzoni, Pontedera – PI, 11 – 13 aprile
2006. • Convegno “Réécritures de Médée”, organizzato dal Centre de Recherche en
Etudes Féminines – Etudes de genre del’Université Paris 8 (Saint-Denis, Musée
d’Art et d’Histoire, 24 e 25 novembre 2006. • “Il disagio e chi se ne occupa.
Crisi dei sistemi educativi e di cura e prospettive dell’agire sociale”,
convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero” (Roma, Sala Civita, Piazza
Venezia, 1° Incontro su “Travestitismo e identità di genere nelle scienze della
recitazione” (Napoli, Galleria Toledo, 16 novembre 2007), organizzato dal
Dipartimento di Neuroscienze, Unità di Psicologia Cilinica e Applicata e dalle
Università degli Studi di Napoli Federico II , L’Orientale, Suor Orsola
Benicasa; comunicazione su Il teatro e l’alterità di genere. Il caso o
l’esempio di Carmelo Bene. 18 • 2° Convegno Regionale A.I.Fi Umbria su
“Le alterazioni posturali: dalla conoscenza alla coscienza riabilitativa”
(Trevi, Hotel della Torre, 1 marzo 2008), organizzato con la collaborazione
dell’Università di Perugia; comunicazione su Postura e cultura. Il corpo della
tradizione e il corpo della rappresentazione. • Convegno “Venti anni di teatro
della Compagnia della Fortezza – Per un teatro stabile in carcere” (Volterra,
Cortile principale del carcere, 21 e 22 luglio 2008) – coordinatore e relatore.
• Convegno internazionale “Il teatro che ho in testa. Per un festival di teatro
da sogno” (Ulassai e Jerzu, 8 – 9 agosto 2008), organizzato da Cada Die Teatro,
nel quadro di “Ogliastra Teatro, festival dei tacchi”. • Convegno “La frontiera
del teatro. Grotowski 30 anni dopo” (Milano, Teatro dell’Arte, 23 – 24 gennaio
2009), organizzato dal CRT Centro di Ricerca per il Teatro di Milano. •
Convegno “Teatro e Infanzia”, a cura di G. Fofi e M. Martinelli, organizzato
dal Teatro Stabile di Napoli e da Punta corsara (Scampia-Napoli, Teatro
Auditorium, 28 e 29 marzo 2009. • Journée d’étude “Modes et formes d’émergence
dans le théâtre” (Liegi, Belgio, 15 maggio 2009), organizzato, nel quadro del
progetto Prospero, dall’Université de Liège e dal Théâtre de la Place. • “Ricordando
Lévi-Strauss. Convegno di studi” (Macerata, 6 maggio 2010), organizzato dal
Centro Internazionale di Studi sul Mito e dall’Università di Macerata. •
Convegno seminariale “Chi è il prossimo?”, organizzato dalla rivista “Lo
straniero” nel quadro del 40° Festival Internazionale del Teatro in Piazza
(Santarcangelo di Romagna, Supercinema, XXXXX luglio 2010) • “Futuramente. 1°
Convegno intorno alla Creatività per le future generazioni” (Pontedera, Museo
Piaggio, 29, 30, 31 ottobre 2010), organizzato dall’ass. Libera Espressione e
dal Comune di Pontedera (PI). • Journée d’étude “Vous ne trouvez pas ça
tragique? – conversation publique sur l’art, l’esthétique et la politique”
(Tolosa, Francia, 15 gennaio 2011), organizzata dal Théâtre Garonne, nel quadro
di “In Extremis # 7”, 6 – 15 gennaio ’11. • “Una giornata con il Living
Theatre” – conversazione pubblica (San Sisto – Perugia, Teatro Bertolt Brecht,
27 marzo 2011) organizzata dall’UILT nel quadro della Giornata Mandiale del
Teatro. • Convegno Internazionale “Civiltà, culture, educazione. Le sfide della
società tardo- moderna alla pedagogia” (Aula Magna della Lumsa, Roma, 5 aprile
2011), organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione della LUMSA di
Roma. • Convegno seminariale “Un’idea di rivoluzione” , organizzato dalla
rivista “Lo straniero” nel quadro del 41° Festival Internazionale del Teatro in
Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, 16 luglio 2011). 19 • “Il
n’y a pas de révolution politique possible, s’il n’y a pas d’une révolution poétique”
– incontro internazionale e tavola rotonda sul rapporto tra pratiche artistiche
e mutazioni politiche nelle aree interessate dalla “primavera araba” (Terni,
Festival Internazionale della Creazione Contemporanea, Caos Area Lab,). •
Journée d’études “Potlach notionnel sur la performance. National potlach on
performance”, organizzata dall’E.H.E.S.S., dall’Université Paris
Ouest-Nanterre, dal Centre Edgar Morin e dal H.A.R. (Amphithéâtre François
Furet, 105 bld. Raspail, Paris – 29 maggio 2012). • Convegno internazionale
della Facultatea de Teatru si Televiziune – Universitatea Babes-Boyai di
Cluj-Napoca (Romania) “The Bad Spectator. Performing Arts between Construction
and Destruction / Le mauvais spectateur. Les arts du spectacle entre
construction et destruction”, organizzato dal gruppo di ricerca Istoria
Teatrului, Iconografie si Antropologie Teatrali a Cluj-Napoca (7 – 9 giugno
2012). • Seminario “L’esperienza del principio. Jerzy Grotowski, l’infanzia e
la rinuncia all’assenza” (Cenci-Amelia, 16 giugno 2012), nel quadro della
manifestazione “Sorgenti e torrenti. Omaggio a Jerzy Grotowski e al Teatro
delle sorgenti” organizzata dal Laboratorio di Cenci 15 – 17 giugno 2012. •
Convegno “Le théâtre et ses publics: la création partagée” - 2° Colloque International
du Projet Européen PROSPERO (Salle académique dell’Università di Liegi –
Belgio), organizzato dal Théâtre de la Place di Liegi e dell’Université de
Liège. • “Confusion de genres. Journées d’étude en l’honneur de Jean-Paul
Manganaro”, organizzato dall’Université de Lille 3, dall’Université Paris
Ouest-Nanterre-La Defense e dall’Università Italo Francese (Lille, 29 novembre
– 1° dicembre; Paris, 12 dicembre 2012). • Colloque International “D’après
Carmelo Bene” (Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art - Conservatoire
National Supérieur d’Art Dramatique - Cinéma du Panthéon), organizzato da HAR,
Université Paris Ouest-Nanterre, Labex Arts-H2H, Université Paris 8
Vincennes-Saint Denis, CNSAD, Dipartimento Uomo e Territorio dell’Università di
Perugia (in partenariato con Union des Théâtres de l’Europe e con Emilia
Romagna Teatro Fondazione). • Incontro sul tema “Memoria e Identità” (Gubbio,
Biblioteca Sperelliana, 23 febbraio 2013), organizzato dal Comune di Gubbio e
dal Lyons Club Gubbio Host. • “Teatro e nuovo umanesimo”, convegno nel quadro
della “Giornata per Claudio Meldolesi” (Bologna, Laboratorio delle Arti, 18
marzo 2013), organizzata dal Dipartimento delle Arti visive, performative,
mediali dell’Università di Bologna, con il patrocinio dell’Accademia dei
Lincei. 20 • Convegno Nazionale di Teatro educativo intitolato “Scrittura
e riscrittura. Da testo alla messa in scena – Esperienze a confronto”
(Avigliano Umbro, TR, 27 -28 aprile 2013). • 7° Colloque international
d’ethnoscénologie, organizzato da Maison des Cultures du monde, Université
Paris 8, Maison des Sciences de l’Homme Paris Nord (Paris, 21 -23 maggio 2013)
• Incontro sul tema “Ai confini della democrazia” (Roma, La Pelanda, 11
settembre 2013) organizzato dalle Edizioni dell’Asino nel quadro della rassegna
Short Theatre n. 8 intitolato “Democrazia della felicità” (Roma). • Convegno
Seminario “Intellettuali e riviste tra passato, presente e futuro” (Perugia,
Sala della Partecipazione del Consiglio regionale dell’Umbria, 17 settembre
2014). • Convegno sulla Rete Regionale dei Teatri (Modena, Teatro delle
Passioni, 27 novembre 2013), organizzato dalla Fondazione Mario del Monte e da
Emilia Romagna Teatro. • Convegno “La possibilità del teatro. Un incontro di
riflessione e confronto”, organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro
(Pontedera, PI, Teatro Era, 12, 13, 14 dicembre 2014). • Convegno “Il teatro
della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro
Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. RICERCHE ricerche
teoriche: • Il contesto sociale della criminalità e della devianza - “Le basi
strutturali dei processi di criminalizzazione” La solitudine abitativa come
fenomeno emergente (gennaio - ottobre 1980). • Riferimenti teorici ed
esperienze empiriche nella fondazione di una antropologia del teatro (1984 -
1988). • Cultura dell’attore nelle tradizioni teatrali euroasiatiche L’identità dello spettatore e i modelli di
fruizione del teatro (1988 - 1990). • Sociabilità, Relazionalità,
Spettacolarità (1990 - 1991). • Tecniche del corpo e azioni performative (1992
- 1993). • Studio per la realizzazione di uno spettacolo teatrale sul tema del
cooperativismo (dicembre 1993 - febbraio 1994). • Elements anthropologiques
dans le théâtre contemporain - nel quadro della partecipazione al Groupe
international de recherche interdisciplinaire “Spectacle vivant et sciences de
l’homme” - Maison de l’Homme, Paris (dal 1996 ancora in corso). • Il teatro e
la scuola: le funzioni pedagogiche del teatro e i corsi di formazione degli
operatori teatrali e degli insegnanti - nel quadro dell’attività dell’Uni-Tea,
progetto coordinato dall’Ente Teatrale Italiano. ricerche empiriche: • Gli
atteggiamenti nei confronti della devianza criminale e dell’istituzione
carceraria (ricerca condotta nel quartiere di P.ta Eburnea di Perugia - giugno
1974). • Le opinioni e gli atteggiamenti degli studenti dell’Istituto Tecnico
per Geometri di Perugia nei confronti della scuola e della condizione giovanile
(aprile - maggio 1976). • Indagine su tipologia e censimento degli organismi di
democrazia di base (ricerca per il Consiglio Regionale dell’Umbria, 1976 -
1977). • Ricerca sulla definizione e le caratteristiche della popolazione
“reale” (ricerca del C.R.U.R.E.S., marzo - maggio 1978). • Indagine
sull’ascolto radiotelevisivo in Umbria (ricerca del Comitato Regionale Umbro
per il Servizio Radiotelevisivo, maggio 1978 - ottobre 1979). • Ricerca sul
comportamento elettorale in Umbria attraverso l’analisi dei risultati delle
elezioni politiche ed europee del giugno 1979 (giugno - dicembre 1979). •
Indagine sull’esercizio e il mercato cinematografico in Umbria (ricerca
dell’Associazione Umbra per il Decentramento delle Attività Culturali, ottobre
1982 - marzo 1983). • Inchiesta sul teatro dialettale in Umbria (ricerca del
Centro Documentazione Spettacolo, settembre 1983 - aprile 1984). • Analisi dei
risultati delle elezioni amministrative del 1985 nel comune di Perugia (ricerca
del Comune di Perugia, giugno 1985 - aprile 1986). • Ricerca sulla memoria e
sulla identità dello spettatore (ricerca condotta in Salento per
l’International School of Theatre Anthropology, marzo- ottobre 1987). •
L’informazione televisiva in Umbria: i notiziari regionali (ricerca del
Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre 1987 -
giugno 1988). • Indagine sulle emittenti radiotelevisive operanti in Umbria
(ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre
1988 - settembre 1989). • Aspetti devozionali e spettacolari nelle feste
religiose patronali (ottobre 1996 – ottobre 2002). 22 • “In compagnia:
ricerca e analisi sulle opportunità di lavoro e di impiego nel settore
teatrale” (nel quadro dell’azione pilota “terzo settore e occupazione” promossa
dalla Commissione Europea D.G.V); ricerca coordinata da Emilia Romagna Teatro
con la collaborazione di “Amitié”, Taller de Investigaciòn de la Imagen
Teatrale di Madrid, Teatro delle Briciole, Teatro Festival, Thomas Consulting
Group (dal 15 dicembre 1997 al 15 dicembre 1998). • Ricerca empirica sulla
definizione e sulla’informazione e formazione dello spettatore, all’interno del
progetto “100 spettatori da adottare” organizzato dalla Fondazione Pontedera
Teatro e dall’ETI Ente Teatrale Italiano (aprile 2000 – aprile 2001). • “Il nuovo
attore nuovo” Osservatorio scientifico sulla pedagogia dell’attore di
innovazione, applicato al Progetto interregionale “Teatro – Percorsi di Alta
Formazione” organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro, dai Cantieri
Teatrali Koreja di Lecce e dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, in convenzione con
le rispettive Regioni (gennaio – giugno 2008). • Analisi documentale del
“Cantiere delle Arti” – un cantiere transnazionale per la creazione di percorsi
integrati connessi alla realtà produttiva del settore spettacolo dal vivo –
costituito da Emilia Romagna Teatro Fondazione, dalla Regia Accademia
Filarmonica e Musica e Servizio Cooperativa Sociale Sull’opera e il pensiero
degli antropologi Giulio Angioni. Tra antropologia e letteratura (recensione),
“Lo straniero Arte Cultura Società”, Bourdieu: l’autoanalisi di un maestro, “Lo
straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 70, aprile 2006, pp. 90 –
92. Postfazione alla parte quinta “Dimensioni della festa” in: T. Seppilli,
Scritti di antropologia culturale, (M. Minelli – C. Papa, curatori), 2 voll.,
Olschki Ed. , Firenze, 2008; vol. II – La festa, la protezione magica, il
potere, pp. 519 – 529. Lo sguardo lontano di Lévi-Strauss, “Lo straniero Arte
Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 116, febbraio 2010, pp. 106 - 109.
Lezione e monito dell’ultimo Baudrillard, “Lo straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, Sulla condizione e la subcultura giovanile: Dopo Licola, (in coll.
con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 17, nov. 1976, pp. 50 - 67. Il corpo e il
territorio, “Segno critico”, anno I, nn. 2 - 3, luglio - dicembre 1979, pp. 99
- 103. Una nuova solitudine. Vivere soli tra liberazione e integrazione, (in
coll. con P. Bartoli e S. La Sorsa), Savelli ed., Roma, 1981, 255 pp.
Protagonismo, narcisismo e consumismo, “Ombre Rosse”, n. 33, marzo 1981, pp. 13
- 21. Forza ragazzi, “Linea d’ombra”, anno IV, n. 13, febbraio 1986, pp. 8 -10.
Disagi giovanili, disagi senili, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II,
n. 8, autunno 1999, pp. 43 – 50. Il diavolo, sicuramente, “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, Lo studente quotidiano, “Gli asini. Educazione e
intervento sociale”, anno I, n. 3, novembre- dicembre 2010, pp. 10 – 19. La
Giovane Italia, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 7,
settembre- ottobre 2011, pp. 93 – 98. Un saggio Laffi sui giovani e i vecchi,
“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 166, aprile 2014,
pp. 30 – 34. Sulla devianza e la criminalità: La ricerca dei ricercati.
Sociologia dell’ordine pubblico, (in coll. con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n.
21, luglio 1977, pp. 85 - 95. 24 La organizzazione del consenso nel
regime fascista: la manipolazione ideologica della devianza criminale, (in
coll. con G. Baronti), “Studi e materiali di antropologia culturale”, n. 5,
Perugia, 1983, 33 pp. Sulla cultura meridionale: Mezzogiorno è già passato, in:
G. Fofi – A. Leogrande (curatori), Nel sud, senza bussola. Venti voci per
ritrovare l’orientamento, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2002, pp. 17 – 30
Sulla cultura politica e la politica culturale: Partiti e comportamento
elettorale. Analisi dei risultati delle elezioni del giugno 1789 in Umbria (in
coll. con A. Sorbini), Com.Reg.Umbro PSI, Perugia, 1980, 295 pp. Caro nome...,
in: AA.VV., A proposito dei comunisti, Linea d’ombra ed., Milano, 1990, pp. 49
- 64. La festa dell’albero. Come ri-nasce un partito, “Linea d’ombra”, anno IX,
n. 58, marzo 1991, pp. 16 - 20. Invenzione, diffusione e agonia dell’operatore
culturale, “Linea d’ombra”, anno XI, n. 88, dicembre 1993, pp. 13 - 17. Ebrei e
naziskin. I fatti e le notizie, in: A. Cavaglion (a cura di), Gli aratori del
vulcano. Razzismo e antisemitismo, Linea d’ombra ed., Milano, 1994, pp. 59 -
64. Il punto e la linea. Maggioranze, minoranze e critica della politica, “Linea
d’ombra”, anno XIII, gennaio 1995, n. 100, pp. 4 - 5. La cultura del
maggioritario, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n.
1, febbraio 1995, pp. 4 - 7. Una merce come le altre? La fiera del libro a
Torino, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 4,
giugno 1995, pp. 65 - 66. Laici ed eretici, “La terra vista dalla luna. Rivista
dell’intervento sociale”, n. 13, marzo 1996, pp. 15 - 16. A Perugia c’è cultura
da vendere , “L’indice”, anno XV, n. 10, novembre 1998, p. 50. Sull’industria
della coscienza: una questione di dettaglio , introduzione a: H.M.
Enzensberger, Questioni di dettaglio. Poesia, politica e industria della
coscienza , trad. di G. Piana, ediz. e/o, Roma, 1998, pp. 5 - 12. La parabola
del buon rettore, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 5, inverno
1998-99, pp. 56 – 60. L’età dello stagno , “Lo Straniero. Arte Cultura
Società”, anno II, n. 6, primavera 1999, pp. 150 - 159. Cosa ci tocca vedere,
“Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 7, estate 1999, pp. 58 – 63.
Il laico e il sacro, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, nn. 15-16,
primavera 2001, pp. 165 – 176. 25 Qualcosa è accaduto, “Lo Straniero.
Arte Cultura Società”, anno V, n. 17, settembre 2001, pp. 41 – 48. Il porto
dell’università, fra la nebbia e il miraggio, “Lo Straniero. Arte Cultura
Società”, anno VI, n. 21, marzo 2002, pp. 47 – 53. Toni, Bepi e san Francesco
(per tacere di sant’Agostino), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI,
n. 23, maggio 2002, pp. 24 – 27. (recensione) La sera del dì di festa, “Lo
straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 28, ottobre 2002, pp. Questo Papa
e quella guerra, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VII, n. 38-39,
agosto- settembre 2003, pp. 15 – 20. La controriforma e il doposcuola, “Lo
Straniero. Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 42-43, dicembre 2003 – gennaio
2004, pp. 120 – 124. Grande Papa, tanta gente, “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno IX, n. 60, giugno 2005, pp. 20 –22. La questione comica,
“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 65, novembre 2005,
pp. 10 –13. Il silenzio dei post-comunisti, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno X, n. 73, luglio 2006, pp. 10-14. Il viaggio di Francesco
Piccolo nei divertimenti di massa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno XI, n. 81, marzo 2007, pp. 106 –108. La mamma ha un
cuore verde. Un racconto di Rosa Matteucci (recensione),“Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 88, ottobre 2007, pp. 33 – 37. La
montagna elettorale, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società, anno XII, n.
94, aprile 2008, pp. 14 – 17. Il male minore, in: M. Bon Valsassina (curatore),
In fondo al male. Contributi e Iconografie sul Male, Futura ed., Perugia, 2008,
pp. 81 – 85. Universitas docet, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”,
anno XIII, n. 105, marzo 2009, pp. 24 – 28. Un pomeriggio tra le minoranze, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 110-111,
agosto-settembre 2009, pp. 161 – 165. Silvio, Umberto e i giovani d’oggi, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 112, ottobre 2009, pp.
18 – 23. La parte dell’arte, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno
XIV, n. 118, aprile 2010, pp. 93 – 104. (riedito in: P. Giacchè – V. Giacopini
– E. Morreale – N. Lagioia, Necessità e servitù della critica. Cosa cerca
l’arte? A che serve la critica?, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011, pp. 5 – 18).
Prefazione a: Carlo e Rita Brutti, Scrutatori d’anime. La psicoanalisi che
viene, Edizioni dell’Asino, Roma, 2010, pp. 5 – 19. Lo sciopero e la grève,
ovvero dalla Francia con stupore, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”,
anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 15 – 18. Il teatro del
prossimo, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127,
dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 48 – 52. 26 Teatro e politica
all’italiana: l’Attore e l’Assessore, “Gli asini. Educazione e intervento
sociale”, anno II, nn. 5 – 6, marzo/aprile – maggio/giugno 2011, pp. 161 -168.
Via col vento, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 133,
luglio 2011, pp. 33 – 37. Specchiarsi nelle vite degli altri. Un romanzo di
Emmanuel Carrère, (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno
XV, n. 136, ottobre 2011, pp. 44 – 46. Il maggio è francese, “Lo Straniero.
Arte Cultura Scienza Società”, anno XVI, n. 144, 2012, pp. 15 – 21. Ci fu una
volta la sinistra, ovvero il silenzio dei post-comunisti, Edizioni dell’asino,
Roma, 2013, 149 pp. La cultura e la politica, un atto unico in due tempi, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 153, marzo 2013, pp. 94
– 98. Indovinala Grillo!, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno
XVII, n. 154, aprile 2013, pp. 15 – 18. Fazio ovvero l’ultima volta della
tivvù, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 154, aprile
2013, pp. 71 – 76. L’università dei vavassini, “Gli asini. Rivista di
educazione e intervento sociale” (numero monografico su Valutazione e meritocrazia
nella scuola e nella società), anno IV, ottobre- novembre 2013, pp. 50 – 58. Il
niente che avanza, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n.
164, febbraio 2014, pp. 18 - 25. Il Giovane Renzi, “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno XVIII, n. 167, maggio 2014, pp. 35 – 39. I volontari
dell’ottimismo. Marino Sinibaldi riflette sulla cultura, “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, anno XVIII, nn. 170-171, agosto-settembre 2014, pp.
14 – 18. Sul pensiero e l’azione di Aldo Capitini Introduzione e cura del
volume: A. Capitini, Opposizione e liberazione. Scritti autobiografici, Linea
d’ombra ed., Milano, 1991 (riedizione con il titolo Opposizione e liberazione.
Una vita nella nonviolenza, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003). Al
servizio (civile) della coscienza, “La terra vista dalla luna. Rivista
dell’intervento sociale”, nn. 5 - 6, luglio-agosto 1995, pp. 18 - 19. Aldo
Capitini e l’obiezione di coscienza, “La terra vista dalla luna. Rivista
dell’intervento sociale”, n. 10, dicembre 1995, pp. 45 - 49. Introduzione e
cura del volume: A. Capitini, Liberalsocialismo, ediz. e/o, Roma, 1996.
L’obiezione è coscienza. L’insegnamento di Aldo Capitini, “Lo Straniero. Arte
Cultura Società”, anno V, n. 18, ottobre-novembre 2001, pp. 123 – 133.
Introduzione e cura del volume: La religione dell’educazione. Scritti
pedagogici di Aldo Capitini, Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari), 2008, 226
pp. 27 Capitini e i Perugini, “Studi Umbri”, n. 0, anno I, 2009,
(www.studiumbri.it) Cura –assieme a G. Fofi- del volume: A. Capitini, Agli
amici. Lettere 1947-1968, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011. L’importanza di
chiamarsi prete, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 9,
aprile/maggio 2012, pp. 6 – 11. Sulla cultura teatrale e la società dello
spettacolo: Il teatro delle esperienze, (in coll. con S. De Matteis), “Quaderni
di Teatro”, anno V, n. 20, maggio 1983, pp. 145 - 155. Diario scolastico del
sussidiario teatrale, “Scenascuola”, n. 1, giugno 1984, pp. 42 - 52. Un pugno
di terra. Conversazione con Eugenio Barba, “Linea d’ombra”, anno II, n. 12,
novembre 1985, pp. 36 - 46. Living memories. Ricordi del Living e memorie
viventi, “Teatro Festival (nuova serie)”, n. 1, dicembre 1985, pp. 4 - 9.
Antropologia culturale e cultura tetrale. Note per un aggiornamento
dell’approccio socio- antropologico al teatro, “Teatro e Storia” 4, anno III,
n. 1, aprile 1988, pp. 23 - 50. Una bùsqueda de “antropologia teatral” sobre la
identidad del espectator, “Repertorio. Revista de teatro”, nos. 9,10,11, agosto
1989, pp. 93 - 97. Memoire sociologique. Extraits de carnets d’une recherche
anthropologique sur “L’identité du spectateur”, “Buffonneries”, nn. 22 - 23,
1989, pp. 177 - 197. Teatro necesario y teatro suficiente, “Màscara. Cuadernos
Latinoamericanos de Reflexion sobre la Escenologia”, anno I, n. 2, gennaio
1990, pp. 105 - 108. Come lavorare in discesa. Ragionamenti e aggiornamenti sul
teatro “minore”, “Linea d’ombra”, anno VIII, n. 46, febbraio 1990, pp. 86 - 90.
Lo spettatore partecipante. Contributi per una antropologia del teatro, Guerini
e ass., Milano, 1991, 207 pp. Uno spettacolo prigioniero e un teatro libero,
in: M.T. Giannoni (a cura di), La scena rinchiusa. Quattro anni di attività
teatrale dentro il Carcere di Volterra, Tracce ed., Piombino, 1992, pp. 73 -
76. Introduzione all’identità dello spettatore. Una ricerca di antropologia del
teatro, “R.I.S.T. Revue Internationale de Sociologie du Théâtre”, n. 0, 1992,
pp. 12 - 19. Teatro e antropologia. Note su una “canoa di carta”, “Linea
d’ombra”, anno XI, n. 86, ottobre 1993, pp. 75 - 78. Una equazione fra
antropologia e teatro, “Teatro e Storia”17, anno X, 1995, pp. 37 - 64.
L’esplorazione antropologica e i “fines” del teatro, “Etnoantropologia”, nn. 3
- 4, 1995, Argo ed. Lecce, pp. 60 - 67. Nostalgia del teatro e simulazione
della piazza, in: D. Scafoglio - M. Vitale (a cura di), La piazza nella storia:
eventi, liturgie, rappresentazioni , Ed. scientifiche italiane, Napoli, 1995,
pp. 201 - 254. 28 Introduzione e cura del volume: AA. VV., Per
Carmelo Bene (Atti del convegno, Perugia, 14 - 15 gennaio 1994), Linea d’ombra
ed., Milano, 1995, 218 pp. De l’anthropologie du théâtre à l’ethnoscènologie,
“Internationale de l’immaginaire (nuovelle serie)”, n. 5, 1996, Ed. Maison de
Cultures du monde, Paris, pp. 249 - 254. Il teatro “privato “del pubblico.
Cenni di storia e appunti sulla fenomenologia dello spettatore, in: Le età del
teatro. Corso triennale di storia e cultura teatrale, Ert (Emilia Romagna
Teatro) ed., Modena, 1997, pp. 3 - 15. Carmelo Bene. Antropologia di una
macchina attoriale, Bompiani ed., Milano, 1997, 185 pp. (Premio del Presidente
del Premio “G. Pitrè – S. Salomone Marino). De la consommation du théâtre au
théâtre dans la société de consommation, in: AA.VV., Pourquoi aller au théâtre
aujourd’hui? (Actes du quatrième colloque européen - Biennale Théâtre Jeunes
Publics, Lyon), Les Cahiers du soleil debout, Lyon, 1997, pp. 27 - 35. “Giulio
Cesare”, teatro dei corpi, (recensione),“Lo straniero. Arte Cultura Società”,
anno I, n. 1, estate 1997, pp. 122 - 126. Teatro antropologico: atto secondo,
“Catarsi. Teatri delle diversità”, anno II, nn. 4 - 5, dicembre 1997, pp. 12 –
14 (ripubblicato in: E. Pozzi – V. Minoia (a cura di), Di alcuni teatri della
diversità, ANC ed., 1999, pp. 57 – 65). Consumare teatro , “Teatro e Storia”
19, anno XII, 1997, pp. 349 - 369. Shakespeare e Garibaldi, (recensione), “Lo
Straniero. Arte Cultura Società”, anno I, n. 2, inverno 1997/98, pp. 73 - 77.
Au théâtre comme à la guerre!, in: Centre Dramatique Hainuyer - Centre de
Sociologie du Théâtre, La mediation théâtrale (Actes du 5è Congrès
International de Sociologie du théâtre organisé a Mons (Belgique) mars 1997) ,
Lansman, Carnières-Morlanwelz (Belgique), 1998, pp. 75 - 80; (ripubblicato
dalla rivista “Théâtre éducation”, nouvelle serie, n. 9, maggio 1998, pp. 22 -
26). Spettatori non si nasce, in: Provincia di Modena - Emilia Romagna
Teatro,Teatro e scuola fra espressività e percezione. Atti del convegno
(Modena, 15 - 16 novembre 1996), Centro Stampa Provincia di Modena, ottobre
1998, pp. 126 - 136. O la guerra o il teatro. Sul film di Mario Martone
(recensione),“Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 4, autunno 1998,
pp. 55 – 59. Politica culturale e cultura teatrale , “Primafila. Mensile di
teatro e di spettacolo dal vivo”, n. 49, novembre 1998, pp. 13 - 17. Aux
confins du théâtre. Sur la relation entre théâtre et anthropologie , “Diogène”,
n. 186, Avril- Juin 1999, pp. 110 -123. (ripubblicato nell’edizione inglese: At
the Margins of Theatre. On the Connection Between Theatre and Anthropology,
“Diogenes”, n. 186, vol. 47, feb. 1999, pp. 83 – 92) Il Teatro come ‘attore’
del terzo sistema, in: “In Compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro
di riferimento per lo sviluppo dell’occupazione degli operatori artistici
teatrali: il teatro quale strumento di crescita sociale”, (relazione di
ricerca), Emilia Romagna Teatro, Stampa Tem, Modena, 1999, pp. 40 – 64.
29 Dell’ascolto distratto e dell’attenta lettura. I versi di Campana ripartoriti
dalla voce di Carmelo Bene, (recensione), “L’indice”, anno XVI, n. 10, ottobre
1999, p. 22. Cinque domande sul presente di Danio Manfredini, (intervista), “La
porta aperta”, n. 1, settembre-ottobre 1999, pp. 70 – 79. Le bugie della scuola
e quelle del teatro, “Art’o”, n. 4, gennaio 2000, pp. 42 – 45 (ripubblicato in:
Abbecedario della non-scuola del Teatro delle Albe, allegato a “Lo straniero
Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 45, marzo 2004, pp. 37 – 41). Il giullare
fatto santo. Fo Dario fu Francesco, “L’indice”, anno XVII, n. 5, maggio 2000,
pp. 24 – 25. (recensione) La settima volta di Riccardo terzo. Incontro con
Claudio Morganti (intervista), “La porta aperta”, n. 5, maggio – giugno 2000,
pp. 7 – 15. Tragedie nella terra, verso il mare, sotto il cielo. Incontro con
Alfonso Santagata (intervista), in: S. Maggiorelli (a cura di), Tragicamente.
Il teatro di Alfonso Santagata, Titivillus ed., Corazzano (PI), giugno 2000,
pp. 63 – 75. (testo parzialmente ripubblicato con il titolo Teatro a cielo
aperto. Incontro con Alfonso Santagata in “La porta aperta”, n. 6, luglio –
agosto 2000, pp. 16 – 24) La fine dello spettatore, in: P. Giacchè (a cura di),
Lo spettatore e le visioni del teatro futuro, “Prove di Drammaturgia”, anno VI,
n. 1, settembre 2000, pp. 11 – 13. Entelechia del Bene. Incontro con Carmelo
Bene, “La porta aperta”, n.8, novembre-dicembre 2000, pp. 48 – 59. Il teatro
fuori dai teatri. Memorie di uno spettatore di provincia, in: F. Gentili (a
cura di), Teatri dell’Umbria. La storia, il gioco, la memoria, Octavo, Firenze,
2000, pp. 259 – 287. L’arte dello spettatore, vedere i suoni e ascoltare le
visioni, in: Città di Palermo – Assessorato alle Politiche Educative, Arte del
narrare, arte del convivere (Atti del Convegno nazionale – Palermo, 3 – 5 aprile
1997), Eliocopisteria “Milone”, Palermo, 2000, pp. 123 – 138. L’identità dello
spettatore. Un saggio di Antropologia Teatrale, “Etnostoria” nn. 1 – 2, 2000,
pp. 57 – 86. L’art du spectateur: voir les sons et écouter les visions,
“Diogène”, n. 193, Janvier – Mars 2001, pp. 100 – 113 (ripubblicato
nell’edizione inglese: The Art of Spectator: Seeing Sounds and Haering Visions,
“Diogenes”, n. 193, vol. 49, issue 1 2002, pp.77-87.) Carmelo Bene, attore
della cultura, “Lo Straniero Arte Cultura Società”, anno VI, n. 22, aprile
2002, pp. 106 – 108. Lo spettatore del teatro e il pubblico del rito, in: A.
Cappelli – F. Lorenzoni (a cura di), La nave di Penelope. Educazione, teatro,
natura ed ecologia sociale. Testimonianze e proposte a partire dai 20 anni di esperienze
della Casa-Laboratorio di Cenci, Giunti ed., Firenze, 2002, pp. 98 – 109.
Teatro prigioniero, in: M. Buscarino, Il teatro segreto, Leonardo Arte, Milano,
2002, pp. 13 – 18. Il Sessantotto e il Teatro: un anno senza “stagione”, in:
AA.VV., Rivelazioni e promesse del ’68, CUEC, Cagliari, 2002, pp. 141 – 164;
(riedito con il titolo Un anno senza “stagione”: il ’68 e il teatro, “Lo
straniero Arte Cultura Società”, anno VII, n. 36, giugno 2003, pp. 57 – 71).
30 L’avventura finale di Benigni (recensione), “Lo Straniero. Arte
Cultura Società”, anno VI, nn. 30-31, dicembre 2002-gennaio 2003, pp. 49 – 53.
Questa non è una tragedia (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”,
anno VIII, n. 44, febbraio 2004, pp. 59 – 63. L’altra visione dell’altro. Una
equazione tra antropologia e teatro, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004.
Perdere un amico, “Rivista di psicologia analitica”, nuova serie n. 17, 2004,
pp. 87 – 97; (ripubblicato in “Lo straniero. Arte Cultura Scienza Società”,
anno IX, n. 59, maggio 2005, pp. 68 – 75, con il titolo Perdere un amico.
Ricordo di Carmelo Bene) (ripubblicato in: B. Massimilla (a cura di), La
perdita. Lutti e trasformazioni, Vivarium ed.. Milano, 2011, pp. 137 – 150).
Apparire alla Madonna, postfazione a: C. Bene, Sono apparso alla madonna. Vie
d’(h)eros(es). Autobiografia, Bompiani, Milano, 2005, pp. 157-159. L’identitè
du spectateur. Essai d’anthropologie théâtrale, “L’Ethnographie. Création,
Pratiques, Publics”, n. 3, printemps 2006, pp. 14 – 44. “Arrevuoto”: il teatro
in festa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno X, n. 72,
giugno 2006, pp. 74 –77. Un Amleto di più (recensione), “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, anno X, n. 76, ottobre 2006, pp. 110 – 113. Dar corpo
alla poesia: l’esempio e il metodo di Carmelo Bene, in: D. Scafoglio (a cura
di), La coscienza altra. Antropologia e poesia, Marlin ed., Cava de’ Tirreni
(SA), 2006 (Atti del Convegno di Studio “Antropologia e poesia”, organizzato
dall’Università di Salerno, Salerno-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), pp. 202 – 212.
Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale – nuova edizione
aggiornata e ampliata, Bompiani ed., Milano, 2007, 224 pp. Arrevuoto, n’ata
vota (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 83,
maggio 2007, pp. 107 – 109. “Arrevuoto”: quando il teatro sospende la dittatura
del mondo, in: Teatro delle Albe, M. Martinelli – E. Montanari (curatori),
Suburbia. Molti Ubu in giro per il pianeta. 1998-2008. Ubulibri, Milano, 2008,
pp. 99 – 109. La verticalità e la sacralità dell’atto, in: A. Attisani – M.
Biagini (curatori), Opere e sentieri. Testimonianze e riflessioni sull’arte
come veicolo, Bulzoni ed., Roma, 2008, pp. 119 –128. La dernière Médée. Le
mithe dans le théâtre contemporain: un parcours à l’envers, in: AA.VV.,
Réécritures de Mèdée , (sous la direction de N. Setti – Centre de Recherche en
Etudes Féminines et Etudes de genre, Université Paris 8), “Travaux et
Documents”, n. 37, 2008, pp. 221 – 230. Saldi di fine stagione, “Lo Straniero.
Arte Cultura Scienza Società”, anno XII, nn. 98-99, agosto-settembre 2008, pp.
104 – 109. Teatro: Romeo all’Inferno (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno XII, n. 100, ottobre 2008, pp. 108 – 110. 31 Un
soffio di teatro, in AA.VV., In cammino con lo spettatore (Laggiù soffia – Era
– In carne ed ossa), (a cura di S. Geraci), La casa Usher, Firenze, 2008, pp.
118 – 126. De la consommation du théâtre au théâtre dans la société de la
consommation (nouvelle édition), “Degrés. Revue de synthèse à orientation
sémiologique”, L’effetLiving. Lavisiond’Artaudparles
“Balinais” deNewYork,“Theatre/Public” (L’avant- garde américaine et l’Europe /
II. Impact), Le personnage public et l’acteur privé (entretien avec Piergiorgio
Giacchè pas Ciryl Béghin), “Théâtre et Cinéma 2009. Marco Bellocchio, Carmelo
Bene”, tome 20, publié à l’occasion du 20e Festival à Bobigny (18 mars – 5
avril 2009), sous la direction de Dominique Bax, pp. 141 -144. Voler Bene al
cinema, in “Bellaria 27” (catalogo di Bellaria Film Festival, 27^ edizione, 2 –
6 giugno 2009), pp. 66 – 68; riedito in: “Lo straniero”, anno XIII, n. 109,
luglio 2009, pp. 109 - 112. Fellini antropologo. Fra nostalgia e profezia, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, nn. 110-111, agosto-settembre
2009, pp. 94 – 101. La nostalgia, merce per tutti, “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, Bene Detto. Dispensa per Oratorio e Laboratorio, (a cura di
P. Giacchè, con interventi di C. Bene, B. Filippi, G. Fofi, P. Giacchè, J.P.
Manganaro, S. Pasello), L’arboreto – Teatro Dimora, Mondaino, 2009-2010, 143
pp. Il corpo dimenticato: Carmelo Bene, in: U. Birmaumer-M. Hüttler-G. Di Palma
(curatori), Corps du Théâtre – Il Corpo del Teatro, Hollitzer
Wissenshaftsverlag/Verlag Lehner, Wien (Austria), 2010, pp. 3 – 16. Los verbos
transitivos del teatro. Mirar teatro, in: C. Lisòn Tolosana (a cura di),
Antropologìa: horizontes estéticos, Antrhropos Editorial, 2010, pp. 153 – 182.
Émergence et submersion en Italie: le système théâtral et son double, “UBU
Scènes d’Europe- European stages” (numero: Emergence(s) dans le théâtre
européen – in European Theatre), revue bilingue français-englais / bilingual
English-French review, Uomini e dei in un film francese (recensione), “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, L’antropologia del teatro e il teatro
della cultura, in: V. Borghi – A. Borsari – G. Leoni (curatori), Il campo della
cultura a Modena. Storia, luoghi e sfera pubblica, Mimesis Edizioni, Milano-
Udine, 2011, pp. 459 – 472. Homo Videns. Quella TV che si guarda da sola,
“L’altrapagina”, Lo spettatore ospite, “Culture teatrali. Studi, interviste e
scritture sullo spettacolo”, n.20, Annuario 2010 (Teatri di Voce, a cura di L.
Amara e P. Di Matteo), La parabola dell’animazione teatrale, in: D. Pietrobono
– R. Sacchettini (curatori), Il teatro salvato dai ragazzini. Esperienze di
crescita attraverso l’arte, Edizioni dell’Asino, Roma, Non fare l’amore, in: T.
Cots (a cura di), Loving effects, Quodlibet ed., Macerata, (trad.inglese: pp.
175-184). Buttare il bambino nell’acqua sporca, “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno XV, Les Menoventi et le Perithéâtre, in: C. Hurault – G.
Banu (curatori), Frontières liquides – territoires de l’art. Emergences de la
scène européenne, Editions Alternatives théâtrales / Union des Théâtres de
l’Europe (n. 9 hors série de la revue “Alternatives théâtrales”), Liquidité
et/ou verticalité, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides –
territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives
théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue
“Alternatives théâtrales”), Le public est mort. Vive le Public! Sur la poétique
et la politique du mauvais spectateur, in: S. e J. Pop-Curseu – A. Maniutiu –
L. Pavel-Teutisan – D. Enyedi (curatori), Regards sur le mauvais spectateur –
Looking at the Bad Spectator, Presa Universitara Clujeana, Cluj-Napoca,
Romania, Barba e Carmelo Bene. Vite parallele e viaggi perpendicolari, “Teatro
e Storia”, a. XXVI, vol. IV nuova serie, Bulzoni ed., (riedito in francese,
traduzione di Cristina De Simone in: Les Voyages ou l’ailleurs du théâtre.
Hommage à Georges Banu (Essais et témoignages réunis par Catherine Naugrette),
Éditions Alternatives théâtrales – Sorbonne Nouvelle-Paris, Il pubblico troppo
emancipato, “Quaderni del Teatro di Roma”, Espectador-Hòspede, “Revista
Brasileira de Estudos da Presença”, Porto Alegre, - http://www seer.ufrgs.br/presenca. Le public est mort. Vive le
Public!, “Alternatives théâtrales” (Le mauvais spectateur), n. 116, 1er
trimestre 2013, Bruxelles, Le “Public” trop émancipé: vers une poétique pauvre
de la politique théâtrale, in: Le théâtre et ses publics. La création partagée
(Actes du 2° Colloque International du Projet Européen PROSPERO - Liège, 26 -29
settembre 2012), Les Solitaires Intempestifs Editions, Besançon, Teatro e
comunità, “Scena”, Sur Sieni, et surtout sur Virgilio... Trois exemples, in: V.
Sieni, Trois Agoras Marseille. Art du geste dans la Méditerranée, Maschietto
editore, Firenze, Risposte o riposte. Cinque lettere aperte su CB, “Prove di
drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, Un Pinocchio letto per Bene,
introduzione a: C. Bene, Pinocchio, Bompiani ed., Milano,Vers la verticalité du
vers, “Revue d’Histoire du Théâtre”, (D’Après Carmelo Bene. Actualité), Il
combattimento tra la teoria e la poesia (dedicato a Claudio Meldolesi), “Prove
di drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, anno XIX, nn. Il teatro
piccolo, povero, nuovo, in: “L’Italia e le sue regioni. L’età repubblicana,
vol. IV Società (a cura di M. Salvati – L. Sciolla)”, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Abramo Printing,
Catanzaro, Carmelo selon Jean-Paul in: Croisement d’écritures France-Italie.
Hommage à Jean-Paul (sous a direction de Camille Dumoulié, Anne Robin et Luca
Salza), éd. Mimésis, Vêtements liturgiques et corps dévôts, in: Jean-Marie
Pradier (sous la direction de), La croyance et le corps. Esthétiques,
corporeité des croyances et identités (Actes du 7° colloque international
d’ethnoscénologie, Paris, 21-23 mai 2013), Presses Universitaires de Bordeaux. Il
presente curriculum comprende i titoli, le attività e le pubblicazioni. Il
sottoscritto è a conoscenza che, ai sensi dell‚art. 26 della legge 15/68, le
dichiarazioni mendaci, la falsità negli atti e l‚uso di atti falsi sono puniti
ai sensi del codice penale e delle leggi speciali. Inoltre, il sottoscritto
autorizza al trattamento dei dati personali, secondo quanto previsto dalla
Legge 196/03. Quanto dichiarato nel presente curriculum vitae corrisponde al
vero ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. Piergiorgio Giacchè. Giacchè. Keywords:
l’altra visione dell’altro, Clifton, religion and education, ego et tu. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giacchè: A Cliftonian implicature” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Giacomo: l’implicatura conversazionale degl’icona -- sensibile, imagine,
presentazione, rappresentazione, formante e formato, contentente e contenuto --
l’inspiegabile – filosofia italiana – filosofia siciliana – filosofia italiana --
Luigi Speranza (Avola). Filosofo. Studia estetica. Il rapporto tra estetica e
figura, immagine, rappresentazione. Si laurea sotto Garroni. Insegna a Parma e
Roma. Fonda la Società Italiana d'Estetica. Nell'affrontare il concetto di
‘immagine’ è necessario rifiutare sia l'interpretazione che vede una'immagine
come lo specchio di una cosa (“Fido”-Fido). E necessario rifiutare anche quella
interpretazione del concetto di ‘imagine’ che la considera esclusivamente come
un segno significante di se stesso. Il concetto di ‘rap-presentazione’ implica
qualcosa che si mostra e nel manifestarsi resta ‘altro' dalla ‘percivibilita’ della
rappresentazione stessa. Così, nel ‘presentare’ se stessa, una immagine
manifesta l'altro del perceptible, del rappresentabil. Quell'altro che si
rivela nel perceptibile, nascondendosi a esso. Ed è proprio così che una
immagine si fa un ‘icono’ di quello che e altro il perceptibile. Afferma la
tendenziale perdita di ‘figurativita’ di una immagine e del continuare a
sussistere dell'immagine stessa. Una immagine, infatti, è una segno e insieme
una non-segno. E il paradosso di una “irrealta reale”. Si riferisce al
tentativo di scindere la natura ancipite dell'immagine negli elementi che la
compongono. Da una parte in un “readymade” (come l’urinale di Duchamp), nel
quale la dimensione rap-presentativa si dissolve in una dimensione puramente
PRE-sentativa, e dall'altra in una pura immagine soggetiva, dotata di un debole
supporto materiale. Una immagine e una meta-immgine: l’immagine di una immagine
(homuncular regressus ad infinitum of Griceian theories of representation,
according to Cummings, but not Grice!). Di questo modo, una immagine non e neppure
propriamente immagini quanto piuttosto una ‘simul-azioni’, simile allo
imperceptibile, un “simul-acro”. Non a
caso una immagine, in quanto ri-produzione (doppia) ha uno scarso valore di
immagine, giacché quello a cui tende è l’assumere dell’ ‘aspetto’ di una cosa. L’immagine perde così quella connessione di ‘trasparenza’
o ‘opacità’ che caratterizza una immagine autentica. Di qui, appunto, la questione
di realizzare una immagine vera e propria. Troviamo il superamento della dimensione
epifanica che è propria dell'icona, dove appunto il perceptibile è il luogo di
mani-festazione di la cosa impercetibile – l’Assoluto di Bradley. Emerge una
concezione dell'immagine che, nella consapevolezza dell'impossibilità di ogni
pretesa di esaurire ‘il reale’ e insieme di ‘manifestare’ l'Assoluto, può
essere interrogata come testimonianza di quanto non si lascia ‘tradurre’
(translation) in immagine: testimoniare, infatti, è raccontare ciò che è
impossibile raccontare del tutto. In questo modo, la testimonianza fa tutt'uno *non*
con la memoria in quanto conformità con l'accaduto, ma con l’immemoriale -- qualcosa
che non possiamo né ricordare né dimenticare, che non è “dicibile” né
“indicibile”. Insomma, il testimone “parla” (spiega, dispiega) soltanto a
partire da l’impossibilità concettuale di spiegare o dispiegare. Che l'immagine
valga allora come testimonianza significa che il tentativo di dire l'indicibile
(spiegare l’inspiegabile) è un compito infinito. La questione dell'immagine è
una questione di fidanza, di etica. In una immagine, non essendoci alcuna
compiutezza, non si dà alcuna redenzione né alcuna pacificazione nel confronto
col reale. Analissare l’immagine come testimonianza equivale a vedere
l’immagine come il luogo di una tensione sempre irrisolta tra memoria e oblio, e
quindi come l'espressione del dover essere (il possibile) del senso in un
orizzonte, come l’attuale. quale sempre di più sia il mondo che l'arte sembrano
essere abbando il NON-senso. Altre opera: “Dalla logica all'estetica”
(Parma, Pratiche); “Icona” “L’immagine tra presentazione e rappresentazione” (Palermo,
Centro internazionale studi di estetica); Estetica e letteratura. Il grande
romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza. Introduzione a Paul
Klee, Roma-Bari, Laterza, "Ripensare le immagini", Mimesis,
Milano, "Volti della memoria", Mimesis, Milano,
Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Milano,
Mimesis, "Malevic. Pittura e filosofia dall'Astrattismo al
Minimalismo", Carocci, Roma, Fuori dagli schemi. Estetica e figura
dal Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, "Arte e modernità. Una
guida filosofica", Carocci, Roma, "Una pittura filosofica: l'informale",
Mimesis, Milano, "Nietzsche. L'eterno ritorno", Alboversorio,
Milano, Media e divulgazione Art
and Perspicuous Perception in Wittgenstein’s Philosophical Reflection, L’immagine-tempo
da Warburg a Benjamin e Adorno. Il saggio più importante per il rapporto tra
estetica e letteratura è Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra
Ottocento e Novecento, Laterza, Cf. "Dalla logica all'estetica”, "Alle
origini dell'opera d'arte contemporanea" “Astrazione e astrazioni”, "La questione dell'aura tra Benjamin e
Adorno", Rivista di Estetica, “Volti della memoria”. Professore ordinario
di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università
di Roma e professore a contratto di Estetica presso stessa la Facol- tà. Sempre
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma, è
stato membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in “Filosofia e
Storia della filosofia” e Presidente del Corso di Laurea Magistrale in
“Filosofia e Storia della filosofia”. È socio fondatore e membro del Consiglio
di Garanzia della Società Italiana d’Estetica (SIE). È direttore della collana
Figure dell’estetica presso l’editore Albover- sorio (Milano) e della collana
Forme del possibile, presso l’editore Mimesis (Milano); fa parte del Comitato
scientifico della rivista Paradigmi, della rivista Studi di estetica, della
Rivista di estetica, della rivista Estetica. Studi e ricerche, della rivista
Compren- dre. Revista catalana de filosofia, della rivista on line Memoria di
Shakespeare. A Jour- nal of Shakespearean Studies e di Aesthetica Preprint,
collana editoriale del Centro In- ternazionale Studi di Estetica. Fa parte
inoltre del Comitato scientifico delle seguenti collane editoriali: Filosofie
(Mimesis, Milano), Caffè dei filosofi (Mimesis, Milano), Eterotopie (Mimesis,
Milano). È stato Coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Storia dell’Arte
della Società Ita- liana di Estetica e coordinatore, di numerose Ricerche di
Ateneo dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” relative a diverse
tematiche filosofi- che, estetiche e artistiche. E’ stato inoltre responsabile
di diversi progetti PRIN. Direttore del Museo Laboratorio di Arte Contem-
poranea (MLAC) della Sapienza Università di Roma. Come Direttore del Museo
Labo- ratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma, ha
ideato e coordina- to, in collaborazione con la Galleria Nazionale d'Arte
Moderna di Roma e con il Teatro Argentina di Roma, numerose iniziative di
carattere seminariale aventi per oggetto la filosofia, la letteratura, la
musica, le arti figurative, il teatro. Dal 2015, collabora con il Teatro Eliseo
all'interno del quale tiene una serie di conferenze e organizza seminari sul
teatro, la musica, la letteratura e le arti visive. Collabora inoltre con la
Fondazione Pri- moli di Roma e con il Museo Andersen (Polo Museale del Lazio).
Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a
Wittgenstein (Parma); Icona e arte astratta. La questione dell’immagine tra
presentazione e rappresentazione (Palermo); Estetica e letteratura. Il grande
romanzo tra Otto- cento e Novecento (Roma-Bari, 1999; trad. in lingua spagnola
a cura di D. Malquori, Estética y literatura, Universidad de Valencia, Servicio
de Publicaciones); Introduzione a Paul Klee (Roma-Bari); Alle origini
dell’opera d’arte contemporanea (Roma-Bari); Beckett ultimo atto (Milano),
Ripensare le immagini (Milano, 2009); Astrazione e astrazioni (Milano, 2010);
L’oggetto nella pratica artistica, (Paradigmi), Il Museo oggi (Studi di
Estetica, 2012), Aura (Rivista di Estetica), Malevič. Pittura e filosofia
dall’Astrattismo al Minimalismo (Roma, 2014), Fuo- ri dagli schemi. Estetica e
arti figurative dal Novecento a oggi (Roma-Bari, 2015; trad. in lingua spagnola
a cura di Juan Antonio Méndez, Al margen de los esquemas. Estética y artes
figurativas desde principios del siglo XX a nuestros dìas, La balsa de la
Medusa, Madrid, 2016), Filosofia e teatro (Paradigmi, 1, 2015), Tra il
sensibile e le arti. Trent’anni di estetica (Studi di Estetica, 1-2/2014), Tra
arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni (Milano, 2015), Arte e
modernità. Una guida filosofica (Roma, 2016), 1 Una pittura filosofica.
Antoni Tàpies e l'informale (Milano, 2016), Nietzsche e l’eterno ritorno
(Milano, 2016). Ha partecipato a progetti di ricerca internazionali e a
progetti di ricerca europei. Ha svolto attività didattica e di ricerca (tenendo
conferenze, lezioni e seminari, partecipan- do a convegni di studio e svolgendo
attività didattica anche in qualità di correlatore o tutor di tesi di laurea e
di Dottorato) presso importanti istituzioni straniere sia accademi- che che
extra-accademiche, in Spagna, Russia e Messico: Facultat de Filosofia,
Universitat de Barcelona; Facultat de Pedagogia, Universitat de Barcelona;
Facultat de Filosofia, Universitat “Ramon Llull”, Barcelona; Societat Catalana
de Filosofia, Institut d’Estudis Catalans; Ateneu de Vic; Ateneu de Barcelona;
Associació Filosòfica de les Illes Balears, Mallorca; Facultat de Filosofia i
Lletres, Universitat de les Illes Balears, Mallorca; Facultat de Filosofia i
Ciències de l’educació, Universitat de València; Facultad de Filosofía,
Universidad Complutense de Madrid; Istituto di studi post-universitari “SS.
Cirillo e Metodio”, Mosca; Russian Christian Academy for the Humanities, S.
Pietroburgo; “Peter the Great” St. Petersburg Polytechnic University, S.
Pietroburgo; Producciòn Artìstica Contemporànea Coloquio (PAC), Centro Cultural
San Pablo, Ciudad de Oaxaca, Messico; Monografie ·
Nietzsche e l’eterno ritorno, Commentario a F. Nietzsche, L’eterno ritorno, Al-
boversorio, Milano, 2016 · Arte e
modernità. Una guida filosofica, Carocci, Roma, 2016 ·
Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale, Mimesis, Milano, 2016 ·
Fuori dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi, Laterza,
Roma-Bari, 2015 (trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al
margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo
XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016) ·
Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo, Carocci, Roma,
2014 ·
Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Mimesis,
Milano, 2012 · Introduzione a Paul Klee, Laterza, Roma-Bari, 2003 ·
Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza,
Roma-Bari, 1999 (quinta ed., 2015; trad. in lingua spagnola a cura di D. Mal-
quori, Estética y literatura, Universidad de Va-lencia, Servicio de
Publicaciones, 2014); 2 · Icona
e arte astratta. La questione dell'immagine tra presentazione e rappresen-
tazione, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1999 ·
Dalla logica all'estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, Pratiche, Parma,
1989 Curatele · G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Letture shakespeariane.
Otello e Re Lear, «Studi di Estetica», 3, 2017 ·
G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti visive, musica,
architettura, «Rivista di Estetica», 61 (2016) ·
G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini,
suoni, Mimesis, Milano, Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro.
Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015 · G. Di
Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di
estetica, «Studi di Estetica», 1-2/2014 · G. Di
Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Aura, «Rivista di Estetica», 52 (2013) ·
G. Di Giacomo, A. Valentini (a cura di), Il museo oggi, «Studi di Estetica»,
Volti della memoria, Mimesis, Milano, 2012 ·
G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astrazioni. In occasione di una mostra
di Gualtiero Savelli, Alboversorio, Milano, 2010 ·
G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), L'oggetto nella pratica artistica,
«Pa- radigmi», 2 (2010), Franco Angeli, Milano, 2010 ·
G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini, Mimesis, Milano, 2009 ·
G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo atto, Albo Versorio, Mi-
lano, 2009 · G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera
d'arte con- temporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008 Saggi 2018 Introduzione a D.
Malquori, L’incomprensibile ambiguità dell’orizzonte. Un so- gno fatto a
Ginostra, Mimesis, Milano, collana Narrativa Mele d’Oro, Il problema della
forma nella Teoria estetica di Adorno, in M. Manicone (a cura di), Sostanza di
cose sperate. Scritti in onore di Franco Purini, Iiriti Editore, Campo Calabro
(RC), 2017, pp. 329-337. 2017 Re Lear. “Essere maturi” in un mondo abbandonato
alla cecità e alla follia, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture
shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 85-108.
3 2017 Otello: la tragedia della parola e il ruolo della narrazione, in
G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture shakespeariane. Otello e Re
Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 1-18. 2017 Dostoevsky, a writer and
philosopher: “The Grand Inquisitor”, in “ACTA ERU- DITORUM”, Publishing house of the Russian Christian
Academy for the Humanities, 2017, pp. 61-68. 2017 Tradició i innovació en
l’art, in “La Tradició”, Col-loquis de Vic, Societat Catala- na de Filosofia,
Institut d’Estudis Catalans, XXI, 2017, pp. 171-178. 2017 Understanding of the
«image» in Plato, in «PLATO AND ANCIENT SCIENCE», Collection of materials of
25TH INTERNATIONAL CONFERENCE «THE UNIVER- SE OF PLATONIC THOUGHT», RUSSIAN
CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMA- NITIES, Saint Petersburg, June 21–22, 2017,
Appendice alla rivista di Fascia A (in Russia “VAK”) “Vestnik” della RUSSIAN
CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMANI- TIES. Redattori: Svetlov R. V., Robinson T. M.
(Canada), Protopopova I. A., Mochalo- va I. N., Kurdybajlo D. S., Shmonin D.
V., Alymova E. V., pp. 163-170. 2016 Form, appearance, testimony: reflections
on Adorno’s Aesthetics, in G. Matteucci, S. Marino (a cura di), Theodor W.
Adorno: Truth and Dialectical Experience / Verità ed esperienza dialettica,
“Discipline filosofiche”, XXVI, 2, Quodlibet, Macerata, Tàpies e Bill Viola:
un'arte che sopravvive alla mercificazione, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a
cura di), Contemporaneo. Arti visive, musica, architettura, “Rivista di
Estetica”, 61, pp. 49-64 2016 Composizione, costruzione, icona nella concezione
artistica di Pavel Florenskij, in D. Guastini, A. Ardovino (a cura di), I
percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani, Pellegrini
Editore, Cosenza, pp. 325-334 2016 Prefazione a A. Lanzetta, Opaco
mediterraneo. Modernità informale, Libria, Fog- gia, pp. 7-9 2016 Reflexions
filosòfiques sobre la festa. Entre temporalitat i eternitat, in “La festa”,
Col-loquis de Vic, Societat Catalana de Filosofia, XX, Vic, pp. 51-66 2015 The
Myth. Aesthetic surgery clearly demonstrates what Greek myth has already taught
us: beauty stems from horror, in P. Gandola, P. Persichetti (a cura di), Art of
Blade. A book about surgery and humanity, T.A.M. Books, 2015, pp. 17-29 2015 La
guerra i l'art, in La guerra, Col-loquis de Vic, Societat Catalana de
Filosofia, XIX, pp. 11-26 2015 Arte e vita nella Recherche di Marcel Proust, in
G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini,
suoni, Mimesis, Milano, 2015, pp. 111-138. 4 2015 Lettura dell’Amleto, in
G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth,
«Paradigmi», 1, 2015, pp. 21-36. 2015 Lettura del Macbeth, in G. Di Giacomo, L.
Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1,
2015, pp. 111-125. 2014 Arte, linguaggio e rappresentazione nella riflessione
filosofica di Wittgenstein in Comprendre. Revista Catalana de Filosofia, 16,2,
pp.29-50. 2014 Icona e immagine, in G. Bordi, J. Carlettini, M.L. Fobelli, M.R.
Menna, P. Poglia- ni (a cura di), L'officina dello sguardo. Scritti in onore di
Maria Andaloro, Gangemi, Roma, pp. pp.33-37. 2014 El poder i les seves
representacions, in L'estat, Col•loquis de Vic., vol. XVIII, pp.27-49. 2014
Dalla modernità alla contemporaneità: l’opera al di là dell’oggetto, in G. Di
Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di
estetica, «Stu- di di Estetica», 1-2/2014, pp. 57-84. 2013 Entre la paraula i
el silenci: la filosofia com a recerca de la veritat, prefaci a An- toni
Bosch-Veciana, "Imatge-Mirada-Paraula", Barcelona,Facultat de
Filosofia, URL, 2013 2013 L’immagine artistica tra realtà e possibilità, tra
“visibile” e “visivo”, in P. D’Angelo, E. Franzini, G. Lombardo, S. Tedesco (a
cura di), Costellazioni estetiche. Dalla storia alla neoestetica. Studi in
onore di Luigi Russo, Guerini e Associati, Mila- no, 2013, pp.121-134. 2013 La
questione dell'aura tra Benjamin e Adorno, in «Rivista di Estetica», 52 (2013),
pp. 235-256 2012 Antonio Pizzuto: tra letteratura e filosofia, in D. Perrone (a
cura di), La vera novi- tà ha nome Pizzuto, Bonanno Editore, Catania, 2012, pp.
37-48 2012 Bellezza e chirurgia estetica, in «Studi di Estetica», 46 (2012),
pp. 65-94 2012 Il paradosso dell'apparenza nel teatro di Jean Genet, in «Comprendre.
Revista Catalana de Filosofia», 2 (2012), vol. 14, pp. 41-57 2012 La qüestió de
la imatge a partir del debat sobre la icona, in «Col•loquis de Vic», Societat
Catalana de Filosofia, Art and Perspicuous Vision in Wittgenstein's
Philosophical Reflection, in “Aisthe- sis. Pratiche, linguaggi e saperi
dell’estetico”, anno VI, n. 1, pp. 151-172 (http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/ article/view/12844/12158) 5 2012 L'opera di
Kafka come narrazione infinita, in A. Valentini, Il silenzio delle Sire- ne.
Mito e letteratura in Kafka, Mimesis, Milano, 2012, pp. IX-XXIV 2012 Lo statuto
paradossale del museo tra globalizzazione e apertura all'alterità, in «Studi di
Estetica», 45 (2012) "Il Museo oggi", a cura di G. Di Giacomo e A.
Valentini, pp. 7-26 2012 Memoria e testimonianza tra estetica ed etica, in
Volti della memoria, a cura di G. Di Giacomo (a cura di), Mimesis, Milano,
2012, pp. 445-481 2011 La idea d'Europa entre la cosciència de l'ocàs i
l'obertura a l'altre, in Europa, in J. Monserrat, I. Roviró, B. Torres (a cura
di), Societat Catalana de Filosofia, Barcelo- na, 2011, pp. 71-78 [Atti del
convegno, Col•loquis de Vic, XV, Vic, 2010] 2011 Arte e mondo. A proposito di
alcune riflessioni di Georges Didi-Huberman su Bertolt Brecht, in D. Guastini,
A. Campo, D. Cecchi (a cura di), Alla fine delle cose. Contributi a una storia
critica delle immagini, La Casa Usher, Fi- renze, 2011, pp. 200-204. 2011
Intervista sulla bellezza, in Scuderi N. (a cura di), A me la mela. Dialoghi su
bellezza, chirurgia plastica e medicina estetica, Franco Angeli, Milano, 2011,
pp. 128-136 2011 La produzione artistica contemporanea attraverso la
riflessione di Benjamin e Adorno, in «Studi di Estetica», n. 43, 2011 , pp.
5-20 La relaciò entre imatge i temporalitat en la reflexiò de Warburg, Benjamin
i Adorno, in I. Rovirò Alemany (a cura di), Estètica catalana, estètica euro-
pea. Estudis d’estètica: entre la tradiciò i l’actualitat, Barcelona, 2011, pp.
9-27 L’immagine-tempo da Warburg a Benjamin e Adorno, in “Aisthesis. Prati-
che, linguaggi e saperi dell’estetico”, anno 2, n. 2, pp. 73-80,
(http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/article/view/11009/10381). 2010
Arte e realtà nella produzione artistica del Novecento, in G. Di Giacomo, L.
Marchetti (a cura di), L’oggetto nella pratica artistica, «Paradigmi», 2
(2010), Franco Angelini, Milano, 2010, pp. 87-104 Il percorso di Gualtiero
Savelli: dall'astrattismo di Malevič e Mondrian all'astrazione geometrica, in
G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astra- zioni. In occasione di una
mostra di Gualtiero Savelli, AlboVersorio, Mila- no, 2010, pp. 11-19 2011 2010
2010 6 2010 La bellezza. Promessa di Immortalità?, in “Medic. Metodologia
Didattica e Innovazione Clinica”, vol. 18, 1-3, dicembre 2010, pp. 48-51 2010
Ripensare l'aura nella modernità, in L. Russo (a cura di), Dopo l'Estetica,
«Aesthetica Preprint», Supplementa, Palermo, 2010, pp. 75-89 Il male oggi.
Produzioni artistiche e riflessioni estetiche, in P. D'Oriano, D. Rocchi (a
cura di), Il male e l'essere, Mimesis, Milano, 2009, pp. 247-261 2009 Arte e
moda nella riflessione estetica di Adorno, in P. Romani, Percorsi teo- retici.
Scritti in onore e in memoria di P.M. Toesca, Diabasis, Reggio Emilia, 2009,
pp. 213-225 2009 Forma e riflessione nel romanzo moderno, in M. Fusillo (a cura
di), Philoso- phie du roman, Revue Internationale de Philosophie, 63, Meyer,
Bruxelles, 2009, pp. 137-151 2009 Il silenzio, il vuoto e la fine della
rappresentazione, in G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo
atto, Albo Versorio, Milano, 2009, pp. 13-26 2009 Immagine, icona, opera
d'arte, in F. Desideri, G. Matteucci, J.M. Schaeffer (a cura di), Il fatto
estetico. Tra emozione e cognizione, ETS, Pisa, 2009, pp. 163-179 2009 La
questione del rapporto arte-forma nella riflessione di Prinzhorn sulle
"Produzioni plastiche" dei malati mentali, Prefazione a F. Bassan, Al
di là della psichiatria e dell'estetica. Studio su Hans Prinzhorn, Lithos,
Roma, 2009, pp. XI-XVIII 2009 La questione dell'immagine nella riflessione
estetica del Novecento, in G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini,
Mimesis, Milano, 2009, pp. 367-390 2009 Le Mal aujourd'hui. Productions
artistiques et rèflexions esthètiques, in «La règle du jeu», 39 (2009), pp.
153-171 2008 Adorno: arte ed estetica dopo Auschwitz, in M. Failla (a cura di),
Dialettica negativa: categorie e contesti, Manifesto libri, Roma, 2008, pp.
195-207 2008 C'è ancora spazio per l'aura nella scultura contemporanea? A
proposito di Luigi Mainolfi, in P. De Luca (a cura di), Intorno all'immagine,
Mimesis, Milano, 2008, pp. 135-149 2008 Postfazione, in G. Di Giacomo, C.
Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera d'arte contemporanea, Laterza,
Roma-Bari, 2008, pp. 203-222 2007 Armando Ferrari ed Emilio Garroni: un
incontro, in in F. Romano, M. Ro- manini, S. Tauriello (a cura di), La metafora
nella relazione analitica, Mi- mesis, Milano, 2007, pp. 21-41 2009 Modernitat,
Societat Catalana de Filosofia, Barcellona, 2009, pp. 113-134 2009 Modernità e
arte, in J. Monserrat Molas, I. Roviró Alemany (a cura di), La [Atti del
convegno, Col•loquis de Vic, XIII, Vic, 2008] 7 2007 Dal cosmo al caos:
la pittura di Paola Romano, in Paola Romano, Catalogo della Mostra, Print
Company, Roma, 2007, pp. 5-7 2007 Ironia e romanzo, in P. F. Pieri (a cura di),
Perché si ride. Umorismo, comi- cità, ironia, Moretti & Vitali, Bergamo,
2007, pp. 133-152 2007 La connessione arte-moda nella riflessione estetica del
Novecento, in «Al- manacco Odradek», 2 (2007), pp. 174-177 2006 Arte, storia
dell'arte e beni culturali, in D. Goldoni, M. Rispoli, R. Troncon (a cura di),
Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali, Il Brennero - Der
Brenner, Bolzano - Trento - Vienna, 2006, pp. 53-60 2006 Da Nietzsche a
Benjamin: riflessioni sulla metropoli e dialettica del risve- glio, in R.
Colombo (a cura di), «Fictions. Studi sulla narratività», 5 (2006), pp. 31-39
2006 Il "Tintoretto" di Sartre, tra presentazione e rappresentazione,
in G. Farina (a cura di), «Bollettino Studi sartriani. Gruppo ricerca Sartre»,
2 (2006), pp. 213-224 2006 Pietro M. Toesca: il rovesciamento della
prospettiva, ovvero il doppio sguardo, in «Eupolis», 42 (2006), pp. 40-52 2006
Sul corpo. Riflessioni filosofiche e psicoanalitiche, in «Eupolis», 41 (2006),
pp. 9-20 2006 Vedere e vedere-come: le "Osservazioni sulla filosofia della
psicologia" di Ludwig Wittgenstein, in S. Borutti, L. Perissinotto (a cura
di), Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di
Wittgenstein, Carocci, Roma, 2006, pp. 125-134 2005 La poesia dopo Auschwitz,
in «Eupolis», 38 (2005), pp. 36-46 2005 Sul rapporto arte-vita a partire dalla
"Teoria estetica" di Adorno, in «Idee», 58 (2005), pp. 93-112 2005
Visione, forma e contenuto in Arnheim e Wittgenstein, in L. Pizzo Russo (a cura
di), Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, «Aesthetica Preprint»,
Supplementa, Palermo, 2005, pp. 195-212 2004 Arte e rappresentazione nella
"Teoria estetica" di Adorno, in «Cultura tede- sca», 26 (2004),
pp.103-121 2004 Le idee estetiche di Stendhal, in M. Colesanti, H. de
Jacquelot, L. Norci Ca- giano, A. M. Scaiola (a cura di), Arrigo Beyle
"Romano" (1831-1841), Edi- zioni di Storia e Letteratura, Roma, 2004,
pp. 113-135 2004 Rappresentazione e memoria in Aby Warburg, in C. Cieri Via, P.
Montani (a cura di), Lo sguardo di Giano. Aby Warburg fra tempo e memoria, Nino
Aragno Editore, Torino, 2004, pp. 79-112 2003 Il problema della
rappresentazione in Gombrich e Goodman, in «Studi di estetica», 27 (2003), pp.
79-112 2003 Il tema della bellezza nel romanzo moderno, in F. Sisinni (a cura
di), Rifles- sioni sulla bellezza, De Luca, Roma, 2003, pp. 99-117 2003 Le
nozioni di famiglia, classe, individuo nella riflessione estetica di Morpur-
go-Tagliabue, in L. Russo (a cura di),Guido Morpurgo-Tagliabue e l'estetica del
Settecento, «Aesthetica Preprint», Palermo, 2003, pp. 75-84 8 2003
Sguardo, simbolo, mito. Viaggio in un museo immaginario, in G. Baruchello, Cosa
guardano le statue, Danilo Montinari Editore, Ravenna, 2003, pp. 5-22 2001
Comprensione e rappresentazione in Wittgenstein, in «Il cannocchiale», 3
(2001), pp. 197-224 2001 Sulla rappresentazione, in U. Cao, S. Catucci (a cura
di), Spazi e maschere dell'architettura e della metropoli, Meltemi, Roma, 2001,
pp. 139-147 1998 Eros come narrazione nella "Ricerca del tempo
perduto" di Marcel Proust, in «Almanacchi nuovi», 2 (1998), pp. 55-76 1998
Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell'immagine, in L. Russo (a cu- ra
di), Nicea e la civiltà dell'immagine, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1998,
pp. 71-86 1995 Jean Genet e il paradosso dell'immagine, in P. Montani (a cura
di), Senso e storia dell'estetica. Studi offerti a Emilio Garroni in occasione
del suo set- tantesimo compleanno, Pratiche, Parma, Etica ed estetica nella
filosofia del giovane Lukács, Introduzione a G. Lukács, Teoria del romanzo,
Pratiche, Parma, 1994, pp. 7-41 1992 Realtà e Finzione in
"Dissonanzen-Quartett" di Emilio Garroni, in «La ra- gione possibile»,
5 (1992), pp. 264-268 1986 Il comportamento cognitivo dell'uomo
nell'epistemologia evoluzionistica di Popper, in «Terzo Mondo», 27 (1986), pp.
48-71 1984 L'epistemologia di Mach fra positivismo e costruttivismo, in
«Lineamenti», 6 (1984), pp. 57-76 1984 Senso e significato nella filosofia del
linguaggio di Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), Il Circolo di Vienna,
Longo, Ravenna, 1984, pp. 131-156 1983 La nozione di «uso» e la funzione della
filosofia in Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), L. Wittgenstein e la
cultura contemporanea, Longo, Ravenna, Implicazioni e aspetti epistemologici
della sociobiologia, in M. Ingrosso, S. Manghi, V. Parisi (a cura di),
Sociologia possibile, Franco Angeli, Milano, 1982, pp. 69-82 1982 Natura e
cultura: il rapporto tra "strutture" genetiche e "processi"
di ap- prendimento nel comportamento animale e umano, in AA. VV. (a cura di),
L'osservazione del comportamento sociale, Regione Piemonte, Torino, 1982, pp.
37-54 PROGETTI DI RICERCA - Progetto PRIN Tema: La forma dell’immagine Ente
promotore: MIUR 2003 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile Tema: Estetica
analitica ed estetica continentale: problemi, prospettive e tradi- zioni a
confronto 9 Ente promotore: MIUR 2005 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile
nazionale e Coordinatore dell’unità locale Tema: Memoria e rappresentazione
nella riflessione filosofica e artistica Ente promotore: MIUR 2007, 24 mesi;
Coordinatore dei seguenti Progetti di Ateneo: - Progetto di Ateneo: Immagine e
rappresentazione. Problemi estetici, artistici e storici Ente promotore:
Università di Roma "La Sapienza” 2001 / 24 mesi - Progetto di Ateneo:
Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente
promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2002 / 24 mesi; -
Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto-
Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2003 /
12 mesi; - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura
dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La
Sapienza" 2004 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza
nella riflessione filosofica e artisti- ca del Novecento - Ente promotore:
Università di Roma "La Sapienza" 2007 / 24 mesi; - Progetto di
Ateneo: Memoria e testimonianza nella riflessione filosofica, storica e
artistica - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2008 /
12 mesi; - Progetto di Ateneo: Rappresentazione, memoria e testimonianza nella
riflessione filosofica e artistica - Ente promotore: Università di Roma
"La Sapienza" 12 mesi; - Progetto di Ateneo: La questione arte-vita
nella società multiculturale. Identità, immagine e implicazioni etico-politiche
- Ente promotore: Università di Roma “La Sapienza” 2012/ 12 mesi; - Progetto di
Ateneo: Il tema dell'"Annunciazione" come chiave di lettura degli at-
tuali processi di globalizzazione - Ente promotore: Università di Roma “La -
Sapienza” 2013/ 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e rappresentazione nella
riflessione estetica e arti- stica Ente promotore: AST - Università di Roma
"La Sapienza" 12 mesi; -
Progetto di Ateneo: Evento e testimonianza nell'estetica del Novecento Ente
promotore: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2008 / 12 mesi; -
Progetto di Ateneo: Il problema dell'aura nell'arte contemporanea Ente promoto-
re: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2009 / 12 mesi; 10
Coordinatore dei seguenti Seminari dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della Società
Italiana di Estetica, presso la Facoltà di Filosofia dell’Università degli
studi di Roma “La Sapienza” - Seminario sul tema Estetica e storia dell’arte:
necessità di un dialogo; - 27 settembre 2004: Seminario sul tema Fine (della
storia) dell'arte?; - Seminario sul tema Arte, Estetica, Visual Studies; - 8-9
febbraio 2008: Seminario sul tema Oggetto artistico e oggetto comune; - 20-21
febbraio 2009: Seminario sul tema Leggere l'opera d'arte; - 18-19 febbraio
2011: Seminario sul tema Ancora l’aura oggi?;Seminario sul tema Che cos’è il
museo oggi? Cfr. inoltre: - Sito Web ufficiale: www.giuseppedigiacomo.it -
https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo ;
https://fr.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo
https://en.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://de.wikipedia.org/ wiki/Giuseppe_Di_ Giacomo
https://ca.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo 11ROMANTIC PAINTERS and
playwrights of the nineteenth century found rich material in the lives of the
old masters. Fueled by irresistible half-truths and rumors, they created
swashbuckling narratives about the personal intimacies and rivalries, as well
as the career failures and triumphs, of the Italian Renaissance artists. At the
Paris Salon of 1843, for instance, Léon Cogniet unveiled his grand entry, a
large canvas depicting Tintoretto painting a portrait of his beloved daughter
Marietta, who lies on her death bed. Three years later, the painter and
playwright Luigi Marta published a melodrama about an amorous intrigue that
supposedly led to the death of Marietta, who assisted her father as an artist
in his workshop. The six-episode play reads like a soap opera in which the
aristocratic Alfredo is pitted against Marietta’s true love, Valerio Zuccato, a
Venetian mosaicist (and thus, in Tintoretto’s world, a fellow craftsman). The
play circles around the inevitable showdown between the arrogant count and the
sincere artist, which precipitates Marietta’s death at the hands of the
entitled, privileged, and violent Alfredo. Parallel to this love story,
the reader is regaled with the homosocial rivalry between Tintoretto and
Titian, with Paolo Veronese appearing as an intercessor who mediates a
grandiloquent reconciliation scene in which all three masters unite to defend
the honor of the Venetian state. The narrative unfolds against Tintoretto’s commission
for the Last Judgment (1562–64) in Santa Maria dell’Orto. Marta’s artist was
thus, in no uncertain terms, a struggling genius waiting for recognition from
his fellow artists even at the height of his success. Indeed, the episode
concludes with Titian’s transformative endorsement—Ora non siete più il povero
Tintoretto, ma bensì il famoso Giacomo Robusti (“now you are no longer the poor
‘son of a dyer,’ but the famous Jacopo Robusti”).1 Loosely based on
actual historical personages, the tale is almost entirely fantasy. Such
theatrical characterizations are nevertheless of great importance, for they
help give legends the veneer of history. Giorgio Vasari’s sixteenth-century
notices about Tintoretto, as well as, in the seventeenth century, Carlo
Ridolfi’s biography and Marco Boschini’s various writings on the artist, were
the primary sources for many of these tasty morsels, and while scholars have
tried to sift fiction from reality, some myths are just too delectable to give
up. We still hear repeated, for instance, the unfounded story that the young
Tintoretto was kicked out of Titian’s studio. It’s not entirely impossible, but
there isn’t a shred of solid evidence to confirm the tale (any more than
Ridolfi’s allegation that Tintoretto dressed Marietta up as a boy so that
father and daughter could wander the city streets unimpeded by society’s strict
gender expectations). The image of Tintoretto-as-rebel would
culminate in Jean-Paul Sartre’s essay “The Prisoner of Venice”(1964), where the
artist is reinvented as an existentialist hero, a lone wolf fighting against
the stultifying rules of the system: Fate has decreed that Jacopo
unwittingly expose an age which refuses to recognize itself. Now we understand
the meaning of his destiny and the secret of Venetian malice. Tintoretto
displeases everyone: patricians because he reveals to them the puritanism and
fanciful agitation of the bourgeoisie; artisans because he destroys the
corporate order and reveals, under their apparent professional solidarity, the
rumblings of hate and rivalry; patriots because the frenzied state of painting
and the absence of God discloses to them, under his brush, an absurd and
unpredictable world in which anything can occur, even the death of
Venice.2 At the other end of the spectrum, this leitmotif is perhaps best
played out for comic effect in Woody Allen’s Everyone Says I Love You (1996),
in which a skirt-chaser (Allen) is overheard in the so-called Tintoretto Museum
(really the Scuola Grande di San Rocco) in Venice trying to impress a
Tintoretto enthusiast (Julia Roberts) by lauding the artist’s immense genius
for painting “outside the academic convention of sixteenth-century
Venice.” Sometimes myths are just too powerful, and the Tintoretto
myth is an extremely appealing one for modern tastes, especially in the
celebratory year marking the fifth centenary of the artist’s birth.
Tintoretto’s anniversary has been staged as a magnificent international
banquet. The festivities began last autumn in Venice with exhibitions at the
Palazzo Ducale(“Tintoretto: Artist of Renaissance Venice”) and the Gallerie
dell’Accademia (“The Young Tintoretto”), as well as an excellent little show at
the Scuola Grande di San Marco (“Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s
Venice”). New York, in the fall, offered “Drawing in Tintoretto’s Venice” at
the Morgan Library & Museum and “Celebrating Tintoretto: Portrait Paintings
and Studio Drawings” at the Metropolitan Museum of Art. The fete
continues in 2019 at the National Gallery of Art in Washington, D.C., where
slightly adapted versions of the Palazzo Ducale and Morgan Library exhibitions
go on view this month, fortified by a third independent show called “Venetian
Prints in the Time of Tintoretto.” This is a once-in-a-lifetime opportunity for
audiences in America to see some one hundred and seventy artworks by Tintoretto
and other Venetian Renaissance artists, painstakingly gathered by art
historians Robert Echols and Frederick Ilchman (who organized the show at the
Palazzo Ducale),along with curators John Marciari (of the Morgan) and Jonathan
Bober (of the National Gallery). Fans of the artist and of painting in general
should take note. IT’S HARD NOT TO get swept up in all the
unbridled Tintoretto worship, but this celebration also provides us an
opportunity to revisit the man, the myth, the legacy, and above all, the work.
To start with the biographical elements: Tintoretto was hardly seen as a
pitiful “poor dyer’s son” in the eyes of his fellow Renaissance artists, nor as
a maverick who “displeases everyone.” When speaking about Titian vs.
Tintoretto, one must take into account a few historical particulars. For
instance, in 1519, the year after Titian installed the magnificent Assumption
of the Virgin in Santa Maria Gloriosa dei Frari, Tintoretto’s only achievement
was to be born. In 1545, two years before Tintoretto’s first self-portrait
(with which all Tintoretto exhibitions seem compelled to begin), Titian was
called to Rome by Pope Paul III; in the 1550s and 1560s he was practically a
court painter to the Habsburgs, while Tintoretto was painting acres of canvas
to fill the walls at the Chiesa della Madonna dell’Orto, the Scuola Grande di
San Rocco, and the Scuola Grande di San Marco in Venice; Titian died in 1576
during the plague, and in 1577 a conflagration devastated the Palazzo Ducale,
destroying many of his paintings there, some of which would be replaced with
works by Tintoretto and his assistants in the 1580s. While there was probably
no love between the two men of the kind that nineteenth-century dramatists
might dream up, their careers ran parallel to each other rather than in
constant antagonistic competition. Many romantic myths are
dispelled in the scholarship that went into the exhibitions and the catalogue
essays, but the melodrama of this rivalry still sneaks into sections such as
“The Mantle of Titian,” which, at the Palazzo Ducale, was called “Dopo Tiziano”
(After Titian) thereby underlining both chronological priority as well as
influence. The paintings Tintoretto did afterTitian’s death in 1576—large,
powerful mythological pictures such as the Forge of Vulcan (1577) and the
Origin of the Milky Way (ca. 1577–78)—are spectacular, but why filter these
achievements once more through Titian? And why not have, instead, a section
labeled “Dopo Tintoretto,” which would include El Greco, the Carracci,
Caravaggio, and a host of other artists from the past five centuries who found
inspiration in his stark chiaroscuro, raking perspective, extreme
foreshortening, airborne saints, psychologically charged portraits, barefoot
worshippers, elaborate banquet scenes, wraithlike angels and spirits, and
busted-out straw chairs? The oft-repeated trope that Tintoretto was an
outsider also willfully overlooks his obvious status as a complete insider, born
in Venice and fully embedded in its institutions from birth. Titian and
Veronese, in contrast, were both provincials (practically foreigners by
Renaissance standards), who came from the hills and plains beyond the lagoon.
While a questionable seventeenth-century account suggested an aristocratic
lineage for the Robusti family, more recent studies have emphasized instead the
artist’s “working class” origins. The truth is somewhere in between. Stefania
Mason’s essay “Tintoretto the Venetian,” from the catalogue that accompanies
“Tintoretto: Artist of Renaissance Venice,” goes a long way to contextualize
the precise socioeconomic conditions of the son of a Renaissance dyer or—to be
more accurate—the son of a manager of a dye works married to a “well-born woman.”
The Robusti were not wealthy by any means, but they were comfortable enough to
give Tintoretto a basic education that enabled him later in life to befriend
the circle of writers and intellectuals known as the poligrafi, including the
notorious satirist Pietro Aretino (a friend of Titian and an early supporter of
Tintoretto). Like his father, Tintoretto married up. His
father-in-law, Marco Episcopi, not only belonged to an influential family of
Venetian cittadini, he was also the guardian of the Scuola Grande di San Marco,
where Tintoretto—two years before his marriage—painted his finest early work,
Miracle of the Slave (1548). The scene features St. Mark swooping in headfirst
from the sky to protect a slave from being martyred for his faith. Current viewers
need not be intimidated by the religious matter of the vast majority of
Tintoretto’s pictures—they are gripping visual tales of life and death.
According to seventeenth-century artist and critic Marco Boschini, one beholder
of Tintoretto’s St. Mark cycle reported: “The terror makes me faint, and the
piety liquefies my heart in such a manner that I lose heart and melt like wax
and feel completely mad!”3 As much “Game of Thrones” as Catholic doctrine in
pictures, these works were meant to move, delight, and instruct their audience.
Indeed, one cannot help but feel that if Tintoretto were alive today, he would
be an unapologetic fan of action films and special effects. Looking at Miracle,
with its explosive light and tense shadows, its superhuman heroes and racially
profiled villains, and its meticulous staging of powerful, muscular, controlled
bodies, one might think he invented the genre. No wonder Boschini described him
as a “thunderbolt” and the “cannons of a ship.”4 Unfortunately, Miracle
of the Slave has not been allowed to cross the Atlantic. Audiences in D.C. can,
however, marvel at the luminous Saint Augustine Healing the Lame (ca. 1550) and
the always pleasing Creation of the Animals (1550–53), which the French
philosopher Gilles Deleuze once described as an image of God as a referee “at
the start of a handicapped race, in which the birds and the fish leave first,
while the dog, the rabbits, the cow, and the unicorn await their turn.”5
While Miracle has been in the possession of the Gallerie dell’Accademia for
many decades now, seeing it anew, rehung next to the diminutive bronze relief
of the same subject by the Florentine sculptor Jacopo Sansovino, was one of the
highlights of the “Young Tintoretto”exhibition. With the works placed next to each
other in a darkened room, the similarities and differences were enlightening.
Designed and executed between 1541 and 1546 for the north tribune of the choir
at the Basilica di San Marco, Sansovino’s glowing bronze panel reduces the
scene to a compact, tactile, monochromatic field of chiaroscuro with a vibrant
mass of bodies emerging from the picture plane in dynamic, agitated poses.
Tintoretto, just on the cusp of his thirtieth year when he painted Miracle,
clearly looked closely at the dramatic effects that could be sculpted out of
gesture, form, and composition alone. To this art he would add the detail of
expression, the intensity of extreme lighting, the terribilità that often comes
with scale, and the incomparable power of color.WHILE THE TWENTY-FIRST CENTURY
audiences might think it odd for an ambitious artist to unveil a painting so
closely modeled on a recent work by another artist, the reuse of motifs was a
common Italian Renaissance practice, as was made clear in an insightful section
of the Palazzo Ducale exhibition simply called “The Recycler.” Tintoretto and
his assistants, after all, produced more square footage of painting than any
other workshop in the Venetian Renaissance. In one instance, the painter
salvaged an old composition from his painting Mystic Crucifixion by cutting,
splitting, and reintegrating the canvas into a new picture, The Nativity(ca.
1550s and 1570s); on another occasion, he copied, pivoted, and re-costumed a
previously used figure of St. Lawrence intended for the Bonomi family altar in
San Francesco della Vigna, transforming the martyr into Helen of Troy. Such
shortcuts were standard in most Renaissance workshops, especially prolific ones
that had to turn out hundreds of altarpieces, portraits, mythological
paintings, battle scenes, and other pictures. The juxtaposition between
the Florentine sculptor and the Venetian painter also underlines Tintoretto’s
connectedness with other artists. He painted Sansovino’s portrait more than
once, even signing one of the works as “Jacobus Tintorettus eius amicissimus”
(which, if you believe the inscription, means they were Renaissance BFFs).
Tintoretto was an artist’s artist. His profound sense of community comes across
in a rather touching contract found in the Venetian archives and included in
the small but brilliant “Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice” at
the Scuola Grande di San Marco. In this document, drafted and signed shortly
after Christmas in 1585, the artist agrees to provide works and forgo any
payment on the condition that the confraternity admit four people: his son
Giovanni Battista Robusti; his son-in-law Marco Augusta (the real-life husband
of Marietta); the tailor Bartolomeo di Lorenzo; and another man named Angelo
Girardi. His dedication to his family, friends, and students is also borne out
in numerous workshop drawings, which are well represented in D.C.
Offering important opportunities for artistic communion, drawing had its
pragmatic as well as pleasurable purposes. In several sketches made after a copy
of the ancient bust known as the Grimani Vitellius, we see multiple hands
working seemingly side by side, line by line, smudge by smudge, highlight by
highlight, with the goal of mastering the visible world around them. The
willful way that these graphic studies dematerialize carved stone and
reincarnate the male portrait head into what looks at first glance like the
image of a flesh-and-blood subject is remarkable. In this sequence, note
especially the Morgan Library drawing rendered by what the curator identifies
as a “left-handed draftsman.” The work seems almost too bold in its deliberate,
sweeping gestures to be “workshop,” but then Tintoretto was clearly a very good
master with some very capable assistants. In Tintoretto’s drawings
and paintings, one often feels that he is “sculpting” with chalk, charcoal,
watercolor, oil, and pigment, ignoring the flat surface of the paper or canvas.
This comes across not only in the speckled black-and-white patterns of his
drawings from sculptures (which he avidly collected) but in his life studies,
too. His rendering of flesh frequently seems to be rippling and quivering with
animal energy, as if the artist were trying to catch the living body in motion.
His is possibly the most atomistic rendering of the human form in the
Renaissance. The frenetic, vibrating lines in Seated Man with Raised Right Arm
(ca. 1577), for instance, exemplify this stylistic peculiarity: the contours of
the mythological body can never sit still but seem to be in a constant state of
flex and flux. (Indeed, Tintoretto’s figural drawings make Marcel Duchamp’s
Nude Descending a Staircase and every episode of “The Incredible Hulk” seem old
hat when they appear centuries later.) One of the art-historical
myths destroyed—hopefully once and for all—by the exhibitions in honor of
Tintoretto is that Venetians did not really draw. Some did more than others,
and Tintoretto and his assistants surely drew up a storm. On various sheets we
find words such as fa (make), sì (yes), fatto (made), no (no), and bono (good)
scrawled across the surface; sometimes figures are singled out by an asterisk.
These marks were workshop instructions on designs that had been cleared for
production by the master. Sheets such as Study of a Man Climbing into a Boat
(1578–79) were frequently greased and held up to the light so that forms could
be retraced on the verso, offering compositional options. Many have squaring
grids drawn across them. In some instances, this facilitated the transfer of
the design onto a larger surface; in other cases, it assisted in the correction
of foreshortening and the adjustment of figural proportions. Of the
thirty-some drawings by Tintoretto and his workshop on display at the National
Gallery of Art, the majority are on the blue paper favored by Venetian artists.
The dark surface of this carta azzurra provided an ideal ground upon which to
map out gestural movements, tonal subtleties, and, above all, the effects of
light and shadow. It might also be compared with the darkened grounds of many
Tintoretto paintings. The canvas support for The Origin of the Milky Way, for
example, is prepared with a brownish layer upon which the artist sketched out
his composition with white lead paint (rather than using black paint on a white
gessoed surface). Once a scene had been plotted out on the canvas, however,
Tintoretto was prone to further editing, altering, and redrawing of figures and
forms in a variety of white, black, and even red paint until the work was
completed. PAINTERS AND people interested in the way things
are made will find much to consider in these exhibitions. Tintoretto’s process
is revealed in medias res through the various X-rays that accompany the
didactic material in the galleries and comes across most clearly in the oil
sketch Doge Alvise Mocenigo Presented to the Redeemer(1571–74, a work included
in the 2016 exhibition “Unfinished: Thoughts Left Visible” at the Met Breuer in
New York). Looking at the mannequinlike figures waiting to be dressed with
flesh and clothes, one comes to appreciate the procedural logic that binds
these drawings and paintings together (a topic expertly discussed in Roland
Krischel’s essay “Tintoretto at Work” in the National Gallery of Art exhibition
catalogue). The show reveals Tintoretto’s exploratory procedure: visceral,
intuitive, yet ultimately studied and thought-through—but never entirely
scripted. Tintoretto is all gestalt. If the Marxist machismo of
Sartre’s characterization of the artist as a rebel “born among the underlings
who endured the weight of a superimposed hierarchy” is misplaced, one must
admit that his phenomenological acumen regarding the works is often startlingly
spot on. Sartre writes with great perspicacity about the narrow, vertical
composition of Saint George and the Dragon (ca. 1553–55): Everything is
simultaneous in his canvas, he contains everything within the unity of a single
instant. But to mask the over-harsh rift, he presents the spectator with the
spectre of a succession of events. Not only is the route traced in advance, but
each stage devalues the previous one and shows it up as an inert memory of
things past. The corpse’s immobility is memory: it is prolonged and repeated
from one moment to the next, identical and useless. . . . The time-trap works,
we are caught: a false present welcomes us at every step and unmasks its
predecessor which returns, behind our backs, to its original status of
petrified memory.6 Time and space collapse in on the spectator’s embodied
experience, simulating the effects of a hallucinatory drug. And indeed, as
early as Boschini we find the revelatory quality of Tintoretto’s art described
in pharmacological terms. Of the whirlwind of paintings on the ceilings and
walls of the Scuola Grande di San Rocco, he effuses: “I feel as if I am in a
drugstore. Under my nose these odors have aromas that overwhelm my heart. These
fragrances remain in my mind, my mind feels so utterly purged that my heart
jumps for joy in my chest, and my soul feels totally jubilant.”7 One must
be in the presence of the work in order to experience the psychosomatic force
of Tintoretto’s art. A black-and-white photograph of a room filled with
Tintoretto’s portraits can look like a field of dull heads, but in person these
works become alarmingly ghostly presences, with hands and faces that seem
capable of movement. The sketches that move from light fluffy strokes to
devastating valleys of black charcoal seemingly carved with a chisel, the thick
ridges of impasto that rise suddenly like waves from the surface of a canvas,
the glazes and scumble that modulate color and reflect light differently
depending on the angle of view, the enormity of compositions that threaten to
engulf the spectator’s body—these elements simply do not translate in any form
of mechanical or digital reproduction. This is true not only for Tintoretto but
for Venetian art in general, with its penchant for chromatic and luminous
variability and richness. In “Drawing in Tintoretto’s Venice” the
difference between Veronese’s gorgeous drawings covered in elegant, spindly
figures created in a torrent of quick brown ink strokes and Jacopo Bassano’s
schematic black chalk sketches marked by dusty smudges of red, white, green,
pink, and brown becomes immediately clear. Domenico Tintoretto, one of the
master’s sons, produced oil sketches of battle scenes that look comic in
reproduction, but when one stands before the flurry of red, white, and black
patches on dark brown paper, these detailed compositions dissolve unexpectedly
into near abstraction. Renaissance drawings are so fragile and sensitive
to light that they can be exhibited only rarely, and many Tintoretto
paintings are so large that they have remained in situ in Venice for most of
their existence. Thus the current triple exhibition is the first substantial
retrospective of the old master’s work in America. It is a fitting tribute on
the occasion of his five hundredth birthday—and a viewing experience not to be
missed. Endnotes 1. Luigi Marta, Il Tintoretto e sua figlia: drama in sei
quadri del pittore Luigi Marta, Milan, Borroni e Scotti, 1846, p. 46. 2.
Sartre quoted in Laura Lepschy, Tintoretto Observed: A Documentary Survey of
Critical Reactions from the 16th to the 20th Century, Ravenna, Longo Editore,
1983, p. 185. 3. Marco Boschini, La carta navegar pitoresco, edited by
Anna Pallucchini, Venice/Rome, Istituto per la collaborazione culturale, 1966,
p. 280. 4. Ibid., p. 4. 5. Gilles Deleuze, Francis Bacon: The Logic
of Sensation, trans. Daniel W. Smith, London, Continuum, 2003, p. 7. 6. Sartre
quoted in Lepschy, p. 189. 7. Boschini, p. 150.Tintoretto was too good an
artist for his time’s uses; he still clamors for a proper role, seeking
affirmation, four centuries later. This thought came to me as whimsy, and
stayed as conviction, at the Prado, in Madrid, which has just opened the
second-ever retrospective (the first was in Venice, in 1937) of Jacopo Comin,
who was also known as Robusti, and called Tintoretto, or “Little Dyer,” after
his father’s profession. Tintoretto (1518-94) is the most mercurial of the five
undisputed immortals of Venetian painting—the others being Bellini, Giorgione,
Titian, and Veronese—and I was eager to see the Prado show, because I have
never managed to get a satisfying fix on him. How could someone so great, able
to summon the world with a brushstroke, be so inconsistent in style, and, on
occasion, so awful? Stupefyingly prolific, Tintoretto garnished the walls,
ceilings, altars, exteriors, and even the furniture of Venice, performing
commissions for free when that was what it took to edge out a rival. (He was
not popular with his fellow-artists.) He brought off one of the world’s largest
paintings—“Paradise” (1588-92), in the Ducal Palace, which, at seventy-two feet
long and twenty-three feet high, is so vast as to be essentially unseeable—and
perhaps history’s most sustained demonstration of sheer painterly talent,
brimming the Scuola Grande di San Rocco, between 1564 and 1588, with pictures
whose profusion and intensity burn the most concerted effort of looking to
ashes. But he and his populous workshop also perpetrated some of the grimmest
daubs—murky and slack—that you ever rushed past with a shudder. I realized, too
late, that my puzzlement was a warning. Now I feel that I have acquired a
brilliant, neurotic, exhausting friend who enjoins me to undertake on his
behalf campaigns that he bungled when their conduct was up to him.
Nothing inferior taxes the eye at the Prado, which augments the cream of
Tintorettos in European and American collections with a few loans from Venice,
where hundreds of his paintings—including his greatest works, such as “The
Miracle of the Slave” (1548)—reside immovably in churches, palaces, and
galleries. The show more than overcomes doubts about presuming to assess the
artist outside his home town, which he is known to have left just twice,
briefly, in his life. The well-restored canvases, shown in good light, sparkle
and blaze. Some make plungingly deep space with muscular figures of different
sizes; your mind provides perspective that the artist didn’t deign to chart.
Others array action on intersecting diagonals, along which someone is apt to be
arriving from somewhere at terrific speed. (There is an old line that
Tintoretto invented the movies; his ways of enkindling routine scenarios, with
thrilling visual rhythms that seem to unfurl in time, endorse it.) He drew with
his brush, light over dark—so that shadings came first, imparting a sumptuous
density to forms that are hit with highlights like spatters of sun. He is
supposed to have said that his favorite colors were black and white, but he
could be every bit the startling and seductive Venetian colorist when a
commission required it. With abject competitive fury, he was not above
imitating the grand dragon of the Venice art world, Titian, and his designated successor,
Veronese. “As a matter of fact, he almost never takes the liberty of
being himself unless someone builds up his confidence and leaves him alone in
an empty room,” Jean-Paul Sartre wrote in a 1957 essay, “The Venetian Pariah.”
For Sartre, Tintoretto is an avatar of existential anguish, who was both behind
his time—as the last native-born master on a scene ruled by a cosmopolitan
élite—and ahead of it, as the ideal artist for a rising bourgeoisie that was
too intimidated by the pomp of the ducal republic to recognize itself in his
demotic trashings of aristocratic decorum. Intellectuals of the era, while in
awe of Tintoretto’s gifts, scolded him for being too fast, careless, and
insolent; when Vasari credited him with “the most extraordinary brain that the
art of painting has ever produced,” it wasn’t meant as unalloyed praise.
(Vasari also called him the medium’s “worst madcap.”) As a boy,
Tintoretto is said to have entered Titian’s workshop as an apprentice but was
thrown out after a few days, having either frightened the master with his
aptitude or irked him with his personality; at any rate, Titian’s attitude
toward him was plated with permafrost. Little is known of Tintoretto’s
subsequent training. His earliest surviving work, from the early fifteen-forties,
is anti-Titianesque—radically sculptural and draftsmanly, embracing Central
Italian influences. Then something happened which the art historian Alexander
Nagel compares to the bluesman Robert Johnson’s “going down to the crossroads
and coming back with scary new powers.” “The Miracle of the Slave,” made for
the Scuola Grande di San Marco, electrified Venice. Its unprecedented range of
spatial, chromatic, and kinetic effect suggested a synthesis of “the disegno of
Michelangelo and the coloring of Titian”—a contemporaneous formula, often
cited, for ultimate greatness in painting. He was roundly hailed, though Pietro
Aretino, Titian’s literary ally, added a caveat about his lack of “patience in
the making.” Commissions came in bunches to the new hero, but solid status
skittered out of reach. He compensated by striving to engulf the town.
Meanwhile, Titian refused to slacken his grip on preëminence, let alone die.
When he finally expired, at the age of eighty-eight or so, in 1576, it brought
Tintoretto no peace. Though he was now, by general consent, Italy’s leading
painter, he responded with pictures as flailingly ambitious and various as
ever. Three from the late fifteen-seventies triumph in as many styles. In “The
Rape of Helen,” the hauntingly lovely captive languishes in the corner of a
churning land-sea battle scene, with scores of figures, ranging in size from
huge to tiny, which you can all but hear and smell. In “Tarquin and Lucretia,”
the naked, lividly fleshy protagonists struggle at the edge of a bed, toppling
a sculpture and breaking a necklace that rains pearls. The woman’s right hand
seems to extend from the canvas, as if to be grasped by a rescuing viewer. (The
Baroque, which took hold two decades later, with Caravaggio, can seem an edited
ratification of tendencies already developed by Tin-toretto.) “The Martyrdom of
St. Lawrence” is a sketchy and fierce nightmare of death by roasting, with an
anticipatory whiff of Goya. Tintoretto strongly influenced El Greco, blazed
trails for Rubens, and fascinated Velázquez, who acquired his paintings for
Philip IV. “What is a Tintoretto?” the art historian Robert Echols asks
in the show’s catalogue. The answer might be almost anything touched with
genius and a strange, thorny, dashing humor. Tintoretto was reported to be a
witty man who never smiled. What is his “Susannah and the Elders” (1555-56) if
not a grand lark? A luxuriant, glowing nude sits outdoors, surrounded by a
glittering still-life of jewelry and implements of beauty, and is ogled by dirty
old men (one pokes his bald pate, at ground level, practically out of the
canvas) from behind a hedge that forms part of a corridor-like recession into
the far background. There are distant little ducks, and the rear end of a stag.
But the picture’s form is too disorienting to sustain any particular response,
including amusement. The backstage space outside the hedge ignores the unity of
the central perspective, bespeaking a world that rolls away in all directions,
indifferent to pocket realms of mythic anecdote. The effect is stirring and
confusing. “Who is Tintoretto’s viewer?” strikes me as the really compelling
question. No other great artist before modern times, in which shifting
contingency affects every enterprise, seems less certain of whom he is
addressing, and why. It might as well be you or me as some cinquecento ingrate,
and, if we happen to think of people we know who may be interested, the artist
encourages us to contact them without delay. ♦La tesi di fondo di questo saggio
è che l’orizzonte problematico entro il quale si muove da sempre la pittura
faccia tutt’uno con le questioni dell’immagine e che la tradizione occidentale,
soprattutto nella riflessione sulla storia dell’arte, abbia incentrato la sua
atten- zione sul problema dell’immagine senza tenere conto in genere dei suoi
aspetti iconici. Già Tommaso d’Aquino aveva posto in questi termini tale
problema: l’immagine può essere considerata come og- getto particolare, o come
immagine di un altro; nel primo caso l’og- getto è la cosa stessa che al
contempo ne rappresenta un’altra, nel secondo l’aspetto dominante è ciò che
l’immagine rappresenta. Sem- bra dunque che rispetto a un’immagine l’attenzione
si rivolga o al- l’immagine in se stessa – all’immagine come fine – o a ciò che
l’im- magine rappresenta – all’immagine come mezzo 1. A diversi secoli di
distanza un pensatore della statura di Witt- genstein riproporrà con forza il
problema dell’immagine che, a par- tire da una prospettiva iniziale fortemente
improntata a concezioni logico-raffigurative, si andrà via via sempre più
delineando all’inter- no della sua riflessione come un problema di natura
estetica. Così egli scrive nelle Ricerche filosofiche: «E chi dipinge non deve
dipin- gere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere qualcosa di
reale? – Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere: l’immagine di un uomo (per
esempio), o l’uomo che l’immagine rappresenta?» 2. Tut- tavia Wittgenstein
porta il problema alle estreme conseguenze: «Se paragoniamo la proposizione con
un’immagine, dobbiamo tener con- to se la paragoniamo con un ritratto
(un’esposizione storica) o con un quadro di genere. E tutti e due i paragoni
hanno senso. Se guar- do un quadro di genere, esso mi ‘dice’ qualcosa, anche se
io non cre- do (mi figuro) neppure per un momento che gli uomini che vedo
rappresentati in esso esistano realmente, o che uomini in carne e ossa si siano
davvero trovati in questa situazione. Ma, e se chiedessi: ‘Al- lora, che cosa
mi dice?» 3. La risposta di Wittgenstein suona: «‘L’im- magine mi dice se
stessa’ vorrei dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua
propria struttura, nelle sue forme e colori» 4. Ponendo la questione in tali
termini tuttavia Wittgenstein non in- 7 tende affatto contrapporre
un’immagine intesa come ‘ritratto’, il cui scopo sarebbe quello di indirizzare
l’attenzione dell’osservatore esclu- sivamente su ciò che essa rappresenta, e
un’immagine intesa come ‘quadro di genere’, il cui fine sarebbe quello di
presentare la «sua propria struttura» e le «sue forme e colori». Del resto,
continua Wittgenstein nello stesso paragrafo, «(Che significato avrebbe il
dire: ‘Il tema musicale mi dice se stesso’?)». Il fatto è che per Wittgenstein
queste due modalità dell’immagine: immagine intesa come mezzo e immagine intesa
come fine, sono tra loro connesse, tanto da formare un unico concetto di
‘immagine’. Che il problema vada inteso e ap- profondito in questi termini, lo
chiarisce lo stesso Wittgenstein, af- frontando in alcuni paragrafi successivi
la questione relativa al «com- prendere una proposizione»: «Noi parliamo del
comprendere una proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da
un’altra che dice la stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere
sostituita da nessun’altra. (Non più di quanto un tema musicale possa venir
sostituito da un altro.) Nel primo caso il pensiero della proposizione è
qualcosa che è comune a differenti proposizioni; nel secondo, qual- cosa che
soltanto queste parole, in queste posizioni, possono esprime- re. (Comprendere
una poesia)» 5. E subito dopo aggiunge: «Dunque qui ‘comprendere’ ha due
significati differenti? – Preferisco dire che questi modi d’uso di
‘comprendere’ formano il suo significato, il mio concetto del comprendere» 6.
Wittgenstein sottolinea in questo modo che i due tipi di com- prensione –
quella che potremmo chiamare ‘logica’, nel senso che il pensiero espresso dalla
proposizione può essere riformulato in modi diversi, rimanendo lo stesso, e
quella che potremmo definire ‘esteti- ca’, caratterizzata invece dal fatto che
il suo ‘tema’ non può essere riformulato in altro modo, come esemplifica il
caso del ‘tema musica- le’ o della ‘poesia’ – sono imprescindibilmente connessi
tra loro in un concetto unitario. È la stessa interconnessione che Wittgenstein
aveva rilevato in relazione all’immagine. Il fatto è che quel particolare tipo
di immagine che l’opera d’arte costituisce può rimandare all’altro da sé,
soltanto in quanto in primo luogo rimanda a se stessa, ‘dice se stessa’; può
essere ‘rappresentazione’ dell’altro, solo in quanto è ‘pre- sentazione’ di se
stessa. Di conseguenza, ciò che nell’opera viene rap- presentato riceve la sua
‘unicità’, la sua ‘specificità’, è insomma pro- prio ‘questo’, grazie al fatto
che l’immagine lo rappresenta, lo ‘dice’, secondo le sue ‘linee e colori’. Così
questo qualcosa di ‘unico’ può e anzi deve essere visto come qualcosa che,
seppure da sempre presen- te sotto i nostri occhi, appare come se lo vedessimo
per la prima vol- ta e, proprio per questo, non può che procurarci stupore e
meravi- glia. Scrive a questo proposito Wittgenstein: «Non pensare che sia cosa
ovvia il fatto che i quadri e le narrazioni fantastiche ci procura- 8 no
piacere, tengono occupata la nostra mente; anzi, si tratta di un fatto fuori
dell’ordinario. (‘Non pensare che sia cosa ovvia’ – questo vuol dire:
Meravigliatene, come fai per le altre cose che ti procurano turbamento [...])»
7. Già nel Tractatus Wittgenstein aveva affermato che «La tautologia segue da
tutte le proposizioni: essa dice nulla» 8, volendo con ciò sot- tolineare il
fatto che ogni proposizione dice, rappresenta qualcosa solo in quanto in primo
luogo è una tautologia, ossia ‘dice nulla’, e tale tautologicità della
proposizione è ciò che la proposizione ‘mostra’ in ciò che dice. Secondo
Wittgenstein il carattere logico della proposizio- ne in quanto immagine 9 è
dato dal suo essere ‘rappresentazione’ di qualcosa, ossia dal suo rinviare a
qualcosa d’altro da sé. In questo con- siste, sempre secondo Wittgenstein, la
«fondamentalità» della logica, giacché «se segno e designato non fossero
identici rispetto al loro pie- no contenuto logico, allora vi dovrebbe essere
qualcosa d’ancora più fondamentale che la logica» 10. E tuttavia Wittgenstein
si rende con- to che «Nella proposizione qualcosa dev’essere identico al suo
signi- ficato, ma la proposizione non può essere identica al suo significato,
dunque in essa qualcosa dev’essere non identico al suo significato» 11. Questo
qualcosa di ‘non-identico’, vale a dire di differente, tra la proposizione, o
l’immagine, e il qualcosa che viene rappresentato o detto, è ciò che esse
mostrano o ‘presentano’. Tale presentazione, nel suo costituire la condizione
interna al rappresentato, è anche ciò che dà a quest’ultimo il suo carattere di
unicità, ossia di individualità, che sfugge a ogni previsione logica, vale a
dire a ogni identificazione nel già-saputo; ciò che fa, in definitiva, del
rappresentato qualcosa di non-previsto e di non-saputo, qualcosa che nell’opera
d’arte trova il suo luogo esemplare. E, se la logica «è prima del Come, non del
Che cosa» 12, allora «Il miracolo per l’arte è che il mondo v’è, che v’è ciò
che v’è» 13. C’è dunque per Wittgenstein qualcosa di più fondamentale della
logica 14. La rappresentazione logica infatti implica qualcosa che si mostra,
che si manifesta e nel manifestarsi resta ‘altro’ dalla visibilità della
rappresentazione stessa. Così, nel presentare se stessa, l’imma- gine manifesta
l’altro del visibile, del rappresentabile: quell’altro che si rivela nel
visibile, nascondendosi a esso. Se questo è il tratto carat- terizzante
l’icona, allora possiamo affermare che le riflessioni di Witt- genstein
sull’immagine si riferiscono non all’immagine come ‘copia’ della realtà, bensì
all’immagine intesa appunto come ‘icona’. Non a caso, se per Wittgenstein il
silenzio, sul cui tema si ‘chiude’ il Tracta- tus, non può dirsi, giacché esso
mostra sé, è proprio l’icona che ha a che fare con l’irrappresentabile, con ciò
che resta sempre altro rispet- to a ogni determinazione logica e
rappresentativa. Ciò che nell’opera d’arte ‘si presenta’ sfugge alla nostra
cono- 9 scenza e alla rappresentazione. Non è stata l’arte ‘astratta’ a
mettere per prima in opera la ‘presentabilità’ del pittorico di contro alla sua
‘rappresentabilità’, dal momento che il rapporto tra presentazione e
rappresentazione appartiene all’essenza stessa dell’immagine. È pro- prio della
natura dell’immagine infatti il suo presentarsi sempre chiu- sa e insieme
aperta, opaca e insieme trasparente, vicina e insieme lon- tana: nell’offrirsi all’occhio,
essa cattura il nostro sguardo. È necessa- rio tornare, al di qua del visibile
rappresentato, alle condizioni stes- se dello sguardo, della presentazione. È
questo il non-sapere che l’immagine manifesta, e tuttavia tale non-sapere non è
una condizio- ne privativa, una mancanza, ma piuttosto una condizione positiva,
come positivo è il ‘Niente’ dei quadri suprematisti di Malevicˇ. Si trat- ta
dell’esigenza di qualcosa che costituisce l’altro del visibile, il suo al-di-là
e che non va pensato come l’Idea platonica, dal momento che questo altro del
visibile è nel visibile stesso. Così l’iconoclastia del Quadrato bianco di
Malevicˇ annuncia non la fine dell’arte, ma ciò che l’arte deve essere, per
essere tale, arte appunto. Nell’opera d’arte qualcosa è rappresentato e si
offre alla vista, ma qualche altra cosa nello stesso tempo ci guarda, ci
ri-guarda. Ciò si- gnifica che la visione si divide, si lacera, nel suo stesso
interno, tra vedere e guardare, tra rappresentazione e presentazione. Nella visibi-
lità del quadro è in opera qualcosa che non si lascia cogliere e che, come
l’oblio, resta sempre altro rispetto a ciò che possiamo ricorda- re. È come se
l’immagine fosse nello stesso tempo rappresentazione di ciò che ricordiamo e
presentazione di ciò che abbiamo dimentica- to; per questo nell’immagine la
rappresentazione deve essere pensa- ta sempre con la sua opacità. In
particolare nell’icona cogliamo l’assenza di ogni immagine, in- tesa come
rappresentazione logica: è questa l’ ‘astrazione’ dell’icona, astrazione come
sarà intesa, teorizzata e messa in opera da tanta par- te della pittura del
Novecento. Quello che l’icona mostra non è di- scorsivamente esprimibile e, se
essa può far valere la propria impre- scindibile implicazione di senso di
contro alla critica iconoclastica, è perché mostra l’inesprimibile in quanto
inesprimibile. È proprio que- sta paradossalità dell’icona a permettere di
superare l’iconoclastia, per la quale non può che porsi l’alternativa
schiacciante tra un asso- luto realismo e un assoluto silenzio. L’icona è la
«porta regale», come voleva Florenskij, attraverso la quale si manifesta
l’invisibile e si tra- sfigura il visibile: in essa non c’è né imitazione, né
rappresentazione, ma comunicazione tra questo e l’altro mondo. Così nell’icona
la di- mensione epifanica finisce per coincidere con la sua dimensione apo-
fatica. Da questo punto di vista si può dire che i problemi posti dal- l’icona
siano gli stessi problemi che si ritroveranno nella contempo- ranea
problematica dell’‘astrazione’. 10 L’arte astratta fa appello all’occhio
spirituale, ossia allo sguardo, e ciò comporta il rifiuto della tradizionale
distinzione soggetto-ogget- to, dal momento che l’oggetto è in tale prospettiva
un soggetto che ci cattura proprio mentre lo guardiamo. Già Kandinskij con la
nozio- ne di ‘composizione’ intende superare sia gli stati d’animo del sogget-
to che l’oggetto come fenomeno naturale, per dare luogo a una pit- tura «iuxta
propria principia», nella quale lo stesso limite estremo, la tela bianca o il
silenzio, non significhi la ‘morte dell’arte’, ma la ra- dicale ‘presentazione’
di quella possibilità dalla quale ogni arte pren- de le mosse: l’essenza o, per
dirla con Heidegger, l’origine dell’arte stessa. In Kandinskij l’astrattismo
non è vuoto decorativismo. Al con- trario, l’astrattezza del segno, la sua
non-rappresentatività, è la mani- festazione della sua «risonanza interiore»,
ossia della sua «spiritua- lità». La concezione dell’arte di Kandinskij è
intessuta della connes- sione di interiorità e astrazione, e una componente
essenziale di tale astrazione è il «misticismo». Già la mistica tedesca
medievale affer- mava, con Meister Eckart, che, come Dio agisce al di là del
mondo dell’essere, così l’anima, che è in grado di rappresentarsi le cose che
non sono presenti, opera nel non-essere; un’analoga operazione com- pie il
pittore astratto, che nientifica il mondo naturale delle cose, dando vita a un
mondo di entità non-oggettive, inesistenti e tuttavia reali. Così nel principio
di Kandinskij della «necessità interiore» si riflette la natura mistica del
procedimento astratto di costruzione di un’opera che viene sottratta alla
dipendenza delle cose esistenti. Que- sto rimando a un agire interiore dà luogo
a un non-oggetto che, ana- logamente a quanto avviene nella mistica, mostra un
diverso modo d’essere delle cose rispetto a quello della loro forma reale.
L’eman- cipazione da qualsiasi dipendenza diretta dalla natura, della quale
parla Kandinskij, è la riduzione delle cose naturali al non-essere. Di
conseguenza, la necessità interiore di Kandinskij, che costituisce il tratto
essenziale della sua pittura astratta, si pone come ‘altro’ rispet- to al mondo
delle cose, e quest’ultimo trova in essa la sua unità e il suo senso. Del resto
per Kandinskij, come per Wittgenstein, il misticismo riguarda «Non come il
mondo è [...], ma che esso è» 15; esso consiste nel «Sentire il mondo quale
tutto limitato» 16. Ciò significa dunque che la totalità del visibile ha un
limite: lo ‘sguardo’ delle cose, ossia la loro spiritualità. ‘Astrazione’,
d’altro canto, è proprio questo visi- bile limitato dal manifestarsi in esso di
ciò che visibile non è: è sen- tire il non-visibile nel visibile, è cogliere la
differenza nell’identità. Nell’astrattismo il segno mostra se stesso, nel senso
che non riman- da all’altro fuori di sé, all’oggetto, ma all’altro che è nel
segno senza essere tuttavia esso stesso segno. Così l’astrattismo rifiuta il
significato 11 del segno e nello stesso tempo ne esalta il senso, che si
mostra nel segno ritraendosi da esso. Non c’è dunque alcun contenuto, alcun
significato manifesto dell’immagine, ma questa è l’espressione di un «contenuto
interiore»: è questo a rendere il segno ‘astratto’, proprio nel suo presentarsi
come ‘evento’. In definitiva, se il cubismo ha in- franto la totalità,
lasciando solo frammenti, la composizione di Kan- dinskij mira non a ricomporre
tale totalità, bensì a ‘presentare’ il sen- so, facendo risuonare il «contenuto
interiore» del frammento stesso. Se lo ‘spirituale nell’arte’ di Kandinskij,
come il suo concetto di composizione, è interno al problema dell’icona,
altrettanto lo è il «mondo senza oggetto» del suprematismo di Malevicˇ. L’opera
su- prematista infatti ha un’intenzione iconica: non esprime una perdita, ma
una presenza, la presenza dell’‘altrimenti che essere’. Di qui quella
dimensione apofatica, propria dell’icona in genere e del suprematismo di
Malevicˇ in particolare, che, in opposizione ai presupposti dell’ico- noclastia
– tesi a identificare la verità con la rappresentazione logico- discorsiva –
mostra la verità che contiene in sé la propria negazione: la docta ignorantia è
la testimonianza di tale inesprimibile coincidenza. Per questo nel colore
suprematista, come nell’icona, non c’è alcuna ‘finzione’. L’essere di Malevicˇ
non è l’essere secondo la necessità, ovvero secondo il concetto, ma è l’essere
come evento: è qualcosa che si la- scia riconoscere solo al momento del suo
apparire e, in quanto even- to, l’essere è l’altro, poiché non è soggetto ad
alcuna identificazione: è l’essere così, che potrebbe anche non essere; in
questo senso, affer- ma Malevicˇ, l’essere è il ‘Nulla’, ovvero il «che», lo
spazio parados- sale proprio dell’opera d’arte, del tutto indipendente dal
pensiero logico. Questo «che» è negazione del significato, inteso come signi-
ficato logico, è negazione della rappresentazione, come rappresenta- zione
logica e nello stesso tempo è affermazione del senso, in quan- to condizione
dei significati possibili 17. Il «che» non può essere rico- nosciuto in
relazione ad altro, ma solo per se stesso, e tuttavia por- ta in sé l’alterità,
la differenza. Nel non significare nulla al di là di se stesso, l’evento – il
«che» – è assolutamente singolare: accade sem- plicemente, si dà, si mostra,
non come un mero oggetto per un sog- getto. Esso è il manifestarsi di qualcosa
che, presentando se stessa, presenta l’altro, vale a dire si presenta come
l’altro dell’essere oggetto di rappresentazione possibile. Per raggiungere
infatti questo essere, che è il Nulla, Malevicˇ è uscito dal mondo degli
oggetti e delle rap- presentazioni, aprendo uno spazio ‘assoluto’, in quanto
spazio del- l’‘altro’. Così l’astrazione di Malevicˇ è il liberarsi dalla
rappresentazio- ne per la presentazione: è questa l’autentica iconoclastia che
rivela il profondo legame del suprematismo di Malevicˇ con l’icona. 12 E,
se nel suo «mondo senza oggetto» il segno non è rappresenta- zione di qualcosa,
ma rivela l’altro, ovvero il Nulla – in quanto Nulla di rappresentabile e di
dicibile – questo Nulla non è da intendersi come nichilismo: non indica il
silenzio, la fine della pittura, ma espri- me la consapevolezza che si deve
continuare a dipingere perché il Nulla si riveli. È questa la radicalità della
pittura di Malevicˇ. A differenza di quella di Malevicˇ, l’opera di Mondrian
presenta uno spazio la cui assolutezza assume un preciso significato: tutto ciò
che è, è perché si dà solo spazialmente. Per questo in Mondrian il se- gno non
nasconde e in esso non ha luogo alcun ‘ritrarsi’; al contra- rio, nel segno si
mostra l’essenza, l’Idea, e non a caso egli definisce l’astrattismo come la
sola «arte concreta». In definitiva: nella pittura di Mondrian non si manifesta
alcun ‘altro’, né alcun «contenuto in- teriore»; essa si risolve totalmente
nella superficie del quadro, ossia in un piano assolutamente bidimensionale,
nel quale non c’è alcuna fin- zione di profondità, ma ci sono soltanto linee in
rapporto ortogonale che, tautologicamente, ‘dicono se stesse’. Così, se la
‘composizione’ di Mondrian è volta a ricostituire la totalità, tale
ricomposizione si dà proprio e solo all’interno della rappresentazione
pittorica, rappresen- tazione ‘assoluta’, in quanto indipendente da qualsiasi
riferimento ad altro da sé. L’arte di Klee, pur interrogandosi su problemi non
del tutto dis- simili, muove in direzione opposta rispetto a quella di
Mondrian. Se infatti quest’ultimo vuole abolire l’elemento soggettivo –
definito «tragico» – in nome dell’oggettività, Klee invece indaga proprio la
presenza del mondo nel soggetto. L’oggettività di Mondrian è il ri- fiuto del
mondo, in quanto particolarità e contingenza; Klee, al con- trario, non cerca
una realtà più vera di quella sensibile, non cerca cioè una realtà fissa e
immutabile, retta da leggi eterne, fuori dalla storia. Ciò a cui tende l’opera
di Klee è ‘frugare’ nel profondo, nel- la vita sotterranea, immergendosi nel
divenire delle cose stesse, nel- la genesi dei mondi possibili. Il compito
dell’artista è infatti, a suo giudizio, quello di ritornare sulla creazione, portando
avanti e tentan- do le vie di realtà possibili. Klee, in definitiva, non vede
nel mondo qualcosa di già-concluso, ma ne ripercorre la genesi, e tale genesi
si riferisce al sorgere della realtà nella percezione e quindi al costituirsi
dell’essere in significa- to. I presupposti di tutto ciò vanno rintracciati nel
fatto che è pro- prio sul piano della percezione che il mondo non si configura
come l’insieme delle cose già date, ma come un continuo generarsi. Così
l’immagine di Klee «richiama alla memoria» 18 possibilità diverse, so-
miglianze e dissomiglianze, e queste trovano la loro ragione sul pia- 13
no dell’agire del pittore, che non prende le mosse da una logica pre- fissata,
ma genera continuamente forme via via che procede, muoven- dosi appunto tra
somiglianze e differenze. I processi di formazione di Klee sono questa sorta di
«somiglianze di famiglia» – ancora una vol- ta nell’accezione wittgensteiniana
– e, in quanto tali, escludono la de- finitività di ogni forma. Non a caso
nell’opera di Klee la genesi dei mondi possibili riguarda l’essenza stessa
della pittura: si tratta di mo- strare l’apparire di qualcosa che nessuna
logica ha pre-visto, qualcosa che viene all’esistenza, apportando un «aumento
di essere» 19 rispetto a tutte quelle altre possibilità che comunque sono
presenti nel qua- dro come possibilità simultanee. Klee ha disvelato così
l’essenza dell’opera d’arte: quest’ultima non è la rappresentazione di un fatto
del mondo, ma è un evento nel qua- le si manifesta la possibilità di molteplici
determinazioni del mondo, senza che tale possibilità sia riconducibile ad alcun
principio logico di identità e di non-contraddizione. A ben vedere dunque tale
evento, che l’opera costituisce, altro non è che il darsi del contingente, del
ciò che è così ma poteva essere diversamente, in quanto condizione della stessa
necessità logica che regola ciò che nel mondo è già-dato; si trat- ta di quel
«che» – che si dia questo mondo e non un altro – il qua- le, come afferma
Wittgenstein, precede quella logica che presiede al «come» del mondo. Si tratta
insomma di quel senso che è la condizione dei tanti significati possibili:
l’opera è la presentazione del darsi di questo senso, e non la rappresentazione
del suo configurarsi come significato dato, di un senso che si può dunque
soltanto sentire, stan- do al suo interno e non contemplare dall’esterno. Per
questo la pit- tura di Klee ha il suo luogo d’elezione nel cuore stesso della
creazio- ne, lì dove hanno origine tutte le cose. 1 Sul problema dell’immagine
e del segno in genere nella riflessione filosofica medievale, si veda A.
Maierù, «Signum» dans la culture médiévale, in “Miscellanea Mediaevalia”,
Veröf- fentlichungen des Thomas-instituts der Universität zu Koln, Walter de
Gruyter, Berlin – New York, Signum negli scritti filosofici. Wittgenstein,
Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino (ed. or. Philosophische Untersuchungen,
Blackwell, Oxford. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni
1914-1916, Einaudi, Torino (ed. or. Tractatus logico-philosophicus, London
1922). 9 Nel Tractatus infatti i due termini si equivalgono, dal momento che
«La proposizione è un’immagine della realtà» Vedi su questo G. Di Giacomo,
Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Witt- genstein, Pratiche
Editrice, Parma Wittgenstein, Tractatus..., cSi veda in proposito E. Garroni,
Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano. L’espressione è usata nel
senso del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, Gadamer, Verità e metodo,
Bompiani, Milano (ed. or. Wahr- heit und Methode, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck),
Tübingen 1972).Giuseppe Di Giacomo. Giacomo. Keywords: l’inspiegabile, aura;
‘impiegatura como spiegatura dell’inspiegabile” sensibile, imagine, icona,
segno segnante segnato presentazione rappresentazione contenente contenuto
formante formato, Tintoretto, Sartre, Venezia. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Giacomo: impiegatura come spiegatura dell’inspiegabile” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Giametta: l’implicatura
conversazionale -- il volo d’Icaro e l’implicatura di Sanctis – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Frattamaggiore). Filosofo. Grice: “Giammetta is a good’un, but you gotta
be an Italian to appreciate him fully, or at least have gone to Clifton, as I
did!” -- Grice: Giametta’s philosophy is
full of Italianateness: ‘il volo d’Icaro,’ and then there’s his ‘Croceian
heterodoxies,’ and most Italianate of all, the Dantean reference to Nisso,
Chiron, and Folo in the “Inferno”! Sublime!” Cura Nietzsche a Firenze. Ha
scritto saggi di critica "eterodossa" su Croce. Cura Cesare. È anche
romanziere, estraneo a scuole o correnti, con storie dalla forte valenza
filosofica e morale; attitudine
stilistica: la prosa di Giametta pare quella di un centauro: sorprendente
incontro di letteratura e filosofia. Nella
"Trilogia dell'essenzialismo" (composta da “Il Bue squartato” -- L'oro prezioso dell'essere e Cortocircuiti),
elabora un proprio sistema di filosofia erede del naturalismo rinascimentale.
L’Essenzialismo è una nuova filosofia, fondata esclusivamente sulla natura,
intesa nei suoi due aspetti, sia come “naturans” (cf. Grice, implicans,
implicaturus) sia come “naturata” (cf.
Grice implicatum, implicatura, implicaturus, implicata). Grice: “The problem:
‘is ‘naturare’ a good verb?’ --. L’essenzialismo descrive la condizione umana
come determinata dalla combinazione di due elementi eterogenei: dall’essenza di
tutto ciò che esiste, che è divina, e dalle condizioni di esistenza, che sono
spesso fin troppo diaboliche, a cui sono sottoposte tutte le creature. Il con-temperamento
di questi due elementi (essenza ed esistenza), diverso in ogni individuo,
spiega le ragioni per cui si afferma o si nega la vita, si è ottimisti o
pessimisti...". Alter opera: “Oltre
il nichilismo” (Tempi moderni, Napoli); “Poeta e filosofo” (Garzanti, Milano); Palomar,
Han, Candaule e altri. Scritti di critica letteraria, Palomar, Bari Nietzsche e
i suoi interpreti. – cfr. ‘Grice interprete di se stesso” – “Erminio; o, della
fede. Dialogo con Nietzsche di un suo interprete. Spirali, Milano); “Saggi
nietzschiani” (La Città del Sole, Napoli); “Croce” (Bibliopolis, Napoli); “Il mondo”
(Palomar, Bari); “Madonna con bambina e altri racconti morali, BUR, Milano);
“Commento allo Zarathustra” Mondadori Bruno, Milano); “Filosofia come dinamita”
BUR, Milano), “Croce, il pazzo” (La Città del Sole, Napoli); “Eterodossie
crociane” (Bibliopolis, Napoli); “La caduta di Icaro” (Il Prato, Padova); Introduzione
a Nietzsche. Opera per opera, BUR, Milano, Il bue squartato e altri macelli. La
dolce filosofia, Mursia, Milano. L'oro dell'essere. Saggi filosofici, Mursia,
Milano. Cortocircuito e implicatura -- Mursia, Milano. Adelphoe, Unicopli,
Milano. Il dio lontano, Castelvecchi, Roma); “Tre centauri, Saletta dell'Uva,
Napoli. Filosofi, Saletta dell'Uva, Napoli. Una vacanza attiva, Olio Officina,
Milano. Grandi problemi risolti in piccoli spazi. Codicillo dell'essenzialismo;
Bompiani, Milano. Colli, Montinari e Nietzsche, BookTime, Milano. Capricci
napoletani. Pagine di diario (Marco Lanterna), OlioOfficina, Milano; “Il colpo
di timpano, Saletta dell'Uva, Napoli); “Dio impassibile” (Babbomorto, Imola.
Contromano, BookTime, Milano. Il bue squartato e altri macelli, Mursia, Milano. La passione della conoscenza. Pensa
Multimedia, Lecce,. Marco Lanterna, Le grandi oscurità della filosofia risolte
in lampeggianti parole. Marco Lanterna, Contributo alla critica di Sossio (in
Giametta, Capricci napoletani, OlioOfficina, Milano ). Friedrich Nietzsche Arthur Schopenhauer
Giorgio Colli Mazzino Montinari. DE SANCTIS, Francesco. - Nacque il 28
marzo 1817 a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis, in prov. di Avellino), al
centro di. una zona che fino a dieci anni prima era stata tutta feudale e di
cui gli antichi feudatari ancora sfruttavano la scarsa ricchezza boschiva,
mentre il potere era gestito direttamente dal clero e dai piccoli o medi
proprietari terrieri, anch'essi strettamente legati alla Chiesa sul piano
economico -, sociale e Politico. In questo ambiente il D. trascorse solo i
primi nove anni, ma esso costituì sempre per lui un punto di riferimento,
perché sempre egli lo ebbe presente come "polo reale" e, insieme,
come "polo negativo" della storia: la realtà da cui partire e
rispetto alla quale operare per tutte le conquiste del "progresso"
(morale, culturale, civile). La famiglia De Sanctis apparteneva a quel
ceto di piccoli proprietari del Sud che produceva i preti, gli avvocati e i
pochi medici. Avvocato era il padre del D., Alessandro, che però viveva del
reddito della sua piccola proprietà, prima ampliata attraverso un "buon
matrimonio" locale con Maria Agnese Manzi (1785-1847), poi
progressivamente sempre più dissestata; preti i due zii Carlo e Giuseppe;
medico lo zio Pietro (ed anche per costui la qualifica professionale servì
soltanto a sostenere l'orgoglio del ceto dei "galantuomini"). Come
molti esponenti del "galantomismo" meridionale, don Giuseppe e Pietro
De Sanctis avevano aderito alla carboneria (in funzione patriottica e
antifeudale): dopo aver partecipato ai moti carbonari del 1820-21, vissero in
esilio per dieci anni, serbando intatto lo spirito antiborbonico, ma non il
patrimonio. L'altro prete, invece, don Carlo, fece fortuna in Napoli come
titolare di una stimata "scuola di lettere" (un ginnasio
privato). Nel 1826 il D. fu trasferito come ospite ed allievo presso lo
zio Carlo. Dai "ricordi" del D. (La giovinezza) si può ricavare
l'elenco delle discipline da lui studiate, con fortissimo impegno, per tutta la
durata del corso quinquennale tenuto dallo zio ("Grammatica, Rettorica,
Poetica, Storia, Cronologia, Mitologia, Antichità greche e romane" e
inoltre "l'Aritmetica, la Storia Sacra, il Disegno"), nonché una
serie di notazioni sul metodo d'insegnamento tutt'altro che critico e innovativo
("Un grande esercizio di mernoria era in quella scuola, dovendo ficcarsi
in mente i versetti del Portoreale, la grammatica di Soave, le Storie di
Goldsmith, la Gerusalemme del Tasso, le ariette del Metastasio; tutti i sabati
si recitavano centinaia di versi latini a memoria"). Poiché i cinque
anni di studi "letterari" avevano un completamento canonico in due
anni di studi "filosofici", nel 1831 fu iscritto alla scuola di don
Lorenzo Fazzini, matematico e fisico illustre, di dichiarate convinzioni
sensistiche. Per due anni, perciò, egli visse immerso nello studio di
"Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, Lamettrie", o del
Genovesi, ma (e questo è un tratto molto importante, destinato a rimanere come
atteggiamento mentale) nell'ottica "moderata" che era propria sia dell'ambiente
familiare sia del maestro ("Il professore diceva che il sensismo en una
cosa buona sino a Condillac, ma non bisognava andare sino a Lamettrie e ad
Elvezio .... Voltaire, Diderot, Rousseau mi parevano bestemmiatori, avevo quasi
paura di leggerli"). Lo stesso amalgama di aperture progressiste e di
scarsa chiarezza ideologica fu nell'esperienza successiva (quella degli studi
giuridici), in un'altra scuola privata, dove (con l'abate Garzia) il D. imparò
ad apprezzare soprattutto i codici napoleonici, aprendosi così alla dialettica
giuridica liberale. Questi studi avrebbero dovuto rappresentare il punto
d'arrivo di tutto il lavoro precedente (poiché, scartata una primitiva ipotesi
di carriera ecclesiastica, si pensava di far di lui un avvocato), ma a
determinare una diversa scelta di vita intervenne una grave malattia dello
"zio Carlo", in seguito alla quale il peso della scuola cadde sulle
fragili spalle del D. diciottenne, ed egli divenne fonte di sostegno economico
per la sua numerosa famiglia (dopo la morte della primogenita Genoviefa,
restavano ben cinque tra fratelli e sorelle, che sempre in qualche modo
gravarono su di lui, con molte preoccupazioni e ben poche gratificazioni
affettive o sociali). Un altro avvenimento, questo di qualche anno prima (1833),
aveva preparato nel D. tale mutamento di interessi e di scelte: il suo ingresso
nella "scuola di lingua italiana" del marchese Basilio Puoti: di un
"maestro", cioè, che rappresentava in quel momento uno dei punti di
riferimento più vivi della cultura napoletana e che presto prese a stimarlo, ad
amarlo e a guidarlo. Ed è in ambito puotiano che nascono i primi scritti a
stampa del D.: la sua volgarizzazione di un brano dell'Eudemia di Giano Nicio
Eritreo (Discorso contro gl'ippocriti), apparsa nel 1835 sul Tesoretto, e la
Dedicatoria (sua e del cugino Giovannino) al Puoti dell'edizione (da entrambi
curata) del Volgarizzamento delle Vite de' santi Padri di D. Cavalca e del
Prato spirituale di Feo Belcari (1836). Non è da qui però che si può
ricavare l'immagine complessiva di ciò che egli era alla fine del suo corso
ufficiale di studi e all'inizio del suo primo magistero. Certo, la
competenza grammaticale e testuale e la sensibilità alle cose della lingua
(alla lingua come sistema formale in cui penetrare con il rigore dell'intelligenza,
della scienza e del gusto) erano allora e restarono per sempre una componente
molto importante del D. studioso e maestro (questo va ribadito, anche per
opporsi a una troppo lunga sottovalutazione critica dell'eredità puristica
attiva all'interno della metodologia critica desanctisiana); ma dalla sua
precedente esperienza culturale egli aveva ricavato anche un complessivo
eclettismo nozionistico e ideologico, un evidente taglio
"settecentesco" nell'impostazione del sapere e in più una vastissima
pratica di letture, che egli sottolinea con forza nella Giovinezza e che si
riverbera in tutta la sua opera. Ricostruendo dai suoi "ricordi",
risulta che il D., diciottenne, aveva letto con profondo coinvolgimento (oltre
a tanti latini, greci, filosofi, storici e giureconsulti) un'incredibile
quantità di classici italiani maggiori e minori, dai trecentisti a Metastasio,
e poi Parini, Alfieri, Verri, Monti, Foscolo, Manzoni, Berchet, Leopardi, e
Fénelon e Voltaire, Young e Scott (ma la zona "moderna" ed
"europea" andava rapidamente allargandosi: a poco più di venti anni,
il suo patrimonio di lettura spaziava con sicurezza da Shakespeare a
Richardson, da Milton e Klopstock a Chateaubriand, Lamartine e Hugo). La
professione dell'insegnamento diventò per il D. definitiva (grazie
all'intervento del marchese Puoti), più o meno contemporaneamente nel settore
della scuola pubblica (prima alla scuola dei sottufficiali; poi, dal 1841, al
Collegio militare della Nunziatella, prestigiosa accademia militare borbonica)
e in quello privato (con la "scuola di Vico Bisi", che il Puoti aprì
per lui, affidandogli all'inizio i suoi allievi più giovani, poi di fatto - a
grado a grado - la sua stessa funzione docente). A quest'ultima esperienza (di
cui restano importanti documenti nei Quaderni discuola e una vasta rievocazione
nella Giovinezza) si attribuisce, per tradizione ormai consolidata, la
definizione di "prima scuola" del De Sanctis. Ma sarebbe forse più
giusto comprendere nella definizione l'esperienza didattica complessiva del
decennio 1838-48: il decennio che consacrò il successo indiscusso del D.
maestro, il quale intanto (nelle diverse fasi della sua frenetica attività)
metteva a punto il suo metodo e il suo atteggiamento critico, mentre andava
costruendo intorno a sé rapporti affettivi e intellettuali che sarebbero
rimasti centrali in tutta la sua vita, e mentre andava maturando fondamentali
scelte ideologiche, filosofiche, politiche. I numerosi Quaderni di
scuola, che documentano il primo insegnamento desanctisiano, furono in massima
parte scritti dagli alunni sotto dettatura del maestro e finalizzati a
raccogliere il "succo" dei diversi corsi di lezioni, rispetto ai
quali si configuravano come veri e propri libri di testo costruiti in parallelo
con l'esperienza scolastica. Si tratta, perciò, di una testimonianza ampia e
diretta del suo progressivo evolversi (a stretto contatto con la cultura del
proprio tempo) dal purismo e dall'illuminismo moderato fino all'hegelismo,
attraverso l'eclettismo, il neocattolicesimo, la partecipazione alla temperie
vichiana e a quella dello storicismo romantico. In vista della loro funzione
manualistica, i quaderni sono divisi secondo le "materie
d'insegnamento" della scuola (alcune presenti fin dall'inizio, altre
introdotte successivamente, come lo stesso D. testimonia nella Giovinezza). La
grammatica fu l'insegnamento originario della scuola, ma i quaderni
"grammaticali" più importanti che ci restano appartengono agli ultimi
anni e si configurano perciò come approdo della ricerca desanctisiana in
materia (con l'acquisizione dello storicismo romantico, del giobertismo, di
Hegel). I più antichi tra i quaderni in nostro possesso sono quelli di Lingua e
stile (1840-41), dove, dopo una serie di precetti di radice
puristico-illuministica (con forte incidenza della "grande
Enciclopedia" e in particolare di D'Alembert), troviamo documentato il
primo impatto con il pensiero romantico tedesco (in particolare con F.
Schlegel) e tracciata la prima sintesi di storia della letteratura italiana
("Sviluppo della letteratura italiana"). Questa ha già alcune
caratteristiche che resteranno immutate nel D. maggiore (si muove in ambito
postilluministico, con grande attenzione all'Europa e al presente letterario,
ma presenta come modello privilegiato di scrittore "contemporaneo" il
Manzoni, con un'accentuazione del punto di vista neocattolico, che andrà
attenuandosi in seguito). Una lunga storia della poesia è nei quaderni dedicati
alla Lirica (1841-42), in cui l'approdo è rappresentato dal Leopardi; i quaderni
sul Genere narrativo (1842-43) hanno le loro fonti in Villemain, Sismondi,
Voltaire, F. e A. W. Schlegel. Un salto di qualità notevolissimo si avverte nei
corsi del 1843-44 (Estetica) e del 1844-45 (Estetica applicata), in cui
l'esigenza di definire teoricamente i problemi dell'arte trova un sicuro
sostegno nelle teorie estetiche di Gioberti, mentre Hegel fa la sua apparizione
nel corso di Storia della critica (1845-46), che introduce una più stimolante
rivisitazione della lirica. Nei due anni successivi egli presenta ai suoi
allievi l'Estetica di Hegel nella traduzione francese di Ch. Bénard. Alla luce
dei nuovi principî affronta inoltre l'esame della Letteratura drammatica
(1846-47), soffermandosi a lungo sulle opere di Shakespeare. Dell'ultimo anno di
scuola (1847-48) ci resta anche un quadernetto di Storia e filosofia della
storia, che ha come punti di riferimento costanti Vico, Sismondi, Hegel e che
aiuta a chiarire il senso dei "compendi" (autografi) della Storia
d'Inghilterra di Hume e della Storia civile del Regno di Napoli di Giannone.
Questo blocco di materiali storiografici conferma il livello criticamente e
ideologicamente molto avanzato della ricerca desanctisiana alla fine della
"prima scuola", attestando una visione laica della storia, un
rigoroso rifiuto di ogni astrattismo e una forte rivendicazione della
"concretezza" in ogni ambito d'analisi, nonché una chiara assunzione
di metodo hegeliano in direzione progressista.Negli entourages di Puoti, della
Nunziatella, della sua stessa scuola (e delle altre che dopo il 1830 fiorirono
a Napoli, inaugurando il clima "filosofico" vichiano-hegeliano), il
D. aveva finito per trovarsi al centro dell'intellettualità progressista
napoletana, non si sa fino a che punto compromettendosi con le frange
estremistiche di essa. Fatto sta che molti giovani della sua scuola si
schierarono a combattere sulle barricate del maggio 1848 (dove fu ucciso quello
che era certamente il più colto e il più ideologizzato fra tutti: Luigi La
Vista) e che dopo quella data il D. fu in qualche modo implicato in una setta
segreta rivoluzionaria di ascendenza musoliniana, l'Unità italiana, e in un
attentato per il quale, tra gli altri, furono condannati a morte L. Settembrini
e C. Poerio ("Si facevano i più matti deliri: porre una mina sotto Palazzo
Reale pareva un gioco ... Fu la prima volta e sola che fui in convegni
segreti"). "Espulso", perciò, dalla Nunziatella e da "ogni
altra scuola anche privata" (come recitano i rapporti della polizia
borbonica, che cominciava ad interessarsi di lui), nel 1849 il D. si rifugiò in
Calabria presso un noto e attivo "patriota", il barone Francesco
Guzolini, in casa del quale fu arrestato il 3 dic. 1850 con l'accusa di essere
"uno dei principali agenti" della "setta diretta da G. Mazzini e
da Ledru-Rollin". Trasferito a Napoli e rinchiuso in Castel dell'Ovo, subì
due anni e mezzo di "carcere duro", e fu infine giudicato
politicamente molto pericoloso ("attendibilissimo") e perciò bandito
dal Regno e imbarcato per gli Stati Uniti (3 ag. 1853). 1 suoi allievi-amici
napoletani (in particolare A.C. De Meis e D. Marvasi, a quel tempo già in
esilio) lo aiutarono a sbarcare a Malta, per raggiungere il Piemonte,
inserendosi nell'allora foltissima schiera degli illustri esuli politici ivi
rifugiatisi (tra i meridionali, sono da ricordare: B. Spaventa, R. Bonghi, P.
S. Mancini, S. Tommasi, M. d'Ayala, G. Nicotera, E. Cosenz). Gli scritti
del periodo calabrese e della prigionia rappresentano la punta massima della
"spinta a sinistra" che segnò il pensiero desanctisiano a partire dal
1848. In Calabria furono elaborati due saggi (Introduzione all'Epistolario di
G. Leopardi e Sulle opere drammatiche di F. Schiller), in cui l'interpretazione
dei testi esita in senso fortemente politico (sia Leopardi sia Schiller segnano
la fine di un'epoca, quella dell'individualismo, dalla quale va nascendo
un'epoca nuova - dell'"Umanità" - impegnata in senso sociale). In
Calabria fu probabilmente impostato anche un dramma in prosa, il Torquato
Tasso, terminato negli anni di prigionia (il modello più vicino è quello
goethiano; il linguaggio è leopardiano; evidente è l'identificazione
personale-politica dell'autore con l'intellettuale perseguitato). Negli stessi
anni il D. studiò la lingua tedesca e se ne servì sia per tradurre il Manuale
di una storia generale della poesia di K. Rosenkranz, sia per leggere in lingua
originale la Logica di Hegel, che ridisegnò in una serie di Quadri sinottici
(praticamente una sintesi completa dell'intera opera). Ma il testo più
interessante elaborato in Castel dell'Ovo (nel 1850-51) è certamente La
prigione: un carme di 256 endecasillabi sciolti (l'unica prova poetica, se si
esclude qualche poesia d'occasione), che rappresenta il punto massimo di
"giacobinismo" realizzato dal D., con il rifiuto e la denuncia di
ogni metafisica (un'inversione fortissima rispetto al neocattolicesimo degli
anni della "prima scuola"), e con una proposta politico-ideologica
chiaramente ispirata all'interpretazione "di sinistra" della filosofia
di Hegel. Fortissima è anche la svolta di atteggiamento nei confronti del
Leopardi: all'immagine sentimentalistica e scettica divulgata nel clima del
primo romanticismo napoletano si sostituisce un'immagine combattiva e
materialistica del poeta di Recanati (che offre, del resto, il modello
stilistico e strutturale all'intero carme. costruito come storia metaforica del
pensiero umano, in rivolta per la libertà, contro la tirannia, l'oscurantismo,
l'ingiustizia sociale). A Torino il D. rimase dal settembre 1853 al marzo
1856, in un vitale rapporto d'amicizia con De Meis e Marvasi e con B. Spaventa,
ma molto isolato rispetto al potere politico e culturale. Il suo unico lavoro
fisso fu, allora, l'insegnamento dell'italiano nell'istituto femminile della
signora Eliott (dove si verificò un episodio d'innamoramento - per la
giovanissima Teresa De Amicis - che riempirà d'illusioni e di malinconie gli
anni successivi); ma ebbe anche alunni privati dal nome prestigioso (come
Virgina Basco - futura destinataria del Viaggio elettorale -, Ainardo di Cavour,
Luigi di Larissé). L'esperienza centrale del periodo torinese si realizzò,
tuttavia, attraverso due corsi di "lezioni pubbliche" su Dante:
conferenze organizzate dai suoi amici per soccorrerlo "nella dignitosa
povertà dell'esilio" e che di fatto lo rivelarono alla cultura
italiana. Nel 1855 egli prese a collaborare alle appendici letterarie:
sul Cimento di Torino pubblicò alcuni saggi fondamentali, vero e proprio punto
d'arrivo della sua critica "militante". E allo stesso anno risale
anche il primo episodio di giornalismo politico della sua vita: la
pubblicazione, sul Diritto di Torino, di una serie di interventi contro il
"murattismo" (cioè contro l'ipotesi di una sostituzione
"diplomatica" della dinastia borbonica di Napoli con la discendenza
di Gioacchino Murat), che rappresenta la prima fase di avvicinamento del D.
alla monarchia sabauda (questa viene proposta come unico possibile strumento di
unificazione della nazione, in un'ottica di "patriottismo costituzionale"
cui, in seguito, egli resterà sempre sostanzialmente fedele). Nel 1856,
sempre per interessamento dei suoi compagni d'esilio, fu finalmente gratificato
di un importante incarico pro- fessionale: l'insegnamento della letteratura
italiana presso l'Istituto universitario politecnico federale di Zurigo, dove
rimase fino al 1860. Gli anni di Zurigo furono anni di nostalgia e di
isolamento (anni di réve, com'egli stesso diceva), ma produssero almeno due
conseguenze molto importanti: l'elaborazione di lezioni che sarebbero rimaste
come una pietra miliare della sua ricerca critica (soprattutto su Dante,
Petrarca e la poesia cavalleresca) e il contatto con ambienti culturali e
politici di vera e propria avanguardia in Europa (Wagner e Matilde Wesendonck,
Moleschott, gli Herwegh, Burckhardt, Vischer, ecc.) che egli ebbe modo di
conoscere e di valutare criticamente (per esempio, prendendo le distanze
dall'irrazionalismo di Wagner e di Schopenhauer molto prima che le mode
irrazionalistiche toccassero l'Italia, o cercando di capire i limiti concreti
del ribellismo dei mazziniani quando Mazzini era ancora un mito in
Italia). Dei corsi danteschi di Torino non restano manoscritti, ma
ciascuna lezione fu ricostruita su appunti di allievi (Marvasi, D'Ancona), in
vista di una non mai realizzata pubblicazione in volume. Le conferenze torinesi
(undici di argomento teorico, diciannove dedicate all'Inferno, cinque al
Purgatorio) sviluppano presupposti romantico-hegeliani, con particolare
riguardo ai problemi dell'"unità" e della "forma" del poema
di Dante. Nell'esaltazione "passionale" dell'Inferno, emergono le
grandi figure alla cui analisi è legata la fama popolare del D. dantista
(Farinata, Francesca, Ugolino) e si afferma il taglio monografico che sarà
proprio dei maggiori saggi desanctisiani. Semplificando la materia dei corsi, e
prolungandola fino a percorrere tutta la Divina Commedia, il D. insegnò Dante a
Zurigo dal 1856 al 1859 (anche di queste lezioni ci resta la ricostruzione da
appunti). Da tale lavoro deriva tutto ciò che egli pubblicò successivamente su
Dante e sul suo tempo (ivi compresi i capitoli della Storia, che ne
tesaurizzano le idee-forza), ma i risultati metodologici più avanzati da lui
raggiunti negli anni d'esilio sono testimoniati dai contemporanei scritti
giornalistici (che furono poi pubblicati, a partire dal 1866, tra i
Saggicritici). Il Pier delle Vigne (1855) è addirittura una lezione torinese
trascritta, per LaNazione di Firenze, da A. D'Ancona: la celebre lettura del
canto esalta i "grandi caratteri" e le "grandi passioni"
dei personaggi e ne analizza le sfumature, le "situazioni", i
contrasti; il saggio La Divina Commedia(versione di Lamennais), anch'esso del
1855, dichiara la fine dell'antico metodo retorico e il rifiuto del metodo
"storico" di oscuola francese"; quello intitolato Carattere di
Dante e sua utopia (1856) individua il "centro" della grandezza
poetica di Dante nella sua "anima di fuoco" in cui "si riverbera
l'esistenza in tutta la sua ampiezza". Il punto d'arrivo della ricerca
zurighese (molto più problematica di quanto appare nelle lezioni) è suggerito
nel saggio del 1857 Dell'argomento della Divina Commedia, che afferma da una
parte il rifiuto del sistema e dall'altra la validità degli strumenti d'analisi
hegeliani, a stretto contatto col testo letterario (un approdo, in sostanza,
per il D. definitivo). Negli scritti letterari d'argomento contemporaneo
o d'occasione (destinati a giornali torinesi e anch'essi in massima parte
raccolti poi nei Saggi), il D. esplicò, negli anni d'esilio, il suo impegno
"militante", ma sempre a stretto contatto con i problemi di metodo
critico che sono al centro dell'insegnamento dantesco. Il più esplicitamente
politico di questi saggi è L'ebreo di Verona (febbraio 1855), che consacrò, a
livello nazionale, la sua fama di polemista laico e liberale (l'autore del
romanzo, il gesuita A. Bresciani, ignorando le conquiste del cattolicesimo
manzoniano, ripropone la religione in funzione antiliberale e antiprogressista:
il suo ruolo storico, dopo la sconfitta del '48, è "aggiungere i suoi colpi
codardi alle mannaie del carnefice"). La militanza critica passa sempre
attraverso una precisa idea (romantico-hegeliana o posthegeliana) della
letteratura. In Satana e le Grazie (1855) essa è espressa con molta chiarezza:
di fronte al poemetto di G. Prati "la fantasia rimane inerte: il cuore
riman freddo", perché "in questo lavoro non vi è creazione e quindi
non vi è fantasia ... Prati ha una viva immaginazione, e per questa facoltà è
forse il primo poeta di second'ordine che sia oggi in Italia"; del resto,
i suoi testi poetici hanno tutti i limiti e i difetti della "declamazione
rettorica". E questa non è un difetto esclusivo degli scrittori moderati:
essa è condannabile anche quando sia posta al servizio delle più ardite analisi
politiche, come nella Beatrice Cenci di F. D. Guerrazzi (1855), avvolta nel
"vecchio repertorio" delle "metafore" e dei "luoghi
comuni". C'è un solo poeta italiano che abbia attinto i livelli della
"grande poesia" nel mondo moderno, dice in un importantissimo saggio,
e questo è Leopardi. Il saggio s'intitola Alla sua donna. Poesia di G. Leopardi
ed è, probabilmente, lo scritto leopardiano più importante del D., che, con
parametri schilleriani e byroniani, traccia qui una straordinaria immagine di
poeta laico, interprete della civiltà contemporanea perché capace di farsi
"critico e filosofo" e di far "scintillare" la poesia dalla
"meditazione". Ma, a parte l'eccezione leopardiana, il clima del
presente letterario fa temere un ritorno alla identificazione tra poesia e
retorica (Sulla mitologia - Sermone di V. Monti, 1855). A questa pericolosa
tendenza il D. oppone la difesa di Alfieri contro i critici francesi
contemporanei (Veuillot e la Mirra, Giulio Janin, Janin e Alfieri, Vanin e la
Mirra), ed evidentemente questa polemica ha un profondo retroterra politico: la
rivalutazione della fase "eroica" del classicismo settecentesco,
nella cultura "rivoluzionaria" dell'intera Europa. Perciò questa
rivalutazione riguarda anche Foscolo (Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo
e "Storia del secolo decimonono" di G. G. Gervinus, 1855) e la
polemica colpisce anche un critico come A. de Lamartine ("Cours familier
de littérature" par M. de Lamartine, 1857). Nello stesso ambito il modello
di V. Hugo viene proposto come sostanzialmente positivo (Triboulet e "Le
contemplazioni" di V. Hugo, 1856) ed è possibile perfino il recupero di un
classico manierato come Racine, perché capace di creare dei grandi personaggi
drammatici (La "Fedra" di Racine, 1856). In questo ambito, infine, si
configura una delle prime, ma già precise professioni di "realismo"
del D. critico (Saint-Marc Girardin, 1856): "Il sentimento astratto non è
poesia, non è cosa vivente ... La poesia dee riprodurre la realtà
"vivente" ... Il poeta dee rappresentarci un uomo vivo", perché
questo, in quanto tale, "ègià un perfettissimo personaggio
poetico". La progressiva conquista di un punto di vista
"realistico" con cui guardare al testo letterario è registrata dai
ricchi appunti che ci restano (a cura di V. Imbriani) delle lezioni zurighesi sul
Poema epico. Proprio in questa sede il D. usa per la prima volta il termine
"realismo" (ancora nuovo nella critica francese più avanzata da cui
lo deriva), mentre ribadisce il rifiuto del "sistema" hegeliano come
strumento di critica letteraria e conferma la validità degli strumenti
d'approccio al testo ricavabili dall'estetica hegeliana. Il messaggio
filosofico più complessivo, nell'ultima fase del suo esilio e del suo vitale
contatto con le avanguardie europee, fu affidato dal D. al dialogo Schopenhauer
e Leopardi (1858). Anche questo testo ha una struttura leopardiana (ispirata
alla provocatoria ironia delle Operette morali), ma s'interessa a Leopardi solo
nell'ultima parte, dedicando molto spazio all'illustrazione del pensiero di
Schopenhauer, indicato come il liquidatore di un'epoca (quella
"dell'Ottantanove", "del Trenta", "del
Quarantotto") che egli considera "un'illusione, o piuttosto ... una
imbecillità generale". La filosofia di Schopenhauer è, perciò, "nemica
della libertà, nemica dell'idee, nemica del progresso"; in politica, egli
ripropone "lo Stato monarchico, la nobiltà, il clero, i privilegi",
nega la libertà di stampa e odia Hegel come "corrompiteste" (la moda
di Schopenhauer in Europa è, in sostanza, un grave sintomo di regresso storico:
la sua tardiva riscoperta equivale a un'abiura di tutto il progressismo
europeo). A prima vista, il rifiuto dell'ottimismo ideologico accosta Leopardi
a Schopenhauer; ma, in realtà, c'è tra i due una vera e propria opposizione, e
Leopardi è tanto interno alla fase "eroica" (progressista e
rivoluzionaria) dell'umanità, quanto ad essa è estraneo e ostile Schopenhauer.
La differenza non è solo nel "materialismo" di Leopardi (opposto allo
"spiritualismo" di Schopenhauer) o nelle sue scelte di stile
"inamabile" (mentre Schopenhauer si affida al fascino della
retorica), ma anche e soprattutto nell'effetto di lettura che Leopardi produce
come uomo e poeta veramente "grande" (egli "non crede al
progresso, e te lo fa desiderare non crede alla libertà, e te la fa amare , è
scettico, e ti fa credente"). Dopo le speranze e le delusioni della
seconda guerra d'indipendenza, sulla scia dell'impresa dei Mille, il D. lasciò
improvvisamente Zurigo e il politecnico e ritornò a Napoli, dove svolse un
ruolo, probabilmente importante, nella mediazione che portò il "partito
garibaldino" (e lo stesso Garibaldi) ad accettare il plebiscito
"piemontese". Per nomina di Garibaldi, appunto in fase di
preparazione del plebiscito annessionistico, fu governatore della provincia di
Avellino e si mostrò attivissimo organizzatore del consenso politico, della
guardia nazionale locale, della lotta al banditismo (che era già esploso
violento in Alta Irpinia, recuperando antiche radici sanfediste). Subito dopo,
fu direttore dell'Istruzione a Napoli e, in quindici giorni (tra l'ottobre e il
novembre del 1860), tesaurizzando tutte le precedenti esperienze di riforme
liberali degli studi (in particolare quella del 1848), impostò una vera e
propria rifondazione della scuola napoletana. All'università chiamò ad
insegnare illustri rappresentanti della cultura liberale (da Spaventa a
Ranieri, a Bonghi, a Imbriani, a Villari, a Mancini); in sostituzione del liceo
gesuitico istituì un ginnasio-liceo statale; per la formazione dei maestri
elementari (sua grande preoccupazione di progressista ottocentesco) deliberò
l'istituzione di scuole "normali" in tutte le province della
luogotenenza (non senza ragione, il 1860 restò per sempre nei suoi ricordi come
il periodo eroico della sua vita). Eletto deputato al primo Parlamento
nazionale unitario, fu ministro della Istruzione pubblica con Cavour e con
Ricasoli (dal marzo 1861 al marzo 1862), continuando sulla linea già tracciata
a Napoli, ma senza ripetere l'exploit del 1860, nell'ambito della troppo vasta
e ibrida realtà nazionale (in pratica, rinunciando .all'ambizione di produrre
una "legge di riforma" della scuola italiana, si limitò ad estendere
con decreti all'Italia unita la legge Casati). Ciò che resta di più indicativo
del primo periodo di attività come ministro è proprio la linea di tendenza
teorizzata nel programma iniziale e vanificata dall'opposizione dei gruppi
reazionari ("Noi abbiamo decretato la libertà in carta. Sapete, o signori,
quando questa libertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo
effettivamente uomini liberi; quando della plebe avremo fatto un popolo libero
... Provvedere all'istruzione popolare sarà la mia prima cura"). In questo
ambito si pone anche la battaglia per istituire una rete capillare di
"scuole tecniche" e "istituti professionali", nonché
l'impegno per la qualificazione degli studi scientifici (ma molto avversate
furono anche in questo campo le più importanti scelte progressiste, come quella
che portò il materialista e "rivoluzionario" J. Moleschott ad insegnare
fisiologia nell'università di Torino). Dopo questo incarico ministeriale,
pur sempre rieletto in Parlamento (con la sola parentesi di un anno, tra il
1865 e il 1866), il D. rimase estraneo e in forte opposizione rispetto ai nuovi
gruppi di potere (le "consorterie", che vedeva via via riavvicinarsi
ai "retrivi" e ai "codini"), su una linea mediana di
progressismo monarchico e antirivoluzionario. Su questa linea si pose il
giornale L'Italia (che egli diresse dal 1863 al 1867), in appoggio al gruppo
emergente della Sinistra costituzionale, che nel 1865 ottenne proprio nel Sud
il suo primo successo elettorale. L'appassionamento garibaldino ai tempi di
Mentana, la firma del manifesto di opposizione crispina e un importante
discorso di denuncia contro il riemergere del clericalismo (in campo
ideologico, politico ed economico) segnarono, nel 1867, i punti più alti della
sua partecipazione politica. Nel 1863 aveva sposato, a Napoli, Maria
Testa dei baroni Arenaprimo, ma il matrimonio agiato (da cui non nacquero figli)
non fu sufficiente a sconfiggere la precarietà economica in cui tutta la sua
vita si svolse, né fornì uno stabile nutrimento al suo complesso bisogno di
réve e di comunicazione sentimentale. All'interno di una sempre meno
inconfessata delusione politica e personale, egli tornò, quindi, agli studi che
gradualmente ridivennero protagonisti della sua vita: dal 1866 al 1872 pubblicò
in volume i Saggi critici (dove raccolse gli scritti giornalistici
dell'esilio), il Saggio critico sul Petrarca, la Storia dellaletteratura
italiana, i Nuovi saggi critici. Il Saggio critico sul Petrarca (1869)
ripropone un corso di conferenze tenuto a Zurigo nell'inverno 1858-59, con
"pochi mutamenti" e con una "introduzione" del 1868. Esso
si articola in dodici capitoli (tre dedicati alla personalità del poeta e al
suo "mondo" culturale; gli altri strutturati come lettura tematica e
analisi del Canzoniere) ed è finalizzato a fornire un preciso punto di vista
per l'interpretazione del testo petrarchesco, sulla base della teoria elaborata
dal D. a partire dalla "prima scuola" e consolidata appunto negli
anni dell'esilio (tesaurizzazione dell'illuminismo, del romanticismo,
dell'hegelismo; rifiuto del metodo "sistematico" e dei suoi esiti
panlogistici; rivendicazione della "poesia" come "forma uscita
dal più profondo della vita reale" e come "sostanza vivente",
secondo i grandi modelli di Omero, Dante, Ariosto, Shakespeare). In
quest'ottica, Petrarca va riscoperto, pur con i limiti che la cultura romantica
ne aveva segnalato, e va rivalutato per quel che lo separa dal petrarchismo
(cioè dalla sua riduzione a modello "rettorico" e
"platonico"). La "poesia" di Petrarca va, quindi,
individuata in particolari "situazioni" liriche (soprattutto nella
"malinconia" e nei momenti di "abbandono" sentimentale),
pur tra gli ostacoli frapposti dall'educazione "rettorica" e da una
visione "spiritualistica" della vita. Particolare interesse è rivolto
alla figura di Laura (cui sono intitolati quattro capitoli): Laura è "la
creatura più reale ... che il Medioevo poteva produrre", e la sua
"realtà", tutta interiorizzata nella poesia del Canzoniere, non si
spegne, ma si ravviva dopo la morte del personaggio (proprio in questa
"situazione" Petrarca tocca le sue rare punte di "poesia
sublime"). La Storia della letteratura italiana nacque come testo
scolastico ed è, infatti, una sintesi didattico-pedagogica di materiali in gran
parte preelaborati secondo una precisa metodologia critica (quella appena
illustrata a proposito del saggio petrarchesco) e utilizzati per un progetto
complessivo di informazione-formazione (il progetto dell'"educazione
nazionale") nel quale convergono tutte le attese (ed anche i timori) del
D. "letterato" e "politico" agli inizi degli anni Settanta.
Divisa in venti capitoli, la Storia disegna una linea di svolgimento della
letteratura italiana che va dal XIII al XIX sec. secondo il "principio
direttivo" (ufficialmente dichiarato dal D. in uno dei suoi ultimi
scritti) della "successiva riabilitazione della materia" (di "un
graduale avvicinarsi alla natura e al reale", in parallelo con i progressi
della scienza, della cultura, del costume, della vita politica, della stessa
morale). Ma la finea risulta tutt'altro che retta e univoca: sia perché
l'ipotesi del "graduale" svolgimento della storia letteraria verso
mete progressive è fortemente contraddetta dalle fasi di stasi, d'involuzione,
di "ritorno"; sia perché continuamente emergono distanze o
divaricazioni tra livello storico e livello letterario (e qui s'innesta la
forte rivendicazione della "forma" come valore specifico del testo
letterario); sia, infine, perché (in base alla predilezione per il metodo
monografico e per l'analisi testuale) il racconto della Storia alterna lunghe
soste con rapidissimi voli, grandi indugi analitici con improvvise e fortissime
elisioni. La Storia procede, perciò, per grandi nodi tematici e testuali,
muovendosi in un sistema "a spirale" di allusioni e richiami tra
fenomeni, autori, epoche, con un disinibito oscillare del linguaggio dal
familiare e dal basso all'oratorio e al patetico, non senza momenti di
carattere mimetico a ciascun livello di scrittura (sono queste, del resto, le
caratteristiche peculiari del suo composito stile). Seguendo il cammino della
Storia a partire dai primi capitoli, troviamo anzitutto ISiciliani come
"scuola poetica ... feudale e cortigiana", legata alla potenza della
corte sveva e destinata a spegnersi prima che "venisse a maturità",
radicandosi nelle "classi inferiori". Proprio questo processo di
radicamento si analizza nel ben più complesso capitolo intitolato I Toscani, ma
centrato soprattutto sulla cultura bolognese (e sulla "scienza" che
si sviluppò in senso antifeudale presso l'università di Bologna). Il punto
d'arrivo di questa storia del "mondo lirico" medievale è Dante. Il
breve capitolo dedicato a La lirica di Dante la definisce come "la voce
dell'umanità a quel tempo": Dante rappresenta (vichianamente) l'epoca
della "fantasia", ed è "la prima fantasia del mondo
moderno". Coi capitoli IV e V il discorso ritorna alle origini, per
esaminare La Prosa e I Misteri e le Visioni del sec. XIII, che esprimono
"l'idea religiosa penetrata ne' costumi e nelle istituzioni", ma che
restano a livello di fase letteraria preparatoria dell'"aureo"
Trecento. A questo secolo è dedicato un capitolo molto puotiano (attento ai
Fioretti, al Cavalca e al Passavanti. ai testi di s. Caterina da Siena e alla
"maravigliosa cronaca" di D. Compagni), che però anch'esso converge,
romanticamente, verso la grande figura protagonistica di Dante. La trecentesca
"commedia dell'anima" esprime, infatti, l'ordito culturale da cui
nascerà La "Commedia" (cap. VII), con la sua "base
ascetica" e la sua radicata abitudine alla "allegoria". Ma tutto
ciò rappresenta (secondo l'ottica tipica del D. dantista) la "falsa
poetica" attraverso e nonostante la quale Dante crea un'opera somma di
poesia (una vasta analisi del poema tende proprio a mostrare come, per virtù di
passione e di poesia, esso possa esprimere, "ancora pregno di misteri,
quel mondo che, sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi
letteratura moderna"). Il capitolo defficato al Petrarca (Il
"Canzoniere") è breve, ma fondamentale: Petrarca non è solo un
"artista" pieno di "grazia" e di "malinconia", ma
è il rappresentante di una nuova generazione culturale che, dopo Dante,
"volgeva le spalle al Medio Evo ... e si affermava popolo romano e
latino". In questa scelta, secondo il D., c'è una profonda ambivalenza (da
una parte c'è il "rinnovamento" inteso come nascita della coscienza laica;
dall'altra la letterarietà come "erudizione", "imitazione",
abito retorico), in cui si muoverà, per lunghi secoli, la storia della
letteratura italiana. E in un'ottica così conflittuale il Decamerone (cap. IX)
appare come "l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina" in dimensione
laica, ma anche come espressione di un "niondo borghese" che,
liberatosi dai vincoli dello spiritualismo, non riesce ad innalzarsi, al di là
del "comico", fino alle "alte regioni dello spirito". Il
Cinquecento (cap. XII) è il secolo che vede l'arte assoldata al mecenatismo,
pur quando potrebbero porsi le condizioni storiche per un avvicinamento tra
cultura e "popolo" (ad esempio, nella Firenze medicea) e pur quando
sono già stati raggiunti grandi vertici di raffinatezza letteraria (ad es.,
nelle Stanze del Poliziano, cap. IX). Infine il Seicento, simboleggiato dal
Marino (cap. XVIII), produce in letteratura "idilli" ed
"elegie", "voluttà" e "musica", mentre
l'intellettuale italiano si fa "estraneo al movimento della cultura
europea e a tutte le lotte del pensiero", stagnando "in un
classicismo e in un cattolicesimo di seconda mano". Nell'arco fra '300 e
'600, e sempre in chiave antifrastica, sono tanti gli episodi letterari che il
D. analizza, e ad alcuni, comunemente ritenuti minori, dedica interi capitoli:
a F. Sacchetti il cap. X (L'ultimoTrecento), a La Maccaronea il cap. XV, a
Pietro Aretino il cap. XVI. L'opera dell'Ariosto (L'Orlando furioso, cap. XIII)
è esaminata secondo i parametri zurighesi: inserita nella serialità storica,
essa si propone come "sintesi dell'intero Rinascimento", mentre
l'"ironia" e il "riso scettico" di Ariosto si manifestano
espressione di un "secolo adulto" (cioè divenuto capace di critica e
ormai maturo per la libertà "borghese", pur nell'accettazione di
fatto della realtà "cortigiana"). T. Tasso (cap. XVII),
autore-simbolo dell'ambivalenza ideologica e sentimentale, offre l'occasione
per un discorso altrettanto ambivalente sulla Contro-riforma e sul suo
significato storico-culturale. Il poema del Tasso è lo specchio della
"ipocrita" cultura controriformistica italiana e i suoi valori
letterari vanno individuati in senso opposto rispetto a quello programmatico e
ufficiale: non nella "falsa" religiosità, ma
nell'"idillio", nell'"elegia", nella "voluttà"
(Tasso è, perciò, accostato al Petrarca, nella tradizione di storiografia
politica risalente a Sismondi e Ginguené). Ma proprio al centro dell'arco
storico fra '300 e '600 c'è una punta alta, un grande ritratto in positivo:
quello di Machiavelli (cap. XV), che riesce a costruire una valida ipotesi di
"rinnovamento", sia opponendo alla teocrazia "l'autonomia e
l'indipendenza dello Stato" ("un presentimento dei nostri ordinamenti
costituzionali"), sia rinnovando il "metodo" della conoscenza,
col rifiuto della "teologia" e del principio di "autorità"
(per lui "la verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è
l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei
fatti"). Evidentemente, il ritratto di Machiavelli (liberato da tutte le
riserve moralistiche precedentemente espresse su di lui) è un caso-limite
d'interpretazione "tendenziosa" di un autore: se è scelto a
simboleggiare, all'inizio del '500, la politica e la scienza moderna, è perché
il D.-maestro che scrive la Storia nel 1870 (l'anno della presa di Roma, a cui
esplicitamente, proprio nel cap.XV, egli fa riferimento) vuol proporre ai
giovani un preciso progetto di produzione letteraria che leghi
indissolubilmente letteratura, "scienza" e politica laica (e che
indichi anche lo strumento di una lingua letteraria "precisa e
concisa", antiretorica e antimusicale, che pure a Machiavelli viene
attribuita con qualche forzatura). Nel nome di Machiavelli, dunque (anche se a
distanza di 4 capitoli), si apre la parte "moderna" e propositiva
della Storia, che consiste nei due ultimi lunghissimi capitoli, intitolati La
nuova scienza (cap. XIX) e La nuova letteratura (cap. XX). Il rapporto tra essi
è derivativo: la "nuova letteratura" non potrà nascere se non dalla
"scienza", che ha come obiettivo "il progresso e il
miglioramento dell'uomo", e che ha come principale strumento la libertà
intellettuale e politica. Perciò, "i primi santi del mondo moderno"
(i primi intellettuali capaci di "lottare, poetare, vivere, morire"
per la "fede" nel progresso) furono Bruno, Telesio, Campanella,
Galilei; e poi Sarpi, Vico, Giannone; infine Beccaria e Filangieri, con alle
spalle il pensiero laico europeo, da Bacone alla Rivoluzione francese. Come
s'innesta in questo clima la "nuova letteratura"? Dopo l'affascinante
ma "superficiale" opera di Metastasio, l'innesto si realizza con la
scelta illuministica di utilizzare "cose e non parole". Il primo
autore "vero" della "nuova letteratura" è Goldoni (ma con
dei limiti di superficialità). Il primo "uomo nuovo" è Parini, e poi
vengono Alfieri e Foscolo (col Monti personaggio negativo), ma con dei limiti
negli eccessi e nelle scelte di stile retorico. L'Ottocento (pur con la sua
tensione d'impegno e di sperimentazione) non ha ancora offerto, in Italia,
modelli attendibili per il cammino da percorrere. Il nostro futuro letterario
è, perciò, incerto ma la direzione da seguire è chiara: "convertire il
mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo,
"esplorare il proprio petto" secondo il motto testamentario di G.
Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale
moderna". Nella seconda edizione dei Saggi critici (1869) e poi nei
Nuovi saggi critici (1872) il D. inserì alcuni scritti (in gran parte composti
per la Nuova Antologia) che precedono o accompagnano la stesura della Storia e
che nei confronti di essa risultano in diverso modo illuminanti. Il più antico
è Una "Storia della letteratura italiana" di C. Cantù (1865), che,
recensendo l'opera appena pubblicata, la denuncia come fondata su "pregiudizi"
e "superficiale dottrina" e su valori che nulla hanno a che fare col
letterario (perciò l'inevitabile sottovalutazione di autori come Machiavelli,
Ariosto, Leopardi, Alfieri, Giusti, Berchet, cui si contrapporrà, appunto, la
Storia desanctisiana). Fondamentale, per chi indaghi sulla genesi della Storia,
è il saggio Settembrini e i suoi critici (1869), in cui il D. condanna il grave
limite del contenutismo radicale settembriniano, così come aveva condannato il
contenutismo cattolico-moderato del Cantù, ed afferma che una vera storia della
letteratura dovrebbe essere un lavoro interdisciplinare (con contributi di
"filosofia, critica, arte, storia, filologia") al quale la cultura
italiana non è ancora attrezzata (risalendo queste considerazioni al periodo
iniziale di stesura della Storia, esse dimostrano la problematicità del D. nei
confronti della sua opera maggiore, e la profonda consapevolezza della
"parzialità" di essa). Più collegati alla componente ideologica
"positiva" della Storia risultano L'"Armando" di G. Prati e
L'ultimo dei puristi del 1868. Nel primo si denuncia la fine dei "tempi
sentimentali" e si afferma, per il presente, la necessità di un impegno
tutto reale e concreto ("il materialismo è uscito trionfante dal seno
stesso del mondo hegeliano" e impone la "serietà della vita
terrestre"); nel secondo, la stroncatura di un purista attardato (F.
Ranalli) dà luogo a una attenta e intelligente rievocazione del Puoti e della
sua scuola, che fu "bandiera" di "libertà, scienza, progresso,
emancipazione" nei primi decenni del secolo, ma che (a parte il valore
sempre vivo del "metodo" puotiano) esaurì il suo ruolo storico alla
vigilia della fase rivoluzionaria del '48 (al presente, ogni nostalgia
puristica risulta storicamente e politicamente ingiustificata). Anche i grandi
saggi danteschi del 1869 (Francesca da Rimini, Il Farinata di Dante, L'Ugolino
di Dante) nacquero in margine alla Storia, sia come ripresa del tema-Dante (e,
in particolare, delle riflessioni zurighesi), sia come esempio di quel lavoro
di "monografia" che il D., all'epoca, considerava storicamente e
scientificamente più valido delle "sintesi". I personaggi danteschi
prediletti dalla cultura romantica ed hegeliana sono letti rispettivamente in
chiave di "amore" e "pietà femminile" (Francesca), orgoglio
politico (Farinata), complessità e profondità di sentimenti antinomici
(Ugolino), nell'ambito di un'attenta, colta, sensibile lettura testuale (era in
questo, appunto, che il D. voleva proporsi come modello di critica
"attuale", "paziente" e costruttiva, ed è appunto questo
l'aspetto dei Saggi che va ancor oggi rivendicato). Il saggio L'uomo del
Guicciardini(1869) ripropone l'antitesi (presente anche nella Storia) fra
Machiavelli, precursore del nazionalismo moderno, e Guicciardini, il cui
"particulare" rifiuta ogni "vincolo religioso, morale,
politico" (ma la vera funzione del saggio si esplicita nell'ultima frase,
di amara denuncia della situazione politica presente: "L'uomo del
Guicciardini vivit, immo in Senatum venit, e lo incontri ad ogni
passo"). Nel 1871 venne affidata al D. la cattedra di letteratura
comparata nell'università di Napoli, dove egli tenne quattro corsi annuali, dal
1872 al 1876 (è questa l'esperienza nota come "seconda scuola
napoletana", che produsse quattro gruppi di lezioni, rispettivamente su
Manzoni, Scuola cattolico-liberale, Scuola democratica, Leopardi).
Contemporaneamente pubblicò una seconda raccolta di saggi (Nuovi saggi critici,
Napoli 1872) e inaugurò quella serie di conferenze e articoli sugli orientamenti
della letteratura contemporanea in chiave realistica che sarebbe continuata,
per dieci anni, fino alla vigilia della morte. Tra il 1874 e il 1875 realizzò
un nuovo momento d'impegno politico attivo, in occasione delle elezioni che
prepararono l'avvento al potere della Sinistra costituzionale (in particolare,
nel gennaio 1875 appoggiò, con un'avventurosa campagna elettorale, la propria
candidatura - difficile e piuttosto equivoca - nella provincia d'origine, e ne
rivisse il ricordo in una serie di cronache giornalistiche pubblicate prima
sulla Gazzetta di Torino e subito dopo in volume, col titolo Un viaggio
elettorale, 1876). Al 1877 data il terzo e ultimo episodio importante di
giornalismo politico desanctisiano: ancora un impegno battagliero, ma interno
alla Sinistra (contro la gestione trasformistica e antidemocratica del potere
da parte di Depretis e Nicotera), condotto soprattutto sulle colonne del
Diritto di Roma. Nel 1878 Cairoli riaffidò al D. il ministero della Pubblica
Istruzione che egli tenne fino al 1880, riproponendo, dopo 17 anni, i problemi
della "scuola di tutti" (la "scuola per l'infanzia", la
"scuola primaria", la formazione dei maestri) e quelli
dell'istruzione tecnica, in un'ipotesi di cultura "scientifica" da
sostituire alla "cultura retorica"; ma ancora una volta fu sconfitto
nei punti più qualificanti del suo programma (la traccia più concreta che ne
rimase fu l'inserimento dell'educazione fisica tra le materie d'insegnamento: un
omaggio alla rivalutazione positivistica dell'uomo fisico). Nel 1880, colpito
da una grave malattia agli occhi, lasciò l'incarico ministeriale e dedicò i
suoi ultimi anni di vita a un lavoro di riflessione autobiografica (le Memorie
che andò dettando alla nipote Agnese) e critica (soprattutto ripresa e riorganizzazione
della riflessione petrarchesca e leopardiana). Morì a Napoli il 29 dic. 1883,
lasciando incompiuti i suoi ultimi lavori, cui, pur tra le sofferenze della
malattia, si dedicò sino alla fine. Come tutti i principali episodi
dell'insegnamento desanctisiano, anche le lezioni della "seconda scuola
napoletana" sono documentate da riassunti (redatti in genere da F.
Torraca), rivisti e ufficialmente accettati dall'autore. Il primo corso
(gennaio-marzo 1872) fu dedicato a Manzoni e rappresenta il punto d'arrivo di
una riflessione iniziata all'epoca della "prima scuola", sviluppata a
Zurigo e rimasta sempre centrale nella ricerca del D., pur senza trovare una
sistemazione editoriale. In queste lezioni le posizioni ideologiche e gli
strumenti di ricerca sono molto cambiati rispetto agli anni della "prima
scuola", ma non cambia il giudizio di valore. La grandezza del Manzoni è
identificata ora nella sua capacità di "calare l'ideale nel reale":
da lui escono tre "grandi idee critiche che hanno importanza
universale": la "misura dell'ideale", il "vero"
positivo e storico, la "forma" diretta e "popolare".
Manzoni rappresenta la massima realizzazione della letteratura
"moderna" in Italia e le "scuole letterarie" non segnano
alcun progresso né sul piano dell'arte né su quello dell'ideologia. Negli anni
successivi. il D. analizzò, appunto, lo svolgimento della letteratura in Italia
a partire dal Manzoni, dividendola (secondo una traccia già seguita da Emiliani
Giudici, da Settembrini e da altri) nei due filoni cattolico e laico, definiti
rispettivamente "scuola liberale" e "scuola democratica".
Alla Scuola liberale fu dedicato il secondo anno di lezioni universitarie
(1872-73), con risultati di giudizio fortemente militanti: l'impegno dei cattolici
per l'"educazione popolare" non offre risultati validi in arte e
svolge un ruolo (più o meno esplicito) d'insegnamento reazionario ("nuovi
Arcadi" sono Grossi, Carcano, Tommaseo, Cantú; Gioberti e Rosmini
ripropongono una dimensione "metafisica" della storia e della
politica; D'Azeglio resta attardato su una vecchia e superata immagine di
letteratura retorica). Un interessante excursus riguarda, però, la letteratura
meridionale dell'Ottocento: poeti poco noti (come D. Mauro, V. Padula, P. P.
Parzanese, N. Sole) vengono esaminati con interesse e simpatia. Il corso del
1873-74 fu dedicato alla Scuola democratica, e anche in quest'ambito il
giudizio globale è negativo: Mazzini, Rossetti, Berchet, Niccolini non possono
fornire il modello della "nuova letteratura". Si conferma così
l'esito perplesso e sostanzialmente pessimistico che caratterizza le ultime
pagine della Storia e l'affermazione del principio del
"realismo". I saggi più importanti elaborati dal D. nell'ultimo
decennio di vita riguardano, appunto, le tematiche del realismo (alcuni di essi
furono raccolti nella 2 ed. dei Nuovi saggi critici, del 1879). Dopo la
prolusione universitaria La scienza e la vita (1872), sono da ricordare:
Ilprincipio del realismo (1876), Studio sopra Emilio Zola (1878), Zola e
l'Assommoir (1879), Il darwinismo nell'arte(1883). L'assunto complessivo è che
il "realismo" auspicato dal D. non si può confondere né col
materialismo, né col positivismo, né col naturalismo di Zola (il quale, però, è
molto valido come scrittore: lo studio a lui dedicato è particolarmente vasto e
attento). La letteratura del "reale" dev'essere (cfr. Manzoni)
"l'ideale calato nel reale", e cioè una costruzione "eticac
forza morale impegnata per rinnovare la società, contro l'individualismo, la reazione,
l'autoritarismo sempre in agguato. Nell'ultima fase della sua vita il D.
non si limitò a teorizzare l'importanza e la "modernità" del realismo
in letteratura, né ad inserirsi con diversi strumenti critici all'interno del
problema per farne emergere i pericoli (o quelli che a lui sembravano tali sul
piano morale e politico), ma volle fornire delle prove concrete di narrativa
realistica, utilizzando un registro di linguaggio "familiare", che
già aveva usato nelle sue lettere alla moglie (con estrema semplificazione
sintattica e con frequenti coloriture dialettali) e che, del resto, non era
ignoto ai momenti più colloquiali della sua critica. L'operetta narrativa che
elaborò in funzione di esempio e modello fu Un viaggio elettorale (1876): una
serie di cronache del tragicomico attraversamento della provincia natia da lui
compiuto a sostegno di una candidatura politica poco chiara e poco fortunata.
Nella cronaca, il bozzettismo locale si alterna col patetico dei ricordi
d'infanzia o delle esortazioni politiche; ma il senso del testo va ricercato
più nella sua funzione che nei suoi esiti, né si può dimenticare che nella
storia del realismo italiano esso si colloca quasi in contemporanea con Nedda
(1874), quattro anni prima di Giacinta (1879), sei anni prima dei Malavoglia
(1881). Alla vigilia della morte (sempre su materiali autobiografici e
sempre in ambito di racconto dal vero in linguaggio familiare), il D. perseguì
un progetto molto più ambizioso: la stesura di un'autobiografia, della quale,
però, non riuscì a portare a termine che la prima parte (egli l'aveva
intitolata Memorie; P. Villari ne pubblicò il frammento realizzato col titolo
La giovinezza). Così come ci resta, il frammento narra l'esperienza del D.
dalla nascita fino al 1843, e consta di due nuclei narrativi essenziali. Il
primo è legato ai personaggi bozzettistici della famiglia paesana e degli
ambienti napoletani alti e bassi (preti, professori, avvocati, ragazze da
marito, giovani avventurieri, vecchie serventi) e, al centro di essi, l'autore
pone il personaggio "comico" di se stesso, pieno di tic, di
timidezze, di chiusure, di sogni. Il secondo nucleo è legato, invece, alla
formazione culturale e all'esperienza della "prima scuola". Qui il
tessuto è molto serio e impegnativo: il D. (utilizzando ricordi, ma soprattutto
vecchi "quaderni di scuola") vuole offrire un importante contributo
alla critica di se stesso, mostrando come siano andate formandosi le linee di
forza del suo metodo. In ciò la Giovinezza non è del tutto veritiera (molti
sono gli imprestiti ideologici e teorici che il vecchio D. fa al se stesso
giovane maestro di Vico Bisi), ma resta, comunque, il fascino di un clima in
cui rivivono Puoti e Leopardi, la scoperta del romanticismo, di Vico e di
Hegel, l'autoritarismo borbonico e le utopie libertarie del primo '800
napoletano. Nell'ultimo anno d'insegnamento all'università di Napoli
(1875-76), argomento delle lezioni era stato Leopardi: dagli appunti delle
lezioni il D. ricavò, negli ultimi mesi di vita, uno Studio su G. Leopardi, che
segue il poeta nelle diverse tappe della vita, dell'opera, del pensiero,
secondo lo schema della "biografia critica" di taglio positivistico.
La biografia rimane, però, incompiuta, chiudendosi al livello dei "nuovi
idilli" (come il D. definisce i grandi canti del 1827-29), e proprio in
questo tentativo di riduzione di Leopardi alla misura dell'idillio lo Studio è
stato foriero di gravi equivoci e fraintendimenti nella successiva critica
leopardiana, mentre nell'ultimo D. si giustifica come tentativo di leggere
Leopardi in quella stessa chiave di "realismo" che si era rivelata
funzionale per il Manzoni e il suo romanzo. Celebri, proprio in quest'ambito,
le riflessioni sulle figure femminili dell'"idillio" leopardiano
("Silvia non è questa o quella donna; è il primo apparire della giovinezza
in un cuore femminile", ecc.); ma, a parte questo, lo Studio non aggiunge
molto né alla conoscenza del Leopardi né alla critica del De Sanctis. In
sostanza, il meglio su Leopardi era stato detto nel saggio del 1855 (ma non
vanno dimenticate certe importanti considerazioni della "prima
scuola", né il ruolo interessantissimo, problematico e antidogmatico, che
Leopardi ha nelle ultime pagine della Storia). Altri saggi leopardiani
appartengono alla fase e al clima di ricerca della Storia (La prima canzone di
G. Leopardi, 1869; Le nuove canzoni, 1877; La Nerina, 1877). In quest'ultimo,
ancora un esame (forse uno dei più importanti) della donna nella poesia
leopardiana: "La vita è tutta e solo in terra... La morte è l'altro motivo
tragico di questa concezione ... Il motivo della Silvia è lo sparire. Il motivo
della Nerina è il riapparire". Lasciando da parte la fortuna del
D.-maestro (un vero e proprio appassionamento suscitato nei giovani allievi di
Napoli, Torino e Zurigo), per ricostruire la storia del dibattito sul D.
bisogna muovere da un dato obiettivo di iniziale "sfortuna" critica:
lo scarto fra i tempi della genesi dei testi maggiori (a partire dagli anni
'40) e quelli della loro pubblicazione (intorno al '70). A causa di questo scarto,
egli apparve subito come un idealista "attardato" (e perciò più
meritevole di giudizi sommari che di attenzione testuale), nel clima di
positivismo dominante in cui i suoi scritti si offrivano ad un'interpretazione
globale (per es. F. D'Ovidio era convinto che il D. ignorasse "la pazienza
della ricerca e dello studio", e G. Carducci gli attribuiva
"difetto" di "cognizione dei fatti e dei documenti"). A
sintomatico che, in un dibattito così fortemente pregiudiziale, venisse del
tutto ignorato non solo il tipo di formazione del D., ma anche l'ultimo
decennio della sua produzione, con la dichiarata opzione "realistica"
e con la forte propensione per lo scientismo. Ma proprio a causa della
pregiudizialità del dibattito di fine secolo (rilevata, fin d'allora, da qualche
attento osservatore straniero, come A. Gaspary), il D. poté divenire,
attraverso l'elaborazione crociana, lo strumento chiave per il rilancio di un
metodo critico antipositivistico e per la progressiva riaffermazione culturale
e ideologica dell'idealismo nei primi decenni del '900. Al Croce spetta, certo,
il merito di aver "costretto" la cultura italiana a riconoscere nel
D. un protagonista dell'800 (la sua appassionata cura di editore e di studioso
del D. durò per oltre mezzo secolo); ma, contemporaneamente, Croce prese a
"rielaborare" il "pensiero" del D., fino a propome la
riduzione a teoria del "puro" gusto estetico (G. A. Borgese, che nel
1905 presentò il D. come punto di arrivo di "tutte le esperienze della
critica romantica in Italia", fu, in realtà, uno dei primi e più
autorevoli interpreti di questa tendenza riduttiva; scarsa fortuna ebbe,
d'altra parte, una proposta di G. Gentile per un "ritorno al De
Sanctis" di segno fascista). Proprio dall'interno della scuola
crociana (dai cosiddetti "crociani di sinistra") fu prospettata,
tuttavia, l'esigenza di un dibattito diversamente impostato, volto al recupero
della complessità della figura del D.: mentre L. Russo rivendicava "il
significato pedagogico ed etico" dell'opera (1928) e la sua
"intelligenza dell'arte" come notalità" (1931), C. Muscetta
sottolineava l'importanza della sua "poetica realistica" (1931), la
sua "serietà" culturale (1934), la sua visione della letteratura come
"vita morale" (1940). Importanti, in questa fase, furono anche gli
studi di W. Binni sull'"amore del concreto" che nutrì tutta la
ricerca desanetisiana e che problematizzò i suoi rapporti con l'hegelismo
(1942) e di G. Getto sulla Storia, "in cui la letteratura era studiata nel
suo autonomo valore e insieme nel suo necessario legame con tutta la vita e la
cultura" (1942). Infine, presentando una importante antologia di scritti
desanctisiani, nel 1949, G. Contini dichiarò, a nome di un'intera generazione
di studiosi, l'uscita dall'"equivoco formalistico" della
"riduzione crociana" del D. e la necessità di tentare finalmente una
comprensione filologica dei testi desanctisiani, con tutta la loro
problematicità anche irrisolta. Ma lo spostamento ideologico dell'intero
dibattito critico mosse dalla pubblicazione dei Quaderni di Gramsci
(Letteratura e vita nazionale, Torino 1950) e dalla sua celebre affermazione
che "il tipo di critica letteraria proprio della filosofia della prassi è
offerto dal De Sanctis". Da qui appunto si partì per un'ampia verifica
dell'"impegno" del D., del carattere "militante" della sua
critica, dei "saldi convincimenti morali e politici" che, secondo
Granisci, la sostanziavano: era una verifica, evidentemente, molto correlata al
bisogno della cultura d'incidere sul presente storico, dopo e contro il
"disimpegno" teorizzato, nel ventennio fascista, da crociani e non
crociani. Questo momento di dibattito produsse, fra l'altro, le iniziative
editoriali, cui si deve, oggi, la possibilità di leggere il D. su testi di alto
livello scientifico: le due collane avviate nel 1952 da Einaudi e Laterza (e
dirette rispettivamente da C. Muscetta e L. Russo) per la pubblicazione delle
"opere complete". E non a caso, negli stessi anni, apparivano fuori
d'Italia (dove la letteratura desanctisiana è scarsissima) due importanti
interventi critici: quello di R. Wellek (che nella sua grande Storia della
critica moderna del 1957 presentò il D. come autore della "più bella
storia che sia stata mai scritta di una letteratura") e quello di P.
Antonetti (che nel 1963 ne pubblicò in Francia una documentata e intelligente
biografia culturale). Né a caso, negli anni '50-'60, furono condotte indagini
nuove e approfondite sui legami tra il D. e la cultura dell'800 (M. Mirri, S.
Landucci, G. Oldrini). Alla fine degli anni '70, in un clima culturale
ancora una volta mutato, e ormai insofferente dell'insistenza
sull'"impegno politico del letterato", si affermò l'esigenza di
uscire dall'ottica di un D. modello per il presente, e di sottolineare (accanto
ai "valori" ormai definitivamente affermati) la distanza storica e le
diversità culturali che ci separano da lui. Tra gli interpreti di questa
esigenza ricordiamo A. Asor Rosa e parecchi dei partecipanti al convegno
napoletano del 1977 su "De Sanctis e il realismo". Con maggiore
cautela, le più recenti occasioni offerte dal centenario desanctisiano (F. D.
nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983 e F. D.: un secolo
dopo, a cura di A. Marinari, ibid. 1985) si sono mosse su una linea di
attenzione ai testi, di chiarificazione e approfondimento della vasta (ancora
aperta e interessante) problematica desanctisiana, di tricollocazione"
storico-culturale nel mutevole orizzonte di cultura europea in cui tutta la sua
ricerca si mosse. Il materiale manoscritto, ormai quasi tutto edito, si
trova (tranne una parte di quello epistolare, sparso un po' in tutta Italia) a
Napoli (Bibl. nazionale, bibl. di casa Croce e bibl. del dott. F. De Sanctis
Jr.) e ad Avellino (Bibl. prov. S. e G. Capone). Restano inediti quasi solo i
voll. dell'Epistolario, relativi agli anni 1870-1883. Le raccolte degli
scritti, dopo le incomplete ediz. Cortese (1931-38) e Barion (1933-411, sono
oggi quella laterziana (Bari, negli "Scrittori d'Italia", a cura di
L. Russo, incompleta) e quella einaudiana (Torino, Opere di F. De Sanctis, a
cura di C. Muscetta, priva soltanto degli ultimi due voll. dell'Epistolario).
La raccolta laterziana comprende i seguenti voll.: La letteratura italiana nel
sec. XIX, I (A. Manzoni, a cura di L. Blasucci, 1953); II (La scuola liberale e
la scuola democratica, a cura di F. Catalano, 1953); III (G. Leopardi, a cura
di W. Binni, 1953); Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce
19121, 19659; Memorie, lezioni e scritti giovanili, I, a cura di F. Brunetti,
1962; Saggio critico sul Petrarca, a cura di E. Bonora, 1954; Saggi critici, a
cura di L. Russo, 19521, 19656; La poesia cavalleresca, a cura di M. Petrini,
1954. La raccolta einaudiana, invece, comprende: Lagiovinezza (memorie postume
seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli), a cura di G.
Savarese, 1961; Purismo illuminismo storicismo (scritti giovanili, frammenti di
scuola e lezioni), a cura di A. Marinari, 1975; La crisi del romanticismo
(scritti del carcere e primi saggi critici), a cura di G. Nicastro e M. T. Lanza,
1972; Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, 19551, 19672; Saggio
sul Petrarca, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 1952; Verso il realismo
(prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di
estetica, saggi di metodo critico), a cura di N. Borsellino, 1965; Storia della
letteratura italiana, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 19581, 19663; La
letteratura italiana del secolo XIX, Manzoni (a cura di C. Muscetta e D.
Puccini, 1955), La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli (a cura
di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19722), Mazzini e la scuola democratica
(a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19612), Leopardi (a cura di C.
Muscetta e A. Perna, 1960); L'arte la scienza e la vita (nuovi saggi critici,
conferenze e scritti vari), a cura di M. T. Lanza, 1972; Il Mezzogiorno e lo
Stato unitario (scritti e discorsi politici dal 1848 al 1870), a cura di F.
Ferri, 1960; I partiti e l'educazione della nuova Italia (scritti e discorsi
dal 1871 al 1883), a cura di N. Cortese, 1970; Un viaggio elettorale(seguito da
discorsi biografici, dal taccuino parlamentare e da scritti politici vari), a
cura di N. Cortese, 1968; Epistolario: 1836-1856 (a cura di G. Ferretti e M.
Mazzocchi Alemanni, 1956); 1856-1858 (a cura degli stessi, 1965); 1859-1860 (a
cura di G. Talamo, 1965); 1861-62(a cura dello stesso, 1969); 1863-1869 (a cura
di A. Marinari, G. Paoloni e G. Talamo, in corso di stampa). Ottime antologie
degli scritti del D. sono quelle curate da G. Contini (Torino 1949) e da N.
Sapegno e N. Gallo (Milano-Napoli 1961). Fonti e Bibl.: Per la bibl.
delle opere e della critica, cfr. B. Croce, Gli scritti di F. D. e la loro
varia fortuna, Bari 1917 (con integrazioni di C. Muscetta, in F. De Sanetis,
Pagine sparse, Bari 1944) ed E. Pesce, Supplemento alla bibliografia
desanctisiana 1944-65, Napoli 1965. Sono da tener presenti inoltre le rassegne:
M. Tondo, La lezione di D. Rassegna degli studi dell'ultimo venticinquennio,
Bari 1976; P. Tuscano, F. D. a cento anni dalla morte, in Cultura e scuola,
LXXXVI (1983), pp. 32-45; G. Oldrini, La storiografia desanctisiana dell'ultimo
decennio, nel miscellaneo F. D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari
1985. Per la biografia, vanno ricordati anzitutto i seguenti saggi d'insieme:
E. Cione, F. D., Messina-Milano 1938 e Milano 19442; F. Montanari, F. D.,
Brescia 1939; P. Antonetti, F. D. (1817-1883). Son évolution intellectuelle,
son esthétique et sa critique, Aix-en-Provence 1963; E. Croce-A. Croce, D.,
Torino 1964. Per gli anni della formazione, sono da tener presenti i seguenti
scritti: B. Croce, Introd. a F. De Sanctis, Teoria e storia della letteratura,
Bari 1926; A. Marinari, Introd. a Purismo illuminismo storicismo cit., nonché
Le correzioni del Puoti ai primi due discorsi di scuola del D., in Belfagor, XV
(1960), pp. 584-601; Id., Alcuni problemi di cronologia desanctisiana, Firenze
1963 e Il giovane D. lettore di P. Giannone, in Letteratura e critica, Studi in
onoredi N. Sapegno, II, Roma 1975, pp. 643-80; G. Savarese, Primo tempo del D.
e altri saggi, Bologna 1971; P. Luciani, L'"estetica applicata" di F.
D., Firenze 1983; C. Muscetta, D. e i generi letterari in F. D. nella storia
della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983, pp. 363-84. Per gli anni della
prigionia e dell'esilio, sono indispensabili: E. Cione, F. D. dallaNunziatella
a Castel dell'Ovo, Napoli 1933; B. Croce, Il soggiorno in Calabria, l'arresto e
la prigionia di F. D., Napoli 1917 (ora in Aneddoti di varia letteratura, IV,
Bari 1954); F. D. a Torino, a cura di C. Vernizzi, Torino 1984; M.
Guglielminetti-G. Zaccaria, F. D. e la cultura torinese (1853-56) e R.
Martinoni, Gli anni zurighesi (1856-60), entrambi in F. D. nella storia della
cultura cit. (dello stesso Martinoni, cfr. anche La puzza della birra e del tabacco.
Gli anni zurighesi di F. D. [1856-60], in L'Almanacco 1983, Bellinzona 1983,
pp. 112 s.); O. Besomi, D. "in partibus transalpinis", ma non
"infidelium": letture zurighesi, in Per F. D., Bellinzona 1985, pp.
89-118. Per gli anni 1836-60 sono da tener presenti i voll. dell'Epistolario
(con le rispettive introduzioni). Lo stesso vale per gli anni successivi
(almeno fino al 1869). Per il soggiorno del D. a Firenze, cfr. G. Spadolini, D.
e Firenze capitale, in F. D. - Un secolodopo cit., pp. 437-43. Per il D.
ministro, cfr.: G. Talamo, F. D. politico e altri saggi, Roma 1969; S. Soldani,
Scuola e lavoro: D. e l'istruzione tecnico-professionale, inF. D. nella storia
della cultura cit., pp. 451-516; G. Ciampi, Il governo della scuola nello Stato
postunitario, Milano 1983, ad Indicem; A. Santoni Rugiu, Aspetti dell'ideologia
formativa di F. D., nonché S. Valitutti, Il pensiero e l'azione scolastica di
D. ed E. Bottasso, D. ministro e la formazione delle prime tre biblioteche
nazionali (tutti in F. D. - Un secolo dopo cit.). Per la morte e le onoranze
funebri, cfr. In memoria di F. D., a cura di M. Mandalari, Napoli 1884 (rist.
anast., Napoli 1983, a cura della Comunità montana "Alta
Irpinia"). Tra gli studi critici di carattere generale, cfr.: B.
Croce, F. D., in Letteratura della nuova Italia, I, Bari 1956 (per gli altri
scritti desanctisiani del Croce, cfr. G. Savarese, Croce e D., in Rassegna
della letteratura italiana, CXLIV [1967], pp. 158-174; L. Russo, F. D. e la
cultura napoletana, Venezia 1928 (poi Firenze 1956, ora Roma 1983); C.
Muscetta, F. D., inLetteratura italiana. I minori, IV, Milano 1962 e in
Letteratura italiana. Storia e testi, VIII, 1, Bari 1975, ibid 19854; M.
Fubini, F. D. e la critica letteraria, in Romanticismo italiano, Bari 19653; M.
Mirri, F. D. politico e storico della civiltà moderna, Messina-Firenze 1961; S.
Landucci, Cultura e ideologia di F. D., Milano 1963 (sul quale cfr. M. Mirri in
Critica storica, III [1964] e la risposta di S. Landucci, in Belfagor, XX
[1965]); A. Asor Rosa, L'idea e la cosa: D. e l'hegelismo, in Storia d'Italia
(Einaudi), IV, 2, Torino 1975, pp. 850-78 e Il "diagramma De
Sanctis"... e il nostro, in Letteratura italiana (Einaudi), Torino 1982,
I, pp. 22-26. Utilissime sono anche tutte le introduzioni ai singoli volumi
delle edizioni cinaudiana e laterziana. Sono da tenere inoltre in grande
considerazione le osservazioni di I. Svevo (in Racconti. Saggi. Pagine sparse,
Milano 1968, p. 800" e G. Debenedetti (Commemorazione del D.), 1934 (ora
in Saggi critici, 2a serie, Milano 1971), nonché quelle di Binni (L'amore del
concreto e la "situazione" nella prima critica desanctisiana [1942],
ora in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze 1951, pp. 99-116),
G. Contini (Introd. a F. De Sanctis, Scelta di scritti critici, cit.); G. Getto
(Storia delle storie letterarie, Milano 1942, ad Indicem), C. Dionisotti
(Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, ad Indicem) e R.
Wellek (Storia della critica moderna, IV, Bologna 1969, pp. 123-55). Molto ricche
sono le miscellanee: F. D. e il realismo, con Introd. di G. Cuomo, Napoli 1978;
F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983; F. D. tra
etica e cultura ("Riscontri", VI, 1-2), a cura di M. G. Giordano,
Avellino 1984; D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985; Per F.
D., Bellinzona 1985; F. D.: recenti ricerche, a cura dell'Ist. per gli studi
filosofici, Napoli 1989. Per i rapporti fra il D. e la cultura napoletana
dell'800, cfr. gli scritti di G. Oldrini (in particolare, La cultura filosofica
napoletana dell'800, Bari 1973 e gli interventi apparsi nelle varie miscellanee
già citate). Per quelli con l'hegelismo, oltre allo scritto già cit. del Binni,
cfr.: N. Giordano Orsini, D., Hegel e la situazione poetica, in Civiltà
moderna, XIV (1942), pp. 138 ss.; M. Rossi, Sviluppi dello hegelismo in Italia
(F. D., S. Tommasi, A. Labriola), Torino 1957; Il primo hegelismo italiano, a
cura di G. Oldrini, Firenze 1969; M. T. Lanza, D. e Hegel, in F. D. nella
storia della cultura, cit., pp. 155-84; S. Landucci, cit. Tra i tanti
altri saggi, cfr. pure: M. Aurigemma, Lingua e stile nella critica di F. D.,
Ravenna 1968; F. Battaglia, Parva desanctisiana, Bologna Moretti, La lingua di
F. D., Firenze 1970; A. Prete, Il realismo di D., Bologna 1972. G. Malcangi, F.
D. deputato di Trani, con Introd. di A. Lapenna e A. Marinari, Bari 1972; A.
Marinari, Il "viaggio elettorale" di F. D. Il "dossier
Capozzi" e altri inediti, Firenze Ghilardi, Il superamento del kantismo e
l'esperienza politica di F. D., Napoli Guglielmi, Da D. a Gramsci: il
linguaggio della critica, Bologna 1976; N. Celli Bellucci-N. Longo, F. D. e G.
Leopardi tra coinvolgimento e ideologia, Roma; M. Dell'Aquila, Giannone, D.,
Scotellaro. Ideologia e passione in tre scrittori del Sud, Napoli 1981; G.
Nencioni, F.D. e la questione della lingua, Napoli 1984. Per i rapporti
con le altre letterature europee: per la Francia cfr. F. Neri, Il D. e la
critica francese (ora in Saggi, Milano 1964); P. Antonetti, F. D. et la culturefrançaise,
Firenze-Parigi 1964; U. Piscopo, D. e la culturafrancese, in F. D. - Un secolo
dopo cit.; per la Germania, cfr.: G. Bach, La cultura tedesca in F. D., in
Studi e ricordi desanctisiani, Avellino 1935; F. Matarrese, Goethe e D., Bari
Westhoff, Schiller e D., Roma Mazzocchi Alemanni, La "fortuna" di D.
in Germania, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 547-76; per il mondo
angloamericano, cfr.: A. Lombardo, D. Shakespeare e la letteratura inglese, in
F. D. - Un secolo dopo cit., Della Terza, D. e la cultura anglosassone, in F.
D. nella storia della cultura cit., e D. negli Stati Uniti d'America, in F. D.
- Un secolo dopo cit., pp. 651-63. Per la fortuna critica dell'opera del
D., cfr. L. Biscardi, F. D., Palermo Romagnoli, F. D., in Iclassici italiani
nella storia della critica, a cura di W. Binni, II, Firenze 19612 ; F. De
Castro, F. D. nella critica italiana del secondo dopoguerra, in Problemi,
Longo, Il "ritorno" di D. Storia, ideologia, mistificazione, Roma
Cfr. pure, al riguardo, le rassegne di G. Oldrini, M. Tondo e P. Tuscano citate
a proposito degli scritti bibliografici.Sossio Giametta. Giametta. Keywords: il
volo d’Icaro, l’implicatura di Croce – eterodossie crociane – Cosi parlo
Zoroaster; cosi implico!”—cortocircuito e implicature, la pazzia di Croce, il
pazzo di Croce – la caduta di Icaro? No, il vuolo di Icaro! – Colli e
Montanari! -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giametta:
cortocircuito ed implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giandomenico: l’implicatura conversazionale
-- l’apertura semantica e l’implicatura di Galilei – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Carunchio). Filosofo. Grice: “I like Giandomenico; he makes
excellent commentary on Bernard’s controversial, deterministic idea of life –
from amoeba to man, in Russell’s words --.” Grice: “Surely this has connections
with my method in philosophical psychology, from the banal to the bizarre,
which actually starts with philosophical BIO-logy!” Grice: “Giandomenico shows
that while Bernard never thought he had to provide a ‘conceptual analysis’ of
‘vivente,’ he does propose this or that criterio: for one he tries to prove
that self-nourishment cannot be the criterion – but I’m not sure what the
positive he poes, if any!” Si laurea con Corsano all’istituto di filosofia di Bari.Insegna
a Brindis, Lecce, Foggia, e Bari. Studia l'insegnamento di Filosofia nei Licei. Studia filosofia della
comunicazione. Fonda il Laboratorio di Epistemologia Informatica e il Centro per
la Metodologia della Sperimentazione. Studia pragmatica computazionale e
Informatica umanistica. Membro della Società Filosofica Italiana. Si occupato della
storia della fisiologia, la storia sdell’informatica, l’informatica pragmatica,
teoria della comunicazione, teoria dell’implicatura conversazionale, e teoria
del segno. Pubblicato uno studio su Tommasi, che aderì alla sperimentazione. Ha
trattato il contributo scientifico di Pende. Analizza i fondamenti
dell'informatica nei suoi rapporti con le teorie filosofiche, mettendo in
evidenza le strutture epistemiche reciprocamente significative. “Filosofia ed
informatica”, Inoltre, ha sperimentato applicazioni delle tecnologie informatiche
nella ricerca umanistica. Le ricerche condotte nell'ambito
dell'informatica linguistica si sono proposte l'analisi
linguistico-computazionale. L'obiettivo è stato quello di andare al di là del
livello “lessicografico” – il filosofese – o terminologia filosofica, como
‘implicatura’ -- e di implementare una rete sintattica automatica con l'ausilio
di software dedicati. Il primo progetto ha riguardato l'analisi della
conversazione nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi” di GALILEI. Usando un
software, creato dal Laboratorio di Epistemologia Informatica di Bari, ricava
un “vocabolario” (filosofese, terminologia filosofica, vocabolario filosofico)
galileiano, procedere ad una prima valutazione dello stile ed avviare l'analisi
“semantica” di un “concetto” utilizzato da Galileo. Ha raccolto, infine, questi
spunti in una riflessione sui linguaggi dell'artificiale, intersecati con
quelli della vita, sulle nuove tecnologie della comunicazione e sull'etica.
Altre opera: “Tommasi, filosofo, Bari, Adriatica; “Filosofia e sperimento”
Bari, Adriatica; “Scienza, filosofia, letteratura, Verona, Bertani; “
Introduzione a Charcot, Fasano, Schena); “Epistemologia informatica, Bologna,
Transeuropa); “ Filosofia e informatica. Bari: Laterza); “L'uomo e la macchina
trent'anni dopo: Filosofia e informatica, Società Filosofica Italiana, Bari,
Laterza); “Dall'offerta formativa alla creazione di un nuovo lavoro: la laurea
umanistica” in Convegno per il corso "Informatica umanistica” BARI: G.
Laterza); “Laboratori di psicologia tra passato e futuro, Lecce, Pensa
Multimedia); “La prosa di Galileo: la lingua la retorica la storia, Lecce, Argo);
“La filosofia come strumento di dialogo tra le culture, Bari, Mario Adda Editore);
La Società Filosofica Italiana, Roma, Armando. Triggiani, Cultura, un fronte
unico. Università e Comune per una rete dei contenitori, in Gazzetta del
Mezzogiorno, 3 A.L., Dopo la laurea faccio il master in orecchiette, in
Specchio. Supplemento di La Stampa, F. Di Trocchio, Dall'archivio al futuro, in
L'Espresso,de Ceglia, l. Dibattista, Semi di storia della scienza. Milano, Angeli. L’esperire immediato e
l’esperienza mediata Affronteremo in questa lezione il difficile rapporto che
s’instaura tra il mondo-della-vita e quello della scienza, tra esperienza
diretta ed immediata ed organizzazione razionale. Husserl ritiene che le
scienze moderne (matematiche e naturali) hanno bisogno di un nuovo fondamento,
diverso e ben più solido di quello che vien loro solitamente attribuito dalla
comunità degli scienziati, dei logici e dei metodologi. Per trovare questo
nuovo fondamento, egli si rivolge direttamente al mondo-della -vita, cioè al
mondo dell’esperienza concreta, nel quale le intuizioni si presentano al loro
stato originario, non ancora elaborate in concetti: in una parola, si rivolge
al mondo del precategoriale. A questo proposito egli mette in guardia gli
scienziati, i quali ritengono di considerare la natura come è realmente e non
si accorgono dell’astrazione attraverso la quale essa è diventata per loro un
tema scientifico, non si accorgono cioè che le cose cui fanno riferimento -
perfino quando parlano di oggetti empirici, di risultati dell’osservazione e
della sperimentazione - sono in realtà il frutto di un precedente, assai
complesso e artificioso, lavoro categoriale. Possiamo ricordare, a questo
proposito, le procedure operative che oggi (in maniera più evidente di quanto
si poteva percepire ai tempi di Husserl) le scienze sperimentali adottano. Ecco
un esempio. Vedere, nella scienza del nostro tempo, vuol dire, quasi
esclusivamente, interpretare segni generati da strumenti: tra la vista di un
astronomo del nostro tempo che fa uso del telescopio spaziale Kepler e una di
quelle lontane galassie che appassionano gli astrofisici ed accendono la
fantasia di tutti gli esseri umani sono interposti oltre una dozzina di
complicati apparati mediatori del tipo: un satellite, un sistema di specchi,
una lente telescopica, un sistema fotografico, un apparecchio a scansione che
digitalizza le immagini, vari computer che governano riprese fotografiche e
processi di scansione e memorizzazione delle immagini digitalizzate, un
apparecchio che trasmette a terra queste immagini in forma di impulsi radio, un
apparecchio a terra che ritrasforma gli impulsi radio in linguaggio per un computer,
il software che ricostruisce l’immagine e le conferisce i necessari colori, il
video, una stampante a colori e così via. Questo esempio evidenzia che la
scienza ha due attività fondamentali: la teoria e gli esperimenti. Le teorie
cercano di immaginare come il mondo è; gli esperimenti servono a controllare la
validità delle teorie e la tecnologia che ne consegue cambia il mondo. L’intero
iter della ricerca scientifica si può sintetizzare con una affermazione netta:
rappresentiamo e interveniamo. Rappresentiamo al fine di intervenire e
interveniamo alla luce delle rappresentazioni. Dall’epoca della rivoluzione
scientifica ha preso vita una sorta di “artefatto collettivo” che dà campo
libero a tre fondamentali interessi umani: la speculazione, il calcolo,
l’esperimento. La collaborazione fra ciascuno di questi tre ambiti porta a
ciascuno di essi un arricchimento che sarebbe altrimenti impossibile. Per
questo, come aveva insegnato già il filosofo inglese Francesco Bacone (ritenuto
con Galilei il padre della scienza moderna), la scienza non è osservazione
della natura allo stato grezzo. I sensi dell’uomo vanno ampliati mediante
strumenti. I raggi dell’ottica di Newton, così come le particelle della fisica
contemporanea, non sono dati in natura, sono i dati di una natura sollecitata
da strumenti. Di fronte alla natura - come aveva affermato con una delle sue
barocche metafore il Lord Cancelliere inglese - dobbiamo imparare a “torcere la
coda al leone”. Da questo punto di vista la storia degli strumenti non è esterna
alla scienza, ma ne è parte costitutiva e integrante. Attenzione! Questo
materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche
parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L.
22.04.1941/n. 633) 4 di 17 Università Telematica Pegaso La
rivincita della conoscenza comune In altre parole: la definizione operativa
accolta usualmente dagli scienziati tende sì a ricondurre i concetti ad un contenuto
empirico, ma questo contenuto in realtà è quello filtrato da teorie e
strumenti, come dall’esempio che abbiamo sopra riportato.La tesi di Husserl è,
invece, che il fondamento di tutte le scienze - anche di quelle cosiddette
empiriche - possa venire fornito soltanto dal «fiume eracliteo» delle
intuizioni che precedono qualsiasi tipo di concettualizzazione e che ci
coinvolgono nell’immediatezza della vita, personale e professionale, vissuta,
la quale presuppone “il mondo circostante quotidiano della vita, in cui tutti
noi, e anch’io in quanto filosofo, esistiamo coscienzialmente: non meno le
scienze, in quanto fatti culturali inclusi in questo mondo, e gli scienziati e
le loro teorie. Nei termini del mondo-della-vita: noi siamo oggetti tra gli
oggetti; siamo qui o là, nella certezza diretta dell’esperienza, prima di
qualsiasi constatazione scientifica, fisiologica, psicologica, sociologica,
ecc. D’altra parte siamo soggetti per questo mondo, soggetti egologici che lo
esperiscono, che lo considerano, che lo valutano, che vi si riferiscono
attraverso un’attività conforme a scopi, soggetti per i quali il mondo
circostante ha il senso d'essere che gli è stato attribuito dalle nostre
esperienze, dai nostri pensieri, dalle nostre valutazioni, ecc., e nei modi di
validità (della certezza, della possibilità, eventualmente dell’apparenza,
ecc.) che noi realizziamo attualmente, in quanto soggetti di validità o che già
possediamo da prima e che portiamo in noi in quanto abitualmente acquisiti, in
quanto validità di questo o di quel contenuto che possono essere attualizzate a
piacimento. -Naturalmente tutto ciò soggiace a una molteplice evoluzione,
mentre ”il” mondo continua a essere un mondo unitario, e si corregge soltanto
nella sua struttura di contenuto”.[...] Ora, se consideriamo noi stessi in
quanto scienziati, nella funzione di scienziati in cui ora di fatto ci
troviamo, al nostro particolare modo d’essere, di essere scienziati,
corrisponde il nostro fungere attuale nel modo del pensiero scientifico, del nostro
porre problemi e del nostro ricavare soluzioni teoretiche in relazione alla
natura e al mondo dello spirito; ciò a cui ci riferiamo non è dapprima altro
che uno degli aspetti del mondo-della-vita già precedentemente sperimentato o,
comunque, già presente alla coscienza e già valido scientificamente o
pre-scientificamente. Fungono con noi gli altri scienziati, che vivono con noi
in una comunità teoretica, che attingono o già possiedono le stesse verità,
oppure che, grazie all’accomunamento di questi atti, stanno con noi nell’unità
di operazioni critiche e nel proposito di un accordo critico. D’altra parte noi
possiamo essere per gli altri, e gli altri per noi, meri oggetti; invece che
nella comunità dell’unità di un interesse teoretico attuale, possiamo conoscerci
reciprocamente attraverso l’osservazione; possiamo conoscere gli atti del
pensiero, gli atti dell’esperienza e, eventualmente, altri atti, come fatti
obiettivi, ma “senza interesse”, senza partecipazione, senza un’adesione o un
rifiuto critico” (Husserl, La crisi delle scienze europee). Ogni pensiero
scientifico e qualsiasi problematica filosofica, secondo Husserl, implicano
sempre certe ovvietà, per esempio la certezza che il mondo esiste, che è già
sempre preliminarmente, e che qualsiasi rettifica di un’opinione di qualsiasi
tipo, presuppone sempre il mondo in quanto orizzonte di ciò che senza dubbio è
e vale. Anche la scienza oggettiva pone i suoi problemi sul terreno di questo
mondo, il quale, però, è sempre già da prima, che è già a partire dalla vita
prescientifica. Essa, come qualsiasi prassi, presuppone il suo essere; ma,
insieme, si pone come fine la trasformazione del sapere prescientifico (che è
imperfetto sia nella sua portata che nella sua consistenza), in un sapere
compiuto, conformemente all’idea della correlazione tra mondo, che in sé è ben
determinato, e verità scientifiche che lo spiegano, presentandosi come delle
verità in sé. In altri termini, il suo compito è quello di attuare questa
esplicazione attraverso un processo sistematico, attraverso gradi di
compiutezza, utilizzando un metodo che permetta un costante progresso. In
realtà Husserl tende a realizzare una descrizione dello strato precategoriale
(o antepredicativo) posto a fondamento dell’edificio logico-categoriale. Questo
strato può presentarsi sia come un piano autonomo d’esperienza che ignora la
destinazione predicativa, sia come un’anteriorità funzionale, cioè come un
precategoriale non autonomo in quanto indirizzato verso il piano predicativo (o
categoriale). In questo secondo caso, il predicativo assume il valore di
interpretazione ed esposizione linguistica dell’antepredicativo cioè
dell’originario d’esperienza. Il criterio che egli assume, peraltro, richiede
che ogni fondazione e chiarificazione conoscitiva acquisisca, dal punto di
vista fenomenologico, la forma del rinvio all’intuizione fondante. In tal modo
il rapporto tra sensibilità ed intelletto (è evidente qui il richiamo critico
alle due “fonti della conoscenza”, di kantiana memoria) si traduce nel rapporto
tra “sensibile” e “categoriale”: il non-categoriale, il precategoriale è
collocato nella sfera del sensibile con tutta la sua valenza fondativa per gli
atti logici superiori. di 17 Università Telematica Pegaso La
rivincita della conoscenza comune 3 Agrimensura empirica e geometria
scientifica Tra le pagine più note, nelle quali Husserl analizza il rapporto
fondativo del precategoriale incarnato nel mondo-della-vita ed il categoriale
consacrato nei paradigmi scientifici, quelle dedicate alla genesi della geomertia
e della geometrizzazione della natura sono particolarmente idonee per le
tematiche che stiamo analizzando. Husserl precisa subito che la sua indagine
“genealogica” non mira ad una ricostruzione “storiograficamente corretta” delle
origini della geometria (emblematicamente assurta a simbolo della scienza
“esatta”, ma non “rigorosa”) bensì vuole rintracciare il senso profondo,
originario della sua collocazione categoriale. “Il problema dell'origine della
geometria (e sotto il titolo di geometria raccogliamo qui, a fine di
concisione, tutte quelle discipline che si occupano delle forme esistenti
matematicamente nella spazio-temporalità) non è qui un problema
storico-filologico; non si tratta quindi di reperire i primi geometri
che·abbiano formulato proposizioni, dimostrazioni, teorie geometriche, né
quelle determinate proposizioni che essi possono aver scoperto, ecc. Il nostro
interesse mira invece a risalire al senso più originario in cui la geometria si
è costituita, in cui si è sviluppata attraverso millenni, in cui è ancora viva
per noi e in cui continua a evolvere; noi indaghiamo cioè il senso in cui si è
presentata per la prima volta nella storia - il senso in cui dev’essersi
presentata, anche se nulla sappiamo, né cerchiamo di sapere, sui suoi creatori.
Partendo da ciò che sappiamo della nostra geometria, oppure dalle sue forme più
antiche tramandateci (per es. dalla geometria euclidea), cerchiamo di risalire
agli inizi originari e ormai sommersi della geometria, a quegli inizi
“originariamente fondanti” così come devono necessariamente essersi prodotti.
Questo tentativo di risalire al senso originario si mantiene necessariamente
nell’ambito delle generalità, ma, come La rivincita della conoscenza comune
risulterà tra breve, si tratta di generalità ricchissime, la cui esplicitazione
offre la possibilità di attingere problemi particolari e constatazioni evidenti
che a loro volta si configurano come problemi. La geometria, per così dire,
compiuta, a cui occorre rifarsi per risalire al suo senso, è una tradizione. La
nostra esistenza umana si muove nell’ambito di un numero enorme di tradizioni.
Tutto il mondo culturale, in tutte le sue forme, è per noi in base alla
tradizione. Perciò le forme culturali non sono soltanto divenute causalmente:
noi sappiamo anche che la tradizione è appunto una tradizione che si è
costituita nel nostro spazio umano e in base all’attività umana, sappiamo che è
spiritualmente divenuta - anche se in generale noi non sappiamo nulla della sua
precisa provenienza e della spiritualità che l’ha di fatto determinata. E
tuttavia, anche questo non-sapere include sempre, per essenza e implicitamente,
un sapere che può essere esplicitato, un sapere di un’evidenza incontestabile”.
(E. Husserl, ibidem, p.381). Questo sapere, continua Husserl, affonda le
radici, nell’esempio specifico che egli illustra, nell’impiego empirico dei
concetti geometrici. A questo livello possiamo certo accontentarci di
determinazioni piuttosto vaghe, di una vaga tipicità; e dunque di confronti
sommari, a occhio e croce. Ci possiamo contentare, ma beninteso secondo i casi.
Vi sono situazioni in cui non ci contentiamo affatto. Se, ad esempio, dobbiamo
vendere il nostro campicello o scambiare il nostro con quello di un altro,
presumibilmente non saremo affatto soddisfatti da determinazioni tra il più e
il meno. Cercheremo di escogitare metodi più precisi di confronto, dunque
metodi di misurazione. Si vede subito allora in che senso la pratica della
misurazione abbia a che fare con la geometria, e in particolare con la sua origine.
Pur essendo motivati da interessi pratici, cominciamo tuttavia ora a porci
problemi teorici, continua Husserl, sia pure in una forma relativamente
disorganica. Per escogitare metodi di misurazione abbiamo bisogno di operare
una certa classificazione delle forme, scoprire certe relazioni tra esse o
inventare dei ben determinati congegni per stabilire tra esse una relazione. In
tutto ciò sono implicite numerose riflessioni teoriche che preparano la
riflessione propriamente geometrica. Lo stesso problema di una classificazione
tenderà, ad esempio, ad un certo ordinamento che prefigura la distinzione tra
forme elementari e forme derivate e che non solo richiede un preciso intervento
teorico, ma configura altrsì un possibile campo di indagine con fini propriamente
ed esclusivamente conoscitivi. Questa origine della problematica geometrica non
ha evidentemente un carattere “storiografico” nel senso consueto del termine.
In altri termini, non ci sono “documenti” che mostrino che le cose siano andate
proprio così, e questo è un altro elemento di notevole interesse che emerge
dalle riflessioni di Husserl e che riguarda il concetto della storicità. È
innegabile infatti che siamo comunque di fronte ad una descrizione “storica”,
ma essa è condotta sul filo di una logica interna ai concetti, non è un
racconto più o meno leggendario. E persino l’origine della riflessione
geometrica dall’agrimensura ha forse queste caratteristiche di una connessione
“genetica” non storiograficamente documentata in senso stretto, ma che rientra
tuttavia, in un certo senso, nel pensiero di una storia della geometria alle
sue origini. Scrive Husserl: “La metodica geometrica della determinazione
operativa di alcune e poi di tutte le forme ideali a partire da forme
fondamentali, in quanto mezzi elementari di determinazione, rimanda alla
metodica esercitata già nel mondo circostante pre-scentifico-intuitivo,
dapprima in modo rudimentale poi secondo regole d’arte, alla metodica della
misurazione e in generale della determinazione misurativa. Le sue finalità
hanno un’origine, che è rivelatrice, nella forma essenziale di questo
mondo-della-vita. Le sue forme sensibilmente esperibili e sensibilmente-
intuitivamente pensabili in esso e tutti i tipi pensabili, a qualsiasi grado di
generalità, si connettono continuamente le une con gli altri. In questa
continuità essi riempiono la spazio- temporalità (sensibilmente intuitiva) che
è la loro forma (Form). Ogni forma che rientra in questa aperta infinità, anche
quando è data come un fatto nella realtà, è priva di “obiettività”, perciò non
è determinabile intersoggettivamente da chiunque - per es. da un altro che non
la veda di fatto -, né comunicabile nella sua determinatezza. Evidentemente a
costui serve la misurazione. La misurazione è qualcosa di molto differenziato,
il misurare vero e proprio non è che il suo momento conclusivo: da un lato si
tratta di produrre concetti adatti per le forme corporee dei fiumi, dei monti,
degli edifici, ecc. che di regola devono rinunciare a concetti e a nomi
rigorosamente determinanti; innanzitutto per le loro “forme” (nell’ambito della
somiglianza visiva), e poi per le loro grandezze e per i loro rapporti di
grandezza e; ancora, per l’ubicazione, mediante la determinazione delle
distanze e degli angoli che vengono riportati a luoghi e a direzioni
presupposti noti e immobili. La misurazione scopre praticamente la possibilità
di scegliere come misura certe forme fondamentali empiriche, che sono
concretamente definite su corpi che di fatto sono generalmente disponibili ed
empirico-rigidi, e, mediante i rapporti che esistono (e che devono essere
scoperti) tra queste misure e le altre forme corporee, cerca di determinare
intersoggettivamente e in modo praticamente univoco queste forme - dapprima in
sfere ridotte (ad es. nell’ agrimensura) poi per nuove sfere di forme. Si
capisce così come, in seguito all’esigenza, ormai desta, di una conoscenza
“filosofica”, di una conoscenza che determinasse il “vero” essere, l’essere
obiettivo del mondo, la misurazione empirica e la sua funzione empiricamente-
praticamente obiettivante, attraverso la trasformazione dell’interesse pratico
in un interesse puramente teoretico, potesse venir idealizzata e trapassare
così in un pensiero puramente geometrico. La misurazione prepara così la
geometria universale e il suo “mondo” di pure forme- limite”. (E. Husserl,
ibidem, pp. 57-58). Naturalmente la fenomenologia rappresenta in certo senso la
guida di questo pensiero. Benché l’istante della transizione non possa essere
documentato, è tuttavia chiaro che molte conoscenze geometriche siano state
anticipate e presupposte nella tecnica degli agrimensori. Anzi in generale i
problemi che sorgono nell’ambito della soluzione di difficoltà pratiche
stimolano la ricerca sul piano teoretico–conoscitivo: la prassi tecnica genera
motivi di riflessione teorica. E inversamente la riflessione teorica diventa un
“mezzo della tecnica”; una volta che una scienza come la geometria si è
costituita, quando cioè esiste un lavoro scientifico diretto in modo autonomo
ad un universo di oggetti concettualmente definito, questo lavoro si ripercuote
a sua volta sul terreno dei problemi tecnici suggerendo nuove idee e nuovi
progetti. Logica trascendentale e mondo-della-vita Questa
interconnessione tra precategoriale e categoriale non riguarda soltanto le
scienze naturali e sociali, ma investono ovviamente anche le scienze formali e,
tra queste, la logica, verso la quale Husserl, fin dall’inizio della sua
attività filosofica, ha sempre mostrato particolare interesse. Dalle Ricerche
logiche (1900) a Logica formale e trascendentale (1929) a Esperienza e giudizio
(1939), egli traccia la via di una “genealogia” della logica, in polemica con
il logicismo e lo psicologismo, Nello sviluppo del suo pensiero si impone a
Husserl anche l’esigenza di chiarire che genere di rapporto sussiste tra la
logica antepredicativa e la logica predicativa . La percezione sensibile, per
quanto consista nel tendere da parte dell’io verso l’oggetto intenzionato, è
sempre una conoscenza instabile, insicura, che non consente mai di possedere
l’oggetto conosciuto in maniera definitiva. Questo è possibile soltanto
mediante una conoscenza predicativa, cioè attraverso la logica, la quale ha la
capacità di fissare l’oggetto e di conservarlo anche quando non è presente nella
percezione. La conoscenza antepredicativa e quella predicativa, perciò, si
differenziano nettamente e ciascuna si caratterizza per una propria
specificità. Se però si analizza la genesi della logica, ci si rende conto che
bisogna rifarsi alla percezione sensibile per spiegare la logica predicativa.
Questo significa che la conoscenza predicativa, di cui appunto la logica è
l’espressione più compiuta, riposa fenomenologicamente, cioè dal punto di vista
della sua fondazione, sulla conoscenza antepredicativa, cioè si esplicita in
logica trascendentale. Scrive Husserl: “Chiarito il contrasto tra scienza
obiettiva e mondo-della- vita, occorre tuttavia localizzare la loro essenziale
connessione: la teoria obiettiva nel suo senso logico (in termini universali,
la scienza come totalità delle teorie predicative, dei sistemi “logici” in
quanto sistemi di “proposizioni in sé”, di “verità in sé” e, in questo senso,
di enunciati logicamente connessi) è radicata e fondata nel mondo-della-vita,
nelle sue evidenze originarie. Proprio per questo la scienza obiettiva ha una
costante relazione di senso col mondo in cui sempre viviamo, e in cui, quindi,
viviamo anche nella nostra qualità di scienziati accomunati a tutti gli altri
scienziati - si tratta cioè di una relazione col comune mondo-della-vita. Ma
così la scienza obiettiva è un’operazione di persone pre-scientifiche, di
persone singole e di persone accomunate nell’attività scientifica, di persone
quindi che appartengono al mondo-della-vita. Le loro teorie, le formazioni
logiche, non sono naturalmente cose del mondo-della-vita nel senso in cui lo
sono i sassi, le cose, gli alberi. Sono totalità logiche e parti logiche
costituite da elementi logici ultimi. Per parlare con Bolzano: sono
“rappresentazioni in sé”, “proposizioni in sé”, conclusioni e dimostrazioni “in
sé”, unità ideali di significato, la cui idealità logica è determinata dal loro
telos “verità in sé”. Ma anche questa idealità, come qualsiasi altra, non muta
nulla al fatto che sono formazioni umane connesse per essenza alle attualità e
alle potenzialità umane, e che quindi rientrano nella concreta unità del
mondo-della-vita, la cui concrezione dunque ha una portata maggiore di quella
delle “cose”. Ciò vale, correlativamente, anche per le attività scientifiche,
sperimentali, per le attività che “in base” all’esperienza plasmano le
formazioni logiche, in cui esse compaiono in forma originaria e in modi
originari di evoluzione, nei singoli scienziati e nella comunità degli
scienziati: quale originarietà delle proposizioni, delle dimostrazioni, ecc.
che sono state elaborate in comune (Husserl). Come potete notare, si tratta di
un’ampia riflessione sul come le strutture logiche siano o meno adeguate alla
dimensione della realtà oggettiva. In questo senso la logica trascendentale si
presenta come logica dei fondamenti, ed è in seno ad essa che si costituisce la
logica come scienza formale. La logica formale tradizionale, invece, ha
ignorato la propria genesi, presupponendo come ovvia la validità delle proprie
leggi. Al contrario, un giudizio logico deve essere valutato come un atto
soggettivo di conoscenza che si impadronisce del suo contenuto. Per questo
motivo le leggi logiche formali, che siano normative del giudizio, ma che non
tengono conto del fatto che sono normative anche del suo contenuto, fanno
sorgere interrogativi sulla validità dei loro giudizi sul mondo naturale e
sulla verità ed evidenza dei loro contenuti. Seguendo questo punto di vista,
Husserl sviluppa pienamente il tema della logica trascendentale in rapporto
alle categorie di verità e di significato. Conseguentemente, la logica si
configura qui come teoria delle teorie: essa non è solo un discorso logico
sulla logica, condotto con i mezzi della logica, ma un metadiscorso sulla
logica, che tuttavia non si presenta né come una sovrastruttura né come una
forma speculativa. E’, a tutti gli effetti, una regressione, un ritorno ai
fondamenti che l’hanno costituita nelle sue operazioni originarie, anche
storiche, nonché nelle sue operazioni attuali. Le ricerche fenomenologiche,
ribadisce Husserl, risultano necessarie alla logica pura, trascendentale. Ne
rappresentano la sua fondazione intuitiva e precategoriale: in quanto la logica
è da ricercare nelle operazioni costitutive, diventa logica filosofica,
filosofia prima, teoria della teoria. Ma, badate bene, ciò non è in
contraddizione con la fondazione precategoriale: è solo l’altra faccia della
questione, poiché la fondazione deve sempre essere ristabilita nella presenza e
nelle modalità temporali e quindi genetiche e storiche. Le scienze, invece, che
non prendono in considerazione ciò che costituisce il loro fondamento
trascendentale, cioè le condizioni per cui si danno, si risolvono in pure
tecniche di manipolazione di simboli linguistici.Mauro Di Giandomenico. Giandomenico.
Keywords: l’apertura semantica, “How Pirots Karulise Elatically” – pirots
karulise elatically – pirots karulise – ‘implicazione’ – aperture semantica,
Galileo, la retorica di Galilei, Galilei, lo stile di Galilei, Vinci, I corpi,
la filosofia positivistica italiana -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giandomenico: l’implicatura conversazionale: ‘Pirots
karulise elatically; therefore, pirots karulise!” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giani: l’implicatura conversazionale -- implicatura
mistica – l’implicatura di Catone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Muggia).
Filosofo italiano. Grice: “It’s hard for me to judge Giani’s philosophy because
I fought against the Italians during the so-called ‘second world war,’
so-called!” Grice: “But I would be willing to expand: if Giani developed what
he aptly called a ‘mystique’ – so did we at Oxford – Churchill surely held his
‘mystique.’ Of course the Italian, being more scholastic, had to call it ‘scuola
di mistica,’ – and the idea was that of an all-male chivalry order – aptly set
at Milan!” Fonda la corrente filosofica nota come "Mistica". Partì
come volontario di guerra e morì sul fronte. Frequentato il Liceo ginnasio
di Trieste. Si trasfere a Milano, dove si iscrive a Milano e quindi ai Gruppi
Universitari, laureandosi. Anticipa l'imminente apertura della scuola sul
foglio dei Gruppi Universitari, "Libro e moschetto" della scuola di mistica.
Ne divenne direttore, carica che lasciò alla fine dell'anno seguente dopo aver
scritto il suo ampio discorso da tenersi a Roma in occasione dellaI iunione
della Società Italiana per il Progresso delle Scienze che coincide anche con il
decennale della Marcia su Roma in cui enuncia i principi della nuova scuola.
Su impulso di G. si comincia inoltre a pubblicare i Quaderni della scuola di
mistica. Poche settimane dopo la riunionesi dimise da direttore con una
lettera inviata a MUSSOLINI, per contrasti interni con il segretario politico
dei Gruppi Universitari. Imputa le dimissioni al mancato trasferimento della scuola
nella vecchia sede de Il Popolo d'Italia chiamato anche "Il covo" La
richiesta di entrare in possesso de "Il covo" punta ad ottenere il
possesso di uno degl’ambienti più importanti dell'immaginario fascista.
Continua quindi a collaborare con diversi quotidiani come "Il Popolo
d'Italia" e "Gerarchia". "Lineamenti sull'ordinamento
sociale dello stato" gli fa ottenere la libera docenza e e quindi la
cattedra a Pavia ma parte volontario per la guerra arruolandosi col grado di
capomanipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale nel Battaglione"Vercelli".
Rientrato in Italia, riassunse la guida della scuola, qui in occasione della
chiusura dell'anno scolastico nell'aula della casa del Fascio di Milano.
Rientrato in Italia riassunse la carica di direttore della "Scuola di
Mistica" lanciando due importanti iniziative, rilancia la pubblicazione
della serie di "Quaderni" che affrontavano differenti problematiche e
sempre per sua iniziativa fu creata nell'ambito della scuola la rivista
mensile, Dottrina che divenne l'organo ufficiale della Scuola, in cui pubblica il "Decalogo dell'italiano nuovo”. Si
dedica inoltre al giornalismo diventando direttore a Varese di "Cronaca
prealpina" e collaborando a diverse testate, tra cui Tempo (Direttore:
Acito). Dalle pagine di "Cronaca prealpina" prese parte alla campagna
fondata sui propri convincimenti del ‘spirito’ contrapposto al
"biologico" La Cronaca
prealpina dopo la nomina di G. a direttore arriva a quadruplicare la tiratura.
L'incontro a Roma con Mussolini in cui si decise la cessione del covo ai
"mistici" della Scuola. Su impulso di G., con una cerimonia
presieduta di Starace, la sede ufficiale della scuola di mistica si sposta nel
medesimo edificio che ospitò ai suoi primordi il giornale Il Popolo d'Italia,
chiamato il covo. Il covo negli anni e stato trasformato in una galleria. La
palazzina e proclamata monumento nazionale con tanto di guardia d'onore svolta da squadristi e combattenti. Per
esplicita decisione di Mussolini, e ufficialmente consegnata ai mistici della
scuola. L'evento e vissuto come una autentica consacrazione dei insegnanti
riuniti intorno a G.. In realtà la consegna e già stata disposta come risulta
da un foglio d'ordini del PNF e in quell'occasione il consiglio direttivo e ricevuto
a Roma da MUSSOLINI. Mussolini li aveva spronati continuare nella loro
attività. A Milano, in occasione del decennale dalla fondazione della
scuola, organizza il convegno di mistica che nelle sue intenzioni dove essere
il primo della serie. Obiettivo che sfuma a causa dell'entrata in guerra.
L'incontro vide oltre 500 partecipanti ed ha l'adesione della maggior parte dei
filosofi dell'epoca. Come gran parte dei mistici, partecipa nuovamente come
volontario alla seconda guerra mondiale, conflitto nel quale vede il presagio
di una rivoluzione in vista di una nuova era. Inquadrato nel reggimento alpini prende parte alla battaglia
delle Alpi Occidentali contro la Francia venendo decorato con la medaglia
d’argento al valor militare.Terminata la campagna di Francia in seguito
all'armistizio torna alla vita civile ma incominciata nel frattempo la guerra
in nord Africa richiese più volte di partire volontario senza ottenere
soddisfazione. Alla fine ottenne di partire
come corrispondente di guerra de Il Popolo d'Italia, della Cronaca
prealpina e de L'Illustrazione Italiana presso i reparti della regia
aeronautica. Per quest'ultima realizza anche diversi servizi fotografici. All'attività
di giornalista affiance anche quella di militare prendendo parte ad alcune
azioni e ottenendo una medaglia di bronzo al valor militare. E richiamato in
Italia dove riassunge la guida de "La cronaca prealpina".Nuovamente
incorporato nel reggimento alpini riparte infine come volontario per la
campagna di Grecia, dove cadde sul fronte greco-albanese nella battaglia per la
conquista della Punta Nord del Mali Scindeli. Si offre volontario per una pericolosa
missione che prevede la conquista di una munita postazione greca. L'attacco
ebbe inizialmente successo con la conquista della posizione ma riorganizzatisi
i greci condussero un contrattacco. Nello scontro cadde. Il periodico
L'Illustrazione Italiana scrive, senza riportare dove o come avrebbe potuto
registrare tali parole, che l'ufficiale greco che lo aveva colpito a morte
avrebbe raccontato che nello scontro Giani gli si era parato davanti "come
un dio o un demone". Il corpo di G. anda disperso e gl’altri
assaltatori che prendono parte
all'attacco dovettero ritirarsi rapidamente incalzati dai soldati greci. E
pochi giorni dopo incaricato delle ricerche Carati che e anche vice-direttore
della scuola di mistica. Le ricerche a causa della perdurante situazione di
guerra sono nulle, e riuscì solo ad individuare il luogo in cui e caduto.
In quell'occasione, richiesta un'udienza al duce, chiede che puo partire per
l'Albania il cognato Guido G. e il fratello Aldo Sampietro. Questi ultimi rinvennero
la salma sepolta in maniera anonima in territorio greco. Di qui la salma e
translata nel piccolo cimitero militare di Klisura. MUSSOLINI e preso
come principale punto di riferimento dalla scuola di mistica. Elabora un discorso
programmatico in cui enuncia i principi fondanti della Scuola e della Mistica
fascista. Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare,
interpretare ed elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola
di mistica ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori che sono nell'opera del Duce. (G. in La marcia sul mondo). Inizialmente i
principi esposti da G. fanno parte di un discorso più ampio da tenersi a Roma
in occasione di una riunione della Società Italiana per il Progresso delle
Scienze. L'ampio discorsoe poi pubblicato nella serie dei "Quaderni"
voluti da G. con il titolo "La marcia sul mondo della civiltà". Si
impone un ritorno alle origini, ovvero al movimentismo rivoluzionario, riallacciandosi
idealmente all'esperienza delle prime squadre d'azione e degli arditi della
Grande Guerra quindi, secondo Veneziani "una più radicale rivoluzione
coniugata al recupero di una più integralistica tradizione. Ma più che legati
agli enunciati politici del manifesto di sansepolcro i mistici di quella
esperienza esaltavano soprattutto la lotta contro la borghesia affaristica del
primo dopoguerra. La mistica si considera rappresentante proprio di questo
mondo ispirato dall'amore di patria e posta a guardia della rivoluzione
permanente e in contrasto con gli opportunisti e i trasformisti. Individuava
nell'epoca contemporanea *quattro* principali mistiche, destinate ad apportare
in un primo tempo dei benefici ma poi a fallire: liberale, democratica,
socialista e comunista. Liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo
sono le quattro mistiche dominanti nella societa. Il bilanciolo abbiamo già
visto è per tutte negativo. Il liberalismo porta all'anarchia. La democrazia porta
all'instabilità politica e sociale. Il socialism porta alla otta civile. Il
comunismo porta alla vita primitiva. Queste quattro mistiche sono pertanto anti-storiche.
A fronte di esse l'unica mistica in grado di superare tali crisi era quella come
sviluppato nel capitolo intitolato "La marcia ideale" la cui
conoscenza e diffusione presso le masse era compito della élite. Medaglia
d'argento al valor militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'argento al
valor militare «Volontario nella guerra d'Africa ove prese parte volontario a
diverse pattuglie esploratori, chiese ed ottenne di essere anche in quest
guerra assegnato ad un reparto combattente. Destinato all'11º alpini volontario
a due azioni del battaglione Bolzano chiese di partecipare alla ardita discesa
di due compagnie del battaglione Trento effettuata in una valle occupata dal
nemico e avanzò con la prima pattuglia sotto intenso bombardamento, sprezzante
del grave pericolo di sorprese e di accerchiamento nemico, esempio trascinante
a ufficiali e soldati, e prova di dedizione alla patria, di alta fede e di valore.»
Medaglia di bronzo al valor militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia di
bronzo al valor militare «Corrispondente di guerra presso una squadra aerea
disimpegnava il suo particolare e delicato servizio con alto senso di
responsabilità. Spesso presente sugli aeroporti più avanzati e maggiormente
battuti dall'offesa nemica allo scopo di rendersi conto di ogni particolare,
partecipava volontariamente a difficili e rischiose missioni di guerra, dando
sicura prova anche nelle più critiche circostanze di sereno sprezzo del
pericolo e completa dedizione al dovere.» Medaglia d'oro al valor militarenastrino
per uniforme ordinaria Medaglia d'oro al valor militare. Volontariamente, come
aveva fatto altre volte, assumeva il comando di una forte pattuglia ardita,
alla quale era stato affidato il compimento di una rischiosa impresa.
Affrontato da forze superiori, con grande ardimento le assaltava a bombe a
mano, facendo prigioniero un ufficiale. Accerchiato, disponeva con calma e
superba decisione gli uomini alla resistenza. Rimasto privo di munizioni, si
lanciava alla testa dei pochi superstiti, alla baionetta, per svincolarsi.
Mentre in piedi lanciava l'ultima bomba a mano ed incitava gli arditi col suo
eroico esempio, al grido di: «Avanti Bolzano! Viva l'Italia», veniva
mortalmente ferito. Magnifico esempio di dedizione al dovere, di altissimo
valore e di amor di Patria.» — Punta NordMali Scindeli (Fronte greco) Saggi: “La
via della gloria, anni 20 La marcia sul mondo della Civiltà Fascista, Lineamenti
su l'ordinamento sociale dello Stato, Giuffré ed. La mistica come dottrina. Perché
siamo, A. Nicola. Perché siamo mistici. Mistica della rivoluzione. Antologia di
scritti, Il Cinabro, Longo, “I vincitori
della guerra perduta” (sezione su G.),
Settimo sigillo, Roma.Carini, G. e la scuola di mistica fascista, Mursia, Antonellis, Come doveva essere il
perfetto, su storia illustrate,Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su
storia illustrate, Carini nella prefazione su G., La marcia sul mondo, Novantico, Pinerolo, Carini,
G. e la scuola di mistica, Mursia,Carini,
G. e la scuola di mistica, Mursia, Carini, G. e la scuola di mistica fascista,
Mursia, Carini nella prefazione su G., La marcia sul mondo, Novantico,
Pinerolo, Grandi, Gli eroi, G. e la Scuola di mistica, Cfr. a tale proposito le
ricerche di Laforgia, una cui sommaria sintesi è nel sito varesenews Archiviato.
Carini nella prefazione su G., La marcia sul mondo, Novantico, Pinerolo, Il
saggio, edito da Dottrina Fascista, riporta in forma integra la conferenza inaugurale
tenuta da G. per l'inaugurazione del corso per maestri della scuola di mistica.
Cfr. a tale proposito le ricerche di Laforgia in Grandi, Gl’eroi di Mussolini,
BUR, Milano, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Veneziani,
La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarco, Varese, Longo, Gl’eroi della
guerra perduta, Settimo sigillo, Roma,
L'Illustrazione italiana, Grandi, Gli eroi di Mussolini. G. e la Scuola
di mistica fascista, Grandi, Gl’eroi di Mussolini. G. e la Scuola di mistica
fascista, G., La marcia sul mondo, Novantico, Pinerolo, Carini nella prefazione
su G., La marcia sul mondo, Novantico, Pinerolo, Marcello Veneziani, La
rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarco, Varese, G., La marcia sul mondo,
Novantico, Pinerolo, Carini nella prefazione su G., La marcia sul mondo, Novantico,
Pinerolo, Carini nella prefazione su G., La marcia sul mondo, Novantico,
Pinerolo, Carini, G.e la Scuola di mistica, prefazione di Veneziani, Mursia,
Milano, Grandi, Gli eroi di Mussolini. G. e la Scuola di mistica, BUR
Biblioteca Rizzoli, Raido Speciale Scuola di Mistica, Raido, Roma, Arnaldo M.,
Coscienza e dovere. G. MISTICA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA Antologia di scritti. In breve: «Siamo mistici perchè siamo degli
arrabbiati, cioè dei faziosi, se così si può dire, del Fascismo, uomini
partigiani per eccellenza e quindi anche assurdi Del resto nell’impossibile e
nell’assurdo non credono gli spiriti mediocri. Ma quando c’è la fede e la
volontà, niente è assurdo». (Niccolò Giani) Un’antologia che raccoglie i più
significati testi di G., tra i massimi esponenti della corrente più radicale,
oltranzista e universale del Fascismo, la Scuola di Mistica
Fascista. Questa antologia rappresenta la prima raccolta organica dei più
significativi scritti di G. È, a nostro
giudizio, il modo migliore per illustrare senza filtri la sua persona, la sua
filosofia, e la sua azione. È un omaggio doveroso al testimone di quello che e
il Fascismo universale e intransigente che mai scese a compromessi con la “vita
comoda”, al rinnovatore spirituale e politico di una intera generazione.
Esempio di eroismo che, al di là della contingenza storica, seppe essere
coerente con i propri principî vivendo l’ideale sino all’estremo sacrificio;
quasi innalzando il Fascismo ad una categoria universale dell’essere, come
fonte inesauribile di spiritualità cui innestarsi per fare la rivoluzione
dell’uomo e del mondo. Niccolò Giani, nato a Muggia, cadde sul fronte greco nello
slancio del combattimento, trasfigurato ormai nell’eroismo muto. Dimostra con
la vita affermata oltre la morte, l’armonia tra pensiero e fede, la continuità
tra filosofia ed azione, e della autentica rivoluzione rimane il puro
rappresentante del nuovo italiano: per questo il suo esempio e il seme fecondo
dell’aspro cammino di domani. Seppe con l’azione indicare la strada, con
l’intransigenza insegnare l’esempio. I tesserati sono i suoi avversari. Contro
di essi combatté, contro cioè i falsi, i presuntuosi, gli esibizionisti, i
retorici, gli arrivisti; contro coloro, insomma, che considerarono la rivoluzione
come atto di ordinaria amministrazione, sfruttabile per fini personali.
Il Cinabro Ufficio stampa Rimbotti: Mistica Fascista. L’ordine della
Milizia sacra; Rossi: La Mistica Fascista dell’Uomo Nuovo. Tra milizia politica
e meta-politica la scuola rivoluzionaria del Fascismo; Mezzasoma: G., discepolo di Arnaldo *** Decalogo dell’Uomo
Nuovo La marcia ideale sul mondo della Civiltà fascista Generazioni di
Mussolini sul piano dell’Impero Civiltà fascista civiltà dello spirito Aver
Coraggio A difesa dell’Europa Fuori La mistica come dottrina del fascismo Le
due Europe Mistica del fascismo, Corporativismo e Autarchia Il Centro di preparazione
politica per i giovani. Fucina di Campioni della Rivoluzione Valore primordiale
del “Covo” I soliti imbecilli L’equivoco Perché siamo dei mistici Il volto
della guerra Testamento spirituale al figlio Niccolò Giani: Presente!Mistica
Della Rivoluzione Fascista “E questo diritto alla prima linea, ad essere i
disperati del Fascismo, è l’unica pretesa che, oggi, domani, sempre, i mistici
del Fascismo accamperanno di fronte alla Rivoluzione, come, con vena veramente
squadrista, ha detto Guido Pallotta nella sua relazione che ha avuto lo spirito
e la mordenza del «menefreghismo» più autenticamente fascista. Prima linea, sul
fronte esterno ed interno, contro il nemico di fuori e di dentro. Contro gli
attentatori della nostra integrità territoriale, ma anche, e con uguale
decisione e durezza, contro gli attentatori della nostra integrità
spirituale.” (Niccolò Giani) Le conseguenze derivate dalla fine del
primo conflitto mondiale e l’immediatarossi 5 crisi strutturale delle
istituzioni e dei valori che investì, con una forza che non aveva avuto
precedenti nella storia, le società europee, vennero allora giudicate come
l’annuncio di un radicale mutamento di tutte le forme della vita politica e
civile fino ad allora conosciute e complessivamente accettate. Una deflagrazione
interna dei costumi, di certezze consolidate e di mentalità che modificò in
maniera irreversibile l’immaginario collettivo di popoli e nazioni.
Niente sarebbe più stato come prima. Uno Spirito nuovo si affacciava con ruvida
decisione e realismo eroico reclamando il proprio posto nella Storia. L’alba
delle grandi rivoluzioni si affacciava sul continente europeo e i popoli si
sarebbero messi in marcia affascinati da nuove e esaltanti
Weltanschauung. Per Arthur Moeller Van Den Bruck, uno dei primi e tra i
più significativi esponenti della Rivoluzione Conservatrice tedesca, si
tratterà di una presa di posizione a carattere diffuso più che evidente:
“Assistiamo all’evento per cui tutto quel che non è liberale si unisce contro
quel che è liberale. Noi viviamo i tempi di questa agitazione mondiale, che si
produce per una estrema consequenzialità, e che si esplica in una rivoluzione
radicale che prospetta la perdita da parte del nemico della sua posizione di
potere: tale nuova situazione mondiale esordisce con un allontanamento
dall’Illuminismo.” Il periodo che immediatamente fece seguito al termine
di un conflitto di così immensa portata, venne visto dai più attenti e acuti
osservatori incredibilmente saturo di una genuina e stupefacente valenza
rivoluzionaria e innovatrice, ciò significò l’inizio di una nuova stagione di
entusiastiche mobilitazioni che avrebbero alla fine tonificato la fibra morale
e politica del continente fino ad allora logorata ed estenuata da
sovrastrutture ipocrite e corrose nel loro intimo che erano riuscite,
attraverso innumerevoli sotterfugi, a sopravvivere a se stesse, sempre più
annichilite da un pervasivo decadentismo culturale e morale e dal predominio di
una mentalità borghese e oligarchica connotata dalle sue più perniciose vedute
utilitaristiche e mercantilistiche. Le conseguenze della fine della
grande guerra significarono soprattutto una presa di coscienza collettiva e
un’accelerazione formidabile dei fenomeni sociali, accompagnate entrambe da una
esigenza totalmente nuova di considerare l’esistenza e i rapporti umani,
esigenza che venne principalmente percepita prima dai combattenti e poi dai
reduci come il frutto maturo della traumatica e allo stesso tempo travolgente
esperienza della guerra di trincea, insomma un insieme di condizioni
imprescindibili che prepararono il terreno e l’atmosfera per l’avvento delle
ondate rivoluzionarie nazionalpopolari che misero in crisi valori e regole
consolidate da tempo, assestando colpi mortali alle strutture politiche,
sociali e culturali delle società borghesi liberal-democratiche. Dalle
forme statiche si passava alle forme dinamiche, nel senso jungeriano del
termine. Il Fascismo sarà la matrice principale che inaugurò la feconda
ed entusiasmante stagione delle insurrezioni nazional-rivoluzionarie e il primo
laboratorio culturale delle ancor più affascinanti sintesi nazionali e
sociali. Furono infatti i reduci del fronte, gli ex-combattenti che
avevano creduto fino in fondo ad una particolare visione eroica della vita
propria di una ideologia della guerra sviluppatasi nell’interiorizzazione del
sacrificio bellico e del sangue versato – subendo poi la frustrazione di una
vittoria conseguita sul campo di battaglia a duro prezzo che videro mutilata
negli accordi di pace internazionali – a rappresentare la spina dorsale di una
innovativa e volontaristica visione politica che pretendeva di coniugare un
nazionalismo intransigente e guerriero partorito nelle trincee con le più
avanzate e spregiudicate chiavi di lettura sociali. La grande guerra di
popolo aveva travasato nei combattenti il senso della tensione nazionale e
sociale verso scopi e missioni comuni, una nuova coscienza collettiva che
sarebbe stata cementata da un formidabile sentimento di fraterno e virile
cameratismo, il culto della differenza e del radicamento nella specificità
etnica della Stirpe italica. Gli squadristi fascisti non fecero altro che
travasare tutti questi motivi nelle battaglie di piazza. Sorti dalla
guerra di popolo, divennero avanguardia di popolo. E il 28 Ottobre 1922 sarà il
coronamento dei loro sacrifici, la loro apoteosi. D’altronde era stato lo
stesso Mussolini a dire che l’esperienza della guerra avrebbe generato le
migliori condizioni per la rivoluzione sociale e politica. Anzi, ne sarebbe stata
la prefazione. Era il novembre 1916 e Mussolini combatteva sul fronte del
Carso, nei ranghi del 11° Reggimento Bersaglieri: “Noi vinceremo la guerra: ma
poi dovremo vincere la pace. Sarà duro; ma ci arriveremo. La società italiana
deve assolutamente mutare. (…) Sui giovani bisognerà contare. Questa guerra che
noi combattiamo e che con tragica definizione viene detta di logoramento,
porterà alla ribalta delle lotte civili una generazione che riuscirà a fare
quello che la nostra non è riuscita a fare: il riscatto sociale e politico del
mondo del lavoro, al di sopra e al di fuori dei dottrinarismi che oggi lo
incatenano. A ciò non saremmo mai arrivati se non avessimo voluto la guerra,
rovesciato i vecchi feticci sostituendo alle vuote ideologie i fatti e le loro
naturali conseguenze. Questo non sarà solo di noi, ma anche di altri
popoli.” Una lucida e profetica anticipazione di quanto sarebbe poi
accaduto in tutta l’Europa. Tutto questo si pose, in maniera del tutto
naturale, in totale opposizione al principio democratico in politica e a quello
liberale nel campo economico, all’insegna di una rivoluzionaria concezione
elitaria, fortemente gerarchica e anti-egualitaria che reclamava la
valorizzazione delle minoranze attivistiche e carismatiche con la conseguente
affermazione del principio guida del Capo, con il mito dello Stato totalitario
come asse formante e legittimante della Comunità nazionale e non ultimo la
funzione pedagogica del Partito unico, soprattutto mediante una costante
mobilitazione politica delle masse, una sacralizzazione della politica
attraverso il ricorso a liturgie collettive, miti e simbologie, e una crescente
militarizzazione della vita sociale e civile, l’intervento statale attraverso
gli istituti del Corporativismo per una razionale direzione disciplinata
dell’economia che ponesse termine all’epoca del predominio delle oligarchie
mercantilistiche e parassitarie e riportasse la vita economica al servizio
dell’interesse collettivo subordinandola alle necessità politiche
nazionali. Infine, l’affermazione sovrana di una particolare e severa
tipologia umana di nuova impronta che avrebbe rappresentato lo spirito del
nuovo tempo: l’Uomo Nuovo, l’Uomo integrale come manifestazione vivente di una
Tradizione atemporale che ebbe la volontà e la capacità di tradursi in
Rivoluzione. Proprio nel senso di quell’interpretazione che Niccolò Giani
seppe dare, facendosi portavoce di quegli ambienti del Fascismo intransigente e
rivoluzionario che vollero interpretare al meglio gli insegnamenti mussoliniani:
“Il Fascismo è un richiamo violento alla Tradizione, non un ritorno o una
ripetizione. Per noi fascisti la Tradizione come lo dice il significato
etimologico del termine e come Evola ha documentato, è e non può essere che
dinamica. Altrimenti si parlerebbe di conservatorismo o di reazione. Invece, la
Tradizione è continua coniugazione, attraverso il presente, del passato e
dell’avvenire; è processo inesausto di superamento, è una fiaccola accesa con
la quale ogni popolo illumina la propria strada e corre nel tempo verso
l’avvenire. Ecco perché, oggi, Rivoluzione e Tradizione non si escludono, ma
anzi si identificano e questo spiega il culto che noi abbiamo pel passato e
dice ai soliti uomini dai paraocchi che l’italiano del secolo XX non può che
essere fascista.” Questa nuova visione della politica rappresentata dal
Fascismo rappresentò inequivocabilmente la radicale negazione dei principi
emersi dalla rivoluzione francese, una evidente antitesi storica e culturale di
quanto fu incarnato dall’illuminismo, che costituì l’essenza di tutte le
manifestazioni materialistiche ed economicistiche della decadenza moderna: da
quelle individualistiche, liberali e democratiche a quelle cosmopolite,
genericamente progressiste e marxiste. Il Fascismo, anche nella sua più
vasta comprensione europea, intese proporre in maniera concreta ed efficace un
discorso radicalmente alternativo alla politica borghese e alla società
borghese richiamandosi al concetto di avanguardia delle idee, un’avanguardia
rivoluzionaria che fosse in grado, senza contraddizioni, di saldare assieme
passato e presente vincendo così la sfida della modernità, sostituendo il
vigore giovanile della passione idealistica e volontaristica alla decadente
dissolutezza del conservatorismo borghese e il cameratismo militante radicato
nella coscienza popolare alla società atomizzata e polverizzata delle
democrazie liberali. Un discorso ambizioso per un’avanguardia che ambiva
ad essere al contempo simbolo della genuinità politica e della resurrezione
spirituale, una speranza che venne riposta nel mito capacitante dell’Uomo Nuovo
creatore di nuovi valori, l’esemplare di una specifica specie umana lanciata
alla conquista del futuro senza per questo dover recidere le radici culturali e
spirituali che lo mantenevano legato alla propria dimensione storica, etnica e
popolare; nei confronti della quale si espresse il Duce parlando nel 1933
all’Assemblea delle Corporazioni: “L’uomo economico non esiste, esiste l’uomo
integrale che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è
guerriero.” Quindi questa figura particolare dell’Uomo Nuovo,
capace di raccogliere in sé tutte le sue forze creative, che la cultura
rivoluzionaria del Fascismo proponeva e che non mancava costantemente di
ricollegare alla stagione dello squadrismo, così intrisa di eroicità e di
sacrificio, riconduceva alla stessa definizione dell’Uomo integrale di
mussoliniana memoria, ovvero un uomo che non esistesse unicamente perché
cartesianamente pensante, ma perché arricchito di tutte quelle virtù “romanamente”
intese, eroiche, civiche e politiche, sia nella ragione come nei
sentimenti. Spesso e volentieri nell’immaginario intellettuale il
discorso sull’Uomo Nuovo si andava a concretizzare poi nell’ideale della
gioventù, una gioventù non solamente intesa in senso spirituale ma anche come
dato anagrafico, poiché il concetto di gioventù rimandava all’ansia del
cambiamento e all’impeto rivoluzionario, racchiudendo in se stessa gli ideali
della forza e della bellezza, di una esuberante virilità aggressiva, l’anelito
vitale di un futuro tutto da conquistare, proprio l’opposto di quanto ancora
proponevano i rappresentanti delle democrazie borghesi con tutte le loro
desuete convenzioni e i loro logori formalismi, con tutta la loro boriosa
rispettabilità e lasciva ipocrisia. Il Fascismo fu quindi profondamente
giovane e irruento, meravigliosamente violento e lo fu sia spiritualmente che
anagraficamente. Il comune denominatore della più intransigente e
autentica cultura fascista, quella derivata appunto dalla passionale ed eroica
stagione dello squadrismo, si trovava nell’aspirazione alla realizzazione di un
originale disegno politico ed esistenziale da esplicarsi mediante cambiamenti
radicali frutto di una ferma volontà rivoluzionaria che armonizzava i riferimenti
alla rivolta romantica dell’interventismo e alla mistica eroica evocata dalla
guerra di trincea con i nuovi miti palingenetici di trasformazione della
società e dello Stato. Questa cultura dell’azione che si nutriva dello spirito
barricadiero di rivolta contro l’ordinamento borghese in nome di un
rivoluzionario e fascista Ordine Nuovo era la caratteristica di quell’ambiente
fascista che si riconosceva, anche per esperienza diretta, nel mito capacitante
delle aristocrazie del combattentismo – quella trincerocrazia più volte evocata
da Mussolini – e nella scuola di vita e di coraggio rappresentata dalla
militanza squadristica che venne vissuta, letta ed interpretata non solamente
come una reazione organizzata e armata volta all’annientamento dei focolai
dell’insurrezionalismo marxista, ma soprattutto come militanza rivoluzionaria e
idealistica volta alla rigenerazione della Nazione e alla creazione di uno
Stato nuovo. Una specifica rilettura che si svolgeva anche in aperta polemica
con coloro che ritenevano che la nascita del governo presieduto da Mussolini,
all’indomani della marcia su Roma, rappresentasse la fase risolutiva del
Fascismo. In questo modo, il Fascismo, doveva e poteva assumere una
superiore valenza metafisica affermando il suo essere come un completamento
naturale e organico della storia della Nazione italiana, andando ben oltre la
semplice insorgenza anti-sovversiva e anti-modernista – non a caso lo stesso
Niccolò Giani volle mettere l’accento sul fatto che: “La Rivoluzione Fascista
infatti non è stata reazione come qualcuno ha creduto in origine e come tuttora
si crede da molti all’estero; è stata invece l’ostetrica della nuova storia. E
sorta una nuova civiltà capace di risolvere tutti i problemi della società
contemporanea.” Per costoro, che in fondo rappresentavano la vasta base
della militanza fascista e anche quella intellettualmente più viva, l’agire
politico del Fascismo non doveva assolutamente compromettersi con i residui
della vecchia classe dirigente, che in virtù del processo di normalizzazione e
di pacificazione avviato dal Duce si adoperavano nell’inserimento all’interno
dei gangli del regime, doveva invece mantenere e tonificare una assoluta
intransigenza dottrinaria senza incorrere in alcun cedimento politico e morale,
perché se il Fascismo era una rivoluzione, doveva necessariamente procedere nei
suoi obiettivi con mentalità e metodi rivoluzionari, come perentoriamente
affermò un autorevole esponente dell’epopea squadristica della statura di
Roberto Farinacci: “Bisogna insomma che la bestia proteiforme del vecchio
conservatorismo sornione sia liquidata bruscamente; che le vecchie clientele
d’interessi e d’ambizioni fiorite ai margini della vita politica italiana siano
messe in mora, vigilate, controllate, sopra tutto tenute lontane, bisogna che
sia impedito a chiunque di rifarsi, attraverso il Fascismo, una qualsivoglia
verginità e continuare, sotto mentite spoglie, le abitudini peccaminose del
passato. La vittoria deve essere integrale.” Tra gli oppositori più
accaniti della deriva moderata si evidenziarono gli ideatori della Scuola di
Mistica Fascista, costituitasi a Milano il 10 Aprile 1930, tutti provenienti da
quella generazione di giovani dei GUF che era cresciuta respirando l’atmosfera
del Fascismo, maturando così una profonda convinzione nei miti fondatori del
regime e una fedeltà assoluta nella persona del Duce. Al loro fianco si
schierarono altre personalità di spicco del Fascismo rivoluzionario: Berto
Ricci con il suo universalismo fascista, Alessandro Pavolini e l’esaltazione
della primavera squadristica, Edmondo Rossoni con tutte le aspettative del
sindacalismo rivoluzionario. La Scuola di Mistica Fascista verrà
intitolata a Mussolini, il figlio prematuramente scomparso di
Mussolini. Giani, Pallotta, Mezzasoma e molti altri giovani entusiasti,
avvalendosi della guida orientatrice di Arnaldo Mussolini, seppero
rappresentare, attraverso l’opera che fu sviluppata dalla Scuola, una autentica
e intransigente avanguardia intellettuale e morale posta a difesa dei valori espressi
dalla Rivoluzione Fascista, che sempre più doveva farsi rivoluzione culturale e
antropologica per meglio adempiere alla consegna rivoluzionaria che il Duce del
Fascismo aveva dato alle nuove generazioni. Sarà Niccolò Giani a spiegare
gli scopi dell’istituzione: “Poiché una mistica è un postulato di tanti credo,
e un valore assoluto non lo si può derivare che da una fonte indiscutibile,
questa fonte non può essere che il Duce. Ecco perché la fonte deve essere
quella, esclusivamente quella. Compito nostro deve essere soltanto quello di
coordinare, interpretare ed elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta
una Scuola di Mistica fascista ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i
nuovi valori del Fascismo che sono nell’opera del Duce.” Quindi una
rivoluzione culturale, del carattere e dello Spirito che, attraverso
interessanti rievocazioni del mito della romanità e della sacralità della
Stirpe – rappresentazioni metastoriche e metafisiche della migliore tradizione
aryo-romana – sarebbe approdata ad una coesione organica della Stirpe italica
costituitasi in Comunità nazionale e avrebbe dato all’Italia fascista il
diritto-dovere di adempiere ad una missione universale facendo del Fascismo il
crocevia della storia europea del ventesimo secolo e il riformatore dei tratti
essenziali della Civiltà contemporanea in ogni suo aspetto, la ripresa e il
rinnovamento dell’Europa all’indomani del fallimento della democrazia liberale
e delle utopiche promesse marxiste. Aprire la strada al secolo fascista. Certamente
nella visione della Mistica fascista elaborata dalla Scuola vi era la ferma
consapevolezza che il Fascismo fosse una autentica rivoluzione totale della
società italiana: spirituale ed etica, sociale e politica, ma al contempo anche
una ripresa di tutte le tradizioni essenziali, però la memoria storica proposta
non si sarebbe dovuta risolvere in un ripiegamento nel passato, l’immagine del
passato non finì mai per schiacciare la dimensione del presente e tanto meno si
configurò come un richiamo intensamente nostalgico, bensì le potenzialità
ideologizzanti della rimemorazione storica vennero fatte espandere fino a
provocare una vera e propria occupazione del cosiddetto campo dei ricordi – una
lotta spirituale e rivoluzionaria per il dominio del ricordo e della memoria –
che conducesse ad una riscrittura della cronologia nazionale che rispecchiasse
le concezioni del pensiero irrazionalista, anti-intellettualista e pragmatista
dei decenni trascorsi, un pensiero profondamente permeato di sfumature di matrice
nietzschiana e soreliana. Anche i richiami alla Mistica insita nel
Fascismo erano animati dallo spirito di rivolta, contro le mentalità borghesi
ancora sussistenti, delle nuove generazioni cresciute ed allevate nelle
organizzazioni totalitarie giovanili e universitarie, una rivolta che si
manifestava con i forti caratteri di un idealismo morale ed etico
qualitativamente aristocratico esprimente l’esaltazione di una giovinezza
istintiva, disinteressata e piena di spirito vitale, aggressiva, pura e decisa
a dare battaglia a qualsiasi forma di conservatorismo e di borghese “buon
senso” pur di affermare il carattere intransigente e le finalità rivoluzionarie
sociali e spirituali del Fascismo. Non vi era nessun punto di convergenza
con eventuali nostalgie reazionarie, mentre invece era presente una totale e
coerente aderenza alle istanze di trasformazione rivoluzionaria che il Fascismo
esigeva e che ancor di più il Duce imponeva. Per questi giovani attivisti
non vi era altra strada per uscire definitivamente dalla crisi della modernità,
esplosa alla fine del primo conflitto mondiale, che con un mutamento radicale
del popolo italiano e una tale mutazione antropologica poteva provenire
solamente da una fede ben salda che aveva iniziato a germinare in un primo
tempo con l’esperienza della guerra nel mito della Nazione in armi, della
guerra di popolo, proseguendo poi con l’esaltante epopea della lotta
squadristica, per approdare infine nella costruzione dello Stato fascista di
popolo, corporativo e totalitario, il compimento finale del rinnovamento
sociale e spirituale della Stirpe e della grandezza politica della
Nazione. Nel corso degli anni che trascorsero dal 1930 fino all’entrata
in guerra dell’Italia nel 1940 la Scuola di Mistica Fascista assolse in maniera
esemplare ai compiti che si era prefissata, ovvero l’ambizione di voler
rappresentare l’infrangibile scudo morale, etico e dottrinario contro il quale
si sarebbero dovute infrangere le velleità dei nemici del Duce e del Fascismo,
soprattutto i nemici interni, i più pericolosi, quelli che si annidavano tra le
pieghe del regime per minarlo alla base. Affinché lo scudo della
rivoluzione fosse solido i mistici della Scuola, i soldati politici dell’Idea,
vollero essere loro stessi esempio di virtù civiche, morali e politiche, di
fedeltà indiscussa nei confronti della guida della rivoluzione, il Duce, spesso
descritto come il genio della Stirpe, l’Eroe che con la sua instancabile opera
dava quotidianamente prova di rappresentare pienamente la coscienza e la voce
dell’anima del popolo, soprattutto di un popolo a cui il Fascismo aveva
restituito la dignità politica e sociale e un’unità spirituale che attingeva
dalla viva coscienza di appartenere integralmente all’organismo della
Nazione. Da questa chiave di lettura emergeva, quindi, una superiore
comunione mistica che legava il Duce al suo popolo, cementata dalla comune fede
fascista, una fede intensa che a sua volta veniva elevata al rango di una sorta
di religione mistico-popolare sacralizzata dal sangue offerto in sacrificio dai
martiri dello squadrismo sull’altare della rivoluzione, una rivoluzione
continua che, come affermava un giovane esponente della Scuola, procedeva
impetuosamente la sua marcia: “I giovani della Mistica si sono irradiati tra le
file delle generazioni vecchie e nuove e hanno dato il goccio d’acqua, il pezzo
di pane del conforto, hanno sorretto i deboli, hanno convinto i pusillanimi. La
Rivoluzione ha attraversato le ubertose valli della sua fase politica, ora
sale. Guai a chi volesse tentare di derogare alle direttive di marcia per
evitare le asprezze della salita e impedire che dalla politicità si torni alla
rivoluzione piena e travolgente delle ore di audacia e di lotta.” Per
queste nobili motivazioni gli esponenti della Mistica fascista chiesero e
ottennero nel 1939 che la Scuola divenisse la custode del famoso “Covo”
milanese di via Paolo da Cannobio, il sacrario della rivoluzione delle camicie
nere, appunto il Covo del fascio primogenito dove la fede fascista aveva mosso
i primi passi e dove il Duce aveva chiamato all’adunata.rossi Un luogo
simbolico carico di suggestivi richiami emozionali, ben presente
nell’immaginario collettivo della militanza squadristica, che avrebbe dovuto
essere la fonte di irradiamento della Mistica fascista verso tutta la
Nazione. Il cosiddetto “Covo” del fascio primogenito rivestì sempre per i
mistici fascisti un ruolo centrale nel loro immaginario dottrinario,
rappresentava la fonte mitica della fede mussoliniana, il principio fondante
del Fascismo, era come trascendere il tempo profano per riapprodare al tempo
mitico della purezza dell’Idea, un riaccostamento di ordine metafisico a cui si
poteva accedere soltanto attraverso i miti e i simboli, e la Mistica fascista
era satura di richiami, di miti e di simboli: “Qui è tutta l’attualità e la
contemporaneità del “Covo”. Attualità e contemporaneità che non dovranno mai
tramontare. Non solo per noi, infatti, ma per i nostri figli e per i figli dei
nostri figli il “Covo” deve e dovrà essere l’Arca dei valori della Rivoluzione,
la bussola cui guardare nei momenti di indecisione, la guida cui ispirarsi, la
stella polare che il navigante dello Spirito deve vedere sempre alta e lucente
davanti a se. E ad esso oggi, domani, sempre gli italiani dovranno salire in
pellegrinaggio, per meditare, per ispirarsi. Ad esso le generazioni si
accosteranno sempre con stupore religioso per imparare che nulla allo Spirito è
impossibile.” Il Fascismo, come spesso ripeteva il Duce, era una fede
coltivata nella lotta che aveva avuto i suoi caduti, i suoi martiri che
immortalatisi vestendo la gloriosa camicia nera la avevano rafforzata e
sacralizzata: “Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare che
quella del secolo attuale è il Fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo mostra
il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le anime, lo
dimostra il fatto che il Fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi martiri. Il
Fascismo ha oramai nel mondo l’universalità di tutte le dottrine che,
realizzandosi, rappresentano un momento nella storia dello spirito
umano.” Adesso, questa fede, attraverso i mistici fascisti della Scuola
aveva trovato i suoi intransigenti custodi e i suoi più appassionati
apostoli. Anche loro si stavano preparando al combattimento – nella sua
duplice veste fisica e spirituale – aspirando di potere affrontare degnamente
il supremo sacrificio per il Fascismo e onorare così la loro scelta di vita
versando il proprio sangue per la causa rivoluzionaria. Morire all’ombra
dei gagliardetti neri: Mistica dell’azione – Mistica del realismo eroico –
Mistica della fede. Fedeltà che era più forte del fuoco, come narravano antiche
saghe. Che l’intensa e interessante attività svolta dalla Scuola
nell’approfondimento e nell’arricchimento della Dottrina fascista fosse il
risultato di un grande impegno contrassegnato da un’altrettanto grande serietà
venne comprovato dai numerosi riconoscimenti che ricevette, non ultimo
l’apprezzamento e la manifesta simpatia avuta da parte di Julius Evola, ma il
riconoscimento più importante, i mistici, lo ricevettero dal Duce che li
encomiò pubblicamente il 20 novembre 1939, incontrando i quadri della Scuola a
Palazzo Venezia, incitandoli a proseguire nel cammino intrapreso quali custodi
della purezza dell’Idea e del mito rivoluzionario: “Io vi ho seguito in tutti
questi anni da vicino e con vivissima simpatia perché considero la mistica in
primo piano. Ogni rivoluzione ha infatti tre momenti: si comincia con la
mistica, si continua con la politica, si finisce nell’amministrazione. Quando
una rivoluzione diventa amministrazione si può dire che è terminata, liquidata.
Potrei dimostrarvi che tutte le rivoluzioni sono passate attraverso questo
ciclo: noi che conosciamo la storia dobbiamo impedire che la politica scivoli
nell’amministrazione. Alle origini di ogni rivoluzione c’è la mistica: se la
politica è il contingente, la mistica è l’immanente, essa rappresenta i valori
eterni, essenziali, primordiali. (…) Voi dovete lavorare per l’avvenire. Per
far questo occorre la fede. E’ facile ad un certo momento deviare nella
politica: voi dovete essere al di fuori e al di sopra delle necessità della
politica. Di queste cose ho parlato in modo molto sommario; ma tutte erano
presenti in voi. Avete tempo di riflettere.” Il secondo conflitto
mondiale era però già iniziato e l’Italia sarebbe entrata in guerra l’anno
successivo. I mistici fascisti volendo essere, fino alle estreme
conseguenze, la prima linea del Fascismo accolsero con felicità ed entusiasmo
la notizia, chiedendo ufficialmente che gli venisse concesso l’Onore
dell’arruolamento volontario “nei più rischiosi reparti di terra, di mare o di
cielo”. Subito, ben 169 quadri dirigenti della Scuola partiranno per il fronte,
convinti che il processo rivoluzionario fascista avrebbe avuto una formidabile
accelerazione proprio per effetto della guerra. Molti altri mistici seguiranno
a ruota l’esempio dei loro capi. La loro esemplare condotta evidenzierà
una magnifica esplicazione degli insegnamenti della Tradizione: se hai di
fronte due strade, scegli sempre la più difficile. Poiché c’è sempre una strada
per chi vuole percorrerla. Sia Niccolò Giani, sia un’altra figura di
eccezionale valore come Berto Ricci, testimonieranno la loro intransigente
coerenza esistenziale e politica con la scelta del combattimento. Il primo
volontario sul fronte greco-albanese dove troverà eroicamente la morte nel
marzo del 1941, il secondo, sempre volontario, sul fronte africano dove
coronerà la propria esistenza di credente nella fede fascista incontrando,
altrettanto eroicamente, la morte il 2 febbraio 1941 a Bir Gandula sul Gebel
cirenaico. Nell’arco di un solo mese il Fascismo perse due tra i suoi
migliori campioni. Le vicende belliche decimarono di fatto il gruppo
dirigente della Scuola che sarà costretta a cessare le sue attività. I pochi
sopravvissuti di quell’esperienza raccolsero di nuovo la chiamata del Duce
aderendo nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana, tra questi Fernando
Mezzasoma che era stato il vicepresidente della Scuola e che ricoprì il dicastero
della propaganda nella RSI, trasportando con il proprio esempio le intime
motivazioni della Mistica fascista nell’esperienza repubblicana: “È questa
nostra intransigenza nei confronti della Dottrina che abbiamo sposato, delle
battaglie che combattemmo, delle realizzazioni che abbiamo attuate, che, se ci
consente di accettare la collaborazione di qualsiasi Italiano in buona fede e
di buona volontà che voglia aiutare la titanica fatica del Duce, ci obbliga
tuttavia a respingere sdegnosamente qualunque patteggiamento con coloro che
agiscono al servizio del nemico, uccidendo a tradimento i nostri migliori
compagni di marcia e di battaglia, con coloro che nell’Italia invasa
perseguitano i fascisti che a migliaia risorgono e insorgono per rendere dura
la vita agli invasori e aprire la strada al nostro ritorno. Questa deve essere
oggi la nostra missione di fascisti. Questo è il comandamento di Niccolò Giani.
Questo è il suo insegnamento. Nel suo nome, e nel nome degli altri Caduti, i
superstiti della Scuola di Mistica fascista chiamano a raccolta l’autentica
gioventù italiana.” Anche lui morirà poi nel 1945 assassinato dai
partigiani. Andarono tutti volontariamente incontro alla morte per
onorare un patto di fedeltà e di fede che li legava al Duce e al Fascismo, così
facendo coronarono una vita degna e ben vissuta, il loro abbraccio mistico con
il Fascismo si consumò eroicamente in combattimento e di fronte ai plotoni di
esecuzione. Se ancora oggi, dopo i tanti decenni trascorsi, la loro memoria,
la memoria delle tante battaglie ideali e materiali affrontate, viene
nonostante tutto ancora sentita come viva, se il ricordo di questi uomini
caduti con onore non in nome di una passione generica, ma per il Fascismo, per
il compimento di una Rivoluzione che è rimasta scolpita nella Storia, torna
ancora ad emergere non deve assolutamente avvenire perché i vivi di oggi
debbano morire nel loro cuore, struggendosi nella nostalgia del ricordo, ma
deve invece impetuosamente emergere affinché i morti di ieri possano tornare a
vivere tra di noi. Quella marcia, iniziata il 28 Ottobre 1922, non è
ancora terminata. Non ci consta che esistessero specifiche istituzioni
pubbliclie, ma in proposito possiamo ricordare numerosi provvedimenti e diverse
associazioni private. Fra quelli, le leggi agrarie, le disposizioni a favore
dei debitori, le distri buzioni semigratuite o gratuite dì grano, fatte dagli
edili; i congiari imperiali (che erano copiose elargizioni di farina, olio e
carne disposte dagli imperatori). Provvidenze che mi ravano tutte a
combattere, direttamente e indirettamente, le cause dell’indigenza o almeno a
paralizzarne gli effetti, ben ché nella loro essenza e origine avessero
carattere politico, cioè fossero prese sopratutto per cattivarsi il favore e la
simpatia della plebe o evitare tumulti e sommosse. Fra le associazioni,
sopratutto bisogna ricordare quelle costituite a scopo mutualistico ; e tale è
il carattere dei collegia fune- raticia, dei collegia termiorum, delle casse di
soccorso isti tuite da Giulio Cesare fra i suoi legionari. Anche nel campo
dell’istruzione si devono ricordare istituti privati i quali istruivano la
classe dirigente romana. E’ invece nelle opere pubbliche ohe specialmente i
romani ai distinsero legando ai posteri terme e acquedotti, palestre e strade,
circhi e palazzi olle ancora oggi, in parte, almeno, durano e sono
efficienti. L’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO SECONDO LA CONCEZIONE
FASCISTA. LA TEORICA FASCISTA SULLA NATURA E SULLE FUNZIONI DELLO
STATO. LA FUNZIONE SOCIALE DELLO STATO. PRECEDENTI STORICI DELLA FUNZIONE
SOCIALE DELLO STATO NELLA POLITICA E NELLA LEGISLAZIONE SOCIALE. In Roma
sino all’editto di Costantino.Durante il medioevo.Dopo la riforma protestante.
Ordinamento sociale dello Stato fascista In Italia . L’evoluzione e la
trasformazione della legislazione sociale. La legislazione sulla beneficenza e
sulla assistenza pubblica e privata. La legislazione sulla mutualità e sulla
previdenza. La legislazione del lavoro. La legislazione sull’istruzione pubblica.
La legislazione sull’igiene e sulla sanità pubblica. La legislazione sui
servizi e sulle opere pubbliche. GLI ELEMENTI DELL’ORDINAMENTO SOCIALE
DELLO STATO FASCISTA. I soggetti . Gli obiettivi . Gli obiettivi
relativi ai cittadini in genere. Gli obiettivi inerenti alle condizioni
generali di vita . Gli obiettivi inerenti in particolare alla fase di
forma¬ zione e di preparazione del cittadino, a quella di
produttività e a quella di riposo. Gli obiettivi relativi ai cittadini
benemeriti . Gli obiettivi relativi ai cittadini non risanabili e non
rieducabili. Gli strumenti . Il criterio, profondamente corporativo,
adottato dal legi¬ slatore fascista per la scelta degli strumenti
attuanti la politica sociale. La famiglia. L’associazione professionale .
42Le istituzioni promananti, singolarmente o pariteticamente, dalle
associazioni professionali. Gli enti locali. Le opere nazionali parastatali. I
limiti . LE ISTITUZIONI DEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO
FASCISTA Di alcune considerazioni preliminari. LE ISTITUZIONI SOCIALI
RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI DI VITA DEL CITTADINO . La- legislazione
inerente alla sicurezza, all’igiene e alla sanità pubblica . Per
garantire la sicurezza. Per assicurare l’igiene e la sanità. La legislazione
inerente alla previdenza . Per incrementare il risparmio . Per potenziare la
mutualità. Per favorire la cooperazione. Per diffondere le assicurazioni
Ubere.La legislazione inerente alla assistenza di soccorso. Per l soccorsi in
natura e in contanti. Per i soccorsi medico-sanitario-ospitalieri. La
legislazione inerente alla propaganda, all'inte¬ grazione culturale e al
perfezionamento scientìfico . Per favorire il perfezionamento scientifico
.... Per la propaganda e l’integrazione
culturale .... La legislazione inerente all’integrazione della forma¬
zione e dell’educazione fisica e sportiva . La legislazione inerente alla
costituzione e all’in¬ cremento del nucleo familiare . Per favorire la
costituzione della famiglia. Per facilitare l’esistenza e lo sviluppo delia
famiglia . La legislazione inerente a particolari servizi pubblici.Per
garantire il soddisfacimento di bisogni primari . . Per assicurare i rapporti e
i contatti economico-sociali . Per valorizzare il patrimonio nazionale. Ordinamento
sociale dello Stato fascista La legislazione inerente al
controlla, <UVadegua¬ mento e al collegamento ielle istituzioni
dell’ordinamento sociale e alla selezione dei suoi soggetti . Per
assicurare il controllo e l’adeguamento delle istitu¬ zioni sociali . Per
ottenere il collegamento nell'ambito dell’ordinamento sociale. Per assicurare
la formazione della classe dirigente mediante la selezione totalitaria del
cittadini . IL PARTITO NAZIONALE FASCISTA E LE ORGANIZZAZIONI
DIPENDENTI.Origine, natura e funzione sociale del P. N. F . I Fasci di Combattimento ..I compiti .I
soggetti .L’ordinamento. L’Associazione nazionale famiglie Caduti fascisti e
Mutilati e Invalidi per la Causa Nazionale .I compiti . I soggetti.
L’ordinamento. L’Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia ... I compiti
I soggetti . L’ordinamento. L’Unione nazionale fascista del Senato . I
compiti . I soggetti . L’ordinamento. Gruppi Universitari Fascisti . I compiti
. I soggetti . L’ordinamento. I Fasci Giovanili
di Combattimento . a- I compiti . I soggetti. L’ordinamento. I compiti . I
soggetti . L’ordinamento. L’Opera Nazionale Dopolavoro
. I compiti .I soggetti . L’ordmamento. Le Associazioni
fasciste ..I compiti I soggetti L’ordinamento. Il Comitato
intersindacale . I compiti. I
soggetti. L'ordinamento. Gli Uffici di Collocamento I compiti.
I soggetti. L’ordinamento. L'Ente Opere Assistenziali I
compiti. I soggetti . L’ordinamento. L'Opera Universitaria .I
compiti . I soggetti. L’ordinamento. Il Comitato
olimpionico nazionale italiano. I compiti. I soggetti.
L’ordinamento. Di alcune considerazioni sul P. N. E. . La
legislazione richiamata . DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI
RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI DI VITA DEL CITTADINO. Ordinamento
sodale dello Stato fascista. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FORMA¬
ZIONE FISICO-MILITARE E ALLA PREPARAZIONE PROFESSONALE-NAZIONALE DEL
CITTADINO . La legislazione inerente al nucleo familiare per la formazione
fisico-militare del cittadino . S 1. Per sopperire alla insufficienza relativa
dei mezzi economici della famìglia e sostituirla nella vacanza di alcune
sue funzioni. Per integrare l’inadeguatezza assoluta di alcuni mezzi
della famiglia. L’OPERA NAZIONALE PER LA PROTEZIONE DELL’INFANZIA.
L’origine, la natura e la funzione sociale deU’.O.N.M.I. I compiti . Per
l’integrazione e il coordinamento dell’azione svolta da altri enti
o istituti o da privati. Per la vigilanza e il controllo delle singole
istituzioni di assistenza. Per la propaganda e la vigilanza
suU’applieazione delle leggi e dei regolamenti riguardanti
l'assistenza materna e infantile.
I soggetti . .L’ordinamento . Dì alcune considerazioni suli’O. N. M. 1 .
La legislazione richiamata. La legislazione inerente all’istruzione e alla
formazione professionale del cittadino. Per garantire l’istruzione
professionale del cittadino sino al 14° anno di età. Per favorire e
incrementare l’istruzione professionale La legislazione inerente
all’educazione e alla formazione fisica, premilitare, morale e nazionale del
cittadino. L’OPERA NAZIONALE BALILLA PER L’ASSISTENZA E
L’EDUCAZIONE FISICA E MORALE DELLA GIOVENTÙ’ .L’origine, la natura e la
funzione somale dell’.O.N.B. . . I compiti . I soggetti .. L’ordinamento .
161 Di alcune considerazioni sull’O.N.B. La legislazione
richiamata. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA
FORMAZIONE FISICO-MILITARE E ALLA PREPARAZIONE PROFESSIONALE- NAZIONALE
DEL CITTADINO. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI PRODUTTIVITÀ’
DEL CITTADINO.La- legislazione inerente all’azione sociale attuata
dalle associazioni professionali . Per garantire l’azione sociale da
attuarsi direttamente dai sindacati . Per assicurare l’azione
sociale da attuarsi dai sindacati a mezzo di speciali istituzioni.
IL PATRONATO NAZIONALE PER L’ASSISTENZA SOCIALE. L'origine, la natura e
la funzione sociale del P.N.A.S. .I compiti . I soggetti . L’ordinamento . Di
alcune considerazioni sul P.N.A.S. La legislazione richiamata. La legislazione
inerente all’azione sociale attuata. dalle corporazioni. Per
garantire il produttore obiettivamente e subiettivamente di fronte alle
condizioni del lavoro. Per tutelare i reciproci rapporti fra i produttori
nella loro dualità di datori di lavoro e di prestatori d’opera .
Per favorire ii perfezionamento e l'elevazione professio¬ nale del
produttore. Ordinamento sociale dello Stato fascista. La legislazione inerente
alla conservazione dello spirito nazionale e della preparazione
fisico-militare del produttore. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE
ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI PRODUTTIVITÀ DEL CITTADINO. LE
ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI RIPOSO-VECCHIAIA DEL
CITTADINO. La legislazione inerente all’obbligo delle garanzie previdenziali
per la fase di riposo-vecchiaia. La legislazione inerente a speciali interventi
statuali a favore del vecchio bisognoso. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE
ISTITUZIONI 'SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI RIPOSO-VECCHIAIA DEL CITTADINO. LE
ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI CHE HANNO BENEMERITATO DALLO STATO . La
legislazione inerente alle benemerenze collettive. La legislazione inerente
alle benemerenze individuali. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI
SOCIALI RELATIVE AI CITTADINI BENEMERITI. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AI
CITTADINI MINORATI NON RISANABILI E NON RIEDUCABILI. La legislazione
inerente ai minorati assolutamente non produttori .La legislazione
inerente ni minorati relativamente non produttori . DI ALCUNE
CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI MINORATI NON RISANABILI
E NON INEDUCABILI.LA POSIZIONE E I RAPPORTI DI RELAZIONE DEL CITTADINO
NEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE Di alcune considerazioni preliminari
. LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO DALLA NASCITA ALLA MAGGIORE ETÀ’. L’anione
previdenziale e assistenziale dello Stato sino al quinto anno . Per
la costituzione della famiglia.Per la esistenza e l’incremento della famiglia .
.Per li cittadino neonato . Per Viilegittimo e l’esposto. Per l’orfano. Per iì
cittadino infante. Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e
assisten¬ ziale dello Stato sino al quinto anno. L’azione previdenziale e
assistenziale dello Stato dal sesto al quattordicesimo anno . Per
la formazione e lo sviluppo fisico, militare, morale e nazionale.
Per la formazione intellettuale e professionale . Di alcune considerazioni
sull’azione previdenziale e assistenziale dello Stato dal sesto al
quattordicesimo anno . L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato
dal quindicesimo al ventunesimo anno . Ordinamento sociale dello Stato
fascista. Per il cittadino che studia.
Per il cittadino che lavora. Di alcune considera «ioni sull’azione
previdenziale e assistenziale dello Stato dal quindicesimo al ventunesimo anno.
DA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO PRODUTTORE . L’anione previdenziale e
assistenziale dello Stato per il cittadino ohe è produttore. L’azione
previdenziale e assistenziale dello Stato per la famiglia e i suoi
membri . LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO A RIPOSO . LA POLITICA
SOCIALE PER IL CITTADINO BENEMERITO. LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO
MINORATO NON RISANABILE E NON RIEDUCABILE. LA POLITICA SOCIALE DELLO STATO
FASCISTA. DELL’AZIONE SVOLTA DIRETTAMENTE DALLO STATO ATTRAVERSO AI
SUOI ORGANI. Per la riorganizzazione, il potenziamento e l’esten¬ sione
della rete consolare . DELL’AZIONE SVOLTA MEDIANTE LA STIPULAZIONE DI
CONVENZIONI BILATERALI E PLURILATERALI E MEDIANTE L'OPERA DELL’O.I.L. Le
convenzioni bilaterali e plurilaterali ..Le convenzioni intemazionali, le
raccomandazioni e le risoluzioni dell'O.I.L . La legislazione
richiamata. Appartene alla categoria dei mistici per i quali è bello vivere se
la vita è nobilmente spesa ma è più bello morire se la vita è donata all'Idea.
Arnaldo Mussolini fu il suo Maestro: da Arnaldo im parò che prima di agire e
costruire è necessario ele varsi, purificare il proprio spirito, temprare il
proprio carattere; allora soltanto si potrà essere certi che l'azione sarà
feconda e l'edificio sicuro. Da Arnaldo imparò che per conoscere, giudicare e
guidare gli al tri è prima indispensabile conoscere bene se stessi, punire
inesorabilmente i propri difetti, affinare inces santemente le proprie virtù:
allora soltanto si potrà aspirare all'onore del comando. Da Arnaldo imparò che
solo il sacrificio può suscitare le opere grandi e buone e distruggere le cose
piccole e vili. Ciò che non costa non vale; ciò che non procura fatica e
sof ferenza non dura; quanto è al di fuori di noi non conta; gli onori, le
cariche, le ricchezze sono effimere e ca duche cose. Quello che importa è
quanto è dentro di noi, perchè è nostro e nessuno potrà mai portarcelo via,
neanche a strapparci la carne viva di dosso. Es sere se stessi in ogni
momento, rimanere se stessi sempre: ecco la più grande conquista degli uomini.
Uomo di fede Un uomo di fede fu Niccolò Giani. E la sua fede era di quelle che
non vacillano mai, di quelle che restano intatte nella buona e nella cattiva
sorte e che traggono anzi dalle difficoltà e dalle sfortune un più profondo
contenuto e sempre nuovi motivi. La sua fede era di quelle alte cui fonti
cristalline attingono le intelligenze chiare e gli animi trasparenti degli
uomini puri i quali sanno che se si vuole raggiungere l'ultima cima, mol te
vette bisogna scalare e talvolta anche scendere da alcune per risalire su aifre
vette più alte ancora. In 8 i Giani la fede nasceva da un inesausto
tormento spi rituale, da un'ansia incontenibile di elevazione e di conquista
per divenire, come dice il Poeta, «cara gioia sopra ia quale ogni virtù sì
fonda ». Egli credeva in Dio, nel Dio di noi Italiani fascisti e cattoiici a
cui dobbiamo non soltanto il dono misterioso della vita ma anche il privilegio
di averci chiamati a continuare la missione di civiltà e di giustizia che la
gente nostra svolge nel mondo da più di due millenni. Egli credeva nella
dottrina politica enunciata da Mussolini, scaturita dall'azione, alimentata
dalla fede, consacrata dal sa crificio e nella sua possibilità di instaurare
un nuovo sistema di vita, di educare gli uomini a una visione vasta ed umana
delle cose, di creare un nuovo tipo di civiltà italiana, ed europea. Credeva in
Mussolini perchè lo considerava l'uomo della Provvidenza, l'e sponente di una
razza eletta, il fondatore di una ci viltà universale, il protagonista e
l'artefice di una nuòva storia, il condottiero di giovani generazioni, il DUCE,
a cui non occorre chiedere prima di iniziare la marcia dove ci porta e quando
si arriverà perchè dal giorno in cui un destino fortunato (o pose alla testa —9
‘1 del suo popolo, la meta era già nei suoi occhi e la vittoria nel
suo pugno. Credeva nei giovani nati e cresciuti col sorgere del Fascismo,
educati alla severa scuola del Partito e li voleva rivoluzionari nello spirito
e nel sangue, gene rosi ed audaci, pronti alla lotta e alla rinunzia. Sogna
va una classe dirigente che sapesse dimostrare con l'esempio, nelle opere e nel
sacrificio, di essere de gna del nostro grande popolo e del nostro grande
Capo; una classe dirigente fatta di uomini integrali, forti della loro
indipendenza morale — la sola ric chezza umana che non abbia un valore
misurabile in denaro — e dotati di tutte le virtù spirituali, intellet tuali e
fisiche che sono indispensabili per poter eser citare con dignità e con
efficacia la missione dei co mando. Concepiva la famiglia nel senso più
tradizio nalmente nostro; amava cioè la sana numerosa fami glia italiana,
ricca di onestà e prodiga di figli, sboc ciata dall'amore tra l'uomo che vive
lavorando o com battendo-per la Patria e la donna che nel piccolo gran de
regno della casa vive nella serena ed operosa attesa del ritorno di lui; e se
l'uomo non tornerà la 10 — donna lo piangerà senza lacrime perchè
egli sopravvi va nella fierezza dei figli, I quali continueranno, nella luce
del suo esempio, l'opera sua. Credeva nella Patria come ne « la più pura, la
più grande, la più umana delle realtà », amava la Patria « più della propria
anima ». Tutto per la Patria: fu la sua consegna. Niente per lui valeva qualche
cosa se non serviva alla Patria. Perchè la Patria è tutto e tutti; sè e gli
altri; le generazioni che furono, che sono e saran no; la storia di ieri, di
oggi e di domani. La Patria è la sintesi di tutte le più nobili aspirazioni.
Essa è fatta di uomini da rendere sempre più degni e di territori da fare
sempre più vasti. Per essa si lavora, si soffre, si spera; per essa si
combatte, si vince o si muore. Giornalista della Rivoluzione e Maestro dei
giovani Niccolò Giani fu un giornalista della Rivoluzione. Egli intendeva il
giornalismo come una scuola di vita, come uno strumento di educazione e di
formazione. Dalle agili colonne del suo giornale, la «Cronaca Preal- " T T
r pina », e da quelle della sua rivista « Dottrina Fasci sta » si battè
accanitamente per la creazione di un giornalismo rivoluzionario, dinamico,
coraggioso, un giornalismo che fosse in grado di svolgere una fun zione
costruttiva di divulgazione, di propulsione e di controllo, un giornalismo che
fosse degno di essere considerato un'arma affilata della Rivoluzione. Ma
soprattutto maestro dei giovani egli fu. All'Inse gnamento si era consacrato
con il religioso fervore con il quale soleva dedicarsi a tutte le attività
rivolte ai giovani. All'Ateneo di Pavia, al Centro di prepara zione politica,
alla Scuola di Mistica Fascista egli portò il contributo della sua beila
cultura fatta di conoscen za e di azione, illuminata dalla fede, riscaldata
dal sentimento, Alla Scuola di Mistica diede la parte mi gliore di se stesso.
«Tutto quello che di buono e di meritevole è stato fatto dalla Scuola — ha
detto Vito Mussolini, nostro Presidente — proviene unicamente da lui. Bisognerà
ricordarlo sempre e presentarlo co me un mirabile esempio ai giovani che in
lui potranno vedere l'espressione più sublime di obbedienza ai comandamenti del
Duce ». Era il migliore tra noi: il più limpido, ii più generoso,
ii più puro. Delia nostra mistica fede fu l'aifiere più ardilo e i'apostolo più
acceso. Egli voieva che dalia nostra Scuoia uscissero ì missionari, i portatori
del no stro credo politico e fu egli stesso il più tenace e il più convinto
assertore dei principi che sono a fonda mento deiia nostra dottrina. La Scuola
sorse con lui per la volontà di un mani- poio di credenti che egli chiamava i
«disperati del Fascismo », così come gli squadristi un tempo amava no
chiamarsi « fascisti arrabbiati ». Aii'inizio la Scuola fu un'attività de! Guf
milanese; divenne quindi un'attività di tutti i Gruppi Fascisti Uni versitari:
oggi si è imposta al rispetto e ail'atten- zione di tutti i fascisti. La sua
opera è rivolta ai gio vani, ma la sua azione è seguita ed amata anche dai
camerati della vecchia guardia che vedono con in tima gioia esaltate e
rinnovate ogni giorno, dagli al lievi della Scuola, le due più preziose virtù
dello squa drismo: la fedeltà e la intransigenza. I camerati della vecchia
guardia milanese sanno che il, nome di Niccolò Giani è legato alla riapertura del
Covo di Via Paolo da Cannobio, prima sede del « Popolo d'Italia », prima
trincea del Fascismo, che il Duce ha voluto affidare in gelosa custodia ai
giovani della Scuola di Mistica perchè le giovani generazioni, accostandosi
alle sorgenti genuine delia nostra Ri voluzione, cogliessero, dall'umile
grandezza delle ori gini, la poesia e il fermento delia vigilia. Niccolò Giani
fu soprattutto un fedele ed un in transigente. Taluni potrebbero chiamarlo un
fanatico, ma solo I fanatici sanno dare movimento col sangue «alla ruota
sonante della storia». Il suo spirito si ribellava a qualunque forma di com
promesso; sul terreno della fede non ammetteva pat teggiamenti; il bello, il
buono, il vero sono da un lato della barricata; dall'altra parte c'è il brutto,
il male, la meschinità. Mi piace di ricordarlo ai Convegno di Mistica del
febbraio 1940: eravamo alla vigilia delia nostra guer ra di liberazione e
c'era in tutti noi una febbrile im pazienza di decisione. Il tema del Convegno
era bru ciante: «Perchè siamo dei mistici?». I problemi dell'inteiligenza e
deila cultura furono esaminati al lume della fede; i poveri dì fede furono
sbaragliati e Giani dichiarò guerra a viso aperto a tutti gli spiriti troppo
raziocinanti, agli innamorati della ricerca fredda e del ragionamento
calcolatore. La dottrina che conquista è quella che sorge dalla fede e non
quella che discende dalla indagine arida ed oziosa; la cultura che costruisce è
quella che pene tra e trasforma e non quella che resta gelida ed inerte. li
Convegno si svolse in un'atmosfera di fuoco e la risposta al tema che fu
oggetto dei nostri appassionati dibattiti fu data dallo stesso Giani: «
Fascismo uguale a spirito, uguale a mistica, uguale a combattimento, uguale a
vittoria. Perchè credere non si può se non si è mistici, combattere non si può
se non si crede, e vincere non si può se non si combatte ». Fu in quel Convegno,
ò giovani camerati della Scuola di Mistica, che i giovani della generazione del
Litto rio affermarono solennemente il loro diritto al combat
timento, Soldato dì Mussolini Niccolò Giani fu tra i primi a partire.
C'era in lui la preoccupazione morbosa di stabilire coi fatti una coe renza
perfetta tra il pensiero e l'azione. Aveva già partecipalo come volontario alla
guerra per la con quista dell'Impero, aveva chiesto ripetutamente di partire
per la Spagna e non gli era stato concesso; finalmente sopraggiungeva la nuova
prova lungamente attesa. Chi lo vide tenente degli alpini al Fronte Occidentale
lo ricorda come un esempio di disciplina e di ardi mento. Ma la parentesi fu
troppo breve: tornò insod disfatto, Andò in Africa settentrionale come
corrispon dente di guerra del «Popolo d'Italia»; ma quando seppe che il suo
reggimento era già sul fronte greco chiese di raggiungerlo. Non poteva vivere
lontano dai suoi alpini, gli sembrava un tradimento. Partì per non tornare. Tre
volte si offrì per azioni rischiose, tre volte fu appagato, la terza volta fu
l'ultima. I suoi uomini lo adoravano; con lui sarebbero andati dovunque:
potenza insuperabile dell'esempio! Andò con un manipolo di 25 alpini a
raggiungere una vetta lontana per compiere una ricognizione sulle po sizioni
del nemico; assolse il suo compito felicemente e rapidamente, ma proseguì
oltre: il suo programma era un altro. Aveva incontrato poco prima, lungo il
cammino, un camerata di Milano e gli aveva affidato l'incarico di salutare per
lui tutti gli amici di Mistica e di comunicare loro che egli era partito per
un'impresa della quale si sarebbe dovuto' parlare. Mantenne la promessa. Alla
testa dei suoi alpini raggiunse un'altra vetta, sulla quale alta sfolgorava la
luce della gloria, e a bombe a mano assalì un presidio greco. Circon dato,
lottò eroicamente, fino a quando una pallottola ' gli recise la gola, gli
spezzò la vita, soffocò il canto della sua giovinezza. Così cadde Niccolò
Giani. Egli è morto come era vissuto, non per sè ma per gli altri, Ètriste non
potergli più vivere accanto, non poter più rinfrescare il nostro spirito alia
polla purissima della sua fede; ma egli ha chiuso la sua vita terrena in modo
degno di luì, Arnaldo gli aveva insegnato che i! segreto della vita è tutto
qui; saper vivere, saper morire, nel modo più degno. Niccolò Giani ha voluto
insegnare ai giovani della sua generazione come deve vìvere e come sa morire un
italiano di Mussolini. La nostra Scuola, o camerati di Mistica, non lo onora
col pianto che egli non approverebbe. Il nostro ciglio è asciutto anche se il
cuore in questo momento acce lera il ritmo dei suoi palpiti. Ma noi sentiamo
che non un vuoto egli ha lasciato nelle nostre file, li suo spirito inquieto è
con noi, dinanzi a noi, oggi come non mai, ad additarci la strada che conduce
alla vittoria, ad ammonirci che il suo tormento deve essere anche il nostro
tormento, la sua ansia anche la nostra ansia, il suo amore anche il nostro
amore, oggi, domani, sempre. E noi sentiamo che Arnaldo, il suo ed il nostro
Mae stro, lo ha accolto nell'altra esistenza, accanto al suo figlio prediletto
e agli altri Martiri delia nostra Scuola, come il migliore dei suoi discepoli.
Il mito di Roma contro Si guardi Ro- il mito di Jehova in ma repubblicana.
Catone, Cicerone, Quale è il suo Tacito, Giovenale ideale? Ce lo di- e negli
Imperatori ce Marco Porcio Catorie nel suo libro « De Agri cultura » laddove
scrive che i romani « quando lodavano un uomo dabbene, 15 lo
chiamavano buon agricoltore, buon colono. E con ciò si riteneva di dare la
maggiore lode a colui che così veniva chiamato ». E ciò per chè « dalla classe
degli agricoltori nascono gli uo mini più forti e i soldati più valorosi... e
coloro che si dedicano a tale occupazione non concepi scono cattivi propositi
». Queste parole, questo saggio romano le scrive va più di 150 anni avanti
Cristo, cioè, esattamen te, nello stesso periodo in cui Roma combatteva
l’ultima e definitiva partita con la semita Carta gine. Ma, a questo
proposito, ci si è mai chiesto perchè poi Cartagine era delendam, perchè Ro ma
s’era fissata ili questo mito della distruzione totale della città di Annibaie?
La risposta è una sola : la lotta tra le due rivali infatti non era solo
politica ed economica : era ben di più : era lotta di civiltà, di sistema di
vita. Roma rurale, Ro ma gerarchica, Roma guerriera ed eroica com batteva
anche la Cartagine dei mercanti e della demagogia. Ecco perchè non è strano,
ma, anzi, logico, necessario addirittura, che l’uomo che in Senato terminava i
suoi discorsi col noto « cete- rum censeo Carthaginem delendam esse » fosse lo
stesso che nel suo libro poneva l’ideale ro mano nella gente nata dai campi,
cresciuta in mezzo alle bellezze e alle forze della terra, tem prata nelle
lotte aperte e solari della natura. Più di un secolo dopo, un altro grande roma
no, che gli ebrei aveva conosciuto perchè uno di 16 essi, Apollonio
Molone, come ci dice il giudeo Lazare, aveva avuto per maestro : Cicerone, tuo
nerà anche lui contro la loro mentalità. « Il tenere testa alla turba giudaica
che spesso schiamazza nelle riunioni popolari e farlo nel l’interesse della
Repubblica è prova di saldi prin cipi », diceva infatti Cicerone rivolto a
Lelio, cinquanta anni prima di Cristo, nella sua orazio ne « Pro Fiacco ». E
nel suo « De Officiis » (II, 89) si legge questo aneddoto che dice anche ai
sordi in quale dispregio avessero i romani i traf ficanti di denaro. Ecco
infatti come Cicerone rac conta che Catone rispondesse a chi lo interroga va
sul miglior modo di amministrare i propri beni : « Bene pascere ». E in quale
altro modo? fu richiesto a Catone. « Salis bene pascere » fu la risposta. E
poi? « Arare » egli disse ancora. «£ che ne pensi del prestare ad usura?» cioè
del prestare denaro a interesse. Rispose Catone : « E tu che ne pensi
dell’uccidere un uomo? ». Come, quindi, i romani, con mentalità siffat ta,
avrebbero potuto, non dico apprezzare, ma solo riconoscere la mentalità
ebraica? E se è vero che nel 160 avanti Cristo con l’Ambasciata di Giuda
Maccabeo si iniziano i primi rapporti di plomatici tra Roma e Gerusalemme, se
è vero che nel 143 e nel 139 seguono altre ambasciate, se è vero che Giulio
Cesare e Ottaviano li tolle rano, è altrettanto vero che gli ebrei anziché
essere grati e devoti allo stato romano ricambia- 17 2 rio con
disordini e con tradimenti la generosità dei Cesari, al punto che Claudio, da
un decreto di tolleranza passa alla loro espulsione e ciò per chè, come
testimoniano numerosi scrittori lati ni — da Persio a Ovidio, da Svetonio a
Plinio, da Tacito a Giovenale — « gli Ebrei conside rano come profano tutto
ciò che da noi è consi derato sacro » (cfr. Tacito, Hist.; V, 4, 5); per chè
« essi hanno un culto particolare, leggi par ticolari, disprezzano le leggi
romane » (cfr. Gio venale, Im. Lat.; XIV, 96, 104). Colle generazioni questo
contrasto di civiltà e questa antitesi di istituzioni si acuiscono. È così che
si arriva alla spedizione di Tito : all’assedio e alla distruzione di
Gerusalemme. E in tal mo do, due secoli dopo Cartagine, anche sull’or
goglioso regno di Giudea passa l’aratro romano e viene cosparso il sale. Così
quei giudei che pretendevano di essere il popolo eletto e che per invidia di
capi e per in comprensione ingenerosa di popolo avevano tra dito e condannato
nostro Signore Gesù Cristo; quegli eredi del Profeta che smentirono la profe
zia compiuta, furono dispersi per il mondo. La profezia del Golgota ebbe in tal
modo realizza zione per mano di Tito, di quel Tito, il cui arco, forse per
imperscrutabile volontà di quel Dio che egli inconsciamente servì, s’aderge
ancora intatto contro il cielo eterno di Roma, quasi a testimonia re e
ammonire le genti e il mondo intero della giu- 18 stizia e della
verità che promanano dai sette colli sacrati all’Impero del Littorio e alla
Chiesa di Cristo. Niccolò Giani. Giani. Keywords: implicature mistica, mistico,
il mistico – la mistica del liberalismo – la mistica del comunismo – la mistica
della democrazia – la mistica del socialismo – filosofia politica – dottrina
liberale – dottrina comunista – dottrina democratica – dottrina socialista --.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giani: l’implicatura conversazionale della
radice italica del melodramma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo. Grice: “I love Giani; for one, he was less fanatic than Nietzsche,
even if it is Nietzsche’s fanaticism that attracts Strawson! For one Giani is
more careful: if ‘music’ comes from the muses, which are Apollonian, why has
Nietzsche to emphasise in a piece of bad rhetoric, that tragedy has its birth
in the ‘spirit’ of “music” – surely Nietzsche means ‘Dionysian,’ but there’s no
‘music’ in Dionysus, only noise! Trust an Italian to correct Nietzsche on that
point!” -- Appartene ad una famiglia
dell'alta borghesia torinese con spiccate inclinazioni per la musica e per
l'arte: lo zio Giuseppe (Cerano d'Intelvi) e pittore piuttosto noto,
docente all'Accademia Albertina, così come il figlio di lui Giovanni (Torino). Si
dedica al violino e condusse contemporaneamente gli studi fino alla laurea. Si interessa inoltre al
fermento filosofico di fine Ottocento, a Spencer, ma soprattutto Nietzsche: di
Così parlò Zarathustra eavrebbe in seguito dato una traduzione, a partire dalla
seconda edizione italiana (Torino, Bocca). Si appassiona, inoltre, al teatro
musicale di Wagner, così come altri intellettuali torinesi, e lo
difende. Risale la fondazione, per opera sua e dell'amico editore Bocca,
della Rivista musicale italiana, in cui inizialmente hanno parte preponderante
gli scritti di G., soprattutto recensioni sul teatro musicale contemporaneo e
note sui testi poetici da musicare, anche se va probabilmente ascritto a Giani
anche l'editoriale programmatico del primo numero, all'interno di una rivista
che si propone di ospitare scritti musicologici ispirati al metodo
positivistico diffuso tra i due secoli, pur restando aperta all'apporto di
altre correnti filosofiche quali quelle dell'idealismo. In “Per l'arte
aristocratica”, dimostra le doti di polemista che lo avrebbero accompagnato per
tutta la vita: in esso si confuta un giudizio di Torchi e si afferma che la
cosiddetta "arte per l'arte" non solo non è immorale, ma è anzi la
naturale evoluzione e conclusione dello sviluppo storico di questa
manifestazione dello spirito umano. Dedica un saggio al “Nerone” di Boito,
che egli da allora considera incondizionatamente un maestro: al tempo Boito
aveva reso pubblico il solo testo del Nerone, che venne accolto molto
vivacemente e con alterna fortuna dall'ambiente letterario italiano. La
posizione intorno al Nerone è singolare e indicativa di quali fossero i
requisiti che la cerchia di G. e Bocca ricercava nell'opera musicale. Questa
tragedia farebbe parte del novero delle tragedie vere, quelle in cui ritmo,
suono della parola, gesto, musica concorrono alla creazione di un che di
superiore. Tuttavia, quando la musica del Nerone fu resa nota postuma, dichiara
una certa delusione. Uomo dalla cultura enciclopedica, versato con competenza
anche negli studi di letteratura, G. cura L'estetica di Leopardi. Vede in Leopardi
il luogo in cui le immagini della sua poesia si comporrebbero in un universo
etico ed estetico coerente. All'interno della storia della critica leopardiana,
pare avvicinabile ora alla posizione di Croce, di distinzione tra il momento
della poesia e il momento della riflessione, ora a quelle positivistiche.
Singolarmente,parla di musica e dell'analogia tra il ruolo del coro greco e il
ruolo del coro nelle Operette morali solo nella conclusione, benché in termini
acuti. Avrebbe contribuito ad un ulteriore campo degli studi letterari,
quello della musica nel mondo antico. Apparve “Gli spiriti della musica nella
tragedia” -- Fin dal saggio, si richiama alla nota opera di Nietzsche, “La
nascita della tragedia dallo spirito della musica”. G. non condivide l'opinione
di Nietzsche secondo cui il razionalismo del teatro di Euripide avrebbe spento
la portata dionisiaca della tragedia. La tragedia di Euripide permane ad un
livello musicale altissimo. Per affermare questo ricostruisce il ruolo della
musica nei testi tragici sulla base delle fonti antiche, dedicandosi alle
singole parti e forme musicali dei drammi, sempre attento a sottolineare la
valenza estetica complessiva della tragedia o melodramma, ma nel contempo senza
trascurare le posizioni metodologiche della scuola filologica. Fino ad
allora non aveva stretto profondi legami con i musicisti coevi (eccettuato Boito),
si avvicina sempre più alle compositori. Saluta con favore Bastianelli e Pizzetti,
approvandone principalmente le posizioni estetiche e la ricerca di una certa
spiritualità nella music, tipica dei due esponenti del circolo fiorentino della
Voce, ma prese le distanze ben presto dalle loro prove compositive, in
particolare dai drammi musicali di Pizzetti, che non parvero a opere d'arte
totalmente compiute. Un legame creativo e biografico molto più stretto
strinse con Ghedini, anche per via delle comuni frequentazioni torinesi: per
Ghedini, che sta ancora cercando una personale posizione estetica e anda
raggiungendo progressivamente le conquiste di stile e di linguaggio che lo
avrebbero reso famoso, Giani valse come una sorta di pigmalione, suggerendo
testi da musicare per le liriche e esaminando con occhio critico le
composizioni di Ghedini. Giani stesso fu librettista. Ridusse L'Intrusa
di Maeterlinck, musicata da Ghedini ma mai rappresentata, e scrisse Esther per Pannain.Verso
il termine della sua vita, divenne molto noto in tutta Italia per i suoi
scritti di radicale confutazione di Croce. Non era particolarmente ostile
all'idealismo di Croce, anzi considerava la teoria dell'arte come intuizione
una delle chiavi per la valutazione della creatività anche musicale e teatrale.
Tuttavia, a mano a mano che l'estetica di Croce veniva sistematizzata dal suo
stesso autore, ma soprattutto da alcuni suoi pedestri seguaci mal tollerati dal
nostro, attaccò tale concezione con il bellicoso pseudonimo di Luigi Pagano in La
fionda di Davide, criticando che in essa non vi fosse posto per il lato tecnico
e materiale della creazione e che addirittura la stessa musica non fosse stata
debitamente considerata da Croce al medesimo livello delle altre arti che
diedero lustro al passato italiano. Il posto di G. nella storia della musicografia
è tutto particolare. Pestalozza vi ha addirittura visto un predecessore della
“fenomenologia musicale.”In realtà, ad un attento esame quantitativo dei suoi
scritti, pare essersi dedicato assai poco a questa o quella musica in
particolare, mentre il suo contributo fu assolutamente preponderante nei temi
di estetica musicale.Fu una voce originale, fuori dal coro, che inizialmente
difese il dramma di Wagner, quindi auspice fermamente all'interno dei testi
musicati dai compositori qualità come la purezza e la letterarietà, infine spronò,
pur da lontano, i compositori ad una libertà adogmatica e ad una ricerca
continua di stile e di linguaggio, rendendoli attenti alla peculiarità della
musica, che doveva essere cosa che egli ripete spessissimo nei suoi scrittila
"figuratrice dell'invisibile", cioè l'elemento che dà corpo alle
sensazioni, alle suggestioni, alle fantasie suscitate dai testi musicati e non
immediatamente in essi esplicate. Una posizione la sua che può essere
paragonata a quella del "critico-artista" teorizzata da Wilde, che G.
ben conosceva: un "critico-artista" nel senso di ri-creatore dei
percorsi attraverso cui la composizione è venuta alla luce, e ignoti al
compositore stesso, ma nei quali quest'ultimo riesce a identificarsi una volta
che il critico li rivela a lui e al mondo. Dispose per testamento che i
suoi libri venissero donati "ad una biblioteca di piccola Città preferibilmente
Pinerolo" e proprio presso la Biblioteca Civica "Camillo
Alliaudi" di Pinerolo ora si trovano, presso il Fondo che prese il suo
nome. Altre saggi: “Per l'arte aristocratica (in proposito di uno studio
di Luigi Torchi), in “Rivista Musicale Italiana”, -- aristocrazia, democrazia,
crazia – kratos – il concetto di potere -- Il “Nerone” di Arrigo Boito, in “Rivista
Musicale Italiana”, L'estetica di Leopardi, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di
Anticlo: Gli spiriti della musica nella tragedia greca, in “Rivista Musicale
Italiana”, Milano, Bottega di Poesia, L'amore nel Canzoniere di Francesco
Petrarca, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di Luigi Pagano: La fionda di
Davide. Saggi critici (Boito, Pizzetti, Croce), Torino, Bocca. Dizionario Biografico
degli Italiani Cesare Botto Micca, in morte di Romualdo Giani, in “Rivista
Musicale Italiana”, Annibale Pastore, In memoria,, in “Rivista Musicale
Italiana”, Massimiliano Vajro, “Rivista Musicale Italiana”, Luigi Pestalozza,
Introduzione a «La Rassegna Musicale». Antologia, Luigi Pestalozza, Milano,
Feltrinelli, Guido M. Gatti, Torino musicale del passato, in «Nuova Rivista
Musicale Italiana». Guglielmo Berutto, Il Piemonte e la musica, Torino, in
proprio, ad vocem. Stefano Baldi, “Fotografare l'anima” -- Romualdo Giani e
Giorgio Federico Ghedini, in “Bollettino della Società Storica Pinerolese”, Paolo
Cavallo,La vita, il fondo musicale, le collaborazioni musicologiche e gli
interessi letterari, Pinerolo, Società Storica Pinerolese,. Con contributi di
Casagrande, Baldi, Betta, Cavallo,
Balbo, Fenoglio. GIANI, Romualdo. - Nacque a Torino il 28 febbr. 1868 da
Francesco e da Clementina Guidoni, originari della Valle d'Intelvi.
Laureatosi in giurisprudenza non ancora ventenne, esercitò l'avvocatura
patrocinando esclusivamente cause civili nel settore commerciale; allo stesso
tempo si occupò con continuità di arte e letteratura. Creativo e versatile, ebbe
profonde conoscenze della storia e della tecnica delle diverse arti, ampliate
dai numerosi viaggi effettuati nelle principali città d'arte europee. Nel
1894 fu tra i fondatori, con l'amico editore G. Bocca, della Rivista musicale
italiana, alla quale collaborò ininterrottamente per trentasette anni, spesso
valendosi di pseudonimi. Esordì sul primo numero della rivista con la
critica "I Medici". Parole e musica di R. Leoncavallo. Il dramma
(Riv. mus. italiana, I [1894], pp. 86-95); sullo stesso numero diede il via
alla rubrica Note sulla poesia per musica(ibid.), ove poneva in luce difetti e
pregi dei testi inviati da autori sconosciuti per dimostrare che la poesia del
melodramma era forma d'arte. Nel 1896, in Per l'arte aristocratica,
sostenne una vivace polemica con Torchi sull'autonomia dell'arte, alla quale
parteciparono M. Pilo, D. Garoglio, A. Foulliée e altri; il G. volle dimostrare
che la formula "l'arte per l'arte" o "l'arte aristocratica"
non era cosa assurda e immorale, come sostenuto dal Torchi, ma l'ultimo effetto
di un'evoluzione. Nel 1901 pubblicò il saggio critico
Il"Nerone"di A. Boito (Torino 1901; 2a ed. ampliata ibid. 1924; cfr.
Riv. mus. ital.), che gli procurò l'amicizia dell'autore, il quale gli inviò
numerose lettere in cui si dichiarava suo grande ammiratore. Nel volume
L'estetica nei "Pensieri" di G. Leopardi (Torino 1904; 2a ed. ibid.
1928; cfr. Riv. musicale italiana) il G. oltre a ricostruire il pensiero
estetico del poeta di Recanati, ne esaminò anche le teorie sull'arte musicale.
Nel 1899, per la "Biblioteca di scienze moderne" del Bocca, era stato
pubblicato Così parlò Zaratustra di F. Nietzsche, tradotto da E. Weisel; il G.,
ritenendo la traduzione non fedele all'originale, ne approntò una nuova
versione d'accordo con il Weisel, pubblicata, sempre dal Bocca, nel 1906. Con
lo pseudonimo di Anticlo, diede alle stampe lo studio Gli spiriti della musica
nella tragedia greca (Milano 1924; Riv. musicale italiana, XX, pp. 821-887).
Nel 1917, durante il primo conflitto mondiale uscì L'amore nel Canzoniere di F.
Petrarca (Torino 1917; in appendice Nota sul suono e sul ritmo), considerata
dalla critica, forse, la sua opera più riuscita. Il G. inoltre traduceva
per diletto dal latino, soprattutto Tibullo e Orazio, e dal francese; come
poeta pubblicò nel 1920 soltanto due libretti d'opera: Esther (Riv. musicale
italiana, XXVII, pp. 611-648), tragedia lirica in tre atti ispirata dal testo
biblico, mai musicata, sebbene offerta dal G. a I. Pizzetti, e L'Intrusa
(ibid., pp. 340-358), un atto per musica, tratto dal dramma in prosa di M.
Maeterlinck, musicato dapprima da G.F. Ghedini (1921; non rappresentato), e poi
da G. Pannain (1926), che la rappresentò a Genova nel 1940. La
pubblicazione dell'articolo Il Vangelo e il Breviario,celebrazione
dell'estetica crociana (in Riv. musicale italiana), apparso sotto lo pseudonimo
di Luigi Pagano, rappresentò un attacco all'estetica crociana che diede origine
a una polemica col Croce stesso. Il G., con logica inflessibile, dimostrò
infondati alcuni concetti del filosofo, come l'eccessivo idealismo che
considerava la musica estranea ai fenomeni fisici che la originano e alla
tecnica, espressi in Estetica come scienza dell'espressione e linguistica
generale (1902) e nel Breviario di estetica, opere che il G. ironicamente
chiama Vangelo e Breviario. Con Socrate e la pulce (ibid.) rispondeva allo
scritto La musica e l'estetica dell'idealismo (ibid., pp. 61-76), in cui il
Pannain assumeva la difesa delle tesi crociane. Questi saggi, compreso quello
del Pannain, furono raccolti in seguito nel volume La fionda di Davide (Torino
1928) insieme con uno studio sul Boito, e la critica a Debora e Jaele di
Pizzetti, giudicata un'opera mancata. Contemporaneamente il G. pubblicava il
Sillabario di estetica (in Riv. musicale italiana, XXXV [1928], pp. 442-453), e
a conclusione della polemica aggiungeva una Nota crociana, nel capitolo terzo
de La fionda di Davide, in cui evidenziava ancora altre contraddizioni nella
teoria del Croce. La polemica si riaprì nel 1929 con lo scritto La favola
dell'aridità(ibid., XXXVI, pp. 311 s.) con il quale il G. insorgeva, in difesa
del Seicento musicale italiano, contro un'affermazione del Croce che definiva
"età di aridità creativa" il secolo compreso tra il 1550 e il 1650;
la rettifica crociana Obiettanti e seccatori non soddisfece il G., che replicò
con Il parto settimello (ibid., XXXVII [1930], pp. 249-254). Il G.
scrisse inoltre numerose recensioni e articoli sulla Rivista musicale italiana
e sulla Rassegna musicale, a cui collaborò dal 1928, spesso sotto gli altri
pseudonimi di H. Giraud e A. Cannella. Il G. morì a Torino il 16 genn.
1931. Oltre agli scritti citati si ricordano: "Savitri"Idillio
drammatico indiano in tre atti di L.A. Villanis. Musica di N. Canti. La poesia,
in Rivista musicale italiana, II (1895), pp. 95-112; Note marginali agli
"Intermezzi critici" di I. Pizzetti, ibid., XXVIII (1921), pp.
677-690;Note Leopardiane, in Campo (Torino), n. 5, 18 dic. 1904; Estetica
nuova, ibid., n. 9, 15 genn. 1905; Per una biografia di Berlioz, ibid., n. 26,
14 maggio 1905; Melodramma e dramma musicale, ibid., n. 37, 30 luglio
1905. Fonti e Bibl.: G. Adler, R. G., Gli spiriti della musica nella
tragedia greca, in Riv. mus. ital., L. Ronga, In morte di R. G., ibid.,Botto
Micca, R. G. (Lo scrittore e il critico), in Il pensiero di Bergamo, Pastore,
In memoria di R. G., in Riv. musicale italiana, Vajro, R. G., ibid., LIII
(1951), pp. 337-368; A. De Angelis, Diz. dei musicisti, Roma 1928, pp. 244 s.;
Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, III, p. 189.Romualdo
Giani. Giani. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Giannantoni: l’implicatura conversazionale
della dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I love Giannantoni; for
one, he believes, with me, that there is Athenian dialectic, Roman dialectic,
Florentine dialectic and Oxonian dialectic; like me, he has explored mostly
‘Athenian dialectic,’ and he has noted that its birth (‘nascita’) is in the
‘dialogo socratico,’ so it should surprise nobody that I have based my
philosophy on the facts of conversation!” Si laurea a Roma sotto Calogero. In
“Il dialogo di Socrate e la dialettica di Platone” attribuisce a Socrate una
concezione molto laica della del divino e della religione («Religiosità, che
Socrate, il quale era certamente una personalità religiosa, intendeva in modo
del tutto diverso da come comunemente era sentita a quell'epoca»). La sua
dottrina storico-filosofica si fonda sul principio che ogni seria riflessione
filosofica si debba basare su un'accurata e rigorosa ricerca filologica delle
fonti. Questo spiega l'enorme dispiego
di tempo dedicato all'elaborare la sua opera monumentale, “Reliche di Socrate”
(“Socratis et Socraticorum reliquiae”). G. ha sempre seguito il criterio di
Croce e Gramsci, secondo cui l'esposizione di un filosofo debba avvenire
tramite l'esame storico cronologico (unita longitudinale) delle sue opere, allo
scopo di prendere consapevolezza dell'evoluzione della dottrina e di separare
da questa ogni sovrapposizione interpretativa personale non adeguatamente
basata sulle fonti. Convinto dell'onestà
intellettuale come valore fondamentale cui deve rifarsi ogni interprete della
storia della filosofia, capace perciò di rinunciare di fronte alla
ricostruzione filologica dei testi anche alle proprie più profonde convinzioni
personali. Traccia un profilo “ideale” dello «storico autentico» della
filosofia, che ha il «dovere di farsi filologo rigoroso per avvicinarsi il più
possibile al mondo del filosofo da lui studiato», ben sapendo che ciò «non
basta ancora se non è accompagnato da una sensibilità filosofica e da una
consapevolezza teoretica e storica insieme. Di qui conclude il fascino di una
ricerca che, rendendoci consapevoli di una grande quantità di problemi
altrimenti inavvertiti, termina in un autentico arricchimento spirituale. Il
suo insegnamento è stato caratterizzato dalla volontà di essere semplice e
chiaro nell'espressione del pensiero considerando questo un dovere morale
dell'intellettuale nei confronti degli altri studiosi. Anche allo scopo di realizzare una scrittura
filosofica quanto più scientificamente precisa, ha compiuto studi approfonditi
sulla logica di Aristotele e sulla storia della semantica filosofica (teoria
del segno). Nella sua vita e nella
dottrina si è sempre impegnato nel mettere in pratica l'insegnamento socratico,
così come fece il suo maestro Calogero: insegnando la conversazione basatio
sulla regola d’oro: il rispetto verso il co-conversazionalista. Cura I Presocratici
di Diels e Kranz. Altre saggi: “La metafisica dei lizii” (Roma, Rai); “Che cosa
ha veramente detto Socrate” (Roma, Ubaldini); Cirenaici (Firenze: Sansoni);
“Filosofia romana” (Napoli: Bibliopolis); “Filosofia italica in eta antica” (Milano:
Vallardi); Le filosofie e le scienze contemporanee, Torino: Loescher, I fondamenti
della logica de’ lizii” (Firenze: La nuova Italia); Le forme classiche / Torino:
Loescher, “Volpe / Roma: Riuniti, Socrate. Tutte le testimonianze: Da
Aristotfane e Senofonte ai Padri cristiani; Bari: Laterza, Aristotele. Opere;
introduzione e indice dei nomi, Roma; Bari: Laterza, Epicuro. Opere, frammenti,
testimonianze sulla sua vita; Bignone;.Bari: Laterza, I presocratici: testimonianze
e frammenti / Bari: Laterza, Profilo di storia della filosofia, Torino:
Loescher. La razionalitàmTorino: Loescher, Socratis et Socraticorum Reliquiae.
Collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit G. Giannantoni, 2Bibliopolis. Anthropine Sophia. Studi di
filologia e storiografia filosofica in memoria di Gabriele Giannantoni;
Introduzione di Adorno: per G.: un dialogo, Bibliopolis (collana Elenchos). Deputati
della V, VI, VII legislatura. Op.cit. Centrone,
ed.Bibliopolis, Enciclopedia Treccani, Bruno Centrone, Bibliopolis, Edizioni di
filosofia, ILIESI CNR La traduzione dei
Presocratici da parte di G. è stata criticata da Reale nell'introduzione alla
sua nuova traduzione dei Presocratici, critiche riportate in due
articoli-intervista comparsi sul "Corriere della Sera" nei quali Giannantoni, di formazione gramsciana veniva
accusato come curatore della "vecchia" edizione laterziana di avervi
perpetrato «una certa manomissione del sapere filosofico», in ossequio
all'ideologia e all’egemonia culturale marxista. Interpretazioni del pensiero
di Socrate#Socrate: l'interpretazione di G. Calogero La teoria sul pensiero
greco arcaico. Per chi abbia svolto la propria attività di ricerca o
abbia compiuto la propria formazione scientifica nell’ambito della storiografia
filosofica negli anni ’80 e ’90, il nome di G. (Perugia, 1932 – Roma, 1998) è
legato anche al Centro di Studio del Pensiero Antico, dal Consiglio Nazionale
delle Ricerche Roma,1 su richiesta, appunto, di Gabriele Giannantoni – in
sostituzione del precedente Centro di Studio per la Storia della Storiografia
Filosofica –, il Centro di Studio del Pensiero Antico si inserì nel panorama nazionale
e internazionale della ricerca storica come una realtà innovativa e contribuì
allo sviluppo di una disciplina, la storia della filosofia antica, appartenente
al duplice contesto della storiografia filosofica e delle scienze
dell’antichità. Il Centro fu attivo in modo autonomo fino al 2001, quando, a
seguito di una riforma che ridisegnò la rete scientifica del Consiglio
Nazionale delle Ricerche, esso fu accorpato con il Centro di Studio per il
Lessico Intellettuale Europeo per dar vita all’ Istituto per il Lessico
Intellettuale Europeo e Storia delle Idee, sotto la direzione di Gregory.2
L’attività del Centro di Studio del Pensiero Antico fu inevitabilmente legata
al percorso intellettuale e di ricerca del suo fondatore, benché in modo non
esclusivo. In questo breve profilo si cercherà di rievocare, in primo luogo, i
motivi culturali che furono alla base della costituzione di questa realtà,
nonché alcuni modelli scientifici di riferimento che ne hanno determinato in
certa misura la configurazione e l’attività; in secondo luogo, i contributi
originali che il Centro è stato in grado di fornire all’area disciplinare di
propria competenza, in termini di pubblicazioni, progetti e formazione, sotto
la guida di Giannantoni e di coloro che ne coadiuvarono la direzione. 1 Decreto
del Presidente del CNR. n. 6303, ratificato successivamente da una convenzione
tra il CNR e “La Sapienza”, stipulata il 21 aprile 1983 e confermata dal
Presidente del CNR fino al 2001. Per il testo della convenzione si veda
“Elenchos”, Sull’iter di riforma che portò alla nascita dell’Istituto per il
Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee e per i riferimenti
normativi, si veda Liburdi 2018, p. 49 e ss. Istituito nel 1979 presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di
Francesca Alesse G. G. e il Centro di Studio del Pensiero Antico MOTIVI
CULTURALI E MODELLI ISPIRATORI Come accennato, l’attività scientifica del
Centro di Studio del Pensiero Antico fu comprensibilmente orientata da precise
scelte critiche e metodologiche di colui che ne aveva voluto l’istituzione. Per
dare ordine a questo sintetico profilo, credo sia opportuno riassumere i motivi
che ispirarono la promozione di un organo di ricerca mirato agli studi storici
sul pensiero antico, in tre principali indirizzi: in primo luogo, la
possibilità di considerare la storia della filosofia antica come una disciplina
dotata di un proprio specifico (e in certa misura autonomo) profilo quanto a
materia di indagine, arco storico e metodologia; in secondo luogo, la nascita,
o rinascita, dell’interesse verso scuole filosofiche dell’antichità greca e
romana tradizionalmente classificate come minori, in particolare, le cosiddette
scuole socratiche e le scuole ellenistiche, che dalle socratiche discendono
direttamente sotto l’aspetto storico e dottrinale; infine, la rivisitazione del
patrimonio dossografico – cioè del complesso della tradizione indiretta che ha
conservato, per estratti, parafrasi o compendi, il pensiero di quei filosofi
antichi di cui non è giunto a noi né il corpus né una singola opera completa –.
Quest’ultimo indirizzo si inseriva in una tendenza di studi continentale che
fece della dossografia antica una vera e propria categoria storiografica con
risultati particolarmente innovativi. L’interesse portato alla dossografia,
oltre a sostenere gli studi nell’ambito delle filosofie di derivazione
socratica e quelle ellenistiche (delle quali, per l’appunto, non si è
conservato alcun testo d’autore), apriva un percorso di studi a cui Giannantoni
era particolarmente legato e che lo vide impegnato sia come direttore del
Centro che individualmente, e cioè la riconsiderazione di tutta la dossografia
relativa alla filosofia presocratica. Una rapida messa a fuoco di questi tre
indirizzi permetterà di chiarire quali interessi scientifici di G. abbiano
maggiormente pesato sulle strategie generali e sulle iniziative specifiche del
Centro, nonché sulla formazione professionale che esso ha reso possibile.
Quanto al primo indirizzo, la questione del profilo specifico della storia
della filosofia antica presuppose, da parte di Giannantoni, una approfondita
analisi della visione storica che la cultura filosofica italiana era venuta maturando
intorno alla filosofia antica. In questa analisi, i cui esiti si leggono, non a
caso, nell’articolo di apertura della 6 ILIESI digitale Temi e strumenti
Francesca Alesse G. i e il Centro di Studio del Pensiero Antico rivista
“Elenchos” intitolato La storiografia idealistica e gli studi sul pensiero
antico (“Elenchos”), svolge un ruolo chiave la rappresentazione che del
pensiero antico seppe dare l’idealismo italiano, specie con Croce, e la sua
valutazione critica. L’idealismo italiano si era infatti distinto per due
caratteri, l’uno teorico, l’altro metodologico, che apparentemente non
favorirono lo sviluppo di una moderna storiografia del pensiero antico. Per un
verso, tanto Croce che Gentile vedevano nella filosofia antica (cioè greca) i
limiti di un pensiero oggettivo, astratto e naturalistico, che mai sarebbe
arrivato a concepire la positività dell’idea di infinito, né quella della
soggettività. I punti più alti raggiunti dalla filosofia teoretica greca,
Socrate, Platone, Aristotele, coincidevano rispettivamente con la delineazione
del concetto, o universale astratto, con la sua separazione dalla realtà
sensibile (la teoria delle idee trascendenti e la scienza come dialettica delle
sole idee) e con una logica puramente strumentale (la sillogistica), alla quale
sarebbe mancata la teorizzazione del giudizio individuale, o giudizio storico,3
nonché la capacità di superare l’astrattezza e attingere l’atto stesso del
pensiero.4 Nella filosofia pratica parimenti i Greci antichi, pur non mancando
di intuizioni profonde, non avrebbero superato il precettismo e l’empirismo, e
la loro etica ingenua non sarebbe mai giunta a distinguere etica ed economica,
morale e diritto, come categorie dello spirito.5 3 Giannantoni 1980, n. 13,
rimanda a Croce, di cui diamo qui i riferimenti da Croce. 4 Ciò G. ricavava,
pur senza riferimenti testuali precisi, sia dagli excursus storici che possiamo
leggere in Gentile e in Gentile 1917, vol. I, pp. 21-32, sia da Gentile 1964. 5
Giannantoni 1980, nn. 14 e 15, rimanda a Croce 19455; si veda Croce e a Croce
19273, si veda Croce 2007, pp. 164-165. ILIESI digitale Temi e strumenti
7 Figura 1: copertina di “Elenchos”, 1, 1980.
Francesca Alesse G.e il Centro di Studio del Pensiero Antico Per l’altro verso,
però, l’idealismo formulò una critica, entro certi limiti giusta e salutare,
alla filologia classica – cioè alla filologia classica moderna sviluppata in
Germania nel corso del XIX secolo, distintasi, tra le altre cose, per una
predilezione della cultura greca rispetto alla latina –, colpevole
sostanzialmente di non essere una disciplina veramente storica. La filologia
classica, malgrado i grandi risultati raggiunti nella costituzione dei testi
della letteratura antica, nella revisione della tradizione bizantina e nelle
nuove acquisizioni, si affermò come una procedura tecnica complessa e molto
raffinata ma priva della visione della storicità del documento, del suo autore,
dell’ambiente della sua composizione, nonché del suo testimone. La questione,
che emerse inizialmente nel campo delle edizioni letterarie,6 non è meno
complessa per quelle filosofiche: i testi della filosofia antica richiedono
anche una comprensione dei contenuti teorici e pretendono di essere inquadrati
in sistemi di pensiero il cui senso trascende il ripristino del testo, o quanto
meno se ne distingue in data misura. Questo fu il nodo che si dovette
sciogliere perché si potesse cominciare a delineare una storia della filosofia
antica che includesse tanto la capacità di fornire edizioni affidabili sotto il
profilo testuale, quanto quella di storicizzare i documenti, cioè di
comprenderne i contenuti alla luce di coordinate culturali congrue con le
epoche di appartenenza. La storiografia idealistica è dunque imputata da G. di
evidenti limiti interpretativi della filosofia antica, come fu ben presto
mostrato, ad esempio, dalle due celebri monografie di Mondolfo sull’infinito
nella filosofia antica e sul soggetto umano nell’antichità,7 che smentivano
l’idea di un connaturato e irreparabile oggettivismo della filosofia antica.
Tuttavia l’idealismo ha fornito un’importante lezione e soprattutto ha indicato
con chiarezza un ostacolo da superare: 6 In particolare, la critica crociana a
cui Giannantoni fa riferimento prese le
mosse da edizioni di testi poetici e si volse contro la “mera filologia” e la
Kulturgeschichte che, nella pretesa di restituire il senso del testo
letterario, non apportavano comprensione né storica né concettuale. Cfr. ad
esempio la recensione alla monografia del 1950 di Ettore Romagnoli su
Aristofane e che si può leggere in Croce. Dice G. al riguardo (p. 19): “...il
problema del rapporto tra filologia e poesia, tra filologia e storiografia, tra
filologia e filosofia sta al centro dell’elaborazione dell’idealismo italiano”.
G. probabilmente pensava anche alle considerazioni gentiliane intorno al
“filologismo” che affligge la storia e ostacola la costituzione di una storia
della filosofia, in Gentile 1Mondolfo 1933; Mondolfo. 8 ILIESI digitale Temi e
strumenti Francesca Alesse G. e il Centro di Studio del Pensiero
Antico Tracciando nel primo dei due volumi in onore di Croce per il suo 80°
compleanno, quello che è tuttora l’unico panorama complessivo degli studi di
filosofia antica nel cinquantennio, Guido Calogero non ritenne di dover
prendere in considerazione né Croce stesso né Gentile (e neppure Ruggiero)
quali interpreti del pensiero antico; né altri ne hanno trattato in modo
approfondito (mentre studi importanti esistono sulle loro interpretazioni di
altri periodi della storia del pensiero) ... la ragione ... è da ricercare in
una persistente separazione, non solo concettuale, ma anche di organizzazione
degli studi, che lo stesso idealismo ha contribuito non poco a consolidare, tra
considerazione filosofica, ricostruzione storica e indagine filologica. Gli
studi di filosofia antica hanno infatti sofferto in modo particolare di una
vera e propria scissione tra quelli che erano considerati i compiti esclusivi
del filologo e quelle che erano considerate le competenze dello storico e del
filosofo: con la conseguenza che questi studi sono potuti apparire troppo
filologici ... ad alcuni e ad altri, all’opposto, troppo filosofici per entrare
di pieno diritto nell’ambito di ciò che si era soliti chiamare la “scienza
dell’antichità”.8 Quando Giannantoni scriveva queste parole, era persuaso che
la scissione non fosse superata e fosse causa, oltre che di una durevole
influenza idealistica, anche di un pregiudizio nei rispetti della filologia,
malgrado i grandi progressi e le messe a punto di tanta prestigiosa filologia
classica italiana.9 Stante, quindi, una situazione di progresso “zoppicante”,
per così dire, degli studi storiografici italiani sulla filosofia antica, G. nutrì
l’aspirazione di delimitare un preciso terreno metodologico cogliendo la
preziosa occasione che il Consiglio Nazionale delle Ricerche gli offriva. Il
secondo indirizzo è quello che, almeno a prima vista, rivela maggiormente la
stretta relazione tra il percorso scientifico individuale di G. e lo spettro di
interessi messi in campo da quanti hanno operato nel o col Centro, a cominciare
dai suoi allievi. Tanto più che l’attenzione rivolta non solo a Socrate ma alle
tradizioni socratiche ed ellenistiche non è del tutto indipendente dalla
questione dell’impatto dell’idealismo italiano sulla fortuna della storiografia
filosofica dell’antichità. Il giudizio crociano sui limiti delle filosofie di
Socrate, Platone e Aristotele, ad esempio, diventa un vero e proprio
deprezzamento delle tradizioni “minori”.10 Ed è appena necessario 8 G. 1980,
pp. 7-8. Il riferimento a Calogero è da intendersi a Calogero 1950, pp. 43-59.
9 Si veda al riguardo il chiarimento di G. relativo all’opera di Pasquali, che
pervenne ad un’unità di filologia e storia come unità di metodo, non di
contenuti, e che si caratterizzò tramite uno storicismo della filologia
classica, profondamente diverso dallo storicismo idealistico: questo, inteso
come riconoscimento nella storia e nella cultura di figure e “categorie” del
pensiero e dello spirito, quello, inteso come intima connessione tra le
rigorose tecniche filologiche e la conoscenza storica (Cfr. Croce: “... col
considerare principalmente il contrasto delle passioni verso la volontà
razionale sorsero le scuole opposte dei cinici e cirenaici, ILIESI digitale
Temi e strumenti 9 Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di
Studio del Pensiero Antico ricordare che la figura di Socrate, a cui deve farsi
risalire il terreno di ricerca costituito dalle scuole socratiche e buona parte
di quello attinente alle tradizioni ellenistiche, fu al centro di importanti
riflessioni teoretiche e storiografiche di Calogero,11 che di G. fu il maestro.
Abbiamo poi vari segni di un’interazione di tendenze di studio comuni a più
scuole anche fuori dell’Italia. L’interesse per le tradizioni dette “minori”,
tali cioè in quanto paragonate alle filosofie di Platone e Aristotele e, in
più, conservate solo tramite tradizione indiretta, si manifesta già alla fine
degli anni ’40 con studi seminali sui Sofisti, su alcuni discepoli di Socrate,
in particolare Antistene di Atene e Aristippo di Cirene, sulla tradizione
scettica.12 Proprio ad Aristippo di Cirene e alla sua scuola Giannantoni dedica
la sua prima importante opera scientifica (Giannantoni). In essa si profilano
le problematiche, filologiche e storiografiche prima ancora che concettuali,
relative alla intricata questione della eredità socratica: l’edizione critica
di un corpus proveniente da molti e diversi testimoni; la possibilità di
dirimere le fonti storicamente attendibili dalla ritrattistica aneddotica; la
contestualizzazione del filosofo all’interno di un milieu composito in cui si
intrecciano le influenze della Sofistica e della retorica classica e il
magistero socratico. stoici ed epicurei e altrettali; ma le dottrine di tutte
coteste scuole, se serbano qualche valore empirico come precetti di vita più o
meno convenienti a individui, classi e tempi determinati, non ne presentano
alcuno o scarsissimo, esaminate in quanto concetti filosofici; e cinici e
cirenaici, stoici ed epicurei, piuttosto che filosofi sembrano monaci, seguaci
di questa o quella regola”. Sulle “scuole socratiche minori” cfr. anche il
giudizio, meno sommario, di Gentile. Com’è molto noto, Socrate occupò un ruolo
centrale nella personale riflessione teorica diCalogero, che elaborò la sua
“filosofia del dialogo” esattamente sul modello del Socrate dei dialoghi
platonici, nel quale il filosofo italiano vide la prima formulazione di
un’istanza intellettuale e morale – il dialogo, appunto, contrapposto al “logo”
conclusivo e assertivo – destinata a far giustizia della pretesa di fondare
l’etica sulla epistemologia e sulla metafisica, e che sarebbe stata anche alla
base della moderna concezione dello stato liberale e di diritto. Ma Socrate fu
anche al centro di importanti lavori storiografici di Calogero, alcuni dei
quali aprirono la strada alla ricerca della posterità del magistero socratico
nel pensiero tardo-ellenistico e cristiano. Una visuale critica diversa da
quella di G., ma in linea con la percezione del ruolo capitale svolto da
Socrate nella storia del pensiero antico. Mi limito su tutto ciò a rimandare a
G. 1987 e a Brancacci 2017. 12 Per limitarsi alle opere principali:
Untersteiner 1949, con moltissime riedizioni; Dal Pra 1950; Humbert 1967;
Mannebach 1961; Decleva Caizzi; Patzer 1970. 10 ILIESI digitale Temi e
strumenti Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di
Studio del Pensiero Antico Questi elementi appaiono, nella storiografia e nella
filologia europea degli anni ’70, sempre più determinanti per la comprensione
delle dottrine di personalità come Aristippo, Antistene di Atene, Euclide di
Megara, Eschine di Sfetto. In più, il superamento della Quellenforschung
tradizionale e l’approfondimento dei contenuti filosofici aprirono nuove
possibilità di delineare il percorso che dalle scuole socratiche della seconda
metà del IV secolo a.C. porta alle principali tendenze ellenistiche, il
Giardino, la Stoa, il Peripato post- aristotelico, la scepsi pirroniana ed
accademica. A questo complesso terreno di ricerca è dedicata una iniziativa che
precede l’istituzione del Centro di Studio del Pensiero Antico benché sempre
sostenuta dal Consiglio Nazionale delle Ricerche: il convegno “Scuole
socratiche minori e filosofia ellenistica”, organizzato nel 1976 dal Centro di
Studio per la Storia della Storiografia (la cui direzione era stata affidata
allo stesso Giannantoni), e i cui atti furono pubblicati nel 1977 dalla casa
editrice il Mulino di Bologna. Le relazioni presentate al Convegno del 1976,
mirate ad una ricognizione dello stato documentario delle filosofie
riconducibili a Socrate o ad uno dei suoi discepoli, e dei rapporti concettuali
tra queste tradizioni e le filosofie ellenistiche e di età imperiale,13 furono
aperte dalla comunicazione dello stesso Giannantoni sul tema Per un’edizione
delle fonti relative alle scuole socratiche minori, nella quale lo studioso
esponeva i risultati di un già lungo percorso di ricerca, ma ancora lontano,
nel 1976, dalla sua conclusione. In questa relazione vengono messe a fuoco le
13 Cambiano 1977; Celluprica 1977; Sillitti; Decleva Caizzi; Ioppolo 1977;
Brancacci 1977; Donini 1977; Isnardi Parente 1977; Repici 1977. ILIESI digitale
Temi e strumenti 11 Figura 2: copertina di G. Giannantoni, I
Cirenaici. Raccolta delle fonti antiche, traduzione e studio introduttivo,
Firenze, Francesca Alesse G. e il Centro
di Studio del Pensiero Antico peculiarità e la notevole problematicità,
soprattutto sotto il profilo filologico, di una edizione di testi filosofici e
di molti autori. Emerge da questo breve testo non solo uno stato dell’arte ma
un criterio programmatico che non considera sufficienti, benché certamente
necessarie, le sole competenze della filologia classica, ma pretende una
sensibilità storica e una capacità di comprensione teorica che gli sforzi della
Altertumswissenschaft tradizionale non avevano sempre garantito. L’edizione di
testi filosofici di trasmissione indiretta non può limitarsi alla costituzione
del testo e alla redazione di apparati critici da cui si desuma il meticoloso
lavoro di collazione dell’editore, ma deve tener conto dei contesti storici e
problematici nei quali sono vissuti tanto il filosofo quanto il suo testimone.
Inoltre, un’edizione che sia, in più, una silloge di testi relativi a (e non
provenienti da) molti filosofi, comporta di andare oltre la natura estrinseca14
della singola testimonianza (epoca e ambiente del testimone, distanza
cronologica dall’autore, genere letterario della fonte, parametri stilistici,
etc.) e di individuare alcune strutture di pensiero che, in un lasso di tempo
abbastanza lungo, si facciano riconoscere per caratteri salienti e durevoli e,
al contempo, riflettano le condizioni storiche che ne determinano la
specificità (secondo i dettami dello storicismo), diventando pagine e capitoli
di una lunghissima storia culturale; si configurino, cioè, come tradizioni: Il
fatto è che a proposito di una raccolta di testi che riguardano uno o più
filosofi, emerge molto più nettamente che in altri casi l’impossibilità di
considerare la testimonianza antica come un dato puramente oggettivo, e quindi
la necessità di storicizzarla fino in fondo: in realtà essa deve essere
considerata come un capitolo di una vera e propria storia della cultura durata
all’incirca un millennio, e perciò da ricondurre di volta in volta al suo tempo
e alle tendenze storicamente determinate che la produssero: parleremmo di un
Diogene irreale e mai esistito se pensassimo di poter adoperare come
ingredienti mescolabili a piacere Epitteto e Dione Crisostomo, Luciano e
Giuliano l’Apostata, un padre della chiesa e le epistole apocrife che vanno
sotto il nome del cinico.15 Il terzo indirizzo, relativo alla dossografia, è
quello che presenta, almeno in apparenza, un maggiore tecnicismo, perché volto
alle problematiche ecdotiche ed interpretative attinenti allo studio di 14
Sulla cosiddetta filologia esterna, sul ruolo da essa svolto nelle edizioni
filosofiche e sui suoi limiti, si veda G., p. 15, a proposito dell’opera di
Vitelli, la cui importanza per la storia della filosofia antica è legata
specialmente alle edizioni critiche dei commenti aristotelici di Giovanni
Filopono. 15 G. 1977, p. 22. 12 ILIESI digitale Temi e strumenti
Francesca Alesse G.e il Centro di Studio del Pensiero Antico dottrine riportate
da testimoni spesso assai lontani, per cronologia ed orientamento
intellettuale, dagli autori di cui si vuole conoscere il pensiero. D’altra
parte, la dossografia si è rivelata un capitolo importantissimo di quella
millenaria storia culturale che costituisce il terreno di indagine della storia
della filosofia antica. Non si potrebbe ancora oggi redigere una storia della
storiografia filosofica dell’antichità senza iniziare non solo dalle grandi
raccolte di testi e frammenti allestite dalla filologia ottocentesca e comparse
nei primi anni del XX secolo (le raccolte di Usener,16 Diels,17 Arnim,18 per
citare degli esempi), ma anche dalla prima grande opera di analisi e
comparazione dei testimoni, i Doxographi Graeci di Hermann Diels; come è
altrettanto vero che non si può oggi fare a meno dei più recenti e sistematici
contributi all’analisi della dossografia filosofica, cioè gli Aëtiana di
Mansfeld e Runia. I più importanti progetti editoriali varati negli ultimi
decenni, inoltre, si sono strettamente legati alla problematica della DOSSOGRAFIA
e all’analisi dei testimoni, a lato di quelle condotte sui filosofi romani e
sulle tradizioni dottrinali. Allo studio di filosofi di grande notorietà e
impatto della tradizione culturale antica, ai quali si deve gran parte della
conoscenza dei filosofi precedenti -- come CICERONE e Plutarco -- si è venuta
affiancando una sempre maggiore familiarità con testimoni meno noti ma che
hanno rivelato un’importanza fondamentale, come Filodemo, Diogene Laerzio,
Sesto Empirico, Galeno, Stobeo. L’indirizzo dossografico e quindi un segno
della tempestività e della sensibilità di G. nei rispetti di un terreno di
ricerca che si venne imponendo e che di fatto contribuì alla dimensione dello
stesso Centro, la cui attività progettuale e congressuale e in buona misura
dedicata alla dossografia di epoca tardo ellenistica ed IMPERIALE. Si può far
rientrare in questo ultimo indirizzo anche una linea di attività di studi la
cui ragione storiografica e oggetto di un vivacissimo [Usener 1887. 17 Diels
1903. 18 Arnim 1903. 19 Diels 1879. 20 Mansfeld-Runia 1997; Mansfeld-Runia
2009; Mansfeld-Runia 2010. È appena necessario ricordare che le parole stesse
“doxographus”, “doxographia”, sono coniate da Diels. Sulla dossografia e sul suo
sviluppo come categoria filologico-storiografica, cfr. Mansfeld, rist. in
Mansfeld-Runia, Mansfeld, rist. in Mansfeld-Runia – cf. GRICE, “LIFE AND
OPINIONS” – “Vita e opinioni” – Speranza, “OXONIAN DOXOGRAPHY: H. P. GRICE” -- .
ILIESI digitale Temi e strumenti 13 Francesca Alesse G.e il Centro
di Studio del Pensiero Antico dibattito e che è nota come la questione delle
dottrine non scritte di Platone. Sorta nell’accademia tedesca, in particolare a
Tübingen, da un’ipotesi schleiermacheriana, la questione degl’ “agrapha dogmata”
consiste, molto in breve, nella convinzione che Platone teorizza una dottrina
dei principi (Uno e Molteplice), della quale non resta traccia nei suoi scritti
– perché oggetto di pura trasmissione orale all’interno dell’Accademia antica –
ma solo sparsi indizi in pagine aristoteliche. Alla nascita, per così dire, del
Centro, G. invita Gaiser, ordinario di filologia a Tübingen e uno dei maggiori sostenitori di
questa ipotesi, a tenere una lezione presso la Sapienza sul tema La teoria dei
principi in Platone, il cui testo venne pubblicato nel primo numero della
rivista “Elenchos”. Tuttavia, il punto che merita attenzione in questa sede è
che la questione delle dottrine non scritte di Platone e, oltre che un tema
rilevante per se stesso, anche un pretesto per riconsiderare Aristotele come
testimone egli stesso del passato filosofico, più precisamente per le
cosiddette filosofie italiche “pre-socratiche”. Com’è noto, Aristotele può
essere considerato se non il primo testimone in assoluto delle precedenti
tradizioni della filosofia, certamente il primo testimone che ne offre una
informazione organizzata secondo criteri espositivi dettati dalle proprie
esigenze filosofiche e che hanno inevitabilmente condizionato la visione
storiografica. Per quanto apparisse improprio, naturalmente, definire
Aristotele un “dossografo”, il ri-esame della sua testimonianza della filosofia
italicca precedente, anch’essa una tradizione indiretta, appare a G. una linea
d’azione congrua con quelle relative alle scuole socratiche e le filosofie
ellenistiche, ancorché meno visibile tra i risultati delle ricerche del Centro.
A conclusione di questo primo paragrafo, ricordiamo che l’istituzione del
Centro di Studio della Filosofia Antica non e del tutto priva di modelli in
Italia e fuori e che con alcuni di essi si instaurò una costante
collaborazione. L’esempio più immediato, sia sotto il profilo tematico e
scientifico, che sotto quello del funzionamento istituzionale, e il – Robin,
una unità di ricerca del 21 Gaiser 1980. 14 ILIESI digitale Temi e
strumenti Centre de Recherches sur la Philosophie Antique, Centre de la
Recherche Scientifique, ma operante all’interno e sotto l’egida
Francesca Alesse G. e il Centro
di Studio del Pensiero Antico della Sorbonne (perciò definito anche Unité
Mixte de Recherche, o UMR), in modo non troppo dissimile dai Centri di
Studio del CNR istituiti in regime di convenzione con i vari atenei
italiani. La collaborazione con questo Centro si focalizza sulle
tematiche socratiche e da luogo al
ripetuto scambio di filosofi tra le due sedi nell’ambito del programma di
ricerca “Socrate e la storia della filosofia antica: rottura o continuità?”; i
contributi pubblicati sotto il titolo di Lezioni socratiche, a cura di
furono G. e Narcy, per Bibliopolis di Napoli. Un’altra
importante istituzione scientifica a cui G. guarda con particolare
attenzione e con cui intrecciò stretti rapporti scientifici nonché di
cordiale amicizia è stata senz’altro il CENTRO PER LO STUDIO DEI PAPIRI
ERCOLANESI, fondato da , Gigante. I motivi di tale collaborazione sono
dettati ovviamente dall’interesse intrinseco per la grande opera
editoriale a cui il Centro fondato da Gigante e votato. La pubblicazione
delle edizioni critiche dei papiri reperiti nel sito ercolanese offre
alla comunità filosofica un patrimonio inestimabile per la conoscenza
dell’ORTO, della tradizione socratica, del PORTICO. Ma sono anche ragioni
metodologiche a sancire un sodalizio importante, che si concretizza in
varie iniziative e pubblicazioni cui parteciparono entrambi i Centri: i
testi ercolanesi, com’è molto noto, costituiscono un materiale che
permette di arricchire enormemente la conoscenza di molte importanti
tradizioni filosofiche, a condizione di possedere un complesso di
conoscenze e tecniche interpretative che difficilmente possono trovarsi
nella medesima personalità e che però vanno applicate contestualmente. In
altre parole, l’esperienza collaborativa tra questi due Centri, forti,
l’uno, di una formazione propriamente filosofica, l’altro, di alte competenze
filologiche, contribuì in modo significativo a costituire quella
storiografia della filosofia antica che aveva, almeno per la cultura
accademica italiana faticato ad assumere uno statuto proprio. ILIESI
digitale Temi e strumenti 15 Francesca Alesse G. e il Centro di Studio
del Pensiero Antico Quanto detto nel precedente paragrafo trova un riflesso,
diretto o indiretto, nelle attività di ricerca del Centro, nonché nelle sue
pubblicazioni. L’interesse per il consolidamento della storia della filosofia
antica come disciplina autonoma, dotata cioè di un suo impianto metodologico,
oltre che di un preciso confine cronologico, viene perseguito tramite
l’attività progettuale, congressuale e editoriale, di cui si dà qui una
descrizione sintetica. Vale però la pena di ricordare, prima di tutto, una iniziativa
promossa da G. dopo l’istituzione del Centro, in conformità di un indirizzo
dell’organo direttivo di “Elenchos”, e dedicata alla problematica
storiografica: Nelle riunioni del Comitato direttivo della rivista “Elenchos” è
emersa più volte l’opportunità di aprire una discussione sul metodo o, meglio,
sui metodi della storiografia filosofica relativa alla filosofia antica. Si
pensa perciò di cominciare con una tavola rotonda, chiamando a parteciparvi
esponenti di orientamenti diversi e significativi, ai quali è stato chiesto di
intervenire liberamente su tre questioni principali -- se ha senso parlare
ancora di una storia della filosofia (e quindi anche di una storia della
filosofia antica) come disciplina a se stante e in sé autonoma; quali innovazioni
si possono riconoscere all’ampliarsi e al differenziarsi delle impostazioni
teoriche che sono sottese ai vari approcci metodici alla storia della filosofia
antica; quale è il contributo che viene, una volta tramontato il vecchio mito
classicistico, dall’applicazione di categorie elaborate dalle scienze umane. Alla
tavola rotonda parteciparono Berti, Vegetti, Viano, e lo stesso G., ciascuno
portando un contributo molto peculiare e strettamente conforme al proprio
orientamento intellettuale. L’intervento di G. rispecchia le riflessioni
condotte qualche anno prima e pubblicate nel già citato articolo di apertura
della Rivista (La storiografica idealistica), di cui ripropone le premesse
problematiche e a cui aggiunge precise prese di posizioni sulla specificità
della storia della filosofia antica e sul modo di salvaguardarla senza perdere
di vista il fatto che lo scopo principale (scil. dello storico della filosofia
antica) resta la comprensione dei testi che ci trasmettono la filosofia antica,
ritengo necessario rivendicare l’imprescindibilità di una rigorosa e metodica
impostazione filologica, anche se tale impostazione non può non venire
assumendo sempre più, essa stessa, una fisionomia storica: quella della storia
degli studi ciò dovrebbe indurre a uscire da un tradizionale isolamento e a
promuovere una [22 Giannantoni 1983, p. 147. 16 ILIESI digitale Temi e
strumenti Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio
del Pensiero Antico] organizzazione del lavoro diversa e meno diffidente verso
i sussidi che la tecnologia moderna può offrire. In ogni caso, la storia degli
studi è ormai elemento costitutivo di ogni indagine che voglia avere un minimo
di serietà, non solo per le conoscenze che ha acquisito ma anche per le
divergenze che ha proposto. L’alternativa a questa impostazione è o l’arbitrio
nella scelta dei riferimenti o l’illusione di un ritorno alla lettura diretta
dei testi. In queste parole possiamo rintracciare ad un tempo la finalità della
costituzione del Centro e la visione di G. del modo di operare storiografico:
più che il cenno alle nuove tecnologie e più che l’esortazione ad abbandonare
l’isolamento, sicuramente importanti l’uno e l’altra, conta sottolineare, a mio
parere, il richiamo alla storia degli studi come parte integrante della storia
della filosofia, in particolare della filosofia antica, affidata in larghissima
misura alla tradizione indiretta. La serietà, cioè la plausibilità dei
risultati della ricerca storico-filosofica sono messi a rischio dall’illusione
di poter leggere (e capire) le parole del filosofo, specie se antico, senza gli
strumenti della conoscenza filologica, linguistica e culturale nel senso più
lato, conoscenza cui si perviene ricostruendo, ove sia possibile, anche una
storia intelligente delle letture altrui. Uscire dall’isolamento è, allora, non
solo la cooperazione tra colleghi ad un progetto scientifico unitario, ma anche
la conoscenza e la valutazione delle migliori offerte interpretative che di un
testo e del suo contesto siano state date entro un certo arco di tempo.
23 G. ILIESI digitale Temi e strumenti 17 Francesca Alesse G.
Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico. Sia nelle azioni
istituzionali, che investirono e coinvolsero il complesso delle risorse del
Centro, incluse le relazioni stabilite con il mondo universitario, sia nelle
attività di ricerca individuali, un ruolo primario fu senz’altro svolto dalle
tradizioni ellenistiche e dall’analisi della letteratura dossografica. Il Centro
organizza un convegno sulla SCESSI, (Quintiliano, SCEPTICI --) e coopera
strettamente con Pavia e in particolare con Vegetti e collaboratori, sostenendo
l’organizzazione di due importanti convegni: “La filosofia ellenistica”
(Pavia)25 e “ ).26 Ancora alla filosofia ellenistica è dedicata l’importante
pubblicazione dei Proceedings del quarto simposio internazionale sulla
filosofia ellenistica, che vide tra i suoi partecipanti esperti di caratura
internazionale, alcuni di stretta collaborazione con il Centro stesso.27
Figura 3: copertina del volume di La scessi antica, Atti del convegno, a
cura di G., Napoli. Le opere psicologiche di Galeno” (Pavia) ILIESI
digitale Temi e strumenti G. 1981. G.-Vegetti 1985.
Manuli-Vegetti. Barnes-Mignucci 1988. Francesca Alesse G. e
il Centro di Studio del Pensiero Antico Carattere sistematico ebbe anche la
linea d’azione dedicata allo studio della dossografia. Il Centro organizza il
congresso sull’opera del biografo di ETA IMPERIALE Diogene Laerzio (“Diogene
Laerzio storico della filosofia antica”, Napoli-Amalfi, e il congresso
sull’opera del filosofo scettico di ETA IMPERIALE Sesto Empirico (“Sesto Empirico e la filosofia
antica”, Sestri Levante. Si delinea in entrambi gl’eventi un’unica prospettiva,
grazie alla quale l’oggetto dell’indagine storiografica è, per così dire,
duplice e contestuale: l’autore, cioè il filosofo la cui FILOSOFIA è oggetto di
trasmissione da parte di un testimone, e il testimone stesso, la sua epoca, il
suo orientamento, nonché la struttura formale della sua testimonianza,
struttura che rivela assai spesso una tesaurizzazione delle informazioni
attraverso i differenti metodi per la loro esposizione. Così, mentre l’opera di
Diogene Laerzio, che già da lungo tempo attira l’attenzione della filologia,
conserva una concezione ampia del genere biografico, restituendo non solo
informazioni biografiche e dottrinali dei singoli filosofi nonché cataloghi
d’autore, ma anche specifici schemi espositivi presi a prestito dalla
letteratura storica (il più caratteristico è senz’altro quello delle
“successioni”), l’opera di Sesto Empirico mostra le conseguenze sul piano
storiografico di un modello propriamente concettuale, la diaphonia. Un altro
forte sodalizio, quello con il Centro Internazionale per lo Studio dei Papiri
Ercolanesi di Gigante, permise di
allestire negli anni subito successivi un grande congresso sul tema “L’orto romano”
(Napoli-Anacapri, ILIESI digitale Temi e
strumenti 19 Figura 4: copertina di Diogene Laerzio storico del
pensiero antico, Atti del congresso, “Elenchos”, 7, 1986. 28 Atti
pubblicati in “Elenchos”. 29 Atti pubblicati nel volume 13 dell’annata 1992
della rivista “Elenchos”. Francesca Alesse G. e il Centro di
Studio del Pensiero Antico maggio 1993),30 un evento di ampio spettro tematico
e cronologico all’interno del quale poterono cimentarsi papirologi e papirologi
ercolanesi, filologi classici, paleografi ed epigrafisti, storici, e ovviamente
storici della filosofia romana. Proprio di questo incontro e il suo carattere
transdisciplinare e, per quel che attiene alle attività in corso presso il
Centro, la messa alla prova di molte ipotesi di lavoro anche individuali sulla
relazione tra L’ORTO e le rilevanti tradizioni (le scuole socratiche, il
PORTICO, la SCESSI dell’ACCADEMIA e pirroniana) che impegnano sia G. in prima
persona che il suo gruppo di lavoro operante presso la Sapienza e il Centro.
Tra gli impegni di G. in qualità di direttore del Centro ci e l’organizzazione
di due altri convegni: “ “Empedocle di GIRGENTI e la cultura della Sicilia
antica. Illustrazione di un frammento inedito della sua opera”, Agrigento. Il primo raccolse un gruppo consistente di
esperti della filosofia romana ed e un raro esperimento di indagine lessicale
da parte del Centro, volto a delineare l’area semantica – “linguistic
botanising” -- dell’affezione (emozione, sentimento, malattia) nelle diverse
manifestazioni della filosofia romana. Il secondo convegno e un altro esempio
del modo in cui G. intende inserire la vita del Centro all’interno di una rete
di relazioni istituzionali, oltre che accademiche, perché il convegno, motivato
dalla 30 Giannantoni-Gigante 1996. 31 Atti pubblicati nel volume 16/1
dell’annata 1995 della rivista “Elenchos”. 32 Atti pubblicati nel volume 19/2
dell’annata 1998 della rivista “Elenchos”. 20 ILIESI digitale Temi e
strumenti Figura 5: copertina del primo volume di Epicureismo greco
e romano, Atti del congresso, a cura di G. Giannantoni e M. Gigante, Napoli,
1992. Il concetto di pathos nella cultura antica” (Taormina, 1-4
giugno 1994);31 Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro
di Studio del Pensiero Antico] coperta del Papiro di Strasburgo contenente una
porzione del poema empedocleo, e organizzato in collaborazione con la
sovrintendenza dei beni archeologici di Agrigento. Esso inoltre dove essere una
prima tappa di un più ampio progetto dedicato alle tradizioni culturali e
filosofiche della Sicilia e della Magna Grecia. Sarebbe un errore pensare che
le strategie e i progetti del Centro avessero come unici interlocutori le
istituzioni accademiche italiane. Certamente, uno degli obiettivi di G. e
quello di costituire un piccolo ma vivace e solido bacino collettore degli
interessi intorno alla filosofia romana, e tali interessi sono, di fatto,
collocati nelle Università e organizzati secondo i modi della didattica e della
formazione universitarie. Ma il Centro partecipa anche alla realizzazione di
una delle maggiori iniziative che il Consiglio delle Ricerche abbia dedicato al
settore delle scienze umane, e cioè il progetto “Il Sistema Mediterraneo.
Radici Storiche e Culturali e Specificità Nazionali”. Questo grande
progetto e articolato in cinque linee di indagine, la prima delle
quali dedicata al mondo romano. E in questo contesto che G., oltre a scrivere
il saggio La tradizione filosofica in Magna Grecia e Sicilia,
apparso nel volume che raccoglieva i risultati delle attività promosse
dal progetto, contenne l’idea di una linea di attività, cui si è fatto
cenno, dedicata alle tradizioni filosofiche della Magna Grecia [never “MAKRA
ELLENA, but megale hellas – H. P. GRICE] e della Sicilia, linea che
avrebbe dovuto raccogliere e mettere a frutto le metodologie sperimentate
nella più generale attività del Centro 33 Il Progetto Strategico,
svoltosi negli anni 1995-2000 e coordinato da Antonello Folco Biagini fu varato
nel 1994 dal 34 “ 35 Biagini 2002. ILIESI digitale Temi e strumenti 21
Comitato Nazionale di Consulenza del CNR per la filosofia, allo scopo di
convogliare tutte le competenze rappresentate ed espresse dalla rete
scientifica costituita dai Centri di Studio e dagli Istituti afferenti al
Comitato stesso, in una grande area di interesse, appunto il “Mediterraneo”. Al
fondo della decisione del Comitato e la convinzione che il Mediterraneo
costituisse non un’entità identitaria ma un complesso sistema di realtà
molteplici, tradizionalmente oggetto di indagine da parte di settori
disciplinari indipendenti. Si tratta perciò di conferire unità strategica e di
metodo ad una naturale e fisiologica molteplicità di fenomeni
culturali. Origine e incontri di culture nell’antichità”.
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico
(studio della dossografia e delle tradizioni indirette). Rivisse in
questo progetto l’antico interesse di G. per la trasmissione delle
cosiddette tradizioni pre-socratiche, molte delle quali per l’appunto
fiorite nelle aree magnogreche (VELIA, CROTONE, GIRGENTI, LEONZIO), e per il
ruolo svolto in tale trasmissione da Platone (si veda CUOCO) e
Aristotele. A questo più antico arco cronologico, si sarebbe poi unito il
costante interesse per L’ORTO, nella forma storica dell’ORTO CAMPANO.
Vale la pena ricordare, infine, l’attività formativa che il Centro riuscì
a svolgere, facilitata, come è facile comprendere, dalla posizione
accademica di G.. Il Centro di Studio della filosofia antica si formò infatti raccogliendo i suoi allievi,
che si unirono ai ricercatori già in forza presso il precedente Centro di
Studio per la Storia della Storiografia Filosofica. L’attività progettuale,
inoltre, non si limita alla sola attività di pianificazione scientifica e ancor
meno alla sola organizzazione dei convegni, ma prevede lavori continuativi di
studio collettivo e di confronto sulle tematiche di principale interesse e di
rilevanza strategica. I maggiori convegni venneno quindi preceduti
da seminari propedeutici sulle dossografie antiche, sull’opera di Diogene
Laerzio e su quella di Sesto Empirico, e su quest’ultimo autore, anzi, si
svolge un seminario aperto anche ai dottorandi di ricerca della Sapienza.
Nell’ambito del progetto “Mediterraneo” e quindi della linea di ricerca sul
Mediterraneo antico, il Centro ottenne dal Comitato di Consulenza per la Filosofia
borse di studio. 22 ILIESI digitale Temi
e strumenti Francesca Alesse G. e il Centro di Studio del Pensiero Antico.
Un discorso a parte merita l’attività editoriale a cui il Centro riuscì a
dar vita. Due furono le iniziative editoriali, strettamente coerenti con
l’idea programmatica che ispirò la costituzione del Centro: la serie
“Elenchos. Collana di testi e studi sulla filosofia antica, e il
periodico “Elenchos. Rivista di studi sulla filosofia antica”. La scelta
del medesimo nome per le due iniziative si spiega facilmente in
riferimento all’orientamento intellettuale ed al bagaglio culturale dello
stesso G., che riteneva la discussione, il confronto -- “elenchos”,
appunto -- in primo luogo, uno dei lasciti più significativi della
cultura filosofica antica, quello che maggiormente ha contribuito alla
formazione della coscienza moderna. Ma in secondo luogo, e secondo
un’angolatura più tecnica, G. vedeva nell’”elenchus”, inteso come analisi
critica, il metodo per eccellenza dello studio del testo filosofico
antico e della dottrina in esso contenuta, come mostrano i primi autori
di una nascente “storia della filosofia” ancora in forma di dossografia,
Platone e soprattutto, com’è assai noto, Aristotele. In omaggio dunque,
all’ideale “dia-logico” (DIA-GOGE – H. P. GRICE) trasmesso dal magistero
di Calogero, l’ELENCO e, nei limiti del possibile, il contrassegno delle
ricerche realizzate o promosse dal Centro e divenne il nome delle due
pubblicazioni, entrambe affidate alla casa editrice napoletana
Bibliopolis, Edizioni di Filosofia, di Franco. La collana e destinata in
larga misura, benché non esclusivamente, a premiare le ricerche
individuali, le quali dovevano concretarsi in studi monografici, edizioni
di testi e strumenti per la ricerca. Non deve stupire che in questa sede
ci si limiti a mettere in primo piano l’opera Socratis et Socraticorum
Reliquiae, collegit, disposuit apparatibus notisque instruxit G. Frutto
di una ricerca individuale, preparato da molte precedenti pubblicazioni,
questa edizione delle testimonianze relative a Socrate e alle scuole
socratiche, corredata dell’APPARATO CRITICO e note di commento (e SENZA traduzione),
rappresenta la più importante espressione degli interessi tematici e dei
principi metodologici che caratterizzarono il Centro. Basterebbe infatti
considerare i volumi usciti nella medesima collana “Elenchos” votati alle
tradizioni socratiche, alle scuole ellenistiche, alla dossografia e alle
edizioni di ILIESI digitale Temi e strumenti 23 Francesca Alesse G.
Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico] testi e frammenti di FILOSOFI
ITALIANI ancora poco studiati, per apprezzare l’impatto delle
ricerche di G. su tutto il gruppo di ulteriori interessi e accolse studi
accademica. ricerca del Centro. Naturalmente la collana non e
preclusa ad critici su tematiche di grande rilevanza
nell’ambito del platonismo e dell’aristotelismo e delle filosofie
della tarda antichità, promuovendo in tal modo uno scambio costante
con la più ampia comunità Quanto alla rivista, è forse
opportuno rimandare direttamente alla Presentazione che G. Figura
6: copertina del primo volume di G. G., Socratis et Socraticorum Reliquiae,
Napoli] antepose al primo fascicolo. Essa fa molto ben intendere tanto
la relazione essenziale tra il programma del Centro e il periodico
che di quel programma doveva essere lo strumento di diffusione; quanto
l’apertura al dibattito che la rivista (e quindi il Centro stesso) si
prefigge; quanto, infine, la tempestività di un’operazione culturale che
il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha la sagacia di sostenere: ELENCO intende
dare attuazione ad uno dei punti programmatici contenuti nella convenzione
stipulata tra il Consiglio Nazionale delle Ricerche e Roma, e che sta alla base
del Centro di Studio della Filosofia antica. Essa non è, tuttavia, in senso
stretto espressione soltanto di questo Centro: al contrario, chi ha la
responsabilità di dirigerla intende farne uno strumento di studio e di ricerca
aperto alle collaborazioni più ampie, un punto di incontro e di confronto e
un’occasione a disposizione di studiosi. Questa rivista è l’unica dedicata
interamente alla filosofia romana che si pubblichi in Italia e perciò essa non
può non proporsi anche un compito di promozione di questi [ I titoli
della collana “ELENCO”, corredati da schede riassuntive, sono consultabili all’Istituto
per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle idee. Mi limito a citare il
grande progetto di traduzione e commento della Repubblica di Platone, promosso
e diretto da Vegetti. Vegetti Questa
situazione è rimasta invariata, e cioè fino alla comparsa della rivista “ANTIQVORVM
PHILOSOPHIA”, edita da Serra, Pisa, e diretta da Cambiano. ILIESI digitale Temi e strumenti
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico] studi
... Ma essa si propone anche uno scopo più ambizioso; se è vero, come è
vero, che la storia della FILOSOFIA ROMANA è un campo in cui debbono
potersi incontrare gli apporti e le problematiche della storiografia filosofica
e del metodo filologico. Se è vero, come è vero, che tanto la storiografia
filosofica quanto il metodo filologico attraversano una fase di ri-pensamento
critico molto profondo dei propri presupposti e delle proprie certezze, allora
ad una rivista come questa spetta, in primo luogo, il compito di proporsi come
sede di verifica di discipline diverse e di modi diversi di affrontare lo
studio della filosofia romana e di aprire le sue pagine ... anche a contributi
che per la conoscenza della FILOSOFIA ROMANA possono venirci da storici
dell’antichità, filologi classici, studiosi delle lingue e delle
letterature classiche, archeologi, papirologi ... Per questi motivi di
fondo – oltre e più che per la sua origine istituzionale – questa rivista si
caratterizza per l’unità del campo di ricerca, non per l’unità
dell’orientamento interpretative. In accordo con gli obiettivi enunciati nella
Presentazione della rivista “ELENCO” e nel protocollo che lo istituiva, il
Centro di Studio del Pensiero Antico si dota di un consiglio scientifico che
affianca G. nella direzione del Centro e delle pubblicazioni che esso produsse,
il quale contò tra i propri membri eminenti storici della filosofia, quali
Adorno, Berti, Reale, Viano, Ioppolo, Brancacci e Celluprica, nonché eminenti
filologi classici e storici della filosofia quali Gigante e Rossi. Il Centro
poté disporre di sufficienti risorse e di una struttura organizzativa 40 che
gli 39 “Elenchos”, 1, 1980, pp. 3-4. 40 Fecero parte del Centro in qualità di
ricercatori inquadrati nei ruoli del Consiglio Nazionale delle Ricerche: Faes
(direttrice del Centro nel 1999), Caporali, Garroni, Celluprica (direttrice del
Centro per il biennio 2000-2001 e poi responsabile della linea relativa al
pensiero antico nell’ILIESI fino al 2005), Ferraria, Brancacci (poi docente
presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”), Centrone (poi docente
presso l’Università degli Studi di Pisa), Alesse, Dalfino, Simeoni, Chiaradonna
(poi docente presso l’Università degli Studi di Roma Tre). Collaborarono in
modo istituzionale e continuativo con il Centro Ioppolo (Università degli Studi
di Roma “La Sapienza”), Repici (Università degli Studi di Torino); Santese
(Università degli Studi di Roma “La Sapienza”); Sillitti (Università degli
Studi di Roma “La Sapienza”); Baffioni (Università degli Studi di Napoli
l’Orientale); Spinelli (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) ed Aronadio
(Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”). Molti sono stati i allievi che,
nel corso della loro formazione post lauream sono venuti in contatto con G. e
con il Centro, lavorando fattivamente alla redazione di “ELENCO” o adoperandosi
in attività editoriali e scientifiche in senso proprio. Tra questi mi è gradito
ricordare Piccione (Università degli Studi di Torino), Alessandrelli
(ILIESI-CNR), Quarantotto (Sapienza Università di Roma), Fronterotta (Sapienza
Università di Roma), ILIESI digitale
Temi e strumenti 25 Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di
Studio del Pensiero Antico] consentirono di diventare un organismo collettore
di attività di ricerca nel campo dell’edizione critica e dell’interpretazione
dei testi della filosofia antica. Chi scrive non crede che l’esperienza
acquisita nel Centro sia andata perduta né dimenticata. Quando nacque
l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee, al suo
interno fu garantita la prosecuzione e l’autonomia delle indagini relative alla
storia della filosofia antica, per esplicito volere di Gregory che del nuovo
Istituto fu il primo direttore. Queste indagini confluirono in una linea
progettuale denominata prima “Storia del pensiero filosofico- scientifico e
della terminologia della cultura mediterranea greco-latina, ebraica e araba” e
successivamente “ Il pensiero filosofico nel mondo antico: testi e
studi”. L’impegno principale della linea fu rappresentato da una serie di
progetti che in parte proseguivano le tematiche di studio e le strategie
cooperative del Centro di Studio del Pensiero Antico, e in parte
introducevano nuove tipologie di analisi, connesse alle tecnologie
digitali. La continuità culturale fu inoltre garantita dal mantenimento
delle due pubblicazioni, la collana “Elenchos” e la rivista “Elenchos”.
Da questa permanenza delle ricerche sul pensiero antico nella nuova
realtà istituzionale si deve ricavare non solo e non tanto l’attualità di
una disciplina (che si è comunque stabilizzata nel mondo accademico con
la benefica diffusione di cattedre e centri di insegnamento, in Italia e
fuori), quanto piuttosto l’attualità di un metodo di lavoro. Questo
metodo di lavoro, che potrebbe descriversi, un po’ aulicamente, come un
nuovo diatribein socratico, cioè come la capacità di discutere in
modo competente con i “morti” prima che con i vivi, rispecchia
abbastanza bene la disposizione intellettuale e comportamentale di G.i,
uomo tanto pacato nelle discussioni con i contemporanei, quanto fermo
nelle sue strategie di ricerca sul mondo antico.] Gioè, Nucci, Santoro, Gambetti e Cunsolo (a quest’ultima si deve
l’allestimento della bibliografia ragionata digitale Le tradizioni filosofiche
e culturali greche della Magna Grecia e della Sicilia antica, ora in fase di
aggiornamento ad opera di Francesca Gambetti). 41 A questa linea, diretta da
Celluprica fino al 2005, fanno riferimento i ricercatori già operanti nel
Centro, a cui si aggiunge, dal 2010, Silvia M. Chiodi, specialista in storia
delle religioni del mondo antico e del Vicino Oriente. 26 ILIESI digitale Temi
e strumenti Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio
del Pensiero Antico. Arnim, Stoicorum Veterum Fragmenta, Lipsiae, Teubner.
Barnes, MIGNUCCI (a cura di), Matter and Metaphysics. Fourth Symposium
Hellenisticum, Napoli, Bibliopolis. Biagini 2002 = Antonello F. Biagini (a cura
di), Il Sistema Mediterraneo. Radici Storiche e Culturali e Specificità
Nazionali, Roma, CNR Edizioni. Brancacci 1977 = Aldo Brancacci, Le orazioni
diogeniane di Dione Crisostomo, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole
socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 141-171.
Brancacci 2017 = Aldo Brancacci, Il Socrate di Guido Calogero, “Giornale
Critico della Filosofia Italiana”, s. 7, vol. 13, pp. 205-226. Calogero 1950 =
Guido Calogero, Gli studi italiani sulla filosofia antica, in Carlo Antoni,
Raffaele Mattioli (a cura di), Cinquant’anni di vita intellettuale italiana.
1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo
anniversario, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, vol. I, pp. 43-59.
Cambiano 1977 = Giuseppe Cambiano, Il problema dell'esistenza di una scuola
Megarica, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e
filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 25-53. Celluprica 1977 =
Vincenza Celluprica, L'argomento dominatore di Diodoro Crono e il concetto di
possibile di Crisippo, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche
minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 55-73. Croce 19092 =
Benedetto Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza. Croce
19273 = Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza.
Croce 19455 = Benedetto Croce, Filosofia della pratica: economica ed etica,
Bari, Laterza. Croce 1996 = Benedetto Croce, Filosofia della pratica: economica
ed etica, a cura di M. Tarantino. Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto
Croce, Napoli, Bibliopolis. Croce 1996a = Benedetto Croce, Logica come scienza
del concetto puro, a cura di C. Farnetti. Edizione Nazionale delle Opere di
Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis. Croce 2003 = Benedetto Croce, Problemi di
estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, a cura di M. Mancini.
Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis. Croce
2007 = Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, a cura di E.
Massimilla, T. Tagliaferri. Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce,
Napoli, Bibliopolis. Dal Pra 1950 = Mario Dal Pra, Lo Scetticismo greco,
Milano, F.lli Bocca, rist. Laterza 1975. Decleva Caizzi 1966 = Fernanda Decleva
Caizzi, Antisthenis Fragmenta, Milano, Cisalpina. Decleva Caizzi 1977 =
Fernanda Decleva Caizzi, La tradizione antistenico-cinica in Epitteto, in
Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia
ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 93-113. Diels 1879 = Hermann Alexander
Diels, Doxographi Graeci, Berlin, Reimer. Diels 1903 = Hermann Alexander Diels,
Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin, Weidmann. Donini 1977 = Pierluigi
Donini, Stoici e Megarici nel De fato di Alessandro di Afrodisia, in Gabriele
Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica,
Bologna, il Mulino, pp. 174-194. Gaiser 1980 = Konrad Gaiser, La teoria dei
principi in Platone, “Elenchos”. Gentile, Sistema di logica come teoria del
conoscere, Pisa, Spoerri. Gentile 19543 = Giovanni Gentile, La riforma della
dialettica hegeliana, Firenze, Sansoni. ILIESI digitale Temi e strumenti
27 Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del
Pensiero Antico Gentile 1964 = Giovanni Gentile, Storia della Filosofia (dalle
origini a Platone), in V. A. Bellezza (a cura di), Giovanni Gentile. Opere
complete, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici,
vol. X, Firenze, Sansoni. Giannantoni, I CIRENAICI. Raccolta delle fonti antiche.
Traduzione e studio introduttivo, Firenze, Sansoni. Scuole socratiche MINORI e
filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino. La storiografia idealistica, “ELENCO.
Lo scetticismo antico, Atti del convegno organizzato dal Centro di Studio del
Pensiero Antico del CNR (“Elenchos”, VI), Napoli, Bibliopolis. Tavola rotonda.
La storiografia filosofica sul pensiero antico, “Elenchos”. In ricordo di Guido
Calogero, “Elenchos”. G. e Gigante, L’ORTO romano, Atti del Congresso
Internazionale tenutosi a Napoli, 19-26 maggio 1993 (“Elenchos”, XXV), Napoli,
Bibliopolis. G. e Narcy (a cura di), Lezioni socratiche (“Elenchos”), Napoli,
Bibliopolis. G. e Vegetti, La scienza ellenistica. Atti del Convegno di studio
tenuto a Pavia (14-16 aprile 1982) (“Elenchos”, IX), Napoli, Bibliopolis.
Humbert 1967 = Jean Humbert, Socrate et les petits Socratiques, Paris, PUF.
Ioppolo 1977 = Anna Maria Ioppolo, Aristone di Chio, in Gabriele Giannantoni (a
cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino,
pp. 115-140. Isnardi Parente 1977 = Margherita Isnardi Parente, La valutazione
dell’epistemologia dei peripatetici, e in particolare di Statone di Lampsaco,
nell’ambito della valutazione della filosofia ellenistica, in Gabriele
Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica,
Bologna, il Mulino, pp. 195-213. Liburdi 2018 = Annarita Liburdi, Materiali per
una storia dell’ILIESI, “ILIESI digitale. Relazioni Tecniche”, n. 2,
ILIESI-CNR. Mannebach 1961 = Erich Mannebach, Aristippi et Cyrenaicorum
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The Method and Intellectual Context of a Doxographer, Leiden, Brill, Volume II:
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The Method and Intellectual Context of a Doxographer, Leiden, Brill, Volume
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Manuli-Vegetti 1988 = Paola Manuli, Mario Vegetti (a cura di), Le opere
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disposuit apparatibus notisque instruxit Gabriele Giannantoni, 4 voll.
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terzo Colloquio galenico internazionale di Pavia (10-12 settembre 1986),
Napoli, Bibliopolis. ILIESI digitale Temi e strumenti Francesca Alesse G.
Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Mondolfo 1933 = Rodolfo
Mondolfo, L’infinito nel pensiero dei Greci, Firenze, Le Monnier. Mondolfo 1958
= Rodolfo Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nell’antichità classica,
Firenze, La Nuova Italia. Patzer 1970 = Andreas Patzer, Antisthenes der
Sokratiker. Das literarische Werk und die Philosophie, dargestellt am Katalogen
der Schriften, PhD dissertation, Heidelberg University. Repici 1977 = Luciana
Repici, Lo sviluppo delle dottrine etiche nel Peripato, in Gabriele Giannantoni
(a cura di) Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il
Mulino, pp. 215-243. Sillitti 1977 = Maria Giovanna Sillitti, Alcune
considerazioni sull’aporia del sorite, in Gabriele Giannantoni (a cura di)
Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp.
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Usener 1887 = Hermann Usener, Epicurea, Lipsiae, Teubner. Vegetti 1998 =
Platone. La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Voll. I-III (Libri
I-IV). Vegetti 2000 = Platone. La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli,
Bibliopolis, Vol. IV (Libro V). Vegetti 2003 = Platone. La Repubblica,
traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. V (Libri VI-VII). Vegetti 2005 =
Platone. La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VI (Libri
VIII-IX). Vegetti 2007 = Platone. La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli,
Bibliopolis, Vol. VII (Libro X). e commento a cura di Mario e commento a cura
di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a
cura di Mario Vegetti, Napoli, Bibliopolis. (Libro X). a
BS’l RATTO <Ia 1 Bollettino (ti Filologia Classica Anno XXIV. -
Fase. 2-3-1 - Agosto-Setteiiibre-Ottobre 1917 X II
6xi|iòvtov di Soorate. Como già nei tempi antichi, cosi anello più tardi
il 3 r.|iàviov di Socrate lui sempre suscitato il più vivo interesso ed è
rimasto lino ai giorni nostri oggetto di studio. Ma, per quanto sia stato
scritto attorno ad essa e per quanto no sia stata ago- volata la
compronsione por merito di Seliloiormacher e dei suoi successori, non si può
dire clic si sia linoni riusciti a trovare una spiegazione soddisfacente di
questo fenomeno, che fu una dèlio cause dèlia tragica fine del grande
pensatore. Le fonti, alle quali dobbiamo attingere nella nostra
ricerca, sono, come si sa', gli scritti di Platone o di Senofonte. Ma.qui
ci troviamo subito di fronte ad una questione molto discussa c cioè;
quale dei due autori sia rispetto alla dottrina socratica il più
attendibile. Poiché i rapporti di Platono o di Senofonte si contraddicono
riguardo allo ma¬ nifestazioni del Satpdviov di Socrato in un modo assai
pronunciato, è chiaro che dalla decisione alla quale arriviamo rispetto a
questo divario, deliba infine dipendere la soluzione del problema.
1 > m ,to che nel diciottesimo secolo si fece strada il parere del
leib- niziuno Brucfecr, secondo il quale gli scritti di Senofonte
sarebbero per lo studio del socratismo i più veritieri, parere che ha
avuto fino ad oggi i suoi fautori. Di quest’opinione è in linea generalo
anche Hegel (IJ. 1|S. principio del secolo passato però, Schleiermacher
(2) ed altri insistettero che por la valutazione della dottrina socratica
do vesso tenersi maggior conto delle opere di Platone. Di fronte a
queste due correnti lo Zollerai sogni un indirizzo, elio possiamo
chiamare intermediario. Senza entraro in particolari, si può dire che,
sebbene gli atti attorno a questo divario non siano ancora chiusi,
diventa sempre più salda la convinzione, che senza uno studio profondo di
Platone una comprensione del socratismo non è possibile (-1). Ma con ciò
il nostro quesito non è ancora risolto. Secondo Platone il Sxigóvwv
agisce in modo esclusivamente inibitorio, esso non è mai incitativo.
Secondo Senofonte, però, funziona nei due modi. Si è, è vero, creduto che
la contraddizione tra lo due versioni fosse soltanto apparente, perchè,
se il «aigóviov non inibiva Socrate nel 6uo fare, ciò equivaleva, si è
detto, ad un'atrcrmaziono nel senso «C. (1) G. W. F.
Hegel, Vorl. ti. d. Gesch. d. l'Ii tfp s. Il, 2* ed., p. 69, 1812.
(2) F. Schleiermacher, Abkdl. kad. su Berlin, 1818, p. 50 seg.
(3) E. Zm.i.ER, Die Philosophie hen li, 1, t* '.al., p. 91 seg., p.
131 Mg. 1869. (4) Cfr. G. Zuocantb, Socrate,
pòrte prima,di un ordine positivo. In verità, però, mi sembra, che la
diversità venga con una talo interpretazione soltanto celata, ma non
eliminata, perchè in realtà le differenze tra i rapporti doi due autori
sono dovute a processi psichici in sè diversi. Corto, se qualcuno mi dice,
ad es. : non andare via ! quosto equivale praticamente al comando
positivo: rosta ! Ma con ciò la cosa non è fluita. So io non distolgo
qualcheduno, che devo guidaro, da una azione, che egli è in procinto di
compiere, do, è vero, con ciò il mio consentimento al suo proposito, ma
la sua azione scaturì da motivi sorti nella sua coscienza e prosegue
secondo leggi psichiche. E so, in un altro caso, lo freno con un
semplice: no! senza però dargli altri ordini positivi, io non permetto
che egli eseguisca quello che stava per fare, ma con ciò non gli indico
ancora quanto devo in sua vece intraprendere. Il suo agiro dipende di
nuovo unicamente da lui o si sviluppa ancora da motivi che sorgono in
lui stesso. Ma so gli dico: fa cosi ! allora lo sottopongo in senso
positivo ad una volontà non sua o lo faccio compiere un’azione, i cui
motivi sorsero nella mia coscienza e non nella sua. Egli diventa lo
strumento del volere di un’altra persona, e, se consideriamo il fatto dal
lato etico, la responsabilità per lo conseguenze di una tale azione cado
in questo caso interamente su di rao o per nulla su di lui. Non occorrono
altri esempi : in fondo la diversità doi due rapporti si riduco presso a
poco al caso citato. Secondo Senofonte, Socrate riceve anche ordini
positivi dalla divinità, egli compie quindi azioni, che non furono da lui
deciso, secondo Platone mai. Ogni sua azione procedo, secondo Platone, in
seguito a motivi, che appartengono alla sua propria coscienza, ed è sem¬
pre la sua volontà che lo fa agiro anche dopo che egli ha abbandonato,
per l'intorvonto del Baijióvwv, una decisione presa. Como si vede,
la differenza non si lascia eliminare. Per quanto si corchi di celarla,
essa riappare sempre. Mi sembra quindi più savio di riconoscerla. Ma ciò
facondo ammettiamo anche che una dello due versioni non può essere esatta
e cho si deve decidere, quale delle due si abbia da riconoscere come
vera. Delle opero cho portano il nome di Senofonte, V Apologia
viene oggi quasi da tutti riconosciuta apocrifa. Per ciò non ne teniamo
conto. Degli altri suoi scritti sono per noi importanti i Memorabili ed
il Con¬ vito. Faccio qui osservare che, dopo un esame della rispettiva
letteratura o specialmente in base agli studi dello Schonkl(l), sono
arri¬ vato alla conclusione cho per il nostro problema soltanto i passi
Meni. 1, 1, 2 segg., Meni. I, 4, 15 segg. o Conv. 8, 5 sono con tutta
sicurezza da considerarsi come autentici. Per talo ragione lasciamo da
parte in questa breve nota i passi : Mem. IV, 3, 12, IV, 8, 1 o IV, 8,
5. Dalle opero cho vanno sotto il nome di Platone e che trattano
del Saipóviov escludiamo il Teagete, perchè oggi generalmente ritenuto
apo¬ lli K. Schenkl, Xenophont. Studien. Sitzungsber. d. K. Akad.
d. Wiss . i zu Wien, 1875, 1876. orilo. L’autenticità
dell'A Icibinde 1 è fortemente messa in dubbio, lo accettiamo con
riserva. Non posso decidermi di respingere 1 Fall frane, malgrado lo
obiezioni di Ueborwog (I). Dogli altri scritti platonici limino per noi
valore VApologià, YEutidemo, il Tediato, il Fedro e la Repubblica.
Senza entrare rpii noi particolari della questiono, (pialo sia I
ordino cronologico delle opere di Platone, dobbiamo intenderci sull'epoca
in cui fu scritta Y Apologia, perchè questo lavoro ci dà la più esatta
in- i rmazione intorno al Saipiviov di Socrate. La maggior parto dogli
stu- .dcigi — c ciò è per noi importante — fa salirò l’origine di quest
o- pcra ad un’epoca non molto distante dalla condanna o dalla morte del
illusolo, l’orsino autori elio sono del parere clic Platone 1 abbia
scritta a Megara, ammettono con ciò (dio questo importante documento
ap¬ partiene al suo primo periodo di attivila, scientifica. Allo stesso
risul¬ tato giunse Lutoslawski per mezzo del suo metodo stilometrico.
Quan¬ tunque si debba riconoscere l’unilateralità di questo metodo e
per •quanto sarebbe arrischiato di fondarci unicamente su di esso, ci
co- -stringono nondimeno ragioni psicologiche di non negargli ogni
valore. Alla questione esposta si connetto quost’altra, cioè, so
nell’Apologià .di Platone si tratti di una fedele riproduzione di quanto
Socrate real¬ mente disse davanti al tribunale di Atene, o se si tratti
soltanto di una riproduzione piu o meno fedele del contenuto dei suoi
discorsi. La prima opinione è quella di Schleiermacher (2), della seconda
è Stcinhart (3), elio vede nell’Apologià un'opera d'arte, in cui lo
spirito -socratico o quello di Platone si trovano armonicamente fusi
insieme. Ambedue le opinioni hanno avuto i loro fautori. Considerazioni
psico¬ logiche mi hanno condotto nelle duo questioni accennato a con'
inzioni che risultano da quanto seguo. Come si vuol spiegare
l'influenza che quest'opera ha sempre eser¬ citata sui più grandi spiriti
della razza umana, o come si potrebbo comprendere la elevazione morale
clic ognuno devo provare in sè, quando vi si abbandona senza pregiudizio,
so non si ammette che essa suscita nel lettore la convinzione di sentire
la parola viva di Socrate stesso ? Quale valore potrebbo avere questo
scritto, se si volesse con¬ siderarlo unicamente come una creazione
d'arto, come una descrizione dell’ideale platonico? In questo caso
dovremmo bensì inchinarci da¬ vanti all’autore quale artista, ma in fondo
avremmo cosi un Socrate come Platono avrebbo desiderato che egli fosso,
ma non come real¬ mente era. Non stava in Socrato piuttosto la verità
incorporata da¬ vanti ad Atene decadente, davanti alla stessa Atene che
egli aveva conosciuta nello splendore del periodo di Pericle? Non era
quest uomo un idealo morale di una tale grandezza elio ogni tentativo di
idealiz¬ zarlo maggiormente doveva necessariamente rimpicciolì rio
? P. Ueberweg, Unters. fi. d. Echtheit u. Zeitfolge piatoli.
Schriflen , F. Schle i rum ache R, Plalons Werke, I H. MQli.er e K.
Stf.inhart, Plalons sàmmtl. Werke, Per
quali ragioni poi l 'Apologia non fu scritta in forma di dialogo? Nessuna
introduzione, nessuna descrizione dello scenario, nessun nesso tra i
singoli discorsi, nessun accenno a circostanze secondarie inter¬ rompono
l'azione in questo meraviglioso documento. Non dovremo con¬ venire che
soltanto forti motivi psicologici indussero l’autore ad esporre cosi lo
sviluppo del processo? Non si dimentichi neppure quanto di¬ versamente
Socrate parla della morte ne\\'Apologia e nel Fedone, la qual opera,
senza alcun dubbio, fu scritta molto più tardi. Nell’yfpo/ofna è in
verità Socrate stesso che parla, mentre nel Fedone è Platone che motto,
entro la cornice della realtà storica, la propria convinzione in bocca al
suo amato maestro. Vi sono poi altri fatti psicologici da rilevare.
Ricordiamo che Platone ascoltava un maestro, che aveva seguito con tutto
l'ardore del suo en¬ tusiasmo giovanile per lunghi anni, e dal quale
emanava un lascino che faceva dimenticare a lui come ad altri giovani
greci la figura di Sileno clic nascondeva il vero essere del grande
innovatore. Ricordiamo clic Platone era penetrato nello spirito della
dottrina socratica come nessun altro e clic egli solo è stato capace di
salvarla interamente per la filosofia occidentale. Gli orano quindi
lamiliari tutti i partico¬ lari esteriori che sono caratteristici por
ogni personalità umana o senza i quali non possiamo neppure
rappresentarcela. Conosceva esattamente il timbro e la cadenza della sua
voce, il suo vocabolario, il suo perio¬ dare, i suoi movimenti mimici e
pantomimici, in breve tutti i numerosi fattori clic, secondo la leggo
della fusione psichica, cooperano a lar sorgere in noi l’immagine di una persona
a noi nota c che, tutti quanti, esercitano la loro influenza dormito la
riproduzione di un suo discorso. È inoltro cosa saputa che ogni
riproduzione di un discorso riesce tanto più fedele, quanto piu
l'attenzione rimaneva tosa, quanto mag¬ giore era l’interesse che
l'oratore suscitava in chi l'ascoltava. Si può immaginano un’attènzione
piu concentrata elio nel caso presente? Figuriamoci lo stato
d’animo del giovano Platone, che pende dalle labbra del suo maestro e che
appercepisce attivamente ogni parola da lui pronunciata; ridestiamo nella
nostra immaginazione l’uragano di emozioni che lo travolge, le
fluttuazioni della sua anima tra la spe¬ ranza ed il timore, tra
l'ammirazione della grandezza sovrumana che si palesa e lo schianto per
la certezza della perdita irrimediabile, e si dovrà convenire elio
l’organismo umano forse non sopporterebbe tali stati d’animo una seconda
volta. Sappiamo che emozioni come queste non passano facilmente, ma (die
tornano sempre in nuovo on¬ dato. Sappiamo inoltro che nessun moto
d'animo rimane senza espres¬ sione o elio lo singolo persone a questo
riguardo si comportano diver¬ samente. Anche l’anima dell’artista lui le
sue reazioni ed ogni artista le ha a seconda dell’arto, alla quale dedicò
la sua vita. Ora, anche Pla¬ tone era artista o come tale non potevano
rimaner mute lesile emo¬ zioni. Ma egli era anello scienziato, uno
scolaro, anzi Io scolaro per eccellenza, ili quoH'uomo che durante una
lunga vita non aveva ccrrato altro ohe la verità. Oli era impossibile di
rinchiudere in se ciò clic aveva vissuto quel giorno. Cosi, appena può,
prende lo stile por dare uno slogo all'emozione olia lo soffoca. li se il
suo stato non diede luogo a fenomeni precisamente nllucinnttfri, nondimeno
tutto ciò che aveva visto e sentito, torna a vivere in lui, conio per il
poeta vivono ed agiscalo lo persone croato dalla sua fantasia.
Cosi, io penso, nacque VApologia platonica. Essa non è un rapporto
stonogralico, perché è certo olle anche questa riproduzione doveva su¬
bire quei cambiamenti che, secondo i risultati della trattazione speri¬
mentale. hanno luogo in tutti i processi riproduttivi. Perciò non ogni
parola ebbe il suo posto originario, un pensiero avrà avuto un'espres¬
sione un po' più breve, un altro una l'orma un po' più lunga, eco., ma
quanto al resto il documento è. come per il contenuto, cosi puro pol¬ la
forma tanto fedele, quanto, data la mente Idi un Platone, era uma¬
namente possibile. Con ciò ho esposto II mio punto di vista rispetto allo
due questioni sovracconnatc. No risulta che dobbiamo fondarci nella
nostra ricerca4U/-quanto viene riferito in quest'opera intorno al
&ti- póviov di Socrate. Aggiungo die gli accenni contenuti negli
altri scritti di Platone non contraddicono in alcun modo i dati precisi
dell’Apologià. Per quanto concerno lo opero di Senofonte che ci
interessano, bi¬ sogna ricordare che esse furono scritte parecchi anni
dopo la morto di Socrate, o die in esse i.on veniamo mai informati
intorno al feno¬ meno da Socrate stesso. Desideroso di dimostrare
l'innocenza del grande filosofo, come puro la ingiustizia dell’accusa c
della condanna, Senofouto metto, convinto, beninteso, di scrivere la
verità, il Saipòvcov di Socrate in relazione colla fedo popolare nello
divinazioni. Ciò non può sorpren¬ dere, quando si pensa all'abuso che il
popolo di qucH'epoea, già invaso dallo scetticismo, fece dei divinatori,
c quando si tiene presente elio Souofontc non ora filosofo, ma uomo politico.
Per questa ragione non dove recar meraviglia, se Senofonte non aveva
compreso ciò che era nuovo ed essenziale nella concezione socratica del
fenomeno. In Meni. I, I, 2 è detto clic la divinità (vi Saipòviov)
dava segni a Socrate ed in I, 4 viono aggiunto elio egli comunicava tali
messaggi a quelli clic lo ci re urlavano o elio aveva loro predetto ciò
che dove¬ vano faro e ciò elio non dovevano l'aro, come puro elio quelli
elio se¬ guivano questi consigli ne ebbero vantaggi, mentre gli altri
elio non li seguivano, dovevano poi pentirsene. Meni. 1, 4
contiene il noto colloquio con Aristodemo. In 4, 11 Socrate domanda ad
Aristodemo, clic cosa gli dei dovessero l'aro per convin¬ cerlo elio si
curavano anche di lui. A ciò Aristodemo, alludendo al S-x.aó e.'j'i.
risponde, un po' ironicamente, che dovevano mandargli dei consiglieri per
fargli sapere quello elio doveva faro e non fare, corno Socrate
pretendeva che fosse il caso spo. In Cono. 8, 5 Socrate non aveva
affatto parlato del suo Sxtgtìvwv o non no parla neppure in seguito.
Antistuno, però, gli fa il rimprovero, come se egli se no servisse per
trarsi d'impiccio. È evidente che, se non avessimo lo rispettivo, opere
platoniche, il ixigiviov di Socrate sarebbe rimasto per sompro un
fenomeno inespli¬ cabile. D'altra parte però le comunicazioni di
Senofonte sono di grande valore, in (pianto che fanno vedere il modo in
cui in Atene si giudi¬ cava questo fonomono, ivi assai conosciuto.
Dall' Apologia ili Piatone apprendiamo che Socrate disse nel suo
primo discorso (Apoi. 31 c-d), che egli non si era occupato di altari
politici, perchè succedeva qualche cosa di divino o di demonico (Dstov r.
-/.od Sxqidvtov) in lui, che dai tompi della sua fanciullezza (è-/.
r.x'.Sif) vi era stata in lui una corta voce (qxov^ vi?) la quale, ogni
volta che gli so¬ pravveniva, l’aveva trattenuto da qualche cosa, ma che
non l’aveva mai spinto a qualsiasi azione. Nel terzo discorso (40 a-c)
Socrate spiega, come la solita divinazione (r, siioSHtà poi prmxi))
l’avesse nel passato sovento fermato, trattandosi anche di coso molto
piccole (jiàvu érti opi- xpotg), ma che il segno di Dio (vi r.ù 9-soO
a^pstov) non gli era soprav¬ venuto durante tutto il giorno c neppure
durante tutto il suo parlare, mentre durante altri discorsi l'aveva
spesso frenato. Dice ancoraché la morte non poteva essere un male per
lui, perché nel caso contrario il solito segno (vò e!i»9-ò; a^pAv/J
l'avrebbe cortamente trattenuto nel parlare. Alla fine di questo
discoi-so (41 <1) ripeto che il morire doveva ora essere per lui la
miglior cosa, perché altrimenti il segno (vo oij- pstov) l'avrebbe
avvertito. Gli altri scritti di, Platone, dei quali dobbiamo tener
conto, non pos¬ sono naturalmente iù avere il valore storico, elio
abbiamo attribuito all’Apologià, ma siccome i rispettivi passi, corno fu
già detto, non sono menomamente in contraddizione con quolli dell'
Apologia, essi hanno certamente un fondamento storico. In ogni modo
illustrano, come Pla¬ tone vuole che il Sxwdvwv di Socrate venga
inteso. Nell'Atò/drtde I (103 a) l’autore si servo del fenomeno per
iniziare il dialogo. Socrate dice ad Alcibiade di non meravigliarsi, se
da tanti anni non gli avesse più parlato, perchè un ostacolo di natura
non umana, ma demonica (oùx ivD-piójiswv, àX/.i vi Sxipdviov ivawttopx)
gliene aveva impedito. ììo\VEulifrone (3 b) questo domanda a
Socrate, su che cosa Meleto abbisi l'ondato la sua accusa. Socrate dico
che Meleto gli rimprovera di introdurre nuovi dei c di non credere negli
antichi. E Eutifrono gli risponde di aver capito ora, che è perchè
Socrate parla sempre del suo Sxtpóviov. Noi Teetelo (150
c-151 a) Socrate parla della sua maieutica e dico che molti discepoli
l'avevano abbandonato, perchè, non comprendendo la sua arto, lo tenevano
in poco conto. Egli aggiunge che, se tali giovi¬ netti tornavano da lui,
il ìoupóviov (ti yiyvò|ìevóv poi Sxqwviov) gli impe¬ diva di accoglierne
alcuni, mentre ad altri non era contrario e che questi facevano di nuovo
progressi. Nell 'Entidemo (272 o), un dialogo, in cui Platone fa
vedere tutto il vuoto ed il poricolo dell'arte solistica, Critono prega
Socrate di parlargli di duo solisti. Socrato consento o dico clic il
giorno innanzi ora stato seduto noi liceo od in procinto di andarsene, quando
gli ora sopravvenuto il solito sogno demonico (tò siwà-ò: ay iuCcv tò
ìaqiòvt'vv}. Poreiù ora rimasto seduto o tosto quei duo, cioè Kutidemo e
Dioniso- doro orano entrati. Noi Fedro (241 a-d) Platone ha
già oltrepassato di molto il socialismo puro e semplice, come risulta
dalla spiegazione elio dà dell’anima o dello ideo. Dopo una meravigliosa
descrizione del paesaggio vediamo corno Socrato o Fodro si coricano sulla
sponda dell’Ilisso nell'omhra di un albero. Socrato ticno il discorso sul
bel ragazzo che aveva avuto molti amanti. Fedro vorrebbe clic continuasse
su questo tema, ma So¬ crate gli risponde che, in procinto di
attravorsare il fiume, gli era so¬ pravvenuto il solito segno demonico
(tò ìxqiòvtòv t= usci tò siiottòs aijgEìovl, gli era parso di sentire una
corta voce (za{ tivx cpiovijv iìi-a aòTò!M=v àzoùoai), elio lo impediva
di andare via prima di essersi purificato da un peccato commesso contro
la divinità. Dice ancora che egli deve essere veramente un divinatore, ma
soltanto per ciò elio riguarda lui stesso, e continuando rileva dm la sua
divinazione rassomiglia all'arte di quelli che leggono c scrivono male,
perché anche questi possono ser¬ virsene soltanto per i propri bisogni.
Con ciò egli passa man mano agli splendidi discorsi elio tutti conoscono.
— Platone si serve in que¬ st'opera con arte line del ìaqiòviov in modo
similo a quello in cui so n'è servito ncll’AHbiado e neU’Eutidcmo. Egli
introduce il fenomeno per rendere possibili i discorsi che seguono.
Nella Repubblica (VI, 496 c) Socrato dice elio il segno demonico
(tò ìaqiòviov ovjiietovJ non era stato concesso a nessuno prima di lui o
quasi a nessuno. So analizziamo più da vicino il problema,
vediamo che esso rac¬ chiudo in sé tre problemi clic dobbiamo risolvere
l’uno dopo l'altro. S’impone prima di tutto il quesito, corno mai Socrate
abbia potuto -chiamare il fenomeno in questione tò ìaqiòviov. A questo si
connette l’altro, cioè di sapere che cosa Socrate stesso abbia realmente
inteso per questo termine. In terzo luogo dobbiamo corcare, come la
psicologia empirica moderna possa spiogare questo fatto. II primo quesito
e, fino ad un certo punto, anemie il secondo fanno parte della psicologia
dei popoli, mentre il terzo appartiene esclusivamente alla psicologia
indi¬ viduale. I. Il significato del ìaqiòviov di Socrate dal
punto di vista della psi¬ cologia dei popoli. — 11 concetto del demone è
sorto da primitive ve¬ dute attorno all’anima. Esso ha avuto poi un lungo
sviluppo, duranto il quale, sotto l’influenza di rappresentazioni
magiche, subisce molte trasformazioni e acquista varie forme. All’epoca
in cui appare l’eroe, questi 'lue concetti si fondano man mano in una
rappresentazione to- talo, nella quale il concetto del demone perde il
suo carattere imper¬ sonale, mentre l’eroe acquista dolio qualità
sovrumane. Cosi nasce il panteismo. Importante è però in tutto questo
sviluppo, che la rappresontazione ilei demono non si perdo dopo la formazione
degli dei pa¬ gani o elio corto qualità ili questi ultimi vengono
attribuite anche ai demoni. Per ciò accado olio lu coscienza popolare non
distinguo sempre nettamente tra dei e demoni. Nella Grecia il concetto
del demone, sotto l'influenza della poesia e della filosofia, subisce poi
un’altra modifica¬ zione, in quanto i demoni vengono considerati come
esseri elio stanno tra gli dei o gli uomini. Si confronti a questo
proposito la descrizione deH'origino dell'Eros nel Convito di Platone
(802 dj, come pure il primo discorso di Socrate nel .['Apologià platonica
(27 c). Dal punto di vista della psicologia dei popoli si può diro
elio col «aipóviov di Socrate il concetto del demono torni nell'anima
umana, nella quale, per motivi psicologici e per processi di
oggettivazione, è nato, vi ritorna filosoficamente trasformato ed
eticamente purificato (1). E caratteristico per tutto questo sviluppo
elio Socrate nel Convito di Senofonte chiama l'anima umana un santuario
dell’Eros (Vili, 1). , 2. Come intende Soci'de il suo 8*i|lòviov ?
— Prendo le mosse da un punto ilei primo discorso AoW Apologia di Platone
e precisamente dal punto, ove Socrate invita Meleto a spiegare
esattamente, se egli nella sua accusa intenda di diro clic Socrate non
creda negli dei dello Stato, o so egli voglia addirittura accusarlo di ateismo.
Quando Meleto an¬ nuisco a questNiltima interpretazione, l’accusato corea
di far vedere l'assurdità dell'assorziono, dimostrando dapprima che, chi
crede in qual¬ che cosa di demonico, devo necessariamente riconoscere
l'esistenza ili demoni. E quando Meleto devo nuovamente ammettere che i
demoni sono figli di doi, la partila è ila Scorato quasi vinta. Comesi
può ere- dorè all’esistenza di tigli dogli dei, egli conclude, senza
credere con ciò anche a quella degli dei stessi ? Difatti, i giudici elio
lo ritenevano colpevole, erano in piccola maggioranza. Se
prendiamo questo passo insieme con quanto Socrate dice ancora ilei suo
2xi|ióvtov o del suo concetto della divinità, abbiamo in mano la chiave
per la sua concezione del fenomeno. Faccio qui ancora notare che intendo
il termini vó ìzciivtov nelle opere di Platone, secondo l'os- sorvaziono
dello Schlcierinacher (2), nel senso di un aggettivo. Dico questo per
respingere l'opinione che Sperate abbia creduto in uno spe¬ ciale spirito
custode. Socrate scoglio il termine iò Saupòviov in conformità alla
fedo popo¬ lare. Come i demoni, secondo questa, stanno tra dei o uomini e
ven- .,gono detti persino ilei, perchè da dei generati, cosi anche il
demonico in lui è generato dalla divinità. Per questo lo chiama anche tó
3-iCov, il divino. Il nesso psicologico mi sembra qui evidente. Abbiamo
qual¬ cosa di s'inilo nella designazione del suo metodo, il quale egli
credeva puro impostogli dalla divinità (Teeteto 150, o). Come a baso di
tutte (1) Clr. W. Wu.ndt, m/terpsi/eholOjfie li, 2, p, 3iìS. 19 ni;
Clemente der VSt/cerpsi/chol.,(21 Op. cd., p. 309. — Cfr. puro B. E.
Uaonaiihtks, The Ctnssical Retitelo, XXVIII, ri, p. 185. 1911.
lo azioni di Socrate sta il bisogno etico della cortezza(1), cosi egli
è assolutamente certo che in casi, in cui la propria ragione lo lascia
in asso, una volontà divina lo trattiene in ogni circostanza, piccola
o grande, dolla vita, quando è in pericolo di non agire giustamente,
cioè di non compiere la sua missione. In questa cortezza, che forma
una parte della sua fedo religiosa, sta la giustificazione otica dolla
ironia, colla quale egli lancia l'accusa indietro sull’avversario. Ma
oltre ad essere qualche cosa di divino, il demonico in Socrate è poi
anche qualche cosa di umano, perché si produce nell’anima umana o diventa
sua pro¬ prietà, cioè un oracolo interiore. Per ciò il demonico stava
veramente, come il demone della mitologia, in mezzo tra il divino e
l'umano. Si aggiunga elio Socrate ora in fondo persuaso che prima di lui
questo dono non era stato posseduto da nessun altro mortale. Ecco ciò
che vi ha di nuovo nella concezione socratica della divinazione, di
fronte a quella della fede popolare. Como dalla Repubblica di Piatone,
questo fatto risulta anche dalle superbe parole, colle quali Socrate si
esprime sul suo valore davanti ai suoi giudici (Apoi. 31 a-38c). Tali
parole può pronunciare un ammalato di mente, che si deve compatire,
ma quando escono dalla bocca di un Socrate, sono l'espressione di una
pro¬ fonda convinzione religiosa, che deve scuotere chiunque miri a
tini etici. Importante è per la fede di Socrate che egli non cerca di
scol¬ parsi in quanto al non credere negli dei dello Stato, ma solo in
quanto al sospetto di avere delle convinzioni ateistiche (Apoi.
35d). Por quanto concorno la teologia socratica, elio al pari della
sua etica doveva rimanere ili carattere pratico, anziché sistematico
(2), è importante ricordare che Socrate trovò nella sua naz.iono il
poli¬ teismo ellenico, corno Cristo trovò nella sua il monoteismo
giudaico. Socrate era, come ogni essere umauo, un tiglio del suo tempo.
Educato in (inolia religione ogli si riteneva, come Cristo, esteriormente
legato allo prescrizioni religioso in vigore. Come prendeva sul serio la
mas¬ sima di Delfo: conosci le stesso, cosi rispettava l'altra di
ubbidire alle leggi. L’ultima parola del filosofo morente era la
raccomandazione di non dimenticare il sacrificio dovuto ad Esculapio (Fedone.
118), e poco prima aveva domandata all'uomo, elio gli portava il calice
fatale, se ora permesso di farne una libazione. In questo modo Socrate
non rag¬ giunse l'altezza dolla dottrina del Nazareno, ma si avvicina ad
essa, perchè sulla*larga base della religione popolare si eleva, quale
sintesi della sua conoscenza, la fedo in un Dio unico, al quale si deve
ubbi¬ dire più che non agli uomini (Apoi. 29 d) c di cui egli si credeva
un apostolo (Apoi. 31 a). Socrate è tolcrautc verso la fede della
moltitu¬ dine, ma il suo Dio è l’intelletto che governa l’universo e per
il quale non trova neppure un nome, un Dio onnisciente ed onnipresente,
che (1) A. Labriola, Socrate. Nuova edizione a cura di B. Croce,
p. 5, 35, 76, 80 seg., 86 seg., 88 sei;., 150 si>g., 176, 274 seg.
1909. (2) Cfr. A. Labriola, op. cit., p. 151, 155, 179 segg., 250
segg., 271 segg. si cura ilei Leno di tutti gli
nomini (Sonof., Meni. I, 4). Tutte le sue pratiche religioso sono in fondo
rivolto n quest'unico Dio senza nomo, clic si rivela agli uomini in molti
modi. Con una espressione di ledo in questo Dio onnisciente, si chiudo
ì'Apntoi/ia platonica(l). Tenendosi presente questo concetto della
divinità, si comprendo la sua incrolla¬ bile fede nel S»tpóvtov come in
una rivelazione della medesima. Il l'atto che il plurale oi '.Hol
si trova in Platono come in Senofonte accanto al sì neolaro 6 tei?
potrebbe destare il sospotto elio Sorrato accanto all'intelletto
universale abbia ammesso ancora dolio altro forme divino. Ma ciò è
escluso. Egli sceglie il plurale in modo simile come, per es., nella
Genesi il plurale Eloliim sta por il singolare della di¬ vinità. Non è
qui il luogo ili entrare in altri particolari. Ricordo sol¬ tanto elio
troviamo precedenti in Senofane e che audio Anassagora aveva già
riconosciuto un unico principio immateriale che tutto or¬ dina secondo
lini. Cho Socrate abbia conosciuta l'opera di Anassagora, apprendiamo
direttamente da Platone (Fedone. U7). Non ho bisogno di rilevare
che, con quanto fu esposto, sono sen¬ z’altro respinte le opinioni di Lèi
ut o di altri, cho considerano Socrate come un ammalato di mente, come
pure il parere di Dii l’rel, che mette il Sxqidvtov di Socrate in
relazione collo proprio teorie mistiche (2). 3. // 8r.pó/tov di
Sacrale dal punto di vista detta psicologia empirica moderna. — So
teniamo conto di tutti i fatti che Platone ci presenta, è evidente che
nel «atpivtov di Socrate si tratti ili un processo che ap¬ partiene al
campo delle inibizioni psichiche. Naturalmente non può trattarsi qui di
una inibizione nel senso della dottrina intcllcttuuli- tstica di Horbart.
Ciò che nel nostro caso è inibitorio, non appartiene all'atto al
contenuto oggettivabile della coscienza umana, ma si trova piuttosto
dalla parte puramente soggettiva di essa, cioè da quella dei sentimenti.
Da questo punto di vista dobbiamo cercare di risolvere il problema.
L’inibizione procede da un sentimento totale, che si forma in base ad un
numero più o meno grande di intensivi sentimenti par¬ ziali, legati ad
clementi rappresentativi che rimangono al limito della coscienza e che
non giungono all’appercezione. Con questo è inteso, che non può trattarsi
nel caso di Socrate, come è stalo ripetutamento affermato, di processi
allucinatoci (3). Nel fatto che l’inibizione parte da un sentimento, al
quale non corrisponde un contenuto oggettivo, sta la ragione, perchè
Socrato non può fare alcuna indicazione precisa (l) Cfr. pure (I.
/Cuccanti:, op. cit., pirte IV, c«p. XIII. tX) F. I.ÉIX'T, L)it itóiiion
de Si,croie ni. 1 4556. — C. Du Prel, Ine Ma¬ stiti d. alt. (ìrieclien,
p. 121 seg. 1.333. E caratteristico che Du Prel l'accia uso ilei Teapele
, benché riconosca che questo non sia un'opera di Platone. d) Cile
Platone colla frase nel Fedro “ xxt -iva ipiovijv £So;a xùxcàsv ày.ofkJx:
„ non vuol alludere ad una allucinazione, dimostra con molta chiarezza
anche lo Cuccante (op. cit., p. 372). Si aggiunga che. se il Szqicvtcv di
Socrate avesse tale origine, questo si rileverebbe in tutti i rispettivi
racconti platonici, ciò che non è assolutamente il caso. -
intorno al fenomeno, ma (leve in casi, in cui non lo chiama semplice¬
mente il demonico o il divino, contentarsi di termini metaforici. Parla,
ad es., di una voce, come oggi si usa il termine “ voce della
coscienza,,. Questo sentimento, sorto dapprima per via associativa, viene
poi atti¬ vamente appercopito e, riferito alla divinità, acquista il
carattere di un motivo imperativo che, coll'intensità di una forza
morale, lo co¬ stringe ad abbandonare un'intenzione presa. Dal fatto cho
l’inibizione viene da Socrate creduta un segno divino, si comprendo elio
in lui non possono mai nascere dei dubbi, come accadrebbe con altro
persone. Non vi è mai in un tal caso una lotta tra motivi in lui, mai
alcun conflitto tra doveri. Appena egli s'accorge dell’inibizione, è
assoluta¬ mente sicuro di aver avuto trasmesso un divino “No,.. Cosi la
rifles¬ sione o la fedo nel suo Sztjióv»/diventano i principi
fondamentali, che lo guidano nella sua intera attività filosòfica ed
etica. In ultima analisi si tratta qui di un fatto psichico clic si
verifica in ogni coscienza normale più o meno frequentemente, benché
molte per¬ sone non lo osservino o non si lascino da esso frenare. Di
James Stuart Mill ci viene riferito elio egli osservò il fenomeno in se
stesso molto intensamente (1). A me molte persone hanno dotto di aver
notato in sè tali inibizioni sentimentali. Siccome Socrate ci informa che
egli aveva osservato il fenomeno spesso in sè dai tempi della sua
fanciul¬ lezza, non è escluso che vi sia stata in lui por lo sviluppo di
esso una certa disposizione. Ma d'altra parto si devo ricordare (dio egli
per tempo si abituò a fare molto sul serio l'esame di se stesso o cho il
fenomeno era una parte integrale della sua fede religiosa. Dal momento
cho egli era corto cho il sentimento inibitorio era una rivelazione
divina, questa convinzione doveva dominare tutta l’anima sua. Dato questo
continuo autoesame in connessione collo sviluppo (lolla sua convinzione
teolo¬ gica, si comprendo, come dovesse entrare in giuoco un principio
che governa ogni vita psichica, cioè quello dell’esercizio.
L’ininterrotto esercizio doveva renderlo capaco di riconoscere
l'inibizione di ogni grado appena sorta e di afferrarla coll'attenzione.
Si aggiunga (die la coscienziosità colla quale cercò continuamente di
compiere la sua mis¬ sione, e colla quale mirava sempre ai medesimi lini,
doveva renderlo straordinariamente sensibile o facilitare la formazione
di tali senti¬ menti. Cosi si spiega il frequente ripetersi del fenomeno
in tutto lo sue azioni. Io credo clic, con quanto fu esposto, siano
trovati i punti principali «he debbono guidarci nella spiegazione
psicologica del Sacgóviov di Socrate. Tornerò sull’argomento in un lavoro
più esteso, ed in questo sarà tenuto conto delle opinioni di altri autori
più di quanto mi è stato possibile di fare in questa breve
comunicazione. (1) G. Zuccante, op. cit., p. 378. JL ~jt
e 3 Federico Kiesow. SOCRATE ET
VoAmour Grec. SOCRATE ET IPAmour Grec
( Socrates sanctus nai Sepaatrjs ) D1SSERTATlON DE
Jean-Matthias GESNER Traduite en Francais pour la premiere
fois Texte Latin en regard Par Alcide
BONNEAU PARIS Isidore LISEUX , Editeur Rue Bonaparte,
jegg^arean-Matthias Gesner, 1’auteurde «JgE cette curieuse dissertation,
est I S&fe l un erudit Allemand du xvm e sie- cle, dont les
travaux ne sont pas tres- connus en France. On lui doit d’excel-
lentes etudes sur les Scriptores rei rus- ticce , une Chrestomathie de
Ciceron, une Chrestomathie Grecque , des Lexi- ques, une traduction
Latine des ceu- vres de Lucien, des editions de Pline le
jeune, de Claudien, de Quintilien, de Rutilius Lupus et autres
anciens a rheteurs, toutcs enrichies de notes
sa- vantes et de longs prolegomenes; plus, un nombre formidable de
dissertations sur toutes sortes de sujets, Opuscula di- versi
argumenti (Breslau, 1743-45, 8 vol, in-8°), parmi lesquelles son
Socrates sanctus pce der asta tire forcement l’oeil par la
bizarrerie de son titre. Cette bizarrerie a valu au livre sa
no- toriete, et en meme temps lui a fait grand tort. Beaucoup de
gens, entre autres Voltaire, malheureusement pour 1 ’erudit
Tudesque, n’ont pas ete au dela, et iis ont construit sur cette minee
donnee un ouvrage tout entier de leur fantaisie, a 1 ’extreme
desavantage du pauvre Gesner. D’autres ont cru Voltaire sur parole
et sont arrives au meme resultat. C’est Larcher, THelleniste,
qui le pre- mier chez nous mit en lumiere cet opus- cule, dans son
Supplemenl & THistoire universelle de labbe Bapn (1767, in-8°),
en le citant parmi les ouvragcs a consulter sur le proces de Socrate ; il
se contenta d’en faire mention, sans meme traduire ni expliquer le
titre, ne s’ima- ginant pas qu’on put s’y meprendre, et qu’un homme
tel que Gesner fut suppose capable d’une indecente apologie. Vol-
taire, dont le vif et alerte esprit se plai- sait a effleurer les
surfaces, sans presque jamais approfondir, ne connaissait sans
doute pas Gesner et certainement n’avait pas lu son Socrates. Le
Supplement a VHistoire nniverselle n’etait d 7 ailleurs qu une
refutation tres-savante, quoique un peu lourde, de son Introduction
a 1'Essai sur les maeurs , publiee d^abord a part et sous le
pseudonyme de 1’abbe Bazin; quelques critiques justes qu’on y
rencontre le mirent de mauvaise humeur , et, battu sur divers points
d’erudition, il chercha une occasion de dauber Larcher, a cote du
sujet, selon son habitude. Il crut la trouver dans le livre etrange
qu’il supposa, d’aprcs le titre cite qu’il interpretait mal, s’indigna de
ce qu’on osait donner comme faisantautoritedesimons- trueuses
elucubrations (le monstrueux n’etait que dans ce qu’il imaginait),
et tantot sous le pseudonyme d’Orbilius, tantot sous celui de M Ilc
Bazin ( Defense de mon oncle, un de ses pamphlets), il ne cessa de
poursuivre la-dessus de ses bro- cards son inoflensif adversaire.
Tres- content d’avoir leve ce lievre, il a meme reproduit son
assertion plus que hasardee dans le plus populaire de ses ouvrages
; on la trouve en note de 1’article Amour socratique , du
Dictionnaire philosophi- que. « Un ecrivain moderne, nomme Larcher,
repetiteur de college, dans un libelle rempli d’erreurs en tout genre
et de la critique la plus grossiere, ose citer je ne sais quel
bouquin dans lequel on appelle Socrate Sanctus pcderastes ; So-
crate saint b ! Il n’a pas ete suivi dans ces horrcurs par 1’abbe
Foucher. » Larcher avait trop beau jeu pour ne pas repliquer. II le
fit dans sa Repons e . la Defense de mon oncle (1767, in-8°),
opuscule rare, reimprime a la suite du Supplement a 1’Histoire
universelle : « Vous m’attribuez , dit-il a Voltaire, votre infame
et infidele traduction du titre d’une dissertation de feu M.
Gesnera Je n’ai point traduit le titre de cette dis- sertation ; il
ne pouvait se prendre que dans un sens tres-honnete, mais il etait
reserve a M lle Bazin et a Orbilius de lui en donner un infame. Cela ne
vous suf- fisait-il pas? Fallait-il encore me 1 ’im- puter? »
Pour qui avait suivi toutes les phases de la discussion, Larcher et
Gesner etaient innocentes; Voltaire restait convaincu d’avoir note
dfinfamie un livre sans le connaitre. Mais ces temps sont loin ;
per- sonne aujourd’hui ne lit Larcher pour son plaisir, et le
Dictionnaire philoso- phique est dans toutes les mains. Voila
pourquoi on croit generalement que Ges~ ner a developpe le plus scabreux des
pa- radoxes et fait une apologie en regie d’un vice honteux. Nous
pourrions citer au moins un de ceux qui, se fiant a Voltaire, ont
propage 1’erreur mise par lui en cir- culation, et affirme que cette
dissertation n’est qu’un tissu d’invectives ; mais nous ne voulons
faire de la peine a personne. Gesner, ecrivain des plus doctes et
plus estime encore pour son caractere que pour son savoir,
professeur de Belles- Lettres a TUniversite de Goettingue, puis
bibliothecaire de cette universite, ne pou- vait ecrire qu’une defense de
Socrate, une refutation des calomnies dont on a obscurci sa
memoire, et que la langue a attachees a son nora d’une maniere en
quelque sorte indelebile par les mots de socratisme et d 'amour
socratique. Inquiet et tourmente, comme il 1’assure, de voir peser
sur le pere de la Philosophie de si indignes soup9ons, il a voulu
remonter aux sources, compulser tout le dossier et reviser le
proces sur les pieces memes. II l'a fait d’une facon non moins
inge- nieuse que savante dans cette disserta- tion lue a 1
’Academie de Goettingue en fevrier 1752, recueillie dans les
Memoires de cette academie (t. II, p. 1), dans les Opuscula diversi
argumenti de 1 ’auteur et tiree a part en 1769 (Utrecht, in-8°).
C’est cette derniere edition que nous avons suivie pour la reimprimer et
la tra- duire, ce qui n’avait jamais ete fait en Francais, ni
probablement dans aucune autre langue. Gesner a-t-il reussi a dis-
culper entierement Socrate? Nous l’es- perons; mais nous etions de son
avis avant d 7 avoir lu son livre, et, ccmme per- sonne ne 1’ignore,
c’est surtout chez ceux qui pensent comme lui qu’un auteur, si bon
dialecticien qu’il soit, porte la con- viction. Les esprits mal faits qui
incli- nent a 1’opinion contraire, et ceux-la seront toujours
difficiles a persuader, persisteront peut-etre a trouver
singulier que Platon, interprete de Socrate, ait si souvent parle de
1’amour; qu’il ait con- sacre trois de ses plus beaux dialogues, le
Lysis , le Phedre et le Banquet , a cette brulante passion; qu’il l’ait
tant de fois soumise aux analyses les plus delicates, expliquee par
les conceptions les plus sublimes, les mythes les plus poetiques,
et que jamais, sauf un moment, dans l’admirable episode de Diotime du
Ban- quet , il ne soit question de la femme. Alcide
Bonneau. UTRECHT es hommes illustres, ceux qui sont regardes
comme tels non-seulement par la posterite, mais par leurs
contemporains, ceux surtout dont le plus grand eclat consiste precisement
dans leur vertu, sont souvent accuses, sur les plus legers indices,
de quelques travers, sinon de defauts plus graves; et c’est la un
travers iros illustres, et non a posteris solis sed coaevis
tales habitos , eos maxime quorum praecipua laus virtutis est , vitii
alicujus nedum criminis gravioris suspicari levibus ar- gumentis,
vitium id quidem non leve : reos agere et condemnare crimen et piaculum ;
in Christiano homine, in homine , in barbaro. Quanta istorum
ignominia, tanta est gloria piorum virornm qui versantur in probrosis
his l’editeur qui Iui-meme ne manque pas de gravite. Se
faire a la fois 1’accusateur et le juge, c’est une chose criminelle, un
sacrilege, qu’il s’agisse d’un Chretien, ou seulement d’un homme,
meme d’un paien. L’ignominie de ceux-la rehausse d’autant la
gloire des hommes pieux qui s’appli- quent a repousser ces odieuses
attaques. On peut le dire de Gesner, ce savant illus- tre, du petit
nombre de ceux qui depas- sant par la science tous leurs contempo-
rains, font encore plus estimer en eux les qualites du coeur que celles
de 1’esprit ; c’est un honneur pour lui d’avoir pris en main la
cause de Socrate, et un plus grand peut-etre pour Socrate d’avoir dte le
Client de Gesner. II nous a paru bon de recueillir dans
une edition nouvelle cet ouvrage de faible conatibus coercendis.
Gesnero, illustri nomini , e numero paucorum illorum qui cum
eruditione coaevos possint excellere, animi dotibus quam ingenii
celebrari malunt, incertum an honori sit caussam Socratis egisse, magis
quam Socrati Gesnerum habuisse patronum. Visum fuit ,
memoriam brevis operae sed auro contra noti carae nova editione colere.
Docuit vir praeclarus , scripto quidem, quam inani co- natu virtus
summi hominis sollicitata fuerit ab obscuris obtrectatoribus , qui non
solent deesse virtuti. Docuit autem exemplo, pertinere ad dimension,
mais qui ne serait pas trop cher paye au poids de For. Son
excellent auteur nous y montre, la plume a la main, 1’inanite des
efforts diriges contre un sage par ces obscurs detracteurs qui ne
man- quent jamais a lavertu; il nous fait voir aussi, par son
exemple, qu’il appartient a tout honnete homme de defendre la cause
des gens de bien. II nous enseigne surtout avec quel soin et avec quelle
erudition il est besoin d’ecrire dans de telles matieres, ou l’on
ne doit rien avancer qu’apres un examen scrupuleux. Profite
donc, lecteur, de ce travail, plus utile qu’il ne le semblerait au
premier abord; et si, par ignorance ou par trop forte credulite, tu
as rejetd loin de toi les ecrits Socratiques, reprends-les
maintenant et garde-les avec amour. Il nous sera per- bonos
omnes bonorum virorum caussam : tum et illud, in primis, ubi ejus modi
res agitur, accu- rate et docte scribendum esse, nec arripi quid-
piam absque subtili examine, et benevolo illo , debere.
Fruere, Lector , labore utiliori quam decet : et si imprudentius
forte abjeceris Socraticas char- tas nimium credulus, abi continuo et in
sinu eas reconde. Integrum erit culpare qui Socratem citant, tibi
convenisset laudari Davidem et Sa- lomonem : sed patiamur , bonum et
pauperem Socratem . , placide subridentem , sereno vultu ,
xvi l’editeur au lecteur mis a notre tour de mettre en
accusation ceux qui font un crime a Socrate de ce qu'ils trouveraient
admirable s’il s’agissait de David et de Salomon ; mais laissons le
bon et pauvre Philosophe s’interposer dou- cement avec son placide
sourire, son tran- quille visage, et s’ecrier : Moi aussi, Vertu,
je t’ai honoree, Deesse ! Quant a ceux qui blameront cette
apolo- gie, non comme excessive, grands dieux, car que pourrait-on
dire de trop sur So- crate ? mais comme inconvenante et depla- cee,
qirils prennent garde de tomber dans Todieux de cette populace Portugaise
tou- jours prete, sinon a lapider ou a bruler, du moins a exorciser
a force de signes de croix traces d’un doigt tremblant, le teme-
raire qui oserait croire que la Bienheu- reuse Vierge Marie etait une
Juive. leniter interponere, Et ego te, Virtus ! colui
Deam, Quibus fastidium movent elogia, justa Di boni! quid
enim de Socrate dici nimium potest? sed quce magis opportune forsatn
collocari potuis- sent, videant ne in odium id evadat, quale est
plebis Lusitanae, si non rogum parantis aut la- pides, saltim tremente
digito averruncas cruces describentis, si quis auserit credere, B.
Virginem Judaeam fuisse. SOCRATE ET L’Amour
Grec IO. MATTHI. GESNERI V. C. Socrates
SANCTUS T/E D E T{A STA t nihil tam alte vel natura ,
vel virtus , vel fortuna constituit, in quo non vel deprehendatur
ali- quid labis et vitii , vel vires suas experia- tur maledica
invidia , cujus vocibus boni etiam viri abripi se ad suspicandum
certe non nunquam patiuntur : ita mirum non est , neque excelsam
Socratis gloriam Socrate ET
L’qAMOU% g%ec 1 n’est rien de place si haut par la
nature, la vertu ou la fortune, qui n’ait ses taches ou ses inv
perfections, ou que 1’envie ne s’efforce d’atteindre, cette medisante
envie dont les clameurs poussent 1’homme de bien lui-meme a
soupconner le mal : c’est pourquoi nous nc devons point
nous obtrectatoribus suis carnis se. Ac de Anyti Melitique
criminibus, quibus op- pressus est vir innocens , et, si forte
vani- tatis aut nugarum et cavillationum pos- tulatus, et Scurrae
nomine traductus est (i), in prcesenti non erimus soliciti. Unum
crimen est, quod, varie jactatum, et plus semel non sine specie in scenam
reduc- tum scepe me solicitum habuit, Fuerit ne impuro ac
detestabili puerorum amori deditus? Hoc enim si verum sit, actum
est profecto de virtute viri, indignus est cujus cum honore nomen usurpetur.
2. Postulatum esse hujus turpitudinis, negari non potest. Mittimus
, quae de adolescentia viri ad libidinem proclivi (i) Factum
id esse a Zenone Epicureo, prodidit Cic. de Nat. Deor. i, C. 34, ubi vid.
Davis. etonner que lagloire si haute de Socrate ait eu, elle
aussi, ses detracteurs. Tou- tefois nous ne voulons ni parier ici
des accusations d’Anytus et de Melitus sous lesquelles succomba son
innocence, ni nous inquieter de savoir si ce grand homine a ete
incrimine de vanite, de mensonge et de sophisme, affuble du surnom
de Bouffon[i). Une seule accu- sation m’a souvent tourmente ; c’est
celle qui, sans cesse discutee, a toujours ete remise en avant, non sans
apparence de justesse: Socrate etait-il adonne d l’impur et
detestable amour des jeanes gargons ? Si cela est vrai, c’en est fait
des- ormais de la vertu de cet homme ; c’est un indigne, lui dont
on ne prononce le nom qu’avec respect. 2. Qu’il ait ete
accuse de cette turpi- tude, le fait est certain. Negligeons ce que
Porphyre, d’apres Theodoret [De la (i) Comme le fait PEpicurien
Zenon, au dire de Ci- c6ron {De Natura Deorum , i) ; consuit,
la-dessus J. Davies. i . Porphyrius apud
Theodoretum [Graecar, affect. cur. ser. 4 pr.) memorat : nam ibidem
additur , illum c-ojo^ xat oioayrj xouxou? a^aviaat xou; xurcous,
impressas ve- luti notas libidinum studio ac doctrina abolevisse
(1). Neque valde huc faciunt , quce ex eodem Porphyrio , qui
Aristo- xeno auctore usus sit, idem Theodore- tus (Serm. 12 p. iy5,
8) memorat, par- tim quod ad adolescendam primam viri, de qua nobis
sermo non est, pertinent , partim quod Archelaus Anaxagorae dis-
cipulus, honestus amator (spaax 7 ]$) ipsius fuit. Ejusdem generis est,
quod Cyrillus (contra Julia. 6, p. 186, D) ex eodem Porphyrio (in
Historia Philosopha , libro olim deperdito) refert , Socratem -po; xr (
v twv aopootatwv yp7jatv acpo Spdxspov p.sv sivac, aoizov os p.rj
-poasTvat. t\ yap xaT;Ya[j.sxaT;, vj xat? •/.oivat; y prjaQat fj-ovat?.
Fuisse ad res venereas aliquantum vehementem, sed injuriam
abfuisse, qui vel uxoribus solis, vel (1) Conf. quae in fra de
mali equi Socratici notis dicentur. § 18. et l’amour grec
7 cure des prejuges des Grecs , Disc. iv), raconte de sa
jeunesse, laquelle aurait ete encline au libertinage ; 1’auteur
ajoute, en effet, au meme endroit qu’il parvint a effacer en lui, par
Venergie de sa volonte \ jusqu’aux traces meme des passions (i). Ne
nous occupons pas non plus de ce que le meme Theodoret (Discours
xn) emprunte encore a Por- phyre, qui lui-meme suivait Aristoxene,
c’est-a-dire de ce qui se rapporte a la premiere jeunesse de Socrate
(elle n’est pas en cause), et a ce disciple d’Anaxa- goras,
Archelaus, qui aurait ete, en tout bien tout honneur, un ami
fervent (!pa<j-r]s) du philosophe. A la meme cate- gorie
appartient ce que S. Cyrille [Contre Jidien, 6) a extrait de
YHistoire philosophi que de Porphyre, livre aujour- d’hui perdu : a
savoir que Socrate et ait violemment pousse aux choscs de ia- mour,
mais qiiil s’abstint de faire tort a (i) Voyez ce que l’on dit plus
bas des marques du « mauvais cheval Socratique. »
(quam diu caelebs esset) communibus uteretur. Nondum quidquam ex
Por- phyrio vel Aristoxeno, quem ille aucto- rem sequitur, allatum
est de horribili scelere, Pcederastia : quod praetermissu- rus non
erat, qui satis hic in Philosophice parentem iniquus est, Cyrillus.
Decla- mat igitur praeter rem Socrates alter (Hist. Eccles. 3, 23,
p. i gj, D), cum ita de Porphyrio narrat, IIopcpupio; xou xopu^aio-
xaxoa xoiv <piXoao<ptov, Scoxpaxous, xov [3''ov oietu- psv £v ifi
YsypaixpiEvr] auxai <piA oaoow toxopta, xai xoiauxa Tuept auxou
ypa^a;xaxdXi7TEv, oia av p.7]xs MeTaxo;, p.r[x£ v Avuxo; oi jpa^aixsvoi
Swxpaxrjv ItTictv e-zyjiprjGxv, ita traductum, ait, a Porphyrio
Socratem, talia de viro scripta, quae neque accusatores ipsius Anytus
et Melitus dicere in ipsum ausi sint. Acci- pimus, quod negat
objectam in judicio turpitudinem talem Socrati, quo nempe argumento
constet, famam viri hac tum macula caruisse. Sed nec a Porphyrio
plura aut turpiora his memorata, quae jam vidimus, satis illud argumento
est , quod iniqui Socratis glorice homines, personne,
en riusant jamais que de ses propres femmes ou , durant son
celibat, des femmes qui apparticnnent a tout le monde. Nulle part,
soit chez Porphyre, soit chez Aristoxene que Porphyre co- piait, il
n'est rien allegue de cet horrible crime : Pederastie ! II ne Paurait
point passe sous silence, ce Cyrille si injuste envers lepore de la
Philosophie. IPautre Socrate ( Histoire ecclesiastique, m, 23 )
avance donc une insigne faussete lors- qu’il dit : « Porphyre a compose
la vie de Socrate, le coryphee des philosophes, d’apres les
histoires ecrites sur lui ; et il nous a transmis, d Vaide de ces
docu- ments, des choses si monstrueuses que les accusateurs de
Socrate, Anytus et Meli - tus, n’ont pas meme ose' les lui reprocher.
» Retenons seulement de ceci Taveu qu’on n’en fit pas un grief a
Socrate, lors du jugement public, ce qui ressort de la phrase
elle-meme, et que cette tache fut alors epargneeT a sa renommee.
Mais Porphyre n’a pas rapporte autre chose ou des choses plus
monstrueuses que ce Cyrillus ac Theodoretus, non plura pro-
tulere, quibus fuerant haud dubie cau- sam suam , si res facultatem
dedisset, ornaturi. 3. Nempe nec Aristophanes , qui
cor- ruptce ad impietatem et calumniandi ar- tem juventutis accusat
in Nubibus Socra- tem . hujus criminis ullam mentionem facit , non
omissurus profecto , si illud adhaerescere posse putasset. Nec
forte quisquam est ex omni antiquitate remo- tiore illa, et
temporibus Philosophi pro- pinqua . , serius et severus accusator
hujus criminis. Lusit inter posteriores, pro petulanti illo ingenio
suo, Lucianus (de CEco, ita enim potius dicendus erat ille libellus
quam de Domo, c. 4 , T. 3, p. ig 2 , 83) cum accusat Socratem, qui
non erubuerit advocare Musas, virgines, cuvsaojjiva; ia -aiBepaama,
ut audirent illos de puerorum amore sermones. At- qui illi
sermones, uti mox videbimus. que nous venons de dire ; nous en
trou- vons la preuve en ce que S. Cyrille et Theodoret, deux
detracteurs de Socrate, n’en ont souffle mot, et qu’ils n’auraient
pas manque d’en orner leurs diatribes si la chose eut ete possible.
3 . En second lieu, Aristophane qui, dans ses Nuees , represente
Socrate comme un corrupteur de la jeunesse, comme faisant de
1’imposture un enseignement, n’a pas davantage mentionne cette
accu- sation; l’aurait-il omise, si elle eut pu s’appliquer a
Thomme qu’il bafouait? II n’y a enfin personne, si l’on prend des
temoins dans cette antiquite reculee ou dans les temps voisins du
Philosophe, qui se presente comme un accusateur serieux et digne de
foi. Plus tard seule- ment Lucien, entraine par sa verve moqueuse
(dans 1’opuscule que l’on tra- duit ordinairement De Domo et qu’il
vaudrait mieux traduire De CEco , chap. iv), reprocha a Socrate de
n’avoir pas rougi d ; invoquer les Muses, des reprehendant vehementer amorem : re-
spicit enim ad Phcedrum Platonis (p. 340 , G) de quo dedita opera
dicendum erit. Qua ? in Amoribus (c. 24. To. 2. p. 424 , go) in
Socraticum amorem Platonicum- que vel a Luciano, vel quicunque
auctor est, jocose et per calumniam dicuntur, ea ad ipsum illum locum
diluisse me arbitror . 4. Sed veterum criminationes
Maxi- mus Tyrius ( Dissertat . 2S. 26. et 27 al. g. 10. 11)
refutavit, ut non videatur opus esse aliquid addi : cum praesertim
tanto magis et agnoscant innocentiam Socratis, et illud crimen ab illo
depel- lant ut hujus, ita paullo superioris aitatis homines, quo
magis virum ex aequalium ac paullo juniorum de illo scriptis ut
cognoscere possent, cuique contigit. Quin ne consultum quidem judicarem
veterem litem resuscitare , nisi viderem, nuper et l’amour
grec i3 vierges, pour leur faire dcouter ces fa- mcnx
discours sur Vamour des jeunes gargons. Mais ces discours, comme
nous allons le voir, blament fortement cette sorte d’amour; Lucien
fait, en effet, allusion au Phedre de Platon dont nous aurons a
nous occuper. Ce que Fon dit debamourSocratiqueet Platonique dans
les Amonrs , que ces dialogues soient de Lucien ou de tout autre, n’est
qu’une plaisanterie ou une mechancete, comme je\ l’ai demontre en
temps et lieu (i). 4. Maxime de Tyr ( Dissertations 25 , 26
et 27) a d’ailleurs refute toutes les ac- cusations portees a ce sujet
par les an- ciens, etilserait inutile d’y rien ajouter. Le meilleur
argument, c’est que ceux qui ont le mieux reconnu Tinnocence de
Socrate et repousse loin de lui avec le plus de force 1’accusation
infame, sont les hommes de la generation qui a imme- (1) Dans
ses notes sur Lucien, dont il a fait une edition et une traduction Latine
tres-estimees. fuisse, et esse hodie
homines eruditos, et bonos viros, qui pravam de patre illo
Philosophia ? opinionem conceperint, quo- rum non pono nomina, quia mihi
non cum ullo homine certamen esse volo, sed cum opinione ea, quam
praeterquam quod falsam puto, etiam virtuti noxiam , praeter
consilium quidem bonorum viro- rum, humanitati certe adversam esse,
arbitror. 5. Qui autem fieri potuit, ut homines neque
indocti neque maligni in sinistram falsamque de Socrate opinionem incide-
rint? ut apologia vir sanctus opus habeat? Praeter naturalem illam
-/.axor{0£tav nos- tram, quae imis velut medullis fixa , et
superbiae illius nostrae nixa radicibus. et l’amour grec i5
diatement suivi la sienne. Or, ce sont les contemporains et leurs
successeurs immediats qui peuvent le mieux juger un homme, en
pleine connaissance de tout ce qu’on aecrit sur lui. Je n’aurais
donc pas songe a ressusciter cette vieille que- relle si je n’avais
vu naguere, et tout recemment encore, des hommes instruits,
vertueux, concevoir la plus mauvaise opinion de ce pere de la Philosophie
; je ne dirai pas leurs noms, ne voulant me prendre corps a corps
avec personne, mais seulement avec une opinion que je considere
comme sans fondement, nuisible a la vertu, et, contrairemcnt a
1’avis de ces gens de bien, defavorable a 1’humanite tout entiere.
5. Comment donc a-t-il pu se faire que des personnages qui ne
p£chent ni par ignorance ni par mechancete, aient concu de Socrate
une opinion si facheuse et si fausse? Pourquoi cet homme veri-
tablement saint a-t-il besoin d’etre de- fendu? En dehors de cette
maligni te inter ultima vitia eradicatur, ceterasque
ex genere morum rationes, conveniunt hic alia qucedam , quce facilem
errandi occasionem praebent. Magna pars docto- rum etiam hominum
legendi laborem fugit, legendi uno tenore, continuata attentione ,
totos veterum scriptorum libros; sed satis habet decerpere quce-
dam, in quce primum incurrere oculi, aut, quod deterius frequentius que
idem, repetere ab aliis excerpta, et e media nonnunquam sermonum
velut compage evulsa, de quorum sic sententia non facile sit
judicare. Platonis libri , unde pleraque Socratica peti hodie necesse
est, multos arcent ob Atticum illud sermonis genus, breve et
acutum, floridum praeterea, ac semipoeticum, ipsamque disserendi
ratio- nem subtiliorem scepe, quam ut mediocri attentione, non
acutissimi homines illam statim adsequantur. Nec licet , ut adhuc
res est, ad interpretes confugere ; qui quoties vel nihil dicant, vel
alia omnia dicant, vix sine invidia licet commemo- rare. Et tamen
nisi attente legas, et to- naturelle qui reste fixee jusqu’au fond
de nos moelles, qui se fortifie de notre or- gueil et qui ne
s’arrache qidavec les der- niers defauts, outre encore diverses
rai- sons tirees de nos mceurs, il a fallu pour cela un concours de
circonstances pro- pres a faciliter 1’erreur. La plupart des gens
instruits eux-memes evitent la fa- tigue de lire dans leur entier, avec
une attention soutenue, tous les livres ecrits par les Anciens ; on
a plus tot fait de choisir quelques passages, les premiers qui
tombent sous les yeux, ou, ce qui est bien pire, de s'en tenir aux
passages choisis par d’autres, a des fragments de- taches de
1’ensemble et dont il est par consequent difficile d’apprecier le
sens veritable. C’est ce qui arrive des livres de Platon, d’ou il
nous faut aujourd’hui tirer toutc la doctrine Socratique ; iis
embarrassent bon nornbre de lecteurs par leur style trop Attique, raffine
et aiguise, fleuri pourtant et semi-poetique, par ces controverses
si subtiles souvent que, si 1’attention se relache, 1’esprit le
tos legas dialogos, et qua
scripti sunt lingua legas, non est ut de sententia illorum, h. e.
quam tribuat Plato sen- tentiam Socrati, recte judices. Quare mirum
non est, si multi refugiant lectio- nem ita laboriosam ; et illis veluti
spinis a familiari tractatione eorum librorum deterreantur .
6. Denique si quid etiam tribuatur a Platone Socrati, tamen, si illud
Xeno- phontis narrationi repugnet, non dubi- taverim equidem, fidem
potius adhibere Grylli filio, memor illius, quod narrat Laertius 3,
35, Socratem , cum Lysin Platonis legisset, dixisse , to; tzoXKx
uoj plus eclaire n’cn
suit pas aisemcnt le fil. Et il serait inutile, dans le cas
present, de recourir aux annotateurs ; ou iis ne disent rien, ou
iis disent tout autre chose que ce qu’il faudrait ; on ne peut
s’empecher de leur en faire un re- proche. Cependant, amoins de lire
avec un soin scrupuleux tous les dialogues de Platon et de les iire
dans la langue meme ou iis ont ete ecrits, il n’est pas possible de
juger saineinent de leur doctrine, c’est-a-dire de la doctrine que
Platon attribue a Socrate. Il n’est donc pas sur- prenant que
nombre de gens reculent devant une si laborieuse lecture et soient
rebutes, comme par des epines, du commerce familier de ces livres.
6. Enfin il faut dire que si Platon at- tribue a Socrate une
maniere de voir contredite par la narration de Xenophon, il n’y a
pas a hesiter : c’est a Xenophon qu’il faut se fier, si l’on se souvient
du mot rapporte par Diogene de Laerte (ui, 35). Socrate, apres
avoir lu le Lysis
xaxe^uBeO’ 6 veavfoxo; ; Quam multa de me mentitur adolescens!
Tanto magis hoc memorabile est , quod ille Dialogus ita scriptus
est, ut non modo tanquam per- sona colloquens inducatur Socrates,
sed tanquam, qui ipsum illum dialogum scripserit. Ceterum quia hic
sumus, hoc breviter indicamus, amatorium quidem esse hunc libellum
, sed nihil habere pu- dendum ne Platoni quidem. Argumen- tum hoc
est : Queritur Lysidis amator Hippothales, ab illo se non amari ;
So- crates ostendit, si velit amari, non adu- landum esse puero,
sic enim futurum superbiorem ; sed illi potius ostenden- dum,
quibus rebus indigeat, et quam parum in ipso sit boni (i). Deinde
dela- bitur in disputationem, Quis proprie amicus sit vocandus? et,
In quo insit natura amicitia’ ? plenam illam quidem cavillationum ,
sed praeclararum etiam de amicitia sententiarum. Ceterum tri-
(i) Sic nempe ipse solebat Socrates in potestatem quasi suam
redigere adolescentulos, de quo que- rentem audiemus Alcibiadem. de
Platon, se serait ecrie : « Comme ce jenne homme invente souvent ce qu’il
me fait dire! » Le mot est d’autant plus remarquable que, dans ce
dialogue, So- crate estpresente non comme un simple interlocuteur,
mais comme s’il avait ecrit lui-meme tout le morceau. Pen- dant
quenous y sommes, disons brieve- ment que cetouvrage roule sur
1’amour, mais qu’il n’y a rien dont put rougir Platon lui-meme.
Voici le sujet : Hip- pothales, qui aime Lysis, se plaint de ne pas
en etre aime; Socrate lui demontre que s’il veut 1’etre, il ne faut pas
qu’il fiatte ce jeune homme, ce qui le rendrait plus orgueilleux
encore ; il vaut mieux qu’il lui represente tout ce qui lui man-
que et le peu de bonnes qualites quhl possede (i). On discute ensuite ces
ques- tions : Qui est digne d’etre appele un ve- ritable ami? et,
Quelle est la nature de Tamitie? Controverse pleine, il est vrai,
(i) C’est ainsi que Socrate avait en effet coutumc d’assujettir les
jeunes gens & son autorite, et nous voyons Alcibiade s’en
plaindre. bui a Platone colloquentibus,
de quibus ipsi non cogitarint, vetus observatio est , de qua vid.
Athenaeus Deipnos. i, i / ad fin. p. 5 o 5 . Qiio dialogorum more
se excusat, etiam Varroni in Academico- rum dedicatione Tullius.
Neque ausim Platonis ipsius, junioris praesertim, pa- trocinium
suscipere de mollioribus versi- culis, quos Apulejus servavit
(Apol. p. 279 sq.) et Laertius Diogenes ( 3 , 2g) : de quibus modo
in neutram partem dis- puto, causamque Platonis a Socratis causa
hac in re sejungo. 7. Quaecunque vero cum aliqua specie
testimonia Platonis contra Socratem pro- feruntur, ea cum ex Phaedro,
nescio quam bona semper fide, corrupte quidem et perverse non
nunquam, depromi vi- deam, propter ea pretium opera* putavi, de
futilites, mais aussi de remarquables definitions dePamitie. C ; est uneobserva-
tion qui a ete faite depuis longtemps, que Platon attribue a ses
interlocuteurs des idees qu’ils n’ont jamais eues : on peut
consulter la-dessus Athenee ( Dei - pnosophistes i, ii). Ciceron, qui
avait le meme defaut, s’en excuse sur le genre meme du dialogue ,
dans son envoi des Academiques a Varron. Je n’ose pas non plus
defendre Platon du reproche d’avoir commis, surtout dans sa jeunesse,
des vers badins tels que ceux que nous ont conserves Apulee (dans
son Apologie) et Diogene de Laerte (m, 29); vieux ou jeune, jen’ai
pas affaire a lui et je separe completement sa cause de celle de
So- crate. 7. Entrelesdiverstemoignages fournis par
lui, ceux que Ton peut alleguer con- tre Socrate avec quelque apparence
de justesse sont tires du Phedre ; pas tou- jours bien
scrupuleusement et quelque- fois a 1’aide d’alterations ou de
contre- non semel totum illum dialogum attento animo
perlegere , et uno quidem tenore , et lingua sua, ne quid eorum me
falleret, qua • saepe fraudi esse viris doctis, modo dicebam. Ac
spero non ingratum fore aliis, quorum rationes non ferunt tam
longam solicitamque operam, si hic pos- sint brevi studio cognoscere
velut oecono- miam illius libri et argumentum, inde- que de toto
consilio vel Platonis vel Socratis arbitrari. Concedamus enim, ne
abuti videamur illa, quam modo propo- suimus observatione, Socratis hic
veram sententiam bona fide a Platone proponi. 8 . Ac primo
illud meminerimus, So- cratem hic (p. 340, E) introduci senem,
tantum non decrepitum, quem facile ju- venis Phaedrus viribus superet. Jam
fingitur Phaedrus audisse Lysiam dispu- tantem, magis obsequendum
gratifican- dumque esse non amanti, quam amanti : camque orationem
Socrati prcelegere sens. Cest ce qui m’a engage a lire
attentivement ce dialogue, et plutot deux fois qu’une, dans son entier,
et dans le Grec, afin d’echapper a ces chances d’er- reur dont j’ai
parle plus haut et qui font trebucher les plus doctes. II sera
peut-etre interessant, je 1’espere, pour ceux dont 1’esprit
repugnerai-t a une besogne si longue et si difficile, de connaitre
sans grande etude le sujet et pour ainsi dire 1’economie de ce
livre, et de pouvoir apprecier toute la theorie de Platon ou de
Socrate. Nous admettrons, pour ne pas abuser de la reserve faite par nous
plus haut, que la doctrine de Socrate a ete ici exposee de bonne foi par
Platon. 8. Rappelons d’abord que Socrate y est presente comme
un vieillard, non pas tout a fait tombe en decrepitude, mais qu’un
jeune homme, comme Phe- dre, peut maitriser aisement. Phedre ra-
conte qu’il a entendu Lysias discourir sur cette question : Un jeune
homme doit-il avoir plus de facilite et de com-
2b (a p. 338 , C. ad 33 g, G). Reprehendit hanc Lysiae
orationem , cante quidem et multa cum ironia Socrates , et meliora
se audisse ait , quae dicere illum amabilis- sime cogit Phcedrus.
Incipit hic a Musa- rum invocatione (p. 340 , G) quam calum-
niatur, ut modo dicebamus 3 ), Lu- cianus : cum sit nihil in ea oratione
non virginum auribus dignissimum. Orditur a definitione Amoris (p.
341, D) quem vocat cupiditatem , quae incitate feratur ad
voluptatem pulchritudinis, et
inde, quam mala res, quam noxia sit, ostendit (ad p. 342, F) et
claudit hexametro : A'j-/.ol aova oi^ouV, ojq ~aToa epAouVjtv
1 r’ 1 ! |Sf/aTra’.. Ut cordi agna lupo est, puerum sic
ardet amator. 9. Bene ista , et Musis faventibus. Sed
subito, At Amor tamen Deus est, inquit , et palinodiam parat , quae
incipit (p. 3 43 . plaisance pour celui qui ne 1’aime pasque
pour celui qui Faime ardemment ? II lit ensuite ce discours
a Socrate. Celui-ci, avec beaucoup de finesse et ddronie,
trouve a blamer dans la composition oratoire de Lysias et pretend qu'il a
en- tendu dire la-dessus autrefois de bien plus belles choses;
Phedre le conjure de les lui rapporter. Socrate debute alors par
cette invocation aux Muses que Lu- cien a calomniee, comme nous le
disions plus haut, car il n’y a rien dans tout le discours qui ne
soit parfaitement digne des oreilles chastes. II commence par la
definition de 1’amour, qu’il appelle un desir violemment entraine vers le
plaisir que promet la beaute ; il enumere en- suite les ecarts
auxquels il peut pousser et conclut parcet hexametre : Comme
le loup aivic Vagneau , ainsi Vamoureux [cherit le jeune
garcon. 9. Voila qui est bien, grace aux Muses. Mais aussitot
: L’ Amonr est cependant un Dieu, s’ecrie-t-il ; et il entrcprend
une F) ab eo, uti
dicat, non ideo amorem damnandum fuisse, quod sit furor ; esse enim
furorem etiam bonum aliquem : ipsam [jLavTixrjv 5. divinatoriam
facultatem esse a verbo [i-aiveaOai dictam , velut quan- dam
[j.avi/7]v s. furiosam. Talis furoris plura genera enarrat , in his etiam
ponit amorem, cumque (p. 344, C ) magnae felicitatis causa tum
amantis cum amati datum his esse divinitus, conatur osten- dere. Ad
eam demonstrationem sumit primo hanc propositionem. Omnem ani- mam
esse immortalem, quam inde pro- bat (quam bene vel male , nunc non
dis- putamus) quod principium motus sui in se habeat.
1 0 . Deinde similem ait animam no- stram, etiam antequam ea in corpus
ve- niat, bigae alatae cum suo auriga. Alte- rum hujus biga 3 equum
bonum ponit et tractabilem (ibid. E), malum alterum ac
refractarium. Sic coelestia spatia ingre- diuntur ista • cum suo auriga
bigce, et ET l’aMOUR GREC 2(J palinodic en declarant
tout d’abord que 1’amour n'est pas condamnable en soi, qu’il estun
delire, et que dans tout delire il y a quelque chose de bon ; que
fxavnxr], la divination, derive du mot (jiodveaGai, comme qui
dirait [xavtxr), c’est-a-dire folle. II compte diverses especes de
delires parmi lesquelles il place 1’amour, et il s’efforce de montrer que
c’est un present divin fait a bhomme pour le plus grand bonheur de
celu*i qui aime et de celui qui est aime. Sa demonstration s’appuie
sur cette proposition premiere: Tonte dme est immortelle, dont il tire
la preuve (bien ou mal, ce n’est pas notre affaire) de ce qu’elle a
en soi le principe de son mouvement. io. Il compare ensuite
notre ame, avant qu’elle ne vienne habiter un corps, a un attelage
aile, compose de deux chevaux et d’un cocher. L’un des chevaux est
excellent et docile ; 1’autre, d’un mauvais naturel et retif.
L’attelage parcourt ainsi les espaces celestes, avec Deorum
aliquem secutce (Socratis anima Jovem , p. 846 , D) ea spatia
permeant. In hoc volatu et illa equorum dissimilium dissensione,
alia; quidem anima; retinent alas, et ad sublimia feruntur, contem-
plantur que ea etiam, qua; extra supre- mum coeli orbem sunt (p. 345 ,
B). Alia;, qua; partim in altum elata; viderunt plu- ra, partim ab
equo illo refractario impe- dita; ac retractae, pauciora ;
ruptisque per illam equorum in diversa tendentium luctam pennis
atque amissis, cadunt, et in corpora humana veniunt. 1 1 .
Harum, pro gradu cognitionis illius et inspectionis rerum
coelestium diverso, novem classes constituit (ibid. F). Qua
plurimum veritatis et rerum coeles- tium vidit anima, ea inseritur
semini, e quo nascatur aliquis sapientias, pulchri, doctrinas, et
amoris studiosus, st? yovfjV et l’amour grec 3 I son
cochcr, et s’elance a la suite de l’un des douze dieux ( 1 ’ame de
Socrate sui- vait Jupiter). Dans cette course a travers les espaces
et malgre la lutte des deux chevaux, si dissemblables, quelques
ames parviennent a garder leurs ailes, voya- gent dans les regions
etherees et con- templent meme ce qui est au dela de la voute du
ciel. Les autres, parfois em- portees jusqu'aux plus hautes
regions, parfois retenues et embarrassees par le cheval retif,
n’arrivent qu’a connaitre une partie des mysteres ; dans cette
lutte des chevaux qui tirent en sens inverse, elles brisent et
perdent leurs ailes ; ces ames tombent alors sur terre et sont
emprisonneesdans les corps des hommes. 1 1 . Suivant le degre de
connaissance qu'elles ont atteint dans la contempla- tion des
essences, Socrate divise en neuf classes ces ames dechues. Celle qui
a per9u le plus de verite et de choses sublimes, vient animer le
germe d’ou naitra un homme tont entier consacre au
avopo? ycV7]ao[j.c'vO’j ? oiXoao^ou, 7) <pt\oxaXou, tj fi.ouaixou
Ttvos, x at spamxoy. Secundi fastigii anima animabit regem, legibus,
bello, imperio, potentem : tertiae classis anima civitatis
familiaeque regendae et rei fa- ciendae peritum : quartae, laboris
aman- tem eundemque in exercendis sanan- disve versantem corporibus
: quinti ordinis animae vitam habebunt in vati- cinando, aut in
castimoniis initiisque mysteriorum occupatam : sexti, poetas :
septimi, geometras aut fabros : octavi sophistas aut cum factione
populares : noni denique animabunt tyrannidis cu- pidos. Multa hic
nec injucunda de hoc ordine , de his vitee generibus, disputandi
occasio : sed maneamus in argumento nostro. 12 . Ha’ omnes
anima?, cum morte dis- cesserunt a corporibus, in locum vel pce-
33 ET L’AMOUR GREC culte de la sagesse, de la
beaute , de la Science et de Vamour ; Vdme du second degre vivra
dans le corps d’un roi juste , belliqueux et capable de commandere
celle du troisieme fonnera un homme habile a administrer sa famille, sa
cite ou la chose publique ; celle du quatrieme un athldte laborieux
ou un medecin, tous deux occupes soit d exercer le corps humain ,
soit d le guerir ; les ames de la cinquibme classe passeront leur vie ,
soit d predire 1’avenir, soit d initier aux abstinences et aux
mysteres ; celles de la sixieme former ont des poetes ; celles de
la septieme , des laboureurs ou des ou- vriers,- celles de la huitieme,
des sophistes ou des chefs de factions populaires ; celles de la
neuvidme, enfin, des tyrans. Ce serait peut-etre 1 ’occasion de
dispu- ter, et non sans agrement, des rangs assignes a ces ames et
de leur genre de vie : mais restons dans notre sujet. 1
2.Toutes ces ames,quandle trepas les a separees du corps, parviennent au
sejour narum vel pr cerni orum perveniunt, et mille
exactis annis, accipiunt potesta- tem eligendi sibi nova corpora ,
vitas novas, sive hominum sive bestiarum . Quce anima ter sibi,
exactis millenis illis annis, primam istam sedulo philoso- phantis,
sive pueros cum philosophia amantis, vitam delegerit (p. 3g5, G)
tou <ptXocrocprjaavto; aooXc. 05, r] "atospaaxrJcjavTO;
[j.£xa <ptXoao<p''a;, ea, absoluta ista ter mille annorum periodo ,
pennas denuo accipit, quibus ut ante tolli, deum aliquem sequi,
contemplari coelestia , queat : cum reli- quarum octo classium animae,
non nisi decies mille annorum periodo absoluta, in primam illam
conditionem restituan- tur. Hoc ipsum quod primam et felicis- simam
classem Paederastarum philoso- phantium constituit, quod tantum
prae- mium illis, compendium septies mille annorum, tribuit Mythi
hujus s. Allego- ria ? auctor, sive Socrates fuit, sive Pla- to ;
hoc ipsum igitur jam satis monere nos poterat, non posse hic sermonem
esse de re ita turpi , quam fuisse illud, cujus ET LaMOUR
GREC 35 des peines et des recompenses, et au
bout de mille annees, recoivent la permission de choisir de
nouveaux corps, soitd’hom- mes soit de betes, et de vivre de nou-
velles vies. L’ame qui, durant trois revo- lutions de mille annees, trois
fois de suite a choisi Texistence d’un homme quicultive sincerement
la philosophie, ou qui aime les jeunes gens d'un amour
philosophique , a 1’expiration de cette triple periode, recouvre les
ailes qidelle possedait autrefois et peut, comme au- paravant,
suivre l’un des dieux et con- templer les essences celestes. Les
huit autres classes ne retournent a cette con- dition premiere
qu’apres une revolution de dix mille annees. Ainsi la premiere
classe et la plus heureuse est celle des philosophes amis des jeunes
gens, et l’in- venteur de ce mythe ou allegorie, que ce soit
Socrate ou Platon, la favorise d’une exemption de sept mille annees
: cela seul nous avertit assez qu’il ne peut etre question ici de
ce vice infame dont on accuse Socrate et que d’ailleurs les
3postulatur Socrates, ipsis etiam legibus Atticis, paullo post ostendemus
: sed ma- gis hoc apparebit, si quis ea, qu ce sequun- tur, apud
Platonem paullo attentius considerare mecum voluerit. i 3 .
Intelligentia hominum , ex pluribus rebus sensu perceptis collecta, nihil
est aliud, quam recordatio illorum, quae anima in illo volatu suo
coelesti viderat, quae sola verum illud ens sunt (t 6 ov-co; ov, p.
346, A). Haec intelligentia maxima est in illa prima philo sophantium
paede- rastarum classe : haec ipsa est, ob quam alas soli
recipiunt, quibus volatum illum coelestem, deorumque comitatum tentant
: prae qua terrena hcec, et sensus externos ferientia, ita
negligunt, ut male sani aliis et furiosi videantur, icocpa
-/.ivouvts?, quos commotos s. commotce mentis vocat Horatius (Serm.
2, 3 , 2og et 278), cum re vera divino quodam spiritu agi- tentur,
svOouaux^oviss, qui illos semper ad coelestem illam pulchritudinem
revocet, quam in priore volatu viderant. lois Athenicnnes
reprimaient, comme je le demontrerai tout a 1’heure ; cela de-
viendra plus evident encore pour qui voudra bien examiner
attentivement avec moi ce qui suit dans Platon. i3.
L’intelligence humaine est formce de la reunion des idees percues a
l’aide des sensations, et les idees ne sont rien autre chose que
les reminiscences de ce que 1’ame a vu anterieurement dans son vol
celeste, c’est-a-dire des essences veritables. Or 1’intelligence la plus
com- plete appartient a la premiere classe, a celle des philosophes
amis zeles des jeunes gens, et c’est pourquoi seuls iis recouvrent
les ailes a 1’aide desquelles iis pourront essayer de nouveau de
par- courir le ciel et suivre le cortege des dieux. Detaches des
soins terrestres et de tout ce qui frappe les organes, iis pas-
sent pour des insenses et des hommes en delire, -apa/ivoSvis?, de ceux
qu’Horace appelle des fren^tiqucs, des esprits trou- bles, tandis
que vraiment ce sont des en- Haec pulchritudo , qucc inest
in sensu, <ppov 7 ]<m (p. 846, E), in mentis qua vult et
intelligit prostantia, si ita in oculos, ut alia quce videri his
possunt, incideret , ad mirabiles sui amores exci- tatura esset.
Jam pulchritudo sola corpo- rum, hanc (Aotpav habet, hoc velut
fatum, et conditionem , uti subeat oculos, ut amo- rem moveat. Hinc
ponamus ipsa verba , ut existimare melius ac certius de tota re
possint etiam, quibus ad manus non est Plato ipse, vel magnum volumen de
pluteo promere non lubet. c O piv oOv pu] vsoxeXt];, ■Jj
otscpQappivos, oux otjiiog evOevOs Exstas ©s'psxat 7ip6; auxo xo xaXXo;,
Ostopisvo; a3xou xrjv xrjoE smavupiiav. waxs ou as'6sxat 7rpoaopojv,
aXX’ 7]3ov^ 7:apaoou;, zBzpdtTzodog vo ptco (Batvstv S7Ct- y stpsT
xat 7iat8oa7EOpstv. xal u6pst x:poao|j.tXaiv, ou os'ootxsv ou 8’
ata/uvsxai IIAPA ‘I^TXIIN ( 1 ) (1) Notabile est, Platoni etiam de
Ijcgib. r . thousiastes, agites comme d’un transport divin,
qui les attire sans cesse vers cette beaute celeste precedemment
entrevue par eux dans leur vol. 14. Cette beaute, dont
Pessence reside dans un sens particulier, la sagesse, source de la
volonte et de 1’intelligence, s’il etait donne a l’oeil de
1’apercevoir, comme toutes les autres choses visi - bles, elle nous
exciterait a d’admirables amours. Mais c’est seulement la beaute
corporelle, telle est sa necessite fatale et sa nature, qui frappe les
yeux et nous porte a 1’amour. Ici nous placerons le texte meme afin
que ceux qui n’ont point Pla- ton sous la main ou qui ne se
soucient pas de tirer du rayon un gros volume, puissent se faire
une opinion en toute p. 56g, E. hanc turpitudinem appsvwv np 6?
appevag, Ij OrjXsTwv xpog OrjXsix;, to ITAPA •bTSIN To'X[j.7)p.a
appellari. Non igitur Plato- nem , vel Socratem adeo, feriunt divina illa
ful- mina Pauli Rom. /, 26 . sq., ut neque ea, qua ? in idolatriam
vibrantur. f,5ov7]v 0 -W.ojv. '0 8e apttteXrj?, 6 twv
xdxe TroXuGcapojv, oxav OsoEtSsg r.poaioTzov' t07), -/.aX- Xo; eu
[j.E[j.vr ( [x£vov rj uva ac;o$fj.axo ios'av — oj? Geov a£'6sxai. Hcec
ita verto, Hic ergo, qui non est nuper illis mysteriis coeles-
tibus in illo volatu animarum initiatus, aut, initiatus cum esset,
corruptus est, non celeriter, ut oportebat, hinc, ab hac corporea,
non vera, pulchritudine, illuc fertur ad ipsam veram, coelestem
pul- chritudinem, cujus hic videt nomen, umbram , similitudinem :
itaque neque inter adspiciendum eam, divinum quid- dam colit : sed
libidini se tradens, qua- drupedis ritu inscendere formosum co-
natur, et genitale semen profundere, et cum contumelia (vid. ad §. 18)
congres- sus formoso corpori , non veretur, nec erubescit PRXETER
NATURAM libidi- nem persequi. At ille nuper initiatus, qui multa
eorum quae tum videbat , contemplatus est, ubi vultum divino
similem conspexit, qui pulchritudinem illam veram bene imitetur, aut
incor- poream quandam illius speciem, verbo , certitudc. «
L’homme qui n’a pas un « souvenir recent de son initiation aux «
mysteres, ou qui, recemment initie, « s’est laisse depraver, ne s’eleve
pas fa- « cilement, comme il faudrait, de cette « beaute
corporelle, qui n’est pas la « vraie, a cette beaute celeste,
absolue, « dont il ne rencontre ici-bas que le nom, « 1’ombre, la
ressemblance ; en 1’aper- « cevant il n’y respecte rien de divin. «
Entraine par la volupte, il se precipite, « comme une brute, sur 1’objet
de ses « desirs, ne cherche qu’a genitale semen « profundere et,
outrageant ce beau « corps qu ? il etreint, il n’a pas honte, il «
ne rougit pas de poursuivre un plaisir « contre nature ( 1 ). Au
contraire, l’hom- « me, encore plein des saints mysteres « qu’il a
longtemps contemples autrefois, (1) 11 est remarquable que Platon,
meme dans ses Lois, appelle crime contre nature le commerce hon-
teux marium cum maribus, et feminarum cum fe- minis. Les foudres de Saint
Paul ( Ep . aux Rom. 1. 26) n’atteignent donc ni Platon ni Socrate, pas
plus que celles qu’il lance contre 1’idolatrie. virtutem
speciosam : — Dei instar colit. i5. Deinde enarrat
pheenomena quae- dam hujus sancti et philosophici amoris , similia,
ex parte Venerei, et quomodo illa ' alce, quas amiserat anima , hinc
de novo crescant, sub Allegoria perpetua describit, qua nihil aliud
tandem indicat , quam enthusiasmum quendam , et injec- tam
divinitus philosopho cupiditatem versandi cum pulchris, h. e. ingenio
vel forma potentibus, adolescentulis : quos nempe captabat
Socrates, qui sciret , cum facilius sit formare ad sapientiam et
virtutem hanc aetatem, tum hos esse, a quibus futura civitatis fortuna
pendeat. Hinc est quod se venari pulchros non dis- simulabat (vid.
Protagora > principium , frustra reprehensum Cyrillo contra
Julia, i, 6, p. i8j, A), quod Xenophon- tem baculo etiam transverso
objecto et l’amour grec q'3 « en presence d’un visage
presque divin « ou d’un corps dont les formes lui rap- it pellent
1’essence de la beaute, c’est-a- « dire 1’essence de la vertu, adore
comme « en presence de la divinite. » i5. Platon retrace
ensuite quelques- uns des phenornenes de ce saint et phi-
losophique amour, parfois peu different de l’autre; il montre aussi
comment re- poussent les ailes autrefois perdues par rame. C’est
une allegorie perpetuelle dont la conclusion est que le philosophe
con^oit, par une sorte de grace divine, le plus fervent desir de vivre au
milicu des beaux adolescents distingues par la perfection de leurs
formes ou par leurs dispositions naturelles. C’est ceux-la, en
effet, que Socrate ambitionnait de gagner , sachant qu’il est facile, a
cet age, de les tourner au bien et a la vertu, et que c’est d’eux
que dependent les futurs des- tins de la Republique. II appelait
cela prendre les beaux garcons dans ses filets (voyez la-dcssus le
commencement du. velut exceptum, sibi adjunxit (Diog. Laert.
2, 48). Ipsum illud hinc est , quod gymnasia , conviviaque et
deambulatio- nes, quoscunque denique juvenum coetus, sequebatur,
quod ludos et jocos non refu- giebat, quod se plane communem illis
faciebat , nec irrideri aut peti maledic- tis refugiens. Ipsa illa ironia
perpetua, quod doceri se velle simularet , certe dis- cendi causa
disputare , ut accessum ad Sophistas illi dabat , ita
adolescentulo- rum super bulae de se opinioni et praeci- pitantiae
blandiri videbatur. Sed perga- mus Platonis Mython enarrare.
16. Philosophi illi amatores pulchro- rum non indiscretim omnes amant ,
sed (p. Sdy, C) quem quisque in illo coelesti volatu Deum secutus
est , ejus Dei si- milem sibi quaerit amasium; qui Jovem , ut
Socrates, Jovialem (Auvov x wa), Martia- lem vero qui Martem, et sic
Junonios. ET Protagoras , blame a tort par Saint Cy- rille),
et il se fit de la sorte un disciple de Xenophon qu’il arreta en lui
barrant le passage avec son baton. Voila pour- quoi aussi il
frequentait les gymnases, les banquets, les promenades, tous les
lieux de reunion des jeunes gens, ne fuyait ni les jeux ni les badinages,
s’en- tretenait avec tous et s’inquietait peu de preter a rire aux
medisants. Cette ironie perpetuelle grace a laquelle il feignait
toujours de vouloir apprendre, pour mieux enseigner, lui donnait acces
au- pres des Sophistes et flattait aussi la suf- fisance et la
presomption de la jeunesse. Mais achevons d’exposer le Mythe de
Platon. 16. Ces philosophes amoureux des beaux garcons ne
s’attachent pas indis- tinctement a tous ; selon le dieu quhls
accompagnaient dans les espaces etheres, chacun d’eux choisit parmi les
anciens suivants du meme dieu celui qu’il doit aimcr. L’ame qui
etait, comme celle de SOCRATE 46
Bacchicos , Apollineos : et talem ubi in- ventum amare coeperint ,
faciunt omnia , uti Deo illi, quem ipsi secuti sunt, et cu- jus jam
similitudinem quandam in ipso deprehenderunt, sibique adeo ,
reddant quam similimum. Ita Socrates, Jovis in illo volatu
satelles, quaerit Joviales, ama- tores natura sapientiae, et natos ad
im- perandum. Hactenus ergo bene res ha- bet, sancti tales
Paederaslce, J elices qui sic amantur. / 7 . Sed nec
dissimulanda sunt quae sequuntur apud Platonem. Redit Socrates (p.
3 -lj, F) ad superiorem illum de Ani- ma Mythum (’§. 10), quam triplicis
na- turae ponit scilicet. Sunt vellit equi duo, est auriga. Equorum
alter bonus, sanus, verecundus, gloria • amator , qui sine pla-
gis, sola ratione auriga regitur : pravus alter, qui multum ac temere una
aufera- Socrate, dans le cortegc de Jupiter, re- cherche un suivant
de Jupiter, et ainsi des autres qui avaient choisi Mars, ou Junon,
ou Bacchus ou Apollon. Des qu’ils Pont trouve, iis s’efforcent de
rendre celui qu’ils aiment semblable a ce dieu dont iis retrouvent en
eux-memes le caractere. Ainsi Socrate, satellite de Jupiter,
recherchait pour les cherir ceux qui avaient aussi suivi ce dieu,
c’est-a- dire ceux qui, par nature, etaient portes a la sagesse et
a la domination. Jusqu’ici tout va bien ; de tels Pederastes sont
de vrais saints, et bien heureux ceux qui sont aimes de la sorte
! 17. Mais il ne faut pas dissimuler ce qui vient apres dans
Platon. Socrate re- tourne au precedent Mythe de hame qu’il a
coniparee aux triples forces reu- nies de deux chevaux et d’un
cocher. L’un des chevaux est bon, sam, plein de retenue et
d’emulation ; le cocher le di- rige, sans avoir besoin du fouet et
par la seule persuasion : 1’autre est mechant SOCRATE
48 tur , (impetu alieno potius feratur , smo judicio)
dura ac brevi cervice, simus, nigri coloris, glaucis oculis, suffusus
san- guine, petulantia contumeliaque gau- dens, hirsutus circa
aures, surdus, fla- gello ac stimulis vix tandem concedens. Operet
? pretium videtur mali equi notas etiam Gra } ce ponere : cxoXt 65, ~oXu;
eixrj a'j[j. 7 :scpopr]|j.^vo?, xpaTEpauyrjv, ( 3 payuipayrjXo?,
aipLOTCpoacoro;, [xsXayypa);, yAauxop.p.a“0?, oepat- [xo;, u6p ew; xal
aXa^oveiac staTpo?, zept coxa Xaaco; , xwipog , gaartyt p.S7a xdvxpwv
[xdy.; UTEclXOJV . r<S\ Apposui Graeca , ut facilius
judi- cari possit , probabilisne sit conjectura, in quam incidi ,
dum in hac equi mali de- scriptione versor. Nempe, aut vehemen- ter
fallor, aut memorat hic Socrates non tam equi mali proprie dicti signa,
quam sui corporis formam, quatenus vitiosum inde ingenium
colligebat physiognomon ille Zopyrus. Hic enim , ut est apud Ci-
ceronem (de Fato c. 5), Stupidum esse Socratem dixit et bardum, —
addidit et s’emporte facilement, sans raison au- cune (c 7
est-a-dire qu’il semble dirige plu- tot par une force exterieure que par
son propre jugement); il a 1’encolure courte et dure, les naseaux
apiatis a la maniere du singe, le poil noir, les yeux glauques le
sang le tourmente et il est toujours en rut et en querelles ; il a, de
plus, les oreilles velues, il est insensible a tout et n 7 obeit
qu’a peine au fouet et a 1’aiguil- lon. Il est necessaire de transcrire,
dans le texte Grec, ces marques particulieres du mauvais
cheval. 18. J’ai cite le texte afin qu’on puisse decider si
la conjecture que me suggere cette description du cheval retif a
quel- que vraisemblance. Ou je me trompe fort, ou Socrate ici
retrace moins les ca- racteres d 7 un cheval defectueux que son
propre portrait, dans lequel le physio- nomiste Zopyre trouvait les
indices d’un naturel vicieux. Zopyre, au dire de Ciceron (Du Destin
, chap. v) pretendait en effet que Socrate etait lourd et stu~
etiam mulierosum. Illud de stupore con- venire cum Homzne
xpaTepau/7)v et (3payuxpa- mox declarabitur : quod muliero- sum
dicebat, illud cum G6psa Ixatpop con- gruit : novimus enim quos uSp-.sxa;
tum dixerit Graecia ( i ). Porro illud aipio-pd- aw-ov plane
pertinet ad notationem Socra- tis, in quo cum deridetur a Critobulo
(2), tum ipse suaviter sibi illudit, et in eo patulisque non modo
deorsum sed in hori- qontem naribus, non minus quam in ocu- lis
ultra frontem eminentibus, et labio- (1) Unum ponamus exemplum e
libello, quipree manu est, Aristotelis Physignom. c. ult. p. / 18
1, E. 01 (Jisya cpcnvotjvxs; papuxovov, OSpiaxa^. Ava- tpspexat £~1
xoj; ovoj;. Physiognomones e simili- tudine vocis asinina: argumentum
ducunt ad libi- dinem asininam. Conf. § 14, it. 32 . (2)
Xenoph. Sympos. c. 4, § /p, Socrates ad Critobulum, formee sua:
jactatorem, x; xoDxo ; w? yap /a! Ip.o 0 ' zaXXtcjjv wv xauxa
v.oxt.xCv.c,, Quid istuc? quasi me quoque pulchrior esses, ita
gloriaris. Ad qua: Critobulus , Nrj Ata, rj Ttavxcov SsiX7jvwv xmv
sv aaxupixoh; alaytaxo; av eVtjv . Nisi te for- mosior essem, ait, essem
Sileuorum, qui in Satyri- cis fabulis in scenam veniunt, turpissimus.
pide; il aurait ajoute : adonrtd anx plai- sirs veneriens. Pource
qui est dela lour- deur, cela concorde avec 1’encolure courte et
dure ; adonne anx plaisirs ve- neriens, repond a &'6peto; ItaTpo;.
Nous savons, en effet, quels etaient ceux que les Grecs appelaient
uSpiatat' (i). Quant a la face simiesque, cette designation s’ap-
plique parfaitement au portrait de So- crate ; il y a fait lui-meme
agreablement allusion en repondant aux moqueries de Critobule ( 2
). Il avoue que toute sa beaute consiste en un nez epate et me-
nafant le ciel, en des yeux saillants et (1) Contentons-nous d’un
seul exemple tird du livre que nous avons sous la main , le De
Physiognomia , d’Aristote : Ceux qui ont la voix forte et grave
sont &6picrcai, par similitude avec Vane. De ce que la voix £tait
bruyante comme celle de l’ane, les phy- sionomistes conci uaient qu’on
devait avoir le tempe- rament lascif de cet animal. (2)
Xenophon (Banquet, ch. IV, 19). Socrate dit il Critobule, qui vante sa
propre beautd : « Quoi donc ? Tu crois etre plus beau que moi ? »
Critobule lui repond : « Si je n’etais plus beau que toi,je serais
le plus affreux de ces Silenes que Von voit paraitre dans les drames
salyriques. » rum tumore molli , pulchritudinem suam
prcedicat (Xenoph. Sympos? c. 5) sicut in Platonis Convivio (vid. §. 35)
Sileni s. Satyri formam Alcibiades illi tribuit : et in Tlieceteti
Platonici principio Theo- dorus negat pulchrum esse Thecetetum, cum
sit Socrati similis, tQ te cijxo-rjta xat to s£w twv o[j.[j.aTtov, naso
simo et eminen- tibus oculis, licet minus quam Socrates utraque re
sit notabilis. Nempe hcec si- gna cum haberentur, et naturales
quae- dam notce, hominis libidinosi, iracundi et stupidi, non
negabat illud Socrates, verum eo majoris faciendam esse Philo-
sophiam ostendebat, quee tantum contra vitiosam naturam valeret.
iy. Quoniam hic sumus, non injucun- dum forte fuerit lectoribus
nostris in rem quasi preesentem ire, et ex artis, qualis tum erat,
praeceptis, Zopyri judi- cium defendere. Vix autem opus est
admoneri lectores, non hoc agi, Num veri aliquid sit in ea arte? Num
ipso des levres gonflees comme un abces ; de meme dans le
Banquet de Platon, Alci- biade compare son masque a celui de Silene
ou d’un satyre, et au commence- ment du Theatdte , l’un des
interlocu- teurs, Theodore, refuse toute grace a Theatete en disant
qu’il ressemble a So- crate, qu’il est camard et que les yeux lui
sortent de la tete ; que pour etre chez lui moins apparents que chez le
maitre, ces defauts n’ensontpas moins sensibles. Socrate ne niait
pas d’ailleurs que ces particularites physiques n’indiquassent un
homme lascif, violent et d’un esprit paresseux ; il en concluait seulement
en faveur de la Philosophie qui parvient a dompter un si vicieux
naturel. 19. Pendant que nous y sommes, il ne deplaira
peut-etre pas au lecteur d’aller plus au fond sur ce chapitre et de
de- fendre les idees de Zopyre, idees basees sur des regles alors
acceptees. Il nes’agit pas de savoir si cette Science est sure ;
est-ce que 1 ’excmplc meme de Socrate etiam Socratis exemplo ea
refellatur, et vanitatis convincatur? sed hoc modo , quod dixi,
Utrum Zopyrus ex arte, et ut oportebat, judicium de illo tulerit?
Exstat in operibus Aristotelis libellus, <J>uaioyvoj[juxa
inscriptus, quo superiorum hujus artis consultorum collegisse prae-
cepta videtur . Hinc ea, quee ad formam Socratis, qua ? ad equi hujus
mythici na- turam pertinent , huc transferamus. 2 0 . Igitur
(c. 3, p. 1 1 j3, B) inter ’Avai- c07j- ou hoc est stupidi , et sensu
communi pene carentis signa sunt ~'x nepl tov auysv a aap'/.oj07)
7.ocl G'j[j.7ZB7zXsj[isva x a\ auvo£ 0 £|j.£va, Ea quas adjacent collo
carnosa, com- plexa et colligata, itemque cervix crassa, XGxytjkoq
-ayjj;. Et (c. 6. p. I Ij8, C) Oi? Ta "£p\ ta; xXeTBoc;
aug~£pi~£cppaY(x£va £<ruv, avodaQiyroL. Nonne totidem fere
verbis Ciceronianus Zopyrus? Stupidum esse Socratem, et bardum quod
jugula con- cava non haberet, obstructas eas partes et obturatas.
Alia adhuc mala signifeat ista conformatio. Olc xpd.yrj.oc r.ayyc
xai ne temoigne pas du contraire ? Mais Zopyre en a-t-il
tire, en ce qui concerne notre Philosophe, un pronostic judi- cieux
? II y a dans les oeuvres d’Aristote un opuscule intitule Physionomiques
ou ce philosophe parait avoir recueilli les regles admises avant
lui par les habiles. Nous transcrirons celles qui se rappor- tent
au portrait de Socrate et au carac- tere de son cheval mythique.
20. D ? apres Aristote (chap. m), les in- dices d’un esprit lourd
et presque prive du sens commun sont le gonflement des chairs qui
avoisinent le cou, leur engor- gement et leur replelion- ce qu’il
con- firme en disant au chapitre vi : « C’cst un signe de betise
que d’ avoir 1 ’cncolure epaisse. » Zopyre, dans Ciceron, n’ex-
prime-t-il pas la meme idee? Socrate, dit-il, etait lourd et stupide,
parce quii navait pas le cou bien degage, que ces parties etaient
cheq lui comme engorgees et obstruees. Cette conformation indi- que
cncore bien d’autrcs dcfauts : la 56 SOCRATE
TzlioK, 0 o 1 uo£i 8 e!'s, Crassa et plena cervix iracundos
signat, exemplo taurorum : Ol? 8s [Bpayjj; ayav, irdfi ouXoi, Brevis
nimium quibus est, ii sunt homines insidiosi, lu- porum instar.
Talem modo vidimus illum malum equum, xpaxepauyeva et [Bpa-
yuxpayjiXov. Talem nisi fallor se indicat Socrates, aut potius talem
significat Plato Socratem, a natura fuisse. 21. Videamus
reliqua. Equus malus Socratis est — sp\ xa wxa ).asto;, hirsutus
circa aures. Libidinosi, Xayvou, apud Aristotelem ( c . 3 extr. p. 1174,
C) o t xpdxoupot oaa$T?, densa pilis i. e. hirsuta tempora. Deinde
(c. 6. p. 1174, C) oi xa yecXrj “aysa eyovxe; puopoi — avacpdpexai
£7ii xou; ovou;. Physiognomones crassa labia stultitiae
characterem faciunt, ob simili- tudinem asinorum. Quid de se
Socrates (Xenoph. 1. c.) in ludicra cum pulchro Critobulo
contentione? Ata 76 r.ayla. syeiv xa ylCkt], oux otst xa\ [xaXaxaSxspdv
oou 'iyv.v xo csfX7]p.a; Propter labia crassa suum putat osculum
mollius. Et, v Eotxa syw xaxa xov et l’amour grec 5 7
nuque epaisse et charnue denote un homme violent, par similitudo
avec le taure au ; ceux qui l’ont trop courte sont ruses, par
similitude avec le loup. Or, cette indication, 1’encolure epaisse
et courte, figure parmi les marques du mauvais cheval. Si je ne me
trompe Socrate avoue qu’il etait bati de la sorte, ou plutot c’est
ainsi que le depeint Platon. 21 . Voyons le reste. Le mauvais
che- val Socratique a les oreilles velues : Aris- tote designe
comme libertins ceux qui ont du poil jusques sur les tempes. De
plus, les physionomistes notent les grosses levres comme un indice de
betise, par similitude avec 1’ane. Or que lisons- nons dans la
plaisante discussion (Xeno- phon, 1 ) de Socrate avec Critobule? —
« A cause de ses l&vres charnues il pense que son baiser est plus
sensuel », et plus loin : « Je te par ais avoir, 6 Critobule, une
bouche plus difforme que celle de Vane, avec ces bourrelets qui me
tienncnt lieu de levres. » aov Xoyov x at Ttov Ovojv aiayiov
to GTOu.a lysiv, turpius os quam habent asini illum mollem labiorum
tumorem habere tibi, o Critobule , videor. 22 . Simus fuit,
ut vidimus, Socrates : at|jio-po'ato7:o; est malus equus. Quid Phy-
siognomones, atque adeo Zopyrus ? Si fides Aristoteli (c. 6. p. iiyg, B.)
01 G'|j.7jV Eyovts; piva, Xayvor avacpspezai i~\ tou; iXa^ou;, Simi
sunt libidinosi, exemplo cervorum. Patulas quoque versus nares
suas, qu£e possint odores undecunque oblatos excipere, laudat sipojv
Socrates Xenophonteus , pra ? Critobuli naribus humo obversis. Ot
;xev yao ao\ (xuxT7jpE; ei; yrjv opcSat, ol 8’ eijloi ava“£"tavTat,
wgte tx; T:av~o0£v oGua; izpoa ov/yOou. At Physio- gnomones ( I .
C.), 0:; o! p.uxT7jp£$ ava"E^"a- pL^vot, OupiojoEi;, Iracundi
sunt, quorum patula? nares, quod in ira diffundi so- lent.
Iracundum valde a natura fuisse Socratem, non soli credamus Cy r
rillo, quamvis Porphyrium auctorem laudat , qui ab Aristoxeno se
illud dicat acce - Socrate, nous le savons, etait ca- mard ;
son mauvais cheval a les naseaux ecrases du singe. Quel indice en
tirent les physionomistes et Zopyre ? Aristote dit : « Les camards
sont lascifs, par simi - litude avec le cerf ». Socrate declare
quii a les narines lar gement ouvertes , comme pour subodorer de toutes
parts les parfums. Jaime mieux cela, dit-il, que d’avoir, comme
Critobule , un ne^ penche vers le sol. Mais d’apres les phy-
sionomistes, c’est 1’indice d’un tempera- ment porte a la colere. Que
Socrate ait etedun naturel violent, nous ne nous en rapporterons
pas la-dessus seulement a Saint Cyrille, quoique son temoignage
soit corrobore de ceux de Porphyre etd’A- ristoxene et qu’il dise en propres
termes : « Socrate etait devenu si irritable qu’il ne pouvait
moderer ni ses paroles ni ses pisse, ’'Ote <pXe-/0e't7]
utzo zou TrdOou; toutou [de ira sermo est) ostvrjv etvat xr ( v
aayr][jLO(Hjvr)v • ouoevo; yap ouxe ovopiato; azoa^saOat oSxe
-payjj.ato;, Eo importunitatis progressum , ut nullo neque verbo neque
opere absti- neret : sed ipsi de se credamus Socrati, qui tam gravi
ac molesto sibi, quam fuit Xanthippe, patientia ? et mansuetudinis
gymnasio opus fuisse, fassus sit apud Xenophontem [Sympos. 2, 10 )
BouXo'|ievo;, dv0pco7tot; y prjoOat jcat opuXe Tv, Tauxrjv
x&ttj- ptat, sii eloco;, oxt, et lauxrjv 'j"Otaco, PAAIQS
TOIS TE AAAOIS 'AIIASIN, avOptfaoic auveaouat, Quam ferre si posset,
facilis esset cum aliis omnibus conversatio. 23 . Unum
superest : e^^OaXpto; erat Socrates. Itaque ita jocabundus disputat
cum pulchro Critobulo, ut cum primo convenisset, Pulchras esse res ,
quatenus respondeant consilio, propter quod ha- bentur ; roget eum
, Cujus rei gratia ha- beamus oculos? eoque, ut necesse erat ,
respondente, Ad videndum, inferat , Suos ergo pulchriores esse, qui Sta
zo actions ». Croyons-en Socrate lui-meme; dans le Banquet de
Xenophon , il avoue que le caractere acariatre de Xanthippe fut
pour lui la meilleure ecole de pa- tience et de douceur; que par la suite
il lui fut plus facile de supporter la con- tradici ion.
23 . Il ne reste plus qu’une chose : So- crate avait les yeux
saillants. Il dispute la-dessus agreablement avee le beau Cri-
tobule, et le fait convenir d’abord que toute chose est belle pourvu
qu’elle re- ponde au but en vue duquel elle existe. Il lui demande
alors : Pourquoi faire avons-nous des yeux ? — Pour voir, re- pond
naturellement Critobule. — E/i bien alors , dit Socrate, mes yeux sont
les plus beaux de tous, car iis me sortent de la £7it-oXatot
sivat, quod emineant, non ea modo, quas exadversum sint videant,
sed etiam quae a latere. Et cum diceretur , secundum hmc
pulcherrime oculatum (euo^OaXjj-GTa-ov : ) animal esse cancrum, id
ipsum affirmat. Jam Physiognomon Aristoteles (c. 6. p. i ijg, D)
"Oaoi i£6z>- OaXjjiot, inquit , aS&vepoi, Fatui sunt,
quibus oculi eminent : rationem petit ab judicio quodam decoris et
convenientia ■ naturali , et ab similitudine asinorum. Male de
horum gente meritus est Stagirita : quce videtur ex hoc prcesertim
libello contraxisse infamiam illam , qua ab eo inde tempore, et
Platonis quibusdam dictis, onerata est : honestum superiori cetate
animal, cujus majestatem, ut Var- roniano verbo utamur, (de R. R. 2,
5, 4) adhuc agnoscebat Homerus. De hac re adjicietur potius huic
disputationi quoddam corollarium, quam ut longius digrediamur a
Socrate. tete, si bien que je puis voir non-seule- ment
devant moi, mais & droite et d gaiiche. Son interlocuteur lui
repond qu’a ce compte les crabes ont de tres- beaux yeux, et
Socrate affirme que c’est parfaitement vrai. Or, d’apres Aristote,
les yeux saillants sont 1’indice de la sot- tise; il tire ce pronostic de
certains rap- ports naturels de convenance, de syme- trie, et de la
ressemblance que ces yeux offrent avec ceux des anes. Le philosophe
de Stagyre a par la bien mal merite de cette race inoffensive, et ce doit
etre a partir de ce petit traite qu’il acquit le mauvais renoni
confirme depuis par Platon lui-meme. L’ane, cet honnete animal,
etait mieux apprecie des genera- tions precedentes, et Homere se
plaisait, suivant le mot de Varron, a lui recon- naitre de la
majeste. Nous ferons de cela un corollaire a cette dissertation pour
ne pas trop nous eloigner presentement de Socrate (i).
(i) Gesner a «Jcrit un appendice intitulc De antiqua Nempe tempus est, ut
videamus, quorsum evadat ille de bono et malo equo Myihus. Ad
conspectum pulchri (p. 34 j, F) bonus ille quidem aurigee
obsequitur, contineri se patitur, malo alteri , quantum potest
reluctatur. Simile certamen est in pulchro, qui amatur : repugnat
malo isti equo bonus illius jugalis, hic enim est (p. 348 , G) 6
[xo'£u£, et ipse auriga adeo repugnat [aet’ dtSous xat Xdyou, cum
pudore et recta ratione. Si ergo ita vincant meliora, et ad vitam
ordinatam, quae eadem philosophia est, ducant illum currum, beatam et
concor- dem hic vitam agunt continentes se, et decus suum tuentes,
syxpatcTs auroiv xat xdajjuot ovtss, in servitutem redacto illo
equo, cui vitiositas animae inerat; in li- bertatem asserto eo, cui
virtus. Tandem vero alati ac leves denuo facti, sic de tri- bus
illis certaminibus (de quibus §. 12) asinorum honestate, imprime i
la suite du Socrates sanctus pcederasta ; il ne nous a pas sembl£
otfrir assez d’interet pour Ctre traduit. (Note Ju Traduc-
teur.) II est temps de voir ou il veut en venir avec son Mythe du
bon et du mau- vais cheval. A Taspect de la beaute, ie coursier
docile obeit au cocher et se laisse contenir; il resiste de toutes ses
forces a son mauvais compagnon. L/objet aime est lui-meme en proie
aunesemblablelutte ; son bon cheval se defend contre les ten-
tatives de son mauvais compagnon d’at- telage, que de plus le cocher
s’efforce de contenir par la pudeur et la raison. Si les meilleurs
instincts remportent la victoire et conduisent le char dans les chemins
de la vie rangee, cest-d-dire de la philoso- phie, les deux amant s
vivent dans le bon- heur et bunion, maitres d’ eux-memes et regles
dans leurs mceurs : iis ont dompte le mauvais cheval, qui repre-
sente le vice, et affranchi 1’autre qui re- presente la vertu. Recouvrant
enfin leurs t ailes et leur legbrete primitives , iis sor- tent
vainqueurs de ces trois luttes vrai- ment Olympiques dont nous avons
parle plus haut. Socrate peut donc dire*sans hesitation que ccux
qui se prescrvcnt. vere Olympicis, unum vicerunt. Absque
hcesitatione igitur beatissimos esse dicit, qui se puros et castos ab
amore Venereo servaverint. 25. At nunc sequitur apud
Platonem, in quo defendere illum , Platonem, in- quam, nam Socratis
causam hic segre- gandum putamus (vid. 6) paullo diffi- cilius est;
tacuisset enim forte sapientius : sed non iniquum (i) excusare.
Nempe his, quee modo prolata sunt, subjungit, quee non scripta
equidem malim : sed pono, ne quid dissimulasse videar, ne parum
bona fide egisse. Quam vero caute, quam suspensa velut manu illud
ulcus tractet, videre opera? pretium est. Eav’ os 8tatT7) <popzi7Ui)~ipx
~z xat A<I>IAO— cptXoTtjxu) 8s yprfacjvzx'., -i/' av ~oj ev
uiOat; sitivi a)xA7) dasXsta Tci> axoXaTCto ajTOtv Gno- JXiytco
XaSovTE, xa\ tjrjya; xopojpo-j; aovaya- yovTE et; toeutov, tf ( v u ~6
:wv -oXX oiv [xaxaot- fi) Multum certe facilior causa Platonis,
quam alicujus Beneventani Episcopi : aut aliorum, quos vrxterco
sciens. purs et chastes, de 1’amour Venerien, jouissent de la plus
grande beatitude. 25. Ce qui suit, chez Platon, est un peu
plus difficile a expliquer; chez Pla- ton, disons-nous, car ici nous
croyons devoir separer sa cause de celle de So- crate; evidemment
il aurait mieux fait de se taire , mais il n’cst pas impossible de
l’excuser (i). A ces choses sublimes que nous venons de transcrire, il
en ajoute d’autres que j’aimerais mieux lui voir passer sous
silence; je les exposerai cependant, de peur de paraitre rien
dissi- muler et manquer un peu de bonne foi. Il faut ici donner le
texte pour qu’on ( 1 ) Son cas est en effet moins grave que celui
de certain eveque de Bdnevent et de quelques autres que je ne veux
pas nommer. — (L’auteur fait ici allusion a 1’archeveque Giovanni .delia
Casa et a son fameux Capitolo dei forno ; mais il ne 1’avait
probablement pas lu, et il se meprend, comme bien d’autres, surle
sens de ce celebre petit poeme. — Note du Traduc- te ur.)
68 SOCRATE cTr;v atpeotv £tXcTr ( v ~t /ai
Ste^pa^avxo x x X. Si vero vitam vivant LICENTIOREM et A
PHILOSOPHIA ALIENAM, ean- demque ambitiosam, forte aliqua in
ebrietate aut qua alia negligentia depre- hensas INCAUTAS animas equi
illi uiriusque amatoris indomiti, eodem con- ducant, et sic illam
quce beata vulgo vi- detur electionem faciant, et (turpe illud
facimts) peragant : eoque peracto per re- liquum tempus utantur quidem
(illa voluptate ) sed raro, quippe qui non omnino deliberata mente
(sed deprehensi velut incauti ) hoc agant — etiam hi praemium non
parvum amatorii illius furoris (non Venerei, de quo modo dic- tum,
sed philosophi , de quo §. i3) aufe- runt : in tenebras enim illas et
illud sub terram iter non veniunt, etc. voie avec quelle prudence
et sans ap- puyer la main, il decouvre cet ulcere de la
civilisation Grecque. — « S’ils embr as- sent , dit-il, nn genre de vie
moins austdre, etrangbre a la Philosophie et livree aux passions
desordonnees , il arrivera quau milieu de Vivresse ou de quelque
autre etourderie les coursiers indomptes sur- prendront leurs ames
et les meneront l’un et l’ autre au meme but,' iis prendront alors
le parti de faire ce en quoi , selon le vul- gaire , consiste le supreme
bonheur et (c’est la le crime infame) satisferont leurs desirs.
Dans la suite , iis renouvelleront leurs jouissances , mais rarement,
parce qxCelles ne sont pas approuvdes de l’dme entiSre et qu’ils
agissent comme par sur- prise et sans defense. C’est pourquoi ce
qu’il y a encore d’excellent dans leur amour (le pur amour pliilosophique
et non le desir Venerien) recevra plus tard sa recompcnse ; iis
niront pas, aprds leur mort, dans ces tenebres et par ces routcs
souterraines,.., etc. » yo Apertum est his, qui et
sermonem Platonis intelligunt, et non ultro qucerunt crimina, non
illum prcemium constituere pceder astice turpi, non Philosophice genus
facere flagitiosum puerorum amorem : sed summam c.ulpce esse hanc , quod
di- cat, si qui coelestis illius pulchritudinis, quam in volatu
illo suo viderint, deside- rio icti, etiam pulchros amant, et dum
arctius eos complectantur, liberius cum iis versentur, etiam ad turpe
facinus ab ebrietate, certe ex improviso, incauti, proster
deliberatam voluntatem, abri- piantur, id quod ipsis contingat ob
genus vivendi licentius atque a Philosophia alie- num, iis tamen
prodesse primum illud7'io- biliusque philosophandi propositum, ut
non cum reliquis ad inferos mittantur, et ad poenarum locum (vid. §. 12)
non cogantur post ternas millenorum anno- rum periodos , septem
alias subire ete sed facilius alas ut recipiant, quibus evo- lare
ad coelestia, deum aliquem sequi du- cem possint. Hactenus reprehendat
Pla- tonem, si quis volet, non ut laudatorem et l’amour grec
7 1 26. II est bien clair, pour qui veut comprendre Platon et
ne cherche pas de griefs de son plein gre, qu J il n’assigne pas
cette recompense aux fauteurs du vice honteux, qu’il ne fait pas de 1’igno-
minieux amour masculin un attribut special des Philosophes. On voit, au
con- traire, combicn il blame ceux qui, les yeux encore eblouis de
cette beaute ce- leste entrevue par eux dans leur vol an- terieur,
con^oivent des desirs pour la beaute terrestre, recherchent les
jeunes garcons, et a force de les embrasser etroi- tement, devivre
familierement avec eux, se trouvent entraines a 1 ’improviste, au
milieu de livresse, par surprise et sans que leur volonte y ait part, a
conimettre l’acte immonde; cela leur arrive, parce qu’ils ont
adopte un genre de vie trop libre et qu’ils negligent la
Philosophie. Iis tirent cependant ce profit, de s’etre d’abord
propose pour but cette noble Science, qu’ils ne sont pas relegues
aux enfers avec tous les autres hommes ; apres une revolution de
trois mille annees, iis Pcederastice, sed ut clementem nimis ,
lentumque adeo castigatorem : qui prae- sertim in aliis peccatis severum
satis ac durum se praebuerit (1 ). 27 . Sed , si cequi esse
volumus, si de nostris religionum doctoribus ecquos ex- periri
judices, videamus etiam , quid dici pro ratione illa Platonis possit ,
quid pro Socrate, quatenus et ipse non horribili flagello sectari
vitia id genus solebat. Distinguamus legislatoris personam et
Philosophi. Legibus Atheniensium primo antiquissimis illis a Cecrope ,
sanctitas (1) Bona pars libri De re publica decimi in eo
consumitur, ut a"apat~r]Tou?, a^apa[xu0rjTOU?, implacabiles
sacrificiis Deos, ostendant. Vid. pras. a p. 6 72 extr. et conf. qua:
collegit Davis. ad Gic. de Legib. 2. c. j 6 . p. i 3 j
n’ont pas a en su.bir sept mille autres; iis recouvrent plus
vite leurs ailes et peu- vent s’elancer vers les spheres celestes,
a la suite d’un des douze dieux. Que l’on reproche donc a Platon,
si l’on veut, non pas de s’etre fait 1’apologiste de la Pede-
rastie, mais d’avoir ete trop clement, de ne pas chatier assez ferme, lui
surtout qui pour de moindres fautes se montre si dur et si severe
(i), 27. Mais soyons equitables; prenons d’honnetes gens pour
juges de nos Phi- losophes, voyons ce que l’on peut dire en faveur
de Platon ou de Socrate, et jusqu’a quel point ce dernier a
vraiment neglige de flageller le vice en question. II faut distinguer
le legislateur du Phi- losophe. Les plus anciennes lois Athe-
niennes, celles de Cecrops, proclamaient la saintete du mariage. La loi
de Dracon ( 1 ) II emploie la majeure partie du X® livre de
sa Republique a montrer que les dieux sont insatiables de
sacrifices. Comparez avec ce qu’a <5crit Davies sur le Tr ciite des
lois , de Cicerrr.i. matrimoniorum constituta : Draconis lex
capite plectebat adulteros : Solon li- beram faciebat marito potestatem
sta- tuendi in adulterum in facto deprehen- sum , quidquid liberet.
Itaque mirum fuerit si masculam libidinem non punis- sent.
28. Sed bene habet : supersunt monu- menta Solonis hac etiam de re
legum, diligenter collecta a Sam. Petito (de Le- gibus Att. 6, 5 et
in Commentario p. 468 sqq.) prcesertim ex vEschinis in Timarchum (a
p. 186 edit. Aurei. Al- lobr. 1607. /•) et Demosthenis contra
Androtionem (a p. 421) orationibus : unde hoc constat, qui vi vel
persuasione ingenuum corrupisset, produxissetve, gravissima poena
(quce ad ultimum sup- plicium corruptoris et productoris, in-
terdum etiam corrupti, poterat progre- di) affectum esse. Qui illam
patiendi pro mercede turpitudinem admisisset, si effugisset poenam
aliam, illi neque lice- bat inter novem Archontas esse,
neque punissait de mort les adulteres; Solon laissait la faculte au
mari, dans le cas de flagrant delit, de se faire justice comme il
1’entendrait. II serait bien surprenant que ces deux legislateurs fussent
muets a l’egard de Tamour masculin. 28. Mais nous avons
mieux ; il reste des lois portees par Solon sur la matiere divers
fragments precieusement recueillis par Samuel Petit (voy. ses Lois
attiques et le Commentaire dont il a accompagne cet ouvrage); ii
les a surtout tires du Discours contre Timarque, d’Eschine, et du
Discours contre Androtion, de Demos- thene. Il y est dit : Quiconque,
memesans violence, aura debauche ou prostitue un homme de condition
libre sera passible de la peine la plus rigoureuse. — (Le cha-
timent pouvait etre la mort, dans l’un comme dans Tautre cas, et pour le
liber- tin, comme pour savictime.) — C elui qui se sera prostitue
pour de l’argent, s’il echappe a toute autre peine, ne pourra
ni fungi sacerdotio, neque syndicum creari, neque ullum magistratum
vel intra vel extra urbem, neque sortito neque suf- fragiis,
capere, neque pro Praecone s. oratore mitti usquam, neque
sententiam dicere unquam, neque in templa publica intrare, neque in
pompa coronata et ip- sum coronari, neque intra sacros fori cancellos
(evto; twv t rj; ayopa? TteptppavTT]- P’'wv) ingredi. Si quis vero
damnatus im- pudicitiae quidquam horum fecisset, ca- pital erat.
0avato> r7)[j.'oua0w sunt verba legis ab As schine recitata. Plura
huc transferri opus non est , cum rarum esse Petiti opus desierit.
Summa capita habet etiam in Themide Attica ( 1 , 6) Meur-
sius. 2 q. Utrum seynpcr valuerint istce le- ges? annon eas
perruperit interdum au- etre l’un des neu f archontes , ni remplir
aucune fonction sacerdotale , ni etre nomme delegue d’une ville ; il lui
est interdii d’exercer aucune magistrature, soit en dedans , soit
en dehors de la cite , quii ait et e designe par le sort ou par les
suffrages de ses concitoyens ; d’etre en- voyd nulle part comme Herault,
ou comme orateur ; de prononcer aucune sentence ; de penetrer dans
les temples publics; de faire partie des processions et d’y porter
une couronne sur la tetc; de franchir ienceinte sacree de l’Agora.
Qiiiconque, deja condamne pour fait de prostitutiori , fera ou
acceptera de faire une de ces choses sera puni de mort. Puni de
mort, tel est le texte meme de la loi lue par Eschine. II est
inutile d’en transcrire ici davantage, car Touvrage de Samuel Petit
est loin d’etre rare ; Meursius en a meme donne, dans sa Themis Attique,
les cha- pitres importants. 29. Ces prescriptions
eurent-elles tou- jours force de loi? Ne purent-elles etre dacia ,
astus subterfugerit , eluserint rhetores? annon ipsa poenarum
gravitas impunitati occasionem non nunquam de- derit? an non
professce impudicitiae ho- minis utriusque sexus, libidinum
publica- rum victimce, toleratce sint? An denique poetce non multa
saepe impudenter scrip- serint, fecerint? jam non quceritur. Uti-
nam non avxtxatrjyopia quadam repellere possent veteres Attici
cujuscunque vel sec- tae vel cetatis homines, si qui acerbius ex-
probrare iis velint, quce de Comicorum pe- tulantia sublegerunt illi apud
Athenaeum (i3, 8 p. 601 ) Deipnosophistce, et quae colligere ex
illa parentum cura apud Platonem (Conviv. p. 3ig, E), Pceda- gogos
constituentium suis filiis, qui ne quidem colloqui suis cum
amatoribus (turpibus nimirum et flagitiosis) eos pa- tiantur : e.
i. g. a. 3o. Ceterum severitate legum eo ma- gis opus erat,
quod obtentum fiagitiis et l’amour grec 79 enfreintes
par les audacicux, adroitemcnt tournees par les gens ruses, eludees
par les avocats ? La rigueur du chatiment ne favorisa-t-elle pas
elle-meme Timpunite ? Est-ce qu’on ne tolera pas des prostitues de
profession, victimes de 1’incontinence publique et remplissant le role de
l’un et 1’autre sexe ? Les poetes n’ont-ils pas ef- frontement
deerit ces turpitudes, ne les ont-ils pas mises en action sur la scene
? Cela ne fait aucun doute. Plut au ciel que les Atheniens de
nfimporte quelle secte et de quelle epoque ne pussent re- tourner
Taccusation a ceux qui leur re- procheraient trop vertement ces
horreurs etalees par les poetes comiques et recueil- lies par les
Deipnosophistes d’Athenee, ou ce qu’on peut induire de 1’inquietude
des peres de famille confiant leurs fils, d’apres Platon, a des
precepteurs severes, pour les empecher de s’entretenir avec leurs
amis, — des amis infames et detestables. 3o. Les lois devaient etre
d’autant plus severes, que les coutumes de la Grece 8o
SOCRATE non nunquam praeberet (ut nempe res sancta ?
prope omnes , ut ipsce populorum sceculorumque pene omnium religiones
, atque ceremonice) ille puerorum amor , castus , legitimus,
sanctus, quo tanquam potentissimo virtutis cum bellicce tum civilis
incitamento utebantur qucedam Grcecorum respublicce : quarum
legisla- tores, cum viderent, ignava fere esse virtutis prcecepta,
firmis licet nixa de- monstrationibus, nisi ea affectu quodam et
tanquam spiritu animentur, nisi ev0ou- aiaajxou quoddam genus accedat,
quo acti homines et commoda sua , et jacturas, et salutem, et
pericula et tormenta contem- nerent. Hinc excogitata et in usum
civitatis recepta sunt splendida ista et efficacissima remedia, Religio,
Pudor, Amor patrice, Gloria, res quondam po- tentissimce, quod ex
illarum effectibus judicare pronum est: nunc prceclara quo- rundam,
qui sibi Philosophi videntur, opera fere ad inanium vocabulorum
stre- pitus relata, et, dum relata sunt, etiam redacta. comme
toutes les choses saintes, comme les cultes et les ceremonies religieuses
de presque tous les peuples et de tous les temps) donnaient plus de
facilite a la depravation. La fervente amitie entre jeunes gens,
Tamitie chaste, legitime, sa- cree, etait favorisee, dans les
republiques de la Grece, comme le plus energique stimulant du
courage militaire et des ver- tus civiles. Leurs legislateurs
savaient bien que ni la vertu ni le courage ne s'in- culquent a
1’aide de demonstrations, si bonnes qu’elles soient ; que 1’homme
est naturellement faible a moins qu’il ne soit pousse par la
passion et par 1’orgueil ou entraine par cette espece
d’enthousiasme qui lui fait mepriser les aises de la vie, la
fortune, la vie elle-meme, et affronter les perils et les supplices.
C’est pourquoi l’on mettait en jeu, dans Torganisme de la cite, ces
heroiques et sublimes mobiles, la Re- ligion, 1’Honneur, 1’Amour de la
patrie, la Gloire, mobiles autrefois bien puis- sants, comme nous
pouvonsen juger par ce qu’ils firent accomplir; aujourd’hui,In illis
igitur rei publicce bene ge- renda? incitamentis, an instrumentis?
erat Amor ille adolescentulorum tum in- ter se, tum inter ipsos et natu
majores : inde illa sacra Amantium cohors The- bis, et Cretensium.
Quanta illius vis esset, et quam metuendus esset miles amator,
svOouatwv, et ab Amore simul atque a Marte bacchans, occurenti in
prcelio hosti, ita enarrat 2E liantis (H. V. 3 , g) ut IvOo-jatav et
furere ipse prope videatur. Idem (c. io et 12) Laconica qucedam
circa eam disciplina? publica? partem instituta commemorat : V. G.
ab illis multatum esse virum alioquin bonum, ea de causa , quod nullum
ha- bere juniorem, quem amando sui si- milem, et per hunc forte
etiam alios, redderet : itemque peccantis adoles- centuli virum
amatorem punitum , cui grace a de certains Philosophes, ou soi-
disant tels, ces grandes choses ne sont plus que de vains mots, creux et
vides, dont le sens s’affaiblit a mesure qu’on en abuse. 3 1
. Ainsi, 1’Amour des jeunes gens, soit entre eux-raemes, soit entre eux
et leurs ames , etait favorise partout en Grece , pour le bien de
la chose publique ; voila ce qui donna naissance a la cohorte sa-
cree des Amants , chez les Thebains et chez les Cretois. Quel etait le courage
de ces sortes de soldats, quelle etait la ter- reur qu’ils
inspiraient, lorsqu’ils rencon- traient Tennemi, ivres a la fois
d’amour et de sang : c’est ce que Elien nous a fait connaitre, en
partageant, pour nous les mieux depeindre, leur impetuosite et leur
fureur. II nous indique aussi qu’il y avait quelque chose de semblable
dans les institutions de Sparte ; un Lacede- monien fut mis a
1’amende , quoique excellent citoyen, pour avoir neglige d’ai- mer
quelque compagnon plus jeune que lui, a qui il aurait inculque ses vertus
et nempe illius imputari vitia posse cen serent. 32 .
Etiam illud Laconicum narrat , so- litos ibi adolescentulos petere ab
ama- toribus , viris nempe bonis ac fortibus , stareveTv auTot ?,
ut se adflarent. Interpreta- tur illud verbum , Laconibus proprium,
sElianus per epav, amare : idem factum ab Hesychio V. sp.-v£ Tjj-ou, et
epa, eia7cver. Multa similia ad utrumque Hesychii locum viri docti
, post Meursium (Mis- cell. Lac. 3 , 6 ) sed nihil, unde ratio ap-
pellationis queat intelligi. Nec satisfacit, quod refert, non probat
Eustathius (ad Odyss. A, 36 1 p. 1743 et ad E, 478 p. 240, 38 )
EtarevElxai yap tpaat, t 7j? pLOp^? ti /at x i); wpa;, inspirari aliquid
fornice et pulchritudinis. Hcec enim Laconicce se- veritati parum conveniunt,
si fides anti- quis, ipsique adeo JEliano in ipso illo, de quo
agimus , loco. Srap-ctaTT)? epio; ata- qui eut ete capable, a son tour,
de les transmettre a d’autres. Lorsqu’un jeune homme commettait une
faute, les Spar- tiates punissaientson intime ami, comme
responsable des vices qu’il lui tolerait. / 32.
Elien rapporte encore cette autre coutume de Sparte, que les jeunes
gens exigeaient de ceux dont iis etaient aimes, toujours choisis
parmi les meilleurs et les plus braves, ut se adflarent. II
explique le verbe ekjttvs Tv ( adflare ), propre aux La- coniens,
par cet autre : spav (aimer), et He- sychius de meme aux mots EpjcvEtgou,
ipS et eiu7iveT. Divers savants ont accueilli cette interpretation,
a 1’exemple de Meursius; mais je n’ai rien compris aux raisons
qu’ils en donnent. Je ne suis pas davan- tage satisfait de Tassertion
emise, sans preuve, par Eustathe, dans son commen- taire des chants
IV e et V e de YOdyssee : a Les inspires (i) sont guides dans leur
(i) On appelait indifTeremment ItaKVETxat, ii a- 7UvrjXa'
(inspires) ou spacjiat (amants) ces couples ypov oux otosv x. t. X.
Spartanus amor turpe nihil quidquam novit. Sive enim ausus fuerit
adolescentulus pati turpia (upo-v uzoaeivat) sive amator facere
(£»|Bp6 oat) neutri quidem Spartee manere pro- fuerit : aut enim
patria privarentur, aut vita ipsa. Quare illud ela-vetv s.
s[j.7ivsTv, illos £ta7iVTjXa;, quos eosdem aixa? vocat Eustathius
(Hesych. afcav, s-aTpov) ab in- spirando s. adspirando divino
quodam spiritu, dictos arbitror , unde afflati, ut
7rveuu.atocpo'poi quidam et svOouaiwvTsc, divi- no quodam furore perciti
, ruerent. Hic est ille furor, quem supra i3) tetigi- mus, et de
quo plura sunt in Platonis Phcedro (p. 344, A. 346, A. 352, E).
Nempe spiritum 7iveSp.a quum dicebant an- tiqui, non rem illi tantum
cogitantem in- dicabant, sed rem subtilem, magna ean- dem movendi
et agendi vi praeditam, etc. de friires d’armes , si terribles dans
les batailles. 'Etcnvelv (ad/lare) peut se traduire positivement
par meter les souffles ou metaphoriquement par avoir des aspirations
communes. ( Note du Tra- ducteur.) ET l’aMOUR GREC 87
choix par la beaute et 1’elegance corpo- relle. » Cela me parait
peu convenir a cette severite Laconienne dont temoi- gnent tous les
anciens et Elien lui-meme, a Tendroit en question : « On ignorait a
Sparte ce que detait que les impures amours. Si quelque jeune homme eut
ose se prostituer , ou prendre 1’autre role, il lui eut mal reussi
de rester d Sparte; il y allait pour lui de Vexilou de la mort. »
C’est ce qui me fait croire que ces inspires , designes aussi sous les
noms de compa- gnons, freres d’armes, par Eustathe et par
Hesychius, etaient ainsi appeles du souffle ou de Tesprit en quelque
sorte divin qui les animait, lorsqu’ilsse ruaient sur l’ennemi
comme transportes d’une fureur plus qu’humaine. Nous avons deja
parle de cette espece de delire, dont il est si souvent question dans le
Phedre de Platon. Il convient en effet de remarquer que les anciens
n’entendaient pas comme nous par esprit une faculte intellectuelle,
mais une essence subtile, douee d’une grande forcc de mouvement et
d’action. Non vagatur hcec extra oleas ora- tio. Cum enim fuerit ,
quod, adhuc proba- tum est, in Grcecia r.aiozptxizv.a. quaedam
honestissima, et sancta adeo , qua ad virtu- tem, bellicam praesertim ,
et quidquid pul- chrum est, incitari homines crederentur, cum
nomina spojvuo?, Ipaaxou, raioapaaxou, itemque spwuivoy, -atot/.wv, et
similia tur- pitudinem nondum haberent : cum illud raiSspaaxsTv res
esset adeo honesta, ut quem ad modum capital Romae erat servo, si
militarat, ita Solonis lege multaretur quinquaginta plagis publice, qui
servus eXsuOspou 7ra'oo; spav, amare liberum pue- rum, auderet :
haec ita se cum haberent omnia, nemo jam debet mirari, adoles-
centulorum esse amorem professum So- cratem, fecisse illum, quae ante (§.
i5) dicta sunt, eaque scripsisse tanquam So- cratis dicta Platonem,
quae ex Phaedro commemoravimus . Quod mitior est vel Plato, vel
ipse adeo Socrates, (si quis ei tribuat, non satis ille quidem aequa
ratio- ne, quidquid apud Platonem ex ipsius persona dictum ponitur)
in hos etiam quos Cette digression ne nous a pas eloigne de notre
sujet. Puisqu’il existait en Grece , comme nous venons de le
prouver, une jcatBspao-rfta tres-honnete , sainte, on peut dire, et
reputee propre a pousser les hommes au bien et a la vertu, surtout
a la vertu guerriere; puisque les mots d’amants, d’amis, de
7tad>epa<jTcu et de 7:aioi7.wv n’avaient rien de honteux ;
puisqu’il etait meme si honorable de se livrer a cette zcaSspaardtix, que
la loi de Solon punissait de cinquante coups de fouet, subis en
pleine place publique, tout esclave qui aurait ose aimer un jeune
homme de condition libre; puisque tout cela est irrefutable, personne ne
doit s’e- tonner que Socrate ait professe 1’amour des j eunes gens,
qu’il ait lui-meme eprouve cet amour et agi en consequence; que
Platon nous ait transmis, comme l’ex- pression des doctrines de Socrate,
ce que nous avons cite du Phedre. Sans doute Platon ou, si l’on
veut, Socrate, quoiqu’il ne soit pas equitable de lui attribuer
tout ce que son disciple lui fait dire, se montre mala libido ad
turpitudinem transversos abripuit 25 . 26) illud primo hanc
rationem , ut innuimus , habuit , quod nec legislatorem hic, neque
publicum accusa- torem ageret ; sed Philosophum , sed amatorem,
amicum certe quidem, qui non metu pcence deterrere a turpitudine
homines, sed virtutis amore revocare a peccato vellet. Deinde erant
forte, quibus parcendum erat, juvenes a vitiis ejus- modi non plane
puri, Alcibiades , Critias , alii, 9[Xox''[j.o) illi quidem sed eadem
«popti- /Mxipcc et dcfikoaofM otattr) yprjaajxsvoi (vid. §. 25 )
quos abscisse nimis ab omni fructu Philosophice, ab omni ad virtutem
reditu excludere velle, et sic plane a se et a virtute segregare,
non erat consilii. Non instituam hic comparationes, quce invi- diam
habere possunt : sed illud addam unum, si forte aliquid veri sit ineo,
quod de liberiori Socratis adolescentia dictum est /'§. 2) : si non
mendax historia , e qua refert Origenes contra Celsum , qui su-
periorem vitee conditionem primis Chris- ti discipulis objecerat (l. 1.
p. 5 o. pr.) beaucoup trop clement envers ceux qu’un infame
desir pousse a Tacte honteux. Son excuse, nous Tavons deja dit, c’est que
ce n’est pas ici un accusateur public ou un legislateur qui parle,
c’est un Philosophe, un ami, un amant, et il essaye non de detourner
les hommes du vice en les ef- frayant par la menaee des chatiments,
rnais de les dissuader d’une faute en leur inculquant Tamour de la vertu.
II y avait d’ailleurs peut-etre autour de lui des jeunes gens qui
n’etaient pas irreprocha- bles et envers lesquels il ne fallait pas
se montrertrop dur, un Alcibiade, un Cri- tias, d’autres encore,
pleins de fougue, adonnes a une vielicencieuse et etrangere a la
sagesse; les priver de quelques-uns des benefices de la philosophie,
c’eut ete leur fermer toute voie de retour au bien, les eloigner de
la personne du maitre et par consequent de la vertu. Je ne cherche
pas a faire des comparaisons qui pour- raient sembler malseantes; je veux
ce- pendant rapporter un fait, vrai ou faux, qui a traita la
jeunesse un tant soit peu Phcedonem e lupanari traductum ad
Philosophiam a Socrate : quid facere illum oportebat in hac
disputatione? 34. Nihil igitur est in Phcedro , quod urgeat
Socratem : si quid incautius dic- tum sit , illa Platonis culpa fuerit :
quam- quam si universam circumstantiam , ut a nobis ostensa est ,
quis consideret , etiam hunc accusare , vel non excusare, ini- quum
videtur. De Convivio Platonis jam non opus est multis disputare.
Distin- guat mihi aliquis personas loquentes : ad universam libelli
descriptionem, quam vocamus CEconomian, ad Allegorian denique ab
amore Venereo ductam , ac translatam ad animos, quorum lenonem se
et obstetricem ferebat Socrates : ad hcec, inquam , mihi attendat
aliquis, et et l’amour grec q3 dereglee de Socrate.
C'est Origene qui le raconte dans son traite contre Celse. Celse
reprochait aux premiers disciples du Christ d’avoir ete tires de
conditions abjectes; Origene repondit que Socrate avait bien tire
Phedon d’un mauvais lieu pour le convertir a la Philosophie. J e
vous demande un peu ce que ce Phedon venait faire dans la
discussion. 34. On ne rencontre donc rien dans le Phedre qui
puisse incriminer Socrate; s’il y a ca et la quelques paroles
imprudentes, c’est la faute de Platon. Encore, si l’on examine bien
toutes les circonstances, comme nous 1’avons fait, il serait
injuste, tout en blamant Platon, de ne pas lui trouver d’excuse.
Nous ne nous etendrons pas longuernent sur son Banquet. Que l’on
distingue bien les uns des autres les interlocuteurs, que Fon fasse
attention a 1’ensemble du dialogue, a ce que nous appelons
1’economie de 1’ouvrage, que Fon analyse enfin cette allegorie
tirce de 1’amour physique, puis appliquee aux mirabor, si
quid ibi sit , unde Jiagitio ipsi praesidium, vel crimini in
Socratem jactato firmamentum peti possit. Sed est in illo libro,
quod maxime ad defenden- dum a Socrate fagitium pertinet, quod ut
magis pateat, tota ultimee partis, et velut actus postremi fabulae illius
convi- valis, CEconomia proponenda est, e qua ipsa appareat, velle
pro veris haberi Pla- tonem, qua ’ in Alcibiadis personam con-
jecta de Socrate dicuntur. 35. Ebrius nempe Alcibiades ad eum
finem, ut neque pedes officium faciant, comissator supervenit potantibus
apud Agathonem Socrati ceterisque. Hic, ex lege compotationis ,
dextrum sibi accum- bentem Socratem laudare jussus, obse- quitur
cum professione ebrietatis, ut tamen (p. 332, G) vera se dicturum
con- firmet et redargui petat , si quid mentia- tur. Ac primo sub
imagine quadam lau- et i/amour grec 9 5 idees, dont
Socrate se donnait comme l’entremetteur et Taccoucheur, et je serai
bien surpris si 1’on y decouvre quoi que ce soit en faveur du vice infame
ou a 1’appui de 1’accusation portee contre So- crate. On pourra y
puiser, au contraire, les meilleurs arguments pour l’en defen- dre
; mais il est necessaire d’exposer ici toute 1’ordonnance de la derniere
partie, ou plutot du dernier acte de ce dialogue, ou il est clair
que Platon veut nous faire tenir comme vrai ce qu’il a place, tou-
chant Socrate, dans la bouche d’Alci- biade. 35. Alcibiade
arrive a la fin du festin dans un tel etat d’ivresse que ses pieds
refusent de le porter; il veut prendre sa part de plaisir avec Socrate et
les autres, en train de boire chez Agathon. La, par suite d’une
convention adoptee entre les convives, il est force de faire 1’eloge
de Socrate, assis a sa droite, et demande de 1’indulgence, en se
fondant sur ce qu’il est ivre ; il affirme pourtant qu’il ne daturus
Socratem , cum Sileno aliquo (Conf. §. 18 J nominatim cum Satyro
Marsya , tibicine , illum comparat, cujus figura, ex ligno, edolata
ruditer atque deformi, utebantur artifices pro theca, quce intus
haberet pulcherrimum aliquem Mercuriolum (p. 333, F) : scilicet in
corpore deformi habitare animam pul- cherrimam demonstrat : et esse
tibicini Marsyce similem Socratem, ob illam vim demulcendi animos,
cui resisti non posset. 36. Deinde narrat, cum eundem
pul- chrorum sectatorem quendam ct capta- torem videret, se, qui
fiduciam fornice haberet, sperasse, si pellicere virum ad amorem
sui (venereum nempe) posset, eique se prceberet obsequiosum, impetra-
turum se ab illo admirabilem illam ar- tem, et ablaturum, quce Socrates
sciret, omnia. Hinc narrat verbis quidem ho- nestis modestisque ,
ct tamen venia ante dira que la verite et exige, s’il se trompe,
qu’on lui donne un dementi. II com- mence, pour louer Socrate, par le
com- parer a ces grossieres figures de bois representant Silene ou
le satyre Mar- t syas, le joueur de flute, sculptees sans travail
et sans art, dont les statuaires se servaient comme de gaines, et qui
rece- laient a 1’interieur quelque joli petit Mer- cure ; ainsi,
dit-il, dans un corps difforme peut habiter une belle ame; de plus,
So- crate ressemble au joueur de flute Mar- syas en ce qu’il a,
pour charmer, une force a laquelle nui n’est en etat de resister.
36. II raconte ensuite que le voyant s’attacher a la poursuite des
beaux ado- lescents et s’efforcer de les prendre dans ses filets,
plein de confiance en sa beaute parfaite, il avait essaye de lui inspirer
de 1’amour, comptant bien qu’avec un peu de complaisance pour ses
desirs il obtien- drait de lui qu’il lui communiquat son admirable
science, et qu'il gagnerait a cela tous les talents de Socrate.
Alcibiade exorata ebrietati , et pro? fatus (p. 334 , C) uti servi
aliique profani aures obtu- rent (zuXa<; 7: avo [xEyaXai xot; walv
£7ri0E<?0s) quam varie, et quibus veluti gradibus, frustra
continentiam Socratis, temperan- tiamquefrecte fortitudinis hic nomen
adji- cit) tentarit. Summam facit hanc, (p. 334 , G) ut Deos
Deasque testes faciat, se cum totam noctem sub eadem veste cum
Socrate jacuisset, non aliter ab illo, quam ut filium a patre, aut a
fratre majori frater deberet, surrexisse. Itaque se frustratum spei
esse in homine, quem hac sola forte parte capi posse putasset.
3y. Enumeratis deinde aliis Socratis virtutibus, bellica
prcesertim , qua sibi etiam vitam servarit, addit, non se tan- tum
contumelia tali ab eo affectum , sed Charmiden etiam , Euthydemum
et et l’amour grec gg place ici , mais en termes
honnetes et mesures, quoiqu’il se soit excuse sur son ivresse et
qu'il ait recommande aux es- claves et aux profanes de se boucher
les oreilles, le recit des gradations savantes et de tous les
stratagemes vainement mis en oeuvre par lui pour induire en tenta-
tion la continence, la temperance ou plu- tot, comme il le dit fort
justement, l’he- roique fermete de Socrate. II conclut en disant :
Je prends les dieux et les deesses d temoin quapres avoir repose toute
une nuit d cote de Socrate, et sous le meme m ante au , je me levai
d'aupres de lui tel que je serais sorti du lit de mon pere ou de
mon frere aine. Ainsi, le seul point par lequel il croyait que cet homme
fut accessible avait tout a fait trompe ses esperances.
37. Apres avoir ensuite enumere les autres vertus de Socrate et
appuye sur sa valeur guerriere, a laquelle il etait lui- meme
redevable de la vie, il ajoute qu’il n’est pas le seul, du reste, a qui
Socrate alios multos, quos ille amoris simulatione deceptos in potestatem
suam redegerit , ou? oiito; s^aTCatojv w; IpaartT)?, Tuatoty.a
piaXXov autos -/.aOiaTa-ai avi’ epaotou. Nempe adu- labantur vulgo
amatores , certe qui turpe quid spectarent , pueris aetatula sua et
illa ipsa adulatione superbientibus. Alia ratio Socratica , quae etiam
supra (§. 6) in Lysidis argumento declarata est. Sua- vissima sunt
reliqua in Symposio Plato- nis : eo autem referuntur omnia , ut in-
telligamus Socratis hanc fuisse consue- tudinem . , pulchrorum amorem uti
prae se ferret , cum illis suaviter et amice ut versaretur, ut
virtutis illos amore im- pleret , reliqua omnia non tanti esse os-
tenderet , in quibus valde sibi elaboran- dum vir sapiens
existimaret. Sanctus ergo Paederasta Socrates , et foedissimi , si
quod usquam est , crimi- ait fait un tel affront; que pareille
chose est arrivee a Charmis, a Euthydeme et a bien d’autres qu’il
avait feint d’aimer tendrement, pour mieux les asservir et les
diriger. Les amis vulgaires, ceux sur- tout qui esperaient de honteuses
com- plaisances, se faisaient les flatteurs des jeunes garcons, et
ceux-ci n’en etaient que plus fiers de leur beaute. Autre etait la
methode Socratique, comme nous l’a- vons montre plus haut en exposant
le sujet du Lysis. Ce qui suit, dans le Ban- quet de Platon, est
charmant ; tout aboutit a nous montrer que telle etait la coutume
de Socrate de rechercher les bonnes gra- ces des jeunes gens que
distinguait un exteneur gracieux, et de vivre avec eux dans une
douce et agreable intimite, afin de leur faire aimer la vertu; ce
point obtenu, il jugeait facile de leur donner les autres qualites
qu’un sage doit s'ap- pliquer a acquerir. 38. Ainsi, Socrate
n’avait pour la jeu- nesse qu’un amour chaste ; il etait pur du nis
expers : a quo etiam alios avocare studuit , quod Critice exemplo
docet Xenophon, ejus, qui post in triginta tyrannis fuit , quem
Euthydemi pudori insidiari cum sentiret , utxov ti Tiaay eiv dixit,
suillo more prurire, eaque re ini- micitias hominis factiosi et potentis
sibi contraxit; quibus carere poterat , nisi potius fuisset
officium. 3g. Sed admonet me Xenophon de crimine alterius
illo quidem generis, et multo, ut in malis, tolerabiliore : quod
tamen ipsum etiam in illo adhaerescere, quantum in me est, non patiar.
Accusa- tur, ut naturalis quidem , sed malce ta- men libidinis
suasor et leno quidam, propter ea quce referuntur in Xenophon- tis
Convivio (c. 7 et g). Sed nec ibi quid- quam est, cujus bonum Socratem,
aut illius amicos pudere debeat. Spectacula exhibentur convivis
mirabilia , partim vice infame entre tous. Bien mieux, il
s’efiforcad’en detourner lesautres, comme Xenophon nous 1’apprend par
1’exemple de Critias. Ce disciple de Socrate, devenu par la suite
l'un des Trente tyrans, avait voulu attenter a la pudeur d’Euthydeme
; lorsque son ancien maitre Bapprit : II a le prurit du porc{ i),
s’ecria-t-il ; paroles qui lui attir£rent 1’animosite d’un homme
puissant et redoutable, ce qu’il lui eut ete facile d’eviter, s’il
n’avait mieux aime faire son devoir. 3g. Mais Xenophon me
fait songer a une autre accusation qui a ete egalement portee
contre Socrate ; quoique moins grave, elle n’en est pas moins
facheuse, et je l’en disculperai de toutes mes forces. On lui
reproche, a 1’occasion d’un inci- dent rapporte par Xenophon, dans
son Banquet , d’avoir excite ses disciples a la debauche, ce qui
serait pernicieux encore, (i) Concupiscit ad Euthydemum se
affricare quemadmodum porcelli solent ad saxa (Xeno- phon,
Memorabilia). etiam
periculosa , et horrorem quendam spectantibus moventia , inter
districtos gladios corpora saltu jactantium , aut in figuli rota
circumacta scribentium le- gentiumque. Non placent ea Socrati, qui
aptius convivio spectaculum putat ipyjln- Gat r.poc, tov auXov
T/rJijiaTa, Iv oi; Xapixe; ts •/.a't Qpat, xa\ Niifxcpat ypstaovtai, ad
tibiam edi motus et saltationes, eo habitu, quo Gratiae, Horae,
Nymphae a pictoribus exhibentur. Forte suspectum alicui fuit
hoc quod Gratice nuda; pingi solent. Sed huic sus- picioni repugnat
, quod dicitur Ariadne illa saltatrix w; vop-sr, xcy.ocju.rjU.svr,,
sponsce autem profecto apud Grcecos nudce esse bien
qu’i.1 s’agisse ici de plaisirs confor- mes au vceu de la nature, et de
s’etre fait, en quelque sorte, entremetteur. II n’y a rien, dans ce
passage, dont doivent rougir 1’honnete Socrate et ses amis. Des
mimes viennent d’executer devant les convives toutes sortes
d’exercices extraordinaires, quelques-uns tres-dangereux et propres
a donner le frisson aux spectateurs; on a vu les uns presenter leurs
poitrines, en sautant, a des pointes d’epees rangees en file ;
d’autres lire ou ecrire enfermes dans une roue de potier mise en
mouvement. Ces exercices deplaisent a Socrate ; il pense qu’il
serait plus convenable, au milieu d’un festin, de voir des
danseuses executer des poses, au son de la Jlute, sous le costume
que les pcintres pretent d’ ordinaire aux Graces, aux Heures et aux
Nymphes. Cela a pu paraitre suspect parce qu’on a coutume de
representer les Graces toutes nues. Mais ce soupcon ne repose sur
rien, car la danseuse qui parut alors, habillee en nymphe,
representait I Ob non solebant : nymphae in
insectis ab eo ipso dicta?, quod involuta? sunt. Gra- tias decenter
vestitas contemplari licet in Grcecis monimentis apud Montfauc.
Ant. Expl. To. i Tab. iog ad p. ij6. Movit forte eum, qui primus
crimen hinc excerpsit Socrati, a/r^a-coiv appel- latio, qua? inter
alia ad turpes figu- ras refertur , quales olim Philcenidis et
Elephantidis commendatas libellis fuisse constat (i), ut hic ejusmodi
impudens spectaculum suspicaretur . Sed tum inter- jecta de amore
disputatio ( 2 ) (c. 8) tum ipsa perfectio exsecutioque consilii
(c. g) suspicionem illam eximunt. Aguntur Ariadnes et Bacchi
nuptice,sed illa ut in scenam nihil veniat, pra?ter oscula et
(1) De quibus Spanhem. de usu et Praest. numism. Diss. i 3 . p. 522
. sq. Hic ay 7 jfi a est omnis gestus saltantium blandus, minax,
derisor. Vid. Lucia. de Saltat, c. 18. T. 2 p. 278 in primis c, 36
. extr. (2) Apertior, simpliciorque , et incautior adeo
Xenophontis de his rebus oratio , quam Plato- nica : sed cujus summa
eodem pertineat, uti ab impura libidine ad sanctam animorum
conjunc- tionem homines revocentur. Ariadne, et
les Grecs ne permettaient pas le nu dans les roles de femmes
mariees. D’ailleurs, certains insectes imparfaits sont appeles nymphes
pre- cisement parce qu’ils sont enveloppes. On peut voir aussi,
dans YAntiquite' ex- pliquee de Montfaucon, que les Grecs, meme sur
leurs monuments, figuraient les Graces decemment vetues. Celui qui
le premier a lance contre Socrate cette accusation s’est peut-etre
effarouche du mot pose, qui, entre autres, est applique a des
images obscenes, du genre de celles qu’on rencontrait dans les livres de
Phi- laenis et d’Elephantis (i); il a soupfonne Socrate d’avoir
reclame un spectacle lu- brique. Or, ladiscussion surTarnour qui
intervient alors ( 2 ), 1’execution et l’ache- (1) Spanheim (De
prostantia et usu numisma- tum antiquorum) parle de tout cela. On
appelait poses toute esp6ce de geste lascif, provocant ou railleur,
des mimes. ('Comparez Lucien, De la Danse, ch. XVIII.) (2) Le
dialogue de Xenophon est bien plus franc, bien plus simple et bien moins
circonspCct que celui de Platon ; tous les deux d’ail!eurs vont au
meme amplexus , cetera reservantur postsce- niis
(i). but, qui est de detourner les hommes des plaisirs les
plus impurs et de les rapprocher dans une sainte communion des
ames. (r) Tales saltationes s. repraesentationes etiam pars
sacrorum erant. Apud Lucia. in Pseudom. c. 38 . To. 2 p. 244 xsXsx7]'v
xtva cuvtaxaxat Alexander , xai SaStyta?, xat tepocpavxta; — In his
mysteriis et sacris etiam est KoptoviSo? yapto; cum Apolline — item
riooaXstpiOU xai pLTjTpo; AXs^avSpou yauo; — denique SsXrJvr^ xai
AXs^avBpou spto? — Alexander ut Endymion alter xaOsuSwv exsixo sv xw
piato — cptXrjtxaxa xs eytyvovxo xat ~£pt~Xoxa\, st 8s ar t r.
oXXat iqaav at 8a8ss, xay’ av xt xat xwv utco xoXtcou sjxpaxxsxo.
Apposui locum , quia hic etiam 7t$pt7tXoxa'i, et tamen nihil
obscenum. ET l’aMOUR GREC IO9 vernent immediat du
divertissement qu’il avait demande, enlevent toute force a cette
conjecture. Les mimes representent les noces d’Ariadne et de Bacchus :
mais on ne voit rien de plus sur la scene que des baisers et des
etreintes amoureuses ; le reste se passe derriere le rideau (i).
( 1 ) Ces sortes de danses et de reprdsentations faisaient partie
des Myst6res. Dans lM lexander seu Pseudomantis, de Lucien, on voit
Alexandre, in- troduit comme nouvel initii, passer par les 6preuves
du dadouque et de l’hi<5rophante. Parmi les scenes religieuses
auxquelles cette initiation donne lieu figurent : les noces d’Apollon et
de Coronis, celles de Podalirius et de la mere dAlexandre, enfin
les amours d’Alexandre et de la Lune. « Alexandre, comme un autre
Endymion, etait couchd au milieu du theatre; on dchangeait des caresses
et des bai- sers. S’il n’y avait pas eu D des torches en quan-
tite, peut-etre bien qu’il se fut laiss6 entrainer a faire qucedam earum
quce sub veste Jieri solent. » Cest un peu ldger ; cependant il n’y a
rien la de bien obscene. — Gesner aurait du citer Lucien plus
complete- ment ; ce passage du Pseudomantis offre un tableau de
genre exquis : « Alexandre, comme un autre Endymion, etait couche au
milieu du thdatre, faisant semblant de dormir. II tombait de la voute,
comme du ciel, une certaine Rutilia, tr£s-jolie, qui jouait le role
de la Lune et qui dtait la femme d’un intendant de 1'einpereur. Elie
aimait vraiment Alexandre et 10 I IO
SOCRATE 40 . Finem et effectum negotii ita indi- cat
Xenophon : teXo; 0 i ol <jup.7ioToci ’.oovte; T:ept6e6Xr]xdT:a; ts
aXXrjXou c xai oj; et; euvrjv aTr-.ovTa:, 01 (j.r,v ayauoi yaixetv
£zw[xvuaav, 01 oe ysyap-rixoTec, ava 6 xvc£; Ijci xou; ? 3 C 7 COUS,
a-rj- Xauvov Tipo; xa; lauxujv yuvaTxa;, otim; xojxojv xuy otsv .
Tandem post blanditias quasdam , verecundas, maritales, complexi se invi-
cem sponsus et sponsa , i. e. manibus implexis, vel brachiis mutuo
cervici im- positis, vel tergo circumjectis , velut cubitum
discedunt : ab hoc spectaculo incalescentes , et ut paullo ante
dicebat, av£7iTEpo)|jiivoi (vid. no. ad §. i5) convivae caelibes
dejerant, se ducturos esse uxo- res ; mariti autem equis conscensis
domos festinant, ut simili voluptate et ipsi fruantur. Utinam vero
e spectaculis et theatris hodie ita discederetur ! utinam Socratis
hac parte disciplinam sequeren- tur publicarum Voluptatum Tribuni.
Talia spectacula edere debebant Romani eu 6tait aimee. Sous les
yeux de son propre mari, iis echangeaient des caresses et des
baisers » 40. Xenophon
indique de la maniere suivante la fin et les resultats de l’his-
toire. Apres toutes sortes de caresses honnetes et maritales, les deux
epoux se tenant embrasses, c’est-a-dire, je pense, les mains
entrelacees ou les bras pas- ses mutuellement soit autour du cou,
soit autour de la taille, s’eloignerent comme pour aller se coucher.
Echauffes par ce spectacle et se sentant de furieu- ses
demangeaisons, comme s’il leur pous- sait des ailes , les convives encore
celiba- taires /irent le serment de ne pas tarder a prendre femme ;
les maris monthrent a cheval et se haterent de regagner le lo- gis,
pour gouter d leur tour de sem- blables voluptes. Plut au ciel
qu’aujour- d’hui on quittat les spectacles et les theatres dans de
si bonnes intentions ! plut au ciel que cette partie de la disci-
pline Socratique fut pratiquee par les ediles preposes aux plaisirs
publics ! Ce sont de tels divertissements qu’auraient du decreter
les empereurs Romains, sou- cieux d’exciter toutes les classes au
ma- principes , cum de maritandis ordinibus , et sobole
Romana augenda soliciti erant : talia conveniebant nuper Lutetia ? et
Gal- lice adeo universae, quum Ducis Burgtin- dice natalem nuptiis
mille puellarum celebrarent : talia magnam Britanniam , si quid
veri habent quorundam qucerelce, Swiftiance praesertim , quas eo loco
protu- lit , ubi de abrogando clero disputat : aut eorum , qui
hodie peregrinos invitandos , supplendi populi causa . et civitate
donan- dos , censent. 41. Nempe incidit aetas Socratis in
ea tempora, ubi civium paucitate laborabat exhausta bellis Persicis
et Peloponnesia- cis Attica , cui etiam lege matrimoniali obviam
ire, et afferre remedium , conati esse dicuntur. Debemus notitiam
hujus legis ipsi Socrati, quatenus nulla forte illius mentio
extaret hodie, nisi de dua- bus Philosophi uxoribus jam olim dispu-
tatum esset. Res cum queestioni. de qua riage ct d’accroitre la
posterite de Re- mus : iis auraient convenu naguere a la ville de
Paris et a la France entiere lorsqu’on feta la naissance du duc de
Bourgogne en mariant un millier de jeunes falles; iis auraient bien fait
Faf- faire de la Grande-Bretagne, s'il y a quelque chose de vrai
dans ces plaintes dont Swift surtout s’est fait l’e'cho et qui
reclamaient 1’abolition du celibat despre- tres; iis conviendraient
encore a ces pays ou l’on attire les etrangers en leur conferant
les droits civiques pour sup- pleer au petit nombre d'habitants.
41. Socrate vivait a une epoque ou 1 ’Attique, epuisee par les
guerres des Perses et du Peloponese, souffrait de ne plus avoir
qu'une population clair-se- mee ; on dit menae que les Atheniens
s’ef- forcerent de remedier a cet etat de choses par une nouvelle
loi touchant lesmaria- ges. Nousdevons 1’unique renseignement que
l’on ait sur cette loi a Socrate , car il n’en subsisterait aujourd’hui
aucune agimus conjuncta sit , illam , quam brevi- ter
jieri potest , expediemus. Duas So- crati uxores vulgo tribui videmus,
Xan- thippen e qua Lamproclem susceperit, et Myrto , Sophronisci
atque Menexeni matrem. In hoc conveniunt Cyrillus ( contra Julia.
I. 6. p. 186, D) et Theo- doretus (Grcecar. Affect. curat, ser. 6
p. ij4, 40) ac Diogenes Laertius (2, 26). Porro de Xanthippe
Cyrillus ex Por- phyrio, 7tspi7tXa-/.asav XaQstv, clanculum in
ipsius amplexus venisse ; quod plane repugnat Platoni et Xenophonti,
qui nullius conjugis prceter Xanthippen , jus- tam uxorem ,
mentionem faciunt : tum Theodoreto, qui tamen ipse quoque sua
debere ait Porphyrio, sed non tantum pro TCspiTt^axetaav XaOsTv habet
7:po<j-XaxeTcjav Xa6sTv, induxisse priori uxori, ut pereat illa
secreti , et furti amatorii notio : sed etiam addit, solitas esse eas
mulieres in- ter se depugnare, deinde pace facta con- junctim
impetum facere in Socratem ideo , quod is bella illarum non dirime-
ret : hunc vero utrumque genus pugna:
mention sans la controverse autrefois agitee au sujet de ses
deux femmes. Comme cette question tient a notre su- jet, nous la
discuterons bridvement. On donne communcment a Socrate deux femmes
: Xantippe, dont il eut un de ses fils, Lamprocles, et Myrto, la mere
de Sophronisque et de Menexene. S. Cy- rille, Theodoret et Diogene
de Laerte sont tous les trois d’accord la-dessus. Mais S. Cyrille,
empruntant ce detail a Porphyre, dit de Xantippe que son ma- riage
avec Socrate fut clandestin, qu’elle se cachait pour 1’embrasser, ce qui
con- tredit absolument Xenophon et Platon, puisqu’ils ne parient
d’aucune autre femme que de Xantippe, epouse legitime de Socrate.
Theodoret, qui lui aussi dit tenir de Porphyre ses renseignements,
change 7iepi7tXoaEiaav XaOsTv en npovnXxxsT- aav XafleTv et declare ainsi
que Socrate introduisit Xantippe chez sa premi^re femme, ce qui
ruine toute cette histoire de mariage secret, et de furtifs baisers
; bien mieux, il ajoutc que ces deux me- cum risu
speci are consuevisse. Utri fi dem habebimus? 42. Sed nondum
est finis discordia- rum. Theodoretum si audimus , induxit
Xanthippen suce jam Myrto Socrates : sed Laertius negat convenire inter
auc- tores , utram prius duxerit. Idem ait , simul ambas habuisse
Socratem , a qui- busdam esse traditum. In hac sententia etiam fuit
auctor Dialogi Halcyon , qui inter primos Lucianeos editur , in
cujus fine Socrates dicat , se Halcyonis amo- rem in maritum suis
conjugibus Xan- thippee et Myrto prcedicaturum esse. Antiqua porro
esse illa relatio memora- tur Callisthenis , Demetri Phalerei , Sa-
tyri Peripatetici , Aristoxeni Musici , geres se battaient
continuellement, puis la paix faite, tombaient a poings fermes sur
le pauvre Philosophe, en lui repro- chant de ne les avoir pas separees:
pour lui, il restait simple spectateur du com- bat et voyait donner
ou recevait lui- meme les coups en souriant. A qui faut- il s’en
rapporter, de S. Cyrille ou de Theodoret? 42. Et nous ne sommes
pas au bout de la querelle. Dapres Theodoret, So- crate epousa
Xantippe, dtant deja marie a Myrto; mais Diogene de Laerte af-
firme que les auteurs ne sont pas d’ac- cord et qu’on ne sait qui des
deux il epousa la premiere. Il dit aussi qu’il les eut toutes les
deux ensemble, et sur quelles autorites repose cette assertion.
Elie a ete accueillie par 1’auteur du dia- logue intitule Alcyon, imprime
en tete de ceux de Lucien; on y voit Socrate proposer en exemple a
ses deux femmes, Xantippe et Myrto, 1’amour d’Alcyon pour son mari.
Plutarque (Vie d’Aris- i Hieronymi Rhodii, apud
Plutarchum (vita Aristid. extr.) qui ceteris narrandi auctorem
fuisse ait Aristotelem in libro de nobilitate, (rapi s-jyevsia;) qui
tamen liber an sit Aristotelis, Plutarchus dubi- tat : narrant
autem ita, Aristidis neptim Myrto, vidua cum esset et paupercula,
domum ductam a Socrate, eique cohabi- tasse, licet aliam uxorem habenti
. 43. At non licebat a Cecrope inde Athenis plure s una
habere uxores. Qui sit igitur, ut neque Comici exprobrarint, neque
Accusatores objecerint digamian Socrati ? Hic nobis narrant Athenaeus
et Laertius legem, latam supplenda 1 multi- tudinis civium causa.
Exstabat Athenceo prodente ipsum decretum a Rhodio Hie- ronymo
conservatum, wax' si-eivat xai ouo ET 1/aMOUR GREC I i q
tide) rapporte que cettc opinion etait ancienne, et qu ; elle fut
partagee par Callisthene, Demetrius de Phalere, Sa- tyrus le
peripateticien, Aristoxene le musicien et Hieronyme de Rhodes;
Athenee dit de son cote qu’ils Tavaient tous puisee dans le Traite de la
No- blesse d Aristote, livre dont cependant Plutarque doute
qu’Aristote soit l’au- teur. Tous racontent que- Myrto, pe-
tite-fille d Aristide, etant veuve et se trouvant dans une extreme
pauvrete, fut recueillie par Socrate dans sa maison et qu’il
cohabita avec elle, quoiquhl fut deja marie. 4 J - Les
vieilles lois de Cecrops inter- disaient cependant a Athenes les
doubles unions. Pourquoi donc ni les poetes co- miques, ni les
accusateurs de Socrate ne lui ont-ils reproche ou oppose ce cas de
bigamie ? Cest a ce propos qu’A.thenee et Diogene de Laerte nous parient
de cette loi nouvelle_, edictee, disent-ils, dans le but
d’accroitre le nombre des citoyens. 120 SOCRATE
'systv yuvatxa; tov [3o'jaojj.£vov. Secundum haec male accusaretur
Socrates, qui et legi paruerit de augenda sobole Attica , et
Aristidis progeniem viduitate et pauper- tate extrema liberaverit.
V 44. Verum enim vero totum hoc de duabus Socratis
uxoribus , quin de lege maritali etiam falsum esse , prcesertim ex
dissensu commemorato , itemque ex Platonis et Xenophontis silentio
arguit Bentleius (1). Et habet , quantum est de monogamia Socratis,
magnum auctorem Pancetium, quem laudat Plutarchus, qui cum
retulisset eam quce modo proposita est de Myrto narrationem, satis
illam refutatam ait a Panaetio : cujus si opus hodie extaret,
facilior forte hodie esset causa Socratis, quem tamen a turpi pue-
(/) In Dissertat, de Phalaridis et exteror. Epistolis, ET l’aMOUR
GREC 12 1 Athenee s’avance jusqida dire qu’il y avait un
decret, conserve par Hieronyme de Rhodes, et ainsi concu : « 11 est
per- mis d’avoir jusqua deux femmes. » Si cela est vrai, on
accuserait mal a propos Socrate, qui n’aurait fait qu’obeir a la
loi portee en vue de repeupler 1’Attique, et qui de plus aurait sauve du
veuvage et de la mis&re la petite-fille d’Aristide. 44.
Mais vraiment Phistoire des deux femmes, tout aussi bien que celle
de la loi matrimoniale, paraissent en- tachees de faussete a Bentley (1);
il se fonde surtout sur le desaccord que nous avons signale et tire
une grande preuve du silence de Platon et de Xenophon. Nous avons,
pour ce qui est de la monogamie de Socrate, une excellente autorite, Pantetius,
dont Plutarque fait le plus bel eloge; apres avoir rapporte ce que
nous avons dit de Myrto, il ajoute que cettefable a ete suffisamment
refutee ( 1 ) Dissertation sur les Epitres de
Phalaris, Themistocle, Sacrale et Euripide (iu-8"). SOCRATE
rorum amore, et a lenocinio turpi, et a libidinosa digamia, vel sic satis
liberatum esse confido. ET L AMOUR GREC par Panaetius. Si nous
possedions son livre, la cause de Socrate serait aujourd’hui plus facile
a defendre; je pense cependant avoir prouve qu’il ne fut ni un
corrupteur de la jeunesse, ni un provocateur a la debauche, ni un bigame
libertin. Alcibiade; ses avances repouss^es par Socrate. Ame,
comparde par Platon a un attelage ai!6 —
classification des ames suivant le degrd de connaissances
acquises avant la vie, p. Amour philosophique, — raisons qui
dirigent les choix dans cette sorte d’amour — les impuretes ou il
peut s’egarer -- Analyse du Lysis, dialogue de Platon — du Phedre — du
Banquet -- Beaute morale et Beaute physique -- Bigamie; Socrate
eut-il deux femmes? -- la bigamie etait-elle autorisde en
Grece ? -- Cohorte sacree des amants, a Thebes et en Crete -- Inspires;
couples d’amis -- Minies ; leurs exercices et poses plastiques -- riaiospaatsta,
le mot et la chose pouvaient etre pris en bonne part,
chez les Grecs -- Peines portees par les Grecs contre les infames -- Pronostics
tirds par les physionomistes de la voix forte et grave — de
lencolure courte — des oreilles velues -- des grosses levres -- du
nez camard — des yeux saillants, Representations mythologiques et
divertissements dans les festius — dans les mysteres -- effets singuliers
produits parfois sur les convives par ces representations, p. m.
Socrate; motifs ordinaires des accusations portees contre lui -- pourquoi
il recherchait les beaux garcons -- son portrait physique -- Socrate
l’ Ecclesiastique ; comment il a accuse, sans preuves, Socrate le Philosophe --
Sparte ; coutume rappor- t6e par Elien -- les amours impures y
etaient ignorees -- Paris. — Imp. Motteroz, 3 i, rue du Dragon. Gabriele
Giannantoni. Giannantoni. Keywords: la dialettica, dialettica, Epicuro a Roma,
Calogero, il principio dialogo, Lucrezio, Cicerone. -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Giannantoni” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giannetti: l’implicatura conversazionale del corposcolarismo
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Albiano di Magra). Filosofo. Grice: “I like
Giannetti; for one, he is the only philosopher I know whose first name is
‘Pascasio.’ He taught at Pisa, but not in the tower – Oddly, while he is from
Tuscany, there is a street (‘via’) in La Spezia named after him!” – Grice: “His
logic was considered heretic, at least by the duke, who diligently expelled him
from any obligation of teaching!” – Insegna a Pisa. Quando lascio la cattedra, gli successe Grandi. Di formazione galileiana,
fu un acceso nemico dei Gesuiti. Sollecitato da Grandi, che lo aveva anche
introdotto a Newton, cura GALILEI (Firenze). Rimosso da Pisa da Cosimo III de'
Medici, vi fece rientro alla morte di quest'ultimo. N C. Preti, Dizionario Biografico degli
Italiani, Memorie storiche d'illustri scrittori e di uomini insigni dell'antica
e moderna Lunigiana, Dizionario Biografico degl’Italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. G. Essendo G. tra'maestri più singolari di
filosofia a Pisa, quanto onore a quello Studio recasse non si può dire. Costui
ebbea quelle scienze pro clive natura, e tanta forza e vivacità d'ingegno che a
sermonare e discorrere di materie filosofiche pare nato a posta. Fu e'di Albiano
di Lunigiana, e divenne lettore in detta Università; e così bene in cattedra
sue dottri ne tratto, che per lo più savio discepolo di Marchetti e Bellini,
cattedranti nobilissimi, tutti lo conoscevano. Nulla ignoto eragli di quanto GALILEI
e Gassendo aveansi ritrovato, e sostenitore acerrimo fu della filosofia
corpusculare. Per ques stoguerra eterna pareva intimata avesse a tutti li
Peripatetici e Scolastici ostinati; che ligii si di chiaravano agli antichi
sistemi, quali adesso ricor dansi appenanelle scu ole de'monasteri. Per lo che
il G. futenuto per uno de'più arditi e co raggiosisostenitori degli
insegnamenti novelli e assai molesto riuscì a'superstiziosifilosofanti, ma in
particolar modo ai Gesuiti i quali, potendo al loramoltissimopressoCosmo
IIIde'Medici,fece ro in grave sospetto cadere di errori di religione G. non
solo, ma quasi tutta la Pisana Università. Per tale cagione , sendo state forti
let tere scritte e minaccevoli ai professori con ordi nare, che non volevasi filosofia
democratica, G., cui sapea benissimo delle persecuzioni altrui schermirsi e
rintuzzare le dicerie degli imperiti con la dotta e mordace sua lingua, difese
con trion fo la causa per iscrittura,nè mai digua proposta sentenza cesso.
Finalmente costretto di mutar cattedra e di leggere medicina, non ostan te
filosofava su i nuovi sistemi anche interpretan do gliaforismi d'Ippocrate e di
Galeno,e men tre con eloquio squisito e con pompa di erudizio ne le materie
mediche spiegavà,senza punto de nigrare alla gravità della scienza e del loco ;
l' al trui cabale e leggerezze con vaghi scherzi e arguti motti derideva.
Moltissimo ancora si adoperò in fisiciani sperimenti e nelle savie cure di
Tilli per ogni maniera di lode famoso: nè mezzanamente sidistinse insieme con
lo Zambescari di Pontremoli suo collega a sperienze fare nti lissime su le
terme del territorio Pisano e Luriena se,che servirono ad ambeduni di grande
merito. Intra le altre fece minute prove su l'acqua salsa di Monzone di
Lunigiana, e trovolla più efficace di quella del Tettuccio di Valdi Nievole, e
poteró Viri Paschasii Giannelli Albianeusis Philosoph. et Medicin, in
Pisau. Acudem . Professoris logeniiacumine eloquen.et ingenua philosoph.
libert. Quam difficillimis temporib, fere solus inter Acadlem. retinuit
ConcesseratAun.S Thomas Perellius praecept. et Amico Vasoli Io non posso tacere
di aver molte cose rica vato diquesto librodalle fạtiche e dagli scritti di
questo Pier Carlo Vasoli di Fivizzano, il quale sembra avesse in mente
d'illustrare sua patria , e però non deggio scordarmi di retribuirlo di grata
inemoria, tanto più che molto distinto riuscì nel la medicina e buon
coltivatore della poesia. Que stouomoerudito, comeraccontaincertosuoEr bariolo
Lunense m . s., avendo studiato prima a Bolognae poi a Pisa allascuola del celebre
Malpighi, dove si dottorò verso la fine del si estrarre il sale catartico
a guisa di quel d' In ghilterra , se non venisse incautamente adulterata.
Benespesso Pascasio dilettavasi d'investigare le azioni è i consigři degli
uomini più che i segreti dellanatura,equasi Epicuro con aspreparoleab batteva i
vizi ele inezie altrui. Mente profonda mostrò in tutto, ma poca industria: e
vivendosi fino alla vecchiezza, dopo 57 anni di lettura in quella Università, muore
in una villetta che avea a Capannoli su quel di Pisa, e sepolto nella chiesa diquella
terra, fugliper Tommaso Pe relli suo scolare messo questo marmo sopra il se
polcro, riferito ancora da inonsignor Fabroni in sua stor. dell'Univ. Pis., dove
parla del Giannetti: = Pijs Manibus et Memoriae aeternae Cum paucisaetatis suae
comparandi Obiit Octuagenario major in proxima Villula In quam post impetratam
a docendo vacationem G. Nasce, da Polidoro, ad Albiano Magra di Aulla in
Lunigiana. Avviato agli studi filosofici, li coltivò, insieme con quelli
medici, presso l'Università di Pisa, dove era ben viva la tradizione galileiana
e, in fisica e in medicina, era ben rappresentata la corrente
meccanico-corpuscolarista. Fu il gruppo di docenti formatisi alla scuola di
G.A. Borelli a istradarlo verso questa tradizione concettuale; soprattutto
Marchetti, Bellini e Zerilli lo introdussero allo studio delle opere, oltre che
di Galilei, di Gassendi e del Borelli. Parallelamente, il G. attinse da G. Del
Papa gli stimoli di un diverso indirizzo, anch'esso presente nell'ateneo
pisano, teso a far convivere, soprattutto in campo medico, il galileismo con
esigenze di ordine pratico. Laureatosi in filosofia (promotore e il Del
Papa), G. ottenne nello stesso anno la lettura di logica e filosofia naturale.
Il suo magistero, argutamente antiaristotelico e apertamente atomistico,
dovette risultare piuttosto efficace. Quando si delineò una reazione generale
della Chiesa contro quelle interpretazioni dello sperimentalismo considerate
arbitrarie e potenzialmente eversive dell'ortodossia religiosa, a causa dei
possibili esiti materialistico-libertini, il G. fu direttamente coinvolto. Insieme
con altri sei lettori pisani, si vide intimare dall'auditore F.M. Sergrifi di
non insegnare la filosofia atomistica. Per nulla intimidito, a detta di A.
Fabroni, il G. alimentò le polemiche che seguirono con un libello, oggi
perduto, in difesa dei lettori ammoniti. Poca sorpresa dovette quindi destare
tra i contemporanei il provvedimento, preso dal governo di Cosimo III, di
trasferire il G. alla lettura di medicina teorica, mitigato dal permesso di
tenere lezioni domiciliari di filosofia. Come lettore di questa
disciplina medica, il G. mostrò di voler tenere aperti spiragli per un discorso
"moderno". Lesse gli Aforismi d'Ippocrate, proclamandosi così seguace
dell'indirizzo che privilegiava la pratica clinica sulle questioni di teoria
medica, ma nel commentarli continuò a seguire i novatori. In particolare,
a quanto sembra, già in questa fase i motivi galileiano-gassendiani si erano
venuti in lui incrociando con motivi della dottrina newtoniana. Da questa aveva
recepito la tesi della struttura porosa della materia, che, attraverso
l'ipotesi dei diversi ordini di combinazione dei corpuscoli, è assunta come
matrice delle qualità macroscopiche dei corpi. È probabile che una delle fonti
attraverso le quali il G. venne a conoscenza della teoria newtoniana sia stata
il padre camaldolese G. Grandi, suo buon amico (Ortes ci riferisce che il
Grandi "solea frequentemente conversare" nella casa del G.), ma, a
differenza del Grandi, il G. non dovette essere pienamente in grado di
coglierne l'impalcatura matematica, tanto da ritenerla conciliabile con la
distinzione gassendiana tra punto matematico e punto fisico. G., insieme
con Bresciani, G. Averani e altri, fu coinvolto dal Grandi nella preparazione
della seconda edizione delle Opere di Galilei (Firenze). Più tardi, alla metà
degli anni Venti, il suo nome venne fatto in alternativa a quello del Grandi
quale autore di un libretto pseudonimo (Q. Lucii Alphei Diacrisis in secundam
editionem Philosophiae novo-antiquae r.p. Cevae cum notis Ianii Valerii Pansii,
Augustoduni), che segnò una nuova occasione di scontro tra i novatori pisani e
i gesuiti del collegio di Firenze. Il libretto, nato come replica alla
prefazione del gesuita M. Dalla Briga al poemetto Philosophia nova-antiqua
(Florentiae), del confratello T. Ceva, fornisce una descrizione caricaturale
delle forme di opposizione allo sperimentalismo che, a detta dell'autore,
circolavano nel collegio fiorentino. Non è chiaro se sia da collegarsi a
questa polemica il basso profilo assunto dal G. nel quarto decennio del secolo.
La relazione sullo stato dello Studio che G. Cerati presentò ai nuovi
governanti, ci informa che "già da alcuni anni" G., pur retribuito,
aveva interrotto le lezioni pubbliche e si limita a dare privatamente lezioni
di filosofia. Cerati attribuiva ciò a non meglio precisate indisposizioni del
corpo, ma l'Ortes attesta che G. godette per tutta la vita di ottima salute.
Priva di riscontri è la notizia di una sua adesione alla loggia massonica
fondata a Firenze, loggia che però sicuramente accolse un buon numero di suoi
allievi. G. muore a Capannoli, presso Pisa, Quelle che sembrano essere le
sue uniche opere a noi giunte si trovano a Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. Tractatus phisici iuxta recentiorum opinionem
conscripti a G.) e a Pisa, Bibl. universitaria, ms. (PHILOSOPHIÆ TRACTATVS).
Fonti e Bibl.: Per la collaborazione del G. all'edizione fiorentina del 1718
delle Opere del Galilei vedi le lettere di Buonaventuri a Grandi, Pisa, Bibl.
universitaria, Carteggio Grandi; sei lettere del G. a Grandi e alcune note di
argomento fisico; Acta graduum Academiae Pisanae, Volpi, Pisa; Ortes, Vita di
Grandi, Venezia G. Soria, Raccolta di opere inedite, Livorno, Fabroni,
Historiae Academiae Pisanae, Pisis, Sbigoli, Crudeli e i primi framassoni in
Firenze, Milano; Carranza, Cerati provveditore dell'Università di Pisa nelle riforme,
Pisa, Storia dell'Università di Pisa, Pisa, Morelli, Per una storia di
Bonducci, Roma, Livorno, Livorno. Pascasio Giannetti. Gianetti. Keywords: corpuscolarismo,
implicature corpuscolare, Isaaco Newton, Galilei, Grandi, Giannetti -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giannetti: implicatura corpuscolare – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Giannetta search
– another time?
Grice e
Giannone: l’implicatura conversazionale della terza Roma – e l’implicatura
ligure – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ischitella).
Filosofo italiano. Grice: “Giannone is an interesting philosopher. He
philosophised on the ‘citta terrena,’ which is a back-fromation from ‘celestial
city,’ and by which he meant Rome! – Then he compared men – in their
collectivity, to apes, even if ingenious ones!” “Non solo i corpi, ma, quel che è più, anche
le anime, i cuori e gli spiriti de' sudditi si sottoposero a' suoi piedi e
strinse fra ceppi e catene.” Esponente di spicco dell'Illuinismo italiano, discendente
da una famiglia di avvocati (anche se il padre era uno speziale), lasciò il
paese natale per intraprendere gli studi a Napoli. Si laurea entrando ben
presto in contatto con filosofi vicini a Vico. Fu praticante presso Argento,
che disponeva di una vasta biblioteca, la frequentazione della quale fu
essenziale per la sua formazione. I suoi interessi non si limitarono
soltanto al diritto ed alla filosofia, appassionandosi anche agli studi storici
e dedicandosi alla stesura della sua opera storica più conosciuta Dell'istoria
civile del regno di Napoli, che gli causò tuttavia numerosi problemi con la
Chiesa per il suo contenuto. Costretto a riparare a Vienna, ottenne
protezione e sovvenzioni da Carlo VI, il che gli permise di proseguire
indisturbato i suoi studi filosofici. Il suo tentativo di rientrare in
patria fu ostacolato dalla Chiesa, nonostante i buoni uffici dell'arcivescovo
di Napoli recatosi a Vienna per convincerlo a tornare a Napoli. Fu costretto a
trasferirsi a Venezia dove, apprezzatissimo dall'ambiente culturale della città,
rifiutò sia la cattedra a Padova, sia un posto di consulente giuridico presso
la Serenissima. Il governo della Repubblica lo espulse, dopo averlo
sottoposto a stretti controlli spionistici, per questioni inerenti alle sue
idee sul diritto marittimo e nonostante la sua autodifesa con il trattato
Lettera intorno al dominio del Mare Adriatico. Dopo aver vagato per
l'Italia (Ferrara, Modena, Milano e Torino), giunse a Ginevra, dove compose un
altro lavoro dal forte sapore anticlericale “Il Triregno: il regno terreno, il
regno celeste, e il regno papale, che gli costò nuovamente la persecuzione
delle alte sfere ecclesiastiche culminate con la sua cattura in un villaggio
della Savoia, ove fu attirato con un tranello. Rimasto nelle prigioni
sabaude, fu costretto a firmare un atto di abiura che non gli valse tuttavia la
libertà. Fu tenuto prigioniero nella fortezza di Ceva, dove scrisse alcuni dei
suoi componimenti più famosi. Trasferito alla prigione del mastio della
Cittadella di Torino. +“Dell'istoria civile del regno di Napoli” ebbe enorme
fortuna mentre la Chiesa ne avversò le tesi ponendola all'Indice dei libri
proibiti, comminando al filosofo una scomunica la quale obbligava Giannone a
riparare all'estero. I temi trattati nell'Istoria, sviluppati su precisi
riferimenti giuridici, forniscono una lucida descrizione dello stato di degrado
civile del Regno di Napoli, attribuendone le cause all'influenza preponderante
della Curia romana. Auspica in primis con quest'opera, «il rischiaramento delle
nostre leggi patrie e dei nostri propri istituti e costumi». Nel
Triregno, opera aspramente avversata anch'essa dagli ambienti ecclesiastici, presenta
la religione secondo un prospetto evolutivo: la Chiesa, col suo "regno
papale", si contrappone al "regno terreno" degli Ebrei ma anche
a quello "celeste" idealizzato dal Cristianesimo e il superamento del
male, che lo Stato Pontificio così incarna, si realizzerà soltanto attraverso
un cambiamento di rotta deciso, mediante ulteriore consapevolezza individuale
raggiunta dall'uomo nel corso della sua vicenda Storica. Indi teorizza uno
Stato laico capace di sottomettere l'istituzione papale, anche mediante
un'espropriazione dei beni materiali del clero. La Chiesa porta avanti una
forma di negazione di quella libertà individuale che deve essere posta come
fondamento giuridico e sociale. Al filosofo sono intestati vari istituti
scolastici, tra cui lo storico Liceo classico G. di Caserta, quello di
Benevento, quello di Foggia, e quello di San Marco in Lamis. Nella Storia della colonna infame, Manzoni
dedica a G. ampio spazio elencandone i numerosissimi plagi e gli errori che
anche Voltaire gli rimprove. Inizia paragonandolo a Muratori e indicandolo come
filosofo più rinomato di lui, poi aggiunge un lungo ELENCO e raffronto delle
opere plagiate e degli autori, tra cui Nani, Sarpi, Parrino, Bufferio, Costanzo
e Summonte: e chissà quali altri furti non osservati di costui potrebbe
scoprire chi ne fa ricerca". E conclude che se non si sa se fosse pigrizia
o sterilità di mente, e certo raro il coraggio. Altre saggi: Autobiografia:
i suoi tempi, la sua prigionia, appendici, note e documenti inediti, Pierantoni, Roma, Perino, I discorsi storici
sopra gli Annali di LIVIO, Apologia dei teologi scolastici Istoria del
pontificato di Gregorio Magno, “L'Ape ingegnosa” “Istoria civile del Regno di
Napoli. Napoli, Gravier); G., Istoria civile del Regno di Napoli, Napoli, Gravier,
G., Istoria civile del Regno di Napoli.Napoli, Gravier, G., Istoria civile del
Regno di Napoli; Napoli, Gravier, G., Istoria civile del Regno di Napoli, Napoli,
Gravier. G., Istoria civile del regno di Napoli, Capolago, Elvetica; Nicolini,
La fortuna di G.: ricerche bibliografiche, Bari, Laterza, Marini, Il GIANNONISMO
(Bari, Laterza). Vigezzi, G. riformatore e storico. Milano, Feltrinelli, Giannoniana:
autografi, manoscritti e documenti della fortuna di G., Bertelli, Milano,
Ricciardi, Ricuperati, L'esperienza
civile e religiosa di G.., Milano-Napoli, Ricciardi, Mannarino, Le mille favole
degl’antichi. Cultura europea nella filosofia di G., Firenze, Le Lettere, Ricuperati,
La città terrena di G.: un itinerario tra crisi della coscienza europea e
illuminismo radicale, Firenze, Olschki, Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Vita scritta da lui medesimo, Feltrinelli, Biblioteca Italiana, filosofico.net/
giannone. htm. De’ liguri duri e forti. Loro estensione in Italia; e come
sopra tutti gl’altri popoli tenesseró esercitati I ROMANI nella disciplina militare,
sicchè fossero gl’ultimi ad esser soggiogati. LIVIO in più occasioni, parlando
de’ liguri, confessa che niuna provincia esercita cotanto I ROMANI nella virtù
e disciplina militare, quanto LA LIGVRIA, poichè dura nelle armi, bellicosa
amica di fatiche e di travagli, e di riposo impazienle, nelle sue guerre non
tosto era da’ romani vinta che sorgeva più animosa e forte di prima. IS HOSTIS
VELVT NATVS AD CONTINENDAM INTER MAGNORUM INTERVALLA BELLORVM ROMANIS MILIAREM
DISCIPLINAM ERAT NEC ALIA PROVINCIA MILITEM MAGIS AD VIRTVTEM ACVEBAT. Non abitavano
i liguri (eciòanche contribuiva alla loro bellicosa indole) in luoghi piani ed
ameni e sotto temperato e molle clima, il quale avesse potuto rendere simili a
sè gl’abitatori. Ma all'incontro occupando essi quella occidental parte
d'Italia che ha per confine la Gallia Narbonense, vivendo in regioni montuose
aspre ed inaccessibili, e per le angustie delle vie acconce a tendere aguali ed
insidie; non temeno di numerosi eserciti nè d'istromenti bellici nè di macchine
o d'altri apparati militari, difendendoli il suolo e l'arduità de'loro siti. E
perciò essi militavo senza molto apparecchio mi cidiale. NIHIL, dice LIVIO,
PRÆTER ARMA ET VIROS OMNEM SPEM IN ARMIS HABENTES ERAT. Gli antichi liguri
erano divisi di qua e di là delle alpi e dell'appennini o in molti popoli o
sieno comunità, non altrimenti di ciòche si è delto degl’antichi etruschi, ed
occupavano vastissime regioni. Le alpi marittime e gran parte delle
mediterranee erano da essi popolate. Di là delle alpi i più celebri sono i
liguri SALII, i DECEALI e gl’OXIBI. Di qua sonoo i VEDIANZI, i VAGIENNI, gli
STATIELLI, i MAGELLI, gl’EBVRIATI, i VELIATI, i TIGVLII, gl’INGAVNI, i SALASSI,
i LIBICI, i LAVRINI ed altri. LIVIO, oltre questi popoli da Plinio rapportati
fa menzione di altri liguri posti di qua dell'appennino chiamati APVANI, i
quali VINCENO I ROMANI e debellarono un esercito consolare sotto Q. Marzio
console, e nota che il luogo della sconfitta fino a’ suoi tempi chiamavasi
perciò il campo Marziano. Fa memoria ancora di altri liguri di là dell'appennini
ch'egli chiama liguri FRISINATI. Questi popoli hanno più città o VICHI, dove
dimorano ciascuno nel proprio distretto. E fra le città son da considerarsi alcune
antiche ed illustri le quali, secondo la divisione dell'Italia fatta poi d’OTTAVIANO
in XI regioni, forma parte della XI. Nella Liguria rivolta al mare inferiore di
quà del FIUME VARO, CHE DIVIDE L’ITALIA DALLA GALLIA Narbonense, la prima città
marittima che s'incontra e de’ liguri vedianzi chiamata Cimelion. Prossima a
questa I MASSILIESI edificano NIZZA alle radici dell’alpi marittime, non
lontana dalle foci del fiume Varo, che poi cresce dalle ruine di CIMELIO, città
antichissima, la quale ha vescovi prima che da Costantino Magno e stata la
religione cristiana fa ricevere nel l'impero. Rimangono ancora le vestigia
de'suoi ruderi ed il nome di CIMELIO. L’'antica sua cattedra e unita a quella
di NIZZA, la quale non si APPARTIENE già alla Gallia Narbonense, siccome alcuni
credeltero, ma secondo PLINIO, Tolomeo ed altri geografi antichi, ALLA NOSTRA
ITALIA, come quella che è costrutta di qua del fiume Varo. Antipoli fondata
pure da'massiliesi si appartiene alla Gallia Narbonense, perchè eretta di là del
fiume. Essa lungo tempo e sotto i massilies i loro fondatori, ed ora sotto i re
di Francia è chiamata ANTIBO. Appresso NINZZA nel mar ligustico siegue MONACO
GRIMALDI, detta dagl’antichi Porto di Ercole, indi AlbioInlemelio, Albingauno, Savona,
Genua, Porto Delfino Tigulia, e più in dentro Segesta città de’ liguri tigulii.
Chiude questo confine IL FIUME MACRA CHE DA QUESTA PARTE DIVIDE LA LIGVRIA
DALL’ETRVRIA. Dall'altra parte mediterranea ove si erge l'appennino, ampio
monte il quale con gioghi perpetui e continuali fino allo stretto siciliano
divide l'Italia per mezzo , avevano i liguri di qua e di là d e l monte
medesimo nobilissime città; especialmente da un lato del Po Libarna, Dertona,
Iria, Barderate, Industria, Polentia, Potentia, Valentia,ed Augusta de’ liguri
vagienni. Quest'ultima città posta alle radici delle Alpi Cozie, non molto
lontana dal monte Vesulo d'onde il Po ha sua origine, e dappoi resa COLONIA DE’
ROMANI. NON CI RIMANE ORA DI ESSA ALCUN VESTIGIO, ma in sua vece surse al luogo
stesso ne'secoli da noi men lontani la città di Saluzzo sede un tempo di
principi e capo del famoso marchesato di Saluzzo, la quale in fine da Giulio Imeritò
esser decorate della dignità episcopale. Ma sopra queste s'innalzarono nella
Liguria tre città non meno antiche che illustri, Alba Pompeia, Asta, ed Aqui
città de’ ligur istatielli. Alba posta nella Liguria montuosa presso
l'Appennino [H. P. GRICE – SINGULARE, NON PLURALE] nella riva del fiume Tanaro fu
dagl’antichi geografi chiamata Pompeia, e per distinguerla da Alba degl’Elvii
posta nella Gallia Narbonense, e per aver quella G. POMPEO rifatta e la sciati
ivi vestigi di sua memoria e beneficenza. Ha vescovi antichissimi, poichè
rapportasi il primo tra questi essere stato nell'anno 350. Dionigi discepolo d’Eusebio,
poi innalzato alla cattedra di Milano. E ne'secoli men remoti vi se dettero due
uomini insigni che la illustrarono, uno per la prudenza civile, ed e Lazarino Fieschi de’ Conti di LAVAGNA, al
quale la regina di Napoli Giovanna contessa di Provenza commise il governo del Piemonte,
da lui quindi amministrato con somma lode commendazione; l'altro per sapienza é
somma dottrina ed erudizione, qual fu il famoso Girolamo Vida, quel chiarissimo
poeta latino che ci lasciò l'incomparabile sua Criste idee di suoi dotti dialoghi
De Republica. Acqui posta alla riva della Bormida in quella parte del Piemonte
di là del Tanaro ,la quale Monferrato oggi si ap pella, fa edificatada’liguri
statielli popoli potentissimi dell’Asla posta nella Liguria mediterranea non
lontana dal Tanaro furesa colonia de’ ROMANI, ed un tempo fu sede d’uno degli’antichi
duchi longobardi. Ha anch'essa antichissimi vescovi, i quali quando l'imperio
di Occidente passa a’ germani, furono dagl’imperatori molto favoriti ed a sommi
onori innalzati; e non poco splendore reca a quella città aver seduto nella sua
cattedra vescovi le il famoso Panigarola, chiaro al mondo eloquenza e per tanti
monumenti che lascia di sua dottrina. > per lasua montuosa
Liguria. E detta Acqui dall’acque calde che qui vi scaturiscono assai
salutifere, siccome oltre la testimonianza di PLINIO, l'istessa esperienza
dimostra: e e chiamata Acqui de’ LIGVRI STATIELLI, per distinguerla dall’Acqui
sestia de' Salii posta nella provincia Narbonense. E anche sede di uno de’ duchi
longobardi. Ma la sua cattedra non è cotanto antica quanto le due precedenti
come quella che prende sua origine da’ longobardi che sono i primi ad erigerla.
I LIGVRI I si stendevano anche di là del Po, é molte città le quali secondo la divisione
d'Italia fatta d’OTTAVIANO sono col locate nella XI regione alle radici dell’Alpi
, anche da’ liguri traggon l'origine. Le prime che s'incontrano sono Vibiforo e
Secusia, oggi detta Susa, le quali sono poi mutate in due colonie romane. Anche
Torino PLINIO fa derivare dall'antica stirpe de’ LIGVRI -- ANTIQVA LGVRVM
STIRPE, egli scrive e dice il vero, poichè coloro che la fan derivare da’ massiliesi,
sica come Nicea ed Antipoli, vengono a togliere a questa città molto della sua
antichità. Non è dubbio che I LIGVRI sieno popoli d'Italia tanto antichi, che di
essi non si sa l'origine, onde si credono INDIGENI del paese, nè mischiati con
altre forestiere nazioni , non altrimenti che TACITO crede de’ germani. All'incontro
de’ massiliesi si sa l'origine ed il tempo nel quale profughi dalla Focide
navigando nel mare inferiore e cercando nuove sedi, si fermarorro ne'lidi della
Gallia Narbonense innanzi detta Bracata. Ciò avvenne, secondo la te stimonianza
di Livio, mentre in Roma regna TARQUINIO PRISCO,quando la prima volta i galli passarono
le Alpi, i quali dopo aver soccorso i massiliesi contro i salii che impedivano
loro lo sbarco, se ne calaron pe' monti Taurini dall’Alpi Giulie nell'Insubria,
discacciandone gl’etruschi. LIVIO stesso rifere che a'medesimi tempi i salluvii,
avendo passate l’Alpi, si posarono intorno al fiume Ticino vicino a’ liguri levi,
antica gente ed indigena di que'luoghi. Salluvii, e' dice, qui, PRÆTER ANTQIVAM
GENTEM LEVOS LIGVRES INCOLENTES CITRA TICINVM AMNEM EXPVLERE. Se dunque i
liguri, chiamati da Livio gente antica, quando i massiliesi poser piede nella
Gallia Narbonense tenevano questi luoghi. Più antica e l'origine di Torino
derivandola da’ liguriche da’ massiliesi, i quali siccome molti e molti anni
dappoi che sono stabiliti in Massiglia fondarono Antipoli e NiZZA, molto
maggior tempo appresso avrebber dovuto fondare Torino più lungi che quelle. Si
aggiunge che quando Annibale cala per l’Alpi in Italia, secondo rapporta LIVIO,
Torino e già metropoli degl’antichi popoli Taurini, i quali reggendosi per se stessi
hanno allora mossa guerra agl’insubri, e ricusarono l'amicizia di Annibale contrastandogli
coraggiosamente il passo, che egli sforza a gran fatica. Inoltre LIVIO stesso
rende testimonianza che la prima volta in cui i romani ? mosser guerra a’ liguri
e per occasione che questi depredano i campi di NIZZA e di Antipoli, città
de'massiliesi soci de’ romani ,e non già i campi di Torino, la qual città
perciò non e de’ massiliesi, ma abitata da’ liguri taurini. Sono questi popoli
chiamati Tauriniche dieder nome alla città, siccome i monti a piè de'quali essa
è posta sono anche detti Taurini, a cagione che dagl’antichi i gioghi de monti
erano chiamati Tauri per la figura che sogliono avere simili a'dorsi o alle
schiene di tori, ond'è che quel celebre monte che divide la Siria dal rimanente
dell'Asia fu chiamato Tauro sic come alcuni altri popoli presso Plinio ed altri
antichi geografi son chiamati anch'essi Taurini specialmente nella Scizia, per
chè abitano presso i monti anticamente appellati Tauri. Ri dotti poi questi
popoli liguri sotto la soggezione de’ romani, OTTAVIO ingrandi la città, che
perciò venne poi detta AVGVSTA TAVRINORVM, non altrimenti che Lutetia
Parisiorum da’ parisii popoli della Gallia Lugdunense che l'abitano. Hanno i
liguri salassi anche in questa XI regione un'altra città, chiamata da Strabone,
Plinio, Tolomeo ed Antonino Augusta Prætoria -- ora detta AOSTA -- per
distinguerla dall'altra Augusla de’ liguri vagienni già menzionata. E posta frà
le due facce dell’Alpi Graie e Pennine. Sono le prime dette da' greci Graie per
lo passaggio di Ercole – NISI DE HERCVLE FABVLIS CREDERE LIBET, come saviamente
dice Plinio --, e le seconde, siccome volgarmente si crede, dal passaggio di
Annibale co’ suoi cartaginesi sono chiamate “PŒNINE”, secondo avvisa anche
Plinio, benchè Livio ne dubiti. Checchè sia diciò, è da osservarsi che da
questa Augusta Prætoria, essendo per la sua situazione la prima città d'Italia,
gl’antichi geometri prendevan la misura della lunghezza di questo nostro paese,
tirando una linea per Capua fino a Reggio, ultima città sullo stretto siciliano.
E dessa ancora città famosa ed illustre a’ tempi de’ re longobardi, quando
questi tennero il regno d'Italia. Ad Eporedia, città posta nella stessa regione
all'imbocco della Valle Augustana e dalle radici dell’Alpi, oggi dell’Ivrea, Plinio
da, se non così antica origine, nulla dimeno una assai più illustre, scrivendo
che e da’ Romani fondata per impulso degli dei, secondo che da'libri sibillini era
stato lor mostrato. OPPIDVM EPOREDIAM, e dice, SYBILLINIS LIBRIS A POPVLO
ROMANO CONDI IVSSVM. E antica colonia romana, e perciò cotanto memorata da CICERONE,
STRABONE, TACITO, e d’altri romani scrittori. Vercelli anche secondo PLINIO dee
riconoscere la sua origine da’ liguri sallii poichè egli scrive: VERCELLE
LIBICORVM EX SALIIS ORTÆ. E se dobbiamo prestar fede al vecchio CATONE, Novara
anche da’ liguri ha origine, quantunque in ciò PLINIO discordi, facendola
derivare da’ vocontii popoli della Gallia Narbonense. Questa era l'antica LIGVRIA
che occupa tutta quella gran parte d'Italia occidentale, la quale poscia dal
tempo che cangia e muta i nomi,i linguaggi, i costumi, i confini e tutto, sorti
altre divisioni e nuovi domini. Furon poi queste regioni chiamate Langa, Monferrato,
l'Astegiana, Piemonte superiore, Marchesato di Saluzzo, Piemonte inferiore
ovvero tratto Torinese, Canavese,Valle Augustana,Vercellese e Biellese. MOLTI
TRAVAGLI I ROMANI SOPPORTARONO PER SOTTOPORRE TANTI POPOLI LIGVRI, poichè
questi duri nelle armi e difesi da'luoghi inaccessibili si mantenner liberi, nè
prima degl’ultimi tempi della romana repubblica sono ad essa sottomessi. I
romani cominciarono a sperimentarli nell’armi dopo che si sono già resi formidabili
in Italiae daltrove, dopo che ebber vinto Pirro re di Epiro e lui costretto a
ritirarsi nel suo regno, e dopo che nella guerra punica il console C. Lutazio
diede [Plin., Hist. nat.] a’ cartaginesi quella terribile rotta nelle
isole agale, per la quale costoro furono forzati a chieder pace a’ romani.
Allora, finita questa guerra, i vincitori cominciarono a muovere le armi contro
i liguri. LIVIO, nella seconda sua deca, seguendo il suo costume, ne avrebbe
certamente fatto conoscere le minute circostanze, ma questa deca interamente ci
manca. L. Floro nell’Epitome ne rammenta il principio dicendo, ADVERSVS LIGVRES
TVNC PRIMVM EXERCITVS PROMOTVS EST. Ma d’altri scrittori romani e da ciò che LIVIO
stesso scrive nella III e IV deca, lequali per buona sorte ci rimangono, è
facile il conoscere che fin qui i romani non profittarono niente sopra i
liguri, poichè è anche fuor di dubbio che nel principio della guerra punica
quando Annibale passa le Alpi, i liguri gli prestano aiuto contro i romani; e LIVIO
nel primo libro della III deca parra, che col loro favore prese Annibale per
insidie due questori romani con II tribuni de'soldati e V figliuoli de'sanniti
dell'ordine equestre. Nè dopo scacciato Annibale d'Italia si perderono di animo,
sicchè non tenessero continuamente esercitati i romani nell’armi. Ambi duei
consoli C. Flaminio contro i liguri frisinati ed apuani -- i quali scorre fino
ne’ campi Pisani e Bolognesi --, e M. Emilio contro gl’altri liguri di qua
dell'Appennino, sono destinati con II eserciti consolari a soggiogarli: e
sebbene ciò avessero i consoli menato ad esecuzione, non mancaron quelli di
risorger poi più animosi e forti che prima, sicchè e d'uopo nel seguente anno a'successori
consoli Q. Marzio e Postumio, dopo che questi sispacciarono dalle inquisizioni
de’ baccanali, riprender la guerra, la quale a Q. Marzio riusci pur troppo
infelice, poichè colto il suo esercito da’ liguri apuani fra luoghi strelti e
dificili, e dissipato in guisa che, siccome scrive LIVIO, QVATVOR MILLIA
MILITVM AMISSA ET LEGIONIS SECVNDÆ SIGNATRIA UNDECIM VEXILLA SOCIORVM AC LATINI
NOMINIS IN POTESTATEM HOSTIVM VENERVNT ET ARMA MVLTA QVÆ QVIA IMPEDIMENTO
FVGIENTIBVS PER SILVESTRES SEMITAS ERANT PASSIM IACTABANTVR PRIVS SEQVENDI
LIGVRES FINEM QVAM FVGÆ ROMANI FECERUNT. Marzio fuggi dunque col residuo
del suo esercito: NON TAMEN, soggiunge LIVIO, OBLITERARE FAMAM REI MALE GESTE
POTVIT NAM SALTVS VNDE EVM LIGVRES FUGAVERANT. MARTIVS EST APPELATVS. Nè minori
sono gli sforzi ne’ seguenti anni de’ consoli successori, SEMPRONIO Sempronio
che pugna contro i liguri apuani ed AP. CLAUDIO contro i liguri ingauni. In breve,
dice Livio, e già ridotto in costume non decretarsi a’ consoli altra provincia se
non quella de’ liguri onde erano quelli spesso intenti a formare nuove legioni
per poter abbattere sì valorosi inimici; la qual cosa non ha effetto se non
sotto L. Emilio Paolo il quale, essendogli stata prorogata la consolare potestà,
con potente esercito spedito contro i liguri ingauni ottenne su questi piena vittoria,
siccome più tardi M. Bebio l'ottenne su’liguri apuani. E finalmente soltanto
verso la fine del secolo, insieme con gl'istri, co’ galli cisalpini e con le
genti alpine, sono i liguri sottomessi a’ romani. De’ liguri in fatti
primieramente trionfo C. CLAUDIO console, e ne’ posteriori anni sono quelli
poscia del tutto debellati. Di questa costanza e dabito de’ liguri alle fatiche
della milizia ed a soffrire patimenti e disagi, ben si accorse Annibale, il
quale passate l’Alpi, nelle sue prime pugne contro i romani, più che in altro
popolo e più che ne’ cartaginesi stessi, pose ogni fiducia ne’ liguri de’ quali
si vale. E quando profugo da Cartagine ricovrossi sotto Antioco re della Siria,
il quale allora ha guerra co’ romani, il più sano consiglio che a quel principe
pole dare, siccome Livio scrive e che dove attaccare in due parti i romani
dividendo in due classi la numerosa sua armata, ed una, della quale e stato
Antioco stesso il comandante e l'ammiraglio, diriger nella Grecia per
discacciarne i romani, l'altra, dellả quale egli stesso Annibale e stato il
capitano supremo, dopo avere stretta lega co’ cartaginesi, con LE NAVI DI
QUESTI INVIARE NEL MAR LIGVSTICO; poichè pensa che sbarcata la sua gente nella
Liguria, egli fidando mollo nel coraggio e valore de’ liguri OSTINATI DIFENSORI
DELLA LORO LIBERTA CONTRO I ROMANI, bene avrebbe potuto unendo l’armi
liguri alle sue portar nuova formidabil guerra in Italia e porre nuovo assedio
fino alle mura di Roma istessa; ma quello stolto e vano re non appigliandosi a QUESTO
SANO CONSIGLIO e volendo piuttosto seguire le adulazioni de’ suoi propri capitani,
die’ cagione alle tante sue perdite e sconfitte ed alla sua totale rovina. Ma
riguardandosi a’ secoli più a noi vicini, non dovrà tacersi un pregio che rese
la ligure provincia assai più gloriosa di quante mai possano vantarsi di essere
state avventurose madri d’eroi e di semi-dei. Si celebrano cotanto presso i
greci e le nazioni tutte del mondo Alcide, Bacco ed Ulisse per le lunghe loro
peregrinazioni, per aver debellato i mostri, verte ignote terre e scorsi incogniti
mari. Ma Ercole stesso chi fu colui che rese i segni di Ercole favola vile
a'naviganti industri? Chi fu colui che rese navigabili quelli che prima erano
inaccessibili ed ignoti mari, e fece palesi ai noi regni non meno sconosciuti
che vasti ? Chi fu colui che spiegando le fortunate sue antenne ad un nuovo
polo, oscurò la fama di Alcide e di Bacco , se non il ligure COLOMBO? Quanto
ben gli si adattano, e con quanta maggiore proprietà e ragione con vengono à
lui quelle lodi che Lucrezio da al suo Epicuro, e che dal nostro incomparabile
TORQUATO assai più acconcia mente furono attribuite al coraggio ed alla
grandezza d'animo del COLOMBO, quando di lui canto. Un uom della Liguria avrà ardimento
All'incognito corso esporsi in PRIMA: Nè il minaccevol fremito del vento, Nè
l'inospitomar, nè il dubbio clima, Nè s'altro di periglio o di spavento Più
grave e formidabile or si STIMA, Faran che il generoso entro a'divieti D'Abila
angusti l'alta mente accheti [Ger.] – Nasce a Ischitella (Foggia), piccolo
centro del Gargano, da Scipione, speziale. Dopo aver compiuto i studi sotto la
guida dell'arciprete del paese, Serra, legge filosofia. E inizialmente
destinato allo stato ecclesiastico, ma la famiglia muta parere e G. si trasfere
a Napoli, dove, grazie all'aiuto del pro-zio, legge diritto presso il
procuratore Comparelli. Divenne allievo d’Aulisio, sotto la cui guida studia
diritto civile; legge storia nella Biblioteca Brancacciana e in quella di Seripando.
Negli stessi anni Angelis lo introduce alla filosofia di Gassendi e ai classici
latini e italiani. Laureatosi a Napoli, G. inizia a frequentare, anche se
marginalmente, l'Accademia di MEDINACŒLI, in cui conosce alcune delle maggiori
figure della cultura napoletana, fra cui Capasso, Porzio, Caloprese (si veda) e
Cirillo sotto il cui influsso abbandona la filosofia gassendiana per
abbracciare quella di Cartesio. G. inizia l'attività d'avvocato, conducendo il
suo apprendistato presso Musto, ma, INSODDISFATTO della sistemazione, si
trasfere, su consiglio di Spinelli, che già lo presentato all'Aulisio, presso
Argento. Per la formazione culturale del G. l'incontro con Argento si rivela
fondamentale, poiché a casa di questo, inizia a riunirsi l'Accademia de' SAGGI,
che, proseguendo l'esperienza della MEDINACŒLI riune un gruppo di filosofi
destinati a divenire il nerbo del governo napoletano durante il vice-regno
austriaco. E in quell'Accademia che matura il progetto d'una nuova storia del
Regno, cui il G. da il suo contributo iniziando a lavorare all'Istoria civile
del Regno di Napoli. Grazie alla sua attività di avvocato, G. si garantì
un agiato tenore di vita. Fase decisiva per la sua carriera forense e quando
divenne avvocato dei cittadini di San Pietro in Lama in una causa intentata
contro il vescovo di Lecce Pignatelli intorno alla questione delle decime. In
risposta a due allegazioni di Nicola D'Afflitto, avvocato del vescovo, G.
pubblica la scrittura Per li possessori degli oliveti nel feudo di San Pietro
in Lama contro monsignor vescovo di Lecce barone di quel feudo intorno
all'esazione delle decime dell'olive, cui seguì, l'anno successivo, il
Ristretto delle ragioni de' possessori degli oliveti. Tali testi, per la
marcata e aperta adesione alle più avanzate tematiche giurisdizionaliste e per
gli ampi riferimenti che G. fa alla storia del Regno, provocano una forte e
vivace discussione. Molto scalpore suscita la causa in difesa del nipote
dell'Aulisio, Ferrara, arrestato due
anni prima con L’ACCUSA D’AVERE AVVELENATO LO ZIO. Vinta la causa, come
compenso G. ottenne dal suo assistito i manoscritti dell'Aulisio, di alcuni dei
quali avrebbe poi curato l'edizione. A Napoli G. pubblica intanto, sotto lo
pseudonimo anagrammatico di Giano Perontino, la Lettera sad un suo amico che lo
richiede onde avvenisse che nelle due cime del VESUVIO in quella che butta
fiamme ed è più bassa la neve lungamente si conservi e nell'altra ch'è alquanto
più alta e intera non duri che pochi giorni. La lettera e frutto degli
interessi che G. coltiva sin dal suo arrivo a Napoli (riscontrabili in tutte le
opere sino a quelle del carcere) e dai quali, come avrebbe affermato
nell'autobiografia, s'era dovuto allontanare perché assorbito dagli studi
giuridici e storici. Infatti G., pur impiegando gran parte del suo tempo
nell'attività forense, lavora alacremente all'Istoria civile. E proprio per
potervi attendere con più tranquillità che compra una villa presso Posillipo, detta
Due Porte perché si riteneva e appartenuta ai fratelli Giovan Battista e
Niccolò Della Porta. Nei anni successivi la stesura dell'Istoria lo assorbe sempre
di più, tanto che i suoi continui ritiri a Dueporte gli valsero l'ironico
soprannome di solitario Piero. L’Istoria civile e ormai pressoché completata. G.
fa allora trasferire la tipografia di Nicolò Naso nella villa che il suo amico
Vitagliano ha a Posillipo, vicino a Dueporte, e comincia la stampa. Poiché,
nonostante l'istruzione ricevuta, e più avvezzo al linguaggio giuridico e al
dialetto napoletano che non all'italiano letterario, G. chiede allora a Mela di
rileggere l'opera, volgendola, ove necessario, in buon italiano. L'Istoria
civile del Regno di Napoli vede finalmente la luce, in un'edizione di 1100
esemplari (1000 in carta ordinaria e 100 in carta reale). Scritta con lo
scopo principale di difendere i diritti e le prerogative dello Stato CONTRO LA
CURIA romana, l'Istoria civile non intende tanto apportare nuovi contributi
documentari alla storia del Regno, quanto offrirne una nuova interpretazione,
esaminandone l'evoluzione dalla DISGREGAZIONE dell'Impero romano sino al Vice-regno
austriaco. G. non raccolge (se non per i primi libri) la documentazione
direttamente dalle fonti, ma organizza quella reperibile in altri saggi , in
particolare nell'Istoria del Regno di Napoli di Costanzo (L'Aquila, Cacchi),
nell'Historia della città e Regno di Napoli di Summonte (Napoli), nella
Historia della Repubblica veneta di Nani (Venezia) e nel Teatro eroico e
politico de' governi de' viceré del Regno di Napoli di Parrino (Napoli). Il
procedimento gli causa, in seguito, l'accusa di plagio da parte di Manzoni nel
capitolo della Storia della colonna infame, e poi da tutta la storiografia neo-guelfa,
rappresentata, tra gl’altri, da Bonacci e Caristia. Il giudizio non coglie
l'importanza dell'Istoria civile, che non sta nella ricostruzione erudita degl’eventi
del Regno, ma nell'affermazione del principio dell'autonomia dello
Stato. In effetti, se dagli storici napoletani G. traeva le notizie
necessarie, i modelli storiografici sono però altri, italiani ed europei. Fra i
primi Guicciardini, Sarpi e, soprattutto, Machiavelli delle Istorie fiorentine.
Come MACHIAVELLI attribuie alla Chiesa la responsabilità di avere impedito ai
Longobardi la realizzazione in Italia di un forte regno nazionale, così G.
accusa Roma di avere troncato lo sviluppo dello Stato napoletano, distruggendo
l'esperienza normanno-sveva con la chiamata di Carlo d'Angiò. L'avversione nei
confronti degl’Angioini è uno dei temi ricorrenti dell'Istoria civile. Alla
dinastia francese G. imputa di avere diminuito il potere regio, accresciuto
quello baronale, ma soprattutto di aver riconosciuto giuridicamente il Regno
come FEUDO della Chiesa. A causa di tale acquiescenza verso il Papato, IL
MERIDIONE consuma il proprio distacco dal resto d'Italia, dove invece le
dinastie regnanti contrastano apertamente le pretese di Roma. Fra i modelli che
ispirano G. sono Thou e Grozio, da cui G. riprende la rivalutazione dei
barbari, e in particolare dei Longobardi, visti come signori nazionali, nemici
di Roma e di Bisanzio. Tanto G. e avverso agl’Angioini quanto mostra simpatia
per gl’Aragonesi, i quali, pur fra incertezze e contraddizioni, tentano di
restituire al regno l'autonomia dell'epoca normanno-sveva. Con il dominio
spagnolo si conclude tale tentativo e per questo G. e fortemente critico verso
Madrid, sottolineandone la politica di sfruttamento nei confronti del regno.
L'Istoria civile si conclude con le pagine dedicate al dominio austriaco, nel
quale il ceto civile ripone le proprie speranze. L'Istoria e dunque
un'opera collettiva, non perché scritta a più mani - come malignamente
sostenevano i nemici di G. -, ma in quanto "opera che raccoglieva e
organizza le esigenze del ceto civile (Ricuperati). Con l'Istoria civile G. si e
proposto di analizzare le ragioni del potere della Chiesa nell'Italia
meridionale e in vista di ciò dedica ampio spazio all'epoca longobarda -- l'unica
per cui G. ricorre direttamente alle fonti. Per dimostrare soprusi e
sopraffazioni della chiesa sul regno, G. ricostrue l'evoluzione politica del
Papato, respingendone implicitamente l'origine divina. Questo atteggiamento
verso la religione, interpretata in chiave esclusivamente politica, rende
l'Istoriaun'opera del tutto nuova nel panorama storiografico europeo ma motiva anche
l'ostilità di Roma verso G.. Il consiglio municipale di Napoli – gl’Eletti
-- concede a G. una regalia di 195 ducati e lo nomina avvocato generale della
città. Mentre copie dell'Istoria sono inviate a Vienna, a Napoli divampano le
polemiche. Le autorità ecclesiastiche protestarono perché il saggio non ha
ottenuto la licenza del tribunale vescovile -- G., in effetti, non l'aveva
chiesta, ritenendola superflua poiché ritenne che il saggio non tratta
argomenti di giurisdizione ecclesiastica -- e alcuni religiosi iniziarono a
tenere prediche contro G.. In seguito a ciò, il potere civile muta
atteggiamento. l vice-ré austriaco, Althann, che aveva concesso a G. la licenza
necessaria per la pubblicazione dell'opera, in una riunione del Consiglio del
Collaterale, biasima apertamente gl’Eletti, i quali, peraltro, congelano i
provvedimenti a favore di G., nominando una commissione per valutare il saggio.
Nello stesso tempo, il Collaterale ordina la sospensione delle prediche contro
G. e la vendita dell'Istoria. La situazione volge al peggio al momento
del rito di s. Gennaro: poiché il sangue tarda a sciogliersi, il clero
napoletano comincia a sostenere che il santo e adirato con i napoletani per la
pubblicazione dell'Istoria civile. Contro G. si diffuse allora in tutta la
città poesie e libelli -- diversi dei quali sono oggi conservati in un codice
della Biblioteca di Napoli --, mentre la curia arcivescovile si preparava a
scomunicare l'opera. Ormai era a rischio la stessa vita di G., il quale, spinto
anche dagl’amici, decide di recarsi a Vienna per chiedere la protezione
dell'imperatore Carlo VI. Dopo alcune esitazioni, G. lascia Napoli per quella
che sperava una breve assenza e che, invece, sarebbe stata UNA PARTENZA SENZA
RITORNO. Raggiunta in incognito
Manfredonia, da lì si trasferì a Barletta, riparando per alcuni giorni in una
villa del fratello di Niccolò Fraggianni. Nel frattempo a Napoli, il sangue di
s. Gennaro si scioglie. Trovata una nave su cui imbarcarsi, e a Trieste, a
Lubiana e giunge a Vienna. In questa città G. presnde subito contatto con
alcuni esponenti della numerosa comunità italiana, fra cui Riccardi, Forlosia e
il bibliotecario di corte Garelli, che porta una copia dell'Istoria
all'imperatore Carlo VI. Nel frattempo, venuto a conoscenza della scomunica
lanciatagli dalla curia arcivescovile di Napoli e della messa all'Indice
dell'Istoria civile, G. ricominciò a scrivere. Dapprima ritorna sul trattato “Del
concubinato de’ Romani” ritenuto nell'Impero -- dopo la sopposta conversione
alla fede di Cristo -- già iniziato a Napoli. Poi scrive due nuovi saggi: De'
rimedi contro le proposizioni de' libri che si decretano in Roma e della
potestà de' principi in non farle valere ne' loro Stati e De' rimedi contro le
scommuniche invalide e delle potestà de' principi intorno a' modi di farle
cassare ed abolire -- che confluì nell'Apologia dell'Istoria civile. La
posizione di G. sembra migliorare. In seguito alle pressioni viennesi, la scomunica
e revocata e G. ottenne udienza da Carlo VI, che l'anno seguente gli concesse
una pensione annuale sopra i diritti della Secreteria di Sicilia. Egli non
riuscì, però, a ottenere un incarico ufficiale che, come aveva sperato, gli
permettesse di tornare a Napoli in una posizione sicura. Decide quindi di
fermarsi a Vienna e si stabilì in palazzo Linzwal. Nel frattempo, in Italia
appareno diverse confutazioni dell'Istoria civile. E pubblicata a Roma
l'Apologia di quanto l'arcivescovo di Sorrento ha praticato cogli economi de'
beni ecclesiastici della sua diocesi dell'arcivescovo Filippo Anastasio. In
risposta Vitagliano pubblica a Napoli una Difesa della real giurisdizione
intorno a' regi diritti su la chiesa collegiata appellata di S. Maria della
Cattolica della città di REGGIO, in cui, pur volendo difendere G., finiva
invece con il criticarlo. G. e allora costretto a reagire con un proprio testo,
diffuso a Napoli in forma manoscritta. Appareno a Roma le Riflessioni morali e
teologiche sopra l'Istoria civile del Regno di Napoli di Sanfelice. Rispetto
all'opera d’Anastasio si tratta di un lavoro ben più articolato e problematico,
tanto che G. in un primo tempo decide di non replicare. Ma durante la
villeggiatura a Perchtoldsdorf, nei dintorni di Vienna, scrive la Professione
di fede. L'opera conosce una vasta fortuna, testimoniata da un'imponente
circolazione manoscritta, e segna la definitiva rottura con la Chiesa
cattolica. Un'altra Risposta di G. fa seguito alla pubblicazione delle
Annotazioni critiche sopra l’Istoria civile di Napoli (Napoli) di Paoli,
scritte con l'aiuto d’Egizio, esponente della parte più moderata del
giurisdizionalismo napoletano, non disposta a seguire la lezione di G.
Fallite le speranze di ottenere un incarico a Vienna, G. riprende l'attività
forense. Oltre a diverse allegazioni per clienti viennesi e napoletani, scrive
il Ragionamento a Pilati in cui difende i diritti di quest'ultimo alla nomina, poi
non avvenuta, a vescovo di Trento dopo la morte di Gentilotti e il saggio De'
veri e legittimi titoli delle reali preminenze che i re di Sicilia esercitano
nel tribunale detto della Monarchia, sulla complessa questione del Tribunale
della Monarchia di Sicilia. Risalgono dopo due saggi: la Breve relazione de’ Consigli
e dicasteri della città di Vienna, commissionatagli dal reggente Castelli, e le
Ragioni per le quali si dimostra che l'arcivescovado beneventano e sottoposto
al regio exequatur, come tutti gl’altri arcivescovadi del Regno, saggio scritto
su incarico della Città di Napoli. Nel frattempo, continua la fortuna
europea di G. e dell'Istoria. G. comincia a corrispondere regolarmente con
Liebe e i Mencke, iniziando la collaborazione agli Acta eruditorum Lipsensium. Scrive
la Dissertazione intorno il vero senso della iscrizione "Perdam Babillonis
nomen" posta in una moneta di Lodovico XII re di Francia, da alcuni
creduta coniata in Napoli, che, tradotta in latino, usce in un'edizione degl’ “Historiarum
sui temporis” di Thou. G. e ormai un filosofo inserito nel contesto d’Europa per
la sua conoscenza, in quel periodo delle opere che meglio rappresentavano quella
filosofia. In tal senso, un ruolo fondamentale ha la frequentazione con il
principe Eugenio di SAVOIA, nella cui ricchissima biblioteca G. aveva legge i
più importanti saggi della filosofia libertina e radicale europea. Da queste
sue fertili frequentazioni nei primi anni dell'esilio viennese deriva il
progetto dello suo saggio, il Triregno, iniziata durante una villeggiatura a
Medeling, e le cui prime due parti erano quasi terminate due anni più tardi. Il
Tri-regno si articola in tre parti. Nella prima, “IL REGNO TERRENO,” G. studia
la religione e sottolinea come in essa NON si conosce un al di là, in quanto al
popolo si promette esclusivamente il dominio sugli altri popoli senza alcun
riferimento a mondi ultra-terreni. Quello che Dio promete all'uomo – o GIOVE a
ENEA -- e , dunque, esclusivamente un regno terreno: ROMA! Nel successivo Regno
celeste l'attenzione di G. si sposta al cristianesimo delle origini – e l’idea
della potesta temporale – e del Cesare -- studiando i testi neo-testamentari,
mette in evidenza come e il cristianesimo – ‘dei galilei,’ come G. chiama in
parodia di Giuliano -- a introdurre l'idea di un mondo ultra-terreno cui i
fedeli sono destinati dopo essere stati giudicati sulla base delle loro azioni
mondane. Il Regno papale, l'ultima parte – “infamous part” – H. P. Grice --,
riprende il discorso iniziato nell'Istoria civile sulle origini del potere del
Papato. Dopo i primi secoli vissuti in conformità con l'insegnamento
evangelico, il PONTEFICE, approfittando della decadenza del POTERE TEMPORALE
IMPERIALE dopo Costantino, costitueno il loro Regno sul principio della
superiorità rispetto allo stato mondano, temporale. Nella composizione del Tri-regno concorrevano
diverse tradizioni: la fondamentale esperienza del libertinismo erudito, con
cui G. eentrato in contatto negli anni della sua prima formazione napoletana,
per influenza d’Aulisio, dal quale G. comprende l'importanza della storia
ebraica e la poca rilevanza alla mente romana! Molti temi delle Scuole sacre -
l'opera d’Aulisio uscita postuma pochi mesi dopo l'Istoria civile -
ricomparivano, infatti, nel Triregno, filtrati dalle conoscenze acquisite a
Vienna: la storiografia protestante (i. e. non cattolica, non romana) tedesca
(particolarmente evidente nel Regno celeste, dove forte è l'influenza delle
Origines, sive Antiquitates ecclesiasticae diBingham e delle Observationes
sacrae di Deyling) e, soprattutto, il deismo europeo post-spinoziano. In questo
senso importante e stato il rapporto con gli saggi di Toland (in particolare le
Lettere a Serena, Origines Iudaicae e Nazarenus), dai quali G. trasse la tesi
secondo cui gl’ebrei credeno nella MORTALITA dell'anima e non hanno alcuna idea
di un mondo ultraterreno, e con la storiografia che con questi si e misurata
criticamente (come le Vindiciae antiquae Christianorum disciplinae di
Mosheim). Il Tri-regno non e, peraltro, del tutto slegato dall'Istoria
civile. La matrice giurisdizionalista e evidente soprattutto nel Regno papale,
dove G. riprende il problema delle origini del potere ecclesiastico, affrontandolo,
però, con gli strumenti della storiografia protestante. Non più "istoria
civile" del Regno di Napoli, ma di tutta la civilizazione d’Occidente,
fondata da Roma a tradita dai papi. Di qui la persecuzione che la Curia romana
muove contro di lui, riuscendo, infine, non solo a FARLO ARRESTARE, ma a
entrare anche in possesso dell'autografo del Tri-regno. Si impede così la
pubblicazione del saggio. Ma non ne e, tuttavia, impedita completamente la
diffusione, che avvenne grazie a un apografo (probabilmente uscito dagli
archivi romani in cui l'originale e custodito). Diversi codici del Triregno circolano
in Europa, e sembra addirittura imminente una sua pubblicazione ad
Amsterdam. La conquista del Regno di Napoli a opera di Carlo di Borbone
determina la dispersione della comunità napoletana di Vienna. Ritenendo, con
ragione, che e in pericolo la sua pensione, basata su rendite siciliane, anche
G. decide, allora, di partire. Lascia Vienna e giunse a Venezia. Dove essere
solo un punto di passaggio sulla via per Napoli, ma le autorità borboniche gli
rifiutano il passaporto, temendo che un suo ritorno avrebbe compromesso le
trattative per il riconoscimento papale del nuovo sovrano. L'ambiente culturale
veneziano si rivela, comunque, ricco di stimoli per G., che stringe amicizia
con Pisani, con il principe Trivulzio, con Conti, con Terzi e con il libraio Pitteri.
Con quest'ultimo, in particolare, si accorda per una nuova edizione
dell'Istoria civile, per la quale appronta quell'Apologia dell'Istoria civile
cui lavora da tempo e in cui confluirono i tre trattati composti a Vienna. In
realtà, anche a Venezia G. non manca certo di nemici. Poco dopo il suo arrivo,
Pasqualigo gli offre cattedra a Padova, ma la Curia romana e riuscita a fare
sospendere l'offerta. Nello stesso tempo, il nunzio a Venezia, Oddi, fa pressioni sul governo della
Serenissima perché G. e cacciato e consegnato alle autorità pontificie. Per
screditare G. venne diffusa la voce che egli avesse criticato la Repubblica
veneziana in alcune pagine dell'Istoria civile, obbligandolo così a difendersi.
La risposta a tale accusa confluì anch'essa nell'Apologiadell'Istoria civile.
G. si stabile nell'abitazione di Pisani. Riprende, allora, la stesura del
Triregno, discutendone con i suoi amici veneziani. E nella villa di Pisani a
Rovere di Crè, presso Rovigo, che G. scrive la Prefazione al Triregno. Anche
questa volta, tuttavia, la tranquillità doverivelarsi effimera. Dopo
oltre un anno di complesse manovre sotterranee, il nunzio ottenne il risultato
sperato. Una fatidica notte, poco dopo aver lasciato, insieme con Conti, la
casa di Terzi, G. e catturato d’agenti del S. Uffizio, caricato a forza su
un'imbarcazione e abbandonato nel Ferrarese, in territorio pontificio. Riusce quindi
fortunosamente a raggiungere Modena e vi resta nascosto per circa un mese,
sotto il falso nome di Antonio Rinaldi, protetto, fra gli altri, anche da L.A.
Muratori. Inizia, allora, la stesura del Ragguaglio dell'improvviso e violento
ratto praticato in Venezia ad istigazione de' gesuiti e della corte di Roma. Si
reca a Milano, allora occupata dalle truppe sabaude, dove spera nell'aiuto
della famiglia del principe Trivulzio. E ricevuto dal marchese Olivazzi, gran
cancelliere, il quale gli consiglia di scrivere al marchese d'Ormea, ministro
di Carlo Emanuele III di SAVOIA, per offrirsi come storico di corte. Quel che
Olivazzi non poteva sapere e che l'Ormea s'era già accordato con Albani,
offrendogli l'arresto di G. come contro-partita per la concessione di un
concordato favorevole allo STATO SABAUDO al fine di chiudere lo scontro -
aperto un ventennio prima da Vittorio Amedeo II - fra Torino e Roma. Da Torino
parte quindi l'ORDINE D’ARRESTO di G., che però nel frattempo lasciato Milano
per la capitale sabauda. Non considerando più gli Stati italiani un rifugio
sicuro dopo l'esperienza veneziana, G. aveva decide di andare a Ginevra, dove e
in contatto con l'editore Bousquet, che
annunciato la sua intenzione di pubblicare l'Istoria civile. Mentre da
l'ordine di arrestarlo a Milano, Ormea non puo immaginare che G. e proprio a
Torino, dove si ferma. Giunge a Ginevra dove, pur rifiutando di convertirsi al
calvinismo, stringe amicizia con Turretini e Vernet. A causa delle sue
precarie condizioni economiche, decide di pubblicare la traduzione francese
dell'Istoria civile, per la quale s'era accordato già da tempo con Bousquet.
Questi, però, aveva sciolto proprio allora la sua società con lo stampatore
Pellissari, e si e trasferito in Olanda. E solo grazie all'aiuto di Vernet che
G. puo trovare un nuovo finanziatore nel libraio Barillot, ma, quando tutto e
pronto per l’edizione dell'Istoria, G. e attirato fraudolentemente in
territorio sabaudo e arrestato. Ormea da disposizioni per l'arresto al
governatore della Savoia, conte Giuseppe Piccon della Perosa. La trama del
rapimento è stata raccontata da G. stesso, nella sua autobiografia, in pagine
esemplari per chiarezza e drammaticità. A Ginevra egli prende alloggio presso
il sarto Chénevé, da tempo amico di un doganiere sabaudo, tale Gastaldi, il cui
fratello era aiutante di campo del conte Piccon. Dapprima Gastaldi si guadagna
la simpatia dal figlio di G., invitandolo spesso a Vésenaz -- il piccolo centro
savoiardo di fronte a Ginevra, dov'era la dogana -- insieme con Chénevé. In
questo modo egli venne a conoscenza dei movimenti di G. a Ginevra, informandone
Piccon. Dopo aver rifiutato gl’inviti di Gastaldi per tutto l'inverno, G.
accetta di assistere alla messa della domenica delle Palme nella chiesa di
Vésenaz. Si trasferì a casa di Gastaldi.
Questi, presi con sé alcuni soldati, irruppe di notte nella stanza di G. e
arrestò lui e il figlio. Il giorno dopo, Gastaldi si mise in marcia verso
Chambéry. G. racconta la gioia del doganiere il quale, tenendo in mano un suo
ritratto (probabilmente una copia dell'incisione fatta a Vienna da Sedelmayer) andava di paese in paese urlando
di aver catturato "un grand'uomo". Giunto a Chambéry Gastaldi
consegna i prigionieri al conte Piccon, il quale ne dispose il trasferimento
nella fortezza di Miolans, tradizionalmente deputata ad accogliere i
prigionieri di Stato -- quarant'anni dopo vi sarebbe stato rinchiuso anche il
marchese de Sade. Ricevuta notizia dell'arresto, Ormea ne informa Albani, al
quale riferì anche l'intenzione di Carlo Emanuele III di non inviare G. a Roma,
ma di impegnarsi a tenerlo in carcere perpetuamente. Per quanto la corte di
Roma prefere giudicare direttamente G., Clemente XII ringrazia il sovrano
sabaudo per l'arresto del sedizioso. Ormea e Albani si accordano, intanto,
perché G. e processato dal S. Uffizio piemontese e costretto ad abiurare.
Durante la sua prigionia a Miolans G. scrive la “Vita e Morte di G. scritta da
lui medesimo” e inizia, aiutato dal figlio, una prima versione dei “Discorsi
sopra gl’Annali di Livio,” che intende offrire a Carlo Emanuele III per
l'educazione del principe di Piemonte, il futuro Vittorio Amedeo III. Nello
stesso periodo Ormea riusce, grazie al conte Piccon e ad altri agenti sabaudi,
a entrare in possesso dei manoscritti delle opere di G. -- compreso quello del
Triregno -- che, dopo esser stati esaminati da Palazzi, abate di Selve,
bibliotecario e storico di corte, sono inviati a Roma. G., separato dal figlio,
e trasferito a Torino nelle carceri di Porta Po, prima, e nella cittadella, poi.
Qui fu affidato alla cura spirituale di Prever. Presta formale abiura dei suoi
errori di fronte al vicario inquisitoriale, Alfieri di Magliano. Il testo
dell'abiura non e quello che la Curia romana si attende, tanto che - contrariamente
alla prima intenzione - si decide di non renderlo pubblico. A convincere G. ad
abiurare e stata la speranza di poter tornare presto in libertà. Ma e
trasferito al forte di Ceva, dove rimane. Le istruzioni impartite al conte
Giuseppe Amedeo De Magistris, governatore del forte, sono per la migliore
sistemazione possibile nel castello. G. e rinchiuso nella prigione detta
"la speranza": due stanze e un anticamera interamente rivestite in
legno e chiuse da una porta di pietra. Gli era permessa qualche ora d'aria al
giorno, purché non parlasse con nessuno, tranne il governatore e il confessore
del forte, e puo leggere e scrivere, purché le sue opere non uscissero da Ceva
se non per Torino. Nel tempo di prigionia cebana G. termina i Discorsi sopra
gli Annali di Livio e scrive altre tre saggi: l'Apologia de' teologi
scolastici, l'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno, e L'ape ingegnosa. In
esse riaffiorano molti temi del Triregno, soprattutto nell'Apologia de' teologi
scolastici - dove L’AUTORITA DEI PADRI della Chiesa e sottoposta a UNA VERA
DEMOLIZIONE -- e nell'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno.
Quest'ultima, inizialmente concepita come conclusione dell'Apologia, e una vera
e propria prosecuzione del Triregno, nel cui Regno papale una vasta parte dove
essere dedicata a tale PONTEFICE. Temi tipici degl’autori libertini, in
particolare di Toland, grazie a un sapiente uso della Naturalis historia di
Plinio il Vecchio, tornano anche nelle pagine dell'Ape ingegnosa, vasto e
complesso zibaldone, come recita il titolo, di varie osservazioni sopra le
opere di natura e dell'arte, denso di spunti autobiografici. Nonostante
la prigionia, la fortuna europea di G. continua. Ad Amsterdam sono aparsi i
suoi libri sulla "politia ecclesiastica" (Anecdotes ecclésiastiques
contenant la police et la discipline de l'Église chrétienne depuis son
établissement jusqu'au XIe siècle), e l'intera Istoria civile, curata da Bochat
e Bentivoglio, pubblicata a Ginevra -- ma con la falsa indicazione dell'Aja.
Mentre a Torino la diffusione delle opere giannoniane preoccupava le autorità
ecclesiastiche, a Ceva G. entra in
contatto con esponenti della nobiltà locale, che lo incaricarono della stesura
di alcune allegazioni forensi. A causa dell'avanzata delle truppe
franco-spagnole, allora impegnate contro il Piemonte nella Guerra di
successione austriaca, G. e trasferito a Torino. In un primo tempo le
condizioni della prigionia nella cittadella si rivelarono assai più dure: il
governatore Cortanze non ha, come invece il De Magistris, ordini particolari
per il prigioniero, il cui trattamento non e inizialmente dissimile a quello
riservato ai molti prigionieri che affluivano nella capitale da tutto il
Piemonte. La situazione e aggravata dalla morte d’Ormea, tanto che G. invia al
sovrano un lungo e disperato memoriale sul proprio stato e sulle angherie cui
lo sottopone il maggiore della cittadella, Caramelli. Da allora le condizioni
della sua detenzione migliorano sensibilmente. Il suo ritorno a Torino non e passato
inosservato; in pochi mesi G. entrò in relazione con personaggi della corte e
della cultura, come i bibliotecari dell'Università Ricolvi e Rivautella, e,
soprattutto, Villettes, il quale gli fa avere diversi libri della propria
biblioteca, grazie ai quali, oltre a quelli avuti dalla Biblioteca reale
tramite Cortanze, G. puo aggiungere nuovi capitoli all'Apologia de' teologi
scolastici e iniziare una nuova versione dei Discorsi. L’interesse destato da G.
suscita la reazione delle autorità ecclesiastiche. Il nunzio a Torino, Merlini,
protesa presso il sovrano, il quale gli
assicurò che le condizioni del prigioniero sono divenute più severe.
In realtà G. continua a scrivere e a ricevere libri da Villettes e da
Roero di Cortanze. Il desiderio di G., formulato in una lettera ad Ormea che
sulla sua tomba e posta un'iscrizione da lui appositamente composta non e esaudito.
Il suo corpo e sepolto nella fossa comune dei prigionieri della chiesa di S.
Barbara, all'interno della cittadella. La chiesa e distrutta. Altri saggi:
“Saggi” a cura di Bertelli e Ricuperati, Milano, con bibliografia, in cui sono
comprese la Vita scritta da se medesimo, pagine scelte dell'Istoria civile, del
Triregno, del Ragguaglio del ratto, delle altre opere del carcere e alcune
lettere; Istoria civile, a cura di Marongiu, Milano; Triregno, a cura di
Parente, Bari; Dopo la "Giannoniana": problemi di edizione, nuovi
reperimenti di fonti e l'introduzione perduta del "Triregno", a cura
di Ricuperati, in L'Europa fra Illuminismo e Restaurazione. Studi in onore di
Diaz, a cura di Alatri, Roma; un manoscritto del Ragguaglio del ratto è stato
pubblicato in Un testo inedito di G., a cura di Denis, Archivio storico
italiano, Delle altre opere del carcere l'unica sinora pubblicata in edizione
critica è L'ape ingegnosa, overo Raccolta di varie osservazioni sopra le opere
di natura e dell'arte, a cura di Merlotti, Roma, con bibliografia. Per le
lettere. G., Epistolario, a cura di Minervino, Fasano; Lettere autografe, a
cura di Minervino (in entrambi i casi
l'edizione non è del tutto affidabile, cfr. la rec. di Rienzo, in Bollettino
storico-bibliogr. subalpino, Arch. di Stato di Torino, Biblioteca antica,
Manoscritti di G., inventario a cura di Ricuperati, Le carte torinesi di G., in
Memorie dell'Acc. delle scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e
filologiche. Il fondo è stato arricchito da documenti autografi del G., in gran
parte relativi ai periodi austriaco e veneziano. Nicolini, Gli scritti e la
fortuna di G.. Ricerche bibliografiche, Bari; L. Marini, G. e il giannonismo, Bari;
Vigezzi, G. riformatore e storico, Milano; Bertelli, Giannoniana. Autografi,
manoscritti e documenti della fortuna di G., Napoli; Ricuperati, L'esperienza
civile e religiosa di G., Milano; G. e
il suo tempo, a cura di Ajello, Napoli; Merlotti, "Risorgimento
ghibellino": Ferrari lettore di G., in Annali della Fondazione Einaudi; Negli
archivi del Re. La lettura negata delle opere di G. nel Piemonte sabaudo, Riv.
stor. Italiana; Ricuperati, G.: an itinerary in European free-thinking, in
Transactions of The Congress on the ENLIGHTENMENT, Oxford; Trevor-Roper, G. and
Great Britain, in The Historical Journal, A. Hook, La "Storia civile del
Regno di Napoli" di G., il giacobitismo e l'Illuminismo scozzese, in
Ricerche storiche, Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura
europea nel pensiero religioso di G., Firenz. Grice: “One good thing about the
Roman Church (you know, there’s a Jewish Church, too) is Giannone – he was
rendered an ‘impious’ by the Church and imprisoned to death. This allowed him
to philosophise on the Liguri – and he did!” Pietro Giannone. Giannone. Keywords:
la terza Roma, autobiografia, ego-grafia – Vico, Giannone, Genovesi – Liguria –
commento su Livio – regno terreno, regno celeste, regno papale --. Storia di
roma antica -- giannonismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannone” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Gioberti: l’implicatura conversazionale del bello – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I like Gioberti; he published
‘Del bene, del bello,’ suggesting they are etymologically connected, and they
are: BONUS alternates with BENE in Roman, and the dimintuvie, BENETULUS, gives
‘bellus’ – So the Roman implicature is that the ‘bello’ is a ‘little’ ‘bene’ –
or gracious, comfortable, and proportionate, rather than having to do with
‘bene’ itself. – “like bene” – and affectionate diminutive, one hopes!” –
Laureato, e parzialmente influenzato da MAZZINI, lo scopo principale della sua
vita divenne l'unificazione dell'Italia sotto un unico regime: la sua
emancipazione, non solo dai signori stranieri, ma anche da concetti reputati
alieni al suo genio e sprezzanti del primato morale e civile degl’italiani.
Questo primato era associato alla supremazia del Papa, anche se inteso in un
modo più letterario che politico. Carlo Alberto di SAVOIA lo nomina suo
cappellano. La sua popolarità e l'influenza in campo privato, tuttavia, sono
ragioni sufficienti per il partito della corona per costringerlo all'esilio;
non era uno di loro e non poteva dipendervi. Sapendo questo, si ritirò dal suo
incarico ma fu arrestato con l'accusa di complotto e bandito dal Regno sabaudo
senza processo. Andò a Parigi e Bruxelles per insegnare FILOSOFIA. Nonostante
ciò, trovò il tempo per filosofare con particolare riferimento al suo paese e
alla sua posizione. Essendo stata dichiarata un'amnistia da Carlo Alberto,
divenne libero di tornare in patria. Al
suo ritorno a Torino, e ricevuto con il più grande entusiasmo. Rifiuta la
dignità di senatore che Carlo Alberto gli aveva offerto, preferendo
rappresentare la sua città natale nella Camera dei deputati, della quale fu
presto eletto presidente. Cadde il governo. Il re nominò G. nuovo
presidente del Consiglio. Il suo governo termina. Con la salita al trono di
Vittorio Emanuele II la sua vita politica giunse alla fine. Ha un posto nel
consiglio dei ministri, anche se senza portafoglio, ma un diverbio
irriconciliabile non tardò a maturare. E allontanato da Torino con
l'affidamento di una missione diplomatica a Parigi, da cui non fa più ritorno.
Rifiuta la pensione che gli era stata offerta e ogni promozione ecclesiastica,
vive in povertà e passa il resto dei suoi giorni a Bruxelles, dove si trasferì dedicandosi
agli studi filosofici. I primi due licei istituiti a Torino celebrarono uno
l'opera diplomatica di Cavour (il Liceo classico Cavour) e l'altro il pensiero,
anche politico, di G. (il Liceo classico G.). I saggi sono più importanti
della sua carriera politica; come le speculazioni di Rosmini-SERBATI, contro
cui scrive, sono state definite l'ultima propaggine del pensiero medievale. Anche
il sistema di G., conosciuto come “ontologismo” non è connesso con le moderne
scuole di pensiero. Mostra un'armonia con la fede che spinge Cousin a sostenere
che la filosofia italiana e ancora fra i lacci della teologia e che G. non e un
filosofo. Il metodo per lui è uno strumento sintetico, soggettivo e
psicologico. Ricostruisce, come afferma, l'ontologia e comincia con la formula
ideale, per cui l'Ens crea l'esistente ex nihilo. Dio è l'unico ente Ens. Tutto
il resto sono pure esistenze. Dio è l'origine di tutta la conoscenza umana (le
idee), che è una e diciamo che si rispecchia in Dio stesso. È intuita
direttamente dalla ragione, ma per essere utile vi si deve riflettere, e questo
avviene tramite i mezzi del linguaggio. Una conoscenza dell'ente e delle
esistenze (concrete, non astratte) e le loro relazioni reciproche, sono
necessarie per l'inizio della filosofia. G. è, da un certo punto di
vista, un platonico. Identifica la religione con la civiltà e nel suo trattato
Del primato morale e civile degli Italiani giunge alla conclusione che la
chiesa è l'asse su cui il benessere della vita umana si fonda. In questo
afferma che l'idea della supremazia dell'Italia, apportata dalla restaurazione
del papato come dominio morale, è fondata sulla religione e sull'opinione
pubblica. Tale opera e la base teorica del neoguelfismo. In “Rinnovamento e
Protologia” si dice che abbia spostato il suo campo sull'influenza degli
eventi. La sua prima opera aveva una ragione personale per la sua
esistenza. Un amico, avendo molti dubbi e sfortune per la realtà della
rivelazione e della vita futura, lo ispirò alla stesura de “La teorica del
sovrannaturale”. Dopo questa, sono
passati in rapida successione dei trattati filosofici. La “Teorica” è seguita
dalla “Filosofia”, dove afferma le ragioni per richiedere un nuovo metodo e una
nuova terminologia. Qui riporta la dottrina per cui la religione è la diretta
espressione dell'idea in questa vita ed è un unicum con la vera civiltà nella
storia. La Civiltà è una tendenza alla perfezione mediata e condizionata, alla
quale la religione è il completamento finale se portato a termine. È la fine
del secondo ciclo espresso dalla seconda formula, l'ente redime gli
esistenti. I saggi “Del bello” e “Del buono hanno” seguito
l'introduzione. Del primato morale e civile degl'Italiani e Prolegomeni sulla
stessa e a breve trionfante esposizione dei Gesuiti, Il Gesuita moderno,
pubblicato clandestinamente a Losanna da Bonamici, ha senza dubbio accelerato
il trasferimento di ruolo dalle mani religiose a quelle civili. È stata la
popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da altri articoli politici
occasionali e dal suo Rinnovamento civile d'Italia, che lo ha portato ad essere
acclamato con entusiasmo al ritorno nel suo paese natio. Tutti questi saggi
sono stati perfettamente ortodossi e hanno contribuito ad attirare l'attenzione
del clero liberale nel movimento che è sfociato, sin dai suoi tempi,
nell'unificazione italiana. I Gesuiti, tuttavia, si sono raduttorno al Papa più
fermamente dopo il suo ritorno a Roma e alla fine i saggi di G.i sono messi
all'indice. I resti dei suoi saggi, specialmente “La filosofia della
rivelazione” e la Protologia espongono i suoi punti di vista in molte parti.
Tutti i saggi giobertiani, tra cui quelli lasciati nei manoscritti, sono stati
pubblicati da Massari (Torino). Il Ministero dei beni culturali ha affidato la
redazione dell'edizione nazionale all'Istituto di Studi Filosofici Castelli,
presso l'Università La Sapienza di Roma. Altre saggi: Prolegomeni del Primato
morale e civile degl’italiani, Enrico Castelli; Primato morale e civile degli
italiani, Redanò; Introduzione allo studio della filosofia; Cortese; Teorica
del sovrannaturale; Cortese; Del rinnovamento civile d'Italia; G., Del rinnovamento
civile d'Italia, Del rinnovamento civile d'Italia, Filosofi d'Italia Bari,
Laterza. Cfr. lettera di G. a Leopardi in Scritti vari inediti di Leopardi i dalle
carte napoletane, Firenze, Successori Le Monnier. G. vive in Rue des marais S. Germain,
hotel du Pont des Arts n° 3. In lingua
latina: "dal nulla", vedi anche la locuzione Ex nihilo nihil fit di LUCREZIO.
Antonio, su Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.
Istituto Castelli-Roma in. Anteprima
disponibile su Anteprima della II
edizione disponibile su books.google. Massari, Vita di G., Firenze, Serbati, G.
e il panteismo, Milano, Spaventa, La Filosofia di G., Napoli, Mauri, Della vita
e delle opere di G., Genova, Giuseppe Prisco, Gioberti e l'ontologismo, Napoli,
Pietro Luciani, Gioberti e la filosofia nuova italiana, Napoli, Berti, Di G., Firenze, Rumi, G., Bologna, Il mulino,
Sancipriano, G.: progetti etico-politici
nel Risorgimento, Roma, Studium, Traniello, Da G. a Moro: percorsi di una
cultura politica, Milano, Angeli, Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione
di G., Milano, Mursia, Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in G., Soveria
Mannelli, Rubbettino, Mustè, Il governo federativo, Roma, Gangemi, Alessio
Leggiero, G. Frainteso. Sulle tracce della condanna, Roma, Aracne, Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. G. attuale – Il Popolo d’Italia -- Non
bisogna cedere alla facile tentazione erudita di dare troppi precursori al FASCISMO
– o al GRICEANISMO --, come si è fatto da taluno in questi ultimi tempi. Il FASCISMO
– e il GRICEANISMO -- ha molti
precursori e e non ne ha nessuno. Non ne ha nessuno se alla parola “precursore”
si dà un significato strettissimo o letterale. Ha molti se la stessa parola
viene interpretata in un senso più lato. ln quest'ultima categorià può esser
posto G., especialmente dopo la posta all’indice dei suoi saggi.. Ecco un filosofo,
come Grice, che appare oggi « attuale » più di quanto non e ante, o anche
semplicemente venti anni fa. Ci sono nelle pagine dei suoi libri notazioni,
istruzioni, moniti, previsioni che il tempo ha confermato. Si vuole oggi, dal
FASCISMO, una vita studiosa, che sia forte nel corpo come nello spirito. Or
ecco come G., a proposito della necessità della GINNASIA, si esprimeva nel suo
Primato. Gl’ITALIANO indurino il corpo avvezzandolo al sole, allenandolo alla
corsa e ai GINNICI esercizì, rompendolo alle operose veglie e alle utili
fatiche, costringendolo a nutrirsi di cibi frugali, a posare su dura coltrice e
assoggettandolo in ogni cosa allo imperio dell'animo, il quale col domare i
sensi; si rende libero e franco e si dispone ai nobili affetti, ai vasti e
magnifici pensieri. Il FASCISMO ha battuto sempre in breccia certi persistenti
snobismi linguaioli, che sono ormai superstiti soltanto in piccoli gruppi.
Vedete come G. flagella gl’esotismi del tempo che fanno preferire le lingua
tedesca o la francese all'italiana, l'abietto forestierume, come, con parola di
scherno supremo, dice G. Riscuotano dunque se stessi da ogni ombra di
forestierume, non solo nelle cose gravi ma anco nelle leggere, perché queste
concorrono a informare il costume, che in opera di mutazioni morali è la somma
del tutto. E non lieve faccenda, ma gravissima e importantissima è LA LINGUA
NAZIONALE così per la stretta ed intima congiuntura dei pensieri con le voci,
onde gl’uni tanto valgono quanto l'espressione che li veste (dal che segue che
le parole non sono pur parole, ma eziandio cose) come perché ESSENDO LA FAVELLA
ITALIANA LO SPECCHIO PIU COMPIUTO E PIU VIVO DELLA SPECIALITA MORALI E
INTELLETTIVE DEL POPOLO ITALIANO, chi la trascura e disprezza non può essere veramente
libero, né aver cara l'indipendenza e la libertà della patria. Perciò indizio
grave di servilità e di declinazione civile e prova non dubbia di poco amore
verso il luogo natìo, è il trasandare la propria loquela e il vezzo di parlare
o di scrivere senza bisogno di lingua forestiera. Tale indegno costume è
altresì basso e vile! Pochi filosofi hanno, più del grande pensatore torinese,
posto in rilievo la somma importanza della lingua italiaa nella vita del popolo
italiano e i pericoli insiti nel trascurarla o avvilirla. L'ostracismo che il
regime ha dato agli eccessivi dialçttismi e ai tentativi di creare su basi
regionali delle letterature dialettali, trova la sua più alta giustificazione
in questo superbo brano di prosa giobertiana. E da ricordare che G. definisce
la italiana come la più bella delle lingue vive. Lo stile, dice Buffon, è
l'uomo. Lo stile e la lingua, dico io, sono il cittadino. LA LINGUA E LA
NAZIONALITA PROCEDENO DI PARI PASSO, perché quella è uno dei principi fattivi e
dei caratteri principali di questa, anzi il più intimo e fondamentale di tutti,
come il più spirituale, quando la consanguineità e la coabitanza poco
servirebbero ad unire i popoli unigeneri e compaesani, senza IL VINCOLO MORALE
DELLA COMUNE FAVELLA. E però Giordani insegna che la vita interiore e la
pubblica di un popolo si sentono nella sua lingua, la quale è l'effige vera e
viva, il ritratto di tutte le mutazioni successive, la più chiara e indubitata
storia dei costumi di qualunque nazione e quasi un amplissimo specchio in cui
mira ciascuno l'immagine ·della mente di tutto e tutti di ciascuno. E Leopardi non dubitò di affermare che la
lingua e l'uomo e le nazioni per poco non sono la stessa cosa. Parole queste
che non sono mai abbastanza meditate. Quanto alla missione di Roma nella storia
italiana e in quella europea e universale, ecco alcune citazioni di G. che
hanno un sapore attualissimo. Il genio orientale affine a quello dell'Italia,
se non altro perché ROMA e una volta e sarà forse di nuovo un giorno, se posso
così esprimermi, l'oriente dell'Oriente. ROMA in effetto, nel bene come nel
male, nei tempi antichi come nei moderni, è arbitra suprema e norma delle genti
italiche. La figura di G., quale filosofo e patriota, ci è giunta un poco
deformata dalle polemiche del tempo. Ma bastano le citazioni di cui sopra per
far vedere che la portata educatrice del pensiero giobertiano, non è diminuita
con le vicende del tempo. G. è attuale, anche e soprattutto oggi, nell’ITALIA
DEL LITTORIO. The next day in “Il Popolo d’Italia” by Scrittore Fascista.
Ancora G. (Pubblicato in « Il Popolo
d'Italia » di Scrittore fascista La
prosa giobectiana è ricca di parole asprigne, saporose e di neologismi
indovinati. Si incontrano parole come queste: schifiltà, infemminire nell'ozio,
forestierume, perennare, sfasciume, smanceroso, attillature, disviticchiare,
mollizie, delicature, uomini faticanti, laicocrazia, fogliettisti, ecc. Ma più
importanti sono sempre i pensieri del filosofo torinese. In tutte le questioni
egli ha un punto di vista, che rappresentando le verità fondamentali, vale,
oggi, come sempre.. Ecco con quali termini G. stabilisce i compiti e i doveri
di un'aristocrazia degna di questo nome. Si tratta dell'educazione da impartire
ai figli degli aristocratici. Imprimano in essi la semplicità dei modi, la
grandezza dell'animo, l'austerità del costume, la tolleranza nelle fatiche, la
fermezza nelle risoluzioni, l’'intrepidità nei pericoli, la generosità nei
travagli; li assuefacciano a contentarsi del poco, a fuggire gli agi e le
pompe, a tenersi per depositari anziché padroni della loro ampia fortuna, come
di un tesoro da dispensarsi in opere di beneficenza e in imprese di utilità
pubblica. In G. si trova l'incentivo e la giustificazione delle opere di
ripristino archeologico, alle quali IL REGIME FASCISTA si è particolarmente
consacrato, non soltanto a ROMA, ma in ogni parte d'Italia. Se G. potesse
vedere lo spettacolo meraviglioso della ROMA di oggi, dovrebbe fare
constatazioni diverse da quelle del suo tempo. Gli scavi, la esumazione e la
restaurazione degl’antichi monumenti pagani (‘non cattolici’!) , non giovano
soltanto a documentare al mondo la nostra gloriosa storia tri-millenaria, ma
sono anche fonti di ricchezza, per il richiamo che essi esercitano su tutte le
·genti del mondo civile. Le poche decine di milioni spese per creare quei
capolavori che sono la via dell'Impero ROMANO, la via dei Trionfi, la via del
Mare, sono già stati recuperati almeno cento volte, attraverso l'affluire
ìncessante degli stranieri. Ma G. insiste sul lato morale delle ricerche
archeologiche così esprimendosi. Egli è
doloroso a pensare che così pochi siano al dl d'oggi gl’italiani solleciti di
conoscere e studiare le patrie rovine e che tale inchiesta si abbandoni, come
inutile, all'ozio erudito di qualche antiquario. L'archeologia non meno della
filologia, ben !ungi dall'essere una scienza sterile e morta, è viva e fecondissima,
perché oltre a rinnovare il passato, giova a preparare l'avvenire delle
nazioni. Imperocché la risurrezione erudita dei monumenti nazionali porta seco
il ristauro delle idee patrie, congiunge le età trascorse colle future, serve
di tessera esterna e di taglia ricordatrice ai popoli risorgituri, destandone
ed alimentandone le speranze colla voglia e con l'esca delle memorie. Tutta la
storia d'Italia passa in rapide sintesi potenti nelle meditazioni di G. I periodi di grandezza e di miseria, gl’alti e
bassi del nostro popolo, trovano in G. un indagatore e un illustratore vigoroso
e penetrante. Egli sente la storia e come s'inorgoglisce parlando dei periodi
di splendore, è amaro e violento quando trae a descrivere le epoche di
decadenza. Nella citazione che segue sono condensati tre secoli della nostra
storia, i quali dal punto di vista politico sono stati oscuri, perché furono
secoli di divisione e di servitù. Le ultime faville di virtù e di carità patria
perirono in Italia colla repubblica di FIRENZE; spenta la quale dalla truce e
schifosa progenie dei secondi Medici, l'ingegno secolaresco, costretto a menar
vita privata ed umbratile, non ebbe più altro campo dove esercitarsi che quello
degli studi: in cui rifulsero ancora tre sommi laici, il TASSO, il GALILEI, il
VICO, che nel culto della sapienza poetica, naturale, filosofica, andarono
innanzi a tutti, e risposero in un certo modo alla triade clericale e monachile
di BRUNO, di CAMPANELLA e di SARPI. Ma il rinnovamento del ceto civile nella
penisola e la creazione dell'Italia laicale è dovuta a ALFIERI che, nuovo ALIGHIERI,
e il vero secolarizzatore del genio italico nell'età più vicina e diede agli
spiriti quel forte impulso che ancora dura e porterà quando che sia i suoi
frutti, Questa profezia del Primato si è avverata. L'impulso dato da ALFIERI da
i suoi frutti col Risorgimento. Dopo una eclissi, tale impulso è lo stesso che
scatenò il maggio radioso del '15 e la marcia di ottobre del '22. È l'impulso
che fece vincere la guerra e trionfare la rivoluzione. Non ancora un secolo è
passato e già queste parole del Primato giobertiano fiammeggiano nei cuori
delle generazioni littorie. « Italiani - diceva Gioberti - qualunque siano le
vostre miserie, ricordatevi che siete nati principi e destinati a regnare
moralmente sul mondo! G. nasce a Torino.
Un dissesto finanziario del padre, morto prematuramente, rese molto precarie le
condizioni economiche della famiglia. Formatosi nelle scuole dei padri
oratoriani, rivela precoci interessi per gli studi filosofici, e annoverò tra i
suoi maestri e guide spirituali Sineo, poi ricordato come il solo prete che
avesse incontrato. Tuttavia G. fu essenzialmente un autodidatta, che,
nonostante la malferma salute, si dedica con inaudita intensità alle più
disparate letture, toccando anche il settore linguistico, storico,
naturalistico, geografico, politico (con una precoce passione per MACHIAVELLIi),
e lasciandone traccia in una congerie sterminata di appunti e di pensieri: in
uno dei quali rivelava di essere stato "reso anti-monarchico dalla lettura
d’ALFIERI, irreligioso, ma per poco, da Rousseau, pirronista dagli altri
filosofi" (Meditazioni filosofiche inedite). Tali frammenti provano come
G. accumulasse una rilevante cultura filosofica, in parte di tipo manualistico,
ma in parte notevole ricavata da letture di prima mano (sebbene non sempre
nella lingua originale) concernenti in special modo le opere di Platone,
Agostino, Bacon, Bossuet, VICO, Leibniz, Malebranche, Gerdil, Rousseau e Kant.
Quest'ultimo, unitamente alla scuola scozzese di Reid, apparie a G. il filosofo
che aveva riportato "nel campo dell'osservazione quel principio pensante,
che molti aveano a tal segno obliato da confonderlo coi sensi e colla materia. Alla
linea di pensiero che iG. definiva allora idealistica si affianca il confronto
ravvicinato, ma costellato di dissensi, con il tradizionalismo cattolico
di Maistre, Bonald,Chateaubriand,
Ballanche e Mennais. È da osservare che G. conosce bene il francesen e,
ovviamente, il latino, mentre inizia studio del tedesco. In linea
generale, prevalse in G. un orientamento eclettico, considerato peculiare e
apertamente professato in opposizione allo spirito esclusivo dei sistemi, pur
in un quadro teorico segnato dalla polemica anti-sensistica e dalla ricerca,
non priva di momenti laceranti, di un punto di equilibrio tra una persistente
venatura scettica e l'ancoraggio, punteggiato peraltro da corrosivi spunti
anticlericali, alla religione, assunta come deposito di verità oggettive,
attingibili per via razionale solo in maniera parziale e frammentaria. Oltre
che sul piano teoretico, la necessità della rivelazione cristiana s'imponeva
per G. sul piano pratico e politico, essendo "una religione rivelata e
positiva l'organo indispensabile della morale nella società", ovvero anche
"un'obbligazione sociale", chiamata a integrare "il mantenimento
e l'accrescimento dei diritti", indicati come fine della politica. La
ragionevolezza dell'adesione alle verità dogmatiche della fede cattolica,
tenute distinte da quanto nella società religiosa vi è di accidentale e di
transeunte, sostituiva, in G., l'idea di religione naturale d'impronta deistica,
facendo salvi, da un lato, il principio di una rivelazione soprannaturale
depositata nella Chiesa cattolica e, dall'altro, il concetto di un suo
progressivo dispiegamento nella storia umana. Membro dell'accademia
ecclesiastica fondata dal Sineo e di quella dall'abate L. Solaro, G. risentì
dell'impronta - probabiliorista in campo morale e cautamente giurisdizionalista
in campo ecclesiastico - della facoltà teologica torinese, da cui trasse
alimento il suo vivace antigesuitismo. Addottorato in teologia il 9 genn. 1823,
fu aggregato alla facoltà teologica l'11 ag. 1825, con la discussione di tre
tesi: De Deo et naturali religione, notevole per la padronanza della relativa
letteratura sei-settecentesca, De antiquo foedere, De christiana religione et theologicis
virtutibus, la cui edizione accademica restò per quattordici anni l'unica opera
del G. data alle stampe. Poco prima, il 19 marzo 1825, era stato ordinato
sacerdote, dopo che la curia torinese e forse lo stesso arcivescovo Chiaverotti
erano intervenuti per vincere la sua ritrosia all'ordinazione. Nel gennaio 1826
fu nominato cappellano di corte con uno stipendio annuo di 480 lire.
Notevoli zone d'ombra caratterizzano la fase successiva della sua biografia. La
stessa renitenza del G. a tradurre in pubblicazioni l'immenso materiale
accumulato, nonostante la notorietà acquisita negli ambienti colti e l'attività
svolta in alcuni circoli filosofici e letterari, appare indicativa sia di una
persistente fluidità del suo pensiero, sia della percezione di un sempre più
chiuso clima intellettuale e politico, che il G. tendeva ad attribuire, sul
fronte ecclesiastico, alle mene dei gesuiti e della "frateria" - da
lui personalmente contrastati in occasione della vicenda che aveva coinvolto Dettori, allontanato dalla cattedra
universitaria nel 1829 con l'accusa di giansenismo - e, sul versante politico,
all'involuzione autoritaria del governo sabaudo. Tra il 1826 e il 1833 la
riflessione del G. sui rapporti tra religione e filosofia e tra religione e
vita sociale seguì un percorso non lineare. Ne sono documento eloquente le
lettere indirizzate a G. Leopardi (personalmente conosciuto nel 1828 a Firenze,
durante un viaggio per l'Italia in cui il G. ebbe modo di incontrare anche A.
Manzoni), le lettere al giovane amico e discepolo C. Verga e una lettura
accademica sull'accordo della religione cattolica coi progressi della società
civile (Ricordi biografici e carteggio, a cura di Massari). Scrivendo al
Leopardi da Torino G. confessava di aver professato nel passato "un puro
teismo", e di aver mutato idea in seguito a nuove indagini sulla
"verità del Cristianesimo (e quindi del Cattolicismo che è la sola forma
invariabile di quello) come sistema dottrinale e come fatto storico", e di
essere approdato a una "adesione intima, schietta, profonda alla religione
cattolica", che gli aveva consentito di vincere "i fastidi, le
amaritudini, i terrori, la malinconia" che fin allora lo avevano
tormentato (Epistolario, I, pp. 41-44). Due anni dopo, reduce dall'aver
"letto a furia" Le mie prigioni di S. Pellico, scriveva al Verga una
lettera in cui, opposto "il cristianesimo di Silvio" a quello dei
gesuiti, dei "nemici della filosofia e della civiltà", rivelava di
essere divenuto assertore di una religione filosofica: cioè di una religione
"immedesimata" e non solo conciliata con la filosofia, fondamento di
una morale austera, "ispiratrice di azioni grandi e generose, e dell'oblio
di se medesimo per intendere unicamente al bene della patria. Nei primi anni
Trenta, anche in seguito alla lettura del Nuovo saggio sull'origine delle idee
di A. Rosmini Serbati, il G. enunciò in modo più stringente e sistematico
l'idea di una diretta connessione tra risorgimento filosofico e risorgimento
nazionale, appellandosi a una tradizione filosofica autoctona, dispiegata
genealogicamente da Pitagora al Rosmini, attraverso la scuola eleatica, la
patristica latina, l'umanesimo e VICO (lettera a Verga). Dichiarandosi
continuatore di questa linea ideale, il G. manifestò una speciale consonanza
con il pensiero di Giordano Bruno, facendo a più riprese, in parallelo con
l'evoluzione delle proprie idee politiche, professione di panteismo. Tale
collegamento è attestato da una lunga lettera, scritta probabilmente nella
primavera-estate del 1833 ai compilatori della Giovine Italia e ivi pubblicata
sotto lo pseudonimo di Demofilo. G. vi esaltava il panteismo come la sola
filosofia "destinata a fiorire un giorno col voto unanime dei buoni
ingegni", affermando di avvertire nelle dottrine politiche professate dai
mazziniani "un'applicazione di questi dettati" (ibid., II, pp. 5-25;
cfr. anche lettera al Verga del 9 apr. 1833, ibid., I, pp. 167-172). La
lettera, ripubblicata con intenti antigiobertiani nel 1849 non da Mazzini, come
a lungo si credette, ma probabilmente da CATTANEO, col titolo Della repubblica
e del cristianesimo, era rivelatrice di una radicalizzazione delle convinzioni
del G., coinvolto in una serie di vicende destinate a mutare il corso della sua
esistenza: vi si proclamava la necessità di una religione civile finalizzata
alla liberazione dei popoli, ma, contemporaneamente, l'impossibilità di dar
vita a "una religione veramente nuova […], tanto che i filosofi, e gli
uomini universalmente cominciano a persuadersi, che fuori del Cristianesimo non
v'ha religione"; e vi si accennava a una lettura escatologica, ma non solo
ultraterrena, dell'idea cristiana di salvezza e di redenzione, implicante una
sua dilatazione dalla sfera individuale a quella sociale, prefigurata nella
promessa di un regno "da aspettarsi eziandio in questo mondo".
Nell'accezione giobertiana, ispirata ora a un messianismo politico-sociale in
vesti cristiane cui non erano estranei gli echi delle dottrine sansimoniane, il
motto mazziniano "Dio e il popolo" diventava così il presupposto di
una "cristianità novella", l'annunzio di un'epoca imminente in cui
"Iddio sarà umanato non nel figliuolo dell'uomo, ma nel popolo", e
destinato non alla croce, ma a un "regno stabile, a una pace perpetua,
all'immortalità e alla gloria". L'abito di prudenza e di riservatezza
adottato dal G. non impedì che le sue idee destassero diffusi sospetti di
ateismo anche presso i suoi superiori. Ciò lo indusse il 9 maggio 1833 a
lasciare la carica di cappellano e a rinunciare al relativo stipendio. Nel
frattempo si era affiliato a una società segreta, detta dei Circoli, e poi ad
altra associazione patriottica di dubbia identificazione, forse i Veri
Italiani; non sembra che mai entrasse nella Giovine Italia, sebbene coltivasse
intimi rapporti con alcuni suoi affiliati, come l'abate P. Pallia. In seguito a
delazione, fu quindi coinvolto nella repressione prodotta in Piemonte dalla
scoperta della congiura mazziniana del 1833, arrestato con pesantissime accuse
il 31 maggio e tenuto in carcere, senza processo, fino al settembre. Qui lo
raggiunse un provvedimento immediatamente esecutivo che lo esiliava senza
permettergli di incontrare alcuno dei suoi amici. Per poco più di un
anno, dall'ottobre 1833 alla fine del 1834, il G. visse a Parigi in una
situazione assai precaria, che lo induceva ad autorappresentarsi nei panni di
uno "sdottorato" e uno "spretato" (era privo di celebret
per la messa), di uno che aveva "perduto tutto". Nonostante le
relazioni intrecciate con i molti italiani insediati stabilmente o
temporaneamente nella capitale francese, come il matematico G. Libri, Peyron,
Mamiani, Botta, e con esponenti di primo piano del mondo accademico francese,
come Cousin e Champollion, visse in relativo isolamento, in una città che
considerava il "microcosmo d'Europa" ma non amava, ascoltando le
lezioni accademiche di Fauriel e Jouffroy, impartendo per vivere lezioni
private d'italiano e progettando, senza realizzarli, lavori di argomento
filosofico o di polemica politica sulla sanguinosa repressione seguita alla
congiura e al tentativo mazziniano. Nella febbrile atmosfera intellettuale
della monarchia di luglio il G. avvertì come sintomi di una crisi epocale, ma
senza condividerne appieno i contenuti, i messaggi di rinnovamento sociale
espressi dalla tarda scuola sansimoniana, da Buchez, dalle Paroles d'un croyant
di F.-R. de Mennais. Lo scenario parigino, che gli appariva connotato dalla
totale estinzione del culto e della pratica cattolica, fornì nuovo alimento
alla venatura apocalittica del suo pensiero, che gli faceva presagire come
prossima la "fine del mondo; ma del mondo antico, donde sorgerà il
nuovo", nel quale "gli ordini morali di Cristo" sarebbero
diventati "gli ordini civili delle nazioni", compenetrando lo Stato
sino a produrre "una società di uomini, retta da sé medesima, sotto la
legge universale, una, libera, fiorente, morigerata, santa, ed esprimente la
concordia del cielo colla terra" (lettera ad Unia). Per altro verso, si
approfondiva sino a divenire inconciliabile il dissenso del G. nei riguardi
della linea mazziniana e verso i movimenti insurrezionali, cui attribuiva la
responsabilità di aver "impedita o spenta una metà almeno di quel civile
progresso che altrimenti or sarebbe in Italia". Ne discendeva un caldo
invito, rivolto ai suoi numerosi corrispondenti piemontesi, all'accorta
prudenza e a un lavoro di lunga lena finalizzato a un apostolato politico
basato sull'aperta propaganda delle idee patriottiche. Dall'insieme delle
posizioni giobertiane dell'esilio parigino trasparivano una sostanziale
sfiducia nel grado di maturazione raggiunto dalla coscienza nazionale del
popolo italiano, "languido, diviso e inerte", un'attenuazione delle
antecedenti pregiudiziali repubblicane e l'abbandono delle convinzioni
panteistiche. Sul piano politico, G. inquadra ora la questione nazionale nella
riapertura, ritenuta certa, del ciclo rivoluzionario in Francia e nella
susseguente esplosione di una guerra europea, condizioni determinanti della
liberazione dell'Italia dall'Austria e della cacciata definitiva dei
"nostri tiranni". Nel dicembre 1834 accettò, anche per ragioni
economiche, l'offerta di assumere l'insegnamento di storia e filosofia nel
collegio fondato a Bruxelles da P. Gaggia (un ex sacerdote italiano
convertitosi al protestantesimo), che ospitava un centinaio di giovani
cattolici ed evangelici. Forse anche in relazione alla più pacata atmosfera
politica del Belgio, dove i cattolici erano parte attiva del sistema
costituzionale sortito dalla rivoluzione,
G. proseguì nella revisione ideologica già profilatasi nel periodo
parigino, prospettando più lucidamente che nel passato un'esigenza di
conciliazione, che non implicasse identificazione, tra dogmatica religiosa e
idee filosofiche e tra ordine soprannaturale e ordine civile. Dichiarava in
proposito che, mentre in precedenza aveva immedesimato i dogmi cristiani colle
idee, ora li disgiungeva, evitando di ridurre il cristianesimo a una simbolica
filosofia, ma considerandolo invece "il compimento della filosofia
medesima" (a P.D. Pinelli). Ne conseguì la decisione di produrre
finalmente delle opere a stampa. Ai primi del 1838 vide infatti la luce a
Bruxelles una sua "dissertazione religiosa" intitolata Teorica del
soprannaturale, o sia Discorso sulle convenienze della religione rivelata colla
mente umana e col progresso civile delle nazioni, composta in poco più di un
mese sul finire del 1837 e stampata a spese dell'autore; cui seguirono, in
rapida successione, l'Introduzione allo studio della filosofia (Bruxelles), che
ebbe una circolazione superiore a quella, inizialmente limitatissima, della
Teorica, sebbene di entrambe le opere venisse interdetta l'introduzione nel
Regno sardo; la Lettre sur les doctrines philosophiques et politiques de m. de
Lamennais (dapprima anonima, nel Supplement à la Gazette de France dell'8 genn.
1841, poi con firma e con titolo leggermente mutato a Parigi-Lovanio); il
saggio Del bello, composto come voce dell'Enciclopedia italiana e dizionario
della conversazione (Venezia) diretta da A.F. Falconetti, e pubblicato anche
come volume a sé nell'autunno del 1841, prima opera del G. edita in Italia, che
doveva essere seguita da un altro testo destinato alla stessa sede, Del buono,
uscito invece in forma autonoma a Bruxelles; e le dieci lettere Degli errori
filosofici di Antonio Rosmini (Bruxelles; la seconda edizione, del 1843-44,
portava a 12 il numero delle lettere e comprendeva altri scritti
giobertiani). Nella Teorica G. fa i conti con il proprio antecedente
itinerario intellettuale e con le tendenze filosofiche del suo tempo. L'opera,
imperniata sull'analisi delle relazioni tra ordine religioso e ordine civile
osservate sotto un'angolatura gnoseologica, etica e storica, aveva come
principale obiettivo polemico la riduzione monistica della sfera religiosa a
quella civile o viceversa, operata, secondo il G., dalle teorie razionalistiche
e panteistiche, dal "cristianesimo politico" dei sansimoniani alla
Buchez, dal tradizionalismo antimoderno di Maistre, Bonald e del primo La
Mennais. Dalle dottrine tradizionalistiche, tuttavia, il G. prendeva, rielaborandola,
l'idea di una rivelazione primitiva cui veniva fatta risalire sia l'attivazione
(mediante il dono soprannaturale del linguaggio) della facoltà di conoscere e
di volere e quindi l'origine della civiltà, sia l'infusione nella mente umana
di verità sovraintellegibili, percepite come misteri, analizzabili
razionalmente solo per via analogica, e fondanti l'ordine religioso. Ne
discendeva una storia parallela, basata sul principio di distinzione e di
interrelazione, della civiltà e della rivelazione religiosa, anch'essa
rappresentata come progressiva, fino al suo compimento nella rivelazione
cristiana, custodita integralmente e infallibilmente dalla Chiesa cattolica. Il
tracciato di questo duplice cammino era per il G. contrassegnato dal
progressivo incremento del ruolo della religione come "causa e
stromento" di civiltà, e dal graduale accostamento degli ordini politici
al modello di società organizzata costituito dalla Chiesa (visibile tra l'altro
nell'applicazione alla sfera politica del sistema elettivo proprio degli ordini
ecclesiastici). Emergevano pertanto dalle pagine della Teorica i lineamenti di
una rilettura della genesi della civiltà moderna, in opposizione alla tesi
delle sue origini protestanti, e una riaffermazione del primato della religione
sulla civiltà e della Chiesa sullo Stato, che si traduceva nella confutazione
dei sistemi politici, assoluti o democratici che fossero, i quali implicassero
una subordinazione della religione alla volontà del sovrano. Si trattava, in
definitiva, di un'apologia del cattolicesimo in senso civile, che nello scorcio
conclusivo dell'opera assumeva una marcata impronta nazionale. Tale
impronta era ancora più forte nell'Introduzione allo studio della filosofia.
L'opera era infatti imperniata sull'idea che toccasse all'Italia, dopo un lungo
periodo di oscuramento della sua tradizione filosofica determinato dalla
perdita dell'"indipendenza civile", promuovere la restaurazione della
"vera filosofia", scomparsa dall'orizzonte europeo in seguito all'espulsione
dell'"idea di Dio dallo scibile umano", e porre rimedio agli effetti
devastanti prodotti sul piano politico dalla diffusione di falsi principî
filosofici, generatori delle due contrapposte tirannidi prevalenti nel mondo
moderno, quella dei despoti e quella del popoli, dipendenti "dallo stesso
principio, e aventi uno scopo unico, cioè il predominio della forza sul
diritto". L'Introduzione intendeva porre le basi di un organico sistema
filosofico (inteso in senso molto estensivo), in grado di contrapporsi alle
deviazioni psicologistiche, soggettivistiche o panteistiche della filosofia
moderna generate principalmente, sul piano speculativo, dal pensiero e dal
metodo analitico di Cartesio e, su quello religioso, dalla Riforma: un sistema
imperniato sull'Idea, intesa, a suo dire, in un'accezione totalmente diversa da
quella utilizzata dai sensisti, dagli idéologues e dai panteisti moderni (tra
cui HEGEL), e analoga invece a quella platonica e malebranchiana. Il
riferimento all'Idea, intuita dalla mente umana come oggetto reale e in atto
che esiste indipendentemente dal soggetto, cioè come Ente o principio
ontologico e non solo gnoseologico, si realizza nel giudizio sintetico a priori
o formula ideale "l'Ente crea l'esistente", che pone nell'atto
creativo l'origine del mondo, e da cui scaturisce, in ragione dell'identica
matrice della realtà generata e del pensiero, l'intera enciclopedia filosofica
sul piano speculativo. Il principio contenuto nella formula ideale si esplica
infatti in un secondo ciclo creativo che procede, a differenza del primo,
dall'esistente all'Ente, e del quale è partecipe, come causa seconda, l'azione
dell'uomo in quanto dotato di intelligenza e di libero arbitrio, che lo rende
"in un certo modo creatore" e simile a Dio. Mentre il primo ciclo è
il principale oggetto dell'ontologia, scienza dei principî, il secondo ciclo,
nel quale si esplica la "vita attiva", è l'oggetto dell'etica,
scienza dei fini. Tra le molteplici applicazioni della formula ideale
abbozzate nell'Introduzione assumevano un rilievo particolare quella
concernente il rapporto tra religione e civiltà secondo lo schema relazionale
già profilato nella Teorica, e quella riguardante la sfera della sovranità. In
argomento il G., ponendo nell'Idea l'origine della sovranità, ne confutava sia
il fondamento contrattualistico (visto come prodotto delle deviazioni
soggettivistiche e sensistiche della filosofia moderna), sia l'identificazione
con il potere assoluto di un principe. Definendo la sovranità come un processo
discendente dall'Idea, ma nello stesso tempo partecipativo, G. pervenne alla
enunciazione di una formula politica (modellata sulla formula ideale), per la
quale "il sovrano fa il popolo" ma "il popolo diventa
sovrano", mediante "la trasformazione lenta, graduata e sicura del
Demo in patriziato". Ciò si traduceva in un'apologia della monarchia
civile o rappresentativa generata dal cristianesimo e già prefigurata negli
ordinamenti medievali, vista come sintesi tra un potere tradizionale e
un'"aristocrazia elettiva" chiamata a estendersi col progredire
dell'incivilimento. Inoltre, distinguendo il diritto sovrano dal diritto del
principe, il G. finiva per recuperare come "unico giure assoluto,
essenziale, irrepugnabile" l'idea di sovranità nazionale, trasferendo alla
nazione (una volta istituita come corpo politico) il carattere di primazia che
i fautori dell'assolutismo attribuivano al principe: sino a proclamare non solo
il diritto di resistenza nei confronti del principe assoluto, ma financo, in
casi estremi, la legittimità della rivoluzione. Il progetto di cui
la Teorica e l'Introduzionecostituivano una prima cornice speculativa era
sintetizzato in una lettera a T. Mamiani del 15 ott. 1840 (Epistolario), dove
G. esprimeva la convinzione che il solo modo di giovare all'Italia fosse quello
di "creare una scuola di libertà temperata, morale, religiosa, italiana,
una scuola di civiltà tanto aliena dal sentire dei demagoghi quanto da quello
dei despoti"; indicava l'obiettivo di far della religione "una
insegna nazionale" immedesimandola "col genio dell'Italia, come
nazione", facendone "una di quelle idee madri che seggono in cima al
pensiero degli uomini e signoreggiano ogni parte del vivere civile". Con
l'aggiunta che, distinguendo "nella religione cattolica la credenza
dall'istituzione" e insistendo sulla seconda, non sarebbe stato difficile
convincere gli increduli che "il cattolicesimo, anche umanamente
considerato, sia il migliore degli istituti religiosi possibili". Un
programma di così ambiziosa portata prefigurava un disegno in qualche misura
egemonico sul piano culturale e induceva il G. non solo a entrare in diretta
polemica con le opere di autorevoli esponenti del coevo pensiero europeo, come
Cousin (in uno scritto concepito come appendice dell'Introduzione, ma pubblicato
inizialmente a parte, a Bruxelles, le Considerazioni sopra le dottrine
religiose di VCousin), e come Lamennais (in un opuscolo duramente critico verso
le sue ultime opere filosofiche e politiche), ma soprattutto a competere con
l'altro pensatore italiano, Rosmini, che aveva intrapreso a propria volta, con
intenti non meno ambiziosi, un programma di edificazione di una filosofia
cristiana capace di misurarsi con il pensiero moderno. Il dissenso nei suoi
confronti si era già manifestato nell'Introduzione, dove alla dottrina rosminiana
dell'Essere ideale era mossa la critica di perdurante e invalicabile
psicologismo e perciò di soggettivismo e finanche di sensismo mascherato. Tale
iniziale dissenso si tradusse in acre e prolungata polemica, specialmente in
ragione dei successivi interventi dei seguaci del Rosmini, come Tarditi,
Gastaldi, arcivescovo di Torino, G. di Cavour, secondo i quali le tesi
giobertiane menavano dritto al panteismo. Il G. ribatté colpo su colpo,
incominciando dalla già citata alluvionale opera Degli errori filosofici di A.
Rosmini, importante soprattutto per il fatto che l'autore vi tracciava il
processo teorico attraverso cui era pervenuto alla formula ideale. Nella
polemica il G. fu affiancato e sostenuto dai suoi amici e seguaci, come P. De
Rossi di Santarosa, mentre risultò vano l'intervento pacificatore di N.
Tommaseo. Sempre a Bruxelles, G.
diede alle stampe l'opera che doveva dargli la celebrità, Del primato morale e
civile degli Italiani, tirato nella prima edizione in 1500 esemplari. Concepito
inizialmente come "un'operetta di non molte pagine", "un
discorsetto non solo sul Papa ma sull'Italia", il Primato divenne strada
facendo un ponderoso lavoro in due grossi volumi, la cui scrittura procedette
in parallelo con la stampa fino al maggio dell'anno successivo. L'opera,
dalla struttura sovrabbondante e magmatica, colma di formule apodittiche e di
scarti lessicali, aveva tuttavia un suo asse portante nel tentativo di definire
i caratteri originali e permanenti della nazionalità italiana sintetizzati in
quello che il G. chiamava "genio nazionale". Plasmato da fattori
naturali, come il sito geografico e la feconda mescolanza di stirpi pelasgiche
ed etrusche, connotato dalla preminenza di elementi sacerdotali e
aristocratici, dotato di un suo particolare "genio federativo"
espresso dalla "società di popoli" realizzata dalla repubblica romana
(poi tralignata in signoria imperiale), riflesso culturalmente da
un'ininterrotta tradizione filosofica autoctona, il genio italico aveva
trovato, secondo il G., una sua configurazione effettivamente nazionale per
opera del Papato, che lungo il Medioevo gli aveva dato stabile forma avviando
la traduzione in "ordini civili" dei dettati religiosi e morali del
cristianesimo. Il tratto costitutivo della nazione italiana veniva così
reperito in un principio ideale, convalidato tuttavia da fattori naturali di
tipo etnico e confermato dalla storia: nell'essere l'Italia "nazione
religiosa per eccellenza", dotata di un primato religioso determinato dal
trapianto in Roma dell'Evangelo e dall'elezione provvidenziale della sede
romana a sede apostolica, che si riverberava in un primato dell'Italia
nell'ordine morale e civile, da cui traeva il carattere di "creatrice,
conservatrice e redentrice" della civiltà europea. Il ruolo o la missione
religioso-civile, che faceva degli Italiani "il nuovo Israele" e
dell'Italia una "nazione sacerdotale", veniva perciò raffigurato dal
G. come indivisibile da quello del Papato: il quale, mediante l'esercizio della
potestà civile connaturata alla sua primazia religiosa, non solo aveva
costituito la nazionalità italiana, ma le aveva altresì impresso i tratti suoi
propri di nazione guelfa. Per converso, il declino della potestà civile dei
pontefici, iniziato nel tardo Medioevo e culminato nell'Età moderna, si era
tradotto nella decadenza, nell'asservimento politico, nella subordinazione
culturale dell'Italia e nella frammentazione politico-religiosa dell'Europa. Il
risorgimento italiano, concepito dal G. sullo sfondo di una riunificazione
religiosa europea, veniva dunque a raccordarsi strettamente con la
restaurazione della "scaduta potestà civile del Papa in modo conforme e
proporzionato all'indole e ai bisogni del secolo". Tale formula conteneva
il nocciolo della tesi centrale del Primato: posto che, secondo G., l'esercizio della potestà civile
pontificia, perno della più ampia potestà civile della Chiesa, era per sua
natura suscettibile di assumere modalità variabili in relazione al cammino
della civiltà in senso secolare, essa era chiamata a evolversi in maniera
vieppiù adeguata alla propria originaria legittimazione religiosa e alla
progressiva acquisizione di "indipendenza civile" e di "capacità
nazionale" da parte dei popoli, assumendo le forme preminenti della forza
morale, della persuasione, dell'influenza pacifica e pacificatrice.
L'itinerario della potestà civile pontificia tracciato dal G. procedeva dunque
dalla "dittatura", consona alle età barbariche, verso un "potere
arbitrale", delimitato dal fatto di non "avere alcun effetto civile
che non sia consentito alla libera [cioè liberamente] dalle parti gareggianti e
deliberanti". Si realizzava così la saldatura tra la restaurazione-riforma
del potere civile del Papato e il Risorgimento italiano: nel senso che la
ridefinizione del primo avrebbe reso possibile l'esercizio effettivo da parte
del pontefice del ruolo, mai assunto nel passato, di capo civile della nazione
sotto forma presidenziale (o dogale) - un ruolo, dunque, istituzionale, analogo
ma più forte di quello arbitrale -, e la contemporanea trasformazione in unità
"nazionale e politica" della preesistente, ma virtuale, unità
italiana senza che ne venissero toccati i legittimi poteri dei sovrani.
Quest'ultimo aspetto costituiva un altro snodo del Primato, che consentiva a G.
di tracciare una via consensuale, pacifica e aliena da fratture rivoluzionarie
per la costruzione dello Stato nazionale. Scartate come estranee alla natura e
alla storia del genio italico le forme del dispotismo e della democrazia
"demagogica" fondata sull'idea della sovranità popolare, e assumendo
come punto di riferimento il riformismo settecentesco, in specie di Pietro
Leopoldo e di Benedetto XIV, G. raffigurava l'erigenda entità politica
nazionale come una confederazione dei maggiori Stati italiani, retti a monarchia
"consultiva" sotto la presidenza moderatrice del pontefice elettivo.
La formula della monarchia consultativa veniva preferita a quella della
monarchia rappresentativa per il fatto di non frammentare la sovranità, e di
permettere ugualmente ai sovrani di governare secondo il voto della nazione,
raccolto e filtrato da un corpo vitalizio di "veri ottimati" tratto
da un'aristocrazia selezionata dal merito e dall'ingegno più che dal sangue
nobiliare, agente come canale di collegamento con l'opinione pubblica.
Un'attenzione particolare era dedicata dal Primato al potere dell'opinione
negli Stati moderni, alle condizioni necessarie del suo sviluppo, al ruolo che
il clero era chiamato a esercitarvi nel rispetto del "principio sacrosanto
della libertà delle coscienze", alla funzione modernizzatrice delle
élitesintellettuali. L'utopia della confederazione italiana (tale la definiva
lo stesso G.) si traduceva in una forma politica composita, che richiamava in
certa misura l'ordinamento ecclesiastico, caratterizzata dalla presidenza
conciliatrice del pontefice, da un insieme di "aristocrazie civili e
consultative, ciascuna sotto un capo ereditario investito del supremo
comando", e finalizzata all'unione, all'indipendenza e alla realizzazione
della libertà civile, tenuta distinta da quella politica, cioè
costituzionale. Scritto come libro "moderatissimo" per non
"irritare gli animi" e consentirgli di circolare per tutta la
penisola (il che accadde, nonostante gli interdetti dell'Austria e il divieto
di smercio nello Stato pontificio), con l'esplicita intenzione di raccogliere i
più ampi consensi, il Primato lasciava deliberatamente da parte argomenti di
più immediata rilevanza politica, che pure G. affermava di aver originariamente
previsto, quali il predominio dell'Austria o la laicizzazione del governo dello
Stato pontificio. Il Primatosegnava inoltre un ripiegamento rispetto ad alcune
delle tesi sviluppate nell'Introduzioneallo studio della filosofia e conteneva
positivi apprezzamenti nei riguardi della Compagnia di Gesù. Accolto con favore
in ambienti laici ed ecclesiastici, compresi quelli gesuitici, ma stroncato da
G. Ferrari nel quadro della polemica antigiobertiana che percorreva il suo
saggio La philosophie catholique en Italie (uscito in due puntate sulla Revue
des deux mondes nel marzo-maggio 1844, cui il G. rispose con una lettera
pubblicata in appendice alla seconda edizione di Degli errori filosofici di A.
Rosmini), il libro contribuì in modo rilevante alla formazione dell'opinione
nazionale, pur a prezzo o forse in ragione delle sue reticenze e
dissimulazioni, trovando una naturale collocazione nel contesto del riformismo
moderato degli anni Quaranta, specialmente in Piemonte, grazie anche
all'apologia, presente in certe sue pagine, della missione nazionale riservata
allo Stato sabaudo sotto il profilo militare, e all'esaltazione del riformismo
carloalbertino: temi subito ripresi e sviluppati, in senso più marcatamente
sabaudista ma anche meno proclive all'idea del primato italiano, nelle SPERANZA
DEGL’ITALIANI di BALBO (che sul finire ha parte principale nella nomina di G. a
socio nazionale non residente dell'Accademia delle scienze di Torino). Di segno
opposto furono le accoglienze riservate al Primato da G. Mazzini e dai
neoghibellini. La prima edizione del Primato - la cui lettura era resa ancora
più ardua dalla mancanza di un indice analitico - andò rapidamente esaurita, e
il G. provvide ad allestirne una seconda corretta, stampata dallo stesso
tipografo belga, e comprendente un lungo testo introduttivo, che venne tirato a
parte in 2000 copie col titolo di Prolegomeni del Primato. Qui il G.
abbandonava alcune delle originarie cautele, con un pronunciamento a favore
della monarchia rappresentativa e con un'acre denuncia degli orientamenti
settari attivi nella Chiesa e identificati in particolare nell'Ordine gesuitico
o, per meglio dire, nel "gesuitismo" inteso come categoria morale
contrapposta al "cattolicismo" e incompatibile con la civiltà moderna
e i suoi valori nazionali. Ciò innescava un'aspra controversia, destinata ad
aggravarsi e a prolungarsi nel tempo, con eminenti scrittori della Compagnia,
segnatamente con F. Pellico, fratello di Silvio, e C.M. Curci, non senza il
sostegno e l'incoraggiamento del padre generale J. Roothaan. I
Prolegomeni segnavano una prima sterzata rispetto alle tonalità ecumeniche del
Primato, e il riaffiorare nel G. di una virulenta vena polemica che trovò un
successivo sfogo nella pubblicazione del Gesuita moderno, apparso a Losanna nel
1846-47. Una parte non trascurabile nella vicenda ebbe il passaggio del G. da
Bruxelles a Parigi, reso possibile dall'autonomia finanziaria assicuratagli
dalla buona riuscita della sottoscrizione promossa a Torino da P.D. Pinelli per
una nuova edizione delle sue opere complete. A Parigi, ove rinsaldò l'amicizia
con G. Massari (divenuto nel frattempo suo discepolo e ammiratore), il G. si
trovò nel pieno dello scontro sulle scuole delle congregazioni e nel cuore
delle controversie sulla Compagnia di Gesù innescate dai corsi tenuti al
Collège de France da E. Quinet e da J. Michelet. Soprattutto, suscitò grande
eco nell'animo del G., che ne avrebbe tratto a più riprese corrosivi spunti
antigesuitici, il coinvolgimento della Compagnia nei coevi conflitti
politico-religiosi della Svizzera, sfociati poi nella guerra del
Sonderbund. Impostato come una replica alle critiche dei padri Pellico e
Curci, Il gesuita moderno si trasformò strada facendo in un farraginoso lavoro
in cinque volumi (l'ultimo dei quali di documenti) scritto dal G. in uno stato
di tensione e di inquietudine che lo induceva a sospettare di una sistematica
opera di spionaggio messo in atto da emissari della Compagnia nei suoi
confronti. L'opera era un concentrato di argomenti antigesuitici ricavati dalla
storia e collegati dall'idea dominante già abbozzata nei Prolegomeni: la
radicale e irrimediabile ostilità dello spirito gesuitico, in quanto pervaso da
misticismo, lassismo morale e autoritarismo, a un cattolicesimo civile,
ispiratore del movimento nazionale. Nel rappresentare il gesuitismo come il
principale e più subdolo nemico del Risorgimento, G. prendeva anche in
considerazione, in un'appendice al quinto volume, le tesi enunciate dal p. L.
Taparelli d'Azeglio nel saggio Della nazionalità, dove si affermava non essere
l'indipendenza politica un attributo necessario della nazionalità, e veniva
definito inammissibile il perseguimento di uno Stato nazionale se in conflitto
con i diritti dei sovrani. Il G. vi contrapponeva un'idea di nazionalità come
"creatrice di diritti", fattore sostanziale e incoercibile di
identità di un popolo, in tal modo proclamando non solo l'incomponibile
divaricazione tra due idee di nazionalità, ma anche prendendo definitivo
congedo dalle sfumature legittimistiche del Primato. Gli eccessi polemici
del Gesuita moderno, singolarmente contrastanti con la moderazione del Primato,
gli valsero un'accoglienza controversa e suscitarono non poche critiche anche
da parte di cattolici liberali come Balbo, Rosmini e Tommaseo; ma assicurarono
ulteriore udienza e popolarità all'autore e un'ampia circolazione, superiore a
quella del Primato, all'opera, che non era stata interdetta dalla censura
ecclesiastica ed era venuta a cadere in una fase in cui il vento antigesuitico
spirava forte negli Stati europei (la seconda edizione, del 1847, fu tirata in
12.000 copie). I cambiamenti avvenuti nella Chiesa e nella situazione
italiana con l'elezione di Pio IX e l'accelerazione del movimento riformatore,
gli atteggiamenti assai cauti, se non riguardosi, del nuovo papa, già lettore
del Primato, nei confronti del G., e, viceversa, il moltiplicarsi delle
critiche al Gesuita modernoin Italia e più ancora in Francia, specialmente per
mano dell'archeologo Ch. Lenormant, indussero il G., sul finire del 1847, a
porre mano a un nuovo lavoro, l'Apologia del libro intitolato "Il gesuita
moderno", con alcune considerazioni intorno al Risorgimento italiano
(Bruxelles e Livorno). Qui la rinnovata battaglia contro il gesuitismo, estesa
ora al partito francese dei "laici ipercattolici" capeggiato da
Montalembert, veniva a connettersi più direttamente con i progressi compiuti
nel frattempo dal movimento nazionale e interpretati dal G. come una totale
convalida delle proprie tesi. Sennonché, tra l'inizio della stesura e della
stampa, progredita assai lentamente, e la conclusione del lavoro erano
intervenuti il sovvertimento della scena politica europea con la rivoluzione
parigina del febbraio (direttamente osservata e idealmente difesa dal G.), la
concessione degli statuti da parte dei maggiori sovrani italiani, la
rivoluzione di Vienna e la crisi dell'Impero austriaco, l'insurrezione
milanese, l'avvio della guerra in Italia. Inoltre la Compagnia di Gesù era
stata espulsa da molti Stati, tra cui quello sabaudo, tanto da far pensare al
G. che i gesuiti, dei quali aveva auspicato in lettere private l'espulsione,
fossero "morti politicamente", pur continuando a sopravvivere "i
loro spiriti". Tutto questo impose un rifacimento del capitolo finale
dell'opera, più legato all'attualità, e la stesura di un lungo proemio, datato
Parigi 8 apr. 1848, in cui i fatti italiani, a partire dalla rivoluzione
siciliana del gennaio, entravano prepotentemente nella sua analisi, rendendo il
libro ancor più eterogeneo nei suoi contenuti e il suo titolo ancor più inadeguato,
ma accrescendone pure di molto l'interesse. L'opera vide finalmente la luce, in
quattro edizioni quasi contemporanee, quando il G. era ormai ritornato a
Torino. Molteplici elementi imprimevano all'Apologiail tono di un
manifesto programmatico, in linea con i numerosi interventi avviati dal G. su
alcuni giornali liberali come la Patria di Firenze, l'Italia di Pisa, il
Risorgimento e soprattutto la Concordia di Torino, diretta da L. Valerio: in
primo luogo, l'esaltazione, condotta con toni volutamente forzati, dell'azione
riformatrice di Pio IX, nel quale il G. indicava l'incarnazione provvidenziale
del pontefice da lui stesso preconizzato, guida del Risorgimento nazionale
interpretato come "un evento religioso, europeo, universale",
promotore di "una rivoluzione fondamentale negli ordini umani del
cattolicesimo" e di una metamorfosi del Papato da "aristocratico e
monarcale" a "popolano e democratico come nelle sue origini"; in
secondo luogo, la perorazione per la sollecita creazione di un regno
costituzionale dell'Alta Italia sotto la dinastia dei Savoia, accompagnata
dalla confutazione dei programmi municipalisti e repubblicani. Per altro verso,
l'Apologia portò allo scoperto, sotto la sollecitazione degli eventi, venature
del pensiero giobertiano in precedenza tenute in ombra, riflettendone gli
approdi più recenti. Il libro era tutto attraversato dal tema della democrazia,
non tanto intesa come ordinamento politico, ma quale prorompente e benefica
"rivoluzione, che per la mole, l'estensione, la natura, l'importanza, la
durata, non si può comparare a niuna di quelle che la precedettero, la quale
avrà per ultimo esito di conferire al popolo la piena signoria delle cose
umane"; rivalutava, rifacendosi alle opere di A. de Lamartine e di J.
Michelet, l'opera dei giacobini nella Rivoluzione francese; assegnava a meta
conclusiva del movimento nazionale, dopo la necessaria fase federativa, la
costituzione di uno Stato unitario, accennando a una sua futura trasformazione
in senso repubblicano; individuava il solo modo di perpetuare la monarchia
pontificia in una riforma costituzionale dello Stato della Chiesa, che
consentisse al papa, in quanto principe temporale, di regnare senza governare e
di realizzare la "separazione assoluta del governo spirituale dal
temporale". Quando rientrò a Torino, dopo oltre quattordici anni di
esilio e accolto da entusiastiche manifestazioni, il G. era reduce da una prima
cocente delusione politica, determinata dall'annuncio confidenziale,
pervenutogli a Parigi e seguito da immediata smentita, della sua nomina a
ministro dell'Istruzione nel gabinetto Balbo, fatta cadere dal veto di Carlo
Alberto, che gli era e gli restò ostilissimo. In compenso, in un collegio
torinese e in uno genovese era appena stato eletto a sua insaputa alla Camera
subalpina, che alla metà di maggio lo proclamò proprio presidente. Fino alla
fine di luglio, tuttavia, il G. non mise piede in Parlamento, perché ai primi
di maggio, accompagnato da don G. Baracco, già era partito per una lunga
peregrinazione politica, che lo avrebbe portato a Milano (dove ebbe un incontro
col Mazzini), al quartier generale piemontese di Sommacampagna (dove fu
ricevuto da Carlo Alberto), poi, attraverso la Lombardia e l'Emilia, a Genova,
a Livorno, a Roma (dove soggiornò due settimane e fu ricevuto in tre diverse
udienze da Pio IX), e infine, per l'Umbria e le Marche, a Bologna e a Firenze,
donde rientrò, via Genova, nella capitale sabauda. Il viaggio per l'Italia,
avvenuto in una fase in cui la guerra federale contro l'Austria aveva ricevuto
un colpo letale dall'allocuzione di Pio IX
- il cui significato il G. tentò invano di minimizzare - e dalla
reazione borbonica di maggio, fu tanto indicativo dei vertici raggiunti dalla
popolarità del G., ovunque fatto oggetto di accoglienze trionfali e talora
deliranti, e tanto ricco d'incontri con i più vari circoli politici, quanto
povero di durevoli risultati. Nel corso di tale viaggio, affrontato con lena
missionaria, il G. propagandò fervidamente alcune idee-guida: in nome della
concordia nazionale combatté a spada tratta le ipotesi repubblicane di ogni
genere, i movimenti da lui tacciati di municipalismo, i progetti per
un'assemblea costituente, che finì tuttavia per ritenere inevitabile e non
pericolosa a certe condizioni; invocò il pronto accoglimento dei voti di unione
al Regno sabaudo del Lombardo-Veneto e la proclamazione di un forte regno
dell'Italia settentrionale; tentò con la medesima energia di rilanciare la
soluzione federale, contro i riaffioranti particolarismi statali e dinastici,
non esclusi quelli del Piemonte; si adoperò per un consolidamento del sistema
costituzionale a Roma, utilizzando anche i propri rapporti di amicizia con il
ministro T. Mamiani. Analoghi programmi il G. sostenne durante la breve
vita del gabinetto Casati, al quale fu aggregato dal 29 luglio, giusto
all'indomani del disastro di Custoza, in qualità di ministro senza portafoglio
e poi dell'Istruzione, facendosi personalmente promotore della missione del
Rosmini presso Pio IX, finalizzata alla stipulazione di un trattato confederale
e di un nuovo concordato. Ma la firma dell'armistizio Salasco e l'interruzione
della guerra con l'Austria lo colsero di sorpresa. Di fronte alla svolta che
portò alle dimissioni del governo Casati, il G. abbracciò posizioni assai
impopolari presso i moderati, dapprima avversando e poi perorando una richiesta
di aiuto militare alla Repubblica francese, combattendo a spada tratta la
richiesta di una mediazione diplomatica franco-inglese, schierandosi per una
ripresa della guerra in una cornice federativa quanto mai inattuale. Le
ombrosità e le ambizioni del G., che aspirava alla presidenza del Consiglio,
ebbero modo di tradursi in aperto dissenso politico in occasione della
formazione del governo presieduto da C. Alfieri di Sostegno (poi da E. Perrone
di San Martino), che pure includeva tre amici del G. come il Pinelli, in
posizione preminente, Merlo e Santarosa. Al nuovo ministero il G. dichiarò
guerra aperta con un opuscolo dai toni aggressivi, I due programmi del
ministero Sostegno (Torino). Accusato il nuovo governo di spirito
municipalista, cioè di disinteresse per le sorti degli altri Stati italiani, il
G., che aveva lasciato il seggio parlamentare in occasione della sua nomina
ministeriale, tentò, facendo appello all'opinione pubblica nazionale, di promuovere
una politica alternativa basata sull'idea di una Costituente federativa con
mandato limitato, da contrapporre sia all'inerzia del governo piemontese in
carica, sia ai programmi di Costituente agitati dai gruppi democratici
radicali. Fu quindi coinvolto nella fondazione della Società nazionale per la
confederazione italiana, che tenne in ottobre a Torino il suo primo e unico
congresso. Preceduto da un suo infiammato indirizzo "ai popoli
italici" (dov'erano tra l'altro adombrati gli irreparabili guasti
religiosi di un eventuale "funesto scisma d'Italia e di Roma") e
aperto da un discorso introduttivo in cui G. denunciò le colpe dei
"repubblicani pratici" e le "disorbitanze dei democratici
schietti e dei comunisti", il congresso si concluse con la faticosa
elaborazione di un progetto di Costituente federativa e con la proclamazione
del carattere irrevocabile della fusione delle regioni settentrionali nel Regno
dell'Alta Italia. Rieletto alla Camera nella tornata suppletiva del 30
settembre e nuovamente asceso alla presidenza dell'Assemblea, dopo le
dimissioni del governo da lui accanitamente avversato il G. ebbe a metà
dicembre l'incarico di presiedere il nuovo ministero, in cui assunse anche il
dicastero degli Esteri. Salito alla presidenza del Consiglio non più come
simbolo di unità e di concordia ma come esponente di maggior spicco
dell'opposizione, nel discorso programmatico definì il proprio ministero con
l'appellativo di democratico, cioè, come disse, volto a innalzare la plebe
"a dignità di popolo", a serbare rigidamente l'uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge comune, a provvedere agli interessi delle
province, con implicito riferimento alla difficile situazione genovese, a
"corredare il principato d'istituzioni popolane, accordando con gli spiriti
di queste i civili provvedimenti"; manifestò inoltre l'intenzione di
riprendere la guerra interrotta, di promuovere una Costituente federativa
italiana, e proclamò il diritto degli Stati italiani - di fatto, il diritto
dello Stato sabaudo, cui attribuiva apertamente una funzione egemonica - di
intervenire negli altri Stati della penisola per evitare sommovimenti
rivoluzionari o interventi militari stranieri. G. s'inoltrò pertanto in una
politica nazionale alquanto avventurosa, seppur coerente con il principio,
carico di valore ideale ma povero di forza normativa e da lui ribadito in
documenti ufficiali, per il quale egli affermava la sussistenza di un diritto
della nazionalità, preminente sulle vigenti istituzioni politiche e imperativo
nelle relazioni tra gli Stati italiani. Venne così progettando invii di truppe
sarde nei punti critici della penisola e si propose come indesiderato mediatore
tra i sovrani italiani e i loro popoli. Del tutto vani si rivelarono i suoi
insistiti tentativi di intermediazione tra Pio IX, rifugiatosi a Gaeta, e la
commissione provvisoria di governo di Roma, intesi a ricondurre il pontefice
nel suo Stato con l'appoggio di truppe piemontesi subordinato al mantenimento
degli ordini costituzionali; e volti nel contempo a impedire l'ingresso del
Mazzini in Roma e la convocazione della Costituente italiana. Sul finire
dell'anno il G. chiese e ottenne dal sovrano lo scioglimento della Camera e
l'indizione di nuove elezioni, che videro il suo personale successo in dieci collegi
del Regno, ma produssero un'Assemblea decisamente sbilanciata sulla Sinistra
democratica. Poco attento agli equilibri parlamentari, che considerava con un
certo disdegno, abbandonate le velleità di convincere Ferdinando di Borbone e
gli indipendentisti siciliani ad affidare alla Costituente federativa la
composizione del loro prolungato conflitto, s'addentrò in un'avventura militare
che doveva riuscirgli fatale. Dopo aver lungamente tentato, grazie anche ai
suoi buoni rapporti con G. Montanelli, di indurre il governo democratico
toscano a più moderati consigli circa i ventilati progetti di Assemblea
costituente, posto di fronte alla traduzione di tali progetti in legge
operativa e alla successiva fuga di Leopoldo II, il G. predispose in gran
segretezza un intervento armato piemontese in Toscana, per riportare il
granduca sul trono preservando il sistema costituzionale. La conoscenza del
disegno, rivolto contro un governo di orientamento marcatamente democratico, e
degli atti compiuti per realizzarlo, provocò la sollevazione del Parlamento
sardo, una frattura profonda nella compagine ministeriale e le dimissioni del
presidente del Consiglio, accolte di buon grado il 21 febbraio dal sovrano,
pronto a sostituirlo con il generale A. Chiodo. Per sostenere le ragioni della
propria politica, invisa ormai alla maggioranza dei gruppi parlamentari di ogni
orientamento, il G. dette vita, in marzo, a un giornale politico, il
Saggiatore, sul quale intervenne per invocare l'unità degli spiriti in
occasione della ripresa della guerra con l'Austria, da lui perorata ma ora
altamente disapprovata per i modi in cui era avvenuta. Dopo Novara
l'abdicazione di Carlo Alberto e l'ascesa al trono di Vittorio Emanuele II, il
G., su invito di Pinelli, accettò di entrare come ministro senza portafoglio
nel nuovo gabinetto presieduto da G. De Launay, nonostante il solco profondo
che lo divideva dal primo ministro e dai suoi orientamenti conservatori, e di
assumere l'incarico di inviato straordinario del Regno sardo a Parigi.
L'indeterminatezza del compito affidatogli e gli atti poco amichevoli compiuti
dal governo piemontese nei suoi confron ti non appena giunto a
destinazione, indicavano che il vero significato della missione era quello di
togliere di mezzo l'incomodo personaggio, anche per favorire le trattative di
pace con l'Austria. Il G., che aveva preso a tessere relazioni con vari
personaggi della vita politica francese e inglese, tra cui Tocqueville, reagì
con la consueta irruenza, troncò ogni rapporto ufficiale con il Regno sardo
dimettendosi da deputato, da ministro e da inviato straordinario, manifestò a
chiare lettere il suo pessimismo sulla situazione italiana, espresse il suo
distacco dal Piemonte anche con la decisione di restituire le somme
pervenutegli per l'edizione delle sue opere, e si ritirò in un secondo,
volontario esilio. Si aprì per il G. un altro periodo operosissimo sul
piano intellettuale e di riflessione, non certo distaccata, sugli eventi di cui
era stato protagonista. Nella corrispondenza privata, tutta intessuta di riferimenti
alla situazione italiana, francese ed europea, ebbe modo di reagire, con
sarcasmo misto ad amarezza, alla condanna comminata il 30 maggio 1849 dalla
congregazione dell'Indice al suo Gesuita moderno, adottando pubblicamente la
linea del silenzio anziché quella della sottomissione. Sul piano politico
espresse a più riprese la convinzione che le idee repubblicane, colorate di
socialismo, fossero in fase di inarrestabile ascesa, affermando, in una letteram
di vedere all'opera una Provvidenza tinta di rosso "perché ordina tutto al
trionfo vicino o lontano di questo colore". Si dichiarava altresì fautore
di un ordinamento scolastico saldamente nelle mani dello Stato, in quanto
promotore e responsabile dell'"educazione nazionale", della gratuità
dell'istruzione primaria, dell'assistenza pubblica ai vecchi, agli ammalati e
"alla povertà che non trova da lavorare". Mentre usciva a
Capolago, per iniziativa e con un'introduzione del Massari, una raccolta di
lettere, interventi e discorsi con il titolo di Operette politiche, G. riprese
in mano i propri lavori di argomento filosofico e religioso, editi e inediti,
ma soprattutto si dedicò alacremente alla stesura di una nuova opera di ampio
respiro che volle si stampasse a Parigi sotto la sua sorveglianza, pur
affidandone la pubblicazione all'editore torinese Bocca: era Del rinnovamento
civile d'Italia, che vide la luce nel novembre del 1851, in due volumi, il
secondo dei quali contenente anche una nutrita parte documentaria. Il
Rinnovamento si presentava come una riflessione politica che, prendendo spunto
dalla ricostruzione critica e storica degli eventi del '48, affrontava il tema
generale delle mutate condizioni interne e internazionali in cui l'unificazione
nazionale avrebbe ripreso il suo cammino. Il saggio proclama la fine della fase
del Risorgimento e l'inizio della fase del rinnovamento, concepito come parte
integrante "di un moto comune a quasi tutta l'Europa": il primo si
era mosso nella logica di una trasformazione graduale delle cose, il secondo
avrebbe assunto "aspetto e qualità di rivoluzione"; il primo era
stato movimento autonomo, governato dalle condizioni dell'Italia, il secondo
sarebbe dipeso "in gran parte dai fatti esterni"; il primo aveva
dovuto limitarsi all'obiettivo di un sistema federale "perché non ve n'era
altro possibile", il secondo non poteva escludere una possibile, e
benefica, accelerazione storica verso l'unificazione politica. Su questa
falsariga G. affrontava dettagliatamente, traendo lezione dagli errori che a
suo giudizio erano stati commessi da tutte le forze nazionali, una serie di
argomenti di grande impegno: l'insostenibilità del potere temporale dei papi,
"la maggiore anticaglia superstite dell'età nostra", dannoso
all'Italia, all'Europa e soprattutto al cattolicesimo come causa di
subordinazione del Papato alle forze della reazione interne ed esterne; il
posto e la natura del partito conservatore e del partito democratico nella
"politica nazionale"; le condizioni alle quali il Piemonte, "il
paese più scarso di spiriti italici", dominato da una classe politica di
patrizi e di avvocati "inclinati al municipalismo", guidato da una
dinastia "stata finora impropizia all'ingegno, aristocratica e
municipale", e nondimeno l'unico ad aver preservato gli ordinamenti
costituzionali, poteva svolgere quel ruolo egemonico su scala nazionale che
solo avrebbe salvato la monarchia sabauda da un fatale declino. Un argomento
che l'autore adduceva a convalida delle proprie tesi, e che, diversamente dal
Primato, implicava l'attribuzione al REGNO SARDO di un ruolo anche morale (pur
rimanendo una futura "Roma laicale e civile il principio ideale della
risurrezione italica"), era la politica ecclesiastica inaugurata dalle
leggi Siccardi: un passo verso la "separazione assoluta tra le due
giurisdizioni", la temporale e la spirituale, costituente "la prima
base della libertà religiosa, che tanto è cara ai popoli civili", cornice
necessaria alla formazione di un clero "liberale e sapiente", capace
di purgare la religione "dagli errori e dagli abusi che la
guastano". Ma il Rinnovamento era pure un discorso di scienza
civile, secondo la definizione giobertiana, intessuto di riferimenti a MACHIAVELLI,
ma condotto sulla base dei "bisogni principali dell'età nostra, il
predominio della filosofia, l'autonomia delle nazioni e il riscatto della
plebe": a soddisfare i quali il G. poneva come condizioni l'esistenza di
governi liberi, la costituzione di Stati a misura nazionale, il funzionamento
di ordini civili atti a promuovere l'innalzamento della plebe a popolo. Per
tale aspetto una funzione determinante veniva attribuita, da un lato,
all'"ingegno", cioè alle élites intellettuali, chiamate a imprimere
unità e coesione alla "sciolta moltitudine", e a impedire che sotto
il simulacro della democrazia trionfasse invece la demagogia dei numeri e delle
masse; dall'altro lato, alle riforme economiche, "unico riparo al
comunismo politico", se volte a ripartire e a regolare le ricchezze (anche
con l'imposta progressiva) e non a inaridire le sue fonti. Il Rinnovamento,
percorso tra l'altro da fremiti antiborghesi, rifletteva una visione del
movimento nazionale quale luogo d'incontro e d'interazione tra le
"aristocrazie dell'ingegno", tratte dal popolo e da questo
riconosciute, e le plebi anelanti al proprio riscatto sociale, garantite da una
monarchia non solo costituzionale, ma anche schiettamente popolare. Nel
pubblicare il Rinnovamento il G. era convinto che l'opera sarebbe incorsa
nell'interdetto della Chiesa; quando apprese che il S. Uffizio, con decreto
aveva condannato tutte le sue opere, in qualunque lingua pubblicate, si consolò
col rilevare che, "involgendo nella proscrizione anche quegli scritti che
furono conosciuti da tutti per irreprensibili", si erano meglio
manifestati il puntiglio di Pio IX e la vendetta dei gesuiti. I pesanti
giudizi su figure eminenti della classe politica subalpina di cui il
Rinnovamentoera cosparso, provocarono una tempesta di polemiche, cui il G.
rispose con due opuscoli del 1852, il primo dei quali conteneva una risposta
(che non cambiava, ma semmai aggravava la sostanza di quei giudizi) alle
risentite reazioni di Rattazzi, diGualterio e del generale G. Dabormida; il
secondo intitolato Ultima replica ai municipali, aveva soprattutto di mira il
Pinelli e C. Bon Compagni, schieratosi a difesa del vecchio amico del G. e
ormai divenuto uno dei suoi bersagli preferiti, il quale si era ammalato
gravemente nel bel mezzo della diatriba. La morte del Pinelli, sopravvenuta
quando già l'opuscolo era stampato, creò grande imbarazzo al G., che stese a
tamburo battente un Preambolo in cui rendeva giustizia sul piano personale alla
figura del defunto, decidendo in seguito, dopo vari tentennamenti, di far
distruggere le oltre 1200 copie già stampate dell'Ultima replica - di cui restò
un solo esemplare - e di mettere in circolazione esclusivamente il Preambolo
(Parigi e Torino 1852). Fu l'ultima opera edita lui vivente. In assoluta
solitudine G. morì infatti improvvisamente, nel suo modesto appartamento di
Parigi. Tra le sue carte rimase una mole imponente di frammenti manoscritti e
di opere incompiute e inedite, costituenti nel loro insieme una specie di
continente sommerso, non meno rilevante, per la conoscenza del suo pensiero,
degli scritti da lui dati alle stampe. Questo materiale manoscritto fu in parte
pubblicato postumo, con scarso rigore, dal Massari che, nel quadro di
un'edizione delle opere inedite giobertiane, di cui uscirono a Torino 10
volumi, diede alle stampe nel 1856 i frammenti Della riforma cattolica della
Chiesa e la Filosofia della Rivelazione, seguiti nel 1857 dalla Protologia,
forse la maggior opera filosofica del G. maturo, che ne aveva incominciato la
stesura negli anni Quaranta. A cura di Solmi, furono editi, con criteri non
meno discutibili, i frammenti della Libertà cattolica e della Teorica della
mente umana, insieme con il dialogo Rosmini e i rosminiani. In seguito La
riforma cattolica e La libertà cattolica furono ripubblicate, in modo più
corretto, da G. Balsamo Crivelli nel 1924, e da G. Bonafede, insieme con la
Filosofia della Rivelazione, nel 1977 e, lo stesso anno, nell'edizione
nazionale delle opere, da C. Vasale. Appartenenti per la maggior parte alla
produzione che il G. aveva definito "acroamatica", le opere postume,
pur nel loro stato di incompiutezza, rivelano un G. che si confrontava in
maniera più diretta con la critica della religione sviluppata dalla cultura
primo-ottocentesca, anche nelle sue espressioni radicali. L'obiettivo di questi
lavori era la dimostrazione dell'adeguatezza del cattolicesimo, liberato dalle
sue deformazioni temporalistiche, autoritarie e "iper-mistiche", nel
rispondere ai bisogni intellettuali e morali dell'uomo moderno. A questo fine
il G. assumeva come fondamento del suo rinnovato discorso religioso-filosofico
la nozione cattolica di tradizione, facendone il criterio ermeneutico
dell'evoluzione storica delle forme religiose e dello sviluppo del
cristianesimo in senso secolare. Ne derivava un'interpretazione molto audace
per la sua epoca del rapporto tra libertà e autorità in materia religiosa e, in
generale, della dogmatica cattolica. Tali opere dimostrano che il pensiero
giobertiano in materia religiosa si era vieppiù spostato dall'asse della
riforma ecclesiastica o politica a quella della riforma religiosa. Ciò spiega
anche la riscoperta del G. in epoca modernistica; senza trascurare tuttavia che
una parte molto consistente della cultura dell'Ottocento e del Novecento si è
misurata con l'eredità giobertiana, dall'idealismo al federalismo (specialmente
meridionale), dal gentilianesimo al nazionalismo e quindi al fascismo, dal
popolarismo di L. Sturzo alla cultura democratico-cristiana. Fonti e
Bibl.: La principale raccolta di manoscritti giobertiani è quella giunta dopo
varie vicende in possesso della Bibl. civica di Torino, che li conserva in 55
voll., 54 dei quali rilegati nel 1912 in maniera alquanto arbitraria e
classificati in un indice sommario: si tratta di carte che il G. aveva con sé
al momento della morte, riguardanti i frammenti miscellanei giovanili, appunti
ed estratti di lavoro, e gli autografi delle opere più tardive, pubblicate
postume. Alla stessa biblioteca sono anche pervenute una parte della biblioteca
personale del G. (il cui principale nucleo fu peraltro venduto all'incanto dopo
la sua morte), poche decine di sue lettere autografe e circa 2500 lettere di
corrispondenti, il cui indice è stato pubblicato nel 1928 col titolo Le carte
giobertiane della Bibl. civica di Torino da G. Balsamo Crivelli, al quale
risale anche La fortuna postuma delle carte e dei manoscritti di V. G. ora
depositati nella Bibl. civica di Torino, in Il Risorgimento italiano, IX
(1916), pp. 665-694; cfr. anche P.A. Menzio, Cenni sulle carte e sui
manoscritti giobertiani, in Atti della R. Accad. delle scienze di Torino, LI
(1915-16), pp. 659-675. Manoscritti autografi riguardanti Il Rinnovamento sono
conservati nella Bibl. nazionale di Napoli e presso l'Istituto per la storia
del Risorgimento italiano di Roma, quasi integralmente pubblicati a cura di L.
Quattrocchi nel III volume (Inediti) del Rinnovamento, ed. nazionale, Roma
1969. L'Epistolario, a cura di G. Gentile - G. Balsamo Crivelli, I-XI,
Firenze 1927-37, è lungi dall'essere esaustivo; le lettere sono riprese, salvo
rari casi, da precedenti edizioni a stampa come: V. Gioberti, Ricordi biografici
e carteggio, a cura di G. Massari, I-III, Torino 1860-63; Il Piemonte nel
1850-51-52. Lettere di V. Gioberti e G. Pallavicino, a cura di B.E. Maineri,
Milano 1875; D. Berti, Di V. G. riformatore politico e ministro con sue lettere
inedite a P. Riberi e G. Baracco, Firenze 1881; Lettere inedite di V. Gioberti
e saggio di una bibliografia dell'epistolario, a cura di G. Gentile, Palermo
1910; Lettere di V. Gioberti a P.D. Pinelli, a cura di V. Cian, Torino 1913; G.
- Massari. Carteggio (1838-52), a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1920;
Carteggio Lambruschini - Gioberti, a cura di A. Gambaro, in Levana, III (1924),
pp. 277-409. Un numero cospicuo di lettere al G. fu pubblicato col titolo di
Carteggio di V. Gioberti, I-VI, Roma 1935-38, in un'edizione che comprende
lettere di P.D. Pinelli (a cura di V. Cian), di I. Petitti di Roreto (a cura di
A. Colombo), di G. Baracco (a cura di L. Madaro), di G. Bertinatti (a cura di
A. Colombo), di "illustri italiani" e di "illustri
stranieri", a cura di L. Madaro. L'Edizione nazionale delle opere edite e
inedite, avviata nel 1938 con la riedizione dei Prolegomeni del Primato, a cura
di E. Castelli e affidata nel tempo a tre editori diversi, è giunta al vol.
XXXVIII, con il secondo tomo dei Pensieri numerati, a cura di G. Bonafede,
Padova 1995: comprende ormai tutte le principali opere del G., pubblicate con
criteri non omogenei. Materiale giobertiano continua peraltro a venire alla
luce: per es., Appunti inediti di V. Gioberti su R. Cartesio. La storia della
filosofia, a cura di E. Bocca - G. Tognon, Firenze 1981. Le principali
bibliografie giobertiane sono quelle di A. Bruers, G., Roma 1924, che comprende
circa 1400 titoli, fino al 1923, e di G. Talamo, in Bibliografia dell'età del
Risorgimentoin onore di A.M. Ghisalberti, I, Roma 1971, pp. 168-172. Tra le
voci enciclopediche: G., V., di G. Saitta, in Enc. Italiana, XVII; di L.
Stefanini, in Enc. Cattolica, VI; di C. Mazzantini, in Enc. Filosofica, III; di
F. Traniello, in Dict. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XX. Per una sintesi
delle interpretazioni: G. Bonafede, G. e la critica, Palermo 1950. Tra le opere
più recenti: E. Passerin d'Entrèves, Ideologie del Risorgimento, in Storia
della letteratura italiana (Garzanti), VII, L'Ottocento, Milano 1969, pp.
333-364; A. Del Noce, Gentile e la poligonia giobertiana, in Giornale critico
della filosofia italiana, IL (1969), pp. 222-285; G. Derossi, La teorica
giobertiana del linguaggio come dono divino e il suo significato storico e
speculativo, Milano 1970; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista.
Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese
(1825-1870), Milano 1970, pp. 31-51 e passim; E. Pignoloni, G. e il pensiero
moderno, in Rivista rosminiana, LXIV (1970), Id., Le postume giobertiane nel
giudizio della critica, ibid., LXV (1971), pp. 167-186; G. Martina, Pio IX
(1846-1850), Roma 1974, pp. 64-70, 180-189 e passim; C. Vasale, L'ultimo G. fra
politica e filosofia. Appunti sulle origini ottocentesche dell'ideologia in
Italia, in Storia e politica, XV (1976), pp. 201-261; R. Romeo, Cavour e il suo
tempo, II, Roma-Bari 1977, pp. 238-245, 338-341, 362-368 e passim; A.
Galimberti, G., Gentile, Rosmini, in Giornale critico della filosofia italiana,
LVIII (1978), pp. 172-187; C. Vasale, Riforma e rivoluzione nel G. postumo, in
Storia e politica, XVIII (1979), pp. 395-441, 621-665; A. Rigobello, V. G., in
Christliche Philosophie im katholischen Denken des 19. und 20. Jahrhunderts, a
cura di E. Coreth, I, Graz-Wien-Köln 1987, pp. 619-642; S. La Salvia, Il moderatismo
in Italia, in Istituzioni e ideologie in Italia e in Germania tra le
rivoluzioni, a cura di U. Corsini - R. Lill, Bologna 1987, pp. 169-310; F.
Traniello, La polemica G. - Taparelli sull'idea di nazione e sul rapporto tra
religione e nazionalità, in Id., Da G. a Moro. Percorsi di una cultura
politica, Milano 1990, pp. 43-62; Id., Il cattolicesimo riformato di V. G., in
Storia illustrata di Torino, a cura di V. Castronovo, Milano 1992, IV, pp.
1101-1120; G.P. Romagnani, V. G., A. Chiodo, G. De Launay, M. d'Azeglio, Roma
1992; C. Vasale, Il significato del federalismo giobertiano nella storia
d'Italia, in Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del
Risorgimento, a cura di G. Pellegrino, Stresa-Milazzo 1994, pp. 215-245; L.
Pesce, Peyron e i suoi corrispondenti. Da un carteggio inedito, TrevisoG. Rumi,
G., Bologna 1999; G. Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione di G.
Milano. La sovrintelligenza. Concetto, METODO E DIVISIONE DELLA FILOSOFIA. Dommatismo.
COSTRUZIONE DEL PRIMO TERMINE DELLA FORMOLA. L'Ente. Definizione del Primo. Distinzione
del Primo psicologico e del Primo ontologico. Il Primo filosofico. Caratteristica
del Primo filosofico giobertiano. Polemica contro SERBATI. Il Primo è l'Ente reale.
Cosa sia la realtà. G. non arriva a dirlo chiaramente. Difetto e pregio del suo
concetto della reallà. Del concreto: unità del positivo e del negativo. Deduzione
della realtà dell'Ente dal CONCETTO dell'Ente. Dal giudizio, “L’Ente è” non si
deduce la realtà del. L'intuito. O ľEnte Si contradice all'ontologismo. LA
CONOSCENZA La riflessione psicologica. La riflessione ontologica. LA PAROLA.
COSTRUZIONE DELLA FORMOLA IDEALE. Si confonde la realtà col puro essere Personificazione dell'Ente. Abbozzo della vera
via di dedurre la realtà dell'Ente. Realtà o SUSSISTENZA = intelligibilità o idealità.
G, non adempie questa esigenza. Relazione tra Ente ed Esistente. Processo a priori
e a posteriori. Causa ed Effetto. Prova dell'intuito. Identità dei due ordini, ontologico
e psicologico. Verità dell'atto creativo. L'intuito come prova dell'atto
creativo. Dommatismo. G., Platone, Schelling ed Hegel. Prove indirette
dell'intuito. Lo spirito è produzione di sè stesso. Intuito dell'intuito. Falso
concetto della libertà e necessitàd el pen. Conseguenze della dottrina dell'intuito.
Ontologismo e Psicologismo. Mancanza didialettica. L'intuito come conoscenza
dell'atto creativo. L'intuito immediato è la conoscenza empirica. Confusione
del primo pensabile edel primo conoscibile. Falso concetto del pensiero speculativo.
Duplice ordine psicologico: intuitivo e riflessivo. COSTRUZIONE DEL SECONDO E
TERMINE DELLA FORMOLA. G. e Rosmini. Insussistenza delle ragioni recate da G.
per difendere il primo ordine come condizione del secondo. Il concetto
dell'infinito condizione del concelto del finito. Concetto dell'Ente condizione
del concetto dell'esistente. La relazione ei suoi termini. L'ordine intuitivo
come cognizione non è che la scienza. Instanza di G.: concetto del Necessario e
del contingente. L'intuito dell'atto creativo è lo stesso processo a posteriori.
Il Noo. L'INTUITO SPECULATIVO O IL PENSIERO PURO. Prima prova dello Spinozismo giobertiano.
Identità e differenza tra Spinoza e G.. L'INTELLIGIBILITA'. Identità di creazione
e illustrazione. La vera imma. LA FORMOLA. Seconda prova. L’intuito. Contenuto dell'atto
creativo. Dio-Quantità. Caratteri dello Spinozismo: loro contradizione. Concetto
generale della differenza tra Spinoza e Gioberti. Anticipazione del concetto di
Dio come relazione assoluta. Confradizione. Doppio concetto dell'esistente e di
Dio. Dio Quantità. Lo spirito: contradizione. La vera dificoltà. Soluzione: Dio come SVILUPPO.
Prima di Kant e dopo Kant. nenza. Difetto dello Spinozismo. Doppia
intelligibilità delle cose. Difficoltà contro la immanenza nel sensibile. Paragone
della cognizione colla visione. Meccanismo nello spirito. Concetto dello
spirito del conoscere. Kant; l'empirismo. prova. siero. Confusione dell'lilea. Falso
Spinozismo. Dio semplice sostanza, non causa. Vero Spinozismo. Dio sostanza
causa e della rappresentazione. Relazione del pensiero puro coll'esperienza. Il
Noo passivo è il senso. L'Innatismo. IDELAE. SPINOZISMO. Forma dell'atto creativo:
meccanismo. DIFFERENZA TRA G. E SPINOZA. Intelligibile assoluto. Intelligibile
relativo. Fondamento della soluzione del problema G. riunisce i due difetti. Risposta
alla difficoltà precedente, e vero concetto dell'intelligibile relativo. COGNIZIONE
DELLA REALTÀ DE CORPI, E ORIGINE DELLE IDEE, COME PROVE INDIRETTE DELLA
FORMOLA. PASSAGGIO AL MISTICISMO. COGNIZIONE DELLA REALTA' DE' CORPI.Gioberti
non ammette la prova, ma l'inluito della realtà dei corpi. Ragioni del realismo.
Necessità di un principio superiore: cos'è. Galluppi: criticato da G. Certezza
e verità. Fede e Scienza. Certezza e vedenza metafisica, efisica. Critica. Origine delle idee. precedenti, especialmente
di Rosmini. La generazio La dipendenza logica. Distinzione del Sovrintelligibile
e dell'Intelligibile. Significato e conseguenza di questa distinzione. Ragionee
So Idealismo e Realismo (imperfetti): idealismo assoluto; certezza ed evidenza.
Ragioni dell'idealismo; e suo difetto. SERBATI. Significato generale della questione.
Critica de’ filosofi. Distinzione de’ concetti in assoluti e relativi. Rità del
mondo. Dottrina propria di G. sulla cognizione de'corpi; e certezza ed evidenza
di questa cognizione. Significato e difficoltà del problema. Soluzione: l'Individuazione
(creazione: creare è individuare). G. pone bene il problema, ma non lo risolve.
Anzi fa impossibile ogni soluzione. Inconoscibilità dell'atto creativo nella
sua essenza. Perplessità di G. Critica. Certezza della cognizione de’ corpi. Distinzione
della certezza in fisica e metafisica. L'EVIDENZA come fondamento della CERTEZZA
in generale. Evi ne ideale. Analisi e sintesi. La produzione ideale
giobertiana: attività sintetica originaria. Critica di questa dottrina
vra ragione. Ente ed Essenza. Dipendenza logica e generazione. Contradizioni.
Doppio sovrintelligibile: Unità delle determinazioni razionali, e Trinità
divina. L'ldea come pura ragione o unità delle determinazioni razionali.
Moltiplicilà astratta e unità astratta. Pura sintesi o dipendenza logica, e
pura analisi. Vera unità: unità della sintesi e dell'analisi; la moltiplicità come
momento dell'unità;unità- processo assoluto. La relazione del concetto relativo
coll'Ente. Creazione. Due ipotesi: generazione, e creazione. Risultato. Assurdità
dell'atto creativo come punto di passaggio tra l'Ente e l'esistente. La
creazione è l'autogenesi dello spirito. La creazione è in sè generazione.
Conseguenze di questa dottrina. Risultato generale deila dottrina di G. sulla
produzione ideale. Passaggio al Misticismo. ELENCO di saggi di G. possedute
dalla Biblioteca di Torino. De Deo et naturali religione, de antiquo foedere,
etc. Taurini, Bianco. Teorica del sovrannaturale. Torino, Ferrerò e Franco. Accresciuta
d’un discorso preliminare e inedito intorno alle calunnie di un nuovo critico.
Capolago, Elvetica. Degl’errori filosofici di SERBATI. Capolago, Elvetica. Del primato morale e civile degl’Italiani.
Brusselle, Meline. Elenco favorito con gentile premura al Comitato Editore dal
Prefetto della Biblioteca. Carta. Capolago, Elvetica, Prolegomeni del
primato morale e civile degli Italiani. Brusselle, Meline; Introduzione allo studio
della filosofia. Brusselle, Hayez. Considerazioni sopra le dottrine religiose
di Cousin. Brusselle, Meline. Il Gesuita moderno. Losanna, Bonamici, Torino,
Fontana, Capolago, Elvetica, Apologia del saggio intitolato « Il Gesuita
moderno », con alcune considerazioni intorno al risorgimento italiano, Paris, Renouard.
Del Buono, Capolago, Elvetica. Del Bello. Firenze, Bucci; Allocuzione di un
filosofo a Pio IX. Torino; Discorso pronunziato nell’adunanza generale per
l’apertura del Congresso nazionale federativo nel Teatro Nazionale. Torino, G. Pombae;
I due programmi del Ministero Sostegno. Torino, Fontana; Anti-Primato papale e
l’automatismo romano distrutto dal Vangeloe dai Santi Padri, Torino. Lettre sur
les doctrines philosophiques et Politiques de Lamennais. Capolago, Elvetica. Del
rinnovamento civile d’Italia, Paris, Crapelet; Operette politiche, Documenti
della guerra santa d’Italia, Capolago, Elvetica; Preambolo dell’ultima replica
ai Municipali. Parigi, Martinet; Risposta a Rattazzi. Sopra alcune avvertenze
di Gualterio. Al Generale Dabormida. Torino, Ferrerò e Franco; Della filosofia
e della rivelazione, pubblicata per cura di Massari. Torino, Botta; Pensieri e
giudizi sulla filosofia italiana, raccolti ed ordinati da Ugolini. Firenze,
Barbèra; Della protologia, Massari. Torino, Botta; Profezie politiche intorno
agli odierni avvenimenti d'Italia. Torino; Pensieri, Miscellanee. Torino, Botta;
Ricordi biografici e carteggio, raccolti per cura di Massari. Torino, Botta; Studi
filologici desunti da manoscritti di lui autografi ed mediti fatti di pubblica
ragione per cura di Fissore, Torino,Tip. Torinese; Una lettera a ROVERE,
pubblicata da Giovanni, Roma, Tip.delle Terme, di a. Balbi; Lettera sugli
errori politico-religiosi di Lamennais. G e Bruno. Due lettere inedite,
pubblicate da Molineri.Torino, L.Kourt; G.e Pallavicino. Lettere per cura di
Maineri, Piemonte, Milano, Rechiedei; METAFISICA ONTOLOGIA Dell'Ente come
concreto e reale. Dell'Ente, come astratto ed ideale, Dell'atto creativo. TEOLOGIA RAZIONALE
velazione e della Civiltà colla Reli . Primo Storico Del tempo e dello spazio.
Delle convenienze della ragione colla R i COSMOLOGIA LOGICA fato, della fortuna
e del destino, dell'accidente e della necessità. Della sovrintelligenza e del
desiderio Della definizione e della
divisione. Del metodo. gressisti. Della volontà umana. Delle facoltà dello spirito
umano. Del raziocinio e delle sue forme esteriori. Dell'arte critica. Ciclo
generativo e Cosmogonico Della forza cosmica.. DELLA PROPRIETA DELLE PAROLE. Delle
proprietà dell'uomo . Dei giudiziie delle proposizioni. Prima di esporre la filosofia acroamatica si
compie il ritratto della vita dell'autore. G. si ritira nella vitaprivata- come
ei parla disè stesso cerca di rompere ogni legame non pure col Governo, ma cogl
iuomini come sostiene la vita – la povertà di lui dà occasione ad un atto generoso
di SERBATI — per tenersi pronto a stampare alcuna opera utile all'Italia non
vuole dettare un Discorso su ALFIERI – quali erano i casi improvisi che poteano
indurlo a stampare — perchè opina più probabile che la repubblica francese non
cadesse — concetto che egli ha di Luigi Napoleone -- in che fu fal laceilsuo
giudizio sulla Francia— nella metà del51 pone inlucc il Rinnovamenlo – intento
di questo saggio : sua convenienza e differenza col Primato– censura tutti e tutto
coll'intendimento che fa e cia pro nell'avvenire - - -rottura col Pinelli e coi
municipali - pole micaconesi— morte del Pinelli—si bruciano le copie del'opuscolo
Ultima replica ai municipali— l'autore lascia la politica e ri volge il suo
animo tutto al le opere nuove da pubblicare — forse la troppatensione di mente gli
nocque- morte improvisa e dolore universale— quanto danno fu alla scienza e alla
religione– vocazione di Gioberti no nmancata per la morte intempestiva— le opere
postume– quando furono scritte prima o dopo il 48?- il concetto e il titolo di esse furon
suggerito dalle circostanze o ne sono indipendenti? Tutto ciò che ora è stampato
appartenev a ad esse secondo l'intendimento dell'autore? -quale fu quest
intendimento? - gli scritti postumi sono solo l'apparecchio e imateriali delle
opere che voleva dare ala luce- il disegno però v'apparisce: qual 'è desso?-
ragioni che rendono difficile a cogliere la connessione e la verita della
dottrina contenuta nei detti scritti---apparente antinomia di cssa dottrina
-come ho proceduto io per afferrarne l'unità e la germana intenzione in qual formamison
risoluto di esporla- fu bene che il Massari curasse la pubblicazione di essiscritti–
potevano però esser emeglio ordinati da riuscire piùi ntelligibili–LA DOTTRINA
DI G. E PIU DIFFICILE DI QUELLA DI HEGEL. La filosofia ACROAMATICA non è
contraddittoria all'essoterica, ma solo tanto diversa - nesso tra l'una e
l'altra — differenze della cognizione diretta o spontanea di SERBATI e COUSIN dal
pensiero immanente di G. Doppio stato del pensiero umano caratteri dello stato riflessivo
e dello stato immanente– l'intuito dell'ente differisce da quello
dell'esistente — in che consiste la strellezza speciale dell'ente intelligibile
col pensiero immanente -come l'attività dello spirito coesiste coll'Ente senza
che questo sia subbiettivato condizioni proprie dello stato immanente - si
rimuove una obbiezione dell'attività umana suo doppio stato e differenze dell'uno
stato dal l'altro- - della personalità — la penetrazione del pensiero nello stato
immanente è diversa dalla compenetrazione dello stato successivo triplice
proprietà del pensiero immanente analoga a tre momenti dell'ente- lo spirito sebbene
una persona nel pensiero immanente non subbicttivizza la cognizione - l'ordine
psicologico è proprio della riflessione: suo fondamento ontologico– anche proprio
della riflessione è l'ordine cronologico - che fa il tempo -- onde nasce il
ripiegamento della intuizione sovra se stessa— falso modo d'intendere la visione
ideale che è la vita anteriore descritta da Platone nel Fe d r o - difficoltà
di cogliere il pensiero immanente -la distinzione ben nella della intuizione dalla
riflessione corregge la dottrina platonica - obiezione di Grote - come vi si
risponde - - dei giudizii – doppio giudizio obiettivo- lo spirito esce dallo stato
immanente coll'affermare egli l'Ente- come si afferra il pensicro immanente-
del modo come possediamo le idee - le quali nascono per via di disgregazione,
non di generazione— dei giudizii analitici e sintetici- si chiarisce un dubbio-del
raziocinio della filosofia: sua definizione—FILOSOFIA PRIMA -- Qual'è – cf. H.
P. GRICE, “FIRST PHILOSOPHY” -- ;sua distinzione dall'ontologia -obiezione
contro la Protologia: risposta -della circuminsessione dei veri: sua radice
-criterio del vero - onde nasce l'evidenza e la certezza scientifica — che è un
siste m a scientifico - in che senso i principii dipendono e sono illustrati
dalle conseguenze — le une non sono affatto eguali in valore agli altri-- dell'ipotesi,
de i postulati, ed egli assiomi- se i principii sono astratti, onde si trae la
concretezza, senza di che la scienza non avrebbe valore?- Il Primo della scienza
è la Formola ideale -- come si prova che è il Primo - mutua collegazione e
dipendenza delle verità secondarie e primato relativo della formola -- l'unità
scientifica deve salire e fondamentarsi nell'unità ideale trasparente
all'intuito - il processo non fa la scienza perfetta - questa risulta dalla
intima unione della cognizione riflessiva colla intuitiva -- dell'Ultimo della
scienza – LA PAROLA è IL PASSAGIO DAL PENSIERO IMMANENTE AL SUCCESSIVO -- onde
si cava LA NECESSITA DELLA PAROLA PER L’USO DEL PENSIERO RIFLESSO – ORIGINE DEL
LINGUAGGIO. Tre opinioni - - -sentenza dell'aulo re- come può dirsi che il segno
del *linguaggio* è unito al'Idea unità della dottrina di G. su questa materia .
DOTTRINA DELL'ENTE Come l'unità e semplicità di Dio si accorda colla
moltiplicità degl’attributi - dell'unione dei contraddittorii in Dio - -
trasformazione dialettica dei divini attributi— Hegel contuttii panteisti confonde
il processo psicologico col'ontologico-l'antropomorfismo é opera del
l'imaginazionenon della ragione della futurizione divina -Iddio è insieme
sovrintelligibile e intelligibile- negatività di Dio- come conosciamo l'Assoluto?
Dio è personale: obiezioni, risposte— Dio produttività infinita-la potenzialità
e l'attualità sono diverse in Dio e nelle creature- Dio è libero e necessario-
è buono- l'esistenza di Dio è verità intuitiva pel pensiero immanente,
dimostrativa pel DOTTRINA DELLA CREAZIONE L'idea di creazione porta seco per
due rispetti l'idea di nulla—delcan successivo- la prova dimostrativa migliore traggesi
dalla nozione dell'infinito- processo protologico ed esplicativo delle attribuzioni
dell'Ente - attribuzioni esterne ed interne- doppia eptate - dell'infinito; onden'abbiamo
l'idea- è determinato; ma s'intendenon si comprende della presunzione divina
dell'infinito potenziale nel suo atto — antinomie rislessive: i panteisti
frantendono l'idea dell'infinito - assurdità dell'infinito nunerico -
distinzione dell'infinito possibile o potenziale dall'attuale - due infiniti:
il relativo e l'assoluto dell'infinito aritmetico monadico. giamento- l'atlo creativo
è uno in sè anche nell'estrinseco é perfetto- puossi considerare per tre rispetti
come infinito– l'infinità potenziale del finito suppone il possesso attuale, benchè
finito, del l'infinità attuale- in che consiste siffatto possesso— l'atto creativo
interviene in tutto — è causa che l'unità dell'Idea si sparpaglia in molte idee
– i generi sono vari- la varietà specifica delle cose deriva dalla maggiore o
minore intensità dell'atto creativo
zione è divisione e moltiplicazione- rispetto all'esistente l'attocreativo
è sintetico e analitico - differenza della causalità finita dall'in finita- che
è IL CRONOTOPO – (STRAWSON, INDIVIDUALS, chrono-topoical continunity -- sua unità-
come dall'unità dell'istante e del punto si biforca il tempo e lo spazio—
l'intervallo è uno- genesi del cronotopo – doppio valore delpunto e dell'istante-
dell'in ternità e dell'esternità- l'unità del continuo si rappresenta in ordine
lo spazio e il tempo hanno un centro al discreto sotto tre aspetti — del
passato, sintesi del continuo e del discreto nei modi del tempo -- del presente
e del futuro- l'eternità non cresce — doppio continuo, attuale e potenziale
-infinitazione del cronotopo- in che senso il mondo è eterno - ogni epoca e
stato mondiale è una palingenesi a verso il passato , e una creazione verso l’avvenire
- il cronotopo e l'universo infiniti sono reali come intelligibili– l'indivisibilità del cronotopo dal pensiero
colto dal Kant- del pensiero divino e umano-- interio la crea
DOTTRINA DELL'ESISTENTE debbon si dire sull'esistente- questo somiglia all'ente
pereffetto della creazione- in che consiste l'impronta dell'ente che porta in sè
l'esistente diverso senso dato dall'autore alle voci METESSI (PARTICIPAZIONE) e
mimesi quale è il senso che in quest'opera si dà alla prima -- distinzione
della potenzae dell'atto- metessi O PARTICIPAZIONE potenziale,intermedia,eattuale
l a mimesi - essenziale alle forze create è il concreare e il generare : prove-
carattere del primo momento dello sviluppo dinamico – due Difficoltà di esporre la materia- nesso delle
cose dette con quelle che ritàe esteriorità del pensiero umano irrazionalità del
vero nella sua concretezza - come il pensiero umano conosce il continuo -
l'immanenza dell'eterno dato ci dal pensiero— l'estensione e la DURATA
esprimono i limiti dell'esistente — Dialettica; il diverso, la dualità, la moltiplicità
appartengono all'essenza della creazione- in che versa la dialettica e onde trae
il nome due dialettiche: reale e ideale che forma il moto o vita dialettica- la
dialettica consta di due momenti, sebbene sembra che consti di tre- gli eterogenei,
cioè i diversi ed opposti ,non sono contraddittorii--- differenza della
eterogeneità dalla contraddizione –secondo un certo rispetto l'eterogeneità è in
Dio- l'opposizione riguarda il negativo delle cose- il contrapposto è diverso dall'opposizione-
gli eterogenei importano gli omogenei e viceversa- che è il terzo armonico o dialettico
come mai il conflitto dialettico pruduce l'armonia — nell'unione dell'omogeneo
ed eterogeneo quale prevale— ciò che è l'opposto in natura è l'antinomia nella scienza–
della antinomia reale e dell'apparente– della guerra- la polemica è la guerra nell'ordine
delpensiero- dello scetticismo - lo scetticismo obbiettivo non è sofistico -che
sono l'errore e la colpa - due periodi distinti della storia della filosofia -
- -divisione e riunione è ilprocesso universale e dialettico- diversità di processo
della dialettica dell'Ente e di quella dell'esistente della SCHEMATOLOGIA -- della
sofistica - il moltiplice e il conflitto son ridotto ad unità ed armonia mediante
la mediazione dell'infinito. cicli della virtù concreativa delle esistenze
realtà d'una intelligibilità relativa- il sensibile è la fuga dell'intelligibile
relativo da sèstesso, la sua moltiplicazione, diversificazione e rottura- prove
causa per cuil'intelligibile creato si manifesta come solo sensibile negli ordini
del tempo differenza della nostra dottrina da quella dei sensisti — nozioni che
racchiude l'idea del sensibile- la successiva distruzione e rinnovazione delle
forme sensibili è il nisus di esso a diventare intelligibili- il sensibile consiste
essenzialmente nella relazione tra l'uomo intelligente e la natura
intelligibile - del sensibile interno ed esterno - se il sensibile può o no
conoscersi- si chiarisce il significato della parola “sensibile” -- il sensibile schietto non si può pensare-
prova che la sensazione non è la cognizione- qual'è l'oggetto della cognizione
del sensibile - come si risolve l’antinomia apparente di trovare inescogitabile
il sensibile e pure poterlo pensare la dottrina nostra è la sintesi delle
diverse dottrine precedenti Galluppi, Rosmini, Platone- nella dottrina di G. non
bisogna confondere l'intelligibile assoluto, l'intelligibile relativo e il sensibile-
la teorica dell'intelligibile relativo non annienta il sovrintelligibile — si vien
divisando più particolarmente la mimesi—mimesi prevalente-esteriorità, apparenza,
fenomeno, conflitto, passaggio, metamorfosi -la gerarchia mimetica degli enti consiste
nella varietà dei gradi conativi-si notano i principali dellaluce- la maggiore
intelligibilità nella natura corporea si manifesta mediante la finalità ,
dell'uomo; il corpo, chi lo forma —del sonno e dei sogni—l'istinto l'anima e il
corpo in parte diversi , in parte uni - doppio stato della vita; latente e manifesta—
due vite dell'uomo- delle passioni: la gloria, la malinconia, LA NOIA – facoltà
dell'animo: il senso, l'imaginazione, la memoria, la ragione— le scoperte e i trovati appartengono allo
sviluppo metessico del Cosmo -- che cosa è la scienza- lo spirito creato è
l'anima del mondo, lo spirito umano è l'anima della lerra- gl'intelligibili intelligenti
relativi non sono già dello steso genere due specie di mentalità -che è il pensiero-
in che si fonda l'identità del mondo- metessi prevalente: sua definizione- doppia
unità , la divina dell'atto creativo, e l'unità metessica e concreativa della relazione;
essa sovrasta a i termini che la costituiscono - due relazioni--natura speciale
della relazione che corre tra l'Ente e l'esi Del progresso: che n'è il
tipo e il principio – il progresso considerato stente— l'azione finita è
reciproca, quindi inseparabile dalla passione: l'unità loro è la relazione, la relazione
infinita è una m la relazione è il verace assoluto che rappresenta la relazione
essa è l'appicco del finito coll'infinito - riscontro del vero col mondo - le
relazioni sono nelle cose, e non solo nello spirito nostro, e nella mente
divina -- falsità della dottrina di Hegel che pone l'assoluto e il concreto
nelle sole relazioni - la specie non è un'astrattezza la specie non è l'idea
specifica- metessicamente non si distingue il tutto dalle parti- come
raffigurarci la concretezza della potenza – delle contagioni morali e materiali-
l'armonia della mimesi erumpe sempre e risiede sostanzialmente nella metessi iniziale
diversità della metessi mimetica dalla finale -dell'implicazione e
dell'internità delle cose- qual'è il progress ometessico- v'è una permanenza
metessica di ciò che passa mimeticamente- Idea, metessie mimesi – il passaggio della
mimesi è creazione e annientamente- accordo di due opinioni opposte- tre condizioni
mondiali— vanità delle cose umane in quanto passano e si annullano- della dottrina
di Protagora- scienza mimetica e metessica—Come mai il reale può rassomigliarsi
all'ideale?- Come mai il finito, il relativo e contingente può rassomigliare il
necessario, l'assoluto l'infinito? Come mai le cose materiali possono
rassomigliare il pensiero? in riguardo alla metessi iniziale, alla mimesi, e
alla metessi linale la mimesi è progressiva nei particolari, solo regressiva nel
generale- il regresso è legge del progresso– l'andamento cosmico si alterna di
progressi e di regressi— la vita è la sintesi e il dialettismo del progresso e
del regresso ma conferma di ciò si trova nell'esame dell'uomo, della religione,
dell'arte e della scienza - il progresso quando è passato diventa regresso -
accordo dei progressisti e dei regressisti- della periodicità– è circolare e regressiva di sua natura— ha luogo nelle parti dell'universo, non nel
tutto - la forza rallentatrice necessaria alla società come alla natura se il progresso
sia reale o apparente --- la periodicità perfetta è sola apparente - corso
migliorativo di tutto l'universo- il progresso nasce dall'intreccio del tempo collo
spazio- Individuo (cf. P. F. STRAAWSON, INDIVIDUAL) e genere—processo estrinseco
dell'atto creativo- l'evoluzione è nelle idee, nella metessi, non già
nell'Idea— che cosa è la generazione- essenziale
alla generazione è l'idea di specie, la quale non è astratta soltanto- la
generazione è l'estrinsecazione più viva della metessi specifica delle cose, e appartiene
alla mimesi – della SESSUALITA—dov'è il principio generativo se nello SPERMA o
nell'uovo- della donna e dell'uomo - la sessualità riscontrata colla dialettica
della femminilità e della VIRILITA –del conjugio — dell'individuo compiuto e in
che consiste la sua essenza e valore -- l'individuo e l'Idea sono nell'ordine
attuale i due estremi della realtà— influenza del pensiero negli effetti della generazione
la generazione e la nutrizione sono le principali azioni tanto del corpo quanto
dello spirito— altre consonanze tra il corpo e l'anima - del psicologismo e
dell'ontologismo - come ci può essere concretamente insegnata l'attinenza del
genere coll'individuo -due classi d'individui- - se l'individuo è sparito
dinanzi alle masse - che cosa è la plebe- relazione dell'ingegno colla moltitudine
-come può affermarsi che nell'ingegno v’abbia qualcosa del divino - Dell'amore,
dov'è il suo tipo, e quale n'èl'essenza - l'a more assoluto e infinito è
l'identità --ch'è l'amore rispetto all'esistente nello stato mimetico
dell'amore attivoe del passivo- del puro e corrollo cagione dello scisma tra
l'amor del cuore e quello dei sensi — che è l'ideale dell'amore – del maritaggio-
del divorzio– l'amore corro tra i dissimili armonici- universalità dell'amore—parentela
dell'amore col Bello e col Buono—del Belo—origine del male- due morale,
particolare e universale – ottimismo relativo non assoluto - il mal morale è
impossibile nell'etica divina e universale - l'antinomia apparente della natura
seco stessa si risolve mediante la necessità de gli ordini --contraddizione
della natura nello stato presente --dell'infelicità umana—scopo della vita terrestre--
della virtùe della libertà umana— l'uomo è potenzialmente onni specie, può salire
escendere nella gerarchia cosmica - la giustizia cosmica procede per ragione
geometrica - dell'abito- è verso l'anima ciò che l'accrescimento e la nutrizione verso il corpo - la virtù è
sforzo , è la trasformazione della mimesi inmetessi -ed il sagrifizio dell'individuo
alla specie- La Società ha un fondamento
metessico e ideale e logico- la polizia è una metessi iniziale - la polizia
dell'uomo comincia coi primi principii della sua vita— individualità e polizia
principiano e crescono di conserva—unità dinamiche della nostra specie–
divisione del genere umano in generiche e specifiche – della nazionalità naturale
e artificiale- la misura dell'ampliazione dell'unità è il termometro della
civiltà- doppia unificazione dei popoli --autorità morale— il potere sovrano è fontalmente l'Idea—
formazione primordiale della società- unità progressiva dei vari ceti dellas ocietà—
della plebe e del l'ingegno - intento della riforma politica moderna - nel
mondo tutto è ordinato allo svolgimento del pensiero— ciò che accade ora in Europa
è in certa guisa una ripetizione di ciò che accadde in Grecia della demagogia: dominio
della Russia — unità sovrannazionale- unità intermedia tra la sovrannazionale e
la nazionale- l'egemonia moderna dove risiede -del Primato, assoluto e relativo-
alcuni titoli del primato italiano- il Cielo che rappresenta alla mente umana -
della causa e dell'effetto negli ordini finiti- attinenza della terra col cielo
- i vari mondi fanno un solo universo - il mondo non è solo un aggregato, ma un
aggregante - da che è prodotto l'individualità nei corpi- gerarchia degli esseri—della
NUIDITA -il principio e il fine si somigliano e differiscono - della materia in
astratto e in concreto – la potenza generativa essenziale a ogni forza creata-
della preesistenza dei germi—della legge centripeta inorganogenia- il centrfugismo
non è la stessa cosa dell'ipotesi della preesistenza dei germi —la forza primitiva
quando erumpe nell'atto comincia colla dualità o colla moltiplicità?- gradi della
forza creata universalmente- dei cinque gran regni della natura - della
mutazione delle specie- sunto della dottrina dell'autore- due leggi dell'esistente:
legge di eterogeneità, e legge di omogeneità— della polarità– infinito numerico
solo possibile nello stato di metessi - due soluzioni di esso - infinito
aritmetico monadico - l'infinito è il sovrannaturale- due errori sul mondo dell'ottimismo—
infinità potenziale della creatura -delf u infinito e del sarà infinito.
CICLO CREATIVO Palingenesia Del secondo ciclo creativo; ritorno del'esistente
al l'ente – è solo per approssimazione -- la creazione non ebbe prima, perchè
fu un Pri il secondo ciclo creativo è umano e divino- come il principio e il
fine sono finiti e infiniti -- che cosa è specificatamente la palingenesia-- come
siam certi che esiste– la palingenesia èo bietiva e subiettiva, cosmica e individuale—
del progresso relativo e del progresso assoluto delle cose come si dee intendere
che lo stato palingenesiaco sia mentalità pura— della morte– dell'immortalità-- l'esistenza e inamissibile-
la morteè un salto e grado secondo che si
guarda il discreto o il continuo — futurità particolare del l'anima— la
palingenesia consiste nell'acquistare la coscienza che non si ha- è il colmo della
coscienza– due presunzioni dell’infinito potenziale– del libero arbitrio- il processo
palingenesiaco è un processo generativo- due metamorfosi: mondane e oltramondane–
obiezione contro la realtà della palingenesia: risposta– ignoriamo l'avvenire–
ha anche una base nell'esperienza—nella palingenesia l'internità sarà esternata-
di varioe rassomiglianza tra la cosmogonia e la palingenesia- in che senso la negazione
dell'immortalità umana è vera - unità dello stato palingenesiaco –
comunicazione dell'intelligenza e dell'amore coll'infinito della felicità e
beatitudine assoluta- l'uomo nella palingenesia opera- idea del progresso palingenesiaco–
lar ivelazione palingenesiaca non escluderà ogni elemento misterioso. RELAZIONE
DELLA PROTOLOGIA COLLA RIVELAZIONE. G. prima cerca verificare psicologicamente
l'idea di mistero poi si propose dimostrarla ontologicamente infine porgerne una
prova universalee protologica- la metessi è il sovrannaturale- unione
dialettica del naturale e sovrannaturale nell'atto creatico – il sovrannaturale
è universale; è nel principio nel mezzo e nel fiue- la natura senza la
sovrannatura è in contraddizione seco stessa- la dottrina del nostro autore
toglie l'opposizione tra il naturalismo e il sovrannaturalismo esagerati- il sovrannaturale
dell'ordine attuale è la metessi anticipata nel seno della mimesi -nel
sovrannaturale e nel sovrintelligibile v'ha un elemento naturale e intelligibile~-
due specie di sovrannaturale— differenza tra ilsovrannaturale e l'oltrenaturale
–idea della religione- religione perfetta è la rivelata— la rivelazione è
l'apice della cognizione- necessaria ad accordare la riflessione coll'intuito
due rivelazioni- la rivelazione immanente è virtuale— la potenza primitiva
delle due rivelazioni è l'intuito- la rivelazione sovrannaturale spiega le
potenze dell'intuito rimase infeconde per manco di parola acconcia- la rivelazione
esteriore diviene interiore- tre conseguenze importanti- intento di G.- nel suo
sistema la ragione e la fede entrano l'una nell'altra – l'idea del l'infinito è
il vincolo tra il sovrintelligibile e l'intelligibile- essenza del mistero: misteri
teologici, antropologici, e teoantropologici- i misteri rivelati non sono effetto,
ma principio di ragione- esempi della fecondità razionale dei misteri rivelati-
il mistero pertiene alla ragione e la
supera ad un tempo — tre membri della formola, tre essenze, tre misteri- vera dottrina
di G.- nella vita terrena il sovrintelligibile non diventa mai intelligibile-
il vero sovrintelligibile non iscema- del miracolo: se si pensa, è possibile- che
cosa è il miracolo- ogni prodigio importa un fatto obbiettivo e un fatto
subbiettivo—il miracolo e la disposizione e attitudine a crederlo si
corrispondono nell'unità metessica- il fatto miracoloso non è nel cosmo, ma
nella palingenesia- i miracoli decrescono— la natura (mimesi ) e mito e simbolo
del sovrannaturale (metessi, palingenesia) il cristianesimo importa un nuovo
atto creativo, ciò come avviene? - perchè si tralasciano di esporre
partitamente i dogmi religiosi attinenze della rivelazione colla scienza, e
della religione colla filosofia Perchè
mi son risoluto a tessere questa conclusione-- il lettore non ricordando più le
cose lette negli altri volumi non avrebbe potuto giudicare quest'ultimo - m'è
piaciuto altresi di dare uno sguardo su tutto ciò da me pensato e scritto— occasione
dell'opera- carattere de la maggior parte degli’ Hegeliani—come è deltato il
saggio di SPAVENTAsulla filosofia di G.- le mie Considerazioni— sui aspramente ripreso-
soliloquio- nei primi volumi mostra iun po’ di risentimento - l'esposizione
della seconda parte si fa con modi dicevoli alla scienza- che cosa mi ha fatto perseverare
lungamente in questa opera, perchè l'idea di essa non si era prima incarnata
l'Italia alla stregua della filosofia dominante oltre alpi - perchè era noma la
terra dei morti— lotta interiore della filosofia di G. ragione del suo tardi
stampare — la lotta cessa: creazione d'una dottrina—la cui pellegrinità sta nel
nesso della religione collafilosofia -per quattro anni secostesso esamina la bontà
e v rità del sistema - tre stadi del suo processo intellettuale- le nazioni coesistono
insieme csigiovano scambievolmente- la nuova vita d'Italia necessaria al progresso
umano- ciò che hanno compiuto nel mondo i francesi e i tedeschi — difetto della
civiltà da essi pro dotta— scopo della rinascenza italica— carattere della vitai
taliana d’ALFIERI a G. nel quale ciòche era virtuale e astratto diviene concreto
e effettivo— chiude une poca e necomincia
un'al tra - medesimezza dell'idea individuale che costituisce l'eccellenza di G.
coll'idea sostanziale che costituisce il genio nuovo nazionale - rifà in sè
tutto il processo anteriore dello spirito umano quando acquistò il suo spirito
intera coscienza di se medesimo - stimò che i concetti nati gli in mente erano
stati indirizzali ad un alto line dalla Provvidenza– si apparecchia ad eseguire il disegno divino-
moto dall'individuo alla nazione e alla specie- come nel divulgare la sua
dottrina e farla fruttare si mostrasse tradizionale e novatore ad un tempo
--procedette per l'antagonismo degli estremi permeglio far spiccare l'armonia
del mezzo— dissimulò una parte del suo pensiero -- la filosofia la religione e
la nazionalità italica sono unite e connesse subbiettivamente e
obbiettivamente mosse dal l'idea al fatto, dai principi al metodo di
esposizione -carattere delle opere essoteriche e delle acroamatiche- G. possede
una dottrina ben divisata e armonica, di cui avea piena consapevolezza – ciò sine
gada i critici- si discute la loro sentenza -si giunge ad una conclusione lutta
opposto alla loro con solo l'esame dei fatti -- si cerca allrcsi la dottrina
intrinsecamente e logicamente e si ha lo stesso risultamento, perché quasi tutti
i critici han franteso trina di G.- il medesimo ladot è accaduto a Spaventa -
qua l'è il concetto nuovo ch'ioneporgo- esso
è stato ignoto fin'ora; nelle scuole d'Italia s'è insegnato solo la parte
essoterica- di questa è contrapposto l'Hegelianismo- venuto il tempo che si studia
e colliva la parte acroamatica che contenendo la sintesi ed armonia di questo e
di quella, del presente e del passato apre la via alla speculazione avvenire-
nella controversia intorno a G. bisogna separare la tesi storica dalla filosofica—
caratteri che distinguono, la dottrina di G. da quella di Hegel, e il moto
civile d'Italia da quello di Germania- solo l'Italia ha oggi una vera missione storica,
il cuide lineamento trovasi degli scritti del torinese—riscontri tra le parti
in cui fu divisa la dottrina c i vari periodi del rinnova - mentonazionale–
come l'egemonia piemontese ha prodotto i suoi frutti, così li produrrà il
Primato – il primato è tutt'uno colla rinovazione del pensiero italiano- ogni
nazione ha da natura un sito intellettivo- - che dee cavare dal suo l'Italia-
oggetto della scienza sulura l'idealità infinita– riforma religiosa c nuovavita del cattolicismo
- senza una filosofia e teologia infinitesimale ogni ristorazione religiosa è indarno-
prova il recente moto di Germania- Döllinger
non ha ragione di biasimare gli italiani- i vecchi cattolici sono
oppostosofistico dei Gesuiti– quindi continuano
la sofisticare li giosa che travaglia la nostra età- diseltano d'una teologia
veramente nuova e proporzionata al bisogno- mentre coi loro ciechi colpi con
tro il papismo gesuitico ne han mostrato più che mai la necessità— senza di
quella non si può distinguere l'essenziale dall'accessorio nella religione, nè
accordare il divino coll'umano-carattere della nuova teologia- modo come dee procedere
la riforma cattolica- l'entratura di essa appartiene al laicato, e in
ispezieltà all'italiano così la gerarchia non sarà annientata, nè scossa, ma
condotta a riformarsi da sè— il molo italico ristabilirà perfezionata l'unità morale
e civile d'Europa – esso perciò è indirizzato ad una meta più alta di quella a cui
è giunta la Germania— i forestieri malintendonoe
mal giudicano l'Italia. In parte ne han colpa i fautori della coltura tedesca
-ragione dell'imitazione tedesca tra noi—deve cessare e dar luogo alla
produzione paesana nell'ordine dei pensieri, dei sentimenti e delle azioni. La
teorica della conoscenza nel G. Esposizione e critica. In uno degli
ultimi scritti, — certo l’ultimo saggio filosofico, — pubblicato pochi
mesi prima di chiudere la sua lunga e intensa operosità, SERBATI,
discorrendo della necessità speculativa di tener distinta nell' essere la
forma ideale dalla reale, usce in queste solenni parole. L'esperienza tuttavia e la storia della
filosofìa dimostrano, che e' è una somma diffcoltà a distinguere e
mantenere costantenftnte distinta nella mente la forma ideale ed
obbiettiva dell'essere, dalla forma reale, e me ne somministrò non ha
guati la prova quel facondo e immaginoso scrittore che diede a me biasimo
e mala voce d'aver proposta e stabilita una tale distinzione, dettando
tre volumi col titolo de' miei errori. Laonde con tutto lo zelo e la
fidanza egli si pose di contro a me, quasi abbarrandomi il passo, e si
dichiarò perfetto realista: incolpando gli stessi scolastici realisti, di
non essere stati tali abbastanza, ec- cetto alcuni pochi. Ma pace a
quell'anima ardente: e torniamo alla storia *) ,. Si sa che
gli avvenimenti politici del quarant' otto avevano rav- vicinato i due
grandi avversar], smorzato perfin le ire implacate e sospettose del
torinese, che faceva pubblica ammenda della vivacità frequente delle sue
polemiche, dichiarando che, appena conosciuto di persona il Rosmini,
aveva cominciato anche lui " a venerare ') RoiKiNi,
Ariat. esposto ed esaminato, Torino, 1857, pre&z. p. 36. La
prefazione di quest'opera postuma era Btnta pubblicata dal Bosmìnì Hteeao
nella Riviìta contemporanea di Torino, au, ir, voi. II, fase. 17» e 18',
decembre 1854 egenoaio; riprodotta poi nella Poliantea Caffo^ca di
Hilauo, an. IV, 1855. Digitizcdby Google
Rosmini e CHoberH 247 con tutta Italia tanta sapienza e tanta
virtù , ^). — Quanto al Rosmini, benché l' animo suo non si fosse mai
inasprito, i fatti del ' 48 lo conciliarono di più col Gioberti, e non è
questo il luogo dì ricordare le belle prove da lui date de' suoi
sentimenti verso il filosofo esule per la seconda volta '), e poi quando
fa morto, e quando prima, nel ' 49, ebbe a G-aeta a difenderne
calorosamente la fama a l' ing^no contro le insinuazioni e le
malignazioni d' un gran gesuita ^). Ebbene, tutto ciò e il
tempo corso in mezzo e il cammino in- tanto fatto nella scienza, non lo
rimossero fino al termine, come s' è visto dall' ultimo suo scritto
dianzi citato, dalla posizione già tenuta di contro al Gioberti. E
questi, dal canto suo, ìn quel di- scorso che premise alla seconda
edizione della sua Teorica del sovrannaturale, e che si può considerare
come Y ultima sua scrit- tura di genere puramente filosofico, rimaneva
anche lui al suo posto, nonostante l' om^gio quivi reso alle virtù e alla
sapienza dell' av-_ versarlo; poiché scrìveva: *U Rosmini ed io siamo
d'accordo nel recare alla riflessione la possibilità dell'errore, e il
suo rimedio all'intuito che la precede. Ma dissentiamo intorno al
contenuto di tale intuito ; il quale al parere dell' illustre Roveretano,
non ci poi^e che un ente astratto, iniziale, destituito di sussistenza ;
laddove, al ')Discorso preliminare tìiU 2' Bàìz.ifiìla
Teorica del sovran7iaturide(i850] I, ^ n. Vedi pure ciò ohe, quasi nel
tempo atesBo, ne scriveva nobìlmeate nel Rinnovamento àvUs, lib. I, cap.
XIII; ediz. Napoli, Morano, !) Vedi quel che HCTisae Q. Uassuii,
nella bua Bitiista pdiHca del 15 luglio 1855 nel Cimento di Torino
commemoiando SERBATI. Sono due pagine dimenticate, e che hanno tuttavia molta
importansa per le opinioni politiche e per la biografia del Rosmini; T.
pure Tommaseo, A. Ro- smini, (in Rimala Contemporanea Liberatore. — Chi
fu presente al colloquio e ne scriveva poi a Baff. De Ceaare.attesta che
le parole «eloquenti dette dalBosmini in quella occasione lìaHciiono il
più autorevole e più meraviglioso elogio del Gtiobeiti >. Tedi Db
CssAaB, Dopo la wndanna del S. Uffi,ziOt in N. Antologìa, 16 luglio 1888,
p. 205. .dbyGoosle 348 G. Gentile
mio, ci dà un concreto effettivo, che nel primo de' suoi termini è
assoluto e apodittico. Or qual'è il miglior fondamento del vero? ^
l'astratto o il concreto? T insusaistente o il reale? l'incoato o l'as-
l soluto?, '). I due filosofi, adunque, compiono la loro
carriera filosofica con opposta sentenza intomo al principio della loro
dottrina, nonostante la polemica vigorosa per dottrina e dialettica che
s' era in propo- sito dibattuta; talché si direbbe che essa non abbia
avuta nessuna efficacia sulle dottrine de' due filosofi. Questo però è
appunto quello che ci rimane ancor da vedere. f~^ Come il
Rosmini abbia introdotto V. G. nel campo della ' moderna filosofia,
cioè della filosofia kantiana, l'abhiam veduto e dimostrato nel terzo
capitolo della prima parte del presente studio; coachiudendo, che già
nella Teorica del sovrannaturale egli ci ap- parisce sì un rosminiano, ma
un rosminiano il quale vuole andare avanti al Rosmini. Neil' opera che
seguì immediatamente dopo, V Introduzione aUo studio della Filosofia, si
delinea ben nettamente la nuova posizione speculativa del Gioberti ; e si
vede quali essen- ziali modificazioni, secondo lui, debbono subire le
dottrine del filo- sofo roveretano. Ma prima di studiare
cotali modificazioni, vediamo come si muove in questa nuova opera il pensiero
dell'autore. / La concezione della storia filosofica qui è l'es^erazloae
di quella donde sì rifa nel Nuovo Saggio il Rosmini; ma certamente è
mo- dellata sovra di essa. Pel Rosmini, come s'è notato, v'ha
sistemi che peccano per eccesso e sistemi che peccano per difetto di
apriori nella spiegazione del fatto del conoscere : da una parte falsi
idea- *) Op. cit, I, 2K. Cfr. Errori filoaqfiei di A.
Bosmini, II, 126-134. — L'ultima parola venunente à nel Rmnovat>ieato
civile, dove al lib. n, oap. 7*, (voi. II, pag. 191), è detto ancora uoa
volta « Cosi, per cagion d'esempio, il divorzio introdotto da un chiaro
nostro psicologo tra il reale e l'ideale, non si puA comporre stando nei
termini della psicologia sola; e se si muove da questo dato pei salir più
alto, si riesce di necessità al panteismo dell'Hegel e de' suoi seguaci
Jtosmitii e G. iiami, e dall'altra falsi empirismi. Ma nell'idealismo,
oltre l'errore di ammettere più elementi a priori che non ne siano
richiesti a quella spiegazione (Platone, Aristotele, Leibniz) può esservi
un più grave difetto : quello di far soggettivo, come avviene in Kant,
Va priori ricercato in seno alla conoscenza, la quale, se vuol essere
vera e certa, dev'essere invece oggettiva. Onde pel Rosmini Ì
sistemi sbagliati si riducono al postutto al sensismo o all'idealismo
sog- gettivo, cfae è una specie di scetticismo mascherato ; dacché il
pla- tonismo, a parte l'eccesso dell' a priori che va corretto, trova
grazia appo lui per l'assoluta separazione posta fra cotesto a priori e
il soggetto umano che conosce. E contro il sensismo e l' idealismo
soggettivo e si può dire (poiché pel Rosmini il senso era la fa- coltà
soggettiva per eccellenza) in genere, contro il soggettivismo ei si
proponeva di scendere in campo col Numo Saggio. Contro questo
soggettivismo insorge parimenti la filoso&a del Gioberti; il quale
raddoppiando d'ardore per le dottrine platoniche riconosciute pure in
fondo al contenuto filosofico delle dottrine cristiane, tutti gli opposti
sistemi involge in una comune condanna con quel sensismo, che ormai,
quando usciva il suo libro, era già morto e sepolto cosi in Italia come
in Francia; talché dimostrare sensistica una teorica, era lo stesso che
averla giudicata senza appello. E sensistica, a parere del Gioberti,
è tutta la filosofia moderna in Europa; a cominciare da Renato Cartesio;
il quale, del resto, non fece se non applicare alla filosofia il metodo
che aveva già fatto ben trista prova con Lutero, nella Protesta,
proclamando la j intimità autonoma della fede religiosa. . -J
Cartesio sensista? " Parrà strano, scrive il Gioberti, a dire
che il sensismo sia conforme ai principii cartesiani, e che il
Locke, il Condillac, il Diderot, con tutta la loro numerosa ed infelice
pro- genie, siano figliuoli legittimi del Descartes; quando questi
pre- tese nlle sue dottrine un teismo purissimo al sembiante, e
volle stabilire sopra uua salda base la spiritualità degli animi
umani. Ma il teismo del Descartes é puerilmente paralogistico. Il suo
dubbio Q. OmHk
metodico e assoluto, e il riporre eh' egli fa nel fatto del senso
in- timo la base di tutto lo scibile, conducono necessariamente
alla negazione di ogni realtà materiale e sensibile , *). E che altro
è il sensismo? ' Spogliato dalle contraddizioni de' suoi partigiani,
e ridotto al suo vero essere dalla logica severa di Davide Hume,
riuscendo a un giuoco aubbiettivo dello spirito, che, rimossa ogni
realtà, è costretto s trastullarsi colle apparenze, è propriamente
scettico e si manifesta come l' ultimo esito di ogni dottrina, che
_, metta nel sentimeuto dell'animo proprio i princlpii del sapere .
*). 1 II Descartes, adunque, è uu sensista, e a lui si deve tutta
la serie di errori di cui è iutessuta la storia della filosofia
moderna ; egli è l'iniziatore, purtroppo, fortunato del moderno sensismo
psi- cologico, poiché pone come principio della filosofia un fatto,
che come tale non può essere se non un sensibile ^). Insomma
il Locke e il Gondillac sono cartesiani. " Né rileva che i
successori di Locke facciano caso della sensazione sola, e non del
sentimento interiore, imperocché questo e quello convengono nell'essere
forme sensitive, destituite di obbiettività assoluta , *). \ Il
Gioberti, insomma, intendeva parlare di soggettivismo, e di- COTa
sensismo, che è pure una direzione speculativa molto diversa. La colpa
bensì non è propriamente sua, perchè risale al Galluppi ; il quale nella
sua teoria della sensazione (che qui il Gioberti ripete) aveva con essa
confusa la percezione o rappresentazione e la coscienza, introducendo nel
seno stesso di quella le distinzioni che sorgono ')
Introdwi., lìb. 1, c&p. l" (ediE. di Firenze, Poligrafia italiana,
1846) I, m. ») Ibid., p. m-12. 3) «... E
certameiite la seoteiiEa ; io penso, dunqm sono, equivale a questa: io
sento di oaeere pensante ... e più concisamente : io sento, dunque sono . .
. n pensiero conosciuto per via della liflesaione, ò un meco fatto della
coscienia, cbe appartiene al senso interiore; onde il Cartesianismo che
muove da quella, colloca in un fenomeno della facoltà sensitiva la base
della scienza >. Tntrod., lib. I, oap. 3" (n, T7 e segg.).
*) Op. àt., n, 78. n 2&1
invece per cotesti fatti ulteriori della psiche '). Del resto, G. risente
presto l' iDcooTeuiente che deriva dal fare un sensista delio stesso
Cartesio, pel quale il fatto della coscienza, invece che un sensibile
(donde, secondo il Gioberti, stesso non può derivarsi mai l'essere) era
una cosa stessa con l'essere, e quindi noD un semplice principio
psicologico '), ma una inscindibile unità del prin- cipio psicologico e
dell' ontol<^Ìco, che se fosse stata fecondata, avrebbe già fatto
procedere di molto la filosofia moderna. Infatti, quando ai accinge a
classificare tutte le scuole filosofiche figliate dal sensismo
cartesiano, comprendendo nella seconda categoria i se- guaci del
lochiamo, egli è costretto a porre &a i caratteri di questo * il
ripudio della ontologia cartesiana, come ripugnante ai principii e al
metodo del Descartes, e troppo simile all'antica, dichiarata dal francese
filosofo insuMciente e buttata fra le ciarpe ; e l'ommis- sione e lo
sfratto implicito e tacito di ogni ontologia , '). E già da questa
medesima classificazione de' sistemi resulta cbiaro che il nemico preso
di mira è precisamente quello stesso del Rosmini: cioè il soggettivismo,
il falso so^ettìvismo, che ri- pete le sue origini da Cartesio, anzi {ed
ecco l'intreccio significan- tissimo della filosofia eterodossa con la
falsa filosofia!) da Lutero. Nelle cinque categorie, in cui dovrebbesi,
secondo il Gioberti, par- tire tutta la storia della filosofia moderna,
così vengono distribuiti i vai^ indirizzi: nella 1" Cartesio e la
sua scuola: nella 2' Locke; nella 3' Spinoza, i panteisti tedeschi e in
parte Giorgio Berheley^; ') Eppure il Gioberti stesao aveva
combattuta questa teorica galluppiaaa, nella n. 3* della Teorica (II, 319
e segg.) imputando al filosofo di Tropea < di Bveie considerato come
semplice e indivisibile ciù che è ancora composto, Bocomunando per tal
modo elsmenti svariatisaimi con una sola voce >. *) < Il
paicologiamo ed il BcnHÌaino sono identici : l' uno è il Henstsma ap-
plicato al metodo, l'altro è il psicologismo adattato ai principii »- —
Introd., I. 30 (il, 83 e eegg.)- Gtt- p. 83 e segg. e 3^ e segg. Ha <
Cartesio è sen- sista nei principii e nel metodo * p. 83. 3)
Op. cit., voi. Sf p. 85. .dbyGoosle 252
a. Gentile nella i* Kant e i sensisti francesi dal Condillac in poi
*) ; ' infine nell'ultima classe si debbono collocare gli scettici
assoluti, che giunsero al dubbio universale, mediante i principii del
sensismo, aiutati da una logica s^^ce ed inesorabile; ... il cui principe
è Davide Hume , *). CapOTolgimenti, come si vede, ce n'è piti
d' uno; e come va che il Gioberti confonde il fenomenismo del Berkeley
con l'idealismo assoluto di Fichte, dì Schelling e di Hegel, e
l'idealismo trascenden- tale di Kant col sensismo di CondillacPEcco:
secondo lui, " l'asso- luto dei filosofi tedeschi non è l'idea
schietta, ma bensì l'idea mista di elementi sensitivi, e per dir meglio
un concetto, un astratto, un fantasma, frammescolato di elementi ideali ,
(p. 85); insomma è un assoluto fantasticato dalla mente umana ; e cosi il
Kant con- verrebbe coi sensisti ' nel dare alla cognizione la proprietà
del senso, facendone una facoltà aubbiettiva, e quindi considerando
il vero, come relativo , (p, 86). — È chiaro che la causa della
con- fosione nel primo e nel secondo caso è la medesima; per
Gioberti, r a priori di Kant e de' suoi successori è falso perchè
contraddit- torio: è posto come a priori, perchè necessario ed
universale; e intanto lo si fa subbiettivo, e quindi particolare
all'individuo che conosce, e come esso contingente. Questa
falsa maniera d' intendere il nuovo soggettivismo, che cominciava con la
teoria della sintesi a priori dal negare definiti- vamente quello
scetticismo, cui fin allora il so^ettivismo era sempre stato come
equivalente, — è un'eredità che il G. raccoglie dal Rosmini, e rivolge
subito, come or ora vedremo, contro di lui. E già si può dire, che
l'avesse raccolta nella Teorica del so- vrannaturale, quando, a proposito
dell'eclettismo francese, aveva ') E petcbè esclndecne ì
materìaliati del aec. XVIII, le cui open, come ricorda opportunamente il
Imnge, precedettero i libri e le dottrine del Con- dillao? ')
Op. dt, p. 86.
parlato dì un * razionalismo imperfetto , che consente col
sensismo ' nel so^ettivare interamente e parzialmente la conoscenza „
^), e meglio altrove, discorrendo dell' egoismo psicologicor cui
avreb- bero appartenuto Cartesio, Reid e Kant, e del quale *
l'egoismo ontologico metafisico di un celebre filosofo tedesco, che
im sima r ente stesso coll'esistenza individuale, sarebbe la nect
conseguenza , *). I! Gioberti, invero, come il Rosmini, non conosce
altn gettìvismo che il falso antropometrismo individualistico
goreo, il soggettivismo, che il Rosmini combatteva in Em. Pel
soggettivismo, a parer del Oioberti, tot capita, tot senti donde, secondo
il principio di Lutero, tanti cristianesimi cristàani, e ' tante
filosofìe quanti sono i filosofanti, se et Descartes, rinnovatore della
verità subbiettiva, immaginata di già e da Protagora , ^. Di guisa che è
un errore, dice Ìl I^ paragonare la riforma cartesiana a quella socratica
; avendo 8 presentito la teorica delle idee assolute, che venne poscia
es] da Platone, e dovendosi quindi interpetrare il suo vvia^i •
quasi — contempla e studia te stesso nella idea divina. In breve:
la salvezza della scienza è nel platonismo, nella razione dell'idea dal
soggetto, nella oggettività della conos E si deve anche far forza alla
storia e in Socrate trovare PI se in Socrate si vuol trovare un principio
di sana filosofia, menti del maestro di Platone non si fa che una
ripetizione d tagora, come sono Cartesio e Kant, — il famoso "
sofista i nisberga , ! Questa falsa interpetrazione della
storia, in gran parte fondamentalmente rosminiana, non pone del resto, il
Oioberti bene egli sei creda, fuori del criticismo kantiano, come non
ne escluso il Rosmini. Ed è davvero curioso a vedere il gran
') NotaXH; n, 329. *) Nota XVn i n. 338. ») Introd., I, 3»;
H, 76. Q. Gentik glìere invano che tutti i
filosofi italiani della prima metà del secolo fanno tra loro, accusandosi
TicendeTolmente di kantismo e di so^ettivismo, intanto che ognun d'essi,
senza accoi^erseae, vi rimane impigliato. Galluppì accusa Rosmini; Testa,
Galluppi e Rosmini; De Grazia, Galluppi e Rosmini egualmente; G. e
Mamiani, Rosmini; e questi, il Gioberti. — Così, il Rosmini era persuaso
che tutta la sua attività filosofica fosse una guerra con- tinua contro
il sensismo e il soggettivismo. Ebbene, vien fuori Ìl Gioberti a
proclamare che ancora il sensismo è la dottrina filo- sofica predominante
in Europa; dacché non tutti i razionalisti si potesser dire immuni dal
comun vizio, avendosi a distinguere uu razionalismo ontologico e un
razionalismo psicologico; ìl secondo de' quali separa bensì, come non fa
il sensismo, l' intelligenza dal senso, ma a quella non dà altro
fondamento che il soggetto, lo stesso fondamento, in fine, del senso,
senza perciò poter conferire alla cognizione veruna certezza oggettiva. E
in questo razionalismo psicologico o psicologismo, che vogliasi dire, con
Kant e Reid e Stewart, va, secondo il Gioberti, annoverato anche il
Rosmini, non correndo alcun mezzo possibile Ira Io psicologismo e
l'ontologi- smo, che anche lui, il roveretano, rifiuta; sebbene né il filosofo
italiano né i due Scozzesi possano propriamente rientrare nel quadro
della quÌntnplÌG« classificazione del sensismo cartesiano, ossia della
moderna filosofia. '"~ Oi certo il falso criterio onde il Rosmini
aveva delineato una storia della filosofia, passato al Gioberti, era
agevole rivolgerlo contro lo stesso Rosmini. Sennonché, quel che importa
rilevare è l'esigenza che l'uno e l'altro afiFermavano, ribellandosi a
quel cotale soggettivismo, in cerca di uno stabile e certo oggettivismo.
Il Rosmini, come s' è veduto, vuole introdurre nella cognizione un
elemento necessario ed universale, che sia veramente tale, e dì cui
ammette un intuito costitutivo dell'intelletto, un intuito che, secondo
una critica n^ionevole, devesì interpetrare come una sem- plice aflfermazìone
della universalità e necessità (trascendenza, e quindi — pare —
opposizione all'individuo contingente) AeWa^Hori della
cognìzioDe. E il G. prende la stessa posizione di contro all'empirismo,
pur senza ripetere una critica che era stata fatta, ma accettandone benal
il resultato. ' Oggi si tiene per certo, egli scrive nell'
Introduzione, che il Toler derivare con Locke i concetti razionali dalla
sensazione e dalla riflessione, ovvero col Condillac e co' suoi seguaci,
dalla sen- sazione sola, è un assunto d'impossibile riuscimento; e che,
sì come il necessario non può nascere dal contingente, né l' oggetto'
dal soggetto (ecco l'unica concezione rosminiana d'oc/petto e
soggetto: oggetto = necessario: soggetto = contìngente), così i sensibili
od este- riori non possono partorire l'intelligibile , •). — Pel Gioberti
la questione stessa dell'origine dell' intelligibile, di cotesta idea,
in- volge una repugnanza; giacché, essendo essa oggetto immediato
ed eterno, come necessario ed universale della cognizione, non ha nn
principio né una genesi. Potevasi senza dubbio osservare al- l' autore,
che appunto la definizione stessa che egli dà della idea, inchìnde il
teorema, che gli avversarj volevan dimostrato. Comunque ciò sìa,
egli ammette bensì un' altra questione, che è la vera questione della
ideologia rosminiana ; la quale è volta a indiare " se derivando la
cognizione dell'Idea da una facoltà spe- ciale, che dicesi mente o
intelletto o ragione, ella è acquisita od in- genita; cioè, se l'uomo può
su^atere, eziandio pure un piccolissimo spazio di tempo, come spirito
pensante, ed esercitare la facoltà cogi- tativa, senz'avere l'Idea
presente; e quindi ne va in cerca e se la procaccia; ovvero, se ella gli
apparisce simultaneamente col primo esercizio della mente, tantoché il
menomo atto pensatìvo e l'Idea siano inseparabili , *). E tal quistione,
che brevemente si può espri- mere, se l'Idea sia o no innata (nel senso
kantiano di forma si- multanea alla esperienza) ei la risolve affermativamente,
come il Rosmini, dichiarando che a suo avviso ( * per rispetto nostro ,
) non si può assegnare altra origine all'Idea, che l'origine
medesima dell' esercizio intellettivo. «)Iiib. I, oap.
3»j n, 6. *) le O. Gentile Questa apparizione dell'Idea simultanea
al primo esercizio della mente corrisponde per l'appunto a quello che il
Rosmini avrebbe detto propriamente nozione) dell'idea dell'essere. Anche
pel Gio- berti cotesta nozione è la stessa intelligibilità, la evidenza
stessa; anche per lui " non arguisce nulla di subbiettivo, oè
risulta dalla struttura dello spirito umano, secondo i canoni della
filosofia cri- tica , *) ; anche per lui è " l' ometto della
cognizione razionale in se stesso, aggiuntovi però una relazione al
nostro conoscimento , *). L' intuito di cotesta idea è dal Gioberti
stabilito con breve di- samina del procedimento del conoscere, e benché
egli non se ne rimetta al Rosmini, è chiaro che psicologicamente la
lacuna, che egli stesso poi riconobbe in questa parte della sua teorica,
devesi alla grande efficacia esercitata sulla sua mente dallo studio di
Ro- smini ; talché, scrivendo quasi di getto, come fece, l'
Introduzione, non avrà pensato che ci volesse molta discussione a solidare
già muorevasi la mente iegazione del conoscere.
nella esposizione, del Ione fece il Massari nel
un'ipotesi, la quale, per l' indirizzo per cui ^ sua, era
assolutamente necessaria alla spie Si accorse di poi del mancamento ; e
lo v resto tanto piaciutali, che AeW Introdtizio Progresso di
I^apoli, quando già l' intrapresa polemica col Rosmini cominciava a
fargli guardare più attentamente ogni parte della costruzione filosofica,
cui aveva posto mano. B al Massari, ai 17 giugno del 42, scriveva:
"Ho riletto quel poco che ho detto del- l'intuito iLviW Introduzione
e l'ho trovato ancor più scarso che non credevo; tanto che la critica che
vi ho fatta di non esservi steso davvantaggio e con nu^giore precisione
su questo punto manca affatto di fondamento , *) ; e a' 20 lugho tornava
a scrivergli : * Non ') < Nozione io chiamo un'idea
considerata sotto questa relazione, in quanto doè ella mi serve, a
rendermi note le cose >; Bosuini, Prindpj di acietua mo- rale, in
Optre, ed. Bstelli, TX, 2 n. ») Inirod., I. 3"; II, 8.
') Ibid., p. 5. *) Cart, n, 375. Il MAasÀBi aveva fatto una
analisi dell' Introduzione ( la 1* ohe ne faue fatta in Italia) in tie
puntate del Frogreeso del i841. Bosmmi e Gioberti 257
è come vi ho detto che uDa iBcuoa, proreniente dal mio testo del-
l' Introduzione; ODde può parere che l'intuito sia una facoltà mi-
steriosa conforme all'inspirazione dei mistici; laddove no la cognizioae
umana e ordinaria, spogliata però del repli riflessivo. L'ho definito,
credo, nel libro degli i/rrori , '). - questa definizione dell'intuito
corrisponde evidentemente i trina già esposta del Rosmini, che l'intuito
dell'idea si rit un lavorio riflessivo sulla cognizione ordinaria,
mediante cesso d' astrazione. Nel Gioberti non s' incontra
una teoria compiuta del f noscitivo, come si trova nel Bosmini. Ma
qualche accennc qua e là, basta a dimostrarci che, sebbene l'autore sia
de che la psicologia, per dirla con la parola sua, non debb
fondamento né propedeutica alla ontologìa, della quale egli trattare specialmente,
tuttavia l' ideologia rosminiana giace alla sua dottrina. Egli ammette
un' ' attività intima e s< sima, che rampolla dall'unità sostanziale
deWanimo, e con primo raggia intorno a sé le molteplici potenze, donde
na varie modificazioni di esso animo , *); ripetizione, anzi de
d'un punto del rosminianismo, da noi già messo in rilii
L'intelletto, la facoltà dell'intuito secondo il Rosmini, presso il
Gioberti una " energia contemplativa „ che venir meno, ossia non può
cessar d' intuire il suo termine, se durre,in grazia di quell'unità
sostanziale dello spirito, la ce simultanea dell'esercizio deliamente^);
come nel Rosmii •) Cart, n, 381 e aegg.
^Infrod., I, 2° (1, 135). Animo dice il Gioberti; per castigatezz
tuna di lingua, lovece di anima, spirito. ') < Tutte le potenze
dell' aaimo amano esseDdo collegate inBieme dosi a vicenda, è
inverosimile il aupporre che l'energia contemplat eoir meno, «enza che le
altre facoltà a proporzione se ne riaentan cap. 5° (1, 138). Altrove dice
che t l'intelletto è ti mezzo, con cui I prende la manifestazione
naturale del verbo ; 1, 2° (1, 196). Ma egli no a questo propoailo, una
terminologia costante. G. Gentile dell'intelletto vedemmo
esser necessario non solo alla costituzione dell'intelletto, ma anche,
per l'unità del soggetto, a tutta la fun- zione del conoscere.
Né pel Gioberti l' intuito ha un valore diverso da quello indi-
cato nella teoria del filosofo roveretano; come sarà agevole accor-
gersene esaminando con la brevità necessaria la teoria giobertìana della
riflessione. L'iatuito rosminiano vedemmo essere non vera e propria
cogni- rjone, ma condizione di ogni conoscenza, e però un vero a
priori kantiano, una pura forma dell' intelletto, che come tale
distruggeva l'antica concezione di oggetto opposto e separato dal
soggetto, — avendo dimostrato che il nuovo oggetto non esisteva per sé,
fuor della sintesi, essenzialmente soggettiva, co' dati offerti dal senso
ed elaborati nel soggetto. E il Gioberti scrive: 'Egli è vero che
l'in- tuito diretto della mente non basta a fare la scienza, ma ci
vuol di pili quella ridessione che ho denominata ontologica
dall'obbietto in cui ella si adopera. La quale arreca nel suo oggetto
quella di- stinzione, chiarezza e delineazione mentale, che senza
alterarne r intima natura, lo fanno scendere, per così dire, dalla sua
altezza inaccessibile, e accomodarsi all'umana apprensiva... Se
l'intuito fosse solo, l'uomo assorbito dall'idea non potrebbe conoscerla,
perchè ogni conoscenza importa la compenetrazione del proprio intuito, e
la coscienza di noi medesimi , ; vale a dire la coscienza dell'intuito e
la coscienza del soggetto, che in fondo sono una me- desima coscienza;
dacché, anche pel Gioberti, l'intuito è costitutivo del soggetto, e non
v'ha soggetto senza l'intuizione immanente dell'Idea. Sicché l' intuito
giobertiano neanch'esso fornisce una ef- fettiva conoscenza, ne è bensì
anch'esso la pura condizione, la pura forma a priori, la quale ha
bisogno, come qui dice l' autore, della riflessione *).
Orbene, che è questa riflessione, e qual'è l'ufficio suo? Essa
*) «La riflesBione pertanto dee accompagnue l'intuito primitivo
>; I, 30, (H 107). 'l,
è come un intuito
secODdario, cioè un replicamento cosciente del- l'atto coatemplativo
della Idea; ma, appuoto perchè cosciente, non è più puro intuito, non è
più condizione, ma atto di coscienza: essa è già coscienza. — La
riflessione importa quindi una determinazione soggettiva e però una
modificazione pur soggettiva; poiché l'intuito è vago e indeterminato,
mentre ogni atto di conoscenza è essen- zialmente determinazione ed
unità; elementi che all'intuito non possono essere aggiunti dall'oggetto
suo, che non ha in sé né de- terminazione, . né principio veruno di
determinazione. ' Nel primo intuito la cognizione è vaga, indeterminata,
confusa, si disperge, si sparpaglia in varie parti, senza che lo spirito
possa fermarla, appropriarsela veramente, e averne distinta coscienza...
L'intuito secondario, cioè la rimessione, chiarifica l'Idea,
determinandola; e la determina, unificandola, cioè comunicandole quella
unità finita, che è propria, non già di essa Idea, ma dello spirito
creato , *). La riflessione, adunque, si deve considerare come una
funzione determinatrìce dell'intuito, o vogliam dire dell'» priori;
funzione fondata sull' unità del soggetto, di quell'attività intima e
sempli- cissima, che dianzi rilevammo. — Ma in che modo avviene la
de- terminazione? " Ciò succede, mediante l'uniOne mirabile
dell'Idea colla parola. La parola ferma e circoscrive l'Idea , ^); unione
mira- bile e ' misteriosa ,, donde s'inizia la conoscenza, come lo era
quella percezione intellettiva, per la quale Rosmini faceva sviluppare
l'atto del conoscere; ma unione necessaria, unione, come s'è visto,
senza la quale non v'ha umana conoscenza^). E alla percezione
intellettiva l'atto prodotto per la riflessione si riconnette anche per
la natura della parola, che si sostituisce in esso alla sensazione
rosminiana. Il Gioberti infatti, definendo la ») Introd., I,
3°, (II, 11). «) Op. cit, l. e. 3) iLa parola, easendo
il priocipio determinativo dell'Idea à altreai una condizione neoeBjacia
della esistenza e della certezza rlfleasiva» I, 3°; n, 12.
2d0 0. Gentile
parola, come ogni segno, per un sensibile, osserva: * Se adunque
ella BÌ richiede per ripensare l'Idea, ne segue che il sensibile è neces-
sario per poter riflettere e conoscere distintamente l'intelligibile •).
II cbe consuona con la doppia natura dell'uomo composto di corpo e
d'animo, e annulla quel falso spiritualismo, che vorrebbe con- siderar
gli organi e i sensi, come un accessorio e un accidente della nostra
natura „ . Sulle quali parole è bene cbe meditino quanti sono che
l'intuito giobertiano sogliono appaiare con quello del Malebranche. Anche
il Gioberti, come il Rosmini fa ricorso al sen- sibile e Io ritiene
necessario alla formazione dell'Idea; e il senso anche lui fa costitutivo
dell' oi^anismo unico dello spirito. Sennonché, sulla natura di
questo nuovo sensibile proposto dal Gioberti solvono varie difficoltà,
sulle quali non è pcasibile sor- volare, volendo fornire una idea non
troppo manchevole della sua teorica della cognizione. Vedemmo
altrove (part. I, cap. 3") come già fin nelle Miscel- lanee, che
sono sì prezioso documento della formazione della mente del Gioberti, si
accettasse e si lodasse la teoria bonaldiana del lin- ' S^^SS^°- ^^^
1"' nsll^ Introduzione è detto: ' Parecchi scrittori mo- derni assai
noti, fra' quali il Bonald merita un luogo particolare, hanno avvertita
la necessità del linguaggio per l'esercizio del pen- siero , *}. Ed è
senza dubbio dal Bonald eh' egli ha mutuato la sua dottrina, che ha, pel
modo come sorse, una grave ragione storica. È noto che l' empirismo
inglese e il sensismo francese sì pro- ponevano di spiegare il linguaggio
umano, come una invenzione dell'uomo, Tommaso Reid per primo, (poiché le
profonde intui- zioni del Vico passarono inosservate), nelle sue Ricerche
stdl' in- tendimento (1763), dimostrò che il linguaggio nel suo più
ampio ') Cfr. Teor. Sovr-, II, 35 < Senaa la contezia di
qualche aenaibile, le idee non aorebbeia acceBsibili alla mente nostra*.
Teoria che bÌ conferma e ai de- fiaiace meglio nella Protoloffia, per la
qaale cfr. i Inoghi dUti dallo Spàtbhti., nella FUoa. di Oiob., p. 53
n. *j Introd., nota S' del voi. II, p. 213.
Digitizcdby Google Bosmini e Qioberti 261
significato è naturale prima che artificiale. Definiva egli Ìl lin-
guaggio, — definizione, ai badi, espressamente citata e accolta dal
nostro G., ') — ' tutti i segni onde gli uomini fanno uso per comunicarsi
reciprocamente i loro pensieri, le loro conoscenze, le loro intenzioni, i
loro disegni e i loro desiderj , *}. Pel Reid v' ba due specie di
lingu^gio : un linguaggio naturale, formato da quei vocaboli, che non
hanno un significato convenzionale, ma ne hanno uno che tutti intendono
naturalmente e per istinto; e un linguaggio artificiale, costituito dei
vocaboli non aventi altra significazione se non quella attribuita loro
convenzionalmente dagli uomini. Che vi sia un lii^uaggio naturale è
innegabile: e l'attestala sopravvi- venza stessa di esso al linguaggio
artificiale: le modulazioni della voce, ì gesti, i tratti del viso o la
fisonomia, — mezzi tutti onde l'uomo esprime naturalmente i pensieri, —
sono per l'appunto le tre classi alle quali riduce il Reid tutti gli
elementi di cotesto lin- guaggio. Ora è ovvio dedurre,
siccome fa appunto il filosofo scozzese, che il linguaggio artificiale
presuppone ÌI naturale, senza di cui gli uomini non avrebbero potuto
intendersi per convenire nei signi- ficati di quei vocaboli onde resulta
Ìl loro linguaggio artificiale. Di modo che se, come vuole l'empirismo,
il linguaggio fosse dovuto solver per un'invenzione umana, come la
scrittura o la stampa, tutte le nazioni, dice il Beid, sarebbero ancora
mute, come i bruti. Né meno stringente è la critica dal Bonald
opposta alla teo- rica del Gondillac ') nelle sue Eicerche filosofiche.
Secondo il Bonald il linguaggio ci è dato primitivamente con la prima
conoscenza; a causa della necessaria simultaneità della idea con la sua
espras- *) < Le parole sono i segni principkli, ma non i soli Bagni,
come sa oiaaouuo; tntti i sentimeati sodo veri segni deUe cose, secondo
la bella e profonda dottrina di Tommaso Eeid >; Introd., nota l' al
voi. II, p. 211. *) Rech. sur V entendemenf humain, trad. Jouffro;,
oliap. IV, sect. 2 in OtMvres (Paria 1828), H, 88. ') Combatte
la teoria com'era stata formulata da) CoDdiUac; ma tiene por conto delld
OBservazioni di Hobbe» di Locke e di tutti i Bensisti.
Digitizcdby Google aione (espressione, si noti, anche
semplicemente * mentale « ) S contro i sostenitori dell'opposta sentenza,
osserva che essi comin- ciano dal supporre, contro ogni autorità ed ogni
ragione, l'uomo in uno stato primitivo bruto e insociale, e a tal grado
di barbarie, da essere perfino privato della facoltà di conoscere e
comunicare i proprj pensieri, per attribuirgli nello stesso stato i
pensieri, i sen- timenti, le affezioni, le intenzioni, i bisogni, Io
spirito d' invenzione e d'industria dell'uomo sociale e civilizzato ,
'). Lo critica del Bonald è in fondo identica a quella del
Reid. Si presuppone nell'uomo sfornito tuttavia del linguaggio, cbe
gli tocca inventare, qualità o attitudini necessarie all'invenzione;
le quali non possono non equivalere al possesso del linguaggio che
vien negato, comecché in una forma primordiale e naturalmente rozza. E
questa ingenua teoria del vecchio empirismo che fon- dava la società io
un contratto, la religione su un arbitrio dì legislatori, e Ìl linguaggio
in una invenzione convenzionale, è stata anche in quest' ultimo campo, sconfitta
dalla moderna scienza della linguistica comparata; la quale se tra Max
MuUer e il Witney discorda intorno alia necessità delle relazioni che
intercedono fra il pensiero e la parola, ha però definitivamente e
concordemente stabilito che il linguaggio è un fatto speciale, primitivo
e naturale dell'uomo, non essendovi alcuna società, per quanto barbara
e selvaggia, che non ne sia fornita; del pari che la sociologia e
la scienza delle religioni comparate hanno provato l' originarietà,
cioè l'apriorismo, del fatto sociale e del religioso. Ed è
appunto merito della scuola teologica francese, come osserva giustamente
il Janet ^), di aver dimostrato contro i filo- sofi francesi del sec.
XVTII la vanità delle teorie intorno all'o- rigine fattizia e riflessa di
tutti i fatti i più importanti dell'uomo sociale. Al Bonald poi spetta
particolarmente la lode per quel che è del linguaf^io; e a lui
specialmente volgeremo l'attenzione, giacché ') lUeherches
phiioaophiquea, ohap. Il, in Oeuvres ( Paria 1858 ) p. 107. *) La
ph&os. de LamtnnaU. Bosmini e Oioberii 263 egli connette questa
teorìa con quella della rivelazione neceasaria per l'umana conoscenza,
siccome fece tra noi il Oiobeiii. II Bonald, con l' Histoire
comparée del Degerando alla mano, rileva che la filosofia non è riuscita
peranco a fissare un punto fermo, un criterio sicuro di certezza e di
verità, anzi per tutti i sistemi è finita nello scetticismo e nel
soggettivismo; e si chiede quindi se non fosse possibile " trovare
nei fatti sociali un fonda- mento alle dottrine filosofiche piìl solido
di quello che s' è cercato fin qui nelle opinioni personali , ') ; e
questo fondamento gli pare appunto di trovarlo nel linguaggio, che,
dimostrato non potersi in- ventare dagli uomini, deve (non essendovi, secondo
lui, altra via) essere stato comunicato da Dio alla società umana, e in
questa appresa via via dagli individui. Si direbbe che il
criterio del Bonald riesce sottosopra a quello altrove rilevato dal
Lamennais; che questa parola, che possiamo accettare come saldo
fondamento di certezza, data da Dio all'umano consorzio, è precisamente
la rivelazione. Ma quel che v'ha di ori- ginale nel Bonald, e prova che
il Gioberti ne dipende io modo spe- ciale, è la teoria della parola coma
atto o strumento necessario del pensiero; vale a dire che, dato che il
linguaggio, tutto il linguaggio aia rivelazione divina, il pensiero dì
cui il Bonald dice che la parola è il corpo, è esso stesso tutto una
rivelazione, cioè ha tutto per se stesso un fondamento di certezza
obbiettiva o sovrumana, nel senso di universale. La quale è appunto la
teoria del Gioberti, che ammette bensì una conservazione, ma anche
una alterazione della forraola ( = contenuto della rivelazione, coni'
è contenuto dell' intuito) ; e fa che il pensiero che rimane, anche
al- teratasi la rivelazione, possa tuttavia cogliere il vero. Di
guisa che la rivelazione (l'elemento sensibile della conoscenza) non è
ac- cidentale ed esterno al pensiero, ma necesaario e quindi costitutivo
di esso ; sicché, essendo il pensiero un fatto, cotesto elemento sen-
sibile, ne dipende e gli è strettamente connesso. *) BecA. O.
Gentile Questa rivelazione, adunque, ha ud valore tutto speciale,
in quanto è qualcosa d' intrìnseco al pensiero stesso, tale perciò
che il ricorrervi non sia per quello un esautorarsi o uà apprendere
dal di fuori, ma bensì uno sviluppare se stesso; laddove, presso il
Ijameanais del Saggio suW Indifferenza, il pensiero infermo per se
medesimo e incapace d' attingere il vero, si dee abbandonare, quasi per
chiederle conforto, alla rivelazione esteriore. Pel Gioberti la
rivelazione va cercata nella vita stessa del pensiero, equivalendo alla
parola, che è tale a sua volta, che senza di essa, come aveva osservato
il Bonald, il pensiero non esisterebbe. Chi rigetta la rivelazione, viene
a rigettare secondo il Gioberti, la parola, ossia lo strumento necessario
alla cognizione riflessiva dell'Idea; epperò non può attinger questa,
senza la quale — lo vedemmo già eoi Kosmini — il pensiero cessa di essere
'). La necessità dì questo è pertanto la stessa necessità della
rivelazione, considerata unica- mente per rispetto a quell' ufììcio che
dee compiere nel fatto della conoscenza. Sennonché, cosi
considerata, a che si riduce la rivelazione? Essa ci deve offrire la
parola, ossia i segni delle cose, Ìl dato sensibile che circoscrive
l'idea dell'essere e le dà attuale esistenza di cono- scere; e, come dice
l'autore, ' una successione di sensibili, per cui essa Idea rivela se
medesima all' intuito riflessivo dello spirito umano, e compie l'intuito
diretto, che li porge da sé *). Non è del nostro tema trattare
ampiamente di questo punto della filosofia del Gioberti, che
richiederebbe una troppo lunga di- samina. E bisognerebbe sovrattutto
discuterla, — come in parte ha fatto, da quel gran maestro che era, lo
Spaventa — nelle opere postume, una delle quali è appunto dedicata alla
filosofia della ') B il QiOBBBTi dice: «Il ripudio assoluto
della tradizione religiosa e Bcientifica si trae dietro neceasariacoente
quello della parola. Ora, siccome l'aiuto della parola è neceaaarìo per
conoscere riflessivamente l'Idea, chi lo rifiuta dee eziandio dismetteie
e gittar da sé ogni cognizione ideale. Ha tolta l' Idea, che rimane? Nulla
».-- /«(roA, I. 3»; II, 51. ») Op. «(., I, 3"; n, 107.
.dbyGoosle Sosmini e Gioberti 265
rivelazione. Ma esse furono tutte scritte dopo la polemica col Elo-
amÌDÌ, e sarebbe perciò inopportuno il prenderle come un punto di
partenza, volendo discorrer di quella. Gì basta notare, che nella
stessa Introduzione la teoria della parola va messa in relazione con le
dottrine del Reid e del Bonald, dalle quali deriva, e co' principj
rosminiani già adottati nella Teo- rica del soEiannaturale ; che deve
intendersi {secondo la distinzione di parola naturale e artificiale,
ripetuta dallo stesso Gioberti) '), come parola naturale, cioè come segno
della cosa, o sua rappre- senlanions, il che corrisponde appuntino alla
teoria rosminiana della sensazione, per la quale si determina e
circoscrive l'ente indeter- minato. Infatti, secondo il Gioberti, la
parola artificiale non può esprimere se non le idee già espresse, e
presuppone quindi la pa- rola naturale, la rappresentazione *).
Ora, se anche pel Gioberti ogni concetto si forma per una de-
terminazione che si fa per la parola dell' essere indeterminato del-
l'intuito, ciò avviene, come s'è visto, per opera della riflessione; la
quale richiamerebbe perciò, secondo s'è pur notato, la percezione
intellettiva del Rosmini. — Ma il Gioberti, come ha mutato la parola, ha
mutato anche, o crede d'aver mutato, il concetto. Alla sua fìlo- 'J
4 La potenza dell'intuito per attuarsi ha d'uopo della parola, cioè del
sensibile! La parola è di due specie: naturale e artificiale. Questo è il
lin- guaggio elle non può eaprimere che le idee già espresse. Il
linguaggio del- l'arte è sempre una traduzione del linguaggio della
natura; è verso di esso db che la scrittura verso In parola artificiale
>. Kioi d. Rivela):., Toriao, Botta, i8o6, p. 89. ')
Meglio potremmo solidare questa interpetrazione discutendo le difficoltà
che fa insorgere la teoria della parola cori com' è esposta uell' Introduzùtne,
o prima facie par che quivi debba intendersi, esaminando la critica
fattane dal Tbsta nelle sue Considerazioni aopra l' InlrodtiziorK aUo st.
ddla JHo*. di V. Q., Piacenza, Del Majno, 1845, part. n, p. 32 e segg. Ma
non ist htc locus. Con la critica del Testa consuona in alcuni punti
quella di V. Db Gbaziì, ne' suoi Discorsi au la logica di Hegel e su la
Filos. speculativa { Napoli, Tip. de' Gemelli, 1350) 2' rass.; e mutuata
dal Testa pare l'obbiezione che il critico calabrese muove all'ipotesi
dell'intuito (iTÌ,p. 100) nel Giobertiaee O. Gentile sofìa, che per
la spi^azìone della conosceoza ha bisogno del fatto della rivelazione
egli coutrappone la filosofla eterodossa, la quale, rifìutaodo lo
strumento della rivelazione, non può ammettere una riflessione che
rifaccia T intuito e conduca perciò al possesso del- l'Idea; e deve
quindi rinunciare alla Idea, appigliandosi alla per- cezione del
sensibile, il quale può essere l'oggetto del senso esterno, come
dell'interno, ossìa materiale ed estrinseco, o spirituale ed intrinsepo.
Donde, doppia eterodossia, sensismo da una parte e psi- cologismo
dall'altra; e in ambo i casi ' la sostituzione del sensi- bile
all'intelligibile, come principio, onde muove la filosofia , '); ossia un
metodo il quale, come vedemmo, conduce direttamente al soggettivismo,
allo scetticismo, al nullismo, dacché è vano lo sforzo dei sensisti e de'
psicologisti, di trarre dal sensibile l'in- telligibile. La
filosolia eterodossa, dunque, ammette bensì anch' essa la riflessione; ma
la sua rifiessione si differenzia essenzialmente dalla riflessione della
filosofìa ortodossa, in quanto, non servendosi di quel mezzo che solo
mette in grado di tornare, dopo il primo in- tuito, fìno al termine di
questo, si deve necessariamente fermare al fatto della mente (per parlare
dello psicologismo che c'inte- ressa) e rimaner quindi semplice
riflessione psicologica, in luogo di pervenire all'Ente intuito
immediatamente e farsi, come dovrebbe, ontologica. ' Lo
strumento, onde lo spirito umano si vale in psicologia, è la riflessione
psicologica, per cui il pensiero si ripiega sovra se stessO; e afferma,
non già la propria sostanza, ma le proprie ope- razioni solamente.
All'incontro nell'ontologia lo strumento è la contemplazione, la quale si
divide in due parti, cioè in uu intuito primitivo, diretto, immediato, e
in un intuito riflesso, che chiamar si può riflessione contemplativa e
ontologica , >). Cosicché la ri- flessione psicologica è una
operazione semplice ; l' ontologica una ') Introd., I,
3"; II, Bi e segg. *) Introd., I, 3»; II, 104 e aegg.
Boamini e Gioberti 267 operaziooe duplice; quella si
esercita sopra il prodotto soggettivo di una precedente operazione
(l'intuito)-; questa sopra l'oggetto stesso della operazione precedente,
che rifa maturandola. Si potrebbe dire perciò, che la riflessione
ontologica sia la stessa riflessione psicologica aggiuntavi la
ripetizione dell'intuito. Infatti * nell'ontologia lo spirito,
ripensando, si rifa sull'oggetto imme- diato dell'intuito stesso.. . Ma,
egli è vero che nella riflessione contemplativa •}, la mente rivolgendosi
all'oggetto ideale, si ripiega pure di necessità sull' intuito proprio,
che lo apprende direttamente ; onde il tenor psicologico del rìpensare
accompagna sempre l'altro modo di riflettere; tuttavia queste due
operazioni, benché simul- tanee, sono distinte, perchè hanno il loro
termine in uu oggetto di- verso , *). Una critica non molto
difficile qui può sorgere conti'o questa dottrina della riflessione
ontologica. Se l'intuito lascia uno stato speciale nella mente, un fatto,
tal che sia possibile coglierlo con la riflessione psicologica, due casi
si posson dare: o in esso v'ha uno specchio fedele dell'oggetto proprio
dell'intuito, e allora la riflessione psicologica è fondamento di una
conoscenza oggettiva per eccellenza, e non soggettiva, come pretende il
Gioberti; o non si riflette affatto (ovvero, che è lo stesso, non si
riflette fedelmente) il termine dell' intuito, e in tal caso questo primo
intuito è per- fettamente inutile. Il dilemma ci pare senza
uscita. La riflessione ontologica del Gioberti sarebbe davvero un secondo
intuito, se potesse traspor- tare la determinazione sopravvenuta con la
parola (dato sensìbile) dall'interno del soggetto, dove interviene, nello
stesso oggetto; il che è impossibile, perchè secondo la sua teoria la
parola è un sen- sibile. E perchè dovrebbe potervela
trasportare, cotesta determina- *) Cobi è par detta dal
Oìobei-ti la riflesBione ontologica; mentre la psico- logica è pur detta
osservaHva (p. 105). «) latroduz.. l, 3", II, 104. G. Qmiile zionep Perchè,
avvenendo la determinazione nella riflessione, es- sendo questa
ontologica, il sensibile, principio della determinazione, dovrebbe
ripensarsi coli' intelligibile, e come questo (poiché si tratta di un
secondo intuito), fuori del soggetto; il che, ripetiamo, è im-
possibile. Di certo la riflessione ontologica è l' espressione,
benché non esatta, d'una giusta esigenza del pensiero, come or ora
vedremo; ma contrapposta, com'è dal Gioberti, a una riflessione
psicologica, fallisce al suo scopo, non potendo sfuggire alle conseguenze
dello accennato dilemma. Sennonché, il Gioberti ci dice: ' La
rifles- sione psicologica non ha per termine diretto il pensiero, come
pen- siero, ma il pensiero come sensibile intemo, cioè come atto
dello spirito, e quindi non riguarda direttamente l'Intelligibile, che
si congiunge col pensiero e lo illustra. Egli è vero che la
riflessione del psicologo si connette per indiretto coli' Intelligibile ;
ma cì6 non prova nulla in favore dei psicologisti; imperocché non
ne partecipa, se non mediante quell'intuito mentale, che, al parer
mio, è il vero e necessario strumento dell' ontologo , •}•
L'equivoco qui è evidente: la riflessione psicologica non coglie il
pensiero come pensiero, cioè in quanto intuisce l'Idea^, ma lo coglie,
secondo Gioberti, come un sensibile intemo ; dunque la riflessione
ontologica non fa altro che cogliere il pensiero come pensiero.
Ora, se la riflessione psicologica presuppone anch'essa un intuito,
e (poiché, parlando contro il psicologismo, il Gioberti si riferisce
specialmente al Rosmini) un intuito, che, come vedemmo nella esposizione
della teorica rosminiana, è costitutivo del pensiero, é ») Introi.,
I, 3» i U, 109. ') Nella FUoB. iella Uivdaz., il Qioberti scrive :
< Una meate aeiiEa idee, e in igtato di tavola rasa perfetta è una
contraddizione. La facoltà con cui la meate creata afferra questa rivelaiione
[la riveUsioae imuaQente, virtuale, che diventerà attuala pei opera della
riflessione; v. ivi, p. 87] che fa, la sua assensa, è l'intuito»; p. 88
Né pia uè raeao di ci6 che dell'intuito aveva detto il Rosmini. Rosmini e
QvAerii 369 la sua propria essenza, — come può fare a ritornare
sovra un pensiero ehe non siasi già appropriato l'Intelligibile, e Io
abbia ancora fiiori di sé, e sia ancora in atto d'intuirlo? Insomma
sì può concepire un intuito immediato dell'Intelligibile come
essenza del pensiero, che pur lasci il pensiero sempre al puro stato di
tcAida rasa, sempre in atto di guardare l'Intelligibile, senza mai
vederìo? Il pensiero pel Rosmini intanto è pensiero, in quanto ha
un intelletto costituito dall'intuito dell'intelligibile; non può
quindi riflettersi su se stesso, senza trovare in sé non già Ìl semplice
atto astratto dell'intuito, ma sì l'atto concreto, ossia l'atto
terminante nell'Intelligibile: la forma, in una parola, dell'intelletto.
E l'equi- voco propriamente consiste in ciò : nel concepire l' intuito
imme- diato come una pura dualità; dove, al pari della visione
corporea, da cui immaginosamente è desunta, non può essere se non
un'unità sintetica, di soggetto ed oggetto. L' intuito ond' è fornito l'
intel- letto è una nozione, in cui Ìl soggetto e l'oggetto, come nel
pro- dotto della sensazione, sono affatto indistinti. Ora se la
nozione è qualcosa di perfettamente uno, ripiegandosi sovra di essa, lo
spi- rito non può non coglierne il contenuto, che è per l'appunto
l'Intel- ligibile. — SI' equivoco si fa manifesto quando l' autore
soggiunge che questo scambiamento di metodi (psicologico ed ontologico)
gli ' riesce un trovato cosi bello, come l'assunto di chi adoperasse
le dita e le orecchie, per apprender la luce e distinguere ì colori in
essa racchiusi „ (p. 105). Qui sì immaginano la luce e ì colori come
oggetti o segni esterni e indipendenti dell'organismo sensi- tivo, in che
si rappresentano; per modo che a noi, sapendoli lì ad aspettare di esser
da noi sentiti, sia dato scegliere lo strumento più acconcio alla
bisogna. Laddove fìa dal 1834, quando fu pub- blicato il celebre Manuale
di fisiologia di Giovanni Mailer, si sa da tutti che non v'ha nulla di
più falso. Quello che not sentiamo e diciamo luce e colori, non è se non
per la nostra sensazione e nella nostra sensazione. Ma il Oioberti
ignorava questo concetto della soggettività della sensazione, comecché
avesse già appreso dagli scozzesi quella teoria della percezione
esteriore, per la quale ve- 0. Oentile nivano
per sempre seppellite le vecchie idee imniagiiii, che solo la leggerezza
filosofica di Ippolito Taine doveva più tardi esumare nella sua
haldanzosa quanto vana guerriglia contro la filosofia classica francese
in genere, e per questo punto contro il Royer- Collard >).
Or, come è uno shaglio credere che il colore che diciamo di vedere
con l'occhio, sia fuori dell'occhio, talché se si avesse modo di
riflettere sulla visione, si rifletterebbe sul semplice atto del ve- derlo,
ma non propriamente sul colore; così soltanto un equivoco può far pensare
che nella nozione rosminiana fornita dall' intuito dell'Intelligibile,
non siavi altroché l'atto dell'intuire; di guisa che la riflessione sovra
di essa pervenga soltanto indirettamente all'oggetto, sul quale cotesto
atto si esercita. L'oggetto qui è una cosa stessa con l' atto, siccome
vedemmo altrove discorrendo dell'intuito; oggetto ed atto sono una cosa
sola nell'intuito in- tellettivo, che è atto insieme e forma dì esso,
secondo la teoria del Rosmini. E questa è la vera ragione che
il Tarditi avrebbe dovuto op- porre al Gioberti, per dimostrargli
infondata, come tentò di fare nella prima e nella seconda delle sue
famose lettere, la distinzione fra le due riflessioni psicologica ed
ontologica *). Le quali si po- ') Convengo pienamente nella
controcritica oppostagli dal Janet nel primo de' suoi scrìtti en La crke
phUoaopMques, Paris, 1865, p. 26 e segg. Li teoria scczzcBe toRlienda
l'inutile intermediario dell'immagine tra l'oggetto sensibile e il
soggetto sensitivo, fece di certo un primo passo verso quell'unità del
tatto della sensazione, che non poteva d'altronde concepirai senza i nuovi
prin- cipj del kantismo, di cui giustamente la psicologia genetica
tedesca si con- sidera come un fedele compimento. — Vedi in proposito gli
scritti del TabÌktino in Giom Napdet. di FUob. e Lett. del 1880 e 81 e
del Cm*p- PELLi, ivi. QnelH del primo bqu pure raccolti nei Saggi
fUoeofici, Napoli, Morano, 1885, pp. 37-128. — Dopo la pubblicazione di
quwto votame il Chiappelli tornò sull'argomento nella Filosofiti delle
Scude Italiane, voi. XXSI (1885), in un art. sulle Attinenze fra il
criticiamo kantiano e la pri- coloffia inglese e tedesca. ')
« Siccome, osservava il Tarditi, noi non possiamo riflettere su ne»aa
Rosmini e Gioberti 271 trebberò ira loro distinguere
solamente pel dÌTerso oggetto (e a questo soltanto s'è appellato come a
ragion distintiva in un passo deìV Introduzione già citato il Gioberti);
talché se l'una noa ha, né può avere un oggetto diverao dall' altra, è
chiaro che la distin- zione non possa più farsi. n Gioberti,
veramente, negava più tardi che la distinzione si desuma soltanto dall'
oggetto ; e voleva che si fondi anche sul metodo {Errori, I, 151 e
segg.); e dava sulla voce al Tarditi, che ciò non aveva saputo vedere •).
Ma come sosteneva la sua sen- tenza ? ' La diversità dei
metodi in ogni ordine di ricerche consiste . . . in quella del veicolo,
che si dee scegliere per conseguire l'oggetto ricercato; e la natura del
veicolo è determinata da quella dell'og- getto medesimo, considerata non
in sé semplicemente, ma nelle sue attinenze con le facoltà e le
condizioni del cercatore , *). E più in là: ' Il punto, a cui si vuol
giungere, determina l'indirizzo che si dee tenere; l'intervallo che s'ha
da correre, insegna le ope- razioni da farsi, per superare gli ostacoli e
toccare la mèta , '). Ora^ senza dire dei caratteri differenziali
che il Gioberti poi indica nei due processi che vuol distinti, basta
notare che la sua deduzione avrebbe un valore soltanto nel caso eh' ei
avesse dimo- strato essere realmente distinti i due pretesi oggetti di
riflessione, poiché, a confessione dello stesso Gioberti, la natura del
metodo oggetto se Doa quanto da noi o intuito se ideale, o
percepito se reftle; pad la riflesBÌoDe passare egualmente dall' oggetto
atl' intuito, e dn questo a quello; anzi ta rìfleasioue sull'intuito non
puA essero completa, imparziale, quale s'ad- dice al filosofa, se non
coasidera l'intuito, e nel soggetto di cui è atto, e nel- V oggetto in
cui termina, e dal quale Sformalo*; Leti, d'un Sosminiano, Z\ p. 38 ; e
si riferisce alla teorìa della rytesiione filosofica del Rosmini ; cfr.
p. S e segg. Or se si distìngue e separa, come fa il Tarditi, atta da
oggetto, il Gioberti ha cagione. H vero è ohe essi non sono afiatto
distinti. ') Leti, eit, I, 19-20. •) Errori. I,
153. 3) Op. eit., I, .158. G. Omtile è
determinata dalla natura dell' oggetto. Contro il Tarditi che ammetteva
un atto di intuire distinto attualmente da un oggetto intuito, egli aveva
ragione; perchè se vi sono due termini di di- versa natura, noi non
possiamo giungere a ciascuno di essi con un medesimo processo. Ma
conviene prima provare quella distin- zione di atto e di oggetto
nell'intuito; la quale è, pift che altro, presupposta dal nostro
autore. E peccando il suo ragionamento di una siffatta petizion
di principio, né potendosi altrimenti che per astrazione
distinguere r atto dall' oggetto, il Gioberti non può dire nemmeno che la
re- plicazione dell'intuito, cioè la riflessione, si differenzi! per
l'oggetto e pel metodo; poiché il metodo potrebbe esser diverso solo
allof che fosse differente l' ometto. E se il metodo trae i suoi
caratteri specifici dall'oggetto, e se l'oggetto è uno e inscindibile,
come si può distinguere una riflessione psicologica e una riflessione
onto- logica? Il pensiero non si può riflettere se non sopra
di sé, come pensiero; e siccome è costituito tale dall'intuito
dell'essere, che gli dà l'idea dì questo, la riflessione non può non
comprendere direttamente questa idea dell' essere, che è oggetto dell'
intuito. Che se l'intuito si considera nel suo intimo e profondo
signi- ficato, secondo la critica da noi fattane, cioè io quanto
esprime l'oggettività vera (non la falsa oggettività fantasticata, con la
im- maginaria opposizione, a risolver la quale # ricercato
l'intuito), e però la vera soggettività, vedasi quanta ragione più si
abbia di volere una riflessione che, a differenza della riflessione suU'
intuito, faccia riflettere lo spirito sullo stesso oggetto dell'intuito.
— E a questo punto noi volevamo arrivare. — Perchè Gioberti
distingue una riflessione ontologica dalla riflessione dei psicologisti ?
Qnesta, egli dice, si ferma a un fatto dello spirito ; quella ci conduce
fino allo stesso oggetto ; e quella è però da preferirsi, se si vuole
evitare il soggettivismo. Or si veda che fedele rosminiano è fin
nell'afferma- zione di questa esigenza il Gioberti ! La critica sbagliata
Fatta dal Kosmini delle forme kantiane, ecco che egli la rivolge una
seconda Jìosmini 6 QwberH 27 Tolta contro il
Rosmini medesimo. Gioberti, infatti, si accorge ( l'intuito rosminiano è
una pura e semplice forma dell'intellet ne più né meno delle forme di
Kant; se ne accorge e gli pare, dìei l'insegnamento del Itosmini, di
vedersi risorgere innanzi il fosco fs tasma del soggettivismo. Quindi non
gli basta un intuito, coi bastava al Iio3mÌDÌ, onde salvare
l'oggettività, cioèl'universal e la necessità della scienza, e gliene
vogliono due, un doppio ìntu intuito riflesso o secondario, o veramente
una riflessione oni logica. Bisogna davvero che questa Idea stia fuori
del soggel umano, stia da sé, e bisogna cbe si vada sempre fino a lei,
ti per un semplice intuito (potenza o virtualità di conoscere), vi
per un intuito riflesso, reale ed effettivo conoscere. Ma il guajo
è che se l'intuito, l'intuito scempio, sul quale esercita la "
riflessione eunuca , ^) del Rosmini, è un semplice s< sibilo interno,
o meglio, un semplice dato soggettivo (che pel G: berti quel termine ha
questo significato) — opperò individuali contingente, — non c'è modo di
provare che non sia un sempl dato soggettivo anche lo stesso intuito
doppio, che gli si vuol ( stituire. À rigor di logica, infatti, la
critica stessa che il Qiobe muove al Rosmini, si può muovere a lui, e si
può continuare l'infinito contro chi intenda l'oggettività, cioè
l'universalitì necessità delle forme di cognizione, come opposizione al
sogge conoscitore. Giacché l' intuito è sempre la stessa operazione, ed
i plica sempre la medesima relazione tra soggetto ed oggetto, che
si eserciti una sola volta, sia che si eserciti due volte, riflessione
ontologica rifa l'intuito circoscrìvendone l'oggetto dato sensibile,
offerto dalla parola. Ora, se il prìmo^intuito i era bastato a cogliere
l'intelligibile, perchè e come deve potè cogliere il secondo ? — L'aveva
evolto, dirà il G.; ma appui perciò bisogna ripeterlo, quando si vuol
predicare del dato sensil quella intelligibilità, e formare il concetto.
— Ma anche a v' ha risposta; cioè, l'intuito non è, come s' è visto un
precedei *) Errori, I, 144. G. Gentile
cronologico della percezione intellettiva, dell'atto (che il
Gioberti dice riflessione) della determinazione dell'Idea, del
differenzia- mento della primitiva identità. E se non precede
cronologicamente, come non deve, né può, poiché non v'ha l'identico senza
la diffe- renza, né l'universale fuori del particolare, né l'uno fuori
del vario, é falso i! concetto d'un replìcamento dell'intuito nella
percezione intellettiva o nella riflessione; perchè il replicaraento
presuppor- rebbe l'intuito come un precedente anche cronologico, oltre
che logico ; con che si tornerebbe al vecchio concetto dell' a
priori. La riflessione ontologica, adunque, non può intendersi come
in- tuito riflesso, cioè come doppio intuito, nonostante l' esigenza
che r Intelligibile aia intuito nell' occasione stessa della percezione
sen- sitiva, oltre che solo; per la semplice ragione che da solo non è
mai intuito, se non come presupposto logico, come un quid
trascendente il fatto della conoscenza. D'altronde, il secondo intuito
che si com- prende in cotesta riflessione ontologica, non è né più né
meno che una ripetizione del primo ; talché, insuMciente il primo, non
pub non essere, e il Gioberti non dice perchè né come non debba es-
sere insufficiente il secondo, E perciò, rifiutato il primo, egli non
aveva nessuna ragione di tenersi contento al secondo, come aveva avuto
torto, a fil di logica, il Rosmini, rifiutando le forme kan- tiane, a
contentarsi di quel suo primo intuito. Ma come l'errore del Rosmini
risguardava la sua interpetrazione di Kant, ma non, ci pare, la sua
teorica, ed anzi era prova, come s' è più volte notato, delia buona
esigenza da lui avvertita di una perfetta universalità e necessità nel
conoscere; così, con la sua teoria della riflessione ontologica, il
Gioberti, se crede a torto di correggere il "Rosmini e con esso
anche il Kant, dimostra anche lui di avere avuto il giusto concetto dei
bisogni essenziali della scienza. E v' ha di più nel Gioberti.
Questi sente più forte una esigenza, che non si può dire sia stata
trascurata dal Rosmini, comecché in lui non sembrasse pienamente
soddisfatta ; vale a dire l' esigenza dell' unità non pure come
compimento della dualità della sintesi, ma altresì come sua base,
fondamento ed inìzio. Rosmmi
e Oioberti 275 Infatti, con la riflessione ontologica 8Ì ritrae la
differenza nel seno stesso delU identità; perchè la parola, principio
determina- tivo, aiceome è una rivelazione dell'Idea, così è strumento di
quella riflessione, che risale fino all'Idea stessa, a guisa d'un quadro,
in cui s' incornicia la vaga Idea sconfinata, tanto per lasciarsi
vedere dal finito spìrito umano. Ma quadro e Idea sono una medesima
cosa; tanto che la parola è detta rivelazione dell'Idea, ed è
propria- mente parola dell' Idea medesima. Sicché la differenza qui
scatu- risce dal fondo stesso dell'identità, dall'Idea; e la funzione
dello spirito, per cui si apprende insieme l' identico e il diverso, è
pre- cisamente la riflessione ontologica, che si rifa dal centro
stesso dell' identico ; laddove, secondo il Gioberti, la riflessione psicologica
non si rifaceva se non dall' atto stesso dell'intuito di cotesto iden-
tico, cioè da un fatto sensibile, epperò da un diverso; il quale, d'al-
tronde, se pure era un identico relativamente all' ordine dei cono-
scibili, non conteneva però in sé il principio della differenza. Il
Gioberti, adunque, senza riuscire a dimostrare l' insufficienza della
riflessione rosminiana, con la critica di questa e col volervi sostituire
una riflessione più compiuta, mirava a porre su più solido fondamento la
oggettività del conoscere, e a giustificare più sicu- ramente quella vera
sintesi a priori che per questa via accettava, attraverso il Rosmini, da
Em. Kant; fondandola su quell'unità indis- solubile di identico e di
diverso, di uno e di moltepUce, di uni- versale e di particolare, di
necessario e di contingente, nella quale è la vita e la spiegazione del
pensiero e del mondo ; unità, del resto, di cui sentì pure il bisogno
Rosmini, come in parte s'è visto e meglio si vedrà nel capitolo ohe s^ue.
E per conchiudere intanto su questo punto, diremo che la ri-
flessione ontologica non è una operazione differente dalla riflessione
psicologica, che il Gioberti attribuisce al Rosmini; non potendone
differire pel metodo, poiché non ne differisce per l'oggetto, e non potendo
per questo differirne, poiché non esiste quella duplicità di c^getto, che
è presupposta dal Gioberti, e che ne sarebbe condi- zione necessaria e
sufficiente. L'immediatezza dell'intuito, come
.dbyGoosle 378 0. OmHle forma del
conosoere, esclude essa appunto ogni distinzione tra atto d'intuire e
oggetto intuito, siccome distrugge l'opposizione, che pur presuppone col
suo letterale significato, fra soggetto ed oggetto. Della proprietà delle
parole. La parola , prima che fosse scrilla,è parlata : la parola parlata fu
inventata da Dio,come abbiamo detto di sopra,elascritlurafuun
trovatodell'uomo,einspeciedel sacerdozio , secondo l'opinione del Gioberti, La
parola artificiale, come espressione dell'Idea, non è già ilVerbo ereatore, m a
l'immagine del Verbo, cioè il vero Verbo dellamente umana;e
quindiilveromedialoreidealetra lo spirito e l'Idea.Se adunque lo spirito
contempla l'Idea a traverso della parola, egli è chiaro, che la parola dee
yelare appena e non coprire l'Idea,come terso cristallo corpi sottostanti ;
quindi ella dee essere trasparente, e in ciò consiste la sua semplicità e
perfezione, Dalla sempli cilà dellaparola nasce la proprietàdellevoci,lapuritàe
l'eleganza dei vocaboli ; le quali doli della parola si tra yasano nelle frasi,che
esprimono l'unione armonica delle yuci mediante i concetti ; e per via delle
frasiriverberano quindi nello stile, e generano la bellezza del discorso. I m
perocchè il discorso è bello allora quando le voci,le frasi, e quindi lo stile
che ne deriva, sono semplici,proprie, pure ed eleganti. Infatti la parola è
semplice, quando vela a p pena ilconcetto,e non lo copre dinanzi all'occhio
della mente, nel qual caso la parola è per l'opposto materialé, e oscura.L a
parola è propria , se è un ritratto fedele del concetto che esprime ; ed è
sempre tale , ogniqualvolta 266 LINGUAGGIO ; della precisione dei
concetti mediante le dif finizioni ,e della loro partizione mediante le
divisioni dell'organismo dei concelti mediante i giudizii ; delle pruove delle
verità seconde mediante i raziocinii';.e in fine del processo della mente
secondo il lenore obbieltivo delle idee mediante ilmetodo. Ma poichè in
tuttequeste operazioni della mente si può cadere inerrore, ogni qual volta non
si fa buon uso dei canoni logici e dellaloro applicazione , quindi entra
innanzi la critica a giudicar dell'uso che si è fatto dei canoni logicali ,
mediante il giudicatorio supremo dei principii che sovraslano alle stes.
seleggi. Diche noidividiamoluttala materia di questo capitolo in tanti distinti
articoli . conserva la suasemplicità. QUANDO LA PAROLA E PROPRIA MANTIENE A
CAPELLO LA CORRISPONDENZA PERFETTA TRA L’IDEA E IL SUO SEGNO SENSIBILE, se ella
siguilica l' Idea increata, cioè l'Ente ;'e se ella esprime l'idea creata,cioè
l'esistente è anche propria , oġni qual volta conserva la corrispon.denza tra
la mimesi e la metessi. Quindi è, che la lingua primitiva, la quale ebbe due
parti, l'una divina,e l'altra umana, e eminentemente propria ; imperocchè la
parte divina di quella lingua consisiente nella rivelazione dei verbi originali
manteóne, perchè divina, la corrispondenza tra l'Idea e il segno,e la parte
umana, consistente nel l'INVENZIONE DEI NOMI primitivi, mantenne ancora la cor
rispondenza tra la mimesi e la metessi , perchè Adamo per nominare i sensibili coi
loro proprii nomi, li dedusse dagl'intelligibili, cioè dalla loro radice melessica.
Quindi è,ancora , che nella divisione delle lingue avvenuta pel fatto di Babele
n,on re, che non abbia più o meno perdule e guaste molte primitive sue forme ;
che non costi di nomi e verbi anomali, eteroclili, difettivi, e di molte altre
irregolarità di linguaggio, sicchè ogni lingua compare una rovina del primitivo
idioma. Quindi è finalmente, che gli scrittori autichi per che erano
studiosissimi della proprietà delle voci e dello stile (onde le loro
distinzioni dei varii generi di stile, te nué, mezzano, sublime ) perciò sono
appellati classici, e sono i soli che abbiano buona scuola, cioè ispirano e
producono altri scrittori grandi. Abbiamo detto che dalla proprietà nasce la
purità l'cleganza e la bellezza della lingua e dello stile; e quindi del
DISCORSO. E infatti la voce proprio nella LINGUA ITALIANA importa il concetto d’identità,
cioè della medesimezza di una cosa con seco stessa. Importa pure il possesso che
una cosa ha di sè medesima, perchè la cosa posseduta è quasi parte è in certo modo
faltura eziandio del possidente. Quindi il vocabolo proprietà è spesso sinonimo
di medesimezia. Così l' amor proprio è l'amor di sè; è desso an, cora sinonimo
di possessione. Così gl’attributi specifici di una cosa ,iqualine sono
leproprietà, sono la cosa stessa, perchè le qualià e i modi degli esseri sono
la sostanza modificata, valquanto dire la mimesi della metessi. Adunque LA
PROPRIETA DEL PARLARE altro non è che LA CORRISPONDENZA DELLA MIMESI CLLA
METESSI DEL DISCORSO; la quale corrispoc [Ma se LA PROPRIETA DEL
LINGUAGGIO è la fonte di tulti i pregi del parlare e dello scrivere, LA
IMPROPRIETA DEL PARLARE POI E UNA DELLA CAUSE PRINCIPALI DEGL’ERRORI ONTOLOGICI
E LOGICI, che producono la declinazione della filosofia, como avvertimino nella
prima parte di questo corso. L'errore in generale altro non è che lo sviamento
dell'intelletto nella cognizione della verità; e come tale si distingue
dall'ignoranza, la quale non importa la cognizione alterata del vero, ma bensì la
privazione assoluta della cognizione. E poichè al vero si oppone il falso;
perciò siccome il vero significa, in quanto è desso l'essere, così il falso non
significa, secondo la bella espressione di TASSO, perchè e desso il non
essere denza costituisce LA DIALETTICA DEL LINGUAGGIO, e quindi la
improprietà ne è la sofistica. Ora la purità del parlare importa la sua
pulitezza, la quale è una specie di proprietà; imperocchè la pulitezza, mostrando
la cosa nella sua forma nativa, fa che la cosa sia identica a se stessa, val quanto
dire che l'apparenza risponda allasostanza; il che importa in altri termini che
la cosa abbia possesso di sè medesima. E poichè la politezza importa la scelta
di ciò che costiluisce l'ornamento degl’oggetti materiali, cosi nella lingua
l'eleganza è inseparabile dalla purità delle voci. E siccome alla pulitezza si
oppone l'immondezza, che illai disce e deforma gl’oggetti, così all'eleganza si
oppone la vanità che li altera e deforma come se fosse unamaschera straniera.
Altrettanto succede nella lingua e nello stile. Dalla stessa fonte della
proprietà e semplicità del linguaggio scaturisce la bellezza dello stile e del
discorso. Imperocchè quando il lin guaggio vela appena e non appanna l'idea o
il concetto, se ne rende allora il ritratto fedele, nel quale caso l'idea
increata o creata manifesta naturalmente e senza ostacolo la sua luce diretta o
riflessa nella parola. Ora il bello essendo lo splendore dell'intelligibile,
sia assoluto, sia relativo, che si rivela a traverso il sensibile, cosi quando
la parola è semplice e propria, è ancora bella necessariamente; e quindi la
bellezza del discorso in sè raccoglie tulle le qualilà della parola e dello
stile, cioè la semplicila e la proprieta, la purità e l'eleganza. cio è il
nulla che non ha, n è può avere virtù di significare. Ora le cause degl’errori
si rieducono a due principali, onde le altre derivano, cioè ally
limitazione dell'uomo, e quindi delle sue facoltà, e all'alterazione
della parola, come espressione dell'Idea; ben'in leso però, che anche questa seconda
dipende dalla prima. Dalla limitazione dell'uomo e delle sue facoltà nacque lo
sviamento del libero arbitrio in ordine alla legge, e quindi l'esistenza del
male morale ; il quale fu cagione del male intelletsuale, inquanto fucagione
del predominio del sen sibilesuil'intelligibilee dellepassioni
sullaragione,onde deriva l'alterazione dell' Idea, e quindi l'esistenza del'l
errore. Ma qualunquesia, dice G., la causa della cor ruzione egli è indubitalo,
che in origine l'alterarsi dell'Idea è congiunto equasi coetaneo a quello della
parola; laddove in appresso,e nelcommercio tradizionale, IL DISORDINE TRAPASSA
NEI PENSIERI DAI SEGNI; sicchè l'improprietà della parola è la causa, e
l'errore è l'effetto. Imperocchè, quando la parola è impropria, siccome ella
non mantiene più la perfetta corrispondenza tra l'Idea e il segno che la esprime,
cosi i concetti ideali sono travisati dai concetti sensibili inchiusi nella
parola, e l'Idea viene adulterala dalla METAFORA o dalla etimologia. Nel quale
caso i concetti ideali si corrompono proporzionatamente, se giả una nuova rivelazione,
o un magisterio esteriore, organato dall'Idea istessa , ñón impedisce tali
corruzioni della parola, serbando incorrolta quella genuina e originale
corrispondenza fral'Ideà eilsuo segno esteriore. Idea gtnerale dell'opera, e
tua diritieue in due libri. — La tloria delle religioni appar-tiene a snella
della Blotofia. — Si ritolrono alcune obbieiioni in contrario. — Perpetuità
della Blotofia. Del metodo critico aegailo dall’ autore nelle rirerebe
aloriebe. Si liepolide ai nemici delle eonpilatìoni. Del metodo dottrinale,
oaaerralo dall' autore; perebd egli anteponga la. linloti all’ analisi. Cenni
sopra nn’ opera precedente.— Prorotsione cattolica dell’ autore. RUpoala a ehi
te aoeuta di eiaer troppo ratlolico. La moderazione' nelle dottrine non è oggi
di moda. Via {utile e compendiosa, per giungere alla gloria. <—In che senso
l’ antere sìa sago del progresso. Sua pro- trata, intorno alle persone
generalmente; agli scritlori risi ed ai morti, in itpeeio. — Di Byron. — Dei
sentimenti , che mosiero l' auloro a scrirere. — Contro la sella degP
Italogalli. Funesti influssi della Francia. — Della eterodosna moderna in
generale, e della filosofia germanica in particolare. Gl’Italiani debbono
filosofare da sé. Dello stile filosofico. Importanza della lingua in ordine
alle cose.{.odi ifi An- tonio Cesari. Contro i cattisi amatori d’idee. Dei
parolai. Contro la barbarie dello scrirere, che domina in Italia. Della
cbiaretxa, bresild, semplicità, precisione, c purezza del dettalo. Esempi
italiani di elocuzione filosofica perfette. Del modo, con cui si può inoorar
nella lingua. Scusa dell' autor , intorno alla lingua e allo alile da lui
adoperato. Eaorlazioue ai giorani italiani. L’Iililà della sera filosofia. Elsa
non dee sparenlare i buoni goreroi, né i buoni principi. Sua opportunità,
r lG-2 per ristorare la religione. La Gloa^fia dee cucre collìfaU
specialmente dai cbicrici. Lodi del chiericato italiano. Del sacerdoiio
frnncese ; sua antica dottrina, e suo virtù io ogni tempo. Del modo, eoo <ui
li coltivano le lettere da oleum chierìci franoesi. ~Della parlecipasìonc dei
chierici olla vita sociulo» —Della liberti cattolica nel culto delle dottrine.
» Che il clero catiolico dee essere emìnenle anche nelle scìen* se profun<’,
per sortire picnamt nte rt-netlo del suo o>ini^te/io. — Di certe sette
politi* che, che nocciono alla religione. ~ Dei ti elogi laici, che ioondcAO la
Francia: loro tracotanza. ^ Al'eanza della filosofia colla religione. La
dottrina cattolica é la sola dottrina religiosa, che abbia un valore
acientifico. — Come la novità si accordi coli*anti« chità nello cose
filosoticlic. — Si concbiude, esortando gl* lioliaui a I. barare le sc cuse
ipecuialve dai nuovi barbari. DELLE DOTTBLNE Della dcelinaztone delle scienze
spcculalive in generale. Cunirapposlo fra- lo sla o fìorcnle delle matetnatiche
e fi*ichr, e lo s(|uallure della fihtsofìa ai ili nostri. » Sue cagioni
gencr-chc. — Cobsidenuioui a <ju sia propos to sul'o stalo delia filosofia
nelle varie parli d'Europa. —D.vario, che corre Ira le duii'ine fiancesi o
U’de.-che, nato dalle loro diverse attinenze colla religione. — Di Renalo
Descartes. ^ 1 semi'li moderni sono suoi d’srepoli assai piu legiilmi del
Malebranche, e di altri antichi cartisiani. Dd panteismo germanico; temperalo
dalle tr iduioni religiosa: l*idea «i è oscurata, non eslin a del tutto. Di
Kant. Perelié t Tedeschi prot<‘Slanti furono io filosofia più a ioni dall'
eaipielà, che i Francesi rallo(ici. ^ Dtver* sita d«‘ir ingegno spcculat vo,
presso i Francesi e i Tedeschi. — Se ne cerca la causa nella storia, e nelle
origÌr>i di queste due nazirni. Delia filosofia inglese: sue difie* n’nte
dalla francese, e dalli germanica. Dei fìloSvfi ftaìiaiii del secolo
quiiidcciao, c del seguente. — DiVico : sue lodi. ~ Epiio{:o d.-I quadro. Della
dedinazione degli eludi specidatici, in ordine al soggetto. lufeiiurilà
speculaliia e rnoralo dei popoli modcToi, verso gli antichi. La no-a speciale
dciruoQio moJeroo è Ir frivoUzza. La cagione di questo vizio è la debolezza
della faiol.à volihva. Inlluruza dtl voli re nella cogoiziouv, e oelf ingegno
dell’uomo. La modioiriià letteraria dui moderni nasce dalle hggcrizza dei loto
animi. Esempi S 2»S * es»e bi chiude il capitolo. . - Note. Aula prima.
Siti diltflanti tpleoJ Jì c Itiili, elle h fanno Ja m.eilri. 71 1 1 ptincipii
dal Ufi Clw il inftoilo
El<w>fict> »i J>e di durre dai principi!, e non I metodo. Il ig.
Coiaio «.elude la «tiri» delle religioni da quella dtlU Bloiplia. Del cullo
reciproco de’ moderni Rfillofi ff.nceii. Di una iKioea Enciclopedia. Sopr. OD*
«poitigi. recefllo diDjroa. 117 l'i. 1 lit 125 125 129 i6. 13t) 131 132 ii, i6.
IM ii, Ai nemici delle wItiglieMf. Sullo lingua e luU' eluguenia francese. Sul
primato della Fraocia. L'.terodomia modarna non i fono ancora al «uo fine.
Della periiia di Paolo Luigi Cuarier nella lingua a negli icrillori italiani,
Paw dal Letiinj; mila lobrielA « ammauralega degli antichi tceitlofi.
Sull'uli-iU dei buoni giiirnali «ccletiailici. Pmm del Leibnu «olla libertà
cattolica dcKii «eritteri, Querela del tig. Cousin eoutro il clero ffauceee.
P«Mu del Leibnii contro i dùaipatori delle antiche dotUine. Sull' apoilaiia lU
alconi prelati ruwù Delle cagioni della H>rorma. Che la tinceritA di Denartei
nel proretiani cattolico è per lo meno dubbia.- Il Malebranche non è earleeiano
intorno al primo principio dellalua filoaoCa. 143 Clia il «ig. Coutin ha ao
concetto mollo ineaatio dello Spinci.Mio. 144 Pawo del Courier tuH'iitiulo
aotTilo dei moderni. 1^ ^ ; iò 5, 163 rcceoli e ìuliani di una Tolontà
forte : Napoleooet e Alfieri. Lodi deli’ Al> fieli. La fursa della volontà
dipende in gran parte dall* educasioae. Cbe co a sia r educatione. Saa
oeceuilA. Delle varie forme, che prese 1’ educazione, tecoodo il ccM’to dei
tempi e la varieii di'! popoli. Po pubblica presso gli antichi ; qoasi pub-
bloa nei basti tempi. » OelP opera dei chierici nell' iostitusione dei giovani.
—> L’cdu* catione diveone pnvate, piesso i moderni. —Cagioni di ciò: false
teorirlie in politica e IO pedagogia, inglesi e francesi. Di G angiacomo
Rousseau. Errori del suo Emito. Delle doUrìne poi tieba snlla liberti dell'
ednratione. Falsili loro. L’e* ducaaioQ^ manca quasi alTatto nello stato
presente di Europa. » Difetti dei metodi vi* genti dell* insegnare.
L’ias«gnameoto pubblico dee < ssere uno, forte, e dipendente dal* lo stalo.
Frivolezza dell' insegoamenlo cattedratico, quale si usa oggidì nei paesi più
civili. » Dei giornali. Diretti, e danni dei giornali, come per lo piò si
scrìvono in Francia. Nuocono al'e lettere e al e sciente dalia parte di chi
scrive, e di chi leg* ge. — Necessità dell’ iniìtiiuzione pubblica, e di un
supremo poto<e educativo. Quella non lìpugna ai costumi, oè questa alla
libertà politica dei moderni. —> Che M»sa sia r iagfgiiu spccuUtivu. —
D<2 tla setta dei sofisti moderni, e deg'ì artefici di parole. ^ Quàlìià
loto. — Si chiamano a rtssrgoa le prìneipai diti diU’ ingegno sfeeulativo, e
con Pano d«l Leibnii tull’abbierion»
morale JcrU onioi moderni. Sulla patria di Napoleone. Pano dfl tig. Cuusin mila
balta«lia di Waterloo. Pel gioiliiio, che il tilt. Villeoiain ha recato mll'
AlCeii. Sugli errori della pueriiia. ^ Sull* uUbU di tre clasii di gioroali. Soll’aliBio
Jei generali. Lodi di alcuni illmiri eruditi fraaceii. Pano del Malebraoche
augi’ iugegni friToli. In che modo il genio naiionale poeta imprimere la ma
forma nelle icieate «peculatiee. Sull' indola morale, e lugli ulUnii UUmli del
Goèlhc. Diuu. Pag- SCDU bill' iCTOKI. Le lodi
d'ililia nim sana oggi pericolose per la sua modcslio. Sano opportune, e
perchè. — Scopo del preienle dilcorsa. — L'aifluiui di CMO non t per
ilcaa Ter» iiigiiiriUD agli tlnnieri. L* doUriiu del primalo itili IBO è
necetMtfai per rÙHltun- ziuie delle sci une flloMBclie neita
pcniioli. PASTE nanu. Dell' Hlonooiia uwlnUi e rdtlin
In genere. Di qidia cbe con. peti (He uDoni in paiticoUrc Lt isdice dell'
tiatononùi è neDi virtù creatrice, L'Italia è anlmMina peraccdiema;
rau- lonomia i la boM della mi* nMggionma. — DeOnitionE del pri-
mato italiano in noiTerale,— La petùxria per It ina poitora è il centro
monte del nondo civile. — Convenienu geogniGehe dell' lUUa coir India e
colla HeMpoUmia. -^-La religione b flprtndpal S)ndimeiito.del primato
italiano. II principio calttdieo è Ime- panbile dal genio narionile
d'Italia. Opinione dei ghibellini e del flloioll nominali a questo
propoaiUi, e aun falsiln. Del Hachiavelli , del Sarpi e <li Amalitii
ih ìlmcm. Ln xt» iIiiL- Irina
naiionnle d'Italia i quella dei rufIIì e dei realisti. — ì!,s\iii-
cattolicismo e dall' Italia. L'Italia è la nniiuuc creatrice: Suo
ing^DO inventivo, c sul) liuiilà delle sue opere. - Essa c pure la
naiione redentrice degli altri popoli, e non puA essere redenta
per open loro. I papi non (nrono ! caoM della divisione iT ita-
lia, and lì mottnrono benemeriti In ogni tempo ddroniU iu- liana ed
enropea. ObUeiionl e liipoile. Dei don nemici perpetui dellt penisela.
Fati perpelui e glorie di Roma in ósni tempo. L'Italia non dee invidiare
alle altre Milani la grandena e la potenia disgiunte dalla gìnitliia. — Vino a
qual segno i coiHiuisU e II dominio temporale dell' antieo imperio romano
' sinno stati legitUini.— Gmdeiie supcnliti della modema BÓma.
Della PMpapnda c ddle mitiioni. Puagone del SiTerlo e dd Boonaparte.—
L^Iialia/itaempTB la più co9inopoK(Ìca delle nanoni. li auo principato si
Tonda Mrratlutto nella religione, j la quale di sua natura suvrasla a
ogui cosa umnoa. L' Italia tal ' in si lultc le
cuii<ii£i<iiii ilei ^un nai limale c politica risorgimento, \ sema
ricorrere «Ilo somniossc iiilcsthie, alle imitaiioai e inva- j sioni
Farcsilere. — Dell' umane ÌUliaoa. — Essa non può uUenersi colio
rivoluiioiii, [l principio dcU' unità il.iliani è il Pajia; il quale
jiiiii unilìenrc h penisola, mediante una confeclemiinne ilc'suui
principi, Vanlnggi di una lega ilaliana. — Il governo folemlivo è
connalurale all' llalia, e il pili imturale ili lutti i goterni. — Danni
della centralità cccessita. — La sicoreiia e la prosperità d'iLalia non
sì possono conseguire altrimenti che con un' alleaniB italica. — 1
lUrcslieri non possono impedire i]uett' alleanza, e non che opporvisì ,
debbono deiideratlo. — Semi dell' autore se entra a iliscorrcrc ili caie
dì stato. — L'opinione nasce Ida pìccoli principii , ma dee essere
edncato dai senno della ni- liane, — Dna province (oprattutlo debbom
cooperare a ^TOfjr l'opim'aue Hi-iriiiatì"imieiiVTlnnii « ti
Piwnnnl>. _ ^Bìj^^ )jj \f Itoma pei popoli, e sua imparzialità fra i
pedali ed i prindpi. — I L'onilA italica sareblie di grande utilità iWti
religione cattolica , . loro'genio. — Deli.i (]d.s;i ili S^ii.iia e
luili. — .l[lincnzc c cor- risponderne delle famiglie regnatrid tugl'
incrementi civili dei popoli. — itrfi^ nnn^^ ^pip rtr il Piemonte, n
delle sorti c he le Mno^reDiral|e ^\]f Ptnuy^fjm. — Delta concordia
fra T'popoli 0 i principi italiani. — D difetto di osa ta la
cauta principale del
c)iM:atlinicnla d' Italia. — Errore ili chi .illribuÌKe tal decadi nHMi
lo nib qualità della stirpe o alla religione. — ti'in- forlunia ilcgl'
llaliaiii aiiehe pur quvsta parte iiarque dai fores- tieri. — Frincipii
di risurgiiiienlo nel secalo passala , e rili^nu cìtIIì (alte dai
ptiaeipi ooslrali. — Inlerratte dgfla rivolaiioiKi rranceM , ora è il
tempo opporUum di ripigiUrte. — Necessitai di ordinare la pubblici
opìaione. — Dne modi con cni quesla ai ap- I>alc9a ; lit parola dei
tmi e la alampa. — Della monarehia con- ullatiia, e del Consiglio civile.
— La Btarapa non dee essere MTva , iiv liceniiusa. — La sala via per
evitare amenduc gli ccccs^ , ilà neir affidarne l'iodlriuo a un caniiglio
censorio". — nella iniportwii* della iiuapa per la civUU. — UtlliU
della signoria indivlH p« riRmnata gli siali. — Si esortai» I
prineipi ilaliani a toDdare l'amona d' Italia.— Del dirello delle
rìibnne nriii lane a leniate in Italia , dorante il secolo scorso. —
Decli- ii.ii e siitcessiva del genio iiaiiunale della penisola. —
Iliscre- iiiiiiii: 111 uiieslo genio da quello dei Francesi. —
Critica del galli- canìsmo. Di Benigna Bassuel : censura riverente dell'
ing^u e itelle opere di qncslo gran teologo. —1 II sacardoiia
primflivo eUw dna poteri, l'ODO reHgloM e l'alln drile. — Pormola
so- ciale : La («roonui* erta MÌl gli ordini civili, — U ncerdoiio
è il Primo politico. Ciisto rinnovA a compimenlo il sacerdoiio
primigenio. — Necessità del potere civile nel sacerdoiio cria- liiino.
Lode dei Gesuiti del Paiaguai. — Il polerc civile della Chiesa non toglie
la dislùuione, che corre rra lo «lato civile e il lacerdoiio. — Dea toma,
par mi pam il poleniàTile dal Mce^ doxio, cioè la dillaliaa e
failiitralo, canispondenli ai due cfcU civili delle nazioni. —
Legittimiti della dittatura ejerdiala dai Poniclici del medio evo. Il
ciclo dittatorio Gniscc quando c |jerioilo della dtilti'i lefulare
il'lulia < crKiirops, — Dell'arbì- tr.ilo, iraliiiso ilal sacerdoitn.
— Il l'.ipa c l'unico [iiiocip io dell' guerra. La dittatura
pontiScale non lurna inulìle in alcun Icinpo ; MU
applicaiiane presenle e foUin. — 11 I^pa è U prin- cipio dell' anioDe d'
lUlia. Il polcn civile del Mnrdouo non è contrario ali* ipirìlualiU e
HnUU dclb rai indole e del suo nìtuslerìD. -I Del (HtiiHiiùnm. — Crilict
de'snoi prÌDcipii in- tono tU* cotUluiiom della Cb'ma e al dogma
caUolico. — Dei doveri delle varie ciani dei dUadini, in ordine
all'aoioDe d'IU' lia, -/Danni cbe nascono dalle dottrine esagerate di
libertii. — Esortaiioneagli esuli ilalìaiii. —- Del dcbilo che linririu
gl'llnliani gli adalatoridei pririi'ipi. — l>i^i wihili, -- M
ji.il ri/Min i' i!i[licil- menle srilabilc nelle soeiclà civili. Due
specie iJi palriilalo; fendala t civile. U primo è im^nevole, Oioesto e
vitupe- ralo. — 0 secondo pnì euer lodevole e ntik, quando venga
ac- compagnalo da eerte condiuoni. — I cattivi nobili tono la
rovina delle nontrcbie. Dei chierici secolari. In che modo essi
pouano partecipare alle cose politiche. — I^i del chicrieala Italiano.
Perch6 l' episcopato dì alcune province cattoliche sia stalo Ulvolla per
l'addielro men ragguardevole degli altri ordini derieali. Del frati.
Apologia del m(MMchÌ«no. — Suoi benefiri rÌq)«llo alla drilU etirqiei.
Quando traligna ai miri rìfonnare, non abolire. — Dd moMchlinwwientalee
delPocci- dcntale. Como ijueila si poiH rendere fmtluoio al nodro
inri- vilimento. Danni che nascono
dai diìoiirì degeneri. — In cbs modo irrati possano influire salutarmeate
nella politica ecotqM rare ai progresai civili. — Essi debbono mettere
ndl' opinione il precipuo fondamento della loro vHa. — D colto ddle
iciauie e dèlie lettere in generale, ma i^edalinenie della aiosoBa, ddia
po- litica e dell'istoria si addice al loro minislerìo. — La
scienia ideale i inoiiaslìca [ter ecccllcnia. Esurlaiionc ai venerandi
alunni dei chiu;lru ilaliaiio. — Della digniu'i clericale. — Gli ec-
ctcsiaslici debbunu guardarsi cautamenle dall' impicciolire o avvi- lire
le co» della rclìgiuiic. — Si uLbiclla che Ì popoli moderni sono men
grandi degli antichi. — Risposta. — Ddla lollerann cristiana. — Perche
nei tempi addietro violala In alcuni paeii- — Tali viotaiioDÌ non si
possono imputare alla Cbieta cattolica. — Delk àoleeiia, |)ru(1enia e risi:rva
clericali: nel dtspularr a nei conversare. — Si rancluitc moslrando che
il risorgimento d'ilalia I non pai iver luogo , sa non ri rimetlono in
onora gl'ingegni pri- I vileglati, e non «i soUrae rindiiiuo delle cose
ri TOlgo degli j nomini oiediocrì. La riflessione ontologica ferma,
circoscrive, determina , chia- rifica l’Idea, cioè Dio: ma nella parola si
rannicchia, s'incarna, si compie l’ Idea : la parola porge l’idea cosi
rannicchiata ed incorni- ciata ed incarnata e compiuta alla riflessione. Qui
covano , pare , molte contraddizioni. Se la riflessione, che chiarifica e ferma
l'Idea; qual bisogno ch’essa Idea si rannicchi c si restringa nella parola?
qual bisogno che la parola compia l’Idea, se la riflessione arreca distinzione,
chiarezza, delineazione nella medesima? Se quel che fa la parola, fa la
riflessione altresì, una delle due è superflua: am- metter l’una c l'altra, è
metter luna in contraddizione dell’altra : supporre cioè che l’una non basti,
senza l'altra, a ciò a che basta veramente. Mavia: prendiamol’una e l’altra
perdelerminalricidel- l'Idea, cioè di Dio. 11 Gioberti diceva che nell'intuito
l’uomo è as- sorbito dall’Idea, non la conosce neppure. Siccome dall'altra
parte diceva eziandio, che « lo spirito trova se stesso in Dio e il mon- do in
se medesimo »; ne viene che anche la riflessione è in Dio as- sorbita collo
spirito : che il mondo lo è pure: e col mondo la pa- rola, parte di esso. In
cotale assorbimento dell'uomo, della rifles- sione, della parola ; assorbimento
che toglie ogni cognizione , non è assurdo c contraddittorio il dire che la
riflessione e la parola , o tulle due insieme, servano a svegliare lo spirito
assopito , esse assopite; servano a chiarire e determinare, esse confuse e
indeter- minate nella universale confusione ed indeterminazione del Ciclo e
della terra, del Creatore c delle creature ? n) Inlrod. b) lìti pillilo rhe li'ga. e) Errori l. p.
201. Digitized by Google ) 55 Cosa sarebbe l'intuito Gioberliano ?
a) la visione -di I)io crean- te; cioè della natura divina, dell’atto creativo,
de’ termini di code- sto atto. Cos'è la parola? un segno creato b). L’intuito
dunque do- vrebbe pure vedere la parola: la parola sarebbe parte della formu-
la, intuita per natura da tutti gli uomini; chi* l'Ente creante non può essere
veduto senza gli effetti del suo operare. Ma se nell’og- getto dell’intuito è
la parola, è la riflessione altresì, come cosa creata anch’essa; se l’Idea col
creare illustra c), e quindi deter- mina; illustra la parola altresì e la
riflessione. Ecco nuova contrad- dizione e circolo nel dire che la riflessione
e la parola servono a delincare all’intuito ciò ch’egli ha ad oggetto delincalo
dalla natu- ra: illustrare ciò onde vengono esse illustrate. La quale
contraddizione o circolo risulta da molte altre sen- tenze del Giebcrli
applicabili al proposito presente. Sentenza sua è. di frequente, che i
sensibili sono per sè inconoscibili; e solo per l’intelligibile, cioè per
l’Idea, siano conosciuti. « L’apprensione sen- si sitiva non è un elemento
intellettivo » </). 11 sensibile non può « essere pensalo altrimenti, che
nell’intelligibile » r) « L’intelli- « gibile rischiara appunto i sensibili,
perché li produce, come l’En- « te e i sensibili sono illustrali dall'
Intelligibile, perché ne deri- « vano, come esistenze » Avca detto prima «
l’Eute è altresì « l’Intelligibile, c le esistenze sono i sensibili ». Le
creature so- no per sè inintelligibili, nè s’intendono che « in virtù
dcU’intcl- g Errori Errori li. p. 141.
v) Ivi p. 163. l) Ivi p. 159-160. m) lntrod. ii. p. 14. n) Errori n. p. 45. un
vero sensibile >. Errori i. p. 257. g) « Il sensibile è subbiedivo è
inconosci- f). « ligibililà assoluta » n bile di sua natura » A): « è per se
stesso inconoscibile e sub- ii bieltivo, non intellettuale, nè obbiettivo,. è
rispetto alla nostra co- se gnizione un pretto nulla » i). « L'intelligibile
(l’Idea, l’Ente) ii inonda lo spirito di un continuo chiarore, e gli rende
conosci- li bili tutte le cose » l). Ora « La parola come ogni segno, è un ,
<i sensibile » m). Dunque per sé inconoscibile-, inintelligibile. Solo
l’Idea, l’Intelligibile la rischiara, la illustra, la Ja intelligibile
all’uomo. « Tanto è lungi, che la parola provi l'Idea razionale, che anzi que-
ll sta dimostra l'autorità di quella. » n). « Questa (la parola) e la a) Dico
sarebbe, perché il Gioberti stesso Io distrugge in mille maniere, come vedemmo,
e vediamo rontimitinenle. t) Siccome it sensibile appartiene alla categoria
delle esistenze, e queste pro- cedono dall'atto creativo, la parola b di tua
natura un effetto della c reazione. L’idea -« crea «I segno che l’esprime .
Primato, il. p. 15. e) Errori li. p. 352-353. ri) lntrod. n. p, 165. e) Ivi p.
166. f) Ivi p. 562. Qui de» esserci corso errore di stampa, o nella
sostituzione deila voce Iati ad esistenti; o nella punteggiatura. Perche l'Eulc
non deriva dall'Intelligi- bile come esistenza. Dovrà leggersi, crrdo, il
periodo: « I.’ Intelligibile rischiara ap- « punto i sensibili, perché li
produce, come l’Ènte; e i sensibili ccc. » « riflessione stessa ripugnano, se
non sono antivenute o guidate da « un lume intellettivo, da cui, (e non dalla
parola che per se stcs- « sa 6 un mero sensibile) l’evidenza e la certezza
provengono » a). Come pertanto può dirsi che la parola « si richiede per
ripensare « l’Idea »; che « il sensibile è necessario per poter riflettere, e «
conoscere distintamente l'intelligibile »? b). Una cosa inconosci- bile per sé,
non conoscibile che per l’Idea; come potrà servire ad illustrare, a chinrirc
l’Idea, da cui riceve lutto il chiarore che pos- siede? L'idea illumina la
parola; la parola illumina l’Idea? Non v’ha circolo qui c contraddizione? Che
se amiamo trarne Inora qualciin'aitra, il modo non man- ca. G. scrive talora,
che « l’idea, incarnandosi in una forma sensata, scade sempre dalla propria
altezza. L’idea dunque, se s'incarnasse nella parola, veramente scadrebbe
secondo quel testo; perderebbe di sua perfezione. Come può stare pertanto che
la parola, determini, illustri l'Idea, la compia, cioè la perfezioni? come può
stare che l’Idea per compiersi c perfezionarsi s'incarni in un sensibile, che
la guasta e la rende imperfetta ? La parola ch’è detta in un luogo da G. « un
sensibile in « cui s'incarna Vintelligihile »; diventa in un altro « una copia
mon- « diale, contingente e linita del modello divino, necessario e infi- «
nilo, c un individuamenlo dell’idea eterna » d). Siccome questo modello c idea
eterna è l'Intelligibile stesso, Dio; quindi la parola è una copia, un
individuamenlo di Dio nel quale s’incarna Dio. E notate, che « tante sorti di
parole create si trovano, quante sono « le specie della esistenza »; una parola
matematica meccanica ed idraulica, che sono i numeri , le figure, i movimenti;
una parola fisica, cioè i fenomeni di natura; una parola estetica c sono i ti-
pi fantastici; una parola storica, c sono i fatti transitori o permanenti degli
uomini, gli eventi ed i monumenti; una parola sovran- naturale, e sono gli
avvenimenti ffrodigiosi e sensibili; una parola liturgica « ordita di emblemi e
simboli; c infine una parola grani- li malicale, parlata c scritta, ma per se
stessa arbitraria , c però « diversa dalle specie anteriori, che sono tutte
naturali e) la (piale « serve ad esprimere i concetti dell’animo e quindi a
tradurre ogni « altro genere di favella » /). Di tutte pertanto le cose create
dee dirsi ciò che della parola grammaticale: sono sensibili in cui s'in- carna
Iddio; sono altrettanti individuamenti di lui; che lo compio- no, lo
determinano, lo fermano, lo circoscrivono, lo illustrano: quan- tunque siffatta
incarnazione lo umilii veramente , sconci. a) Errori i. p. 208. b) Inlvofl. u.
ii. li. e) Ges. Moti, tv: p. li. d) Prima!-» li. p. 10. e) Anche la parola
sovrtwnnfurtile ? fi Ivi. lo abbassi , lo r Nasce però curiosità di sapere,
perchè mai nella parola s’in» carni l'Intelligibile; ina nou « in quanto
rispleude aU’intuilo ><: *ib- bene « in quanto riverbera (cioè ridette)
sulla riflessione » in quel punto famoso di contatto che lega Dio coll’uomo ?
La riflessione, si è detto, che mediante la parola circoscriveva , compiva
l’idea o) ; quindi la parola preceder dovrebbe la riflessione. Ma se la parola
contiene l’Idea in quanto riflette mila riflessione dell'uomo ; la ri-
flessione sarà preceduta alla parola: così la riflessione va innanzi alla
parola; e la parola va innauzi alla riflessione nella stesso tem- po. Eccoci di
nuovo ucU’uno via uno. Se la dottrina della riflessione determinatrice e
illustratrice deU'iuluito fosse vera, dovrebbe dirsi che la riflessione guida
per mano l'intuito, lo signoreggia. Or bene di ciò fa le risa il Gio- berti
contro i psicologisti: « lo aveva credulo finora che la cecità « sia la causa
principale per cui non si scorgouo gli oggetti: ora « siccome l'intuito, non
che esser cieco, è la fonte della risiane, e v la riflessione non cede, se non
in quanto partecipa alla luce intui- « tira, dovremmo dire, alla stregua dei
psicologisti, che tocca al « cieco il guidar per mano, non mica gli altri
ciechi, (il che sa- « rebbe già degno di considerazione), ma chi 6 veggente in
mo- ie do perfetto; cosa per vero singolarissima ». h) Bene slà. Ma quel- li l’Ontologo,
che pone per una parte l'intuito del Sole stesso Eter- no Divino; e immagina
dall’altra una riflessione e un inondo di pa- role che sono necessarie a
determinare, fermare, ed illustrare il so- le, da che sono esse creale ed
illustrate; quegli è che s'introniBtte di far guidare i veggenti
perfettissimamcnle da’ ciechi; che si pensa di accendere il sole di mezzogiorno
colle tenebre della mezzanotte. 11 Gioberti consuona al Rosmini nel riconoscere
la necessità della parola per la riflessione. Differisce però dal medesimo nel-
l’asscgnarne la ragione : per dir meglio: il Rosmini ne dà ragione,
('impossibilità di spiegar altrimenti la formazione delle idee astrai- le: il G.
non ne porge nessuna, c). Imperocché non sembra- mi prova quel dire che « il
punto indivisibile , di cui abbiamo « discorso di sopra, » (il punto che lega
Dio e l’uomo combacian- tisi), « non può esser termine del ripiegamento
riflessivo, se non ve- « stendo una forma sensibile. E siccome non è sensibile
per se stes- ti so, siccome versa in una mera relazione intelligibile, l’unico
mo- ti ilo, con cui possa rendersi sensato, consiste nell'incorporazione «
mentale d) di un segno, cioè della parola » e). Ma perchè quel o) I.a rbiama
perciò . un semplice insinimentn necessario per mettere la ri- flessione in
commercio colf intuito »; Errori i. p. 200, « Strumento riflessilo « Semplice segno insidine male » p. 2t9. »
stimolo per mi rumineia «I al- « luorsi (l'iiniiiio umano), e il polline ette
lo feconda »; Primato, II. p. 15: « occs- • sione, cagione, inslrnnirntale del
lero ». Necessità della parola. Bello p. 137. 6) Introd. il. p. 134. e)
Rosmini, S. Saggio. e. 4. a. I. Filo». Polii. Voi. p. 151-153. d)
Incorporazione spirituale. c) Errori punto, rhY' puro relaziono intelligibile,
ohe anzi è la cagnizinne, ro- llio vedemmo , perché « non può esser termine del
ripiegamento « riflessivo, se non vestendo una forma sensibile, se non renden-
ti dosi sensato, se non incorporandosi in un segno »? Il Gioberti noi dice.
Altri osserverà nondimeno che non solo noi dice ma nem- meno può dirlo nel suo
sistema: che perciò é impossibile al Gio- berti di provare la necessità della
parola. Egli afferma, che « l’uo- « ino nou può meglio nel suo stalo attuale
riflettere senza parola, « che favellar senza lingua, vedere senz’occhi, c
pensare senza cor- « vello. Senza il linguaggio l'uomo ha ragione; ma non uso
di ra- ti gione, ha la riflessione in potenza, non in atto » a). Il che dice
essere « applicazione speciale ili una legge generale dello spirito. La qual
legge si è, che la riflessione universalmente non si può cser- « citare, se non
mediante il concorso del sensibile coirintelligibile » l). Ora di quale dell»*
due riflessioni, già distinte da lui, parla il no- stro autore?
Dell’ontologica: perchè dell’altra confessa che il sen-sibile è l’oggetto
medesimo dell'alto riflesso, onde la parola non en- ti Ira necessariamente nel
suo esercizio, se non in quanto tal ri- ti flessione si connette colla
riflessione ontologica; imperocché il sensibile per essere pensato non ha
d’uopo di un altro sensibile, che « lo vesta e lo rappresenti » c). lo nè
ammetto nè ripudio tale ra- gione: ma l'ammette G. certamente. Dunque a sola la
riflessione ontologica è la parola necessaria. Perché? perchè « in os- ti sa il
sensibile non è somministrato dall’oggetto dell’operazione « il quale è il stdo
intelligibile i d). Sla codesto e falso: è falso che oggetto dell’ ontologica
riflessione sia il solo intelligibile, se- condo il Gioberti. Non ci ha egli
appreso che « la riflessione on- « tologica, tramezzando fra le due altre
operazioni (intuito e rides- ti sione psicologica), abbraccia congiuntamente il
soggetto e l 'oggetto « c li contempla con un allo unico? » c); che nella
riflessione Oli- ti tologica lo spirito si ripiega sovra di sé in quel punto
indivisi- « bile, in cui il soggetto tocca l’oggetto , c abbraccia quindi l’og-
« getto medesimo , come intuito dal soggetto? » f). Dunque non è
l'intelligibile solo, l’oggetto della riflessione ontologica; ma è il soggetto
eziandio, cioè il sensibile, oggetto della psicologica. Ma se questo non ha ili
bisogno di sensibile, di parola, per essere ripen- salo; se non n'ha bisogno l’
intelligibile, Dio, intelligibile per se stes- so: come n'avrà bisogno il punto
in che si congiungono si legano si toccano si combaciano Dio e l’uomo ? l’nione
di due termini, l’uno intelligibile per sé, l’altro per l'intelligibile, unione
di' è relazione intelligibile', perchè avrà d'uopo di sensibili, di segni, ad
esser og- getto di riflessione ? n’ Krrnri i. p. '20 fi. JThi|I. 201). r\ hi p.
ini. di Iti. e Krrori t. p. 136, [) Iti Che se « prima di credere alla parola,
bisogna intenderla » a); la parola a nulla servirà se non in quanto sia già in
quel punto, unione, unità, eh e la cognizione. £ se altronde la cognizione
dovrà esser vestila della parola , per diventar riflessione ; la veste dovrà
insieme essere il vestito, perché riflessione si ottenga, cioè cogni- zione
vera , come la chiama il Gioberti. Questa è una di quelle « soluzioni ed
avvertenze » di cui non v’ ha « il menomo vesti- li gio » in altri sistemi
prima del Giobcrliano li). Il che niuno vorrà negareDella unicertalilà
ecientifica dellafarmolu ideale. Aimcoio punto. Prtamiolo. — L* formolo
roiionale dee contenere I* organismo degli eie- menti ideali.—Per conoscere
questa organizzazione, bisogna riscontrare essa forinola 1 coll albero
enciclopedico.^-L’enciclopedia si compone di tre parti , filosofia, fisica e
matematica, cko corrispondono alle tre membra della iormola.—Della filosofia in
ispe- cicr si stende per tutta la formolo.—Dell* ontologia, psicologia ,
logica, etica e ma- tematica ; come si connettano coi rari termini di quella. —
Tavola rappresentativa deiralbero enciclopedico, conforme alC organismo
ideale.—Spiegazione generica del- la tavola. —Dello scienza ideale. —Della
teologia rivelata e della filosofia.—Princi- pato universale della
prima.—Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Primato dell'ontologia
fra le varie discipline filosofiche ; necessario, acciò queste siano in fio-
re. —Della teologia universale. . 7 Digitized by Google Articolo
secondo. Delia matematica. — La matematica tiene un lnogo mezzano tra la fi-
losofìa e |a fìsica —Insufficienza della filosofia moderna, per dare una
teorica soddi- sfacente del tempo c dello spazio. — Dichiarazione di queste due
idee, c dell* oggetto loro, mediante la forinola ideale. 14 Articolo terzo.
Della logica e (Iella morale. —Queste due scienze hanno ciò di comu- ne, che
appartengono al termine medio della formolo. —Della logica in particolare, c
delle varie sue parti — Dell* etica in ispccicr. — Dei due cicli creativi, e
dei loro riscontri. — Convenienze, che corrono fra loro. — Della legge morale. Dell’imperativo.
Del dovere, e del diritto. Dei tre momenti dell’ imperativo. Del mal morale, e
del mal fisico, che ne conseguita. Della pena eterna. Della cosmologia. Versa
nel terzo membro della formolo. Dei duo cicli generativi. Varie sintesi, di Cui
si compongono. Dell' ordine dell* universo. Del concetto teleologico. L’idea di
fine ci è somministrata dal ciclo creativo. Dell’estetica. Del sublime e del
bello, t-Delle varie loro specie, e del modo in cui si connettono colla
formolo. Del maraviglioso. Della politica. La politica moderna deriva dal
psicologismo cartesiano. Quindi i suoi tizi. Gli stateti odierni, non hanno
veri principii, perché mancano della cognizione ideale. 1 difetti della teorica
hanno luogo del pari nella pratica. —La civiltà moderna dee fondarsi su quella
dei bassi tempi. —Dell* apof- tegma del Machiavelli, che le instituzioni si
debbono filirare veto i loro principii. —In che senso sia vero..—Benefici
influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.— Di Cesare, institufore della
tirannide imperiale. — Connessila della licenza colle dottrine di Lutero e del
Descartes. — Della idealità delle nazioni. L* Idea é fonte del diritto.
—Attinenze del dovere col diritto, c delle varie specie loro. —Della sovranità.
La sovranità assoluta è 1* Idea. — Della sovranità relativa c ministeriale. —
Non si trova in separato nel governo o nel popolo. —La società non è d’
instituzione umana, ma divina. —Cosi anche il potere sovrano. —Due doti
essenziali di questo potere , intorno al modo, con cui si tramanda e perpetua
di generazione in generazione. — For- inola della politica. Assurdità del
suffragio universale. —La capacità dee,accompa- gnare il potere sovrano; ma non
basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indi- pendente dai sudditi.
—La perfezione della sovranità consisto nell* unioqe del potere tradizionale
colla sufficienza elettiva. — Il sovrano non può mai farsi da sé in nessun
caso. Ogni potere sovrano è divino. Inviolabilità del potere sovrano. Delle
rivoluzioni, e delle contrarivoluzioni: che cosa si debba intendere sotto
questi nomi. La verà rivoluzione, essendo 1’attentato contro una sovranità
legittima, è sempre, illecita. Lo stato politico di un popolo dee corrispondere
a’ suoi ordini primitivi c anticati. La monarchia é necessaria al di d* oggi
alla libortà europea. L' investitura della sovranità in una famiglia é
inviolabile, corno il dominio privato. — Il potere ereditario, c la capacità
elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Conformità della nostra
sentenza colla dottrina cattolica intorno all* inviolabilità del potere
sovrano. —1 fautori del- la licenza invertono la formula politica. 31 Asticolo
settimo. Epilogo. —L* idea divina ó la suprema forinola enciclopedica'. —
Universalità dell’ idea divina. — L* ontologismo non é un metodo ipotetico,
corno quello dei psicologisti. — Iddio è 1* Intelligibile: é 1* alfa e 1* omega
della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie
parti della filosofìa. Si Dtll'a
conservazione dellaforinola ideale. La conservazione della forinola è opera
della rivelazione. — Definizione di questa. — Suoi diversi periodi. — La
confusione della filosofia colla religione nocquc in ogni tempo ab- la scienza
ideale. —Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi —Del razionali- amo
teologico fiorente al di d’oggi. — Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La
cri- tica storica dei ra/ionalisti pecca per difetto di canonica. —Il
razionalismo confondo insieme i rari ordini di fatti e di veri. — Sua
vecchiezza. — Dei Doceti. — Il raziona- lismo è un vero naturalismo, i— Del
sovrannaturale : sua definizione. — Necessità di esso, per l’ integrità dell’
Idea. — Possibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’
ordino sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l'Idea della
ragione. — Nullità sintetica o filosofica dei moderni razionalisti. — Il
Cristianesi- mo é la religione universale. — Non si può mettere in ischicra
cogli altri culti. — Sua singolarità. —Le false religioni non distruggono l’
universalità del Cristianesimo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di
ogni tempo. -—Si confuta una sentenza del- lo Strausse. — Le false religioni
sono lo sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cristianesimo
sovrasta, e non Sottostà alla coltura più squisita. — La civiltà moder- na, che
lo combatte, è una barbarie attillata Delle prove interne della .rivelazione. —
Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’
Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione dell' Idea, chfe vi è
rappresentata. — O- scurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile
semplicità, e sua differenza dai la- vori sincrctici dell' ingegno umano. —
Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo
le varie ragioni. — Della inspirazione dei libri sacri. — Sua definizione, natura,
estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionali- sti. — L’
ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela-
zione. — Della predestinazione degl’ individuile dei popoli. — Eccellenza delle
nazioni e delle lingue semitiche. Dei popoli giapctici : loro divario dai
Semiti. — Delle na- zioni madri. — Degl’Israeliti; conservatori dell’Idea
perfetta, prima di Cristo. — Dei fati -del popolo ebreo. — Della scienza
acroamatica ed essoterica. — Fondamento natu- rale, o universalità di questa
distinzione. — Della ordinazione civile e religiosa degl' Israe- liti. — Oltre
la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica c tra-
dizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa 'distinzione presso il popolo eletto.
— Il Cristianesimo rese essoterica la scienza acroamatica degl' Israeliti. —
L’alternativa dcl- racroaraatismo c dclf essoterismo èia sola variazione, che
si trovi nella storia dell' Idea rivelata. — Perchè Mosé non abbia insegnata
espressamente i’ immortalità degli animi umani. Gli Ebrei non tolsero dagli
stranieri la loro angelologia e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo
proprio dei razionalisti.’— Falsità del loro metodo nel cer- care 1’ origine
delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina esso-
terica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti c i
Gentili. Del fìguralismo ebraico. Non è un trovato recente degl’ Israeliti
ellenisti. Falso concetto dato dal sig. Salvador delle iustituzioni mosaichc. —
La furinola idea- le e il telegramma , erano il nesso della scienza acroamatica
ed essoterica presso gl* Israeliti.Dell' alterazione dellaformolo ideale. La
barbarie non fu lo stato primitivo dogli uomini.*—La storia delle religioni
tion comincia dal sensismo, — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse
presso molti popoli la cultura primitiva. —Vicende civili delle nazioni. —Del
patriarcato. —- Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei
sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto
1’ imperio ieratico. —'I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente.
—Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. —Il
sacerdozio conservò le reliquie dell’ antica dottrina acroamatica ; fondò 1*
essoterica. — In che modo la mitologia .é la simbolica potessero esser- opera
della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la
filosofìa. — Vari indirizzi della fi- losofìa gentilesca.—Riscontri .
dell’antico c del nuovo paganesimo. —Vari gradi, per cui passò l' alterazione
della forinola ideale', oscurità, confusione, dimezzamento e disorga- nazione.—
Cagioni dell’ alteramente : predominio del senso e della fantasia; influenza
del linguaggio sull’idea, e dell’ essoterismo sull’ acroamatismo ; dispersione
dei popoli, perdita dell’unità universale. — Del culto dei fetissi. Di un
doppio moto contrario, re- gressivo e progressivo, delle instituzioni
religiose.—Esempi.—Quattro epoche della co- gnizione ideale: intuitiva,
immaginativa, sensitiva e oslrattiva.-»-Se nel vario e succes- sivo alterarsi
della forinola, si mantengano i suoi tre membri, e come? Tavola delle
trasformazioniontologichedellafòrmolaideale, corrispondentiaivaristatipsicolo-
gici dello spirito umano. —Dichiarazione della tavola. —Dell’ epoca intuitiva;
corno 1' uomo ne sia scaduto. —Il mal morale consisto nella negazione del
secondo ciclo crea- tivo.— Dei mezzi sovrannaturali per conservare lo stato
intuitivo. —L'essoterismo fu l’oc- casione della perdita di esso. — Dell’ epoca
immaginativa. — Del naturalismo fanta- stico c dell’ cinanatismo propri di
questa epoca. — Indole poco scientifica dell’ ema- natismo. — Sua forinola. —w
Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli
cmanatisti. — Della loro dualità primordiale, e delle dualità successive. —
Dell’ androginismo , e delle dee madri ; loro connessione coll’ emanati- smo. I
fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del
Kincrctisino emanatistico. — Dei due cicli di tal dottrina: 1’ emanazione. *—
Del ciclo remanativo: sua natura. —Corrompe la morale, c introduce il
pessimismo. Delle varie età cosmiche, secondo i miti di molti popoli Gentili. —
come 1’ ottimismo c il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli
em&ftatisti. —Degli aratori, della teofanie o logofanie permanenti e
successive, e delle apoteosi. —Come il sovrintelli- gibile si trovi alterato
fra queste favole. —Del politeismo; nato dall’ emanatismo. Sua indole, e sue
varie forine. —Tutti i popoli politeisti conservano una reminiscen- za della
unità ideale. — Dell’ idolatria : sua natura. — Del panteismo: ò una riforma
ieratica dell’ emanatismo. —Il panteismo scientifico non potè essere il primo
sistema nella via dell’ errore. — 1/ emanatismo e il panteismo sono
sostanzialmente una mede- sima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e
poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —Proprietà speciali del
panteismo. —Universalità del panteismo nel re* gnu dell’ errore. —Tutti i falsi
sistemi vi si riferiscono. —Qual sorta di progresso possa avero Terrore. —Varie
forme del panteismo* —Della condizione del sacerdozio i —— 201 Digitized
by Google dopo la rovina dello stato castale. —Dei Misteri, da cui
uscì la filosofia laicale. Dell’ateismo. —Questo sistema non potò essere
anteriore al secondo periodo della fi- losofia secolaresca. —Si rigetta l!
opinione di un ateismo indico antichissimo —Del sovrintelligibile. —Serbato in
parte dai sacerdoti, o perduto affatto da' laici filosofan- ti, salvoclié dalle
tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia e della Grecia. —Dei tentati- vi
antichi c moderni, per riedificare umanamente il sovrintelligibile. —Si
conchiude, accomando brevemente il tenia del secondo libro NOTE. IQS Nota
prima. Sulle denominazioni moderne dell* Io e del Me. Di alcune dottrine
erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. 166 Errori di un giornalista
francese sull’ amor di Dio. Del tempo e dello spazio, secondo il processo
ontologico. Passi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. Della
importanza, che la religione dà alla vita temporale. Degli attributi divini
ontologicamente considerati. L Influenza della colpa primitiva in tutte le
parti del pensiero e dell'aziono umana. Dei vari sistemi sulla natura delle
esistenze. IL Sull*infinità del mondo. 173 Sugli assiomi di finalità o di
causalità. 174 Se l'abolizione della schiavitù e del servaggio si debba
attribuire al Cristia- nesimo? Sull’origine della sovranità in alcuni casi
particolari. Dell'orgoglio civile. Sui diversi modi, con cui si può dimostrare
l’esistenza di Dio. L'idea di Dio non è solamente negativa. bit. Sulla voce
rivelazione. Di varie spezie del razionalismo teologico. Dei miracoli
posteriori allo stabilimento del Cristianesimo. Passo del Malebranche sull’idealità
del Cristianesimo. Passo del Leibniz sulla rivelazione. . Sulla credenza
antichissima dei Samaritani nella risurrezione dei morti. Si esamina la
dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esi- stenza
degli angeli. I razionalisti confondono la dottrina acroamatica colla
essoterica. Sul fatto di Babele. . Del sincretismo dei falsi culli, doma, mito
e simbolo zendico, ISci culti barbari l’ Idea è esclusa dalla religione, c non
dalla scienza umana. . 32. 33. 1/antropomorfismo e il psicologismo essoterico.
194 Del panteismo di Ulrico Zuinglio. Passi dello Spinoza conformi alle
dottrine del razionalismo teologico. 19ti Sul psicologismo degli eretici. Ib.
Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fa-
talismo.DELLA DECLIAAZIOSE DAGLI SITUI SPECl'LATIV I, I* OHUISE ALL' UGGETTO.
Della Idea. È primitiva, indimostrabile, evidente, e certa per sé stessa.
Necessità della parola per determinare c ripensare l'Idea. — 1 progressi della
cognizione ideale rispondono alla perfezione dello strumento, con cui si
lavora, cioè della parola. Il linguaggio fu inventato dall' Idea, clic parlò sè
stessa. L’evidenza e la certezza riflessiva abbisognano della parola. Il
sensibile è necessario per poter ripensare l’intelligibile. L'Idea è l’unità
organica, la forza motrice, e la legge governatriec del genere umano. L'Idea è
l’anima delle anime, l'anima della società universale. — Ella può oscurarsi, ma
non ispegnersi affatto. — Del suo primo oscuramento, e degli effetti, clic ne
seguirono. — Perdita dell’ unità ideale , c morte morale del genere umano.
Diversità delle stirpi. Dell’ instaurazione sovrannaturale dell’ unità
primitiva. — Del genere umano secondo l'elezione, sostituito al genere umano,
secondo la natura. — La Chiesa è la riordinazionc elettiva c successiva del
genere umano. — Vicende storiche della Chiesa. — Colla perdita dell’ unità
ideale venne meno al genere umano la sua
infallibilità,chepassònellaChiesa.—Quandoil genereumano riacquisterà questo
privilegio. — Chi è fuori della Chiesa, è fuori del genere umano. —
Composizione organica della Chiesa. — Chiesa c conservatrice e propagalrice
dell’ Idea : unisce il prin- cipio della quiete a quello del molo. — Delle
forinole definitive della Chiesa. — Della scienza ideale, razionale e rivelata.
— Attinenze reciproche di queste due parti. — La scienza razio- nale, o sia la
filosofia, si distingue in due grandi epoche, ciascuna delle quali corrisponde
a una rivelazione. — Il nesso fra la rivelazione e la filosofia è la tradizione.
— I.’ alteramente della tradizione, e quindi della verità, fu nella sua origine
una confusione delle lingue. — L* effetto di questa confusione fu il
gentilesimo. — L’organizzazione ecclesiastica è la sola via, con cui si possa
conservare intatta la tradizione. — Della Chiesa giudaica, c della sua
diversità dalla cristiana. — La filosofia gentilesca avea colla rivelazione
primitiva una relazione diversa da quella, che corre tra la filosofia cristiana
c la rivelazione evan- gelica. — Due tradizioni, religiosa c scientifica. — Due
classi di sistemi filosofici; gli uni tradizionali e ortodossi; gli altri anli-
tradizionali ed eterodossi. — I primi suddividonsi in progressivi,
cregressivi.—Qualitàprincipali,percuii sistemieterodossisi distinguono dagli
ortodossi. — La filosofia ortodossa è perpetua. — Vari modi, con cui i sistemi
eterodossi possono rompere il filo della tradizione. —Tre.età della filosofia
cristiana. —Dell’età moderna.—Delpsicologismo: definizionediesso,edell'onto-
logismo, che gli è contrario. — Il psicologismo è l'eterodos- sia moderna delle
scienze filosofiche. — Renato Descartes è il suo fondatore ; gran matematico ,
meschinissimo filosofo. — Paralogismi puerili del suo metodo. — Presunzione
intollerabile del suo assunto e delle sue promesse. — Cagioni, per cui il Car-
tesianismo invalse, ed ebbe una certa voga. — Due dottrine c due letterature in
cospetto P una dell’altra, tra il secolo decimoquiuto c il sedicesimo. — Abusi
e disordini, che allora regnavano. — Necessità di una riforma’ cattolica. — Tre
riforme eterodosse ; due religiose, la terza filosofica. — Il tedesco Lutero, e
l'italiano ocino, autori delle due prime; il francese Descartes, della terza. —
Vizi della Scolastica, che prepararono gli errori più moderni. — Analogia del
metodo protestante col metodo cartesiano. — Il Descartes non liberò la
filosofìa, come oggi si crede, ma la ridusse
WS in scrvilu. —Contraddizioni ridicole della sua dottrina. —Il
Descartes non somiglia a Socrate pel metodo, ne a Platone per la
teoricadelleideeinnate.—Vizidelpronunziatocartesiano: io pento, dunque tono. —
Il sensismo nc è la conseguenza. — Assur- dità del sensismo. — Il predominio
del sensismo ha impicciolita — la filosofia moderna. — Danni recati da esso
agli studi storici. — La religione è la chiave della storia. — La filosofia
nata dal ('.ar- tesianismo si divide in cinque scuole. — Del razionalismo
psico- logico diverso dall’ ontologico. — Due classi di filosofi francesi. — Di
alcuni eclettici francesi in particolare. — Si annoverano i diversi vizi e
inconvenienti dell' eclettismo, e quelli del psicolo- gismo. — Obbiezioni dei
psicologisti : risposta. — Del senso ontologico. — L'ontologismo è conforme
all’ indole e al processo del Cristianesimo. — llicpilogazioue delle cose dette
in questo capitolo. DELLA FOIJIOLA IDEALI. I Che cosa s’intende per forinola
ideale. Metodo, che l’autore si propone di tenere in questa ricerca. Del Primo
psicologico ontologico c filosofico. Il Primo filosofico abbraccia i due altri.
— Varie dottrine sul Primo psicologico e ontologico. — Teorica di Antonio
Rosmini intorno al concetto dell’ente consideralo, come Primo psicologico : si
riduce a quattro capi. — Critica del sistema rosminiano : il Primo filosofico è
l’Ente reale. — L'Ente reale è astratto e concreto, generale e particolare,
individuale e universale nello stesso tempo. — La filosofia moderna erra
spesso, mutando il concreto in astratto. — Vari generi di astrazione c di
compo- — sizione. — Il Primo filosofico contiene un giudizio. — Doti spe- ciali
di questo giudizio : 1° consta di un solo concetto, che si replica su se stesso
; 2° è obbiettivo, autonomo e divino, vale a dire, che il giudicante è identico
al giudicalo. — Il giudizio divino essendo il primo anello della filosofia,
questa è una scienza divina e non umana nel suo principio. — Il giudizio
divino, con- tenuto nel Primo filosofico , non basta a costituire la forinola
ideale. — Ricerca di un altro concetto per compiere la formola. — Della nozione
di esistenza : analisi del concetto e della parola. — Egli è impossibile il
salire logicamente dal concetto dell’ esis- tenza a quello dell' Ente. —
Bisogna adunque discendere dal con- cetto dell' Ente a quello di esistenza.—
Necessità di un concetto in- termedio per effettuar questo transito nel
processo discensivo. — L’idea di creazione è il legame tra le due altre. —
Obbiezioni controdiessa: risposta.—IIprocessopsicologicocorrispondeall’
^ontologico. — Lo spirito umano è spettatore continuo, diretto e immediato
della creazione. — L'idea di creazione contiene un fatto primitivo c divino,
che è il primo anello delle scienze fisiche e psicologiche; quindi tutta l’
umana enciclopedia è divina nel suo principio. — Compimento della formola
ideale. Altro giudizio contenuto in essa formola. — Distinzione c
inseparabilità psico- logica dell’Ente e dell’esistente. — Del vero ideale e
del fatto ideale.—Obbiezionecontroil nostroprocessoideale:risposta. — Dell’
organismo ideale. — Problemi metafisici, che non si pos- sono risolvere , se
non colla nostra formola , e ne confermano la verità. — 1° Del necessario c del
contingente. — 2“ Dell’ intelli- gibile. — 3° Dell’ esistenza dei corpi. —
Cattivo metodo di molti filosofi nel combattere l’idealismo. Dell’
individuazione. Dell’ evidenza c della certezza. Possibilità del miracolo
provata a priori. — Nuove obbiezioni contro la formula ideale : risposta. — 6°
Dell’ origine delle idee. — Vari sistemi dei filosofi su questo punto. Critica
della dottrina rosiniuiana, che tulle le idee nascano da quella dell’Ente, per
via di generazione. Esposizione sommaria della nostra dottrina sull’origine
delle idee : si riduce a tre capi. — Convenienza della nostra dottrina con un
pronunzialo del Vico. — 7° Dei giudizi analitici c sinte- tici. — Esposizione
della nostra dottrina sulle varie classi di giu- dizi sintetici. — 8° Della
natura del raziocinio. — Cenni su altre quislioni, che si attengono alla nostra
formola. — L’aver dis- messa o trascurata l’idea di creazione è la causa
principale degli orrori filosofici. — Vane promesse ilei moderni eclettici, c
flebo- — lezza della filosofia presente. — Per ristorarla, bisogna abolire il
psicologismo. — Il Cristianesimo rinnovò la forinola ideale. — Ili santo
Agostino : sue lodi : fondò la scienza ideale. — Della scienza ideale cattolica
: sue prerogative. — Degli Scolastici : loro difetti. — Del nominalismo e sua
influenza sinistra nel rea- lismo. — In che consista il perfetto realismo. Si
critica il principio fondamentale di Cartesio colla scorta della formola
ideale. — Di Benedetto Spinoza. — Tre epoche della filosofia te- desca. —
L’ontologismo dei panteisti tedeschi è solo apparente. — Critica del loro
sistema. — Vizi del panteismo in generale. — Convenienze del panteismo coll'
eterodossia religiosa, e in ispecie colle opinioni ilei protestanti, c con
quelle degli Ebrei, dopo la divina abrogazione del loro culto. 1 44»
prima.. Le sensazioni sono segni delle
cose. Passo del Leibniz sul nesso del pensiero colla parola. 279 Sulla base
ontologica della veracità. 281 Indivisibilità morale ilei Papa c della Chiesa.
282 Sullamutabilitàdelvero,secondoi panteisti. 283 Sulla universalità logica
dell’errore. 285 Passo dello Spinoza sull’ ontologismo. Passo di Cousin sul
psicologismo del Descartes. 28(1 Giudizio del Leibniz su Cartesio c sulla sua
dottrina. Del valore del Descartes nelle scienze fisiche. 28S Parere di
Cartesio sulla speculativa dei matematici. 292 Passo del Mcujot su Cartesio.
Ih. Dei furti letterari del Descartes. 293 Esame dello scetticismo cartesiano.
293 Passo dell' Aucillon sullo stile del Descartes. 29!) Della presunzione e
dell’ arroganza del Descartes. Sopra una sentenza del Vico. .706 A che e (Trito
i capi della Riforma scemassero il sovrin- telligibile rivelalo. 307 Che
gl’italiani hanno l’ingegno scultorio. Ib. Divario tra i Sociniani e i moderni
razionalisti. Ib. Esamedell’opinionedi Cartesiointornoalsuorogito. 308 Sul IVo
di Lutero. 328 Sul circolo vizioso del Descartes. 329 Esame dell’opinione
cartesiana, che Iddio possa mu- tare le essenze delle cose. 333 Vera idea della
filosofia socratica c platonica. 314 Sulle idee innate del Descartes. 343 Sopra
una sentenza del Thomas. 316 Passo del Leibniz sul Cogito di Cartesio. 317 Il
secolo attuale continua il precedente. Ib. Passo dello Stewart sulle
sciocchezze dei filosofi. 348 Passo del sig. Cousin sugli studi forti. Ib.
Sulla religione di Napoleone. 349 Critica di due opinioni del sig. Jouffroy.
331 Il sig. Cousin non conosce il sistema del Malebranche. 361 Quando nacque la
filosofia moderna , secondo il sig. Cousin. 366 Dell’ ontologismo cristiano.
367 Vari passi del Malebranche sulla visione ideale. 369 Si esamina la dottrina
del Rosmini sulla visione ideale. 377 Capitolo primo. L’ente ideale del Rosmini
è insussis- tente, benché non sia subbiellivo. Capitolo secondo. L’ente ideale
del Rosmini è obbiet- tivo c assoluto, benché si distingua da Dio. Tassi di FIDANZA
(si veda) c di Gersonc sulla visione ideale. 444 Medesimezza del concreto c
dell’astratto, dell'indivi- dualeedelgeneralenell’ordinedellecoseassolute. 132
Passi del Malebranche e ilei Leibniz sull’ eloquio ideale.Sulla confusione
dell’ essere coll’ esistere. 4556 13. / l’asso del Vico sul divario, che corre
fra le voci 4 I I essere ed esistere, e sull’ uso improprio, che ne fa il
Descartes. tb. Passi del Descartes, in cui questo filosofo sinonimo l ’ essere
coll’ esistere. 437 Sulla voce esistenze adoperata nella formula. 439 Sulle
nozioni del necessario, del possibile, del con- tingente, e sui principii, che
ne derivano. Ib. Della dualità ideale. 462 Passo del Malebranche sulla impossibilità
di di- mostrare l’esistenza dei corpi. 463 Sulle convenienze del sistema
cartesiano collo Spi- nozisrno. 464 Passo del Leibniz sullo stesso proposito.
468 Sopra due obbiezioni del Paulus contro il sistema dello Spinoza. Ib. Cenno
sulle tradizioni panteistiche dei Rabbini. 471 Di una opinione dell' Hegel
tolta dal Leibniz.DELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE.
Articolo primo. Preambolo. — La forinola razionale dee contenere l'organismo
degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna
riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si
compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle
tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta
la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ;
coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’
albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica
della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della
filosofia. — Principato universale della prima. Maggioranza della seconda sulle
altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc;
necessario, acciò queste siano in fiore. Della teologia universale. I Articolo
secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la
filosofia c la fisica.— Insufficienza della filosofia moderna, per dare una
teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due
idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo.
Della logica c della morale. Queste due scienze
hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella forinola. — Della logica
in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due
cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro.
Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre
mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita.
— Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo
membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si
compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’
idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell'
estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in
cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto.
Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano.
—Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè
mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del
pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia-
nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi
dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del
sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine
recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La
civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del
Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In
che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.
— Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della
tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine
di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte
del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. —
Della sovranità. La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e
ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La
società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere
sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si
tramanda c perpetua di generazione in
generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee
essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i
cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio
uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a
costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a
perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla
sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano
non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità
fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle
nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui, nè pareggia
lafratullii cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni,
e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera
rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre
illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c
tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini
primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà
europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla
salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere
ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli.
— Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica
intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del
dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli
ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola
enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un
metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è
l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea
divina nelle varie parti della filo- sofia.
de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della
forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi
periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo
alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del
razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi
fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica.
— Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua
vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale:
sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Possibilità
e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale.
— L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica
c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione
universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua
singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del
Cristianesimo. Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si
confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che
debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non
sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è
una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua
medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. —
La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è
rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile
semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. —
Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo
le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione,
natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’
ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela-
zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle
nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai
Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea
perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza
acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa
distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la
dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e
tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo
eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’
Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola
variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non
abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non
tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. —
Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare
l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina
essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti
e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’
Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu-
zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della
scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. DELL’ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai
barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni
non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse
presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. —
Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche
nell’ effet- luazione di esse. — Del
patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei
sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto
l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. —
Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il
sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò
l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera
della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la
filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell'
antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della
formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca-
gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del
linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione
dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un
doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni
religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale:
intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo
alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle
trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati
psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca
intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella
negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare
Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. —
Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo
propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua
formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina
dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità
successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’
ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla
cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina:
l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce
il pessimismo. — Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli
Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema
degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e
successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato
fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue
varie forme. — Tutti i popoli politeisti conservano una reminiscenza della unità
ideale. — Dell' idolatria : sua natura. — Pel panteismo : è una riforma
ieratica dell’ einanatismo. Il panteismo scientifico non poli- essere il primo
sistema nella via dell’ errore. — L’emanatismo e il panteismo sono
sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e
poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà speciali del
panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. — Tutti i falsi
sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere Terrore, —
Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la rovina
dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. — Dell’
ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo della
filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico
antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c
perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo
ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per
rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando
brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota prima. Sulle denominazioni
moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il
processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e
sullo spazio Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188
Degli attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine
erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista
francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le
parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura
delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e
di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’
abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al
Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari.
410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare
l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce
ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli
posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc
sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430
Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431
Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’
esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea
colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti,
-toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla
religione, e non L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del
panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine
del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della
dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4DELIA
LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. La forinola razionale dee
contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga-
nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. —
L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che
corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si
stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c
inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala
rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. —
Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia
rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza
della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie
discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della
teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. La inatcmalica tiene
un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia
moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. —
Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola
ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze
hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella forinola. — Della logica in particolare, e
delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e
dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge
morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti
dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. —
Della pena eterna. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. —
Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine
dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è
somministrata dal ciclo creativo. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. —
Delle varie loro specie, c del modo, in cui si connettono colla for- inola. —
Del maraviglioso. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo
cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri
principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica
hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato
dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi
dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del
sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine
recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La
civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del
Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che
senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. —
Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della
tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine
di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte
del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. —
Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e
ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La
società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere
sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si
tramanda c perpetua di generazione in
generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee
essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i
cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio
uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a
costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a
perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla
sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non
può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra
i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle
nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui, nèpareggialafratullii
cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle
con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera
rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre
illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c
tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini
primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà
europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla
salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere
ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli.
— Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica
intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del
dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli
ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola
enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un
metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è
l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea
divina nelle varie parti della filo- sofia. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A
ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini-
zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla
religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni
razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di
d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei
razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde
insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. —
Il razionalismoèunvero naturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. —
Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza
morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea
cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c
filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione
universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua
singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane-
simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta
una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano
temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla
coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie
attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’
Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della
Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità
della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai
lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove
esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi-
razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono
alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. —
Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei
popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli
giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ;
conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo.
— Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e
universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa
degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza
secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa
distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la
scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e
dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea
rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità
degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e
il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. —
Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. —
Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano,
per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico.
— Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal
sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il
letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’
Israeliti. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo
stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal
sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la
cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive
di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- luazione di
esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio
dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite
sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà
risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e
moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica
fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser
opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la
filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell'
antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della
formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca-
gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del
linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione
dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un
doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni
religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale:
intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo
alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle
trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati
psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca
intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella
negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare
Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. —
Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo
propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua
formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina
dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità
successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’
ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla
cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina:
l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce
il pessimismo. — ; Pelle varie età
cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il
pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari,
delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come
il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo;
nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popoli politeisti
conservano una reminiscenza della unitàideale. — Dell' idolatria : sua natura.
— Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo
scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. —
L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno
sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —
Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno
dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di
progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione
del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci
la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere
anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’
opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. —
Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti,
salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei
tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile.
— Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. Sulle
denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello
spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del
Malebranche sul tempo e sullo spazio. Della importanza, che la religione dà
alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati.
190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191
Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa
primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari
sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi
di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti.
412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al
Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari.
410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare
l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce
ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli
posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc
sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430
Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431
Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’
esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea
colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti,
-toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla
religione, e non L’antropomorfismo è il
psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello
Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo
degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col
psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A
FORMULA IDEALE. La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi
ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa
forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti,
filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della
forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. —
Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano
coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero
enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della
tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. —
Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre
scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc;
necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I
Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra
la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare
una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste
due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo.
Della logica c della morale. — Queste due scienze
hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella forinola. — Della logica in particolare, e
delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e
dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge
morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti
dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. —
Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo
membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si
compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’
idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell'
estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in
cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto.
Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano.
—Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè
mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del
pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia-
nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi
dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del
sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine
recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La
civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del
Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In
che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.
— Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della
tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine
di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte
del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. —
Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e
ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La
società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere
sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si
tramanda 461 c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli-
tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla
partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano
partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a
capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il
potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della
sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza
elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai
farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i
cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle
nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno
opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del
potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.—
La vera rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è
sempre illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c
tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini
primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà
europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla
salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere
ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli.
— Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica
intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del
dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli
ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola
enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un
metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è
l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea
divina nelle varie parti della filo- sofia. . de.i.la ccmsEavAziosz deli,a
rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. —
Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della
filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia
dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente
al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei
razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde
insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. —
Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità
di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del
miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è
universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei
moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si
può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false
religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di
questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello
Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi
civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più
squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. —
Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. —
La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta
dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in
alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici
dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne
della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri
sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni
dei razionalisti. — L’ ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. —
Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei
popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli
giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ;
conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo.
— Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e
universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa
degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza
secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa
distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la
scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e
dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea
rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità
degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e
il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. —
Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. —
Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano,
per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico.
— Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal
sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il
letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’
Israeliti. 1ì>5 lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La
storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni
diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. —
Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di
reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- luazione di esse. — Del
patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei
sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto
l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. —
Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio
conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In
che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine.
— La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari
indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo
paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale :
oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell'
alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio
sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e
perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto
contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. —
Quattro epoche dellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e
astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano
i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della
formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. —
Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca-
duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. —
Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo
fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del
naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco
scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo :
psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro
dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle
dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema
confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei
due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. —
Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ; Pelle varie età
cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il
pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari,
delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come
il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo;
nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popoli politeisti
conservano una reminiscenza della unitàideale. — Dell' idolatria : sua natura.
— Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo
scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. —
L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno
sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —
Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno
dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di
progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione
del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci
la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere
anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’
opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. —
Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti,
salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei
tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile.
— Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE.
Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del
tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e
del Malebranche sul tempo e sullo spazio.
Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli
attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine erronee
sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista francese
sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le parti del
pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura delle
esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e di
causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’
abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al
Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari.
410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare
l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce
ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli
posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc
sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430
Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431
Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’
esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea
colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti,
-toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla
religione, e non L’antropomorfismo è il
psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello
Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo
degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col
psicologismo e col fatalismo. DELLE CONVENIENZE DELLA FORIOLA IDEALE COLLA
RELIGIONE RIVELATA. Scusa dell’ autore. — Il sovrintelligibile e il
sovrannaturale sono i due perni della religione. Analisi del primo. Si
escludono le false origini, che si possono assegnare al concetto, che Io rap-
presenta. — Della sovrintelligenza. — In che consista la natura speciale di
questa facolti. — Sua analogia coll’istinto. — Del sen- timento, che l’uomo ha
delle sue potenze non esplicate. — Defi- nizione delia sovrintelligenza. — Come
il concetto negativo del sovrintelligibile nasca da questa facoltà. —
Obbiettività del so- vrintelligibile ; adombrata dalla filosofia orientale. —
Analogia del sovrintelligibile col numeno di Emanuele Kant : sbaglio del
criticismo. — Dei sovrintelligibili naturali. — Attinenze del so-
vrintelligibile cogl’ intelligibili. — Come il sovrintelligibile debba essere
riconosciuto e rispettato dalla filosofia. — Dei sovrintelli- gibili rivelati.
— Loro importanza, e armonia coi dogmi razio- nali. — I sovrintelligibili della
rivelazione hanno un margine indeterminato. Del sovrannaturale. In che
consista, e sue attinenze colla formula. Connessione del suo concetto colla
magia dei popoli pagani. Varie spezie di sovrannaturale. Necessità dell’ idea
di sovrannaturale per la filosofia della storia : sua importanza per la
filosofia in genere. Il sovrannaturale appartiene al secondo ciclo creativo :
sue relazioni con esso. Dimostrazione a priori della realtà dell' ordine
sovrannaturale. L’ alterazione di quest' ordine costituisce il regresso.
Della forinola sovrannaturale : sua corrispondenza colla
razionale. Del ciclo cristiano : sua risoluzione. Della Chiesa ; com' ella sia
il perno dell’ incivilimento. Del sincretismo delle sette cristiane eterodosse,
e della idolatria rinnovala per opera loro. Confutazione di un passo del sig.
Guizot sull’ unità religiosa. Della superstizione : in che consista. Del
processo a priori della fede cattolica. Due cicli rivelativi corrispondenti ai
due cicli creativi. Necessità della fede per ben filosofare. La fede sola
colloca l’uomo nel suo stato naturale. Ragionevolezza della disciplina
cattolica. L’ educazione ideale è impossibile fuori di essa. Lo scetticismo
esclude la vera grandezza, anche umana, dell’ ingegno. La fede è libera, e in
ciò consiste il suo merito. Tre doti della fede cattolica, utilissime all'uomo e
al filosofo. Efficacia di questa virtù, per avvalorare l' ingegno ontologico.
Quanto all’ abito ontologico conferisca la credenza del sovrannaturale. Tutte
le virtù teologali influiscono profittevolmente nell’uomo pensante e operatore.
Della vera misticità, e sue differenze dalla falsa. Empietà dell’ autonomia
razionale. Necessità della fede per la conservazione dei principii ideali. L’incredulità
moderna è la cagione precipua della debolezza degli animi c degl’ingegni. Utilità
dei misteri in genere per l’abito filosofico. Si considerano, per questo
rispetto, alcuni misteri in particolare. Della predestinazione, e della
eternità delle pene. Della inviolabilità scientifica della teologia. Di certi
novellini teologi, e della temerità loro. L’invenzione nelle cose ideali è
impossibile. Della giovinezza perpetua del Cristianesimo cattolico. Di una
certa classe di gementi, che credono morta o moriente la religione: si combat-
tono i loro timori. Della larghezza dell’ Idea cattolica: sua utilità per le
scienze in generale. Necessità della filosofia per far fiorire la teologia,
come scienza. La teologia e la filosofia hanno bisogno l’una dell’altra. Delle
cagioni, per cui la teologia cattolica c scaduta dal suo antico splendore. Il
clero cattolico dee essere un concilio di sapienti. Dee coltivare specialmente
le scienze filosofiche. Dell’acroamatismo ieratico, ch'egli si dee proporre. I
laici che coltivano la filosofia, debbono incominciare una nuova era razionale,
sotto la sovranità intellettiva della Chiesa. La filosofia eterodossa, che
regnò finora, è morta per sempre. Si concbiude esortando gl' Italiani a
intraprendere l’ instaurazione delle scienze speculative. Sulla voce essenza. Del sovrintelligibile
presso i filosofi eterodossi. Attinenze del sovrannaturale col
sovrintelligibile. Del sovrannaturale iniziale c finale del Cristianesimo. Del
sovrannaturale transitorio o continuo. Su alcuni passi del sig. Guizot. Sopra
un cenno teologico del sig. Nisard. Sul fatto morale della giustificazione. Sulle
varie epoche filosofiche della storia. Delle idee pure.Sul valore teologico dei
razionalisti tedeschi. Il decadimento della filosofia prova la verità del cat-
tolicismo.Grice: “Italians find it harder than the Germans to conceal their
nationalism. Hegel is studied everywhere, but Gioberti is felt to be TOO
Italian, and he is. There are not two sentences in Gioberti that do not mention
Italy! Hegel could philosophise on being (the absolute being is the King of
Prussia) – but philosophers elsewhere took his remarks in a generalized way,
not a German way. Unlike with Gioberti, who cannot hide his ‘italianita’. The
fact that Mussolini wrote on him did not help. And that, along with Gentile,
and the Italian mainstream intelligentsia, the Italian risorgimento is only a
stone’s throw away from Fascism!” Grice: “Lorenzo Giusso, whom I like, wrote a
bio of Gioberti which I thought the best, it’s in Vita e Pensiero, and in the
series, “UOMINI DEL RISORGIMENTO” Gives him sense!” -- Vincenzo Gioberti. Gioberti.
Keywords: del bello, estetico, il bello, metessi, implicatura metessica –
mimesi – Plato on mimesis and metexis, protologia, ontologismo, statua
all’aperto, Milano – nella serie uomini del risorgimento, bruno, gentile. -- Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Gioberti,"
per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia
Grice e
Gioia: l’implicatura conversazionale -- filosofia ad uso de’ giovanetti –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Piacenza). Filosofo
italiano. Grice: “I joked with the maxim, ‘be polite’ – surely it’s difficult
to make that universalisable into the conversational categoric imperative (‘be
helpful conversationally) – but apparently Italians are less Kantian than I
thought!” -- Grice: “I love Gioia; he is like me, an economist when it comes to
pragmatics – see my principle of ECONOMY of rational effort; I studied
thoroughly his fascinating account about the origin of language, before I
ventured with my pritological progressions!” Dopo gli studi nel Collegio
Alberoni veste l'abito talare, mantenendo tuttavia un orientamento di pensiero
tutt'altro che ortodosso tanto in filosofia, per l'influenza dell'utilitarismo
di JBentham, dell'empirismo di Locke e
del sensismo di Condillac, quanto in teologia per l'influenza del pensiero
di Giansenio. Il suo interesse si rivolge ben presto anche alle questioni
politiche. Vince il concorso bandito dalla Società di Pubblica Istruzione di
Milano sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità
d'ITALIA", alla quale partecipano 52 concorrenti. La sua dissertazione, in
cui sostiene la tesi di un'Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni
democratiche e basata su comuni elementi geografici, linguistici, storici e
culturali, prefigura, come la maggioranza di quelle presentate, l'unità
italiana, benché questa tesi non sia gradita ai francesi che in quel periodo
occupano il nord Italia. La notizia del premio ricevuto gli giunge però in
carcere. Nel frattempo è stato arrestato con l'accusa di aver celebrato a scopo
di lucro più di una messa al giorno, anche se sono in realtà le sue idee
politiche giacobine a renderlo inviso all'autorità. Viene scarcerato grazie,
forse, alle pressioni di Bonaparte, e ripara a Milano. Il Trattato di
Campoformio, con la cessione di Venezia ad Austria da parte della Francia in
cambio del riconoscimento austriaco della Repubblica Cisalpina, lo spinge però
ben presto a diventare oppositore della Francia. Dopo aver rinunciato al
sacerdozio, si impegna nella professione giornalistica fonda "Il Giornale
filosofico politico", stroncato dalla rigida censura austriaca per le
posizioni sempre più apertamente patriottiche che Gioja vi sostiene. Dalle
colonne del "Giornale Filosofico Politico" scrive una lettera aperta
al duca Ferdinando d'Asburgo-Este, in cui denuncia i danni patiti in carcere.
Bonaparte viene sconfitto dalle truppe austriache nella Battaglia di Novi
Ligure e G. viene ARRESTATO NUOVAMENTE dagli austriaci, per essere scarcerato
in seguito alla vittoria francese a Marengo. Viene nominato storiografo
della Repubblica Cisalpina: l'anno successivo pubblica "Sul commercio de'
commestibili e caro prezzo del vitto", ispirato dai tumulti per il rincaro
del pane, e "Il Nuovo Galateo". Viene rimosso dalla carica per le
polemiche seguite alla pubblicazione e alla difesa del suo trattato
"Teoria civile e penale del divorzio, ossia necessità, cause, nuova maniera
d'organizzarla" L'apprezzamento per i suoi solidi e realistici studi
di economia e di statistica, ai quali sono prevalentemente rivolti il suo
interesse e la sua attività, gli valgono però la nomina alla direzione del
nascente Ufficio di Statistica: in questa veste inizia una febbrile attività
fatta di studi corredati da tabelle, quadri sinottici, raffronti demografici,
causa di nuove ed accese polemiche e della rimozione dall'incarico. Tale
attività gli rese uno dei primi studiosi ad applicare i concetti di Statistica
alla gestione economica dei conti pubblici (ad esempio per le tasse, gabelle, e
così via). Grazie alle sue conoscenze statistiche ed economiche elabora
concetti fortemente innovativi per l’epoca che ne fanno il precursore del
moderno dibattito giuridico in materia di risarcimento del danno alla persona
con una concezione che supera la questione patrimoniale. Notissima in
medicina legale la sua regola del calzolaio, che anticipa il concetto di
riduzione della capacità lavorativa specifica: "...un calzolaio, per
esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la
sua mano che non riesce più che a fare una scarpa; voi gli dovete dare il
valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il numero dei
giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi..". E ancora,
seppur meno noti, concetti come: "Ne' casi d'indebolimento o
distruzione di forze industri, considerando il soddisfacimento come uguale
al lucro giornaliero diminuito o distrutto, moltiplicato per la rimanente vita
utile dell'offeso, noi restiamo molto al di sotto del valore reale, giacché una
forza umana può essere riguardata come Mezzo di sussistenza Mezzo di godimento
Mezzo di bellezza Mezzo di difesa Filosofia della Statistica (libro
originale) “Rendendo paralitico, per es., l'altrui braccio destro o la mano,
voi togliete al musico il mezzo con cui si procura il vitto divertendo gli
altri, al proprietario il mezzo con cui si sottrae alla noia divertendo se
stesso, alla donna il mezzo con cui gestisce e porge con grazia, a
chiunque il mezzo con cui si schernisce da mali eventuali
difendendosi". Si tratta di principi rivoluzionari per l’epoca,
forse frutto di quel particolare mix di cultura che deriva dalla sua formazione
che inizia da sacerdote e approda a concezioni rivoluzionarie; è il primo che
riesce a prefigurare nell’uomo non solo una sorta di macchina che produce
reddito, ma anche un soggetto che attraverso il lavoro realizza la propria
personalità. In Italia oltre un secolo e mezzo dopo, negli anni ’80 del
novecento, in sede giuridica inizierà il dibattito sul superamento del
risarcimento del mero danno patrimoniale per tener conto degli aspetti
relazionali e dinamici della persona riassunti nel concetto di danno biologico.
Sul filone di queste tematiche gli veniva intestata a Pisa un'ssociazione
scientifica medico giuridica che raccoglie giuristi, medici legali e
assicuratori. Il "Nuovo Galateo" Testo fondamentale nella
storia dei Galatei, il "Nuovo Galateo" di G. fu scritto per
contribuire alla civilizzazione del popolo della Repubblica Cisalpina. Il testo
conosce ben tre edizioni. La prima si sofferma in particolar modo sulla
definizione laica di "pulitezza" – cf. Grice, ‘be polite’ -- intesa
come ramo della civilizzazione, arte di modellare la persona e le azioni, i
sentimenti, i discorsi in modo da rendere gli altri contenti di noi e di loro
stessi. È divisa in tre parti: "Pulitezza dell'uomo privato",
"Pulitezza dell'uomo cittadino", "Pulitezza dell'uomo di mondo".
Nella seconda edizione, Gioja ridimensiona il concetto di "pulitezza"
come l'arte di modellare la persona, le azioni, i sentimenti, i discorsi in
modo da procurarsi l'altrui stima ed affezione. La vecchia ripartizione è
sostituita da: "Pulitezza Generale", "Pulitezza
Particolare", "Pulitezza Speciale". Nella terza edizione
risale, a differenza dell'edizioni precedenti, enfatizza l'importanza del
concetto di "ragione sociale", considerato dall'autore il fondamento
etico del galateo che avrebbe portato felicità e pace sociale mediante le buone
maniere. Fu membro della Loggia massonica "Reale Amalia Agusta" di
Brescia, che prese il nome dalla moglie del principe Eugenio di Beauharnais,
primo Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia. A lui è intestata la loggia di
Piacenza all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia. Crollato il dominio
napoleonica, Gioja produce le sue opere maggiori: il "Nuovo prospetto
delle scienze economiche”; il trattato "Del Merito e delle
Ricompense"; "Sulle manifatture nazionali"; "L'ideologia".
Gli ultimi tre libri vengono messi all'Indice e il suo fecondo lavoro è
interrotto da un nuovo arresto per aver cospirato contro l'Austria partecipando
alla setta carbonara dei "Federati". Dopo quest'ultima peripezia,
nonostante i sospetti da parte del governo austriaco, ha finalmente davanti a
sé qualche anno di serenità e compone la sua ultima opera, "La filosofia
della statistica.” Nel cimitero della Mojazza fra tante ossa ignorate dormono
senza fasto di mausoleo le ceneri di Melchiorre Gioia. Prende il suo nome il
Liceo Classico di Piacenza. Rosmini, suo avversario in politica come in
religione, lo accusò di pretendere di proporre un codice morale, fondato su
principi palesemente opportunistici, mentre con disinvoltura richiedeva sussidi
e regali dai titolari del potere politico per elogiarne le benemerenze nelle
proprie pubblicazioni periodiche, e lo dichiara pubblicamente un
"ciarlatano". Altre opera: Del merito e delle ricompense, 2, Filadelfia, s.n., Riflessioni sulla
rivoluzione. Scritti politici, Nuovo Galateo, Il Nuovo prospetto delle scienze
economiche, Distribuzione delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta in santa
Radegonda, G., Produzione delle ricchezze,
Milano, presso Pirotta in santa Radegonda, Consumo delle ricchezze,
Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, G., Azione governativa sulla
produzione, distribuzione, consumo delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta
in santa Radegonda, Sulle manifatture nazionali, Dell'ingiuria, dei danni, del soddisfacimento
e relative basi di stima avanti i tribunali civili. L’Ideologia. Filosofia
della statistica. Note: Francesca Sofia nel Dizionario Biografico degli
Italiani. Ettore Rota nella Enciclopedia
Italiana, Cfr. Solmi, L'idea dell'unità italiana nell'età di Napoleone in
Rassegna storica del Risorgimento, Fonte: Francesca Sofia, Dizionario
Biografico degli Italiani, rTreccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in. Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi
Muratori, Mimesis-Erasmo, Milano-Roma, Ignazio Cantù, Milano, nei tempi antico,
di mezzo e moderno: Studiato nelle sue vie; passeggiate storiche, Saltini,
Salomoni, Stefano Rossi, Via Emilia. Percorsi inusuali fra i comuni dell'antica
strada consolare, Il Sole, Barucci, Il pensiero economico di G., Milano,
Giuffre, Manlio Paganella, Alle origini dell'unità d'Italia: il progetto
politico-costituzionale di G., Milano, Ares,Dizionario Biografico degli
Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Nicola Pionetti,
Melchiorre G.: il progetto politico per un'Italia unita e repubblicana,
Piacenza, Edizioni Lir, Tasca, Galatei. Buone maniere e cultura borghese
nell'Italia, Firenze, Le Lettere, G. (metropolitana di Milano). Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, G., in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. fare alcun cangiamento senza indebolirla. Egli previene così i
suoi lettori contro ogni idea di riforma, e svolge nel loro avimo un timor
macchinale contro ogni innovazione delle leggi. In generale tutte le metafore,
i paragoni, le parziali analogie,le somiglianze superficiali non possono far
breccia che nell'animo del volgo. Agl’occhi del filosofo i paragoni non sono
ragioni. Essi possono schiarire una proposizione, provarla mai. Parlare.
Abbiamo veduto che le macchine sono utili e necessarie al chimico, i telescopi all'astronomo,
i disegni al meccanico, le figure al geometra. Le parole sono forse egualmente
utili, egualmente necessarie all'esercizio del pensiero. Tre oggetti simili mi
si presentano facilmente allo spirito, dice Condillac. Se passo al quarto, sono
obbligato, per maggior facilità, d'immaginare due oggetti da una parte, due
dall'altra. Se voglio fissarne sei, fa duopo che li distribuisca due a due, o
tre a tre; crescendo questi oggetti, la mia vista si confonde, io non posso più
numerarli. Al contrario, se dopo d'averne considerato uno gl’unisco un altro, e
a questa unione appongo il nome “due.” Se a questi aggiungo un terzo, ed
allanuova unione appongo il nome “tre,” e cosi di seguito, caratterizzando con
parole distinte ogni aumento progressivo d'unità, arrivo ad annoverare
moltissimi oggetti facilmente. Alla stessa maniera, se ogoi volta che voglio
pensare ad una persona, sono costretto a richiamarmi ad una ad una tutte le sue
qualità, onde non confonderla con un'altra. Le note tracciate sulle carte di
musica rappresentano i suoni che si eseguiscono dagl’istrumenti. Le parole
pronunciate o scritte rappresentano le idee che si piagono nel l'animo. 1
mi troverò nel massimo imbarazzo. Siano,a cagione d'esem pio, come segue,
le qualità d'una persona: Fisiche: Sesso maschile, anni: 20, capelli biondi,
fronte alta, cigli biondi, occhi neri, naso lungo, bocca grande, meoto
prominente, marca nera sulla guancia destra, mano sinistra storpia, piede
destro zoppo, linguaggio balbettante, accento francese. Morali = Melanconia, dissolutezza,
mancanza alle promesse, viltà, abitudine alla menzogoa, jocostanza. Civili =
Patria, Rodez in Francia, condizione, awmo gliato, professione, possidente. Se
la mia attenzione deve afferrare tutte queste idee alla volta, si troverà
insufficiente al bisogno; molto maggiore si farà la difficoltà, se per pensare
nel tempo stesso ad altra persona, sono costretto a schierarmi avanti alla
mente con egual melodo tutte le qualità che la caratterizzano. Se al contrario
chiamo la prima “Pietro”, la seconda “Paolo”, potrò facilmente richiamarmi
l'una e l'altra, distinguerle tra di loro, paragonar!e insieme. Queste parole
sono poi ancora più necessarie, allorchè si vogliono esprimere le qualità
comuni a molti oggetti, a cagione d'esempio, le qualità che si trovano in tutti
gli u o miniod in tutti gli animali, il che costituisce le idee astratte, come
si disse di sopra, ovvero allorchè si vogliono esprimere gli oggetti creati
dalla nostra mente, come le idee di gloria, d'infamia, di virtù, di vizio. Sebbene
quando pronuncio le parole “uomo” , animale. non mi si schiarino alla mente
tutte le idee elementari che bo unito a queste parole , cionnonostante ne veggo
il TEORIA DELLA SENSAZIONE porto, ne seolo le differenze, ne scorgo le
somiglianze, alla stessa maniera che sebbene pronunciando i numeri 100,000 e
10,000 non vegga le unità che li compongono, so però che l'uoo sta all'altro
come 100 a 10, ovvero come to a 1, e conoscendo la maniera con cui questi
dumeri sono stati formali, posso, ogni volta che voglio, separarne le maggiori
masse , scendere alle minori, per arrivare alle minime e fipalmente agli
elementi. Supponete che per isbaglio qualcuno invece di dire che 1000 è decuplo
di100, dica che 100 ė decuplo di 1000. Ben tosto l'abitudine chenoi abbiamo
acquistata d'attribuire a queste parole certe relazioni tra di esse, agisce
sulloro suono, e cifa scorgere all'istante l'as surdità dell'accennata
proposizione. Il linguaggio si è per rap 141 noi come quelle traccie che
il piede del viaggiatore imprime sull'arena di un vasto deserto, le quali lo
guidano, quand'egli voglia,al punto doode parti. Una parola che nella sua
origine e un nome proprio, divenne insensibimente un nome appellativo. Può in
conse guenza accadere in forza delle associazioni ideali e sentimen tali che uo
nome generaleri chiami uno degli individui ai quali s'applica. Ma lungi che ciò
sia necessario alla forza del raziocinio, è sempre una circostanza che tende ad
illuderci.Si può paragonare uno spirito che ragiona ad un giudice che deve
decidere tra contendenti. Se il giudice non conosce se non le loro relazioni al
processo, s' egli ignora i loro pomi, s'egli li designa per lettere
dell'alfabeto o pe’nomi fittizi di Tizio, Cajo, Sempronio, egli è quasi necessaria
mente imparziale. Cosi in una serie di ragionanenti noi corriamo medo rischio
diviolare le regole della logica, allorchè la nostra attenzione si fissa sui
semplici segni,e quando l'immaginazione, presentandoci oggetti individuali, non
esercita sulnostro giudizio la sua influenza e non viene a sedurci con
accidentali associazioni. Le parole facilitano vie maggiormente l'esercizio del
pen iero quando il loro suono imita il suono della cosa espressa, come sono le
parole belato, cigolio, scricchiolare. Anche le parole tracotante, orgoglioso,
baldanzoso. Colle vocali piese rinfiancate dalle acconce consonanti, e colla
moltiplicità delle sillabe spirano una cerla audacia di suono analoga
all'indole dell'oggelto che esprimono. Anche quando accennano l'uso o la
proprietà della cosa indicata; cosi Fieberrinde o scorza della febbre nel
linguaggio tedesco, che accenna l'uso e laproprielà di questo vegetabile, é
preferibile alla parola Quinquina. Per la stessa ragione le parole cui il nuovo
stile indica i mesi nell’anno, hanno più pregi che quelle dell'antico: fiorile
ossia il mese de ' fiori, vendemmi atoreossia il mese della vendemmia, sono nomi
ben più espressivi che maggio e ottobre. ATTENZIONE ERAZIOCINIO. Al
contrario, allorchè si dà il nome di Pino del Nord al'albero prezioso che tutte
le nazioni maritti meriguardano come migliore per le alberature , si fa
supporre che questi bei pininon possono crescere s e donne'climi glaciali,
mentre trovansi nella Lituania, in altre provincie più meridionali, in quelle
stesse i cui fiumi corrono verso il Mar Nero. La parola Gallo d'India
rammentando che questo ani male è natio d'America, e ignoto ai Romani , venne
uel l'Europa del 16.° secolo, è per più titoli preferibile all'insignificante
parola “pollo”. Coquetterie in francese (civetteria) rappresenta al vivo il carattere
d'una donna galante, che tiene a bada mille amanti, a guisa d’no gallo che
vezzeggia cento galline ad un tempo. Al contrario allorchè gl’antichi chimici
ci parlavano del fegalo di zolfo, del butirro d’antimonio dei fiori di zinco. Spingevano
il pensiero sopra immagini non applicabili agli oggetti che volevano iudicare.
Anche quando le parole serbano tra di esse un cerlo rapporto costante, come
leparole quaranta, cinquanta, sessan ta, sellanta, Ollanta, novanta, ciascuna
delle quali avendo la stessa desinenza , è formata dalla moltiplicazione del
fat. comune dieci, ne'numeri naturali quattro, cinque, sei. Dello stesso ordine
progressivo de numeri nalurali. Siano i nomi delle nuove misure Myriametro
uoilà di Kilometro unità di Ectometro unità di L'influenza del linguaggio sulle
operazioni del pensiero si scorge sulla nazione Chinese. La quale, a fronte
delle altre incivilite, TEORIA DELLA SENSAZIONE 0.01 di metro Centimetro
unità di 0.001 di metro Si vede che dalla massima alla minima misura v'è una
progressione decrescente che segue la stessa legge, di modo che essendo data
una di esse, si possoo ritrovare le prece deotie lesus seguenti. Al contrario leantichemisuredipo
sla, lega, lesa, pertica, passo geometrico, passo ordinario, braccio, auna, piede,
pollice, linea, punto....non es sendo crescenti o decrescenti nella stessa proporzione,
D00 aveodo tra di esse rapportocomune, confondono la memoria, e colla notizia
d'una di esse non si può giungere alla cognizione d'alcun'altra. Dicasi lo
stesso delle altre misure e de'pesi puovi ed antichi, calcolati I primi in
ragione decupla e costante, i secondi senza nessuna ra gione graduata e
regolare. Cesarolti. tore Decimetro unità di 0.1 di metro Metro upità di 10
metri 10,000 metri 1,000 metri Decametro 100 metri unità di diritla,ne
avrò ildoppio in questa. Dimando qual è il u nunero de'gettoni che avevo da
principio in ciascuoa 6 mano? Qui si banno due condizioni note, o , per parlare
« come i malematici, due dati; l'uno, che se fo passare 6 un gellone dalla
diritta alla sinistra , ne avrò egual o u u mero in ambe le mani; l'altro che
se lo fo passare dalla « sinistra alla diritta, ne avrò il doppio in questa.
Ora roi «vedete,che,s'eglièpossibiletrovareilnumero ch'iovi u dimando , ciò non
può farsi, se non osservando le relazioni che haono i dati fra loro; e
comprendete che tali « relazioni saranno più o meno sensibili, secondo che i
dali « saranno espressi in un modo più o meno semplice. quan u do le si toglie
un gellone , è eguale a quello che avete u nella sinistra, quando a lei se ne
aggiunge uno , esprime « reste il primo dato con molte parole. Dite dunque più
ubrevemente:ilnumero dellavostra destra, scemalod'una unità, è uguale a quello
della sinistra più un'unilà; ov « vero:ilnumero della destra meno un'unità è
uguale a si può dire quasi barbara, sottomessa ai pregiudizi più assurdi, sta
zionaria da più secoli, altesa l'imperfezione della sua lingua. Mentre le
nostre liogue d'occidente e le più belle d'oriente riproducono lulle leparole
con un solo numero di lettere diversamente combinate , nella lingua chinese,
quasi ciascuna parola ha il suo segno partico lare; lo studio della scrittura
esige quindi un tempo infinito. L'incertezza e l'indeterminazione del senso
delle parole passando a vi cenda dal linguaggio orale alla scrittura,dalla
scrittura al linguaggio orale, producono una confusione da cui i più dotii
possono appena schermirsi colla più grande fatica. Egli è evidente che
siffattalingua non è buona che a perpetuare l'infanzia d'un popolo ,
desaligando seoza 'frutto le forze degli spiriti più distinti, ed offuscando
nella loro sorgente ipriini Jampi della ragione. Gioja. Elein, di filosofia. Se
voi diceste : il numero che avete nella destra 4. Acciò il discorso
faciliti l'esempio del pensiero,è necessario che sia minimo il numero delle
parole,invariabile l'oggetto indicato,precisata, ovunque è possibile, la
quantità · trarrò l'esempio da Condillac: is Avendo de' gelloni nelle mie mani,
se nefo passar uno dalla mano dirilla alla sinistra, ne avrò tanti nell'una
quanti nell'altra; e se nefo passar uno dalla sinistra alla « Non si tratta
d’indovinare codesto qumero , facendo « delle supposizioni ; bisogna trovarlo
ragionando e passando « dal cognito all'incognito per uoa serie di giudizi.
11 quello della sinistra più un'unità ; o infine ancor più bre
«vemevle:ladestraweno unoegualeallasinistrapiùuno. pio in questa. Dunque il
numero della mia sinistra sce malo d'una unità è la metà di quello della destra
accre « sciuto d'una unità; e per conseguenza esprimerete il se « condo dato
dicendo : il numero della vostra mano diritta « accresciuto d'una unità è
uguale a due volte quello della 6 vostra sioistra scemato d'una unità. «
Tradurrete questa espressione in un'altra più sem “ plice , se direte : la
destra accresciuta d'un'unità è uguale a due sinistre scemate ciascuna
d'uu’unità ; e giungerele “ a questa espressione la più semplice di tutte : la
dirilla « più uno uguale a due sinistre meno due. Ecco dunque le « espressioni,
alle quali abbiamo ridotti i dati : u Questa sorta d'espressioni chiamasi
equazioni in m a «tematica.Sono compostediduemembriuguali.Ladirilla u meno uno
è il primo membro della prima equazione. La sinistra più uno, il secondo. « Le
quantità incognite sono inescolate alle cognite in 6 ciascuno di questi membri.
Le cogoite sono meno uno più uno , meno due : le incognite sono la diritla e la
sini “ sira, coo cui espriaiete idue numeri che andate cercando. « Finchè le
cognite e le incognite sono cosi mescolate w in ogni membro delle equazioni,non
è possibile risolvere u ilproblema.Ma nou v'è bisogno d'un grande sforzo du «
riflessione per osservare, che se vba un mezzo di traspor “ tare lequantità
d'un membro all'altro, senza alterare l'eguaglianza che passa tra loro,
possiano, bon lasciando in un membro che una sola delle due incogaite; sepa “
l'arla dalle cognite, colle quali è mescolala. Questo mezzo si preseula da sè
stesso; perchè se la « diritlameno uno è uguale alla sinistra più uno,
duoque TEORIA DELLA SENSAZIONE Per tal guisa di traduzione in traduzione
arriviamo alla più semplice espressione del primo dato. Ora quanto « più
abbreviarete il vostro discorso, più si ravvicioeranno « le vostre idee,e
quanto più saraono vicine, più vi sarà « facile di conoscere tutte le loro
relazioni. Ci resla a traltare il secondo dato come il primo , e bisogna
tradurlo u nella più semplice espressione. Per la seconda condizione del
problema, s’io fo pas “ sare un geltone dalla sioistra alla diritta, ne avrò il
dop « La diritta meno uno uguale alla sinistra più uno. « La dirilta più uno
uguale a due sioislre meno due. ATTENZIONE E RAZIOCINIO. La diritta uguale alla sinistra
più due. « La diritta uguale a due sinistre meno tre. « li primo membro di
queste due equazioni è laslessa quantità; la dirilta; e vedete che conoscerete
questa quan lità, quando conoscerete il valore del secondo membro e dell'altra
equazione. Ma ilsecoodo membro « della prima è uguale al secondo della seconda
, poiché « sono uguali l'uno é o altro alla stessa quantità espressa “ dalla
dritta; duoque potete formare questa terza equa u ziove: « La sinistra più due
uguale a due sinistre meno tre. « Due più tre uguale a due sinistre meno una
sinistra. « Due più treuguale ad una sinistra. “ Cinque ugualead una sinistra.
« Il problema è sciolto. Avete scoperto che il numero de'geltooi che ho nella
mano sinistraè cioque.Nelle equa u zioni , la diritta uguale alla sinistra più
due , la diritla uguale a due sinistre meno tre, troverete che sette è il nu 6
Inero chc ho vella diritta. Ora questi due numeri cioque 6 e sette,soddisfanno
alle coodizioni del problema. quando un problema è così facile,come quello
scioltopur 6 ora, essa ne abbisogna maggiormeote, quando iproblemi 66 65
56 dell'una « la diritla jolera sarà uguale alla sinistra più due: e se la
“dirittapiùunoèugualea due sinistremeno due,dun « que la diritta sola sarà
uguale a due sinistre meno tre: « Sostituirete dunque alle due prime le due
seguenti equa zioni. 6.Allora non vi resta che una incognita, la sinistra, e a
ne conoscerele il valore , quando l'avrete separata, vale a » dire,falte
passare tutte lecogoite dalla stessa parte. Di - rete dunque Voi vedete
sensibilmente in queslo esempio come la asemplicitàdelle
espressionifacilitailraciocinio,ecom ú prevdele che se l'analisi ha bisogno di
tal linguaggio sono complicati. Così il vantaggio dell'analisi nelle male 6
mati che nasce unicamente dal parlare s s e il linguaggio più semplice. Una
leggiera idea dell'algebra basterà per farlo 6 ipleadere. In questa lingua non
si ha bisogno di parole. Il più si sprime col seguoto, il meno cou--; iuguaglianza
con « siindicaou le quantitá con lellere o citre:Ý , per es., sarà ilnu 6 mero
de'geltoni che ho nella destra, e Y quello della sinistra. e Non
sarà fuoridi proposito l'osservare che non alla sola semplicità del linguaggio,
come pretende Condillac, sono debitrici dellaloro perfezione l ematematiche, ma
anche 1.o alla prudenza de'loro seguaci, la quale consiste nel ritenersi nei
limiti delle sensazioni e loro rapporti; 2. all'inva riabilità de’rapporti tra gli
oggetti da essi chiamati ad esa m e ; 3.o alla possibilità di sottomettere le
loro conclusioni alle verificazioni de'sepsi e degli strumenti. Cominciamo dal
1.°:esistono degli oggetti estesi; ecco la sensazione: gli oggetti estesi
possono misurarsi gli uni per gli altri; ecco l'osservazione che produce la
geometria. L'es.senza dell'estensione, gli elementi che la compongono, sono
indagini che i matematici abbandonano agli oziosi metafisici, e quindi non si
espongono ai loro errori. Dite lo stesso delle altre quantità esaminate dai
matematici. a Cosi X – 1 = Y to 1, significa che il numero de'gettoni che ho nella
destra, scemato d'un'unità è uguale a quelloche ho nella asinistra, accresciuto
d'un'unità ,e X41 =2Y -2, significa che il numero della mia destra accresciuto
d'un'unità è uguale due volte a quello della mia sinistra diminuito di due
vuità. Ï due dati del nostro problema sono dunque rinchiusi in queste
equazioni: 5Y. Finalmente da X = Y+ 2, caviamoX = 5 to 2= X = 2 Y - capiamo
egnalıneote X = 10 TEORIA DELLA SENSAZIONE 2. « X fo 1 = 2 Y - 2 che
diventano, separando l'incogoita del primo membro “Y +2= 2Y - 3 a che diventano
successivamente 9 6X uX 2.Y -3. De'due ultimi menibri di queste equazioni
facciamo 2Y "2*3=2Y-Y “2of3= Y la matematica non visono circoli più o meno
ro tondi, linee più o meno perpendicolari, superficie più o meno quadrate, la
misura di tutti i triangoli è uguale alla base moltiplicata per la metà
dell'altezza. E quando un rapporto come quello del diametro alla circonferenza,
cagion d'esempio, non può essere espresso con esattezza i matematici continuano
ad essere esatii, additando la quantità relativa all'uso che se ne debbe fare,
e che i seosi più 6X – 1 = Y to 1 66 Y+2 0 7; cda 3 ATTENZIONE E RAZIOCINIO.
fini non potrebbero additare con precisione maggiore.I m a tematici non
dicono,ilcircolo sirassomiglia al triangolo come un oratore dirà, l'uomo si
rassomiglia al lione, e sarà costretto a lunga circonlocuzione per fissare la
specie di ras somiglianza ch'egli annunzia, Alla sorpresa deve succedere in ciascuno
la persuasione divedere un essere interamente simile a lui, essendo simili le
forme e i moti esteriori. Infatti meolre it selvaggio A, a cagione d'esempio, stacca
un fratto dal vicino albero, il selvaggio B, che si ricorda d'avere fatto più
vollelo stesso, spinto dalla fame, conchiude che A èmosso (1) I tre antecedenti
riflessi dimostrano falsa l'asserzione di Condillac, cioè che le matematiche
non bando sulle altre scienze altro vantaggio che di possedere una migliore
lingua, e che si procure rebbe a queste uguale simplicità e certezza , se si
sapesse dar loro de’ segni simili». Languedu Calcul, Anche, le idee matematiche
possono essere rese esteriori, cioè visibili, palpabili, misurabili, in una
parola sono susceltibili d'essere giudicate dai sensie dagl’istrumenti. Coll'ajuto
delle cifre e delle figure tracciale sulla tavolta,o rappresentate da corpi
solidi, I concetti matematici compariscono rivestiti di forme visibili per chi
ha gli occhi, tangibili per chi ne è privo. L'espressione dei rapporti di
quantità è sol tomessa ad una verificazione sensibile, facile, immediata;
nissuno ha finora osat o r i gettare il giudizio d'una bilancia, o sospettare
l'imparzialità d'una tesa, o la veracità del gra fomeiro. Colla scorta
de'principii esposti nell'antecedente sezione, ci sarà agevole cosa il seguire
i filosofi nelle congetture con cui spiegarono l'origine delle lingue. Si
suppongano due selvaggi A e B che s'incontrano la prima volta. Il primo
sentimento che si svolgerà oel loro animo, sarà lasorpresa sempre figlia della
novilà. Queste conclusioni si rinforzano in ragione de'movimenti e delle azioni
che ciascuno eseguisce, perchè a queste azioni sono associate idee e sentimenti
uguali. B intende dunque le azioni di A , leggeodo nel proprio animo e
consultando la propria memoria. A intende le azioni di B per gli stessi motivi;
si può dire che l'uno è specchio all'altro. B accorgendosi che comprende le
azioni di A, conchiude che A comprende le sue. B compresii sentimenti di
A,vedeodogli eseguire certe azioni; egli cercherà di far comprendere isuoi, ripetendo
le azionistesse: ecco il linguaggio de'gesti. I sentimenti da comunicarsi o
riguardano oggetti esterni presenti o lontani, ovvero riguardano gli interni
sensi del l'animo. Allorchè l'oggetto è presente, gli occhi direlti verso di
esso, il dito che lo accenna, la bacchetta che lo locca, il corpo che si
slancia verso di esso o se ne allontana, formano tutto il dizionario della
lingua. Questi segni possono essere chiamati indicatori. Allorchè si tratta
d'oggetti lontani , per esempio, d'un animale che si riuscì ad uccidere, o d'un
altro da cui si fu morsi, il selvaggio ne ripete l'accento, l'urlo, il grido, e
ne esprime cogli atteggiamenti delle mani, delle braccia, della testa le forme
più rimar che voli. Questi segni possono essere chiamati imitatori. Il rumore
prodotto da un torrente che precipita, da un monte che scoscende, dal vento che
fischia, TEORIA DELLA SENSAZIONE da uguale sentimento. A porta alla bocca
il frutto e lo mastica; B rammentando il piacere che provò mangiandolo, con
chiude che A lo prova ugualmente. Ad improvviso rumore A sospende l'operazione
del mangiare, alza il capo immota col guardo fisso dal lato donde proviene il
romore ed in attodi chi tende l'orecchio; B colpilo dallo stesso rumore e dagl’atti
di A, sente sorpresa e timore, e conchiude che A è sorpreso e intimorito. Cessato
il rumore, A riprende tranquillamente l'operazione del mangiare. La calma che
succede nell'animo di B gli dice che A si è calmato. Dopo questa scoperta, il
bisogno reciproco di comunicarsi a vicenda i propri sentimenti sembra naturale,
perchè è naturale la reciproca debolezza e comuni i pericoli. I due selvaggi
intendendosi reciprocamente, possono sperare un ajuto ne'loro bisogni, un
sollievo de loro dolori, una difesa contro gl’assalti delle beslie feroci. ATTENZIONE
E RAZIOCINIO. I segni indicatori, imitatori, figurati, divengono triplice
canale di comunicazione pe'sentimenti e leidee in forza delle leggi
d'associazione. Classificando gli elementi di questo linguaggio secondo la
natura de materiali che servono a formarlo, se ne distingueranno tre specie, i
gesti, le parole, la scrittura simbolica.La storia antica ricorda spesso l'uso
de' simboli anche presso nazioni già uscite dalla barbarie e sopratutto
pressole nazioni orientali. Dario essendosi inoltrato nel territorio della
Scizia colla sua armata, ricevette dal re degliSciti un messo che, senza
parlare, gli dal tuono che scoppia. Il canto degli uccelli, gli accenti
delle passioni sono altretanti suoni che il selvaggio ripete per farne iolendere
l'oggetto ad ogni momento di bisogno, accompagnandoli per lopiù coi gesti. Se1
Allorché sitratta di esprimere i propri bisogni, i propri timori, in somma le
affezioni che von simostrano ai sensi, il selvaggio ripete dapprima quelle
attitudini del corpo che le accompagnano. Per esempio, B vede o d o il luogo
ove rimase spaventato, ripeterà i gridi e i moti dello spavento, accid A non siespoogaaldaono
cui fu esposto egli stesso. Un sordo e muto volendo indicarci, che fu
calpestato da un cavallo, esprime dapprima con ambe le mani ,il moto preci
pitoso de'piedi del cavallo, quindi accenna ilproprio corpo che cade sul suolo;
posc i a ripete il moto del cavallo, escorre colle mani le varie parti del
corpo nelle quali fu calpestato. Dopo i segni esterni che accompaguano gli
affetti, il selvaggio, aguisade'sordie muti, cogliela somiglianzache scorge tra
i sentimeoti dell'animo e le qualità de'corpi esterni, e si serve di queste per
indicare quelli; per es., le passioni vive s'assomigliano alla fiamma, il loro
contrasto allatempesta,la loro calma a cielo sereno, l'animo dubbioso a due
mani che pesano due corpi. Ecco i gesti simbolici e figurati. La prima specie
comprende le azioni e le attitudini del corpo impiegate per imitare le forme e
i moti degli oggetti esteriori. La seconda, gli accenti della voce con cui si
ripe tono i gridi degli animali, e i suoni che accompagnano il moto degli
esseri inanimate. La terza, la pittura che si farà soventi sulla sabbia, sulla
corteccia degli alberi, od altro, sia degli oggetti che si vuole indicare, sia
delle azioni che vi si riferiscono. I suoni della voce altrondee le
articolazioni che gli accompagnano, possono, sia per sè stessi, sia per la loro
combinazione, presentare colleidee molteanalogie che non col piscono a prima
vista, ma che sono facilmente sentite ed avidamente accolte dalle società che
si pregiano di dire molte cose nel ininimo tempo, e colla minima fatica possi
bile. Il linguaggio articolato dovette dunque arricchirsi di giorno in giorno.
L'invenzione delle parole indicatrici de generi e delle specie,impossibile
aspiegarsi agiudizio di Rousseau, sem bra facilissima, giacchè se un albero
particolare A in dato luogoe tempo fu iodicato colla parola albero, è cosa
natu. rale che la stessa parola venisse applicata ad un albero sia mile , quindi
ad un terzo, ad un quarto. Cosicch è si per mancanza d'altra parola che io
forza della legge d'aoa. logia (pag. 24 e 25)il nome proprio dovette divenire
no me appellativo. Si giunse finalmente a far uso di segoi affatto arbitrari e
vi si giunse in due maniere; dapprima per la degenera zione successiva del
linguaggio primitivo e imitatore, poscia per convenzioni espresse.
dodicipezziilcadavere,e glispedi alle dodici tribù di Israele, intendendo cosi
di rendere comune ad esse il suo dolore, e chiamarle alla vendetta. Il suo
linguaggio fu inteso e il suo desiderio soddisfatto:la tribù di Beniamino fu
sterminata. TEORIA DELLA SENSAZIONR De'gesti non si può fare grande uso
nelle tenebre de con persone alquanto distavti;la scritlura simbolica,benchè
più perfetta de'gesti e permanente, soggiace agli stessi in convenienti, oltre
di essere più difficile: al contrario gli accenti della voce, pronti, facili, variabili
in tutte le maniere, pon tolgono dall'occupazione chi ne fa uso, e lasciano il
potere di parlare e diagire. Queste ragioni fanno prevalere i suoni articolati.
De dotti laboriosi hanno spiegato come la lingua primitiva alterata dal tempo,
dalla mischianza del popolo e da diverse altre cause si trasforma nella nostra
lingua italiana moderna ; presenta un uccello, un sorcio, una rana e cinque
freccie; col quale simbolo il re voleva dire che se i Persiani non fuggivano
come gli uccelli, non si nascondevano in terra come i sorci, non si sommergevano
nell'acqua come le rane, cadrebbero vittime delle freccie degli Scili Il Levila
d'Efraim volendo vendicare la morte della sua sposa, ne fa 151 e come
questa alterazione seguendo un corso differente nei differenti paesi, rese le
lingue sì dissimili tra di loro. Quanto alle convenzioni che furono fatte, non
è necessario molto schiarimento. Si osserva che le parole non erano segni
d'idee e di sentimenti, se non perchè gl;uomini ac consentivano a prestar loro
lo stesso senso. Allorchè dunque conveone esprimere delle idee nuove, nulla si
trova di più semplice che d'intendersi per scerre loro una parola. Questa
convenzione, formata dapprima tra di quelli che avevano più pressante bisogno
di designare questa idea, divenne in seguito comune agl’altri. Ciascuna arte,
ciascuna scienza presenta le sue parole alla società, e lingue particolari. I
segni arbitrari dovettero la loro forza solamente alla doppia abitudine di
quelli che gl’impiegano e di quelli a cui si dirigono. Queste azioni, questi
segni esteriori, che il ragazzo imita, sono uniti nella mente di quelli che gli
servono di modello a dei sentimenti. Questi sentimenti lo sono ad alcune idee.
I sentimenti e le idee a suoni articolati. Il ragazzo imita dapprima i
movimenti, ripete poscia i suoni articolati o le parole, a cagione d'esempio, “padre”,
“madre”, “vizio”, “virtù”, “religione”, “demonio”. Il ragazzo non ha bisogno
d'inventare i segni artificiali delle idee. Egli gli impara soltanto. Ciò che
per gl’antichi e un lungo sforzo di genio, non è per lui che un esercizio
meccanico della memoria. Bentosto il ragazzo deve provare un principio di sentimento,
ridendo all'altrui riso, piangendo all'altrui pianto, fremendo all'altrui
fremilo benchè ne ignori la causa. Ma l'idea, s'ella esiste, essendo sempre la più
difficile, la più lontana, la meno interessante a conoscersi, il ragazzo è imitatore
come la scimia. Gli altrui moti, i gesti, l'accento, l’aria, il tono, tutti gl’attesteriori
lo colpiscono nei primi anni della sua vita e d occupano la sua attenzione. Egli
è spinto ad imitare ed arió petere tutto ciò che vede, ed i suoi organi mobili
cootraggono l'abitudine di molte azioni, priache il pensiero sia capace di
penetrarne lo scopo e d'osservarne il motivo: insginocchiarsi, fare il segno della
croce, piegare la fronte, giungere le mani, levarsi il cappello, fuggire nelle
tenebre, baciar l'altrui mano, fare inchini. La ripetizione frequente di questi
suoni, gesti, sentimenti gli unisce con stretti nodi e tali che quando i suoni
vengono a colpire l'orecchio o si presentano alla memoria, spingono gl’organi
motori ai gesti relativi, e il sistema sensibile agl’associati sentimenti. Questa
è la cagione per cui esempi ripetuti, antiche abitudini forzano la maggior
parte degl’uomini ad ammirare, fremere, tremare, sdegnarsi, passionarsi in tutti
imodi al suono delle parole le più insignificanti, le più vaghe, le più vuote
d'idee, e che appunto per la violenza dei sentimenti associati si sottraggono
alla analisi. Conviene anche osservare che più le parole sono confuse ed
oscure, più piacciono e soddisfanno il gusto degli ignoranti. Queste ragioni ci
spiegano il motivo per cui le stesse cose fanno impressioni diverse, secondo
che sono pronunciate in una lingua o in un'altra. Si osserva, dice Rayoal, che
i giudei stabiliti in gran numero alla Giamaica si facevano giuoco d'ingannare i
tribunali di giustizia. Un magstrato sospetta che tale disordine potesse
provenire da ciò che il suo Testamento, su'di cuido vevano giurare,era tradotta
in idioma inglese. E quindi decretato che per l'avenire I Giudei giurer ebbero
sul testo ebraico. Dopo questa precauzione gli spergiuri divendero
infinitamente più rari. Per simile motivo Augusto lascia sussislere eadem magistratuum
vocabula, acciò il popolo romano conchiudesse che sussisteva ancora la
repubblica, sussistendo i nomi delle sue magistrature, e il rispetto ma c
chioale eccitato negl’animi popolari dalle parole si, fissasse sulle nuove
cariche che ritenevano le antiche denominazioni. Trovandosi Leibnizio a Nuremberg
seppe che riera in quella città una compagnia di chimici, che col più profondo
segreto travagliavano alla ricerca della pietra filosofica. Il desiderio d'entrarvi,
gli suggerio l’idea che produce l'effetto bramato. Egli estragge dagli antichi alchimisti
una serie di frasi oscure, la cui unione forma una lettera più oscura ancora e
non intesada lui stesso. Questa lettera divenne un titolo peressere accolto. Leibnizio,
tanto più ammirato quanto meno inteso, fu riconosciuto addetto e segretario della
società. Bailly, Éloge de Leibnitz. TEORIA DELLA SENSAZIONE. Il ragazzo o
non la verifica che tardi, come l'idea di “padre”, o non la verifica che in
parte, come quella di “vizio”, o, non la verifica mai nè può verificarla, come
l'idea di “demonio”, “magia”, “angelo”, “fortuna” e simili. Per eguale
ragione, allorchè le idee più belle e più sublimi vengono tradotte in lingua
usuale, bassa, plebea, per dono parte di quel pregio che conservano in una
lingua antica o straniera. Quella specie di spregio che si attacca agl’usi
volgari e quella specie di rispetto che va unito alle lingue morte od estere,
sembra comunicarsi all'idea e degra darla a'nostri occhi o sublimarla.
L'indeterminazione del linguaggio più in morale e legi slazione ha luogo, cbe
nelle arti e nella storia naturale: gli oggetti di queste sono verificabili e
misurabili coi sepsie cogli strumenti, quindi le stesse parole risvegliano in
tutti presso a poco lestesse idee:al contrario gli oggetti morali non essendo
verificabili con eguale precisione, restano nella nebbia della fantasia; le
parole, da cui vengono indicati, partecipano della loro oscurità ed incostanza,
e per lopiù risvegliano idee diverse nelle diverse teste in ragione delle
circostanze in cui furono apprese. Pretendere che le stesse parole
(principalmente se trattasi di cose morali) risveglino in tuttele stesseidee, egli
è pretendere che quando è mezzo giorno a Milano sia mezzo giorno dappertutto.
Nei giardini d'Epicuro la parola “virtù” risvegliava idee ridenti e piacevoli.
Sotto i portici di Zenone, idee fosche e melanconiche. “Legge” significa la
volontà di tutti per un greco, la volontà d'un solo per un persiano. le
indicava per l'addietro un despota sciolto da ogni legge, attualmente
quest'idea è più limitata , ed ha diversi significati a Londra, Amsterdam,
Copenhague. “Libertà” nella mente del filosofo indica la somma delle azioni non
vincolate dalla legge. Nella mente del volgo, la facoltà d'invadere i beni
de'ricchi e di far nulla. Il massimo danno dall'indetermina zione delle parole
si fa sentire ne'trattati tra, le nazioni, in cui la loro ambiguità
diviene,causa o pretesto di guerre, nei codici criminali in cui l'oscurità
d'una frase estende l’arbitrio del giudice a danno dell'innocente ne’ contratti,
nei codici civili, nelle tariffe daziarie, in cui l'incertezza d'un'espressiooe
è fonte di mille liti tra i cittadini, e vessazioni a. Havvi alla China una
legge che condanna a morte quegli che non mostra sufficiente rispetto al sovrano.
Comparve un giorno nella gazzetta della corte un aneddoto non raccontato con
perfetta esaltezza. Il redattore fu arrestato, e i tribunali décisero che
mentire nelle gazzette della corte e non mostrare sufficiente rispetto al
sovrano. Quindi il redattore fu messo a morte. ATTENZIONE E RAZIOCINIO.“
commercio. La divisione uniforme del regno in dipartimenti, distretti, cantoni,
comuni, l'uniformità de' pesi, in isure, monete, gli stessi libri nelle
università, la stessa educazione ne’ licei lendono a dare alle parole la stessa
significazione, a diminuire le dispute, e quindi una somma noo de. finibile di
coilisioni sociali. Oltre l'indeterminazione del linguaggio proveniente dal
modo con cui l'impariamo e dalla natura dell'oggetto che esprime, bisogna dire
che in ogni lingua non v'ba quasi una parola che rappresenti sola una idea
chiaro-distinta da se stessa. Tutte prendono sensidiversi dal posto che
occupano nel discorso,dalle parole che le seguono o le precedono, dall'accento,
dal gesto, dagli atti che le accompagnano. La medesima parola unita ad alcune
ti mostra un dato espelto d'idee,uo altro, se si college con altre. Più avanti,
più indietro le ne farà vedere dei diversi. Detta con un tuono asseverante, ha
un senso. Con un tuono di meraviglia, un altro. Con irrisione, un terzo. Con interrogazione,
un quarto. Cosicchè si potrebbe assomigliare le parole ai colori delle peone
d'un colombo, che variano secondo il moto del sole, del colombo, dell'osservatore.
Sono quindi quovi, fonti d'errori i diversi sensi che le stesse parole
esprimono passando da un ordine di cose ad un altro. Un oratore, dopo avere
esaltato i nomi di molti personaggi illustri dell’antichità, si dirige così
a'suoi uditori: ingrati che noi siamo! noi cilngniamo della brevita della vita,
mentrei è innostro polere di renderci immortali. Egli è evidente che questa
argomentazione confonde due maniere di vivere che sono distiolissime e diverse.
Lo stesso difetto si fa vedere nella seguente massima di Rousseau. Se la natura
ci ha destinati ad essere sani, l'uomo che medita è un'animale depravato.
Perchè questa sentenza fosse vera, converrebbe provare che il primo ed unico
destino dell'uomo è di essere sano; che la virtù consiste nella sanità, e che
la meditazione è in compatibile coi buoni costumi. Allora un dollo sarà un
essere depravato come il soldato che espone la sua sanità e la sua vita in
difesa della patria. Si potrà dire che ogni ammalato è uno scellerato, un
mostro; che un monco è un Sano è qui'addiettivo del corpo, e significa uno
stato fisico; depravalo è addiettivo dell'auimo, e significa uno stato
morale. animale depravalo, avendoci la natura destinati ad essere sani
come ci ha destinati ad avere due braccia. Aliro esempio. Bernardin de Saint
Pierre vuole che assolutamente si bandisca l'emulazione dalle scuole pubbliche;
e per provare ch'ella è inutile, argomenta così. Analizziamo questo argomento.
L’emulazione per imparare la lezione, per fare dei temi, per studiare le
scienze è inutile ugualmente che per giocare, bere, mangiare. L'emulazione è
dunque da una parte e dell'altra la ripetizione della stessa inutilità, e per
conseguenza si devono ritrovare pelll'un caso e nell'altro le medesime cause di
questa doppia inutilità. Le funzioni dell'animo non son esse egualmente naturali,
egualmente aggradevoli che quelle del corpo? Egualmente naturali? lo rispondo
di no, se per naturali inten desi necessarie ed imperiose. Egualmente
aggradevoli? Questo è possibile, ma la causa si rifonde nel piacere d'essere applaudito, ammirato,
ricompensato. Quindi l'autore non s'accorge che coi buoni effetti
dell'emulazione lepla di provarne l'inutilità. Finalmente l'interesse, la mala
fede, le passioni lulle abusano delle parole, perciò, al dire di Parini, il
mercante è pronto inventor di lusinghicre fole 6 E liberal di forastieri nomi
6' A merci che non mnaivarcaro imonti. уоро campagna, come sono
necessarie talvolta per farli stu diare? Questa piccolo popolazione ha forse
immaginato delle astuzie, e inventati degl’artifizi per allungare gli studi, e
per ottenere un tema più difficile? Ho io avuto bisogno nell'infanzia di
sorpassare i miei compagni nel bere, mangiare, passeggiare, e per corvi
piacere? E perchè è egli slato necessario che imparassi asor passarli ne’miei studi,
per trovarci dilello? Non ho iopo. tulo instruirmi a parlare e ragionare senza
emulazioni? Le funzioni dell'animo non son esse egualmente naturali, egual
mente aggradevoli che quelle nel corpo? Ora l'emulazione è inutile oel bere e
nel mangiare, per che queste operazioni sono comandate dal più pressante, dal
più imperioso de’ bisogoi, l'amore della vita; ma quantivi e conciliano la
santità e la grassezza coll'inerzia e l'ignoranza? Gli scolari temono forse
tanto le ricreazioni quanto temono la dieta? Sono mai state necessarie le
minacce ed i castighi per condurli al refettorio o farli partire per
la Cromwel, per coprire le sue viste atobiziose col manto della religione,
aveva dato alla maggior parte de'suoi reggimenti i nomi dei santi del Testamento
Vecchio. Cromwel, dice uno scrittore anonimo di quel tempo, ha ballulo illam
buro in tutto il Vecchio Testamento. Si può imparare la genealogia del nostro
Salvatore dai nomi de'suoi reggimenti. Il commissario di guerra non aveva altra
lista che il primo ca pitolo di S. Matteo. In tutti i tempi, in tutte le
religioni, in tutti i partili, il fanatismo, il quale non sipiccò mai di equità,
diede a quelli che voleva perdere, non i nowi che merita vano, ma inoai che
potevano loro nuocere. Socrate, che depurando le idee superstiziose, le
conduceva all'unità di Dio, riceve il titolo d' aleo dai sacerdoti di Cerere:
empio chiamavasi presso gli Egiziani chi von adorava un gatto, un bue o un coccodrillo.
Si da dai Cartaginesi lo stesso titolo a chi abborriva il sacrifizio delle umane
vittime. I romani danno a tutti i cristiani il nome di galilei o giudei,
sforzandosi dire uderli odiosi non potendo dimostrarlı irragionevoli. Alla
China i nostri missionari che diffondeodo la religione dei galilei diminuiscono
il concorso ai tempii de' falsi idoli, e quindi i proventi de' sacerdoti,
vengono da questi dipinti come ribelli ed accusati di congiura coutro lo Stato.
Le espressioni odiose sono uo'arma troppo favorevole alla calunnia perchè ella
non s'affretti a farne uso. Egli è sempre un vantaggio l'avere pronta una
parola di sprezzo per caralterizzare i torti che si riaproverano ai propri
avversari. Con una di queste parole si prova tutto, si risponde a tutto, si
difende la propria opinione, si distrugge l'altrui. A Pascal, che con tanta sagacità
svela nelle sue lettere provinciali la corruzione della morale, e risposto
ch'egli era quattordici volte eretico. Gli uomini saggi si guarderaono sempre
dalle espressioni dipartito ed esclu sive, e che traggono seco idee accessorie
infinitamente variabili e talvolta cootrarie. Essi dirapoo, a cagione
d'esempio, questa legge è conforme all'interesse pubblico, e lo prov r'anno
svolgendo la somma de’ beni di cui è seconda, ma non diranno, per es., questa
legge è conforme al principio della monarchia o della democrazia, giacchè se vi
sono delle persone nelle cui teste queste parole risvegliano idee
d'approvazione, ve ne sono altre nelle quali succede tulto l'opposto. Quindi se
i due partiti si mettono alle prese, la disputa non finirà che colla stanchezza
de’ combattenti, e per cominciare TEORIA DELLA SENSAZIONE
ATTENZIONE E RAZIOCINIO. Combinare od inventare. La ninfa della tignuola
d'acqua che si trova ne'nostri fiumi, dice Darwin , e la quale s’involge in
cerle casucce di paglia, di sabbia, di gusci,s a ben far si che questa sua abi
lazione sia alla ad equilibrarsi coll'acqua ; e perciò quando èsoverchiamente pesante,
viaggiunge un bocconcello dipa 'gliao dil egno, equando troppoleggiere, un pezzellodi
grossa rena. il vero esame, converrà rinunciare a queste parole
appassionate ed esclusive, per calcolare gli effetti della legge in bene e in
male. Osservano gli storici che nel corso della guerra del Peloponneso successe
taletrambusto nelle idee e ne' principii, che le parole più usuali cambiarono
di senso. Si da il nome di dabbenaggine alla buonafede, di destrezza alla duplicità,
di debolezza alla prudenza, di pusillanimità alla moderazione, mentre i tratti
d'audacia e di violenza passavano per slaoci d'animo forte e di zelo ardente
per la causa pubblica. Una tale confusione del linguaggio è forse uno de’ sintomi
più caratteristici della depravazione d'un popolo. In altri tempi si può
offendere la virtù. Ciò non ostante se ne riconosce ancora la sua autorità, quando
le si assegnano de’ limiti. Ma quando si giunge sido a spogliarla del suo nome,
ella perde i suoi diritti al trono, e il vizio se ne impadronisce e vi si
asside tranquillamente. Per capire ciò che succede allora in una nazione, basta
osservare ciò che succede nelle società de’ viziosi e scellerati. I ladri, gl’aggressori
, i monetari falsi, i contrabandieri si formano un linguaggio o uo gergo tutto
proprio che confonde tutte le idee di vizio e di virtù. Uniti da sentimenti
uniformi, volendo vendicarsi dell'opinione pubblica che li rispioge da sè, si
compiacciono ad affrontarla. Quindi nel loro dizionario sono escluse tutte le
impressioni del rossore, alterati i sentimenti del giusto e dell'ingiusto,
associate idee scherzevoli ad atti criminosi e nefandi. Una vespa, continua lo
stesso scrittore, ha colla una mosca grossa quasi com'era ella medesima. Posi
le ginocchia a terraper meglio osservare, evidiche ellase paròla coda e la
tesla da quella parle del corpo a cui sono annesse le ale. Prese ella
quindinelle zampe questa porzione di mosca, e s'alza con essa dal terreno circa
due piedi, ma un venticello leggiere scuotendo le ale della mosca, fa
capovolgere l'animale nell'aria, ed egli scese ancora colla sua preda a terra.
Osservai allora distintamenle che colla bocca le taglia primieramente un'ala, e
poi l'altra, e quindi fuggi via non più molestata dal vento. Questi due animale
lti,che sanno disporre le cose in modo, ossia ritrovare mezzi tali da oltenere
il fine bramalo, ci danno le prime idee dell'arte di combinare o invenlare.
Duhamel osserva che il felore delle sale degli spedali cresceva, avvicinandosi
al soffitto. Egli immaginò quindi uo ventilatore che facendo comunicare questa
parte delle sale con l'aria esteriore, caccia laria guasta. La combinazione di
Dubamel oon suppone nella disposizione dei mezzi più cognizioni di quelle della
tigauola e della vespa. Ma il fine ottenuto essendo molto vantaggioso
all'umanità, la combinazione è più pregevole. Il pregio di questa combinazione
cresce, se si riflette ch'ella è applicabile ad altri oggetti, a cagione
d'esempio, ai vascelli in mare. lo fatti vi sono delle combinazioni saggissime
profondissime, e che suppongono infinita destrezza nell'esecuzione. Ma siccome
non arrecano alcun vantaggio, non hanno alcun pregio agl’occhi del saggio.
Boverick, meccanico d'uva de, strezza e d’upa perseveranza prodigiosa, fabbrica
una catena di duecento anelli che col suo catenaccio e la sua chiave pesava
circa un terzo di grano. Questa catena e destinata ad iocatenare una pulce. Egli
fa una carrozza che s'apriva e si chiudeva a inolla, era tratta da sei cavalli,
porta quattro persone e due lacchè, e condolia da un cocchiere, ai piedi del
quale sta assiso un cane, e il lutto venne strascioato da una pulce esercitata
a questo travaglio. L'invenzione e l'esecuzione di questa macchina puerile fa
desiderare che Boverick impiega meglio i suoi talenti. Grice: “”Si suppongano
due selvaggi” – exactly my way of proceeding. Gioia has a lot of sense. An
engraving’s caption has it: ‘statistico e filosofo’ – And I like the fact that
like Socrates he did ‘elementi di filosofia ad uso de’ giovanetti’!” -- Melchiorre
Gioia, Melchiorre Gioja. Gioia. Keywords: filosofia ad uso de’ giovanetti, galateo,
pulitezza, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gioia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Giorello: l’implicatura conversazionale del libertino – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. – Grice: “I like Giorello: he philosophises on
evil and good – the devil wrestles with the angel – but also on Mickey Mouse
that he calls ‘topolino’ – “la filosofia del topolino” – and perhaps ore
exotically for us Oxonians, on ‘la filosofia di Tex,’ a ‘fiumetto’ of 1948!”
–Si laurea a Milano sotto Geymonat). Insegna a Milano. Membro de la Società
Italiana di Logica” e de la Societa Italiana di Filosofia della Scienza. Giorello
divise i suoi interessi tra lo studio di critica e crescita della conoscenza
con particolare riferimento alle discipline fisico-matematiche e l'analisi dei
vari modelli di convivenza politica. Dalle sue prime ricerche in filosofia e
storia della matematica, i suoi interessi si erano poi ampliati verso le
tematiche del cambiamento scientifico e delle relazioni tra scienza, etica e
politica. La sua visione politica e di stampo liberal democratico e si ispira,
tra gli altri, a Mill. Si occupa anche di storia della scienza in
particolare le dispute novecentesche sul "metodo"e di storia delle
matematiche (“Lo spettro e il libertino”). Cura “Sulla libertà” di Mill. Ateo,
filosofa in “Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo.” Altre opere: Opere
Filosofia della matematica, Milano, L’nfinito, Milano, UNICOPLI, Lo spettro e
il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, Milano, A. Mondadori, Le ragioni della scienza, Roma, Laterza,Filosofia
della scienza, Milano, Jaca Book, Le stanze della ricerca, Milano, Mazzotta, Europa
universitas. sull'impresa scientifica europea, Milano, Feltrinelli, La filosofia
della scienza, Milano, R.C.S. libri & grandi opere, Quale Dio per la
sinistra? Note su democrazia e violenza, Milano, UNICOPLI, La filosofia della
scienza, Roma Laterza, “Lo specchio del reame: riflessioni sulla comunicazione:
Longo, Epistemologia applicata. Percorsi filosofici, e Milano, CUEM, I volti del tempo, e Milano, Bompiani, Prometeo,
Ulisse, Gilgameš. Figure del mito, Milano, Cortina, Di nessuna chiesa. La libertà del laico,
Milano, Cortina, Dove fede e ragione si incontrano?, con Forte, Balsamo, San
Paolo, La libertà della vita, Milano, Cortina, Il decalogo. I dieci comandamenti commentati
dai filosofi,, Non nominare il nome di Dio invano, Milano, Albo Versorio, Giulio
Giorello relatore al convegno internazionale "Science for Peace",
Milano, La scienza tra le nuvole. Da Pippo Newton a Mr Fantastic, Milano,
Cortina, Kos. Rivista di medicina, cultura e scienze umane, 4: Dio, Patria e Famiglia, Milano, Editrice
San Raffaele, Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani,
Il peso politico della Chiesa, Cinisello
Balsamo, San Paolo, Viaggio intorno all'Evoluzione, Mascella, Zikkurat Edizioni
& Lab, Harsanyi visto da G., Milano, Luiss University press, Lo scimmione
intelligente. Dio, natura e libertà, Milano, Rizzoli, Ricerca e carità. Due
voci a confronto su scienza e solidarietà, Milano, Editrice San Raffaele, Introduzione a Apostolos Doxiadis e Christos
H. Papadimitriou, Logicomix, Parma, Guanda, Lussuria. La passione della conoscenza,
Bologna, Il Mulino,. Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo, Milano, Longanesi,.
Il tradimento. In politica, in amore e non solo, Milano, Longanesi,. Premio
Nazionale Rhegium Julii Saggistica. La filosofia di Topolino, Parma, Guanda,. Noi che abbiamo l'animo libero. Quando Amleto
incontra Cleopatra, Milano, Longanesi, Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. CULTURA
Addio a G., filosofo della scienza e difensore della libertà By Vincenzo
VillarosaPosted on È morto il filosofo G., per le conseguenze dell’influenza da
COVID-19, dopo aver trascorso due mesi di degenza in ospedale ed essere stato
dimesso alla metà di maggio. Successore di Geymonat alla cattedra di Milano, il
filosofo aveva sposato la compagna Roberta Pelachin. Il Premier Conte lo ha
ricordato, in un messaggio sui social, come un filosofo che ha saputo
riflettere sui rapporti tra etica, politica e religione. Nato a Milano G.
si laurea in Filosofia seguendo la tradizione antifascista e marxista del
maestro Geymonat e il difficile tentativo di contrastare le divisioni tra
pensiero scientifico e umanistico. In seguito, e docente di Meccanica razionale
a Pavia e poi a Catania, a quella di Scienze naturali all’Università
dell’Insubria e, infine, al Politecnico di Milano. Presidente della Società
Italiana di Logica e Filosofia della scienza. I suoi studi spaziavano dalla
mitologia all’antropologia e alla psicologia evolutiva fino alla bioetica e
alle neuroscienze. Uno tra i più bravi epistemologi italiani, insomma, capace
di unire il rigore per gli studi sul metodo della scienza alle riflessioni
sull’ambiente sociale e politico nel quale si muove la ricerca
scientifica. Accanto all’attenzione per le discipline fisico-matematiche
e all’accrescimento della conoscenza scientifica, G. analizza le modalità
complesse e contraddittorie della convivenza sociale e politica. Sulla scia del
pensiero di Mill – di cui aveva curato l’edizione italiana dell’opera Sulla
libertà, scrive, in particolare, pagine illuminanti sulla natura, i limiti e la
possibile difesa della libertà umana. La sua instancabile attività di
saggista e basata su un’approfondita conoscenza della produzione saggistica e
del dibattito internazionale intorno al discorso scientifico. La testimonianza
di questa ricchezza culturale è rintracciabile nella preziosa direzione
editoriale della collana Scienza e idee per Cortina e nella capacità di
divulgazione espressa, tra l’altro, nella collaborazione alle pagine culturali
del giornale Corriere della Sera. Tra le opere di saggistica, ricordiamo
Filosofia della scienza (Jaca Book) e due contributi di divulgazione
scientifica come La filosofia della scienza con Gillies, Laterza, e La
matematica della natura con Barone, Mulino. Nelle opere Di nessuna chiesa. La libertà del
laico (Cortina) e Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo (Longanesi), G. parla
del valore della laicità in maniera antidogmatica e rispettosa della visione
del mondo dei credenti. La curiosità intellettuale e la personalità
liberale del filosofo milanese si espresse anche nell’interesse sul rapporto
tra la cultura definita alta e quella popolare presente, ad esempio, nel mondo
dei fumetti. Il suo saggio pop su La filosofia di Topolino con Cozzaglio, Guanda, ne è una divertente ma non banale rappresentazione.
La perdita di G. toglie alla scena italiana uno dei più attenti conoscitori
dell’articolato cammino della filosofia e del sapere scientifico e, allo stesso
tempo, un difensore delle libertà individuali e collettive, senza le quali non
è possibile alcun accrescimento e consolidamento del patrimonio culturale
dell’umanità. RELATED TOPICS: FILOSOFIA, LETTERATURA, PRIMA-PAGINA,
SOCIETÀ Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo. Il settenario. Il
vizio della lussuria. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo. Vizio del
corpo. Vizio dell anima. I coniugati e la lussuria. Se non riescono a
contenersi si sposino, meglio sposarsi che ardere (I Cor. 7,9). La lussuria
come potenza nell Inferno. La lussuria come potere nel Inferno... p.31 4. La
lussuria come piacere e dolore nel Canto V dell Inferno... p.44 5. La lussuria
come filosofia nel Canto V dell Inferno... p.52 6. La lussuria come inganno e
come sovversione nel Canto V dell Inferno... p.61 7. La lussuria nel Canto V
dell Inferno: conclusione... p.66 Bibliografia... p.70 0. Introduzione
Non v è dubbio che fra gli insegnamenti che Dante può riservare agli uomini del
terzo millennio ci sia anche quello di puntare su un solo profondo amore al
centro di tutta un esistenza, persistente anche oltre la soglia della morte,
capace di rinnovare la vita di una persona, di orientarla al meglio. Come
afferma Emilio Pasquini nel suo libro Dante e le figure del vero. La fabbrica
della Commedia, la lettura della Divina Commedia dantesca si mostra rilevante anche
nel terzo millennio. Ovviamente, un opera di qualche secolo fa rischia di non
essere più adatta alle generazioni contemporanee. Ogni epoca conosce tendenze
critiche differenti per quanto riguarda la Commedia, ogni generazione [ ] legge
il suo Dante 2, e quindi, come lo pone Renzi, siamo prigionieri anche noi del
nostro tempo 3. Pasquini segnala che, di tutti gli episodi della Commedia,
soprattutto quello di Paolo e Francesca risulta molto interessante per i
lettori di oggi 4. L amore-passione che forma il nucleo della storia continua a
intrigare. Rappresenta una delle idee riguardanti l uomo tra cui Dante, in un
modo meraviglioso, stabilisce legami nei suoi versi. Quelle connessioni creano
la celebre feconda ricchezza di Dante, la quale fa sì che tanto all epoca
(quando si trattava della fede, della relazione tra Creatore e creatura) quanto
oggi (ormai importa la nostra coscienza etica) si scoprono delle idee
sorprendenti e chiarificatrici nell opera 5. Accanto a questo, la storia dei
due lussuriosi illustra pure la persuasione [di Dante] della presenza, nella
vita di ognuno, di un gesto decisivo che sanziona la sorte eterna dell uomo [
]. Oggi, asserisce Pasquini, una simile prospettiva riguarda (e riguarderà in
futuro), su un piano totalmente terreno, le scelte radicali che decidono il
corso di un esistenza, le svolte cruciali che imprimono alla vita di un
individuo una precisa e irreversibile direzione, decidendo del suo destino in
terra 6. 2 Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia,
Paravia, Bruno Mondadori; Renzi, Le
conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit.,
Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259.
5 Ibidem, pp.269. 6 Ibidem, pp.275. 7 Introduzione Si può aggiungere che,
in generale, la ricerca della sapientia mundis del giovane Dante s inserisce
perfettamente nella visione contemporanea del mondo, la quale è completamente
fissata sull acquisizione di nuove conoscenze e su uno sviluppo personale
completo. Parallelamente, si rivela adatto alla società di oggi l avvertimento
di Dante adulto che tale ricerca deve essere interrotta quando rischia di
condurre non alla magnanimità ma alla folia. 7 D altronde, Inglese segnala che
il carattere realistico del poema, dei suoi personaggi e delle sue scene
illustra che Dante utilizza il mondo terreno come una metafora dell oltremondo,
l altro mondo è reso sensibile e leggibile con le forme del nostro mondo 8.
Anche questo aspetto della Commedia fa sì che i lettori di oggi possono capire
abbastanza facilmente il mondo sotterraneo evocato dal poeta. La conoscenza del
mondo, inoltre, stabilisce il legame tra il commento di Pasquini e quello del
filosofo Giulio Giorello, la cui teoria riguardante la lussuria non concorda
con la visione cristiana del fenomeno, esposta nel primo capitolo della
presente tesi. Ne risulta che la lussuria, dal punto di vista cristiano, si
presenta come un fenomeno disprezzabile. Si tratta di una caratteristica umana
da combattere e da eliminare. Il filosofo, invece, adotta un punto di vista
molto differente nella sua recente monografia Lussuria. La passione della
conoscenza 9. Propone un analisi molto originale del vizio, mirata a provocare,
nel ventunesimo secolo, una sensazione di liberazione nel lettore della
letteratura d ispirazione cristiana sul soggetto. Giorello considera la
lussuria non solo come un peccato, ma anche, e in primo luogo, come una
libertà: E per ciò [la lussuria] può costituire il nucleo di una società aperta
e libertaria, insofferente di qualsiasi costellazione di dogmi stabiliti 10.
Anche se il concetto centrale della tesi vi è inquadrato in un contesto
quotidiano, universale e laico, non viene trascurato il significato cristiano
del termine. L autore approfondisce il concetto di lussuria descrivendo come il
desiderio lussurioso può manifestarsi in varie forme: parla della lussuria come
potere, come filosofia, come inganno Andando al fondo della nozione di
lussuria, stabilisce delle relazioni significative tra vari testi, autori e
concetti. Inglese, premessa, in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma,
Carocci; G., Lussuria. La passione della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2010.
10 Ibidem, risvolto della sopraccoperta. 8 Introduzione A mio giudizio la
lettura del Canto V dell Inferno dantesco nell ottica proposta da Giorello può
offrirmi, e con me a tutti i lettori del capolavoro di Dante Alighieri, una
lettura fresca e interessante di questi versi già ampiamente commentati. Vorrei
dimostrare che le sue idee nuove permettono di attualizzare questa parte del
testo dantesco anzi, tutta la Commedia- e di agganciarlo alla società del
ventunesimo secolo (cf. Pasquini, cf. supra). Tutte le manifestazioni della
lussuria contemplate dal filosofo verranno applicate al Canto V, poiché i suoi
ragionamenti permettono di gettare nuova luce sul testo dantesco e di
presentarlo a una società diventata quasi completamente laica, nella quale la
religione cristiana è diventata un vago ricordo di altri tempi, un fenomeno
soltanto latente (cf. supra). Anche nel libro di Giorello l aspetto religioso
della lussuria non è quello più importante, ma è sempre presente in modo
velato. Ciò significa che predomina la ricchezza rappresentata dalle varie
manifestazioni del concetto denominato lussuria, a scapito della visione
cristiana del fenomeno, la quale predica la restrizione di questo vizio. Tutto
ciò spiega perché i concetti delimitati da Giorello, in combinazione con
commenti da parte di Pasquini, mi faranno da filo conduttore per redigere la
presente tesi. L accostamento evidenzierà paralleli e complementi interessanti.
Dato che il mio scopo è l elaborazione di una nuova analisi della lussuria nel
celebre Canto V prendendo come guide alcuni studiosi contemporanei, l aggiunta
di pensieri e di ragionamenti provenienti dal libro Le conseguenze di un bacio.
L episodio di Francesca nella Commedia di Dante di Lorenzo Renzi arricchirà
ancora l esposizione, tra l altro la parte nella quale si tratta della
colpevolezza o dell innocenza di Paolo e Francesca. Renzi, nel suo libro, vuole
reagire sia alla retrocessione di Francesca in generale, sia all interesse
privilegiato mostrato dai critici per la tirata lirica di Francesca 11. L
autore specifica che l episodio di Francesca forma, infatti, una metonimia
della Commedia, cioè la parte per il tutto: [ ] drammatizza e presenta in
exemplo la palinodia di Dante, il suo abbandono degli errori giovanili, del
mondo dell amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo), per cominciare l
ascensione. Riferendosi a Paolo Valesio, afferma però anche che il personaggio
di Francesca si rivela tanto intrigante che la palinodia rischia di diventare
il suo contrario, una palinodia della 11 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un
bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 9
Introduzione palinodia: una nuova esaltazione dell amore terreno 12. Accanto al
riferimento a Valesi il testo di Renzi offre ancora molte informazioni
sorprendenti riguardanti altri autori e commentatori. Giorgio Inglese, poi, è
il quarto critico principale che sarà evocato. Il suo commento all Inferno mi
ha procurato vari elementi chiarificatori, distinguendo, nella Commedia, una
struttura e una poesia, per esempio, o puntando sull importanza, nel Canto V,
di contrasti forti. Anche lui si mostra un difensore di una dantistica del
terzo millennio. La maturità della disciplina ( la quantità [dei studi] è ormai
misurabile solo con i mezzi dell elettronica ) non implica però stagnazione, e
lo dimostra bene, per quanto riguarda la Commedia, proprio la vitalità del
genere commento 13. In ogni capitolo della presente tesi, una nozione
filosofica evidenziata nel libro già citato di Giorello si trova alla base
delle idee sviluppate nel capitolo relativo. A quei ragionamenti s intrecciano
varie riflessioni dalla parte di Pasquini, Renzi, Inglese e alcuni altri
commentatori. 12 Ibidem, pp.7-8. 13 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia.
Inferno di Dante A lighieri, cit., pp.12. 10 1. Il paradigma dei
sette vizi capitali nel Medioevo Come capitolo introduttivo presenterò un
resoconto generale del paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo, incluso
un attenzione particolare per la storia del vizio della lussuria. Baserò questa
visione d insieme sul volume I sette vizi capitali: storia dei peccati nel
Medioevo di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, pubblicato dalle Edizioni
Einaudi nel 2000. 1.1. Il settenario Anzitutto si deve segnalare che il sistema
dei vizi capitali non è un invenzione di un individuo. Si tratta piuttosto di
una raccolta di idee che si è sviluppata attraverso secoli, continenti e
persone diversi; di un enorme enciclopedia nella quale si trova di tutto, un
efficace schema classificatorio per parlare [...] del mondo 14. Un topos, per
così dire. Una volta che il paradigma aveva ottenuto la sua forma definitiva,
ben circoscritta, ha avuto un successo immenso, tanto presso i chierici quanto
presso i laici. Si potrebbe dire che, per quanto riguarda l Occidente, la
storia medievale di questi sette vizi inizia con gli scritti di tre
ecclesiastici: Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano e Gregorio Magno. Cassiano (V
secolo), avendo delineato nelle sue opere l insieme delle teorie del suo
maestro Pontico sui sette vizi capitali, ha scritto una delle opere più
significative per la cultura tanto religiosa quanto laica del Medioevo. Il
settenario dei vizi capitali, al quale Cassiano ed Pontico attraverso gli
scritti del suo allievo- ha contribuito, ha avuto grande successo. Dante,
quindi, ha vissuto in un epoca che accordava molto importanza all idea dei
sette vizi capitali. Si deve specificare che tanto Pontico quanto Cassiano
distinguono otto vizi capitali, al posto di sette: gola, lussuria, avarizia,
tristezza, ira, accidia, vanagloria e superbia (elenco tratto dall opera di
Casagrande e Vecchio). Magno, nella sua opera Moralia in Job (fine VI secolo),
ne distingue sette; non menziona più l invidia come vizio capitale. Anche
Moralia in Job costituisce un opera di notevole importanza per la cultura
medievale: è molto più di un 14 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi
capitali: storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000, pp.xvi.
11 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo commento: esegesi,
teologia, etica si mescolano a comporre un disegno di larghissimo respiro 15. Il
paradigma dei vizi capitali porta, naturalmente, l impronta dell ambito nel
quale è stato lavorato, cioè l impronta della società monastica non solo quella
occidentale. Infatti, Cassiano aveva apportato all Occidente conoscenze
orientali egiziane, siriane-, adottate dalla cultura monastica orientale,
raccolta nell Egitto. Anche il suo maestro, Pontico, aveva imparato molto sui
vizi capitali in quel crogiolo culturale che fu Alessandria d Egitto alla fine
del IV secolo 16, e nelle sue riflessioni, idee della filosofia occidentale si
sono confuse con questa sapienza proveniente dall Oriente. Di più, le idee
rappresentate dai sette vizi capitali risalgono, infatti, alle difficoltà
proprie alla vita nel monastero: Per i monaci essi rappresentano gli ostacoli
da superare lungo il cammino di perfezione al quale si sono votati, in una
continua battaglia contro se stessi e contro quel mondo che si sono lasciati
alle spalle 17. Detto questo, si può inquadrare la nascita e lo sviluppo del
settenario, almeno per quanto riguarda il Medioevo. In quello che segue
tratterò più in dettaglio la storia medievale di uno dei vizi capitali, cioè di
quello che costituisce il nucleo centrale della mia tesi: la lussuria. 1.2. Il
vizio della lussuria 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo Non
solo il cristianesimo ha trattato il desiderio sessuale con diffidenza. Già
nella cultura pagana, gli individui si sfidavano da persone che riconoscevano
apertamente di sentire tali voglie. La religione cristiana si è adeguata molto
abilmente a queste preoccupazioni, riunendole in un vizio capitale chiamato
lussuria. Denominando così sentimenti vari e irrequieti, la fede calma, crea
ordine nel mondo, nella società, nella vita particolare di ogni persona che si
riallaccia alla tradizione cristiana. Diventa molto attraente in questo modo.
Lo sviluppo di paradigmi simili contribuisce alla popolarità di una concezione
di vita, tanto di visioni di tipo religioso come di concezioni pagani. 15
Ibidem, pp.xi. 16 Ibidem, pp.xii. 17 Ibidem, pp.xv. 12 Il paradigma dei VII
vizi capitali nel Medioevo Cassiano descrive la lussuria, situandola nell
ambito della natura propria agli uomini, come un vizio intrinseco, come un
aspetto essenziale della specie umana. Magno monaco e papa-, anzi, pone che
essa sarebbe un attività tutto naturale del corpo, che, per di più, sarebbe
intento da Dio. Da un punto di vista laico (nel senso di ateistico), si vede
apparire, in questo discorso, una concezione molto moderna della sessualità
umana. Rimanendo nel contesto cristiano, il papa, sviluppando una tale visione,
crea infatti un idea che spiana la via per la lussuria: se forma un desiderio
proprio all uomo tanto naturale quanto il bisogno di mangiare e di bere, non si
può evocare più niente per intimargli l alt. Ma, a dire il vero, la visione
della lussuria divisa in modo più ampio durante i secoli medievali è quella
ideata da Agostino. Secondo lui, l elemento chiave che trasforma la sessualità
dell uomo in un attività peccaminosa, sarebbe stato il peccato originale. Prima
della ribellione di Eva e Adamo contro Dio, i due primi esseri umani sarebbero
stati i padroni assoluti dei loro organi sessuali, presenti per rassicurare la
procreazione della specie umana. Dopo, invece, come punizione reciproca per la
loro disubbidienza a Dio, queste parti dei loro corpi diventano insubordinati,
non li possono più controllare. Anzi, sono quegli organi del corpo a poter
dominare l anima dell essere umano. Lì si ritrova il primo vero aspetto della
pena imposta ad Adamo ed Eva. La seconda è rappresentata da una conseguenza
irrimediabile del fatto che si sta parlando dell attività responsabile per la
generazione: l uomo trasmette quel peccato di padre in figlio, per l eternità.
Per forza, i figli nascono peccatori. Nonostante il fatto che la visione
agostiniana della lussuria era molto diffusa durante il Medioevo, si comincia
già a rivederla nel XII secolo. Si osserva infatti un processo di
desessualizzazione del peccato originale 18. Implica l accettazione della
concupiscenza come una delle conseguenze del peccato originale, non come l
effetto principale di questo. Tuttavia, la sessualità non viene tolta dall
ambito peccaminoso nel quale era stata introdotta: La natura era ormai
inevitabilmente corrotta 19. 1.2.2. Vizio del corpo Cassiano attribuisce alla
lussuria (denominata, in un primo momento, la fornicazione), tutto come alla
gola, lo statuto di vizio carnale, un vizio cioè che implica 18 Ibidem, pp.151.
19 Ivi. 13 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo necessariamente
la partecipazione del corpo 20. Rivendica non solo la cooperazione degli organi
sessuali, ma pure quella di tutti gli organi legati alle esperienze sensoriali:
gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca e le mani. La lussuria, infatti, si
presenta come il solo vizio capitale che coinvolge ognuno dei cinque sensi. Nel
Medioevo, la collaborazione tanto versatile del corpo umano alla fornicazione
approda all idea che questo corpo non solo partecipa allo svolgimento del
vizio, ma ne subisce anche le conseguenze. Quelle, naturalmente si tratta di
conseguenze di atti peccatori-, non appaiono sotto forme agrevoli: terribili
mali di testa che i medici non sanno come curare, progressiva perdita delle
forze, vita breve e, su tutto, l immonda malattia che attraverso piaghe
ripugnanti e maleodoranti consuma lentamente ma inesorabilmente il corpo, la
lebbra 21. Per di più, il debole corpo umano è inestricabilmente connesso con
il vizio della fornicazione: senza la presenza di un corpo, non si può
manifestare la lussuria. Il vizio rivendica la sussistenza della carne umana
per poter apparire. Si tratta quindi di un peccato intrinseco al fisico umano.
A dire il vero, la lussuria non tocca a qualsiasi corpo. Si ritrova
essenzialmente in fisici maschili. Questo aspetto della fisionomia della
fornicazione non deve sorprendere: si parla di un peccato il quale carattere ed
essenza sono stati messi a punto negli monasteri abitati da ecclesiastici
maschili (fra le altre i padri fondatori del settenario dei vizi 22 : Pontico,
Cassiano e Magno). A lungo, le donne non entravano nel discorso sulla
fornicazione, tranne come oggetti degli impulsi lussuriosi maschili. Non
vengono mai considerate capaci di intervenire come iniziatrici per quanto
riguarda questo peccato. La femmina, invece, ritenuta un essere più debole che
il maschio, era creduta molto suscettibile delle avance peccatori esibite dal
suo corrispondente maschile. Inoltre, l insieme di gioielli, profumi, tenute
ecc. (l ornatus, come scrivono Casagrande e Vecchio) che mette l accento sull
eleganza femminile si considerava un tutto che serviva essenzialmente a rendere
i corpi delle donne ancora più attraenti e, di conseguenza, più sensibili ai
suggerimenti lussuriosi dalla parte dei maschi. Peraldo descrive le donne che
si vestono e si truccano per andare a ballare tramite una metafora memorabile:
[sono 20 Ibidem, pp.152. 21 Ibidem, pp.153. 22 Ibidem, pp.155. 14 Il
paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo come] un esercito di soldatesse
del Diavolo che si prepara a dare battaglia per strappare a Dio l anima degli
uomini 23. Quindi, nonostante il fatto che le donne non possono esibirsi come
istigatrici del vizio della lussuria, sono consapevoli degli effetti che hanno
i loro fisici sui loro complementi, si avvalgono di queste loro qualità, e
così, inconsapevolmente, incitano negli uomini gli impulsi che li portarono ad
atti lussuriosi. 1.2.3. Vizio dell anima Fin qui, la lussuria è stata dipinta
come un vizio essenzialmente corporale. A dire il vero, la sua origine non è
soltanto carnale, ma si trova nell interiorità più profonda dell anima umana.
Proprio i monaci abitanti dell ambito nel quale è cresciuta l idea del vizio
capitale abbordata- hanno (tra l altro) riconosciuto che il nucleo della
fornicazione sarebbe di natura spirituale. Nel vangelo secondo Matteo si può
leggere una frase che non lascia adito ad alcun dubbio: Chiunque guarda una
donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt. 5,
28) 24. Ma questa idea non implica che il corpo non potesse essere lussurioso.
Inserisce piuttosto una fase intermedia nell insieme di fasi propri all azione
peccaminosa. In primo luogo nascono le idee lussuriose nell anima dell uomo; in
seguito si osserva che, da questi pensieri, sorge una specie di corpo virtuale
(questa costituisce quindi la tappa alla quale si riferisce nella sentenza
evangelica); infine l atto adultero si svolge per quanto riguarda il corpo
reale, di carne e ossa. A proposito della nozione di carne, si dovrebbe ancora
specificare la differenza, quanto al peccato della lussuria, tra carne e corpo,
vale a dire: quando l anima cessa di pensare, immaginare, ricordare,
assecondare, ascoltare, in una parola servire il corpo, il corpo cessa di
essere carne, oggetto e strumento di quel desiderio eccessivo e disordinato che
ha colpito l uomo dopo il peccato originale, per tornare a essere solo corpo,
un aggregato di materia che garantisce la vita dell individuo 25. 23 Ibidem,
pp.157. 24 Il nuovo testamento, a cura di Giuliano Vigini, revisione di Rinaldo
Fabris, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2000, pp.47. 25 C. Casagrande, S.
Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.160.
15 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Si potrebbe dire,
dunque, che, riguardo alla fornicazione, non ci entra il corpo umano vero e
proprio, ma un suo equivalente virtuale, come l hanno formulato Casagrande e
Vecchio. In effetti, già nell ottica agostiniana della lussuria è inclusa l
idea che gli impulsi concupiscenti corporali, da soli, non costituiscono
sensazioni peccaminose. È precisamente la condiscendenza dell anima alle
pulsioni carnali che trasforma queste ultime in impulsi peccatori. In seguito,
si deve segnalare, in questo capitolo, il punto di vista piuttosto sorprendente
di Pietro Abelardo (XII secolo) sul vizio capitale della lussuria, soprattutto
per quanto riguarda la relazione tra anima e corpo. Abelardo sosteneva che
tanto la concupiscenza quanto l atto sessuale e i compiacimenti che lo
accompagnano avevano fatto parte della natura dell uomo a partire dal peccato
originale. Affermava che l elemento vizioso stava solamente nella transigenza
dell anima umana al corpo (carne, infatti) corrispondente. Con questa teoria,
Abelardo sviluppa, a dire il vero, una concezione molto moderna della
sessualità umana. Non per niente le sue asserzioni hanno provocato moltissime
reazioni alla sua epoca. La notevole importanza dell anima in quest ambito
viene confermata dalle conseguenze che ha il vizio della lussuria non solo per
il fisico dell uomo ma anche, e specialmente, per la sua anima immortale. La
fornicazione corrompe il corpo umano, lo rende impuro e infangato; ma è ancora
molto più dannosa all anima: una volta imbrattata da questo peccato, lo spirito
dell essere umano, debilitato e confuso, incoerente, è sull orlo della rovina.
Si tratta di un vizio talmente onnicomprensivo che abbraccia tutti i livelli e
strati dello spirito; si espande in tutti gli angoli della mente. Il
danneggiamento dell anima dalla lussuria si rivela incontestabilmente il più
grave nell indebolimento della ragione, componente più nobile e preziosa dello
spirito umano. Mina il potere della capacità più eccezionale dell uomo, cioè la
potenza di dominare tutti i suoi sentimenti, emozioni e impulsi facendo appello
alla ragione. In effetti, non solo la Chiesa si preoccupava dalla decadenza
della ragione sotto l influsso di attività sessuali. Prima della tradizione
cristiana, un ampia tradizione pagana aveva cercato di offrire uno sfogo a
simili preoccupazioni. In questo modo, ha potuto crescere, fra le altre prima
in ambito pagano, poi in contesto cristiano-, l idea che l intelligenza
concetto concepito come positivo- dovrebbe essere capace di mettere l uomo
nella 16 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo possibilità di
controllare gli impulsi carnali concepiti come negativi. Dato che gli ultimi
avvicinavano l essere umano dall animale, il contrasto tra questi di una parte,
e la nobiltà incontestabile della ragione umana d altra parte, si rivelava grandissimo.
Se è vero che tale opposizione si presentava palesemente in contesto
scientifico, per dirlo così intellettuale, filosofico ecc.-, la sua importanza
per la vita quotidiana dell uomo medio è inequivocabile, visto la funzione
[della ragione] di garantire la misura, la compostezza, l equilibrio nella vita
di ciascun individuo 26. Trasposto in ambito letterario, il dualismo fra la
ragione e gli stimoli carnali, e, più in particolare, la follia nella quale può
sfociare la vittoria riportata dalla carne alla ragione, s impadronisce dei
protagonisti dei romanzi cortesi. Il fenomeno rappresenta il culmine assoluto
dell incostanza confusa che può essere provocata in varie misure dalla
lussuria. 1.2.4. I coniugati e la lussuria. Se non sanno vivere in continenza,
si sposino; è meglio sposarsi che ardere (I Cor. 7,9) 27 Tra tutte le persone
che non scelgono la castità come cura della lussuria, i coniugati formano un
gruppo speciale. Il matrimonio, in effetti, non elimina la lussuria, ma nella
misura in cui vieta tutti i rapporti extraconiugali e limita quelli coniugali
[a quelli che servono alla procreazione e quelli che sono necessari per
soddisfare le sensazioni concupiscenti dei coniughi ed evitare, in questo modo,
che commettono il peccato della fornicazione], la contiene e la riduce 28. La
storia del concetto di matrimonio, per quanto riguarda il vizio della lussuria,
si rivela alquanto complicata. In primo luogo si deve segnalare che la ragione
per la quale certi cristiani propendevano per la castità e non per il matrimonio
consisteva nel fatto che il matrimonio limitava solamente la lussuria; non
poteva escluderla. Ma, allo stesso tempo, questo fatto veniva anche rivendicato
dai credenti che volevano proteggersi dalla lussuria: il matrimonio, dopo
tutto, delimitava la portata del vizio. Poi, Agostino aggiunge che considera l
unione coniugale un bene, certamente inferiore a quello della castità, ma
comunque un bene, e questo non solo per la procreazione dei figli 26 Ibidem,
pp.167. 27 Il nuovo testamento, cit., pp.603. 28 C. Casagrande, S. Vecchio, I
sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.172. 17 Il
paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo ma anche per la società naturale
che l unione tra i due sessi comporta 29. Di più, pone che Dio avrebbe previsto
l unione carnale tra gli uomini e i loro complementi femminili prima del
peccato originale, visto che entrambi i sessi erano già dotati di organi
sessuali chiaramente visibili e differenti prima che Eva ed Adamo disubbidivano
a Dio. Il peccato non sta dunque nel coito [...] ma nell uso che gli uomini
[...] ne fanno. 30 Queste idee agostiniane sono state molto diffuse durante
tutto il Medioevo. Finalmente, si deve ancora segnalare che il legame stabilito
tra il vizio della lussuria e il matrimonio fa sì che il peccato si estende
dall essere umano individuale alla comunità intera. Può corrompere tutta una
società; non si tratta più di un vizio dannoso alla vita e all anima di una
singola persona, a tal punto che minaccia tutta la specie umana. Da questo
punto di vista, il peccato occupa una posizione particolare, anzi unica nel
settenario dei vizi capitali. 29 Ibidem, pp.173. 30 Ivi. 18 2. La
lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Nella sua esposizione sulla
lussuria come potenza (o impotenza) Giorello asserisce che la lussuria [ ] è
mescolanza di tutte le cose del mondo, rotture d ordine, spezzatura 31. Nel
caso di Paolo e Francesca, di certo, la lussuria è stata responsabile di una
rottura dell ordine quotidiano, anzi, dell ordine del mondo come i due
innamorati lo conoscevano. La spezzatura della loro realtà viene causata
direttamente dalla potenza (cioè, dalla potenza nel senso filosofico della
parola: potenza come volontà) che costituisce una parte essenziale del
desiderio lussurioso che sperimentano. Dal momento in cui cedono alla loro
volontà lussuriosa, Francesca, consapevolmente, abbandona suo marito, pone fine
al suo matrimonio. Nel v. 107 Caìn attende chi a vita ci spense 32 il nome di
Gianciotto è taciuto per disprezzo, non certo per femminile riserbo 33. Neanche
Paolo può più tornare indietro; la relazione tra lui e suo fratello è
irrimediabilmente danneggiata. Il bacio dei due lussuriosi segna un passaggio
chiave nella loro storia lussuriosa. Dopo una fase di dubbi e di disperazione,
è arrivato il momento in cui decidono di rinunciare a tutto quello che è
familiare, e di perdersi in un avventura della quale sanno che gli porterà sia
la felicità assoluta sia la perdizione. La tragica combinazione di tenerezza e
di rovina è illustrata dal v. 106 Amor condusse noi ad una morte 34 : la prima
e l ultima parola del verso si rispondono fonicamente AMOR condusse noi ad una
MORte. Inglese chiarisce che, in questo modo, il verso s iscrive nella lunga
tradizione di una diffusa paretimologia (Federigo dall Ambra, son. Amor che
tutte cose: Amor da savi quasi A! mor si spone ). Per di più, la parola morte,
nel Canto V dell Inferno, conclude la serie di proposizioni principali il cui
soggetto è Amore 35. In questo senso, la lussuria si presenta come una
mescolanza di tutte le cose del mondo: ogni diritto ha il suo rovescio. Di
rado, la realtà nella quale vivono gli esseri umani offre una gioia senza che,
contemporaneamente, appaia anche qualcosa che tempera questo sentimento. È un
dato che si manifesta in modo particolarmente chiaro in situazioni 31 Giulio
Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.23. 32 Dante
Alighieri, Commedia. Inferno, revisione del testo e commento di Giorgio
Inglese, Roma, Carocci editore, 2007, pp.90. 33 Giorgio Inglese, commento al
testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007,
pp.90. 34 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.90. 35 Giorgio Inglese,
commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.90. 19
La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno lussuriose. Paolo e Francesca
propendono non solo per la felicità (lussuriosa) ma anche per l aspetto penoso
che essa implica. Da quanto appena enunciato risulta che la dimensione della
lussuria identificata come la volontà forma una caratteristica fondamentale del
fenomeno. Se manca una forte volontà, non si può parlare di lussuria. È appunto
dalla volontà umana che procede il desiderio di qualcosa. Dal testo di Giorello
emerge che il desiderio an sich deve, infatti, considerarsi come essenzialmente
lussurioso. Nel caso di Paolo e Francesca, si tratta del desiderio dell altro.
Dante presta molta attenzione all espressione di tale potenza. È probabilmente
una delle più belle manifestazioni dello spirito umano: unica, forte, ma anche
tragica. Forse la bellezza risiede, appunto, nella tragicità. Quello che un
essere umano può realizzare grazie alla volontà commuove solo quando si mescola
con altre caratteristiche come, in questo caso, il tragico. Il desiderio umano,
giudicato lussurioso per definizione, è presente nel Canto V non solo nella
decisione presa da Paolo e Francesca. Ci troviamo nella prima parte dell
Inferno, cioè all inizio del viaggio sotterraneo di Dante personaggio. E
siccome Dante parla, infatti, di ognuno di noi, ci troviamo all inizio del
viaggio che ogni peccatore potrebbe desiderare, un giorno. Anche lui sperimenta
un forte desiderio. Si trova sulla via della perdizione, e vuole ritrovare la
retta via. Vuole andare verso la luce divina, è in cerca di una direzione nella
sua vita. Questa aspirazione predomina su tutto il suo essere, come il
desiderio di Francesca domina su Paolo e vice versa. Inoltre, Giorello pone che
la laicizzazione è la lussuria dell emancipazione dalla soggezione alla natura
e/o alla divinità emancipazione che costituisce la premessa di una società
politica matura 36. Secondo me, l autore suggerisce che l assunto che la
laicizzazione sia un processo lussurioso sarebbe ovviamente consono alla
visione cristiana della lussuria che la considera un vizio capitale.
Classificare la laicizzazione tra le varie forme in cui può manifestarsi la
lussuria le conferirebbe lo statuto di un azione peccaminosa. L idea principale
che vuol esprimere il filosofo in questa frase, però, è che il desiderio umano
di venir liberati dall assoggettamento a un potere superiore si rivela
lussurioso, poiché si tratta di un desiderio. Dante personaggio, tuttavia,
desidera di esser assorbito completamente dalla luce divina del Dio cristiano.
E aspira alla stessa sorte per tutti i suoi contemporanei. L opposizione 36
Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.26. 20
La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno tra la volontà evocata da
Giorello e quella di Dante personaggio illustra il punto di vista del filosofo
sulla lussuria. Che il carattere di un fenomeno sia o non sia lussurioso non
dipende dalla sua religiosità o laicità. Uno degli aspetti essenziali della
lussuria è la forza immensa della potenza umana che fa sì che la lussuria può
esistere. Oltre a ciò, l autore menziona che la lussuria istituisce il nesso
tra conoscenza e oblio 37. L aspetto della lussuria che è analizzato e
commentato in questo capitolo, la potenza, costituisce la forza che spinge un
essere umano ad avere curiosità e a cercare risposte alle proprie domande. In
questo senso, forma, infatti, l anello che lega l ignoranza e la conoscenza.
Dante personaggio vuole conoscere il mondo sotterraneo, e desidera sapere se e
come si può salvare. Dalla sua curiosità, quindi dalla sua volontà, sorgerà la
comprensione dei fenomeni che vuole capire. Si può pure trasformare la
conoscenza in oblio per il tramite della lussuria. Una volta che la conoscenza
è ottenuta, è possibile che essa provochi l oblio di altri fatti conosciuti
nell essere umano che la ottiene, com è illustrato dall epopea mesopotamica la
Saga di Gilgames alla quale si riferisce Giorello. Nel Canto V, tuttavia, si
osserva il contrario. Quello che era conosciuto nel passato non è dimenticato,
come pone appunto Francesca dopo che Dante le ha chiesto di raccontare come lei
e Paolo si sono rivelati i sentimenti amorosi reciproci: E quella a me: Nessun
maggior dolore/che ricordarsi del tempo felice/nella miseria: e ciò sa l tuo
dottore. Chiaramente, i due lussuriosi si ricordano benissimo quello che
sapevano prima del momento in cui la loro volontà di conoscere li ha messi
sulla via della perdizione, cioè, prima del momento in cui si baciavano e s
appropriavano la conoscenza dell altro. Anzi, in questo passo, Dante autore
utilizza letteralmente il verbo conoscere: Ma, s a conoscer la prima radice/del
nostro amor tu hai cotanto affetto/dirò come colui che piange e dice 38. Ciò
illustra l importanza ardente del significato del termine. Per di più, Giorello
pone che la potenza della dea [Venere] è quotidiana [ ], non solo eccezionale
39. Si potrebbe sostenere, quindi, che la caratteristica della lussuria
rappresentata da questa volontà incredibilmente potente non si manifesta
unicamente in situazioni o momenti eccezionali. Costituisce una forza sempre
presente nell essere 37 Ibidem, pp.28. 38 Dante Alighieri, Commedia. Inferno,
cit., pp.91-92. 39 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza,
cit., pp.35. 21 La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno umano,
gli appartiene. Non sarebbe capace di liberarsi da essa, se lo volesse. Questo,
però, gli è connaturale: si tratta di una parte dello spirito umano troppo
essenziale. Senza di essa non sarebbe più un uomo. Per di più, rappresenta un
impulso troppo gradevole. All uomo piace infinitamente provare una tale energia
dentro di se. Gli dà l idea che potrebbe, infatti, realizzare il progetto che
ha in mente, che potrebbe trovare la risposta alla sua domanda. Gli dà il
coraggio necessario per dare ascolto ai sentimenti che lo sopraffanno e per
arrischiarsi in una ricerca o una situazione che possibilmente finirà male. È
questo il momento in cui la volontà lussuriosa, quotidiana, alleggiando,
diventa eccezionale. Questo momento speciale si osserva pure nella storia di
Paolo e Francesca. Dopo un lungo tempo di voler esser insieme (da solo), arriva
quel punto in cui il desiderio di Paolo di sapere come sarebbe di trovarsi
nelle braccia della donna amata, diventa troppo forte. La bacia. Un momento
riempito in modo molto eccezionale di volontà lussuriosa. Giorello menziona
anche che la dea Venere (e quindi la lussuria) può rivelarsi maestra di inganno
40. Certo, nel Canto V, si osservano delle azioni ingannevoli: Francesca
tradisce suo marito, Paolo suo fratello. All aspetto ingannevole della
lussuria, però, sarà dedicato un altro capitolo della presente tesi. Ciò che
colpisce nelle pagine sulla lussuria come potenza in Lussuria. Passione della
conoscenza, e che potrebbe dar luogo a una riflessione interessante, è un idea
che deduce da un testo di Agostino, Città di Dio. Secondo Giorello si può
capire da quest opera che, secondo Agostino, la fiacchezza della nostra volontà
(contrapposta alla forza di quella divina) sia ben peggio [ ] di qualsiasi
fisica impotentia coeundi 41 perché nell ordine naturale l anima è anteposta al
corpo. Agostino descrive la lotta della passione [il corpo] e della volontà [l
anima] parlando della lussuria, affermando che esiste almeno l imperfezione
della passione nei confronti della pienezza della volontà 42. Ciò pone l
accento sul valore più grande della forza mentale che è la volontà dell uomo a
paragone del suo corpo fisico. Rileva la preziosità e la versatilità della
potenza, la quale è valutata non solo dai fedeli cristiani ma anche da laici.
Si potrebbe sostenere, quindi, che si tratta di un punto di vista comune e, di
conseguenza, unificatore. L unione d idee 40 Ibidem, pp.36. 41 Ibidem,
pp.39-40. 42 Agostino, Città di Dio, Introduzione, traduzione, note e apparati
di Luigi Alici, Milano, Bompiani, 2001, pp.684-685. 22 La lussuria come
potenza nel Canto V dell Inferno cristiane e laiche (nel senso di provenienti
dagli antichi) si ritrova, appunto, nella Commedia dantesca. A mio giudizio
questa fusione è una delle caratteristiche più meravigliose dell opera. Si
rivela in modo splendido nel passo su Paolo e Francesca. La ricchezza del Canto
V proviene, tra l altro, dall enumerazione dei nomi di Semiramide, Cleopatra,
Tristano, e di tutti gli altri personaggi lussuriosi della mitologia classica
menzionati dalla guida di Dante, Virgilio. Inglese spiega che sono donne
antiche e cavalieri (v. 71): insomma, l intero mondo del romanzo epico-amoroso,
che aveva, di fatto, connesso in un ciclo unico Troianorum Romanorumque gesta
et Arturi regis ambages [ avventure ] pulcerrime (Dve I x 2) 43. La loro
apparizione conferisce un atmosfera unica all Inferno cristiano. Evocano la
grandezza delle storie antiche di alcune coppie famosissime. Risulta dai versi
quanto sono care a Dante, tutto come la sua fede. Il ricordo della
disperazione, dell amore e della perdizione caratteristico di queste storie si
mescola, nel Canto V, ai sentimenti (simili) di Paolo, Francesca e Dante. Per
quanto riguarda quella relazione emotiva triangolare tra Dante, Paolo e Francesca,
si può segnalare che la sua forza emozionale è ancora aumentata dal fatto che,
per Francesca, la visita del pellegrino forma un opportunità unica per
confessarsi (dal punto di vista dei colpevolisti di Renzi) o per comunicare e
quindi rendere immortale la sua tragica storia d amore (secondo la visione dei
giustificazionisti di Renzi, cf. infra). Inglese afferma che gli incontri fra
il P. [Dante personaggio] e i dannati si presentano come un momento affatto
eccezionale nello svolgersi (che non ha però vero svolgimento) della pena di
questi ultimi [ ]: per un motivo superiore ossia, per l edificazione del P. e
poi dei viventi che leggeranno il resoconto del viaggio la Provvidenza suscita
in alcuni dannati un estremo atto di personalità (v. 84) [ vegnon per l aere,
dal voler portate 44 ]. Sul piano poetico, ciò si traduce in una forte
drammatizzazione degli episodi: Francesca, per esempio, non avrà mai un altra
occasione di confessarsi, di dare forma verbale al proprio tormento 45. 43
Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri,
cit., pp.87. 44 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.88. 45 Giorgio
Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit.,
pp.89. 23 La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Da quello che
precede, risulta che un estremo atto di personalità implica una volontà
potente, dato che la volontà costituisce una parte essenziale dell essere
umano. Si potrebbe dire che, con l ultima frase, Inglese si presenta come un
colpevolista, poiché dare forma verbale al proprio tormento può significare
dare forma verbale al suo peccato e al modo in cui lo strazio della punizione
infernale la tortura. La seconda parte della frase di Inglese, però, potrebbe
anche essere interpretata come dare forma verbale al modo in cui entrambi il
ricordo del tempo d i dolci sospiri 46 e quello della fine tragica della sua
storia d amore la tormentano. Allora, per quanto riguarda Francesca, Inglese si
presenterebbe non solo come un colpevolista, ma anche come un
giustificazionista. Ritornando alle donne antiche e cavalieri, Renzi asserisce
quanto segue: Se ci sarà ancora una critica letteraria dedita a leggere con
attenzione i testi, qualcuno noterà, per esempio, che la pietà di Dante per
Francesca, primo segno della sua partecipazione emotiva alla storia di
Francesca, seguita poi dallo svenimento, era già cominciata al v. 72 e si
riferiva alle donne antiche e cavalieri, dunque a tutti quei fantasmi letterari
che prima sono definiti peccator carnali. Dunque Dante non solidarizza solo con
Francesca. 47 Mentre Virgilio annovera nome dopo nome, Dante personaggio sente
come, nel suo cuore, cresce la compassione. Ascoltando la sua guida, diventa
sempre più commosso, triste e silenzioso per tutto quell amore disperato,
perso. Anche lui ha amato e perso la persona amata. Pasquini pone che non si ha
soltanto il dramma cruento dei due giovani amanti riminesi; c è anche il dramma
interiore di Dante che si sente personalmente coinvolto in quella tragedia 48.
Questo dramma interiore che sperimenta il pellegrino di fronte alla tragedia
romagnola si spiega, secondo Pasquini, dall atto d accusa di Beatrice nel
Purgatorio (cf. infra). Qualcosa di Francesca ritorna in Dante e nel suo
personale traviamento, sotto la spinta del rigoroso atto d accusa cui lo
sottopone Beatrice; il che spiega con chiarezza, quasi completandolo, il suo
turbamento che non è solo pietà di fronte alla tragedia romagnola. 49 46 Dante
Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91. 47 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di
un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.11-12. 48
Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit.,
pp.259. 49 Ibidem, pp.262. 24 La lussuria come potenza nel Canto V dell
Inferno Secondo Pierre-Louis Ginguené (1748-1815), autore di Histoire
littéraire d Italie, non è stato il Dante filosofo e teologo che si rivela in
altri passi della Commedia che ha scritto l episodio di Paolo e Francesca, ma è
stato il Dante innamorato di Beatrice. 50 In questo senso, il Canto V parla da
Enea e Didone, Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, e pure di Dante stesso. Di
conseguenza, tratta anche di ognuno di noi, poiché il passaggio di Dante
personaggio attraverso l inferno, il purgatorio e il paradiso celeste rappresenta
il viaggio simbolico di ogni peccatore che desidera ritrovare la retta via.
Ginguené, per di più, non evidenzia la pietà di Dante, ma nota che la pena in
fondo, se non è mite, è la più piccola fra tutte quelle previste dal poeta 51.
Renzi spiega come questo non sembra una grande osservazione, ma la
riprenderanno, in genere senza conoscersi l uno con l altro, molti critici, da
Foscolo [Discorso sul testo della Commedia 52 ] a Teodolinda Barolini [Dante
and Cavalcanti (On Making Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its
Lyric Context 53 ]. E ci aggiunge: Bruno Nardi [Filosofia dell amore nei
rimatori italiani nel Duecento e in altri 54 ], che era l unico che di queste
cose se ne intendeva davvero, ha notato che, tra i peccatori nella carne, Dante
ha punito i golosi più gravemente dei lussuriosi, invertendo l ordine di San
Tommaso 55. Forma un argomento che sostiene la tesi di Ginguené secondo la
quale l unico vero autore dell episodio di Francesca sarebbe stato il Dante
amante di Beatrice, e certamente non il Dante teologo. Anche per Francesco De
Sanctis (in Francesca da Rimini 56 ) e per Benedetto Croce (La poesia di Dante
57 ), segnala Renzi, Dante, come teologo e come cristiano, disapprova i peccati
dei lussuriosi. Inglese definisce la pietà di Dante ( pietà mi giunse e fu
quasi 50 Pierre-Louis Ginguené, Histoire littéraire d Italie, citato da Lorenzo
Renzi in Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di
Dante, cit., pp.134. 51 Ibidem, pp.135. 52 Ugo Foscolo, Discorso sul testo
della Commedia, in Id., Studi su Dante, a cura di Giovanni Da Pozzo, Firenze,
Le Monnier, 1979, pp.175-573. 53 Teodolinda Barolini, Dante and Cavalcanti (On
Making Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context, in
Dante studies, 116, 1998, pp.31-63. 54 Bruno Nardi, Filosofia dell amore nei
rimatori italiani nel Duecento e in altri, in Id., Dante e la cultura
medievale, Bari, Laterza, 1929, pp.1-88, il passo che interessa con i
riferimenti a san Tommaso è alle pp.81-82. 55 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di
un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.135. 56
Francesco De Sanctis, Francesca da Rimini, in Id., Lezioni e saggi su Dante, a
cura di Sergio Romagnoli, Torino, Einaudi, 1967, pp.633-652. 57 Benedetto
Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1966, pp.73-75. 25 La lussuria
come potenza nel Canto V dell Inferno smarrito 58 ) un profondo turbamento in
cui sono fusi l orrore per il peccato e il dolore per l umanità peccatrice
giustamente punita 59. Per De Sanctis e per Croce, da un punto di vista
emozionale, invece, Dante non condanna i lussuriosi. Croce sottolinea pure il
potere estasiante che ha avuto il libro narrando la storia di Lancillotto e
Ginevra sui due peccatori. Asserisce però che Dante, al contrario di altri
poeti, riesce a rompere e a superare l incantesimo dolce dell amore. Così,
afferma Renzi, il critico italiano è riuscito a ottenere un momento di sovrano
equilibrio nella storia della critica [della Commedia], e in particolare dello
scontro tra colpevolisti [quelli che considerano Francesca una peccatrice
integralmente responsabile delle vicende] e giustificazionisti [quelli che si
fanno paladino della donna] 60. D altronde, per quanto riguarda la colpevolezza
o l innocenza di Francesca, Inglese segnala che la donna, affermando che Amor,
ch al cor gentil ratto s apprende 61, da un punto di vista psicologico si
rivela sincera, ma che, nella prospettiva etica del poema, [è] obiettivamente
falsa poiché Amore [è] sempre soggetto delle azioni determinanti [ prese costui
della bella persona/che mi fu tolta: e l modo ancor m offende./amor, ch a nullo
amato amar perdona/mi prese del costui piacer sì forte/che, come vedi, ancor
non m abandona./amor condusse noi ad una morte ] 62. Da quest angolatura,
infatti, tutte le due ipotesi (tanto quello della colpevolezza quanto quello
dell innocenza di Francesca) rientrano nelle possibilità. Si può considerare
Amore come il vero colpevole, o giudicare che la donna si è arresa a lui, caso
in cui lei si rivela responsabile per le vicende. Secondo Inglese, l aggettivo
leggieri che si trova nel v. 75 e paion sì al vento esser leggieri 63 farebbe
parte di un idea esclusivamente poetica (e quindi non strutturale) che vuole
dimostrare, al lettore, il peso carnale del peccato d amore. Tutto come questo
formerebbe un suggerimento puramente poetico, Francesca, nella poesia, vive
come anima tormentata dalla passione d amore, mentre dalla struttura è dannata
per adulterio incestuoso 64. Quindi, quello che De Sanctis e Croce attribuiscono
a Dante teologo e 58 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87. 59
Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri,
cit., pp.87. 60 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di
Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.144. 61 Dante Alighieri, Commedia.
Inferno, cit., pp.89. 62 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia.
Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89. 63 Dante Alighieri, Commedia. Inferno,
cit., pp.87. 64 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di
Dante Alighieri, cit., pp.87. 26La storia di Giulio Giorello In
Articoli04-08-2020di Marco Ciardi Dopo la scomparsa di Giulio Giorello, ho
letto molti ricordi a lui dedicati. Uno dei migliori è senz’altro quello di Vincenzo
Barone, che compare nelle pagine di questo numero di Query . Ringrazio
sentitamente Enzo per avere accettato di scriverlo. image Io vorrei
contribuire alla memoria del nostro grande studioso (e amico) sottolineando
soltanto uno tra i molti suoi meriti. Giulio era anche un ottimo storico della
scienza e delle idee. Tale merito gli è stato riconosciuto da uno
dei maestri del Novecento in questo settore, Paolo Rossi Monti (il cui nome
ricorre spesso in questa rubrica e al quale è stato dedicato il primo numero di
“Parastoria”, su Query n. 9, ormai otto anni fa). Recensendo uno dei tanti
bellissimi libri di Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del Mito
(2004), Rossi scriveva: «Giorello è stato, da giovane, allievo di Ludovico
Geymonat. Insegna (e si è prevalentemente occupato di) filosofia della scienza.
Attualmente è anche Presidente della Società Italiana di logica e filosofia
delle scienze. Come il suo libro dimostra, non solo utilizza una grandissima
quantità e varietà di testi, ma anche conosce come pochi (e minutamente) la
storia e i luoghi dell’Inghilterra e, più ancora, dell’Irlanda. Giorello è del
tutto consapevole del fatto che il suo libro è una sorta di labirinto. Dentro
quel labirinto (che ha una struttura geometrica) egli conduce (a volte trascina)
il lettore. Le avventure di idee hanno la strana (per alcuni insopportabile)
caratteristica di essere un po’ avventurose: di portare molto lontano dall’idea
che la filosofia abbia il compito di mettere ordine nel mondo, di trasformarlo
(come diceva il mio antico maestro Antonio Banfi) in “una linda casetta”. Una
parte consistente della filosofia italiana sembra impegnata a confrontare
accuratamente fra loro i testi di cinque o sei rispettabili filosofi di lingua
inglese, a commentarli, a commentare i risultati del confronto, a polemizzare
con gli altri commentatori tentando, nel più dei casi, arzigogolate mediazioni
fra tesi contrapposte. Di una cosa non mi pare lecito dubitare: Giulio Giorello
non fa parte della vasta, soporifera e innocua schiera degli oscuri e
instancabili “roditori accademici”».[1] L’espressione “roditori
accademici” era un rimando a quanto scritto sul tema da Paul K. Feyerabend,[2]
un pensatore con cui Rossi ha spesso polemizzato, ma per il quale nutriva
profonda stima.[3] E che anche Giorello, non a caso, come ha ricordato Barone,
ben conosceva. Sua la prefazione all’edizione italiana di Against method.
Outline of an anarchistic theory of knowledge, edito in originale nel 1975, e
pubblicato da Feltrinelli nel 1979.[4] Rossi citava spesso, con
orgoglio, che il suo libro che compendiava decenni di ricerche sui rapporti tra
scienza e magia, Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità (2006), fosse
uscito nella collana “Scienza e idee” diretta da Giorello per Raffello
Cortina.[5] Perché sapeva quanto Giulio avesse chiaro cosa significasse fare
storia della scienza, come ricordava nell’analisi del libro di Enrico Bellone,
Molte nature. Saggio sull’evoluzione culturale (2008): «La parola chiave del
processo storico – come nota Giulio Giorello nella brillante prefazione che ha
scritto per questo libro – è imprevedibilità. Accade infatti spesso nel
presente (ed è accaduto spesso nel passato) che gli scienziati siano stati
costretti a “vedere” cose diverse da quelle che avrebbero invece dovuto
scorgere sulla base delle proprie credenze personali».[6] Come ci
ha ricordato Barone, Giulio Giorello era laureato sia in filosofia che in
matematica. Per questo motivo, come aveva presente Paolo Rossi, Giorello non ha
mai pensato che il semplice fatto di essere scienziati equivalga, per coloro
che svolgono tale professione, ad una autorizzazione «a parlare di testi che
non hanno letto, a prendere posizioni su questioni che non conoscono, ad
esprimere opinioni su problemi che non hanno mai avvicinato».[7] Del resto, già
oltre un secolo fa il matematico Paul Tannery, uno dei padri fondatori della
storia della scienza come disciplina specifica, affermava che «per essere un
buono storico non basta essere scienziato. Bisogna prima di tutto volersi
dedicare alla storia, cioè averne il gusto; bisogna sviluppare in sé il senso
storico che è essenzialmente differente da quello scientifico; bisogna infine
acquisire una serie di conoscenze particolari, di ausilio indispensabile per lo
storico, che sono invece del tutto inutili allo scienziato che si interessa
solo al progresso della scienza».[8] Anche per questo, Giorello era un fautore
delle collaborazioni. Come quella (tra le innumervoli) con il fisico Elio
Sindoni, che ha portato alla realizzazione dell’affascinante Un mondo di mondi.
Alla ricerca della vita intelligente nell’Universo(2016), dove Giulio, nella
parte storica di sua competenza, mostra (anche in questo caso) una conoscenza
approfondita e raffinata degli argomenti trattati. Mostrando, ad esempio, in
nome di quella “imprevedibilità” alla quale si accennava poco fa, come il
“romanziere” Jules Verne avesse, sul tema dell'abitabilità dei mondi, idee
molto più chiare e precise dello “scienziato” Camille Flammarion.[9]
Del rapporto tra “le due culture” Giorello ha sempre preso il meglio (non
dimentichiamo che il celebre testo di Charles P. Snow sull’argomento fu
introdotto in Italia dalla prefazione di Ludovico Geymonat). Ed era consapevole
del ruolo decisivo della scuola nello sviluppare un processo di apprendimento
diverso rispetto a quello tradizionale: «C’è soprattutto da vincere la
scommessa circa “l’avvenire delle nostre scuole”, come direbbe Friedrich
Nietzsche. Chi guarda attentamente alle grandi svolte del pensiero scientifico
e alla stessa innovazione tecnologica non può non constatare come gli aspetti
più creativi abbiano travolto qualsiasi steccato disciplinare. Valeva ieri per
le dottrine di Copernico o per quelle di Darwin, vale oggi per le frontiere
della cosmologia o per quelle della biologia, per non dire dell’informatica e
dell’alta tecnologia. Potremmo dilungarci su non pochi esempi di virtuose
contaminazioni nelle scienze come nelle lettere. Ma ci limitiamo qui a
ricordare che la separazione delle culture è l’effetto più deplorevole
dell’atteggiamento che concepisce le acquisizioni dell’avventura umana come
entità fisse, sospese nel cielo platonico delle idee.»[10] Perciò Giulio
(sempre utilizzando le parole di Paolo Rossi) provava «una invincibile
ripugnanza» per «gli elenchi di scoperte e di ritrovamenti tecnici, per le
sfilate di risultati eternamente veri e di errori eternamente falsi».[11]
Ancora Giorello: «Cosa c’è di meglio per qualsiasi creazione dello spirito
umano che venire utilizzata, contestata, magari stravolta in un dibattito (come
è appunto quello scientifico), in cui in linea di principio nessuna opinione è
immune da critica o revisione? L’ospitalità che la scienza offre a qualsiasi
“straniero” (ricordiamoci delle parole di Milton) è di questo tipo. Non c’è
miglior rispetto che quello che prende forma nelle modalità del conflitto».[12]
Grazie di tutto, Giulio Rossi. A mio non modesto parere. Le
recensioni sul “Sole-24 ore”, a cura di Bondì e Monti. Bologna: Mulino,
Feyerabend, La scienza in una società libera. Feltrinelli: Milano, Rossi.
Feyerabend: un ricordo e una riflessione, in Un altro presente. Saggi sulla
storia della filosofia.Bologna: Mulino, Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo
di una teoria anarchica della conoscenza; Prefazione di G., Milano: Feltrinelli;
Cfr. ad esempio, Rossi; A mio non modesto parere, Rossi; Ci sono molti
Galilei?in Un altro presente; Tannery. De l'histoire générale des sciences, in
“Revue de Synthèse”) G. Flammarion, lo
“scienziato”, sconfitto da Verne, il romanziere, in Un mondo di mondi. Alla
ricerca della vita intelligente nell'Universo. Milano: Raffaello Cortina, G. Per una Repubblica delle Scienze e delle
Lettere, in Le due culture, a cura di A. Lanni. Venezia: Marsilio, Rossi.
Considerazioni conclusive, in Atti del Convegno sui problemi metodologici di
storia della scienza. Firenze: Barbera. G. Per una Repubblica delle Scienze e
delle Lettere. Grice: “The etymology of libertine ruins it! – or ruins the
concept. A slave liberated, being of a low class condition, would be criticized
for his excesses of freedom!” Giulio Giorello. Giorello. Keywords: il
libertino, implicatura speculativa – specchio e il reame: la communicazione -- “il
fantasma e il desiderio” “lo spettro e il libertino” “lo specchio del reame” –
“il libertino” “lo scimmione intelligente” lo specchio di Narciso, Bruno,
Leopardi-- -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorello” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza.
Grice e Giorgi: l’implicatura conversazionale di
Bacco – filosofia leccese – filosofia italiana -- Luigi Speranza
(Cavallino). Filosofo. Si laurea a Perugia con Givone con “L’estetico” --. studia
con Seppilli e Arcangeli Studia etnomusicologia della “Grecìa salentina”,
rivalutando i brani in "grico". Altre opere: “Pizzica e rinascita”, La
Gazzetta del Mezzogiorno”. Cura “La danza delle spade e la tarantella. Insegna
a Lecce. “Le strade che portano al Subasio passando dal Salento” (Ed. Del Grifo,
Lecce), “Tarantismo e rinascita: i riti musicali e coreutici della pizzica-pizzica
e della tarantella” (Lecce, Argo); “La danza delle spade e la tarantella:
saggio musicologico, etnografico e archeologico sui riti di medicina” (Argo,
Lecce). “Pizzica-Pizzica, la musica della rinascita. La tarantella del
tarantismo e la sua resurrezione: struttura musicale, stato dell'arte e neotarantismo”
(Lecce, Pensa MultiMedia); “L'estetica della tarantella: pizzica, mito e ritmo,
Congedo Editore, Galatina); “Pizzica e tarantismo: la carne del mito
dall'etnomusicologia all'estetica musicale, Galatina, Edit Santoro); “Il
tarantismo come mito: dagli errori di De Martino alla rivalutazione del
pensiero mitico, Galatina, Congedo); “Il mito del tarantismo: dalla terra del
rimorso alla terra della rinascita, Galatina, Congedo); “I poeti del vino,
Galatina, Congedo); “La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico,
Galatina, Congedo, “La rinascita della pizzica, Galatina, Congedo); Husserl e la Krisis, 3ª in “Segni e comprensione”,
Milano); Il francescanesimo tra idealità e storicità, in “Segni e comprensione”, Porzincula
(S.Maria degli Angeli); “Il canto popolare salentino, in Convegno Di Studi
Demologici Salentini, Copertino. F. Noviello e D. Severino, Capone, Cavallino Pierpaolo
De Giorgi, Il tarantismo secondo Schneider: nuove prospettive di ricerca, in,
Quarant'anni dopo De Martino: il tarantismo, Atti del Convegno, Galatina, La
iatromusica carne del mito: la pizzica pizzica tra etnomusicologia ed estetica
musicale, in, Mito e tarantismo Pellegrino, Pensa MultiMedia, Lecce, La pizzica
pizzica immensa risorsa culturale del Sud, in, Terra salentina: i Sud e le loro
arti, materiali del Convegno di Arnesano, La Stamperia, Leverano, Pierpaolo De
Giorgi, “Il ritorno di Dioniso” a proposito di un libro diPellegrino, in “Segni
e comprensione”, Fra aborigeni e tarantismo, in, Settimana di promozione
culturale pugliese C. Minichiello, Pensa MultiMedia, Lecce, Le tradizioni
popolari nei disegni di Severino, greco, Copertino, Diario di bordo, in, La
czarda e il vento: antologia di autori salentini, Conte, Congedo G.i, Poesia
sintetica, in, Il cuore di Amleto: testi, grafiche e fotografie di autori
contemporanei salentini e ungheresi, nota introduttiva di G. Conte, traduzioni
di F. Baranyi e A. Menenti, Veszprém, Pierpaolo De Giorgi, I fogli, in “L'Immaginazione”;
Chiedendo e schiodando, La vita amico è l'arte dell'incontro e Maestà delle
volte, in Omaggio al Salento, Torgraf, Galatina, In marcia di pace verso Assisi
e Trilogia del molto e ben comunicare, in
Omaggio a Maglie cuore del Salento, Torgraf, Galatina, Fantastica
pizzica, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza,
Gallipoli, Conte, Lecce, Gheriglio in disegno e preghiera, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza,
Lecce, Conte, Lecce, Isola nel Trasimeno,
in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza, Monteroni,
Conte, Lecce, G. S'è cambiato il mondo? e Leggeri Cieli da Leggere, in Luigi
Marzo: mostra di pittura, Spello, catalogo, Spello, Lascio un cielo di luce
cinica, in Sulle ali di Pegaso senza mai cadere. Marzo: mostra di pittura,
Città della Pieve, Tipografia Pievese, Città della Pieve 1998. Discografia
Album Fantastica Pizzica (MC Discoexpress) Pizzica e Trance (MC Discoexpress) Pizzica
e Rinascita (CDSorriso) Il tempo della taranta: pizzica d'autore (CDDrim) Pizzica
grica: to paleo cerò (CDPlanet Music Studio) Pizzica e RinascitaRistampa (CD C&M)
Taranta Taranta (CDIrma records). La pizzica la taranta e il vino. Il pensiero
armonico – G. G.B. Il libro è stato pubblicato la prima volta e dopo anni riteniamo particolarmente ricordarlo per
la sua attualità culturale. G., peraltro, è socio della nostra ASSOCIAZIONE
APSEC e collaboratore di questa nostra rivista. La ricerca innovativa e
serrata compiuta da G., in tanti anni di impegno nelle acque agitate
dell’etnomusicologia e dell’estetica, approda finalmente al porto sicuro dello
studio La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico.
Accade allora che scoperte e sorprese, esposte con cura e rigore scientifico,
si susseguano qui continuamente e senza soluzione di continuità, offrendo una
concezione finalmente reale del tarantismo e della sua musica terapeutica, la
pizzica pizzica, come pure del decisivo ruolo simbolico e religioso del vino
nella civiltà mediterranea. Sono esperienze direttamente connesse con quelle
antecedenti del dio Dioniso, il nume più significativo della Magna Grecia e dei
territori da essa influenzati, archetipo dell’adesione entusiastica alla vita,
della reciprocità e del dialogo. Tramite Dioniso, nella musica e
nella danza, come pure nel vino e nell’ebbrezza, l’uomo recupera il contatto
con le radici più profonde dell’essere, che si manifestano armoniche, duali e
complementari. Per questo i simboli della taranta, della pizzica pizzica e del
vino sono rimedi psicologici che restituiscono l’armonia perduta e che si
pongono come un’efficace risorsa anche oggi, per costruire un nuovo umanesimo.
Sono simboli mitici, che collaborano con quelli della festa e del rito, e
vengono prodotti da un soggetto collettivo. Devono essere considerati come arte
tradizionale, alla stessa stregua dell’arte individuale. Nel delineare i
confini di queste concezioni, De Giorgi rimedita il brillante ma non del tutto
sufficiente “pensiero meridiano” di Nietzsche, di Camus e di Cassano.
In Puglia, come in gran parte del mediterraneo, “il pensiero armonico” è
il pensiero della rinascita e della misura, valori indispensabili anche oggi
per un corretto cammino della coscienza verso la comprensione di se stessa e
dell’uomo verso la propria natura divina.” IL PENSIERO ARMONICO E LA
RICERCA IN PUGLIA La Puglia e il pensiero armonico Il mare, l’armonia degli
opposti e la luce mediterranea Il pensiero armonico come incontro di mythos e
di logos Le radici elleniche della tradizione pugliese Archeologia e storia.
Etnomusicologia ed estetica della tarantella La ricerca comparativa sui
brindisi e le analogie con la pizzica pizzica Il mito e il pensiero armonico
del Mediterraneo nella contemporaneità L’ambivalenza del mito e la misura
armonica La misura armonica e il cristianesimo Monoteismo e panteismo Noi e i
miti del tarantismo e del labirinto. Verso un nuovo umanesimo I BRINDISI
E LA PIZZICA PIZZICA COME SIMBOLI DI RINASCITA I brindisi e la pizzica pizzica
come simboli di rinascita in Puglia La festa e il pensiero mitico della
rinascita La forza estetica di un’arte speciale del leccese, la pizzica pizzica
Pizzica pizzica, tarantella e bellezza L’umanesimo mediterraneo e la bellezza
mitica della pizzica pizzica e della tarantella Le civiltà del vino e
l’ambiente poetico tradizionale della Puglia I brindisi, la tradizione popolare
e il soggetto collettivo La ricerca etnomusicologica ed estetica e i brindisi
tradizionali Il ritmo armonico della pizzica pizzica e la gestione delle
contraddizioni – La cumbersazione e i brindisi IL TEMPO CICLICO, LA
RIVOLTA COLLETTIVA E IL PENSIERO ARMONICO TRA ARTE E MITO Il tarantismo come
rito di rinascita e il tempo ciclico come attività psichica collettiva di
rivolta Nietzsche, l’eterno ritorno e il recupero del pensiero arcaico del
Mediterraneo. Le analogie dello Zarathustra con il tarantismo La vita come
conoscenza: grandezza e miseria di Nietzsche. L’eterno ritorno
dell’identico e l’eterno ritorno dell’analogo Gli errori di De Martino e le
intuizioni di Camus. La rivolta come lotta contro il negativo e come
affermazione dell’essere e della vita I brindisi, la pizzica pizzica e il rito
del tarantismo come affermazioni della vita. La ierogamia e la rinascita I
simboli della rivolta e dell’inversione terapeutica Il ruolo di inversione
della pizzica tarantata: mito, ritmo e analogia La pizzica scherma di
Torrepaduli e la rivolta mitica I risultati dell’analisi etnomusicologica: la biritmìa
simbolica. La pizzica pizzica come analogon della dynamis armonica
universale PENSIERO ARMONICO E SOGGETTO COLLETTIVO Il ritorno al cielo
del Sud e i fraintendimenti di Nietzsche. Dioniso e il pensiero armonico L’aióresis
dionisiaca e la Processione dei Misteri di Taranto. Il mare come simbolo
armonico e come terapia L’intenzionalità collettiva: il teatro tragico del
tarantismo e la tragedia greca Il tempo ciclico e la Magna Mater: l’evoluzione
della coscienza La Grecia e il governo rituale degli archetipi. Pizzica pizzica
e labirinto I brindisi tradizionali e la pizzica pizzica come arte tradizionale
collettiva L’arte collettiva tradizionale come arte del mito. L’umanesimo della
misura IL SIMPOSIO, I BRINDISI E L’UMANESIMO
DELLA MISURA La tradizione pugliese e il simposio greco e magnogreco Il
brindisi e il simposio L’ethos del vino come armonia degli opposti La
sperimentazione del divino e l’etica della misura Il pensiero armonico, l’agape
e il rischio della dismisura La sublimazione del simposio La dismisura e la
degenerazione del simposio
L’EMERSIONE DEL PENSIERO ARMONICO DALLA RICERCA E DALLA COMPARAZIONE La
danza, le uova e le corna come simboli simposiali di rinascita. Il gesto
dionisiaco delle corna nelle musiche e nelle danze della rinascita I saperi
tradizionali dell’equilibrio mensurale del pensiero armonico: il ritmo e la
benedizione La città di Brindisi, l’origine del nome brindisi e il Bacco in
Toscana La cena della spillazione Il porto di Brindisi e le corna rituali come
simbolo di rinascita. Il brindisi di Dioniso e di Semole come benedizione
Indice dei nomi Iconografìa comparativa Lecce Tarantula.
Antropologia simbolo e iniziazione dalla Tradizione alla Contemporaneità
Incontri culturali INCONTRI CULTURALI Tarantula. Antropologia simbolo e
iniziazione dalla Tradizione alla Contemporaneità Da Ernesto De Martino ad oggi
la Pizzica Salentina, la Taranta e tutto quel mondo che attorno ad essa ruota
in maniera spettacolare e folklorico, in realtà nasconde studi e tradizioni che
affondano le loro radici in un passato lontano. In una prospettiva più ampia si
può dire che in Europa c'è un luogo che da qualche tempo a questa parte ha
espresso una incredibile sequenza di suoni, stili, artisti, esperimenti e contaminazioni
culturali. Questo luogo è il Salento. La Terra del Rimorso - come la definì
Ernesto de Martino - si è trasformata nella Terra dello spettacolo delle
tradizioni. Riportando con forza la cultura popolare, l'attenzione per le
radici, al centro dell'immaginario giovanile e del consumo pop, il Salento si è
rivelata una meta a cui non si può rinunciare. A cinquanta anni dal viaggio
della troupe di Ernesto de Martino nel Salento, quei luoghi si sono trasformati
in altro, dimenticando l’Oltre. Negli ultimi vent'anni il Salento è stato
spettatore della nascita delle dance hall del Sud Sound System, e
dell'irruzione sulla scena della pizzica, sottratta da un lato al folklore,
dall'altro all'accademia sino poi al più grande world music festival del mondo,
la Notte della Taranta. Degli aspetti antropologici dell’argomento e di quelli
iniziatici, simbolici ed esoterici se ne occuperanno Maurizio Nocera e
Pierpaolo De Giorgi in un incontro dibattito senza precedenti Mail
Presidente Ass. Thorah – piscopo. grazia @libero.it Biografie
relatori G., laureato in Filosofia, è etnomusicologo, filosofo, musicista
e poeta. Ha fondato e guida “I Tamburellisti di Torrepaduli”, con i quali ha
suonato in Italia e in tutto il mondo, provocando la nascita-rinascita del
genere musicale pizzica. Ha inciso sette dischi, che hanno venduto più di
centomila copie, scrivendone i testi poetici e le musiche. Sue liriche sono
state tradotte in greco e in ungherese. Assieme al pittore Luigi Marzo, ha
pubblicato il noto volume Le strade che portano al Subasio passando dal Salento
(Del Grifo). Ha tradotto in italiano La danza delle spade e la tarantella di
Marius Schneider (Argo, 1999) e ha pubblicato numerosi volumi di ricerca, tra i
quali Tarantismo e rinascita (Argo, 1999), L’estetica della tarantella (Congedo
2004), Pizzica e tarantismo (Edit Santoro, 2005), I poeti del vino (Congedo
2007), Il mito del tarantismo (Congedo, 2008), La pizzica, la taranta e il
vino: il pensiero armonico (Congedo 2010), La rinascita della pizzica: testi, poesia
e storia dei Tamburellisti di Torrepaduli. La via della Taranta (Congedo 2012)
che riformulano radicalmente le indagini sul tarantismo e sulla tarantella
iatromusicale. Maurizio Nocera - “Maurizio Nocera (classe 1947) … è un
eccellente rappresentante di quella genia … di intellettuali militanti, che
sono sempre di meno, oggi, in giro. “Impegnato” dalla punta delle (consumate)
scarpe fino alla radice dei (pochi) capelli, infaticabile viaggiatore, talent
scout, esploratore di mondi diversi, inguaribile sognatore, gran parlatore,
insegnante, politologo, promoter culturale, contastorie, indefesso ricercatore
e divulgatore di patrie memorie, bibliofilo, collezionista, scrittore,
salentino al cento per cento eppure cittadino del mondo, giornalista, poeta, saggista,
storico, critico letterario, editore. Vincenti, Io e Maurizio Nocera, in spigolaturesalentine.
wordpress. co /spigolautori-maurizio-nocer
a/). Maurizio Nocera è segretario provinciale dell'ANPI di Lecce.Grice: “Giorgi
is not an Italian philosopher; he is a Leccese philosopher. You have to be
Leccese to be a Leccese philosopher, and only a Leccese philosopher will NOT
appropriate TARANTA – as Martino did – misunderstanding it – The idea of
Nietzsche on Bacco is all very well, but Giorgi notes that you have to have the
Leccese experience to understand all this”. Pierpaolo De Giorgi. Giorgi. Keywords:
l’implicatura di Bacco, il ritorno di Dioniso; mito. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Giorgi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Giorgi: l’implicatura conversazionale della fiducia nella fiducia – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Vernole). Filosofo. Grice: “Giorgi discovered a phenomenon I often
overlooked: meta-trust: ‘la fiducia nella fiducia e, alla Parsons, la fiducia
di ego con alter, e alter con ego. Grice: “I love Giorgi, for various reasons;
unlike Sir Geoffrey Warnock, or me, who base our Kantian-type morality on
trust, Giorgi recognises a very apt distinction between trust and ‘meta-trust’
– fiduccia nella fiduccia: fiduccia nell’altro!” Insegna a Salento. Si laurea a
Roma con “il giuridico e il deontico” – Fonda il Centro Studi sul Rischio a Lecce.
Studia i sistemi sociali. Altre opera: “Sociologia del diritto” Manuale di
diritto del lavoro e legislazione sociale” “Azione e imputazione” “La società”;
“Diritto e legittimazione” “Mondi della società” o, con Stefano Magnolo” “Filosofia
del diritto” “Futuri passati” Fiducia è un meccanismo, un dispositivo di
riduzione della complessità. Fiducia non è un valore positivo dell'agire o
dell'esperienza; non rappresenta una preferenza rispetto al suo opposto, non ha
valore morale di preferibilità. Fiducia e sfiducia sono grandezze non
convertibili. Dare fiducia ad altri o suscitare fiducia in altri non sono
qualità morali, disposizioni buone, né preferibili o migliori in assoluto. Il
riscontro della loro preferibilità è la situazione, la conferma della validità
dell'orientamento alla fiducia può essere reperita solo nella dimensione
temporale, l'accertamento dell'opportunità può essere dato solo dal futuro. La
funzione della fiducia, infatti, si dispiega nella tensione fra presente e
futuro. In questa tensione si proietta nel presente il dramma dell'incertezza e
il rischio del non sapere. Il sapere, infatti, esclude il rischio e rende
inutile la fiducia. Il non sapere, invece, impone al singolo, al sistema
personale o sociale, la necessità di reperire un dispositivo di assorbimento
dell'incertezza che rischia di paralizzare l'agire. Il problema, allora, è il
tempo; lo spazio di questo tempo è il presente, una estensione temporale della
cui durata ci si rende conto soltanto quando è finita, cioè quando è già
diventata un passato. Lo spazio della fiducia è questo. Solo in questo spazio
si può avere fiducia. In esso cioè si può costruire, sviluppare, mettere alla
prova quella inevitabile avventura che è l'anticipazione delle aspettative
dell'altro. Fiducia non è altro che questa anticipazione che orienta l'agire e
l'esperire. Ma è un'avventura del presente che anticipa il futuro nella
rappresentazione di colui che ha fiducia, perché si serve solo delle risorse di
una propria prestazione effettuata in anticipo e costruita su una propria
rappresentazione del mondo. Una risorsa esterna, una certezza, renderebbe
inutile dare fiducia [...]. La fiducia costituisce una mediazione tra la
complessità del mondo e l'attualità dell'esperienza. Una mediazione drammatica,
rischiosa, che si sostiene sul sapere di non sapere, che produce da sé le
risorse che investe e con le quali si espone al futuro anticipandolo e
all'altro rappresentandosi le sue aspettative [...]. Fiducia non è affidamento
all'altro. Fiducia non è il racconto dell'altro. Non ci sarebbe il dramma, non
ci sarebbe neppure la possibilità di raccontare l'altro, se fiducia avesse a
che fare immediatamente con l'altro. Fiducia ha a che fare con la propria
rappresentazione dell'altro; essa è affidamento alle proprie aspettative
dell'altro. Fiducia è esposizione del sé. Fiducia è abbandono al sé, per questo
c'è il rischio, il dramma, la tensione. (R. De Giorgi, Presentazione
dell'edizione italiana, in N. Luhmann, La fiducia, Bologna, il Mulino,
Riferimenti Bibliografici, Berger, Luckmann, La realtà come costruzione
sociale, Bologna, 1969;* - N. Luhmann, Illuminismo sociologico, Milano, Schütz,
La fenomenologia del mondo sociale, Bologna, 1974.*La semantica del rischio
Decisione razionale e azione sociale G., Filosofia, Lecce, Centro
Culturale. Sulla situazione delle scienze sociali Se si osserva il
panorama delle scienze sociali oggi, si può affermare che esse sono alla
ricerca di temi attuali riferiti alla società, ma che per questo non dispongono
ancora di una struttura teorica adeguata, in particolare non sono pervenute
ancora a una adeguata descrizione della società moderna. Le discussioni
teoriche vengono effettuate in relazione ad autori, in particolare in relazione
a classici. Questo comporta, nel modo di porre i problemi, la presenza di un
sovraccarico di vecchie prospettive e l’implicito orientamento ad una società
che in virtù del suo ottimismo sul progresso aveva raggiunto i suoi limiti, ma
poteva tener presente solo in misura limitata le conseguenze della società
moderna e le poteva trattare solo come problemi della distribuzione del
benessere. Le acquisizioni alle quali si è pervenuti sono date da un atteggiamento
scettico verso l’organizzazione e la razionalità (Weber) o da una critica della
struttura di classe della società moderna. Di queste acquisizioni vive ancora
oggi la discussione teorica. La società moderna ha reso urgenti problemi
completamente diversi: il problema dell’ecologia, il problema delle conseguenze
che derivano dalle nuove tecnologie, dalla ricerca biologica e genetica: ma
anche il problema delle conseguenze legate a determinate politiche di
investimento o quello relativo al rapporto tra uso del denaro per fini
speculativi o per fini produttivi. Si tratta solo di alcuni indici degli ambiti
problematici con i quali continuamente si confronta la società contemporanea e
rispetto ai quali la soglia di attenzione, e quindi di preoccupazione, sembra essere
più alta. Negli anni più recenti è sembrato che la scienza sociale
riuscisse ad andare oltre la discussione sui classici: si è elaborato così un
orientamento problematico che può essere descritto mediante concetti quali
complessità, problemi del controllo e guida, possibilità dell’azione ed altri
ancora. Così la società viene descritta dalla prospettiva dell’agire politico e
quindi dalla prospettiva della pianificazione, la quale ha davanti a sé campi
di realtà altamente complessi, in cui tutte le azioni scatenano “conseguenze
perverse” e producono problemi che danno motivo a nuove forme dell’agire.
Tuttavia anche questa discussione ha raggiunto in modo incontestabile i suoi
limiti, non dispone di potenziale esplicativo dell’agire reale e ripropone ormai
solo l’originaria formulazione dei problemi. All’ottimismo del progresso si è
sostituita la paura del futuro, all’ansia della pianificazione e del controllo,
la rassegnazione verso le conseguenze perverse dell’agire che, non potendo
essere previste, vengono rese oggetto di analisi empirica: un motivo ulteriore
per considerare il presente con disappunto e per tentare di risolvere mediante
il ricorso alla morale ciò che sembrava impossibile risolvere mediante la
razionalità. Non si può affatto prevedere che nel prossimo futuro
la scienza sociale riuscirà a colmare il deficit teorico che la caratterizza e
a pervenire ad una convincente descrizione della società moderna. E’ possibile
però isolare temi speciali, che in questa direzione sono fruttuosi e possono
essere utilizzati perché le ricerche si concentrino su di essi. Il tema rischio
può costituire un tema cosiffatto. Esso è un tema nuovo rispetto alla
discussione sui classici e mantiene considerevole distanza rispetto alle teorie
sulla decisione razionale o sulla pianificazione razionale. Esso attualizza la
dimensione del tempo, una dimensione centrale per la società moderna da tutte
le prospettive. Esso altresì ha particolare riferimento rispetto ai temi che
nell’opinione pubblica hanno acquistato un significato considerevole e che,
gradualmente, diventano dominanti. Esso ha quindi tutte le chances di fornire
un contributo rilevante alla comprensione delle condizioni sociali nelle quali
oggi inevitabilmente viviamo e delle quali in un qualunque modo dobbiamo tener
conto. 2. Stato della ricerca. Negli ultimi vent’anni il tema
rischio ha stimolato una mole immensa di ricerche ed ha raccolto una
letteratura che ormai non è più possibile controllare. Nella letteratura meno
recente il tema si è sviluppato prevalentemente sotto la voce: insicurezza. La
ricerca però si è concentrata su alcuni punti cruciali e non è pervenuta
all’elaborazione di una chiara concettualità teoretica. Da una
parte è dato di trovare ricerche sulla valutazione delle conseguenze prodotte
dalle nuove tecnologie; queste ricerche presentano ramificazioni molto
concrete: ad esempio la valutazione degli effetti cancerogeni che derivano da
alcuni prodotti chimici o la valutazione delle possibilità che si verifichino
eventi particolarmente improbabili ed insieme altamente catastrofici. Questa
letteratura è orientata nel senso delle teorie della casualità o nel senso
della statistica: essa ha prodotto a sua volta altra letteratura che si occupa
della posizione e del ruolo degli esperti rispetto alla politica e che di
conseguenza individua una perdita di prestigio e di credibilità della scienza e
degli esperti nelle diverse tecnologie, qualora questi, sotto la pressione e
l’urgenza delle decisioni siano costretti a rendere manifeste le loro insicurezze
o le controversie interne alla scienza stessa. Si tratta di una
letteratura e di un insieme di ricerche che tematizzano i problemi della
sicurezza rispetto a situazioni di pericolo oggettivo, ma che non riguardano la
prospettiva di chi, nell’agire concreto, deve decidere se rischiare o non
rischiare e a quali costi. Accanto a queste ricerche è dato di
trovarne altre che sono orientate in misura crescente in senso psicologico e
che indagano i modi in cui i singoli si comportano in situazioni di rischio.
Risultato di queste ricerche è una distinzione di variabili che influenzano il
comportamento, come ad esempio l’influsso della fiducia di sé o del controllo
di sé sulla disponibilità di colui che agisce verso il rischio. Un
altro orientamento di ricerca si occupa dei deficit di razionalità e degli
“errori” statistici che è possibile individuare nel comportamento decisionale
quotidiano. La disponibilità al rischio dipende, secondo queste ricerche, non
da ultimo dal modo in cui colui che decide pone il problema col quale deve
misurarsi. Questi orientamenti ai quali si sostiene la ricerca sul
rischio permettono di comprendere perché gli esperti che si occupano della
percezione e valutazione del rischio e delle strategie del suo trattamento, siano
essenzialmente studiosi di scienze naturali, di statistica, di economia (in
particolare per i settori relativi alle teorie della scelta razionale, del
calcolo dell’utilità, ecc.) o di psicologia. Persino il tema comunicazione sul
rischio viene trattato da specialisti che hanno questa formazione. La
sociologia si è occupata fino ad ora prevalentemente degli aspetti limitati dei
nuovi movimenti che si formano nella società a seguito della accresciuta
percezione del rischio. La scienza politica ha manifestato scarsa attenzione
per i problemi che derivano dal fatto che le questioni legate al rischio
sovraccaricano gli interessi politici. Accanto alla medicina si è stabilizzata
un’etica che si occupa dei modi in cui la morale dovrebbe affrontare questioni
che sembrano sottrarsi al calcolo razionale. Nonostante la sua ampiezza,
l’attuale ricerca sul rischio non riesce a pervenire a risultati utili sia alla
descrizione dell’agire decisionale che alla determinazione di possibilità
ulteriori degli stessi ambiti decisionali, perché è legata da vincoli che
derivano dal modo stesso in cui il problema del rischio viene tematizzato.
Questi vincoli sono definiti dai modelli derivati dalle teorie della decisione
razionale e dalle teorie psicologico-individualistiche. Integrazione
teorica. Tanto dal panorama delle ricerche quanto dall’eterogeneità dei diversi
approcci scaturisce un considerevole bisogno di integrazione teorica. Le
prestazioni innovative che è possibile effettuare in rapporto allo stato
attuale della ricerca dipendono dal fatto che si riesca ad elaborare e a
rendere disponibile una concettualità teorica capace di rendere possibili
questi riferimenti. Il concetto di rischio è stato definito
essenzialmente in relazione agli ambiti della relazione razionale, per così
dire, come concetto per la elaborazione dei problemi del calcolo razionale. Da
qui derivano considerevoli difficoltà di delimitarne significato e contenuto.
Nella letteratura si scambiano e si utilizzano come equivalenti e fungibili con
il concetto di rischio formulazioni quali pericolo, danger, hazard, insicurezza
e simili. Proprio per questo, sul piano metodologico è necessario mettere in
chiaro nel contesto di quali distinzioni il rischio acquista il suo contenuto e
significato proprio. La distinzione tra rischio e sicurezza sembra
inutilizzabile. Sicurezza in quanto opposta a rischio, indica solo un posto
vuoto che non può certo essere riempito empiricamente. Sicurezza, nello schema
rischio-sicurezza, indica solo un concetto riflessivo: esso esibisce solo la
posizione dalla quale tutte le decisioni possono essere analizzate dal punto di
vista del loro rischio. Sicurezza, in questo senso, universalizza solo la
coscienza del rischio; d’altra parte non è un caso se, a partire dal XVII
secolo, tematiche della sicurezza e tematiche del rischio si sviluppano
insieme. Per questo sarebbe necessario provare se sia possibile
intendere il concetto di rischio utilizzando le prospettive fornite dalla
teoria attributiva. Nel generale contesto di una insicurezza rispetto al futuro
e di un danno possibile, si potrebbe parlare di rischio quando un qualche danno
venga imputato ad una decisione, cioè quando questo danno debba essere trattato
come conseguenza di una decisione (o da colui che decide o da altri). Il concetto
opposto sarebbe allora il concetto di pericolo, che è applicabile quando danni
possibili vengano imputati all’esterno. Una tale concettualizzazione
permetterebbe di utilizzare la problematica dell’attribuzione che si è rivelata
fruttuosa e saldamente sperimentata. La concettualizzazione proposta dà insieme
plausibilità al fatto che nella società moderna la maggiore coscienza del
rischio sia correlata all’accrescimento delle possibilità di decisione. Beck,
Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt a.M., Beck, Politik
in der Risikogesellschaft. Essays und Analysen, Frankfurt a.M.,Covello, J.
Mumpower, Environmental Impact Assessment, Technology Assessment, and Risk
Analysis, NATO ASI Series, Berlin-Heidelberg, Douglas, Come percepiamo il
pericolo. Antropologia del rischio, Milano, Douglas, Wildavsky, Risk and
Culture. An Essay on the Selection of Technological and Environmental Dangers,
California, Evers, Helga Nowotny, Über den Umgang mit Unsicherheit. Die
Entdeckung der Gestaltbarkeit von Gesellschaft, Frankfurt a.M., Giddens, The
Consequences of Modernity, Stanford, Hahn, Willy H. Eirmbter, Rüdiger Jacob, Le
Sida: savoir ordinaire et insécurité, «Actes de la recherche en sciences
sociales, Hijikata, Armin Nassehi, Riskante Strategien. Beiträge zur Soziologie
des Risikos, Opladen, Johnson, Covello, The Social and Cultural Construction of
Risk, Dordrecht, Kaufmann, Sicherheit als soziologisches und sozialpolitisches
Problem. Eine Untersuchung zu einer Wertidee hochdifferenzierter
Gesellschaften, Stuttgart, Königswieser, Matthias Haller, Peter Maas, Heinz
Jarmai, Risiko-Dialog, Köln, Krücken, Risikotransformation. Die politische
Regulierung technisch-ökologischer Gefahren in der Risikogesellschaft, Opladen,
Luhmann, Sociologia del rischio, Milano, Perrow, Normal Accidents. Living with
High-Risk Technologies, New York, Wildavsky, Searching for Safety, New
Brunswick-London, I titoli
contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione,
per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca del Collegio San Carlo.
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della
conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione. Grice: “Giorgi understands
trustworthiness perfectly. However, he does not seem to care to provide a moral
background for it, which is okay with me, since being trustworthy and expecting
others to be trustworthy is what an honest chap does! It’s different with
PERJURY, and Giorgi has shed light on the notion of legitimacy – an oath of
trustworthiness becomes a LEGAL BOND – not just moral. It is however better to
consider the moral trustworthiness as PRIOR conceptually to the legal
trustworthiness – even if conceptual priority can go both ways. EPISTEMICALLY,
to have a law that condemns perjury may be the best way NOT to have faith in
faith (fiducia nella fiducia) but PRESUPPOSE that the other has a moral-legal
bond to be trustworthy. The perjury figure in Roman law has to be considered
historically, since if there was something the Italians are good at is Roman
law!” -- Raffaele De Giorgi. Giorgi. Keywords: fiducia nella fiducia, il
giuridico, il deontico, imputazione, azione, fiduzia nella fiducia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giorgi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e
Giovanni: l’implicatura conversazionale della civetta di Minerva – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “The Italians love ‘divenire’ as in
‘being and becoming’ – but if I say Mary is becoming a princess, ain’t Mary
being?” Grice: “I like Giovanni; only in Italy, you write an essay on Marx on
cooperation and on Kelsen; and then of course an Italian philosopher HAS to
philosophise on Vico: ‘divvenire della ragione,’ Giovanni calls what I would
call a critique of conversational reason!” Ha aderito successivamente alla Rosa
nel Pugno. Simpatizzò per la monarchia e
l'11 giugno 1946 fu tra coloro che presero parte agli scontri che causarono la
strage di via Medina; in seguito avrebbe spiegato la sua partecipazione con
queste parole: “Già leggevo Hegel ero monarchico perché credevo all'unita dello
Stato.” “Scappai quando la situazione s'incanaglì». Si laurea a Napoli con la
tesi “Vico: natura e ius.” Insegna a Bari.
Direttore di “Il Centauro. Rivista di filosofia". Altre saggi: “L'esperienza
come oggettivazione: alle origini della scienza”; “Il concetto di classe
sociale in Cicerone”; “La borghesia italiana”; “Il concetto di prassi”; “Marx
dopo Marx” (cf. Luigi Speranza, “Grice
dopo Grice.” Impilcature: Not Grice! --; “La nottola di Minerva”; -- il guffo
di Minerva – la civetta di Minerva -- “Dopo il comunismo”; il comune -- “L'ambigua
potenza dell'Europa”; “Da un secolo all'altro: politica e istituzioni” –
istituzione istituzionalismo istituismo “La filosofia e l'Europa”; “Sul partito
democratico. Aristocrazia, democrazia crazia cratos concetto di potere -- -- Opinioni
a confronto”; “A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?” “Elogio della
sovranità politica, -- il sovrano – lo stato sovrano – Machiavelli -- Editoriale scientifica, “Le Forme e la storia.
Scritti in onore di Giovanni, Napoli, Bibliopolis, La parabola di Giovanni. Il dibattito
Un saggio di de Giovanni paragona Severino al filosofo del fascismo. Ma a tutte
le sue obiezioni è possibile rispondere È Gentile il profeta della civiltà
tecnica Ne rende possibile il dominio planetario. Eppure la legge del divenire
è eterna di SEVERINO Gentile e assassinato perché e la voce più autorevole e
convincente del fascismo. Eppure la sua filosofia è la negazione più radicale
di ciò che il fascismo ha inteso essere. Non solo. Essa è tra le forme più
potenti — non è esagerato dire la più potente — della filosofia del nostro
tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si e accorto — forse gli assassini di
Gentile non lo sanno neppure. Tanto meno lo sa la cultura filosofica dominante,
che mai riconoscerebbe a un italiano un così alto rilievo. Non solo.
Contrariamente agli stereotipi che vedono in Gentile un avversario della
scienza, l’attualismo gentiliano è l’autentica filosofia della civiltà della
tecnica: rende possibile il dominio planetario della tecno-scienza, ancora
frenato dai valori della tradizione. Altrove ho mostrato il fonda- mento di
queste affermazioni. Il saggio di G. Disputa sul divenire. Gentile e Severino
(Scientifica) è un grande e suggestivo contributo al loro approfondimento —
come d’altronde c’e da attendersi dalla statura culturale e sociale
dell’autore. Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa
mai raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni
verità siffatta resti travolta da altri modi di pensare, da altri costumi, cioè
si trasformi, muoia: divenga. Travolta, anche la certezza che esistano le cose
che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno
distrutte: era innegabile solo provvisoriamente. Esser convinti
dell’inesistenza di ogni verità assoluta è quindi, insieme, esser convinti
dell’inesistenza di ogni Essere immutabile ed eterno. Dio è morto, si dice. La
negazione di ogni verità assoluta e innegabile non investe dunque l’esistenza
del divenire del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la convinzione che il
divenire di ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente innegabile (ed eterno),
proprio per questo è inevitabile che ci si convinca dell’impossibilità di ogni
altro innegabile e di ogni altro eterno. Gentile lo mostra nel modo più
rigoroso (mentre il fascismo, come ogni assoluti- smo politico, intendeva
essere la configurazione inamovibile dello Stato). Ma è appunto per
quell’estremo rigore che G. rileva, a ragione, l’incolmabile contrasto tra la
filosofia di Gentile e il tema centrale dei miei scritti, l’affermazione cioè
che la verità assolutamente innegabile esiste e che tutto ciò che esiste (nel
presente, nel passato, nel futuro) è eterno, ossia non esiste alcunché che esca
dal proprio esser stato nulla e che sia travolto nel nulla. Certo, la più
sconcertante delle affermazio- ni. Che però de Giovanni considera fondata con
altrettanto rigore. Infatti, mi sembra, egli è inte-ressato al contrasto
Gentile-Severino perché vede in ogni forma di contrasto una conferma della
propria prospettiva di fondo, per la quale l’esi- stenza umana è, da ultimo, un
contrasto insana- bile tra il desiderio dell’uomo, finito, di esser sal- vato
dall’Infinito e la problematicità del rapporto finito-Infinito. Quindi, a suo
avviso, per quanto rigorose possano essere la posizione filosofica di Gentile e
la mia, ci dev’essere in entrambe un vizio o più vizi di fondo che non possono
venir estirpati. Attraverso una finissima procedura in- terpretativa de G. lo
fa capire rivolgendo domande, obiezioni sotto forma di domande. So- prattutto a
me. Provo a rispondere ad una soltan- to. In modo adeguato risponderò in altra
sede. Ma prima rivolgo anch’io una domanda a G.. La sua prospettiva — qui sopra
richiamata in modo molto sommario — intende essere una verità assolutamente
innegabile o una proposta dove non si esclude che la verità innegabile esista
da qualche parte? Propendo per la prima alternativa. Mi sembra infatti che
anche per G. l’unica verità
indiscutibile sia la storicità del reale, cioè il divenire che travolge ogni
altra presunta verità. La sua distanza da Gentile tende così a vanificarsi
nonostante le obiezioni, che a questo punto hanno un carattere subordi- nato. E
infatti de Giovanni mi chiede se non ci sia «qualcosa di ineluttabile» «nella
condizione mortale dell’uomo», se la morte non sia «la prova inconfutabile»,
l’irrefutabile cogenza che l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla — e anzi,
lasciando da parte il domandare, afferma che il mio discorso «si scontra con il
fatto che l’uomo muore. Il contesto in
cui G. avanza queste domande-affermazioni è incommensurabilmente lontano
dall’ingenuità con cui a volte queste domande mi vengono rivolte. Ma in questa
sede può essere opportuno richiamare — ancora una volta — che i miei scritti,
ovviamente, non hanno mai negato che l’uomo muoia e come muoia e resti il suo
ca- davere, ma hanno sempre negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un
venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché
mostrano che questo andirivieni non è un «fatto». Provo a chiarire. Che il
dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia
un «fatto» si- gnifica che se ne fa esperienza. Certo. Si fa esperienza
dell’orrore della morte, che è sempre la morte altrui. Ma chi crede che la
morte sia un andare nel nulla non crede (è impossibile che creda) che l’uomo
vada nel nulla ma, insieme, continui ad essere un fatto che appartiene al
contenuto dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva
prima di annientar- si. Nell’esperienza rimane il ricordo di coloro che sono
andati nel nulla, e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane il fatto in cui
consisteva il loro es- ser vivi, non si fa più esperienza del loro esser stati
vivi. Chi, dunque, crede che la morte sia an nientamento crede che — pur avendo
avuto espe- rienza dell’agonia e del cadavere — ciò che è di- ventato niente
sia diventato anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, che non è
un fatto. Ma allora è impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto
ciò che è uscito dall’espe- rienza, e quindi mostri che esso è diventato nien-
te. Di questa sorte l’esperienza non può che tace- re. Cioè l’annientamento non
può essere un «fat- to». (E se il cadavere viene bruciato e, come si di- ce,
«diventa cenere»; allora anch’esso, come tutta la vita passata di chi è morto,
esce dall’esperienza —anche se ne rimane il ricordo. Daccapo: che es- so,
diventando cenere, sia diventato niente non può essere l’esperienza ad attestarlo).
Ci si convince dunque che la morte è annienta- mento non sulla base
dell’esperienza, ma sulla ba- se di teorie più o meno consistenti. All’inizio i
vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni orrende della morte dei
loro simili e restano col- piti dalla loro assenza; i morti non ritornano,
vivi, come invece il sole torna a risplendere al mattino. Anche su questa base,
quando si fa avanti la rifles- sione filosofica sul nulla, si pensa che ciò che
non ritorna sia diventato niente e si crede di sperimen-tarne l’annientamento.
Gentile sta al culmine di tale fede e, con la propria «teoria generale dello
spirito», dimostra nel modo più radicale l’impos- sibilità di ogni realtà
esterna all’esperienza, sì che l’uscire dall’esperienza è per ciò stesso
l’andare nel niente. Ma, appunto, si tratta di una dimostra- zione, di una
«teoria», non della constatazione di un fatto. Dunque, la sconcertante
affermazione, al cen- tro dei miei scritti, che tutto ciò che esiste è eter-
no, non è un «paradosso» che «si scontra» con l’esperienza, cioè «con il fatto
che l’uomo muo- re». All’opposto, a scontrasi con l’esperienza sono coloro che
— affermando la sua capacità di atte- stare l’annientamento degli uomini e
delle cose — vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci. Sono
molti, moltissimi? Non importa. An- che quando qualcuno ebbe a mostrare che è
la Terra a girare attorno al sole e non viceversa, tutti gli altri lo negavano,
sconcertati. A questo punto de Giovanni deve mostrare per- ché (una volta
escluso lo «scontro con il fatto») non accetta la fondazione che di quella
sconcer- tante affermazione ho indicato nei miei scritti. At- tendo. Ma anche
tutte le altre sue domande atten- dono la mia risposta.Il tramonto del
principe: "Fin dall'inizio della sua attività Biagio de Giovanni ha
accompagnato al suo discorso teorico e politico una notevole attività di
carattere storico-filosofico. Si può dire, anzi, che per certi versi questi
sono tre aspetti di una medesima ricerca che, secondo una tipica 'tradizione'
italiana, ha intrecciato, in modo consapevole, filosofia, storiografia e
politica. Ma questa è una considerazione preliminare, di carattere generale.
Ciò che distingue la posizione di de Giovanni è il modo con cui ha istituito
questo intreccio - il suo 'punto di vista' - e i risultati che è riuscito a
conseguire." (dalla prefazione di Michele Ciliberto). Con una postfazione
sulla storia de "Il centauro" di Dario GentiliBiagio di Giovanni. Giovanni.
Keywords: essere/divenire – dall’essere al divenire -- divenire della ragione
conversazionale: Vico, Hegel, Marx, nottola di Minerva; monarchia – stato -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giovanni: il divennire della ragione conversazionale”
– The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e Giovenale: la satira del filosofo –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Renowned for
his satires in which it is possible to identify a variety of philosophical
interests, if not influences. Decimo Giunio Giovenale. Giovenale.
Grice e Giovio – Roma antica -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Nola). Filosofo
italiano. The son of Paulino di Nola. From a letter written to him by his
father, it appears that he was a keen student of philosophy. Giovio.
Grice e
Giraldi: l’implicatura conversazionale -- filosofia ligure – filosofia italiana
-- Luigi Speranza (Ventimiglia). Filosofo italiano. Grice:
“Only a Ligurian philosopher would philosophise on Hegel’s real logic and
lobsters!” -- Grice: Grice: “One good thing about Giraldi is that he is from
Ventimiglia and moved to Noli – the most charming corners of Italy!” – Grice:
“Giraldi calls his position ‘romatnic essentialism;’ having born in Ventmiglia
he would, wouldn’t he?”“I like Giraldi; nobody in England would dare write “The
son of Peter Pan,” but Giraldi, otherwise known as the author of
‘Essenzialismo,’ did write ‘Il figlio di Pinocchio’”! Il padre, originario di
Dolceacqua e di estrazione contadina, dopo il servizio militare riuscì la
scalata del successo al Casinò di Monte Carlo, affermandosi anche come uomo di
grande saggezza e religiosità. La madre invece era originaria di Ventimiglia,
dove G. stesso nacque e trascorse la sua infanzia. Sebbene la famiglia fosse
benestante, egli soffriva per la grande conflittualità interna, continuamente
vessato dalla sorella maggiore che non esitava ad usare violenza nei suoi
confronti, mentre la madre non faceva parola con il padre di quanto assisteva.
Racconta che in questo periodo riusciva a trovare pace solo in chiesa. Con una bugia astuta riuscì a scappare di
casa, entrando in un collegio, dunque l'anno successivo si trasferì in un altro
collegio di Roma, ove tuttavia non riuscì a trovare la tranquillità sperata. Riuscì
a compiere studi classici a Roma, iscrivendosi poi all'Università. Non
frequenta le lezioni delle materie filosofiche curricolari, ma studia per conto
proprio. Tuttavia sigue abbastanza regolarmente le lezioni di PONZO, anche se
non e materia d'esame. Si laurea e presta servizio militare durante la seconda
guerra mondiale. Si laurea in filosofia discutendo molto animatamente la tesi
con Spirito, il quale ironizzò sulle sue
pretese di "fare una nuova filosofia". Insegna a Milano. Partendo
dalla teoria gentiliana, che vede in tutto una “mediazione”, e da quella di CONSENTINO,
che sostiene al contrario la totale "immediatezza", afferma che anche
l'atto puro, in quanto nuovo e spontaneo, non può che nascere senza alcuna
mediazione, quindi è l'equivalente dell'immediatezza, o del sentire puro. Pertanto
prova a risolvere le contraddizioni di entrambe le posizioni in una sintesi
hegeliana che possa superare sia il “divenirismo,” sia il coscienzialismo
antidivenirista. La soluzione è che l'immediatezza sarebbe sostanziata di
mediazione, e viceversa.L'immediatezza è così colma di mediazione, perché senza
di essa sarebbe cieca e una mediazione senza una immediatezza sarebbe nulla.
Inoltre, per avere una identità distinguibile, si dovrebbe avere già dentro di
sé quanto necessario per identificarsi e per distinguersi. In “Etica del sentimento”, ancorando il
principio morale proprio alla sfera sentimentale, si focalizza sul sentimento
di libertà e propone nuove argomentazioni alla tesi di derivazione stoica del
sentirsi responsabili, pur entro un tutto già dato. In “Gnoseologia del
Sentimento”, parte proprio dalla posizione del CONSENTINO per ripercorrere gli
itinerari di una filosofia dell'essere indiveniente e per affrontare gli
aspetti dinamici e volontaristici dell'Io. In “Filosofia giuridica” espone la
concezione di diritto naturale quale sentimento fondamentale giuridico,
condizione trascendentale di ogni diritto positive. Pertanto il diritto
naturale non sarebbe un codice sovrapponibile ad altri codici, ma la
precondizione che permette alle leggi positive di essere leggi e non atti
religiosi, estetici, scientifici o di altro tipo. Si occupa anche della
riflessione su temi politici.“Storiografia come rettorica” tende ad inquadrare
l'unitarietà artistica e scientifica della ricostruzione storica, coerentemente
con la tesi di CICERONE della “historia opus oratorum maxime” e con quella
aristotelica dell'entimema, in altre parole quel sillogismo retorico che si
differenzia da quello della necessità. In “Epistemologia” invoca una
demitizzazione anche delle teorie cosmologiche e scientifiche più accreditate
(l'evoluzionismo, la teoria del Big Bang, la meccanica quantistica), poiché tenderebbero
pure esse a cadere in paralogismi e contraddizioni logiche, nonostante gli
apprezzabili sforzi a riferirsi alla filosofia da parte di alcuni notevoli
scienziati. Ad esempio nota che anche i migliori epistemologi che irridono il
concetto di sostanza, di fatto, riferiscono i dati sperimentali ad una
sottintesa sostanza soggiacente. In numerosi saggi dedicati alla religione,
analizzata nelle molteplici forme di spiritualità, avanza la tesi che il
proprium della religione sia la soteriologia, quindi non tanto il contenuto di
una dottrina, ma la speranza di salvazione dal negativo della vita e della
morte. Il principio cardine diventa dunque la speranza, e non più la fede, che
viene ricondotta ad un ruolo funzionale alla realizzazione della salvezza. L'analisi della religiosità tenta perciò di
emanciparsi dagli usuali preconcetti filosofici: se alla religione è stato
assegnato per oggetto l'uomo immediatamente e Dio mediatamente, alla teologia
Dio si dà immediatamente e l'uomo mediatamente. Altresì in “Immortalità
dell'anima” mostra come sia improponibile lo sforzo di svincolare l'unità del
Pensiero con la determinazione individualizzata della persona. Il “Dizionario d’estetica
e linguistica generale”, con alcune integrazioni filologiche presenti in alcune
successive pubblicazioni, alcune in Sistematica, si distingue anche per
l'attenzione dedicata all'estetica e sulle concezioni dei primitivi "di
ieri e di oggi". La proposta
avanzata per una filosofia della scelta e decisione si apre con una riflessione
sul dogmatismo e l'agnosticismo, dalle quali l'autore vuole prendere le
distanza. Non si considera dogmatico, perché il suo metodo gli consente di
aderire ad un'idea solamente dopo la caduta di ogni riserva, ma ciò non lo
porta neppure ad approdare ad una concezione scettica né agnostica, in quanto
la non possibilità di dimostrare (ad esempio l'immortalità, la vita
ultraterrena o l'esistenza di Dio) non equivale ad affermare la loro non
esistenza. Tra le numerose acquisizioni che lo difenderebbero dalle accuse
incrociate di scetticismo e agnosticismo enumera la consapevolezza di un
patrimonio di verità circa le possibilità di pensiero; la ricchezza dell'atto
di conoscenza anche nelle forme meno esplicate; l'emancipazione dalla divisione
del conoscere in intuizioni e concetto, sensazione e concetto; la pretestuosità
di coloro che esigono una purezza del conoscere senza inquinamenti
sentimentali; le aporie di una scienza oggettivante e insieme soggettivante al
massimo e dell'arte che, mentre il mondo odierno nega il reale, si riferisce
continuamente ad essa, particolarmente nella negazione. Non potendosi dare una irruzione nel
trascendente, è tuttavia possibile affermare la vasta pregnanza del
trascendentale, in altre parole di un terreno comune per l'esperienza e il
pensiero. Si considera pertanto idealista, nel senso che non esiste pensiero senza
pensiero, spirito senza spirito, “ideato” (significato) senza “ideante”
(significans). Tuttavia, differentemente dalle posizioni di Gentili, non crede
che affatto il pensiero sia liquido, tutt'altro; proprio perché l'idea diventa
comune, e in essa il Pensiero trova la sua pace, occorre una verità
fondamentalmente ferma, non mobilizzabile. Da questi presupposti sorge così una
debita attenzione per la scelta e la decisione.
Distinguendo le scelte apparenti, che sono totalmente arbitrarie, da
quelle reali, quando al termine dell'analisi si opera con un atto di buona
volontà, una decisione autentica ci si trova di fronte ad un bivio metafisico:
impossibilità di afferrare la realtà dei tre nominati reali (Dio, Anima e
Mondo) e impossibilità di negarli. Sorge appunto la decisione autentica, cui si
arriva solamente secondo una corretta formulazione di intenti e seguendo una
fine immanente ad ogni forma di scelta. Aristotelicamente e anche kantianamente
la causa finale riveste una primaria importanza. Se ogni uomo sceglie per sé,
nessuna scelta avrebbe una portata teoretica di cogenza, ma aprirebbe le vie
della libertà vera, dalla quale ne derivano conseguenze radicali e speculazioni
abissali a partire da una decisione, che può essere quella dell'anima unica immortale,
o quella del pensiero che viene ad essere dopo la materia, o la non esistenza
di Dio. Ciò permetterebbe anche di evitare il depauperamento culturale, con una
rivitalizzazione delle esperienze antiche.
La decisione personale propende per una concezione dell'anima unitaria,
di stampo aristotelico. Se l'immortalità naturale di tomistica memoria è da lui
considerata "la più materialistica, e più grezza", preferisce pensare
ad una immortalità conseguita, oppure chiesta a Chi può donarla e concessa a
chi la chiede. Sul mondo reale fisico resta una indecisione, ma propende verso
un residuo di natura mentale, una sorta di noumeno mentale sulla scia di Kant e
Galluppi oltre il grande telone dei fenomeni. In questo caso però occorrerebbe
rapportarlo ad una mente divina, perché parlare di mondo senza Dio non avrebbe
connotazioni filosofiche. Infine, riguardo l'esistenza di Dio, punto in cui la
scelta diviene decisione pura, egli tende a negare la validità delle
dimostrazioni, pur scorgendo in esse una bella prova della potenza della mente
umana. La conclusione non è però la non esistenza di Dio, ma la non
dimostrazione della sua esistenza. Chi
ammette l'esistenza di Dio, tuttavia, deve assumere la radicalità di tale affermazione
"guardando il mondo dagli occhi di Dio" e non facendo etsi deus non
daretur. Chi prendesse la scelta teistica dovrebbe tacersi per sempre e
rinunciare ad intenderlo. Giraldi mette in risalto anche la Volontà,
definendola potenza fattiva dell'Idea, e constatandone il carattere generativo-spermatico,
per collocare in una prospettiva differente il vitalismo dell'élan vital
bergsoniano e della Wille di Schopenhauer. Questo permette di pensare l'Idea
non solo quale conoscenza filosofica, ma anche negli aspetti attivi, vitali e
di sentimento. Ad essere eroicamente divini non sono pertanto solo i pochi
giunti al massime vette di autocoscienza teoretica, ma anche gli umili che
vivono inconsapevoli della propria dignità divina, folgoranti però di una
autocoscienza morale. Bàrel Dal punto di
vista poetico, l'opera principale di G. è il “Bàrel”, sorto dall'ispirazione di
un progetto di Papini esposto nell'autobiografia Un uomo finito per un poema
apocalittico, mai scritto. Altri spunti furono la lettura di Lord of the World
di Benson e dell'Apocalisse. Il Bàrel,
presentato a Giovannetti de Il Giornale d'Italia, che propose come titolo “Il
Dio Eroico”. Gli anni seguenti, segnati dalla Seconda Guerra Mondiale, furono
l'occasione per trasporlo in prosa. Questa versione, appena terminata la
guerra, e proposta a vari editori ma che per una serie di sfortunate
coincidenze Mondadori non dispone della carta, e dopo alcuni anni, quando la
carta è disponibile, cambia idea sulla pubblicazione; la casa editrice Api di
Mazzucchelli nel frattempo fallì l'idea di pubblicazione venne temporaneamente
accantonata. Nel frattempo alcuni versi sono pubblicati frammentariamente. Ri-ordina
le due versioni in una unica opera che contenesse sia versi, sia prosa, in uno
spiccato pluristilismo sperimentale. La pubblicazione avverrà sotto lo
pseudonimo I. Tanarda e poi in raccolte unitarie successive. Il tema è insolito e il contenuto, con
riferimenti religiosi e culturali di ogni tipo, non è di semplice
accessibilità. Se può essere collocato in un momento simbolico dell'arte, è
anche classico e romantico, nei canoni dell'estetica hegeliana. Nel Apocalisse
grande, il protagonista Bàrel sovrappone le passioni alle idee. In La cerca di
Barel, ritorna in proporzioni umane e in La morte degli dèi, scende negli
abissi vertiginosi della filosofia, che la poesia tenta di inseguire.Saggi: “Organon
Philosophicum”, Ironia, morale, educazione, Gheroni, Torino, “Etica del
sentimento” Filosofia dell'Unicità; “Gnoseologia
del sentimento” (Pergamena); La filosofia giuridica, Filosofia dell'Unicità,
Milano “Filosofia della religione”. Filosofia dell'Unicità, Epistemologia. Una
nostra riforma della Logica Hegeliana (Pergamena) La Metafisica. Pergamena, Iesous
Eléutheros. La liberazione di Gesù: lettera sistematica (Pergamena) Dizionario di
Estetica (Pergamena); Studi nel periodico Sistematica. Res Publica. Educazione
civica, Pergamena Res Publica. Teoria dell'Ineguaglianza (Pergamena); Nel
Pleròma. Da Dio alla Materia (Pergamena); Storiografia come rettorica; “Autobiografia
come filosofia” (Pergamena); Memoriale Ambrosiano; “Memoriale Italico” (Pergamena);
Dio, Pergamena Estetica della Musica,
Pergamena scon Colloquia Edizioni. Meditazioni Hegeliane, Editrice, Meditazioni
Platoniche, Pergamena Capitoli sulla Scienza Moderna, Pergamena L'immortalità
dell'anima, Pergamena Ricerche filosofiche La filosofia del sentimento di
Consentino, in Quaderni, Milano, Rabelais e l'educazione del principe, Viola,
Milano; ora in Paideia grande. Un mistico bergamasco: Sisto Cucchi, Secomandi, Amiel
Morale, Saggiatore, Torino, L'educazione dei ciechi, Armando Roma, Società e
Stato da Spedalieri a Marx, Pergamena); “L’ESTETICA ITALIANA: figure e problemi”
(Nistri-Lischi, Pisa); Storia della pedagogia, Armando Roma "le edizioni successive sono state
scempiate da interventi dell'Editore riporta G. in Sistematica); “La filosofia politica”
(Pergamena); Adolfo Ferrière. Psicologia, attivismo, religione, Armando Roma, Giuseppe
Lomabardo Radice tra poesia e pedagogia, Armando Roma, Gentile. Filosofo
dell'educazione Pensatore politico Riformatore della Scuola, Armando Roma Raffaello
Lambruschini. Armando Roma, Tissi filosofo dell'ironia, Pergamena Moralistica
francese, Pergamena Saggi su Sales, il Quietismo, La Rochefoucault, Prevost.
Filosofi teoretici e Morali, Pergamena saggi su Condillac, Senancour, Rensi,
Hume, Camus, Barié, Galli, Lazzarini, Castelli, Capitini. Gramsci e altri miti,
Pergamena; Storia della filosofia, Trevisini Milano; L'Italia nella dittatura e
nella non democrazia, Pergamena Paideia Grande, Pergamena Rabelais, Rosmini,
Boncompagni, Gentile; “STORIA DEL LIBERALISMO” Pergamena. Moltissimi saggi e
studi di politica, religione, filosofia, filologia e critica sono stati
pubblicati nelle seguenti riviste fondate da G. stesso: L'Idea Liberale, Sistematica, attiva sino al.
Filologia; Giovanni Michele Alberto Carrara, De fato et fortuna. Tipografia A.
Ronda, Milano, Studi sul Rinascimento, Pergamena Saggi su: Seneca e la
filologia; PETRARCA viaggiatore; VINCI filosofo; Le fonti del Pontano lirico;
Gli errori di ALIGHIERI in un poema umanistico inedito; Il RINALDO di Tasso; Il
T. Tasso corregge il Floridante; Rime inedite di Cecco d'Ascoli; Carrara, Pergamena, Carrara, Armiranda. Inedito
umanistico, Pergamena Commedia inedita, testo latino; Carrara, III, De choreis Musarum, Pergamena Testo
latino. Segue un Saggio monografico sull'umanista. Carrara, Sermones
objurgatorii, Pergamena Sui tragici; Da mio diario filologico, Pergamena Filologia.
Teoria e saggi, Pergamena Su ALIGHIERI con verità, Pergamena MANZONI, in
Sistematica, Pergamena Gesù, Pergamena Poesia e prosa d'arte Collana dei
"Tredici". La Scala, novelle e poesie; Mutarsio, Torino Bàrel. I.
Apocalisse grande, La cerca di Bàrel, La morte degli dèi; Pergamena Hendecasyllabi
aliaque scripta, Pergamena L'aragosta. Romanzo Ligure, Pergamena; Il figlio di
Pinocchio, Pergamena; Fratelli Frilli, Il dono delle Muse. Cento novelle, Pergamena Quadri
Intemelii, Pergamena; Miniature. Codex aureus, Codex recens. Codex quadraticus,
Pergamena; Cento tavole, alcune con testi latini parzialmente editi in
Hendecasyllabi. Il Codex recens presenta soggetti del Bàrel; il Codex aureus è
a soggetto libero e vario; il Codex quadraticus comprende le figure degli
scacchi. Con rubriche annesse che spiegano tempi, temi, tecniche. Pergamene MVSA
LATINA, Pergamen; IL RAMO D’ORO, Pergamena Scritti in Italiano, Latino,
Francese, Romanesco, Biblico. Profili di gente nel mio tempo, Pergamena
Splendido novellare, Pergamena Cento racconti e novelle. Musis amicus,
Pergamena Versi e prose in Latino. Mimì o E tutto è amore, Pergamena Sorridono
i gigli. Liriche e restauro filologico di Saffo, Pergamen; TEVERE AMICO,
Pergamena, Pedagogia e Filosofia esposte nel dialetto Romanesco da un popolano
di Trastevere. Paradiso, Pergamena Editrice, “Faust mediterraneo”, Pergamena, Atlantidos
persis, Pergamena, Villon, Il Testamento, saggio critico G., Pergamena, Amitiés
françaises, Pergamena, Nel Sublime, Pergamena Il mio Ponente, Pergamena Letture
belle, Pergamena; Piero Pastorino, Pinocchio, un figlio nato da una bugia, in La
Repubblica, sez. Genova. Docente universitario a Milano di Storia generale
della filosofia, è stato ripetutamente consulente all'Accademia di Svezia per
il conferimento dei Nobel per la letteratura. Ha al suo attivo un dizionario di
estetica e linguistica, una storia della pedagogia e ha scritto novelle. Vive a
Noli, di cui è cittadino onorario. Piotr Zygulski, Filosofo liberale, in
Termometro Politico; G. Pierre-Philippe Druet, Tissi, filosofo dell'ironia,
Revue Philosophique de Louvain, Dudley,
Sui tragici. Dal mio diario filologico, Revue Philosophique de Louvain, Da
"Autobiografia come filosofia" (Milano) e pagine integrative in
Sistematica, Milano, Pergamena, Grimaldi, Illuministi inglesi, in Disegno
storico del costituzionalismo moderno, Roma, Armando, Ottaviani, La scuola del
Risorgimento. la scuola italiana Roma, Armando, Semerano, La favola dell'indo-europeo,
Milano, Paravia; Mondadori. Grice: “Giraldi is obsessed with ‘essenza’, which
is a coinage by Cicero – essentia, meaning essentially nothing!” Grice: “Giraldi, who defended Gentile,
rightly, as a ‘pensatore politico’ – was obsessed with idealism – his
essentialism was supposed to supersede it, but he spends some time analysing
the situation in Italy with idealism, ‘a la catedra – but is dead – he refers
to Croce, Gentile, and the roots of
idealism in Vico, Sanctis, and Spaventa --.” Giovanni Battista Giraldi. Giovanni
Giraldi. Giraldi. Keywords. essenzialismo, essenzialismo romantico, storia
della filosofia romana, etica del sentimento, autobiografia come filosofia, mio
ponente, filosofia ligure, ‘l’aragosta’ – romanzo ligure -- Riviera di ponente,
nel pleroma: da dio alla materia, gentile, filosofo politico -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giraldi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Girgenti: l’implicatura conversazionale della
metrica del filosofo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Girgenti). Filosofo italiano. Grice: Ritter thinks
Girgenti is related to the Velia – and Pareto to the Crotone – so it’s amazing
that Bruto never liked those three Greeks of the Athenian embassy seeing that
most pre-Platonic philosophy came from Magna Grecia, that is, Italy! Some must
have remained in the genes!” -- Grice: “I like Girgenti; obviously Mussolini
didn’t!” Grice: “I love Girgenti – he philosophised in verse, not prosa – rhyme
being unexistant, it was all about the metre – he talks of ‘amicizia,’ which is
none other than Love that unites all things! And then he fell in the Etna!”
“Mussolini thought it was rude of the Girgentians to call their land
‘Girgenti,’ so he formulated a self-referential ‘decretto’: “From now on,
Girgentians shall be called Agrigentians.’” Peano objected: “Your decree is
self-contradictory or invokes a vicious regressus ad infiniutum!” -- filosofo
italiano. Siceliota. Nacque da una famiglia antica, nobile e ricca di Girgenti.Come
suo padre Metone, che ebbe un ruolo importante nell'allontanamento del tiranno
Trasideo, egli partecipò alla vita politica della città, schierandosi dalla
parte dei democratici e contribuendo al rovesciamento dell'oligarchia formatasi
all'indomani della fine della tirannide, un governo chiamato dei
"Mille". La tradizione gli
attribuisce uno spirito severo verso gli aristocratici. Dai suoi nemici fu poi
esiliato nel Peloponneso. Tra i suoi discepoli vi fu anche Gorgia. Successivamente
Empedocle abolì anche l'assemblea dei Mille, costituita per la durata di tre
anni, sì che non solo appartenne ai ricchi, ma anche a quelli che avevano sentimenti
democratici. Anche Timeo nell'undicesimo
e nel dodicesimo libro - spesso infatti fa menzione di lui - dice che Empedocle
sembra aver avuto pensieri contrari al suo atteggiamento politico. E cita quel
luogo dove appare vanitoso ed egoista. Dice infatti: 'Salve: io tra di voi dio
immortale, non più mortale mi aggiro'. Etc. Nel tempo in cui dimorava in
Olimpia, era ritenuto degno di maggiore attenzione, sì che di nessun altro
nelle conversazioni si faceva una menzione pari a quella di Empedocle. In un tempo
posteriore, quando Girgenti era in balìa delle contese civili, si opposero al
suo ritorno i discendenti dei suoi nemici; onde si rifugiò nel Peloponneso ed
ivi morì. Si iscrisse alla Scuola di Crotone, divenendo allievo di Telauge, il
figlio di Pitagora. Seguì la dieta pitagorica e rifiutò i sacrifici cruenti. Secondo
la leggenda, dopo una vittoria olimpica alla corsa dei carri, per attenersi
all'usanza secondo cui il vincitore doveva sacrificare un bue, ne fece
fabbricare uno di mirra, incenso ed aromi, e lo distribuì secondo la
tradizione. Secondo altri seguì gli insegnamenti di Brontino e di
Epicarpo. La sua oratoria brillante, la sua conoscenza approfondita della
natura, e la reputazione dei suoi poteri meravigliosi, tra cui la guarigione
delle malattie, e il poter scongiurare le epidemie, hanno prodotto molti miti e
storie che circondano il suo nome. coppiata una pestilenza fra gli abitanti di
Selinunte per il fetore derivante dal vicino fiume, sì che essi stessi perivano
e le donne soffrivano nel partorire, pensò allora di portare in quel luogo a
proprie spese le acque di altri due fiumi di quelli vicini. Con questa mistione
le acque divennero dolci. Così cessa la pestilenza e mentre i Selinuntini
banchettavano presso il fiume, apparve Empedocle; essi balzarono, gli si
prostrarono e lo pregarono come un dio. Volle poi confermare quest'opinione di
sé e si lanciò nel fuoco. Si diceva che fosse un mago e capace di controllare
le tempeste, e lui stesso, nella sua famosa poesia Le purificazioni sembra avesse
affermato di avere miracolosi poteri, compresa la distruzione del male, e il
controllo di vento e pioggia. I sicelioti lo veneravano come profeta e
gli attribuivano numerosi miracoli. Le numerose testimonianze che
riguardano la sua biografia sono alquanto discordanti e non consentono di
attribuire un'identità precisa alla sua figura. A conferma di ciò sono le
numerose leggende sul suo conto. I suoi amici e discepoli raccontano ad esempio
che alla morte, essendo amato dagli dèi, fu assunto in cielo. Mentre Eraclide
Pontico, Luciano di Samosata e Diogene Laerzio sostengono che si suicidò gettandosi
nel cratere dell'Etna. Il vulcano avrebbe eruttato, dopo qualche istante, uno
dei suoi famosi sandali di bronzo.In realtà non sappiamo neanche se sia morto
in patria o forse nel Peloponneso. Si afferma che visse fino all'età di 109. Una
biografia di Empedocle scritta da Xanto, suo contemporaneo, è andata perduta. A
Empedocle la tradizione attribuisce numerose opere, fra cui anche alcuni
trattati – sulla medicina, sulla politica e sulle guerre persiane – e tragedie.
A noi sono giunti però solo frammenti dei due poemi: “Sulla natura” e “Purificazioni”.
Di “Sulla natura”, di carattere cosmologico e naturalistico, sono rimasti circa
400 frammenti. Delle “Purificazione”, di carattere teologico e mistico, abbiamo
poco meno di un centinaio. Il timore di Girgenti appare fin dalle prime righe
di “Sulla natura”. “O dèi, stornate dalla mia lingua follia di argomenti,
e da sante labbra fate sgorgare una limpida sorgente, e a te, musa agognata, o
vergine dalle candide braccia, io mi rivolgo. Ciò che spetta agli effimeri
ascoltare, tu porta, guidando avanti il carro ben governato dell'amore devoto.
Ma non ti turbi il cogliere fiori di nobile gloria fra i mortali con un
discorso, ricolmo di santità, che sia ardimentoso; e allora tu giunga leggera
alla vetta della saggezza. La filosofia di Empedocle si presenta come un
tentativo di combinazione sintetica delle precedenti dottrine ioniche,
pitagoriche, eraclitee e parmenidee. Distingue la realtà che ci circonda,
mutevole, dagli Quattro elementi primi, immutabili, che la compongono. Chiama
tali elementi "radici", non nate ed eternamente uguali e afferma che sono in tutto solo quattro,
associando ognuno di essi a un particolare dio, sulla base di concezioni
orfiche e misteriche proprie dei riti iniziatici allora in uso presso la
Sicilia. I quattro elementi (e i rispettivi dèi associati) dunque sono:
fuoco (Giove), aria (sua moglie, Era), terra (Edoneo), ed acqua (Nesti). L'unione
delle quattro radici (Giove-Era-Edoneo-Nesti) determina la nascita di una cosa.
Si tratta perciò dell’ *apparente* nascita di una cosa, dal momento che
l'Essere (le quattro radici) non si crea. “Ma un'altra cosa ti dirò: non vi è
nascita di nessuna cosa. Solo c'è mescolanza.” In questo modo, i primi principi si empiono
così dell'essenza e del soffio vitale del potere divino. In Empedocle, Amore
(Φιλότης) e la «natura divina che tutto unisce e genera la vita. Are, o Marte, e
il dio del conflitto. Per Empedocle, l'uomo, essendo di origine divina,
raggiunge la vera felicità che quando si riune alla compagnia di Deo. Accanto
alle quattro "radici", e motore del loro divenire nei molteplici cose
della realtà, si pongono due ulteriori principi: Amore ed Odio (Discordia,
Contesa). Amore ha la caratteristica di "legare", "congiungere",
"avvincere" («Amore che avvince.” L’Odio ha la qualità di
"separare", "dividere" mediante la
"contesa". Così Amore
nel suo stato di completezza è lo Sfero, immobile, uguale a se stesso e
infinito. Amore è Dio e le quattro "radici" le sue
"membra", e quando Odio distrugge lo Sfero, tutte, l'una dopo
l'altra, fremevano le membra del dio. Infatti sotto l'azione dell'Odio, presente
alla periferia dello Sfero, le quattro radici si separano dallo Sfero perfetto
e beante, dando origine al cosmo e alle sue creature viventi. Prima bi-sessuate
e poi sotto l'azione determinante di Odio, si differenziano ulteriormente in
maschi e non-maschi, e ancora in esseri mostruosi e infine in membra isolate. Alla
fine di questo ciclo, Amore riprende l'iniziativa e dalle membra isolate,
nascono esseri mostruosi e a loro volta maschi e non-maschi, poi esseri bi-sessuati
che finiscono per riunirsi, con le quattro radici che li compongono, nello
Sfero. Nelle Purificazioni, sostiene la metempsicosi, affermando l'esistenza di
una legge di natura che fa scontare agli uomini le proprie colpe attraverso una
serie continua di nascite, tramite cui l'anima, di origine divina, trasmigra da
un essere vivente all'altro. In questo poema gli esseri viventi, parti
costitutive dello Sfero di Amore divengono dèmoni errando nel cosmo. “È
vaticinio della Necessità, antico decreto degli dèi ed eterno, suggellato da
vasti giuramenti: se qualcuno criminosamente contamina le sue mani con un
delitto o se qualcuno per la Contes abbia peccato giurando un falso giuramento,
i demoni che hanno avuto in sorte una vita longeva, tre volte diecimila
stagioni lontano dai beati vadano errando nascendo sotto ogni forma di creatura
mortale nel corso del tempo mutando i penosi sentieri della vita. L'impeto
dell'etere invero li spinge nel mare, il mare li rigetta sul suolo terrestre,
la terra nei raggi del sole splendente, che a sua volta li getta nei vortici
dell'etere: ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano. Anch'io
sono uno di questi, esule dal dio e vagante per aver dato fiducia alla furente
Contesa.” L'Amore non interviene nella storia delle peregrinazioni del demone decaduto?
Con ogni probabilità, è l'Amore stesso che ci parla in questo frammento.
L'"io" dei due ultimi versi è l'autore del poema. Ma è anche, se
andiamo più a fondo, l'Amore. I demoni esiliati lontano dagli dèi saranno
allora dei frammenti espulsi dalla massa centrale dell'Amore e condannati a
errare tra i corpi cosmici sotto l'influenza separatrice del suo nemico, la
Discordia. Quando le parti dell'Amore che sono i demoni si riuniscono
nell'unità immobile della sfera, il mondo stesso diviene un essere vivente. Sotto l'influenza di Amore il mondo stesso si
trasforma in dio. Questa concezione conduce al rifiuto assoluto dei sacrifici,
poiché in ogni essere vivente vi è un'anima umana, che sta compiendo il suo
ciclo di reincarnazione. Se nel corso di questo ciclo l'anima si è comportata
secondo giustizia, al termine potrà tornare nella sua condizione divina. Dal
che, come Pitagora, anche a G. ripugnano i sacrifici animali e l'alimentazione
carnea. “Onde, uccidendoli e nutrendoci delle loro carni, commetteremo
ingiustizia ed empietà, come se uccidessimo dei consanguinei; di qui la loro
esortazione ad astenersi dagli esseri animali e la loro affermazione che
commettono ingiustizia quegli uomini «che arrossano l'altare con il caldo
sangue dei beati», ed G. dice in qualche luogo: Non cesserete dall'uccisione
che ha un'eco funesta? Non vedete che vi divorate reciprocamente per la cecità
della mente?” “Il padre sollevato l'amato figlio, che ha mutato aspetto, lo
immola pregando, grande stolto! e sono in imbarazzo coloro che sacrificano
l'implorante; ma quello sordo ai clamori dopo averlo immolato prepara
l'infausto banchetto nella casa. E allo stesso modo il figlio prendendo il
padre e i fanciulli la madre dopo averne strappata la vita mangiano le loro
carni.” Rispetto alla sua precedente opera vi sono delle contraddizioni che è
stato difficile per i suoi esegeti conciliare. Ad esempio, ad una visione
naturalistica del poema Sulla natura si contrappone la teoria della
reincarnazione delle Purificazioni: nel primo scritto l'anima è anche detta
mortale, mentre è definita immortale nel secondo. C'è chi ha spiegato tali
incongruenze con la versatilità di G., scienziato e profeta al tempo stesso,
medico e taumaturgo. C'è invece chi ha ipotizzato una paternità diversa delle
due opera. Uno dei busti ritrovati nella Villa dei Papiri a Ercolano,
identificato dapprima come Eraclito, solo più recentemente con Empedocle. Lo
stile di Empedocle viene lodato dagli antichi. DICANTVR EI QVOS PHYSIKOUS GRÆCI
NOMINANT EIDEM POETÆ QVONIAM EMPEDOCLE G. PHYSICVS EGREGIVM POEMA FECERIT. Siano
pure detti poeti anche coloro che i greci chiamano fisici, dal momento che il
fisico G. scrive un poema egregio (CICERONE, De Oratore) padre della retorica (Aristotele)
LUCREZIO (De rerum natura) lo prende addirittura come modello. Renan lo
definisce uomo di multiforme ingegno, mezzo Newton e mezzo Cagliostro. Gli
viene intitolato il Regio Liceo Classico di Girgenti, dove studiarono, fra gli
altri, PIRANDELLO (si veda) e Camilleri. Secondo le discordanti fonti
sulla vita di G. la cronologia andrebbe fissata. Cfr. GIANNANTONI (si veda), “I
pre-socratici” (Roma); Bignone (“Empedocle”, Torino); Robin; Schiefsky; Platone,
Parmenide, Diogene Laerzio; Timeo, ap. Diogene Laerzio; Aristotele ap. Diogene
Laerzio; Mannucci, “La cena di Pitagora” (Carocci); Satiro, ap. Diogene Laerzio;
Plutarco, de Curios. Princ., Adv. Colote, Plinio, HN, e altri. Così nella letteratura antica, come riferisce
Russel nella sua Storia della filosofia occidentale, citando un poeta anonimo. Grande
G. che, l'anima ardente, salta in Etna, ed è stato arrostito intero; Orazio, ad
Pison. , ecc. Ippoboto riferisce che egli, levatosi, si diresse all'Etna e,
giunto ai crateri di fuoco, vi si lancia e scomparve, volendo confermare la
fama che correva intorno a lui, che era diventato dio. Successivamente e
riconosciuta la verità, poiché uno dei suoi calzari e rilanciato in alto. Infatti,
egli e solito usare calzari di bronzo (Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi). Cfr.
anche Eraclide Pontico, fWehrli. “E questo tutto abbrustolito chi è? -
Empedocle. Si può sapere perché ti gettasti nel cratere dell'Etna? Per un
eccesso di malinconia. No: per orgoglio, per sparire dal mondo e farti credere
un dio. Ma il fuoco rigetta una scarpa e il trucco e scoperto (Luciano di
Samosata, I dialoghi). Timeo ci attesta esser lui finito di morte naturale.
Dicono alcuni che trovandosi egli in Messina a cagion di una festa sia ivi
caduto da un carro, e rottasi la coscia, sia morto. Credono altri che in mare
naufragasse: altri che si fosse strangolato da sé. Scinà, Memorie sulla vita e
filosofia d'Empedocle gergentino, GERGENTI – non GIRGENTI -- ed. Bianco,
Palermo – empedocle gergentino -- Apollonio, ap. Diogene Laerzio; Haase,
Principat; Philosophie, Wissenschaften, Technik; Philosophie (Doxographica, Forts.;
ed. Gruyter; Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Mondadori. Jori, G. in
Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Bruno Mondadori. Avverte infatti
Jaeger. Dobbiamo guardarci dal prendere per pura metafora poetica l'espressione
della religiosità che lo trattiene dal seguire sino in fondo i predecessori
troppo sicuri di sé. Cardin, G., in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani, Reale,
Storia della filosofia romana. D-K. Kingsley, Misteri e magia nella filosofia
antica. G. e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, In corrispondenza con le
quattro primarie anti-tesi del caldo (fuoco), del freddo (aria), dell'asciutto
(terra), e dell'umido (acqua). Le IV radici di G. risultano essere poi i IV
elementi di Aristotele e Tolomeo. Edoneo
è un appellativo proprio del dio degli
inferi Ade, cfr. in tal senso Esiodo Teogonia; o anche inno omerico A Demetra.
Forse si riferisce a Persefone; per una dotta riflessione su questo nome,
certamente un teonimo poco conosciuto, si rimanda a Gallavotti in G., Poema
fisico e lustrale, Milano, Mondadori; Valla. Secondo G., i due sessi (maschi,
non-maschi) furono determinati dalla separazione di creature di natura integra,
che si sono a loro volta evolute da forma di vita più primitive. Un papiro contenente
aforismi di G., consente tuttavia di integrare le due versioni, portando a
ritenerle complementari. Le due opere, quindi, farebbero forse parte di uno
stesso saggio filosofico. E stata anche avanzata l'ipotesi che si tratti di
Empedocle gergentino. Tale proposta trova conforto sia nella notizia di Diogene
Laerzio in merito alla folta chioma del personaggio sia alla specifica
collocazione del bronzo all'interno della villa dove fa pendant con il bronzo
raffigurante Pitagora che e suo maestro (Museo archeologico Nazionale di
Napoli. “Sulle origini”. Ne conservavamo
CCCL versi.”Martin ha consegnato complessivi LXXIV esametri dei quali XXV coincidono
con quelli già posseduti. Ma da ogni
parte è uguale a se stesso, e ovunque senza confini, lo sfero rotondo che
gioisce di avvolgente solitudine. (G., D-K); Poema fisico e Lustrale,
Milano, Mondadori; Tonelli, G., Frammenti
e testimonianze; Origini; Purificazioni, con i frammenti del papiro di
Strasburgo (Milano: Bompiani). Bignone, G.. Studio critico, commento delle
Testimonianze e dei Frammenti, rRoma, L'Erma, Bretschneider, Torino: Bocca. COLLI
(si veda), G., Pisa, La Goliardica, Traglia, Studi sulla lingua di G.”, Bari,
Adriatica, Bodrero, “Il principio dell’amore nella filosofia di G.” Roma; Bretschneider,
La lingua di G., Bari, Levante, Volpi, G.: i suoi misteri rivelati in una
biblioteca; G., Milano,1. Filosofi: G.,
scoperto papiro a Strasburgo. Per gli studiosi è l'unica testimonianza diretta,
Strasburgo, Adnkronos, Pigliando il nostro G. a trattar le cose naturali,
cui sopra d'oga ' altro in tendea, ebbe egli a sdegno di seguir setta e maestro.
E come egli era franco di animo, e grande d'ingegno; così immagi nò giusta la
moda de' tempi, e l' usanza de' filosofi un sistema novello. Questo divulgato
gli acquista tal fama, ch'emulo ei divenne per gloria e per sapere de' fisici
più famosi di sua età Democrito e Anassagora. I greci di fatto accolsero con
ammirazione i suoi belli poemi; e chi vennero poi ricordarono con onore G. e la
FILOSOFIA i lui. Incerta fra tanto, manca, é corrotta è venuta la sua dottrina
sino a noi. Mancate per l'ingiuria de' tempi le opere del nostro Gergentino
(GERGENTI, non GIRGENTI), chi ha voluto conoscer ne lo spirito, è stato
costretto di rintracciarlo presso gli storici dell'antica filosofia. I quali
non hanno affatto cura di notare il vincolo, con cui destramente iva quegli
legando la sua filosofia. Anzi costoro così disparati li rapportano che si
possan tenere non altrimenti che rottami, da' quali non si puo il disegno
ricavar dell'edifizio, cui prima apparteneano. Però eglino non che han male e
tortamente fatto conoscere la fisica di G.; ma nè pur bene e dirittamente
apprezzare la forza e la virtu della sua mente. Giacchè l'eccellenza de'
sistemi è riposta nell' union delle parti, che si rispondon tra loro; e da
questo legame si misura l'ingegno di chi l'hanno inventato. G. inoltre scrive
in versi, e ‘abbellì le sue idee, come fanno i poeti. Per lo che pigliando
alcuni letteralmente le finzioni della sua fantasia gli apposero opinioni
assurde e grossolane. Illusi altri dall’immagini poetiche, che per lo più sono
equivoche, travidero; e più presto ci tra mandarono le loro illusioni, che i
pensamenti del nostro filosofo. Varie di fatto sono le forme, sotto cui ci
presentano G. i scrittori. Ora egli è dualista, e ora è scettico: ora
platonizza , e or favoleggia: e non ha gnari e, non so come, anche gridato qual
precursore di Newton. Sicchè G., tra biasimato, lodato, e sfigurato, è stato
sempre mal conosciuto, e SEMPRE CALUNNIATO. Volendo adunque richiamare in luce
la filosofia di lui, cerco e raccolto i frammenti de' suoi poemi, che per
avventura ci restano, e sparsi qua e là si leggono presso diversi filosofi.
Coll ' ajuto di questi, che sono gl’onorati avanzi della sua vera fisica, son
ito raccapezzando pri e poi restituendo la sua filosofia, Perchè tra le
opinioni, che gli storici appongono a G., ho quelle scelto, che ben s'adattano,
e naturalmente si legano colle idee, le quali si traggono da? frammenti di lui,
e le altre rigettato, che a queste si disdicono, o ne sono contrarie. Ho fatto
in somma ciò, che suol praticara ma si da chi 'voglioso di restaurare un'antica
statua o colonna raccoglie e mette insieme que' pezzi,, che tra loro s'
incastrano, e ben si connettono. Questo metodo che stimerà diritto chiunque non
è privo di senno, deve specialmente poter convenire a G.. Poichè Aristotele ci
attesta: colui più che altro fisico della sua età, aver detto delle cose, ch'
eran tra loro ben legate e concordi. Ho quin di fatto ogni sforzo per
richiamare alla sua purezza e integrità la dottrina del nostro filosofo quando
da lui stesso, quando dall' autorità degli antichi filosofi, sempre mettendo in
accordo le idee, che si traggono da questi e da quello. Però non è da
maravigliare, se con sì fatto accorgimento,
libera il nostro fisico di non poche assurdità, e se mi sia venuto fatto
d'abbozzare almeno il vero sistema di lui. La prima origine, e i primi elementi
delle cose, sono, per quanto pare, fuori la sfera del nostro intelletto, perchè
oltre: passano la sfera de' nostri sentimenti. Pure. i greci, cominciando da
Talete, s' occuparon tutti in si fatta vana ricerca, e tutti si smarrirono.
Alcuni degli Jonici coll'acqua, altri coll' aria, altri col fuoco formaron le
cose, e fabbricarono presto l'universo. Non così piacque a PARMENIDE DI VELIA,
e a LA SETTA DI CROTONE. Costoro, lasciato il mondo materiale, come indegno
delle loro meditazioni, si misero per strade diverse in un mondo astratto ed
intellettuale. PARMENIDE spiritualizza l'unico elemento degli Jonici; e pone
unica, e terna, immutabile sostanza. Uno è tutto, dice PARMENIDE, e tutto è uno;
sicchè le mutazioni della materia non altro sno per lui', che modi e semplici
apparenze. LA SETTA DI CROTONE dal mondo materiale rifuggi alla Geometria. E se
bene questa scienza non fos che un parto della nostra mente; púre l’ehbe quegli,
non si sa come, per lo modello, e 'l vero esemplar dell'universo. Però nella geometria
legge i rapporti e le proporzioni, che debbono aver le cose, che sono materiali;
e vide nell'unità i primi e veri principj de' corpi. Furon gli se ingegni presi
da prima di maraviglia così pel filosofo di VELIA, come per quello di CROTONE;
e corsero tutti a loro insegnamenti. Ma stanchi di poi di contemplare un mondo
o metafisico, o geometrico, ritornarono naturalmente alla materia; e nasce la
filosofia corpuscolare. I primi a far questo ritorno sono G.; Anassagora;
Leucippo e Democrito. Costoro calando dal mondo della SETTA DI CROTONE alla
materia materializzarono le unità di costui. Atomi chiamarono Leucippo e
Democrito i principj delle cose; particelle simili Anassagora; e G. col nome li
distinse di elementi degl’elementi. Ma in verità i loro principi altro non sono,
che le unità della SETTA DI CROTONE fatte materiali, espresse e indicate con
vocaboli diversi. Democrito lascia a suoi atomi l'indivisibilità, di cui le
unità della SETTA DI CROTONE sono fornite nello stato suo intellettuale. Questa
stessa indivisibilità secondo alcuni, nega ale parti simili Anassagora.
Differente dall'uno e dall'altro e per Aristotile l'opinione di G. Costui cerca
nella materia le sue unità, e dividendo e suddividendo i corpi giunge a quelle
molecole, che più non si possono dividere. Ma dove i sensi mancarono, suppli
colla ragione, e proseguendo la divisione delle molecole col suo pensiero,
s'accorse potersi queste sempre piu di nuovo dividere. Venne però affermando
che i suoi elementi degl’elementi eran divisibili, ma solo colla mente, non gia
col fatto. Distingue, così dicendo, le unità della setta di CROTONE dalle sue,
che sono materiali; e provvida in bel mo doalla durata della natura. Perchè
essendo i principi delle cose incapaci, secondo lui, d'ogni fisica alterazione,
quelle debbono sempre durare come al presente sono. Tennero tutti tre que fisici
non che per cosa assurda, ma impossibile, la creazione dal nulla. Ne venne loro
in mente, come ad alcuni indi piacque, di supporre la materia nuda d'ogni
qualità. Chiamano essi la materia senza forma, e senza qualità ciò che non è. Ciò
ch'è, dice G., è impossibile venire da quello, che non è. Ma diverse sono le
qualità ch’attribuiron costoro alle loro unità secondo che diversamente riguarda
ciascun di essi i corpi e la natura. Anagsagora ebbe le sue particelle non
altrimenti che briccioli minutissimi, ma simili in propieta a corpi, ch'eran
destinati a formare. E come varj sono i corpi e differenti le lor propietà;
così yarie e differenti pose in corrispondenza le qualità delle sue particelle.
Per lo che trasporta egli le qualità delle masse a' frammenti di esse, e,e
ristandosi alle apparenze ricava, come suol dirsi, da grande in piccolo. Gl’atomi
per Democrito sono al contrario tutti della stessa natura; e solo differiyan
tra loro per sito, ordine, e figura. Idea, che ben si conviene alla semplicità
della natura; la quale con pochi mezzi suol produrre fenomeni, che sono
pressochè infiniti, attesa la lor varietà, la lor moltitudine. G., ciò non o
stante, rigettò il pensier di Democrito; e volendo spiegare la varietà
materiale, de’ corpi, piglio, com’egli dovea, e genno consiglio
dall'esperienza.. Gli Jonici addensando o rarefacendo acqua, or l'aria, or
l'aria insieme e'l fuoco, diedero forma e qualità a ' corpi dell'universo. Da
questi e dal loro metodo si dilungo il nostro fisico. Studia egli i corpi, e
separandone le particelle cerca prima, e raccoglieva poi i loro componenti.
Però in luogo di fingere, ritrova ne' corpi i loro elementi; nè i corpi a capriccio
componea alla maniera degli Jonici, na li analizza come fanno i chiniici. Le
sue esperienze, sono egli è vero, incerte e imperfette, come si leggono ne'
versi di lui. Perchè dirizzandosi per una via non ancora usata nelle fisiche
ricerche, mancava d'ajuti e di stromenti; massime che la fisica era allora
metafisica e bambina. Ma ciò non pertanto que' primi e rozzi saggi del nostro G.
sono da stimarsi un chiaro testimonio del suo metodo, ch'era tutto pratico e
sperimentale. Coll'ajuto in fatti delle sue esperien ze agginnse, a giudizio d'
Aristotile, la terra all' aria, all' acqua, al fuoco, e'l primo stabilì la
dottrina de’ IV elementi. IV, dice egli, son le radici di ogni cosa – I GIOVE
(fuoco) II GIUNONE (terra) III PLUTONE (aria) IV NESTI (acqua)-- figurando,
sotto questi simboli il fuoco, la terra, l'aria, e l'acqua. Per lo che nella
sua fisica le unità materiali sono le parti, che diconsi integranti de IV
elementi; e questi le costituenti di tutti i corpi, che si trovano in natura,
Sebbene il fisico di Gergenti (non Girgenti – c’e un Girgenti in RIETI) avesse
distinto l' aria, l'acqua e la terra per le diverse lor qualità. Pure in
riguardo al fuoco l'ha e' tutte tre, come se state fossero d' unica e medesima
natura. Le particelle dell'aria e dell'acqua tendono, secondo lui ', a
condensarsi, come fa la terra. E al contrario crede G. essere propietà del
fuoco d'assottigliare, separare, e levare ogni solidezza alle particelle dell'
aria e dell' acqua. Di fatto e sua opinione che LA LUNA si condensa a cagione
del fuoco, che da essa si parte, non altrimenti che avviene nell'acqua, quando
si riduce in gelo. E se il fuoco indura i corpi umidi, e vetrifica talvolta i
solidi, ciò accade per G., perchè scioglie e separa l'aria e l' acqua in quel
li dimoranti. Gli elementi dunque aria e acqua sono stati solidi, se la forza
dissolvente del calore portato non l'ha alla liquidità, che lor si conviene Non
conosce, egli è vero, così pensando, qualunque corpo per via del fuoco poter
pigliare, passare, ritornare allo stato solido, o liquido, o aerifornie; ma
giunse a comprendere l'aria e l'acqua dovere al fuoco la loro fluidità. Questa
verità, che in tempi più felici avrebbe potuto generarne tant' altre, e allor
qual baleno in notte huja, che illumina in un attimo, poi l' oscurità lascia
più grande. Tal verita o affatto non e avvertita, o punto non e ben compresa da’
filosofi d'allora. Aristotile si lagna di G., come di chi e ha usato de IV elementi,
non al trimenti che fossero stati II; contando quegli per uno i tre, che questi
avea realmente diviso aria, terra, e acqua. Anzi chi furon dopo (quasi G. non
già quattro, nia un solo elemento ha stabilito nella sua filosofia) si diedero
falsamente a credere il fuoco essere stato tenuto dal nostro fisico per lo
principio, da cui ogni cosa venne, e in cui ogni cosa doveasi risolvere. Ma
comunque ciò, sia, egli è certo, da che G. manifesta IV poter essere gl’elementi
delle cose, tutti abbracciarono la sua opinione. Di leggieri ciascun' s'avvide
l'aria, l'acqua, la terra il fuoco aver gran parte nella composizione de’ corpi,
e ne' cangiamenti più notabali, che avvengono nel nostro globo e nel la nostra
atmosfera. Di fatto non più a capriccio come prima si solea, s'accrebbe o
diminui il numero degl’elementi, e tolta ogn'instabilità tra le scuole, comune e,
e ferma rimase la sentenza de' IV ele Conta area la dem fial menti. Sicchè su
questa dottrina, qual ferma base, venendo assai dopo a posare lfisica. Questa G.
ricono scere deve', e lui onorare qual suo capo e fondatore. Hanno le scienze,
come ogni cosa umana i lor giri, e le loro vicende, che si distinguono da'
metodi, dalle opinioni, dalle verità, ed eziandio dagl’errori che son dominanti.
La fisica nella sua infanzia nise tra gl’elementi l' aria, l' acqua, il fuoco,
la terra. Questi, non ha guari, ha gia scomposto la chimica. Altri ne
sostituiranno i nostri posteri ch' al presente non si conoscon da noi. Ma niuno
negherà la debita lode al nostro filosofo che fondo il primo periodo della
fisica colla dottrina de’ IV elementi, e regola i primi debolissimi passi dello
spirito umano nello studio non che vasto ma difficile delle cose naturali. Più
alto senno, e più forza d'ingegno mostra G quando si mise a cercar le forze che
mettono in movimento la materia e gl’elementi. Si fatta 2, Dileta plaža matukio
ered ܐܐ F Table tol fue ele 8 1 ricerca, siccome molto ardua, non era
stata sin allora impresa d'alcuno. Anassagora, attese le sue particelle prive
di moto e di vita, non sapendo altro che specolare, ricorre al DIVINO; e colla
forza onnipoten te di lui agita e sospinse le sue parti simili, o loro impresse
quel moto, che queste naturalmente non aveano. Fece costui, come chi a muover
la macchina, in luogo di peso, o di molla, cerca la man dell' artefice. Però
Aristotele contro lui si sdegna, e giustamente il rampogna. Basta a Democrito di fornire il moto a' suoi
atomi, nè cura di saper come e d'onde quello venne. Al più facilitò il
movimento immaginando un voto, ove ogni sorta d'atomi avesse potuto agevolmente
dimenarsi; e particolarmente attribuendo agl’atomi del fuoco la figura sferica,
come quella, che avesse questi potuto render atti a scorrere e sdrucciolare. Ma
G. e il primo al dir d'Aristotele, che con molto senno in natura conosce due
come cagioni del moto degli elementi St & © S forze C 19 menti . Una di
quelle chiama AMORE, amicizia, concordia, o l'altra come contraria o lio,
inimicizia, lite. L'amore di G. non è quel del la favola, di Parmenide di VELIA,
d' Esiodo, o d'altri fabbri di cosmogonia. E forse per costoro un principio
attivo che vivifica l’universo. Ma questa e un'idea, vaga, generale, e NULLA
UTILE ALLA FISICA. NON E COSI L’AMICIZIA DI G. La quale è una forza, fornita di
particolari propietà, e tanto intriseca alla materia, quanto si stima da noi la
sua gravità. In virtù di sì fatto amore le particelle simili tendono a unirsi
tra loro, e congiungendosi formano a mano a mano le masse. Masse che vie più
van sempre crescendo; perchè la maggiore sempre ne trae a se la minore, e l'una
all'altra infallibilmente s' unisce. Aria, dice G., si aggiunge ud aria, etere
a etere, fuoco a fuoco in modo che il minore al maggiore s’ accoppia. Sospinte
del pari dall’amore le particelle di natura diversa tendono a unirsi tra loro,
e compongono gli aggregati colla loro unione. L'amore in somma unisce la
materia si fattamente, che se in natura si gnoreggiasse la sua sola forza
diverrebbe l' universo unica męssa, unica sfera. Perchè è propietà peculiare
dell’amicizia di ridurre le cose che son più a una sola. La forza quindi per G.
simboleggiata dall' amore, amicizia, e concordia non è se non quella stessa che
oggi da’ chimici si chiama AFFINITA. L'odio, non altrimenti che l'amore, è
parimente intriseco agl’elementi de' corpi, ma le qualità d'uno son del tutto
opposte a quelle dell'altro. Tende l'inimiscizia a disunir le particelle
congiunte; sciogliendo le masse, e scomponendo gl’aggregati. E' singolar
propietà di quella ridurre l'uno in più: tal che se l'universo fosse una sola
massa e unica sfera, que sio in forza dell'odio si dovrebbe tutto quanto
sciogliere in minutissimi briccioli. Odio in somma, inimicizia, lite per G. son
e valgono forza dissolvente, o 1 tutt'uno 21 repulsiva. Di fatto chiama egli
anche il FUOCO inimicizia; perchè questa come quello distrugge e separa ogni
cosa. Dą ambidue queste forze tra loro opposte, d'ailinità una, e dissolvente
l' altra, significate dall' amore e dall'odio, il nostro G. ne rica il moto ne'
corpi. L'amicizia sollecita gli elementi all'unione tra lor l'avvicina, e nell'
avvicinarli tra loro parimente li muove. L'inimicizia all'incontro cospinge le
molecole unite, so spintele a poco a poco le stacca, staccate le del pari le
muove. Forze adunque sono l'amore, e l'odio del nostro fisico; come quelle che
avvicinando o respingendo gl’elementi cagionano lor movimento. Fors ze
ch'egualmente son chimiche, conie quel le, che uniscono e separano; compongono
e scompongono i corpi in natura. Ma come sono esse adombrate sotto le forme
morali d'amore e odio, di lite e concoradia; sono state mal comprese e
capricciosamente interpetrate. Alcuni videro in quel. le due forze IL DIVINO
(“GOD IS LOVE”) e la materia; altri: l'ordine e'l disordine; il bene e' l male.
Chi la luce e le tenebre; chi l'Oromaze e l'Arimanio de' Persiani, o altre cose
simili. Tanto egli è vero che il suo linguaggio, come poetico, ha recato
ingiuria alla sua filosofia. L'amore e l' odio, siccome dice il nostro fisico,
han que signorie; ma alternanti e separate tra loro. Comincia l'impero
dell'odio, quando finisce quiel dell'amore, e declinando la signoria
dell'inimicizia, l' amicizia ritorna a' suoi primieri onori. E come una sifatta
vicenda non ha mai fine; così costante si mantiene il movimento in natura, e gl’elementi
in eterno s'uniscono e separano. Esprime egli tal con tin: io e scambievole
impero dell'odio e dell' amore coll'immagine, e somiglianza d'un cerchio, che
si revolve. Perché il cerchio la periodi finiti, che all'infinito si posso no
rinovare. Ma tolte le voci d'impero e signoria, che son propie della poetica,
si potrebbe la filosofia di G. raſfigurare nella vicenda delle forze, mercè la
qua. 23 bene i ebre; chi ni, oabe ero, chei ell'aur Onn '. le i pianeti
si'movono. In questi or preva le la forza centripeta e viene a farsi maggior la
centrifuga; or prevale la centrifuga, e viene a farsi maggior la centripeta. Sicchè
alternativamente prevalendo le due forze centrali, i pianeti s' accostano e
discostano dal sole, e costantemente si mo vono nelle loro orbite ellittiche.
Tale dell’amicizia, e inimicizia di G.. Come gl’elementi s' uniscono; comincia
a preva ler l' inimicizia, che tende a separar le cose unite. E come gl’elementi
dividonsi; principia a superar l'amicizia, che tende a unir le separate. Per lo
che ambidue sempre operano, e si a vicenda prevalgono, che gl’estremi dell'odio
occupa l'amore, e l' inimicizia que' dell' amicizia. Giusta questa legge G. fa
e ternaniente operar l'amore e l'odio. Così, e ' dice, comanda o il füto, o la
necessità, o l'antico giuramento degli dei. Ma il fato del nostro filosofo non
è quello de. gli Stoici, o dei VELINI DI VELIA. Egli null’altro indica colla
parola necessità, che l'ins etarr Itale ம் care
PA umpert 2. la que 24 tima natura di
quelle due forze. Siccome eterna ei reputala materia, ed eterne le forze, da
cui essa era animata; così l ' amore e l'odio volea dover sempre e
necessariamente operare. Gl’elementi secondo lui o son separati, e ſrettolosa
corre l’amicizia a unirli; o sono uniti, e impaziente va l'inimicizia a
separarli. Se per poco lascerebbe l' una o l’'altra di congiun gere le cose
separate, o segregar le congiunte, l'amore e l'odio, mutata natura, non
sarebbero più nè odio, nè amore. E' quindi pel nostro fisico così necessaria
l'eterna vicenda delle due forze, come invincibile si stima il decreto del fato
e della necessità. Il fato adunque nel dizionario del nostro filosofo altro non
significa che l' intima indole, e l'immutabile natura delle due forze senza più.
Però a torto Aristotile riprende lui, come chi avesse introdotto nela la fisica
il fato é la necessità. Posti questi principj va G. squadernando il suo sistema,
qual poeta, qua si collocato su d'un eminenza, di la conta; ON ie. Sasa
templando la natura dichiara agl’uomini le sublimi lezioni di sua filosofia.
Nulla, egli dice, manca, nulla ridonda nell'universo; perchè la quantità della
materia nè cresce nè manca. Tutto nasce, tutto muore, tutto in altra forma
trasformato risorge, L'accozzamento di parti, che son disgiunte, n'è la nascita;
e la separazion di quelle, che sono accozzate, n'è la morte, La natura quindi
null’altro è, che ” se parazione e miscuglio. Essa è eterna; per che l'amore e
l'odio sempre fa e disfà, strugge e compone. Mancherà il presente ordine di
cose, sorgerà subito un altro. Questo distrutto, di nuovo, e sotto altra, guisa
si verrà a formare. Così senz'alcuna fer posa uno in un altro ordine
successivamena te, e sempre sarà permutato. Nè per que: sti continui giri si
cangia la natura, ne ha od te luogo o confusione, o simmetria. La materia non è
stata, nè sarà mai senza moto. La natura è stata sempre qual sempre sarà: cioè
amore e odio, separazione e union d' elementi. Cosi parla G. nel suo d ali 200
€ c). och eta, Jade 26 poema sulla natura, o per dir meglio cosi egli smentì
anzi tempo chi dopo lui dovean supporre aver lui voluto il caos immaginato sol
da' poeti. Lo stato di confusione e di caos pel nostro fisico, o non è stato,
nè sarà mai, o sempre egli è stato e sarà. La natura quella è ora, ch'è sta ta,
e sempre sarà: miscuglio e separazione: amicizia e inimicizia: nascita e morte.
Passando G. d'una in un ' al tra idea strettamente lega i suoi pensie ri.
Siccome la materia è tutta divisa ne’ IV elementi; così i corpi per lui eran
composti presso a poco de'medesimi. Ma perchè ciò nulla ostante quelli tra lor
son tutti diversi; quindi anda ricercando in che, e.come si differisser tra
loro. Tal diffrenza ei rinvenne con gran perspicacia nella maniera diversa, con
cui gli elementi com binansi. Però non è nè l'aria, nè l'acqua, nè la terra, nè’l
fuoco che distingue le cose; ma la misurata lor mescolanza; in breve, la
proporzione in cui trovansi due o piti di quelli componenti. Rappresentando da
€ st CL T 1 C 27 c2003 de poeta le sue idee ch'eran fisiche, dicea: i dipintori
mischiano colori diversi, e col mi schio di questi van figurando uomini, piante,
fabbriche, uccelli, e anche gli stessi dei. Non altrimenti fa la natura. Ha
ella, come IV colori, che sono i IV elementi, e va coll ' accozzare un poco di
questo, di quello, e quell' altro forman do uomini, piante, animali, donne
leggiadre, e chiarissimi dei. Tutto lo studio di G. e quel di scomporre i corpi,
e scomponendoli cerca la ragione, in cui stavan tra loro le parti componenti.
Per chè e persuaso, che la loro varietà venne, ed era tutta riposta nella varia
proporzion degl’elementi. Aristotele che ammira un sì bel pensamento da a G. il
vanto d'aver lui il primo conosciuto una tal verità. Non si può quindi negare
il metodo di G., come quel lo, che volea l'analisi de' corpi, esser chimico;
chimiche esser le forze amore e odio, che inprimean moto alla materia; e
chimica esser tutta la sua fisica; perchè tra lai arch nemt 22 نماز کی P.; Det
ue opad ando de d 2 28 P ch for pa me pre me an CO fondata sulla proporzion
delle parti, che compongono i corpi pressochè infiniti della natura. Può ora
essere a chiunque manifesto G. il primo aver delineato il sistema dinamico, che
oggidi leva tanto rumore in Alemagna. Pone questo sistema alcune sostanze
semplici e primitive, che colle loro diverse combinazioni producono la varietà
de'corpi. Questo stesso fece G. ammettendo i primi elementi, e combinandoli in
varia e differente lor proporzione, Forze attrattive e repulsive vogliono i
Dinamici; e G. immagina affini tà e forza dissolvente, o sia odio e amore. Che
se quegli a spiegare gli stati e i volumi de' corpi si fondano sul contrasto e
rapporto, in cui si tiene la forza attrattiva colla repulsiva; anche G. dice che
l'inimicizia sta appiattata nelle parti de' corpi pronta a vincer l'amicizia
nel tempo opportuno. Ma io non mi maraviglio punto di tal corrispondenza tra
Dinamici e il nostro fisico. Gl’uomini gireranno sem at c ) in D gi ti 29 pre
nella stessa orbita, e torneranno sempre a riunirsi nelle medesime ipotesi ogni
qual volta, che si aggireranno sì oggetti, che illustrar non si possono con
osservazioni e co’ fatti. Perchè limitate essendo le forze del nostro spirito,
limitato sarà del pari il numero delle sue combinazioni. ' I metafisici di
fatto sogliono ricondurre sempre in iscena più o meno vaghe, più o meno
adornate le opinioni medesime. Gl’antichi vollero rappresentar l'essenza de'
corpi. Però Democrito immagina il sistema atomistico; G. il dinamico. Oggi, che
alcuni han pensato di tentar lo stesso, in Francia è risalito in alto il
sistema di Democrito, e quel di G. in Alemagna. Dobbiamo persuaderci una volta
che le scienze s' accrescono non già colle nostre opinioni, che sono semplici
fantasmi della nostra mente, ma coll'esservare ed espri mere co' nostri
pensieri i fatti e le consuetudini della natura. Questo metodo per avventura
non e ignoto in quella stagione in Gergenti. [NON GIRGENTI, come oggi] Anacrone
l'amico di G., poste giù le ipotesi, fonda la medicina sull'esperienza, ed e
capo della setta empirica. Il nostro fisico cerca e stabiliva la varietà de'
corpi cercando e stabilendo la proporzion de' lor componenti. Ma i tempi
imprimono nel nostro spirito la lor forma, il lor carattere, le loro opinioni;
operando su noi non altrimenti dell'aria la qual si respira. Non è quindi da
maravigliare se G. s'occupò, come allor si fa, su i principi delle cose, e
sulla generazion dell' universo. Il romanzo della nascita del mondo e in que'
tempi un'introduzione, che si stima necessaria alla fisica. Niuno affatto potea
meritare il titolo di sapiente, se non prima avesse ordito la sua cosmogonia.
Quindi i filosofi cominciavano allora i lor poemi dalla creazione del mondo. Molto
più, che a ciò fare non dovean perdere gran tempo, nè durar molta fatica. Le
loro cosmogonie sono un lavoro più di fantasia che di ragione. Si fatti lavori
meglio che cosmogonie potevan chiamarsi romanzi, in cui i paragoni tenendo
luogo di raziocini affermiare è lo stesso che dimostrare; e le capricciose
finzioni si scambiano come opere della natura. G. dunque al par degl’altri
intese alla formazion dell'universo; svolgendo e dichiarando l' impero della
sua inventata amicizia. Da prima nascita all'etere, indi al fuoco, poi alla
terra. Da questa trasse l'acqua, l'aria, l'atmosfera; indi le piante, gl’uomini,
e gli animali. Pose più diligenza e più tempo a formar dalla terra; ma per
opera dell'amore il genere umano. Rimescolando gl’uomini colle piante, e co gli
animali, tenne costoro come unica materia, in cui tutti si fossero contenuti
qua si in ischizzo, ma senza che distinta aves ser presentato la irma,
leggiadria, e ata titudine delle loro membra. Queste a poco a poco idea egli
essersi sviluppate, ed esserne venute fuori delle immagini, prive di moto e di
vita, simili alle pitture, ale le statue. Nella terza generazione di poi furon
distinti i maschi dalle femmine. Nella quarta s' ebbero degl’uomini, che
nascono gli uni dagl’altri; perché, distinto il sesso, si mosse il carnale
appetito. Le piante secondo lui fitte restarono in terra per trarne l'alimento;
e gli animali qua e la si divisero per cercare un abituro conveniente alla loro
natura. Queste cose sconce, incredibili, e simiglianti sognò il nostro fisico,
che dovrebbero passarsi sotto silenzio, se non giovasse d'accennarle per dare
șin' utile lezione allo spirito umano. Il quale ardito, com’egli è, malgrado
gli assai folgoranti brillantissimi lumi non che della religione, ma della
moderna deparata filosofia, a dì nostri va sempre fisicando geogonie e
cosmogonie. Darwin di fatto adotta gl’errori del nostro Empedocle, e certamente
da lui ha a trarre l'idea della successiva perfezione, e a grado a grado del
regno animale. L'uno e l'altro fa nascere i vegetabili prima degl’animali nel
tempo e nello stato, che le cose sono imperfette. Entrambi del pari segnarono
gl’animali essersi a poco a poco svieluppati, e aver tratto tratto acquistato
quella perfezione, di cui oggidi son forniti. Vogliono tutti due, che dal
principio i sessi fossero stati confusi si negl’animali che negl’uomini.
Ambidue affermano che l’universo giunse al grado di sua perfezione, allorchè
separati i sessi nacquero gl’animali gl’uni dagl’altri. Darwin in somma dice
unica essere stata la specie dei filamenti, che da origine a tutti i corpi, che
sono organizzati. E parimente e opinione di G., che unica e la pasta da cui
vennero vegetabili, animali, uomini, e Dei. Tanto egli è vero, che i nostri
pensatori sempre, o al men per lo più copiano, e s'arrogano le speculazioni
degl’antichi. Nella cosmogonia di G. siccome a chiunque è maniſesto, non
intervie ne, ne opera alcuna cosa il divino. Ma così pensando, intendea egli di
recarle onore più presto che ingiuria. Avendo egli la materia, come allor si
pensa, per cosa vilissima, teme che la sapienza si fosse bruttata, se avessé
preso a ordinare cose, che son del tutto materiali. Per lo che a intendere la
formazione dell'universo, lasciata la mente divina, invoca il caso, e commise
gli elementi in poter della fortuna. In sì fatti grossolani sciocchissimi
errori s' imbatte chi stoltamente, e senza una precedente saggia e matura
riflessio ne, vuol togliere il supremo artefice dal la fabbrica del mondo. Il
caso, fantasticano essi, siccome racchiude in se tutte le combinazioni
possibili ad avvenire. Così tra le molte, e assai e infinite, che son mostruose,
quelle poche ancora contiene, che son regolari. Infinite, dice G., sono state
le forme, che ha preso teria, e senza numero le combinazioni degl’elementi. Ma
queste si son succedute senz'alcuna posa sin dall'eternità, e forse non han
potuto durare perchè prive sono state di regola e simmetria. Dopo tante é tante
strane vicende, gl’elementi in fine, conchiude egli, essersi disposti in la
ma quell'ordine, che il mondo ritiene, e
da tutti con ragione, s’ammira. Dal caso a dunque G. forma l'universo. Al caso
attribui egli quel che privativamente è sol propio della sapienza e
dell'infinito potere d'un esser supremo. Da un accidente sogna egli essersi
condotto il presente ordine, ma dopo lungo, vario, e successivo disordine.
Queste idee và G. adornandh colla sua fantasia vivace, e poetica. Figirra egli
mani, piedi, gambe, busti, occhi, braccia, spalle, teste di animali, di uomini,
che tra lor misti é confusi si portan qua e là únendosi- senza regola, e senza
misura. Ora egli vede petti senza spalıe; teste senza cervici; e fronti prive
d' occhi. Or egli osserva piedi congiunti a colli, occhi a spalle, teste å
gambe, dita a fronti, e altre irregolari unioni. Quando immagina egli de' tori
in volto u e uomini colla testa di bue; e quando nota nell'uomo l'impronta
della pecora, e in questa quella dell'uomo. Em mano e 2 36 1 1 a i G. in somma
finge, trasfornia, è com pone mille e mille specie di mostri, che per lui una
volta furono, e di quando in quando appariscono. Ma dopo forme si sconce é fuor
di natura dispone egli ca guialmente quelle membra nelle proporzioni, e misure
che al presente veggiamo. Che maraviglia è dunque, ei conchiude, che dopo tanta
varietà di mostri sieno a sorte venute le belle e ben disposte macchine degli
uomini e degli animali? In tal modo si sforza il nostro fisico di render
credibile ciò ch'è falsissimo. Facendo come chi gli occhi s'acceca per meglio e
più chiaramente vedere, Ma i suoi sforzi tutti quanti gli tornarono vani. Non
cape ne capirà in intelletto umano, che il mondo il quale spira ordine,
sapienza, e nia, sia l'opera del cieco, e dello stolto accidente. Ciascuna
parte d'un essere forma un sistema; un sistema formano tutte le sue parti; un
sistema tutti gl’esseri, che tra loro legati corrispondono tutti al gran di fi
armo 37 c scuna, segno dell'universo. I moti varj e multiplici de corpi celesti
son regolati da poche e semplicissime leggi; le quali nascono e derivano da
unica propietà della materia. Se dunque ogni sistema indica combinazione, e
questa suppone DISEGNO – H. P. GRICE, GENITOR, ENGINEER -- e architetto; chi
contemplando la fabbrica dell'universo, ch'è un grande e maraviglioso sistema
in cia. e in tutte le sue parti, potrà non ammirar la mente di chi seppe non
che idearlo, má farlo? Se il mondo è così perfetto, qual dovrebbe essere, se
fosse l'o pera d'un supremo fattore; se l'universo non mostra in ciascuna sua
parte, avvegna chè minima, alcun segno o piccolo o lontano di casualità; chi
senza empietà o stoltezza, potrà riconoscerlo per opera del caso e non della
mente d'un Dio? Ma senza più travagliarci a dimostrar cid ch'è chiarissimo;
l'esistenza d'un sommo fattore, oltre all'essere scritta nell' animo nostro,
si.legge ne' cieli, e a noi per viene da ogn'angolo della terra. Da che
Anassagora disse agli uomini la mente divina con singolar magistero è giusta
leggi invariabili, áver ordinato la materia, niu. no vi fu, che nol consentisse.
Il popolo d'Atene alza allora un tempio a Dio, qual supremo fabbro degli esseri,
e onora quel filosofo del soprannome di mente. Anzi la ragione del volgo ha
vinto in cið, e vincerà sempre i lunghi ragionamen ti di qualunque filosofo. Il
volgo non lo rigetta con orrore le cavillazioni degl’atei, che tentano invano
negar l'esistenza d'un eterno fattore, ma poco o nulla cura altresì le
speculazioni di que' sapienti, che vogliono dimostrarla. E in vero tal verità
alla classe appartiene, attesa la somma evidenza, di quelle che sdegnan le
pruove, e che si possono guastar più tosto che ras sodare co' lunghi e sottili
raziocinj d'una filosofia illuminata. G. e Democrito sebbene fossero stati
superati d’Anassagora, perchè non già una mente divina, ma il caso avesser
posto, come autor dell'universo; pure son degnissimi d'onore per i loro metodi,
o bel 39 osta k.. ** dias li pensamenti nelle fisiche discipline. Poté
Democrito per sua particolar virtù concepi re egli il primo un sistema
meccanico del mondo, fondato sulle propietà de' corpi, o sulle leggi del
niovimento. Valse G. per forza di sua mente a immaginare anch'egli il primo un
sistema chimico dell' universo, che posando su i quattro elemen ti, è regolato
da forze, e sottoposto alle leg. gi dell'affinità. Ambidue tennero in onor
l'esperienza, che certo e naturalmente con duce alla scoperta della verità. Se
chi do po lor filosofarono, fossero stati poco più sensati; avrebber dovuto
mettersi dietro la loro scorta, e collegare insienre i modi chi mici di G. e i
meccanici di Democrito. Si sarebbe allora abbreviato il corso degli errori, e
anticipato il principio di quella filosofia naturale, che fa tant' onore a '
nioderni. Ma le sette smarrirono i filoso fanti d' allora, e costrinser costoro
tanto più a errare, quanto più essi s' attennero alla metafisica, e si
scostarono dall'esperi. mentare e asservare. Dovettero scorrer piů Dice? 17
bile su 40 secoli, perchè venisse in grande stato lo studio della natura.
S'apparteneva veramen te a'nostri tempi, che congiunte chimica e meccanica
avesser portato la fisica a quel grado d'altezza, in cui oggi si trova. Ma è
sempre da confessarsi G. e De. mocrito aver gettato i primi semi di que'
vantaggi, che cal favore del tenipe la fi. sica ha oggi ottenuto. Le opinioni di
G. sų gli ele menti, e sull'origine delle cose, se non son vere, almeno non
sono ingiuriose nè al la sua mente, nè alla sua filosofia. Splen dono tra gli
abbacinamenti chiari i lampi d'ingegno, e un metodo sopra ogn' altro riluce,
che l'avrebbe guidato alle più bel, se gli errori de' tempi non gliel' avessero
contrastato. Ma non è così, quando il nostro filosofo alle cose si rivol ge,
che trattan d'Astronomia. I suoi sen timenti su gli astri sono altrettanti
assurdi. G. il fisico pare altr' uomo, e tut. to diverso da G. astronomo. Tal
differenza, che veramente è notabile, se 1 le scoperte, 41 non m'inganno, nasce
da ciò, che la sua fisica si trae in gran parte da' frammenti de' poemi di lui;
là dove le sue opinioni astronomiche ci vengon quasi tutte dagli Storici degli
antichi filosofi. ' Non senza ra gione quindi si può sospettare, che i suoi
pensieri non sono strani e deformi, quan do egli stesso l'annunzia; e al
contrario pajono sconci ee mostruosi, allorchè altri parlano in vece di lui. E
maggiore tal congettura, qualor si considera que compilatori essere stati
grossissimi delle cose a stronomiche. Costoro affastellano in confuse opinioni
de’ filosofi, e o abbreviando le mozzano, o interpolando le allungano, o pure
in qualunque altra manieria, senz’alcuno intendimento, ogni cosa deformando's
le alterano. Non è quindi duro a com prendersi, gli storici del nostro filosofo,
tra per l'imperizia delle cose del cielo, e per l'espressioni di lui, ch'eran
tutte fi gurate e poetiche, averne contraffatto la sua astronomia. Non si negan
con ciò gli errori, in cui egli per avventura avesse potuto cadere. So
benissimo l' astronomia dei Greci, sfornita.com'era in que' tempi d '
osservazioni, ridursi, tolto il nascere o trae montar d' alcune stelle, a una
raccolta d' antiche tradizioni, o di opinioni bizzarre. Si conviene pure
Empedocle aver potuto di: re il movimento del Sole essere stato da prima più
lento, che a' suoi tempi non e. ra. Si concede altresi aver lui potuto opi nare
l'asse della terra aver pigliato una po sizione all' Eclittica inclinata, che
prima non avea: (usanza de' cosmogoni acconciare a lor talento le parti
dell'universo, e condur le allo stato, in cui ne' suoi tempi si trora no ). Ma
non si può affatto credere, Empe docle aver tenuto i tropici quasi due mura
glie, cui giunto il Sole, essere stato stretto a torcere il suo cammino; e aver
segnato și fatti circoli non altrimenti che due confi. ni, che impediscono il
Sole camminando verso i poli d'oltrepassare il suo termine. Chiamò egli que
circoli con linguaggio fi. gurato i confini del Sole; perchè a quel li il Sole
giungendo par che il suo cam, 1 43 mino rivolga. In breve intese egli indica re
l'obbliquità dell'eclittica, e segnar lo spazio in cui il Sole fornisce l'anquo
ap parente suo corso. Giacchè l'anno si com putava allora da’ solstizj, i quali
dall'om bre osservar comodamente si possono coll? ajuto dell'ago. Con tali e
simili sconcezze si è guastata l ' astronomia di G.; Però se tra per difetto di
memorie di lui, e per ignoranza degli storici, ė, ben diff cile d' indagar ciò
che G. penso sul. le cose del cielo; è assai più difficile sa per, ciò ch'egli
non disse, e a torto a lui appongon gli storici, Temendo gli Ateniesi, che la
terra fosse stata un'abitazione mal soda, furon solleciti della sua stabilità.
Provvidero e glino alla propią sicurezza, e a quella del genere umano: ma colla
sola fantasia a modo del volgo. S'appresentarono la ter ra in forma d'un monte,
le cui barbe vanno a profondare e perdersi negli ultimi lontani confini dello
spazio. Assegnarono ina sieme alla terra già divenuta nionte il suo vertice di
forma rotonda; e quivi loc:arono ferma sicura l'abitazione degli uomini. A
mente dunque di quel popolo il Sole e gli astri non givan mai sotto la terra,
che nol poteano; ma spuntavano e tramonta vano girando intorno intorno a quel
verti. ce. Questa opinione, che in Atene era un pubblico dogma, non si potea
contra star da filosofi senza grave lor danno. Il popolo pigliava alto sdegno
di chi osava sen tirne in contrario, e contro lui si scaglia va, come contro
chi avesse tentato di som. muover la terra é perdere a capriccio.il genere
umano. I filosofi d'allora tra per che adularan la plebe, come chi più che gli
altri soglion fuggire i pericoli; o per ehe su ' ciò nulla dissimili dal volgo
crede van lo stesso; non mai vi fu alcuno, che avesse ardito negare il monte,
le radici, il vertice, e la finta figura della terra. Non cosi fece il nostro
filosofo, che molto perito nelle cose naturali, anche da Sici lia si scaglid
contro sì fatta sentenza. Ri dea egli del monte, delle radici, del ver 45
tice.e aspramente ripiglio, Xenofane, che avea per immensa la profondità della
ter ra. Chi, dice G., tali co se divulgano, o poco veggono, o nulla san. no
dell'universo.; Altri e lontani da quelli del volgo fu. rono i sentimenti d'
Empedocle intorno al la terra. Fu opinione di lui, che fuoco bruciasse nel
centro di questa. I sassi i dirupi, gli scogli, ei riguardò come sco rie, che
la virtù di quel fuoco avea in alto levato. L'acque, che sorgon terma li,
quelle sono, a suo credere, che sotter ra scorrendo piglian calore dal quel
mede simo fuoco. G. in somma im maginò sin d'allora l'ipotesi del fuoco cen.
brale, che Buffon, non è guari, più bel la e vistosa ha richiamato alla luce.
Pensavano gli Jonici, che la terra sospinta dal vortice che occupava tutta la
sfera, era stata condotta nel centro di ques sta. Ma non sapeano essi
comprendere, come quella, sfornita d' appoggio, ben li brata si stesse nel
punto di mezzo. Timidi quindi i filosofi al par del volgo, ne dilatavan la base,
e tormentando i loro ingegni si sforzavan di sostenerla colle ipo: tesi. Talete
avvisò la terra restar sospesa nell'aria, non altrimenti che un galleggian te
sull'acqua, Democrito e Anassagora ne fecero la base non che larga, ma conca va;
aifinchè l' aria quivi sotto racchiusa la potesse sostentar con sodezza.
Parmenide di VELIA credette sostenerla col principio della ra gion sufficiente.
La terra a suo pensare stava nel centro, perchè non avea ragio ne, che la
portasse per questo più tosto, che per quel verso, Ma il nostro fisico si
dilung) da co storo, e con altri principj prese a spiegar sie la stabilita.
L'acqua nella cosmogonia di lui s' era separata dalla terra per l'im peto del
giro, che questa facea. Pe. rò la terra nel suo sistema rotaya. Rota va del
pari secondo lui il cielo; è altra differenza non pose nella rotazion dell' una
e dell' altro, che nella velocità, Minore la yolea nella terra, che stava nel
centro; 47 1 rola, ando il cla colo come star galo raal Po maggiore nel cielo,
che in giri smisurati si volgea. Da cid appunto egli ne trasse e perchè quella
stesse in aria sen za cadere. Se girate, egli dicea, con pre stezza una secchia;
l'acqua non cadrà, ancorchè nel girarsi si tenga capovolta. Tal è nella sfera i
La conversion celerissi ma del cielo vince ogni peso e ritiene la terra. Al
moto dunque del cielo egli in catenava la posizion della terra nel cen. tro, il
suo rotare, e lo starne, Si sihar rì, egli è vero, in quella spiegazione al par
degli altri; perchè allor s'ignorava la gravità della terra esser diretta al
suo cen. tro. Ma il suo metodo di ridurre più fe nomeni a un solo, e ripescare
ne' fatti la ragione di quelli, è molto degno di lode. Dall'esperienza della
secchia, che pre stamente si volge, han preso argomento chi son portati per
l'antichità, aver co nosciuto il nostro filosofo la forza centrifu. ga, Ma a
pensar giusto, ignorandosi allos ra le leggi del moto, niuno ebbe, nè as ver
potea l'idea vera e matematica di quel, 1 ajd a $ permas 30, ho murah ento: 48
d he Te la forza. Egli è vero essersi saputo in que' tempi, e da G. essersi ben
dimo strato la velocità del girare impedir la ca duta de' gravi. Ma questo era
fatto, non forza, e più esempio, che principio. Eran sì lontani G. e gli
antichi di cono scer quella forza, che presso loro fu fer ma e costante
opinione, i corpi a cagion di circolazione avvicinarsi al centro se pe santi,
fuggir dal centro se leggieri. Ma se'a lui si può contrastare la co gnizion
della forza centrifuga, gli si deve certamente quella concedere della rotazion
della terra. Opinione era questa comune presso noi ne' tempi greci, e propia in
ve rità della nostra Sicilia Giacchè Ecfanto e Iceta la divulgarono in Siracusa;
ma sin da tempi antichissimi G. l'insegno nella nostra Gergenti – e NON
GIRGENTI. Avea il nostro Astronomo il Sole e le Stelle, come se fossero della
stessa natura. Opinava egli quello e queste esser di fuoco. . Ma non perciò è
da credere, ch ' ei tenesse la luce per eguale o simile al R te te e 1 49 1
fuoco terrestré. Non sapendo egli qual fose se la natura della luce, che per
altro è ignota anche a noi, tenea il Sole come una massa ignita, che lanciava
nella sua sfera le sottili sue particelle. Queste ei credea, che dal Sole si
moveano, e pro gressivamente propagandosi giungeano agli occhi. La luce, dicea,
va prima nel mez zo, e poi perviene sino a noi. An ticipava così la scoperta
bellissima della pro pagazione della luce, che i Satelliti di Giove doveano in
tempi avvenire rivelare a Roemero. La vide, egli è vero, coll' in telletto, e
senza ridurla a fatto, la lascið nel posto di semplice opinione. Ma nel tempo
de' sogni e dell'ipotesi è degna cer to d'ammirazione quella opinione, che
coll' andar de' tempi è stata condotta al grado eminente di fisica verità.
L'emission della luce fu l'ipotesi, ch' allor tenne G., e cui oggi s' acco
stano chi non vogliono vaneggiar per no velle bizzarie. Questa a dì nostri d '
alcu ni è rigettata, e in que' tempi era ancor contrastata. L'ipotesi che il
Sole quanti raggi manda, altrettanti ne perde, fece al lora, e ha fatto oggi
credere a parecchi, ch ' egli raggi mandando, e raggi perden do sì gradatamente
impoverirà di luce, che collo scorrer de' secoli giungerà sino a spe. gnersi.
Newton all'incontro dimostra in sensibile essere stata la perdita della luce
solare dal principio delle cose sino a noi. Anzi egli quasi sforzandosi
d'assicurar la luce alle future generazioni, cerca di sup plir la massa solare
con quella delle co mete. Le quali attratte dal Sole, quan do nel suo giro sono
vicinissime a lui, e su lui cadendo, colla loro materia vanno a risarcire la
perdita diurna delle particel. le solari. Ma G. in un modo, che se non sarà
forse il più vero, è certamente assai più ingegnoso, s' industrið provedero
alla durata del Sole. Siccome i raggi lan. ciati dal Sole son poi riflessi
dalla terra; cosà egli pensd, che quelli dopo la rifles, sion concentrandosi,
ritornano al Sole. Però questi per riflessione acquista quel, che per enuission
perde; e atteso un sì fat to circolo durerà sempre lo splendore del Sole. G. quindi
potė ben dire la luce essere al presente una riflessione di quella che fu una
volta lanciata dal Sole: Ma i compilatori dell'antica filosofia non capirono i
sensi del nostro filosofo. Credette ro essi due essere i Soli di G., uno
invisibile, visibile l' altro, che collocati in due opposti emisferi si
guardavan tra lo ro. La terra, eglino dissero, riflette al se condo i raggi
invisibili lanciati dal primo; e quello poi in forma di luce li rimanda alla
terra. Ecco con quali sconcez ze quegli storici guastarono i divisamenti del
nostro filosofo sull' emission della luce. Non meno speziosa fu la difficoltà,
che s'oppose a G. ne' suoi tempi contro la succesiva propagazion della luce.
Siccome nel tempo che la luce viene a noi, il Sole si move; così l'occhio
astretto a seguire la direzion della luce, vedrà il Sole in un punto, in cui fu,
e poi non g è più. Empedocle a
rispondere, non prese scampo nella prodigiosa velocità della luce, o in qualche
sottigliezza, cui i fabbri di si stemi soglion rifuggire. Non è il Sole, ei di
cea, ma la terra che in ventiquattro ore si volge: La terra' dunque nel rotare
s’im hatte ne' raggi solari, ed essa prolungan doli va a trovare il Sole nel
punto, in cui egli sta. Non si potrebbe di certo a di nostri in miglior forma
rispondere a chi in quel modo vclesse attaccar l ' emissione e successiva
propagazion della luce. G. ha la Luna
come opaca, perchè frapponendosi tra il Sole e la ter ra cagiona l' ecclisse.
Plutarco a lui solo, mettendo in non cale tutti gli altri, da il vanto d' aver
divolgato la Lu. na essere un corpo privo affatto di luce, che riflette i soli
raggi solari. La chiarez za della Luna' ei chiamava non che dolce e bénigna, ma
insieme straniera. Una lu ce straniera, dice G. qual poeta, circola intorno
alla 'terra. Ma G. ebbe la disgrazia d' aver avuto guastato ogni suo sentimento.
Achille Tazio dall' epiteto di straniera dato alla luce lunare da G., ricavo,
non so come, il medesi mo aver tenuto la Luna qual pezzo svelto dal Sole. Ma
buon per noi che ci sia re stato il verso di G., che smentisca
l'interpetrazione di Tazio: Anassagora per dare una misura del So le riferì la
grandezza di quest' astro al solo Peloponneso. Il nostro filosofo fu il primo,
cui venne in pensiero di comparar Sole e Luna tra loro. Egli credea che il Sole
fosse stato più della Luna distante dalla terra so pra due volte. Ciò non
ostante affermo quello essere stato assai più grande di que sta; sebbene
ambidue fossero appariti dello stesso diametro. In somma l'ineguale distanza fu
per lui certo argomento della lo ro diversa grandezza. Parrà ad alcuno ciò
essere stata cosa di lieve momento; e pure fu un passo, e un avanzamento che
allora fece la scienza del cielo. Giacchè niun altro prima di G., ed egli fu e
il solo e il primo, che insegnò gli astri lontani doverci comparire piccoli più
de' vicini. E gli pure fu il primo che pose in confronto tra lor gli astri non
solo, ma i loro diame tri. Dopo hui in fatti prima Eudosso misu rò i diametri
apparenti della Luna e del Sole; e poi cominciarono i Greci a stabili re i
periodi lunisolari, da cui nacque, e s’avanzò l'astronomia de' medesimi. Si
potrebbe quì aggiungere a formar tutto il quadro dell'astronomia del nostro fi
losofo, aver lui forse conosciuto che la Luna rotando intorno a se stessa si
mova circa la terra. Ma punto non conviene dar a G. una gloria o dubbia o
sospetta. Basta aver levato a suoi pensieri astronomici quella ruggine, di cui
li bruttò l'imperi zia di quegli storici. Appresso l' onorano al cuni qual
autore d'un poema sulla sfera in cui si descrive, secondo l'uso de' tem pi il
nascere e ' l tramontar d' alcune stel le. Ma i critici illuminati han quello
come opera d'ignoto autore e non di lui. Io non discordo da loro; anzi confesso
non essere stato G. intento a osservare, 1 1 come si conviene nell' astronomia.
In quell' età si costruiva il cielo da' filosofi non si osservava. Era quella
la stagione della fan tasia, delle opinioni, e dell'ipotesi, che suol sempre
precedere l' altra, che porta seco il raziocinio, l'osservazione, la veri tà.
Però non è poca la gloria di G. nell' aver conosciuto la ' successiva pro
pagazion della luce, la rotazion della ter ra, l'opacità della Luna, è
scostandosi dalle volgari stravaganze nell' aver compa rato il primo le masse
tra loro della Lu na e del Sole. Se non può egli quindi emulare Timocari e
Aristillo, Ipparco e Tolomeo, che nella Greca astronomia fu ron chiarissimi;
pure non è da negare lui aver saputo delle cose del cielo assai più che la sua
età non portava. Vennero quel. li assai dopo, e in tempi assai più illu minati
e felici; e non è maraviglia, che questi fossero stati di quello migliori. Una
fiaccola più o meno brilla, quanto più o meno pura è l ' aria, in cui brucia.
Dal cielo tornando alla terra non più 56 & troviamo il nostro filosofo, che
immagina l' origin delle cose; ma che studia e in terpetra con senno la natura.
La prima verità, che c'insegna, non già ragionando ma coll'esperienza, è il
peso e la molla dell' aria. Mette egli in opera in difetto di macchine e di
strumenti la clessidra, che s'usava allora da' nostri come orolo gio a misurare
il tempo. Avea questa la sua figura conica; la base forata a guisa di
minutissimo vaglio; e il collo lungo che stringendosi sempre più andava a fi
nire in un sottil bucolino. Si tenea allora la clessidra col collo all'ingiù; e
l'acqua, di cui era piena, lentamente gocciolando misurava le ore. Questa
appunto fu la macchina di G., che nelle sue ma ini diventò indice e misura di
fisiche verità. Introduce ei da poeta una donzella, che trastullando colla
clessidra la vuol en piere d'acqua. Ne tura essa l'orifizio col le dita, e
postane la base all' ingiù, cala quella verticalmente in un fonte. Entra allora
l'acqua per la base forata; ma per SC ay is ce 9 in C quanto la donzella prema, e travagli, la
clessidra non si può mai empiere tutta. Stanca finalmente la verginella, alza
le di ta, con cui chiudea quell'orifizio; ed ecco l'acqua che sale, e giunge
alla cima. Proposta l' esperienza, G. ne' suoi versi ne soggiunge lo
spiegamento. L' aria, dice egli, che sta racchiusa nella cavità della clessidra,
colla sua molla, resiste all' acqua, e la ripara di venire all'in su. Ma appena
la donzella alza, le dita, l'aria e sce, e però l'acqua non più impedita dall'
aria sale, e tutta empie la clessidra. In altro modo ci presenta ei la don
zella. Finge egli che questa volti la cles sidra; e allora un altra prova egli
ci reca del peso e della molla dell' aria. Chiude es. sa colla mano il bucolin
della clessidra, questa piena d'acqua volge colla base all' in giù; affinchè
l'acqua tutta fuori si ver si. Ma non senza sua sorpresa s' accorge che l'acqua,
lungi di cadere da ’ forellini della base, si ferma: Alza ella quindi la mano
con fretta; ed ecco l'acqua goccio h re
il a lare, e a poco a poco cadendo tutta fuori versarsi. Dichiarato il primo,
ſu agevole a G. spiegare il secondo esperimento. L' acqua, dicea egli, si
sforza d' uscire da' fo. rami della base. Ma l'aria sottoposta si resiste colla
sua molla, che venga a vince peso dell' acqua. Subito che la don zella alza la
mano, l'aria di sopra preme l'acqua sottoposta; e questa, ajutata dall' aria
soprastante, vince ogni restistenza, o vien fuori. Con tali esperienze, delle
propietà dell' aria mostrava egli e il peso, e la molla. Ciò nulla ostante
furon quelle nell'età d'ap presso poste ingiuriosamente in obblio. Se noti
fossero stati al rinascer delle scienze gli esperimenti di G., non si sareb be
certo levato tanto grido per l'invenzion del barometro. Ivi il mercurio sta
sospeso dalla forza dell'aria, come l'acqua sta so spesa entro la clessidra
dalla forza egual. mente dell'aria. Si fatte esperienze, che oggi son volgari,
allora erano rade e uti € 59 lissime alla fisica. Smarriti i Greci in que?
tempi o dalla lor fantasia, o dalla lor me tafisica, non pigliavan cura nè d '
esperien. ze, nè d'osservazioni; e privi di fatti, co storo eran pur privi di
scienza · Ne' versi di G. quindi il principio si trova, e la nascita dirò così
della fisica; perchè ivi si trovano i primi esperimenti. Democrito al par di G.
piglia va anch'egli allora la via de' fatti: sebene ambidue ne fossero stati
presto raggiunti dal divino Ippocrate. Sicché questi tre som mi uomini
cercarono allor di fondare un epoca novella nella Greca filosofia, sfor zandosi
di condurre gl'ingegni a studiar la natura coll' esperienza, e colla osservazio
ne. Ma tal metodo, ch'è lento, ostenta to, non potea esser gradito a Greci, che
impazienti erano e caldi; e però da pochi fu pregiato ed impreso. Sebbene G.
avesse posto ogni studio nello sperimentare; pure fu solo in Sicilia, senza
stromenti, nell'infanzia dela la fisica. Ne si creda Democrito, e Ippocrate
avergli potuto giovare, essendo e co lui di region lontanissima e questi de
tempi d'appresso. Pochi eran quindi i fat, ti, che potea egli raccogliere. I
medesimi non gli eran mica bastevoli all' uopo, ch' era assai vasto, e che
giusta l'usanza de tempi abbracciava tutta la natura. Di che veniva, ch'egli
spesso era costretto a suppli re il difetto de' fatti; e ciò il fece con assai
sagacità e senno: cui nercè l'arte inventò del congetturare. Questa non gia che
fosse stata da lui ridotta in canoni come si svol presso noi, che in ogni cosa
abbondiamo di regole; ma intriseca si tro va, e quasi nascosta ne' suoi
ragionamen ti. Anzi io credo non potersi in miglior modo rilevar l'artifizio
del suo metodo, che descrivendo l'andamento del suo spi rito; allor quando
pigliò ei a comparare i vegetabili agli animali. Furon tanti, e di tal momento
i rapporti, con cui egli quel li a questi lego, che giunse a scoprir del, le
verita, che son degne non che di ricordanza, ma di stupore. Il seme, il sesso,
la generazione, la nutrizione, la traspirazion de’ vegetabili fu. rono i varii
sorprendenti oggetti su cui fil filo s'applicò la sua mente. Da prima avverte. G.
comune essere il fine assegnato dalla natura 'e agli animali e a ' vegetabili.
Un animale, o una pianta, egli dioe, voglion produrre animali, o piante simili
a se. Questo fu messo da lui come base delle sue illazioni, e co nie fermo
segnale d'un punto, da cui egli partendosi non s' avesse potuto mica smarri re
nel proceder più oltre nelle sue nuove scoperte. Soggiunge egli appresso: come
l' animale viene dall'uovo, così la pianta dal seme. Attesi questi fatti
comincia o ' specolando a filosofarvi, e da quelli guidato va con franchezza
formando le sue conget ture. Se l'uovo e il seme, egli prosegue, comune hanno
il fine, ch' è la produzio ne; debbono l'uno e l'altro colla stessa attitudine,
e col medesimo impeto tendere al medesimo fine. Da sì fatto fine ad ambi comune
egli argomenta, come da un indice, comune dover essere la natura del seme e
dell' uovo. Ma G. forse à tal indizio si ferma? Nullameno. Egli torna di nuovo
a fatti, mette in opera da capo osservazioni; e si sforza rintracciar co. sì la
natura dell' uno e dell'altro. Empedocle tirando avanti la sua stes sa traccia,
trova e distingue sì nell' uovo che nel seme, non che germe, ma materia che il
germe nutrisce. L'animaletto fin, chè non nasce, o la pianticella finchè non
abbarbica ', traggono alimento da quella, Non è già, aver lui conosciuto le
foglie seminali; o aver lui detto la placenta u terina portar nutrimento all'
embrione per via del funicolo umbilicare. Egli non al tro conobbe, che due
esser debbano nell' uovo e nel senię le parti principali e muni: il germe e i
cotiledoni, che l'ali mento preparano alla pianticella, o all’em. brione, o nel
seme, o nell' uovo. Il nostro fisico quindi più non distinse dirò così ani mali
da piante. Ebhe egli il seme qual uovo de vegetabili; e chiamò le piante col
soprannome d ' ovipare. Ecco avere G. svelato agli uomini assai prima d’Ar véo
tutto ciò, che nasce', non d ' altro pro venir che dall'uovo. Teofrasto infatti,
e Aristotile a G. solo attribuiscon la gloria della scoperta di tal verità, e
gliela dan come propria. La fatica d’Arvéo, fu egli è vero, utilissima
all'avanzamento del le scienze, e degna di tutta la lode. Ma egli pubblicando
di nuovo lo stesso ritrova mento di G., null' altro fece che as sodar vie più
colle prove ogni cosa nascer dall'uovo. Chi adesso non giudicherà mag. gior
l'eccellenza dell'ingegno di chi colla mente va congetturando ciò, che del
tutto s’ è ignorato in preterito, e prevede ciò che sarà da scoprirsi in futuro?
Il nostro fisico, guidato com' egli era dall' induzione, spinse più oltre i
suoi ra gionamenti'. Affermd le piante al par de gli animali dover essere tutte
fornite di ses so. Conosciutosi da lui il seme null' altro esser che uovo, come
l'uovo si feconda per l' union del maschio colla femina; così argomentò egli
del pari il seme per la mescolanza di que' sessi doversi fecondare. Franco '
quindi e sagace stabili egli il pri mo, ed egli il primo distinse il sesso ma
schile e feminile in ogni vegetabile. Non si dubita prima di lui essersi
conosciuti ma schi e femine tra ' vegetabili: ma ciò soltan to attribuivasi a
palme, fichi, canape, pi stacchi. Però dal nostro fisico prende ori gine il
sistema, su cui oggi posa tutta la Botanica. Egli è vero non aver lui allora ne
cercato, nè mostrato gli organi genita li nelle piante, come poi han fatto con
grande studio i moderni; ma ciò facea e gli sempre col ragionare, e quelli
vedea dirò così, coll' intelletto. Nella testa de' grand' uomini, come dotati
d'una specie di tatto pella verità, la forza delle con getture si sostituisce
talvolta all' evidenza de ' fatti. Facea Empedocle a guisa d'un gran dipintore,
che solo abbozza il quadro con poche, ma pennellate maestre; e la scia poi agli
altri la cura di compirne il disegno, di colorirlo, e abbellirlo. Arveo definì
tutto nascer dall'uovo: Zalunziaski, Millington, Camerario, Vaillant prima, e
poi Linnéo mostrarono il sesso nelle piante. Ma costoro tutti quanti assodaron
la dottri na, e compiron l'idea tracciata dal nostro Gergentino. GERGENTI non
GIRGENTI. In verità non è poca la glo ria che a costui torna nell' aver lui il
pri mo schizzato degli originali, che di mano in mano col favore del tempo si
van tro vando in natura. Contemplare Empedocle, che conget tura è uno
spettacolo degno d'un filosofo. Ora egli scorto dall'analogia supera tutti i
suoi contemporanei', e più oltre proce dendo va diritto a trovare altre belle
ve rità. Ora privo di fatti, non ostante il vi. gor di sua mente, tentoni
cammina incer to tra verità, ed errore. Conobbe egli il sesso sol nelle piante.
Ma altro non pote va egli conoscere, attese le poche anzi le rade verità
solamente allor note. Quante altre osservazioni, quante altre verita gli
mancarono? Ignoto era allora l'antere, e gli stigmi esser gli organi genitali
delle pian i 06 cer te, e questi trovarsi ne' fiori. Niun sapea il polline
portato da venti aderire allo sti gma per via dell'umore, che in questo si stà.
Chi aveva allora osservato la Passiflo ra, la Graziola; e ' l Tulipano, che
come agitati d'estro venereo, erranti van cando la polvere, che loro fecondi?
Chi s'era accorto, in que' tempi la Valisneria, e l'altre piante acquatiche sul
punto de’ loro amori alzar lo stigma dall? acque, per accoglier cupide, e
aperte la polvere de' loro maschi? Non è però da recar mara viglia, se
nell'ignoranza di tali fatti non seppe Empedocle comprendere, come le pian. te,
che fitte stan sulla terra, si potesser congiungere per far la lor generazione
a guisa degli animali. Ma tenne egli come cosa non che non dubbia, ma
certissima, e l'induzione già gliel' aveva indicato, che il seme per l'unione
si feconda della fe mina col maschio. Però egli, posti in cia scuna pianta,
come sullo stesso talamo, quasi marito, e moglie, disse tutte le pian. te dover
essere ermafrodite. Fil questo, egli è vero, un errore; perchè in al cune
piante i due sessi son del tutto se parati, e distinti. Ma altresì, egli è vero,
la più parte delle piante alla classe ap partenersi dell'ermafrodite; oltr'a
quelle, che sono androgine, e poligame. G. appresso, il mistero passo a
indagare della generazion de’ vegetabili, con quella confrontandola degli
animali. Gran cose in prima osò egli dire sul la generazione animalesca. '
Immaginò egli starsi divise ne' liquor seminali de’due ses si particelle
analoghe al corpo d'ogni ani male. S'ideò egli queste nella unirsi, e l'embrion
formare del corpo or ganizzato. Il carnale appetito egli ri pose in quelle
particelle, che, separato trovandosi nel maschio e nella femina, ten. dono
naturalmente a unirsi. Ad abbondan za de' due semi la cagione ei riferisce del
parto o doppio, o triplo; e a scarsezza o disordine degli stessi la nascita
d'ogni sor ta di mostri. La prole secondo lui al pa dre o alla madre somiglia
in proporzione generazione i 2. del più o men prevalere del liquor semi nale
quando della femina, quando del ma schio. La ragione inoltre crede lui dare
della sterilità delle mule, che all' angustia attribuisce e obbliquita de
canali della loro figura. Varie spiegazioni va in com ma egli fantasticando,
che io piglierei ros sore di chiamar sogni, se chi han tratta to della
generazione, non avessero sinora sognato al pari di lui. Le molecole orga niche
di Buffon, i vermi spermatici di Le wenoek, l'uova di Bonnet e,di Haller, il
filamento nervoso di Darwin, non sono clie ipotesi più o meno, false o tutte
immagi narie. La fantasia inoltre, che tutte domi le umane, s' avvide Empedocle,
poter avere anch'essa una parte nella ge nerazione. Ricordava ei delle donne,
che aveaito dato in luce bainbini simili a sta. tue o pitture, cui quelle,
essendo gravi. de, aveano a caso fisamente guardato. Opinò egli quindi la
fantasia della femin na, non altrimenti del tornitore sul legro, na cose 2oho da ede lidt? po 12.06 maa Potere dar
forma, e simiglianza al feto. Non inancan.oggi, chi credono poter più operare
l' immaginazione del padre che alle quella della madre. Ma niun disconviene,
ato quasi secondo il linguaggio di G., che la fantasia o della femmina o del maschio,
giunge talvolta a tratteggiar, dirò cosi, le membra, e la fisonomia della prole
nel ventre della madre. Da si fatte cose, stabilitasi. anzi tem po da G. la
famosa analogia tra' vegetabili, e animali, trasse egli, e cona chiuse del
tutto eguale a questi duver es sere la generaztone di quelli. Ne men
dissimigliante tra loro, dice G., dover essere la nutrizione de gli uni e degli
altri. I vegetabili e gli a nimali dicea il nostro filosofo, gli alimenti
scompongono, e quel traggon da éssi, ch' è conveniente e accomodato alla loro
na turá. Ciò egli credea farsi in ambi due per via dell'affinità insieme e de'
pori. Dell'affinità cosi egli parlava. Siccome le cose amare all'amare si
uniscono, le dol UD Eury 7 Pizze,the is on sullink ei de 1 dis Tec cer ci alle
dolci; ogni sinile in somma al suo simile: cosi gli esseri organizzati quel
pren dono dagli alimenti, che lor si confa, e può nutrire ciascuna delle propie
parti. Chiaro fu eziandio il suo parlare de' po ri. La nutrizione, egli è certo,
separarsi e dividersi negli animali, e ne' vegetabili per mezzo de' pori, che
son differenti in dia metro. Le particelle, dette nutribi li, è certo altresì
non potere indistinta mente entrare per qualunque di quelli: ma ciascuna
insinuarsi nell' orifizio di que' bucolini, ch'è analogo alla propia gran dezza.
Un vino, egli dice, è diverso da un altro, attesa la differenza non che del
terreno ma della stirpe. Ecco come par, che il nostro filosofo avesse voluto
vie più assodar la sua opinione della forza dell' affinità, e de' pori, massime
su i vegeta bili (ch'è poi propietà d'ogni corpo orga nizzato) i quali giusta
la propia organiz zazione han da quelli preparato gli ali menti, e si rendon
capaci di saporé diverso. A senno dunque d'Empedocle la nu se su red nog Ila ti
co re со ali 71 Fari trizione si opera tra per l'affinità, e la ti que varia
ampiezza de ' pori per canali diversi, ce e va svariatamente, ma sempre in pari
re preciproco modo, vigore é aumento porgendo agli organi diversi sien de'
vegetabili, sien degli animali Empedocle frattanto, il modo volendo indicare,
con cui la nutrizione si sparge e dividesi fra gli organi diversi, abbiam noi
veduto essersi rifuggito all' affinità, ch'è certamene un'ipotesi. Ma che
maraviglia; se dopo la serie di tanti secoli da questo suo pensare non sono
mica iti lontani pa recchi pur tra’ moderni? Grande in verità e diligentissima
è stata oggidì la fatica de nostri fisiologi nell'indagare i fenomeni del la
nutrizione, Gli hanno essi ridotto a ' fat, ti, o a leggi generali, che son
propie e comuni a tutti i corpi organizzati. Nè pu re eglino han trascurato di
trovare nella contrattilità organica la forza, con cui gli alimenti son
trasportati in canali opportuni non sol negli animali, ma eziandio ne've
getabili sino all'alto delle propie foglie. Ma TX, ام د ገን
muito con tutto cið o nulla o poco si sono essi avanzati nell'additar la
maniera, con cui si fa la nutrizione per gli organi diversi. Non si nega oggi
darsi da' più a varii organi, una specie di gusto, cui mercè quel suc chino, e
tirino, che a ciascuno in partico lar si conviene. Ma poi tal fatto pensa mento
mostra forse esser del tutto falso il ritrovato d'Empedocle? E' troppo vero,
cho la natura yince in molte cose, e vincera sempre ogni nostra speculazione e
fatica e da filosofi per lo più non si recano, cho sole congetture, ed ipotesi,
Fattisi vedere eguali da Empedocle i rapporti degli animali co' vegetabili nel
se nie e sesso, nel generarsi e nutrirsi, non re. stava altro a lui che
applicarsi sulla tra spirazione comune ad entrambi. Conobbe egli, che gli uni e
gli altri per via de' pori similmente traspirano, e quella parte degli alimenti
tramandano che loro è su perflua. Alla traspirazione di fatto attribuì costui o
il perdersi dagli alberi nella fred da stagione, o il serbarsi quelle foglie,
che dalla natura, non a caso, ma particolar mente sono ordinate al traspirare e
al nu trir delle piante. I primi, ei disse, tra spiran molto in estate, e
spossati levan le foglie in autunno. I secondi traspiran po co in estate, e
robusti ritengon le foglie in inverno. Fonda egli la copia o scarsez za del lor
traspirare sull' ineguale diame tro, e contraria posizion de' lor pori.
Gli uni a suo giudizio hanno larghi i pori del le radici, angústi quelli de'
rami. Gli al tri all'opposto angusti i pori delle radici, larghi quelli de'
rami. Però i primi più, succhiando, e men traspirando non levan le foglie. I
secondi men succhiando e più traspirando perdon le foglie. Se una si fatta
posizione di pori, che immagind il nostro fisico, fosse stata confermata dalle
osservazioni, avrebbe sin d'allora egli sciola to un problema, che non poco
fastidio grandissimo stento ha recato a ' moderni. Era rizio comune a quell'
età organizzare ad arbitrio gli esseri della natura a fin di. poterne presto
dichiarare i fenomeni. Egli k e. 0 1 è vero non esser mancati a di nostri, chi
abbian conosciuto e distinto ne' vegetabili non meno di quattro specie di pori.
Ma chi ha potuto, o con qual microscopio potrà mai rinvenire, che a ' pori o
larghi o stretti delle radici corrispondano a rove scio quelli de' rami? Pur
tuttavia a G. in parte siam noi debitori della ragione, che mostra il come
dagli alberi cadan le foglie. La famosa traspirazione ne' vege tabili, da lui
allora scoperta, scioglie og gi a noi con somma nostra ammirazione o senza
nostra molta fatica un sì bel pro blema. Ognun vede le foglie cader più pre sto,
quando la state è più calda. Ognun pur vede gli alberi robusti più de' deboli
più tardi svestirsi di foglie. Anzi ognun vede altresì quegli alberi in inverno
rite ner le foglie, che poco traspirano. I 100 derni al più han distinto le
foglie, che cadono in pezzi da quelle, che intere si staccano, secondo che
l'une o l'altre sono al tronco diversamente attaccate. Costoro 75 di più son
giunti a conoscere, che alcuno foglie cadono intere, prima che le nuovo dalle
lor gemme si svolgano, e altre ristan no finchè non ispuntin le nuove. Da ciò
essi han tratto, che quegli alberi, i quali gettan le foglie dopo lo spuntar
del le gemme, debbon mostrarsi verdeggianti in inverno. E che all'incontro
quegli altri, i quali gettan le foglie pria dello spuntar delle gemme, debbon
vedersi nudi nella stege sa stagione. Che perciò? i nostri fisiologi forse san.
no oggi della caduta delle foglie dagli al beri assai più di quel, che ne seppe
al. lora il nostro filosofo? Abbian quanto si vo glia convenuto oggi i moderni
le foglie tra. spirar più quanto più abbondano di pori. Abbiano quanto si
voglia pure costoro af fermata la copia o della traspirazione o de' succhi si
travagliar le foglie, e i lor vasi ostruire, che finiscan di vegetare, muoja no,
e cadano. Eziandio ne abbiano essi inferito tutti gli alberi dovere perder le
fos glie, chi in Autunno, chi in Primavera. Ma k 2 26 de 60 fu NI tal
differenza non è se non perchè le fo glie di quelli più, e le foglie di questi
meno' traspirano, e l'une servon più, l' altre meno alla nutrizion delle piante?
E non è questa la grande scoperta appunto d' Empedocle, e che forma uno de'
suoi gran di elogi? Il pigliare i vegetabili e gli animali au mento dal calore,
il goder di gioventù, il cadere in malattia, il giungere alla vecchiez za, sono
altresì que' tratti di simiglianza perfetta, che il nostro fisico andava a
quel. li aggiungendo. Nè lascid ei di notare, che i vegetabili al par degli
animali si muv vano, resistano, si raddrizzino. Gran de com' egli era di mente,
e degno d' in. terpetrar la natura, talmente s’ ingegna va di legare il primo
con poche o comu ni leggi i due regni, che paion tanto di stanti e discordi tra
loro, il vegetabile e l' animale. Gli antichi presero maraviglia di questo
specolazioni di lui, e si ne restaron convinti, che si sforzarono aggiungervi
qual che cosa del loro, G. aveva già 0 PE C te 77 detto, che il seme senza più
è nella ter ra ciò, che il feto nell'utero ed egli no procedendo più oltre' non
ebbero a schi fo affermare la pianta essere un animale fitto in terra per le
radici, e l'animale una pianta, che cammina. I moderni poi non han tralasciato
punto di assai profittar de pensamenti di G., cui mercè tira ta avanti la
traccia e allungati, diciam.co sì, i suoi stessi passi, sono iti scoprendo
nuovi rapporti, che agli attimali legan le piante. Le piante dormire come gli
anima li; respirare coni'essi; avere i lor muli; pro. pagarsi i polpi al par
delle piante; esservi animali (che son quei, che vivono attacca ti alle pietre
) che cercano la luce e vergo essa rivolgonsi, come appunto fanno le pian
te: questi e simiglianti sono i grandi ogo getti, su cui i moderni profittando
di G. si sono fissati. Ciò non ostante no tante, e di tal momento le
differen ze, che separano gli animali da' vegetabili, che non è stato
possibile di ridurli in tut. to giusta la pretesa di G. alle medesime leggi.
Pare soltanto che nel presen te stato delle nostre cognizioni tutto con corra a
dimostrare aver la natura espresso e racchiuso dirò così quasi sotto unica fore
mola il gran fenomeno della nuova produzione de' corpi organizzati. Questa
appun to cercò, e questa rinvenne il nostro fisi co. Perchè distinse il sesso
nelle piante, e conobbe il seme non esser altro che uovo: e affermò apertamente
le piante, come gli animali, dover essere ovipare. Tali meditazioni d'Empedocle
su gli esseri organizzati', in difetto d'oga' altra pruova, basterebbero sole a
indicare la forza, e l'eccellenza del suo intendimento. Dovea egli supplir la
mancanza de' fatti, inventar de' metodi per non ismarrirsi, ras.
sodare i suoi pensieri incatenandoli, anti veder congetturando, Operazioni, che
vo gliono tutte ostinazione, sagacità; avvedi mento. Tal è la condizione dell'
umana natnra, che la nostra mente non può senza stento riflettere, ragionare,
scorrer le dub bie vie delle fisiche ricerche. No creda alcuno, ch ' ei qual
poeta, o cosmogono aves se ravvisato quelle somiglianze tra i vege tabili e gli
animali più colla fantasia che colla ragione. La fantasia crea non isco pre;
finge non ragiona; abbellisce non in catena; e se talora connette, i suoi lega
mi sono immaginari e non reali. Molti sono i cosmogoni tra gli antichi, Ma G. solamente
s' addita come chi com prese in egual modo operarsi la generazio ne negli
animali e ne' vegetabili. Fu egli è vero intento a legare questi a quegli esse
ri, come suol farsi dalla fantasia, che cor ca e ritrova più le somiglianze
delle cose che le lor differenze. Ma ciò avvenne dal metodo, con cui il nostro
Gergentino – GERGENTI, non GIRGENTI -- aju tava la sua mente, ch' altro non era,
nè esser poteą nella sua età, che quel dell' analogia. La quale, siccome essa
suole, argomentando da cose simili, potea soltana to condurlo, a veder
somiglianze. Se dunque G. e col favor dell' analogia pro pose congetture, che
poi si son trovate ve re dalle nostre osservazioni, e ben da dirsi ch' egli fu
nobile di monte, robusto ne suoi raziocinj, e di gran sentimento nelle cose
naturali., Un altro e più vasto teatro s' apre o rą di altre e nuove
specolazioni, G., posti da parte e vegetabili e bruti, staccò l’ Uomo dagli
esseri organizzati, con cui l'avea egli sin allora confuso. Prese costui a
considerar l’ Uomo solo e isolato non che in metafisica e morale, ma in pa
recchie fisiche scienze. Rivolse ei le sue prime indagini alla fisica dell'Uomo,
cui i corpuscolisti con gran cura in quel tema po attendeano. G., Anagsagora,
De mocrito scrissero sulla natura; ebbero tutti tre il soprannome di fisici: e
tutti tre ten tarono di svolgere l'economia, giusta cui vive, si muove, si
regola la macchina u mana. Fu forse un tale studio sull' uomo che sopra
ogn'altro lor distinse dagli altri filosofi. I quali, senza più, aveano fino
allora quello riguardato come un soggetto soltanto metafisico, o morale, o
politico. Ma ' le fisiche ricerche di G. sull’ Uomo trapassarono di gran lunga
quel le di Democrito e d’Anassagora. Perchè, sagace, com'egli era, si mise in
investigazio ni non prima tentate d'altri, e utilissime. Tanti furono i punti
di vista, sotto cui e' prese a contemplare il corpo umano; e al trettante può
dirsi essere state le scienze, cui diede principio il vigor di sua mente. Egli
il primo applicò la chimica, e sie a nalisi al corpo umano; segnd le prime li
nee d'anatomia: fece sforzi se non sempre efficaci, sempre almen generosi a
gettare i fondamenti della fisiologia dell' Uomo:: Il sistema di G. sulla
natura fu chimico; così chimiche del pari furono le sue prime ricerche
sull'uomo. Comincio egli a esaminar questo nelle sue parti, e quanto più allor
si potèa, ne imprese an cora l'analisi. La carne, ei dicea è coma posta di
parti eguali di ciascun de' quattro elementi. Di due parti eguali di fuoco e di
terra sono formati i nervi, e le unghie son similmente nervi raffreddati
dall'aria. VIII furon le parti, ch'ei distinse nelle cosa: due di terra,
altrettante di acqua, e quattro di fuoco. Se non si corresse un qualche
pericolo di travedere, chi non direbbe aver lui trovato l'ossa abbondare di
fuoco, perchè abbondan di fosforo? Ma che che ne sia, non v'ha dubbio, aver lui
dato principio con sì fatte analisi a un novello rano di chimica Ramo, che dopo
G. fu del tutto posto in non cale: ma che oggi, attesa la sua grand' utiltà con
ardor si coltiva, e che va sempre più smisuratamente crescendo sotto il nome di
chimica de corpi organizzati: Erasistrato, Herofilo, Serapione fu ron tra '
Greci, che s ' applicarono con som mo studio all' Anatomia. Ma innanzi a co
storo, vinti gli errori della religione e de' tempi, aveano cominciato a
coltivarla De mocrito in Abdera, e G. e in Gergenti, NON GIRGENTI. Descrive
quest'ultimo la spina del dorso, e tienla, come di fatto è, non ' altri menti
che la carena del corpo umano. Distingue egli di più inspirazione da espi
razione mostra i canali per cui si respira dalle narici. Ricerca egli inti ne
l'organo del sentire, e trapassando il neato uditorio, discopre quella parte
dell' udito, che attesa la sua forma torta e spi rale, chiamò egli allora, e
chiamasi anco ra la chiocciola. Questo è il poco a vanzo delle sue cognizioni
anatomiche, che per sorte sono arrivate sino a noi. Ma que sto stesso poco
mostra il suo gran sapere in questa scienza. Un gran pezzo di capi tello o di bảse',
il rottape d ' una colon na, o pilastro, bastan sovente a indicar e la
magnificenza di un edificio, e la perizia di un architetto. La sola scoverta
della chiocciola dimostra assai meglio, che non fecero ' gli antichi
scrittori', essersi il nostro filosofo molto avanzato nelle cose anatomi che.
Questa situata in luogo riposto dell' udito non si potea discoprir certamente
se non da chi fosse stato molto prima versa - to e perito nelle materie
anatomiche. Meno scarse son le notizie delle fun. zioni della vita e de' sensi
dell’ Uomo: e che per fortuna ci restano della fisiologia di G. Il sangue umano,
come ciascun sa, sempre alto, e sempre allo stesso modo co stanțe mantiene il
calore. Ippocrate pien di maraviglia l'attribuì a cagione sovrana turale e
divina. G. all'opposto eb be il calore, come cosa ingenita e conna turale al
sangue medesimo. In cid a lui s'accostarono ne' tempi d'appresso Aristotile,
Galeno, e tanti altri, Ma egli fu il primo, che a formare un sistema, trasse
dal calore del sangue, come da prima ca gione, una spiegazione non già vera, ma
certo artificiosa, delle funzioni della vita. Le regolate, pulsazioni delle
arterie a véano gia indicato al nostro filosofo, che il muove nelle vene. Ma
igno ta era a lui ', come ignota fu all'antichi tà,, la circolazione del sangue.
Però in ve ce di questa suppose egli in quel fluido un movimento d'oscillazione.
Il sangue, ei dicea, occupa parte, e non tutta la ca vità delle vene, e in
queste va quello giul $ u continuatamente oscillando. La for: che lo stesso
agita, era secondo lui il sangue si za calore:. e questo essendo ingenito al
san. gue costante ne mantiene e l'oscillazione e il moto. A tal movimento legò
il nostro filoso fo la respirazione, altra operazion della vi ta. Quando il
sangue, ei dicea, va giù verso il fondo de' vasi, l'aria tosto s ' insi nua ne'
sottili prominenti meati delle vene, ed entrando occupa quel vano, che nell'
andare si lascia in queste da quello. Ne perciò egli aggiungea l' aria quivị
restarsi: perchè il sangue, secondo G., spin to dal calore, e su tornando,
preme dolce mente quella, e fuori la caccia col suo ri tornare. Accade, seguiva
egli a dire, ciò che nella clessidra si osserva. Ivi l' aria respinge l'acqua,
o da questa quella è re spinta. Non altrimenti nella respirazione l' aria esce
o entra secondo che il sangue si porta o giù o su nelle vene. Però all'an dare
o venire del sangue risponde alter nando il venire o andare dell'aria. Ques sta
forma, entrando, l ' inspirazione; ilscendo 'l' espirazione e nell’unal e nell'
altra è riposto giusta il suo sistema il respirare d'ognuno. L'aria, che nella
respirazione esce ed entra nelle vene toglie al sangue a giu dizio di G. una porzion di calore. Ciò indusse gli antichi
medici, che abbrac ciarono tal sua opinjone, a curar coll'aria fresca e
matutina i ' morbi d'eccesivo 'calo re. Il respirar dunque cagionava secondo il
nostro filosofo diminuzion di calore. Da ciò anch'egli iuferiva la necessità,
che strin. ge gli animali a dormire. Il sonno in fat ti egli diceva; null'
altro essere, che dimi nuzion di calore. In quella parte quindi di fisiologia di
G. che riguarda le funzioni vitali, il sonno vien dal respirare, e questo dall'
oscillazione del sangue. Sicchè sonno, spirazion, movimento di sangue tra lor
son connessi, e tutti quanti a un tempo dal calore provengono. Nel calore in
somma e' pose la cagione di vita e di moto. La morte, egli dicea, è privazion
di calore però riguardava sonno come.egli il principio di morte. Giacchè questa,
a suo credere, è privazione, e quello diminu zion di calore. Tali principj di
medicina, ch'eran teorici, guidavano lui eziandio nel la pratica. A quel
piccol' calore., da noi già osservato, che ritenea la donna Gergentina –
GERGENTI, NON GIRGENTI -- caduta in asfissia conosce G., ch'ella era ancor
capace dell' aiuto della medicina. Tanto egli è vero, che la sua pratica era
alla sua teorica con corde, e questa per l'andamento naturale del suo spirito
era legata tutta e formava un sistema. Ecco in qual povero stato erano allo ra
l' anatomia, e la fisiologia, la fisica in breve del corpo umano. Nuda era
questa di fatti, e piena d'errori, e d'ipotesi. Ma tale è la condizione delle
fisiche discipline: Nascono esse imbecilli, a stento s'accresco no, e vanno non
di rado alla verità per la via degli errori. A chi allor poteva vee nire in
mente, che l'aria nel respirare' in luogo di toglier calore, ñe porga al sanana?
gue e ne porga gran copia? Come potea G. anticipar specolando in que di tante
yerità, che suppongono la cognizion di tante altre, e d'un immenso numero di
fatti, che allora ignoravansi? Segnd e gli quindi, non v'ha alcun dubbio, po
che e imperfette linee di chimica, d' tomia; di fisiologia del corpo umano. Ma
tali schizzi, avvegnachè informi, ma co me primi, e originali, son titoli
degnissimi di sua gloria, e gli concedono un sublime posto d'onore nella storia
delle scienze. Appartiene a nobilissimi ingegni (i quali sono ben pochi ), di
mostrare almen da lon tano quelle scienze, ch'al dir di Bacone son da supplirsi,
e che del tutto s'igno rano. G. fece ancor di più. Dino to egli la chiniica del
corpo umano, analiz zando gli ossi e la carne; accennò l'ana tomia discoprendo
la chiocciola; indicò la fisiologia legando al calore, come a un sol fatto, le
principali funzioni della vita. Su periore e' quindi al suo secolo non avrebbe
certamente lasciato ad altri la gloria d' accrescere queste utili scienze. Ma
nol poté, come chi privo fu di stromenti, e di tut. ti que' mezzi non solo
opportuni ma ancor necessari a ridurre in effetto i nuovi e và. sti disegni,
che a ora a ora a lui sugge riva il suo genio, Ma se non ebbe Empe docle la
fortuna di accrescerlo tutte, ebbe quella di stabilir meglio la fisiologia e
get tare lui il primo le basi di quell' altra parto d' essa, che riguarda i
sensi dell' uomo, Andavano i Corpuscolisti indagando pra d'ogn'altro nella lor
fisiologia come i nostri organi avessero potuto sentir gli oga getti che, son
fuori di noi. Credevan co storo tutti i corpi venire in ogn’ istante in
alterazione, cangiare, ed esalare particel le sottili, e invisibili. Eran
queste, sécon do loro, trasportate dall'aria, dall' acqua, dal fuoco su nostri
organi, e ivi adatta te eccitavan le sensazioni di que'corpi, da quali esse
spiccavansi. Piacque quindi a costoro le sensazioni null' altro essere, che
impressioni eccitate negli organi da particel m go le, che si parton dagli
oggetti, di cui quel le son, come quasi le immagini. G. intanto non dissenti
mica da loro. Ma il suo spirito, come quello che non erane certo, non se ne
mostrava del tutto convinto. Messosi costui quindi a esaminare i sensi a uno a
uno, adatto a ciascun di loro la sua propia e particolare spiegazione. Fece
egli così un'analisi de' sensi e sensazioni più profonda, che sin ' al lora non
s'era punto fatta d'alcuno. Ma quel ch'è più aperto egli dimostrò non es ser
lui punto ne' suoi pensamenti nè se. guace, nè schiavo delle comuni e dominan
ti opinioni. Giacchè egli nel chiarir questo o quel senso ora abbandona i
corpuscoli, or recali innanzi, o ora aggiunge agli stes si qualche nuovo
argomento. Trattando G. dell' odorato, e del gusto non altro mette in opera,
ch'e salazioni, e corpuscoli. Questi, agli dice, trasportati dall'aria s '
acconciano a ' pori del naso, e muovono il sentir dell' odorato. I cani, ei
soggiunge, cosi e non altrimenti indagan futando l'orme della fiera, Che se il
catarro, dice egli di più, irrigidisce le narici; allora i pori di questo tosto
s ' alterano, si respira a stento, e l'odor non si sente. Tratta egli appresso
dell'udito, e la sciati e pori, e corpuscoli, piglia dall'ana tomia il suo
nuovo argomento. L'udito, ei dice, nasce dalla battitura dell' aria nel la
parte dell'orecchia, la quale a guisa di chiocciola è torta in giro, stando
essa so spesa dentro, e come un sonaglio percossa. L'anatomia, ch'era allor
grossolana piccol conforto a lui porse nel dichiarare la vista. Conobbe G. un
de' tre umori, ch'è l' aqueo, e qualche membra na, senza più, di quelle, che
coprono il globo visivo. Però sfornito dell' ajuto dell' anatomia era egli
dubbio e incerto. G. nondimeno giunse a comprendere dover la luce avere gran
parte nella visio ne degli occhi. Ma come, e perchè, per quanto si fosse ei
travagliato, nol potè af fatto conoscere. Suppone il nostro filosofo entro
dell' occhio, non che, acqua, ma luce, che chia ma fuoco nativo. L'una, e
l'altra a suo credere, ivi stanno in tal quantità, che per lo più sono ineguali.
Così egli distingue gli occhi azzurri da' neri. Iprimi egli af ferma abbondar
di fuoco, scarseggiare d ' acqua; là dove i secondi esser poveri di fuoco s
ricchissimi d’aequa. Però ei soggiunge gli uni mal veggon di notte per difetto
di acqua; e gli altri veggon male di giorno per iscarsezza di fuoco. Ma sía o
poca, ó molta la luce che stanzia nell'occhio, ei la riguarda qual lu me dentro
una lanterna. Lo splendore del lume, ei dice., fuori della lanterna si span de,
e nella notte ci guida. Così i raggi di luce fuori dell' occhio si spargono,.e
ci di mostran gli oggetti. G. talora aga giunge a raggi della luce i
corpuscoli. I raggi secondo lui, che dall'occhio si lancia no, prima s'
imbattono nelle particelle, che si spiccan da corpi. Poi raggi e corpusco li si
congiungono giusta il medesimo: e insiene congiunti si portano all'occhio, e
muovono il senso visivo. Aristotile disapprova tali pensamenti di G. La visione degli ocohi, egli dice, è da
riſerirsi solamente all'acqua, e niente al fuoco. Nella storia dello spirito
umano accade sovente, che un er rore un altro ne " caccia, e ' l falso al
falso di mano in mano succeda. Aristotile oltrº a ciò rimprovera il nostro
filosofo, che dub. bio egli e incerto abbia, fatto cagion del vedere ora i
raggi uniti a' corpuscoli, e.o ra i soli corpuscoli. Ma in ciò sem bra
Aristotile a torto riprendere G. . Non sapea persuadersi il nostro Gergenttino
– GERGENTI, non GIRGENTI --, che totalmente passiva fosse la se de del senso
visivo. Non potea egli inol tre comprendere, che niuna parte avesse la luce nel
gran magistero del nostro vedere. Incerto restò quindi di se, di sue idee, e
delle spiegazioni volgari; ma tale incertez. za o quanto onore a lui reca !
Dubitar del le opinioni, che son false, e in voga, è il primo ma più difficil
passo, che si può fare verso del vero. La fisiologia, che va a di nostri spa
ziando per tutte le scienze, comunica ezian. dio colla metafisica e colla
morale. Quest' unione, ch'è il frutto naturale dell'avan zamento delle scienze,
fu dirò così presen tita dal nostro Gergentino – GERGENTI, NON GIRGENTI. E di
fatto sul la sodissima base della fisiologia cercò egli stabilire si l'una, che
l' altra. Da che Pittagora, e Parmenide di VELIA ab bandonarono i priini la
testimonianza de' sensi, come ingannevole, i Greci tenzona chi contro la
ragione, chi contro i sensi. Questi, è quella vennero quindi in discredito: 6
sorsero intanto i sofisti, e gli scettici. Socrate, Ippocrate', e altri di si
mil sorte tentaron conciliar la ragione co ' sensi. Ma vani furono i loro
sforzi. Duro la gran lite durante la Greca filosofia. La stessa rinacque al
rinascer tra noi delle scienze. Di nuovo si pugnò allor quando contro i sensi,
quando contro la ragione; e di nuovo si giunse allo scetticismo. Ma nggi simili
dispute sono già state bandite da noi; e si terran lontane, finchè lo studio
rono, 95 delle fisiche, e delle Matematiche avrà in Europa stato, e onore. Ne'
tempi di G. la scuola di VELIA orgogliosa facea ogni sforzo ad atter rare i
sensi, e a inalzar la ragione. Cid ch'è, dicevan gli Eleatici, è unico, eter no,
immutabile. E come i sensi ci mostra no il multiplo, il mortale, il mutabile;
co sì essi c' ingannano. Però conchiudean co storo la ragione poter sola
conoscere cid, che è, ed essa solamente decidere della realtà delle cose.
Contro i medesimi entrarono in lizza i corpuscolisti. Questi disdegnando lo
sotti. gliezze di quella scuola, fisici com'erano, difesero i sensi, senza
annullar la ragione. Anagsagora con sottile avvedimento distinse le particelle
simili da ' loro composti; Democrito gli atomi da' loro aggregati: ed Enia
pedocle gli elementi dalle lor combinazioni. Particelle simili, atomi, elementi,
dicean costoro, sono eterni, immutabili. Non son tali le combinazioni, gli
aggregati, i com posti, che mancano, e cangiano. Questi si conoscon da’sēnsi,
quelli dalla ragione. Eglino quindi tolsero ogni contrasto tra' sen si, e
ragione: assegnando a questa, e a quelli due provincie del tutto separate, e
distinte. I corpi, come composti, operano a senno di G., e di Democrito su i
nostri organi, che sono del pari composti. Eccitano quelli le nostre sensazioni;
ma queste a parer d' entrambi non son tali, che i corpi, La'scuola di Jonia
avea tal mente confuso le sensazioni cogli oggetti, che scambiava questi con
quelle, e tenea le" une, non altrimenti, che immagini fe delissime degli
altri. Non così pensarono i Corpuscolisti. Questi separarono, dirò co si, le
sensazioni dagli oggetti, che le ca gionano; è muovono, ed ebbero quelle, come
soli, e semplici modi, quali di fatto sono, del nostro sentire. Il bianco o il
ne ro, il caldo o il freddo, l'amaro o il dol ce esistono, diceano essi, ne'
nostri organi, nelle nostre sensazioni, e non già negli ogo getti. Costoro
quindi solean chiamare co 1 97 1. eglia gnizioni, di apparenza, e di opinione,
e non gia di verità, e di realtà quelle, che si traggon da' sensi. Ma non
perciò crede G., co me alcuni vogliono, le nostre sensazioni es sere
immaginarie. Cangiano queste, vero, secondo che a lui piaeque, come can gia lo
stato de' corpi, o come s’ înmuta la disposizione degli organi. Ma vero, e
reale è altresì il sentimento, che si desta da' cor pi. Tal' è della sua
dottrina, al pari di quella di Newton intorno a colori. Vege giamo ne' corpi o
rosso, o giallo. Ma ne i raggi di luce, che percuoton l'occhio, sono o rossi o
gialli; ne' rossi ne' gialli so no i corpi, che que' raggi colorano. Il ros ò
il giallo è in somma nell'occhio, e nell'impressione, che in esso fanno i rag
gi di luce: Così a creder di G. le sensazioni sono reali. Ma le medesime non
rappresentan mai le qualità, che ne' corpi appariscono; null'altro essendo, che
altret tanti modi del nostro sentire, Diversa da quella de sensi, credeano SO,
n 98. E 1. i corpuscolisti, esser la via, con cui s'ac quista da noi la
conoscenza degli elemen ti, o degli atomi. Questi non si poteano secondo loro,
come semplici, conoscer da' sensi, che sono composti. Ogni simile, era antico
assioma, non si può conoscere, non col suo simile. Però Democrito e G., tolta
a' sensi la cognizione de' sempliei, la riservarono all'anima. Per questo
l'anima, giusta Democrito, era for mata d'atomi; e secondo G. degli elementi, ma uniti alle due forze di
amo. re, e di odio. Colla terra, dicea il Ger gentino, veggiamo la terra, r
acqua coll' acqua, l ' aria coll' dria, il fuoco col fuo co; e coll' odio e
l'amore altresì l' odio, e l'amore. G. portava, dove potea, l'oc chio alla
fisica costruzione del corpo uma mo, e dava alle sue opinioni una veduta
anatomica. Credetto ei di veder nel cuo. re umano un centro, diciam così, di
siste ma; e ivi egli pose la sede dell'anima. Ma come G. in tutto, e sempre e
concorde a sestesso, cosi loco quella particolarmente nel sangue, che asperger
e bagna il cuore dell' uomo. Perchè ripostosi da lui il principio e di moto, e
di vita nel calore del sangue, li ancor e gli dovea ripor l’anima; Era questa
dota ta, a suo credere, di sentimento al pari de' sensi. Ma ambidue ricevevano
le loro impressioni: l'anima dagli elementi i sen si dalle combinazioni. L' una
acquistava la cognizione delle cose eterne, e immutabili, e gli altri la
notizia delle mortali, e mu tabili. I corpi esterni in somma oporavan sulla
macchina dell' uomo in due modi di versi: come elementi sull'anima, come com
binazioni su i sensi: e quella & questi e ran passivi. Nacque da ciò, che
Protagora, lo scoo ' lar di Democrito, portð opinione: l'intel letto altro non
esser che la facoltà di sen è nelle sensazioni stare ogni cogni zione, e
scienza: Per questo Crizia, qua si accostandosi al nostro filosofo, affermo,
pensare esser lo stesso che il sentire tire, e 1 ni 2.' 100 anima stanziarsi
nel sangue. Ma G. non si fermè quì al par di costoro: passò molto innanzi. A
parte dell' anima, che conosce gli elementi, un altra ne sup pose egli entro
noi, che è destinata a ver sarsi nella contemplazion delle cose intellet. tuali
e divine. Iddio secondo lui, non è una combi nazione a guisa de corpi; ne un
unità ma teriale cone son gli elementi. Dio, egli dice, non ha forma nè membra
umane; non si può veder cogli occhi, nè toccar col. le mani. Iddio è santa
mente, Costui non si può render colle parole, e muove l'uni verso co' suoi
veloci pensieri. Iddio in sostan za per lus è mente, e la sua vita è il pensare.
Così il nostro filosofo abbandona va la compagnia di Domocrito, e le cose
materiali: per tornare alla SETTA DI CROTONE, e alle cose, intellettuali. ins.
L'anima dunque, destinata da G. a conoscer cose spirituali, e divine, dovea
essere, e fu per lui altresì senza dubbio spirituale, e divina. Questa procede,
secondo che dicevano Empedocle, e i Pittagorici, da Dio, ed era particella del
la sostanza divina. Se ne appresentavano essi la ġenerazione sotto varie
immagini: or di fiaccola, che tante altre ne accende; or d'idea che tante altre
no genera; or di parola, che trasmette à chi ascolta, la ragion di chi parla: o
di cose simili, che sarebbe lungo il ridirle: Però paghi que' filosofi di esse
agevolmente popolarono il mondo d' innumerabili spiriti, che tutti e. ran
partecipi della natura divina. Di questa classe prese dirò così il nos,. stro
filosofo le anime spirituali. Le due a: nime, quindi annesse da lui nel corpo
dell' uomo forman la primaria base di sua me tafisica dottriną. Una egli
sostenne essero immateriale, materiale l' altra, ' quella ese sere immortale ed
eterna, e questa mori re insieme col corpo: la primą versarsi in contemplazion
di cose intellettuali, e astrat te; e la seconda in cognizione di elemen ti, e
di due forze odio, e amore.. Ma non mancherà çerto, cui si fatta 102 opinion di
dire anime in ciascun corpo di o gn' uomo semibri del tutto strana, e inde gna
della gravità d'un filosofo: Ma chi al tresì avea ' manifestato allora, é chi
fin' og. gi ci ha detto cose più vere, o più sapien. ti sull' union dell'anima
col corpo, e sul reciproco loro influsso, e commercio? Chi presi di boria,
annullato lo spirito, tutto riducono a macchina. Protagora volea, che
giudicare, e ragionare fosse la stessa facol. tà del sentire. Ma questa è
un'empietà; una mattezza. Tal la dimostrano l' unità del pensiero, e l'attività
del ragionare dell' uomo. Taglián costoro, come suol dirsi, non isciolgono il
nodo. Chi presi d' entusias mo, annullato dirò così il sistema organi co, tutto
l' uomo riducono a spirito. Stahl volea, che l'anima sola operava tutte quan te
le funzioni del corpo. Ma questa è u• na falsità, e una follia. Talla dimostra:
no i movimenti involontarj, e organici. Voglion costoro, como suol dirsi,
occultare il sol colla rete. Chi poco più 'ragionevoli, pigliata una via di
mozzo, vollero.combinare ambidue le forze dell'anima, e del corpo. Leibnitz
volea un'armonia prestabi lita, cui mercè lo spirito segua ne' pensie ri,
voleri i moti del corpo, cui quegli è congiunto: Ma questa è una ciancia, è una
fola più complicata della cosa stessa, che si vuole spiegare.. Lo spirito umano
in somma ha immaginato tante ipotesi su ciò, tanto più, o meno bizzarre, quanto
più o meno son le. teste scaldate di tutti filosofi. Nè vi è inoltre mai stata
ipotesi, che tosto non sia stata accolta, e non ab hia avuto assai partigiani:
tanto vale quel la specie di prestigio, che la novità ope ra sull’intendimento
dell'uomo ! Qual ma raviglia dunque, ch’ Empedocle abbia sup posto in ogni
corpo due anime? Non fu egli certo nè tanto delirante, quanto Protagora, tutto
macchina; nè tanto immaginario quanto Ştahl, tutto spirito; nè cost fantastico
qual Leibnitz tutto armonia pri initiva. Dichiarò egli a. rincontro della falsa
dottrina di Protagora, che le idee spirituali non procedono dal sentire. Svi
104 luppò anzi tempo contro Stahl le funzioni de' nostri organi, e quelle della
vita con fisiologiche ipotesi non di rado fondate sull' anatomia.. Prevenne G.
alla fine l' erroneo sisteina di Leibnitz, e i sensi, dis se, e le sensazioni
esser capaci di eccitar nell'anima la ricordanza di ciò, che prinia el!a sa, e
poscia., atteso il contatto colla materia, la stessa del tutto dimentica. Non è
quindi G. colla ipotesi delle due anime o men ragionevole, o più strano di
tutti i filosofanti, che sono stati finora. E ' da confessare che il problema
intorno alla reciproca azion dell'anima sul corpo forse appartenga alla classe
di quelli, che vincono qualunque intendimento dell' uo-. mo. Però non si sono
recate da noi, ne' si recheran per lo innanzi, che ipotesi, e sogni, che il
tempo, il quale suol confer mare i soli, e veri giudizi della natura andrà a
mano a mano struggendo. Non è già, che queste due anime', che noi leggiamo
presso molti degli antichi, e sopra ogn'altro' de' Pittagorici, sieno dana,
prendersi secondo la lettera. Intendean co storo distinguere il sensibile e
l'intellettuale: due maniere di facoltà, che sono entro l' uomo. Ma adombrarono
essi, come ' era u sanza d'allora, sotto vive impagini quelle facoltà, o,
diciam cosi, fecero le medesime divenire persona. G. di fatto secon do la
testimonianza di Sesto Empirico d ' ambidue quelle facoltà compose la sola
ragione. Questa, egli dice; è in parte uma in parte divina, e porta il nome di
retta ragione. Perchè questa corrego ge gli errori de'sensi, e può sola discer
nere il vero dal falso. Tanto egli è vero che le due anime di G., non rape
presentavano, che la facoltà sensibile e la facoltà intellettuale, e ambidue
faceano u. na cosa sola. Chi potrà or tolerare G. cole locato tra la classe de'
filosofi scettici. Egli non mai affermd essere inutile, o va« na la
testimonianza de' sensi. Apzi i sensi, egli disse, mostrarci i rapporti, che
han. no i corpi, e tra loro, e coll' individuo d'ognuno. I sensi, egli disse
del pari, sve. gliare nelle intellettuali facoltà le idee spi rituali, e,
astratte. Al più al più diffida va Empedocle de' giudizi de' sensi, che so
vente sogliono esser fallaci, o ingannevoli. Però egli volle, che i medesimi
fossero sta. ti guidati unicamente dalla retta ragione. Questa potea solo a
sentimento di lui discer nére il falso dal vero. Forse, dicea ai suoi tempi
Cicerone parlando di G., costui ci acceca, e ci priva de' sensi; allor quan do
egli crede, che non fosse in essi gran forza per giudicar di cose, che sieno
sot toposte agli stessi? Par, egli è vero, Empedocle degli e lementi trattando,
quali esseri semplici, ga gliardamente scatenarsi contro de'sensi. Par lui
scatenarsi altresi contro gli stessi, allor ehé, dirizzandosi al suo amico
Pausania, e con lui trattando dell'amore e dell' odio, ambidue forze immutabili,
gli avverte a non fidarsi.de' sensi, e a guardar le cose non già cogli occhi
del corpo, ma con que' della mente. Pare eziandio finalmente, giue sta cid,
che., CICERONE ine dice, lui andare in furia, contro i medesimi gridando: niuna
cosa poter noi nè veder, nè sentir, ne.co noscere (85 ): Ma altri, che questi
'argomenti ci vo gliono a definire come scettico il nostro fi losofo. Chi è
intento a esperienze e ad a nalisi; chi cerca con somina cura de' fat ti; chi
da questi tenta d'investigare l'ope razioni della natura sotto la guida dell' a
nalogia: certamente non sa, nè può esse re scettico. I fisici potranno non
prender cura di cose spirituali, e astratte; ma non mai l'esistenza negar di
que' corpi, le cui propietà con ardore cercano, e la cui in dole con diligenza
studiano. L' espres sioni quindi di quelle parole, non v'è dubbio ' dover
valutarsi secondo e il pen sare, e il parlare di quella stagione. Si chiamava
allora pero, e ciò che è; quel ch' è eterno, e immutabile, o sia quello, che
sotto i sensi non cade: Però Empedo cle a ragione parlando di elementi, e di
farze, come quelli, che sono eterni e im 0 2. 108 1 mutabili, rigettd affatto i
sensi: @ niuna cosa noi, disse, mercè loro potere o ve dere, o sentire, o
conoscere. Fra tanto, chi il crederebbe? che nel volersi definire il carattere,
o la dottrina d'uno stesso soggetto, si passi anche da' gran filosofi da uno
all' altro estremo del tutto contrario. Anche i grandi uomini tal. volta
precipitano i loro giudizi, e nel pre: cipitarli ·traveggono. E' cosa da farci
stor: dire il sapere, che la dove alcuni filosofi dichiaravano scettico G.;
altri all! opposto avessero lui materialista definito, Aristotile, e altri con
lui tacciano di materialismo il nostro Gergentino – GERGENTI, non GIRGENTI. Nel
siste ma di G. il pensare, dico Aristotile, lo stesso val che il sentire; ogni
nostra cogaizione viene dalle sensazioni: e con que: ste quella s' accresce. Ma
questo stesso è altresì una calunnia. Passivi sono, 4. senno di G., i nostri
sepsi; pas siva è parimenté una di quelle due ani me, ch'egli suppone materiale
entro noi. Pero la nostra scienza, disse egli, accrescersi colle nostre
sensazioni. Ma dall' una anima e dall'altra, dalle facoltà cioè sen. sibile, e
intellettuale, si forma, come a lui piacque, quella ragiono, che noi già
abbiamo osservato. Questa, secondo 'lui, pesa, compara, giudica: in breve
ragiona. Due sono i principj, giusta gli avanzi di sua filosofia, cui mercè la
ragione rettifica i giudizi de' sensi. Primo: il nulla viene unicamente dal
nulla. Secondo: il simile si può solamente conoscer col simile. La ragione
quindi secondo lui, riferisce le sens sazioni a tali, e ad altri principj (se
pur altri ne avesse ammesso costui ), o coll' ajuto di questi quella ci mostra
il roro. @ il falso. Poteva, cio posto, tal essere lui, qual co lo dipinge
Aristotile, un materia. lista? Chi ammette principi di conoscere; di giudicare,
assoluti, non ricavati da' sen. si, eterni, immutabili non può affatto cre dere,
che il pensare lo stesso sia che il sentire, nè punto può essere imputato co
stui di materialismo. Non v'è uomo, quanto si voglia grana. de, che non abbia i
suoi nei; e anche i gran genj sono soggetti sovente a censure. Si dice di G. in
metafisica non essere stato lui originale. Convien forse ora smen tire tal voce?
Nulla meno. Si bisogna esse re ingenuo; nè l'amor di colui, ehe si loda dee sì
impaniarci, che ci debba far supera: re l'amore del.vero. Si confessi pure G.,
al par de' corpuscolisti, in metafi sica non essere stato mai originale. G.
qnal allievo de' pitta gorici, e degli e leatici non seppe abbandonar punto le
idee da lui apprese in ambidue quelle scuole. La stessa venerazione egli
ritenne, che ave van costoro verso i principj astratti, Si diparti egli sol da'
medesimi (e co si avvicinossi alle scuole contrarie ' ) nel non aver lui
rigettato del tutto la testimonian za de sensi. Egli in que' dì si sforzo di
sedare colla sua nuova dottrina l'accesa pu gna di que', che litigavano chi
contro del, la ragione, chi contro de' sensi. Combind egli, e mirabilmente
congiunse i sensi cola la ragione, a questa, e a quelli assegno 111 - uffizj, e
diritti separati e distinti: e sen za nulla scemare dalla realtà di nostre sen
sazioni, gran forza, e autorità diede a prin. cipj generali; e astratti: Tutti
i corpusco listi furono in quella stagione eziandio, chi più, chi meno concordi
al nostro filosofo; e tutti egualmente in metafica tennero le parti di
conciliatori tra i due partiti allor dominanti. Tal'è la natura dello spirito u
mano. Fatica egli senza stancarsi, e riflet te anche sino al cavillo, quando è
sospin to dall'ardor del partito, e dall' amor del sistema ! Ma poi stanco ei
di meditare, o pugnare, cerca la quiete, e 'l riposo; e componendo insieme le
opinioni contrarie si lusinga d'aver trovato gia il vero. Avven ne allora in
somma ciò, che la storia filo sofica ci presenta a ogni passo. Sempre dall'urto.
di due opposti sistemi n' è il ter zo spuntato, che li ha conciliato, giunto.
Anzi quando molti in contrasto so no i sistemi; allora è appunto, che sorgon
gli ecclettici, che scegliendo opinioni, or da un partigiano, orda un altro,
tutti con accozzano i partiti tra loro, e li riducono & uno. Sarebbe tempo
ora mai di volgerci dalla metafisica alla morale di G.. Ma portatesi assai più
avanti da lui le sue ricerche, e le sue vedute sull'anima, di storna noi pure
per ora d'imprender tal via. La fisica (abbiam noi osservato espo nendo la
dottrina di G.), essere stata quella scienza, in cui ei sopra ognº altro si
distinse, e cui mercè alto ha so nato, e sonerà eternamente il nome di lui.
Mà nello studio della natura quello, che più l'allettava, e cui principalmente
egli intendeva, era la contemplazione de' corpi organizzati. Riferi egli da
prima (sic. come abbiam noi pure os servato ), gli a. nimali a '
vegetabili, e da questi portando le sue specolazioni sull' uomo giunse sino
alla metafisica. Dall' uomo poi tornò G. ad ambidue quegli oggetti quasi al le
sue considerazioni primjere,e domesti che · Ando egli indagando, se i
vegetabili fossero stati provveduti di gentimento, e se gli animali e
vegetabili fossero stati tutti due al par dell'uomo forniti di anima. Si fatta
investigazione non fu punto difficile al nostro filosofo, come chi piglia va
l'analogia per sua guida. I corpi non organizzati, egli dicea, nulla hañ di
comu ne co' vegetabili; perd se quelli son privi di senso, questi all'incontro
nę debbono esser partecipi. I vegetabili all'opposto, ei sogglungea, molto aver
di comune cogli a nimali. Ambidue han tra loro comu. ni le primarie funzioni
vitali: son dotati di sesso, si nutriscono, crescono, traspira ban gioventù,
han yeochiezza, han no indozzamenti, malattie, sanità, nasco no, muojono. Però
se gli animali son for niti di sentimento, anche i vegetabili in ciò debbono
essere a quelli compagni. Fu quindi sua opinione essere gli alberi, 6 le piante
capaci di tristezza, di gaudio, di voluttà, di dolore, di desiderio, di sde gno;
e di ogn'altro animalesco appetito. Anzi spingendo egli più oltre la forza di
sua analogia, posti eguali i fisici rapporti > P 114 1 tra l'uomo, e gli
animali, e tra questi e i vegetabili, fu di parere, che l' avere un'anima
materiale non fosse un privilegio sol conceduto all' umana natura, ma comu ne
eziandio a tutti quanti i corpi organiz zati. Anima quindi, e sentimento egli
die de, non che agli animali; ma anima e sentimento altresì a ' vegetabili, e a
ogni sorte d'erbe, e di piante. ANIMA e sentimento da G. a’ vegetabili ! fiori
che si rattristano; erbe che si adirano; pianto, che ' o si rallegra no o
piangono ! Quanti, non che qual fan. tastico piglieranno il nostro filosofo, ma
ne rideranno ancora al sentirlo? Ma non rideranno certo, chi più sag. gi e più
istrutti, non ignorano punto, che anche i Democriti, gli Anassagori, i Pla toni
abbracciaron si fatta sentenza (90 ). La quale non è già, che faccia a lui ono
re, perchè, abbia in cið avuto e compagni, e seguaci così solenni filosofi. Ciò
sarebbe un argomento d'autorità, che nulla, o po co conchiuderebbe in suo pro:
perchè filo-, 115 sofi ' ancor di gran nome stan sottoposti a errori grossolani,
e massicci. E' che la co sa non è in se stessa sì strana; come a pri ma vista
apparisce. L'anima materiale da que' gran filosofi negli animali, e vegetabi li
ammesza, in sostanza altro non era, che la fisica sensibilità de' moderni.
Questa vole van costoro, che fosse ne' vegetabili tal qua le tra gli animali si
trova: In virtù di que sta ', credevan gli stessi, i vegetabili al par degli
animali ésser capaci d'amore, odio, e d'ogn' altro animalesco appetito. Empe
docle in breve, e que gran filosofi ebbero e uomini, e bruti, e vegetabili come
do tati di senso, e la fisica lor sensibilità chia marono anima. Chi adesso
potrà dirittaa mente riprendere G.? Di poi non vi sono a di nostri de ' fi
siologisti famosi, che nelle piante trovano senso d' umido, di secco, di caldo,
di fred do, di luce, di tenebre; perchè non po che di quelle chiudono o aprono
i loro pe tali atteso il freddo o il caldo, il secco o l' umido, il lune o lo
scuro? Non vi soa P 2 116 no del pari quelli, che veggon nelle pian. te, chi il
senso del tatto, come nella sen sitiva; chi quel dell' amore, come nella
valisneria, chi una specie di gusto nell'e. stremità d'ogni radice, cui mercè
questa sceglio, e trae quella nutrizione, che si con. viene a ciascuna? Non son
finalmente o Darwin e le Metherie, che van cercando, é credono d'aver già
trovato ne' vegetabili e senso, o sensorio? Qual assurdo egli è dunque, se G.,
che ne' suoi con cetti abbracciava tutta la natura, abbia u. nito insieme tutti
i corpi organizzati per via della fisica sensibilità, che credea essere a
quelli comtine? La natura, non v'è dub bio, aver distinto, e separato il
vegetabile dall' anirnale con differenze, e caratteri ben contrassegnati, e
rivissimi. Ma l' estendere la sensibilità dagli animali sino alle piante è una
idea grande, bella, e degna di un sommo filosofo. Non v'è, chi a prima vi sta
non ne debba restar preso, e non bra mi trovar vera quella, che vera sin ora
non è. Ma comunque ciò sia, una cosa ' solit è verissima, G. aver riguardato i
corpi organici in un aspetto diverso di quel, che fece Pittagora, o i filosofi
prima di lui. Costoro non ebbero nè pure in pen siero di considerar le piante,
di bruti, come dotati di sentimento, e di anima, G. fu il primo, almen tra
pittagori ci, a pensare in tal modo. Egli fu, cho ebbe e uomini, e bruti, e
piante, quali esseri congiunti tra loro dalla sensibilità, come quasi comune
strettissimo vincolo, o che suppose in tutti un' anima materiala egualmente.
Però egli fu anche il primo, che strinse l'uomo colle piante, o co ' brus ti ad
alquanti sognati doveri, che nasco Ro da quella ideata parentela, con cui e gli
legò quello con questi. Ecco ora come chiaro si vede su qual base vada a
poggiar la morale di G.. Sulla fisica fondo ei la sua, metafisia ca, e su
quella fondd egli ancora gran parte di quest'altra scienza. Con si fatte vedute
costui pubblico due gran poemi sul. Ii8 la natura il primo, e gulle purgazioni
il secondo. In questo G. stabilì la sua
etiça; in quello la fisica: ma fece precede re il primo al secondo, come
argomento pri mario della sua raffinata morale. La morale d'Empedocle fu in
verità nel suo fondo la stessa di Pittagora. Pu re lni citano gli antichi
scrittori, come chi. avesse alterato la prima antica dottrina di quel sommo
filosofo, e i tempi di lui ad ditano come la seconda epoca del pittago ricisino.
Ma ciò avvenne, perchè G., aggiustata la morale di Pittagora a suo modo, e
conforme al suo fisico pensa rė gi scostò al quanto dagl' insegnamenti di lui.
La colpa degli spiriti; una diversa maniera di metémpsicosi: l'astinenza di
qualche sorta di cibo, furono in tutto le gran novità, ch'egli introdusse nel
corpo della morale di quello. Tra queste come principale, e primaria è da
reputarsi l'o pinion della colpa degli spiriti. Non d ' al tra fonte, che da
questa, qual prima ca. il.119 gione, il nostro filosofo fece dipendere la
metempsicosi e le purificazioni, che sono i due çardini della morale
pittagorica. Fu opinione di G., che varj spiriti, mentre menavano yita beata,
avesser pec: cato. Però a cagion di delitto, si credet te da lui, quelli,
scacciati dal cielo, e pri vi degli onori divini, essere stati così astret ti
ad espiare i lor falli. Esuli, erranti, ra minghi, egli diceva, vanno lungi dal
cie lo per trenta mila anni, e pagan vagando il fio meritato del propio loro
delitto. L' etere quindi, e' soggiungea, precipita gli spiriti nel mare, il
mare sulla terra gli sbalza, la terra gli sospinge nell'aria, l ' aria sino
all' etere gl' inalza. A quelli sų giù sospinti perciò, e quà e la circolando
risospinti, oyunque era d'uopo in mare, in aria, in terra vivere in miseria e
in lutto. Tali spiriti, secondo che piacque a costui, andavan successivamente
informan do varj corpi, e questi appunto erano le infelici anime degli uomini.
Queste quindi stavano in pena delle lor colpe racchius e ne' corpi; i corpi
eran le prigioni delle ani me, e la matempsicosi, di cui Empedocle formo il
primo cardine di sua morale, giu ata il parer del medesimo, era una pena delle
stesse, ch'aveano prima fallato. Di si fatta reità delle anime che ragion fa
della metempsicosi, non si trova vestigio alcuno presso que' filosofi, che
furono in nanti di G.. Questa per la prima volta si legge ne' versi di lui. Ai
suoi tem pi fu, che la medesima divenne comune, o volgare: e Platono dopo fu
quello, che l' abbelli sopra ogn' altro. Pero da G. comincia una nuova età del
pittago ricismo; perchè da lui comincia l'opinione della fallenza delle anime,
qual base e ra gione della trasmigrazion delle stesse. Egli è vero, la
metempsicosi, comu ne a pittagorici, essere stata antichissima presso gli Egizi.
Non si dubita ne anche aver costoro diviso in più periodi il tempo della
trasmigrazion dalle anime, assegnato a ciascuno la durata di tre mila 121 anni.
In ogni periodo, credeano i medesi mi ogni anima, informato prima solamen te il
corpo di un uomo, andar poi tratto tratto passando non più ne' corpi d' altri
uomini, ma di qualunque animale,. che abita o l' aria, o il mare, o la terra.
E' vero altresì tal dottrina essere stata dall' Egitto portata da Pittagora
presso de' Gre ci. Non si dubita nè pure i Greci filosofi coll' andar del tempo
averla molto alterata. Altri restrinsero la metempsicosi ai soli corpi umani,
altri pari agli Egizj ľ1°. estesero dagli uomini ai bruti. Vi fu pa. rimente,
chi disse que periodi esseri tre, chi dieci, chi nove. Nè mancavan di quei, che
ridussėro la durata d'ogni periodo da tre mila a soli mille anni. G. fra tanto
afferind il nume ro di que' periodi esser dieci, e la durata di ciascuno di tre
mila anni. Ma l ' anime secondo lui migravano in ognuno di que' periodi in ogni
sola volta nel corpo d'un uomo, e in tutto il resto a ' finire il cir colo di
ciascun degli stessi, andavano mion che ne' bruti, ma eziandio nelle piante. Sono
fanciullo, dice G., sono donzella, augello, albero, pesce. Chi è or, che non
vegga esser questa un altra delle alterazioni recate da costui alla metempsi
cosi di Pittagora, e degli Egiziani? Questi la voleano solamente negli uomini,
o ne' bruti. Empedocle agli uomini, e a ' bruti aggiunse la trasmigrazione
ancor nelle pian te. Ma non si creda mica, che tale ag giunta d'Empedocle alla
dottrina della me tempsicosi di Pittagora, e degli Egiziani, fosse stata in lui
l'opera del capriccio, o del caso. Sarebbe cid indegno di un nuovo, e original filosofo.
Chi si risovviene del fisico sistema del primo, conosce che si dovea far
certamente quest' alterazione notabile alla metempsicosi del secondo, Gia si sa
aver avuto G. le piante, al par degli animali, dotate di sentimento, o d'anima
materiale. Ma non così aveano pensato nè Pittagora, nè gli Egiziani. Pero
quegli fece passar le anime e dagli uomini, e da bruti alle piante, e questi
cre dean, che le anime migrassero dagli uo mini nel corpo solamente de' bruti.
Le a mirne in somma in forza del sistema d ' Em. pedocle, dovean circolare
informando tutti que' corpi, che in qualunque maniera fos. sero stati
organizzati. Ecco le due novità recate dal nostro filosofo alla morale di
Pittagora, ma novi tà ben legate tra loro qual cagione ad ef fetto. Alla colpa
delle anime aggiunse G. la metempsicosi, come al delitto va compagna la pena.
Ma quel ch'è più, a questa e a quella unite insieme andò egli pure legando la
demonologia: articolo fon damentale della teologia de' pagani. i Vedea egli
quasi ingeniti all' uomo i semi si della virtù, che del vizio. Allor si pensava
lo spirito ' tendere naturalmente à cose spirituali ed eterne, e la materia al
le materiali e caduche. Credette ei quin di i semi della virtù nascer nell'
uomo dall' anima, e gli altri del vizio nascere in lui della materia. Ma
l'anima, a suo predere, chiusa nel corpo, restava contamina. ta dalla materia,
e. però era sospinta assai più verso il male, che il bene. Oimè, di cea egli,
come è misero, come. è infelice il genere umano. A quali guai, a qua li pianti
non è ei sottoposto Queste due tendenze dell'uonio al be: ne, e, al mal fare
raffigurò G., giu. sta il costume di quell'età, sotto le imma gini di due
opposti genj. Due, egli disse, sono i genj, che quali direttori delle azio ni
degli uomini, accompagnano ciascun uo « mo in tutto il corso della vita d '
ognuno di loro. Buono è l'uno, l'altro è malva gio. Il primo guida, o conforta
lui alla virtù; il secondo spinge e conduce il me desimo al vizio (94). Ma
ambidue questi genj non indicavano, che questa stessa dop pia tendenza. Pure
tutto il volgo allora venne nel credere, che ciascun uomo dal nascere al morire
fosse' stato realmente as. sistito da un genio buono, e da un altro malvagio.
Tanto egli è vero, che le im magini, sotto cui adombravano gli antichi filosofi
le loro specolazioni, fossero state ca gioni di superstizione, e di errori.
L'uomo non solo ha tendenze al be ne e al male, ma è capace altresì d' ope. rar
l' uno, o l'altro. Quante virtù, e quanti vizi di fatto ei mette in pratica !
Ma questi stessi ebbe la bizzaria Empedoc cle di designare sotto la figura di
genj. Singolari, non cho speciosi furono i nomi, con cui egli distinse i
demoni, che rap presentavano i vizi, ' e le sfrenate passioni degli uomini, De
nomi di Chtonia, d' He liope, d ' Asafia, di Nemerte, o di parec shi altri ne
sjamo debitori a Plutarco. Singolari eziandio, non che speciosi, esser
dovettero i nomi, con cui distinse lo stesso l'opposta classe di genj, che
rappresenta vano le virtù, e le passioni imbrigliate de gli uomini, Mą il tempo,
che rode ogni cosa, non ha fatto quelli pervenir sino a noi. Pure è sfuggita da
sifatta ingiuria la nominazione, con cui G. appelle virtù, felice prodotto,
delle regolate passioni. I pittagorici furono usi chiamare il mondo spelonca, e
G., qual pittagorico, chiamò le virtù, e passioni virtuose ' potestà
conducitrici delle anime: quasi giunte nel mondo, come in un an tro. Il popolo,
che in ogni cosa vede portenti, e finge de' genj, accolse quasi revelazione
venuta dal cielo, la de monologia del nostro filosofo. Gli antichi scrittori,
pari al volgo, non compresero nè pure il vero intentimento di lui. Que sti però
dipinsero G., come chi avesse popilato l'intero universo di demo nj, e
attribuito a virtù de' genj ogni ope razion di natura. Ma questa stessa
dottrina de' genj fu il fondamento della magia, e teurgia fa mosa di G.. Questa,
in que' tempi cra un metodo di purificar le anime col favore degli Dei benefici,
che dovean con dir quelle all'unione con Dio. Gli Dei bendici non eran che
virtù astratte deifi. cate da lui: è nella pratica delle sante o pere era
riposto tutto il culto di quelli. Credea egli, non poter le anime ritornare
agli onori divini, da cui erat cadute, che coll' ajuto di quegli Dei, perchè
credeva altreşi non potersi quelle inalzare a Dio, che coll' esercizio delle
sante virtù. La teurgia in somma di G. e un retto, e diritto nietodo di
purificar le anime colle opere buone. Sembra cosa veramente incredibile che
uomini abbandonati al debile filo della pro pia imbecille ragione, e privi di
qualunque superior lume di rivelazione divina, avessero potuto architettare un
piano di quasi per fetta morale. Non fu gia la metempsicosi quella, che giusta
i pittagorici avesse po tuto purificar le anime. Questa non era purificazione e
virtù, ma pena dovuta al. delitto. Questa non si poteva in alcuna an corchè
menomisssima parte, o abbreviare, o alterare. Esser questa un decreto divis no,
essere un santo giuramento si spaccia va a tutti da G.. Ciascun anima
avvegnachè virtuosa, e purissima (così és. si pensavano ) non potea unirsi a
Dio, se non compiti i periodi, e il tempo tutto di esilin. Le purificazioni
altro cardine della morale di G. eran propiamente, secon do tutti i
Pittagorici, le sule, che a poco a poco lavavan le anime, e toglievan loro in
quel tempo, che informavano i corpi umani, ogni macchia, di cui le medesime
potevano essere dalla materia bruttate. Pur gate poi le sozzure, e finiti i
periodi tut ti del bando, allora era, che le anime già nette, secondo che allar
si credeva, fos sero agli antichi onori tornate, e alla vita divina... I sagri
riti poi, lo studio delle scien ze, la pratica della virtù erano i tre mo di di
purificazione inventati all' uopo da que' sommi filosofi. Sembra à prima vista
o superfluo o inutile essere stato il primo di questi mo di, e tutti gli
augusti riti, e quelle ceri-, monie solenni, che si metteano in opera al lor da
Teurgici. Ma si poteva scuotere, e infiammare altrimenti l'immaginazione de gli
uomini, affinchè questa si fosse resa docile agl' insegnamenti della virtù?
L'110 { 129 - mo materiale si solleva dal mondo materia le merce cose eziandio
materiali. Le cerimonie, ei riti sono i soli, che colle san. te immagini
níuovono i sensi, e astraendo li dalle cose impure alle pure gli inalza no. I
riti sono il verace linguaggio de sen si, che efficacemente parlando destano la
fantasia. A questa è sol conceduto ' creare tra il mondo materiale l'altro
spirituale: Disadatto pure si crederà forse essere stato lo studio delle
scienze a purificar le anime. Ma non è egli questo, che aliena lo spirito: dai
vizi, che l'introduce alle co se intelligibili; e che sveglia in lui le idee
immateriali e celesti? Non è egli vero al tresì l'anima, esercitata nelle cose
dell' in telletto, districarsi da' fantasmi del corpo, e. dalle false opinioni
del volgo? Era certa mente un ridicolo sogno quello de pittago rici, che collo
studio delle severe discipli ne fosse tornata alle nostr' anime la mé. moria
delle cose divine. Ma certamente all' opposto è un dogma incontrastabile,. che
tanto più la nostra mente si allontana dalla materia e dagli appetiti carnali,
quan to più la medesima s' aggira sulla contem. plazione o de' principj delle
cose, o delle matematiche, o elogn'altra scienza. Ma in verità e uso di riti, e
studio di scienze, e ogni qualunque altra cosa, che avessero potuto specolare
gli antichi, sa rebbe lor tornata inutile, ne sarebbe mai giunta a purificar nè
meno da lungi le a nime, se a tutto ciò non avessero costoro accoppiato del
pari la pratica della virtù. Questo in fine dovea essere il bersaglio, cui
dovean dirizzarsi que' grandi filosofi: o questo l'ultimo e principal metodo di
pu rificazione. Non si può infatti ne pure ideare quanto studio avessero posto
costoro ad astenersi da ogni ancorchè minimo fal lo. Tutti quanti (tranne il
loro raffinato orgoglio, e la loro squisita 'boria e super bia ) furono del
tutto.virtuosi. Di e nota te si recavan essi sopra se stessi, scrupo losamente
ogni lor fatto esaminando, e c gni movimento del propio loro cuore. In
estimabile era la diligenza, ch' essi adoperzano a nettar d'ogni ruggine
l'animo lo ro, e a far bene ogni cosa. Tutta la vita į medesimi spendevano in
contemplare oggetti spirituali, e. in praticar virtù, e que pre cetti, che si
leggono scritti ne' versi dorati. Si crederebbe quì finito il lavoro della loro
morale, Pure come eglino avevano que sta diviso in due parti, così alla
purifica zione aggiunsero altresì la perfezione. Non bastò a Pittagora l'
essersi lusingato, che l'anima, mercè la prima si fosse e mondata da vizi, e
separata dalla materia, e liberata quasi dal vincolo, che la ren deva prigione.
Volle di più immaginarsi, che l' anima, mercè la seconda già prima purificata,
si fosse poi inalzata a Dio, o ripigliati gli antichi abiti, e forma, si fos se
confusa colla divinità medesima. Le ar nine in somma, che secondo Pittagora e
G., erano di loro natura divi ne, ma contaminate dalla colpa e mate ria ',
dovean prima purificarsi, e poi sì per fezionarsi, che fossero state degne di
tor nare a Dio, e agli onori primieri. Però l' immacolato, e innocente viver di
G. obbligo lui a spacciarsi qual Dio, e a promettere ai puri, e perfetti il
divino come premio. Sin quì G., e Pittagora furon d'accordo, e quegli fece uno
con questo. L' essere stata comune l ' opinione tra loro nel principio, da cui
la purificazione, e perfezione avesse avuto sua origine, non fece punto
discrepar l'uno dall'altro, Cre deano ambidue le anime tutte degli uomi ni, e
tutti gli spiriti altresì formare uni ca, e sola famiglia con Dio. Là poi, ove
i sistemi loro non furon punto d'accordo si fatti filosofi furon del tutto
discordi.G., altrimenti che Pittagora, riguardo uomini, bruti, piante come
unica famiglia. Non è più quindi da far sorpresa, se si ve de ora entrare in
iscena una terza novità di G., come riforma alla moral di Pittagora. Se si vuol
prestar fede ad Aristotile ad Aristosseno, e Teofrasto, Pittagora e i
Pittagorici della prima età uccidevano, eccettine i bovi destinati ai lavori,
ogni sor ta d'animali, e tranne i loro cuori e ma trici ne mangiavan le carni:
s ' astenevan solamente da' pesci. G. all'incontro fu il primo che proibì
affatto qualunque uso di carne; e riputò sacrilegio l'uccidere quale che si
fosse animale. Non veggo, dicea egli, perchè alcuni animali debbano serbarsi in
vita, e altri all'incontro si pog sano uccidere. Una è la legge per tutti, é
questa è pubblica per tutta la terra. Vedeva costui in tutti gli esseri organiz
zati, facendone un sol corpo morale, quasi unica é sola farniglia, Perd non
sapeva egli scorgere differenza notabile tra uomini, e bruti. Smanioso egli
quindi si scaglia con tro chi avesse sagrificato in que' tempi vit. time agli Dei,
che' attesa la metempsicosi, potevano per lo più esser uomini sottom bra di
bruti. Cessate, gridava G., o crudeli, di fare strage, e lordarvi di san gue:
Pazzo il padre, che sotto altra sem. bianza scanna il propio figliuolo, e vane
preghiere disperge all'aria e al vento. Stolti non veggono, che divorando le
fumanti sanguinose carni di animali le menbra pa. rimente divorano de' lor
padri, figliuoli, o congiunti. Si riderebbe oggi la presente età del: la
severità di G., e si reputerà cer tamente stravagante la sua pietà verso i
bruti. Ma ad altro, e più nobil fine ten devan le idee del nostro filosofo.
L'uomo è in mezzo a' suoi simili, e l' amore è il principale anello, che dee le
garlo cogli altri. L'amor verso i simili è il principale dovere di un uomo di
società: e la pieta n'è la base. Ma questa non si potrà avere giammai, se non
campeggia e dilatasi sopra tutti gli oggetti, che circon dano lui. Se l'uomo
deve avere pietà ver gli uomini, uop' è non che estenderla, mia cominciarla da'
bruti. Qualor ' si eser-: citasse ferocia contro i medesimi, agevol mente il
reo costume l'andrebbe portando ancor contro gli uomini. Anche tra noi, se non
può recarsi a effetto sì fatta proibizio. ne di scannar gli animali, sempre
egli vero, che debbasi tener come parte di e ducazione gentile, quella
d'insinuare ne gli animi ancor teneri de' giovani la pietà verso i bruti. Non
son dunque da ripren, dersi, così tentoni, gli antichi filosofi per quegli
insegnamenti, che oggi, mutate le usa nze, ci sembrano stolti. La proibizio. ne
che G. diede a' suoi scolari d ' uccidere gli animali, e cibarsene, ebbe in
mira non sol di non essere crudeli, e feroci cogli altri; ma di dispor loro ad
amarsi l ' un l'altro a vicenda, e nelle disgrazie scam. bievolmente aiutarsi.
Egli non senza sotti le avvedimento si sforzò così in persona de? suoi
compatriotti svegliare allora in tutta la generazione degli uomini
quell'attitudine, che porta loro a prender parte nell' altrui traversie:
attitudine, che di sua natura è debole, languida, spesso sopita, e quasi sempre
soffogata, ed estinta. Però G. a ingentilir gli animi umani, e rasla dolcire i
costumi degli uomini, volle che questi non si avessero bruttato le mani del
sangue, né avessero mangiato le carni de’ bruti. Chi è beniguo co ' bruti non
può certo negare agli uoinini amore, pietà, cor tesia, frattellanza. Pittagora
nulla conse guente a' suoi stabiliti principj della metem psicosi, trascurando
quasi tutti gli anima li, ſecesi soltanto scrupolo, e proibi, che si fosse
recata alcuna ingiuria alle piante, che non fossero state nocevoli. Ma G. fa
molto più, e' meglio assai di Pittagora. Egli dotate prima quelle di sen
timento, proibi poi che si fosse fatto loro del male: ailinchè non si fossero
avvezza ti gli uomini ad offendere esseri forniti di sensi e di organi. Fu in
somma intendi mento di lui in tutte le maniere, quasi tirando tutte le linee a
un centro, stabili re tra gli uomini fratellanza e amicizia Però fu, sollecito
ei d ' ordinare, che oltre agli animali, si avesse avuto compassione sin anche
alle stesse piante.. Sarebbe stata finalmente non che man. chevole, ma mulla la
morale di G., s' egli non avesse presentato o un premio, una pena agli
osservanti, o violatori de' ciò, precetti da lui stabiliti. La speranza del
premio, e il timor della pena, interni po. tentissimi stimoli dell'animo umano,
inco raggiano i buoni a operar la. virtù, spa ventano i mali a praticare il
vizio. E' ben ragionevole quindi, che G. avesse pigliato una via come stabili
re e premio', e pena, sì alla virtù, che al vizio: e il fece appunto combinando
al par de pittagorici, colla dottrina della metempsicosi. Il tempo di tre mila
anni di ciascuno de' dieci periodi di essa non era destinato da Empedocle a far
cir colare sempre le anime da un corpo in un altro. Le anime in ogni giro di
tre mila anni informavano secondo lui e vegetabili, e bruti. Di poi andavano
esse in ultimo E luogo ad avvivare il corpo di un uomo. questo finalmente morto,
passavan quelle ad abitare un luogo o di gaudio o di lutto secondochè le
medesime avessero o bene, o male operato. Quivi doveano esse restare, finchè
finito avessero il primo periodo di tre mila anni. Dovean le medesime torna.
STo appresso a cominciare il secondo di al tri tre mila anni, passando tratto
tratto ne corpi: d' altri bruti, di altre piante, o finalmente di altri uomini.
Così successiva mente doveano esse fare in tutto il corso degli interi dieci
periodi: e cosi le medesi mo doveano essere o premiato, o punite in ciascuno di
essi. Ma al finire di tutti i dieci circoli quelle anime, ch'eran tenaci ne'
vizi, giusta G., bandite dal cie. lo, eran dannate in mezzo alle tenebre, e in
un continuo lutto, o un eterno suppli zio. Le altre poi, che virtuose al compir
di quo' circoli si fossero trovate belle e det. te secondo lui, si portavano
all'etere puro, e collocate in mezzo alla luce, sedcano in vi a mensa coi forti
Danai, in eterno go dimiento, nell' unione con Dio. Tutto ciò si raccoglie da '
versi di G.. Così pur si pensava da' pittagorici di Sicilia; nè al trimenti si
canto da Pindaro nelle sue odi dirette a Gerone, e Terone. Ecco tutto, il
quadro compito della intera mora le di G. Egli è senz' alcun dubbio, essere
stata questa assai raffinata, e, molto diversa da quella del volgo. E ' cosa da
recar mara. viglia l'osservare, com ' essa in tempi assai caliginosi, fosse
stata tanto bene architetta ta, cosi brillante, e del tutto diretta a ri.
pulire il costume, a liberar l'uonio, quan to più s' avesse potuto dai vizi, e
a nobi litar l'anima e la mente di lui. Cid nulla ostante ella ha eziandio i
suoi gran difetti. L'essere stata la stessa riservata ai soli sapienti, e ai
soli iniziati ne fu il principale. Quel sistema d'Etica, che non è fatto per
tutti gli uomini, non può esser giusto, santo, verace. Tutti quan. ti gli
uomini sono astretti agli stessi doveri, e a una sola virtù, Si può considerare,
& gli è certo, la scuola pittagorica, qual.ce nobio, é i pittagorici quali
religiosi dell' antica Grecia. Ma l'orgoglio guastava le loro azioni, rendea
yane le loro fatiche, avvelenava ogni loro virtù. Pure è sem pre da reputarsi
degno di lode il nostro filosofo, che osservantissimo de' precetti pittagorici
non ebbe difficoltà di manifestarli, e divolgarli nel suo poema delle parilica
zioni per solo e semplice amore di onestà, e di virtù, G., tranne la super bia,
radice infetta dell' operare d'ogni an tico filosofo, è da celebrarsi, come
quel lo, che ornato di cortesia, amante degli uomini, e virtuoso, avesse
aspirato sempre a perfezionar molto se stesso. Ma gli onori, che si rendono a'
tra passati; le lodi, di cui s' onora la memo ria de gran genj, non possono nè
recar loro diletto, che più non sono, nè tocca re il lor cenere, che affatto è
privo di senso. Tutti i loro elogi, come quelli, che eccitano l'orgoglio e la
vanità de' viventi, noi guardano e a noi son diretti. Siam noi, che dagli
omaggi, che si tributano a quelli, prendiamo speranza di poter forse nieritare
la stessa gloria, e acquistar la fa na stessa presso le generazioni avvenire.
Del nome di G. fu una volta ne è oggi, e ne sarà sempre piena la ter,. La
filosofia di lui fu tenuta assai in 141 pregio presso tutta l'antichità tra
Greci e Latini. Quella occupa tal sublime posto di onore nella storia delle
scienze, che G. si può dir, che appartenga a tutte le più colte nazioni. La
Sicilia fra tanto è la sola che a giusta ragione lui vanta: qual suo. Felice
quel suolo, beato quel clima, cho dà il natale a' grandi uomini ! La memoria e
la fama loro è un fecondissimo germe, che in ogni età ne desta l' emulazione, e
ne riproduce il sapere. Tal dovrebbe essere a noi il dolce nome di G., caro
alla yirtù, caro alle lettere. Anatomia, fisiologia, chimica de cor pi
organizzati possono lui chiamare padre inventore. L' essersi ridotta la materia
a quattro elementi; l' essersi trovate due for ze in natura di repulsione, di
affinità; 1" essersi intrapreso il metodo di fisiche espe. rienze, la
terra n'è a lui debitrice. La scoperta della chiocciola; della successiva
propagazion della luce; del peso e della molla dell' aria; del nutrirsi, del
traspira e dell'essere ovipare le pianto al par de gli animali son cose tutte
propie di lui. Divolgati appena sì fatti suoi ritrovamenti, tosto si rese
celebre il suo nome in tutta la Grecia, ed egli uno de' concorrenti di venne
tra Anassagora e Democrito, La gloria di G., che in gran parte è ancor nostra,
ci dee infiammare a battere lo stesso sentiero. La Sicilia è la stessa oggi,
ch'era allora ai tempi di G.. Ella in ogn'angolo, e in tutta quanta la sua
superficie presenta a' nostri occhi oggetti sempre degni di nostre filoso fiche
ricerche. Piante d'ogni sorte, acque d'ogni specie ', minerali d'ogni genere, e
i più distinti volcani esistono nel nostro suolo. Il Fisico, il Chimico, il
Botanico lo storico naturale trova ovunque ampia materia d'appagar le sue brame.
E ' no stra somma vergogna il vedere oggi, che vengan tra noi gli stranieri a
insegnare a noi le cose nostre. Si saran forse cambiati il cielo, il clima, la
terra, che un di furono ne' tempi de' nostri antichi filosofi? O pur saran
venuti meno gli ingegni tra noi? Non sono eglino I SICILIANI dotati ancora o d’acume
nello specolare, e di prontezza nel riflettere, e di prestezza nell' eseguire,
che loro hanno in o gni tempo distinto? LA SICILIA una volta emula della Grecia
in ogni genere di colo tura non potrà anche a di nostri concorrere e gareggiar
nelle scienze colle più polite nazioni? Si pigli dunque orgoglio dell'
aggiustata idea di nostra antica grandezza. Questo, scossa l'inerzia, ci sarà
di stimo. lo ad una nuova carriera da imprendere. La fatica è l'unica via, che
conduce al sa pere, e questa ci porta, certamente alla fama. Si desti quindi in
ciascuno di noi la virtuosa imitazione d’Empedocle, e si co minci la
grand'opera con ardore e franchez za. Un felice evento coronerà allora ogni
nostro travaglio: la posterità ricorderà noi collo stesso onore, con cui pieni
d'ammi razione noi ricordiamo G. G. non che e eccellente filosofo: ma e del
pari profondo politico. SICILIANI, non andate quà là ad apprender ta pini da
questo e da quello ordini civili, e fogge di governo. Guardate i maestosi
avanzi delle nostre antiche città; specchia. tevi su li nostri passati famosi
legislatori; richiamate alla memoria i fatti chiarissimi, non che della nostra
Greca SICILIA, ma del la vita di G.. Così tratto tratto di verrete atti a
maneggiar le cose pubbliche, e ben presto vi sarà tra voi politica non cabala,
libertà non licenza. G., convinti un dì i nobili di Gergenti GERGENTI – non
GIRGENTI -- di peculato, atterrò ivi la lor signoria: Non è disdicevole quindi
l'imma ginarcelo, ch'egli colla stessa voce gli ota timati così riprenda di
nostra età. Finito è il tempo, in cui usurpata un ingiusta franchigia de'
pubblici dazj, generosi offri vate al Re il denaro del popolo, a fine e di
ottener da quello nuove insopportabi li prerogative, e di stringer questo vie
più nuove insoffribili catene. Finito è il tempo in cui macchinando l'esenzion
delle taglie, scaricavate gran parte del pubblico con peso sulle città
immediatamente al Re sotto poste a fine di disertar qrieste, e di rau nare
schiavi in gran copia nelle terre a voi immediatamente soggette. Finito è il
tem po, in cui voi assumendo la voce e qualità di nazione, che non avevate,
minacciosi vi rivolgevate contro del trono per non paga re, e taglieggiare il
popolo ogni tre anni. Già il Principe si è congiunto col popolo. Gia la voce
del Re, ch'è quella dell'ins tera nazione, è divenuta oggi più imperio, sa
insieme e sicura. Essa ha già rivelato il grande arcano del vostro tirannico
impe ro essere stato riposto nell'aver voi voluto fin'ora poco o nulla soffrire
de’ dazj, e far li tutti a carico andare della povera gen te. Chi di voi potrà
or tolerare con ani mo tranquillo tra vecchi debitori dello sta to non altri
nonni leggersi che i vostri, e de' vostri antenati? Chi sarà tanto scelleras to,
che rivelando il falso, voglia occulta re l'immensa estensione de' suoi ricchi
fon di; affinchè a danno del meschino e del povero, pagasse egli quanto meno si
possa 2 t 140 Chi sarà cosi ribaldo, che voglia sgravar d ' imposta la terra,
unica e sola sorgente di ricchezza in Sicilia, per istrappare con mano rapace
qualche misero tozzo dalla bocca faa melica dello stanco e affannato
agricoltore? Şe cið han fatto i vostri maggiori, sono essi stati i più tristi
nemici, anzi i più crudeli tiranni dell' infelice Sicilia. Si appartiene ora a
voi lavar le macchie di quelli, e onorar voi stessi, contribuendo alla pubblica
feli cità col pagarsi prontamente da voi a pro porzione della vostra opulenza,
Ma G. dovrebbero avere ezian dio qual modello non che i nobili, chi presi del
fantasma di democrazia vo lessero condurre a sfrenatezza la plebe. Quante altre
cose possiamo noi idearci a ver potuto lui dire, a costoro ! Egli poten do in
Gergenti GERGENTI non GIRGENTI stabilire un governo collo cato tutto nella
potestà del popolo, af fatto nol volle. A' popolari uni costui gli ottimati in
quella città; e teniperò così gli uni cogli altri. L'equilibrio de' poteri, con
cui s'amministrano le cose pubbliche, è la ma solida base, su cui dee riposare,
volendo si e florido e durevole, il presente gover no. L'equilibrio morale, non
altrimenti che il fisico, viene da contrarietà ed egua glianza di forze. Il
popolo ' non deve mai essere. -oppresso, ma all'incontro non dee ne pure essere
costui un oppressore. Se la sua forza sbilancia, lo stato andrà tutto a
soqquadro, e ruinerà senza meno. La ven detta piglierà allora il nome di forza,
di senno il delirio, di libertà la licenza. I poteri legislativo, giudiziario,
esecutivo si debbono a vicenda venerazione e rispetto; tutti debbono riunirsi,
e cospirare a un sol centro: e se per caso ne sia uno avvalla dee tosto
corrersi con mano presta a rialzarlo. Quanto è difficile mantenere og gi in
Sicilia un sl fatto equilibrio ! Appe na vi basterebbe un G.. Egli ad assodar
vie più la novella for ma di governo stabilita da lui nella sua patria, ebbe in
fin l' accorgimento di pian. tarla sulla pubblica coltura, e sul pub blico
civile costume. Qual sublime lezio to, t 2 148 è un sogno, zione ella è questa
da adottarsi da' nostri legislatori d'oggidi, se vogliono eternare, più che si
può, il presente governo stabi lito di fresco. Un impero assoluto si può
fondare tra selvaggi e tra barbari, e vien prosperando in mezzo a gente
corrotta. Ma è un delirio il pretender fer mo un governo costituzionale senza
nè col tura nè costume per base. Nello stato, in cui è il nostro suolo, non
potrà certamente portare la novella libera costituzione senza che fosse prima
quello preparato e divelto. Voglia Iddio che i nostri, posti giù l'e goismo, le
false massime, gl ' impeti, glodj imprendessero a imitare Empedocle, e i nostri
antichi felicissimi tempi. Ma se I SICILIANI tutti debbon trarre qualche utile
insegnamento dal nostro fil sofo; i Gergentini – GERGENTI, non GIRGENTI -- massime
ne dovrebbero emular la virtù. La patria de' grand ' uomi ni è quella su cui
sfolgora, riflette e va a concentrarsi, la gloria di loro. Si dovreb bero
ricordare i Gergentini – GERGENTI non GIRGENT, ch ' essi principalmente a G.
son debitori d'esa 149 ser tanto chiari, e così famosi nella nostra sicola
storia. Si dovrebbero eglino pur ri cordare, che vicino a que' tempi, che vis
sita oggi lo straniero, e sopra lo stesso suo. lo, che calcano i Gergentini -- GERGENTI, non GIRGENTI medesimi, dettò
allora G. a GORGIA l'eleganti, avvegnachè prime lezioni di Rettorica. Gli
stessi quindi a ripigliare in loro l'antico u sato splendore dovrebbero
richiamare tra loro e le fisiche e le matematiche discipli ne, e ogn'altra
amena e polita lettera tura. Allor si potranno i Gergentini – GERGENTI non
GIRGENTI -- gloriare a ragione d' aver prodotto, e dato la culla a G.. Così
eglino saran vera mente degni concittadini di lui. Ne altri menti si potranno
lusingare gli stessi di far risorger tra loro il verace spirito d' Empe docle,
e di poter quivi dire allo straniero. Dell' eccelsa sua mente i sacri versi
Cantansi d'ogn'intorno, e vi s'impara Si dotte invenzioni, e si preclare Che
credibil non par, ch'egli d'umana Progenie fosse. Il n'est pas ) Freret
raffigura l'attrazione e re pulsione di Newton nell'amore e odio di G.. E però
dice besoin d'un long discours pour montrer que le fond du systeme Newtonien,
dé pouillé de l'appareil et du détail de ses cal. culs se réduit a celui d '
Empedocle, Hi stoire de l'Académie Royale Des Inscripti ons et belles lettres, Memoires
-- Και γαρ ονπερ οιηθαη λεγειν αν τις μα. λιστα ομολογουμένως αυτω. Εμπεδοκλης
και TYTO TAUTO TETOVIE – G., di cui alcuno potrebbe portare opinione aver,
detto sopra di ogn'altro cose tra loro e a se stes so concordi; egli cadde nel
medesimo inconveniente (Arist. Metaph.) πος και 8το! O (Arist. de Coelo) -- Λευκίπι
και Δημοκρίτος Αβδερίτης φασι είναι τα πρωτα μεγεθη πληθ. μεν απαρα και μεγεθα
δε αδιαιρετα τροπον γαρ τινα παντα τα οντα ποικσιν αριθμους και εξ αριθ. μων
και γαρ ει μη σαφως δηλεσιν ομως τετο βελονται λεγαν 00 Leucippo e Democrito
dicono le prime grandezze essere infini te di numero, ma indivisibili. Essi in
certo modo fanno gli esseri o numeri, o da' numeri. E se ben non lo mostrano
chiu ro; pure questo vogliono dire. Εμπεδοκλης περι ελαχιστα εφη προ των
τεσσαρων στοιχειων θραυσματα ελαχιστα οιονα στοιχεία προ των στοιχεων ομοιομερη
και – G. prima de’ IV elementi suppone de minimi bricioli, che sono non
altrimen ti che gl’elementi degl’elementi, e parti simili Stob. Εcl. Phys. Ε
più chiaramente Plutarco de Pl. Ph. dice οιονα στοιχεια των στοιχείων »και
elementi degl’elementi. Ει δε στήσεται που διαλυσις ητοι ατος μον εσται το σωμα
εν ω ισταται η διαίρετον μεν ι μεν του διαι εθησομενον εδε ποτε καθαπερ εoικεν
Εμπεδοκλης βελεσθαι λέγειν. Se lo scioglinzento delle parti si fermerà in qual
che luogo, domando: o il corpo in củi ri starà è indivisibile, o è divisibile;
ma in alcun tempo mai non si potrà dividere, co me pare che C. abbia voluto
dire, Arist. de Coelo l. 3. cap. 6. Sicchè G. ammettea la divisibilità col
pensiero non già col fatto. (6) Era un assioma presso gli antichi εκ τε μη
οντος μηδεν γινεσθαι nulla farse da ciò che non è, Presso i Greci dev
significava ciò ch ' esiste e il under ciò che non è. Epicuro talvolta piglia
il des per corpo e il under per yoto. Ma diverso era il significato dell' del
ov. Empedocle ed Anassago ra chiamavano Oy la materia dotata di qualità
sensibili. E Democrito ed Epicuro la materia fornita di figura. Al contrario i
primi due indicavano col un oy la mate ria priva di qualità, e i secondi la
mates. ria senza figura. Di fatto Aristotile de GV e 156 gener. et corrupt. 1.
1 cap. 3 dice εστι γη το ον, το δε μη ον υλη της γης και πυρος ωσαύτως. L
Latini tradussero il δεν per res o corpus il jend Ev per nihil o vacuum. E come
non aveano parole corrisponden ti all' oy e' un or; cosi l'indicarono colle
stesse parole res et nihil. E ' nato da ciò un equivoco nell' intendere i Greci.
Questi non solo dissero nulla farsi da nulla; ia tal volta alcuni di loro pensarono
niuna cosa, che ha qualità, poter venire dalla materia priva di qualità. (8)
Απαντα γαρ κακείνος (Σμκεδοκλής ) ταυτα ομολογήσας, ότι εκ τε μη ιοντος αμηχα •
γον εστι γενεσθαι και Concedendo Empedocle tutte le cose medesime,.e che sia
impossi bile venire un essere fornito di qualità de ciò, che ne è privo je
Arist. de Xenophane Zenone et Gorgia. (8) Εμπεδοκλης δε τα τετταρα προς τους
ειρημενοις γην προσθας τεταρτον και Empedoclc disse esser quattro gli elementi,
aggiungen do la terra per quarto a’tre già detti Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 3.
157 (9 ) Σεληνην δε φησι συστηναι καθ' εαυτην εκ τα απολειφθεντος αερος υπο τα
πυρος • τατον γαρ παγηναι καθαπερ την χαλαζαν. La lu πα, dice Empedocle,
essersi condensata da se a cagione dall'aria, che fu abbando nata dal fuoco;
perciocchè questa 'si con densò a guisa di grandine Euseb. Praep. Evang.
I. 1. cap. 5. Lo stesso dice Plut. de Pl. Ph. Origen. Phylosoph. etc. (10) I
sassi e gli scogli sulla terra so no stati giusta Empedocle formati dalla forza
del fuoco. Plut. de primo frigid. Ne per altra ragione credea il nostro
filosofo, chę i cieli siensi formati in guisa di çri stallo, che per l'azione
del fuoco. Plut. de Plac. Philos. (11 ) Ως εν υλης « δ λεγομενα στοιχα τετταρα
πρωτος (Εμπεδοκλης ), απεν. και μεν χρηται γε τετταρσιν αλλ ως δυσιν ουσι
μονοις. πυρι μεν καθ' αυτο τοις δε αντικειμένοις ως Em. μια φυσα γη τε και αερι
και υδατι, pedocle fu il prinio che affermò quattro ese ser gli elementi nella
materia. Nondime no di questi non fu egli uso come se fos 158 } νω sero '
quattro, ma due soli. Mette il fuoco per se ', e' come al fuoco opposte l'acqua,
' la terra, l'aria, quasi avessero. queste uni ca natura.,, Aristot. Metaph. 1.
1 cap. 4. (12 ) Origen. Phylosoph. cap. 3. Clem. Alex. Strom. (13 ) Αναξαγορας
μηχανη χρηται τω προς την κοσμοπίλαν » Anassagora usa della mente nella sua
cosmogonia non altrimen ti che d'una macchina Arist. Metaph. 1. 1 Cap. 4. (14 )
Πολλαχου γουν αυτω (Εκπεδοκλα ) η μεν φιλια διακρινει το δε νεικος συγκρινα •
μεν γαρ ε ! ς τα στοιχεία διαστήται το παν υπο τ8 14κας τότε το πυρ «ς
συγκρίνεται και των αλλων στοιχων εκαστον, οταν δε παντα υπο της φιλιας
συνιωσιν ας το εν αναγκαίον εξ εκαστε τα μορια διακρίνεσθαι παλιν. Εμπεδοκλης
μεν 89 παρα τ8ς προτερον πρωτος ταυτην την ατίας διελων εισενεγκεν ου μιαν
ποιήσας την της κινη σεως αρχη, αλλ' έτερας τε και εναντιας. Non di rado presso
d'Empedocle l'amicizia sepa ra; e l'inimicizia unisce. Imperocchè quan. do per
l'inimicizia l'universo si scioglie ne • OTULY 159 gli elementi; allora il
fuoco si unisce, e al par del fuoco, ciascuno degli altri elemen ii. Quando poi
per via dell ' amicizia tutti gli elementi si uniscono; allora è di ne cessità
che le parti di ciascun elemento si separino. Però Empedocle fu il primo, che
superiore agli altri più antichi di lui, divi dendo questa causa, intro lusse
non un solo, ma piii e contrarj principj di movimento: l'anticizia cioè e l'
inimicizia Arist. Me taph, I. i cap. 4. L ' vero che qui Aristo tile cerca di
cogliere in assurdo il nostro Empedocle"; perchè cerca di mostrare che l'
amicizia talvolta separa, e l'inimicizia ta lora unisce. Ma ciò non di meno
confes sa che giusta Empedocle l'amicizia e l'ini. micizia eran due principj di
moto. E in ciò loda il n'ostro filosofo, e l ' inalza so pra tutti que'
ch'erano stati prima di lui. (15 ) Molti sono i versi d' Empedocle che lo
pruovano, che noi rapporteremo ne' fram menti di lui. Ma Aristotile lo dice
chia. rissimo. Es un evný to vemos ev Tols peyuceo σιν, εν αν ην απαντα ως
φησιν (Εμπεδοκλης ) 160,, Se non fosse l ' inimicizia inerente alle cose, tutte
queste non farebbero che uno come dice lo stesso Empedocle,, Aristot. Metaph.
1. 3. cap. 4. Simplicio inoltre de Coelo l. 1 Com. 29,, rapporta che giusta
Empedocle è propietà dell'amicizia ridurre tutto in una sfera lovely o zipov (16
) (Εμπεδοκλης ) το μεν πυρ κκκος καιλο. μενον προσαγορευων και Empedocle chiamo
il fuoco lité perniciosa Plut. de primo fri gido. E lo stesso Plutarco ne
soggiunge la ragione: Giacchè il fuoco ha la facoltà di dividere e separare. (17
) Clem. Alexand. ad gentes cap. 5. (18 ) Aristot. Metaphys. 1. 1 cap. 4. (19)
Plut. de Isid. et Osirid. Wolf. de Manich. ante Man. S. 30 Bayle Dict. Art.
Xenoph. (20 ) Aristotile" riferendo l. 3 taph. l'opinione d'Empedocle sul
circolo pe renne delle cose in virtù delle due forze amicizia e inimicizia si
lagna del nostro filosofo, che introduce la necessità senza recare alcima
cagione della necessità ws ay. 1 cap. 4 Me. 161 αγκαιον μεν ον μεταβαλλεινκαι
αιτίαν δ ' εξ ενο αγκής εδεμιαν δηλοι. (21 ) Brukero T. 1 p. 2 1. 2 cap. 10
Sect. 2. de discipulis Pythagorae. Moshem. nelle note a Cudwort. (22) Αρχη η
φυσις μαλλον της υλης. εγί άχου δηπου αυτη και Εμπεδοκλης περίπιπτα αγομενος
υπ' αυτης της αληθεας, και την εσι. αν, και την φυσιν αναγκαζεται φαναι τον
λογον ειναι: οιον οστουν αποδιδους τι εστιν. ετε γάρ εν τι των στοιχεων λεγει
αυτο ατε δυο ή τρια ατε παντα αλλα λογος της μιξεως αυτων etc. Il principio
delle cose è più presto la nä tura che la materia delle cose.. Empedocle tirato
dalla forza stessa della verità spesso è costretto di confessare che la
sostanza e la natura altro non sia che la ragione o proporzione: ' come fa
allorchè ei dice coså šia.l osso. Poichè dice che l'osso non cen ga da questo o
du quel elemento', nè da due elementi, nè da tre, nè da tutti, ma dalla ragione
in cui questi nell' osso si stan. no ec. is Arist. de par. Animae l. 1. cap. E
poi lo stesso Aristotile soggiunge che 1 362 2 i filosofi prima d Empedocle non
fecerd lo stesso perchè non soleano definire ciò che fosse la cosa astion de to.
pen en San τ8ς προγενέστερες επί τον τροπον τέτον, το τι ην αναι, και το
ορισασθαι την ασιαν εκ OTI My •:- (23) Plut. de Plac. 1. ì cap. 6 Gal. Hist.
Ph. (24) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Gal. ibid. (25) Plut. de Plac. Ph. 1.
5 cap. 19 Arist. de Resp. cap. 14 etc. Credea Em pedocle che gli animali,
subito che nacque ro dalla terra, si divisero e portarono in luoghi convenienti
al loro temperamento. Que' che abbondavan di fuoco o nell' ac qua o nell'aria.
Gli altri ch'erano più gravi, abitarono la terra ec. (26) Darwin Zoonomia. Vol.
3 Sez, 39 cap. 4 ediz. di Milano, (27) La massa tutta del seme, che noz mostrava
alcuna forma, o figura chiama va Empedocle. 8ioques che potrebbe significa. re
tutta la natura organica secondo Simpl. 163 1 de Phy. aud. 1, 2. Com. 68 pag.
134 ediz. di Aldo: (28 ) Aristotile l. 2 de Coelo cap. 8 par lando dell
opinione di Xenofane che credea la terra infinita estendere sino alſ infinito
le sue radici, soggiunge do xakt.Eptidoxing ετως επεπλήξεν Per lo che Empedoche
co si lo sferzò, e soggiunge i versi d' Empe docle, che noi rapporteremo 'ne'
frammenti di lui. (29) Ταυτι δε τα εμφανη κρημνες και σκο: πελες και πετρας και
Εμπεδοκλης μεν υπο τα πυ ρος οιεται το εν βαθει της γης εσταται και ανε χεσθαι.
Empedocle è d'opinione che que sti sassi, questi scogli, questi dirupi, che
sono agli occhi di tutti, sieno stati inalza ti dal fuoco che sta nelle
profondità dela la terra „ Plut. de primo frigido, Quare quaedam aquae
caleant", quae dam etiam ferveant in tantum, ut non pog sint esse usui
nisi aut in aperto evanuere, aut mixtura frigidae intepuere, plures causae
redduntur. Empedocles existimat ignibus, quos multis locis terrà opertos tegit,
aquam ! X 2 164 calescere, si subjecti sunt solo per quod aquis transcursus est.
Facere solemus dracones et miliaria, et complures formas, in quibus gere tenui
fistulas struimus per declive cir. cumdatas; ut saepe eundem ignem ambiens aqua
per tantum fluat spatii quantum ef. ficiendo calori sat est. Frigida itaque in
trat, effluit calida. Idem sub terra Em. pedocles existimat fieri. Seneca
Quest. Nat. i. 3. (3ο) Την γην εξ ης αγαν περίσφεγγομενης τη ρυμη της περιφοράς
αναβλυσαι το υδωρ la terra, da cui, come fu condensata, per l'impeto della
girazione spicciò l' ac qμα 15 Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 2 cap. 6. (31 ). Οτι δε μενα
(γη ) ζητεσι την αιτίαν και λέγεσιν οι μεν τυτον τον τρόπον, οτι το πλα τος και
το μεγεθος αυτης αιτιον, οι δε ωσ: περ Εμπεδοκλης την τε κραγε φοραν κυκλω
περιθεασαν και θαττον φερομενην την της γης φοραν κωλυειν καθαπερ το εν τοις
κυαθοις υ δωρ και και γαρ τατο κυκλω το κυαθε φερομείς πολλάκις κατω τα χαλκά
γινομενον ομως ου φερεται κατω πεφυκος φερεσθαι δια την αυτην 165 Citidy, 99
Alcuni cercano il perchè la ter ra stia ferma nel mezzo, e dicono esserne
cagione la sua grandezza e larghezza, Al tri poi, siccome Empedocle, son di
pare re, che il cielo girando più velocemente del. la terra sia la cagione, per
cui la terra non cada nello stesso modo, che avviene allac qua nel calice.
Poichè seben questo si giri e stia col fondo su, e il labro all' in giù; pure
l' acqua, che di sua natura tende al basso, non cache per la ragione medesima
della girazione,, Arist. de Coelo l. 2 cap. 13. (32 ) Plut. de fac. in orbe
Lunae, (33 ) Plut. de Pl. Ph. 1, 2. cap. 13 Laert. in Emp. (34 ) Arist. de
anima 1, 2 cap. 2. (35) Καθαπερ Εμπεδοκλής φησιν, αφικνειο σθαι προτερον το απο
τα ηλιο φως ας το μετα ξυ πριν προς την οψιν, η επί την γην, δοξα δ ' ευλογως
συμβαινειν Empedocle dice che la luce, la quale viene dal Sole prinra giunge
nel mezzo, e poi all'occhio ed aļla terra. Il che pare che accada con buona
ragio ne » s. Arist. de sensų et sensili cap. 6. 166 tor. (36 ) Empedocle in
prima avea il Sole per una gran massa ignita' non già per una rijlessione di un
altro sole šíecome attesta Laerz, in Emp. Era in secondo opinione di Empedocle
che il simile si va sempre ad u nire al suo simile. Però venne a lui na turale
il dire che la luce lanciata dal So. le, dopo d' essersi riflettuta sulla terra,
nasse di nuovo ad unirsi al Sole, e poi di nuovo movendosi da quest' astro,
tornasse a risplendere. Per altro Plutarco stesso aper. tamente dice de Pyth.
orac.. che la luce del Sole secondo Empedocle risplende di nuovo αυθις ανταυγαν
• (37 ) Plut. de Pl. Ph. Gal. Hist. Ph. Stobeo Ecl. Phys. e tunti altri,
appongono ad Empedocle l' opinione di due Soli, che si riguardavano, de quali
l'uno mandava rag gi invisibili e l'altra visibili ec. (38) Empédocle, sans
recourir á l’in stanatneité de cette émission ou á sa pro digieuse velocité
disoit que cette objection se roit vraie, si le soleil lui même étoit en
mouvement; mais que la terre tournant au 167 tour de son axe, venoit au devant,
du ra yon, et voyoit l'astre dans sa prolonga tion. On ne répondroit pas mieux
aujourd hui a cette objection, si quelqu'un la pro posoit contre la propagation
successive de la lumière et son emission. Montucla. Hist. des Mathematiques
Tom. 1 P. i lib. 3 pag. 142. (39) Απολείπεται τοινυν το τα Εμπεδοκλεος
ανακλάσει τιγί τα ηλια προς την σεληνην γεγες; σθαι τον ενταύθα φωτος οιον απ'
αυτης οθεν 80's. Jequor de deep porn Resta dunque co me vera la sentenza
d'Empedocle. Però la luce lunare non è nè calda nè assai splen. Plut. de fac in
orb. Lunae. (40 ) Est - il rien de plus juste que ce vers, dont voici la
traduction litterale de Greg en latin circulare circa terram yolvitur a lienum
lumen dit- il en parlant de lo lu ne? Achille Tatius en tire une preuve qu'
Empedocle a regardé cette planéte comme un morceau détaché du soleil. Il n'a
pas conçu que cet alienum lumen vouloit dire lumière empruntée, ce qui est
très-confor me a la verité. Montucla Hist. des Math. dida,, 168 Tom. 1 p. 1 1.
3 pag. 111. (41 ) Isag. in Arat. (42 ). Empedocles plus duplo lunam dia stare
censet a terra quam a sole. Galen. Hist. Ph. Plut. de Pl. Ph. (4.3 ) Και τον
μεν ήλιον φησι πυρος αθροισο μα μεγα και σεληνης μαζω » Empedocle di. ce il
Sole essere una gran massa di fuoco più grande della Luna Laert. in Emp. (44)
Plutarco de ' fac. in orbe Lunae, afferma che la Luna al dir d'Empedocle giraya
a simiglianza d'una ruota: Ora in que' tempi si esprimea la rùvoluzione d'un
corpo intorno al propio asse sotto la figura ra d'una rủota, Cosi di fatto
indicarono Seleuco d'Eritrea, Heraclide di Ponto, Eco fanto di Siracusa, il
movimento della tere ra intorno al propio asse. Per altro i Pit tagorici
sapeano che la Luna girando in torno alla terra çi presenta sempre lo stes so
emisfero. Il che come ciascun sa non può aver luogo, se la Luna girando intor
no la terra ſon rotasse intorno al propio asse: Sicché è da credersi
cl’Empedocle non 169 ou esse ignorato questo movimento della Lu na. Ma come
Plutarco non ne fa che un sol cenno, che può essere equivoco; cosi io non ho
creduto di doverlo affermare come sicura opinione d'Empedocle. (45) Fabricio
Bibl. Graeca T. (46) Arist. de plant. 1. cap. (47 ) Arist. nel med. luogo. (48)
Arist. nel med, luogo. (49 ) Τα δε σπερματα παντων εχ τινα τροφην εν αυτός και
συναποτίκτεται τη αρχή καθαπερ εν τοις ωοίς. η και κακως Εμπεδοκλης αρήκε
φασκων ωοτοκαν μακρα δενδρα Ogni semè contiene in sè qualche cosa d' alimen to
uñitaniente al principio che genera, sic come è nell' uovo. Per lo che
Empedocle disse bene che gli eccelsi alberi sono ovipa ri Theofrasto 1. i cap.
' 7 de Caus. Plant. Και τατο καλως λεγει Εμπεδοκλης ποιησάς: Ούτω δ ' ωοτοκεί
μικρα δενδρα πρωτον ελαίας •. Το τε γαρ ωον κυημα εστι, και εκ τινος αυτα
γίγνεται το ζωον, το δε λοιπον, τροφη τα σπερ ματος, και εκ μερες γιγνεται το
φύομενον, το δε λοιπον τροφη γιγνεται το βλαστω και τη y 170 pión en xpern »
Questo ben disse Emperor cle affermando, che i piccoli alberi ezian dio sono
ovipari. Poichè da una parte dell' uovo nasce l'animale, e dal resto si fa la
nutrizione di questo. Nello stesso modo ac cade nel seme. Da una parte si formá
la pianticella, ed il resto serve per nutrirla Arist. de Gen. anim. l. i cap.
23. (50) Arist, de Gen. anim. I. 1 cap. 18 & lib. cap. 6. Theofrasto 1. i
cap. z de Caus. Plant. Indi è che Malpighi aper: tamente dice Plantarum ova
esse semina vetus est Empedoclis dogma. Anat. Plant. pag. 92 * 93. In questi
ultimi tempi Young è stato il primo a dire che le piante ven gono, dal seme.
Rozier journ. de Phys. Auril. 1789 p. 241 e Bonnet Deur. v. 5 p. 256 ha
dimostrato l'analogia del seme coll' uovo. (51) ο δε μαλιστα και κυρίως εστι ζη
= τητεoν εν ταυτη τη επίσημη τετο οστιν » όπερ ειπεν Εμπεδοκλής ηγουν α
ευρίσκεται εν τοις φύτοις γενος θηλυ και γένος αρρεν και ει εστιν ειδος
κεκραμενον εκ τετων των δυο γενών και Cio 171 she in questa scienza sia sopra
d'ogn' al tro, e propiamente da ricercare, lo disse Em pedocle: cioè se nelle
piante si ritrovi il sesso maschile e feminile, e se questi due sessi sien in
quelle mischiati ed uniti,, Arist. de Pl. 1. cap. 2. Per lo che è da ripu.
ţarsi particolar opinione d'Empedocle, quel, la del sesso nelle piante, e che
queste fos sero state ermafrodite. Si legga lo stesso Aristotile de Pl. I. i
cap. 1. Haaly 005 - λομεν ζητειν πότερον ευρισκονται ταυτα τα δυο γενή
κεκραμενα εν τοις φυτοις ως απεν Εμπε doxninis:,, Dobbiamo ricercare se i dųe
ses si nelle piante sien mischiati, come vuole Empedocle. » (52) Empedocles
quidem divulsa esse so bolis membra aiebat, ut in faeminae alia alia in maris
semine continerentur, atquo inde oriri animalibus venerei complexus ap..
petentiam, dum partes illae inter se di stractae conjungi atque uniri
concupiscunt. Galen. de semine 1., 2. cap. 3. Si legga parimente Aristot. de
Gener, ànim. l, i cap. 18, 172 (53) Plutarco de plac. Ph. 1. 5 cap. & 10 12
Arist. de Gener. anim. 1. 2 cap. 8. (54) Εμπεδοκλης τη κατα συλληψιν φαντα. σια
της γυναικος μορφουσθαι τα βρεφη και πολ: λακις γαρ εικονων και αδριαντων
ηρασθησαν γυναίκες και ομοία τετοις απετέκον. » Empe docle dice che dalla
fantasia della donna piglia forma îl feto. Poichè spesso le don ne hanno la lor
prole partorito simile a statue o. a immagini, che hanno amato Plut. de Pl. Ph.
I. 5 ' cap. 12, (55 ) Plut. de Pl. Ph. 1. 5. cap. 27. (56 ) Tutta la dottrina d
Empedocle, siccome in appresso diremo, era fondata su i pori, e sugli effluvj,
che si spiccano secondo lui da' corpi, o per quelli s'intro ducono, (57 ) Plut.
de Pl. Ph. I. 5. cap. 26. (58) Frondes amittere quibus aestatis ca. lor humorem
ahsumpserit; semper fronde re quae majorem succi copiain habent, ut laurum,
oleam, palmam 4 Hist. Ph. Gal. Lo stesso dice Plut. de Pl. Ph. l. 5 cap. 26.
173 Plutarco Symp. 1. 2. Si propone la questione, perchè l' ellera conserva le
fo glie, e gli altri alberi le perdono. Ei ri sponde con Empedocle per la
disposizione de* pori. Perche τοις δε φυλλoφoυσιν εκ έστι για μανοτητα των αγω
και στενότητα των κάτω πι:,, ρων, οταν οι μεν επίπεμπωσιν οι δε φυλαττω σιν,
αλλ' ολίγον αθρουν λαβόντες εκχέωσιν ωσ. περ εν αγδηροις τισιν ουχ ομαλοις » »
A quel le piante, le cui foglie cadono į alimen to on basta a cagion della
rarità de? pori superiori, e della strettezza degl inferiori. Poichè per questi
pori s’ introduce poco ali mento, e per quelli molto se ne dissipa. Indi è che
quel poco che hanno ritratto tosto lo perdono. Avyiene ciò che suole ac cadere
negli attignitoi, che sono inegual mente forați. (59) Flore française troisieme
edition par MM. de La Marck et Decandolle T. pag. 67. (60 ) Floré française
ibid. pag. 86. (61 ) Flore francaise ibid. pag. 108 (62) Plut. de Pl. Ph. 1. 5
cap. 26 Gal. Hist. Ph. 3 174 (63) Galeno Hist. Ph. Plut. de Pl. Ph. 1. 5 cap.
26. (64) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 22 Gal. Hist. Ph. (65) Plut. ' nel med.
luogo. (66) Gal. Hist. Ph. Plat. de Pl. Ph. (67 ) Ρlut. de ΡΙ.. Ρh. 1. 4 cap.
22. (68 ) Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 16 Gal. Hist. Ph. (69 ) Arist. de
Respirat. cap. z (70 ) Arist. 'de Respirat. cap. 7 Gal. Hist. Ph. (71) Arist,
de, Resp. cap. 7 Plut. de PI. Ph. 1. 4 cap. 22. (72 ) Pluit. de ΡΙ. Ρh. 1. 5
cap. 24. (73 ) Plut. nel med. luogo. Gal. Hist. Ph. (74) Si vegga la niemoria
seconda sulla Vita d ' Eimpedocle T. 1 pag. 132. (75) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 4
Cap. 17 • (76) Τα μεν γλαυκα πυρωδη καθαπερ Εμ. πεδοκλής φησι τα δε μελανoμματα
πλεον υδατος εχιν η πυρος. » Che gli occhi az zurri, come dice Empedocle,
abbondano di fuoco, ed i rieri abbiano più d ' acqua che 175 di fuoco, Arist.
de gener. An 1. 5 cap. i. (77 ) Τα μεν ημερας εκ οξυ βλεπεις τα γλαυκα. δι
ενδιαν υδατος. θατερα δε νυκτωρ δι ενδααν πυρός και che gli occhi azzurri non
veggano bene di giorno per difetto d' ac qua, ed i neri di notte per difetto di
fuo: εο, Arist. de Gen. an. 1. 5 cap. 1. (78) Gal. Ηist. Ph. Ρlut. de P. Ph. 1.
4 Cap, 13. (79 ) Ειπερ μη πυρος την οψιν θετεον αλλ' υδατος πασαν,, Perclie la
visione non e d ' attribuirsi al fuoco, ma tutta all'acqua » Arist. de Gen.
anim. 1..5. cap. (80 ) Arist. de sensu et sénsili l. 1.cap. 2. (81 ) Empedocles
animum esse censet cor di suffusum sanguinem. ' Cic. Tusc. quaest. 1. 1 cap. 9
e Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 5. Εν τη τα αιματος συστασε. (82 ) Αλλοι δε ήσαν
οι λεγοντες κατα Εμ " πεδοκλεα πριτηριον αγαι της αληθεας και τας
αισθησεις αλλα τον ορθον λογον και τα δε ορθα λογα τον μεν τίνα θαον υπαρχειν
τον δε αν - θρωπινον. ων τον μεν θαον ανεξοισθον ειναι. τον δε ανθρωπινον
εξοισθαν. Ci sono stao 1 O 176 ti alcuni, che han dettò con Empedocle esé sere
il criterio della verità non già i sensi, ma la retta ragione. Questa poi
essere in parte umana e in parte divina: la prima potersi da noi manifestare, e
l'altra nòi, Sext: Emp. adv. Log. 1. 7 p. 396. (83 ) Hụezio Debolezza dello
spiritous mano.. (84) Furere tibi Empedocles videtur: at mihi dignissimum rebus
iis ', de quibus lo quitur sonum fundere. Num. ergo is ex. caecat nos, aut
orbat sensibus, si parum magnam vim censet in iis esse ad ea, quae sub eos
subjecta sunt, judicanda? Cic. Lu cullus c. 23. (85) Empedocles quidem, ut
interdum mi hi furere videatur, abstrusa esse omnia, ni hil nos sentire, nihil
cernere, nihil omni quale sit, posse reperire. Cic. Lucullus c. 5, (86 )
Αρχαίοι το φρονων και το αισθανεσθαι ταυτον αναι φασιν ωσπερ και Εμπεδοκλης (δη
01.,, Gli antichi, come disse Empedocle, vogliono che sia lo stesso sentire,
che ra 177 € 2. gionare. Arist. de anima, l. 3. cap. 3. (87 ) Arist. de Plant...1.
11. cap. 1 (88 ) Αναξαγορας μεν και Εμπεδοκλης επί θυμια ταυτα κινεισθαι
λεγουσιν αισθανεσθαι τε και λυπεισθαι » Anassagora ed Empedo cle dicono che le piante
sien mosse da de. siderio, da tristezza, e da voluttà, Arist, de P1. 1. 1 Cap 1.
(89 ) Αναξαγοράς δε και ο Δημοκρίτος και ο Εμπεδοκλής και νουν και γνωσιν εχεις
απον τα φυτα Anässagora, Democrito, ed Em pedocle dissero le piante esser
fornite di men te e di cognizione », Arist. de Pl. l. 1 cap. 1. Ρlut. de Plac.
Ph. 1. 5 cap. 26. (90) Arist. de.ΡΙ. 1. 1 cap. 1 Ρlut. de P. Ph. 1. 5 cap. 26.
(91) Πρωτοι δε και τονδε τον λογον Αιγυ πτιοι ασι αποντές, ως ανθρωπα ψυχη αθα
γατος εστι. τα σωματος δε καταφθινοντος ες αλλο ζωον αια γενομενον εσδυεται.
επεαν δε περιελθη παντα τα χερσαια και τα θαλασσια και τα πτηνα, αυτις ες
ανθρωπό σωμα γινομες γον εσβυνειν. την περιαλησιν δε αυτή γίνεσθαι εν
τρισχιλίοισι ετεσι. Sono gli Egizi i pri Z 178 ηι. mi che dicono l'anima essere
immortale; ma che 'morto il corpo va questa sempre informando un altro animale;
dimodochè dopo d' esser passata per tutti gli animali o terrestri, o marini, o
aerei torna di nuo ro ad informare il corpo d'un uomo. Que sto giro compie l
anima in tre mila an Herod. Euterp. 1. 2 cap. 123. (92 ) Τατω λογω ασι οι
Ελληνων εχρησαντο οι μεν προτερον οι δε υστερον, ως ιδιω εωυτων εοντι. των εγω
αδως τα ονοματα και γραφω. Tra Greci alcuni prima alcuni dopo han divulgato' la
metempsicosi degli Egizi come opinione propria. E di quelli non vo. glio
scrivere i nomi; ancorche mi sieno, co Herod. 1. 2 cap. 123. (93 ) Sext. Emp.
adν.. Math. 1. 8. (94) Ου γαρ ωσ. ο Μεγανδρος φησιν απαντι δαιμων ανδρι
συμπαράστατα ' ευθυς γενομεγω μυσταγωγος τα βιε αγαθος, αλλα μαλλον ως
Εμπεδοκλης διτται τιγες εκαστον ημων γενομες γον παραλαμβαγεσι και καταρχoνται
μοίραι κα! d'alluoves.,, Non è da credere come dice Menandro, che a ciascun di
noi, come ea gniti, 170 gli nasce, assista un genio buono condut tor di tutta
la vita, ma piuttosto è da te nersi l'opinione d'Empedocle, il quale di che
ciascuno di noi dal punto della na scita è preso e governato da due genj e da
due. fati Plut. de anim. tranquill. E sog giunge lo stesso Plutarco che co'
nomi de gen; si esprimono σπερματα των παθων i se mi, delle passioni. (95 )
Plut. de animi tranq. (96) Αφ ων οίμαι ορμώμενοι και οι πυθα: γορεοι και μετα
τατος Πλατων αντρον και στην λαιον τον κοσμον απεφηναντο. παρα τε γαρ Εμπεδοκλα
αι ψυχοπομποι δυναμας λεγεσιν Ηλυθομεν τοδ ' υπ' αντρον υποστεγον E da queste
cose, siccome io stino i Pittagorici, e Platone dopo costoro, pre sero
occasione di chiamar questo mondo an tro e spelonca. Poichè presso Empedocle le
potestà conducitrici delle anime dicono: che siano finalmente giunte sotto
quest' aniro coperto; Porph. de Ant. Nymph. p. 9 ed. Van - Goens. (97 ) Clem,
Αlex. Strom. 1. 2. Stob. Εcl. 180 Eth. cap. 3. Jambl. Portrep. cap. g Hierocl.
in Com. Scheffer de Secta Italica. (98) Pindaro nella prima ode olimpica
dirizzata a Gerone; dopo: d' aver descritto il supplizio di Tantalo, che chiama
atau λαμον βιον εμποσομοχθον vita priva do gni ajuto e perpetuamente laboriosa
» 'sog giunge „ questo supplizio forma il quarto dopo d' averne sofferto altri
tre » Mesta Tpl. ων τεταρτον πονον. Non si puo comprendere a prima vista, come
questo quarto suppli zio fosse stato perpetuo. Ma ciò è intera mente dichiarato
nella seconda ode. olim pica diretta a Terone Gergentino. Quivi e gli dice:
que', che dopo d'esser dimorati tre volte nella terra e nell'inferno ocou do
ετολμησαν ες τρις εκατερωθι μειγαντες: seppero contener ľanimo loro nella
pratica della virtil, arriveranno per la via di Giove al la regia di Saturno,
dove laure dell' O. ceano spirano dolcemente attorno le isole fortunate, e
splendono i fiori d'oro. vede quindi dal confronto di queste due o. di, che la
metempsicosi giusta Pindaro con Si 181 sisteva in tre articoli: iº che l'anima
del lo stesso uomo informava tre volte corpi u mani, che ' v'era un intervallo
tra la morte e'l rinascimento in cui i giusti go deano di felicità, e i malvagi
eran puni ti, 3º che le anime perseveranti nella giu stizia per tutto il corso
delle tre vite umia ne, andavano poi. cogli eroi nell'impero di Saturno; e
quelle, che s' erano mac chiate di colpe in quello stesso tempo, an davano in
fine a soffrire un supplizio eter πο: απαλαμον βιον εμπεδoμοχθον. Gli sco
liasti stessi di Pindaro, non altriinenti che noi abbiamo fatto ', lo
dichiarano: uno di essi dice υπεραγαν μεχρι τριτης μετεμψυχοσέως Ev 8 %a740015
Tols peeport „ sostennero (le a nime ) sino alla terza metempsicosi nell' uno e
nell'altro luogo cioè a dire nel la terra e nell' inferno. Ora trina di Pindaro
pare che allora fosse sta ta conosciuta da' soli sapienti. Poichè dopo che il
poeir avea esposta la triplice trasmi grazione soggiunge lo tengo sotto il mio
gomito e dentro la faretra delle sette vo: questa dot 182 lanti, il cui fischio
si sente dal solo sa piente. Ma la moltitudine ha lisogno d' interpetri ες δε
το παν ερμηνεων χατιζα. Η saggio è colui che conosce la natura, gli altri, che
įmparano da lui, sono loquaci nxo Root Taivajaworick e come i corvi inutilmente
gracchiano. Per lo che pare, che Pindaro s'astenea di parlar chiaramente per
non ri velare al volgo il dogma pittagorico della metempsicosi, ed opponea la
furgawcola o loquacità del profano al silenzio del pit tagorico. (99) Tutti gli
antichi fanno onorata men zione della filosofia d'Empedocle. Lascian do stare
Aristotile e Teofrasto, noi sappia. mo da Laerzio l. 10 Sect. 25 ch' Herma co
l'epicureo la espose in 24 libri moto - λικων περι Εμπεδοκλεας: Τra Iatini poί
α parte di Lucrezio e di Cicerone, che ne fan sommi elogi, siano avvertiti da
Cicerone me. desinio che si era stato un Sallustio, il quale area trattato la
filosofia d'Empedocle nel la stessa guisa, che avea fatto Lucrezio per quella
di Epicuro. Tria per quanto si rac 183 coglie dalle parole di Cicerone quell'
auto re non era riuscito cosi bene, come Lucre. zio. Lucretii poemata, ut
scribis, ita sunt multis luminibus ingenii: multae tamen ar. tis. Sed cum
veneris, virum te putabo, si Sallustji Empedoclea legeris; hominem non putabo,
cioè a dire se potrai sostener ne la lettura ti 'stimerò invitto e paziente. ma
privo di senso. Cic. Ep. ad Q.fr. 1. 2. Non che Plutarco ne' tempi d'appres. 80,
ma tutti gli scrittori ecclesiastici ricor dano con lode Empedocle ed i suoi
pensu. menti. Vi ha un luogo di Temistio nell orazione 12 all' Imperator
Gioviano, in cui egli loda quest' imperadore per la lege ge da esso lui
stabilita circa la libertà del la religione. In questo luogo ei dice agar σθαι
μεν εν και τις αλλες το νομο προσηκ4 τον θαοτατον Αυτοκρατορα και μαλιστα δε
οίς ουκ εφιασι μονον την ελευθερίαν, αλλα και τις θεσμες εξηγείται και
φαυλοτερον Εμπεδοκλεας και Ma All Excave te Teals. Varia è stata l'
interpetrazione di piu autori intorno a que ste parole, e principalmente per
l'Empe 184 parere che docle, di cui fa menzione Temistio. Al cuni hanno sognato
un altro Empedocle di verso e posteriore al nostro. Petavio, non si sa come,
crede, che sotto il nome d' Empeclocle abbia quegli voluto significare G. C.
Petit è di per Empedocle s'inten la un cinico chiamato Peregrino. Nè marican di
quei, che credono essere stato rcfurrito in quel luogo S. Policarpo marti re.
Iru biti gl'inteipetri Casaubono in not. ad M. Anton, pas 87 è stato a giudizio
di Fabricio Bibl. Graec. T. 8 p. 56, corui che meglio l'hi interpetrato.
AgarIsi Mesy XV x2. Toń andy (ita malo quam tos are 285, quod tamen ferri
potest, nec' senten tiae, quam volumus, repugnat ), 78 roles.po: σηκ ή τον
θιοτατον Αυτοκρατορα μαλιστα δε οίς (idest τετων vel εκεινων οις ) εκ εφιησι Ꭸporgy
etc., Degnissimo è l ' imperadore di ammirazione e di venerazione non che per
le cose, che in quella legge si contengono, ma sopra di ogn'altro e per la
libertà del la religione, e perchè spiega quelle leggi, che sono state da Dio
dettate, con perizia 185 non minore di quella, per · Giove, che non fece
quell'antico Empedocle., Di che si vede, ch'era tanta e tale la stima, in cui
allora si tenea il nostro filosofo, che ad esso si comparava l ' Imperadore
Gioviniano, allorchè si volea lodare. Abulfarage presso gli Arabi, secondo che
dice Fabric. Bibl. Graec. T. 1 p. 474 loda G.e, come chi avea ottimamen te
conosciuto gli attributi divini. Finalmente la filosofia d'Empedocle è stata
vinovata da Campanella, da Magna. no o Maignano. Fahr. Bib. Graec. nel me
desimo luogo. Per lo che si vede chiarissimo quanto male Orazio conoscea il
nostro filosofo; allorchè disse. Ep. 12 !. 1 v. 20. Empedocles; an Stertinii
deliret acumen. a a Su i Franmenti delle opere di Empedocle Gergentino.
ROM nico è l' oggetto di questa ultima mes moria: presentare a un colpo
d'occhio tute ti accozzati gli avanzi delle opere d'Empe. docle. Egli ne detò
molte, e quasi tutte, com'era usanza in que' di, le scrisse in versi.. Pure
niun poema di lui è venuto sino à noi, e pochi sono i frammenti, che di questi
ci restano L'inno ad Apollo, e 'l poema de' Persiani, furono, lui morto,
bruciati. Il poema sulla sfera si reputa oggi opera d'incerto autore, Del suo
discorso sulla medicina non ce n ' è restato nè anche vestigio: anzi ignorasi,
se questo fosse stato scritto in versi secon do Laerzio, o pure in prosa
secondo Sui da. I frammenti in somma delle opere d' Empedocle, che da noi si
conoscono, ri guardano e fan parte di due famosi poe e non sia. a, a 2 188 ni:
l' uno sulle purgazioni, l'altro sulla natura. Il primo fu intitolato a Gergen
tini; il secondo a Pausania il medico el amico di lui. La raccolta quindi de'
fram menti de' versi d' Empedocle, di cui qui si parla, appartiene soltanto a
questi due gran poemi. Piü Eruditi, e tuti di gran nome assai prima, e in varj
tempi praticaron lo stesso. Errico Stefano no pubblicò il pri mo non pochi nel
suo Ibro della poesia fi. losofica. Fabricio prese appresso il pensiero
d'ampliar la raccolta di Stefano; e giusta il Mosenio quegli mol to l'accrebbe.
Ma ogni fatica di lui, co me attesta il Reimaro, tornò vana; perchè morto
Fabricio si perderono i suoi origina li,, e il pubblico non potè coglierne il
frut. to. Van - Goens di poi nell'edizione, ch ' ei fece del libro della Groita
delle Ninfe di Porfirio, manifestò aver già raunato più di trecento versi
d'Empedocle, e promiso al più presto di recarli in luce. Avea, se condo ch'
attesta egli stesso, tratto gran pro 189 1 da' manoscritti che si conservano
nella libre ria di Leyden, e invitato tutti i dotti ad aiutarlo in si fatio
travaglio. Ma punto non si sa, se abbia o nò costui pubblica to la raccolta de'
versi del nostro filosofo, giusta la promessa di lui nel 1765 sotto titolo di
raccolta Empedoclea. E' sempre una singolar disgrazia il non potere profittar
delle fatiche degli uomini grandi. Le nostre librerie een prive non che di
manoscritti, ma scarseggiano ancora di libri. Non ci è venuto fatto di ritroe'
vare in esse nè pure lo stesso Errico Ste fano della poesia filosofica. Però,
mancan. ti gli aiuti, si è ito sù giù rifrustando an tichi scrittori per
cogliere or uno or due e di rado o sei, o dieci' o più versi di Emperlocle, che
sparsi si leggono in que sto, e in quell'altro. Fatica assai penosa, e ' tanto
più dura, quanto ha obbligato a durar quello stento, che farebbe chi il pri mo
si mettesse ad imprenderla, senza la spe. ranza di poter acquistare la gloria
debita a chi il primo l'avesse intrapreso. Unico 190 > conforto ne fu un
Simplicio dell'edizione d' Aldo, trovato nella libreria de' PP. Tea tini di
Palermo (giacchè questi ne' suoi co. mentari d ' Aristotile rapporta molti
versi d ' Empedocle ). Da questo libro furon tratti non pochi de' versi d '
Empedocle, che si tro van messi insieme. in quest'ultima parte. Ma il medesimo
disgraziatamente fu ruba. to in quella libreria. Però non fu conco duto di
potersi più riscontrare i versi rac colti col testo; e si è dovuto, congetturan,
do quasi tentoni, quando supplir qualche parola a caso tralasciata, quando
correg gere alcuni versi, che per la prima volta erano stati o male lètti, o
falsamente scrit ti. Si è detto tutto ciò non perchè s' am. bisca lode di
questa qualunque siesi fati ca; ma perchè se ne abbia anticipato come patimento.
In altri paesi d'Europa la race colta de' versi d' Empedocle o gia è stata
egregiamente recata in pubblico; o se non è stata ancor fatta, si potrà
certamente fare e più abbondante, e più corretta, e più dotta, che non è questa.
Non è quin 191 di la stessa da considerarsi come un ope. ra perfetta, o degna
degli sguardi de' Dot ti. Si desidera soltanto, che si tenga la medesima, come
un annotazione, con cui si provano i pensamenti d' Empedocle espo sti nella
terza Memoria. Ma comunque ciò sia egli è certo, che i versi d'Empedocle
smentiscono coloro, che portano opinione lui essere stato o di niú no o di poco
valore in poetica. Si fondan costoro sopra Plutarco (1 ), il quale dice
Empedocle avere ornato col metro i suoi discorsi per evitare l'umiltà della
prosa. Ma non si accorgono aver loro o mal inte so o sinistramente interpetrato
Plutarco, il quale pretese sol definire, che sia stata di dascalica la maniera
poetica del nostro fie losofo. Questa, come quella, ehe tratta e di filosofia,
e di precetti sdegna le finzio. ni e l'invenzione, in cui il pregio, il bel lo,
e la natura consiste d'ogni poesia. Per rò quegli disse, ch'Empedocle avea
preso (1 ) De Aud. Poet. 192 dalla poesia, senza più, e la pompa, e il meiro.
Questo stesso avea già gran tempo prima annunziato Aristotilo, che fu non che
savio ma di gran sentimento nelle co se poetiche. Egli, a distinguer la poesia
d' Omero da quella d'Empedocle, affermò i uno e l'altro, tranne il metro, nulla
tra loro aver di comune. Perché Omero era un Poeta, com’ei diee, ed Empedocle
un fisiologo (1 ). Ma se Empedocle, qual didascalico, non merita é nome e lode,
che si convie ne a poeta, non si pao negare aver lui necupato in que' dì il
primo luogo tra di dascalici, Aristotile di fatto non seppe in miglior modo
contrassegnare la differenza tra la vera poesia e la didascalica, che
comparando tra loro il più gran poeta e il più eccellente didascalico; Omero ed
Em pedocle. Nè altrimenti si pensò ne ' tempi d' appresso. Cicerone chiama
egregio il poe (1 ) De Poet. cap. 1. 793 ma d'Empedocle sulla natura (1 ). Anzi
mettendo egli a confronto i versi di Par menide, di Xenofane, e d' Empedocle,
che furon tutti tre poeti didascalici, dice aper tamente, che più belli ed
eleganti erano i versi del nostro filosofo (2 ). Che se poi mancasse ogn'altro
argomento ad apprez zare il merito di lui, sarebbe certamente bastevole il
sapere i poemi d'Empedocle es sersi cantati ne' pubblici giuochi di Grecia.
Ognun sa, che questa, piena allora di gu sto, e severa nel gindicare, non
concedea tali onori se non a soli grandiuomini. Nel resto ciascuno su cið, o
del raffinamento del la poetica d'Empedocle, ne può da ise giu dicare. Il solo
leggere i frammenti, che ci sono restati, basta a far che chiunque ne resti
persuaso e convinto. Il dialetto de' Siciliani e de' Pittagorici era comune; e
questo appunto era il Dori co. Pure Empedocle avvegnache fosse stato (1 ) Lib.
1 de Orat. (2 ) Acad. Quaest. l. 4. Ъь 194 o SICILIANO e Pittagorico, non mise
in opera, che il dialetto Jonico, coine quello, ch'era tra Greci poeti il più
polito e gentile. Fu inoltre la musa d? Empedocle dolcissima. E. gli ne' suoi
versi non sol si servì di quel dialetto, ma nel farli scelse le parole più
dolci e sonore. Platone, parlando d ' Era clito, d'Empedocle, dice che le muse
di quello eran più dure, e le altre di questo più molli (1 ) ancorchè l' uno e
l'altro aves sero usato il dialetto medesimo degli Jonj Plutarco stesso poi non
lascia di notare, che gli epiteti apposti da Empedocle non erano, come per lo
più esser ' sogliono ne' poeti, di puro ornamento, ma esprimeano la natura
delle cose (2 ). Ne cita egli di fatto l'aggiunto dato da Empedocle a Ve. nere
qual datrice di vita; il sempre verdeg: giante dato all'alloro; l'abbondante di
san gue adattato al fegato: e altri simiglianti. Anzi il medesimo Plutarco da a
Empedocle (1 ) Plut. in Sophista. (2 ) Plut. Sympos. l. 6 Erotic. 195 il vanto
d' aver meglio e più: destramento usato d'aleuni epiteti d'Omero (1): Ne reca '
egli in pruova l'aggiunto d'agglome rator di nubi, che questi attribuisce a Gio
ve, e quegli all' aria, e l'altro di difena SOF del corpo, che Omero dà allo
seudo, ed Empedocle all'anima. Ma perchè più dilungarci in rapporta: re antichi
testimonj su cið? I franımenti stessi d ' Empedocle chiaro ci mostrano l' éc
cellenza della sua poesia. Basta dirsi aver lui tenuto Omero per modello nelle
sue o pere poetiche. Le voci, le frasi, le me taforé, la giacitura delle parole,
le desi nenze de' versi son le medesime in quello, che in questo. Si può quindi
dir con ra gione l'apparenza de' suoi versi, e la sein bianza de' suoi poemi
essere stata tutta di Omero. Oltre che riluce in lui una viva cità nelle
immagini, e una novità sin" nel le stesse parole. Moltissimi sugi epitéti
ed espressivi e leggiadri non si trovano in al (1 ) Plut. Symp, l. 6. bb 2 196
cun altro poeta: 1. pesci, per tacer d i tant altri, " sono chiamati
da lui quando nutriti, quando abitatori dell'acqua; gli uccelli cimbe volanti;
gli Dei ' di lunghissi. mi secoli. Anzi Aristotile nella sua poeti ca indica
come una metafora assai bella, e allora nuova, quella con cui Empedocle
esprime la vecchiaja; chiamandola l'occa. so della vita. Chiunque poi legge
nelle sue opere la descrizione della natura; " che qual pittore con
quattro colori, fa tutte le co se con quattro elementi; o l' altra della
visione, che comparata a una lucerna, fa le sue funzioni; o quella della
clessidra, o cose simiglianti ', non gli potrà certo ne gare il pregio, che si
conviene a vaga e bella fantasia. Per lo che da' framinenti d' Empedocle si
prende quel diletto, che pigliar si suole guardando i rottami d'una qualche
nostra Greca Sicola anticaglia. Nel mettersi insieme si fatti frammen, ti si
sono in prima distinti i versi, che appartengono al poema della natura, da.
quelli, che fan parte dell'altro sulle pur 197 1 lande prezi Foce cck que nal
elle gazioni. Ciò non è riuscito punto difficile, Perchè il primo tratta di
cose fisiche, e 'l secondo di cose morali. In quello d'ordi nario, perchè
diretto al colo Pausania i verbi si trovano in singolare. In questo all'oppesto
perchè indirizzato ' a Gergenti ni, i verbi si leggono in plurale. Perd e dalla
sintassi e dalla materia è stato age vole il se parare i frammenti d'un poema
da quelli dell'altro. Si sa oltr'a ciò il poema d'Empedo cle sulla natura esser.
diviso in tre libri. Molti stenti ha costato il congetturare qua li sieno stati
trà versi, che ci restano, quel li che appartengono o al primo, o al se condo,
o al terzo, In çiò fare è stato di mestieri ricercare se per avventura gli
scrit tori, che ne riferiscono i frammenti, aba biano citato il libro. Talora
d' alcuni ver si, che certamente si sa dalla testimonian za degli scrittori
doversi collocare in uno de' tre libri, si è rilevata la materia, che in
ciascuno di essi trattavasi dal no stro Gergentino, Stabilita poi la materia la
ni che ung en. he da ur. 198 stato ben facile il riferire allo stesso li bro
tutti que' frammenti, che si versano sullo stesso soggetto. Ma non di rado con
frontando i frammenti tra loro si è trova to, che alcuni finiscono con versi,
che son principio di altri. Con tale studio quindi e simigliante artifizio si è
cercato di collo care o prima, o dopo alcuni frammenti, che sono dello stesso
libro. Nel resto sarà meglio il tutto giustificato nelle note, e l' ordine con
cui sono rapportati i frammen ti, e l'autore, da cui sono stati ricavati e
l'intelligenza, con cui sono stati interpe trati '. Fra tanto se questo
qualunque siesi lavoro non sarà stimato degno di lode, po trà almeno, meritare,
nell' emenda de dete ti il perdono del pubblico. RACCOLTA D E FRAMM ENTI. 200
ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ βιβλ. α. Παυσανία συ δε κλυθι δαίφρονος Αγχίτου υιε (1 ). Εστί
αναγκης χρημα θεων σφραγισμα παλαιον Αϊδιον πλατεεσσι κατεσφραγισμενον ορκοις (2
) Τεσσαρα των παντων ριζωματα πρωτον ακους Ζευς αργής, ηρητε φερεσβιος η
αίσθωγευς Νηστις θ' ' δακρυοις τεγγα κρενωμα βρoταον Των δε συνερχομενων εξ
εσχατων ιστατο νακος (3 ) Διπλ' ερεω: τοτε γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων
τοτε δ ' αυ διεφυ πλέον εξ ενος ειναι Δοιη δε θνητων γενεσις δοιη και απολαψις
Την μεν γαρ παντων συνοδος τικτατ’ ολεκτιτε Ηδε παλιν διαφυαμενών θρυφθασα γε
δρυπτα Και ταυτ αλλασσοντα διαμπερες εποτε λήγα 201 DELLA NATURA Lib. I.
Pausania figliuol del saggio Anchito Tu ciò, ch ' io dico, attentamente ascolta
E' volere del Fato, è degli Dei Decreto antico, che ab eterno fue Segnato con
solenni giuramenti. Il bianco Giove, la vital Giunone, E Pluto, e Nesti, che
piangendo irriga I canali dell'uom, son d'ogni cosa, Odimi in prima, le quattro
radici. Ma come quelli tra di lor s'accozzano Dall' ultimo confin sorge la lite.
Dųe son le cose, ch' a narrarti io prendo: Ora l'uno dal più risulta, ed ora
Nasce dall' uno il più: cosa mortale Doppio ha nascimento, e doppia ha morte.
Genera, e strugge l ' union del tutto; E questa sciolta, torna pur di nuovo CC
20 2 Αλλοτε μεν φιλοτητί συνερχομεν ’ ας εν απαντα Αλλοτε αυ διχα παντα
φορεμενα νακεος εχθα Εισοκες αν συμφωντα το παν υπενερθε γενητα. Ουτως η μεν εν
εκ πλεογων μεμαθηκε φυέσθαι Η δε παλιν διαφυγτος ενος πλεον εκτελεθεσ: Τη μεν
γίγνονται τε και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε διαλλασσονται διαμπερες αποτε
ληγει Ταυτη α εν εασσιν ακινητα κατα κυκλoν. Αλλ' αγέ μυθον κλυθι - μεθη γαρ
τοι φρεγας αυξ Ως γαρ και πριν ειπα πιφασκων πειρατα μυθων Διπλ’ ερεω: τοτε μεν
γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων τοτε δ' αυ διεφυ πλεον εξ ενος αναι Πυρ
και υδωρ και γαια και κερος απλετον υψος Νικοστ' αλομενον διχα των αταλαντον
εκαστον Και φιλοτης εν τοισιν ιση μηκοστε πλατοστε Την συν νω δερκε μη δ '
ομμασιν ησο τεθηπως Ητις και θνητοισι νομιζεται εμφυτος αρθροίς Tητε
φιλαφρονεας ιδ ' ομοιϊα εργα τελεσι Γιθοσυνην καλεοντες επωνυμον ιδ "
αφροδιτην Την στις μετ ' οτοίσιν ελίσσομενην δεδαηκε. Θνητος ανηρ συ δ' ακ8ε
λογων στoλoν εκ απατηλον Ταυτα γαρ ισα τε παντα και ηλικα γενναν εατσι Τιμης δ'
αλλης αλλο μεδα παρα δ ' ήθος εκαστω Εν δε μερά κρατεεσι περίπλομενοιο χρονοιο.
Και προς τους ατ' αρ' επιγιγεται δ ' απολήγα 203 Ogni cosa, ch' è nata, a
separarsi. Tutto alterna cosť, e così dura Eternamente: ed ora in un si accozza
Per la virtù dell' amicizia, ed ora Per l'odio della lite si sparpaglia,
Standosi in aria, finchè non si unisca, Cosi l'uno dal più nascer costuma. Cosi
dall' un già nato il più rinasce. Entrambi han vita; ma la lor durata Non è mai
stabil. Perchè l' uno e l'altro Alterna, e l'alternar non ha mai fine Sopra di
un cerchio eternamente gira. Ma tu il mio parlare attento ascolta, Che lo
spesso sentire, e risentire La mente aguzza. Come pria ti dissi Raccogliendo la
somma del discorso Due son le cose, ch'a 'narrarti io prendo. Ora l'uno dal più
si forma, ed ora Nasce dall' uno il piii; ch'è terra, e fuoco, και ed aria
d'un'immensa altezza, Oltre di questi, che tra lor son pari, Havi lite dannosa,
ed amicizia, Ch'ha per lungo, e per largo egual misura.?' u colla mente la
contempla. Invano Ed acqua, CC 2 304 Η Ειτε γαρ εφθαροντο διαμπερες εκετ ’ αν
καισαν. Τατο δ ' επαυξησε το παν τι κε; και ποθεν ελθον; Πη δε κεν απολοιτο
επει των δ ' δεν ερημον; Αλλ ' αυτ ’ εστιν ταυτα διαλληλων δε θεοντα Γινεται
αλλοτε αλλα διηνεκες αιεν ομοια (4). 205 Stupidi gli occhi sopra dessa fisi.
Questa d'ogni mortal nelle giunture Si vuole innata, e chi n'han senso in mente
Fanno, comº essa fa, opre leggiadre. Di Venere col nome o d'allegrezza La
chiamano, sebben finor niuno Seppe indicare dentro a quali cose Si aggirasse
involuta. O tu niortale, Ascolta i detti, che non son fallaci: L'amicizia, e la
lite sono eguali, Hanno la stessa età, l' origin stessa Sol con diverso onor l
' una sull'altra Impera, e piglia, com'è lor costume, Il comando a vicenda al
fin del tempo, Scritto a ciascuna dal voler del fato. Nulla viene oltr' a ciò,
ch' ancor non è Nulla di quel, che è, desser finisce; Se pur finisse., riaver
non mai Potrebbe in alcun tempo l'esistenza. Doy ' andrebbe a perir, se non
v'ha luogo Di ciò solingo, ch'al presente esiste? E se quel', che non è, ora
venisse D ' onde verrebbe? e che? come potrebbe Accrescer questo tutto, s' egli
è tutto?? 206 ! 3. • Επι νεικος μεν ενερτατον ικετο βενθος Δινης εν δε μεση
φιλοτης στροφαλιγγα γένηται Εν τη δη ταδε παντα συνερχεται εν μονον είναι Ουκ
αφαρ αλλα θελυμμα συνισταμεν αλλοθεν αλλο Των δε μισγομενων χειτ' εθνεα μυρια
θνητων Πολλα δ' αμικτ ’ εστηκε κερασσαμένoίσιν εναλλαξ Οσσ ' ετι νεικος ερυκς
μεταρσίον • 8 γαρ αμεμτώς Το παν εξέστηκεν επ ' εσχατα τερματα κυκλα Αλλα τα
μεν τ ' εμιμνε μελεων τα δε τ ’ εξεβεβηκεν Οσσον δ ' αιεν υπεκπροθεει τοσον
αιεν επηει Η επιφρων φιλοτης αμεμπτως αμβροτος ορμη Αιψα δε θνητ’ εφυοντο τα
πριν μαθον αθανατ’ είναι Ζωρα δε τα πριν ακρητα διαλλαξαντα κελευθες Των δε τε
μισγομενων χειτ' εθνεα μυρία θνητων EΠαγτ οιαις ιδεησιν αρηροτα θαυμα ιδεθαι (5)
207 Sempre dunque le cose son le stesse, Si mischian, si separano, a vicenda
Movendosi tra lor, e nascon sempre Novelle forme, ma tra lor simili. Avea la
lite già toccato il fine Ultimo del girar, quando amicizia Del cerchio, in cui
si volge, al centro arriva. Tutte le cose allor vanno ad unirsi Per fare l'un;
ma a poco a poco il fanno, Base a base di quà di là giungendo. Dagli elementi,
che tra lor si mischiano Razza infinita di mortali nasce. Ma in mezzo a que',
che s'accozzar, vi furo Altri, che ' ncontro senzı alcun miscuglio Restaron
puri; perchè lite ancora In alto li tenea Piena di colpa Ella com'è, voleva il
tutto scisso Sull' estremo confin del cerchio trarre. Però de' membri, alcuni
fuor spuntaro, Ed altri nò. Ma quanto innanzi corre Sempre la lite, tanto
sempre è pronta L ' amicizia a venir saggia, divina, Nuda di colpe, d'
immortale forza > 208 Σ Η δε χθων τατοισιν ιση συνεχυρσε μαλιστα Ηφαιστω τ '
ομβρωτε και αθερι παμφανοωντι Κυπριδος ορμησθεισα τελειοις εν λιμενεσσιν Ειτ '
ολίγον μειζων ειτα πλεον εστιν ελασσων Ίων αιματ’ εγένοντο και αλλης ειδεα σαρκος
(6). Η δε χθων επικαιρος εν ευτυκτοις χοανοισι Τα δυο των οκτω μερεων λαχε
νηστιδος αιγλης Τεσσαρα δ ' ηφαιστοιο. Τα δ ' οστεα λευκα γένοντο Αρμογιης
κολλησιν αρηροτα θεσπεσιηθεν (7 ). 209 E nascer ecco, e divenir nascendo Della
morte alla falee sottoposti Que', che prima sapean esserne immuni, E mutando
sentier trovarsi misti Que', che puri eran pria senza miscuglio. Formasi in
somma dalle cose miste Un numero infinito di mortali, Che d'ogni specie son,
d'ogni figura, Si, ch'a vederli è certo maraviglia. Ne'porti estremi della
bella Dea Giunse la Terra là dov' ogni cosa Or di massa crescendo, ed or
mancando Il più meno si fa, e 'l meno più. Ivi la Terra in parte egual
s'avvenne All' aria trasparente, al fuoco, all'acqua, E da tale union indi
formossi Qualunque specie di carne, e di sangue. Quando la terra era d'amor
sospinta In pevere ben salde a sorte trasse Dell'otto parti, d' acqua chiara
due, Quattro di fuoco: e per divin volere Col glutin d'armonia tutte s'uniro:
dd διο Βελιον μεν θερμoν οραν και λαμπρον απαντη Αμβροτα γ οσσ ' εδεται και
αργέτι δευεται αυγη Ομβρον δ ' εν πασι νιφρεντα τε ριγηλοντε Εν δ ' αιης
προρεεσι θελυμγα τε και στερεωμα. Εν δε κοτω διαμορφα και αν διχα παντα
πελονται Συν δ εβη εν φιλοτητι και αλληλοισι ποθκται. Εκ τετων γαρ παντ' ην
οσσα τε εστι και εσται Δενδρατο βεβλαστηκε και ανερες ηδε γυναικες Θηρεστ’
οιωνοίτε και υδατο θρεμμονες ιχθυς Και τι θεοι δολιχαιωνες τιμησι Φεριστοι και
Αυτα γαρ εστι ταυτα δι αλληλων θεοντα Γινεται αλλείωτα (8 ), 1 911 E l'ossa
bianche furon tosto fatte. Da per tutto si vede il Sol, che desta Calore, e
lancia della luce i raggi, E quegli ancor, che senza morte sono, Quasi da fame
o pur da sete spinti, L'aria ricercar bianco splendente. Puossi ovunque veder
l'acqua; che in neve: Talòr si muta, e facilmente gela: o pur la terra, da cui
vengon fuori Le salde cose. Quando impera lira Tutto è biforme, ed ogni cosa è
scissa, Ma regnando amicizia il tutto corre Pronto ad unirsi, e l'una all'
altra cosa Per interno desir s'abbraccia, e stringe. Tutto viene da quelli, e
per l'amore, Ciò, che fu, cid, che è, ciò che sard, Germogliaro cosi alberi, e
piante Nacquero maschi, e donne, e fiere, e uccelli, E pesci ancor, che son
d'acqua nutriti; O pur gli Dei di secoli lunghissimi Chiari per gl' inni, e per
gli onor prestanti. Sempre in somma le cose soil le stesse, Sempre tra loro han
moto, e cangian forma. d d 2 212 Ως δ ' oπoταν γραφεες αναθηματα ποικιλλωσιν
Ανερεσ αμφί τεχνης υπο μη τινος δεδαωτες Οιτ ' επει καιν μαρψωσι πολυχροα
φαρμακα χερσι Αρμονια μιξαντε τα μιν πλεω αλλα και ελασσω. Εκ των αδεα πασ'
εναλίγκιά πορσυνέσι Δενδρεάτε κτιζοντες και ανερας nde γυναίκας Θηρας τ’ οιωνες
τε και υδατο θρέμμονες ιχθυς Και τε θεες δολιχαιωνας τιμησι φεριςτες Ουτω μη σ
' απατα φρενα ως νυ κεν αλλοθεν «να Θνητων οσσα γε δηλα γεγαασιν εσπετα πηγήν.
ταυτ ' ισθί θεα παρα μυθον ακουσας (9 Αλλα τορώς Εν δε μερα κρατεεσι
περίπλομενοίο κυκλοίο Χα, φθιγει ας αλληλα και αυξεται εν μέρει αισης Αυτα γαρ
εστι ταυτα οι αλληλων δε θεοντα Γιγοντα ανθρωποιτε και αλλων εθνέα θνητων:
Αλλοτε μεν φιλοτητα συνερχομεν ασ ενα κοσμου 213 Qual dipintor nell'arte sua
perito Sa' i quadri variar, che la pietate Del tempio alle colonne, appende in
dono A santi numi. Egli con man piglian do Ora più, ora men di questo, è quello
Colore, insiem con ' armonia li vmischia, E poi con essi va pingendo immagini
Che son del tutto simili agli oggetti: Uomini, donne, fiere, uccelli, e piante;.
Ed i pesci, che son đ 0 pur gli Dii di secoli lunghissimi Chiari per glinni, e
per gli onor prestanti; Cosi la mente certo non s'inganna Dº ogni nato mortal
qualora dice Esserne fonte sol quegli elementi. Tu.ciò, che ho detto, tieni pur
per fermo. Di tutto il nascer sai, fuorchè di Dio, Sul quale il mio parlar non
è diretto. acqua nutriti Or l'amicizia, ed or la lite impera Del cerchio
intorno rivolgendo i passi, E luña e l'altra, come vuole il fatoo Manca a
vicenda, ed a vicenda sorge. Sempre le stesse son, sempre alternando 214 Αλλοτε
δ ' αυ διχ' εκάστα φορεμενα νικεος εχθα Εισοκεν αν συμφωντα το παν υπεγερθα
γενηται. Ουτως η μεν εν εκ πλεονων μεμαθηκε φνεσθαι Η δε πάλιν διαφωντος ενος
πλεον εκτελεθεσι. Τη μεν γίνονται και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε τα
διαλλάσσοντα διαμπερές δαμα λογια Ταυτη αιεν εασσιν ακινητα κατα κυκλος (1ο). Σ
Τεσσαρα των παντων ριζωματα πρωτον ακα! Πυρ και υδωρ και γαιαν η αιθερος
απλετον υψος Εκ γαρ των οσατ' ην οσατ ' εσσεται οσσα τ ' εσσι(11 Αυταρ επε μεγα
νεικος ενι μελεεσσιν ετρέφθασε Ες τίμαστ' ανορεσε τελιoμενοιο χρονοιο Ο σφιν
αμοιβαιος πλατεος παρεληλατο ορκα (12 ) 15 Si muovono. Deil' uom la razza nasce,
Tant' altre razze di mortali han vita. Talor per amicizia in ordin bello Tutto
si unisce; ma talor per stizza Di lite il tutto si separa, è stassi Sospeso in
alto, finchè non s'unisca. Cosi l'uno dal più nascer costuma. Così dall' un già
nato il più rinasce. Entrambi han vita, ma la lor durata Non è mai stabil.
Perchè l'uno, e l' altro Alterna, e l'alternar non ha mai fine Sopra d'un
cerchio eternamente gira. Quattro, figliuol d'Anchito, in prima ascolta Son
radici di tutto: il fuoco, e l'acqua, La terra, e l ' aer d'un immensa altezza;
Perchè da questi sol viene, e deriva Ciò, che fu ', ciò, che è, ciò, che sard.
Dopo, che lite, la gran lite ascosa Era stata ne' membri, il tempo scorso, Agli
onori salt. Perchè l'impero Alternar si dovea, com'era scritto Con solenne, ed
eterno giuramento. 256 Αρτια μεν γαρ αυτα εαυτων παντα μερέσσιν Ηλεκτωρτε
Χθωντε και κρανος ηδε θαλασσα Οσσα Φιν εν θνητοίσιν αποπλ.αχθεκτα πεφυκέν. Ως δ
' αυτως οσα κρασιν' επαρκεα μαλλον εασσιν Αλληλοις εστερνται ομοιωθεντ'
αφροδιτη. Εχθρα πλειστον επ', αλληλων διεχεσι μαλιστα Γεννητε κρασατε και
αδεσιν εκμακτρισι Παντη συγγίγεσθαι αηθεα και μαλα λυγρα Νακεσ γεννηθεντα οτι
σφισι γεννας οργα (13 ),. Αλλο δε τοι ερεω • φυσις αδενος εστιν απαντων Θνητων
εδε τις ολομενα θανατοιο τελευτη Αλλα μογον μιξις τε διαλλαξις τε μιγεντων Εστι.
φυσις δε βρoτοις ονομαζεται ανθρωποισι (14) Οι δ ' οτε δε κατα φωτα μιγεν φως
αιθερι κυρα Η κατα θηρων αγροτέρων γενος και κατα θαμνων Ηε κατα οιωνων τοτε
μεν τα δε φασι γενεσθαι 217 Tutto è perfetto, perchè tutto ha pari Íl numer
delle parti, che il compone. Tal è la Terra, il Sole, il Cielo, il Marc E tutto
quel, che tra mortali errando Miste ha le parti giusta sua natura. Ciò, che
ridonda poi al lor miscuglio Da Venere s ' unisce al suo simile, Giacchè le
cose simiglianti forte S'aman tra lor. Na spesso le divide L'inimicizia. Nascon
quindi mostri Strani assai per la stirpe., e per la tempra, E per le forme, ch'
hanno in loro impresse; Perchè la lite li produce allora Ch' appetiscon le cose
il generare. Un altra cosa a dichiararti io prendo: Nulla ha natura, nè mortale
ha morte, Che danno arrechi. Perch' è sol miscuglio, E delle cose miste è
scioglimento Ciò, che natura gli uomini chiamaro. Quando a caso nell'aria
s'imbatte Il miscuglio, che fa dell' uom la razza, O quella degli uccelli, o
delle piante, 218 Ευτε ο αποκριθωσι τα δ ' αυ δυσδαιμονα ποτμαν Ειναι καλεσιν (15
). Βιβλ. β. Νυν δ ' αγε πως ανδρωντε πολυκλαυτωντε γυναικων Εννυχιες ορπηκας
ανήγαγε κρίνομενον πυρ Των δε κλυθ'.8 γαρ μυθος αποσκοπος εδ' αδας μων Ουλοφυες
μεν πρωτα τυποι χθονος εξανατελλον Αμφοτερων υδατοστε και αδεος αι σαν εχοντες
τετ' ανέπεμπε θελον προς ομοίον ευεσθα Ουτε τυπω μελεων ερατον δεμας
εμφαινοντες Ουτ’ ενοπην ετ ' αυ επιχωριον ανδρασι, ηουν (16 ) Πυρ μεν Πολλα μεν
αμφιπροσωπα και αμφιστερνα φυέσθαι Βεγενη ανδροπρωρα τα δ ' εμπαλιν εξανατέλλας
Ανδροφυη βεκρανα μεμιγμεγα τη μεν υπ ανδρων Τη γυναικοφυη σκιεροις ήσκημενα
γυιοις (17). 219 O de' bruti selvaggi, allor si dice Che nascon essi; e quando
si discioglie Il miscuglio di lor, ch' han trista morte. Come nel separarsi il
fuoco trasse De' maschi i germi oscuri, e delle donne, Che piungon molto, odimi,
che 'l dire Rozzo non è, nè fuor sen va del segno. Perfetti in prima dalla
terra i tipi Spuntaron tutti. Ma siccome il fuoco Su n'esulò il suo simil
-bramando, Restaron quelli sol umide forme, e l'immago per lor parti aventi.
Però nel tipo de' lor membri ancora Non mostravan ľamabili fattezze Del corpo,
non ancor l'organ di voce, Nè la natia degli uomini favella. L'acqua, Nascon
de' mostri con due facce, o petti.. Bovi son questi con umano volto, Comini
quelli con bovina testa, D'opachi membri son forniti, e tutti e e 2 2 20 Η μεν
πολλαι κορσαι αγαυχενες εβλαστησαν Οφθαλμοι δε επλασθησαν γαρ πτωχοί μετωπων (18
Βραχιονες γυμνοι χωρίς μορφονται γε. ωμων (19). Τατον μεν βρoτεων μελεων
αριδαιαστον ογκον • Αλλοτε μεν φιλοτητα συνερχομεν' ας εν απαντα Για το σωμα
λελογχε βια θαλέθοντος εν ακμή. Αλλοτε δ ' αυτε κακησι διατμηθοντ ’ εριδεσσιν
Πλαζεται ανδιχο εκαστα περι ρηγμινι βιοιο. Ως αυτως θαμνοισι και ιχθυσιν,
υδρομελαθροις Θηρσιτ’ οραμελεεσσιν ιδε πτεροβασμισι κυμβας (20 Σδε δ αναπνα
παντα και εκπγ: πασι λιφαιμο ! Σαρμων συριγγες πυματον κατα σωμα τετανται Και
σφιν επιστομίοις πυκνοις τετρηντα αλοξι Ριγων εσχατα τερθρα διαμπερες. ωστε
φαγον μεν Σ 221 L'han di maschio, e di donna insiem confusi Sorsero teste senz'
aver cervici. Privi di fronte furon fatti gli occhi. Nude le braccia senza
spalle fatte, I membri umani giaccion tutti in massa Bella, e vistosa. Per
anior talvolta S' uniscono tra loro, e corpo a caso Nel fior si forma della
verde etate. All'opposto talor spiccansi i membri Per trista lite, e quà e là
d' intorno Alla spiaggia di vita erran divisi. Apvien ciò pure agli alberi,
alle fiere Che montanine son, a pesci ancora Abitator dell acqua, ed agli
uccelli Che solcan l ' aria coll ' alate cimbe Ecco nel respirar come da tutti
L' aer dentro si tira, é fuor si manda, Delle vene i canali si propagano Agli
estremi del corpo, e metton capo Delle nari ne' solchi, in cui le punte 2 2 2 Σ
Kευθαν αιθερι δ ευπορίαν διο οισι τετμησθαι Ενδεν επαθ οποτ.ν μεν επαίζη τερεν
αμα Αιθαρ παφλαζων καταϊσσεται οίδματι μαργω. Ευτε δ ' αναθρησκ 4 πμλιν εκπν: 1.
ωσπερ οταν πας Κλεψυδρας παιζοσα δι ευποτρος καλκoιο Ευτε μεν αυλα πορθμον επ'
ευκαδα χερι θισα Εις υ2τος βαπτητι τερεν δεις αργυφεοιο Ουδε γ' ες αγγος ετ’
ομβρος εσέρχεται αλλα μιν εργ ! Αερος όγκος εσωθι πεσων επί τρηματα πυκνα Σισοκ
α τ οστεγασι πυκνον ρέον. αυταρ επάτα Πνευματος ελλειποντος εσέρχεται αισιμων
υδωρ. Ως γ' αυτως οθ' υδωρ μεν εχω κατα βενθεα καλκα Πορθμα χωσθέντος βρoτεί »
χροι ηδε πορο! ο Αιθήρ δ' εκτος εσω λελιημενος ομβρον ερυκα Αμφι πυλας ισθμοιο
δυσηχεος ακρα κρατύνων Εισοκε χέρι μεθ, τοτε δ' αυ παλιν εμπαλιν και πριν
Πνεύματος εμπίπτοντος υπεκθι αισιμον υδωρ - Ως δ' αυτως τερέν αιμα
κλαδισσομενον δια γυιων Οπποτέ μεν παλινoρσον επαιν5 μυχονδε Θατερον ευθυ, ρεμα
κατερχεται οι ματι θυον Ευτε δ' αναθρων Α4 παλίν ειπν.4 ισον οπισσα (21). 223
Hanno sturate, Ma di sangue in parte Sono que tubi, e non del tutto pienii.
Però calando giù s'occulta il sangue, E lascia all ' aer libera ed apertit
Dell'entrata lu vir per le bouciucce. Avvien cosi, che quando il sangue molle
In gil si lancii nell'interno, tosto L'aria, che ferve, con sue vacue bolle
Entra con furia. E quando poi balzando Ritorna il sangue, torna fuor di nuovo
Uscendo l'aria. Guarda quà donzella Intenta a trastullare colla clessidra Di
facil bronzo, ch'al martello regge. Empier d'acqua la vuol: perciò ne tura
Colla sua bella man prima la bocca Dell'orifizio, e quindi per la base Di
spessi forellin tutta bucata L'immerge in mezzo della limpid' acqua. in questa
intanto dentro non penétra Perché l'aria racchiusa nella clessidra Sovrastando
a' forami con la molla L ' acqua preme, sospinge, ed allontana. Che se appena
riapre la donzella Il già chiuso orifizio, di repente Ως δ ' οτε τις προοδον
νοεων ωπλίσσάτο λυχνον Χειμεριην δια νυκτα πυρος σέλας αιθομελοιο 225 L'aria
sen fugge; e come questa manca L'acqua fatale, che presiede all' ore, Ch'entrar
pria non potea, entra nel vaso. La clessidra è già piena: or la donzella In
altra guisa guarda là, che gioca. Ella con man turandone la bocca Dalla base
forata vuol che cada L' acqua fatale, di cui quella è zeppa. Ma cupido d '
entrar laer di fuori Quasi forte confin l ' acqua ritiene Intorno á forellini
gorgogliante. Se quella poi leva la mano, allora All'opposto di pria laer di
sopra Cadendo all ' acqua ý giù la manda, è questa Per gli forami della base
gronda. Tal è del sangue, che colante scorre Per le membra. Se presto si ritira
Affollandosi in dentro, allor di colpo Schiumosa l' aria con vigor rientra. Poi
quel ratto s' avanza, e questa fuori Esce coil passo egual retrocedendo. Come
d'inwerno per l'oscura notte Chi prende a viaggiar prima prepara - ff 226 Αγας
παντοίων ανεμων λαμπτηρας αμοργός Οιτ ' ανεμων μεν πνευμα διασκιανασι αεντων
Φως δ ' εξω διαθρωσκον οσον ταγαωτερον ηεν Λαμπεσκεν κατα βηλον αταρεσι
ακτινεσσιν. Ως δε τον εν μηνιγξιν εεργμενον ωγυγίον πυρ Λεπτησιν οθονησιν
εχευατο κακλοπα κερης Αι δ ' υδατος μεν βενθος απεστεγον αμφινααντος Πυρ δ '
εξω διαθρωσκον οσον τανάωτερον Μεν (22) U Βιβλ. και Ου τοσε τι θεος εστιν και
τοτε και τοδε Ουκ έστιν πελασθαι εν οφθαλμοίσιν εφικτος Ημετέροις η χέρσι λαβαν
υπερτε μέγιστη Πειθες ανθρώποισιν αμαξιτος ας φρεγα πιπτα. Ου μεν γαρ βροτεη
κεφαλη κατα γυια κεκασθα Οι μεν απαι γωτων γε δυο κλαδοι ασσεσιν (227
Lampade,.e lume di un ardente fiamma, E poi li mette dentro una lanterna, Che
da venti difenda la fiammella; Perchè di questi come van spirando Disperge il
soffio. Ma di fuor si lancia La luce, intanto, e quanto più si estende, Tanto
illumina più presso la struda Corai di notte vincitor non vinti; Cosi il
naturale antico fuoco, Che la pupilla circolure irradia, Stassi dell' occhio in
le membrane chiuso Sottili al par di vel, che dall ' umore, Il quale in copia
dall' intorno scorre Tutto il difendon. Ma di là movendo Quanto più lungi puà
fuori sį spande. Lib. III: 1 Nè questo, o quello, nè quell' altro è Dio, A noi
cogli occhi non è mai concesso Di poterlo veder, nè colle mani Di poterlo
trattar: che della mente Esser suole la via grande, e comune, Per cui
persuasion entra nell' uomo. 228 Οι ποσες και θοα γουνα παι μηδεα λαχνηεντα
Αλλα Φρην ιερη και αθεσφατος επλετο μενον, Φροντισι κοσμον άπαντα καταϊσσεσα
θοησιν (23 ) ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ. Ει δ ' αγε νυν λεξω πρωθ ηλιον αρχην Εξ ων δη
εγενοντο τα νυν εσoρωμεγα παντα Ταράτε και ποντος πολυκυμων ηδ' υγρος αηρ Τιταν
η δ αθηρ σφιγγων περί κυκλoν απαντα (24) 229 Iddio non è di mortal capo ornato,
Che su membri s'estolle. A lui sul dorso Non spiegansi i due rami. Egli non
have Ginocchia, che al cammin ci fan veloci. Egli piedi non ha, nè quelle parti
Che vergogna, e lanugine ricopre. E mente sol, è sacra mente Iddio, Ch'esprimer
non si può da nostra lingua: In un istante tutta la natura Col veloce pensier
ricerca, e scorre. DELLA NATURA. V B R SI Che non si sa a quale de tre Libri
appartengono. Dirotti in prima co' mięi versi d' onde Ebbe origine il Sole, e
d'onde ogn'altro Che noi veggiam; l ' ondoso mar, la terra L'aria, che nel suo
sen chiude, e raccoglie Ogni umido vapor, la luce, e letere Che tutto cinge, e
tutto intorno avvolge. 23ο Πως και δενδρεα μακρα και ειναλιοί καμασκνες (25 )
Ειπερ, απαρονα γης τε βαθη και δαψιλος αθηρ Ως δια πολλων δη γλωσσης ρηθεντα
ματαιως Εκκέχυται στοματων ολιγον τε παντος ιδόντων (26) Ουδε τι τα παντος
κεγεον πελα ουδε περισσον (27 ) Ως γλυκυ μεν γλυκυ μαρπτε πικρον δ ' επι πικρον
Ορέσες οξυ ο επ ' οξυ εβη θερμον δ εποχευετο θερμος (28): Γνους οτι παντων «
σιν απορροια οσσ ' εγένοντο (29) Kευθεα θηριων μελεων μυκτηρσιν ερευνων (3ο)
Ούτω γαρ συνεχυρσε θεων τοτε πολλακι δ ' αλ λος (31). 23 In qual maniera furon
pria formati E gli arbor alti, ed į marini pesci. Per la lingua di molti invan
discorre La terra, e l ' Eter non dver con fine Quella nelle radici e questo in
alto. Ciò la bocca di color si sparge per Che nulla, o poco sanno, e guardan
lungi Colla veduta corta d'una spanna » Vacuo non c'è, e nulla pur ridonda; U
Dolce a dolce s' unisce, ed all' amaro Corre l'amaro, e l'aspro all aspro vanne,
E verso il caldo si conduce il caldo. Ogni corpo, ch ' esiste, il dei sapere,
Vibra lungi da se parti vaganti, Fiutando indaga le ferine tane, Tale in quel
punto s’intoppò correndo Ma in altra guisa per lo più s' avviene 233 οπη
συγεκυρσεν απαντα (35). Η δ ' αυ φλοξ ιλααρα μινυνθαδικαις τυχε γαιης (33 )
Κυπρίοδος εν παλαμης πλασέως τοιηστε τυχοντα (34 ) Τη δε μεν ιοτητι τυχης
πεφρονήκεν απαντα (35 ) (Και καθ' οσον μεν αρμοτατα συγκυρσε πεσοντα(36) Αλλα
οπως αν τυχη (37 ) ΓIαντα γαρ εξακης πελειζετο γυια θεσιο (38) Και δα παρ’ ο δη
καλαν έστιν ακουσαι (39) Ενθ' ουτ' ηελιοιο διειδετο ωκεα γυια (40) Αρμογιης
πυκίγως κρυφα εστηρικτα (41 ) Σφαιρος κυκλοτερης μοί1 περίγ 19 εκων (42 ) 237
Dove ogni cosa s' imbatte i Fiamma lunare s' incont Insiem con Terra, che Nelle
man di Ciprigna cost Col parer di fortuna al tutto intese In quanto a caso
s'accordar tra loro Nell'incontrarsi Ma come sorte volle Tutte di mano in man
le membra scosse Furon del Dio Ciò, che è bello convien, che si ripeta Le
pronte membra non vedeano il Sole Salde in occulto d' armonia fur fatte In
tonda sfera stretto quasi il tuttó 234 Αυξα δε χθων μεν σφετέρος γενος αθερα δ
', αι: θηρ (43 ). Κατα το μαζων εμιγνυτο δαιμονι δαμων (44). Αιθηρ μακρησι κατα
χθονα δυετο ριζας (45 ). Οινος απο φλοιου πελεται σαπεν εν ξυλω υδωρ (46) Αλλα
διεσπασθαι μελεως φυσις ή μεν εν ανδρος Η γ ' εν γυναικος (47 ). Μηνος εν
ογδοατα δεκάτη που επλετο λευκον (48) Ως δ ' οτ’ οπος γαλα λευκών εγομφώσει και
εδη - σεν (49). Ουτω δε ωοτοκει μικρα δενδρα πρωτον ελαιας (5ο ) Νυκτα δε γαια
τιθησιν υφισταμενη φαεισσι (51 ) 235 Lieto dell'unità solingo gode: > Aria
ad aria s ' aggiunge, e terra a terra; Il minore al maggior spirto s' unisce:
Della terra le barbe aer penetra; L'acqua scomposta sotto la corteccia Vino
diventa, Della prole le membra stan dis ise Parte nel maschio, e parte nella
femina, Al giorno dieci dell' ottaro mese Nelle poppe si forma il bianco latte.
Come gaglio rappiglia il bianco latte, Cosi da prima partoriscon l'uovo Gli
arbor non alti della verde uliva Luce impedendo fa la terra notte. an 2 236
Ήλιος οξυβελης ηδε ιλαϊρα σεληνη (52 ). απέσκεδασε.αυγας Ες γαμαν καθυπερθεν
απεσκιφωσε δε γαιης Τοσσον οσοντ ’ ευρος γλαυκωσιδος επλετο μηνης (53. Гщи ру
тар уцау апожариву детi * Uдор Ηερι δε ηερα διον ατάρ πυρι πυρ αιδηλον Στοργην
δε,στοργη κακος δε τε νεικεί λυγρω (54). Παντα γαρ ισθι φρονησιν εχαν και
σωματος αισαν(53 Λιματος εν πελαγεσι τετραμμενα αντιθρωντος Τη τε νοημα μαλιστα
κικλεσκεται ανθρωποισιν Αιμα γαρ ανθρωπους περι καρδιον εστι νοημα (56). Προς
παρεον γαρ μητες αεξεται ανθρωποισι (57 ). οθεν σφισιν ας Και το φρογαν αλλοια
παριστατα (58 ). 1. 237 Dolce è la Luna, e durdeggiante il Sole. Disperge i
raggi sulla Terra, e sopra Tant è la luce, che le fura, quanto Il disco è largo
della glauca Luna. Terra veggiam con terra, acqua con acqua, Aer divin con aere,
e lucente Fuoco con fuoco, e con amore ' amore, E veggian lite con dannosa lite.
Uomini, bruti e piante ben lo sai Han tutii mente, e parte di ragione, Stassi
la mente dove più ridonda II sangue, che su giù sempre si muove, Perchè dal
sangue, che circonda il core Il pensiero nell' uom sua forza prende; Il pensare
dell' uom cresce e al presente Però il pensare sempre a lui diverse Mostra le
cose. 238 Ενδ ' εχυθη καθαροισι τα δε τελετουσι γυναικες Ψυχεος αντιασαντα (59
). Νηπιοι και γαρ σφιν δολιχοφρονες ασι μεριμνα Οι δε γενεσθαι παρος εκ εον
ελπιζασιν Ητοι καταθνησκαν τε και εξολλυσθαι απαντη (6ο ), Αλλα κακοίς μεν
καρτα πελ4 κρατ€8 σιν απιστών, Ως δε παρ' η ιετερης κελεται πιστωματα μεσης
Γναθη διατμεζεντα ενι σπλαγχνοισι λογοιο (61 ) Ταυτα τριχες και φυλλα και
οιωνων πτερα πυκνα Και λεπίδες γιγνονται επί στιβαροισι μελεσσιν (62 ) αυταρ
ελικος οξυβελας νωτοισι δ ' ακανθι επιπεφρικασι (63 ). Της δαφνης των φυλλων
απο παμπαν εχεσθαι (64) 239 Col solito calor si forma il maschio Ma se l'utero
poi s'affredda a caso La famina ne vien. Stolti non lungi col pensier veggendo
Prendon lusinga di poter esistere Ciò, che innanzi non fu, o quel, ch'esiste
Potersi in tutto struggere, e perire. Il malvagio non crede, e non cedendo Alla
forza del ver, trionfo meni, Ma cosi detta, e vuole, che tu creda La nostra
musa. Tu dentro l'interno I detti scissi, ne penétra il senso. Della stessa
natura sono i peli, Degli arbori le frondi, e degli uugelli Le fulte piume, o
pur le squame sparse De' pesci sopra la ben soda carne. Ed il riccio marin, a
cui le spine Acute gli si arricciano sul dorso, Dalle foglie d' allor la man
ritieni 240 Τετο μεν εν κογχασι θαλασσονομοις βαρυνωτοις Και μην κηρυκαντε
λιθορρινων χελυωντε Ενθ οψε χθονα χρωτος υπερτατα ναιεταεσαν (65) Βυσσω δε
γλαυκης κροκο καταμισγεται (66). Φυλος αμουσον άγουσα πολυστερεων καμασκηνων(67
κορυφας ετεράς ετεραισι προσαπτων Μυθων μητε λεγαν ατραπον μιαν (68). Νυκτος
ερκμαιης αλαωπιδος (69). Αλφιτον υδατι κολλησας (7ο). θαλλαν Καρπων αφθονιισι
κατ ηερα παντ εγιαυτον (71 ). Ουδε τις ην κανοισιν Αρης θεος, ουδε Κυδοιμος
Ουδε Ζευς Βασιλευς, ονδε Κρονος, ουδε Ποσειδων Αλλα Κπρις Βασιλαα. 241 Del mar
le conche di pesante dorso, Il murice riguarda, e le testuggini Che son coperte
di petrose scaglie: Bene in questi aninai veder tu puoi Come del corpo sta la
terrợ in cima. Si mischia al bisso il fior del croco azzurro. La goffa turba
de' fecondi pesci Guidando Somma a sonima giungendo del discorso Per diversi
sentier prender cammino Della solinga tenebrosa notte Coll acqua unendo la
farina d'orzo. Germoglian ricchi di lor frutta in tutte Le stagioni dell'anno
in mezzo all' aria. Marte non han qual Nume, nè Minerva Del tumulto guerriero
eccitatrice: A Nettuno, a Saturno, Giove il rege hh ) 242 Την οιν' ευσεβεεσσιν
αγαλμασιν ιλασκονται Γραπτοις δε ζωοισι, μυροισι τε δαδαλεοδμοις, Σμυρνης τ'
ακρητου θυσιαις λιβανου τε θυωσους Ξουθων τε σπονδας μελιτων ριπτοντες ες ουδας
(72 Στανωποι μεν γαρ παλαμαι κατα για κέχυνται Πολλα δε σαλεμπη α τατ ’
αμβλυνεσι μεριμνας Παυρον δε ζωησι βια μερος αθροισαντος Ωκυμοροι καπνοίo δικην
αρθεντες απεπταν. Αυτο μονον πασθεντες οτω προσεκυρσεν εκαστος Παντος
ελαυνομενοι και το δε ολον ευχεται ευρειν Ουτως ατ’ επιδερκτα τα δ' ανδρασιν ετ
' επακιστα Ουτε νοω περιληπτα (73). ή και συ 80 επα ωο " ελιασθης
Πευσεαι.ε πλεον γε βροτάη μητις ορωρε (74). 243 Negano omaggio; e prestan solo
il culto A Venere Regina, che sdegnata Placan con santi simulacri, e pinti
Animali, e con mille odor, che l'arte Ingegnosa travaglia, o co' profumi Di
pura mirra, e d'incenso spirante Soave odore, e fanle sagrifizio Sopra la terra
il biondo miel spargendo. In parte angusta delle membra è sparsa La nostra
mente. Abbonda pur la cispa Ch' ottenebra il pensier, e ne' viventi Poch'è la
porzioni di vital forza, Che qual fumo sen fugge, allorchè morte Di repente ei
fura. E quindi ognuno, D' ogni parte sospinto, sol di quello, Cui per sorte s'
avvien, resta sicuro. Altero intanto di trovar presume Tutto, e saper ciò, che
non puossi ancora Nè veder, nè sentir, nè colla mente Comprendere dall ' uom.
Giacchè vagando in guisa tal ti scosti Prendi consiglio da ragion; che l'uomo
hh 2 244 Αλλα θεοι των μεν μανιην αποτρεψατε γλωσσης Εκ δ ' οσιων στοματων,
καθαρην οχετευσατε πηγην Και σε πολυμνηστη λευκο λενε παρθενε μεσα Αντομαι ων
θεμις εστιν εφημερoισιν ακ84ν Πεμπε παρ' ευσεβιης ελασσ' ευημιoν αρμα Μηδε σεγ
ευδοξοιο βιησεται ανθεα τιμης Προς θνατων αγελεσθαι εφ ω ' οσιη πλεον απον
Θαρσα και τοτε δη σοφιης επ ακροισι θοαζη Αλλα γαρ αθρεα πας παλαμη πη δηλον
εκαστον Μητε τιν οψιν εχων πιστει πλεον η κατ’ ακτην Η ακοην εριδαπών υπερ
τρανωματα γλωσσης Μητε τι των αλλων οποση πορος εστι νοησαι Γυιων πιστην ερυκε
γορα θ ' η δηλον εκαστον (75). 245 Col suo saper più oltre non s'inalza. Dalla
lor lingua, santi numi, tale Furor cacciate, e dalle vostre bocche La purissima
vena in lor sgorgate. Te Verginella bianchibraccia musa, Cui più corteggian
disiosi amanti, Te prego attente a porgermi l'orecchie A fin di quello udir,
che lice all ' uomo, E come te non pungerà la gloria Fiori a coglier d'onor
presso i mortali, Perciò più cose ti potrò svelare. Ma agitando i destrier
docili al freno Porta da Religion lontano il carro. Prendi fidanzı: andrai
ratta a sedere Di sapienza allor sull’ alta cima. Colla ragion contempla il
tutto, e vedi Ciascuna cosa chiarų si, che certa Ti si dimostri. Ne maggior la
fede Presta al senso di vista, che all' udito; Nè all'orecchio, che raccoglie i
suoni Credi più della lingua, che discopre Le cose. Nè all'una più, ch'
all'altra Credi di quelle vie, per cui ci viene 246 Πεση Φαρμακα και οσσα
γεγασι κακών και γηραος αλκας ετα μενω σοι εγω κρανεω ταδε παντα. Παυσις δ '
ακαματων ανεμων μενος οιτ' επι γαιαν Ορνόμενοι πνοιαισι καταφθινυθουσιν αρουραν
Και παλιν ην και εθελησθα παλιντονα πνευματ' επαξές Θησεις δ ' εξ ομβροια
κελαινα καιριον αυχμον Ανθρωποις θησας δε εξ αυχι8οίο θεραου Ρευματα
δενδρεοθρεπτα τα δ' εν θερι αησαντα Αξας δ ' εξ αΐδαο καταφθίμενου μενος ανδρος
(76). 247 La notizia de' corpi, ed il pensare. De' sensi in somma poni giù la
fede: Ti sia guida ragion, onde discerna In ogni cosa chiaramente il vero.
Quanti i rimedi fugator de' morbi, Come vecchiezza si conforti, udrai. Che
tutto a te io solamente suelo, De' venti infaticabili frenare L'ira saprai; che
con furor piombando Sopra la terra, col soffiare, i campi Guastano tutti; o pur
se n'hai piacere Concitar li potrai, se son tranquilli. Saprai d'inverno tra
procelle scure Produr di state il lucido sereno, O pur nel fitto della secca
state Produr le piogge, che nutriscon gli alberi, E del caldo l'ardor tempran
movendo Aure soavi. Giungerà tua forza Sin dall'inferno a richiamar gli estinti.
248 ΠΕΡΙ ΚΑΘΑΡΜΩΝ. Ω Φιλοι οι μεγα αστυ κατα ζανθου Ακραγαντος Ναιετ ακρην
πολεως αγαθων μεληδεμονες εργων χαιρετ. εγω δ υμιν θεος αμβροτος ουκ ετι θνητος
ΓΙωλευμα μετα πασι τετιμένος ωσπερ εοικε Ταινίας τε περιστεπτος στεφεσιν τε
θαλαιης Τοισιν αμ’ ευτ ’ αν ικωμα ες αστεα τηλεθοωντα Ανδρασι ηδε γυναιξι
σεβιζομαι. οι δ ' αμ' εποντα Μυριοί εξερεοντες σπη προς κερδος αναρπος Οι μεν
μαντοσυνεών κεχρημενοι οι δε τι νουσων Παντοίων επυθοντο κλύειν ευηκέα βαξιν
(77). Αλλα τι τοις δ ' επικειμ' ωσει μέγα χρημα τι πραση σών Ει θνητων περιειμι
πολυφθορεων ανθρωπων; (78 ). 249. DELLE PURGAZIONI. Salvete, o miei diletti,
abitatori Dell' alta rocca, e della gran cittate, Che del biondo Acragante
bagnan l’acque. Salvete, o cari, cui virtute è cura. Immortale sori Dio, nè
qual mortale Sto più tra voi, d'onor, siccom'è giusto, Pieno fra tutti.
Allorchè cinto il capo Di larghe bende, e di festanti serti Io porto il piè
sulle città fiorenti, Corrono, e maschi, e donne a darmi culto. E mille, e
mille, che là van col passo Dove dritto il sentier li mena al lucro, Ali
s'affollan d'intorno nel cammino: E mi seguono ancor quelli, che intenti Stansi
a svelar dell'avvenir gli arcani, Ed altri, che saper bramano l'arte Sagace di
guarir qualunque morbo. Ma perchè mi dilungo tali cose Nel riferire, quasichè
d'eccelse Gesta pur si trattasse, se vincendo Ogni mortal, sopra di lor
m’inalzo? ii 25ο Σ Εστι δε αναγκης χρημα θεων ψηφισμα παλαιον Ευτε τις
αμπλακιησι φονω φιλα γυια μιανη Δαιμονες οιτε μακραιωνος λελογχασι βιοιο Τρις
μιν μυριας ωρας απο μακαρων αλαλησθαι Την και εγω νυν αμι φυγας θεοθεν και
αλήτις Νακεί μαινομεγω πισυνoς (79). Αιθεριων μεν γαρ σφε μενος ποντον δε
διωκεα Ποντος δ ' ες χθονος ουδας ανεπτυσε γαιαδες αυ γας Ηελία ακαμαντος οδ '
αιθερος εμβαλε δινας Αλλος δ ' εξ αλλε δεχεται στυγερσι δε παντες (8ο αγα
λοιμωγατε και σκοτος ηλεσκέσις (81). 251 be E ' volere del fato, è degli Dei
Decreto antico, che s'alcun peccando Di quegli spirti, che sortiron vita
Lunghissima, lordò le proprie mini Quasi di sangue, sia costui cacciato Lungi
dall' alte sedi, in cui beata Vivon, vita gli Dei, e vada errante In репа del
fallir tapino in terra, Finché ritorni primavera ai campi Tre volte dieci mila;
ed un di questi Io son, ch' ora dal Ciel men vo lontano Vagando quà, e là esul
ramigo, Solo in poter di furibonda lite. } L'aria gli spirti, che falliro,
caccia In mar con forza, il mar li getta in terra, La terra li rigetta su
lanciando Del sole infaticabile ne' raggi, D ' aria nel turbo il sole infin gli
scaglia. L'un dopo l'altro van cosi girando, E tutti traggan pien di duolo i
giorni. Van per gli prati, e per lo scuro erranti ii 2 252 Ενθα φόνoστε κοτοστε
και αλλων εθνεα κηρων (82 ) Κλαυσα τε και κοκυσα ιδων ασυγηθεα χωρον (83 ) Ω
πoπoι η δειλον θνητων γενος ω δυσανολβον Οιων εξ εριδων εκ τε στoναγων εγεγεσθε
(84). Εξ οιης τιμης και οι μηκεος ολβα (85). Εκ μεν γαρ ζωων ετιθεα νεκρα «δε'
αμκβων (86) Σαρκων αλλογνωτί περιστελλασα χιτωνε Και μεταμπεχασα τας ψυχας (87).
Ηλυθομεν του ' νπ ' αντρον υποστεγον (88). Ηδη γαρ ποτ' εγω γενομενην κεροστε
κορητε Θαμνοστ’ οιωνοστε και εν αλι ελλοπος ιχθυς (89). Εν θηρσι δε λεοντες
οραλεχεες χαμαιεύναι Γιγονται σαν ναι εγι δενδρεσιν ηύκομοισιν (go ). 253 Ivi
la stragge, e l'ira, ivi tant' altri Mali hanno sede. Insolito abitar vedendo
piansi. Ah ! La razza mortal quant' è meschina ! Quanto infelice ! Quali
affanni, e liti Siete nati a soffrir ! Da quale onor son misero caduto, Da qual
grandezza di felicitate, Da vita a morte son, forma mutando L'alme involgendo,
e quasi ricoprendo Della straniera veste delle carni. inIn quest'antro coperto
al fin siam giunti. Fanciullo io fui un di, donzella, uccello, Albero, e senza
voce in mar fui pesce, Qual sopra ogn'animal s'alza il Leone Giacente in terra,
abitator de monti 254 Εν9 ' ησαν χθονιητε και Ηλιοπη ταναίτις Δηρίς θ '
αιματοεσσα και αρμονίη ιμερωπις Καλλιστω τ’ αισχρητε θοωσατε Δαναητε Νημερτης
τεροεσσα. μελαγκαρπος Ασαφια (91 ) Ξεινων αιδοιοι λίμενες κακοτητος απαροι (92).
2 φιλοι οιδα μεν εν οτ ' αληθαη παρα μυθους, Oυς εγω εξερεω, μαλα δ' αργαλειτε
τετυκται Ανδρωση και δυσζηλος επι φρενα πιστέος ορμη (93) Ουκ αν ανηρ τοιαυτα
σοφος Φρεσι μαιτεύσατο Ως όφρα μεν τε βιωσι το δε βιοτον καλεσιν Τοφρα μεν εν
εστι και σφι παρα δειγα και εσθλα Πριν δε παγασαι βροτοι λυθεντες τ ’ εδεν αρ'
εισιν(94 Αλλα το μεν παντων νομημον δια τ’ ευρυμέδοντος 255 Tal su gli arbor
fronduti il lauro eccelle. Chtonia gº era là con Eliope Di larghi occhi, e la
cruenta Deri Con armonia, piena d'amor, nel volto. Vera del par Thoòsa, e
Deinèa E la turpe Callisto, e insiem l'amabile Nemerte, ed Asafia, che il tutto
oscura O Gergentini di mal fürè ignari Degno porto d'onor degli stranieri. Io,
mici cari, so ben ', che nel mio dire Stassi la verità dentro nascosa, Ala
della fe la forza l'uom travaglia E pena, e dispiacer gli reca in mente. Saggio
non v'è, che possa con sua mente Pensar, che l'uomo mentre vive questa, Che
chiaman vita, esista solo, e colga E beni, e mali; si che l'uomo nulla Sia
prima il nascimento, e dopo morte. Ma questa legge pubblicata a tutti 156 '.
Αιθερος ηνεκεός τετατα δια τ ' απλέτε αυγης (95). Ου παυσεσθε Φονοιο δυσηχεος';
8κ εσoρατε Αλληλες δαπτόντες ακηδεμησι νοοιο;. Μορφήν δ ' αλλαξαντα πατηρ φιλον
υιόν αερας Σφαζα επευχομενος μεγα νηπιος και οι δε πορευντα Λισσομενοι θυοντες
οδ ' ανηκοστος ομοκλεων Σφαξας εν μεγαροισι κακης αλεγυνατο δαχτα Ως δ ' αυτως
πατερ' υιος ελων και μητερα παιδες Θυμoν απορραισαγτα. φιλας κατα σαρκας εδεσι
(96) 4. Oιμοι οτ’ και προσθεν με διωλεσε νηλεές ημας Πριν σχετλι’ εργα περι
χειλεσι μητισασθα ! (97 ) 257 Dell' aria si distende per l'immenso Splendore, e
l'alta region dell Etere Che per lunghezza, e per larghezza è vasto.? Ancor si
sparge per le vostre mani IL sangue gorgogliante degli animai? Ah non vedete
colla mente piena Di sprezzo, che sbranandovi, a vicenda Vi diorate? E che
mutata forma Il padre alzando il suo caro figliuolo Lo scanna, e pazzo grandi
cose prega Tutti color, che sacrifizj fanno, Sen van supplici orando; ma
quest'altro Nell'atto di scannar gridi mandando D' udirsi indegni, in segno di
minaccia Malvagio in casa desinar prepara. Cosi talora avvien, che danno morte
Il figlio al padre, ed alla madre i figli, E questa, e quel fucendo privi
d'anima Le care in cibo ne trangugian carni. Perchè crudele il di ah non mi
spense Prima, ch'avessi fatto il gran peccato D' appor tal cibo sopra le mie
labbra ! kk 558 Ταυρων δ ' ακρίτοισι φονοις και δευετο βωμος Αλλα μυσος τετ '
εσκεν εν ανθρωποισι μεγιστον Θυμoν απορρασαντας εεδμεναι ηϊα γυια (98 ). Τοι
γαρ τοι χαλεπησιν αλυοντες καιστησιν Ου ποτε δαλαιων αγιων λεωφησετε θυμον (99).
Ολβιος ος θαων πραπιδων εκτησατο πλετον Διαλος δω σκοτοεσσα θεων περι δοξα
μεμπλε (ιοο) Εις δε τελος μαντάστε και να τοπολοι και 1ητροι Και προμοι
ανθρωποισιν επιχθονίοισι πίλονται Ενθεν αναβλαστασιν θεοι τιμηση φεριστοι (101
). Αθανατους αλλοισιν ομεστιοι αυτοτραπεζοι Ανδρομεων αχεων αποκληροι εοντες
απειροι (102). 259 Non macchiava l'altar sangue innocente De’ tori un di. Ma
sommo allor misfatto Dagli uomin si credea privar dell' anima Gli animai, e
divorarne i membri in cibo. Chi dalla colpa, che da se molesta, E ' tormentato,
non avrà nell' animo Mai requie al suo misero dolore. Felice è quegli, che
possiede i beni Della mente divina, ed infelice E' quel, che male degli Di
pensando Ne porta tenebrosa opinione. 7 I vati infine, ed i cantor degl' inni I
medici, ed i forti capitani, Che de' terrestri uomini son guida Ivi rinascon Dü
d'onor prestanti. Nella stessa magion, a mensa stessa Stando cogli altri Dii,
d'ogni vicenda D'ogni umarło dolor futti già privi. kk 2 16ο Ην δε τις.ν
κανοισιν ανηρ περιωσια αθως Ος δη μηκιστον τραπιδων έκτησατο πλετον Παντοίων τε
μάλιστα σοφων επικράνος έργων Οπποτε γαρ πασησι ορεξατο πραπιδεσσι Ραγε των
οντων παντων λευσεσκεν εκαστα Και τε δεκ ' ανθρωπων και τ' ακoσιν αιωνεσσι (103)
ΕΠΙΓΡΑΜΜΑΤΑ Περι Ακρωνος • Ακρον ιατρον Ακρων ακραγαντινον πατρος ακρου Κρυπτα
κρημνος ακρος πατριδος ακροτατης Τιγες δε το δευτερον στιχον ουτω προφέρονται
Ακροτατης κορυφής τυμβως ακρος κατεχα (104) 261 5 Tra quelli o'era l' uom sopra
d'ogn ' altro Eccelso nel saper, che della mente L' altissimo tesor chiudea.nel
seno. Egli pieno d'amor tutti indagava De' sapienti i fatti, e le scoperte
Dotte di lor. E quando del suo spirto Ogni forza intendeva, ad una ad una Tutte
schierate le cose reali In dieci o venti secoli abbracciando Rapidamente col
pensier vedea. EPIGRAMMI INTORNO AD ACRONE. L'alto di gran saper medico Acrone,
Nato dun alto padre in Agrigento Alta, rupe tien alta per sepolcro Della sua
patria posto in alta cima. Alcuni leggono così il secondo verso Alta tomba
ritien sull' alta cima аба. Περι Παυσαγικς Παυσαγι: ιητρον επωνυμον Αγχίτου
υιον Φωτ’ Ασκλεπιαδης πατρις εθρεψε Γελα Ος πολλούς μογεροίσι μαρανομένους
κεματοισι Φωτας ατέστρεψαν Φερσεφονης αδυτων (1ο5).. Δειλοί πανδειλοι κυαμας
απο χειρος, εχεσθαι, Ισον τοι κυαμες τρωγειν κεφαλασθα τοκων (106 ) Ναν μα τον
αμετερας σοφίας ευρoντα τετρακτην Παγον αεγνας φυσεως ριζωμα τ' εχεσαν (107).
263 Di Pausania. Il medico che nomasi Pausania E' d' Anchito figliuol', è
discendente Degli Asclepiadi, ed ha per patria Gela, Che lo nutri. Costui molti
languenti I'er penosi malor dalle segrete Di Persefone stanze a forza trasse.
Versi d' incerto Autore attribuiti da alcuni ad Empedocle. Scostate, o miseri,
del tutto in felici Dalle fave la mun: mangiar di queste Egli è privare i
genitor del capo. Giuro per quel, che nella nostra scuola Scoperse il qucttro,
che racchiude il forte, E la radice eterna di natura. ANNOTAZIONI ALLA R A O
COITA D E FRAMMENTI. ANNOTAZIONI ALLA RACCOLTA D E FRA MM EN TI. (1 ) Questo
verso si trova presso Laerz. 1. 8 in Emp. Egli dice ny de o lavraylas spwjeevas
αυτε, ω δη και τα περι φυσεως προσπεφωνηκεν Pausania era amato da Empedocle, e
que sti gli intitolò il suo poema sulla ' natura E siccome questo verso forma
la dedica; cosi si è collocato il primo. La frase per quanto pare è Omerica
come si può vedere Iliad. 11 V. 450 Iliad. 1: V. 451. (2 ) Presso Simplicio de
Phys. aud. l. 8 p. 272 ediz. d'Aldo. Perchè questi due ver si si suppongono
dagli altri, che li seguono, si son collocati prima. Per altro Plut. de exil.
afferma che cosi cominciava la filosofia d'Empedocle. (3 ) IL 2. 3 verso son
rapportati da Laerz. 11 2 263 che se 1. 8 in Emp. I primi tre da Sext. Emp.
adv: Phys. 1. ģ, da Plut. de Pl. Ph. l. 1 cap. Tutti quattro poi da Stobeo Ecl.
Phys. 1. i p. 26. Questi si sono premessi per la ragio ne ch'esprimono i
quattro elementi, che sono base di tutta la filosofia d'Empedocle. Si conviene
da tutti che sotto Giove è in: dicato il fuoco, e da Nesti l'acqua, condo
Vossio de Idol. 1. 2. cap. 7 e Fabricio nelle note à Sesto Empirico deriva da
yalay fluere. Vi è solo un disparere tra gli Scitiori per gli due simboli.
Giunone e Plutone. Pois chè secondo Cic. de Nat. Deor. l. 2.cap. 26 Plut. l. 1.
cap. 3. de Pl. Ph. Macrob. Satur. l i cap. 15, da Giunone è espressa l'aria; ed
al contrario giusta Athen. Apol. 22. Achill. Tazio in Arat. Laert. I. 8 in Emp.
Stobeo Ecl. Phys. 1. i Heracl. Allegaz, Omeriche,p. 443., -sotto il simbolo di
Giunone è indicata la terra. E però per questi Plutone era la• ria, e per
quelli la terra. Aïd oyeus in luogo di aïdris Om. 11. 20 V. 61. Esiod. Theog.
v. 913. Hpn epoßios Omer. Hyinn. in matr. o. mnium '. Nella traduzione si è
formato GIOTATO 2 per tmesi. 269 9 col. (4 ) Di questi versi il 7 e l'8 sono
riferi ti da Laerz. in Emp. I. 8. Stobeo Ecl. Phys. 1. 1 p: 26. Dal 10 sino al
15 si trovano presso · Arist. Natur. Auscult. l. 8 cap. 1. Il. 22 presso Ciem.
Alex. Strom. I. 5., ed il 21 e 22 presso Plut. Amat. Tutti poi eccetto il g e'l
10 sono rapportati da Simplicio de Phys. Aud. I. 1 p. 34 ediz. d'Aldo. Siccliè
si è supplito il 10 con Aristotile, e'l lo stesso Simplicio come si vedrà alla (10
). Questi versi che sono al numero di 36 fan parte del primo libro della natura.
Poichè lo stesso Simplicio dice chiaramente sy 7pUTW TO φυσικών.99 και nel
primo libro delle cose fisiche I versi 3, 4, 5 pajono d ' essere un'imi,
täzione d'Omero. II. 6.v., 146, e 149. Il 5 portá P&T Th, ma si è cangiato
in.dpuntu come più confacente al senso. Nel 6 in luo go di xdcepecei dinge si è
posto 8T0T€ anges.co me Omero. Il. -10. V. 164. Nel z la paro la Qiaotati
amicizia non significa in verità che ainore, siccome fa Omero. Il. 6 v. 161 c
in quasi tutta l'ariade che dice QLXOTNTO felgympia rab. Dal 7 al 12 sembra di
essere una sem 270 * plice imitazione d' Esiodo nella Theog. Poichè Empedocle
mette in contrasto l'amore e lo dio come Esiodo fa colla notte e'l giorno. Ne’
versi 6, 13 e 32 si trova la parola ' deau Trepes. collocata nello stesso modo
che suol fa re Opiero. Il. 10 v. 325 e 331. II. 12 v. 398. II. 19 v. 272. Odys.
4 V. 209. Odys. 7. v. 96. Odys. 10 v. 38. Odys.. 14 v. 11. Sicchè pare che
l'orecchio d Empedocle era educato al suono de' versi Omerici, Nel verso 14
aloy Euroly alla maniera d'Omero. Il. 1 v. 290. Nel 16 reipata pewIwon siccome
0. mero παρατα τεχνης. Nel 20 1 ’ αταλαντον co me Il. 15 v. 302. Nel 21 è da
dirsi che intanto, l'amicizia sia di lunghezza e larghez za eguale, in quanto i
corpi possono risulta re da parti eguali de quattro elementi. Al meno questa
interpetrazione pare più confa cente al suo sistema; se non si vuole abbrac
ciare quella, che deriva dal pittagoricismo, per cui il numero quattro era il
più perfetto. Nel 22 100. TEINTWS per attonito e Omerico. II. 4 v. 246. Nel 24
cina poves's dovrebbe esser nominativo giusta la Grammatica. Na si v. 271
lasciato in accusativo; perchè gli Attici alcuna, volta, coře si vede presso
Aristof. in avibus, sogliono usare l'accusativo in luogo del nomi nativo.
L'epye texti si trova spesso in Omero e in Esiodo: cosi Odys. 7 V. 272.Esiod.
Theog. V, 89. Il 25 è simile a quello dell' Iliad. 9 v. 558, e pile d'ogni
altro ad Esiod. Theog. v. 595. Nel 27 laratnaon è d ' Omero. II. 1 v. 526. Nel
30 il Trepiadojevolo è pari mente adattato al tempo e all'anno presso Omero'.
Odys. iv. 16 ed Esiod. Opera v. ' 384. Nel 31 si osserva l'id atoange in fi. ne
del verso come in Omero. Il. 6 v. 149. (5) I versi 12 e 13 si trovano presso
Arist, Poet. cap. 25, e Ateneo lib. 10 p. 424. Tutti poi sono rapportati da
Simplicio de Phys. aud. 1. i'p. 7 d' Aldo. Essi sono stati posti nel primo
libro del poema; perchè Simplicio li riferice come quelli che precedeano altri,
che da lui sono notati per versi del primo lix bro προ τετων των επων • Nel
verso 7 è 11 si è scritto a Jey.TTW5 in luogo di queuent Ews come si legge in
Sims plicio. Nel 10 si trova vtsupper feri ch'è d' 272 Omero II. 9 V. 502,
Nell'ultimo, si ha l espressione Jaunese idiogui ch ' è comune presso Omero ed
Esiodo: cosi Il. 18 v. 83. Odys. 13 v. 108. De scụto Herc. v. 140 ', ed in
tanti altri lunghi dell' uno e dell'altro poe ta. Teocrito nell' Idyl.. 17 v.
77. non è dif ficile che avesse imitato Empedocle, dicendo egli εθνεα μυρια
φωτων α εinmiglianzα di quel che dice il nostro poeta nel 8 verso e nel 14, (6
).Simplic. de. Phys. aud. I. 1 p. 7. Quer sti versi sono quegli stessi innanzi
a' quali di ce Simplicio ch' erun collocati quelli della na: ta (5 )..... L'
epiteto Truji Payowymi è Omerico. II. 8 v. 320 e 435. Orfeo nell'inno all'
etere, chiama l ' etere dotepo@ eyzes (7 ) I primi tre' versi sono presso
Arist. de anima li i càp. 7, e tutti presso Simp. de Phys. aud. I. 2 p. 66 Aldo.
Simplicio af ferma che appartengano al primo libro d' Em. pedocle λεγει εν
πρωτω. Ε come sono dello stesso tenore della nota (6); cosi si sono si tuati
vicino a quelli. Nel 1 verso επικαιρος in luogo di επίκρανος 273 è d'Omero. II.
1 v. 572, e il v. 572, e il xoayolai é ' Esiod. Theog. v. 865. Nel 3 l’ oGTEL
deuxa è parimente d ' Esiod. Theog. v. 540, e 557 e d'Omero. Il. 24 v. 793. (8
) I primi due versi si trovano presso Plut. de primo frigid., e il 7, 8, 9
presso Arist. de gen. et corrupt. Tutti presso Simpl. de Phys aud. l. 1 p. 8, e
nella pag. 34 sono pre ceduti da due seguenti versi. 1 እእእ.
αγε των δ * οαρων προτερων επί μαρτυρα δερκεί Ει τι και εν προτερoισι λιποξυλον
επλετο μορφη • 1 Di questi due versi non si sa che voglia dire quel Altofurov
legno pingue: Perchè pa-. re ch? Empedocle voglia rapportarsi a' prece: denti
colloquj dove forse v'era qualche for. ma Altrotuloy. Si è cercato di
sostituire Action Yugov, ma neppure s intende. Però si sono trascurati nel
testo questi due versi. Nel 3 verso si legge presso Plut. Svopa EVTA xep ply a
negyté, ch? è spiegato tenebroso, ed crribile. Ma come non si sa ď' onde poss m
m 274 sa derivare played soy si è sostituito plyndor, che più si conviene
all'acqua. Indi è che si è scritto VIOOEYTA,xoh pigns.ovte. E' vero che il vero
so diventa spondaico; ma gli epiteti dell' ac qua sono più confacenti alla sua
natura, e corrispondono più all'intendimento d'Empedo cle, che in questi versi
vuol dare i caratteri di ciascuno dei quattro elementi, siccome at testa
Simplicio de Phys. aud. - p. 7. Nel 4 προρε8σι θελυμνα τη luogo di προθελυμνα.
It' 9 vi 537. Il 5 verso è simile a quello d. Omero. Il. 18 v. 511, ilil 7 al
v. 70. Il. e al. v. 38 d' Esiod. Theog., e l'8 al v. 163 Odys. 15. Nel 9, e 10
l ' epiteto de' pesci υδατοθρεμμονες, e quello degli Dei δο. arxay wres sono
tutti due propj d'Empedocle; giacchè non si leggono presso altro poeta. Il
Tlpenoi Ospirtoi pare che sia preso dal v. 494 1 11. 9 • (9 ) Simplic. de Phys.
aud. 1. 1 p. 34. Egli li rapporta dopo quelli della nota (8) e dice, che
Empedocle li soggiunge in esempio. Non v'è quindi dubbio, che debbono essere
collocati nel primo libro, e dopo di quelli. Vi 275 si trovano alcuni versi
ripetuti alla maniera Omerica, e nel g versa ľws YÜ XEV come nel v. 749 Il. 11,
e nel v. 11 della Theog. d' Esiod. Nel 10 si e mutato l'acheta in fore, e nell'
11 vi si troνα μυθον ακεσας nel miodo stesso d'Omero II. 7 v. 54. Odys. 2 z v:
560, (19 ) Simplic. de Phys. aud. l. 1. Costui, dopo d' avere rapportato i
versi delle note (8) • (9 ) 80ggiunge και ολιγον δε προελθων αυθις Çnti. Però
si son collocati dopo, e come ap partenenti al primo libro. Il 7 di questi ver
si è quello stesso, ch ' è stato inserito da 9 nes versi della notą (4). (11)
Il 2 verso si trova presso Plut. net lib. de adulat. et amici discrimine: il
terzo presso Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4.- Tutti tre presso Clem. Alex. Strom.
I. 6. Il secondo verso, si rapporta d'alcuni ne: pos nilov ufos, ma Empedocle
nel 19 della nota (4) dice c7 NETOV, e per altro pare più armonioso ed Omerico.
Questi versi, come quel li, che indicano i quattro clementi ', non si possono
collocare che nel primo libro. m m 2 276 ! (12 ) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4.
Simplic. de Phys. ' aud. 1. 6 p. 272. Plutaroo nel lib. de Reip. geć. praecept.
vi allude dicen da τιμας ονομαζω κατ' Εμπεδοκλεα. Questi ver si non possono
appartenere, che al primo li bro; perchè in esso dichiara Empedocle le due
forze amicizia e lite. (13 ) Simp. 1. i de Phys. aud. p. 34. La parola aprice
del primo versa può significare pari di numero, perfetto, ed adatto. Si è
tradotta pari; perciocchè si è trovato che i corpi, di cui Empedocle enumera le
parti de gli elementi, da cui quelli son composti, non sono che di numero pari.
Cosi l'ossa di oi to parti nota (7 ), la carne di parti eguali de quattro
elementi nota (6 ) et.. (14 ) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 1, e De
Xenoph. Gorg., at Zenon. Plut. de Pl. Ph. l. 1 e adv. Golot. Si sono collocati
nel primo libro perchè Plutarco dice chiaramente de Pl. Ph. l. i λεγα δε ετως
και των πρώτων φυσικών και Anno de Tol spaced è modo turto ď Omero II. 1 v.
797. Odys. 11 V. 453. Odys. 10 2: 7 V. 495 ec. L'a.JavaTolo TEMBUTn è d' Esiod.
in Scuto Herc., ' e nell'ultimo verso Bpomois "QvIpomolol è maniera greca
che spesso si tra, va presso Omero ed Esiodo che dicono Bpotox ardpa. Il Duris
nel principio come opposto a 76 deutn pare che indicasse la nascita. Ma co me
in fine significa natura si è lasciato cob. la sua propia significazione di
natura. (15 ) Plut. adv. Colot. Questi versi, come si vede dalla materia, sono
una continuazio ne di que' della nota antecedente. Si sospetta che questi versi
fossero sta ti alterati da qualche copista. Vi si osserva ows per uomo in
genere neutro, che suol esa sere presso i Greci di genere maschile. (16 )
Simpl. de Phys. aud. 1, 2, pag. 85 Aldo. E siccome queg!i dice « TOTO'S AS T8
Εμπεδοκλεας εν τω δευτερη των φυσικών προ της ανδριων και γυναικιων σωμάτων
διαρθρωσεως TAUTU TC ETn, Empedocle nel secondo libro delle cose fisiche canta
questi versi prima di parlare della formazione e articolazione de' corpi de
maschi e delle femine Non vi ha 278 quindi alcun dubbio, che questi versi fan
par te del secondo libro, e che il soggetto di que. sto libro si versa sulla
nascita degli uomini, e de' corpi de' maschi e delle femine. Però è, che tutti
i versi che riguardano la formazio ne degli uomini, e de' loro membri, e delle
parti del corpo umano e loro funzioni sono stati da noi posti nel secondo libro.
IL 3 verso è un'imitazione d'Omero nel v. 157 dell' Iliad. 4, 810Quais secondo
Simpli cio esprime la massa tutta, del seme, che an cora' non indicava la forma
de' membri. (17 ) Aeliano de Nat. anim. I. 16 cap. 29. Le forme descritte in
questi versi sono ricor date da tutti gli antichi scrittori come singo lari.
Cosi Arist. Nat. ausc. l. 2. cap. 8. Es se non poterono durare, perchè non eran
tra loro convenienti. Di quando in quando ne na. sconto de' simili, e questi
sono i mostri.: (18) Simpl. de coelo 1. 2. Arist. de coel. 1. 3 cap. 2. De Gen.
I. i cap. i8. Isaac. Tzetze in Comm. ad Lycophr. Epi vax65 • (19 ) Simpl. de
coelo l. 2. (20 ) Simpl. de Phys. aud. 1. 8 p. 258 279 Aldo. Nel terzo verso si
è spiegato pngjely! al la maniera d'Omero Il. 1. v. 437. Nel 6 e nel 7 - sono
da notarsi ud poplene Opols, opsta μελεσσι, € πτεροβαμμoσι κυμβας clie sono ma
niere originali d' Empedocle. (21 ) Aristot. de respir. cap. 7. Questo è il più
bel frammento d'Empedocle, e forse l ' avanzo più, venerando dell'antica fisica,
in cui non solo si spiegà da Empedocle il modo a suo credere del nostro
respirare, ma si di mostra eziandio il peso, e la molla dell' a. ria. Egli è
stato tradotto per quanto si può letteralmente, e solamente si è ito aggiungen.
do talora la forma della clessidra, senza di che non si avrebbe potuto
chiaramente com prendere Il coros del 4 verso corrisponde al cruor de’latini.
Il. 16 y. 162. Chi si conosce – Omero può accorgersi come va adattando Em.
pedocle tutte le parole e frasi d'Omero nel 5. sino all ': 8 verso. Lo stesso
WTTEL OTAY Trays è ď Omero nel v. 362 Il. 15.. L'EPOMBAEOS, che Omero applica
ail' acqua'. Ili 16 v. 174, Empedocle l'adatta alla duttilità del bronzo 200
Verso. It all'acqua, nel 9 TEPEY Ejedes dell' 11 è d' 0. mero Il. 14 v. 406.
L'autap ETHTU nel 15 è forma parimente Omerica Il. 11 V. 304 Odys. l. 9 v. 371
ec. L'ayrilor ud wp nel 16 si trova applicato al giorno in Oniero, e qui che
non può esser fatale se non per che nella clessidra è destinata a notare le ore
che scorrono. Nel 18 verso Bpotew Xpor presso Esiod. Opera è preso per umano
corpo, qui per la mano. Nel 20 ilil duonysos è applica to alla guerra. Il. v.
395 ec. Da Empedocle si acconcia al gorgogliamento dell'acqua (22 ) Arist. de
sensu et sensili lib. i cap. Nel 2 verso σελας πυρος αθομενοιo e d ' Omero. Il.
9 v. 559. Il. 10 v.. 246. II. 11 v. 219. II. 6 v. 282 ec. Il 24uepiny νυκτα e
simile all' αμβροσιην δια νυκτα d' O mero. Il. 2. v. 57. Nel 3 si trova apopg85
ch'e' una metafora, quasi che le lanterne di fendendo il lume da venti se li
succhiassero; giacchè quopges vuol dire succhianti. Il mayo Town dyepewr Odys.
5 v. 293 e 304. Nel 4 verso il divanid ve si aeyrwy si trova in Omero Il. 5 v.
526. Nel 5 ci ha un epiteto de' 2. Nel dia 282 indomiti; per raggi ch ' è molto
ardito UTCpert chè non sono vinti dalla notte. La stessa pa rola walioruto nel
i verso per preparare è Omerica. Il. il v. 86 '. In quanto poi alla costruzione
delle lanterne è da dirsi, che for se allora erano di corno trasparente. (23 )
Il i e gli ultimi due versi presso Giov. Tzetze Chil. 5 p. 382. Il 2 presso
Theod. de Curat. Graec. l. 1. IlIl 22,, 3, e 4 pres SO Clem. Aless. Strom. 1.
5. Dal 5 sino all ' ultimo presso lo stesso Giov. Tzetze Chil. 13 p. 476. Gli
ultimi due versi sono anche rap portati da Chalcid. in Tim. Pl. Essi sono sta
ti tutti disposti nell' ordine, in cui sono no tati, che sembra non esser
disconveniente, e fanno certamente parte del lib. 3. Poichè Tzetze nella Chil.
7 p. 382 nel rapportarli soggiunge Εμπεδοκλης τω τιτω των φυσικων δεικ: VUOY
TIS ' N. sold togey το θεα κατ' επ'ος ετω λεγων. 9, Empedocle nel terzo libro
delle cose fisiche. volendo indicare quale sia la sostanza di Dio dice cosi Il
pendea nel senso in cui qui lo pigliu Empedocle è comune ad Omero nell' Odissea
n n. 282 o ad Esiodo nella Theng. (24) Clem. Alex. Strom. 1. 5. Il. 1 ver so
manca d'un piede, e si potrebbe compiere leggenda Ει ο αγε τοι μεν εγω λεξω. Vi
si os serva poi la stessa maniera d Oniero nell ' ap porre degli epiteti al
mare, all'aria, aile tere. (25) Athen. Dipnosoph. 1. 8 p. 334. Il devd pece
pecupce è d'Omero. Il. 9 v. 537. Lo stesso Athen. nel medesimo luogo attesta
che tutti i pesci da Empedocle furon chiamati zce paglves. (26 ) Aristot. 1. 2
de coelo cap. 8 e De Xenoph. Zenon, et Gorg. Gli ultimi due versi presso Clem.
Aless. Strom. 1. 6. (27 ) Plut. de Pl. Ph. I. i cap. 18. Theo dort. de mater.
et mundo Serm. 4 p. 1080. (28) Plut. Symp. l. 4 quaest. 1. Macro bio Saturn. l.
7 p. 521. E siccome in Plut. si leggono alterati; cosi sono stati correlti con
Macrobio. (29 ) Plut. quaest. Nat. p. 916. (30 ) Plut. quaest. Nat. p. 917, et
de Curiosit. Alcuni leggono Keuuata, altri rappese. (283 ra, ma si è sostituito
xeu-ged, che pare più acconcio al senso dell'autore (31 ) Arist. Nat. Auscult.
1.? cap. 4, e De Part, Anim. I. i cap. 1, Simpl. I. Phys. (32 ) Simpl. de Phys.
and. I. 2 p. 73. (33 ) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 23. L' epiteto de incepa come
dice ' Hesichio' è propio d' Empedocle.; ed il polyurgadins d'Omero II. 1 v.
352, (34) Simpl. l. 2 de Phys. aud. p. 74 Aldo. (35) Simpl. 1. 2 nel med. luog.
(36) Simpl. 1., nel med. luog. (37) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 73. (38 ) Simpl.
l. 8 de Ph. aud. p. 272. (39 ) Plut. in l. non posse suaviter vivi jut. xta
epicuri decreta. (40 ) Simpl. de Ph. aud. l. 8 p. 272. (41 ) Simpl. nel med.
luog. (42 ) Simpl. nel med. luog. (43) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 6. (44)
Simpl. de coelo Com. 21. p. 88. (45 ) Arist. de Gener. et Corrupt. 1. i cap. 6.
La frase zgova dupsyo, presso Omero Il. 6 y. 411. nn 2 284 (46) Plut. quaest.
Nat. p. 916. (47 ) Arist. de Gener. anim. 1..1 cap. 18. (48) Arist. de Gener.
anim. I. 4 cap. 1. (49) Plut. nel lib. de Amic. multitud. (50) Arist. de Gener.
anim. 1. i cap. 23. Alcuni leggono μακρα δενδρεα. (51 ) Plut. quaest. Platon.
p. 1006.4. (52 ) Plut. de fac. in orbe lunae dove in luogo d' ožupeans è da
leggersi očußeans e in vece di naiyo Iraupe come si è rapportato nel. la nota
(35). (53) Plut. de fac. in orbe lunae. Questi versi sono stati corretti da
Xilandro. (54) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4 de anim, 1. i cap. 2. Sesto Emp. adv.
Gram. l. i cap. 13 e adv. Log. l. 7 Chalc. in Tim. cap. 21 p. 131. Pare che in
questi versi Empedocle abbia imitato Omera Il. 13 v. 31, e Il. 16 v. 215. Il
tip apo ndoy Omerico. Il. 2 v. 455. L'epiteto della lite rugpw, che da Omero si
adatta alla vecchiaja, e talora alla ferita ec. è situato in fine del verso
come in Omero II. 5 v. 153, e Il. 10. v. 79. Il. 16 v. 393 ec. 285 3. (55 )
Sext. Emp. adv. logic. l. - 8 p. 512. (56) Stobéo Ecl. Plys. l. 1 p. 131. L'
última verso è anche rapportato da Chalcid. in Tim. Pl. p. 29,, ed è un
imitazione di quello d' Esiodo nella Theog. 7 spe pezy 750" T δες, περι δε
εστι νοημα • (57 ) Aristot. de anima 1. 3 сар. (58) Aristot. de anima" nel
med. luog. (59 ) Aristot. de Gener. 1. i cap. 13. (60) Plut. adv. Colot. (61 )
Clem. Alex. Strom. l. 5 Theodor. de curat. aegritud. Ethnic. Acciaolus Theod,
interpres I. i contra Graecos. (62 ) Arist. Meteorol. l. 4 cap. 9, atspao TURVO
è d ' Omero. Il. 11 y. 454, e otißola pous pedeerol è d ' Esiodo opera v. 148. (63
) Plut. Symp. 1. i cap. 3. Deve lege gersi andyl. (64 ) Plut. Symp. 1. 3.
quaest. 1. (65) Plut. Symp. I.,1 quaest. 2, e nel lib. de fac. in orbe lunae. (66)
Put. de Orac defectu. Per finire il verso si è supplito nella traduzione artos.
(67 ) Plut. Simp. I.? quaest. 10, 286. (68) Plut. de Orac. defect: (69) Plut.
Simp. 1. 8 quaest. 3. (70) Arist. Poet. cap. 25 c Meteor. l. 4. 71) Theophr. de
Caus. Plant. 1. i cap. 14. (72 ) Athen. Dipnosoph. l. 8 p. 365. Que sti versi
si son collocati come appartenenti al poema 'della natura; perchè parlano di Ve
nere, che indica l'amicizia. Vi si trova il Soydan codpots parola composta da
Empedocle, che non si legge in altro poeta. Si dee lege gere Κυπρις nel testo,
e non Kπρις. (73 ) Sesto Emp. adv. Log. 1.? Gli ul. timi due versi sono anche
rapportati da Plut. nel 1. de áud. Peet. Nel 2 yerso Scalig. legge suve ETEITA,
ed Erric. Stef. dely ETECL; ma ne' MSS. si trova SaneM.T, Si è quindi
conservata, come sta ne' MSS., e si è ritratta da dep @ os che più s' adatta al
senso dell'autore. Questi versi unitamente agli altri delle note (24) e (75 )
sono riferiti da Sesto Emp. come quelli, che con poche interruzioni si suc
vedono. E come Empedocle si dirizza ad un solo, ch'è Pausania;' cosi tutti fan
parte del 287 Chil. 1, pra poema sulla natura, (74) Sesto Emp. adv. Log. l. 2 (75
) Sesto Emp. nel med. luog. (70) Laerz. in Emp. 1. 8. Joan. Tzetze I versi 3, 4,
5 sono anche pres. so Clen). Alex. Strom. 1. 6. Nel 5 si legge d' alcuni
παλιγτιτα c d' altri παλιντινα; mα da Casaub. si vuole raditova, e fondasi so
Suida. Nell'ultimo verso è da notare che il sanare gl' infermi si esprime,
presso gli an tichi avastne dall'inferno. Plut. in amat. Horaz. l. 2 Sat. 1 V.
82. (77 ) Laerz. l. 8 in Emp. I versi 3 € 4 si trovano presso Sesto Emp. adv.
Gramm. 1. i cap. 13, e presso Philost. Vit. Apoll. Se condo Laerzio cosi
Empedocle avea dato prin. cipio al suo poema delle purgazioni cvcpzopese νός
των καθαρμων φησίν. (78) Sesto Emp. adv. Gram. I. 1 e Laerz. in Emp. 1. ' 8.
Sesto Empirico mette questi due versi dopo quelli della nota (77 ) e soge.
giunge nas nary. Sicchè icon c'è dubbio che appartengano alle purgazioni. (79)
Plut. de exil. I. 2, e l'ultimo meza 288 zo verso è presso Hierocle in aur.
carm., il quale lo ' rapporta unitamente al penultimo ως Εμπεδοκλης Φυσι ο
Πυθαγοραος • (80) I primi tre versi presso Plut. nel lib. de vit. aere alieno,
e tutti quattro presso lo stesso Plut. de Isid. et Osir., e presso Eusebio. (81
) Hierocl. in aur. carm. (82) Hierocl. in aur. carm. (83 ) Clem. Alex. Strom.
1. 3. (84) Clem. Alex. Strom. I. 3 0 70xO1 peegee herdos Il. 1 v. 254. (85)
Clem. ' Alex, Strom. I. 3. (86) Clem. Alex. nel med. luog. (87 ) Stob. Ecl.
Phys. 1. i. (88 ) Porph. de Antr. Nymph. Ediz. di Van - Gcens p. 9. (89 ) Clem.
" Alex. Strom. 1. 5 Origen, Phy losophumera. Phil. in V. Apoll. Athen.
Dipn. In luogo di do7Os, che è un epiteto dato da Esiodo e da Poeti Greci al
pesce, presso d' al.cuni si legge eurupos. A prima vista pare che l' epiteto
ignito non abbia luogo; mu ove si voglia riflettere che giusta Empedocle, gli
ani mali molto caldi cercarono l'acqua, ed ivi 289 soggiornarono, si può
comprendere in qual senso abbia potuto adattare al pesce l ' epiteto Europos. (90)
Eliano de Nat. anim. I. 12 cap. 7. Questi versi appartengono al poema delle pur
gazioni. Perchè Eliano nel rapportarli soggiun ge λεγει δε και Εμπεδοκλης την
αριστην αναι με: τοικησιν την τα ανθρωπου ει μεν ας ζωον η ληξις αυτην μεταγαγα
λεοντα γινεσθαι και δε ας φυτον dadyny. » Empedocle dice che ottima sia da
stimarsi la trasmigrazione dell'uomo, se do vendo passare in un bruto la sorte
lo porta nel corpo del leone, e se in una pianta lo porta nell' alloro L'
epiteto ηύκομοισιν Ο. mnerico. (91 ) Plut. de animi tranquill. L'epiteto
έροέσσα e d' Esiodo che dice Θαλιη εροεσσα και ma non s' intende quello di
μελαγκαρπος che vuol dire produttrice di frutti neri che Empe docle adatta ad
Asafia o sia al genio dell' oscurità. Giovanni Tzetze Chil. 12 dice Ecco
πεδοκλης προ παντωντε φιλοσοφος ο μέγας • γα γαρ την ασαφα αν μελαγκορον
υπαρχαν ως κελαινωπας τον θυμον ο Σοφοκλης που λεγα 25 * Ο Ο 290 SO • Empedocle
filosofo, grande sopra d'ogn'al tro, chiama Asafia o sia l'oscurità di nera
pupilla conie Sofocle dice l'animo di nero via In sostanza poi vuol qui
indicare Em pedocle quello che noi diciamo animo cupo, che tutto è coperto, e
tutto fa con riserva. (92 ) Diod. Sic. Bibl. Hist. 1. 13 p. 204. (93) Clem.
Alex. Strom. 1. 5. (94) Plut. adv. Colot. L'ultimo verso è stato corretto da
Giov. Clerc. Bibl. Choisie Tom. 1. (95) Arist. Rhet. l. i cap. 13. Si son
collocati in questo poema delle purgazioni; perchè Aristotile dice che
riguardano la proi bizione d uccidere gli animali. xoy ws EyeTedo κλης λεγα
περι τε μη κτιγαν το εμψυχσν. τετο γαρ τισι μεν δικαιον τισι δε και δικαιον. »
Co me dice Empedocle parlando della proibizione d' uccidere qualunque animale.
Poichè que sto non può essere giusto per alcuni e per al tri nò L' epiteto
supurtedortos é d' Omero e quello d'atletoy è d ' Esiodo. (98 ) Sesto Empir.
adv. Phys. I. 9 p. 580. Plut. de Superst. Nel 5 verso l'entBTT05 si 291 è
tradotto per indegno d'essere udito come půs letterale. Na potrebbe avere due
altri sensi cioè: da non essere compreso, o pure come colui, che è pieno di
Qyaxer 116 che vuol dire contumacia, o inobbedienza; perchè senza di ciò non si
ritrae un senso che sembra ragio nevole. Nel 6 a legurato d'apra è d' Omero
nell' Odys. 13 v. 23. (97 ) Porphyr. de non necandis ad epulan dum animalibus l.
2 pag. 137 ediz. di Lio ne 0285dic epga per scelleraggini è d'Omero Odys. 14 v.
83. (98 ) Porphyr. de non necandis ad epul. anim. I. 2 pag. 131. Il primo verso
somiglia a quello ď Omero Il. 24 v. 69. Alcuni leg, gono appatolor in luogo d '
cxpitolob. (99 ) Clem. Alex. exhortat. ad gentes. Awe Q10ste Odys. 11 v. 460. (100
) Clem. Alex. Strom. I. 5. (101 ) Clem. Alex. Strom. I. 4 Bpotol o pu. re ardpes
sain horlon. Il. 1 v. 266, e 273. (102 ) Clem. Alex, Strom. 1. 5. Questi due
versi sono stati corrotti. Nel primo verso Sca. ligero legge fyte TPUDEGcus in
luogo d' AUTOTA. OO 2 292 che non FIG. In verità questa seconda maniera cor
risponde meglio all'opertio. Nel secondo leg ge Ευγιες ανδρειων αχεων αποκηροι
ατειρεις. dla ad altri è piaciuto all' aydpelwy di sostituire l' and pouleur
ch'è più adatto e pie Omerico; all' електро! ľ Anouampor ch'è anche più ragione
vole; ed in fine all ατειρείς I'' ατηρείς si sa donde possa derivare. Si
potrebbe dire più presto artelpon. Vi sono poi di quei che in luogo di amewn
leggong amoywy; dimodochè spiegano coi forti achivi. (103 ) I primi due versi
sono presso Laerz. 1. 8 in Emp., e tutti si leggono presso Janibl. de Vit. Pyth.
p. 54. Questi versi si sono col locati nel poenia delle purgazioni; perchè in
questo poema Empedocle dichiara la morale pittagorica. (104) Presso Suida voce
Axpwr e Laerz. I. 8. in Emp. Questo epigramma, come dicono e Suida e Laerzio, è
diretto a punzecchiare Acrone, che domanda a la grazia di ergere un gran
monumento a suo padre in un luo. go alto della città di Gergenti. Empedocle va
scherzando.col nome di Acrone e la parola 293 acron che in Greco significa alto
e altezza. Ma questo scherzo non si può rendere nel no stro linguaggio. (105)
Laerz. in Emp. I. 8 & Towvoploy indi ca nome conveniente alla cosa. Perchè
liquo gavin in greco può significare che fa cessar i mali, e i dolori. Perciò
Empedocle scherza col nome del suo amico. (106) Questi due versi s'
attribuiscono dit Aulo Gellio Noct. Att. 1. 4 cap. 11 ad Em pedocle, e da altri
ad Orfeo. Ma in verità so no della scuola pittagorica. Si legga Didym. 1. 2.
Geoponicon cap. 35. Varii sono i sen timenti degli Scrittori sulla proibizione,
che facea la scuola Pittagorica, di mangiar del le fuve. Secondo alcuni, perchè
non sono sa lutari, e secondo altri perchè sono simili agli organi della
generazione. Di fatto Gellio dice che l'astinenza delle fave era un simbolo,
eon cui si volea indicare da Empedocle l'a ' stinenza delle cose veneree. (107
) Questi versi esprimono il giuramen to che si facea nella scuola Pittagorica.
Si leggono presso Jambl, de vit. Pyth. p. 125, 294 Ma non semhrano d'esser
d'Empedocle cosi perchè non corrispondono allo stile del nostro poeta, come
ancora perchè vi si osserva il dia. letto dor ico, che non mai egii usò ne'
suoi poemi. ROMA BIBLIOTECA 295 Note mancanti nel Tomo I. pag. 67. MEMORIA
SECONDA. (121 ) Απηρεν ασ Κροτωνα της Ιταλίας και κακοι τομές θες τοις
Ιταλιωταις εδοξασθη συν τοις μας θεματας και οι περι τας τριακοσίες οντες
ωκoνoμαν αριστα τα πολιτικα ωστε σχεδον αριστοκρατίας αναι την πολιτααν και
Pittagora si porto in Cro tona d'Italia; ed ivi dando leggi agľ Italias ni fu
egli in onore unitamente a' suoi disce poli. Trecento de' quali amministravano
otti mamente le cose politiche, si che quella re pubblica era di posta a
governo di ottimati, Laerz. in Pythag. (122 ) La persecuzione della scuola
pitta gorica nacque da ciò, giusta Jamblico nella Vita di Pittagora cap. 35,
che i pittagorici allontanavano il popolo dalle magistrature, e da' pubblici
consigli, e voleano essi soli, come sapienti, regolar le cose pubbliche.Grice:
“If people call William of Ockham, Surrey, Occam, I shall call Empedocles of
Agrigentum Agrigentum, or Agrigento simpliciter in the vulgar.” Vide “Italic
Griceians”While in the New World, ‘Grecian philosophy’ is believed to have
happened ‘in Greece,’ Grice was amused that ‘most happened in Italy!’ Empedocle
da Girgenti – Keywords: Girgenti – “You say Gergenti, and I say Girgenti” -- --
Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed
Empedocle," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia.
Grice e
Girgenti: l’implicatura conversazionale -- la parola che non s’incatena –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano. Grice: “I love
Girgenti for many reasons! For one, he has edited Boezio ‘as he is’! – then he
has elaborated on Socratic irony, a concept that needs some elucidation, if
ever one did! Also, he has edited the ‘logica retorica’ of Cicero, which is
welcome!”Frequenta gli studi classici a Palermo, sotto Brighina, Franchina,
Armetta, Mirabelli e Puglisi) e poi si è trasferito a Milano sotto Bontadini,
Bausola, Melchiorre e Giussani. Si laurea sotto Reale con “Platonismo e Cristianesimo
in San Giustino Martire” – Studia “Porfirio tra henologia e ontologia
riproponendo la questione degli universali come origine del "pensiero
forte". Insegna a Milano I suoi studi sono concentrati sul rapporto tra
filosofia greco-romana e Cristianesimo, e in particolare nell'influenza che il
platonismo ha esercitato sui Padri della Chiesa. Per analizzare questo tema,
applica due categorie ermeneutiche: la "storia del’effetto" e la
"fusione dell’orizzonte”. Secondo la storia dell’effeto, la Patristica latina
deve essere considerata una fase importante della storia del platonismo antico,
che fa da tramite rispetto alla filosofia medioevale. Secondo la fusione
dell’orizzonte, il rapporto tra platonismo e Cristianesimo deve essere
analizzato superando due opposte posizioni: la "praeparatio
evangelica" di Eusebio di Cesarea, secondo cui la filosofia pre-cristiana
sarebbe stata di per sé una preparazione al Cristianesimo e la
"Ellenizzazione del cristianesimo" di Harnack, secondo cui nell'incontro
con la filosofia, il Cristianesimo avrebbe smarrito la vocazione originaria (e
dovrebbe pertanto “de-“ellenizzarsi, de-filosofarsi). Una posizione mediana
potrebbe contribuire a superare le rigidità del cristianesimo cattolico e le
chiusure del cristianesimo protestante non-cattolico. Saggi: “Porfirio:
catalogo ragionato” (Vita e Pensiero, Milano); “Giustino Martire, il primo
cristiano platonico” Vita e Pensiero, Milano); “Porfirio, Vita e Pensiero,
Milano); Porfirio, Laterza, Roma-Bari; “Platone, G. Girgenti, Rusconi, Milano,
Incontri con Gadamer, G. Girgenti, Bompiani, Milano “Platone” G. Girgenti,
Bompiani, Milano; Atene e Gerusalemme. Una fusione di orizzonti, Il Prato,
Padova; Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, libro-intervista
con Sossio Giametta, Mursia, Milano. G. Giorello, Corriere della Sera, 1ºScheda
biografica, curriculum e nel sito
dell'Università Vita-Salute San Raffaele, su unisr. Selezione di
pubblicazioni Porfirio negli ultimi cinquant’anni. Bibliografia
sistematica e ragionata della letteratura primaria e secondaria riguardante il
pensiero porfiriano e i suoi influssi storici, presentazione di Reale, Vita e Pensiero,
Milano, Porfirio, Isagoge, prefazione, introduzione, traduzione e apparati di
G. Girgenti, testo greco a fronte, versione latina di Severino Boezio in
appendice, Rusconi, Milano, nuova edizione Bompiani, Giustino Martire, il primo
cristiano platonico. Con in appendice “Atti del Martirio di San Giustino”.
Presentazione di C. Moreschini, Vita e Pensiero, Milano, Giustino, Apologie.
Prima Apologia per i Cristiani ad Antonino il Pio. Seconda Apologia per i
Cristiani al Senato Romano. Prologo al “Dialogo con Trifone”, introduzione,
traduzione e apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte, Rusconi, Milano,
Aristotele, Poetica, introduzione, traduzione, note e sommari analitici di D.
Pesce, revisione del testo, aggiornamento bibliografico, parole chiave e indici
di G. Girgenti, testo greco a fronte, Rusconi, Milano, Porfirio, Sentenze sugli
intellegibili, prefazione, introduzione, traduzione e apparati di G. con in
appendice la versione latina di Marsilio Ficino, Rusconi, Milano. G. Girgenti,
Il pensiero forte di Porfirio. Mediazione tra henologia platonica e ontologia
aristotelica, introduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, Porfirio, Storia della Filosofia (frammenti),
a cura di A. R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano, Introduzione a Porfirio,
“I filosofi”, Laterza, Roma-Bari, La nuova interpretazione di Platone. Un
dialogo di Hans-Georg Gadamer con la Scuola di Tubinga e Milano e altri
studiosi (Tubinga), introduzione di H.G. Gadamer, prefazione, traduzione e note
di G., Rusconi, Milano, nuova edizione ampliata: Platone tra oralità e
scrittura, Bompiani, Milano, Porfirio, Vita di Pitagora, monografia
introduttiva e analisi filologica, traduzione e note di A. R. Sodano, saggio
preliminare e interpretazione filosofica, notizia biografica, parole chiave e
indici di G., in appendice la versione araba di Ibn Abi Usabi’a, testo greco e
arabo a fronte, Rusconi, Milano, J. Patocka, Socrate. Lezioni di filosofia
antica, introduzione, apparati e bibliografia di G. Girgenti, traduzione di M.
Cajtham l, testo ceco a fronte, Rusconi, Milano, nuova edizione: Bompiani, Milano, Wojtyla,
Persona e Atto, a cura di Reale e T. Styczen, revisione della traduzione
italiana e apparati a cura di G. Girgenti e P. Mikulska, testo polacco a
fronte, Rusconi, Milano, nuova edizione: Bompiani, Milano, Struttura dell’anima
dell’anima secondo Agostino e presupposti neoplatonici, in: Autori vari,
Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, Donzelli, Roma, Der Begriff der
Verantwortung in der Welt der Antike und des Christentums, in K. Götz – J.
Seifert (Hg.), Verantwortung in Wirtschaft und Gesellschaft, Rainer Hampp
Verlag, München; J. Seifert, Ritornare a Platone. La fenomenologia
realista come riforma critica della dottrina platonica delle idee, in appendice
un testo inedito su Platone di A. Reinach, prefazione e traduzione di G.
Girgenti, Vita e Pensiero, Milano, Autori vari, Incontri con Hans-Georg
Gadamer, edizione italiana a cura di G. Girgenti, Bompiani, Milano, Porfirio
nel vegetarianesimo antico, “Bollettino Filosofico: Dipartimento di Filosofia Calabria”,
Due fonti neoplatoniche indirette di Cusano: Porfirio e Giamblico, in Nicolaus
Cusanus zwischen Deutschland und Italien Beiträge eines deutsch-italienischen
Symposions in der Villa Vigoni vom (Veröffentlichungen des Grabmann-Instituts),
hrsg von Martin Thurner, Akademie Verlag Berlin, Plotino, Enneadi, traduzione
di R. Radice. Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di G. Reale.
Porfirio, Vita di Plotino, a cura di G. Girgenti, “I Meridiani. Classici dello
Spirito”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
K. Wojtyla, Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi
integrativi, a cura di Reale e Styczen,
apparati e indici di G. , Bompiani, Milano; Diogene Laerzio, Vite e dottrine
dei filosofi. Commentaria in Porphyrium. Schepps Samuel
Brandt Leipzig European Social Fund Saxony Crane Jouve OCR-ed,
Franzini Leipzig Stoyanova Robertson Mount Allison
Fonticola (Ludwig Maximilians Munich). Leipzig Germany Schepps Brandt Boezio
Vienna Leipzig Tempsky Freytag. Secundus hic arreptae
expositionis labor nostrae seriem translationis expediet, in qua quidem uereor
ne subierim fidi interpretis culpam, cum uerhum uerbo expressum comparatum- que
reddiderim, cuius incepti ratio est quod in his scriptis in quibus rerum
cognitio quaeritur, non luculentae orationis lepos, sed incorrupta
ueritas exprimenda est. quocirca mul- tum profecisse uideor, si philosophiae
libris Latina oratione compositis per integerrimae translationis sinceritatem
nihil in Graecorum litteris amplius desideretur, et quoniam humanis animis
excellentissimum bonum philosophiae comparatum est, BOEZIO IN YSAGOGAS
PORPHIRII. BOEZIO IN YSAGOGE; BOEZIO COMMENTA IN ISAGOGAS G,; INCIP
COMENTV BOEZIO in isagogis porphirii; Expos Scda L; COMENTV BOEZIO
IN ISAGOGAS R; inscriptione carent CFHNS (nisi quod in FH
recens quaedam est), item e codd. Isagogen tantum a Boethio translatam
continentibus ΛΣ ; ISAGOGAE PORPHYRII TRANSLATAE DE GRECO IN
LATINVM A VICTORINO ORATORE (sic) ΓΦ ; INCIP LIBER YSAGOGARVM
(HΥS-) POR- PHYRII (I pro Y Π ) AII ,- Icipidt isagoge
porphyrii (m. poster.) Ψ; de titulo operis cf.
Prolegomena 6 fidi—reddiderim] cf. Horat. Ars poet. 133. 11—13] cf.
Cic. Acad. post. I 3,12. 6
fędi C foedi Hm1N infidi FGm1 7uerbo]e uerbo
N 8 incoepti CEGHPRS 10 corrupta Em1Sm1
incorruptae Em2 (e in mg. add. sed del .) Lm1 11
uidebor brm 13 graecis Lm2 ut uia et filo quodam
procedat ORATIO, ex animae ipsius efficientiis ordiendum est. triplex omnino
animae vis in uegetandis corporibus deprehenditur, quarum una quidem uitam
corpori subministrat, ut nascendo crescat alendoque subsistat, alia uero
sentiendi iudicium praebet, tertia ui mentis et ratione subnixa est.
quarum quidem primae id officium est, ut creandis, nutriendis alendisque
corporibus praesto sit, nullum uero rati- onis praestet sensusue iudicium.
haec autem est herbarum atque arborum et quicquid terrae radicitus adfixum
tenetur, secunda uero composita atque coniuncta est ac primam sibi sumens
et in partem constituens uarium de rebus capere potest ac multiforme iudicium.
omne enim animal quod sensu uiget, idem et nascitur et nutritur et alitur,
sensus uero diuersi sunt et usque ad quinarium numerum crescunt, itaque
quicquid tantum alitur, non etiam sentit, quicquid uero sentire potest,
ei prima quoque animae uis, nascendi scilicet atque nutriendi, probatur esse
subiecta. quibus uero sensus adest, non tantum eas rerum capiunt formas quibus
sensibili corpore feriuntur praesente, sed abscedente quoque sensu sensibili-
busque sepositis cognitarum sensu formarum imagines tenent memoriamque
conficiunt, et prout quodque animal ualet, lon- gius breuiusque custodit, sed
eas imaginationes confusas atque ineuidentes sumunt, ut nihil ex earum
coniunctione ac compo- 1 uia et filo quodam] CEm2H (uia
fort. ras. ex uiae), uiae et filo quodam N uiae (s. l.
R) ex filo quodam EmIGPR edd . uiae ( ex uia S ) ex
quodam filo LS uiae ( s. l . filo m1 ) quodam F
ratio CEmIGLRS ex] ab Hm1NP efficienti Em1
efficientis Fa. c . 3 post uitam add . solum CFHP
solam N corporis GNRL a.r.Sa.r . 5 rationis FGRS
6 procreandis CHNP 7 nutriendisque ( om . alendis) EL
sit s. l. Gm2Nm2 9 terra CN 10 ac] ad FSm1
at LSm2 et G 11 rebus] quibus GRS de rebus
de quibus L 12 poterit E post iudicium add .
capit E (sed del.) L, s. l. m2 in HRS 13 et nutritur om. CHP,
s. l . nutritur (om. et) Lm2 14 ita CHR 16
poterit E quoque prima FGm2H 19 praesente ante
feriuntur FHN praesentes CHm1N abscedente]
Em2FGHmINESa.r . absente CEm1Hm2LPSp.r . 20 re- positis GR 22
imagines FHN 23 ante sumunt add. sic brm sitione
efficere possint, atque idcirco meminisse quidem possunt, nec aeque omnia,
admissa uero obliuione memoriam recolli- gere ac reuocare non possunt, futuri
uero his nulla cognitio est. sed uis animae tertia, quae secum priores alendi
ac sen- tiendi trahit hisque uelut famulis atque oboedientibus utitur,
eadem tota in ratione constituta est eaque uel in rerum prae- sentium
firmissima conceptione uel in absentium intellegentia uel in ignotarum
inquisitione uersatur. haec tantum humano generi praesto est, quae non solum
sensus iraaginationesque perfectas et non inconditas capit, sed etiam
pleno actu intel- legentiae quod imaginatio suggessit, explicat atque
confirmat, itaque, ut dictum est, huic diuinae naturae non ea tantum cognitione
sufficiunt quae subiecta sensibus comprehendit, uerum etiam et insensibilibus
imaginatione concepta et absen- tibus rebus nomina indere potest et quod
intellegentiae ratione comprehendit, uocabulorura quoque positionibus aperit,
illud quoque ei naturae proprium est, ut per ea quae sibi nota sunt ignota
uestiget et non solum unum quodque an sit, sed quid sit etiam et quale sit nec
non cur sit, optet agnoscere, quam triplicis animae uim sola, ut dictum
est, hominum natura sor- tita est. cuius animae uis intellegentiae motibus non
caret, quia in his quattuor propriae uim rationis exercet, aut enim aliquid an
sit inquirit aut si esse constiterit, quid sit addubitat, quodsi etiam
utriusque scientiam ratione possidet, quale sit 2
admissa] CR amissa EFGm1NP amissam Gm2LS, ras. et s.
l. ex admissam H memoriam om. FGR, s. l. Sm2,
memoria H 3 hiis F , sic saepe cogitatio
CNm2 4 animae uis CEL 5 ante trahit add . uires
brm 6 ea CHm1N est ante constituta CEGS , om. R 7
con- tentione EGm1Sm1 contemplatione R, m2 in GLS 8
in s. l. Gm1PmS , del. Lm2 ignotorum Hm1N 9
imaginationes EN 11 conformat Gm2Pm2 13 cognitione] in
cognitione FHNP 14et] ex Em1HN sensibilibus CEm1Hp.
c. Nm2 sensibus Ha. c. Nm1 ante
imaginatione add . sibi E (del. m2) NPSm2 imaginatione] in
agnitione Gm1Sm1 agnitione Gm2R post concepta add.
nomina Hm1, idem post rebus s. l. m2 17 sint
E 19 optat LR 22 quia] qua Gm1 atque
EHm1Pm1 24 scientiam post ratione E
sententiam Hm1 pos- sedit FRS unum quodque
uestigat atque in eo cetera accidentium momenta perquirit, quibus cognitis cur
ita sit quaeritur et ratione nihilo minus uestigatur. Cum igitur
hic actus sit humani animi, ut semper aut in rerum praesentium comprehensione
aut in absentium intellegentia aut in ignotarum inquisitione | atque inuentione
uer- setur, duo sunt in quibus omnem operam uis animae ratio- cinantis
inpendit, unum quidem, ut rerum naturas certa inqui- sitionis ratione
cognoscat, alterum uero, ut ad scientiam prius ueniat quod post grauitas
moralis exerceat, quibus inquirendis permulta esse necesse est, quae
uestigantem animum a recti itinere non minimum progressione deducant, ut in
multis euenit Epicuro, qui atomis mundum consistere putat et honestum uoluptate
metitur, hoc autem idcirco huic atque aliis accidisse manifestum est, quoniam
per imperitiam disputandi quicquid ratiocinatione comprehenderant, hoc in
res quoque ipsas euenire arbitrabantur, hic uero magnus est error; neque enim
sese ut in numeris, ita etiam in ratiocinationibus habet, in numeris enim
quicquid in digitis recte computantis euenerit, id sine dubio in res quoque
ipsas necesse est euenire, ut si ex calculo centum esse contigerit,
centum quoque res illi numero sub- iectas esse necesse est. hoc uero non aeque
in disputatione seruatur; neque enim quicquid sermonum decursus
inuenerit, 4 aut om. CNR, s. l. Gm2Sm2 5 rerum add.
edd. post praesentium, ante Brandt; cf. p. 137, 6 6
ignotorum Gm2Hm1Lm2N ante in- uentione s. l. in Hm2 8
inpendat FPSa.c . naturam FHm1N certa inquisitionis]
Gm2H certae inquisitionis FNP inquisitionis certa CELm2 , om.
certa Gm1Lm1RS (fort. recte) 10 quod] eius quod r exer- cet
Hm1 12 minimum ante non E minime FSm1
diducant FGm2 13 atbomis plerique codd . consistere in
mg. Hm2 constare CFP, post er . ł consistere C honestam
Em1P honestatem F 14 uoluptate om. F uoluptatera
CEHm2 (te* m1) LNR, add . corporis L (del. m2) R, s. l. Gm2,
ante uol. edd . mentitur CEGHPRSm1 hoc] haec
H 16 racione CN comprehenderent m1 in
EHN 17 nero] ergo H maximus E error est
CFHNP post sese add. res FR , s. l. Pm2 19
digitos CEFN id natura quoque fixura tenetur, quare necesse
erat eos falli qui abiecta scientia disputandi de rerum natura perquirerent,
nisi enim prius ad scientiam uenerit quae ratiocinatio ueram teneat disputandi
semitam, quae ueri similem, et agnoscere quae fida, quae possit esse
suspecta, rerum incorrupta ueritas ex ratiocinatione non potest inueniri. cum
igitur ueteres saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et sibimet contraria
in disputatione colligerent atque id fieri inpossibile uideretur, ut de eadem
re contraria conclusione facta utraque essent uera quae sibi dissentiens
ratiocinatio conclusisset, cuique ratiocinationi credi oporteret, esset
ambiguum, uisum est prius disputationis ipsius ueram atque integram considerare
naturam, qua cognita tum illud quoque quod per disputationem inueniretur, an
uere comprehensum esset, posset intellegi, hinc igitur profecta est
logicae peritia disciplinae, quae disputandi modos atque ipsas ratiocinationes
internoscendi uias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem falsa, nunc autem
uera sit, quae uero semper falsa, quae numquam falsa, possit agnosci, huius
autem uis duplex esse perpenditur, una quidem in inueniendo, altera in
iudicando. quod Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus est,
euidenter expressit dicens; Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat
partes, unam inue- niendi, alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi
quidem uidetur, Aristoteles fuit. Stoici 20 Tullius] Top. 2, 6 s.
1 ante natura add . in HLSpr, s. l. Pm2 3
post nisi add . quis r prius enim E 4
disputandi om. GRS ad ueri similem s. l . ał que ueri se
similem agnouerit Hm2 et agnoscere] FSm1 ( om . et) et
agnouerit EGLPRSm2 ( om . et) edd. ut ex hoc delectia rationum que- amus
agnoscere Hm1, s. l . ał et agnouerint quae fida et reliqua
m2 ut ex diligentia rationum queamus ( ex quaeramus C )
agnoscere CN 7 et sibimet] sibimet C sibi et
EGRS 9 post re s. l . si Cm1? 10 cuique)
CHm1N cuiue cett . 13 tunc FHNPm1R post an add .
id R, s. l. Gm2Lm2, 2 litt. er. C 15 ipsis ratiotinationibus
Hm2 16 ante internoscendi add. et brm uiam CFHN
19 inneniendi et iudicandi ( om . in) Hm2 24 quidem uidetur]
FHNPCic . uidetur quidem GRS quidem om. CEL autem in altera
elaborauerunt; iudicandi enim uias diligenter persecuti sunt ea scientia
quam διαλεκτικήν appellant, inueniendi artem, quae τοπική
dicitur quaeque ad usum potior erat et ordine naturae certe prior, totam
reliquerunt, nos autem quoniam in utraque summa utilitas est et utramque,
si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prima est, ordiemur, cum igitur
tantus huius considera- tionis fructus sit, danda est huic tam sollertissimae
disci- plinae tota mentis intentio, ut primis firmati in disputandi
ueritate uestigiis facile ad rerum ipsarum certam comprehen- sionem uenire
possimus. Et quoniam qui sit ortus logicae disciplinae praediximus,
reliquum uidetur adiungere, an omnino pars quaedam sit philosophiae an ut
quibusdam placet, supellex atque instru- mentum, per quod philosophia
cognitionem rerum naturamque deprehendat, cuius quidem rei has e contrario
uideo esse sententias. hi enim qui partem philosophiae putant logicam con-
siderationem, his fere argumentis utuntur, dicentes philosophiam indubitanter
habere partes speculatiuam atque actiuam. de hac tertia rationali
quaeritur an sit in parte ponenda, sed eam quoque partem esse philosophiae non
potest dubitari, nam sicut de naturalibus ceterisque sub speculatiua positis
solius philosophiae uestigatio est itemque de moralibus ac 2 uias]
ENPCic.p, om. cett. codd ., uiam brm ea scientia] Pm1Cic .
eam scientiam EPm2 edd. eam scilicet scientiam CN artem
et scientiam FSm2 scientiam GHLRSm1 3 διαλεκτικήν ]
Cic. dialecticen CFGHL- NPm2RS dialecticam E dialectica
Pm1 τοπική ] Cic . topice Gm2LNS topica
CEFGm1HPR 4 quaeque] quae et Cic . 5 prior] prior est
GLa.c.RS 6 in—est et] CN Cic., s. l. Pm2, om. cett. codd., Boethius
etiam in comment. in Cic. Top. lib. I p. 1047 D haec uerba respicit 8
prima] prior Cic . ordiemur] EHm1NCic . ordiamur
CGHm2LPRS ordinamus F 13 quid FHm1NPp.c . quod
a.c . 14 ante reliquum add . esse GHP pars sit
quaedam GN quaedam pars sit L 18 hii EHL
20 ante habere add . duas L m 1860 21
post rationali add . uel orationali EFGH (del. m2) RS (del.
mS) id est logica L ( s. l. m2) edd. ad an s. l .
si Cm2 24 inuestigatio L reliquis quae sub
actiuam partem cadunt, sola philosophia perpendit, ita quoque de hac parte
tractatus, id est de his quae logicae subiecta sunt, sola philosophia iudicat.
quodsi speculatiua atque actiua idcirco philosophiae partes sunt, quia de
his philosophia sola pertractat, propter eandem causam erit logica philosophiae
pars, quoniam philosophiae soli haec dis- putandi materia subiecta est. iam
uero inquiunt : cum in his tribus philosophia uersetur cumque actiuam et
speculatiuam consideratio|nem subiecta discernant, quod illa de rerum
naturis, haec de moribus quaerit, non dubium est quin logica disciplina a
naturali atque morali suae materiae proprietate di- stincta sit. est enim
logicae tractatus de propositionibus atque syllogismis et ceteris huiusmodi,
quod neque ea quae non de oratione, sed de rebus speculatur neque actiua pars,
quae de moribus inuigilat, aeque praestare potest, quodsi in his tribus,
id est speculatiua, actiua atque rationali, philosophia consistit, quae proprio
triplicique a se fine disiuncta sunt, cum specula- tiua et actiua philosophia
partes esse dicuntur, non dubium est quin rationalis quoque philosophia pars
esse conuincatur. qui uero non partem, sed philosophiae instrumentum
putant, haec fere afferant argumenta, non esse inquiunt similem logicae finem
speculatiuae atque actiuae partis extremo, utraque enim illarum ad suum
proprium terminum spectat, ut speculatiua 2 tractat Ep.r.FR, m2 in
GLP 3 diiudicat CHm2 5 sola philo- sophia CFN
pertractet Em1 tractat Hm1 7 iam] tam R
ita FL 9 sublectas discernat Em2 10 dubium non
est CEL non est dubium F 11 a om. LS, s. l.
Gm2Pm2, postea add. R disiuncta (iunc in ras. m1? ) R
12 est enim] etenim GLRS post tractatus add. est LR, s. l.
Pm2 14 orationibus E ratione Lm1, add . est L 17
sint Rm1, ex sit Sm2 cumque H (q. er
.) Lm2N 18 et] atque EFNP philosophiae pbr
dicantur Lm2N non est dubium EFHNP 21 haec—argumenta
del. G asserunt (ss in ras. m1?) C similem om. GR,
post finem s. l. Sm2, ad similem s. l. ł
proprium Pm2 22 ante speculatiuae add . sed
R, s. l. Gm2Lm2 extremum E (u ex a uel o m2 )
GL (um ex am m2 ) Pm2RSm1 23 proprium suum
C ut] ita ut brm quidem rerum cognitionem, actiua uero
mores atque instituta perficiat, neque altera refertur ad alteram, logicae uero
finis esse non potest absolutus, sed quodammodo cum reliquis duabus partibus
colligatus atque constrictus est. quid enim est in logica disciplina quod suo
merito debeat optari, nisi quod propter inuestigationem rerum huius
effectio artis inuenta est? scire enim quemadmodum argumentatio concludatur uel
quae uera sit, quae ueri similis, ad hoc scilicet tendit, ut uel ad rerum
cognitionem referatur haec scientia rationum uel ad inuenienda ea quae in
exercitium moralitatis adducta beatitu- dinem pariunt. atque ideo quoniam
speculatiuae atque actiuae suus certusque finis est, logicae autem ad duas
reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse philosophiae
partem, sed potius instrumentum, sunt uero plura quae ex alterutra parte
dicantur, quorum nos ea quae dicta sunt strictim notasse sufficiat. Hanc
litem uero tali ratione discernimus. nihil quippe dicimus impedire, ut eadem
logica partis uice simul instrumentique fungatur officio, quoniam enim ipsa
suum retinet finem isque finis a sola philosophia, consideratur, pars
philosophiae esse ponenda est, quoniam uero finis ille logicae quem sola speculatur
philosophia, ad alias eius partes suam operam pollicetur, instrumentum esse
philosophiae non negamus; est autem finis logicae inuentio iudiciumque rati-
onum. quod scilicet non esse mirum uidebitur, quod eadem pars, eadem quoddam
ponitur instrumentum, si ad partes corporis animum reducamus, quibus et
fit aliquid, ut his quasi quibusdam instrumentis utamur, et in toto tamen
corpore par- tium obtinent locum, manus enim ad tractandum, oculi ad 1
rerum] Em2H(in mg. m1?) Lm2 edd., post cognitionem add .
rerum s. l. Pm2Sm2, add . naturalium rerum F, s. l. Gm2, om. cett .
2ad alteram] de altera Em2 3 non potest esse FGN 4 est
om. C 5 aptari FGm1Hm1Pm2R 6 affectio
EFHLm2Pm1Bm1 8 intendit F 9 rationum scientia CLP
10 mortalitatis bm 11 parant Ea.c . pariant Hm1
15 alterutra] utraque EP, add. post alterutra H, del. m2
ante dicta add . supra EP, s. l. Lm2 18 enim]
nero CFHN 21 ei F 24 uidetur Em1FGm2LNPm2
28 optineant Fp.c.S uidendum, ceteraeque corporis partes
proprium quoddam uidentur habere officium, quod tamen si ad totius utilitatem
corporis referatur, instrumenta quaedam corporis esse deprehenduntur quae etiam
partes esse nullus abnuerit, ita quoque logica disciplina pars quidem
philosophiae est, quoniam eius philo- sophia sola magistra est, supellex uero,
quod per eam inqui- sita philosophiae ueritas uestigatur. Sed quoniam, quantum
mihi quoque breuitas succincta largita est, ortum logicae et quid ipsa logica
esset explicui, nunc de eo nobis libro pauca dicenda sunt quem in praesens
sumpsimus exponendum, titulo enim proponit Porphyrius introductionem se in
Aristotelis PREDICAMENTO conscribere, quid vero valeat haec introductio vel ad
quid lectoris animum praeparet, breuiter explicabo. Aristoteles enim librum qui
De X PREDICAMENTI inscribitur hac intentione composuit, ut infinitas
rerum diuersitates quae sub scientiam cadere non possent, paucitate generum
comprehenderet, atque ita quod per incomprehensibilem multitudinem sub
disciplinam uenire non poterat, per generum, ut dictum est, paucitatem
animo fieret scientiaeque subiectum. decem igitur genera rerum esse
omnium considerauit, id est unam substantiam et accidentia nouem, quae sunt II
QUALITAS III QVANTITAS IV RELATIO V VBI VI QVANDO VIII FACERE et pati, IX SITVS
X HABERE, quae quoniam genera essent suprema et quibus nullum aliud superponi
genus posset, omnem necesse est multitudinem rerum horum decem generum
spe- 1 quoddam] quod Em1 (aliquod m2 ) G 2
utilitatem post corporis EG, ante totius L 4
quas FSm2 5 quidem post philosophiae H quaedam
L 6 uero] uero est L 8 quoque om. L quidem
edd . ueritas Cm1N succincta] CNPSm2 sua mora
EFGHR sua mota Sm1 succincta suam moram L 9
ortum om . L et de ortu CNF quod CF est G
explicaui CELm2PRS 11 titulum CHm1N 13 lectoris
s. l. Gm2, post animum CN, post praeparet H. om. E
14 paret EFGNRS 15 scribitur EGRSm1 17 ita quod
s. l. Gm2 (itaque m1) Rm2 quod ( om . ita) s. l.
Sm2 20 decem] in decem C 23 et om. FLNP situm
habere CRa.c . situm esse habere Gm1S 24 genus
superponi H possit Ea.c.FGm1NPRS 25 ante horum add.
per s, l. Pm2, ante species CFLR. s. l. Gm2Sm2
cies inueniri. quae quidem genera a se omnibus differentiis distributa
sunt nec quicquam uidentur habere commune nisi tantum nomen, quoniam omnia
esse praedicantur. quippe I SBSTANTIA est, II QVALITAS est, III QVANTITAS est,
et de aliis omnibus ‘est’ uerbum communiter praedicatur, sed non est
eorum communis una substantia uel natura, sed tantum nomen. itaque X genera
ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis distributa sunt sed quae
aliquibus differentiis disiunguntur, necesse est ut habeant proprium quiddam
quod ea in singularem solitariamque vindicet formam. non est autem idem
proprium quod accidens accidentia enim et venire et abesse possunt, propria ita
sunt insita, ut absque his quorum sunt propria, esse non possint. quae cum ita
sint cumque Aristoteles X rerum genera repperisset, quae vel intellegendo mens
caperet vel loquendo disputator efferret - quicquid enim intellectu
capimus, id ad alterum sermone uulgamus —, euenit ut ad horum X PREDICAMENTI
intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret, scilicet generis,
speciei, differentiae, proprii, accidentis. generis quidem, quoniam oportet
ante praediscere quid sit genus, ut X illa quae Aristoteles ceteris
anteposuit rebus, genera esse possimus agnoscere, speciei uero cognitio
plurimum ualet, ut quae cuiusque generis sit species, possit agnosci. si enim
quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur. fieri enim
potest, ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species in relatione
ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri cui- 4 omnibus
aliis FHLN 9 quoddam S 10 uendicet HLP
uindicent ( ent in ras.) S constituat CN 11 euenire
FGm2R (om. et) abire NP 12 propria ita] propria enim
ita H proprietates EGm1S propria uero ita edd .
insitae EGm1S 14 uel om. FP 16 cupimus E
alterutrum FPm2S 19 ante accidentis add. atque
FHNP et L 21 inter- posuit m1 in EGS
superposuit Em2NP praeposuit FGm2 possemus
FN 22 cognitio post ualet LP 24 impedito
(uel in- ) Ca.c.EGm1HNS impedit R turbari
CS 25 inscitiam F 26 cuilibet] cuiuslibet Gm1N,a.r. in
EFS libet generi subdamus atque ita fiat permixta rerum atque
indiscreta confusio; quod ne accidat, quae sit natura speciei ante noscendum
est. nec uero in hoc tantum prodest speciei cognoscenda natura, ne priorum
generum species inuicem per- mutemus, uerum etiam ut in eodem quolibet
genere proximas species generi nouerimus eligere, ut ne substantiae mox animal
dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis homi- nem potius quam
animatum corpus, at uero differentiarum scientia in his maximum retinet locum, qui
enim omnino qualitatem a substantia uel cetera a se genera distare cogno-
scimus, nisi eorum differentias uiderimus? quomodo autem discernere eorum
differentias possumus, si quid ipsa sit diffe- rentia nesciamus? nec hunc solum
nobis inscientia differentiae offundit errorem, uerum etiam specierum quoque
tollit omne iudicium. nam omnes species differentiae informant, ignorata
differentia species quoque necesse est ignorari, quomodo uero fieri potest, ut
quamlibet differentiam possimus agnoscere, si omnino quae sit nominis huius significatio
nesciamus? iam nero proprii tantus usus est, ut Aristoteles quoque
singulorum PREDICAMENTI propria perquisiuerit. quae propria esse quis
deprehenderit, antequam quid omnino sit proprium discat? nec in his tantum
propriis haec cognitio ualet quae singulis nomi- nibus efferuntur, ut hominis
risibile, uerum etiam in his quae in locum definitionis adhibentur, omnia enim
propria rem subrectam quodam termino descriptionis includunt, quod suo
quoque loco 25 suo loco] lib. IV c. 15 s. 1 generis
Gm1REa.r.Sa.r . fiet CH fit N permixtio
FHm2LNP 4 primorum FNP 5 in om. CERS, s. l. Gm2
6 ante generi add . cuilibet brm 7 aut—corpus
om. E, s. l. Gm2Sm2 8 corpus om. FP , del. Hm2 9
qui] quomodo Ep.c.HPp.c.R 11 nouerimus R quo-
modo—ignorari (16) in inf. mg. Em2 autem] nero E(m2) 14
offundit] E (m2) Pm1 obfundit Hm2 diffundit
Gm1 effundit cett.; cf. p. 159,16 15 informant differentiae
brm 16 quomodo] qui FNP uero om. G 18 huius
nominis FNP 20 perquisierit R quis esse FR
21 deprehen- derit in ras. E deprehenderet Np.c . deprehendet
( ex -it) P 22 proprii Gm2N post singulis
add . tantum FHLNP 24 subiecto EGm1RS oportunius
commemorabo, accidentis quoque cognitio quantum afferat, quis dubitare queat,
cum videat inter X PREDICATMENTI IX accidentis
naturas? quae quomodo accidentia esse putabimus, si omnino quid sit accidens
ignoremus, cum praesertim nec differentiarum nec proprii scientia nota sit,
nisi accidentis naturam firmissima consideratione teneamus? fieri enim
potest, ut differentiae loco uel proprii per inscientiam accidens apponatur,
quod esse uitiosissimum etiam definitiones probant, quae cum ipsae ex
differentiis constent et fiant unius cuiusque definitiones propriae, accidens
tamen non uidentur admittere. Cum igitur Aristoteles rerum genera
collegisset, quae nimirum diuersas sub se species continerent, quae species
nuraquam diuersae forent, nisi differentiis segregarentur, cumque omnia in
substantiam atque accidens, accidens uero in alia nouem praedicamenta soluisset
cumque aliquorum PREDICAMENTI fere sit propria persecutus, de his ipsis quidem
praedicamentis docuit, quid uero esset genus, quid species, quid differentia,
quid illud accidens, de quo nunc dicendum est, uel quid proprium, uelut nota
praeteriit, ne igitur ad PREDICAMENTI Aristotelis uenientes, quid significaret
unum quodque eorum quae superius dicta sunt ignora|rent, hunc librum
Porphyrius de earum quinque rerum cognitione per- scripsit, quo perspecto et
considerato quid unum quodque eorum quae supra praeposuit designaret, facilior
intellectus ea quae ab Aristotele proponerentur addisceret. Haec
quidem intentio est huius libri, quem Porphyrius ad introductionem PREDICAMENTI
se conscripsisse ipsa, ut 1 opportunius NR post
accidentis add . teneri L , post naturas (3)
tenere HN 3 quonam modo FHLNP 5 tota EN, m1 in
GPS 6 tenemus C 7 insciciarn FN 11
ante rerum add . decem cod. Monac. 4621 brm, recte? 15
nouem om. S edd., s. l. Em2Gm2 16 fere om. EFGS, er. H
18 nunc om. GRS est dicendum CL 21. 24 eorum
delendum esse coni. Engelhrecht 23 quo] ut CHLNP
inspecto FNP perfecto EGm1 24 eorum] cod. Monac. 4621 ( om .
quae), om. codd. nostri proposuit FP proposui H
posuit NR 25 ab om. ENR praeponerentur CHm2NR 27
ipse L ita F dictum est, tituli inscriptione
signauit, sed licet ad hoc unum huius libri referatur intentio, non tamen
simplex eius utilitas est, uerum multiplex et in maxima quaeque diffusa est.
quam idem Porphyrius in principio huius libri commemorat dicens; Cum sit
necessarium, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum
doctri- nam, nosse quid genus sit et quid differentia quidque species et quid
proprium et quid apcidens, et ad definitionum adsignationem et omnino ad
ea quae in diuisione uel demonstratione sunt, utili hac istarum rerum
speculatione, compendiosam tibi traditionem faciens temptabo breuiter uelut
introductionis modo ea quae ab antiquis dicta sunt adgredi altioribus quidem
quaestionibus abstinens, simpliciores uero mediocriter
coniectans. Utilitas huius libri quadrifariam spargitur, namque ad illud
etiam ad quod eius dirigitur intentio, magno legentibus usui 5—16] Porph.
p. 1, 3—9 (Boeth. p. 25, 2—9 Busse). 2 eius utilitas est]
FGm2 (in mg. add.) HP utilitas eius est in mg. add. Em2 est
eius utilitas s. l. add. Lm2 eius est utilitas N, om,
RS; est tamen simplex eius utilitas C 3 uerum in mg.
Em2 sed GLS sed et R multiplex et in mg.
Em2, s. l. Sm2 est er. uid. E 5 ante Cura
add . PROLOGVS RS, de inscript. codicum Isagogen tantum con- tinent. cf.
ad initium libri Chrysaori] G chrisaori EHNPa.c .
Γ ( s. l . menanti) Ώμ2ΣΦ chrysaoni S chrisarori ( uel
cris- uel chriss-,1 CFLPp.c . R lATl m1 *! (-oui)
ante et add. te C (er.) FLNA (del.) Σ , s.
l . scil, te E 6 ante praedicamentorum add . X
Δ 7 sit genus L A et om . Φ quidue N
8 pr . et s. l. E, om . A 9 diffinitionem Em1 \
m2 , in -nes, hoc in -num mut. F 10 in]
ad FHP , ante in er . ad uid. C diuisionem
Ca.r.FHNP T a.r . A a.r . Q uel] et N et ad FHP
uel in ΔΣΦ demonstrationem Ca.r . (-ne ras. ex
-ne ut uid .) FHNP F a.r. A a.r .(b utili] edd .
utilia codd . 11 hac] HP , s. l. Sm2 hanc CLNΤ
ΛΙIΣΦ , del . Δ , om . EFGRS speculationem
CEa.r.Hm2L A a.r . ΑΦ , in -num corr. Σ
compendiosa ras. ex -sa C A 12 traditione ( uel
-cione) CLΝ Φ , ras. ex -nem HT A 14 altioribus]
ab altioribus A 17 quadrifaria S ante ad add .
et EGP , s. l. L 18 etiam om . G est et ad
cetera, quae cum extra intentionem sint, non tamen minor ex his legentibus
utilitas comparatur, est enim per hoc corpusculum et PREDICAMENTI facilis
cognitio et defini- tionum integra adsignatio et diuisionum recta perspectio et
demonstrationum ueracissima conclusio, quae res quanto difficiles atque arduae
sunt, tanto perspicaciorem studiosioremque animum lectoris expectant. dicendum
uero est quod in omnibus libris euenit. nam primum si quae sit intentio cognoscatur,
quanta quoque utilitas inde prouenire possit expenditur et licet extra multa,
ut fit, huiusmodi librum sequantur, tamen illam proxime utilitatem
uidetur habere, ad quod eius refertur intentio, ipso libro quem sumpsimus
exponente, cum eius intentio sit ad PREDICAMENTI intellectum facilem
comparandi, non dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non
minores sint comites definitio, diuisio ac demonstratio, quorum nobis
quaedam hic principia suggeruntur, sensus uero totus huiusmodi est : ‘cum sit,
inquit, utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio
ad PREDICAMENTI Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam
adsignationem, ad diuisionem et demonstrationem, quae sit harum rerum
utilis überrimaque cognitio, compendiosam, inquit, tra- 2 utilitas
legentibus FHP 3 opusculum CEp.r.FGm2HLN, recte ? cf. p. 149,
3 4 integra om. ER, s. l. Gm2Sm2 recta] perfecta CFGm2-
Hm1N 8 post libris add . his HNP hoc
R, s. l, sed exters. G sit] est H 9 id est
(add. Lm2) perpenditur Em2Lm2 10 ante huius- modi
add . in CE (del.) G (del. m2) N librum] LPm2RSm2, om. Hm1 ,
libros FGm1Sm1, s. l. Hm2 , libro CE (del.) Gm2NPm1 sequntur
( uel sec-) R, m1 in EGS 11 uidentur FH ad quod]
aliquod Cm1 ad quam FGm2Pm2 eius] eorum
FGm2HPm1 12 ante ipso add . ut (s. l. est Lm2) in
hoc CFHLNP, s. l . ut in Em2 hoc Gm2 ex-
ponendum CE (dum in er . te?) FHLNP ( ex
-dus m1 exponere m2 ) Sm1 post cum s. l .
enim Hm2 13 praeparandi H 14 ante dubium
add . est FHNP , s. l. Gm2, post s. l. L 15 minoris
CGm1N 16 nobis om. C hic quaedam C
principalia NSm1 17 huiusmodi totus EG 19 eamque
Hm1Sm1 20 ad om. C, s. l. Gm2 , et FHN et ad
P et] ac H, om. CFNP , et ad edd . demonstrationemque CN
demonstrationum- que FP quae] quia Lm2R, om. CFNP 21
traditione ras. ex -nē H ditionem faciens ea quae
ab antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breuiter aperire’, neque enim
esset compendiosa, nisi totum opus breuitate constringeret et quoniam
introductionem scribebat, ‘altiores, inquit, quaestiones sponte refngiam,
simpliciores uero mediocriter coniectabo’, id est sim- pliciorum quaestionum
obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota quidem
sententia huiusce prooemii talis est, quae et utilitate überrima et facilitate
incipientis animo blandiatur, sed dicendum uidetur quidnam celet amplius
altitudo sermonum, necessarium in Latino sermone, sicut in Graeco
άναγκαΐον , plura significat, diuersa enim significatione Marcus Tullius CICERONE
dicit necessarium suum esse aliquem atque nos, cum nobis necessarium esse
dicimus ad forum descendere, qua in uoce quaedam utilitas significatur.
alia quoque significatio est qua dicimus solem necessarium esse moueri, id est
necesse esse, et illa quidem prima significatio praetermittenda est, omnino
enim ab eo necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. hae uero duae
huiusmodi sunt, ut inter se certare uideantur quae huius loci obtineat
significationem, in quo dicit Porphyrius; Cum sit necessarium, Chrysaori;
namque, ut dictum est, neces- 12 Marcus Tullius] cf. infra
apparatum. 2 enim om. E 3 corpus HNPm1 4
refugio EGR 5 simplicium Gm2LPm2 6 eas
EFGm1HNSm1 7 ad quidem s. l. autem Gm2 8
prohemii EPS uberrima <sit> Brandt 9 animum
EGLm2Pm2R uidetur om. ERS, s. l. Gm2 11 ΑΝΑ Γ ΑΙΟΝ
uel ANAKAION uel sim. codd . ANA IT CION ł ANAKAION C 12
etenim F ad Marcus Tullius in mg . Marcus enim tullius pro
fundanio inquit descripsistine eius neces- sarium id est adiutorem danium ( leg
. fundanium) add. Hm2, ex Mario Victorino De defin., Boeth. p. 906 B,
haustum, Cic. IV 3 p. 236 frg. 6 Mueller 13 aliquod C
aliquid Hm1NPm2 nos] Hm1Pp.e.Sm1 nostrum cett.;
an nostrum est scribendum ? ante cum add . ut EG (del. m2)
HLm2P uel F nos Hm2 14 dicamus L 16
post , esse] esset F est Hm1LNP 18 uero om.
N ergo F 21 Chrysaori] CEm1 chrisaori uel
eris- uel crys-uel crisar- uel sim. cett . necessarium]
harum E ( s. l . duarum necessitatum m2 ) Gm1S
necessarium harum F sarium et utilitatem significat et
necessitatem, uidentur autem huic loco utraque congruere, nam et summe utile
est ad ea quae superius dicta sunt, de genere et specie et ceteris
disputare, et summa est necessitas, quia nisi sint haec ante praecognita, illa
ad quae ista praeparantur, non possunt cognosci, nam neque praeter
generis uel speciei cognitionem PREDICAMENTA discuntur nec definitio genus
relinquit et differentiam, et in ceteris quam sit utilis iste tractatus, cum de
diuisione et demonstratione disputabitur, apparebit, sed quamquam necesse sit
haec quinque de quibus hic disputandum est, prius ad cognitionem uenire
quam ea quibus illa praeparantur, non tamen ea significatione hic a Porphyrio
positum est qua necessitatem significari uellet ac non potius utilitatem, ipsa
enim oratio contextusque sermonum id clarissima intellegentiae ratione
significat, neque enim quisquam ita utitur ratione, ut aliquam
necessitatem referri dicat ad aliud, necessitas enim per se est, utilitas uero
semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque, ait enim Cum sit
necessarium, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem PREDICAMENTI doctrinam,
si igitur hoc necessarium utile intellegamus et id nomine ipso uertamus
dicentes: cum sit utile. Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem
praedicamen- 1 et om. R, del. CGm2 significans R ante
necessitatem add . altera R, s. l. Gm2 4 necessitas est
E quia om. NS sint post haec F, post
praecognita H 5 agnosci CN post cognosci add .
quae (om. E) praedicamenta dicuntur CEGL (in sup. mg.
m2) PR cognitiones (del. et s. l . quae add. m2)
praedicamentarum (rum del. m2 ) dicuntur S
nam—discuntur om. GRS, in sup. mg. Lm2 nam—cognitionem in mg.
Em1?, reliqua om . 7 nec] sed istis cognitis nec C sed nec
S neque N 10 sit] erit Em2GLm1RS 13
significare FN 15 utatur Sm1 oratione CHm1N
16 aliud] aliquid CHm1N 17 post se add .
quiddam CFHPN, s. l. Em2Lm2 , quidem edd . quod] ad quod NP
defertur Gm1Lm1RS 18 enim om . C Chrysaori] eaedem fere
quae p. 147, set 149, 21 in codd. scripturae 19 et] te
et L 20 post doctrinam add . nosse quid genus
sit C nosse quid sit genus et cetera in mg. Lm2 22
Chrysaori] ut 18 et om . EFGS te et L
doctrinam praedicamentorum C torum doctrinam, nosse quid
genus sit et cetera, recte se habebit ordo sermonum; sin uero id ad ‘necesse’
permutetur atque dicamus : cum sit necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud
Aristotelem PREDICAMENTI doctrinam, nosse quid genus sit et cetera,
rectae intellegentiae sermonum ordo non conuenit. quocirca hic diutius
immorandum non est. quamquam enim sit summa necessitas his ignoratis non posse
ad ea ad quae hic tractatus intenditur perueniri, non tamen de necessi- tate
hic dictum est necessarium, sed potius de utilitate. Nunc uero, licet idem
superius dictum sit, tamen breuiter quid ad PREDICAMENTI generis,
speciei, differentiae, proprii atque accidentis prosit agnitio, disputemus.
Aristoteles enim in X PREDICAMENTI genera constituit rerum quae de cunctis
aliis PREDICARE ut quicquid ad significationem uenire posset, id si
integram significationem teneret, cuilibet eorum subiceretur generi de quibus
Aristoteles tractat in eo libro qui De decem praedicamentis inscribitur, hoc
ipsum uero referri ad aliquid uelut ad genus tale est, quale si quis spe- ciem
supponat generi, hoc uero neque praeter cognitionem speciei ullo modo
fieri potest nec uero ipsae species quid sint uel cuius magis sint possunt
perspici nisi earum differentiae cognoscantur, sed differentiarum natura
incognita, quae unius 1 recte—sermonum] recte intellegentiae sermonum
ordo conuenit CLP (ex 5) 2 uero] autem C 3
atque] itaque FN ut CLH (in ras.) Chry- saori] ut
p . 150, 18 4 est] sit GLRS nosse—sit om.
EH 5 ordo ante sermonum E 7 post
his s. l. quinque Lm2 pr. (sic) ad om. G
, in mg. Em1? 8 tractatus hic H intendit L
peruenire Lm1S 9 ante hic add . solummodo
F 10 nunc] nam F 11 quod EN 12 possit
Lm2 cognitio R 15 possit Fa.c.LS 16 Aristoteles
delend. esse coni. Brandt eo om. E 17 De om. NS ,
de s. l. Lm2 uero s. l. Gm2 18 post , ad om. GRS,
s. l. Em2Lm2P qui S 19 neque er . L
nec N post cognitionem add. generis neque praeter
cognitio- nem CFHP (in mg. m2) generis nec E
(s. l. m1?)N, s. l. generis et Lm2 20 nullo Lm2
neque F 21 magis] modi CEm2 (in aliis
m1) Hm1Pp.c.(corr. m1?) modo N possint S
possumus Gm1Lm2 possemus m1 possimus E
perspici] scire EGm1 (sciri m2 ) L agnosci
RS cuiusque speciei sint differentiae, modis omnibus ignorabitur, quare
sciendum est quoniam, si de generibus Aristoteles tractat in PREDICAMENTI, et
generum natura cognoscenda est, cuius cognitionem speciei quoque comitatur
agnitio, sed hoc cognito, quid sit differentia non potest ignorari,
quamquam in eodem libro plura sint ad quae nisi maximam peritiam et
generis et speciei et differentiae lector attulerit, nullus omnino intellectus
patebit, ut cum ipse Aristoteles dicit : diuersorum generum et non
subalternatim positorum diuersae secundum species et differentiae sunt, quod
his ignoratis intellegi inpossibile est. sed idem Aristoteles proprium
unius cuiusque PREDICAMENTI diligentissima inquisitione uestigat, ut cum
substantiae proprium post multa dicit esse quod idem numero contrariorum
susceptibile sit, uel rursus quantitatis, quod in ea sola aequale atque
inaequale dicatur, qualitatis etiam, quod per eam simile et dis- simile
aliud alii esse proponimus, et in ceteris eodem modo, ut quae sit proprietas
contrarii, quae secundum relationem oppositionis, quae priuationis et habitus,
quae affirmationis et 8—10] Aristot. Categ. c. 3, p. l b , 16 s. 13 s.]
ibid. c. 5, p. 4 a , 10 s. 15 s. (dicatur)] ibid. c. 6, p. 6 a , 26 s. 16 s.]
ibid. c. 8, p. 11 a , 15—19. 18 (quae sit)—153, 1 (negationis)] ibid. c.
10. 1 sit differentia S 5 non potest s. l. Gm2
quamquam] cum F 6 et generis—differentiae post attulerit
E 8 pateat EGLRS dicit] Brandt dicat codd. edd.;
cf. 13. p. 154, 14. 21. 153, 2. 6 10 post secundum add
. se EGL (del.) ES, er. uid. H et om. CN, del. Lm2, er. uid.
H; cf. Aristot. Cat. c. 3 τών Ιτέρων γενών καί μή ΰπ’ αλληλα
τεταγμένων ετεροι τω εΤδεε κο· αϊ διαοοραί et Boethii
interpretat. In Categ. Arist. p. 177 A (om. se) quid GRS 11
possibile EG ( post est signum interrogat.) RS
propria FHNP 14 ante numero s. l. cum
E 15 aequum Em1FGLm1RS; cf. p. 153, 17 atque] aut N 16
dicitur FHLm2P et dissimile] F uel dissimile s. l.
Em2 aut dissimile s. l . Gm2Pm1? , om. cett.; cf.
Aristot. Cat. c . 9 Τ ών μέν ouv είρημένων — τό ομοιον χα)
άνο'μοιον — αοτήν et Boethii interpretat, p. 259
A (simile et dissimile,) 17 aliis DGPm1RS ( s in ras); cf.
Aristot, ibid . έτέρω , Boeth. ibid . alteri 18 post
relationem add . contrarii Em1, del. et s. l . ut sapientia
stulticiae m2 negationis, in quibus ita tractat tamquam iam
peritis scienti- busque quae sit proprietatis natura; quam si quis ignorat,
frustra ea quae de his disputantur adgreditur. iam uero illud manifestum est,
quod accidens maximum PREDICAMENTI obtineat locum, quod proprio nomine nouem PREDICAMENTI
circumdat. Et ad PREDICAMENTI quidem quanta sit huius libri utilitas ex
his manifestum est. quod uero ait et ad definitionum adsignationem, facile
cognosci potest, si prius substantiae rationum diuisio fiat, substantiae
ratio alia quidem in descriptione ponitur, alia uero in definitione, sed ea
quae in descriptione est, pro|prietatem quandam colligit eius rei cuius
substantiae rationem prodit, ac non modo proprietate id quod monstrat informat,
uerum etiam ipsa fit proprium, quod in definitionem quoque uenire necesse
est; si quis enim quantitatis rationem reddere uelit, dicat licebit; quantitas
est secundum quam aequale atque inaequale dicitur, sicut igitur proprietatem
quidem quantitatis in ratione posuit quantitatis et ipsa tota ratio ipsius
quantitatis propria est, ita descriptio et proprietatem colligit et propria
fit ipsa descriptio, definitio uero ipsa quidem propria non colligit, sed ipsa
quoque fit propria, definitio namque substantiam monstrat, genus differentiis
iungit et ea quae per se sunt communia atque multorum in unum redigens uni
speciei quam definit reddit aequalia. ita igitur ad descriptionem utilis
est proprii cognitio, quoniam sola proprietas in descriptione colligitur et
ipsa fit propria sicut definitio quoque, ad definitionem uero genus, quod
primum 1 ita om. RS, s. l. m2 in EGL tamquam iam] quasi
C 5 optinet FHm1LmSN obtineat ante
praedicamentorum E 7 libri huius CGLRS ; cf. p. 155,
14. 17. 156, 8 utilitas] brm intentio codd . 10
post substantiae add . uero F, s. l . enim Lm2
16 ante dicat s. l . sc. ut Lm2 20 proprietates CFHNP
ipsa] ita G 22 nam qui Gm2Lm1 (namque qui m2
) S 26 proprietas sola CLP sola proprietas sola
FGm1S 27 ad sicut s. l . ł sic Em2 uero s. l
. Hm2 quod om . F quidem R
ponitur, et species, ad quam genus illud aptatur, et differentiae, quibus
iunctis cum genere species definitur, sed si cui haec pressiora quam
expositionis modus postulat uidebuntur, eum hoc scire conuenit, nos, ut in
prima editione dictum est, hanc expositionem nostro reseruasse iudicio, ut ad
intellegentiam simplicem huius libri editio prima sufficiat, ad
interiorem uero speculationem confirmatis paene iam scientia nec in singulis
uocabulis rerum haerentibus haec posterior colloquatur. Ad diuisionem uero
faciendam tam hic liber est utilis, ut praeter earum scientiam rerum de quibus
in hac libri serie disputatur, casu fiat potius quam ratione partitio,
hoc autem manifestum erit, si diuisionem ipsam diuidamus, id est si nomen ipsum
diuisionis in ea quae significat partiamur, est namque diuisio generis in
species, ut cum dicimus ‘coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud uero
medium’, rursus diuisio est, quotiens uox plura significans aperitur et
quam multa sint quae ab ea significantur ostenditur, ut si quis dicat ‘nomen
canis plura significat, et hunc, latrabilem quadrupedem que et caeleste sidus
et marinam bestiam’, quae omnia a se definitione disiuncta sunt, diuidi autem
dicitur et quotiens totum in partes proprias separatur, ut cum dicimus
‘domus aliud sunt fundamenta, aliud parietes, aliud tectum’, et haec quidem
triplex diuisio secundum se partitio nuncupatur, est autem 4] in prima
editione nihil eiusmodi. 1 post ponitur add . utile est
CN, post species s. l . utilis est Lm2 et
species—aptatur in mg. Em2Gm2 illud genus C 3 eum
om. E , s. l. Gm2 , ei R 4 uti FGLRSm1 5
reseruasse] CPm2 edd . reser- uare E ( -re in ras .)
FGm2HNPm1 (ante reseruare add. se m1, del.
m2) reseruantes Gm1S seruantes Lm1 seruare
m2 reseruantes sumus R 8 colloquatur] m1 in GLS
eloquatur CEm2 (in ras.) HN collocatur Em1R , m2 in GLS
edd . loquatur FP 9 utilis est LP 10 rerum om.
E 12 post . si om. EG, s. l. Sm2 13 ante
partiamur s. l . si E partia- tur Gm1 14 aliud
est] CEp.c.R edd . aliud esse Ea.c.GHLPS esse aliud
FN 15 rursum CEGNPm1R est s. l. Sm2 , ante
diuisio FHNP , et ante rursus et post
diuisio R 16 quam] quod EG a.c . (quae p.c .)
LRS sunt CFLNPa.c. 18 quadripedemque Sm1 20
distincta FHm1NP 23 partitio] separatio EGLm1Pm1RS
alia quae secundum accidens dicitur, ea quoque fit tripliciter, aut cum
accidens in subiecta diuidimus, ut cum dico ‘bonorum alia sunt in animo, alia
in corpore’, uel rursus cum subiectum in accidentia, ut ‘corporum alia sunt
alba, alia nigra, alia medii coloris’, rursus cum accidens in accidentia
separamus, ut cum dicimus ‘liquentium alia sunt alba, alia nigra, alia medii
coloris’, et rursus ‘alborum alia sunt dura, alia liquentia, quaedam mollia’,
cum igitur ita omnis sit diuisio aut secundum se aut per accidens, utraque uero
partitio tripliciter fiat cumque in superiore secundum se triplici partitione
sit una diui- sionis forma genus in species separare, id neque praeter generum
scientiam fieri ullo modo potest neque uero praeter differentiarum, quas
necesse est in specierum diuisione sumi, manifestum est igitur, quanta utilitas
huius libri ad hanc diuisionem sit quae primo aditu genus ac species et
differentias tractat, secunda uero ea diuisio quae est secundum se in uocis
significantias, nec haec quidem ab huius libri utilitate discreta est. uno enim
modo cognosci poterit, utrum uox cuius diuisionem facere quaerimus, aequiuoca
esse uideatur an genus, si ea quae significat definiantur, et si ea quae
sub communi nomine sunt, definitione clauduntur, species esse necesse est, et
illud commune eorum genus, quodsi illa quae proposita 3 sunt alia
H uel] aut brm rursum FS 4 corporalium
Ca.c.Hm1N 5 rursum F 6 liquentia Ea.c.Gm1 8
fit G sit ante omnis F , post diuisio N 9
accidentia S 10 superiori Sm2 11 sepa- rare om.
EN 12 possit Em2 uero om. C post praeter s. l .
scientiam Sm2 16 ea del. L, er. uid. P ante quae
add . est N (om. post quae] P (er. uid.)
secundum—significantias] FHN uocis post
significantias C se et in om cett . 18 uno]
nullo F quo m2 in HLP enim] quidem N 20 si]
nisi FLm2Pm2 significant CNPm2 et (om. si,
) in ros. Hm2 si et RS (et s. l. m2 ) si om. EL,
s. l. Gm2Pm2 , etenim L (ex et m2) Pm1 communi nomine] CEm2
(in ras.) FHNP (nomine s. l. m2 ) communione cett. 21 sunt del. L,
s. l. Pm2 ante definitione add . una FHL (del. m2) R,
s. l. Em2Pm2 diffinitione s. l. Gm2 claudantur
EGLRS 22 earum ES post genus s. l . necesse est
Gm2 praeposita EGPS uox designat, non possunt una
definitione concludi, nemo dubitat quin illa uox sit aequiuoca neque ita sit
communis his de quibus PREDICARE ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita
significat, secundum commune nomen non possunt una definitione comprehendi, si
igitur ex definitione manifestum fit quid genus sit, quid uero nomen
aequiuocum, definitio uero per genera differentiasque discurrit, quisquamne
dubitare potest aeque in hac diuisionis forma plurimum huius libri auctoritatem
ualere? illa uero secundum se diuisio quae est totius in partes, quemadmodum
discernitur ac non potius generis in species diuisio esse putabitur, nisi
sint genus |et species et differentiae earumque uis ante disciplinae ratione
tractata? cur enim non quisquam dicat domus species potius esse quam partes
fundamenta, parietes et tectum? sed cum occurrit generis nomen in una quaque
specie totum posse congruere, totius uero in una quaque parte sua nomen
conuenire non posse, manifestum fit aliam diuisionem esse generis in species,
aliam totius in partes, conuenire autem nomen generis singulis speciebus
ostenditur per id, quod et homo et equus singuli animalia nuncupantur, neque
tectum uero neque parietes aut fundamenta singillatim domus nomine
appellari solent, sed 1 concludi om ., nemo—comprehendi (5)
in inf. mg. Gm1? nemo—ita sit in ras. Em2 2
uox—communis] uox non (non er. L, om. S ) sit communis Gm1 uel 2
Lm1Sm1, post uox add . sit aequiuoca neque (non, sed del. G )
ita ( om. G etiam S ) s. l. Gm2 uel alia Sm2, in mg.
Lm2 3 ante his add . de E (er.) G (del. m2) ES
his s. l. Lm2 4 post posita s. l. sunt Hm2 non
possunt] definiri ( uel diff-j (-ri ex -re Cm2 ) non
possunt (add . neq. Cm1, er. et una add. m2) nec
CFN 6 fit] H est C sit cett . 8 aeque]
etiam CFHm1NPSm1 9 auctorem GR utilitatem Lm2 10
discernetur Hm2 (fort. recte) discernatur N ac]
et FHNP 11 esse om. R, ante diuisio FN
sit FSm1 sunt G et] ac R 12 earum
quauis ELR, m2 in GHPS , earum quis Fm1 quamuis ( om .
earum,) m2 ; cf. p. 157, 3 13 quisque CFHR esse
potius FNR 14 dum F 15 quaque om. FN 17
sit ELRm1 (est m2 ) S 19 id om . RS,
s. l. Em2Gm2 singula CEa.r. (ut uid.) GLPm1 singularis
Sa.c . singu- laque R 20 aut] ac FHLNP neque
S 21 singulatim CNR appel- lari] nuncupari
FHLNP cum fuerint iunctae partes, tunc recte totius nomen excipiunt, de ea
uero diuisione quae secundum accidens fit, nullus ignorat quin incognito
accidenti incognitaque ui generis ac differentiarum facile euenire possit, ut
accidens ita in subiecta soluatur quasi genus in species, et postremo
omnem hunc ordinem partitionis foedissime permiscebit inscientia. Et
quoniam quid hic liber ad diuisionem prosit ostendimus, nunc.de demonstratione
dicemus, ne per ardua atque difficilia haereat qui in tanta hac disciplina uigilantissimo
ingenio et sollertissimo labore sudauerit. fit enim demonstratio, id est
alicuius quaesitae rei certa rationis collectio, ex ante cognitis naturaliter,
ex conuenientibus, ex primis, ex causa, ex necessariis, ex per se
inhaerentibus, sed genera speciebus propriis priora naturaliter sunt; ex
generibus enim species fluunt, item species sub se positis uel speciebus
uel indiuiduis priores naturaliter esse manifestum est. quae uero priora sunt,
ea et praenoscuntur et notiora sunt sequentibus naturaliter, duobus enim modis
primum aliquid et notum dicitur, secundum nos scilicet et secundum naturam,
nobis enim illa magis cognita sunt quae sunt proxima, ut indiuidua,
dehinc species, postremo genera, at uero natura conuerso modo ea sunt magis cognita
quae nobis minime proxima, atque ideo quamlibet se longius 1 tunc
er. C accipiunt F 3 incognita m1 in GRS
accidente CN accidentia, del . a EGm2Rm2
accidenti—differentiarum in mg ., ante facile add . ea accidentia,
sed del. E incognitaque—differentia- rum om. GR
cognitaque (sic) ut generis ac differentiarum Sm1, del. m2 4
soluamus FHNP 5 postremum HP hunc ante
omnem L, post ordinem R 6 inscitia FHN 7
quid hic liber) FGm1NP quid liber hic Em2HL hic quid
liber Gm2 liber quid hic Em1R liber hic quid S; quid ad
diuisionem hic liber C 8 ne—haereat] rem perarduam atque difficilem
illi etiam FN ; ne et - in in difficil ** ia
et hereat in ras. C 9 hereat s. l. Sm2
etiam m1 tota CFN 11 alicuius om. CL 13
priora propriis C 15 pr . uel om. L, del. Pm2 19
enim] uero N 21 natura] Ea.c.GR naturae
Ep.c.FHLPS secundum naturam CN; cf. Boeth . Post. Analyt.
Aristot. interpret. lib. I c. II p. 714 B non enim idem est natura prius
et ad nos prius neque notius natura et nobis notius. 22 quantumlibet
Em2 quantolibet Pm2 a nobis genera protulerint, tanto magis
erunt lucida et naturaliter nota, differentiae uero substantiales illae sunt
quas per se inesse his rebus quae demonstrantur agnoscimus, praecedere autem debet
generum ac differentiarum cognitio, ut in una quaque disciplina quae sint eius
rei quae demonstratur convenientia principia, possit intellegi, necessaria uero
esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus, nullus dubitat qui speciem
sine genere et differentia intellegit essq non posse, genera uero et
differentiae sunt causae specierum. idcirco enim species sunt, quia genera
earum et differentiae sunt quae in syllogismis posita demonstratiuis non
rei solum, uerum conclusionis etiam causae sunt, quod postremi Resolutorii
locupletius dicent. Cum igitur perutile sit et definitione quodlibet illud
circumscribere et diuisione dissoluere et demonstrationibus comprobare,
haec autem praeter earum rerum scientiam de quibus in hoc libro disputabitur,
neque intellegi neque exerceri ualeant, quis umquam poterit dubitare quin hic
liber maximum totius logicae adiumentum sit, praeter quem cetera quae in ea
magnam uim tenent, nullum doctrinae aditum praebent? Sed meminit
Porphyrina introductionem aese conscribere neque ultra quam institutionis modus
est, formam tractatus egreditur, ait enim ‘se altiorum quaestionum nodis
abstinere, 1 protulerunt FLR praetulerint N 2
substantiales] substantiae uel E 3 inesse post
rebus C esse, del . in E 4 in om. C, s. l.
Sm2 6 possint Hm1P 7 ante genera add. et
LP 8 intellegit in mg . Cm2, post esse in ras.
N 9 causae sunt FHL sunt om. R causa
G 11 demonstrantibus EFGLPm1RS; cf. Boeth. ibid. c. VI p. 718
D de- monstratiuus syllogismus 12 postremis L in (s. l.) postremis Pm2
postremo EFGPm1RS resolutoriis L resolutarii
F resoluturi RS resoluituri G resolutius ac
E 13 dicemus EGLPm1RS 15 demon- stratione N 16 in
om. FGPR, s. l. Hm2S 17 ualeant] m2 in EHLS ualent
CEm1F (n del .) GHm1NP (n in ras .)
RSm1 22 nec N 23 egre- ditur] CF (aegr-)
HNPm1 aggreditur L egredi EGRS aggredi
Pm2 altioribus FN nodis om . Cm1Sm1 modis
FNRa.c., s. l. Cm2, in mg. Sm2 simplices uero mediocri coniectura
perstringere’, quae uero sint altiores quaestiones quas se differre promittit,
ita proponit : Mox, inquit, de generibus ac speciebus illud quidem, siue
subsistunt siue in solis nudisque intellectibus posita sunt siue
subsistentia corporalia sunt an incorporalia et utrum separata a sensibilibus
an in sensibilibus posita et circa ea constantia, dicere recusabo, altissimum
enim est huiusmodi negotium et maioris egens
inquisitionis. Altiores,.inquit, quaestiones praetereo, ne eis
intempestiue lectoris animo ingestis initia eius priraitiasque perturbem, sed
ne omnino faceret neglegentem, ut nihil praeterquam quod ipse dixisset, lector
amplius putaret occultum, id ipsum cuius exequi quaestionem se differre
promisit, addidit, ut de his minime obscure penitusque tractando nec
le|ctori quicquam p. 54 obscuritatis offunderet et tamen scientia
roboratus quid quaeri iure posset agnosceret, sunt autem quaestiones quas sese
reti- 3—9] Porph. p. 1, 9—14 (Boeth, p. 25, 10—14). 8 altissimum—
negotium] Abaelardus, Epistolae, Opp. I p. 5 ed. Cousin. 1
simpliciores L praestringere G perscribere
CFN 2 sunt N 3 inquit om . Ω ac] et
ΗΝ Ω post quidem add . quod EG (del.) Sm2
quae m1 4 subsistant L nudisque] nudis purisqne Ω
; Porph. p. 1, 10 έν μο'να'.ς ψιλοΐς έπινοίαϊς 5
substantia Em1 sunt ante corporalia Σ ,
post incorporalia Δ sint LR A m2 , ras .
ex sunt II 6 separat R a sensibilibus om. Gm1 (s. l.
m2) Sm1 (cf. proxima), ras. ex ab insensi- bilibus \ m2; om .
Porph. p. 1,12 ab CEa.r. A m1 A m1 an in sensibilibus posita
et] FG (posita s. l. m2 ) LR Ψ an in sensibilibus
(a sensibilibus m2 ) et S an ipsis sensibilibus (posita
om .) iuncta (in mg.) et ( om . II) Γ , s. l . Π
m2 et ( cetera om .) CEHPm1 h m1 (s. l. an et in sensi- bilibus
posita m2 ) A m1 ( in mg . an sensibilibus iuncta m2
) Φ an (cet. om.) NPm2 Σ 7
consistentia CHF A m1 8 enim—negotium] FHLP Q (
sed est enim A ) Abaelard . negotium ante
est CEGRS enim est negotium huius modo (sic) N;
Porph. p. 1, 13 βαθύτατης οϊοης τής τοιοΰτης
πραγματείας 10 ante eis add . in, sed del.
E 11 primitiaque R per- turbent FN 12
neglegentiam Gm1P praeter (s. l.) quam C
praeter id quam L 13 putasset C 14 exequi quaestionem]
exeeutionem (uel eis-) EGHm1LRS 15 penitus Em1FG
ne L 16 effunderet Ca.c.EGLNR infunderet Cp.c.FS
; cf. p. 145, 14 17 possit C a.c. Fa.c . se N
cere promittit, et perutiles et secretae et temptatae quidem a doctis
uiris nec a pluribus dissolutae, quarum prima est huiusmodi. omne quod
intellegit animus aut id quod est in rerum natura constitutum, intellectu
concipit et sibimet ratione describit aut id quod non est, uacua sibi
imaginatione depingit ergo intellectus generis et ceterorum cuiusmodi sit
quaeritur, utrumne ita intellegamus species et genera ut ea quae sunt et ex
quibus uerum capimus intellectum, an nosmet ipsi nos ludimus, cum ea quae non
sunt, animi nobis cassa cogitatione formamus, quod si esse quidem constiterit
et ab his quae sunt, intellectum concipi dixerimus, tunc alia maior ac
difficilior quaestio dubitationem parit, cum discernendi atque intel- legendi
generis ipsius naturam summa difficultas ostenditur, nam quoniam omne quod est,
aut corporeum aut incorporeum esse necesse est, genus et species in aliquo
horum esse oportebit quale erit igitur id quod genus dicitur, utrumne cor-
poreum an uero incorporeum? neque enim quid sit diligenter intenditur, nisi in
quo horum poni debeat agnoscatur, sed neque cura haec soluta fuerit quaestio,
omne excludetur ambi- guum. subest enim aliquid quod, si incorporalia esse
genus ac species dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat exsolui
postulans, utrum circa corpora ipsa subsistant an et praeter corpora
subsistentiae incorporales esse uideantur. duae quippe incorporeorum formae
sunt, ut alia praeter corpora esse 1 promisit C 2
doctissimis P 4 statutum L discribit E 5
id s. l. C 8 capiamus C ipsi nos]
ipsos FR ipsos ** (-os ex i m2 )
S ipsi Hm1 nos s. l. m2 9 eludimus
Hm2 cogitatione] imaginatione F 11 intellectu ras.
ex -tu E ac] et R 12 parat FHm1PRS
discer- nendae atque intellegendae.. naturae EFGHNRS 13
natura L osten- datur N 16 utrum FHm1NP 17
an] aut ex ut F uero om. N 19
excluditur Cm2GHp.c.LPRS 20 aliquid quod] alia quae (que
N) FN aliud (ex aliquid]
quod E esse post species FHL, om. N 21 ac]
et H intellegentiam atque] animum intelligentiamqne F
intellegen- tiamque N 22 ipsa corpora EFGHN et
om. CFHLN (fort. recte) , del. Pm2 23 subsistentia Ca.c.Gm2L
substantiae Cp.c.FN (s. l . ł subsistentes) incorporalia Gm2L
possint et separata a corporibus in sua incorporalitate perdurent, ut
deus, mens, anima, alia uero cum sint incorporea, tamen praeter corpora esse
non possint, ut linea nel superficies uel numerus uel singulae qualitates, quas
tametsi incorporeas esse pronuntiamus, quod tribus spatiis minime
distendantur, tamen ita in corporibus sunt, ut ab his diuelli nequeant aut
separari aut, si a corporibus separata sint, nullo modo permaneant, quas licet
quaestiones arduum sit ipso interim Porphyrio renuente dissoluere, tamen
adgrediar, ut nec anxium lectoris animum relinquam nec ipse in his quae
praeter muneris suscepti seriem sunt, tempus operamque consumam, primum quidem
pauca sub quaestionis ambiguitate proponam, post uero eundem dubitationis nodum
absoluere atque explicare temptabo. Genera et species aut sunt atque subsistunt
aut intellectu et sola cogitatione formantur, sed genera et species esse
non possunt, hoc autem ex his intellegitur, omne enim quod commune est uno
tempore pluribus, id unum esse non poterit; multorum enim est quod commune est,
praesertim cum una eademque res in multis uno tempore tota sit.
quantaecumque enim sunt species, in omnibus genus unum est, non quod de eo
singulae species quasi partes aliquas carpant, sed singulae uno tempore totum
genus habent, quo fit ut totum genus in pluribus singulis uno tempore positum
unum esse non possit; neque enim fieri potest ut, cum in pluribus totum
uno sit tempore, in semet ipso sit unum 1 a om. CS, s. l. Em2
corporalitate ELS 3 possunt ELNPR 4 tamenetsi
Ca.c . (tam ras. ex tam) L tam si Em1
tamensi GRS 5 quod] eo quod L tamen om. G tam
N 6 uti EGLPa.r.RS ante diuelli add. aut Hm1, del.
m2 7 a om. ERS, s. l. Gm2 separatae ex
-ta H 8 quaestiones licet FHLPN 9 rennuente
Ca.r.Ga.c.LNS ut] ita ut R 13 dubietatis L
exsoluere CF 14 atque] et EGLPRS 15 solo ( s. l. Pm2 )
et FHNP 17 uno tempore pluribus] multorum uno tempore N
18 est (s. l. m2 ) enim G 19 tota sit] transit F 20 est
unum Fm2H 21 non, s. l . quod S , ut non
CHm1N 22 carpunt RS capiant F participant
Nm1 habeant Hm2Lm2P 24 possunt F possint
S enim om. FN. del. L 25 unoque Gm2 sit uno
FHN tempore in mg. Gm2 numero, quod si ita est, unum
quiddam genus esse non poterit, quo fit ut omnino nihil sit; omne enim quod
est, idcirco est, quia unum est. et de specie idem conuenit dici, quodsi est
quidem genus ac species, sed multiplex neque unum numero, non erit ultimum
genus, sed habebit aliud super-positum genus, quod illam multiplicitatem unius
sui nominis uocabulo includat, ut enim plura animalia, quoniam habent quiddam
simile, eadem tamen non sunt, idcirco eorum genera perquiruntur, ita quoque
quoniam genus, quod in pluribus est atque ideo multiplex, habet sui
similitudinem, quod genus est, non est uero unum, quoniam in pluribus
est, eius generis quoque genus aliud quaerendum est, cumque fuerit inuentum,
eadem ratione quae superius dicta est, rursus genus tertium uestigatur itaque
in infinitum ratio procedat necesse est, cum nullus disciplinae terminus
occurrat, quodsi unum quiddam numero genus est, commune multorum esse non
poterit, una enim res si communis est, aut partibus communis est et non iam
tota communis, sed partes eius propriae singulorum, aut in usus habentium etiam
per tempora transit, ut sit commune ut seruus communis uel equus, aut uno
] tempore omnibus commune fit, non tamen ut eorum quibus commune est,
sub- stantiam constituat, ut est theatrum uel spectaculum aliquod, quod
spectantibus omnibus commune est. genus uero secundum nullum horum modum
commune esse speciebus potest; nara 1 numero] in
numero NR quoddam FS quodque N quidem
R 5 ad ultimum s. l . maximum E super se
(se s. l. G ) positum GR 6 sui] LP edd . ui cett.
(post nominis F ) hominis R 7 uocabulo] HLP edd.,
om. cett . concludat H concludit Lm1 includat
m2 includit R 12 requirendum F perquirendum
N 13 ratio Hm1N tertium genus CL 14
nestigabitur FH nestigabit N 15 quodsi] quod NR
quiddam] quoddem (sic) R 17 si communis] sic omnis F quae
com- munis CN si om. R post post , communis
est add . ut puteus et (uel H ) fons CHNP (del. m2) ,
in mg. E, s. l. Lm2 18 proprie CFLNR post
singulorum add . sunt HP , s. l. Lm2 , post
sunt s. l . ut puteus et fons Pm2 19 habent G etiam
om. FNP iam LS 21 sit NP ( ras. ex
fit) est R ita commune esse debet, ut et totum sit in
singulis et uno tempore et eorum quorum commune est, constituere ualeat et
formare substantiam, quocirca si neque unum est, quoniam commune est, neque
multa, quoniam eius quoque multitudinis genus aliud inquirendum est,
uidebitur genus omnino non esse, idemque de ceteris intellegendum est. quodsi
tantum intel- lectibus genera et species ceteraque capiuntur, cum omnis
intellectus aut ex re fiat subiecta, ut sese res habet aut ut sese res non
habet nam ex nullo subiecto fieri intellectus non potest —, si generis et
speciei ceterorumque intellectus ex re subiecta ueniat, ita ut sese res ipsa
habet quae intel- legitur, iam non tantum in intellectu posita sunt, sed in
rerum etiam ueritate consistunt, et rursus quaerendum est quae sit eorum
natura, quod superior quaestio vestigabat. quodsi ex re quidem generis
ceterorumque sumitur intellectus neque ita ut sese res habet quae intellectui
subiecta est, uanum necesse est esse intellectum qui ex re quidem sumitur, non
tamen ita ut sese res habet; id est enim falsum quod aliter atque res est intellegitur,
sic igitur, quoniam genus ac species nec sunt nec cum intelleguntur,
uerus eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis haec sit deponenda de
his quinque pro- positis disputandi cura, quandoquidem neque de ea re quae
sit 1 sit] s. l. Lm1? brm, om. cett . 2 post tempore
add. sit Np, s. l . Em2 3 conformare N
substantias FHNP ante si add. et Hm1 , del.
m2 ad quoniam s. l . quod Hm2 4 multiplex m2 in
CEGP,Lm1 8 habeat N aut—habet in mg. Gm2 ut
s. l. Lm2Sm2 9 habeat N , post add . nanus est intellectus
(Intellectus otn. brm ) qui de nullo subiecto capitur in mg. Lm2,
s. l. Rm1? brm intellectus post potest
C 11 ipsa res HLN 12 pr . in om. ENR , s.
l. F 13 etiam om. CL 14 uestigabit Lm2
inuestigabat F 17 esse post intellectum F ,
post uanniu N , om . R 18 enim falsum est
CKNP est om . H , er . L enim om.
R 19 si CNPS, m1 in GHL , nec R
igitur—intelleguntur om . R quoniam om. CN ac] et
S neque FHN quae Sm1 20 neque FH
cum om. GLPS s. l. add. E, sed del . uerus] nec uerus GLR
earum HN est eorum CL non] neque N 22
fit Lm2 neque de ea de qua uerum aliquid intellegi proferriue
possit, inquiritur. Haec quidem est ad praesens de propositis quaestio;
quam nos Alexandro consentientes hac ratiocinatione soluemus. non enim necesse
esse dicimus omnem intellectum qui ex subiecto quidem fit, non tamen ut
sese ipsum subiectum habet, falsum et uacuum uideri. in his enim solis falsa
opinio ac non potius intellegentia est quae per compositionem fiunt. si enim
quis componat atque coniungat intellectu id quod natura iungi non patitur,
illud falsum esse nullus ignorat, ut si quis equum atque hominem iungat
imaginatione atque effigiet Centaurum. quodsi hoc per diuisionem et per
abstractionem fiat, non quidem ita res sese habet, ut intellectus est,
intellectus tamen ille minime falsus est; sunt enim plura quae in aliis esse
suum habent, ex quibus aut omnino separari non possunt aut, si separata
fuerint, nulla ratione subsistunt. atque ut hoc nobis in peruagato exemplo
manifestum sit, linea in corpore quidem est aliquid et id quod est, corpori
debet, hoc est esse suum per corpus retinet, quod docetur ita : si enim
separata sit a corpore, non subsistit; quis enim umquam sensu ullo
separatam a corpore lineam cepit? sed animus cum confusas res permixtasque in
se a sensibus cepit, eas propria ui et 4 Alexandro] testimonia Simplicii
in Categ. Aristot. p. 50 a , 45 ss., Dexippi p. 50 b 15—31 (= p. 45,
12—28 Busse), Dauidis p. 51 b , 10 ss. (Brandis) adfert Prantl, Gesch. d.
Logik im Abendlande I 623 n. 24. 6 sit CEFH (ex
fit ) NPR ante ut add . ita FN , s. l. Gm2Pm2
habeat FHm1NP 7 post uideri add . ut si quis
dicat lineam esse cum longitudine sine latitudine non est omnino falsum
F 8 compositionem] conjunctionem EGLPRS, recte? 9
quisquam HP quisque N ponat H intellectu] in
intellectu F id om. N 10 patiatur NR
11 pr . atque] aut N efficiet L ( c ex g
m2) efficiat CF effigiat Sa.c . 12 haec E
ad abstractionera s. l . ł (??)positionem Lm2 ł
abscisionem Pm2 fit R 13 ita post res
C, om. R 14 ille] ipse R 16 ut s. l. Cm2, del. Lm2
, post hoc F 17 ad peruagato s. l . ł
uulgato Pm2 18 hoc om. F est om. ELS, s. l. Gm2 ,
et F 19 ante docetur add . et CHNP, in mg.
Lm2 20 a om. ERS, s. l. Gm2 21 anima Em1Gm1Pm2Sm1
22 post permixtasque add . corporibus brm
capit C eas in mg. Hm2 cogitatione distinguit,
omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum habentes sensus
cum ipsis nobis corporibus tradit, at nero animus, cui potestas est et
disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et
corporibus coniuncta traduntur, ita distinguit, ut incorpoream naturam per se
ac sine corporibus in quibus est concreta, specnletur et uideat. diuersae enim
proprietates sunt incorpo- reorum corporibus permixtorum, etsi separentur a
corpore, genera ergo et species ceteraque uel in incorporeis rebus uel in
his quae sunt corporea, reperiuntur. et si ea in rebus incorporeis inuenit
animus, habet ilico incorporeum generis intel- lectum, si uero corporalium
rerum genera speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus
incorporeorum naturam et solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur, ita
haec cum accipit animus permixta corporibus, incorporalia diuidens
speculatur atque considerat, nemo ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam
ita eam mente capimus quasi praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non
possit, non enim omnis qui ex subiectis rebus capitur intellectus aliter quam
sese ipsae res habent, falsas esse putandus est, sed, ut superius
dictum 20 superius] p. 164, 8. 2 corpore EGLRS 3 at
nero om. C animi ( om . cui) R et om. GRS, s. l.
Lm2 post disiuncta add . ut equum et hominem quae iungi non patitur
natura, post composita add . ut corpus et lineam et
(sic) disiungi natura non patitur R 4 a s.l. m2 in EGLS
5 ante incorpoream add . in FLNS 7 et] ut
S sunt proprietates CLR , add. ut equum et cetera R 8
ante corporibus add. et C etiamsi R et, s. l. si Cm2F
separarentur F (ra s. l.) R separantur Lm1N 9
ergo om. FN, del. Lm2 , uero H, s. l. Lm2 corporeis
Cm1GHLPa.c.R 10 incorporeis] corporeis Cm1 11 animus
inuenit FHNP post ilico add . ibi F, s. l. Gm2, add .
quo E, sed del. 12 incorporalium Em1 speciesque] et species
esse F prospexerit HR 14 ante haec add .
et H (del. m2) N, s. l. Cm2 animus cum accipit F 15
accepit Pm1S animus accipit C post incorporalia
add . ea CHm2LPN diuisa Gm2 16 desiderat Em1Ga.c
. falso ante dicat F falsam CGm1Lm1 (
post nosl NRS 17 capiamus Cm2N 19 sese om.
F ipsae om . H , s. l. Em2 , ipsa F est,
ille quidem qui hoc in compositione facit falsus est, ut cum p. 56
hominem atque equum | iungens putat esse Centaurum, qui uero id in diuisionibus
et abstractionibus assumptionibusque ab his rebus in quibus sunt efficit, non
modo falsus non est, uerura etiam solus id quod in proprietate uerum est
inuenire potest. sunt igitur huiusmodi res in corporalibus atque in
sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia, ut eorum natura perspici
et proprietas ualeat comprehendi, quocirca cum genera et species cogitantur,
tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur ut ex singulis
hominibus inter se dissimilibus humanitatis similitudo, quae similitudo
cogitata animo ueraciterque perspecta fit species; quarum specierum rursus
diuersarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in earum
indiuiduis esse non potest, efficit genus, itaque haec sunt quidem in
singularibus, cogitantur uero uniuersalia nihilque aliud species esse
putanda est nisi cogitatio collecta ex indiuiduorum dissimilium numero
substantiali similitudine, genus uero cogitatio collecta ex specierum
similitudine, sed haec similitudo cum in singularibus est, fit sensibilis, cum
in universalibus, fit intellegibilis, eodemque modo cum sensibilis est,
in singularibus permanet, cum intellegitur, fit uniuersalis. subsistunt ergo
circa sensibilia, intelleguntur autem praeter corpora, neque enim interclusum
est ut duae res eodem in subiecto sint ratione diuersae, ut linea curua atque
caua, quae 1 cõpositionem GHR facit post
hoc H 2 quia Gm1R quod Sm2 3 id om.
N, s. l. Em2H , post diuisionibus F assumptionibus
Em1Gm1P atque assumptionibus CL 5 post
solus add . intellectus F , scil, intellectas s. l. Lm2
6 corporibus FHN post sensibilibus add .
rebus CHLNP 8 ante genera add . et CFS ; et
species et genera R 11 post pr . simili- tudo add .
colligitur N , scil, colligitur s. l. Hm2Sm2 cognita
Cm1F cognita uel cogitata N 12 ueraciter Lm2N
perfecta Em1NP sit FN 13 in om. C 14
earum] Pp.c. (corr. m1?) eorum cett . 17 substantiarum
R 18 collecta cogitatio Cm1LP 22 autem] tamen R
23 eadem Em1Gm1Ha.c . eidem Gm2Lm1 fin eodem m2 )
PR e * dem (sic) S in ante subiecto s. l.,
post eodem er. uid. C, om. EGLPRS 24 sint om. L concaua
Cm2N cauata Lm1 res cum diuersis definitionibus
terminentur diuersusque earum intellectus sit, semper tamen in eodem subiecto
reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. ita quoque generibus et
speciebus, id est singularitati et uniuersalitati, unum quidem subiectum
est, sed alio modo uniuersale est, cum cogitatur, alio singulare, cum sentitur
in rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis, ut
arbitror, quaestio dissoluta est. ipsa enim genera et species subsistunt quidem
alio modo, intelleguntur uero alio, et sunt incorporalia, sed
sensibilibus iuncta subsistunt in sensibilibus, intelleguntur uero ut per semet
ipsa subsistentia ac non in aliis esse suum habentia, sed Plato genera et
species ceteraque non modo intellegi uniuersalia, uerum etiam esse atque
praeter corpora subsistere putat, Aristoteles uero intellegi quidem
incorporalia atque universalia, sed subsistere in sensibilibus putat;
quorum diiudicare sententias aptum esse non duxi, altioris enim est
philosophiae, idcirco uero studiosius Aristotelis sententiam executi sumus, non
quod eam maxime probaremus, sed quod hic liber ad Praedicamenta conscriptus
est, quorum Aristoteles est auctor. Illud uero quemadmodum de
his ac de propo- sitis probabiliter antiqui tractauerunt et horum ma- xime
Peripatetici, tibi nunc temptabo monstrare. Praetermissis his
quaestionibus quas altiores esse praedixit, 21—23] Porph. p. 1, 14—16
(Boeth. p. 25, 14—16). 1 earum] HPp.c.(corr. m1?)
eorum cett . 3 enim om. LP quippe P, s. l. Lm2 concaua
Cm2N eadcmque FLRS 6 post singulare add .
est R, s. l. Sm2 9 post , alio] alio modo LR
10 post uero s. l . praeter corpora Pm2 11
subsistentia in ras. E substantia GSm1 13
ante esse s. l . ea E praeter s. l. Cm2
15 ante sensibilibus add . ipsis G 16 dixi
Lp.c.Sa.c . 17 uero s. l. Cm2 20 auctor est CLP
est om. G 21 ante lemma ISTORIA add. S, sic
( uel HIST-) ante omnia paene lemmata uero] autem Σ
post, de om. E 22 pro- babiliter] λογιχώτίρον
Porph. p. 1, 15 tractauerint Cp c . GH X m1 23
monstrare (demonstrare N ) temptabo FLN 24 ante
Praetermissis add . EXPOSITIO S, sic paene ubique ante explicat,
lemmatum Missis Sm1 exoptat mediocrem introductorii
operis tractatum, sed ne haec ipsa sibi harum quaestionum omissio uitio
daretur, apposuit quemadmodum de propositis tractaturus est, ex quorumque hoc
opus auctoritate subnixus adgrediatur, ante denuntiat, cum mediocritatem quidem
tractatus promittit detracta obscuri- tatis difficultate, animum lectoris
inuitat, ut uero adquiescat ac sileat ad id quod dicturus est, peripateticorum
auctoritate confirmat, atque ideo ait de his, id est de generibus et spe-
ciebus, de quibus superiores intulerat quaestiones, ac de pro- positis, id est
de differentiis, propriis atque accidentibus, sese probabiliter
disputaturum, probabiliter autem ait ‘ueri similiter’, quod Graeci
λογικώς uel Ινδόξως dicunt, saepe enim et apud
Aristotelem λογικώς ‘ueri similiter’ ac ‘probabiliter’ dictum
inuenimus et apud BOEZIO et apud Alexandrum. Porphyrius quoque ipse in multis
hac significatione hoc usus est uerbo, quod nos scilicet in translatione,
quod ait λογικώς , ita interpretari ut ‘rationabiliter’ diceremus
omisimus, longe enim melior ac uerior significatio ea uisa est, ut pro-
babiliter sese dicere promitteret, id est non praeter opini- onem ingredientium
atque lectorum, quod introductionis est proprium, nam cum ab imperitorum
hominum mentibus doctrinae secretum altioris abhorreat, talis esse introductio
debet, p. 57 ut praeter opinionem ingredijentium non sit. atque
ideo melius 1 haec om. S 2 harum que LS
horumque Gm1 quaestionum] insti- tutionum Gm1Lm1RS
omissi Em1 omisso Lm1Sm1 amissio F 3 est s. l.
Em2 , esset Gm1 ex] et FHN , s. l. (om . ex)
Em2 quo- rum FHN 4 subnisus EGm1Sm1
aggreditur EGLPRS 8 et] ac R 10 de] R, om. cett .
11 post ait add . id est C 12 λογιχώς
uel ένδόξως ] edd., ante λογιχώς add .
uel CGLPR ; ΛΟΓ ΙΚΟΟ uel ΛΩΓΙ- ΚΩΟ
uel alia sim. codd .; ΕΝ ΔΩ ΧΟΝ C, sim. Η endo ΧΩ Ο E
ΕΝ ΑΟΓΩ Ο S, alia uarie cett . 13 et om. GR est S
λογιχώς ] S , in cett. eadem fere quae 12
14 Boethum] b boetum p boethon Em2GNS
(recte?) boeton CEm1PR boethion F
bethon H boetoton Lm1 boeten m2 Boethum
(-tium m)rm 16 uerbo usus est CEGLRS 17 λογιχώς
] item ut 13, λογικώτερον edd . 19 se
L *mitteret, s. l . pro Cm2 23 ingredientium
opinionem C non ante praeter CEG (corr.
m2) L atque ideo] ergo Gm1 (atque ita m2 )
LPm1RS melius probabiliter quam om. R, s. l. Gm2Sm2
probabiliter quam rationabiliter, ut nobis uidetur, interpretati sumus,
antiquos autem ait de eisdem disputasse rebus, sed se eorum illum maxime
tractatum insequi quem Peri- patetici Aristotele duce reliquerint, ut tota
disputatio ad Praedicamenta conneniat. 2 eisdem]
E (eis in ras .) hisdem cett . disputasse post
rebus C , ante de eisdem L , disputare N 3
se post illum add . brm , post sed
Brandt sequi CEm2HN 4 reliquerint] Gm1HPp.r .
relinquerint FSm1P a.r . relinquerent. R a. r.Sm2
reliquerunt CEGmSLNRp.r . EXPLICIT (CΟΜ- MENTARIORV add . C ,
COMENTORVM add. F , COMTV PLOLOGI, sic, add . S) LIB. I. INCIPIT
(LIB. add. F ) II.(INCIPIT. om. R ) CEFGPRS ( uariis cum
scripturis compendiisque), subscriptio deest in HLN Quaeri in
expositionum principiis solet, cur unum quodque ceteris in disputationis ordine
praeponatur, uelut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei,
differentiae, proprio accidentique praetulerit; de eo enim primitus
tractat, respondebimus itaque iure factum uideri; omne enim quod
uniuersale est, intra semet ipsum cetera concludit, ipsum uero non clauditur,
maioris itaque meriti est ac principalis naturae quod ita cetera cohercet, ut
ipsum naturae magnitudine nequeat ab aliis contineri, genus igitur et species
intra se positas habet et earum differentias propriaque, nihilo minus
etiam accidentia, atque ita de genere inchoandum fuit, quod cetera naturae suae
magnitudine cohercet et continet, praeterea illa semper priora putanda sunt
quae si auferat quis, cetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae
ceterorum substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et ceteris,
nam si animal auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est,
et rationale, quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum,
quod accidens, non manebit et 2 ante Quaeri codd. et p exhibent
idem lemma (sine inscript.) quod p. 171,10 habent, om. brm expositione
CGm1L expositionis S prin- cipii CGm1L 3
dispositionis N 5 praetulerat C tractat in ras .,
s. l . scil, conamur Em2 tractare Em1Sm1 6
respondemus F 8 clu- ditur (i ex e m2 )
S naturae] naturae suae F 10 igitur] itaque C
et om . CN 11 etiam minus HS 12 etiam om.
R etiam et C ita] idcirco CE (in ras.) HLm2NP
ideo F inchoandum fuit] erat incho- andum FHNP 13
ante cetera add . et L natura suae magnitudinis FHN
coerceat et contineat Lm2 14 priora] propria LS
aufert Ca.c . 19 ante proprium add . est P, s. l.
Lm2 post grammaticum add . esse FHP, s. l. Em2
post accidens add. est FP , ante N interemptum
genus cuncta consumit, si uero hominem esse constituas uel grammaticum uel
rationale uel risibile, animal quoque esse necesse est. siue enim homo est,
animal est, siue rationale, siue risibile, siue grammaticum, ab animalis
substantia non recedit, sublato igitur genere et cetera con- sumuntur, positis
ceteris sequitur genus; prior est igitur natura generis, posterior ceterorum,
iure est igitur in dispu- tatione praepositura. Sed quoniam generis nomen multa
significat hoc - est enim quod ait : Videtur autem neque genus neque
species simpliciter dici; ubi enim non est simplex dictio, illic multiplex
significatio est —, prius huius nominis significationes discernit ac separat,
ut de qua significatione generis tractaturus est, sub oculis ponat, sed cum
neque genus neque species neque differentia nec proprium nec accidens
significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere inquam ac
specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque accidens ipsa
quoque sint significatione multiplici? dicen- dum est quoniam longitudinem
uitans tantum speciem nomi- nauit eamque idcirco, ne solum genus
significationis esse multi- plicis putaretur, enumerat autem primam quidem
generis signi- ficationem hoc modo; Genus enim dicitur et
aliquorum quodammodo se habentium ad unum aliquid et ad seinuicem
collectio, 10 s.] Porph. p. 1, 18 (Boeth. p. 26, 1). 23—p. 172. 5] Porph.
p. 1, 18—23 (Boeth. p. 26, 1—8). 1 esse om. P 2
post grammaticum add . esse FHP , s. l. Em2 3
esse post est Gm2L , om. EGmIRS, post esse add .
constituas EP , s. l. Lm2 alt . est] sit FHNP 5 et
om. FHNR consummantur S 9 enim est L 10
ante Videtur add . INCIPIT Δ DE GENERE ΓΔΛΠ2Φ
Incipit diffinicio generis Ψ m. post., om. cett . autem
om. HN 12 est significatio C 13 tractatus R 14
est] sit P oculos HN neque genus om. C
15 pr . nec FHP neque proprium neque N 16
simplicia G (a add. m1 uel 2) LSm2 ac] et C 17 non] nec
G 18 atque om. C 19 est om. G 20 solem Gm1
21 quidem om. C 24 ad] et ad S aliquod EN P
IIS aliquem in ras . Cm2 , fort . aliquid
m1 secundum quam significationem ROMANI dicitur genus ab unius
scilicet habitudine, dico autem ROMOLO, et multitudinis habentium aliquo modo
ad inuicem eam quae ab illo est cognationem secundum diuisionem ab aliis
generibus dictae. Una, inquit, generis significatio est quae in multitudinem
uenit a quolibet uno principium trahens, ad quem scilicet ita illa multitudo
coniuncta est, ut ad se inuicem per eiusdem unius principium copulata sit, ut
cum ROMANI dicitur genus; multitudo enim ROMANI ab uno ROMOLO uocabulum
trahens et ipsi ROMOLO et ad se inuicem quasi quadam nominis hereditate
coniuncta est. eadem enim quae a ROMOLO societas descendit, ROMANI inter se
omnes uno generis nomine deuincit et colligat, uidetur autem secuisse hanc
generis significationem in duas partes, cum copulatiuam coniunctionem
admiscuit dicens; genus dicitur et aliquorum quodam- modo se habentium ad unum
aliquid et ad se inuicem collectio, tamquam et illud genus dicatur ad unum se
aliquo modo habere et hoc rursus genus dicatur, quod ad se inuicem unius
generis significatione coniuncti sint. hoc uero minime; eadem enim a
quolibet uno propagata societas et ad illum qui princeps est generis, totam
multitudinem refert et ipsam 1 significationem] diffinitionem
Φ romanura Cm1G 2 scilicet om. Porph. p. 1, 20
3 ante inuicem add . se L (s. l. m2) brm
Busse; cf. p. 173, 12 4 eam quae] eamque CR 5 dictae]
Hm1Lm2R \ m2 W dictam cett.; cf. p. 173, 14 et Porph. p. 1, 23 (
τού πλήθοος_ ) κεκλιμένοι» 7 uno om. FGRS, s. l. Em2 ,
unum H; cf. 21 ad quem s. l . ał quod Lm2 8 est
coniuncta F 9 dicitur—Romanorum in mg. E, s. l. Gm2,
uerba multitudo enim Romanorum del. Lm2 11 post
trahens add . sit E (del.) G (del. m2), s. l. Lm2 12 ea
E (ras. ex eadem ) FHN ab CEH 14 colligit CFPm2RS
alligat L 16 genus om . H, s. l. N dicitur]
edd., om. H dici cett. (s. l. N) 17 ad] et ad S
aliquod N 18 collectionem FH aliquo modo om. EGRS
19 rursus post genus C rursum S dicatur—generis
om. GRSm1 dicatur unius generis s. l. m2 20 coniunctiua
EGR coniuncta Sm2 sint] NS sunt CFHLP
, om. EGR post minime add . est LPm2 22
refert—multitudinem om. EGSm1, s. l. m2 (sed praefert )
inter se multitudinem uno generis nomine conectit et continet. quocirca
non est putandus diuisionem fecisse, sed omne quic- quid in hac generis
significatione intellegendum fuit, aperuisse. ordo autem uerborum ita sese
habet — qui est hyperbaton intellegendus — genus enim dicitur et
aliquorum ad unum se aliquo modo habentium collectio et ad se inuicem aliquo
modo habentium — rursus collectio subaudienda; est enim zeugma —, cuius
significationis adiecit exemplum: secundum quam significationem Romanorum
dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et
multitudinis rursus habitudine habentium aliquo modo ad inuicem cognationem,
eam scilicet quae ab illo est, id est ROMOLO, secundum divisionem ab aliis
generibus dictae, scilicet multitudinis. haec enim multitudo aliquo modo
ad unum et ad se inuicem habens genus dicta est, ut ab aliis discerneretur, ut
ROMANI genus ab Atheniensium ceterorumque separatur, ut sit integer uerborum
ordo genus enim dicitur et aliquorum collectio ad unum se quodammodo habentium
et ad se inuicem, secundum quam significationem ROMANI dicitur genus ab
unius scilicet habitudine, dico autem ROMOLO, et multitudinis secundum
diuisionem ab aliis generibus dictae, habentium scilicet hominum aliquo modo ad
inuicem eam quae ab illo est, id est Romulo, cognatio- 1 nomine]
EGLRS uinculo CFHN nomine uel uinculo P 4 se FHNP
qui om. ER, s. l. Gm2Sm2 6 pr . sese L 7
ante collectio s. l . et ( ut uid .) C subaudiendo N
, post sub. add . est LR, ante s. l. Pm2 8 zeuma
EFGHPS 14 dictam EGm1Lm1PSm2 haec enim multitudo om
. ERS, s. l. Gm2 aliquo modo om . FP, ante add .
et C, post add . se P (del. m1?), s. l. Gm2H 15
post unum s. l . aliquid Gm2 post habens add .
cognationem Pm2 edd . 17 separetur Fa.c.N separaretur
CFp.c.HLm1 sit] sic H (sit post uerborum,)
P (sit post ordo,) sic sit F ; integer sit C ;
ordo uerborum, post repet . sit N 18 collectio om.
E 20 ab] ad F habitudinem F , post repetit uerba
post . aliquo— exemplum (6—8) G 22 dictam CEGm1Lm1Sm2
post habentium add . se Lm2P 23 id est om. S, in
quo post cognationem locus p. 172, 4—13 secundum—deuincit et
collegit (sic) repetitus (5 dicta est, 12 ea
script.) nem.’ Atque haec hactenus; nunc de secunda generis signi-
ficatione dicendum est. Dicitur autem et aliter rursus genus, quod
est unius cuiusque generationis principium uel ab eo qui genuit uel a loco in
quo quis genitus est. sic enim Orestem quidem dicimus a Tantalo habere
genus, Hyllum autem ab Hercule, et rursus Pindarum quidem Thebanum esse genere,
Platonem uero Atheniensem; etenim patria principium est unius cuiusque
generationis, quemadmodum et pater. haec autem uide- tur promptissima
esse significatio; ROMANI enim sunt qui ex genere descendunt ROMOLO, et
Cecropidae, qui a Cecrope, et horum proximi. Quattuor omnino sunt
principia quae unum quodque prin- cipaliter efficiunt. est enim una causa quae
effectiua dicitur, uelut pater filii, est alia quae materialis, uelut
lapides domus, tertia forma, uelut hominis rationabilitas, quarta, quam ob rem,
uelut pugnae uictoria. duae uero sunt quae per accidens unius 3—13]
Porph. p. 1, 23—2, 7 (Boeth. p. 26, 8—16). 4 generationis om
. A , in ras. C quae Gm1 ll m1 5 a loco] ab eo
loco CEGLRS; Porph. p. 2, 1 άπ6 τού τόποα
sic ex si Cm2 enim in ras. Cm2 6
oresthē C oresten LN ΣΝΑΣΦ horestem FH T
dicemus S genus habere F 7 Hyllum] Gm1 yllum
m2 illum ( ad quod s. l . tan- talum A m2 ) cett .
autem om. G 8 ante Thebanum add . dicimus
2 9 principium] Porph. p. 2,4 αρχή τις ; cf.
infra p. 178, 17 10 et] Ν Ψ (er. uid.) brm, s. l
. Δ , om. cett. Busse; Porph. p. 2, 5 καί
om. codd. quidam (habet M) ; cf. p. 176, 1 11 esse om.
H sunt om. EFG- ΗΝS ΑΑΣ , s. l. Lm2 , in mg . U
m2 dicuntur edd.; Porph. p. 2, 6 λέγονται ; cf.
p. 176, 7 12 cecropides Σ 13 a Cecrope] cecropis Ea.c .
(a cecropis p.c .) G (cae- m1 ci- m2
) R ex genere descendunt cecropis LS ΑΑΣ , s. l.
Em2 ( om . cecropis), fort. ex p. 176, 8 ; Porph. Κ εκροπίδαι
ol άπό Κέκροπος eorum HL A , in ras . 2 14
efficiunt principaliter H 16 filii] et filius Em1FGLPRS
post materialis add . dicitur FPR 17 ante
forma add . a R, s. l. Sm2, ras. in E uelut *
(i er .) C quam] NS, om. R , quae cett., fort.
recte ob rem s. l. Rm2 18 pugnae uictoria] N
pugna uictoriae cett . duo CNP accidentes
Ea.c.GHm1 ( in mg . ał accidentialiter m2 ) Lm1RSm2
accidentis m1 cuiusque dicuntur esse principia, locus scilicet ac
tempus. quoniam enim omne quod nascitur uel fit, in loco ac tempore est,
quicquid loco uel tempore natum factumue fuerit, eum locum uel id tempus
accidenter dicitur habere principium. horum omnium in hac secunda generis
significatione duo quae- dam ex alterutris assumit, quae ad significationem
generis uidebuntur accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectiuum,
ex his uero quae accidentia, locum. ait enim genus dicitur et a quo quis
genitus est, quod est effectiua principalium causa, et in quo quis loco est
procreatus, quae est accidens causa principii. itaque haec secunda significatio
duo continet, eum a quo quis procreatus est, et locum in quo quis editus, ut
exempla quoque demonstrant. Orestem enim dicimus a Tantalo genus ducere;
Tantalus quippe Pelopem, Pelops Atreum, Atreus Agamemnonem, Agamemnon
genuit Orestem. itaque a procreatione genus hoc dictum est. at uero Pindarum
dicimus esse Thebanum, scilicet quoniam Thebis editus tale generis nomen accepit.
sed quoniam diuersum est illud, a quo quis procreatus est, locusque in quo quis
editus, uidetur diuersa esse generis significatio procreantis et loci,
quam in secunda scilicet parte enumerans unam fecit. sed ne uideretur duplex,
per similitudinem coniunxit dicens: etenim patria principium est unius cuiusque
generationis, 2 uel in ras. E et C 3
quicquid ex quo quid Cm2, ante add . et F, post add .
enim L 4 accidentaliter CLN accidentialiter
EGPSm2; cf. indicem Meiseri 5 ex alterutris duo quaedam FP 6
consumit S sunt Cm1H sumit Cm2, s. l.N generis significationem H 7
uidebantur LPRS uideantur EG accommodata R
post quidem add . causis codd., om. unus F, del. Hm2 8
ante effectiuum add . sumit H accidentalia
N 9 dici CFNP et om. C, s. l. Lm2 quisque
CGRS 10 loco procreatus est L procreatus est loco
N quod GKS 13 editus] editus est FHNP post
quoque add . ipsa FHP, s. l. Lm2 oresten LN ,
item 16 14 pelopen E 15 agamemnonen EG (-men) 17
quoniam] quia FHN ante Thebis s. l. a Hm2? 18 editus]
editus est CL accipit C est om. G 19
pr. quisque R editus] editus est NP (est s.
l. m2 ) 22 post uideretur add . tamen EP, s. l.
Lm2 adiunxit FN 23 patria s. l. Cm2, in mg. F
generati Em1 generis RSm1 quemadmodum et pater.
sed quoniam in significationibus euenit fere, ut sit aliquid quod intellectui significatae
rei propinquius esse uideatur, quoniam duas generis apposuit significationes,
multitudinis scilicet et procreantis, cui generis nomen conuenientius aptetur,
iudicat atque discernit dicens hanc esse promptissimam generis
significationem quae a procreante deducta sit; hi enim maxime Cecropidae sunt
qui a Cecrope descendunt, hi ROMANI, qui a ROMOLO quae cum ita sint, confundi
rursus generis significationes uidentur. si enim hi sunt maxime Romani qui a
Romulo originem trahunt, et haec significatio illa est quae a procreante
deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque enumerauit, quae est multitudinis
ad unum et ad se inuicem quodammodo se habentium collectio? sed acutius
intuentibus plurimae admodum diffe- rentiae sunt. aliud est enim a quolibet
primo procreante genus ducere, aliud unum genus esse plurimorum. illud
enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest et non in multa diffundi, ut
si per unicos familia descendat, huic enim aptabitur secunda illa generis
significatio, quae a procreante deducitur; prima uero illa non nisi in
multitudine consistit. illud quoque est, quod prima procreationis
principium non requirit, sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo se habere ad id
unde huiusmodi generis principium sumitur, secunda uero significatio nullam uim
nisi procreante sortitur. item in illa primae significationis multitudine huius
secundae particularitas continetur, ut in 2 fere] saepe C (ante
euenit ) LNPm2S intellectu G signi- ficandae FRSm2
propinquis F propinquus Gm1PR propinquum N
3 quoniamque Em2HLm2P, post quoniam add . qui Sm1, del.
m2 4 generi EGH (s er .) 6 esse om. G 7
ducta R cecropides R 8 Cecrope] cecropede
FR (-ide) post Romulo add . descendunt N 9
significationes generis C 11 ducitur Lm1 15 est
s. l. F, post enim CL enim om. N aliquolibet ( om
. a) G 16 deducere CLm1 et om. N 18
si s. l. Lm2, del. Sm2 per—descendat] puer unicus familiam
distendat Cm1FHN aptatur N 21 est] est intellegendum
C primae Hm2 24 <a> procreante Engelbrecht
prima EGHLm1RS Romanorum genere Scipiadarum genus; nam cum
sint ROMANI, Scipiadae sunt. quoniam enim ad ROMOLO et ad ceteros ROMANI secundum
ROMOLO habitudinem iuncti sunt, ROMANI sunt, SCIPIADAE uero dicuntur ad
secundam generis significa- tionem, quia eorum familiae SCIPIONE et
sanguinis principium fuit. Et prius quidem appellatum est genus
unius cuius- que generationis principium, dehinc etiam multitudo eorum qui sunt
ab uno principio, ut a ROMOLO; namque diuidentes et ab aliis separantes
dicebamus omnem illam collectionem esse ROMANI genus. Sensus facilis et
expeditus, si tamen ambiguitas una solvatur. cum enim prius multitudinis significationem
retulerit ad generis nomen, post autem ad procreationis initium, nunc
contrario modo illam prius a se enumeratam significationem dicere uidetur quae
est procreationis, illam uero posteriorem quae est multitudinis; quod
contrarium uideri potest, si quis ad ordinem superius digestae disputationis
aspexerit. sed hic non de se loquitur, sed de humani consuetudine sermonis,
in quo prius eam significationem generis fuisse dicit quae a procreante
sit tracta, accedente uero aetate loquendi usu nomen generis etiam ad
multitudinem habentem se quodam- modo ad aliquem fuisse translatum, hoc uero
idcirco, quoniam 7—11] Porph. p. 2, 7—10 (Boeth. p. 26, 16—19).
1 nam] natura CFL 2 scipiades HNP ante pr.
ad add . et FHNP , s. l. Em2Lm2 post, ad om. L 4
scipiades N 5 quia] quod E et om. NP, s. l.
Cm2 8 generationis in ras. Cm2 generis PR 9 nam-
que ( sic etiam B Bussii )] om . ΛΦ , add. Hm2 \ m2
nam 2 quam edd. Busse; Porph. p. 2, 8 το
πλήθ-ος—δ 10 post aliis add . generibus F ,
s. l. Lm2 11 collationem Λ collectionem post
esse HP ; romanorum esse collectionem F 12 post
facilis s. l . est Lm2Pm2 facile ( om . et) FN
expeditur FNPa.c . 13 retulerat F retulit R
14 post , ad om. FHNR, s. l. Sm2 post nunc s. l .
autem Lm2 15 prius] posterius CLm2NP numeratam
N 16 post uidetur add . priorem CGLNP 18
perspexerit C 21 loquendique CN et (s. l.
m1?) loquendi H 23 ante hoc s. l .
dicit Lm1?, post idcirco in mg . dixit Pm2
superius dixerat : haec enim uidetur promptissima esse significatio, ut
ab hac, id est secunda, quam promptissimam significationem esse dixit, illa
quoque nuncupata uideretur, quae est multitudinis. prius enim genus inter
homines appellatum est quod quis a generante deduceret, post autem factum
est, ut per loquendi usum etiam multitudinis ad aliquem quodammo|do se
habentis genus diceretur propter diuisionem scilicet gentium, ut esset inter
eas nominis societatisque discretio. His igitur expletis uenit ad tertium
genus quod inter FILOSOFI tractatur cuiusque ad dialecticam facultatem
multus usus est. horum quippe generum historia magis uel poesis tractat
exordium, tertium uero genus apud philosophos consideratur. de quo hoc modo
loquitur. Aliter autem rursus genus dicitur cui supponitur species, ad horum
fortasse similitudinem dictum. et- enim principium quoddam est huiusmodi
genus earum quae sub ipso sunt specierum, uidetur etiam multitudinem continere
omnem quae sub eo est. Duplicem significationem generis supra posuit, nunc
tertiam monstrare contendit, hanc autem ad superiorum similitudinem 1
superius] p. 174, 10. 14—18] Porph. p. 2, 10—13 (Boeth. p. 26, 19—23).
1 enim] autem p. 174 , 10 2 secundum GR a (s.
l.) secunda E 5 quis Cm2 prius m1 7
duceretur Cm1 diuisiones EFHLm2NP 8 esset] est
(s. l.) et E has FH 9 expeditis N
ad om. F 10 cuius CF multus post usus
Lm1R , multum G 11 poesi Cm1 13 hoc] 2 litt. er.
C 14 genus ante rursus Λ , post
dicitur Φ cui—genus (16) om. N, quod indicatur uoce
usque addita (dicitur usque earum); sic ( saepe
etiam usque ad) paene constanter in N aliisque codd. ubi mediae
lemmatum partes omissae sunt 15 ab.. similitudine GL \ m2 \Z
16 eorum A m2 A earum—specierum] Porph. p. 2, 12
τών δφ’ lauto 17 ipso om . h m1 se m2Lp.c.
\HA> sunt add. Gm2 \ m2 uideturque brm Busse; Porph
. xai SoxeT xai etiam] enim F autem Δ 18
omnem] 2 ( h m1 ß m1 ) omnium CEGLPRS h m2 U m2
earum FHN, s. l. post omnium Lm2 sub eo est] PA m1 AU
m1 ST est Φ sub eo (ipso F \ m2 se Lm2 )
sunt (est E, s. l. G ) specierum EFGHLNPp.c . (sunt eo sub
a.c .) RS \ m2 U m2 sunt sub eo specierum C; cf. Porph. p.
2,12 s . 19 pro- posuit edd . 20 superiorem FLm1Pm1
dictam esse arbitratur. superius autem dictae significationes sunt una
quidem, cum nomen generis quadam principii anti- quitate ad se iunctam
multitudinem contineret, alia uero, cum genus ab uno quoque procreante
duceretur, quod eorum quae procreantur principium est. cum igitur sint
superius duae generis propositae significationes, tertium nunc addit de quo
inter philosophos sermo est, illud scilicet cui supponitur species, quod
idcirco genus uocatum esse sub opinionis credit ambiguo, quoniam habet aliquam
similitudinem superiorum. nam sicut illud genus quod ad multitudinem dicitur,
uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam genus plurimas species cohercet
et continet. item ut genus illud quod secundum procreationem dicitur,
principium quoddam est eorum quae ab ipso procreantur, ita genus speciebus suis
est principium. ergo quoniam utrisque est simile, idcirco nomen quoque generis
etiam in hac significatione a superioribus mutuatum esse ueri simile est.
Tripliciter igitur cum genus dicatur, de tertio apud philosophos sermo
est; quod etiam describentes adsi- 18—p. 180, 3] Porph. p. 2, 14—17
(Boeth. p. 26, 24—27, 2). 1 dictam esse arbitratur] ut dictum
est GRS autem om. C, s. l. Lm2, del. Pm2 dictae]
duae Lm1, ante sunt s. l . dictae m2 , duae
ex dictae H (ras.) Sm2, ante dictae s. l. Pm2,
ante sunt edd., post R 2 quidem om. C cum
in mg. Cm2 quae m1N quadam om. EFG quandam
H qua RSm1 antiquitatem H 3 ad se iunctam]
CLm2 ad se et adiunctam HN ad se iniunctam Sm1 ab
uno quoque iniunctam R adiunctam cett.; cf. p. 177, 2
continet Cm1 (corr. in mg. m2) Nm2 aliam G 4 deduceretur
E 5 qui P 6 tertiam et qua F 7
post scilicet add . genus F, s. l. Sm2 8
ante opinionis add . suae N, post CHLP, s. l. Em1?, in mg.
Sm2 se m1 9 creditur Ca.r.FR 10 a
multitudine Ep.c.FHN 11 suo] sub C (nomine sub
uno) FHNPm2 , ex suo EL ita in mg. Cm2, s. l.
Nm2 13 est] esse EGLm2RS 14 post suis add .
constat FHN, post genus s. l. Em2 est] CLm1P
esse cett . 15 idcirco] id C nomen post
generis FHNP, post quoque L 16 in hac etiam
FHN hanc significationem CP 18 cum genus—sit (p. 180,
2) om. N dicitur S A m1 /AS 19 etiam] etiam et R
gnauerunt genus esse dicentes quod de pluribus et differentibus specie in
eo quod quid sit praedicatur, ut animal. Iure tertium genus philosophi ad
disputationem sumunt; hoc enim solum est quod substantiam monstrat, cetera
uero aut unde quid existat aut quemadmodum a ceteris hominibus in unam
quasi populi formam diuidatur ostendunt. nam illud quod multitudinem continet
genus, illius multitudinis quam continet substantiam non demonstrat, sed tantum
uno nomine collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segregetur.
item illud quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae
substantiam monstrat, sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. at
uero genus id cui supponitur species, ad speciem accommodatum speciei
substantiam informat. et quia inter philosophos haec maxima est quaestio,
quid unum quodque sit — tunc enim unum quodque scire uidemur, quando quid sit
agnoscimus —, id circo reiectis ceteris de hoc genere quam maxime apud
philosophos sermo est, quod etiam describentes adsignauerunt ea descrip- tione
quam subter annexuit. diligenter uero ait describentes, non definientes;
definitio enim fit ex genere, genus autem aliud genus habere non poterit. idque
obscurius est quam ut primo aditu dictum pateat. fieri autem potest ut res
quae 1 esse ante genus Pm1, post dicentes
Σ et om. F 2 differentiis R quid]
iterum quod P praedicetur Γ 3 ut animal om
. ΑΣ 5 est solum enim CN enim est solum FP
6 existit E (it in ras .) GLPS existet
Sm1 extitit HN <multitudo> a Brandt 7
una... forma EGRS diuidantur G ostendit
EGLPm1S 8 multitudinis] multi- tudinem G 12 procreantis
Nm1 13 atque G 14 ad speciem om. N ad
differentiam Cm2FLm1Pm2 edd . 15 quaestio est FHN 16
unum om. EGRS enim] etenim FN quodque unum
G 17 uidemur] debemus E (in ras.) GPm1RS, post uidemur
add . uel debemus Hm1 del. m2 post reiectis add .
quia non demonstrant substantiam L temptatis temporum Sm1,
del. m2 19 post quod add . genus EPm1, del.
m2 20 ait ex aut Em1 addit m2NP
addidit F 21 ex] de H 23 dictum om. FH
dictu GLS autem] enim FNP alii genus sit, alii
generi supponatur, non quasi genus, sed tamquam species sub alio collocata.
unde non in eo quod genus est, supponi alicui potest, sed cum supponitur, ilico
species fit. quae cum ita sint, ostenditur genus ipsum in eo quod genus
est, genus habere non posse. si igitur uoluisset genus definitione concludere,
nullo modo potuisset; genus enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet,
atque idcirco descriptionem ait esse factam, non definitionem. descriptio uero
est, ut in priore uolumine dictum est, ex proprietatibus infor- matio
quaedam rei et tamquam coloribus quibusdam depictio, cum enim plu|ra in unum
conuenerint, ita ut omnia simul rei cui applicantur aequentur, nisi ex
genere uel differentiis haec collectio fiat, descriptio nuncupatur. est igitur
descriptio generis haec : genus est quod de pluribus et differen- tibus
specie in eo quod quid sit praedicatur. tria haec requiruntur in genere, ut de
pluribus praedicetur, ut de specie differentibus, ut in eo quod quid sit. de
qua re quoniam ipse posterius latius disputat, nos breuiter huius rei
intellegentiam significemus exemplo. sit enim nobis in forma generis
animal. id de aliquibus sine dubio praedicatur, homine scilicet, equo,
boue et ceteris. sed haec plura sunt. animal igitur de pluribus praedicatur,
homo uero, equus atque bos talia sunt, ut a se discrepent, nec qualibet
mediocri re, sed tota specie, id est tota forma suae substantiae. de quibus
dicitur animal; homo enim et equus et bos animalia nuncupantur. praedicatur
ergo animal de pluribus specie differentibus. sed quonam modo fit 9 in
priore uolumine] cf. p. 42, 8—43, 6 potius quam p. 153, 10 ss.; cf. Proleg.
adn. 7. 1 genere G post supponatur add . sed cum
(alii add. P ) subponi- tur ( uel sup-) CFHN, s. l. Pm2
non—potest (3) del. E 2 col- locatur CFHNPm2 non]
enim EF 7 ei (eius HN ) aliud quod HNPm1RS
possit EGS 9 priori LN ex om. GHS, s. l.
Em2Lm2 11 plurima L plura post unum C
16 post . ut om. FG 18 late E (in ras.) FHP, ecte ? 19
exemplo] hoc modo CLP 20 prae- dicetur CEGPm1RS ante
equo add . et FHLN, er. P 21 boue] et boue L
et er. uid. C 22 a] ad Lm1S 23 mediocri re] medio-
critate H 24 forma tota E (del. tota) G 26 fit om.
G haec praedicatio? non enim quicquid interrogaueris, mox animal
respondetur: non enim si quantus sit homo interrogaueris, animal respondebitur,
ut opinor; hoc enim ad quantitatem pertinet, non ad substantiam. item si qualis
interroges, ne huic quidem responsio conuenit animalis, ceterisque omnibus
interrogationibus hanc animalis responsionem ineptam atque inutilem semper esse
reperies, nisi ei tantum apta est quae quid sit interroget. interrogantibus
enim nobis quid sit homo, quid sit equus, quid sit bos, animalia respondebitur.
ita nomen animalis ad interrogationem quid sit de homine, equo atque boue
ac de ceteris praedicatur, unde fit ut animal praedicetur de pluribus specie
differentibus in eo quod quid sit. et quoniam generis haec definitio est,
animal hominis, equi, bouis genus esse necesse est. omne autem genus aliud est
quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud quod alterius prae-
dicatione. sua enim proprietas ipsum esse constituit, ad alterum relatio genus
facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras, dicam substantiam esse
animatam atque sensibilem. haec igitur definitio rem monstrat per se sicut est,
non tamquam referatur ad aliud. at uero cum dicimus animal genus esse,
non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus, sed de ea relatione qua potest
animal ad ceterorum quae sibi subiecta 2 non] num FHN
rogaueris Cm1GS 3 ante animal add . mox F
respondetur F ut] non FHN 4 post
qualis add . sit FHNP, s. l. Em2, s. l . homo sit Lm2
interroges] Em1Lm1P roges cett . nec CG
haec CSm2 id m1 hic FN 5
interrogantibus EG 6 ineptam] CFHNPp.c.Lm2
idiotam E (s. l. i . inertem m2) GLm1 (s. l. inpro-
priam m1?) Pa.c.S Hilgard idiotam uel ineptam R
idiotae Engelbrecht 7 nisi] ni C 8 interrogat
Em2HN enim] autem F post . quid] quidque R 9 sit
om. E animal C item EGLm1PRS 11 ac] et
R 13 ante bouis add . atque FHNP 14 genus
autem C 15 ante alterius add . ad CEm2HN
praedicationem Em1PSm1 edd., post add . refertur Pm2 edd . 18
dicas Lm2 21 esse om. EGRS, s. l. Lm2 re om. EGR,
s. l. Sm2 post hoc add . nomen C, s. l . Em2Pm2, ante
FHNS de del. L, s. l. Pm2 22 relatione in ras .
E ratione GLPm1R sunt praedicationem referri. itaque
character est quidam ac forma generis in eo quod referri praedicatione ad eas
res potest, quae cum sint plures et specie differentes, in earum tamen
substantia praedicatur. Huius autem definitionis rationem per exempla subiecit
dicens: Eorum enim quae praedicantur, alia quidem de uno dicuntur solo,
sicut indiuidua ut Socrates et hic et hoc, alia uero de pluribus, quemadmodum
genera et species et differentiae et propria et accidentia com- muniter,
sed non proprie alicui. est autem genus qui- dem ut animal, species uero ut
homo, differentia autem ut rationale, proprium ut risibile, accidens ut album,
nigrum, sedere. Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit Porphyrius
diuisionem idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis seiungat ac
separet, hoc modo. omnium, inquit, quae praedicantur, alia de singularitate,
alia de pluralitate dicuntur. 7—14] Porph. p. 2, 17—22 (Boeth. p. 27,
2—7). 1 post itaque add . ut P, s. l. Lm2
est om. R, post generis F quiddam Ea.r.G
quidem CNPm1 2 praedicatione post res C 3
eo- rum CGNS, m1 in ELP 4 tantum E substantiam NR
, -a ex -a CS; cf. p. 187, 11. 18 5 autem om. C,
in mg. Lm2 8 indiuiduum C indibus ( s. l . indiuidua
Em2 ) diabus (a, ex e E ) EG ut Socrates—
hoc om. CLNP ,—risibile (13) om. E (in mg . sicut socrates et hic
et hoc) GH ut] sicut Em2 (in mg.) RS ΑΣ et hic et hec
et hoc F 9 uero om. CFLNPR autem Σ
quemadmodum—risibile (13) om. CL ( sed uerba est autem
11 —sedere 14 exhibet p. 184 , 14) NP ut genera, om. reliqua
usque accidens (13) F 10 differentia Sm1
m1 pro- prium Γ 11 sed] et ΛΣ
proprie] L (p. 184, 14) R Ψ propria ΓΑΑΠ ( ras.
ex -ae) 2 (a in ras .) Φ ( post
alicui); Porph. p. 2, 20 ιδίως est— risibile om.
R est—sedere (14) om. S 12 uero s. l . Δ m2 Φ
m2 13 ante accidens add . ut CL ut] id
est CLm2P uel E et R; Porph. 2,22
otov 14 ante nigrum add. et R
16 a LPS 17 post separet add . et (F) id
facit FHN, s. l. Em2 18 pr . alia] alia quidem
FHN alia de singularitate om. G, s. l. Em2, post
pluralitate CLm1 post . alia] alia uero FHNS dicuntur]
praedicantur post singularitate FHN de singularitate
uero, inquit, praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo
dici possint, ut ea quibus singula subiecta sunt indiuidua, ut Socrates, Plato,
ut hoc album quod in hac proposita niue est, ut hoc scamnum in quo nunc
sedemus, non omne scamnum – hoc enim uniuersale est —, sed hoc quod nunc
suppositum est, nec album quod in niue est — uniuersale est enim album et nix
—, sed hoc album quod in hac niue nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de
quolibet alio albo PREDICARE quod in hac niue est, quia ad singularitatem
deductum est atque ad indiuiduam formam constrictum est indiuidui
participatione. alia uero sunt quae de pluribus PREDICARE, ut genera, species,
differentiae et propria et accidentia communiter, sed non proprie alicui. genera
quidem de pluribus praedi- cantur speciebus suis, species uero de pluribus
praedicantur indiuiduis; homo enim, quod est animalis species, plures sub
se homines habet de quibus appellari possit. item equus, qui sub animali est
loco speciei, plurimos habet indiuiduos equos de quibus praedicetur.
differentia uero ipsa quoque de pluri- bus speciebus dici potest, ut rationale
de homine ac de deo corporibusque caelestibus, quae, sicut Platoni
placet, animata sunt et ratione uigentia. proprium item etsi de una specie PREDICARE,
de multis tamen indiuiduis dicitur, quae sub conuenienti specie collocantur, ut
risibile de Platone, Socrate et ceteris indiuiduis quae homini supponuntur.
accidens etiam 1 uero om. FHN 2 possunt CLm1
3 ante Plato add . ut FH, s. l. Lm2 et N edd . 4
quod] ut F ut] et N 6 sed] sed et F 7
niui Gm2Sm1 enim est FL 8 niui Sm1, item 9 9 hac]
alia EFGR (a.c.ut uid. ac p.c.) Sm1 10 post ,
ad om. GHLR, s. l. Em2Nm2 , in FSm2 14 propriae
FGa.c.Sm1 propria CHLN post alicui uerba lemmatis p.
183, 11—14 est autem—sedere add. L 15 plurimis FN
16 post indiuiduis add . suis CFHP 17 qui]
quod FHN 19 praedicatur FHN 20 potest dici
E 21 quae om. R, s. l. Sm2 q. er. N 22 item]
autem Lm2P specie om. C 23 tamen ante
de H 25 post indiuiduis add . dicitur CLP,
s. l. Hm2 hominibus EG homini * ( b. ? er.)
L supponantur Em1GS supponuntur ante homini
C de multis dicitur; album enim et nigrum de multis omnino dici
potest quae a se genere specieque seiuncta sunt. sedere etiam de multis
dicitur; homo enim sedet, simia sedet, aues quoque, quorum species longe
diuersae sunt. accidens autem quoniam communiter accidens esse potest et
proprie alicui, idcirco determinauit dicens et accidentia communiter, sed non
proprie alicui. quae enim proprie alicui accidunt, indiuidua fiunt et de uno
tantum valentia PREDICARE, ea quae communiter accipiuntur, de pluribus dici
queunt. ut enim de niue dictum est, illud album quod in hac subiecta niue
est, non est communiter accidens, sed proprie huic niui quae oculis
ostensionique subiecta est. itaque ex eo quod commu- niter praedicari poterat —
de multis enim album dici potest, ut albus homo, albus equus, alba nix —,
factum est, ut de una tantum niue PREDICARE illud album possit cuius
partici- patione ipsum quoque factum est singulare. omnino autem omnia genera
uel species uel differentiae uel propria uel acci- dentia, si per semet ipsa
speculemur in eo quod genera uel species uel differentiae uel propria uel
accidentia sunt, manifestum est quoniam de pluribus PREDICARE. at si ea in his
speculemur in quibus sunt, ut secundum subiecta eorum formam et substantiam
metiamur, euenit ut ex pluralitate praedicationis ad singularitatem uideantur
adduci. animal enim, 3 enim om. C et (s. l. m2)
enim L sedit CN simia] post sedet
FH et simia R aues] auis N set et aues
F sedet auis H 4 quo- que om. FN , uero L
quarum Lm1 post sunt s. l . sedent Pm2 scil,
sedent Sm2 5 ante communiter add . et FHN,
s. l. Em2Pm2 7 propria HN pr . alicui om. GLR quae
s. l. Sm2 cum E (s. l. m2)FH enim proprie s. l.
Em2Sm2 propria N accidunt ali- cui E 8 ea quae] et
quae E ea quidem quae N eademque cum P et
cum F cum H 9 queunt om. Em1G, s. l. Sm2
possunt E m2 Pm1 (potest m2 ) R 10 niui
Sm1 niue est subiecta HL niui Sm1 nunc
G 12 ostensione GRS ita * (q. er .) C
ita quoque Sm2, ad itaque s. l . quoque Hm2 15
niui GSm1 17 differentias CE (s in er . e?)
GL 20 quoniam] quod G 21 ut] et FN subiectam CEGH
a.r.Lm1PSm2 22 substantiamque ( om . et) FHNP metiantur
E mentiamur Ca.r.Sa.c . eueniet HN pluritate
Gm1P quod genus est, de pluribus praedicatur, sed cum hoc animal in
Socrate consideramus — Socrates enim animal est —, ipsum animal fit indiuiduum,
quoniam Socrates est indiuiduus ac singularis. item homo de pluribus quidem
hominibus praedi- catur, sed si illam humanitatem quae in Socrate est
indiuiduo consideremus, fit indiuidua, quoniam Socrates ipse indiuiduus
est ac singularis. item differentia ut rationale de pluribus dici potest, sed
in Socrate indiuidua est. risibile etiam cum de pluribus hominibus praedicetur,
in Socrate fit unicum. communiter quoque accidens, ut album, cum de
pluribus dici possit, in uno quoque singulari perspectum indiuiduum est.
Fieri autem potuit commodior diuisio hoc modo. eorum quae dicuntur, alia quidem
ad singularitatem praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum uero quae de
pluribus PREDICARE, alia secundum substantiam PREDICARE, alia secundum
accidens. eorum quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod quid
sit dicuntur, alia in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus ac
species, in eo quod quale sit, differentia. item eorum quae in eo quod quid sit
PREDICARE, alia de speciebus PREDICARE pluribus, alia minime; de
speciebus pluribus praedicantur genera, de nullis uero species. eorum autem
quae secundum accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus
praedicantur, ut accidentia, 1 plurimis R 5 si s. l.
Lm2Sm2 quae et est om. F est— indiuidua in
mg. Cm2 7 est post singularis E 9 hominibus
om. FN praedicatur CEGL (ante hominibus) Pm1RS dici possit
N in Socrate om. ER unica Em1GS unicam Lm1
unita R 10 cum s. l. Em2Sm2 11 possit dici
E singulari] singulari corpore CFHN perspectum] CE (in ras.)
FH, m2 in LPS perspecta Lm1 a.c . (perfecta m1p.c .) R
perfectam Pm1Sm1 profecto ( alt . o in ras .) N
profecto perfecta G in- diuidua EGLm1RS 12
ante eorum add . ut GRS, del. EL 13 dicun- tur]
praedicantur Pm2 praedicantur] dicuntur L ( ex
dicantur m2 ) P 14 plurimis R praedicantur]
dicuntur N 17 pr . quod—differentia (19) in ras. Em2
post , in eo—differentia (19) om. GR 19 iterum FN 20
pluribus (plurimis H ) praedicantur FHN 21 post
speciebus add . quidem FHNP pluribus om. GRS, s. l.
Lm2, post praedicantur Em1Fm1 23 post pluribus
add . speciebus CFHN, s. l. Em2 alia quae de uno tantum, ut
propria. Posset autem fieri etiam huiusmodi diuisio. eorum quae PREDICARE, alia
de singulis PREDICARE, alia de pluribus. eorum quae de pluribus, alia in eo
quod quid sit, alia in eo quod quale sit praedicantur. eorum quae in eo
quod quid sit, alia de diffe- rentibus specie dicuntur, ut genera, alia minime,
ut species, eorum autem quae in eo quod quale sit de pluribus prae- dicantur,
alia quidem de differentibus specie PREDICARE, ut differentiae et accidentia,
alia de una tantum specie, ut propria. eorum uero quae de differentibus
specie in eo quod quale sit praedicantur, alia quidem in substantia PREDICARE,
ut differentiae, alia in communiter euenientibus, ut accidentia. et per hanc divisionem
quinque harum rerum definitiones colligi possunt hoc modo. genus est quod | de
pluribus specie differen- p. 63 tibus in eo quod quid sit
praedicatur. species est quod de pluribus minime specie differentibus in eo
quod quid sit praedicatur. differentia est quod de pluribus specie
differentibus in eo quod quale sit in substantia PREDICARE. proprium est quod
de una tantum specie in eo quod quale sit non in sub- stantia
praedicatur. accidens est quod de pluribus specie differentibus in eo quod
quale sit non in substantia praedicatur. 1 quae om. FN
una C (s. l. add . specie ) FHN possit FRS potest
N 2 etiam om. LP 4 post pr . sit add .
praedicantur CFHNP, s.l. Lm2 6 specie] speciebus
Ea.r.FLNPS 7 autem in mg. E, s. l. Lm2 9 accidentia et
differentiae C post accidentia add . communiter
Pm2 edd . 10 uero om. GRS, in mg. Em2Lm2 quae in
mg. Em2 de differentibus specie om. GLRS, in mg . de specie
differentibus Em2 de om . C 11 substantiam RSa.r . 12
conuenientibus Pm2 13 de- finitiones] diuisiones FHm1
14 specie differentibus hic F, post quid sit (15) cett.; cf.
proxima et p. 193, 1 15 est] autem E 18 substan- tiam
R proprium—praedicatur (20)] om. GR, in mg. Em2 proprium
(uero s. l. add. Lm2 ) est quod de pluribus minime specie differentibus
in eo quod quale ait (sit s. l. Lm2 ) non in substantia praedicatur
LPm2 non in substantiam praedicatur Sm1, del. m2, in sup. mg . (
ante non inse- renda ) haec proprium est quod de pluribus
specie minime differentibus, deinde pauca uerba, quorum extremum
<praedi>cat<ur>, cum mg. abscisa, sequuntur uerba
accidens est (20) —praedicatur (21) , m2 20
ante specie add . et CE (del.) GLP Et nos quidem
has diuisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis separaremus, Porphyrio vero alia
fuit intentio. non enim omnia nunc a semet ipsis disiungere festinabat, sed
tantum ut cetera a generis forma et proprietate separaret. idcirco diuisit
quidem omnia quae PREDICARE aut in ea quae de singulis praedicantur, aut
in ea quae de pluribus, ea uero quae de pluribus PREDICARE, aut genera esse
dixit aut species aut cetera, horumque exempla subiciens adiungit : Ab his
ergo quae de uno solo PREDICARE, differunt genera eo quod de pluribus adsignata
praedi- centur, ab his autem quae de pluribus, ab speciebus quidem,
quoniam species etsi de pluribus praedican- tur, sed non de differentibus
specie, sed numero; homo enim cum sit species, de Socrate et Platone
praedicatur, qui non specie differunt a se inuicem, sed numero, animal
uero cum genus sit, de homine et boue et equo praedicatur, qui differunt a se
inui- cem et specie quoque, non numero solo. a proprio uero differt genus,
quoniam proprium quidem de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur et
de his quae sub una specie sunt indiuiduis, quemadmodum 9—p. 189,
16] Porph. p. 2, 22—3, 14 (Boeth. p. 27, 8—28, 7). 2
separemus GNRm1Sm1 porphirii Lm1 fuit alia
CN 4 forma generis H separet NPa.c.Sm1 ante
idcirco add . hic FRS 5 diuisit s. l. Em2
separauit m1 quidem s. l. R, ante diuisit L
6 praedicarentur FHLm2Pm2 plurimis Em1Lm2 uero]
autem C 7 plurimis FGm2N praedicarentur
FHLm2 8 horum F 9 Ab om. GHP, s. l. ER ergo]
uero H praedicarentur N 10 prae- dicantur
Em1GLm2PRSm2 Busse 11 ab his—accidens (p. 189, 14) ] Ω ,
om. cett., sed in S particulae lemmatis plerumque HISTORIA (cf. ad
p. 167, 21) inscriptae uariis locis expositionis p. 189, 17—193, 16 insertae
sunt, item particulae quaedam in L; quorum locorum lectiones hic pro- ponentur
post . ab] Ω (etiam B Bussii) a edd. Busse
12 post quidem add . differunt genera Γ
praedicatur ΛΣ 13 sed non] sed om . Σ non
tamen H m2 ‘i’ 14 Platone] de platone A 16 sit
genus Σ 17 boue] de boue Γ 18 et om. ΓΦ
non] Porph. p. 3, 1 aX\’ οΰχί solum edd. cum
Porph . τώ άριθ·μώ μόνον 20 hiis Φ 21 una om.
Porph. p. 3, 3 risibile de homine solo et de particularibus homini-
bus, genus autem non de una specie praedicatur, sed de pluribus et differentibus
specie. a differentia uero et ab his quae communiter sunt accidentibus
differt genus, quoniam etsi de pluribus et differentibus specie PREDICARE
differentiae et communiter acciden- tia, sed non in eo quod quid sit
praedicantur, sed in eo quod quale quid sit. interrogantibus enim nobis illud
de quo praedicantur haec, non in eo quod quid sit dicimus PREDICARE, sed
magis in eo quod quale sit. interroganti enim qualis est homo, dicimus
rationalis, et in eo quod qualis est coruus, dicimus quoniam niger. est autem
rationale quidem differentia, nigrum uero accidens. quando autem quid est
homo interrogamur, animal respondemus; erat autem hominis genus
animal. Nunc genus a ceteris omnibus quae quolibet modo
praedi- 3 specie s. l. Γ, om. optimi codd. Porph. p. 3,5,
delend. uid. Bussio 5 locum quoniam—animal (16)
post genus p. 193, 18 add. LS etiamsi LS sΠ*ΙΓ
specie differentibus ΛΣ ; Porph. p. 3, 6 διαφερόντων τψ
ειόει 6 differentia Lm2S 7 sed non] Δ ( ad
sed s. l . id est tamen m1? ) Π ( ad sed s.
l . uel tamen m1? ) A Busse tamen non LS ΤΣΦ non
tamen Ψ edd.; Porph. p. 3, 8 άλλ’ οόκ , cf.
supra p. 188, 13, infra 190, 12 7 sit om. L sed in eo quod
quale quid sit] codd. cum Porph. p. 3, 8 codicib. Lm2Mm2 άλλ’
έν τψ όποιον τ£ έστιν , delend. uid. Bussio 8 quid om. S
Φ interrogantibus—sit (11) om . Φ ad
interrogantibus s. l . uel interrogati Δ nobis] LS A m2
Ii (del. m2) Busse nos A m1 (enim post
nos,) Ψ , om . ΓΔ2 ( decst Φ );
Porph. p. 3, 8 έρωτησάντων γάρ ήμών uel τινών
codd . 9 post illud s. l . quomodo (m1?)
uel de quo (m2) Δ haec s. l. Lm2 10
post quale add . quid Π (del. m2) Ψ m Busse, om
. LS VM pbr, om. etiam p. 194, 7 (cf. p. 195, 4. 196, 8. 15) ,
aliquid s. l . Λ ( deest Φ ); Porph. p. 3,
10 έν τψ ποιόν τί έατιν 11 interroganti] ΑΣ a.r .
Ψ interrogantibus S interrogati cett.; Porph. p, 3, 10
έν γάρ τψ έρωταν 12. dicimus] Π m2 ΣΨ , om . Φ ,
dicitur cett.; Porph. p. 3, 11 οομέν 14 autem om.
N quid est] quidem FN qui Gm1, s. l . est
m2 quod est L 15 interrogamus P A , m1 in
EGR Z interrogemus S erat] RS, m1 in Ρ ΔΛ ,
est 1 erit cett.; Porph. p. 3, 13 vjv genus
ho- minis Σ cantur separare contendit hoc modo. quoniam enim
genus de pluribus PREDICARE, statim differt ab his quidem quae de uno tantum
praedicantur quaeque unum quodlibet habent indiui- duum ac singulare sublectum;
sed haec differentia generis ab his quae de uno PREDICARE, communis ei est cum
ceteris, id est specie, differentia, proprio atque accidenti idcirco,
quo- niam ipsa quoque de pluribus praedicantur. horum igitur singulorum
differentias a genere colligit, ut solum intellegendum genus quale sit sub
animi deducat aspectum, dicens : ab his autem quae de pluribus praedicantur,
differt genus, ab speciebus quidem primum, quoniam species etsi de
pluribus praedicantur, non tamen de differentibus specie, sed numero. species
enim sub se plurimas species habere non poterit, alioquin genus, non species
appellaretur si enim genus est quod de pluribus specie differentibus in
eo quod quid sit PREDICARE, cum species de pluribus dicatur et in eo quod
quid sit, huic si adiciatur ut de specie differentibus PREDICARE, speciei forma
transit in generis; id quoque exemplo intellegi fas est. homo enim praedicatur
de Socrate, Platone et ceteris quae a se non specie disiuncta sunt, sicut
homo atque equus, sed numero quod quidem habet dubitationem quid sit hoc quod dicitur
numero differre. numero enim differre aliquid uidebitur quotiens numerus
a 2 quidem om. CHN qui G, ex quae Lm2
3 post praedicantur add . ut socrates et hic et hoc H
quae CN 5 uno] uno solo LS est ei L
est om. CEHN 6 post specie add . et FHP, s.
l. Lm2 accidente Lm2Pm1N 9 aspectum deducat E
ab] CL (s. l.) NSm2, om. cett . 10 autem] enim P post
pluribus add . id est ( add . specie, sed del. E ) ab
his quae ( haec s. l. E ) de pluribus Em2GPRS 11 a R
primum om. S, s. l. Lm2; deest p. 188, 12 12 praedicatur S
non tamen] sed non S de om. FHNP 15 plurimis
Em2GPRS 16 plurimis EGR dicatur] praedicetur C
praedicatur edd . 19 fas est] placet HNPm1 post enim s.
l . cum sit species Em2Pm2 (ex p. 188,14) quod est species
Lm2 20 et ceteris del. E qui Ep. c . disiuncta ( ad
quod s. l . differunt)—equus del. E 21 post equus
add . uel bos LP 23 differre (in mg. H) post
aliquid FHLN aliquis GS quoties (-cies)
EPRS numero differt, ut grex boum qui fortasse continet triginta
boues, differt numero ab alio boum grege, si centum in se contineat boues; in
eo enim quod grex est, non differunt, in eo quod boues, ne eo quidem : numero
igitur differunt, quod illi plures, illi uero sunt pauciores. quomodo
igitur Socrates et Plato specie non differunt, sed numero, cum et Socrates unus
sit et Plato unus, unitas uero numero ab unitate non differat? sed ita
intellegendum quod dictum est numero differentibus, id est in numerando
differentibus, hoc est dum numerantur differentibus. cum enim dicimus
‘hic Socrates est, hic Plato’, duas fecimus unitates, ac si digito tangamus
dicentes ‘hic unus est’ de Socrate, rursus de Platone ‘hic unus est’, non eadem
unitas in Socrate numerata est quae in Platone. alioquin posset fieri ut
secundo tacto Socrate Plato etiam monstraretur. quod non fit. nisi enim
tetigeris Socratem uel mente uel digito itemque tetigeris Platonem, non facies
duos, dum numerantur. ergo differunt quae sunt numero differentia. cum igitur
species de numero differentibus, non de specie praedicetur, genus de pluribus
et differentibus specie dicitur, ut de boue, de equo et de ceteris quae a
se specie inuicem differunt, non numero solo. tribus enim modis unum quodque
uel differre ab aliquo dicitur uel alicui idem esse, 3 continet
EGLRS differt C, add . neque CP, s. l. Hm2, s. l . nec
Lm2 4 ne—differunt] H ( post quidem del .
haec m2 ) N igitur om. EG nec in eo
(recte?) quidem differunt. Igitur numero differunt L non nisi
quidem numero. Igitur differunt numero F non nisi (eo add. S,
sed del .) quidem numero differunt RS Numero igitur (Igitur
numero C ) differunt, cet . om. CP 5 quomodo] quo
R igitur] uero C 6 specie—Plato om. F 7 pr
. unum PS 8 differt CEm2NPR post intellegendum
add . est CL 10 dum] cum F 12 ante
rursus s. l . et S 14 possit FLRS posset
fieri in mg. Cm2 ut] in Cm2Em2G tactu socrates
Em1G 15 ante etiam add . et ( sed et
in etiam del. uid. E ) EG demonstraretur LP 19
speciebus CFHN post genus s. l . quoque Lm2
et om. Em1 ( s. l . et de m2 ) R specie
differentibus EF 20 pr . de om. CL et om.
FH de s. l. Em2Lm2 ceterisque quae F inuicem specie
FN genere, specie, numero. quaecumque igitur genere eadem sunt, non
necesse est eadem esse specie, ut si eadem sint genere, differant specie. si
uero eadem sint specie, genere quoque eadem esse necesse est, ut cum homo atque
equus idem sint genere — uterque enim animal nuncupatur —, differunt
specie, quoniam alia est hominis species, alia equi. Socrates uero atque
Plato cum idem sint specie, idem quoque sunt genere; utrique enim et sub
hominis et sub animalis PREDICAZIONE ponuntur. si quid uero uel genere uel
specie idem sit, non necesse est idem esse numero, quod si idem sit numero,
idem et specie et genere esse necesse est; ut Socrates et Plato, cum et
genere animalis et specie hominis idem sint, numero tamen reperiuntur esse
disiuncti. gladius uero atque ensis idem sunt numero, nihil enim omnino aliud
est ensis quam gladius, sed nec specie diuersi sunt, utrumque enim gladius est,
nec genere, utrumque enim instrumentum est, quod est gladii genus.
quoniam igitur homo, bos atque equus, de quibus animal PREDICARE, specie
differunt, numero ergo etiam eos differre necesse est. idcirco hoc plus habet
genus ab specie, quod de specie differentibus PREDICARE nam si integram generis
definitionem demus, dabimus hoc modo : genus est quod de plu- 1
ante genere add . id est P, s. l. Hm2Lm2 genere—esse
specie om. EGRS numero] et numero C 2 esse post
specie C, ante eadem FH ut si—differant specie
om. FHNPm1 , in mg. add., sed del. m2 genere—eadem sint om.
C 3 sunt F 4 est] esse ( idem ante necesse ) GSm1
sunt EFGKHm1NRSm1 5 animalia FHN nuncupantur
FHNS differentia Hm1N 6 species om. FG, ante
est C 7 uterqne EGLPRS, recte? 8 et om. CP
sub hominis et om. GLRS, s. l. Em2Pm2 post , sub om. C
ponitur Lm2Sm2 9 sit] sint S sunt Fm1 (in mg .
est m2) Nm1 10 quod si—necesse est post disiuncti (13)
transpos. et 13 enim pro uero scr. brm 12 tamen]
tantum CLm1 15 diuersi * (s er.) , om ,
sunt C est gladius FN 16 ad
instrumentum s. l . bellicum Em2 17 bos ante
homo EG atque bos post equus FN 18
ergo om. FHNP, del. Cm1? Lm1? Sm2 etiam s. l. Lm1?
19 ante id- circo add . et F, s. l. Sm2 ab
specie om. EGLS a R de] a R ab
CEGLS 20 post specie s. l . quidem L
definitionem ( uel diff-) generis FHNP 21 dabimus om.
EG ( add . dicimus post modo) RS, s. l. Lm2, post
modo C ribus specie et numero differentibus in eo quod quid
sit prae- dicatur, at uero speciei sic : species est quod de pluribus numero
differentibus in eo quod quid sit praedicatur. A proprio uero differt genus,
quoniam proprium quidem de una sola specie, cuius est proprium, PREDICARE
et de his quae sub una specie sunt indiuiduis. proprium semper uni speciei
adesse potest neque eam relinquit nec transit ad aliam, atque idcirco proprium
nuncupatum est, ut risibile hominis; itaque et de ea specie cuius est
proprium praedicatur et de his indiuiduis quae sub illa sunt specie, ut
risibile de homine dicitur et de Socrate et Platone et ceteris quae sub hominis
nomine continentur. genus uero non de una tantum specie, ut dictum est, sed de
pluribus. differt igitur genus a proprio eo quod de pluribus speciebus
praedi- catur, cum proprium de una tantum de qua dicitur appelletur et de
his quae sub illa sunt indiuiduis. A differentia uero et ab his quae communiter
sunt accidentibus differt genus. differentiae atque accidentis discrepantiam a
genere una separatione concludit. omnino enim quia haec in eo quod quid
sit minime PREDICARE, eo ipso segregantur a genere; nam in ceteris quidem
propinqua sunt generi, nam et 1 specie—differentibus] specie non
(non Lm2 s. l. et R et cum cett. P ) numero solo (solo
s. l. Lm2, om. P ) differentibus LPR 2 plurimis S 3
in—sit om. HN 4 proprium] prius S proprium—praedicatur]
pro- prium praedicatur et de una sola specie C quidem—est
proprium om . G, s. l. Em2 quidem om. etiam S
6 post proprium add . uero N enim brm
7 uni om. GS, post speciei E (s. l. m2) HR 9 post
hominis add . est edd . 11 et] ut RS de om. FN,
s. l. Pm2 Platone] de platone G et ceteris] ceterisque
FHNP 12 qui Em2 13 ut s. l. Hm2Pm2 de om.
N plurimis CEm1GNR, add . et differentibus specie S, in mg.
Pm2 ( om . specie) 14 praedicetur Lm2P 15 post
tantum s. l . specie Lm2 appellatur FHm1NR 17
sunt accidentibus] accidunt HN 18 genus] cf. ad p. 189, 5;
post locum p. 189, 5—16 uerba Quare—praedicantur p.
194, 20 s. add. L discrepantia FL 19 separatione del.
et s. l . diffinitione Em2, post separatione add . uel
definitione Hm1, del. m2 20 sint Em2HN 21 in] CL
(s. l. m2) N, om. cett. de pluribus praedicantur et de specie
differentibus, sed non p. 65 in eo quod quid sit. si quis enim |
interroget : qualis est homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si
quis : qualis est coruus? dicitur niger, quod est accidens. si autem
interroges: quid est homo? animal respondebitur, quod est genus. quod
uero ait: haec non in eo quod quid sit dicimus PREDICARE, sed magis in eo quod
quale sit, hoc magis quaestioni occurrit huiusmodi. Aristoteles enim
differentias in substantia putat oportere PREDICARE. quod autem in substantia PREDICARE,
hoc rem de qua PREDICARE, non quale sit, sed quid sit ostendit. unde non
uidetur differentia in eo quod quale sit praedicari, sed potius in eo quod quid
sit. sed solvitur hoc modo. differentia enim ita substantiam demonstrat, ut
circa substantiam qualitatem determinet, id est substantialem proferat
qualitatem. quod ergo dictum est magis, tale est tamquam si diceret:
uidetur quidem substantiam significare atque idcirco in eo quod quid sit
PREDICARE, sed magis illud est uerius, quia tametsi substantiam monstret, tamen
in eo quod quale sit praedicatur. Quare de pluribus praedicari
diuidit genus ab his quae de uno solo eorum quae sunt indiuidua praedi-
cantur, differentibus uero specie separat ab his quae 20—p. 195, 5|
Porph. p. 3, 14—19 (Boeth. p. 28, 7—13). 1 plurimis FH
3 respondebitur R rationabilis N quis om. R, post s. l
. scil. (om. brm) interroget Hm2brm post , est om.
HN 4 dicetur FHN interrogetis N 9 autem]
uero FHN 10 qualis Cm2FHP 16 tamquam] ac F
20 uerba Quare—praedicantur (21) et p. 193, 18 et hic (
hic om . praedicatur) habet L, eadem iam ante lemma add. S
predicari ex preditur Pm2 genus diuidit hic
L hiis F 21 sola F eorum—accidentibus ( p.195, 3
)] Ω , in sup. mg . non sunt indiuidua (21) —
accidentibus add. Lm2? dicuntur ut indiuidua quae de una solummodo
substantia dicuntur R, om. cett. codd . eorum quae sunt indiuidua
om. p. 193, 18 L eorum om. L (hic) A 22
ante differentibus add . de ΓΛΦ ; differentibus—quibus
praedicantur (195, 5) post colligamus p. 196,1 inseruit S,
itaque uerba quae (195, 3) —quibus praedicantur (195, 5) et illic
et hic habet separatur Φ , in mg . genus add .
Γ sicut species praedicantur uel sicut propria; in eo autem quod
quid sit PREDICARE diuidit a differentiis et communiter accidentibus, quae non
in eo quod quid sit, sed in eo quod quale sit uel quodammodo se habens
praedicantur de quibus praedicantur. Tria esse diximus quae
significationem hanc tertiam generis informarent, id est de pluribus PREDICARE,
de specie differentibus et in eo quod quid sit. quae singulae partes genus a
ceteris quae quomodolibet praedicantur distribuunt ac secernunt, quod ipse
breuiter colligens dicit; id enim quod de pluribus PREDICARE, genus ab his
diuidit quae de uno tan- tum praedicantur indiuiduo. indiuiduum autem pluribus
dicitur modis. dicitur indiuiduum quod omnino secari non potest, ut unitas uel
mens; dicitur indiuiduum quod ob soliditatem diuidi nequit, ut adamans;
dicitur indiuiduum cuius praedicatio in reliqua similia non conuenit, ut
Socrates : nam cum illi sint ceteri homines similes, non conuenit proprietas et
PREDICAZIONE Socratis in ceteris. ergo ab his quae de uno tantum praedicantur,
genus differt eo quod de pluribus PREDICARE. restant igitur quattuor,
species et proprium, differentia et acci- 6 diximus] p. 181,
15. 2 diuiditur Φ , s. l . genus add. Lm2
differentibus S 3 ante quae add . et
CEGP quae om. R non om. S (hic) quod] quia
R 4 post . sit] Σ est cett; cf. p. 196, 8
quodammodo in ras. Em2 quod ad modum CG
quemadmodum LP quod a modo R quomodo Ψ
edd. Busse ; Porph. p. 3, 19 πώς ; cf. supra p.
128, 10 5 praedicantur om . ΓΦ ante de
quibus add . de his S ( ad p. 194, 22 ) ab his Σ
his A hiis Φ de quibus praedicantur] S (ad p.
194, 22) ΓΛ (de s. l .) 2Φ , om. cett . 7
informant FHm1N post, de] Hm2LPm2, om, CEGNRS , sed
FHm1Pm1; cf. p. 181, 16 8 et om. R 9 quolibet modo
CL (modo s. l. m2 ) N quo *** libet (libe er. uid .)
F praedicatur GPm1 10 col- ligens breuiter EGS 12
dicitur pluribus C 13 non potest secari CFN 14
indiuiduum—dicitur (15) om. G 15 adamas HLm1P
(-as ras. ex -ans), amans R 18 ceteros NP
20 igitur] ergo FP dif- ferentiae EHa.c.NP, ante add . et H,
s. l. Lm2 dens, quorum a genere differentias colligamus. singulis
igitur differentiis ab his rebus segregabitur genus. ea quidem differentia qua
de specie differentibus genus dicitur, separat ab his quae sicut species
praedicantur uel sicut propria. species enim omnino de nulla specie dicitur,
proprium uero de una tantum specie PREDICARE atque ideo non de specie
differentibus. item genus a differentia et accidenti differt, quod in eo quod
quid sit PREDICARE; illa enim in eo quod quale sit appellantur, ut dictum est.
itaque genus quidem ab his quae de uno praedicantur differt in quantitate PREDICAZIONE,
ab speciebus uero et proprio in subiectorum natura, quoniam genus de
specie differentibus dicitur, proprium uero et species minime. item genus in
qualitate praedicationis a differentia accidentique diuiditur. qualitas enim
praedicationis quaedam est uel in eo quod quid sit uel in eo quod quale sit PREDICARE. Nihil
igitur neque superfluum neque minus con- tinet generis dicta
descriptio. Omnis descriptio uel definitio debet ei quod definitur
aequari. si enim definitio definito non sit aequalis et si quidem maior sit,
etiam quaedam alia continebit et non necesse est ut semper definiti
substantiam monstret; si minor, ad omnem definitionem 16 s.] Porph. p. 3,
19 s. (Boeth. p. 28, 13 s.) 1 quarum Cm1Lm1 colligamus
ante differentias C colligemus (e ex i) H;
cf. ad p. 194, 22 2 ea quidem—dicitur om. S 3 post
differentibus add . praedicari edd . separat ab his]
FLm1R dum separat ab his S differt ab his CN
differt (s. l. Em2) ab (a L) specie et proprio HP
, s. l. Lm2 (seperat—propria [4] del. Lm2, om. P), s. l . et ab
his add . Hm2, om. EG separatur ab his edd.; cf. p.
194, 20 4 praedicantur post propria H 5 nulla]
nulla alia LS 8 enim] uero FHN 10 a LNR 13
ab FHP (b er .) 15 praedicare GR 16 Nihil
ex Nil Pm1? pr . neque om . ΛΛΠΣΨ Porph. p.
3, 19 Busse, del . Γ m2 17 genus F dicta om. E,
s. l . Σ , post descriptio G locus Porph. p. 3, 19 s.
plenior est (cf . τής έννοιας , quod deest ap. Boeth.) 18
Omnis descriptio in mg. Em2 (in contextu ras.), om. GR, s. l. Sm2
post Omnis add . enim L, s. l. Sm2, post debet C
(er.) EGR 19 definito om. FPS et om. CFN 21
definitio ( uel diff) Ca.r.N post si s. l . sit
L definitio C definiti ( uel diff) Em2HN
substantiae non peruenit. omnia enim quae maiora sunt, de minoribus
praedicantur, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; nemo enim
uere dicere potest omne animal homo est. atque idcirco si sibi praedicatio
conuertenda est, aequalis oportebit sit. id autem fieri potest, si neque
super- fluum quicquam habet neque diminutum, ut in ea ipsa
generis descriptione dictum est enim esse genus quod de pluribus specie
differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae descriptio cum genere
conuerti potest, ut dicamus quicquid de pluribus specie differentibus in
eo quod quid sit PREDICARE, id esse genus. quodsi conuerti potest, ut ait, nec
plus neque minus continet generis facta descriptio. 1
substantiam CEm2 4 pr . est om. C 5
oporteat EGHL ( a del .) PRS ante sit add .
ut E (in ras. m2) FLNPR, s. l. Cm2Hm2 6 habeat R
diminutiuum Em1 7 enim est G esse s. l. Em2L,
post genus Pm2 8 praedicatur Em2FNa.c . 9
post ut s. l . si Lm2 quicquid] quod EGLm1RS
10 praedicatur Em2 11 conuerti potest] * (ñ er .) con-
uertitur C conuertitur. est F conuerti (non del
.) potest S neque— neque FLm2P nec—nec HLm1
neque—nec N 12 continet s. l. Nm2 Sm2, om. F, post
generis CEGL facta] dicta p. 196, 17 BOEZIO V. C. ET I
LL EXCONS. ORD. PATRICII IN ISAGOGAS (YSAGOG. E ) PORPHYRII ID EST
INTRODVCTIONEM (introductiones C ) A SE TRANSLATAS EDITI- ONIS SECVNDAE
COMMENTARIVS SECVNDVS EXPLIC. (commen- tum in secdo lib. explic. C,
post PORPHYRII add . SCDE EXPOSITIO- NIS LIB. II. EXPLICIT E
) INCIPIT C ( pleraque litt.
minusc. scr .) GE ( uariis cum scripturis compendiisque ); sede
trans- lationis comtarius expł incip lib IΙI. L ; EXPL COMMENTARIVS. II.
INCIPIT LIB TERTIVS. S; EXPLIC COMENTORV LIBER SCDS. INCIPIT TERTIVS N·,
EXPLICIT LIBER SECDS. INCIPIT LIBER TERTIVS (TERCIVS LIBER P ) FP ;
INCIPIT LIBER TERTIVS R ; subscriptio deest in
H Superior de genere disputatio uideatur forsitan omnem etiam
speciei consumpsisse tractatum. nam cum genus ad aliquid praedicetur, id est ad
speciem, cognosci natura generis non potest, si speciei quae sit intellegentia
nesciatur. sed quoniam diuersa est in suis naturis eorum consideratio
atque discretio, diuersa in permixtis, idcirco sicut singula in prooemio
proposuit, ita diuidere cuncta persequitur. ac primum post generis
disputationem de specie tractat. de qua quidem dubitari potest. si enim haec
fuit ratio praeponendi generis reliquis omnibus, quod naturae suae
magnitudine cetera contineret, non aequum erat speciem differentiae in ordine
tractatus anteponere, quod differentia speciem contineret, cura praesertim
differentiae ipsas species informent. prius autem est quod informat quam id
quod eius informatione perficitur. posterior igitur est species a
differentia, prius igitur de differentia tractandum fuit. etenim prooemio etiam
consentiret, in quo eum ordinem collocauit quem naturalis ordo suggessit,
dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. huic respondendum
est quaestioni, quoniam omnia quaecumque 19 dicens] p. 147, 5. 7. 148,
17. 2 uidetur CGHL, ras. ex uideatur PS 3
sumpsisse CHN 5 ne- scitur FHm1 7 mixtis Fa.c.Lm1
8 posuit H diuidere ante ita G, post
cuncta CLP , diuise HNa.c . prosequitur Gm1PR 10 pro-
ponendi CFNR genus R 12 nonne Em2FHPSm2 ante
aequum add . et HP, s. l. Em2 speciei differentiam
EFHLm2P; cf. p. 239, 9 13 obtineret CLm1 14 ipsae CNP
est s. l. Gm2Lm2 15 informet E 16 post
Em1GLm1RS igitur] ergo C a om. CRS, er. L 17 ut
enim N ut CH etiam om. CF 18 post
quo add . prius CN eam ordine CFN quam CFN
19 post dicens add . ubi ait E 20
ante huic add . sed E ad aliquid PREDICARE,
substantiam semper ex oppositis sumunt. ut igitur non potest esse pater, nisi
sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen pendet ex
altero, ita etiam in genere ac specie uidere licet. species quippe nisi
generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad speciem; nec
uero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt genus ac species,
ut superius quoque dictum est, sed quicquid illud est quod in naturae
proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum uel ad inferiora
uel ad superiora referatur. quorum ergo relatio alterutrum constituit, eorum
continens factus est iure tractatus. De specie igitur inchoans ait hoc
modo. Species autem dicitur quidem et de unius cuiusque forma, secundum
quam dictum est primum quidem species digna imperio dicitur autem species
et ea quae est sub adsignato genere, secundum quam sole- mus dicere hominem
quidem speciem animalis, cum sit genus animal, album autem coloris speciem,
trian- gulum uero figurae speciem. Sicut generis supra
significationes distinxit aequiuocas, ita idem in specie facit dicens non esse
speciei simplicem signi- ficationem. et ponit quidem duas, longe autem plures
esse 7 superius] cf. p. 158, 3 ss. 180, 23 ss. 13—19] Porph. p. 3, 21—
4,4 (Boeth. p. 28, 15—21). 20 supra] p. 171, 9 ss. 1
positis Gm1Sm1 3 nomen] non Ea.c.Ga.c . 4 uideri EP
8 in om. R 9 consistit CLNPSm2 constat Em1
tum R ac] et H 10 referuntur FLm1
referantur NS refertur Pm2R 11 continuus CN
12 ante De add . sed CH , m1 in LRS , si
E de ex sed Sm2 sed del. Lm2Rm2
13 ante Species inscriptio DE SPECIE (EXPLICIT DE
GENERE. INCIPIT DE SPECIE Ψ ) additur in 11
et om. L 14 primum] G edd . primi L primis
Sm1 priami cett. Busse; Porph. p. 4, 1 πρώτον piv είδος
άξιον τυραννίδος (Eurip. Aeol. frg. 15, 2 N.) ; cf .
quemlibet illum infra p. 200, 22 15 post digna
add . est HNPR AAΦ , s. l. LSm2, edd. Busse; om. Porph. post et
ras., s. l . etiam Γ 17 qui- dem om. N, post add . esse
FR, s. l. L , esse post speciem s. l. Pm2
cum—animal om. S 18 autem om. Ε ΑΣ 20
ita om. HN manifestum est, quas idcirco praeteriit, ne
lectoris animum prolixitate confunderet. dicit autem primum quidem speciem
uocari unius cuiusque formam, quae ex accidentium congregatione perficitur.
cautissime autem dictum est unius|cuiusque, hoc enim secundum accidens dicitur.
quae enim uni cuique indiuiduo forma est, ea non ex substantiali quadam
forma species, sed ex accidentibus uenit. alia est enim sub- stantialis formae
species quae humanitas nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali, sed
tamquam ipsa qualitas substantiam monstrans; haec enim et ab hac diuersa est
quae unius cuiusque corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus
deducit in partes. postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diuersis tamen
modis ad aliud atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in
eo quod ipsa est si perspexeris, species est eaque substantialem
determinat qualitatem; si sub animali eam intellegendo locaueris, deducit
animalis in sese participationem separaturque a ceteris animalibus ac fit
generis species. quodsi unius cuiusque proprietatem consideres, id est quam
uirilis uultus, quam firmus incessus ceteraque quibus indiuidua conformantur et
quodam- modo depinguntur, haec est accidens species secundum quam dicimus
quemlibet illum imperio esse aptum propter formae 1 praeterit
CEGLPR 2 primo FHNP 3 formam] CN figuram
cett 5 haec GL ( s. l. add . species m2 )
RSm1 uni om. EGRS 6 ea om. HN 7 ante
species (specie H ) add . ac CHN ex om. CH
8 forma, s. l . species (m. 2) E pr . quae] sed quae E
eaque] ea quae EFGH Lm1Sm2 9 post sed
add . est brm, post qualitas S 11 unius cuiusque
corpori] CNPm2R in (s. l. Lm2) unius cuiusque (in
add. Lm1, del. m2 ) corpore (ex -ri Lm2) FHLPm1 unius
cuiusque (in s. l. Sm2) corpore EGS accidentaliter
CLm2P sita FHLm1 si ita Na.c . ea] hac F 12
postremoque CNPm2 (recte?) postremo quoque Rm1
postremum quae Rm2S postremum H 13 sunt FH post
atque add . ad CHR 14 in- telligantur LRm1 15
si post humanitatem FHN respexeris N eaque]
Cm1N ea quae cett . determinet R 16 eam om. GPRS
(recte?) , s. l. Em2 17 se Lm1N 18 species
generis C 20 informantur LPm2 21 accidentalis
Lm2Pm2 22 quamlibet FLm1 quodlibet Sm2
illum om. CHLNP illud RS eximiam dignitatem. huic
aliam adiungit speciei significationem, id est eam quam supponimus generi. nos vero
triplicem speciei significationem esse subicimus, unam quidem substantiae quali-
tatem, aliam cuiuslibet indiuidui propriam formam, tertiam de qua nunc
loquitur, quae sub genere collocatur. credendum uero est propter obscuritatem
eius quam nos adiecimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem quaereret
intellectum, ea tacita praetermissaque ceteras edidisse. cuius quidem speciei
haec exempla subiecit, ut hominem quidem animalis speciem, album autem
coloris, triangulum uero figurae; haec enim omnia species nuncupantur eorum
quae sunt genera, animal quidem hominis, albi autem color, trianguli
figura. Quodsi etiam genus adsignantes speciei meminimus dicentes quod de
pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit praedicatur, et
speciem dicimus id quod sub genere est. Dudum cum generis descriptionem
adsignaret, in generis definitione speciei nomen iniecit dicens id esse genus
quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid ait prae-
dicaretur, ut scilicet per speciei nomen definiret genus. nunc uero cum speciem
definire contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem esse quae sub
genere ponatur. 13—16] Porph. p. 4, 4—7 (Boeth. p. 28, 21—23). 18
(dicens)—20] p. 180, 1 s. 3 subiecimus CLN
substantialem FLm2Bm2 4 indiuiduam G 5 collocatur
(-catur in ras. m2) E colligatur GLm2 (colligitur
m1 ) Rm1s 6 est] est quod EPRS 7 quia] quae
CN quaerit C quaeret Hm1N 8 praetermissa quae
Em1Sa.c . praetermissa Rm1 dedisse Gm1 edidisset
R, ante edid. add . ipsum r 9 ut] et
EGLm1Ra.c.S 11 eorum quae] CFHN earum quae EGR
earumque LPS 12 trianguli figura] Lm1 figura
trianguli Pm2 forma trianguli HNPm1 trianguli
forma cett.; fort , trianguli >uero>; cf. 10. 199, 19
13 Quodsi] Quid sit FPm1 (Quod sit m2 ) Quod CL
Sic Λ2 signantes F 14 et om. F, s. l. R 15
sit om. ERS praedicatur—quid sit (19) om. N id s.
l. Hm2 16 quod sub assignato genere ponitur (est p ) edd.,
Porph. p. 4, 6 το όπό τό άποοοθ-έν γένος 19 et
differentibus p. 180, 1 20 genus definiret C 21 nunc]
nam Cm1 cui quidem dicto illa quaestio iure uidetur opponi.
omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit, eamque
apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. ex notioribus igitur fieri
oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. cum igitur per speciei
nomen describeret uel definiret genus, abusus est uocabulo speciei uelut
notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. nunc uero cum
speciem uellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine rerumque
conuertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei uocabulum, in
speciei autem descrip- tione sit notius generis, quod fieri nequit. si
enim generis uocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei
nomine uti non debuit. quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis,
in definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. cui quaestioni
occurrit dicens : Nosse autem oportet quod, quoniam et genus ali-
cuius est genus et species alicuius est species, idcirco necesse est et in
utrorumque rationibus ntrisque uti. Omnia quaecumque ad aliquid
praedicantur, ex his de quibus praedicantur, substantiam sortiuntur; quodsi
definitio unius cuiusque substantiae proprietatem debet ostendere, iure
ex alterutro fit descriptio in his quae inuicem referuntur. ergo quoniam genus
speciei genus est et substantiam suam et 16—18] Porph. p. 4, 7—9 (Boeth.
p. 28, 23—29, 1). 2 post , definitione ( uel
diff-) CHNPm2 claudit C nec concludit F 3
monstrabat E (-bat ex -batur? m2 ) R
5 sit] est FHN 6 notiorem FR 8 uelit FHNPm1
9 conuertit] uidetur conuertere CHLm2P genere R
10 post quidem add . descriptione CFHLN, in mg. Em2,
fort. recte autem] quidem C uero FHNP 11
sit om. G pr . genus FH 16 autem om. Porph . quod
add. edd.; Porph. p. 4, 7 είϊέναι χρή ότι, έπεί χτλ .
17 pr . est om. FN, s. l . Λ , ante
alicuius Σ idcirco in utrisque necesse est utrorumque rationibus
uti Σ 18 et] hoc N om . FPSA S neutrorumque
Em1 utrasque Em1 utriusque Λ 20 post
definitio add . uel descriptio CFHNP, s. l. Em2Lm2 22
ante inuicem add . ad CL, s. l. Pm2 , ad se F, s. l.
Rm2 23 ante substantiam add . in FHm1, del. m2
post , et om. F, s. l. Hm2Sm2 uocabulum genus ab specie
sumit, in definitione generis speciei nomen est aduocandum, quoniam uero
species id quod est sumit ex genere, nomen generis in speciei descriptione non
fuit relinquendum. quoniam uero diuersae sunt specierum qualitates —
aliae enim sunt species, quae et genera esse possunt, aliae, quae in sola
speciei | permanent proprietate neque in naturam generis transeunt —,
idcirco multiplicem speciei definitionem dedit dicens : Adsignant ergo et
sic speciem : species est quod ponitur sub genere et de quo genus in eo
quod quid sit praedicatur. amplius autem sic quoque : species est quod de
pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. sed haec
quidem adsignatio specialissimae est et quae solum species est, aliae
uero erunt etiam non specialissimarum. Tribus speciem definitionibus
informauit, quarum quidem duae omni speciei conueniunt omnesque quae quolibet
modo species appellantur, sua conclusione determinant, tertia uero non ita. cum
enim duae sint specierum formae, una quidem, cum species alicuius
aliquando etiam alterius genus esse potest, altera, cum tantum species est
neque in formam generis 9—15] Porph. p. 4, 9—14 (Boeth. p. 29,
2—7). 1 genus om. H generis FLS ab om. F a NR, s.
l. Hm2 specie s. l . Hm2 species F
definitionem ( uel diff-) FGHP 2 pr . est] fuit
Lm2 ( post aduocandum) Pm2 3 descriptione] definitione
(uel diff-) CFHLm2N diffinicione uel
descripcione P 4 relinquendum] omittendum FHN uero
post sunt H 8 reddit FN 9 ergo] uero
PLm2 autem Σ et er. Λ speciem sic F
quae CNR h m1 (quo m2 ) ΛΣ 10 quo]
EGHLm2Pm1 > qua cett . 11 amplius—praedicatur
(13) om. L 12 et om . S ac EGRS 13
post praedicatur add . ut homo equs (sic) bos et asinus
et cetera C 14 specialissimae] ΧΨρ (-me) specialissima
cett. codd. brm ; Porph. p. 4, 12 aΰτη μέν ή άπόδοσις τού
εΐδιχωχάτου άν εΐη et om. FHR, s. l. Pm2, del. Sm2
sola C 17 omnis G 18 determinan- tur Hm2
19 post ita s. l . est Hm2 sint om.
Em1 sunt CEm2GR ante specierum add .
species Cm1, del. m2 20 post cum s. l . sit Lm2
, post aliquando EP (del. m1?), post
species s. l . scil. sit N transit, priores quidem
duae, illa scilicet in qua dictum est id esse speciem quod sub genere ponitur,
et rursus in qua dictum est id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit
praedicatur, omni speciei conueniunt. id enim tantum hae definitiones monstrant
quod sub genere ponitur. nam et ea quae dicit id esse speciem quod sub
genere ponitur. eam uim significat speciei qua refertur ad genus, et ea quae
dicit id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, eam rursus
significat speciei formam quam retinet ex generis PREDICAZIONE idem est autem
et poni sub genere et de eo praedicari genus, sicut idem est supponi
generi et ei genus praeponi. quodsi omnis species sub genere collocatur, mani-
festum est omnem speciem hoc ambitu descriptionis includi. sed tertia definitio
de ea tantum specie loquitur quae numquam genus est et quae solum species
restat. haec autem species ea est quae de differentibus specie minime
praedicatur. nam si id habet genus plus ab specie, quod de differentibus specie
praedicatur, si qua species praedicetur quidem de subiectis, sed non de specie
differentibus, ea solum erit superioris generis species, subiectorum uero non
erit genus. igitur PREDICAZIONE ea quam species habet ad subiecta, si talis
sit, ut de differen- tibus specie non praedicetur, distinguit eam ab his
speciebus 2 ponitur—genere (5) om. N rursum CR 3
quo] Schepss qua codd. et edd.; cf. p. 203, 10 4
praedicaretur EGLRS praedicetur edd . 5 ponuntur
Cm2HN 6 speciem om. Sm1 species m2G post
eam add . tantum FHNP, s. l. Lm2 7 qua] CNP
quae cett . 8 quo] p Schepss qua codd. brm; cf. 3
genus s. l. Em2, ante add . species G praedicetur
FHLm2NP praedicaretur S 9 speciei om. C 10
est post autem E (s. l. m2) R supponi EFGHLRS 11
generi] genere CGm1 12 omnes (sed collocatur )
ELN 13 post est add . autem CEGL (del. m2) S
(del. m2) 15 est om. EGS, ante genus ΗR , fit
L per- stat E ( pers in ras.) HNa.c . 17 habet
ante plus FH, post N, plus post habet
L a RS 18 si qua species om. N praedicetur om.
N praedicatur Em1HSm2 post subiectis add . Species uero
differentibus numero N 19 de om. N 21 de—non] non
differentibus specie N 22 ante distinguit add .
sed hanc terciam, sed del. E, post add . enim, sed del. RS
quae genera esse possunt et monstrat eam solum speciem esse nec generis PREDICAZIONE
tenere. illa igitur tertia descriptio speciei quae magis species ac
specialissima dicitur, definitur hoc modo : species est quod de pluribus
numero differentibus in eo quod quid sit PREDICARE -- ut homo PREDICARE
enim de CICERONE ac Demosthene et ceteris qui a se, ut dictum est, non specie,
sed numero discrepant. Ex tribus igitur definitionibus duae quidem et
specialis- simis et non specialissimis aptae sunt, haec uero tertia solam
ultimam speciem claudit. ut autem id apertius liqueat, rem paulo altius orditur
eamque congruis inlustrat exemplis. Planum autem erit quod dicitur hoc modo. in
uno quoque praedicamento sunt quaedam generalissima et rursus alia
specialissima et inter generalissima et specialissima sunt alia. est
autem generalissimum quidem super quod nullum ultra aliud sit superueniens
genus, specialissimum autem, post quod non erit alia inferior species, inter
generalissimum autem et spe- cialissimum et genera et species sunt eadem, ad
aliud 7 ut dictum est] p. 188, 13 ss. 12—p. 206, 18] Porph. p. 4, 14— 5,1
(Boeth. p. 29, 7—30, 2). 1 et (s. l. m2) monstrabat
S monstratque FHNP solam Sm2 3 speciei] solum
species est N speciei—species ac] quae (s. l. m2) solum
* species magisque (in ras.) species H 4 hoc modo
in mg. Hm2 ante species add . Dicitur enim
FHP et differentibus numero p. 203, 12 6 Cicerone] socrate
N post ac add . de R 8 duae—claudit] C (om. pr .
et) E (in ras. m2) FH (solum) LNP duabus quidem et specialis-
simas et non specialissimas species claudit GR una quidem et
specialis- simam et non specialis ultimam speciem claudit Sm1, del. et in
mg. corr. m2 (apte sunt post duae quidem,) 10 id
om. LR rem om. EGS, s. l. Pm2, post orditur Lm2
12 in uno quoque—solum species (p. 206, 17) ] RS Q , om. cett
. 14 rursum Γ et inter—alia om. RS 15 sunt om . T
m1, in mg. scil. sunt ut corpus m2 , est ut uid .
Δ 16 super— ultra] ultra quod nullum RS ultra nullum
ΓΦ 17 specialissima R quod] quam RS 18
autem om . Γ 19 ante et genera add .
alia p alia sunt quae brm; Porph. p. 4, 19 άλλα,
α ν,α'ι γένη quidem et ad aliud sumpta. Sit autem in uno PREDICAMENTO
manifestum quod dicitur. substantia est quidem et ipsa genus. sub hac autem est
corpus, sub corpore uero animatum corpus, sub quo animal, sub animali uero
rationale animal, sub quo homo, sub homine uero Socrates et Plato et qui sunt
particulares homines. sed horum substantia quidem generalissi-mum est et quod
genus sit solum, homo uero specialissimum et quod species solum sit, corpus
uero species quidem est substantiae. genus uero corporis animati; et
animatum corpus species quidem est corporis, genus uero animalis. animal autem
species quidem est corporis animati, genus uero animalis rationalis, sed
rationale animal species quidem est animalis, genus autem hominis, homo uero
species quidem est rationalis animalis, non autem etiam genus
particularium hominum, sed solum species. et omne quod ante indiuidua proximum
est, species erit solum, non etiam genus. Praediximus ab
Aristotele decem praedicamenta esse dis- 19 Praediximus] p. 151,
12. 1 quidem post eadem R 5 ad om
. Λ , s. l. R T uno] uno quoque R A (quoque
er .) Φ , ad uno s. l . isto A m2 2 est
quidem] R ΓΦ est quiddam ( repet , est S ) cett . 3
est post corpus S, om . Φ 5 uero] RST
iI (s. l. m2) Φ , om . ΛΛΣΊ
Busse; Porph. p. 4. 23 δέ 6 uero] codd. nostri,
om. Busse; Porph. p. 4, 24 δέ post , et om.
RS 7 eorum RS generalissimum] codd. PQ (non L) Bussii
edd . genera- lissima codd. nostri; Porph. p. 4, 25 τό
γινικώτατον 8 uero om. R 9 ante et add .
est 2 pr . specie R 10 est om . 2
, s. l . Δ 11 et] sed et brm, recte ut uid.; Porph. p.
4, 27 αλλά καί est om. R 12 animal autem] rursus
animal brm; Porph. p. 4, 28 κάλιν δέ to ζώον 13 uero]
ΓΔ (s. l. m2) Π*!' , om. cett . animalis]
Δ (s. l. m2) ΣΊ ’ ( post ratio- nalis). om.
cett.; Porph. p. 4, 29 γένος δέ τού λογικού ζώου 14 animal—
est om. R 15 autem] uero RS 16 autem del .
h m2 genus etiam R 17 et om. CEGP indiuiduum
F 18 est s. l. E erit CGR solum species
erit LS erit solum species E solum species est
CR solum speciem non etiam genus esse liquet G 19
Praedicimus R, add. etiam L posita, quae idcirco
praedicamenta uocauerit, quoniam de ceteris omnibus praedicantur. quicquid uero
de alio praedicatur, si non potuerit PREDICAZIONE conuerti, maior est res illa
quae PREDCIARE ab ea de qua PREDICARE. itaque haec PREDICAMENTI maxima rerum
omnium, quoniam de omnibus PREDICARE sunt. in uno quoque igitur horum PREDICAMENTI
quaedam generalissima sunt genera et est longa series specierum atque a maximo
decursus ad minima. et illa quidem quae de ceteris PREDICARE ut genera neque
ullis aliis supponuntur ut species, generalissima genera nuncupantur, idcirco
quia his nullum aliud superponitur genus, infima uero quae de nullis speciebus
dicuntur, specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum
cuiuslibet rei uocabulum illa suscipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua
quaeritur proprietate sunt constituta. at quoniam species id quod species est
ex eo habet nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita
generi supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. species
enim quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species,
sed habet quandam generis admixtionem, illa uero species quae ita supponitur
generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum spe- cies simplexque
est species atque idcirco et maxime species et specialissima nuncupatur. inter
genera igitur quae sunt generalissima et species quae specialissimae sunt, in
medio 1 uocauit Lp.c.P dicuntur N 3 poterit
CNSm1 res om. E, sed ras ., ratio R 4
post , praedicatur] dicitur HNP 5 maxime Em1G a.c . 7
quaedam] quae CFHN genera om. CN, ante sunt
F et om . CHN 8 maximis CFHNPm2 11 quia]
quoniam HN 14 inper- mixtaque Em2HPm2 intermixtaque
NPm1 de qua s. l. Sm2 de quo R quae E (ex
alia uoce) N 15 at] ut CFN quod] quoniam E 16
nomen om. FN quia] quoniam F 17 aliis om. C
18 ante alii add . generi CL (del. m2), post s. l.
P 19 simplex om. GRS, s. l . Em2Lm2 22 atque idcirco
maxime (-ma H ) species est (est om. H ) in mg. Hm1?, s. l.
Lm2 ante species add . est P, post C, s. l. Lm2 24
specialissima EGSm1 sunt om. EG, s. l. Pm2, post
quae L sunt quaedam quae superioribus quidem collata species
sunt, inferioribus uero genera. haec subalterna genera nuncupantur, quod ita
sunt genera, ut alterum sub altero collocetur. quod igitur genus solum est, id
dicitur generalissimum genus, quae uero ita sunt genera, ut esse species
possint, uel ita species, ut sint genera nonnumquam, subalterna genera
uel species appellantur. quod uero ita est species, ut alii genus esse non
possit, specialissima species dicitur. His igitur cognitis sumamus PREDICAMENTI
unius exemplum, ut ab eo in ceteris quoque PREDICAMENTI atque in ceteris
speciebus in uno filo atque ordine quid eueniat possit agnosci. substantia
igitur generalissimum genus est; haec enim de cunctis aliis PREDICARE ac primum
huius species duae, corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est,
substantia dicitur et item quod incorporeum est, substantia PREDICARE sub
corporeo vero animatum atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore
animal ponitur; nam si sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua
uero pars, id est species, continet animatum insensibile corpus. sub animali
autem rationale atque inrationale, sub rationali homo atque deus; nam si
rationali mortale subieceris, hominem feceris, si inmortale, deum, deum uero
corporeum; hunc enim mundum ueteres deum uocabant et Iouis eum
appellatione 1 quidem om. EG collata] FHm1NPm2
collatae Cm2EGHm2 ( add . e, sed exters .) Lm2
collocata Pm1 collocatae Cm1Lm1RS (in ras.) sunt species
CLR 2 haec] et C nominantur FHNP 3
alterutrum Ea.r.Pm1 alterutro Pm2 5 ita s. l.
Em2Lm2, ante ut C 6 ut sint—est species (7) s. l.
Em2 9 igitur] ergo E 11 ante in add .
ut Lm2Pm2 uno quoque Em2H (quoq. del. m1 ?)
PRS quod Ea.c . GLm2Pm1R 14 duae om. HN
sunt add. C,s.l. Pm2, ante duae L post pr . corporeum
add . et C, s. l. Pm2 , atque FHN 15 ante post .
substantia add . et ES (del) , ex R 17 sub
animato—ponitur om. R post . poni- tur] collocatur FHNP 18
adicies RS 19 inanimatum Cm1Lm2NPm2S (in s. l.
minus cert .), post add . et s. l. Pm2 20 post
rationali add . autem L 22 feceris om. GRS, s. l. Em2 ,
scil. fecisti ( ante hominem) s. l. Sm2 constituis L
post uero s. l . dico Lm2, post corporeum
Sm2 23 deum ueteres LN dignati sunt deumque solem
ceteraque caelestia corpora, quae animata esse cum Plato, tum plurimus doctorum
chorus arbitratus est. sub homine uero indiuidui singularesque homines ut
Plato, CATONE, CICERONE et ceteri, quorum numerum pluralitas infinita non
recipit. cuius rei subiecta descriptio sub oculos ponat exemplum substantia corporea
incorporea corpus animatum inanimatum animatum corpus sensibile insensibile
animal rationale inrationale rationale animal mortale | inmortale homo Plato CICERONE
CATONE Superius posita descriptio omnem ordinem a generalissimo usque ad
indiuidua praedicationis ostendit. in qua quidem substantia generalissimum
dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus, nulli uero ipsa
supponitur, et solum genus propter eandem scilicet causam, homo autem species
solum, quoniam Plato, 1 dignati sunt] designauerunt Em2 deum
quoque HLm2P 2 cum] tum Em2F platone
Lm2PSm1 tunc CGLSm1 4 cato om. C, ante plato
L , tito N 5 oculis CFP 6 ponit Lm1 figuram supra
de- pictam exhibent P (est altera de duabus ipsa quoque a m1 facta, prior minus
dilucida est), nisi quod ad pr . animal add . sensibile et
rationale post post . animal pos., et E, in quo ordo nominum
cato plato cicero est, simillima est in G, sed extrema pars
homo—Cicero deest, et in H, nomina tamen socrates plato
cicero sunt; in S uoces mediae tantum substantia—homo extant,
sub uoce homo unum nomen est FVLCO GONCŁ, (explicare non potuimus);
figura deest in CFLNR, in F post ponat exemplum est SVBSTANTIA 8
ad om. H, s. l. Em2 indiuiduum FLN in qua] et
E 10 uero] ergo H Cato et Cicero, quibus est ipsa
praeposita, non differunt specie, sed numero tantum. corporeum uero, quod
secundum a substantia collocatur, et species esse probatur et genus,
substantiae species, genus animati. at uero animatum genus est animalis,
corporei species. est enim animatum genus sensibilis, animatum uero
sensibile animal est; ipsum igitur animatum propter propriam differentiam, quod
est sensibile, recte genus esse dicitur animalis. animal uero rationalis genus
est et rationale mortalis. cumque rationale mortale nihil sit aliud nisi homo,
rationale fit animalis species, hominis genus. homo uero ipse Platonis, CATONE,
CICERONE non erit, ut dictum est, genus, sed est solum species. nec solum
differentiae rationalis species est homo, uerum etiam Platonis et CATONE
ceterorumque species appellatur, propter diuersam scilicet causam. nam
rationalis idcirco est species, quoniam rationale per mortale atque inmortale
diuiditur, cum sit homo mortale. idem nero homo species est Platonis atque
ceterorum; forma enim eorum omnium homo erit substantialis atque ultima
similitudo est autem communis omnium regula eas esse species specialissimas
quae supra sola indiuidua collocantur, ut homo, equus, coruus — sed non
auis; auium enim multae sunt species, sed hae tantum species esse dicuntur —,
quorum subiecta ita sibi sunt consimilia, ut substantialem differentiam habere
non possint. in omni autem hac dispositione priora genera cum inferioribus
coniunguntur, ut posteriores efficiant species; nam 1 Cato] tito
N et om. P, s. l. Lm2 5 corporis FN enim]
autem CLSm2 6 ipsum post igitur FL (s. l. m2),
om. EGRS propter] praeter H 7 quae ER 8
post rationale add . est genus R, s. l . scil. genus
L 11 Catonis om. CLN titonis N ante
Ciceronis add . et CFHP 12 species est solum C 13
catonis et platonis CL platonis titonis N 15
post rationalis add . homo G 16 homo om.
EGLS 17 atque] et C eorum enim E 18 erit]
est FHNP 19 ante om- nium add . et R
post regula add . est EG esse ante
eas FNS (s. l. m2), om. EGR 21 enim] uero CEGLRS
22 haec Gm1NR hee P species om. E
quarum Em2FSm2 sibi om. R 24 dis- putatione
F 25 iunguntur CLm1 coniungantur m2
efficiunt Fa.c.Sm1 efficiat m2 ut sit corpus
substantia, cum corporalitate coniungitur et est substantia corporea corpus.
item ut sit animatum, corporeum atque substantia animato copulatur et est
animatum substantia corporea habens animam. item ut sit sensibile, eidem tria
illa superiora iunguntur nam quod est sensibile, tantum est, quantum
substantia corporea animata retinens sensum, quod totum animal est. item
superiora omnia rationi iuncta efficiunt rationale postremumque hominem
superiora omnia nihilo minus terminant; est enim homo substantia corporea,
animata, sensibilis, rationalis, mortalis nos uero definitionem hominis
reddimus dicentes animal rationale, mortale, in animali scilicet includentes et
substantiam et corporeum et animatum atque sensibile. et in ceteris quidem
speciebus atque generibus ad hunc modum uel genera diuiduntur uel species
describuntur. Quemadmodum igitur substantia, cum suprema sit, eo quod
nihil sit supra eam, genus erat generalissimum, sic et homo, cum sit species
post quam non sit alia species neque aliquid eorum quae possunt diuidi, sed
solum indiuiduorum — indiuiduum enim est p. 71 Socrates et
Plato —, species erit sola et ultima species 15—p. 212, 18] Porph. p. 5,
1—16 (Boeth. p. 30, 2—20). 4 eadem H idem ex
eidem Lm2 6 retinet CN habens L 7 ratio-
nali Pm2 coniuncta HL efficiuntur Ea.r.GS 8
postremoque CHNP (recte?) postremum (-mo L) uero
LS 11 inter mortale et in animali add . quia
animal includit[ur] in se et substantiam et corporeum et animatum atque
sensibile R 12 atque] et H 14 describuntur] dis-
tribuuntur FN 15 cum] R (sed ante breuis ras.)
fi quae cum cett . (quae del. et in mg. scr .
parentesis 5 m2 ); an quae scribend .? suprema om. S
summa G 16 eo quod] et A a.c . nihil] nullum N SA
sit om. F, s. l . Λ , est post eam Λ2
erat] RSm1 erit m2F sit P est cett.
codd . edd. Busse; Porph. p. 5, 2 ήν 17 sic et—species
dicitur (p. 212, 15) ] RS Q , om. cett . et] etiam RS
ΤΦ , glossa ut uid. ad et in Π 18 alia]
aliqua RS; add . inferior ΔΛΠΣ*Ρ Busse, post
species Γ , om. RS Φ edd. Porph. p. 5, 3 aliud
R 19 post diuidi add . in species edd., recte ut
uid., etiam Bussio placet; Porph. p. 5, 3 χών χέμνεοΟαι ουναμένων εις
είδη post indiuiduorum add . species R
20 post Plato add . et hoc album brm, fort. recte;
Porph. p. 5, 4 xat χοοχι χό λεοχόν solum R
solam S et, ut dictum est, specialissima. quae uero sunt in
medio, eorum quidem quae supra ipsa sunt, erunt species, eorum vero quae post
ipsa sunt, genera. quare haec quidem habent duas habitudines, eam quae est ad
superiora, secundum quam species ipsorum esse dicuntur, et eam quae est
ad posteriora, secundum quam genera ipsorum esse dicuntur. extrema uero unam
habent habitudinem. nam et generalissimum ad ea quidem quae posteriora sunt,
habet habitudinem, cum genus sit omnium id quod est supremum, eam uero
quae est ad superiora, non habet, cum sit supremum et primum principium, specialissimum
autem unam habet habitudinem, eam quae est ad superiora, quorum est species,
eam uero quae est ad posteriora, non diuersam habet, sed etiam indiuiduorum
species dicitur, sed species quidem indiuiduorum uelut ea continens,
species autem superiorum, uelut quae ab eis contineatur. 2
ipsa om. R, post sunt Γ species erunt RS; Porph. p. 5,
6 είη αν εϊδη 3 uero—sunt om. S, s. l . autem quae sunt
sub se erunt m2 uero] autem RSm2 V<]?} fort.
recte post ipsa] sub ipsis R 4 duas habent ΔΛ2
Busse; Porph. p. 5, 7 έχει Sio σχέσεις habentes
S 7 dicuntur esse R extremae (-me) Sm1 h m1 A2 m2 b 8
habent unam Δ et generalissimum] id quod generalissimum est
RS; Porph. p. 5, 9 το τε γάρ γενιχώτατον 9 habet] habet
unam Δ 10 genus post omnium R, post
sit S Σ id] hic R ea R 11 post
uero add . habitudi- nem Γ non habet hic om.,
post principium add . non habet habitudi- nem R, add . et (ut
diximus) supra quod non est aliud superueniens genus edd. cum Porph. p.
5,12 12 ante specialissimum add . et brm
Busse, fort. recte, om. codd. (etiam LPQ Bussii); Porph. p. 5, 12
«ύ τί> είδιχώτατον δέ specialissimam R T m1
specialissima S autem] etiam brm 13 eam om.
RS 14 posteriora] inferiora RS 511 , recte ? 15 non diuersam]
Sm1 edd . quorum diuersam A m1 non ( del. uel om . diuersam,)
Sm2 A m2 et cett. Busse; Porph. p. 5, 14 oi% άλλοίαν species
dicitur—indiuiduorum om. FHN , sed—indiuiduorum om. CT 16
qui- dem om . Σ , post add . dicitur edd.; codd. quidam
Porph. p. 5,15 λέγεται eam N 17 post
continens add . est Σ autem] uero L 18 his
NR illis F contineantur CEm2H continetur N
Ω ( sed corr . K m2 , ex -entur II m2 )
Ex proportione speciei nomen et generis ostendit. nam ut genus, quoniam
non habet genus supra se, generalissimum genus dicitur, ut substantia, ita
species, quoniam non habet sub se speciem, sed indiuidua, specialissima species
dicitur, ut homo. quid est autem species non habere? his praeesse quae
neque in dissimilia diuidi possunt, ut genera diuiduntur, neque in similia
secantur, ut species. quae uero inter genera generalissima speciesque
specialissimas constituta sunt, ea et species et genera nuncupantur, quoniam et
ipsa aliis supponuntur et his alia subiciuntur, quorum uel in dissimilia uel in
similia possit esse partitio. cumque duae sint habitudines et quasi
comparationes oppositae, quae in omnibus generibus speciebusque uersentur, una
quidem quae ad superiora respi- ciat, ut specierum, quae suis generibus
supponuntur, alia uero quae ad inferiora, ut generum, cum speciebus
propriis praeponuntur, generalissima quidem genera unam tantum retinent
habitudinem, eam scilicet quae inferiora complectitur, illam uero quae ad
praeposita comparatur, non habent. generalissimum enim genus nulli supponitur.
item species specialissima unam possidet habitudinem, per quam scilicet ad sola
genera comparatur, illam uero quae ad inferiora committitur, non habet; nullis
enim speciebus ipsa praeponitur. at uero quae subalterna sunt genera, utraque
habitudine funguntur. 1 propositione FPm1 et om. N,
del. Sm2 , etiam FL 2 super F se om. CN, s, l.
Lm2 4 species specialissima FHN 5 speciem Lm2
post habere add . nisi ( ex 2 al. litt. m2 ) L hoc
est N id est R, inseruit Pm1? 6
possint ESm2 7 ante neque add . sed P, del.
m1?, s. l· Lm2 quae—constituta] specialissimae constitutae, cet.
om. EGRS 8 ea et] illae (illa L ) uero EGLRS 9 et
om. FP quoniam] quae EGLm1R subponantur S 10
subiciantur S pr . uel om. EGR, s. l. Lm2 uel in
similia om. EGRS 11 possint EGLm1S possunt
R paratio Cm1 partitiones EGLa.r.RS
cumque—comparationes om. EGRS, in mg. Lm2 duo
Cm1 sunt NPa.c. 12 subpositae CHm1Lm1N, om. F 13
uersantur EGL 16 una Cm1 retinent ante tantum
H retinet R habent N 18 illam—comparatur
(21) om. S habet G, m1 in CEH 19 genus enim H
nullis F 23 quae] illa quae F utramque
habitudinem G nam et illam possident quae ad superiora
respicit, quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et illam
quae de inferioribus PREICARE; habent enim subalterna genera suppositas
species, ut corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem qua potest
poni sub genere, ad ani- matum uero eam qua potest de specie praedicari.
specialis- simae uero species licet ipsae indiuiduis praeponantur, tamen
praepositi habitudinem non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei ultimae
supponuntur, talia sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint non
habentia substantialem differentiam, sed accidentibus efficitur, ut
numero saltem distare uideantur, ut paene dici possit et pluribus praeesse
speciem et quodammodo nulli omnino esse praepositam. nam cum species
substantiam monstret unam, quae omnium indi- uiduorum sub specie positorum
substantia sit, quodammodo nulli praeposita est, si ad substantiam quis
uelit aspicere. at si accidentia quis consideret, plures de quibus PREDICARE
species fiunt, non substantiae diuersitate, sed accidentium multitudine. itaque
fit ut genus quidem semper plurimas sub 1 ad illam
et quae s. l . ał illud et ał quod L
ad om. CGHLPS quoniam quae] quantum que S 2
post sunt add . genera P, s. l. Lm2 3
praedicantur Hm1Sm1 4 superpositas Hm1 5 qu * a
(i er .) C poni potest E 6 quae EHm1LPN specie]
speciebus R 7 prae- ponuntur Hm1Pm1 8 subpositi
E habent EP habebit Gm2 9 ul- tima
EGLm1S ad substantiam] substantia F 10 quidem
GLm2S non] nec FHLm2NP habentia] Em2 habentes
CEm1GL (es ex al. litt. m2 ) PS habentem R
habent FHN 11 post sed s. l . scii, ex
Hm1? accidentibus del. et s. l . ał accidentalem Hm2 uel al
., acci- dentalem, s. l . ał accidentibus Lm1, s. l . Nam
accidentibus m2 saltim Lm2NPR 12 possint
EFGLRS et] nec F, m1 in HLN 13 species EGL ( es
in er . em? m2 ) Pm1RS esse om. FHN
praepositae EGLRSm2 (-tum m1 ) nam cum—praeposita est (16) in
sup. mg. Lm2 14 monstraret HPm1 monstrat RS unam,
quae] S unaque CFHNP ( ras. ex -que) unam
quamque EGR unam * L 15 substantiae GLR sit
s. l. ante substantia Pm2, om. EGLR , est S ante
quodammodo add. fit HN, post nulli C, om . est (16)
CHN 16 ad om. EGPRS 17 ac GR praedicatur
EGLRS se habeat species; de differentibus enim specie PREDICARE,
differentia uero nisi pluralitati non conuenit. at uero species etiam uni
aliquando indiuiduo praeesse potest. si enim unus, ut perhibetur, est phoenix,
phoenicis species de uno tantum indiuiduo PREDICARE; solis etiam species
unum solem intellegitur habere subiectum. ita nullam multitudinem
species per se continet, cum etiam si unum sit tantum indiuiduum, speciei
tamen non pereat intellectus; quibusdam enim suis quasi similibus partibus
praeest. ut si aeris uirgulam diuidas, secundum id quod aes dicitur, idem
et partes esse intellegitur et totum. idcirco dictum est speciem, licet sit
indiuiduis praeposita, unam tamen habitudinem possidere, unam scilicet qua
species est. quoniam enim praepositis subditur, species nuncupatur, et est
superiorum species tamquam subiecta inferiorum quoque species, idcirco
quoniam eorum substantiam monstrat. speciem uero substantiam nuncupamus, nec
ita est species substantia indiuiduorum, quemadmodum speciei genus; illud enim
pars substantiae est, ut animalis homo reliquae enim partes rationale sunt
atque mortale, homo uero Socratis atque CICERONE tota substantia est;
nulla enim additur differentia substantialis ad hominem, ut Socrates fiat aut
Cicero, 1 de differentibus enim] quod de differentibus CL 2
ni C 4 est post unus FHP, post phoenix
N 5 solem] EGPpr solum cett. codd . bm; cf. p.
218. 3. 219, 17 . 7 cum om. S ut CFN tantum om
. ENRS; cf.p. 219,11 post indiuiduum add . unius generis
G 8 tamen om. C perit Sm2, add . sensus et
F 9 post uirgulam add . in partes suas (suas
partes P ) id est (id est om. F ) aeneas particulas
(particulas om. F , aeneas uirgulas, sed del. L ) CFHLN, in
mg. Pm2 10 in- telliguntur H 12 possidet FN unam]
illam L eam unam F 13 ante qua s. l .
in Sm2 14 nuncupatur] nominatur FHN 16 demonstrat
CEGLP est om. S, post species in ras. N , esset
F 17 substantia (ia ex ie F ) ante
species FNa.c.RS, post indiuiduorum C 18 ani- malis
homo] EGLm1 homo animalis Sm2P animal hominis
CLm2Sm1 hominis animal FH (inis in ras. m2 et
post animal 2 litt. er .) NR 19 etenim R
sunt om. EGR post mortale add . adduntur ( om. N ) animali ad
diffiniendam substantiam hominis N edd . uero om. CFGLRS
sicut additur animali rationale atque mortale, ut homo integra
definitione claudatur. idcirco igitur species specialissima tantum species est
atque hanc solam possidet habitudinem ad superiora quidem, quoniam ab his
continetur, ad inferiora uero, quoniam eorum substantiam format et continet. Determinant
ergo generalissimum ita, quod cum genus sit, non est species, et rursus, supra
quod non erit aliud superueniens genus, specialissimum uero, quod cum sit
species, non est genus et quod cum sit species, numquam diuiditur in species et
quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur.
ea uero quae in medio sunt extremorum, subalterna uocant genera et species, et
unum quodque ipsorum speciem esse et genus ponunt, ad aliud quidem et ad aliud
sumpta. ea uero quae sunt ante specialissima usque ad generalissimum ascendentia,
et genera dicuntur et species et subalterna genera, ut Agamemnon Atrides et
Pelopides et Tantalides et ultimum Iouis. Posteaquam naturam generum ac
specierum diuersitatemque monstrauit, eorum ordinem definitionis
descriptionisque com- memorat. ac primum quidem generalissimi generis
terminum 6-19] Porph. p. 5, 17—6, 3 (Boeth. p. 30, 21—31, 7).
1 rationalis atque mortalis N 3 possidet] optinet
P 6 post deter- minant add . philosophi C
ergo om. CN enim EGLm1 <t> p.c.; Porph. p.
5, 17 τοίνον ita om. CGHP, s. l. Em2 A m2 quod]
quoniam S 7 sit genus NR et rursus—genera ut (17)
] LRS ii , om. cett . rursum S 8 erit] LRS T
est cett.; Porph. p. 5, 18 οΰχ αν ειη 9 pr .
quod] quae S h a.c . post. quod—et quod (10) om. L 10
diuidatur S 11 et] et de L 13 uocant] Λ2Φ
uocantur cett. edd. Busse; Porph. p. 5, 21 χολοΰσι 14 ipso
eorum S speciem] Brandt species codd. Busse
ponunt] A m2 U m2 , e coni. scr. Busse , ponuntur T m1
possunt m2 cum cett .; species esse potest et
genus edd.; Porph. p. 5, 22 xal έχαοτον αδτών είδος είναι xal
γένος τίθενται 17 post , et om. R ut om. FS
18 et om. CEG pelides F post . et om. C 19 ultimo
F 20 Post ** quam CL diuersitatem GLm1R , -que in
ras. E, er. P inducit, id esse generalissimum genus quod cum ipsum
genus sit, non habet superpositum genus, hoc est speciem non esse, et rursus,
supra quod non erit aliud superueniens genus. si enim haberet aliud genus,
minime ipsum generalissimum uocaretur. specialissima uero species hoc
modo : quod cum sit species, non est genus, ex opposito, quoniam opposita ex
oppositis describuntur interdum. nam quoniam praepositio opposita est
suppositioni, genus autem praeponitur, species uero sup- ponitur, si idcirco erit
primum genus, quia ita superponitur, ut minime supponatur, idcirco erit
ultima species, quia ita supponitur, ut praeponi non possit, oppositorum igitur
recte ex oppositis facta est definitio. Est alia rursus descriptio : quod cum
sit species, numquam diuidatur in species, id est genus esse non possit. si
enim omne genus specierum genus est, si quid non diuiditur in species,
genus esse non poterit. Est rursus alia definitio : quod de pluribus et
differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. de qua definitione saepe
est superius demonstratum. nunc 18 saepe superius] p. 188, 12. 190, 11
ss. 203, 11. 205, 4. 1 inducit] RSm1 indicit
Em1 indicat GLa.c. dicit CEm2FHLp.c. NPSm2
inducit dicens brm indicat dicens p id om. EGRS,
s. l. Lm2 3 non om. EGRS, s. l. Lm2 superueniens om.
EGRS, s. l. Lm2 si—genus om. EGRS, in mg. sup. Lm2 5
uocetur EGLm1Sm2; post inlatus est locus p. 219,14—220,
3 quoniam ridere—exemplam in EGL, quoniam irridere
(sic) —praedicatur p. 219, 15 (qui locus tamen infra quoque extat) in
S specialissima—idcirco erit (10) in ras. C post modo
add. describitur edd. 6 opposito] opposita F
opposito est H; post add. Quia sicut genus (genus
in mg. F ) generalissimum est cui non aliud genus superponitur, ita et species
specialissima nuncupatur, cui alia species non subponitur (superponitur F
) et utrumque ex opposito dicitur alterius sicut pater ex opposito dicitur
filii F, in inf, mg. cum nota d(esunt) h(aec) Hm1?
opposita om. EGR, s. l. Sm2 7 quoniam om. EN 9 si
er. E sed La.c, Pm2 11 ante ut add.
rursus RS ut praeponi non possit] ut minime praeponatur CFHN
(in mg. add. m2) oppositorum om. EGLRS recte om.
C 13 quod] Lm1 edd. quae cett. ante
numquam add. quae CGHm1, del. m2 diuiditur
CLRSm1 14 est om. C possit] posse CFN
potest edd . 16 potest EGLRS Est] et FHNS
et om. N illud attendendum est. si, ut paulo superius dictum
est, speciei unum indiuiduum potest esse subiectum, ut phoenici atomum suum, ut
soli corpus hoc lucidum, ut mundo uel lunae, quorum species singulis suis
indiuiduis superponuntur, qui conuenit dicere speciem esse quae de pluribus
numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur? sunt enim quaedam
quae de numero differentibus minime dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus.
sed de his illa ratio est de qua etiam superius pauca reddidimus, quae paululum
inflexa commodissime nodum quaestionis absoluit. | omnia enim quae sub
speciebus specialissimis sunt, siue infinita sint siue finito numero
constituta siue ad singularitatem deducantur, dum est aliquod indiuiduum,
semper species permanebit neque indiuiduorum deminutione, dum quodlibet unum
maneat, species consumitur. ut enim dictum est, tametsi plura sint indiuidua,
substantiales differentias non habebunt. id uero in genere dici non
conuenit, quod his praeest quae substantiali a se differentia disgregata sunt;
praeest enim speciebus quae diuersis differentiis informantur. 1 paulo
superius. 8 superius] p. 215, 2 ss. 1 est om. G, s. l.
Lm1 si, ut] sicut FGPSm1 sic La.c. supra RS
3 suam S solis F mundi FR, add. hoc inane
spacium s. l. Lm2, post lunae in mg. et hoc
immane spacium quod uidemus P quo- rum] quae Lm1 4
indiuiduis om. EGRS post superponuntur add . quod si ita est ut
species de uno quolibet indiuiduo praedicetur (praedicatur P ) ut de
phoenice (phe- P ) P edd. qui] quomodo Hm2LP 6
praedicetur L 8 mundus om. EGRS, s. l. Lm2 illa
his EG ratio est om. EG 9 paulum N inplexa
( uel im-) EHm1LP nodum ras. ex modum EN 10
sub] suis EGS in suis R specialissima
GPm1RS 11 sint] sunt CHa.c.Lm1R finita CHm2N 12
deducuntur Lm2R adducuntur P, add. ut fenix uel
sol R aliquid FL semper—deminutione om. EGRS, in
mg. Lm2 semper s. l. Pm1?, post species N, om. L (m2)
13 deminutione] C diminutione cett. dum om.
S si EGLm1R 14 ante consumitur add.
non EGL (del. m2) RS ut] quod EGLRS 15
tamenetsi G tamen si RS sunt F ante
substantiales add. si G, s. l. Sm2, ras. in E 16 id
uero om. EG quod L idcirco id R id
circo Sm1 , circo del. m2 18 ante speciebus
s. l. genus E si igitur earum una perierit et ad
unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia de
differentibus specie praedicatur. non ita in speciebus. si enim omnium
indiuidu- orum natura consumpta sit et ad unius singularitatem indiuidui
superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac permanet.
talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod permansit et
subiacet. quod uero dicimus de pluribus numero differentibus speciem
praedicari, duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia multo
plures sunt species quae de numerosis indiuiduis praedicantur, quam hae quibus
unum tantum indiuiduum uidetur esse sup- positum, dehinc hoc, quia multa
secundum potestatem dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis homo
dicitur, etiamsi minime rideat, quoniam ridere potest. ita igitur species
de numero differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de pluribus
phoenicibus PREDICARE, si plures essent, quam nunc, quando unus esse
perhibetur. item solis species de hoc uno sole quem nouimus, nunc dicitur, at
si animo plures soles et cogitatione fingantur, nihilo minus de pluribus
solibus indiuiduis nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. idcirco
igitur species de pluribus numero differentibus dicitur praedicari, cum sint
aliquae quae de singulis indiuiduis appellentur. Illa uero quae subalterna
uocantur ita definiri queunt : subalternum 1 eorum EFGLm1RS
redacta EGLPm2RS edd. 2 de om. E 3 si enim] nam
si EGLRS 5 suppositae LNR superposita S
uene- rit EGLRS 6 alia EGLa.c.RS ante sunt s. l.
non E 7 quale] quam EGLa.c.RS et] ac CFHNP
8 de numero pluribus Ca.c. numero de pluribus p.c. 9
excusatur EGLRS quidem uno EG multo om. FN, s. l.
H 11 hae om. ER hee C eae H ea
N ante qui- bus add. e CR, er. uid. E tantum
om. S suppositum esse RS 12 dehinc] deinde EGLRS
hoc om. FHNS 13 semper om. CFH 14
etiamsi—praedicatur om. F de loco quoniam ridere eqs. in
EGLS cf. ad p. 217 , 5 igitur] etiam E 15 nihil
EGLPRS 16 phoenicibus om. F 17 ita (a in ras. m2) E
hoc om. S, post uno F 18 ac EGR ante
animo s. l. in Pm2 19 cogitationes Ca.c.F ante
de add. enim EG 20 praedicatur EGLRS 22
appellantur FHN genus est quod et genus esse poterit et
species, ad eumque modum est ut in familiis, quae procreant et procreantur, ut
etiam subiectum monstrat exemplum : ut Agamemnon Atri- des et Pelopides et
Tantalides et ultimum Iouis. Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem species
quasi Agamemnonis genus est. item Agamemnon Pelopides et Tan- talides,
cum Pelops ad Tantalum comparatus Tantalusque ad Iouem quasi species itemque
Tantalus ad Pelopem, Pelops ad Atreum tamquam genera esse uideantur, cum
Iuppiter ueluti sit horum generalissimum genus. Sed in familiis
quidem plerumque ad unum redu- cuntur principium, uerbi gratia ad Iouem, in
generibus autem et speciebus non se sic habet. neque enim est commune unum
genus omnium ens nec omnia eiusdem generis sunt secundum unum supremum genus,
quem- admodum dicit Aristoteles. sed sint posita, quemad- 11-221,
7] Porph. p. 6, 3—11 (Boeth. p. 31, 7—17). 16 Ari- stoteles] Metaph. II, 3, p.
998 b , 22. 1 et om. RS et genus om. EG
ad—ut] CG ( ut om.) Hm2 ad eumque ( et ad eum
N) modum sunt ut Hm1N ad eumque ( eum que *
L eundem Pm2 ) modum qui (s. l. Lm2, part. in ras.
Pm2) est (s. l. Pm2) LP ad eum modum qui
est EFR ad eum ( eum del. m2, post que eu
er.) modum, in ras. quae est m2 S 4 et
Tantalides—Iouis] Lm2Pm2 (om. et Tantalides ) R edd.,
post species (5) Lm1S, om. cett. 5 quasi] quae si Sm1,
del. m2, ante add. et F, s. l. Pm2 , est R 6 Agamem-
nonis] tamen his ( is R) EGLm1R tamen non his Sm1, del.
m2 genus est del. Sm2 est om. P ante
Pelopides add. non E atrides non ( non del.
m2) L 7 comparatus] (s in ras. m2) H comparatur (cõ-)
cett Tantalusque] ut tantalus quae G 8 idemque CP
idem N 9 Atreum] creontum EG creontem Lm1 tareontum S tamquam]
quasi EGLR quae S uelut HP 11
reducuntur ante ad N, post reducuntur add.
omnes L, s. l. Pm2; reducunt coni. Busse; cf. p. 224,
19 reduci; Porph. p. 6, 3 άναγουοι 12
ad om. EGRS A 13 speciebus] in speciebus R sic se
ΝΣ habetur EG neque—dicerentur (p. 221, 5) ] RS Q
, om. cett. enim om. R 14 neque
Busse 15 sunt generis Γ 16 sunt \ m2 2 ; Porph.
p. 6, 6 χείοθ·ω quemadmodum om. S, add. dictum
est edd., idem post Praedicamentis h m2 W m2 (cf.
p. 224, 19); om. Porph. p. 6, 7 modum in PREDICAMENTI, prima X
genera quasi prima X principia; uel si omnia quis entia vocet, aequiuoce,
inquit, nuncupabit, non uniuoce si enim unum esset commune omnium genus ens,
uniuoce entia dicerentur; cum uero X sint prima, communio secundum nomen
est solum, non etiam secundum rationem, quae secundum nomen est. Cum de
subalternis generibus diceret, familiae cuiusdam posuit exemplum, quae ab
Agamemnone peruenit ad Iouem, quem quidem pro numinis reuerentia ultimum
posuit. quantum enim ad ueteres theologos, refertur Iuppiter ad Saturnum,
Saturnus ad Caelum, Caelus uero ad antiquissimum Ophionem ducitur, cuius
Ophionis nullum principium est. ne igitur quod in familiis est, id in rebus
quoque esse credatur, ut res omnes possint ad unum sui nominis redire
principium, idcirco deter- minat hoc in generibus ac speciebus esse non posse;
neque enim sicut familiae cuiuslibet, ita etiam omnium rerum unum esse
principium potest. fuere enim qui hac opinione tenerentur, ut rerum omnium quae
sunt unum putarent esse genus quod ens nuncupant, | tractum ab eo quod
dicimus ‘est’; omnia enim p. 74 3 inquit] sententia, non
uerba Aristotelis. 1 quasi in ras. Σ
sic A m1 sicut Ψ 2 prima om. Γ
, post decem Π 2 uocat A m1 II 3
nuncupauit S, in ras. ex -bit Γ 4 genus omnium
Busse entia uniuoce R post uniuoce add.
omnia edd. cum Porph. p. 6, 9 πάντα 5 uero]
autem Γ enim ΔΔΣΦ ; Porph. p. 6, 10 δέ
sunt FH prima] principia Lm1 prima genera
m2P (genera s. l. m2 ), prima principia N ΓΣ 7
ante rationem ( ante nomen E ) add. definitionis
( uel diff-) ELRS Q , om. Porph. p. 6, 11 quam E
post est add . solum CHN 8 Cum] Quoniam CLm1NS
Quoniam (del. m2) cum H di- cens CLm1N
dicit in ras. S cuius Pm1 cuiusque F
eiusdem R 9 ponit Sm2 ab om. F, s. l. Gm2
10 nominis EGLS nomini R 11 ad ueteres] aduertere
Sm1 aduertisse CEFGLm2P aduertit se R referantur
Hm1N 12 caelium ( uel ce-) LPm2RS zethum F
zechum N Caelus] Hm2 caelius ( uel ce-) LPm2Sm2
celium R caelum CEGHm1Pm1Sm1 zetus F
zehus N othionem F ( sed ophionis) 14 esse ( Pm2
est m1 ) quoque FHNP 15 ante sui exters.
uid. proprii E 17 familia H 19 ut] et
Fa.c.S ut et N 20 est] esse S sunt et de
omnibus esse PREDICARE itaque et I SBVBSTANTIA est et II QVALITAS est itemque III
QVANTITAS ceteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi haec
quae PREDICAMENTI dicuntur, esse constaret. quae cum ita sint, ultimum omnium
genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus PREDICARE ab eo autem quod
dicimus est participium inflectentes Graeco quidem sermone Sv
Latine ens appellauerunt. sed Aristoteles sapientissimus rerum cognitor
reclamat huic sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse primordium, sed
X esse genera in rebus, quae cum a semet ipsis diversa sint, tum ad nullum
commune principium reducantur. haec autem X genera statuit I SVBSTANTIA II
QVALITAS III QVANTITAS IV AD ALIQVID V VBI VI QVANDO VII SITVM VIII FACERE IX
PATI X HABERE quod uero occurrebat quoniam de his omnibus esse PREDICARE —
omnia enim quae superius enumerata sunt genera, esse dicuntur —, ita
discussit ac reppulit dicens non omne commune nomen communem etiam formare
substantiam nec ex eo debere genus esse commune arbitrari, quod de aliquibus
nomen commune PREDICARE quibus enim definitio communis nominis convenit, illa
communis nominis iure species iudicabuntur et communi illo vocabulo
uniuoce PREDICARE quibus uero non convenit, vox his communis tantum est, nulla
uero substantia. id autem manifestius declaratur exemplis hoc modo. animal
hominis atque equi genus esse PREDICARE; demus igitur 1 post.
et om. EGRS, s. l. Lm2 2 cetera C 3 de] in
GLm1RS 5 esse om. EGRS, s. l. Lm2 6 autem s. l. L
enim C est] esse FS principium EG, m1 in
LPS inflectentes post quidem N 7 quidem
ante Graeco R ante sermone add. de P, s. l.
L post Latine add. autem FHN, s. l. Pm2 8
prudentissimus FNP rerum] principiorum EGLm1Pm1RS 9
omnes ante res C, om. EGRS, s. l. Lm2 dici
FGm1Pm2 10 ad FHNRm1 ipso Em1GPm1S ipsa FHN
ipsos Rm1 sunt CLm1R edd. 11 reducuntur
EFGLm2RPm1S 15 nu- merata CEGL innumerata S 16
repulit CEFHRP 17 eo debere] eodem uere (e re add. S )
EGSm1 18 post arbitrari add. debet E
19 praedicatur E praedicetur FHNP nominis
communis FN 22 his uox FHNP 23 manifestis
FLp.c. 24 praedicatur S dicamus CHN
animalis definitionem, quae est substantia animata sensibilis; hanc si ad
hominem reducamus, erit homo substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate
definitio maculatur. rursus si ad equum, erit equus substantia animata
sensibilis; id quoque uerum est. conuenit igitur haec definitio et
animali, quod commune est homini atque equo, et eidem equo atque homini, quae
species ponuntur animalis. ex quo fit ut homo atque equus utraque animalia
uniuoce nuncupentur. at si quis hominem pictum hominemque uiuum communi
animalis nomine nuncu- pauerit, definiat si libet animal hoc modo,
substantiam animatam esse atque sensibilem. sed haec definitio ei quidem homini
qui uiuus est conuenit, ei uero qui pictus est, minime; neque enim est animata
substantia. igitur homini uiuo atque picto, quibus communis nominis definitio,
id est animalis, non potest conuenire, non est animal commune genus, sed
tantum commune uocabulum diciturque hoc nomen animalis in uiuo homine atque
picto non genus, sed uox plura significans; uox autem plura significans
aequiuoca nuncupatur, sicut uox ea quae genus ostendit, uniuoca dicitur. itaque
id quod dicitur ens, etsi de omnibus dicitur PREDICAMENTI quoniam tamen
nulla eius definitio inueniri potest quae omnibus PREDICAMENTI possit aptari,
idcirco non dicitur uniuoce de prae- dicamentis, id est ut genus, sed
aequiuoce, id est ut uox plura significans. Conuincitur etiam hac quoque
ratione id quod dicimus, ens PREDICAMENTI genus esse non posse. 2
hanc] uel hanc E 3 facultate Em1 4 equus] equi
CFPm2 5 definitio ( uel diff-) haec FHN 6 homini] et
homini CNP atque] et, FHNPR eidem] CEm2FH a.r.NPR
idem Em1GHp.r.Lm1S eadem Lm2brm ea eidem p
8 animalis EGLa.c. una uoce E nun- cupantur
C nominentur FHN 9 uiuum] uerum EGLm1PRS 10 si libet]
scilicet CHm1N animal om. E 12 uero] FHP, om. S ,
quidem cett. 13 est post substantia LP 16 dicitur
quae Em1Sm1 dicitur quod LSm2 dicitur quia
CFN 17 genus] genus est FN uox—significans om.
CEGP, s. l. Lm2Sm2 18 autem] enim RS ante
aequiuoca add. quae CEGP nuncupantur GS 19
ita ELm1 23 id est om. CFN ut genus om. F
24 quoque om. N unius enim rei duo genera esse non possunt,
nisi alterum alteri subiciatur, ut hominis genus est animal atque animatum, cum
animal animato uelut species supponatur. at si duo sint sibimet ita aequalia,
ut numquam alterum alteri supponatur, haec utraque eiusdem speciei genera esse
non possunt. ens igitur atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim
unius dicere possumus genus ens nec eius quod dicimus ens, unum. nam quod
dicimus ens, unum est et quod unum dicitur, ens est; genus autem et species
sibi minime conuertuntur. si igitur PREDICARE ens de omnibus PREDICAMENTI
PREDICARE etiam unum. nam I SBVSTANTIA unum est, II QVALITAS unum est, III
QVANTITAS unum est ceteraque ad hunc modum. si igitur, quoniam esse de omnibus PREDICARE,
omnium genus erit, et unum, quoniam de omnibus PREDICARE, erit omnium genus.
sed unum atque ens, ut demonstratum est, minime alterum alteri
praeponitur; duo igitur aequalia singulorum PREDICAMENTI genera sunt, quod
fieri non potest. cum haec igitur ita sint, id Porphyrius determinauit dicens
non ita in rebus, ut in familiis omnia ad unum principium posse reduci nec
omnium rerum commune esse genus posse, ut Aristoteli placet; sed sint posita,
inquit, quemadmodum in PREDICAMENTI dictum est, prima X ge|nera quasi X prima
principia, scilicet ut nulla interim ratio perquiratur, sed auctoritati
Aristotelis concedentes haec decem genera nulli 3 ac R
sint post aequalia pos. RS, repet. FL (s. l. m2) P 4
sibi- metque ( quae F) FLm2Pm1 ita s. l. Lm2
5 ante haec add . aequa C , sed del . eidem
Pm2 eius S 6 neutris Em1 8 pr . unum
post nec, om . post ens H dicitur om.
S dicimus Rbrm 13 esse] ens Lm2P post
omnibus add . his CP, in mg. Hm2, add . praedicamentis (s. l.
m2) his L post erit add . ens CHN et
unum—omnium genus om. R 15 sed] si in ras. Em2 ut om.
FH 16 praeponi FH 17 hoc Ea.c. edd . 18 sit edd .
19 deduci LS duci Em1 20 genus ante esse
CFN, post posse S poterit F 21 sint]
FHm1 sunt cett . 23 prima om. N, post principia
R ut om. EGS 24 auctoritate Em1Hm1 ad auctoritatem
FN accedentes CFNS alii generi esse credamus subiecta,
quae si quis entia nuncupat, aequiuoce nuncupabit, non uniuoce; neque enim una
eorum omnium secundum commune nomen definitio poterit adhiberi. quae res facit,
ut non uniuoce de his aliquid PREDICARE si enim uniuoce PREDICARE genus
esset eorum commune nomen quod de omnibus PREDICARE; at si genus esset,
definitio generis conueniret in species. quod quia non fit, commune his id quod
dicimus ens, uocabulum est uocis significatione, non ratione substantiae X quidem
generalissima sunt, specialissima uero in numero quidem quodam sunt, non tamen
infinito, indiuidua autem quae sunt post specialissima, infinita sunt. quapropter
usque ad specialissima a generalissimis descendentem iubet Plato
quiescere, descendere autem per media diuidentem specificis differentiis;
infinita, inquit, relinquenda sunt; neque enim horum posse fieri
disciplinam. 10—17] Porph. p. 6, 11—16 (Boeth. p. 31, 17—32, 1).
14 Plato] Phileb. p. 16 C. Polit, p. 262 A—C. Sophist. p. 266 A. B adfert
Busse. 1 entia nuncupat] ERS (-pet), etiam entia
nuncupat N ab ens entia nuncupat (-pet Lm2 ) CGL
etiam nuncupat (nuncupat post ens P ) ab ens entia HP
entia nuncupat ens F 2 nuncupabit (-uit FHN )
post uniuoce FHNP , nuntiauit S unam—definitionem (
uel diff-) poterit adhibere FHN 3 nomen ex
non Em2G 5 esse Hm1, add . ens s. l . L,
ante esset P eorum om. CN, post commune
L 6 nomen in mg. Hm2, del. Lm2 ens CH(in
mg.) Lm2 ( s. l. ante eorum) N 7 con- uenerit
Em1 8 his om. GS 10 sunt om. S 11 in numero
om . Δ quodam] quaedam Pm1 sunt om., post
indiuidua add . est S tam C infinito] Fp. c
. (finito a.c .) Hm2S TNtt p.c . Φ in infinito Hm1N W
a.c . indefinito C ( ras. ex -tio) EGL a.c . (in
indefinito et ał definito corr. m1 ) PR kIPV
(in er .) 12 indiuidua—quiescere) LRS Q , om. cett . 13 sunt
infinita LRS Busse; cf. p. 226, 22 a om. R 15
ante descendere post usque (cf. ad p. 178, 14)
add. ad id CHP diuidentem per me- dia Γ 16
ante infinita add . indiuidua uero Δ , sed del., post
add . uero ΓΦ 17 enim s. l. L, del . Γ
horum] N ii ( ante add . et ΛΦ , er. uid . Γ
, post add . indiuiduorum Γ ) eorum cett.; Porph. p. 6,
16 τούτων disciplina Cm1 Quoniam specierum
nosse naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia infinita esse
non potest — nullus enim intellectus infinita circumdat —, idcirco de
multitudine generum, specierum atque indiuiduorum rectissima ratione
persequitur dicens supremorum generum numerum notum — enim X PREDICAMENTI ab
Aristotele esse reperta quae rebus omnibus generis loco praeferenda sint —,
species uero multo plures esse quam genera. nam cum decem suprema sint genera
cumque uni generi non una, sed multae species supponantur proximaeque species
supremis generibus subalterna sint genera usque dum ad ultimas species
descendatur, nimirum unius generis multas species esse necesse est utrobique
dif- fusas, specialissimas uero multo plures esse quam subalterna, quoniam per
multitudinem generum subalternorum ad specia- lissimas descenditur species.
quas multo plures esse quam genera subalterna hoc maxime ostenditur, quod
inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta diuiduntur. decem uero
generum species multo plures quam unius existere manifestum est, uerum tamen
etsi plures sunt, certo tamen numero con- tinentur; quem facile si quis
discutiat omniumque generum species persequatur, possit agnoscere.
indiuidua uero quae sub una quaque sunt specie, infinita sunt uel quod tam
multa 1 generis EGLRS, recte? 2 scienti GRS scienti
alicui Lm2 5 su- premorum] supra horum EG, m1 in LPS
ante numerum add . esse FHNP, post notum L
6 post reperta s. l . commemorat Em2 7 gene-
ris om. R, post loco L , generum S sunt
CFH (ras. corr.) NPRSm2 8 nam cum—genera om. EGRS
9 sunt FLP (ras. corr.) 11 sint post genera
C sunt F 13 subalternas FH (s in ras. m2) N, ante
sub. add . genera PS, s. l. Lm2 16 hoc] in hoc F
inferiora FHm1Lm2NP 17 semper enim genera] FHN semper
si genera Cm1 semper enim sub- alterna (genera subalterna P
) Cm2 (part. in mg.) P et semper subalterna genera RS
et (om. G) semper subalterna EGL plurima N
18 ge- neris G unius] generis unius R species unius
generis Lm1 19 sint L compraehenduntur L 21
prosequatur NR 22 species G specie ante
sunt FHLNR tam] FHN ea EGLPRS tam ea
C sunt diuersisque locis posita, ut scientia numeroque includi
comprehendique non possint, uel quod in generatione et corruptione posita nunc
quidem incipiunt esse, nunc uero desinunt. atque idcirco suprema quidem genera
et subalterna et species eas quae specialissimae nuncupantur, quoniam
finitae sunt numero, potest scientiae terminus includere, indiuidua uero nullo
modo. idcirco igitur Plato a magis generibus usque ad magis species id est
specialissimas praecipiebat facere secti- onem; per ea enim quae finita essent
numero, iubebat descen- dere diuidentem, ubi autem ad indiuidua
ueniretur, standum esse suadebat, ne, quod natura non ferret, infinita
colligeret. ita uero genera in species diuidi comprobabat, ut specificis
differentiis soluerentur. de specificis autem differentiis melius in eo titulo
ubi de differentia disputatur, ac largius disseremus. hic enim hoc tantum
dixisse sufficiat, eas esse specificas differentias quibus species informantur,
ut rationale uel mortale hominis. cum igitur diuidimus animal, rationali atque
inratio- nali, mortali inmortalique separamus. <hoc ergo> ceteraque
genera talibus differentiis quae subiectas species informent, Plato
censuit esse diuidenda usque dum ad specialissima 13 de
specificis—disputatur] lib. IV c. 8. 1 sint EFGHp.r . (
ex sunt) LPRS numeroque] FHN in unum
EGLm1 (numero m2 ) RS numeroque in unum CP
concludi LS 3 uero) ex quidem uero P recepit
Brandt , quidem CEGLRS, om. FHN; cf. p. 223, 12 5 easque ( om .
quae,) LR specialissime GS 7 igitur om. C magis
a EGLPRS usque ad magis species] FHN magis om. C
quam a speciebus cett . 8 id est] e ut uid. er. C
specialissimas] CFHN a ( add. L ) specialissimis cett.; cf.
p. 225, 13 9 essent] sunt FN 10 diuidentem] diuisionem
EGHm1 (diuisorem m2 ) Lm1PRS 11 nec HN 12
comprobat ELm1 (probabat m2 ) R ut et
soluerentur om . EGPm1 (s. l. m2) RS post ut add .
in edd . 13 autem om. EGLPm1 (uero m2 ) RS
14 de om. FG differentiis CS a.c . 16 rationabile
E uel om. ERS et Lm1 17 ante
rationali et inrationali add . in Em2 rationale atque
inrationale ( uel irr-) EGN p.c.RS 18 mortali om
. N mortale EGLPS inmortaleque EGNp.c.PRS ;
mortale (sic) ac (s. l.) inmortali L 18 hoc
ergo add. Brandt , cetera <quo>que Engelbrecht
separabimus FHN separauimus R 19 informant
Fa.c.Lm1NR ueniretur, dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam
indiuiduorum numquam esset nec disciplina nec numerus. Descendentibus
igitur ad specialissima necesse est diuidentem per multitudinem ire,
ascendentibus uero ad generalissima necesse est colligere multitudinem.
collectiuum enim multorum in unam naturam species est et magis id quod genus
est, particularia uero et singularia e contrario in multitudinem semper
diuidunt quod unum est; participatione enim speciei plures homines unus,
particularibus autem unus et communis plures; diuisiuum est enim semper
quod singulare est, collectiuum autem et adunatiuum quod commune
est. Diuidere est in multitudinem quod unum fuerat ante dissoluere,
omnisque diuisio e contrario compositionem coniunctionemque meditatur. quod
enim, cum sit unum, dispertiendo diuiditur, id ipsum ex pluribus rursus
partibus adunando componitur ut igitur superius dictum est, indiuiduorum quidem
similitudinem species colligunt, specierum uero genera : similitudo uero nihil
est aliud nisi quaedam unitas qualitatis. ergo substantialem
similitudinem indiuiduorum species colli- gere manifestum est, substantialem
uero similitudinem specierum genera contrahunt et ad se ipsa reducunt.
rursus 3—13] Porph. p. 6, 16—23 (Boeth. p. 32, 1—8). 9 participatione—11
plures] Abaelardus, Theolog. christ., II p. 486 ed. Cousin. 18 superius] p.
166, 8 ss. 3 ante igitur add . illis
L necesse—singulare est (12) om. N 4 ire ante
per L T ascendentibus—plures (11) ] Ω , om. cett
. 6 post multitudinem excidisse in unum coni.
Busse ( cum Porph. p. 6, 18 e’:; εν ), add. edd . 8 e
contrario—semper] Γ edd. cum Porph. p. 6, 20 semper in
multitudinem e contrario cett. codd. Busse 9 est unum Φ 10
unus, unus autem et communis particularibus plures Abaelard . 11
commune P a.c . communes Φ enim post est FS Φ ,
om. CELR , ante est cett . 12 est om. E 14 est]
enim C est enim L in om. G , s. l.
Lm2 15 post dissoluere add . est C 17
plurimis F 19 uero] ergo CEGLm1RS 20 nisi] ni
C generis adunationem differentiae in species distribuunt, spe-
cieique adunationem in singulares indiuiduasque personas accidentia partiuntur.
cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis ad speciem,
diuidendo semper facere multitudinem, cum uero ab speciebus ascendis ad
genera, componendo colligere et plura quae in specierum differentiis fuerant
similitudine qualitatis adunare. in speciebus etiam idem considerari potest. ut
enim ipsae indiuidua, quae sunt infinita, una similitudine substantiali
colligunt. ita indiuidua speciem propria infinitate distribuunt. omnia
enim indi- uidua disgregatiua sunt et diuisiua, species uero et genera
collectiua, species quidem indiuiduorum collectiua atque adu- natiua, specierum
uero genera, ut ita dicendum sit : genus quidem species distribuunt et species
ab indiuiduis in multitudinem deducuntur, rursus autem genus quidem multas
species colligit, species autem particularem singularemque multitudinem ad
singularitatis deducit unitatem. igitur plus genus adunatiuum est quam species.
species namque sola indiuidua colligit, genus uero tam species quam ipsarum
quoque specierum indiuiduas contrahit singularesque personas. sed in hoc conuenienti
utitur exemplo dicens quoniam partici- patione speciei, id est hominis, CATONE,
Plato et CICERONE pluresque reliqui homines unus, id est milia hominum
1 post generis s. l . ergo E species]
specie G speciem Lm1 2 ante
indiuiduasque s. l . in Hm2 3 haec igitur LNP 4
species ELm2R 5 a ELS ad ( tamen speciebus)
G 6 et om . EGLPRS plures EFGLPm1RS
quae ante fuerant EGLPRS 7 fuerint S
simili- tudinum (-nem Pm2 ) qualitates ( ex -tis Pm2) EFGLPRS
ante adunare add . et EGLPR 8 poterit Lm2
ante ipsae add . species N, post in mg. Cm1? ipsae]
Cm2H ipsa cett . 9 unam similitudinem substantialem
EFGLRS 10 propriam infinite ( uel -tae, -tate H )
EGHLPRS 12 post adunatiua add . est CGH
(in mg. m1?) Lm2 NPm2 13 specierum uero genera s. l.
Hm2 14 distribuit EGRS 15 ducuntur EGHN 17
ducit HN 19 cum species tum N 20 indiuidua
EGHLPRS 21 participationi G 23 post unus
add . est Hm2 in eo quod sunt homines, unus homo est; at uero
unus homo, qui specialis est, si ad hominum multitudinem qui sub ipso sunt
consideretur, plures fiunt. ita et plures homines in spe- ciali homine unus est
et specialis unus in pluribus infinitus. sic igitur quod singulare quidem est,
diuisiuum est, quod uero commune, quoniam multorum unum est, ut genus ac
species, collectiuum atque adunatiuum. Adsignato autem genere et
specie, quid est utrumque, et genere quidem uno, speciebus uero pluribus —
semper enim in plures species diuisio generisest —, genus quidem semper
de specie PREDICARE et omnia superiora de inferioribus, species autem neque de
proximo sibi genere neque de supe- rioribus; neque enim conuertitur. oportet
autem aut aequa de aequis praedicari, ut hinnibile de equo, aut maiora de
minoribus, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; neque enim
ani- mal dices esse hominem, quemadmodum hominem dices esse animal. de quibus
autem species prae- 8-231, 19] Porph. p. 6, 24—7, 21 (Boeth. p. 32, 9—33,
4). 1 est. ut et 3 fiunt, ita r 2 pr
. qui] quamuis FNm1 post . quae EPR 3 et] ut Cm1
4 unus est] unum est ał (haec del. m2) unus est C post .
unus] unus est LS infinitis CLm1 diffinitus
R 5 quidem om. FN diuisum Em1 diuisuum
N quod] quia quod, s. l . est G 6 uero commune]
FS commune uero Cm1 ( post uero add . est
m2 ) HN commune est uero LPm2R commune est numero
EGPm1 ac] et R ad Em2GLPm1 8 Assignati
Pm1 quid est] FHPm2 \ m1 quide CNRS quid
sit Π m2 xV edd . quod est cett. Busse; cf . sunt
p. 236, 14 9 utrum- que—uno] CEGHPm1 (quidem ex
quodem) RS h m2 W m2 xP utrumqae quodque sit genus unum (unum
genus N ) FN & m1 AZΦ utrumque et (et om . L
Π ) cum (cumque Π ) sit genus unum LPm2 il m1 utrumque
unum Γ species uero plurimae FLNPm2 TΔ m1 Λ2Φ ; ad
utrumque— pluribus cf. Porph. p. 7, 1 11 genus—indiuiduis (p.
231, 16) ] RS Q , om. cett . speciebus R 14
autem] Porph. p. 7, 4 γάρ 15 aut] RS
edd., om . Ω Busse; Porph. p. 7, 4 ή
aequis] aequo R ignibile R 17 uero] autem S
post minime add . praedicantur Γ 18. 19 utroque
loco dices] RS dicis Ω edd. Busse; Porph.
p. 7, 7 ειποις άν dicatur, de his necessario et speciei
genus PREDICARE et generis genus usque ad generalissi- mum; si enim uerum est
Socratem hominem dicere, hominem autem animal, animal uero substantiam,|
uerum est et Socratem animal dicere atque substantiam. semper igitur
superioribus de inferioribus praedicatis species quidem de indiuiduo PREDICARE,
genus autem et de specie et de indi- uiduo, generalissimum autem et de genere
et de generibus, si plura sint media et subalterna, et de specie et de
indiuiduo. dicitur enim generalissimum quidem de omnibus sub se generibus
speciebusque et de indiuiduis, genus autem quod ante specialissimum est, de omnibus
specialissimis et de indiuiduis, solum autem species de omnibus
indiuiduis, indiuiduum autem de uno solo particulari. indiuiduum autem dicitur
Socrates et hoc album et hic ueniens, ut Sophronisci filius, si solus ei sit
Socrates filius. Breuiter quaecumque superius dicta sunt commemorat hoc modo.
cum, inquit, adsignauerimus quid sit genus et quid species, cumque suis ea
definitionibus comprehenderimus docuerimusque unum genus semper in plurimas
species solui, 2 generalissima Sm2 (specialissimum m1
) ΓΛΛ 3 enim] autem S 4 autem] uero Λ uero]
autem Δ 5 et Socratem animal] A m2 A m2 ( om .
et,) Ψ hominem et (et om , AA ) animal Α m1 Α m1
Φ et hominem ani- mal RS Σ et ( om . II ) socratem et
(et om . Γ ) hominem ( del . Γ m2 ) et ( om . T )
animal ΓΠ ; cf. Porph. p. 7, 11 6 igitur] RS
enim Ω ; Porph. p. 7, 12 οΰν superioribus]
superiora RS TA a.c . 7 praedicantur RS VA a.c . species] et
species R indiuiduo] cod. Q. Bussii brm
indiuiduis RS Q ( ante add. eius Σ ); Porph,. p.
7, 13 τοΰ άτο’μοο 10 sunt RS m2 p.c
subalterna] de subalternis A 11 enim] autem S 13 et
de om. R de om. S 14 de] Ω cum Porph.
p. 7, 17 et de RS 15 pr . de om. S post . de] et
de R 17 autem] enim N TAΛΣ ; Porph. p. 7, 19
ie 18 album] aliud T m1 (et illud m2 ) A
m1 ut] et Ν ΤΑ m2 ΑΣ 19 socrates sit CEGLPRS; Porph. p.
7, 21 εΤη Σινγ,ράτης 20 quae FHN 21 et om.
R illud, inquit, adiungimus quoniam omnia superiora de inferio-
ribus praedicantur, inferiora uero de superioribus minime. et ea quae sunt
utilia de PREDICAZIONE modo rite pertractat. ostendit autem genus in plurimas
species semper solui adsignata generis definitione. quod enim de pluribus rebus
specie iffdiertenbus in eo quod quid sit praedicaretur, esse definiuit
genus. nihil autem sunt plurimae res specie differentes nisi plurimae species;
de quibus autem praedicatur genus, in ea ipsa dissoluitur. ostensum est igitur
ex definitionis adsignatione unius generis esse species plures. quae cum ita
sint, genus quidem de specie PREDICARE, species uero de indiuiduis
omniaque superiora de inferioribus, inferiora de superioribus nullo modo. id
quare eueniat paucis absoluam. quae superiora sunt, substantialiter ea genera
esse praediximus, qua uero sunt genera, ampliora sunt quam una quaeque species.
neque enim in plurima diuideretur genus, nisi ab una quaque specie maius
existeret. id cum ita sit, nomen generis toti conuenit speciei; non enim
coaequatur solum speciei generis magnitudo, uerum etiam speciem superuadit.
idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra animalis uocabulum et homo
et cetera continentur. at uero nullus dixerit : omne animal homo est; non
enim peruenit ad totum animal hominis nomen, quia, cum sit minus, nullo modo
generis uocabulo coaequatur. itaque quae maiora sunt, de minoribus PREDICARE,
quae minora, non conuertuntur, ut de maioribus praedicentur. at uero si
qua sint aequalia, ea secundum naturae parilitatem conuerti necesse est, ut
hinnibile atque equus, quoniam ita sibimet 1 quoniam] quod S
2 uero om. ES 4 ante genus add . unum FHNPR, in
mg. Cm2, recte? 5 definitio ( uel diff-) Ea.c.GLPm1S 6
esse] et esse R definiuit] designauit Sm1 10
ante esse add . semper FHNP 13 id cur HN
idcirco F 14 ea add. Em2 quae L ( s.
l. illa) PS 15 quaque E quoque S 17
toti] totum non R 18 post enim repet . non
R 21 cetera] cicero F cetera animalia G 23
itemque Lm1S 24 post post . quae s. l . uero
Hm2 26 sunt FHLN pari- tatem EGLp.c.RS 27
ignibile R ita] si ita H coaequantur, ut neque
equus non sit hinnibilis neque quod sit hinnibile, non sit equus. fit ergo ut
omne hinnibile equus sit et omnis equus hinnibilis. quae cum ita sint, ea quae
superiora sunt, non modo de sibi proximis inferioribus PREDICARE, uerum etiam
de inferiorum inferioribus. nam si illud recipitur, ut ea quae superiora sunt,
de inferioribus PREDICARE, inferiorum inferiora superioribus multo magis infe-
riora sunt, uelut substantia praedicatur de animali, quod est inferius; sed
animali inferius est homo, PREDICARE igitur etiam substantia de homine.
rursus Socrates inferius est homine, praedicabitur igitur substantia de
Socrate. ita- que species quidem de indiuiduis PREDICARE, genera uero et de
speciebus et de indiuiduis. quod conuerti non po- test; nam neque indiuidua de
speciebus aut generibus prae- dicantur nec species de generibus. ita fit
ut genus quod est generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedi- cari
et de speciebus et de indiuiduis possit. de ipso nihil. ultimum uero genus id
est quod ante specialissimas species collocatur et de solis speciebus
specialissimis dici potest, species uero de indiuiduis, ut dictum est,
indiuidua autem de singulis praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime
sunt 1 non om. brm post sit (si R ) add .
nisi CH (s. l. m2) LNPS ni R inhinnibilis EG
nec FN quid CF 2 pr . sit om. S post . sit]
est CEGLm1RS ; non sit om. brm; post add . nisi CLNPRS
, s. l. Hm2 ergo om. H enim F sit
equus FHNP 3 hinnibile N, post hinn. add . sit L,
ante P 4 sunt om. S, ante superiora EGP
sibi om. H 5 si om. S, s. l. Hm1? 8 uelut om.
LS ut C 9 pr . est s. l. Lm2 post .
est s. l. Gm2 praedicatur CELm2RS 10 etiam om.
FG 11 ante de add. et EGLR ita
R 13 de speciebus] hic desinit cod. F 14 aut] ac
R 15 itaque CHNP quod est] quidem CP quidem
est R 16 post praedicari add . potest L (s.
l.) m1 possit m2 N 17 possit om. N potest L
post ipso add . uero HNPR, s. l. Cm2Lm2 18 uero]
autem L id est] CHm2NS id est autem est Hm1
id autem est EGLa.c . (id est autem ut uid. p.c .) RP
ante om. EGR, s. l. Pm1? 19 collocat EGR et om.
HN 20 post uero add . quae post
indiuiduis add . dici potest R autem] enim Lm1 21
ea quae maximae G p. 78 indiuidua quae sub ostensionem
| indicationemque digiti cadunt, ut hoc scamnum, hic ueniens atque quae ex
aliqua proprie accidentium designantur nota, ut, si quis Socratem
significatione uelit ostendere, non dicat Socrates, ne sit alius qui forte hoc
nomine nuncupetur, sed dicat Sophronisci filius, si unicus Sophronisco
fuit. indiuidua enim maxime ostendi queunt, si uel tacito nomine sensui ipsi
oculorum digito tactuue monstrentur, uel ex aliquo accidenti significentur uel
nomine proprio, si solus illud adeptus est nomen, uel ex parentibus, si illorum
est unicus filius, uel ex quolibet alio accidenti singularitas
demonstratur, eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque dictio non
transeat ad alterum, sicut generis quidem ad species, specierum uero ad
indiuidua. Indiuidua ergo dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus
consistit unum quodque eorum, quarum collectio numquam in alio eadem
erit. Socratis enim proprietates numquam in alio quolibet erunt 14—p.
235, 4] Porph. p. 7, 21—27 (Boeth. p. 33, 4—10). 1 ostensione
EGPS ostentationem HN indicationeque EGPS indaga-
tionemque N 2 ante hic (is ex hic E )
add . ut CEGR et L atque quae] Hm2LNP
atque EGHm1 atque ea quae S eaque quae CR propria
CH proprietate R 4 qui post forte HP
5 forte ante alius N 6 Sophronisci LNRS; cf .
ei p. 231, 19 7 quaeant R si uel ex
siue Lm2 sensu GL ( ante add . siue) P (
ras. ex -sui) R ipso Cm1LPm1R tactuque
H tactu uel R 8 monstrantur R accidenti
significentur uel om. EGR accidente N ante uel
add . id est CH (del. m2) Lm2NP 9 nomine om. EGR
, post proprio S illud om . S, del.
Lm2 10 post uel add . si HR, s. l. Lm2 11
demonstretur S eo quod in ras. Cm2 eaque H
(que add. m2, post er . quod) N ea quae P; post
quod add . accidentia in mg. Cm2 de (s. l.)
accidenti in con - textu , ał eo quod accidentia in mg.
L ad esse unam] unam ad sese C ad sese unam HN ad
se unam L (s. l. et in mg . de se a.c.) P 12 habeat]
EGHm2Lp.c.PRS habet Cm1Hm1La.c.N habeant Cm2L
in mg . dictio] praedicatio CNSp.c . transit CHNR 13
species] m2 in CH (in mg.) P, La.c . specierum cett . 16
quarum—pluribus (p. 235, 3) ] R il , om. cett . quarum]
Π m2 Ψ quorum cett . in alio post eadem s. l
. \ m2 in alium R, post alio add . quolibet
2 particularium, hae uero quae sunt hominis, dico autem eius qui
est communis, proprietates erunt eaedem in pluribus, magis autem in omnibus
particularibus hominibus in eo quod homines sunt. Quoniam superius indiuiduum
appellauit, huius nominis rationem conatur ostendere. ea enim sola diuiduntur
quae pluribus communia sunt; his enim unum quodque diuiditur quorum est commune
quorumque naturam ac similitudinem continet. illa uero in quae commune
diuiditur, communi natura participant proprietasque communis rei his
quibus com- munis est conuenit. at uero indiuiduorum proprietas nulli communis
est. Socratis enim proprietas, si fuit caluus, simus, propenso aluo ceterisque
corporis lineamentis aut morum institutione aut forma uocis, non conueniebat in
alterum; hae enim proprietates quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque
formam figuramque coniunxerant, in nullum alium conueniebant. cuius autem proprietates
in nullum alium conueniunt, eius proprietates nulli poterunt esse communes,
cuius autem proprietas nulli communis est, nihil est quod eius
proprietate participet. quod uero tale est, ut proprietate eius nihil
parti- 1 post particularium add . eaedem edd
. cum Porph. p. 7, 24 haec Δ eae Φ
post hominis s. l . proprietates Δ dico—communis
om. R 2 proprietates er . Λ proprietatis Γ
3 eadem Δ m1 2 pr . in] et in Γ post . in]
et in ΓΛ m2 Φ omnibus om. S 4 in om .
Φ post sunt add . continentur (ex p. 236, 7)
R 6 ostendere conatur C 7 <in> his brm
quodque unum Cm1 quibus EGLPRS edd . 10 participan- tur
R post . communi ( om . est) Gm1 11 proprietas om. E
proprietates Gm1 12 caluus, simus] caluissimus EGHm1
(caluus uel simus m2 ) Lm1PR 13 perpenso ESp.c .
albo Em1 (caluitio m2 ) G uentre N
cor- poris linea del., sed lin. er., s. l . corruptus Hm2
liniamentis CEG LNPm2S 14 post
institutione add . probatus EP, s. l. Lm2 uocis]
Cm1EGPRS uocisue sono Cm2HLm2 (uocis uel sonus m1
) N con- ueniebant EGm1Hm1P haec G 16 in
nullo alio EGHLm1PS 17 cuius—conueniunt om. EGLRS
cuius] eius P autem] uero N ita- que P in
nullum—eius om. P post eius add . itaque N
igitur L 18 poterant EGL potuerunt ex
poterunt P potuerant R autem om. LS 19
proprietatem EGLRS proprietate * (s er .) H 20
proprietatem EGH LPRS nihil] nulli Lm2P
participat ER cipet, diuidi in ea quae non participant, non
potest; recte igitur haec quorum proprietas in alium non conuenit, indi- uidua
nuncupantur. at uero hominis proprietas, id est specialis, conuenit et in
Socratem et in Platonem et in ceteros, quorum proprietates ex accidentibus
uenientes in quemlibet alium singularem nulla ratione
conueniunt. Continetur igitur indiuiduum quidem sub specie, species autem
sub genere. totum enim quiddam est genus, indiuiduum autem pars, species uero
et totum et pars, sed pars quidem alterius, totum autem non alterius, sed
aliis; partibus enim totum est. De genere quidem et specie et quid
generalissimum et quid specialissimum et quae genera eadem et species sunt,
quae etiam indiuidua, et quot modis genus et species dicitur, sufficienter
dictum est. Hic retractat omnia breuiter quae supra latius absoluit dicens
indiuiduum ab specie contineri, species uero ipsas a genere, huiusque causam
reddens ait : omne enim genus totum est, indiuiduum pars. totum enim genus in
eo quod genus est, continet, tametsi species esse potest; totum enim non
ut genus species est, sed ut ea quae supponitur generi. genus igitur in eo quod
genus est, totum est speciebus, semper enim continet eas. at uero indiuiduum
pars semper est, num- 7—15] Porph. p. 7, 27—8, 6 (Boeth. p. 33,
10—17). 2 proprietates Em1NR conueniunt N
4 pr . et om. C secund . in om. S tert . in om.
HNP 5 uenientes ex accidentibus C ex accidente (om .
uenientes ) EGLm1RS 7 Continetur om. R (cf. ad p. 235, 4)
con- tinentur A m2 K m1 Z quidem om . Φ est
quidem Δ 8 totum—indi- uidua (14) ] R Q , om.
cett . 9 pars—uero] pars est species autem Δ 10 pr . totum]
totum est ΛΦ 11 sed in aliis, in partibus edd. cum Porph. p. 8,
2 12 quod ΛΣ 13 et quid specialissimum om .
A quod A2 14 sint. R ΓΛΙIΣ; cf. p. 237, 15
quod GS tot Pm1 modis om. S 15
dicatur N ΥΔΛΠΦΨ , s. l. add . Σ ; cf. p. 237, 19
16 Hic om. NR, s. l. Hm2 17 teneri C ipsas om.
E ipsa Cm1 18 huiusce Lm2 19 pars om.
E genus enim Cm1 (ante genus s. l . totum m2)
HN 20 totum] tum Hm1 tunc Ν enim] autem
S 23 est ante semper CN pars post
est LS quam enim ipsum aliquid sua proprietate concludit.
species uero et totum est et pars, pars quidem generis, totum uero indiuiduis.
et cum pars est, ad singularitatem refertur, cum totum, ad pluralitatem.
quoniam enim unum genus pluribus speciebus superest, una quaelibet species pars
est generis, id est unius, quoniam autem species pluribus indiuiduis praeest non
est uni indiuiduo totum, sed plurimis. idcirco enim totum dicitur, quia plura
continet et cohercet. nam ut pars sit ali- quid, una ipsa unius pars esse
poterit, ut uero totum sit, unum ipsum unius totum esse non poterit.
idcirco alterius quidem pars est species, aliis uero totum. Et de genere
quidem et specie dictum est et quid sit gene- ralissimum genus, quoniam id cui
nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam ea cui
species nulla supponitur, et quae genera eadem sunt, eadem et species,
scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid uero supponitur, quae
etiam indiuidua, ea scilicet quorum proprietates alteri nequeunt conuenire, et
quot modis genus uel species dicitur, genus quidem aut in multitudine aut in
pro- creatione aut in participatione substantiae, species uero aut ex
figura aut ex generis suppositione, sufficienter dictum est. quibus absolutis
modum uoluminis terminabo, ut quarti area libri differentiae reseruetur.
2 ante post . pars add . et C , post er .
que L totum in mg. Cm2 uero om. HN autem C
(in mg. add. m2) L quidem S 3 indiuidui Cm1NS et]
sed CHN post post . cum add . uero R 4 quoniam]
quod L 7 plu- ribus HLm2NS 9 unum ipsum brm
12 Et] sed in er . et Lm2 specie] de specie EG
13 post id add . est P, s. l. Em2 14 quod C
specialissimum ( om . species,] HN nulla species NR 15
superponitur (ras. corr. E) nulla EG eadem s. l.
Lm2 16 supponitur HR aliquid uero supponitur om. ENR,
in mg. Cm2 17 ea om. EGLPRS 18 non queunt G
quod Em1GN quod quot R 20 aut in partici- patione
s. l. Gm2 post substantiae add . aut ex figura S
consistit edd . uero aut] autem N 21 figura] genere
S ex om. E est om. S 22 post area s.
l . ubi discutiamus ea Em2 23 ante subscriptionem initium
libri IV usque ad p. 239, 6 iniecta scriptum, post subscrip -
tionem E ANICII MANLII (MALLII G ) SEVERINI BOETII (BOECII G
) V. C. ET I LL . EXCONS (EXC. E ) ORD. PATRICII IN ISAGOGEN
(YSAGOGAS E ) PORPHYRII (PORPHIRII E ) ID EST INTRODVCTIONE A SE
TRANSLATAE (ID eqs. om ., SCDAE E ) EDITIONIS LIB. III. EXPL.
INCIP. LIB. IIII. EG ; EXPLICIT LIBER TERTIVS. (LIB. IIII. EXPLICIT
L ) INCIPIT (LIBER add. LS ) QVAR- TVS L (add.
mS) NPRS (uariis cum. compendiis) ; LIBER QVARTVS C;
subscriptio deest in H De differentia disputanti non aeque illud debet
occurrere quod in generis specieique tractatu de collocationis ordine
quaerebatur. illic enim meminimus inquisitum, cur esset omnibus praepositum
genus, ut id primum ad disputationem ueniret, cur post genus species esset
iniecta, nunc uero superuacuum est dicere, cur post speciem differentia sumpta
sit, cum illud iam fuerit inquisitum, cur non ante speciem collocata sit.
quodsi mirum uidebatur speciem differentiae in disputationis loco fuisse
praepositam, quod differentia continentior et magis amplior esset specie, quid
est quod possit quisque mirari, si eandem differentiam ante proprium atque
accidens collocauerit, cum proprium unius semper sit speciei, ut posterius
demon- strabitur, accidens uero exteriorem quandam ostendat naturam nec
omnino in substantia PREDICARE, differentia uero utrumque contineat, et de
pluribus speciebus et in substantia PREDICARE? sed haec hactenus, nunc ad ipsa Porphyrii
uerba ueniamus. Differentia nero communiter et proprie et
magis 3 quod—inquisitum] p. 170, 2 ss. 198, 10 ss. 18—p. 240, 13] Porph.
p. 8, 8—17 (Boeth. p. 33, 18—34, 7). 2 De differentia]
Differentiae E Differentia G Differentiam La.c .
disputanti] in disputando CEGLm1N non aeque illud] non illud
quoque C 3 quod] ut HN collationis Cm1HN 4
quaerebatur] hic desinit cod. S 11 ante specie
add . ea EG ab HL est quod om. GR (
post quid add .interrgatiue) s. l. Lm2 , sit Em1
sit quod m2 an quisquam? ad quisque add . iure
possit Em2 12 post eandem add . iure E, s.
l. Lm2 13 sit unius speciei semper C unius sit semper
speciei R unius semper speciei sit N 15
substantiam NR 16 substantiam Em1 18 ante
Differentia inscriptio DE ( om . Ψ ) DIFFERENTIA
additur in 2 et magis proprie in mg. Cm2?
proprie dicitur. communiter quidem differre alterum ab altero dicitur,
quod alteritate quadam differt quocumque modo uel a se ipso uel ab alio.
differt enim Socrates a Platone alteritate et ipse a se uel puero uel iam uiro
et faciente aliquid uel quiescente et semper in aliquo modo habendi
alteritatibus. proprie autem differre alterum ab altero dicitur, quando inse-
parabili accidenti ab altero differt. inseparabile uero accidens est ut nasi
curuitas, caecitas oculorum, cicatrix, cum ex uulnere obcalluerit. magis
proprie differre alterum ab altero dicitur, quando specifica differentia
distiterit, quemadmodum homo ab equo specifica differentia differt
rationali qualitate. Tribus modis aliud ab alio distare PREDICARE genere.
specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales quasdam
differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. nam quae genere
uel specie distant, substantialibus quibusdam differentiis disgregata sunt,
idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis informantur. nam quod
homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qua- litas in eo
differentiam facit. addita enim sensibilis qualitas 14 praediximus] p.
191, 21. 1 dicitur] λεγέσ&ω Porph. p. 8, 8;
cf . nuncupatur infra p. 241, 18 communiter—distiterit (12)
] R Q , om. cett . 2 ab om . A , s. l . Γ 3
ipso om. R 4 pr . a om. R X puero] a puero
ΣΦ 5 uiro] a uiro Φ et] R T uel cett.;
Porph. p. 8, 11 χοιί aliquod S 6 habendi] habendi se Φ
; Porph. p. 8, 12 τού πώς εχειν 7 ab om .
ΔΛΣ quandam R 8 accidente R ; post add .
alterum edd. cum Porph. p. 8, 13 ab om . Σ 10
coaluerit Σ m2 post proprie add . autem ΓΔ (fort.
recte) uero Φ ; Porph. p. 8, 15 hi 11
ab om . ΛΣ 12 destiterit TX m1 AZ quem-
admodum—differt del. Lm1? 13 differentia om. Ν Σ
ante rationali add . id est CEGL, s. l . Hm2 A
m1? rationabili CEGLPR 14 ab] LP, om. cett . 17
accidens CEm2 accidentales Lm2 18 disgregata— quibusdam
om. N, s. l. R 19 post quibusdam add .
substantialibus Hm2 edd.,recte? ad informantur s. l.
disregantur N 21 ea Hm1Lm2NP animato animal
facit, eidem detracta facit animatum atque insensibile, quod uirgulta sunt.
igitur homo atque arbor genere differunt — utraque enim sub animalis genere
poni non possunt —, differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius
ex propositis tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. illa uero
quae specie distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis
substantialibus discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus
discrepant, rationabilitate atque inrationabilitate. ea uero quae indiuidua
sunt et solo numero discrepant, solis accidentibus distant. haec autem
sunt uel separabilia uel inseparabilia, separabilia quidem, ut moueri, dormire;
distat enim alius ab alio, quod ille somno prematur, bic uigilet. distat item
inseparabilibus accidentibus, quod hic staturae sit longioris, hic minimae.
Quae cum ita sint, in ternarium numerum has differentiarum diuersitates
Porphyrius colligit hisque ipse nomina quibus post utatur, apponit dicens :
omnis differentia uel communiter uel proprie uel magis proprie nuncupatur,
communiter quidem eam differentiam sumens quae quodlibet accidens monstret,
quae in quadam alteritate consistit, ut si Plato a Socrate differat, quod
ille sedeat, hic ambulet, uel quod ille sit senex, hic 5 ut dictnm est]
p. 208, 17 ss. 1 eiusdem E et idem G
eadem L inanimatum L , in- er. EP; cf. p. 208, 14 ss .
2 post arbor add . quae H (linea del., sed
lin. er.) L (del. m1) N 3 animali ( om . genere) N 4
ante differentia add . sed ex E nam brm, post s.
l . igitur Pm2 5 praepositis CLm1N positis Em1, s. l .
homine et arbore Lm2Em2 6 distant specie C quod
om. CHN 7 dis- crepare CHN ut—discrepant om. EGL, s. l.
R 8 discrepant om. C 9 post
inrationabilitate add . distant L 10 sunt add. Lm2, in
mg. Pm2 13 distant Hm1Pm2 distet L distat
enim E 14 sit om. R, ante staturae HN staturae
sit post longioris L minimae] Ppr
minime cett. codd. bm 16 isque EG ipsis C post
utatur] postulatur EGR 17 propria Ca.c.L 18
propria L differentiam eam HNP a differentia (om.
eam) E 19 ad sumens s. l . exordium Em2
monstraret EGLm1 (demonstraret m2 ) R 20 ut si]
uti EGLm1 (uti si m2 ) R a om. CGR, s. l.
Lm1?Pm2 differt ex -rat E 21 sit om.
C est EGL (s. l.) R iuuenis. a se ipso etiam saepe
aliquis differre potest, ut si nunc quidem faciat aliquid, cum ante quieuerit,
uel si nunc adulescens iam factus sit, cum prius tenera uixisset infantia.
communes autem differentiae nuncupatae sunt, quoniam nullius propriae esse
possunt differentiae, sed separabilia accidentia sola significant. nam et
stare et sedere et facere aliquid ac non facere multorum atque adeo omnium et
separabilia esse accidentia manifestum est. quibus si qui differunt, communibus
differentiis distare dicuntur. praeterea puerum esse atque adule- scentem uel
senem, ea quoque separabilia sunt accidentia. nam ex pueritia ad
adulescentiam atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad decrepitam usque
aetatem naturae ipsius necessitate progredimur. illud forsitan sit dubitabile
de unius cuiusque forma corporis, an ullo modo separari queat. sed ea quoque
est separabilis, nullius enim diuturna ac stabilis forma perdurat. idcirco nec
peregrinus pater relictum domi puerum, si adulescentem redux uiderit, possit
agnoscere; forma enim semper quae ante fuerat, permutatur atque ipsa alteritas
qua distamus ab altero, semper diuersa est. Constat igitur hanc communem
differentiam separabilibus maxime accidentibus applicari, propria uero
est quae inseparabilia significat acci- dentia. ea huiusmodi sunt, ut si quis caecis
nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus atque oculi, ille
caecus, ille erit semper incuruus. atque haec per naturam. sunt uero alia quae
per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus 1 post
differre add . quidem L 2 cum ante in mg. Cm2
nunc si C 3 iam er. L, post nunc N 5
proprie CL sed] CLm2NP , om. EG , et R
quae HLm1 separabiles E, post add . enim Lm1, del.
m2 6 pr . et om. P ac] et HNP 7 ideo
EGL post omnium add- sunt edd . et om. H
esse om. G, post accidentia EL ; separabilium esse
accidentium N 8 si om . N quid EG qua
R 9 discuntur E 10 ante separabilia add .
ueraciter R 14 eo Lm1 15 est separabilis] est
separabilis forma PR separabilis forma est EGL nullius—per-
durat om. GR, in mg. Cm2, s. l. Pm2 ac stabilis] et stabilis
C ( ut uid .) N ac stabili P estimabilis E
18 alteritas ipsa EG 19 altera EGLm2R 22 nascetur
Em1 24 ante erit add. etiam R semper
om. C inflictum cicatrice fuerit obductum, haec si obcalluerit,
pro- priam differentiam facit; distabit enim alter ab altero, quod hic
cicatricem habeat, ille uero minime. postremoque in his omnibus uel
separabilibus accidentibus uel inseparabilibus alia sunt naturaliter
accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut pueritia uel iuuentus et
totius conformatio corporis, sic caeci oculi et curuitas nasi. et superiora
quidem exempla separabilis accidentis per naturam sunt, posteriora uero inse-
parabilis. item extrinsecus uel ambulare uel currere; id enim non natura,
sed sola affert uoluntas, natura uero posse tan- tum dedit, non etiam facere.
atque haec sunt separabilis accidentis extrinsecus uenientis exempla, illa uero
inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri obcalluerit. Magis propriae
autem differentiae praedicantur, quae non accidens, sed substantiam formant, ut
hominis rationabilitas; differt enim homo a ceteris, quod rationalis est uel
quod mortalis hae sunt igitur magis propriae, quae monstrant unius
cuiusque sub- stantiam. nam si illae quidem idcirco communes dicuntur, quia
separabiles atque omnium sunt, aliae autem propriae, quoniam separari non
possunt, quamuis sint in accidentium numero, illae iuro magis propriae
praedicantur, quae non modo a subiecto separari non possunt, uerum subiecti
ipsius speciem substantiamque perficiunt. ex his igitur tribus differentiarum
diuersitatibus, id est communibus, propriis ac magis propriis, fiunt
secundum genus uel speciem uel numerum discrepantiae nam ex communibus et
propriis secundum numerum distantiae nascuntur, ex magis propriis uero secundum
genus ac speciem. 1 ante cicatrice add . si H 6
uel om. C formatio HNPm2 sic] HPm1 (et
si m2 ) Rm1 (sieque m2 ) si EGLm1
(sique m2 ) tum CN 9 post currere add .
sunt E 10 uoluptas L 11 at Em1 atqui
m2 separabilis sunt C 13 uulneris Lm2P autem propriae
La.c.R 14 substantia Cm1 15 informant Pm2, recte?
16 a om. HN rationa- bilis EGLPR post mortalis
add . est C hae] Hp.r.L haec cett . sunt igitur]
enim sunt H 20 quoniam] quod R 22 ab G post
ipsius add . suis Em1, del. m2 23 tribus igitur
CG 24 ac s. l. Em2 , et CR Uniuersaliter ergo
omnis differentia alteratum facit cuilibet adueniens, sed ea quae est
communiter et proprie, alteratum facit, illa autem quae est magis proprie,
aliud. differentiarum enim aliae quidem alte- ratum faciunt, aliae uero aliud.
illae quidem quae faciunt aliud, specificae uocantur, illae uero quae
alteratum, simpliciter differentiae. animali enim differentia adueniens
rationalis aliud fecit et speciem animalis fecit, illa uero quae est mouendi,
alteratum solum a quiescente fecit; quare haec quidem aliud, illa uero
alteratum solum fecit. Omnis differentia alterius ab altero distantiam
facit. sed haec uel est communis et continens uel cum quodam proprio et magis
proprio differentiarum modo. quare quicquid qualibet ratione ab alio diuersum
est, alteratum esse dicitur. si uero accesserit illi diuersitati ut etiam
specifica quadam differentia sit diuersum, non alteratum solum, uerum etiam
aliud esse praedicatur. alteratio igitur continens est, aliud uero intra
alterationis spatium continetur; nam et quod aliud est, alteratum est, sed non
omne quod alteratum est, aliud dici potest. itaque si accidentibus
aliquibus fuerit facta diuersitas, alteratum 1—11] Porph. p. 8, 17—9, 2
(Boeth. p. 34, 7—15). 1 ergo] uero CEGR; Porph. p. 8,
17 osv alterum E h m2 A 2 sed ea—quiescente
fecit (10) ] Ω , om. cett . ea quae est eqs. ]
cum cod. A Porph. p. 8, 18, cett. α: μέν—κοιοϋσιν, a: 81 άλλο
3 alterum Δ , item 4 autem] uero ΔΣΦ 7
altera Φ* enim] autem A a.c . 8 ratio- nale 2
facit ΓΣΦ item 9; Porph. p. 9, 1 ίποίησεν
et speciem animalis fecit om. codd. quidam Porph., deleri uult
Busse 10 faci(??) ΓΔ m2 ΣΦ qua * ( (??) ? er.) re
* C qua in re (si add. GLm1, s. l . siqui- dem m2
) EGL 11 ille Gm1 illae Δ solum om.
EG, s. l. Cm2 , solum modo P fecit] ΔΛ , om. P,
facit cett.; Porph. p. 9, 2 έποίηοιν 13 uel est]
L uel ex EG est uel N, om . est CR, om .
uel HP (ante est add . quidem )
communi EG continenti E ( -ti * ) G cum om. N, s. l.
Em2 eo m1 14 proprio] proximo GR, post proprio
add . uel ma- ximo P 18 inter Gm1 19 nam et]
Hm1NR igitur et EG igitur omne ( et add. C)
CHm2L 21 erit HN quidem effectum est, quoniam quidem
quolibet modo uel ex quibuslibet differentiis considerata diuersitas
alterationem facit intellegi, aliud uero non fit, nisi substantiali differentia
alterum ab altero fuerit dissociatum. itaque communes et propriae
differentiae, quoniam accidentium, ut dictum est, sunt, solum efficiunt
alteratum, aliud uero minime, magis propriae autem, quoniam substantiam tenent
et in subiecti forma praedicantur, non modo alteratum, quod est commune uel
substantiali uel accidenti differentiae, sed etiam aliud faciunt, quod ea
sola retinet differentia quae substantiam continet formamque subiecti.
atque hae quidem differentiae quae faciunt aliud, specificae nuncupantur
idcirco, quod ipsae efficiunt speciem; quam cum substantialibus differentiis
informauerint, faciunt ab aliis ita esse diuersam, ut non alterata solum sit,
uerum etiam tota alia praedicetur. itaque fit huiusmodi diuisio,
differentiarum ut aliae alteratum faciant, aliae nero aliud. et illae quidem
quae faciunt alteratum, simpliciter puro nomine differentiae nuncupantur, illae
uero quae aliud, specificae differentiae PREDICARE atque ut planius liqueat
quid sit alteratum, quid aliud, tali describuntur termino uel declarantur
exemplo : aliud est quod tota speciei ratione diuersum est, ut equus ab homine,
quoniam rationalis differentia animali adueniens hominem fecit aliudque eum
quam equum esse constituit. item si unus homo sedeat, alter assistat, non
efficietur homo diuersus ab homine, sed eos alteratio sola disiungit, ut
eum qui assistit ab eo qui 5 ut dictum est] p. 242, 4 ss. 19 ss.
1 post , quidem om. HNP, del. Lm2 uel ex
quibuslibet om. H 2 ad differentiis s. l . uel
diuersitatibus Rm1 ? 7 formam N 9 accidentali Hm2NPm2
facit EGLP 10 quae er. C 11 hee P 12
ipsae om. EGLR 14 alteratum E (in ras. m2) P
alterum GLR 15 aliud R sit E 16 ut
om. EH faciunt HNR facient Em2 facie
m1 20 describantur Em1 21 ratione specie (sic) E
ab om. EGL, s. l. HP 22 facit HLNPm1 23 esse] est
Em1 ita R itaque N 24 effi- citur N
efficiatur (ur add. m2 ) P sedet faciat alteratum. item
si ille sit nigris oculis, ille caesiis, nihil, quantum ad formam humanitatis
attinet, permutatum est. ita secundum has differentias alteratio sola
consistit. at si equus quidem iaceat, homo uero ambulet, et aliud est equus ab
homine et alteratum, dupliciter quidem alteratum, semel uero aliud.
alteratum est enim, uel quod omnino specie diuersum est — et est aliud; omne
enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum est —, uel quod accidentibus distat,
quod ille iaceat, hic ambulet, semel uero est aliud, quod
rationabili atque inrationabili differentiis dis|gregatur, quae specificae
sunt et substantiales dicuntur. est igitur alteratum quod ab alio
qualibet ratione diuersum est. Secundum igitur aliud facientes diuisiones
fiunt a generibus in species et definitiones adsignantur, quae sunt ex genere
et huiusmodi differentiis, secundum autem eas quae solum alteratum
faciunt, alteratio sola consistit et aliquo modo se habendi
permutationes. Quoniam in principio operis huius generis, speciei,
differen- 13—17] Porph. p. 9, 2—6 (Boeth. p. 34, 15—19). 18 in prin-
cipio o. h.] p. 147, 5. 1 facit Em1G item om.
EGR, in mg. Hm2, s. l. Lm2 si om. EGL, post ille R, in mg.
Hm2 post . ille] iste N caesius La.c . (ce-) Pm1
caecis N cecus C 3 item in ras. L post
has add . quo- que HNP, s. l. Lm2 sola s. l. Em2
ut GN 4 uero om. E 5 ab] de P pr . alterum
GLm1 6 post uero add . est C enim om
. H (quidem add. post est ) N, ante est CGPR
7 enim om. G 8 distet R 9 iacet HLm1N
ambulat H rationali atque inrationali HLm2R 10
differentia N segregatur CR specificae sunt]
differentiae specificae C 13 post facientes add .
differentias edd., om. codd. cum cod. C Porph. p. 9,3 et Dauide
commentatore p. 177, 23 (Busse); post add . et edd. cum Porph .
τέ 14 quae—faciunt (16) ] L Q , om. cett . 15
ante sunt add . definitiones Γ definitiones
scilicet Δ et] ex Δ m2 16 ante
alteratio add . at CG alteratio sola consistit] ai έτερότητες
μο'νον συνί- ατανται Porph. p. 9, 5 17 et] in
CEGLR ad Δ ; Porph. v.at aliquo modo] aliquando
Γ se add. Em2 habentis R habentibus EGLm1
permutatione R permutationibus CEGLm2 18 huius
om. EGR, ante operis s. l. Lm2 specieique EGLNPR; cf. p. 148,
17 tiae, proprii accidentisque notitiam ad diuisionem atque ad
definitionem utilem esse praedixit, idcirco nunc differentiarum ipsarum facta
diuisione easdem partitur et segregat, quaenam differentiae diuisionibus ac
definitionibus accommodentur, quae uero minime. quoniam igitur diuisio
generis ita in species facienda est, ut illae a se species omni substantiae
ratione diuersae sint, idcirco non probat assumendas esse eas ad diuisionem
differentias quae uel separabilis uel inseparabilis accidentis significationem
tenent, idcirco quoniam, ut dictum est, solum faciunt alteratum, aliud
uero perficere et informare non possunt. inutiles igitur sunt ad diuisionem hae
differentiae quae faciunt alteratum. segregandae igitur sunt communes et
propriae a generis diuisione, illae assumendae tantum quae sunt magis propriae.
illae enim faciunt aliud, quod generis diuisio uidetur exposcere. ad
definitionem quoque eaedem magis propriae plurimum ualent, communes et propriae
uelut inutiles segregantur; communes enim et propriae, quoniam accidens diuersi
generis ferunt, nihil substantiae ratione conformant, definitio uero omnis
substantiam conatur ostendere. specificae uero differentiae illae sunt quae,
ut superius dictum est, speciem informant substantiamque perficiunt; hae sunt
magis propriae. eaedem igitur sicut in diuisionem, ita etiam in definitionem
assumuntur. ut enim dictum est, eaedem diffe- 9 ut dictum est] cf. p.
244, 2. 245, 4 (et p. 242, 19—21). 20 supe- rius] p. 245, 11. 23 ut enim dictum
est] infra p. 253, 12 ss. 258, 9 ss. 260, 6 ss. 2 definitionem]
defensionem G utile E 4 ac definitionibus om
. EG 5 diuisio igitur E 7 eas ante
assumendas P, ante esse HN diuisiones NRm1
8 uel inseparabilis om. EGR 9 idcirco—faciunt] uel eas differentias
quae faciunt (faciant R ) EGL (del. m2) R 10 aliud—
alteratum (12) om. EGR 14 aliud faciunt C 15
definitionem] diui- sionem Cm1EGLm1 eadem Em1G 16
plurimum om. EG post ualent add . nam EGL (del. m2)
P 17 uelut—propriae om. EGR enim om. CH 18
proferunt Lm2Pm2 procedent m1 praecedunt N a.c. 19
informant N 21 hee CP haec E 22
eaedemque C eadem Em1GL diuisione GN, add .
generis GL etiam om. HN et P 23
diffinitione N ut enim—sumuntur om. edd . rentiae
nunc quidem constitutiuae ad definitionem specierum sumuntur, nunc diuisiuae ad
partitionem generis accommodantur. ita igitur cum diuisiuae sunt generis, aliud
constituunt, in substantiae uero definitione speciei informationem faciunt,
cumque magis propriae et aliud faciant et specificae sint, eo quidem quo
aliud faciunt, diuisionibus aptae sunt, eo uero quo speciem informant,
definitionibus accommodatae sunt. communes autem et propriae quoniam neque
aliud faciunt, sed alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a
diuisione ut a definitione disiunctae sunt. A superioribus ergo rursus
inchoanti dicendum est differentiarum alias quidem esse separabiles, alias uero
inseparabiles. moueri enim et quiescere et sanum esse et aegrum et quaecumque
his proxima sunt, separabilia sunt, at uero aquilum esse uel simum uel
rationale uel inrationale inseparabilia. inseparabilium autem aliae quidem sunt
per se, aliae 11—249, 4] Porph. p. 9, 7—14 (Boeth. p. 34, 20—35,
6). 2 assumuntur Ea.c . partitionem] coparationem
N 3 ita—faciunt (4) in mg. sup. Hm2 Ita igitur cum diuisio
generis aliud quaerat. substantia uero speciei informationem Hm1, eadem
uerba loco ita—faciunt adiungit N Ita igitur cum ad
diuisionem generis aliud querant. aliud uero ad speciei informacionem
faciunt Hm3 3 diuisiuae] CHm2LN (priore loco)
Pm1 diuisione EG ad diuisionem Hm3R diuisio
Hm1N (post. l) Pm1 sunt] CHm2LN (pr. l.), om. EGHm1 et 3 N (post.
l.) R, s. l. Pm2 constituunt] CHm2N (pr. l.) Pm2
quaerat Hm1N (post. l.) Pm1 quaerant ( uel que-,)
Hm3R quam erat EG constituunt quam erat L in
substantiae uero definitione] CHm2LN (pr. l.) Pm2 in substantia
uero Pm1R substantia uero EGHm1N (post. l.) aliud
uero Hm3 4 post uero add . ad Hm3
faciunt om. EHm1N (post. l.) 5 pr. et om. HN, s.
l. Pm2 faciunt Lm1Pm1 et] ac C eo] in eo
N 6 quidem om. L quod HLm1NP (d er .) uero]
modo N 7 quod HRm1 9 sed] sub G
monstrat CGm1 11 ergo om . H uero N 2
; Porph. p. 9, 7 ouv rursus om. H 12
aliae... aliae h m1 separabiles esse Φ 13 alias
uero—perceptibile (p. 249, 2) om. C moueri—perceptibile] R Ω
, om. cett . 14 ante quaecumque s. l . omnia
Λ 15 at—inseparabilia in sup. mg . h m2 acylum
ΓΦ acilum ΛΣ , sim. p. 249, 3.250, 20. al . 16
post inseparabilia add . sunt PAS<P edd. Busse, om.R
h cum Porph. p. 9,10 uero per accidens; nam rationale
per se inest homini et mortale et disciplinae esse perceptibile, at nero
aquilum esse uel simum secundum accidens et non per se. Superius
differentias triplici diuisione partitus est dicens aut communes esse aut
proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia diuisione in duas secuit partes
dicens has quidem aliud facere, illas uero alteratum. nunc tertiam earum quidem
facit diuisionem dicens alias esse separabiles, alias inseparabiles, posse
autem de uno quoque cuius multae sunt differentiae, plurimas fieri diuisiones
ex ipsa differentiarum natura manifestum est. nam si omnis diuisio differentiis
distribuitur, quorum multae sunt differentiae, multas etiam diuisiones esse
necesse est. fit autem ut animal diuidatur quidem hoc modo: animalis alia
quidem sunt rationabilia, alia in rationabilia, item alia mortalia, alia
inmortalia; item alia pedes habentia, alia minime; rursus alia herbis
uescentia, alia carnibus, alia seminibus. ita nihil mirum uideri debet, si
multiplex differentiae est facta partitio.ac primum quidem cum in ternarium
numerum differentiae membra secuisset, communes et proprias et magis proprias
nuncupauit. secunda uero diuisio communes et proprias intra nomen alteratum |
facientis inclusit, magis proprias uero intra aliud facientis. haec nero
tertia diuisio, quae ait dif- ferentiarum alias esse separabiles, alias
inseparabil es, 5 Superius... dicens aut eqs.] p. 239, 18. 7 dicens has
eqs.| p. 244, 2. 2 perceptibile] ΦΨ perceptibilem
cett . ( in mg . capacem T ) 3 uel] et Γ simium P
post accidens add . est Γ , s. l. Lm2, ras. in E
et om. Ν ΑΣ 4 post se add. est
P 5 differentia R 7 dicens in mg. Hm2 8 earum
quid R earundem CN quidem post pr . alias
C 9 post post , alias add . uero C 14 animal] in
animali quod H diuiditur H quidem ante diuidatur
Lp, om. brm 15 animalium N edd . quidem post sunt
NP, om. H rationalia alia inrationalia H 18 item
P 20 post secuisset add . ait HP aut
CN et magis—et proprias om. EG 21 nun- cupari H
nuncupauerit LPR 22 facientes CNPm1 propria
R proprium Em1GLp.c . 23 facientes CN qua
CLNRm1 unam quidem ex alteratum facientibus separabilibus
differentiis adiungit, ceteras uero intra inseparabilis differentiae uocabulum
claudit. una quidem ex alteratum facientibus. id est propria differentia, et
reliqua quae aliud facere demonstrata est, id est magis propria, inseparabiles
differentiae esse dicuntur. quarum subdiuisio fit. inseparabilium
differentiarum aliae sunt per se, aliae secundum accidens, per se quidem magis
pro- priae, secundum accidens uero propriae. per se autem aliquid inesse
dicitur quod alicuius substantiam informat. si enim idcirco quaelibet species
est, quoniam substantiali differentia constituitur, illa differentia per
se subiecto adest neque per accidens aut per quodlibet aliud medium, sed sui
praesentia speciem quam tuetur informat, ut hominem rationabilitas. homini enim
huiusmodi differentia per se inest, idcirco enim homo est, quia ei
rationabilitas adest; quae si discesserit, species hominis non manebit.
et has quidem quae substanti- ales sunt, inseparabiles esse nullus ignorat;
separari enim a subiecto non poterunt, nisi interempta sit natura subiecti.
secundum accidens nero inseparabiles differentiae sunt hae quae propriae
nuncupantur, ut aquilum esse uel simum; quae idcirco per accidens
nuncupantur, quoniam iam constitutae speciei extrinsecus accidunt nihil
subiecti substantiae commodantes. Illae igitur quae per se sunt, in
substantiae 24—p. 251, 14] Porph. p. 9, 14—23 (Boeth. p. 35, 6—17).
1 ex om. EG, in inf. mg. L alteratum post
facientibus R, om. G post facientibus add . id est
communem L (in inf. mg.) P 2 adiungit] ponit La.c .
cetera R ceterasque Lm2 alteram C 3
una ras. ex una C quidem] quidem fit G
quippe HN 4 et om. G, s. l. E 5 inseparabilis
E esse om. G 6 post quarum add .
quidem Lp ita brm post aliae add . enim
EGL 8 inesse aliud ( ex aliquid m2 ) L 11 neque]
non Lm2R, ante neque add . quae Hm2 12
post medium add . quae sunt propria Hm1, del. m2 13
rationalitas H, item 15 15 ei s. l. Hm2 16 quidem
eas (sic) C 17 nullus esse C 18 nisi] ni EG 20
proprie CN aquilum] cf. p. 248, 15 22 accedunt
Hm1N subiecto Hm1 subiectae Lm1N
(-te) 24 Igitur illae C in om . N
ratione accipiuntur et faciunt aliud, illae uero quae secundum accidens,
nec in substantiae ratione dicuntur nec faciunt aliud, sed alteratum. et illae
quidem quae per se sunt, non suscipiunt magis et minus, illae uero quae
per accidens, uel si inseparabiles sint, intentionem recipiunt et remissionem;
nam neque genus magis aut minus praedi- catur de eo cuius fuerit genus, neque
generis differentiae, secundum quas diuiditur; ipsae enim sunt quae unius
cuiusque rationem complent, esse autem uni cuique unum et idem neque intentionem
neque remissionem suscipiens est, aquilum autem esse uel simum uel coloratum
aliquo modo et intenditur et remittitur. Differentiis rite partitis earum inter
se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam superius dixit. cum enim
tres esse dixisset differentias, communes, proprias, magis proprias, alteratum
facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud minime, sed hoc solis magis
propriis reseruauit. nunc igitur idem repetit dicens quoniam
inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est quae per se
subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae uero
16. 252, 3 superius] p. 244, 1 ss. 1 rationem GR h
suscipiuntur Lm2 percipiuntur Φ aliud] illud
E illae—suscipiens est (12) ] Ω , om. cett . 3
dicuntur] accipiuntur Φ (ex 1); Porph. p. 9, 16
λαμβάνονχαι uel παραλαμβάνοντα codd .,
λέγονται Dauid comment. p. 184, 16 alteratum] alterum
W- m1 et om . Γ 4 quidem om . Λ
uero Γ 5 uero quae] quidem Γ si om .
Φ 6 sunt ΔΣΦ brm Busse; Porph. p. 9, 18 v.dv—Jaw
7 aut] Λ Busse et cett. codd. edd. (cf. 4);
Porph. p. 9, 19 ή cod. M m;
cett . 9 ipsae] otuxat Porph. p. 9, 20 10
post rationem add . id est diffinitionem Φ 11
neque—remissionem cum Porph. p. 9, 21 cod. Μ , ooxe ανεσιν οντε
έπίχασιν cett . 12 aquilum] cf. ad p. 248, 15
autem om. P 13 pr . uel] et Γ colorari
Em1 et om. CLR 14 et] uel R 17 esse post
dixisset HNP, ante tres P 18 alteratum—proprias]
proprias alte- ratum facere dixit HNP 19 post
aliud add . uero HNPR, s. l. Lm2 quae sunt propriae, id
est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque in substantia insunt
nec aliud faciunt, sed tantum, ut superius dictum est, alteratum. item alia
distantia est earum differentiarum quae secundum substantiam sunt, ab his quae
secundum accidens, quoniam quae substantiam mon- strant, intendi aut
remitti non possunt, quae uero sunt secundum accidens, et intentione crescunt
et remissione decrescunt. id autem probatur hoc modo. uni cuique rei esse suum
neque crescere neque deminui potest; nam qui HOMO (cavallo) est, UMANITA
(cavallita) suae nec crementa potest nec detrimenta suscipere. nam neque
ipse a se plus aut minus hodie uel quolibet alio tempore homo esse potest nec
homo rursus ab alio homine plus homo potest esse uel animal. utrique enim
aequaliter animalia, aequaliter homines esse dicuntur. quodsi uni cuique esse
suum nec cremento ampliari potest nec inminutione decrescere, quod per id
facile monstrari potest, quoniam quae genera sunt uel species, nulla intentione
uel remissione uariantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae unius
cuiusque speciei substantiam formant, nec remissionis detrimenta suscipiant nec
intentionis augmenta. itaque substantiales differentiae neque intentionem
neque remissionem suscipiunt. huius causa haec est. quoniam esse uni cuique
unum et idem est, et p. 84 intentionem re|missionemue non suscipit
huius exemplum. genus 2 nec N substantiam N
sunt EN neque edd . 4 est] L (s. l. m2) P
edd., om. cett . sunt om. E 5 secundum accidens quo- niam
quae om. EGP 6 ante intendi add . quae EGP
post pos- sunt add . secundum (s. l. E) accidens
EGP sunt om. CHL 7 in- tentione] intensione Pm2 edd.,
item 17—p. 253, 6 9 deminui] Pm1 minui L (ex
diminui m2) N diminui cett . quia C 10 decrementa
Em1G edd . 11 uel] aut L 12 neque N 13 uterque
P aequa- liter—dicuntur] aequaliter corporales. aequaliter animati.
aequaliter ho- mines esse dicuntur H, eadem uerba loco aequaliter—dicuntur
adiungit sic utrique enim aequaliter eqs. N 15
ampliorari EGLPm1 17 ante non s. l . et ob
hoc Em2 19 informant Pm2 21 suscipient N
cuius HNP 22 post unum add . est L 23
remissionemque N post exemplum add. sit Lm1 edd.
(ante huius distinctio) , est Lm2, s. l. Hm2 enim
dici non potest plus minusue cuilibet genus; omnibus enim genus aequaliter
superponitur differentiae quoque quae diuidunt genus et informant speciem,
quoniam speciei essentiam complent nec intentionem recipiunt nec remissionem.
quae uero secundum accidens differentiae sunt inseparabiles, ut aquilum
esse uel simum uel coloratum aliquo modo, et intentionem suscipiunt et
remissionem. fieri enim potest ut hic paulo sit nigrior, hic uero amplius
simus, ille minus aquilus, at uero quod non omnes homines aequaliter rationales
mor- talesque sint, nec specierum nec differentiarum natura uidetur
admittere. Cum igitur tres species differentiae consi- derentur et
cum hae quidem sint separabiles, illae uero inseparabiles, et rursus
inseparabilium cum hae quidem sint per se, illae uero per accidens,
rursus earum quae sunt per se differentiarum aliae quidem sunt secundum quas
diuidimus genera in species, aliae uero secundum quas ea quae diuisa sunt specificantur,
ut cum per se differen- tiae omnes huiusmodi sint, animati et
inanimati, 12—p. 254, 8] Porph. p. 9, 24-10, 8 (Boeth. p. 35, 18—36, 6).
16 differentiarum—19 specificantur] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II p.
94. 1 post cuilibet add . esse L edd . 2
quae om. GPR, del. Hm1? 3 formant CEGLm1R species
Lm2NP 3 ante quoniam add . quae EGHLPR
essentiam] substantiam N 4 ante quae add.
ill<a>e G 6 aquilum] cf. ad p. 248, 15
colorari EG 8 nigrior sit HNP hic— aquilus] hic uero
minus hic magis acilus ille autem minus hic amplius simus illo uero minus
E amplius simus] amplissimus G, add . sit L aquilus]
ut 6 9 non quod R ut non HNPm1 quoniam non
m2 ratio- nabiles ELm2P 12 considerantur Λ m2 (
in er . -entur) 2 13 haec EG illae—sensibilis (p.
254, 5) om. CEG 14 et—sensibilis (ibid.) om. HLNP 16
rursus—sensibilis (ibid.) om. R per se sunt Λ2Φ 17
quidem om . Λ2 18 ea] ΓΔΨΨ edd . haec
ΛII2 20 animatum et inanimatum sensibile et insensibile rationale et
inrationale mortale et inmortale h m1 animati—insensibilis] Porph.
p. 10, 4 εμψύχου και αίαβητικου ante sint
add . animalis edd. cum Porph . τοϋ ζώου quattuor
et (20—p. 254, 2) om . 2 sensibilis et insensibilis,
rationalis et inrationalis, mortalis et inmortalis, ea quidem quae est animati
et sensibilis differentia. constitutiua est substan- tiae animalis — est enim
animal substantia animata sensibilis —, ea uero quae est mortalis et
inmortalis differentia et rationalis et inrationalis, diuisiuae sunt animalis
differentiae; per eas enim genera in species diuidimus. Fit nunc
differentiarum plena et suprema diuisio, quae est huiusmodi. differentiarum
aliae sunt separabiles, aliae inse- parabiles, inseparabilium aliae sunt
secundum accidens, aliae substantiales. substantialium aliae sunt diuisibiles
generis, aliae coustitutiuae specierum. quod uero ait : cum igitur tres species
differentiae considerentur, ad hoc retulit, quod in prima differentiarum
diuisione partim eas communes esse, partim proprias, partim magis
proprias dixit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse
monstrauit, alias inseparabiles, separabiles quidem communes, inseparabiles
uero proprias ac magis proprias. inseparabilium uero fecit diuisionem dicens
alias esse secundum accidens, quae propriae nuncupantur, magis proprias
uero secundum substantiam considerari. earum uero quae secundum substantiam
sunt, subdiuisionem facit, quod 3 constituta T m1 4
post animata add . et ΓΛ Busse, om . ΔΠΣΦΨ
Porph. (p. 10, 6) edd . 5 ea] he ex e Rm2 est]
sunt R 6 diffe- rentia om . CEGPR et om
. CLR \\ rationabilis et inrationabilis (rac- et irrac-
P ) Lm2P 7 diuisi Em1 diuisae GPm1
has HP; Porph. p. 10, 8 St’ αΰτών 8 genera in] L
(s. l. m2) ΓΔΠ . (in mg. m2) Ψ
Porph., om. cett . 11 post inseparabilium add.
uero C 12 generis om. EGR, in mg. Lm2 15
post esse add . dixit HNP dicit R 16
dixit om. HPR, s. l. Em2 rursum H 17 alias insepa-
rabiles esse (esse om. N ) monstrauit HNP 18 ac] et
HN 20 acci- dens] se EG(er.), s. l. Pm2, add . substantiam
Em1 alias (alia E ) se- cundum substantiam considerari G
edd., in mg. Em2, s. l . alias secun- dum Pm2, post
considerari add . et illas esse secundum accidens edd.
quae—considerari om. E post quae s. l . uero secundum
accidens Pm2 propria C proprias Pm2
nuncupari Pm2 21 eorum (sic) uero quae secundum
substantiam s. l. add. Em2 22 post quae
add. et C aliae earum genus diuidant, aliae speciem
informent. ad cuius rei facilem cognitionem illa tertii libri specierum
generumque dispositio transcribatur. sitque primum substantia, sub hac
corporeum atque incorporeum, sub corporeo animatum atque inanimatum, sub
animato sensibile atque insensibile, sub quo animal, sub animali rationale
atque inrationale, sub rationali mortale atque inmortale et sub mortali species
hominis, quae solis deinceps indiuiduis praeponatur. in hac igitur diuisione
omnes hae differentiae specificae nuncupantur, generum enim specierum-
que differentiae sunt, sed generum quidem diuisiuae, specierum autem
constitutiuae. id autem probatur hoc modo. substantiam quippe corporei atque
incorporei differentiae partiuntur, corporeum uero animati atque inanimati,
animatum sensibilis atque insensibilis. ita igitur genera substantiales
differentiae partiuntur et dicuntur generum diuisiuae. at uero si eaedem
differentiae quae a genere descendentes genus diuidunt, colligantur et in unum
quae possunt iungi copulentur, species informatur. nam cum animal species sit
substantiae — omnia enim superiora de inferioribus praedicantur et quicquid
inferius fuerit, species erit etiam superioris —, animatum tamen
atque 2 illa tertii libri.. dispositio] p. 208, 12 ss. 1 diuidunt
N diuident R informant CNR, add . atque construant
H atque constituunt (-ant ex -ent P ) NP, s. l.
Lm2 (ex p. 256, 3) at E 2 facilitatem
G cognitionem om. EG illa s. l. Hm2 3 trans-
feratur Hm1N; post transcribatur spatium ad inscribendam figuram ut
uid. relictum in EG sub] ubi E hoc Em1GLm1R 4
atque incorporeum in mg. Em2 sub corporeo om. GR, in mg Em2,
s. l. Lm2 6 animal sub om. E sub animali om. GR 6
rationabile E 7 et om. HN, del. Em2 12 patiuntur
Em1G corporeum—partiun- tur (15) om. Em1, in mg . corporeum (
ex corpore m3 )—inanimati (ani- matum autem s. l. add. m3 )
sensibilis—partiuntur add. m2 13 ani- matum om. G, post add .
autem Em3 enim Lm1, del. m2 , et er. N 14
post insensibilis add . partiuntur CL substantialis
Gm1Pm2 15 si del. Lm2, post si del . et R
heaedem P (dem er .) R (h del .) hae
HN 16 quae post descendentes L 17 in ex al. litt. Em2
18 informantur EHN informant part. ras. ex informatur
Lm2 fit E sensibile quae sunt differentiae, si
referantur ad genera, diui- siuae sunt, constitutiuae uero fiunt animalis
eiusque sub- stantiam formant atque constituunt definitionemque conformant, ut
sit animal substantia animata sensibilis, substantia quidem genus, animatum
uero atque sensibile eiusdem differentiae constitutiuae. | item animal
rationabilitas atque inrationabilitas diuidit, mortali etiam atque inmortali
diuiditur, sed iuncta rationabilitas atque mortalitas, quae animalis diuisiuae
fuerant, fiunt homi- nis constitutiuae eiusque perficiunt speciem atque omnem
eius rationem definitionis informant atque perficiunt. at si
inrationabilitas cum mortalitate iungatur, fiet equus aut quod- libet animal,
quod ratione non utitur, rationabilitas uero atque inmortalitas copulatae del
substantiam informant. ita eaedem differentiae cum referuntur ad genera,
diuisiuae generum fiunt, si uero ad inferiores species considerentur, informant
species earumque substantiam conuenienti copulatione constituunt. In hoc
quaesitum est, quemadmodum dicerentur esse hae diffe- 1 post
sunt add . eiusdem P (s. l. m2) edd . diuisiua Em1G
2 post sunt s. l . si ad speciem Lm2Pm2
uero om. N, del. Pm1?, s. l. Hm2Rm2 fiunt s. l. Rm2 3
definitionemque] diuisionemque EG formant Hm1 4 quidem]
uero N 5 ante genus add. eiusdem CN , post add .
est s. l. LPm2 ante differentiae add . generis GP, post
add . diuisiuae R post constitutiuae add . animalis R,
s. l . speciei animalis Lm2 6 rationabilitas—diuiditur]
P rationalitas atque inrationalitas diuidit mortalitas ( ex
inmortali m2 ) etiam atque inmortalitas ( ex inmor- tali m2 )
diuidit ** · H rationabilitas atque irrationabilitas mortale atque
inmortale diuidit C rationale atque inrationale (diuidunt
add. N ) mortale atque (et N ) inmortale diuidit (diuidit om. N
) NR inrationabile (inratio- nale L ) atque inmortale
diuiditur EGLm1, in mg. ante atque add . irracionale. mortale
etiam atque m2 rationabilitas atque irrationabilitas, mortalitas
atque immortalitas diuidit brm 7 rationalitas E 8
diuisiua Em1GLm1R 9 constitutiua GLm1R eiusque]
hominisque HNP nominis (del. Lm2) eiusque
EGL 10 atque perficiunt s. l. Rm2 11 irrationalitas
EP mortali Lm2Pm1 fiat G aut] atque L
12 rationalitas HP 13 inmortalitas] inrationabilitas R
dei om. G , post substantiam E (s. l. m2) L
formant HN item HL 14 di- uisae E 17
esse om. C eae EGR heae P rentiae
specierum constitutiuae, cum inrationabilis differentia atque inmortalis nullam
speciem uideantur efficere. respondemus primum quidem placere Aristoteli
caelestia corpora animata non esse; quod uero animatum non sit, animal esse non
posse; quod uero non sit animal, nec rationale esse concedi. sed eadem corpora
propter simplicitatem et perpetuitatem motus aeterna esse confirmat. est igitur
aliquid quod ex duabus his diffe- rentiis conficiatur, inrationabili scilicet
atque inmortali. quodsi magis cedendum Platoni est et caelestia corpora
animata esse credendum, nullum quidem his differentiis potest esse subiectum
— quicquid enim inrationabile est corruptioni subiacens et generationi,
inmortale esse non poterit —, sed tamen hae differentiae, quoniam
substantialium differentiarum in numero sunt, si iungi ullo modo potuissent,
earum naturam et speciem quoque possent efficere. atque ut intellegatur,
quae sit haec potentia efficiendae substantiae specieique formandae,
respiciamus ad proprias atque communes, quae tametsi iungantur, speciem
substantiam que nulla ratione constituunt. si quis enim loquatur ambulans, quae
sunt duae communes dif- ferentiae, uel si albus ac longus, num idcirco
isdem eius substantia constituitur? minime. cur? quia non eiusdem sunt generis,
quae alicuius possint constituere et conformare sub- 3—7 Aristoteli] cf.
De caelo II 12, p. 292 a , 18 ss.; ed. Didot IV part. II p. 38 a , frg. 24
(Cic. de nat. deor. II 15, 42 cum locis ab Heitzio adlatis). 9 Platoni] Tim. p.
38 E. 39 E ss.; cf. supra p. 209, 2. 1 species G
inrationalis CEGP differentiae E 5 concedit
Lm1N 7 est] esse CN, ad est s. l . ał esset
L aliud G 8 con- ficeretur H, s. l. ( add .
ał) ad conficiatur L irrationali Lm2P 9 ac-
cedendum CN (ac er .) H (ac in ras. m2 ),
concedendum edd . est platoni CN et om. C 10
credendum om. CN 11 inrationale (irr- P ) HP 13
ante substantialium add . in CHN, post diff. om.
CHNR 16 efficientiae G 17 tametsi] etsi C etiam
(si er. H ) etsi H ( in mg . ł tametsi m2 )
NP 19 loquitur HN 20 sit H num ex
non Rm2 isdem] NP eisdem (ei in ras. m2 ) L
hisdem cett., post s. l . differentiis add. Em2 21
ante cur add . id HNP, s. l. Lm2 eius EG
sunt ante eiusdem N, post generis L 22
possunt NP con- firmare Em1GRm1 stantiam. ita
igitur hae, id est inrationale atque inmortale, etiamsi subiectum aliquod
habere non possunt, possent tamen substantiam efficere, si ullo modo iungi
copularique potuissent, praeterea inrationale iunctum cum mortali substantiam
pecudis facit : est igitur constitutiua inrationalis differentia, item
inmor- tale ac rationale coniuncta efficiunt deum: est igitur inmortale
quod speciem formet, quodsi inter se iungi nequeunt, non idcirco quod in natura
earum est, abrogatur. Sed hae quidem quae diuisiuae sunt
differentiae generum, completiuae fiunt et constitutiuae specierum; diuiditur
enim animal rationali et inrationali differentia et rursus mortali et inmortali
differentia, sed ea quae est rationalis differentia et mortalis, con-
stitutiuae fiunt hominis, rationalis uero et inmortalis del, illae uero quae
sunt inrationalis et mortalis, inrationabilium animalium, sic etiam et supremae
substantiae cum diuisiua sit animati et inanimati dif- ferentia et sensibilis
et insensibilis, animata et sen- sibilis congregatae ad substantiam animal
perfecerunt. 9—19] Porph. p. 10, 9—17 (Boeth. p. 36, 7—15).
2 aliquod om. C aliquid LP possunt—substantiam]
possent tamen substantiam possent C 4 mortale EGPm1 5
irrationabilis NP ita R 6 coniunctae HN 8 eorum
edd . 9 haec CL heae P 10 generum om. EG
fiant Cm1Em1G sunt Σ 11 diuiditur—insensibilis
(18) ] 2 , om. cett . 12 pr . et—differentia om.
2 , add. X m2 13 ea... differentia] Porph.
p. 10, 12 ai... διαοοραί rationalis.. mortalis cum cod . M
Porph., cett . τοΰ 6-νητοδ καί τού λογικού 14 fiunt]
definiunt Δ m1 ΙΛΣ hominem Δ m1 ΑΣ 15 dni in ras.
2 , add . sunt et angeli Δ , sed del., ante dei
add. angeli et Π m2 , sed del.; codd. Porph. p. 10,13
aut θεού aut άγγέλοο quae sunt
add . X m2 post mortalis add . constitutiuae
sunt Γ 16 inratio- nalium X m2 \ m1 , add . sunt
Φ etiam] enim Φ supremae substan- tiae] T m2 (suae
substantiae m1 ) X m 2 (superna substantia m1 ) suprema
substantia cett. codd. edd. Busse; cf. Porph. p. 36, 12 et infra p. 259,
23 18 animatum EGR sensibile E (le in ras
.) R 19 congregata ER perficerent G
perficiunt in ras . 2 post perfecerunt add . animata
uero et insensibilis perfecerunt plantam edd. cum Porph. p. 10, 17, om
. BOEZIO etiam in commentario Geminum differentiarum usum esse
demonstrat, unum qui- dem quo genera diuiduntur, alium uero quo species infor-
mantur; neque enim hoc solum differentiae faciunt, ut genera partiantur, uerum
etiam dum genera diuidunt, species in quas genera deducuntur efficiunt, itaque
quae diuisiuae sunt gene- rum, fiunt constitutiuae specierum, huiusque rei
illud exemplum est quod ipse subiecit; animalis quippe differentiae sunt
diuisiuae rationale atque inrationale, mortale atque inmortale; his enim PREDICAZIONE
diuiditur animalis, omne enim quod
animal est, aut rationale aut inrationale aut mortale aut inmortale est.
sed istae differentiae quae diuidunt genus quod est animal, speciei substantiam
formamqne constituunt, nam cum sit homo animal, efficitur rationali mortalique
differentiis, quae dudum animal partiebantur, item cum sit equus animal,
inrationali mortalique differentiis constitui|tur, quae dudum animal
diuidebant. deus autem cum sit animal, ut de sole dicamus, rationali
inmortalique efficitur differentiis, quas diuidere genus habita partitio paulo
ante monstrauit. sed hic, ut diximus, deum corporeum intellegi oportet, ut
solem et caelum ceteraque huiusmodi, quae cum animata et rationabilia
Plato esse confirmat, tum in deorum uocabulum antiquitatis ueneratione probantur
assumpta, de primo quoque genere, id est substantia demonstrantur uenire. nam
cum eius diuisiuae sint differentiae 18 ut diximus] p. 208, 22 ss. 20
Plato] cf. p. 257, 9. 2 aliud EHm1Rm2 alio
m1 uero om. R 4 partiuntur GPm1 diuidendo
N 5 deducantur HN dicuntur R diuiduntur C
(uid in er . duc? m2 ) diuisae Em1Gm2HR 6 huius C
rei om. EGR s. l. Lm2 7 ipse] ille R diuisae
Em1Gm2 8 mortale atque inmortale om. EGR, in mg. Lm2 9 quod
animal est] animal HNR 10 pr . aut om. R post
rationale add . est HN 11 est om. HR quod]
hoc C 13 post efficitur add. ab his EPm1, del. m2,
s. l. Lm2 post differentiis add . constituitur Cm1, del.
m2 14 partiebantur] diuidebant Lm1R 15 diuidebant]
parciebantur R 16 ut] si CH, in ros. N, recte?; cf.p. 208,
22 20 confirmet C (et in ras. m2 ) HLm2N 22
substantiam Em1 23 demonstrantur] idem monstratur HN
idem (super ras. Cm2, s. l. Pm2) demonstrantur Cm1Pm1, alt .
n del. Cm2Pm2 euenire HNPm2, add. s. l . differentiae
Lm2 diuisae Em1Pm1 sunt EHm1 animatum atque
inanimatum, sensibile atque insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque
animati efficiunt substantiam ani- matam atque sensibilem, quod est animal,
iure igitur dictum est, quae diuisiuae sunt differentiae generum, easdem esse
constitutiuas specierum. Quoniam ergo eaedem aliquo modo quidem acceptae fiunt
constitutiuae, aliquo modo autem diuisiuae, specificae omnes uocantur. et his
maxime opus est ad diuisiones generum et definitiones, sed non his quae
secundum accidens inseparabiles sunt, nec magis his quae sunt
separabiles. Omnes a genere differentias procedentes genus ipsum a quo
procedunt, diuidere nullus ignorat, ipsae autem quae diuidunt genus, si ad
posteriores species applicentur, informant substantias easque perficiunt,
eaedem igitur sunt constitutiuae specierum, eaedem diuisibiles generum,
alio tamen modo atque alio consideratae, ut si ad genus relatae quidem in
contrariam diuisionem spectentur, diuisibiles generis inueniuntur, si uero
iunctae aliquid efficere possint, specierum constitutiuae sunt, quae cum ita
sint, hae differentiae quae genus diuidunt, rectissime diuisiuae nominantur -
quae enim constituunt speciem, specificae sunt, sed constituunt speciem hae
differentiae quae 6—11] Porph. p. 10, 18—21 (Boeth. p. 36, 15—19).
4 post constitutiuas add . et completiuas C
completinasque HNP (ex p. 258,10) 6 ergo] igitur
P needem uel heedem hic et 15. 16. p. 261, 1 codd.
quidam alio P ( ras. ex aliquo,) Γ (o
in ras .) quidem] ΓΔΛΙIΨ , om. cett.; Porph. p. 10, 18
μεν 7 aliquo—inseparabiles sunt (10) ] Ω , om.
cett . alio ras. ex aliquo ut uid . Γ autem
modo Φ autem add . 5 m2 10 sunt
inseparabiles Γ his om . Γ 12 post
Omnes add . enim R 13 quo] quibus EGR procedent
Em1 15 post sub- stantias s. l . earum L
eas substantiasque (quae N ) HNR sunt igitur HL
16 post eaedem add . sunt LR 19 sint CHPRm1
21 diui- siuae] specificae Lm2 nominantur] nuncupantur
HΡΝ enim om. C post speciem add. eaedem
speciem faciunt, quae uero speciem faciunt CHN sunt generis
diuisiuae - eaedemque sunt specierum constitu- tiuae. quare iure quae generum
diuisiuae sunt et quae specierum constitutiuae, specificae nuncupantur, has
igitur in diuisione generis et in definitione specierum accipi oportere
manifestum est. quoniam enim diuisiuae sunt, per eas diuidi oportet genus,
quoniam autem constitutiuae, per eas species definiri; quibus enim unum quodque
constituitur, isdem etiam definitur, constituitur autem species per
differentias generis diuisiuas, quae sunt specificae, iure igitur specificae
solae et in generis diuisione et in specierum definitione ponuntur, et de
specificis quidem haec ratio est, de his autem quae uel separabilia uel inseparabilia
continent accidentia, nihil in generum diuisione uel definitione specierum
poterit assumi, idcirco quoniam quae diuisibiles sunt, substantiam
generis diuidunt, et quae constitutiuae sunt, substantiam speciei con-
stituunt. quae uero sunt inseparabilia accidentia, nullius substantiam
informant, unde fit ut multo minus separabilia accidentia ad diuisiones generum
uel specierum definitiones accommodentur; omnino enim dissimiles sunt
substantialibus differentiis, nam inseparabilia accidentia hoc fortasse
habent commune cum specificis, hoc est substantialibus differentiis, quod aeque
subiectum non relinquunt, sicut nec specificae differentiae, separabilia autem
accidentia ne hoc quidem; sepa- 1 diuisae Gm1
eaedemque] H (hee-) NP eaedem C igitur
eaedem (eaedem s. l. Lm2 ) quae (que E ) sunt EGLR
constitutiuae specie- rum C 2 quare—constitutiuae om.
EGLR quare iure] iure igitur P 4 diuisionem HLm2P
et] uel R definitionem (uel diff-) HL ( s. l . ał
constitutione] P diuisione Em1 6 eius Em1 7
post definiri add . oportet CN, s. l . (scil. add. E )
EL quibus—definitur om. EGLR, in mg. Pm2 hisdem
CHN 9 solae s. l. Em2 10 post , in om. HN
12 continent] concedunt EG, s. l . uel faciunt Gm1? 13
post uel add . in L 16 sub- stantiam] HN, om. Em1
, speciem CGLm1R (post informant) s. l. Em2 , speciei
substantiam Lm2P edd . 17 formant H multo om. C
18 ad diuisiones—accidentia (20) in inf. mg. Gm2 definitiones]
diuisiones Em1G 19 ante substantialibus add .
a HN, recte? 22 ante quod add. id H (linea
del., sed linea er. uid.) N ad quod aeque s. l. ał quod hae
similiter L sic G (ut er .) L (ut del.
m2) 23 ne] nec LN rari enim possunt, nec tantum
potestate et mentis ratiocinatione, sed actus etiam praesentia, et omnino
ueniendi uel discedendi uarietatibus permutantur. Quas etiam determinantes
dicunt: differentia est qua abundat species a genere, homo enim ab
animali plus habet rationale et mortale : animal enim neque ipsum nihil
horum est nam unde habebunt species differentias? neque enim omnes oppositas
habet nam in eodem simul habebunt opposita —. sed, quemadmodum probant,
potestate quidem omnes habet sub se differentias, actu uero nullam, ac
sic neque ex his quae non sunt, aliquid fit neque opposita circa idem
sunt. Specificas differentias definitione concludit dicens
substantiales differentias a quibusdam tali descriptionis ratione finiri
: differentia specifica est qua abundat species a genere, sit enim genus
animal, species homo : habet igitur homo differentias in se, quae eum
constituunt, rationale atque mortale; omnis enim species constitutiuas formae
suae differentias in se retinet nec praeter illas esse potest, quarum
congregatione perfecta est. si igitur animal quidem solum genus est, homo
uero est animal rationale mortale, plus habet homo ab animali id quod rationale
est atque mortale, quo igitur abundat species 4—13] Porph. p. 10, 22—11,
6 (Boeth. p. 36, 20—37, 5). 1 nec] non brm 4 Quae
h m1 dicuntur A m1 est add . \ m2 5
que Em1 quae Ga.c . abundant (ha- G ) Em1G
a om. N ho- mo—-nullam (11) ] R Q , om. cett . ab
om . ΓΦ 6 enim] enim tamen R autem A 7
horum nihil Γ 8 enim om . Φ , add . &
m2 , autem er . T : Porph. p. 11, 3 ούτε ίί
; enim pro autem; cf. ad p. 16, 15; an autem (
cf. T ) Boethius scripsit ? opposita R
habet] habent cett . codd. et edd . 9 nam] nec
R habebit Φ ( post opposita), non habe- bunt
Δ 11 habet] P p.c . Φ*Γ habent cett . ac
sic om. N sic ex si Em2G 12 hiis
Φ sint Sa.c . opposita] ex oppositis quae R h m1 13
circa idem sunt] Porph. p. 11, 6 &pa περί τό αΰτο
εσται 15 diffiniri Pm2R 19 constitutiuae
Em1GLp.c.Rm1 in se om. C 22 est uero E 23 id] id
est EGP a genere, id est quo superat genus et quo plus habet
a genere, hoc est specifica differentia, sed huic definitioni quae- dam
quaestio uidetur occurrere habens principium ex duabus per se propositionibus
notis, una quidem, quoniam duo con- traria in eodem esse non possunt,
alia uero, quoniam ex nihilo nihil fit. nam neque contraria pati sese possunt,
ut in eodem simul sint, nec aliquid ex nihilo fieri potest; omne enim quod fit,
habet aliquid unde effici possit atque formari, quae pro- positiones talem
faciunt quaestionem, dictum est differentiam esse id qua plus haberet
species a genere, quid igitur? dicendum est genus eas differentias quas habent
species, non habere? et unde habebit species differentias quas genus non habet?
nisi enim sit unde ueniant, differentiae in speciem uenire non possunt, quodsi
genus quidem has differentias non habet, species autem habet, uidentur ex
nihilo differentiae in speciem conuenisse et factum esse aliquid ex nihilo,
quod fieri non posse superius dicta propositio monstrauit. quod si differentias
omnes genus continet, differentiae autem in contraria dissol- uuntur, fiet ut
rationabilitatem atque inrationabilitatem, mor- talitatem atque
inmortalitatem simul habeat animal, quod est genus, et erunt in eodem bina
contraria, quod fieri non potest, neque enim sicut in corpore solet esse alia
pars alba, alia nigra, ita fieri in genere potest; genus enim per se conside-
ratum partes non habet, nisi ad species referatur, quicquid igitur habet,
non partibus, sed tota sui magnitudine retinebit, nec illud dubium est, quin in
partibus suis genus habeat 1 post , quo] quod Em1
(quid m2 ) GHm1R a om. H 2 hoc—dif-
ferentia om. C huic] hunc Em1N 4 per se
ante notis brm unam GHa.r. 5 aliam C (sic)
Ha.r. post quoniam add . quidem C 6 sit C
nec N 10 id om. R qua] quod GHLm1P; cf. p. 270,
12 dicen- dumne Lm2 11 genus ante non
habere HNP habent] habet Lm2 12 habet] habebit
CEGLm1, in mg. Rm2 (om. m1) 13 ueniunt R 15 uidetur
GLm1P differentia EGL ( ex -tiasj P 16 esse] est
CLP aliquando Em1 18 contrarium HLm2NPm1
contrario R 19 mortali- tatem atque inmortalitatem] CNP, s.
l. Lm2, om. cett . 22 esse post alba N, post alia
P 25 detinebit N 26 in] HNP, s. l. Lm2, om. cett
. contrarietates, ut animal in homine rationabilitatem, in boue
contrarium. sed nunc non de speciebus quaerimus, de quibus constat, sed an
ipsum per se genus eas differentias quas habent species, habere possit atque
intra suae substantiae ambitum continere, hanc igitur quaestionem tali ratione dis-
soluimus. potest quaelibet illa res id quod est non esse, sed alio modo esse,
alio uero non esse, ut Socrates cum stat, et sedet et non sedet, sedet quidem
potestate, actu uero non sedet. cum enim stat, manifestum est eum non agere
sessi- onem, sed potius standi inmobilitatem. sed rursus cum stat, sedet,
non quia iam sedet, sed quia sedere potest; ita actu quidem non sedet,
potestate uero sedet. et ouum animal est et non est animal. non est quidem
animal actu, adhuc namque ouum est nec ad animalis processit uiuificationem,
sed idem tamen est animal potestate, quia potest effici animal, cum
formam ac spiritum uiuificationis acceperit. ita igitur genus et habet has
differentias et non habet, non habet quidem actu, sed habet potestate. si enim
ipsum per se animal consideretur, differentias non habebit, si autem ad species
reducatur, habere potest, sed distributim atque ut eius speciebus separarim
nihil possit euenire contrarium. ita ipsum genus si per se consi-
1 post homine s. l . habet E, post
rationabilitatem Lm2 2 nunc om. EGR, s. l. Lm2 4 suae
intra C 6 quaelibet illa res] HLm2NPm1 quaelibet
res ( res s. l. E) CEPm2 quidlibet Lm1R quodlibet
G 7 alio uero non esse om. Hm1, s. l . alio non esse m2
8 secund . sedet om. CEGR 9 enim om. CEGLPm1 (s. l .
autem m2) R sessione G 10 mobilita- tem
CEGLm1P mobilitate N cum stat in constat
mut . ERm2 13 actu om. EG 14 neque CL ad
om. E animal G animalis quidem L 16 spiritum]
speciem CHR genus et] ELm2NP et genus et H
genus CGLm1R 17 non habet quidem—potestate] habet quidem potestate
sed non habet ( habet om. C) actu CEm2P habet
quidem actu sed non habet potestate Em1G 18 consideretur]
quis (s. l.) consideret E 19 autem] enim R
reducat E 20 distributim] HLm2PRm2 distri- butum
CN distribute EGLm1 distributam Rm1 atque—contrarium]
atque in species separatum ( separatim H) ut nihil possit
esse ( euenire H) contrarium CHN, add. locum
atque ut eius—contrarium C nihil] et nihil G 21 si ipsum
genus HN deretur, differentiis caret; quod si ad species
referatur, per distributas species uel in partibus suis contraria retinebit,
atque ita nec ex nihilo uenerunt differentiae quas genus retinet potestate nec
utraque contraria in eodem sunt, cum contrarias differentias in eo quod
dicitur genus, actu non habet, inpos- sibilitas enim eius propositionis quae
dicit contraria in eodem esse non posse, in eo consistit quod contraria actu in
eodem esse non possunt, nam potestate et non actu duo contraria in eodem esse
nihil impedit, quae uero nos contraria diximus, Porphyrius opposita
nuncupauit. est enim genus contrarii oppositum : omnia enim contraria, si
sibimet ipsis considerantur, opposita sunt. Definiunt autem eam et hoc
modo : differentia est quod de pluribus et differentibus specie in eo
quod quale sit PREDICARE; rationale enim et mortale de homine PREDICATO
in eo quod quale quiddam est homo
dicitur, sed non in eo quod quid est. quid est enim homo interrogatis nobis
conueniens est dicere animal, quale autem animal inquisiti, quoniam
ratio- nale et mortale est, conuenienter adsignabimus. Tres
sunt interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium atque
accidens respondetur, haec autem sunt : quid 13—20] Porph. p. 11, 7—12
(Boeth. p. 37, 6-12). 1 species] differentias H 2
uel om. Lm1 uelut HLm2 sin eo] id HN
quot E 7 actu ante contraria H, post
eodem CLN in eodem esse—in eodem om. EG 8
post non possunt add . quantum ad genus potestate solum, quantum ad
species actu et potestate Rm2 9 nil L contraria
nos C 11 si om. HN, s. l. Cm2 si in semet
Lm2P considerentur CLm2 12 sunt om. HN 13
autem om. H enim C et om. CEGHNP 2 ,
ante eam 4 ; Porph. p. 11, 7 xo; όντως 14
quae EP de om. C et om. CEGLIR; Porph.
xat ; cf. infra p. 267, 1 15 ra- tionale—animal (19)
] R Q , om. cett . 16 praedicatur T a.c. m1
quid- dam om. ΓΦ 18 homo om. R ΔΦ , s. l .
scil, homo \ m2 ; Porph. p. 11, 10 6 άνθρωπος
19 post post , animal add . sit C, ante EG
inquisiti] Porph. p. 11, 11 πυνθανομενων 20 et
om. CEGLR; Porph. p. 11, 12 xac est om. HNR, s. l
. 2 m2 assignauimus E assignamus G 22 hae
Hp.r.LR edd . heede m P sit, quale sit, quomodo se habeat,
nam si quis interroget: quid est Socrates? responderi per genus ac speciem
conuenit aut animal aut homo, si quis quomodo se habeat Socrates interroget,
iure accidens respondebitur, id est aut sedet aut legit aut cetera, si quis
uero qualis sit Socrates interroget, aut differentia aut proprium aut
accidens respondebitur, id est uel rationalis uel risibilis uel caluus. sed in
proprio quidem illa est obseruatio, quod illud proprium dici potest quod de una
specie PREDICARE, accidens uero tale est quod qualitatem designet quae non
substantiam significet, differentia uero talis est quae substantiam
demonstret, interrogati igitur qualis una quaeque res sit, si uolumus reddere
substantiae qualitatem, differentiam praedicamus, quae differentia numquam de
una tantum specie praedicatur, ut mortale uel rationale, sed de pluribus, quod
igitur de pluribus speciebus inter se differentibus PREDICARE ad eam
interrogationem, quae quale sit id de quo quaeritur interrogat, ea est
differentia cuius talem posuit definitionem : differentia est quod de
pluribus 1 se om. G, s. l. E habet CEGLR 2
per om. H ac N 3 pr . aut] ut CHm1N post ,
aut] ut Hm1N habet R, post habeat del . se
habet G 4 iure—legit] differentia aut legit G aut
differentiam * ut (a er.) legit E differentia respondetur
(respondetur etiam R) id est aut sedet aut legit Lm1 5 aut] et
HLm1NP quale H 6 proprio aut accidenti EGR
respondebitur] CLm2P respondebit EGR respondetur
HLm1N 7 pr . uel om. LN uel risibilis uel caluus]
Lm1 edd . uel mortalis uel caluus CHLmSN uel mortalis uel
alicuius EGR uel mor- talis uel saluus uel caluus Pm1
uel mortalis uel risibilis uel caluus m2 10 quae non—demonstret]
Differentia uero talis est (haec om. L) quae (que ELm1
atque m2 ) non substantiam significet (-cat Lm1, add. m1
Differentia uero talis est quae substantiam significat, del. m2 ).
Differentia uero talis est quae (non add., sed del. E ) substantiam
demonstret (at Lm1 ) EGL post significet in mg.
Proprium uero est quod non sub- standam significat H 11 quae]
quia R demonstrat CLm1 inter- roganti R (
ex -tis] quale R 12 constantiae G 13 numquam]
non C tantum de una C 14 sed om. EG, s. l.
Lm2 15 quod] quod- si R 16 ad praedicatur
in mg . respondetur E 18 pluribus—differen- tibus] cf. p.
265, 14 specie differentibus in eo quod quale sit praltdicatur;
cuius definitionis causam rationemque pertractans ait; Rebus enim
ex materia et forma constantibus uel ad similitudinem rtfateriae et formae
constituti- onem habentibus, quemadmodum statua ex materia est aeris,
forma autem figura, sic et homo communis et specialis ex materia quidem
similiter consistit genere, ex forma autem differentia, totum autem hoc animal
rationale mortale homo est, quemadmodum illic statua. Dixit superius
differentias esse quae in qualitate speciei PREDICARE, nunc autem causas
exequitur, cur speciei qua- litas differentia sit. omnes, inquit, res uel ex
materia formaque consistunt uel ad similitudinem materiae atque formae
substantiam sortiuntur, ex materia quidem formaque subsistunt 3—10]
Porph. p. 11, 12—17 (Boeth. p. 37, 12-17). 1 post
quale add . quid Lm2(in ras.) E (sed er.) Rm1, del. m2, add .
quid post sit s. l. Hm2 4 post
similitudinem add . proportionemque LNRQ ( in mg . nempe
communionem Γ ); om. Porph. p. 11, 13 et) ac ΓΔΙΙΨ-
, om . L Α2Φ formae] A m2 HI!1- speciei
CEGHNPR h m1 specieique L Λ2Φ formae speciei er. uid .
Γ ; cf. Porph. et infra 13 ss . 5 quem- admodum—differentia (8)
] LR Q , om. cett. post materia add . quidem
edd., recte ut uid.; Porph. p. 11, 14 μέν 6 aeris] et
(s. l. m2) aere (in ras. m2) Ψ forma] ex ( in al.
litt. xV m2 ) forma L xV brm Busse;
Porph . εΐϊοος post figura haec Proportionale autem (enim Φ )
dicitur (est Σ ) quod proportionem omnium specierum teneat (tenet Σ
) id est communionem omnium partium uel (et T ) specierum quae diuidi
(diui- dendo Rhm1 diuidendae Th m2 \l m1 2'l> ) ex ea (eo ΣΣ )
contingunt (con- tingant R ) per (del. Σ ) differentiam
figuras ΓΠ m2 diffe- rentiam figuras \ ) add . LR
T m1 h m1 ΑΠΣΦ , om . Ψ , del . T m2 \ m2 7 simi-
liter] Busse similiter proportionaliter LR ll m1
similiter proportionaliterquc ΓΔΙ m2 Φ'Ρρ proportionaliter 2
brm; cf. Porph. p. 11, 15 8 ante genere add . in Γ m2
(ex m1 ) L Σ toto Ga.c . 9 ratione E ante
mortale add . et CEGHLPR, om . N Q cum Porph. p.
11, 16 homo est om. N , ex homine Δ m2 11
differentiam HN 12 praedicaretur HN causis Em1
post cur add . autem Hm1, del. m2 qualitas speciei
H 13 omnis ELm2N uel om. EGR 14 consistit
Ea.c.HLm2 subsistit N 15 sortitur HLm2N ex
om. CEGR formaque] et forma P omnia quaecumque sunt
corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod suscipiat formam, nihil omnino
esse potest, si enim lapides non fuissent, muri parietesque non essent, si
lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex ligni materia est, esse
potuisset, igitur supposita materia ac praeiacente cum in ipsam figura
superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex materia formaque subsistens,
ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius Achillis figura perficitur, atque
ea quidem quae corporea sunt, manifestum est ex materia formaque subsistere, ea
uero quae sunt incorporalia, ad similitudinem materiae atque formae habent
suppositas priores antiquioresque naturas, super quas differentiae uenientes effi-
ciunt aliquid quod eodem modo sicut corpus tamquam ex materia ac figura
consistere uideatur, ut in genere ac specie additis generi differentiis species
effecta est. ut igitur est in Achillis statua aes quidem materia, forma
uero Achillis qualitas et quaedam figura, ex quibus efficitur Achillis statua,
quae subiecta sensibus capitur, ita etiam in specie, quod est homo, materia
quidem eius genus est, quod est animal, cui superueniens qualitas rationalis
animal rationale, id est speciem fecit, igitur speciei materia quaedam
est genus, forma uero et quasi qualitas differentia, quod est igitur in statua
aes, hoc est in specie genus, quod in statua figura conformans, id in specie
differentia, quod in statua ipsa statua, quae ex aere 2 potest] putem
G putemus R 4 nec om. Gm1 ne EGm2L 5 ma-
teria est] fit materia HNP ante igitur add . si E
, sed del . 6 in om. R ipsa ER figuram
Hm1La.r . peruenerit HN 9 corpo- ralia HNP ex om.
C 11 prioris Em1G 12 antiquiorisque G 13
tamquam om. CLP, del. Hm2 ex] ea GL (in ras. m2) R 14 materia
ac figura] brm materia (in ras. Lm2) forma ac figura
(ac figura del. Lm2 ) LP forma ac figura CEGHRp figura
ac forma N 15 generi] generis EG 16 aes—statua
(17) om. N materiae G 17 et quae- dam—statua] CH, om.
Lm1 ( in mg . et quaedam figura m2 ) P statua (cet.
om.) EGR 18 quod] quae edd . 22 et om. EGR, s. l. Lm2
quali- tatis R igitur est (est s. l. Pm2 ) HNP 23
figura] forma N 24 post quod add . est
igitur Pm2 figuraque conformatur, id in specie ipsa species,
quae ex genere differentiaque coniungitur. quodsi materia quidem speciei genus
est, forma autem differentia, omnis uero forma qualitas est, iure omnis
differentia qualitas appellatur, quae cum ita sint, iure in eo quod quale
sit interrogantibus respondetur. Describunt autem huiusmodi differentias
et hoc modo: differentia est quod) aptum natum est diuidere quae sub eodem sunt
genere; rationale enim et in- rationale hominem et equum, quae sub eodem sunt
genere, quod est animal, diuidunt. Haec quidem definitio cum sit
usitata atque ante oculos exposita, eam tamen plenius dilucideque declarauit.
omnes enim differentiae idcirco differentiae nuncupantur, quia species a se
differre faciunt, quas unum genus includit, ut homo atque equus propriis
discrepant differentiis; nam sicut homo animal est, ita etiam equus, ergo
secundum genus nullo modo distant. 6—10] Porph. p. 11, 18—20 (Boeth. p.
37, 18—38, 1). 1 formatur CHNP 2 quidem] quaedam
CHLm2PR 3 autem] nero N uero] ergo Lm1 autem
N qualitas] HNPm1 qualia CEGLR uel qualis
s. l. Pm2 5 ante respondetur excidisse
differentia coni. Brandt 6 post autem add . et
L (del.) R; Porph. p. 11, 18 post 8e add . *αί
cod. B differentias] Em2GHPm1 xV differentiam
CLPm2 ΓΛΑΙIΣΦ differentia Em1NR; Porph ,. τάς τοιούτας
διαφοράς et] LPR i , om. cett.; Porph. *a\ οοτως 7
qua CG actum R natura] HL (del.
m2) ΓΑΛΠΦ om. cett.; Porph. p. 11, 19
πεφοχος; cf. infra p. 272, 5—9. 275, 12 8 ante quae
add. ea Γ2 , s. l. A m2 , del. m. al. ,
illa s. l. Δ m2 genere sunt ΣΑΨ
rationale—sunt genere om. EG 9 et equum] equnmque C 10
diuidit L 11 cum—oculos in mg. E sit usitata] sita sit
situr (sic) Em1 ita sit m2 situ sit sita G
ante om. HNR, s. l. Lm2 oculis HN 12 post exposita add.
superius R ea GNR plenius dilucideque declarauit]
(claruit Em1Gm1 ) CEm2Gm2 plenius dilucideque
declarauit L plenius lucidinsque declarauit Hm2 plenius
dilucidiusque claruit R exempli insuper luce declarauit ( ex
decla- ruit N ) NP plenius dilucideque exempli insuper luce
declarauit Hm1 exempli insuper luce reserauit edd . 13
species ase differre] specie ( ex specierum, sequ. rasura )
differentiam E species in aere differentiam G species
ase differentiae Lm1 14 a] ad R concludit N
15 nam in ras. Lm2 sed EG quae igitur secundum
genus minime discrepant, ea differentiis distribuuntur, additum enim rationale
quidem homini, inratio- nale uero equo equus atque homo, quae sub eodem fuerant
genere, distribuuntur et discrepant, additis scilicet
differentiis. Adsignant autem etiam hoc modo: differentia est qua
differunt a se singula; nam secundum genus non differunt, sumus enim mortalia
animalia et nos et inrationabilia, sed additum rationabile separauit nos ab
illis, et rationabiles sumus et nos et dii, sed mortale adpositum disiunxit nos
ab illis. Vitiosa ratione et non sana quod uult explicat definitio
quorundam. id enim esse dicunt differentiam qua una quaeque res ab alia distet,
in qua definitione nihil interest quod ita dixit an ita concluserit :
differentia est id quod est differentia, etenim differentiae nomine in eiusdem
differentiae usus est 5—10] Porph. p. 11, 21—12, 1 (Boeth. p. 38,
1—5). 2 describuntur EG 3 post equo
distinguunt edd., post equus expec- tatur igitur’
Schepps , additum eqs. nominatiuum absolut . (cf. indicem Meiseri)
interpretatur Brandt qui Lm2P 5 autem om .
\, del. Lm2 A. m2 etiam om. H etiam et
Λ eam et Ν Σ ; Porph. p. 11, 21 St καί 6
qua] Porph. διαφορά έσχιν δχψ διαφέρει έκασχα; ‘an
quo?’ Busse, sed cf. infra p. 271, 1.7. 18. 272, 17 . 6 nam—ab
illis (9) ] LR Q , om. cett. post nam add . homo
et equus cum Porph. edd. (cf. etiam infra p. 271, 9. 12, sed etiam supra
p. 269, 9) , etiam Bussio homo atque equus addendum uid . 7
enim] autem Γ 8 inrationalia ( uel irr-) R ?ΓΠ
(in ras.) ros. ex -bilia Δ sed—illis
(9) om. R ratio- nabile] p.r
rationale \ a.r. et cett . separauit] disiunxit ΓΦ 9
et] CHP, s. l. er. uid. Δ , om. cett .
rationabiles] L \ m1 2 rationale CP rationales
cett., add . enim ΕGΗ ΑίΙΦΨ ; codd. Porph. aut
λογικοί aut λογικά sumus om. CEGHP; Porph .
έσμέν et nos om. E et om. N di C dei
ut uid . 2 sed—ab illis om. EG 11 ante
Vitiosa in ras. Haec E ratione] L edd., om. cett.
(recte?), in ras . est E et om. G sane E (in
ras.) NP explicans HNP non (s. l. m2)
explicat L 12 id] cf. p. 263, 10 13 aliis R
distat HN differt P 14 dixerit Lm2P an]
utrum R concluderit L concludat EGR id quod
est om. E ante differentia add . ipsa ER
differentia om. G 15 etenim om. EGR differentiae nomine] qua
differt una res ab alia, id est id quod est differentia est differentia.
Differentiae nomine fid est—nomine in ras. m2) E in—definitione]
usus in eius diffinitione N definitione dicens : differentia
est qua differunt a se singula, quodsi adhuc differentia nescitur, nisi
definitione clarescat, differre quoque quid sit qui poterimus agnoscere? ita
nihil amplius attulit ad agnitionem qui differentiae nomine in eiusdem
usus est definitione, est autem communis et uaga nec includens substantiales
differentias, sed quaslibet etiam accidentes hoc modo : differentia est qua a
se differunt singula; quae enim genere eadem sunt, differentia discrepant, ut
cum homo atque equus idem sint in animalis genere, quoniam utraque sunt
animalia, differunt tamen differentia rationali, et cum dii atque homines sub
rationalitate sint positi, differunt mortalitate, rationale igitur hominis ad
equum differentia est, mortale hominis ad deum, atque hoc quidem modo
substantiales differentiae colliguntur, quodsi Socrates sedeat, Plato
uero ambulet, erit differentia ambulatio uel sessio, quae substantialis non
est. namque istam quoque dif- ferentiam definitio uidetur includere, cum dicit
: differentia est qua differunt singula; quocumque enim Socrates a Platone
distiterit nullo autem alio distare nisi accidentibus potest —, id erit
differentia secundum superioris terminum definitionis, quam rem scilicet
uiderunt etiam hi qui definitionis huius uagum communemque finem reprehendentes
certae conclusionis terminum subiecerunt. 2 nesciatur Lm2
(non noscitur m1) P definitione] in definitione N 3
qui] LN quomodo CEGPR qui * (d er.) H
possemus EG possi- mus R 4 ita om. EGR
cognitionem NPm2, post agnitionem add. a
cogitatione Hm1, del. m2, s. l. uel cognitione m2, del. m.
al. set om. EG 7 accidentales Lm2Pm2 9 sunt
EGHLm1R in om. GNR 11 et om. EGR
rationabilitate CGLm1 rationale N sunt CEGLm1R 12
positi] post EG post differunt add. tamen L
rationabile L 13 est om. C 15 ambulatio uel om.
EG, s. l. Lm2 16 nam HLm1 ista E 18 quo
EGHm1 post differunt add. a se R cumque
EG quoque Rm1 quocumque modo P post enim s.
l. modo Lm2 19 de- stiterit CEm1HPRm2
distauerit m1 post alio s. l. modo Em2 ac-
cidentibus] ex accidentibus P Interius autem perscrutantes
de differentia dicunt, non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere
diuidentium esse differentiam, sed quod ad esse conducit et quod eius quod est
esse rei pars est; neque enim quod aptum natum est nauigare erit hominis
differentia, etsi proprium sit hominis, dicimus enim animalium haec quidem apta
nata sunt ad nauigandum, illa uero minime, diuidentes ab aliis, sed aptum natum
esse ad nauigandum non erat comple- tiuum substantiae nec eius pars, sed
aptitudo quaedam eius est, idcirco, quoniam non est talis quales sunt quae
specificae dicuntur differentiae, erunt igitur specificae differentiae
quaecumque alteram faciunt speciem et quaecumque in eo quod quale est
accipiuntur. Et de differentiis quidem ista sufficiunt. Sensus
propositionis huiusmodi est. quoniam superius dixit determinasse quosdam
differentiam esse qua a se singula dis- p. 90 creparent, ait alios
diligentius de differentia | perscrutantes non 1—15] Porph. p. 12, 1-11
(Boeth. p. 38, 6—17). 1 perscrutantes] EGHP perscrutantes et
speculantes cett.; Porph. p. 12, 1 προσεξεργοζόμενοι
de differentia] CH (linea del., sed lin. er.) Σ
differentiam cett. edd. Busse; Porph. p. 12, 1 τά περί τής
διαφοράς 2 non] non solum R , quodlibet] quod habet ELm1 h m1
X , post quod- libet er. habet 23
diuidentium esse om. X , s. l. Lm2 sed quod—
dicuntur differentiae (12) ] LR Q , om. cett. 5 aptum]
actu R natum om. LR; Porph. p. 12, 4 τδ πεφοχέναι
πλεΐν 6 dicimus] Porph. p. 12, 5 εΐποιμεν γάρ dv
, unde dicemus coni. Brandt, cf. supra p. 230, 18. 19;
infra 12 erunt ειεν άν ; p. 234, 16. (erit). 17.
235, 2 (erunt) 7 ani- malia A acta Rm1 nata
om. LR 8 aliis] illis A 9 actum Rm1 natum
om. R est R erit h m2 10 neque Busse
11 est om. R quoniam om. LR 12 quae om.
Φ igitur] ergo L 13 alteram— quaecumque om.
H 14 et] ea EG quale in er. quid ut
uid. Hm2 quid EG post est add. esse EG
accipiunt EG 15 Et—sufficiunt om. N Et om. CEGP;
Porph. 12,11 Καί de om. EG A diffe-
rentiis] Porph. περί μίν διαφοράς quidem om.
H sufficiant CL X m2; Porph. άρχει 18
alios] ilico EGLa.c. ilico alios P de differentia]
differentiam CLm1P fuisse arbitratos recte esse superius
propositam definitionem, neque enim omnia quaecumque sub eodem posita genere
dif- ferre faciunt, differentiae hae de quibus nunc tractatur, id est
specificae, numerari queunt, plura enim sunt quae ita diuidunt species
sub uno genere positas, ut tamen eorum substantiam minime conforment, quia non
uidentur esse differentiae speci- ficae nisi illae tantum quae ad id quod est
esse proficiunt et quae in definitionis alicuius parte ponuntur, hae autem sunt
ut rationale hominis, nam et substantiam hominis conformat et ad esse
hominis proficit et definitionis eius pars est. ergo nisi ad id quod est esse
conducit et eius quod est esse rei pars sit, specifica differentia nullo modo
poterit nuncupari, quid est autem esse rei? nihil est aliud nisi definitio, uni
cuique enim rei interrogatae quid est? si quis quod est esse monstrare
uoluierit, definitionem dicit, ergo si qua definitionis pars fuerit, eius erit
pars quae unius cuiusque rei quid esse sit designet, definitio est quidem quae
quid una quaeque res 1 positam EG 2 posita] posita sunt
EGL post genere add. quae Lm1, del. m2 3 differentiae—id
est om. CN hae om. H id est om. R, er. uid. H, s.
l. Lm2 4 nominari HLm2NR 5 earum H 6 quia] quae
CH specificae ante esse H, post N 7 proficiant
R et quae] eaeque G eae quae Em1, del. m2, etiam
proxima in—ponuntur del. m2 8 in del. Lm2, om. P
diffinitiones N definitionibus EGLm1 aliqua
N partes EGLP post ponuntur add. ut mortalis
rationalis Em1, del. m2 hae] ea EGLm2P 9 et s. l.
Lm2 et ad G con- format—hominis om. EG 11
conducat EHm2Lm2N et eius—pars sit] N et eius quod (
add. quid Rm1, del. m2 , quidem ex quid Hm2 ,
del. m3 ) est esse rei pars sit (est Hm1) HR et eius rei quod est
(est del. Lm2 ) esse pars est (est om. Lm1, s. l. sit
m2) CL et eius quod quidem esse rei pars est P eius rei quod
quidem (aliquid add. E) EG 13 esse om. G, ante
autem H nihil del. Em2 est s. l. Lm2Rm2
esse E (del. m2) G unius cuiusque R 14 interrogatae] ad
inter- rogationem CHN quis] quid Lm2 quod] id
quod CHNP 15 qua] quid CHN 16 post
eius s. l. rei Lm2 quae] quod HLm1N quid]
quod N sit esse L esse fit G est esse
Hm1N 17 designat Lm2P significet Hm1N est quidem] enim
est HN quae quid] quia N sit, ostendit ac
profert, demonstraturque quid uni cuique rei sit esse per definitionis adsignationem.
illae uero differentiae quae non ad substantiam conducunt, sed quoddam quasi
extrin- secus accidens afferunt, specificae non dicuntur, licet sub eodem
genere positas species faciant discrepare, ut si quis hominis atque equi
hanc differentiam dicat, aptum esse ad nauigandum. homo enim aptus est ad
nauigandum, equus uero minime, et cum sit equus atque homo sub eodem genere
animalis, addita differentia aptum esse ad nauigandum equum distinxit ab
homine, sed aptum esse ad nauigandum non est huiusmodi, quale quod possit
hominis formare substantiam, sed tantum quandam quodammodo aptitudinem monstrat
et ad faciendum aliquid uel non faciendum oportunitatem. idcirco ergo speci-
fica differentia esse non dicitur, quo fit ut non omnis diffe- rentia quae sub
eodem genere positas species distribuit, spe- cifica esse possit, sed ea
tantum quae ad substantiam speciei proficit et quae in parte definitionis
accipitur, concludit igitur esse specificas differentias quae alteras a se
species faciunt per differentias substantiales, nam si uni cuique id est esse
quodcumque substantialiter fuerit, quaecumque differentiae
substantialiter diuersae sunt, illas species quibus adsunt, omni substantia
faciunt alteras ac discrepantes, atque hae in definitionis parte sumuntur, nam
si definitio substantiam monstrat 1 ostendit om. E
ostenditur N ac er. E, om. N profert om. N
demonstratque CLm1 quid] quod Lm1Pm1R quidem quid
N 2 per om. EGR, in mg. Lm2 assignatione EG 3 ad
om. EΡ quasi om. EGPR 5 faciant om. EG
facient CLm1Rm1 7 homo enim (autem LR )—equus]
HLNR hominem equum (cet, om.) CEGP 10 esse ad—sed
tantum (11) om. EG 11 quale om. EGR, del. Lm2 ante quod
(quid P ) add. per L (del. m2), s. l. Pm2
post substantiam add. sicut rationale quae est substantialis
qualitas C 12 habitudinem Hm1 13 opportunitatem
CR differentia specifica C 18 ante esse
add. eas HΝΡ, s. l. Lm2 quae—differentias om. EGR
ad faciunt s. l. 1 informant Lm2 19
differentias ex distantias Lm2 idem est ( in
ras. m2 ) esse H idem esse est R 21 sint
Hm1 omnes EGP 22 substantias P substantiae
Hm1 substantiae ratione N et substantiales differentiae
species efficiunt, substantiales dif- ferentiae erunt partes
definitionum. Proprium uero quadrifariam diuidunt. nam et
id quod soli alicui speciei accidit, etsi non omni, ut homini medicum
esse uel geometrem, et quod omni accidit, etsi non soli, quemadmodum homini
esse bipedem, et quod soli et omni et aliquando, ut homini in senectute
canescere, quartum uero, in quo concurrit et soli et omni et semper,
quemadmodum homini esse risibile, nam etsi non semper rideat, tamen risi- bile
dicitur, non quod iam rideat, sed quod aptus natus sit; hoc autem ei semper est
naturale et equo hinnibile, haec autem proprie propria perhibent esse,
3—p. 276, 2] Porph. p. 12, 12—22 (Boeth. p. 38, 18—39, 9). 1
et om. EG, s. l. Pm2 2 erunt post partes
Lm2 sunt m1 sunt post definitionum CGR, s. l.
Em2 3 DE PROPRIO om. H, add. Lm2 EXPLICIT DE DIFFEREN.
(DIFFERENTIIS Ψ ) INCIPIT DE PRO- PRIO 2<F 4 et s.
l. C 5 hominem R h m1 A 6 uelut H geo- metram
CEm1G edd. Busse et quod—perhibent esse (14) ] LR (
locum hic om., p. 277, 7 post adest inserit ) Ω
, om. cett. omni] Porph. p. 12, 14
παντί—τφ εϊδει 7 etsij et R T m1 ante
homini add. et R 8 homini] Porph. p. 12, 16
όνΟ-ρώπψ παντί , unde homini omni coni.
Busse 9 post uero add. est Φ in quo concurrit
et del., in mg. conuenit T m2 10 hominem R Σ
11 risibilem R ΓΣΦ ; Porph. p. 12, 17 ώς τψ άνθρώπψ τό
γελαστιχόν non semper rideat] L Σ non rideat ΓΑ
non ridet ( hic ut uid. s. l. semper add., sed er. \
) R AIIΨΨ semper non rideat Busse non rideat semper
edd.; Porph. p. 12, 18 χαν γάρ μή γελά αεί risibile
tamen L Λ edd. Busse; Porph. άλλα
γελαστιχο'ν 12 iam] semper Σ edd.; Porph. p. 12,
19 άεί , cod. Mm2 ί)Bη rideat—natus
sit om. Φ 13 sit natus R, add. ad
ridendum R ΓΑ ridere Σ , ante sed
add. ridendum Φ ; om. Porph. semper ei est
naturale L semper est ei naturale Γ ei semper naturale
est Σ ante et add. ut (om. etiam B Bussii)
edd. Busse ; Porph. p. 12, 20 ώς , om. cod. A 14
autem] Porph. 81 xai , om. xai
cod. A proprie—esse] L Λ (esse s. l. m2 )
Σ (esse om. ), proprie domi- nanterque (nominantur T m2 )
propria perhibentur (perhibentur del. Γ m2 ) ΓΦ
proprie nominantur (nominant Π ) propria R ΔΙΙ uere dicuntur
propria Ψ ; Porph. χυρίως ΐßιά φασιν
quoniam etiam conuertuntur. quicquid enim equus, hinnibile, et quicquid
hinnibile, equus. Superius dictum est omnia propria ex accidentium genere
descendere, quicquid enim de aliquo praedicatur, aut substan- tiam informat aut
secundum accidens inest. nihil uero est quod cuiuslibet rei substantiam
monstret nisi genus, species et differentia, genus quidem et differentia
speciei, species uero indiuiduorum. quicquid ergo reliquum est, in accidentium
numero ponitur, sed quoniam ipsa accidentia habent inter se aliquam differentiam,
idcirco alia quidem propria, alia priore atque antiquiore nomine
accidentia nun|cupantur. et de accidentibus paulo post, nunc de propriis, quae
quadrifariam diui- duntur, non tamquam genus aliquod proprium in quattuor
species diuidi secarique possit, sed hoc quod ait diuidunt, ita intellegendum
est, tamquam si diceret nuncupant, id est propria quadrifariam dicunt,
cuius quadrifariae appellationis significationes enumerat, ut quae sit
conueniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat, dicit ergo proprium
accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo coaequetur ei, sed
infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur proprium medicum esse, idcirco
quoniam nulli alii inesse ani- 3 superius eqs.] fort. p. 186, 12—187,
1. 1 enim equus om. N equus—equus] CEGHNP U
( sed add. et si homo, risibile, si risibile, homo est] cum Porph.
p. 12, 21, post pr. equus add. et R A est
et L est etiam est et (sic) Φ equus est et
hinnibile est (est s. l. F\ m2 ) et quicquid hinnibile equus
est ΓΔ est equus est hinni- bile et quicquid est hinnibile est
equus ( quattuor est s. l. m2 ) Ψ equus est hinnibile
et quicquid hinnibile est equus est et si homo est risibile est et risibile
homo est 2 4 alio N 6 ante species
add. et Lm1, del. m2 7 et om. R
genus—diiferentia om. EGR, s. l. Hm2 11 ante antiquiore
add. in ER 12 nunc ex nam Hm2 quadrifarie
N in quadrifariam (-um GP ) EGP diuidunt H
(ur er. ) P (ur del. m2 ) 13 aliquid CPm1
14 ait om. E ( in mg. dicitur m2 ) G
est R diuiduntur EG 15 nuncu- pantur EGR 16
proprie CEm1G propriam ut uid. Pm1 propriam
m2 dicuntur EGHm1La.c.NR quadrifariam C 18
proprietas Ea.c. (proprii p.c. ) G dicitur
CEHLa.c. (corr. m1 et 2) P ergo om. C proprium s. l.
Cm2 primum m1 20 ei ante nullo HN ac]
et HNP dicimus HN malium potest, nec illud adtendimus,
an hoc de omni homine praedicari possit, sed illud tantum, quod de nullo alio
nisi de homine dici potest medicum esse, et haec quidem significatio proprii
dicitur inesse soli, etsi non omni; soli enim speciei, etsi non omni
coaequatur, ut medicina soli quidem inest homini, sed non omnibus hominibus ad
scientiam ad- est. Aliud proprium est quod huic e contrario dicitur omni, etsi
non soli; quod huiusmodi est, ut omnem quidem speciem contineat eamque
transcendat, et quoniam quidem nihil est sublectae speciei quod illo
proprio non utatur, dicimus omni, quoniam uero transcendit in alias, dicimus
non soli: hoc huiusmodi est quale homini esse bipedem, proprium est enim homini
esse bipedem, omnis enim homo bipes est etiamsi non solus, aues enim bipedes
sunt, geminae igitur significationes proprii quae superius dictae sunt,
habent aliquid minus, prima quidem quia non omni, secunda uero quia non soli,
quas si iungimus, facimus omni et soli, sed demimus aliquid secundum tempus, si
ei adiciatur aliquando, ut sit haec tertia proprii nuncupatio ‘omni et soli,
sed aliquando, ut est in senectute canescere uel in iuuentute pubescere;
omni enim homini adest in iuuentute pubescere, in senectute canescere, et soli,
pubescere enim solius hominis est, sed ali- 1 hoc om. EG
homini EN 2 quod] quia HN nisi de homine
post esse N 3 medicus Hm1N 4 inesse] CP, s.
l. Hm2Lm2, om. EGR inest N etiamsi
Em2 (et m1 ) Hm1LR 5 etiamsi EHm1L ( repet,
post inest) PR coaequetur Em2Hm1 ante medicina
add. homini H (del. m2) LNR 6 homini
om. NR, s. l. Hm2 adest] adesse potest CLN potest
esse H; de R cf. ad p. 275, 6 7 est ante aliud
HN, post CG, om. E 8 etiamsi HLNR quid
HN 10 quod illo—non soli in inf. mg. Em2 post
dicimus add. enim C 11 aliis Em2G 12 hoc]
id N post quale add. est s. l. Hm2,
post homini CG 13 hominis R, post homini
add. proprium Em2 enim in mg. Em2 14
etiamsi—geminae om. EGR 17 sed
Hm2 si m1 demimus] HN deminus Cm1
i demimus ί deest minus m2 dempsimus
R dedimus Em1 (addimus m2 ) G deest
minus LP 18 eis HLP ei post adiciatur
N 19 omni et soli] et soli et omni C sed] si G
21 post. in] et in HN 22 est hominis HN
quando, neque enim omni tempore, sed in sola tantum iuuen- tute. haec
igitur determinatio proprii in eo quidem modo quod omni et soli inest, absoluta
est, sed ex eo minuit aliquid uel contrahit, cum dicimus aliquando, quod si
auferamus, fit pro- prii integra simplexque significatio hoc modo : proprium
est quod omni et soli et semper adest, omni autem et soli speciei et
semper intellegendum est ut homini risibile, equo hinnibile; omnis enim et
solus homo risibilis est et semper. neque illud nos ulla dubitatione perturbet,
quod semper homo non rideat; non enim ridere est proprium hominis, sed
esse risibile, quod non in actu, sed in potestate consistit, ergo etiamsi
non rideat, quia ridere tamen posse soli et omni homini semper adesse dicitur,
conuenienter proprium nuncupatur, nam si actus separatur ab specie, potestas
nulla ratione disiungitur. Quattuor igitur significationes proprii
dixit, nam prima quidem, quando accidens ita subiectae speciei adest, ut
soli ei adsit, etiamsi non omni, ut homini medicina; secunda uero, 1
in om. EGR, s. l. L, post tantnm P tamen L post
iunentnte add. pubescit N 2 post
proprii add. integra simplexque significatio GHP (del. m1? ex
5) in eo—fit proprii (4) om. R modo om. N,
del. Lm2 3 inest om. EG est Lm1 minus La.c.
minui N minuens P aliquid uel] atque
significationem in ras. Em2 uel] CNP et GL, om.
ΕH 4 quod] quam N 5 simplexque] et simplex HLNR
proprii R 6 soli et omni N secund. et om.
GLR, s. l. Pm2 omni autem—intellegendum est om.
Rbrm 7 et semper om. EGR, del. Lm2, s. l. Hm2Pm2
intellegendum est del. et s. l. adest scr. Hm2, in mg.
quod soli et omni adest m. al. 8 post. et om.
EGPR post semper add. similiter et equus
hinnibile brm 9 illud Hm2 enim Hm1N 10 proprium
est NPR sed] si est R esse del. Lm2
est R 11 sed] si R 12 si non rideat etiam C
quia om. N, s. l. Hm2 tamen om. R autem HN
possit La.c.N potest Em2 post omni add.
adsit H (del. m2) adest N 13 ante
semper s. l. et Hm2 semper om. R ante
conuenienter add. et H (er.) L (del. m2) NP 14 si]
etsi Hm1Lm1N separetur Em2 a C 15
proprii om. EG nam prima] unam CHm1 (primam m2) N
nam (s. l.) primam P 17 homini medicina] hominem esse
medicum C secundam CHN; in mg . ał. se- cunda autem cum omni
accidit etsi non soli ut homini esse bipedem add. L uero]
autem CL (in mg.) cum soli quidem non adest, omni uero semper
adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia uero, cum omni et soli, sed ali-
quando, ut omni homini in iuuentute pubescere; quarta, cum omni et soli et
semper adest, ut esse risibile, atque ideo cetera quidem conuerti non
possunt : neque enim coaequatur quod soli, sed non omni speciei adest, species
quidem de ipso dici potest, ipsum uero de specie minime, qui enim medicus est,
potest dici homo, homo uero qui est, medicus esse non dicitur, rursus quod ita
est alii proprium, ut omni adsit etiamsi non soli, ipsum quidem de specie
PREDICARE potest, species uero de eo minime, nam bipes praedicari de homine
potest, homo uero de bipede nullo modo, rursus quod ita adest, ut omni et soli,
sed aliquando adsit, quoniam de tempore habet aliquid deminutum nec simpliciter
semper adest, reciprocari non poterit, possumus enim dicere omnis qui
pubescit homo est, non omnis homo pubescit: potest enim minime ad iuuentutem
uenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit pubescere hominis proprium,
sed in iuuentute pubescere, aut, etiam cum nondum est in iuuentute aut etiam
praeteriit, tamen sit ei proprium non tale quale tunc fieri possit, cum
praeter iuuen- tutem est, sed quale cum in iuuentute consistit, atque ideo
hoc 1 cum] quae N soli—adiungitur del. Hm2 omni accidit
etsi non soli CHm2L semper s. l. Hm2 2 hominem
C tertiam CHN soli et omni N 3 omnio m.
LNR homini om. N quartam CG (sic) HN 4
post. et om. EG, add. Pm2 inest CHm1N ideo
om. E adeo HLR 5 coaequantur HN 6 quodj quia
cum Hm1N non omni sed soli N sed] si R 7
qui enim—dici homo om. EGR 8 homo dici C 9
ad alii s. l. a t illud L, post add. una
pars R 11de homine praedicari C 13 adest ex
est Em2 distat Hm1 assit ex sit
Hm2 14 diminutum EN nec] et Hm1 16 non] non tamen
dicimus L homo] qui est homo L qui homo est (qui
et est s. l. m2) H 18 ante sed add.
solummodo Hm2, ante in CN, post post. pubescere
L aut] Hm2La.c.Pm2 ut EGHm1Lp.c.Pm1R autem
CN 19 cum] Hm1NR quod CEGHm2LP etiam s. l. Hm2
iam Em1 20 sit] adsit CHN ei om. G
fieri om. C, in ras. Lm2 fieri possit del., est s. l.
scr. Hm2 potest L (in ras. m2) P
est C 21 post quale add. tunc fieri potest
(posset CHLm1N) CH (s. l. m2) LNP quod non in omne tempus
tenditur, etiamsi tale est, ut omni p. 92 speciei adsit, quod
ta|men in tempus aliquod differatur, integrum atque absolutum proprium esse non
dicitur, quartum est quod ita alicui adest, ut et solam teneat speciem et omni
adsit et absolutum sit a temporis condicione, ut risibile quod a superiore
plurimum distat; nam qui risibilis est, semper ridere potest, rursus qui potest
in iuuentute pubescere, cum ipsa iuuentus non sit semper, non ei adest semper
ut in iuuentute pubescat, haec autem quarta proprii significatio quoniam nulla
temporis definitione constringitur, absoluta est atque ideo etiam
conuertitur et de se inuicem proprium atque species praedicantur; homo enim
risibilis est et risibile homo. Accidens uero est quod adest et abest
praeter sub- iecti corruptionem, diuiditur autem in duo, in separa- bile
et in inseparabile, namque dormire est separabile accidens, nigrum uero esse
inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit, potest autem subintellegi et coruus
albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti corruptionem, definitur
autem sic quoque; accidens est 13—p. 281, 7] Porph. p. 12, 23—13, 8
(Boeth. p. 39, 10—21). 1 quod] quia HN 2 speciei]
tempori EGR aliquid C 4 alicui om. EG, del.
Hm2 ali R alii Lm1 pr. et om. EGLR
post. et] ut La.c.R 5 post. a s. l.
Hm2 6 qui ex quod Lm2 7 ante
cum add. sed CH (del. m2) NP, s. l. Lm2 8 adest]
est EGR in iuuentute deleri uult Hilgard 9 quoniam]
quam EGLm2P 10 definitio ( uel difd–) EGLm2R
constringit EG 11 et de se] et ideo de se P de se
om. R De specie EG 12 risibile C et om.
EGHR 13 inscript. om. HL K ACCIDENTE ΝR ΔΣ
14 uero om. A 15 diuiditur—sub- sistens (p. 281,
3) ] LR Q , om. cett. duobus L 16 in om.
Φ nam A Busse 19 amittens colorem] A m1
T" nitens colore c ett. edd. Busse; Porph. p. 13,
2 άποβαλών τήν χροιάν; cf. supra p. 101, 13
corruptionem subiecti LR ϋίΓΦ ; codd. Porph.
φθοράς aut ante τοΰ υποκειμένου aut post;
cf. infra p. 281, 17. 282, 3. 8 20 definitur] Porph. p. 13,
3 ορίζονται quod contingit eidem esse et non esse, uel
quod neque genus neque differentia neque species neque proprium, semper autem
est in subiecto subsistens. Omnibus igitur determinatis quae proposita
sunt, dico autem genere, specie, differentia, proprio, accidenti,
dicendum est quae eis communia adsint et quae propria. Quouiam, ut superius
dictum est, quae de aliquo PREDICARE, uel substantialiter uel accidentaliter
dicuntur cumque ea quae substantialiter PREDICARE, eius de quo dicuntur
substantiam definitionemque contineant et sint eo antiquiora atque maiora, quod
ex substantialibus PREDICATO efficiuntur, cum ea quae substantialiter dicuntur
pereunt, necesse est ut simul etiam ea interimantur quorum naturam
substantiamque formabant, quae cum ita sint, necesse est ut quae
accidenter dicuntur, quoniam substantiam minime informant, et adesse et abesse
possint praeter subiecti corruptionem, ea enim tantum cum absunt subiectum
corrumpere poterunt, quae efficiunt atque conformant quae sunt substantialia,
quae uero 8 superius] p. 276, 4. 1 contigit - R A
ante pr. esse add. et R, s. l. \ m2; om. Porph.
p. 13, 4 post. et] uel L ( post uel littera
er. ) edd.; Porph. η , codd. CM nat
2 post genus s. l. est A m2 neque species neque
differentia ΔΔΣ edd. Busse; Porph. οοτε διαφορά
οϋτε είδος post proprium add. sit LR 3
consistens Λ 4 praeposita Δ m1 5 dico—accidenti
om. Γ propria Φ proprio et L ΔΑΣ
accidente H et accidenti L A m2 (et accidente m1
) ΛΣ de accidenti EG 6 eis] his CHP
hiis Φ uel his R , om. EG; Porph. p. 13,
7 αΰτοϊς adsint] sint R sunt L Λ m1 ηιΙΧΣ
; Porph. πρδσεοτιν et om. G 7
post propria add. EXPLICIT DE GENERE SPECIE DIF- FERENTIA
PROPRIO ACCIDENTE Σ 8 ut om. EG alio CEGR 9
accidentialiter CP accidenter HR dicuntur] praedicantur
R cum EG 11 definitione EG maiora atque
antiquiora C 12 quod] quia R substantialiter CN
efficitur CHm2LN 13 cumque N , post cum s.
l. accidenter E intireunt P 15 an
informabant? acci- dentaliter Lm2 16 et om. EGR, s. l.
Lm2 abesse et adesse H 17 possunt N tantum
enim C 18 perrumpere E potuerunt LR 19
informant HN non efficiunt substantiam, ut accidentia, ea cum
adsunt uel absunt, nec informant substantiam nec corrumpunt, est igitur
accidens quod adest et abest praeter subiecti corruptionem, id autem diuiditur
in duas partes, accidentis enim aliud est separabile, aliud inseparabile,
separabile quidem dormire, sedere, inseparabile uero ut Aethiopi atque
coruo color niger. in qua re talis oritur dubitatio. ita enim est definitum :
accidens est quod adesse et abesse possit praeter subiecti corruptionem. idem
tamen accidens aliquando inseparabile dicitur; quod si inseparabile est, abesse
non poterit, frustra igitur positum est accidens esse quod adesse et
abesse possit, cum sint quaedam accidentia quae a subiecto non ualeant
separari, sed fit saepe ut quae actu disiungi non ualeant, mente et cogitatione
sepa- rentur. sed si animi ratione disiunctae qualitates a subiectis non ea
perimunt, sed in sua substantia permanent atque perdurant, accidentes esse
intelleguntur, age igitur, quoniam Aethiopi color niger auferri non potest,
animo eum atque cogitatione separemus, erit igitur color albus Aethiopi, num
idcirco species consumpta sit? minime, item etiam coruus, si ab eo colorem
nigrum imaginatione separemus, permanet tamen auis nec interit species,
ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re, sed animo intellegendum est.
alioquin et sub- stantialia, quae omnino separari non possunt, si animo et
cogi- tatione disiungimus, ut si ab homine rationabilitatem auferamus 1
cum—absunt] uel cum adsunt uel cum absunt H uel cum absunt uel cum
adsunt N cum uel (uel s. l. m2 ) absunt uel adsunt L;
ante assunt (sic) add. uel P 3 ante
adest add. et P 4 dinidunt EGLR
accidens edd. aliud est enim H 5 ante
dormire add. ut brm 6 ut om. HR edd. 7 dubietas
CEG (recte?) post. est add. Hm2 8 et] uel N
potest CL 9 dicit EG 11 abesse-et adesse E
12 ab CRm1 14 animi] hac C 15 eas EGN
permaneant G ac R 16 acciden- ter CG
intellegantur Em1 igitur] enim HN 17 eum om. G,
ante separemus C , uero E atque] et HLNPR
18 num ex non Rm2 19 consumptae (consumpta R )
sunt EGLR edd. ita CEP 20 imagine EGR 21
interiit Lm1PR pr. et om. EGR, s. l. Lm2 22 et om. CEG
23 si] saepe Hm1LNP 2t rationalitatem P — quam
licet actu separare non possumus, tamen animi imaginatione disiungimus —,
statim perit hominis species, quod idem in accidentibus non fit: sublato enim
accidenti cogitatione species manet. Est alia quoque accidentis definitio
ceterorum omnium priuatione, ut id dicatur esse accidens quod neque genus sit
neque species nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum uaga est
ualdeque communis. sic enim etiam genus definiri potest, quod neque species
neque differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo species ac
differentia et proprium, cum autem eadem similitudine definitionis plura
definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum
longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam
aliarum rerum negatione demonstrat. Quibus omnibus expeditis, id est
genere, specie, differentia. proprio atque accidenti, descriptisque eorum
terminis quantum postulabat institutionis breuitas, ea ipsa communiter pertrac-
tanda persequitur, ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de
quibus superius disputatum est, quas uero com- muniones, mediocri
consideratione demonstret, ut non solum 1 separari EG
possimus EL post tamen add. si L, s. l.
Hm2Pm2 2 imaginatione] cogitatione N statimque C
(q. er. ) H (q. del. m2) N periit PR
3 item CHm1 sit EN (ut uid.) sublata EGR
enim s. l. Cm2 accidenti om. EGR, post cogitatione
N 4 ante cogitatione er. et C
quoque om. EGP (sic) accidentis om. C, post definitio
R 5 ad priuatione s. l. quae fit per priuantiam
Em2 id om. EG dicat EGR 6 fit C neque
differentia neque proprium LNR 8 enim om. NR nec ( ante
differentia) CH 9 neque NR sit om. L,
post accidens R neque N 10 proprio
HPm1 11 plurima L queunt EGLm1R termino
Ep.c.R et om. EGR 12 ab LR ac G 13
negatione rerum E 14 demonstret N 15 post
genere add. quidem CP 16 ante proprio
add. et H ante quantum add. et PR, s. l.
Lm2 17 post breuitas repet. expeditis
PR, s. l. Em2 pertractanda om. C
retractanda HNP 18 ante quas s. l.
quia Em2 19 de quibus om. E disputandum G
quas nero] quasue CL quid ipsa sint, uerum etiam quemadmodum
inter se compa- rentur, appareat. 1 quid] H, m2 in CLP
quod NPm1 quae Cm1EGLm1R compa- rantur E 2 BOEZIO
( BOETI E) V. C.ET I LL . (EXINI sic E ) EXCONS. ORDINAR.
PATRICII IN ISAGOGAS PORPHYRII ( Y ex I Gm2) ID
EST INTRODVCTIONEM IN CATE- GORIAS A SE TRANSLA. (sic EG) EDITIONIS
SECVNDAE LIBER IIII. EXPL. ( EXPLICIT’ E) . INCIPIT LIBER V.
EG ; EXPLICIT LIBER ( LIBER om. C) QVARTVS. INCIPIT
LIBER ( LIBER om. HN) QVINTVS CHLNP, add. DE
COMMVNIBVS GENRIS. DIFFER. SPEC. ACCID. ET PROPI N ; EXPLICI
R Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in unius
cuiusque consideratione poterat, ad scientiae terminum breuiter adductis nunc
iam non de singulorum natura, id est uel generis uel differentiae uel
speciei uel proprii uel acci- dentis, sed de ad se inuicem relatione
pertractat, nam qui communiones ac differentias rerum colligit, non ut sunt per
se res illae considerat, sed ut ad alias comparentur, id autem duplici modo, uel
similitudine, dum communitates sectatur, uel dissimilitudine, dum
differentias, quae cum ita sint, nos quoque, ut adhuc fecimus, propter
planiorem intellectum philosophi uestigia persequentes ordiemur de his
communio- nibus quae adsunt generi et speciei et differentiae uel proprio et
accidenti. Commune quidem omnibus est de pluribus praedi-
15—p. 286, 18] Porph. p. 13, 9-21 (Boeth. p. 40, 1—16). 3
cuiuscumqne C considerationem Ea.r.G 4 id est om.
N, add. Rm2 5 pr . uel om. P secund. uel]
et P 6 nam quia R namque Hm1N 7 sunt. om.
C 8 ille GLNP, post illae s. l. sint Cm2
ut om. R ad s. l. LRm2 post alias add.
qualiter CHPR, s. l. Lm2 comparantur EGHm2, recte? cf.p. 284,
1 post autem s. l. fit Cm2L, in mg. Em2,
post duplici s. l. Pm2 9 dum—dum om. EG sectatur]
retractat R retractantur L (n del., s. l. a
i sectatur] P 10 differentiae La.c.P uel
differentia EG 11 ad adhuc s. l. id est
(uel G ) hac tenus EGm2 12 his] his omnibus R
communibus EGR 13 utrumque et om.
EGLR uel om. R et NP 14 et] uel EGL
atque R 15 ante Commune add. inscriptionem
DE COMMVNIBVS GENERIS (ET add. ΔΠ ] SPECIEI DIFFERENTIAE
PROPRII ET ACCIDENTIS ΛΠ Busse, N in subscript.
libri IV cum alio ordine uerborum, DE HIS (HIIS Φ ) COMMVNIBVS QVAE
ASSVNT (sunt A ) GENERI ET SPECIEI (ET SPECIEI om. T )
ET DIFFERENTIAE ET PROPRIO ET ACCIDENTI (accidenti proprio et
differentiae A ) ΓΑ (litt. minusc.) Φ ,
INCIP. DE EORV COMVNIBVS 2 DE COMMVNITATIB; OMNIVM. *i'
, inscript. om. CEGHLPR cari, sed genus quidem de
speciebus et de indiuiduis, et differentia similiter, species autem de his quae
sub ipsa sunt indiuiduis, at uero proprium et de specie cuius est proprium et
de his quae sub specie sunt indiuiduis, accidens autem et de speciebus et de
indi- uiduis. namque animal de equis et bobus [et canibus] praedicatur,
quae sunt species, et de hoc equo et de hoc boue, quae sunt indiuidua,
inrationale uero et de equis et de bobus praedicatur et de his qui sunt par-
ticulares, species autem, ut homo, solum de his qui sunt particulares
praedicatur, proprium autem, quod est risibile, et de homine et de his qui sunt
particu- lares, nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt particulares,
quod est accidens inseparabile, et moueri de homine et de equo, quod est
accidens separabile, sed principaliter quidem de indiuiduis, secundum
posteriorem uero rationem de his quae continent indiuidua. Antequam
singulorum ad unum quodque habitudinem tractet, illam prius respicit quam omnes
ad se inuicem habere uide- 1 sed—separabile (16) om. HNP
post. de om. R 2 autem] quidem Δ hiis Φ
, item 4 3 post indiuiduis s. l.
praedicatur Em2 at uero —separabile (16) om. CEG at
uero—indiuiduis (5) om. Σ · 4 de his om.R 5
post. de om. R 6 bubus Lm1 A bobis R, ante
add. de L T de bobus Busse et canibus cum Porph.
p. 13, 14 om. edd., delend. uid. Bussio 7 praedicatur post
species R pr. (sic) de om. R 8 inrationabile
L et om. Porph. p. 13, 15; ante et add.
similiter R 9 de om. R bubus RLm1 A
praedicatur s. l. \ m2 (dicitur m1 ),
post particulares Λ2 quae L TA 10 quae R
ΓΑ 11 particularia R, add. homines L 4ΛΦ ; om.
Porph. p. 13, 16 proprium—particulares (12) om. R
quod est] otov Porph. p. 13, 17 12
pr. et om. L ΆΣ Busse (casu ut uid., cf.
eius adnot. ad Porph. p. 13, 17 v-ai ),
add. \ m2 13 pr. et om. Busse; Porph. p.
13, 18 τοΰ τε εΐδοος 14 qui] quae R 15 de
homine—equo post separabile R 16 sed om.
Π Σ post principaliter add. accidens
praedicatur Φ , s. l. accidens Lm2 17
secundum—rationem] secundo uero (cet. om.) N ΛΣΦ ;
secundo etiam T m1 ; uero post secundum
C posteriore E ratione E orationem Λ
ante de add. et edd. cum Porph. p. 13, 21
18 post indiuidua add. speciebus N Σ 20
uidentur RG antur. haec est autem una communio quae
propositarum quinque rerum numerum pluralitate praedicationis includit;
omnia enim de pluribus praedicantur, in hoc ergo sibi cuncta communicant, nam
et genus de pluribus praedicatur, itemque species ac differentia et
proprium et accidens, quae cum ita sint, est eorum una atque indiscreta
communio de pluribus PREDICARE, disgregat autem ipsam de pluribus PREDICAZIONE,
quemadmodum in singulis fiat, quod unum quodque proposi- torum de quibus
pluribus praedicetur ostendit, ait enim genus quidem de pluribus
praedicari, id est speciebus ac specierum indiuiduis, ut animal praedicatur de
homine atque equo ac de his indiuiduis quae sub homine sunt atque sub equo,
item genus PREDICARE de differentiis specierum atque id iure. quoniam enim
species differentiae informant, cum genus de speciebus praedicetur,
consequens est ut etiam de his dicatur quae specierum substantiam formamque
efficiunt, quo fit ut genus etiam de differentiis praedicetur ac non de una,
sed de pluribus; dicitur enim quod rationabile est, esse animal et rursus quod
inrationabile est, esse animal, ita genus de speciebus ac differentiis
praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt indiuiduis. differentia uero de
speciebus dicitur pluribus ac de earum indiuiduis, ut inrationabile et de equo
praedicatur ac boue, quae sunt plures species, et de his quae sub ipsis sunt
indiuiduis eodem modo dicitur; nam quod de uniuersali praedicatur,
praedicatur et de indiuiduo. quodsi differentia de speciebus dicitur,
praedicabitur etiam de eiusdem speciei sub- 1 praepositarum HN
5 post. et] atque R 7 autem] ut est E 8 quod]
ut Em2P et quod La.c. et ut p.c., ante
quod s. l. in eo Hm2 praepositorum HN 9
ostendat ELm2P 10 id est om. HNR, er. G 11 atque] et
CL equo ac de om. EG ac] atque CL et
R 12 de om. L, s. l. Cm2 qui EGP post. sub om.
LNP 14 enim del. E 15 praedicatur HN 16
perliciunt HNP 18 rationale EGHNP 19 quod om. R,
in ras. E, quoniam GLm1 inrationale HNP est
om. R 21 differentiae... dicuntur R 22 inrationale ( uel
irr-) Em2 (rationabile m1) HLm2NP 23 bouej de
boue N et de] deque EG 25 et ante
praedicatur C 26 praedicatur C etiam om. EN
iectis. species uero de suis tantum indiuiduis praedicatur; neque enim
fieri potest, ut quae species est ultima quaeque uere species ac magis species
nuncupatur, haec alias deducatur in species, quod si ita est, sola post speciem
indiuidua restant, iure igitur species de suis tantum indiuiduis praedicantur,
ut homo de Socrate, Platone, CICERONE et ceteris, proprium item de specie
PREDICARE cuius est proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio
diceretur; de quo enim una quaeque res ‘et soli et omni et semper’ dicitur,
eiusdem pro- prium esse monstratur. quae cum ita sint, proprium de specie
dicitur, ut risibile de homine; omnis enim homo risibilis est. dicitur etiam de
indiuiduis speciei de qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et CICERONE
risibilis, accidens uero et de speciebus pluribus dicitur et de diuersarum
specierum indiuiduis. dicuntur enim coruus atque Aethiops nigri et hic
cor- uus et hic Aethiops, qui sunt indiuidui, nigri secundum nigre- dinis
qualitatem uocantur. atque hoc quidem est accidens inseparabile, sed multo
magis separabilia accidentia pluribus inhaerescunt, ut moueri homini et boui —
uterque enim moue- tur —, et rursus ea quae sub homine sunt atque boue
indiuidua, moueri saepe praedicantur. sed aduertendum est auctore
Porphyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter quidem de his dicuntur in
quibus sunt indiuiduis, secundo uero loco ad uniuersalia indiuiduorum
referuntur, atque ita praedicatio 1 praedicabitur CLP 3
uero C 5 praedicatur Cm1EGLRm2 7 esse E 8
nisi HPR, ex si CLm2 aliquo CHP ante
diceretur add. non R, s. l. Lm2 9 pr.
et om. EGHN secund. et om. G tert. et om. EG,
del. Lm2, s. l. Pm2; ad et—semper cf. p. 275,10 12 etiam]
autem HPm1 13 Plato] et piato N et om. CEG
risibiles CH et om. EGLP 14 pluribus om. CN
dicitur om. H, post indiuiduis s. l. scil,
praedicatur m2 specierum om. HN 15 dicuntur in
ras. Hm2 dicitur GNR niger NR
et om. EGHN 16 et om. EG post nigri
add. autem R, s. l. Lm2 19 et om. EG 20 et
om. CEGP 21 mouere Ea.c.Gm2 actore
Ea.c.R 23 post dicuntur add. nam non subsistunt praeter
haec quibus adsunt et nulli prius acci- dunt quam indiuiduis R
24 post uniuersalia add. ad speciem G
superiorum redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest, dicitur
adesse coruo. nam quia omnia particularia qualitas ista accidentis nigredinis
inficit, idcirco eam de specie quoque PREDICARE dicentes coruum, ipsam speciem,
nigrum esse. In quibus omnibus mirum uideri potest, cur genus de
proprio PREDICARE non dixerit nec uero speciem de eodem proprio nec
differentiam de proprio, sed tantum genus quidem de speciebus ac differentiis,
differentiam uero de speciebus atque indiuiduis, speciem de indiuiduis,
proprium de specie atque indiuiduis, accidens de speciebus atque
indiuiduis. fieri enim potest ut quae maioris PREDICAZIONE sint, ea de cunctis
minoribus praedi- centur, et quae aequalia sunt, sibimet conuertuntur, eoque
fit ut genus de differentiis, de speciebus, de propriis, de acci- dentibus
praedicetur, ut cum dicimus ‘quod rationale est, animal est’, genus de
differentia, quod homo est, animal est, genus de specie, quod risibile est,
animal est,’ genus de proprio, ‘quod nigrum est’, si forte coruum uel Aethiopem
demonstremus, ‘animal est,’ genus de accidenti praedicamus, rursus ‘quod homo
est, rationale est’, differentia de specie, 1 superiorum] E (
s. l. id est specierum) GP superioribus cett.
sub- teriorura superioribus brm ut—dicitur om. EG
2 post coruo s. l. speciali Lm2 3
nigredinis accidentis C infecit HLm1 eam] eamdem
Lm2Pm2 (it eadem m1 ) eadem EG eo Rm1
ea m2 de om. P 4 ipsum specie EGPRm2 post
ipsam add. scilicet C nigram C 5
omnibus s. l. Cm2 6 utroque loco neque R 7
differentias R 8 atque Rbrm et de p
differentiis] indiuiduis pr cum p. 286, 1, differentiis <atque
indiuiduis> coni. Brandt; cf. p. 287,12—21 differentias
HLPR 9 proprium de specie atque indiuiduis om. H 11 maiores
praedicationes EGR sunt Ca.c. (ras. i ex
u) Pm2R ea s. l. L eadem C eaedem ( om.
de G ) eae Pm1 hae ER cunctis] dictis
EGR 12 et om. EG conuertuntur ] Em1GLm1Rm2
(conuertentur m1 ) conuertantur CEm2HL m2NP ad
eoque s. l. i ideo G fit] quale sit
EG 13 pr. de] et de HNP secund.
de om. R et de HLNP tert. de om. E et
HNPR et de L quart. de] et NP et
de HL atque R 14 praedicatur EG rationabile
CEGLm1NR 15 animal est] sit animal E ( ad sit s.
l. pro est) GLR de s. l. EGm2L post differentia
add. praedicatur GP (del. m1?), s. l. Lm2, s. l.
praedicari Em2 16 eat genus om. G 18 accidente R
19 rationabile Em1G post specie add. praedicatur
G ‘quod risibile est, rationale est,’ differentia de proprio, ‘quod
nigrum est, rationale est’, si Aethiopem demonstremus, dif- ferentia de
accidenti; item ‘quod risibile est, homo est’, spe- p. 95 cies de
proprio, ‘quod nigrum est, homo|est,’ si Aethiopem designemus, species de
accidenti, qua in re etiam quod nigrum est, risibile est in Aethiopis
demonstratione ut proprium de accidenti praedicatur. conuerti autem ad totum
accidens potest, ut quoniam in indiuiduis singulorum esse proponitur, idcirco
de superioribus etiam PREDICARE, ut quoniam Socrates animal est, rationalis
est, risibilis est et homo est, cumque in Socrate sit caluitium, quod est
accidens, praedicetur idem accidens de animali, de rationali, de risibili, de
homine, ut accidens de quattuor reliquis PREDICARE sed horum profundior
quaestio est nec ad soluendum satis est temporis, hoc tantum ingredientium
intellegentia expectet, quod alia quidem recto ordine PREDICARE, alia uero
obliquo, quoniam moueri hominem rectum est, id quod mouetur hominem esse
conuersa locutione proponitur, quocirca rectam Porphyrius in omnibus propositi-
onem sumpsit, quodsi quis uim praedicationis et solutionis adtenderit in
singulis praedicationibus comparans, eas quidem 1 differentiam
HR 3 accidentia G post item add. quod rationale est
homo est species de differentia Hm1, del. m2 speciem
ELm2PR, item 5 6 ut om. R, del. ELm2 post
proprium s. l. etiam Pm2, post
accidenti N, s. l. Cm2 7 praedicetur CHLm1NPm2 ad
om. N, s. l. Cm2 8 ut ex et Hm2
in] N, s. l. m2 in EHP, om. cett. praeponitur Ca.c.EGHLNR 9
praedicatur CHLNR ante animal add. et HN
10 ante rationalis add. et HNP, s. l. Cm1?
rationabile Lm1 ante risibilis add. et HNPR, s.
l. Cm1? Lm2 risibile Cm1EGLm1 et (s. l. m1?) homo
est post rationalis est C et om.
EG 11 praedicatur CHLm2NP 12 secund. de om.
CEGR tert. de om. R quart. de om. C ut] et
CHN 13 praedicatur CHN 14 dis- soluendum N 15
expectet idem quod spectet 16 quoniam] nam
HLm2NP moueri posthomin em Cm2Pm2 17 moneatur
N 18 ante proponitur s.l. non Hm2
proportionem EL 19 uim quis EGLR uim om. Hm1,
ante adtenderit s. l. m2 praedicatae H
praedictae Lm2Pm2 et solutionis] CN solutionisque
L solutionis Gm1Hm2 (locutionis m1 ), s. l. add.
Pm2 so- lutione Gm2R solue (sic) E 20
attenderit in ras. Em2 ostenderit R prolationes
quae rectae sunt, inueniet a Porphyrio esse enumeratas, eas uero quae conuerso
ordine praedicantur, fuisse sepositas. Commune est autem
generi et differentiae con- tinentia specierum. continet enim et
differentia species, etsi non omnes quot genera, rationale enim etiamsi non
continet ea quae sunt inratio· nabilia quemadmodum animal, sed continet
homi- nem et deum, quae sunt species, et quaecumque praedicantur de
genere ut genera, et de his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur, et quae-
cumque de differentia PREDICARE ut differen- tiae, et de ea quae ex ipsa est
specie praedicabun- tur. nam cum sit genus animal, non solum de eo
praedicantur ut genera substantia et animatum, sed etiam de his quae sunt sub
animali speciebus 4—p. 292, 10] Porph. p. 13, 22—14, 12 (Boeth. p. 40,
17—41, 12). 1 esse om. GN, add. Hm2 enumeratas] N
numeratas cett. 2 prae- dicantur] proferuntur HN 3
positas Gm1Hm1 suppositas Pm2 4 de
Porph. cf. ad p. 103, 7 5 Communis Σ , m1 in EH \
est om. E Porph. (p. 13, 33) Busse, post autem N
6 continet—sunt (p. 292, 8)] LR Q , om. cett. 7 etiamsi
ΔΣ quod i m1 quas A m2R 8 enim om. R,
8. l. Δ inrationalia 2Φ , add. ut
genus codd. praeter R Σ , om. etiam Porph. p. 14,2,
delend. uid. Bussio 9 sed] tamen brm 10 deum] angelum R
angelum et deum L; Porph. cod. A θεόν , cett.
άγγελον 11 genera] Σ genus cett. Busse (sed
genera probare uid.); cf. ut genera 16. p. 293, 20 , ut
differentiae 13; Porph. p. 14,3 όσα τε ν,ατηγορεΐται
του γένους ώς γένους et] eadem in ras. A m2 12
et] Z p, s. l. A m2, om. cett.
(aliter er. T ) Busse item brm; cf. ad
13 quaecumque] Lm2R Z quaeque cett. 13 de
differentia] differentiae Lm1 A differentia R ΓΦ ;
cf. ut differentiae p. 294, 1; Porph. p. 14,4 όσα τε
τής διαφοράς ώς διαφοράς 14 ex] sub L \ et
R; Porph. έξ praedicantur Γ 15 genus sit
ΔΛΣ 16 praedicatur R ut om. edd. genera] L
Z Busse genus cett. codd., om. edd.; cf. p. 394, 3—5;
Porph. p. 14,5 γένους... ώς γένους αατηγορεΐται ή
ουσία 17 sunt om. L animalis Δ omnibus PREDICARE
haec usque ad indiuidua. cumque sit differentia rationalis, praedicatur de ea
ut differentia id quod est ratione uti, non solum autem de eo quod est
rationale, sed etiam de his quae sunt sub rationali speciebus PREDICARE ratione
uti. commune autem est et perempto ge- nere uel differentia simul perimi quae
sub ipsis sunt; quemadmodum enim si non sit animal, non est equus neque homo,
ita si non sit rationale, nullum erit animal quod utatur ratione.
Post eam quae cunctis adesse uisa est communitatem, singulorum ad se
similitudines ac dissimilitudines quaerit, et quoniam inter quinque proposita
genus ac differentia uniuer- salioris praedicationis sunt, siquidem genus
species continet ac differentias, differentiae uero species continent neque ab
his ullo modo continentur, primum generis ac differentiarum similitudines
colligit, ac primam quidem ponit hanc, dicit enim commune esse generi ac
differentiae, ut species claudant; 1 praedicatur LR ante
haec add. et s. l. Lm2, in mg. Γ ,
post haec Λ haec del. \ m2 2
rationalis] codd. (etiam Bussii LQ rational, in P uox paene
tota euanuit ) rationale edd. Busse; Porph. p. 14,7 διαφοράς
τε οόσης τής τοΰ λογιχοΰ ; cf. infra p. 293, 14 rationalis diffe-
rentia; 295, 11 sub rationali differentia, unde
rationalis nominatiuum potius intellegas quam cum Porph.
genetiuum praedicantur Φ 3 eo coni. Busse non] et
non L *l> 4 autem] ΓΦ , s. l. Km2, om. cett.;
Porph. p. 14, 8 δε 5 ante sunt s.
l. sub ipsa \ m2 sub rationabili- bus h m1, del. m2
post rationali add. animali ΠΦ , s. l. Lm2
praedi- catur ΓΔΛΣΦ a.c.; Porph. p. 14, 9
χατηγορηθήσετοι 6 ante ratione add. id quod
est s. l. & m2 W m2 Busse id quod potest LR
post com- mune s. l. illis Γ est autem Φ
ante perempto add. hoc Λ genere]
Porph. p. 14, 10 ή τοΰ γένους , om. η
cod. Μ 8 enim] Σ , s. l. Ψ m2 , om.
cett.; Porph. p. 14,11 γάρ sit] est CEGHP 9 ita]
sic L ac b m1 \ 12 ad se] ad esse EGP
et om. CEG, s. l. Pm2, del. Lm2 13 generis ac differentiae
CN uniuersaliores praedicationes CEGNP 14 ante
species add. et LR 15 nec N 16 ac] et
N 17 primum LNP hanc] hanc communionem H 18 commune]
hoc commune H communionem LR ac] et CGLP
concludant HN nam sicut genus sub se habet species, ita etiam
differentia, tametsi non tantas quot habet genus, etenim genus quoniam
differentiam etiam claudit et non unam tantum sub se differentiam cohercet ac
retinet, plures necesse est habeat sub se species, quam quaelibet una
earum differentiarum quas claudit, ut animal PREDICARE de rationabili et inrationabili.
quodsi ita est, PREDICARE et de his quae sub rationali sunt positae speciebus
et de his quae sub inrationali. est ergo commune animali et rationali, id est
generi et differentiae, quod sicut genus de homine et de deo PREDICARE,
ita etiam rationale, quod est differentia, de deo ac de homine dicitur, sed non
in tantum haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis, animal
enim non de deo solum atque homine, sed de equo et boue praedicatur, ad quae
rationalis differentia non peruenit. sed quandocumque deum supponimus
animali, secun- dum eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc
totum mundum animatum esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum
est, appellauerunt. Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam
quaecumque PREDICARE de | genere ut genera, eadem de his quae sub
p. 96 ipso sunt speciebus praedicantur; ad hanc similitudinem 15
quandocumque — 18 appellauerunt] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II 34.
376. 18 saepe] p. 208, 22. 259, 19. 1 habeat Lm2
differentiae EGR 2 post. genus om. EGR, post
quoniam Cm1, corr. m2 3 differentias CHm1L etiam
del. Lm2, om. N et om. EG, s. l. Lm2 tantum om. H, s. l. Lm2
4 ante plures add. sed EGL adhibeat
R ut habeat L 5 quas om. L quam EGHPm1R 6
rationali CHLN inrationali ( uel irt-) HLN 7 ra-
tionabili Cm1EGm2P 8 inrationabili ( uel irr-,)
CEGNP commune est, post s. l. ergo C ; ergo om.
EG, add. Pm2 10 et de deo om. EG rationabile CEGR
11 in om. LN 12 haec om. EG 14 rationabilis
R 16 opinionem] CHNPm2 Abaelard. propositionem
EGLPm1R qua EGLm1P solem] coelum Abaelard. 17
confirmant EGLm1 confirmet N 20 de genere
praedicantur C post eadem add. et L 21
ipso] genere H ad hanc similitudinem om. EGR; ante
ad s. l. et Pm2 quaecumque de differentia
praedicantur ut differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut
differentiae praedicantur, cuius sententiae talis est expositio, sunt plura
quae de generibus praedicantur ut genera, ut de animali dicitur animatum,
dicitur substantia, atque haec ut genera, haec igitur praedicantur et de
his quae sub animali sunt, ut genera rursus; nam hominis et animatum et
substantia genus est, sicut ante fuerat ani- malis. item in ipsis differentiis
quaedam differentiae inueniuntur quae de ipsis differentiis PREDICARE, ut de
rationali duae differentiae dicuntur, quod enim rationale est, utitur
ratione uel habet rationem, aliud est autem uti ratione, aliud habere
rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu, habet quippe sensum et
dormiens, sed minime utitur, ita quoque dormiens habet rationem, sed minime
utitur, ergo ipsius ratio- nabilitatis quaedam differentia est ratione uti, sed
sub rationabilitate homo positus est; praedicatur igitur de homine ratione uti
ut quaedam differentia, differt enim a ceteris animalibus homo, quia ratione
utitur, demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere praedicantur,
dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia praedicantur,
dicuntur de his quae differentiae supponuntur. Tertium commune est
quod 1 ante quaecumque add. et EGL(del.
m2), er. uid. C quaeque GPR praedicantur om. EGR, post
ut differentiae H ut differentiae om. EG post
differentiae add. eadem quoque L, post de his P
(om. et), eadem s. l. Nm2 2 post sub
add. ipsa NR sunt ante sub H ut
differentiae om. H, s. l. Nm2 ut differentia EG 4
post. dicitur om. L 5 ante substantia add.
et LPm2 6 rursus ante ut GR, post L 7 antea
fuerat H ante fuerant (n s. l. m2) L fuerant ante
R 8 quae- dam s. l. Cm2 9 praedicentur Cm2 ut
om. HN 11 autem habere rationem aliud uti ratione NR. 12
ut om. H sicut N est om. H 13 sed minime
utitur om. N sed—dormiens om. EGPE, del. Lm2
ita—rationem in sup. mg. Nm2 15 sed om. EG, s. l. Pm2
16 positus est homo R esse ( om. est EGP est
ex esse Lm2 esse del. Pm2 ) praedicatur. Igitur
EGLP 17 ut om. EG, s. l. Cm2 post diffe- rentia
add. est EGP a] L, om. cett. 18 homo
ante ceteris H est igitur HLN quia] quod
CL 19 post. generum EGLm2P 20 post
his add. quoque HN 21 post Tertium
add. uero P, s. l. Lm2 quod] quia C sicut
absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis differentiis species de
quibus differentiae praedicantur, intereunt, commune enim est hoc, uniuersalium
in substantia pereuntium perire subiecta. sed prima communio demonstrauit
genera de speciebus praedicari, sicut etiam differentias, propter hanc
igitur similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut etiam species
perire necesse est quae sub differentiis sunt, si uniuersales earum
differentiae consumantur, cuius exemplum est : si enim auferas animal, hominem
atque equum sustuleris, quae sunt species positae sub animali, si auferas
rationale, hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali diffe- rentia
collecti. Et de communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et differentiae
dissimilitudine perpendit. Proprium autem generis est de
pluribus prae- dicari quam differentia et species et proprium et accidens;
animal enim de homine et equo et aue et serpente, quadrupes uero de solis
quattuor pedes habentibus, homo uero de solis indiuiduis et hin- nibile
de equo et de his qui sunt particulares, et 14—297, 2] Porph. p. 14,
13—15, 8 (Boeth. p. 41, 13—42, 14). 1 sicut—ita om. EG
consumptis ( post ita) Pm2 6 igitur] qui- dem E
sicut] sic GHm2LN 7 species etiam HNP 10 quae]
quia H qui ex quia Nm2 12 collocati
HNP, recte? cf. 10. p. 300, 18 Et om. CEGP, del. Lm2 13
perpendet G 14 PROPRIO C PRO- PRIIS post
DIFFERENTIAE L GENERI R DE PROPRIIS EORVM (EORVNDEM
Ψ ) Ρ Ψ ; de Porph. cf. ad p. 105, 16 15 autem om
·. ΓΦ generi LNR A ; cf. infra p. 297, 15. 16 s. 299,
17. 300, 23. 301,10. (13) 302,11 est ante generis s.
l. A , om . Σ , om. Porph. p. 14,14
16 ante quam add . magis L (er.) A
(del. m2) differentiae EGHLPm1R ; Porph. p. 14,
15 ή διαφορά et species—differentia (p. 296, 21)
] LR ii , om. cett . et proprium] propriumque A 17 de
equo et (de add. \ ) homine ΔΑ 18
post uero add . uidetur ΓΦ , m1 in L ΔΑ , del.
m2; om. Porph. p. 14, 17 solis om. R 20 ante
equo add . solo edd. cum Porph. p. 14, 18 μόνον ,
fort. recte post , de om. R, s. l. Lm2 accidens similiter de
paucioribus, oportet autem differentias accipere quibus diuiditur genus, non
eas quae complent substantiam generis, amplius genus continet differentiam
potestate; animalis enim hoc quidem rationale est, illud uero inratio-
nale. amplius genera quidem priora sunt his quae sunt sub se positae
differentiis, propter quod simul quidem eas auferunt, non autem simul aufe-
runtur; sublato enim animali aufertur rationale et inrationale. differentiae
uero non auferunt genus; nam si omnes interimantur, tamen substan- tia
animata sensibilis subintellegitur, quae est animal, amplius genus quidem in eo
quod quid est, differentia uero in eo quod quale quiddam est, quemadmodum
dictum est, praedicatur, amplius genus quidem unum est secundum unam
quamque speciem, ut hominis id quod est animal, differen- tiae uero plurimae,
ut rationale, mortale, mentis et disciplinae perceptibile, quibus ab aliis
differt, et genus quidem consimile est materiae, formae uero differentia,
cum autem sint et alia communia 1 autem om . Σ enim
Lm1 4 continet genus LR; Porph. p. 14, 20 τό γένος
περιέχει 5 enim om. 2 uero A m1 est
in mq. Lm2 6 quidem genera Lm1R priora om. L 7
sub se ante sunt L, post positae R positis
ΓΛΦ , m1 in L Λ2 8 quidem om. L, ante simul
R auferunt] h m1 V aufert cett.; Porph. p. 14, 22 ( τα
γέν-r ) σοναναιρεΐ οΰτός aufe- runtur] A m1 W
aufertur cett.; Porph. p. 14, 23 σοναναιρεϊται 9
aufertur rationale—aufernnt genus om. R 11 si] etiamsi brm
cum Porph. p. 15, 1 καν ; fort. etsi scribendum
tamen om . Σ , s. l. A m2 A m2 12 sensi-
bili R subintellegitur] Φ subintellegitur potest
R subintellegi potest cett.; Porph. p. 15, 2 επινοείται
quod Δ Busse; Porph . οϋσια...ήτις ήν τό ζψον 14
uero om. L quiddam om. R quid edd . est
om. LR TΛΦ 15 quemadmodum] sicut LR est
dictum Λ Busse 16 quidem genus hA m1 Z est
unum LR 17 ante hominis add. est edd.
Busse; om. Porph. p. 15, 4 18 plures brm cum Porph. p. 15, 5
πλείοος ; cf. infra p. 301, 21; post plurimae add .
sunt ΑΣ Busse; om. Porph. p. 15, 5 mentis 5 m2
risus m1 20 cum simile R 21 autem Cp.c .
haec a.c . et om. G et propria generis et differentiae,
nunc ista suf- ficiant. | Proprium quidem quid sit, conuenienti
atque integro uoca- p. 97 bulo definitum est. sed per abusionem illa
etiam propria quorumlibet dicuntur quae in una quaque re ab aliis
continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa communia, per se quippe
proprium est homini quod ei omni et soli et semper adest, ut risibilitas, per
usurpatam uero locutionem etiam proprium hominis rationabilitas dicitur non per
se proprium, quippe quod ei cum deorum est natura commune, sed homini
rationabilitas proprium dicitur ad discretionem pecudis, quod rationale non
est; id uero propter hanc causam, quoniam id proprium unius cuiusque dicitur
quod habet suum, quo igitur quis ab alio differt, proprium eius non absurda
usurpatione praedicatur, sed nunc quod dicit proprium generis esse de
pluribus praedicari quam cetera quattuor, id ipsum generis tale proprium est,
quale per se proprium dici solet, id est quod semper <et> omni et soli
adsit generi, generi enim soli adest, ut differentia, specie, proprio,
accidenti überius atque affluentius praedicetur, sed de his differentiis,
speciebus, pro- priis atque accidentibus id dici potest quae sub quolibet
1 proprii P et] ac EGP nunc om. Porph. p. 15,
8 suf- ficiunt Λ m1 2 ; Porph . άρκείτω ταϋτα ,
cod. B apxet τοααδτα 3 quidem] autem C quod
R 5 in una quaque re] CLP re om. N una
quaque E una quaeque G unam quamque HR 6
differenda EGLm1 7 omni et soli] et soli et omni C
pr. et s. l. Lm2 post , et om. EG 10
post ei add . quoque HNP 12 rationabile HR
post uero add. fit L , s. l. Pm2 14 aliquo
Lm2 differat Cm2Hm1N 15 nunc om. EG , post
quod C 17 tale ante quale P est proprium LP
post , est om. CN 18 et add. brm adest C
generi enim in mg. Hm2 enim] uero C autem L
19 post ut add . et H (del. m2) N et
specie HLN et proprio HLR et (atque R )
accidente HLm1 (-ti m2 ) NR 20 affluentius]
CHNPm2 fluentius Lm1 , s. l . ł lucidius m2
cluentius E ( s. l . habundantius] Pm1 licentius
G luculentius R de] e R speciebus post
differentiis pos. Brandt, ante codd. pr, om. bm et propriis
CHLN 21 atque om. P genere sunt, id est differentiae
quidem quae quodlibet diuidunt genus, species uero quae diuisibilibus generis
differentiis infor- matur, proprium autem illius speciei quae sub illo genere est
quod differentiis est diuisum, accidentiaque quae his hae- reant indiuiduis
quae sub ea specie sunt quam designatum genus includit, hoc facilius
exempla declarant, sit enim genus animal, quadrupes ac bipes differentiae sub
animalis positae continentia, homo atque equus species sub eodem genere
constitutae, risibile atque hinnibile propria earundem spe- cierum, uelox uero
uel bellator accidentia quae his indiuiduis accidunt quae sub speciebus
equi atque hominis continentur : animal igitur, quod est genus, praedicatur et
de quadrupede et bipede, quae sunt differentiae, quadrupes uero de bipede non
dicitur, sed tantum de his animalibus quae quattuor pedes habent; plus igitur
praedicatur genus quam differentia, rursus homo de Platone ac Socrate praedicatur,
animal uero non modo de hominibus indiuiduis, uerum etiam de ceteris inratio-
nabilibus indiuiduis dicitur; plus igitur genus quam species praedicatur, sed
cum sit proprium hinnibile equi speciei cum- 1 differentiae]
CNp differentias EG, m1 in HLP de (om. HPR) dif-
ferentiis m2 in HLP, Rbrm quidem om. B, ante add . sunt
C, post N genus diuidunt HN 2 speciebus Hm2Lm2
specie Pm2brm diuisi- bilis Hm1Pm1R ( add . est),
dissimilis E ( add . est) G, ad diuisibilibus in
mg. ał quae diuisiuis Lm2, sed cf. p. 254, 12 ante generis
add est ERm2, add . sunt, post et (del. m2)
P informantur CLm2 3 pro- prio m2 in HLP (ante s. l. de
add.) brm post autem add . quod est EGP (del. m2)
illi Lm1 4 diuisiuum Lm1 diuiditur ( om . est;
N accidentiaque] CEGHm1Lm1 accidentia quoque Pm1
(de accidentibus quoque m2 ) accidentia Rp accidensque
N accidentibusque Hm2Lm2brm quae] quod N
hereat N haerent Pm2 edd . 5 sint G 10 uelox—
bellator] HNP (uel om. , et s. l. m2 ), uelox uero dux
uel bellator C uelox uero uel bellator dux L uelox uero
bellator dux EG ferax uerox (sic) ( s. l . equus
m2 ) bellator dux R 11 accidant H accidencia
Pm1 12 et om. EGP 13 et bipede] HNP, om. R
bipede C de bipede EGLm1 et de bipede m2
quadrupedes G 14 his om. GR, s. l. Cm2Lm2 16 ac]
et P post praedicatur add . et ceteris HNP 17
hominis C (s in er. b.? m2 ) GHm1N 19 sed—praedicetur
om. EG hinnibile ante proprium N, om. LR
simile H equi om. H que genus quam species
überius praedicetur, praedicatio quo- que generis proprii supergreditur
praedicationem, accidens quoque etsi pluribus inesse potest, tamen saepe genere
con- tractius inuenitur, ut bellator non proprie nisi homo dicitur, ut
uelocitas in paucis animalibus inuenitur. quo fit, ut genus differentia,
specie, proprio et accidentibus amplius praedice- tur. Atque haec est una
proprietas generis quae genus ab aliis omnibus disiungat ac separet, oportet
autem, inquit, nunc eas differentias intellegere quibus diuiditur genus, non
quibus informatur, illae enim quibus informatur genus, plus quam ipsum
genus sine dubio praedicantur, ut animatum et corpo- reum ultra animal
tenditur, cum sint differentiae animalis, sed non diuisiuae, sed potius constitutiuae;
omnia enim superiora de inferioribus praedicantur, quae uero de inferioribus
praedi- cantur neque conuerti possunt, haec ab eis quae inferiora sunt
amplius praedicantur. Post hoc aliud proprium generis ostendit quo
ab his differentiis quae sub eodem sunt positae, segregatur, omne enim genus
continet differentias potestate, differentia uero genus non potest
continere, animal enim rationale atque inra- tionale continet potestate; neque
enim inrationabilitas neque rationabilitas animal poterit continere, potestate
autem ait continere animal differentias quia, ut superius dictum est, 23
superius] p. 264, 16. 1 praedicatur Cm1R 3 inesse]
inest C ante saepe add . semper uel Hm1, del. m2
contractius genere H inneniri C 5 pr.
ut er. uid. C, om. HPm1 et LN, s. l. Pm2 6
ante differentia add . et Hm2LN ante specie add .
et HL et de N ante proprio add. et HL et
de N et om. E accidente R 8 inquit
om. N, del. Hm2 10 post informatur add . genus
C illae—informatur om. EGLR, post praedicantur (11) add .
Ipsae enim diffe- rentiae a quibus informatur genus Lm1, ante plus
quam transpos. m2 illae enim] nam illae P ante
plus add . nam GR 11 sine dubio om. HN et
om. EG 12 tendit EG ? tenduntur R sunt H 15
ab om. H 18 eodem] eo HN eodem genere C
segregetur HN 20 rationabile ELm2P atque om. EGR,
s. l. Pm2 inrationale om. EGPm1R inrationabile Lm2, s. l.
Pm2 21 inrationalitas neque rationalitas HN 22 poterunt
CHLP 23 post differentias add . proprias CL (del.
m2), ante HNP genus quidem omnes sub se habet differentias
potestate, actu uero minime, ex quo fit ut alia proprietas oriatur, sublato
enim genere perit differentia, ueluti sublato animali interimitur
rationabilitas, quod est differentia, at si rationale interimas, inrationale
animal manet, sed obici potest : quid? si utrasque differentias simul
abstulero, num poterit remanere genus? dicimus : potest, unum quodque enim non
ex his de quibus praedicatur, sed ex his ex quibus efficitur, substantiam
sumit, itaque fit ut genus sublatis diuisiuis differentiis permanere possit,
dum tamen maneant illae quae ipsius generis formam substantiamque
constituunt, quoniam enim animal animata p. 98 atque sensibilis
differentiae constijtuunt, hae si maneant atque iungantur, perire animal non
potest, licet ea pereant de quibus animal praedicatur, rationale scilicet atque
inrationale. unum quodque enim, ut dictum est, ex his substantiae
proprietatem sumit ex quibus efficitur, non ab his de quibus praedicatur,
amplius si utrasque differentias genus potestate continet, ipsum per se neutram
earum intra se positam collocatamque con- cludit. quodsi actu quidem eas non
continet, sed potestate, actu etiam ab his poterit separari; hoc ipsum enim,
potestate eas continere, id erat actu non continere, genus uero, quod
quaslibet differentias actu non continet, actu ab eisdem etiam separatur.
Kursus aliud est proprium generis, quod ex pro- 1 omne GR 2
alia ut EGP 4 rationalitas HN at om. EGR
rationabile CLm1R 5 inrationale om. EG
inrationabile Lm1R quod CEGLP qui R 6
post abstulero add. rationales et inrationales E num] non
EGLm1P 7 dicimus] sed dici EP de quibus—his in
mg. Hm2 8 post , ex] de P 9 itaque]
atque GR atque ita C atque ideo EP 10
post tamen add . earum P illa C ( a. in er
. ae m2 ) N quod E 11 quoniam—constituunt
in mg. inf. Em2 animati Cm2LR 12 differentia HN
differendis Pm1 haec C (c er.) EGHN
manent E 15 dictam est] diximus C 17 ante
ipsum s. l. tunc Hm2 18 neutra G neutrum
R positum collocatumque LPm1R 20 etiam] quidem E post
poterit add . genus EG post enim add . quod
est R, s. l. Pm2 21 erit Lm2R quod] quae E
23 eat om. ENR prietate praedicationis agnoscitur, omne enim genus
ad inter- rogationem ‘quid est unum quodque?’ responderi conuenit, ut animal in
eo quod quid est de homine praedicatur, differentia uero minime, sed in eo quod
quale sit; omnis enim differentia in qualitate consistit, sed hoc
proprium tale est quale supe- rius diximus, non per se, sed secundum alicuius
differentiam dictum, alioquin commune est hoc generi cum specie, ut in eo quod
quid sit praedicetur, sed quia hoc genus a differentia discrepat, quoniam
differentia quidem in eo quod quale est, genus uero in eo quod quid est
praedicatur, generis proprium dicitur non per se, sed ad differentiae
comparationem, et in omnibus reliquis eandem rationem conueniet speculari;
quod- cumque enim ita generi proprium dicitur, ut nulli sit alii commune, sed
tantum hoc habeat genus ut omne genus et semper, id secundum se proprium
nuncupatur, quicquid uero cum quolibet alio commune est, id non per se, sed ad
alterius differentiam proprium dicitur. Alia rursus generis et diffe- rentiae
separatio est, quod genus quidem speciei unum semper adest, scilicet proximum
plura - enim possunt esse superiora, uelut hominis animal atque
substantia, sed proximum eiusdem hominis animal tantum —, differentiae uero
plures uni speciei 5 superius] p. 297, 9. 1 post
agnoscitur add . Omne enim genus ei proprietate cognoscitur
praedicationis P, in inf. mg. Lm2 generis E 2 quid est]
quidem E quidem quid est HN unum om. E
respondere CLR 4 sit] est HN 7 hoc ex
huic Em2 8 ac G 9 est] sit N 11 et om. EG
12 conuenit CHNP 13 generis Pm2 alii sit C
14 tamen E habeat—semper] Cm2Hm1N habeat genus et omne
genus et (et om . Lm2R ) semper Cm1Hm2Lm2R habeat omne
genus semper EG habeat genus omne semper Lm1 genus
hoc (del. m2) haheat omne genus (genus omne m2 ) et (s.
l. m2) semper P 15 se om. CN , illud Cm2
(s. l.) id H post proprium add . dicitur quod per se
proprium CHN 16 ad om. C, in mg. Hm2 17 pr .
differentia C 18 est om. HNR , s. l. E uni
R 19 proximum Cp. c . proprium a. c . ad plura in
mg. genera Lm2 , enim genera P 20 ante
animal s. l . sed genus Cm2 21 post speciei
add. semper adsunt E adesse poterunt, ut rationale
atque mortale homini, itaque fit definitio ex uno quidem genere, sed pluribus
differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus alia discretio est,
quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia uero formae, ita ut
illud sit materia quaedam quae figuram suscipiat, haec uero sit forma
quae superueniens speciei sub- stantiam rationemque perficiat. Idcirco uero
pluribus diffe- rentiis a genere differentiam segregauit, quia haec maxime
generis quandam similitudinem contineat, quia est uniuersalis et praeter genus
inter ceteras maxima, sed cum alia plura communia pluraque propria
generis inter se ac differentiae ualeant inueniri, nunc, inquit, ista
sufficiant, satis est enim ad discretionem quaslibet differentias assumere,
etiamsi non quae dici possunt omnia colligantur. Genus
autem et species commune quidem ha- bent de pluribus, quemadmodum dictum est,
prae- dicari. sumatur autem species ut species et non etiam ut genus, si fuerit
idem et species et genus. 15—303, 3] Porph. p. 15, 9—13 (Boeth. p. 42,
15—20). 1 adesse—mortale om. EGR ut om. HN
ut homini C Hominis itaque C hominis, itaque
P 2 ante pluribus add . de Lm2 3
post rationale add. atque edd . est om. HNR
4 quidem om. C 5 ita ut om. EGLm1 ut m2
quaedam om. EG, s. l. Lm2, ante materia P quae
om. R, s. 1. Cm1? quod Em1 6 suscipiens Lm1R 7
uero om. EGLR 8 differentias CEGHm1Pm1 9 continet
EGLPR 10 et om. N praeter] post HPm1 maxima inter
ceteras H in N cetera Lm1Pm2 edd . maximi G
maximae Pm1 12 nunc—sufficiant] HLNR (recte? an
ex p. 297, 1?) ista inquit sufficiunt GP sufficiunt inquit
ista C ista quidem sufficiunt E 14 non post
omnia E (s. l.) p, ante brm colliguntur Hm1R 15 ET
SPECIEI] SPECIEIQVE C; de Porph. cf. ad p. 102, 7 17 de
pluribus om. G 18 sumatur—prae- dicantur (p. 303, 2)] LR Q
, om. cett . autem] autem et L ΛΛΦ ; Porph. p. 15, 11
11 et om . ΓΔ sed RΣ 19 ut add
. \ m2 pr . et] L cum Porph. p. 15,12, om. codd. cett. edd.
Busse genus et species Ε Σ commune autem his est et
priora esse eorum de quibus praedicantur, et totum quiddam esse utrum
que. Generis et speciei enumerat tria communia, unum quidem,
de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur, sed
genus de speciebus, ut dictum est, species uero de indiuiduis. sed nunc de illa
specie loquitur quae tantum species est. id est quae non etiam genus est, sed
ultima species, quodsi talem speciem ponamus quae etiam genus esse
potest, ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus
praedicari, nihil interest an ita dica- mus, ipsum genus id secum habere
commune de pluribus praedicari, talis enim species quae non est solum species,
ea etiam genus est. Est autem commune his quoque quod utra- que priora
sunt his de quibus praedicantur, omne enim quod de aliquibus praedicatur, si
recto, ut dictum est superius, ordine dicatur, prius est his de quibus
praedicatur. Praeterea est illis hoc etiam commune, quod genus ac species totum
sunt eorum quae intra suum ambitum continent et cohercent; omnium enim
specierum totum est genus et omnium indi- ui|duorum totum species, aeque enim
genus et species aduna- p. 99 tiua sunt plurimorum, quod uero
multorum adunatiuum est, id eorum quae ad unitatis formam reducit, recte
dicitur totum. 16 superius] p. 290, 15 ss. 1 est
om. L priora] propria La.c. Tk a.c A m1 2 esse] est
C 5 ante genus add. et H (er.) N 6
post genus add . quidem L 8 est, sed] est ut est
H ut est N 12 secum] H (cum in ras. m2
) LR secundo CEGNPm2 (-da m1 ) de
pluribus—commune (14) post praedicantur (15) E 13
quod E 14 his commune HN 15 omne—-praedicatur
(16) in mg. Hm2 17 dicatur] praedicatur CN his] de his
G 18 etiam hoc N eorum sunt C 20 genus est NR
et] ut Hm1 21 ante species add. est CNP, post E
(in ras.) H 23 quod E re- ducuntur Ca.c.N
Differt autem eo quod genus quidem continet spe- cies sub se, species
uero continentur et non continent genera; in pluribus enim genus quam species
est. genera enim praeiacere oportet et formata specificis differentiis
perficere species; unde et priora sunt naturaliter genera et simul
interimentia, sed quae non simul interimantur. et species quidem cum sit, est
et genus, genus uero cum sit, non omnino erit et species. et genera quidem
uniuoce de speciebus praedi- cantur, species uero de generibus minime,
amplius genera quidem abundant earum quae sub ipsis sunt specierum continentia,
species uero a generibus abun- dant propriis differentiis. amplius neque
species fiet umquam generalissimum neque genus specialissimum. Expeditis
communibus generis ac speciei nunc de eorum discretione pertractat. differre
enim dicit genus ab specie, quoniam genus continet species, ut animal hominem,
species 1—15] Porph. p. 15, 14—24 (Boeth. p. 42, 21—43, 10). 1
PROPRIO H DIFFERENTIIS C; de Porph. cf. ad p. 105, 16 2
Differunt ENR edd.; Porph. p. 15, 15 διαφέρει
post autem add . genus a specie Φ
continet quidem N 3 sub se er. uid . 5 , s. l. 2
m2, ante species (2) ΓΦ ; Porph. p. 15, 15
περιέχει τά είδη species s. l. Gm2 continetur C A
continetur a genere Γ ; Porph . τα δέ είδη περιέχεται
et om. EG continet C ΑΦ 4 in
pluribus—differentiis (14) ] LR Q , om. cett . enim]
quidem S ; Porph. p. 15, 16 ετι τά γένη 5
ante oportet s. l . et 5 m2 et s. l . 5 m2
, hic om., sed ante perficere pos. LR h m1 (del.
m2) A ; Porph. p. 15, 17 ν.α'ι διαμορφωθ-έντα 7 sed]
si R 9 est] Porph. p. 15, 19 πάντως εστι;
exciditne omnino ? pr . et om . LR I
, s. l . A m2 ; Porph. p. 15, 19 εστι και γένος
post . et] A (del. m2) Φ cum
Porph. p. 15, 20, om. cett. edd. Busse 10 uniuoce quidem AAS
; Porph. τά μέν γένη de speciebus] Porph. p. 15,
21 των δφ’ έοοτά ειδών 12 quidem genera L s m2 i\Y
. Busse; Porph. τά μέν γένη sunt (s. l. L)
sub ipsis LR; Porph. p. 15, 22 των όπ’ αΰτά ειδών 13
a om . ΓΦ ab A m1 , del. m2 14 fiet
post umquam C fit HN 15 neque genus
specialissimum om. H post genus add . fiet
CEGR fiet umquam ΑΑΣ fiet species L; Porph. 15, 24
ούτε τδ γένος ειδικάιτατον 16 ac] et CE 17
differt GR a HLNR 18 pr . speciem HN
uero non continet genera; neque enim homo de animali prae- dicatur.
itaque fit ut species quidem contineantur a generibus, numquam uero contineant
genera, omne enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus
dicitur, quodsi genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut
spe- cies quidem contineatur a genere, genus uero speciei nullo ambitu
praedicationis includatur, huius autem ratio est quo- niam genus semper
suscipiens differentiam speciem facit, hoc est, genus quod habebat latissimam
praedicationem, coartatum differentia et contractum speciem facit; omnino
enim generi iuncta differentia speciem reddit et ex uniuersalitate atque
latissima praedicatione in angustum speciei terminum con- trahit. animal enim,
cuius praedicatio per se longe lateque diffusa est, si arripiat rationalis
differentiam, si etiam mortalis, deminuit atque contrahit in unum hominis
speciem, unde fit ut minor sit semper species quam genus atque ideo conti-
neatur, sed non contineat, sublatoque genere auferatur et spe- cies; si enim
totum auferas, pars non erit, quodsi species auferatur, genus manet, ueluti cum
animal sustuleris, interi- mitur etiam homo, si hominem auferas, animal
restat, haec etiam causa est, ut genus de specie uniuoce praedicetur, id est ut
species suscipiat definitionem generis et nomen, sed 1 continent HN
enim om. C 6 contineantur NR speciei om. R
specie Cm1 in specie Lp.c . species N post nullo
add . modo EGHPR, s. l. Lm2 7 includitur EGLm1P
includat N post autem s. l. rei
Cm2 8 semper om. HN species N hoc—facit
(10) om. EG 9 est s. l. C, om. HN, del. Pm2 habet
Lm2Pm2 coartatum ex coapta- tum Lm2, in mg . ał
coaptata ipsa diffinitio et contracta speciem facit m1
coaptata Hm2P apta Cm1 (aptata m2 )
Hm1N 10 et] LR, s. l. Pm2 , om. CHN (de EG cf. ad S) contracta Lm2
omni Hm2Lm2 11 et om. G, s. l. ELm2 atque] et EHNPR 12 post praedicatione add.
generis CNP, s. l. Lm2 speciem EG contrahitur Hm2 14 differen- tia C (
ras. ex -ã) R etsi etiam E et s. l., del. si etiam Lm2,
et R 15 diminuit EHLPR ; diminuitur atque contrahitur
N unam C (am in ras. m2 ) Hm2NR 16
continentur sed non continent N 17 et om. EGR 19
remanet C cum] si P 21 est causa C 22
generis et nomen] et generis nomen E et nomen generis N
generis nomen R non e conuerso. definitionem quippe speciei
genus suscipere non uidetur; substantiam enim priorum inferiora suscipiunt, si
enim definias animal et dicas substantiam esse animatam atque sensibilem aut si
praedices de homine ‘animal’, uerum dixeris, si etiam animalis definitionem de
homine praedicaueris dicasque hominem esse substantiam animatam atque
sensi- bilem, nihil fuerit in propositione falsi, sed si hominis defini- tionem
reddas ‘animal rationale mortale’, ea animali non con- ueniunt; neque enim quod
animal est, id dici poterit animal rationale mortale, fit igitur, ut sicut
species generis nomen suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut
genus nomen speciei non suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur, sed
cuius nomen et definitio de aliquo praedicatur, id uniuoce dicitur, cum igitur
generis et nomen et definitio de specie praedicetur, genus de specie uniuoce
dicitur, quoniam uero speciei de genere. neque nomen neque definitio
praedicatur, non conuertitur uniuoca praedicatio. Differunt genera <ab>
speciebus hoc quoque modo, quod genera superuadunt species suas aliarum
continentia specierum, species uero genera dif- ferentiarum pluralitate, animal
enim, quod est genus, superuadit hominem, quod est species, quia non
hominem solum continet, uerum etiam bouem, equum aliasque species, quas suae
spatio praedicationis includit, species uero, ut homo, superuadit genus, ut
animal, multitudine differentiarum, nam quod actu genus 1 e conuerso]
est (om. R) conuersio EGLPR 2 non er. H sub-
stantiae EGLm2 (-tia m1 ) PR enim priorum] enim
proprium EGP diffinitionem ( om . en. pr .) R 3
et om. CHNP 4 aut] brm at CHLNP, om. EGR 5
definitione E 7 nil C fuerat Cm1 fueris
HN falsi] mentitus HN sed] quod CHN hominis
definitionem om. EGR hominis rationem L 8 addas
EGR, post si ( om . reddas,) add. P , reddas addas L pr .
animali Ea.c.LR animal est G conuenit CNPa.c. 9
ante quod add. id HNPR, s. l. Lm2 id dici] EGLa.r.P
dici Lp.r.R idcirco dici HN id circo id dici
C 11 et om. EG 12 defini- tionem ( uel diff-) monstret
EGR 14 pr . et om. CEG, s. l. Lm2 15 praedicatur
E uniuoce de specie C 17 a add. brm , ab
Brandt 18 modo om. NR 19 continentia aliarum C 21
quod] quae N non s. l Cm2 22 equum bouem HN 24
namque quod Lp.c . non habet rationale uel mortale — nullas
quippe actu genus retinet | differentias —, easdem species suae substantiae
inhae- p .100 rentes atque insitas tenet, homo enim rationalis est
atque mortalis, quod genus minime est; animal enim neque mortale est per
se neque rationale, quodsi genus quidem plus unam continet speciem, at uero
species multis differentiis infor mantur, superat quidem genus speciem
continentia specierum species uero uincit genus differentiarum pluralitate.
Illa quoque est differentia, quod genus quoniam omnium primum est,
numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum, species uero, quae
cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut suprema omnium fiat;
numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus specialissimum. Sed ex
his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus ab specie propriae
coniunctaeque disterminant, aliae uero quae non solum genus ab specie, uerum
etiam a ceteris diducunt ac disterminant, neque in his tantum differentiae quae
sunt dictae, uerum etiam in ceteris considerentur oportet, si proprie normam
quaerimus discretionis agnoscere. 1 uel om. R 4
mortale] rationale CHN 5 rationale] R inratio-
nale CHN per se rationale EGLP unam continet
speciem] EG (unam s. l. m2 ) Lm1 quam unam
continet speciem Lm2R una continet (continet una C )
specie CHNP 6 species uero ( om . at) C informa-
tur Lm1Pm1 7 species G 9 quoniam] quod Hm2
11 in tantum ascendere non] numquam in tantum ascendere LNR 12
nec... nec] et... et Hm1N et... nec C, pr . nec om.
P 14 ex his om. EG, s. l. Lm2 sunt om. E
differentiarum CN differentiis R genus s. l.
Cm2 a R 15 proprie coniuncteque ( ras. ex -teque
Η ) HΝR (recte?) propriaeque G coniunctaeque om.
EG 16 ab] a R diducunt] Em2R deducunt cett.
distinguunt ac deducunt ( om . disterminant] HN 17 neque (et quae
non CHN, s. l . ał quae L ) in his tantum differentiis quae sunt
dictae ( L quae sunt dicta G quae dictae sunt CHNP quid
sint in ras. E ) uerum etiam in ceteris (add. quoque HLm1N, del.
Lm2 ) considerentur oportet CEGHLNP neque in his tantum oportet
considerare differentias quae sunt dicta uerum etiam in ceteris oportet R
; differentiae scr. Brandt ; neque enim in (de bm ) his tantum
oportet (oportet om. p ) differentiis quae sunt dictae, uerum etiam in
ceteris considerare (considerari oportet p ) edd. 18
propriae CEGLP 19 discretionis quaerimus HR
Generis autem et proprii commune quidem est sequi species - nam si homo
est, animal est, et si homo est, risibile est et - aequaliter praedicari genus
de specie- bus et proprium de his quae illo participant; aequaliter enim
et homo et bos animal et Cato et Cicero risibile, commune autem et uniuoce
praedicari genus de pro- priis speciebus et proprium quorum est proprium.
Tria interim generis ac proprii dicit esse communia, quorum primum illud
est, - quoniam ita genus sequitur species ut proprium, posita enim specie
necesse est intellegi genus ac proprium; neutrum enim species proprias
derelinquit, nam si homo est, animal est, si homo est, risibile est; ita
quemad- modum genus, sic proprium ab ea specie cuius est proprium, non recedit.
Illud quoque, quod aequalis est generis partici- patio, sicut etiam
proprii, omne enim genus aequaliter specie- bus participatur, proprium uero
indiuiduis omnibus aequaliter adhaerescit, manifestum uero est participationem
e?se generis aequalem; neque enim plus homo animal est quam equos 1—8]
Porph. p. 16, 1-7 (Boeth. p. 43, 11—17). 1 COMMVNITATIBVS Ψ
; de Porph. cf. ad p. 102, 7 2 Genus Em1Gm1 consequi
Pm1 3 nam—risibile (6) ] LR Q , om. cett. pr .
est s. l. h m2 5 illo] sub illo R participant]
continentur R , add. indiuiduis edd. cum plerisque
codd. Porph. p. 16, 4 6 post animal add. est ΓΦ , om.
Porph. p. 16, 5 et Cato et Cicero] Porph . xat Άνοτος και
Μέληχος post risibile add. est Φ 7 autem et] autem
CEGP autem est (est s. l . h m2 ) et (om. R)
R h autem his Ψ autem hiis et Φ his
(s. l. m2) autem et Γ ; Porph. p. 16, 6 δέ
καί speciebus propriis R 8 post pr . proprium add
. de his Ν Σ , s. l. de propriis Gm2 10 illud est
primum R 11 post proprium add. quoque CH
(del. m2) N ac] et C 13 si] et si
HN risibilis EGHNP 15 post quoque add. est
commune R, s. l. Lm2 , s. l . scil, commune est Hm2 a
genere (generis Hm2 ) participatio est HN 16 proprii] a
proprio Hm1N ante speciebus add . a H
ab L (del. m2) NB, post add . suis R 17 parti- cipat **
(ur er .) E 18 adheret N participatione
EGR generi E ( ex genere m2 ) R 19
aequale EG aequale proprium R, post aequa- lem
add. s. l . et proprii Lm2, in mg . et proprium Pm2 atque
bos, sed in eo quod sunt animalia, aequaliter animalis, id est generis ad se
uocabulum trahunt. Cato etiam et Cicero aequaliter risibiles sunt, etiamsi
aequaliter non rideant; in eo enim quod apti ad ridendum sunt, dici risibiles
possunt, non quod iam rideant, aequaliter ergo ea quae sub genere sunt,
suscipiunt genus, sicut ea quae sub propriis, propria. Tertium illud, quod
sicut genus de speciebus propriis uniuoce praedi- catur, ita etiam proprium de
sua specie uniuoce dicitur, genus enim quoniam substantiam speciei continet,
non modo eius nomen de specie, uerum etiam definitio praedicatur, pro-
prium uero quia speciem non relinquit eamque semper sequitur nec in aliam
speciem transgreditur nec infra subsistit, defi- nitionem quoque propriam
speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum conuenit speciei cui coaequatur,
dubitari non potest quin eius quoque definitio speciei conueniat. quo fit
ut sicut genus de speciebus, ita proprium de sua specie uniuoce
praedicetur. Differt autem, quoniam genus quidem prius est,
posterius uero proprium; oportet enim esse animal, dehinc diuidi
differentiis et propriis, et genus qui- 18—p. 310, 13] Porph. p. 16, 8—18
(Boeth. p. 43, 18—44, 11). 1 eo] eodem HLm2NR 2 ad
se om. EGR, s. l. Lm2 etiam om. H et om. R
3 pr . aequaliter om. C 6 suscipiant Em1Lm1
genera EGLPm2 gen. ante suscipiunt HNP 7
illud] illud commune est G quid Cm1 9 enim om. E
nomen eius C 11 quia om. EGLP derelinquit
Lm2P eamque] eique HN ei quae R ea quae
Pm1 ae- quatur Pm2 12 definitio (diff-) ELm2
(diffinitione m1 ) Pm1 definitio enim R 13
proprium Ea.r.R proprii Ep.r.L ( ras. ex
propriis,) P traditur EGLm2Pm1 14 cui] uel ei C
eique HNPm2 (cuique m1 ), et (del. m2) cui
L aequatur L 18 De proprietatibus Δ ; de Porph.
cf. ad p. 105, 16 GENERIS ET PROPRII] EORVM P PROPRII] SPECIEI L
19 Differunt C edd . autem om. N autem genus et proprium LR Δ2
; Porph. p. 16, 9 Διαφέρει δέ δτι τό μίν γένος quidem om.
HNR est om. H 20 oportet—interimunt genera (p. 310, 10)
] LR Q , om. cett . 21 pr . et om. L dem de
pluribus speciebus praedicatur, proprium uero de una sola specie cuius est
proprium, et proprium qui- dem conuersim praedicatur de eo cuius est proprium,
genus uero de nullo conuersim praedicatur, nam neque si animal est, homo est,
neque si animal est, risi- bile est; sin uero homo est, risibile est, et
e conuerso amplius proprium omni speciei inest cuius est pro- prium, et soli et
semper, genus uero omni quidem speciei cuius fuerit genus, et semper, non autem
soli, amplius species quidem interemptae non simul inter- p.101
imunt|genera, propria uero interempta simul in- terimunt ea quorum sunt propria,
et bis quorum sunt propria interemptis et ipsa simul interimuntur. Rursus
tale proprium sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur, dicit
enim proprium esse generis prius esse quam propria, oportet enim prius
esse genus, quod ueluti materia differentiis supponatur, uenientibusque
differentiis fieri speciem, cum quibus propria nascuntur, si igitur prius
est 1 praedicatur] R A m2 n edd . praedicari
cett. codd. Busse (propriis, et genus distinguit, sed cf. 16
oportet et p. 311, 9 Rursus differt); Porph- p. 16, 11
κατηγορεΐται 2 una sola] Porph. ενός , cod. C add
. μόνοο est om. Φ 6 si R homo
est] homo et ΔΑΠΨ (et er .), homo, et Busse homo
est (est s. l. m2 ) et L; Porph. p. 16, 13 et δέ
άνθρωπος et e conuerso] et conuerso L h m1 et conuersim si
risibile est homo est R si risibile est homo est 2 ;
Porph. p. 16, 14 καί εμπαλιν , add. ei γελαστικόν,
άνθρωπος cod. C 8 et soli] TA m2 et uni Δ
m1 ΑΣ et uni et soli LR ΠΦΨ ; Porph. p. 16, 15
καί μόνψ speciei quidem 2 9 post
speciei add . inest LR TA ( s. l .) ΠΦΦ-
(in mg. m2) edd. Busse, om . Δ2 cum Porph . soli]
Porph. p. 16,16 και μόνω 10 species s. l. L
propria brm cum Porph . interempta Φ interimuntur
HL 11 post genera add. quorum sunt species
A propria] genera brm Busse (in adn.) cum Porph. p. 16, 17 interimuntur
HΡ 12 ea om . Η ΤΦ species brm cum Porph .
quarum brm et his— interemptis om. EG et] quare
edd., Porph. p. 16, 18 ώστε καί 13 in- teremptis
ante et his CP et ipsa] et ipsa etiam propria Φ
ipsa propria 2 interimuntur simul CGLR ad 10—13 cf. p. 312,
13 ss . 14 Rursus om. EG, s. l. Pm2 , sed R ad om. H,
s. l. Pm2 comparatione HPm1 15 nuncupatur
Cm2Em2Ga.c.N 16 pr . esse om. N, s. l. Pm2 uelut
N 18 species Lm2 nascantur N genus quam
differentiae, prius etiam differentiae quam species et speciebus propria
coaequantur, non est dubium quin pro- pria generibus posteriora sint, ac per
hoc quod dictum est, proprium esse generis prius esse quam propria, commune est
hoc generi cum differentia, differentiae enim species conformantes
priores considerantur esse quam propria, siquidem speciebus ipsis priores sunt,
quas propria ratione determinant, sed ut dictum est, hoc proprium ad
differentiam proprii intellegendum est, non quale superius per se proprium
constitutum est. Rursus differt genus a proprio, quod genus quidem de
pluribus praedicatur speciebus, proprium uero minime; nam neque genus est, nisi
plures ex se species proferat, nec proprium, si alteri cuilibet speciei possit
esse commune, fit igitur ut genus quidem plurimas sub se species habeat, ut
animal hominem atque equum, proprium uero unam tantum, sicut risibile
hominem. Quo fit ut illa quoque differentia nascatur : genus enim praedicatur
quidem de speciebus, ipsum uero in nulla praedicatione supponitur, proprium
uero et species alterna praedicatione mutantur, fit enim praedicatio aut a
maioribus ad minora aut ab aequalibus ad aequalia, genus igitur, quod
maius est, de speciebus omnibus praedicatur, species uero, quoniam minores
sunt, de generibus non dicuntur, ut animal de homine dicitur, homo uero de
animali nullo modo praedi- catur. at uero proprium, quoniam speciei aequale
est, aeque 1 etiam] enim Lm2 2et om. EG et
si H 4 est hoc] HL (hoc del. m2 ) N
est et hoc C esse Pm1 et hoc est m2
est EGR 5 diffe- rentia] differentiis CHN differentiae
om. EG enim s. l. Cm2, post species EG informantes
prius N 6 considerentur Hm1R esse s. l .
Cm2 7 quam G 8 hoc om. EGR 10 a om.
NR quod] quo- niam L de] a C 12 proferet
Lm2 14 species sub se C 16 quoque del. Em2, post add .
proprietas (s. l. Lm2) ex GL, s. l. Pm2 nascan-
tur Ep.c . 17 de speeiebus quidem C ipsis CN
in om. CN 19 mutuantur La.c.Pm2 praedicatio om.
EGR, s. l. Lm2 20 quod] quoniam E (in ros.) Gm2 21 est
s. l. Em2 praedicabitur N 22 minora CEGLm2P
praedicatur atque supponitur, ut risibile de homine dicitur - omnis enim
homo risibilis est —, eodemque conuertitur modo; omne enim risibile homo est.
Differt etiam proprium a genere, quod proprium uni et omni et semper speciei
adest, genus uero ex his duo quidem retinet, in uno uero diuersum est.
nam speciebus suis et semper adest et omnibus, non uero solis; hoc enim haeret
propriis, quod singulas tantum species continent, hoc generibus, quod plures.
igitur propria quidem singulas optinent species, genera uero non singulas,
adest igitur proprium uni soli speciei et semper et omni, genus uero omni
quidem et semper, sed non soli, ut risibile homini soli, ani- mal uero eidem
homini, - sed non soli; praeest enim ceteris, quae inrationabilia nuncupamus.
Praeterea si auferatur genus, species interimuntur nam si non sit animal, non
erit homo —, si auferas species, non interimitur genus; nam si non sit
homo, animal non peribit, species uero et propria quoniam sunt aequalia,
alterna sese uice consumunt; nam si non sit risibile, homo non erit, si homo
non sit, risibile non manebit, consumunt igitur genera sub se positas species,
non uero ab his inuicem consumuntur, species uero et proprium inuicem
perimuntur et perimunt. 1 supponitur] (sub- HP )
CHm2Lp.c.P praeponitur cett., recte? 2 enim om. C locus
risibilis est—quidem speciebus (p. 315, 7) bis in E scriptus, pag.
229—231 (E I ), ubi deletus est, et p. 232—234 (E II ) 3 etiam om.
R, del. Lm1 , enim m2 autem etiam H a genere pro-
prium C a om. R 4 speciei s. l. Hm2 5 uero]
quidem E I qui- dem duo CNB , om . quidem E I 7
haeret propriis] E III GL haeret (ł inerit m2 )
tantum propriis P erat (erit R ) tantum propriis
(proprii N ) esse CNR heret propriis uel aliter hoc enim erat
tantum H; ad haeret cf. p. 298, 4 tantum species—quidem
singulas om. E I tan- tum del. Lm2, s. l. Pm2 ,
post species NR 8 continerent CHm2 con-
tineret N contineant Pm2 10 soli///// E I
solius E II G 11 sed] et HN soli homini NP
13 inrationalia H auferamus EGLPR 14 interi-
mantur L erit] est N 19 sub se positas] sibi (om.
H) suppositas HN 21 perimuntur] consumuntur Lm2
perimunt] perimuntur Lm2 pereunt HNPm2
Generis uero et accidentis commune est de pluri- bus, quemadmodum dictum
est, praedicari, siue separa- bilium sit siue inseparabilium; etenim moueri
de pluribus et nigrum de coruis et de hominibus Aethio- pibus et
aliquibus inanimatis. Nihil est quod inter cetera ita sit a generis
ratione dis- iunctum, sicut est accidens, nam cum genus cuiuslibet sub-
stantiam monstret, accidens uero a substantia longe disiunctum sit et
extrinsecus ueniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de
pluribus praedicari, genus enim de pluribus praedicatur speciebus, accidens
uero de pluribus non modo speciebus, uerum etiam generibus animatis atque
inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de inra- tionabili
coruo et de inanijmato hebeno, album etiam de cygnoj p. 102 et
marmore, moneri de homine, de equo et de stellis ac de sagitta, quae sunt
separabilis accidentis exempla. 1—6] Porph. p. 16, 19—17, 2
(Boeth. p. 44, 12—16). 1 GENERIBVS ACCIDENTIBVS E I
E II m1 ACCIDENTI R de Porph. cf. ad p. 102,
7 2 Commune uero est generis et accidentis 2 Generi
N Generibus E I accidentibus E I m1 3
praedicari ante quemadmodum L siue—pluribus et] LR Q , om.
cett . separabile 2 m1 4 sit] sit accidens 2
inseparabile 2 m1 5 post et om. R de
om . E II HNR ΑΦ , recte? homine E III
omnibus L A ( ras. ex hominibus) hominibus om. brm, delend.
uid. Bussio; cf. p. 116, 5. 123, 22. 131, 2 homine Aethiope; Porph. p.
17, 1 κατά κοράκων καί Αίθ·ιοπων aethiopus EIII et (et de G, del. m2 )
aethiopibus GPm2 T2 6 ante aliquibus add. de Gm2 in
animis E I , ante inanimatis add . naturis H
(del. m2), post CN , praedicari Γ ( in mg . praedicatur) Φ
; Porph. καί tivmv άψΰχων 7 in ceteris E
III GLm1P 9 a om. R 10 uere GR uero
ha- bere potest C 11 enim] uero C 14 rationabile
E III a. c. Gm1 rationali HNP post homine
add . et N irrationali HNP 15 ebeno E III 16 marmore]
de marmore P post homine add . et N
17 sagitta] CHLm1NPm1 (sagittis m2 ) agitatis E
III GR edd . ał de agitatis scil, rebus id est mobilibus
Lm2 Differt autem genus ab accidenti, quoniam genus ante
species est, accidentia uero speciebus posteriora sunt; nam si etiam
inseparabile sumatur accidens, sed tamen prius est illud cui accidit quam
accidens, et genere quidem quae participant, aequaliter partici- pant,
accidenti uero non aequaliter; intentionem enim et remissionem suscipit accidentium
participatio, generum uero minime, et accidentia quidem in indi- uiduis
principaliter subsistunt, genera uero et species naturaliter priora sunt
indiuiduis substantiis, et genera quidem in eo quod quid sit praedicantur de
bis quae sub ipsis sunt, accidentia uero in eo quod quale aliquid sit uel
quomodo se habeat unum quod- que; qualis est enim Aethiops interrogatus
dices ‘niger’, et quemadmodum se Socrates habeat, dices quoniam sedet uel
ambulat. 1—17] Porph. p. 17, 3-13 (Boeth. p. 44, 17—45, 9).
1 PROPRIIS] DIFFERENTIA C; de Porph. cf. ad p. 105, 16 QVID
INTER GENVS ET ACCIDENS SIT Φ (ex p. 116, 10) 2
genus s. l. Hm2 ab om . HRE III Δ
accidenti] Δ accidente cett . 3 speciem ΧΦ
posteriora ante speciebus C inferiora XA m1 AS 4
nam—unum quodque (14) ] LR Q , om. cett . si etiam] etsi
etiam ΓΦ sed om . Γ si Σ 5 prius]
plus S 6 genere] A m2 Busse genera
cett. codd. edd . quae] quibus A m1 aeque Δ 7
accidenti] p Busse accidentia codd. brm; ad 5 et— 7 cf.
Porph. p. 17, 6 s. et infra p. 315, 12—14 enim om. L in mg: figuram
quandam habet Δ , aliam (cf. ad p. 320,17)
Γ 9 uero om. R in om . Γ Busse,
s. l . Rm2 A m2 K ; cf. p. 315, 21; Porph. p. 17, 9 έπΐ
τών άτομων 10 nero om . Δ 11 post
naturaliter add. non principaliter LR AΑΦ ; om. Porph.
p. 17, 9 12 sit] est LR A ante de
add. et, sed del. ΓΔ 13 hiis Φ
14 ante quale add. et R sit] cod. Q
Bussii edd . est cett. codd . quomodo om. R quodammodo
A m2 se s. l. A m2 habet A m1 15
eat ante aethiops ΔΑ , post HΝ ΤΣΦ enim om.
L interrogatur Φ dices] LRT dicis cett.
codd. edd. Busse, cf. p. 317, 15 respondebimus; Porph. p. 17,
12 έρεΐς 16 quo- modo Δ habeat ante
socrates A habet ΗR Φ dices] K m2
dicis cett. codd. edd. Busse, cf. p. 317, 16 dicemus; Porph .
έρείς 17 ambulet La.c.N Differentiam generis et
accidentis hanc primam proponit, quod genus quidem ante species sit, quippe
quod materiae loco est et differentiis informatum species gignit, at uero
accidens post species inuenitur. oportet enim prius esse cui aliquid
accidat, post uero ipsum accidens superuenire; nam si subiectum non sit quod
suscipiat, accidens esse non poterit, quodsi genus quidem speciebus subiectum
est nec possunt esse species, nisi eis genus ueluti materia supponatur, acci-
dentia uero esse non possunt, nisi eis species supponantur. manifestum
est genus quidem esse ante species, accidentia uero post species. Rursus alia
differentia, quoniam genus neque intentionem neque remissionem suscipere
potest, quo fit ut quae participant genere, aequaliter eius nomen defini-
tionemque suscipiant; omnes enim homines aequaliter animalia sunt
eodemque modo equi, nec non inter se homo atque equus et cetera animalia
comparata aeque animalia praedicantur, accidentis uero participatio et
intenditur et remittitur, inuenies enim quemlibet paulo diutius ambulantem,
paulo amplius nigrum et in ipsis Aethiopibus considerabis omnes non aeque
nigro colore obductos. Alia quoque differentia est, quoniam omne accidens in
indiuiduis principaliter subsistit, genera uero et species indiuiduis priora
sunt; nisi enim singuli corui 1 et accidentis] ab accidentibus
HN ponit C 2 pr. quod] quid C
quoniam (del. m2) quod E II 4 post
esse add . aliquid P, s. l. Lm2 5 si—sit] nisi sit
subiectum HN nisi subiectum sit R 6 quid
Cm1 potest H 7 speciei HN est] sit N nec]
non CEGLP 8 uelut CEGLP uel R
supponitur C 9 supponatur ( uel subp-) EGH 10
ante manifestum add . nam EGLP 11 post
Rursus add . uero C post alia add . est CGP
13 generi CEGP 15 eodem EHLR 18 paulo amplius nigrum
paulo diutius ambulantem HN post ambulantem add . et LR
19 et] et si (si s. l, Lm2 ) LR si EGP
omnis GLm2R aequa nigredine coloris (coloris del. Lm2 )
HLNP 20 obductus EGLm1R , post obd. add .
esse C est EGLR est om. HN 21 in om.
CG genera—priora sunt] C species uero et genera indiuiduis
priora sunt HLm1N genera uero speciebus et indiuiduis priora sunt
GP genera nero et speciebus et indiuiduis posteriora sunt Lm2
genera indiuiduis priora sunt E et indiuiduis posteriora sunt
R 22 singulariter EGPR nigredine infecti essent, comi species
nigra esse minime dicere- tur. ita fit ut accidentia post indiuidua esse
uideantur. nam si prius est id cui aliquid accidit quam illud quod accidit, nop
est dubium prius esse indiuidua, posterius uero accidens, genera uero et
species supra indiuidua considerantur; hoc idcirco, quoniam de his
omnibus praedicantur eorumque sub- stantiam propria praedicatione constituunt,
sed dici potest genera quoque ipsa et species posteriora indiuiduis inueniri;
nam nisi sint singuli homines singulique equi, hominis atque equi species esse
non possunt, et nisi singulae species sint, eorum genus animal esse non
poterit, sed meminisse debemus superius dictum esse genus non ex his sumere
substantiam de quibus praedicatur, sed de eo potius, quod differentiis con-
stitutiuis eorum substantia formaque perficitur, itaque si genus quidem
diuisiuis differentiis interemptis non perimitur, sed manet in his quae
eius constitutiuae sunt eiusque formam definitionemque perficiunt, cumque
differentiae diuisiuae generis speciebus sint priores — ipsae enim species
conformant atque constituunt —, non est dubium quin genus etiam pereuntibus
speciebus possit in propria manere substantia, idem de spe- ciebus dictum
sit; species enim superioribus differentiis, non posterioribus indiuiduis
informantur, quae cum ita sint, species quoque ante indiuidua subsistunt,
accidentia uero nisi sint 12 superius] p. 300, 7—16. 1
essent in ras. Lm2 , sunt N sint R 2 esse
om. EGR 4 indiui- duum CHN 5 super CN 8 genera]
de genere R quoque om. R quaeque EGP
ipsa om. EGPR et species] atque species (specie R )
LR specieaque N 9 nam nisi] nisi enim EGR nara
nisi enim (enim del. m2 ) C homines—nisi singulae (10)
in mg. Em2 homi- nes EN 10 et om. EG
singulis E singuli G singulares Lm2R 11
eorumque Lm2 earum brm 12 ex del ., his om.
E 13 de eo] eo Hm1N ex eis Hm2 de eis
Lm2 quod del. Hm2, er. L , quo GPR 14 eorum om.
Lm1 eius R edd . quae eius Hm2 de quibus eius Lm2
substantiam formamque perficiunt Hm2 normaque N 15
diuisiuae ( post differentiae N ) differentiae interemptae non
perimunt HLN 16 eius- que] quae eius C quaeque
eius EGP 17 speciebus generis LNR 20 permanere
Lm2R 23 quaeque EG quibus accidant, esse non possunt,
nullis uero prius accidunt quam indiuiduis; haec enim generationi et
corru|ptioni sup- p, 103· posita uariis semper accidentibus permutantur.
Illam quoque adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus
quidem, quia rem demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est
dicitur, accidens uero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet
res. nam si qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est
coruus, ‘niger’, si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut
‘sedet’ aut ‘uolat’ aut ‘crocitat’. nam cum accidens in nouem praedicamenta
diuidatur, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, habitum,
facere, pati, cetera quidem omnia in ‘quomodo se habeat’ interrogatione
ponuntur, qualitas uero in qualitatis sciscitatione responderi solet. nam si
interrogemur qualis est Aethiops, respondebimus accidens, id est ‘niger’,
si quomodo se habeat Socrates, tunc dicemus aut ‘sedet’ aut ‘ambulat’ aut
superiorum aliquid accidentium. Genus uero quo ab aliis quattuor
differat, dictum 4 superius] p. 189, 4 ss. 195, 1 ss. 18—p. 319, 14]
Porph. p. 17, 14—18, 9 (Boeth. p. 45, 10—46, 9). 1 pr.
accidunt Lm1 accident N prius post accidunt
C 2 post indi- uiduis add. quia indiuidna prima sunt quantum
ad praedicationem P, in mg. Lm2 4 adnumera ( ann- G)
EG annumerant Hm1 dicta est superius R est sepius
(corr. m2) dicta C sepius (corr. Hm2) dicta
est HN 5 quidem om. EGR 6 dicitur om. N, s. l.
Hm2 post uero add. aut P 7se H post habet
add. res CLm1, del. m2 9se EGHN habet
Clm1 aliud rursus accidens] aliud uero accidens rursus C aut
uolat aut sedet HLN 10 croccit Hm1 groccitat N,
post add . egrotat P nam] at EGLm1 ac (ut uid.)
R 12 quanto Em1 quan- tum G situm habitum
quando C post omnia add. id est VIIII Hm1, del.
m2 13 habeant Ep.c. Lm2P interrogationem EGR 14 inter-
rogemur] C edd. (cf.p. 314, 15) interrogemus cett., recte?
cf.p. 58, ss. 99, 23 15 respondemus HNR 16 dicimus
EHLRbrm 17 aliquod ELa.c.N 18 uero] uerus Pa.c.
ergo CHL (in ras. m2) R Φ enim A ; Porph.
p. 17, 14 uiv ουν quod EGPm1Rm1 T<l>
ab] ΔΣΨ , s. l. Il m2, om. cett. quattuor
om. G, s. l. Δ m2 est. contingit autem etiam unum quodque
aliorum differre ab aliis quattuor, ut cum quinque quidem sint, unum quodque
autem ab aliis quattuor differat, quater quinque, uiginti fiant omnes
differentiae, sed semper posterioribus enumeratis et secundis quidem una
differentia superatis, prop(??)terea quia iam sumpta est, tertiis uero duabus,
quartis uero tribus, quintis uero quattuor, decem omnes fiunt, quattuor, tres,
duae, una. genus enim differt a differentia et specie et pro- prio et
accidenti; quattuor igitur sunt omnes diffe- rentiae. differentia uero
quo differat a genere dictum est, quando quo differret genus ab ea dicebatur;
relinquitur igitur quo differat ab specie et proprio et accidenti dicere, et
fiunt tres. rursus species quo 1 contingit—ad accidens (p. 319,12)
] LR Q , om. cett. contigit R A m1 Y m1 2 aliis om.
Porph. p. 17, 15 quidem om. L K Busse; Porph.
μεν 3 post sint add. res L unum
quodque autem] il m2 xP p Busse unum autem Β ΤΜΙ m1
Σ una autem L ΑΦ et unumquodque brm; Porph. p. 17,
16 ίνος ϊέ εκάοτοο aliis om. Porph. differt
Δ 4 uiginti del. A , pos t XX add.
uel quinquies quattuor Rm1 quater V. XX uel del. et
post fiant add. uiginti m2 fient ΑΑ m1 Φ
fuerint Γ post differentiae add. sed non
sic se res ( res om. p) habet edd. cum Porph. p. 17,
17 άλλ’ οοχ οδτως εχει set om. Γ 6
superatis] subtractis ΓΦ (ex substr- ) quia]
quoniam L A Busse sumpta] subtracta Γ 7 uero]
autem LR T<l' duobus R 8 omnes om. L post
fiunt add. differentiae Γ (s. l.) Π
m2 edd. Busse (sed om. etiam eius codd. LP) cum Porph. p. 17, 20 9 enim]
autem Γ a om. Σ , s. l. A m2 et specie et
proprio] a specie a pro- prio R specie proprio Σ 10 et
om. Σ accidente R Σ igitur quatuor R
differentiae omnes La.c. generis differentiae R; Porph. p.
17, 22 at διοφοραί 11 quo om. R differat]
La.c. ( a del.) Σ differret R differt
cett. a om. R 12 quo] quid L A Busse
quod m1, om. A ; ubi quo est (hic et 11.
13. 14. 319, 1. 2. 3. 5. 7 bis), Porphyrius π-j
scripsit (p. 17, 23 et 22. 24. 25. 26 bis. 18, 1. 2. 3. 4)
differret] LR Ψ (alt. r s. l.) differre Λ
differt ΓΙIΣΦ 13 igitur] ergo 2 quod R A
differt A a.c. ab Brandt a LR il , s. l. A
m2, om. cett. et om. Β ΤΑΣ a L 14 accidente
R ΓΔ2Φ post tres add. differentiae Λ ( ei
fiunt tres differentiae. rursus in mg. m2) 11 m2 (
species m1) Γ ( rursus differentiae pos.)
Busse (cum duobus suis codd.), om. cett. codd. edd. Porph. p. 17, 25 quidem
quo ΓΔ2Φ ; Porph. π-jj έν quidem differat a
differentia dictum est, quando quo differret differentia ab specie, dicebatur;
quo autem differat species a genere, dictum est, quando quo differret genus ab
specie dicebatur; reliquum est igitur, ut quo differat a proprio et
accidenti dicatur. duae igitur etiam istae sunt differentiae. proprium autem
quo differat ab accidenti relinquitur; nam quo ab specie et differentia et
genere differat, praedictum est in illorum ad ipsum differentia. quattuor
igitur sumptis generis ad alia differentiis, tribus uero dif- ferentiae,
duabus autem speciei, una autem proprii ad accidens, decem erunt omnes, quarum
quattuor, quae erant generis ad reliqua, superius demonstraui- mus.
Quoniam differentias atque communitates generis ad diffe- rentiam, ad
speciem, ad proprium atque accidens persecutus est, idem quoque ad ceteras
facere contendens praedicit, quot omnes differentiae possint esse quae inter se
comparatis com- 1 differt R A quo] quid A
Russe quod Lm1 \ 2 differret] Lm2 Rm2 Aß p.c. tfl
p.c. differet Lm1Rm Uα a. c. ΦΨ a.c. differt Δ2
differtur Γ differentia ab specie] ΓΦΨ ( sed
a, scr. ab Brandt), a (s. l. A m2)
specie (s. l. et add. Δ m2) differentia ΔΔΣ
edd. Busse species a ( et Ώ ) differen- tia
L H differentia ab ea R; Porph. p. 17, 26 ή διαφορά τού
είδους quod A m1 3 differat] L differt
cett. (ex differet V ) a om. R ϋϊ quo] quid
Δ Busse quod A 4 differret] L yAIW
differet R Φ differt ΓΑ2 4 ab specie] Γ a
specie L ΔIΙΔΦΦ specie 2 ab ea R 5
differt R, add. species ΓΑΠΨΨ , s. l. Lm2; om. Porph.
p. 18, 2 a om. 2 accidenti] L acci-
dente cett. dicitur R 6 igitur om.
2 7 autem om. R, s. l. h m2 ab om.
Σ accidenti] edd. accidente codd. fort.
relinquetur; cf. Porph. p. 18, 3 χαταλειφθήσεται 8
ab Brandt a ΓΦ , om. cett. pr. et om.
R differet Λ m1 differret m2 differt A m1 2
, s. l. proprium add. Lm2 dic- tum Σ 9
differentia ante ad ipsum Σ differentiis Β ΓΑΦ ;
Porph. p. 18, 5 ... διαφορά 11 pr. autem] uero A
ad accidens] et accidentis ΓΔ«ι7ΠΦ ; Porph. p. 18, 7
πρός τδ σορβεβηχος 13 erant] erunt N reliqua] N
Λm1ίΣΦΨ reliquas cett. (in mg. ad aliquas T m2); Porph.
p. 18, 8 πρός τά άλλα 16 utrumque ad om. NR 17
idem quoque] idemque Lm1NR ad cetera C de ceteris
HLN praedicit om. R nunc dicit H 18 possunt
CHLm1N commissisque N mixtisque rebus his quae supra
propositae sunt efficiantur. sunt autem uiginti. nam cum quinque sint res, una
quaeque res earum si a quattuor aliis differat, quinquies quater, uiginti
differentiae fiunt, quod appositarum litterarum manifestatur exemplo. sint
quinque res ueluti quinque litterae A B C D E. differat igitur A quidem
ab aliis quattuor, id est B C D E, fient quattuor differentiae. rursus B
differat ab aliis quattuor, id est A C D E, erunt rursus quattuor; quae
superioribus iunctae octo coniungunt. C uero tertia ab reliquis differt
quattuor, scilicet A B D E; quae quattuor differentiae supe- rioribus
octo copulatae duodecim reddunt. quarta D reliquis quattuor comparetur
differatque ab eisdem, id est A B C E, fient igitur rursus quattuor; quae
superioribus duodecim ap- positae sedecim copulant. quodsi ultima E ab aliis
quattuor differat, scilicet A B C D, fient aliae quattuor differentiae;
quae compositae prioribus uiginti perficiunt. et sit quidem p.104]
huiusmodi descriptio : | 1 positae EHLNP
efficiuntur HN 2 ante una add. et
HLNPR res om. HN 3 si om. HN a om. R
uiginti om. E 4 fiant Rm2 5 uel E 6 aliis]
reliquis HN 7 fiant R differt Ha.c.LN
aliis] reliquis L 8 id est om. HN 9 ab] codd.
reliquis] aliis L 11 ante reliquis add.
si L, s. l. Pm2 12 differatque] differat aeque EGP (
differt m2) R eis GHNPm1R 13 fiunt N
fiant R igitur om. HN post quattuor add. differentiae
HN 15 fiant R faciat L faciet HN
aliae om. H alias LN differentias HLN 16
superi- oribus C et sit quidem] CGP et quidem sit
R et sic (ex si ) quidem est E quarum
( quorum LN) quidem sit HLN 17 discriptio C figu-
ram om. G (duae lineae uacuae) Hm1N, supra depictam dedimus ex E, eandem uarie
exornatam habent R (post uerba quattuor differentiae supra 7)
Γ (in mg ad locum p. 314, 7 ss.), litteras tantum omissis
lineis Quae cum ita sint, in generibus quoque et speciebus et
ceteris idem considerabitur. erunt ergo quattuor differentiae, quibus genus a
differentia, specie, proprio accidentique dis- iungitur; aliae rursus quattuor,
quibus differentia a genere, specie, proprio atque accidenti discrepat;
rursus quattuor spe- ciei ad genus ac differentiam, proprium atque accidens;
quat- tuor etiam proprii ad genus, differentiam, speciem atque acci- dens;
quattuor insuper accidentis ad genus, differentiam, spe- ciem atque proprium.
quae coniunctae omnes uiginti explicant diflferentias. sed hoc, si ad
numeri referatur naturam compara- tionisque alternationem; nam si ad ipsas
differentiarum naturas uigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias
inueniet sumptas. quo enim genus differt a differentia, eodem differentia
distat a genere, et quo differentia distat ab specie, eodem species a
differentia disgregatur, et in ceteris eodem modo. in hac igitur dispositione
differentiarum, quam supra disposui, easdem saepius adnumeraui. atque si
differentiarum similitudines detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas
ad prae- sentem tractatum uelut diuersas atque dissimiles oportet assu-
mere. age enim differat genus a differentia, specie, proprio in mg. sup.
add. Hm2, quaternas litteras ( B C D E cett.) infra singulis
litteris A cett. positas quadratis inclusas exhibet L; in C in mg.
(litt. minusc.) hae duae figurae sunt, quarum posterior spectat ad p. 321, 20
ss. 323, 9 ss: in P figura est per quinque ob- longa deorsum
continuata, quorum primum hic proponitur : 3 ab CEGHP
accidentique] atque accidenti ( -te N) HN 4 dif-
ferentiae G ab CEGHNP 6 ac om. N ad
LP 10 post hoc add. fiet E (s. l. m2)
fit H (s. l. m2) niget L (in mg.) R 13 adsumptas
R differat C 14 ab] a R 17 saepius om.
EGPR, s. l. Cm2, post ad- numeraui L adnumerauit
Cm2GP atque) EGP at CR itaque HLN si
om. N multitudines, s. l. ał similitudines L 18
fient edd. atque accidenti, quattuor differentiis, quas supra
iam diximus. item sumamus differentiam, distabit haec a genere primum, dehinc
ab specie, proprio atque accident. sed quo discrepet a genere, iam superius
explicatum est, cum diceremus quo genus a differentia discreparet.
detracta igitur hac comparatione, quoniam supra commemorata est, relinquuntur
tres distantiae quibus differentia ab specie, proprio accidentique disiungitur;
quae iunctae cum superioribus quattuor septem differentias reddunt. post hanc
species si sumatur, quattuor quidem eius essent differentiae secundum
numeri diuersitatem, cum ad genus, differentiam, proprium atque accidens
comparatur, sed priores duae comparationes iam dictae sunt. nam quo species
differat a genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie
dicebamus, quid uero species a differentia distet commemo- ratum est, cum
differentiae ab specie dissimilitudines redde- remus. quibus detractis duae
supersunt integrae atque intactae speciei ad proprium atque accidens
discrepantiae; quae iunctae cum septem nouem differentias copulant. proprii
uero si ad numerum differentiae considerentur, quattuor erunt, scilicet
ad genus, differentiam, speciem atque accidens comparati, quarum quidem
tres superiores differentiae iam dictae sunt. nam quid proprium distet a
genere, tunc dictum est, cum quid genus a proprio distaret ostendimus, rursus
quid proprium a differentia discrepet, in colligenda distantia differentiae
propriique superius 1 accidente N 3 ab] HN
a cett. accidente HN quod L dis- crepet]
distet HN 5 hac igitur C 6 distantiae]
differentiae L 7 a LN accidenti C
accidenteque H disiungitur ante ab specie C
8 reddunt differentiae C 9 sumatur] mutatur E 11
ante differentiam add. et HLNP ante proprium
add. et P cõpararetur C cõparantur N
12 differat post genere EN 13 a om. EGHNP
differret] GLm2Pm2R differet ΕLm1 differat
HNPm1 differt C ad speciem R ad specie C
15 ab specie] CG a specie EHLm2NP ad speciem
Lm1R 17 post speciei add. id est EGP
18 differentias copulant] complent differen- tias C 20
comparatae Ep.c. (ex-ti) GHm2PR quorum EGLm1R 21 quod
C 22 proprium—cum quid om. EGR distaret a pro- prio
H demonstratum est, quid uero proprium distet ab specie, tunc
expositura est, cum quid species distaret a proprio dicebatur. restat igitur
una differentia proprii ad accidens, quae superio- ribus iuncta decem
differentias claudit. accidentis nero ad cetera possent quidem esse
quattuor, nisi iam omnes proba- rentur esse consumptae. nam quid differat uel
genus uel dif- ferentia uel species uel proprium ab accidenti, supra mon-
stratum est, nec sunt diuersae differentiae accidentis ad cetera quam ceterorum
ad accidens. itaque fit, ut cum sit quinque rerum numerus, si prima
assumatur, quattuor fiant differentiae, si secunda, tres, uincanturque secundae
rei ad ceteras difte– rentiae a prima ad ceteras una tantum distantia; nam cum
prima habuerit quattuor, secunda retinet tres. tertia uero si sumatur, duas
habebit differentias, quae uincantur a primis quattuor differentiis
duabus; quarta si sumatur, unam habebit differentiam, quae uincitur a primis
quattuor differentiis tribus, quinta uero quoniam nullam omnino habebit
differentiam nouam, totis quattuor a prima differentiis superatur. atque hoc
nume- rorum gradu quidem usque ad denarium numerum tenditur : quattuor,
tres, duae, una, ut generis quidem quattuor, diffe- rentiae uero tres, speciei
duae, proprii una, | accidentis nullap p. 105 sit. et primae quidem
generis comparationes quattuor nouas tenent differentias, secundae uero
differentiae comparationes 1 uero om. EGR a EGLR
2 cum] quando R 5 cetera] extera Cm1 6 differret
H differet N 7 accidente CHN monstrauimus
H 8 ante diuersae add. plus R, s. l.
Lm2 10 ad prima s. l. ł una res Hm2
sumatur HN fient C 11 uincanturque] C (pr.
n om.) Lm1 (iungantur m2) N, m2 in HPR ( iungenturque
Rm1) , uincantur EGHm1Pm1 12 primis L 13 habuerat
C habeat Lm2NP retineat Lm2 14 diffe- rentias
habebit C uincuntur Lm1R 15 duabus (s. l.
E) differentiis EHN post duabus add. distantiis
GR post quarta add. nero R, s. l. autem Pm2
16 post tribus add. subdistantiis E
distantiis G 17 habet HL 18 primis brm hoc]
ex hoc HLN numeri HN 19 gradus HLm1N
quidam HN 20 post post. quattuor add. sint
CHm2L (del. m2) P sunt Hm1N 22 sit] Rbrm
est CEGLP, om. HN et om. EGR quidem s. l. Em2L,
post generis C 23 teneant HLm1NR tres nouas
tenent; una enim superius adnumerata est, uincitur autem a primis quattuor
nouis differentiis una tantum. speciei uero tertia comparatio duas tantum habet
differentias nouas, duas quippe superius adnumeratas agnoscimus, et uincitur
a quattuor primis duabus tantum differentiis nouis. proprium uero unam
retineat nouam, quoniam tres habet superius ad- numeratas, uincaturque a prima
nouis tribus differentiis, quinti uero accidentis comparationes quoniam nullam
retinent nouam differentiam, totis quattuor a primis generis
transcendantur. atque ad hunc modum ex uiginti differentiis secundum
numerum decem secundum dissimilitudinem contrahuntur. ut tamen has secundum
dissimilitudinem differentias non in quinario tan- tum numero, uerum in ceteris
notas habere possimus, talis dabitur regula quae plenam differentiarum
dissimilitudinem in qualibet numeri pluralitate reperiat. propositarum
enim rerum numero si unum dempseris atque id quod dempto uno relin- quitur, in
totam summam numeri multiplicaueris, eius quod ex multiplicatione factum est
dimidium coaequabitur ei plura- litati quam propositarum rerum differentiae
continebunt. sint igitur res quattuor A B C D; his aufero unum, fiunt
tres; has igitur quater multiplico, fient duodecim; horum dimidium 1
teneant HLm1NR ten. post nouas CR
adnumera (tamen eat ) C uincitur autem] et uincatur
HLm1 ( et del., uincitur m2) N 2 nouis quattuor
primis HN 4 adnumeratas om., in mg. enumeratas
G uin- catur Lm1 uincantur HN uincuntur C
6 ante unam add. tantum L, post EGPR
retinet Lm2Pm2 edd. 7 uincanturque N uincatur qua re
EG uincitur haec R uinciturque edd. quinta
N 8 comparatio Lm2N retinet HLN, post nouam
HN 9 primis] CLPH a.r. primi EGHp.r.NR
transcendentur Lm2 transcendatur N transgrediantur
C transcenduntur edd. 11 tamen er. uid. E
non G (etiam post diffe- rentias est non ) 13 uerum]
uerum etiam C ceteris quoque brm notas]
Lm1N notis CEGHm2 ( totas m1) Lm2PR 15 reperiat]
pariat Cm2Hm1N 17 post numeri add. si
CHP simul EG 18 ei om. EGN 19 sunt Lm1R 20
igitur] ergo CEN fiant LR 21 hos EGLPR post
igitur add. si N tres H per totam summam
R multiplica C multipli- cato E fiunt
HN fiant R post horum add. si L
teneo, sex erunt. tot igitur erunt differentiae inter se rebus quattuor
comparatis : A quippe ad B et C et D tres retinet differentias, rursus B ad C
et D duas, C uero ad D unam; quae iunctae senarium numerum complent. atque hanc
quidem regulam simpliciter ac sine demonstratione nunc dedisse suffi-
ciat, in Praedicamentorum uero expositione ratio quoque cur ita sit
explicabitur. Commune ergo differentiae et speciei est
aequaliter participari; homine enim aequaliter participant par- ticulares
homines et rationali differentia. commune uero est et semper adesse his quae
participant; sem- per enim Socrates rationalis et semper Socrates homo.
Dictum est saepius ea quae substantiam formant, nec remissione
contrahi nec intentione produci; uni cuique enim id quod est, unum atque idem
est. quodsi differentia spe- cierum substantiam monstret, species uero
indiuiduorum, aequa- liter utraque ab intentione et remissione seiuncta sunt;
quo 6 in Praedicamentorum expositione] p. 272 C. B—l3] Porph. p. 18,
10—14 (Boeth. p. 46, 10—14). 14 saepius] cf. infra. 1 teneo]
sumo N sumo tenens ( tenens del. m2) H si
(ex sumo m2) teneo L pr. erunt ante
sex N, s. l. Hm2 post. erunt ante igitur ( ergo
H) HL 2 detinet HN 4 complent numerum H 5 dedisse
nunc HN 8 DIFFERENTIAE ET SPECIEI] plerique codd. fort. ex 9
sumptum, om. Δ , SPECIEI ET DIFFERENTIAE Γ2Φ , r ecte ut
aid.; Porph. p. 18, 10 Περί τής κοινωνίας τής διαφοράς καί τοΰ
είδοος , cod. Μ Περί κοινών είδους καί διαφοράς 9
est add. Hm2 10 homine—parti- cipant (12) ] LR Q , om.
cett. homini R T a.c. hominem L \ 11 ratio- nalem
differentiam L \ , post differentia add. nam omnes homines
aequa- liter homines sunt et aequaliter rationales Σ 12 et
del. uid. Δ , om. Ψ his adesse LR <t>
post quae add. eorum ΓΔΠΦ 13 enim om.
R rationabilis CEGPR U Busse, add. est ΓΔΦ
, s. l. A m2 14 saepius i. e. p. 250, 24 ss. 314, 5 ss.
; saepe de duobus locis etiam p. 293, 18 dictum; superius P,
fort. recte, cf. ad p. 317, 4. 337, 8 17 monstrat HLNP 18
utraeque CP seiunctae CGPR fit ut aequaliter
participentur. omnes enim indiuidui mortales aeque sunt atque rationales sicut
homines. nam si idem est ‘esse’ homini quod est ‘esse rationale’, cum omnes
homines aeque sint homines, necesse est ut sint aequaliter rationales. Aliud
quoque commune habent quoniam ita differentiae sui partici- pantia non
relinquunt ut species. semper enim Socrates rationalis est—Socrates enim
rationabilitate participat —, semper homo est, quia scilicet humanitate
participat. ut igitur differentiae sui participantia non relinquunt, ita
species his quae ea parti- cipant, semper adiuncta est. Proprium
autem differentiae quidem est in eo quod quale sit praedicari, speciei uero in
eo quod quid est : nam et si homo uelut qualitas accipiatur, non sim- 11—
p. 327, 16] Porph. p. 18, 15—19, 3 (Boeth. p. 46, 15-47, 11). 1
mortales—sicut homines] ( sunt ex sint Lm2, add.
homines Lm1, del. m2, sunt del. Pm2; atque Lm1Pm2
et HLm2Pm1; sicut del. et sunt scr. Pm2)
HLP aeque mortales atque rationabiles sunt ut homines C aeque
(s. l. m2) mortales (ex -lis m2) sunt atque
rationabilis (sic) sunt (part. ras. ex sicut
m2) homines E mortales sunt atque ( atque sint
N) rationales sicut homines NR mortalis atque rationabilis
sicut homines G 2 nam—homines (4) om. N idem est]
E ( est in mg.) HR idẽ CL id est ( ẽ G)
GP est del. Lm2 3 esse post ration. EL,
repetit. post ration. P, om. CH rationali R
rationalis Lm1 rationabile G rationa- bili
E rationabilis Lm2P 5 ante commune
add. est H habent om. HR, s. l. EL ( n del.
m2) differentia R 6 relinquit R relinquent
Pm1 derelinquunt Lm1 rationabilis EG 7
rationabilitati CGP rationalitate HN post semper
add. enim G 8 quia ex qua Em2
humanitati EGLP differentia HLNR 9 relinquit
HLNR par- ticipent E 11 SPECIEI ET DIFFERENTIAE (
DIFFERENTIIS E) ΕG ΤΖΦ , recte ut uid. , DE PROPRIIS EORVM (
EORYNDEM Ψ ) Ρ Ψ ; Porph. p. 18, 15 Περί τής διαφοράς
τού εϊδοος και τής διαφοράς , cod. Μ Περί τών ιδίων ειδοος
και διαφοράς 12 autem om. Η uero C Q quod
ex quid C 13 species EGHNP uero om. H
autem Busse eo quod] quo Γ est] sit R 14
nam—generationem (p. 327, 15) ] LR Q , om. cett.
accipitur A m1 non] R ΓΔΈ cum Porph. p. 18, 17
hic non L non hic A m2 H Busse non sic Λ m1
Σ non homo Φ pliciter erit qualitas, sed secundum id
quod generi aduenientes differentiae eam constituerunt. amplius differentia
quidem in pluribus saepe speciebus con- sideratur, quemadmodum quadrupes in
pluribus ani- malibus specie differentibus, species uero in solis his
quae sub specie sunt indiuiduis est. amplius diffe- rentia prima eat ab ea
specie quae est secundum ipsam; simul enim ablatura rationale interimit homi-
nem, homo uero interemptus non aufert rationale, cum sit deus. amplius
differentia quidem componitur cum alia differentia — rationale enim et mortale
compositum est in substantia hominis —, species uero speciei non componitur, ut
gignat aliam aliquam speciem; qui- dam enim | equus cuidam asino permiscetur ad
muli p. 106 generationem, equus autem simpliciter asino num-
quam conueniens perficiet mulum. Expositis communitatibus quantum ad
institutionem per- tinebat differentiae et speciei, eorundem nunc
dissimilitudines colligit dicens quoniam differunt, quod species in eo
quod quid sit praedicatur, differentia uero in eo quod quale sit. huic
differentiae poterat occurri. nam si humanitas ipsa, quae species est, qualitas
quaedam est, cur dicatur species in eo quod quid sit praedicari, cum propter
quandam suae naturae 1 sed] id (del.) R 3 considerantur
Δ 4 pluribus] Porph. p. 18, 20 πλείστων , cod.
B πλειόνων 6 specie] una specie R Γ ( sunt
ante specie ) ΛΨ ; Porph. p. 18, 21 άκο το
είδος 7 prima ante differentia Δ prior
edd.fort· recte cum Porph. κροτέρα; cf. p. 328,
32 superioris ab ea] et Γ ab ea—ipsam] ab ea quae est
secundum se specie 2 8 post ipsam add.
differentiam Δ (del. m2) Λ 10 deus]
angelus LR ponitur Δ 12 sub- stantiam edd. cum
Porph. p. 19, 1 εις οπδστοσιν speciei] specie R
13 aliquam ante aliam T\A , post speciem
2 14 equus] asinus Σ asinae Φ equae Σ
15 equus] asinus 2 autem om. N enim C ΔΛ2
asinae Pm2 conueniens numquam 2 16 mulum
perficiet CEG perfici ad mulum R 17 Positis N
instructionem H 18 eorum L earundem edd.; cf.
indicem Meiseri s. neutrum 20 differentiae C uero om.
CGP autem R post sit add. qua inter se differunt
differentia et species Hm1, del. m2 21 huic] nunc G
differentia G 22 dicitur CLm2 praedicatur
GR proprietatem quaedam qualitas esse uideatur? huic respondemus,
quia differentia solum qualitas est, humanitas uero non est solum qualitas, sed
tantum qualitate perficitur. differentia enim superueniens generi speciem
fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut procederet in
speciem, species uero ipsa, qualis quidem est, secundum differentiam
illius quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur et
conformatur, qualitas uero ipsa pura simplexque nullo modo est, sed ex
qualitatibus effecta substantia. itaque iure diffe- rentia, quae pure ac
simpliciter qualitas est, in eo quod quale est sciscitantibus
respondetur, species uero in eo quod quid sit, licet ipsa quoque quaedam
qualitas sit non simplex, sed aliis qualitatibus informata. Rursus illa quoque
differentia est, quia plures sub se species differentia continet, species uero
tantum indiuiduis praesunt. rationabilitas enim et hominem claudit et
deum, quadrupes equum, bouem, canem et cetera, homo uero solos indiuiduos.
atque in aliis speciebus eadem ratio est. idcirco enim definitiones quoque
secutae sunt, ut differentia uocaretur quod in pluribus specie differentibus in
eo quod quale sit praedicatur, species uero quod de pluribus numero
differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Ideo etiam superioris naturae
sunt differentiae, quoniam continentes sunt specierum. nam si quis auferat
differentiam, speciem 1 respondebimus G 3 tantum om.
EG solum, s. l. ał tantum L 4 facit
CLN 5 formatum est s. l. Gm2 6 ad qualis s.
l. ł quali- tas Hm2 post quidem add. non
EGP (del. m2), in mg. Hm2 9 post sed s. l.
hec L iure itaque C 11 species—quid sit in mg.
Gm2 12 sit] est HN, add. iure respondetur CG (in mg.
m2) LP 13 rursum E, add. differentiae et speciei
C illa om. E ipsa CGP post quoque
add. his HN differentia est] differunt in ras. E est
om. P in hoc a specie distat G 15 uero om. CEGP
rationalitas HΝ 16 post quadrupes add.
enim P, s. l. Lm2 canem om. C camelum R 17
sola indiuidua Lm2R 19 pr. in] de Pm2 20
praedicetur HLN species—praedicatur om. E 21 praedicatur]
dicatur GHLPm1 22 post differentiae add.
quam species CLP speciebus N post quoniam
add. enim HLN 23 sunt ( erunt L) post
specierum EGL, ante conti- nentes R nam om. LR,
post quis s. l. enim Lm2 quoque sustulerit,
ut si quis auferat rationabilitatem, hominem deumque consumpserit, si uero
hominem tollat, rationabilitas manet in speciebus reliquis constituta. est
igitur differentiae specieique distantia quod una differentia plures species
con- tinere potest, species uero nullo modo. Alia rursus est differentia,
quoniam ex pluribus differentiis una saepe species iungitur, ex pluribus
speciobus nulla speciei substantia copu- latur. iunctis enim differentiis
mortali ac rationali factus est homo, iunctis uero speciebus nulla umquam
species infor- matur. quodsi quis occurrat dicens quoniam permixtus
asino- equus efficit mulum, non recte dixerit. indiuidua enim indi- uiduis
iuncta indiuidua rursus alia fortasse perficiunt, ipse uero equus simpliciter,
id est uniuersaliter, et asinus uniuer- saliter neque permisceri possunt neque
aliquid, si cogitatione misceantur, efficiunt, constat igitur
differentias quidem plurimas ad unius speciei substantiam conuenire, species uero
in alterius speciei naturam nullo modo posse congruere.
Differentia uero et proprium commune quidem habent aequaliter participari
ab his quae eorum par- ticipant; aequaliter enim rationalia rationalia sunt et
risibilia risibilia. et semper et omni adesse com- 18—p. 330, 4] Porph.
p. 19, 4—9 (Boeth. p. 47, 12—19). 1 rationalitatem HN 2
aero] quis R rationalitas HLa.c.N 3 est om.
CEGP 4 specieqne R et species C distant
C distantia est EGP species] significationes Em1
5 differentia est C 6 saepe om. EGR post pluribus
add. uero R 8 enim] etiam Lm1 igitur
Lm2Pm1 10 asinae HLm2 11 perficit GP 12
perficiant Lm1R 14 nec.. nec C neque permisceri
possunt om. EGR neque aliquid] non aliquid EGR cogi-
tatione si HN 18 COMMVNIBVS] d e Porph. cf. ad p. 102, 7 20
par- ticipari] praedicari L ab his—dicitur (p. 330, 2)
] LR Q , om. cett. ab om. Σ , del. A m2 21
post enim s. l. quae T m2 rationalia rationalia]
Tk m2 <t>W m2 edd. rationalia rationabilia Π rationalia
A2<V m1 rationabilia LR & m1 rationabilia
rationabilia Busse sunt om. R, s. l. h m2 22
et er. uid. Δ post. risibilia om. LR \2 , post
add. sunt codd., om. L cum Porph. p. 19, 6 mune
utriusque est. si enim curtetur qui est bipes, sed ad id quod natum est semper
dicitur; nam et risibile in eo quod natum est habet id quod est semper, sed non
in eo quod semper rideat. Nunc differentiae propriique communia
continua ratione per- -sequitur. commune enim dicit esse proprio ac
differentiae quod aequaliter participantur — aeque enim omnes homines rationa-
biles sunt, aeque risibiles —, illud, quia substantiam monstrat, istud, quia
est aequum proprium speciei et subiectam speciem non relinquit. Aliud etiam his
commune subiungit : aequa- liter enim semper differentia subiectis adest
ut proprium; semper enim homines rationabiles sunt, ut semper quoque risibiles.
sed obici poterat non semper esse bipedem hominem, cum sit bipes differentia,
si unius pedis perfectione curtetur. quam tali modo soluimus quaestionem.
propria et differentiae non in eo quod semper habeantur, sed in eo quod
semper naturaliter haberi possunt, semper dicuntur adesse subiectis. 1
utrisque ΓΛΣΦ si] sine R ΓΦ qui est] quies
R quidem L A post bipes add. non
substantiam ( substantia ΑΦ ) perimit ( perimitur
Ψ ) L ΑΨ Busse (in adn. deleri mauult) , non substantia perit (
peribit Σ ) ΓΠΣΦ p , om. Rbrm, Porph. p. 19, 8, Boeth.
in comment. 2 sed] ta- men R ad id quod] ad quod L
AΠ (post est repet. ad id ) Σ
Busse ad id ad quod Ψ , ad id post est h m1
post est add. habet et id quod est L A (del.
m2) 2 , ‘fortasse id quod est recipiendum’ Russe : Porph. p.
19, 8 αλλά πρός το πεοοχένοι το ( το om. Μ)
άει λέγεται nam -om. R 3 in eo] eo EGLR A
m1 ad C 72 id Ρ Π ad id *F
aliquod N habet id quod est semper] C ( id s. l. m1?) L
hA ( "habet—est del. m2), pro id exhib.
hoc H et id Σ , est om. N habet semper Ρ
Π habet EG semper dicitur ΓΦΨ , om. R 4
sed—rideat] in om. C, in mg. Hm2, in quod semper rideat EG
non quod semper rideat R Ψ ; Porph. έπε'ι ναι τό γελαστικόν
τώ πεφυχέναι έχει τό αεί, άλλ' ο όχι τώ γελάν άει 6 enim] autem
Lm2P dicitur CEGR proprii C 7 rationales
Cm2ELm2P 8 atque NR 9 istud] illud EGHN (add.
risibilis ) P aequum om. H aeque EG, recte?
propriae EGLPR et om. EG ac N subiectam
om. C subiectum EGPm1 10 reliquit ELa.c. etiam
his] hic etiam HN 11 subiectis s. l. Gm2 12
rationales Cm2HN 15 ante propria add. et
HNP (del. m2), s. l. Lm2 propriae CEGPm2 proprii
R et om. CE, del. Pm2 16 post in] ex
HN si enim quis curtetur pede, nihil attinet ad naturam, sicut
nihil ad detrahendum proprium ualet, si homo non rideat. haec enim non in eo
quod adsint, sed in eo quod per naturam adesse possint, semper adesse |
dicuntur. ipsum enim semper; p. 107 non actu esse dicimus,
sed natura. numquam enim fieri potest, ut per naturae ipsius proprietatem non
semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut pede curtetur, etiam si
deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque substantiae, sed
nascenti indiuiduo derogatur. Proprium autem differentiae
est quoniam haec qui- dem de pluribus speciebus dicitur saepe, ut rationale de
homine et de deo, proprium uero de una sola spe- cie, cuius est proprium. et
differentia quidem illis est consequens quorum est differentia, sed non
con- uertitur, propria uero conuersim praedicantur quorum sunt propria, idcirco
quoniam conuertuntur. Distat a proprio differentia, quia
differentia plurimas species 10—17] Porph. p. 19, 10—15 (Boeth. p. 48,
1—7). 1 curtetur quis N nil C attinet
s. l. Lm2, post naturam R 2 ad om. EG ualet
om. EGR 3 pr. in om. CEH, s. l. Lm2Pm2 , ab Gm1,
del. m2 post. in om. EGNP, s. l. Lm2 4 possunt HN
dicuntur semper adesse R 5 actum... naturam E
umquam Ea.c.G 7 potest om. EG, post fieri L ,
postea (om. fieri ut ) HN pede] HLm1N ambo
pede Em1GR utroque pede Em2Lm2P; ambobus curtetur pedi-
bus C ante etiam (om. C) add. uel CL (s. l. m2)
R diminuto CEGLPR 8 pede om. C sit natus]
nascatur C 10 de inscript. ap. Porphyr. cf. ad p. 105,
16 11 autem] uero Δ quoniam] quod ΓΦ 12 saepe—
conuertitur (15) ] LR Q , om. cett. saepe om. Lm1R,
ante dicitur Lm22 ; Porph. p. 19, 11 λέγεται
πολλά*ις rationabile R 13 post , de] A ,
om. cett.; cf. Porph. p. 19, 12 et infra p. 332, 3 deo] ii
angelo R deo et angelo L; cf. Porph. p. 19, 12 adn.
ante proprium add. et Δ uero om. R de
una] L 4 m2 4' in una R ΓΔ m1 ΠΣ una Φ ;
Porph. έφ’ ένός post specie add.
dicitur Δ 16 post praedicantur add. de
his Δ (s. l. m2) edd. ex his Σ hiis Φ
, om. Porph. p. 19, 14 18 post. diffe- rentia om.
C plurimis R plures L pluribus EG
speciebus Em2GR claudit ac de his omnibus praedicatur,
proprium uero uni tantum speciei cui iungitur adaequatur. rationale enim de
homine atque de deo, quadrupes de equo et ceteris animalibus, risibile uero
unam tantum tenet speciem, id est hominem. unde fit ut differentia semper
speciem consequatur, species uero differentiam minime. proprium uero ac
species alternis sese uicibus aequa praedicatione comitantur. sequi uero
dicitur, quotiens quolibet prius nominato posterius reliquum conuenit nuncupari,
ut si dicam ‘omnis homo rationabilis est’, prius hominem, posterius apposui
differentiam; sequitur ergo dif- ferentia speciem. at si conuertam nomina
dicamque ‘omne rationabile homo est’, propositio non tenet ueritatem; igitur
species differentiam nulla ratione comitatur. proprium uero et species quia
conuerti possunt, mutuo se secuntur : omnis homo risibilis est et omne risibile
homo est. Differentiae autem et accidenti commune quidem est
de pluribus dici, commune uero ad ea quae sunt 16—p. 333, 3] Porph. p.
19, 16—19 (Boeth. p. 48, 8—12). 1 clauditur EGRm2
claude his (sic) ml 2 cui iungitur] coniungitur Lm1N,
add. et L rationabile CGLPR 3 pr.
de om. CH, er. L post deo add. praedicatur R, s.
l. Lm2 post quadrupes add. uero R et ceteris]
ceteris E ceterisqne GP 6 ac] et E 7 aeque
G R ( -(??)e ) comitentur HN comitatur ex
commitetur Rm2 sequi] si quid EGPm1 8 quotiens om. EG,
s. 1. Pm2 qualibet re ( re s. l. Pm2) prius
nominata HLNPm2R reliquam HLm2NPm2 reliqua Lm1Rm2
uero qua m1 9 rationalis Cm2HN est om. N 10
posterius ex prius Em2 opposui EG
posui Lm1R ergo] enim E 11 at] et Hm1
nomina] ut (in ras. Lm2) prius differentiam nominem HNP, in
mg. Lm2 12 rationale HN propositi CG proposita
oratio in ras. E 13 nulla ratione differentiam C
proprium—secantur in mg. sup. Hm2 14 sequuntur PRm2
sequntur E ante omnis add. ut L, post add.
enim HNP 15 et om. EG, s. l. Lm2 est om. R
16 ACCI- DENTIS ET DIFFERENTIAE E ΕΤ] uel P
ACCIDENTI C de in- script. ap. Porphyr. cf. ad p. 102, 7 17
accidentis Cm2 il commune— adesse om. N 18 post
uero add. est Ρ ΑΠ Busse, om. Porph. p. 19, 18
inseparabilia accidentia, semper et omnibus adesse; bipes enim semper
adest omnibus coruis et nigrum esse similiter. Duo quidem
differentiae et accidentis communia proponit, quorum unum separabilibus
et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab altero uero
separabile acci- dens segregatur. tantum uero inseparabile secundo communi
concluditur. est enim commune differentiae cum omnibus acci- dentibus de
pluribus praedicari; nam et separabilia et inse- parabilia accidentia
sicut differentia de pluribus speciebus et indiuiduis praedicantur, ut bipes de
coruo atque cygno et de his indiuiduis quae sub coruo et cygno sunt,
nuncupatur. item de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt
inseparabilia accidentia, praedicantur. ambulare enim uel stare, dormire
ac uigilare de eisdem dicimus, quae sunt acci- dentia separabilia, reliqua uero
communitas ea tantum acci- dentia uidetur includere quae sunt inseparabilia.
nam sicut differentia somper subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam
inseparabilia accidentia numquam uidentur deserere subiectum. ut enim
bipes, quod est differentia, numquam coruorum spe- ciem derelinquit, ita nec
nigrum, quod accidens inseparabile est. differentia enim idcirco non relinquit
subiectum, quoniam eius substantiam complet ac perficit, accidens uero
huiusmodi, 1 post semper add. in eodem
genere P omni R; Porph. p. 19, 18 παντί
post omnibus add. hominibus et L hominibus
Λ (del. m2) 2 nigrum esse] ΓΛ»ηίΨ nigris (
nigros Hm2) esse EGHm1 nigredo esse L
nigrum adest \A m2 nigrum CNΡR ΙΙΣΦ Russe; Porph. p.
19, 19 τότε μέλαν είναι (sic Μ, μέλασιν
είναι Βm2 μέλαν eett.) 4 quaedam HΝ et]
atque ΗΝ 5 sepa- rabilibus om. G, s. l. Em2 6 uero]
autem E 7 uero] enim R, recte? post inseparabile
add. accidens L accidens cum inseparabilibus differentiis in
mg. Hm2 secunda communione HLP 10 differentiae CEGLm2P
11 et de his—cygno om. H, —cygno sunt om. EGR 12
nuncupantur G praedicatur uel nuncupatur C 14
praedicantur—separabilia (16) om. N enim s. l. C
etiam H 15 isdem CPm2 hisdem ER dicitur
LP 17 post inseparabilia add. accidentia
C 19 accidentia inseparabilia HN de- serere uidentur
C 20 corui N 21 est inseparabile C 22 subiectum
non relinquit C derelinquit Lm1 23 post
huiusmodi add. est edd. quia non potest separari;
neque enim possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando
relinquit. Differunt autem quoniam differentia quidem con-
tinet et non continetur — continet enim rationabi- litas hominem —,
accidentia uero quodam quidem modo continent eo quod in pluribus sunt, quodam
uero modo continentur eo quod non unius accidentis sus- ceptibilia sunt
subiecta, sed plurimorum, et differen- tia quidem inintentibilis est et
inremissibilis, acci- dentia uero magis et minus recipiunt. et inpermixtae
quidem sunt contrariae differentiae, mixta uero con- traria accidentia.
Huiusmodi quidem communiones et proprietates dif- ferentiae et ceterorum
sunt, species uero quo quidem p. 108 differat a genere et differen|tia,
dictum est in eo quod dicebamus, quo genus differret a ceteris et quo dif-
ferentia differret a ceteris. Post differentiae et accidentis
redditas communitates nunc de eorum differentiis tractat. ac primum quidem
talem proponit. 3—18] Porph. p. 19, 20—20, 10 (Boeth. p. 48, 13—49,
4). 1 post. posset Lm1 potest HLm2NPR
post accidens repet. esse G , 3 uel 4 litt.
er. L 2 reliquerit H relinqueret N 3 ACCIDENTIS
ET DIFFERENTIAE Γ EARVNDEM C EORYNDEM E de inscript.
ap. Poiphyr. ef. ad p. 105, 16 4 Different Cm1 Differt L ΣΐΑηιΐ
m1 Φ post autem add. differentia ab accidenti
Γ 5 et om. GHP continet— sunt (15) ] LR il , om.
cett. enim] autem L rationalitas ΓΑ a.c. Π2ΦΨ 6
quidem om. Δ2 7 sint L ΓΔΛΠΦ»ιί m1 | ·uero
post modo Ψ , del. ΓΦ (ut uid.)
9 sint A 10 intentibilis ΓΣ Busse
inintensibilis edd.; Porph. p. 20, 4 άνεπίτατος;
ef. Roensch, Collect. phil. p. 299 12 post uero add.
sunt ΛΦ 14 Huiuscemodi Δ 15 quod EGR
quidem om. 2 quidam Em2G 16 a om. EGH
2 differentiae E est om. C 17 quo] quod R A
m1 differet R differt CEGP 2 a om. ΕGΗΡR
ΤΠ,ΣΦ quod EGR is m1 18 differet R differat L
A differt G 2 a om. EGHR TWZ 19 reddit has
E communicantes Rm1 communiones m2 20 primam
HN quidem om. HN tale C differentia,
inquit, omnis speciem continet. rationabilitas enim continet hominem, quoniam
plus rationabilitas quam species, id est homo, praedicatur : supergressa enim
substantiam hominis in deum usque diffunditur. accidentia uero aliquando
quidem continent, aliquando continentur. continent quidem, quia quodlibet unum
accidens speciebus adesse pluribus con- sueuit, ut album cygno et lapidi,
nigrum coruo, Aethiopi atque hebeno, continentur uero, quoniam plura accidentia
uni accidunt speciei, ut uideatur illa species plurima accidentia
continere. cum enim Aethiopi accidit ut sit niger, accidit ut sit simus,
ut crispus, quae cuncta sunt accidentia Aethiopis, species, quod est homo,
omnia quae habet intra se plurima accidentia uidetur includere. huic occurri
potest : quoniam differentiae quoque aliquo modo continentur, aliquo modo
continent, ut rationabilitas continet hominem—plus enim quam de homine
praedicatur —, continetur quoque ab homine, quia non solum hanc differentiam
homo continet, uerum etiam mortalem. re- spondebimus : omnia quaecumque
substantialiter de pluribus praedicantur, ab his de quibus dicuntur non
poterunt conti- neri; quo fit ut differentiae quidem non contineantur ab
specie, etsi sint differentiae plures quae speciem forment. accidentia uero
continentur, quoniam accidentia speciei substantiam nulla praedicatione
constituunt; nam nec proprie uniuersalia dicuntur 1 omnis speciem]
species R rationalitas HNP 2 rationalitas HNP 3
substantia N 4 aliquando—aliquando] aliquo modo quid N
7 ante lapidi s. l. pario Em2 post
nigrum add. ut CEGLP, ante edd. ante Aethiopi
add. et E 8 continentur uero] HLm2NP continentur-
que cett. 9 plura HN 10 enim] etenim N ad
simus s. l. naribus pressis E 12 ex
quod part. ras. quae Cm2 quod est] quidẽ G
ante intra add. et E plurima om. EGH 13
occurri] opponi HN 14 pr. aliquo modo] aliquando
EGLm2P post. aliquo modo om. N aliquando Em2Lm2P 15
rationalitas H 17 homo] nomen hominis HN mortale
edd. respondemus HN respondebimus contra haec
GLPR 18 praedicantur de pluribus C 20 a R 21
sunt H differentiae om. HN speciem forment]
CEGP speciem formant Lm(??) ( informent m2 hrm) N
formant speciem H informant speciem R 22 con-
tineantur HN 23 ad constituunt in mg. ał
subsistunt Hm2 accidentia, cum de speciebus pluribus
dicuntur, differentiae uero maxime. quae enim quorumlibet uniuersalia sunt, ea
neoesee est eorum quorum sunt uniuersalia, etiam substantiam continere. qno fit
ut quia differentiae substantiam monstrant, intentione ac remissione careant —
una enim quaeque substantia neque contrahi neque remitti potest —, at
uero accidentia quoniam nullam constitutionem substantiae profitentur,
intentione cre- scunt et remissione decrescunt. Illa quoque eorum est dif-
ferentia, quod differentiae contrariae permisceri, ut ex his fiat aliquid, non
queunt, accidentia uero contraria miscentur et quaedam medietas ex
alterutra contrarietate coniungitur. ex rationabili enim et inrationabili nihil
in unum iungi potest, ex albo uero et nigro coniunctis fit aliquis medius
color. Expositis igitur distantiis differentiae ad cetera restat
de specie dicere, cuius quidem differentias ad genus ante colle- gimus,
cum generis ad speciem differentias dicebamus. eiusdem etiam speciei distantias
ad differentiam diximus, cum differentiae ad species dissimilitudines
monstrabamus. restat igitur speciem proprii et accidentium communioni
coniungere, tum differentia segregare. Speciei autem et
proprii commune est de se intri- cem praedicari; nam si homo, risibile est, et
si risi- 21—p. 337, 4] Porph. p. 20, 11—15 (Boeth. p. 49, 5—10).
1 pluribus speciebus HN 2 maximae EH, add.
dicuntur uniuersalia et ( et om. R) proprie Lm2 (in
mg.) R 4 ut om. CG, s. l. Lm2 5 una quaeque enim HNR 6
quoniam] quia E 7 profitentur] monstrant R ante
intentione add. et HN 9 his] se C 10
misceantur N permiscen- tur R et] ut C 11
coniunguntur LN fiat C 12 rationali C ( bi
s. l. er.) HN inrationali HN in unum] L in
om. cett.; cf. indicem Meiseri s. unus 13 post color s. l. ut
uenetns Pm2 15 ad genus— differentias om. EG 16
dicebamus] diximus EGP 17 diximus] dice- bamus C 19
proprio HLm1NP accidenti Lm1 accidenti tum
HPm2 accidentique (om. et ) N communione
HLm1NP tunc R 20 disgre- gare N 21 de
inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7 23 nam—dictum est (p. 337, 4)
] LR Q , om. cett. post homo add. est ΔΣ ,
s. l. A m2 et si] ΔΕΈ et L ΓΛΠΦ ita
et R post risibile add. est ΔΣΨ bile,
homo est – risibile uero quoniam secundum id quod natum est sumi oportet, saepe
iam dictum est —; aequaliter enim sunt species his quae eorum partici- pant et
propria quorum sunt propria. Commune, inquit, habent propria atque
species ad se ipsa praedicationes habere conuersas. nam sicut species de
proprio, ita proprium de specie praedicatur; namque ut est homo risi- bilis,
ita risibile homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat. cuius
communitatis rationem subdidit, eam scilicet, quia aequaliter species
indiuiduis participantur, sicut eadem propria his quorum sunt propria. quae
ratio non uidetur ad conuersionem praedicationis accommoda, sed potius ad illam
aliam similitudinem, quia sicut species aequaliter indiuiduis participantur,
ita etiam propria; aeque enim Socrates et Plato homines sunt, sicut etiam
risibiles. itaque tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum :
aequaliter enim sunt species his quae eorum participant et pro- pria quorum
sunt propria. an magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret
‘aequalia enim sunt species et propria’? nam quia species eorum sunt
species quae spe- ciebus ipsis participant, et propria eorum propria
quae|pro- p.109 priis participant, proprium atque species aequaliter
utrisque sunt, id est neque species superuadit ea quae specie parti- 8
saepius] cf. infra. 1 est om. R ante secundum
add. et A (s. l.) Busse, om. Porph. p. 20, 13
id om. J! 2 natum] Porph. p. 20, 14
κατά τό πεοοχέναι γελάν sumi oportet] LR dicitur
Q ; Porph. ληπτεον 3 sunt om. Φ ,
post spe- cies P earum R, ex eorum ut
uid. 5 m2 7 ita—est homo in mg. Hm2 praedicamus EGHm2P
p.c.R namque om. N nam R 8 ita homo risibile
est E ita est risibile homo R iam] etiam C
saepius] HN superius cett. (recte?); cf. saepe 2,
et ad p. 317, 4. 325, 14 10 qua CGLP eadem] eodem modo
E 11 ratio] puto Em2 12 accommo- data edd. 13 qua
CGEm1P ante indiuiduis add. ab HNR, s. l. Lm2 14
participatur H 18 ac Lp,c.Pm2 est om. C 19 aequa-
liter N 20 post propria add. quorum sunt
propria C 21 et propria— atque species] atque proprium
species N 23 post. speciei EGLP
cipant, neque propria superuadunt ea quae propriis participant. cumque
haec propria specierum sint. propria, species ac pro- pria aequalia esse
necesse est atque inuicem praedicari. Differt autem species a
proprio, quoniam species quidem potest et aliis genus esse, proprium uero
et aliarum specierum esse inpossibile est. et species quidem ante subsistit
quam proprium, proprium uero postea fit in specie; oportet enim hominem esse,
ut sit risibile. amplius species quidem semper actu adest subiecto,
proprium uero aliquando potestate; homo enim semper actu est Socrates, non uero
semper ridet, quamuis sit natus semper risibilis. amplius quorum termini
differentes, et ipsa sunt differentia; est autem speciei quidem sub genere esse
et de plu- 4—p. 339, 3] Porph. p. 20, 16—21, 3 (Boeth. p. 49, 11—50, 2).
14 quorum—differentia] Abaelardus II, Introduct. ad theolog. p. 94; Theo- log.
christ. p. 488; De unit, et trinit. diuina p. 58 Stoelzle. 1
nec CELN 2 haec om. LN, del. uid. E sunt EHa.c.N,
add. et CE (del.) GH (del.) P (del. m2) propriis
(post sint ) E (del.) G proprii Ha.c. 4 DE
PROPRIETATIBVS Δ DE DIFFERENTIA C; de Porph. cf. ad p. 105,
16 5 a om. GHLNR, s. l. Pm2 il m2 6 et om R SΣ ; Porph.
p. 20, 17 cod. BM χαί proprium—praedicari (p. 339, 2)
] LR Q , om. cett. et om. Porph. 9 post R Σ
post enim add. ante L ut] Porph. p. 20,
20 Ινα xai ( Voti om. cod. M) ut sit s.
l. \ m2 11 potestate] Porph. p. 20, 21 xol
δονάμε: 12 enim] uero L est om. R non uero
semper] ΔΛΠΨ edd. Busse non semper autem
Γ2Φ semper autem non LR; Porph. p. 20, 22 γελά δέ oix
αεί ; cf. infra p. 340, 4 13 quamquam (uel quan-
) L ΓΦ natura in ras. A m2 14 termini]
definitiones (uel diff- ) LR ΓΦ , ad termini s.
l. ł diffinitiones \ m2 differentes] ΓΑ differentes
sunt Δ»ιίΠ2Φ differunt LR s m2 ii} ; Porph. p. 20, 23
ων οί οροί διάφοροι ; quo- rum termini, id est diffinitiones ( id
est diff. om. p. 94) sunt differentes ( sunt
differentiae p. 488) , ipsa quoque sunt differentia Abaelard.
15 spe- cies R, post speciei s. l. diffinicio A m2
quidem] R T\ m2 (in ras.) Ψ brm Busse in adn., semper \
m1 (ut uid.) All/ p Busse in contextu , esse semper L quidam
terminus Σ ; quidem sub genere semper esse Φ ante
sub add. et L A Busse; Porph. εατιν δέ
ειδοος uev το οπδ τό γένος είνα: ribus et differentibus numero in
eo quod quid est praedicari et cetera huiusmodi, proprii uero quod est soli et
semper et omni adesse. Primam proprii et speciei differentiam
dicit quoniam species potest aliquando in alias species deriuari, id est
potest esse genus, ut animal, cum sit species animati, potest esse hominis
genus. sed nunc non de his speciebus loquitur quae sunt specialissimae, atque
hunc confundere uidetur errorem, quod cum de his speciebus dicere proposuerit
quae essent ultimae, nunc de his quae sunt subalternae et saepe locum
generis optineant disserit. propria uero nullo modo esse genera possunt,
quoniam specialissimis adaequantur; quae quoniam genera esse non queunt, nec
propria quae sibi sunt aequalia, genera esse permittuntur. Rursus species
semper ante subsistit quam proprium—nisi enim sit homo, risibile esse non
poterit —, et cum ista simul sint, tamen substantiae cogitatio praecedit
proprii rationem. omne enim proprium in accidentis genere collocatur, eo uero
differt ab accidenti, quia circa omnem solam quamlibet unam speciem uim
propriae praedicationis continet. quodsi pviores sunt substantiae quam
accidentia, species uero substantia est, proprium uero accidens, non est dubium
quin prior sit species, proprium uero posterius. Dis- 1 est] sit 2
edd.; cf. p. 340, 13. 341, 22 2 praedicari] Porph. p. 21,
2 ■κατηγορούμενον είναι post huiusmodi add.
praedicari I m1, del. m2 pro- prium R quod est
om. ΓΦΨ , del. \ m2;Porph. τό μονω προοείνα;. 3
soli et omni et semper Λ semper et soli et omni 2
scilicet semper et omni Gm1, ante scilicet in mg. sali
et semper m2 4 ad dicit s. l. dicunt
Έ 5 diriuari EGNPR 7 specialissimae sunt H 8
hunc s. l. L nunc N hinc C hic
Em2 uidetur confundere C 9 essent] sunt L 11
genera s. l. Lm2, ante esse HRS 13 non queunt]
nequeunt L non pos- sunt NR 14 permiitunt C (
ur er.) N species—subsistit] species est semper ante C
15 homo sit LPR 16 ista] ita CLa.c. 18 uero]
Brandt enim codd. edd. accidente CNR quia]
quod L 19 speciem om. H propriae del. Lm2
20 post continet add. accidens autem quando continet,
ad multas species potest diffundi EL. (in mg. inf. m2) Pbrm 21
accidens—proprium uero om. R 22 uero om. EG, s. l. Pm2
Decernuntur GHLP Disterminantur E cernuntur etiam
species a propriis actus potestatisque natura; species enim actu semper
indiuiduis adest, propria uero ali- quotiens actu, potestate autem semper.
Socrates enim et Plato actu sunt homines, non uero semper actu rident, sed
risibiles esse dicuntur, quia tametsi non rideant, ridere tamen poterunt.
natura itaque species et proprium semper subiectis adest, sed actu species,
proprium uero non semper actu, uelut dictum est. At rursus quoniam definitio
substantiam monstrat, quorum diuersae sunt definitiones, diuersas necesse est
esse substantias; speciei uero et proprii diuersae sunt definitio- nes,
diuersae sunt igitur substantiae. est autem speciei definitio esse sub genere
et de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicari; quam
superius frequenter expositam nunc iterare non opus est. proprium uero non ita
: definitur : proprium est quod uni et omni et semper speciei adest.
quodsi definitiones diuersae sunt, non est dubium spe- ciem ac proprium secundum
naturae suae terminos discrepare. Speciei uero et
accidentis commune quidem est de pluribus praedicari; rarae uero aliae sunt
communi-20 18—p. 341, 2] Porph. p. 21, 4-7 (Boeth. p. 50, 3—6).
1 species om. EHP, s. l. Lm2, ante etiam G a
propriis in ras. Lm2, a (om. R) proprio
Pm2R actu CHLm1N 2 post uero add. non
semper ( actu s. l. add. Lm2) sed EGLPR 3
actu om. EG, del. R, s. l. Lm2 autem semper om. EGR
4 ante sunt add. semper N 5 quia om.
HN, s. l. Lm2 tametsi] etiamsi C potuerunt N pos-
sunt R non (del. E) poterunt EG 6
ante species add. e(??) R, ras. L ad- est]
adsunt H 7 uelut] ut NR 9 diuersas—definitiones
(10) om. N 11 igitur—speciei] substantiae igitur. est speciei autem
H substantiae— de pluribus in mg. inf. Gm2 speciei definitio]
diffinitio speciei spe- cies C 12 sub genere esse HΝ 14
opus non H ita definitur, om. non Hbrm, er.
E; ita, <sed> definitur Brandt, cf. p. 347, 4 15 spe-
ciei om. H 18 de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7
19 uero] autem H est quidem C 20 sunt aliae
HRT tates propterea, quoniam quam plurimum a se distant accidens et
id cui accidit. Speciei atque accidentis similitudinem communem
dicit de pluribus praedicari; de pluribus enim dicitur species, sicut et
accidens. raras uero dicit esse alias eorum communiones idcirco, quoniam longe
diuersum est id quod accidit et cui accidit. cui enim accidit, subiectum est
atque suppositum, quod uero accidit, superpositum est atque aduenientis
naturae. item quod supponitur substantia est, quod uero uelut accidens
praedicatur, extrinsecus uenit. quae omnia multam eius quod est subiectum et
eius quod est accidens differentiam faciunt. tamen inueniri etiam aliae possunt
speciei et accidentis inse- parabilis communitates, ut semper adesse subiectis
— aeque enim homo singulis hominibus | semper adest et inseparabilia p.
110 accidentia singulis indiuiduis praesto sunt —, et quod sicut
spe- cies de his quae indiuidua continet, aeque de pluribus accidentia
indiuiduis praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum uero atque
album de pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur.
Propria uero utriusque sunt, speciei quidem in eo quod quid est
praedicari de his quorum est species, 20—p. 342, 15] Porph. p. 21, 8—19
(Boeth. p. 50, 7—20). 1 quam om. ΗL ΣΑΛ'Ψ (recte?), s.
l. Π m2 , quem R qui (ut uid.) N; Porph. p. 21,
6 itXststov distant ante a se Δ
(s. l. m2) A , a se om. N 2 ante
accidens add. et Γ id om. 12 , s. l.
Pm2 , hoc Σ ; Porph. p. 21, 7 *a\ το m οομβέβηχβν
accidunt Em1P 3 atque] et HL accidens Έ
dicit om. E, s. l. Lm2Pm2 de s. l. Lm2 5 dicit alias,
post er. esse uid. C 7 atque] et H 8 est
om. EGHP adueniens EPm1 accidentis N 11 et eius]
eius est E 12 possunt) sunt E insepa- rabiles
Cm1GP 13 subiectis semper adesse HN post adesse
add. possunt E 15 sicut] L (s. l. m2) Rbrm, om. cett.
codd. p 16 conti- nent H ante accidentia add.
ut CH 17 praedicatur G et om. EGHPR 20
ET om. R de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 105, 16 21 in] et
C 22 est] sunt Hm1 sit Σ praedicare EGm1P ,
praedi- catur 2 de his om. Σ hiis
Φ quorum—in eo] in eo accidentis autem quorum est species Φ
accidentis autem in eo quod quale quiddam est uel aliquo modo se habens;
et unam quamque substantiam una quidem specie participare, pluribus autem acci-
dentibus et separabilibus et inseparabilibus; et spe- cies quidem ante
subintellegi quam accidentia, uel si sint inseparabilia — oportet enim
esse subiectum, ut illi aliquid accidat —, accidentia uero posterioris generis
sunt et aduenticiae naturae. et speciei quidem participatio aequaliter est,
accidentis uero, uel si inseparabile sit, non aequaliter; Aethiops enim alio
Aethiope habebit colorem uel intentum amplius uel remissum secundum
nigredinem. Restat igitur de proprio et accidenti dicere; quo enim
proprium ab specie et differentia et genere differt, dictum est.
Quod nunc proprium speciei et accidentis se exequi polli- cetur, tale
proprium intellegendum est quod, ut superius dictum est, ad comparationem
dicitur differentium rerum. species enim in eo quod quid est praedicatur,
accidens uero in eo quod quale est. qua differentia non ab accidentibus solis
species 2 unam quamque—4 inseparabilibus] Abaelardns II, Introduci. ad
theolog. p. 89; Theolog. christ. p. 479. 17 superius] p. 297, 9. 301, 5.
1 quale] quale est N quidem CEm1 quidam
m2 uel—habens om. CEGHN 2 aliquo modo] quomodo ΓΦ
; Porph. p. 21, 10 πώς ; cf. supra p.128, 10 adn.
et—nigredinem (12) ] LR Q , om. cett. 3 unam R
qui- dem om. Abaelard. participari L ΓΔΣ a.c. Φ
praedicari \ m1 autem] uero L Abaelard. 4 tert.
et om. Γ 5 post quidem add.
sane L ΓΛ (s. l. m2) ΙIΣΦ Busse, om. R ΛΨ cum
Porph. p. 21, 12 post subintel- legi add. potest
Lpr possunt bm; Porph. w\ τά piv είδη
προεπινοεΐται uel om. Φ ad uel
si s. l. etiamsi K m2 6 inseparabilibus R 8
generis om. R aduentiuae R 9 aequalis Λ
accidens L T m1 A m1 10 alio Aethiope] Porph. p. 21, 16
ΑίίΚοπος 13 accidente HNR ΔΣ , ante er. de
P 14 enim] etiam H a] cod. Q Bussii (om. cett.) edd.
(cf.p. 344, 9), ab scr. Brandt speciei Ca.r.EGR
et om. CEGHPR differen- tiae GR 15 differt om. L
differat ΦΣ distat R est dictum H, add. in
illorum differentiis ad ipsum 2 18 dicatur R 20
est om. GP, post add. praedicatur H discernitur,
uerum etiam a differentiis ac propriis, nec solum species ab eisdem, uerum
etiam genus. praeterea quod species in eo quod quid est praedicatur, accidens
uero in eo quod quomodo sese habeat, id quoque commune est cum genere;
genus quippe ab accidenti in eo quod quid est et quomodo se habeat
praedicatione diuiditur. Item unam quamque substantiam una uidetur species
continere, ut Socratem homo, atque ideo Socrati una tantum propinquitas est
species hominis. rursus indiuiduo equo una species equi est proxima,
itemque in ceteris; uni cuique enim substantiae una species praeest. at
uero uni cuique substantiae non unum accidens iungitur; uni cuique enim
substantiae plura semper accidentia super- ueniunt, ut Socrati quod caluus,
quod simus, quod glaucus, quod propenso uentre, et in aliis quidem substantiis
de numero accidentium idem conuenit. Dehinc semper ante accidentia
species intelleguntur. nisi enim sit homo cui accidat aliquid, accidens esse
non poterit, et nisi sit quaelibet substantia cui accidens possit adiungi,
accidens non erit. omnis autem sub- stantia propria specie continetur. recte igitur
prius species, accidentia uero posterius intelleguntur; posterioris enim
sunt, ut ait, generis et aduenticiae naturae. nam quae substantiam non
informant, recte aduenticiae naturae esse dicuntur et posterioris generis; his
enim substantiis adsunt quae ante dif- ferentiis informatae sunt. Rursus
quoniam species substantiam 1 decernitur Rm2 ac s. l.
Lm2 a EGH et a P 3 praedicatur post
species H quod om. E, s. l. Gm2 4 se EP
habet LR id—habeat (6) om. R est commune H
post est add. speciei L (s. l. m2)
brm 5 accidenti] edd. accidente codd. quod
om. E 8 propinquitate EPm1 propinqua L species
est LR 9 est equi H item H 10 una—substantiae
in mg. Hm2 13 quod simus om. C 15 accidentium ex
accommodantium Hm2 post conuenit add. dicere R
ante om. C 16 accidit CHLNPR, recte? 18 autem del.
Lm2 enim P 20 uero om. R, in mg. Lm2 posterius]
postremo R enim] uero CE 21 generis ut ait
CR nam quae] nam Rm1 namque EG nam quia
CN 22 ante recte add. ideo EGL (s. l. m2) P
(del. m2) esse om. H monstrat, substantia uero, ut
dictum est, intentione ac remis- sione caret, speciei participatio intentionem
remissionemque non suscipit. accidens uero uel si inseparabile sit, potest
inten- tionis remissionisque cremento et detrimento uariari, ut ipsum
inseparabile accidens quod Aethiopibus inest, nigredo. potest enim
quibusdam talis adesse, ut sit fuscis proxima, aliis uero talis, ut sit
nigerrima. Restat nunc proprii communiones ac differentias
persequi. sed quo proprium differat a genere uel specie uel differentia.
superius demonstratum est, cum quid genus uel species uel differentia a
proprio distaret ostendimus. nunc reliqua ad com- munitatem uel differentiam
consideratio est, quid proprium accidentibus aut iungat aut segreget.
Commune autem proprii et inseparabilis accidentis est quod
praeter ea numquam constant illa in quibus considerantur; quemadmodum enim
praeter risibile non subsistit homo, ita nec praeter nigredinem sub-
14—p. 345, 2] Porph. p. 21, 20-22, 3 (Boeth. p, 51. 1—6). 1
demonstrat H ac] et H 2 remissionemque] ac
remissionem H 3 si s. l. CLm2 4 in (del.
m2) incremento H decremento R edd. uti
R ita E 5 ante nigredo add. ut
Hm1N id est s. l. Hm2 6 fu- scis] La.c. edd.
fuscus Lp.c. et cett. aliis uero] edd. uero aliis
codd. ( uero s. l. Lm2) 8 post proprii add.
et accidentis N ac] ad EGLm1 9 quo] Cm2 (part.
ras. corr.) quod Cm1EGLm1NPR quid HLm2; cf. p. 342,
13 10 quid] quod N quicquid E uel differentia uel
species H 11 a s. l. Lm2 12 uel] et N
quod E quae Hm2LR 13 iungit EGHm1LPm1R
segregat LPR separet N 14 ACCIDEN- TIS] Porph. p.
21, 20 cod. Μ σομβεβηχοτος , cett. τοδ άχωρίστοο
σομβεβη- αότος ; de Porph. cf. etiam ad p. 102, 7 16 est
post commune L, ante accidentis AA m1 accidentis
inseparabilis est m2 praeter ea] prop- terea Φ
constant] CH Busse (coll. p. 159, 7) consistant EGNPR h m1 A
p.c. W edd. consistunt L A a. c. 112Φ
consistent r\ m2 illa post quibus N 17
quemadmodum—Aethiops (p. 345, 1) ] LR Q , om. cett. 18
ita om. 2 , s. l. A m2 subsistit] non
subsistit A m2; Porph. p. 22, 1 ΰποσταίη dv
sistit Aethiops, et quemadmodum semper et omni adest proprium, sic et
inseparabile accidens. Quoniam proprium semper adest speciebus nec
eas ullo p. 111 modo relinquit quoniamque inseparabile accidens a
subiecto non potest segregari, hoc illis inter se uidetur esse commune,
quod ea in quibus insunt, praeter propria uel inseparabilia accidentia esse non
possint. inseparabilia uero accidentia com- parat, quoniam, ut in specie dictum
est, rarissimae sunt speciei atque accidentis similitudines. quocirca multo
magis proprii atque accidentis communitates difficile reperiuntur.
accidens enim in contrarium diuidi solet, in separabile accidens atque in
inseparabile, quae uero sub genere in contrarium diuiduntur, ea nullo alio nisi
tantum generis praedicatione participant. quodsi proprium inseparabile quoddam
accidens est, a separabili accidenti plurimum differt, atque ideo nullas
proprii et separa- bilis accidentis similitudines quaerit. sed quia ipsum
proprium certis quibusdam causis ab inseparabilibus accidentibus differt, horum
et communitates inueniri possunt et inter se differentiae. quarum una quidem ea
est quam superius exposuimus, secunda uero quoniam sicut proprium semper
et omni speciei adest, ita etiam inseparabile accidens; nam sicut risibile omni
homini et semper adest, ita etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est.
8 ut in specie dictum est] p, 340. 20. 1 et omni om.
H et om. R; Porph. p. 22, 2 παντι και άεί 2
sic om. P sicut C et om. R 3 semper
om. H 4 quodque Hm1 5 inter se post commune
H 6 ea in] eam (m del. m2) H insunt] sunt R, add.
ipsa propria et inseparabilia accidentia sunt E (del. et s. l.
glosa est scr. m2) L (in mg. m2, om. sunt) P (om. sunt)
uel] et LNR 7 possunt EHLm2NP uero s. l. Cm2
ante comparat s. l. proprio Cm2, post s. l. scil.
proprio L 8 sunt post accidentis H 10
ante accidens add. scilicet E 11 enim] uero
R 12 sub genere om HΝΡ, del. Lm2 14 quiddam CL
quoddam post est H 16 simili- tudines—accidentibus
in mg. Em2 17 causis om. EG rationibus Lm2PR 18
differentiae] dissentiae uel differentiae H 19 est ea H
21 post accidens add. est H 22 et semper
om. H et semper adest s. l. Gm2 post. et] N edd., om.
cett. Differt autem quoniam proprium uni soli speciei adest,
quemadmodum risibile homini, inseparabile uero accidens, ut nigrum, non solum
Aethiopi, sed etiam coruo adest et carboni et hebeno et quibusdam aliis.
quare proprium conuersim praedicatur de eo cuius est proprium et est
aequaliter, inseparabile autem accidens conuersim non praedicatur. et pro- priorum
quidem aequaliter est participatio, acciden- tium uero haec quidem magis, illa
uero minus. Sunt quidem etiam aliae communitates uel proprie-
tates eorum quae dicta sunt, sed sufficiunt etiam haec ad discretionem eorum
communitatisque traditionem. Proprii atque accidentis prima quidem
differentia est quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens
uero minime, sed eius praedicatio in plurimas diuersi generis sub-
stantias speciesque diffunditur. risibile enim de nullo alio nisi de homine
praedicatur, nigrum uero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo
quam Aethiopi, quae diuersa sunt specie, tum coruo atque hebeno, quae differunt
generi- bus, non tantum specie, praesto est. quo fit ut propriis
quidem 1—13] Porph. p. 22, 4—13 (Boeth. p. 51, 7—17). 1
PROPRII ET ACCIDENTIS] CP W , item Porph. p. 22, 4 cod. M (
των αυτών plerique cett. ), ACCIDENTIS ET PROPRII cett., nisi
quod EORV II EORVNDEM Ψ ; de Porph. cf. etiam ad p. 105,
16 2 Dif- ferunt CG ΔΣΦ ; Porph. p. 22, 5
διενήνοχεν proprium om. Σ 3 risi-
bili N inseparabile—minus (10) ] LR Q , om.
cett. 4 soli L A‘l> 5 etiam] aeque R
hebeno plerique codd., item 20. p. 347, 7 6 proprium est
ΓΦ 7 post. est] ΓΔ (del. uid.)
ΙΙΣΦΨ cum Porph. p. 22, 8, om. LR A Busse 8 autem]
uero ΔΛ Busse conuersim non] nec conuersim
A proprii R A m2 2 proprium uero Φ 9
aequaliter] R 2 , coni. Busse , aequalis cett.; Porph. p. 22,
9 και τών μέν ιδίων έπίτης ή μετοχή 10 hae Δ 11
uel] Porph. p. 22, 11 τέ καί 12 earum C
dictae CEGHP hae N et R 13
traditionem ex distractionem E contradictionem
Gm1 14 est om. H 16 praedicatio eius H 17
species Cm1 19 diuersae HLNPm2 diuisae m1
20 speciei H (ante sunt) N tunc R nec non
Lm1 sed tum m2 21 tantum specie] uni tantum speciei
P conuersio aequa seruetur, in accidentibus uero minime. quoniam
enim propria in singulis esse possunt atque omnes continent, species conuerso
ordine praedicantur; nam quod risibile est. homo est, et quod homo, risibile.
nigrum uero non ita, sed ipsum quidem de his praedicari potest quibus
inest, illa uero ad huius praedicationem conuerti retrahique non possunt;
nigrum enim de carbone. hebeno, homine atque coruo prae- dicatur, haec uero de
nigro minime, nam quae plurima con- tinent, de his quae continent praedicari
possunt, ea uero quae continentur, de sese continentibus nullo modo
nuncupantur. Rur- sus proprium quidem aequaliter participatur, accidens remis-
sionibus atque intentionibus permutatur. omnis enim homo aeque risibilis est,
Aethiops uero non aequaliter niger est, sed, ut dictum est. alius quidem paulo
minus alius uero taeterrimus inuenitur. Et de proprii quidem
atque accidentis differentiis satis dictum est. restabat uero accidentis ad
cetera communiones proprie- tatesque explicare, sed iam superius adnumeratae
sunt, cum generis, differentiae, speciei et proprii ad accidens
similitudines ac differentias adsignauimus. fortasse autem his institutus
animus et sollertior factus alias praeter eas quas nunc diximus com- munitates
uel differentias quinque rerum quae superius sunt positae reperiet, sed ad
discretionem atque eorum similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta
sufficiunt. nos etiam, quoniam promissi operis portum tenemus atque huius
libri seriem primo quidem ab rhetore Victorino, post uero a nobis 1
conseruetur (con s. l. m2 ) aequa conuersio H 2esse presunt
(pre- sunt del. m2) H esse Lm1 esse habent
Lm2R 4 post post. homo add. est CLR
post risibile add. est LPR 5 quibus] in
quibus R 7 ante hebeno add. de H, er. uid.
L 9 continentur HN 11 proprium post quidem
H (s. l. m2) quidem om. G 12 permittatur E 15
deter- rimus CLN 16 proprii * (s er.) HL
differentiis om. G proprietate E 17 accidens
G 18 replicare EGLPR iam] etiam EG
enumeratae La.c. 19 speciei] et speciei NR ad accidens]
et accidentis Em1La.c.R 20 his om. NR 23
ante eorum add. ad EGLPR 24 sufficiant
HR 26 ab in a mut. ut uid. C Latina oratione conuersam
gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus operi continenti
quinque rerum dis- putationem et ad Praedicamenta seruanti. 1
conuersa ELm1 2 continenti om. C quinque] V L (in
ras. m1?) edd., om. cett. 3 et om. C seruienti brm
ANICII MALLII SEVERINI BOEZIO LIBER V EXPLICIT SECVNDI SVPER YSAGOGAS
COMMENTI P FINIT EXPLICIT EDITIONIS SECVNDAE COMMENTARIORV LIBER V FELICITER.
AMEN (er. uid.) DEO GRATIAS C
ANICII MANLII SEVERINI BOEZIO ILLVSTRIS CONSVLIS EXPLICIT
LIBER ANICII. MANLII SEVERINI BOEZIO A. M. S. B. N V. C. ET ILL. I LL S. N EXCONS EXCS
N ORD. PATRICII. (ΈΧC.—PATR. om. G) IN ISAGOGAS (YS-
EG) PORPHYRII (I pro Y N) IDE. INTRODVCTIONES
(-NE E) IN CATEGORIAS (KATH- N) A SE (om.
N) TRANSLATAS. (-TĘ E , IDE— TRANSL. om. G) EDITIONIS
(EDΙCΤ- E , AED- N) SCDĘ LIBER V (QVINTVS N)
EXPLICIT EGN, add. TIBI PAX. AMEN. E ; QVINQVAE (sic)
FIT OPTATVS HIC FINIS ISAGOGARV R; subscriptione caret H, item e codd.
Isagogen tantum a BOEZIO translatam continentibus ΓΛΣΦΊ’ (nisi quod
in Φ recens quaedam est); post traditionem
habent EXPLIC. LIB. HISAGOGARV PORPHIRII Δ, EXPLICIT Π. gradatimfoliacontrahit.Videturhæcnonminusdilatatio
ne,contra iones foliorum honorare solem, quam homines genarum gestu, moru
labiorum. No folumuero 'in plantis, quæ ueftigium habent uitæ, fed etiam in lapidibus
aspicere licet, imitations, & participationem quandam luminum supernorum, quem
ad modum helicis lapis radijsaureisso laresradio simitatur. lapis autem, qui uocatur
cælioculus, uel solis oculus, figuram habet fimilēpu pillæ oculi, atqsex media pupillae
micatradius. Lapis quoque selenitus, id est lunaris, figura lung corniculari similis,
quadam sui mutatione lunarem fequitur motum. Lapis deinde helio selenus, id est
solaris, lunarisóz imitatur quod ã modo congreffum folis, & lunæ, figuratcs
colore. Sic diuinornm omnia plena funt, terrena quidem cælestium, cæleftia uero
super cælestium proceditæ quilibetor d o rerum uso ad ultimum . Quæ enim super
ordinem rerü colligū curin uno, hæc deinceps dilatan turindescendendo, ubi aliæ
animæ subnuminibusalñs ordinantur. Deinde & animalia funt sol ana multa, uel
ut leones, & galli, numinis cuiusdam solaris pro fua natura participes, unde
mirum est, quantum inferiora in eodem ordine cedant superioribus, quamuis magnitudine,
potentias non cedant hin eserunt gallum timeri am leone quam plurimum, &
quafi col0i . cuius rei causam a matería, sensu ue assignare non possumus, sed solum
ab ordinis supernicontemplatione. quoni amuide licet præsentia folaris uirtutis
conuenitgalto magis quam leoni: quod& inde appare Marfil. Ficin. in
Interprete FICINO. Vem ad modum
amatoresabipsa pulchritudine, quæcircasensumapparet, addiuinam paulatim pulchritudinem
rationeprogrediuntur:fic& sacerdotesantiqui,cùmconli, derarentinrebus naturalibuscognacionemquandamcompassionemç;
aliorumadalia &manifestorum aduiresoccultas,& omniainomnibusinuenirent,
facrameorumscien quicquidest, pulchrumeft, & bonum eft.etiamsiindecorporissequaturin
commodum. Corpus enim nonpars hominis, fedinftrumentum: instrumentiuero'malumnonpertinetadutentem.
Quomodo differantduohæc,fcilicetfecundumfeipfum,& quaipsum. Ietioneseius modi,
fcilicet secundum feipsum,& quaipsum ,etiamapudAristotelemdistin, D g u u n
t u r . Quod enim secundum seipsum alicui competit , poteste i non competere
primo. Quodautemquaipsumconuenispræterid, quodconuenit,secundumseipfumeciam
primo competitei,atqueadæquatur. Pulchrumigitur, ficommensurationisanimæcausaest,atq;obhoc
ipsumdiciturpulchrum, efficito,utmeliusinanimadomineturdeceriori,perficitąnos,&
animæ deformitatempurgat:hacipfarationebonum est, nonquidemperaccidens, fedquarationepul.
chrum .fienim qua pulchrum estcommensuratum ,eft & bonum.Bonãenim
estmensura cercéquá pulchrum est,exiftit& bonum.Similiter turpe,qua
turpe,malum est.N a m qua curpe eft, informe est qui 1 quiagallus, quafiquibufdáhymnisapplauditfurgentisoli,
& quafiaduocat,quãdoexantipodum mediocæloadnosdeflectitur,& quando
nonnullisolaresangeliapparueruntformiseiusmodi prædici, a r c f, cum ipfi i n s
e fine form a essent, nobis tamen, qui formati sumus, occurrere formati. No
nunquam tione. Quæfecundumfefuntincorporea,nonlocalicerpræsentiacorporibus,adsunt
eis,quotiescunqueuolunt, adillauergentia, atquedeclinantià, quatenusuidelicetnaturaliteradea
uergunt,arqueinclinantur. Sed enim cum nonadfint localia conditione corporibus,
habitudine quadam eisadfunt. Quæ fecundum sesuntincorporea, certenonpersubstantiam,
&peressentiam corporibusadsunt.Non enim
corporibuscómifcentur.ueruntamenexipsainclinatione,quasimo
mentouisquædamsubfiftitindecomunicataiam propinquacorporibus. Ipsanamqinclinatiose.
cundamquandamuimsubstituítcorporibusiampropinquam. mæ,fecundữcorporafuntdiuisibiles.Nonomne,quodagitinaliudappropinquatione,&ta
&ufacit,quodfacit,fedetiam qupæropinquarido, &
tangendofaciuntaliquidfecundumaccidens, nonutuntur propinquirate. Animacorporialligaturconuersionequadam
adpassionesprouenien resacorpore.Rursum
foluiturquatenusacorporenihilpatitur.Quodnaturaligauit,hoc&ipsa
naturasoluit. Rursusquod conciliauitanima, hoc& animadirimit.Naturaquidem
corpusinanimadeuincit, animaueroseipsamincorpore.Quamobrem natura corpusab
anima separaczanimaueroseipsam àcorporesegregat, saclia usmodi .Qui 1 Proc.De
Sacrif.& Magia. ICOR bada mler : in:
no.N enlos ur,but aliano compiz quider Locum siuecausisadintelligibilianos ducentibus.
FICINO INTERPRETE. De natura, e alligatione,o solutioneanime. Nimaquidemmediüquiddameftintereffentiam
indiuiduam, arqueessentiamuera corpora A diuisibilem. Intellectusautem
essentiaest,indiuiduafolum. Sed qualitates, materialesqfor lael,ea 703 ncense
garia 1,fiu ucent oxd zateni XOM etiam dæmones nisisuntsolares
leoninafronte.quibuscum gallusoböceretur,repente disparuerunt. Quodquidemindeprocedit,semperquæineodem
ordineconstitutainferiorafunt, reuerentursuperiora:quemadmodum
plerişintuentesuirorumimagines diuinorum,hocipsoas.
pe&uuererisolentturpealiquidperpretare. Vtautemsummatimdicam,aliaadreuolucionessolis
correuoluuntur,ficutplantæ,quasdiximus:aliafiguramsolariumradiorumquodammodoimitan
tur, utpalma, dactylus:aliaigneamsolisnaturam,utlaurus:aliaaliudquiddam
uideresanelicetpro
prietates,quxcolligunturinsole,passimdistribucasinsequentib.insolariordineconstitutis,scilicet
angelis, dæmonibus,animis,animalibus,plantisatque
lapidibus.Quocircasacerdotijueterisautho resàrebusapparentibussuperiorum
uiriumcultumadinuenerunt,dum aliamiscerent,alia purificarent. M i s c e b a n t
autem plura i n uicem, quia uidebant fimplicia non nullam haberenum i n i s pro
prieratem, nontamenfingulatim,sufficientemadnuminisiliusaduocationem.Quamobrem
ipfa multorum comixtioneattrahebantsupernosinfluxus: acßquodipficomponendounumexmul
tisconficiebant, assimilabantipfiuni,quodestsupermulta,constituebantæftatuas exmaterñismul
tispermixtas:odoresquoqcompositoscolligentes:arceinunum
diuinafymbola,reddentesísun um tale,qualediuinumexiftitsecundum
effentiam,comprehendens,uidelicetuiresquamplurimas. Quorum
quidemdiuisiounamquamg debilitauit, mixtiouerorestituitinexemplarisideam.Non
nunquam ueroherbauna,uellapisunus,addiuinumsufficitopus. SufficicenimCnebison,ideftcar
duus,ad fubitam numinis alicuius aparacionem , ad custodiam uerò laurus. Raccinum
,ideftgenus uirgultispinosum, cepa,squilla,corallus,adamas,laspis,fedadpræsagiumcortalpæ,adpurificatio.
nem uerosulfur, &atosmarina. Ergosacerdotespermutuam
rerumcognationem,compassionem'. conducebant inunum,perrepugnantiam
expellebantpurificantes,cum oportebat,sulfure,atque
asphalto,idestbitumine,aquaaspergentesmarina,purificatenimsulfurquidempropterodorisa
cumen,aquaueromarinapropterigneamportionem,& animaliadrjsindeorum
cultucongruaad hibebant,cxtera'tsimiliter. Quamobrem
abës,atoßsimilibusrecipientesprimumpotentiasdemo num
,cognouerunt,uideliceceasesseproximasrebus.actionibus
naturalibus:atq;perhæcnatura lia,quibus
propinquantinpræsentiamconuocarunt.Deindeàdæmonibusadipfasdeorumuires actiones &processerunt,partimquidemdocentibusdæmonibusaddiscentes,partim
ueroindustria propriainterpretantesconuenienciafymbola,inpropriam
deorumintelligentiamascendentes, ac deni q post habitis naturalibus rebus,
actionibusque, ac magn a e x parte dæmonibus in deorum feconfortium receperunt.
PORPHYRIVS DE OCCASIONIBVS, De natura corporeorum, atque in corporeorum.
Mnecorpuseftinloco, nullumuerocorum ,quæfecundūsesuntincorporea,uelaliquid
tale, estinloco. Quæ secundumsesuntincorporea, eoipso, quodpræstantiusestomni corpore,atqueloco,ubiquesunt,nondistantiquidem,sedindiuiduaquadam
condi USCE inuss sdina labor Pt,imi adns aberi is,fip liol Sicdi liatiei ,unto
10,p Omnia MMM $ Omniaquodammodo suntinomnibusproconditionecorum,quibusinfunt.
On fimiliteromniainomnibusintelligimus, sedpropriesehabetadomniauniuscuíused
sentia:intellectuquidem intelle&ualiter,inanimauero' rationaliter:inplantisseminarie,in
corporibusimaginariè:ineodem (quodhisomnibussuperiuseft,modoquodamfuper
intellectuali,atquesuperessentiali. essentiæ,aliatandem naturx supe
rioris,aliaanimæ, aliaintele&ualis:uiuuntenim&
ila:etfinullumeorum,quæabiplisexi ftunt,uirameisfimilemsorciatur.
aliaueropartim quidemfle&tunturadila,partimetiamnonflestuntur.aliacandem
folumde flectunturadgenituras,neqzinterimadsereflectuntur. per , educere. Anima
quidé habet omnium rationes. Agit autē secundã eas, uel ab alio ad ex
peditionemeiusmodi prouocata, uelipfafeipfamintusconuertensadrationes,& cum
abaliopro uocatur,tanquamadexternacommititintroducerefensus:cum
uero'ingredicurinseipsam,adintel
ligentiasperuenit:necigitursensusextraimaginationemfunt,necß,utdixeritaliquis,intelligence
quatenus competuntanimali Animaeftimmortalis. Anima ef tessencia inextensa, immaterialis,
immortalis, in'yitahabenteaseipsauiuere,arosese fimiliterpossidente.
Passioanimæ,atquecorporisestlongediuersa. Liudestpaticorpora, aliudincorporea.passioenim
corporụm cum transmutationecötingit
passiouero'animęestaccommodatioquædam,'&affe&ioadremipfam,&a&ioquædã,nullo
modofimiliscalefationi,frigefactioniącorporum,quamobrem sipassiocorporū,cũtrans
mutatione fit,dicendum eftomnia incorporea essepassionisexpertia. Quæ enim
a'materia,corporf busipfeparatasuntadu,eadempermanent:quæueromateriæcorporibus
propinquant,ipsaqui d e m n o n sunt passiua, sed illa , in quibus hæc
apparent, patiuntur , quád o enim animal s e n d t , anima quidam fimilis
esseuideturharmoniæ cuidam separatæ ex seipsam chordas mouenti cötemperatas
Corpusaữrsimileharmonię,quæ
inseparabilisinestchordis,fedcausamouendieffeuideturanimal proptereaquodfitanimatū,
quodquidemsimileeftmufico,exeoquodfitcõcinnum ,corporaueros
quæperpassionesensualempulfantur,fimiliacontemperatischordisapparent.Etenim
ibinon harmonica quid é separata patitur, fed chorda . & mouet f a n e musicus
p ipsam , quæ sibi i n eft ,harmoniā: newtamen chordarationemusicamouereturetiam,
fiuelletmusicus,nifiharmoniaipsaiddixit. nataestquemadmodum corpora, sed
fecundum nudam ad corporapriuationem. Quãobrenihil
prohibetinterila,aliaquidemesseessentia,aliauerònonessentia:&
aliarursusantecorpora,alia
ueròunacumcorporibus:itemaliaacorporibusseparata,aliauerònonseparata.Prætereaaliasecun
dum
sesubfiftentia,aliaueroalijs,utsintindigentia:aliadeniqa&tionibus,uitisfexfemobilibuse
adem ,sedaliauitis,&qualibusa&tionibusquodammodo permutata,nempefecundumnegatione
corum ,quæ ipfanon sunt,non secundum assistentiameorum ,quæ sunt, appellatur.
PussionesmaterieprimeassignatesimiliteràPlotino. Ateriae propriaapudantiquos hæcfuntincorporeaquidem,diuerfaenimeftàcorporibus,
prætereauitæexpers, negintelle&tus,neckanima,nequealiquidfecundum
seuiuens.Itêin, formis,permutabilis, infinita,impotens.Quapropternec
ens,feduerum nõens,imagomol lisapparens, quoniãqd primo estinmole,eftipfum
impotens,itéappetitio fubfiftentia.& ftansno
instacuprætereafempinseapparens,tum paruum,rum magnữ,tūminus, tūmagis,tūdeficiens,cī
excedens,quoduefiatfemp,maneatuerònunquã,nec tamen aufugere
potens,quippecútotius entisfitdefectus.Quamobrēquicqd pmittat,mentitur:aciimagnūappareant,interimeuadirparo
uũ,quafienimludus quidãeftinnõensaufugiés,Fugaenimeiusnófitloco,seddūabencedeficis,
Quamobren .in infummiseftunitascumuirtute:ininfimismultitudocumdebilitate. N corporeæ
fubftantiædescendentesquidemdijudicentur,atqßinsingulapotentiædefe&umul
tiplicantur, adscendentes autemutuntur,atæfimulrecurruntinunumcopiapoteftatis.
Quegenerant,partimconuertunturadgenita,partimminimè. Mne, quodsuaessentiagenerat,aliquidsedeteriusgenerat,atqomnegenitüadgenitorina
O curaconuertitur,eorumuero,quægenerant,aliaquidēnullomodoconuertunturadgenitas
Sensus,imaginatio,memoria intelligentia. Emorianonestimaginationüconferuatio
quædã,ámdtāmpastwintorspobaristalevias'spoluéwata, sedeftipfas propofitiones,fiueproductionesina&um
corū,quæmedicatuseftanimusnu :nec rurfusabsq inftrumentorum sensualium
passionesuntfenfus, lic& intelligentiænon abfqimaginatione, nisianalogaconditiofit:quemadmodumfiguraconse
quensquiddam estadanimalsensuale, ficphantasmaaliquidconsequensadintelligentiamanima
intelligentisinanimali. 1N Despeciebusuite. On solumincorporib æquiuocaconditioest,sedipsaetiãuitamultipliciterprædicatur
eftenimuitaplantæ, animalisalia: aliarursusintellectualis Alia IN N>M
Dedifferentijsincorporeorum.
Pfaincorporeorīappellationõfecundumcommunicatēunius,eiusdemişgeneris,siccognomi.
quamobremquæineasuntimagines, insuntindeteriorirursus imagine,quemadmodüinspeculo
idquodalibilitumeft,apparetalibi, &ipsumspeculumplenumeseuidetur, nihilqzhabet,dumom
nia uidetur habere. funt,autnonfunt, quappternullacorūpaticur:quodempatienseft,nonoportetitafehabere,
fedefetale,ütalterariqueat,atointeriminqualitatibus
eorī,quaeingrediuntur,ficásinferuntpas fionem.Eiñamos
quodinestalterationonaqualibecaccidit,nexigicurimaceriapacítur.Nāsecun dum
feipfam qualitatisestexpers,nesprorsusformx,quaefuntinca,ingrediences;uicissim'sexe,
untes,fedpassioficcircacompofitum,&uniuselseincomposicioneconfiftit,hocenim
incontrarijs uiribus& qualitatib.ingredientiữzinferentiumąpassioneperfeuerareinfubfiftendouidetur.Quá
obre mea quoru um i u e r e e f t a b externis , ne cas c i p l i s , n i mirum
& uiuere , & non uiuere pat i possu n t. Sed e a , quorum esse in u i t
a consistit, passionis experte, necessarium est permanere secunduum itam ,
quemadmodūuitäuacuitaticonuenit& non pac, quarenus&
uitæuacuicas.Icaqficutpermutari, acpaticöpofitoexmateria,forma
côtingit,ideftcorpori,neqstamenidmateriæ accidic,ficujuere,
areinterire,patiofecundumhocipfum incompofitum
exanima,corporeæperspicitur,neqstamé animæidcontingit,quoniam animanoneftaliquidexuita,&
nonuitaconflatum,seduicafolum constatquippe,cumfimplexessenciafit,ipfaqsanimæ
ratiofitnaturaipfasemouens. Omnisintellectuseftomniformis.
Ntelle&ualisesentiaficinpartibuseftconfimilis,ut&
inparticulariquolibetintelle&u,uniuer
soosintelle&ufintentia:fedintele&u quidem uniuerfaliendaeciam
particulariauniuersalifint
ratione:inparticulariautčincellectueciāmiuniuersaliafimulacosparticulariasintconditionequa
dam particulari: Omnisuitaincorporeaquocunq;mütetur,permanetimmortalis.
Nuicisincorporeispcessusmanentibusprioribusinsefirmisefficiuntur,dūnihilfuiõdunt,neos
pmutantadsubstantiâinferioribexhibendam,quappternedquæindesubfiftūccũaliquagdi
tioneueltráfmutationesubsistûr,nechoc
qdēefficitur,ficutgeneratiointeritus,gmutationisą particeps,ingéciaigitur,&incorruptibiliafuntaroingčitæ,incorrupcx'ssecīdūhocipfumeffecta.
Quomodointelligaturquodeftfuperiusintelectus
uigilantiãmultadicatur,fedperfomnūipsum
cognitioeius,peritia'oshabetur,fimilinãque fimile cognosci folet, quoniã omnis
cognitio, assimilatio quæ dá ef t ad hoc ipfum, q d cognofcitur. ens
uelutfalsamconcipimuspassionecă, ingentemuidelicetili, quidigrediturextraseipsum,
ipfeenimquisquequemadmodumexistenter deftuere,atokperseipfumpoteftreduciad ipfumnonensentesuperius,ficabence,sepsipfodigres
diensiam traducituradnonens,quodentisipfiuseftcasusatqzruinia.
Substantiaincorporeaestubicunqueuult.
Aturacorporisnihilimpedit,quinquodfecundum feincorporeum
eft,ficubicung,&quò
modocunque.Sicucenimcorporiincomprehensibileest,quodmoliseftexpers, nihilą
adip Porphyr de Occasionib.
Quidpatiatur,quidnon.
Afsionescircaidfuntomnes,circaqdaccidit&interitus.Víaenim
adinteritãeftadmissiopas
fionis,acohuiusestinterirecuiuseftpaci.Incerireaūcincorporeūnullű,sedquædãinterilaaur
Animaquiapereffentiameftuita,nonmoritur.
yIrcaessentiam,cuiusefeconfifticinuita,&
cuiuspassionesuitaquædãfunt,nimirum& morg
inqualialiquauitauersatur,noninpriuationeuitæfimultota.Quoniamneqspassio,seuuita
est omnino, illicadnon uiuendum ,iplaqzillicacciditorbitas. .
Silloquodeftmentesuperius,perintelligentiamquidem multa dicuntur:considerantur
D temuacuitatequadăintelligentiæ intelligentiameliore;quemadmodum
dedormienteper NonensauteftfuperiusenteutDeus,aütinferiuscummateria.
Vodnonensdicitur,auciplínosmachinamurab ipsoentealiquandoseparaci,autsuperin
telligimus,dum enspossidemus.quapropterfiseparamurabente,ensipsumnon superine
telligimusnon enssuperensipsum,fediamnon N
sumpertiner:sicincorporeoipsum,quodmollediftenditur,nonficobftaculum &
quafinon acec,nequeenim quod incorporeum eftlocalicondicionequo uulc
discurritlocusenim cum mole
simulexiftit,neqsrurfuscorporumlimitibuscoercecur,quodenimquomodocūqiiacetinmole,in
angustumcohiberipoteft,& conditionelocalitransmutacionemagere, quodaucemestamole,mag
nitudine prorsusexemptū,hocabójs,quæfuntinmole.continerinonpoteft,a'motuşilocaliper
manetliberum.Igiturqualiquadam,certaquedisposicionereperituribi,ubicunquedisponitur,lo.
cointereatumubique,tumnusquam
simulexiftens,quapropterqualiquadamcertaqueaffe&ione uelsupercælum
,uelinpartemundiquadam apprehenditur:quandoueroinaliquamundipàřecte n e t u r
,non oculis quidem aspicitur, sed ex operibus eius præsentia sua fit hominibus
manifestas Substantia in corporeinullo corporecohibetur, fedproducitescamincorporeperquamse
corporiapplicát. Vodeftincorpóreū,liquandoincorporecomprehendatur,nonopuseftutitaconcludatur,
Q quemadmoduminparcoferæclauduntur,nullumnamquecorpuspoteftipsumficinfeco
-hibere, nequeficutüterliquoremaliquemtrahit,&
cohibet,autfacum,fedoportetipsum ia nd C TO MmM 4 13. fubftituere cavite
Vniaersalescausenonconuertunturadefe&tus,fedeosadfeconuertunt. V l l
a substantiarum , quæ uniuerfæ sunt, a t æ perfectæ ad f u a m conuertitur geni
cură . O m n e s autéperfe&tæ subftantiæadgenerantiarediguntur, &
idquidemadcorpusufo mundanum. 1. Quomodo differenterestubiq; DeusintelleĀus,animas
Euseftubiq ,quianusquamintelle&usest:ubiq etiã,quianufquam
anima.deníqueubiqet EX PORPHYRIO DE AB ftinentiaanimalium. .
quinetiamcognoscitipsum,quod in feest,naturaliterperpetuo uigilans, atquefom/
num,quohicopprimitur,deprehendit. Cuinonsaneeducationem,nutritionemque trademus
consentancã,tūhuius locinaturæ ,tum suiipsiuscognitioni conuenientem,
Beatitudononeftdiuinorumcognitio,feduitadiuina.
Eatanobiscontemplationonestuerborum accumulatio,disciplinarūquemultitudo,quemad
Bmodum aliquisforteputauerit:nequeenim
iracomponitur,nequeproquantitaterationūac quare
perfectioquidêaprioribusfecundafubftituitcõferuanseadeadprioraconuersa, defectusautempri
oraetiam adpofterioradefledit,eficitqzuthæcipfadiligantasuperioreinterim
differentia 1932 Marsil. Ficin -in
substitucreuiresabipsainseipsumunioneextramanantes,quibusdescendenscorporiaplícatur,co
pulaitaßeiusad corpusperineffabilēquandāsuiipsiusimpleturextenfioné,quamobrénõaliud
adem ultūipfuamlligat,fedipfumcerteseipfum,nec igiturefoluitipsum
corpusquãdofrangitur autinterit,fèdipsum
pociusfemetipsumcnodat,quádoafamiliariergasubiectâaffectionediuercio
Quodquidemcūsitperfe&umadanimāestreda&um,animam
inquãintellectualem,ideoas círculouoluitur, animaueromundiadintellectumattollitur,intelle&usauteerigituradprincipio
Omniaitaqperueniuntadhocipsumab extremisexordientia,quatenus
facultassuppecitunicuic perueniūtinquam eleuationeadprimū, illucusą perducta: quæ
quidēautexpropinquo,autex.lon ginquoeficifolet. Hæcitasnonsolumappetere Deūdicipossunt,sedetiam
prouiribusafequizin lubstancijsueroparticularibus, &admultalabipotentibusineft
procliuitasdeflectēsadgenicuras: ideoiginhisdeli&um
dicituraccidissezinhisinfidelitaseftdamnata. Hasigiturcontaminatiplama
teria,proptereaquodadhácdefledipossint, cũtamenintereaaddiuinūseualeantcôuertisse:
quoniãeft&nufquā:fedDeus quidem ubique& nusquãeftcorum omnium ,quæ
funtpoft ipsum. Suiueròipfiuseftfolum, ficutest,atqueuult. Intelle&usautem
inDeoquidemubica eft,fedineis, quæfuntpoftipsum,existirnusquapariter, &ubiqueanimatandeminincele&tu,acor
Deo ,fimilitereftubiq ,incorporeuero'ubiqeftfimul & nusquá. Corpusaūt&
inanima,& inintels lectu , & in Deo , omnia profe & o cūentia,t u m
non entia ex Deo sunt, & ideonec tamēipfeDeus eft,cum entia,tum
nonentia,necexistitineis. Sienimessetduntaxatubiq ipfequidéomnia,& in
omnibus esset. A quoniam est, et nusquam,
omnia sane per ipsum fi unc f i u n t á ž r ursus in ipso, quiam
ipfeexistitubios: diuersarursusabipfo, quoniãipsenusqua. Similiterintele&u subicexistens,atqs
nus quã, causa est animaram, animasæ sequentium: neq s ipse anima est, neg quæ
post animam, neque in cis existic: quoniamuidelicetnon folum ubiqueest, eorumque,quæfuntpoftipsum,sed&nusquã.
Rursus animanequecorpuseft, nequeestincorpore, fedcausacorporis,quoniam dum
ubiq eftper corpussimuleft, &incorporenusquam,processusdeniquniuersiinilluddefinit,
quodnec ubiqfi mui, nequenusquamesseualet, sedalternisquibusdamuicibusutriusquefitparticeps.
Giustino (filosofo) filosofo e martire cristiano Lingua Segui Nota
disambigua.svg Disambiguazione – "Giustino martire" rimanda qui. Se
stai cercando altri martiri con questo nome, vedi San Giustino. San Giustino
Justin filozof.jpg Icona russa di san Giustino Padre della Chiesa e
martire NascitaFlavia Neapolis, 100 MorteRoma, 163/167 Venerato
daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario
principaleCollegiata di San Silvestro Papa, Fabrica di Roma (VT) Ricorrenza1º
giugno, 14 aprile (1882–1968) Attributipalma, libro Patrono difilosofi Giustino,
conosciuto come Giustino martire o Giustino filosofo (Flavia Neapolis, 100 –
Roma, 163/167), è stato un martire cristiano, filosofo e apologeta di lingua
greca e latina, autore del Dialogo con Trifone, della Prima apologia dei
cristiani e della Seconda apologia dei cristiani. A lui dobbiamo anche la più
antica descrizione del rito eucaristico. Iustini Philosophi et
martyris Opera, 1636 Fu uno dei primi filosofi cristiani, e venerato come santo
e Padre della Chiesa dai cattolici e dagli ortodossi. La memoria si celebra il
1º giugno. La Chiesa Cattolica lo considera anche santo patronodei
filosofi insieme a Caterina d'Alessandria, pur non essendo nessuno dei due nel
novero dei Dottori della Chiesa. BiografiaModifica Giustino, che spesso
si dichiarava in verità samaritano, visto il suo nome e il nome di suo padre -
Bacheio - sembra piuttosto di origini latine o greche. La sua famiglia
probabilmente si era stabilita da poco in Palestina, al seguito degli eserciti
romani che qualche anno prima avevano sconfitto gli Ebrei e distrutto il Tempio
di Gerusalemme. Come riferisce Giustino stesso nel Dialogo con
Trifone, venne educato nel paganesimo ed ebbe un'ottima educazione che lo portò
ad approfondire i problemi che gli stavano più a cuore, quelli riguardanti la
filosofia. Racconta che la sua smania di verità lo portò a frequentare molte
scuole filosofiche. Presso gli stoicinon trovò giovamento, in quanto il
problema di Dio, per questa filosofia, non era essenziale. Poi frequentò la
scuola peripatetica, ma anche presso questi filosofi non trovò quanto cercava.
Si recò presso un filosofo pitagorico che lo sollecitò dunque ad approfondire
le arti della musica, dell'astronomia e della geometria. Ma Giustino, troppo
concentrato nel voler raggiungere la "verità" e la "conoscenza
di Dio", reputava tempo sprecato il soffermarsi su tali materie.
Approdo al platonismoModifica Da ultimo frequentò una scuola platonica;
un maestro di questa filosofia era da poco giunto nel suo paese e presso questa
corrente filosofica trovò quanto credeva di cercare. «Le conoscenze delle
realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente...»,
dice Giustino. Si convinse che questo lo avrebbe portato presto alla
"visione di Dio", che considerava essere lo scopo della filosofia.
Decise di ritirarsi in solitudine lontano dalla città, ma in questo luogo
appartato, secondo quanto racconta nel prologo del Dialogo con Trifone,
incontra un anziano, con cui inizia un serrato dialogo, incentrato su Dio e su
cosa fare della propria vita. Dopo aver dichiarato all'anziano la sua idea di
Dio «Ciò che è sempre uguale a sé stesso e che è causa di esistenza per tutte
le altre realtà, questo è Dio», l'anziano lo porta a ragionare su di un aspetto
che forse a Giustino era sfuggito: come possono i filosofi elaborare da soli un
pensiero corretto su Dio se non l'hanno né visto né udito? E porta il giovane a
meditare sulle persone considerate "gradite a Dio" e dallo stesso
"illuminate", i Profeti, che nel tempo avevano parlato di Dio e
"profetizzato in Suo nome", in particolare la "venuta del Figlio
nel mondo" e la possibilità "attraverso di Lui" di avere una
"vera conoscenza del divino".[1] Conversione al
cristianesimoModifica Dopo questa esperienza, Giustino si converte al
Cristianesimo e per tutto il resto della sua vita educherà i discepoli,
utilizzando gli stessi schemi usati dalle altre scuole filosofiche. Oltre a
questo incontro, che fu decisivo per la sua conversione, Giustino indica anche
un altro fatto che lo rinfrancava nella fede: «Infatti io stesso, che mi
ritenevo soddisfatto delle dottrine di Platone, sentendo che i cristiani erano
accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte ed a tutti i tormenti
ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel
vizio e nella concupiscenza». Giustino viaggiò molto, andò a Roma
una prima volta e quando ritornò vi aprì una scuola filosofica a impronta
cristiana, i suoi insegnamenti insistevano molto sui fondamenti razionali della
fede cristiana. Questo approccio, molto diverso da quelli tradizionali, suscitò
numerose controversie sia con gli stessi cristiani sia con alcuni filosofi,
specialmente con Crescenzio il cinico. La sua fede lo porterà a
subire una morte violenta. Fu condannato a morte da Giunio Rustico che era
prefetto di Roma e amico dell'imperatore Marco Aurelio, fra il 163 e il 167,
con queste parole: «Coloro che si sono rifiutati di sacrificare
agli dèi e di sottomettersi all'editto dell'imperatore, siano flagellati e
condotti al supplizio della pena capitale, secondo le vigenti leggi.» Di
questo processo esiste ancora il verbale: Martyrium SS.Justini et sociorum VI.
Giustino venne decapitato assieme a sei dei suoi discepoli, Caritone e sua
sorella Carito, Evelpisto di Cappadocia, Gerace di Frigia (schiavo della corte
imperiale), Peone e Liberiano. Le sue reliquie furono traslate da
Roma il 22 settembre 1791, e si trovano attualmente sotto l'altare maggiore
della Collegiata di San Silvestro Papa a Fabrica di Roma, in provincia di Viterbo.[2]
Giustino fu il primo di una serie di autori cristiani che intravide in
Eraclito, Socrate, Platone e negli stoicidegli autori precristiani, precursori
del Cristo e da esso ispirati.[3] Anche lo Spirito Santo è identificato con Dio
stesso. A suo avviso, la nozione trinitaria fu introdotta già dal
platonismo.[4] A Giustino si deve la più antica descrizione della
liturgia eucaristica. Egli fu il primo ad utilizzare la terminologia filosofica
nel pensiero cristiano ed a tentare di conciliare fede e ragione. Si schierò
duramente contro la religione pagana ed i suoi miti mentre privilegiò
l'incontro con il pensiero filosofico. La figura di Giustino
attrasse l'attenzione di Lev Tolstojil quale nel 1874 dedicò al santo cristiano
una breve agiografia, Vita e passione di Giustino filosofo martire[5].
OpereModifica Dialogo con Trifone, Edizioni Paoline, Milano 1988. Le due
apologie, Edizioni Paoline, Milano 2004. ( LA ) [Opere], Parisiis, apud Carolum
Morellum typographum regium, via Iacobaea ad insigne Fontis, 1636. Il Dialogo
con Trifone, la Prima apologia dei cristiani e la Seconda apologia dei
cristiani, ci sono pervenute in un manoscritto del 1364, conservato a
Parigi.[6] La Prima apologia dei cristianiModifica «Io, Giustino, di
Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di
Palestina, ho composto questo discorso e questa supplica, in difesa degli
uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di
loro.» (Apologia Prima, I, 2) La Prima apologia dei cristiani è indirizzata
all'imperatore Antonino Pio e al Senato romano. In essa compare un tema che
sarà ampiamente sviluppato dall'apologetica cristiana, cioè la critica della
prassi diffusa presso i tribunali romani, per la quale il solo fatto di
appartenere alla religione cristiana era motivo sufficiente di condanna.
Giustino inoltre polemizza con i pagani riguardo ad alcune contraddizioni
interne alla società romana, per esempio fa notare come, mentre i cristiani
sono condannati a morte perché ritenuti atei, vari filosofi greci e latini
sostengono apertamente l'ateismo senza conseguenze. Interessante,
poi, è il fatto che Giustino citi abbondantemente vari brani dei vangeli
sinottici per esporre le dottrine cristiane; ancor più notevoli sono i
tentativi dell'apologeta per convincere i pagani della verità del Cristianesimo
attraverso le citazioni di autori classici sia di filosofia (come Socrate e
Platone) che di mitologia (come Omero e la Sibilla) che vengono accostati a
brani dei vangeli o dell'Antico Testamento. «Sia la Sibilla sia
Istaspe profetarono la distruzione, attraverso il fuoco, di ciò che è
corruttibile. I filosofi chiamati Stoici insegnano che anche Dio
stesso si dissolve nel fuoco, ed affermano che il mondo, dopo una
trasformazione, risorgerà. [...] Se dunque noi sosteniamo alcune
teorie simili ai poeti ed ai filosofi da voi onorati [...] perché siamo
ingiustamente odiati più di tutti? Quando diciamo che tutto è stato
ordinato e prodotto da Dio, sembreremo sostenere una dottrina di Platone; quando
parliamo di distruzione nel fuoco, quella degli Stoici; quando diciamo che le
anime degli iniqui sono punitemantenendo la sensibilità anche dopo la morte, e
che le anime dei buoni, liberate dalle pene, vivono felici, sembreremo
sostenere le stesse teorie di poeti e di filosofi [...] Quando noi
diciamo che il Logos, che è il primogenito di Dio,[7] Gesù Cristo il nostro
Maestro, è stato generato senza connubio, e che è stato crocifisso ed è morto
e, risorto, è salito al cielo, non portiamo alcuna novità rispetto a quelli
che, presso di voi, sono chiamati figli di Zeus. Voi sapete infatti
di quanti figli di Zeus parlino gli scrittori onorati da voi: Ermete, il Logos
[...]; Asclepio, che [...] ascese al cielo; Dioniso, che fu dilaniato; Eracle,
che si gettò nel fuoco [...] e Bellerofonte, che di tra gli uomini ascese con
il cavallo Pegaso. Se poi, come abbiamo affermato sopra, noi
affermiamo che Egli è stato generato da Dio come Logos di Dio stesso, in modo
speciale e fuori dalla normale generazione, questa concezione è comune alla
vostra, quando dite che Ermete è il Logos messaggero di Zeus. Se
poi qualcuno ci rimproverasse il fatto che Egli fu crocifisso anche questo è
comune ai figli di Zeus annoverati prima, i quali, secondo voi, furono soggetti
a sofferenze. [...] Se poi diciamo che è stato generato da una
vergine, anche questo sia per voi un elemento comune con Perseo.
Quando affermiamo che Egli ha risanato zoppi e paralitici ed infelici
dalla nascita, e che ha resuscitato dei morti, anche in queste affermazioni
appariremo concordare con le azioni che la tradizione attribuisce ad
Asclepio.» (Apologia Prima, XX-XXII) L'opera si conclude con una
petizione che contiene una lettera dell'imperatore Adriano,[8] la quale serve a
Giustino per mostrare come anche un'autorità imperiale era del parere di
giudicare i cristiani in base alle loro azioni e non in base a dei pregiudizi;
ed una lettera dell'Imperatore Marco Aurelio e del "Miracolo della
pioggia" durante le guerre marcomanniche.[9] Il Dialogo con
TrifoneModifica «La filosofia in effetti è il più grande dei beni e il più
prezioso agli occhi di Dio, l'unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e
sono davvero uomini di Dio coloro che han volto l'animo alla filosofia
[...]» (Dialogo con Trifone[10]) Oltre alle già citate Prima apologia dei
cristiani (grecoἈπολογία πρώτη ὑπὲρ Χριστιανῶν πρὸς Ἀντωνῖνον τὸν Εὐσεβῆ;
latino Apologia prima pro Christianis ad Antoninum Pium) e Seconda apologia dei
cristiani(greco Ἀπολογία δευτέρα ὑπὲρ τῶν Χριστιανῶν πρὸς τὴν Ρωμαίων
σύγκλητον, latino Apologia secunda pro Christianis ad Senatum Romanum),
Giustino scrisse il Dialogo con Trifone (greco Πρὸς τρυφῶνα Ἰουδαῖον διάλογος,
latino Cum Tryphone Judueo Dialogus), opera dedicata a un certo Marco Pompeo.
Il tema è il confronto con il giudaismo, con il quale i cristiani avevano in
comune l'Antico Testamento, un terreno utile per un dialogo. Si tratta di un
dibattito che si svolge ad Efeso nell'arco di due giorni e vede protagonisti
Giustino e Trifone, nel quale è stata individuata da alcuni storici la
personalità di un rabbino realmente esistito. Lo scopo di questo dialogo è
mostrare la verità del cristianesimo, rispondendo alle principali obiezioni
mosse dagli ambienti giudaici. In particolare, Giustino vuole dimostrare che il
culto di Gesù non mette in discussione il monoteismo e che le profezie
descritte nell'Antico Testamento si siano avverate con l'avvento di Cristo. Il
dialogo assume toni sempre rispettosi e amichevoli e non si conclude, com'era
consuetudine per gli scritti cristiani, con la richiesta da parte del giudeo
del battesimo. A tal proposito, alcuni studiosi si sono chiesti se
effettivamente le motivazioni portate avanti da Giustino in questo dialogo
fossero valide a convertire un giudeo. Sembra piuttosto verosimile, invece, che
quest'opera sia una risposta di Giustino ai dubbi che i cristiani stessi del
tempo nutrivano verso la loro fede. L'opera presenta anche un
prologo, in cui Giustino racconta di un suo incontro con un vecchio saggio che
lo introdusse al cristianesimo.[11] Giustino lo interroga tra l'altro sulla
dottrina, da lui professata, della trasmigrazione delle anime anche dentro
corpi animali, esposta nel Timeo platonico. L'interlocutore gli risponde che
una tale possibilità non avrebbe senso, perché non darebbe nessuna reminiscenza
delle colpe passate e quindi neppure la capacità di pentirsi.[12] In secondo
luogo, il vegliardo passa a confutare la dottrina dell'immortalità
dell'anima.[13] NoteModifica ^ Philippe Bobichon, "Filiation divine
du Christ et filiation divine des chrétiens dans les écrits de Justin
Martyr" in P. de Navascués Benlloch, M. Crespo Losada, A. Sáez Gutiérrez
(dir.), Filiación. Cultura pagana, religión de Israel, orígenes del
cristianismo, vol. III, Madrid, 2011, pp. 337-378 online ^ La reliquia di San
Giustino Martire ( PDF ), su parrocchiafabrica.it. ^ Étienne Gilson, La
filosofia nel Medioevo, BUR saggi, p.17, OCLC 1088865057 ^ Giuseppe Girgenti,
Giustino Martire: il primo cristiano platonico : con in appendice "Atti
del martirio di San Giustino", Pubblicazioni del Centro di Ricerche di
Metafisica, Platonismo e filosofia patristica, n. 7, Milano, Vita e pensiero,
1995, p. 108, OCLC 1014519733. URL consultato il 19 novembre 2020. ^ Lev
Tolstoj, «Vita e passione di Giustino filosofo martire». In: Lev Tolstòj, Tutti
i racconti, a cura di Igor Sibaldi, Milano: Mondadori, Vol. I, pp. 808-810,
Collana I Meridiani, III ed., aprile 1998, ISBN 88-04-34454-7 ^ Philippe
Bobichon, "Œuvres de Justin Martyr : Le manuscrit de Londres (Musei Britannici
Loan 36/13) apographon du manuscrit de Paris (Parisinus Graecus 450)",
Scriptorium 57/2 (2004), pp. 157-172 art. online ^ Francesco Barbaro, Apologia
seconda di S. Giustino filosofo e martire in favor de' Cristiani al Senato
romano traduzione dal greco nell'italiano pubblicata in occasione che mette
fine alla sua quaresimale predicazione l'anno 1814., Treviso, Tipografia
Trento, 1812, p. 29. URL consultato il 19 novembre 2020. Citazione. Essendo
manifesto da tutte l'opere di san Giustino, ch'egli ben sapeva e confessava
l'equalità del Verbo col Padre... ^ ( EN ) Lettera di Adriano. Lettera di Marco
Aurelio al Senato. ^ Cit. in Jacques Liébaert, Michel Spanneut, Antonio Zani,
Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa, Queriniana, Brescia
1998, p. 47. ISBN 88-399-0101-9. ^ Giuseppe Visonà, introduzione a Saint
Justin, Dialogo con Trifone, Paoline, 1988. ^ Étienne Gilson, La filosofia nel
Medioevo, BUR Rizzoli.Saggi, n. 5, 6ª edizione, Milano, BUR Rizzoli, marzo
2019, pp. 14,12, OCLC 1088Giuseppe Girgenti, Giustino Martire: il primo
cristiano platonico, Vita e Pensiero, Mario Niccoli, GIUSTINO, santo, in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933.
Modifica su Wikidata Arthur J. Bellinzoni, The Sayings of Jesus in the Writings
of Justin Martyr, Leiden, Brill, 1967. Philippe Bobichon, Dialogue avec
Tryphon, édition critique. Editions universitaires de Fribourg, 2003, Vol. I:
Introduction, Texte grec, Traduction ; Vol. II: Commentaires, Appendices, Indices
Étienne Gilson, La Philosophie au Moyen Âge. Des origines patristiques a la fin
du XIV siècle, Payot, Paris 1952 (trad. it. La filosofia nel Medioevo. Dalle
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Wikidata Giustino, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.it. Modifica su
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2017 (archiviato dall' url originale il 14 agosto 2017). Apologia
Seconda, su monasterovirtuale.it. URL Santi Caritone e compagni, discepoli di
san Giustino, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi,
santiebeati.it. Catechesi, su w2.vatican.va. di papa Benedetto XVI su Giustino
tenuta durante l'Udienza generale di mercoledì 21 marzo 2007 Opera Omnia dal
Migne Patrologia Graeca con indici analitici e traduzioni (EN, IT, PT), su
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Chiesa Taziano il Siro teologo e filosofo siro Filosofia cristiana
Wikipedia. Giuseppe Girgenti. Girgenti. Keywords: la parola che non s’incatena,
Giustino martire, la traduzione di Boezio delle Categorie di Porfirio,
traduzione di Marsilio Ficino delle sentenze sugl’intelligibili di Porfirio,
henologia platonica, categoria, prediccamento, Agostino, Boezio, predicare,
predicato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Girgenti” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Girotti: l’implicatura conversazionale della curva – la filosofia nella storia
d’Italia – il caso Gentile -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Adria). Filosofo. Grice: “I like Girotti; for one, he has explored the idea of
‘beauty,’ which Sibley should, but did not!” Si laurea a Padova, sotto Santinello
e Berti. Pubblica “Filosofia” (La Scuola, Brescia). Pubblica: “Gouhier e la sua
storia storica della filosofia” (Unipress, Padova). “Comunicazione filosofica”
“Società Filosofica Italiana.” Altre saggi: “Aristotele, dal platonismo all’autonomi”
(Polaris, Faenza); “Modelli di razionalità nella filosofia”, Sapere, Padova; Discorso
sui metodi, Pensa, Lecce; Medioevo vs oggi: tra tabula rasa e innatismo,
Sapere, Padova; Riforma Gelmini e filosofia Sapere, Padova; Essere e volere,
Pensa multimedia, Lecce; Siamo completamente liberi di volere ciò che
vogliamo?, Il Giardino dei Pensieri, Bologna); Bellezza e responsabilità,
Diogene Multimedia, Bologna; Cercasi anima disperatamente, Diogene Multimedia,
Bologna; Gentile; Diogene Multimedia, Bologna); “Il fico proibito dell’Eden e
la giustificazione del male, Diogene Bologna; Un viaggio intorno all’io: Da
Atene a Delfi dialogando, Diogene, Bologna; Sul permesso di morire, Diogene
Bologna; Comunità di ricerca, Gouhier in Enciclopedia Filosofica Bompiani, La collana si chiama Briciole di Filosofia “una
storia storica che si fermi all’esibizione dei dati diventa semplice una ‘cronaca’;
infatti, nel momento in cui si espone la filosofia di Grice, per poter
abbracciare l'oggettività si dovrebbe rimanere all’interno di un'asettica descrizione,
quella che G. definisce como “fenomenologia dello spirito metafisico.”Girotti
distingue “la fenomenologia” (come metodo) e “lo spirito metafisico” (come
oggetto). Seguendo il metodo della fenomenologia, il filosofo-storiografo
sarebbe invitato a fermarsi alla lettura del dato per descrivere ciò che esso
mostra. Seguendo “lo spirito metafisico”, il filosofo- storiografo ritroverebbe
l'”oggetto” (topico) della sua ricerca, cioè il “fatto spirituale.” È su questo “fatto spirituale” che G.refina Gouhier
in quanto trova che Gouhier, quando ha messo le vesti dello “storico” della “storia
storica” della filosofia, sia scivolato in una loro descrizione bergsoniana, ammessa
anche da Gouhier. Cf. Grice on the longitudinal history of philosophy. “We
should treat those who are dead and great as if they were great and living –
it’s a matter of introjecting into his shoes, or sandals!” -- “La distillazione
filosofica” GENTILE , Giovanni. - Nacque a Castelvetrano, provincia
di Trapani, il 29 maggio 1875, ottavo di dieci fratelli, due dei quali erano
già morti quando egli vide la luce. Suo padre, che si chiamava anche lui
Giovanni, era farmacista; sua madre, Teresa Curti, maestra elementare. Da
quel poco, o non molto, di autobiografico che, sempre restio alla confidenza e
all'effusione dell'animo, pur si deduce dagli scritti e, in particolare, dai
carteggi con i suoi maestri pisani, Donato Jaja e Alessandro D'Ancona, risulta
che il rapporto con i genitori fu intenso, nutrito di forti affetti; sebbene,
per altro verso, travagliato, a causa soprattutto, oltre che della morte del
fratello Gaetano, delle disavventure professionali del padre. Le quali
derivarono dal forte e alquanto anarchico convincimento di non dover
sottostare, nella gestione della farmacia di cui era proprietario e titolare,
alle nuove regole introdotte dalla legge sanitaria emanata dal governo di F.
Crispi; e dalla sua decisione di chiudere perciò la farmacia, che si trovava a
Campobello, e ritirarsi con la famiglia nella vicina Castelvetrano, quindi di
riaprirla, nel 1897, tornando da solo là dove quella si trovava e subendo un
nuovo processo per il reiterato suo rifiuto di sottostare alle nuove
regole. È probabile che nell'animo sensibile, e più impressionabile forse
di quanto il G. fosse disposto ad ammettere, del giovinetto che intanto
attendeva agli studi scolastici, si formassero, nei confronti della terra
siciliana, ossia di un luogo così fortemente segnato da dolori e umiliazioni,
sentimenti contrastanti. Non che per le sofferenze che involontariamente aveva
inflitto al padre, egli prendesse allora a odiare, o anche soltanto a
disistimare, il siciliano Crispi, al quale sempre invece guardò come a un
grande personaggio, l'unico degno di rappresentare sul serio, nella decadente
Italia di fine secolo, lo spirito autentico del Risorgimento, nelle cui
battaglie era stato protagonista. Ma nei confronti della piccola, e pur
amata, patria siciliana, i suoi sentimenti furono in effetti misti; e
abbastanza presto si sublimarono, assumendo forma intellettuale, in quelli che,
se lo si legge con attenzione, si colgono al fondo del libro che, quando era
professore a Pisa e insegnava dalla cattedra che era stata del suo maestro
Jaja, egli dedicò a Il tramonto della cultura siciliana (Bologna 1918). Libro
singolare, in effetti; che, riboccante di passione e di affetti, concerne un
"tramonto" atteso e auspicato di "cose" che, profondamente
radicate nella storia e nelle tradizioni dell'isola, meritavano, a suo giudizio,
di "tramontare" per sempre risolvendosi in assai più ampio e
comprensivo orizzonte di pensieri e di cultura. Nella Sicilia
"moderna", con poche eccezioni, il G. non coglieva infatti se non
materialismo, illuminismo astratto, anticlericalismo estrinseco, e niente
romanticismo, niente idealismo, nessun serio sentimento della vita vissuta nel
segno di più alte idealità. E con questi "caratteri" spiegava le
difficoltà che l'isola aveva opposto al Risorgimento nazionale e, quindi, alla
vera cultura idealistica. Quando perciò, divenuto nel 1906 professore di storia
della filosofia nell'Università di Palermo, il G. dette inizio all'insegnamento
che doveva condurlo alla prima sistemazione del suo pensiero nell'idealismo
attuale, c'era nel suo impegno filosofico qualcosa di missionario, quasi che
nel fondo di sé sentisse di operare in partibus infidelium e il suo compito
consistesse nel riscattare nel suo idealismo gli assai diversi principî ai
quali la Sicilia era rimasta ferma. Nell'isola il G. non rimase se non il
tempo necessario al conseguimento dei primi traguardi scolastici; e quando,
finalmente, ottenuta, nel 1893, un anno prima della naturale scadenza, la
licenza liceale presso il liceo Ximenes di Trapani, fu ammesso, avendo vinto il
relativo concorso, a frequentare la Scuola normale superiore di Pisa, era uno
studente critico bensì di molti aspetti della cultura siciliana quello che
approdava alla sponda toscana, ma recante tuttavia in sé non pochi segni di
quella. Il positivismo che, colorandosi sotto l'influsso di R. Schiattarella di
materialismo e anticlericalismo, largamente dominava la cultura siciliana non
era passato sul suo animo e sulla sua mente senza lasciare qualche traccia; e
se non vi era passato intero, in parte almeno vi era passato: il che spiega
l'intransigenza con la quale, compiuta la sua più autentica formazione alla
scuola pisana dello Jaja, egli si impegnò a cancellarne, nel suo pensiero, ogni
possibile traccia. Nel componimento scolastico consacrato a U. Foscolo
con il quale ottenne la licenza liceale colpiscono in effetti le due tonalità
che lo caratterizzano: quella civile, che sarebbe poi rimasta, attraverso la
trasfigurazione risorgimentale, al centro dei suoi sentimenti e interessi, e
l'altra, antiromantica, appresa alla scuola del suo professore di italiano, V.
Pappalardo, e ribadita attraverso lo studio della Storia della letteratura
italiana di P. Emiliani Giudici. E si può e si deve, del resto, andare anche
oltre. Fu forse allora, infatti, negli anni in cui fu studente in Sicilia, che
il G. venne positivamente in contatto con la questione del "fatto";
che certo, nel corso del suo pensiero, subì, rispetto al punto di partenza,
trasformazioni così profonde da rendere questo quasi irriconoscibile nel
risultato conseguito. Quasi, tuttavia, e non del tutto: perché, assunto nella
prospettiva dell'atto, il "fatto" è bensì l'astratto che quello,
l'atto, perennemente supera conseguendo e conquistando la sua concretezza, ma,
oltre a esser anche la sua "determinatezza", si rivela altresì, nel
processo costitutivo dell'atto, indispensabile e necessario: con la conseguenza
che, nell'idealismo attuale, la sua è bensì una morte, caratterizzata tuttavia
nel senso, piuttosto, della "trasfigurazione". Non s'insisterà
mai abbastanza sull'importanza che, proprio per queste ragioni, la Scuola
normale ebbe, con i professori che vi insegnavano, lo Jaja e il D'Ancona, in
primo luogo, ma anche A. Crivellucci, nella formazione del giovane allievo
siciliano. E ai professori debbono aggiungersi i compagni che egli allora v'incontrò,
G. Volpe e F. Pintor, U. Congedo, A. Salza, G. Lombardo Radice. Anche
qui, per altro, avrebbe torto chi semplicemente ritenesse che al fuoco
dell'idealismo professato dallo Jaja il G. bruciasse ogni scoria positivista e
rapidamente acquistasse la fisionomia che in seguito sarebbe stata la sua. È
vero invece che la dicotomia determinatasi in lui quando, in Sicilia, per un
verso si accendeva di entusiasmo per il Foscolo e i valori civili da lui
rappresentati e per un altro si piegava al culto reverente dei fatti, in
qualche modo si ripropose anche a Pisa. Ed egli dovette subirla anche qui
perché alla filosofia senza storia né arte che gli veniva insegnata da Jaja
corrispondevano la storia e la letteratura senza filosofia che gli provenivano
dall'esempio di D'Ancona e di Crivellucci. Il che, naturalmente, non deve
sorprendere, perché a predominare, anche a Pisa, era allora il positivismo con
il congiunto metodo storico; e con il suo idealismo di derivazione spaventiana
Jaja costituiva, in quell'ambiente, piuttosto l'eccezione che non la
regola. La produzione scientifica in cui, senza abbandonare la rivista
Helios, che si pubblicava in Sicilia, a Castelvetrano, e alla quale seguitò
infatti a non far mancare la sua collaborazione, allora si impegnò appare nettamente
scissa fra l'erudizione pura, da una parte, e la filosofia, altrettanto pura,
da un'altra (anche se, nel ricercare e commentare i testi di quest'ultima, il
giovane G. mostrava chiari i segni del metodo che aveva appreso dal D'Ancona e
dal Crivellucci, e che dette del resto chiara prova di sé nella dissertazione
accademica Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca,
pubblicata negli Annali della Scuola normale superiore di Pisa, XII [1897]). Le
cose più notevoli uscite tuttavia dalla sua penna a conclusione del suo periodo
pisano sono, com'è noto, la tesi su Rosmini e Gioberti (1898), discussa con
Jaja e quindi, discussa anch'essa con quest'ultimo, la più breve indagine su La
filosofia di Marx (1899). Di questi due libri, il primo costituisce il
documento, altrettanto precoce che maturo, di un'indagine condotta nel segno di
Bertrando Spaventa e della sua idea relativa alla relazione intercorrente fra
il pensiero italiano e quello europeo, fra A. Rosmini e V. Gioberti, da una parte,
I. Kant e G.W.F. Hegel da un'altra. Il secondo è invece il documento della
capacità dimostrata dal giovane studioso di cogliere il carattere, che a lui
sembrava nel fondo idealistico, della filosofia di K. Marx, e altresì di
entrare con autorevolezza in uno dei dibattiti - quello concernente la
"crisi" del marxismo - fra i più vivi che allora si accendessero
nella cultura dell'Europa contemporanea. Lo studio dedicato a Rosmini e
Gioberti, e alla loro polemica fu steso per il conseguimento della laurea in
filosofia, che il G. ottenne nel luglio del 1897 con il massimo dei voti e il
diritto alla stampa. Quello dedicato a Marx fu composto per la tesi di
abilitazione all'insegnamento che egli conseguì l'anno successivo e gli dette
la possibilità di un ulteriore periodo di perfezionamento da trascorrere presso
l'Istituto di studi superiori di Firenze, dove fu per un anno e dove ebbe modo
di entrare in contatto con gli illustri professori che allora vi insegnavano e
che, fra gli altri, si chiamavano P. Villari, G. Vitelli, P. Rajna. Fra questi
era anche il professore di filosofia, il neokantiano F. Tocco, con il quale i
rapporti non furono né semplici né facili, ma con il quale comunque conseguì un
nuovo titolo, discutendo una tesi sulla filosofia italiana del periodo che da
A. Genovesi va fino a P. Galluppi, e che poi divenne un volume, pubblicato,
nelle edizioni de La Critica, da Benedetto Croce (Dal Genovesi al Galluppi:
ricerche storiche, Napoli 1903). Fu, anche quello trascorso a Firenze, un
periodo importante; e se il rapporto con il Tocco fu, malgrado asprezze e
incomprensioni, proficuo perché lo mise comunque in contatto con un Kant
diverso da quello di Bertrando Spaventa mediatogli dall'insegnamento di Jaja;
se quello con Villari fu alquanto burrascoso, dei grandi filologi, classico il
primo, romanzo il secondo, Vitelli e Rajna dovette conservare per sempre un
grato ricordo, se è vero che ancora negli ultimi anni progettò di ristampare,
del secondo, il libro su Le fonti dell'Orlando furioso, ossia uno dei monumenti
più insigni della vecchia scuola del metodo storico. Con l'anno trascorso
a Firenze, nell'estate 1898 i suoi Lehrjahre avevano termine; e gli anni che
seguirono furono non facili; anzi decisamente difficili, perché l'esigenza per
lui imperiosa di trovare un lavoro, e perciò un posto nell'insegnamento medio,
era pari a quella che egli avvertiva non meno viva e urgente di non
interrompere gli studi filosofici, nei quali aveva già realizzato un'impresa
notevole, con quei tre lavori, così ricchi di dottrina e di idee. Ma l'esigenza
di proseguire senza nocive interruzioni la intrapresa carriera dello studioso
implicava l'altra che l'eventuale sede non fosse dispersa nella lontana
provincia meridionale e lontana perciò dai centri vivi della cultura nazionale,
dalle università e dalla biblioteche. E la preoccupazione principale del G. fu
allora, in particolar modo, di non essere costretto a far ritorno nell'isola
dalla quale era partito anni innanzi: sì che quando, nell'ottobre 1898, ebbe la
sede di Campobasso, con l'incarico di filosofia al liceo Mario Pagano, non poté
dirsene del tutto scontento, perché di lì poteva raggiungere di tanto in tanto
Napoli, dove la frequentazione del filosofo hegeliano S. Maturi, professore al
liceo Umberto e, sopra tutto, di Benedetto Croce, con il quale era entrato in
contatto quando ancora era studente del terz'anno, largamente lo compensavano
dalla solitudine alla quale era invece, per il resto del tempo,
costretto. Del resto, non fu quello di Campobasso un periodo che si protrasse
nel tempo. E già nel novembre 1900 la fortuna girò in suo favore, perché il G.
poté ottenere un posto presso il liceo Vittorio Emanuele di Napoli: il che gli
dette la possibilità di rendere veramente intrinseci i legami intellettuali con
Croce, ossia con il già illustre studioso che, in quello stesso anno, concluso
il periodo degli studi soltanto eruditi, giunto al termine della discussione
intrapresa con i testi di Marx e dei marxisti, era tornato alla filosofia e
aveva dato all'estetica la sua prima sistemazione. A ragione, e del resto
non è un'osservazione peregrina, è stato detto che, se senza Croce non
s'intende il G., altrettanto è vero per l'inverso. Ma ancor meglio potrebbe
dirsi e ripetersi che, se si prescindesse dalla collaborazione, stretta,
intensa e anche conflittuale, che subito si stabilì fra il libero studioso
Benedetto Croce e il giovane ex normalista siciliano, poco o niente si
capirebbe della cultura italiana che nel bene (secondo alcuni), nel male
(secondo altri) per circa mezzo secolo fu dominata dalle loro personalità e
dalle loro opere, spesso intrecciate le une alle altre nel segno prima della
concordia discors e poi dell'aperta polemica. È difficile decidere chi fra i
due, se il più vecchio o il più giovane, giovasse all'altro nella forma più
decisiva. E forse, posta così, la questione è posta male, perché, se è vero che
dal G. Croce ricevette impulsi a cogliere nel pensiero che si veniva formando
in lui le difficoltà che ne nascevano e ad affrontarle nel segno dell'unità, se
è vero, d'altra parte, che la collaborazione prestata dal giovane studioso alla
formazione della "filosofia dello spirito" non avvenne senza che egli
ne traesse grande giovamento per le tante idee con le quali veniva in contatto
e la non comune dottrina storica e letteraria con il cui carattere venivano al
mondo, anche è vero che in questi "bilanci" del dare e dell'avere c'è
sempre qualcosa di angusto, di gretto, di meschino: e conviene perciò, dalle
parole "generali", passare di volta in volta ai "fatti" determinati.
Sta comunque di fatto che, mentre il carteggio fra i due si faceva tanto
intenso e frequente che non c'era, si può dire, giorno senza che uno scambio
intervenisse a proporre osservazioni, suggerimenti, informazioni e, magari,
contrasti; mentre l'amicizia si approfondiva nella collaborazione, la diversa
indole dei due ingegni ne riusciva non soffocata, ma in qualche modo persino
potenziata. E, come si è detto, c'erano, meno infrequenti di quanto non si
pensi, anche i contrasti, anche le polemiche, garbate, amichevoli, ma
ferme. Se, per esempio, nella questione concernente il materialismo
storico (una filosofia, per il G., e non, come per Croce, un semplice
"canone empirico": una filosofia della storia, fondata per altro
sullo scambio del trascendentale e dell'empirico), il dissenso rimase senza
soluzione, la discussione, che in buona parte si svolse per lettera, su
"forma" e "contenuto" nell'estetica condusse i due filosofi
a un accordo sempre più stretto; e anche qui è, non solo alquanto meschino, ma
sopra tutto difficile chiedersi, e quindi rispondere al quesito, se a condurre
il gioco fosse piuttosto il G., o se invece fosse Croce che, via via che veniva
impadronendosi dell'intero territorio dell'estetica, suggeriva il tema e
controllava lo svolgimento. Intanto, nel 1903, la realizzazione del
progetto di una rivista letteraria, storica e filosofica, che si chiamò La
Critica (il primo numero uscì il 20 gennaio), dette a Croce, e al G., lo
strumento attraverso il quale la loro collaborazione potesse rendersi visibile
e concreta in risultati specifici, attraendo altresì su di sé, fra consensi e
dissensi, l'attenzione del mondo culturale italiano e non soltanto italiano,
perché l'anno precedente era uscita la prima edizione dell'Estetica crociana e
il successo travolgente del libro, andato al di là di ogni previsione, non
poteva non ripercuotere sulla rivista appena agli inizi la sua
positività. La Critica divenne così, velocemente, un severo luogo di
ricerche, di studi, e anche, spesso, di impietosi esami critici; e, con il
diverso accento caratterizzante lo stile del direttore e del suo principale
collaboratore, svolse un'opera della quale sarebbe vano voler disconoscere
l'importanza. L'oggetto della "critica" era costituito dalla cultura
positivistica, che era bensì in declino quando la rivista iniziò la sua
battaglia, ma non tanto, tuttavia, che se quell'urto violento e sistematico non
si fosse prodotto, avrebbe trovato così presto la via della sua risoluzione. Al
contrario, si direbbe: perché, malgrado la non eccelsa qualità dei suoi
pensatori, e certa loro tendenza a dividersi fra un alquanto volgare
materialismo e vacue accensioni mistiche e "spiritualistiche", il
positivismo aveva, nella sua forma di "metodo storico", non soltanto
prodotto alcune opere egregie e importanti, ma era penetrato in profondità
nella cultura e nel costume dei professori e della classe dirigente del paese.
E "positivista" era in sostanza il pensiero democratico e altresì,
malgrado il marxismo, quello socialista; positivisti altresì, con maggiore o
minore intensità, erano stati, e per qualche tratto ancora erano, gli stessi
Croce e G., che in quella tradizione, e non in un'altra, avevano compiuto i
primi passi. Con la conseguenza che quella loro battaglia antipositivistica,
esaltata, enfatizzata e mitizzata da alcuni, deprezzata e magari deplorata da
altri, fu, con le sue luci e le sue ombre, anche una battaglia che giorno dopo
giorno i due filosofi amici condussero contro quel loro "sé stesso"
che di essere emendato nel senso della nuova filosofia avesse avuto necessità.
E molte cose della vecchia "fede" certamente furono lasciate cadere,
che qui non occorre elencare. Ma alcune no; e, per fare qualche esempio, certo
si deve anche alla severa disciplina erudita appresa alla scuola dei maestri
del metodo storico se, come nessun altro ai suoi tempi, Croce esplorò gli
angoli più riposti della "regione" seicentesca, e, nel 1911, scrisse
il saggio su La novella di Andreuccio da Perugia (Bari), e il G. non disdegnò
le minute ricerche rinascimentali che sottese e affiancò ai grandi quadri
d'insieme, e rievocò le ombre dei suoi maestri toscani per scrivere il bel
libro dedicato a Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono
(1922). Il soggiorno a Napoli fu, nel rapporto con Croce, quale non
poteva non essere: importante, fondamentale perché ebbe per conseguenza di
renderlo sempre più stretto, sempre più profondo e, perciò, più stimolante. Il
che, trattandosi del rapporto di due pensatori che in quello impegnavano la
parte più delicata del loro essere, significa altresì che, per ciò stesso che
toccava il profondo, scopriva le differenze mentre celebrava le affinità e
persino le identità, e potenzialmente conteneva in sé il germe del suo
rovesciamento nell'inimicizia. La polemica sul marxismo contribuì a far meglio
conoscere a entrambi le rispettive, e diverse, fisionomie intellettuali; e i
due ne uscirono, sebbene avessero ciascuno mantenuto il proprio punto di vista,
rafforzati nell'amicizia. Ma nel 1907 la polemica epistolare, e rimasta perciò
privata, sulla questione della filosofia e della storia della filosofia, aveva
già, sotterraneamente, impresso qualche preoccupante vibrazione alla struttura
portante dell'edificio; perché a Croce, sebbene avesse alla fine dato il suo
consenso alla tesi del G., era anche sembrato di cogliervi qualche tratto di
vecchio hegelismo, il cui Idealtypus era rappresentato allora a Napoli da S.
Maturi; e questo il G. non l'aveva gradito. L'amicizia per allora rimase
salda, e anzi, via via, si approfondì, perché in realtà non solo la filosofia e
la scienza riguardava, ma anche le cose dell'anima e dell'esistenza, che nella
battaglia culturale non potevano, del resto, non essere coinvolte. E poiché
nella Critica il G. sistematicamente svolgeva il compito che si era assunto di
ricostruire le origini della filosofia contemporanea in Italia e intanto, al
margine, scriveva note e recensioni per lo più molto polemiche nell'atto stesso
in cui, su un altro fronte, conduceva la sua aspra battaglia, in nome della
filosofia che non può non essere immanentismo assoluto, contro quello che
perciò sembrava a lui l'equivoco del modernismo cattolico: delle eventuali
dispute che intanto i due filosofi svolgessero in privato la rivista non
risentì e non mostrò il segno. La collaborazione che essi vi svolgevano e
realizzavano fu perciò, per anni e anni, vista e avvertita come se i due
fossero quasi una sola persona che, di volta in volta, faceva prevalere il
rigore filosofico e l'eleganza letteraria, nutrita anch'essa di rigore. Si
aggiunga che allora, fra il 1902 e il 1909, Croce fu impegnato, fuori della
Critica, nella costruzione della Filosofia come scienza dello spirito; e che,
per parte sua, mentre svolgeva il suo lavoro e si impegnava a seguire i
progressi filosofici del suo amico, sul piano teoretico il G. mostrò in quei
primi anni la tendenza a restare in disparte. Avvertiva, e in una lettera
del 1908 inviata al Maturi lo scrisse anche in modo esplicito, che se avesse
dovuto esprimere intero il pensiero che intanto gli urgeva dentro con Croce
sarebbe giunto allo scontro, e avrebbe dovuto combatterlo. Sapeva, o riteneva
di sapere, che, svolto con rigore, il tratto spaventiano del suo pensiero
avrebbe dato luogo a conseguenze diverse da quelle che Croce stava allora
ricavando dalle sue premesse, e sistemando nei suoi libri; e della migliore
qualità filosofica di quelle era altrettanto convinto come della necessità che
per allora non convenisse mettere in crisi una collaborazione dalla quale
frutti copiosi la cultura italiana poteva ancora attendersi. Del resto, la
cautela del G. e la sua decisione di lavorare per, e non contro, l'alleanza con
Croce non potevano esser tali da impedire che, talvolta anche in pubblico,
sebbene non dichiarate, le differenze emergessero; e fu quel che puntualmente
avvenne già nel 1903, quando il G. scrisse (e per allora non pubblicò) la
prolusione al suo corso libero di filosofia teoretica nell'Università di
Napoli. Da Napoli, dove nell'insieme trascorse un sereno periodo (il 9
maggio 1901 aveva sposato Erminia Nudi, una giovane maestra conosciuta a
Campobasso), quasi per intero consacrato all'insegnamento - nel 1902 aveva
ottenuto la libera docenza che esercitava nel corso libero di filosofia
teoretica presso l'Università e dal 1904 aveva assunto anche un incarico di
filosofia e pedagogia presso l'Istituto superiore di magistero Suor Orsola
Benincasa -, alla riflessione filosofica, allo studio, nel 1906 il G. passò a
Palermo, perché nel frattempo - dopo che un primo concorso per la filosofia
teoretica lo aveva visto soccombere per l'ostilità dimostratagli da Tocco, e
anche a causa della debole difesa fattane da A. Labriola, gravemente ammalato e
quasi impossibilitato a parlare - aveva vinto la cattedra di storia della
filosofia per quella Università. Così, senza averlo sul serio desiderato, era
di nuovo approdato alla sponda siciliana; e meno che mai lo aveva desiderato
Croce, che non solo vedeva interrotta una consuetudine di vita, di
collaborazione e di lavoro che doveva a ogni costo essere difesa, ma anche
temeva che il nuovo ambiente potesse distrarre in vario modo l'amico e, sotto
diversi punti di vista, allontanarlo da lui. Il timore di Croce non aveva
allora nessun altro fondamento che sé stesso e l'intuizione di cui si alimentava.
Era infatti qualcosa come una congettura, una supposizione. Ma la congettura,
la supposizione, e il timore, non si rivelarono tuttavia per intero infondati;
perché, come forse era inevitabile, nel nuovo ambiente il G. non poteva non
ottenere la posizione preminente e da protagonista che non solo il prestigio di
cui godeva, ma anche e sopra tutto la forte personalità della quale era dotato,
non potevano non assicurargli. La sua posizione divenne preminente
nell'Università e, quindi, nella Biblioteca filosofica che, per le iniziative
di G. Amato Pojero che ne aveva la cura principale, divenne un centro vivo di
dibattiti, nel quale l'idealismo attuale definì per la prima volta sé stesso e
vide la luce. Anticipato in modo più che parziale con il breve saggio che nel
1909 il G. dedicò a Le forme assolute dello spirito e, senza presentarlo in
altra sede, incluse nel volume su Il modernismo e i rapporti tra religione e
filosofia (1909) come sua ideale premessa (e conclusione), l'idealismo attuale
trovò la sua prima espressione nella memoria, letta presso la Biblioteca
filosofica nel dicembre del 1911, su L'atto del pensare come atto puro (Palermo
1912), quindi nell'altra su Il metodo dell'immanenza, e ancora nelle pagine
consacrate a La riforma della dialettica hegeliana (1913) e a Bertrando
Spaventa che l'aveva avviata, nonché nel Sommario di pedagogia come scienza
filosofica, il cui primo volume (1913) contiene in effetti una sorta di teoria
generale dello spirito sotto specie pedagogica. Un volume, questo, che
quando lo lesse in bozze Croce giudicò con qualche severità, perché gli parve
che non solo il G. si fosse espresso con nettezza contro la possibilità che tra
le forme dello spirito potesse darsi la "distinzione", ma anche che,
senza nominarlo e perciò con tanta maggiore asprezza, avesse polemizzato
proprio con lui che nella distinzione aveva fatto e stava facendo consistere il
criterio supremo dell'intelligenza della realtà. Da queste dichiarazioni di
autonomia e di indipendenza, che, implicitamente (ma in modo per altro
trasparente), contenevano qualcosa come una sfida, Croce non poteva non essere
preoccupato; e tanto più in quanto il senso di indipendenza e di autonomia era
confermato da quel che scrivevano gli allievi siciliani del G.: V.
Fazio-Allmayer e A. Omodeo, A. Saitta e F. Albeggiani; e anche G. De Ruggiero,
che siciliano e residente in Sicilia non era, ma attualista sì, anzi
ultrattualista, come ci teneva a dichiararsi e come aveva del resto dimostrato
con la memoria, pubblicata anch'essa nell'Annuario della Biblioteca filosofica,
su La scienza come esperienza assoluta (1913). La pubblicazione degli
scritti attualisti del G. e le varie manifestazioni che allora innegabilmente
si ebbero del formarsi di una "scuola" che in quella forma
d'idealismo riconosceva l'unica rigorosa e, perciò, possibile, non potevano non
provocare prima o poi la reazione di Croce. Il quale aveva bensì, fra il 1908 e
il 1909, fatto il possibile perché il G. tornasse a Napoli come professore
nell'Università, convinto che in tal modo la collaborazione sarebbe tornata
alle vecchie forme senza le perturbazioni provocate dalla "scuola" e
dagli spiriti non sempre positivi che, in effetti, vi si formano o tendono a
formarvisi. Ma il suo tentativo non ebbe, com'è noto, successo, perché forti e
insormontabili furono le resistenze che l'ambiente accademico napoletano
dimostrò all'accettazione della sua proposta. E così accadde che, persa quella
battaglia nella quale aveva speso molto del suo prestigio e delle sue energie,
quando una grave sciagura privata gli dette il senso che tutto ormai, nella sua
vita dovesse giungere all'estremo chiarimento, Croce decidesse di rendere
pubblico il "dissidio" filosofico che lo divideva dall'idealismo
attuale; e scrisse, per la Voce di G. Prezzolini, un articolo in forma di
lettera (ottobre 1913), nel quale i termini del dissenso erano definiti con
amichevole fermezza. La scelta della Voce significava, nelle intenzioni
crociane, che la disputa non riguardava LaCritica, ossia il luogo della loro
comune opera culturale; e si svolgeva, per così dire, al margine di questa. Ma
la decisione di mettere in piazza il loro dissenso ferì in modo particolare il
G.: anche se, decisa nella sostanza e orientata non a sanare, bensì a
ulteriormente precisare, il dissenso, la replica che anche lui affidò alla
Voce, si presentasse come la risposta amichevole a un'amichevole richiesta di
chiarimenti teoretici. Il dissenso era comunque stato dichiarato; e non mancò
di suscitare molta impressione: tanto più che, replicando a sua volta (dicembre
1913), con fermezza, Croce prese atto di un divario che concerneva non la
periferia, ma il centro stesso delle loro filosofie. Il periodo siciliano
fu comunque fecondo di molto lavoro. E oltre ad aver gettato le basi
dell'idealismo attuale, il G. svolse infatti e approfondì alcuni essenziali
aspetti della scolastica e del Rinascimento; e scrisse di G. Bruno, di
Bernardino Telesio, di G. Vico, mentre la collaborazione alla Criticacontinuava
con il consueto ritmo e, dopo la tempesta teoretica del 1913, nei rapporti con
Croce era tornata la calma. Deve anzi dirsi che, malgrado varie traversie di
natura familiare e qualche apprensione per la sua salute, fu quello un periodo
nella sostanza sereno, sebbene non possa escludersi che egli lo considerasse
provvisorio e in cuor suo non desiderasse una sede diversa e migliore. Quando
infatti, nel 1913, a Napoli e a Roma si liberarono due cattedre, la prima
università fu subito scartata, perché vivo era ancora il ricordo della
sconfitta patitavi quattro anni prima, ma la seconda no; e fu invece presa in
seria considerazione. Il G. riteneva infatti che l'opposizione di G.
Barzellotti, titolare della cattedra di storia della filosofia, potesse essere
in qualche modo aggirata e vinta. Ma il calcolo risultò errato: a Roma per
allora non fu chiamato; e dopo un tentativo, esperito senza troppa convinzione,
di essere chiamato a Torino, città molto amata da Croce, che non avrebbe visto
male un suo trasferimento colà, ma assai meno da lui, che la considerava lontana,
fredda ed estranea ai suoi gusti e alle sue abitudini, scelse infine di andare
a Pisa, dove sarebbe succeduto a D. Jaja e, con l'atmosfera della giovinezza,
anche avrebbe ritrovato la Scuola normale, luogo e fonte inesausta di cari e
intensi ricordi. A Pisa tornò con un piglio e una convinzione ben diversi
da quelli con i quali vi era approdato, giovane e sperduto studente siciliano,
tanti anni prima. Vi approdò con il piglio del pensatore che, ormai sicuro di
sé e delle sue forze, sente di dover svolgere una missione non solo filosofica,
ma anche, lato sensu, civile e politica. La forte accentuazione teoretica che
nei precedenti anni aveva conferito alle sue pagine, anche di storia della
filosofia, non aveva mai spento in lui, se mai aveva rafforzata, la convinzione
spaventiana che ricostruire la filosofia italiana nella sua storia significasse
in realtà contribuire, con le armi della cultura, alla prosecuzione del
Risorgimento, riaccenderne negli animi la consapevolezza, battersi contro la
corruzione letteraria che in Italia si era per secoli fatalmente intrecciata
con lo splendore delle arti. Egli faceva insomma vibrare e risuonare un corda
che a Jaja era rimasta sostanzialmente estranea, ma non a D'Ancona, ebreo e
fervente patriota risorgimentale, e nemmeno, nei suoi modi particolari, al
Crivellucci. Del resto, la prolusione pisana è del 1914; e con gli avvenimenti
che lo caratterizzarono e con quelli che ne sarebbero seguiti, quell'anno
fatale avrebbe ben presto provveduto a trasformare dal di dentro atteggiamenti,
abitudini, costumi, ad accelerare il ritmo delle passioni, talvolta in
superficie, altre volte in profondità, a rendere esplicito e visibile quel che
per l'innanzi fosse rimasto chiuso nel segreto delle coscienze. A Pisa,
per altro, il G. non stette a lungo, perché già nel 1918 egli passava
all'Università di Roma per ricoprirvi la cattedra di storia della filosofia,
dalla quale, sempre nella stessa Università, sarebbe passato, nel 1925, a
quella di filosofia teoretica, lasciata libera da Bernardino Varisco. Ma,
a parte le passioni e anche le incertezze e le angosce politiche che li
caratterizzarono, quelli pisani furono anni importanti: per i risultati
filosofici innanzi tutto, che il G. vi conseguì. Fu allora, infatti, che, dopo
averne offerto un primo saggio nel Sommario di pedagogia, e quindi nelle
memorie palermitane, egli procedette senz'altro a tracciare le linee della
Teoria generale dello spirito come atto puro, nata dalla scuola nel 1916 e
pubblicata la prima volta quello stesso anno: così come dalla scuola nacquero
in quel medesimo tempo i Fondamenti della filosofia del diritto, nei quali,
espressione suprema dell'unità, e unità esso stesso, l'atto era indagato nella
sua dimensione, oltre che teoretica, pratica, senza che fra l'una e l'altra
potesse operarsi la distinzione per la quale, in Croce, i distinti erano i
distinti. Ma a Pisa il G. avviò anche la composizione del Sistema di logica
come teoria del conoscere, la sua opera in ogni senso più rilevante: della
quale scrisse il primo volume che, nato anch'esso dalla scuola, vide la luce
nel 1917 e dovette attendere fino al 1923 per avere il suo compimento nel
secondo volume, dedicato alla logica del concreto. Agli anni di Pisa
appartiene anche, con sicurezza, Il tramonto della cultura siciliana, un libro
del quale si è già avuto modo di accennare come presenti un duplice carattere,
di condanna della cultura siciliana positivistica, materialistica e, deteriori
sensu, illuministica; e di speranza: la speranza che nel segno dell'idealismo
attuale, nato nell'isola per virtù di un siciliano, quella si riscattasse ed
entrasse a pieno titolo nella civiltà moderna. Gli anni pisani furono
quelli del primo conflitto mondiale, di quel dramma, anzi di quella tragedia,
dopo la cui conclusione niente sarebbe più stato come prima. Il G. li visse con
passione, fra esaltazioni e depressioni, come ogni altro italiano del suo ceto,
della sua condizione e della sua cultura; ma anche con il sempre più netto
convincimento che, all'inizio, non era stato scevro di dubbi anche forti, che
quella di entrare in guerra a fianco della Francia e della Gran Bretagna contro
gli Imperi centrali fosse stata una giusta decisione, una sorta di chiamata del
destino risorgimentale della nazione. Il G. non era nazionalista, e meno che
mai era disposto a vedere nell'evento bellico la manifestazione delle forze
sanamente irrazionali che spezzano l'ordine stabilito dalla logica,
sconvolgendo i suoi concetti. Dalle deteriori manifestazioni di misticismo e
vario sensualismo, così frequenti allora nella "cultura" italiana e
non soltanto italiana, si tenne sempre discosto. Ma quando gli indugi
diplomatici furono rotti e la guerra fu dichiarata, egli scoprì in sé
l'interventista che all'inizio non era stato, e progressivamente venne intensificando
e attualizzando le critiche che nei confronti dell'Italia e dell'assetto
politico e morale che si era dato dopo la conclusione del Risorgimento erano
già in lui, allo stato potenziale e, in qualche caso, più che potenziale. Le
essenzializzò e attualizzò perché, senza con ciò diventare nazionalista e
seguitando anzi a oppugnare ogni idea della nazione che attingesse a concezioni
naturalistiche o, peggio, razzistiche, il suo principio, gli parve tuttavia che
la prova terribile alla quale l'Italia aveva deciso di sottoporsi richiedeva
che di lì in avanti i piccoli pensieri cedessero a pensieri grandi e che quel
che s'era ottenuto sui campi di battaglia non fosse poi amministrato dai
politici di sempre, maestri non di drammi, ma di mediocri commedie. Di
qui, anche in questo campo così pericolosamente esposto ai venti violenti delle
passioni, delle "cupidigie", per dirla con il poeta, e dei
"brividi", la ragione profonda dell'ulteriore distacco che allora,
giorno dopo giorno, si venne compiendo da Croce. Il quale, come si sa, non solo
era stato contrario alla guerra, condividendo le realistiche preoccupazioni di
G. Giolitti e di quanti, come lui, erano persuasi che, vinta o persa, la guerra
avrebbe comunque rappresentato per l'Italia un troppo grave rischio. Ma anche
aveva dichiarato che avrebbe considerato una grave onta per il popolo italiano
se all'improvviso i suoi governanti avessero stracciati i trattati e si fossero
schierati dalla parte di coloro contro i quali avrebbero, semmai, dovuto combattere.
Anche nei confronti della guerra che, quando fu dichiarata, li vide entrambi
consapevoli che il loro posto non potesse essere se non quello che l'Italia
aveva scelto per sé, l'atteggiamento dei due filosofi fu, nella sostanza, assai
diverso. E Croce considerava la guerra alla stregua di un evento irresistibile
della natura, ne vedeva la trama violentemente economica e utilitaria, così che
sempre il suo monito fu che non si sottomettesse alla sua particolare logica la
logica dei superiori valori della verità e della cultura, del pensiero e
dell'arte. Diverso fu, invece l'atteggiamento del Gentile. Senza che
perciò si inducesse a passare il segno e a "farsi", come Croce
diceva, "l'animo di guerra", egli la considerò tuttavia come una
grande occasione rigeneratrice, come un evento assoluto, recante in sé il segno
di una tal quale superiore provvidenzialità. Mentre Croce confidava, o quanto
meno sperava, che nell'Europa di domani il meglio dell'Europa di ieri fosse
conservato e potenziato, e nella religione degli studi, nella civiltà dei
rapporti intellettuali, nell'universalità delle idee, gli odi nazionali si
placassero e depurassero, il G. inclinava viceversa, lui che nazionalista non
era mai stato e nemmeno a rigore era diventato, verso i toni dell'esaltazione
nazionale. E fu allora che, per la forza di queste sue convinzioni e passioni,
si preparò la sua futura adesione al fascismo, nel quale, mettendo come fra
parentesi le molte cose che certo non appartenevano al suo costume, egli
credette di scorgere, e in questo convincimento fu poi irremovibile, lo
strumento del riscatto "risorgimentale" dell'Italia. Il sistema
filosofico che fino a quel punto il G. aveva elaborato negli scritti dei quali
qui sopra si è detto era per intero incentrato su questo concetto: che, come la
filosofia antica e quella medievale e moderna (che non riusciva perciò a esser
tale), era rimasta ferma, anche nelle sue dimensioni idealistiche, a un
concetto intellettualistico e soltanto descrittivo del concetto, del soggetto e
della sua attività, con la conseguenza che il concetto non era autoconcetto, e
cioè la sua eterna autogenerazione e autoproduzione, nell'idealismo invece, che
per questa ragione meritava di essere definito "attuale", questo
proprio avveniva. E il concetto era autoconcetto, il soggetto, soggetto, e non
concetto (astratto) del soggetto: non era una sorta di res naturalis che il
concetto appunto si limiti a contemplare, a descrivere nel suo astratto
organismo logico, e non a produrre nell'atto del suo atto. Di qui la tesi,
caratteristica di questo idealismo, che nella sua concretezza e attualità,
l'atto non può trascendere il suo atto, questa trascendenza dell'atto non
potendo essere se non, essa stessa, atto; e l'altra tesi secondo cui la teoria
che dell'atto intendesse darsi è perciò una teoria vera (secondo il G.) ma
astratta: una teoria astratta del concreto (vero anch'esso, naturalmente: e a
fortiori). E di qui l'interna, forte tensione di questa filosofia; che, per un
verso (e sopra tutto nelle sue prime formulazioni) era orientata a svalutare e
criticare ogni teoria che, in quanto soltanto contemplativa e descrittiva,
fosse perciò incapace di cogliere l'atto se non come un "fatto", e
dunque come il suo opposto, falsità ed errore, se l'atto era viceversa verità e
concretezza. Ma per un verso (e questo accade sopra tutto nel secondo volume
del Sistema di logica, non senza che per tale via il G. provasse a rispondere
al rilievo di ineffabilità e misticismo rivoltogli da Croce fin dal 1913) la
questione dell'astratto e del fatto assumeva un altro volto, e l'atto era bensì
celebrato nella sua non obiettivabile attualità, ma il fatto e l'astratto gli
si rivelavano a loro volta indispensabili, erano (per dirla in modo tecnico) il
suo opposto, ma anche il suo diverso, un grado attraverso il quale, sia pure
dissolvendolo, il concreto era, nel e per il suo costituirsi, costretto a
idealmente passare. Il punto critico di questa filosofia sta qui: nel suo
essere, non, come tante volte si è detto, misticismo e indistinzione, ma nel
porsi come una sintesi, attuale e intrascendibile, di opposti, senza poter
rinunziare - donde l'ambiguità - a trattare gli opposti come "gradi",
e cioè come "diversi" o "distinti": nell'essere insomma una
teoria dell'unità che in eterno supera la distinzione, e della distinzione che,
proprio perché è in eterno superata, non può veramente uscire dal quadro e si
rivela come la condizione insostituibile della sua possibilità. Verità
del concreto, dunque: ma anche dell'astratto; che nelle opere del secondo
attualismo, e cioè nel Sistema di logica e oltre, si rivela non, quale
all'inizio era, come natura, immobilità, impenetrabile assenza di coscienza, ma
come circolo e mediazione, punto semovente che parte da sé e per fare ritorno a
sé: come circolo, e perché no, dunque, come esso stesso logo concreto? Come
logo concreto; e perché no, dunque, come logo astratto, se questo è mediazione
e coscienza, e niente più di questo il logo concreto può essere? A Pisa,
negli anni della Grande Guerra, il G. rivelò a sé stesso la passione politica
che gli stava dentro come assopita; e assunse perciò una dimensione che non era
più soltanto quella del professore che parla dalla cattedra e magari fa
conferenze, ma era bensì quella dell'"intellettuale" militante, che
si rivela al grande pubblico attraverso i giornali quotidiani. Ai quali in
effetti, assumendo una consuetudine che avrebbe, con diversa intensità (nel
tempo), mantenuta fino alla fine della sua vita, il G. allora prese a
collaborare: tanto che quando, a guerra finita, raccolse in un volume che
intitolò Guerra e fede (Napoli 1919) quanto aveva scritto durante il suo corso,
il libro risultò tutt'altro che smilzo, e comunque più consistente di quello
che lo seguì, e nel quale, con il titolo Dopo la vittoria (Roma 1920), sistemò
gli articoli composti nei due anni iniziali dell'agitato, inquieto, drammatico
dopoguerra. Un periodo, quest'ultimo, nel quale sempre più decisamente il G.
cercò la sua parte e venne via via inasprendo la sua posizione, perché l'idea
natagli nei passati anni, durante le sue meditazioni sulla storia d'Italia e
sulla fatale dicotomia che nell'età del Rinascimento si era prodotta fra lo
splendore artistico e la decadenza politica e morale, quest'idea doveva ora
essere messa alla prova della realtà, doveva diventare uno strumento forte e
tagliente di lotta e di azione politica. Il che implicava che, pur seguitando a
dichiararsi liberale, sempre più egli sentiva di doversi opporre al liberalismo
quale si era riflesso nel costume politico italiano, nella degenerazione dei
metodi parlamentari, nell'arte del compromesso e del perenne rinvio delle
decisioni: un'arte nella quale maestro insuperabile gli sembrava fosse il
Giolitti, che per lui fu allora non il ministro, come G. Salvemini l'aveva in
precedenza definito, della "malavita", ma l'artista di ogni cosa che
fosse mediocre, si contentasse della mediocrità e rinunziasse a volare alto nei
cieli della grande politica. Furono, questi, mesi drammatici, che egli
visse in uno stato d'animo teso e agitato, e nel segno di un'attività senza
soste, che dette a tratti l'impressione di essersi risolta in frenetico
attivismo. Che certo non si placò quando nel 1920 Croce fu chiamato da Giolitti
a ricoprire nel governo la carica di ministro dell'Istruzione pubblica e dette
la sua opera alla riforma della scuola media e introdusse sia l'esame di Stato,
sia l'insegnamento della religione. Alle cose della scuola il G. aveva, per
parte sua, cominciato a interessarsi da molto tempo: ossia fin da quando,
giovane professore nel liceo di Campobasso, s'era reso conto di quante
manchevolezze l'affliggessero. E poi nel 1913 aveva pubblicato il Sommario di
pedagogia, così che a giusto titolo era, in quel campo, considerato
un'autorità; che, divenuto ministro, Croce non tardò a riconoscere, chiamandolo
a presiedere "la commissione per lo studio dell'autonomia universitaria e
dell'esame di Stato", nonché "a far parte di quella per la riforma
dei programmi presieduta da Vitelli", nominandolo commissario dell'Istituto
femminile superiore di magistero di Roma e confermandolo, nel 1921, nel
Consiglio superiore dell'istruzione pubblica (Turi, p. 294). A Croce, del
resto, il G. non fece mancare il suo appoggio, pieno e incondizionato. Almeno
nei risultati da raggiungere, e nelle conseguenze che occorreva trarre da
alcune generali premesse, i due filosofi amici concordavano senza riserve. E
nel sostenere, per esempio, la tesi che la religione dovesse costituire materia
d'insegnamento, il suo pensiero non differiva da quello di Croce se non per il
"modo" e per la diversa posizione che alla religione egli riserva nel
sistema dello spirito. La sua idea era insomma che, come per pervenire alla
pienezza del suo sé nella filosofia, lo spirito passa attraverso le fasi
ideali, e contrapposte, dell'arte (soggetto) e della religione (oggetto), così
anche nella scuola questo ritmo dovesse trovare una sorta di trascrizione
temporale o fenomenologica, quasi che, per giungere alla filosofia, anche lì si
dovesse percorrere la regione del mito di cui le religioni s'interessano. Ma la
religione della quale il progetto ministeriale prevedeva l'insegnamento era
quella cristiana e cattolica, la più perfetta, per il G., di tutte le religioni
quando, appunto, proprio nella forma assunta dal cattolicesimo la si fosse
considerata. Era, questa, della perfezione cattolica, un'idea che il G. aveva
sostenuto quando, nei primi anni del secolo vigorosamente aveva polemizzato con
i modernisti cattolici. E, per questo riguardo (oltre che per quello
concernente la struttura dello spirito), il suo accordo con Croce era piuttosto
sulle conclusioni che non sul "metodo". Che è poi quello stesso che
si dà a vedere nell'idea che presiedette all'introduzione dell'esame di Stato,
perché se, nel propugnarlo, il G. vi implicava il concetto secondo cui in esso
lo Stato realizzava una delle dimensioni della sua "eticità", Croce
non vi vedeva se non uno strumento di controllo e a questa luce ne interpretava
la necessità. La cosa più singolare fu allora che, nell'atto in cui più
stretto si rivelava il legame dei due filosofi impegnati in una importante
impresa pratica, il loro dissenso filosofico tornò invece a farsi acuto e a
complicarsi con quello politico generale, perché nei confronti del fascismo la
reazione di Croce fu bensì, agli inizi, cauta e anche esitante, ma certo in
quel movimento egli non vide nemmeno una piccola parte delle idealità che il G.
riteneva gli fossero intrinseche e immanenti. Del resto, nel 1920, dopo
due anni che era salito sulla cattedra romana, il G. fondò, assumendone la
direzione, il Giornale critico della filosofia italiana: una rivista di sola
filosofia che anche per questo suo carattere non si contrapponeva in ogni senso
alla Critica, ma in un certo senso sì, anche perché nella nuova rivista gli
scolari che subito si erano stretti intorno al nuovo professore, e in lui
vedevano il sole della filosofia mondiale, riconobbero l'organo della scuola. E
questo, come si sa, era il punto che Croce meno apprezzava ed era disposto a
perdonare. Il momento decisivo della vita del G. venne quando, caduto il
governo del Giolitti nel quale Croce aveva ricoperto l'incarico di ministro, e
succedutogli uno presieduto da I. Bonomi con O.M. Corbino all'Istruzione
pubblica, egli ebbe modo di riflettere sulle mille difficoltà che dal mondo
politico e parlamentare sempre sarebbero state opposte a ogni tentativo che si
fosse fatto d'introdurre nella scuola una seria riforma. La disistima che, in
linea generale, già da molto tempo il G. nutriva nei confronti della classe
dirigente italiana trovava così, nella recente esperienza fatta quando Croce
era al governo con Giolitti, nuovo alimento. E può ben darsi che anche da
questo egli fosse indotto a guardare con sempre più grande favore al movimento
fascista e a considerare con politica indulgenza la violenza e le illegalità di
cui nutriva la sua azione. I documenti necessari a rendere certezza
questa, che è solo una congettura, mancano, che si sappia. Ma non è improbabile
che, appunto, riflettendo sulle recenti esperienze, il G. allora si persuadesse
che, nella questione della scuola come, in generale, in quella concernente il
governo del paese, il regime parlamentare dovesse cedere il campo a un sistema
politico diverso, fondato sulla rapidità delle decisioni e sulla forza
necessaria a tradurle nella realtà. E altresì deve aggiungersi che, nel pensare
così e nell'orientare in questa direzione le sue scelte politiche, come molti
altri egli fu forse tratto in inganno dalla scarsa esperienza che, nel
complesso, aveva non solo della politica, ma anche della storia; che, se gli
fosse stata meglio nota, gli avrebbe con ogni probabilità in segnato che
la politica è un'arte difficile, complessa e insidiosa, non in quanto si svolga
in un Parlamento e da questo attenda il consenso, ma perché è politica, e ha a
che fare con le passioni e gli interessi, nonché con il loro governo.
Come che sia, l'occasione di mettere alla prova i convincimenti che via via gli
si erano formati dentro venne quando, avendo ricevuto dal sovrano l'incarico di
formare il suo governo, che succedeva così a quello per breve tempo presieduto
da L. Facta, Benito Mussolini scelse infine come ministro della Pubblica
Istruzione proprio il Gentile. È stato detto da taluni che, entrando in quel
governo come indipendente e soltanto per le sue competenze non politiche ma
tecniche, il G. accettava da Mussolini quel che avrebbe benissimo potuto
accettare da Giolitti e da chiunque gli avesse offerto un'analoga occasione.
Ma, sebbene egli non avesse ancora dichiarato il suo consenso esplicito al fascismo,
e fascista ancora non potesse perciò essere detto, è pur vero che quel che
pensava di Giolitti e della tradizionale classe politica italiana non gli
avrebbe forse consentito di collaborare nel governo con uomini per i quali
nutriva disprezzo, e non stima. Nel governo in cui entrava il G. poteva infatti
contare sugli ampi poteri che, nel dargli fiducia, il Parlamento aveva concesso
a Mussolini, che governò infatti soprattutto con i decreti legge e con facilità
poteva aggirare le opposizioni; e di questo, che considerava un vantaggio, egli
si giovò con larghezza e altrettanta fermezza, perché, appunto, al governo era
andato con l'idea di realizzare comunque la riforma; e a realizzarla era
deciso. Non è possibile, in poco spazio, raccontare le vicende complesse
e intricate alle quali il progetto gentiliano della riforma dette luogo. E
basteranno due rilievi: uno rivolto a ricordare la struttura a cui la riforma
tendeva e alla quale infine mise capo, l'altro diretto a rievocare le fiere
critiche che essa suscitò, non solo nel mondo politico, ma anche in quello
della scuola. La struttura della scuola riformata prevedeva una scuola
elementare obbligatoria per tutti, nella quale il senso della tradizione
nazionale, della religione e della letteratura tenessero il centro e
costituissero il criterio per la formazione del giovane, al quale certo non
sarebbero mancate le nozioni elementari dell'aritmetica e della scienza.
Accanto al ginnasio-liceo, destinato a formare le future élites dirigenti e,
comunque, gli strati più alti della popolazione, la scuola riformata prevedeva
quattro indirizzi fondamentali a cui, come ha scritto S. Romano,
corrispondevano "quattro distinti ruoli sociali" (p. 174); e altresì
prevedeva che l'educazione impartita nelle elementari sarebbe stata completata,
per i figli del popolo, con tre anni di complementare, mentre una scuola
industriale e tecnico-commerciale, integrata da un istituto tecnico per chi
avesse inteso proseguire nello studio, avrebbe corrisposto alle esigenze
formative di queste professioni, insieme con una scuola magistrale,
proseguibile in un magistero universitario, per certe parti analogo alla
facoltà di lettere e filosofia. Le critiche che a questo modello di
scuola, qui sommariamente descritto, furono rivolte posero subito in rilievo il
carattere conservatore, statico e anche classista di una struttura a cui faceva
in effetti riscontro l'idea di una società immodificabile nei suoi equilibri
politici ed economici. E forti furono subito, da parte di non pochi, le riserve
avanzate circa il ruolo riservato al ginnasio-liceo, nel quale lo studio delle
due lingue classiche, il latino e il greco, prevaleva su quello delle lingue
moderne e, nel complesso, la parte riservata alle lettere appariva rispetto a
quella fatta alle scienze naturali, predominante. Si aggiungano le critiche
rivolte all'abbinamento, nel liceo, della filosofia e della storia, e anche
della matematica e della fisica; e sopra tutto al primo, che sconvolgeva
antiche abitudini sia degli storici, sia dei filosofi, alquanto astrattamente
dedotto da una teoria e che in concreto non aveva, e non ebbe, il potere di
rendere filosofi gli storici, e storici i filosofi. E infine non si dimentichi
che la riforma non piacque a molti cattolici, scontenti del potere che lo Stato
veniva a esercitare sulle scuole private, e a non pochi laici, scontenti essi
pure che la religione cattolica fosse diventata materia obbligatoria per tutti
i giovani cittadini dello Stato italiano. Accanto alle molte critiche,
occorre tuttavia anche ricordare e sottolineare che la riforma gentiliana
nasceva da una visione coerentemente unitaria, e certo non era la veste di
Arlecchino che altrimenti (e come poi è accaduto) avrebbe rischiato di essere:
tante idee di diversa provenienza mal combinate e peggio tenute insieme dallo
spirito deteriore del compromesso politico. Per quanto concerne il rilievo
(certo non infondato) di elitismo e persino di classismo, conviene dimenticare
il "nodo" che, per parafrasare Dante, tiene al di qua di ogni
ragionevole traguardo chi, ripugnando all'idea di fare delle classi economiche
più forti le vere destinatarie dell'alta cultura, intesa perciò come strumento
di conservazione e di trasmissione del potere, con alquanta semplicità di
spirito ritenga che la difficile questione si risolva col
"democratizzare" la cultura, ossia con l'estenderne l'ambito e
abbassarne il livello. L'esigenza che il G. (e questo non può essere negato)
cercava di realizzare, e che per alcuni versi si traduceva in istituti didattici
inadeguati, era diretta a far entrare nelle menti che "cultura"
significa, in primo luogo, la grande difficoltà che s'incontra nel tentativo
che si faccia di conseguirla: un tentativo che va a buon segno soltanto se ci
si impegna nell'acquisizione degli strumenti tecnici, storici, linguistici,
filosofici, scientifici, senza i quali il mondo del sapere non dischiude i suoi
tesori. Ma qui, su questo difficile problema, che tende a tornare insoluto
dinanzi a chi pur lavori nel tentativo di risolverlo, occorre non insistere.
Nel maggio 1923, all'apparenza con una decisione improvvisa, che non fu
comunicata se non a Mussolini, che doveva essere informato, e della quale
nemmeno Croce fu messo al corrente, il G. si iscriveva al Partito nazionale
fascista. E sulle ragioni che lo indussero, mentre era ministro, a compiere
questo passo, che certo non era privo di gravi conseguenze, si è molto
discusso; e da alcuni si è avanzata l'ipotesi che a prendere questa decisione,
che rese contenti i suoi allievi romani, ma non altri che ne rimasero invece
alquanto sgomenti, egli fosse indotto da due diverse, ma convergenti,
persuasioni. La prima, che quello fosse l'esito necessario non
tanto dell'idealismo attuale, che con il fascismo in quanto tale poco aveva in
comune, quanto piuttosto della riflessione da lui condotta nei passati anni
sulla storia d'Italia e sulla possibilità che ora il fascismo aveva nelle mani
di reintegrarne in unità le secolari scissioni e lacerazioni, la politica
imbelle e la letteratura vuota, compiendo il Risorgimento. L'altra,
immediatamente pratica e politica, che la riforma sarebbe stata meglio difesa,
e altrimenti non potesse esserlo, se il liberale che egli era, ed era
considerato, avesse mostrato di condividere senza riserve la convinzione
mussoliniana e fascista e avesse così posto termine, o almeno un freno, alle
critiche che gli si muovevano e alle diffidenze da cui era circondato. In
ogni caso, il passo che doveva decidere il destino del G. era compiuto. Ed è
quanto meno dubbio che, se lo compì anche per salvare la riforma dalle forze
che l'avversavano e minacciavano di impedirne l'attuazione, quel passo servisse
veramente allo scopo. I mesi che precedettero l'assassinio di G. Matteotti,
avvenuto il 10 giugno 1924 e che videro quattro giorni dopo le sue dimissioni
dal governo, furono drammaticamente segnati da gravi difficoltà, a superare le
quali non bastarono né il tattico appoggio datogli dal capo del governo, né gli
inviti alla resistenza provenienti dai suoi scolari e amici romani, né il
sostegno deciso di Croce che, malgrado il sempre più netto incrinarsi dei loro
rapporti e la frattura che entrambi sapevano, in cuor loro, inevitabile, non
glielo fece mancare e, nella sua impresa di ministro, lo sostenne. Le
dimissioni dal governo non furono un atto di autonomia, di distacco dal
fascismo che si era macchiato di un gravissimo delitto, di opposizione alla sua
politica. Furono, infatti, da lui motivate con pure ragioni di opportunità
politica e nell'interesse sia del governo, sia di colui che lo presiedeva:
ossia con l'argomento secondo cui le opposizioni delle quali la sua riforma era
da tempo l'oggetto potessero diventare un pretesto per colpire Mussolini o
avessero comunque, pretesto o no, a indebolire la posizione politica di lui
che, all'improvviso, era venuto a trovarsi in una situazione obiettivamente
molto difficile. Accusato apertamente dalle opposizioni di essere il
responsabile e il materiale mandante del delitto, Mussolini era allora non solo
in pericolo, ma sembrava altresì aver perduto la sicurezza e la
spregiudicatezza che, in momenti non altrettanto gravi, erano sembrate la dote
precipua del suo essere un politico nuovo, estraneo alle astuzie deteriori e
alle infinite mediazioni della prassi parlamentare. E, proprio perché
sull'indecisione dimostrata da Mussolini egli ebbe allora, in lettere private,
a formulare critiche precise - nonché il timore che quello smarrisse la via e
naufragasse -, proprio per questo il proposito di rendergli il più possibile
sgombro di ostacoli il cammino dovette sembrargli l'unico che un seguace fedele
dovesse preoccuparsi di tradurre in comportamenti conseguenti. Al
fascismo, dunque, con quel gesto il G. non tolse il suo consenso, ma piuttosto
lo rinnovò in un momento in cui non mancarono, fra i suoi allievi, quelli che,
delusi dall'indecisione mussoliniana, lo esortavano a prender lui la guida
effettiva, e cioè politica, del fascismo in crisi. Furono quelle settimane
drammatiche, perché, oltre gli elementi obiettivi che rendevano tale la crisi,
a coloro che, nel campo fascista, lo spingevano verso posizioni estreme si
contrapponevano gli amici che, o antifascisti o in via di diventar tali, gli
davano il consiglio opposto: non di rimanere nel partito di Mussolini, ma,
decisamente, di uscirne, mettendo in salvo una volta per tutte il suo
"nome onorato". Drammatiche sono, in questo senso, le lettere che
allora gli scrissero G. Lombardo Radice, collaboratore fedele e amico fraterno,
e A. Omodeo, uno degli allievi prediletti della scuola palermitana. Furono
giorni, settimane, mesi molto difficili anche perché il dissidio con Croce,
che, come si è detto, mai si era sul serio ricomposto e, come il fuoco la
cenere, sempre aveva seguitato a sottendere i loro rapporti, giunse allora,
finalmente, alla sua definitiva espressione. E quali, a determinare la rottura
che in sostanza si consumò alla fine dell'ottobre 1924, possano essere stati
gli episodi e le circostanze specifiche, sta di fatto che era la logica delle
cose a rendere grave ogni episodio, ogni circostanza che, se tale logica non
fosse appunto stata così forte e imperiosa, avrebbero, con ogni probabilità,
potuto avere un esito diverso. Sulle ragioni profonde che la
determinarono e misero fine a un sodalizio durato quasi trent'anni, molte cose
si dissero allora, molte sono state dette poi, quando parve che il distacco
cronologico consentisse la serenità necessaria alla formulazione del giudizio.
E questa non è la sede dove la questione possa essere analizzata in ciascuno
dei suoi aspetti, filosofici, politici, psicologici; e si può ben dire che, per
quanto attiene al suo concreto e determinato delinearsi e decidersi nel tardo
autunno del 1924, essa risulti definita dalle due lettere che il G. e Croce si
scambiarono: essendo tuttavia quest'ultimo che, di fronte alla dolorosa
meraviglia espressa dall'altro nell'apprendere che certi suoi comportamenti
avevano seriamente messo in pericolo la prosecuzione, non solo del loro
sodalizio scientifico, ma, addirittura, della loro amicizia, obiettò che al
dissidio mentale nel quale da tempo si trovavano se n'era aggiunto un altro, di
natura pratica e politica; e che le cose dovevano perciò fare il loro corso
necessario, fino alle estreme conseguenze. Le dimissioni che il G.
presentò e che Mussolini accettò, nominando al suo posto il liberale, e grande
amico di Croce, A. Casati, segnarono nella sua vita una svolta importante.
Nella sua vita, s'intende dire, pubblica e politica; e non nei suoi sentimenti
e convincimenti politici che, a quanto risulta, fino all'ultimo dei suoi giorni
rimasero quelli che nel 1923 lo avevano indotto a chiedere la tessera del
partito fascista. Non nei sentimenti e nei convincimenti, dunque. Ma nella vita
pubblica e politica, sì. Al governo infatti il G. non tornò più. E alla
politica del paese partecipò bensì, nei primi tempi, come presidente della
Commissione dei quindici (divenuta poi dei diciotto), il cui compito fu di
svolgere una revisione costituzionale in senso autoritario dello Stato.
Partecipò bensì come vicepresidente del Consiglio superiore della pubblica
istruzione: una carica importante, questa, che gli consentiva di vegliare
sull'integrità della riforma, proteggendola da quanti avevano interesse a
intervenirvi per alterarla e stravolgerla. Ma, intesa in senso stretto, dalla
politica, in sostanza, egli allora uscì. E la sua partecipazione alla vita del
regime fascista si realizzò nelle istituzioni culturali (per esempio,
l'Istituto nazionale fascista di cultura, poi di cultura fascista) delle quali
ebbe la cura e che presiedette; e se nei giornali e nelle riviste politiche
alle quali normalmente collaborava non perse occasione per dire il suo parere
su ciò che più da vicino lo toccava, l'argomento prescelto fu quasi sempre
culturale, anche se mai egli mancò di collocarlo nel quadro costituito della
sua fede fascista e della sua fedeltà al regime mussoliniano. Almeno su
due episodi occorre tuttavia, non essendo possibile in questa sede un più largo
discorso, soffermarsi. E di questi uno era bensì di natura anche filosofica e
culturale, perché implicava in modo preminente l'idea che da anni ormai egli
aveva elaborato della filosofia e dello Stato che, identico alla filosofia,
rappresenta il vertice stesso dell'autocoscienza; ma anche era di natura
politica, e persino diplomatica, coinvolgendo direttamente l'azione del governo
e del suo capo. Si allude al concordato con la S. Sede dell'11 febbr. 1929. E
il G. lo avversò in un pubblico discorso, che non ebbe conseguenze pratiche
perché sulla via concordataria Mussolini era deciso ad andare fino in fondo, e
l'opposizione del filosofo formalmente rientrò: sebbene quell'episodio dovesse
seguitare ad agire dentro di lui che, forse anche per questo, quasi volesse
rinverdire dentro di sé quel gesto di autonomia non andato a segno, per tutta
la vita polemizzò con i filosofi cattolici e, in modo particolare, con gli
ambienti dell'Università cattolica del S. Cuore di Milano, in primis con padre
A. Gemelli, che egli trattò con la mano rude che riservava a certe sue
battaglie culturali e filosofiche. L'altro episodio è costituito dalla
battaglia che egli sostenne perché ai professori universitari fosse imposto il
giuramento di fedeltà al regime fascista. E a parte le modalità con le quali e
attraverso le quali si svolse; a parte il nesso con le vicende della replica
che, per iniziativa di G. Amendola, e a nome di tanti e tanti intellettuali,
Croce dette al Manifesto degli intellettuali fascisti redatto dal G.; a parte
le tragiche ferite che questa imposizione apriva nella coscienza di tanti che
innanzi a sé videro o la prospettiva della miseria o quella dell'abdicazione ai
dettami dell'etica, c'è qualcosa che a questo riguardo merita di essere notato.
E questo è il singolare concetto della "concordia" a cui, com'era
accaduto persino nei giorni cupi della crisi aperta dell'assassinio Matteotti
(e come ancora sarebbe accaduto vent'anni dopo nei mesi della Repubblica
sociale), anche in quel caso il G. si appellò per sostenere che, se
l'opposizione resa evidente e, anzi, drammatizzata dal conflitto dei due manifesti,
il suo e quello di Croce, fosse stata superata da un formale atto di fedeltà al
regime, l'unità sarebbe stata ristabilita e nessuna discriminazione avrebbe più
avuto alcuna ragione d'essere nei confronti di dissenzienti che non erano,
ormai, più tali. E la cosa singolare è che, nell'argomentare così, non solo
egli mostrava di credere che, se il giuramento fosse stato dato, le ragioni del
dissidio politico che ai suoi occhi lo aveva reso necessario sarebbero venute
meno; ma addirittura riteneva che potesse essere e definirsi unità autentica
quella che fosse stata conseguita per la via della coercizione e non per
quella, da lui tante volte definita come l'unica possibile, della libertà,
mediante la quale lo spirito costituisce sé stesso. Quella dell'Enciclopedia
Italiana fu l'impresa alla quale, fra il 1925 e il 1943, il G. dedicò la parte
più viva della sua energia di grande organizzatore culturale. La parte più
viva, e anche la più grande, la più impegnata e costante, quella con la quale
il suo "tutto" quasi per intero giunse a coincidere. Quasi per
intero; perché, accanto all'opera dell'Enciclopedia, occorre non dimenticare
l'altro grande suo impegno, che fu costituito dalla Scuola normale superiore di
Pisa, della quale fu, dal 1928, commissario, quindi, dal 1932, direttore, e che
nella sua stessa persona difese, nel 1935, dall'attacco mosso da C.M. De Vecchi
di Val Cismon che, divenuto ministro dell'Educazione nazionale (gennaio 1935),
gli mostrò intera la sua ostilità, giungendo anche a destituirlo (giugno 1936).
Il provvedimento del ministro fu presto ritirato perché, sollecitato dal G.,
nella controversia intervenne direttamente il capo del governo, che rimise al
suo posto il filosofo; che poté così continuare la sua opera di potenziamento e
di ammodernamento della Scuola, e rendere assai più agevole il soggiorno, e
migliori le condizioni di studio, agli studenti interni. Dai quali, sopra tutto
negli anni Trenta e Quaranta, dovette sopportare non poche manifestazioni di
antifascismo, perché, fra La Sapienza e la Normale, per opera di alcuni giovani
professori, e in primo luogo di G. Calogero, Pisa era diventata un centro assai
vivo di opposizione al regime fascista. Il consenso del quale questo
aveva goduto fin verso la metà degli anni Trenta era andato impallidendo
quando, con la guerra di Spagna e poi, nel 1938, con le leggi razziali, si ebbe
netta l'impressione che l'allineamento alla Germania nazionalsocialista avrebbe
avuto per conseguenza la tragedia di una seconda guerra europea e mondiale. E,
ancora una volta, il G. si trovò a dover affrontare un conflitto, difficile e
penoso, con i giovani che, direttamente o no, erano anche suoi allievi e non
poco, comunque, avevano ricevuto da lui. Le testimonianze, scritte e anche
orali, che rimangono di quegli anni pisani dicono di un suo atteggiamento
incerto fra paternalismo e autoritarismo, fra benevole indulgenze e improvvise
durezze. Un atteggiamento, questo, tipico di un uomo generoso e, nello stesso
tempo, incapace di comprendere le ragioni del dissenso; e che, su un piano di
ben altra drammaticità, si ripeté quando, avendo accolto e cercato di
"sistemare" alcuni intellettuali tedeschi che, dopo il 1933, avevano
dovuto lasciare la loro terra perché ebrei (P.O. Kristeller, K. Löwith, N.
Rubinstein, per citarne solo tre), la medesima questione gli si presentò, per
gli ebrei italiani, in seguito alla promulgazione delle già ricordate leggi
razziali del 1938. Anche in questo caso, infatti, quanto fu benevolo e
comprensivo nei confronti dei perseguitati, altrettanto il suo atteggiamento fu
debole nei confronti di chi di quella persecuzione si era reso responsabile. E
se niente egli disse in quegli anni in difesa di provvedimenti che non potevano
non ripugnargli profondamente, in pubblico non se ne dissociò. Ma si
diceva dell'Enciclopedia, nell'organizzare la quale, nel dirigerla,
nell'avviarla alla sua realizzazione, il G. seppe altresì formare, nella sede
romana di piazza Paganica, un luogo di lavoro affatto particolare, segnato in
profondità dalla sua energia, ma anche dal suo vivo senso della libertà della
scienza, che in sostanza, tenendosi in difficile equilibrio fra il censore
ecclesiastico e quello politico, egli seppe per lo più garantire agli studiosi
che vi collaboravano e che, se non certo in maggioranza, in buon numero erano
antifascisti o non fascisti. Si pensi, per fare qualche nome, a G. De
Sanctis, che all'Enciclopedia seguitò a collaborare anche dopo che, per non
aver voluto prestare il giuramento di fedeltà al regime, aveva dovuto
rinunziare alla cattedra romana. Si pensi a G. Calogero, a W. Giusti, a U. La
Malfa, a C. Antoni, e ad altri che, se, come si è detto, non erano propriamente
ostili al fascismo, nemmeno gli erano amici incondizionati; e qui si possono,
per esempio, fare i nomi di F. Chabod, di E. Sestan, di W. Maturi. A
proposito dell'Enciclopedia sono state poste, tra le altre, due questioni: se
il G. la concepisse come un grande monumento, fascista, da innalzare al
fascismo, o se da questa idea si tenesse tanto lontano quanto per contro era convinto
che quello dovesse essere un monumento italiano, frutto e documento dell'unica,
ossia della più alta, cultura italiana; e, inoltre, se l'Enciclopedia, quale il
G. la concepì e disegnò, abbia patito la conseguenza della chiusura e
dell'angustia della cultura idealistica e fosse perciò poco disposta a
concedere alle scienze naturali, fisiche e matematiche, lo spazio che queste
avrebbero richiesto e, beninteso, meritato. Alla prima deve rispondersi che,
certo, nata in quegli anni e resa possibile dal fascismo, l'Enciclopedia
appartiene al numero delle opere che allora si produssero. Ma
"fascista" non fu nella concezione, perché esplicitamente il G.
sostenne il suo carattere in primo luogo scientifico, culturale e non politico.
E "fascista" non fu nel contenuto, perché, oltre a essere
"scritta" da molti che fascisti non erano, e anzi al regime erano
avversi, anche gli studiosi che aderivano al regime vi scrissero per lo più da
studiosi e non da fascisti. Sì che, al riguardo, occorre distinguere e mantenere
le distinzioni: aggiungendo (e con questo si passa all'altra questione) che,
come non fu fascista nella concezione, così nemmeno fu "idealistica"
nel senso vulgato, per il quale si dice "idealismo" e s'intende
qualcosa come un oltraggio recato alla scienza. In realtà, come accanto a
studiosi idealisti tanti altri vi scrissero che idealisti non erano affatto,
così non sarebbe giusto dire che in generale le scienze vi fossero depresse, e
che le relative voci non fossero affidate a studiosi di provato e, spesso, di
grande valore. Il lavoro svolto nelle Università di Roma e di Pisa,
l'Enciclopedia, e quindi l'Università Bocconi di Milano, l'Istituto per il
Medio e l'Estremo Oriente, il Centro nazionale di studi manzoniani (di cui il
G. era stato nominato commissario nel 1937, e che fu affidato alle cure
sapienti di M. Barbi e del suo collaboratore F. Ghisalberti) non resero però
meno intensa la sua attività di studioso. Certo, dopo il 1920-21, venne meno
nel G. la possibilità e, con questa, anche l'interesse, di coltivare la ricerca
storica nelle forme che questa aveva assunto, presso di lui, negli anni
precedenti. Ma nel 1931, rielaborazione di un corso tenuto nel 1927-28
nell'Università di Roma, dove (come già si è ricordato) era succeduto al
Varisco sulla cattedra di filosofia teoretica, il G. pubblicava La filosofia
dell'arte, documento di aspra polemica anticrociana, ma anche, nello stesso
tempo, rielaborazione dell'idealismo attuale dal punto di vista del sentimento,
interpretato ora come una sorta di grande Grundakkord, presentante tratti di
essenzialità e precategorialità della stessa vita spirituale. E quindi
pubblicava l'Introduzione alla filosofia (1933), raccolta di scritti
concernenti l'esame dei concetti fondamentali della filosofia, studiati e prospettati
dal punto di vista conseguito dall'idealismo attuale. E senza la pretesa di
ricordare tutti i tanti scritti, spesso di varia occasione, che egli allora
compose e con i quali fu presente nel dibattito e nella vita culturale del
paese, converrà tuttavia far menzione degli scritti dedicati ai poeti, e cioè,
in pratica, a Dante (La profezia di Dante, Roma 1933; Il canto VI del
Purgatorio, Firenze 1940), a Manzoni e infine a Leopardi, il più amato, e
quello altresì al quale dette forse il contributo, in questo campo della
critica letteraria, più notevole (Manzoni e Leopardi, Milano 1928;
Commemorazione di G. Leopardi, Roma 1937; Poesia e filosofia di G. Leopardi,
Firenze 1939). Se la si osserva dall'alto, e la si scruta nel non breve
periodo seguito alle battaglie per la riforma della scuola, contro il
concordato, per l'istituzione del giuramento da imporre ai professori delle
università, la vita del G. sembra, come si è detto, svolgersi prevalentemente
all'interno delle istituzioni culturali delle quali ebbe la cura. E qui, fra le
luci e le ombre di queste molteplici attività, che lo condussero anche
all'acquisto nel 1936 della casa editrice Sansoni, si ha quasi l'impressione
che il personaggio sfugga a una definizione; che, malgrado la sua spesso ingombrante
presenza, ci fosse in lui qualcosa di segreto, di irriducibile, con il quale
egli era forse il primo a non voler prendere, fino in fondo, contatto.
L'uomo era orgoglioso, sicuro di sé: tollerante, come si è detto, ma anche
deciso e prepotente. E non avrebbe mai consentito che qualcuno spingesse, o
provasse a spingere, lo sguardo per andare al di là di quella spessa corazza
attivistica, dietro la quale si muovevano forse più cose di quante amici,
nemici, egli stesso supponessero. Mentre impediva che altri penetrasse nel suo
animo, non era certo lui quello che fosse disposto ad aprirlo perché egli
stesso vi guardasse dentro. Un contributo gentiliano alla "critica"
di sé stesso sembra, francamente inconcepibile. Non senza perciò che un moto di
stupore si determinasse nell'ambito di chi vi conduceva qualche ricerca, dal
suo archivio sono emersi alcuni inediti dedicati alla questione della morte,
ossia a un tema, per il teorico dell'idealismo attuale, insidioso fin quasi al
limite dello "scandalo" (filosofico). Da qualche altro indizio
documentario può desumersi che se la fedeltà che lo legava al fascismo non
venne meno e intatta rimase l'ammirazione per Mussolini e inconcussa la fiducia
in lui, nei confronti del razzistico nazionalsocialismo il G. mostrò tutt'altro
che inclinazione o simpatia. Il che peraltro non gli impedì di accettare senza
discussione alcuna la guerra che, scoppiata nel settembre 1939, coinvolse
tragicamente, nel giugno del successivo anno, anche l'Italia. Nei tre anni
successivi, dal 10 giugno 1940 all'8 sett. 1943 - in quei tre anni così gravi
di disastri, di distruzioni, di sconfitte, e anche di dolorosi lutti familiari,
mentre il nesso che aveva unito le coscienze alla patria si spezzava, perché la
difesa di questa non s'identificava più, per molti, con la difesa della
libertà, da vent'anni perduta -, in questi tre anni il G. scelse il silenzio;
che fu rotto solo in poche occasioni: nel 1942, quando esaltò in un articolo il
Giappone guerriero, che, nei modi noti era entrato in guerra attaccando gli
Stati Uniti d'America; e quindi con il famoso discorso agli Italiani del 24
giugno 1943. È difficile dire come, dentro di sé, il G. valutasse il
dissenso politico sempre più vivo nei confronti del regime, e che egli non
poteva non cogliere nei giovani con i quali, a Roma e a Pisa, aveva frequente
contatto: anche se è indiscutibile che di quel dissenso, di quell'avversione,
del progressivo distacco dal fascismo di molti che pure in questo avevano
creduto e riposto speranze, egli non partecipò, chiuso nel suo sentimento di
fedeltà come in una fortezza della quale convenisse non abbassare, bensì,
piuttosto, tenere ben alzati i ponti levatoi. Fu questa, come si sa, la
ragione per la quale egli accettò l'invito rivoltogli dal segretario del
partito fascista, C. Scorza, di pronunziare dal Campidoglio un discorso che si
rivolgesse agli Italiani, impegnati nella terribile prova della guerra e che,
da qualche settimana avevano ormai il nemico in casa, fortemente attestato
nella terra siciliana. Accettò l'invito che altri, interpellati prima di lui,
avevano declinato. Salì sul Campidoglio, e pronunziò il suo discorso, che
alcuni lodarono per il coraggio che aveva dimostrato e per il rischio al quale
aveva in tal modo esposto la sua persona, e altri invece fortemente deplorarono
e criticarono, cogliendovi come il segno della sua perdizione, del suo ribadito
essersi reso estraneo a quel suo più profondo "sé stesso" dal quale
non pochi avevano tratto una lezione di libertà. Certo, con quel suo discorso,
così teso, così eloquente e così, politicamente, ingenuo, il G. mostrò intero
il dramma, anzi rivelò la tragedia nella quale, forse al di là della sua stessa
consapevolezza, si dibatteva. Poi vennero il 25 luglio, la caduta di
Mussolini e del fascismo, le umiliazioni che egli dovette subire quando il suo
antico segretario al ministero della Pubblica Istruzione, L. Severi, divenuto a
sua volta ministro nel governo formato da P. Badoglio, rese, senza alcuna seria
ragione, pubbliche tre lettere che gli erano state da lui privatamente
indirizzate a proposito, sopra tutto, di questioni concernenti la Scuola
normale superiore di Pisa. Il che provocò giudizi aspri su di lui sia da parte
dei fascisti che lo ritennero pronto a mettersi al servizio dei nuovi
governanti, sia da parte di non pochi antifascisti uniti ai primi, in questo
caso, da un non diverso giudizio. Poi venne l'8 settembre, la cui notizia
il G. apprese mentre si trovava a Roma, dove si era recato uno o due giorni
prima, per affari personali, da Troghi, un piccolo paese sito a pochi
chilometri da Firenze, nel quale, in una casa di campagna messa a disposizione
sua e della sua famiglia dall'amico G. Casoni, aveva trascorso i mesi estivi,
occupato a scrivere Genesi e struttura della società, il suo ultimo libro,
estremo frutto di un corso di lezioni tenute all'Università di Roma. E le
settimane successive furono quelle in cui, liberato Mussolini, e formatosi, con
la proclamazione della Repubblica sociale, un governo fascista con sede a Salò,
egli ricevette, tramite C.A. Biggini, divenuto ministro dell'Educazione
nazionale, l'invito a recarsi al Nord per un incontro con il capo del governo,
il "vecchio amico" al quale, ancora una volta, non poté non concedere
quel che quello gli chiedeva. Così fu nominato presidente dell'Accademia
d'Italia, trasferita da Roma a Firenze, dove fu sistemata a palazzo Serristori.
E qui, dopo che il "commovente" incontro con il "vecchio
amico" Mussolini aveva come riacceso in lui il desiderio di non starsene
in disparte e, invece, di combattere la sua ultima battaglia, egli riprese il
lavoro, cercando di riorganizzare l'Accademia e lavorando con i pochi soci che
vi si recavano, assumendo la direzione della Nuova Antologia, cercando di
riprendere contatti, e rapporti, per avviare nuove imprese. Ridette vita e
autonomia, e questa è una circostanza singolare, la cui genesi richiederebbe
qualche studio e attenzione, all'Accademia dei Lincei che infine era stata in
parte assorbita nell'Accademia d'Italia, e quindi soppressa. E riprese ancora a
collaborare ai giornali, perché, mentre gli eserciti alleati risalivano la
penisola e alla guerra che investiva le città e le campagne un'altra si
aggiungeva, di Italiani contro Italiani, gli sembrò che non si potesse non far
di nuovo risuonare il tema della concordia e dell'unità. Era un suo
vecchio tema, una sua convinzione tenace che, nel livido e tragico teatro che
era allora l'Italia, fu qual era stata durante la crisi seguita all'assassinio
di Matteotti, e quindi al tempo del giuramento fascista imposto ai professori
universitari, anche se, risuonando nella solitudine e nel gelo che circondavano
la sua persona, il suo accento risultasse ancora più livido, ancora più
tragico. Il G. riprese quel tema nel fosco crepuscolo dell'Italia fascista, forte
lui della convinzione che gli Italiani sarebbero tornati a esistere come
soggetti politici solo se fossero retroceduti al di qua delle ideologie e qui,
in questo luogo ideale, avessero ritrovato la loro unità e identità di
Italiani. Era una convinzione nutrita di illusione; e che fosse tale, si
comprende non solo se le sue parole siano ripensate nel clima di quel tragico
inverno, ma anche se si riflette sullo scambio logico sul quale, ancora una
volta, si fondavano, e che si rivela non appena si consideri che per un verso
sembrava che la conciliazione, la concordia, la ritrovata unità e identità
dovessero realizzarsi in un luogo ideale, irraggiungibile dalle ideologie, dal
fascismo, dunque, e dall'antifascismo, mentre per un altro era la Repubblica
sociale a rappresentare, nel segno dell'italianità, quel luogo ideale.
Ancora una volta le diverse componenti della sua anima, quelle che, nel loro
contrasto, conferiscono alla sua personalità un'inconfondibile dimensione
tragica, urtarono violentemente l'una contro l'altra. E la fedeltà mantenuta
usque ad mortem al fascismo si accompagnò alla protesta che egli più volte
elevò contro le atrocità alle quali intanto si dava luogo, da parte dei
fascisti, con torture, uccisioni, gravi violenze. La sua morte, avvenuta
per mano di un commando partigiano comunista, che lo attese nei pressi della
Villa Montalto al Salviatino, sulle colline di Firenze dalla parte di Fiesole,
nella tarda mattina del 15 apr. 1944, al suo ritorno a casa dopo la mattina
trascorsa al lavoro a palazzo Serristori, fu perciò anch'essa una morte
violenta. E suscitò molta emozione, anche fra coloro che lo avevano combattuto
e mai avevano perdonato a lui, filosofo dell'atto e della sua assoluta libertà,
la scelta fascista, cui era rimasto fedele. Due domande, semplici, ovvie
e altrettanto inevitabili, si pongono, e sono state poste, a proposito della
sua ultima scelta politica e sulle ragioni che determinarono la decisione di
ucciderlo. E la risposta non è, per quanto concerne la seconda, altrettanto
semplice di quella che può e deve darsi alla prima. Alla Repubblica sociale il
G. aderì per le ragioni da lui stesso addotte; perché si trattava non di
scegliere di nuovo, ma di ribadire, nel momento del supremo pericolo, la scelta
fatta vent'anni innanzi. E non c'era calcolo politico che bastasse a mettere in
crisi questa decisione, perché l'intero universo si concentra e vive nell'atto
puro, e quel che resta fuori non è se non calcolo, astuzia: ossia, a rigore,
niente. Alla seconda domanda rispondere si potrà in modo adeguato quando nuovi
documenti interverranno a far luce nelle molte zone oscure che tuttora
impediscono di vedere tutta la verità; che emergerà quando e se emergerà: e
allora si vedrà fino a che punto nella decisione di uccidere il G. che aveva
rinnovato il suo legame con il fascismo e con Mussolini siano entrate anche
valutazioni politiche non direttamente note a quanti, sulla collina fiorentina,
spezzarono il filo della sua vita. Qui basterà ricordare che nella chiesa di S.
Croce, in Firenze, il nome del G. indica, sul pavimento, il luogo della sua
sepoltura. Opere. Le opere complete del G., raccolte via via durante la
vita dell'autore, prima da Laterza (Bari), poi da Treves-Tumminelli (Milano e
Roma), quindi da Sansoni (Firenze), furono riprogettate e stampate dopo la
morte del G. e la fine della guerra mondiale da questo medesimo editore, al
quale subentrò negli ultimi anni, ma senza alcuna mutazione di veste
tipografica e di caratteri, l'editrice Le Lettere, sempre di Firenze.
L'edizione definitiva rispetta fondamentalmente le partizioni già previste dal
G., e cioè: I, Opere sistematiche; II, Opere storiche; III, Opere varie alle
quali due si aggiungono, una IV, Frammenti, e una V, Epistolari. A queste
cinque partizioni si è unita di recente, una VI di Scritti inediti e vari,
nella quale sono apparsi fin qui Eraclito. Vita e frammenti (con il facsimile
del manoscritto della traduzione di H. Diels), a cura di H.A. Cavallera,
premessa di F. Adorno, Firenze 1996, e La filosofia della storia. Saggi e
inediti, a cura di A. Schinaia, premessa di E. Garin, ibid. 1996. A parte
questi due ultimi, i volumi fin qui pubblicati delle Opere complete sono
quarantanove, perché ancora in preparazione risulta il XXIX, dedicato a B.
Spaventa; e aumenteranno, negli anni a venire, nella sezione comprendente i
Carteggi, alcuni dei quali sono già in lavorazione, come quello con G.
Calogero, a cura di C. Farnetti, e l'altro con G. Chiavacci, a cura di M.
Simoncelli. Qui converrà ricordare in quanto inserite nel testo
della voce le principali opere del G.: Rosmini e Gioberti, Pisa 1898; La
filosofia di Marx, ibid. 1899; Il modernismo e i rapporti tra religione e
filosofia, Bari 1909; I problemi della scolastica e il pensiero italiano, ibid.
1913; La riforma della dialettica hegeliana, Messina 1913; Sommario di
pedagogia come scienza filosofica, I, Pedagogia generale, Bari 1913; II,
Didattica, ibid. 1914; Teoria generale dello spirito come atto puro, Pisa 1916;
I fondamenti della filosofia del diritto, ibid. 1916; Sistema di logica come
teoria del conoscere, I, La logica dell'astratto, ibid. 1917; II, La logica del
concreto, Bari 1923; Le origini della filosofia contemporanea in Italia, I-IV,
Messina 1917-23; Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze
1922; La filosofia dell'arte, Milano 1931; Introduzione alla filosofia, ibid.
1933; Genesi e struttura della società, Firenze 1944. Fra i
carteggi, quello con Croce, comprendente le sole lettere del G., è raccolto in
Lettere a B. Croce, I-V, a cura di S. Giannantoni, Firenze 1972-90 (il testo di
riferimento è B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, con
introd. di G. Sasso, Milano 1980). Ma sono anche usciti: G. Gentile - D. Jaja,
Carteggio, a cura di M. Sandirocco, I-II, Firenze 1969; G. Gentile - A. Omodeo,
Carteggio, a cura di S. Giannantoni, ibid. 1974; G. Gentile - S. Maturi,
Carteggio, a cura di A. Schinaia, ibid. 1987; G. Gentile - F. Pintor,
Carteggio, a cura di E. Campochiaro, ibid. 1993. Fonti e Bibl.: Tre sono
le biografie fin qui dedicate al G.: M. Di Lalla, Vita di G. G., Firenze 1975;
S. Romano, G. G.: la filosofia al potere, Milano 1984; G. Turi, G. G.: una
biografia, Firenze 1995. Si aggiungano i ricordi e le testimonianze di B.
Gentile: G. G.: dal Discorso agli Italiani alla morte (24 giugno 1943 - 15
aprile 1944), Firenze 1954; Ricordi e affetti, Firenze 1988. Sulla uccisione
del G., v. L. Canfora, La sentenza. C. Marchesi e G. G., Palermo 1985, dove si
troverà l'indicazione della precedente bibliografia relativa a questa pagina
non ancora definitivamente scritta. Cfr. anche G. Sasso, La fedeltà e
l'esperimento, Bologna 1993, pp. 73-117. La bibliografia sul G. è assai ampia:
per gli scritti del G. ci si deve ancora servire della Bibliografia degli
scritti di G. G., a cura di V.A. Bellezza, in G. G.: la vita e il pensiero,
III, Firenze 1950, e anche di Il pensiero di G. Gentile. Atti del Convegno
1976-1977, Roma 1977, II, pp. 903-1011. Per gli scritti dal 1980 al 1993, si
veda: S. Bonechi, B. Croce - G. G.: bibliografia 1980-1993, in Giornale critico
della filosofia italiana, LXXV (1994), pp. 632-660. In questo ambito per un
primo orientamento si può innanzi tutto cercar di distinguere fra quanto di e
sul G. è stato scritto dai principali discepoli delle sue due scuole, la
palermitana e la romana, e cioè da V. Fazio-Allmayer, da A. Omodeo, F.
Albeggiani, il giovane G. De Ruggiero, e quindi U. Spirito, A. e L. Volpicelli,
G. Calogero, G. Chiavacci, lo stesso A. Carlini, ecc. in ciascuna delle loro
opere, e quanto invece al pensatore siciliano è stato dedicato con esplicita
intenzione storiografica. Non sempre agevole da rispettare, la distinzione può
tuttavia essere di qualche utilità; e qui si indicheranno gli scritti
appartenenti alla seconda classe (mentre per la storia "filosofica"
dell'attualismo, può vedersi A. Negri, G. G., I-II, Firenze 1975; cfr. anche A.
Lo Schiavo, Introduzione a G., Bari 1974). Sono, innanzi tutto, da tener
presenti gli studi raccolti nei quattordici volumi della serie G. G.: la vita e
il pensiero, Firenze 1948-72. Si veda quindi: G. De Ruggiero, La filosofia
contemporanea, Bari 1912; U. Spirito, Il nuovo idealismo italiano, Roma 1923;
Id., L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze 1930; V. La Via,
L'idealismo attuale di G. G., Trani 1925; F. De Sarlo, G. e Croce. Lettere
filosofiche di un superato, Firenze 1925; G. Calogero, Il neohegelismo nel
pensiero contemporaneo, in Nuova Antologia, 16 ag. 1930, pp. 3-20; R.W. Holmes,
The idealism of G. G., New York 1937; P. Carabellese, L'idealismo italiano,
Roma 1938; A. Guzzo, Sguardi sulla filosofia contemporanea, Roma 1940; M.
Ciardo, Un fallito tentativo di riforma dello hegelismo: l'idealismo attuale,
Bari 1949; E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari 1955;
H.S. Harris, The special philosophy of G. G., Urbana, IL, 1960; A. Guzzo,
Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova 1964; U. Spirito, G.
G., Firenze 1969; A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Milano 1978; V.A.
Bellezza, La problematica gentiliana della storia, Roma 1983; A. Del Noce, G.
G.: per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna
1990; A. Negri, L'inquietudine del divenire. G. G., Firenze 1992; G. Sasso,
Filosofia e idealismo, II, G. G., Napoli 1995.Armando Girotti. Girotti. Keywords:
la curva, la curva della bellezza, la linea, la linea della bellezza, storia
storica, non filosofica – unita longitudinale – longamiranza, distillizione
filosofica – Gentile, il Gentile di Girotti. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Girotti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gitio: la setta di Locri -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Locri). Filosofo
italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.
Grice e
Giudice: l’implicatura conversazionale di Bruno – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: Grice: “Giudice amply proves my trust
in the worth of the longitudinal unity of philosophy, for Giudice has unearthed
some philosophical minutiae in Bruno – like his tract to Sir Philip Sidney on
‘Atteone,’ which are jewels of implicature!” -- “For Italian philosophy, Bruno
is interesting: it’s not all saints like Aquinas; they had hereetics, too – and
usually the heretics had a better philosophical background – into what the
Italians called the lovely ‘hermetic tradition’ – we used to have one at Oxford
in pre-lib days!” -- Grice: “If I am a Griceian, Giudice is a Brunoian – the
Italians prefer ‘brunista’ or ‘bruniano,’ but I follow Katz is respecting the
full surname – if it is ‘bruno,’ you add things, you don’t substract things!” Essential Italian philosopherwho has studied in depth
the origin of philosophy in the Eleatic school. Guido del Giudice (Napoli), filosofo. Si
laurea a Napoli e studia Bruno e la filosofia del rinascimento. Fonda la
Societa Giordano Bruno. Altre opera: “Bruno” (Marotta e Cafiero Editori,
Napoli); “La coincidenza degli opposti” (Di Renzo Editore, Roma); “Bruno,
Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo Editore, Roma); “Due Orazioni. Oratio
Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo Editore, Roma, “La disputa di
Cambrai. Camoeracensis acrotismus, Di Renzo Editore, Roma); “Il Dio dei
Geometri” quattro dialoghi, Di Renzo Editore, Roma); “Somma dei termini
metafisici”; “Tra alchimisti e Rosacroce, Di Renzo Editore,Roma, “Io dirò la
verità. Intervista a Giordano Bruno, Di Renzo Editore, Roma, “Contro i
matematici, Di Renzo Editore, Roma, “Il profeta dell'universo finite” – “Epistole
latine, Fondazione Mario Luzi,. Scintille d'infinito” (Di Renzo Editore). BRUNO,
Giordano (Philippus Brunus Nolanus; Iordanus Brunus Nolanus, il Nolano). -
Nacque a Nola, nel Regno di Napoli, nel gennaio o febbraio 1548, figlio di
Giovanni Bruno, uomo d'arme, e di Fraulisa Savolino: fu battezzato con il nome
Filippo. Della città natale, dove trascorse l'infanzia e iniziò i primi studi,
conservò poi sempre un ricordo nostalgico. Si reca a Napoli per studiare
lettere, logica e dialettica: in quello Studio ebbe come maestri il Sarnese
(Giovan Vincenzo Colle), filosofo di tendenze averroiste, e fra' Teofilo da
Vairano, agostiniano, da lui ricordato in seguito con sincera ammirazione. La lettura
di uno scritto di Pietro Ravennate suscitò fin da allora in lui l'interesse per
la mnemotecnica. Il 15 luglio 1565, a diciassette anni compiuti e con una
incipiente formazione laica, entrò come chierico nel convento napoletano di S.
Domenico Maggiore, dove assunse il nome Giordano (forse in onore del domenicano
fra' Giordano Crispo, maestro allo Studio) e quel nome ritenne poi sempre,
salvo che per una breve parentesi. Mal compatibile, per carattere e prima formazione,
con la regola conventuale, tra il 1566 e il 1567 incorse nelle prime infrazioni
per aver spregiato il culto di Maria, nonché quello dei santi (una denuncia
contro di lui venne allora stracciata dal maestro dei novizi). Con
cautela va accolta la notizia da lui in seguito fornita (Doc. parigini, V) di
un invito a Roma per mostrare la propria abilità mnemonica a Pio V (viaggio che
lo Spampanato pone tra il 1568 e il 1569):va però notato che allo stesso
pontefice il B. dichiarò di aver dedicato L'arca di Noè,operetta smarrita di
argomento morale (Dialoghi italiani). Ordinato suddiacono e poi diacono
(principio del 1571), venne consacrato sacerdote dopo aver compiuto i
ventiquattro anni, e celebrò la prima messa nella chiesa del convento domenicano
di S. Bartolomeo a Campagna, presso Salerno. Nella seconda metà del 1572, dopo
aver soggiornato in altri conventi del Napoletano, fece ritorno allo Studio di
S. Domenico Maggiore in Napoli come studente formale di teologia: il curriculum
quadriennale comprendeva un corso speculativo (prima e terza parte della Summa
tomista) e un corso morale (seconda parte della Summa,alternabile con il quarto
libro delle Sentenze di Pietro Lombardo esposte da fra' Giovanni Capreolo). È
da ritenere che il B. abbia superato gli esami annuali, e nel luglio 1575
quelli di licenza, per cui sostenne le tesi "Verum est quicquid dicit D.
Thomas in Summa contra Gentiles" e "Verum est quicquid dicit Magister
Sententiarum" (Doc.parigini, II). Tali studi, se da una parte
suscitarono in lui una non mai smentita ammirazione per l'opera di s. Tommaso,
d'altra parte dovettero ingenerargli quel fastidio per "les subtilitez des
scholastiques, des Sacrements et mesmement de l'Eucharistie" (Doc.
parigini,II), con il conseguente disinteresse per la problematica teologica
manifestato in seguito nelle proprie opere come pure, più tardi, in sede
processuale. Fin dagli anni conventuali mostrò per contro interesse per opere
estranee al curriculum, nonché decisamente vietate, quali i "libri delle
opere di S. Grisostomo e di S. Ieronimo con li scolii di Erasmo" (Doc.
veneti, XIII).Ciò che, unitamente all'espressione dei propri dubbi circa il
dogma della Trinità durante una discussione sulla eresia ariana, portò
all'istruzione di un processo a suo carico da parte del padre provinciale (con
l'occasione venne ricostruito anche il precedente atto d'accusa già distrutto):
in una scrittura smarrita inviata a Roma egli doveva figurare come sospetto di
eresia. Mentre il processo veniva iniziato, il B. non esitò ad
abbandonare il convento e la città, probabilmente nel febbraio 1576, e nello
stesso mese dové giungere a Roma, dove prese alloggio nel convento di S. Maria
sopra Minerva, confidando forse che il proprio caso passasse ignorato tra i
disordini che turbavano la città. Egli stesso venne però coinvolto in tali
disordini e imputato di "aver gettato in Tevere chi l'accusò, o chi
credette lui che l'avesse accusato a l'inquisizione" (Doc. veneti, I):
imputazione infondata (come è mostrato dal mancato riferimento ad essa nelle
successive vicende processuali), con tutto che un secondo processo contro di
lui venne istruito nel 1576 dall'Ordine dei predicatori. Dopo i primi mesi di
quell'anno, saputo che i propri libri erasmiani erano stati rintracciati a Napoli,
il B., deposto l'abito, abbandonò Roma, raggiunse Genova (circa 15 aprile) e si
trattenne a Noli fino al principio del 1577 "insegnando la grammatica a
figliuoli e leggendo la Sfera a certi gentilomini" (Doc. veneti, IX). Da
Noli passò a Savona e quindi a Torino; di lì, non avendovi trovato
"trattenimento a sua satisfazione", si recò a Venezia, dove si
trattenne non più di due mesi, facendovi stampare, allo scopo di guadagnare
qualcosa, "un certo libretto intitolato De' segni de' tempi", da lui
fatto esaminare dal domenicano Remigio Nannini: opera pur questa smarrita. A
Padova fu persuaso da alcuni domenicani a indossare l'abito pur quando non
avesse voluto rientrare nell'Ordine: ciò che il B. fece dopo essersi recato,
per Brescia, a Bergamo. Toccata Milano, nel 1578 lasciò l'Italia attraverso la
Savoia, diretto a Lione: giunto a Chambéry e avvertito dai domenicani locali
dell'ostilità che avrebbe incontrato nella regione, si trasferì a Ginevra, dove
fin dal 1552 una comunità evangelica italiana era stata fondata dal marchese
Gian Galeazzo Caracciolo di Vico. A Ginevra, dimesso nuovamente l'abito,
il B. si guadagnò da vivere come correttore di bozze tipografiche. Risulta
tuttavia che egli aderì formalmente al calvinismo, come provato non tanto dalla
immatricolazione universitaria autografa del 20 maggio 1579, quanto da un
processo per diffamazione ai danni del titolare di filosofia Antoine de la
Faye, istruito contro di lui dal concistoro nell'agosto 1579: il giorno 13 il
B. venne riconosciuto colpevole e virtualmente scomunicato. Dopo un debole
tentativo di difesa, egli si riconobbe colpevole, pregò di essere riammesso
alla cena, e il giorno 27 venne prosciolto dalla scomunica. Tale episodio (che
avrebbe lasciato tracce durevoli nelle sue opere mediante la propria polemica
anticalvinista) determinò la sua partenza da Ginevra. Recatosi questa
volta a Lione, non avendovi trovato modo di sostentarsi, vi si trattenne solo
un mese (forse tra il settembre e l'ottobre 1579) e si recò quindi a Tolosa,
che era proprio in quel tempo uno dei baluardi della ortodossia cattolica: ciò
che dimostra la portata della sua reazione anticalvinista, confermata anche dal
tentativo che allora fece di ottenere l'assoluzione da un padre gesuita. La
mancata assoluzione, "per esser apostata" (Doc. veneti, XII), non gli
impedì di essere invitato "a legger a diversi scolari la Sfera, la qual
lesse con altre lezioni de filosofia forse sei mesi" (Doc. veneti, IX),
nonché di conseguire il titolo di magister artium: ed ottenere per concorso il
posto allora vacante di lettore ordinario di filosofia: onde lesse, "doi
anni continui, il testo de Aristotele De anima ed altre lezioni de
filosofia". Da accenni fatti più tardi dallo stesso B., è dato inferire
che il suo insegnamento incluse lezioni di fisica, matematica e lulliane.
Risale a quest'epoca la composizione della Clavis magna, trattato
mnemotecnico-lulliano rimasto inedito e smarrito. Nell'estate del 1581 si
delineò una ripresa della lotta tra cattolici e ugonotti, e il B. dové lasciare
Tolosa "a causa delle guerre civili" (Doc. veneti, IX). Trasferitosi
a Parigi, vi intraprese "una lezion straordinaria", cioè un corso di
trenta lezioni su altrettanti "attributi divini, tolti da S. Tommaso dalla
prima parte", che alcuni vogliono costituisse l'operetta inedita e
smarrita "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali"
(Doc. veneti, I). A Parigi non poté accettare un lettorato ordinario per
l'obbligo - che, come apostata, non volle assumersi - di frequentare la messa;
tuttavia conseguì tale rinomanza mediante il lettorato straordinario, che, come
ebbe a dichiarare egli stesso, "il re Enrico terzo mi fece chiamare un
giorno, ricercandomi se la memoria che avevo e che professava, era naturale o
pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e
feci provare a lui medesimo, conobbe che non era per arte magica ma per
scienza" (Doc. veneti, IX): episodio che ben si comprende tenendo conto
del fatto che la corte francese era frequentata da intellettuali come J. D. du
Perron e Pontus de Tyard di cui sono noti gli interessi per il sapere
enciclopedico e l'arte della memoria come strumenti per un piano di riforma
culturale. Tuttavia i rapporti del B. con la corte - che sarebbero durati,
direttamente o indirettamente, per circa un quinquennio - si spiegano altresì
sul piano ideologico-politico, ove si tenga conto dell'analogia tra
l'equidistanza bruniana dal rigorismo cattolico e da quello protestante, e la
posizione mediana dei politiques, che controllavano la corte, tra l'estremismo
cattolico dei ligueurs e quello protestante degli ugonotti. Durante
questo primo soggiorno parigino apparvero a stampa le prime operette bruniane a
noi pervenute: il Deumbris idearumcon raggiunta dell'Arsmemoriae, opera
mnemotecnica e lulliana stampata da E. Gourbin nel 1582, dal B. dedicata ad
Enrico III, il quale "con questa occasione lo fece lettor straordinario e
provisionato" (Doc. veneti, IX: egli venne cioè a far parte del gruppo dei
lecteurs royaux, tendenzialmente contrari al conformismo aristotelico della
Sorbonne); seguì, nello stesso anno, il Cantus circaeus, operetta mnemotecnica
stampata da E. Gilles e dedicata, per conto del B., da J. Regnault a Henri
d'Angoulême, fratello naturale del re, essendo il B. stesso "gravioribus
negociis intentus" (Opera, II, 1, p. 182); quindi il De compendiosa
architectura et complemento Artis Lullii (Gourbin, 1582) dedicata dal B.
all'ambasciatore veneto Giovanni Moro. La prima parte del De umbris
rielabora materiale lulliano e mnemotecnico ai fini di una ricerca gnoseologica
che presuppone, platonicamente, una corrispondenza tra mondo fisico e mondo
ideale; la seconda e terza parte costituiscono un manuale mnemotecnico per cui
il B. attinge in particolare al ravennate (l'impostazione didascalica è ripresa
nell'Ars memoriae, in cui elementi della tradizione astrologico-ermetica si
inseriscono nella elaborazione lulliana e mnemotecnica, fermo restando
l'intento gnoseologico). Il Cantus circaeus, in due dialoghi, presenta
un'applicazione concreta dell'ars esposta nel De umbris, non senza
un'intenzione satirica che sarà poi sviluppata nello Spaccio. Il De compendiosa
architecturarielabora gli elementi tecnici del lullismo allo scopo di offrire
uno strumento gnoseologico per cui l'ordine universale risulta riflesso nello
schema simbolico. Nell'agosto del 1582 il B. terminava la composizione
dell'unica sua commedia, il Candelaio, stampata prima della fine dell'anno
(anteriormente forse al De compendiosaarchitectura) da Guillaume Julien figlio.
Sul frontespizio l'autore si definiva "Academico di nulla Academia, detto
il Fastidito, in tristitia hilaris, in hilaritate tristis. Il Candelaio,
scritto in un volgare popolaresco ricco di napoletanismi plebei, ma non senza
echi della tradizione burlesca rinascimentale (Aretino, Berni, ecc.) accanto a
moduli parodici della retorica classica, riflette sul piano morale il momento
di rottura con l'Ordine, né è da escludere che la composizione ne fosse stata
iniziata prima dell'allontanamento dall'Italia. Dedicata Alla signora Morgana
B., personaggio napoletano di non sicura identificazione, la commedia, di
ambientazione appunto napoletana - la cui azione si svolge nel 1576,
"vicino al seggio di Nilo" - investe satiricamente "tre materie
principali" e "l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la
pedanteria di Manfurio", in una sorta di applicazione alla vita morale del
principio bruniano della corrispondenza e identificazione dei distinti
nell'uno. Fin dalle pagine preliminari si notano del resto motivi che,
riallacciandosi alla base teoretica dell'elaborazione lulliana e mnemotecnica
delle operette latine, anticipano alcuni presupposti dei più tardi dialoghi
filosofici ("Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla
s'annichila; è un solo che non può mutarsi..."). Dalla dedica del
Candelaio si sono desunti due titoli di presunte opere smarrite del B. (Gli
pensier gai e Il troncod'acqua viva), mentre nell'atto I, scena II, si trova
citata un'ottava ("Don'a' rapidi fiumi in su ritorno") di un
"poema" inedito e smarrito, cui appartiene forse anche l'ottava
"Convien ch'il sol, donde parte, raggiri" citata tre anni dopo negli
Eroici furori. Il 28 marzo 1583 l'ambasciatore inglese a Parigi, H.
Cobham, inviava un preoccupato messaggio al primo segretario del Regno
d'Inghilterra, F. Walsingham, informandolo dell'intenzione del B. di passare in
Inghilterra: la preoccupazione concerneva l'ambigua posizione bruniana in fatto
di religione. L'arrivo del B. in Inghilterra, con lettere di raccomandazione di
Enrico III per il proprio ambasciatore presso Elisabetta - il tollerante Michel
de Castelnau (cui era affidato il compito delicato di sostenere la causa di
Maria di Scozia presso la regina) -, è da porre nell'aprile. Da una parte il B.
poté essere indotto a lasciare Parigi "per li tumulti che nacquero"
(Doc. veneti, IX) - o più esattamente per il delinearsi di quella reazione
cattolica che due anni più tardi avrebbe indotto il re a revocare gli editti di
pacificazione con i protestanti -; d'altra parte non è da escludere che il suo
viaggio in Inghilterra potesse rientrare in un piano dei moderati francesi
inteso a mobilitare la corrente politique inglese ai fini di una distensione
politico-religiosa in Europa. Ma non è certo da trascurare la personale urgenza
bruniana per una sua affermazione sul piano accademico-speculativo dopo i
tentativi compiuti a Tolosa e a Parigi. Al suo arrivo in Inghilterra il
B. prese dimora nella casa del Castelnau, a Butcher Row, dove "non faceva
altro, se non che stava per suo gentilomo" (Doc.veneti, IX). Tra il 10 e
il 13 giugno 1583 fece una prima visita a Oxford, al seguito del conte palatino
polacco Alberto Laski: in tale occasione, pur non facendo parte degli oratori
designati, sostenne un pubblico dibattito con i dottori oxoniensi, in particolare
con il teologo John Underhill, richiamandosi alla logica aristotelica in
polemica con le posizioni ramiste. Rientrato a Londra, è da ritenere che
indirizzasse allora la sua pomposa lettera Ad excellentissimum Oxoniensis
Academiae Procancellarium,clarissimos doctores atque celeberrimos magistros
(allegata ad alcuni esemplari della Explicatio triginta sigillorum), con la
quale faceva istanza per l'ottenimento di una lettura a Oxford. Sebbene dai
registri universitari non risulti che il B. abbia tenuto un corso formale in
quella sede, la sua stessa testimonianza di avervi tenuto "pubbliche
letture, e quelle de immortalitate animae, e quelle de quintuplici
sphaera" (Dialoghi italiani, p. 134: vedi Doc. parigini, I, e Opera, II,
2, p. 232), risulta confermata dalla pur ostile testimonianza di George Abbot
(cfr. McNulty), il futuro arcivescovo di Canterbury, allora membro del Balliol
College, da cui si apprende che, dopo la prima visita a Oxford, il B. vi tornò
nel corso della stessa estate e vi iniziò un corso in latino sostenendo, tra
l'altro, la teoria copernicana del movimento della Terra e della immobilità dei
cieli: anticipando quindi pubblicamente quanto da lui elaborato nei dialoghi
londinesi stampati l'anno seguente. Così il B. come l'Abbot concordano nell'affermare
che tale corso venne interrotto per pressioni esterne (stando all'Abbot, il
medico Martin Culpepper, guardiano di New College, e Tobie Matthew, decano di
Christ Church, avrebbero rilevato un plagio bruniano nei confronti del
ficiniano De vita coelitus comparanda: ciò che può essere inteso con
riferimento ai prestiti ficiniani nella terminologia bruniana). Interrotto il
corso dopo la terza lezione, rientrò a Londra, presso il Castelnau, ribadendo
il proprio atteggiamento antiaccademico, in direzione quindi antiaristotelica e
insieme antiumanistica. A Londra il B. condusse la propria polemica
culturale e speculativa sia in discussioni nell'ambito dei circoli
paraccademici di corte, sia mediante la divulgazione a stampa delle proprie
teorie già respinte dal pubblico universitario inglese. La prima opera
pubblicata a Londra, nel 1583, è un volumetto contenente l'Ars reminiscendi,
l'Explicatio triginta sigillorum (preceduta in alcuni esemplari dalla già
citata lettera agli Oxoniensi) e il Sigillus sigillorum. Solo per l'Explicatio
e per la lettera è possibile precisare l'officina tipografica, che è quella di
John Charlewood, dalla quale sarebbero uscite tutte le rimanenti opere
londinesi. L'Ars reminiscendi è, con lievi varianti, una riproduzione
dell'ultima parte del Cantus circaeus. Gli scritti che seguono portano la
dedica all'ambasciatore francese, con parole di riconoscenza per la familiare
ospitalità. L'elencazione dei "triginta sigilli" mostra che questi
rappresentano la sintesi formale dei segni ovvero ombre delle cose e delle
idee. Dalla Triginta sigillorum explicatio appare manifesto il presupposto
gnoseologico del complesso simbolismo mnemotecnico bruniano. Nel Sigillus
sigillorum si manifesta la fede del B. nell'unità del processo conoscitivo, cui
corrisponde, sul piano ontologico, la fondamentale unità dell'universo. Alla
innegabile utilizzazione di elementi propri alla tradizione
platonico-alchimistica, fa qui riscontro l'assenza di preoccupazioni e tendenze
d'ordine mistico-religioso: il carattere "speculativo" del Sigillusfa
di quest'opera il legittimo antecedente della serie dialogica italiana.
Il 14 febbraio del 1584, mercoledì delle Ceneri, il B. venne invitato a
illustrare la propria teoria sul moto della Terra nella "onorata
stanza" di sir Fulke Greville, a Whitehall, in compagnia di Giovanni
Florio e del medico gallese Matthew Gwinne, essendo presenti due dottori
oxoniensi sostenitori del sistema geocentrico e un cavaliere di nome Brown (in
sede processuale tale riunione venne dichiarata come avvenuta invece in casa
del Castelnau). La conversazione degenerò presto in un diverbio causato dalla
intolleranza dei due dottori oxoniensi: sdegnato, il B. si licenziò dall'ospite
e di lì a qualche giorno iniziò la stesura della Cena de le Ceneri (stampata
nello stesso anno). Tramite il resoconto della sfortunata discussione, il
B. enuncia in questi dialoghi la propria cosmografia: movendo
dall'eliocentrismo copernicano, egli approda intuitivamente a una concezione
originale dell'universo che per molti rispetti sembra anticipare i postulati
della scienza moderna. Già prima dell'arrivo del B. in Inghilterra, la corrente
scientifica distaccatasi dalle università e sostenuta dalla corte elisabettiana
(Robert Recorde, John Dee, John Field, Thomas Digges) aveva mostrato un certo
interesse per le teorie copernicane: è in questa corrente appunto che si
inserisce ormai l'attività inglese del B., sia per le istanze
"scientifiche" (elaborazione di una moderna teoria astronomica), sia
per quelle letterarie (ripudio del latino e adozione del volgare per
trattazioni scientifico-speculative) e perfino politiche (adesione alla
moderata fazione puritana capeggiata da Robert Dudley, conte di Leicester, nei
contrasti tra questo e il tesoriere elisabettiano William Cecil: ciò che ci è
rivelato dal confronto tra la prima e la seconda redazione del dialogo II della
Cena). Suddivisa in cinque dialoghi, dedicati all'ambasciatore francese,
la Cena è in sostanza un'opera cosmografica che, se da una parte contrasta il
geocentrismo aristotelico e tolemaico, d'altra parte trascende l'eliocentrismo
copernicano con l'affermazione della pluralità dei mondi nell'universo infinito
(non senza la suggestione implicita della definizione ermetica di Dio, come
sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non si trova in
alcun luogo): sul piano teologico ne deriva l'affermazione dell'infinito
effetto della causa infinita, nonché l'interpretazione prammatica di quei passi
delle Scritture che concordano con la concezione vulgata dell'universo.
L'impostazione polemica dell'opera investe, nel dialogo II, tutti gli strati
della contemporanea società inglese mediante una rappresentazione vivacemente
realistica. Il B., pur adottando la forma dialogica della tradizione speculativa
rinascimentale, la piega alle esigenze della propria polemica, accostandosi non
di rado alla maniera parodica della tradizione aretiniana: onde non manca la
satira della pedanteria grammaticale oltre che di quella peripatetica.
Gli attacchi contenuti nella Cena alla università di Oxford e alla società
inglese suscitarono una forte reazione negli ambienti accademici e cittadini:
reazione che coincise con una serie di offese, anche materiali, del pubblico
londinese contro gli addetti all'ambasciata francese e contro, la stessa sede
diplomatica. Nell'emozione del momento il B. poté ritenersi oggetto diretto di
quella reazione anticattolica: è certo tuttavia che la pubblicazione della Cena
gli fece perdere molte di quelle simpatie che era riuscito ad accattivarsi a
Londra. Di qui l'esigenza di premettere ai già composti quattro dialoghi
speculativi De la causa, principio et uno, un dialogo "apologetico"
che si risolse però, caratteristicamente, in un ribadimento della propria
polemica, salvo un riconoscimento esplicito della validità della tradizione
speculativa oxoniense anteriore alla Riforma e la lode di alcuni personaggi
conosciuti a Oxford (in particolare Martin Culpepper e Tobie Matthew). La
pubblicazione dei nuovi dialoghi, dedicati anch'essi al Castelnau, seguì di
poco quella della Cena. Il primo dialogo della Causa si distingue dai
rimanenti quattro anche per i diversi interlocutori (tra questi
"Elitropio" è G. Florio, mentre "Armesso" sembra
identificabile con M. Gwinne); notevole, tra gli interlocutori dei rimanenti
dialoghi, lo scozzese Alexander Dicson "Arelio" (nativo di Errol),
discepolo londinese del B. e autore di un'opera mnemotecnica, De umbra rationis
et iudicii (1584) ispirata al De umbris bruniano: l'opera era stata attaccata
da William Perkins, ramista di Cambridge, il quale non mancò di accomunare i
nomi del B. e del Dicson nella sua riprovazione del metodo mnemonico classico
considerato in opposizione a quello ramista. La presenza di questo
interlocutore, insieme con l'attacco frontale a Ramo nel dialogo III, può
valere a farci considerare la Causa come opera di letteratura militante
nell'ambito della contemporanea polemica ramista (per l'aspetto politico non va
dimenticato che l'attività del Dicson era in linea con il programma politique).
I quattro dialoghi più propriamente speculativi della Causa concernono la
definizione dei tre termini enunciati nel titolo: "causa" e
"principio" sono intesi, rispettivamente, come la "forma" e
la "materia" che, indissolubilmente unite, costituiscono
l'"uno", cioè il "tutto". Movendo dalla critica dei
postulati della tradizione aristotelica, e non senza ricorso alle formulazioni
di stampo neoplatonico ed ermetico, il B. giunge in tal modo a fornire una
originale base teoretica alla propria cosmologia già in parte enunciata nella
Cena e di lì a poco elaborata nei dialoghi De l'infinito. Il motivo della
satira antipedantesca si accentua nella Causa con una aderenza polemica alle
posizioni culturali delle due università inglesi. Il ritmo serrato con
cui alla pubblicazione della Cena e della Causa seguì, sempre nel 1584, quella
dei dialoghi De l'infinito, universo e mondi e dello Spaccio de la bestia
trionfante si spiega tenendo conto del fatto che già nell'estate del 1583 il B.
doveva aver elaborato buona parte del materiale confluito poi nei tre dialoghi
cosmologici. Anche l'Infinito porta la dedica al Castelnau, mentre lo Spaccio è
dedicato a sir Philip Sidney, nipote del Leicester, mostrandoci in tal modo la
portata dei contatti letterari, oltre che politici, dal B. avuti in
Inghilterra. Nei cinque dialoghi De l'infinito, in polemica con la fisica
aristotelica, il B. rigetta la teoria della divisibilità all'infinito e
ribadisce la propria teoria della infinità dell'universo e della pluralità dei
mondi. In questa opera risulta enunciato il pensiero bruniano sul rapporto tra
filosofia e religione conforme alla teoria averroista esposta dal Pomponazzi.
Tra gli interlocutori figura Girolamo Fracastoro, tracce delle cui dottrine
sono reperibili nel dialogo III; discutibile rimane l'identificazione di
"Albertino" con Alberigo Gentili (dal B. certamente incontrato a
Oxford): potrebbe trattarsi invece di personaggio nolano. La nuova
concezione dell'universo esposta nei tre dialoghi cosmologici si riflette sul
piano etico con la trilogia dei dialoghi tradizionalmente definiti
"morali", a cominciare dallo Spaccio, il cui tono satirico ravviva
un'invenzione che risale, letterariamente, ai dialoghi "piacevoli" di
Niccolò Franco. Lo Spaccio espone un piano di riforma morale che implica
la critica all'etica cristiana delle Chiese riformate non meno che di quella
cattolica, in nome di un attivismo umanistico contrapposto al tradizionale
umanesimo misticheggiante e retorico. L'ispirazione acristiana dell'etica
bruniana sembra trovare conferma nella critica - metaforicamente condotta -
della duplice natura della persona del Cristo. Non è escluso che questa opera
sia da identificare con il Purgatorio de l'inferno,titolo fornito dal B. nella
Cena. Le allusioni politiche contenute nello Spaccio sono compatibili con
l'orientamento brumano favorevole ai politiques e che risale al suo soggiorno
parigino: c'è chi pur oggi continua a ritenere che la "bestia
trionfante" spodestata nello Spaccio sia da identificare con l'intransigente
Sisto V. Ma, a parte la cronologia, sembrerebbe contrastare all'interpretazione
il quadro tracciato nella Cabala del cavallo pegaseo, con l'aggiunta dell'Asino
cillenico (pubbl. 1585), in cui l'"asino", identificabile con la
"bestia" dello Spaccio, riassume il suo posto nel cielo: né sembra
possibile supporre che la Cabala sia posteriore al 21 sett. 1585, data della
bolla con cui Sisto V scomunicò il re di Navarra. Al di là del possibile
significato politico-religioso, la Cabala interessa sia per l'accentuata satira
morale rispetto allo Spaccio,sia per gli spunti speculativi (quali il problema
del rapporto tra le anime individuali e l'anima universale, risolventesi nella
negazione dell'assoluta individualità delle anime) che valgono a meglio
illuminare questa fase del pensiero bruniano. L'operetta è scherzosamente
dedicata a un personaggio nolano, don Sabatino Savolino, della stessa famiglia
materna del B. cui pure appartiene l'interlocutore "Saulino" presente
già nello Spaccio. Il B.ebbe a dichiarare in seguito, di aver soppresso questa
opera in quanto non piacque al volgo e ai sapienti "propter sinistrum
sensum": essa è infatti la più rara tra le superstiti opere a stampa di
Bruno. Il soggiorno inglese del B. non poteva concludersi in maniera più
degna che con la pubblicazione dei dialoghi De gli eroici furori (1585),
dedicati al Sidney, in cui risultano poeticamente esaltati i principî
fondamentali della filosofia bruniana esposti nei tre dialoghi cosmologici,
mentre vi si sviluppa e precisa la portata della satira morale contenuta nei
due dialoghi etici. I dieci dialoghi De gli eroici furori hanno come tema
il conseguimento della consapevolezza dell'unione con l'Uno infinito da parte
dell'anima umana. La terminologia di estrazione ficiniana (risalente a Platone,
Plotino, Dionigi l'Areopagita, lamblico, Proclo, ecc.) rischia di far perdere
di vista il carattere "naturale e fisico" del discorso bruniano,
quale dall'autore stesso enunciato nella dedicatoria. La stessa adozione dei
moduli platonici ("ente, vero e buono son presi per medesimo significante
circa medesima cosa significata") va in realtà ricondotta a una sfera
etica in cui si risolve ogni apparente residuo di trascendenza: infatti
"le cause e principii motivi" sono "intrinseci" e la
"divina luce è sempre presente"; "ogni contrarietà si riduce a
l'amicizia", "le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono
alte". Notevole nei Furori l'esposizione della poetica bruniana che,
movendo dalla critica delle poetiche rinascimentali nella loro interpretazione
normativa della poetica aristotelica, approda a una concezione della poesia
come letteratura applicata: di qui il ripudio della tradizione lirica
petrarchesca, pur nell'adozione prammatica di rime intonate al gusto del tardo
petrarchismo (ivi inclusi prestiti dal Tansillo e dalla Cecaria di M. A.
Epicuro). Gli interlocutori sono tutti nolani, ovvero, come il Tansillo,
amici della famiglia del Bruno. Notevole, come dato biografico dell'infanzia,
la presenza di due figure femminili: Laodamia e Giulia. Nell'ottobre del
1585 il B. rientrava in Francia al seguito dell'ambasciatore Castelnau: il
quale ai primi di novembre si trovava già a Parigi; durante il viaggio la
comitiva era stata vittima di una grassazione. Al suo rientro a Parigi il B. veniva
a trovare un clima politico mutato (nel luglio Enrico III aveva revocato gli
editti di pacificazione e nel settembre era stata pubblicata la bolla contro il
re di Navarra): di qui forse il suo tentativo infruttuoso "de ritornar
nella religione" (Doc. veneti, XII) tramite il nunzio apostolico Girolamo
Ragazzoni. Dedicò al filonavarrese P. Del Bene, abate di Belleville, la
Figuratio Aristotelici physici auditus (1586), esposizione mnemonico-mitologica
del pensiero aristotelico; entrò in contatto con gli italiani di Parigi, tra i
quali Giovanni Botero, stringendo amicizia con Iacopo Corbinelli che lo definì
"piacevol compagnietto, epicuro per la vita" (cfr. Yates), e dal 6
dic. 1585 prese a frequentare l'abbazia di St. Victor, dove quel giorno prese a
prestito l'edizione di Lucrezio curata da H. van Giffen e confidò al
bibliotecario Guillaume Cotin (il cui diario ci conserva le notizie fornitegli
dal B.) l'intenzione di pubblicare l'Arbor philosophorum, del quale nulla
sappiamo a parte il titolo lulliano. Due episodi clamorosi
neutralizzarono in quel tempo il residuo d'appoggio in cui il B. poteva ancora
sperare presso il partito politique. Dopo aver assistito a una pubblica
dimostrazione del compasso di riduzione inventato dal geometra salernitano
Fabrizio Mordente, uomo senza lettere, il B. acconsentì a divulgare in latino
la scoperta - parendogli atta a dimostrare il limite fisico della divisibilità,
conforme alla propria incipiente monadologia -: pubblicò infatti, prima del 14
apr. 1586, i Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina
adinventione (seguiti dall'Insomnium), presso P. Chevillot: opera ambiguamente
laudatoria che irritò il Mordente, alla cui polemica verbale il B. rispose con
i sarcastici dialoghi Idiota triumphans e De somnii interpretatione,dedicati al
Del Bene e fatti stampare prima del 6 giugno insieme con i due precedenti
dialoghi mordentiani. Il B. veniva così ad attaccare apertamente un cattolico
fautore dei Guisa, reclamando per sé l'ormai vacillante protezione politique.
Atale imprudenza si aggiunse una disputa dal B. tenuta il 28 maggio al Collège
de Cambrai, in presenza dei lecteurs royaux, sulla base di Centum et viginti
articuli de naturaet mundo adversus peripateticos: programma da lui fatto
stampare sotto il nome del discepolo J. Hennequin. Secondo il Cotin il B. non
avrebbe preso la parola, neppur dopo che allo Hennequin ebbe risposto R.
Callier, giovane avvocato politique (il B. venne dunque sconfessato dal suo
stesso partito), e, riconosciutosi battuto, avrebbe abbandonato Parigi. Secondo
Corbinelli, il B. "s'andò con Dio per paura di qualche affronto, tanto
haveva lavato il capo al povero Aristotele", mentre il Mordente decideva
di ricorrere al Guisa. Lasciata Parigi, il B. giunse in Germania nel giugno
1586;toccata Magonza e Wiesbaden, il 25 luglio veniva immatricolato
all'università di Marburgo come "theologiae doctor romanensis" (Doc.
tedeschi, I). L'insegnamento bruniano si dovette mostrare incompatibile con
l'aristotelismo ramista di quella università: gli fu infatti negato il permesso
di leggere pubblicamente; a una protesta formale il B. fece seguire le proprie
dimissioni. Nella stessa estate passò a Wittenberg, nella cui università venne
introdotto da A. Gentili e immatricolato (20 agosto) come "doctor
italus" (Doc. tedeschi,II).Per circa due anni poté insegnare indisturbato
(lesse, tra l'altro, l'Organon di Aristotele) e fece stampare il De lampade
combinatoria lulliana (1587) - commentario dell'Arsmagna - cui premise una
lettera alle autorità accademiche mostrandosi riconoscente per la liberale
accoglienza. Seguì la pubblicazione del De progressu et lampade venatoria
logicorum, sorta di compendio della Topica aristotelica, dedicato a G. Mylins,
cancelliere dell'università. Allo stesso anno risale il suo corso privato sulla
Rhetorica adAlexandrum (pubbl. post. da H. Alstedt: Artificium perorandi,
Francofurti 1612), come il frammento delle Animadversiones circa lampadem
lullianam e la Lampas triginta statuarum, amplificazione dell'Arsmagna lulliana
(post.: negli Opera: 1890, 1891), con cui si conclude la trilogia delle
"lampade". L'anno seguente, per i tipi di Zaccaria Cratone, uscì
nella stessa città una seconda edizione dei Centum et viginti articuli (ridotti
a ottanta, con le relative rationes), con un discorso apologetico di J.
Hennequin: Iordani Bruni Nolani Camoeracensis Acrotismus. Allostesso periodo,
sembra, risalgono i commentari aristotelici ai primi cinque libri della Fisica,
al De generatione et corruptione e al quarto libro Meteorologicon (pubblicati
negli Opera postumi: Libri physicorum Aristotelis explanati, 1891). L'8 marzo
1588 ilB. si accomiatava dall'università con una Oratio valedictoria stampata
dal Cratone: va notato che il vecchio duca Augusto era morto prima dell'arrivo
del B., e che il successore Cristiano I favorì progressivamente il calvinismo,
giungendo a proibire, nel 1588, ogni polemica a questo contraria; di qui la
rinnovata precarietà della posizione di Bruno. Partito da Wittenberg, il
B. giunse a Praga nella primavera del 1588e vi si trattenne fino al principio
dell'autunno, attrattovi forse dal mecenatismo dell'imperatore Rodolfo II, il
cui cattolicesimo moderato poté sembrargli incoraggiante; non sappiamo comunque
se fu registrato all'università. A Praga il B. ripubblicò, presso G. Nigrinus,
il De lampade combinatoria R. Lullii preceduto dal De lulliano specierum
scrutinio: nuovo commentario dell'Arsmagna dedicato all'ambasciatore spagnolo
don Guglielmo de Haro; con dedica all'imperatore, presso G. Daczicenus, gli
Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque
philosophos, in cui riprendeva la propria polemica contro l'interpretazione
meccanica della natura (già anticipata nei dialoghi mordentiani e poi svolta
nel De minimo):notevole, nella dedicatoria, la dichiarazione della religio
bruniana, interpretabile come teoria della tolleranza religiosa e
speculativa. Ricevuta in dono dall'imperatore la somma di "trecento
talari" (Doc. veneti, IX), al principio d'autunno del 1588 ilB. si recò a
Helmstedt, attrattovi dalla "Academia Iulia" (fondata dal duca
protestante Giulio di Brunswick), dove fu registrato il 13 genn. 1589, e dove
il 1º luglio lesse l'Oratio consolatoria (stampata da Iacobus Lucius) per la
morte del duca avvenuta il 3 maggio. Il B. fu remunerato dal nuovo duca, Enrico
Giulio, con "ottanta scudi de quelle parti" (Doc. veneti, IX), ma non
gli mancarono seri fastidi: fu infatti scomunicato dal sovrintendente della
locale Chiesa luterana, Gilbert Voët, per motivi che il B. definì di natura privata
in una sua lettera di protesta alle autorità accademiche, ma che avranno avuto
giustificazione formale per sospetto filocalvinismo (è comunque significativo
che alla originaria scomunica cattolica e a quella calvinista ginevrina si
aggiungesse ora la scomunica luterana). Il B. rimase tuttavia nella città fino
almeno all'aprile 1590. Durante l'anno e mezzo ivi trascorso lavorò alle opere
poi stampate a Francoforte e compose il gruppo di opere "magiche"
stampate postume negli Opera (1891), De magia e Theses de magia (concernenti la
magia naturale), De magia mathematica (parzialmente tuttora inedita nel
"codice di Mosca"), De rerum principiis et elementis et
causis;trattati tutti che tendono a dimostrare la possibilità
dell'utilizzazione pratica delle forze naturali occulte. Il 10 aprile
intervenne a una disputa tenuta dal dottor Heidenreich e il 13 - avendo
riscossi a Wolfenbüttel 50 fiorini assegnatigli dal duca - si accomiatò
dall'università con l'intenzione di passare per Magdeburgo (dove risiedeva W.
Zeileisen, zio del discepolo norimberghese Girolamo Besler, di cui si era
servito come copista) allo scopo di farvi stampare qualcosa di suo in onore del
duca. La partenza fu ritardata fin oltre il 22: ed è probabile che il B. si
recasse direttamente a Francoforte sul Meno (allo scopo di farvi stampare la
trilogia poetica latina, sua opera di maggior rilievo dopo i dialoghi
londinesi), dove giunse al più tardi nel giugno. Il 2 luglio il Senato della
città rigettò una sua richiesta di poter alloggiare presso lo stampatore J.
Wechel, il quale tuttavia gli procurò alloggio presso il convento dei
carmelitani. Il B. attese soprattutto alla pubblicazione dei tre poemi: i
Detriplici minimo et mensura... libri V e il De monade, numero et figura liber
unito ai De innumerabilibus, immenso et infigurabili... libri octo, opere
dedicate al duca di Brunswick, per le quali il B. curò la stampa e intagliò i
legni, salvo che per l'ultimo foglio del De minimo a causa di un repentino
allontanamento dalla città (per cui la dedica relativa fu composta dal Wechel).
Stampati con la data del 1591, ilDe minimo fu posto in vendita nella primavera;
il De monade con il De immenso,nell'autunno. Nei poemi francofortesi -
composti alla maniera di Lucrezio - il B. sviluppa in senso decisamente atomistico
la propria concezione della materia già esposta nei dialoghi londinesi. Nel De
minimo sicontiene la definizione dell'atomo bruniano: pars ultimadella materia,
minimum fisico assoluto, sostrato di tutti i corpi, impenetrabile. La
discontinuità degli atomi lascia aperto il problema dello spazio tramezzante
(con tutto che il B. riconosce l'esigenza di una materia che
"agglutina" gli atomi). Se l'"atomo" è l'elemento materiale
insecabile, il "minimo" è l'essere o la figura minima in un dato
genere, mentre la "monade" è l'unità di un genere determinato:
l'atomo, che è di forma sferica, è anche minimo e monade. Gli atomi sono
infiniti essendo infinita la materia. In tale concezione non v'è posto per una
forza esteriore che regoli o determini le combinazioni materiali. Nel De monade
il B. dà una spiegazione aritmologica delle diverse qualità degli oggetti
sensibili, i cui elementi vengono mossi - come già sostenuto nella Causa
rispetto alla materia infinita - da un principio intrinseco. Così l'atomismo
dei poemi francofortesi si riallaccia all'animismo dei dialoghi londinesi, dei
quali il De immenso riprende esplicitamente l'esposizione cosmologica, con una
aderenza a tratti letterale (tanto che il Fiorentino fu indotto a riportare al
periodo inglese l'inizio della composizione del poema). In quest'ultimo il B.
ripercorre il cammino della propria speculazione, rinnovandone la polemica
contro la fisica aristotelica e ribadendone il superamento intuitivo
dell'eliocentrismo copernicano. Applicato l'ordine di estradizione del
Senato francofortese poco prima del 13 febbr. 1591, il B. riparò a Zurigo, dove
tenne lezioni di filosofia scolastica raccolte e pubblicate poi da Raphael Egli
(la Summa terminorum metaphysicorum a Zurigo nel 1595; la Summa con la Praxis
descensus seu applicatio entis a Marburgo nel 1609). Ritornato per breve tempo
a Francoforte, il B. pubblicò presso il Wechel i De imaginum,signorum,et
idearum compositione ad omnia inventionum,dispositionum et memoriae genera
libri tres (1591), dedicati a J. H. Heinzel, patrizio di Augusta da lui
conosciuto a Zurigo. Durante il secondo soggiorno francofortese il B. fu
raggiunto da lettere del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, il quale, letto
il De minimo, lo invitava a Venezia affinché gli "insegnasse l'arte della
memoria ed inventiva" (Doc. veneti VIII). Il B. giunse a Venezia
prima della fine d'agosto del 1591. I motivi soggettivi dell'imprudente
rientro in Italia sono stati variamente definiti: imponderabile è la componente
nostalgica, mentre è ormai da escludere il proposito di una azione di riforma
religiosa con l'ausilio delle proprie nozioni magiche (con tutto che
l'accessione del Borbone al trono di Francia e la presenza del mite Gregorio
XIV sul soglio pontificio ravvivavano allora le speranze conciliatrici in
Europa); sul piano contingente, più che dell'occasionale invito del Mocenigo,
va tenuto conto delle aspirazioni magistrali dal B. non mai dimesse nel corso
dei suoi soggiorni francesi, inglese e tedesco. Infatti, soffermatosi
qualche giorno a Venezia "a camera locanda" (Doc. veneti, VII), il B.
proseguì per Padova, dove già si trovava al principio di settembre e dove si
trattenne, con brevi interruzioni, per almeno tre mesi. Qui impartì lezioni
"a certi scolari tedeschi", tra i quali sarà da includere Girolamo
Besler, che era allora procuratore degli studenti tedeschi (il Besler gli
trascrisse, tra il 1º settembre e il 21 ottobre, la Lampas triginta statuarum
composta nel 1587, il De vinculis in genere, abbozzato l'anno precedente, e il
non bruniano De sigillis Hermetis, inedito e smarrito). All'insegnamento
patavino vanno riferite le Praelectiones geometricae e l'Ars deformationum,
lezioni, rinvenute solo nel 1962, in cui il B. illustra geometricamente
postulati ed enunciazioni del De minimo. L'attività del B. a Padova induce a
ritenere che, con l'appoggio del Besler, egli mirasse alla vacante cattedra di
matematica, che fu assegnata l'anno seguente a Galileo. Rivelatosi
infruttuoso l'insegnamento padovano, al principio dell'inverno il B. si trasferì
a Venezia, prendendo dimora, almeno dal marzo 1592, in contrada S. Samuele,
presso il Mocenigo. Incominciò a frequentare il "ridotto" Morosini,
sul Canal Grande, dove, in un clima di "civile e libera creanza", si
disputava di cose che avevano "per fine la cognizione della verità"
(F. Micanzio, Vita di Paolo Sarpi, Leida 1646). Verso la metà di maggio 1592,
nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, confidò al domenicano fra' Domenico da
Nocera il proprio desiderio di "quetarsi" e di comporre un libro da
offrire al neoeletto Clemente VIII, con lo scopo ultimo di trasferirsi a Roma,
ed ivi "accapare forsi alcuna lettura" (Doc. veneti, X): programma
illusorio, suggeritogli forse dalla politica papale e dalla contemporanea
esperienza di Francesco Patrizi. Il 21 maggio, allo scopo di far stampare a
Francoforte alcune sue opere, inedite e smarrite, "delle sette arte
liberali e sette altre inventive, e dedicar queste... al Papa" (Doc.
veneti, XVII), il B. chiese licenza al Mocenigo. Costui, deluso
dall'insegnamento ricevuto, la notte del 22lo fece arrestare dai suoi e il
giorn 23 presentò una denuncia per eresia (allegando tre libri a stampa del B.
e l'autografo della smarrita operetta "di Dio, per la deduzion di certi
suoi predicati universali", nonché i nomi di due contesti: i librai G. B.
Ciotti e G. Britano) all'inquisitore veneto fra' Gabriele da Saluzzo: la sera
stessa il B. veniva prelevato dagli sbirri e condotto alle carceri di S.
Domenico di Castello. Si apriva così la fase veneta del processo, che si doveva
concludere nove mesi dopo con la sua estradizione a Roma. Gli episodi
principali del processo veneto sono i seguenti: 25 maggio 1592: seconda
denuncia del Mocenigo; 29 maggio: terza denuncia (il B. era complessivamente
accusato di disprezzare le religioni, di non ammettere la "distinzione in
Dio di persone", di avere opinioni blasfeme sul Cristo, di non
credere alla transustanziazione, di sostenere che il mondo è eterno e che vi
sono mondi infiniti, di credere alla metempsicosi, di attendere all'arte divinatoria
e magica, di negare la verginità di Maria, di disprezzare i dottori della
Chiesa, di ritenere che i peccati non vengano puniti, di essere già stato
processato a Roma, di indulgere al peccato della carne); 26maggio:
interrogatorio dei contesti (favorevoli al B.) e primo costituto del B.; 30
maggio: secondo costituto e ulteriore accusa (di aver soggiornato in paesi di
eretici vivendo alla loro maniera); 2, 3 e 4 giugno: interrogatorio sui capi
d'accusa (a proposito dei propri libri il B. dichiarò: "io ho sempre
diffinito filosoficamente e secondo li principii e lume naturale, non avendo
riguardo principal a quel che secondo la fede deve essere tenuto...", Doc.
veneti, XI); 23 giugno: interrogatorio di Andrea Morosini e seconda deposizione
del Ciotti (favorevoli al B.); 30 luglio: ultimo costituto veneto del B.
(ammissione di dubbi marginali già dichiarati e sottomissione al tribunale) e
trasmissione del processo al card. di Santa Severina, inquisitore supremo in
Roma (il quale già prima dell'ultimo costituto interferiva nella causa);
12settembre: richiesta formale di avocazione della causa a Roma; 17 settembre:
consenso del tribunale veneto; 28settembre: trasmissione della richiesta romana
al Collegio presieduto dal doge; 3 ottobre: parere sfavorevole del Collegio
trasmesso al Senato; comunicata a Roma la risposta negativa; 22 dicembre:
rinnovata richiesta al Collegio motivata con precedenti; 9 genn. 1593:
comunicazione a Roma dell'approvazione del Senato.Il 19 febbr. 1593 il B.
usciva dal carcere veneziano e, fatto salpare per Ancona, il giorno 27 faceva
ingresso nel carcere del S . Uffizio di Roma da cui, dopo lungo e intermittente
processo, sarebbe uscito sette anni più tardi per subire l'orrendo
supplizio. Gli episodi noti e salienti del processo romano sono così
riassumibili: estate 1593: nuova grave denuncia da parte di fra' Celestino da
Verona, concarcerato a Venezia (imputazione di aver sostenuto che Cristo peccò
mortalmente, che l'inferno non esiste, che Caino fu migliore di Abele, che Mosè
era un mago e inventò la legge, che i profeti furono uomini astuti e ben
meritarono la morte, che i dogmi della Chiesa sono infondati, che il culto dei
santi è riprovevole, che il breviario è opera indegna; di aver bestemmiato; di
aver intenzioni sovversive ove fosse costretto a rientrare nell'Ordine);
interrogagatorio a Venezia dei contesti fra' Giulio da Salò, Francesco Vaia,
Matteo de Silvestris (attenuazione delle responsabilità bruniane e nuova
accusa: l'avere in spregio le sante reliquie); interrogatorio del conteste
Francesco Graziano (ribadimento della credenza bruniana nella pluralità dei
mondi e nuova accusa: riprovazione del culto delle immagini). Prima della fine
del 1593:otto costituti bruniani (dall'ottavo al quindicesimo dell'intero
processo) e conclusione del processo offensivo. Il B. mantenne la linea
difensiva già adottata a Venezia (attenuò la portata dei dubbi circa la
Trinità, disponendosi ad accettare il dogma; negò le accuse circa l'inferno,
Cristo, i propositi sovversivi, l'ateismo, le manifestazioni blasfeme; precisò
il significato di "magia" con riferimento a Mosè, e la propria
opinione, ritenuta "filosoficamente" e ipoteticamente, circa la
metempsicosi; negò l'opinione attribuitagli circa Caino, e precisò quella
relativa alla pluralità dei mondi; negò le pratiche superstiziose, precisando
il proprio interesse per l'astrologia). Gennaio-marzo 1594: a Venezia, esami
ripetitivi dei testi (Mocenigo, Ciotti, Graziano, De Silvestris): confermate
nel complesso le precedenti deposizioni, solo la sospetta integrità dei testi
poté far differire la conclusione del processo; giugno: supplemento di denuncia
da parte del Mocenigo (accusa di aver irriso il papa nel Cantus circaeus);
estate 1594: sedicesimo costituto (il B. si difese sull'ultima accusa, su
quella relativa ai Magi, e forse anche sull'altra relativa alla verginità di
Maria; sporse denunce contro il Graziano e Francesco Maria Vialardi
concarcerato a Roma); 20 dicembre: il B. presentò una difesa scritta, non
pervenutaci. Il 16 febbraio 1595si stabilì che una lista dei libri bruniani
fosse presentata al papa. Tra il maggio 1594 e i primi del 1595 il B. fu
raggiunto nel carcere da Francesco Pucci, Tommaso Campanella e Cola Antonio
Stigliola. Il 18 sett. 1596 la Congregazione stabilì una commissione con lo
scopo di censurare le proposizioni eretiche contenute nei libri. Il 24 marzo
1597 il B. fu ammonito di abbandonare la sua teoria della pluralità dei mondi;
si stabilì inoltre che egli fosse interrogato stricte (forse con applicazione
della tortura): ciò che avvenne con il diciassettesimo costituto, circa la
Trinità e l'incarnazione (il B. precisò il carattere speculativo dei dubbi
passati), nonché la pluralità dei mondi (che il B. persistette a sostenere).
Nel corso del 1597 ebbe luogo, forse oralmente, la risposta del B. alle
censure, otto delle quali sono rilevabili dal Sommario del processo:
"circa rerum generationem"; circa il principio che a causa infinita
debba corrispondere effetto infinito; circa il rapporto tra anima universale e
anima individuale; circa il principio che nulla si genera e nulla si corrompe;
circa il moto della terra; circa la definizione degli astri come angeli; circa
l'attribuzione di un'anima sensitiva e razionale alla terra; circa
l'affermazione che l'anima non è forma del corpo umano (due altre censure,
rilevabili da una lettera di K. Schopp [Doc. romani, XXX], concernono
l'identificazione dello Spirito Santo con l'animamundi, e la credenza nei
preadamiti). Il 18 gennaio del 1599, a istanza di Roberto Bellarmino, venivano sottoposte
al B., per la sua dichiarazione di abiura, otto proposizioni eretiche (ci è
nota la prima, "de haeresi Novatiana", e la settima, estratta dal De
la causa, "ubi tractat an anima sit in corpore sicut nauta in navi").
Il 15 febbraio (ventesimo costituto) il B. si dichiarò disposto all'abiura
incondizionata; ma il 24agosto tornò a manifestare esitazioni sulla prima e la
settima. Il 9 settembre, in mancanza della prova giuridica della colpevolezza,
i consultori si dichiararono in favore dell'applicazione della tortura, che
tuttavia non fu approvata da Clemente VIII. Il 10 settembre il B. si dichiarò
disposto all'abiura (21º costituto), ma il 16, con un memoriale al papa,
rimetteva in discussione le proposizioni incriminate. Intanto al S. Uffizio di
Vercelli perveniva una terza delazione (dovuta, sembra, a un reduce
dall'Inghilterra) con cui il B. era di nuovo accusato di irriverenza verso il
papa (lo Spaccio) e di aver lasciato fama di ateo in Inghilterra.
Settembre-ottobre 1599: il tribunale ordinò il termine di quaranta giorni per
il riconoscimento degli errori. Il 21 dicembre (ventiduesimo costituto) il B.
rifiutava la ritrattazione: vano fu l'intervento del generale e del procuratore
dei domenicani. Il 20 genn. 1600il papa ordinò che il B. fosse sentenziato come
eretico formale, impenitente e pertinace, e consegnato al braccio secolare. Un
estremo memoriale del B. al pontefice venne aperto ma non letto dal
tribunale. L'8 febbr. 1600 il B. veniva condotto dal carcere del S.
Uffizio al palazzo del cardinale Madruzzi, in piazza Navona, dove la sentenza
gli fu letta pubblicamente. Delle trenta o più imputazioni contenute nella
sentenza, risultano accertate quelle concernenti la transustanziazione, la
verginità di Maria, la vita eretica, lo Spaccio, la pluralità dei mondi, la
metempsicosi, l'anima umana, l'eternità del mondo, Mosè, le Sacre Scritture, i
preadamiti, Cristo, i profeti e gli apostoli. Riconosciuto "eretico
impenitente pertinace ed ostinato" (Doc. romani, XXVI), il B. era condannato
alla degradazione dagli ordini, all'espulsione dal foro ecclesiastico e a
essere consegnato alla corte secolare per la debita punizione; i suoi libri
dovevano essere bruciati in piazza S. Pietro e le opere tutte incluse
nell'Indice. Il B. ascoltò in ginocchio la sentenza; quindi, levatosi in piedi,
esclamò rivolto ai giudici: "Maiori forsan cum timore sententiam in me
fertis quam ego accipiam" (Doc. romani, XXX). Trasferito al carcere di Tor
di Nona, e visitato ancora nei giorni seguenti da teologi e confortatori, la
mattina del giovedì 17 febbraio fu condotto a Campo di Fiori, dove,
"spogliato nudo e legato a un palo, fu bruciato vivo (Doc. romani,
XXIX). La portata speculativa della vicenda bruniana è implicita nella
storia del moderno pensiero europeo; per il lato culturale e biografico, pur
dopo ricerche secolari, quella vicenda è tuttora al vaglio della filologia
contemporanea. Fonti e Bibl.: Per la biografia bruniana le fonti sono
costituite dalle opere e da una serie di documenti coevi. Edizioni complete
delle opere: Iordani Bruni Nolani Opera Latine Conscripta: Facsimile - Neudruck
der Ausgabe von Fiorentino,Tocco und anderen,Neapel und Florenz,1879-1891. Drei
Bände in acht Teilen,Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 (da integrare con le seguenti
pubblicazioni: V. P. Zubov, Rukopisnoe nasledie Džordano
Bruno,"MoskovskijKodeks" Gosudarstvennoj Biblioteki SSSR im. V. I.
Lenina, in Zapiski Otdela rukopisej, Moskva 1950, n. II, pp. 164-182; G. Bruno,
Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti: "Idiota triumphans",
"De somnii interpretatione", "Mordentiu", "De
Mordentii circino", a cura di G. Aquilecchia, Roma 1957, con
Errata-corrige stampate a parte; Id., "Praelectiones geometricae" e
"Ars deformationum": Testi inediti, a cura di G. Aquilecchia, Roma
1964); Le opere italiane di G. B., a cura di P. de Lagarde, Gottinga 1888 (ma
1889), edizione paradiplomatica, per le opere italiane in edizione moderna: G.
Bruno, Candelaio: commedia, a cura di V. Spampanato, Bari 1923; Id., Dialoghi
italiani: "Dialoghi metafisici" e "Dialoghi morali"
nuovamente ristampati con note da G. Gentile, a cura di G. Aquilecchia, Firenze
1958; Id., Lacena de le ceneri, a cura di G. Aquilecchia, Torino 1955 (da
tenere presente R. Tissoni, Sulla redazione definitiva della "Cena de le
ceneri", in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXVI [1959], pp. 558-563).
Pregevoli le sillogi antologiche in Opere di G. B. e di Tommaso Campanella, a
cura di A. Guzzo e R. Amerio, Milano - Napoli 1956, e in Scritti scelti di G.
B. e di T. Campanella, a cura di L. Firpo, Torino 1968. I documenti coevi
in V. Spampanato, Documenti della vita di G. B., Firenze 1933, suddivisi in sei
sezioni: I. Documenti napoletani, II. Documenti ginevrini, III.Documenti
parigini, IV. Documenti tedeschi, V.Documenti veneti, VI, Documenti romani (da
integrare con O. Elton, Modern Studies,London 1907, p. 334; G. Harvey,
Marginalia, a cura di G. G. Moore Smith, Stratford-upon-Avon 1913, p. 156; Chr.
Sigwart, Kleine Schriften, I, Freiburg i. B. 1899, p. 120; A. Mercati,
Ilsommario del processo di G. B., Città del Vaticano 1942; L. Firpo, Ilprocesso
di G. B., Napoli 1949; F. A. Yates, G. B.: some new documents, in Revue
internationale de philosophie, XVI [1951], 2, pp. 174-199; G. Aquilecchia, Un
autografo sconosciuto di G. B., in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXIV
[1957], pp. 333-338; Id., Un nuovo documento del processo di G. B., ibid.,
CXXXVI [1959], pp. 91-96; R. McNulty, B. at Oxford, in Renaissance News,
XIII[1960], pp. 300-305; A. Nowicki, Un autografo inedito di G. B. in Polonia,
in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche... in Napoli, LXXVII
[1967], pp. 262-268; Id., Una poesia "Ad Iordanum: Brunum", in La
Ragione, LII [1970], 4, p. 2; J. Korzan, Praski Kra̢g humanistów wokóù Giordana
Bruna, in Euhemer, LXXI-LXXII [1969], 1-2, pp. 81-93). La biografia più
estesa, sebbene in parte invecchiata, rimane quella di V. Spampanato, Vita di
G. B. con documenti editi e inediti,Messina 1921. Biografie sintetiche recenti
sono dovute a E. Garin, B., Roma-Milano 1966, e a G. Aquilecchia, G. B., Roma
1971, da cui dipende la presente "voce". La bibliografia
bruniana è vastissima: fino al 1950 va fatto riferimento a V. Salvestrini,
Bibliografia di G. B. (1582-1950), a cura di L. Firpo, Firenze 1958: opera
monumentale di inestimabile utilità, aggiornata poi essenzialmente, Quanto ai
titoli, fino ai primi mesi del 1970 con l'appendice bibliografica alla citata
monografia di G. Aquilecchia. A questi due strumenti si fa qui riferimento,
rispettivamente, per opere critiche di tradizionale autorità (F. Tocco, E.
Troilo, G. Gentile, E. Namer, E. Garin, A. Corsano, ecc.), e per studi più
recenti, che propongono un ridimensionamento della problematica bruniana
conforme a diverse metodologie (N. Badaloni, P.-H. Michel, F. A. Yates, A. K.
Gorfunkel', A. Nowicki, F. Papi, ecc.).Guido del Giudice.
Giudice. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice, del Giudice, e la filosofia greco-romana," per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Keywords:
l’implicatura di Giudice, universe finite, infinito, geometrici, alchimisti,
matematici – rinascimento – scintilla d’infinito” -- Refs: Luigi Speranza, “Grice e Giudice:
implicatura e scintilla” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Giudice: l’implicatura conversazionale di Telesio – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Lucera). Filosofo italiano. Grice: “Riccardo del Giudice is a
philosopher; he wrote an essay on Telesio.” Allievo e collaboratore di Gentile, si laurea
in filosofia, rivelando i suoi vasti e solidi interessi culturali, che, insieme
ad una rara volontà di studio e ad una seria attività politica formarono il suo
principale merito. Apprezzato per le doti oratorie e l'accuratezza nella
scrittura, fu parlamentare di chiara fama nella
Camera dei Deputati. Di profonda ed esemplare preparazione filosofica.
Insegna a Roma. Intestazioni: Sindacalista, politico, SIUSA. Iscrittosi
al movimento nazionalista mentre frequenta nell'ateneo romano i corsi di
Gentile. Si tessera al Partito fascista, del quale apprezza l'interesse per le
questioni sindacali. E' appunto nell'organizzazione fascista dei lavoratori,
diretta da Rossoni, che muove i primi passi nella politica militante. Nominato
responsabile dei sindacati in provincia di Foggia, distinguendosi per la dura
opposizione nei confronti dell'apparato del Pnf guidato dal conservatore
Caradonna. Espulso dal partito viene nominato da Rossoni Segretario della
Federazione sindacale di Torino. Passato nella Federazione di Bari si oppone
allo "sbloccamento" dei sindacati. Si occupa di studi sulla
legislazione del lavoro e sul corporativismo, partecipando attivamente alle
riunioni del Consiglio nazionale delle corporazioni e viene nominato Presidente
della Confederazione fascista dei lavoratori del commercio. Dopo una intensa
attività nel settore sindacale - celebri le sue polemiche con Spirito sul
rapporto tra sindacato e corporazione - è nominato Sottosegretario al Ministero
dell'educazione nazionale, allora retto da Bottai. Si occupa soprattutto di
sviluppare i rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro, seguendo le
indicazioni contenute nella Carta della scuola di Bottai. Lasciato il ministero
in seguito alla sostituzione del ministro Bottai con Biggini, è nominato
Presidente dell'Ente Nazionale per l'Oganizzazione Scientifica del lavoro
(Enios). Non aderisce alla Rsi e viene arrestato dagl’alleati e inviato nel
campo di concentramento di Padula dove scrive le "Memorie". Epurato
dall'insegnamento universitario, vi ritorna come docente prima di Diritto della
navigazione, poi di Diritto del lavoro, presso l'ateneo romano. Complessi
archivistici prodotti: Del Giudice Riccardo (fondo) Bibliografia:
G. PARLATO, Il sindacalismo fascista. IDalla "grande crisi" alla
caduta del regime, Roma, Bonacci. G. PARLATO, G.: dal sindacato al governo,
Roma, Fondazione Spirito, G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un
progetto mancato, Bologna, Il Mulino. Sindacalismo fascista Lingua Segui
Modifica Ulteriori informazioni La neutralità di questa voce o sezione sugli
argomenti fascismo e politica è stata messa in dubbio. Con sindacalismo
fascista si intende quel settore del sindacalismo improntato sui principi della
dottrina fascista del lavoro.Filippo Corridoni con Mussolini durante una
manifestazione interventista del 1915 a Milano. Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sindacalismo rivoluzionario.
Fontana sulla cui lapide marmorea era scolpito il discorso che Mussolini
pronuncia presso lo stabilimento di Dalmine, in occasione dell'autogestione
operaia. Il sindacalismo fascista ha i suoi primordi nel magma del movimentismo
sindacale dei primi due decenni del XX secolo: in particolare esso trova i suoi
riferimenti culturali prima nella componente rivoluzionaria del sindacalismo
socialista, che portò alla dirigenza del partito diversi esponenti e Benito
Mussolini alla direzione dell'Avanti!, poi nelle sezioni più agguerrite del
sindacalismo interventista, in particolare l'attivissima sezione milanese retta
da Filippo Corridoni, nate in seno all'Unione Sindacale Italiana[1]ma da cui
saranno espulse già nel 1915, per incompatibilità con i principi
antimilitaristi e antistatalisti dell'USI[2]. Numerosi, pur con alcuni bassi,
sono gli scioperi, le manifestazioni di piazza, gli scontri ed i comizi cui
parteciparono Mussolini ed i dirigenti del fascismo a fianco, o anche in
qualità stessa, di sindacalisti rivoluzionari.[3] «In Italia non sarà
possibile nessuna forma di sindacalismo fino a quando il Partito Socialistanon
sarà abbattuto.» (Filippo Corridoni a Curzio Malaparte a Milano poco
prima di partire per il Carso, giugno 1915[4]) Un altro forte legame fu, dal
1915-1916 e fino al 1919-1920, quello con la Unione Italiana del Lavoro
(UIL)[5], da essi creata e di ispirazione sindacalista rivoluzionaria, diretta
inizialmente da Edmondo Rossoni.[6] La nuova formazione sindacale, nel fermento
dell'interventismo nei confronti della Grande Guerra, tentò di operare una
prima sintesi all'interno dell'immenso magma rivoluzionario italiano, combattuto
ormai da anni tra le esigenze sociali e quelle nazionaliste del popolo. In
particolare si verificò una congiunzione con le teorie di imperialismo
operaiodi Enrico Corradini (Associazione Nazionalista Italiana) e lo sviluppo
del produttivismo nazionale, grazie anche al Popolo d'Italia di Mussolini[7],
pervenendo all'idea non tanto di negare la lotta di classe per difendere gli
interessi di categoria, quanto di ricomporli tutti all'interno del comune
interesse superiore nazionale. Al suo interno la UIL portava però già i sintomi
di quella che fu una battaglia destinata a concludersi più tardi, durante il
sindacalismo fascista vero e proprio: quella tra la visione di un sindacalismo
legato all'azione politica, appoggiata principalmente da Rossoni, e quella
"indipendentista" di Alceste De Ambris.[6][8] Primo sfogo di
queste evoluzioni avvenne il 16 marzo 1919 al Dalmine, dove si verificò la
prima occupazionecon autogestione operaia della storia italiana, organizzata
dai sindacalisti rivoluzionari. Il fatto eclatante che destò scalpore fu però
soprattutto la continuazione della produzione, d'accordo con l'ottica
produttivista che aveva acquisito il movimento: gli operai autorganizzati
continuarono infatti il lavoro, issando sulla fabbrica il tricolore nazionale.[9][10]
Due giorni dopo lo stesso Mussolini fu in visita agli stabilimenti: «Voi
oscuri lavoratori del Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla
in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa, è il
lavoro che ha consacrato nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica,
miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione,
conquista di uomini liberi nella patria libera e grande oltre i confini»
(Benito Mussolini, Discorso del Dalmine, 20 marzo 1919, in "Tutti i
discorsi - anno 1919") In un primo momento la posizione di De Ambris e
della sua UIL fu la più apprezzata da Mussolini, aprendo nel periodo 1919-1920
una forte convergenza tra i due, con il secondo che sostenne apertamente la UIL
dalle colonne de Il Popolo d'Italia[11] ed il primo che dette un apporto
considerevole al programma dei Fasci Italiani di Combattimento, costituiti il
23 marzo 1919 e dai quali prenderà spunto il fascismo durante la fase
governativa.[12] Il nucleo iniziale Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sansepolcrismoe
Squadrismo. Benito Mussolini a Dalmine con gli operai dello stabilimento
autogestito. Dino Grandi. È da questo connubio che, infatti, si
costituisce in maniera strutturata il sindacalismo fascista, i cui
protagonisti, dapprima immersi nei movimenti sindacalisti di varia estrazione
sopra descritti, andarono a creare l'ossatura del nuovo movimento insieme agli
interventisti futuristi, ad Arditi e reduci di guerra, nazionalisti e
squadristi.[12] Fra i maggiori esponenti di questo "sindacalismo
squadrista", che affiancò i sindacalisti "puri", a cavallo tra
gli anni dieci e venti Italo Balbo, Michele Bianchi, Gino Baroncini ma,
soprattutto, Dino Grandi e lo squadrismo bolognese vicino agli ambienti de
"L'Assalto", portatori di uno dei più genuini tratti del fascismo di
sinistra, basato particolarmente (a Bologna) sulle rivendicazioni contadine,
l'allargamento della piccola proprietà agricola ed al concetto de "la
terra a chi la lavora".[13] Alla fine del 1920 l'armonia tra
sindacalismo rivoluzionario e fascismo sansepolcrista si spezzò quando, in
conseguenza della grave sconfitta elettorale della fine del 1919, Mussolini
operò la strategia della virata a destra per aprirsi maggiori spazi politici e,
staccandoli dalla UIL, creò i Sindacati economici, che nel gennaio 1922
diventeranno poi la Confederazione nazionale delle corporazioni
sindacalifasciste dirette da Rossoni.[14] La crisi tra i due movimenti si
attuò essenzialmente sul nodo della concezione del rapporto tra economia e
politica. Da una parte il fascismo, che riteneva fondamentale che ogni dinamica
attraverso la nazione sia controllata dallo Stato, dall'altra i sindacalisti
rivoluzionari, che vedevano questa posizione come antitetica ai propri canoni
libertari ed autonomisti[15], concependo la nazione come identità e sostanza
storica di un popolo, ma lo Stato come sistema di potere di una classe
esclusiva.[16] «Il sindacalismo rivoluzionario, portando il suo contributo
decisivo alla determinazione dell'Italia per l'intervento nella guerra, salvò
l'onore dei lavoratori italiani e gettò le premesse in virtù delle quali
l'organizzazione del lavoro è oggi, su piede di uguaglianza con tutte le altre
forze economiche, elemento fondamentale dello Stato Corporativo. In questo
senso soltanto può essere affermata la derivazione del movimento sindacale
fascista dal vecchio sindacalismo rivoluzionario.» (Tullio Masotti[17])
Rossoni e la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali
fascisteModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali. Edmondo
Rossoni. I quadrumviri e Benito Mussolini(da sinistra a destra: Emilio De
Bono, Michele Bianchi, Mussolini, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo). Il
primo, il terzo ed il quinto furono sindacalisti. Nel gennaio 1922 si tenne
il I Convegno sindacale di Bologna, in cui si scontrarono le due visioni
principali, già emerse in passato, riguardanti il grado di dipendenza dei
sindacati nei confronti della politica e, in questo caso, del neocostituito
Partito Nazionale Fascista (PNF). Si scontrarono quindi la visione
"autonomista" di Edmondo Rossoni e di Dino Grandi e quella
"politica" di Massimo Rocca e Michele Bianchi, tra le quali sarà
vincente la seconda[18]. A Bologna vennero inoltre affermati i principi
basilari della politica corporativa, con la conferma del superamento della
lotta di classe nei confronti della collaborazione e dell'interesse nazionale
su quello individuale o di settore, e la nascita della Confederazione nazionale
delle corporazioni sindacali[1], una nuova formazione antisocialista ed
anticattolica, costituita nella forma di sindacati autonomi formati da cinque
Corporazioni suddivise per categorie lavorative e non ancora (lo saranno nel
1934) sindacati misti lavoratori-datori di lavoro. Come nel sindacalismo
rivoluzionario, inoltre, le corporazioni dovevano riunire tutte le attività
professionali che identificavano la loro "elevazione morale e economica
(...) con il dovere imprescindibile del cittadino verso la
Nazione".[11] «La nazione, sintesi superiore di tutti i valori
materiali e spirituali della razza, è al di sopra degli individui, dei gruppi e
delle classi. Individui, gruppi e classi sono gli strumenti di cui la nazione
si serve per migliorare le proprie condizioni. Gli interessi individuali e di
gruppo acquistano legittimità a condizione che si realizzino nell'ambito dei
superiori interessi nazionali.» (Articolo 4 della Carta dei principi
delle corporazioni[19]) Sulla Confederazione si svilupparono polemiche anche
negli ambienti del sindacalismo internazionale: la sinistra operaia
internazionale, in sede di Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO),
contestava il titolo alla rappresentanza operaia alle corporazioni fasciste e,
quindi, la possibilità di partecipare all'assemblea. La polemica non venne però
accettata, e l'ILO permise alle Corporazioni di partecipare alle sedute senza
interruzioni nel rinnovo del mandato.[20] In sede congressuale Rossoni
dichiarò l'esistenza di una linea di continuità tra il sindacalismo
rivoluzionario, il sindacalismo fascista ed il corporativismo: per il
sindacalismo fascista, infatti, l'ultimo era legato al primo sia per il comune
intendimento del concetto di "rivoluzione" che, al di là dell'aspetto
della rivolta popolare, in ambito lavorativo ritenevano rivestisse il
significato di "sopravvento di superiori capacità produttive";
inoltre, ugualmente, avevano l'obbiettivo di innalzare il
"proletario" (nell'accezione negativa del termine) al rango di
"lavoratore" inserito a pieno titolo nella vita nazionale.[21]
«Il sindacalismo deve essere nazionale ma non può essere nazionale per metà:
esso deve comprendere capitale e lavoro (...) e sostituire al vecchio termine
proletariato, quello di lavoratore ed all'altro, di padrone, la parola
dirigente, che più alta, più intellettuale, più grande.» (Edmondo
Rossoni, 18 gennaio 1926, Congresso dei Sindacati intellettuali fascisti.[22])
Nei mesi successivi, in concomitanza con il termine del biennio rosso e
l'avanzata dell'offensiva militare del fascismo imperniata sulle squadre
d'azione, ebbe luogo lo sfondamento politico in campo sindacale, con il
passaggio di interi settori operai dalle strutture del Partito Socialista
Italiano e della CGdL al fascismo. Tanto che, nell'estate del 1922, la
Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali contava 800.000
iscritti.[23] Ciò evidenziava il successo dei progetti di Rossoni, che aveva
pensato di creare da una parte una base contadina potente ed affidabile che
appoggiasse e facesse da riserva strategica allo squadrismo, dall'altra di fare
del sindacalismo una delle pietre angolari dello Stato fascista.[24] Con
la Marcia su Roma, l'affermazione del sindacalismo fascista fu quasi
definitiva[25] e l'inizio della costruzione del nuovo Stato portò quindi una
relativa tranquillità nell'ambiente del sindacalismo stesso che, con il termine
degli scontri e delle tensioni politiche, poté incentrarsi sul proprio sviluppo
culturale e la propria evoluzione politica.[1] Emondo Rossoni così ne spiega
definizione e scopo principale: «(...) la salvaguardia della salute
spirituale del popolo (...) Sindacato vuol dire: unione di interessi omogenei.
Sindacalismo: azione che deve disciplinare e tutelare gli interessi omogenei
(...) Noi rivendichiamo la concezione italiana del Sindacalismo alle
corporazioni italianissime che sono nate ancor prima che la parola
'sindacalismo' fosse pronunciata.» (Edmondo Rossoni, La Marcia su Roma e
il compito dei sindacati, Napoli, 1922[26]) Caratteristiche principali, che
evidenziavano la differenza del sindacalismo fascista rispetto a quello
socialista, furono anche la mancanza di dogmatismo, teologismo e perseguimento
di finalità remote, come ad esempio il prefiggersi in anticipo un determinato
tipo di obbiettivo finale, come il tipo di economia da instaurare, ma tentando
sempre di adeguarsi alla realtà del mondo.[27] Questo clima non portò
fine al dibattito interno, che anzi aumentò decisamente, tanto che gli stessi
vecchi sindacalisti rivoluzionari come Edmondo Rossoni, Agostino Lanzillo,
Sergio Panunzio e Angelo Oliviero Olivetti, discutevano e si dividevano spesso
e volentieri tra loro.[28] In tutti però[29] un'evoluzione era avvenuta: il
sindacalismo non era più considerato propulsore del libero mercato ma, aderendo
al concetto di nazione come unità organica d'intenti, ritenevano che il
sindacato - come gli imprenditori - dovesse trovare il suo limite nel superiore
interesse della patria, rigettando il concetto di libero mercato stesso e
giungendo al tal punto da definire che "la nazione è il più grande
sindacato".[30] Le prime forti tensioni con i conservatori ed il
padronatoModifica Roberto Farinacci nel 1925. Renato Ricci con la
sua squadra d'azione carrarese impegnata a S. Terenzio nello sgombero delle
macerie del forte di Falconara 1922 Immediatamente dopo l'apice della Marcia su
Roma si accese però lo scontro tra il fascismo di sinistra ed i settori più
conservatori dello Stato. Tra il 1921 ed il 1923 avvennero alcuni episodi
chiave: la creazione dei gruppi di competenza,[31] da parte di Massimo
Rocca, limitanti lo spazio sindacale della Confederazione nazionale delle
corporazioni sindacali[32]; il tentativo di bloccare il corporativismo da parte
di Confindustria e Confagricoltura, contrapposti alla minaccia di Rossoni di
assalti, scontri ed occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori
fascisti[32]; l'appoggio diretto al sindacalismo fascista da parte di tutta la
sinistra fascista nazionale, compresi Michele Bianchi e Roberto Farinacci[33];
il lancio del sindacalismo integrale (1923) da parte di Rossoni, che puntava ad
inglobare nelle corporazioni Confindustria e Confagricoltura (ossia le
rappresentanze sindacali dei datori di lavoro)[34]; la creazione della
Federazione italiana dei sindacati agricoltori (FISA) e della Corporazione
dell'Industria e del Commercio da parte di Rossoni; i primi tentativi di
trasformare le organizzazioni sindacali da associazioni di fatto in organi di
diritto pubblico da parte di Armando Casalini[35]; il patto siglato tra
Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e Confindustria nel
dicembre del 1923 a Palazzo Chigi, in ottica di limitazione dei conflitti di
classe[13]. «(Sia il Capitale sia il Lavoro, ndr) devono essere disciplinati.
L'appetito all'infinito è malefico e assurdo. Per queste ragioni il
sindacalismo fascista è per la collaborazione (...) ma con gli industriali che
si impuntano e dicono comandiamo noi, occorre lottare decisamente per dare ai
lavoratori il posto degno nella vita della nazione» (Edmondo Rossoni,
adunata al Teatro Regio di Torino, 16 gennaio 1926[36]) In questo periodo di
tensioni tra industriali e sindacati fascisti, difficile per l'attecchimento
della collaborazione di classe vagheggiata dal fascismo per il mondo del
lavoro, assurgono agli onori del sindacalismo fascista le personalità di Mario
Gianpaoli, sindacalista e federale del PNF di Milano, e di Domenico Bagnasco,
segretario dei sindacati fascisti di Torino. Organizzatore e combattente di
piazza, Bagnasco fu deciso a prendere di petto gli industriali, accusando il
padronato di "spietata intransigenza antioperaia". Spesso i
sindacalisti fascisti di questo periodo pagarono con la fine della propria carriera
politica l'attivismo sfrenato, a causa di un fascismo ancora non abbastanza
forte da poter far fronte ad uno scontro con la grande industria, appoggiata
dai molti uomini del precedente regime ancora posizionati nelle istituzioni
dello Stato. Essi ebbero però il merito di infondere risolutezza in molti
sindacalisti di periferia.[37] La seconda fase del sindacalismo
fascistaModifica Monumento a Luigi Razza. Enrico Corradini. Si
entra quindi in quella che viene chiamata "la seconda fase del
sindacalismo fascista"[38], durante la quale il sindacalismo e tutte le
componenti della sinistra fascista tornarono all'attivismo ed alla tensione del
periodo rivoluzionario. Sergio Panunzio ricominciò a tuonare a favore della
ripresa dell'anima rivoluzionaria del fascismo e del recupero del programma del
'19[39], esprimendosi per la creazione di una Camera sindacale e del lavoro e
di un Senato politico.[40] Nel febbraio 1924 cadde la Confagricoltura,
inglobata dalla fascista Federazione italiana sindacati agricoli, riunendo in
un'unica corporazione i lavoratori con i grandi e piccoli proprietari
agricoli.[34] Il nuovo spostamento a sinistra dello schieramento
fascista, questa volta apertamente appoggiato da Mussolini stesso, portò ad un
conseguente irrigidimento degli industriali sulle tradizionali posizioni
reazionarie, decretando l'inizio di un'escalation. Si verificò quindi anche la
ripresa militante dello squadrismo in appoggio all'azione sindacale fascista,
dando luogo ad un'ondata di scioperi su tutto il territorio nazionale, i più
infuocati dei quali in Valdarno, Lunigiana e ad Orbetello. In Valdarno lo
sciopero venne organizzato dal dirigente Bramante Cucini, seguace di Sergio
Panunzio, e finanziato direttamente dai Comuni amministrati dal Partito
Nazionale Fascistae da uno stanziamento apposito del Direttorio generale del
PNF, con la pubblica approvazione di Mussolini.[41] Al termine dello sciopero
si ebbe perfino la nomina statale di una commissione straordinaria di
lavoratori per gestire le miniere, destando comprensibile spavento tra il
padronato.[42] Nel novembre del 1924 si tenne a Roma il II Congresso
nazionale delle corporazioni. Qui venne messa momentaneamente da parte la
strada della collaborazione di classe, per riprendere quella della lotta in
difesa dell'unità dei lavoratori e dell'istituzionalizzazione delle
corporazioni, quest'ultimo aspetto chiesto a gran voce durante tutto il
congresso dalla maggioranza degli esponenti, soprattutto quelli rappresentanti
i sindacati agricoli provinciali, come Mario Racheli.[32] «Nei riflessi
della politica economica non v'è chi non afferri l'utilità nazionale di rendere
responsabili le organizzazioni sindacali e di creare discipline contrattuali
garantite dalla legge.» (Edmondo Rossoni, intervento al II Congresso
nazionale delle corporazioni.[43]) In questo quadro ha luogo, come in altri
casi era avvenuto, un'avversione crescente nei confronti dell'inerzia e
dell'inattivismo di Mussolini verso la situazione generale, legato alla fase ed
alle operazioni di consolidamento del potere del fascismo all'interno della
formazione statale. Ciò generò, in diversi casi, il concepimento e la presa di
decisioni autonome da parte dei capisquadra, dei leader sindacali e dell'ala
movimentista[44][45] e la messa in evidenza della natura anticapitalista che
permeava il fascismo provinciale nei confronti di quello cittadino, dove il
movimentismo si scontrava coi circoli conservatori. Questa natura emerse
visibilmente e prepotentemente con lo sciopero carrarese organizzato da Renato
Ricci, capo delle squadre d'azione della Lunigiana. In tale frangente lo
sciopero fascista (autunno-inverno del 1924) portò ad una radicalizzazione
estrema dello scontro con "i baroni del marmo", imperanti nel
carrarese, da portare all'occupazione ed all'autogestione delle cave e delle
industrie di lavorazione, ma soprattutto (dato che lo sciopero non si risolse
con una vera e propria vittoria) a divenire una delle cause fondamentali della
nascita di una corrente di dissidenti all'interno del fascismo "ufficiale".[46][47]
Il 3 gennaio 1925 ha luogo il discorso alla Camera con cui Mussolini si prende
carico della responsabilità politica della vicenda Matteotti. L'8 gennaio
il Direttorio delle corporazioni e quello del Partito Nazionale Fascista si
riuniscono congiuntamente studiando una serie di problemi da risolvere per
valorizzare il ruolo delle classi lavoratrici ed il loro inserimento a pieno
titolo nella vita nazionale, producendo poi un ordine del giorno in cui si
autorizzavano i sindacati fascisti a ricorrere alla "lotta economica"
contro industriali e capitalisti, rei di "colpevole incomprensione"
dei fini e della prospettiva sociale e nazionale del fascismo. Ciò determina,
insieme all'entusiasmo per l'intransigenza insita nel discorso di Mussolini,
l'instaurazione di un clima da "seconda ondata", rimettendo
nuovamente in moto la rivoluzione da sinistra e accendendo nuovamente
l'entusiasmo del fascismo movimentista.[32] Nel marzo del 1925 avviene
quindi l'ultima grande azione di forza della Confederazione nazionale delle
corporazioni sindacali, che scavalcò le vertenze sindacali in corso tra la O.M.
di Brescia e la FIOMindicendo uno sciopero a sorpresa, scatenato da una serie
di multe e licenziamenti inflitti agli operai fascisti che, per protesta,
abbandonarono i posti di lavoro. Le agitazioni ottennero l'appoggio di Roberto
Farinacci, in quel periodo segretario nazionale del Partito, e, di contrasto,
gli appelli alla moderazione di Mussolini, che consigliò cautela a Rossoni per
non ripetere le vittorie di Pirro degli scioperi valdarnesi e carraresi.[32]Le
agitazioni dei metallurgici riuscirono però ad allargarsi fino a Milano, dove
gli operai socialisti e comunisti vennero invitati ad aderire; le attività di
contestazione cominciarono poi ad interessare anche carovita ed altri
argomenti, estendendosi a tutta la Lombardia ed assumendo, soprattutto con il
sindacalfascista Luigi Razza caratteri indipendenti dal governo e di aperta
minaccia e violenza nei confronti degli industriali, terrorizzati dalla
possibilità di combinazioni politiche unitarie impreviste.[48] Dopo lunghe
trattative le agitazioni rientrarono, decretando un grosso insuccesso per gli
industriali, che dovettero fare buone concessioni, sebbene non totali, agli
operai tramite i sindacati fascisti, e l'emarginazione completa della FIOM, i
cui rappresentati si spostarono in massa nelle Corporazioni.[1] «Per ben
tre anni l'esistenza di un sindacalismo fascista, cioè di un movimento
sindacale guidato da fascisti e orientato verso le idee del fascismo, fu ostinatamente
negata. Ci voleva, per dissuggellare gli occhi dei ciechi volontari e fanatici,
il fatto clamoroso: lo sciopero che mettesse in campo le forze sindacali del
fascismo e che desse in pari tempo allo stesso sindacalismo fascista una più
risoluta nozione della sua forza e delle sue possibilità di azione.»
(Benito Mussolini, Fascismo e sindacalismo, a seguito degli scioperi
metallurgici organizzati dai sindacati fascisti in Nord Italia[27][49]) Altro
commento che rivela il momento infuocato fu quello di Corradini, sindacalista
nazionale: «Il superamento del socialismo, non la dispersione, non la
distruzione dell'opera socialista. Questo è buono affermare, in occasione dello
sciopero dei sindacati fascisti (...) Vi è fra socialismo e fascismo un nesso
storico, oso dire una continuazione storica (...) Il fascismo supera il
socialismo, ma raccoglie i buoni frutti dell'opera socialista e secondo la sua
propria legge, quando occorra, tale opera continua» (Enrico Corradini, su
Il Popolo d'Italia[41]) La trasformazione in organi di diritto
pubblicoModifica Edmondo Rossoni in Piazza del Popolo (Roma) annuncia la
promulgazione della Carta del Lavoro. Ugo Spirito. La conseguenza
principale di questi avvenimenti furono però gli accordi di Palazzo Vidoni (2
ottobre 1925), in cui venne riconosciuto dalla Confederazione nazionale delle
corporazioni sindacali e da Confindustria la reciproca esclusività di
rappresentanza di lavoratori e datori di lavoro, con l'impegno al conseguimento
prioritario dell'interesse nazionale.[1] Va però evidenziata soprattutto
la legge del 3 aprile 1926: con questa legge vennero infatti, tra l'altro,
realizzata l'istituzionalizzazione dei sindacati fascisti e legalizzato il loro
monopolio per la rappresentanza dei lavoratori con la nascita della
contrattazione collettiva del lavoro. Ciò andava a significare che le
Corporazioni divennero organi di diritto pubblico dell'amministrazione statale,
con "funzioni di conciliazione, di coordinamento ed organizzazione della
produzione". All'interno di questa legge era inoltre presente l'articolo
42, che prevedeva una direzione comune tra le associazioni di categoria delle
due parti, contenendo in nuce il progetto corporativo a sindacato misto che
verrà realizzato negli anni trenta.[50] Dopo questa vittoria, per Rossoni
si ebbe la redazione della Carta del Lavoro (1927), testo fondamentale della
politica sociale fascista in ottica di eliminazione della dicotomia tra le
classi sociali[51] ma, dall'anno successivo, con Farinacci non più alla
segreteria nazionale del PNF, ebbero sfogo gli attacchi alla Conferenza
nazionale delle corporazioni sindacali, che venne smembrata dai circoli
conservatori (novembre 1928), capeggiati da Giuseppe Bottai (sottosegretario al
Ministero delle corporazioni) ed Augusto Turati(nuovo segretario del partito),
in sei separate confederazioni di sindacati, facendo diminuire il potere
contrattuale dell'organismo, disperdendolo in strutture più piccole e
limitate.[52] Il secondo Convegno di Studi sindacali e corporativiModifica
Nel periodo che intercorse da questo momento alla legge del 5 febbraio 1934,
istitutiva delle corporazioni, si ebbe uno blocco totale dell'azione nel
settore, in cui intervenne positivamente soltanto il II Convegno di Studi
sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara nel maggio del 1932, nel quale
emerse il concetto di corporazione proprietaria proposta da Ugo Spirito[53],
nei confronti della quale il sindacalismo fascista si trovò su posizioni
contrastanti a causa di un arroccamento di tipo ideologico: rimasti su
posizioni classiste nel passaggio dal socialismo eterodosso al fascismo, molti
degli esponenti pre-rivoluzionari del sindacalismo fascista (Lanzillo,
Giampaoli, Bagnasco, ecc.) videro il progetto di annullare il sindacalismo nel
corporativismo come un progetto reazionario, rimanendo ancorati alla concezione
della lotta di classe come uno scontro benefico per gli interessi individuali e
nazionali.[54] L'incapacità di accettare la proposta di Spirito da parte
dei primi sindacalisti fascisti, ma anche i "nuovi" come Luigi Razza
e Pietro Capoferri, fu dovuta quindi essenzialmente al rigetto totale della
visione statalista che andava formandosi nel fascismo ed al cui finalismo erano
sempre stati avversi: per loro "la corporazione è il sindacato, e dire
Stato corporativo è come dire Stato sindacale"[54][55] L'esaurimento
del sindacalismo fascista nelle CorporazioniModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Corporativismo. Sede dell'Opera
Nazionale Dopolavoro. Nel 1934 viene approvata la creazione dello Stato
corporativo che, con le nomine dall'alto al posto delle cariche elettive e
l'abolizione (fino al 1939) del fiduciario di fabbrica, aveva dato tra l'altro
alle corporazioni, divenute veri e propri sindacati formati dai rappresentanti
dei lavoratori e dei datori di lavoro ed istituzionalizzati nello Stato, la
facoltà di stipulare i contratti collettivi di lavoro.[27][56] In ogni
caso il cambiamento di assetto istituzionale e la rivoluzione nel mondo del
lavoro, non pregiudicarono i risultati effettivi che il sindacalismo fascista
aveva ottenuto negli anni. Tra le più importanti si possono elencare:
ferie pagate; indennità di licenziamento; conservazione del posto in caso di
malattia; divieto di licenziamento in caso di maternità; assegni familiari;
diffusione delle casse mutue aziendali; assistenza sociale dell'Opera Nazionale
Dopolavoro(ad es. centri ricreativi, viaggi collettivi a prezzo simbolico,
manifestazioni teatrali, etc).Il 21 aprile 1930 fu Mussolini stesso a rivendicare
alle corporazioni la funzione di esaurire in sé il compito del sindacalismo
fascista, superando ed andando oltre al sindacalismo stesso, inserendosi nel
solco della Rivoluzione continua: «È nella corporazione che il
sindacalismo fascista trova infatti la sua meta. Il sindacalismo, di ogni
scuola, ha un decorso che potrebbe dirsi comune, salvo i metodi: s'incomincia
con l'educazione dei singoli alla vita associativa; si continua con la
stipulazione dei contratti collettivi; si attua la solidarietà assistenziale o
mutualistica; si perfeziona l'abilità professionale. Ma mentre il sindacalismo
socialista, per la strada della lotta di classe, sfocia sul terreno politico,
avente a programma finale la soppressione della proprietà privata e
dell'iniziativa individuale, il sindacalismo fascista, attraverso la
collaborazione di classe, sbocca nella corporazione, che tale collaborazione
deve rendere sistematica e armonica, salvaguardando la proprietà, ma elevandola
a funzione sociale, rispettando l'iniziativa individuale, ma nell'ambito della
vita e dell'economia della Nazione. Il sindacalismo non può essere fine a sé
stesso: o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione fascista. È
solo nella corporazione che si realizza l'unità economica nei suoi diversi
elementi: capitale, lavoro, tecnica; è solo attraverso la corporazione, cioè
attraverso la collaborazione di tutte le forze convergenti a un solo fine, che
la vitalità del sindacalismo è assicurata.» (Benito Mussolini, discorso
inaugurale del Consiglio Nazionale delle corporazioni[57]) Maggiori esponenti
ed ispiratori Modifica
Filippo Corridoni Enrico Corradini Alceste De Ambris Sergio Panunzio Angelo
Oliviero Olivetti Ottavio Dinale Agostino Lanzillo Dino Grandi Luigi Fontanelli
Riccardo Del Giudice Michele Bianchi Gino Baroncini Tullio Cianetti Edmondo
Rossoni Luigi Razza Mario Racheli Domenico Bagnasco Bramante Cucini Pietro
Capoferri Giuseppe Landi Alcide Aimi RivisteModifica La Stirpe Il Lavoro
Fascista (poi organo ufficiale del Partito Fascista Repubblicano) Il Lavoro
d'Italia Cultura Sindacale Rivista del Lavoro L'Idea Sindacalista Il Lavoro I
Problemi del Lavoro NoteModifica ^ a b c d e Francesco Perfetti, Il
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rimanevano i sindacati socialisti (CGdL) e comunisti soprattutto tra
metallurgici e metalmeccanici del nord-ovest e lo rimarranno fino allo sciopero
fascista della OM di Brescia, espansosi poi in tutto il nord Italia, del 1925.
In Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni Settimo Sigillo,
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Dalla grande crisi alla vigilia dello Stato corporativo (1930-1943), Bonacci,
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portare avanti idee liberiste anche durante il regime. ^ Angelo Oliviero
Olivetti, Bolscevismo, comunismo e sindacalismo, Editrice Rivista Nazionale,
Milano, 1919. ^ Deliberazione congiunta del 6 luglio 1922 del PNF e del Gruppo
parlamentare del partito ^ a b c d e Ferdinando Cordova, Le origini dei
sindacati fascisti, Laterza, 1974. ^ Espressosi esplicitamente, in particolare,
nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 15 marzo 1923, occupatasi
dell'analisi dei problemi sindacali. In questo ambito Michele Bianchi definì
"dittatoriale" la "procedura introdotta dal sindacalismo
fascista", mentre il sindacalista nazionale Maraviglia ribadì che "la
doppia organizzazione, cioè quella dei datori di lavoro e quella dei
lavoratori, allontana ogni pericolo che anche il Fascismo, per le pressioni e
l'influenza delle organizzazioni sindacali, possa diventare un partito di
classe". In Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia,
Milano, 1972. ^ a b Francesca Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti,
Firenze, 2000. ^ Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni
Settimo Sigillo, Roma, 1989 ^ Corriere della Sera, 18 gennaio 1926 ^ AA. VV.,
Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, 1980. ^ "(...) contrassegnata
da un parziale ritorno alla teoria e alla pratica del conflitto di
classe", in Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal
1919 al 1929, Laterza, Bari, 1974 ^ "Il fascismo è una dottrina, una fede,
una civiltà nuova. Riemerge ora l'anima rivoluzionaria del Fascismo. Il
Fascismo deve immediatamente tornare, non per opportunismo, ma per necessità
storica, al programma del '19 (...) L'anima del Fascismo è, ricordiamolo sempre,
il Sindacalismo Nazionale, la cui formula Mussolini lanciò prima del 1918,
prima di Vittorio Veneto". In Sergio Panunzio, La méta del Fascismo, in Il
Popolo d'Italia, 22 giugno 1924 ^ Attilio Tamaro, Venti anni di storia,
Editrice Tiber, Roma, 1953. ^ a b Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo
fascista, Mursia, Milano, 1972. ^ Il Mondo, 1924 ^ Rossoni stava, nel suo
intervento, illustrando le future battaglie del sindacalismo fascista sui
contratti collettivi di lavoro. In Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati
fascisti, Laterza, 1974. ^ "In questo periodo - fine '24 - continuarono ad
affiorare, in seno al sindacalismo fascista, tendenze centrifughe verso
Mussolini e il partito, la cui sorte pareva a molti gravemente
compromessa" in Alberto Acquarone, La politica sindacale del fascismo ^
Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa, Il regime fascista, Il Mulino, Bologna,
1974. ^ Che rientrò poi in breve tempo nell'alveo della sinistra fascista
ufficiale. ^ Sandro Setta, Renato Ricci: dallo squadrismo alla Repubblica
sociale italiana, Il Mulino, 1986. ^ Bruno Uva, La nascita dello stato
corporativo e sindacale fascista, Carucci, Assisi-Roma, 1974. ^ Gerarchia n° 5,
maggio 1925 ^ a b Alberto Acquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario,
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Syndacalist Tradition and Italian Fascism, University of North Carolina Press,
Chapel Hill, 1979.Camera dei fasci e delle corporazioni Carta del Lavoro
Corporativismo Corporazione proprietaria Confederazione nazionale delle
corporazioni sindacali Collaborazione di classe Fasci Italiani di Combattimento
Interventismo Leggi fascistissime Politica economica fascista Politica sociale
(fascismo) Dalmine Rivoluzione fascista Squadrismo Sindacalismo rivoluzionario
Sindacato fascista dei giornalisti Portale Fascismo Portale
Politica Portale Storia d'Italia Edmondo Rossoni sindacalista, giornalista
e politico italiano Angelo Oliviero Olivetti politico, politologo e
giornalista italiano Confederazione nazionale delle corporazioni
sindacali WikipediaRiccardo Del Giudice. Giudice. Keywords: l’implicatura di
Telesio, Telesio, polemica con Spirito su la distinzione tra sindacato e
corporazione, le corporazione nell aroma papale, I diritti dello stato
pontificio, il diritto della navegazione, contratto, gentile, la scuola al
lavoro – ‘dottrina e prassi corporativa” -- – la tesi di telesio – consiglio nazionale
delle corporazioni. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giudice: l’implicatura di Telesio” -- The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Giudice: l’implicatura conversazionale -- corpi ed espressioni – filosofia
siciliana – filosofa italiana -- Luigi Speranza (Antillo).
Filosofo italiano. Grice: “Giudice has
written an essay that poses a conceptual query for Austin’s conceptual query.
It’s “Sull pudore” – “But do we have that in ordinary language?”” – Grice:
“Giudice has also written on more standard forms of philosophy of language, and
Nietzsche.” Dopo aver espletato studi classici si laurea con la tesi “Ideologia
e Sociologia” -- Ricercatore all'Istituto di Filosofia di Messina. Direttore
della collana "Filosofia Teoretica". Altre saggi: “La Nuova
Filosofia, Messina, Sortino “Il discorso filosofico” “Gli echi del corpo” Verona,Paniere,
“Il lessico di Nietzsche” Roma, Armando, Nietzscheana. Esercizi di lettura,
Messina, Alfa, “Il tribunale filosofico” I simboli delle cose più alte, Fedeltà
alla terra, Profili della contemporaneità, Cosenza, Pellegrini, “Stare insieme”
Cosenza, Pellegrini, La filosofia del finito, Cosenza, Pellegrini, Gl’echi, Cosenza,
Pellegrini Editore, Il corpo e l'espressione, Cosenza, Pellegrini, Scritti di
filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Emozioni e cognitività: Un approccio
fisiologico, Cosenza, Pellegrini Sul pudore -- Sul pudore e sull'osceno,
Cosenza, Pellegrini Breve documento sulla "nuova filosofia", Cosenza,
Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Su Messina e
altri scritti, Cosenza, Pellegrini, Morelli, Puoi fidarti di te, Milano, Mondadori,
Battaglia, Storia e cultura in Popper, Cosenza, L. Pellegrino, Battaglia, Guicciardini
tra scienza etica e politica, Cosenza, L. Pellegrino,, varie Giovanni Coglitore, Kant: cristianesimo
come impegno morale, in Il contributo,
L'Espresso, Studi etno-antropologici e sociologici,. Fisiologia
branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi viventi
disambigua.svg Disambiguazione – "Fisiologo" rimanda qui. Se stai
cercando l'omonimo trattato antico, vedi Il Fisiologo. La fisiologia (dal greco
φύσις, physis, 'natura', e λόγος, logos, 'discorso', quindi 'studio dei
fenomeni naturali') è la branca della biologia che studia il funzionamento
degli organismi viventi[1], analizzando i principi chimico-fisici del
funzionamento degli esseri viventi, siano essi mono o pluricellulari, animali o
vegetali. L'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, un'importante prima
tappa nello studio della fisiologia. È detta "condizione fisiologica"
lo stato in cui si verificano le normali funzioni corporee, mentre una
condizione patologica è caratterizzata da anomalie che si traducono in
malattie. Data l'estensione del campo di studi, la fisiologia si divide, fra
gli altri, in fisiologia animale, fisiologia vegetale, fisiologia cellulare,
fisiologia microbica, batterica e virale.[3] Il Premio Nobel per la Fisiologia
o la Medicina è assegnato dall'Accademia reale svedese delle scienzea coloro
che raggiungono risultati significativi in questa disciplina.
StoriaModifica Claude Bernard e i suoi aiutanti. Olio su tela di
Leon-Augus Wellcome. I primi studi fisiologici risalgono alle antiche civiltà
dell'India e all'Egitto,[4][5] dove venivano condotti insieme agli studi
anatomici, senza l'utilizzo della dissezione o della vivisezione.[6] Lo
studio della fisiologia umana come campo medico risale almeno al 420 a.C. ai
tempi di Ippocrate, noto come il padre della medicina.[7] Ippocrate incorpora
questa scienza alla sua teoria degli umori, che si basa su quattro sostanze
fondamentali: terra, acqua, aria e fuoco; associate ad un corrispondente humor
(bile nera, flegma, sangue e bile gialla, rispettivamente). Ippocrate nota
alcune connessioni emotive ai quattro umori, che Claudio Galeno avrebbe poi
ripreso nei suoi studi. Il pensiero criticodi Aristotele e la sua teoria sulla
correlazione tra struttura e funzione ha segnato l'inizio dello studio della
fisiologia nella Grecia antica. Come Ippocrate, Aristotele riprende la teoria
umorale, che per lui consisteva in quattro qualità primarie: caldo, freddo,
umido e secco.[8] Claudio Galeno è stato il primo ad utilizzare degli
esperimenti per sondare le funzioni del corpo. A differenza di Ippocrate, però,
Galeno sostiene che gli squilibri umorali siano situati in organi specifici, o
nell'intero corpo.[9] Galeno ha poi introdotto la nozione di temperamento:
sanguigno corrisponde al sangue; il flemmatico è legato al catarro; la bile
gialla è collegata alla collera; e la bile nera corrisponde alla malinconia.
Galeno afferma che il corpo umano è composto da tre sistemi collegati: il
cervello e i nervi, responsabili dei pensieri e sensazioni; il cuore e le
arterie, che danno la vita; e il fegato con le vene, che sono collegati alla
nutrizione e la crescita.[9] Galeno è anche il fondatore della fisiologia
sperimentale.[10] Per i successivi 1.400 anni, la fisiologia galenica influenza
l'intera medicina.[9] Jean Fernel (1497-1558), un medico francese, ha
introdotto per primo il termine "fisiologia".[11] Nel 1820, il
fisiologo francese Henri Milne-Edwardsintroduce il concetto di divisione
fisiologica del lavoro, che ha permesso di "confrontare e studiare le cose
viventi come se fossero macchine create dall'industria dell'uomo".
Ispirato dal lavoro di Adam Smith, Milne-Edwards ha scritto che il "corpo
di tutti gli esseri viventi, animali o piante, assomiglia ad una fabbrica ...
in cui gli organi, paragonabili ai lavoratori, lavorano incessantemente per
produrre i fenomeni che costituiscono la vita dell'individuo." Negli
organismi più differenziati, il lavoro può essere ripartito tra diversi
strumenti o sistemi (chiamati da lui appareils).[12] Nel 1858, Joseph
Lister studia le cause della coagulazione del sangue e l'infiammazione. Le sue
scoperte portano all'implemento di antisettici in sala operatoria, con
conseguente diminuzione del tasso di mortalità degli interventi
chirurgici.[2][13] Nel XIX secolo, la conoscenza fisiologica ha iniziato
a crescere ad un ritmo rapido, in particolare nel 1838, grazie alla teoria
cellulare di Matthias Schleiden e Theodor Schwann, nella quale si afferma per
la prima volta che gli organismi sono costituiti da unità chiamate celle. Le
scoperte di Claude Bernard (1813-1878) hanno portato al concetto di milieu
interieur(ambiente interno), che sarà poi ripreso e definito
"omeostasi" dal fisiologo americano Walter B. Cannonnel 1929. Con
omeostasi, Cannon intendeva "il mantenimento di stati stazionari nel corpo
e i processi fisiologici con cui sono regolati."[14] In altre parole, la
capacità dell'organismo di regolare l'ambiente interno. Va notato che, William
Beaumont è stato il primo americano ad utilizzare l'applicazione pratica della
fisiologia. I fisiologi del XIX secolo come Michael Foster, Max Verworn,
e Alfred Binet, sulla base delle idee di Haeckel, elaborano il concetto di
fisiologia generale, una scienza unificata che studia le
cellule,[15]ribattezzata biologia cellulare nel 900. Nel XX secolo, i biologi
iniziano ad interessarsi agli organismi diversi dagli esseri umani, e nascono i
campi della fisiologia comparata ed ecofisiologia.[16] Più di recente, la
fisiologia evolutiva è diventata un sotto-disciplina distinta.[17]
DescrizioneModifica La fisiologia opera su diversi livelli, occupandosi sia dei
meccanismi di base a livello molecolare sia di funzioni di cellule e organi,
come pure dell'integrazione delle funzioni d'organo negli organismi
complessi. A seconda dell'ambito specialistico, la fisiologia si
avvale delle conoscenze di numerose discipline, oltre alle già citate chimica e
fisica, alcune branche della biologia quali: biochimica, biologia molecolare,
anatomia, citologia e istologia e costituisce anche la base fondamentale per
numerose discipline mediche quali la patologia, la farmacologia e la
tossicologia. Esistono diversi metodi per classificare la
fisiologia[18] In base al taxon: Fisiologia animale: studia i fenomeni e
i meccanismi associati alle funzioni degli animali. Fisiologia vegetale: studia
i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni dei vegetali. Fisiologia
umana: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni degli esseri
umani Fisiologia microbica e virale. In base al livello di organizzazione: Fisiologia
cellulare: studia i meccanismi associati al funzionamento delle cellule e le
loro interazioni con l'ambiente. Fisiologia molecolare: studia i fenomeni e i
meccanismi associati alle funzioni delle molecole Neurofisiologia: studia il
funzionamento del sistema nervoso sia a livello cellulare che sistemico
Fisiologia sistemica Fisiologia ecologica Fisiologia integrativa In base ai
processi che causano variazioni fisiologiche: Fisiologia ambientale: studia le
reazioni e l'adattamento dell'organismo sottoposto a differenti ambienti
(temperatura, altitudine, inquinamento, ecc..). Fisiologia patologica: studia
le modificazioni delle funzioni in seguito ad una patologia. Fisiologia dello
sviluppo: studia i meccanismi e le fasi che conducono un organismo alla
maturità riproduttiva. In base agli obiettivi finali della ricerca: Fisiologia
applicata: studia la capacità umana d'interagire con l'ambiente esterno.
Fisiologia comparata: studia le somiglianze e le differenze delle diverse
specie animali. Fisiologia dell'esercizio: studia i meccanismi che interessano
l'attività motoria e sportiva e come migliorare le prestazioni con
l'allenamento. Prosser, C. Ladd (1991).Comparative Animal Physiology,
ambientale Environmental and Metabolic Animal Physiology(4 ° ed.).Hoboken, NJ: Wiley
Introduction to Physiology: History And
Scope, in Medical News Today. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ Hall, John
(2011).Guyton e Hall Manuale di fisiologia medica(12 ° ed.).Philadelphia, Pa .:
Saunders / Elsevier. Burma; Maharani Chakravorty. From Physiology and Chemistry
to Biochemistry. Pearson Education. p. 8. ^ Francis Zimmermann. The Jungle and
the Aroma of Meats: An Ecological Theme in Hindu Medicine. Motilal Banarsidass
publications. p. 159. ^ ( EN ) Helaine Selin, Medicine Across Cultures: History
and Practice of Medicine in Non-Western Cultures, Springer Science &
Business Media, Physiology - humans, body, used, Earth, life, plants, chemical,
methods, su www.scienceclarified. URL Boeree, Early Medicine and Physiology, su
webspace.ship.edu. URL Galen of Pergamum | Greek physician, in Encyclopedia
Britannica. Stanley C. Fell e F. Griffith Pearson, Historical Perspectives of
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«fisiologia» fisiologia, su Treccani.it
– Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Fisiologia, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Opere
riguardanti Fisiologia, su Open Library, Internet Archive. Fisiologia, in Treccani.it – Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Portale Biologia: Biologia scienza che studia la vita Storia
della biologia Equilibrio idro-salino WikipediaSanti Lo Giudice. Giudice. Keywords:
corpi ed espressioni, corpo, espressione, pudore, osceno, l’osceno nella Roma
antica, l’osceno nella italia antica, fisiologia, fisiologico, natura -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: corpi
ed espressioni” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Giuliano: la filosofia di Giove -- Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza –
Filosofo italiano. Grice: “When I think Giuliano, I think Donizetti – and
Poliuto’s lions!” -- Flavio Claudio Giuliano (in latino: Flavius Claudius
Iulianus; Costantinopoli), filosofo. L’ultimo sovrano dichiaratamente pagano,
che tenta, senza successo, di riformare e di restaurare la religione romana
dopo che essa era caduta in decadenza di fronte alla diffusione del cristianesimo.
Sometimes known as ‘the Apostate,’ Giuliano was a Roman emperor, who died in
battle at the early age of 32 exclaiming the infamous “Galileans, ye won!” as
the arrow penetrated in his breast. A naturally gifted scholar, Giuliano stuied
philosophy under Massimo di Efeso and had many philosophical friends and
acquaintances, including Saturnino Secondo Salutio, Prisco, and Imerio.
Although his philosophical outlook was what he described as ‘generally
eclectic,’ he had a special fondness for the Accademia, and a particular
hostily to the Cinargo. Keen to eliminate the Galileans, as he called the sect
originated after the death of Gesu di Nazareth, in fact he left them rather ‘to
their own devices,’ although removing some of their privileges. His letters and
speeches survive – many on deep philosophical issues (‘What is universal about
worshipping a man born in Galilee who claimed to be the son of God – and born
of a virgin?’). Grice: “There are various Griceian problems when approaching
Giuliano from a Griceian perspective. It all reminds me of my father, a
non-Conformist, in a household comprised of my High-Church mother and Catholic
convert aunt! At Oxford, and in fact, before then, at Clifton, I learned that
religion has nothing to do with i. Nobody believes that Giove raped Ganymede –
it’s a tale! Giuliano has been unjustly treated counterfactually. Historians,
seeing that Giuliano’s fight was useless, dismiss it. But this is a weak
argument. I might just as well dismiss Mussolini’s plans because we English bombed
Milano! Giuliano read too much of what the Hebrews call ‘the Holy Writ’ – but
his propositions should be taken separately, one by one. In a way reminiscent
of Arnold (in his Ebraism and Ellenismo), Giuliano proposes to us an
examination of things like ‘Jesus was the son of God, therefore he was God.’
Aeneas was divinized by Virgil, so the Romans shouldn’t count as good critics
here. A nice story involves Giuliano and Arete, a philosopher to whom Giamblico
di Calcide dedicated one of his books. It seems likely that she was one of his
pupils. Her neighbours (presumably Christians) tried to get her thrown out of
her home, but the emperor Giuliano himself went to Phrygia to help her. Giuliano.
Keywords: pagano, ennico, prima Roma, terza Roma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Giuliano” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giuliano: la gnossi a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Eclano). Filosofo
italiano. Giuliano was a follower of (of all people) Pelagio. As a result he was prompty deposed from his
position as ‘vescovo’ of Eclanum. He appears to have led an unsettled life
thereafter. His works survive in the use made by them by Agostino in “Against
Giuliano, the defender of the Pelgagian heresy, and the so-called ‘Incomplete
work against Giuliano’ – left unfinished by Agostino. Giuliano strongly opposed
Agostino’s convoluted doctrine of the original sins (he said there were many).
By contrast, Giuliano entertained a totally positive conception of human
nature. Giuliano.
Grice e Giulio: la filosofia sotto Giulio
Cesare – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza. (Roma) Filosofo italiano. Si lo è voluto
collocare tra gl’epicurei perchè, nell’orazione che, secondo SALLUSTIO, tenne
in senato per opporsi alla condanna a morte dei complici di Catilina, nega
l'immortalità dell’anima -- e le pene dell’oltre-tomba. Però non sappiamo
se e fino a qual punto rispecchi la sua filosofia quell’orazione, che, in ogni
modo, mira a impedire l'uccisione dei catiliniani. La divinazzione di Giulio
Cesare – La stella raccontata di Ovidio – Ottaviano interpreta la stella di
altro modo. Allorche nlla congiura di Catilina il console pronunzia il
primo contro i congiurati l’opinione sua per la pena di morte, Giulio, il quale
desidera ne’ suoi fini di salvare loro la vita, nell’orazione che recita in
senato, riferita estesamente da Sallustio, non tratta gia come
ingiusta o crudele la pena di morte, ma disse anzi che per coloro, che condur devono
una vita misera ed infelice, la morte non è una pena, ma un benefizio, che li
libera avventurosomente dai mali che sofirone. Ne CICERONE, ne CATONE, ne alcun
altro de' senatori contraddissero punto in questa parte al sentimento di Cesare.
Anzi, Cicerone ne parla come d'un sentimento vero e giusto. Cesare, dic’egli,
considera che la morte non e stata dagl’iddi immortali stabilita come una pena,
ma come il fine de’ dolori e delle miserie. Le catene, massimamente le catene
perpetue, sono, a parere di lui, la pena che merita l'orrendo attentato, di qui
si tratta. Egli lascia a questi empil uomini la vita, la quale, se venisse loro
tolta, liberati verrebbero ad un tratto da tutte le pene dell'animo e del
corpo. «Omnis homines, patres conscripti, qui de rebus dubiis consultant,
ab odio, amicitia, ira atque misericordia vacuos esse decet. [2] Haud
facile animus verum providet, ubi illa officiunt, neque quisquam omnium
lubidini simul et usui paruit. [3] Ubi intenderis ingenium, valet; si
lubido possidet, ea dominatur, animus nihil valet. [4] Magna mihi copia
est memorandi, patres conscripti, quae reges atque populi ira aut
misericordia inpulsi male consuluerint. Sed ea malo dicere, quae maiores nostri
contra lubidinem animi sui recte atque ordine fecere. [5] Bello Macedonico,
quod cum rege Perse gessimus, Rhodiorum civitas magna atque magnifica,
quae populi Romani opibus creverat, infida et advorsa nobis fuit. Sed
postquam bello confecto de Rhodiis consultum est, maiores nostri, ne quis
divitiarum magis quam iniuriae causa bellum inceptum diceret, inpunitos
eos dimisere. [6] Item bellis Punicis omnibus, quom saepe Carthaginienses
et in pace et per indutias multa nefaria facinora fecissent, numquam ipsi
per occasionem talia fecere: magis quid se dignum foret, quam quid in
illos iure fieri posset, quaerebant. [7] Hoc item vobis providendum est,
patres conscripti, ne plus apud vos valeat P. Lentuli et ceterorum scelus quam
vostra dignitas, neu magis irae vostrae quam famae consulatis. [8] Nam si
digna poena pro factis eorum reperitur, novom consilium adprobo; sin
magnitudo sceleris omnium ingenia exsuperat, his utendum censeo, quae
legibus conparata sunt. [9] Plerique eorum, qui ante me sententias dixerunt,
conposite atque magnifice casum rei publicae miserati sunt. Quae belli
saevitia esset, quae victis adciderent, enumeravere: rapi virgines,
pueros; divelli liberos a parentum conplexu; matres familiarum pati quae
victoribus conlubuissent; fana atque domos spoliari; caedem, incendia
fieri; postremo armis, cadaveribus, cruore atque luctu omnia conpleri.
[10] Sed, per deos inmortalis, quo illa oratio pertinuit? An uti vos infestos
coniurationi faceret? Scilicet, quem res tanta et tam atrox non permovit,
eum oratio adcendet. [11] Non ita est, neque quoiquam mortalium iniuriae
suae parvae videntur, multi eas gravius aequo habuere. [12] Sed alia
aliis licentia est, patres conscripti. Qui demissi in obscuro vitam
habent, si quid iracundia deliquere, pauci sciunt, fama atque fortuna
eorum pares sunt; qui magno imperio praediti in excelso aetatem agunt,
eorum facta cuncti mortales novere. [13] Ita in maxuma fortuna minuma licentia
est; neque studere neque odisse, sed minume irasci decet; [14] quae apud
alios iracundia dicitur, ea in imperio superbia atque crudelitas
appellatur. [15] Equidem ego sic existumo, patres conscripti, omnis
cruciatus minores quam facinora illorum esse. Sed plerique mortales
postrema meminere et in hominibus inpiis sceleris eorum obliti de poena
disserunt, si ea paulo severior fuit. [16] D. Silanum, virum fortem atque
strenuom, certo scio quae dixerit studio rei publicae dixisse, neque illum
in tanta re gratiam aut inimicitias exercere: eos mores eamque modestiam
viri cognovi. [17] Verum sententia eius mihi non crudelis – quid enim in
talis homines crudele fieri potest? – sed aliena a re publica nostra
videtur. [18] Nam profecto aut metus aut iniuria te subegit, Silane,
consulem designatum genus poenae novom decernere. [19] De timore
supervacuaneum est disserere, quom praesertim diligentia clarissumi viri
consulis tanta praesidia sint in armis. [20] De poena possum equidem dicere,
id quod res habet, in luctu atque miseriis mortem aerumnarum requiem,
non cruciatum esse; eam cuncta mortalium mala dissolvere; ultra neque
curae neque gaudio locum esse. [21] Sed, per deos inmortalis, quam ob rem
in sententiam non addidisti, uti prius verberibus in eos
animadvorteretur? [22] An quia lex Porcia vetat? At aliae leges item
condemnatis civibus non animam eripi, sed exilium permitti iubent. [23]
An quia gravius est verberari quam necari? Quid autem acerbum aut nimis
grave est in homines tanti facinoris convictos? [24] Sin quia levius est, qui
convenit in minore negotio legem timere, quom eam in maiore neglegeris?
[…] [37] Maiores nostri, patres conscripti, neque consili neque audaciae umquam
eguere; neque illis superbia obstabat quo minus aliena instituta, si modo
proba erant, imitarentur. [38] Arma atque tela militaria ab Samnitibus,
insignia magistratuum ab Tuscis pleraque sumpserunt. Postremo, quod
ubique apud socios aut hostis idoneum videbatur, cum summo studio domi
exsequebantur: imitari quam invidere bonis malebant. [39] Sed eodem illo
tempore Graeciae morem imitati verberibus animadvortebant in civis, de
condemnatis summum supplicium sumebant. [40] Postquam res publica
adolevit et multitudine civium factiones valuere, circumveniri
innocentes, alia huiusce modi fieri coepere, tum lex Porcia aliaeque leges
paratae sunt, quibus legibus exilium damnatis permissum est. [41] Hanc
ego causam, patres conscripti, quo minus novom consilium capiamus, in
primis magnam puto. [42] Profecto virtus atque sapientia maior illis
fuit, qui ex parvis opibus tantum imperium fecere, quam in nobis, qui ea
bene parta vix retinemus. [43] Placet igitur eos dimitti et augeri exercitum
Catilinae? Minume. Sed ita censeo: publicandas eorum pecunias, ipsos in
vinculis habendos per municipia, quae maxume opibus valent; neu quis de
iis postea ad senatum referat neve cum populo agat; qui aliter fecerit,
senatum existumare eum contra rem publicam et salutem omnium facturum»
Tutti gli uomini, o senatori, che deliberano intorno a fatti dubbi,
debbono essere liberi da odio e da amicizia, da ira e da misericordia. 2.
L’intelletto non può discernere facilmente il vero, se quei sentimenti
1’offuscano, e nessuno mai può obbedire contemporaneamente alla passione
e al proprio interesse. 3. Se tendi l’arco dell’intelletto, questo ha
forza; se sei preda della passione1 , questa domina e la mente non ha più
vigore. 4. Potrei, o senatori, ricordare molti e molti esempi di re e di
popoli che spinti dall’ira o dalla pietà presero funeste deliberazioni; ma
io preferisco dire ciò che i nostri antenati, trattenendo l’impeto delle
loro passioni, fecero con senso di rettitudine e di giustizia. 5. Nella
guerra Macedonica2 , che noi combattemmo contro il re Perseo, la città di
Rodi, grande e magnifi ca, che aveva accresciuto la sua potenza con
l’aiuto del popolo romano, ci fu infedele e nemica; ma quando, terminata
la guerra, si dovette deliberare intrno alla sorte dei Rodiesi, i nostri
antenati li lasciarono impuniti3 , affi nché non si dicessse che si era
intrapresa la guerra per impadronirsi delle loro ricchezze piuttosto che per
l’offesa ricevuta. 6. Allo stesso modo in tutte le guerre puniche, benché i
Cartaginesi, durante gli intervalli di pace e le tregue, avessero
commesso molte azioni crudeli, i nostri non approfi ttarono mai dell’occasione
per fare delle rappresaglie; cercavano di agire sempre secondo la loro
dignità piuttosto che, infi erire contro di quelli, anche se a buon
diritto. 7. Così pure voi, o senatori, dovete tener conto di voi stessi, affi
nché presso di voi non possa di più la scelleratezza di Publio Lentulo e
degli altri che la vostra dignità, e non pensiate maggiormente alla
vostra ira che alla vostra buona reputazione. 8. Infatti se si può
trovare una pena adeguata al male da loro compiuto, io approvo anche un
provvedimento eccezionale; ma se la grandezza del misfatto supera ogni umana
credenza, io penso che si debbano applicare quelle pene che siano
stabilite dalle leggi. 9. La maggior parte di coloro che hanno espresso il
loro parere prima di me, con un linguaggio forbito e brillante, hanno
commiserato la sventura dello Stato4 . Hanno enumerato le crudeltà della
guerra e i mali che toccano ai vinti, vergini e fanciulli rapiti, fi gli
strappati dalle braccia dei genitori, madri di famiglia costrette a subire
le voglie dei vincitori, case e templi spogliati, stragi, incendi, infi
ne in ogni luogo armi, cadaveri sangue e lutto [...]. 20. Della pena posso dir
questo, che è pura verità: nel lutto e nelle miserie la morte è il riposo
dagli affanni; non è un tormento, anzi dissolve tutti i mali umani e non
schiude né angosce né gioie. 21. Ma, per gli dèi immortali, perché non
hai aggiunto alla tua proposta che i congiurati fossero sottoposti prima
alla fustigazione? Forse perché lo vieta la legge Porcia5 ? 22. Ma ugualmente
altre leggi dispongono che ai cittadini già condannati a morte non si tolga la
vita, ma si conceda l’esilio. 23. O forse perché è più duro essere
fustigato che ucciso? Quale pena è grave o troppo aspra per chi risulta
colpevole di un tanto delitto? 24. Se poi è una pena troppo leggera
fustigarli, come può darsi che si tema la legge per fatti
poco importanti, quando è stata violata per più gravi? 25. Ma
invero, chi potrà criticare una sentenza di morte contro traditori della
patria? L’occasione, il tempo, la fortuna, che dominano a loro volontà tutte le
genti. 26. Qualunque cosa accada, essi l’avranno ben meritata; però, voi,
o senatori, rifl ettete bene6 che ciò che deliberate non ricada su
altri. 27. Tutti gli esempi di illegalità nascono da casi in cui
quell’illegalità fu giusta; ma quando il potere passa nelle mani di cittadini
incapaci o meno onesti, quel nuovo esempio di illegalità, applicata contro chi
l’aveva ben meritato, viene rivolto contro cittadini incolpevoli e innocenti.
[...] 40. Quando la repubblica s’ingrandì e la moltitudine dei cittadini
accrebbe la forza dei partiti, si cominciarono a opprimere gli innocenti
e a commettere arbìtri di tal fatta; allora fu approvata la legge Porcia
e con essa altre leggi con cui si concedeva l’esilio ai rei di pena capitale.
41. Io, o senatori, ritengo che questo motivo sia di grandissima
importanza perché non si approvi l’innovazione che ora si propone. 42.
Certamente ebbero più virtù e saggezza coloro che costruirono con forze
modeste un così vasto impero che non noi, che a malapena sappiamo mantenere ciò
che così bene essi hanno creato. 43. Allora si debbono mettere in libertà
costoro e mandarli ad accrescere l’esercito di Catilina? Niente affatto. Ma
ecco il mio parere: si confi schino i loro beni, si tengano i rei in
prigione affi dandoli ai municipi che posseggono i migliori presìdi; per
l’avvenire intorno a costoro non si facciano più proposte in Senato né
discorsi al popolo; se qualcuno trasgredisse, il Senato deve dichiararlo
nemico dello Stato e della salvezza pubblica.Giulio Cesare. Tutti gli uomini, o
senatori, che deliberano intorno a fatti dubbi, debbono essere liberi da
odio e da amicizia, da ira e da misericordia. 2. L’intelletto non può
discernere facilmente il vero, se quei sentimenti 1’offuscano, e nessuno mai può
obbedire contemporaneamente alla passione e al proprio interesse. 3. Se
tendi l’arco dell’intelletto, questo ha forza; se sei preda della
passione1 , questa domina e la mente non ha più vigore. 4. Potrei, o
senatori, ricordare molti e molti esempi di re e di popoli che spinti
dall’ira o dalla pietà presero funeste deliberazioni; ma io preferisco
dire ciò che i nostri antenati, trattenendo l’impeto delle loro passioni,
fecero con senso di rettitudine e di giustizia. 5. Nella guerra Macedonica2 ,
che noi combattemmo contro il re Perseo, la città di Rodi, grande e
magnifi ca, che aveva accresciuto la sua potenza con l’aiuto del popolo
romano, ci fu infedele e nemica; ma quando, terminata la guerra, si
dovette deliberare intrno alla sorte dei Rodiesi, i nostri antenati li
lasciarono impuniti3 , affi nché non si dicessse che si era intrapresa la
guerra per impadronirsi delle loro ricchezze piuttosto che per l’offesa
ricevuta. 6. Allo stesso modo in tutte le guerre puniche, benché i Cartaginesi,
durante gli intervalli di pace e le tregue, avessero commesso molte
azioni crudeli, i nostri non approfi ttarono mai dell’occasione per fare
delle rappresaglie; cercavano di agire sempre secondo la loro dignità
piuttosto che, infi erire contro di quelli, anche se a buon diritto. 7.
Così pure voi, o senatori, dovete tener conto di voi stessi, affi nché
presso di voi non possa di più la scelleratezza di Publio Lentulo e degli altri
che la vostra dignità, e non pensiate maggiormente alla vostra ira che
alla vostra buona reputazione. 8. Infatti se si può trovare una pena
adeguata al male da loro compiuto, io approvo anche un provvedimento
eccezionale; ma se la grandezza del misfatto supera ogni umana credenza, io
penso che si debbano applicare quelle pene che siano stabilite dalle
leggi. 9. La maggior parte di coloro che hanno espresso il loro parere
prima di me, con un linguaggio forbito e brillante, hanno commiserato la
sventura dello Stato4 . Hanno enumerato le crudeltà della guerra e i mali che
toccano ai vinti, vergini e fanciulli rapiti, fi gli strappati dalle braccia
dei genitori, madri di famiglia costrette a subire le voglie dei
vincitori, case e templi spogliati, stragi, incendi, infi ne in ogni
luogo armi, cadaveri sangue e lutto [...]. 20. Della pena posso dir questo, che
è pura verità: nel lutto e nelle miserie la morte è il riposo dagli
affanni; non è un tormento, anzi dissolve tutti i mali umani e non
schiude né angosce né gioie. 21. Ma, per gli dèi immortali, perché non
hai aggiunto alla tua proposta che i congiurati fossero sottoposti prima
alla fustigazione? Forse perché lo vieta la legge Porcia5 ? 22. Ma ugualmente
altre leggi dispongono che ai cittadini già condannati a morte non si tolga la vita,
ma si conceda l’esilio. 23. O forse perché è più duro essere fustigato
che ucciso? Quale pena è grave o troppo aspra per chi risulta colpevole
di un tanto delitto? 24. Se poi è una pena troppo leggera fustigarli,
come può darsi che si tema la legge per fatti poco importanti,
quando è stata violata per più gravi? 25. Ma invero, chi potrà criticare
una sentenza di morte contro traditori della patria? L’occasione, il tempo, la
fortuna, che dominano a loro volontà tutte le genti. 26. Qualunque cosa accada,
essi l’avranno ben meritata; però, voi, o senatori, rifl ettete
bene6 che ciò che deliberate non ricada su altri. 27. Tutti gli
esempi di illegalità nascono da casi in cui quell’illegalità fu giusta; ma
quando il potere passa nelle mani di cittadini incapaci o meno onesti, quel
nuovo esempio di illegalità, applicata contro chi l’aveva ben meritato, viene
rivolto contro cittadini incolpevoli e innocenti. [...] 40. Quando la
repubblica s’ingrandì e la moltitudine dei cittadini accrebbe la forza
dei partiti, si cominciarono a opprimere gli innocenti e a commettere
arbìtri di tal fatta; allora fu approvata la legge Porcia e con essa
altre leggi con cui si concedeva l’esilio ai rei di pena capitale. 41. Io, o
senatori, ritengo che questo motivo sia di grandissima importanza perché
non si approvi l’innovazione che ora si propone. 42. Certamente ebbero più
virtù e saggezza coloro che costruirono con forze modeste un così vasto
impero che non noi, che a malapena sappiamo mantenere ciò che così bene essi
hanno creato. 43. Allora si debbono mettere in libertà costoro e mandarli
ad accrescere l’esercito di Catilina? Niente affatto. Ma ecco il mio
parere: si confi schino i loro beni, si tengano i rei in prigione affi dandoli
ai municipi che posseggono i migliori presìdi; per l’avvenire intorno a costoro
non si facciano più proposte in Senato né discorsi al popolo; se qualcuno
trasgredisse, il Senato deve dichiararlo nemico dello Stato e della
salvezza pubblica.Giulio Cesare.
Grice e Giulio:
l’attaco a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. A philosopher who was
killed during an attack on the city. Giulio Giuliano.
Grice e Giunco – dell’andreia
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The author of a philosophical
dialogue about the three ages of man. He was the son-in-law of Tito Vario
Ciliano. The models for the three ages of man are his father in law, himself,
and his own son, as models. He argues that the middle age is the best. Grice:
“But he was biased. In fact, in my lectures on reasoning, I give this as an
example of biased reasoning!” – Giunco.
Grice e Giunio:
l’accademia al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Appartene
all'Accademia -- cioè effettivamente all’eclettismo con tendenze stoiche di
Antioco d’Ascalona -- che, appunto, accetta dottrine derivate dal
portico. In Atene fa studi di filosofia, e in questa ha maestro
Aristone. Nella guerra civile parteggia per Pompeo e combatte a
Farsaglia. Ottenne di riconciliarsi con GIULIO (si veda) Cesare. Forma stretti
rapporti con CICERONE, che gli dedica varie opere: "Brutus",
"Paradoxa", "Orator", "De finibus",
"Tusculanae", "De natura Deorum." A CICERONE, dedica il
"De virtute" (Andreia). Legato pro-pretore nelle Gallie, pretore
urbano, partecipa alla congiura contro GIULIO (si veda) Cesare e e uno dei suoi
uccisori. Sconfitto a Filippi d’OTTAVIANO, si uccide. Uno dei maggiori
rappresentanti dell’atticismo è oratore insigne. Scrive lettere (VIII a
Cicerone ci restano nella corrispondenza di questo), poesie e tre opere
morali. Nel "De virtute” difende la teoria dell’auto-sufficienza
della virtù. In "Sui doveri" da precetti al fratello sulla sua
condotta. (Grice: “He never followed them!”). Nel "De patientia,"
tratta di questa. Marco Giunio Bruto il Minore. Giunio. The Swimming-Pool
Library.
Grice e Giunio: il portico romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A follower of the Porch, and one of the senators who opposed NERONE. Giunio
Maurizio
Grice e Giuniore: la geografia filosofica
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. A philosopher who wrote, or edited, a short work on
geography, comprising the whole of Rome, and some of the shoreline outskirts,
including Ostia. Giuniore.
Grice e
Giussani: l’implicatura conversazionale dell’amicizia – il comune, fraternità, liberazione -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Desio). Filosofo italiano. Grice: “I like
Giussiani; of course at Oxford he would be a no-no, being a Catholic; but he
understands the pragmatics of conversation!” Ricevette la prima introduzione dalla
madre Angelina Gelosa, operaia tessile; il padre Beniamino, disegnatore e
intagliatore, era un socialista. Entra nel seminario diocesano San Pietro
Martire di Seveso dove frequenta i primi quattro anni di ginnasio. Si trasfere
a Venegono Inferiore, nella sede principale del seminario dove frequenta
l'ultimo anno di ginnasio, i tre anni del liceo e dove svolge i successivi
studi di filosofia. Ha come docenti, fra gli altri, Colombo, Corti,
Carlo, e Figini. In quella sede conosce i compagni di studio Manfredini e
Biffi. Si interessa di Leopardi e delle chiese ortodosse. Riceve
l'ordinazione da Schuster. Dopo l'ordinazione, rimase nel seminario di
Venegono come insegnante e si specializzò nello studio della teologia orientale,
specie sugli slavofili, della teologia protestante e della motivazione
razionale dell'adesione alla Chiesa. Lascia l'insegnamento in seminario
per quello nelle scuole superiori. Inizia l'insegnamento della religione nelle
scuole a Milano dove e suo alunno Giorello. Le riunioni di suoi studenti si
tennero con il nome di Gioventù Studentesca, che fonda insieme a Ricci e che fa
parte dell'Azione Cattolica. Inizia anche un'attività pubblicistica volta
a porre attenzione sulla questione educativa. Redasse la voce
"Educazione" per l'Enciclopedia Cattolica. Sotto Colombo continua gli studi di teologia
protestante per i quali soggiornò per cinque mesi negli Stati Uniti. Ottenne la
cattedra di Introduzione alla Teologia a Milano. Lo Spirito Santo ha suscitato
nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la
bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava diffondendosi l'opinione
che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. G.
s'impegnò allora a ridestare nei giovani l'amore verso Cristo "Via, Verità
e Vita", ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei
desideri più profondi del cuore dell'uomo, e che Cristo non ci salva a dispetto
della nostra umanità, ma attraverso di essa. Il movimento da lui creato prese
il nome di Comunione e Liberazione; ne assunse la guida presiedendone il
consiglio generale. Il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbe la
Fraternità di Comunione e Liberazione e G. ne guidò la Diaconia
Centrale. Contribuì alla costituzione della Fondazione Banco Alimentare.
Fra le sue numerose opere vi è la trilogia del Per Corso, redatta a partire
dagli appunti delle lezioni di religione che aveva tenuto negli anni cinquanta
al liceo Berchet e in seguito all'Università Cattolica. L'opera, pubblicata in
successive edizioni prima da Jaca e poi da Rizzoli, è composta da “Il senso
religioso, All'origine della pretesa cristiana e Perché la Chiesa. Propone la
concezione della fede e dell'esperienza cristiana come incontro con Cristo
attraverso la Chiesa cattolica. La fede è un «riconoscere una Presenza» ed
occupa ogni singolo spazio della vita individuale (i rapporti umani,
l'esperienza lavorativa, la vita sociale e politica). Da ciò nasce anche una
critica alla ragione illuminista. L'idea della ragione come principale
strumento offerto all'uomo nel rapporto con la realtà e della fede come metodo
di conoscenza sono le premesse metodologiche per un'analisi dell'esperienza
religiosa. Dopo la morte, sono stati dedicati a G.: Desio: nel
paese natale di G., la piazza retrostante il municipio e un monumento opera di
Cristina Mariani a Milano: parco G., in predenza parco Solari Trivolzio: il
piazzale adibito all'accoglienza delle auto dei pellegrini alla chiesa
parrocchiale che ospita le spoglie di San Riccardo Pampuri. Finale Ligure:
l'ultimo tratto del sentiero che porta all'antica chiesa di San Lorenzo di
Varigotti: lì si tennero alcuni dei primi incontri di Comunione e Liberazione,
che ancora si chiamava Gioventù Studentesca Castronno (VA): un largo presso la
rotatoria all'uscita dell'Autostrada dei laghi. Ascoli Piceno: la scuola
primaria e dell'infanzia "G.". Portofino: la piazzetta del faro Kampala
(Uganda): la scuola secondaria G. Pozzolengo: il parco comunale adiacente al
castello San Leo: un basso-rilievo in bronzo, opera dell'artista riminese Ceccarellia,
sulla facciata del convento di Sant'Igne Rimini: la rotonda davanti al
Palacongressi, nei pressi dell'area della demolita Fiera dove si sono svolte le
prime edizioni del Meeting per l'amicizia fra i popoli Chiavari: un tratto del
lungoporto Verona: i giardini presso ponte Garibaldi a Borgo Trento Cinisello
Balsamo: un largo urbano nei pressi del comune Segrate: il centro sportivo
della frazione di Redecesio Strade comunali sono state intitolate a don G. a
Cagliari, Morrovalle, Rapallo, Treviglio, Mestre, ecc. La maggior parte delle
opere deriva dalla trascrizione di dialoghi, conversazioni e lezioni svolte in
pubblico durante raduni, convegni, esercizi spirituali. I suoi libri sono stati
pubblicati dall'editore milanese Jaca. Rizzoli ha iniziato a rieditare i testi
di G. in nuove edizioni aggiornate dotate spesso di un nuovo apparato di note e
di nuovi contenuti editoriali e a volte con titoli diversi. Rizzoli ha anche
pubblicato le opere inedited e volumi antologici di conversazioni
precedentemente disponibili sotto forma di fascicoli pro manuscripto o di
redazionali per varie riviste. Volumi di inediti o di riedizioni di testi sono poi usciti anche per altri editori,
tra i quali Marietti, San Paolo, SEI, Piemme e Messaggero di Sant'Antonio. Trascrizioni
di conversazioni e lezioni nel corso di incontri con i responsabili di
Comunione e Liberazione, di esercizi spirituali e di incontri con appartenenti
ai Memores Domini sono state di norma pubblicate come inserti redazionali o
allegate come fascicoletti nelle riviste Tracce (precedentemente nota come CL-Littere
Communionis, organo ufficiale del movimento), Il Sabato e 30 giorni nella
Chiesa e nel mondo. Un gran numero di questi testi è stato poi pubblicato in
volumi antologici. -- è iniziata la catalogazione sistematica dei testi e
degli scritti di Giussani. G. Scritti, curato dalla Fraternità di Comunione e Liberazione,
inizia la pubblicazione di schede riassuntive dei testi. Ha diretto la collana
editoriale I libri dello spirito cristiano per la Biblioteca Universale
Rizzoli. La collana e poi sostituita da un'analoga iniziativa sotto il nome di
Biblioteca della spirito cristiano, ha pubblicato titoli scelti fra quelli che
più hanno segnato l'esperienza di G. e di Comunione e Liberazione. Ha diretto la
collana discografica Spirto gentil, CD musicali di «introduzione alla musica»
con allegato un booklet di norma contenente una nota introduttiva di G., una
scheda storica sui compositori o sui musicisti e una guida all'ascolto. Saggi:
“Il senso religioso: all'origine della pretesa cristiana, Perché la Chiesa e Il
rischio educativo. “Il senso religioso, Jaca, Reinhold Niebuhr, Jaca Teologia
protestante, La Scuola Cattolica, Jaca Marietti, “L'impegno del cristiano nel
mondo, Jaca, Tracce di esperienza e appunti di metodo cristiano, Jaca Dalla
liturgia vissuta: una testimonianza, Jaca, San Paolo, Il rischio educativo,
Jaca, SEI, Rizzoli, Tracce d'esperienza cristiana, Jaca Decisione per
l'esistenza, Jaca L'alleanza, Jaca Il senso della nascita, colloquio con Testori,
BUR Rizzoli, Moralità: memoria e desiderio, Jaca, Alla ricerca del volto umano,
Jaca Rizzoli, Pregare, illustrazioni di Marina
Molino, Jaca La fede e le sue immagini, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La
coscienza religiosa nell'uomo moderno, Jaca, Il senso religioso, Per Corso, Jaca Rizzoli, All'origine
della pretesa Cristiana, Jaca Rizzoli, Perché la Chiesa, Jaca, Rizzoli, Un
avvenimento di vita, cioè una storia, EDITIl Sabato L'avvenimento cristiano,
BUR Rizzoli, Il senso di Dio e l'uomo moderno, BUR Rizzoli, Si può vivere così?,
BUR Rizzoli, Rizzoli Il PerCorso, Jaca, Opere: Jaca, Il tempo e il tempio, BUR
Rizzoli, Realtà e giovinezza: la sfida, SEI; Rizzoli, Il cammino al vero è
un'esperienza, SEI, Rizzoli, Le mie letture, Rizzoli, Si può (veramente?!) vivere
così?, BUR Rizzoli, Porta la speranza, Marietti Riconoscere una presenza, San
Paolo, Lettere di fede e di amicizia a Majo, San Paolo, Generare tracce nella
storia del mondo, con Alberto e Prades, Rizzoli, L'uomo e il suo destino,
Marietti Scuola di Religione, SEI, L'io, il potere, le opere, Marietti Tutta la
terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Che cos'è l'uomo perché te ne curi?,
San Paolo, Avvenimento di libertà, Marietti L'opera del movimento. La
Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Il miracolo dell'ospitalità,
Piemme,Il Santo Rosario, San Paolo, Egli solo è. Via Crucis, San Paolo, La
libertà di Dio, Marietti, Come si diventa cristiani, Marietti La familiarità
con Cristo, San Paolo, Vivere intensamente il reale, La Scuola,. Spirto gentil,
BUR Rizzoli,. Cristo compagnia di Dio all'uomo, EMessaggero Padova, Collana
Quasi Tischreden "Tu" (o dell'amicizia), BUR Rizzoli, Vivendo nella
carne, BUR Rizzoli, L'attrattiva Gesù, BUR Rizzoli, L'auto-coscienza del cosmo,
BUR Rizzoli, Affezione e dimora, BUR Rizzoli, Dal temperamento un metodo, BUR
Rizzoli, Una presenza che cambia, BUR Rizzoli, Collana L'Equipe Dall'utopia
alla presenza BUR Rizzoli, Certi di
alcune grandi cose, BUR Rizzoli, Uomini senza patria BUR Rizzoli, Qui e ora BUR
Rizzoli, “L'io rinasce in un incontro” BUR Rizzoli, Ciò che abbiamo di più
caro, BUR Rizzoli, Un evento reale nella vita dell'uomo BUR Rizzoli, In cammino
BUR Rizzoli, Collana Cristianesimo alla prova Una strana compagnia, BUR
Rizzoli, La convenienza umana della fede, BUR Rizzoli, La verità nasce dalla
carne, BUR Rizzoli, Un avvenimento nella vita dell'uomo, BUR Rizzoli, Interviste Comunione e Liberazione.
Interviste Robi Ronza, Milano, Jaca Book, Un caffè in compagnia. Conversazioni
sul presente e sul destino, colloqui con Farina, Milano, Rizzoli. Il fondatore:
Comunione e Liberazione. Camisasca "C’altro Sessantotto", da
"L'Osservatore Romano" ORIGINE, in Banco Alimentare, Elemedia
S.p.A.Area Internet, Il mistero di don G.. Rivelato dai suoi scritti, su
chiesa. espresso.repubblica. Oggi l'addio a don Giussani Il Tirreno, in
ArchivioIl Tirreno. Società Coop. Edit. Nuovo Mondo Via Porpora, Milano Tracce
, «Cristo è veramente tutto, è il compiersi dell’umano», su tracce. Repubblica
» politica » Milano, i funerali di Don G., su repubblica Milano, profanata la
tomba di don G., Corriere della Sera su corriere. Chiesta l'apertura della
causa di beatificazione e canonizzazione, in Tracce, Società Coop. Edit. Nuovo
Mondo, Passo avanti verso la beatificazione di don Giussani, in Tempi, Società
Coop. Edit. Nuovo Mondo, Savorana, Don Luigi G., fondatore di CL, nominato
monsignore, in Avvenire, Don G.: vince il premio della cultura cattolica, in
Adnkronos, Mia giovinezza, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, Premio
Isimbardi Città metropolitana di Milano.Tettamanzi, La famiglia a scuola, in
Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, La Festa dello StatutoEdizione Sigilli
longobardi, su Consiglio Regionale della Lombardia. Desio, rinasce il monumento
per don Giussani a dieci anni dalla scomparsa, in Il Cottadino, Il parco Solari sarà dedicato a G., in Il
Giornale, Tornielli, Don Giussani nel solco di San Pampuri, in La Provincia
Pavese, Finale: intitolazione strada a Giussani, in Savona News, Castronno, intitolata a Don G. la nuova
rotonda, in Varese News, Emidio Cagnucci, al musicista ascolano intitolata una
scuola, in il Quotidiano,Francesca Nacini, Don G. «faro» di Portofino, in Il
Giornale, Uganda. La Luigi Giussani High School inaugurata a Kampala tra i
canti delle donne del Meeting Point, su AVSI, Pozzolengo, raid vandalici nei
parchi, in qui Brescia, Un bassorilievo per don G. a San Leo, in Rimini Today, Rotatoria
del Palacongressi dedicata a G., in Altarimini, Chiavari, lungoporto don G.per
il fondatore di Cl, in Il Secolo XIX, In Borgo Trento giardini intitolati al
fondatore di CL, in Verona Notte, Melati, Jaca Santa editrice della
rivoluzione, in Il Venerdì di Repubblica, Gruppo Editoriale L'Espresso SpA, Le
opere di Comunione e Liberazione. Chi
siamo, su G. Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. Collana I libri dello spirito cristiano, Comunione
e Liberazione. Collana musicale Spirto gentil, di Comunione e Liberazione. Bosco,
G., Torino, Elledici, Bedouelle; Graziano Borgonovo; Olivier Clément; Antonio
Olinto; Julien Ries, Gli uomini vivi si incontrano: scritti per G., Milanok, Camisasca,
Comunione e Liberazione: Le origini Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, Massimo
Camisasca, Comunione e Liberazione: La ripresa, Cinisello Balsamo, San
Paolo,Elisa Buzzi, Scola, Un pensiero sorgivo, Marietti D Perillo, Caro G..
Dieci anni di lettere a un padre, Piemme, Camisasca, Comunione e Liberazione:
Il riconoscimento, Appendice, Cinisello Balsamo, San Paolo, Farina, G.. Vita di
un amico, Piemme, Farina, Maestri.
Incontri e dialoghi sul senso della vita, Piemme, Ceglie, G.. Una religione per
l'uomo, 1ª ed., Cantagalli, AGamba, Allargare la ragione, Vita e Pensiero, Massimo
Camisasca, Giussani. La sua esperienza dell'uomo e di Dio,Cinisello Balsamo,
San Paolo,Savorana, Vita di don G., Milano, Rizzoli Editore, Savorana,
Un'attrattiva che muove, 1ª ed., Milano, BUR Saggi, Scholz-Zappa, G. e
Guardini. Una lettura originale, Milano, Jaca, Marta Busani, Gioventù
studentesca. Storia di un movimento cattolico dalla ricostruzione alla
contestazione, Roma, Studium, Massimo Camisasca, L'avventura di Gioventù
Studentesca, fotografie di Elio Ciol, Milano, Mondadori Electa, G. Paximadi, E.
Prato, R. Roux e Tombolini, Giussani. Il percorso teologico e l'apertura
ecumenica, Siena, Cantagalli Eupress FTL. Scritti di G., su G. Scritti, Fraternità di Comunione e
Liberazione. Giussani su Comunione e Liberazione, Fraternità di Comunione e
Liberazione. Luigi Giovanni Giussani. Giussiani. Keywords: dell’amicizia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giussani” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Giusso: l’implicatura conversazionale degl’eroi – filosofia fascista -- il mistico dell’azione -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Giusso: he has
explored philosophers from his country like Leopardi and Bruno, and tdhe whole
‘tradizione ermetica nella filosofia italiana,’ but also French – Bergson – and
especially “Dutch,” i. e. Deutsche or tedesca – Spengler, and Nietsche – All
very Italian!” Nato in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio Giusso e
da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un
terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo
sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, uno dei
fondatori del quartiere Bagnoli, ne era stato sindaco). Si laurea in filosofia
a Napoli sotto Aliotta. Seguì con passione l'attualismo gentiliano e proprio il
suo carattere passionale lo portò anche nel campo filosofico ad un tipo di
critica "scenografica", così come fu definita. Le sue
"frizioni" con Croce, inizialmente orientate su temi politici,
presero più tardi una forma "sotterranea", genericamente orientata
contro l'idealism. Giusso si richiamava al fatalismo di Leopardi, al demiurgo
di Nietzsche, allo storicismo di Dilthey, al nichilismo dello Spengler: e a
causa di quest'ultimo, oltre che per la sua interpretazione della Scienza nuova
vichiana (che si attirò una severa recensione dello stesso Croce, Giusso fu
criticato dall'ambiente crociano. Giusso critico e storico delle idee
s'identificava con la visione della vita di autori che sentiva a lui vicini per
temperamento ed interessi come Bruno, Vico (dall'analisi degli scritti del
quale nacque l'infastidita reazione di Croce), Giacomo, Bacchelli, Barilli,
Papini, Soffici, Palazzeschi, Borgese, Gozzano, che molto ispirò la sua
composizione poetica Don Giovanni ammalato. I suoi Tafferugli a Montecavallo
meriterebbero forse di essere più conosciuti. Tra le due guerre, egli partecipò
all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce, da cui
molto presto si distaccò (comeTilgher, che egli difese e mostrò di apprezzare)
assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di
vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere
cui dedicò la sua attenzione: in particolare in una fase iniziale, Spengler e
Nietzsche. Intelligenza precoce, prima
di intraprendere l'insegnamento universitario che lo avrebbe allontanato da
Napoli portandolo ad insegnare Filosofia a Bologna, Pisa, e Cagliari, Giusso
avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi
quotidiani icome Il Popolo d'Italia, Il Secolo, Il Mattino, Il Resto del
Carlino, ed ancora il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di
Sicilia, La Stampa ed altri ancora.
Giornali questi dove fu autore di elzeviri, volti alla diffusione dei
più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali
esponenti, soprattutto scrittori. Nel dopoguerra, superati i miti
dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, si riavvicinò alla fede
Cristiana. Era sua intenzione realizzare una revisione del pensiero italiano
dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e
l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico
volto a ravvicinare la filosofia della Roma antica e quello cristiano. In chiave revisionista rispetto alla
tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di Bruno. Di ritorno da un
viaggio nella sua adorata Spagna morì a A Napoli gli venne intitolata una
strada. Saggi: “Le dittature
democratiche dell'Italia” (Milano, Alpes); “Leopardi” (Napoli, Guida); “Idealismo
e prospettivismo” (Napoli, Guida); “Leopardi e le sue due ideologie” (Firenze,
Sansoni); Spengler, Roma, società anonima La nuova antologia, Cadenze di
Sigismondo nella Torre, Modena, Guanda); “VICO fra l'Umanesimo e l'Occasionalismo”
(Roma, Perrella); “La visione della vita” (Napoli, R. Ricciardi); “Elegie del
torso della saggezza mutilata, Milano, Corbaccio); “Il viandante e le statue:
saggi sulla letteratura contemporanea, Roma, Cremonese); “Lo storicismo, Milano,
Bocca, Gioberti, Milano, A. Garzanti, L'anima e il cosmo, Milano, Bocca, “La tradizione ermetica nella filosofia
italiana” (Milano, Bocca); Due scritti sul nazionalsocialismo, Roma, Settimo
Sigillo, Quaderno, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa,.
Tafferugli a Montecavallo, La Finestra, Lavis, Il fascismo e Croce, "Gerarchia",
"La Critica", rist. in Nuove
pagine sparse, Panteismo e magia in Bruno (Sassari, Scienze e filosofia in
Bruno, Napoli Roma, Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Corriere della sera, La Fiera letteraria, Giornale di metafisica, F.
Bruno,Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos, IE. Falqui, Di noi
contemporanei, Firenze, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi,
Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo, ad indicem; G.
Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, R. Maran, L. G. e la ricerca d'un
sistema, in Sophia, A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero; Toffanin,
Nuova Antologia, Boni Fellini, L'Osservatore politico letterario, Diz. della
letteratura mondiale, Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli
italiano. L’Illuminismo oscuro Lorenzo Giusso, autore e studioso
multidisciplinare, ha lasciato ai posteri una sterminata produzione
intellettuale, tenuta tuttavia troppo poco in considerazione dal mondo
accademico contemporaneo. Stefano Chemelli 10 articoli
Lorenzo Giusso fu studioso di filosofia. Recinto riduttivo si dirà, ma per lui
invece parco multiforme. Ispanista, germanista, francesista. Allievo d’Aliotta
e Battaglia è critico letterario, si laurea, ottiene la libera docenza in
Filosofia teoretica e morale ma insegna. “Tafferugli a Montecavallo” pubblicato
da Cappelli uno studio sul barocco romano e Bernini, “La tradizione ermetica
nella filosofia italiana”, le straordinarie conversazioni radiofoniche di
“Autoritratto spagnolo” sono appena un accenno a una sterminata produzione
redatta nel breve arco di cinquantasette anni. Sodale di Unamuno e Ortega
con i quali ha condiviso amabili conversari, G. si è occupato a fondo di
Goethe, Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Dostoevskij, Freud, Dilthey, Simmel,
Bergson Gioberti, Vico, Bruno. Inoltre fu di Spengler uno dei primissimi
esegeti italiani. Dotato di una conversazione che incantava anche il grande
Edoardo, complice in gustosi siparietti nei quali De Filippo si trasformava in
spettatore, basterebbero le pagine dedicate al Bernini per intuire la
rabdomantica agilità di scrittura sempre corroborata da una cultura che poteva
reggere l’impulso filologico di un Croce. Dona un’analisi storica poderosa in
“Le dittature democratiche dell’Italia”, all’ascesa del fascismo, seguito dalla
prima raccolta di scritti letterari che ne connotano le capacità di “viandante”
nei diversi giardini del sapere; “Il ritorno di Faust” è del 1929, “Figure di
Capri”, a ruota seguono le pagine sopra Freud, Ortega, Dostoevskij, e
soprattutto lo studio su Leopardi. Copia de "La tradizione ermetica
nella filosofia italiana"Copia de “La tradizione ermetica nella filosofia
italiana” Stendhal e Nietzsche non escludono l’impegno anche poetico che
troverà sfogo in tre raccolte che molto dicono del Giusso più segreto (“Musica
in piazza”, “Cadenze di Sigismondo nella torre”, “Elegie del torso della
saggezza mutilata”). “Spengler e la dottrina degli universali formali”
restituisce in forma autonoma un approfondimento più volte ripreso da Giusso
nel decennio dei trenta che costituisce la decade dell’approfondimento
filosofico più intenso (Dilthey e Ortega tra gli altri…) e preparatorio al
grande volume “Filosofia e immagine cosmica” dedicato a GENTILE. Due traduzioni
spagnole coinvolgeranno gli studi di G. rivolte a Vico ma sarebbe urgente dare
attenzione alla tradizione ermetica, magari per scoprire che Garin l’ha
sicuramente letta e ripresa molto più tardi. “Kulturkritiker universale”
lo definì il giovane Buscaroli, allievo devoto a Bologna quando G. strabiliava
un manipolo di arditi fuoricorso in Estetica e Letteratura spagnola, che mai
avrebbero rinunciato alle sue esibizioni in diretta presso l’Alma Mater
bolognese, fugacemente ospitati. Un grande romantico della ispecie dei
Kleist, degli Hoederlin, dei Novalis però, poeta dei talami dissacrati che
trova negli articoli, nelle corrispondenze, nei taccuini di viaggio infinite
suggestioni, il tono di un G. confidenziale e descrittivo vicino al lettore non
specialista ma disposto a calarsi nell’ambiente e nell’aria, nella luce chiara
e tersa di un respiro curioso sino al dettaglio minuto. Filosofia ed
imagine cosmica; Filosofia ed immagine cosmica; Pubblicati recentemente i
quaderni spagnoli dalla Università Benincasa, sono ancora inedite le pagine
tedesche e austriache, ma esistono anche reportage francesi, nei quali uomini e
cose sbalzano con la modestia e la versatilità del carattere e la magnificenza
della scrittura. La vita di ognuno non elide né la circostanza né l’astrazione,
G. è uno dei protagonisti del teatro del mondo che abbiamo ignorato, noi
italiani, lui, molto napoletano, ma già europeo, ben oltre l’amatissima Spagna.
Un europeo immerso nella musica delle lingue (francese, spagnolo, tedesco…), in
VICO e Spengler. Tilgher, Alvaro, Toffanin, furono amici veri, fidati, ammirati
di un uomo al quale era sconosciuta l’invidia e al contrario era profferta a
piene mani una generosa e prodiga liberalità in nome di una poetica propensione
al dialogo di un sapere trasversale, comunicativo e incantato nella magia della
parola libera, circostanziata, esatta. Una studiosa di letteratura
italiana ha affermato che il più bel libro di G. è il quaderno spagnolo, ed ha
pure aggiunto che quaderno spagnolo e autoritratto spagnolo coincidono. Spaini,
ma pure Buscaroli che con Rispoli di G. sono stati tra i conoscitori più
profondi di Lorenzo G., difficilmente concorderebbero. Le pagine spagnole,
tedesche, austriache servono a entrare nel mondo giussiano, consentono di
accedere a una dimensione della cultura che non conosce omologazioni di sorta,
schieramenti, posizionamenti di rendita. Permettono di sorridere a fronte di un
esteta armato solo di una generosità speciale: cogliendo l’anima dell’umanità
in una minuzia necessaria a ritrovare un sentiero precario, attraverso il quale
condurre a una visione più ampia, senza dimenticare la poesia della vita.
Gioberti come uomo del risorgimento – serie: Uomini del risorgimento. “U=Il
fascismo di Croce” Gerarchia – “Croce contro Croce” – da Critica fascista –
“Gentile, mistico dell’azione, tratto da “Il lavoro d’Italia” – “Gentile, “La
Nazione” . Nacque a Napoli, in una famiglia aristocratica, dal conte
Antonio e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne
in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva
contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo
Giusso, ne era stato sindaco). Gli studi del G. a Napoli (dove fu
allievo, fra gli altri, di Aliotta), coronati dalla laurea in lettere e
filosofia, si svilupparono in molteplici direzioni. Pur destinato a
diventare prevalentemente filosofo e storico della filosofia, i suoi non
dilettanteschi interessi spaziarono dalla letteratura alla musica, dalla
pittura alla filosofia, secondo un percorso eclettico ed estroso, fondato sull'istinto
piuttosto che sul metodo, che lo portò a una conoscenza approfondita ed
estesissima nei settori più diversi. Tra le due guerre, egli partecipò
all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce, da cui
molto presto si distaccò (come Tilgher, che egli mostrò di apprezzare)
assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di
vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte
opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare, in una fase iniziale,
Spengler e Nietzsche. Intelligenza precoce, prima di intraprendere
l'insegnamento universitario, che lo avrebbe allontanato da Napoli, G. avviò
una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi quotidiani
italiani come autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti
della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali esponenti,
soprattutto scrittori. L'attività giornalistica si sviluppò
particolarmente negli anni Venti, quando il G., ancora molto giovane, iniziò a
collaborare con L'Idea nazionale, Il Popolo d'Italia e Il Secolo, quindi con Il
Mattino, come critico letterario; fu poi autore di articoli di viaggio, per il
Corriere della sera, e tenne un "Diario critico" per Il Resto del
Carlino, pubblicando nel corso degli anni sulla terza pagina di molti
quotidiani italiani (Il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di
Sicilia, La Stampa e altri ancora), anche se il lavoro propriamente
giornalistico rallentò quando prevalse quello universitario. Ottenne la
libera docenza in filosofia teoretica a Napoli, dove l'anno successivo insegnò
filosofia morale; le principali tappe del suo percorso universitario -
molteplice anche per le numerose discipline di cui si occupò - furono:
Cagliari, dove insegna come professore incaricato, ricoprendo, secondo un
percorso abbastanza inconsueto e irregolare, le cattedre di filosofia
teoretica, letteratura italiana e francese, storia delle religioni; quindi,
Bologna, dove, sempre come incaricato, insegnò lingua e letteratura spagnola,
infine Pisa. La carriera universitaria del G. non si limitò, comunque,
all'Italia: insegnò letteratura italiana a Monaco, a Nizza, a Breslavia, a
Debreczen in Ungheria, a Madrid, dove fu "accademico d'onore", e a
Barcellona. Proprio al ritorno da un viaggio in terra spagnola venne
colpito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte. Il G. morì a
Roma. Oltre all'attività come giornalista e saggista, il G. aveva
pubblicato anche alcune raccolte di poesie: Musica in piazza (Napoli) e Don
Giovanni ammalato, una rifusione, accresciuta, del primo volume; Cadenze di
Sigismondo nella torre, Modena; e, infine, Elegie del torso della saggezza
mutilata, Milano: d'intonazione prossima ai crepuscolari le prime, percorse dal
senso di una discrepanza tra la piattezza della vita quale ci è data e il
desiderio di viverla in modo più libero e pieno; maggiormente legate
all'estetismo dannunziano, e insieme non dimentiche del clima d'avanguardia in
cui era avvenuta la prima formazione del G., le ultime due. Saggista
acuto, ottimo conversatore, spirito brillante e fortemente antiaccademico,
caratterizzato da un sapere enciclopedico, il G. non si legò ad alcuna scelta
politica, non appartenne a nessuna scuola di pensiero e non ebbe maestri
diretti né discepoli. Dal suo asistematico sforzo di interpretazione della
cultura moderna non si può trarre una dottrina unitaria ma soltanto il profilo
di un cammino variegato e intenso, che trae origine dalla ricerca di una
visione totale dell'esistenza nel fondamentale intento di realizzare un ideale
di vita, problema con cui il G. non smise mai di misurarsi, secondo una
prospettiva antirazionalista (e implicitamente antidealista).
Allontanatosi molto presto, come si è detto, dal crocianesimo imperante nell'ambiente
napoletano, il primo interesse del giovane G. fu per i protagonisti
dell'irrazionalismo e del vitalismo eroico, e per il pessimismo cosmico di G.
Leopardi (Il ritorno di Faust, Napoli; Leopardi, Stendhal, Nietzsche; Tre
profili: Dostoevskij, Freud, Ortega y Gasset; Leopardi e le sue due ideologie,
Firenze); in tempi diversi riunì in raccolte i ritratti degli autori e dei
personaggi che più lo avevano interessato (Il viandante e le statue. Saggi
sulla letteratura contemporanea, Milano). Nell'ambito di una ricerca più
propriamente filosofica, i principali autori di riferimento del G. - che
costituirono anche l'oggetto dei suoi studi – furono Dilthey (Dilthey e la
filosofia come visione della vita, Napoli; Dilthey, Simmel, Spengler, Milano);
i già ricordati Nietzsche (Nietzsche, Napoli), Spengler (Spengler e la dottrina
degli universali formali, Napoli), e Gasset. Il rapporto tra razionalismo
e irrazionalismo (e il superamento della loro opposizione) e quello tra scienza
e filosofia e vita sono il tema di fondo di quella che probabilmente rimane una
delle sue opere più significative, Filosofia ed imagine cosmica (Roma), in cui,
in diretto riferimento a Vico (si veda anche: Vico tra umanesimo e
occasionalismo, Roma; La filosofia di Vico e l'età barocca), egli delinea una
genealogia della filosofia, e in generale dell'attività razionale, a partire
dalle istanze vitali e concrete dell'uomo. In Vico, secondo il G., non c'è una
filosofia intesa come ontologia e come organo di un conoscere razionale perché
i sistemi filosofici riflettono il tentativo di appropriazione verbale del
mondo in rapporto a un'originaria intuizione cosmica, così come le scienze e le
tecniche non procedono da una razionalità astratta ma dai bisogni dell'uomo
sociale, rimandando a un sentimento che è espressione del primitivo legame, non
specificamente conoscitivo, che unisce uomo e mondo. Nel dopoguerra,
approfondendo questa tematica e superati i miti dell'irrazionalismo e
dell'energia vitalistica, il G. si riavvicinò alla fede cristiana; era sua
intenzione realizzare una revisione della storia del pensiero italiano dal
Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e
l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico
volto a ravvicinare il pensiero dell'antichità greco-romana e quello cristiano.
In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche
alla figura di Bruno (Scienza e filosofia in Bruno, Napoli-Roma). Tra le
opere del G., oltre a quelle già citate, si ricordano: Le dittature
democratiche d'Italia, Milano; Idealismo e prospettivismo, Napoli; Lo
storicismo tedesco: l'anima e il cosmo, Roma; Bergson, Milano; Gioberti; Spagna
e antispagna: saggisti e moralisti spagnoli, Mazara del Vallo; La tradizione
ermetica nella filosofia italiana, Trapani; Tafferugli a Montecavallo, Bologna;
Origene e il Rinascimento, Roma: Autoritratto spagnolo, a cura di A. Spaini,
Torino; Necr. in Corriere della sera, La Fiera letteraria; Giornale di
metafisica, Bruno, L. G., in Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos; Falqui,
Di noi contemporanei, Firenze, ad indicem; Villaroel, Gente di ieri e di oggi,
Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo, ad indicem; G.
Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, 11 maggio 1957; R. Maran, L. G. e
la ricerca d'un sistema, in Sophia; Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero;
Toffanin, G. e Ortega, in Nuova Antologia; Boni Fellini, G. dieci anni dopo, in
L'Osservatore politico letterario; Diz. della letteratura mondiale del '900,
sub voce. Panteismo tipo di teismo Lingua Segui Modifica Il panteismo
(πάν (pán) = tutto e θεός (theós) = Dio, vuol dire letteralmente "Dio è
Tutto" e "Tutto è Dio") è una visione del reale per cui ogni
cosa è permeata da un Dio immanente o per cui l'Universo o la natura sono
equivalenti a Dio (Deus sive Natura). Definizioni più dettagliate tendono
ad enfatizzare l'idea che la legge naturale, l'esistenza e l'universo (la somma
di tutto ciò che è e che sarà) siano rappresentati nel principio teologico di un
'dio' astratto piuttosto che una o più divinità personificate di qualsiasi
tipo. Questa è la caratteristica chiave che distingue il panteismo dal
panenteismo e dal pandeismo. Ne deriva che molte religioni, pur reclamando
elementi panteistici, sono in realtà per natura più panenteiste e
pandeiste. Michael Levine, nel suo libro Panteismo, lo definisce «una
concezione non-teistica della divinità». In senso lato, con
"panteismo" si intende ogni dottrina filosofica che identifichi Dio
con il mondo o con il principio che lo regge. Per l'esattezza, il concetto di
Dio-Uno-Tutto si presenta in due versioni: quella "cosmistica", la quale
afferma "Dio è nel Tutto", e quella "acosmistica" (il
termine è di Hegel), la quale afferma "Il Tutto è in Dio". Nel primo
caso, come nello stoicismo, Dio impregna e pervade l'universo in ogni sua
parte; nel secondo caso, come nello spinozismo, l'universo in ogni sua parte
rifluisce e si scioglie in Dio, quale Uno-Tutto. Storia del panteismo Modifica
Il termine "panteista" (dal quale la parola "panteismo" è
derivata) fu usato propriamente per la prima volta da Toland nella sua opera
Socinianism Truly Stated, by a pantheist, del 1705. Comunque, il concetto era
stato discusso già al tempo dei filosofi della Grecia antica, da Talete,
Parmenide ed Eraclito. I presupposti ebraici del panteismo possono essere
ricercati nella Torah stessa, nel racconto della Genesi e nei suoi primi
materiali profetici, nei quali chiaramente gli "atti di natura" (come
inondazioni, tempeste, vulcani, etc.) sono tutti identificati come "la
mano di Dio" attraverso idiomi di personificazione, così spiegando gli
aperti riferimenti al concetto, sia nel Nuovo Testamento, che nella letteratura
cabalistica. Nel 1785 sorse una consistente controversia tra Friedrich
Heinrich Jacobi e Moses Mendelssohn, che infine coinvolse molte importanti
persone del tempo. Jacobi affermava che il panteismo di Lessing era
materialistico, per il fatto che considerava tutta la natura e Dio come una
sola sostanza estesa. Per Jacobi, esso non era altro che il risultato della
devozione alla ragione, tipicamente illuminista, che avrebbe condotto
all'ateismo. Mendelssohn espresse il suo disaccordo, asserendo che il panteismo
era teistico. Il Panteismo di EraclitoModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Eraclito. Il panteismo è un
componente della dottrina del filosofo greco Eraclito, secondo cui il divino è
in tutte le cose ed è identico al mondo nella sua interezza. Questa concezione
porta a identificare il divino con l'Universo, facendolo divenire quindi
l'Unità di tutti i contrari, il Fuoco generatore. Il Dio-tutto di
Eraclito ha in sé tutte le cose ed è una realtà eterna. Eraclito sembra rifarsi
alla teoria della cosmologia ciclica, poiché la sua concezione della realtà è
simile a un insieme di fasi alterne: un ciclo distruttivo-produttivo, che verrà
sviluppato in seguito dagli Stoici. Il Panteismo degli StoiciModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Stoicismo. Il
panteismo stoico è una delle più compiute espressioni di esso, dove Dio è la
ragione e l'intelligenza che lo determina e lo permea. Il Dio stoico, quindi,
non si identifica con l'universo, ma lo permea come suo fondamento e ragion
d'essere. Il Panteismo di PlotinoModifica Si è parlato spesso
impropriamente di panteismo in Plotino. In realtà, secondo Plotino, Dio non è
solo immanente, ma anche trascendente. Come ha evidenziato anche Giovanni
Reale, l'Uno, il Dio plotiniano, pur permeando di sé ogni realtà, ne è
superiore. Plotino dice infatti chiaramente che l'Uno, «in quanto principio di
tutto, non è il tutto». Con questa affermazione egli sembra prendere in
contropiede, quasi le prevedesse, le interpretazioni immanentistiche e
panteiste del suo pensiero. Il Panteismo di BrunoModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Giordano Bruno. La visione
di Bruno può essere considerata un panteismo del Dio-Infinità ed ha alcuni
caratteri del panpsichismo. Nella filosofia di Giordano Bruno, i cinque dialoghi
del De la causa, principio et uno intendono stabilire i princìpi della realtà
naturale. Forma universale del mondo è l'anima del mondo, la cui prima e
principale facoltà è l'intelletto universale, il quale «empie il tutto,
illumina l'universo e indirizza la natura a produrre le sue specie». La
materia è il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata:
«come nell'arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesima
che persevera sotto quella, come la forma dell'albore è una forma di tronco,
poi di trave, poi di tavolo, poi di sgabello, e così via discorrendo,
tuttavolta l'esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura,
variandosi in infinito e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una
medesma la materia». Discende da questa considerazione l'elemento
fondamentale della filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia
infinita. Nella sua concezione, anche la Terra è dotata di anima. Egli in
De l'infinito, universo e mondi scrive: «Io dico Dio tutto
infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed
infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo,
ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità
dell'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur,
referendosi all'infinito, possono esser chiamate parti) che noi possiamo
comprendere in quello.» (G. Bruno, Dialoghi metafisici, Firenze, Sansoni
1985, p. 382) Il Panteismo di SpinozaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Baruch Spinozae Monismo panteistico. La tesi
centrale del pensiero di Baruch Spinoza è l'identificazione panteistica o,
meglio, immanentistica di Dio con la Natura (Deus sive Natura) ed in essa convergono
i temi ed i motivi appartenenti alle tradizioni culturali più disparate, la
teologia giudaica, la filosofia ellenistica, la filosofia
neoplatonica-naturalistica del Rinascimento, il razionalismocartesiano ed il
pensiero arabo, ed infine le sfumature di Thomas Hobbes. Spinoza
concepisce un Dio coniugato con l'unità e la necessità e perciò:
«Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei
quali esprime un'essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente. Se lo
neghi, concepisci, se è possibile, che Dio non esista. Dunque (per l'As.7) la
sua essenza non implica l'esistenza. Ma questo (per la Prop.7) è assurdo:
dunque Dio esiste necessariamente.» (B. Spinoza, Etica, Roma, Editori
Riuniti 2004, p.94) Ne consegue la dimostrazione di ciò che Dio è:
«Tutto ciò che è, è in Dio: Dio però non si può dire cosa contingente.
Infatti esiste necessariamente, e non in modo contingente. Inoltre, i modi
della divina natura sono seguiti da essa anche necessariamente e non in modo
contingente e ciò o in quanto si considera la divina natura assolutamente
oppure in quanto la si considera determinata ad agire in un certo modo.
Inoltre, di questi modi Dio è causa non soltanto perché semplicemente esistono
in quanto li si considera determinati a fare qualcosa. Poiché se non sono
determinati da Dio, è impossibile e non contingente che determinino se stessi;
e al contrario se sono determinati da Dio, è impossibile, e non contingente,
che rendano se stessi indeterminati. Per cui tutte le cose sono determinate
dalla necessità della divina natura non soltanto ad esistere, ma anche ad
esistere e agire in un certo modo, e non si dà nulla di contingente.» (B.
Spinoza, Etica, cit., p. 110) Questa concezione fa sì che il Dio di Spinoza (ma
non meno quello degli Stoici), per qualche filosofo contemporaneo, risulti
essenzialmente un impersonale Dio-Necessità, contrapponibile al Dio-Volontà
come persona divina tipica dei monoteismi. DescrizioneModifica Tipi di
panteismoModifica Si possono distinguere tre gruppi di panteisti:
panteismo classico, che si esprime attraverso l'immanente Dio del Giudaismo,
Induismo, Monismo, neopaganesimo e delle dottrine New Age, generalmente
considerando Dio come personificazione o manifestazione cosmica; panteismo
biblico, che è espresso negli scritti della Bibbia; panteismo naturalistico,
basato sulle, relativamente recenti, visioni di Baruch Spinoza (che potrebbe
essere stato influenzato dal panteismo biblico) e John Toland (che coniò il
termine "panteismo"), così come sulle influenze contemporanee. La
maggioranza delle persone che possono identificarsi come "panteiste"
appartengono al tipo classico (come gli Indù, i Sufi, gli Unitaristi, i
neopagani, i seguaci della New Age, etc), mentre molte persone che identificano
se stesse come panteiste (non essendo membri di un'altra religione)
appartengono al tipo naturalista. La divisione tra le tre branche del panteismo
non sono completamente chiare in tutte le situazioni, rimanendo dei punti di
controversia nei circoli panteisti. I panteisti classici generalmente accettano
la dottrina religiosa secondo cui ci sarebbe una base spirituale per tutta la
realtà; mentre i panteisti naturalisti generalmente non concordano, piuttosto
intendendo il mondo in termini più naturalistici. La confusione tra i concetti
di panteismo e ateismo è un problema antico in linguistica. Gli antichi romani
si riferivano ai primi cristiani come atei e le spiegazioni di questo fenomeno
semantico possono variare. Metodi di spiegazione Una caratteristica
spesso citata del panteismo è che ogni essere umano, essendo parte
dell'universo o della natura, è parte di Dio. Uno dei problemi discussi dai
panteisti è come possa esistere il libero arbitrio in un contesto simile. In
risposta, qualche volta è data la seguente analogia (particolarmente dai
panteisti classici): "stai a Dio come una tua singola cellula sta a
te". L'analogia sostiene anche che, sebbene una cellula possa essere
cosciente del suo ambiente e abbia persino qualche scelta (libero arbitrio) tra
giusto e sbagliato (uccidere un batterio, divenire cancerogena o non fare
semplicemente niente), ha presumibilmente una comprensione limitata dell'essere
più grande, di cui fa parte. Un altro modo di comprendere questo tipo di
relazione è tramite la frase indù tat tvam asi - "quello che sei", in
cui l'anima/essenza umana o Ātmanè intesa medesima di Dio o Brahman. Nel
contesto indù, si crede che il singolo debba essere liberato attraverso
l'illuminazione (moksha), in modo da sperimentare e capire pienamente questa
relazione: la parte diventa non dissimile dal tutto. Non tutti i
panteisti accettano l'idea del libero arbitrio, dato che il determinismo è
largamente diffuso, particolarmente presso i panteisti naturalistici. Sebbene
le interpretazioni individuali del panteismo possano suggerire certe
implicazioni per la natura e l'esistenza del libero arbitrio e/o determinismo,
il panteismo non implica il requisito di credere in entrambi. Comunque, il
problema è largamente discusso ed è presente in molte altre religioni e filosofie.
DibattitoModifica Alcuni sostengono che il panteismo è poco più che una
ridefinizione della parola "Dio" per definire "esistenza",
"vita" o "realtà". Molti panteisti direbbero che, se fosse
così, un tale cambiamento nel modo in cui pensiamo a queste idee servirebbe a
creare una nuova e potenzialmente più perspicace concezione sia dell'esistenza,
che di Dio. Forse il più significativo dibattito all'interno della
comunità panteistica è quello riguardante la natura di Dio. Il panteismo
classico crede in un Dio personale, cosciente e onnisciente e vede questo Dio
come unificante di tutte le vere religioni. Il panteismo naturalistico crede
invece in un Universo non cosciente e non senziente che, sebbene sacro e
meraviglioso, è visto come un Dio in senso non tradizionale e non
personale. I punti di vista compresi all'interno della comunità panteista
sono necessariamente diversi, ma l'idea centrale, che vede l'Universo come
un'unità onnicomprensiva e la sacralità sia della natura che delle sue leggi, è
comune. Alcuni panteisti sostengono, inoltre, un fine comune di natura e uomo,
sebbene altri rifiutino l'idea di un fine e vedano l'esistenza come esistente
di per sé. Concetti panteistici nella religioneModifica InduismoModifica
È generalmente riconosciuto che i testi religiosi indù sono i più antichi
conosciuti in letteratura contenenti idee panteistiche.[2] Nella teologia indù,
Brahman è la realtà infinita, immutabile, immanente e trascendente che è il
Divino Terreno di tutte le cose nell'Universo e che è anche la somma totale di
tutte le cose che sono, sono state e saranno. Questa idea di panteismo è
rintracciabile in alcuni testi più antichi come i Veda e gli Upanishad e nella
più tarda filosofia Advaita. Tutti i Mahāvākya degli Upanishad, in un modo o
nell'altro, sembrano indicare l'unità del modo con Brahman. Chāndogya
Upanishad dice "Tutto in questo Universo in realtà è Brahman; da lui esso
procede; all'interno di lui è dissolto; in lui respira, così lasciate che
ognuno lo adori tranquillamente". Inoltre dice: "Tutto l'Universo è
Brahman, da Brahman a una zolla di terra. Brahman è la causa efficiente e
materiale del mondo. Egli è il vasaio da cui si forma il vaso; egli è la creta
con il quale è fabbricato. Tutto proviene da Lui, senza perdita o diminuzione
della fonte, come la luce irradiata dal sole. Ogni cosa è unita entro Lui
ancora, come le bolle che esplodono si uniscono all'aria, come i fiumi sfociano
negli oceani. Tutto proviene e ritorna a Lui, come la tela di un ragno è
fabbricata e ritratta dal ragno stesso."[3] Negli inni del Rig Veda, una
traccia di pensiero panteista può essere riconosciuta nel libro decimo. Questa
concezione di Dio lo vede come l'unità, con gli dei personali e individuali
aspetto dell'Unico, sebbene differenti divinità siano viste da diversi fedeli
come particolarmente adatte alle loro preghiere. Come il sole emana raggi di
luce che provengono dalla stessa fonte, lo stesso avviene dagli sfaccettati
aspetti di Dio emanati da Brahman, come più colori dallo stesso prisma. Il Vedānta,
specificatamente l'Advaita, è una branca della filosofia indù che pone grande
accento su questa materia. Molti aderente vedantici sono monistio
"non-dualisti, vedendo le molteplici manifestazioni di un solo Dio o della
fonte dell'essere, una visione che è spesso considerata dai non induisti come
politeista. Il panteismo è la componente chiave della filosofia Advaita.
Altre suddivisione dei Vedanta non sostengono in maniera peculiare le stesse
istanze. Per esempio, la scuola Dvaita di Madhvacharya ritiene che Brahman sia
il Dio esterno personale Vishnu, laddove invece le scuole Rāmānuja sposano il
Panenteismo. EbraismoModifica Il senso radicalmente immanente del divino
nella mistica ebraica (Kabbalah) si ritiene abbia ispirato la formulazione del
panteismo da parte di Spinoza. Nonostante ciò, la teoria di Spinoza non è stata
recepita dall'Ebraismo ortodosso. D'altro canto, Schopenhauer sosteneva che il
panteismo spinoziano fosse una conseguenza della lettura di Nicolas Malebranche
da parte del filosofo olandese: Malebranche insegna che tutto ciò che
osserviamo è in Dio stesso. Ciò equivale a voler spiegare qualcosa di ignoto
mediante qualcosa di ancor più oscuro. Inoltre, secondo Malebranche noi non
solo vediamo tutto in Dio, ma Dio è anche l'unica attività, sicché le cause
fisiche sono mere occasionalità (Ricerca della verità, Libro VI, seconda parte,
cap. 3.). E così qui rinveniamo essenzialmente il panteismo di Spinoza che pare
abbia appreso più da Malebranche che da Descartes. (Schopenhauer, Parerga e
paralipomena, Vol. I, "Schizzo di una storia della teoria dell'ideale e
del reale"). Inoltre, Israel ben Eliezer, fondatore dello Chassidismo,
aveva un senso mistico del divino che può essere definito come
Panenteismo. Secondo l'ebraismo biblico l'origine dell'Universo si è
basata sulla Torah (legge) della natura. Pertanto la Torah originale non è
rinvenibile negli scritti di Mosè, bensì nella natura stessa.
"Interpretare" la Torah della natura equivale ad "interpretare"
la Torah della rivelazione e teoricamente alla fin fine coincideranno l'una con
l'altra [come si dimostra ad esempio con la scoperta del Big Bang nel 1965].
L'ortodossia rabbinica considerando questa posizione come una discrepanza, allo
scopo di porre la Torah scritta al di sopra di quella data per prima in natura,
ha sostenuto che la Torah scritta precedette la creazione, infatti a partire
dalla Torah scritta che Dio "ha parlato" nella creazione. Questa
posizione non è accolta dai panteisti biblici. Maimonide, benché Ortodosso,
nei suoi scritti sulla riconciliazione fra le sacre scritture e la scienza,
accolse l'opinione dell'equivalenza fra la Torah della natura e la Torah delle
scritture e trovò la sua logica come inevitabile. Queste tesi, senza dubbio,
servirono da sfondo per lo sviluppo delle teorie di Baruch Spinoza.
Cristianesimo Vi è un certo numero di tradizioni minori nell'ambito della
storia del Cristianesimo secondo le quali le origini del loro credo panteistico
sono da rintracciare nel Nuovo Testamento ed in altre correlate tradizioni
ecclesiastiche. La diversità di questo punto di vista è rintracciabile a
partire dai primi Quaccheri sino ai successivi Unitaristi e fino ad arrivare
alle stesse principali denominazioni del cattolicesimo tradizionale e del
protestantesimo liberale. Altre fonti includono la Teologia del
processo, la Spiritualità della Creazione, i Fratelli del libero spirito, altri
ancora ne sostengono la presenza fra gli Gnostici. Tale idea ha avuto, per
qualche tempo, aderenti in vari segmenti del Cristianesimo. Alcuni
Cristiani considerano la Trinità in questo significato: lo Spirito Santo tiene
insieme l'Universo e personifica se stesso come il Padre, che a sua volta
personifica se stesso come il Figlio dentro questo Universo (ciò significa che
il Padre è al di fuori dell'Universo, del Tempo e dello Spazio). Secondo altri,
lo Spirito Santo è consapevole e utilizzabile e per questo è usato da Dio per
benedire la gente con i Doni dello Spirito Santo. Tutti i poteri sovrannaturali
si ritiene che siano possibili anche dal binomio Universo/Spirito Santo.
I panteisti di religione cristiana asseriscono che l'origine del loro credo è
rintracciabile nelle Sacre Scritture, nel Vecchio Testamento come nel Nuovo ed
attenuano le difficoltà che i teologi della Chiesa Apostolica Romana hanno
sempre cercato di "risolvere" nei concili sul tema della Trinità e
della Natura di Cristo come il Verbo (solo il panteismo fornisce una
formulazione per il Cristo come "Verbo" di Dio e per l'unità del
Monoteismo). Il parificare nella Bibbia Dio agli atti della natura e la
definizione di Dio data nello stesso Nuovo Testamento forniscono un persuasivo
richiamo verso questo sistema di credenze. I panteisti cristiani
sostengono che la definizione cattolica di Dio fu pesantemente influenzata da
fonti non bibliche, tra queste in particolar modo il Neo-Platonismo, che
consideravano Dio come qualcosa che "esiste" fuori dalla
"esistenza", pertanto la definizione di "Dio" si riferiva
ad un qualcosa "che non esiste", cioè, ad un Dio non-esistente. È
proprio questa basilare definizione neo-platonica di non-esistenza che i
panteisti cristiani ritengono biasimevole e contraria alle scritture.
Agostino rigettò il panteismo per i seguenti motivi: Ma c'è un motivo
che, al di là di ogni passione polemica, deve indurre uomini intelligenti o
comunque siano, perché all'occorrenza non si richiede un'alta intelligenza, a
fare una riflessione. Se Dio è la mente del mondo e se il mondo è come un corpo
a questa mente, sicché è un solo vivente composto di mente e di corpo ed esso è
Dio che contiene in se stesso tutte le cose come in un grembo della natura; se
inoltre dalla sua anima, da cui ha vita tutto l'universo sensibile, vengono
derivate la vita e l'anima di tutti i viventi secondo le varie specie, non
rimane nulla che non sia parte di Dio. Ma se questa è la loro tesi, tutti
possono capire l'empietà e la irreligiosità che ne conseguono. Qualsiasi cosa
si pesti, si pesterebbe una parte di Dio; nell'uccidere qualsiasi animale, si
ucciderebbe una parte di Dio. Non voglio dir tutte le cose che possono balzare
al pensiero. Non è possibile dirle senza vergogna.[4] come pure: Riguardo
allo stesso animale ragionevole, cioè l'uomo, la cosa più banale è ritenere che
una parte divina prende le botte quando le prende un fanciullo. E soltanto un
pazzo può sopportare che le parti divine divengano dissolute, ingiuste, empie e
in definitiva degne di condanna. Infine perché il dio si arrabbierebbe con
coloro che non lo onorano se sono le sue parti a non onorarlo?[5] Nel Vangelo secondo
Tommaso (considerato apocrifodai Cristiani), Gesù disse: Io sono la Luce:
quella che sta sopra ogni cosa; io sono il Tutto: il Tutto è uscito da me e il
Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io sono là; solleva la pietra e là
mi troverai.[6] Tuttavia questa è un'affermazione dell'onnipresenza di Dio, non
in senso panteistico, ma in armonia con l'insegnamento che ogni apparenza
fenomenica è riflesso della luce divina. informazioni Questa voce o sezione
sull'argomento religione non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono
insufficienti. La maggioranza dei Musulmani condanna il concetto di panteismo e
lo considera come un insegnamento non-Islamico. Tuttavia, il Sufismo è ritenuto
dai musulmani contenere insegnamenti panteistici. Il Sufismo può essere
suddiviso nelle seguenti categorie: Sufismo originario - Sincretico:
Mescola insieme dottrine e concetti dell'Islam con credenze e pratiche
religiose locali dei paesi Orientali e Occidentali. Lo si pratica in paesi
non-Islamici. Sufismo ḥadīth - Tradizionale: è l'Islam con un'enfasi sulle
forme ortodosse della spiritualità e del misticismo Islamico. Essenzialmente
ortodosso e considerato prevalentemente come una subcultura nei paesi Islamici.
Sunniti o Sciiti. Sufismo Coranico - Coranico: Si attiene strettamente a quanto
scritto nel Corano compreso il profetismo e non accetta i più recenti ḥadīth
come altrettanto ispirati dalla tradizione. È considerato non-ortodosso o come
una forma di neo-ortodossia ed è praticato soprattutto nell'occidente islamico.
Ha subito influenze dal concetto di riforma e restaurazione del
Protestantesimo. Né il Sunnismoné il Sciismo sono da considerare come forme di ḥadīth.
Il concetto di Panteismo si può rinvenire in ciascuno dei suddetti tipi di
Sufismo, a differenza della maggioranza ortodossa dell'Islam, esso è molto
diverso ed accentua l'esperienza e la conoscenza spirituale personale ed
individuale. Le fonti dell'interpretazione panteistica differirebbero a seconda
della tradizione cui fanno capo. Il Sufismo originario risentirebbe ovviamente
dei testi orientali, il Sufismo ḥadīth sarebbe influenzato dagli studiosi
Islamici del regno del Solimano, il Sufismo Coranico vedrebbe lo stesso Corano
come la continua rivelazione e la personificazione linguistica è interpretata
in modo coerente con i profeti biblici. La maggioranza dei Musulmani Ismailiti
è panteista, o per essere più precisi, Panenteista. Gli scritti di Seth e
il PanteismoModifica Il concetto di Panteismo è parte integrante di molte delle
credenze religiose e delle filosofie della New Age; la sua differenza rispetto
al panenteismo è sostenuta in modo specifico negli scritti di Seth come
presentati dalla medium Jane Roberts (1929-1984). Seth, l'"entità"
cui da voce la Roberts, diceva che Dio è formato di energia mentale, e questa
energia mentale è la sostanza che dà vita a tutti gli esseri e a tutte le cose;
la coscienza di Dio è veicolata da questa energia, per cui la coscienza di Dio
è onnipresente. Seth spesso si riferiva a Dio come a "Tutto ciò che
è" e diceva che "Tutte le facce appartengono a Dio". Seth
descriveva Dio come una forma contenente tutti gli individui al suo interno;
inoltre aggiungeva che Dio si conosce come è, ma anche si conosce come ciascun
individuo. Tuttavia, questo insegnamento ha molto in comune con il correlato
concetto di panenteismo, dato che pone in risalto la personificazione di Dio e
quindi si trasforma in un teismo. Altre religioniModifica Molti elementi
panteistici sono presenti in alcune forme di Buddismo, Neopaganesimo, e Teosofiainsieme
a molte variabili denominazioni. Si veda anche la Neopagana Gaia e la Church of
All Worlds. Molti Universalisti si considerano panteisti. Il
filosofo Paul Carus si definiva "un ateista che ama Dio". Egli
criticò ogni forma di monismo che cercava l'unità del mondo non nell'unità
della verità bensì nella unicità di una logica supposizione di idee. Carus
definiva tali concetti come "henismo". Il Taoismo propugna una
visione panteistica. Il "Tao" potrebbe essere paragonato al
"Deus-sive-Natura" di Spinoza. Concetti connessiModifica
PanenteismoModifica Il Panteismo e il panenteismo presentano aspetti comuni ma
non coincidono: il primo vede l'universo pieno di Dio il secondo lo vede come
parte di Dio. Filosoficamente, però, i due concetti sono ben distinti. Mentre
per il panteismo Dio è sinonimo della natura, per il panenteismo, invece, Dio è
superiore alla natura e la include. È la ragione per cui Hegel definiva quello
spinoziano un panteismo acosmistico (senza mondo). Per alcuni tale
distinzione è inutile, mentre altri la considerano un significativo punto di
divisione. Molte delle maggiori fedi descritte come panteistiche potrebbero
essere descritte anche come panenteistiche, al contrario ciò non è possibile
per il panteismo naturalistico (perché non considera Dio come superiore alla
sola natura). Per esempio, elementi appartenenti al panenteismo ed al panteismo
si rinvengono nell'Induismo. Certe interpretazioni dei testi Bhagavad Gita e
Shri Rudram Chamakam sostengono questo punto di vista. CosmismoModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Cosmismo e
World Brain. Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento
filosofia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali.
Mentre questo termine è raramente usato, e molto spesso è solo un sinonimo di
Panteismo, l'insolita filosofia da esso indicata è stata utilizzata in modo
piuttosto differente, ma in ogni caso con essa si vuole esprimere il concetto
che Dio è un qualcosa creato dalla mente umana, forse rappresenta uno stadio
finale della evoluzione dell'uomo, raggiunto attraverso la pianificazione
sociale, l'eugenetica e altre forme di ingegneria genetica. H. G. Wells
diede vita a una forma di cosmismo, che denominò World Brain ("Cervello
mondiale"), rifacendosi a un saggio da lui pubblicato nel 1937, in cui
viene tra l'altro descritta la creazione di una biblioteca-enciclopedia. Tale
idea venne ripresa nel libro God the Invisible King,[7] in cui l'autore
consiglia all'umanità di istituire un sistema socialista, strutturandolo sui
dati statistici sociali ed eugenetici, sull'istruzione e l'eugenetica, in modo
che un giorno idealmente possa essere alla pari e possibilmente anche fondersi
con la stessa divinità panteista, e anche in alcuni paragrafi di Outline of
History, che richiamavano tali credenze dell'autore e le sue ricerche
sull'insegnamento di Gesù e di Buddha. Queste idee vengono riprese nel suo
libro Shape of Things to Come e nel film da esso tratto nel 1936 Things to
Come; in essi viene descritta l'umanità che, sopravvivendo ad una guerra
apocalittica e a un prolungato periodo Feudale, si unisce per dar vita ad una
utopia collettivista. In Israele, il Cosmismo è stato oggetto di studio
da parte di Mordekhay Nesiyahu, uno dei primi ideologi del Movimento Laburista
Israeliano e docente presso l'Università di Beit Berl. Secondo questo autore
Dio è qualcosa che non esisteva prima dell'uomo, ma era una entità secolare.
Infatti fu la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme ad avere un ruolo nell'"invenzione"
di questa entità. Nel XX secolo, lo statunitense William Luther
Pierce, un nazionalista bianco iscritto nel Partito Nazista Americano e, a sua
volta, fondatore del movimento Alleanza Nazionale, utilizzò il termine "Cosmismo".
Per Pierce (così come per Wells), Dio sarebbe il risultato finale
dell'eugenetica e dell'igiene razziale (Si veda: Nazismo, Francis Galton e
Teosofia). La "Noosfera" descritta da Vladimir Vernadsky e da
Pierre Teilhard de Chardin potrebbe essere considerata come la descrizione di
una divinità Cosmistica, come anche la coscienza collettiva di Émile Durkheim e
l'inconscio collettivo di Carl Gustav Jung. Arthur C. Clarke fa un
possibile riferimento alla Noosfera Cosmista nel suo libro del 1953 Childhood's
End (tradotto in italiano con il titolo Le guide del tramonto), riferendosi ad
essa come la "Overmind", una mente alveare interstellare.
PandeismoModifica Il Pandeismo è una specie di Panteismo che include una
forma di Deismo, sostenendo che l'Universo è identico a Dio, ma anche che Dio
precedentemente fu una forza cosciente e senziente ovvero una entità che
progettò e creò l'Universo. Diventando l'Universo, Dio divenne inconscio e non
senziente. A parte questa distinzione (e la possibilità che l'Universo un
giorno ritornerà ad essere Dio), le credenze Pandeistiche sono identiche a
quelle del Panteismo. EticaModifica Secondo Schopenhauer, nel panteismo
non vi è etica. Il panteismo, nel suo complesso, naufragherebbe a fronte delle
inevitabili esigenze etiche e quindi non avrebbe risposte sul male e sulle
sofferenze del mondo. Se il mondo è una teofania, allora ogni cosa fatta dagli
uomini, ed anche dagli animali, è da considerarsi parimenti divina ed
eccellente; niente può essere giudicato più censurabile e più meritevole
rispetto ad ogni altra cosa; quindi non vi è etica. (Il mondo come volontà e
rappresentazione, Vol. II, Cap. XLVII) Tuttavia, alcuni panteisti
sostengono che il punto di vista panteista è molto più etico, evidenziando che
ogni danno arrecato all'altro è come fare male a se stessi, perché arrecare
danno ad uno è come arrecare danno a tutti. Ciò che è bene e ciò che è male non
dipende da qualcosa al di fuori di noi, ma è il risultato di come ci
rapportiamo gli uni con gli altri. Il fare bene non si deve basare sulla paura
di una punizione da parte di Dio, bensì deve scaturire da un reciproco di tutti
verso tutto. Le forme tradizionali e le varie definizioni di panteismo,
comunque, rinviano ai loro testi sacri e ai loro maestri per le definizioni di ordine
etico. NoteModifica ^ ( EN ) Michael P. Levine, Pantheism: A Non-Theistic
Concept of Deity, Londra e New York, Routledge, 1994. Trad. italiana Il
Panteismo. Una concezione non-teistica della divinità, Genova, ECIG, 1995, ISBN
88-7545-671-2. ^ Constance E. Plumptre, General Sketch of the History of
Pantheism, Londra, W. W. Gibbings, 1878, vol. 1, p. 29. ^ Chandogya Upanishad
3-14 traduzione di Monier-Williams ^ La Città di Dio, Libro 4, Cap. 12. ^ La
Città di Dio, Libro 4, Cap. 13. ^ Testo del Vangelo secondo Tommaso ^ God the
Invisible King Voci correlateModifica Dio Monismo Monoteismo Teismo Deismo
Pandeismo Panenteismo Naturalismo (filosofia) Panpsichismo Panteismo
naturalistico Panteismo classico Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote
Wikiquote contiene citazioni di o su panteismo Collabora a Wikimedia Commons
Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su panteismo Collegamenti
esterniModifica panteismo, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Panteismo, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (
EN ) Panteismo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata ( EN ) William Mander, Pantheism, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information
(CSLI), Università di Stanford. Giuseppe Tanzella-Nitti, Panteismo del
Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, su disf.org. Portale
Filosofia Portale Mitologia Portale Religioni Monismo
(religione) Panenteismo scuola filosofica Panteismo naturalistico
Wikipedia Lorenzo Giusso. Giusso. Keywords: gl’eroi, il vico di giusso, la
tradizione ermetica nella filosofia italiana, nazionalsocialismo, bruno, panteismo,
leopardi, occasionalismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giusso” – The
Swimming-Pool Library. Giusso.
Grice e Giustino: la gnossi a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Giustino is cited by Ippolito di Roma as the originator of what
Ippolito describes as a pagan form of gnosticism in which a wide variety of
disparate elements are brought together.
Grice e Giustino: la setta di Napoli -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
italiano. Giustino studied various schools of philosophy with his friend
Trifone, but couldn’t decide. He showed his scepticism in a letter to Antonino
Pio. He irated Crescente, who had a mob killed him.
Grice e
Givone: l’implicatura conversazionale dei fanes – filosofia italiana – Luigi
Speranza -- Givone (Buronzo). Filosofo italiano. Grice: “I like Givone, especially his two
essays on ‘eros’: ‘eros and ethos’ and the more controversial, ‘eros and
knowledge.’ Si laurea Torino sotto Pareyson. Insegnato a Perugia, Torino e Firenze.
Alcuni suoi lavori riguardano la poetica e l’estetica all’ombra del nichilismo.
Da questa riflessione nasce anche la sua ricerca sulla “Storia naturale del
nulla” -- e sulle implicazioni sullo
tragico. In sua estetica e forte è ancora il richiamo filosofico. Il
malinconico, ‘l’ibrido – Saggi: “La storia della filosofia secondo Kant”
(Milano, Mursia); “Hybris e malinconia: Studi sulle poetiche del Novecento” (Milano,
Mursia); “William Blake. Arte e religione, Milano, Mursia, “Ermeneutica e romanticismo,
Milano, Mursia, Dostoevskij e la filosofia, Roma, Laterza, Storia
dell'estetica, Roma, Laterza, Disincanto del mondo e il tragico, Milano, Il Saggiatore,
La questione romantica, Roma, Laterza, Storia
del nulla, Roma, Laterza, Favola delle cose ultime, Torino, Einaudi, Eros/ethos,
Torino, Einaudi, Nel nome di un dio barbaro, Torino, Einaudi, Prima lezione di estetica, Roma, Laterza, Il
bibliotecario di Leibniz. Torino, Einaudi, Non c'è più tempo, Torino, Einaudi, Metafisica
della peste. Colpa e destino, Torino, Einaudi, Luce d'addio. Dialoghi
dell'amore ferito, Firenze, Olschki, Sull'infinito,
il Mulino, Pantragismo. Treccani. Grice: “I like Givone; he philosophises on ‘eros,’
but fails to notice that for Butler there’s self-love and other love; instead,
Givone prefers to contrast ‘eros’ with ‘ethos’!” “His ramblings on Phanes are
fun, though!” – Grice: “Not satisfied with metaphysics, Givone goes to
criticize Marinetti’s hybris, or superbia, i. e. lack of moderation. His
ottimismo notably contrasts with the decadentismo of the croposcolaristi. Futurismo
movimento artistico, culturale, musicale e letterario italiano Lingua Segui
Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Futurismo (disambigua). Ulteriori informazioni Questa voce o
sezione sull'argomento arte è priva o carente di note e riferimenti bibliografici
puntuali. Il Futurismo è stato un movimento letterario, culturale, artistico e
musicale italiano dell'inizio del XX secolo, nonché una delle prime
avanguardieeuropee. Ebbe influenza su movimenti affini che si svilupparono in
altri paesi d'Europa, in Russia, Francia, negli Stati Uniti d'America e in
Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione: la pittura, la
scultura, la letteratura (poesia) al teatro, la musica, l'architettura, la
danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La denominazione del
movimento si deve al poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti[1].
Umberto Boccioni La città che sale, bozzetto, Museum of Modern Art, New
York OriginiIl manifesto del Futurismo pubblicato su Le Figaro (qui evidenziato
in giallo) Il Futurismo nasce in Italia, in un periodo di notevole fase
evolutiva dove tutto il mondo dell'arte e della cultura era stimolato da
numerosi fattori determinanti: le guerre, la trasformazione sociale dei popoli,
i grandi cambiamenti politici e le nuove scoperte tecnologichee di
comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, gli aeroplani e le prime
cineprese; tutti fattori che arrivarono a cambiare completamente la percezione
delle distanze e del tempo, "avvicinando" fra loro i continenti,
creando nuove connessioni. Il XX secolo era quindi invaso da un nuovo
vento, che portava una nuova realtà: la velocità. I futuristi intendevano
idealmente "bruciare i musei e le biblioteche" in modo da non avere
più rapporti con il passato per concentrarsi così sul dinamico presente; tutto
questo, come è ovvio, in senso ideologico. Le catene di montaggio abbattevano i
tempi di produzione, le automobili aumentavano ogni giorno, le strade
iniziarono a riempirsi di luci artificiali, si avvertiva questa nuova sensazione
di futuro e velocità sia nel tempo impiegato per produrre o arrivare a una
destinazione, sia nei nuovi spazi che potevano essere percorsi, sia nelle nuove
possibilità di comunicazione. Gino Severini racconta che quando venne in
contatto con Marinetti per decidere se aderire o meno al Futurismo parlò anche
con Amedeo Modigliani, che egli avrebbe voluto nel gruppo, ma il pittore
declinò l'offerta perché come scrisse: «Queste manifestazioni non
gli andavano, il complementarismo congenito lo fece ridere, e con ragione,
perciò invece di aderire mi sconsigliò di mettermi in quelle storie; ma io
avevo troppa affezione fraterna per Boccioni, inoltre ero, e sono sempre stato
pronto ad accettare l'avventura […]» (Severini, Vita di un pittore) Primo
Futurismo «Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle
scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un
abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa
magnificenza del futuro…» (dal Manifesto dei pittori futuristi) Una
scazzottata futurista A seguito di una serie di articoli critici di Ardengo
Sofficisu La Voce vi fu una reazione violenta dei futuristi: Marinetti,
Boccioni e Carrà raggiunsero Soffici a Firenze e lo aggredirono mentre sedeva
al caffè delle "Giubbe Rosse" in compagnia dell'amico Medardo Rosso.
Ne nacque una grande pubblicità e un grande tumulto rinnovatosi alla sera, alla
stazione di Santa Maria Novella, quando Soffici, accompagnato dagli amici
Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper e Alberto Spaini, volle rendere la
contropartita. «Fu una vera spedizione punitiva, che mi fu
raccontata da Boccioni e, più tardi, da Soffici. I futuristi appena arrivati a
Firenze vanno al Caffè delle Giubbe Rosse, dove sapevano di trovare Soffici,
Papini, Prezzolini, Slataper, e tutti redattori della Voce. Boccioni domanda ad
un cameriere: «Chi è Soffici?»; sull'indicazione ottenuta si avvicina Soffici e
senza spiegazioni gli appioppa un paio di schiaffoni; Soffici per niente
smontato si alza risponde con una scarica di pugni. Parapiglia generale, tavole
seggiole per terra, bicchieri rotti e questurini che portano tutti al
commissariato. Per fortuna caddero in un commissario intelligente che capisce
con chi aveva a che fare; visto che Soffici e quelli della Voce non volevano
far querela d'aggressione, li rimandò tutti fuori come se niente fosse stato. I
futuristi, vendicate le ingiurie, andarono alla stazione dove un treno,
pressappoco a quell'ora, doveva riportarli a Milano. Ma quelli della Voce, malgrado
si fossero ben difesi, non erano contenti affatto, perciò si recarono in fretta
anch'essi alla stazione. Mentre il treno stava per arrivare ebbe luogo un altro
incontro, e un altro violento pugilato, che, per poco, faceva restare a piedi
futuristi. Ma fecero in tempo a prendere il treno, un po' ammaccati, ma
soddisfatti.» (Gino Severini, Vita di un pittore) Nel Manifesto Futurista
(1909), pubblicato inizialmente in vari giornali italiani (la Tavola Rotonda di
Napoli, la Gazzetta dell'Emilia di Bologna, la Gazzetta di Mantovae L'Arena di
Verona) e, definitivamente, due settimane dopo sul quotidiano francese Le
Figaro, Marinetti espose i principi-base del movimento. Poco tempo dopo a
Milano i pittori Boccioni, Carrà, Balla, Severini e Luigi Russolo firmarono il
Manifesto dei pittori futuristi e nell'aprile dello stesso anno il Manifesto
tecnico della pittura futurista[4]. Nei manifesti si esaltava la tecnica e si
dichiarava una fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle
vecchie ideologie (bollate con l'etichetta di "passatismo", tra cui
figura anche il Parsifal di Wagner, che cominciò a essere rappresentato nei
teatri d'Europa). Si esaltavano inoltre il dinamismo, la velocità, l'industria,
il militarismo, il nazionalismo e la guerra, che veniva definita come
"sola igiene del mondo". Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e
Severini a Parigi per l'inaugurazione della prima mostra. La prima importante
esposizione futurista si tenne a Parigi presso la galleria Bernheim-Jeune.
All'inaugurazione della mostra erano presenti Marinetti, Boccioni, Carrà,
Severini e Russolo. L'accoglienza iniziale fu fredda, ma nelle settimane
successive il movimento suscitò un certo interesse divenendo presto oggetto di
attenzioni internazionali tanto da favorire la riproposizione della mostra
anche in altre città europee come Berlino. La riconciliazione con i
futuristi avvenne in seguito, grazie alla mediazione dell'amico Aldo
Palazzeschi. Infatti, Soffici e Papini uscendo da La Vocedecisero di fondare la
rivista Lacerba appoggiando così il movimento futurista. Alla morte di
Umberto Boccioni, Carrà e Severini si ritrovarono in una fase di evoluzione
verso la pittura cubista, di conseguenza il gruppo milanese si sciolse
spostando la sede del movimento da Milano a Roma, con la conseguente nascita
del "secondo Futurismo". Secondo FuturismoIn prima fila Depero,
Marinetti e Cangiullo con panciotti "futuristi" Il secondo Futurismo
fu sostanzialmente diviso in due fasi. La prima andava due anni dopo la morte
di Boccioni, e fu caratterizzata da un forte legame con la cultura post-cubista
e costruttivista; la seconda invece, fu
molto più legata alle idee del surrealismo. Di questa corrente - che si
concluse attraverso il cosiddetto "terzo Futurismo", portando anche
all'epilogo del Futurismo stesso - fecero parte molti pittori fra cui Colombo,
Prampolini, FSbardella, Diulgheroff, Tulli ma anche Mario Sironi, Ardengo
Soffici, Ottone Rosai, Carlo Vittorio Testi e la moglie Fides Stagni.[8]
Se la prima fase del Futurismo fu caratterizzata da un'ideologia guerrafondaia
e fanatica (in pieno contrasto con altre avanguardie) ma spesso anche
anarchica, la seconda stagione ebbe un effettivo legame con il regime fascista,
nel senso che abbracciò gli stilemi della comunicazione governativa dell'epoca
e si valse di speciali favori. I futuristi di sinistra, generalmente meno
noti nel panorama culturale italiano dell'epoca, comunque, costituirono quella
parte del Futurismo collocata politicamente su posizioni vicine all'anarchismo
e al bolscevismo anche quando il movimento con i suoi fondatori e personaggi
ritenuti principali fu fagocitato dal fascismo. Anche se la gerarchia
fascista riservò ai futuristi coevi una sottovalutazione talvolta sprezzante,
l'osservazione dei principi autoritaristici e la poetica interventista del
Futurismo furono quasi sempre presenti negli artisti del gruppo, fino a che
alcuni di questi non abbracciarono altri movimenti e presero le distanze
dall'ideologia fascista (Carlo Carrà, ad esempio, abbracciò la metafisica).
Altri ancora, come il giovane pittore maceratese Wladimiro Tulli, mantennero
costantemente un approccio giocoso e libertario, che poco aveva a che fare con
l'estetica fascista, anche nelle successive esperienze di pittura
informale.[9] Futurismo russoNatalia Goncharova Il ciclista, 1913 Museo
russo, San Pietroburgo Manifesto futurista di Marinetti era stato pubblicato a
San Pietroburgo appena un mese dopo l'uscita su Le Figaro, e già negli anni
1911 e 1912 Natal'ja Sergeevna Gončarova e Michail Fëdorovič Larionov, che in
patria verrà definito il "padre del Futurismo russo", furono i
concreti iniziatori del movimento in Russia. Nel 1913 il pittore Kazimir
Severinovič Malevič, il compositore Michail Matjušin e lo scrittore Aleksej
Eliseevič Kručënych redassero il manifesto del Primo congresso Futurista russo.
Al movimento, conosciuto anche come Cubofuturismo o Raggismo, aderirono
personalità come il poeta e drammaturgo Vladimir Vladimirovič
Majakovskij. Nel gennaio 1914 Marinetti stesso si recò a Mosca. Dal
movimento d'avanguardia futurista nacquero negli anni immediatamente precedenti
la rivoluzione del 1917 due importanti avanguardie artistiche, il
Costruttivismo e il Suprematismo. L'attenzione che i giornali e il pubblico
dedicarono a Marinetti fu enorme, ma non ci fu la stessa attenzione da parte
dei futuristi russi, alcuni dei quali tentarono anche di ostacolare la visita
di Marinetti. Altri invece, come Sersenevič, furono più ospitali e cordiali. Il
temperamento e le declamazioni di Marinetti riscossero successo ovunque; ma
Marinetti tentò invano di chiamare i futuristi russi ad unire le forze con i
futuristi italiani, perché i maggiori poeti russi, Chlebnikov, Livsič,
Majakovskij e anche il regista Larionov criticarono Marinetti.[senza fonte]
L'ultima "mostra futurista" si tenne nel 1915 a Pietrogrado. In
Russia il movimento non fu caratterizzato dal bellicismo come quello dei
futuristi italiani, criticato da Majakovskij, ma fu accompagnato da un'utopica
idea di pace e libertà, sia individuale (dell'artista), sia collettiva (del
mondo), che si sarebbe concluso con l'adesione di una parte del gruppo al
bolscevismo. Dopo la rivoluzione d'ottobre molti futuristi confluirono nel
cubismo e nell'astrattismo. Futurismo francese In Francia il Futurismo
non si organizzò mai come movimento, ma ebbe almeno due nomi degni di nota:
Guillaume Apollinaire e Valentine de Saint-Point. Apollinaire scrisse il
manifesto L'antitradition futuriste(29 giugno 1913), pubblicato su Lacerba solo
il 25 settembre dopo le aggiunte e le correzioni di Marinetti. I successivi
Calligrammes (1918) rivelano la chiara influenza del paroliberismo futurista
sul poeta francese. Valentine de Saint Point, nipote di Lamartine,
scrisse il Manifesto della donna futurista, (1912) con il sottotitolo “Risposta
a F. T. Marinetti”, in un volantino pubblicato simultaneamente a Parigi e a
Milano. Del 1913 è il Manifesto futurista della lussuria. Orientamenti
artistici Nelle opere futuriste è quasi sempre costante la ricerca del
dinamismo; cioè il soggetto non appare mai fermo, ma in movimento: ad esempio,
per loro un cavallo in movimento non ha quattro gambe, ne ha venti. Così la
simultaneità della visione diventa il tratto principale dei quadri futuristi;
lo spettatore non guarda passivamente l'oggetto statico, ma ne è come avvolto,
testimone di un'azione rappresentata durante il suo svolgimento. Per
rendere l'idea del moto nelle arti visive tradizionali, immobili per
costituzione, il Futurismo si serve, nella pittura e nella scultura,
principalmente delle “linee-forza”; poiché la linea agisce psicologicamente
sull'osservatore con significato direzionale, essa, collocandosi in varie
posizioni, supera la sua essenza di semplice segmento e diventa “forza”
centrifuga e centripeta, mentre oggetti, colori e piani si sospingono in una
catena di “contrasti simultanei”, determinando la resa del “dinamismo
universale”. PitturaJoseph Stella Battle of Lights, Coney Island, Mardi
Gras, 1913-14 Yale. Nel 1910 a Milano i giovani artisti d'Italia avevano
pubblicato i manifesti sulla pittura futurista. Boccioni si occupò
principalmente del dinamismo plastico e sintetico e del superamento del
cubismo, mentre Balla passò dallo studio delle vibrazioni luminose
(divisionismo) alla rappresentazione sintetica del moto[10]. Nel 1912 Boccioni,
Carrà e Russolo esposero a Milano le prime opere futuriste alla "Mostra
d'arte libera" nella fabbrica Ricordi. Il Futurismo diede il meglio
di sé nelle espressioni artistiche legate alla pittura, al mosaico e alla
scultura, mentre le opere letterarie e teatrali, ma anche architettoniche, non
ebbero la stessa immediata capacità espressiva. Le radici del fermento
che portò alla declinazione del Futurismo nell'arte si possono riconoscere,
artisticamente parlando, già nella Scapigliatura - corrente tipicamente
milanese e borghese della seconda metà dell'Ottocento - laddove il Futurismo
distoglie con disprezzo l'attenzione dalla raffinata borghesia per concentrarsi
sulla rivoluzione industriale, sulle fabbriche. Dal punto di vista
stilistico il Futurismo - in particolare quello boccioniano - si basa sui
concetti del divisionismo che però riesce ad adattare per esprimere al meglio
gli amati concetti di velocità e di simultaneità: è grazie ad artisti come
Giovanni Segantini e Pellizza da Volpedo che, pochi anni dopo, il futurista
Umberto Boccioni poté realizzare dipinti come La città che sale.
Opera futurista di Emma Marpillero Corradi Dal punto di vista
concettuale, il Futurismo naturalmente non ignora i principi cubisti di
scomposizione della forma secondo piani visivi e rappresentazione di essi sulla
tela. Cubista è senz'altro la tecnica che prevede di suddividere la superficie
pittorica in tanti piani che registrino ognuno una diversa prospettiva
spaziale. Tuttavia, mentre per il cubismo la scomposizione rende possibile una
visione del soggetto fermo lungo una quarta dimensione esclusivamente spaziale
(il pittore ruota intorno al soggetto fermo cogliendone ogni aspetto), il
Futurismo utilizza la scomposizione per rendere la dimensione temporale, il
movimento. Altrettanto interessanti sono i rapporti stilistici tra il
Futurismo boccioniano e il cubismo orfico di Robert Delaunay. Non
mancarono relazioni complesse tra i futuristi italiani e i più importanti
esponenti delle avanguardie russe e tedesche.[11] Equiparare, infine, la
ricerca futurista dell'attimo con quella impressionista, come è stato fatto in
passato, è ormai considerato profondamente errato. Se è vero infatti che gli
impressionisti fecero dell'"attimalità" il nucleo della loro ricerca
- loro scopo era fermare sulla tela un istante luminoso, unico e irripetibile -
la ricerca futurista si muoveva in senso quasi opposto: suo scopo era
rappresentare sulla tela non un istante di movimento ma il movimento stesso,
nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto emozionale. Come
conseguenza dell'"estetica della velocità", nelle opere futuriste a
prevalere è l'elemento dinamico: il movimento coinvolge infatti l'oggetto e lo
spazio in cui esso si muove. Il dinamismo dei treni, degli aeroplani
(Aeropittura), delle masse multicolori e polifoniche e delle azioni quotidiane
(del cane che scodinzola andando a spasso con la padrona, della bimba che corre
sul terrazzo, delle ballerine) è sottolineato da colori e pennellate che mettano
in evidenza le spinte propulsive delle forme. La costruzione può essere
composta da linee spezzate, spigolose e veloci, ma anche da pennellate lineari,
intense e fluide se il moto è più armonioso. Tra gli epigoni più
interessanti del Futurismo, l'avanguardia russa del raggismo e del
costruttivismo. Le tecniche pittoriche futuriste sono state riassunte nei due
manifesti sulla pittura dei primi mesi del 1912. Due tra i principali
esponenti del movimento pittorico, Umberto Boccioni e Giacomo Balla, furono presenti
anche nella scultura. La pittura di Boccioni è stata definita
"simbolica": il dipinto La città che sale (1910), per esempio, è una
chiara metafora del progresso, dettato dal titolo e dalle scene di cantiere
edile sullo sfondo, esemplificate nella loro vorticosa crescita dalla potenza
del cavallo imbizzarrito, un vortice di materia che si scompone per piani. Se
Boccioni è simbolico, Balla è fotografico e analitico. Ancora legato a principi
cubisti, non è raro che realizzi sequenze fotogrammetriche di una scena, per rendere
il movimento, piuttosto che affidarsi a impetuosi vortici di pittura: è il caso
del posato Bambina che corre al balcone (1912). SculturaUmberto Boccioni
Forme uniche della continuità nello spazio, 1913 New York, Museum of Modern Art
L'artista futurista più attivo nel campo della scultura è Umberto Boccioni, la
cui ricerca pittorica corre sempre parallela a quella plastica. Nel 1912,
lo stesso Boccioni pubblica il Manifesto tecnico della scultura futurista.
Punto di arrivo di questa ricerca può essere considerato Forme uniche della
continuità nello spazio, del 1913: l'immagine, applicando le dichiarazioni
poetiche di Boccioni stesso, è tutt'uno con lo spazio circostante, dilatandosi,
contraendosi, frammentandosi e accogliendolo in sé stessa. Anche in
L'Antigrazioso o La madre, immediatamente precedente, sono presenti parametri
scultorei simili a Forme uniche nella continuità dello spazio, ma con ancora
non risolti alcuni problemi di plasticità derivanti da influssi
naturalistici. MosaicLa tecnica del mosaico, basata sull'utilizzo di
tessere ceramiche e vitree, si è prestata molto bene a esprimere i modi e il
dinamismo intesi dall'arte futurista. Enrico Prampolini e Fillia eseguono
l'importante mosaico dedicato al tema delle Comunicazioniall'interno della
torre del Palazzo delle Poste di La Spezia (1933). Alcuni anni più tardi
Gino Severini esegue altri mosaici per le Poste di Alessandria. La tradizione
musiva di Ravenna continua con mosaici futuristi di autori vari (Palazzo del
Mutilato, fine anni quaranta). ArchitetturaMagnifying glass icon
mgx2.svg. Lo stesso argomento in dettaglio: Architettura futurista. «Il
problema dell'architettura moderna non è un problema di rimaneggiamento
lineare. Non si tratta di dover trovare nuove sagome, nuove marginature di
finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi,
mosconi, rane (…): ma di creare di sana pianta la casanuova, costruita
tesoreggiando ogni risorsa della scienza e della tecnica…» (Antonio
Sant'Elia, dal Messaggio posto a prefazione della mostra del gruppo Nuove
Tendenze del 1914) Antonio Sant'Elia, una veduta prospettica della Città
Nuova. 1914 Sant'Elia, Casa a Gradinate la Città Nuova. 1914
Arnaldo Dell'Ira lampada "a grattacielo", 1929 Giuseppe
Pettazzi Stazione di servizio "Fiat Tagliero", 1938 Asmara Nel
1912 Antonio Sant'Elia, che divenne l'architetto più rappresentativo del
movimento, era ancora distante dai futuristi ed era piuttosto legato nel
movimento del cosiddetto Stile floreale. In quegli stessi anni a Milanoera
attivo Giuseppe Sommaruga e questi sembra che avesse esercitato una grande
influenza sulla formazione del Sant'Elia, infatti, per esempio, molti elementi
dinamici del futurista furono anticipati nel Grand Hotel Campo dei Fiori di
Varese[12]. All'inizio del 1914 Sant'Elia pubblicò il Manifesto
dell'Architettura futurista, dove esponeva i principi di questa corrente. Al
centro dell'attenzione c'è la città, vista come simbolo della dinamicità e
della modernità. Tutti i progetti creati da Sant'Elia si riferiscono a città
del futuro: in contrapposizione all'architettura tradizionale, vista come
inadeguata, le città idealizzatedagli architetti futuristi hanno come
caratteristica fondamentale il movimento, i trasporti e le grandi strutture. I
futuristi, infatti, compresero immediatamente il ruolo centrale che i trasporti
avrebbero assunto successivamente nella vita delle città. Nei progetti di
questo periodo si cercavano sviluppi e scopi di questa novità. L'utopia
futurista è una città in perenne mutamento, agile e mobile in ogni sua parte,
un continuo cantiere in costruzione, e la casa futurista allo stesso modo è
impregnata di dinamicità. Anche l'utilizzo di linee ellittiche e oblique
simboleggia questo rifiuto della staticità per una maggior dinamicità dei
progetti futuristi, privi di una simmetriaclassicamente intesa. Le teorie
futuriste sull'architettura erano principalmente ideologiche ed erano
espressione di un atteggiamento intellettualistico ma senza riferimenti a
metodi formali e tecnici, tuttavia anticiparono i grandi temi e le visioni
dell'architettura e della città che saranno proprie del Movimento
Moderno[13]. A causa della guerra e dopo la morte di Boccioni e Sant'Elia
il movimento futurista in Italia perse il suo slancio. Dopo il 1919
l'originaria proposta futurista dei primi tempi fu raccolta piuttosto dai
costruttivisti russi. Il movimento razionalista italiano cercherà di proporre
gli scenari della Città Nuova delle utopie futuriste ma il regime fascista
smorzerà questi tentativi privilegiando un monumentalismo legato alla
tradizione classicista. Lo stesso avvenne in Unione Sovietica con il
sopravvento del regime totalitario. Tra i grandi esponenti
dell'architettura da ricordare Mario Chiattone, che visse con Sant'Elia a
Milano, condividendone le linee teoriche e sviluppando straordinarie visioni di
città del futuro, prima di trasferirsi in Svizzera e abbandonare la militanza.
E infine Virgilio Marchi, che operò anche come scenografo. Al Secondo
Futurismo appartengono le architetture di Angiolo Mazzoni, autore di notevoli
edifici postali e ferroviari, ancora oggi validamente in funzione in diverse
città italiane. CeramicaPer le sue possibilità espressive, anche la
ceramica interessa il movimento futurista. In particolare i ceramisti dell'ISIA
espressero lavori in sintonia con il nuovo movimento. Il 7 settembre 1938 sulla
Gazzetta del Popolo a firma Filippo Tommaso Marinetti e di Tullio d'Albisola
viene pubblicato il Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica. Fin dal
1925 il centro propulsore della ceramica futurista italiana fu Albissola
Marina. Musica Modifica In campo musicale gli unici rappresentanti di
rilievo furono Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo, pittore, musicista e
scrittore, autore del saggio L'arte dei rumori pubblicato nel 1916. L'arte dei
rumori è considerata da alcuni autori uno dei testi più importanti e influenti
nell'estetica musicale del XX secolo.[14] A Russolo si deve l'invenzione
dell'Intonarumori, uno strumento che usava per mettere in pratica la sua teoria
del rumorismo, ovvero di una musica nella quale ai suoni dovevano essere
sostituiti i rumori. Essi erano formati da generatori di suoni acustici che
permettevano di controllare la dinamica e il volume. Letteratura Modifica
Da sinistra: Aldo Palazzeschi, Carlo Carrà, Giovanni Papini, Umberto Boccioni,
Filippo Tommaso Marinetti, 1914 Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso
argomento in dettaglio: Letteratura futurista e Filippo Tommaso Marinetti. A
fine gennaio 1909 Filippo Tommaso Marinetti inviava il Manifesto del Futurismo
ai principali giornali italiani, ma è la pubblicazione su Le Figaro il 20
febbraio 1909a garantirgli risonanza europea. Nel 1912, sulla rivista
fiorentina "Lacerba", comparve il "Manifesto tecnico della letteratura
futurista"[15]. Del 1914 è il volume Zang Tumb Tumb, miglior esempio delle
futuriste Parole in libertà. Poesia. I poeti futuristi si riuniranno
attorno alla rivista Poesiafondata da Marinetti qualche anno prima. Nei
componimenti si trova generalmente l'esaltazione del futuro e delle sensazioni
forti associate alla velocità e alla guerra. Gli esponenti più noti, oltre al
Marinetti, sono: Aldo Palazzeschi, autore della raccolta poetica
L'incendiario[16] (che include "La fontana malata", "E
lasciatemi divertire" e "La passeggiata"); Ardengo Soffici,
autore di Bif& ZF + 18 = Simultaneità – Chimismi lirici; Paolo Buzzi,
autore di Aeroplani. Canti alati. Anche Salvatore Quasimodo aderì, in gioventù,
al Futurismo (ricordiamo la sua poesia "Sera d'estate")[17]. A un
successivo momento del Futurismo marinettiano appartiene l'Aeropoesia.
TeatroModifica Magnifying glass icon mgx2.svLo stesso argomento in dettaglio:
Teatro futurista. I futuristi perseguirono la rifondazione del concetto stesso
di comunicazione teatrale. Promossero un teatro «sintetico, atecnico, dinamico,
simultaneo, autonomo, alogico e irreale», dove « è stupido» non ribellarsi al
pregiudizio della teatralità, soddisfare la primitività delle folle, curarsi
della verosimiglianza, voler spiegare con una logica minuziosa tutto ciò che si
rappresenta, sottostare alle imposizioni del crescendo, della preparazione e
del massimo effetto alla fine, lasciare imporre alla propria genialità il peso
di una tecnica che tutti possono acquisire, rinunciare «al dinamico salto nel
vuoto della creazione totale». I futuristi, infatti, possedettero una
«invincibile ripugnanza» per il lavoro studiato a tavolino, a priori,
sostenendo l'improvvisazione, il teatro come «serbatoio inesauribile di
ispirazioni». «Tutto è teatrale quando ha valore» (Il teatro
futurista sintetico di Marinetti, Settimelli e Corra[18]) Il teatro futurista
promosse anche la commedia e la farsa, anziché la tragedia, o il dramma
borghese. Tuttavia, nelle serate futuriste, non era inusuale vedere il pubblico
adirato a causa di spettacoli fatti di azioni deliranti. Le cronache dell'epoca
riportano notizie relative agli attori futuristi che sfuggono all'ira degli
spettatori, spesso provocata ad arte secondo gli intenti espressi nel Manifesto
futurista del teatro di varietà. CinemaMagnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Cinema futurista. Nel 1916 venne pubblicato il
Manifesto della Cinematografia futurista, firmato da Filippo Marinetti, Bruno
Corra, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla, Remo Chiti ed Emilio Settimelli, che
sosteneva come il cinema fosse "per natura" arte futurista, grazie
alla mancanza di un passato e di tradizioni. Essi non apprezzavano il cinema
narrativo "passatissimo", cercando invece un cinema fatto di
"viaggi, cacce e guerre", all'insegna di uno spettacolo
"antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico,
parolibero". Nelle loro parole c'è tutto un entusiasmo verso la ricerca di
un linguaggio nuovo slegato dall'estetica tradizionale, che era percepita come
un retaggio vecchio. I futuristi, per allontanare il cinema dal passato,
ripudiavano tutto ciò che era convenzionalmente accettato come affascinante e
bellissimo dalla borghesia, usando quindi come soggetti figure distorte (che
verranno riprese anche dall'espressionismo tedesco come manifestazione della
perdita di speranza della popolazione dopo la prima guerra mondiale), colori
forti ecc. Molte opere cinematografiche futuriste sono andate perdute durante
la guerra, tra cui Vita futurista, pellicola nella quale alcuni uomini
disturbavano e poi scappavano velocemente alcuni turisti nei bar di
Firenze. Tra le opere rinvenute di questo movimento, ci è pervenuta la
tragedia Tahïs del 1916 di Bargaglia e la romantica Amor pedestre del 1914 del
comico Marcel Fabre, nel quale viene proposta una relazione non corrisposta
tutta raccontata inquadrando i protagonisti dal ginocchio in giù (cortometraggi
rintracciabili su YouTube). Gastronomia Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Cucina futurista. Grazie alla completezza di
questo movimento, ne venne influenzata anche la gastronomia. Nel 1914 il cuoco
francese Jules Maincave aderì al Futurismo, proponendo quindi l'accostamento di
nuovi sapori ed elementi fino ad allora "separati senza serio fondamento".
Questo comprendeva accostamenti come filetto di montone e salsa di gamberi,
noce di vitello e assenzio, banana e groviera, aringa e gelatinadi
fragola. Il 20 gennaio 1931 Marinetti pubblicò il Manifesto della cucina
futurista sulla rivista Comoedia. Secondo Marinetti bisognava eliminare la
pastasciutta, così come forchetta e coltello e condimenti tradizionali, e
incoraggiare l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi.
Scrive Marinetti: «(...) vi annuncio il prossimo lanciamento della cucina
futurista per il rinnovamento totale del sistema alimentare italiano, da
rendere al più presto adatto alle necessità dei nuovi sforzi eroici e dinamici
imposti dalla razza. La cucina futurista sarà liberata dalla vecchia ossessione
del volume e del peso e avrà, per uno dei suoi principi, l'abolizione della
pastasciutta. La pastasciutta, per quanto gradita al palato, è una vivanda
passatista perché appesantisce, abbrutisce, illude sulla sua capacità
nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti. È d'altra parte patriottico
favorire in sostituzione il riso.» Nel suo tempo È normale che il
Futurismo, nascendo in un'epoca di transizione, abbia avuto molteplici
contraddizioni. All'immobilismo scolastico e accademico ereditato dalle
"tre corone" della poesia decadente (Carducci, Pascoli e D'Annunzio)
i futuristi oppongono la dinamicità, la demolizione all'armonia, e alla
raffinatezza contrappongono il disordine delle parole. Gli elementi suddetti
richiamano alle caratteristiche del Futurismo più importanti[19]: esse
rientrano appieno nello spirito culturale della belle époque che precedette lo
scoppio della Prima Guerra Mondiale. Secondo i futuristi, questi poeti
devono essere completamente rinnegati perché incarnano esattamente i quattro
ingredienti intellettuali che il Futurismo vuole abolire: la poesia
morbosa e nostalgica; il sentimento romantico; l'ossessione della lussuria; la
passione per il passato. In contraddizione con il Futurismo è stata anche la
corrente crepuscolare. Infatti il crepuscolarismo, nonostante condivida con il
Futurismo l'idea di interartisticità, ha però una concezione della vita
completamente diversa: i futuristi inneggiano alle innovazioni, i
crepuscolari sono avversi a una modernità che aliena l'individuo i futuristi
sono prepotenti, dinamici, chiassosi, i crepuscolari assumono toni dimessi,
pacifici e malinconici i futuristi esaltano il caos e le attività delle grandi
città, i crepuscolari amano l'intimità, le "piccole cose di pessimo
gusto", gli affetti familiari e una vita tranquilla i futuristi sono
sempre protesi verso un "domani" esaltante, i crepuscolari guardano
al passato e alle piccole cose quotidiane. Scultura futurista
esposta a Milano in Piazzetta Reale per il centenario del movimento Nelle arti
figurative invece si presenta il confronto con le altre avanguardie, Cubismo,
Astrattismo, Dada, Surrealismo, Metafisica, ognuna delle quali caratterizzata
da propri temi e propri linguaggi espressivi. L'opera futurista è in evidente
contrasto per alcuni temi con molte delle altre avanguardie sebbene condividano
tutte l'intuizione di trasmettere attraverso l'arte un impulso di
trasformazione della società e di rinnovamento. Aspetto specifico del Futurismo
è quello di non limitare la propria azione alle espressioni artistiche (come il
Cubismo o la Metafisica), ma di prospettare la re-invenzione dell'intera vita,
in ogni suo aspetto (e uno dei manifesti maggiormente rilevanti fu infatti
"Ricostruzione futurista dell'universo" di Balla e Depero). Tra
i contemporanei dei futuristi che criticarono il movimento ricordiamo Giandante
X, che nel 1929, a Milano, all'apertura dei festeggiamenti per il ventennale
del Futurismo, contestò apertamente Filippo Tommaso Marinetti, sostenendo che
"l’uomo si deve affrancare dalla macchina ed è un errore lasciare
sussistere lo scombinato movimento artistico"[20]. Nella critica del
dopoguerra Il Futurismo ha influenzato tutta l'arte d'avanguardia del
Novecento. Gli artisti futuristi che sopravvissero alla morte di Marinetti (21
dicembre del 1944) e alla seconda guerra mondiale caddero in disgrazia come
tutto il Futurismo, con l'accusa di aver fiancheggiato il fascismo. Nel
secondo Novecento nuovi studi di Luciano De Maria, Mario Verdone, Enrico
Crispolti, Maurizio Calvesi, Claudia Salaris, Giordano Bruno Guerri hanno
parzialmente corretto l'accusa di collusione fascista, rilanciando l'interesse
artistico-sociale verso il futurismo. Studi sul futurismo di sinistra (i
contatti con gli ambienti anarchici, e persino comunisti) mostravano
contemporaneamente che l'avanguardia futurista italiana era stata troppo
sommariamente giudicata. Nel corso del tempo diverse sono state le
esposizioni riguardanti il Futurismo. Di indubbia rilevanza è stata quella del
2009 presso il Palazzo Reale di Milano per il centenario del movimento. La
mostra si intitolava Futurismo 1909-2009 Velocità+Arte+Azione[21]. Nel 2014, il
Futurismo italiano, con una grande esposizione retrospettiva fino al 1944 al
Guggenheim Museum di New York a cura di Vivien Greene[22], è tornato alla
ribalta internazionale. Il centenario del Futurismo ha anche contribuito al
rilancio internazionale degli studi sulle artiste del Futurismo e sulla visione
della donna nel Movimento. Nel 2018 è stato pubblicato il Manifesto del
Fumetto Futurista redatto da Massimo Bonura e uno dei primi, se non il primo,
fumetti futuristi programmatici, cioè seguente esplicitamente uno schema
scritto e definito, dal titolo "Il brutto anatroccolo. Ma che Wow!!"
di Claudio S. Gnoffo, a significare l'importanza che il movimento futurista ha
avuto come influenza nel delineare nuovi stili d'arte di rottura e
sperimentali.[23] Principali esponenti del futurisModifica Futuristi
italiani Filippo Tommaso Marinetti Enrico Allimandi Adone Asinari Franco
Asinari Antonio Asturi Fedele Azari Roberto Iras Baldessari Giacomo Balla Enzo
Benedetto Umberto Boccioni Vittorio Bodini Uberto Bonetti Oswaldo Bot,
pseudonimo di Osvaldo Barbieri Anton Giulio Bragaglia Alessandro Bruschetti
Paolo Buzzi Francesco Cangiullo Benedetta Cappa Mario Carli Enrico Carmassi
Sebastiano Carta Carlo Carrà Gianni Carramusa Giuseppe Caselli Riccardo
Castagnedi Enrico Cavacchioli Arturo Ciacelli Remo Chiti Primo Conti Vittorio
Corona Bruno Corra, pseudonimo di Bruno Ginanni Corradini Tullio Crali Auro
D'Alba, pseudonimo di Umberto Bottone Giulio D'Anna Luigi De Giudici Mino Delle
Site Fortunato Depero Gerardo Dottori Leonardo Dudreville Carlo Erba Julius
Evola Farfa, pseudonimo di Vittorio Osvaldo Tommasini Fillia, pseudonimo di
Luigi Enrico Colombo Luciano Folgore Gesualdo Manzella Frontini Achille Funi
Ivanhoe Gambini Giacomo Giardina Arnaldo Ginna, pseudonimo di Arnaldo Ginanni
Corradini Giovanni Governato Corrado Govoni Guglielmo Jannelli Giovanni
Korompay Krimer Mimì Maria Lazzaro Escodamè, pseudonimo di Michele Leskovic
Osvaldo Licini Gian Pietro Lucini Alberto Magnelli Vincenzo Mai Enzo Mainardi
Giorgio Michetti Antonio Marasco Oreste Marchesi Emma Marpillero Pino Masnata
Silvio Mix Sante Monachesi Marisa Mori Bruno Munari Benito Mussolini Emilio
Notte Renzo Novatore, pseudonimo di Abele Ricieri Ferrari Nello Voltolina Pippo
Oriani Nino Oxilia Ivo Pannaggi Giovanni Papini Luigi Pepe Diaz Osvaldo Peruzzi
Vittorio Piscopo Enrico Prampolini Francesco Balilla Pratella Giuseppe Preziosi
Salvatore Quasimodo Renato Righetti Romolo Romani Ottone Rosai Pippo Rizzo
Angelo Rognoni Umberto Luigi Ronco Mino Rosso Luigi Russolo Bruno Giordano
Sanzin Alberto Sartoris Antonio Sant'Elia Filiberto Sbardella Gino Severini
Ardengo Soffici Fides Stagni Tato (Guglielmo Sansoni) Mario Sironi Fides Stagni
Joseph Stella Mario Sturani Italo Tavolato Geppo Tedeschi Thayaht, pseudonimo
di Ernesto Michahelles Wladimiro Tulli Giuseppe Ungaretti Vann'Antò Ruggero
Vasari Lucio Venna, pseudonimo di Giuseppe Landsmann Mario Mirko Vucetich
Futuristi russi Makov Černichov Velimir Chlebnikov Natal'ja Sergeevna Gončarova
Michail Larionov Vladimir Majakovskij Kazimir Severinovič Malevič Aleksandr
Rodčenko Aleksej Kručënych Futuristi ucraini Davyd, Mykola, Volodymyr Burljuk
Futuristi francesi Robert Delaunay Marcel Duchamp Paul Fort Fernand Léger Jules
Maincave Georges Bernanos Guillaume Apollinaire Futuristi cechi Růžena Zátková
Futuristi ungheresi Béla Kádár Lajos
Kassák Hugó Scheiber Futuristi portoghesi Fernando Pessoa, divulgò aspetti del
movimento attraverso le riviste Orpheu (1915) e Portugal Futurista (1917)
Guilherme de Santa-Rita, pittore, ideatore della rivista Portugal Futurista
(1917) Futuristi spagnoli Joan Salvat-Papasseit Futuristi brasiliani Oswald de
Andrade Futuristi argentini Alberto Hidalgo Emilio Pettoruti Principali
manifesti Manifesto del futurismo, (Pubblicato da "Le Figaro" il 20
febbraio 1909), Marinetti Uccidiamo il Chiaro di luna, (aprile 1909), Marinetti
Manifesto dei Pittori futuristi, (11 febbraio 1910), Boccioni, Carrà, Russolo,
Balla e Severini La pittura futurista - Manifesto tecnico, (11 aprile 1910),
Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini Contro Venezia passatista, (27
aprile 1910), Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo Manifesto dei drammaturghi
futuristi, (11 gennaio 1911), Marinetti Manifesto dei Musicisti futuristi, (11
gennaio 1911), Pratella La musica futurista-Manifesto tecnico, (29 marzo 1911),
Pratella Manifesto della Donna futurista, (25 marzo 1912), Valentine de
Saint-Point Manifesto della Scultura futurista, (11 aprile 1912), Boccioni
Manifesto tecnico della letteratura futurista, (11 maggio 1912), Marinetti
L'arte dei Rumori, (11 marzo 1913), Russolo Distruzione della sintassi.
L'immaginazione senza fili e le Parole in libertà, (11 maggio 1913), Marinetti
L'Antitradizione futurista, (29 giugno 1913), Guillaume Apollinaire La pittura
dei suoni, rumori e odori, (11 agosto 1913), Carrà Il Teatro di Varietà, (1º
ottobre 1913), Marinetti Il controdolore, (29 dicembre 1913), Palazzeschi
Pittura e scultura futuriste, (1914), Boccioni Manifesto dell'Architettura
futurista, (1914), Sant'Elia Il teatro futurista sintetico, (1915), Corra,
Settimelli, Marinetti La ricostruzione futurista dell'universo, (1915), Balla,
Depero La Scenografia futurista, (1915), Prampolini Manifesto del cinema
futurista, (1916), Marinetti, Corra, Settimelli Manifesto della danza
futurista, (1917), Marinetti Manifesto dell'Aeropittura futurista, (1929)
Manifesto della Fotografia futurista, (16 aprile 1930, Tato (pseudonimo di
Guglielmo Sansoni), Filippo Tommaso Marinetti Manifesto della cucina futurista,
(1931), Marinetti. Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica(1938),
Filippo Tommaso Marinetti e Tullio d'Albisola Opere principali Pittura Umberto
Boccioni, Tre donne (1909-1910); Umberto Boccioni, La città che sale
(1910-1911); Carlo Carrà, Notturno a Piazza Beccaria (1910); Umberto Boccioni,
La risata (1911); Umberto Boccioni, Stati d'animo, gli addii (1911); Carlo
Carrà, I funerali dell'anarchico Galli (1911); Umberto Boccioni, Materia (1912);
Giacomo Balla, Ragazza che corre al balcone (1912); Giacomo Balla, Dinamismo di
un cane al guinzaglio(1912); Giacomo Balla, Lampada ad arco (1911); Umberto
Boccioni, Elasticità (1912); Gino Severini, La chahuteause (1912); Luigi
Russolo, Dinamismo di un'automobile (1912-1913); Carlo Carrà, Cavaliere rosso
(1913); Giacomo Balla, Automobile + velocità + luce (1913). Gino Severini,
Ballerina in blu (1913); Fortunato Depero, I Cavalieri. ^ a b c Futurismo, in Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 14
novembre 2014. ^ Il pensiero futurista si richiama evidentemente a varie
ideologie dell'azione e della violenza: il "vitalismo" del
"superuomo" (oltreuomo) di Friedrich Nietzsche, l'anarchismo di Max
Stirner, la "violenza" di Georges Sorel (Considerazioni sulla
violenza), lo slancio vitale di Henri Bergson(cfr. "Futurismo"
nell'Enciclopedia "Il Sapere", De Agostini editore). ^ arengario.it,
http://www.arengario.it/futurismo/_pdf/specimen-2011-tonini-manifesti.pdf. ^ In
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movimento futurista al Guggenheim, su marconeapolitanews.altervista.org, 10
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altri saggi, Palermo, Edizioni Ex Libris, 2018. Per il Manifesto del Fumetto
Futurista si vedano le pp. 68-69, per le tavole del Fumetto Futurista di
Claudio S. Gnoffo si vedano le pp. 70-71.
Ulteriori informazioni Questa voce o sezione ha problemi di struttura e
di organizzazione delle informazioni. Giulio Carlo Argan, L'arte moderna
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IT\ICCU\SBL\0360948. ApprofondimentiModifica AA.VV., Futurismo e futurismi,
Supplemento ad «Alfabeta» nº 84, 1986 [Speciale in collaborazione tra
«Alfabeta» e «La Quinzaine littéraire»]. AA.VV., Divenire 3 Futurismo, a cura
di R. Campa, Bergamo, Sestante Edizioni, 2009, ISBN 978-88-95184-55-5. Walter
Pedullà (a cura di), Il Futurismo nelle avanguardie. Atti del convegno
internazionale in occasione del centenario della nascita del Futurismo (Milano,
Palazzo Reale, 4-6 febbraio 2010), Roma, Editrice Ponte Sisto, 2010, ISBN
978-88-95884-31-8. Marco Albertazzi (a cura di), I poeti futuristi, con i saggi
di George Wallace e Marzio Pieri, Trento, La Finestra editrice, 2004
[Milano, 1912] , ISBN 88-88097-82-1. L'opera contiene in appendice alcuni
manifesti futuristi. Giovanni Antonucci, Storia del teatro futurista, Roma,
Edizioni Studium, 2005, ISBN 88-382-3980-0. Guido Bartorelli, Numeri
innamorati. Sintesi e dinamiche del secondo futurismo, Torino, Testo &
Immagine, 2001, ISBN 88-8382-024-X. Mirella Bentivoglio, Franca Zoccoli, Le
futuriste italiane nelle arti visive, De Luca Editori d'Arte, 2008. Stefano
Bianchi, La musica futurista. Ricerche e documenti, Lucca, Libreria Musicale
Italiana Editrice, 1995, ISBN 88-7096-115-X. Maurizio Calvesi, Il Futurismo, Milano,
Fabbri, 1970, SBN IT\ICCU\RLZ\0162061. Maurizio Calvesi, Il Futurismo. La
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2009(archiviato dall' url originale il 7 ottobre 2007). Il Cerchio:
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Recensioni delle mostre del centenario futurista a Roma e a Milano avanguardie
russe, su chimera.roma1.infn.it. Viva il Futurismo! Iniziativa culturale e
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filosofia del Futurismo in arte, poesia e politica, su
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Carlo Carrà Pittore e docente italiano Manifesto dei pittori futuristi
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Wikipedia. Esaminerò i temi principali del mio libro, intitolato “Eros
ethos”: la contraddizione, la violenza, la domanda di salvezza, che è poi la
domanda di senso, il silenzio di Dio. Ma, effettivamente, questi temi fanno da
sfondo, perché “ Eros ethos”, questo nesso su cui dobbiamo riflettere, riguarda
piuttosto le cose prossime che non le cose ultime come la domanda di senso, la
domanda che appunto ruota interamente intorno a ciò che era al principio. Che
cos’era il principio? Era il senso, era il logos, o non era piuttosto come
Nice, in modo sprezzante, ma anche polemico e profondo, ebbe a dire: “ in
principio era il non senso”? Ecco, cos’ hanno a che fare queste domande sulle
cose ultime con le cose prossime? Eros ethos: che cosa c’è di più prossimo alle
esperienze che noi facciamo, che questa? Esperienza erotica ed esperienza
etica. Questo è il quadro, questo è l’orizzonte problematico dentro il quale
vorrei insieme con voi procedere per alcuni passi, e allora incomincerei col
dire che, davvero, la domanda da cui partire è la domanda sull’origine: una
domanda che ai non filosofi può sembrare di scarsa rilevanza. Perché la domanda
sull’origine? E che cosa vuol dire domanda sull’origine? Vuol dire, se la
vogliamo tradurre, interrogarsi sul da dove veniamo, da dove il male, la
violenza che patiamo. “Unde malum?” questa è la domanda sull’origine. Ma a
questa domanda sull’origine, così perentoria e così grave di implicazioni, come
risponde il pensiero contemporaneo? Il pensiero contemporaneo risponde
rimovendola, come se non esistesse, meglio come se non la potessimo, né la
dovessimo porre. E questo perché? Perché alla domanda ha già risposto la
scienza. Sappiamo da dove veniamo, di chi siamo figli: siamo figli del caos, e
se è vero che leggi che possono essere accertate scientificamente governano
questo caos, del caos noi siamo figli, o, se non del caos, di quel suo riflesso
che è il caso. Siamo figli del caso. La violenza è un fatto. Certo che c’è
violenza nel mondo, ma c’è come c’è quell’ultimo orizzonte che non possiamo
trascendere. Ci appartiene la violenza, è in noi, sempre di nuovo la evochiamo,
basta un niente ed ecco esplode, come se un fondo sub umano ci abitasse, come
se da questa brutalità naturale noi provenissimo, come se appunto questo fondo
sub umano, questa brutalità naturale, sempre pronta ad esplodere, costituisse
un orizzonte intrascendibile. Non è forse vero che veniamo di lì, non ci dice
la scienza che veniamo dalla “selva antiqua?” Dallo stato di natura? E che
cos’è lo stato di natura se non lo stato in cui la violenza ci fa simili, anzi
identici, a quegli esseri che abitano la natura e l’abitano inconsapevolmente,
producendo la violenza appunto come produzione inconsapevole di quella volontà
di vivere che abita tutti gli esseri naturali? Sembra essere questa la grande
parola della filosofia moderna e poi contemporanea, perchè troviamo in essa
quasi un vero e proprio ritornello: il risalimento all’origine è precluso, la
filosofia pensa a partire da una situazione, da un trovarsi ad essere in un
certo modo, a partire da cui soltanto il pensiero è pensiero. Che cosa
significa risalire alle origini, ipotizzare fondamenti ultimi? Tutto questo
appartiene all’ontoteologia cioè alla pretesa appunto di ragionare ricostruendo
il fondamento, la ragione ultima di tutte le cose, in una parola l’origine,
quell’origine che non è, o meglio non è se non nella forma che ci è data, e di
cui noi facciamo esperienza sapendo di essere quello che siamo, ossia esseri
naturali che dallo stato di natura provengono e che nello stato di natura
trovano una sorta di ultimo orizzonte, di estremo confine intrascendibile,
assolutamente intrascendibile. Da questo punto di vista abbiamo la parola di
Hobbes da una parte( lo stato di natura), e la parola di Rousseau dall’altra(
lo stato di natura come 1 stato di pura violenza che si tratta di
controllare attraverso un patto, i cui contraenti autolimitano la propria
libertà in nome del controllo di ciò che è dato: lo stato di natura). Da una
parte Hobbes( il Leviatano), e dall’altra Rousseau dicono la stessa cosa anche
se sembrerebbero dire due cose completamente diverse. Che cosa dice Rousseau?
Dice che lo stato di natura non è il regno del Leviatano, il regno della
violenza, è il regno della gioia, è il regno della libertà, è il regno della
giustizia. Eppure dicono la stessa cosa. Che cosa? Dicono che quello, lo stato
di natura, è un orizzonte che non possiamo trascendere. Lì ci troviamo a
vivere. Che questo stato di natura sia uno stato di violenza, o che questo
stato di natura sia uno stato tornando nel quale noi ci liberiamo dalla
violenza stessa, in definitiva è la stessa cosa, perché è questo stato, questa
condizione intrascendibile, e non possiamo affacciarci, per così dire, sulla
soglia, su questo stesso orizzonte, e guardare al di là e chiederci: “ Ma noi
da dove veniamo? Chi ci ha gettati qui?” O nella lotta o nella gioia edenica:
domanda senza senso. Risalire non è possibile. L’orizzonte è chiuso. La
violenza non è nient’altro che questo, quella violenza di cui ci parlano anche
le cronache, ma che noi conosciamo anzitutto in noi stessi, perciò della
violenza non resta che prendere atto come qualche cosa che è connaturato, stato
di natura appunto, e che non ci resta che controllare. Sempre di nuovo l’uomo
ricade nella violenza, sempre di nuovo l’uomo deve, se non liberarsene
totalmente, elaborare delle strategie di controllo. Auschwitz non deve più
accadere e invece è accaduto e probabilmente sempre di nuovo accadrà. Questo lo
sappiamo, lo sappiamo nei nostri giorni violentissimi, crudelissimi. Su questo
non possiamo chiudere gli occhi: sul fatto che Auschwitz sempre di nuovo
accade, che sempre di nuovo l’uomo cade dentro quello stato di natura dal quale
proviene e dal quale non può evadere. E’ la parola più dura della filosofia
contemporanea, nascosta spesso dentro strategie di pensiero molto sofisticate,
molto raffinate, ma che questo dicono: l’intrascendibilità della nostra
provenienza, dell’orizzonte dal quale proveniamo, tanto è vero che sempre di
nuovo cadiamo dentro a questo orizzonte. Difficile immaginare, appunto, una
risposta più cupamente ateistica e nichilistica di questa, ma anche più vera,
con una sua verità che sembrerebbe difficilmente controvertibile. Non è forse
vero che la violenza è in noi, che veniamo di lì? Non ci dice la scienza che in
noi ci sono forze che se non teniamo sotto controllo fanno di noi, di chiunque
di noi, il peggiore dei delinquenti, e che ciascuno ha in sé questa virtualità
negativa e terribile? Ciascuno di noi. Lo vediamo, non solo per le guerre, ma
per i casi che la vita ci mette sotto gli occhi: gli adolescenti che uccidono i
genitori, il mobbing tra le persone, questo bisogno di farsi reciprocamente
male, che cos’è questo se non una radice? Maligna, ma nello stesso tempo
naturale, maligna, ma in questa prospettiva senza nessuna ascendenza teologica,
perché appunto è lo stato di natura dal quale proveniamo, dentro il quale
sempre di nuovo ricadiamo in quanto l’orizzonte è intrascendibile. Che questo
sia detto nei termini di Hobbes, o sia detto nei termini di Rousseau, che a
partire da Hobbes si elaborino teorie dello stato come strumento, il solo che
l’uomo ha per tenere sotto controllo la violenza, che a partire da Rousseau si
elaborino invece teorie della emancipazione, della liberazione, del ritorno
alla natura, però questo ci dice l’intrascendibilità dello stato di natura. E’
una tesi che ha mille sfaccettature naturalmente, ma molto forte. A questa tesi
della intrascendibilità radicale dello stato di natura io credo ci sia una sola
obiezione, ma forte, altrettanto forte che la tesi stessa. E questa obiezione è
che la violenza dell’uomo sull’uomo, quella violenza che fa dell’uomo un bruto,
che lo ricaccia sempre di nuovo nella brutalità dello stato di natura, questa
violenza è sempre qualche cosa di più, è sempre qualche cosa di meno che
espressione dello stato di natura. Questa è la vera obiezione. E cioè, che cos’è?
E’ cosa umana. La violenza fatta dall’uomo non è infatti assolutamente
assimilabile alla violenza fatta dall’animale, da una tigre, da un leone
feroce. La ferocia che emerge, che affiora, e che trasforma un essere umano in
un animale 2 è altra cosa, non è vero che trasforma l’essere umano
in animale ( questo è un modo di dire assolutamente sviante, falsificante,
anche se sembra corrispondere all’esperienza che ciascuno di noi fa ), questa
violenza è altra cosa, perché la violenza dell’uomo ha, per così dire, un
segno, una segnatura, quella signatura rerum di cui parlavano gli alchimisti
che la vedevano nelle cose stesse, quasi le cose fossero portatrici di simboli
entrando in contatto con l’uomo. Ecco, la stessa cosa vale per la violenza
umana: essa ha una segnatura che ne fa qualcosa di altro rispetto alla violenza
dell’animale, di radicalmente altro, di ontologicamente altro. Perché la
violenza dell’uomo non è assimilabile a quella dell’animale? Perché la violenza
dell’uomo ha qualcosa come un valore aggiunto, e il valore aggiunto è quello
che ci mette l’uomo stesso. Pensate all’uomo, al soldato che uccide, deve
farlo, lo fa per difendersi, pensate alla violenza che esplode in una
situazione apparentemente normale: sempre c’è qualche cosa di più e di diverso
che l’espressione di una aggressività volta a raggiungere uno scopo, raggiunto
il quale la stessa violenza, per così dire, ritorna in una quiete, in una pace,
la pace del leone che ha divorato la gazzella e si ritrova in pace con sé
stesso e con la natura. La violenza dell’uomo, quale che sia, giustificata o
non giustificata, ( ma appunto la parola giustificazione è povera) , sempre ha
questo valore aggiunto: e il soldato sente il bisogno, ahimè, spesso di
sottolineare questo valore aggiunto , irridendo il nemico. Questo è
nell’Iliade, come nella cronaca di oggi, di ieri e dell’altro ieri.
Nell’Iliade, quando Achille strazia il cadavere di Ettore, sente il bisogno di
straziarlo sotto le mura di Ilio, sotto gli occhi delle persone care: ecco quel
di più, ecco ciò che fa della violenza umana qualche cosa di radicalmente
umano. Nel soldato che aggredisce e umilia l’aggredito, il vinto, il nemico
vinto, stuprando la sua donna, per esempio, non c’è mai una pura e semplice
espressione pulsionale di qualche cosa, come un bisogno bestiale o animalesco,
c’è invece il desiderio di segnare ( parlavo prima di segnatura, di valore
simbolico) , c’è il bisogno di umiliare, c’è, in altre parole, l’impossibilità
di ricadere nella quiete della violenza che ha raggiunto il suo scopo. Allora,
se la violenza dell’uomo non è assimilabile alla violenza della natura, se
questo valore aggiunto fa sì che la violenza dell’uomo riveli una sua
irriducibilità all’ordine naturale delle cose, allora non è vero che lo stato
di natura non può essere trasceso, non è vero che non è possibile affacciarsi
sull’ultimo orizzonte e chiedersi: “ Ma da dove vengo io?” Allora non basta
dire: “ Io vengo da lì, cioè dalla natura e dalla sua brutalità, io vengo da un
altrove”. E’ una contraddizione, perché, se vogliamo dirla con una formula
filosofica, la intrascendibilità dello stato di natura chiede di essere
trascesa. Il riconoscimento che di lì vengo, che sono impastato di quella
pasta, che sono fatto di quel fango, che in me agiscono forze brutali,
bestiali, non basta. Non basta perché quelle forze dicono non soltanto la mia
provenienza dallo stato di natura, ma da un al di là, che non so che cosa sia,
che la filosofia non può dire naturalmente, ma deve cercare. Non mi basta
riconoscermi parte della natura, perché questo mio riconoscimento fa cenno, sia
pure nella forma della contraddizione, ad un altrove, come se io fossi caduto,
come se io di là venissi, e come se soltanto questo movimento potesse spiegare
il valore aggiunto che è nella violenza. Ho fatto due esempi, di due grandi
filosofi della modernità, Hobbes e Rousseau, i teorici della intrascendibilità
dello stato di natura. Farò altri due esempi di grandi filosofi della modernità
i quali sostengono quello verso cui sto cercando di condurvi e cioè che
l’intrascendibilità dello stato di natura è contraddittoria. Certo l’uomo, con
le sue categorie, con i suoi concetti, con ciò di cui dispone, non può uscire
dall’orizzonte in cui è venuto a trovarsi, ma patisce, soffre, vive questo suo
trovarsi in un orizzonte che è come un carcere per lui, appunto come un essere
cacciato lì dentro. Diceva Pascal: “ Io mi guardo intorno, e tutto è
confusione, un orribile caos, cerco Dio, ma Dio tace ( il silenzio di Dio), e
non solo Dio tace, ma tutto è terribilmente silenzioso, e il silenzio degli
spazi infiniti è eterno. Che cosa mi resta, se voglio in questo orribile
3 caos muovermi e sopravvivere? Che cosa mi resta da fare? Prendere
atto che le cose stanno così, seguire le leggi del mio paese. Già, ma le leggi
del tuo paese sono esattamente l’opposto delle leggi del paese accanto. Che
fare? Questa è appunto la prova del caos in cui versiamo. Ma il mio sovrano mi
ha ordinato di uccidere quello che sta al di là del fiume. E perché? Perché sta
al di là del fiume. Ma è una ragione questa? Eppure lo devo fare, perché, se
non mi attenessi alle leggi del mio paese, cadrei in un disordine ancora più
grande, non vivrei più”. L’abbiamo visto: l’unica forma di sopravvivenza è
quella garantita dall’accettazione dello status quo. Dice: “ Ma io mi guardo
intorno. Questo è giusto, che cosa è sbagliato? Nulla è giusto, nulla è
sbagliato, tutto lo è. E infatti non c’è atto, non c’è gesto, non c’è
comportamento umano, anche il più abietto, che non abbia trovato il suo altare.
Sull’altare è stato messo l’incesto, sull’altare è stato messo l’omicidio,
sull’altare è stato messo il furto, e così via. Un orribile caos, è quello nel
quale l’uomo naturaliter viene a trovarsi: intrascendibilità dello stato di
natura”. Ecco allora la contraddizione, ecco il passo in più che fa Pascal:
l’intrascendibilità dello stato di natura è inaccettabile, l’intrascendibilità
dello stato di natura non può essere vissuta se non come una condanna, e quale
maggiore condanna che quella di chi vede che ogni atto, anche il più nefasto,
il più delittuoso, ha trovato il suo altare? Quale condanna peggiore di chi
constata che è costretto a compiere atti profondamente ingiusti e tuttavia
giustificati? “ Vai, uccidi”. “ Perché?” “Perché il tuo sovrano te lo ordina”.
Ed è giusto così, o meglio giustificato così, pena un disordine ancora
maggiore. Questa è una realtà che non si può non accettare, una realtà che ci
dice il nostro essere vincolati ad essa, l’intrascendibilità dello stato di
natura, ma una realtà nello stesso tempo vissuta come iniqua, come
inaccettabile: non la posso che accettare, ma è inaccettabile. Ecco la
contraddizione, e se volessimo dirla filosoficamente, dovremmo dire:
“l’intrascendibilità dello stato di natura impone il suo trascendimento”. Da
dove vengo io? Da quale paradiso perduto, se soffro così tanto all’interno di
una situazione per la quale non vedo via d’uscita? L’intrascendibilità chiede
di essere trascesa. Qui la filosofia deve tacere, la filosofia non può che
aprirsi ad una dimensione altra. E’ una risposta, come vedete, ben diversa da
quella di Hobbes, ed anche da quella di Rousseau. Nasce da Pascal una filosofia
religiosa, laddove da Hobbes e da Rousseau nasce una filosofia irreligiosa. Le
fedi private dell’uno e dell’altro non sono più in questione, ma è
profondamente irreligiosa una filosofia che dice: “ La violenza c’è e non resta
che tenerla sotto controllo. Noi non possiamo guardare al di là”. E’ una
filosofia profondamente irreligiosa quella che dice che la violenza c’è perché c’è
la società. Togliamo questo elemento storico sociale, che inquina, con gli
apparati repressivi che la società mette in atto, liberiamoci da tutto ciò, e
ritroviamo quella gioia che è lo stato originario dell’uomo: filosofia, in
entrambi i casi, con tutte le loro propaggini, da Rousseau a Marcuse, oppure da
Hobbes a Smith, filosofia profondamente irreligiosa quella
dell’intrascendibilità dello stato di natura, laddove è filosofia profondamente
religiosa quella di un Pascal che dalla stessa intrascendibilità ricava,
attraverso la contraddizione, l’idea di non poter non trascendere. Anche Vico,
che viene spesso interpretato, e giustamente, come il padre dello storicismo,
ma è anzitutto teologo cristiano, dice la stessa cosa, cent’anni dopo Pascal, e
la dice attraverso l’idea che la menzogna in cui l’uomo si trova a vivere sia
l’illusione che “ omnia Iovis plena” , che gli alberi siano dei, che tutto gli
parli, che l’universo sia animato da presenze. Se un fulmine cade nella selva
antiqua e apre la radura e l’ uomo si illude che un dio gli abbia parlato, non
è vero, è un’illusione, è pura idolatria credere che lì si sia avuta una
epifania, e tuttavia questa che è la condizione idolatrica che l’uomo non può
trascendere. Vico dice: “ Cos’è più vero? Lo stato di natura, dove l’uomo è e
non è se non cacciatore e preda? Oppure lo stato di cultura?” Quello stato di
cultura che l’uomo costruisce in base ad una simulazione, cioè in base ad una
menzogna, illudendosi che gli dei gli abbiano parlato e 4 sulla
base di questo messaggio, di questa rivelazione, costruisce appunto le
istituzioni, le famiglie, gli stati, la cultura, insomma. Che cos’è più vero?
E’ il puro e semplice abitare la natura come l’abitano i bruti, brutalità dello
stato di natura, oppure è, attraverso la finzione, diventare uomini? Accedere
ad una verità propriamente umana? Anche lì, attraverso la contraddizione,
l’uomo è costretto a vedere nella natura una sorta di deiezione, di caduta. Da
dove? La filosofia non lo dice, lo dice la rivelazione. Come vedete queste sono
ipotesi molto diverse, opzioni filosofiche che sono alla radice del mondo
moderno. Voi vi chiederete: “ Tutto questo che cosa c’entra con Eros ethos?”
C’entra perché c’entra la contraddizione. E’ la contraddizione che dobbiamo
cercare, che dobbiamo interrogare, per capire appunto se noi siamo consegnati
ad un destino umano e soltanto umano o se invece questa stessa umanità del
nostro destino impone un trascendimento della condizione nella quale ci
troviamo: dobbiamo cercare l’origine, ciò che è in principio ma anche ciò che
è, per dirla con sant’Agostino, “intimior intimo meo”, più intimo a me stesso
di quanto non lo sia io a me. Come sappiamo, Agostino identificava Dio con
questo movimento, con l’intimior intimo meo: è Dio che è più intimo a me di
quanto io non lo sia a me stesso. Potremmo, parafrasando Agostino, vedere
precisamente nel nodo di contraddizione che nello stesso tempo lega e separa
eros ethos qualche cosa che può essere definito negli stessi termini. Che eros
ed ethos si contraddicano, o meglio si oppongano( l’opposizione e la
contraddizione sono due cose diverse) lo so bene, che eros ed ethos si
oppongano è cosa abbastanza ovvia. Che cosa indica eros se non l’immediatezza,
diciamo pure la gioia di vivere, quella gioia di vivere che non ammette
ostacoli di nessun tipo, che chiede soltanto di essere espressa? Eros i Greci,
e non soltanto i Greci, lo presentavano come un fanciullo, la divina innocenza,
eros come espansione vitale, o per dirla con Kierkegaard come vita immediata, vita
che non dà ragione di sé, e noi diremmo oggi ( figli volenti o nolenti, tutti
figli di Freud ) “vita pulsionale”, e le pulsioni sono le pulsioni, il bene e
il male appartengono ad un altro ordine, ad un’altra dimensione. Ethos è il
contrario. Ethos è il “Tu devi”. Ethos è la serietà della vita. Ethos è il
dover rispondere di tutto nei confronti di tutti, o quanto meno di sé nei
confronti di coloro coi quali si è stretto un patto. Quale opposizione maggiore
che quella tra eros ed ethos? Tra l’immediatezza e la mediazione? Tra la libera
e gioiosa espansione di sé che non dà ragione, perché è quello che è, è vita
immediata, tra la gioia, se vogliamo dire così, e la serietà della vita, ossia
il “Tu devi”, questo sì e questo no, perché tu devi rispondere di te nei
confronti di tutti gli altri? Ma appunto siamo ancora sul piano
dell’opposizione, non ancora della contraddizione. Per scorgere la
contraddizione dobbiamo renderci conto che c’è dissidio, cioè c’è intima
opposizione sia in eros, sia in ethos. Ed è solo a partire da un’analisi
separata delle due forme di esperienza, esperienza erotica ed esperienza etica,
che capiremo come l’opposizione diventi una vera e propria contraddizione e
capiremo come la contraddizione che abita in ciò che è “intimior intimo meo”,
così prossimo a noi da costituire davvero la nostra anima, la nostra carne ( e
che cosa se non eros ed ethos? ), come la contraddizione sia proprio in questa
prossimità. Ma lo scopriremo appunto esaminando separatamente le due forme.
Perché c’è opposizione in eros? L’abbiamo definito come gioioso, libero, come
espressione di una vitalità che non conosce ostacoli. Non è forse vero che eros
è trasgressione? Ma non carichiamo subito questa parola di un significato
morale: no, siamo prima, siamo al di qua della morale. Parliamo dunque di
trasgressione nel senso letterale del termine, nel senso di una spinta, di un
movimento teso a rompere tutti i vincoli. Quindi siamo ancora sul piano di una
fenomenologia che non chiama in causa la morale. Eros è questo transgredior,
questo superare il limite che eros stesso pone a sé stesso per essere quello
che è. Cosa c’entra la morale con eros, se eros è questo? Come è pensabile un
intimo dissidio di eros con eros? I Greci lo hanno pensato. Quando ci troviamo
di fronte a queste difficoltà, definita filosoficamente la categoria, 5
sembrerebbe non si dovesse più procedere oltre, invece sappiamo che
l’esperienza erotica è molto più complessa, che non è questa pura e semplice,
come qualcuno vorrebbe, espressione pulsionale di sé che non dà ragione di sé,
bensì un’esperienza terribilmente complessa. E allora come la mettiamo? La
filosofia ci dice che è trasgressione, movimento libero verso la liberazione da
tutti i vincoli. Il mito, e di nuovo la religione, ci dice che è cosa molto,
molto più complessa. E come avevano rappresentato questa complessità i Greci?
Attraverso i miti, come sappiamo. I miti sono questo: servono a dire delle cose
che la filosofia non riesce a dire, o che il linguaggio comune non riesce a
dire. Ci sono tanti miti nella cultura greca che parlano di eros, infiniti, ma
non soltanto nella cultura greca, anche in quella indiana, anche in tante
altre. Ma alcuni in particolare: intanto quello che identifica eros con Fanes
Protogono. Chi è Fanes Protogono? Fanes Protogono è qualcuno, qualche cosa che
viene prima della stessa formazione del mondo, e quindi del costituirsi di
figure archetipiche nel mondo che sono gli dei; Fanes ( “ fainetai”) è questa
accensione originale che fa sì che il mondo, che era, secondo il mito di Fanes
Protogono, tutto raccolto in un nucleo simile ad un punto ( pensate a quale
profondità di intuizione erano arrivati i Greci), per questa improvvisa
accensione si spacchi, si scinda come sotto una spinta, una forza assolutamente
sorgiva, che non è governata da figure archetipiche, dagli dei, ma che è
assolutamente iniziale. Questa realtà tutta compressa, tutta compresa in un
unico punto, per così dire a seguito di questa cosiddetta accensione, esplode,
e questa esplosione dà luogo alla terra e al cielo, perciò la terra e il cielo,
a partire da questa esplosione, non potranno che sempre di nuovo cercare di
ricongiungersi. Urano e Gea, il cielo e la terra, originariamente uniti, a
seguito della esplosione cercano di ricongiungersi, grazie a eros, Fanes
Protogono, cioè il principio primo, il principio originariamente generatore,
che è la luce. Eros è questa accensione, questa forza ricongiungente dei due.
Dentro questo mito che cosa scopriamo? Il carattere assolutamente non morale di
eros. Eros è quello che è, non è neppure un dio, è luce, è manifestazione, è
pura forza esondante, quella pura forza esondante che ciascuno di noi prova in
sé, nelle varie forme in cui eros si manifesta, che, come sapevano i Greci,
sono infinite. Basta leggere il Simposio per capire come Platone sapesse delle
varie forme di eros. Ma che cosa accade? Accade qualche cosa di tremendo, il
tremendo che è in eros: accade che nel momento in cui la terra e il cielo si
scindono in due, in una sorta di mattino del mondo nasce Afrodite che è la dea
dell’amore, che è la dea, a seguito di questa vicenda, chiamata a incarnare, a
personificare, la forza originariamente creatrice. Ma chi è Afrodite? E’ la dea
della doppiezza, e i poeti greci così l’ hanno descritta: è la dea della felicità,
della gioia, della gioia di vivere che non dà ragioni di sé, è la dea al di là
del bene e del male, è la dea al di qua del bene e del male. Ma Afrodite è
anche la dea che nasconde il tremendo da cui proviene, tanto è vero che lo
stesso mito greco ci parla di questo mattino del mondo: e cosa c’è di più bello
che il sorgere di Afrodite dalla spuma del mare, che cosa c’è di più innocente,
di più incantevole? E tuttavia quella spuma del mare è memoria di un atto di
sangue: la spuma del mare è il sangue stilato, e anzi sangue- liquido seminale,
stilato dal sesso di Urano, castrato dal suo stesso figlio. Capite che cosa
dicono i Greci? Che cosa tiene insieme nell’idea di eros l’uomo greco? Gli
opposti: l’innocenza, la perfezione in quanto è l’emergere della vita da sé
stessa, la vita che non dà ragione di sé, la vita che è quello che è, al di là
del bene e del male, tuttavia su uno sfondo cupo di sangue. Il fanciullo
innocente è nello stesso tempo colui che ha memoria del tremendum, con buona
pace dei teorici, quanti sono oggi, delle emancipazioni a buon mercato:
“Liberatevi dai tabù, abbandonatevi!” Tutte cose belle, per carità, non voglio
dire che non ci si debba anche liberare dai tabù, però le cose sono un po’ più
complicate: la liberazione( tesi) è necessaria, e tuttavia sta a fronte(
antitesi) di qualche cosa come gli orrori delle origini. Quando ci si interroga
sul fatto, sul rapporto eros e violenza, per esempio, perché chiudere gli occhi
di fronte a 6 questa che è realtà umana, più che umana? Bisogna
pensare come hanno pensato i Greci, o come hanno pensato gli Indiani in modo
forse meno cupo, in modo meno metafisico, ma altrettanto espressivo, con la
figura della donna che volge lo sguardo, dell’amante che raggiunge l’amato (
che è un tema iconografico di molta arte indiana, di molta arte erotica
dell’India ), della donna che si butta nel fiume per raggiungere l’amato, ma
volge lo sguardo, e questo sguardo è pieno di malinconia per tutto ciò che
lascia: siamo fatti di una irriducibile doppiezza, ci dice il mito. Certo che è
necessario gettarsi, raggiungere l’amato, ma non ci è dato di farlo ( è la
dinamica della trasgressione ), se non volgendo lo sguardo verso tutto ciò che
abbiamo perso, che stiamo perdendo, che potrebbe essere la rottura del patto. E
questo che cosa vuol dire? Vuol dire che eros, l’innocenza stessa, in modo del
tutto contraddittorio, si lega al suo contrario, a qualcosa come la colpa: ecco
come eros è portatore di una contraddizione. Ma lo stesso vale per ethos. Ethos
è in sé stesso contraddittorio, e sono ancora una volta i Greci che ci dicono
questo. Della profondità del mito greco si era accorto Aristotele, per primo,
che io sappia, quando, guardando al mito, ha scoperto che la parola greca ethos
( da cui etica, naturalmente, ) si dice in due modi, o meglio si dice in un
modo solo ma si scrive in due ( è una anomalia del Greco che forse non ha altri
esempi così clamorosi ): ethos in greco si scrive con la ipsilon, e con la eta,
e se scritta con la ipsilon vuol dire una cosa, se scritta con la eta vuol dire
un’altra cosa, o meglio, vuol dire la stessa cosa , ma un po’ diversa . Se
scritta con la eta , ethos fa riferimento alla dimora, alla casa. E allora che
cos’è ethos? Ethos è la convenzione, sono gli usi, i costumi, le abitudini, da cui
abitus, le virtù, come abiti che indossiamo che ci portano a compiere certe
cose, a comportarci in un certo modo. Ma perché ci comportiamo in un certo
modo? Perché siamo stati educati, perché abbiamo accolto in noi, essendo stati
accolti da una comunità e cioè dalla casa anzitutto, quelle leggi, quei
comportamenti, quel modo di vedere, che è proprio di ethos con la eta. Qui a
essere privilegiato è il riferimento al sentire comune, alla comunità: ethos
come appartenenza ad una comunità, che mi impone di non pensare tanto a me
stesso quanto agli altri, di riconoscermi all’interno di una tradizione e così
via. Ma se io lo scrivo con la ipsilon, allora vuol dire carattere, che
appartiene a me, è solo mio : l’ethos è il mio demone, è qualche cosa che mi
dice: “ Tu devi fare questo”. “No”. “ Ma sei contraddetto da tutti, non è
accettabile che tu non faccia questo, la società ti condanna”. “ Che mi
importa, lo devo fare, perché so, ma in base a quale sapere?” “In base ad un
sapere demonico, cioè che non dà ragioni di sé. Sapere di cui io mi faccio
carico, costi quello che costi”. Guai se ethos fosse solo sapere demonico, se
fosse solo carattere, perché allora l’etica sarebbe una cosa terribile, sarebbe
cosa tragica, darebbe luogo a scontri senza fine, senza un terzo che faccia da
medio, se è giusto quello che io sento giusto. L’io, la coscienza: se ethos
fosse solo questo sarebbe terribile. Ma guai se ethos fosse soltanto
quell’altro: abitudine, tradizione, leggi e così via. Facciamo il caso che la
società alla quale appartengo, nella quale mi riconosco, mi condanni legalmente
e in base a dei principi riconosciuti come giusti, mi condanni per esempio a
essere deportato. Immaginate un’ etica che sia soltanto etica pubblica, un’
etica della tradizione condivisa, immaginate di togliere a me o a chi per me il
diritto di dire no, anche se la società alla quale appartengo mi condanna, di
rivolgermi al mio Dio, per invocarlo, o per bestemmiarlo, dicendo:” Non è
giusto”. Non dimentichiamo mai Auschwitz, ma non dimentichiamo mai che tutto
quello che è accaduto in quegli anni è accaduto legalmente: le deportazioni
erano leggi dello stato tedesco, non si tratta di qualcosa avvenuto
nascostamente, bensì di leggi dello stato tedesco. L’etica che fosse soltanto
l’etica, la casa della comunità di appartenenza, della polis, dello stato,
potrebbe non essere un’etica a sua volta monca, terribilmente manchevole? Già,
ma come fanno a stare insieme ethos ed ethos, ethos con la eta e ethos con la
ipsilon? Come far stare insieme le leggi della pietà, per esempio, come sa bene
Antigone, e le leggi 7 della città? Le leggi di coloro che stanno
sotto la luce del sole e le leggi sotterranee, degli dei, che stanno sotto?
Contraddizione, la contraddizione di ethos. Voi direte, ma che cosa c’entra
questo discorso con la violenza? E’ lo stesso discorso. In che senso? Abbiamo
visto, e mi avvio alla conclusione, come la violenza sia un dato di natura,
anzi, è la natura che è in noi, è uno stato, tanto è vero che si parla di stato
di natura: è quell’emergere di forze oscure, che ci riportano al luogo da cui
proveniamo, che è la selva. E’ la linea maestra del pensiero moderno e
contemporaneo, e abbiamo visto che non basta dire questo. Le cose non stanno
così, perché qui c’è una contraddizione . La contraddizione è sollevata dalla
affermazione che la violenza dell’uomo sull’uomo è sì qualche cosa che lo
accomuna alla bestia feroce, ma nello stesso tempo è qualche cosa che lo rende
irriducibilmente diverso dalla bestia feroce. La violenza è sì cosa che implica
la non trascendibilità dello stato di natura, ma questa non può che essere
vissuta come condanna che implica il trascendimento. Lo stato di natura è uno
stato che io posso pensare solo come stato di gettatezza, avrebbe detto
Heidegger. Senonché per Heidegger la gettatezza, la deiezione, il mio trovarmi
come gettato in questo mondo, non ha più né capo né coda, non ha più un da dove
sono gettato e un verso dove vado. E in questo senso Heidegger in fondo resta
all’interno della tradizione tipicamente moderna che ritiene intrascendibile
questo stato. Non così là dove questo stato venga vissuto, venga letto, nel suo
valore simbolico. Lo dice bene Pascal: “ Tutto è simbolo, quella natura
caotica, così confusa, non fa che ricordarmi che questo non può essere il mio
mondo, è il mio mondo e per viverci lo devo accettare, e tra questo mondo, e
l’infinito, e l’assoluto, un abisso mi separa: non c’è verso, filosoficamente,
di costruire un ponte tra il qui e ora, il qui di leggi contraddittorie, e
l’origine. Tuttavia, in questo mondo io vivo come uno straniero, come uno che è
stato gettato da un altrove, la cui chiave la possiede non la filosofia ma la
religione: la caduta, il peccato originale.” Lo stesso discorso vale per la
contraddizione, il rapporto contraddittorio di eros ed ethos. Noi vorremmo
potere riferirci, così come nel caso della violenza ci siamo riferiti, a
qualche cosa di ultimo, qui riferirci a qualche cosa di primo, eros ethos, di
prossimo, di propriamente nostro a cui ancorarci, vorremmo poterlo fare. E che
cosa se non ancorarci a eros, se non ancorarci a ethos? E’ esperienza che tutti
fanno, se pure in forme molto diverse: l’esperienza che vorremmo gioiosa di
eros e seria di ethos, e lì restare, restare in questa prossimità, in questa
intimità di noi con noi stessi, in definitiva rassicurante. Eros è la gioia: “
Abbandonati”; ethos è il dovere: “ Rispetta”. Già, ma questa intimità, di noi
con noi stessi, è contraddittoria, ovvero “intimior intimo meo”. Nel punto in
cui noi ci troviamo più intimi con noi stessi, noi siamo per così dire
scavalcati, trascesi da un movimento che fa cenno a qualche cosa che è
assolutamente altro rispetto a questa pretesa di raccoglierci in una certezza,
la certezza di eros e la certezza di ethos. Tanto è vero che non solo eros ed
ethos stanno tra loro in opposizione, ma è una opposizione contraddittoria
perché il dissidio è sia nella forma dell’esperienza erotica, sia nella forma
dell’esperienza etica. “Intimior intimo meo”: qui davvero varrebbe la pena di
parafrasare Agostino, e ricordare che nel momento in cui io sono più prossimo a
me stesso in realtà sono infinitamente lontano, sono per così dire costretto a
trascendere, trascendere me stesso.Sergio Givone. Givone. Keywords: phanes, eros/ethos;
phanes protogono, convito di platone, pareyson. storia naturale dell nulla,
unelongated history of negation; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Givone” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Glauco –
l’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A poet and philosopher.
The nephew of Tito Flavio Callescro. He was probably a member of the Accademia,
like his uncle. Tito Favio Glauco.
Grice e Glauco:
la setta di Reggio -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Glauco was a historian,
used as a source by Diogene Laerzio, who attributes to him the claim that
Democrito was taught by a Pythagorian like himself!
Grice e Glicino:
la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to Giamblico di Calcide.
Grice e
Gobetti: l’implicatura conversazionale e il partito liberale italiano – il
partito socialista italiano – filosofi contro il regime – filosofia italiana –
Luigi Speranza - (Torino).
Filosofo. Grice: “Italian philosophy is political in a way pinko Oxonian one
ain’t: Gobetti is the exception that DISproves the rule!” -- “Lo Stato non
professa un'etica, ma esercita un'azione politica.” (La Rivoluzione
Liberale.) Considerato un degno erede della tradizione
filosofico-politica post-illuminista e liberale che aveva guidato molte delle
migliori menti dell'Italia dal Risorgimento fino a poco tempo prima,
purtuttavia di stampo profondamente sociale e sensibile alle istanze del
socialismo e di conseguenza alle rivendicazioni del movimento operaio, fondò e
diresse le riviste Energie Nove, La Rivoluzione liberale e Il Baretti, dando
fondamentali contributi alla vita politica e culturale, prima che le sue
condizioni di salute, aggravate dalle aggressioni subite, ne provocassero la
morte prematura a nemmeno 25 anni durante l'esilio francese. Gaetano Salvemini
«Era alto e sottile, disdegnava l'eleganza della persona, portava occhiali a
stanghetta, da modesto studioso: i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi
gli ombreggiavano la fronte. (Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di
Gobetti»,). Figlio unico di Giovanni Battista, commerciante, e di Angela
Canuto, una «piccola donna bruna e tonda, gentile e modesta, capace tuttavia
non solo di grande abnegazione per il figlio unico che adorava, ma anche di
strenuo lavoro e di sagace giudizio». I suoi genitori, originari entrambi di
Andezeno, avevano aperto nel capoluogo piemontese una drogheria nella centrale
via XX Settembre. “Mio padre e mia madre avevano un piccolo commercio.
Lavoravano diciotto ore al giorno. Il mio avvenire era il loro pensiero
dominante. L'impegno del loro lavoro era di arricchire permettersi e
permettermi una vita dignitosa. In quanto a me pensavano di dovermi dare
un'istruzione, quella che essi non avevano potuto avere.” Dopo gli studi
elementari presso la scuola Giacinto Pacchiotti, s'iscrive al ginnasio Balbo:
scrive di sé di quegli anni, in terza persona, che «gli pesava un'amarezza, uno
sconforto, che nei ragazzi di dodici anni segnano inquietudini fruttuose. Si
vedeva troppo poco stimato, troppo solo, troppo malsicuro del domani. Aveva dei
dubbi strani sulle sue stesse attitudini. Un'adolescenza che s'ispirava a
motivi così integrali doveva dargli una tragica forza. Trasferitosi poi presso
il liceo classicoGioberti, dove conosce Prospero, sua futura moglie, ha per
professori Cosmo e Giuliano, un gentiliano che collabora alla rivista L'Unità Salvemini. Questi gli ispira quei sentimenti
di patriottismo e di interventismo democratico che sono propri del Salvemini,
spingendolo ad anticipare di un anno l'esame di maturità per poter così andare,
libero da impegni, volontario nella prima guerra mondiale. Luigi Einaudi La
guerra è ormai conclusa s'iscrive a Torino, la stessa che egli aveva già
frequentato, ancora liceale, per seguirvi alcuni corsi di filosofia. Tra i suoi
insegnanti vi sono Einaudi, da cui «rafforza il suo primitivo, spontaneo anti-statalismo,
in cui s'incontrano liberalismo, liberismo e quello stesso libertarismo che gli
è congeniale --, Farinelli, Mosca, Prato, Ruffini e Solari, con il quale sosterrà
la tesi di laurea, “La filosofia politica di Alfieri. Non solo: a
settembre aveva scritto all'amica Ada di aver deciso di fondare un periodico
che s'occuperà di filosofia, questioni sociali è fatto di soli giovani si
tratta di opera di intensificazione di cultura e di azione e tutti i giovani
devono aiutarla. Esce il primo numero del quindicinale “Energie Nove” nel quale
scrive di voler «ortare una fresca onda di spiritualità nella gretta cultura di
oggi non c'è mai momento inopportuno per lavorare seriamente. Ispirata alle idee liberali di Einaudi, è
vicina all'Unità di Salvemini, del quale riporta, nel secondo numero, l'aspra
critica alla classe dirigente. L'Italia ha vinto. Ma se avesse avuto una classe
dirigente meno incolta, più consapevole delle sue tradizioni e dei suoi doveri,
meno avida moralmente, l'Italia avrebbe vinto assai prima e assai meglio. È
finita o sta per finire una guerra. Ne comincia un'altra. Più lunga, più aspra,
più spietata. L'altra «guerra più lunga e spietata è quella della riforma del
Paese, una riforma che dev'essere, nelle sue intenzioni G., innanzi tutto
culturale e morale, e per la quale occorre serietà e intensità al lavoro
secondo i motivi di quellidealismo militante che ha animato La Voce di
Prezzolini, altro nume ispiratorei. Era doveroso partecipare in prima
persona al dibattito politico e intellettuale contemporaneo. Levi, in
«Introduzione agli Scritti politici di G.. Sospende la pubblicazione della
rivista per poter partecipare, a Firenze, al I Congresso degli Unitari, i
sostenitori della rivista di Salvemini, della quale egli è fondatore e
rappresentante del Gruppo torinese. Può così conoscere di persona l'intellettuale
pugliese e ne è entusiasta. “Salvemini è un genio.” “Me lo immaginavo proprio
così. L'uomo che sviscerale questioni, che la fa smettere agli importuni e ti
presenta tutte le soluzioni in due minuti, definitive.” “Un'altra persona di
cui sono entusiasta è Prezzolini, franco, semplice, pratico.” “Editore propriamente
come lo pensavo io.” “L'editore più intelligente d'Italia.” A seguito del
Congresso, gli Unitari fondano la Lega democratica per il rinnovamento della
politica nazionale, una formazione politica che non riuscirà nemmeno a
presentarsi alle elezioni e avrà vita breve. Alle elezioni politiche dell'anno
seguente, Salvemini si candiderà con successoin una formazione di
ex-combattenti. Salvemini deve aver compreso le qualità di Gobetti se
arriva a offrirgli la direzione de L'Unità, una proposta che però, lascia
cadere. Non si sente pronto per tanto impegno, come scrive nel suo diario: “Com'è
vasta la cultura che devo conquistare!” E non basta conquistare il vecchio.
Sono giovane e devo anche produrre, creare quel po' che si può creare. Ho tutta
la vita davanti per sedermi in campagna, davanti al camino, a mangiare pane e
noci. Ho una responsabilità. Devo espormi in prima persona. Perciò faccio la
rivista. Voglio impormi nel lavoro». E s'impone un piano di studi. “Gentile,
ciò che non conosco ancora, rileggerò Croce avvierò lo studio del Marxismo. Per
ora non mi preme. Basta che mi formi un'idea generale di Marx e della critica
marxista (Sorel, Labriola, ecc.). “D'altra parte studio il bolscevismo,
minutamente». Un suo grande ispiratore fu certamente il socialista Jaurès.
Il primo numero di Energie Nove Queste note sembrano riflettere anche la
polemica che, appena riprese le pubblicazioni, Energie Nove aveva avuto con
L'Ordine Nuovo al tempo sprezzantemente definito dallo stesso G. un
«giornaletto torinese di propaganda» di Togliatti, che aveva accusato G. di
idealismo astratto, e di Gramsci, che aveva definito velleitaria la Lega
democratica, un ricettario per cucinare la lepre alla cacciatora senza la
leper. Ora ivi è il segno di un'inquietudine nuova, provocatagli
dall'esperienza della rivoluzione russa e dallo sviluppo del movimento operaio,
molto attivo a Torino. Pubblica due numeri unici sul socialismo, conosce
personalmente Gramsci, stimandolo e venendone apprezzato, del quale pubblica un
articolo, studia il russo con la fidanzata Ada insieme curano “Il figlio
dell'uomo” di Andreev, pubblicato dall'editore Sonzogno ed scrive, criticando
la politica sviluppata da d'Annunzio in forma di retorica, che la politica oggi
deve essere realizzata come forma di educazione. La simpatia che io provo per
Trotzchi [sic] e Lenin sta nel fatto che essi in un certo modo sono riusciti a
realizzare questo valore. Sebbene restio a sposarla (emblematica fu la risposta
«Grazie, non fumo…»), nella considerazione del rapporto con la fidanzata si
rivela anche la sua profonda maturità e serietà morale: Ho dovuto rifarmi un
senso morale, un senso della vita forte a sedici anni, in gran parte a
diciassette, e siccome me lo son fatto pensando a lei, gliene sarò grato
sempre. Una fanciulla come io la sognavo sola poteva darmi un senso immediato
di elevazione. Ho creduto in lei e la amo tanto perché mi fa credere ancora
adesso. La rivista Energie Nove cessa le pubblicazioni. Sentivo bisogno di
maggiore raccoglimento e pensavo una elaborazione politica assolutamente nuova,
le cui linee mi apparvero di fatto nel settembre al tempo dell'occupazione
delle fabbriche. Devo la mia rinnovazione dell'esperienza salveminiana al
movimento dei comunisti torinesi da una parte (vivi di un concreto spirito
marxista) e dall'altra agli studi sul Risorgimento e sulla rivoluzione russa
che ero venuto compiendo in quel tempo», e in giugno si consuma anche il
distacco con la Lega democratica degli amici di Salvemini. Continua le
traduzioni dal russo ed intraprende quelle dal francese dei modernisti Blondel
e Laberthonnière lo studio sulla filosofia di quest'ultimo gli è suggerito da Solarie
cerca di rintracciare le radici del Risorgimento italiano studiando la cultura
piemontese del Sette-Ottocento. Io seguo con simpatia gli sforzi degli
operai che realmente costruiscono un ordine nuovo. Non sento in me la forza di
seguirli nell'opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco
si chiarisca e si imposti la più grande battaglia del secolo. Allora il mio
posto sarebbe dalla parte che ha più religiosità e spirito di sacrificio. (G.,
lettera ad Ada Prospero). Quando, ai primi di settembre, la FIAT e le altre
maggiori fabbriche torinesi sono occupate dagli operai, G. scrive: Qui siamo in
piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente
costruiscono un mondo nuovo il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte
che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione si pone oggi in
tutto il suo carattere religioso. Si tratta di un vero e proprio grande
tentativo di realizzare non il collettivismo ma una organizzazione del lavoro
in cui gli operai o almeno i migliori di essi siano quel che sono oggi gli
industriali». Si tratta, a suo avviso, di una rivoluzione che se non rinnoverà
gli uomini, e perciò neanche la nazione, potrà almeno rinnovare lo Stato,
creando una nuova classe dirigente: «si può rinnovare lo Stato solo se la
nazione ha in sé certe energie (come ora appunto accade) che improvvisamente da
oscure si fanno chiare e acquistano possibilità e volontà di espansione».
La presa di distanza dall'azione politica di Salveminila sua ammirazione
personale nei suoi confronti resterà comunque intattaè ora piena: gli
rimprovera, come scriverà pochi anni dopo, diintendere l'azione politica
unicamente come «una questione di morale e di educazione»: il suo «moralismo
solenne, mentre costituisce il suo più intimo fascino, appare il segreto delle
sue debolezze, La sua concezione razionalista si risolve in un'azione di
illuminismo e di propagandismo, che può riuscire utile a una società di
cultura, non a un partito». Prosegue i suoi studi sul Risorgimento e
sulla Russia, terminando in ottobre La Russia dei Soviet: è la volontà di
comprendere funzioni e limiti di due esperienze rivoluzionarie, al cui centro è
sempre il problema della formazione della classe politica che diriga un Paese e
dei suoi rapporti con la popolazione. Ne conclude che il Risorgimento non può
considerarsi un'esperienza rivoluzionaria, dal momento che i dirigenti politici
che espresse rimasero estranei rispetto al popolo, diversamente dalla
rivoluzione sovietica che, a suo avviso, ha espresso dirigenti come Lenin e
Trotskij, che non sono soltanto dei bolscevichi, ma «uomini d'azioni che hanno
destato un popolo e gli vanno ricreando un'anima» e, del resto, la creazione
dal basso di un nuovo Stato, nel quale il popolo abbia fiducia proprio in
quanto avvertito come opera propria, «è essenzialmente un'affermazione di
liberalismo» Sono concetti ripresi in un articolo pubblicato su
L'Educazione nazionale, il Discorso ai collaboratori di Energie Nove, nel quale
individua nel movimento operaio un «valore nazionale»: la novità, venuta dalla
Russia e che sembra farsi strada anche in Italia, consiste nel fatto che «il
popolo diventa Stato. Nessun pregiudizio del nostro passato ci può impedire la
visione del miracolo. Questo non avrebbero fatto i liberali, questo non possono
fare dei marxisti. Il movimento operaio è un'affermazione che ha trasceso tutte
le premesse. È il primo movimento laico d'Italia. È la libertà che
s'instaura». Il suo avvicinamento alle posizioni dei giovani comunisti
dell'Ordine Nuovo ha anche il concreto effetto di una collaborazione e G.
diventa il critico teatrale della rivista. A luglio, a Torino, deve assolvere
gli obblighi di leva: «la vita militare è la consacrazione di tutti gli egoismi
e di tutte le meschinità la meccanicità pervade ogni forma di vita; tutto si
riduce a elemento, a vegetazione. La caserma è l'antitesi del pensiero. Esce il
primo numero della sua nuova rivista settimanale, La Rivoluzione liberale, in
cui collaboreranno spesso anche Fortunato, Gramsci e Sturzo: l'obiettivo, come
indicato nell'Avviso ai lettori, è pur sempre quello di Energie Nove, ossia di
formare una classe politica nuova ma, ora si aggiunge, che sia cosciente delle
esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato.
E poiché l'Unità di Salvemini ha cessato le pubblicazioni, La Rivoluzione Liberale
intende proseguire quegli sforzi di riorganizzazione morale che nell'Unità si
avvertirono. E nel Manifesto inaugurale espone il programma della rivista. La
Rivoluzione Liberale pone come base storica di giudizio una visione integrale e
rigorosa del nostro Risorgimento; contro l'astrattismo dei demagoghi e dei
falsi realisti esamina i problemi presenti nella loro genesi e nelle loro
relazioni con gli elementi tradizionali della vita italiana; e inverando le
formule empirico-tradizionaliste del liberismo classico all'inglese, afferma
una coscienza moderna dello Stato, che prenda in considerazione anche i più
sottili, ma non di certo trascurabili, trapassamenti dialettici della storia. Vi
pubblica la Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale e a maggio
dedica un numero intero all'emergente movimento fascista. Il mese successivo
consegue la laurea e, l'anno seguente, pubblicherà la sua tesi sull'Alfieri. E vivamente
colpito dagli scritti del patriota e federalista italiano Cattaneo, del quale è
uscita in quei giorni un'antologia curata da Salvemini, che egli incontra a
Torino. Su Cattaneo ci siamo intesi, egli è assai vicino alle idee che gli ho
espresso. Su Cattaneo scrive un articolo sull'Ordine Nuovo sono i giorni della
devastazione fascista della sede della rivista comunista firmandosi Giuseppe
Baretti: rappresentante della critica del processo unitario risorgimentale,
Cattaneo fu emarginato dalla classe dirigente moderata. Eppure Cattaneo avversò
non l'unità, ma l'illusione di risolvere con il mito dell'unità tutti i
problemi che invece si potevano intendere soltanto nella loro specifica realtà
autonoma, regionale senza atteggiarsi a profeta, senza l'enfasi dell'apostolo,
capì che il fondare una nazione non era impresa di letterati entusiasti, cercò
nelle tradizioni un linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela. E lo
condannarono alla solitudine e all'impopolarità, e diedero a lui, uomo positivo
e realista, un ufficio di Cassandra, predicante al deserto. Favorito
dall'inerzia dei Savoia e dalla complicità dei dirigenti liberali, il fascismo
procede alla conquista del potere e Gobetti non s'illude che con esso si possa
venire a compromessi e lo si possa acquistare alla causa democratica. Scrive
L'elogio della ghigliottina: bisogna sperare «che i tiranni siano tiranni, che
la reazione sia reazione, che ci sia chi abbia il coraggio di levare la
ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo. Chiediamo le
frustate, perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia, perché si possa veder
chiaro» e che «noi siamo come la dura scorza di una noce: proteggeremo i nostri
ideali dalla sopraffazione con tutte le nostre forze e fin quando possibile».
Sposa Prospero: vanno ad abitare nella sua casa natale di via XX Settembre 60,
che diviene anche la sede della casa editrice che egli fonda, col suo nome: la G.
editore, che pubblicherà, in poco più di due anni, oltre cento titoli. In
qualità d'editore, G.porta in Italia, traducendoli, alcuni dei libri e degli
autori simbolo del pensiero liberale classico, come Mill. È tra i primi a pubblicare i libri di Einaudi
ed è lui a pubblicare la prima edizione di Ossi di seppia, una delle più famose
raccolte di poesia di Montale. I libri editi furono in molti casi dati alle
fiamme o comunque distrutti sotto il fascismo e, per questo motivo, sono in
molti casi introvabili, come il volume dedicato al socialista Matteotti, di cui
esistono pochissime copie. Tutti i suoi libri riportano in copertina un
motto liberale, scritto in greco antico in modo circolare, che recita
testualmente "Cosa ho a che fare io con gli schiavi?". Gobetti e Prospero
si trasferiranno poi in via Fabro 6, attuale sede del Centro di studi a lui
intitolato. E arrestato perché sospetto di appartenenza a gruppi sovversivi che
complottano contro lo Stato. Rilasciato cinque giorni dopo, subisce un nuovo
arresto, provocando un'interrogazione parlamentare alla quale il governo
risponde che era stato redattore dell'Ordine Nuovo di Torino, giornale anti-nazionale;
la rivista che egli dirige, conduce da tempo una campagna contro le istituzioni
e il governo fascista; il prefetto si è perciò sentito in diritto di far
operare una perquisizione e il fermo di G. per misure di ordine
pubblico». G. replica con una lettera ai giornali, ribadendo la sua
funzione di oppositore del fascismo, e aggiunge, nei libri stampati dalle sue
edizioni, il motto «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Dopo aver preso le
distanze dal Prezzolini, che ha scelto il disimpegno di fronte al fascismo,
rinnega anche il suo originario gentilismo. GENTILE è incapace di dar ragione
di ogni fatto politico, nel suo semplicismo pratico la filosofia gentiliana
mostra caratteristicamente i suoi limiti e la nessuna aderenza al reale. Le
tematiche liberali maggiormente sentite trovano una prima e ultima sistemazione
in La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, frutto
maturo delle esperienze giornalistiche precedenti, dato alle stampe. L'opera è
divisa in quattro parti: L'eredità del Risorgimento, La lotta politica in
Italia, La critica liberale, Il fascismo. La fretta con cui vuol dare alle
stampe questo saggio di lucida analisi politica gli impedisce di curare bene le
parti marginali. Così succede che "L'eredità del Risorgimento"
venga solo abbozzata: «Il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia:
l'assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l'ostacolo fondamentale per
la creazione di una classe dirigente, per il formarsi di un'attività economica
moderna e di una classe tecnica progredita. Un Risorgimento calato dall'alto,
che di popolare non aveva nulla. La sfida era riempire di liberalità le
istituzioni liberali formalmente create. Nel primo dopoguerra assiste a
qualcosa di assolutamente nuovo: la nascita dei partiti di massa (Partito
Popolare Italiano e Partito Comunista d’Italia saranno una prima versione dei
due partiti più importanti della cosiddetta Prima Repubblica. Ma questo non
basta. Per anni la lotta politica non riuscì a dare la misura della lotta
sociale. Una cosa erano le questioni politiche, un'altra le esigenze sociali,
ma queste «non possono essere separate dalla politica al pari di come un felino
astuto non si ciberà del formaggio ma ne farà da esca per il topo». La seconda
parte si divide in sei capitoli. Ciascun capitolo è un fattore della lotta
politica: sono presenti liberali e democratici, popolari (sviluppate le figure
di Toniolo, Meda e Sturzo), socialisti, comunisti (grande spazio dato a Antonio
Gramsci), nazionalisti (emblematico il pensiero di Alfredo Rocco) e repubblicani. La
terza parte è il cuore pulsante del saggio: una proposta concreta per fare
politica senza dimenticare la società. La lotta di classe è per Gobetti
strumento di formazione di una nuova élite, una via di rinnovamento popolare.
Insomma, la lotta politica deve essere lotta sociale. In politica
ecclesiastica, si rifà alla pregiudiziale cavouriana della laicità, come
necessità da mantenere (cosa che verrà invece negata dai Patti Lateranensi).
Per la discussione sulle modalità d'elezione, è convinto fautore della proporzionale. Il
collegio uni-nominale aveva corrotto il rappresentante in tribuno. Solo
con la proporzionale gli interessi si organizzano, così che l'economia venga
elaborata dalla politica. Di grandissima attualità è la parte dedicata al
problema dei contribuenti. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato.
Non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana.
L'imposta gli è imposta. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste
condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono
contribuenti. Era quindi necessario per lui raggiungere una maggiore maturità
economica e sociale. Il popolo doveva comprendere l'importanza di contribuire
nello Stato, e imparare il valore dell'onestà. Per questo richiama attenzione
sul problema scolastico. In un mondo fatto per grossa parte da analfabeti o
semi--analfabeti, la questione era fondamentale. Manca un numero sufficiente di
maestri, perciò si sarebbe dovuto mobilitare chiunque in grado di saper
insegnare (anche preti, massoni, bolscevichi e così via). La questione
non evita di trattare l'aspetto economico. Contro il parassitismo pensa che
fosse utile tagliare stipendi e investimenti, così da distinguere la vocazione
all'insegnamento dalla vocazione al parassitare. In politica estera prospetta
un ruolo importante per l'Italia a Versailles. E convinto della possibilità di
ottenere un buon accordo attraverso una mediazione. Nella quarta ed ultima
parte vi è una rapida esposizione del perché si oppone con ogni mezzo al
fascismo. Si è detto che per l'autore la lotta sociale deve essere portata in
Parlamento e dar vita a una lotta politica efficiente ed efficace. Mussolini
invece fece in modo da soffocare la lotta politica, quando questa più di ogni
altra cosa era necessaria all'Italia. Così il Duce e «l'eroe rappresentativo di
questa stanchezza e di questa aspirazione di riposo» che si esplicava nel
tacito consenso della popolazione allo sradicamento di ogni lotta politica
nella nazione. In modo profetico, da esperto conoscitore del pensiero di Hegel
qual era, prevede e mette in guardia delle conseguenze della concessione del
potere a Mussolini secondo le dinamiche della dialettica “servo-signore”
ipotizzando una guerra civile imminente. Il saggio è fortemente militante.
Nella nota a conclusion, è chiaro: cerca collaboratori, non lettori. vuole la
"rivoluzione liberale", cioè un nuovo liberalismo; nutre una forte avversione
per il fascismo, anche perché non è qualcosa di nuovo ma, anzi, il risultato
ottenuto da coloro che hanno governato l'Italia: è quindi una condanna della
vecchia classe dirigente liberale. Il fascismo nasce dall'invadenza del
cattolicesimo e dalla demagogia dell'Italia liberale: Fascismo come
autobiografia della nazione, il fascismo è, insomma, solo l'incancrenirsi dei
mali tradizionali della società italiana. La società tradizionale italiana
re-agisce sostenendo una forza conservatrice come quella del fascismo, anche se
in realtà qualcosa di buono nell'Italia del primo dopo-guerra vi era stato: il
proletariato (soprattutto quello torinese) che tenta di assumere su di sé la
responsabilità di mutare lo stato delle cose. La borghesia ha perso ogni
funzione propositiva. La borghersia è una classe parassitaria che si è adagiata
e aspetta tutto dallo Stato. Si blocca così ogni istanza di rinnovamento. La
funzione liberale e libertaria è assunta dal proletariato. Le considerazioni politiche
di risentono della sua opinione sulla storia italiana, in “Risorgimento senza
eroi” Gobetti descrive questo periodo come un'epopea patriottarda di cui
simbolo è Mazzini (tante parole, pochi fatti): al Risorgimento sono mancati il
pragmatismo e il realismo. Ci sono due eroi nel Risorgimento e sono Cattaneo
e Cavour, due figure assai distanti tra loro ma accomunabili per il loro
pragmatismo: Cattaneo gli piace a per la sua volontà di operare, per la
capacità di propugnare istanze pragmatiche e vuote di retorica. Cavour è uomo
che media per raggiungere degli obiettivi, ha mire di lungo periodo. Il
Risorgimento di Cattaneo è sconfitto, ma non quello di Cavour. Entrambi, però,
hanno instillato nella società italiana lo spirito della competizione e
l'ideale di assunzione di responsabilità. La società italiana si regge su ruoli
e cariche già predefiniti, è statica e stagnante: il proletariato, però, si
ribella a ciò, rifugge situazioni già prestabilite per costruire una società
nuova in cui ciascuno sarà libero di esprimersi. La persecuzione, l'esilio
e la morte. Si reca in Francia, a Parigi e poi a Palermo, per incontrare alcuni
amici conosciuti durante il recente viaggio di nozze. I suoi spostamenti sono
seguiti dalla polizia italiana e, Mussolini telegrafa al prefetto di Torino,
Palmieri: “Mi si riferisce che noto G. sia stato recentemente a Parigi e che
oggi sia a Palermo. Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente
difficile vita questo insulso oppositore di governo.” Il prefetto obbedisce. Viene
percosso, la sua abitazione perquisita e le sue carte sequestrate. Come scrive
a Lussu, la polizia sospetta che egli intrattenga rapporti in Italia e
all'estero per organizzare le forze antif-asciste. È il giorno che precede
la scomparsa di Matteotti, il cui corpo verrà ritrovato solo in agosto, ma
subito si ha la certezza che si tratti di un omicidio perpetrato da sicari
fascisti. Ne traccia un profile. Non ostenta presunzioni teoriche: dichiara
candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché
doveva studiare i bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti vide
nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come
cortigianeria servile degli spostati verso chi li paga; come medievale crudeltà
e torbido oscurantismo Sente che per
combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorre opporgli esempi di
dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di
intransigenza, di rigorismo. Auspica, dalle colonne della sua rivista, la formazione
di "Gruppi della Rivoluzione Liberale", formati da uomini di tutti i
partiti anti-fascisti, che combattano il fascismo, questo fenomeno politico che
trae i motivi del suo successo e della sua conservazione dalla creazione di «un
esercito di parassiti dello Stato». Occorre, a questo scopo, formare un'economia
moderna con un'industria libera da ogni protezionism e da ogni paternalismo di
Stato e con una classe proletaria politicamente intransigente aiutare i partiti
seri e moderni a liberarsi dei costumi giolittiani. La guerra al fascismo è
questione di maturità storica, politica, economica. Questi articoli e quello in
cui accusa il deputato fascista, grande invalido di guerra, Delcroix, di
manovre parlamentari definite aborti morali, provocano il sequestro della
rivista ed una violenta aggressione da parte di uno squadrone fascista. Persino
un articolo di Fiore contro il criminale fascista Dumini, apparso su La Rivoluzione
Liberale, fornisce il pretesto al prefetto di Torino di sequestrare la rivista.
Con Fiore e con Dorso pubblica un Appello ai meridionali e con il Saluto
all'altro Parlamento appoggia l'iniziativa aventiniana, dalla quale si aspetta
un'opposizione intransigente e un esempio di rinnovamento dei costumi
parlamentari italiani. Fonda una nuova rivista, Il Baretti, alla quale
collaborano, tra gli altri, Monti, Sapegno, Croce e Montale. Come La
Rivoluzione Liberale è dedicata a temi storico-politici, così la nuova rivista
vuole essere riservata alla critica letteraria e all'estetica. Il riferimento a
Baretti, letterato italiano vissuto a lungo all'estero, e alla sua Frusta
letteraria, esempio di polemica vivace e irriverente, sottintende, scrive nel
numero d'esordio, «una volontà di coerenza con le tradizioni di battaglia
contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle
frontiere di dogmi angusti e di piccole patrie». In ossequio alle
direttive mussoliniane, proseguono i sequestri della sua rivista. Rimedieremo
ai sequestri rifacendo l'edizione, scrive Gobetti e anche quel numero viene sequestrato
con il pretesto di scritti diffamatori dei poteri dello Stato e tendenti a screditare
le forze nazionali. Cura La Libertà di Mill, con la prefazione di Einaudi, il
quale scrive che quando, per fiaccare la voce dei ribelli, si assevera dai
dominatori la unanimità del consenso, giova rileggere i grandi libri sulla
libertà. Anche produrre citazioni di scrittori del passato che non collimino
col pensiero del Regime può essere tendenzioso e perciò provocare il sequestro
della rivista. E arrestato Salvemini, che ha pubblicato sul foglio clandestino
Non Mollare l'articolo MUSSOLINI il mandante. Altri sequestri de La Rivoluzione
Liberale avvengono. Un periodo di serenità per Piero e la moglie Ada che
aspetta un bambino è rappresentato da un viaggio a Parigi e a Londra. A Parigi
pensa di stabilire una sua casa editrice: «Credo che solo da Parigi, solo in
francese, solo con la solidarietà dello spirito francese un italiano possa fare
con utilità un'opera pratica di intelligenza europea. S'intende senza
chauvinisme francese. D'altra parte, intende ancora rimanere in Italia. Rimarrò
in Italia fino all'ultimo. Sono deciso a non fare l'esule. A metà agosto fanno ritorno a Torino e è
nuovamente vittima dei pestaggi squadristi, ma è ancora intenzionato a rimanere
in Italia. Bisogna amare l'Italia con orgoglio di europei e con l'austera
passione dell'esule in patria, scrive nell'articolo Lettera a Parigi, per
capire con quale serena tristezza e inesorabile volontà di sacrificio noi
viviamo nella presente realtà fascista. Le nostre malattie e le nostre crisi di
coscienza non possiamo curarle che noi. Dobbiamo trovare da soli la nostra
giustizia. E questa è la nostra dignità di anti-fascisti. Per essere europei
dobbiamo su questo argomento sembrare, comunque la parola ci disgusti,
nazionalisti. Poiché i ripetuti
sequestri a nulla hanno valso, e che il periodico in parola, sotto l'aspetto di
critiche e di discussioni politiche, economiche, morali e religiose, che
vorrebbero assurgere ad affermazioni e sviluppi di principi dottrinari, mira in
realtà, con irriverenti richiami, alla menomazione delle Istituzioni
Monarchiche, della Chiesa, dei Poteri dello Stato, danneggiando il prestigio
nazionale, e nel complesso può dar motivo a reazioni pericolose per l'ordine
pubblico, persistendo in violazioni sempre più gravi ai vigenti decreti sulla
stampa», il prefetto d'Adamo diffida «il Direttore responsabile del periodico
La Rivoluzione Liberale, ai sensi e per
gli effetti di cui all'art.” ad adeguarsi alle direttive del Regime e poiché
l'8 novembre la rivista disattende l'ordine, il prefetto ingiunge la cessazione
definitiva delle pubblicazioni e la soppressione della stessa casa editrice per
attività nettamente anti-nazionale. D'ora in avanti sarò palesatamente costretto
all'infelice dissenso. La libertà d'opinione è stata soppressa come una rete
che viene sradicata: senza possibilità di dialogare sono destinato ad essere
sopraffatto. A cosa serve più, ora, fare finta? G., che ora soffre anche di
scompensi cardiaci,
provocati o aggravati dalle violenze subite, pensa di lasciare l'Italia per
proseguire in Francia l'attività editoriale. Nasce a Torino il figlio Paolo, che
durante la seconda guerra mondiale diventerà partigiano e poi giornalista per
l'Unità, oltreché storico del cinema. Scrive una lettera a Fortunato. Parto per
Parigi dove farò l'editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è
interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica
spicciola come i granduchi spodestati di Russia; vorrei fare un'opera di
cultura, nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna. Parte da
solo per Parigi. Alla stazione di Genova viene a salutarlo Montale. Si ammala di una bronchite, che
esacerba gravemente i suoi problemi cardiaci. Trasportato in una clinica di
Neuilly-sur-Seine, vi muore assistito da Fausto, Nitti, Prezzolini e Emery. È
sepolto nel cimitero parigino di Père-Lachaise. Saggi:“La filosofia
politica di Alfieri” (Torino, Gobetti); “La frusta teatrale, Milano, Corbaccio,
Felice Casorati. Pittore, Torino, G., “Dal bolscevismo al fascismo: note di
cultura politica” (Torino, G.); Il teatro di Pea, in Pea, Rosa di Sion, Torino,
Gobetti, Matteotti, Torino, Gobetti, Postfazione di M. Scavino, Edizioni di
Storia e Letteratura, col titolo Per Matteotti. Un ritratto, Il Melangolo,
Genova, “La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia,
Bologna, Cappelli, Opere edite e
inedited; “Risorgimento senza eroi” “Piemonte nel Risorgimento, Torino,
Baretti, Paradosso dello spirito russo, Torino, Baretti, Opera critica “Arte,
religione, filosofia, Torino, Baretti, Teatro, letteratura, storia, Torino,
Baretti, Scritti attuali, Roma,
Capriotti, Coscienza liberale e classe operaia, P. Spriano, Torino, Einaudi, Opere
complete, Scritti politici, P. Spriano, Torino, Einaudi, Scritti storici, letterari e filosofici, Spriano,
Torino, Einaudi, Critica teatrale, Guazzotti e Gobetti, Torino, Einaudi, L'editore
ideale. Frammenti autobiografici con iconografia, F. Antonicelli, Milano,
All'insegna del pesce d'oro, Energie nove, Torino, Bottega d'Erasmo, Baretti, Torino,
Bottega d'Erasmo, Lettere dalla Sicilia, nota di G. Chimirri, introduzione di N.
Sapegno, Palermo, Nuova editrice meridionale, Nella tua breve esistenza. Lettere on Ada G., E.
Perona, Collana NUE Torino, Einaudi, Collana Piccola Biblioteca. Nuova serie,
Einaudi, Con animo di liberale. G.e i popolari. Carteggi Bartolo Gariglio,
Milano, F. Angeli, Dizionario delle idee, Bucchi, Roma, Riuniti, Antifascismo
etico. Elogio dell'intransigenza, M. Gervasoni, Milano, M&B Publishing,
Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, Che ho a che fare io
con i servi? Zibaldone politico, Reggio Emilia, Aliberti, Il giornalista arido Articoli Collana Classici
idel giornalismo, Torino, Aragno, Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino,
Einaudi,, Biografia di G. M. Brosio, Riflessioni su Gobetti, Gobetti, L'editore
ideale, G., L'editore ideale, c N. Bobbio, Italia fedele. Il mondo di G., Nella
tua breve esistenza. Lettere Gobetti, Energie Nove, Lettera ad Ada Prospero, Nella tua breve
esistenza, Diario, L'editore ideale, Carlo
Levi, in «Introduzione agli Scritti politici Togliatti, I parassiti della
cultura, in «L'Ordine Nuovo», Gramsci, Contributi a una nuova dottrina dello stato
e del colpo di stato, in «L'Ordine Nuovo», Nella tua breve esistenza, cAlberto
Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il Punto, L'editore ideale, Gobetti,
Rivoluzione liberale, Nella tua breve esistenza, G., La Rivoluzione liberale,
in «Scritti politici», Scritti politici,
Nella tua breve esistenza, Manifesto della Rivoluzione Liberale, Nella tua breve esistenza, La rivoluzione
Liberale, Elogio della Ghigliottina, Dizionario Biografico degli Italiani La Rivoluzione Liberale, I miei conti con
l'idealismo attuale, Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica
in Italia, C. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Gobetti», La
Rivoluzione Liberale, Gruppi della Rivoluzione Liberale, La Rivoluzione
Liberale, Come combattere il fascismo, A. Colombo, Hutchings, Gobetti, GOBETTI
AND MATTEOTTI, Il Politico, In, La
cultura francese nelle riviste e nelle iniziative editoriali di Gobetti, Lettera
ad Prospero, Basso, Anderlini, Le riviste di Gobetti, Feltrinelli, Prezzolini,
Gobetti e «La Voce», Firenze, Sansoni, M. Brosio, Riflessioni su Piero Gobetti,
Quaderni della Gioventù liberale italiana di Torino, G. Bergami, Guida
bibliografica degli scritti, Collana Opere di G. , Torino, Einaudi, P. Spriano,
Gramsci e Gobetti, Torino, Einaudi, A. Carlino, Politica e dialettica in Gobetti,
Lecce, Milella, P. Bagnoli, Gobetti.
Cultura e politica di un liberale del Novecento, Firenze, Passigli, U. Morra di
Lavriano, Vita, pref. di N. Bobbio,
Torino, Tipografico, Gobetti e la Francia, Milano, Franco Angeli, Luigi
Anderlini, Gobetti critico, in Letteratura italiana. I critici, Milano,
Marzorati, Gobetti e gl’intellettuali del Sud, Napoli, Bibliopolis, G. De
Marzi, Gobetti e Croce, Urbino, Quattroventi, A. Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il
Punto, Marco Gervasoni, L'intellettuale come eroe. Piero Gobetti e le culture
del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, Bagnoli, Il metodo della libertà. tra eresia e rivoluzione, Reggio Emilia,
Diabasis, Gariglio, Progettare il postfascismo. G. e i cattolici, Milano,
Franco Angeli, Virgilio, G.. La cultura etico-politica del primo Novecento tra
consonanze e concordanze leopardiane, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, Angelo
Fabrizi, «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Gobetti e Alfieri, Firenze,
Società Editrice Fiorentina, Flavio Aliquò Mazzei, G.. Profilo di un
rivoluzionario liberale, Firenze, Pugliese, B. Gariglio, L'autunno delle libertà Lettere
ad Ada in morte di Gobetti, Torino, Bollati, Erba, Piero Gobetti, in Intellettuali
laici nel '900 italiano, Padova, Grasso, Ciampanella, Senza illusioni e senza ottimismi.
Prospettive e limiti di una rivoluzione liberale, Roma, Aracne, Socialismo
liberale Liberalismo socialeSalvemini Amendola Croce AlfieriMatteotti Il Baretti
La Rivoluzione liberale. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Centro Studi Piero Gobetti, su
centrogobetti. «La Rivoluzione Liberale» Gobetti, Il liberalismo in Italia, G.
Iacchini, Quando la libertà è rivoluzionaria: Piero Gobetti, su
radicalsocialismo. La casa di Gobetti in via XX Settembre a Torino, su
multimedia lastampa. Piero Gobetti. Gobetti. Keywords: implicatura, fascismo,
Mussolini, Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gobetti” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Gobbo: l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza -- Federico Gobbo – esperantista -- He has collaborated
with philosophers.
Grice e
Gonnella: l’implicatura conversazionale e la filosofia del diritto romano –
filosofia romana – filosofia italiana -- Luigi Speranza
(Bari). Grice: “Like Foucault, and a few English philosophers who explored the
conceptual intricacies of the ‘justification’ of punishment, Gonnella’s oeuvre
is brilliant!” Saggi: “Il diritto (non) ci salverà, Il Manifesto, Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e
diritti, Scientifica,. Carceri. I confini della dignità, Jaca, La tortura in
Italia, Derive Approdi,. Jailhouse Rock, cento musicisti dietro le sbarre,
Arcana,. Il carcere spiegato ai ragazzi, Il Manifesto, Patrie galere, Carocci, Sviluppo
urbano e criminale, a Roma, Sinnos, Il
collasso delle carceri italiane. Sotto la lente degli ispettori europei, Sapere
Consiglio d'Europa, Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degl’anti-fascisti,
Edizioni dell’Asino,. I paradossi del diritto. Scritti in omaggio a Resta, Roma
TrE-Press, Giustizia e carceri secondo
papa Francesco, Jaca,. Onorare gli impegni. L'Italia e le norme contro la
tortura, Sinnos, Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, Il Carcere
trasparente. Primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, Castelvecchi.
Patrizio Gonnella. Gonnella. Keywords: filosofia del diritto romano, sanction,
punishment. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gonella” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Goretti – la coazione istituzionale – filosofia fascista -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Si laurea a
Torino sotto Solari. Fequenta Milano, dove incontra Martinetti. Segretario delCongresso
Nazionale di Filosofia, organizzato dalla Società filosofica italiana. Il
Congresso è sciolto dalle autorità dopo appena due giorni. Firmano la lettera
di protesta indirizzata al rettore Luigi Mangiagalli, nel quale si
"protesta in nome della libertà degli studi e della tradizione italiana
contro un atto di violenza che impedisce l'esercizio della discussione filosofica.”
Al momento del giuramento di fedeltà, necessario per entrare nella carriera
universitaria o per proseguirla, si rifiuta e resta così al di fuori della
carriera accademica; svolge attività professionale a Milano, e collabora alla
"Rivista di filosofia" (anche quale componente del comitato
direttivo). Frequenta Palazzo Fossati in Via Ciro Menotti a Milano. In
prossimità della morte, Martinetti lascia la sua biblioteca privata in legato a
Ruffini, Solari e Goretti. La Biblioteca verrà poi conferita dai rispettivi
eredi alla "Fondazione Piero Martinetti per gli studi di storia filosofica
" di Torino; oggi nel palazzo presso la Biblioteca della Facoltà di Filosofia. Goretti
è riammesso nel mondo universitario e assume per concorso la cattedra di
Filosofia del diritto; insegna all'Ferrara fino alla morte. Il Comune di
Ferrara ha intitolato una via a Cesare Goretti,
"filosofopatriota". L'animale come soggetto di diritto
Prolifico filosofo del diritto, autore di scritti su Kant, Sorel, Bradley, cura
Špir, Bradley, Green), a G. si deve il primo intervento che qualifica l'animale
come “soggetto di diritto”. Martinetti pubblica “L’animo del animale” in
cui aveva sottolineato che il animale possede intelletto e coscienza e, in
generale, un animo, come emergeva dagli lo studio dello “atteggiamento, gesto, la
fisionomia.” Questo animo e vita animale è “forse estremamente diversa e
lontana” da quella del homo sapiens” ma “ha anch'essa la carattere della
coscienza e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico. G. va
oltre, fino ad affermare che l’ animalee vero e proprio un “*soggetto*
(“soggetoodi diritto” e che l'animale ha una “coscienza giuridica” e una
percezione del giuridico. In tal modo, anticipa tematiche proprie della
bioetica e dell'etologia. Nonostante l'originalità e l'innovatività delle posizioni
assunte, il suo manifesto non ha avuto fortuna ed è stato del tutto trascurato
dal dibattito animalista e negli studi di etologia. Come non possiamo
negare all'animale in modo sia pure crepuscolare l'uso della categoria della
causalità, così non possiamo escludere che l'animale partecipando al nostro
mondo non abbia un senso di quello che può essere la proprietà e l'obbligazione.
Casi innumerevoli dimostrano come un cane e custode geloso della proprietà del
suo padrone e come ne compartecipa all'uso. Dve operare in esso questa visione
della realtà esteriore come cosa propria, che nell’homo sapinens arriva alle
costruzioni raffinate dei giuristi. È assurdo pensare che l'animale che rende
un servizio al suo padrone che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. Deve
pure sentire in sé in modo sensibile questo rapporto di servizi resi e
scambiati – cf. Grice, lo scambio conversazionale --. Naturalmente l'animale
non potrà arrivare al concetto di ciò che è la proprietà e l'obbligazione.
Basta che dimostri di fare uso di questi principî che in lui operano ancora in
modo osensibile.» (“ L’animale quale soggetto – e soggeto di diritto”). Nella
filosofia del diritto si individuano tre teorie dell'"istituzionalità nel
giuridico": istitutismo: teoria del diritto quale insieme di istitutito e
concepito come una sorta di azione co-ordinata, costituente un equilibrio
tipico e costante di finalità che si fissa in un complesso di mezzi, una costruzione.
Per l istituzionalismo la istituzione (Romano, Hauriou). neo-istituzionalismo:
il diritto è rappresentato da un “fatto” istituzionale (McCormick, Weinberger).
Saggi: “La forma giuridica” (Isis, Milano); “Il sentimento giuridico” (Solco",
Città di Castello); “I fondamenti del diritto” (Lombarda, Milano); “Liberalismo”
(Pirola, Milano); “Norma giuridica, atto giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Istituto
giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Norma giuridica” (Milani, Padova); "Rivista
di filosofia", L'animale, soggetto, e soggeto di diritto, "Rivista di
filosofia", Recensione di Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des
modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf,
Duncher & Humblot, München-Leipzig, "Rivista di Filosofia", Recensione di R. Smend, Verfassung und
Verfassungsrecht, "Rivista di Filosofia", Introduzione a A. Spir, La
giustizia, Lombarda, Milano, Il saggio politico sulla costituzione del
Württenberg, "Rivista di filosofia", “Legge e norma, "Rivista di
filosofia", La filosofia pratica W. Schuppe, "Rivista di
filosofia", “F. H. Bradley, "Rivista
di filosofia", “La conoscenza etica, "Rivista di filosofia", “L'idea
di patria”, "Rivista di filosofia", L'idealismo rappresentativo”,
"Rivista di filosofia", Recensione di Calamandrei, Elogio dei giudici
scritto da un avvocato, in "Rivista di filosofia", La metafisica della
conoscenza, "Rivista di filosofia", Il dolore nel pessimismo di A. Spir, "Rivista
di filosofia", L’individualità, "Rivista di filosofia", Il saintsimonismo,
"Rivista di filosofia", Diritti e doveri giuridici in relazione alla
norma giuridica, "Archivio della Cultura italiana", L'istituzione
dell'eforato in Sparta, "Archivio della Cultura italiana", “La valutazione
tecnica della realtà, "Archivio della Cultura italiana", Martinetti, "Archivio
della Cultura italiana", L'impiego delle categorie o dei concetti puri ed
il valore della co-azione e inter-azione -- e dei postulati nella filosofia
giuridica” "Annali della Ferrara",
Recensione di Candian, Avvocatura, Milano, in "Annali della Ferrara", Il
liberalismo, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", L’istituzione
in senso tecnico ed l’istituto giuridico nel realismo"Annali della
Ferrara", “Equità, "Scritti giuridici
in onore di Carnelutti", Filosofia
e teoria generale del diritto, Milani, Padova, L'umanesimo critico di France,
"Rivista di filosofia del diritto", Recensione di Erzbach,
"Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", Rileggendo il
Filomusi Guelfi, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", La
filosofia di Martinetti, "Memorie dell'Accademia delle Scienze
dell'Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali", Bologna, Considerazioni
critiche sul diritto sociale, "Annali della Ferrara", Scienze Giuridiche. L’acquisto ideale nella filosofia giuridica di
Kant, "Rivista di filosofia del diritto", Sulla sociologia della
diada e del gruppo sociale”. "Scritti di sociologia e politica in onore di
Sturzo", Zanichelli, Bologna, Isu
luigisturzo, Scritti su Cesare Goretti Gioele Solari, Recensione, "Rivista
di filosofia", N. Bobbio, "Rivista internazionale di filosofia del
diritto", G. Roccia, Filosofia e
realizzazione spirituale” "Rivista internazionale di filosofia del
diritto", Orecchia, voce “Goretti” della Enciclopedia filosofica, Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione
culturale, Goretti, in Orecchia, Maestri italiani di filosofia del diritto, Bulzoni,
Roma, Castignone, I diritti animali: la prospettiva utilitaristica,
"Materiali per una storia della cultura giuridica", D'Agostino, I
diritti degl’animali, "Rivista internazionale di filosofia del
diritto", Pocar, Gli animali non umani, Laterza, Roma-Bari, Martinetti,
Pietà verso gl’animali (Alessandro Di Chiara), Il melangolo, Genova, Lucia,
Goretti e la bioetica e l'etologia, "Annuario di itinerari
filosofici", "Piacere, dolore, senso", Mimesis, Milano, Lorini,
Atti giuridici istituzionali, in Lorini, L’atto giuridico, Adriatica, Bari, Paolo
Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina Milano); Colombo, La
filosofia come soteriologia: l'avventura spirituale e intellettuale di Martinetti,
Vita e Pensiero, Milano, C. Galli, Schmitt nella cultura italiana. Storia,
bilancio, prospettive di una presenza problematica, "Storicamente", G.
Lorini, Due a priori del diritto: l'a priori del giuridico”; Fenomenologia del
diritto. Adolf Reinach, Mimesis, Milano,
A. Pisanò, Diritti de-umanizzati:
animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, Lettera, Martinetti
e Goretti a L. Mangiagalli in Martinetti Lettere Firenze, Massimo Mori, Rivista
di filosofia, -- "Segni e comprensione", Brixia Sacra. Memorie
storiche della Diocesi di Brescia, Solari, Fossati, Necrologio, "Rivista di
filosofia", Colombo, La filosofia come soteriologia: l'avventura
spirituale e intellettuale di
Martinetti, Vita e Pensiero, Milano, Luigi FossatiArchivi del Garda, in
Archivi del Garda. Paolo Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina
editore, Milano, Attilio Pisanò, Diritti deumanizzati: animali, ambiente,
generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, P. Martinetti, La psiche
degli animali in Saggi e discorsi, Paravia, Torino, ore in Pietà verso gli
animali (Alessandro De Chiara), Il Melangolo, Genova); “L'animale come soggetto
di diritto, in Rivista di filosofia, per estratto in P. Di Lucia, Filosofia del
diritto, Raffaello Cortina, Milano, P. Di Lucia, Filosofia del diritto,
Raffaello Cortina editore, Milano, A. Pisanò, Diritti deumanizzati: animali,
ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, “Istitutismo” è un
neologismo coniato da Piovani, Mobilità, sistematicità, istituzionalità della
lingua e del diritto, Giuffré, Milano, cfr. G. Lorini, Dimensioni giuridiche
dell'istituzionale, Milani, Padova, Lorini, “La dimensione giuridica
dell'istituzionale, Milani, Padova, Cosa resta dell'istituzionalismo, “L'ircocervo”,
L.
Glazel, “Tetracotomomia dell’ istituzionale” in R. Renard, "Saggi
in ricordo di Tanzi", Giuffré, Milano, M. Brutti, Alcuni usi del concetto
di struttura nella conoscenza giuridica, "Quaderni fiorentini per la
storia del pensiero giuridico", McCormick/Weinberger, Il diritto come
istituzione, M. La Torre, Milano, M. Torre, “Norma, l’istituzionale, il valore:
Per una teoria istituzionalistica del diritto, Bari. Il pensiero filosofico di
Cesare Goretti non è comprensibile se ricondotto solamente al suo aspetto
giuridico1, brillantemente espresso all’interno dei suoi Fondamenti del diritto
(Goretti), ma necessita di un approfondimento che tocchi ogni ambito
speculativo della filosofia. Questo lavoro, quindi, pur mantenendo fermo il
fine di una delucidazione dei principi filosofici posti alla base della sua
concezione del diritto, fornirà un excursus preliminare sugli aspetti più
importanti del suo pensiero, conducendo il lettore all'interno del formalismo
gnoseologico kantiano, del volontarismo di Schopenhauer e dell’idealismo di
matrice britannica, esortando ulteriori approfondimenti su un autore il quale,
attraverso il proprio rigore morale (Goretti, così come il suo maestro Piero
Martinetti, risulta tra i non firmatari del 1 Un richiamo in nota al contesto
storico nel quale la filosofia del diritto di Goretti si sviluppa risulta
tuttavia necessario. Essa si inserisce all'interno di quell’indirizzo, chiamato
‘istituzionalismo’, che identifica nell’istituzione il fulcro attorno al quale
si crea e si espande la vita associata. Inaugurato con gli studi di Maurice
Hauriou in Francia e Santi Romano in Italia, esso si pone in netta
contrapposizione con la teoria normativista di Kelsen. Il particolare interesse
di G. per l’idealismo di matrice anglosassone conferisce però al suo
giuridicismo filosofico un taglio innovativo rispetto, ad esempio, al più
celebre istituzionalismo di Santi Romano, tanto da poterlo considerare come
‘istitutismo’.160 Politics. Rivista di Studi Politici, giuramento di fedeltà al
fascismo) ha dimostrato l’autonomia dello spirito rispetto alla contingenza
degli avvenimenti storici. Nella trattazione delle sue opere non verrà seguito
un ordine cronologico, ma una sistematica ricostruzione della sua dottrina.
Questo è il motivo per il quale La metafisica della conoscenza in Thomas Hill
Green (Goretti) e l’Introduzione alla sua Etica (Goretti) rappresentano un
punto di partenza necessario per la successiva analisi del suo pensiero. È
dunque dalle origini, dall’aspetto gnoseologico, che questo lavoro prenderà le
mosse, ed è proprio da uno spunto, fornito dall’incompletezza della soluzione
alla Ding an sich kantiana fornita da Green, che Goretti elaborerà il suo
impianto filosofico. L’esigenza di ricongiungere forma e materia, di collegare
il fenomeno con il noumeno, ha condotto la filosofia, da Kant in poi, verso la
strada di un idealismo monistico. Quello che G. compie, invece, consiste in
un’elegante risoluzione del problema, la quale, pur non rinunciando al
principio monistico, mette al sicuro il formalismo kantiano da eventuali
ricadute metafisiche. Per fare ciò, egli si avvale del concetto di volontà
elaborato da Schopenhauer, evitando le sue derive pessimistiche e avvalorando
il principio morale delineato da Green. Quanto fin qui solamente accennato
mette dunque in luce l’aspetto poliedrico del pensiero di Goretti, in grado di
spaziare tra gli autori e i campi della filosofia più disparati, mantenendo
comunque quel rigore logico ed espositivo che lo rendono un autore unico nel
suo genere. 1. Fenomeno e relazione: da Kant a Green La filosofia di Green,
come sottolinea Goretti, rappresenta una fusione del pensiero critico di Kant e
di Fichte (Goretti), una sintesi degli studi portati avanti a partire dalla sua
Introduction to Hume’s Treatise of Human Nature, contenuta all’interno dei
Collected Works (Green). Anche se i suoi Prolegomena to Ethics, tradotti in
italiano dallo stesso G. (Green), vengono di frequente considerati come la
«concezione definitiva dell’autore» (Goretti), portando spesso ed erroneamente
a giudicare la sua gnoseologia prettamente metafisica, la sua capacità di
analisi è riuscita ad andare ben oltre l’empirismo e il razionalismo
precedenti. È per questa ragione, dunque, che Goretti tornerà, molto tempo dopo
aver tradotto l’opera del Green, a dedicare ulteriori studi volti a precisare e
confutare alcune delle conclusioni avanzate dal filosofo britannico. Attraverso
un’accurata scomposizione del suo apparato epistemologico, Goretti riesce a
salvare l’apparente e vuoto formalismo kantiano, che il Green aveva così
ardentemente tentato di eliminare. La teoria della conoscenza di Green si fonda
sulle osservazioni kantiane inerenti l’esistenza di una coscienza, in grado di
unificare e sistematizzare i dati dell’esperienza, considerati, fino ad allora,
come unica realtà possibile. Per Kant, ribadisce Goretti, è La volontà
formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti solo grazie alla
natura del nostro spirito che l’esigenza unificatrice, chiamata con il nome di
appercezione trascendentale, si manifesta (Goretti). L’esperienza, dunque,
rappresenta il complesso di unificazioni che il nostro spirito pone in essere
sulla molteplicità del sensibile. Da ciò, la celebre distinzione kantiana tra
prodotto della natura e prodotto dell’intelletto, che porta la filosofia verso
un «Umänderung der Denkart» (Kant). Tutto ciò che possiamo conoscere è
derivabile dalla nostra esperienza, mentre la realtà, ciò che è posto al di
fuori del mondo sensibile, non può essere conosciuto, il che equivale ad
affermarne il suo carattere a priori, in quanto strumento inconoscibile atto a
conoscere. È proprio su questo punto, tuttavia, che Kant incontra le maggiori
difficoltà. Tentando di superare le aporie humeane, pone in essere quella
distinzione tra fenomeno e cosa in sé che occuperà gran parte della speculazione
filosofica successiva. Nel tentativo di fornire una risposta adeguata a questo
dilemma, senza rientrare all’interno delle conclusioni delineate dall’idealismo
tedesco, si inserisce l’opera di Green. Come sottolineato da G., Green adopera
un linguaggio differente rispetto a quello utilizzato da Kant, il quale,
secondo Green stesso, gli permetterebbe di eludere il problema relativo alla
cosa in sé. Egli sostituisce, continua G., la locuzione kantiana phenomena con
quella di relations. Per mezzo di questa distinzione, Green è convinto di poter
esprimere in maniera più marcata la facoltà unificatrice dello spirito,
evitando così di cadere all’interno delle problematiche del razionalismo
kantiano. L’errore di Kant, sottolinea Green, è rinvenibile proprio nella
separazione che egli opera tra natura formaliter spectata e natura materialiter
spectata. Questo errore non è altro che un refuso dell’empirismo lockeano,
rinvenibile in Kant attraverso l’espressione «Macht zwar der Verstand die
Natur, aber er schafft sie nicht» (Selsam 1930, 2). Come sostiene Green: If
phenomena, as materialiter spectata, have such another nature, it will follow
[...] that there is no ground for that conviction of there being some unity and
totality in things, from which the quest for knowledge proceeds. The cosmos of
our experience, and the order of things-in-themselves, will be two wholly
unrelated worlds (Green 1883, § 39). Se si vuole considerare la materia,
continua Green, dobbiamo prendere in considerazione l’esistenza di forze che
generano il loro movimento comprese nella rappresentazione del fenomeno stesso
(Goretti 1936, 100-101). Il divenire, dunque, diventa veicolo attraverso il
quale la realtà spirituale si manifesta, una molteplicità con la quale il
nostro spirito limitato coglie l’unità. Esso rappresenta, per Green, il
processo causale della molteplicità stessa e non un prodotto della realtà
assoluta. Alessandro Dividus. Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018
La posizione di Green è molto particolare. Egli rinnega l’esistenza di due
elementi distinti, forma e materia, ma al tempo stesso, non ricade nella
sintesi degli opposti sviluppata da Hegel. Le cose che noi osserviamo non sono
scisse e frammentarie, ma rivelano l’esistenza di un assoluto che non si muove
seguendo un movimento dialettico. La realtà, secondo Green, è una progressione
di gradi di relazione e per questo motivo non può in alcun modo trovarsi fuori
dallo spazio e dal tempo. La molteplicità delle relazioni, dunque, assume per
Green il significato di qualità dello spirito, che il nostro Io attribuisce
alle cose, ma che non si trova nelle cose stesse (Goretti). Queste conclusioni,
sottolinea Goretti, sono per Green il modo di superare il dibattito intorno
alla distinzione lockeana tra qualità primarie e qualità secondarie. Mentre,
per i sostenitori dell’empirismo, la differenza tra qualità sussiste su di un
piano sostanziale, cioè appartenente alla natura delle cose, per Green, invece,
essa è puramente graduale. L’unica diversità che le caratterizza consiste
nell’apparente priorità temporale che le prime dimostrano nel manifestarsi.
Questo evento è dovuto, spiega Green, alla predominanza dell’elemento formale
rispetto a quello empirico. Ogni relazione, dunque, è per Green una qualità. Il
centro della realtà rimane sempre l’Io, ma l’elemento formale che Kant non era
riuscito ad eliminare viene sostituito da gradi di relazione. Queste
affermazioni sono avvalorate ancor più da Green attraverso la distinzione tra
giudizi sintetici e giudizi analitici. Utilizzando l’enunciato kantiano “ogni
corpo è esteso”, non ci troviamo di fronte ad un giudizio analitico, come Kant
suppone, data la presenza del predicato all’interno del soggetto, ma come per
il secondo enunciato “ogni corpo è pesante”, stiamo attribuendo al soggetto un
grado di relazione meno complesso rispetto al secondo (Green). La mera
intuizione delle categorie di spazio e tempo non è sufficiente per cogliere la
distinzione tra diversi giudizi. Lo spazio offre solamente la concezione di una
figura, ma non di un corpo. Secondo Green, dunque, Kant confonde il concetto di
corpo con quello di figura. La conclusione di Green, riporta Goretti, «è che
ogni giudizio presuppone una sintesi che si può scomporre in una analisi di
relazioni, analisi che può portare ad ulteriori sintesi» (Goretti). Ogni
relazione è dunque un grado di realtà maggiore o minore rispetto all’unità che
essa contribuisce a formare all'interno della nostra conoscenza. Quanto finora
brevemente riportato mette in luce l’atteggiamento critico di Green rispetto
alle problematiche formali espresse dalla filosofia kantiana. Naturalmente,
quanto emerso rispecchia solo una minima parte del pensiero greeniano, in
questa sede appositamente riassunto, ma fornisce gli strumenti necessari per
comprendere il punto di partenza attraverso il quale Goretti ripartirà per
formulare la sua teoria. Come sostiene G. «Non si può certo affermare che Green
abbia sempre esattamente compreso la filosofia di Kant» (Goretti). Le critiche
che Goretti muove nei La volontà formale e il valore della norma
giuridica in Cesare Goretti confronti del filosofo britannico riguardano
proprio il suo tentativo di eliminare, senza risolvere, il formalismo kantiano,
ricadendo in quella struttura monistica della quale già Fichte aveva tracciato
le linee. Secondo Goretti, la concezione metafisica di Green è prettamente
religiosa (Goretti; cfr. Seth), in quanto ogni fenomeno, o relazione, è per lui
un riverbero dell’assoluto che non si esaurisce nella sua apparenza. Così
facendo, continua Goretti, Green non si accorge di aver identificato l’assoluto
stesso con la molteplicità delle sue relazioni, senza mettere in conto la
possibilità che un grado di realtà inferiore, rispetto ad uno superiore, possa
rappresentare solamente una negazione, un’apparenza dell’assoluto (Goretti). Il
dibattito sull’aspetto monistico, o meno, della filosofia di Green è ovviamente
molto ampio (vedi Tyler) e le teorie le più disparate. Il percorso tracciato
dalle sue tesi trova il suo naturale sviluppo nelle dottrine del Bradley, il
quale riduce le relazioni stesse a provvisorie apparenze riproponendo, ancora
una volta, l’ombra di una realtà intellegibile (Goretti). Ma Goretti percorre
una strada diversa, in qualche modo innovativa rispetto al senso comune. Egli
si serve di Schopenhauer per liberarsi del rapporto dualistico tra realtà
assoluta e materia, senza però rinunciare alla categoria formale elaborata da
Kant2. 2. Il concetto di volontà in G. Secondo G., l’unico ad aver intuito
veramente cosa la materia rappresenti è Schopenhauer (Goretti). Nella sua opera
più famosa, Die Welt als Wille und Vorstellung, Schopenhauer definisce la
materia come apparenza sensibile della volontà. Questa volontà non è altro che
una forza che tende ad affermarsi e realizzarsi. Essa non è più semplice
materia inerte, come in Aristotele, ma forza, voluntas. Questa forza si oppone
alla conoscenza tanto da tramutarsi in una noluntas, mettendo in moto quel
processo che ci permette di conoscere le vere fattezze del reale, pur non
rinunciando al dualismo tra realtà fenomenica e realtà assoluta. La volontà di
conoscere, quindi, rischiara l’oscurità della materia e rende il mondo reale
accessibile all’uomo. Green aveva intuito questo principio attraverso la
definizione di dover essere e il suo concetto di moral will, ma non era
riuscito, sostiene Goretti, a renderlo completo. È con Schopenhauer, quindi,
che la concezione volontaristica acquista finalmente forma. 2 La strada
percorsa da Goretti risulta alquanto particolare poiché, pur rimanendo all’interno
dei canoni dell'idealismo (una sorta di idealismo religioso ispirato in G. dallo
studio delle opere di Spir e del suo amico a maestro Martinetti), non ne segue
la normale evoluzione tracciata da Fichte e conclusasi con Hegel, della quale
Croce e GENTILE sono stati, in Italia, i due massimi, seppur sotto molti
aspetti critici, rappresentanti. Alessandro Dividus Politics. Rivista di Studi
Politici Tuttavia, G. diverge dalla definizione di voluntas fornita da
Schopenhauer. Per il filosofo tedesco la volontà si manifesta come impulso,
energia, pura forza cieca, in quanto posseduta anche dalla materia, che
sussiste al di fuori della forma dello spazio e del tempo ed è, quindi,
indistruttibile ed eterna. Essa è energia senza causa (Abbagnano). La sua
ragione può essere ricercata solo nella sua manifestazione fenomenica, ma non
nella volontà in sé. Per G., invece, la volontà non è energia senza un fine, ma
è un collegamento tra mezzi e fini. Essa ubbidisce alla categoria della
finalità, mira a fini prescelti, segue degli schemi prestabiliti (Roccia). La
realtà esteriore, secondo Goretti, rappresenta il complesso dei mezzi, gli
oggetti e la materia che la volontà utilizza per realizzarsi, per liberarsi e,
quindi, per perseguire il suo fine. La realtà limita il nostro egoismo, nel
senso che pone al nostro volere dei punti di orientamento comuni. Quando l’uomo
cerca di prendere possesso della realtà che lo circonda, non sorge in lui la
visione di una realtà trascendente, ma lo schema di un’esigenza unitaria, che è
la stessa limitazione del nostro egoismo (Goretti). La volontà, dunque, segue
degli schemi prestabiliti, creando una sintesi tra il nostro volere e una parte
della realtà esteriore. Nel volere del singolo si manifesta la sua propensione
verso l’assoluto. Al principio del divenire, dunque, Goretti riabilita e
sostituisce quel dualismo tra fenomeno e realtà che aveva messo in crisi la
filosofia di Kant. Con la sua concezione di volontà, inoltre, Goretti non solo
si allontana dal pensiero di Schopenhauer, ma trova anche il modo per rendere
possibile l’esistenza di una categoria formale della conoscenza. Come nel
collegamento tra mezzi e fini, la volontà guida la relazione immediata tra il
soggetto e l’oggetto, tentando di far prevalere il suo dominio sulle cose e
mettendo in mostra l’aspetto egoistico del suo movimento. Ma la volontà è
prerogativa di ciascuno e non si esplica solamente attraverso un individuo
determinato. Essa, dunque, incontra sul suo cammino gli atti volitivi di altri
soggetti. È grazie al contatto della volontà individuale con la realtà esterna
che l’egoismo nasce e scopre la sua ragion d’essere. La realtà pone dei limiti
all’assoluto tendere della volontà, alla sua brama unitaria, e circoscrive i
limiti delle differenti personalità individuali. La limitazione dell’egoismo è
dovuta proprio all’esigenza unitaria della volontà ed esso non è altro che il
prodotto della volontà stessa. In questo modo, G. è adesso in grado di
giustificare l’aspetto formale della volontà. Essa non è più forza cieca che
tende verso l’assoluto, ma, data la sua propensione unitaria, è forza costretta
a percorrere determinate direzioni: l’una conduce al dominio delle cose (l’aspetto
finalistico della volontà, cioè l’appropriazione del tutto), l’altra, invece,
porta al godimento delle cose che dipendono dalla volontà degli altri (ciò che
pone un freno alla categoria egoistica). Come riporta il Roccia: La
volontà formale e il valore della norma giuridica in G. Questi schemi, queste
direzioni sono preordinate: non derivano cioè dalla nostra esperienza, bensì
sono esse medesime condizioni dell’esperienza: o noi consideriamo il mondo
esterno come un complesso di cose capaci di un possesso immediato o noi lo consideriamo
come un complesso di cose il cui godimento dipende dall’attività di un altro
soggetto (Roccia). L’aspetto formale della volontà, per Goretti, non solo è in
grado di riconciliare forma e materia, fenomeno e realtà, ma è anche capace di
fornire una risposta alla problematica morale riguardante la finalità dell’azione.
Se per i sostenitori di una morale comune, come Kant o Green, l’azione del
singolo deve essere orientata verso un bene collettivo, un fine cioè che non
tenga solamente conto del concreto sviluppo del singolo, ma che rispetti
l’insieme nel suo complesso, per la corrente dell’utilitarismo, invece,
l’azione morale deve prediligere l’aspetto individuale, in primis, e solo in
seguito condurre ad un accrescimento del benessere comune. Quello che Goretti
mette in risalto, invece, è l’aspetto etico dell’egoismo. La sua è una
posizione che si concilia perfettamente con entrambe e richiama alla memoria le
parole di Spinoza. Per lui, così come per Goretti, il principio dell’utilità
aveva un grande valore. Esso costituiva il primo grado della ragione, in quanto
essa opera sulla natura empirica dell’uomo e ne mette in luce il suo carattere
finito. L’utilità costringe il singolo a ripiegare su se stesso e «a sentire
tutta l’ostilità della nostra limitatezza» (Goretti). È per questo motivo che
la volontà, avendo fini egoistici ma mezzi comuni, è costretta a limitare la
sua azione sulla base di un accordo sociale. La volontà, dunque, genera e
limita l’egoismo, rendendo di fatto l’utile come un primo passo verso l’etico.
L’essere ragionevoli, quindi, il perseguire la propria volontà, non rappresenta
altro che una manifestazione del fine ultimo dell’uomo, il quale, a sua volta,
si caratterizza come aspetto formale non solo della conoscenza, ma anche
dell’appropriazione del reale. Date queste premesse, è adesso possibile per G.
enunciare la sua personale interpretazione del diritto. Le condizioni a priori
della conoscenza, riabilitate del loro carattere formale, vengono trasposte da
Goretti all’interno della costituzione del diritto, nel campo cioè delle
relazioni umane. Quello di G. quindi, si presenta come un idealismo
volontaristico, che non pretende «dedurre dalla volontà il diritto e tutto il
diritto, intende solo cercare nella volontà stessa le condizioni che rendono
possibile il diritto» (Roccia 1955, 7). Ci troviamo, dunque, di fronte a una
tipologia di diritto differente rispetto a quella di matrice kantiana, poiché
non rende la giuridicità stessa un elemento formale, ma identifica solamente
alcuni schemi preordinati verso i quali la volontà deve dirigersi e attraverso
i quali, grazie alla facoltà giuridica del reale, riesce a concretizzarsi. Solo
il Green era riuscito a intuire il principio fondante del diritto, cioè la sua
capacità strumentale di permettere una completa realizzazione Alessandro
Dividus 165 166 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018
dell’individuo nella società. Ma egli aveva eliminato ogni residuo di carattere
formale all’interno della sua teoria, svilendo così la prerogativa finalistica
della volontà. Quella di Goretti, quindi, rappresenta una perfetta sintesi dei
due autori, che gli permetterà non solo di fornire una più completa riflessione
sull’aspetto filosofico della norma, ma anche di ampliare il diritto stesso ad
un gruppo sempre più ampio. 3. Il carattere strumentale del diritto La volontà
deve realizzare fini dettati dalla ragione e non dati della sensibilità. Solo
l’essere ragionevole è fine a se stesso. Ma per raggiungere un fine bisogna
possedere un mezzo, uno strumento. Questo strumento è il diritto, l’unico in
grado di ricongiungere il dover essere con la realtà fenomenica e fornire i
mezzi esterni per la realizzazione morale (Goretti 1922, 16-17). Il diritto è
quindi un mezzo, ciò che rende l’azione conforme al dovere. Esso è preordinato
da fini. Kant derivava il diritto dal dovere, mentre Green sottolineava come
l’uno non potesse esistere senza l’altro. In entrambi, però, il dovere
ricopriva un ruolo primario, qualcosa che, una volta realizzato nella sua
totalità, avrebbe reso vacuo il significato stesso del diritto. Per Goretti, invece,
il diritto è sì uno strumento, ma uno strumento che non nasce con lo scopo di
servire il dover essere, bensì è prodotto della realtà stessa che il dover
essere riscopre. Mezzi e fini sono presenti nel mondo reale e offerti a
chiunque possieda le capacità necessarie per farli propri. Queste possibilità
di possesso, come le chiama Goretti, non forniscono alcun contenuto storico e
mutabile, ma indicano solamente le linee guida attraverso le quali il nostro
volere si esplica (Goretti). È grazie al tentativo di dominio del reale, che
gli schemi giuridici si manifestano. Essi rappresentano il collegamento diretto
tra volontà ed esteriorità, regolando aprioristicamente lo spazio giuridico nel
quale l’individuo si muove. Anche i Romani, sottolinea Goretti, avevano intuito
la realtà empirica degli schemi giuridici. Quando essi distinguevano le res in
mobiles, immobiles e semoventes non facevano altro che prendere coscienza della
distinzione esistente tra diritti reali, diritti di obbligazione e diritti di asservimento
(Goretti 1930, 90-91; cfr. Goretti 1922). La volontà, d’altronde, non può che
realizzarsi attraverso un rapporto tra il proprio volere e l’oggetto desiderato
(diritto reale), tra il proprio volere e l’attività di un terzo dal quale si
pretende una certa prestazione (diritto di obbligazione) e, infine, tra il
proprio volere e l’asservimento di tutta, o parte, della personalità esteriore
altrui (diritto di asservimento). Questa triplice ripartizione, continua
Goretti, esaurisce tutte le potenzialità «di sfruttamento e di dominio della
realtà esteriore» (Goretti 1930, 89). Come per Kant, nella teoria della
conoscenza, lo schematismo aveva reso possibile unificare le intuizioni
sensibili all’interno delle categorie, così per Goretti, in campo giuridico,
esso permette di riconoscere le tappe obbligate che la realtà empirica La
volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti fornisce al
nostro volere. Si potrebbe obbiettare una presunta arbitrarietà nella
tripartizione schematica effettuata dal Goretti, chiedendo come mai la volontà
si esaurisca solamente attraverso questi schemi e non altri. Ma al perché
questi schemi siano solamente tre, G. risponde: «L’uomo fin ad ora non ha altri
modi di sfruttamento della realtà esteriore; altra prova del valore intuitivo
degli schemi. [...] La realtà intuitiva non me ne fornisce altri allo stato
attuale del nostro sviluppo organico» (G.). La nostra stessa esperienza e
storia degli istituti giuridici, continua Goretti, dimostra il ruolo che i
concetti di proprietà e obbligazione rivestono. Essi sono generici, originari,
intuitivi e solo in seguito acquistano una valutazione razionale della realtà
alla quale l’uomo fornisce un contenuto etico e, quindi, arbitrario. Essi,
tende ancora a sottolineare Goretti, possiedono una natura puramente intuitiva
e ciò non esclude che la logica giuridica possa trarne concetti giuridici
corrispondenti, come la compravendita, il mandato, la proprietà ecc. (G). Non
bisogna confondere il concetto della proprietà e dell’obbligazione, che hanno
un proprio contenuto storico e concreto, con lo schema dell’impossessamento e
dell’obbligazione, che rappresenta il loro carattere intuitivo. Come afferma
Goretti: Si dice: è il concetto di proprietà il prius logico, l’antecedente che
rende possibile allo spirito l’impossessarsi della realtà. Al contrario è
questo impossessarsi che permette l’elaborazione del concetto di proprietà. In
questo impossessarsi vi è un atto che deve spiegarsi; e la spiegazione consiste
nel fatto che il nostro egoismo, il nostro volere si muove diversamente a
seconda dello spazio. Il volere ubbidisce alla categoria della finalità come
l’intelletto a quella della causalità (Goretti 1930, 95-96). La nostra esigenza
razionale, quindi, prende forma sensibile attraverso questi schemi giuridici,
condizione dei rispettivi istituti giuridici. Per mezzo di questo atto
intuitivo della realtà esteriore, il nostro egoismo viene limitato e obbligato
a prendere determinate direzioni comuni, facendo trapelare una prima forma di
unificazione dei voleri, di volontà comune. Essa appare inizialmente come
complesso di mezzi per le nostre volizioni personali, ma lascia intuire la
portata limitata di tali mezzi e, dunque, la loro comune origine. Questo
passaggio, dice Goretti, è una normale conseguenza della visione unitaria della
realtà da parte dei singoli, i quali tendono a polarizzare la propria volontà
intorno a un ideale condiviso, acquisendo la consapevolezza della necessaria
condivisione dei mezzi esteriori (Goretti 1930, 113). Si sviluppa così la
coscienza di quell’elemento costituente il diritto: il principio di
uguaglianza. Non si tratta, sostiene Goretti, di un’uguaglianza di diritti e
doveri, di un livellamento dei valori individuali, ma di un’uguaglianza della
nostra personalità di fronte alla realtà esteriore: «È la posizione del nostro
volere di fronte alle direzioni che la realtà esteriore ci offre» (Goretti
1930, 113). L’umanità, dunque, non è il risultato della somma di tutti gli
individui, ma è l’idea Alessandro Dividus 167 168 Politics. Rivista di
Studi Politici n. 10, 2/2018 alla quale il singolo, in quanto essere razionale,
partecipa. Così, ad esempio, l’idea della proprietà originaria non rappresenta
il complesso delle singole proprietà, ma è il riconoscimento del diritto che
l’umanità intera ha di impossessarsi della realtà esteriore (Goretti 1930,
116). Senza il riconoscimento di questo diritto, comune a tutti, non sarebbe
possibile il conseguente riconoscimento dei diritti dell’individualità,
dell’egoismo. 4. Gli istituti giuridici e lo Stato Quanto fino ad ora esposto
mostra solamente la necessità degli schemi giuridici per la creazione di un
ponte tra realtà spirituale e realtà fenomenica, mettendo in luce un’esigenza
di volontà comune dettata dalla comunione dei mezzi e dei fini. Gli schemi
giuridici, tuttavia, non sono che la base razionale, a priori, grazie alla
quale poter dedurre l’esistenza dei diversi istituti giuridici. Gli schemi
rappresentano quindi le condizioni formali che ne costituiscono la loro possibilità.
Mentre il carattere strumentale del diritto aveva sottolineato la necessità di
una comunione di mezzi, la storia del diritto stesso, e quindi la sua
rappresentazione empirica formalizzata nell’istituto giuridico, fa emergere le
caratteristiche costanti delle finalità umane. Gli istituti giuridici non sono
che il riverbero di una comunione di mezzi, i quali contengono, però, vere e
proprie finalità concrete (Goretti 1930, 204). Del resto, se non esistesse una
comunione di mezzi, non sarebbe possibile parlare di finalità condivise. Queste
finalità, ovviamente, non sono identiche in ciascuno, in quanto l’istituto
giuridico non fa altro che porre in essere scopi immediati coordinati gli uni
con gli altri, ma convergono tutte, sostiene Goretti, verso un punto di
equilibrio: I moventi di ogni singola persona che partecipa ad un atto, ad un
negozio giuridico rimangono sempre qualche cosa di irriducibilmente soggettivo,
ma lo scopo dell’uno diventa una funzione di quello dell’altro, i due scopi
devono farsi equilibrio intorno ad un punto comune (Goretti 1930, 204). Il
fatto che una finalità presupponga un movente individuale, non esclude la
possibilità che la finalità di un singolo possa incrociarsi con quella di un
altro. Questo equilibrio di finalità dà vita a differenti figure giuridiche,
non deducibili a priori dai nostri schemi, ma lasciate in balìa degli eventi
storico-sociali. Ma il carattere formale dei nostri schemi, e quindi dei nostri
mezzi, giustifica la creazione uniforme e costante degli istituti, e dunque dei
nostri equilibri finali. Pertanto, dalle diverse finalità umane è possibile
derivare aprioristicamente la figura giuridica della compravendita, che si
richiama allo schema giuridico dell’obbligazione. Non è, dunque, il lavoro
speculativo del giurista che crea le forme degli istituti giuridici, ma è la
realtà sociale stessa. Essi La volontà formale e il valore della norma
giuridica in Cesare Goretti non sono altro che realtà fenomenica, svelata dalla
volontà individuale che si muove nel mondo empirico attraverso le sue forme
schematiche. Le istituzioni sociali, di conseguenza, sono il risultato di un
punto comune di equilibrio formatosi e consolidatosi, nel tempo, intorno a un
complesso di finalità umane. L’ineludibilità di simili conclusioni, sostiene
Goretti, può essere ulteriormente avvalorata attraverso un esempio. Se
esaminassimo il caso della compravendita, ci troveremmo di fronte a due
differenti finalità: quelle del venditore, da una parte, e quelle del
compratore, dall’altra. Naturalmente, continua Goretti, queste finalità
appaiono inizialmente diverse, ma il loro punto di equilibrio è riscontrabile
proprio negli asservimenti reciproci esistenti nel fatto di vendere e di
comprare, nei quali le finalità dell’uno si incrociano con quelle dell’altro.
Questo elemento comune è derivabile dallo schema dell’obbligazione, per mezzo
del quale le caratteristiche comuni delle finalità tendono a convergere. Nel
caso dei diritti reali, ad esempio, è la fruizione della cosa da parte di un
singolo, e dunque la sua finalità, che tende a escludere l’uso del medesimo
oggetto da parte di un terzo, facendo arrestare la sua finalità di fronte al
possesso del soggetto iniziale. Questo arresto, continua Goretti, mostra già di
per sé l’esistenza di un equilibrio dei fini, ed è proprio questo equilibrio
che rende possibile la formazione degli istituti giuridici. Ciò che rende
dunque costante nel tempo l’esistenza di determinati istituti è proprio
l’uniformità delle nostre forme e dei nostri bisogni. Ecco come, quindi, da un
accenno di volontà comune e di unificazione di finalità, espresse nella forma
dei singoli istituti giuridici, si assiste a un progressivo ampliamento del
principio di solidarietà sociale, che limita automaticamente il nostro
originario egoismo. Si passa, gradualmente, da un’unificazione di finalità e
bisogni elementari a un’unificazione più elevata di natura spirituale. Questo è
un fenomeno, dice G., storicamente accertabile e inoppugnabile. L’egoismo si
asserve così, senza negarsi, a un criterio di uniformità, dando vita a unità
sempre più grandi e mostrando all’umanità il cammino della giustizia. Si
potrebbe sottolineare l’incoerenza pratica di tali affermazioni, mostrando le
derive violente ed ingiuste che molte istituzioni hanno posto in essere, ma
simili mostruosità sono solamente deformazioni storiche di suddette
istituzioni, le quali, in sé, non posseggono nessun concetto di giusto ed
ingiusto, ma rappresentano solamente un grado di realizzazione della volontà
comune, ad uopo strumentalizzata da egoismi irrazionali. Ma in che forma
empirica si realizza questa volontà comune, secondo il Goretti? La sua risposta
è molto chiara: «Il diritto come tale non può culminare nello Stato. Quella che
ad Hegel appare come la rappresentazione e lo stadio più completo della volontà
individuale, è invece per G. un’indebita ingerenza dell’egoismo collettivo nei
confronti di quello soggettivo, una volontà di potenza che non ubbidisce a
esigenze razionali, ma ad un mero potenziamento di se stessa, tradendo quell’esigenza
prettamente unitaria tipica della dialettica hegeliana. Come Alessandro Dividus
169 170 Politics. Rivista di Studi Politici] all’interno della società
civile si manifestano una molteplicità di individualità e gruppi in contrasto
tra loro, così anche lo Stato, non essendo altro che un gruppo più ampio, non
potrà rappresentare la realizzazione della volontà comune, poiché anch’esso
tenderà al conflitto con Stati terzi. Il suo ruolo è, così per G. come lo era
stato per il Green, puramente pratico, nel senso di garante del rispetto del
diritto e della potenzialità di sviluppo della volontà comune. Lo Stato appare
come la rappresentazione finale della sovranità, politica e giuridica, ma essa
è pura illusione. In ogni sovranità vi è sempre un riverbero di ordinamento
giuridico ideale, che non si esaurisce nella sua forma storico-sociale, ma è
assoluta spontaneità dei rapporti che l’uomo instaura tra schemi e istituti. Lo
Stato, nel suo processo evolutivo, non rappresenta altro che un irrigidimento
della volontà comune nel suo percorso fenomenologico. Conclusioni Quanto
esposto rappresenta una parte dell’importantissimo contributo del Goretti nel
campo della filosofia, che tocca aspetti gnoseologici, giuridici e politici,
mostrando il suo carattere poliedrico e critico, senza però rinunciare al suo
rigore logico. Le sue intuizioni sono rimaste purtroppo vittime degli
sfortunati eventi storici che hanno accompagnato tutta la sua esistenza,
lasciando ai più sconosciuta la sua eredità intellettuale. Di non minore
importanza, inoltre, è l’impegno che egli ha dedicato in difesa dei diritti
degli animali, per il quale si rimanda all’articolo L'animale quale soggetto di
diritto (Goretti 1928), che si concilia perfettamente con la sua personale
concezione del diritto e che anticipa, in gran parte, molte delle speculazioni
attuali sul tema. Ma lo scopo di questo lavoro, data la limitatezza del
contributo, non è stato quello di approfondire ogni aspetto del suo pensiero,
bensì di mostrare la profonda capacità argomentativa di questo autore, il quale
offre numerosi spunti in altrettanto numerosi ambiti della filosofia. Oltre ad
essere stato, in Italia, il primo vero studioso e l’unico traduttore dell’opera
del Green, Goretti ne ha saputo cogliere la vera intuizione, proponendo una
propria visione della volontà, la quale rappresenta una geniale sintesi tra
idealismo e razionalismo, quasi come un proseguo degli studi, involontariamente
interrotti, ai quali il Green aveva dato origine. La riabilitazione, poi, del
formalismo kantiano, segnata da una propria interpretazione della volontà di
Schopenhauer, mette in evidenza un percorso innovativo rispetto al naturale
interesse degli studiosi successivi, il che conferma ulteriormente la necessità
di riscoprire un autore tanto grande quanto sfortunato. La volontà formale
e il valore della norma giuridica in G. Abbagnano, Le sorgenti razionali del
pensiero. Napoli: Perrella. Bradley, Prolegomena to Ethics by the late Thomas
Hill Green. Oxford: Oxford Clarendon Press. Goretti, Cesare. Il carattere
formale della filosofia giuridica kantiana. Milano: Casa Editrice Isis.
Goretti, Cesare. 1927. “Il trattato politico di Spinoza.” Rivista di Filosofia.
G.,“L’animale quale soggetto di diritto.” Rivista di Filosofia XIX, 4: 348-369.
Goretti, Cesare. 1930. I fondamenti del diritto. Milano: Libreria Editrice
Lombarda. Goretti, Cesare. 1932. “Sulla distinzione fra legge e norma.” Rivista
di Filosofia XXIII, 2: 125-135. Goretti, Cesare. 1933. “Il valore della
filosofia di F. H. Bradley. Apparenza e Realtà.” Rivista di Filosofia XXIV, 4:
332-352. Goretti, Cesare. 1935. “L'idea di patria.” Rivista di Filosofia. G. “La
metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green.” Rivista di Filosofia XVIII,
2: 97-117. Goretti, Cesare. 1941. “L’istituzione dell’eforato.” Archivio della
cultura italiana III, 4: 251-264. G. Il pensiero filosofico di Piero
Martinetti. Bologna: Cooperativa Tipografica Azzoguidi. Green, Thomas Hill.
Etica. “L’istituzionale e una co-struzione, una sorta di inter-azione, o
co-azione co-ordinata, co-stitutente un equilibrio tipico o co-stante di
finalita che si fissa in un com-plesso di mezzi”. “Casi innumerevoli dimostrano
come il cane (o altro uomo) sia custde geloso della proprieta del suo padrone e
come ne compartecipi all’uso. Oscuramente deve operare in esso questa visione
della realta esteriore come cosa PROPRIA, che nell’uomo civile U1 arriva alle
costruzione raffinate dei giuristi. E assurdo pensare che l’animale o l’uomo O2
che rende un servizio al suo padrene che lo mantiene agisca soltanto
istintivamente. Deve pure sentire in se per quantto oscuramente e in modo
sensible questo rapport di servizi resi e SCAMBIATI. Naturalmente l’U2 o
l’animale non potra arrivare al concetto di ci oche e la proprieta,
l’obbligazione. Basta cche dimostri esterioremente di fare uso di questi
principi che in lui operano ancora in modo oscuro e sensibile.” Cesare Goretti.
Grice: “I like Goretti: I rather casually referred to ‘the institution of a
decision’ as the end of a conversational exchange – notably involving buletic
conversational moves; Goretti makes a whole system out of this. His example is
his conversation with his dog: ‘Surely my dog knows that he is providing me a
service – guarding my territory – and he is rightly deemed as a ‘subject’ in my
exchange with him – as we ‘institute a decision’ that there is a reciprocity involved.”
Goretti. Keywords: “the institution of decisions” -- l’istituzionale, A. C.
Bradley, La massima d’equita; “segni e comprensione” il concetto di patria,
eforato—co-azione, co-operazione -- diada. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Goretti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gorgiade: la setta di Crotone –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo italiano. A Pythagorean, possibly Gartida.
Grice e Gorgia: il cinargo romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. a Cinargo. Gorgia.
Grice e Gorgia: la setta di Leonzio -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo
italiano. Pupil of Girgenti. He seems to have written one essay on philosophy.
In it, he argues that nothing exists, or that if anything did exist, there could
be no knowledge of it, or if there could be knowledge of it, that knowledge
could not have passed from one person to another. Poche e scarne le
notizie relative a Leontini sotto il dominio di Roma. Inquadrata in primo
momento tra le città decumane, sottoposte al pagamento della decima parte del
raccolto, si trasforma a poco a poco in città censoria, il cui territorio viene
dato in affitto a cittadini di altre città dietro pagamento di un canone
prestabilito. Alla fine del I secolo a.C. il territorio di Leontini viene usato
per i donativi agli alleati dei triumvirato. La città entra in un periodo
di grande decadenza, scompare praticamente come città, mentre la popolazione
preferisce trasferirsi nelle campagne e nelle fattorie sparse nel territorio.
Quasi del tutto assenti le notizie relative alla città in periodo imperiale. Le
poche informazioni giunte fino a noi sono inserite nel contesto delle vicende
dei santi martiri Alfio, Filadelfo e Cirino, chiaramente leggendarie e quindi
di poca utilità. Secondo la tradizione, la chiesa leontina è una delle prime ad
affermare che Maria è madre di Dio, prima che questa verità di fede venga
ufficialmente proclamata dal concilio di Efeso (431 d.C.). La riscoperta
tra studi e scavi Paolo Orsi, R Carta, R Santapaola in una foto degli
anni 30 Dopo un secolare abbandono del sito, torna l'interesse per la storia del
luogo grazie ai primi studi favoriti da vari studiosi. Le prime indicazioni
sull'antica Leontinoi provengono da C.M. Arezzo (1527), Tommaso Fazello (1558),
L. Alberti (1561), Francesco Maurolico (1562) e Filippo Cluverio (1619). Nel
XVIII secolo Vito Amico identificò la valle S. Mauro come l'agorà e la Valle S.
Eligio come sede dell'antico fiume Lisso. Nel 1781 Ignazio Paternò Castello
evidenzia lo stato di decadenza della città. Nel 1874 Julius Schubring
studiando il testo di Polibio sulla città ne identifica la struttura assieme
alla strada citata anche da Tito Livio per la morte di Geronimo nel 215
a.C. La testa del kouros della collezione Biscari Le prime
segnalazioni in merito alle necropoli di Leontinoi risalgono al 1879 ad opera
di Giuseppe Fiorelli, con tombe nella zona nord di Lentini. Nel 1884 Francesco
Saverio Cavallari rinviene un ipogeo cristiano e nel 1887 una necropoli sicula
nella Valle Ruccia. Nel 1891 il Columba presenta uno studio sulla topografia
della città con un rilievo del Castellaccio. Le ricerche effettuate
misero in evidenza l'esigenza di mettere ordine al patrimonio per bloccare i
traffici illeciti di materiali verso collezioni private. Lo stesso Paolo Orsi
evidenzia questo problema suggerendo già nel 1884 la fondazione di un museo
archeologico. Sono proprio gli studi di Paolo Orsi a dare impulso alle ricerche
tramite gli scavi condotti in varie parti del sito. Nel 1902 viene ritrovato il
kouros di Lentini, oggi al Paolo Orsi cui viene associata la testa della
collezione Biscari. Nel 1925 lo Ziegler pubblica una sintesi sulle conoscenze
di Lentini. Gli scavi riprendono nel 1940 con Pietro Griffo presso le
fortificazioni del S. Mauro e ulteriori indagini relative alla topografia. Dal
1950 al 1955 viene messa in luce la porta sud (la cosiddetta porta siracusana)
e viene esplorata la necropoli esterna. Ulteriori ricerche di Adamesteanu e
Rizza mettono in luce altre strutture. Mentre nel 1960 viene rinvenuta
casualmente una stipe votiva ad ovest del colle della Metapiccola. Nel 1965 vengono
scoperti dei blocchi in Piazza Vittorio Veneto, nel 1971 e nel 1974 vengono
esplorate delle tombe presso la Valle di S. Eligio, e nel 1977-78 si riprende
l'esplorazione della necropoli di contrada Piscitello. Nel 1980 in
contrada Crocifisso viene riportata alla luce un'abitazione che rispecchia le
descrizioni di Polibio. Tra il 1981-82 le ricerche vengono effettuale a sud
della porta meridionale in contrada Pozzanghera, mettendo i luce delle tombe di
età arcaica sino a quella ellenistica. Si prosegue con scavi nel 1986 sul colle
Metapiccola, nel 1987 sul Castellaccio da cui emergono anche le strutture
murarie della porta nord. Gli scavi sono proseguiti su varie aree sino al 1989,
poi nel 1993 in Piazza Umberto è stata rinvenuta una necropoli musulmana sopra
a quella greco-arcaica, sino ad arrivare agli ultimi anni con ulteriori
aggiornamenti. Il sito Mappa di Leontinoi «La città di Leontinoi è
interamente rivolta verso settentrione: vi è nel mezzo di essa una valle piana,
nella quale si trovano le sedi dei magistrati e dei giudici e tutta l'agorà. Da
un lato e dall'altro della valle vi sono alture scoscese: I ripiani di queste
alture sopra i colli sono pieni di case di templi. Due porte ha la città, di
cui una è al termine della valle anzidetta verso mezzogiorno e porta a
Siracusa, l'altra, al Nord, porta ai campi detti Leontini e alla regione
coltivabile. Sotto uno degli scoscendimenti, quello verso Occidente, scorre un
fiume che chiamano Lisso. Parallele a questo, E la maggior parte sotto lo
stesso pendio, giacciono delle case contigue, tra le quali e il fiume vi è la
strada anzidetta.» (Polibio, Historiae 7,6. 1-6) Il sito di
Leontinoi è stretto tra Carlentini a sud e Lentini a nord. L'area dell'agorà si
trova in una vallata circondata a sud est dal colle della Metapiccola e a sud
ovest dal colle San Mauro. Mentre a nord vi è l'area del Castellaccio. Il parco
archeologico copre parzialmente l'intera estensione dell'antica città ed è
accessibile da sud, con ingresso dalla porta siracusana, una porta a tenaglia
di cui sono ben visibili i tratti murari. Sull'ingresso sono
rintracciabili anche dei monumenti funerari e delle vicine necropoli del IV e
III sec a.C. Le prime tombe di questa zona risalgono al VI sec a.C. L'agorà si
trova al centro della vallata. Le fortificazioni arcaiche sul monte
S. Mauro Sul colle della Metapiccola è presente un villaggio preistorico
identificato con l'antica Xouthia. Gli scavi hanno evidenziato la presenza di
capanne rettangolari col basamento infossato. Le capanne erano di legno,
difatti sono visibili anche i segni dei pali sul terreno. La cinta
muraria La cinta muraria ha un andamento complesso e mostra quattro interventi
costruttivi. La più antica risale al VII sec a.C. e circondava solo l'acropoli,
sono emersi dei tratti sul lato est del colle S. Mauro con incisioni che
distinguono la cava di estrazione. La seconda cinta è degli inizi del VI
sec a.C. e dal fondovalle risaliva sino al colle della Metapiccola. La
fortificazione ben visibile a piccoli blocchi presenta una torre circolare. Un
restauro delle mura avvenne nel III sec a.C. durante la guerra tra Roma e
Siracusa. Note ^ Lentini nell'Enciclopedia Treccani, su Treccani. URL
consultato il 27 maggio 2022. ^ LENTINI in "Enciclopedia dell' Arte
Antica", su Treccani. URL consultato il 27 maggio 2022. Bibliografia
Massimo Frasca, M. Congiu, C. Miccichè e S. Modeo, Tucidide e l’archaiologhìa
di Leontinoi, in Dal mito alla storia. La Sicilia nell'Archaiologhia di
Tucidide (Atti del VIII Convegno di Studi, Caltanissetta). URL consultato il 7
novembre 2017. Massimo Frasca, Leontinoi. Archeologia di una colonia greca,
Roma 2009 Massimo Frasca, Interazione tra Greci e Indigeni nella Sicilia
orientale Il caso Leontinoi. URL consultato il 7 novembre 2017. Sebastiano P.
Maltese, I Tetradrammi di Leontinoi. Dinamiche produttive e storico-artistiche,
Trieste 2023. Sicilia, Touring Club d'Italia, 1989, pp. 742-743, ISBN
88-365-0350-0. Voci correlate Monte San Basilio Storia di Lentini Museo
archeologico di Lentini Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene
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sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) Leontini, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Leontinoi, su
siciliafotografica.it. URL consultato il 12 aprile 2014 (archiviato dall'url
originale il 13 aprile 2014). Filmato audio Leontinoi. Memorie da una città
dimenticata., 1º marzo 2013. URL consultato il 7 novembre 2017. Massimo Frasca,
Leontinoi, città dei Calcidesi in Sicilia. URL consultato il 7 novembre 2017. V
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SiciliaLentini[altre]
Grice e
Gori: l’implicatura conversazionale e la filosofia di cabaret -- l’eroe e la
falce – filosofia futurista – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “My favourite
Gori are “L’eroe e la falce” and “Il mantello d’Arlecchino” – nothing can be
italianita with that!”. Saggi: “Il mantello di Arlecchino (Roma); “Il libbro
rosso de la guerra” (Roma); “Le bruttezze della Divina Commedia” (Alatri); “Le
bellezze della Divina Commedia” (Milano); “Estetica dell'irrazionale” (Milano);
“Il mulino della luna (Milano) “L'irrazionale”; “Filosofia ed estetica”, “Sistema
di una nuova scienza del bello; “Il bello” – “L'eroe e la falce” -- Scorcio
architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni, Cagliostro
(Milano); Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero
e di vita nelle varie nazioni (Torino); L'oca azzurra (Roma); Il grande amore
(Firenze); Scenografia. La tradizione e la rivoluzione contemporanea (Roma); Il
grottesco (Milano). P.D. Giovanelli,
Gino Gori. L'irrazionale e il teatro, Roma, Bulzoni, U. Piscopo, Gino Gori, in
E. Godoli, Dizionario del futurismo, Firenze); Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Rassegna della
produzione teatrale e delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale a
cavallo tra il finire dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla
riforma dell'opera lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte
totale, Gori passa a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del teatro dell'Anima
di Schuré e Claudel, del teatro dell'esteriorismo (D'Annunzio, Wilde, Péladan,
Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij,
dell'Espressionismo, di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro
dialettale italiano, del teatro delle nazioni europee minori (discorre anche
del teatro dell'Islanda o della Lituania o della Bulgaria), delle forme
rudimentarie del teatro presso i popoli selvaggi. G. (Roma, 1876-Sant'Ilario
Ligure, 1952), poeta, drammaturgo e critico letterario romano fiancheggiatore
del Futurismo, apre a Roma il famoso Cabaret del Diavolo, realizzato da Depero. "Depero è protagonista con una
grande mostra personale tenuta a Palazzo Cova di Milano, che in seguito viene
trasferita da Bragaglia a Roma, dove nel settembre dello stesso anno, su
incarico di G., inizia i lavori di allestimento del Cabaret del Diavolo, una
sorta di bolgia dantesca frequentata da futuristi, dadaisti, anarchici ed
artisti in genere. Per il cabaret, strutturato lungo un percorso discendente (a
ritroso) Paradiso-Purgatorio-Inferno, Depero realizzò tutto l'arredo e le
decorazioni murali. L'inaugurazione avvenne nell'aprile del 1922 ma, passato il
primo momento di gloria, i tempi si fecero difficili e il locale fu chiuso, e
con esso distrutto anche tutto il lavoro di Depero". (cfr. Catalogo mostra
Fortunato Depero, Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi
diretti da Arturo Farinelli. Cammarota, Futurismo, Il Futurismo
applicato ai cabaret» «C’è stato in questi giorni, qui a Roma, un
improvviso e molteplice sboccio d’arte futurista: il futurismo applicato al
cabaret»,[26] annotava all’inizio degli anni Venti Massimo Bontempelli, che in
quel periodo simpatizzava con il Futurismo e da poco aveva rifiutato le opere
scritte prima della guerra. Fra il 1921 e il 1923, venivano infatti inaugurati
nella capitale diversi locali decorati dai futuristi, tutti situati nel centro
della città. Iniziava la serie, nel ’21, il Bal Tic Tac, situato in via Milano,
i cui ambienti considerati distrutti per oltre mezzo secolo, sono stati
recentemente ritrovati durante il restauro del palazzo. Alle sale, arredi e
lampade del cabaret aveva lavorato Balla: era «un grandioso locale per balli
notturni futuristicamente decorato», nel quale «per la prima volta, apparve
realizzata la nuova arte decorativa futurista. Forza, dinamismo, giocondità,
italianità, originalità» commentava il periodico Il Futurismo.[27] Per il
lavoro, ha ricordato la figlia dell’artista, Elica, Balla era stato contattato
da Vinicio Paladini, altro avanguardista della cerchia romana, in quegli anni
in procinto di lanciare con Ivo Pannaggi il movimento Immaginista.[28] Nel
1922, nei sotterranei dell’Hotel Élite et des Etrangers in Via Basilicata 13,
era stato aperto il Cabaret del Diavolo, uno dei più stravaganti ritrovi romani
di proprietà di G., il quale intendeva farne il punto di incontro di scrittori,
pittori e intellettuali e aveva puntato sulla creatività di Depero, chiamandolo
a decorarne e ad arredarne gli interni. Le tre sale, denominate Inferno,
Purgatorio e Paradiso, avevano ognuna una specificità cromatica e tipologica: i
mobili del Paradiso, ad esempio, erano azzurri, quelli del Purgatorio verdi e
quelli dell’Inferno rossi. L’illuminazione era bianco-rosa-azzurrina con
immagini di angeli e cherubini nel Paradiso, bianco-verde con una coorte di
anime verdi nel Purgatorio, e rossa con diavoli e dannati avvolti dalle fiamme
nell’Inferno. Il locale era sede della Brigata degli Indiavolati, composta da
poeti e artisti. Nello stesso anno Balla, che aveva anche decorato la sua
celebre casa-galleria aperta al pubblico di Via Nicolò Porpora 2 (poi seguita
dall’altrettanto celebre abitazione di Via Oslavia 34 b), realizzava il
soffitto luminoso della sala futurista della nuova sede allestita da Virgilio
Marchi della Casa d’Arte di Bragaglia, trasferitasi da Via Condotti 18 in Via
degli Avignonesi 8. Nei locali ricavati nei sotterranei dei Palazzi Tittoni e Vassalli
che conservavano le terme pubbliche romane di Settimio Severo, Bragaglia
affiancava alla galleria anche il Teatro degli Indipendenti per il quale
Virgilio Marchi aveva realizzato il ridotto e il bar: qui, per otto dense
stagioni, Giulio sperimentò la sua ‘riforma teatrale’ e le sue idee di
rinnovamento delle tecnica scenica mediante l’introduzione di nuovi elementi
quali una regia sperimentale, una recitazione innovativa e una scenografia
‘cromatica’. Nel teatro vennero messi in scena gran parte dei testi
d’avanguardia italiani e stranieri prodotti in quegli anni dagli artisti più
vari, da Jarry ad Apollinaire, dai Futuristi agli Immaginisti: nel 1921, la
vecchia sede della Casa d’Arte aveva ospitato anche la mostra di opere dadaiste
facente parte della Grande Stagione Dada Romana che aveva messo in programma
esposizioni, declamazioni, esecuzioni di musiche dadaiste e una conferenza di
Evola su Tzara nell’Aula Magna dell’Università. l testo di Braibanti è
precedente rispetto a quelli di Kaiser e Bachtin, risale al 1951, non può
quindi giovarsi delle ricerche dei due autori ma, per le sue finalità, la sorte
del grottesco nella storia dell’arte è di importanza relativa. Conosceva e cita
altrove il testo di Gino Gori sul grottesco nell’arte, ne apprezza l’impresa ma
coglie i limiti della riduzione dello spirito del grottesco all’ambito
dell’artistico. Il luogo privilegiato del grottesco è la vita, lo spazio
interindividuale è dove si dispiegano le sue epifanie. G. Il teatro
contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle
varie nazioni. Torino, Fratelli Bocca, 1924. In-8°, pp. (4), 282, (2), brossura
editoriale con titolo in rosso e nero entro bordura ornamentale anch'essa in
bicromia. Gore al dorso. Una piccola mancanza al margine superiore del piatto
posteriore. Bella copia in barbe e a fogli chiusi. Prima edizione. Rassegna
della produzione teatrale e delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale
a cavallo tra il finire dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla riforma
dell'opera lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte
totale, Gori passa a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del "teatro
dell'Anima" di Schuré e Claudel, del teatro dell'"esteriorismo"
(D'Annunzio, Wilde, Péladan, Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore,
Tolstoj, Gorkij, dell'Espressionismo, di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese,
del teatro dialettale italiano, del teatro delle nazioni europee minori
(discorre anche del teatro dell'Islanda o della Lituania o della Bulgaria),
delle "forme rudimentarie" del teatro presso i popoli selvaggi. Gino
Gori (Roma, 1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta, drammaturgo e critico
letterario romano fiancheggiatore del Futurismo, aprì a Roma il famoso Cabaret
del Diavolo, realizzato da Fortunato Depero. (cfr. Catalogo mostra Fortunato
Depero, Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi diretti da
Arturo Farinelli. Cammarota, Futurismo, 248.2 GORI GINO. L'irrazionale. Volume
primo. Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello. Volume
secondo. L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle
origini ai nostri giorni. Foligno, Campitelli, 1924. 2 voll. in-8° (200135mm),
pp. XI; 182, (2); 183-550, (4) [paginazione continua]; brossure editoriali.
Bell'esemplare in parte intonso. Prima edizione e primo migliaio di questo
importante saggio di estetica suggestionato dalla poetica futurista GORI,
Gino. - Nacque a Roma, il 7 luglio 1876, da Vincenzo Guglielmo e Giovanna
Santi. Terminato il liceo, si laureò dapprima in giurisprudenza, iscrivendosi
poi a medicina, senza tuttavia nutrire particolare interesse neppure per questo
indirizzo di studi. Egli si sentiva piuttosto attratto dalla letteratura, dalla
filosofia e, in particolare, dal teatro, di cui prese a scrivere fin dai primi
anni del nuovo secolo. Collaboratore di vari giornali e riviste - tra cui
il Don Chisciotte, il Capitan Fracassa, La Vita, La Patria, il Don Marzio,
L'Ora, Il Tirso, di cui fu redattore capo nel 1912-13, Aprutium di Teramo, Noi
e il mondo, mensile illustrato de La Tribuna di Roma -, si fece presto la fama
di critico militante severo e intransigente. Amico di Trilussa e suo
ammiratore, compose poesie e canovacci teatrali in romanesco.
Anticlericale e massone, allo scoppio della Grande Guerra fu interventista e
irredentista. Nel primo dopoguerra e negli anni successivi prese a sostenere la
cultura modernista e il teatro sperimentale, gestendo il cabaret dell'hôtel
Majestic, di cui era proprietario. Viaggiò molto sia in Europa (Francia,
Spagna, Germania, Russia) sia in America (Messico, California). Il 30 nov. 1929
sposò Giulia Massobrio, vedova di G. Volante. Dopo il matrimonio il G. lasciò
Roma, interrompendo l'intensa attività letteraria cui si era dedicato, e si
trasferì a Chianciano, dove comprò e gestì l'albergo Excelsior. Sempre a
Chianciano fondò e diresse il periodico Il Giornale dell'albergatore.
Intellettuale e poligrafo - fu infatti poeta, romanziere, filosofo con
particolare attenzione all'estetica, saggista, critico militante, studioso di
teatro - il G., finché si dedicò ad attività culturali, si adoperò
principalmente a sostenere e diffondere, nell'Italia del primo Novecento, un
clima e un gusto più avanzati e moderni; i suoi maggiori e più significativi
contributi, tutti concentrati nel corso degli anni Venti, riguardano le teorie
e le pratiche poste a fondamento del processo di rinnovamento del teatro
contemporaneo. Dopo gli studi giuridici e di medicina, il G. aveva
provveduto a darsi una solida e rigorosa preparazione letteraria e filosofica,
coniugando l'educazione sui classici con un'informazione puntuale e aggiornata
sugli orientamenti e sugli esiti più attuali della poesia, della critica, della
narrativa, dell'editoria a livello nazionale ed europeo. Insofferente, come
molti suoi coetanei, nei confronti dei contenuti e dei metodi del positivismo e
degli indirizzi storico-filologici, fu convinto seguace dell'idealismo di B.
Croce e della rinascita dell'interesse per la critica di F. De Sanctis; la sua
attenzione si estese, da Croce e dai crociani, anche agli intellettuali che
dialogavano con Croce dall'esterno dell'idealismo. Di questa sua
posizione egli rende conto in Il mantello di Arlecchino (Roma 1914 [ma 1913]),
sostanziosa silloge ricca di indicazioni e di suggestioni critiche, in cui
traccia il panorama della letteratura italiana della belle époque. Se De
Sanctis e Croce forniscono modelli e suggerimenti, tuttavia il lavoro critico
del G. non è inteso come applicazione pedissequa della dottrina dei maestri:
egli integra, rilegge, propone nuove osservazioni. A complemento di questo
lavoro è poi allegato un esaustivo tracciato dell'attività editoriale in
Italia. Di umori nazionalisti e interventisti è intrisa la sua prima
raccolta di versi in dialetto romanesco, Er libbro rosso de la guera (Roma
1915; che contiene anche il canovaccio teatrale in dialetto Le maschere de la
guera, pp. 3-21) mentre, per Trieste italiana e contro il mondo tedesco, il G.
pubblicò in Aprutium(IV [1915], f. 8), una canzone, Sorella nostra!,
celebrativa della latinità assunta a valore contro la barbarie del "duro
settentrione". Fu, comunque, la Grande Guerra a far maturare in lui un
processo di piena conversione al moderno, inteso quale gusto, mimesi
linguistica, diegesi e strumentazione di idee e di stili fondati sul
nuovo. Si avvicinò a F.T. Marinetti, di cui tra i primi aveva dato un
profilo essenziale e pertinente (ne Il mantello di Arlecchino), e ne divenne
amico, ma corresse anche il giudizio nei confronti dei futuristi, che nell'anteguerra
egli aveva adeguato, sulla scorta di G. Papini, a "marinettiani", tra
i quali, invece, venne distinguendo posizioni diverse, sostenendo soprattutto
alcuni di essi, come R. Vasari, L. Folgore ed E. Prampolini. Meditò
attentamente sul teatro di L. Pirandello, si entusiasmò per il teatro del
colore di A. Ricciardi, strinse amicizia con i Bragaglia, con V. Orazi, con M.
Bontempelli. Fu soprattutto l'ispirazione poetica a farsi nel G. più
avvolgente e convinta: la parola, che nelle sue composizioni d'anteguerra si
risolveva in veicolo di denunzia, di argomentazione e di persuasione, o di
descrizioni realistiche (vedi Er libbro rosso de la guera), acquistò nuove
sfumature, più allusive, e si dispose su tramature in cui si riscontrano
riflessi di G. Pascoli, di G. Gozzano, di C. Govoni, di A. Palazzeschi,
raggiungendo talora esito felice, come nelle tre liriche Alla stazione, Ogni
giorno così e Limbo, apparse in Le foglie dell'orologio (Roma s.d.), poi
riproposte con diverso titolo in Il grande amore (Firenze). In
quest'ultima silloge, accanto alle tre citate, figurano nuove composizioni,
ispirate al realismo magico di Bontempelli (Sembra una favola!, A teatro, Le
tre vecchine, Orgoglio); e, di fatto, l'avvicinamento a Bontempelli, sia sul
versante saggistico-estetologico sia su quello poetico, era iniziato da tempo:
già la raccolta Il mulino della luna (Milano 1924; di cui si ricordano in
particolare Come un cipresso notturno, L'oca azzurra, L'isola lontana,
Pierrots, Si parte, Con la rete dei pensieri, È passato il re, L'automa nella
pioggia, Annunciazione, Epilogo), posta cronologicamente fra le due
summenzionate, poggiava sostanzialmente su una griglia di suggerimenti
metafisico-surreali ascrivibili all'ambito ideale di Bontempelli e ai suoi
immediati dintorni. Non altrettanto positivo e più scontato l'esito
raggiunto dal G. nel romanzo e nella novella (per lo più inediti) con
l'eccezione di L'oca azzurra (Roma) - che riprende titolo e immagini della
lirica de Il mulino della luna, intrisa di un umorismo alla Folgore e di un
magismo che rinvia nuovamente a Bontempelli - e di Coriandoli, una raccolta,
appunto inedita, di novelle. Ma gli interventi più interessanti del G.
sono quelli legati al discorso critico sul teatro, riguardo al quale egli
concordava con avanguardisti e sperimentali sull'ineludibilità del rinnovamento
delle sue pratiche, delle sue strategie e dell'idea stessa su cui esso si
costituisce. A tal fine, si impegnò innanzitutto concretamente, fondando e
gestendo in proprio un laboratorio teatrale posto sotto il segno di un
"antigrazioso" irritante e provocatorio; infatti, nel 1921, a Roma,
con un anno di anticipo sul teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia, egli
aveva fondato e preso a dirigere quel cabaret, La Bottega del diavolo, sito
all'interno dell'hôtel Élite et des étrangers, poi Majestic, di sua
proprietà. Dell'albergo erano frequentatori e gratuitamente ospiti
numerosi futuristi, tra cui Marinetti, giornalisti e scrittori; negli
scantinati, detti l'"inferno", arredati con mobili e manufatti
realizzati da F. Depero, da Prampolini e da altri, e decorati con immagini di
diavoli danzanti, armati di forconi e pronti a scaraventare nelle fiamme i
dannati, si davano ogni sabato spettacoli futuristi e modernisti. Ai programmi,
e alla loro realizzazione, presiedeva una commissione di esperti e primi
attori, tra cui erano lo stesso G., nel ruolo di Minosse, Trilussa quale
Lucifero, Folgore come Cerbero, e Bontempelli come Barbariccia (per una
dettagliata testimonianza sul cabaret, che andò avanti fino al 1927, si veda Un
covo di diavoli nella Roma di 40 anni fa, in Il Tempo, 19 apr. 1967). Dietro la
facciata di questo underground ante litteram, il G. andava maturando la sua
riflessione sul rapporto tra teatro e corporeità, dionisismo, vitalismo, e
sulla necessità di accelerare il processo di rivitalizzazione e
risignificazione del teatro stesso e delle attività collegate. A monte di tale
riflessione specificamente orientata sul teatro, si collocavano i due volumi
del saggio L'irrazionale (I, Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova
scienza del bello; II, L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura
europea dalle origini ai nostri giorni, Foligno 1924), che s'inseriscono, con
ogni evidenza, nel quadro generale dell'avanguardia internazionale, impegnata a
riconsiderare i fondamenti dell'arte e dell'estetica nella chiave del notturno,
dell'inquietante, dell'anamorfico. Viceversa il discorso specifico sul
teatro s'innerva in tre opere successive: Il teatro contemporaneo e le sue
correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni
(Torino-Milano-Roma 1924), che si propone di indagare sui nuovi linguaggi del
teatro nelle sue varie manifestazioni nazionali; Scenografia. La tradizione e
la rivoluzione contemporanea (Roma 1926), in cui il G. esamina, tramite lo
specifico della scenografia, le vie attraverso le quali si possa raggiungere e
comunicare la realtà "che si trova di là dall'apparenza" (p. 210), e
come si possa darne una rappresentazione, interrogandosi su intuizioni e
tentativi di alcuni tra i nomi più significativi della storia del teatro
moderno - a partire da R. Wagner e proseguendo con G. Craig, A. Appia, V.
Mejerchol´d - ma soprattutto dando conto delle esperienze del "teatro
della sorpresa" futurista - di Vasari in particolare (L'angoscia delle
macchine, Milano 1925), ma anche di Prampolini, V. Marchi, Folgore, oltre che
del "teatro del colore" di A. Ricciardi e del laboratorio di A.G.
Bragaglia -, e studiando le esperienze futuriste del dinamismo plastico, della
simultaneità e della sintesi. Seguì infine Il grottesco nell'arte e nella
letteratura, in cui, riproponendo anche alcuni studi di prima della guerra (sul
grottesco nell'Inferno di Dante, sulla maschera turca di Karagöz), il G.
approfondisce soprattutto lo studio sul teatro futurista italiano nella chiave
del grottesco e del fantastico (in particolare, E. Cavacchioli, L. Chiarelli,
L. Antonelli). Al termine dell'intensa stagione intellettuale degli anni
Venti, convinto di essere stato sfruttato e trascurato dalla cultura ufficiale,
il G. si appartò, allontanandosi da Roma, senza tuttavia smettere di studiare e
di scrivere: lasciò quindi numerosi scritti inediti conservati presso gli
eredi. Nel secondo dopoguerra, il G. si stabilì in una località di mare,
Sant'Ilario Ligure (Genova), dove morì il 24 dic. 1952. Tra le opere del
G., oltre a quelle citate nel testo, si ricordano: per la narrativa:
Cagliostro(Milano; per la saggistica: Le bruttezze della Divina Commedia
(Alatri 1920); Le bellezze della Divina Commedia (Milano s.d. [ma 1921]); Studi
di estetica dell'irrazionale(ibid. s.d. [ma 1921]). Fonti e Bibl.: M.
Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma 1969, pp. 274-276 e passim; Id.,
Prosa e critica futurista, Milano, Giovanelli, G. G.: l'irrazionale e il
teatro, Roma 1978; U. Piscopo, G. G., in Dizionario del futurismo, a cura di E.
Godoli, Firenze 2001, sub voce.Gino Gori. Keywords: l’eroe e la falce, bello,
eroe, falce, irrazionale, mantello dell’arlecchino – bellezza, futurismo – Refs: Luigi Speranza,
“Grice e Gori” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gracco:
il concetto di stato -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A Roman statesman and
reformer, a friend of Blossio di Cuma. He may have followed the Porch himself.
He was killed by a mob. He was influenced by Blossio di Cuma. Tiberio Sempronio
Gracco.
Grice e Gramsci – contro Croce – partito socialista
italiano – il comune – l’élite – Mosca -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ales). Filosofo italiano. Grice: “Some Italians don’t consider Gramsci
Italian on account of the fact that Gramsci is not an Italian last name!” Fu
tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone esponente di primo
piano e segretario, ma venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi.
In seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la
libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni
di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei
suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista,
analizza la struttura culturale e politica di Italia. Elaborò in particolare il
concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri
valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l'obiettivo di
saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le
classi sociali, comprese quelle subalterne. Gli antenati paterni derano
originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in
Italia durante la diaspora albanese causata dall'invasione turca. Documenti
d'archivio attestano che nel Settecento il trisavolo Gennaro Gramsci, sposato
con Domenica Blajotta, possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del
distretto di Castrovillari, delle terre poi ereditate da Nicola Gramsci. Questi
sposò Maria Francesca Fabbricatore, e dal loro matrimonio nacque a Plataci
Gennaro Gramsci, che intraprese la carriera militare nella gendarmeria del
Regno di Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposò Teresa Gonzales, figlia
di un avvocato napoletano. Il loro secondo figlio fu Francesco, il padre di
Antonio Gramsci. Le origini albanesi erano conosciute dallo stesso Gramsci,
che tuttavia le immaginava più recenti, come scriverà alla cognata Tatiana
Schucht dal carcere di Turi: «o stesso non ho alcuna razza; mio padre è di
origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra del 1821, ma
si italianizzò rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana,
fondamentalmente questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere
dilaniato tra due mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco
perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese.” Ghilarza:
casa museo Antonio Gramsci Francesco era studente in legge quando morì il
padre; dovendo trovare subito un lavoro, partì per la Sardegna per impiegarsi
nell'Ufficio del registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava
circa 2.200 abitanti, conobbe Marcias, figlia di un esattore delle imposte e
proprietario di alcune terre. La sposò malgrado l'opposizione dei familiari,
rimasti in Campania, che consideravano i Marcias una famiglia di rango
inferiore alla propria dal punto di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva
studiato fino alla terza elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro e, dopo che
Francesco G. fu trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta ed Emma. Gramsci nasce
secondo il registro delle nascite dello stato civile del comune e registrato
con i nomi di Antonio, Francesco. Scondo il registro dei battesimi della parrocchia
di San Pietro nasce il giorno dopo, e
viene registrato con i nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco. Il padre fu
trasferito, come gerente dell'Ufficio del Registro, a Sorgono e qui nacquero
gli altri figli, Mario, Teresina, e Carlo. Antonio si ammala del morbo di Pott,
una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli
impedì una normale crescita: adulto, non supererà il metro e mezzo di altezza;
i genitori pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e
anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute
delicate. Soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai
medici, tanto che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura.
Il padre Francesco fu arrestato, con l'accusa di peculato, concussione e falsità
in atti, e venne condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve
valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta. Priva del
sostegno dello stipendio del padre, la famiglia trascorse anni di estrema
miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a
pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo
camicie. Proprio per le sue delicate condizioni di salute Gramsci comincia
a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse ncon il
massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al
ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo
all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di
Ghilarza per 9 lire al mese l'equivalente di un chilo di pane al giornos muovendo
«registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi
doleva tutto il corpo». Grazie a un'amnistia, il padre anticipò di tre
mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in
un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in
conciliatura e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del
catasto, dove lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli
abituali sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel
Ginnasio cdi Santu Lussurgiu, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti
professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle
cinque classi». Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì
tuttavia a prendere la licenza ginnasiale a Oristano e a iscriversi al Liceo
classico Giovanni Maria Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un
appartamento in via Principe Amedeo 24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio
Emanuele 149, insieme con il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio
di leva a Torino, lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio
del capoluogo sardo. La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si
fece sentire, perché inizialmente Gramsci nelle diverse materie ottenne appena
la sufficienza, ma riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare
erano i suoi impegni costanti. Non si concedeva distrazioni, non soltanto
perché avrebbe potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché
l'unico vestito che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a
frequentare né gli amici, né i locali pubblici. A scuola, mostrò uno spiccato
interesse per le discipline umanistiche e per lo studio della storia, anche
perché il cattivo insegnamento ricevuto in matematica gli fece perdere
l'interesse per la materia. Nel frattempo, il giovane G., iniziò a
seguire le vicende politiche. Il fratello Gennaro, che era tornato in Sardegna
militante socialista, divenne cassiere della Camera del lavoro e segretario
della sezione socialista di Cagliari: «Una grande quantità di materiale
propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più
delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche un'uscita di pochi
momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei giornali». Leggeva anche i
romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Barrili e quelli di Deledda, ma
questi ultimi non li apprezzava, considerando folkloristica la visione che
della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva Il Marzocco e La Voce di Prezzolini, Papini, Emilio Cecchi «ma in cima
alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di
custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini». Alla fine
della seconda classe liceale, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì Garzia,
radicale e anticlericale, direttore de L'Unione Sarda, quotidiano legato alle
istanze sarde, rappresentate, in Parlamento da Cocco-Ortu, allora impegnato in
una dura opposizione al ministero di Luigi Luzzatti. Gramsci instaurò con il
Garzia un buon rapporto, che andava oltre il naturale discepolato: invitato
ogni tanto a visitare la redazione del giornale, ricevette la tessera di
giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse. Ebbe
la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo scritto pubblico, venticinque
righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore.
In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è conservato, Gramsci scriveva,
tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà la
Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi;
ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha
lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali,
essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate».
La sua concezione socialista, qui chiaramente espressa, va unita, in questo
periodo, all'adesione all'indipendentismo sardo, nel quale egli esprimeva,
insieme con la denuncia delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle
disuguaglianze sociali, l'ostilità verso le classi privilegiate del continente,
fra le quali venivano compresi, secondo una polemica mentalità di origine
contadina, gli stessi operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i
lavoratori salariati. Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà
operaia di una grande città del Nord: il
conseguimento della licenza liceale con una buona votazione tutti otto e un
nove in italianogli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università.
Il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli
studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, offrendo 39 borse di studio,
ciascuna equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per poter frequentare Torino.
Fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a
Torino. «Partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo
55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza classe delle 100
avute da casa». Conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo
posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti. Si
iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano
nemmeno per le spese di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve
pagare venticinque lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora
Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce,
della pulizia della biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i
pasti«non meno di due lire alla più modesta trattoria»e la legna e il carbone
per il riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo
non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i
piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima
gelata». Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte
sua, non se la passava di certo molto meglio. L'Università degli Studi di
Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi
Einaudi, Ruffini, Manzini, Toesca, Loria, Solari e poi Bartoli, che si legò di
amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana Cosmo, contro il quale indirizzò però un
articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in
carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia«serbo del Cosmo un ricordo
pieno di affetto e direi di venerazione era e credo sia tuttora di una grande
sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che
è propria dei grandi eruditi e studiosi»ricordando anche che, con questi e con
molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado
divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in
tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in
Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno
può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro
si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla
cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani. Si
ritrovò a casa per le elezioni politiche, dopo la fine della guerra italo-turca
contro l'Impero ottomano per la conquista della Libia; votavano per la prima
volta anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse
delle elezioni precedenti. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base
elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le
forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico
da battere. In quest'obiettivo, "sardisti" e "non-sardisti"
si trovarono d'accordo e deposero le vecchie polemiche. Gramsci scrisse di
quest'esperienza elettorale al compagno di studi Tasca, dirigente socialista
torinese, il quale affermò che Gramsci «era stato molto colpito dalla
trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse
contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi
per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di
esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista». Tornò a Torino,
andando ad affittare una stanza all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo
14, oggi Monumento nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua
iscrizione al Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, con il
rischio di perdere il contributo della borsa di studio, a causa di «una forma
di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che
mi fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né
passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi
momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu
concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese anche
lezioni di filosofia da Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento
era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e
perché staccarsi voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli
scopi della rivoluzione come fa il pensare a far agire come le idee diventano
forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di
«superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio
di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di
pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare
nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della
palla di piombo come il Sud Italia e generalmente considerato nel Nord che
aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del
movimento socialista». L'iscrizione al partito gli permise di superare in parte
un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i giovani compagni di partito,
fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini. “Uscivamo spesso dalle riunioni
di partito mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci continuavamo
le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti
risate, di galoppate nel regno dell'impossibile e del sogno». Nell'Italia che
ha dichiarato la propria neutralità nella Prima guerra mondiale in
corsoneutralità affermata anche dal Partito socialistascrive per la prima volta
sul settimanale socialista torinese Il Grido del Popolo l'articolo Neutralità
attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'Avanti! di
Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, senza
però poter comprendere quale svolta politica stesse preparando l'allora
importante e popolare esponente socialista. Sostenne quello che sarà, senza che lo sapesse ancora,
il suo ultimo esame all'Università; il suo impegno politico si fece crescente
con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione
torinese dell'Avanti!. Trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo
piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di corso
Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la sezione
giovanile del partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo e del
foglio piemontese dell'Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca
torinese, Sotto la Mole; in entrambi i giornali Gramsci pubblicava di tutto,
dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di
partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle
recensioni dei libri alla critica teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in
dieci anni di giornalismo «tante righe da poter costituire quindici o venti
volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano
morire dopo la giornata» e di aver contribuito «molto prima di Tilgher» a
rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul Pirandello tanto da
mettere insieme un volumetto di duecento pagine e allora le mie affermazioni
erano originali e senza esempio: Pirandello era o sopportato amabilmente o
apertamente deriso». Della commedia di Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse
che «è tutto uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii
discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di
fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella
loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È
questa del resto la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie
della vita la smorfia, più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che
osserva la vita con l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio
simpatico dell'uomo artista e la deforma per un'abitudine ironica che è
l'abitudine professionale più che visione sincera e spontanea», mentre
considerò Liolà «il prodotto migliore
dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a
spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per
partito preso troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a
sommergersi in una palude retorica di una moralità inconsciamente predicatoria,
e di molta verbosità inutile». Il fu Mattia Pascal, secondo Gramsci, è
una sorta di prima stesura del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica
della vita, si è rinnovato diventando una pura rappresentazione, «una farsa che
si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo
corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare è una vita ingenua, rudemente sincera una
efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita
è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da
tutta la materia organica». Severo fu invece il giudizio sul Così è (se
vi pare): dalla tesi pseudo-logistica che la verità in sé non esista,
Pirandello «non ha saputo trarre dramma e neppure motivo a rappresentazione
viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato
fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice fatto di
letteratura [puro e semplice aggregato di parole che non creano né una verità
né un'immagine il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è
nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l'intima
necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine
della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il
numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città future. Qui mostra la
sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti
riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua
formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce,
superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo»scriverà«il concetto
di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e
io ero tendenzialmente crociano». Lo zar di Russia Nicola II è facilmente
rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee,
che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato
governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di
rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa
del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani
«borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di
democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese,
mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è un atto proletario ed
essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista i rivoluzionari socialisti non possono essere
giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che
gli organismi borghesi non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in
Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della
consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. Gramsci è
convinto che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi
compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare
il socialismo». Gramsci nega esplicitamente la necessità dell'esistenza di
condizioni obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i
bolscevichi «sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non
evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di
progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del
socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una
riprova assoluta e integrale». È l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che
scriverà subito dopo la notizia del successo della Rivoluzione d'ottobre.
Anche in Italia la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di
morti e di mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di
Caporetto e la stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze
che a Torino sfociarono in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa
dal governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona
di guerra con la conseguente applicazione della legge marziale, arresti a
catena che colpirono non solo i diretti responsabili ma, indiscriminatamente,
anche gli elementi politici d'opposizione e segnatamente l'intero nucleo della
sezione socialista, con l'accusa di istigazione alla rivoluzione. In
conseguenza dell'emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione
socialista torinese venne assunta da un comitato di dodici persone, del quale
fece parte anche Gramsci, il quale rimane l'unico redattore de Il Grido del
Popolo che cesserà le pubblicazioni. I bolscevichi avevano preso il potere in
Russia ma per settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate,
finché l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La
rivoluzione contro il Capitale, firmato da Gramsci: «La rivoluzione dei
bolscevichi è materiata di ideologia più che di fatti essa è la rivoluzione
contro il Capitale di Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei
borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale
necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era
capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il
proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni
di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti
hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia
avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni
del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non
sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una
dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il
pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del
pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di
incrostazioni positivistiche e naturalistiche». In realtà Marx, almeno negli
ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato potesse giungere al
socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui interessa rilevare
tanto la visione di Gramsci ancora idealistica, volontaristica, dell'azione
politica, quanto la critica che di fatto Gramsci rivolgeva ai dirigenti
socialisti europei, e italiani in particolare, di concepire lo sviluppo storico
in modo meccanicistico. Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti
torinesi del partito, Gramsci lavorò unicamente all'edizione piemontese
dell'Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni
giovani colleghi: Giuseppe Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice
Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e
Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione
russa, esigenze nuove nell'attività politica, che non sentivano rappresentate
dalla Direzione nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in
quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga
cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza
un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio,
quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Uscì il primo
numero dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della
rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu
l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi
concreti nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale
letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per
"cultura" intendeva "ricordare", non intendeva
"pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose
logore, la paccottiglia del pensiero operaio fu una rassegna di cultura
astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline
orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine nuovo nei
suoi primi numeri». Gramsci intendeva invece definirlo su posizioni nettamente
operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle
fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica,
sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato
redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente
nel n. 7 della rassegna il problema dello sviluppo della commissione interna
divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto
come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della
"libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci
seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono
l'Ordine nuovo perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se
stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli
dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore:
"Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?".
Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture
intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori,
elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle
Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano
elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano
essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto
degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma
porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della
gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel s, alla FIAT
furono eletti i primi Consigli. La Confindustria, nella sua Conferenza
nazionale, espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro
attinga in se stessa il mezzo per un'energica azione contro deviazioni e
illusioni» e il 20 marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De
Benedetti e Agnelli fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di
ricorrere all'arma della serrata delle fabbriche contro «l'indisciplina e le
continue esorbitanti pretese degli operai». Così quando in occasione di una
controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle
commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo
sciopero, l'Associazione degli industriali metalmeccanici rispose il 29 marzo
con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo
sciopero generale proclamato a Torino e
in alcune province piemontesi, mentre il governo presidiava il capoluogo con
migliaia di soldati. I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se
non in tutta l'Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì
e alla fine d'aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza
avere ottenuto nulla. Lo sciopero fallì per la resistenza degli
industriali ma anche per l'isolamento in cui la Camera del Lavoro, controllata
dai socialisti riformisti, contrari alla costituzione dei Consigli operai, e lo
stesso Partito socialista lasciarono i lavoratori torinesi; l'8 maggio Gramsci
pubblicò sull'Ordine Nuovo una sua relazione, approvata dalla Federazione
torinese, che denunciava l'inefficienza e l'inerzia del Partito. Dopo aver
sostenuto che era matura la trasformazione dell'«ordine attuale di produzione e
di distribuzione» in un nuovo ordine che desse «alla classe degli operai
industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione», alla quale si
opponevano gli industriali e i proprietari terrieri, appoggiati dallo Stato,
Gramsci rilevava che «le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e
di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito
socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di
sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale
periodo il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli
eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere non lancia parole d'ordine che
possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e
concentrare l'azione rivoluzionaria il Partito socialista è rimasto, anche dopo
il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile
entro i limiti angusti della democrazia borghese». Il numero
dell'11 dicembre 1920 Rilevò la mancanza di omogeneità nella composizione del
partito, in cui continuavano a essere presenti riformisti e «opportunisti»,
contrari agli indirizzi della III Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza
rivoluzionaria del partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un
esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi
opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il
prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro posizioni
parlamentari e sindacali se il Partito non realizza l'unità e la simultaneità
degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico, senza
anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un
altro partito e si sposta verso tendenze anarchiche ». Il Partito socialista
non svolge alcuna funzione di educazione e di spiegazione di quanto sta
avvenendo nella scena internazionale, dalla quale esso è assente, non
partecipando nemmeno alle riunioni dell'Internazionale comunista, le cui tesi
non sono riportate nell'Avanti!. Analogamente, le edizioni socialiste non
stampano le pubblicazioni comuniste: «valga per tutte il volume di Lenin Stato
e rivoluzione». Occorre pertanto, secondo Gramsci, che il Partito socialista
acquisti «una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo
borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta
per l'avvenire della società comunista i non comunisti rivoluzionari devono essere
eliminati dal Partito ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e
internazionale deve essere immediatamente commentata per trarne argomenti di
propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie le sezioni
devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative,
nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti l'esistenza di un Partito
comunista coeso e fortemente disciplinato [.è la condizione fondamentale e
indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet il Partito deve
lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico
sia posta in modo esplicito ». La risoluzione dell'Internazionale comunista che
chiedeva ai partiti socialisti l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa
dal Partito Socialista Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e
dell'avallo ottenuto dagli ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso
dell'Internazionale, alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di
Bologna tenuto nell'ottobre del 1919, i vecchi dirigenti del partito erano
riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi nel
dopoguerra. In Italia, le rivendicazioni salariali, rese necessarie
dall'elevato indice d'inflazione, non trovavano accoglienza presso gli
industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito della serrata dell'Alfa
Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la FIOM appoggiò
l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche
d'Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa provocasse
l'intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative. All'inizio
di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano occupate da mezzo
milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla
FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di Giovanni Agnelli
prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica
decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica
poteva funzionare anche in assenza del proprietario. Giovanni
Giolitti Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della
Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide
riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi
ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito,
che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la
proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del
paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un
accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla
fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche. Quell'esperienza
dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto
l'impreparazione degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali
occorrevano organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII
Congresso del Partito socialista, Gramsci scrisse che «la costituzione del
Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera
nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli
irresponsabili, liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del Partito,
lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro
insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la
loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al
lavoro positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di
organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà». NSi riunì
a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e
Amadeo Bordiga, Luigi Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci,
Francesco Misiano e Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio
della frazione comunista del Partito Socialista. La fondazione del
Partito comunista Il congresso di Livorno La scissione si realizzò, nel
Teatro San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d'Italia,
sezione italiana dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli
astensionisti (Amadeo Bordiga, Ruggero Grieco, Giovanni Parodi, Cesare Sessa,
Ludovico Tarsia e Bruno Fortichiari), dagli ex-massimalisti (Nicola Bombacci,
Ambrogio Belloni, Egidio Gennari, Francesco Misiano, Anselmo Marabini, Luigi
Repossi e Luigi Polano) e dagli ordinovisti Gramsci e Terracini. Diresse
l'Ordine nuovo, divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il
Lavoratore di Trieste e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da
Togliatti. Non venne eletto deputato alle elezioni: Gramsci non ha capacità
oratorie, è ancora giovane e anche la sua conformazione fisica non lo agevola
nell'apprezzamento di molti elettori. Alla fine di maggio partì per
Mosca, designato a rappresentare il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale
comunista. Vi arrivò già malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per
malattie nervose di Mosca. Qui conobbe una degente russa, Eugenia Schucht,
membro del Partito, figlia di Apollon Schucht, dirigente del Pcus e amico
personale di Lenin, che aveva vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di
lei, la sorella Giulia (Julka) che,
violinista, aveva abitato diversi anni a Roma diplomandosi al Conservatorio
Santa Cecilia. Giulia, ventiseienne, è bella, alta, ha un aspetto
romantico; Gramsci ne è conquistato: ricorderà «il primo giorno che non osavo
entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito al giorno che sei partita a
piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada attraverso la foresta e
sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare tutta sola, col tuo
carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile ho
molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l'amore e mi
hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e torbido. E quell'immagine di lei, viandante in un mondo
grande e terribile, con il suo senso doloroso di distacco, ritornerà ancora dal
carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco d'argento ti ho accompagnata
fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare
così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una mano
e nell'altra la tua borsa da viaggio, così pittoresca». Si sposano e avranno
due figli, Delio e Giuliano. Il figlio di quest'ultimo porta il nome del nonno,
vive a Mosca e pratica la musica medievale. Giulia membro della OGPU, il servizio
di Sicurezza sovietico. La moglie di Gramsci e i figli Delio e Giuliano A
differenza di Bordiga, tutto inteso a salvaguardare la «purezza» programmatica
del partito, e perciò contrario a qualunque iniziativa al di fuori della
dittatura del proletariato, Gramsci guardava anche a obiettivi democratici,
intermedi, raggiungibili utilizzando le contraddizioni presenti negli strati
sociali e le forze che potevano rappresentare elementi di rottura, come il
movimento sindacale cattolico di Guido Miglioli e l'intellettualità
progressista liberale di cui Piero Gobetti è allora tra i maggiori
rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino al 1926 ribadisce che
l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese e la dittatura del
proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si riscontrano critiche al
regime sovietico. Nel III Congresso dell'Internazionale comunista, di
fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria rappresentata dalle sconfitte
delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria, si decise la tattica del
fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la maggioranza dei dirigenti
comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di Roma, base programmatica
del II Congresso del Partito, tenuto a Roma. Gramsci vi aderì ma scrisse di
aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse erano presentate come una
opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale comunista] e non come un
indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al
suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa
concessione senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro
movimento». Nel IV Congresso dell'Internazionale, di fronte all'avvento al
potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu posta con ancora maggior
forza la necessità di fondersi con corrente socialista degli internazionalisti,
capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di costituire un nuovo Esecutivo,
mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario a ogni accordo. Lo stesso
Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia nel febbraio 1923 e, in
settembre, a Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del nuovo
Esecutivo: Gramsci restò così il massimo dirigente del Partito e si trasferì a
Vienna per seguire più da vicino la situazione italiana. Fu allora che egli
ritenne necessario rompere con la politica di Bordiga: «Il suo stesso carattere
inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga a prospettarci il problema di
costruire il partito ed il centro di esso anche senza di lui e contro di lui.
Penso che sulle quistioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come
nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al
partito e lo prepara ad ogni evenienza». Uscì a Milano il primo numero del
nuovo quotidiano comunista l'Unità e dal primo marzo la nuova serie del
quindicinale l'Ordine nuovo. Il titolo del giornale, da lui scelto, venne
giustificato dalla necessità dell'«unità di tutta la classe operaia intorno al
partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno,
unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo».Alle elezioni
venne eletto deputato al parlamento, potendo così rientrare a Roma, protetto
dall'immunità parlamentare. Quello stesso mese, nei dintorni di Como, si tenne
un convegno illegale dei dirigenti delle Federazioni comuniste italiane:
pubblicamente, si fingevano dipendenti di un'azienda milanese in gita
turistica, con tanto di pubblici discorsi fascisti e inni a Mussolini, mentre,
a parte, discutevano dei problemi del partito. Nel convegno si affrontò
il «caso Bordiga», il quale aveva rifiutato la candidatura al Parlamento, era
in rotta con la maggioranza dell'Internazionale e rifiutava ogni azione
politica comune con le altre forze politiche di sinistra. Delle tre mozioni
presentate, che rispecchiavano le tre correnti in seno al Partito, la corrente
di destra di Tasca, di centro di Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga,
questa raccolse l'adesione della grande maggioranza dei delegati, confermando
la notevole importanza di cui il rivoluzionario napoletano godeva nel
Partito. Il 10 giugno un gruppo di fascisti rapì e uccise il deputato
socialista Giacomo Matteotti; sembrò allora che il fascismo stesse per crollare
per l'indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così;
l'opposizione parlamentare scelse la linea sterile di abbandonare il
Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione dell'Aventino: i liberali
speravano in un appoggio della Monarchia, che non venne, i cattolici erano
ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi ultimi erano ostili a
tutti, comunisti compresi. Gramsci avanzò al «Comitato dei sedici»il nucleo
dirigente dei gruppi aventinianila proposta di proclamare lo sciopero generale
che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal «Comitato delle
opposizioni» aventiniane il quale, secondo Gramsci, non aveva alcuna volontà di
agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra
per costringerci ad abbandonare la riunione». Giacomo Matteotti Malgrado le
divisioni dell'opposizione antifascista, Gramsci credeva che la caduta del
regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è
riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi
medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste
nella rovina della piccola e media azienda il monopolio del credito, il regime
fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa
commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è
verificato dalla piccola e media alla grande borghesia. L'apparato industriale
ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del
livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari,
dall'aumento della giornata di lavoro. La disgregazione sociale e politica del
regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa nelle elezioni
del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona
industrial. Le elezioni del 6 aprile segnarono l'inizio di quella ondata
democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio
dell'on. Matteotti le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni
un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel
Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista si
ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la
maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le
opposizioni e l'assassinio del deputato unitario”. “Il delitto Matteotti dette
la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un
normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del
dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento della
vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alla
storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che
nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S'ingannava, perché
l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in
cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i
fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una delle
tante viene aggredito anche Gobetti. E dopo il 12 settembre, quando il
militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram il deputato fascista
Armando Casalini, per vendicare la morte di Matteotti, la repressione
s'inasprisce. Il 20 ottobre Gramsci propose vanamente che l'opposizione
aventiniana si costituisca in «Antiparlamento», in modo da segnare nettamente
la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli fascisti; ipartì
per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale del partito e per
rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò dalla madre, che non avrebbe più
rivisto. Il deputato comunista Repossi rientrò in Parlamento, dove sedevano
solo i deputati fascisti e i loro alleati, per commemorare Matteotti a nome di
tutto il suo partito; il 26 vi rientrò anche tutto il gruppo parlamentare
comunista, a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana. Il quotidiano di
Giovanni Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Cesare Rossi, già capo
ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è
successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la
complicità del duce» e Mussolini, in un discorso rimasto famoso, a confermare
quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la
responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il
via a una nuova azione repressiva. In febbraio Gramsci andò a Mosca, per
stare con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia a
maggio, il 16 tenne il suo primoe unicodiscorso in Parlamento, davanti all'ex
compagno di partito Mussolini, ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno
prima come un capo che «è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato
organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Conosciamo quel
viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato
dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e
oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia.
Mussolini è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce
impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di
dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del
proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci
quando ridiventa borbonica». Con il pretesto di colpire la Massoneria, il
governo aveva predisposto un disegno di legge per disciplinare l'attività di
associazioni, enti e istituti: continuamente interrotto, Gramsci respinse il
pretesto che il governo si era dato, «perché la Massoneria passerà in massa al
Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge
voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e
contadine». E ironizzando: «Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente
gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista,
e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi
fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito e
un'organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è
qualcosa di vero, in questa torbida perversione degli insegnamenti
marxisti». Concluse: «Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare
i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma
in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere sulle condizioni
obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il
proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin oggi più diffuso
nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e
alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie
italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a
realizzarsi». Si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del
Partito. Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori responsabili,
Bordiga, Gramsci, Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi era anche
Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era stato a
lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale, Jules
Humbert-Droz. Gramsci presentò le Tesi congressuali elaborate insieme con
Togliatti. Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia
nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e
proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della
maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale
omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia urbana e rurale, che ha
interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come l'unico elemento che
per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la
società.» Secondo Gramsci il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga,
l'espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della
piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il
potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l'espressione
della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori
del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società
italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria,
una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due
forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del
Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito andrà
bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una
"disciplina di ferro" negando al suo interno la possibilità
dell'esistenza delle frazioni. Il Congresso approvò le Tesi a grande
maggioranza (oltre il 90%) ed elesse il Comitato centrale con Gramsci segretario
del Partito. Da allora, la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo
influente nel Partito. Le Tesi di Lione, realizzate da Gramsci, ribadirono con
una certa durezza le posizioni del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia
ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto
riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere
considerata non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala
sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata». In questa
relazione venne sviluppata la cosiddetta bolscevizzazione del partito: «spetti
al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una
Internazionale communista. La organizzazione di un partito bolscevico deve
essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione
centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti.
Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. La
centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo
seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito
bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti
socialdemocratici».Tornato a Romada via Vesalio si era trasferito in via
Morgagniebbe il tempo di passare alcuni mesi con la famigliala moglie Giulia e
il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e Tatianache abitano tuttavia in
un altro appartamento, in via Trapani: le squadre fasciste, superato da tempo
lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena libertà d'azione
e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; a
Firenze, era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa
casa di Gramsci era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre
gli esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via dell'emigrazione
Gobetti, che muore ia Parigi, in conseguenza delle bastonate squadriste,
Amendola, Salveminiun processo farsa condannava a una pena simbolica gli
assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci. La
moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia e il
mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio
Delio: Gramsci non l'avrebbe più rivisto. Giustino Fortunato
Elaborando temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò
a scrivere un saggio sulla questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla
quistione meridionale, in cui analizzò il periodo dello sviluppo politico
italiano dal 1894, anno dei moti dei contadini siciliani, seguito nel 1898
dall'insurrezione di Milano repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo
Gramsci, la borghesia italiana, impersonata politicamente da Giovanni Giolitti,
di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini meridionali e
degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, cosa che
avrebbe dovuto comportare una politica di libero scambio e di bassi prezzi
industriali, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la
conseguente scelta del protezionismo doganale, unita a concessione di libertà
sindacali. Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia,
manifestatasi anche contro i dirigenti socialisti riformisti, Giolitti cercò un
accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord. Il problema è allora di
perseguire una politica di opposizione che rompa l'alleanza
borghesia-contadini, facendo convergere questi ultimi in un'alleanza con la
classe operaia. La società meridionale, secondo Gramsci, è costituita da
tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente
inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla
quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come
impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e
fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe,
costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono
alla formazione dell'intellettualità nazionale, con personalità del valore di Croce
e di Fortunato e sono, con quelli, i principali e più raffinati sostenitori
della conservazione di questo blocco agrario. Croce e Fortunato sono, per
Gramsci, «i reazionari più operosi della penisola», «le chiavi di volta del
sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della
reazione italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione
di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le
due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il
proletariato urbano. Tuttavia Gramsci non aveva un'opinione positiva sui
contadini, scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina
meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito» «Non ho
mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e
non solo a stare in prigione vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho
dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli
qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono
conservare il loro onore e la loro dignità di uomini» (Antonio Gramsci,
Lettera alla madre) In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza
di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata
da Trotskij, Zinov'ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale
favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla
rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un
solo paese» che porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il
dissidio, che porta all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del
Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con la costituzione in
frazione della minoranza e si era esteso anche all'interno del Partito
comunista tedesco, provocando una scissione. Il New York Times, forse su
ispirazione di Trotsky, pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti
rilievi sul carattere di Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere
che la carica di segretario del Partito gli concedeva. Su incarico dell'Ufficio
politico, Gramsci scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato centrale del
Partito sovietico. Egli si mostra preoccupato per l'acutezza delle polemiche che
potrebbero portare a una scissione che «può avere le più gravi ripercussioni,
non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i
principi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se
essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a
tutte le democrazie formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di
essere stati «l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie
di tutti i paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi
degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il
partito comunista dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare
che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli
aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i
vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel
quadro degli interessi del proletariato internazionale. Nel merito del
fondamento del contrastola contraddizione di un proletariato formalmente
«dominante» in URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe
«dominata»Gramsci appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è
facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando
la quistione è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in
quelli del leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato è in questo
elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei
pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella
pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della
socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato
occidentale di organizzarsi in classe dirigente». Gramsci concludeva
esortando all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito
potentemente a educarci per la rivoluzione sono stati tra i nostri maestri. A
loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell'attuale
situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato
centrale del partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e
sia disposta a evitare le misure eccessive. L'untà del nostro partito fratello
di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie
mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere
disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito
unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata
condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali». Togliatti,
allora a Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le
ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le
responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità
di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora
in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai
difficilmente realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per
approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale
comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, Mussolini subì a Bologna
un attentato senza conseguenze personali, che provoca una tale pressione
poliziesca da far fallire il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto
per l'eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia: il governo
sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L'8
novembre, in violazione dell'immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato
nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo fu
dichiarato decaduto, insieme agli altri deputati aventiniani. Dopo un periodo
di confino a Ustica, dove ritrovò, tra gli altri, Bordiga, fu detenuto nel
carcere milanese di San Vittore. Qui ricevette, in agosto, la visita del
fratello Mario, le cui scelte politiche erano state opposte alle suegià
federale di Varese, ora si occupava di commercioe, soprattutto, quella della
cognata Tatiana, la persona che si manterrà sempre, per quanto possibile, in
contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà
a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto avvicinare da due agenti
provocatoriprima un tale Dante Romani e poi un certo Corrado Melanima senza
successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Umberto
Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda, iniziò finalmente a Roma;
Mussolini aveva istituito il Tribunale Speciale Fascista. Presidente è un
generale, Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista,
relatore l'avvocato Buccafurri e accusatore l'avvocato Isgrò, tutti in
uniforme; intorno all'aula, «un doppio cordone di militi in elmetto nero, il
pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna» Gramsci è accusato
di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e
incitamento all'odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua
requisitoria con una frase rimasta famosa: «Bisogna impedire a questo cervello
di funzionare per venti anni»; e infatti Gramsci venne condannato a venti anni,
quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Raggiunse il carcere di Turi, in
provincia di Bari. Fin da quando si trovava in carcere a Milano, era
intenzionato a occuparsi «intensamente e sistematicamente di qualche soggetto»
che lo «assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore». Il detenuto 7.047
ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi
Quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16
argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora
svolti solo in parte. Caratteristico era il suo modo di lavorare. Quasi tutti i
giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, rifletteva sulle
frasi da scrivere e poi si chinava sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un
ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare. A
fare da tramite tra Gramsci e il mondo esterno, e in particolare con Sraffa e
tramite questi col Pcus e il PCd'I, fu la cognata Tatiana Schucht, essendo la
moglie di Gramsci tornata in Unione Sovietica. Intanto, il Congresso
dell'Internazionale comunista, tenutosi a Mosca aveva stabilito l'impossibilità
di accordi con la social-democrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso
fascismo. Era la tesi di Stalin il quale, liquidata l'opposizione di Trockij,
eliminava anche l'influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra
di Trockij, era rimasto il suo principale oppositore da destra. Al nuovo
orientamento dell'Internazionale, riaffermato nel X Plenum del Comitato
esecutivo ndovevano adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i
dissidenti. Il Partito comunista d'Italia si adeguò alle scelte
dell'Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma
con l'accusa di trotskismo, prima, iBordiga, poi, ifu la volta di Leonetti,
Tresso e Ravazzoli. Teneva, durante l'ora d'aria, dei
"colloqui-lezioni" con i compagni di partito: non esistono dirette
testimonianze delle opinioni espresse da Gramsci riguardo alla «svolta»
politica del movimento comunista, ma può costituire un indiretto riferimento un
rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa, amnistiato, inviò subito al
Centro estero comunista. Secondo quella relazione, riferì la teoria della
necessità dell'alleanza fra operai del Nord e contadini meridionali che già
stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per la conquista degli alleati
diviene per il proletariato cosa estremamente delicata e difficile. D'altra
parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni
serio movimento rivoluzionario». Qui s'intende che il proletariatola classe
operaiadebba allearsi con i contadini e la piccola borghesia: «Se si tiene
conto delle particolari condizioni nei limiti delle quali va visto il grado di
sviluppo politico degli strati contadini e piccoli borghesi in Italia, è facile
comprendere come la conquista di questi strati sociali comporti per il partito
una particolare azione. La lotta per la conquista diretta del potere è un passo
al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi il primo passo
attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li
porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L'inutilità
della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori a questo obiettivo deve
improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario.
Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d'ordine
della Costituente». Ma l'azione del partito «deve essere intesa a svalutare
tutti i programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice come
la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione
proletaria». La richiesta di una Costituente, e dunque di un'iniziativa
politica che si ponesse obiettivi intermedi, avrebbe comportato necessariamente
una convergenza, per quanto temporanea, con altre forze antifasciste, e se è
difficile considerare tale linea politica come «social-democratica», durante le
discussioni nel cortile del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che
egli era ormai fuori del Partito comunista. Probabilmente le reazioni di alcuni
erano esasperate dal clima di detenzione» ma certo le posizioni dovevano
apparire in contrasto con la linea politica indicata in quegli anni dal Partito
comunista. È in questo periodo chevenne a contatto con Pertini, esponente del
PSI e detenuto anch'egli alla Casa Penale di Turi. I due, nonostante i pensieri
politici differenti, divennero grandi amici e Pertini, anche dopo la
scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le
tristi condizioni di salute che lo stroncavano. Gramsci, oltre al morbo di Pott
di cui soffriva fin dall'infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così
ottenere una cella individuale; cercò di reagire alla detenzione studiando ed
elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia
le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ebbe un'improvvisa
e grave emorragia. Anche la moglie, in Russia, era sofferente di una seria
forma di depressione e rare erano le sue lettere al marito che, all'oscuro dei
motivi dei suoi lunghi silenzi, sentiva crescere intorno a sé il senso di un
opprimente isolamento. Scriveva alla cognata: Non credere che il sentimento di
essere personalmente isolato mi getti nella disperazione io non ho mai sentito
il bisogno di un apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia
vita tanto meno oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato
un più alto grado di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi
sentivo quasi orgoglioso di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la
meschinità, l'aridità, la grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà.
Quando la madre morì, i familiari preferirono non informarlo. Ebbe una seconda
grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni
sul suo immediato futuro. Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire,
pessimista con l'intelligenza e ottimista con la volontà. Oggi non penso più
così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma
significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna
riserva di forze». Eppure lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176,
prevedeva la concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi
condizioni di salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte,
fra gli altri, Rolland e Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri
detenuti politici, ma venne trasferito nell'infermeria del carcere di
Civitavecchia e poi nella clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in
camera e all'esterno. Mussolini accolse finalmente la richiesta di libertà
condizionata, ma Gramsci non rimase libero nei suoi movimenti, tanto che gli fu
impedito di andare a curarsi altrove, perché il governo temeva una sua fuga all'estero;
solo il poté essere trasferito nella clinica "Quisisana" di Roma,
dove giunse in gravi condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e
all'arteriosclerosi soffriva di ipertensione e di gotta. Passò dalla
libertà condizionata alla piena libertà, ma era ormai in gravissime condizioni:
morì di emorragia cerebrale, nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente
la cremazione si svolsero i funerali, cui parteciparono soltanto il fratello
Carlo e la cognata Tatiana. Le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono
trasferite nel Cimitero acattolico di Roma, nel Campo Cestio. I 33 Quaderni del
carcere, non destinati da Gramsci alla pubblicazione, contengono riflessioni e
appunti elaborati durante la reclusione. Furono definitivamente interrotti a
causa della gravità delle sue condizioni di salute. Furono numerati, senza
tener conto della loro cronologia, dalla cognata Schucht, che li affidò
all'Ambasciata sovietica a Roma da dove furono inviati a Mosca e,
successivamente, conseg Palmiro Togliatti. Dopo la fine della guerra i
Quaderni, curati dal dirigente comunista Platone sotto la supervisione di Togliatti,
furono pubblicati dall'editore Einaudi unitamente alle sue Lettere dal carcere
indirizzate ai familiarii n sei volumi, ordinati per argomenti omogenei, con i
titoli “Il materialismo storico e la filosofia di Croce”; “Gli intellettuali e l'organizzazione della
cultura”; “Il Risorgimento”; “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo
Stato moderno”; “Letteratura e vita nazionale”; “Passato e presente”. I Quaderni furono pubblicati Valentino
Gerratana secondo l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono stati
raccolti in volume anche tutti gli articoli scritti da Gramsci nell'Avanti!, ne
Il Grido del Popolo e ne L'Ordine Nuovo. Conquistare la maggioranza
politica di un Paese vuol dire che le forze sociali, che di tale maggioranza
sono espressione, dirigono la politica di quel determinato paese e dominano le
forze sociali che a tale politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia.
Vi è distinzione fra direzione egemonia intellettuale e morale e dominio esercizio
della forza repressive. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che
tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente
dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente
già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni
principali per la stessa conquista del potere. Dopo, quando esercita il potere
ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare
ad essere anche dirigente. La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche
mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non
riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a
risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione
del mondo. A quel punto, la classe sociale sub-alterna, se riesce a indicare
concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può
diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad
altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova
alleanza di forze sociali, divenendo “egemone.” Il cambiamento dell'esercizio
dell'egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello
della sovra-struttura in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale,
morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso investendo anche la
struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che indica
l'insieme della struttura e della sovra-struttura, ossia i rapporti sociali di
produzione e i loro riflessi ideologici. Analizzando la storia di Italia e
il Risorgimento in particolare, rileva che la classe popolare non trova un
proprio spazio politico e una propria identità, poiché la politica dei liberali
di Cavour concepì l'unità nazionale come un allargamento dello Stato piemontese
e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma
come conquista regia. Rritiene che l'azione della borghesia avrebbe potuto
assumere un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste
masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza
della popolazione. Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette
nel non essere capeggiata da un partito giacobino, come in Francia, dove le
campagne, appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle
forze della reazione aristocratica. Il partito politico italiano allora
più avanzato fu il “Partito d'Azione” di Mazzini e Garibaldi, che non seppe
impostare il problema dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la
classe contadina. Garibaldi in Sicilia distribuì le terre demaniali ai
contadini, ma gli stessi garibaldini repressero le rivolte contadine contro i
baroni latifondisti. Per conquistare l'egemonia contro i moderati guidati dal
liberale Cavour, il “Partito d'Azione” avrebbe dovuto legarsi alle masse
rurali, specialmente meridionali, essere giacobino specialmente per il contenuto
economico-sociale. Il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza
in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali
legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova
formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui
contadini di base, accettandone le rivendicazione di base e sugli intellettuali
degli strati medi e inferiori». Al contrario, i cavourriani liberali seppero
mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo tanto i radicali che
una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché i moderati
cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che erano
proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi
rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso
fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud. Il Piemonte assunse
la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe
dirigente favorevoli all'unificazione. Questi nuclei non volevano dirigere
nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli
interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e
ancora. Volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè
volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione,
divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte, che ebbe una
funzione paragonabile a quella di un partito. Questo fatto è della massima
importanza per il concetto di “rivoluzione passive”, che cioè non un gruppo
sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno stato, sia pure limitato
come potenza, sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere dirigente
e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza
politica-diplomatica. Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel
dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio”
e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia. Il concetto di “egemonia”
si distingue da quello di “dittatura”. La dittatura uesta è solo dominio,
quella è capacità di direzione. Non prese mai posizione contro la “dittatura
del proletariato” né espresse critiche significative al regime sovietico in
Russia. Le classi subalterne Gustave Courbet, Lo spaccapietre Le
classi subaltern esotto proletariato, proletariato urbano, rurale e anche parte
della piccola borghesianon sono unificate e la loro unificazione avviene solo
quando giungono a dirigere lo stato, altrimenti svolgono una funzione
discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli stati,
subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti anche quando ad essi si
ribellano. Il "blocco sociale", l'alleanza politica di classi
sociali diverse, formato, in Italia, da industriali, proprietari terrieri,
classi medie, parte della piccola borghesia, non è omogeneo, essendo
attraversato da interessi divergenti, ma una politica opportuna, una cultura e
un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che quei contrasti di
interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano provocando la crisi
dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell'intero sistema di
potere. In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi dominanti è ed
è stata parziale. Tra le forze che contribuiscono alla conservazione di tale
blocco sociale è la Chiesa, che si batte per mantenere l'unione dottrinale tra
fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e dominati,
in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che essa non
è in realtà in grado di sanare, ma solo di controllare. La Chiesa è sempre
stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente si formino due
religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime semplici, una lotta
che ha fatto risaltare la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del
clero che ha dato derte soddisfazioni alle esigenze della scienza e della
filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono
percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano
"rivoluzionarie" e demagogiche agli "integralisti" ».Anche
la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata dalle scuole
filosofiche di Croce e Gentile, non ha «saputo creare una unità ideologica tra
il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali, tanto che essa, anche se
ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha nemmeno «entato di
costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione
infantile, e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non confessionali e
atei, concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la
filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non
metaforica. La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non
si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle
dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di sub-alternità.
Le classi dominanti hanno derubricato a “folklore” la cultura della classe sub-alterna.
Annota nel I Quaderno, che il “folklore”
non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola,
una cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria
e da prendere sul serio, e va studiato in quanto «oncezione del mondo e della
vita di certi strati della società determi tempo e nello spazio, cioè del
popolo inteso come l'insieme della classi strumentale e sub-alterna di ogni
forma di società finora esistita». È dunque necessario mutare lo spirito delle
ricerche folkloriche, oltre che approfondirle ed estenderle. La frattura tra
gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che non
tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune,
ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. L'azione politica
realizzata dalla «filosofia della prassi» così chiama il marxismo, non solo per
l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria opponendosi
alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni
a una superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra
intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per
mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un
blocco intellettuale e morale che renda politicamente possibile un progresso
intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. La via che
conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e
morale della società. Tuttavia l'uomo attivo di massa, cioè la classe
operaia, non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né
della sua condizione reale di sub-ordinazione, Il proletariat non ha una chiara
coscienza di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo
trasforma. La sua coscienza anzi può essere in contrasto col suo operare. Esso
opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza ereditata dal passato,
accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione di sé avviene attraverso
una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo
dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della
propria concezione del reale. La coscienza politica, cioè l'essere parte di una
determinata forza egemonica, è la prima fase per una ulteriore e progressiva
auto-coscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano. Ma auto-coscienza
significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché
per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste
organizzazione senza intellettuali, uno strato di persone specializzate
nell'elaborazione concettuale e filosofica. Già Machiavelli indica nei moderni
Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per
superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola
dalla fine del Quattrocento. “Il Principe” di Machiavelli non esisteva nella
realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di
immediatezza obiettiva. E una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo,
del condottiero ideale. Ma gli elementi passionali, mitici si riassumono e
diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente
esistente. In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la
nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una
situazione interna economico-corporativa, politicamente la peggiore delle forme
di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante. Mancò sempre, e
non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che a
Francia ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha
fondato lo stato moderno. A questa forza progressiva si oppose in Italia la
«borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo
sfacelo, come classe, della borghesia comunale. Forze progressive sono i gruppi
sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà
possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, se le
grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita
politica. Ciò intendeva Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò
fecero i giacobini nella Rivoluzione francese. In questa comprensione è da
identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno
fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale. Modernamente, il
Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto,
ma un organismo e questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il
partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà
collettiva che tendono a divenire universali e totali. Il partito è
l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si
manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così la base di un
laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i
rapporti di costume. Perché un partito esista, e diventi storicamente
necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali. Primo, un
elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla
disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente
organizzativo essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza,
disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si
annullerebbero in un pulviscolo impotente. Secondo, L'elemento coesivo
principale dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e
disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva da solo questo
elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo
elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più
facile formare un esercito che formare dei capitani». Terzo, Un elemento medio,
che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo
fisico, ma morale e intellettuale. Gramsci negli scritti compresi ribadì i
principi espressi dalla Terza Internazionale, insistendo sulla disciplina
ferrea del partito e contestando qualsiasi forma di frazionismo. Socialisti e
sindacalisti venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del
regime fascista. Tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non
c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale. Nn
si può separare l'homo faber dall'homo sapiens, in quanto, indipendentemente
della sua professione specifica, ognuno è a suo modo un filosofo, un artista,
un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole
linea di condotta morale, ma non tutti gli uomini hanno nella società la
funzione dell’ intellettuale. Storicamente si formano particolari categorie
di intellettuali, specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti
e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo
sociale dominante. Un gruppo sociale che tende all'egemonia lotta per
l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali tanto
più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i
propri intellettuali organici. L'intellettuale tradizionale è il letterato, il
filosofo, l'artista e perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati,
filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali, mentre
modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di
intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasorema non assolutamente il
vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza motrice esteriore e
momentanea degli affetti e delle passioni il quale deve giungere dalla
tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza
la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il gruppo sociale
emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare
alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo,
forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si misura
con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento.
Essi operano tanto nella società civilel'insieme degli organismi privati in cui
si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all'acquisizione del
consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della
popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante quanto nella società
politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando che si esprime nello
Stato e nel governo giuridico. Gli intellettuali sono così i commessi del
gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni sub-alterne dell'egemonia
sociale e del governo politico, cioè, primo, del consenso spontaneo dato dalle
grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal
gruppo fondamentale dominante; secondo, dell'apparato di coercizione statale
che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono. Come
lo Stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali
tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito
politico, ancor più compiutamente e organicamente dello Stato, elabora i propri
componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico,
fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti,
organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo
di una società integrale, civile e politica. Il compito della riforma
intellettuale e morale non potrà che essere ancora degli intellettuali
organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando
la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova
organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone come sintesi attiva
di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione
politica di classe lotterà per l'egemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è
intellettuale collettivo; e l'intellettuale comunista è organico alla classe e
dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve
costruire il nuovo mondo. Pur essendo sempre stati legati alle classi
dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non
si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro
astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai
voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali. In
molte linguein russo, in tedesco, in franceseil significato dei termini
«nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un
significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con
popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè
dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai
stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione
è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad
Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Si
è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice
del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi
inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e
di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino
ai capolavori di Dostoevskij e di Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia. In
Italia, la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza
di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che l'elemento
intellettuale italiano è avvertito come “più straniero degli stranieri stessi”.
Fa eccezione, per Gramsci, il melodrama
verista (“Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”), che ha tenuto in qualche modo in
Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove dalla letteratura. Il pubblico
icerca la sua letteratura all'estero perché la sente più sua di quella italiana:
è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori. Ogni
popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo può
essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È
questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di
carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani
grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di una egemonia
straniera. Così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto
di altri imperialism.. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza
morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo. La
insufficienza dell’intelletuale è «uno degli indizi più espressivi dell'intima
rottura che esiste tra la religione e il popolo. Questo si trova in uno stato
miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale. La
religione è rimasta allo stato di superstizione l'Italia popolare è ancora
nelle condizioni create immediatamente dalla Contro-Riforma. La religione,
tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio. Sono
rimaste famose le note di Gramsci sul Manzoni: lo scrittore più autorevole, più
studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere
elitista della letteratura italiana. Ecco le parole dai Quaderni del carcere,
confrontandolo con Tolstoj. Il carattere aristocratico di Manzoni appare dal
compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare
in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto,
Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia i popolani, per Manzoni, non hanno
vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali. Manzoni
è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una società di protezione
di animali niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito
evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento di Manzoni verso i suoi
popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di
condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana vede con occhio severo
tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono
popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in
alcuni della classe alta, in nessuno del popolo non c'è popolano che non venga preso
in giro e canzonato. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il
Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo il suo atteggiamento verso il
popolo e elitista ed aristocratico. Una classe che muova alla conquista
dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa
espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare
la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che
interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che
entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé
che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima
non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente. Intanto,
nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà
letteraria presente, e vede nella critica svolta da Sanctis un esempio
privilegiato. La critica di Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è
la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della
vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle
opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti
rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in
ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo di Sanctis. Piace sentire
in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti
morali e politici e non li nasconde. Sanctis opera nel periodo risorgimentale,
in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con Croce,
che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro
affermazione, per cui la passione e il fervore romantico si sono composti nella
serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Quando poi quei valori
culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce sub-entra
una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e
la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e
pertanto non confrontabile con quella di Sanctis. Una critica letteraria
marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve
fondere, come Sanctis fece, la critica estetica con la lotta per una cultura
nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia
della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli
scrittori si trovavano a operare. Non a caso, progettava nei suoi
Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani»,
dal nome di Bresciani, tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà
Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta reazionaria; uno di essi,
L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio di Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono gli
intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia
reazionaria con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente
confessato». Fra i «nipotini»individua, oltre a molti scrittori ormai
dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo Ojetti, la codardia intellettuale dell'uomo
supera ogni misura normale, Panzini, Bellonci, Bontempelli, Fracchia, Baratono
-- l'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile --
teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria
coniglieria – Bacchelli -- nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo
politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda fu una manifestazione di
gesuitismo artistico -- Salvator Gotta --di Salvator Gotta si può dire ciò che
il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sull'altare e flatulenze in
sagrestia; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca», Ungaretti.
La vecchia generazione degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini,
Soffici, ecc.) ma ha avuto una giovinezza. La generazione attuale non ha
neanche questa età delle brillanti promesse, Rosa, Angioletti, Malaparte,
ecc.). Asini brutti anche da piccoletti. Croce, il più autorevole intellettuale
dell'epoca, da alla borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati
per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una
parte, e il movimento operaio e socialista dall'altra; è allora necessario
mostrare e combattere la sua funzione di maggior rappresentante dell'egemonia
culturale che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio
italiano. Come tale, Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità
nell'elemento che egli individua come decisivo: quello dell'economia. Il Capitale
di Marx sarebbe per Croce un'opera di morale e non di scienza, un tentativo di
dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla
comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non-scientificità
dell'opera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del “plusvalore.” Per
Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di “plusvalore” rispetto
al “valore”, legittimo concetto economico. Questa critica del Croce è in
realtà un semplice sofisma. Il “plusvalore” è esso stesso valore, è la
differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della
forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx
deriva direttamente da quella dell'economista liberale Ricardo la cui teoria
del valore-lavoro non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché
allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una
constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di
educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, dove acquistarla
solo con la Economia critica. La filosofia crociana si qualifica come
storicismo, ossia, seguendo Vico, la realtà è storia e tutto ciò che esiste è
necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica della sua
filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia speculativa, di
astrazionistoria della libertà, della cultura, del progresso non è la storia
concreta delle nazioni e delle classi. La storia speculativa può essere
considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno
ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in
discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dello stesso
Croce. La storia etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco
storico, in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si
identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è
niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti,
ma non è storia la storia di Croce rappresenta figure disossate, senza
scheletro, dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri
letterarie dello scrittore. L'operazione conservatrice di Croce storico fa il
paio con quella di Croce filosofo. Se la dialettica dell'idealista Hegel era
una dialettica dei contrariuno svolgimento della storia che procede per
contraddizioni la dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare
la contraddizione in distinzione significa operare un'attenuazione, se non un
annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si
presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche di Croce. La sua
Storia d'Europa, iniziando e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese
e quello napoleonico, non è altro che un frammento di storia, l'aspetto passivo
della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto
d'Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata
ai vecchi regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma
la corrosione riformistica che durò fino al 1870. Analoga è l'operazione
operata dal Croce nella sua Storia d'Italia la quale affronta unicamente il
periodo del consolidamento del regime dell'Italia unita e si «prescinde dal
momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le
forze in contrasto in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si
elabora in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro
sistema sorge e si afferma, e invece Croce assume placidamente come storia il
momento dell'espansione culturale o etico-politico. Gramsci, fin dagli anni
universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione fatalistica e
positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la
quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da sé, facendo
posto a una società socialista. Questa concezione mascherava l'impotenza
politica del partito della classe subalterna, incapace di prendere l'iniziativa
per la conquista dell'egemonia. Anche il manuale del bolscevico russo Nikolaj
Bucharin, eLa teoria del materialismo storico manuale popolare di sociologia,
si colloca nel filone positivistico. La sociologia è stata un tentativo di
creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema
filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico è diventata la
filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare
schematicamente i fatti storici, secondo criteri costruiti sul modello delle
scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare
sperimentalmente le leggi di evoluzione della società umana in modo da
prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una
ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della
sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio dalla
quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di
uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. La comprensione della
realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile utilizzando la
dialettica marxiana della quale non vi è traccia nel Manuale del Bucharin perché
essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro provvisorietà, la
loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione politica che trasforma le
società. Le società non si trasformano da sé. Già Marx aveva rilevato come
nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non esistano già le
condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se prima non ha
svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il rivoluzionario si pone
il problema di individuare esattamente i rapporti tra struttura e
sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che operano
nella storia di un determinato periodo. L'azione politica rivoluzionaria, la
prassi, è anche catarsi che segna l passaggio dal momento meramente economico
(o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè l'elaborazione
superiore della struttura in super-struttura nella coscienza degli uomini. Ciò
significa anche il passaggio dall'oggettivo al soggettivo e dalla necessità
alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia l'uomo, lo
assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento
per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La
fissazione del momento catartico diventa così il punto di partenza di tutta la filosofia
della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono
risultate dallo svolgimento dialettico. La dialettica è dunque strumento di
indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della
realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è dottrina
della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della
politica e può essere compresa solo concependo il marxismo come una filosofia
integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo
mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali)
sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie
società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che
subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova
dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime. Il
vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva,
esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato
dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si
trova già dato di fronte a noi. Ma va rifiutata «la concezione della realtà
oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica» dal
momento che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi
conosciamo la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire
storico, anche la conoscenza e la realtà stessa sono un divenire. Come
potrebbe esistere un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di
tale oggettività? La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste
nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia
e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta,
perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva.
Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere
esattamente a storicamente soggettivo. L'uomo conosce oggettivamente in quanto
la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un
sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene
con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana,
contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della
nascita delle ideologie. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi
dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per
l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano
spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture
in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già
un presupposto unitario». La formazione linguistica di Antonio Gramsci inizia
durante gli anni universitari a Torino con la frequentazione delle lezioni di
Bartoli. Gramsci apprende che la lingua è un prodotto “sociale" e che non
può essere studiata senza tenere conto della storia generale: ciò vuol dire che
non è possibile comprendere i mutamenti di una lingua senza riflettere sui
mutamenti sociali, culturali e politici della popolazione che la parla. È stato
notato che fece aderire le teorie apprese da Bartoli alle letture filosofiche
che lo formarono politicamente; in primo luogo all'Ideologia Tedesca di Marx,
dove Marx afferma che il tessco, come la coscienza dei tedesci, appartiene alla
sfera degli istituti sovra-strutturali, cioè al mondo dell'organizzazione
politica e giuridica della società. Le più interessanti riflessioni
linguistiche gramsciane sono contenute nei Quaderni del carcere e riguardano da
una parte la questione delle lingue in Italia, ovvero lo studio delle ragioni
che hanno reso difficile la diffusione di una lingua per la nazione o tutta la
poppolazione, dall'altra il tema dell'insegnamento linguistico nelle scuole
primarie. Soprattutto il secondo tema è di fondamentale importanza per Gramsci,
perché riguarda direttamente il riscatto culturale delle grandi masse popolari
e la creazione di uno spirito nazionale in grado di superare ogni forma di
particolarismo regionale. I Quaderni del carcere sono costellati in
maniera asistematica di molte note dedicate a problemi di caratteri
linguistico; queste note tracciano una vera e propria storia della lingua
italiana e racchiudono le riflessioni di Gramsci in merito alla cosiddetta
questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si riallaccia a un
altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle responsabilità degli
intellettuali italiani per la formazione di uno spirito nazionale unitario. A
tal proposito Gramsci scrive: «mi pare che, intesa la lingua come elemento
della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua
della nazionalità e popolarità degli intellettuali, questo studio non sia ozioso
e puramente erudito». Nell'affrontare una ricostruzione storica delle vicende
linguistiche italiane Gramsci cerca dei termini di confronto con altri paesi
europei come la Francia: mentre in Francia il volgare viene usato per la prima
volta nella storia per redigere un documento ufficiale di carattere
politico-istituzionale, in Italia il volgare appare per la registrazione di
documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche:
«l'origine della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare
testimoniata nel giuramento di Strasburgo, cioè nel fatto che il popolo
partecipa attivamente alla storia (il popolo-esercito) diventando il garante
dell'osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il
popolo-esercito garantisce giurando in volgare, cioè introduce nella storia
nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano,
presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia
nazionale. Questo fatto demagogico dei Carolingi di appellarsi al popolo nella
loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della
storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore nazionale.
In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti individuali per
fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere
antipopolare («Traite, traite, fili de le putte»).» (Quaderni del
carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi) In Francia i gruppi dirigenti si
rendono conto dell'importanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia di
cui parla Gramsci è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche
come un nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi «una propria civiltà
statale integrale», in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e
governanti: il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo
giuramento. Ricorda nei suoi appunti come in Italia l'uso del volgare si
diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la redazione di
documenti privati, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la creazione
di opere letterarie: in particolare, il volgare toscano, lingua della
borghesia, ottiene un certo successo anche nelle altre regioni. Firenze
esercita una egemonia culturale, connessa alla sua egemonia commerciale e
finanziaria. Bonifazio VIII dice che i fiorentini sono il quinto elemento del
mondo. C'è uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone
colte, rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza
di Firenze, l'italiano diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza
contatto vivo con una parlata storica.” Da questo momento si verifica una cristallizzazione
della lingua. I promotori del nuovo volgare, provenienti dalla borghesia, non
scrivono più nella lingua della loro classe d'origine perché con essa non
intrattengono più nessun rapporto, nella visione di Gramsci essi “vengono
assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi,
ma aulici.” In questo senso, vede sciupata l'occasione di una diffusione
graduale del volgare toscano su scala nazionale, occasione compromessa
soprattutto dalla frammentazione politica della penisola e dal carattere “elitario”
del ceto intellettuale italianio. Affronta con maggior vigore la questione
delle lingue in relazione al periodo post-unitario. Nella seconda metà
dell'Ottocento, lo stato e per gran parte “dialettofono”, mentre la lingua
della nazione venne usata solo a livello letterario e come lingua delle
istituzioni. La scarsa diffusione di una lingua per la nazione testimonia la
frammentazione politica e culturale della popolazione italiana. Questo fenomeno
venne avvertito come un problema politico, soprattutto da molti intellettuali
di tendenze democratiche come Manzoni. Nella sua ricostruzione storica
Gramsci scrive che “anche la questione delle lingue posta da Manzoni riflette questo problema, il problema
della unità intellettuale e morale della nazione e dello stato, ricercato
nell'unità della lingua.” Eppure, sebbene Gramsci riconosca al Manzoni di aver
compreso la questione linguistica italiana come una questione politica e
sociale, si distingue da lui nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante
il suo apprendistato glottologico presso Bartoli a Torino ha modo di
confrontare le posizioni del Manzoni con quelle di Ascoli, del “Archivio Glottologico.”
Mentre Manzoni prevede la diffusione di una lingua per la nazione sul modello
fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di
origine toscana, Ascoli concepiva la nascita di una lingua nazionale come il frutto
di un'unificazione culturale prima ancora che linguistica. Secondo Ascoli
l'unità culturale e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro
irradiante, cioè un determinato 'municipio' in cui si concentrano e da cui
provengono gli elementi essenziali della vita nazionale: beni di consumo,
stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici,
ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico
e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza,
il suo particolare idioma. Per Ascoli, una lingua nazionale altro non può e non
deve essere, se non l'idioma vivo di una data città. Deve cioè per ogni parte
coincidere con l'idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di
quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi
stromento livellatore, dell'intiera nazione. Ascoli, nel suo Proemio, prende la
Francia come esempio per avvalorare la sua tesi. Infatti, l'unità linguistica
di Francia corrisponde all'egemonia politico-culturale di Parigi. La Francia
attinge da Parigi la unità della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo
in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della Francia intera. Dal
vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni impulso dell'universa
civiltà francese. Viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa. E la
Francia avendo in questo municipio l'unità assorbente del suo pensiero, vi ha
naturalmente pur quella dell'animo suo; e non solo studia e lavora, ma si
commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole. E quindi è
necessariamente dell'intiera Francia l'intiera favella di Parigi. Gramsci
ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni. Poiché il processo di
formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria
avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere
consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di
intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non
bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno
tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata
lingua unitaria. Si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e l'intervento
organizzato accelera i tempi del processo già esistente. Quale sia per essere
questa lingua non si può prevedere e stabilire. Alla nota Focolai di
irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale
linguistico nelle grandi masse, compila un elenco di tutti gli strumenti utili
alla diffusione di una lingua unitaria. Primo, La scuola. Secondo, i giornali.
Terzo, gli scrittori d'arte e quelli
popolari. Quarto, il teatro e il cinematografo sonoro. Quinto, la radio. Sesto,
le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose. Settimo, I rapporti
di ‘conversazione’ tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti.
Ottavo, i dialetti locali, intesi in sensi diversi (dai dialetti più
localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così
il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la
Sicilia ecc. Al primo posto di questo elenco troviamo la scuola. Per tradizione,
a scuola, gli insegnanti introducono gli alunni allo studio di una lingua
attraverso la grammatica “normativa”. Gramsci definisce la grammatica normativa
come una fase esemplare, come la sola degna di diventare, organicamente e
totalitarmente, la lingua comune di una nazione, in lotta e in concorrenza con
le altre fasi e tipi o schemi che esistono già. Le riflessioni gramsciane in
materia di grammatica si pongono in netto contrasto con la riforma della scuola
realizzata da Gentile, di basi griceiana. La riforma, in linea con l'impianto
idealista gentiliano, prevede che l'apprendimento della lingua della nazione nelle
classi elementari si basasse su quello chi Gentile chiama la “espressione” viva
o parlata e non sulla grammatical normativa, considerata questa come una
disciplina “astratta” e meccanica. Nell'ottica di Gramsci il metodo
apparentemente liberale di Gentile-Grice, racchiude uno spiccato carattere “classista”
o elitist, in quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte sono
avvantaggiati dal fatto che apprendono l'italiano in famiglia, mentre gli
scolari del basso popolo possono contare su una comunicazione familiare
realizzata esclusivamente in “dialetto” --. In questo senso la grammatica normativa
si presenta come uno strumento in grado di livellare le differenze sociali permettendo
a tutti la conoscenza della lingua della nazione. Secondo Gramsci la
conoscenza della lingua della nazione presso le classi sub-alterne è
fondamentale per la loro organizzazione politica. Un proletariato “dialettofono”
non può partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di
crearsi un ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali
tradizionali. Il dialetto non deve sparire, ma restare funzionali a un tipo di
comunicazione familiare o locale che non può garantire, per cause interne al
suo sistema, «la comunicazione di un contenuto culturale ‘universale’,
caratteristico della nuova cultura esercitata dal proletariato. Gramsci
prestò attenzione anche alla lingua dell’impero romano. Espresse in più
occasioni che lo studio del latino fosse particolarmente utile nella formazione
filosofica, in quanto abituare il filosofo allo studio rigoroso e a pensare
storicamente. Contesta il “nazionalismo” degli studi e criticò ripetutamente
gli intellettuali che, durante la prima guerra mondiale, chiedevano che fossero
messe al bando le edizioni dei testi romani e la grammatica latina compilate da
autori tedeschi! Anche nei Quaderni del carcere si sofferma sulla questione e
ribadì l'utilità intrinseca della antica lingua romana, osservando che e uno
strumento importante nella fase della formazione filosofica nella quale è
necessario un insegnamento "disinteressato", cioè non legato a
questioni pratiche. Però, sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue
morte avrebbe dovuto essere sostituito da altre materie: era un cambiamento
difficile, ma necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di
intellettuale.Scrisse nel Quaderno 12: Bisognerà sostituire il latino e
il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non sarà
agevole disporre la nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine
didattico che dia risultati equivalenti di educazione e formazione generale
della personalità, partendo dal fanciullo fino alla soglia della scelta
professionale. In questo periodo infatti lo studio o la parte maggiore dello
studio deve essere (e apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè
scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se
«istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete. Machiavelli influenzò
fortemente la teoria dello Stato di Gramsci. Marx, filosofo, storico, critico
dell'economia politica e fondatore del materialismo storico Engels Lenin,
Labriola, primo notevole teorico marxista italiano, riteneva che la principale
caratteristica del marxismo fosse quella di aver creato uno stretto nesso fra la
storia e la filosofia. Sorel — sindacalista che ha respinto il principio
dell'inevitabilità del progresso storico. Pareto — economista e sociologo
italiano (nato a Parigi di madre francese), noto per la sua teoria
sull'interazione fra masse ed élite. Croce — liberale italiano, filosofo
anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da Gramsci a critica
attenta e approfondita. Pensatori influenzati da Gramsci. Gramscianesimo.
Zackie Achmat Eqbal Ahmad Jalal Al-e-Ahmad, Althusser Perry Anderson, Giulio
Angioni Michael Apple Giovanni Arrighi Zygmunt Bauman Homi K. Bhabha, Gordon
Brown Alberto Burgio, Butler Alex Callinicos Partha Chatterjee Marilena Chauí, Chomsky
Alberto Mario Cirese Hugo Costa Robert W. Cox Alain de Benoist Biagio de Giovanni
Ernesto de Martino, Eco John Fiske, Foucault Paulo Freire, Garin Eugene D.
Genovese Stephen Gill Paul Gottfried Stuart Hall Michael Hardt Chris Harman
David Harvey Hamish Henderson Eric Hobsbawm Samuel Huntington Alfredo Jaar Bob
Jessop, Laclau, Mariátegui, Mouffe, Negri, Nono, Omi, Pasolini, Pigliaru, Pira,
Portantiero, Poulantzas Gyan Prakash William I. Robinson Edward Saïd Ato
Sekyi-Otu Gayatri Chakravorty Spivak, Sraffa Edward Palmer Thompson Giuseppe
Vacca Paolo Virno Cornel West Raymond Williams Howard Winant, Wittgenstein Eric
Wolf Howard Zinn. Gramsci al cinema e in televisione Il delitto Matteotti,
regia di Vancini, Antonio GramsciI giorni del carcere, regia di Fra, Gramsci,
regia di Maielloserie TV, Gramsci, film in forma di rosa, regia di Gabriele
Morleocortometraggio, Gramsci, regia di Emiliano Barbucci, Nel mondo grande e
terribile, regia di Daniele Maggioni, Maria Grazia Perria e Laura Perini. Gramsci
nel teatro Compagno Gramsci, di Maricla Boggio e Franco Cuomo, regia di Maricla
Boggio, Gramsci nella musica Quello lì (compagno Gramsci), canzone di Claudio
Lolli contenuta nell'album Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita,
Piazza Fontana, canzone dei Yu Kung contenuta nell'album Pietre della mia gente
Nino, canzone dei Gang contenuta nell'album Sangue e Cenere () Gramsci, il
teatro e la musica È nota la passione di Gramsci per il teatro e per la musica,
che si può leggere nelle lettere scritte a Tania. Egli ha scritto circa il
melodrama “verdiano” che per lui segnava l’apertura dei teatri al pubblico,
svolgendo una funzione conoscitiva, pedagogica e politica in senso generale.
Per Gramsci l’opera diviene l’arte più popolare e i teatri aperti i luoghi dove
si esercitava parte del conflitto politico. Una frase quasi ironica di
Gramsci da citare, per quanto riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia:
“siccome il popolo non è letterato e di letteratura conosce solo il libretto
d'opera ottocentesco, avviene che gli uomini del popolo melodrammatizzino”. Nelle
sue lettere si può leggere anche riguardo alla moda europea del jazz; egli
sostiene che questa musica aveva conquistato uno strato dell’Europa colta e
aveva creato un vero fanatismo: Opere: “Alcuni temi della questione
meridionale, in Lo Stato Operaio, Opere, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, premio
Viareggio, con centodiciannove lettere inedite, I quaderni dal carcere, Il
materialismo storico e la filosofia di Croce” (Torino, Einaudi); “Gli
intellettuali e l'organizzazione della cultura” Torino, Einaudi, Il Risorgimento,
Torino, Einaudi, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno,
Torino, Einaudi, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi,Passato e
presente, Torino, Einaudi, L'Ordine Nuovo. Torino, Einaudi, Scritti giovanili.
Torino, Einaudi, Sotto la mole. Torino, Einaudi, Socialismo e fascismo.
L'Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, La costruzione del Partito comunista. Torino,
Einaudi, L'albero del riccio, Milano, Milano-sera, 1Americanismo e fordismo,
Milano, Ed. cooperativa Libro popolare, Ultimo discorso alla Camera. Padova, R.
Guerrini, Antologia popolare degli scritti e delle lettere di Antonio Gramsci,
Roma, Editori Riuniti, Il Vaticano e l'Italia, Roma, Editori Riuniti, Note sulla
situazione italiana, Milano, Rivista storica del socialismo, 2000 pagine di
Gramsci Nel tempo della lotta. Milano, Il Saggiatore, Lettere edite e inedite. Milano,
Il Saggiatore, Elementi di politica, Roma, Editori Riuniti, La formazione
dell'uomo. Scritti di pedagogia, Roma, Editori Riuniti, Scritti politici La
guerra, la rivoluzione russa e i nuovi problemi del socialismo italiano, Roma,
Editori Riuniti, Il Biennio rosso, la crisi del socialismo e la nascita del
Partito comunista, Roma, Editori Riuniti, Il nuovo partito della classe operaia
e il suo programma. La lotta contro il fascismo, Roma, Editori Riuniti, Scritti
Milano, I quaderni de Il corpo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, La
nuova sinistra, Paolo Spriano, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, L'alternativa
pedagogica, Firenze, La nuova Italia, I consigli e la critica operaia alla
produzione, Milano, Servire il popolo, La lotta per l'edificazione del Partito
comunista, Milano, Servire il popolo, Il pensiero di Gramsci, Roma, Editori
Riuniti, Il pensiero filosofico e storiografico di Antonio Gramsci, Palermo,
Palumbo, Resoconto dei lavori del III congresso del P.C.D.I. (Lione), Milano,
Cooperativa editrice distributrice proletaria, Scritti sul sindacato, Milano,
Sapere, Aul fascismo, Roma, Editori Riuniti, Quaderni del carcere Quaderni, Torino,
Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, 1975. Quaderni, Torino, Einaudi, Apparato
critico, Torino, Einaudi, La rivoluzione italiana, Roma, Newton Compton, Arte e
folclore, Roma, Newton Compton, Scritti Inediti da Il Grido del Popolo e
dall'Avanti. Con una antologia da Il Grido del Popolo, Milano, Moizzi, Ricordi
politici e civili, Pavia,Scritti nella lotta. Dai consigli di fabbrica, alla
fondazione del partito, al Congresso di Lione, Livorno, Edizioni Gramsci, Scritti
sul sindacato, Roma, Nuove edizioni operaie, A Delio e Giuliano, Milano, N. Milano,
I consigli di fabbrica, Milano, Amici
della casa Gramsci di Ghilarza, Centro milanese, Favole di libertà, Firenze,
Vallecchi, Scritti, Cronache torinesi. Torino, Einaudi, La città futura. Torino,
Einaudi, Il nostro Marx. Torino, Einaudi, L'Ordine nuovo, Torino, Einaudi, Nuove
lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di Piero Sraffa, Roma, Editori
Riuniti, Forse rimarrai lontana.... Lettere a Iulca, Roma, Editori Riuniti, Gramsci al confino di Ustica. Nelle lettere di
Gramsci, di Berti e di Bordiga, Roma, Editori Riuniti, Le sue idee nel nostro
tempo, Milano, l'Unità, Lettere dal carcere, con nuove lettere in parte
inedite, Roma, l'Unità, Il rivoluzionario qualificato. Scritti, Roma, Delotti, Il
giornalismo, Roma, Editori Riuniti, Lettere, Torino, Einaudi, Per una
preparazione ideologica di massa: introduzione al primo corso della scuola
interna di partito, aNapoli, Laboratorio politico, Scritti di economia
politica, Bollati Boringhieri, Torino, Vita attraverso le lettere, Torino,
Einaudi, Disgregazione sociale e
rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, Liguori, Piove, Governo ladro.
Satire e polemiche sul costume degli italiani, Roma, Editori Riuniti, Contro la
legge sulle associazioni segrete, Roma, Manifestolibri, Lettere, Torino,
Einaudi, Le opere, Roma, Editori Riuniti, Critica letteraria e linguistica,
Roma, Lithos, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma,
Carocci, La nostra città futura. Scritti torinesi,Roma, Carocci, Pensare
l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, Scritti sulla Sardegna. La memoria
familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso, Scritti
rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione, O. Micucci, Camerano,
Gwynplaine, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione
Sarda, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Epistolario, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Antologia, Antonio A. Santucci,
prefazione di Guido Liguori, Roma, Editori Riuniti university press,. Il teatro
lancia bombe nei cervelli. Articoli, critiche, recensioni, F. Francione,
Mimesis Edizioni. La taglia della storia. Idea e prassi della rivoluzione,
NovaEuropa Edizioni,.Note Luigi Manias, Antonio Sebastiano Francesco
Gramsci, Marmilla Cultura, International Gramsci Society, su international
gramsci society.org. Genealogia dei
Gramsci (JPG), su albanianews. Luigi Manias,
Ma quando è nato Gramsci?, Marmilla Cultura,
Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi, Marmilla Cultura, Così
Gramsci ricordava con ironia l'episodio, nella lettera dal carcere alla cognata
Tatiana, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero risuscitato quando lei mi
unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a una Madonna e perciò,
quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi rimproverava aspramente,
ricordando che alla Madonna dovevo la vita»
«Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque doveva anche accudire alla
casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito rinunziando al sonno». Così
ricordava quegli anni la sorella Teresina Gramsci, in Fiori, Lettera a Tatiana
Schucht, così scriveva per invitare la cognata a non eccedere nelle sue
preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera prosegue infatti: «Ho
conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della vita e me la sono
sempre cavata, bene o male» Lettera a
Tatiana Schucht, Numerose sono le richieste di denaro al padre: gli scrive di essere «proprio indecente con
questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida [oggi non sono
andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe» e, il 16 febbraio,
che «per non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni
interi» Fonzo, Testimonianza in Fiori, Testimonianza
della sorella Teresina in Fiori, Fiori, L'articolo è riportato in Fiori, Riportato
in A. Gramsci, Scritti politici Antonio
Gramsci, Dizionario di Storia, Treccani
[«io pensavo allora che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale
della regione: "Al mare i continentali". Poi ho conosciuto la classe
operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le
cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale». Cfr. A.
Gramsci, lettera a Giulia Schucht, in A. Gramsci, Lettere. Gramsci e l'isola
laboratorio, La Nuova Sardegna A.
Gramsci. Lettere. Progettando, in carcere, uno studio di linguistica comparata,
mai realizzato, in una lettera dal carcere dalla cognata Tatiana, ricorda come
«uno dei maggiori "rimorsi" intellettuali della mia vita è il dolore
profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli dell'Torino, il quale
era persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare definitivamente i
"neogrammatici"» della linguistica. Tuttavia già l'economista Amartya
Sen aveva avanzato l'ipotesi che il passaggio ai giochi linguistici di Ludwig
Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche fosse stato ispirato dai Quaderni dal
carcere. Nel suo recente studio Gramsci and Wittgenstein: an intriguing
connection, Pipero ha aggiunto nuovi elementi che dimostrano il collegamento
fra Gramsci e Wittgenstein tramite Sraffa. Infatti il filosofo viennese venne a
conoscenza del Quaderno 29, grazie proprio al suo amico Sraffa che aveva conosciuto
a Cambridge. Lettera dal carcere: in essa Gramsci ricorda ancora un simpatico e
patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta a causa di quell'articolo che fece
«piangere come un bambino e stette chiuso in casa il Cosmo per alcuni giorni»,
essi s'incontrarono nel nell'Ambasciata d'Italia a Berlino, dove il professore
era segretario: «il Cosmo mi si precipitò addosso, inondandomi di lacrime e di
barba e dicendo a ogni momento: Tu capisci perché! Tu capisci perché! Era in
preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fece capire quanto dolore gli
avessi procurato nel 1920 e come egli intendesse l'amicizia per i suoi allievi
di scuola» Lettera dal carcere a TSchucht
In Fiori, In A. Gramsci, Scritti
politici, I56-59 Davico12. Lettera dal carcere a Tatiana Schucht Lettera
dal carcere a Tatiana Schucht, Recensione Recensione Recensione Spriano, Note
sulla rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, in Gramsci, I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, iSpriano,
La rivoluzione contro il «Capitale», nell'Avanti!, Nella lettera Marx scriveva
a Vera Zasulič che la tipica proprietà comune agricola russa poteva essere
salvata dalla distruzione minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici:
«Per salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione
scoppierà a tempo opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze
«vive del paese» nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento,
allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della
società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime
capitalistico». Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto,Marx
ed Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di
partenza per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso
della lettera alla Zasulič, che Gramsci all'epoca non poteva conoscerne il
contenuto. (Cfr. Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, A.
Gramsci, Ordine Nuovo, A. Gramsci, ibidem
Corriere della Sera, Archivio Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen.
PS, Ordine Nuovo, 8 maggio 1920, in Scritti politici, IConcluso con un ordine
del giorno che prospettava la conquista violenta del potere e la dittatura del
proletariato Per un rinnovamento del
Partito socialista, ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Lenin, nel suo discorso
all'Internazionale Comunista, invitando a espellere dal partito socialista
l'ala destra riformista, disse che «all'indirizzo dell'Internazionale Comunista
corrisponde l'indirizzo dei militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo
dell'attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo
parlamentare». Lenin, Opere, Ordine Nuovo, in Scritti politici, GRAMSCI La
sposa mandata da Lenin Lettera, in A.
Gramsci, Lettere Lettera dal carcere. Un profilo di Antonio Gramsci junior, su
channelingstudio.ru. Su alcune note di
uno sconosciuto bolscevico Vladimir Diogotche sosteneva, fra l'altro, di essere
a conoscenza di un tentativo di rovesciamento della monarchia italiana da parte
di Nitti in accordo con i socialistilo storico Jaroslav Leontiev ha sostenuto nche
la conoscenza tra Gramsci e la Schucht sia stata "pilotata" da Lenin
in persona: cfr. Link archivio del Corriere
Amendola, In Togliatti, In
Togliatti, Lettera di Gramsci a Giulia Schucht, Lettera a Giulia Schucht, La crisi italiana,
ne L’Ordine Nuovo, 1º settembre 1924, in Gramsci, Camera dei Deputati, XXVII
legislatura del Regno d'Italia, "Capo", in L'Ordine Nuovo, pubblicato
successivamente col titolo di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, «Capo», ne
L’ordine Nuovo, in Gramsci, Anche alle autorità francesi fu nascosto lo
svolgimento del Congresso. Sul III CongressoSpriano, Storia del Partito
comunista italiano, Spriano, Spriano, Spriano, Spriano, Antonio Gramsci, Tesi di Lione,
Lione, Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti, «Alcuni temi della quistione meridionale».
Stato operaio, Citato in Rosario
Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale,
Roma-Bari, Laterza, Antonio Gramsci, Cinque anni di vita del partito, L'Unità, Fiori, Spriano, Aurelio Lepre, Il
prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Editori Laterza, Bari, La lettera, non
datata, si ritiene sfu pubblicata per la prima volta in Francia da Tasca. Su
tutta la questione della lotta interna nel partito comunista sovietico di
questo periodoSpriano, cit., II, ca 3 e 5
A. Gramsci, Lettere Lettera di Togliatti a Gramsci, Commissione di
assegnazione al confino di Roma, ordinanza dcontro Antonio Gramsci (“Dirigenti
e deputati del PCd'I dichiarati decaduti”). In Pont, Carolini, L'Italia al
confino, Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni
provinciali (ANPPIA/La Pietra), Tornata Camera dei deputati Fiori, In Fiori, Sentenza contro Antonio Gramsci e
altri (“Ricostituzione di partito disciolto, propaganda, cospirazione,
istigazione alla lotta armata ecc.”). In Pont, Carolini, L'Italia dissidente e
antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di
consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di antifascismo,
Milano (ANPPIA/La Pietra),
Amendola142. Spriano, Lettera a
Tatiana Schucht, Fiori, Fiori, Fiori, Risoluzione
per l'espulsione di Amedeo Bordiga
Fiori, Pubblicato in «Rinascita», In «Rinascita», cit. Dalla biografia di Pertini pubblicata nel
sito web del Circolo Sandro Pertini di Genova: «Chiesi al maresciallo dei
carabinieri che comandava la scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi
fece il nome di Turi me ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei
incontrato Antonio Gramsci, un uomo che avevo sempre ammirato per il suo
coraggio». A Turi incontrai Gramsci in un angolo del cortile dove coltivava
un'aiuola di fiori; era piccolo di statura e con due gobbe: una davanti ed una
di dietro. Mi avvicinai a lui, mi presentai, gli affermai che venivo da Santo
Stefano e che ero onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo del lei e lo
chiamavo Onorevole Gramsci. Lui si mise a ridere, dicendomi: "Perché mi
dai del lei? Siamo antifascisti, vittime del Tribunale speciale tutti e due. Io
gli ricordai che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori. Disse
di lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e parlò
di Turati e Treves in maniera che mi sembrò offensiva ed io risposi con durezza.
Il giorno dopo si scusò, dicendo che il suo era un giudizio politico, non aveva
avuto intenzione di offendere le persone, e capiva la mia reazione in favore di
due compagni che si trovavano in Francia. Da allora diventammo buoni amici.
Parlavamo a lungo insieme anche perché era stato isolato dai suoi. Per certi
versi costoro lo consideravano un traditore e chiedevano la sua espulsione dal
partito, come poi fecero anche con Ravera. In cella Gramsci era perseguitato
dai carcerieri. L’ordine di non lasciarlo dormire arrivasse direttamente da
Roma. Io andai dal direttore del carcere a protestare perché i carcerieri, ogni
volta che Gramsci si addormentava, lo svegliavano facendo scorrere sulle sbarre
della finestra dei bastoni, con la scusa di controllare che le sbarre non
fossero state segate per un'evasione. Dissi al direttore che se la situazione
non fosse cambiata, avrei scritto una lettera al ministero. Il risultato fu che
Gramsci, già gravemente malato di tubercolosi poté dormire tranquillo. Le mie
proteste costrinsero il direttore del carcere di Turi a concedere a Gramsci
anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una sedia. Così poterono
nascere i quaderni dal carcere. La mia amicizia mi mise in contrasto con il
direttore del carcere e forse non fu estraneo al mio trasferimento a Pianosa. Lettera
a Tatiana Schucht, Lettera a Tatiana Schucht,
Alla fine degli anni settanta cominciò a circolare la voce secondo la
quale Gramsci in punto di morte si sarebbe convertito alla fede cattolica. Tale
affermazione venne però ritrattata dallo stesso religioso che l’aveva
inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto della smentita
l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le chiare
argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu riproposta
da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di prove
testimoniali, la teoria della conversione di Gramsci non è mai stata avvalorata
dagli storici. Cfr. S.Fio., Gramsci e il sacerdote pentito, La Repubblica,
Il Vaticano: «Gramsci trovò la fede», Il Corriere della Sera, C. Daniele,
Togliatti editore di Gramsci, Carocci, Quaderni del carcere, Il Risorgimento,
Einaudi, Torino, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce Quaderni
del carcere, Quaderni del carcere, ed. Gerratana, Cirese, Baratta, Giulio Angioni, Gramsci e il
folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle
culture, Il Maestrale, Note sul Machiavelli,
Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Quaderni del carcere,
cLetteratura e vita nazionale, Il materialismo storico e la filosofia di Croce,
L. Rosiello, Problemi e orientamenti linguistici negli scritti di Antonio
Gramsci, Quaderni dell'Istituto di glottologia di Bologna,A. Gramsci, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, A. Gramsci, Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino,
Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, Gramsci,
Gerratana, Torino, Einaudi, G. I. Ascoli, Proemio, AGI, Gramsci, 'Quaderni del
carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderni del carcere, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, 'Quaderni del carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, L.
Rosiello, Lingua nazione egemonia, Rinascita Il Contemporaneo, Rapone,
Leonardo, Cinque anni che paiono secoli: Gramsci dal socialismo al comunismo, 1a
ed, Carocci,, Fonzo, Maria Luisa Bosi, Antonio Gramsci, su
scuolalo divecchio. giovannicarpinelli, Gramsci e la musica, su Palomar, La
passione sconosciuta di Gramsci per la musica, in L’Huffington Post. Premio
letterario Viareggio-Rèpaci, Amendola, Storia del Partito comunista italiano Roma,
Editori Riuniti, Perry Anderson, Ambiguità di Gramsci, Bari, Laterza, Giulio
Angioni, Gramsci e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire.
L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Francesco Aqueci, Il
Gramsci di un nuovo inizio, Quaderno, Supplemento al n. 19 di «AGON», Rivista Internazionale di Studi
Culturali, Linguistici e Letterari, Francesco Aqueci, Ancora Gramsci, Roma,
Aracne,. Nicola Auciello, Socialismo ed egemonia in Gramsci e Togliatti, Bari,
De Donato, Nicola Badaloni e altri, Attualità di Gramsci, Milano, Il
Saggiatore, Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente,
Roma, Carocci, Bobbio, Saggi su Gramsci, Milano, Feltrinelli, Calamandrei e Calogero,
La conoscenza di Gramsci in Inghilterra. Una lettera di Guido Calogero e una
nota di Franco Calamandrei, in «L'Unità» Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci,
Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio,. Antonio Carrannante, Sull'uso
di 'galantuomo' in Gramsci, in "Studi novecenteschi", Antonio Carrannante, Antonio Gramsci e i
problemi della lingua italiana, in "Belfagor", Iain Chambers, Esercizi di potere. Gramsci,
Said e il postcoloniale, Roma, Meltemi editore, Cirese, Intellettuali,
folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, Marco Clementi, Le ceneri di
Gramsci in Stalinismo e Grande Terrore, Roma, Odradek, Guido Davico Bonino,
Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, Biagio De Giovanni e altri, Egemonia
Stato partito in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, D'Orsi, Gramsci. Una nuova
biografia, Torino, Einaudi,. Dubla,Giusto (a cura), Il Gramsci di Turi, Testimonianze
dal carcere, Chimienti editore, Michele Filippini, Gramsci globale. Guida
pratica agli usi di Gramsci nel mondo, Bologna, Odoya,.Giuseppe Fiori, Vita di Gramsci,
Bari, Laterza, Fiori, Gramsci Togliatti Stalin, Roma-Bari, Laterza, Erminio
Fonzo, Il mondo antico negli scritti di Gramsci, Salerno, Paguro, Eugenio
Garin, Con Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Valentino Gerratana, Gramsci.
Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti, Noemi Ghetti, Gramsci nel cieco
carcere degli eretici, Roma, L'Asino d'Oro Edizioni, Gramsci jr., La storia di
una famiglia rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti-University Press. Gruppi, Il
concetto di egemonia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Hobsbawm, Gramsci in
Europa e in America, Roma-Bari, Laterza,Aurelio Lepre, Il prigioniero. Vita di
Antonio Gramsci, Bari, Laterza, Liguori e Voza, Dizionario Gramsciano, Roma,
Carocci, Piparo, “I due carceri di Gramsci”, Donzelli, Roma, Losurdo,Gramsci.
Dal liberalismo al comunismo critico, Roma, Gamberetti editrice, Mario
Alighiero Manacorda, Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e
conformismo, Roma, Editori Riuniti, Michele Martelli, Gramsci filosofo della
politica, Milano, Unicopli, Mondolfo, Da Ardigò a Gramsci, Milano, Nuova
Accademia, Raul Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, Roma, Editori
Riuniti University Press, Omar Onnis e Manuelle Mureddu, Illustres. Vita, morte
e miracoli di quaranta personalità sarde, Sestu, Domus de Janas, Paggi, Gramsci
e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, Pastore, Gramsci. Questione
sociale e questione sociologica, Livorno, Belforte, Portelli, Gramsci e il
blocco storico, Bari, Laterza,Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio
Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci, Roma, Rossi, Vacca, Gramsci tra
Mussolini e Stalin, Roma, Fazi editore, Angelo Rossi, Gramsci da eretico a
icona. Storia di un "cazzotto nell'occhio", Napoli, Guida editore,.
Angelo Rossi, Gramsci in carcere. L'itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida
editore, Santhià, Con Gramsci all'Ordine Nuovo, Roma, Editori Riuniti, Santucci,
Gramsci. Palermo, Sellerio, Spriano, Storia di Torino operaia e socialista,
Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano,I,
Torino, Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,II, Torino,
Einaudi, Spriano, Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere,
Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Gramsci in carcere e il partito, Roma, Editori
Riuniti, Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini, Cena con Gramsci, Padova,
Becco Giallo,. Giuseppe Tamburrano, Gramsci: la vita, il pensiero e l'azione,
Bari-Perugia, Lacaita, 1963. Palmiro Togliatti, La formazione del gruppo
dirigente del Partito comunista italiano Roma, Editori Riuniti, Togliatti,
Scritti su Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Vacca, Gramsci e Togliatti, Roma,
Editori Riuniti. Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Casa museo Gramsci a Ghilarza, Fondazione Istituto
Gramsci. Antonio Sebastiano Francesco Gramsci. Antonio Gramsci. Grice: “When
Austin speaks of ‘ordinary language,’ he knows what he is talking about; when
Gentile, Gramsci, and Ascoli, do, they don’t!” -- Grice: “Elites are so
relative; when I came to Oxford, I was regarded as a ‘Midlands scholarship boy’
and thus assigned Corpus; there was no way I would socialise with Hampshire,
Austin, and the others who were philososophising at All Souls on Thursday
evenings – I had just been born on the wrong side of the track. So it was
particularly obtuse for me when Gellner started to criticise me as elitist!
Perhaps he had read too much Gramsci!?” Gramsci. Keywords: “Grice, elite” –
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gramsci” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grecino – Roma antica -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). FIlosofo
italiano. An amateur philosopher. Seneca describes him as man of distinction, but with little serious
philosophical ability of interest. Giulio Grecino.
Grice e Gregorio: l’implicatura conversazionale dell’arte
grammatica degl’angeli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Da roma -- il grande: Grice: “For
one, he is the punning Pope!” Grice:
“What WAS Gregorio’s implicatura? A complex one, since he uses the
counterfactual: “si angeli fuessent.” Grice: “In The Sellars/Yeatman rewrite,
the meta-implicata is that you must have read Bede!” Grice: “Poor Gregorio
Magno had to fight with the Lonbards, and the sad thing is he lost!” -- Grice takes inspiration on Shropshire’s
argument for the immortality of the soul from Gregorio Magno (Dialogo). Figlio
di Gordiano, appartenente all'aristocrazia senatoriale, la classe dominante di Roma
che mantene prestigio economico e sociale, nonostante la caduta dell'Impero. La
sua "ars grammatica" e limitata e lo stile che denota i suoi scritti
è in linea con quello dei filosofi tardo-antichi.
Di questi imita, in particolare, solo poche figure retoriche come l'anafora ed
il gusto dell'esempio e dell'aneddoto moralizzante. La sua conoscenza del
diritto si centra in CICERONE, da cui riprende anche definizioni e nozioni filosofiche
del PORTICO. Insegna su colle Celio. Secondo la tradizione, mentre Gregorio
attraversa, alla testa della processione, il ponte che collegava l'area del
Vaticano con il resto della città (chiamato allora "Ponte Elio" o
"Ponte di Adriano", oggi Ponte Sant'Angelo), ha la visione
dell'Arcangelo Michele che, in cima alla Mole Adriana, rinfodera la sua spada.
La visione (che secondo alcune fonti e condivisa da tutti i partecipanti alla
processione) venne interpretata come un “segno” celeste pre-annunciante
l'imminente fine dell'epidemia, cosa che effettivamente avvenne. Da allora i
romani cominciarono a chiamare la Mole Adriana Castel Sant'Angelo e, a ricordo
del prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di un angelo in
atto di rinfoderare la spada. Ancora oggi nel Campidoglio è conservata una
pietra circolare con impronte dei piedi che, secondo la tradizione, sarebbero
quelle lasciate da Michele quando si ferma per annunciare la fine della
peste. Vede alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita,
bellissimi di aspetto e pagani, tanto da aver esclamato, rammaricato. Non
Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati. Comunque in meno di II anni
diecimila Angli, compreso il re del Kent Ethelbert – e la famiglia di Grice --
si convertirono. Obietta invece sulla proibizione ai soldati imperiali di
diventare «soldati di Cristo», ovvero di entrare a far parte del clero. G.
detta suoi canti a un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause. Il
monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo
separava dal pontefice, per vedere cosa egli fa durante i lunghi silenzi,
assistendo così al miracolo di una colomba (che rappresenta naturalmente lo
Spirito Santo), posata su una spalla del papa, che gli detta a sua volta i
canti all'orecchio. Opere: “Expositio super Cantica canticorum – “Cantico dei
cantici”; “Moralia in Job (Giobbe); “Homiliae in Evangelia”, omelie sui
Vangeli; Homiliae in Hiezechihelem prophetam, oomelie su Ezechiele; A
Sacramentarium Gregorianum con cui riformò il canone della messa, rendendola
più semplice ma più solenne; Antiphonarius centola nuova redazione del libro
dei canti liturgici; Dialoghi; Libro su santi italiani a lui coevi; “San
Benedetto da Norcia” “Sul destino dell'anima” “Su alcune profezie”; “Regula
Pastoralisun manuale per la vita e l'opera dei vescovi e in generale di coloro
che ricoprono il ministero pastorale; Le Epistolaeun registrum,«12 marzoA Roma
presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto il grande, la cui
memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione.» «3
settembreMemoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere
intrapreso la vita monastica, svolse l'incarico di legato apostolico a
Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le
questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre.”“Si
mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i
bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque
la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale.”Il
Proprio del santo in rito romano contiene la seguente colletta:[ «Deus, qui
pópulis tuis indulgéntia cónsulis et amóre domináris, da spíritum sapiéntiae,
intercedénte beáto Gregório papa, quibus dedísti régimen disciplínae, ut de
proféctu sanctárum óvium fiant gáudia aetérna pastórum. Per Dominum nostrum
Iesum Christum» La Chiesa di Manduria custodisce un frammento d'osso del
suo braccio destro. La Chiesa di Casola custodita un frammento d'osso della sua
mano destra. G. Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Claudio
Mareschini, Gregorio Magno e la cultura classica” G. scrisse di sé «ego quoque
tunc urbanam praeturam gerens pariter subscripsi», ma poiché in una variante
del testo praeturam è sostituita da praefecturam, dalle sue epistole non è
possibile sapere con esattezza se fu "prefetto dell'Urbe" o piuttosto
"pretore dell'Urbe". S.
Gasperri, Italia longobarda, Laterza, Dialogi, Roma, Tipografia del Senato, Dizionario
biografico degli italiani, Opera Omnia dal Migne patrologia Latina con indici
analitici. Gregorio da Roma – Grice: “Gregory did not know what those were:
‘angeli,’ his companion answered. Adamant, Gregory corrected him: “No. They are
Anglicans, they are not angels!” -- The grammatical structure of Latin of the
seventh to eighth centuries had changed in comparison with the Latinitas of the
fourth century. Although Bede builds his argument on the Grammar textbooks of
Antiquity, he adopts Gregory the Great’s directive to subject the grammar rules
to the language of the Scriptures and not to ancient Grammar textbooks. GREGORY
THE GREAT, Moralia in Iob, PL 75, col. 516: ‘quia indignum uehementur existimo,
ut uerba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati’ (‘I consider it
strongly unworthy to restrict the words of divine revelation to the rules of
Donatus’). Gregory did NOT write an ‘ars grammatica’ – Bonifacio did! –
Gregorio does mention the ‘sub regulis Donati’ – which is worth transcribing: “sed
tam pueriliter istum labi non indignum fortasse fuit, qui litteras fastidit et
pro nugis habet, iisque studere episcopum, impium et profanum putat – et alibi
pene gloriatur se artem loquendi, quam magisterial disciplinae exterioris
insinuant, servare despexisse, non barbarism confusionem devitare, situs motusque
praepositionum, casusque servare contemnere, quia indignum (inquit) vehementur
existimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati – quasi vero
humani divinique sermonis leges addiscere et observare, id sit caelestia
oracular subiiere. —Non metacismi collisionem fugio, non barbarism confusionem
devito, situs motusque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum
vehementer exisitimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati –
Non rifuggo dalla collisione del metacismo, non evito la mescolanza di
barbarism, non tengo conto della posizione, degli spostamenti e delle
preposizioni con I casi che esse reggono, perche repute cossa assai indegna
coartare le parole del celeste oracolo entro le regole di Donato – Ep. Miss. C.
5 PL – Cio che a Gregorio sembra indegno non e l’obbedire alle regole della
grammatica – anche in questo e uomo di disciplina – ma la retorica di Donato,
che teoreizza e prescribe, contro la LIBERTA dell’espresione originale, il
capriccio del maestro – Ructat corde bonum sine lege Donati verbum – la parola
buona erompe dal cuore senza le leggi di Donato. – sommamente disdicevole
assogettare le parole dell’oracolo celeste alle regole di Donato. L’esegeta del
libro di Giobbe non trascura di continuo le norme grammaticali. Gregorio sa
scegliere tra due letture di un medesimo vesetto, indicare I tropi di paragone
e di metonimia, il valore della congiunzione di coordinarzione, l’etimologia di
una parola. Insomma, Gregorio non esclude dall sua esegesi il iicorso ai
metodoi di I spegazione grammaticale classica. Facendo mostra di una conosenza
ostentata della tecnologia grammatical Gregorio si preoccupa evidentemente di
far comprendere che il suo NON-VOLERE non e un NON-Sapere. It was said a pigeon
dictated his Gregorian chants. Not only did he see the angel land on ponte
sant’angelo, but was able to retrieve the stone and give it to the Campidoglio
– he joked on the anglii being potentially angels, should they were Roman!” – I
limite dei arti liberali in Gregorio. Grice: “It was a good thing for Western
civilization that Gregorio could care less about Greek!” -- Gregorio il Grande, Gregorio I – Gregorio
Magno. Gregorio. Keywords: angeli, ars grammatica – Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gregorio: implicatura e grammatica” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grandi: l’implicatura conversazionale del progresso
all’infinito della rosa di Grandi -- implicatura infinita – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Cremona).
Filosofo. Grice: “I like Grandi – and
Grandy – for one, Grandi (if not Grandy) proves that geometry is a branch of
mathematics with his rose curve – a geniality!” – Figlio di Piero Martire, ricamatore, e Caterina Legati, compì i suoi
primi studi di grammatica sotto la guida di Canneti e poi nel locale Collegio
dei Gesuiti, dove ebbe come maestro Saccheri. Entra nel monastero camaldolese
di Classe in Ravenna, assumendo il nome Guido in sostituzione degli originari
Francesco Lodovico, e qui ritrovò il maestro Canneti. Proseguiti gli studi a Roma e Firenze, insegna
a Firenze. Pubblica “La quadratura del cerchio” “La quadrature dell'iperbole”
al cui interno scopre il paradosso: la somma parziale di una serie (“serie di
Grandi) a segni alterni di numeri può non convergere (serie di Grandi). Divenne
membro della corte presso il granduca di Toscana. Insegna a Pisa. Studia la
curva algebrica da lui chiamata "rodonea" per la forma che ricorda il
rosone delle chiese e fu autore degli Elementi di Geometria di Euclide (Venezia,
Savioni). Fu il primo l’analisi degli infiniti. Saggi: “De infinitis
infinitorum”; “Trattato delle resistenze” (Firenze); “Geometrica demonstratio vivianeorum
problematum” (Firenze, Guiducci); “De infinitis infinitorum, et infinite
parvorum ordinibus disquisitio geometrica” (Pisa, Bindi); “Epistola mathematica
de momento gravium in planis inclinatis” (Lucca, Frediani); “Dialoghi circa la
controversia eccitatagli contro Marchetti” (Lucca, Gaddi); “Prostasis ad
exceptiones clari varignonii libro de infinitis infinitorum ordinibus oppositas
circa magnitudinum plusquam-infinitarum vallisii defensionem et anguli
contactus” (Pisa, Bindi); “Del movimento dell'acque trattato geometrico” (Firenze);
“Relazione delle operazioni fatte circa il padule di Fucecchio” (Lucca, Venturini);
“Trattato delle resistenze” (Firenze, Tartini); “Compendio delle Sezioni
coniche d'Apollonio con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni” (Firenze,
Tartini); “Instituzioni Meccaniche” (Firenze, Tartini); “Istituzioni di
aritmetica pratica” (Firenze, Tartini); “Sectionum conicarum synopsis” (Firenze,
Giovannelli); “Idraulici italiani."Rodonea" deriva dal greco Ροδή,
rosa. La curva rodonea è anche chiamata "rosa di Grandi" in suo
onore. G. Ortes, Vita del abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano,
Venezia, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Rodonea Sofisma algebrico Treccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. Carteggi del padre
camaldolese matematico. Francesco Lodovico Grandi – Grice: “I like Grandi: I
have two ways to deal with ‘mean’: ‘no sneaky intention allowed, including this
– (o) all intentions are open ones, including this one – self-reference; or
‘optimal infinite’ potential infinite/actual infinite – titular versus de
facto. In any case, both are better than pseudo-Schiffer!” Grice: “While I say,
“Schiffer and others,” it should be pointed out that the first to show this
was, of all people, my tutee Strawson – Stampe and Patton came close! (I love
them guys! Patton is a gentleman, and Stampe, too! Both brilliant philosophical
gentlemen, too!” -- In geometria è detta rodonea la curva algebrica o
trascendente il cui grafico è caratterizzato da una serie di avvolgimenti
attorno ad un punto centrale. Nei casi più noti tali avvolgimenti producono
figure a forma di rosone, da cui deriva alla curva il nome rodonea (dal greco
rhódon, ròsa). La curva rodonea è chiamata anche rosa di Grandi da Luigi Guido
Grandi, il matematico che la battezzò e studiò intorno al 1725.
Rodonee ottenute per valori diversi del parametro {\displaystyle \omega
={\frac {n}{d}}} Tartapelago rosaGrandi 04.gif Vari modi per la
costruzione di Rose di Grandi. Animazioni realizzate in MSWLogo[1] La rodonea
si può considerare un caso particolare di ipocicloide. Equazione della
curvaL'equazione delle rodonea in coordinate polari {\displaystyle (\rho
,\theta )}è: {\displaystyle \rho =R\sin \omega \theta }, dove R è un
numero reale positivo che rappresenta la massima distanza della curva dal centro
degli avvolgimenti, e \omega è un numero reale positivo che determina la
forma della curva. È possibile anche scrivere la rodonea come {\displaystyle
\rho =R\cos \omega \theta }, che produce una figura analoga, ma ruotata di un
angolo pari a {\displaystyle {\frac {\pi }{2\omega }}}radianti. Proprietà
Se \omega è un numero intero, la curva ha un numero finito di
avvolgimenti, tutti passanti per l'origine degli assi, che generano una serie
di "petali" componenti la figura a forma di rosone; il numero dei
petali è pari a: \omega , se \omega è dispari; {\displaystyle
2\omega }, se \omega è pari. Osserviamo che non è possibile ottenere rose
con un numero di petali pari a {\displaystyle 4n+2}. Per {\displaystyle \omega
=1} si ottiene un unico petalo, ovvero una circonferenza non centrata
nell'origine. L'area della superficie racchiusa dalla curva è pari a
{\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{2}}} per k pari, a {\displaystyle {\frac {\pi
R^{2}}{4}}} per k dispari. Se \omega è un numero razionale
{\displaystyle {\frac {n}{d}}}, la curva ha un numero finito di avvolgimenti,
che si intersecano in più punti creando una serie di petali parzialmente
sovrapposti; nella figura a fianco sono visualizzate le rodonee ottenute per
alcuni valori di n e d. Come caso particolare, per {\displaystyle \omega
={\frac {1}{2}}}, si ottiene il folium di Dürer. In entrambi i casi
precedenti, la curva ottenuta è algebrica; se invece \omega è un numero
irrazionale, la curva è trascendente ed ha un numero infinito di avvolgimenti
che non si chiudono e formano un insieme denso, passando arbitrariamente vicino
a ogni punto del cerchio di raggio R. Note Giorgio Pietrocola, Curve
storiche, Rose di Grandi, su Tartapelago, Maecla, 2005. URL consultato il 26
aprile 2021. BibliografiaRhodonea Curves, in The MacTutor History of
Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics, University of St
Andrews, Scotland. URL consultato il 16-07-2008. Voci correlate Ipocicloide
Figura di Lissajous Sistema di coordinate polari sistema di coordinate
bidimensionale Atomo di idrogeno atomo dell'elemento idrogeno
Metodo simbolico Il progressus in infinitum (in italiano «progresso
all’infinito») o regressus in infinitum («regresso all'infinito») [1], è
un'espressione della filosofia scolastica che indica un modo di argomentare
logicamente, quando, per spiegare qualcosa, si ricorre a un termine, il quale
però rende necessario il rinvio a un nuovo termine, e questo a un ulteriore
termine; e cosi via senza che si possa mai giungere a un punto di spiegazione
ultimo e definitivo. Questo procedimento logico, usato largamente da Aristotele
e dagli scettici, vuole quindi dimostrare l'insufficienza di un'argomentazione.
La differenza tra le due espressioni consiste nel ricercare la causa prima (ad
esempio: causalità ideale platonica) o spiegazione definitiva di una cosa (ad
esempio: causalità naturale aristotelica) procedendo logicamente in avanti
(progressus) o all'indietro (regressus). Un esempio di un procedimento logico
basato sul regressus in infinitum si ritrova nell'"Argomento del terzo
uomo" di Aristotele. Immanuel Kant (1724-1804) nella settima sezione
della sua Critica della Ragion Pura (1781) chiamava «progressus in indefinitum»
questo "infinito per addizione" che «non ammette nessuna limitazione
se non quella provvisoria che gli può essere assegnata ad ogni suo passo, prima
di procedere al passo successivo». Si tratta di un infinito irraggiungibile,
non potendosi contare effettivamente infiniti numeri naturali. Per
questo motivo Aristotele (384-322 a.C.), affermava che «il numero è infinito in
potenza, ma non in atto». [3] come appare chiaro se si rappresentano i numeri
naturali con una serie di punti equidistanti, che si susseguono senza fine
lungo la retta in una successione infinita discreta nel senso che tra due
elementi consecutivi c'è uno spazio vuoto, da intendersi come assenza di
elementi. Si parla anche di un'infinità numerabile, giacché di questi infiniti
elementi è possibile dire qual è il primo, il secondo, il terzo, e così
via. L’infinito potenziale è perciò un infinito ottenuto per divisione;
«la caratteristica di tale infinito, che Kant chiamava “regressus in
infinitum”, è che esso è interamente contenuto in una totalità limitata:
dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole, risulta
evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già assegnati e
presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio; appartenendo ad
una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che essere ritrovati
durante un processo all’infinito che inevitabilmente li raggiunge tutti.
La differenza tra “progressus in infinitum” e “regressus in infinitum”
secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gli elementi vanno cercati
al di fuori della totalità parziale, sempre finita, che non si cessa mai di
ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto preesistente.» [4]
Note Dizionario internazionale.it ^ Enciclopedia Treccani alla voce
"Regressus in infinitum" ^ Bocconi - Aristotele e l'infinito ^
Mathesis Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di FilosofiaLuigi Guido Grandi. Grandi. Keywords: infinite implicature
– Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grandi: implicatura infinita” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Grassi: l’implicatura conversazionale -- d’Ovidio a Vico: la metafora inaudita e
il concetto di stato in Machiavelli – filosofia fascista -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I
like Grassi. He philosophised, like I did, on the metaphysics of Plato.” Grice:
“Grassi has the gift of the gab: ‘metafora inaudita,’ ‘potenza dell’imagine,’
–“ Grice: “Grassi has mainly explored Heidegger.” – Grice: “I like Grassi’s
general use of ‘imago’ to re-approach rhetoric!” -- Si laurea a Milano sotto
Martinetti. Opere: “Metafisica platonica” (Laterza, Bari) – cf. A. D. Code on
H. P. Grice on the axioms of metaphysical Platonism --. “Apparire ed essere” (Nuova
Italia, Firenze). “Il bello e l’antico” (Paravia, Torino).“Heidegger e umano –
Mann in Heidegger” (Guida, Napoli). “La preminenza della metafora” (Mucchi,
Modena). “La filosofia dell'umanesimo. Un problema epocale” (Tempi, Napoli). “La
follia -- Umanesimo e retorica” (Mucchi, Modena) “Potenza dell'immagine -- ivalutazione
della retorica” (Guerini, Milano) “La metafora inaudita, -- cf. la lingua
inaudita -- Massimo Marassi, Aestetica, Palermo “Potenza della fantasia” Guida,
Napoli Filosofare noetico non metafisico (Congedo, Galatina); “Vico e
l'umanesimo” Guerini, Milano Il dramma della metafora. Ovidio, Massimo Marassi,
Tipografica, Roma,“Arte e mito”La Città del Sole, Napoli, “Retorica come filosofia.
La tradizione umanistica”, Massimo Marassi, La Città del Sole, Napoli; “Tra antropologia,
logica e ontologia”; “l'incidenza di Vico nell'antropologia di Grassi”; “Platone
nell’onto-antropo-logia di Grassi Dizionario Biografico degli Italiani. “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della
parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica?“L’espressione
metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone
qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica
dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocaleAccostandoci ai lavori di Ernesto Grassi possiamo avere, non senza
qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la
cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento
di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di
quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come
testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza
di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella
volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne
alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla superficie al fondale,
dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali
che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno
preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi abbiamo seguito come
filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave
di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e
l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non
avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del
pensiero e della vita. “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine
della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica?
“L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere
che si impone qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la
struttura patetica dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale Accostandoci ai lavori di Grassi possiamo avere, non senza
qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la
cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole
l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate.
Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e
saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi
contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere
rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano
senza tralasciarne alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla
superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità
dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una
sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi
abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci
appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta
umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta
interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle
diverse tappe del pensiero e della vita dell’autore su cui autorevoli
interpreti si sono diffusamente espressi1. Il coacervo di autori, prospettive e
tematiche, pone in luce i numerosi ambiti toccati dal filosofo: Cfr., R.
Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero
di Ernesto Grassi, Palermo, Centro Internazionale di studi di estetica, Civati,
Un dialogo sull’umanesimo. Gadamer e G., l’Eubage, Aosta 2003; R. J. Kozljanic,
Ernesto Grassi. Leben und Denken, München, Fink, 2003; W. Büttmeyer,
Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di Ernesto Grassi, in
“Giornale critico della filosofia italiana”, Grassi. Humanismus zwischen
Faschismus und Nationalsozialismus, München, Alber 2009; J. Sànchez Espillaque,
G. y la filosofìa del humanismo, Sevilla, Biblioteca Viquiana- Fenix Editora,
2010; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi,
Vaprio d’Adda, GDS, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, Vaprio
d’Adda, GDS, Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, La città del
Sole, Napoli. ! 4! mitico/metaforologico, antropologico, filosofico,
storia delle idee e storia della cultura. In questo contesto teorico emerge la
centralità del concetto di Lichtung, il quale consente di comprendere la
direzione metaforologica del pensiero grassiano che nei saggi giovanili si era
concentrato maggiormente su una tematizzazione dell’ontologia fenomenologica.
Si tratta di una Lichtung di evidente sapore heideggeriano che allarga il suo
raggio di incidenza sulla cultura e sulla società trasformandosi nelle vichiane
luci della Scienza Nuova. La nostra attenzione si concentrerà sui temi che
accompagnano l’iter grassiano dall’ontologia alla metaforologia. In questo
percorso ovviamente alcuni temi o spunti resteranno sullo sfondo – come l’agire
delle condizioni storico-politiche (magistralmente ricostruite da Büttemeyer) –
e si privilegeranno quegli autori e quei temi che più ci appaiono attinenti con
l’argomento grassiano che vogliamo mettere in risalto. Dal nostro punto di
vista la prospettiva grassiana va interpretata come il tentativo di approntare
una nuova filosofia, nell’epoca in cui se ne è decretata la morte, che sia
innanzitutto esperienza del mondo e non solamente conoscenza. O meglio: di
conoscenza pur sempre si tratta, il punto di riferimento è pur sempre la
ragione, ma una ragione non classica: una “ragione fantastica”. La svolta
grassiana è verso la fantasia e la metafora2, da una teoria del concetto a una
teoria dell’inconcettualità per usare una ben nota espressione blumenberghiana.
Il filosofo italo-tedesco accoglie in tutta la sua problematicità l’eredità di
quel discorso posto a partire dal Settecento in modo sistematico all’interrogazione
filosofica: il conflitto tra ragione e sentimento che agita le pagine degli
empiristi, dei poeti, della critica kantiana fino alla tematizzazione
husserliana. La questione è ancora una volta quella di riattivare un rapporto
uomo-mondo non intrappolato nella rete di una soggettività cogitativa o di
un’oggettività alla quale adeguarci, attingendo a un mondo pre-categoriale in
cui gli orizzonti della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza
dell’atto e della riflessione che lo struttura si intersecano. Sulla svolta
metaforica dell’ontologia fondamentale di G. cfr., S. Limongelli, La svolta
metaforica dell’ontologia fondamentale, cit. ! 5! In questo
orizzonte di ricerca dobbiamo compiere atti continui di demitizzazione: una
delle mitologie da sfatare per il filosofo è quella della ratio e dell’atto
dell’io penso di Cartesio, padre del pensiero moderno. Ma tale operazione
decostruttiva, tale filosofia col martello, per usare una ben nota metafora
nietzscheana, non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi
della ragione, del tramonto della civiltà in cui cultura e civilizzazione si
sono definitivamente separate, con la conseguenza di una dilagante
inautenticità dell’esperienza. Non ritroviamo mai in Grassi una rassegnazione
al declino dell’Occidente, un compiacimento quasi edonistico della dissoluzione
delle categorie, ma sempre una ricerca costante di un Altro inizio del
pensiero. Un inizio che è strettamente correlato alla potenza delle immagini.
Il significato attribuito all’immagine, alla forma, all’eidos3, esemplarmente
condensato nell’aneddoto di Poliziano sulle streghe nelle selve, raccontato
agli studenti in apertura del corso sull’Organon aristotelico4 e ricordato da
Grassi in Potenza dell’immagine, va contestualizzato all’interno della
questione più generale del rapporto tra filosofia e retorica, tra linguaggio
dimostrativo e indicativo già avvertito in maniera problematica dalla
riflessione sofistica gorgiana e di conseguenza platonica. E procedendo a
ritroso, i termini della questione ci conducono sulla strada di un’esatta
definizione della teoria della visione a cui l’eidos rimanda per sua stessa
definizione: “se infatti la forma dimostrativa, come pure quella indicativa,
del discorso hanno le loro radici nella teoria, nella vista, si deve allora
riconoscere che il vedere, la visione, oltrepassa l’ambito del linguaggio e che
l’immagine, l’eidos, giunge in primo piano. Dobbiamo dunque affermare tanto
l’inadeguatezza del linguaggio razionale quanto di quello indicativo, dato che
essi si basano sul vedere quale atto più originario dello stesso linguaggio?”5.
L’immagine si riferisce non solo all’oggetto di cui essa è immagine ma anche al
senso che diviene rappresentazione, una forza di sintesi con caratterizzazioni
qualitative proprie. Husserl ha parlato non Grassi usa il termine immagine
nella sua identità con l’eidos come forma, schema e tipo. Cfr. E. Grassi,
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini, Milano 1989, p.
17. 4 Ivi, pp. 15-16. 5 Ivi, p. 17. ! 6! a caso di sintesi passiva
come genesi del simbolico, lezione che Grassi accoglie nel suo tentativo di
ricostruire un intero, una realtà dotata di sensi molteplici e stratificati,
senza il sacrificio di alcuna dimensione dell’esperienza. La concettualizzazione
messa a punto da Grassi dei grandi temi della filosofia, dell’arte e della
letteratura, mostra l’attenzione verso le dimensioni del mondo storico, delle
passioni dell’uomo, delle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche
dell’Occidente. La luce gettata su questi campi di esperienza spesso è
offuscata dal tono della polemica e della rivendicazione degli ideali del
passato, che spiegano anche l’andamento della pagina grassiana: si tratta di
uno stile sempre mosso da un’inquietudine esistenziale, che si traduce in
un’espressione non sempre pacata e in un linguaggio lineare, ma in una parola
che ora è invettiva, ora icastico assioma. Il linguaggio non raggiunge mai la
trasparenza della deduzione sillogistica o della spiegazione logica,
configurandosi piuttosto come un linguaggio assiomatico e arcaico, che forse
trova una spiegazione nella critica grassiana al deduttivismo logico e ad un
sapere schiavo della mathesis universalis. Il discorso non può prendere che una
piega allusiva e indicativa, propria di un altro modo di relazionarsi alla
realtà. Grassi in qualità di cultore attento delle scienze umane, mostra quella
partecipazione esistenziale ed emotiva ai temi cruciali per l’esistenza
dell’uomo tipica di coloro che esperiscono la filosofia come bios pratico e
teorico, e solo secondariamente come gnoseologia e epistemologia. Dalla sua
prospettiva la ricerca logico-deduttiva urta definitivamente contro
l’indimostrabilità dei principi, tema, questo, che ricorre in gran parte dei
suoi saggi. Ma, allora, qual è la via di accesso a ciò che ci sovrasta e ci
governa? Come esperire l’archè originaria? Non attraverso la ratio si accederà
ai principi, ma attraverso il pathos: un sapere arcaico, un theorein che non si
limita ad usare i principi, ma a rifletterci sopra nel modo giusto. L’essere si
rivela attraverso un vedere che è patire poiché “la passione svela la realtà
del nulla che chiama a decidere, a violare il silenzio dell’abisso svelando il
senso segreto che in esso ci parla” 6 S. Limongelli, La svolta metaforica
dell’ontologia fondamentale, cit., p. 4. ! 7! A una pars destruens,
a cui è dedicato parte del pensiero del filosofo, si accompagna anche una pars
construens, che si concretizza nell’ipotesi metodologica ed epistemologica del
sapere arcaico – che coinvolge tutta la riflessione riguardo il mito, il
pensiero topico, la metaforologia, l’ingenium e la phantasia. L’apogeo della
critica alla deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione
della intima correlazione delle nozioni aristoteliche di pistis e di episteme.
Il filosofo afferma in Significare Arcaico che “la pistis, intesa come
fondamento dell’inspiegabile, perché fondamento di ogni spiegazione, è propria
del mondo originario e, come tale, solo il mondo della fede è fecondo”7. Per pistis
Grassi intende non un’opinione o una forma di persuasione ma “il modo di
realizzarsi in noi dell’originario che comanda”8. La pistis diviene il
fondamento della retorica originaria che ha carattere ingegnoso e arcaico. Il
collegamento istituito tra nous/ingenium e archè mette in luce la stessa
matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello
dell’essere si svelano attraverso segni indicativi colti attraverso la
passione. Secondo Grassi “ogni discorso dimostrativo razionale si radica nel
discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua
immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la
visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”9. Quella che Grassi
definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura
come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Il
fondamento del reale, del mondo storico e del mondo umano, è quell’abissale
fondamento di ogni fondamento, che, sulla scia heideggeriana, il pensatore
individua sia in Il dramma della metafora, quando la riflessione si concentra
sull’abissale nous passionale, sia in Das Reale als Leidenschaft. L’aspra
critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla
matematizzazione di ogni discorso, non compromettono tuttavia lo spessore
speculativo della proposta di Grassi che resta
7 E. Grassi, Significare arcaico, in “Archivio di filosofia”, Roma,
1966, p. 490. 8 Ivi, p. 489. 9 Ivi, p. 491. ! 8! filosofica proprio
nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione
dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. La sua
prospettiva, che abbiamo scelto di definire onto-antropo-logica, può essere
annoverata all’interno del più ampio dibattito che anima la filosofia del ‘900:
quello che vede incrociarsi i temi dell’antropologia filosofica con quelli
della riflessione sulla retorica. Sullo sfondo agisce il paradigma
dell’incompletezza: l’uomo come animale carente. Il filosofo, sensibile alla
riflessione dei biologi teoretici e degli antropologi a lui coevi, è convinto
che l’uomo sia di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista
morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi,
inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al
mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso;
da qui il suo disorientamento e condizione di estraneità. Per il pensatore “la
differenza essenziale tra vita animale e umana sta nella razionalità di
quest’ultima che (contrariamente a quanto siamo soliti credere) in un primo
tempo non segnala una superiorità, bensì una certa inferiorità dell’uomo di
fronte all’animale”10. Tale inferiorità – il paradigma della carenza – appare
in tutta la sua evidenza se si tiene in considerazione che nell’animale la
“regia dei sensi”11 restituisce il significato immediato dei fenomeni. Il
disancoraggio umano da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’umo
compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella
riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità
di conservazione della vita. Nascono la techne, che “ordina i fenomeni in
funzione a fini da realizzare”12, e l’episteme, che “delimita i fenomeni in
funzione a principi, a ragioni”13. La prassi, l’azione, l’energheia e l’ergon,
come compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come
trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione Ivi, p. 489.
11 Ibidem. 12 Ivi, p. 490. 13 Ibidem. ! 9! dell’ambiente che solo
così diviene mondo. In tale processo antropogenetico per G. la retorica occupa
un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di
quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Essa avrà un
doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano
e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria
che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel
meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana.
All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei
segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana
dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo
“dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello di filosofia in quanto
dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente
umano (ergon anthropinon)”14. La questione linguistica si intreccia con quella
antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia
primordiale della Lichtung, la semiosfera da cui si dipartono mondi possibili
dell’umano. Su questo sfondo teorico denso e complesso nella sua ricchezza
tematica si staglia la questione della rivalutazione dell’umanesimo, connessa
alla tematizzazione della co-originarietà di logos e pathos (dove il
trascendentale dell’esperienza è il sostrato patico che va a fondare la stessa
vita cogitativa), e alla critica del moderno. L’interpretazione grassiana
dell’Umanesimo è lontana dai presupposti teorici e metodologici a lui coevi che
privilegiavano il contributo ficiniano nel superamento del pensiero
immaginifico e retorico: lo scopo di Grassi è quello di mostrare come
l’attività filosofica non corrisponda sic et simpliciter con l’attività
razionale e concettuale ma comprenda anche l’attività della fantasia e della
parola figurata. Oltre alle posizioni di Spaventa e GENTILE ad essere messa in
discussione è anche la via epistemologica cassireriana15. Si tratta di spostare
i termini della questione sul versante ontologico- Id., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, La città del Sole, Napoli; La filosofia
dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli 1988, pp.
17-36. ! 10! ermeneutico che si concreta nella retrodatazione
dell’inizio del moderno all’Umanesimo e al Rinascimento – contro la tesi che
individua in Cartesio l’inizio della modernità – in cui emerge la questione
della connessione tra soggetto e oggetto nell’espressione linguistica. A
partire dalla messa in discussione del pregiudizio heideggeriano nei confronti
dell’umanesimo, sia esso considerato come epoca storica ben determinata o
piuttosto come Weltanschauung inautentica, Grassi porta avanti la direzione
della Humanistische Bibliotek per l’editore Fink contribuendo alla
pubblicazione di cinquanta volumi a tema umanistico, come le opere di Petrarca,
Salutati, Valla, Pico. La questione dell’Umanesimo non è ristretta nei confini
della paideia che ha a cuore la rivalutazione della dignità dell’uomo ma ha una
vocazione metafisica e ontologica in quanto aperta al problema dello
svelamento. Come è stato messo in luce dagli interpreti l’attenzione è spostata
verso l’Umanesimo problematico anziché verso quello sistematico, verso la
ricchezza del possibile e non verso l’unilateralità del vero16. Gli autori
prediletti da Grassi mostrano tutti una critica verso gli schemi astratti ed
aprioristici e un’apertura verso la giurisprudenza, la retorica, la religione
dei miti e la politica. La dimensione retorica va considerata secondo il
filosofo non come elocutio ma come inventio: non si tratta di un ornamento
edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice
che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro
che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che
opportunamente si salda in G. alla centralità della metafora, stabilendo con la
topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre
provvisorio”17. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete
degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale
della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a G. di porre
l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero, più che alla sua fase
declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose, che
altro non è che Cfr., A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi,
pp. 385-404, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, La Città del Sole,
Napoli 1996, p. 387. 17 Ivi, p. 390. ! 11! “nascimento in certi
tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità), Grassi rifugge dagli ideali
cartesiani di chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico
e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia
tra Cartesio e Vico che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per
la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discoro
che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. Riconosciamo in
questa impostazione l’agire delle categorie interpretative del maestro degli
“anni mitici”, Heidegger, il quale sottopone l’autore delle Meditazioni
all’affilata mannaia della distruzione ontologica, valutando l’operazione
metodica di separazione tra io e mondo18, tra res cogitans e res extensa
un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di
ricomposizione della frattura come è possibile leggere in Essere e Tempo ai
paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio19avviene nella
metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa
sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che
rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce –
ad esempio , nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo
sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come
essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego
cogito, ergo sum20, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano
ed una nuova posizione dell’uomo21, poiché l’uomo diventa subiectum22, il
fondamento e la misura di ogni Sull’interpretazione heideggeriana
dell’ontologia cartesiana del mondo cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo,
Longanesi, Milano, §§ 19-21. 19 Sull’interpretazione heideggeriana del pensiero
di Cartesio cfr., J. F. Courtine, Les meditations cartèsiennes de Martin Heidegger,
Les ètudes philosophiques 2009/1, n ̊ 88, p. 103-115. 20 È fin troppo nota la
tesi cartesiana espressa a mo’ di slogan nel Discorso sul metodo (CARTESIO,
Discorso sul metodo, Paravia, Torino 1990, p. 72). Tale espressione indica la
scoperta del soggetto, scoperta che nonostante l’ergo non ha la caratteristica
di un ragionamento discorsivo, bensì quella di una certezza intuitiva. Il
cogito è infatti innanzitutto una esperienza incontrovertibile, poiché
indubitabile e inaggirabile, e poi il principio più importante della filosofia,
come è possibile leggere in Id., I principi della filosofia, parte I, § 7. Per
un approfondimento circa la questione del cogito cfr. G. Mori, Cartesio,
Carocci, Roma; Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 22
Ivi, p. 168. ! 12! certezza e verità. “La tradizionale domanda
guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della
metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è
cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”23. Tale metodo è il cogito e
le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che
occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno
poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos.
Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse
scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione
umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”24. Il dualismo di
dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico
una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della
retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il
problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, è
posto per la prima volta secondo il pensatore in modo teoricamente articolato
nella filosofia vichiana soprattutto nel testo De ratione studiorum del 1709
del quale Grassi ricostruisce in Vico e l’umanesimo minuziosamente le tappe della
critica del napoletano al razionalismo cartesiano: la pretesa di partire da un
primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde;
esclusione del verisimile25. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena
deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde
pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare
quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico
di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica,
immaginativa, fantastica, ma anche politica, della vita umana, ridotta al suo
puro aspetto cogitativo. Sebbene il rapporto di Vico con il cartesianesimo si
presenti come un problema storiografico e filosofico complesso26 si può
senz’altro convenire con Grassi sull’opposizione vichiana alla critica Ivi, p.
169. 24 E. Grassi, Vico e l’Umanesimo, Guerini, Milano; Badaloni, Introduzione a G. B. Vico,
Feltrinelli, Milano 1961. ! 13! cartesiana nel contesto della
rivendicazione della priorità della topica: “giacchè, come l’invenzione degli
argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la
dottrina topica dev’essere preposta a quella critica” Non è la deduzione che
precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile
unicamente sulla base di un ritrovamento di luoghi28. Si tratta dell’arte
“topica che si chiarisce così come una dottrina dell’invenzione”29 di cui
Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in
Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti
e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia
possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”30. La questione è
ancora una volta quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della
realtà tenendo conto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da
interpretare in tutta la sua ricchezza. La ricerca del vero particolare,
circostanziale, storicamente determinato ci spinge a concordare con Bons
riguardo alla centralità dell’idea di agire situativo31, sullo sfondo del quale
si comprende la proposta retorica grassiana. Si tratta di un agire situativo
che alla formula cogito ergo sum sostituisce la formula coactus sum ergo ago32:
non “penso, dunque sono”, ma “sono costretto, G. B. Vico, Sul metodo degli
studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Postfazione di M. Sanna, ETS, Pisa
2010, cap. III, p. 39. 28 Sulla figura di Vico in Grassi Cfr. G. Cantillo,
Ratio e inventio nell’interpretazione dell’umanesimo, pp. 371-378, in AA. VV.,
Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ivi, A. Verri, Ernesto Grassi:
Linguaggio e civiltà in Vico, pp. 405- 423; ivi, S. Roic, Vico, Grassi e la
metafora, pp. 425-435; A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di E. Grassi,
cit.; ivi, A. Pons, Vico e la tradizione dell’umanesimo retorico
nell’interpretazione di Grassi, pp. 437-446; ivi, L. Amoroso, Vico, Heidegger e
la metafisica, pp. 447-470; ivi, J. Vincenzo, La ripresa grassiana di Vico,
l’unità di pietà e sapienza, pp. 471-491. Cfr., sull’incidenza
dell’interpretazione grassiana di Vico nel panorama degli studi vichiani
contemporanei G. Cacciatore, In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e
letteratura, Roma 2015, soprattutto p. 38 nota 5; Id., Verità e filologia.
Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in “Noema”, n.
2, 2011, pp.1-15, riviste.unimi.it/index.php/noema; J. M. Sevilla, Prolegòmenos
para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos in Vico y Ortega, soprattutto
il III capitolo, Retòrica como filosofìa. Vico, Heidegger, Grassi y el problema
del humanismo retòrico, pp. 146-227. 29 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p.
34. 30 Aristotele, Topica, 101 b 3. 31 E. Bons, Il pensiero di Ernesto Grassi.
Una breve sintesi, pp. 75-98, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi,
cit., p. 81. 32 R. Wisser, Ricordo di Ernesto Grassi. Arte e mondo, pp.
159-191, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 188.
! 14! quindi agisco”. Proprio la ricchezza del reale viene
salvaguardata in un pensiero topico, ingegnoso capace di apprendere
maggiormente rispetto al pensiero critico tutto confinato all’interno della
catena delle deduzioni. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper
ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle
quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Si
comprende allora l’accostamento ai temi metaforologici che per il filosofo sono
la base del discorso retorico e filosofico33. La metafora è il luogo, lo
spazio-di-tempo- in cui si dà la manifestatività dell’essere e il suo appello.
Poiché l’essere è un Altro di cui l’ente nel suo significato è trasposizione la
parola metaforica sarà l’unica in grado di accogliere l’appello dell’essere34.
Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di
singole espressioni metaforiche, ma ciò che questo trasferimento nasconde, ciò
a cui supplisce. Su questo sfondo si può comprendere la declinazione
antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce
come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”35
in cui la metafora riveste un ruolo particolare. Essa si configura come un
fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola,
ma su cui si fonda. Seguendo le tappe fondamentali della sua ricerca teoretica
riscontriamo che l’elemento riflessivo – sia esso orientato verso l’attualismo,
sia esso ispirato dalla “metafisica immanente” di Heidegger, sia, infine,
caratterizzato dalla propria originale prospettiva del filosofare noetico non
metafisico – è tutto spostato verso la pratica filosofica nel suo farsi e
compiersi e non verso un astratto razionalismo. Accompagnandosi costantemente
ad una filosofia attenta alla correlazione uomo-essere, mai chiusa in una
dimensione esclusivamente ontologica, Grassi si misura con una continua
operazione di E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 75. 34 Id., La
metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990, p. 62. Sul tema della metafora in
G. cfr., D. Di Cesare, Metafora e differenza ontologica. Grassi versus
Heidegger, pp. 25-48, in AA. VV., Un filosofo europeo: G., Aesthetica, Palermo
1996. 35 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla
ragione: la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di
Ernesto Grassi, cit., p. 113. ! 15! storicizzazione delle strutture
del mondo storico umano: il bello, il buono, il vero, la triade concettuale
alla quale il filosofo riconduce la totalità del mondo storico. L’avventura
filosofica di Grassi mette al centro il soggetto umano e la sua coscienza – la
coscienza temporale umanistica – senza cadere nell’idealismo vecchio e nuovo,
né in un soggettivismo di cartesiana memoria, proprio perché la coscienza per
il pensatore è un compito, uno sforzo e un impegno. Concetti, questi, che
scandiscono i momenti della vita pratica e politica del mondo umano e vanno ad
intrecciarsi con le idee di disancoramento, oggettività e coscienza temporale
umanistica. Il compito, lo sforzo e l’impegno, trattati in forma estesa in Il
reale come passione. L’esperienza della filosofia36 hanno una connotazione
ermeneutica, non solo pratico-politica, poiché permeano anche il processo
dell’interpretazione. La formazione umana – il cuore della retorica grassiana37
– fondata sull’interpretazione, ha carattere esistenziale per il filosofo. Egli
sostiene che tra formazione, interpretazione ed esistenza c’è un’intima
co-appartenenza, come emerge dalle pagine in cui il filosofo afferma che:
“l’interpretazione è il risultato di un ipotetico progetto in cui viene in
seguito verificato se contiene e chiarisce effettivamente tutti gli aspetti e
tutti gli elementi; questo procedimento è l’essenza dell’atto
dell’intelligenza. Poiché l’uomo è un essere aperto al mondo e non dispone di
schemi già pronti, la sua formazione acquista un carattere esistenziale.
Esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se
stesso e con il mondo senza evitare la decisione che è sempre richiesta”38.
L’esistenza interpretante secondo Grassi ha carattere trascendente, dove la
trascendenza è sempre intra-mondana poiché “si fonda sulla necessità di
formare, di portare ad uno schema, ad una forma [...] la teoria della
formazione diventa qui la dottrina della struttura dell’accadere umano alla
luce dell’origine del nostro divenire; G., I primi scritti, cit., pp. 995-1029,
soprattutto pp. 1022-1024, e Id., Prefazione a Der tod des Sokrates di
Guardini, ivi, pp. 985-989, soprattutto p. 986 37 Id., Retorica come filosofia,
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. !
16! diventa una ricerca arcaica, nella misura in cui si riferisce agli
schemi fondamentali (archai) dell’autorealizzazione umana”39. L’analisi grassiana
mira a proporre un’idea di “totalità del fatto umano” il cui pieno sviluppo è
obiettivo dichiarato della sua proposta neo-umanistica. Grassi sostiene che “il
fine degli studi umanistici è il pieno sviluppo di tutte le capacità dell’uomo,
dell’!"#$% &%'"()*%$%”40. Se la coeva concezione del sapere si
concentra solo sul suo aspetto di utilità all’uomo, misconoscendo la diversità
delle fonti dell’esistenza umana (il vero, il buono, il bello) per il filosofo
occorre svoltare verso una scienza che “riconosce che ci sono capacità
differenti, autonome l’una rispetto all’altra e nondimeno appartenenti tutte
quante all’essenza e all’interezza dell’uomo, e che dal loro pieno sviluppo
sorgono le diverse opere dell’uomo”41. Per il filosofo bisogna ammettere che il
sapere, il bello, il buono, non dipendono dall’applicabilità e che “solo
liberando le fonti della vita e rispettando la loro autonomia, sia può
realizzare l’opera complessiva dell’uomo, quella totalità che era anche
l’antico ideale della comunità politica, ossia della comunità umana”42.
L’intima connessione strutturale di pensiero, volontà e passione – in cui
riecheggia la lezione diltheyana appresa durante lo stage tedesco degli anni
giovanili – e la relazione dialettica di continuo scambio tra uomo e mondo circostante
caratterizzano una nuova visione del tempo che non trova più il suo fondamento
nell’a-priori formale della ragione ma nelle concrete e sempre nuove
connessioni che l’uomo istituisce attraverso le espressioni linguistiche,
artistiche, civili, politiche. Tutti i contributi grassiani muovono dal rifiuto
di assolutizzare un’essenza universale dell’umano e dal proposito di rendere
ragione della condizione umana attraverso l’indagine dei possibili punti di
mediazione di ragione e passione, logos e pathos, tramite una ricerca che
potremmo definire ivi, p. 74. 40!Id., Prefazione a Die Totenrede des Perikles
di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I primi scritti, cit., p. 979.! 41!Ibidem.!
42 Ibidem. ! 17! fenomenologia storico-ermeneutica – almeno per
quanto riguarda gli scritti tardi come La potenza della fantasia, La potenza
dell’immagine, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Retorica come filosofia,
La filosofia dell’umanesimo, Vico e l’umanesimo, La metafora inaudita, Il
dramma della metafora – che fa capo ad un concetto sintetico-trascendentale
della fantasia che si costituisce come strumento indispensabile di mediazione
tra l’esperienza storica e pratica finita e la generalizzazione dei miti, delle
metafore. Lungo questo processo complesso e ricco di articolazioni nel campo
della psicoanalisi (Freud), della letteratura (Eschilo, Sofocle, Euripide,
Ovidio, Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Ungaretti, Poe, Mallarmè, Proust,
Wagner, Hölderlin), dell’antropologia e della biologia teoretica (Scheler, Plessner,
Gehlen, Driesch, Von Uexküll padre e figlio), della retorica (Cicerone,
Quintiliano, Tesauro, Graciàn) e naturalmente della filosofia, avviene quello
slittamento verso una “teoria dell’atto metaforico” che è l’esito della sua
filosofia. La ricerca sulla metafora non si configura semplicemente come una
fenomenologia metaforologica che si limita alla descrizione delle metafore che
ha prodotto la storia umana, ma come una teoria che indaga il plesso
azione-metafora. Si tratta di una teoria che guarda all’energheia metaforica e
al processo del metapherein segnando una distanza netta dall’astrazione
concettuale. Quest’ultima fissa il reale bloccandone il flusso e la vita in una
staticità, cristallizzazione e immobilità, mentre la teoria grassiana pone in
luce l’aspetto arcaico, nel senso di fondativo, dell’atto metaforico che genera
il mondo umano proprio attraverso un atto di trasposizione che agisce su due
livelli: linguistico (linguaggio metaforico); pratico-politico (fondazione
della comunità umana a partire dalla umanizzazione della natura tramite
pratiche di trasposizione di significato). L’accento della riflessione si
sposta dalla ricerca sul perché e sul che cosa alla domanda sul come il reale
si impone alla nostra percezione. Il reale, l’originario, l’essere si impongono
nell’urgenza dell’appello ermeneutico in cui l’ente svela la propria
mutevolezza e l’uomo la propria risposta agli appelli dell’essere. Nel
corrispondere all’appello dell’essere si impone all’attenzione il pathos e la
sua funzione manifestativa:la passione ha infatti carattere di apertura mondana
e il logos, la parola, emergono come “rottura del sacro”, destino della
Menschwerdung. Logos come risposta al silenzio primordiale, quello della ingens
sylva, che dice del fondamento il suo ! 18! essere al contempo puro
apparire e progetto creativo. Il pathos arcaico, luogo del manifestarsi
dell’abissale potere dell’essere, non può che trovare espressione in un logos
lontano dall’astrattismo intellettualistico ma piuttosto vicino all’orizzonte poetico,
che più che essere interpretato come orizzonte letterario è ricompreso
all’interno della filosofia come meditazione esistenziale, pratica concreta di
ricerca del senso. É nel rapporto tra poesia e filosofia che si apre
l’orizzonte di comprensione dell’essere. In Grassi si ravvisa la traccia di un
pensiero “integrale o integrativo”, sottratto alle rigide categorie della
ragione metafisica ma aperto all’irruzione del novum. La ricerca filosofica si
costituisce allora come indagine dei punti di mediazione, di unità e
distinzione delle forme dell’essere. La questione suprema è la domanda sul
luogo e le modalità originarie in cui accade la nostra apprensione della
realtà. Il logos metaforico si scopre come linguaggio originario dell’essere,
come espressione della dualità creativa e patica dell’esperienza
dell’originario. Un’esperienza in cui “la poiesis diventa un momento della
praxis”43, e non un gioco effimero del dire, e la metafora si tramuta nella
“serietà del pensare filosofico”44. “La metafora con il suo carattere
immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che
corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con
il caso particolare”45. Solo attraverso il dire metaforico si apre, nel
silenzio tragico dell’aperto, quello spazio abitabile dall’uomo. E. Grassi, La
metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, in “Quaderni di
italianistica”, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 178.
45 Jaspers in una lettera indirizzata a Heidegger scrive: “il messo di questa
lettera, Grassi, di Milano, desidera parlarle di persona. Studia filosofia
tedesca, ha letto il suo libro e ne ha una conoscenza sorprendente –
naturalmente con tutti i fraintendimenti dovuti alle interferenze della
tradizione, ma tuttavia con una buona, stupefacente approssimazione. Credo
che il suo vivace interesse le farà piacere.” Heidegger risponde: “Grassi mi ha fatto in un
primo momento una grande impressione per via della sua intensità e di una
particolare sensibilità. Ma mi è poi venuto il dubbio che si tratti di una
natura giornalistica” Anche Jaspers, poi, si pronuncerà in un modo altrettanto
poco benevolo definendo Grassi un brillante intervistatore ma non di certo un
filosofo. Oltre questi giudizi, in fondo sbrigativi, possiamo ricordare quelli
di Guido Calogero, il quale in riferimento al primo libro di Grassi, Il
problema della metafisica platonica, pubblicato dall’editore Laterza grazie
all’interessamento di Croce, e dedicato a Heidegger, afferma che egli avrebbe
fatto meglio a scrivere un libro su Heidegger dopo aver studiato Platone invece
che scrivere un libro su Platone dopo aver studiato Heidegger. Croce scrisse:
“insegnante in Germania, Grassi si propone il problema di avvicinare e indurre
a concorde collaborazione la filosofia italiana e quella tedesca. I1 problema
non ha consistenza, perché non c’è né la filosofia tedesca né quella italiana,
ma solo la filosofia senza aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a
italiani, a tedeschi e a ogni altro popolo e individuo” M. Heidegger-K.
Jaspers, tr. It. Di A. Iadicicco, Milano
Cortina. Ivi, pp. 73-74. G. Calogero, Recensione a Grassi, “Il problema della
metafisica platonica”, Bari, in “Giornale critico della filosofia italiana”. B.
Croce, Pagine sparse, Laterza, Bari. E così De Ruggiero, Vanni-Rovighi,
Ottaviano50. Insomma, negli anni in cui il filosofo milanese ambiziosamente
cerca di ritagliarsi un posto nella cerchia degli intellettuali più prestigiosi
dell’epoca i giudizi sulle sue idee non furono troppo favorevoli. Grassi appare
un brillante intervistatore a caccia di filosofi, la cui opera è da considerare
al massimo come prova cattiva di un ingegno Ottimo. Ma stanno proprio così le
cose? Quanto di vero c’è in queste affermazioni e quanto, invece, di
approssimativo? Un breve ripercorrimento dell’itinerario speculativo di Grassi consentirà
di comprendere la plausibilità o meno dei giudizi critici ora ricordati. Dopo
aver brevemente assistito ai corsi di Scheler e di Jaspers – andai a Marburgo da
Heidegger che si dichiara disposto a seguire il mio lavoro di libera docenza. I
luminari dell’università di Friburgo erano Husserl (che tene il suo ultimo
corso come professore emerito), Heidegger (che assume la cattedra di filosofia), È il 1986 e
Grassi, ripercorrendo le tappe salienti della propria autobiografia
intellettuale, pensa a quegli anni friburghesi definiti mitici. Si tratta,
infatti, degli anni mitici e indimenticabili delle lezioni di colui al quale
Grassi guarda sempre – nonostante le prese di distanza di natura politica –
come ad un autentico maestro: Heidegger. L’arrivo a Friburgo di Grassi era
stato preceduto da un lungo periplo intellettuale, oltreché geografico, che ha
indotto alcuni interpreti, come Cacciatore a definire quella di Grassi
filosofia del viaggio. Ruggiero, G., Recensione a E. Grassi, Il problema della
metafisica platonica, Bari, “La Critica”, Ottaviano C., Recensione a E. Grassi,
Vom Vorrang des Logos, München, in «Sophia», Napoli, Vanni-Rovighi S.,
Recensione a G., Vom Vorrang des Logos, München, «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano,
E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo:
un problema epocale, cit., p. 20. 52 Sul tema del viaggio e del resoconto di
viaggio in Grassi come fenomeno non meramente odeporico ma innanzitutto
cognitivo cfr., G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la
“filosofìa del viaje”de Ernesto Grassi, pp. 79- 91, in Id., El bùho y el
còndor. Ensayos entorno a la filosofia hispanoamericana, ed. e trad. di M. L.
Mollo, Planeta Bogotà 2011. “Serìa entonces un error garrafal esperarse del
libro de Grassi elementos meramente descriptivos o Grassi, nativo di Milano, dopo
aver conseguito la laurea in filosofia con Martinetti discutendo una tesi dal
titolo L’unità formale della vita e l’impostazione del problema teologico, trae
orientamento decisivo nel suo iter filosofico dall’incontro con Chiocchetti,
uno dei primi maestri della neoscolastica milanese aperto al confronto con i
temi della modernità. Autore di un importante volume, La filosofia di Croce, frutto
di studi, Chiocchetti porta avanti ricerche sui temi del modernismo, del
pragmatismo e della gnoseologia e su autori come Gentile e Vico che affascinano
molto Grassi, i cui primi lavori apparsi sulla rivista Rassegna Nazionale, di
stampo nazionalista, conservatore e cattolico, mostrano idee ispirate al
pensiero del “carissimo ed onorato Chiocchetti” e a valori liberali e
cattolico-attivisti, come si evince soprattutto dai saggi A proposito di un volume
dedicato alla figura di Mazzini; Germania, un resoconto di un viaggio “alla
ricerca di idee che affratellino i tedesci e italiani”55; Il partito popolare
italiano. momentos narrativos de situaciones, paisajes, modelos de vida,
costumbres, mentalidades hay que leer las pàginas grassianas ante todo como una
experiencia personal que enterpreta el viaje (y la secuencia de sus
movimientos: la preparaciòn, la espera, el acercamiento, el estar y el
retornar) como un sìmbolo, como una metàfora del pensamiento occidental en
busca de sus orìgines. Y se trata de una bùsqueda que se afina y se perfecciona
voluntariamente, con la adeguadeza de la reflexiòn y con la dilataciòn de la
perceptiòn, precisamente en la situaciòn lìmite de una experienza
espacio-temporal distinta, de una apropriaciòn continua de imàgenes inèditas de
naturalezas diversas, de olores que nunca se han sentido, de sensaciones
visuales y tàctiles que nunca han sido experimentadas”. Mi permetto di rinviare al mio saggio La hora
de Pan en Reisen ohne Anzukommen. Eine Konfrontation mit Sudamerika -- Grassi,
pp. 323-336, in A. Scocozza-G. D’Angelo (a cura di), Magister et discipuli:
filosofìa, historia, polìtica y cultura, Penguin Random Hause, Bogotà 2016;
Ead., Meditazioni sudamericane: la tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia
di Grassi in cds in “Studi Interculturali”, Trieste, Proposito della rivista
era quello di collocarsi a metà strada tra i contributi dedicati unicamente ai
settori storici e scientifici e quelli di carattere politico-religioso:
“Cattolici e italiani, pur rispettando sempre le convinzioni e le credenze altrui,
noi coopereremo, per la nostra parte, a conservare le istituzioni religiose,
morali, sociali, civili e politiche dell’Italia. Le istituzioni religiose,
poiché noi cattolici e sincerissimamente devoti alla Chiesa cattolica, quando
sorgano questioni di attinenza tra la religione e lo stato, pur riconoscendo la
necessità che lo stato mantenga i diritti propri, ci proponiamo di insistere e
raccomandare la sacra necessità di rispettare i diritti della chiesa e delle
coscienze: non rispettati i quali, si offendono o prima o poi anche i diritti
della civile società”, La rassegna nazionale, I, 1879, vol. I, p. 5. 54 E.
Grassi, L’impatto con Heidegger, p. 75 in M. M. Olivetti (a cura di), La recezione
italiana di Heidegger, pp. 73-82, Cedam Padova 1989. 55 Id., Germania, in
“Rassegna Nazionale”, XLIV, novembre 1922, seconda serie, vol. XXXIX, pp.
100-109 ora contenuta in E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 18. !
22! I successivi lavori grassiani, a partire da Il tragico del 1923 – che
espone in nuce nodi concettuali che il filosofo avrebbe più estesamente
tematizzato negli ultimi lavori: La metafora inaudita e Il dramma della
metafora – per proseguire con Scolastica e storia dello stesso anno e Il
pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato del 1924, mostrano
uno slittamento da una concezione negativa del principio di immanenza ad una
considerazione molto positiva del contesto politico, quale nuovo luogo di
emancipazione umana dopo la crisi del primato della trascendenza. Soprattutto
dopo la stesura del saggio su Machiavelli possiamo riscontrare una “prima
svolta” grassiana dovuta con molta probabilità ad un’analisi dettagliata del
pensiero di Croce, Gentile e degli umanisti, primo fra tutti Dante. Ci sembra
convincente l’ipotesi di Messori secondo la quale a partire da questo momento,
ossia dal saggio del 1924, l’Umanesimo diviene il terreno privilegiato della
riflessione grassiana, la quale, grazie al pensiero politico di Machiavelli,
riscopre un altro inizio del pensiero moderno, un altro ingresso alla
filosofia, non gnoseologico e teologico, ma unicamente antropologico. Si tratta
di un risultato di grande importanza poiché tra gli anni Trenta e Quaranta il
filosofo milanese mette a tema quell’endiadi concettuale – il nesso
logos-pathos, in cui il pathos appare come a priori dell’esperienza umana nella
sua totalità, e dunque anche del momento cogitativo – che ritroveremo
costantemente espressa e concettualizzata nella successiva produzione, da
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica del 1970, a Potenza della
fantasia. Per una storia del pensiero occidentale del 1979, a Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica del 1980, fino ai testi degli anni Ottanta,
Heidegger e il problema dell’umanesimo (1983), Umanesimo e retorica. Il
problema della follia (1986), La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale
(1986), Vico e l’umanesimo, che raccoglie una serie di saggi pubblicati
singolarmente dal 1969 al 1990. Almeno in questa fase, tuttavia, occorre
sottolineare che la considerazione dell’antropologica umanistica si pone ancora
fortemente come una visione antropocentrica, mentre solo R. Messori, Le forme
dell’apparire, cit., soprattutto I cap. ! 23! successivamente all’incontro
con Heidegger e alla scelta del concetto di Lichtung quale filo conduttore del
nuovo approccio all’umanesimo, approccio da noi definibile onto-antropo-logico,
tale visione sarà più orientata verso una tematizzazione del nesso uomo-essere.
In questo periodo Grassi collabora anche con l’informatore bibliografico del
Circolo Filologico milanese, la Rassegna di coltura, sul quale pubblica tra il
1925 e il 1927 una serie di contributi dai quali traspare uno studio di Croce e
dell’attualismo gentiliano. Conseguita la laurea nel 1925, incomincia per il
pensatore l’ambiziosa avventura europea57, in Francia e in Germania, alla
ricerca di un proprio accesso alla filosofia. In seguito al soggiorno a Aix en
Provence, durante il quale conosce Blondel58, scrive La più recente attività
della filosofia dell’azione in Francia del 1928, in cui la filosofia
dell’azione è considerata come filosofia della trascendenza che non nega i
valori dell’immanenza, ponendosi, piuttosto, come condizione di possibilità
della processuale manifestazione dei valori immanenti, e Il platonismo
cristiano di M. Blondel del 1932, il cui merito sarebbe stato quello di
liberare la metafisica dal presupposto gnoseologistico. È a partire da questo
saggio che si profila quell’avvicinamento all’attualismo che successivamente si
sarebbe coniugato con la questione filosofica heideggeriana59 e che spinge
Grassi ad approfondire la cultura filosofica tedesca. Ad un peccato di
ambizione si deve, con buona dose di probabilità, l’adesione di Grassi al partito
fascista il 3 maggio del 1933. Secondo la documentata ricostruzione di
Büttemeyer, l’iscrizione al fascio fu fatta per ottenere la tessera senza la
quale non era possibile partecipare ai concorsi in Italia. Cfr., Büttemeyer,
Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, cit. 58
Sui rapporti Grassi-Blondel cfr., il lavoro di S. D’Agostino, La metafisica di
Ernesto Grassi tra Platone e Blondel, pp. 275-295, in P. Pagani- S- D’Agostino-
P. Bettineschi (a cura di), La metafisica in Italia tra le due guerre, Istituto
della Enciclopedia italiana, Roma 2012. 59 Cfr., W. Büttmeyer, Rettifiche.
Laurea, libera docenza e “Studia Humanitatis” di Ernesto Grassi, cit., p. 159:
“La prima formazione filosofica di Ernesto Grassi è dovuta a Emilio
Chiocchetti, la cui concezione di una neoscolastica moderata si mostra negli
scritti dell’allievo dal 1922 fin verso il 1925. Mediata da Chiocchetti, vi si
aggiunge la conoscenza dell’estetica di Benedetto Croce (1923) e della sua
gnoseologia (1925) nonché del modello dialettico della storia della filosofia
che si concretizza nell’interpretazione gentiliana del Rinascimento
(1923-1924). Grassi mostra momentaneamente simpatie per Miguel de Unamuno
(1924-1925), per il concetto martinettiano dell’Unità assoluta (1924-1925) e
per la filosofia di Bernardino Varisco (1925-1926), che gli era stato anche
maestro con i suoi lavori; ma essi non esercitano se non un’influenza
marginale. Rimane invece escluso l’attualismo e immanentismo di Giovanni
Gentile: pur avendolo conosciuto nei seminari di Chiocchetti e poi sulle opere,
lo recepisce positivamente soltanto a partire dal 1926, dopo aver già
presentato una ventina di pubblicazioni”. ! 24! Dopo aver
affannosamente girovagato per la penisola italiana in cerca di una propria via
al filosofare G. approda finalmente nella terra materna e lì, nella riflessione
heideggeriana, trova un punto di partenza per una Weltanschauung più ampia
rispetto a quella giovanile, ancora troppo influenzata dall’ambiente
neoscolastico. In questi anni pubblica numerosi saggi apparsi sulla “Rivista di
filosofia”: Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea del
1929; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia
tedesca contemporanea dello stesso anno, in cui G. rimprovera a Husserl la
mancanza di una solida base storico-filosofica, in particolare una superficiale
interpretazione dell’idealismo tedesco e un’assenza di conoscenza della
filosofia italiana, da Spaventa a GENTILE, pur riconoscendo alla fenomenologia
il merito di aver trovato uno spazio di riflessione oltre la linea psicologista
e naturalista e storicista. Secondo Grassi “da un canto la scuola neo-kantiana
si era isterilita sui problemi della scienza e sui rapporti astrattamente
concepiti e quindi insolubili, della conoscenza filosofica e scientifica,
naturalizzando le categorie e risolvendole parzialmente nelle leggi naturali.
D’altro canto lo storicismo e la superficiale conoscenza del pensiero di
Dilthey non aveva portato nessun nuovo contributo, cosicché nella generale
crisi e disorientamento, tutti si rifecero a Husserl”60. Insomma, il filosofo
di Prossnitz, in quello che per Grassi è quasi un deserto filosofico –
psicologismo, neokantismo e storicismo –, costituisce un’oasi intellettuale
che, tuttavia, ha molti limiti e non solo di natura storico-filosofica:
l’astrattismo, e la disattenzione per il pensiero pensante a favore del
pensiero pensato, l’incomprensione del pensiero concreto. Per G. gli aspetti
negativi sono tali da rendere la filosofia husserliana attiva solo per lo
spazio di vent’anni e cieca a quella concretezza del pensiero e dell’esistenza
che solo Heidegger avrebbe portato alla luce con Essere e Tempo “realizzando
per primo in Germania la critica della fenomenologia di Husserl”E. G., Sviluppo
e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea, in “Rivista di filosofia”, Milano XX, aprile-giugno 1929, n. 2,
pp. 129-151, ora in Id., Primi scritti, cit., pp. 186-187. 61 Ivi, p.
187. ! 25! In questo periodo Grassi opera quella collocazione della
proposta filosofica heideggeriana all’interno della propria formazione
intellettuale, formulando l’ipotesi del possibile incontro tra la teoria
gentiliana dell’atto e la questione del Dasein, quale luogo storico del
disvelamento dell’essere di stampo heideggeriano, che aveva proprio lo scopo di
destrutturare quella categoria di coscienza rappresentativa che dal cogito
cartesiano era rifluita nelle teorie di Kant, Hegel e Husserl. Heidegger
diviene il perno principale attorno al quale gravita l’attenzione filosofica di
Grassi che si concretizza nella stesura del saggio del 1930 Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger e de Il problema del nulla nella filosofia
di M. Heidegger del 1937. Il merito del filosofo di Messkirch sarebbe stato
quello di proporre una visione dell’uomo come Dasein, come esistente, atto
immanente, metafisico e autorealizzantesi62 che amplifica l’interesse per la
concretezza e la fatticità dell’esistenza contro ogni razionalismo e
astrattismo, superando la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Intanto
appaiono tra il 1932 e il 1935 i saggi Il problema filosofico del ritorno al
pensiero antico e Paideia e neoumanesimo che riprendono tematiche trattate in
Il problema della metafisica platonica e che mostrano una coniugazione della
proposta filologica di Jaeger con il ripercorrimento teoretico heideggeriano
del pensiero greco nel contesto più generale di un progetto paideutico e
umanistico che recuperasse il senso autentico dell’humanitas attraverso
l’esperienza filosofica della grecità, per Jaeger e Heidegger, e della
latinità, per Grassi. L’incontro tra la proposta jaegeriana e heideggeriana
circa il tema del neoumanesimo si affianca all’altro intreccio, quello tra
l’ontologia fenomenologica ermeneutica di Heidegger e l’attualismo di Gentile.
In Dell’Apparire e dell’essere. Seguito da Linee della filosofia tedesca
contemporanea del 1933, sullo sfondo dell’incontro Heidegger-Gentile sono
espressi alcuni nuclei teorici che avrebbero accompagnato Grassi in tutto il
suo cammino di pensiero: il carattere elenchico del principio di non 62 Id., Il problema della metafisica
immanente di M. Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, Milano-
Roma, XI, luglio-agosto 1930, fasc. IV, pp. 288-314, ora in Id., Primi scritti,
contraddizione, fondamento di ogni dimostrazione ma a sua volta non
dimostrabile; metodo e cogito in Cartesio; concetto di apparenza,
manifestatività ed essere; idea di fondamento. Come abbiamo ricordato all’inizio,
la prima formazione di Grassi fu di carattere neoscolastico, con un’attenzione
particolare alle questioni riguardanti la trascendenza, come emerge dal saggio
La dialettica dell’amore in cui il filosofo milanese afferma che “il pensiero
umano, la filosofia, è condotta dalla propria immanenza verso la necessità
della trascendenza che appunto perciò non può conoscere, realizzare, creare, ma
solo ricevere come una “grazia” proprio nel senso teologico della parola”63.
Un’impostazione di questo tipo spiega anche una originaria critica
dell’immanentismo gentiliano, e della sua scoperta fondamentale,
l’autocoscienza come pura forma, che induce Grassi a porsi come un fiero
oppositore di tutta la filosofia dell’immanenza64. Ma la difesa della
trascendenza messa in campo dalla neoscolastica è avvertita da Grassi come
insufficiente: in questo spazio si innesta la figura di Heidegger che diviene
quasi un antidoto alle carenze della neoscolastica, ma dello stesso
attualismo, che lascia non tematizzata la differenza ontologica tra essere e
ente, nonostante l’acquisizione dell’originario come atto del cogitare nel suo
stesso compiersi o come autorealizzantesi processo esistenziale e non come
oggetto del pensiero. Secondo l’interpretazione di G. il superamento gentiliano
della dicotomia soggetto-oggetto attraverso la radicalizzazione dell’esperienza
approda allo stesso risultato husserliano e
Id., La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in “assegna
Nazionale”, Roma, XLVI, dicembre 1924, seconda serie, vol. XLVII, parte I, La
richiesta dell’amore, pp. 137-148, parte II, La sofferenza del Tristano, pp.
148-162; XLVII, febbraio 1925, seconda serie, vol. XLVIII, parte III, La
dialettica del dolore, pp. 101-109, parte IV, La gioia può spingere alla vita,
pp. 109-114 ora in Id., Primi scritti, cit., p. 122. 64 Ivi, p. 120: “Il
concetto di forma pura, inobiettivabile, è proprio caratteristico della realtà
infinita eterna, in qualsiasi concezione immanente o trascendente del reale, ed
è quindi naturale che il processo di immanenza del pensiero moderno abbia
voluto ad esse ridurre la realtà del divenire umano. Infatti se la realtà nella
sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è
tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite
perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e
il limite, rimanendo esso stesso l’unico illimitato. L’autocoscienza come pura
forma è certo la più grande scoperta di tutta la filosofia dell’immanenza e lo
è proprio, merito di Giovanni Gentile. In ogni modo ci teniamo però a definire
e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e
quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da
discutere e da controbattere”. Per una ricostruzione della presenza di GENTILE
in Grassi cfr. R. Messori, Le forme dell’apparire, cit. ! 27!
heideggeriano: quello dell’intenzionalità, della relazione originaria di io e
mondo. Una relazione che non può essere messa da parte o a tema attraverso un
processo di epochè65: l’esperienza dell’oggetto non consente un’oggettivazione
dell’esperienza. Lo spazio di relazione e compromissione tra io e mondo resta
uno spazio di indeterminazione e di esperienza che rende l’atto gentiliano
simile alla nozione di aletheia di Heidegger e che è merito di Grassi aver
sottolineato. Volendo suddividere per comodità, e con tutte le riserve del
caso, l’unità di pensiero di Grassi in tre fasi principali, otteniamo lo schema
seguente: la fase giovanile formativa, dominata dai temi della scolastica
cattolica emergenti nei saggi degli anni Venti66; la fase metafisico-immanente,
in cui abbiamo la correlazione dell’attualismo gentiliano con il contributo
blondeliano della filosofia dell’azione, con quello crociano dell’estetica e
dell’autonomia delle forme dello spirito, e con la metafisica esistenziale
heideggeriana67; la fase matura neo-umanistica68 – i cui nuclei teorici già
Sottolinea molto bene questo aspetto Natoli, in S. Natoli, Giovanni Gentile
filosofo europeo, Bollati Boringhiei, Torino, 1989, pp. 27-28: “Gentile
attraverso la radicalizzazione dell’immanenza supera l’opposizione e la
separazione astratta di soggetto e oggetto e attinge a pienamente quel piano
dell’intenzionalità che per altre vie viene guadagnato dalla fenomenologia di
Husserl. Ma Gentile si porta oltre l’orizzonte della fenomenologia. La
relazione intenzionale di impianto fenomenologico, se da un lato supera
l’astratta separazione tra soggetto e oggetto, dall’altro lato ne tiene tuttavia
ferma la polarità [...], lo sforzo della fenomenologia è quello è quello di
svuotare l’io dal mondo perché il mondo appaia nella sua purezza, di svincolare
la coscienza dal flusso della vita per far sì che i contenuti d’esperienza
appaiano nella loro pura e semplice datità. Questo vuol dire andare alle cose.
Non così in Gentile. Alle cose non si va, con esse si è da sempre compromessi.
L’attualismo che pure rigorosamente guadagna il piano dell’intenzionalità si
rende tuttavia conto che essa non è suscettibile di nessuna epochè”. 66 Cfr.,
E. Grassi, A proposito di un cinquantenario, pp. 3-8, in Id., I primi scritti,
cit.; Id., Germania, ivi, pp. 9-18; Il tragico, ivi, pp. 27-48; Scolastica e
storia, ivi, pp. 49-54; La dialettica dell’amore, ivi, pp. 89-128; Tilgher e La
visione greca della vita, ivi, pp. 19-22. 67 Cfr., Id., Il pensiero di
Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, ivi, pp. 55-86; La più recente
attività della filosofia dell’azione in Francia, ivi, pp. 137-162; Empirismo e
naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 163- 179; Sviluppo
e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea, ivi, pp. 181-202; Il problema della metafisica immanente di M.
Heidegger, ivi, pp. 203-233; Il platonismo cristiano di M. Blondel, ivi, pp.
235-254; Dell’apparire e dell’essere, ivi, pp. 273-298; Linee della filosofia
tedesca contemporanea, ivi, pp. 299-332; Il problema del logo, ivi, pp.
371-406; Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, ivi, pp. 419-435;
La filosofia tedesca e la tradizione speculativa italiana, ivi, pp. 553-575; I
rapporti tra filosofia tedesca e filosofia italiana, cit., pp. 753-776;
Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la
tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 777- 809; L’inizio del pensiero
moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario, ivi, pp. 811-850;
Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, ivi, pp. 967-974; Il
reale come passione e l’esperienza della filosofia, ivi, pp. 995-1029; Vom
Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen
italienischer und deutscher Philosophie, Munchen, Verlag C.H. Beck, 1939. 68
Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, ivi, pp. 255-271;
Paideia e neo-umanesimo, ivi, pp. 357-369; Filosofia tedesca, filosofia
italiana e l’antichità. Il problema di una tradizione filosofica, ivi, pp.
851-864; Sul problema ! 28! ritroviamo in alcuni saggi giovanili69
– che declina la metafisica immanente in una ricerca ricostruttiva dei temi
dell’essere, del logos, del pathos attraverso la lettura dei contributi
letterari e filosofici dell’Umanesimo e del Rinascimento con un’attenzione
particolare ai temi della retorica, della fantasia e dell’ingegno, e della metafora.
In tutto il percorso speculativo emerge la radice dell’avventura speculativa
del filosofo: la “passione per la vita” in cui l’esercizio intellettuale della
filosofia diviene una funzione vitale, un prolungamento della vita stessa,
dell’esistenza in situazione. Il pensare diviene metamorfosi esistenziale,
impegno nella circostanza, ricerca affannosa del senso. Possiamo dare per
acquisito, dunque, che tra gli anni Trenta e Quaranta matura nella riflessione
di Grassi un’ipotesi di accostamento tra attualismo e fenomenologia70 che
incide profondamente sulla successiva analisi dell’apparire dell’originario e
della manifestatività nelle sue diverse forme e che coglie un aspetto critico
paradigmatico che rende i numerosi contributi grassiani non una collezione di
posizioni filosofiche eterogenee, un coacervo di notizie dell’ultima moda
filosofica71, come i giudizi di Jaspers e Heidegger riportati all’inizio
sembravano voler asserire. della parola e della vita individuale. Riflessioni a
partire dalla tradizione italiana, ivi, pp. 901-915; Il problema del sublime,
ivi, pp. 917-943; Studia humanitatis come essenza della tradizione spirituale
italiana, ivi, pp. 945-950; Del vero e del verosimile in VICO, ivi, pp.
951-966; 69 Come tenteremo di spiegare nel secondo capitolo, per l’impostazione
del problema umanistico risultano fondamentali le osservazioni espresse da G. nel
saggio su MACHIAVELLI. Messori così riassume l’incrocio grassiano di attualismo
e fenomenologia: “le due filosofie si intersecano su almeno tre punti
essenziali [...] rifiutano di attribuire l’originarietà all’ente, al pensato,
di qualsiasi rango esso sia; in secondo luogo entrambi avvertono la necessità
di identificare l’originario con un processo che, divenendo, si determina. Il
primato del logos come atto, che lo si intenda in senso gnoseologico o
ontologico, comporta, in terzo luogo, il superamento della logica tradizionale
e quindi del principio di identità e di quello correlato di non
contraddizione.”, R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e
umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit., p. 34. 71 Si sofferma su questo
“merito” grassiano Marassi nelle pagine introduttive a I Primi scritti: “così
l’atto è da una parte intrascendibile e dall’altra inogettivabile, ossia riassume
in sé i tratti distintivi della soggettività kantiano-idealistica e anche quel
movimento, non certo conciliabile con la trascendentalità del soggetto, di
donazione-sottrazione assimilabile piuttosto alla nozione heideggeriana di
aletheia. L’atto è questa complessa dinamica che piega il soggetto al confine
del mondo e del suo apparire, lo conduce allo svelamento dell’origine. Qui mi
pare che si inserisca il contributo specifico di Grassi dopo l’intuizione della
convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein
radicata nell’ontologia dell’essere. In altri termini si potrebbe dire che la
sua interpretazione non fosse una semplice sommatoria di posizioni eterogenee,
bensì cogliesse un aspetto critico paradigmatico”, M. Marassi, Introduzione a
E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 44. ! 29! Si impone
all’attenzione teorica di Grassi la tematica della multiformità del reale
(metamorphein) e della sua costitutiva polidimensionalità che affannosamente il
filosofo cerca per tutta la vita di interrogare al di fuori dei parametri
tradizionali. La questione “urgente” diventa quella di cogliere l’essere
nell’atto del suo manifestarsi, nell’attimo arcaico, iniziale e, pertanto,
mitico, del puro apparire attraverso un logos adatto (la metafora). Da un lato
il pensiero pensante gentiliano72, dall’altro la manifestatività dell’essere
heideggeriana, consentono a Grassi di guardare all’idea di fondamento come a
quell’originario indeducibile razionalmente che può essere patito e vissuto
nell’esperienza della parola più autenticamente che in quella del pensiero
tradizionalmente inteso. Secondo Grassi “l’originario non può venire inteso
come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo
processo a sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se
stesso”73 e proprio per questa identità di manifestazione e processo, di essere
e divenire, è possibile radicare la trascendenza nell’immanenza, il fondamento
nel reale e non in un oltre, ciò che non è manifesto in ciò che invece lo è.
Secondo il filosofo “il processo deve quindi esser inteso come un auto
manifestarsi. È importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della
svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”74.
Il punto di partenza è quell’indeducibile originario che si mostra e si rivela
in un metamorfismo e polimorfismo della realtà che non è un dato semplicemente
presente, bensì un divenire storico che continuamente si distingue, Occorre
sottolineare che il pensiero gentiliano dell’atto è a metà strada tra una una
impostazione soggettivo- trascendentale e un’idea di soggetto come Dasein, come
puro evenire, spazio di esperienza, cfr., sul tema S. Natoli, op., cit., p. 90:
“l’attualismo gentiliano si tiene a mezzo tra il soggetto trascendentale e il
Dasein, tra la determinazione positiva e costituente del pensiero e l’atto come
esperienza del puro accadere. In questo tenere il mezzo, l’attualismo finisce
per non occupare né una posizione né l’altra e di fatto viene a trovarsi in uno
spazio di indeterminazione. L’atto infatti se da un lato è ancora inscritto nei
termini della soggettività, sia pure interpretata come attività o come prassi,
dall’altro non può essere mai colto come un fatto, non può mai darsi a modo di
una semplice presenza”. 73 E. Grassi, Il problema del logo, in “Archivio di
filosofia”, Roma, anno VI, aprile-giugno 1936, fascicolo II, pp. 151- 183, ora
in Id., I Primi scritti, cit., p. 376. 74 Ibidem. ! 30! si
differenzia e si scompone in un divenire metamorfico che trova unità
nell’esperire patico ed estatico del Dasein. Appare evidente come sullo sfondo
di tale posizione teorica resta una domanda cruciale: in che modo occorre
ripensare il logos per non ridurre l’essere e la manifestatività ad una realtà
monolitica e cosale? Come superare una concezione oggettivistica e
soggettivistica? Si tratta delle domande che agitano le pagine teoreticamente
dense di Il problema del logo apparso in Archivio di filosofia nel 1936 e in
cui Grassi si chiede: “Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se
la manifestazione può solo essere intesa come uno scindersi e distinguersi di
sé – giacchè ogni apparire immediato, oggettivistico è stato già escluso – come
deve essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità,
sono i vari termini con cui traduciamo λέγειν, logo. Ma possiamo dire che il
logo sia effettivamente il primo, la ragione e il fondamento di ogni
manifestazione, oppure presuppone esso un momento prelogico? Questo è il
problema contro il quale urtiamo definitivamente”75. L’operazione di
accostamento tra l’ontologia heideggeriana e l’idealismo gentiliano, che ad
alcuni interpreti parve una mossa teorica insostenibile76, è per Grassi la
condizione di possibilità per sviluppare una riflessione intorno all’umanesimo
italiano. Proprio l’approccio a GENTILE e a Heidegger, originalmente
interpretati attraverso il filtro di una visione del logos molto ampia e ricca,
che sembra talvolta porsi come polarità antitetica al pathos, talaltra come
macrocategoria che ricomprende in sé la stessa dimensione patica – oscillazione
che viene sottolineata con vigore da alcuni interpreti77 che parlano di un
irrisolto dualismo nel pensiero grassiano, ma che, come vedremo in seguito, si
giustifica tenendo conto proprio della visione complessa e ampia che Grassi ha
del reale – offre a Grassi l’opportunità di delineare un percorso teoretico che
guarda al reale, all’essere e alla manifestatività senza la mediazione
gnoseologistica ed oggettivistica, bensì tramite una pre- 75 Ivi, pp. 376-377. 76 Nella Recensione
all’articolo di Grassi Il problema del logo afferma Ottaviano: “dirò subito che
la tesi, che cerca di fondare una interpretazione idealistica del pensiero
sostanzialmente realistico di heidegger, è, in linea assoluta, per mio conto
insostenibile”, C. Ottaviano, Recensione a E. Grassi, Il problema del logo,
cit., p. 398. 77 Cfr., la posizione di M. Marassi in G. e l’esperienza del
fine, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 7-24. !
31! intelligenza pre-categoriale fortemente radicata nella dimensione
dell’affettività, del patico e della Stimmung. Emerge così un programma
filosofico ambizioso che giungerà ad una riqualificazione della Romanitas e
della cultura umanistico-rinascimentale non solo italiana, ma mediterranea e
latina in senso lato. G. si chiede: “in che senso possiamo affermare che il
logo come atto, come λέγειν, ci schiude la molteplicità degli enti in mezzo ai
quali ci troviamo – e la cui totalità costituisce ciò che chiamiamo mondo – e
in che relazione sta con il sentimento (Stimmung)? È necessario riporre sotto
un nuovo punto di vista tutto il problema della originaria svelatezza
dell’essere. Finora abbiamo dimostrata l’insufficienza della concezione
oggettivistica nel suo aspetto empiristico; ci si impone ora una più precisa e
approfondita determinazione dei vari aspetti e momenti metafisici del logo”78.
Tale precisa e più approfondita determinazione dei molteplici significati del
logos avviene nella metà degli anni Trenta, anni cruciali per la storia
d’Europa e per le vicende personali dello stesso G. Che si iscrive il 3 maggio
1933 al partito fascista più per motivi di “opportunismo” accademico che per
convinzione, e in un clima di generale espansione europea delle ideologie
fasciste. Ricordiamo che soltanto dodici professori in quegli anni rifiutarono
di prestare giuramento e che l’esplicito e dichiarato antifascismo di Croce
resta isolato e chiuso nelle mura di palazzo Filomarino, mentre GENTILE raccoglieva
intorno a sé il meglio della filosofia. In tale contesto bisogna inquadrare il
compito teoretico e culturale che G. da alla sua ricerca di una ri-valutazione
della FILOSOFIA ITALIANA. Così ritroviamo G. a Berlino, dove assume il ruolo di
professore incaricato di FILOSOFIA ITALIANA nei suoi rapporti con la filosofia
tedesca. Nei saggi scritti in questo periodo, da I rapporti tra filosofia
tedesca e italiana fino a Del Vero e del verosimile in Vico G. Il Problema del
logo, Cfr. la dettagliata ricostruzione
di Büttmeyer , Sul rapporto Croce-Gentile sul ruolo della cultura cfr.,
Cacciatore, Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso della
storia italiana, in A. d’Orsi-F. Chiarotto, Intellettuali. Preistoria, storia e
destino di una categoria, Aragno, Torino] passando per i contributi sul poetico
e sul politico nella riflessione italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento,
sale in superficie la questione della parola, indagata, secondo G., dagl’umanisti
non con uno spirito antiquario, erudito, storico-filologico, storiografico,
bensì con lo spirito di una lotta per una visione e una costruzione del mondo
storico-sociale, che non è un mondo di pura contemplazione, ma è innanzitutto
una vita attiva, in cui i valori del passato romano, che gl’umanisti
sostenevano di aver scoperto CONTRO le interpretazioni ebbraizanti medievali,
potevano contribuire all’educazione e alla formazione della civiltà. Come ha
sottolineato Vasoli nell’Introduzione italiana all’opera grassiana Heidegger e
il problema dell’umanesimo: “G. considera vero problema centrale dell’umanesimo
italiano non tanto la riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti, quanto
piuttosto l’illuminazione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in
cui appaiono l’uomo e il suo mondo dalle analisi di G., svolte in un ampio
arco, da ALIGHIERI a BOCCACCIO e a SALUTATI, da BRUNI a VICO, emerge un tema
costante: la poesia epica degl’antichi eroi – ENEA E ROMOLO -- come fondazione
della COMUNITA umana e della storia, svelamento luminoso dell’essere, e –
soprattutto in VICO – principio e ragione della stessa humanitas, con la sua
inquietante presenza storica. L’umanesimo è, dunque, interpretato alla luce
dell’ESPERIENZA LINGUISTICA che caratterizza il mondo umano e della
individuazione dell’apertura primitiva, arcaica e originaria che G. ri-elabora
sulla scorta di quanto Heidegger esprime sul concetto di LICHTUNG – lume
-- si tratta di un umanesimo onto-antropo-logico, che non è un approccio
antropologico antropocentrato, poiché la relazione primaria èquella di uomo e
mondo, Dasein e Sein. Lo slittamento dell’interpretazione dell’umanesimo da un
piano gnoseologico-epistemologico ad uno ermeneutico-ontologico spinge G. ad un
più serrato confronto con Heidegger e la sua inappellabile condanna
dell’umanesimo. Heidegger afferma, infatti che ogni umanismo rimane metafisico.
Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la
questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino
che si ponga una simile questione, perché a causa della sua provenienza
metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende. Vasoli, Introduzione
a G., Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli, Guida; Heidegger, Lettera
sull’umanismo; Segnavia, a cura di Volpi, Adelphi, Milano. Tale critica in
Heidegger si collega ad una precisazione della sua filosofia che non ha mai
avuto l’intenzione di essere un esistenzialismo o un umanismo, ma un pensiero
che con uno Schritt zurück, con un passo indietro, rispetto all’umanesimo e
alla metafisica, cerca di proporre il problema dell’essere. Tenendo in considerazione
il tema dell’ultra-metafisica heideggeriana G. ha dato una caratterizzazione
per così dire non umanistica in senso heideggeriano dell’umanesimo individuando
in esso numerose analogie con Heidegger. In questo modo, tra un approccio
apologetico della modernità ed uno decostruttivo, quale è quello di Heidegger,
secondo il filosofo milanese l’umanesimo resta schiacciato in un limitato
settore storiografico senza anima propria ma interpretato solo in riferimento
ad altre epoche. G. si chiede se sia plausibile una simile posizione o se non
si tratti, forse, come già accaduto per Cassirer, Kristeller, SPAVENTA, Hegel e
altri, di un errore di prospettiva. Per tentare di rispondere a queste domande,
emerse con vigore negli anni Quaranta, G. impiegherà tutta la sua esistenza. In
un importante testo, apparso in Geistige Überlieferung – l’annuario frutto
della collaborazione con Otto e Reinhardt – L’inizio del pensiero moderno.
Della passione e dell’esperienza dell’originario, G. porta avanti una vigorosa
critica del cogito cartesiano che non tiene conto di quella passione a partire
dalla quale soltanto avviene il theorein che è proprio della filosofia. Un
theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è una visione puramente
indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche
pateticamente e quindi retoricamente. A fondamento del pensiero c’è una
necessità esistenziale che non può CHE rivelarsi e apparire attraverso
l’esperienza della parola poetica e META-FORICA. Unicamente la META-FORA
(TRAS-LAZIONE) può rendere conto del poli-morfismo ontologico, che non è un
fatto, ma un continuo divenire, all’appello del quale [G. La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., soprattutto il primo capitolo, Il
problema della parola poetica; Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica. “L’essenza della presenzialità immediata – che dov3 essere l’essenza
della svelatezza empirica – non è dunque ciò che è diventato e che si è
cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi il dato
originario, come immediata presenza di alcunchè, è il divenire, il processo,
cioè ciò che non è ancora diventato, fatto, e in quanto già l’uomo è chiamato a
rispondere in modo plurale e non univoco. G. afferma che poiché il vedere, la
visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si
attuano attraverso una META-FORA (TRAS-LAZIONE). Allora la META-FORA
(TRAS-LAZIONE), che ricorre per lo più alle immagini non va considerata un
mezzo solo letterario ma è INDISPENSABLE per esprimere l’Originario [cf. GRICE,
ESCHATOLOGY]. Oltre alla collaborazione all’annuario, occorre segnalare anche
la progettazione dell’Istituto Studia Humanitatis in cui la partecipazione
degli esponenti della cultura italiana e tedesca è inquadrata anche alla luce
di un intento politico-culturale: quello di affermare la specificità della ROMANITÀ
nei confronti degl’ideali del mondo tedesco privilegiando soprattutto tre
ambiti problematici. In primo luogo, l’antichità nel suo particolare
significato per LA TRADIZIONE ITALIANA. Inoltre il rinascimento e l’umanesimo
infine, una terza questione riguarda il modo in cui si ha compreso e giudicato
l’umanesimo e il rinascimento. Per G. fin dall’inizio gli studia humanitatis
hanno un legame con l’agire creativo dell’uomo, che si realizza soprattutto
nella comunità politico-sociale. G. si reca in Svizzera in cui progetta con
Szilasi la collana Überlieferung und Auftrag presso l’editore Francke di Berna incomincia
la sua attività di insegnamento a Monaco e di direzione del Centro di Studi
Filosofici. In conclusione di questa breve introduzione alle idee dell’emigrante
con la vocazione per la filosofia, basti dire che negli anni densi e intensi
dell’apprendistato filosofico si gettano le basi di quei grandi temi che
percorrono i decenni successivi: la rivalutazione dell’umanesimo e della
latinità come luoghi di riflessione sulla questione onto-antropo-logica, sul
nesso uomo-essere; LA CENTRALITA DEL LINGUAGGIO E DELLA PAROLA POETICA, DEL
DIRE METAFORICO e della svanito, non più presente. Il dato come oggetto, e
quindi come qualcosa di già fatto, non è il dato, bensì una falsa
interpretazione del dato. G. Il Problema del logo; Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica; Studia humanitatis come essenza della tradizione
spirituale italiana, in Studia Humanitatis. Festschrift zur Eröffnung des
Institutes, Veröffentlichungen des Institutes Studia Humanitatis, Berlin,
verlag Helmut Küpper, ora in I scritti. Del periodo berlinese ricordiamo anche
l’attività editoriale realizzata con l’appoggio di Küpper.] retorica. La
questione è, ancora una volta, quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non
intrappolato nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla
quale adeguarci, ma di attingere a un mondo pre-categoriale in cui gli
orizzonti della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e
della riflessione che lo struttura si intersecano. L’umanesimo della
complessità offerto da G. può essere concepito come un atto di demitizzazione:
una delle mitologie da sfatare è quella della preminenza della ratio. Ma tale
operazione decostruttiva non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto,
della crisi della ragione. Del tramonto della civiltà, in cui cultura e
civilizzazione si sono definitivamente separate; del tramonto dell’uomo che da
animale pregnante, passa ad animale carente, diventando, infine, animale
obsoleto e antiquato o, addirittura, come testimoniato dagli attuali studi
post-umanisti, segmento di un processo ibridativo con la techne. Nei prossimi
capitoli cercheremo di ripercorrere le tappe grassiane del discorso
sull’umanesimo che viene a configurarsi come un itinerario onto-antropo-logico
in cui il discorso sull’uomo si intreccia indissolubilmente con la questione
ontologica. Sarà concesso spazio a quegli scritti del periodo giovanile nella
convinzione che solo dall’analisi di quei contributi è possibile comprendere la
ricostruzione storica e speculativa di un umanesimo gravitante attorno al concetto
di Lichtung. Le questioni sollevate da Grassi costituiscono un contributo
fondamentale alla filosofia del Novecento e non possiamo pensare alle sue
riflessioni come a temi da “vagabondaggio filosofico”, come dai giudizi dei
filosofi ricordati all’inizio di questo capitolo sembrava emergere, ma come
l’ennesimo tentativo di ripensare l’uomo a partire dalle proprie strutture
immanenti e dal proprio essere-nel- mondo.
Uno dei risultati più importanti della indagine filosofica grassiana
portata avanti tra gli anni Trenta e Quaranta è la scoperta della
co-originarietà tra logos e pathos: la dimensione patica dell’esperienza umana
si pone come un a priori dello stesso ambito cogitativo89. Possiamo
rintracciare un doppio binario della ricerca: la critica al pensiero moderno è
condotta, da un lato, attraverso l’individuazione degli effetti negativi di un
divorzio tra logos e pathos, dall’altro, tramite la ricerca di un certo “luogo”
della tradizione culturale umanistico-rinascimentale che il dibattito storiografico
ha sempre ritenuto privo di spessore filosofico, o almeno non carico di una
serie di motivazioni teoriche che G. rintraccia. Secondo il pensatore milanese
il “grande rimosso” del pensiero moderno è, di fatto, un momento epocale: la
tradizione ha obliato il valore filosofico e storico del linguaggio poetico,
nel quale egli rintraccia la possibilità di uscire dal conflitto tra ratio e
pathos. Solo fuoriuscendo dal circolo vizioso di ragione e passione è possibile
esperire una dimensione dell’umano nuova ed autentica. Ma come nasce per Grassi
l’esigenza di rinnovare la questione dell’uomo e del suo rapporto con il mondo?
Sappiamo quanto vivo e vigoroso fosse il problema: lo dimostra la tenacia
speculativa che, in qualità di direttore della Humanistische Bibliothek
dell’editore Fink, mostra patrocinando la pubblicazione di una cinquantina di
volumi intorno a temi umanistici, nella speranza che la conoscenza diretta di
Petrarca, Salutati, Valla, Pontano, Gianfrancesco Pico potessero rendere
giustizia ad un’immagine dell’umanesimo lontana dalle interpretazioni
tradizionali. Inoltre, nel 1938 Affronteremo la questione del nesso
pathos-logos in maniera analitica nel terzo capitolo. il nostro autore, sotto
il patronato dell’Accademia d’Italia, ha l’incarico di fondare e dirigere
l’Istituto Studia Humanitatis a Berlino, anche grazie all’interessamento di
Enrico Castelli. Accanto a questa opera di edizione e direzione c’è il percorso
di ricerca teorica portato avanti per tutta una vita e che pone Grassi in un
confronto serrato con i più noti interpreti dell’Umanesimo e del Rinascimento e
con due autori in particolare secondo la convinzione di gran parte degli
interpreti: Vico e Heidegger, ma noi vorremmo aggiungere anche Cartesio,
Aristotele e Leopardi. Da un lato Cartesio ha avuto un ruolo centrale
nell’analisi grassiana del logos attraverso la fecondità individuata nei
concetti di dubbio e cogito che rivestono un’importanza fondamentale
nell’analisi della Leidenschaft. Dall’altro Aristotele ha espresso concetti, quali
quelli di archè e pistis, che secondo Grassi gettano luce su un altro percorso
possibile per il pensiero: il filosofare noetico non-metafisico in cui si
condensa la proposta retorica del filosofo tutta gravitante intorno al nesso
phantasia-ingenium-metafora che costituiscono la triade della retorica del
significare arcaico. Poi c’è Vico che appare come l’erede della tradizione
umanistica: il De antiquissima e la Scienza Nuova ci guiderebbero verso un
mondo la cui nota dominante è costituita dalla fantasia e dall’ingegno, che con
spirito anti-cartesiano Vico avrebbe contrapposto alla ratio calcolante e al
deduzionismo matematico di Cartesio, in difesa delle humanae litterae. Lopardi
con il concetto di illusione avrebbe teorizzato una filosofia dell’esistenza in
cui il pathos avrebbe raggiunto le vette di una tematizzazione
poetico-filosofica che guida la riflessione verso il tema del fondamento e
dell’antropogenesi. Infine Heidegger si mostra come il più fiero oppositore
dell’Umanesimo e del Rinascimento, trattati alla stregua di espressioni di una
mera antropologia ontica che ha come centro della riflessione l’ente e non
l’essere. Eppure le riflessioni di Heidegger sul linguaggio e sulla parola
poetica, sull’opera d’arte come evento del disvelamento dell’essere, sono
richiamate all’attenzione da Grassi che con Heidegger va oltre Heidegger
compiendo un vero e proprio iter di oltrepassamento, nel duplice senso di
Verwindung (accettazione-approfondimento) e Überwindung (superamento). Secondo
l’interpretazione grassiana, quella di Heidegger sarebbe una prospettiva che,
nonostante la messa in mora della modernità e l’opera decostruttiva condotta
nei riguardi dell’impostazione soggettocentrica, cade preda di quel pregiudizio
hegeliano e di tutta la concezione idealistica dell’umanesimo. Leggiamo in
Heidegger e il problema dell’umanesimo che “Heidegger sottolinea che il termine
umanesimo si affermò per la prima volta al tempo della repubblica romana come
equivalente del termine greco paideia. Per Heidegger è un dato di fatto che
ogni umanesimo principia col definire l’essenza dell’uomo, quindi con una
filosofia antropologica”90. L’umanesimo come mera antropologia è l’equazione
posta da Heidegger che Grassi mette in discussione attraverso un’analisi
storico-filosofica che rintraccia nelle riflessioni sul linguaggio un altro
inizio del pensiero. Benché Heidegger avesse sviluppato una concezione del
linguaggio e della poesia come luoghi del disvelamento dell’essere, la
tradizione poetica degli autori italiani del Quattrocento non era ritenuta
funzionale al discorso relativo alle “circostanze della manifestatività” ma
frettolosamente liquidata in quanto proseguimento della Romanitas, posta da
Heidegger in contrapposizione con l’esperienza greca presocratica. Grassi tenta
di ricostruire con spirito critico-problematico, più che filologico91 in senso
tecnico, la tradizione di quegli autori come Salutati, Valla, Poliziano e
Landino che mostrano una ricchezza del possibile in alternativa
all’unilateralità del vero. Nelle sue analisi, infatti, emerge quella volontà
di far parlare direttamente i testi senza diaframmi, mettendo in evidenza
quella mutevolezza del particolare e del contingente senza prescindere dalla
situazione data. Denunciando i gravi limiti di ogni inerte visione aprioristica
e razionalistica, quegli autori costituiscono per Grassi il polo ineludibile di
una riflessione che è attenta a tutte le dimensioni del E. Grassi, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 58. 91 Del resto le forzature storiografiche che
talvolta sono presenti nelle riflessioni grassiane sono state sottolineate da
Cesare Vasoli nell’Introduzione all’edizione italiana di E. Grassi, Heidegger e
il problema dell’umanesimo: “Grassi è infatti convinto – e lo ripete nel modo
più esplicito – che la svolta platoneggiante segnata dal Ficino e la forte
ripresa della tradizione aristotelica, nel corso della prima metà del
Cinquecento, siano sostanzialmente estranee alla vera filosofia umanistica o,
almeno, alle sue ragioni e interessi più vitali. Ciò pone, naturalmente, molti
problemi di natura storiografica [...] anche se non può tacersi che anche il
giudizio umanistico sul valore fondante della poesia deve non poco a tipici
loci platonici e che il tema del furor proprio del Ficino (si pensi soltanto ad
alcune notissime pagine del De Amore) ha svolto un ruolo dominante
nell’interpretazione sapienziale della poesia e del suo ruolo di theologia
originaria”, C. Vasoli, Introduzione, pp. 7-16, in E. Grassi, Heidegger e il
problema dell’umanesimo, cit., p. 12; titolo originale Heidegger and the
question of Renaissance Humanism, Center for Medieval and Early Renaissance
Studies, Binghamton, New York[ pensiero: non solo la logica e la teologia, ma
la giurisprudenza, la mitologia, la politica, la retorica, la poesia divengono
oggetti teorici degni di una riflessione sulle molteplici forme dell’apparire
dell’essere. In tale percorso di rivisitazione delle tematiche umanistiche
Grassi segue itinerari poetici e teatrali, generi, quali il poema cavalleresco,
la lettera familiare, l’elogio, che pongono in luce un senso della parola
poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad
una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo Grassi è
nelle parole, nei verba, nella ricchezza e complessità di un universo
linguistico non chiuso nei ristretti limiti della logica formale che possiamo
attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici,
contingenti, transeunti. Da ciò deriva che il principale compito della nuova
filosofia umanistica narrata dal filosofo è l’apprensione del reale non a mezzo
“del processo razionale del pensiero che col concetto (horos) e la definizione
(horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti, ed astraendo dal tempo e dal
luogo, ne stabilisce il significato”92; ma attraverso la parola
storica-poetica-metaforica che “è una eikasia (una somiglianza e un apparire)
del significato degli enti come risposta alle esigenze esistenziali che sorgono
nelle diverse situazioni”93. L’attenzione alla polidimensionalità del reale che
si rivela nella polidimensionalità linguistica rende la stessa opera grassiana
non suscettibile di sistematicità: leggere Grassi tentando di rintracciare
nelle sue pagine un’opera sistematica è un approccio inadeguato, occorre
piuttosto seguirlo nelle tracce, nelle indicazioni, nelle pieghe della
meditazione94. Del resto questo è un risultato, più che un Id., La filosofia dell’umanesimo un problema
epocale, cit., p. 37. 93 Ivi, p. 146. 94 Secondo l’interpretazione di D.
Pietropaolo l’assenza di sistematicità nella filosofia di Grassi costituisce un
limite, uno “svantaggio considerevole”, ma secondo il nostro punto di vista si
tratta di un riflesso dell’impianto fenomenologico del metodo seguito da
Grassi. Se la realtà è multiforme e sfaccettata anche il modo di dire tale
realtà procederà per aspetti, frammenti segmenti tutti tesi a mostrare la
ricchezza dell’essere. D. Pietropaolo, Grassi, Vico, and the defense of the
Humanist Tradition, in “New Vico Studies”, 1992, X, p. 5. Opposto il giudizio
di A. Battistini secondo il quale quello di Grassi è un metodo che “rispecchia
una ricerca sempre in progress, inappagata, dinamica”, A. Battistini, Vico e
l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, p. 391, in E. Hidalgo-Serna-M. Marassi
(a cura di), Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 385-404.] limite,
raggiunto dal filosofo in ossequio all’insegnamento degli umanisti che con la
riflessione sulla storicità dell’esperienza umana che parte da bisogni concreti
elaborano quella che è una rivoluzione epocale ben più importante di altre
rivoluzioni culturali: attraverso la teoria dell’ingegno, che interviene nelle
diverse e varie situazioni, in funzione delle necessitates e dell’hic et nunc,
tramite l’attività analogica, che assurge a meccanismo catalizzatore del
sistema antropo-poietico. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale che “l’umanesimo, non muovendo più dal problema della definizione
razionale del reale, realizza un rovesciamento dei procedimenti del pensiero
filosofico ben più radicale della così detta moderna “rivoluzione copernicana”
del pensiero cartesiano e idealistico”95 e ciò è espresso, dal nostro punto di
vista, in conformità alla generale impostazione onto-antropo-logica del
pensiero di Grassi, che vede nella indagine linguistica e poetica la
possibilità di scorgere quell’appello dell’essere che spinge l’uomo a
rispondergli creativamente in base alle molteplici circostanze esistenziali. In
tale contesto l’agire umano per Grassi “implica la necessità di realizzare non
cognizioni astratte di una metafisica ragionata ma una metafisica metaforica,
fantastica ma non arbitraria perché risposta oggettiva alle urgenze vissute
differentemente nelle varie situazioni”96. Ma torniamo al problema dal quale siamo
partiti: come giunge Grassi alla domanda sull’uomo e sulla correlazione
uomo-mondo? Decisivo è stato l’incontro con il maestro degli “anni mitici di
Friburgo”? Oppure dobbiamo attendere quella che, secondo alcuni interpreti, è
la svolta vichiana? Domandarsi della genesi del problema onto-antropo-logico in
Grassi è una operazione teorica non semplice, poiché si tratta di percorrere un
iter in absentia: il filosofo non usa esplicitamente l’espressione
“onto-antropo-logia” per qualificare la propria riflessione, ma, a dispetto di
quest’assenza terminologica, possiamo riscontrare le tracce – non tanto
nascoste – di tale ambito problematico che si costituisce come l’orizzonte di
pre-comprensione imprescindibile per accedere ai settori teorici toccati dal filosofo
di Milano: retorica, metaforologia, umanesimo. Riferirsi al E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale, cit., p. 96. 96 E. Grassi, Vico e Ovidio. Il problema della
preminenza della metafora, in “Bollettino del Centro di Studi Vichiani”] contesto onto-antropo-logico ci consentirà
agevolmente di sfatare anche un’ipoteca storiografica che pesa sul suo
pensiero, talvolta preda di un’interpretazione che lo ritiene mera espressione
eclettica o privo di una adeguata articolazione teoretica97. Grassi affronta i
temi dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani già nel 1924 nel saggio Il
pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato apparso sulla rivista
Rassegna Nazionale. Ben prima dell’incontro con Heidegger, ben prima dell’incontro
con Vico dunque. In questo saggio Grassi offre un’interpretazione degli scritti
machiavelliani puntando l’attenzione sui concetti di uomo e umanità,
riconoscendo l’importanza decisiva che nella sua prospettiva
onto-antropo-logica assumono le questioni di stato e patria. L’impostazione
teorica che emerge è di stampo idealistico98 e tende a dare credito ad alcune
interpretazioni correnti, quali l’affermazione della dignità umana come valore
immanente; l’incapacità di inquadrare in un sistema concettuale il pathos della
ricerca; la collocazione entro la cornice teorica della modernità
dell’Umanesimo e del Rinascimento. Secondo il filosofo di Milano ciò che emerge
dalle riflessioni di Machiavelli è un principio di immanenza che permea tutta
la riflessione moderna. Grassi afferma che “il medioevo e il rinascimento -
secondo una distinzione larga – nascono come espressione di due pensieri
fondamentalmente distinti: mentre il pensiero antico, medioevale cercava la
razionalità del reale – ossia il principio di ogni realtà in un principio
trascendente, che ci supera – il pensiero moderno – di cui il rinascimento e
l’umanesimo sono la prima affermazione – cerca la razionalità del reale in un
principio immanente, che è in noi”99. Pur accogliendo tale distinzione tra Medioevo
e Rinascimento il filosofo riconosce tuttavia il limite di un’impostazione di
questo genere poiché la realtà storica e filosofica risulta pur sempre più
ricca e complessa di rigidi schemi che non tengono conto delle mille
sfaccettature di correnti di pensiero e di singoli intellettuali. Emblematico è
il caso di Dante che in questo scritto appare essere !! Cfr., l’interpretazione
di G. Modica, Oltre Heidegger e Vico. Sulla prospettiva filosofica di Ernesto
Grassi, pp. 77-88, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit. 98
Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., in particolare il terzo
capitolo, Umanesimo e modernità, pp. 89-125. 99 E. Grassi, Il pensiero di
Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi Scritti] un Giano
bifronte, proteso sia verso l’impostazione classica e medioevale, che
rintraccia nell’“essere per essenza – o per seguire la loro denominazione – Dio
– l’essere da cui tutto proviene e in funzione del quale tutto si distingue e
supera il soggetto di cui è origine e causa”100; sia verso un aspetto proto-
moderno che troverà nell’epoca successiva un dispiegamento considerevole.
Secondo Grassi nella concezione politica di Dante abbiamo un primo embrione
della modernità: “la nuova epoca non si – può – far nascere dal secolo XV, ma
molto prima, come ci rivela l’espressione volgare della Divina Commedia, del
Convivio, e il ghibellinismo di Dante”101. La riflessione della modernità
matura sarà contraddistinta da una serie di elementi che metteranno in crisi
l’impostazione medievale ma anche classica. Contro l’idea che proprio gli
umanisti proporranno nell’auto-interpretazione della propria epoca, secondo
Grassi lo stesso classicismo del Quattrocento e del Cinquecento non è che
“semplice scorza con cui la nuova epoca inviluppava le sue tendenze...fredda
cenere sotto cui troviamo il primo fuoco dello spirito moderno, l’uomo che
ricerca e trova se stesso”102. Nel nuovo contesto culturale la figura di
Machiavelli è assunta come baluardo della costruzione del Rinascimento: nel
clima generale della critica verso i “barbari medievali” alla vis destruens
degli umanisti Machiavelli sa contrapporre una vis construens che si
concretizza nella messa a tema del concetto di patria, del valore
dell’individuo e della verità effettuale che, secondo Grassi, riveste
un’importanza massima: “l’affermazione della verità effettuale è della massima
importanza, egli giungerà logicamente col suo metodo induttivo alla concezione
della storia come creazione umana”. La centralità della nozione machiavelliana
di verità effettuale viene posta in correlazione con la teoria vichiana del
verum ipsum factum, secondo cui il verum storico è conoscibile solo ed
unicamente nel factum umano. Il criterio della convertibilità, che ha una
tradizione antica, di ascendenze giudaico-cristiane104, e che è possibile
definire come il vero assioma di Vico, viene esplicitamente espresso nel De
nostri temporis studiorum ratione del 1708. Qui il criterio del verum-factum
viene legato all’ambito geometrico: “pertanto queste cose della fisica, che in
forza del procedimento geometrico si presentano come vere, non sono se non
verisimili, e dalla geometria ricevono sì il procedimento, non la
dimostrazione: dimostriamo la geometria perché la facciamo; se potessimo
dimostrare la fisica, la faremmo”105. Vorremmo sottolineare che il “vichismo”
di Machiavelli individuato da Grassi in questo saggio risente fortemente
dell’impostazione crociana. L’inconsapevole vichismo di Machiavelli o il non
voluto machiavellismo di Vico compare in numerose opere del filosofo di
Pescasseroli. U no dei primi riferimenti crociani al Segretario fiorentino
risale a Filosofia della pratica del 1908 in cui Croce, trattando della
categoria dell’utile, e quindi della politica, riconosce Machiavelli come il
capostipite delle dottrine che hanno considerato la politica come attività
indipendente dalla morale e che hanno stabilito dei precetti “empirici” della
“ragion di Stato”. Ma allo stesso tempo osserva che la questione “se codesti
due termini potessero mai tenersi immediatamente identici” è stata indagata da
Machiavelli anche se, su tale aspetto, il suo pensiero è stato lungamente non
compreso “non essendosi inteso il valore spirituale della volontà utilitaria,
considerata per sé senza interferenza della ulteriore determinazione morale” Per
una sintesi ben documentata della storia della teoria del verum-factum prima e
dopo Vico cfr., M. Martirano, Vero- Fatto, Guida, Napoli, 2007, in particolare
i capp., Il criterio del vero e del fatto prima di Vico, pp. 41-101; e Il
criterio del vero e del fatto dopo Vico, pp. 105-172. 105 G. Vico, Sul metodo
degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, pp. 49-51.
106 Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, Laterza Editori, Bari,
1945, p. 266. 107 ivi, p. 267. Secondo Croce solo a partire dall’analisi
critica di Francesco De Sanctis si è cominciato a comprendere il carattere
complesso della tesi di Machiavelli e quindi a valorizzare il pensiero del
Principe giustificandolo a dispetto delle condanne provenienti da correnti
moraliste. Nella recensione dell’edizione del Principe curata da Federico
Chabod nel 1924, Croce precisa come sia necessario non tanto affermare che la
politica si identifica con la forza bensì “insistere e mettere bene in chiaro
che cosa sia veramente la forza, e come quella forza, che è la virtus politica,
rappresenti un aspetto, necessario bensì ed eterno, ma un aspetto solo della
totalità ed integralità umana” – B. Croce, “La Critica”, giugno 1924, p. 314.
In seguito nel 1932 in Storia d’Europa nel secolo decimonono ad integrazione la
necessità della virtù nella politica] Su questo sfondo crociano
l’interpretazione di Grassi pone in luce il nesso di verità effettuale108 e
verum ipsum factum che dischiude una nuova visione del mondo: dire che
“coll’affermazione della verità effettuale, abbiamo veramente l’affermazione
che precorre e già contiene implicitamente il verum ipsum factum di Vico”,
significa porre nella realtà l’unico valore, identificando valore e realtà,
essere e valore, e ha come conseguenza anche l’adozione di un metodo innovativo
di indagine del reale. L’importanza di questo saggio giovanile è degna di nota
se consideriamo che proprio qui emergono alcune dicotomie concettuali che
ritroveremo nella produzione successiva e che sottolineano quanto già a partire
dagli anni Venti la questione onto-antropologica fosse viva nella riflessione
del filosofo. Risulta evidente allora che la questione onto-antropo-logica, il
problema dell’umanesimo, della correlazione Da-sein e Sein nell’orizzonte della
Lichtung non compare in Grassi solo ed unicamente a partire dall’incontro con
Heidegger o dalla svolta vichiana di un fantomatico “secondo Grassi” ma affiora
già nelle riflessioni sulla “scienza nuova” machiavelliana. La “scienza nuova”
offerta da Machiavelli secondo il pensatore milanese è innanzitutto una scienza
induttiva e non deduttiva, è una intelligenza dei fatti che può realizzarsi
solo abdicando al principio di autorità e all’a-priorismo e la denuncia della
mera attività politica senza responsabilità è lampante: “se alla libertà si
toglie la sua anima morale...si toglie la purezza del fine; se alla disciplina
interna alla quale essa si sottomette spontanea si sostituisce quella della
eterna guida e del comando non rimane se non il fare per fare, il distruggere
per il distruggere...ne vien fuori l’attivismo. Il quale è dunque in questa
traduzione riduzione e triste parodia che in termini materialistici compie di
un ideale etico, sostanzialmente una perversione dell’amore per la libertà” –
B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza Editori, Bari 1972, p.
300. Croce risolve in maniera definitiva la questione posta da Machiavelli
saldando assieme l’etica alla politica sia nella sua concezione della storia,
sia nella sua filosofia politica tanto da unire nell’unica opera Etica e
politica (1931) i precetti morali alle riflessioni sulla politica. In questo
testo egli cita Vico come il solo ed autentico successore dell’impostazione di
Machiavelli, ritenendo che i suoi veri prosecutori non sono né coloro che
elaborano una precettistica della “ragion di stato”, né coloro che escludono
qualsiasi commistione tra politica e etica e predicano l’avvento di un regime
basato sulla pura bontà e giustizia, né chi non cerca di risolvere l’antinomia
tra politica e morale ma la relativizza a carattere meramente accidentale della
storia. Vico è ai suoi occhi colui che più di tutti è “pieno del suo spirito,
che egli chiarifica e purifica, integrando il suo concetto della politica e
della storia, componendo le sue aporie, rasserenando il suo pessimismo” – B.
Croce, Etica e politica, Laterza Editori, Bari, 1931, p. 254. 108 L’espressione
verità effettuale compare nel XV capitolo del Principe: “ma sendo l’intento mio
scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare drieto
alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”, N.
Machiavelli, Principe, XV, 280 A. Cfr., su questo aspetto V. Raspa, Della
verità effettuale della cosa e del riscontrare le cose. Riflessioni intorno al
XV capitolo del Principe, pp. 152-184, in AA. VV, Machiavelli: immaginazione e
contingenza, a cura di F. Del Lucchese-L. Sartorello-S. Sartorello, Ets, Pisa
2006. 109 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato,
in Id., Primi scritti] logico. La grandezza del segretario fiorentino risiede
nella ricostruzione politica del Rinascimento, che è allo stesso tempo una
restituzione alla storia di una razionalità intrinseca. Ma in che modo è
possibile offrire al dominio di Dio o del caso – la storia – una propria
razionalità? La domanda che secondo Grassi Machiavelli si pone trova nelle
pagine del Principe una risposta, l’unica possibile. Assodato che con il
Rinascimento registriamo una rottura, un crollo dell’impalcatura teorica e
pratica del Medioevo, la dissoluzione dei valori religiosi e l’affermazione
della forza dell’individuo, come garantire l’integrità della vita activa, come
riparare la nuova idea di azione umana dal pericolo di una dispersione
irrazionale di energia? Secondo Grassi la stessa affermazione del soggetto
empirico va superata e si supera con Machiavelli: “l’affermazione del soggetto
empirico andava superata e condotta a un concetto di unità di individualità
superiore, ma il problema doveva essere posto negli unici termini possibili:
superare l’individualità empirica per mezzo dell’affermazione
dell’individualità stessa”110. Il problema dell’individualità si pone come un
dato di importanza considerevole per due ordini di ragioni: innanzitutto l’ascesa
del soggetto è individuata come un tratto distintivo della modernità, sebbene
in questo contesto l’autoaffermazione assuma una valutazione positiva che in
seguito perderà, a fronte di una impostazione teorica che vede nella compagine
soggettocentrica della filosofia un aspetto negativo; poi mostra l’aporia
aperta dalla figura di Machiavelli e che rifluisce nella tematizzazione
grassiana successiva: l’aporia tra la componente irrazionale, quella che
successivamente sarà definita patica, e l’esigenza di un inquadramento
razionale e logico. Il Principe ha un valore emblematico e attesta un tentativo
di coniugazione estremamente importante: “l’affermazione del Principe di
Machiavelli è così il passaggio dal concetto dell’Umanesimo, dell’individualità
empirica, a quello di nazione”111. Passaggio, questo, che fa emergere quanto
Machiavelli percepisse “l’irrazionalità in cui si dibatte il Rinascimento: il
contrasto delle varie affermazioni di tirannidi”112 e che rende la sua opera
una sorta di “fisica delle forze umane”113. Si tratta di un’aporia che nel
Principe si struttura come tensione tra le antinomie etico-psicologiche e unità
del principe-centauro; e nei Discorsi trova espressione nel contrasto tra il
conflitto socio-politico e l’unità istituzionale. Una contesa che è connotata
positivamente da Machiavelli per il quale le “dissensioni”, i conflitti, non
sono elementi esiziali per la salvaguardia della res publica, ma necessarie e
proficue114. Alla figura di Machiavelli, all’importanza della sua teoria politica
nella ridefinizione dei parametri della modernità umanistica, e all’impronta
innovativa offerta dal suo concetto di verità effettuale al “cambiamento di
paradigma” del Cinquecento, per usare una fortunata espressione kuhniana,
Grassi dedica molta attenzione tra gli anni Venti e Quaranta. Ciò è
testimoniato dalle pagine conclusive del saggio Pensieri sul poetico e sul
politico del 1939, in cui si asserisce che “l’essenza politica di Machiavelli
consiste quindi nell’aver riconosciuto l’urgenza della politica (necessità), il
suo imporsi, come una forma autonoma e in sé indipendente da ogni altra forma
del dischiudersi della realtà [...] questo inarrestabile realizzarsi del
politico è ciò che Machiavelli chiama fortuna, la quale non significa sorte,
bensì la concreta situazione politica in cui sempre ci troviamo”115. Qui viene
espresso quel concetto di costrizione, necessità e coercizione che il reale
esercita sull’essere umano e che è importante richiamare all’attenzione poiché
quello di Nötigung sarà un concetto che ritroveremo in seguito e che andrà a
costituire una delle caratteristiche della onto- antropo-logia di Grassi, la
quale ha di mira l’individuazione dei meccanismi arcaici di antropo-poiesi, dei
dispositivi che sono fortemente radicati nella situazione particolare,
nell’Appello dell’essere e Ibidem. 114
Cfr., G. M. Barbuto, Il pensiero politico del Rinascimento, Carocci, Roma 2008,
in particolare le pp. 39-75 dedicate a Machiavelli. 115 E. Grassi, Pensieri sul
poetico e sul politico, in Id., Primi scritti, cit., p. 793. Il saggio appare
originariamente in tedesco con il titolo Gedanken zum Dichterischen und
Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens nel
1939 in Schriften für die geistige Überlieferung, Erstes Heft, herausgegeben
von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1939. Nel saggio rifluiscono
due conferenze, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des
Humanismus, e Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen
Tradition.] del reale, la cui carica di estraneità è oltrepassabile solo
tramite l’azione concreta e storica che ha struttura metaforica. L’attività
metaforologica ha infatti una connotazione onto-antropo-logica in Grassi:
riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose,
il nostro modo di essere affetti dal mondo circostante. Non un orpello
linguistico, una fictio retorica, la metafora è per Grassi un dispositivo
antropo-poietico. Come si afferma in Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica: “alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di
parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale
trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle
somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di
rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione
di qualcosa ancora nascosto ma dobbiamo andare più a fondo del piano
letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si
radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi
tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro
mondo”116. In conclusione possiamo dare per acquisito che la lettura di
Machiavelli e i saggi dedicati al Segretario fiorentino e alla politica pongono
in luce la fondamentale importanza che in tale ricostruzione di un nuovo
paradigma assume la conoscenza storica del passato117, il tema della fortuna –
la concreta situazione storica – e quello della virtù – come abilità di
commisurarsi alla fatticità dell’esistenza118, quello dell’autonomia dell’agire
politico119. Questi elementi ci dicono che “non Id., Retorica come filosofia.
La tradizione umanistica, cit., p. 76. 117 Id., Guicciardini e il concetto
della politica nel Rinascimento italiano. Prologo alla prima edizione tedesca
dei Ricordi, pp. 887-900, in Id., Primi scritti, cit., p. 891. Il saggio appare
nel 1942 con il titolo Francesco Guicciardini und der Begriff der Politik in
der italienischen Renaissance. Prolog zur ersten deutschen Ausgabe der
“Ricordi”, in “Europäische Revue”, Stuttgart-Berlin, XVIII, 1942, n. 3. 118
Id., Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, pp. 967-974, in
Id., Primi scritti, cit., p. 971. Il saggio appare nel 1945 con il titolo
Theorie der Politik in der Ueberlieferung der Renaissance, in “Neue Zürcher
Zeitung”, Jahrgang 166, nr. 1016, 30. Juni, 1945, Morgenausgabe, Blatt 4. 119
Id., Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la
tradizione spirituale italiana, in Id., Primi scritti] possiamo sottrarci di
fronte all’occasione, alla circostanza, alla necessità impellente di prendere
posizione nei confronti di ciò che accade. Perciò la nostra situazione si trova
sempre nel mezzo di un aut-aut”120. L’essere in mezzo ad un aut-aut ci costringe
a decidere, a scegliere, ad affrontare il reale come impegno e compito come
Grassi afferma nel 1942 in una lettera-saggio indirizzata allo “stimatissimo
amico” W. F. Otto, Sul problema della parola e della vita individuale.
Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, che mostra un metodo
“inattuale” di fare filosofia: si tratta di esercitare la riflessione con
“lettere aperte, denunciando così il carattere particolare di questo impegno
comune, per il quale esso si distingue e deve distinguersi rispetto alle
occupazioni scientifiche”121. Si tratta di quel metodo inattuale, difeso anche
da Husserl, che solo i filosofi autentici possono realizzare nella
consapevolezza di essere “funzionari dell’umanità”, orientati verso un telos
che può trovare concretezza solo nell’esercizio dell’atto filosofico. Umanesimo
e pseudo-umanesimi: la pars destruens del discorso grassiano. La riflessione
sull’Umanesimo e sul Rinascimento e sul loro spessore filosofico elaborata da
Grassi a metà degli anni Venti e Trenta si concretizza, come abbiamo visto, nel
saggio su Machiavelli proseguendo nelle produzioni saggistiche successive al
1924. In queste ultime è presente anche un intento di chiarificazione
storiografica e di presa di distanza dalle coeve interpretazioni della
“tradizione epocale”. Riferirsi ad un’epoca storico-culturale, come quella al
centro della riflessione Id., Sul problema della parola e della vita
individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana. A Walter F. Otto,
pp. 901-915, in Id., Primi scritti, cit., p. 912. Il saggio appare in tedesco
nel 1942 con il titolo Über das Problem des Wortes und des individuellen
Lebens. Erwägungen aus der italienischen Überlieferung. An Walter F. Otto, in Geistige
Überlieferung. Das zweite Jahrbuch, in Verbindung mit Walter F. Otto und Karl
Reinhardt, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper,
1942. 121 Ivi, p. 902. 122 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale, tr. it. a cura di Filippini, il Saggiatore,
Milano 1960, p. 46, “Noi siamo dunque, e come potremmo dimenticarlo, nel nostro
filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per il
nostro vero essere di filosofi, nella nostra vocazione interiore personale,
include anche le responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale
soltanto in quanto orientato verso un telos, e che se può essere realizzato lo
può soltanto attraverso la filosofia. È possibile di fronte a questo sè
esistenziale sfuggire?”] di Grassi, significa innanzitutto prendere in
considerazione un “mito storiografico”. Inoltre, il concetto grassiano di
umanesimo è bivalente: accanto all’idea di Umanesimo come categoria
storiografica limitata ad un periodo storico circoscritto e ad autori precisi
troviamo un concetto di umanesimo come macro-categoria che comprende una
riflessione generale sull’humanitas. A partire dal grande affresco
burckhardtiano del 1860 Die Kultur der Renaissance in Italien e dal saggio di
Jules Michelet del 1855 Histoire de France au sezième siècle, il mondo moderno
e i suoi tratti distintivi sono stati legati alla riscoperta dell’uomo e del
mondo e dei valori immanenti i cui prodromi erano già presenti nella civiltà
italiana del Trecento e del Quattrocento. Del resto questo era il punto di
vista degli stessi umanisti che per primi parlano di una rinascita della
civiltà contro i “barbari medievali”, che erano barbari non “per avere ignorato
i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro situazione
storica”124. Posizione, questa, che importanti cultori di studi medievali
contemporanei hanno messo profondamente in crisi propugnando una rinnovata idea
di Medioevo come età della sperimentazione125 e dimostrando l’alto grado di sviluppo
intellettuale raggiunto dalla cultura filosofica e letteraria del Medioevo126,
contro un atteggiamento che si è consolidato anche nell’immaginario collettivo,
oltreché in quello filosofico e storico-culturale: quello che vede nel Medioevo
un altrove – sia esso negativo (la prospettiva umanistica) o positivo (la
prospettiva romantica) – o una premessa. Come ricorda Sergi “nell’altrove
negativo ci sono povertà, fame, pestilenze, disordine politico, soperchierie
dei latifondisti sui contadini, superstizioni del popolo e corruzione del
clero. Nell’altrove Cfr., per una
discussione particolareggiata delle molteplici interpretazioni dell’umanesimo e
del rinascimento C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, pp.
3-25, in AA. VV, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino,
Mondadori, Milano, 2002. Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Roma-
Bari 1964. 124 E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 21. 125 Cfr., G. Sergi,
L’idea di medioevo, pp. 3-41, in AA. VV, Storia medievale, Roma 1998; C.
Azzara, Le civiltà del Medioevo, Introduzione, pp. 7-12, Il Muligno, Bologna,
2004. 126 Per un’analisi dettagliata delle interpretazioni
dell’antirinascimento della rivolta dei medievisti, cfr., C. Vasoli, Il
rinascimento tra mito e realtà storica, cit., soprattutto le pp. 18-22. !
50! positivo ci sono i tornei, la vita di corte, elfi e fate,
cavalieri fedeli e principi magnanimi. Ma è anche discutibile l’uso del
medioevo come generica premessa”127. Per introdurre il discorso decostruttivo
grassiano faremo riferimento innanzitutto alle interpretazioni messe in
discussione dal pensatore milanese, soffermandoci in particolare sulla figura
di Cartesio e infine sul capo di imputazione principe – Heidegger – e sul
significato che la riflessione sull’umanesimo riveste nell’ambito
dell’onto-antropo-logia grassiana. II. II. Che cos’è l’umanesimo? Grassi parte
dal quesito: “che cosa significa umanesimo?” e risponde individuando la genesi
del termine nell’ambito politico: “questo termine nasce per la prima volta in
Italia nel XIV secolo e lo troviamo negli scritti politici di Coluccio
Salutati, il primo segretario politico di Firenze”128. La domanda è il punto di
partenza di un saggio scritto in occasione di una conferenza tenuta nel 1938
durante la seduta della Klopstock Gesellschaft a Quedlinburg, Deutsche Dichtung
und die italienische Tradition des Humanismus, rifluito insieme ad un altro
saggio, Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition,
in Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der
geistigen Tradition Italiens. Per Grassi durante l’epoca umanistica si esprime
per la prima volta un nuovo atteggiamento dell’uomo verso il mondo, si tratta
del passaggio dall’“uomo greco”, a quello medievale”, per finire con l’“uomo
del Rinascimento”. Una linea evolutiva che può essere condensata nelle note ed
efficaci immagini proposte da Vernant, Le Goff e Garin: la transizione
dall’uomo guerriero di Omero all’uomo politico di Aristotele129, all’homo viator
e penitente130 e all’uomo moderno131. Cfr., G. Sergi, op., cit., p. 5. 128 E.
Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la
tradizione spirituale italiana, pp. 777- 802, in Id., Primi Scritti 1922-1946,
cit., p. 780. 129 Cfr., J. P. Vernant, Introduzione, in Id., (a cura di),
L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 3-23. 130 Cfr., J. Le Goff, L’uomo
medievale, in Id., (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp.
1-38. 131 Cfr., E. Garin, L’uomo del Rinascimento, in Id., (a cura di), L’uomo
del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-12. ! 51! Per
quanto sia discutibile l’ipotesi grassiana di una frattura così radicale tra
due visioni del mondo occorre sottolineare che egli riproporrà in tutti i suoi
scritti tale dicotomia non tematizzando estesamente la plausibilità del
presunto iato storico-culturale: ovviamente Medioevo e Rinascimento non sono
entità metafisiche e monolitiche chiuse e incomunicabili, ma soprattutto
Medioevo e Antichità greco-romana, spesso da Grassi accomunate in un disegno
sintetico, non sono sovrapponibili nella difesa del principio di trascendenza.
Eppure è lo stesso pensatore a riconoscere lo stato quantomeno problematico di
un’impostazione di questo tipo come è possibile leggere nel saggio su
Machiavelli del 1924, e nelle pagine di Il problema filosofico del ritorno al
pensiero antico del 1932 in cui si afferma: “Il fondamentale schema che domina
il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso
anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero
moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come
siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste
contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in
esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi
abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa
piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella
rinnovata posizione delle medesime domande?”132. Tali riserve espresse con
convinzione tuttavia non impediranno a Grassi di assumere una prospettiva
teorica di forte impianto idealistico che pone la questione in termini di slittamento
dall’ipotesi trascendente a quella immanente. Secondo il filosofo ciò che è in
gioco con l’Umanesimo è una questione che da una visione contraddistinta
dall’astrattezza e dall’universalità passa ad una concezione della finitezza
umana in cui il telos è avvertito come un aspetto positivo e non come una
mancanza: “pertanto, in Italia, l’umanesimo doveva nascere anzitutto come
concezione e affermazione politica; perché tutta la storia, l’arte, la
filosofia e la lingua dell’antichità spingevano qui alla realizzazione di un
nuovo mondo storico “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di
filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in
Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno.
Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo
soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste
contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in
esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi
abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa
piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella
rinnovata posizione delle medesime domande?”, Id., Il problema filosofico del
ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., Primi scritti] Infatti, per
Grassi lo sviluppo dell’uomo nelle sue estreme possibilità accade innanzitutto
nel contesto, nell’apertura originaria, che è un’apertura comunitaria, nella
quale soltanto l’essere umano può istituire nessi e relazioni con il contesto
circostante, può stare al mondo in una relazione che è innanzitutto
comprendente: si tratta di comprendere e di cogliere le molteplici forme
dell’essere e del suo apparire che ritroviamo soprattutto nella parola poetica,
prima che nella parola logica. La valutazione autentica dell’Umanesimo sarà
possibile allora solo tenendo conto dell’aporia ineludibile che il problema
dell’umano ci pone dinanzi e consentirà di elaborare quel filosofare noetico
non metafisico che tenta di tenere insieme l’ontologia e l’antropologia senza
chiuderle in un orizzonte logico ma immettendole nel mondo metaforologico: si
tratta della coniugazione “inaudita” che Grassi cerca di realizzare lungo tutto
il suo percorso filosofico, dalle riflessioni sulla manifestatività in
Dell’apparire e dell’essere e Il problema del logo degli anni Trenta, a quelle
sulla dimensione patica dell’esperienza dell’originario in L’inizio del
pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario e Il reale
come passione e l’esperienza della filosofia degli anni Quaranta, per finire
con gli scritti sul valore della metafora e del pensiero noetico non
metafisico. Lo scopo dell’interrogazione sull’umanesimo come epoca storica
determinata e come proposta di una rinnovata visione del mondo è dominata
dall’esigenza di “un indicare a partire dal destino, dalla necessità entro la
quale appaiono gli enti, e non da una loro astratta definizione. Ora lo studio
di questa problematica compete a un sapere particolare che dobbiamo chiamare
ontologia, distinguendola dalla metafisica tradizionale e intendendo con questo
termine il rapporto che lega gli enti in situazione all’origine comune che li
attraversa e perciò insieme li unifica e differenzia: ontologia non logica ma
situazionale”134, ontologia noetica e non metafisica, e pertanto
metaforologica, in cui l’ente appare solo nella parola umana che costruisce
universi di senso. La critica di Grassi si appunta innanzitutto contro
l’assolutizzazione di un aspetto particolare della filosofia
quattro-cinquescentesca: il precorrimento di quegli elementi della modernità
che nell’Umanesimo troverebbero una infanzia primitiva. Tale posizione se, da
un lato, può sembrare a Id., Il problema
della morte: l’Alcesti di Euripide. Filosofare noetico non metafisico. Vico, in
E. Grassi-E. Hidalgo- Serna, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il
Don Chisciotte, Congedo Editore, 1991, Galatina] prima vista contraddittoria
rispetto all’ipotesi interpretativa esposta nel saggio del 1924 – in cui la
centralità di Machiavelli è ribadita proprio all’insegna della veste moderna
che le riflessioni del fiorentino assumono – dall’altro, trova una spiegazione
se la critica che va conducendo Grassi a certi luoghi del moderno viene
inserita nel contesto più generale di una messa in questione della supremazia
che l’ambito logico-gnoseologico assume nelle opzioni storiografiche
analizzate. Si tratta di una messa in discussione dello stesso concetto di
ragione e di logos, che non enuncia un congedo dalla ricerca filosofica – che
cerca di istituire una relazione comprendente tra uomo e mondo – per mettersi
sulla china dell’irrazionalismo, ma palesa, al contrario, l’esigenza di
costruire o ritrovare una ragione complessa e ampia nella quale momento patico
e logico trovano una ricomposizione nell’unità dell’esperienza individuale e
vissuta. In Filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Grassi passa in
rassegna diverse tappe interpretative rifiutate per una sostanziale
misinterpretazione dell’Umanesimo. Il testo, che si pone in linea di continuità
con il saggio L’inizio del pensiero moderno, ha un primo scoglio da superare.
Il macigno che pesa, intollerabile, sul cuore del filosofo è Heidegger e
liberarsi da questo fardello è il compito verso cui il pensiero di Grassi sarà
rivolto sviluppando le problematiche degli scritti onto- antropo-logici di
Grassi: Macht der Phantasie 1979; Macht des Bildes 1970; Rhetoric as Philosofy
1980; Heidegger and the question of renaissance Humanismus 1983 e in ultimo
aggiungiamo, sebbene nell’elenco stilato direttamente da Grassi non fosse
annoverato135, Vico e l’Umanesimo136. Quale è l’idea di Umanesimo che Heidegger
offre all’attenzione del suo allievo eterodosso? Prima di rispondere a questa
domanda, analizzeremo di seguito le nove posizioni “inautentiche” proposte da
Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale. Sullo sfondo della
polemica diretta contro precisi personaggi abbiamo anche la censura al pensiero
della filosofia analitica di cui, almeno in questo La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 29. 136 Ovviamente Grassi non poteva annoverare questa opera
perché essa vedrà la pubblicazione nel 1990 in lingua inglese. Si tratta di una
raccolta di saggi che coprono circa due decadi di riflessione filosofica, dal
1969 al 1985 e che comprendono i testi americani di Grassi. Cfr, D. P. Verene,
Prefazione a E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 19-24. Il testo è
pubblicato in lingua inglese due anni prima con il titolo Vico and Humanism.
Essays on Vico, Heidegger and Rhetoric, Peter Lang publishing, New York] luogo,
Grassi non esplicita i rappresentati. Più chiarezza è rintracciabile in altri
testi, come Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, in cui è
esplicito il riferimento polemico a Wittgenstein, portavoce dell’impostazione
scientifica del pensiero e autore di quel Tractatus logico-philosophicus che
riduce il mondo alla triade: dire, mostrare, tacere137. Come è noto i sette
Sätze del Tractatus si chiudono con la nota proposizione: “ciò di cui non si
può parlare, si deve tacere”138. Affermazione, questa, da cui traspare per il
pensatore italiano un’attenzione esclusiva al piano denotativo del linguaggio
che riduce il logos a tecnica di formalizzazione, a calcolo scientifico in cui
l’uomo e la sua storia travagliata scompaiono. Afferma Grassi che “è
considerato scientifico quel pensiero che procede nella struttura di un
processo razionale, cioè nella sfera della dimostrazione. Nella teoria logica
moderna questa tesi è portata avanti in modo significativo nel Tractatus
logico-philosophicus di Wittgenstein [...] al di fuori del mondo simbolico del
sistema abbiamo solo silenzio e mistero”139. Dalla prospettiva grassiana
nell’orizzonte wittgensteiniano della filosofia l’unico linguaggio accettabile
è quello del calcolo, della formalizzazione, della logica che esclude
dall’orizzonte di significatività la dimensione retorica del logos ordinario –
che esprime il sensus communis – e del logos patetico della poesia. Eppure
Wittgenstein riabilita in qualche modo il livello connotativo del linguaggio,
quella dimensione del mistico e dell’etico, relegati nel Tractatus nell’ambito
del silenzio, attraverso la riflessione che si condensa nelle Ricerche
filosofiche. Grassi non prende in considerazione la riflessione
wittgensteiniana contenuta in questo testo, che possiamo definire come una
sorta di drammatizzazione di una lotta, quella di Wittgenstein contro se
stesso, contro il se stesso di un tempo, quello del Tractatus. Afferma
Wittgenstein che “questo chiedere [il nome degli oggetti] e il suo correlato,
la definizione ostensiva, costituiscono, potremmo dire, un gioco linguistico a
sé. Ciò Cfr., L. Perissinotto,
Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2003. 138 L. Wittgen stein, Tractatus
logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di A. G. Conte, Einaudi,
Torino 2009, proposizione 7. 139 E. Grassi, Retorica come filosofia] vuol dire
propriamente: veniamo educati, addestrati a chiedere “come si chiama questo?” –
e a ciò segue la denominazione dell’oggetto”140. La definizione allora appare
come un particolare gioco linguistico che non si identifica sic et simpliciter
con l’atto originariamente istitutivo del linguaggio. L’origine del gioco
linguistico è una “reazione” sulla base della quale possono innestarsi le forme
più raffinate di linguaggio. Esso inoltre non si origina dalla riflessione ma è
una porzione141 del gioco linguistico. Colpevole142 di aver escluso
“dall’ambito della filosofia le discipline umanistiche (filologia, storia,
poesia e retorica)”143, che non consentono di rendere chiaro e distinto il
linguaggio filosofico ma al contrario lo oscurano, il Cartesio di Grassi
diviene un altro bersaglio polemico. La critica è diretta alle affermazioni
contenute negli scritti cartesiani Regulae ad directionem ingenii (Regola III)
pubblicate postume nel 1701144 e al Discorso sul metodo (I libro) del 1637. La
III regola cartesiana delle Regulae recita: “riguardo agli oggetti da trattare
si deve fare ricerca non di ciò che altri ne abbiano opinato o di ciò che noi
stessi congetturiamo, bensì di ciò che da noi stessi si possa intuire con
chiarezza ed evidenza, e dedurre con certezza; poiché solo così si acquista
scienza”145. Secondo Grassi in questo passo si afferma che il ricorso
all’esempio degli Antiqui è un escamotage del tutto empirico, mnemonico, che
produce storia, mai scienza. Questa si costituisce a un livello differente, nella
trasparenza dell’intrinseca dinamica dei nostri processi cognitivi, come emerge
dalla riflessione matematica. Secondo Grassi l’emarginazione dell’esperienza,
lo svuotamento di senso scientifico della tradizione proposti da Cartesio sono
riconducibili alla generale impostazione che muove dal paradigma matematico. In
questo orizzonte di ricerca è esclusa ogni forma di congettura probabile, Id., Ricerche filosofiche, tr. it. di R.
Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, I, § 27. 141 Id., Zettel. Lo
spazio segregato della psicologia, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino
1986, § 391. 142 E. Grassi, La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale,
cit., pp. 31-32. 143 Ivi, p. 31. 144 La stesura delle Regulae risale agli anni
compresi tra il 1625 e il 1629. Sulla questione della datazione delle Regulae
cfr., G. Mori, Cartesio, Roma 2010, pp. 37-38. 145 Cartesio, Regole per la
guida dell’intelligenza, tr. it. di G. Galli, in Cartesio, Opere filosofiche,
Vol. I, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, p. 21. ! 56! che
pretenda di mescolarsi e assimilarsi sulla base dell’abitudine a conoscenze
certe e evidenti. La stessa valutazione dei saperi umanistici compare in I
principi della filosofia. Qui il filosofo afferma che “se desideriamo consacrarci
seriamente allo studio della filosofia e alla ricerca di tutte le verità che
siamo capaci di conoscere, ci libereremo in primo luogo di tutti i pregiudizi,
e faremo conto di respingere tutte le opinioni da noi un tempo accolte in
nostra credenza, finché non le abbiamo esaminate da capo. Faremo in seguito una
rassegna delle nozioni che sono in noi, e non raccoglieremo per vere se non
quelle che si presenteranno chiaramente e distintamente al nostro
intelletto”146. La scienza, così, è in ultima analisi tale nella misura in cui
si concentra rigorosamente su ciò che non può essere intaccato dal dubbio.
Inoltre, nel primo libro del Discorso, nell’ambito dell’esposizione del proprio
iter autobiografico, Cartesio rende manifesta l’insoddisfazione verso quei saperi,
gli studia humanitatis ai quali si era tanto dedicato durante gli anni della
formazione a La Flèche, insofferenza dovuta agli inestirpabili dubbi ed errori
che quelle discipline per il loro oggetto e metodo intrinseco non potevano non
contenere. La critica a quei saperi, che spinge Cartesio a dire che leggere i
libri antichi è come viaggiare e conversare con uomini di altri secoli147,
dimenticando ciò che caratterizza il tempo presente, trova il suo esito più
compiuto nella difesa della mathesis universalis, del nuovo metodo, della
scienza nuova che unisce matematica, logica, geometria seguendo lo schema
tetravalente di evidenza, divisione, ordine ed enumerazione. Da questo tipo di
impostazione del discorso filosofico, matematizzante e logicizzante, occorre
liberarsi per Grassi che afferma, con tono polemico in riferimento a Cartesio,
che “egli rinfaccia alla retorica – disciplina fondamentale per gli umanisti –
di turbare, influenzando l’emotività degli uditori, la chiarezza e la coerenza
del pensiero razionale, deduttivo. Egli rifiuta pure la validità del senso
comune, giacchè solo il rigore logico è garanzia del filosofare” Cartesio, I
principi dellafilosofia, p. 64, in Id., Opere, Vol. III, tr. it. a cura di A.
Tilgher e M. Garin, Laterza, Roma- Bari 2005. 147Id., Discorso sul metodo, tr.
it. di M. Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, cit., p. 295,
“Conversare con gli uomini di altri tempi è quasi come viaggiare [...] ma se si
passa troppo tempo a viaggiare, si finisce col diventare stranieri nel proprio
paese; e quando si è troppo curiosi delle cose che avvenivano nei secoli
passati, si resta per lo più molto all’oscuro di quel che si fa al giorno
d’oggi”. 148 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo] Vorremmo sottolineare
tuttavia che il filosofo italiano non tiene conto di una certa riabilitazione
da parte di Cartesio dei concetti di verosimile, tradizione e pregiudizio
nell’ambito della riflessione morale, come si evince dal Discorso, dai Principi
e dalle Passioni dell’anima, oltre che dalla corrispondenza. Secondo la nostra
interpretazione ciò accade per diversi ordini di ragioni: innanzitutto incide
l’impostazione idealistica che Grassi riceve negli anni di apprendistato alla
Cattolica, per cui l’inizio del moderno e la nascita del soggetto avrebbero in
Cartesio un punto di partenza fuori discussione149; inoltre, l’impostazione
heideggeriana che, come è noto, si concentra molto sulla critica a Cartesio,
interpretato come colui che avrebbe compiutamente formalizzato un passaggio
cruciale nella storia della metafisica, quello dalla domanda che chiede che
cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento
che rende possibile la comprensione dell’ente. Nella tesi cartesiana ego
cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed
una nuova posizione dell’uomo150, poiché l’uomo diventa subiectum151, il
fondamento e la misura di ogni certezza e verità. In Il nichilismo europeo si
asserisce che “la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è
l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del
metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo
e sicuro”152: tale metodo è il cogito e le sue strutture. Infine la forzatura
grassiana della contrapposizione Cartesio/Vico è finalizzata a delineare una
nuova via d’accesso alla filosofia le cui radici storico-culturali egli
rintraccia nell’Umanesimo di matrice latina e mediterranea in senso lato.
Ritornando a Cartesio e agli aspetti meno teoreticisti del suo pensiero,
tralasciati da Grassi, possiamo prendere come riferimento il significato della
nota metafora della casa153 del Discorso che
“Devo richiamare alla mente la situazione filosofica della filosofia italiana
negli anni ’20, periodo in cui compii i miei studi. A quell’epoca la filosofia
hegeliana predominava in Italia grazie a Croce e Gentile ed era stata
introdotta fin dalla fine del XIX secolo da Bertrando Spaventa”, E. Grassi,
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 31. 150 M.
Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, p.
158. 151 Ivi, p. 168. 152 Ivi, p. 169. 153 “Prima di cominciare a ricostruire
la casa da abitare, non basta demolirla e provvedersi di materiali e
architetti, o impegnarsi personalmente nell’architettura, e averne tracciato
inoltre un accurato progetto; bisogna essersi procurati un altro alloggio dove
si possa dove si possa stare comodi nel corso dei lavori; allo stesso modo, per
non restare indeciso ! 58! vuole comunicarci la necessità di
prendere delle posizioni in ambito morale: ciò che assolutamente era precluso
in sede di conoscenza, ossia il fare affidamento ai pregiudizi e a ciò che
sembra ragionevole e sensato, seppure privo di certezza assoluta, è consentito
in ambito morale: “tuttavia si deve notare che io non intendo che noi ci
serviamo d’una maniera di dubitare così generale, se non quando cominciamo ad
applicarci alla contemplazione della verità. Poiché è certo che, in quel che
riguarda la condotta della nostra vita, noi siamo obbligati a seguire bene
spesso delle opinioni che non sono che verosimili [...] la ragione vuole che ne
scegliamo una, e che, dopo averla scelta, la seguiamo costantemente, come se
l’avessimo giudicata certissima”154. Il concetto cartesiano di sagesse humaine
è bivalente: ha una valenza teoretica e pratica, e la nozione di bona mens, cui
fanno capo tutte le scienze, è quel sapere del vero e del falso grazie al quale
l’uomo riesce ad orientarsi nella vita. Inoltre già nel cogito abbiamo una
co-determinazione da parte del volere, fattore costituente dell’atto di
giudizio: “con la parola pensiero, io intendo tutto quel che accade in noi
[...] non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso
che pensare”155. Del resto lo stesso Grassi riconosce la portata più ampia del
cogito cartesiano nel contesto dell’analisi del metodo portata avanti nel
saggio Dell’apparire e dell’essere. Il pensatore milanese afferma che “la
metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si
tenga presente che cosa egli concretamente intenda con “cogitare”. Pensiero,
cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma
è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un
momento”156. Se l’atto del cogito non è solo un atto logico, ma anche di
sensazione, immaginazione, volontà, per Grassi si profila il problema del
rapporto e della distinzione che passa tra queste forme nel processo di
manifestazione dell’essere157. Ancora più discordante rispetto
all’interpretazione di Cartesio esposta negli scritti maturi è l’affermazione
presente in L’inizio del pensiero moderno. Della passione nelle mie azioni mentre la ragione mi
obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere perciò di vivere
quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria,
riconducibile a tre o quattro massime sole”, Cartesio, Discorso, cit., pp.
305-306. 154 Id., I principi della filosofia] Grassi, Dell’apparire e
dell’essere, cit., p. 289. 157 Ivi. ! 59! e dell’esperienza
dell’originario in cui il cogito – a cui precedentemente già era stato
riconosciuto quel carattere elenchico-costrittivo158 che successivamente andrà
a connotare il concetto di principio del filosofare noetico-non metafisico – è
concepito nella sua intima connessione con il dubbio come espressione
dell’urgenza e dell’impellenza dell’essere. Asserisce il filosofo che il cogito
inteso come mentis inspectio non “significa qui rivolgere lo sguardo a qualcosa
di oggettuale; piuttosto il vedere dell’inspectio coincide con questo
soggiacere al dubbio e seguirlo fino al punto in cui si rivela l’urgenza che in
esso si annuncia e che lo rende possibile [...] di conseguenza anche il cogito,
quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di
un’urgenza originaria, che si mostra come il vero fondamento del sapere”159. La
posta in gioco che emerge è quella del riconoscimento della priorità della
manifestatività dell’essere quale fulcro tematico della filosofia. Il reale
come punto di partenza della riflessione comporta una ricerca sul metodo, sulle
vie di accesso, che per Grassi – questa volta non in opposizione ma in linea
con Cartesio – ci pone di fronte ad una molteplicità di forme che sono in un
rapporto di intima co-appartenenza. Nelle riflessioni appena ricordate traspare
un’immagine di Cartesio più articolata rispetto alla semplicistica riduzione
caratterizzante gli scritti tardi che si condensa nella opposizione Vico
/Cartesio (pensiero topico e pensiero critico) e che sorregge anche l’idea
grassiana della presenza di un cartesianesimo razionalistico nella prospettiva
hegeliana. Hegel160 avrebbe riproposto una visione dell’umanesimo
sostanzialmente negativa e l’opera che Grassi prende in considerazione è Lezioni
di storia della filosofia in cui l’Umanesimo appare come una filosofia
volgarizzatrice e non speculativa, che non realizza in modo adeguato l’idea ma
si ferma all’ambito della fantasia e dell’arte, e le cui radici ciceroniane,
sono fortemente criticate. Secondo il pensatore milanese “Hegel accusa la
filosofia degli autori latini, ai quali fa riferimento l’Umanesimo, di
essere Ivi, pp. 286-287. 159 Id.,
L’inizio del pensiero moderno, in Id., I Primi scritti, cit., pp. 817-818. 160
Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale] volgarizzatrice (eine
Populärphilosophie) o non speculativa. Egli rifiuta la tesi che lo sviluppo del
diritto romano abbia un valore filosofico”161. Nell’ambito della definizione
del concetto di filosofia e delle due sfere affini ad essa, la scienza e la
religione, Hegel fa riferimento alla filosofia popolare: “sembra che vi sia un
terzo momento che congiunge i due suddetti – momento soggettivo e formale della
scienza e momento oggettivo in forma figurata o storica della religione –: cioè
la filosofia popolare. Essa si occupa di argomenti universali, filosofeggia su
Dio e sul mondo però anche questa filosofia dobbiamo lasciarla da parte. Ad
essa si devono ascrivere gli scritti di CICERONE. Lo stesso CICERONE, al quale
Montesquieu avrebbe voluto assomigliare, definito come l’esponente
dell’umanesimo universalista è al centro anche delle riflessioni di Mommsen –
come ricorda G. nel catalogo delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo
– che lo valuta come “l’impiastricciafogli dallo stile giornalistico”. Altra
vittima degli strali di G. è il romanista Curtius, annoverato tra coloro che
riducono il caso della filosofia umanistica a mero esempio d’esercitazione
stilistica. Nell’elenco compaiono anche Cassirer, Apel, Kristeller e Jaeger.
Dell’interpretazione di Cassirer per Grassi è inaccettabile o perlomeno
fuorviante il punto di partenza: ricondurre la filosofia sotto l’egida del
problema della conoscenza non consente di rintracciare nell’età dell’umanesimo
alcuna innovazione [Hegel, Introduzione alla storia della filosofia,
introduzione di Pareyson e Plebe, Laterza, Roma- Bari; Montesquieu, Discorso su
Cicerone, in P. Ciaravolo, La personalità filosofica di CICERONE, Aracne, Roma.
Il primo, presso I ROMANI, che ha tolto la filosofia dalle mani dei dotti e la liberata
dall’intralcio di una lingua straniera. Egli l’ha resa COMUNE a tutti gl’uomini,
come la ragione, e nel plauso che ne ha ricevuto i letterati si sono trovati
d’accordo con LA GENTE COMUNE [cf. Grice, “The lay and the learned”]. Io non
sono in grado di ammirare abbastanza la profondità dei suoi ragionamenti in un
tempo in cui i saggi non si distinguevano che per bizzarria dei loro vestiti.
Vorrei soltanto che fosse venuto in un secolo più illuminato e che avesse aiutato
a scoprire la verità. Uso l’espressione di Battaglia contenuta in Le virtù
moderne di CICERONE. Appunti sulle Tusculanae disputationes, in P. Ciaravolo; Grassi,
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale; Mommsen, Storia antica di
Roma antica, Sansoni, Firenze; Grassi, La filosofia dell’umanesimo] significativa.
I testi citati polemicamente da G. sono Individuo e cosmo nella filosofia del
Rinascimento e Storia della filosofia moderna. Curtius, di formazione neo-kantiana,
si occupa intensamente dei problemi matematici e fisici della modernità, e la
predilezione per alcuni autori, quali GALILEI, Keplero, Newton, Cartesio,
Spinoza e Leibniz, ci fa comprendere quanto potesse valere nel tragitto
filosofico tracciato da Cassirer il ruolo affidato all’umanesimo. Secondo G.,
per Cassirer laddove nell’Umanesimo filologia e filosofia si congiungono, non
si giunge nella filosofia a nessuna vera innovazione nel metodo. Se prendiamo
in considerazione il testo Dall’Umanesimo all’Illuminismo, che raccoglie i
contributi cassireriani sulla storia del pensiero occidentale dall’Umanesimo
all’Illuminismo, ci troveremo di fronte a pagine di considerazione scarsa circa
lo spessore filosofico dell’Umanesimo. Nel saggio La posizione del FICINO nella
storia della filosofia – recensione al libro di Kristeller La filosofia di
Ficino – Cassirer afferma che, alle sue origini e per il suo scopo principale, l’umanesimo
non può dirsi un movimento filosofico. Tra gl’umanisti più noti non troviamo
grandi filosofi veramente indipendenti. Il loro interesse e l’erudizione e la
letteratura, non la filosofia. L’unica importanza dell’Umanesimo e del
Rinascimento e la mutazione della dinamica delle idee e lo slittamento dal
particolare all’universale. In questa fase la riflessione sui principi della
conoscenza non ha trovato ancora un motivo cosciente e la filosofia sembra
avere una efficacia limitata. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del
Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze. G., La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale; Cassirer, Il FICINO nella storia del pensiero, in
Dall’Umanesimo all’Illuminismo, a cura di Kristeller, Federici, La Nuova
Italia, Firenze; L’originalità del Rinascimento, in Dall’Umanesimo
all’Illuminismo; Storia della filosofia moderna; Dall’umanesimo alla scuola
cartesiana; La rinascita del problema della conoscenza, Arnaud, Einaudi, Torino.
Sembra trovare una parziale giustificazione allora la critica grassiana rivolta
al pensatore tedesco: Cassirer preoccupato di rintracciare nella tradizione
umanistica ciò che per lui costituisce l’essenza della filosofia – ovvero il
problema della conoscenza – dovette ammettere di rilevarne solo poche tracce
nell’Umanesimo. Ma si tratta di una critica solo in parte condivisibile poiché
G. e Cassirer non sembrano tanto lontani nella comune attenzione rivolta verso
il mondo del SIMBOLICO. Nonostante questo punto di contatto G. pone una netta
differenza tra la sua teoria di una logica della fantasia e quella cassireriana
della FORMA SIMBOLICA. Afferma G/ che e un errore e un fraintendimento molto
grave interpretare VICO come se la logica della fantasia e limitata a una pura
logica di la FORMA SIMBOLICA nella maniera che Cassirer usa quest’espressione.
In particolare all’interno dell’opera Filosofia delle forme simboliche,
Cassirer analizza la funzione del mito, inteso come originaria forma di vita,
essenziale per la scoperta e la comprensione del mondo storico. Le produzioni
mitiche prendono evidentemente origine dall’immaginazione, anche se il filosofo
non si sofferma sulla relazione specifica tra mito e immaginazione, bensì
insiste sulla relazione tra mito e immagine. Quest’ultima ha una funzione più
importante del mero SEGNO in quanto, secondo il filosofo, l’immagine contenne l’essenza
stessa delle cose. L’immagine, espressione di un fenomeno, non ha un semplice
carattere di rappresentazione, che indica qualcosa di oggettivo al di là di
essa, ma in essa si dà per noi qualcosa di reale, in essa qualcosa di
demonicamente vivente viene colto e posto dinanzi a noi in piena presenza. Dal
passo sopra citato emerge la ricerca di una struttura originaria che permetta
la ri-elaborazione dei processi storici dell’uomo dei tempi antichi, a partire
dalle sue creazioni mitico-simboliche. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. La
priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di VICO
oggi, in Vico e l’umanesimo; Cassirer, Filosofia delle forme simboliche,
Arnaud, La nuova Italia, Firenze. Queste strutture non hanno una funzione
solamente COMUNICATIVA ma agiscono da mezzo col quale si determina la
compiutezza dei loro contenuti. A partire da questa premessa dobbiamo
considerare il mito, la religione, IL LINGUAGGIO, non come forme di dominio sul
mondo, bensì come forme essenziali per la scoperta del mondo storico dell’uomo.
La formazione simbolica costituisce così il medium tra l’elemento
trascendentale e il mondo storico-reale. La funzione di sintesi, affidata alla
formazione simbolica, diviene fondamentale strumento di concezione della storia
che vuole liberarsi da una visione assolutistica e assoluta o da qualsiasi
riduzionismo empirico- descrittivo. Dice Cassirer in Saggio sull’uomo che, per
semplice che esso possa sembrare, ogni fatto storico può venire determinato
solamente in base ad una preliminare ANALISI DI SIMBOLI. La prima e più
immediata materia della conoscenza storica non è costituita da cose e da
avvenimenti, bensì da documenti e monumenti. Soltanto grazie alla mediazione e
con l’introduzione di questi DATI SIMBOLICI si può avere una idea della realtà
storica, degli avvenimenti e degli uomini del passato. Riprendendo la teoria
vichiana del mondo storico come creazione dell’uomo, aggiunge: “in nessun altro
campo, la mente dell’uomo è più vicina a se stessa che nella storia. Non il
mondo fisico, ma il mondo storico è creato dall’uomo, e dipende dalle sue facoltà.
Il campo di studio elettivo dell’uomo non è dunque il mondo matematico né
quello fisico, ma il mondo storico, la società civile. Quel che VICO chiede è
una filosofia della civiltà: una filosofia la quale sveli e spieghi le leggi
fondamentali che governano il corso generale della storia e lo sviluppo della
cultura umana”180. Se non sapessimo che è Cassirer l’autore potremmo pensare
che questo passo esce direttamente dalla penna del Grassi autore di VICO e
l’umanesimo. Per entrambi i filosofi i linguaggi del mito e della fantasia
permettono agli studiosi moderni di comprendere la coscienza storica
dell’umanità. Il mito è una forma comunicativa, espressiva e esplicativa di
eventi e fenomeni e va ben oltre una Id., Saggio sull’uomo. Una introduzione
alla filosofia della cultura umna, a cura di Carlo d’Altavilla, Armando, Roma; Desartes,
Leibniz e VICO, in Id., Simbolo, mito e cultura, a cura di D. P. Verene,
Ferrara, Laterza, Roma- Bari] rappresentazione illusoria che nasconde il vero
stato delle cose. Cassirer lettore di VICO mostra non pochi punti di contatto
con G. che del filosofo napoletano sottolinea proprio la priorità di quegli
ambiti mitici, poetici, simbolici, fantastici su cui il filosofo delle forme
simboliche a lungo si è soffermato. Se G. esplicitamente menziona la presenza
di una logica della fantasia in Vico – in cui il concetto fantastico e
immaginativo cristallizza un essere attraverso l’atto dell’ingegno, con una
visione diretta di una totalità pittorica –, Cassirer si riferisce a VICO
indicandolo come il creatore di una logica dell’immaginazione. L’umanità,
secondo lui, non poteva cominciare con il pensiero astratto e il linguaggio
razionale. Dovette passare per lo stato del LINGUAGGIO SIMBOLICO, del mito e
della poesia. I primi popoli non avrebbero pensato in concetti ma in immagini
poetiche; in realtà il mondo in cui vive sia il poeta che il foggiatore di miti
sembra essere lo stesso. L’uno e l’altro sono dotati dello stesso potere
fondamentale, del potere di personificare. Non possono contemplare nessun
oggetto senza dargli una vita interiore e una forma personalizzata – “Those
spots mean measles, dark clouds mean rain, smoke means fire]. La breve sosta
sulla filosofia cassireriana ci ha consentito di istituire un interessante
confronto G.Cassirer che ha come scopo quello di mettere in luce un comune
terreno di ricerca filosofica sugli ambiti del simbolico, del mitico, del
poetico e del fantastico. Altri due autori inseriti dal filosofo milanese
nell’elenco delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo sono Apel e
Jaeger, entrambi colpevoli di aver misconosciuto l’essenza autentica
dell’Umanesimo183. Per il pensatore italiano Apel sostiene la tesi che gli
umanisti nella loro disamina della logica scolastica usano un armamentario
filosofico poverissimo sostituendo agli argomenti razionali asserzioni
patetiche”184. Infatti Apel afferma che “da questa programmatica polemica d’un
nuovo Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 54. 182 Saggio sull’uomo, G. La
filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 35; Id., Il problema
della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 209; Id., Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico, in Id., Primi scritti, cit., 255-
271; Id., Paideia ed umanesimo, in Id., Primi scritti, cit., 357-369. La
filosofia dell’umanesimo] metodo gnoseologico, così come essa è caratteristica
dell’epoca umanistica di passaggio fra scolastica e scienza moderna, non si
potrà trarre una profonda intelligenza della logica formale (una sensibilità
per il formalismo dell’astrazione logica, e quindi per le autentiche
acquisizioni della logica da Aristotele in poi, fece difetto a tutti gli
umanisti)”185. Dal suo canto Jaeger riconduce lo spessore dell’approccio
umanista a mera prosecuzione degli ideali greco-romani186: secondo Jaeger le
origini dell’umanesimo non sono rintracciabili nel pensiero degli umanisti
italiani del Quattrocento. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo che “Jaeger
dichiara che l’Umanesimo è solo la manifestazione di un particolare ideale
culturale che ha per meta la formazione dell’uomo, Jaeger, infatti, asserisce
in Paideia che “sin dalle prime tracce che abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo
al centro del loro pensiero. Gli dei antropomorfi, il predominio assoluto del
problema della figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa; il
procedere conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello
dell’uomo, nel quale culmina con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il
cui tema inesauribile, da Omero in poi e per tutti i secoli seguenti, è l’uomo
in tutta la estensione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la
natura solo chi lo intenda quale plasmatore dell’uomo e di tutta la sua
esistenza: tutti questi sono raggi di un medesimo lume”. E aggiunge che si
tratta di “manifestazioni di un sentimento umanistico della vita, che non trova
ulteriori derivazioni o spiegazioni, e che compenetra ogni creazione dello
spirito greco. I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza
[...]. Siamo ora in grado di enunciare più precisamente che cosa costituisca
l’originalità dei Greci. La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io
soggettivo, ma l’acquisita coscienza della legge universale della natura umana.
Il principio spirituale dei Greci non è l’individualismo, bensì l’umanesimo”
Apel, L’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo d’ALIGHIERI a VICO, il
Mulino, Bologna; Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Emery e Setti,
Bompiani, Milano. La concezione di Jaeger la paideia ha un ruolo prepolitico,
intendendo l’attività educativa come punto di incontro tra antichità e
presente. Secondo l’esponente del cosiddetto terzo umanesimo. Per l’età
moderna, il concetto di umanesimo è legato alla relazione consapevole della
nostra cultura con l’antichità. Ma questa non si fonda, a sua volta, se non sul
fatto che la nostra idea della cultura universale dell’uomo ha colà, appunto,
la sua origine storica. L’umanesimo, in questo senso, è sostanzialmente una
creazione dei Greci. La paideia greca ha in effetti caratterizzato, per Jaeger,
sia il Cristianesimo che il Rinascimento, in quanto il fine della stessa era la
formazione di una umanità superiore. 187 Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Infine,
nel catalogo grassiano degli pseudo-umanesimi compare la figura di Kristeller
che secondo il pensatore italiano non avrebbe avuto attenzione per
quell’umanesimo non platonico che al contrario egli cerca in gran parte della
sua produzione di mettere in luce. Afferma Kristeller in Retorica e filosofia
dall’antichità al Rinascimento che “gli umanisti non erano filosofi di
professione, e i loro scritti su diversi argomenti mancano della precisione
terminologica e della consistenza logica che abbiamo il diritto di aspettarci
da filosofi di professione in altre parole, anche se potessimo ricostruire una
filosofia coerente per un determinato umanista, non possiamo trovare una
filosofia comune a tutti gli umanisti, e quindi non è possibile definire il
loro contributo in termini di dottrine specificatamente filosofiche”189.
Secondo G. Kristeller “al quale dobbiamo uno studio su Ficino e molte ricerche
erudite sull’Umanesimo [...] valorizza il pensiero umanistico soprattutto nel
ripensamento della tradizione platonica e neoplatonica”190. II. III. Il maestro
degli anni mitici di Friburgo Il confronto grassiano con l’umanesimo non poteva
non relazionarsi alla filosofia di Heidegger che contro l’umanismo si era
espresso molte volte. Il testo La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale
è significativamente dedicato alla memoria di Heidegger eletto da Grassi a suo
maestro. Eppure Heidegger, come ricorda G. stesso, “ha negato radicalmente
qualsiasi valore alla filosofia dell’umanesimo. Egli riconosce in tale
tradizione l’ideale romano dell’affermazione dell’homo humanus, nobilitato
grazie al concetto di paideia [...] afferma che la concezione umanistica non
coglie l’essenza dell’uomo”191. P. O. Kristeller, Retorica e filosofia
dall’antichità al Rinascimento, Gargano, Bibliopolis, Napoli. Afferma
Kristeller: che, diversamente dalle arti liberali del primo Medioevo, gli
Studia humanitatis NON INCLUDENO la logica o il Quadrivium -- aritmetica,
geometria, astronomia e musica --, e diversamente dalle Belle Arti del
Settecento gli Studia humanitatis non comprendevano le arti figurative o la
musica, la danza o l’arte dei giardini. Non comprendevano neppure le materie
principali che si insegnavano alle università del tempo, cioè la teologia, la
giurisprudenza o la medicina, o le materie filosofiche all’infuori dell’etica,
cioè la logica, la filosofia naturale o la metafisica. In altre parole,
diversamente da ciò che si è pensato molte volte, l’umanesimo non costituisce
il sapere e pensare intero o completo del Rinascimento, ma soltanto un suo
settore parziale, ben limitato, per quanto importante. L’umanesimo ha il suo
centro e la sua base negli Studia humanitatis. Le altre materie del sapere,
compresa la filosofia, con l’eccezione della filosofia morale, hanno un loro
sviluppo separato, che e in parte determinato dalla tradizione medievale, ma
che fu poi lentamente trasformato da osservazioni, problemi e teorie nuove,
trasformazione in cui anche l’umanesimo ha la sua parte, ma agendo piú che
altro dall’esterno e indirettamente”, Id., L’umanesimo italiano del
Rinascimento e il suo significato,Gargano, Istituto italiano per gli studi
filosofici, Napoli, Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Dedicare un testo
sull’umanesimo ad un anti-umanista sembra un’operazione quantomeno ardita
poiché effettivamente Heidegger appare molto duro nei confronti di una
tradizione culturale che avrebbe meritato, se non un giudizio differente,
perlomeno una più attenta riflessione e analisi. Leggiamo in La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale. Il lavoro è dedicato alla memoria di
Heidegger che è stato il mio maestro: anche il mio saggio sotto la sua
direzione e pubblicato (Il problema
della metafisica platonica) e dedicato proprio a lui. Il magistero filosofico
di Heidegger e la sua negazione dell’importanza speculativa dell’umanesimo
sollecitano in G. tematiche speculative che renderanno possibile la
problematica sviluppata in “Macht der Phantasie (1979), in Macht des Bildes
(1970), e nel volume Rhetoric as Philosophy, ma anzitutto in Heidegger and the
Question of Renaissance Humanismus (1983)”193. In Lettera sull’Umanismo
Heidegger tende a precisare più volte l’aspetto non-umanistico del suo
pensiero, che si configura come un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in
cui l’uomo e il discorso sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica.
Egli si domanda se si possa qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la
risposta è negativa; e non può essere altrimenti se per umanismo si intende
qualcosa di metafisico e di esistenziale. “L’umanismo pensa metafisicamente
[...] esso è esistenzialismo e sostiene la tesi espressa da Sartre: prècisèment
nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes. Se invece si pensa come
in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il y
a principalement l’Etre”194. La tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come
è noto, è espressa dal filosofo francese in L’esistenzialismo è un umanismo195,
ed è inserita nel contesto della metafisica dell’umanismo che ! Ivi, p. 17. 193
Ivi, p. 29. 194 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it. A cura di F.
Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 61. 195J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un
umanismo, Mursia, Milano 1996, p. 40. ! 68! “non pone l’humanitas
dell’uomo ad un livello abbastanza elevato”196. Una metafisica di questo tipo,
che eleva l’uomo a soggetto despota dell’essere e dell’ente, non riesce,
secondo Heidegger, a comprendere il legame dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος
che è il soggiorno dell’uomo197, la radura- Lichtung del mondo. C’è da dire
che, stando all’auto-interpretazione heideggeriana, il suo pensiero non è né
umanistico né inumano. Non è umanistico perché la questione fondamentale del
suo pensiero è l’essere, la Lichtung, l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe
ridotto ad accidente periferico dell’essere? Umano e inumano sono concetti
inadeguati per un pensiero che vuole andare oltre l’alternativa tra scienza e
filosofia. Queste ultime sono per Heidegger sostanzialmente la stessa cosa.
Dopo l’incontro di Grassi con Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta nera si
profila quella tormentata e difficile rottura con il maestro destinata a non
ricomporsi. La connessione istituita da Heidegger tra l’uomo greco e l’uomo
tedesco tralascia l’umanesimo in quanto interpolazione romana- latina tra
l’uomo greco e l’uomo tedesco, erede del greco; valutando negativamente anche
il Rinascimento come renascentia romanitatis. Le radici di questa profonda
avversione sono rintracciabili nel contesto più generale della critica alla
metafisica che Heidegger conduce: “ogni umanismo o si fonda su una metafisica o
pone se stesso a fondamento di una metafisica. È metafisica ogni determinazione
dell’essenza dell’uomo che presuppone già, sia consapevolmente sia
inconsapevolmente, l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della
verità dell’essere [...] nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non
solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma
impedisce persino che si ponga una simile questione”198. Ogni umanismo in
quanto tale è un’antropologia ontica che muove da un ente senza tenere conto
del riferimento all’essere – il grande impensato della tradizione metafisica
occidentale, rea di un doppio occultamento: il ritrarsi dell’essere (oblio come
κρύπτεσθαι); oblio della ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità
dell’ente e solo dell’ente). Pensare all’umanesimo antropocentrico e non
attento M. Heidegger, Lettera
sull’umanismo, cit., p. 56. 197 Ivi, p. 90. 198 M. Heidegger, Lettera
sull’umanismo, cit., p. 43. ! 69! al nesso essere-uomo significa
pensare innanzitutto a quell’uomo oggetto dell’orazione pichiana che accende un
dibattito filosofico nel 1487, promosso proprio da Pico della Mirandola199, e
che è dominata dalla centralità dell’uomo all’interno della realtà, peculiarità
riconducibile all’essenza particolare del suo status ontologico. A differenza
degli altri enti l’uomo è quell’ente che non ha una essenza specifica, una
natura propria e definita, chiusa e circoscritta: “l’uomo si fa agendo; l’uomo
è padre a se stesso. L’uomo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni,
la libertà”200. Il problema posto da Heidegger circa lo statuto
dell’umanesimo/umanismo non poteva lasciare indifferente Grassi che ritiene
inaccettabili quelle affermazioni e che trova in Heidegger se non proprio un
momento di svolta201, uno spunto teorico importante per il tentativo di
risemantizzazione del concetto di umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il
problema dell’umanesimo che “storicamente dobbiamo osservare che la definizione
che Heidegger dà del pensiero occidentale (una metafisica razionale deduttiva
che sorge e si sviluppa esclusivamente dal rapporto tra gli enti e il pensiero,
cioè nel quadro della verità logica) non regge. Nella tradizione umanistica c’è
sempre stata una preoccupazione cruciale circa il problema del disvelamento, dell’apertura,
dove il Da-sein storico può fare la sua apparizione. Per questa ragione noi
dobbiamo rivedere e rivalutare le categorie storiche che ancora guidano il
nostro pensare”202. Occorre precisare, secondo Grassi, che accanto
all’umanesimo ci sono gli pseudo umanesimi: la prospettiva onto-antropo-logica
grassiana ha come scopo teorico proprio la chiarificazione del Cfr., E. Garin,
L’umanesimo italiano, cit., p. 135. 200 Ivi, p. 136. 201 Parla di svolta
riguardo all’incidenza di Lettera sull’umanismo di Heidegger nel pensiero di
Grassi D. Di Cesare in Metafora e differenza ontologica. Grassi versus
Heidegger?, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 25: “la
Lettera rappresenta pure, di riflesso, una svolta per Grassi, non solo nel confronto
con Heidegger, ma anche nel proprio itinerario. La sua attesa è rimasta delusa:
non vi è traccia, nella Lettera, di un ripensamento critico, o meglio
autocritico, sul valore filosofico della tradizione latina e italiana, di quel
che Grassi chiama Umanesimo [...] per Grassi si produce allora una difficile e
tormentata rottura con Heidegger. Destinata a non ricomporsi, questa rottura
costituirà però il vero e proprio avvio non solo e non tanto della sua
originale interpretazione dell’Umanesimo, quanto di un’autonoma riflessione
filosofica che ha al suo centro la metafora”. Dal nostro punto di vista,
l’incontro a Todtnauberg tra Grassi eHeidegger, sebbene significativo, non
costituisce una svolta. La prospettiva della studiosa non tiene conto delle affermazioni
sull’umanesimo espresse da Grassi nella produzione giovanile. Infatti, la
questione dell’umanesimo si pone già a partire dal saggio su Machiavelli del
1924, come abbiamo cercato di chiarire nel primo capitolo e nel ventennio che
intercorre tra il 1924 e il 1946 Grassi ha già maturato le coordinate
fondamentali del suo itinerario speculativo, in cui certamente Heidegger
riveste un ruolo centrale ma tuttavia non esclusivo. 202 E. Grassi, Heidegger e
il problema dell’umanesimo, cit., p. 38. ! 70! significato
filosofico dell’umanesimo. Non l’umanesimo storico, né quello politico sono al
centro della sua riflessione, ma unicamente lo statuto speculativo di esso. In
Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne lo studioso afferma: “sia dunque
ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico
e non storico [...] che significato può dunque oggi avere un umanesimo?”203.
Cercare di dare una risposta a questa domanda spinge Grassi a misurarsi con le
questioni della tecnica, del metodo e dell’oggettività. Si tratta di accenni
polemici che egli non discuterà a fondo e dettagliatamente ma che ci consentono
di comprendere quanto fosse viva in lui la consapevolezza del declino di una
visione globale dell’uomo e dell’emergere del disancoramento dalla realtà che
le scienze naturali cercano di ridurre ma che al contrario contribuiscono ad
espandere a dismisura: “qui nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo
crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il disancoramento
dell’uomo”204. L’approccio scientifico è per Grassi responsabile di quella
trasmutazione del mondo vero in favola, di una de-realizzazione del reale, in
seguito alla quale la realtà, la dimensione dell’oggettivo svaniscono,
divenendo un’astratta costruzione: “la realtà che invece mediano le scienze
naturali è un’astratta costruzione in quanto il risultato di un interrogare la
realtà fenomenica in funzione a principi presupposti”205. Accanto a questa
ricerca tecnico-scientifica dei principi c’è la ricerca filosofica che
dischiude il tempo umano, il suo mondo storico, in cui motivi etici, politici
ed etico religiosi si intrecciano indissolubilmente in quel contesto
originario, nella dimensione pre-teoretica e pre-categoriale che l’analisi
sulla Lichtung mette in luce. II.! IV. La pars construens del discorso
grassiano: il lascito heideggeriano A questo punto abbiamo messo insieme una
serie premesse teoriche che ci consentono di uscire dall’impasse in cui il
coacervo delle interpretazioni analizzate da Grassi ci aveva condotti:
esaminate Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, in AA. VV,
Umanesimo e scienza politica. Atti del convegno internazionale di studi
umanistici, a cura di E. Castelli, Roma- Firenze 1949, p. 202. 204 Ibidem. 205
Ibidem. ! 71! tutte le posizioni critiche rispetto alla tradizione
storica dell’umanesimo italiano ci è consentito ora di individuare il nucleo
attorno al quale la ricostruzione del suo senso autentico diviene possibile. Il
percorso onto-antropo-logico di Grassi staziona a lungo presso il concetto di
Lichtung, e non si tratta di un semplice omaggio al maestro dei “mitici anni
friburghesi”. La co-appartenenza di umanesimo e Lichtung è fondativa della
prospettiva onto-antropo-logica e costituisce, secondo il nostro punto di
vista, il plesso teorico cardine su cui si innestano le riflessioni che
successivamente avremo modo di analizzare: quella sull’ingegno e la fantasia;
quella sulla metafora e la retorica. Prima di sciogliere i nodi del pensiero
grassiano della Lichtung ripercorriamo brevemente la storia heideggeriana di
questo concetto, ciò ci consentirà di mettere a fuoco lo sfondo su cui si
staglia la particolare declinazione che della Lichtung offre Grassi. II. V La
Lichtung in Heidegger Come ha sottolineato Amoroso quello della Lichtung
heideggeriana è un esempio di etimologia per antifrasi come il latino lucus a
non lucendo, dove il lucus, il boschetto sacro, viene fatto derivare per
antifrasi da lucere, perché esso ha poca luce. La Lichtung ha tre rimandi principali:
al luminoso (Licht e lux), all’oscuro (lucus), e al leggero (Leicht). Con il
termine Lichtung non ci riferiamo ad una espressione metaforica per indicare
ciò che si sottrae all’espressione razionale: siamo di fronte ad un fenomeno di
base di cui fanno parte i domini spaziali e temporali dell’uomo e la sua
capacità di creare corrispondenze ontologiche. Nel pensiero di Heidegger la
concettualizzazione filosofica della Lichtung206 si dipana nell’arco di più di
35 anni di speculazione filosofica: dal ’27, anno di pubblicazione di Essere e
Tempo al ’62, anno di Resta ancora
aperta tra i critici la questione di una possibile traduzione efficace del
termine che conservi il senso filosofico originario senza andarne a ledere le
relazioni morfologiche e foniche. Sono note le riserve etimologiche addotte da
Cicero circa la traduzione di Lichtung con radura, che non renderebbe né
l’affinità fonica e verbale con lux e Licht, né quella speculativa di orizzonte
inapparente di ogni apparenza ontica. Altri modi di traduzione italiana come è
noto sono quelli di Chiodi che traduce con illuminazione; di Caracciolo che
rende con radura-luminosa; la traduzione di Vattimo è apertura-slargo; quella
di Mazzarella e Volpi è radura; Amoroso traduce con luco; Marini con chiarita;
Cicero usa il verbo lucare. Cfr., per una ricostruzione dei molteplici
significati del termine Lichtung il fondamentale studio di L. Amoroso,
Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg&Sellier, Torino 1993. Per una
ricostruzione etimologica dettagliata rimando a V. Cicero, Parole fondamentali
di Heidegger ricorrenti in pensare e poetare, pp. 195-230, in M. Heidegger,
Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, tr. it. di V. Cicero, Bompiani,
Milano 2010. Mi permetto di rinviare al mio Saggio sulla Lichtungsgeschichte in
M. Heidegger, pp. 33-67, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e
politiche”, Giannini, Napoli 2015. ! 72! pubblicazione di Tempo ed
Essere, e oltre. Le sue molteplici “apparizioni testuali” hanno sensi e
significati di volta in volta diversi, ma sempre interconnessi e riferiti alla
problematica della ostensione della correlazione e coestensione di Da-Sein,
Sein, e aletheia. Tale correlazione se nella prima fase di pensiero del
filosofo è pensata più a partire dall’esserci e dall’analitica esistenziale,
nella fase tarda, invece, è tematizzata a partire dal legame stesso, da quel
plan di cui si asserisce l’identità con l’essere, come possiamo leggere a
partire da Lettera sull’umanismo207. La Lichtung heideggeriana ha una
articolazione pentavalente: (i) Da- sein, (ii) arte, (iii) mondo-spazio, (iv)
verità e (v) nulla sono i poli con i quali la Lichtung si converte di volta in
volta. (i) Nell’opera del ‘27 la Lichtung appare come Da-sein nel senso di
Erschlossenheit208 con evidente correlazione all’immagine classica del lumen
naturale, dunque alla luce. La caratteristica della non-chiusura o
dell’apertura è correlata all’esserci e alle sue note distintive: la spazialità
propria dell’esserci e la sua gettatezza intramondana – benchè si tratti di
un’intramondanità trascendente in quanto l’uomo non sta mai al modo dell’ente
semplicemente-presente ma esiste, è esposto alla radura dell’essere. Inoltre,
l’Erschlossenheit è convertibile con l’ἀληθεύειν, perché ha una connotazione
duale: aprente e aperta, distinguendosi, pertanto, dalla Entdecktheit, che
contrassegna l’ente difforme dall’esserci. La semplice presenza ha come nota
caratteristica quella di essere uno svelato che non può aprire un mondo di
significati ma che si trova già sempre immerso in una totalità di appagatività.
L’esserci, invece, ha una capacità di apertura che lo rende quell’essere che
può scoprire, mentre la semplice-presenza è l’ente che può essere scoperto. Si
tratta di comprendere il denso senso del Da-sein, che esprime sia il
riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale
dell’uomo con l’apertura (il ci) dell’essere come tale. “Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si
dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il ya principalment
l’Etre. Ma da dove proviene e che cos’è le plan? L’Etre e le plan sono lo
stesso”, M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 61-62. 208
L’Erschlossenheit fa la sua comparsa al § 28: “qui e là sono possibili solo in
un “Ci”, cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del Ci, ha aperto la
spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non
chiusura. L’espressione “Ci” significa appunto questa apertura essenziale.
Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) “Ci” è per se stesso in una con
l’esser-ci del mondo [...] che esso sia illuminato significa che è in se stesso
aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non mediante un altro
ente, ma in modo che esso stesso è la radura”, M. Heidegger, Essere e Tempo,
tr. it., a cura di, Longanesi, Milano, p. 165. ! 73! (ii) La
relazione tra Lichtung e arte emerge in L’origine dell’opera d’arte. Qui il
termine radura è declinato come Offenheit209, come luogo aperto e possibilità
stessa dei fenomeni. In quanto apertura essa è quell’accadere non solo del
diradarsi ma anche del trattenere, dello svelamento e del nascondimento come si
evince dalle pagine sulla lotta tra Welt e Erde o tra luogo e contrada in
L’arte e lo spazio. L’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la
messa in opera della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene
declinata l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: “l’opera
d’arte, nel modo che le è proprio, fa insorger l’essere dell’ente. Nell’opera
accade questo far insorgere, ossia: la verità [...] l’arte è il mettersi in
opera della verità”210. Ciò che insorge è la dimensione ontologica della
Lichtung quale contesto originario di senso. (iii) L’idea di Lichtung come
mondo si collega al principio di manifestatività, ed è frutto della
coniugazione della problematica trascendentale e della dottrina del mondo. L’io
trascendentale e il soggetto mondano risultano coincidenti. Tale
sovrapposizione tenta di superare l’incapsulamento del mondo nella coscienza e
di dare risalto ad una idea di mondo come vero e proprio donatore di senso,
come originaria dimensione costituente. Ciò che consente agli enti di
manifestarsi va rintracciato nelle strutture della mondità e non in quelle del
soggetto. Afferma il filosofo tedesco che “in Essere e Tempo la “cosa” non ha
più il suo luogo nella coscienza, ma nel mondo”211, e ciò perché il mondo è la
condizione di possibilità dell’esperienza, cioè, del rapportarsi dell’esserci
all’ente212, costituendo l’accessibilità dell’ente. Sappiamo dall’analitica
esistenziale che la spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento
dell’in-essere, insomma non è riconducibile all’ordinaria nozione dello
spazio Il termine Offenheit è impiegato
soprattutto in riferimento al mondo e alla Lichtung. L’essere aperto e al
contempo aprente contraddistingue la Welt come welten, come farsi-mondo. Il
mondo, infatti, come l’opera d’arte è innanzitutto Stiftung: istituzione,
donazione e fondazione le quali aprono alla dimensione dell’apparire dell’ente,
facendo sì che l’ente “insorga” in quanto essente, assurgendo a dimensione
della donazione di senso. 210 Id., L’origine dell’opera d’arte, p. 51. 211 Id.,
Seminari, tr. it. Di M. Bonola, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1992, p.
158. 212 Cfr., V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della
storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Urbino,
Argalia, 1976. ! 74! omogeneo naturale213. Inoltre, risulta
impraticabile la deduzione dello spazio dal tempo, poiché spazio e tempo sono
fenomeni originari, anzi, cooriginari. Essi costituiscono quello Zeit-Raum di
cui si parla in Tempo e Essere in relazione all’evento, all’eventuarsi
dell’essere, al suo destinarsi storicamente, al suo essenziarsi aletico. Il
concetto di spazio come lasciare e concedere spazio, mondo e soggiorno è
strettamente connesso al concetto di Lichtung che dirada il luogo di ogni
manifestatività e presenza, ma anche il luogo di ogni assenza e oscurità,
l’aperto per tutto ciò che è presente o assente. (iv) Il legame di Lichtung e
verità si pone con forza in un suggestivo paragrafo di Essere e Tempo, che reca
il significativo titolo di Esserci, apertura e verità214. Qui Heidegger afferma
che un’asserzione è vera innanzitutto perché è apofantica, ossia è
manifestazione dell’ente215. Nell’ambito dell’analitica esistenziale la verità
è connessa ad un concetto di Lichtung da intendere, sia, come Offenstandigkeit
(come uno stare aperto da parte dell’uomo), sia, come Offenbarkeit (esser-
manifesto da parte dell’ente). La grande sfida che si apre alla riflessione del
filosofo tedesco è quella di portare al linguaggio quello sfondo sul quale si
staglia la stessa manifestatività come tale. Si tratta di quel fondo nascosto e
oscuro su cui si pone la luminosità del manifesto e a partire dal quale
possiamo comprendere il discorso sulla non-essenza della verità. Preminente
secondo Heidegger nella dottrina del vero è l’Anwesung, l’atto del presentarsi
della cosa, e non il Wassein, il contenuto essenziale. E proprio tale
separazione tra il contenuto dell’apparire e l’orizzonte dello stesso ha
generato per il filosofo tedesco quel “riferimento al vedere, all’apprensione,
al pensare e Ma soprattutto
dall’analitica sappiamo che la spazialità è possibile solo sul fondamento della
temporalità. Nel noto § 70 di Essere e Tempo lo spazio sembra emergere in netta
subordinazione al tempo, alla temporalità estatico-orizzontale, che sola rende
possibile l’entrata dell’esserci nello spazio. Successivamente, è lo stesso Heidegger
ad avvertire l’impossibilità di continuare a sostenere la posizione espressa in
Essere e Tempo: “il tentativo di ricondurre la spazialità dell’esserci alla
temporalità compiuto nel § 70 di Essere e Tempo non è più sostenibile”, M.
Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 30. Anche nelle dieci conferenze tenute a
Kassel del 1925 Heidegger afferma nel contesto della disamina di “ciò che è
vivo e ciò che è morto” del pensiero diltheyano che «lo spazio del mondo
ambiente non è quello della della geometria. Esso è essenzialmente determinato
dai momenti usuali della vicinanza e della lontananza [...] non ha dunque la
struttura omogenea dello spazio geometrico», Id., Il lavoro di ricerca di
Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta per una visione storica del mondo, cit., pp.
34-35. 214 Il riferimento è al § 44 di Essere e Tempo. 215 Ivi, pp.
264-265. ! 75! all’asserire”216 della verità che è caduta sotto il
giogo dell’idea, con il conseguente mutamento della verità in orthotes. (v)
L’altro concetto fondamentale intrinsecamente connesso a quello di Lichtung è quello
di nulla, di cui Heidegger parla soprattutto in Che cos’è metafisica?. Qui il
nihil è contraddistinto da una peculiare relatività e rivelatività. Lichtung e
Nichtung divengono sinonimi perché la peculiare funzione di diradamento della
prima, e il ruolo di annientamento della seconda, vigono entrambi nell’ente e
nella sua luminosità, consentendo ad esso di apparire. Lichtung e Nichtung
costituiscono quella “notte chiara” in cui l’ente appare e il mondo diviene
mondo. Nondimeno, radura e nulla non vengono alla luce alla stregua dell’ente,
ma si annunciano in quella differenza nei confronti dell’ente che appare217. In
conclusione di questa incursione nella teoria della Lichtung heideggeriana
possiamo dare per acquisito che essa si pone come l’inapparente fonte di ogni
apparenza ontica. Si tratta del mero “che c’è”, del fatto, dell’evento. Ma un
pensiero così originario, che nel suo regressus verso l’inizio retrocede verso
un indisponibile e pre-teoretico darsi può ancora edificare? Su quali
fondamenta e a quale scopo? Quale telos l’“uomo della radura” può porsi e come
può orientarsi? Id., La dottrina
platonica della verità, in Id., Segnavia, a cura di F. W. Von Hermann e F.
Volpi, Milano, Adelphi, p. 192 217 Se in Essere e Tempo il discorso si dipana
su un piano che è più strettamente analitico-esistenziale, nella prolusione Che
cos’è metafisica (1929) la questione si pone sul terreno ontologico. Qui il
discorso sull’angoscia si inserisce nella cornice tematica del rapporto tra
essere e nulla. In questo caso ad attirare l’attenzione non è tanto
l’Unheimlichkeit – l’esperienza dello spaesamento – propria dell’angoscia,
quanto l’esperienza di Seinsoffenheit – di apertura dell’essere – della stessa:
«solo nella notte chiara del niente dell’angoscia sorge quell’originaria
apertura dell’ente come tale [...] il niente è ciò che rende possibile
l’evidenza dell’ente come tale per l’esserci umano”, M. Heidegger, Che cos’è
metafisica, in Id., Segnavia, cit., pp. 70-71. ! 76! II. VI.
Lichtung, umanesimo, metafisica: la proposta grassiana Queste sono le sfide che
il pensiero heideggeriano pone e che Grassi rimedita in modo originale
coniugando Lichtung e umanesimo. In quell’umanesimo in cui Heidegger
intravedeva un pericolo per l’esperienza autentica dell’originario Grassi
individua una possibilità, anzi la possibilità, la scommessa del filosofare
noetico-non metafisico da sempre bandito dalla riflessione formale e
razionalistica. Afferma il filoso italiano in La metafora inaudita, nel
contesto dell’analisi del linguaggio e del pensiero razionalmente intesi, che
“qualsiasi umanesimo – nel contesto suddetto – che tenti di trascendere il
pensiero formale tenendo conto dei problemi della vita e dell’uomo, deve essere
escluso e con esso ogni elemento patetico, proprio del linguaggio poetico o
retorico. Il linguaggio razionale e scientifico deve necessariamente
prescindere dalle passioni dell’uomo; il suo ideale è quello matematico e il
legame del mondo umano con la razionalità genera il terrore di cadere nel
soggettivismo, nell’arbitrarietà”218. Per il filosofo italiano occorre compiere
un movimento inverso a questa prospettiva e la riflessione sul tema
heideggeriano della Lichtung, connesso all’articolazione umanistica e vichiana
del concetto, rappresenta un tentativo di costruire un nuovo accesso al mondo
umano. Per Grassi quello compiuto da Heidegger è un regressus, un movimento di
retrocessione dal dato al darsi, che tuttavia si arresta all’Es gibt,
all’evento in cui l’esserci è gettato. Nella Lichtung riecheggia quel φύειν
greco, quel generarsi, prodursi, sbocciare, portare a manifestazione,
quell’essere che l’uomo può contemplare, al cospetto del quale sente la
meraviglia e su cui non ha potere. Si tratta del mondo nel quale ci si sente
situati, immersi in una tradizione e in una pre-comprensione, forme, queste, di
mediazione che ci immettono immediatamente nel mondo, in quella modalità
linguistica che induce il filosofo a parlare del linguaggio come casa
dell’essere. Urge tuttavia ripensare l’idea ereditata dal maestro intraprendendo
una analisi teoretica e storica delle prospettive degli antesignani della
teoria della Lichtung che infine approda ad una prospettiva metaforologica
originale che coniuga l’analisi E.
Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 11. ! 77! della metafora
come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di
tipo cognitivo innanzitutto e secondariamente linguistico. Nel contesto della
Lichtungsgeschichte di Grassi emergono in primo piano i temi del non-
nascondimento – la verità come aletheia – e della physis. In Heidegger e il
Problema dell’umanesimo219 dopo aver affrontato l’analisi del concetto
heideggeriano di Lichtung, di Unverborgenheit e di φαινεσθαι, Grassi afferma
che “uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione
del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il
suo mondo [...] questi problemi non sono trattati dal pensiero umanistico
mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto
in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio”220. Da questo passo
emerge la precisa declinazione che Grassi conferisce a tale idea: si tratta di
una declinazione ontologica perché il problema che la Lichtung heideggeriana
pone è, come abbiamo visto, quello del fenomeno di base dell’evento, della
manifestatività, dell’esistenza e dell’appello dell’essere al quale è chiamato
l’uomo. Ma allo stesso tempo emerge anche una nota linguistica perché l’appello
dell’essere che avviene nella dimensione della Lichtung coinvolge innanzitutto
il mondo linguistico dell’uomo. Inoltre, Grassi rimarca più volte la
retrodatazione della concettualizzazione della Lichtung: interpretata come
riflessione sull’evento originario del rapporto uomo-essere la Lichtung compare
già nelle riflessioni umanistiche, soprattutto in quelle che riguardano il
linguaggio. L’idea di Lichtung che Ortega y Gasset, il collega di corso di
Grassi durante gli “anni mitici di Friburgo”221 faceva risalire al 1914222, in
realtà è molto più antica per Grassi: precede Heidegger e Ortega di
secoli. Id., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., pp. 20-21. 220 Ivi, p. 26. I corsivi sono nostri. 221
Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 21. 222 Ortega
ha sempre rivendicato la priorità, rispetto a Heidegger, di alcune intuizioni
filosofiche fondamentali: “Ci sono appena uno o due concetti importanti di
Heidegger che non siano preesistenti, talvolta con un’anteriorità di tredici
anni, nei miei libri”, Ortega y Gasset, Lettera a un tedesco (1932), in Id.,
Goethe, tr. it. di A. Benvenuti, Medusa, Milano 2003, pp. 15-48: p. 47, nota 2.
I concetti sui quali Ortega, stando alla sua autointerpretazione, si sarebbe
espresso con anticipo rispetto ad Heidegger sono quelli di essere, verità, cura
e lingua. Per una analisi approfondita dei concetti ora ricordati rimando a G.
D’acunto, Ortega critico di Heidegger, pp. 67-78, in “Studi interculturali”,
1/2015 Trieste. Vorremmo richiamare all’attenzione i passi orteghiani del 1914
in cui si dice sia prefigurato il concetto heideggeriano di Lichtung, !
78! Secondo il filosofo milanese, infatti, il problema della radura
risale alle riflessioni dell’umanesimo italiano: “già dagli inizi degli studi
umanistici un secolo fa, con Burckhardt e Voigt, fino a Cassirer, Gentile e
Garin, gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo
nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti. Questa interpretazione,
largamente diffusa, è la ragione per cui Heidegger [...] si è insistentemente
impegnato in polemiche contro l’umanesimo, considerato alla stregua di un
ingenuo antropomorfismo. E tuttavia uno dei
reso con la metafora della radura nel bosco, e che esprime al contempo
l’idea di verità come αληθεια e non nascondimento. Ortega, già nel 1914,
affermava che: “la verità è caratterizzata da una pura illuminazione subitanea
che possiede, però, solo nell’istante in cui viene scoperta. Per questo il suo
nome greco, aletheia – che in origine ebbe lo stesso significato della parola
più tarda apocalipsis –, vuol dire scoperta, rivelazione, o meglio, svelamento,
toglimento di un velo”, J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri
saggi, tr. it. a cura di G. Cacciatore e M. L. Mollo, Guida, Napoli 2016, p.
68. In Ortega, dunque, sarebbe presente quella metaforica presente anche in
Heidegger: la radura nel bosco (Lichtung), intesa come il luogo in cui si apre
lo spazio che lascia entrare la luce e la fa giocare con l’oscurità. Secondo
Ortega “il bosco è una natura invisibile – per questo in tutte le lingue il suo
nome conserva un alone di mistero [...] il bosco sfugge allo sguardo [...] il
bosco è sempre un po’ più in là del luogo in cui siamo [...] Ciò che del bosco
si trova davanti a noi in modo immediato è solo un pretesto affinché il resto
rimanga nascosto e distante”, ivi, p. 62-63. Vorremmo sottolineare come
l’importanza della metafora in Ortega non sia legata solo alla sua notevole
capacità di espressione letteraria, a quella volontà di stile mai disgiunta da
una chiara coscienza linguistica, ma abbia una radice filosofica molto forte
nell’estetica del pensatore. In Ortega y Gasset bisogna guardare tra le pieghe
di testi quali Renàn, Ensayo de estètica a manera de pròlogo, Las dos grandes
metàforas, La deshumanizaciòn dela rte per rintracciare un’analisi della
metafora che travalichi l’ambito pittorico e letterario e mostri una componente
filosofico-conoscitiva e una costante preoccupazione antropologica e non solo
estetico-ornamentale della metafora. Questa preoccupazione antropologica si
materializza come è noto nella bella immagine del naufrago a cui la cultura
viene in soccorso come una “zattera”: “la vita è in se stessa e sempre un
naufragio. Naufragare non è affogare. Il povero essere umano, accorgendosi di
affogare negli abissi, agita le braccia per mantenersi a galla. Questo agitare
le braccia, con cui egli reagisce al suo smarrimento, è la cultura: un
movimento natatorio. Quando la cultura è soltanto questo, essa compie la sua
funzione e l’essere umano riemerge dal suo stesso abisso”, J. Ortega y Gasset,
Goethe dal di dentro, in Id., Meditazioni sulla felicità, tr. it., di C. Rocco
e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate, 1994, p. 193. Spostandoci da una
“pragmatica metaforica” orteghiana ad una “teoria sulla metafora” sarà
possibile constatare che il tema della metafora svolge una funzione
fondamentale nell’economia del pensiero orteghiano e umano in generale, poiché
tenta di ancorare il linguaggio alle radici che lo generano. Come leggiamo
nelle pagine di La disumanizzazione dell’arte “ecco così un “tropo” di azione,
una metafora elementare anteriore all’immagine verbale e che si genera
nell’ansia di evitare o eludere la realtà. [...] Ecco l’elusione metaforica”.
J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, tr. it. di S. Battaglia,
Sossella, Roma 2005, p. 45. Per il filosofo spagnolo il logos stesso è
un’operazione metaforica: “il logos stesso è un’espressione metaforica [...]
così, se quanto diciamo non coincide esattamente con quanto pensiamo, si deve intendere
che perlomeno lo suggerisce. E tale dire che è suggerire è la metafora”, J.
Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, cit., p. 46. Cfr., G.
Cacciatore, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Mulino, Bologna 2013
soprattutto il saggio “La zattera della cultura. Filosofia e crisi in Ortega y
Gasset”, pp. 47-77; G. Cacciatore-A. Mascolo (a cura di), La vocazione
dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di J. Ortega y Gasset, Moretti
e Vitali, Bergamo 2012; F. J. Martìn, Teoria del linguaggio e linguaggio
ingegnoso in Ortega y Gasset, pp. 313-327, in F. Ratto-G. Patella (a cura di),
Simbolo, metafora e linguaggio nella elaborazione filosofico- scientifica e
giuridico-politica, Sestante 2000; G. D’Acunto, Ortega y Gasset: La metafora
come parola esecutiva, pp. 39-51, in “Studi interculturali”, n. 2, 2014; F.
Cambi, La pedagogia e la Bildung in Ortega, in F. Cambi, A. Bugliani, A.
Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung. Studi critici, Unicopli, Milano 2007,
pp. 13-66; G. Cacciatore-C. Cantillo (a cura di) Omaggio a Ortega, Guida,
Napoli 2016; mi permetto di rinviare al mio Un intellettuale di vocazione. A
proposito di La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di
Ortega y Gasset, pp. 230-243 in “Studi interculturali”, Trieste 2014; G.
Ferracuti, Il punto di vista crea il panorama: molteplicità di sguardi e
interpretazioni in Ortega y Gasset, pp. 96-118, in “Studi Interculturali”,
Trieste 2015. ! 79! problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo
bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui
appaiono l’uomo e il suo mondo”223. L’apertura originaria, definita altrove
come l’ursprünglich Rahmen224, al centro delle speculazioni umanistiche
coinvolge i temi del linguaggio, della correlazione tra cosa e pensiero. Oltre
all’approccio logico al nesso tra cosa e pensiero per Grassi abbiamo una
tradizione che si preoccupa del manifestarsi storico dell’ente attraverso il
linguaggio, dell’eventuarsi dell’essere in quel rapporto di co-estensione
ineludibile di essere-pensiero-linguaggio. Ma che cos’è il logos per Grassi?
Può ridursi sic et simpliciter all’ambito della razionalità, del concettuale,
del deducibile? Si tratta unicamente di una polarità irrimediabilmente
antitetica al pathos? Ma soprattutto in che relazione è l’idea di logos con
quella di Lichtung? Come vedremo nel prossimo capitolo in maniera più
dettagliata occorre analizzare i molteplici significati di logos offerti da
Grassi e connetterli con le questioni dell’apparire e della passione dell’originario
per meglio comprendere il significato della Lichtung nel pensiero del filosofo
italiano al di là dell’ipotesi dualista225. Vorremmo anticipare che nel saggio
del 1936 Il problema del logo il filosofo milanese sembra proporre un’idea di
logos completamente opposta alle tesi mature. Ma si tratta di una
contraddizione solo apparente come vedremo poiché l’idea di logos è inteso in
maniera complessa. Ad apparire problematiche sono le affermazioni del periodo a
difficilmente compatibili con quelle del periodo b. -! a: “l’originario atto
della differenza ontologica non è la distinzione di enti precedentemente dati,
bensì l’originario rendere possibile la manifestazione di una molteplicità in
cui concretamente ci si trova e nella quale ci si delimita. Così il
fondamentale carattere della concretezza, cioè il trovarsi in mezzo ad una
molteplicità [...] E. Grassi, Heidegger
e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 224 Ibidem. Cfr., anche la versione
tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens,
Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 225 Parla di ipotesi dualista M. Marassi,
Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV., Un filosofo europeo.
Ernesto Grassi, cit., p. 10. Completamente opposto è il giudizio di Rita
Messori che sostiene con fondamento la coappartenenza di logos e pathos. Cfr.,
R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel
pensiero di E. Grassi, cit., soprattutto le pp. 66-84. ! 80! è
radicato nella differenza ontologica, col che si conferma la nostra originaria
tesi della precedenza del logo. La Stimmung, il sentimento, si fonda dunque
nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento
alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein”226. -! b: “il termine
retorico” – che in Grassi indica l’ambito di progettazione del pathos – “assume
un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la
tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce
la base del pensiero razionale”227. Come conciliare allora il periodo a -! “si
conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo [...] il
sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del
leghein” con il periodo b? -! “retorica è piuttosto il discorso che costituisce
la base del pensiero razionale” Grassi stesso avverte durante tutto il suo iter
di pensiero la necessità di una ricomposizione di queste due vie del filosofare
tanto che giunge ad affermare che le analisi svolte sull’umanesimo sono da
concepire come “uno sforzo per gettare un ponte tra logos e pathos”228. A
questo punto si impongono una serie di osservazioni: Grassi non parla in
maniera univoca di logos – così come non parlerà in maniera univoca di retorica
– anzi, individua due logoi differenti, o meglio due forme di logos: una
disgiunta dal pathos, l’altra radicata nel pathos. Ed è proprio
sull’opposizione tra un logo inteso secondo una modalità logico-formale e un
logo intrinsecamente legato alla dimensione patica che si può comprendere il
suo pensiero. Abbiamo un significato di logos da interpretare come “processo
del manifestarsi”, in cui si sperimenta un nuovo rapporto di essere e nulla, un
nuovo concetto di identità che non si fonda sulla logica del pensato ma sulla
logica del pensare, dell’atto E.
Grassi., Il problema del logo, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 227 Id.,
Retorica e filosofia, pubblicato in “Philosophy and Rhetoric, IX, 1976, The
Pennsylvania State University Press, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p.
97. I corsivi sono nostri. 228 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, cit., p. 170. ! 81! pensante, che porta a manifestazione.
La lezione heideggeriana di L’essenza del fondamento e di Che cos’è metafisica
coniugata a quella gentiliana della Logica è evidente. Grassi intuisce la
convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein
radicata nell’ontologia dell’essere e forte di questo connubio è in grado di
porre il vero problema che potremmo definire autenticamente fenomenologico229.
La questione che la Lichtung e il nesso logos-pathos pongono in primo piano è
quella dell’individuazione delle vie di accesso all’originario, all’atto
fondativo del reale. Come poter dire e vedere l’inizio, il primo in cui accade
la differenza ontologica tra essere ed ente, tra il puro apparire e ciò che
appare? Come esperire la Lichtung, il coappartenersi di uomo-essere-linguaggio?
Se da un punto di vista teorico l’approccio al tema della Lichtung risulta
connesso strettamente ai temi della manifestatività e dell’essere, al nesso
logos-pathos (poiché l’analisi della Lichtung significa una analisi della
manifestatività dell’essere), da un punto di vista storico-filosofico una
connessione molto interessante risulta essere quella istituita d Grassi tra la
Lichtung heideggeriana e le luci vichiane. Si profila allora una questione ben
più complessa della secca alternativa tra logos e pathos. L’intima
coappartenenza del momento patico e di quello logico determina la forma della
manifestatività. Il tema dell’apparire su cui ci concentreremo nel terzo
capitolo è fondamentale per Grassi e mostra quanto la problematica della
Lichtung (espressa in modo esplicito negli anni della maturità), sia già
presente nella produzione giovanile riguardante i temi dell’essere,
dell’apparire, della manifestatività e dell’esperienza patica dell’originario.
II. VII. Lichtung e lucus Come abbiamo sottolineato in precedenza Heidegger
rappresenta un punto di riferimento centrale all’interno della prospettiva
grassiana, sia per quanto riguarda il valore della parola poetica Analizzeremo
in modo approfondito questo aspetto nel prossimo capitolo. ! 82!
come linguaggio originario, sia per il parallelismo istituito tra la Lichtung e
le luci vichiane230. Contro l’impostazione heideggeriana dell’umanismo come
metafisica dell’ente uomo Grassi – a sua volta con categorie ermeneutiche
mutuate dal maestro – individua un’anti-metafisica nelle riflessioni retoriche
degli umanisti. In questo percorso di riabilitazione del pensiero retorico231
latino Vico risulta essere una tappa fondamentale. Leggiamo in Heidegger e il
problema dell’umanesimo che “il problema della verità logica [...] deve essere
sostituito dal problema molto più originario del disvelamento, dal problema della
schiarita (aletheia) nella quale primariamente appare ciò che è, l’essente. Ciò
assegna un nuovo compito alla filosofia: quello di sostenere il primato e
l’originarietà del linguaggio poetico rispetto al linguaggio razionale;
rammentiamo a questo proposito la spiegazione heideggeriana della Lichtung. La
tesi di Heidegger ci riporta a quel pensatore del XVIII secolo con il quale la
tradizione umanistica raggiunge la sua più profonda espressione e significanza
filosofica: Giambattista Vico”232. In Potenza della fantasia. Per una storia
del pensiero occidentale, la questione dell’apparire, della fantasia, del
lavoro e della Lichtung è esplicitamente connessa con la figura dell’“ultimo
umanista”: Vico. Grassi pone il seguente problema: “quando, come e dove compare
per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla natura biologica
e vegetativa?”233. La risposta è individuata nella Lichtung. Il divenire uomo
dell’uomo (e la conseguente comparsa del mondo, del cosmo dal caos originario)
è un processo che parte dalla originaria estraneazione dell’uomo, intesa da
Grassi come “angoscia originaria dello smarrirsi nella foresta primordiale”234
e, passando per le varie tappe storiche dello sviluppo antropologico, approda
all’istituzione della comunità umana mediante la parola. Questa più che
configurarsi come rispecchiamento dell’ente – in tal caso saremmo di fronte ad
una teoria adeguativa della verità e del linguaggio ad essa connesso Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la
metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Scritti in memoria di Ernesto Grassi,
cit.; Id., Lichtung: leggere Heidegger, it.; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para
una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos en Vico y Ortega, cit., pp.
146-173. 231 Cfr., Espillaque, op., cit. 232 Grassi, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 35. 233 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una
storia del pensiero occidentale, cit., p. 251. 234 Ivi, p. 253. !
83! – assurge ad atto istitutivo del reale, del mondo umano, mostrando
una virtù onto-poietica. “Nella libera decisione di far luce nella foresta
primordiale per fondare il primo luogo umano”235 Grassi rintraccia l’autentica
caratura onto-antropo-logica del discorso vichiano. Infatti per Grassi la
Scienza Nuova vichiana delinea il problema del disvelamento in cui appare
l’uomo e il suo mondo e solo secondariamente affronta la questione della
storicità e dell’antropologia. Soffermiamoci sul confronto tra la dottrina
heideggeriana della Lichtung e la teoria vichiana delle luci. Nella Scienza
Nuova appare la problematica principale del filosofo napoletano: quella del
disvelamento del modo in cui sorgono l’uomo e il suo mondo attraverso
l’interrelazione della parola poetica con lo spazio storico che tramite l’atto
linguistico stesso si istituisce. L’affermazione grassiana fa perno sul passo
vichiano della Scienza nuova in cui la teoria pre-heideggeriana della Lichtung
comparirebbe. In Vico e l’umanesimo il tema della Lichtung è correlato a quello
vichiano della “schiarita della foresta primordiale”236. Mettere insieme Vico e
Heidegger segnatamente al tema della Lichtung è per Grassi un’operazione che ha
come esito un esame della metafisica in generale e non solo di una metafora,
per quanto importante, della filosofia occidentale. Si tratta di un aspetto di
non secondaria importanza. Il gioco delle analogie tra Vico e Heidegger che
possiamo ricostruire – come di fatto è stato ricostruito magistralmente da
Amoroso237 –, per quanto interessante, rischia di rimanere molto generico se
non calato in un orizzonte teorico più ampio che fa interagire i due autori sul
terreno della metafisica. Conscio della grande distanza che corre tra il
tentativo vichiano di una riforma della metafisica e di quello heideggeriano di
un suo superamento, ma nondimeno consapevole della contrapposizione di entrambi
alla “barbarie della riflessione” e ai trionfi della ratio, Grassi pone
l’accento sul tema della Lichtung quale terreno di confronto tra due autori che
alla ritematizzazione di un rapporto autentico-essere-uomo-linguaggio hanno
dedicato gran parte delle proprie opere. La metafora che Ivi, p. 251. 236 Id., Vico e l’umanesimo,
cit., p. 127. 237 Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp.
447-470, in AA. VV., Studi in memoria di E. Grassi, parzialmente modificato in
Id., Nastri vichiani, ETS, Pisa 1997, pp. 99-122. ! 84! Grassi
eredita dal maestro degli anni mitici di Friburgo, come abbiamo visto, declina
la dimensione della luce con quella dell’oscurità e la stessa coappartenenza
viene rintracciata in Vico. Ovviamente la metafisica della luce, che è a
fondamento della scienza nuova, va intesa nel senso di un neoplatonismo
cristianizzato. Nella metafisica del suo De Antiquissima Italorum sapientia
Vico afferma che la chiarezza del vero è come quella della luce. Qui la luce
vale come metafora della verità metafisica di Dio e delle sue idee, le forme
che l’uomo può vedere solo nel contrasto. “Il vero metafisico è sommamente
luminoso, non è racchiuso da alcun limite, e pertanto non lo si discerne con
nessuna forma: e ciò perché è il principio infinito di tutte le forme, mentre
le cose fisiche, opache, cioè formate e finite, son quelle in cui vediamo la
luce del vero metafisico”238. L’alternanza di luminosità e opacità va quindi
letta nel senso di un neoplatonismo cristianizzato e non come l’esempio di
quell’impensato della tradizione occidentale contraddistinta da quell’oblio
dell’essere di sapore heideggeriano. Perché dunque Grassi mette insieme Vico e
Heidegger – che avrebbe definito Vico un appartenente alla costituzione onto-teo-logica
della metafisica – su un tema che sembra segnare, invece, una distanza tra
loro? La risposta è nel linguaggio poetico. Per entrambi gli autori – l’uno
attento alla Provvidenza; l’altro al Geschick, quel destino che genera la
storia, la Geschichte; l’uno sensibile al ruolo fondativo della poesia; l’altro
alla valutazione del linguaggio poetico quale casa dell’essere – è
significativo il tema della intima co-appartenenza di luce e oscurità nella
analisi della genealogia del mondo umano. Secondo Grassi “l’unico pensatore che
[...] avrebbe potuto aprire la comprensione per il pensiero di Vico sarebbe
stato Heidegger”239 poiché la Lichtung heideggeriana è molto affine al tema del
lucus vichiano. Entrambe le nozioni rientrano in un pensiero dell’origine
storica del mondo dell’uomo che ha natura innanzitutto linguistica e poetica.
Come leggiamo nella Scienza Nuova “le prime città, quali tutte si fondarono in
campi G. B. Vico, p. 84, La metafisica
del 1710, Introduzione, trad. commento di A. Corsano, Adriatica Editrice Bari
1966. Si tenga conto della funzione del raggio di luce della Dipintura che
dall’occhio divino discende sulla figura femminile della metafisica e si
rifrange su Omero, simbolo della poesia e della scoperta dei caratteri poetici,
della sapienza poetica, la vera chiave maestra per intendere la nuova scienza
quella antropologia delle origini del mondo umano e civile. Cfr., L. Amoroso,
Vico, Heidegger e la metafisica cit., p. 115. 239 Grassi, Vico e l’umanesimo,
p. 194. ! 85! colti, sursero con lo stare le famiglie lunga età ben
ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi religiosi, i quali si truovano
appo tutte le nazioni gentili antiche e, conl’idea comune a tutte, si dissero
dalle genti latine “luci”, ch’erano “terre bruciate dentro il chiuso de’
boschi”240. Mosso dal convincimento di tale sorprendente convergenza di temi
Grassi sottolinea come la dimensione di apertura del lucus vichiano analoga a
quella della Lichtung heideggeriana mette in questione il tema dell’origine
della storia, del linguaggio, della poesia e del sacro. Il Vico di Grassi,
antropologo delle origini, avrebbe attribuito una centralità a quella
dimensione linguistica, che oggi è divenuta quasi un luogo comune241. La
ricerca antropologica che si diparte dalla analisi del contesto originario – la
Lichtung/lucus – coinvolge la trattazione delle problematiche linguistiche che
in Heidegger si modulano come riflessione sulla poesia e sull’etimologia e in
Vico come etnologia e filologia. La poesia vichiana secondo Grassi è una
mitopoiesi spontanea, nasce come risposta da parte dei primi uomini allo stato
di necessità in cui si trovano e con essa assistiamo alla genesi del
linguaggio, del mito, della religione, del diritto e della storia. La questione
della Lichtung accomuna non solo Vico e Heidegger242, ma diversi umanisti che
si sono interessati alla questione della radura, del contesto originario
all’interno della disamina del valore della parola poetica. Se la questione
della Lichtung aperta da Heidegger rimanda al problema dell’individuazione e
dell’espressione del contesto primordiale e del fenomeno originario
dell’antropo-poiesi allora la suggestione grassiana circa la possibilità di
retrodatare la problematica della Lichtung all’epoca umanistica non sembra
tanto peregrina. Secondo Grassi con Vico abbiamo un distacco dalla metafisica
tradizionale razionalistica e la Scienza Nuova viene a costituire non una nuova
teoria della storia o una scienza antropologica tout court ma la scienza “del
disvelamento originario nel quale appare l’uomo”243. Chi volesse interpretare
G. B. Vico, La Scienza Nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano
2012, p. 795. 241 J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La
sematologia in Vico, Laterza, Roma-Bari 1996. 242 E. Grassi, Vico e
l’umanesimo, cit., pp. 115-117. 243 Ibidem. ! 86! il pensiero del
napoletano come un’antropologia o una riflessione sulla storia sbaglierebbe
poiché “il problema di Vico è quello del campo in cui l’uomo appare”244. La
questione del contesto originario si declina in Vico come ricerca arcaica del
“disvelamento della foresta primordiale” che altro non è che il problema del
fondamento del mondo umano, identificato nei principi “universali ed eterni”
che soggiacciono al divenire della storia. Nel passo vichiano prima ricordato
il filosofo milanese individua numerosi punti di contatto con la teoria
heideggeriana della Lichtung: l’utilizzo del termine luce; la spaesatezza e
l’angoscia originaria dell’uomo primitivo; l’atto pratico di umanizzazione della
natura. In questo “atto di disboscamento” viene collocato il punto di origine
dell’umano e la fine del “divagamento ferino dentro la gran selva di questa
terra”245. Il passaggio dal ferino all’umano, la transizione dall’uomo
all’animale, mette in moto una potenza straordinaria che viene interiorizzata
dalle menti primitive – i bestioni – che in tal modo umanizzati si avviano
verso un percorso faticoso che va dalla barbarie agli ordini civili. Il
significato della luce vichiana è infatti innanzitutto civile, politico e
comunitario. Come sottolinea Carillo “il lucus diventa in Vico il primo locus,
il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario”246. Del
termine vichiano luce Grassi mette in rilievo soprattutto la valenza di
interruzione nella frequenza della selva. Come possiamo leggere in Vico, Marx e
Heidegger (1983) “nel terrore che coglie l’uomo, nell’esperienza della sua
alienazione dalla natura, questi crea e fonda il primo luogo umano nella
storicità, il regno della fantasia e dell’ingegno”247. Nel bosco primordiale –
in cui si fa esperienza dell’alterità della natura – l’uomo crea il luogo della
storicità. Appare il tema del disvelamento e del disoccultamento come punto di
partenza per una Id., Vico, Marx e Heidegger, in Id., Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 182. 245 G. B. Vico, La Scienza Nuova, cit., p. 793. 246 G. Carillo, Vico.
Origine e genealogia dell’ordine, Editoriale scientifica, 2000, p. 284. 247 E.
Grassi, Vico, Marx e Heidegger, pp. 173-191, in Id., Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 181. ! 87! ricerca dell’umanità delle origini che non ha solo il
significato di indagine archeologica-filologica ma il senso di una ricerca
fenomenologica sui presupposti del pensiero e sulla possibilità di uscire dalla
metafisica. Il nesso Vico-Heidegger tematizzato da Grassi pone in luce che il
concetto heideggeriano della schiarita, dell’apertura originale in cui gli
esseri appaiono “coincideva con quello di Vico nella Scienza Nuova, in cui
appare sorprendentemente il termine luce, come apertura nella foresta
(schiarita nel bosco), il solo campo in cui gli esseri, la città, il tempio e
l’uomo nella sua umanità, possono apparire”248. Proprio il riferimento al tema
dell’apparire e del disvelamento mostrano la valenza fenomenologica
dell’ipotesi interpretativa grassiana: il tema della Lichtung non è altro che
la metafora pretesto per dare avvio ad un’indagine sulle forme del rivelarsi e
dell’apparire della realtà. Al problema del reale, dell’apparire e della
manifestatività, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo, egli dedica il
già citato Dell’apparire e dell’essere del 1933 in cui la manifestatività si
costituisce non nella modalità della pura apparenza negativa, ma come luogo in
cui l’uomo è colpito dal reale, ne risulta affetto, ne patisce la presenza non
in una condizione di pura passività, bensì nell’ambito della sua capacità di
progettazione e umanizzazione. L’originario pensiero vichiano del lucus diviene
per Grassi un pensiero epocale poiché “la tesi fondamentale di Vico è che la
metafisica non deve partire né da principi razionali né dal problema degli enti
ma dalla parola che svela la storicità umana”249. L’epocalità della sua
filosofia risiede nel suo carattere anti-razionalistico e fenomenologico. Il
filosofo milanese afferma in G. B. Vico filosofo epocale che “la sua opera –
quella di Vico – è una vera fenomenologia, una descrizione di come a poco a
poco appaia (phainesthai) il reale umano”250. Pur non analizzando le numerose
sfaccettature del termine lucus in Vico – luce civile; senso teologico del
termine; nesso lux-lucus (luce/oscurità); lucus-delucare; Latium/latere251 –
Grassi si Ivi, p. 177. 249 Id., G. B. Vico filosofo epocale, pp. 193-211, in
Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 194-195. 250 Ivi, p. 195. 251 Molto
interessante risulta la ricostruzione etimologica di Latium da litibula.
Leggiamo in De Constantia philologiae “donde il nome Latium (Latium unde
dictum)? I Romani custodirono queste altre vestigia di una siffatta antichità.
Dai ! 88! sofferma sul senso ontologico-trascendentale del termine
vichiano coniugando in maniera originale i temi heideggeriani e vichiani in una
prospettiva che vuole essere l’occasione per un ripensamento della filosofia
che riconosce la propria matrice fantastica, ingegnosa, mitica, poetica. Si
tratta di un pensiero che passa “dalla metafisica degli enti a quella
dell’agire, della prassi umana”252: per Grassi occorre partire dalla
tematizzazione delle necessitates come fonti naturali dei mondi umani. Egli
definisce l’ingegno – che non esclude mai il processo razionale – come teoria
che “scopre ora e qui similitudini, connessioni, apre la premessa per un
processo razionale, che deduce dalla scoperta inventiva le conseguenze e quindi
costruisce un mondo”253. L’ingenium è allora l’originaria capacità di vedere il
simile ed è la prima risposta a quelle necessità naturali alle quali l’uomo
deve far fronte nel faticoso percorso di sopravvivenza e di civilizzazione.
L’ingegno può essere comparato per la sua struttura dinamica e multifunzionale
a quel processo che gli attuali studi sull’apprendimento celati accoppiamenti
degli eroi, per cui essi andavano in cerca di nascondigli (latibula) che
offrivano i boschi venne la parola Lazio: perché di lì ebbe la sua prima
origine quella gente”, G. B. Vico, Il diritto universale, in Opere giuridiche,
introd. Di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, p.
524. Un’altra connessione degna di nota è quella tra il termine lucus e
l’occhio di Polifemo. Leggiamo in Dissertazioni che i giganti come Polifemo che
“abitavano in spelonche sulle montagne [...] avevano un occhio solo. Ciò fu
inventato da lucus. Infatti per osservare nei boschi da qualche parte il cielo
al fine di prendere auspici, in qualche parte essi diedero la luce ai boschi e
così è vero quello che insegnano i filologi che lucus è detto del luogo in cui
non c’è luce; e tuttavia lucus fu chiamato così da lux, ossia da quella parte
dove c’era la luce”, G. B. Vico, Dissertazioni, in Id., Opere giuridiche, cit.,
p. 830. Per ulteriori approfondimenti sui diversi significati etimologici del
termine vichiano rimando a Gennaro Carillo in Vico. Origine e genealogia
dell’ordine, cit., p. 284 e sgg. L’autore sottolinea come in relazione al
termine lucus “la valenza privilegiata è quella di bosco sacro. Tuttavia in
Vico questa valenza presuppone un lungo percorso disseminato, al solito, di
suggestioni etimologizzanti. Esito di lucere, emettere luce, o di lucesco,
venire alla luce, sorgere, il lucus vichiano è definibile come un’interruzione
nella frequenza della selva. Aprire un lucus equivale ad aprire una falla, uno
slargo, in un viluppo fittissimo che preclude la vista del cielo. É evidente il
senso teologico-civile di questo diradare la selva per poter contemplare,
attraverso uno spiraglio, il cielo onde interpretare i segni divini, ossia
trarne gli auspici. In questo modo il lucus diventa in Vico il primo locus, il
primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario [...] nel De
Costantia philologiae il nesso tra lucus e lucere sortisce anche un effetto
semantico opposto, denotando assenza di chiarore e visibilità [...] In
quest’accezione in cui la derivazione di lucus dalla luce si ottiene per
antifrasi la sacertà del bosco sacro deriva dal suo essere nascosto [...] di
qui la possibilità di ricondurre il nome Latium alla latenza offerta dai boschi
sacri ai primi abitatori della regione [...] nelle Dissertationes il lucus si
combina alla descrizione dei Ciclopi omerici [...] l’occhio dei Ciclopi non è
che la trasfigurazione poetica del delucare lucos, del far luce nel bosco
diradandolo”. 252 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 204. 253 Ivi, p.
203. ! 89! definiscono come problem solving254: si parte da una
condizione inizialmente critica: il problema, la necessitas; si approntano strategie
di risoluzione: la risposta alle necessitates; si elabora un pensiero creativo
che scalza la rigidità degli schemi cognitivi classici e mette in moto la
creatività: fantasia/ingegno come facoltà intuitive e ricettive ma allo stesso
tempo attive e creative. L’ingegno – altrove inteso da Grassi nella sua
identità con il nous aristotelico255 – ha come suo primo prodotto il mito che,
come vedremo nell’ultimo capitolo, “costituisce di volta in volta la storicità
delle varie epoche”256. Il mito nel suo carattere sacrale e esemplare, come
universale in funzione del quale “si determina il particolare sotto l’urgenza
che segna il tempo”257, non è inteso solo come praxeos mimesis – racconto
mitologico – ma come origine di un ordine linguistico che non ha natura
razionale: si tratta del linguaggio fantastico che si condensa nella metafora.
La struttura topica dell’ingenium, vichianamente concepito come arte
“d’inventare, di trovare, di invenire”258, produce il mito e allo stesso tempo
quella “locuzione poetica che nasce da necessità di natura”. Grassi sostiene
che “se la poesia come attività ingegnosa è originaria forma per adeguare le
necessità naturali scoprendo similitudini, è essa che trasforma il reale”259.
Emerge da questo passo la vis plastica del logos che per Grassi non è astorico,
razionale, ma sempre attento alle circumstantiae storiche. Allora si comprende
come tale logos include al suo interno tutta una serie di elementi che non
hanno mai trovato spazio all’interno della filosofia. Come possiamo leggere in
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “suoni, segni, atteggiamenti
indicativi, semantici, anche il tacere, acquistano Per un’analisi del problem
solving cfr. il classico G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica.
Logica ed euristica nel metodo matematico, Feltrinelli, 1983. 255 Cfr.,
Significare arcaico, cit. 256 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 199.
257 Ibidem. 258 Ivi, p. 203. 259 Ivi, p. 206. Il corsivo è nostro. !
90! significato esclusivamente nell’originario ambito dell’abissale che
ci riguarda: fuori dell’appello tutto è silenzioso, indeterminato, oscuro come
nella selva senza schiarita, senza radura, senza il palcoscenico per la
storia”260. Solo attraverso la prassi – sia essa linguistico-metaforica;
mitico- politica; pratico-poietica – sorge il mondo, l’Umwelt diviene Welt e si
compie quella Menschwerdung faticosa e incidentata che dall’indeterminato della
ingens sylva trae fuori spazi e tempi di determinazione. II. VIII- L’essere
dalla Gelassenheit all’Arbeit Proprio lo slittamento dalla passività
all’attività insita nell’esperienza umana dell’essere e del contesto originario
– la Lichtung – spinge Grassi a definire tale apprensione del reale non nei
termini di una Gelassenheit dal sapore heideggeriano, di un abbandono agli
“invii dell’essere”, ma in termini di Arbeit, di lavoro – come “mediazione
specifica dell’umano dotata di scopo” – e fondazione etico- politica della
comunità sociale261. All’atto linguistico per eccellenza – la prassi metaforica
– corrisponde dal punto di vista pratico l’atto pratico dell’umanizzazione del
reale che si realizza nel lavoro. Il doppio significato di lavoro (come prassi
e come fondazione politica) mette in luce il processo di umanizzazione del
reale attraverso la prassi lavorativa che si riversa anche nella istituzione
del linguaggio. Per il filosofo l’uomo dispiega la sua essenza nella formazione
(Bildung), nelle risposte “umane, troppo umane” alle urgenze patite del reale e
di un’oggettività individualmente esperita: conseguentemente l’affectio non
viene espulsa dal logos ma si immette nel processo del leghein. Egli affronta
il tema dell’Arbeit nel suo significato politico e poietico in maniera
esplicita confrontando le figure di Vico e Marx. La connessione tra Vico e Marx
si profila come analisi comparativa dei concetti di Arbeit e Phantasie. Si
chiede Grassi se le pratiche umanistiche di opposizione alla filosofia Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 197. 261 Cfr., S. Limongelli, Il problema dell’umano nella
filosofia di Ernesto Grassi, cit., pp. 278-281; G. Petrovic, Marx, lavoro e
abbandono. Lettera a Ernesto Grassi, pp. 127-157, in AA. VV, Studi in memoria
di Ernesto Grassi, cit. ! 91! aprioristica scolastica – con la
conseguente attenzione alla giurisprudenza, alla grammatica e alla retorica –
possano essere in definitiva considerate valide e concrete o ricadano
dell’astrattismo medievale: “Tutti questi canoni, che gli umanisti oppongono
alla filosofia aprioristica della scolastica, soddisfano realmente la loro
pretesa di essere concreti? Qui è pertinente l’obiezione del marxismo. La
sorgente originaria del divenire umano si trova nella trasformazione
originaria, e perciò, nella umanizzazione della natura mediante il lavoro. La
giurisprudenza, il linguaggio, la retorica, sono concrete solo in quanto
manifestazioni della storia di classe [...] la storia del lavoro è la storia
dell’evoluzione dell’uomo”262. Grassi analizza dettagliatamente l’idea del
lavoro in Marx, esposta sia nel Capitale sia nei Manoscritti
economico-filosofici, sottolineando quattro aspetti importanti del lavoro: 1-)
il lavoro umano è distinto da quello degli animali poiché è espressione di una
volontà intenzionale e spezza la relazione di immediatezza che secondo Marx
l’animale ha rispetto al mondo circostante: “la sua relazione con ciò che
produce è immediata”263. Per Marx “l’animale fa immediatamente uno con la sua
attività vitale, non si distingue da essa, è essa stessa”264. 2-) La seconda
definizione del lavoro “consiste nel riconoscere che esso rappresenta il
superamento dell’immediatezza, attraverso l’attività creativa. Il processo del
lavoro è un passaggio da ciò che esiste ancora, ed è solo possibile, a ciò che
diviene realtà [...] il lavoro come processo di metabolismo significa
l’appropriazione della natura a favore dell’uomo” E. Grassi, Marxismo,
Umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pp. 69-94, in Vico e
l’umanesimo, cit., p. 83. 263 ivi p. 84. 264 K. Marx-F- Engels, Opere, Editori
Riuniti, Roma 1976, Vol. III, p. 303 265 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 84. ! 92! 3-) Il lavoro è possibile solo se l’uomo è concepito
come essere libero: “il lavoro può esistere solo a condizione che l’uomo sia
libero. Bisogna intendere la libertà [...] come la facoltà di trasformare la
natura in nuovi sistemi di interrelazione non prefissati per l’uomo”266. 4-) Il
lavoro ha una funzione sociale. Secondo Grassi l’importanza del lavoro come
fattore di umanizzazione e di distanziamento dall’orizzonte dell’animalità è
rintracciabile anche negli umanisti – come l’attenzione agli ambiti della
giurisprudenza, della filologia e della retorica testimoniano – e in Vico, il
cui problema della storia altro non è che il problema del lavoro e della
fantasia. Per il filosofo italiano “il problema che ora sorge è: che cosa Vico
considera come la concreta radice del divenire umano? La risposta indica due
fattori principali e tra loro correlati: il lavoro e la fantasia”267. Il
pensatore milanese analizza le figure di Ercole e Cadmo, entrambi simbolo della
fondazione della società umana, ricordate da Vico nella Scienza Nuova, e la
triplice funzione della fantasia: nella fantasia l’uomo “sperimenta la propria
libertà ed esce dal chiuso mondo della foresta naturale”268; attraverso la
fantasia l’uomo argina la paura e il terrore dell’Aperto e “procede a
costruirsi il proprio ordine, o un adattamento della natura”269 (infatti per il
filosofo la fantasia crea le prime analogie tra i fenomeni, e produce le prime
connessioni e definizioni); l’ultima funzione della fantasia è quella di dare
un significato al lavoro. La costituzione trivalente della fantasia consente di
concepire l’affinità e la distanza tra la critica di Marx all’apriorismo della
filosofia e la critica umanistica all’astrattismo medievale: da un lato emerge
una convergenza degli intenti decostruttivi di entrambi gli approcci,
dall’altro Grassi sottolinea come una teoria del lavoro priva di una
teorizzazione antropologica e filosofica dell’umano ivi, p. 85 267 ivi, p. 86 268 ivi, p. 89 269
Ibidem. ! 93! sia concettualmente monca e praticamente
inutilizzabile. Afferma Grassi che “Marx considera il lavoro – come il
superamento dell’immediato impatto con la natura, come l’adattamento di essa –
l’origine della storia. Se però, tale adattamento nell’interesse dell’uomo
differisce da quello degli animali per il fatto che l’animale lavora solo per
il proprio nutrimento e la conservazione della specie, e in accordo con i suoi
modelli congeniti, allora il problema circa il significato dell’adattamento
della natura da parte dell’uomo non può essere risolto col dire semplicemente
che l’uomo è un essere che media e accomoda, né col riferimento alla sua
attività lavorativa, ma solo chiarendo e definendo lo scopo specifico di questa
mediazione. A meno che non ammettiamo l’urgenza di questo problema, ci troviamo
ridotti a dire che l’animale è un essere molto più alto dell’uomo”270. In
quest’ultimo passo Grassi esprime l’idea secondo la quale se è vero che il
lavoro è il primo atto di umanizzazione ciò è possibile nella misura in cui non
si riduca il lavoro a semplice atto di mediazione – il metabolismo della
natura, il lavoro come fatica, ponos – ma lo si consideri come atto di
mediazione guidato da scopi – il lavoro come ergon, opera. Nel concetto di
lavoro più che della prassi lavorativa occorre tenere conto del telos che la
sorregge: qui si inserisce il discrimine tra uomo e animale. Secondo il
filosofo il lavoro, inteso come adattamento della natura, è solo un mezzo in
vista di uno scopo, la realizzazione umana del mondo in cui la fantasia rivela
il suo ruolo fondativo rispetto al lavoro stesso: solo grazie alla facoltà di
visione delle somiglianze è possibile trasformare ed umanizzare la natura
implementando ordini di realtà e progettando mondi dotati di senso. L’intima
coappartenenze della componente tecnica (lavoro come fatica) e di quella
fondativa-civile (lavoro come opera) risulta decisiva nella concezione
grassiana del labor tutta gravitante attorno al tema della produzione del mondo
storico sociale e dell’umanizzazione della natura: l’uomo, con il suo ingenium
e la sua phantasia “per mezzo del labor – lavoro e fatica – determina il reale
nel suo significato
Ivi, p. 93. ! 94! umano facendolo assurgere ad opera;
solo in tal modo il reale diventa storico, si umanizza quale opera
dell’ingegno”271. Se, da un lato, allora, il presentarsi della manifestatività
rende affetto l’uomo, e, colpendolo, ne rivela la componente di passività, il
suo essere soggetto-a, tale che l’uomo non può non patire, non può sottrarsi,
dall’altro, l’uomo è quell’ente capace di rispondere, di offrire una risposta
attiva mediante il lavoro. Per Grassi infatti ciò che ci circonda, l’oggettivo,
la natura, l’essere “appare solo nei limiti da noi progettati – e tuttavia – è
altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria
oggettività. La constatazione di questa oggettività [...] è la risposta che la
natura dà entro i nostri diastema”272. Entro i limiti della nostra
progettazione, del nostro lavoro, della nostra opera – che per Grassi non è
un’operazione soggettivistica e arbitraria, ma rispondente alle circum-stantiae
di volta in volta mutevoli, alle necessitates nelle quali è già da sempre
immerso l’uomo – significa entro i limiti dell’orizzonte della fantasia quale
attività ordinatrice della materia primordiale che per Grassi “ci impedisce di
trovare una qualsiasi unità; essa è materia della facoltà ordinatrice del
pensiero”273. Il tema della determinazione concreta del reale risulta
strettamente intrecciata a quello del lavoro umano nel suo significato
ontologico trascendentale e a quello della fantasia come “attività originaria
che scopre le relazioni sulla base della visione delle somiglianze”274 e non
come “attività che ci presenta qualcosa di irreale”275, come “rappresentazione
dell’irreale, come pura facoltà della finzione, E. Grassi, Politica e
religione. La riscoperta della tradizione latina, pp. 33-43, in “Archivio di
filosofia”, Padova 1978, p. 43. Le riflessioni grassiane sul lavoro mostrano
molti punti di contatto con la distinzione arendtiana tra lavoro come ergon e
come ponos presente in Vita activa. 272 Id., L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, Discorso letto alla seduta inaugurale del Congresso per il IV
Centenario della fondazione dell’Università di Lima, in “Archivio di
filosofia”, 1952, p. 68. 273Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 279. In
relazione all’attività ordinatrice della selva originaria Grassi in questo
saggio parla di un’attività fantastica in modo duplice: sia come facoltà
sensibile – il significato secondario – sia come attività del lasciar apparire
– significato ontologico-primario in cui si dà la coapparteneza di aisthesis e
leghein. 274 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 190. 275 Ivi, p. 276.
! 95! come capacità di mostrare qualcosa di fantastico”276. In questo
caso essa è una ritenzione semplice che si fonda su una dimensione conservativa
e combinatoria delle immagini, senza avere come punto di riferimento il
referente reale delle immagini, ma la libertà e l’arbitrio soggettivo277. La
fantasia ontologicamente intesa, base del linguaggio poetico, insieme al lavoro
è capace di istituire il mondo storico. Per Grassi “la trasformazione della
natura, che l’uomo realizza con lo scopo di liberarsi dai propri bisogni, nasce
dunque dall’attività fantastica ingegnosa”278 che, insieme al senso comune, si
ritrova nella teoria vichiana del lavoro. Il filosofo asserisce in La priorità del
senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi che “il
senso comune, secondo la definizione vichiana, ha lo scopo di fornire all’uomo
ciò che gli è utile e di cui ha bisogno”279 e prosegue chiedendosi “se e come
l’ingegno e la fantasia contribuiscano al senso comune e quale relazione esista
fra di loro”280 visto che per Vico sono a fondamento dell’emergere del mondo
umano e dei suoi bisogni. L’atto di risposta umana ai bisogni originari è il
lavoro, catalizzatore del processo di civilizzazione come le fatiche di Ercole
ricordate nella Scienza Nuova esemplifica. “Le fatiche di Ercole presuppongono
una interpretazione della natura come essa fu prima della sua umanizzazione,
cioè come realtà asservibile all’uomo e presuppongono anche una visione del
successo ottenibile con tale agire. Il lavoro quindi dev’essere concepito come
la funzione di conferire un significato e di far uso del medesimo, mai come
un’attività puramente meccanica o una trasformazione puramente tecnica della
natura, estranea al contesto generale delle funzioni umane” Ivi, p. 191. 277
Cfr., M. Ferraris, L’immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996. 278 E. Grassi,
Potenza della fantasia, cit., p. 241. 279 La priorità del senso comune e della
fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, pubblicato in Vico and
Contemporary Thought, Humanities Oress, New Jersey 1976, ora in Vico e
l’umanesimo, cit., p. 51. 280 Ibidem. 281 Ivi, pp. 51-52. ! 96! Il
labor appare strutturato metaforicamente poiché è un atto di trasposizione di
significato al mondo circostante, la “funzione mediante cui i bisogni umani
vengono soddisfatti”282. La struttura metaforica operante all’interno del
linguaggio poetico secondo Grassi soggiace anche nel lavoro nel quale si
intrecciano il sensus communis – che non “consiste, quindi, in un modo di
pensare popolare o comune”283 – l’ingenium e la phantasia. La connotazione
storico- esistenziale284, più che etica o politica, del lavoro emerge laddove
si presta attenzione al labor come risposta ad un bisogno di decifrazione della
situazione umana e delle sue strutture di esistenza. Secondo l’interpretazione
del filosofo occorre ricostruire una storia pre-marxiana del lavoro
attraversando le tappe della filosofia umanistica. Si chiede il pensatore: “è
possibile trovare nell’umanesimo italiano una teoria del lavoro come fonte
della storia, una teoria del lavoro che simultaneamente comprenda l’importanza
filosofica della giurisprudenza, della filologia e della retorica?”285. Proprio
questa apertura disciplinare che contraddistingue la teoria del lavoro umanista
costituisce per Grassi la dimostrazione che “il problema concernente il
significato del lavoro comporta una rinnovata giustificazione della filosofia”,
che in qualità di meditatio de homini dignitate non può essere ridotta a
“semplice sovrastruttura di una temporanea e storica struttura sociale”286.
Volendo trarre una prima conclusione dalle osservazioni precedenti si può
asserire che nella prospettiva onto- antropo-logica di Grassi assume un ruolo
centrale la relazione fondante dell’Arbeit/labor nella lettura comparativa di
Vico e Marx. Vico, Marx e gli umanisti – ai quali si aggiungerà Heidegger
qualche Ivi, p. 51. 283 Ivi, p. 52. 284
Parla di connotazione etica del lavoro in Grassi S. Limongelli in Il problema
dell’umano, cit., p. 277 e sgg. 285 Marxismo, umanesimo e problema della
fantasia nelle opere di Vico, pubblicato originariamente in Giambattista Vico’s
Science of Humanity, the John Hopkins University Press, Baltimore (Maryland)
1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 85. 286 Ivi, p. 93. ! 97!
anno dopo287 – concordano nella critica alla filosofia a priori e al pensiero
teoretico contemplativo: il problema vero della filosofia è quello “delle
origini del divenire umano e, conseguentemente, della sua realtà storica”288.
La critica all’impostazione metafisica del pensiero operata da Marx tuttavia
per il filosofo non riesce a superare lo schema del pensiero tradizionale.
Leggiamo in Vico, Marx e Heidegger che “il rovesciamento della filosofia, che
Marx riteneva di aver compiuto con la sua critica di Hegel, non supera lo
schema del pensiero tradizionale [...], la sfera di un antropologismo”289. Pur
ritenendo fondamentale la teoria dell’alienazione – che “indica l’assenza di
radici dell’uomo occidentale”290 – per delineare una via di accesso autentica
all’umano Grassi – sulla scia di Heidegger –considera poco sostenibile
l’identificazione di umanità e socialità operata da Marx291. Tale
identificazione avrebbe come conseguenza la “riduzione del materialismo a pensiero
della tecnica”292. E sappiamo che Grassi accoglie la lezione heideggeriana per
la quale la tecnica è estrema propaggine della metafisica. Ma occorre andare
oltre la “barbarie della riflessione” e qui interviene Vico che di volta in
volta supera, secondo Grassi, i limiti delle prospettive toriche degli autori –
in questo caso Marx e Heidegger – in una sintesi filosofica che coniuga
giurisprudenza, poesia e retorica con le tematiche del lavoro e della Lichtung.
Asserisce il filosofo milanese che “il lavoro per Vico è un adattamento
dell’impatto diretto e immediato con la natura, un adattamento mediante il
quale l’uomo esce dalla natura; e qui egli sceglie le figure di Ercole e Cadmo
come simboli di essa”Cfr., Id., Vico, Marx e Heidegger, apparso in origine in
Vico and Marx. Affinities and contrasts, Humanities Press, Atlantic Highlands
(New Jersey) 1983, ora in Vico e l’umanesimo, cit., pp. 173-191. 288 Id.,
Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 92.
289 Id., Vico, Marx e Heidegger, cit., p. 190. 290 Ivi, p. 189. 291 Ivi, p.
190. 292 Ibidem. 293 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle
opere di Vico, cit., p. 86. ! 98! L’uso vichiano dell’universale
fantastico294 di Ercole – vera e propria tipologia poetico-simbolica utilizzata
ai fini della comprensione delle origini mitiche della storia dell’umanità –, o
meglio degli Ercoli295, è finalizzato alla rappresentazione della faticosa
impresa umana della costruzione della società il cui mito, narrato nella
Scienza nuova, non appare a Grassi come una concessione al gusto antiquario
della ricostruzione erudita dell’antichità ma come il simbolo
“dell’assoggettamento della natura [...] che porta all’autoaffermazione
dell’uomo”296. Secondo Grassi “Vico costruisce la sua teoria dei generi e degli
universali fantastici non mediante l’astrazione, ma creando, secondo i suoi
termini, i ritratti ideali, i caratteri esemplari [...] così il concetto
fantastico cristallizza un essere attraverso un atto dell’ingegno con una
visione diretta di una totalità pittorica. Esso rappresenta una figura
contemporaneamente esemplare e allegorica”297. Tale logica della fantasia
fondata sui generi universali e fantastici assume il ruolo di primo
coordinamento delle idee che ha carattere arcaico, poiché è fondante rispetto
alla razionalità, e immediato, indicativo, semantico. Sullo sfondo degli
universali fantastici si staglia la figura di Ercole che ha non solo il ruolo
di carattere poetico ma quello di fondatore della comunità storica dell’uomo.
Come osserva lo studioso di Vico Giuseppe Cacciatore “il ricorso vichiano al
genere fantastico aiuta, dunque, a comprendere quella costitutiva procedura del
pensiero che riduce a generi e a caratteri la molteplicità dispersa delle cose
naturali”, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, pp. 53-70, in Id.,
In dialogo con Vico, cit., p. 65. Recita la Degnità XLIX “queste tre Degnità ne
danno il Principio de’ Caratteri Poetici; i quali costituiscono l’essenza delle
Favole: e la prima dimostra la natural’inclinazione del volgo di fingerle, e
fingerle con decoro: la seconda dimostra, ch’i primi uomini, come fanciulli del
Gener’umano, non essendo capaci di formar’ i generi intelligibili delle cose,
ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi, o
universali fantastici da ridurvi, come a certi Modelli, o pure ritratti ideali
tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti”, in Sn 44, in G.
B. Vico, la Scienza Nuova, cit., p. 872. 295 Vico, infatti, nella sua
ricostruzione della complessa trama della cronologia dela storia universale
menziona gli Ercoli, i Bacchi, i Sesostri quali prototipi dei fondatori delle
città che hanno avuto sempre un eroe nella loro genesi. Afferma Vico in SN ’44
che “questa stessa Degnità con l’antecedente, che ne danno prima tanti Giovi,
dappoi tanti Ercoli tralle Nazioni Gentili, oltrechè ne dimostrano, che non si
poterono fondare senza religione, né ingrandire senza virtù: essendono elle ne’
lor’ incominciamenti selvagge, e chiuse”, Sn 44, ivi, p. 871, Degnità XLIII.
Cfr. sul tema dell’Oriente in Vico le condivisibili osservazioni di G.
Cacciatore esposte in Il posto dell’oriente nel pensiero di Vico, pp. 169-178,
in Id., In dialogo con Vico, cit. 296 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema
della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. 297 Id., La priorità del senso
comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, cit., p.
54. ! 99! Ercole effettua la trasformazione della natura piegandola
attraverso il lavoro – l’uccisione del leone nemeo – al mondo umano.
L’uccisione del leone nemeo – simbolo della ingens sylva primordiale nella
quale l’uomo erra nel terrore dell’aperto – simboleggia il primo atto di
fondazione della civiltà. Lo stesso Vico nella Spiegazione della Dipintura
afferma che “questa scienza ne’ suoi Principj contempla primieramente Ercole
[...] il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi politici”298.
Attraverso la lettura del mito di Ercole Grassi rintraccia in Vico una prima
teorizzazione del tema del lavoro nella sua connessione con l’ingegno, la
fantasia, e il senso comune, da un lato, e con il concetto di Lichtung e con
l’analisi delle strutture dell’esistenza umana, dall’altro. Si chiede il
pensatore: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una
nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa? Nella libera
decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo
umano”299. Quale importanza Grassi annetta al ruolo, al contempo storico e filosofico-speculativo,
che svolge, nel complesso del suo itinerario onto-antropolo-logico, la
questione dell’origine dei processi storici dell’umanità è testimoniato dalla
collocazione del tema della Lichtung – che accomuna Vico e Hiedegger – accanto
a quello del lavoro – che vede fianco a fianco Vico e Marx. Sostiene il
filosofo in Vico e l’umanesimo che “secondo l’opinione di Vico, grazie alla
radura aperta nella foresta originaria”, attraverso il lavoro, “divengono
possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di
computare il tempo”300. Si intrecciano indissolubilmente le questioni del
disvelamento/Lichtung – la vera “chiave maestra” della lettura grassiana degli
umanisti – quella del lavoro nel suo significato esistenziale e quella delle
strutture dell’esistenza umana. Nella prospettiva del pensatore milanese è
attraverso il lavoro, l’atto di umanizzazione della natura – il disboscamento
G. Vico, Sn 44, cit., p. 786. 299 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p.
251. 300 Ibidem. ! 100! della selva primordiale – che si apre
quello spazio-di-tempo in cui sorge la storia umana che ha “origini favolose”
dicibili solo attraverso un linguaggio poetico. Come è emerso dalle precedenti
riflessioni sulla rivalutazione dell’umanesimo a partire dal tema della
Lichtung, dell’ursprünglich Rahmen, a venire in primo piano è una densa
concettualizzazione dei temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività, coniugati ad un’analisi delle strutture dell’esistenza umana.
Nelle considerazioni seguenti intendo richiamare l’attenzione sui concetti ora
ricordati focalizzandomi sulla costituzione onto-antropo-logica della
metafisica immanente o ontologia situazionale301 grassiana e sul nesso
essere-uomo-linguaggio su cui essa si costruisce. Secondo la nostra ipotesi di
ricerca Grassi enuncia importanti riflessioni sparse in diversi saggi che
contribuiscono a corroborare l’idea della presenza di un’analitica
dell’esistenza umana a fondamento delle ricerche svolte sui pensatori umanisti
– e non solo – all’interno del progetto di rivalutazione dell’umanesimo e di
critica alla filosofia intesa come scienza. La questione dell’umanesimo in
Grassi è analizzata da due punti di vista: storico e teoret ico. Egli
afferma l’esigenza di porre la questione dell’essenza della nostra umanità sia
sul terreno speculativo sia su quello storico in un articolo del 1932 su Jaeger
Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico. Secondo Grassi “questa
essenza della natura umana è un problema filosofico e non esiste né può venire
concepita come qualcosa di dato. Ne viene che l’umanesimo [...] può avere il
suo fondamento [...] solo nella rigorosa ricerca filosofica. Il vero umanesimo
deve essere oggi filosofia. Ciò vale non solo speculativamente, ma anche
storicamente”E. Grassi, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don
Chisciotte, Congedo Editore, Lecce, 1991, p. 30. 302 Id., Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., I primi
scritti, cit., p. 258. ! 102! La ricerca grassiana si configura, da
un lato, come riflessione storica sull’umanesimo, in cui la lettura dei testi
degli umanisti ha l’aspetto di una re-interpretazione filologico-speculativa di
quel nucleo essenziale – la Lichtung – venuto ad espressione consapevole con
Heidegger. L’attenzione accordata alla filologia, che per Grassi non si riduce
a “una mediazione delle opere antiche”303 ma è una “scienza sperimentale”, una
meditazione sull’essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema
della parola304, conduce verso una dilatazione del periodo storico
dell’umanesimo sia in direzione del passato sia in direzione delle epoche
successive. Entrano così a far parte della tradizione umanistica anche gli
autori della latinità quali Cicerone e Quintiliano; quelli barocchi come
Graciàn, Peregrini e Tesauro; Vico, Leopardi e, in ultimo, lo stesso Heidegger,
il quale ha concettualizzato in forma teoretica densa ed esplicita il tema
della connessione Da-sein/Sein. Dall’altro lato, accanto alla lettura testuale,
affiora un’indagine teoretica sui temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività e sulle strutture d’essere dell’uomo. Proprio su questi aspetti
ci concentreremo maggiormente in questo capitolo prendendo in considerazione
due gruppi di saggi. La selezione di questi saggi – tutti risalenti al periodo
compreso tra gli anni Trenta e la fine degli anni Cinquanta – è stata guidata
dall’idea di una presenza nel filosofo di un’attenzione alle strutture
dell’esistenza umana, connesse alla questione di quella che potremmo definire
“ontologia Id., Il confronto con la
filosofia tedesca in Italia, in Id., I primi scritti, cit., pp. 871-886, p.
883. 304 Per Grassi occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di
pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia
autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione:
“come è noto, la tradizione filosofica italiana ha inizio proprio con
l’umanesimo e il rinascimento. Come ho già accennato altrove, il filosofare
italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il
problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola
antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...] ricordo solo che il compito
umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su
un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato
rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo
l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema
della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si
stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere
dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del
testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza
dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per
lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”,
ivi, p. 881. Cfr., anche Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, p. 72: “Il processo interpretativo, prima di divenire il metodo delle
moderne scienze scienze naturali, era già da lungo tempo abituale nell’ambito
delle scienze dello spirito. Anche qui si dimostra che il presupposto della
formazione non è tanto la mediazione delle conoscenze, quanto piuttosto lo
sviluppo della capacità interpretativa. Nel dialogo interpretativo con i testi
tramandatici stabiliamo la relazione con la comunità umana del passato e
soltanto in questa e con questa relazione possiamo giungere al nostro proprium,
in quanto siamo esseri storici”. ! 103! fenomenologica semantica”
di Grassi, in cui il tema dell’essere, identificato con quello della
manifestazione e delle forme dell’apparire, è indissolubilmente legato a quello
semantico, come campo dell’esperienza costrittiva dei principi indicato nel
fondamentale saggio Significare Arcaico (1966) in cui è condensato tutto il
valore della proposta retorica grassiana. Solo partendo dall’analisi del
contenuto tematico di questi contributi è possibile una più profonda
comprensione delle indagini grassiane sull’Umanesimo e sul Rinascimento storici
su cui la bibliografia si è concentrata maggiormente. Del gruppo comprendente
Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e
dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema del nulla nella
filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione
e dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza
della filosofia (1945), saranno selezionati i temi dell’essere, dell’apparire e
della manifestatività, i quali mostrano la volontà grassiana di recuperare
un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma
rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che
sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme
dell’apparire. In questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico
gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza
ontologica,305 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della
Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale non come
esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte ma come fondamento dell’esperienza
della manifestatività dell’essere. Dell’altro gruppo fanno parte i seguenti
saggi: Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza
dell’assenza di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959). In
quest’ultimo gruppo di articoli emergono alcuni concetti fondamentali che
trovano un’articolazione in una analitica Per una ricostruzione dettagliata
delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi
cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo
capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della
questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E.
Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII. ! 104! esistenziale
che mira a svelare le “strutture esistenziali del mondo del Da-sein”306. Le
osservazioni che seguono si focalizzeranno maggiormente sul fondamento teorico
– l’analitica dell’esistenza – che soggiace alla rivalutazione di Grassi
dell’umanesimo. Credo sia plausibile poter collocare la riflessione grassiana
sull’umanesimo sullo sfondo ontologico e fenomenologico dei saggi giovanili
dedicati ai concetti di apparire, essere, manifestatività e delle idee connesse
di disancoramento, angoscia, coscienza temporale umanistica, oggettività,
dismondanizzazione e assenza di mondo. Com’è noto, Grassi mostra nella sua
disamina degli pseudo-umanesimi una insofferenza nei confronti delle letture
storiografiche e teoretiche a lui coeve, a suo avviso gravate dal pregiudizio
idealistico ed hegeliano, rivendicando l’esigenza di una collocazione del tema
onto-antropo-logico sul terreno strettamente speculativo, teoretico. Nella
prospettiva del filosofo “il termine umanesimo è diventato più che mai
polisenso. Si parla di un umanesimo da un punto di vista storico, si parla di
un umanesimo da un punto di vista filosofico, si parla di un umanesimo da un
punto di vista politico [...] sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica
è un problema anzitutto filosofico e non storico: si tratta dunque di
delimitare una concezione speculativa dell’uomo che prenda chiara posizione di
fronte ai differenti motivi speculativi nei quali si rispecchia la nostra
attuale coscienza filosofica. Che significato speculativo può oggi avere un
umanesimo?”307. Indagare questo significato speculativo dell’umano, al di là
della polisemia che inevitabilmente lo connota, per Grassi significa affrontare
il problema della reinterpretazione antitradizionale della filosofia umanistica
nella convinzione che la filosofia umanistica abbia costituito il fulcro e la
svolta del pensiero filosofico occidentale, la vera “rivoluzione
copernicana”308. Il compito di questo progetto neoumanistico che già dalla metà
degli anni Venti emerge – a partire dal saggio su Machiavelli analizzato in
precedenza – per rifluire nelle riflessioni filosofiche successive, si articola
come ricerca dell’unità di senso della realtà, come compito preliminare nel
processo di determinazione di una teoria dell’uomo che !E. Grassi, Potenza
della fantasia, cit., p. 243 e sgg.! 307 Id., Il tempo umano. L’umanesimo
contro la techne, cit., pp. 202-206. I corsivi sono nostri. 308 Id., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 261, “Il rovesciamento
della filosofia, la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con
Descartes né con Kant, ma con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che
derivano dalla nuova valutazione della fantasia, dell’ingenium, della
preminenza dell’immagine, possono essere discusse solo sulla base di
un’ulteriore ricerca sull’essenza della tradizione umanistica italiana”.
! 105! mantenga l’originaria integrità e unità delle sue strutture
fondamentali. Negli stessi anni in cui i maggiori esponenti dell’antropologia
filosofica del Novecento – Scheler309, Plessner310, Gehlen311 – Max Scheler in La posizione dell’uomo nel
cosmo esprime l’idea di uomo attraverso una ricerca antropologica come scienza
fondamentale dell’essenza e delle strutture essenziali dell’uomo. Esplorare la
dimensione umana e la sua posizione nel cosmo comporta un confronto con le
dimensioni della spiritualità del conoscere, dell’amare, del volere. Per
Scheler l’indagine sull’uomo della nuova antropologia prende le mosse da ciò
che è esterno all’uomo per poi indagare e definire la sua essenza: “è compito
di un’antropologia filosofica mostrare esattamente in che modo scaturiscano
dalla struttura fondamentale dell’uomo, tutti i monopoli, le funzioni e le
opere specificamente umani: come la lingua, la coscienza morale, lo strumento,
l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo Stato, l’azione di guida, le
funzioni espressive delle arti, il mito, la religione, la scienza, la
storicità, la socialità”, M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura
di M. T. Pansera, Roma 1999, p. 186. Scheler analizza l’impulso affettivo
“privo di coscienza, di sensazione e rappresentazione” che è presente nelle
piante e nei gradi più bassi del mondo organico; l’istinto che è un
comportamento teleologico; la memoria associativa il cui fondamento è il
processo del riflesso condizionato, basato sul principio del successo e
dell’errore per cui l’animale compie movimenti di prova in maniera spontanea
ripetendo solo quelli utili; infine l’intelligenza pratica caratterizzante la
facoltà di libera scelta dell’uomo. Il fattore discriminante fondamentale tra
l’uomo e il resto del mondo è costituito dal concetto di spirito, il Geist che
rappresenta la possibilità dell’essere aperto al mondo da parte dell’uomo e lo
svincolarsi dal legame con quanto è organico: “la caratteristica principale di
un essere spirituale consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è
organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della
sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con
quanto è organico, dal legame con la vita [...] un essere spirituale non più
legato alla tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo”,
ivi, p. 144. 310 Per Plessner occorre partire dal concetto di vita che
costituisce la “parola chiave di un’intera epoca”, H. Plessner, I gradi
dell’organico, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp.
27-28. All’interno della impostazione plessneriana l’uomo è contraddistinto
dalla sua posizione eccentrica: l’eccentricità è la disposizione dell’uomo
rispetto al mondo nei confronti del quale si trova de-situato. Plessner, a
conclusione di I gradi dell’organico. Introduzione all’antropologia filosofica,
passa in rassegna tre leggi antropologiche fondamentali: la legge
dell’artificialità naturale secondo cui l’uomo non vive in modo rassicurante
nel suo ambiente immediato ma in modo artificiale, costruendo a partire da una
natura una cultura; la legge dell’immediatezza mediata secondo cui l’uomo si
appropria di ciò che gli è dato in precedenza in modo immediato attraverso
forme di mediazioni quali invenzioni, scoperte, conoscenze; la legge del luogo
utopico che afferma che l’uomo prende le distanze dall’immediatezza e volge il
suo sguardo verso un fondamento assoluto del mondo che in sé non ha alcun
fondamento. Egli afferma che “la sua forma eccentrica spinge l’uomo al
perfezionamento, stimola bisogni che possono essere soddisfatti soltanto
mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme imprime loro il marchio
della caducità”, ivi, p. 363. 311 Arnold Gehlen si pone sulla linea di ricerca
scheleriana elaborando una idea di uomo nell’opera L’uomo. La sua natura e il
suo posto nel mondo, partendo dai risultati multidisciplinari delle scienze
positive. L’antropologia “elementare” gehleniana, partendo dagli aspetti più
semplici che accomunano l’essere umano all’animale sottolinea allo stesso tempo
la specificità dell’umano che consiste paradossalmente nella sua
indeterminatezza costitutiva: se gli altri viventi sono contraddistinti da un
indice di specializzazione alto come testimoniato dallo sviluppo della
percezione e dall’istinto l’uomo presenta una indigenza che però stimola
latenze di potenzialità più alte, superiori, che rendono l’uomo autodeterminabile
proprio perché indeterminato. Per Gehlen prima di tutto l’uomo è l’essere
determinato all’azione: l’azione sarà il tema chiave per poter comprendere un
essere che agisce sulla natura per trasformarla al fine di assicurare la sua
sopravvivenza. L’uomo è poi distinto dall’animale per una serie di
caratteristiche: la “primitività” del suo corredo organico e istintuale; la sua
“incompiutezza”; la sua “non-specializzazione” organica. Già Herder aveva
tracciato una distinzione tra l’uomo e l’animale che guardava all’uomo come ad
un “essere biologicamente carente”, un “essere manchevole”, un essere privo
persino di un ambiente proprio (Umwelt). Per Gehlen “la “deficienza organica” e
le peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò considerate alla luce dell’idea
cardine della “non-specializzazione”: [...] primitivo è = non specializzato =
originario, o in senso ontogenetico (embrionale) o in quello filogenetico
(arcaico). Per specializzazione è da intendersi la perdita della pienezza delle
possibilità esistenti in un organo non specializzato, a vantaggio del grande
sviluppo di alcune di queste possibilità a spese di altre, cfr., A. Gehlen,
L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010, pp.
127-128. Accettando il paradigma interpretativo della carenza si pone il
problema di coniugare questa non specializzazione umana con il suo esser
collocata all’interno di una catena biologica evolutiva. La dotazione organica
non specializzata dell’uomo e i suoi primitivismi rendono problematica la sua
esistenza che solo grazie all’azione e alla costitutiva apertura al mondo
continua e progredisce. Categoria fondamentale all’interno ! 106!
elaborano le note teorie sull’uomo, Grassi, forte della sua formazione
culturale a metà strada tra filosofia italiana, filosofia tedesca e francese,
sente l’esigenza di indicare l’insufficienza sia di un approccio scientifico
all’uomo sia i limiti di una impostazione speculativa classica mediata
soprattutto dalle letture heideggeriane di cui abbiamo già detto. Attraverso
l’analisi delle teorie degli esponenti dell’antropologia gehleniana è quella
dell’esonero Entlastung che indica la capacità umana di distaccarsi dagli oneri
del mondo esterno. L’esonero costituisce il primo atto per spezzare il cerchio
dell’immediatezza e per liberarsi dalla pressione dell’hic et nunc: l’uomo deve
allontanarsi dalla pressione dell’immediato interponendo tra lui e il mondo una
distanza sempre maggiore, solo in questo modo può trasformare l’Umwelt,
l’ambiente, in un mondo abitabile, la Welt. ! 107! della biologia
teoretica quali Driesch312, Plessner313, Jacob Von Uexküll314 e Gehlen315,
Grassi cerca di porre in luce gli aspetti negativi che derivano dalla
confusione del “contributo delle scienze con quello della filosofia”316 .
Accogliendo la critica crociana alla perdita di autonomia del filosofo che 312
Hans Driesch (1867-1941) fu un biologo e filosofo tedesco. Egli lavorò a Napoli
presso la stazione zoologica dal 1891 al 1900 e successivamente insegnò a
Heidelberg tra il 1909 e il 1920 Filosofia della natura, in seguito anche a
Colonia e Lipsia. Fu convinto assertore del vitalismo contro la teoria
meccanicistica di matrice darwiniana. Il suo pensiero è diretto verso la
valorizzazione del finalismo della natura e verso il riconoscimento
dell’importanza dell’entelechia, concetto ripreso da Aristotele, interpretata
come principio immanente superindividuale. Tra le opere più importanti
ricordiamo Storia del vitalismo (1905), Filosofia dell’organismo (1909), Corpo
e anima (1916), Il problema della libertà (1917), Metafisica (1924). Di Driesch
Grassi mette in luce il neo-vitalismo presente nelle osservazioni sulla vita
organica e l’importanza del concetto di entelechia esposto dal Driesch in
Philosophie des Organischen. Grassi, in Empirismo e naturalismo nella filosofia
tedesca contemporanea, sostiene che “in molti ambienti la filosofia rimane
concepita sul fondamento delle scienze, cioè sintesi e classificazione di
fatti, ed è perciò stesso incapace di raggiungere in questa forma un reale
valore conoscitivo e metafisico. L’influenza di concezioni simili si scorge
oggi in tutta quella corrente speculativa della filosofia tedesca contemporanea
che ha vivo l’ideale empiristico di una scienza naturale elaborata in
filosofia, filosofia della natura, che in realtà non diventa che un prospetto
empirico di scienze naturali e di arbitrarie ipotesi naturalistiche.
Appartengono a questa corrente di idee il Driesch, o zoologi come il Plessner –
che con osservazioni scientifiche e biologiche tentano di raggiungere una
costruzione metafisica [...] nella sua Philosophie des Organischen a mezzo
dell’analisi dello sviluppo delle forme dell’organismo e mettendo in luce con
osservazioni biologiche l’originalità della vita organica, egli giunge ad una
concezione neovitalistica. Le sue osservazioni biologiche, la sua teoria dei
sistemi equipotenziali, assumono un’importanza scientifica ed egli concluse che
accanto ai fattori fisici e chimici, per spiegare un organismo, è necessario
ammettere un nuovo fattore, che egli chiama entelechia”, in Id., I primi
scritti, cit., pp. 165- 166. Cfr., anche Linee di filosofia tedesca
contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., pp. 299-332, in particolare il
primo paragrafo dedicato a Driesch, pp. 299-305. 313 Di Plessner Grassi
evidenzia i limiti strutturali che l’approccio scientifico all’umano
inevitabilmente porta con sé. Egli afferma che “una concezione di una filosofia
fondata sulla scienza la troviamo anche in altri pensatori come Plessner,
scolaro di Driesch e originariamente zoologo, autore di Die Einheit der Sinne.
Grundlinien einer Aistesiologie des Geistes e più recentemente di un altro
volume Die Stufen des Organischen un der Mensch. Einleitung in die
philosophische Antropologie, volumi ai quali l’acuta raccolta di fatti e le
osservazioni scientifiche conferiscono pregio, ma che non raggiungono una
concezione speculativa. Una antropologia non diventa speculazione e
affermazione filosofica se non si nega ogni aspetto ontologico ai gradini della
realtà naturale, rifiutando di considerarli come assolute gerarchie del reale e
risolvendoli nella nuova affermazione della realtà come atto dello spirito,
ivi, p. 168. In questo passo emerge la convinzione grassiana – di evidente
ascendenza gentiliana – del limite strutturale delle coeve antropologie
filosofiche che per diventare autentiche meditazioni sull’uomo devono
collocarsi su uno sfondo filosofico che indaghi la realtà a partire dall’idea
di atto e non di dato. 314 Grassi richiama l’attenzione sul concetto uexkülliano
di cerchio funzionale simbolico e fa riferimento alle sue teorie sia nel saggio
Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (cit., p. 205) sia più
diffusamente in La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in Actas del
Primer Congreso Nacional de Filosofia, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos
Aires, 1950, Tomo III; in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
cit., pp. 62-66 e 151-152; infine in Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica, cit., pp. 181-182. 315 Cfr., Id., La potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., pp. 67-69. Grassi sottolinea la connessione
istituita da Gehlen tra apertura di mondo e cultura. 316 Id., Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger, In Id., I primi scritti, cit., p. 204. !
108! si è messo a servizio della scienza espressa in Logica317
Grassi asserisce che la concezione bio- metafisica su cui l’empirismo si basa
“si traveste oggi assumendo nuove forme in veste anti- positivistica”318.
L’empirismo va messo da parte, così come gli altri modi di accedere all’umano
che la coeva filosofia tedesca aveva prodotto, poiché non supera “gli schemi
del procedere naturalistico”319 che si avviluppa in “pseudo-concetti che sulle
generalità scientifiche vorrebbero fondare distinzioni filosofiche”320. Il
riferimento polemico è alle correnti neokantiane, allo storicismo diltheyano,
alla fenomenologia husserliana321 incapaci di elevarsi a quella metafisica
esistenziale che solo Heidegger ha portato ad espressione. A questo punto
appare indispensabile soffermarsi, seppur brevemente, sulle figure di Dilthey e
Husserl, la cui conoscenza costituisce una tappa importante per la comprensione
dell’atteggiamento speculativo grassiano. In Il problema della metafisica
immanente di M. Heidegger Grassi mette insieme storicismo, fenomenologia,
metafisica esistenziale e attualismo. Egli afferma che il filosofo di Messkirch
“presenta una speculazione metafisica originale, inverando il tentativo di due
pensatori, l’Husserl e il Dilthey, che alla fine del sec. XIX e al principio
del XX iniziarono il primo tentativo di liberazione dall’empirismo”322. In che
senso si parla di inveramento delle filosofie di Dilthey e Husserl nella
metafisica immanente di Heidegger e come quest’ultima a sua volta radicalizza
l’attualismo323? B. Croce, Logica,
Laterza, Bari 1920, p. 264: “perché quando non si tratta d’altro che di
classificare e di sistemare quei risultati, lo scienziato sente a ragione di
non aver bisogno del soccorso dei filosofi”. 318!E. Grassi, Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 205.! 319!Ibidem. 320 Ibidem.
321 Cfr. sulla critica a neokantismo, storicismo e fenomenologia gli articoli
di indole informativa generale che seguono: Id., Empirismo e naturalismo nella
filosofia tedesca contemporanea, cit., e Id., Sviluppo e significato della
scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi
scritti, cit., 181-202. 322 Id., Il problema della metafisica immanente di M.
Heidegger, cit., p. 209. Cfr., anche le pagine grassiane su Heidegger del
saggio Was ist Existentialismus?, pp. 75-124, in N. Abbagnano, Philosophie des
menschlichen Konflikts. Eine Einführung in den Existentialismus, Rowohlt,
Hamburg 1957, soprattutto pp. 91-97 e 106-114. 323 Già nel saggio del 1929
Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea (in Id., Primi scritti, cit., pp. 181-202) Grassi, sviluppando in
forma più articolata le poche battute su Heidegger contenute in Empirismo e
naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (p. 174), afferma
quell’identità di problemi tra attualismo ! 109! La “meditazione
diltheyana” di Grassi si focalizza soprattutto sui concetti di
Lebenzusammenhang, di Weltanschauung e di psicologia324. Secondo il pensatore
milanese Dilthey fu il primo a intravedere il problema della realtà e della
storia come problema della realtà vivente, rivendicando l’importanza dei sui
scritti speculativi e tralasciando quella dei testi a carattere maggiormente
storico325. In Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea
(1929) leggiamo che il problema dal quale muove Dilthey, quello della
distinzione tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, di scarsa
importanza in sé rileva Grassi, va ricondotto alla più generale operazione
teoretica di ricerca intorno al fondamento spirituale delle scienze dello
spirito individuato in “una scienza di carattere psicologico. Gli elementi del
mondo storico sono gli individui, quindi lo studio di essi e la descrizione dei
vari tipi di vita spirituale diventa la base della comprensione storica [...]
l’esame della struttura della vita dello spirito cerca di conquistare nella
molteplicità di situazioni coesistenti la sua caratteristica unità”326. La
psicologia diltheyana per Grassi ha il merito di ricondurre ogni concreta
realtà storica alla concatenazione vitale dell’atto di coscienza in cui si
realizza il rapporto tra io e mondo. Tuttavia il e ontologia immanentistica
heideggeriana che in Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger del
1930 troverà una articolazione teoretica più approfondita. Infatti, in Sviluppo
e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea
leggiamo che “Heidegger realizzò una delle più importanti speculazioni
metafisiche immanentistiche ed una delle più rigorose critiche del tentativo di
Husserl. L’interpretazione e o sviluppo attualistico del pensiero
fenomenologico assume un significato storico e teoretico tutto particolare”, p.
198. 324 Per una analisi dettagliata di questi temi diltheyani rimando alle
osservazioni di G. Cacciatore in Scienza e filosofia in Dilthey, 2 Voll.,
Guida, Napoli 1976; Id., Dilthey: connessione psichica e connessione storica,
pp. 211-223, in AA. VV, Una logica per la psicologia, Il Poligrafo, Padova 2003;
Id., Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come relazione fondante di
conoscere e fare, pp. 17-58, In Id., Storicismo problematico e metodo critico,
Guida, Napoli 1993; cfr., ivi anche Id., Spirito oggettivo e oggettivazione
della vita: Dilthey e Hegel, pp. 105-125; Id., La tipologia delle visioni del
mondo tra critica storica della ragione ed essenza della filosofia, pp.
153-172; Id., Il fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e Husserl, pp.
249-287; Id., Ortega y Gasset e Dilthey, pp. 289-318; Id., Vita e storia tra
Zubiri e Dilthey, pp. 177-187, in Id., Saggi di filosofia spagnola. Saggi e
ricerche, Il Mulino, Bologna 2013; Id., Dilthey tra universalismo e
relativismo, pp. 213-230, in Id., Dallo storicismo allo storicismo, ETS, Pisa
2015. 325 “Durante la sua vita i suoi sforzi teoretici passarono quasi
inosservati e anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1911, Dilthey rimase per
alcuni anni completamente dimenticato come filosofo, mentre i suoi lavori
storici venivano molto apprezzati [...] i primi suoi lavori sono tra i più
notevoli della storia e della filosofia dei suoi tempi: l’acutezza delle
indagini, la facoltà ricostruttiva di un’epoca o di una personalità danno ai
suoi saggi grandissimo valore e molti lo considerano come il più grande
“Geistesgeschichtsschreiber” dopo Hegel [...] ma l’importanza e l’interesse che
Dilthey desta in seno alla filosofia tedesca – per cui dobbiamo fermarci in
modo particolare sulla sua figura – è dato non dai suoi lavori storici, ma dai
suoi scritti di carattere speculativo e polemico”, E. Grassi, Empirismo e
naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 171-172. 326 Ivi,
pp. 172-173. ! 110! passaggio auspicato dal pensatore milanese da
una “teoria dell’atto di comprensione” ad una “metafisica immanente” rimane
incompiuto nel filosofo tedesco che “non giunse alla chiara coscienza che una
volta riconosciuto il tratto fondamentale del reale nell’atto completo di
comprensione, se ne coglie al tempo stesso il carattere assoluto che impedisce
ogni relativismo”327. Così per il filosofo italiano Dilthey ricade
nell’astrattismo di una “tipologia che prese il posto della filosofia”328, la
quale riduce la fondamentale categoria della Lebenzusammenhang a forme
astratte, a classi e tipi e al relativismo329. Se le riflessioni su Dilthey
pongono in luce l’attenzione verso l’esistenza concreta e le strutture
psicologiche che soggiacciono alla costruzione del mondo storico umano, quelle
su Husserl mettono in risalto il tentativo di riconquistare il rigore alla
filosofia – il progetto di una filosofia come scienza rigorosa – un rigore
metodologico, che invera “la psicologia fenomenale di F. Brentano”330. In Linee
della filosofia tedesca contemporanea Grassi sostiene che “la meta di Husserl
fu la conquista di un fondamento assoluto e universale su cui costruire con
sicurezza la ricerca filosofica [...] egli scorse con chiarezza l’impossibilità
di fondare la filosofia sulle scienze”331. Una critica radicale in questo senso
è costituita dalle Ricerche logiche che tentano di “raggiungere il concetto
della logica, della filosofia come scienza a priori, libera da ogni
empirismo”332. Per il filosofo milanese, Husserl individua il fondamento del
reale attraverso la riduzione fenomenologica, la quale, sospendendo ogni Ivi, p. 174. 328 Ibidem. 329 Cfr. sulla
critica grassiana al concetto di tipologia anche, E. Grassi, Linee della
filosofia tedesca contemporanea (1933), pp. 299-332 in Id., I primi scritti,
cit., soprattutto le pp. 307-311 e ivi Il problema del nulla nella filosofia di
M. Heidegger, cit., soprattutto pp. 420-421. 330 Cfr., Id., Sviluppo e
significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea,
pp. 181-202, in Id., I primi scritti, cit., p. 182. 331 Id., Linee della
filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 313-314. 332 Ibidem. !
111! giudizio di esistenza333 – epochè –, guadagna una certezza
indubitabile: “il mondo della coscienza pura coi suoi vari momenti e
significati [...]. Non c’è più il mondo dommaticamente affermato e poi la sua
rappresentazione, ma solo l’immediato essere del mondo come oggetto ideale
della nostra coscienza”334. Questo mondo trascendentale è il Vorurteil, il
quale condiziona ogni nostro giudizio di esistenza e rende possibile quella
scienza fenomenologica che coniuga la ricerca sulle proposizioni formali della
logica con i temi etici ed estetici. Il cuore della fenomenologia è colto da
Grassi nell’andare zu den Sachen selbst tramite la Wesenschauung. Infatti,
sempre in Linee della filosofia tedesca contemporanea, il filosofo sottolinea
come la fenomenologia non sia una metafisica ma “un metodo a mezzo del quale si
isolano degli elementi assoluti, trascendentali, coi quali ciascuno può e deve
costruirsi con rigore scientifico un concetto della realtà [...] le essenze
logiche non possono venirci dimostrate, ma possono solo mostrarsi per se stesse
a mezzo della loro evidenza, chiarezza e distinzione, immediatezza ultima. La
fenomenologia non vuole essere una costruzione, ma semplicemente un esame
intuitivo, uno “schauen” dei concetti [...] coglie così l’essenza delle cose e
pretende di andare direttamente zu den Sachen selbst”335. I concetti
husserliani su cui egli si sofferma maggiormente sono quelli di epochè,
riduzione fenomenologica, Vorurteil, evidenza336. L’analisi di questi temi, da
un lato, sottolinea l’importanza e la fecondità speculativa della fenomenologia
husserliana – poiché seppe con maggior forza contrapporsi all’empirismo e al
naturalismo rispetto allo storicismo diltheyano337 – ma, dall’altro, Grassi riesce a cogliere in poche battute
tutto il senso della riflessione husserliana: “se noi ci manteniamo in un
fondamentale e metodico atteggiamento critico rispetto al reale e cerchiamo di
raggiungere un ultimo fondamento sul quale non sia più possibile esercitare il
nostro dubbio, (e che come tale costituisce la base sicura su cui poggiare ogni
altra affermazione o costruzione), giungiamo al riconoscimento del carattere
trascendentale, assoluto, del pensiero in quanto puro pensato. Sospendendo ogni
giudizio di esistenza, (!)$+,), ci troviamo infatti di fronte ad un mondo di
molteplici significati ideali che hanno un senso solo in quanto sono dati così
o così nella nostra coscienza. Il mondo del pensato come pensato, dell’inteso
come inteso, è l’elemento ed il residuo ultimo su cui non si può più esercitare
il nostro dubbio, come già aveva intravisto Cartesio”, ibidem. 334 Ivi, p. 315.
335 Ivi, p. 316 336 Cfr., V. Costa- E. Franzini- P. Spinicci, La fenomenologia,
Einaudi, Torino 2002. 337 “La posizione di Husserl, come abbiamo visto, è
caratterizzata da una chiara coscienza delle necessità di pensare gli
universali nella loro purezza, sciogliendoli dalle contingenze sociali,
storiche, psicologiche. Sotto questo aspetto il suo ! 112! getta luce
sui limiti intrinseci di ciò che Grassi definisce “positivismo razionalistico”.
La fenomenologia è un positivismo razionalistico poiché riduce il “dato
empirico al suo significato logico razionale, sostituendo al dato di fatto
dell’empirismo il dato del mondo razionale”338. Da qui la definizione di
positivismo razionalistico”339. Sia Dilthey che Husserl – i maggiori esponenti
della filosofia tedesca coeva secondo Grassi – non hanno declinato queste
ricerche in direzione di una metafisica dell’essere come “concreto sviluppo
storico, processo di autorealizzazione immanente”340. Questo inveramento si ha
con Heidegger la cui originalità storica è ricondotta all’interno
dell’orizzonte metafisico e non solo fenomenologico. In Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger Grassi afferma che nel lavoro del
pensatore di Messkirch “confluiscono così in un fecondo superamento gli sforzi
di Husserl e Dilthey: la medesima analisi del Dasein come fondamentale atto di
rapporto e il suo dettagliato sviluppo seguito piano per piano, attraverso le
varie forme di esistenza, non è che un riprendere il tentativo di Dilthey [...]
la ricerca del significato d’essere attraverso la concreta analisi del Dasein è
sufficiente a mostrare un nuovo orientamento della sua fenomenologia”341 che
non ha una componente intuizionistica – sia essa intesa come l’intuizione
eidetica husserliana o nel senso generale irrazionalistico e vitalistico –, ma
si pone come ricerca della concreta storicità dell’esistente: la fenomenologia
diviene Hermeneutik der Faktizität. Solo sulla base di un’analitica
dell’esistenza è possibile porre la questione ontologica e fenomenologica –
dove per fenomenologia dobbiamo intendere l’analisi di stampo hegeliano dei
vari momenti e sviluppi della realtà storica. Grassi afferma che il pensiero di
Heidegger assume una particolare rilevanza per quanto riguarda il problema
metafisico mostrando una certa affinità con i pensiero segnò un momento
fondamentale in seno alla filosofia tedesca contemporanea contrapponendosi con
maggiore chiarezza di Dilthey all’empirismo ed al naturalismo nelle sue più
varie forme”, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p.
323. Cfr., anche le pagine dedicate a Husserl in E. Grassi, Was ist
Existentialismus?, cit., soprattutto le pp. 80-91. 338!Id., Linee della
filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323.! 339 Ibidem. 340Id., Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 341 Ivi, p.
223. ! 113! temi dell’attualismo. Il filosofo italiano sostiene in
Il problema della metafisica immanente che “pur essendo nato da problemi e
posizioni speculative completamente lontane dalle premesse del pensiero
immanentistico italiano esso giunge a delle conclusioni che rivelano
un’aspirazione metafisica”342. Il significato e l’importanza di quella
originaria “attualità esistenziale – per cui l’essere si dà precedentemente a
qualsiasi riflessione – il suo superamento ed inveramento della logica astratta
nella logica concreta, e a sua volta la posizione che questa logica concreta ha
in seno ad una metafisica esistenziale” 343 ha un’importanza tutta particolare
per Grassi ed implica una serie di problemi decisivi: proprio in relazione alla
questione della metafisica esistenziale “comincia a delinearsi la precisa
posizione di Heidegger rispetto all’idealismo hegeliano e all’attualismo
idealistico di Gentile”344. Sullo sfondo di quanto appena detto, possiamo
comprendere come nelle analisi grassiane degli anni Trenta siano molto vivi i
temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati a quelli
dell’evidenza del fondamento e della ricerca delle strutture esistenziali umane
che si modulano come indagine sui rapporti tra la filosofia attualistica di
Gentile e la metafisica immanente di Heidegger. La coappartenenza di queste
problematiche mette in luce una triplice costituzione del pensiero grassiano:
ontologica, antropologica, logica. Come tenteremo di esporre nel corso della
trattazione, il pensiero di Grassi si configura come riflessione ontologica
perché si muove nell’orizzonte dell’essere e della ricerca del suo senso:
l’essere è inteso alla luce della differenza ontologica (concetto mutuato da
Heidegger) come manifestatività e allo stesso tempo trascendenza, per cui il
piano ontologico che si manifesta in quello ontico – l’ente come ciò che appare
nella sua differenza dall’essere – si sottrae all’orizzonte di pura luminosità
dell’apparire proprio nel suo differire. Attraverso la lezione heideggeriana
Grassi coniuga il problema Ivi, pp.
226-227. 343!Ibidem.! 344 Ibidem. ! 114! della trascendenza, così
vivo nella sua formazione iniziale, con quello dell’immanenza presente nella
fase gentiliana della sua riflessione. La centralità di questi temi, in cui
immanenza e trascendenza si co-appartengono, permane anche nelle riflessioni
sulla Lichtung caratterizzanti gli scritti successivi, dove la Lichtung altro
non è che la parola che dice del costitutivo rimandare l’una all’altra di
immanenza e trascendenza, di piano ontico e ontologico. In Heidegger e il problema
dell’umanesimo, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere
l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, il filosofo afferma che
“gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella
riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei
problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto
originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo
mondo”345. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come
una forma più o meno larvata di antropologia tout court, è la
problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema del contesto
originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come
ricerca delle strutture del mondo umano. In questa ricerca grassiana, accanto
all’attenzione all’ambito ontologico, lasciatogli in eredità da Heidegger,
ritroviamo una centralità della dimensione ontica – le concrete Lichtungen –
che dal suo maestro degli “anni mitici” sembra essere stata accantonata a
favore di una concentrazione più sugli aspetti di oblio dell’essere della
filosofia occidentale che non su quelli in cui l’essere si dà in maniera
autentica: se in Heidegger a dominare è l’idea dell’oblio dell’essere, in
Grassi riscontriamo il tentativo di ricostruire una storia dell’evento
autentico dell’essere – da qui l’indagine storico-filosofica sui temi
umanistici. La riflessione di Grassi è poi antropologica perché attenta
all’orizzonte umano a partire dal quale si pone la domanda sul senso
dell’essere: l’universo linguistico e artistico del mondo umano in cui accade
la verità dell’essere. In Heidegger e il problema dell’umanesimo leggiamo che
l’analisi del Id., Heidegger e il
problema dell’umanesimo, cit., p. 26. I corsivi sono nostri. ! 115!
contesto originario si declina innanzitutto come ricerca linguistica: “la
cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi
problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel
pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica
tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del
linguaggio [...] il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale
del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada
l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res)
rivela il suo significato”346. Con l’umanesimo, secondo il filosofo, non ci si
interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero,
ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione
fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e
non una sua prigione. Grassi, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza
tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta
ad ente – e per il pensatore occorre abbandonare l’idea di una metafisica
astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i
predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il
perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, al
contrario, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della
res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite
e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non
esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle
[...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso
l’azione umana”347. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si
rivela nell’azione, nella e con la praxis”348. Infatti, per il pensatore
milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra
l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Il senso
classico dell’ontologia come logos intorno all’on si tramuta in Grassi in
ricerca dell’unità di logos e on, come discorso sul nesso ontologico. La
delucidazione del nesso logos-on o, per usare i termini Ibidem. I corsivi sono nostri. 347 Id.,
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 80. 348
Ibidem. ! 116! grassiani, della correlazione di verbum e res,
induce il filosofo ad approfondire i temi della retorica, della metafora, della
fantasia e dell’ingegno, i quali mettono in luce come l’ontologia grassiana sia
un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione
nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi, scorci, campi, forme
dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico: poiché il metapherein – la
trasposizione – è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della
realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il
reale. La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice
rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere.
Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, ossia in Il
dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura
fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per
identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità
intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”349 in cui possiamo
cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del
significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni
indicativi”350 provenienti dal “colloquio con l’abissale che urge, che per
pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa
spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo
l’indeterminato”351. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una
momentanea radura (Lichtung)”352 che mette in campo una riforma della filosofia
non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca l’importanza
dell’esperienza storica”353. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo
di superare le falle dell’hòros, del concetto, che è incapace di dire la natura
temporale e metamorfica degli enti che si esprimono nei sempre diversi
significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti,
per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di
un’indicazione, da qui 349 Id., Il dramma
della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica,
Napoli 1992, p. 165. 350 Ivi, p. 14. 351 Ibidem. 352 Ibidem. I corsivi sono
nostri. 353 Ivi, p. 15. ! 117! la preminenza della semantica
rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, su cui ci soffermeremo nell’ultimo capitolo. Egli asserisce che
“l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein),
poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”354;
essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che
appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il
linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio
primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva.
Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che
non è il risultato di un chiarimento”355, abbiamo il logos ermeneutico, quello
dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Ritornando
al nesso metafora-concetto Grassi afferma che a quest’ultimo “spetta come
compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo
fondamento universale. Il significato di hòros può essere colto nella sua
portata originaria soltanto mediante il verbo orìzo (determino) che sta alla
base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io
vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione (horismòs)
esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in
questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il
singolo”356, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto
scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora,
non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”357, grazie
alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e
dunque sull’essenza dell’uomo”358, si affiancano nella filosofia grassiana la
fantasia e l’ingegno identificati con il nous aristotelico interpretato alla
stregua di “unica espressione delle archai nel loro 354Id., La potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 355 Ibidem. 356Id., Potenza della
fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 357Id.,
Significare arcaico, in Archivio di filosofia, Roma 1966, pp. 479-495, p. 494.
358Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit.,
p. 202. ! 118! carattere palesante e immediatamente indicativo”359,
profondamente influenzate dall’analisi heideggeriana della Einbildungkraft
kantiana come “facoltà di darsi le vedute”360. Del resto, sebbene Grassi non
citi nella sua analisi più sistematica della fantasia, ossia nel testo La
potenza della fantasia, la teoria kantiana della Einbildungskraft, egli
conosceva benissimo la lettura offerta da Heidegger della facoltà di
immaginazione kantiana, come emerge dalla citazione di Kant e il problema della
metafisica definito in uno dei primi saggi come il lavoro che più “sembra atto
ad introdurre nel suo pensiero chi non ha famigliarità con la sua
terminologia”361. Possiamo ipotizzare che il mancato riferimento alla teoria
kantiana da parte di Grassi sia dovuto a un’interpretazione del kantismo
sostanzialmente mediata dal filtro neokantiano su cui Grassi si sofferma a più
riprese soprattutto nei primi lavori stesi durante il soggiorno tedesco362. Tra
i neokantiani, dei quali non può che criticare l’impostazione matematizzante,
intellettualistica ed astratta, Grassi riconosce l’importanza di Cassirer che
“ha [...] il merito di essere il più importante storico della filosofia che
questa scuola abbia dato”.363 Oltre al tema linguistico, nell’analisi del mondo
umano, emergono i concetti di disancoramento e angoscia, dalla temporalità
cairologica come struttura di temporalizzazione fondamentale dell’esserci in
cui i tre momenti del tempo si co-appartengono e rendono possibile il
raggiungimento del secondo livello di oggettività: quello della coscienza
temporale umanistica (l’oggettività di primo livello è quella della physis in
quanto diastema), in cui gioca un ruolo fondamentale la decisione come
espressione della storicità del mondo umano e della sua formazione (Bildung),
che in questo modo 359Id., Significare
arcaico, cit., p. 494. 360 Cfr., M. Heidegger, Kant e il problema della
metafisica, Laterza, Roma- Bari, 2004. 361 Cfr., E. Grassi, Heidegger e il
problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 362 Cfr., le
riflessioni sul “ritorno a Kant” contenute in Empirismo e naturalismo nella
filosofia tedesca contemporanea, cit., soprattutto pp. 164-165; Id., Linee
della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 301-302. 363 Ivi, p.
165. ! 119! acquista un carattere esistenziale. Infatti “esistere
significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e
con il mondo, senza evitare la decisione richiesta”364. Sul terreno ontologico
dinamico in cui il discorso sull’essere è imprescindibile da un discorso sulle
forme dell’apparire dell’essere – fenomenologia – e sul suo senso
nell’orizzonte umano di esistenza – semantica – si comprende la critica
grassiana alla struttura soggettocentrica e logicista della filosofia. Per il
filosofo “si manifesta sempre la preminenza dell’urgere della passionalità, in
quanto continuamente affiora nell’ambito della contraddizione logica
dell’esperienza che l’essere non si rivela mai completamente nel divenire degli
istanti. È in questo divenire del metaforico traslarsi del reale che viene
passionalmente vissuta la contraddittorietà della logica astratta. Questo ritmo
arcaico del palesarsi e dell’occultarsi non cessa mai, è esso che ordina – nei
limiti di storiche, differenti radure – che appaiono in istanti – i tumulti che
incombono”365. Solo attraverso un’esperienza originaria della filosofia secondo
il pensatore – esperienza preclusa alla logica astratta che è solo un
determinato atteggiamento filosofico e non l’unico – è possibile erigere mura
per difenderci dal “vento del tempo che distrugge la stessa temporalità”366. La
filosofia di Grassi tuttavia non va interpretata come una forma illogica di
irrazionalismo. Anzi ciò che, a nostro avviso, va sottolineato è il valore
logico della sua ricerca che tenta di proporre un concetto complesso di logos
che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza
costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza.
Sorretta da una simile struttura onto-antropo-logica, la ricerca grassiana mira
a sondare “la legittimità di tutti quegli pseudo-umanesimi che credono di poter
dedurre secondo i canoni delle scienze naturali la realtà dell’uomo”.367 La
messa in discussione dell’impostazione scientifico- naturale del problema
dell’uomo avviene attraverso alcuni concetti fondamentali: disancoramento e
oggettività, angoscia e nulla che, come vedremo, sono strettamente connessi a
quelli di logos, pathos 364Id., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. 365Id., Il dramma
della metafora, cit., p. 15. I corsivi sono nostri. 366 Ibidem. 367 Id.,
Heidegger e il problema della metafisica, cit., p. 203. ! 120! e
manifestatività. Nelle analisi che seguono, cercheremo di ridurre ai suoi nodi
teoretici essenziali il tragitto onto-antropo-logico del pensiero grassiano.
III. II. Essere, apparire e manifestatività tra logos e pathos. La fallacia
dell’accusa di dualismo Secondo Grassi è possibile fare esperienza dell’essere
non solo attraverso il linguaggio razionale ma soprattutto tramite la
contraddizione. In La preminenza della parola metaforica egli riprende il tema
già affrontato in Heidegger e il problema dell’umanesimo e analizza il problema
dell’essere come fenomeno linguistico e espressione della contraddizione
originaria che caratterizza il mondo. Egli sostiene che “l’ambito dell’Essere –
in funzione del quale parliamo – non è quello della razionalità nel quale vige
il principio di identità ed esclusione della contraddittorietà: il suo ambito è
quello della contraddizione [...] siamo dunque obbligati a riconoscere che l’Essere
preme, si impone, urge originariamente in un linguaggio non logico”368. Il
campo in cui esperiamo l’essere come evento della contraddizione, ossia come
evento della differenza ontologica, non è quello di una logica che espelle la
contraddizione, ma quello di un logos che include anche il pathos. Occorre
soffermarci su quest’ultimo tema e farlo interagire con quello del logos per
mostrare la complessità di questi due concetti che non attestano un presunto
dualismo369 nel filosofo o una kehre370 tra un “primo Grassi”, dominato dalla
questione del logos in pieno clima
368Id., La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister
Eckhart, Novalis, Mucchi, Modena, p. 18. 369 Mi riferisco alla posizione di
Massimo Marassi del quale condivido l’interpretazione complessiva del pensiero
di Grassi e dal quale tuttavia mi allontano a proposito del tema del presunto
dualismo. Egli afferma in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine che “ancora
nei primi scritti la conoscenza concettuale, accanto a quella patetica,
costituiva una forma particolare di ordinamento della realtà che manteneva una
dignità peculiare. È invece nell’ultima produzione che emerge un’insistenza
quasi ossessiva sulla preminenza del pathos. Ma così, bisogna riconoscerlo,
Grassi non tiene fede al tentativo di superare il dualismo logos-pathos. In
effetti egli avrebbe dovuto ricercare uno sbocco unitario del problema, il solo
capace di elidere le difficoltà del dualismo. Invece è semplicemente passato
dalla preminenza della concettualità a quella del pathos, invertendo il segno
del dualismo, ma restandone prigioniero”, M. Marassi, Ernesto Grassi e
l’esperienza del fine, cit., p. 10. 370 Cfr. la posizione di Limongelli secondo
la quale il pensiero di Grassi va inteso come un vitalismo o esistenzialismo o
ontologia dell’agire storico situativo. Pur accettando parte della
ricostruzione del cammino di pensiero di Grassi – soprattutto le sezioni che
mettono in rilievo la presenza di Nietzsche e Heidegger – non condividiamo la
tesi secondo cui in Grassi è riscontrabile una svolta. Scrive Limongelli in
riferimento a Vom Vorrang des Logos che “tale scritto del Grassi ! 121!
attualistico, e un “secondo Grassi”, sensibile alla tematica
linguistico-retorica. Secondo la nostra analisi, che coniuga la disamina
storica delle opere grassiane con l’indagine teoretica sul tema onto-
antropo-logico, nel pensatore milanese il filo conduttore della ricerca si
identifica con l’analisi del mondo umano in tutte le sue manifestazioni. In
questo percorso l’esperienza filosofica, non ridotta a scienza concettuale, ma
vissuta ed esperita come metamorfosi esistenziale e impegno mondano, si
caratterizza come indagine fenomenologica sul “come” il reale e l’essere ci
appaiono nell’orizzonte umano del mondo storico. In questa ricerca più che il
dualismo a emergere è una volontà di ricomporre e non di riproporre quei
dualismi che la tradizione filosofica ha lasciato in eredità alla riflessione
novecentesca come problemi ineludibili: teoria e prassi, natura e spirito,
ragione e passione, immagine e concetto. Nella prospettiva grassiana “se si
parte dal dualismo di immagine e concetto, è impossibile trovare
successivamente un ponte tra i due [...] ora si tratta di riconoscere una
radice comune dell’attività fantastica, metaforica, e di quella razionale – una
radice che fonda in ultima analisi la realtà dell’individuo”371. La questione
grassiana di delineare uno spazio espressivo per dire l’esperienza
dell’originario, del fondamento – la Lichtung – si concretizza nella ricerca di
un’unità complessa che salvaguarda il senso del reale senza chiuderlo nelle
morse della definizione. Proprio per questo non condividiamo la prospettiva di
coloro che leggono il pensiero di Grassi come un passaggio da una preminenza
del logos a una del pathos e, quindi, riconducibile sotto il segno del
dualismo. La “questione uomo”, intrecciandosi strettamente con quella
dell’essere, non può che collocarsi su uno sfondo fenomenologico in cui le
forme dell’apparire dell’uomo e del mondo sono indagate in una sostanziale
unità, quella del reale372. L’ipotesi che muove queste pagine guarda alla
caratterizzazione rappresenta non solo
il punto di svolta nel suo pensiero, ma al tempo stesso si presenta come il
manifesto teoretico del suo progetto filosofico futuro”, S. Limongelli, Il
problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., p. 95. 371 E.
Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit.,
p. 66. 372 Sottolinea con forza questo aspetto unitario e non dualistico Rita
Messori in Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel
pensiero di Ernesto Grassi, cit. Afferma la studiosa che Grassi lega “pensiero
e passione ! 122! complessa di logos e pathos in Grassi. Ma prima
di trattare di questo argomento è necessario soffermarci sul tema dell’essere e
della manifestatività seguendo le tappe del discorso grassiano al fine di
mostrare come nella teoria ontologica, che fa da sfondo a quella del logos e
del pathos, siano da rintracciare i motivi di una inconsistenza del presunto
dualismo grassiano. III. III. Essere e apparire Secondo l’interpretazione di
Grassi l’essere si converte con l’apparire, con la manifestatività, e non va
identificato, come accade nella prospettiva oggettivistica, con un dato.
L’essere si dà solo e unicamente come processo della manifestazione e per gradi
di evidenza e forme distinte. La necessità di riformulare la questione
dell’essere è avvertita dal pensatore a partire dagli anni di confronto con
Gentile, al quale Grassi fa riferimento già nel saggio La dialettica dell’amore
(1924) in cui traspare una posizione anti-immanentista che poco dopo sarà
soppiantata dall’accoglimento della filosofia di Gentile coniugata
all’esistenzialismo heideggeriano. La dialettica dell’amore insieme al saggio
Il tragico, dell’anno precedente, pongono in luce, da un lato, la centralità
dei temi esistenziali del dolore e del tragico come contrassegni dell’esistenza
umana373 – centralità rifluita nei testi degli ultimi anni come La metafora
inaudita e Il dramma della con un duplice nodo: ciò che fa essere il pensiero è
una fondazione di tipo estetico; ciò che fa essere l’estetico è il suo fondarsi
nel logos. Tra logos e pathos vi è dunque un rapporto di reciproca
appartenenza”, ivi, p. 66. 373 In questo saggio Grassi si autodefinisce ancora
come oppositore dell’immanentismo (E. Grassi, La dialettica dell’amore, pp.
89-128, in Id., I primi scritti, cit, p. 120) e tale opposizione viene
collocata dal pensatore milanese proprio sul terreno esistenziale. La questione
del dolore in questo periodo ancora anti-immanentista gioca allora un ruolo
importante. Essa attesta da un lato l’attenzione verso la dimensione concreta
dell’esistenza che in Grassi emerge già in questi anni attraverso le letture di
autori quali Unamuno, Ibsen, Shakespeare, Eschilo, Giobbe, dall’altro un primo
confronto con l’immanentismo avvertito ancora come distante dal proprio
orizzonte speculativo. Afferma Grassi in La dialettica dell’amore: “Il dolore
assurge a un’importanza senza pari, è esso l’anima di tutto il divenire della
Realtà in quanto ci permette questo essere una personalità, ossia coscienti e
coscienza, che è l’essenza della nostra umanità in quanto in ciò si innesta la
possibilità della libertà [...]ora al moderno pensiero immanentista che afferma
la realtà, considerata come processo di coscienza, risolve ogni antinomia ed
irrazionalità, noi dobbiamo chiedere che esso risolva anche il problema del
dolore”, ivi, pp. 118-119. Il dolore si pone come nota distintiva
dell’orizzonte umano e come limite per ogni filosofia immanentista attestando
una trascendenza che ci sovrasta e che non può essere risolta
nell’autocoscienza come forma pura e sintesi delle opposizioni. !
123! metafora – tanto che Grassi giunge ad affermare che “il dolore è in
realtà l’anima di tutta la dialettica del Reale”374. Dall’altro, sottolineano
il legame ancora profondo di Grassi con il concetto di trascendenza, che andrà
dapprima sfumandosi con il saggio del 1924 su Machiavelli per poi essere
completamente sostituito nei contributi successivi dall’emergere della
questione dell’immanenza. Il mutamento di prospettiva consumatosi in questo
periodo – caratterizzato dalla presenza delle idee di Chiocchetti, da un
avvicinamento a Croce, da un primo confronto con l’attualismo, che in questa
fase appare, in modo evidente, incapace di risolvere quelle questioni
esistenziali già ricordate e di garantire uno spazio di operatività del
trascendente – è evidente se raffrontiamo due passi grassiani scritti a
distanza di pochi anni l’uno dall’altro. Leggiamo in La dialettica dell’amore
che “se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste
più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di
ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso
stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso l’unico illimitato”375.
In polemica con l’idea di un’autocoscienza come pura forma (interpretata dal
filosofo come la più grande scoperta di tutta la filosofia d’immanenza di
Giovanni Gentile) Grassi asserisce poco dopo che “in ogni modo ci teniamo però
a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del
reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale
importanza da discutere e da controbattere, che esso proprio costituisce lo
sbocco e l’affermazione alla quale tutto il pensiero moderno [...] doveva per
interna necessità logica giungere, posta la sua premessa”376. Qui il pensatore
si pone in opposizione all’attualismo gentiliano, all’immanentismo e alla
riduzione della realtà alla forma pura dell’autocoscienza, sottolineando i
limiti di una teoria che risolva il dato empirico-individuale, come quello del
dolore e del tragico, nella trasparenza del pensiero che dissolve ogni
contraddizione. Nel novembre del 1928, appena quattro anni dopo le affermazioni
appena ricordate, egli asserisce in una lettera inviata all’amico Enrico
Castelli Gattinara 374Ivi, p. 118. 375!Ivi, pp. 120.121.! 376 Ibidem. !
124! di Zubiena che la sua posizione speculativa va senz’altro ricondotta
nell’alveo dell’attualismo italiano gentiliano coniugato all’ontologia di
Heidegger, pur riconoscendo il punto di partenza cattolico della propria
formazione filosofica. Scrive Grassi all’amico: “Durante le mie peregrinazioni
germaniche nell’anno scorso ho trovato in M. Heidegger uno dei più interessanti
pensatori contemporanei [...] il mio filosofare è partito e parte da un
desiderio di ripensare il pensiero cattolico, ma siccome in campo filosofico
non valgono le intenzioni ma solo la conquista realizzata, non posso dare
quello che oggi non ho ancora [...] la mia posizione attuale è il
riconoscimento storico dell’attualismo come la forma più coerente e matura del
pensiero moderno. Attraverso lo studio dei classici spero di giungere a nuovi
orizzonti. Di qui ne consegue che anche il mio lavoro sulla filosofia tedesca è
animato da quel riconoscimento dell’attualismo italiano e concretamente
dall’ontologia immanentistica di Heidegger. Eccoti riassunta la mia
posizione”377. Abbiamo posto l’attenzione su questi due passi per far emergere
un aspetto di non secondaria importanza per una comprensione della questione
onto-antropo-logica in Grassi. Durante gli anni della formazione giovanile la
questione ontologica è contraddistinta dalla compresenza della componente della
trascendenza, della realtà del dolore e del tragico, dell’ontologia
heideggeriana e dell’attualismo gentiliano in cui la questione dell’essere,
della Realtà, dell’apparire nella molteplicità delle forme distinte si
intreccia con la dimensione umana, troppo umana dell’esistenza, tutta votata
all’interpretazione del mondo circostante, all’elaborazione di categorie
ermeneutiche che strutturano lo stesso essere del Da-Sein. Si tratta degli anni
in cui il periodo di studio presso Husserl e Heidegger dà i suoi frutti: il
problema grassiano della coniugazione di immanenza e trascendenza si incontra
con quello fenomenologico (declinato in senso heideggeriano) nel tentativo di
guadagnare un concetto di a-priori non gravato dal teoreticismo. Sebbene Grassi
non si autodefinisca mai come fenomenologo, secondo la nostra interpretazione
dei saggi del primo gruppo su di lui agiscono non solo le esplicitate fonti
heideggeriane Cfr., l’epistolario raccolto da M. Simonetta in Un inquieto
scolaro di Gentile: Ernesto Grassi, pp. 287-299, in “Idee”, 28/29, Lecce 1995,
pp. 292-293. ! 125! e gentiliane, ma anche la questione
fenomenologica husserliana letta attraverso la versione eretica heideggeriana
378 Di “eresia heideggeriana in seno alla galassia fenomenologica” parla
Vincenzo Costa in La fenomenologia, cit., in cui si afferma che “la storia del
movimento fenomenologico è senza dubbio segnata dalla rottura che si venne a
creare tra Husserl e Martin Heidegger all’apparizione di Essere e Tempo”, ivi,
p. 264. Nel corso del semestre estivo Prolegomeni alla storia del concetto di
tempo (1925) Heidegger passa in rassegna quelli che a suo avviso sono i
concetti fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo dire, Husserl
non avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante l’intenzionalità,
nella dialettica di soggetto-oggetto. Il filosofo di Messkirch sente, infatti,
l’esigenza di una presa di distanza da quella impostazione husserliana che egli
vede come “lacunosa”. L’intenzionalità è una struttura dei vissuti psichici e
non “una teoria della relazione tra psichico e fisico”, M. Heidegger,
Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, § 5-B, P. 44. Il concetto di
intenzionalità indica una relazione tra intentio e intentum, tra l’atto e il
contenuto intenzionale. Tale nozione non indica una relazione intenzionale tra
un soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum, ossia tra un atto
che si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso o intenzionato.
Tra loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi sono distinti ma
non eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte. L’individuazione di
questa fonte unica e comune di atto noetico e contenuto noematico è il luogo in
cui Husserl e Heidegger separano i loro percorsi. Abbiamo detto, infatti, che
l’intenzionalità indica una relazione della coscienza con qualcosa; la
coscienza è sempre un dirigersi verso... su questo punto Heidegger e il suo
maestro Husserl concordano. Ma qual è la radice dell’intenzionalità? Sappiamo
dalle Idee che per il filosofo di Prossnitz dall’epochè fenomenologica, ossia
dalla riduzione, la coscienza risulta quale residuo fenomenologico, come
possiamo leggere al § 33: “Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il
nostro cogitare, viene posto fuori circuito, che cosa può ancora rimanere?
[...] la coscienza in se stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato
nella sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito.
Essa quindi rimane come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere
per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova
scienza – della fenomenologia”, E. Husserl, Idee, § 33, PP. 74-76. Da questo
passo emerge con chiarezza che attraverso l’epochè la coscienza emerge in tutta
la sua intenzionalità fungente, per riprendere un’espressione di Crisi,
un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività
costitutiva e funzionale. La coscienza indica la condizione di possibilità del
mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, “la coscienza,
l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni
altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è
l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in
relazione alla coscienza, cioè relativo ad essa”, M. Heidegger, Prolegomeni
alla storia del concetto di tempo, cit., § 11 C, P. 131. Heidegger tenta di
riguadagnare il terreno dell’intenzionale tramite un’operazione opposta
all’epochè husserliana e cioè attraverso l’analisi del mondo come dimensione
originaria di ogni possibile intentio e intentum, di ogni loro possibile
rapporto. Il mondo non è un correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in
luce proprio questo. La seconda scoperta fondamentale della fenomenologia è
l’intuizione categoriale, interpretata da Heidegger come il radicarsi
dell’intenzionalità nell’essere-nel-mondo. Essa consente di pensare la
categoria come dato, come oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6
dei Prolegomeni che “la scoperta dell’intuizione categoriale è la prova, in
primo luogo, che c’è un semplice coglimento del categoriale, di quelle entità
nell’ente che si delineano tradizionalmente come categorie [...] in secondo
luogo è soprattutto la prova che questo cogliere è investito nella percezione
quotidiana in ogni esperienza”, ivi, p. 61. L’intuizione categoriale è
presente, cioè, in ogni percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è
sufficiente a mostrare in che modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto
“l’ente percepito si mostra sempre soltanto in un determinato adombramento”, p.
62. La percezione non è mai adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale
si dà solo parzialmente. In altri termini, l’intuizione categoriale permette di
gettare luce sul dato, attraverso la categoria, in un atto unico che ci
permette di identificare un oggetto. Infatti, le sensazioni non permettono
all’ente di apparire nella sua identità oggettuale, esso si presenta come
oggetto unicamente tramite un’eccedenza, costituita appunto dall’intuizione
categoriale. É possibile istituire un parallelo tra il senso dell’intuizione
categoriale di cui si parla nei Prolegomeni e quello dell’intuizione pura
affrontata in Kant e il problema della metafisica se si pensa al fatto che
l’intuizione categoriale, come quella pura, consentono quel darsi dell’oggetto
che secondo Heidegger è reso possibile dalla sintesi a-priori
dell’immaginazione e che ritroveremo in Grassi nei termini di fantasia e
ingegno come modalità di apprensione del reale. La terza scoperta fondamentale
della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rispetto all’impostazione
classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto “la fenomenologia –
avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato alla soggettività”,
ivi, pp. 92-93, ma è un titolo dell’essere. Esso non è solo qualcosa di
“immanente che appartiene primariamente alla sfera del soggetto”, ibidem, e
nemmeno qualcosa di “trascendente, che inerisce specificamente alla realtà”,
ibidem. In quanto tale, l’a-priori “diventa esibibile in se stesso in una
semplice intuizione”, ibidem. Questa esibizione intuitiva dell’a-priori, ossia
l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità mettono in luce come
il vero “trascendens puro e semplice” non sia il soggetto, nè l’oggetto, ma la
relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in quella Lichtung che
è il mondo. ! 126! Sarebbe un’operazione forzata includere in seno
alla “galassia fenomenologica”, sia pure nella sua variante eterodossa, anche
Grassi. Tuttavia ci pare doveroso sottolineare, al di là degli esiti e dei
metodi di ricerca certamente differenti, una comunanza di tematiche e di
interessi di innegabile evidenza: i temi della manifestatività, delle forme e
dei gradi dell’apparire, dell’immanenza e dell’evidenza, della critica
all’obiettivismo. Infatti, è in questo periodo fecondo che si impone il
ripensamento del tema della manifestatività nella sua identità con la questione
ontologica. In Il problema del logo si afferma che la ricerca della
manifestatività si identifica con la questione dell’essere: “L’originario vero
non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di
un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un
manifestarsi, un distinguere se stesso. Se il processo di distinzione non fosse
il primo, non sarebbe possibile passare dal non manifesto a ciò che è manifesto
[...] il processo deve quindi essere inteso come un auto-manifestarsi. É
importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci
permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”379. In questo passo
si profila un’idea di essere come processo e automanifestazione lontana
dall’ontologia oggettivistica che riduce l’essere al dato. Comprendere l’essere
è possibile soltanto se lo si identifica con il processo di manifestazione.
L’originario, il fondamento a cui l’antropogenesi è indissolubilmente
correlata, si presenta non come dato ma come processo, atto della
manifestazione. Ciò comporta un’analisi ontologica che Grassi fa partire da una
messa in discussione del concetto oggettivistico dell’essere in quanto dato
inteso come presenzialità immediata. Se la ricerca del vero della prospettiva
empiristica si fonda su una riduzione dell’essere al dato, allora questa
concezione sottintende un’aporia che Grassi prontamente mette in evidenza:
“l’empirismo rinvia all’immediata presenza quando deve legittimare la propria
verità. Soltanto dobbiamo domandarci se il “fatto” come tale, ci porga
veramente l’immediata presenza: ove ciò non avvenisse, ove l’immediata presenza
non fosse racchiusa nel fatto, quella verità, cui l’empirismo si richiama,
sarebbe proprio per esso irraggiungibile” E. Grassi, Il problema del logo, in
Id., I primi Scritti, cit., p. 376. 380 Ivi, p. 374. ! 127! La
contraddittorietà del dato in qualità di immediata presenza mostra come
l’originario non possa mai darsi come un dato – poiché in questo caso sarebbe
qualcosa che è già diventato, realizzato – non indicando ciò che è diventato e che
si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi,
ciò che “sta essendo”. L’immediata presenza a cui l’empirismo si richiama non
può essere un fatto o un dato ma il divenire, il manifestarsi poiché “il
presente, l’attuale, non può mai assumere la forma di un fatto, di qualcosa che
è solo in quanto diventato, finito. Il dato, il fatto presente, nel senso
naturalistico- empiristico è una contraddizione in sé, perché vorrebbe
affermare che qualcosa, che è già diventato, sia attualmente presente [...]
l’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza della
svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è
cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi”381.
Dalle tesi grassiane sull’essere emerge la presenza di una teoria metafisica
immanente dell’esistente, del Da-sein come attualità concreta, che coglie
l’essere attraverso una facoltà che è sia logica che patica. Abbiamo visto che
l’essere per Grassi non è più un dato empirico o un concetto trascendente, ma è
fondato nell’esistente come attualità, autorealizzazione originaria e
trascendentale, dove l’hic et nunc, il qui e l’ora dell’autorealizzazione del
Da-Sein, rivela la sua intrinseca storicità. L’essere indica per Grassi “ciò
che sta essendo”, quindi un divenire, un processo che dice della dynamis insita
nell’essere. Si tratta, quindi, di un’ontologia dinamica e non statica, che
comporta anche una riforma del sapere, del linguaggio e del metodo. Pertanto
afferma Grassi che “il metodo per il conseguimento del sapere non può più
essere razionale, fondante, in quanto esso può essere determinato soltanto sul
fondamento della risposta alla domanda su come e attraverso cosa viene
originariamente esperito. Un tale pensiero non può più essere formale, perché
si tratta di questo, di rispondere all’appello dell’essere che ci riguarda,
cioè si tratta della domanda in quale non-nascondimento (Unverborgenheit), in
quale schiarita (Klärung) – (le luci, le radure (Lichtungen) nel bosco di cui
parla G. B. Vico) – l’ente – al quale l’uomo appartiene – appare certamente”
Ivi, p. 375. 382 Id., Il colloquio come evento, tr. it. di R. Messori, La Città
del Sole, Napoli 2002, p. 81. ! 128! III. IV. Metodo statico e
metodo aporetico Al metodo statico della tradizione filosofica tradizionale,
quello che per Grassi mira alla definizione del concetto che dice della cosa
unicamente il suo essere ente e non la sua polisemia costitutiva, il filosofo
contrappone una via di ricerca, un metodo aporetico, che pone in luce come la
verità non sia la verità di un oggetto, sia esso empiristico o razionalistico,
ma quella di un processo. Su questo aspetto Grassi si sofferma soprattutto in
Il problema della metafisica platonica del 1932. Le “meditazioni platoniche”
grassiane sono dominate dai temi della verità, dell’essere, della
manifestatività e della pluralità delle forme, che qui trovano una prima
esplicazione sistematica correlata anche alla questione dell’umanesimo. Il tema
di Il problema della metafisica platonica è individuato da Grassi nell’ambito
della problematizzazione del concetto di forma. Il tema dell’eidos è
coestensivo a quello della ricerca del ti esti e si viene configurando secondo
il filosofo milanese come risposta da parte di Platone all’oggettivismo
sofistico. La ricerca sulla forma è in generale la ricerca dei modi della
manifestazione del reale come modi di determinabilità383. Scritto nel 1931, il
testo è pubblicato grazie a Benedetto Croce nel 1932 presso l’editore Laterza
ed è dedicato a Heidegger, il filosofo al quale Grassi si sentirà legato per
tutta la sua esistenza e che insieme a Gentile ha maggiormente influenzato il
suo pensiero. In questo testo Grassi analizza il dialogo platonico Menone in
polemica con le interpretazioni tradizionali che guardano a Platone come il
rappresentante di un astratto razionalismo. Egli si chiede se sia legittima una
interpretazione oggettivistico- razionalistica del pensiero platonico o se,
invece, non si debbano gettare le basi per un discorso su Platone partendo
dalla teoria della reminiscenza ed enucleando il significato teoretico del
dialogo. Il filosofo sostiene che lo scopo di Il problema della metafisica
platonica “è di porre solo in discussione il problema della legittimità della
tradizionale interpretazione della metafisica platonica. Ricorre veramente
Platone a un oggettivismo razionalistico – che egli contrappone a quello
empiristico della sofistica – per fondare quella conoscenza oggettiva e certa,
quella metafisica, la cui possibilità negavano i sofisti? Non è forse lecito
avere alcun dubbio riguardo Id., l problema della metafisica platonica,
Laterza, Roma-Bari 1932, p. 60. ! 129! all’affermazione che egli
come filosofo, ha cercato di superare l’obiezione sofistica [...] fondando una
teoria del sapere come reminiscenza?”384. Il pensatore sottolinea l’attenzione
di Socrate verso l’anamnesi385 come tentativo di arginare la carica distruttiva
dell’ipotesi eristica di Menone, per il quale non è possibile indagare né ciò
che non si conosce, né ciò che si conosce, perché nel primo caso non si
saprebbe cosa cercare, mentre nel secondo la ricerca è inutile386, e legge la
tesi platonica attraverso un filtro attualistico-esistenziale. Scrive Grassi
che “se il processo di reminiscenza non ha inizio, la verità non è affatto al
di là del processo di ricerca, ma coincide con esso. Ciò che noi chiamiamo
verità, ciò che si manifesta, è contenuto nel processo dell’atto filosofico, è
anzi quell’atto medesimo”387. La verità non è al di là del percorso di ricerca,
ma si identifica con il suo stesso formarsi, con il processo; inoltre il tema
del vero si incrocia con quello dell’apparire, del manifestarsi mostrando come
entrambi – il vero e l’essere – non siano alcunché di trascendente, ma al
contrario si identifichino con il domandare stesso: il domandare, il ricercare
in cui si alternano in un ritmo incessante certezza e dubbio. L’oggettività del
vero e dell’essere trova il suo fondamento nel comune terreno del dialogo e non
in ciò che è esterno a noi. “Se il determinarsi della realtà si realizza nel
logo, il dia-logo è la concreta forma della manifestazione dell’essere; in
questo caso nel dialogo la Ivi, p. 8.
385 “SOCR. Poiché dunque l’anima è immortale ed è rinata più volte, e ha visto
tutte le cose, sia quelle di qui sia quelle dell’Ade, non c’è nulla che non
abbia appreso. Perciò non deve meravigliare che essa, sia sulla virtù sia sulle
altre cose, possa ricordare ciò che conosceva già prima. Dal momento che tutta
quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla
impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano
appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di
qualcuno coraggioso e che non desista dal ricercare. Infatti ricercare e
apprendere sono in generale reminiscenza”, Platone, Menone, a cura di F.
Ferrari, Milano 2016, 81 c 8- d 6, pp. 201-203. 386 “MEN. Ma in quale modo
cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cosa è? Quale delle cose che
non conosci proporrai come oggetto della ricerca? E nel caso in cui ti
imbattessi veramente in essa, come farai a sapere che è proprio quella che non
conoscevi? SOCR. Capisco che cosa intendi dire, Menone. Bada che stai
richiamando l’argomento eristico in base al quale per l’uomo non è possibile
ricercare né ciò che conosce né ciò che non conosce: infatti non cercherebbe
ciò che conosce – perché lo conosce e non ha bisogno di una simile ricerca – ,
e neppure cercherebbe ciò che non conosce – perché non saprebbe che cosa dovrà
cercare”, ivi, 80 d 5- e 7, pp. 193-195. 387 E. Grassi, Il problema della
metafisica platonica, cit., p. 116. ! 130! contesa, !"*-,
diventa ed è essenzialmente ricerca”388. Vorremmo sottolineare – a sostegno
della nostra ipotesi interpretativa che nega una svolta retorica-patica di un
“secondo Grassi” rispetto ad un “primo Grassi” dominato dal problema del logos
– che già in questo testo del 1932 la problematica retorica appare centrale
come discussione intorno al valore del dia-logo come metodo di ricerca della
verità in opposizione all’arte eristica e sofistica come “forme spurie di
retorica”389. Qui il pensatore mostra di aver fatto proprio il motto platonico
esposto nel Cratilo secondo cui la quintessenza dell’umano riposa nella
ricerca390, come possiamo leggere anche in un saggio del 1932, Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico, nel quale l’essenza di ànthropos,
fatta derivare dall’etimologia del termine, riposa proprio nello sforzo
interpretativo, nella fatica costante del pensare la realtà, il mondo
oggettivo. In tale sforzo, in tale compito, in tale impegno, risiede l’essenza
del neoumanesimo grassiano: “Se con atteggiamento umanistico si intende un
ritorno alle radici della nostra umanità, e se questa non sta in una realtà
storica esteriore ma in noi, allora quel ritorno non può essere fecondo che
portando alla luce la nostra umanità nell’atto filosofico educato allo sforzo
interpretativo”391. Ritornando al tema della funzione del dialogo e della sua
capacità di aprire l’ambito dell’oggettività e della determinazione possiamo
rilevare come in Grassi “la determinatezza dell’oggetto da cui parte una
domanda, non è solo il fondamento della sua oggettività, ma anche il fondamento
dell’oggettività di un dialogo, e quel ti esti è l’unica base di una ricerca
comune Ivi, p. 87. 389 Ibidem. 390
“Questo nome, ànthropos, significa che, mentre gli altri animali sulle cose che
vedono non indagano nulla, non congetturano e non anathrèi (osservano
attentamente), l’ànthropos nel momento stesso che vede – e cioè òpope (ha
visto) – anathrèi e ragiona su ciò che òpope. Di qui perciò all’uomo, unico fra
gli animali, è stato dato correttamente nome ànthropos, in quanto anathròn hà
òpope (osserva attentamente ciò che ha visto)”, Platone, Cratilo, 399 c, tr.
it. a cura di F. Aronadio, Laterza, Roma- Bari 1996, p. 43. 391 E. Grassi, Il
problema filosofico del ritorno al pensiero antico, “Rivista di filosofia”,
Milano XXVIII, aprile-giugno 1932, n. 2, pp. 136-154 ora in Id., I primi
scritti, cit., p. 271. Corsivo nostro. ! 131! positiva”392. La
determinatezza della cosa si fonda allora non nella cosa stessa, ma nella
nostra ricerca che ha origine nell’atto aporetico con il quale ha inizio il
ricercare. “L’aporia come ricerca (.,/,μ&)”393 ha fatto emergere la
co-appartenenza dell’aporia con il tema della visione dell’!*'$-. Secondo il
pensatore milanese il punto di partenza della ricerca è la situazione di dubbio
in cui si trova colui che ricerca e afferma che “se la determinazione si dà
attraverso l’attualità aporetica [...] questa attualità aporetica, è il
fondamento delle determinazioni”394. L’attualità aporetica, il dubbio, è il
fondamento reale della manifestazione, dell’essere ed è l’essenza di ogni
possibilità di discriminazione e comprensione395: qui risiede il valore
metafisico-esistenziale delle teorie platoniche, le quali non vanno
interpretate alla luce di un dualismo che fa capo alla dottrina dei due mondi
ma come metafisica della finitezza396. Viene in primo piano in questo testo
anche la centralità del tema del dialogo che, per Grassi, non gioca solo il
ruolo di una forma espressiva tra le tante possibili, ma va a costituire la
struttura e l’architettura del pensiero platonico che è intrinsecamente
aporetico. Anzi solo come aporia il filosofare dispiega la sua essenza
autentica: il filosofare “è nella sua essenza approfondire, essere capaci di
domandare sempre più radicalmente, il filosofare è essenzialmente una
)!%*&, una fatica, e solo in essa ci si conquista la realtà”397. La fatica
del ricercare non ha solo una connotazione psicologica ma è l’“elemento
caratteristico e veramente intrinseco alla struttura dell’atto speculativo”
Id., Il problema della metafisica platonica, cit., p. 21. 393 Ivi, p. 86.
394!Ivi, p. 71.! 395 Ibidem. 396 “In funzione del chiedere si dà l’essere, la
sua manifestazione e in quanto il chiedere è sempre determinato, quest’essere
che appare è sempre finito, e l’affermazione metafisica che a suo riguardo si
può fare, è l’affermazione metafisica di un essere finito. Con questa finitezza
dell’essere non s’intende di fare né un’affermazione scettica o relativistica,
né un’affermazione che limiti la filosofia. In quanto l’essere – così come esso
di dà – è sempre finito, la metafisica è nella sua essenza, metafisica del
finito”, ivi, p. 72. 397 Ibidem. 398 Ivi, p. 74. ! 132! La
fecondità teoretica dell’aporia platonica nell’iter di pensiero grassiano va di
pari passo con la sua costante critica alla concezione oggettivistica della
filosofia che caratterizza non solo lo scritto platonico del ’32, ma tutti i
contributi che, a partire dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta,
sono improntati alla definizione di un’idea di logos complesso al di fuori dei
cardini dell’obiettivismo tradizionale e più aperto alla dimensione patica. In un
testo tardo, Il colloquio come evento, frutto degli incontri zurighesi a
carattere seminariale avvenuti a partire dal 1977 con colleghi appartenenti a
diversi settori disciplinari, emerge in modo esplicito il senso che la
pluralità delle forme espressive in generale e il dialeghesthai in particolare
riveste per Grassi399. I dialoghi platonici offrono l’occasione di pensare
all’atto linguistico in modo nuovo: nel dialogo si realizza un colloquio. Il
filosofo è mosso dal convincimento che occorre distinguere il dialogo dal
colloquio, al fine di ritrovare il senso autentico di un dialogo non ridotto a
monologo scientifico: “se alla fin fine il dialogo scientifico si radica in un
monologo, emerge la questione circa il luogo in cui trova posto il colloquio. Quali
sono l’essenza e la struttura del colloquio? Noi distinguiamo ora il dialogo
dal colloquio perché abbiamo visto che il dialogo razionale viene condotto come
un monologo, mentre un colloquio presuppone una situazione storica come punto
di partenza e come misura”400. Il concetto di situazione acquista per il
filosofo un significato prioritario poiché rappresenta la forma originaria in
cui l’uomo agisce, pensa e vive; e proprio il legame tra il dialogo-colloquio e
la situazione mette in luce il valore metafisico del dia-leghestai come
de-limitarsi dell’essere all’interno del domandare stesso. Si tratta di un
evento semiotico in cui i dialoganti, attraverso l’Erfahrung linguistica,
esperiscono la possibilità che sorge dal linguaggio in atto di accedere alla verità,
ai recessi dell’essere, attraverso l’esercizio della parola e del domandare. È
l’atto del domandare l’atto di nascita del filosofare, del tendere continuo al
sapere nell’esercizio vivo della domanda. Cfr., R. Messori, L’affettività del
colloquio, pp. in E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., e V. Mathieu, I
temi di Grassi nei “Colloqui Zurighesi”, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto
Grassi, cit., pp. 305-314 e H. Schmale, Lo spirito dei colloqui di Zurigo,
ibidem, pp. 315-323. 400 E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., p. 61.
Corsivo nostro. ! 133! L’unico metodo per il filosofare nasce
dall’aporia, dall’assenza di certezze e nella insistenza nel ricercare da parte
del dialogante che tenta di arginare l’ambiguità del dire e il dinamismo intrinseco
della realtà e dell’essere nello spazio interumano di costruzione del senso. Il
senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge proprio nel
dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere,
che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso
della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad
espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al
concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si
dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del
colloquio nella sua funzione storica è metaforica.”401 L’importanza della tesi
di libera docenza del 1932 è emersa in tutti i suoi aspetti teoretici fondamentali
facendo venire in superficie temi centrali in tutto il cammino di pensiero di
Grassi. In questo testo l’essenza della verità è ricondotta alla struttura del
dialogo. Grassi tenta quell’accordo tra apofansis e poiesis, tra manifestazione
e creazione, tra enunciazione della verità e la condizione che la rende
possibile, tra verità e significatività attraverso l’analisi della questione
metodica da cui risulta un’idea di verità extra-metodica: nel vero siamo già da
sempre immersi poiché il vero è il processo stesso della ricerca. La fecondità
teoretica dell’aporia, che non è una strada sbarrata per il pensiero ma l’unica
percorribile, consente a Grassi anche di pensare all’idea di un rinnovamento
linguistico che può esserci solo se si riconosce l’origine metaforica del
linguaggio. La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori
del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa
come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto
traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica, come vedremo
nell’ultimo capitolo, è guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto
metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio. In Il problema della
metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti, Ivi, p. 71. ! 134! incrociandosi
inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà,
pone anche il tema della verità e del sapere. Se il vero non è mai un dato, ma
è raggiunto nel processo di ricerca, il sapere ad esso adeguato non sarà un
sapere concettuale che fossilizza e rende statico ogni elemento della ricerca,
ma un sapere noetico che, per Grassi, è arcaico e indicativo. Qui risiede il
valore semantico dell’ontologia fenomenologica di Grassi che gravita intorno al
concetto di nous, sinonimo di ingegno e di fantasia. Il nous ha l’aspetto di
una “intelligenza senziente” o di una sensazione intelligente per dirla con
Zubiri, il quale, insieme a Grassi e Ortega, è uno degli allievi “latini” di
Heidegger, come ricorda Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale402. L’essere si presenta originariamente non nella forma di essenza
concettuale ma come atto, in un’attualità che sta prima di ogni riflessione
teoretica. L’essere come oggetto di ulteriori atti di riflessione è, infatti,
dipendente dall’attualità del Da-Sein in cui l’essere si dà, si determina. La
determinazione ante-predicativa è resa possibile solo perché l’essere in
qualche modo ci è già manifesto prima di ogni possibile rapporto di
predicazione. Tale pre-intelligenza dell’essere è da intendersi come il logos
originario che dice non il factum – l’essere ridotto al datum – ma il fieri –
il processo di manifestazione. In questo discorso si inserisce anche il tema
del nulla. III. V. La funzione metafisica di nulla e angoscia Grassi, in Il
problema del logo, sostiene che “se la svelatezza dell’essere si chiude in un
processo, allora esso [...] deve contenere in sé il nulla e l’essere, giacché
ogni processo, ed anzitutto quello metafisico, realizza sempre un passaggio dal
nulla all’essere. Ne deriva che a loro volta i concetti del nulla e dell’essere
determinano il nostro concetto di processo”403. L’importanza della questione
del nulla come co-fattore, insieme all’essere, nella Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 31. 403 Id., Il problema del logo, cit., p. 377. !
135! determinazione del divenire è centrale nella definizione di un’idea
di logos capace di dire il processo di manifestazione. Se ciò che si manifesta
si identifica con l’essere, e se la manifestazione va intesa come uno scindersi
e distinguersi di sé, “come deve essere inteso questo processo? Scindere,
distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui traduciamo 0!#!*%,
logo”404. La centralità del logos, quale modalità in cui l’essere accade in
quanto processo, potrebbe essere confusa con un’ennesima concessione alla
logica tradizionale. Tuttavia Grassi distingue un significato inautentico di
logos da uno autentico come modalità di svelamento dell’essere. “Il logo come
oggetto della logica tradizionale è il logo in quanto pensato, oggettivato. Il
logo non viene da essa studiato come un atto concreto, come un
auto-distinguersi realizzantesi, bensì come verità di giudizio [...] in quanto il
manifestare logico, come verità di giudizio, si fonda in una verità più
originaria, sorge la necessità e la legittimità di distinguere due differenti
concetti del manifestare: la verità del giudizio (come verità logica nel senso
tradizionale) e la svelatezza originaria degli enti”405. É precisamente in
questa direzione che il filosofo conduce la propria ricerca, collimante con la
filosofia italiana a lui coeva e il pensiero heideggeriano, con l’intento di
guadagnare un concetto di logica al di fuori dell’orizzonte obiettivante che
riduce l’essere al dato, all’ob-jectum senza riguardo verso il processo di
manifestazione, verso quel divenire che è passaggio dall’essere al nulla. Un
logos adeguato all’espressione del divenire è un logos che riesce a pensare il
nulla senza oggettivarlo, quindi senza cadere in contraddizione. La tradizione
filosofica pensa il logos come 0$#$- /*%$-, dove il /*%$- è un $% rispetto a
cui il logos è adaequatio. Il problema è quello di guadagnare un “nuovo
significato di logo, libero da ogni dialettica formale”406 che riesca a
relazionarsi al nulla e a farlo oggetto di domanda e di esperienza. Si chiede
Grassi: “in che rapporto stanno il Nulla e l’Essere? L’Essere sorge dal nulla?
Ma in che modo è il nulla? Si può dire senza contraddizione che il Nulla
sia?”407. Ibidem. 405 Ivi, p. 378. 406
Ivi, p. 379. 407 Ivi, p. 380. ! 136! L’importanza del nihil
all’interno dell’indagine ontologica è direttamente conseguente
all’assimilazione del processo di manifestazione all’auto-distinzione, dove lo
svelamento contiene in sé già l’essere e il nulla, la possibilità di mostrarsi
ed occultarsi, come quella dell’errore e della verità. Ora se la logica
tradizionale rifiuta ogni tipo di trattazione scientifica del nulla per i
motivi già espressi dobbiamo cercare un altro modo in cui il nulla si
manifesta. Una simile ricerca consente anche di porre la questione dell’essere
al di fuori del circuito oggettivistico – sia esso empiristico o razionalistico
– e secondo Grassi in questo tentativo di ripensamento di una via di accesso al
nulla giunge in aiuto la proposta heideggeriana della priorità della Stimmung
dell’angoscia/ansia408, che viene ad incontrarsi con quella attualistica del
logo come atto. Si chiede Grassi: “esiste dunque il nulla, e qual è il suo
rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto
dell’atto logico?”409. Sorge il tema della funzione metafisica dell’angoscia
che sollecita un approfondimento del rapporto tra angoscia, logos e
manifestatività, ossia della correlazione problematica e non dualistica di
logos e pathos. L’essere originario, dunque, se non è un dato, un oggetto
trascendente, ma un divenire, un processo, esso comprenderà al suo interno
anche la questione del nulla. Il nulla non è ma esiste e il suo urgere per
Grassi si rivela nell’angoscia esistenziale costitutiva dell’uomo: “il nulla
sorge [...] esclusivamente nell’esistente come il vanificarsi dell’esistente
medesimo nella sua totalità. Questo vanificarsi della realtà nello stato
dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come
un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi
la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità
di determinazione”410. Il nulla come vanificarsi dell’esistente appare nel
sentimento dell’angoscia in cui l’essere si manifesta nella sua assoluta
alterità, nella sua convertibilità con il nulla. L’angoscia è il fenomeno I
termini angoscia e ansia sono usati indistintamente da Grassi, tuttavia egli
usa il termine ansia in riferimento all’Angst heideggeriana solo nel saggio del
1929 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 220, in
Id., I primi scritti, cit., pp. 203-228. Nei saggi successivi il termine ansia
viene sostituito da angoscia. 409 Ivi, p. 385. 410 Id., Il problema del nulla
nella filosofia di M. Heidegger, cit., pp. 328-329. ! 137! stesso
del fondamento, è la modalità in cui il processo di manifestazione dell’essere
nella sua differenza accade: “l’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come
il vanificarsi della totalità dell’esistente, è la fonte della possibilità di
pensare [...] è allora proprio che l’esistente si manifesta e può diventare
oggetto di domanda nella sua totalità”411. Il nulla che appare nell’angoscia
nella sua convertibilità con l’essere, e che connota l’intero atto di
manifestazione e auto-distinzione dell’originario, è la condizione
trascendentale del logos. Il logos è il modo umano del darsi della
co-estensione e coappartenenza di essere e nulla. Quest’ultimo non va quindi
inteso nel suo valore logico di negazione ma nel suo valore di annientamento
dell’esistente e di pura possibilità. Solo attraverso il nulla l’essere appare
come realizzazione delle pure possibilità umane e quindi come compito, sforzo e
atto, concetti, questi, davvero fondamentali nella filosofia di Grassi che
mostrano, da un lato, la presenza di una componente etica del sui pensiero nel
senso generale di ethos come “orientamento della vita al telos”, dall’altro il
radicamento di tale orientamento nella struttura temporale della coscienza
umanistica, che, come vedremo, è caratterizzata da una componente cairologica
che fa convergere tutta l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno”, e
quindi verso la scelta, la decisione. In Grassi più che agire una temporalità
contrassegnata dall’eschaton di heideggeriana memoria è presente l’attenzione
verso il kairòs, il “tempo opportuno” che va a strutturare la nostra relazione
con il mondo circostante. Come abbiamo tentato di dire in queste pagine il
reale, l’essere, il suo apparire si manifestano nel perimetro antropico in
molteplici modi, tutti interrelati, in cui una delle molteplici forme
dell’apparire non può essere dedotta da un a priori logico. A giudizio del
filosofo alla logica del pensato non può spettare l’ultima parola sulla vita e
un’intelligenza ante-predicativa, pre-teoretica del reale è possibile solo se
si getta luce su un’esperienza originaria del reale, dell’essere, di cui la
logica è solo una forma di apparire derivata e secondaria. Come si relazionano
il logos e il pathos in questo orizzonte di ricerca? Ivi, p. 329. ! 138! III. VI.
Logos et pathos convertuntur Grassi distingue un doppio significato per
entrambi i concetti: uno autentico e uno inautentico. Da una parte abbiamo il
logos inautentico, quello della logica astratta, del razionalismo
deduttivistico, dell’a priorismo gnoseologico e il pathos inautentico, quello
ridotto a fenomeno psicologico e privato, a esperienza chiusa nella
singolarità. Dall’altra ci sono il logos autentico proprio del pensiero
pensante e concreto, che sperimenta la manifestatività dell’essere
nell’autodistinzione, e il pathos autentico che va inteso in senso metafisico.
L’angoscia costituisce appunto questo pathos autentico. Per Grassi il pathos è
sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o
all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della
nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza
ontologica: secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico
della storia”412. Esso è “passione abissale”413 in cui accade il fenomeno
dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi: il pathos metafisico indica
il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro
cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Nell’esperienza
patica l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria
angoscia in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale
manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da
esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come
essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione.
L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità
dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere)
e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’esistente nella
sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”414. Nel pathos
dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso
tempo di implementare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare
l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti
precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo, su
cui ci soffermeremo a breve, sono il regno dell’Aperto Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 413
Ivi, p. 40. 414 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in
Id., I primi scritti, cit., p. 329. ! 139! in cui è assente ogni
direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Il filosofo asserisce che “in
quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non
essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano
trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi
più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione
del precipizio”415. A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi
la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza
dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di
fondativo: “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè,
potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe
come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”416. Essa
consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei
mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione
storica: in questo contesto ontologico si installa la visione antropologica di
Grassi. L’esperienza dell’oggettivo, dell’essere ai cui appelli dobbiamo
corrispondere rende possibile la costruzione del secondo livello di
oggettività, quella dell’umano. Il corrispondentismo, che permea quell’ambito
gnoseologico messo da parte dal filosofo, viene recuperato sul piano
ontologico: l’adeguazione dell’oggettività dell’essere, dell’originario, il nostro
corrispondere all’evento va di pari passo con l’antropogenesi. Solo grazie a
ciò l’uomo diventa uomo e l’Umwelt diviene Welt attraverso le pratiche di
umanizzazione della natura. A parere del filosofo “noi ci troviamo di fronte al
compito di un ordinamento solo perché circondati e sommersi in un mare di
fenomeni nei quali dobbiamo riconoscere di non saperci orientare:
esperimentiamo l’angoscia primordiale dell’assenza di mondo. Questa esperienza
della negatività, della mancanza di mondo è il primo ed originario aspetto
della necessità della trascendenza, in funzione alla quale solo incontriamo un
materiale per la formazione del nostro mondo”417. Sulla base di quanto detto è
emersa una prospettiva che lega indissolubilmente la tematica dell’essere e quella
del nulla alla Stimmung dell’angoscia generando una rinnovata idea di logos.
Se Id., Assenza di mondo, cit., p. 226.
416 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 417 Id., Mito e arte, cit., p.
147. I corsivi sono nostri. ! 140! il reale è processo di
manifestazione, divenire e passaggio dall’essere al nulla, allora il logos
capace di dire questo processo, questo apparire, questa manifestatività
autodistinta, non può essere il logos logico inteso in senso tradizionale.
Occorre ripensare il logos al di là dei cardini di un riduzionismo logico,
tenendo conto della co-originarietà delle forme del manifestarsi del reale. La
funzione del logos in Grassi ha destato non pochi problemi per gli interpreti,
come abbiamo visto. Se nei saggi giovanili come Il problema del logo del 1936
il logos è considerato nella sua preminenza rispetto alla Stimmung, nei saggi
successivi come Il reale come passione e L’inizio del pensiero moderno abbiamo
un capovolgimento di questa posizione soprattutto sulla scorta dell’analisi del
dubbio. Di seguito riporto le affermazioni che possono aver suscitato l’idea di
dualismo. In Il problema del logo il filosofo afferma che “la Stimmung, il
sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il
sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del
legein”418. Da questo passo pare emergere la riconduzione della questione del
patico all’interno dell’orizzonte logico: il pathos viene visto quale modalità
del logos. Qualche anno dopo Grassi sembra cadere in contraddizione affermando
l’esatto opposto di quanto asserito in Il problema del logo. In L’inizio del
pensiero moderno si sostiene che “nel dubbio qualcosa è per noi originariamente
non indifferente [...] in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene
riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del
termine [...] qui si mostra appunto il carattere patetico e passionale del
pensiero”419. La difficoltà per l’interprete sorge allorché si tenta una conciliazione
delle tesi appena citate e apparentemente contrapposte: una vede nel pathos una
modalità del logos, un’altra rintraccia nel logos un carattere passionale. È
possibile uscire dall’impasse? È nel pathos o nel logos che facciamo esperienza
dell’originario? La complessità di una loro possibile connessione viene
esplicitata e avvertita dallo stesso Grassi che già in Il problema del logo si
chiede: “possiamo dire che il logo sia
Id., Il problema del logo, in Id., I Primi scritti, cit., p. 403. I
corsivi sono nostri. 419 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi
scritti, cit., p. 824. I corsivi sono nostri. ! 141! effettivamente
il Primo, la Ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone
esso un momento pre-logico? Questo è il problema contro il quale urtiamo
definitivamente”420. Infatti egli interpreta il logos come legein, cioè come
atto del portare a manifestazione sia l’essere che il nulla. Solo sulla base di
questa manifestatività originaria, di questa svelatezza originaria degli enti
(aletheia ) si può porre il tema della verità logica tradizionalmente intesa
come connessione di soggetto e predicato. Il pensatore riconosce nella
svelatezza originaria l’essenza della propria ricerca filosofica ed è mosso dal
convincimento che ogni vero logico, il vero del giudizio che si esprime
sull’on, sia già sempre radicato in un vero più originario: quello appunto
della svelatezza o manifestatività. Per Grassi “la logica tradizionale vorrebbe
essere proprio una logica dell’identico in senso oggettivistico, in quanto
l’essenza del logo non sta nel legein – cioè nel processo di distinzione (e
così nel divenire, nell’essere e non essere) – bensì nell’identità dell’oggetto
razionale od empirico. Ma questa identità non viene affatto raggiunta, né può
venir dimostrata. Se quindi questo originario legein va concepito come un
manifestarsi, e se questo nuovo concetto del logo, come logica del pensare, va
contrapposta alla logica del pensato, allora non dobbiamo concepire questa
logica come una logica della non identità, bensì come una logica che raggiunge
un nuovo ed approfondito concetto dell’identità”421. La questione di primaria
importanza non è concepire il logos, l’atto di intellezione, come totalmente
altro dal pathos, il sentire. É appunto questa l’accusa che Grassi rivolge a
gran parte della filosofia occidentale: la considerazione di logos e pathos, di
intellezione e sentire, come atti di due facoltà, decreta inevitabilmente la
superiorità dell’intelligenza rispetto al sentire, che per quanto sia il primo
modo di apprendere il reale è votato all’inautenticità. Grassi ha in mente
piuttosto un’intellezione senziente o un’apprensione intelligente del reale che
però non troverà mai una formalizzazione teoreticamente compiuta nel suo
pensiero, restando sullo sfondo della sua rivalutazione dell’umanesimo
interpretato all’insegna del concetto di Lichtung. Id., Il problema del logo, in Id., I primi
scritti, cit., p. 377. 421 Ivi, p. 378. ! 142! Si chiede Grassi in
Vom Vorrang des Logos (1939): “questa tonalità affettiva (Stimmung) deve essere
dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto
come fondamento della svelatezza (Unverborgenheit)?”422 La questione è
comprendere se la passione possa essere considerata come esperienza
dell’originario, nelle sue molteplici forme. Il tema della Stimmung in Grassi
più che intrecciarsi alla Befindlichkeit – al sentirsi situati – si coniuga con
la metafisica del leghein come risulta evidente dal testo del ’39 nel contesto
dell’analisi della disposizione d’animo e della differenza ontologica
heideggeriane423. Qui Grassi individua la possibilità di una corretta
interpretazione del pensiero di Heidegger solo nell’operazione di collegamento
del concetto di Stimmung all’atto processuale del leghein. Si tratta di un
aspetto di non secondaria importanza poiché mette in luce come in Grassi la
questione della Stimmung non abbia una connotazione psicologico-individuale ma
un carattere ontologico-metafisico. Leggiamo in Vom Vorrang des Logos che “con
tonalità affettiva (Stimmung) non va inteso qualcosa che precede il processo
originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si
differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente
originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza
è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un
divenire, di un essere, di un non- essere, e dunque ad essa appartiene insieme
alla trascendenza e la tonalità affettiva anche il perché”424. La
co-appartenenza di Transzendenz, Stimmung e Warum rende palese come il discorso
sulla Stimmung travalichi il confine psicologico e si installi direttamente sul
terreno dell’ontologia e della “Muss nun
diese ursprüngliche Stimmung also in wesentliches Moment des Prozesses, den wir
als Grund der Unverborgenheit erkannt haben, aufgefasst werden?”, Id., Vom
Vorrang des Logos, Beck, Munchen 1939, p. 52. La traduzione è nostra. 423 Cfr.,
R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., pp. 66-67. 424 “Damit bedeutet die
Stimmung nicht etwas, das dem ursprünglichen Prozess der Unverborenheit
vorhergeht, und auch nicht etwas, das den Prozess bedingt, und von ihm
unterscheiden ist; es ist nichts Unmittelbares, sondern zum Grund der
Unverborgenheit als Prozess ursprünglich gehörend. Wenn die Unverborgenheit
prozesshaft geschieht, so ist die – wie früher schon gesagt – auf Grund eines
Werdens, eines Seins und Nichtseins, und so gehört ihr wesenhaft, mit
Transzendenz und Stimmung das Warum an, dritte Weise, in der der Grund der
Unverborgenheit – wie Heidegger sagt – gestreut ist”, E. Grassi, Vom Vorrang
des Logos, cit., pp. 57-58. Traduzione nostra. ! 143!
manifestatività. L’analisi della Stimmung pone in luce l’azione delle
riflessioni heideggeriane di Von Wesen des Grundes più che quella di Sein und
Zeit, mostrando una netta differenza di interpretazione rispetto a quella
seguita dagli studiosi della analitica del Dasein degli anni ‘40425.
L’articolazione del nesso logos-pathos trova una prima via d’uscita nella
riflessione sulla fantasia, reciprocabile con l’intuizione e con l’intelletto,
in quanto “facoltà di darsi le vedute” e forma di organizzazione a priori
dell’esperibile: essa mette insieme il logos e il pathos. La questione della
correlazione di pathos e logos comporta per Grassi anche un ripensamento
dell’identità (un’identità Ha
sottolineato acutamente questo aspetto Messori in Le forme dell’apparire, cit.
(p. 86 nota 20) ponendo un parallelo tra le interpretazioni di Grassi e di
Henry Maldiney circa la questione della Stimmung come momento patico a-priori
del pensiero, e sottolineando anche la distanza tra le teorie di Grassi e
quella di Bollnow e Biswanger che negli anni Quaranta si confrontano in modo
critico rispetto al tema della Stimmung heideggeriana. Circa il tema della
distanza di vedute tra Bollnow e Grassi occorre mettere in evidenza come
Bollnow in Das Wesen der Stimmungen del 1941 pone la ricerca antropologica
sotto il segno della critica al concetto di fondamento heideggeriano,
insistendo sull’infondatezza del dualismo autentico-inautentico insito, secondo
Heidegger, nella dimensione della quotidianità. Nonostante la messa a distanza
del tema ontologico nella “antropologia pedagogica ermeneutica” di Bollnow è
riscontrabile un punto di contatto, su cui Messori non si è soffermata, ossia
il comune riferimento, di Bollnow e Grassi, alla storicità come fondamento di
ogni antropologia filosofica che guarda all’umano come continua produzione di
forme. Nel filosofo tedesco ritroviamo “l’idea che la storicità della vita
significa creatività, produzione di forme che portano a espressione la vita in
manifestazioni specifiche” – (S. Giammusso, La forma aperta. L’ermeneutica
della vita nell’opera di O. F. Bollnow, Franco Angeli, Milano 2008, p. 93) – che
converge con l’impostazione generale del pensiero di Grassi che punta ad un
rinnovamento del problema antropologico seguendo il filo conduttore delle
espressioni storiche del fondamento – le Lichtungen. Altro punto di sinergia
teorica di entrambi è il tema pedagogico umanistico. In Bollnow la pedagogia,
influenzata dallo storicismo diltheyano e dal contesto generale della
Lebensphilosophie, “non muove da principi astratti [...] ma considera
ipoteticamente i fenomeni della sfera educativa come parti dotate di senso in
una connessione più generale e rintraccia tale senso nella originaria relazione
attraverso cui l’uomo come produttore della cultura esprime se tesso” (ivi, p.
137). Bollnow, in Die Macht des Worts, afferma che la questione antropologica è
connessa al potere formativo della parola e “la questione circa l’essenza del
linguaggio diventa in una maniera fondamentale la questione circa l’essenza
dell’uomo in generale”, O. F. Bollnow, Die Macht des Worts.
Sprachphilosophische Überlegungen aus pädagogischer Perspektive, Essen, Neue
Deutsche Schule Verlaggesellschaft, 1964 (terza edizione 1971), p. 16, citato
in S. Giammusso, op., cit., p. 154. Anche in Grassi il tema pedagogico è
correlato alla questione della via di accesso alla “totalità umana” e alla individuazione
dell’essenza del neoumanesimo e, ancora, al tema filosofico dell’amicizia che
permea sia il sapere sia il linguaggio. Grassi, nella prefazione alla
traduzione tedesca del Discorso di Pericle di Tucidide ad opera di G. P.
Landmann, sostiene che “questa forza dell’amicizia è confluita nelle parole, da
cui siamo legati, filologia e filosofia. L’amicizia sospende il rapporto tra
maestro e allievo, fa del maestro un discente anch’egli e libera l’allievo
dall’asservita ristrettezza dell’epigono, del seguace. Così, la corrente che
tutti ci trascina si mantiene ininterrotta, e nessuno sa più dove nello scambio
abbiano inizio i pensieri, dove essi nella continua riproduzione abbiano fine.
Questo accadere autentico, questo modo del discorrere e del pensare che riesce
a penetrare ogni isolamento, la dia-lettica – il venire a svelatezza attraverso
il logos, attraverso la parola –, tutto ciò Platone l’ha scoperto nel nobile
sentimento dell’amicizia [...] questo concetto non relativo e non soggettivo
dell’amicizia si lega a quello della tradizione e dell’impegno”, E. Grassi,
Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I
primi Scritti, cit., p. 977. Grassi enuncia in poche battute un’idea di
pedagogia legata ai temi della fiducia (Vertrauen), del reciproco affidarsi
(Anvertrauen) e del dialogo che mostrano molte affinità tematiche – pur nella
diversità degli approcci – con Bollnow, più numerose delle pur evidenti
differenze sottolineate da Messori. ! 144! che contenga in sé
l’elemento della differenza e della non-identità) e una ricerca sulla
costitutiva co- appartenenza di essere e nulla nel processo di manifestatività.
Secondo la prospettiva tradizionale: “il nulla non può diventare oggetto del
pensiero, perché il nulla esclude in sé una interpretazione oggettivistica. Un
oggetto che non è, è una contraddizione”426. Invece per il filosofo occorre
aprire un varco nell’esperienza del nulla al di fuori delle coordinate
oggettivanti del pensiero proprio perchè il nulla ci pone di fronte
all’impossibilità di renderlo ob- jectum. C’è un’altra modalità di accesso al
nulla: la sua esperienza attraverso l’angoscia. Così come lo Heidegger di Che
cos’è metafisica anche Grassi crede che “il nulla non si rivela dunque come un
oggetto, come un pensato, bensì come ciò che si manifesta in un fondamentale
stato d’animo (Grundstimmung) che incalzandoci ci toglie ogni punto
d’appoggio”427. Da quanto detto in precedenza è possibile comprendere come il
filosofo già a partire dal saggio Il problema del logo ponga in questione, con
la discussione sul nulla e sull’angoscia, la priorità del logos. Egli si chiede
se a partire dall’esperienza dell’angoscia sia ancora possibile mantenere la
priorità dell’atto logico: “esiste dunque il nulla e qual è il suo rapporto con
l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico?
In che modo l’atto logico sarebbe condizionato dall’angoscia, tanto che
l’originarietà del logos sarebbe infranta? Se il nulla è, e non come un
oggetto, ma come una realtà che ci si manifesta nell’angoscia sorge il problema
dell’angoscia, della sua funzione metafisica [...] è dunque nell’angoscia che
si radica la possibilità di manifestazione degli enti e noi stessi li
trascendiamo in quanto fin dall’inizio siamo sospesi nel nulla”428. Il legame
tra angoscia, nulla e manifestazione dell’essere mette in crisi quella che in
un primo momento sembrava essere una posizione apparentemente dualistica: il
dualismo è solo apparente se guardiamo all’idea grassiana di logos che si distingue
da quello della logica obiettivante tradizionale. Nel leghein per Grassi accade
quella scissione, quell’auto-distinzione della manifestatività, che consente di
pensare la coappartenenza di logos e pathos.
E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 382. 427 Ivi, p. 383. 428 Ivi,
pp. 383-384. ! 145! Un ulteriore chiarimento riguardo il presunto
dualismo logos-pathos o Kehre tra un primo e un secondo Grassi ci giunge dalle
analisi grassiane di Cartesio. Nel saggio L’inizio del pensiero moderno Grassi
porta avanti le sue analisi delle “meditaizoni cartesiane” incominciate in
Dell’apparire e dell’essere del 1933, constatando come l’importanza di Cartesio
vada rintracciata nella fecondità dell’idea di dubbio. Solo attraverso
l’analisi del dubbio è possibile guardare al cogito cartesiano come ad una
realtà complessa che va identificata come atto, attività del cogitare. In
quanto atto il cogito è il luogo in cui la manifestatività, l’apparire e
l’essere, che in Grassi sono sinonimi come abbiamo visto, si dànno: “il cogito
è l’unico primo ed originario essere che incontriamo e fondandosi sul quale
solo si può ricostruire e ricavare tutta la ricchezza dell’esistenza. La
metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si
tenga presente che cosa egli concretamente intenda con cogitare. Pensiero,
cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma
è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un
momento [...] l’atto del cogito – come originaria unità, monade – contiene in
sé già tutto”429. Appare qui evidente la funzione ontologica del dubbio come
“apertura esistenziale” della questione della manifestatività. La suprema
attività del cogitare, il cogito in quanto atto, non è altro che il dubbio, il
dubitare che nel momento in cui dubita, in cui attua l’attività del dubitare,
porta in superficie “l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende
possibile”430. Nell’atto del dubitare si compie un’urgenza: quella del reale
che non ci è indifferente ma che ci affetta, ci riguarda e nel quale siamo da
sempre immersi e compromessi in quanto esseri gettati nel mondo e “di
conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un
dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra così come il
vero fondamento del sapere”431. Pertanto il pensare (logos) si rivela nella sua
identità costitutiva con il patire (pathos) in quanto forme di espressione
dell’originario nella sua urgenza e nella costrittività dei suoi appelli. Per
il filosofo italiano “il pensiero è una forma di esperienza dell’originario, e
non si può pensare ogni volta Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., pp.
289-290. 430 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit.,
p. 818. 431 Ibidem. ! 146! che lo si desidera o lo si vuole. Perché
l’originario, sempre e in ogni forma, si mostra a noi solo al modo di una
urgenza”432. Il soggiacere a tale costrizione e urgenza rende il logos
convertibile con il pathos quali modalità di apprensione dell’originario. Se
“solo questa costrizione, questa urgenza è l’evidenza dell’originario”433
allora noi ci troviamo in una situazione di pura passività rispetto al reale?
In che modo è possibile coniugare questo essere soggetti a con il concetto di
atto? L’atto, come abbiamo visto, cerca di rendere conto del rapporto dinamico
tra piano ontologico e piano ontico, i quali rifluiscono continuamente l’uno
nell’altro. A tale dinamica processuale prende parte anche la tonalità
affettiva che appare come il luogo in cui accade la manifestazione dell’essere
nella molteplicità delle sue forme. La Stimmung che consente l’esperienza
dell’originario si rivela una Leidenschaft. Un altro termine con cui Grassi si
riferisce alla passione è, infatti, Leidenschaft, di cui è importante
sottolineare il leiden, il patire nel senso di soffrire e penare. Usando tale
traduzione l’accento è tutto posto sulla dimensione della gettatezza e
passività originaria che contraddistinguono il Dasein, l’uomo che è tale nella
misura in cui si riconosce esposto all’apertura dell’essere, all’assenza di
codici interpretativi precostituiti e innati e pertanto intimamente legato alla
ricerca di chiavi di lettura del reale possibili e mai date. La Leidenschaft è
quindi l’essere-affetti dal reale, che ci afferra e ci trascina nell’aperto
delle pure possibilità, senza che noi possiamo sottrarci allo Zwang e alla
Nötigung, da Grassi interpretati come due fenomeni dell’originario. La
Leidenschaft è originaria e metafisica, da essa non possiamo liberarci e
riconoscere la sua centralità è la condizione di possibilità per il nuovo
inizio del pensiero auspicato da Grassi. Per il filosofo “in questo
orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza
come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra il
carattere patetico e passionale del pensiero”434. Tale pathos metafisico e
originario è un’urgenza che non può essere Id., Il problema del sublime, pp.
917-943, in Id, I primi scritti, cit., p. 935. 433 Ibidem. 434 Id., L’inizio
del pensiero moderno, cit., p. 824. I corsivi sono nostri. ! 147!
dedotta né mediata poiché ci sopraggiunge così come l’aporia platonica, che
abbiamo ritrovato in Il problema della metafisica platonica, e il dubbio
cartesiano di Dell’apparire e dell’essere e di L’inizio del pensiero moderno.
Per Grassi Cartesio, tanto criticato dal filosofo negli ultimi scritti, ha il
merito di aver portato ad espressione un significato patico-esistenziale del
dubbio, che dall’interpretazione tradizionale è stato unicamente ridotto ad
epochè del giudizio, e quindi a stallo conoscitivo. Il dubbio cartesiano,
invece, si mostra come la condizione di possibilità affinché si dia il sapere
in tutte le sue forme. Tuttavia Cartesio per Grassi non ha portato fino in fondo
il suo discorso, inclinando piuttosto verso una impostazione gnoseologistica
del sapere, non traendo quelle conclusioni a cui erano pervenuti gli Umanisti.
Le riflessioni grassiane hanno messo in luce il pathos come esperienza di ciò
che è primo e indeducibile razionalmente perché fondamento di ogni deduzione:
“l’essenza della forma del rivelarsi di qualcosa di originario e di primo, o
anche del pensiero, risulta essere la passione, e precisamente non la passione
in senso psicologico ma in senso metafisico”435. La Leidenschaft consente di
ripensare l’idea di soggettività: il soggetto non ha un carattere soggettivo o
individualistico, esso “è essenzialmente ciò che soggiace al primo,
all’originario”436. In quanto upokeimenon o sub-jectum il soggetto patisce il
reale, che si mostra nel suo carattere di istantaneità (Augenblick):attraverso
il pathos facciamo esperienza della realtà nell’istante, in quella visione
istantanea a cui dobbiamo corrispondere implementando progettazioni di mondi
umani dalle forme molteplici (l’arte, la poesia, il sapere, la prassi, la
politica sono le forme in cui l’uomo risponde agli appelli dell’essere). In
ogni momento della vita l’uomo si trova a dover portare avanti il suo impegno,
il suo sforzo di esistenza, la sua diligentia (termine mutuato da Leonardo
Bruni), che rendono palese il suo essere irrevocabilmente compromesso con il
mondo circostante. Ivi, p. 846. 436 Ivi,
p. 847. ! 148! Secondo Grassi “in ogni atteggiamento originario non
possiamo mai scegliere la nostra occupazione, perché la nostra scelta sta già
sotto il segno di ciò che ci occupa. Non siamo noi ad occuparci delle cose, ma
sono le cose stesse – in virtù della loro distinzione – a tenerci occupati”437.
Il filosofo pone come indeducibili forme del manifestarsi del reale il vero, il
buono e il bello: il sapere, l’azione e l’arte sono i modi in cui si mostra, in
cui appare il mondo e non c’è priorità di un momento sull’altro ma nesso dei
distinti. Occorre ripensare l’autonomia delle forme del rivelarsi del reale, pur
tenendo in considerazione la fondamentale unità che le contraddistingue: esse
sono modi autonomi, distinti, di manifestazione dell’essere, sono Lichtungen
del reale, aperture di contesti significativi, tutti accomunati dall’azione di
ordinamento conferito al mondo. Il pathos è l’avvertimento della non-
indifferenza del mondo circostante, è l’esperienza della costrizione e del
vincolo, del legame indissolubile uomo-mondo: “per il fatto che veniamo
strappati, nell’esperienza del dubbio, all’indifferenza verso la totalità
dell’ente, si presenta anche una separazione del nulla dall’essere, e tuttavia
il nulla non è affatto prima dell’essere bensì entrambi vengono partoriti come
gemelli nel medesimo istante. Perciò i Greci parlavano dell’aletheia, del non
latente [Un-Verborgene], come del vero, perché tutto ciò che si mostra viene
sottratto alla latenza solo dall’esperienza del dubbio, che lascia rilucere gli
opposti”438. Nella Leidenschaft, nel patire il dubbio a cui non possiamo
sottrarci, rintracciamo l’essenza del sapere: il sapere nasce dalla messa in
questione del mondo circostante per ricercarne il fondamento, si tratta di una
ricerca a cui ci sentiamo costretti, che incombe su di noi. Tale carattere
costrittivo e urgente del fondamento è ciò che Grassi trova teorizzato nel
concetto aristotelico di archè o assioma: “questa dottrina è ciò che esprime
Aristotele quando dice che i principi originari o assiomi, come lui li chiama,
che sono il fondamento di ogni dimostrazione, non hanno un carattere apodittico,
bensì elenchico, cioè non possono venire dimostrati [...] ma si mostrano da se
stessi in quanto anche colui che li nega, deve presupporli e impiegarli. Così
questi principi fondamentali dimostrano se stessi nella misura in cui non ci
lasciano liberi”4 Ibidem. 438 Id., Il reale come passione e l’esperienza della
filosofia, pp. 995-1029, in Id., I primi scritti, cit., p. 1003. 439 Ivi, p.
1005. ! 149! Possiamo dare per acquisito che in Grassi non c’è un
rapporto dualistico logos-pathos, per cui da una priorità giovanile del logos
si passerebbe alla matura posizione della preminenza del pathos. I due momenti
sono sempre interrelati tanto da confondersi in una paradossale unità che è al
tempo stesso dualità. É lo stesso pensatore a domandarselo e a individuare il
problema di una connessione dinamica tra logos e pathos: “ora esiste un’unità
che sia al contempo dualità? Ogni differenziale, cioè il compiersi di un atto
unitario, fa apparire ciò che è differenziato nella misura in cui quest’ultimo
si determina [...] quest’atto del separare rivela dunque essenzialmente una
realtà fantastica, dove l’espressione fantastico non viene tratta dalla
fantasia come attività distinta dall’intelletto, bensì dalla fantasia secondo
l’espressione greca phainesthai, mostrarsi”440. Secondo Grassi l’accadere,
l’apparire, la manifestatività vanno interpretati al di fuori dell’opposizione
logos-pathos, tale dualità è solo secondaria e derivata, poiché primario e
originario è l’atto in cui si mostra l’essere nella sua processualità dinamica:
in tale processualità dinamica le coppie oppositive “in sé-per noi”,
“uno-molti”, “logos-pathos” perdono i contorni netti e definiti di polarità
antitetiche, tra cui non è possibile gettare un ponte, per divenire realtà
mobili e fluide. La struttura dinamica e processuale della realtà è resa dal
filosofo attraverso l’immagine della scena/accadere scenico/allestimento
(Schau-Stuck): “soltanto in questo accadere si radica il singolo soggetto
concreto, il quale possiede un oggetto correlativo, perché la scena,
l’allestimento, prescrive a entrambi dei ruoli determinati [...] l’allestimento
è dunque l’originario, in cui i singoli elementi del molteplice risultano
visibili in virtù del ruolo che la scena prescrive loro”441. Tale scena
originaria regge il fondamento della vita: è la sua condizione trascendentale.
Essa è definita anche scena fantastica proprio perché scena e fantasia si
configurano come un tutto unitario, a priori e sintetico. La scena forma in via
primaria relazioni, atti di collegamento, è l’orizzonte di ogni veduta
possibile, così come la fantasia è la facoltà di apprensione di questa scena.
La fantasia in Grassi va intesa come la facoltà di formazione della
veduta/scena (schau) che ha la funzione di schema trascendentale: “l’elemento
originario dell’esperienza sensibile – come in generale di ogni forma
dell’apparire dell’ente non è quindi una dualità di oggetto e soggetto né
una Ivi, p. 1012. 441 Ivi, p.
1013. ! 150! molteplicità di esperienze sensibili, bensì una unità
che si compie, che rivela se stessa nel discernere e nel separare [...] la
scena fantastica, il mostrarsi, non vale soltanto per la determinazione
filosofica dell’ente o per quella dell’ente sensibile, bensì per l’ente nella
sua totalità”442. Interpretata in questo modo la fantasia appare come facoltà
del lasciar apparire, dell’Erscheinenlassen che è al contempo il
Sich-Offenbaren, l’automanifestazione, dell’oggettività. Lo svelarsi originario
dell’essere ha carattere eidetico e immediato, esso si manifesta nell’istante indeducibile
perché arcaico-fondativo della “visione pato-logica. La realtà nella sua
automanifestatività si impone nella sua Nötigung, nell’accadere dell’attimo
della visione il cui fenomenizzarsi è il dubbio. III. VII. L’analitica
esistenziale: dismondanizzazione, assenza di mondo e coscienza temporale
umanistica Per comprendere meglio le categorie dell’analitica esistenziale
elaborata da Grassi vorremmo concentrarci sull’esperienza sudamericana del
filosofo mossi dal convincimento che essa costituisca una tappa fondamentale
nell’elaborazione di alcune categorie concettuali elaborate dal filosofo:
dismondanizzazione e assenza di mondo; coscienza temporale umanistica; natura.
Tali plessi concettuali, presenti soprattutto nei saggi Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività
(1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955),
Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959)443, sono correlati al tema della
manifestatività dell’essere, emergente nei primi scritti, quali Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere
(1933), Il problema del logo (1936), Il problema Ivi, p. 1014. 443 Cfr., Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 201-206; L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, cit., pp. 65-72; Apocalisse e storia, cit., pp. 7-20,
L’esperienza dell’assenza di mondo, in “Aut-Aut”, 1955, 2, XXVI, pp. 97-119;
Mito e arte, in “Rivista di filosofia”, Torino, 1956, 2, XXVII, pp. 140-164;
Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma 1959, pp. 217-147. !
151! del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del
pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il
reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945)444. Come abbiamo
visto in precedenza in questi saggi vengono in luce le questioni dell’essere,
dell’apparire e della manifestatività, che testimoniano la volontà grassiana di
recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una
forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico,
ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme
dell’apparire. Come è noto, in questo tentativo Grassi coniuga il tema
attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della
differenza ontologica,445 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione
della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale, non come
esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte, ma come fondamento
dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Nel suo percorso
onto-antropo-logico si segnalano alcuni testi per la curiosa correlazione che
si viene ad istituire tra gli innumerevoli riferimenti all’esperienza di viaggio
sudamericana e l’analitica dell’esistenza: mi riferisco ad Arte e mito e
Viaggiare ed errare, oltre che, naturalmente, ai saggi prima citati Assenza di
mondo, L’esperienza dell’assenza di mondo, Mito e arte, i quali costituiscono i
maggiori contributi che Grassi ha dedicato al tema “Sudamerica”. III. VIII.
L’importanza del viaggio in Sudamerica Aveva asserito Kant nella Prefazione a
Antropologia pragmatica che “ai mezzi per l’ampliamento dell’antropologia
appartiene il viaggiare”446 e Grassi non sembra sia stato insensibile I saggi sono raccolti in E. Grassi, I primi
scritti 1922-1946, cit. 445 Per una ricostruzione dettagliata delle tracce
gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi cfr., Rita
Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra
filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica,
pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti,
cit., pp. IX-LXXXVII. 446 I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. di G.
Vidari, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4. ! 152! a questa affermazione
kantiana: lo attestano i numerosi viaggi che per tutta la vita ha condotto in
giro per il mondo alla ricerca di occasioni di riflessione sul “tema uomo”.
Viaggio e riflessione antropologica: l’accostamento non risulterà peregrino se
si accantona – come fa il filosofo italiano– un’idea di natura umana fissa e
immutabile, chiusa nei confini di una razionalità auto-riferita, per accogliere
l’idea di una condizione umana, tema di un neo-umanesimo attento alla
multilateralità della vita, alla polidimensionalità del reale, e, dunque, alle
molteplici forme di apprensione dell’essere e di dizione dell’essere. Il legame
tra il viaggio e l’elaborazione di categorie esistenziali volte ad un rinnovamento
neo-umanistico della filosofia è del resto esplicitato dallo stesso filosofo
che nella Prefazione a Viaggiare ed errare afferma che le “annotazioni
sull’incontro con il continente sudamericano sono sorte dalla verifica costante
di categorie e concetti fondamentali europei: non sono quindi né espressioni di
rinuncia al nostro mondo europeo né una descrizione esteriore della realtà
sudamericana. Spazio, tempo, parola, arte, tutto acquisisce laggiù nuovamente
un significato originario che in Europa abbiamo spesso dimenticato”447.
Corredato da una fitta trama di descrizioni paesaggistiche, di situazioni
emotive, di relazioni, presenze e assenze che il viaggio in Sudamerica aveva
suscitato nel filosofo il testo Viaggiare ed errare presenta, accanto alla
narrazione di esperienze comuni, una interpretazione prospettica di una realtà
nuova, fatta di rovine antiche, foreste sterminate, indigeni e animali che non
costituiscono solo allegorie di ciò che sfugge alla comprensione filosofica, ma
sono l’occasione di esperire il “totalmente altro”. Per Grassi il viaggio può
avere questo significato solo se lo si correla al luogo preciso in cui è
avvenuto: il Sudamerica. Perché? Come abbiamo visto in precedenza quello in
Sudamerica non è il primo viaggio né l’ultimo di Grassi, eppure in questo
territorio si realizza una presa di coscienza molto forte dei limiti e delle
possibilità della filosofia occidentale. Su questi limiti e possibilità il
pensatore ha ragionato una vita intera, ma Le citazioni riportate di seguito
fanno riferimento all’edizione italiana del testo di Grassi: E. Grassi,
Viaggiare ed errare. Un confronto con il Sudamerica, tr. it. di C. De Santis, a
cura di M. Marassi, La Città del Sole, Napoli, 1999, p. 27. Il testo ha avuto
tre edizioni Reisen ohne anzukommen. Südamerikanische Meditationen, Hamburg,
Rowohlt, 1955; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika,
Munchen-Gutersloh-Wien, Bertelsmann, 1974; Reisen ohne anzukommen. Eine
Konfrontation mit Südamerika, Chur, Ruegger, 1982. ! 153! lì, in
Cile e in Brasile, nella fitta vegetazione della foresta, sulla catena delle
Ande, ciò che il filosofo milanese sperimenta non è un ragionamento. Lì patisce
e vive una situazione contraddittoria: storicità e astoricità; natura e techne.
Il Sudamerica è il luogo in cui si consuma la dissoluzione delle categorie
storiche e si dà la possibilità di riflettere sulla condizione umana. Leggiamo
in Viaggiare ed errare: “una volta si sapeva dove si era di casa; ci si sentiva
protetti nel mondo sicuro della tradizione, ci si poteva recare in paesi
stranieri con il proprio blasone e si ritornava a casa senza turbamenti. Ma
noi? Dove siamo di casa?”448. Il testo, allora, non è un esempio, l’ennesimo,
di letteratura odeporica, solo un resoconto autobiografico, un diario di
impressioni del viaggio da Madrid a Barcellona, fino in Brasile e Cile. In esso
si raccolgono le idee più interessanti circa il viaggio come evento semiotico:
oltre a Reisen ohne anzukommen degne di nota sono le osservazioni sparse in Kunst
und Mythos449. In questi testi il viaggio è inteso come la metafora in cui
viviamo, come condizione, situazione, e circum-stantia e le descrizioni narrate
“non vogliono essere semplici descrizioni; vogliono piuttosto far luce su tutte
quelle seduzioni che turbano l’uomo moderno occidentale quando viene a contatto
con mondi nuovi”450. Ha sottolineato acutamente questo aspetto Giuseppe
Cacciatore che ha dedicato al tema grassiano del viaggio un saggio: América
latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje” Ivi, p. 33. 449 Il
testo, edito per la prima volta in tedesco nel 1957 con il titolo Kunst und
Mythos, Hamburg, Rowohlt 1957, e ristampato nel 1990 in un’edizione riveduta e
ampliata dall’autore, costituisce la rielaborazione di un articolo che Grassi
pubblica nel 1956 sulla “Rivista di filosofia”, in lingua italiana dal titolo
Mito e Arte, cit., pp. 140-164. 450 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p.
34. 451 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofia
del viaje”, cit. Pubblicato precedentemente in italiano con il titolo America
latina e pensiero europeo nella filosofia del viaggio di Ernesto Grassi, in
“Cultura latinoamericana”, Annali 1999-2000, nr. 1-2, pp. 367-381. Come è noto,
nella vastissima e variegata produzione saggistica di Cacciatore il riferimento
alla figura di Ernesto Grassi compare soprattutto nei lavori vichiani dello
studioso in cui l’accento verso i temi della rivalutazione vichiana della
sapienza poetica, del ruolo antropogenetico della fantasia, di quello
arcaico-fondativo del mito e dell’ingeniosa ratio trova non poche affinità con
le analisi svolte da Grassi. Al riguardo cfr., soprattutto G. Cacciatore-G.
Cantillo, Studi vichiani in Germania 1980-1990, in G. Cacciatore-G. Cantillo (a
cura di), Vico in Italia e in Germania, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 37; Id.,
Poesia e storia in Vico, in F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico. Vico nel
mondo, Guerra, Perugia 2000, p. 144, nota 5; G. Cacciatore, Vico: narrazione
storica e narrazione fantastica, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E.
Nuzzo-M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici,
Guida, Napoli 2004, p. 120, nota 10; Id., Le facoltà della mente ‘rintuzzata
dentro il corpo’, in Il corpo e le sue facoltà. G.B. Vico, in G. Cacciatore, V.
Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna e A. Scognamiglio (a cura di) in
«Laboratorio dell’ISPF» (www.ispf.cnr.it/ispf-lab), I, 2005, ISSN 1824-9817, p.
104, nota 41; Id., L’ingeniosa ratio ! 154! de Ernesto Grassi,
concentrandosi in particolar modo sul testo Reisen ohne anzukommen. Lo studioso
mette in luce uno spettro semantico ampio del viaggio: è possibile individuare
un significato ontologico; teorico-storico; cognitivo; simbolico-metaforico.
Vorremmo soffermarci sui quattro sensi del viaggio in Grassi individuati dallo
studioso, con lo scopo di mostrare che l’esperienza del viaggio sudamericano
non è marginale nella riflessione del filosofo poiché si inserisce nel cuore
della sua prospettiva onto-antropo-logica e diviene decisiva nella messa a fuoco
dei concetti di dismondanizzazione e assenza di mondo452, che insieme a quelli
di coscienza temporale umanistica e oggettività, costituiscono le categorie
dell’analitica esistenziale grassiana. Cacciatore afferma che il senso
ontologico del viaggiare è rintracciabile nello stesso titolo tedesco: Reisen
ohne annzukommen indica il “viajar humano sin arribos, sin metas prefiguradas”.
El viajero [...] llega a un nuevo mundo cargado de bagajes conceptuales,
orgulloso y seguro de su patrimonio cultural y de su tradiciòn històrica”453. E
tuttavia al cospetto di un mondo totalmente estraneo Grassi sente di non poter
più fare affidamento sul proprio corredo categoriale. Occorre un mutamento di
prospettiva, una svolta. In quanto viaggiatore in terra straniera Grassi si
sente anche viaggiatore nell’interiorità, e il malessere vissuto dal filosofo
per l’opposizione tra un’idea di Europa da cui ritiene di doversi congedare e
la volontà di ricostruire un neoumanesimo all’insegna di un rinnovamento dei
concetti di Vico tra sapienza e prudenza, in C. Cantillo (a cura di), Forme e
figure del pensiero, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 225, nota 1; Id., Il
mare metafora del limite e del confine, in S. Amendola- P. Volpe (a cura di),
Il mare e il mito, M. D’Auria editore, Napoli 2010, p. 49; Id., In dialogo con
Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. 452 Ovviamente le categorie
ora menzionate risentono della trattazione heideggeriana di Welt e Umwelt e in
generale della riflessione degli esponenti dell’antropologia filosofica e della
biologia teoretica coeve, che Grassi conosceva molto bene: Scheler, Plessner,
Gehlen, Uexküll, Driesch. Cfr., E. Grassi, Linee di filosofia tedesca
contemporanea, in Id., I primi scritti 1922-1946, cit., pp. 299-332, Il
problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-228, La
filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in “Actas del Primer Congreso
Nacional de Filosofia”, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo
III; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; Id.,
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 453 G.
Cacciatore, America latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. ! 155! fondamentali
del pensiero occidentale, si palesa soprattutto nelle pagine dedicate al
concetto di “dismondanizzazione”. III. IX. Dismondanizzazione e assenza di
mondo Egli sostiene che “le molteplici ragioni della dismondanizzazione ci
sopraffanno e possono condurre all’immobilità, alla completa apatia. Ogni
processo di dismondanizzazione incomincia dal terrore avvertito per la
scomparsa del consueto”454. Una spaesatezza, una solitudine esistenziale che
sorge non solo in terra straniera ma anche nella propria patria. Si tratta del
terrore primordiale della selva di cui ci parla Vico secondo il quale “grazie
alla radura aperta nella foresta originaria divengono possibili non solo lo
spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”455. Il
filosofo ritiene che “anche in Europa si prende congedo dal proprio mondo. La
speranza di liberarci in qualche modo, in chissà quali paesi lontani, dai
nostri dubbi, è solo espressione del fatto che non ci sentiamo più a casa negli
spazi della nostra storia”456. Nel pathos dell’angoscia e della noia per Grassi
noi esperiamo la dismondanizzazione e la possibilità allo stesso tempo di
generare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare
quell’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di
orientamenti precostituiti. I due concetti – dismondanizzazione e assenza di
mondo – indicano due fenomeni diversi, ma connessi, che possono essere compresi
meglio ricorrendo ad una metafora molto cara a Grassi, quella della luce:
“assenza di mondo” come aurora e “dismondanizzazione” come tramonto dell’uomo.
La condizione di assenza di mondo (aurora) è quella dell’uomo primitivo o delle
origini, immerso nella realtà circostante che è astorica, mitica, ripetitiva e
di cui Grassi crede di poter fare esperienza nell’ingens sylva sudamericana,
che in realtà Id., Viaggiare ed errare,
cit., p. 126. Corsivo nostro. 455 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 251.
456 Id., Viaggiare ed errare, cit., Ivi, p. 49. ! 156! si rivela
essere solo una selva ideale. Il pensatore ritiene che “la condizione di
assenza di mondo inizia, infatti, ogniqualvolta una cultura si trova a una
svolta decisiva”457. L’esperienza della realtà nella condizione di assenza di
mondo si caratterizza per l’incapacità umana di orientamento: infatti “non
appena quest’ordine comincia a vacillare, l’uomo esperisce improvvisamente che
le direttive consuete non sono più valide”458. In questo momento di svolta
inizia la storia dell’uomo come “storia del suo accadimento”. Secondo Grassi
“la storia dell’uomo è quindi espressione di ciò che lo costringe continuamente
[...] a stare su una soglia, a partire dalla quale egli traccia linee di
confine tra scelto e non scelto, tra ricordato e dimenticato, tra ordinato e
non ordinato. A partire da questa soglia si aprono i confini del mondo in cui
viviamo. Il progetto, attraverso il quale di volta in volta aderiamo sempre a
ciò che ci riguarda e ci mette in tensione, costituisce il nuovo spazio
spirituale in cui ci muoviamo”459. Nella condizione di assenza di mondo l’uomo,
come l’animale, è totalmente immerso in un cerchio funzionale simbolico che ad
un certo punto si disintegra e lo getta in una condizione di spaesatezza che lo
costringe a trovare codici di interpretazione del reale: “poiché l’uomo esce dalla
natura e in essa non è più al sicuro, egli progetta criteri sulla base dei
quali costruire il suo mondo”460. La condizione di dismondanizzazione
(tramonto) è quella che caratterizza l’uomo occidentale che cerca nuovi
strumenti per abitare il mondo, avendo sperimentato l’inutilità e il danno
delle proprie categorie filosofiche. Essa è ben distinta da “una rinuncia
volontaria al mondo: è anzi il contrario. Questa esperienza di
dismondanizzazione nasce dallo sgomento che tutto quello che di solito ci circonda,
e che con gli anni abbiamo costruito come un nostro ambito, viene a mancare”
Ivi, p. 132. 458 Ibidem. 459 Ivi, p. 146. 460 Ibidem. 461 Id., Assenza di
mondo, cit., p. 222. ! 157! Nel primo caso si tratta di una
situazione di privazione originaria che dice della gettatezza dell’uomo
nell’aperto – la Lichtung – della propria esistenza, privazione che al contempo
è condizione di possibilità affinchè l’uomo divenga uomo e l’ambiente naturale
divenga mondo. Nel secondo caso siamo di fronte ad una dimensione di perdita
delle coordinate categoriali classiche del pensiero occidentale. L’esperienza
della dismondanizzazione e di assenza di mondo non sono nient’altro che il
regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni
orientamento ma in cui Angst e Langweile agiscono quali operatori metafisici
nel contesto della Lichtung che, come ci ricorda Agamben, “è veramente in
questo senso, un lucus a non lucendo: l’apertura che in essa è in gioco è
l’apertura a una chiusura e colui che guarda nell’aperto vede solo un
richiudersi, solo un non-vedere”462. Grassi asserisce che “in quest’esperienza
siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra
dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti,
tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per
costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”463. Nel
viaggio in generale e in quello sudamericano in particolare noi facciamo
esperienza di una epochè dell’abituale e del consueto e constatiamo il
vacillare dell’esistenza, il nostro non poterci tenere a niente. Emerge in
aggiunta al tema dell’esperienza dell’eventualità/Lichtung dell’essere, che
l’alterità radicale del mondo sudamericano rappresenta in maniera esemplare, la
questione non marginale del pathos: per Grassi esso ha una componente
metafisica e non psicologica, dal momento che grazie ad esso facciamo
esperienza dell’originario. Come è noto, la passione per il filosofo ha anche
un significato arcaico nel senso di fondativo poiché consente di prendere
coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia
come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. Afferma
Grassi che “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè,
potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe
! G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002,
p. 71. 463 E. Grassi, Assenza di mondo, cit., p. 226. ! 158! come
destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”464. La
Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft.
Possiamo rintracciare un secondo senso del viaggio sudamericano:
teorico-storico. Come ricorda Cacciatore “en uno de los ùltimos capìtulos del
libro, el filòsofo traza la lineas de una autèntica, aunque breve, teorìa e
historia del viaje, centrada en la significativa diferencia que caracteriza las
relaciones y las descripciones de los viajeros de la edad moderna y las de los
contemporaneos”465. Differenza che testimonia anche il profondo mutamento
storico tra un’epoca, quella moderna, in cui le categorie filosofiche erano
forti e la ragione non aveva ancora perso la propria terraferma; e l’epoca
contemporanea che vive i tormenti della propria debolezza categoriale
sgretolandosi pian piano. La Conclusione di Reisen ohne anzukommen, che reca il
suggestivo titolo di Filosofia e Paesaggio, in cui è narrata questa breve
storia del viaggio, mette in luce, inoltre, la correlazione del viaggiare con
l’idea di paesaggio. Grassi si pone un interrogativo sul paesaggio e sul suo
paradossale nesso con la filosofia. La domanda si sviluppa in una breve storia
in cui entrano in scena personaggi – Platone, Petrarca, gli umanisti, Herder,
Melville – che sul paesaggio si sono espressi. Il filosofo si chiede: “che
cos’è il paesaggio? Che cosa può produrre insieme alla filosofia? [...] il
paesaggio può offrire lo spunto per riflessioni teoretiche, dal momento che il
piacere che esso suscita si avvicina alla sfera dell’arte?”466. Rispondere a
questa domanda significa porre in atto una vera e propria rivoluzione
filosofica, una Kehre: abbandonare le categorie della razionalità astratta e
fare posto agli elementi mitici e poetici, alla dimensione del pathos che
schiudono una modalità di esistenza autentica in cui la potenza delle immagini,
a cui è inevitabilmente associato il paesaggio, diviene la linfa vitale della
filosofia. Secondo il pensatore il paesaggio “non ha nulla di ovvio, anche se
tutti Id., Il dramma della metafora,
cit., p. 131. 465 G. Cacciatore, Amèrica latina y pensamiento europeo, cit., p.
80. 466 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 173. ! 159! credono che
esso sia immediatamente accessibile dal momento che lo si vede; il goderne non
richiede alcuna riflessione, ma è impossibile esprimere la sua essenza senza
riflettere”467. Esso mostra e indica la contraddizione tra ciò che ci sovrasta
nella sua immensità, riluttante a qualsiasi espressione univoca e definitiva, e
la volontà umana di comprensione. Il paesaggio ci mette di fronte alla nostra
incapacità di interrogare in modo nuovo ciò che ci circonda: l’essere. Quelle
che sono annotazioni di viaggio, riflessioni e considerazioni si rivelano come
i punti di partenza di interrogativi filosofici ineludibili e pressanti.
Ineludibilità e necessità che contraddistinguono anche il paesaggio: “qui il
paesaggio sembra una realtà alla quale non possiamo sottrarci”468. Un ulteriore
significato del viaggio è quello cognitivo. L’esperienza di viaggio si carica
di una valenza cognitiva poiché consente quella relazione del sé stesso con
l’altro che è fonte di ricchezza quanto più profonda risulta la distanza, la
cesura, lo iato. Come afferma Cacciatore in America latina “en esta experiencia
cognitiva [...] el viaje y la partida misma tienen sentido en la medida en que
remiten immediatamente al retorno, a la estaciòn originaria. Por ello la
confrontatiòn de Grassi con Sudamérica es un relacionarse del Sì mismo con el
Otro, però tambièn un hallarse el Otro en las raìces històricas y culturales
del Sì mismo”469. In questo contesto di relazioni con l’alterità in tutte le
sue forme – l’altro uomo, l’altra cultura, e la suprema alterità rispetto al
nostro mondo storico, la natura – la distanza assume un ruolo fondamentale
quale esperienza catalizzatrice della cognizione che nel viaggiare si realizza.
Secondo il filosofo milanese, che menziona in modo innovativo un tema che nella
filosofia sicuramente è inusuale, l’organo di misurazione delle distanze è
l’olfatto, che meglio del tatto e della vista riesce a restituire tutta la
“potenza della distanza”. Egli afferma in Viaggiare ed errare che “a
Casablanca, la tappa successiva del nostro viaggio, viene in primo piano ciò
che a Madrid era solo annunciato in modo vago. Il mondo chiuso della tecnica,
che nel frattempo si era ridotto a una cabina d’aereo, si riapre: una realtà
completamente nuova, che ancora non si vede, Ivi, 179. 468 Ivi, p. 184. 469 G.
Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 81. !
160! che non si può nemmeno cogliere con l’udito [...] anche il tatto non
può far altro che occuparsi della cartella che d’abitudine ci si porta
appresso. Ma improvvisamente all’olfatto spetta un inatteso primato [...] è attraverso
l’olfatto che sorprendentemente si percepisce la distanza”470. L’esperienza
cognitiva del viaggio in Sudamerica si configura come un movimento verso
l’ignoto e l’abissale i cui effetti sono incerti: l’incontro con l’altro può
avere un esito liberatorio o distruttivo471, può indurre l’uomo a rinunciare
alla sua storia particolare, ma può anche sollecitarlo a dubitare del tutto
della realtà storica. Quest’ultimo aspetto è particolarmente problematico:
l’insistere del filosofo milanese sull’opposizione tra natura e storia, tra
Sudamerica e mondo europeo, appare poco argomentato e poco incline a
mediazioni, tracciando una cesura ontologica tra l’uomo sudamericano e quello
europeo. Occorre prendere “la expresiòn grassiana naturaleza no historica con
mucha cautela”472. Nonostante le dovute cautele rispetto a quelle espressioni
che cristallizzano le opposizioni tra una presunta temporalità ontologica e
immobile – quella sudamericana – e una temporalità storica – quella europeaa –,
bisogna riconoscere il merito del filosofo per aver eletto il viaggio
sudamericano a occasione per ripensare e rinnovare i termini e i limiti dello
strumentario concettuale dell’Occidente. La posizione di Grassi che guarda
all’Europa nei termini di un “relitto di una vita inattuale” e al Sudamerica
come natura astorica non passa inosservata: i colleghi universitari, primo fra
tutti Carlos Astrada, ma anche Juan Rivano, in La Amèrica ahìstorica y sin
mundo del humanista Ernesto Grassi, e Humberto Giannini, in Experiencia y
Filosofìa473, non potevano accettare le affermazioni del filosofo italiano
senza qualche riserva. Tuttavia Grassi intende questa assenza di storia in modo
più complesso e articolato: essa dice della possibilità del nuovo474. Se
l’Europa ha esaurito tutte le sue possibilità il Sudamerica, per il
primitivismo che la contraddistingue,
470 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 55. 471 Ivi, p. 50. 472 G.
Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 86. 473 Per una
ricostruzione dell’intera vicenda cfr., J. Barcelò, op., cit., pp. 252-253. 474
E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 24. ! 161! non è ancora
stata sopraffatta dall’asfissia storia: “abbandonata una vita carica di storia,
aspiriamo all’altro mondo in cui speriamo di trovare soprattutto l’astorico. Tuttavia
non troviamo questo, ma una storia che inizia, una storia completamente
estranea a noi europei d’oggi [...] laggiù la vita respira completamente
nell’atmosfera di fine secolo e ci appare come un passato che non è ancora
riuscito a diventare definitivamente passato. Esso continua a vivere nel nostro
presente, ma sembra estraneo e superato”475. Un ultimo aspetto del viaggio è
quello simbolico-metaforico. Nel percorso di ampliamento dei propri
orientamenti conoscitivi ed esperienziali traspare il motivo della ricerca
delle proprie origini. In questa ricerca delle origini e degli inizi
dell’umanità si fa esperienza di immagini inedite e di un accesso alla realtà
notevolmente diverso. Quando Grassi descrive il passaggio per la grande catena
montuosa delle Ande sta narrando una storia che emblematicamente ci ricorda il
vichiano “divagamento ferino per la gran selva della terra” della Scienza
Nuova. Ma non si tratta semplicemente di una reminiscenza filosofica: in quel
momento Grassi non cita Vico, ma descrive, vedendolo, quello che Vico aveva
ipotizzato: “vagando in questo territorio, si aprono continuamente nuove
prospettive. É l’accesso a un mondo inquietante: come potrebbe infatti un
essere vivente storico ritrovare il proprio orientamento in questo silenzio, in
queste ombre, in queste fosse? [...] ma questo non è il caos stesso? Anzi è il
caos inteso non nel senso di disordine, ma nel senso che a qualsiasi forma può
essere impresso un ordine [...] qui nelle Ande esperiamo la realtà di un mondo
di pure possibilità”476. La natura, l’ingens sylva, appare, allora, come la
metafora di quello spazio edificabile nel quale si apre all’uomo lo spettro di
possibilità inedite di instaurare il mondo umano, quel mondo storico che solo
con cautela possiamo opporre alla natura. Un mondo in cui la questione
onto-antropo-logica viaggia sul doppio binario dell’oggettività data – la
natura, il mitico, l’astorico, l’essere – e dell’operazione di determinazione
di tale oggettività – la progettualità umana, la genealogia dell’ordine e della
storia, quella che Grassi definisce “coscienza temporale umanistica”. Da questo
percorso di transizione, che è il viaggio, verranno in superficie, contro la
ragione totalitaria, la ragione Ivi, p.
69. 476 Ivi, pp. 80-81. ! 162! frammentaria, inquieta, balbettante,
critica e discontinua, da sempre trattenuta nei silenzi e nelle pieghe nascoste
del logos, ma presente nel mito e nella tragedia, nella metafora e nella
fantasia. Il viaggio inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione,
e circum-stantia, è motivo centrale della riflessione filosofica di Ernesto
Grassi e pone in luce il legame indissolubile e non estrinseco tra il luogo
geografico di elaborazione di questi innumerevoli significati del viaggio, il
Sudamerica, e l’idea di filosofia del pensatore milanese. Un’idea che si
costruisce intorno ad un progetto di riattualizzazione della problematica
umanistica e dei concetti di retorica, metafora e ingegno, ripercorrendo
itinerari poetici, teatrali, filosofici, artistici, che pongono in luce un
senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un
significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum
univoco. Anzi, secondo Grassi è nella pluralità delle parole, nei verba che
possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti,
molteplici, contingenti, transeunti. L’attenzione alla multilateralità del
reale, che si rivela nella polidimensionalità linguistica, si colloca nel
contesto più generale della domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo.
Si tratta del problema onto-antropo-logico a cui gli scritti grassiani di
retorica, metaforologia, umanesimo477 tentano di dare delle risposte. Il
Sudamerica diventa l’occasione per un ripensamento del proprio passato filosofico
e per gettare luce su un presente avvertito come estraneo. Grassi ha voluto
confrontare la sua esperienza di europeo con il modo di vivere sudamericano,
assillato dal dubbio intorno alla validità universale delle categorie della
storicità e della tecnica dominanti in Europa, scoprendo una serie di aspetti
inediti della cultura americana: innanzitutto l’esperienza dei sensi, che non è
la pura e semplice empeiria, ma il luogo visibile del dissidio e della
contraddizione, come testimoniano gli scorci descrittivi delle località cilene.
Il filosofo asserisce in riferimento al soggiorno cileno di trovarsi in una
realtà che è al contempo unità e molteplicità senza relazione: “ci troviamo nel
nord del Cile, nella contrada delle grandi miniere di rame, !Cfr., soprattutto
E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit.; Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; Id., Umanesimo e retorica. Il
problema della follia, tr. it., di E. Valenziani e G. Barbantini, Mucchi,
Modena 1988; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit.;
Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Vico e l’umanesimo, cit.; Id., Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, cit. ! 163! in prossimità
del confine peruviano a 3800 metri di quota [...] mi confonde il fatto di
essere abituato a costruire la realtà mediante una combinazione di diverse
esperienze sensibili, e per la prima volta apprendo che i sensi, abbandonati a
se stessi e non ordinati dall’intelletto, rivelano il contraddittorio nella sua
essenza: la realtà è contemporaneamente un’unità e una molteplicità senza
relazione”478. Oltre all’esperienza dei sensi, un altro concetto importante che
emerge dai resoconti del viaggio sudamericano, è quello di oggettività: i sensi
non rivelano solo qualcosa di soggettivo e di transeunte, ma l’oggettivo. I
concetti di natura e oggettività si legano profondamente a quelli di mito, di
cominciamento, di originario che solo la poesia può dire e non la filosofia,
che si muove nell’ambito del deduttivo e dunque del non-originario. Per Grassi
“non basta il sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principii nei
quali ancorare tutti i nostri progetti”479 ma bisogna tentare di ricostruire le
tappe di una “sapienza arcaica”, o di una “sapienza poetica”, per usare un
binomio vichiano, in cui si rinnovano i significati di teoria e prassi e si fa
spazio ad un concetto di pistis che esula dai limiti definiti della religione
per rivelarsi come il fondamento della retorica originaria: “questo
riconoscimento capovolge diametralmente il rapporto tra pistis e logos. La
pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile perché fondamento di ogni
spiegazione, è propria del mondo originario”480. Nell’esperienza sudamericana
l’oggettivo appare come una natura che non è più umanizzata e soggiogata, ma
che domina l’uomo. Essa diviene smisurata, infinita, sconfinata, apocalittica e
si sottrae ad ogni orientamento, criterio e progetto, in una ripetizione
ciclica, in un eterno presente. Asserisce il filosofo che “lo spazio astorico
della natura può quindi suscitare nell’uomo europeo un terrore sconcertante.
Una volta spezzata la coercizione delle passioni, quando gli oggetti non si
distinguono più come momenti conformi al fine degli istinti, improvvisamente si
precipita nello smisurato” Id., Arte e mito, cit., p. 83. 479 Id., L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 72. 480 Id., Significare arcaico, cit.,
p. 490. 481 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 116. ! 164! Entriamo
nello spazio del mito dove la differenza tra uomo e mondo svanisce e tutto
rientra improvvisamente in un’unità che domina ovunque e che Grassi sente
appartenergli nel modo più profondo. Afferma il filosofo che in questa unità
“ha luogo un rovesciamento sconcertante: non si tratta ora più di comprendere
qualcosa, perché ogni cosa viene compresa nel tutto”482; si tratta di un ordine
“di una pienezza che si chiude armonicamente nella quale il nascere e il
trapassare non sono che momenti di un duraturo presente”483. Grassi si sta
riferendo ad una realtà eterna che sembra avvolgerci: “è’ l’ora di Pan”484. Il
Sudamerica è il simbolo dell’ora di Pan, che a sua volta è allegoria di
un’esperienza che, prendendo in prestito le parole di Vico, “è affatto
impossibile immaginare, e a gran pena ci è permesso di intendere”: qui è
possibile guardare autenticamente al mito non alla luce della demitizzazione,
non come “prestazione arcaica della ragione”, per dirla con Blumenberg485, ma
come “realtà in cui viviamo”. É ancora consentito vivere il mito in quel
dissidio, in quella transizione, in quel viaggio dal vecchio continente della
cattiva metafisica verso il mare aperto dell’autenticità, dell’altro inizio del
pensiero. Un inizio che è principio arcaico nel senso aristotelico del termine:
perché governa e dà inizio come leggiamo in Significare arcaico. Il filosofo,
reinterpretando lo Stagirita, sostiene che “il principio deve invece avere
veramente il carattere di archè, cioè deve mandare, comandare”486 e, non avendo
carattere apodittico, bensì elenchico, “non possiamo sottrarci alla – sua –
imposizione perché ogni tentativo di sottrarsi ad – esso lo – presuppone”487.
L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile dal logos
metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere affidata
unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che non è un
gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale Id.,
Arte e mito, p. 153. 483 Ibidem. 484 Ibidem. 485 Cfr., H. Blumenberg, Il futuro
del mito, tr. it. di G. Leghissa, Medusa, Milano 2002. 486 E. Grassi,
Significare arcaico, cit., p. 486. 487 Ibidem. ! 165! unica
espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente
indicativo”488. Perché come diceva Vico, uno degli autori prediletti da Grassi:
“di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più
luminosa, e perché più luminosa, più necessaria, e più spessa è la metafora
[...] – che – vien’ ad essere una picciola favoletta”489. L’analisi delle
“meditazioni sudamericane” di Grassi ha messo in luce l’intima correlazione dei
temi del viaggio, inteso come evento semiotico, con le categorie dell’analitica
esistenziale grassiana: dismondanizzazione e assenza di mondo, oggettività,
natura, coscienza temporale umanistica. Abbiamo cercato di porre in luce quanto
il significato del viaggio in generale e di quello sudamericano in particolare
sia fondamentale per comprendere il senso della proposta neo-umanistica
grassiana: essa si struttura come ricerca costante di un nuovo strumentario
categoriale per l’uomo europeo che ha sperimentato la miseria, la precarietà e
il declino della propria storia ma non si rassegna al deserto del nichilismo
dilagante ma al contrario, come il viaggiatore, l’emigrante, va alla ricerca di
un’umanità perduta, più radicata nella vita. L’esperienza sudamericana si
carica allora di un’importanza che occorre sottolineare con vigore: essa è un
percorso nell’interiorità prima che essere un itinerario geografico perché “in
quanto viaggiatori in terra straniera siamo anche e soprattutto viaggiatori
nell’interiorità [...] oggi, viaggiando, non andiamo in cerca di scoperte
esteriori, sottoponiamo piuttosto a un esame il mondo della nostra lingua, dei
nostri pensieri e dei nostri sentimenti”490. La meditazione su Sudamerica diviene
allora una meditazione sull’Europa. III. X. L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività: la nascita della coscienza temporale L’analisi del viaggio
nel suo significato tetravalente e la focalizzazione sui temi della
dismondanizzazione e dell’assenza di mondo ci consente di inquadrare meglio le
altre due idee Ivi, p. 494. 489 G. B.
Vico, La Scienza nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012,
ed. 1744, II libro, p. 932. 490 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p.
124. ! 166! centrali nell’analitica esistenziale grassiana: i
concetti di coscienza temporale umanistica e di oggettività. Secondo il
pensatore milanese l’esperienza del disancoramento originario dalla realtà è
l’elemento principale che caratterizza la “situazione umana”. L’angoscia e il
terrore della foresta primordiale, l’agorafobia originaria che genera la paura
dell’aperto, spingono l’uomo a cercare di volta in volta i codici di
decifrazione della realtà come è emerso dalle precedenti considerazioni
sull’incidenza dell’idea uexkülliana di cerchio funzionale simbolico e sulla
distinzione tra mondo animale e mondo umano a partire dalla funzione di
apertura mondana dell’Angst. Leggiamo in Il tempo umano. L’umanesimo contro la
techne che “la situazione umana è caratterizzata dal fatto che l’uomo ha la
esperienza originaria di essere disancorato dalla realtà. Il problema del
metodo nasce da questa profonda esperienza, giacchè esso consiste nella ricerca
della via per giungere un dato fine. Le prime forme di metodo, cioè di ricerca
di un orientamento nella realtà nascono dall’esperienza del carattere
ingannevole e relativo e mutevole di ciò che mediano i sensi”491. La situazione
in cui l’uomo è gettato è caratterizzata dal nesso disancoramento-metodo-
orientamento. Convinto che proprio l’insufficienza dei sensi, che provoca il
disancoramento, ci obbliga all’elaborazione del metodo, Grassi individua la
nascita delle scienze naturali nell’originaria perdita del rapporto immediato
con la natura. Emerge un elemento concettuale di non secondaria importanza: il
tema della nascita della coscienza e delle scienze si intreccia
indissolubilmente alla questione dell’oggettività e alla ricerca della sua
determinazione. Sostiene il filosofo che “nelle scienze singole naturali, nelle
quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove
il disancoramento dell’uomo. Infatti di fronte al bisogno di un metodo, di
un’oggettività, appare il caratteristico capovolgimento che avviene nella
nostra concezione del reale”492. Si tratta di quel capovolgimento che
caratterizza le scienze naturali che mettono da parte l’esperienza originaria
della natura – quella immediata dei sensi – in direzione della ricerca di Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne,
cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 492 Ibidem. ! 167!
un’oggettività “stabilita dai principi in funzione ai quali si delimita e
circoscrive, facendola oggetto di domanda, la realtà fenomenica”493. L’assenza
di coordinate e orientamento mette l’uomo in una condizione di Notwendigkeit che
segna anche il discrimine tra mondo animale e mondo umano. La fecondità del
tema del disancoramento si pone nel contesto dell’onto-antropo-logia grassiana
quale condizione di possibilità della nascita del mondo umano nella Lichtung
primordiale. Per il filosofo “la storia umana comincia nell’istante stesso nel
quale l’uomo sorge dalla natura in quanto l’immediatezza di quest’ultima non lo
soddisfa: l’esperienza della non indifferenza di ciò che gli si presenta
fenomenalmente a mezzo dei sensi è espressione di legami che non si
identificano con quelli dei sensi”494. L’elevarsi dell’uomo dall’immediatezza
dei sensi mette in moto il secondo livello di oggettività e la storia umana. Ma
che cosa intende il pensatore per oggettività e in che relazione essa si trova
con la storia? III. XI. I gradi dell’oggettività Il filosofo distingue due
gradi dell’oggettivo. In L’uomo e l’esperienza dell’oggettività il punto di
partenza dell’indagine è ancora una volta quello della “condizione umana” che
“si distingue nettamente dalla condizione degli altri esseri viventi per la
necessità di ricercare e progettare le unità di misura e di principi in
funzione ai quali delimitare il mondo delle apparenze nelle quali ci
troviamo”495. L’indagine sulla situazione del Da-sein e sulle sue strutture di
esistenza ha come primo risultato l’individuazione di due livelli di
oggettività. “Per giungere alla soluzione della realtà umana, e con ciò della
sua oggettività, dobbiamo innanzitutto partire dal problema di quali siano i
caratteri di ciò che ci si manifesta”496. Tali caratteri possono essere
contraddistinti in due modi: -! dipendono dai nostri parametri e dai “limiti da
noi progettati” Ibidem. 494 Ivi, p. 203. 495 Id., L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, cit., p. 65. 496 Ivi, p. 68. 497 Ibidem. ! 168!
-! dipendono “dal fenomeno stesso nel ritmo del proprio divenire”498 Da un lato
constatiamo che nella vita vegetativa e organica la natura appare nel costante
ritmo temporale dell’identico, in un diastema, ossia in “ciò che sta (istemi)
tra limiti (dià)”499, dettato dal fenomeno stesso della vita e non da modalità
molteplici di ordinare i fenomeni naturali. Dall’altro riscontriamo nel mondo
umano infinite unità di misura di questa natura. Per il filosofo “della natura
possiamo solo parlare in quanto essa appare entro i diastema stessi, cioè entro
determinati limiti”500 e tuttavia dobbiamo riconoscere che si danno alcuni
fenomeni “il cui apparire non dipende dalla nostra proiezione di diastema”501.
Grassi riporta l’esempio dei molteplici stati di un corpo502: un corpo può
apparire in una forma solida o liquida ma la modalità in cui esso appare non
dipende da noi: la nostra proiezione di diastema non è l’unica via di accesso
all’oggettivo, all’essere, alla natura. “Se è vero che la natura appare solo
entro i limiti da noi progettati, è altrettanto vero che non dipende da noi
come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa
oggettività dei fenomeni naturali è la condizione dell’esperimento, è la
risposta che la natura dà entro i nostri diastema”503. Non a caso il filosofo
ricorre a Leonardo per porre in luce il concetto di natura entro i diastema.
Nello scienziato Grassi individua un via di accesso alla natura mediata
dall’esperimento che mostra il senso autentico del concetto di diastema. Nel
Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo “l’esperimento è
l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita
anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene
confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura
diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non
è possibile conoscere la natura nella sua interezza Ivi, p. 69. 499 Ivi, p. 68.
500 Ibidem. 501 Ibidem. 502 Ibidem. 503 Ibidem. ! 169! ma solo
quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle domande poste
dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue capacità”504. La
natura di Leonardo rimane nondimeno “un mistero che viene svelato in funzione
della domanda impellente”505, quindi mantiene una zona di opacità residua. Essa
ha una propria oggettività che non può essere colta in maniera esaustiva e
definitiva. Il tema della doppia oggettività della natura mette insieme l’idea
dell’oggettività della natura, quale fondo oscuro e inaggirabile, e l’idea
della natura come banco di prova dell’esperienza umana che risulta essere un
progetto gettato. Ecco allora che si profila l’intreccio indissolubile tra il
tema ontologico della oggettività, della natura, dell’essere e quello
etico-pratico della storia umana dei tentativi, dei progetti, dell’esistenza,
del caso particolare, delle circostanze. In questo percorso di superamento
dell’oggettività della natura, di trascendimento della sua alterità e di ricerca
di principi di determinazione, l’uomo elabora le proprie strategie di
contenimento del diverso: inizia la storia del sapere. Per il pensatore
italiano “la storia del divenire per giungere alla conoscenza di quei principi
primi è la storia del sapere. Ma non basta sapere, cioè giungere al
riconoscimento di quei principi nei quali ancorare tutti i nostri progetti, ma
bisogna anche saper realizzare in funzione ad essi i nostri diastema, i nostri
progetti: sorge così una nuova esperienza del tempo [...]: il tempo umano”506.
La coscienza dell’autotemporalità trova la propria genesi nell’angoscia
esistenziale che ha per il pensatore una funzione catartica: “quella di guidare
l’uomo [...] alla coscienza del carattere perturbante della propria
situazione”507. L’autotemporalità della coscienza umanistica si fonda sull’idea
del tempo come “distinzione fondamentale fra ciò che non è più e ciò che non è
ancora, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 505 Id., La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., 165. 506 Id., L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 71. 507 Id., Potenza della fantasia,
cit., p. 259. 504 Id., Introduzione a Heisenberg, Das Naturbild der
heutigen Physik, Hamburg Rowohlt, 1955, pp. 133-138, traduzione nostra. !
170! passato e futuro”508 in funzione di un presente. Tale presenzialità
tuttavia non ha carattere puntuale, “non ha a che fare con un atomo temporale
fuggitivo”509. III. XII. Essere e Tempo Il presente al quale si riferisce il
filosofo va connesso con l’idea di appello dell’essere. Tempo ed essere sono
strettamente correlati nella concezione grassiana del tempo. Come leggiamo in
Apocalisse e storia “i momenti del tempo sono il NON-ancora, il NON-più e
l’ora. Tutti e tre questi momenti manifestano all’analisi un caratteristico
aspetto negativo”510. Il passato e il futuro mostrano un carattere di nullità e
sarebbe più corretto parlare di “presente del passato, presente del futuro,
presente del presente”511 che si danno nel ricordo e nell’attesa. Una concezione
del tempo di questo tipo fa dipendere la nostra capacità di percepire il tempo
dalla nostra capacità di essere affetti (affectio animi). Osserva Grassi che
una simile concezione della temporalità presuppone l’essere: non nel senso di
ciò “che esteriormente ci è dato”512 ma nel senso di ciò che rende possibile le
nostre esperienze. L’a-priori di ogni esperienza temporale umana – quella
dell’attesa e del ricordo – è l’attenzione: “il termine latino corrispondente
ci chiarisce in che accezione appare qui il termine attenzione: attentio
significa tendere ad, e quindi attendere. L’attenzione è quindi possibile
nell’ambito di una tensione, di una tensio che, come fondamento
dell’aspettativa, dell’attesa, è la radice medesima della nostra capacità di
intus-legere, dell’intelligenza con la quale costruiamo e ordiniamo i fenomeni
in un modo”513. Solo nel contesto di questa attentio/tensio originaria sorgono
il presente, il passato e il futuro. La struttura temporale della coscienza è a Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la
techne, cit., p. 205. 509 Ibidem. 510 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 13.
511 Ivi, p. 14. 512 Ivi, p. 15. 513 Ivi, p. 14. ! 171! fondamento
del potere umano di progettare, mondi, cosmi, ordini, unità di misura come
strategie di risposta agli appelli dell’essere che urgono e ai quali dobbiamo
corrispondere. All’origine dell’autotemporalità storica514 della coscienza
umana abbiamo un Dasein che si dibatte tra angoscia e paura, la potenza delle
quali irrompe, creando uno strappo nell’unità simbolica di soggetto e oggetto.
La ricostruzione di tale unità simbolica, di tale symplokè tra soggetto e
oggetto mediante la parola, il linguaggio, è il compito che Grassi si propone
di portare avanti attraverso riflessioni che assurgono a prolegomena per una
“semiotica antropologica” che indaga il “problema del nuovo potere originario
che strappa l’esistenza umana dalla sfera della consapevolezza del semplice
segno biologico e la colloca in una situazione di esistenza e di possibilità
umane”515. La coscienza umana nasce compensazione di quel disancoramento
primordiale, che è a fondamento del mondo umano, e come produzione
tecnico-poietica. Se la storia dell’uomo è la storia del suo divenire e del suo
superamento dell’immediatezza della natura allora il suo compito fondamentale –
il compito del vero umanesimo – sarà quello di riscostruire la storia “di
quella realtà originaria che l’ha strappato dalla immediatezza della
natura”516. Un sapere che si pone questo obiettivo si costituisce come
archeologia dei mezzi umani di ricomposizione della frattura originaria (la
rottura del cerchio funzionale simbolico): scienze naturali, tecnica,
filosofia, arte517. Per Grassi “di qui sorge la necessità di ricostruire – con
i frammenti del mondo sensibile – un mondo nuovo, quello umano. L’uomo può
realizzare tale compito solo se chiarisce ciò che lo riguarda originariamente e
se conforma la realtà sensibile a questa nuova urgenza [...]: sorge per l’uomo
il caso particolare, presupposto alla realizzazione del mondo umano”518.
Proprio l’elemento circostanziale, particolare, limitato di ogni singola
esperienza individuale ci restituisce la qualità cairologica, più che
escatologica della temporalità grassiana, attenta all’istante Cfr., sul tema dell’autotemporalità come nota
distintiva dell’uomo distinta dalla temporalizzazione biologica Id., Vico
contro Freud: creatività e inconscio, pp. 133-153, in Id., Vico e l’Umanesimo,
cit. pp. 142-145. 515 Ivi, p. 152. 516 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro
la techne, cit., p. 203. 517 Ibidem. 518 Id., Apocalisse e storia, cit., p.
12. ! 172! giusto, al tempo opportuno: poiché la nuova esperienza
di fronte alla quale si trova l’uomo non è solo la conoscenza dell’universale
ma innanzitutto quella del caso particolare e singolo. “Bisogna sapere quando,
come, dove, di fronte a chi”519. La mancanza di tale conoscenza sarebbe
“mancanza di misura, di discrezione, di prudenza, di phronesis”, le uniche
capaci di mostrare l’intima correlazione tra vita etica e politica come
realizzazioni dell’opera umana, come risposte alla scomparsa del mondo
olistico, intatto, della vita organica. Per Grassi resta sullo sfondo un grande
interrogativo: c’è da chiedersi “in virtù di che cosa può originarsi il mondo
umano, se all’uomo non appartiene alcun ambiente immediato, se quest’ultimo
dev’essere sempre costruito da ogni singolo individuo; qual è la radice
dell’umanizzazione della natura?”520. Legato al tema antropologico delle
origini della storia umana emerge quello del linguaggio e della funzione della
retorica grassiana come ricerca sul significare arcaico o semantica
antropologica. Siamo così giunti ad un’altra domanda legata connessa ai
problemi precedentemente posti a tema: “a quale funzione adempiono la parola,
il linguaggio, nel sorgere del mondo umano?”521. Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 520 Id., Potenza della fantasia,
cit., p. 256. 521 Ivi, p. 254. ! 173! CAPITOLO IV PALAIÀ DIAPHORÀ:
PENSARE E POETARE IV. I. Il significato della proposta retorica Nei capitoli
precedenti abbiamo cercato di ricostruire le tappe del pensiero di Grassi
seguendo come filo conduttore quello dell’onto-antropo-logia che si è rivelata
una chiave di lettura ampia e integrativa. Seguendo le riflessioni sui temi
dell’essere, dell’apparire e della manifestatività abbiamo rintracciato a
fondamento della proposta neoumanistica un’analitica dell’esistenza che tocca i
temi della coscienza temporale, della dismondanizzazione e dell’assenza di
mondo. La focalizzazione su queste problematiche fa emergere un’idea di
umanesimo che viaggia sul doppio binario della rivalutazione storica – come
dimostra l’analisi dei testi umanisti dedicati al tema della Lichtung, del
linguaggio e della poesia – e della chiarificazione teoretica delle categorie
dell’esistenza. In questo ultimo capitolo prenderemo in considerazione i temi
del filosofare noetico-non metafisico e quelli della retorica ingegnosa come
critica delle devastazioni dell’intelletto, di quei “razionalismi stretti e
assoluti del positivismo logico, cui Grassi contrappone una logica del discorso
diretto, del pensiero come comunicazione discorsiva, fondato sulla metafora non
come luogo del falso, ma come spazio del vero concesso all’uomo”522. Sullo
sfondo della prospettiva retorica grassiana emerge il paradigma
dell’incompletezza e della carenza. L’uomo è di fronte ad un paradosso: è
caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua
dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a
cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso
degli animali, ad un ambiente preciso. Il disancoraggio da un ambiente dai
contorni definiti e fissi rende l’uomo compito a se medesimo, lo sottopone ad
un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria
in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. L’azione,
come E. Raimondi, La retorica d’oggi, il
Mulino, Bologna 2002, p. 77. ! 174! compensazione alla struttura
morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo
culturale, come umanizzazione dell’ambiente che solo così diviene mondo. In
tale processo antropogenetico la retorica occupa un posto tutto particolare. La
retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al
posto dei codici mancanti. Il codice di cui parla il filosofo è “non
soggettivo, non è scelto liberamente, ma sofferto attraverso i sensi, in quanto
essi si manifestano nella sfera del piacere e del dolore [...] noi non abbiamo
così il dualismo di codice e realtà da decifrare, abbiamo invece il significato
continuo, immediato e rivelato di ciò che noi soffriamo con pathos”523. Ad
agire sullo sfondo del discorso c’è la riflessione antropologica novecentesca
menzionata in precedenza: il concetto di povertà, il paradigma
dell’incompletezza, secondo cui l’uomo è concepito come animale carente, che si
intreccia saldamente con la rivalutazione della retorica come luogo
privilegiato dell’umano. La retorica avrà un doppio ruolo: quello di mostrare
come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo
sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi
dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è
la fondazione della comunità umana. Ad emergere è un significato antropologico
di retorica che si configura come la compensazione dell’indeterminatezza
dell’essere umano: essa può essere definita come la tecnica di adattamento
provvisorio che precede ogni morale e ogni verità. La retorica allora
costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno
strumento di azione in mancanza di evidenza. Tale funzione compensativa della
tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni:
la vis retorica crea istituzioni: “la società umana ha origine nel poeta come
oratore e nel lavoro”524. All’interno di questa prospettiva la riflessione
retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso,
semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e
del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 242.
524 E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p.
135. ! 175! di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base
dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon)”525.
La questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del
mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, semiosfera
da cui si dipartono i mondi possibili dell’umano. La declinazione antropologica
della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero
che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”526 pone in luce
come la retorica “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è,
né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il
discorso che costituisce la base del pensiero razionale”527. Essa è la base di quel
theorein che è proprio della filosofia: un theorein che non ha una costituzione
razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica,
immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi
retoricamente”528. IV. II. La retorica come critica del paradigma scientifico
Il nucleo singolare dell’opera di Grassi si rivela come una nuova e specifica
prospettiva sull’umanesimo retorico quasi sempre obliato dagli storici della
filosofia del Rinascimento tra i quali Kristeller e Cassirer529. Come
dimostrato dalla sua intensa attività all’Istituto Studia Humanitatis
(inaugurato il 6 dicembre del 1942 nell’università di Berlino), presso il
Centro italiano di studi umanistici e filosofici a Monaco (1948) e soprattutto
dall’attività editoriale della Humanistische Bibliothek, la collana Tradiciòn y
Tarea, Grassi propone un’idea diversa del pensiero umanista. Egli Id., Retorica come filosofia, cit., p. 194.
526 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione:
la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto
Grassi, cit., p. 113. 527 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e
l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 528 Id., Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 529 Cfr. le osservazioni esposte
nel II capitolo. ! 176! non riduce tutto l’umanesimo al recupero
del platonismo – ricordiamo l’opposizione tra umanesimo platonico e non
platonico530 di cui spesso parla il filosofo – ma mette in risalto l’importanza
dell’altra corrente dell’umanesimo che rivendica il valore della parola
poetica, come parola donatrice di senso, e della prassi vitale e storica. Lo
studio dell’umanesimo allora non appare come il frutto di una curiosità
storiografica o erudita ma come uno sforzo, un impegno, per immettere la
questione dell’uomo sul terreno della correlazione di teoria e prassi che
riscrive anche il tema dell’utilità della filosofia e degli studia humanitatis.
Come leggiamo in La potenza dell’immagine “solo in base al chiarimento di una
concreta tradizione storica – cioè di quella umanistica – può sorgere a una
nuova considerazione il problema attuale de “a che cosa serve la filosofia”, e
quindi il problema del rapporto tra teoria e prassi [...] la problematica dell’umanesimo
italiano – proprio in relazione alla preminenza accordata alla prassi, alla
negazione della parola astratta, razionale – presuppone il superamento della
dualità di una realtà esistente, sperimentata, e di un mondo corrispondente
alla ragione, una dualità che conduce all’insuperabile divaricazione di teoria
e prassi”531. Il recupero del passato filosofico – la tradizione umanistica –
fa tutt’uno con l’idea di un’utilità pratica della filosofia che per Grassi
nasce proprio come naecessitas, come risposta all’appello dell’Abissale, poiché
“conservare un passato (è indifferente che si tratti di pensieri, monumenti o
avvenimenti), non considerato in relazione a un compito da assolvere nel
presente, è il segno di una cultura divenuta sterile. Ogni cultura, ogni
tradizione, nella quale il passato perde questa promettente considerazione,
decade, avvizzisce. La tradizione si radica solo nella comprensione del
presente”532. All’interno di questa prospettiva il filosofo milanese afferma
che il vero umanesimo è quello che incomincia con Dante e Boccaccio. Contro
l’indirizzo “platonico” costituito dal versante ficiniano dell’umanesimo per
Grassi permane attraverso i contributi di Vives, Nozolio, Peregrini, Tesauro,
Graciàn, Vico, Muratori, Leopardi, una tradizione non-platonica ma retorica,
che resiste a quello Cfr., E. Grassi, La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, capitolo VI “Antiplatonismo e
platonismo”, cit., pp. 175-197. 531 Id., La potenza dell’immagine, cit., pp.
259-260. 532 Ivi, p. 133. ! 177! spirito razionalista che la relega
nell’ambito della letteratura, dissolvendo l’unione di retorica e filosofia. Il
punto di vista grassiano sull’umanesimo italiano emerge in netto contrasto
all’enfasi sulla ragione e sulla logica privilegiate dal paradigma scientifico.
Quest’ultimo si fonda sul presupposto che la conoscenza oggettiva sia l’unico
modo per comprendere la realtà. Questo tipo di impostazione logico-analitica,
caratterizzata dall’utilizzo del metodo scientifico, non è attenta all’hic et
nunc della situazione concreta ma crede di trovare assiomi autoevidenti
universalmente validi: rispetto al discorso retorico “il discorso razionale
invece è fondato sulla capacità una di trarre deduzioni e quindi di legare
delle conclusioni a delle premesse. Il discorso razionale raggiunge la sua
funzione dimostrativa e la sua stringenza mediante la dimostrazione logica”533.
Ne deriva che il discorso retorico non può avere alcuno spessore filosofico
all’interno del paradigma scientifico. Il discrimine fondamentale tra
l’approccio scientifico e quello retorico al reale risiede nella ricerca dei
principi. La retorica vuole indagare l’origine dei primi principi e la scienza
si arresta alla constatazione delle premesse. Se il discorso dimostrativo è
quello che lega la definizione di un fenomeno riportandolo ai principi ultimi,
alle archai, “è chiaro che le prime archai di qualsiasi prova, e quindi
conoscenza, non possono essere esse stesse essere provate, in quanto non
possono essere oggetto di un discorso apodittico, dimostrativo e logico”534. Da
qui sorge il problema dell’individuazione del tipo di logos adatto ad una
ricerca sui primi principi, sulle premesse indimostrabili. La risposta
grassiana è nota: “l’uso di tali espressioni, che appartengono all’originario,
al non-deducibile, non possono avere carattere e struttura apodittica e
dimostrativa, ma solo indicativa. É solo il carattere indicativo delle archai
che rende davvero possibile la dimostrazione”535. La ricerca sul metodo
adeguato per accedere al reale conduce Grassi a tematizzare l’infondatezza di
quella opposizione tra filosofia topica e critica. Id., Filosofia critica o filosofia topica? Il
dualismo di pathos e ragione, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 25-26. 534
Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 96. 535 Ivi, p.
97. ! 178! IV. III. Retorica tra filosofia critica e filosofia
topica La dimensione retorica va considerata secondo Grassi non come elocutio
ma come inventio536: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o
di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al
polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che
tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che
opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo
con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre
provvisorio”537. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete
degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale
della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre
l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero più che alla sua fase
declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose che
altro non è che “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova,
Degnità XIV) Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione
optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e
ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico, tra un filosofare
critico e un filosofare topico, che divengono le due allegorie del danno e del
rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico
di un discorso che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero.
Grassi fa sua la posizione heideggeriana che sottopone l’autore delle
Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione ontologica valutando
l’operazione metodica di separazione tra io e mondo538, tra res cogitans e res
extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna
possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile Cfr., sulle parti
della retorica dalle origini alle nuove retoriche di Perelman-Tytheca, Gruppo
di Liegi, retorica del silenzio di Valesio B. Mortara-Garavelli, Manuale di
retorica, Bompiani, Milano 2012. 537 Ivi, p. 390. 538 Sull’interpretazione
heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr., M. Heidegger, Essere e
Tempo, cit., §§ 19-21. ! 179! leggere in Essere e Tempo ai paragrafi
19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio avviene nella metafisica un
importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a
quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile
la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio,
nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica
come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della
metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum,
infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova
posizione dell’uomo539, poiché l’uomo diventa subiectum540, il fondamento e la
misura di ogni certezza e verità. Asserisce il pensatore tedesco che “la tradizionale
domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio
della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale,
[...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”541. Tale metodo è il
cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma
che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno
poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos.
Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse
scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione
umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”542. Il dualismo di
dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico
una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della
retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il
problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica,
viene posto per la prima volta secondo Grassi in modo teoricamente articolato
nella filosofia vichiana del De ratione studiorum di cui egli ricostruisce
minuziosamente le tappe della critica al razionalismo cartesiano nel saggio
Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi,
Milano, p. 158. 540 Ivi, p. 168. 541 Ivi, p. 169. 542 E. Grassi, Filosofia
critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico
e l’Umanesimo, cit., p. 25. ! 180! e ragione. Le questioni poste
sul tavolo della discussione sono molteplici: la pretesa di partire da un primo
vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione
del verisimile543. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della
dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono
all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi
per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di
impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica,
immaginativa, fantastica, ma anche politica della vita umana, ridotta al suo
puro aspetto cogitativo. Grassi pone l’attenzione sul passo vichiano del De
Ratione in cui è enunciata la priorità della topica sulla critica: “giacchè,
come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro
veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”544.
Si chiede il filosofo milanese: “chi ci assicura che le premesse dalle quali
parte il processo critico non rispecchino solo un singolo aspetto della realtà,
limitando di conseguenza le conclusioni che ne derivano? Non ha il metodo
critico trascurato la retorica, la politica, la fantasia dimostrando così la
sua unilateralità razionalistica?”545. Non è la deduzione che precede
l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente
sulla base di un “ritrovamento di luoghi”. Si tratta dell’arte topica, ossia
l’arte dell’invenzione di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui
già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la
capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da
quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a
disposizione”546. La questione è ancora una volte quella di tenersi lontani da
una visione unilaterale della realtà tenendo conto piuttosto delle innumerevoli
forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La
radicalizzazione dell’opposizione tra logos e pathos in realtà è spia di
un’esigenza Ivi, p. 35 e sgg. 544 G. B.
Vico, Sul metodo degli studi nel nostro tempo, cit., p. 39. 545 E. Grassi,
Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in
Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 36. 546 Aristotele, Topica, 101 b 3. !
181! di unità nel quadro di una prospettiva onto-antropo-logica che
mira a gettare un ponte tra logos e pathos, tra pensiero retorico e
scientifico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “la tesi che l’essenza della
filosofia si riduca esclusivamente al processo razionale non regge. Anzitutto
perché esso presuppone inevitabilmente un’altra attività, quella dell’invenire,
che lo precede”547. Lo scopo del filosofo è quello di trovare il fondamento
comune di retorica e filosofia, e la sua prospettiva non-riduzionista è capace
di tenere conto di quella torsione che avviene nell’uomo con il sopravvenire
del linguaggio, come mediazione tra gli istinti e gli impulsi da un lato e gli
scopi dall’altro. Il linguaggio segna e delimita i diversi aspetti dell’umano
che esprime il proprio senso della realtà primariamente attraverso un logos
metaforico e non tramite la definizione, il concetto, il linguaggio razionale.
Di conseguenza la soggettività che traspare dalle riflessioni grassiane non è
dotata di una identità monolitica e infrangibile, non è compatta e unitaria ma
è una soggettività frammentata e consegnata alla contingenza, alla circostanza,
costretta a ridefinirsi continuamente. Il Da-sein è allora atto di
ricomposizione, attraverso la “ragione fantasticante”548 (che tiene insieme
come compossibili e non come contraddittori logos-pathos), dei cocci
dell’esistenza tra i quali ci muoviamo, consapevoli dell’instabilità e della
mutevolezza, del divenire che necessita di un logos adeguato alla sua
espressione: la metafora. Nell’onto-antropo-logia grassiana ritroviamo un
Da-sein che riconosce l’inesistenza di un fondamento ma non rinuncia ad esporsi
alla motilità dell’esistenza e a costruire un senso tra le pieghe e le piaghe
che caratterizzano il movimento della vita. In questo percorso di fondazione e
di costruzione l’idea di retorica si pone in una posizione innovativa. Come
sottolinea Gabin nella recensione del 1983 a Retorica e filosofia Grassi può
essere collocato di fatto nel contesto della retorica contemporanea che mette
in luce uno slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella E. Grassi, Filosofia critica o filosofia
topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., Id., Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 33. 548 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180. ! 182! della
coerenza549. Afferma lo studioso che “gli echi di Richards, Burke, Barthes,
Derrida, Ijsseling e molti altri circolano nelle pagine di Grassi, ragione per
la quale egli scrive nella tradizione di coloro che credono nella natura
circostanziale del pensiero e nella implicita unità di idea e immagine”550.
Tale slittamento mette in luce, attraverso il ripercorrimento della lunga
storia della retorica, da Aristotele a Cicerone e Quintiliano, da Dante a Bruni
e Valla, da Vico a Nietzsche e Ungaretti, uno scopo ambizioso: capire meglio le
ragioni profonde di quella storia e, ripercorrendole, tornare all’universo
contemporaneo per cercare di enucleare alcune direzioni di ricerca e suggerire
nuovi approcci. La teoria retorica grassiana mette in luce una dimensione
pragmatica della coerenza per dirla con McPhail551 che si fonda su una
riconsiderazione del tema della credenza/pistis. Il magistero umanistico
conduce il filosofo a riscoprire il mondo della storicità umana, il valore
conoscitivo della fantasia-ingegno, della metafora, il ruolo civilizzatore e
coesivo della retorica, la funzione politico-economica dei miti, il potere
metamorfico del lavoro, capace di convertire la natura in cultura. Il filosofo
predilige nella sua indagine retorica il momento aurorale, arcaico: i punti di
partenza, i presupposti dell’agire, il momento genetico, còlto nelle sue
implicazioni gnoseologico- pratiche e antropologiche. Privilegiando la
dimensione pre-teoretica, il mondo della vita, il momento che precede quello
razionale, le archai originarie, di natura topica e non critica, indicativa e
non Mette in luce l’ipotesi dello
slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella della coerenza in Grassi
M. L. McPhail, in Coherence as Rapresentative Anecdote in the Rhetorics of
Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118 in AA. VV, Kenneth Burke and
contemporary European thought: rhetoric in transition, Tuscaloosa, University
of Alabama Press, 1995. Sull’importanza di Grassi nella retorica contemporanea
cfr., S. K. Foss-K. A. Foss-R. Trapp, Contemporary Perspectives on Rhetoric,
Waveland, Long Groove Illinois, capitolo III pp. 54-74. Per un approfondimento
dei temi della coerenza e della corrispondenza nelle teorie della verità cfr.,
M. Dell’Utri, Il falso specchio. Teorie della verità nella filosofia analitica,
ETS, Pisa 1996. Cfr., E. Raimondi, La retorica d’oggi, cit., pp. 77-78. 550 R.
J. Gabin, Review of Rhetoric and Philosophy: the Humanist Tradition, Quarterly
Journal of Speech 69, n. 2 (May 1983), pp. 220-221, p. 221: “Echoes of
Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling and many others ring through
Grassi’s pages, for he writes in the tradition of those who believe in the
circumstantial nature of thought and the underlying unity of idea and image”,
p. 221. Traduzione nostra. 551 Cf., M. L. McPhail, op. cit., p. 77. “A
comparison of the rhetorics of Burke and Grassi shows that both writers’
conceptualizations of language exemplify the evolution from correspondence to
coherence in contemporary rhetorical theory”. “Una comparazione delle retoriche
di Burke e Grassi mostra che le riflessioni sul linguaggio di entrambi gli
autori esemplificano l’evoluzione dalla teoria della corrispondenza alla teoria
della coerenza nella teoria retorica contemporanea”. Traduzione nostra. !
183! dimostrativa, ingegnosa e non razionale, retorica e non logica, egli
dedica attenzione particolare ad autori, quali Aristotele, Vico e Leopardi, le
cui riflessioni si concentrano sulla dimensione aurorale della fondazione della
civiltà. Se con Vico e Leopardi siamo di fronte ad una idea di humanitas
all’insegna del pathos, secondo i quali la priorità non è affidata al
procedimento razionale, anonimo e astorico, al linguaggio denotativo, chiaro e
distinto, ma alla retorica e all’immagine, alla ricchezza e all’opacità dei
tropi, con Aristotele possiamo guadagnare un concetto di logica affidata alla
pistis, un’idea di sapere non fondata sulla deduzione – il filosofare
noetico-non metafisico. Sono in gioco tre aspetti fondamentali: -! la
focalizzazione sull’aspetto fondativo del linguaggio -! l’analisi dei principi
epistemici fondati sulla dimensione simbolica del pensiero e dell’azione umani
-! l’articolazione dell’aspetto ontologico che caratterizza l’esistenza umana
in termini di metafora drammatica, che ha una natura affermativa e positiva in
quanto forza propulsiva nella Menschwerdung Grassi vede “l’esistenza umana come
essenzialmente retorica ed esplora la metafora come l’aneddoto rappresentativo
dell’esistenza”552 che ha potere generativo. La concettualizzazione dei grandi
temi della filosofia, ma anche dell’arte e della letteratura, sposta
l’attenzione sul mondo storico, sulle passioni dell’uomo, sulle tradizioni
drammatiche, teatrali e metaforiche dell’occidente. La particolare
considerazione grassiana dell’umanesimo e della retorica che lo
contraddistingue emerge proprio in contrasto con l’enfasi posta dal paradigma
scientifico sulla ragione e sulla logica. Il pensiero scientifico e filosofico
tradizionale si basa sulla presupposizione che la conoscenza razionale sia la
via da preferire per accedere al reale. La critica grassiana al deduttivismo
logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis lo conduce verso
l’individuazione del momento critico del pensiero razionale
nell’indimostrabilità dei principi. Ivi,
p. 79. “Grassi similarly sees human existence as essentially rhetorical, and
explores metaphor as his representative anecdote”. Traduzione nostra. !
184! IV. IV. La struttura della presupposizione Come leggiamo in La
priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi “la
logica tradizionale distingue tra due modi per fondare la conoscenza. Il metodo
deduttivo comincia da premesse e deriva le inferenze già presenti in esse. Qui
è indispensabile che le premesse risultino universalmente valide e necessarie
[...] ma le premesse sono necessariamente presupposte nella deduzione”553. A
fare problema è la struttura della pre-supposizione, dell’upothesis. Secondo il
filosofo “quando si tratta di protasi, di indicazioni di indole arcaica – cioè
originaria, dominante – siamo obbligati a riconoscere che essa non ha e non può
avere un carattere dimostrativo, discorsivo bensì – come si esprime Aristotele
– noetico”554. I primi principi hanno carattere svelante e manifestativo: si
tratta del mitologema originario della filosofia, l’aporia contro cui urta il
soggetto parlante. Nella struttura della presupposizione, dell’ipotesi, o, nei
termini grassiani, dei “principi indeducibili”, si articola l’intreccio di
essere e linguaggio, di mondo e parola di ontologia e logica555. Per il
filosofo i principi non possono essere dimostrati perché essi sono alla base di
ogni dimostrazione. Non attraverso la ratio si accederà ad essi, ma attraverso il
pathos, che non è il contrario del sapere ma un’altra forma di sapere, un
sapere arcaico. Dalla prospettiva del filosofo dobbiamo chiederci “se le
asserzioni originarie non sono dimostrabili, qual è il carattere del discorso
con cui le esprimiamo? [...] qui ci si pone di fronte al problema fondamentale
del carattere che ha e deve avere la formulazione delle premesse, ossia delle
basi”556. Il discorso apodittico, quello che prova e dimostra (apo-deiknymi),
pone la definizione di un E. Grassi, La priorità del senso comune e e della
fantasia: l’importanza di Vico oggi, pubblicato in AA. VV., Vico and
Contemporary Thought, Vol. I, Humanities Press International, New Jersey 1976,
ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43. Corsivo nostro. 554 Id., Filosofare
noetico non metafisico, cit., p. 17. 555 Sul problema della presupposizione
come mitologema originario della filosofia cfr., G. Agamben, Che cos’è la
filosofia, Quodlibet, Macerata 2016. 556 Cfr., E. Grassi, Retorica e filosofia,
cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., 97. ! 185! fenomeno
riportandolo ai principi ultimi o archai. Ed è chiaro che le prime “archai di
qualsiasi prova, e quindi della conoscenza, non possono esse stesse essere
provate”557. Tale sapere arcaico coinvolge anche una riflessione sul mito –
come “principio instauratore originario di una comunità”558 – sulla dottrina
topica-inventiva – interpretata come “dottrina della visione originaria”559 – ,
sulla metaforologia – come “prassi linguistica e biologica”560 –, sull’ingenium
–come “proprietà comprensiva più che deduttiva dell’uomo”561 – e sulla
phantasia intesa nella sua funzione ontologica come “attività originaria che
scopre le relazioni sulla base delle visioni delle somiglianze”562. L’apogeo
della critica contro la deriva razionalistica del pensiero si colloca
nell’individuazione dell’opposizione delle nozioni aristoteliche di nous e di
episteme. Grassi infatti istituisce un collegamento tra nous e archè, mettendo
in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e
l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi, colti attraverso
la passione. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria
della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione
deduttiva e storica. Leggiamo in Significare arcaico che nella sfera
dell’originario non esiste dualismo di pathos e logos e nell’ambito dei segni
indicativi noi esperiamo l’aletheia arcaica “sacrale e con ciò estatica,
patetica, manica”563. Per il filosofo se “il dualismo di sapere e di pathos non
ha luogo nella sfera Ivi, p. 96. 558
Id., Mito ed arte, cit., p. 162. Cfr., anche Id., Arte e mito, cit. 559 Id.,
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 93. 560 Cfr., Id.,
Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 192.
“La facoltà del trasferimento di senso, il metapherein, è fin dall’inizio
essenziale alla vita”. Cfr., Id., La filosofia dell’umanesimo. In problema
epocale, cit., p. 179. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non
causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la
teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso
particolare [...] l’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta
all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora”. 561 Id., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 94. 562 Id., Potenza della
fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 190. 563!Id.,
Significare arcaico, cit., p. 491.! ! 186! dell’originario”564 –
palesandosi solo nell’ambito, razionale, dedotto – allora dobbiamo constatare
che “ogni discorso razionale si radica nel discorso arcaico puramente
semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous,
dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che
presiedono al mondo umano”565. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo
logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso non compromettono
tuttavia lo spessore filosofico della filosofia di Grassi che resta integro
proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope,
visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. Le
indagini sulla retorica si inseriscono all’interno del contesto ermeneutico di
riabilitazione della retorica che, come è noto, ha inizio con le riflessioni di
Perelman. La riflessione condotta a partire da una prospettiva di teoria
dell’argomentazione e dell’eloquenza genera un’aporia: l’alternativa teorica
che si pone è tra un eccesso di retorica e una chiusura nei confronti della
retorica. La questione che Grassi pone travalica l’alternativa tra rifiuto o
accettazione566 e ha come fuoco di ricerca l’indagine di quello spazio di
sapere collocato tra retorica e filosofia. La domanda che il filosofo si pone
è: esiste questo e tra retorica e filosofia? L’opposizione tra retorica e
filosofia che è oggetto di Retorica e filosofia del 1980 già si profila a
partire da L’inizio del pensiero moderno in cui il linguaggio vive la
contrapposizione tra la sua veste scientifico-dimostrativa e quella
metaforico-indicativa. Nella nostra analisi prenderemo in considerazione le
diverse definizioni di retorica offerte dal filosofo, che corrispondono a
funzioni differenti a seconda del contesto nel quale l’argomento retorico è
trattato, Ibidem.! 565!Ibidem.! 566 Sulla concezione della retorica in Grassi
cfr. M. Marassi, Retorica, storicità ed umanesimo, pp. 199-216, in E. Grassi,
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; M. Marassi,
Introduzione, pp. 11-27, in E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica, cit. P. R. Blum, Rhetoric is the home of trascendent: Ernesto
Grassi’s response to Heidegger’s attack on humanism, Intellectual History
Review, 22:2, pp. 261-287; M. L. McPhail, Coherence as rapresentative anecdote
in rethorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118, in B. L. Brock,
Kenneth Burke and contemporary european thought, University of Alabama Press,
1995. ! 187! allo scopo di mettere in luce non la compromessa unità
del concetto di retorica quanto piuttosto l’intrinseca capacità di generare
significati e contesti. IV. V. Il logos retorico: la tripartizione del discorso
Nel contesto dell’analisi delle molteplici forme di discorso Grassi parte dalla
messa in discussione della riduzione del discorso retorico a semplice tecnica
di persuasione. Secondo il filosofo il problema retorico può essere affrontato
da due punti di vista: si può considerare la retorica in senso tradizionale,
“quindi come arte, come tecnica di persuasione”567 o da una prospettiva più
generale di interazione con il sapere teoretico. Per comprendere il senso
autentico della concezione retorica dovremo prendere le distanze dall’approccio
speculativo che la riduce ad arte della persuasione, privandola della
componente filosofica. A tal proposito Grassi individua tre tipi di discorso:
-! il discorso retorico esteriore -! il discorso razionale -! il vero discorso
retorico. Il primo discorso “si riferisce solo alle immagini perché influenzano
le passioni”568 ed è il discorso retorico in senso classico. La seconda forma è
il classico discorso razionale a carattere dimostrativo. Infine c’è il vero
discorso retorico che “scaturisce dalle archai”569: esso non è deducibile ma è
indicativo. ! E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica,
cit., p. 55. 568 Ivi, p. 75. 569 Ibidem. ! 188! Tralasciando il
secondo tipo di discorso, quello razionale – di cui si è già detto sopra –
vorremmo soffermarci sul duplice senso del discorso retorico: come tecnica
della persuasione e come discorso semantico. Lo scopo dell’analisi del filosofo
è quello di rintracciare le caratteristiche del discorso semantico sulla base
del quale è possibile comprendere sia la retorica come tecnica di persuasione
sia il discorso razionale-scientifico. L’indagine sulla retorica allora allarga
il proprio raggio di azione ben al di là delle classiche tematiche oggetto
della retorica classica per divenire occasione per un ripensamento dei
fondamenti del sapere scientifico-filosofico e della tecnica oratoria
classicamente intesa. Quella di Grassi è non è l’ennesima sistemazione
tassonomica del materiale discorsivo ma una retorica come teoria che assurge a
filosofia generale e che ha come oggetto di riflessione i fondamenti
pre-teoretici, pre-categoriali, ante-predicativi del sapere. Il filosofo parla
non a caso di significare arcaico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “il
discorso indicativo o allusivo (semeinein) fornisce la struttura in cui può
nascere la prova. Inoltre se la razionalità è identificata con il processo di
chiarificazione, noi siamo costretti ad ammettere che la primitiva chiarezza
dei principi non è razionale, e a riconoscere che il linguaggio corrispondente,
nella sua struttura indicativa, ha un carattere evangelico”570. Secondo il
pensatore milanese tale tipologia di discorso – quello semantico-arcaico – è
una Darstellung, una esposizione fantastica-teoretica. In questa esposizione
fantasia e teoria si identificano in quanto facoltà della visione: “in tal modo
il discorso che realizza tale esposizione pone dinanzi agli occhi (phainesthai)
un significato”571. Il sistema retorico grassiano mira a costruire il ponte tra
retorica e filosofia e proprio in questa operazione di integrazione possiamo
individuare l’unità del discorso contro l’ipotesi dualista su cui ci siamo già
soffermati572. Afferma il filosofo che “la filosofia non è una sintesi
posteriore di pathos e logos, ma l’unità originaria di entrambi sotto il potere
delle archai originarie [...] quindi la vera filosofia è la retorica e la vera
retorica è la Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo,
cit., p. 97. 571 Ibidem. 572 Cfr. III capitolo. ! 189!
filosofia”573. Contro la tradizione occidentale razionalista Grassi non pensa
che la retorica non sia fonte di conoscenza vera, anzi la retorica nasce
dall’“insufficienza del pensiero razionale”574. Così il termine retorica assume
un significato essenzialmente nuovo: “retorica non è, né può essere l’arte, la
tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce
la base del pensiero razionale”575. Si tratta della tragedia del pensiero
razionalistico che si trova a fare i conti con la matrice stessa del suo
procedimento. La genesi della struttura del linguaggio razionale, dialettico,
dimostrativo è il linguaggio semantico, immediato, illuminante, indicativo. Se
il logos indicativo o allusivo fornisce la cornice in cui può nascere la prova,
la cui primitiva chiarezza non è razionale, dobbiamo riconoscere che il
linguaggio corrispondente ha un carattere indicativo ed evangelico “nel
primitivo significato greco di questa parola, cioè di osservare”576. La
retorica come punto di partenza della scienza e della razionalità è
contrassegnata da una nota antropologica che si configura come compensazione
dell’indeterminatezza dell’essere umano. Essa allora costituirebbe una
situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in
mancanza di codici prestabiliti. Come avrebbe detto Blumenberg “assioma di ogni
retorica è il principio di ragione insufficiente”577 e ciò vale anche per
Grassi che conosceva bene Blumenberg578 e che asserisce, con una sorprendente
consonanza teorica, che la retorica nasce dall’insufficienza del pensiero
razionale. La retorica allora mostra l’imbarazzante luogo in cui si trova:
certifica da un lato l’insufficienza e dall’altro pone in luce quelle prassi
che si dipartono da quell’insufficienza originaria e che non possono essere
messe da parte in nome di una scienza della verità e dell’evidenza. E. Grassi,
Retorica come filosofia, cit., p. 74. Corsivi nostri. 574 Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. 575 Id., Retorica e
filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 576 Ibidem. 577 H. Blumenberg,
La realtà in cui viviamo, Feltrinelli 1987, p. 103. 578 Cfr., R. Messori, Le
forme dell’apparire, cit. Cfr., E. Grassi-H. Blumenberg, Correspondenz,
consultabile presso il Deutsches Literatur Archiv di Marbach. !
190! Se in Blumenberg abbiamo una distinzione tra retorica
dell’ornatus579 e retorica come prestazione metaforica580, tale che la retorica
come compensazione di una mancanza non si articola anche come compensazione di
una mancanza di verità e di evidenza – il che conferisce in ultima istanza una
piega antiretorica al discorso di Blumenberg – in Grassi la compensazione entra
in gioco proprio per l’esatto opposto: per eccesso di evidenza, per eccesso di
verità. Il reale contro cui urtiamo definitivamente, che ci incalza e ci chiama
– l’Appello dell’Essere – appare nella sua evidenza abbagliante che possiamo
solo patire. Come possiamo leggere in La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora “ciò che patiamo non sono gli enti ma ciò che in
funzione dei sensi – entro i limiti di piacere e dolore – si impone sempre
carico di significato. L’uomo vive esclusivamente sotto l’impeto di “segni
indicativi”, cioè dell’Abissale di cui i sensi sono strumenti”581. Das Reale
als Leidenschaft: il reale va inteso come passione. Secondo Grassi è il reale,
il mondo, con tutto il suo carico di estraneità e di alterità, che fa scattare
il meccanismo retorico, la risposta umana alla multilateralità della vita che è
evidente, si pone sotto agli occhi, ma allo stesso tempo è caratterizzata da
un’opacità che ci costringe al lavoro dell’interpretazione esistenziale – sia
essa del testo, della lingua, del concetto. Del resto in Grassi retorica e
filosofia, pathos e logos non sono che due approcci metodologicamente distinti
ma che hanno una medesima origine: il reale che genera angoscia, la quale
indica la “fondamentale esperienza esistenziale dell’inadeguatezza del codice
biologico”582. Essa “spezza il cerchio funzionale puramente biologico e [...] a
mezzo della parola, porta l’uomo alla conoscenza di tale potenza, cioè alla
consapevolezza della propria condizione strana e non addomesticata”583. La
proposta retorica e Quella dell’uomo
ricco che possiede la verità. 580 Quella dell’uomo povero che non possiede la verità
e che fa della retorica una tecnica compensativa. 581 E. Grassi, La metafora
“inaudita”: originarietà e paradossia della metafora, pp. 5-20, in Quaderni di
italianistica Volume IX, No. 1, 1988, p. 15. 582 Id., Retorica come filosofia,
cit., p. 189. 583 Ivi. I corsivi sono nostri. ! 191! linguistica
del filosofo si pone in antitesi alla coeva retorica di Perelman-Tyteca almeno
per quanto concerne la teoria dell’evidenza. In Trattato dell’argomentazione
abbiamo una definizione del discorso proprio in relazione al suo rapporto con
l’evidenza: “la natura stessa dell’argomentazione e della deliberazione
s’oppone alla necessità e all’evidenza, perché non si delibera dove la
soluzione è necessaria, né s’argomenta contro l’evidenza. Il campo
dell’argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui
questo sfugge alle certezze del calcolo”584. Secondo questa concezione il campo
dell’argomentazione è la prassi, l’attività umana, e un inaggirabile carattere
è quello dell’incertezza. In quest’area dell’indefinibile una volta per tutte
rientrano tutte quelle opinioni, giudizi di valore, inquietudini, incertezze
che non si qualificano come errori, non si oppongono in modo irrevocabile ad
una verità (che risponde solo ai criteri della scienza) ma che rientrano a
pieno titolo in quell’idea di ragione integrale in cui il vero si declina come
verisimile. Emerge il tema dell’eikos concettualizzato anche da Grassi nella
sua lettura di Vico e che mostra il progetto di una nuova retorica che fa
appello ad una idea di ragione e verità che non si misura solo con il criterio
dell’evidenza ma che salvaguardia il valore di verità delle questioni morali,
sociali, politiche e religiose. Afferma il filosofo in Retorica come filosofia
che il logos della nuova retorica è quello capace di dire “il fondamento del
mondo umano, il mondo come espressione di disperazione nella situazione
specificamente umana”585. Tale logos in quanto onoma e rhema, in quanto nome e
verbo, dice non solo l’oggetto (objectum) ma la totalità di significatività
nella quale è inserito l’oggetto. Sostiene il filosofo che “questa distinzione
– quella di onoma e rhema – acquista un significato fondamentale. La parola in
quanto nome designa ciò che chiamiamo oggetto (objectum). Ma un oggetto non
esiste mai isolato, poiché appare sempre solo nella dinamica di un compito da
adempiere rispetto a certi bisogni”586. La parola allora non definisce e non
isola i fenomeni sensibili ma è lo spazio in cui accade la loro relazione
reciproca e la connessione con C. Perelman-L. Olbrechts-Tytheca, Trattato
dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 2001, p. 3. 585 E.
Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 191. 586 Ivi, p. 192. I corsivi sono
nostri. ! 192! l’essenza umana. “La parola in quanto presupposto e
annuncio [...] viene perciò espressa nel linguaggio retorico, in quel
linguaggio che si impone nel nostro impegno disperato e patetico, dal momento
che la preoccupazione principale è quella di formare l’esistenza umana”587.
Proprio perché massimamente evidente nella sua poliedricità il reale trova la
sua dicibilità nella multiformità linguistica: attraverso il dire metaforico.
Secondo il filosofo la “metafora agisce come una luce perché presuppone
un’intuizione di relazioni”588. L’essenza della parola risposa nella sua
struttura analogica e traspositiva. L’unica parola capace di indicare il
trasferimento, il potere di mutazione e trasposizione è la metafora. Grassi
sottolinea come “il traslare (metapherein) non ha originariamente un
significato linguistico e tanto meno letterario: il termine metapherein indica
il tra-sferire un oggetto da un luogo ad un altro – dualità – il che presuppone
un passaggio, un transito, un ponte che l’uomo deve progettare, cioè gettare da
un luogo ad un altro luogo, da un qui ad un là”589. La questione non è tanto
quella di congedarsi dalla verità ma quella di abbozzare i prolegomeni per una
riflessione metodologica sui fondamenti del discorso, sui presupposti
dell’argomentazione. La nuova retorica grassiana prende congedo da un’idea di
evidenza di tipo matematico-scientifico, e fa perno su un’idea di evidenza come
certezza: lo sfondo antropologico della retorica sottolinea come il nostro
sapere sia basato sulla fiducia, sulla pistis che ha la stessa radice di
persuadere. La certezza è una sorta di fiducia originaria. Come il filosofo
asserisce in Il ripudio del razionale la pistis “non è opinione né conoscenza
[...] poiché non ha le radici nell’indicazione di una ragione, ma è il
risultato di un’esperienza fondamentale che porta a un atteggiamento. Tale atteggiamento
scaturisce dall’esperienza di un compito (Auf-gabe) nel duplice senso della
parola: l’esperienza di una domanda (An-spruch), una dichiarazione nei riguardi
dell’essere”590. Il rapporto fiduciario costituisce allora uno dei tratti
antropo-biologici fondamentali che solo successivamente si tramuta in techne
retorica – la retorica come arte della persuasione. Attraverso la Ibidem. I corsivi sono nostri. 588 Ivi, p.
167. 589 Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora,
cit., p. 10. 590 Id., Il ripudio del razionale, cit., in Id., Vico e
l’umanesimo, p. 165. ! 193! lunga “preistoria” umanistica
dell’antropologia filosofica per Grassi possiamo comprendere il fondamentale
incrocio fra la questione della natura umana e quella retorica della funzione
della trasmissione del sapere e della costruzione. La retorica diviene una
tecnica per condurre la vita, elaborata da parte di un essere, l’uomo, che si
scopre povero di mondo, e, dunque, costitutivamente bisognoso di strategie
indirette di sopravvivenza per la costruzione di un universo culturale. Il
discorso more rhetorico ingloba anche quella categoria del politico all’interno
del processo linguistico che rende possibile la fondazione della comunità.
L’apertura è verso una considerazione della retorica come meccanismo
antropogenetico – la fondazione politico-civile – e come riflessione
metodologica sui presupposti del discorso. Accostarsi alla retorica da un punto
di vista antropologico, come fa Grassi, significa rintracciare il fondamento
tecnico dell’autoaffermazione nella costruzione di un mondo culturale e di un
sistema di istituzioni in quanto strategia di sopravvivenza in assenza di una
Umwelt naturale che assicuri l’esistenza umana. In questa prospettiva
ermeneutica vanno inquadrate le interpretazioni grassiane dell’umanesimo. Come
si afferma in Retorica come filosofia la negazione umanistica del primato della
logica “rompe con l’ideale matematico della conoscenza”1 e per comprendere
questa tradizione umanistica occorre prendere in considerazione quelle teorie
che “trattano del problema dell’origine della comunità umana e della funzione
politica della poesia”592. La tecnica retorica si configura come forma
paradigmatica di quella relazione indiretta, esonerante, con la realtà, che è
costitutiva della natura umana. L’idea guida è quella di un agire umano inteso
come compensazione dell’“indeterminatezza” cui risulterà coordinata una
retorica intesa come faticosa produzione di quelle concordanze che debbono
subentrare al posto del fondo “sostanziale” dei codici affinché l’agire diventi
possibile. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso
di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea
istituzioni. Id., Retorica come
filosofia, cit., p. 133. 592 Ibidem. Corsivi nostri. ! 194! La
radicalizzazione antropologica dell’idea di retorica mette in risalto un
aspetto fondamentale dell’interpretazione di Grassi: il comportamento tecnico
dell’uomo che genera la retorica, in qualità di prestazione sostitutiva/esonerante,
non esce dalla logica compensativa. La retorica rimane per Grassi – proprio per
la sua valenza antropologica – una prestazione compensativa/sostitutiva, e la
stessa funzione finisce con l’essere attribuita retrospettivamente alla
metaforologia e in prospettiva alla creazione di istituzioni. La declinazione
antropologica operata da Grassi comporta che il fenomeno storico “retorica” sia
privato della sua storia concettuale e delle sue funzioni effettuali nella
storia della cultura e della società, e sia eletto a metafora assoluta della
conditio humana. Tocchiamo qui uno dei nervi scoperti del discorso di Grassi,
che rimane chiuso in un’interpretazione che in ultima analisi lo costringe a
considerare il comportamento tecnico dell’uomo come una prestazione
sostitutiva/esonerante, non uscendo dalla logica compensativa, e non fornendo
in alcun modo una lettura adeguata della natura tecnica dell’uomo, cioè di
quella stessa interazione natura/ars da cui pure muoveva l’interesse
antropologico per la retorica. La salvaguardia delle molteplici forme di
apparire dell’essere – il vero, il buono, il bello – , della metamorphè
costitutiva del reale, induce Grassi a ricercare la forma linguistica adeguata
a dire tale metamorphè. Il filosofo si pone i seguenti quesiti: -! “attraverso
che cosa sorge il mondo umano se l’uomo, a differenza degli animali, non ha un
ambiente immediato, se questo deve essere costruito ogni volta dall’individuo?
In altre parole, qual è la causa dell’umanizzazione della natura?” 593 -! “come
si rapporta questa costruzione del mondo umano al fenomeno del linguaggio, del
logos?”594 -! “è possibile superare la concezione puramente formale della
conoscenza?” Ivi, p. 183. Corsivi nostri. 594 Ibidem. 595 Ibidem.Corsivo
nostro. ! 195! Le domande che vengono poste riguardano tre livelli
della riflessione: il livello antropogenetico della fondazione della civiltà;
il piano linguistico dell’espressione del rapporto uomo-mondo; il tema
epistemologico della natura della conoscenza. Cercare di risolvere questi
problemi comporta per Grassi un’analisi della storia dell’umanesimo che propone
una rinnovata idea di logos. Il logos non può essere ridotto al suo aspetto
formalizzato, logicista, scientifico. Una questione fondamentale è quella del
passaggio dall’Umwelt alla Welt, dal mondo ambiente contraddistinto
dall’immediatezza non-verbale del codice biologico al mondo umano. Secondo il
filosofo esiste un’area in cui possiamo trovare segni indicativi e costrittivi
senza la mediazione della razionalità e del linguaggio: si tratta del mondo
organico. IV. VI. Il mondo organico L’analisi del mondo organico mostra degli
aspetti che “possono essere ritrovati nel mondo sacrale”596 e retorico.
Nell’ambito dell’organico “ogni genere e specie vivente sta sotto i propri
segni determinati e indicativi”597. Tali codici/diastema mostrano che “la
realtà appare alla creatura vivente esclusivamente entro selezioni”598. Le
selezioni (codici/diastema) si inseriscono all’interno del “cerchio funzionale
simbolico della vita” – nozione mutuata da J. Von Uexküll – che indica
“un’unità intatta di segni che sono significativi per la vita”599. Secondo il
filosofo l’analisi del mondo animale e biologico consente di rintracciare delle
analogie con le strutture del mondo sacrale, religioso, retorico che getta luce
su un’idea di filosofia rinnovata in senso non intellettualistico. Ivi, p. 182. 597 Ivi, p. 180. 598 Ivi, pp.
180-181. I corsivi sono nostri. 599 Ivi, p. 181. ! 196! Dal punto
di vista grassiano i semata che ritroviamo nel mondo biologico mostrano
un’intrinseca forza induttiva (epagein-inducere)600, essi hanno un carattere di
guida (arcaico) che costringe l’animale a creare il proprio ambiente nei limiti
del proprio cerchio funzionale simbolico finalizzato all’autoconservazione.
“Questi segni possiedono una funzione metaforica perché trasferiscono un
significato a ciò che gli organi manifestano. Attraverso questo trasferimento
di significati appare all’organismo il suo ambiente specifico che costituisce
la sua sola realtà. I segni hanno un carattere induttivo di guida. L’originarsi
di questi ambienti, di questi kosmoi – nel doppio significato del termine greco
come ordine e ornamento – avviene a livello organico”601 per
l’autoconservazione. L’unità dell’ambiente intatto e olistico dell’animale in
cui la comunicazione avviene per voci significative (psophos semantikos) viene
meno nell’uomo. La rottura del codice non verbale immediato che porta alla
genesi del mondo umano implica anche il superamento del livello della
“comunicazione fonetica immediata”602 e la nascita del logos. Con il linguaggio
si profila un compito per l’uomo: “il compito di costruire il mondo in cui
vivere”603 che spetta all’essere umano come singolo e “non ai segni indicativi
immediati del mondo olistico e non problematico”604. L’esperienza della
frattura – la disintegrazione del mondo intatto e olistico del biologico –
mette l’uomo di fronte alla propria Angst: “gli uomini patiscono l’angoscia che
si presenta nell’esperienza fondamentale di non avere a disposizione un codice
immediatamente efficace”605. Ma come avviene questa frattura nel mondo animale?
Il logos è causa della disintegrazione del cerchio funzionale simbolico o
prestazione compensativa per riunire ciò che si era spezzato? 600 Ibidem. 601
Ivi, p. 182. 602 Ivi, p. 183. 603 Ivi, p. 184 604 Ibidem. 605 Ibidem. !
197! IV. VII. Il logos umano: suono, voce, parola Secondo Grassi occorre
rifiutare la tesi secondo la quale “il linguaggio stesso è la causa per
eccellenza della dissoluzione dell’unità dell’organico poiché astrae e isola
gli oggetti della vita da quel ritmo vitale in cui essi emergono e ricevono il
loro significato”606. Al contrario il linguaggio sorge nel momento in cui la
dissoluzione è già avvenuta. Infatti perché l’uomo dovrebbe cercare un logos –
un codice completamente diverso dalla comunicazione fonetica pre- verbale – se
l’unità non fosse già scomparsa a favore di una separazione tra soggetto e
oggetto? Sostiene il filosofo che “la funzione significativa del linguaggio può
essere spiegata solo come superamento di un isolamento o di una astrazione già
sopraggiunti precedentemente e come separazione di soggetto e e oggetto. Perciò
si impone la necessità di una definizione verbale una volta che si sia
indebolita la comunicazione pre- verble”607. Il linguaggio non è la causa della
separazione, del dualismo soggetto e oggetto, ma una prestazione compensativa
con la funzione di ricostruire un legame. L’inadeguatezza del codice
pre-verbale che genera il logos attesta l’assenza nel mondo umano di un codice
immediato. “Compito del linguaggio è quello di trovare e formare una symplokè,
un congiungimento di soggetto e oggetto”608. Il logos nasce sullo sfondo di
un’esperienza: quella dell’angoscia che testimonia la natura “non
addomesticata”609 dell’uomo. Per comprendere l’analisi del linguaggio svolta da
Grassi dobbiamo prendere in considerazione le sue riflessioni sul suono, sulla
voce e sulla parola esposte in particolare nei saggi Prolegomena ad una
concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del 606 Ivi, p.
185. Il riferimento polemico grassiano è alla tesi di R. Thom esposte in
Modelli matematici della morfogenesi, Einaudi, Torino 1985. 607 Ivi, pp.
187-188. 608 Ivi, p. 188. 609 Ivi, p. 189. ! 198! linguaggio, in La
metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora e nel testo La
metafora inaudita. Sostiene il filosofo che per delineare i “prolegomena”610 al
problema del linguaggio occorre analizzare i concetti di psophos e phoné.
Prendendo in considerazione le affermazioni aristoteliche contenute nel II
libro del De anima circa la natura delle voci come suoni semantici costitutivi
del linguaggio611 il filosofo italiano pone in evidenza l’intima struttura
metaforica della voce – il suono semantico – che va a costituire il linguaggio.
“Aristotele distingue fondamentalmente [...] il suono (psophos) dalla voce
(phoné) per poi [...] definire la voce come suono indicativo (psophos
semantikos). Da ciò dovremmo dedurre che la voce costituisce qualcosa di
completamente nuovo in confronto al suono, non solo, ma che la voce è una
metafora, cioè nasce dal trasferire (metapherein) un significato, un segno
indicativo (sema) al suono (psophos)”612. La dualità tra suono e voce –la voce
è ciò che assegna al suono un significato – è fortemente criticata da Grassi
che invece ha come scopo quello di superare il dualismo mettendo in discussione
l’idea che il suono non abbia un intrinseco significato. Si chiede il filosofo
“è dunque valida la concezione tradizionale dualistica di suono senza significato
e voce, suono semantico indicativo, phoné?”613. Grassi dispprova la spiegazione
aristotelica tecnico-meccanica del suono per tre ragioni: tale spiegazione non
tiene conto che il suono appare attraverso uno strumento che nel caso dell’uomo
è “l’organo uditivo”614; occorre, al contrario, tenere presente che il suono
“ci appare solo entro l’ambito di un codice che si impone”615; bisogna
considerare la mutevolezza del codice616. Come Id., La metafora inaudita:
originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 611!Aristotele, De anima
II, 420 b 29.! 612!E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e paradossia
della metafora, cit., p. 9. 613!Id., Prolegomena, cit., p. 42.! 614!Ivi, p. 43.
615 Ibidem. 616 Ibidem. ! 199! è noto Aristotele definisce il suono
come ciò che è “sempre prodotto dall’urto di qualcosa contro qualcosa e in
qualcosa, perché ciò che lo produce è una percussione. É pertanto impossibile
che si abbia un suono in presenza di un solo oggetto, giacchè il percuziente e
il percosso sono distinti”617. Affinchè il suono si trasformi in voce occorre
tenere in considerazione l’elemento della vita618. Solo l’essere animato può
produrre il suono semantico, la voce, la phonè. Se gli elementi determinanti
della voce sono la vita (la voce è il suono dell’essere animato) e il suo
carattere interpretativo (il suo essere hermeneia tinos) per Grassi occorre
risalire all’ambito originario del suono: quello della vita. Proprio
l’operazione di radicamento dell’origine del suono nel mondo della vita induce
al filosofo ad affermare che “per l’essere organico, cioè per quello che
manifesta il mondo attraverso i propri organi, non esiste un suono che non sia
voce”619, ossia non esiste un suono di natura puramente meccanica ma solo un
suono dotato di un significato. Infatti per il filosofo i suoni semantici
schiudono “il teatro, nel significato originario di questo termine, cioè il
luogo del vedere, del theorein”620. Ma come e dove si rivela l’ambito
significativo testimoniato dal suono? Per Grassi innanzitutto nei sensi.
Riprendendo le teorie del fisiologo J. Müller621 sull’energia sensoriale
specifica – ossia quella legge secondo la quale ogni senso produce solo il tipo
di sensazione che ad esso è specificamente pertinente indipendentemente dal
tipo di stimolazione a cui è sottoposto – Grassi individua la possibilità di
rintracciare innanzitutto nei sensi la genesi della significazione. Egli
afferma che “ogni sensazione è carica di significato”622 e la significatività
della voce (che traspone un significato al suono) si radica 617!Aristotele, De anima, II libro, 419 b
10-14.! 618!Ivi, 420 b 7-9. “Quanto alla voce, essa è un suono dell’essere
animato. In effetti nessuno degli esseri inanimati emette una voce, ma per somiglianza
si dice che ce l’hanno, come il flauto”. 619!E. Grassi, La metafora inaudita,
cit., p. 31.! 620!Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della
metafora, cit., p. 19.! 621!Il testo al quale Grassi fa riferimento è Ueber die
phantastischen Gesichtserscheinuungen, Koblenz, 1826, pp. 4-5. 622!E. Grassi,
Prolegomena, cit., p. 45. ! 200! originariamente nella
significatività già presente nei sensi. Questi ultimi dotati di un’energia
specifica e carica di significato pongono in luce l’ambito originario di
formazione del senso: la Lichtung/Rahmen. “Ciò che rivelano i sensi, entro i
limiti di piacere e dolore, non è un’opera, un ergon, estraneo ai sensi, non è
un’opera meccanica, né un’opera poietica, ma praxis, intesa come parousia”623.
Ma quel è la struttura di questa parousia? Tale ambito originario ha una
struttura metaforica. Per il filosofo occorre scorgere la metaforicità del
reale attraverso la passione che si rivela come l’ambito in cui l’uomo fa
esperienza dell’appello dell’essere. Si chiede il pensatore: “in cosa consiste
il carattere metaforico dei segni sensibili? Esso si rivela nella passione,
nell’ambito della quale l’ente organico – tra i limiti di piacere e dolore – fa
l’esperienza dell’oggettività di corrispondere o non corrispondere a ciò di cui
è un’indicazione”624. Il problema dal quale partire è quello di corrispondere
all’appello dell’essere, alle necessitates che di volta in volta si presentano
all’uomo: emerge il tema del superamento della “insercuritas esistenziale”625,
del bisogno esistenziale che va soddisfatto attraverso il proprium dell’uomo,
ossia la parola. Si chiede il filosofo: “come definire ciò che ci è consueto,
ciò che ci è proprio, ciò in cui siamo a casa, ciò in cui ci sentiamo a nostro
agio, al riparo, difesi? É forse il linguaggio, la parola? Ma quale linguaggio,
quello razionale oppure quello poetico? Che funzione ha la parola
nell’affrontare il desueto, la realtà che ci è estranea, sconosciuta,
aliena?”626. Il tentativo di superare l’insicurezza esistenziale, la
spaesatezza dell’Aperto conduce l’uomo al linguaggio: la dimora che custodisce
quella relazione essenziale tra il Dasein e il Sein. A fare problema per Grassi
è l’individuazione di un linguaggio che sia casa dell’essere: da qui l’analisi
!Ivi, pp. 49-50.! 624!Ivi, p. 50. 625!E. Grassi, Ermeneutica dell’estraneità.
Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), in “Studi di
estetica”, Bologna, pp. 21-33. 626!Ivi, p. 21. ! 201! della
metafora nella sua priorità rispetto al concetto, e della poesia come espressione
della storicità dell’esistenza. IV. VIII. Metafora e concetto Afferma il
filosofo che “il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di
ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una metafora”627 e si
chiede se la metafora “che ricorre per lo più alle immagini, va considerata un
mezzo solo letterario [...] o è indispensabile per esprimere l’Originario”628.
La Frage che sorregge la sua indagine metaforologica mostra una componente
onto-antropo-logica poichè riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il
modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo
circostante: non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per
Grassi un dispositivo antropo-poietico. Sostiene il pensatore italiano che
“alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè
di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione
non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che
appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile
una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa
ancora nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La
metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica
nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale
analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro
mondo”629. Siamo al cospetto di una teoria della metafora che coniuga l’analisi
della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come
fenomeno globale di tipo cognitivo ed esistenziale. Attraverso la metafora
godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”630 che mette in campo
una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che
“riconosca Id., Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 18. 628 Ibidem. 629 Id., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, p. 76. Corsivo nostro. 630 Id., Il dramma
della metafora, cit., p. 14 ! 202! l’importanza dell’esperienza
storica”631. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo di superare le
falle dell’hòros, del concetto, che non è in grado di dire la natura temporale,
storica e metamorfica degli enti, che si esprimono nei sempre diversi
significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti,
per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di
un’indicazione, da qui la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica,
come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. Egli
asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione
(hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle
dimostrazioni”632; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel
fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra
ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe
quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della
ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una
“chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”633, abbiamo il logos
ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della
dimostrazione. Secondo il filosofo “il termine metafora è esso stesso una
metafora; deriva dal verbo metapherein, trasferire, che originariamente
descriveva un’attività concreta. Alcuni autori limitano la funzione della
metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo
a un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza
un’intuizione immediata delle somiglianze”634. Alla metafora fa da contraltare
il concetto al quale spetta come compito quello di afferrare, comprendere un
fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Nella ricostruzione
etimologica grassiana il significato di hòros può essere colto nella sua
portata originaria mediante il riferimento “al verbo orìzo (determino) che sta
alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io
vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione
(horismòs) Ivi, p. 15. 632 Id., La
potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 633 Ibidem.
Corsivi nostri. 634 Id., Retorica come filosofia, Ivi, p. 76. Cfr.,
sull’analisi della metafora in Grassi M. Marassi, E. Grassi e il primato della
parola metaforica, pp. 264-291, in I. Pozzoni, Voci di filosofi italiani del
Novecento, IF Press, 2011. ! 203! esprime in tal caso proprio
questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per
forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”635, che è compito della
retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello
storico. Accanto ad una teoria della metafora non “più gioco letterario ma
originaria, prima forma dell’ingegno”636, grazie alla quale è possibile porre
“la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza
dell’uomo”637, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno
che con il nous aristotelico, interpretato alla stregua di “unica espressione
delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo” 638,
costituiscono la triade del significare arcaico. Il senso autentico della metafisica
immanente di Grassi emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire
attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna
paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione sulla
metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del
divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile
linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti,
Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione
storica è metaforica”639. IV.IX. La prassi metaforica: metafora e metapherein
La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del
linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa
come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto
traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica è guidata proprio
da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come
trascendentale del linguaggio. Come 635Id., Potenza della fantasia. Per una
storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 636Id., Significare arcaico,
cit., pp. 479-495, p. 494. 637Id., Potenza della fantasia. Per una storia del
pensiero occidentale, cit., p. 202. 638Id., Significare arcaico, cit., p. 494.
639 Id., Il colloquio come evento, cit., p. 71. ! 204! emerge già a
partire da Il problema della metafisica platonica il tema della determinazione
del ti esti, incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della
manifestazione della realtà, pone anche il tema della fondazione
metaforologica. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile
dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere
affidata unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che
per Grassi non è un gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous
“e come tale unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e
immediatamente indicativo”640. Il polimorfismo ontologico viene maggiormente
salvaguardato attraverso il pensiero topico, ingegnoso, in grado di apprendere
e rintracciare i loci dell’argomentazione; capacità, questa, di cui il pensiero
critico, tutto confinato all’interno della catena delle deduzioni, sembra
essere privo. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper ritrovare le
archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle quali
soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Al
filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni
metaforiche: come possa essere descritto il trasferimento semantico ad esse
sotteso, quali componenti riguardi, se proprietà atomiche o interi nodi di
storie. Interessa invece ciò che questo trasferimento nasconde, ciò a cui
supplisce, che cosa raccontino del modo attraverso cui l’uomo ha cercato di
esprimere il proprio rapporto con la “realtà”. Per Grassi la metafora si
configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non
solo si articola, ma su cui si fonda: essa è ed è stata una componente
essenziale dei processi attraverso cui le culture interpretano e strutturano il
mondo che le circonda. Il filosofo afferma in Prolegomena ad una concezione
della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio che “non va
dimenticato che il traslare (metapherein) non ha originariamente un significato
linguistico e tanto meno letterario; il termine metapherein indica il
trasferire da un luogo ad un altro luogo e Id., Significare arcaico, cit., p.
494. ! 205! ciò presuppone un passaggio, un transito, un ponte.
L’uomo deve progettare questo passaggio, gettare un ponte da un luogo ad un
altro”641. L’approccio antropologico-filosofico descrive e ripercorre una
modalità di accesso al senso attraverso la metafora, e allo stesso tempo tenta
di ricostruire la storia della fondazione del mondo della vita e della comunità
umana individuando nei processi di metaforizzazione e di concettualizzazione i
congegni antropogenetici e i fenomeni di base dell’umanizzazione. Nella
semantica metaforica di Grassi non trova posto l’usuale contrapposizione del
senso traslato con il senso letterale di un’espressione. Infatti “il termine
metafora indica originariamente presso i Greci un’azione concreta e per la
precisione il trasferimento di un oggetto da un luogo ad un altro; soltanto più
tardi il termine compare anche nell’ambito del linguaggio”642. Se l’idea che
riduce la metafora ad orpello linguistico – senza tenere conto della sua
matrice pratica – va messa da parte occorre anche rifiutare la prospettiva che
tenta di sostituire la metafora al concetto. Per Grassi la metafora non si
trova a supplire momentaneamente l’insufficienza del concetto, fornendo un
significato di passaggio, un senso provvisorio in attesa di esser sostituito da
quello proprio dei termini logici. La particolarità dei termini logici –
l’esattezza – determina allo stesso tempo una perdita di polisemia, potremmo
dire una riduzione delle loro potenziali connessioni di senso. Essi sono
contraddistinti da una cristallizzazione del significato in un unico percorso
interpretativo, da una pauperizzazione semantica inversamente proporzionale
alla chiarezza e distinzione logica: è il fio che occorre pagare per una
filosofia pura. Per il filosofo “interrogarsi sul ruolo della metafora equivale
perciò a chiedersi se la metafora rappresenti nel linguaggio filosofico
soltanto un residuo di rappresentazioni che dev’essere superato allorchè ci si
mette sulla via del logos”643. Nella prospettiva tradizionale la metafora
sembra peccare di imprecisione, ragione per cui è sempre stata estromessa dalla
filosofia, per essere ricompresa nella retorica o nella poetica. Ma a ben 641
Id., Prolegomena ad una concezione della retorica, cit., p. 40. 642!Id.,
Potenza della fantasia, cit., p. 72. 643!Id., Potenza della fantasia, cit., p.
72. Corsivi nostri.! ! 206! guardare quella che per il pensiero
logico è una imprecisione, “uno scandalo per la logica [...] un elemento
distraente che non ha nulla a che fare con la realtà”644, in realtà è dotata di
una precisione intrinseca dettata dalla necessità di natura. Il tratto di
precisione della metafora emerge all’interno del discorso su Vico il cui
carattere di epocalità è rintracciato proprio in quella divaricazione della
metafisica in ragionata e fantasticata. Ricorrendo al principio vichiano
dell’homo non intelligendo fit omnia Grassi asserisce che “se con la metafora
[...] si risponde alle varie necessità, il linguaggio metaforico, ricco di
elementi fantastici è originale, preciso, a differenza di quello astratto che
si allontana”645 dal reale. L’analisi della metafora fa emergere l’idea di una
metafora drammatica e inaudita646, nel senso di assoluta, riprendendo una
feconda espressione di Blumenberg. Essa si rivela uno strumento ermeneutico e
va a strutturare i codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro
giudizio sulle cose. Del resto già Kant, nel famoso paragrafo 59 della Critica
del giudizio (1790), trattando il procedimento della “traslazione della
riflessione”, definisce il simbolo647 in maniera del tutto simile alla metafora
grassiana. Essa determina un comportamento, un tipo di orientamento nel mondo
che si trova a esser strutturato dalla metafora. Attraverso la metafora
un’epoca esprime le proprie certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie
aspirazioni, le aspettative, le azioni e gli interessi. Essa assume la Id.,
Prolegomena, cit., p. 41 645 Id., G. B. Vico: un filosofo epocale, in Id., Vico
e l’umanesimo, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 646 Id., La metafora
inaudita, cit.; Id., Il dramma della metafora, cit.; Id., Ermeneutica
dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti,
Neruda), cit., pp. 21-33; La metafora inaudita: originarietà e paradossia della
metafora, cit., pp. 5-20. 647 I. Kant, Critica del Giudizio, tr. i. di A.
Gargiulo, Introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 183- 385.
“A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso
della parola simbolico per designare un modo di rappresentazione opposto a
quello intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di
rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè
esibizioni (Darstellungen- exhibitiones) [...] tutte le intuizioni che sono
sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime
contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime
procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia [...] in cui
il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto
di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice
regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso,
di cui il primo non è che il simbolo [...]. La nostra lingua è piena di queste
esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene
lo schema proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la
riflessione”. ! 207! funzione del codice. Per il filosofo occorre
“sollevare la questione, di solito trascurata, della relazione tra codice e
metafora”648. Sostiene il pensatore che l’atto di leggere e interpretare la
realtà con un codice specifico – ossia con “un sistema di segni, gli elementi
dei quali ricevono un significato entro il sistema”649 – “costituisce una sorta
di attività metaforica”650. L’attività metaforica mostra un’analogia con il
codice poiché rende possibile la visione degli enti e soprattutto la
similitudo, ciò che è comune a più enti. Riprendendo la teoria aristotelica
esposta nella Poetica secondo cui “l’usare bene la metafora significa percepire
con la mente l’oggetto affine”651 Grassi pone strettamente in relazione l’eu
metapherein e il to omoi on theorein. La metaforizzazione va identificata da un
lato con la visione delle somiglianze ma dall’altro libera la sua vis
generativa nella scoperta del novum: il me phaneròn. Ciò che è nuovo nella
scoperta metaforica è ciò che non era evidente in precedenza. “La metafora
scopre ciò che non era stato visto in precedenza, lo porta alla luce, in quanto
essa nasce dalla necessità della chiarezza”652. Proprio qui risiede la
differenza tra codice e metafora: accomunati dal bisogno di decifrazione653
codice e metafora si separano sul terreno della scoperta del novum. Sostiene
Grassi che “nessun codice è capace di adempiere questa funzione, perché un
codice non fa che stabilire il sistema ordinatore di relazioni già date, e
sulla base delle quali qualcosa viene interpretato. Non esiste un codice che
conduca a un nuovo codice [...] funzione della metafora è l’invenzione,
scoprire nuove relazioni. É la metafora che produce ogni nuovo codice”654.
Risulta evidente che l’apertura metaforologica del discorso di Grassi è
paradigmatica e non classificatoria, nel senso che essa si propone come un
metodo che risale verso archetipi, i quali !E. Grassi, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 76.! 649!Ivi, p. 75.! 650!Ibidem. 651!Aristotele,
Poetica, 1459 a 7.! 652 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 74.
653!Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 77.! 654!Ivi, pp.
76-77. Corsivi nostri. ! 208! fungono da paradigmi esplicativi dei
comportamenti e degli atteggiamenti cognitivi propri della storia della cultura
occidentale. Ogni metafora crea una Lichtung, un Rahmen originario di
riferimento, una zona virtuale entro cui si muovono e si espandono i concetti e
i confini dei campi semantici, stabilendo nuove connessioni di senso,
soprattutto tracciandone i percorsi che poi ogni epoca e ogni autore
attualizzano secondo una specifica declinazione del paradigma fornito dalla
metafora stessa. La produttività antropologica della metafora viene quindi
portata oltre l’antitesi con il concetto, allontanata dalla contrapposizione
tra un senso deviante e figurato e un senso proprio, che a sua volta nasconde
l’opposizione apparenza/essenza. Occorre risalire dalla domanda che chiede
“come è distinguibile il proprium di una parola dalla sua trasposizione?”655
alla domanda che indaga sul terreno di formazione di un senso traslato o
proprio della parola e della metafora. Occorre analizzare la struttura di
“visione delle somiglianze della metafora”656. In contrasto con una concezione
del linguaggio che tende all’univocità oggettiva, la metaforologia grassiana
indica un’inconcettualità basica: ciò che interessa non è dunque l’esistenza di
un correlato di cui si asserisce l’assenza di formalizzazione linguistica o
l’impossibilità di predicazione, ma lo sforzo di esporre linguisticamente
l’ineffabilità stessa: la storicità del Da-sein. Grassi elabora una semantica
metaforica che affonda le sue radici in un orizzonte di inconcettualità e
sposta l’attenzione su quella dimensione di gettatezza, sul nostro essere
calati in un mondo di immagini che chiedono di essere interpretate. In uno dei
suoi ultimi testi, La metafora inaudita, Grassi si mostra meno interessato al
percorso di nominalizzazione che porta la metafora verso il concetto, come
accadeva invece nei precedenti lavori sull’umanesimo. La sua ricerca si orienta
sempre di più verso il terreno in cui si formano le metafore, e cioè il mondo
della vita, la Lebenswelt che mostra tutto il suo assolutismo, che viene
contrastato proprio attraverso le prestazioni della distanza nelle forme del
mito e delle metafore assolute, e quindi delle diverse pratiche metaforiche che
traducono queste Id., Potenza
dell’immagine, cit., p. 195. 656 Ibidem. ! 209! prestazioni, la cui
funzione principale risulta allora compensatoria ed esonerante. Leggiamo in Il
dramma della metafora che “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura
fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per
identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità
intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”657. I processi di
metaforizzazione e di simbolizzazione della realtà sono in altre parole lo
strumento con cui l’uomo riesce ad allontanare l’assolutismo della realtà e a
rendere meno violenta la sua percezione. L’analisi della prassi metaforica
parte dalla domanda “dove, come patiamo l’oggettività dell’essere?”658 che sorge
laddove si fa esperienza dell’incapacità di restituire la ricchezza della res –
il mondo oggettivo – attraverso l’univocità della definizione. Se “l’essenza
della parola consiste nella sua tropicità, cioè nell’essere sempre un traslato,
necessariamente il problema della verità sempre e ovunque valida deve venir
sostituito dal problema di ciò che di volta in volta si svela nella storia”659.
La retorica è la scienza storica per eccellenza: indaga ciò che di volta in
volta viene all’espressione e cala la dimensione dell’aletheia in quella
dell’Ereignis. Secondo il pensiero tradizionale gli enti vanno definiti
mediante un processo razionale che astrae dall’hic et nunc, dalla storicità. È
questo il prezzo da pagare per una conoscenza vera e immutabile: porre a
distanza tutti quegli elementi legati al qui ed ora: le immagini, le passioni.
Sostiene Grassi in Retorica come filosofia che “le teorie cartesiane continuano
a determinare ancora oggi l’atteggiamento nei confronti dell’ideale culturale
dell’Umanesimo e della supremazia della parola. Opponendomi alle idee di
Cartesio desidero esplorare la tradizione dell’Umanesimo italiano”660. Grassi è
mosso dal convincimento che Cartesio esamina e valuta le discipline umanistiche
del sapere solo per stabilire se e in che misura esse possano trasmettere
verità e certezza. Tutta la questione umanistica si riduce ad un problema di
erudizione filologica che ha a che fare con la sfera delle 657Id., Il dramma
della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica,
Napoli 1992, p. 165. 658Id., Prolegomena ad una concesìzione della retorica (la
phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 659 Id., La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. Corsivi nostri.
660 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 80. ! 210! passioni e
delle immagini. La vera filosofia è quella critica a cui Grassi vuole opporre
una priorità trascendentale della topica e per farlo ricorre a Vico e a
Aristotele. Contro una simile impostazione che separa scienza e vita Grassi
vuole proporre un’idea unitaria di logos e pathos in cui la retorica assuma un
ruolo preponderante. Tradizionalmente la retorica – e i suoi elementi
fondamentali: le immagini, le metafore – viene considerata come ciò che va
respinto in quanto “ragione non ancora realizzata”661, come priva di chiarezza
razionale e verità rigorosa generando “l’ideale cartesiano [di] una filosofia
disadorna, impersonale, senza tempo e senza luogo”662. Tenendo in
considerazione l’importanza che l’umanesimo retorico attribuisce alla parola,
come ciò che apre il mondo, la filologia assurge a una posizione fondamentale
all’interno degli studia humanitatis. Secondo il filosofo “la parola deve
essere considerata un fenomeno originario, non solo espressione del pensiero”663.
Nelle analisi svolte abbiamo rintracciato una riabilitazione del pensiero
umanista che parte dal convincimento della preminenza del problema della parola
su quello degli enti. Secondo il filosofo il legame tra parole e cose non va
inteso come semplice corrispondenza delle une alle altre – poiché la parola non
designa univocamente la cosa – poiché il significato di una cosa dipende dal
contesto concreto in cui la parola viene utilizzata. La riflessione retorica
stabilisce un nuovo modo di filosofare noetico non metafisico che parte dalla
parola e non dall’ente. In questo percorso Vico riveste un ruolo particolare.
IV. X. Phantasia, ingenium, sensus communis: le fonti del mondo storico
individuate da Vico La proposta grassiana di ripensamento della retorica nella
sua identità con la filosofia viene sempre più a svelare il suo senso
esistenziale e intersoggettivo. La secca alternativa tra un filosofare ridotto
a ricerca delle verità eterne – condotta attraverso un argomentare poggiante su
basi deduttive ed un linguaggio razionale e formalizzato – e una retorica
intesa come argomentazione debole o Id.,
Viaggiare ed errare, cit., p. 180. 662 Ivi, p. 181. 663 Id., Potenza
dell’immagine, cit., p. 242. ! 211! tecnica del bel parlare –
induce il filosofo a ripensare la correlazione retorica-filosofia a partire dal
nesso vero-verisimile. Il tema è al centro di un saggio su Vico degli anni ’40,
Del vero e del verosimile in Vico664, che mostra come la figura del filosofo
napoletano sia una presenza costante all’interno dell’iter di pensiero
grassiano665 – e non uno sbocco finale della filosofia di Grassi – e
costituisca l’occasione di determinare il significato autentico di retorica. In
Vico Grassi rintraccia l’originaria funzione ermeneutica del linguaggio retorico,
che ha il proprio fulcro nella figura della metafora, prodotto dell’ingenium.
Riproponendo una dicotomia – quella di Vico/Cartesio – ritornante in maniera
fortemente radicalizzata nei lavori successivi su Vico, Grassi sottolinea come
a differenza della filosofia critica poggiante sulla ratio la filosofia topica
vichiana si fonda sulle facoltà dell’ingenium e della fantasia che sono facoltà
di apprensione del reale immediate e intuitive e non deduttive. Asserisce il
filosofo italiano che la fantasia vichiana “è l’espressione dello spirito umano
in quell’istante del ciclo storico, che esso deve sempre nuovamente percorrere,
quando l’ente originario si rivela all’uomo solo in immagini, simboli, miti. A
riguardo si deve notare che anche il mondo della fantasia, come prima fase
dello sviluppo dello spirito umano, non è un mondo primitivo in senso negativo;
è essenzialmente e perfettamente formato in sé, per certi aspetti è ancora più
vicino all’ente originario di quanto non lo sia il mondo della ragione”666. A
differenza del pensiero critico il pensiero topico ha come suo oggetto tematico
il verosimile che appartiene alla sfera del possibile e non del necessario ed è
legato al tempo e allo spazio della situazione. Leggiamo in Retorica e
filosofia che “solo l’intuizione delle caratteristiche comuni o condivise nel
senso summenzionato rende possibile il conferimento di significati che
consentono alle cose di apparire (phainesthai) in modo umano. Poiché tale
capacità è tipica della fantasia, è proprio quest’ultima a permettere al mondo
umano di !Id., Del vero e del verosimile in Vico, pp. 951-966, in Id., I primi
scritti, cit.!! 665 Sulla presenza di Vico in Grassi cfr., R. Messori, Le forme
dell’apparire, cit.; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di
E. Grassi, cit.; J. Sanchez-Esquillace, E. Grassi y la filosofìa del Humanismo,
cit., J. M. Sevilla, Critica de la razon problematica, cit.; G. Cacciatore, In
dialogo con Vico, cit. 666!E. Grassi, Del vero e del verosimile in Vico, cit.,
p. 963. ! 212! apparire”667. Conseguentemente la fantasia si
esprime originariamente nelle metafore “cioè nel conferimento figurato dei
significati [...]. La metafora è quindi la forma originaria dell’atto
interpretativo stesso che assurge dal particolare all’universale attraverso la
rappresentazione di un’immagine, ma naturalmente sempre riguardo alla sua
importanza per gli esseri umani. L’atto erculeo è sempre un atto metaforico e
ogni atto metaforico e ogni metafora autentica è in tal senso lavoro erculeo”668.
É evidente che l’attenzione posta sulla prassi metaforica669 va oltre il piano
linguistico. La metafora non è solo rappresentazione immediata di un’immagine
poiché per la sua struttura traspositiva assume un ruolo storico-politico:
quello della formazione del mondo umano come traspare dalla correlazione atto
metaforico-atto erculeo. Il riferimento ad Ercole – come abbiamo visto nel
secondo capitolo – cela il riferimento alla dimensione politica della
fondazione della civiltà e si staglia sullo sfondo di una prospettiva che si
basa sulla priorità della topica e dell’ars inveniendi sull’ars iudicandi. Una
impostazione di questo tipo consente al pensatore di guadagnare una concezione
integrativa della sapientia come ars vitae in cui filosofia e retorica si
identificano nell’orizzonte ampio e più alto di formazione civile670. Il sapere
noetico-non metafisico è uno strumento di formazione dell’essere umano
nell’interezza delle sue esperienze storiche. In questo contesto si comprende
come la poesia per Grassi – sulla scia di Heidegger e Vico671 – rivesta un
ruolo fondamentale: essa non ha solo la funzione storico-filologica ma anche un
compito etico-politico. Abbiamo visto come il concetto vichiano di fantasia
assuma per Grassi una funzione decisiva. Vico afferma in Le orazioni inaugurali
che la fantasia “immaginò le divinità maggiori e le minori, essa immaginò gli
eroi, essa ora svolge le sue idee, ora le collega, ora le distingue; essa pone
sotto i nostri occhi terre infinitamente lontane, Id., Retorica come filosofia, cit., pp.
38-39. 668 Ibidem. 669 Cfr., Id., Prolegomena ad una concezione della retorica.
La phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 670 Come
abbiamo visto nei capitoli precedenti Grassi distingue la Bildung dalla
Erziehung, la formazione dalla educazione. 671 Cfr. su questo aspetto fondativo
e politico della poesia in Vico G. Cacciatore, Passioni e ragione nella
filosofia civile di Vico, pp. 3-20, in Id., In dialogo con Vico, cit., p.
18. ! 213! abbraccia quelle distinte fra loro, valica quelle
inaccessibili scopre quelle inesplorate, apre strade per quelle impervie”672.
L’importanza della fantasia nella teoria della conoscenza vichiana è
sottolineata da Grassi nell’ambito di una proposta ermeneutica di analisi della
fantasia e delle sue forme di funzionamento come paradigmi per delineare una
storia del pensiero occidentale673. La rivalutazione della fantasia mira a
sottolineare quella straordinaria forza formatrice che la mente umana riesce ad
attivare tramite le sue azioni simbolizzatrici messa in luce anche dal Cassirer
filosofo delle forme simboliche. Quest’ultimo sostiene che i diversi campi
della creatività spirituale sono capaci di costruire “uno specifico libero
mondo di immagini: un mondo che per la sua natura immediata porta tuttavia in
sé il colore del sensibile, ma che rappresenta una sensibilità già formata e
quindi dominata dallo spirito. Qui non si tratta di un sensibile semplicemente
dato e trovato, ma di un sistema di molteplicità sensibili prodotte in una
qualche forma del libero immaginare”674. Secondo Grassi nella tradizione
umanistica la vis plastica e cosmica della fantasia e la relativa attività
metaforica vengono interpretate come fonti originarie dell’esistenza e del
mondo storico. La domanda dalla quale partire è: “qual è l’ambito originario
della fantasia, la cui essenza è – come abbiamo visto – il metapherein?”675.
Nel tentativo di risolvere la questione Grassi ricorre a Vico, considerato
l’ultima “vetta”676 dell’umanesimo. Egli offre con le sue riflessioni sulla
fantasia e sull’ingegno, sul senso comune, l’occasione fortunata per un
ripensamento della storia del pensiero occidentale al di fuori dei cardini
dell’intelletto calcolante e della metafisica astratta. L’autore della Scienza
Nuova ha avuto il merito di sviluppare “la tesi di una logica della fantasia al
fine di trovare l’accesso all’umano – nella sua singolarità e concretezza –, un
accesso che la logica tradizionale, con G. Vico, Le Orazioni inaugurali, I-VX,
a cura di G. G. Visconti, il Mulino, Bologna 1982, p. 83. 673 E. Grassi, La
potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit. 674 E.
Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I, La Nuova Italia, Firenze, 1967,
p. 22. Cfr. per una correlazione tra la riflessione vichiana sulla facoltà
mitico-simbolizzatrice della fantasia e la filosofia delle forme simboliche
cassireriana G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, pp. 85-104,
in Id., Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Armando Siciliano, Messina
2005. 675 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 239. Corsivo nostro. 676
Ibidem. ! 214! la sua ricerca rivolta esclusivamente
all’universale, non aveva ottenuto”677. Secondo il pesatore milanese con Vico
siamo di fronte ad un logos phantastikòs in grado di penetrare la realtà del
mondo storico umano e individuale con maggior successo di quanto non faccia la
logica tradizionale678. In tale logica è rintracciato il centro speculativo
della Scienza Nuova che non è solo scienza della storia ma antropologia
innanzitutto. Il confronto dell’uomo con la natura che rende possibile la
nascita del mondo storico avviene sul terreno della ricerca delle attività che
liberano l’uomo dai bisogni materiali. Per Grassi il problema fondamentala di
Vico “consiste nell’identificare l’ambito originario all’interno del quale
soltanto può in generale manifestarsi la storicità, ossia il mondo umano come
tale. Si tratta in ultima analisi di scoprire la struttura dell’esistenza
umana”679. Questo passo è davvero illuminante poiché da un lato ci consente di
apprezzare la specificità della lettura offerta di Vico – un Vico antropologo
delle origini del mondo umano storico-politico- linguistico – e dall’altro di
cogliere la questione fondamentale che sorregge la Frage onto-antropo- logica
grassiana: l’analisi del mondo umano attraverso l’attenzione all’ursprünglich
Rahmen680 – la Lichtung – e alla Struktur des menschlichen Daseins681 –
l’analitica dell’esistenza di cui abbiamo detto nei precedente capitoli. La
questione del cominciamento del mondo umano è intimamente legata a quella
dell’origine della storia e dunque alla socialità a cui Vico assegna il ruolo
di elemento fondativo delle istituzioni politiche. Grassi punta a sottolineare
non tanto l’aspetto metodologico e Ivi, pp. 239-240. 678 Cfr., su questo
aspetto della logica della fantasia D. P. Verene, La scienza della fantasia,
Armando, Roma 1984 e Vico’s Humanity, “Humannitas. Journal of the Institute of
Formative Spirituality”, XV (1979). Qui lo studioso sostiene che la
comprensione vichiana dell’umano è mediata non dal concetto e dall’attività
razionale ma dall’attività mitopoietica della fantasia, dalle immagini e dalla
forza creativa del linguaggio. Cfr., anche G. Costa, Genesi del concetto
vichiano di fantasia, in AA. VV., Phantasia/Imaginatio, V Colloquio
Internazionale, a cura di M. Fattori, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; M.
Sanna, La fantasia che è l’occhio dell’ingegno. La questione della verità e
della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001; G. Cacciatore, In
dialogo con Vico, cit. 679 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 240. 680
Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte
abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 681 Ibidem.
! 215! storico-ricostruttivo, pur presente in maniera preponderante nella
Scienza Nuova, quanto l’elemento di ricerca dei principi filosofici che sono
all’origine del graduale processo di umanizzazione e antropologizzazione del
mondo e della natura682 in cui la fantasia assume una funzione chiave e
talvolta presentata dal filosofo milanese in maniera troppo antitetica rispetto
alla ragione. Ricordiamo che secondo Vico la fantasia è per l’uomo un mezzo di
produzione di immagini che rappresentano una griglia interpretativa della
realtà, costituendosi come condizione trascendentale della crescita e
dell’apertura mentale dell’uomo, del percorso di costruzione ed elaborazione
del suo cammino storico. La fantasia consente all’individuo di comprendere il
suo essere nel mondo, la sua circumstantia, di persistere nel suo spazio
vitale683, sebbene attraverso una comprensione della realtà non adeguata, ma
pur sempre vera, dovuta alla impossibilità umana di giungere alla piena
conoscenza di fenomeni che sono stati creati da una identità superiore all’uomo.
Pur accogliendo la prospettiva grassiana della rivalutazione del tema della
fantasia in Vico vorremmo sottolineare come per il filosofo napoletano il mezzo
di controllo della fantasia resti in ultima istanza la ragione, la sola capace
di regolare il ragionamento fantastico in modo da renderlo attinente al mondo
reale – viene salvaguardato in questo modo l’aspetto adeguativo del vero. Qui
si inserisce anche il proposito pedagogico presente nel Vico del De ratione,
per cui gli uomini, già dall’età della fanciullezza, hanno bisogno di educare
il loro modo di ragionare, che per Vico – come per Cartesio – comporta
l’utilizzo del metodo matematico. Il filosofo napoletano, come è noto,
distingue due fasi della vita di un uomo in cui, a seconda dell’età e dell’esperienza
acquisita, queste due capacità intellettive hanno una valenza specifica e una
preminenza nei confronti dell’altra: nei giovani prevale la fantasia, negli
adulti prevale la ragione. Sostiene Vico che “come nella vecchiaia prevale la
razionalità, così nell’adolescenza prevale la fantasia: e davvero non è in
alcun modo opportuno nei giovinetti offuscare
Per una lettura antropologia della Scienza Nuova cfr. L. Amoroso,
Introduzione alla scienza nuova, cit. 683!E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 53 e sgg.!! ! 216! quella che è sempre stata considerata
l’indizio più felice dell’indole futura”684. La condizione mentale dei
fanciulli li agevola a sviluppare la loro capacità immaginativa, componente
fondamentale in questo determinato periodo della formazione della personalità
umana. Con l’età adulta l’uomo inizia invece a inquadrare razionalmente gli
enti, a far prevalere la ragione sulla fantasia, ad uscire dallo stato di
minorità. Vico accetta entrambi i momenti della formazione dell’individuo,
senza porre un antagonismo delle facoltà, un manicheismo gnoseologico,
sottolineando con forza come non debba essere oppressa e trascurata la fase
originaria dell’essere- nel-mondo umano, quella immaginativa, che è
fondamentale per la crescita di una persona. Infatti Vico riconduce la fantasia
sotto la categoria della memoria, che a sua volta si suddivide in tre distinte
fasi: memoria come attività dell’intelletto umano che “rimembra le cose”;
fantasia come attività che “altera e contraffà” il ricordo originario; ingegno
come attività che “pone in acconcezza e assestamento” ciò che è stato
precedentemente modificato. Come sottolinea Cristofolini occorre tenere
presente la duplice valenza della fantasia in Vico: da un lato essa costituisce
la capacità “primitiva” di creare un impero della fantasia e del mito;
dall’altro necessita di essere limitata e sottomessa alle strutture della
ragione685. A differenza di un’ipotesi che ricomprende il concetto di fantasia
all’interno di uno sviluppo razionale graduale e progressivo Grassi propende
per l’idea che “la fantasia, basata sull’esperienza delle molteplici
interpretazioni che si possono dare ai fenomeni sensibili, crea le prime
analogie fra tali fenomeni e con essi le prime connessioni e infine le
definizioni”686. Secondo il filosofo milanese si tratta del primo adattamento
della natura: attraverso la fantasia l’uomo mette in atto quella domesticazione
dell’essere che costituisce l’essenza dell’attività mentale. Grassi individua
tre significati fondamentali della fantasia
G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi,
Ets, Pisa 2010, p. 37. 685 P. Cristofolini, La Scienza Nuova di Vico.
Introduzione alla lettura, Nis, Roma 1995, p. 84. 686 E. Grassi, Marxismo,
umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, in Id., Vico e
l’umanesimo, p. 89. ! 217! vichiana: -! “nella fantasia e mediante
la fantasia si mostra che l’essere umano, a differenza dell’animale, non
soggiace a modelli dominanti che danno alle percezioni sensibili un significato
inequivocabile”687 -! “la seconda funzione della fantasia fu di costringere
l’uomo a farsi dominare dalla paura, dal terrore di fronte alle cose”688 -! “la
terza funzione della fantasia è quella di essere il primo originario fattore
che dà un significato al lavoro”689 Secondo Grassi la fantasia intesa nel primo
significato è strettamente correlata alla nascita della poesia; nel secondo
senso è legata alla nascita della religione come prima forma di adattamento
della natura e di genesi dell’ordine; infine essa va concepita in relazione
alla fondazione sociale e politica che è innescata dal lavoro che allarga il
proprio raggio di incidenza ben oltre i confini dell’autoconservazione: la
fantasia è la facoltà della visione per eccellenza, essa è l’occhio dell’ingegno.
Ingegno e fantasia: entrambe facoltà che insieme al senso comune costituiscono
la triade ermeneutica per una corretta comprensione di Vico e della Scienza
Nuova. Secondo Grassi Vico ricostruisce la storia del mondo storico umano
attraverso il ricorso al senso comune. Leggiamo in La priorità del senso comune
e della fantasia. L’importanza di Vico oggi che “secondo l’approccio vichiano
il mondo storico sorge dall’interdipendenza delle esigenze umane, dagli
elementi di cui abbisogna l’uomo. Da esso deriva la necessità di intervenire
nella natura umanizzandola e anche la necessità di stabilire istituzioni umane,
comunità sociali, organizzazioni politiche”690. Alla base di questa struttura
ritroviamo il senso comune Ivi, pp.
88-89. 688 Ivi, p. 89. 689 Ivi, p. 90. 690 Id., La priorità del senso comune,
cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43. ! 218! che è guidato
dall’ingegno. Per Grassi l’ingenium è la facoltà di scoprire le somiglianze e
basata sulla facoltà dell’ingegno “la fantasia [...] conferisce significati
alle percezioni sensibili. Mediante tale trasferimento la fantasia costituisce
la facoltà originaria del far vedere (phainesthai)”691. Si tratta delle facoltà
che appartengono sin dall’inizio alla formazione del mondo umano. Come afferma Vico
nella Metafisica del 1710 “i latini dissero facultas quasi dicendo faculitas da
cui poi anche facilitates come fosse una spedita, rapida solerzia nel fare.
Pertanto è facoltà quella che conduce la virtualità all’atto [...]: senso,
fantasia, memoria e intelletto sono facoltà dell’anima”692. Poco oltre il
filosofo napoletano sancisce definitivamente il legame tra memoria, fantasia e
ingegno, così come tra geometria e fantasia. In questo testo, Vico tenta di
definire le tre facoltà dell’intelletto e i distinti ruoli (come anche le
affinità) che esse svolgono nell’azione conoscitiva dell’uomo.
L’interpretazione grassiana della fantasia, anche definita “l’occhio
dell’ingegno”, si focalizza sulla sua funzione di mezzo attraverso il quale
l’ingegno umano riesce a riformulare i vari concetti, mediante una
rielaborazione delle immagini mentali, e a stabilire un nesso plausibile tra
essi, che permette di avvicinarsi il più possibile alla conoscenza della
verità. Se per Vico è vero che “la fantasia è una facoltà certissima, poiché
usandola, noi foggiamo le immagini delle cose”693, e che l’ingegno è “la
facoltà del congiungere in unità cose distanti, diverse”,694 è altrettanto
indiscutibile che nel momento in cui l’uomo incomincia ad affinare il suo
intelletto e tende ad essere più razionale (in quella fase storica che Vico fa
corrispondere all’età degli uomini), incomincia a limitare l’utilizzo della sua
capacità immaginativa e a diventare più “mentale”. Più l’uomo esce dal suo
“stato di ignoranza”, dunque, più cambia anche il ruolo e l’intensità della
fantasia all’interno della esistenza. La fantasia, allora, si trasformerà in
un’affinata facoltà poetica, in !Ivi, pp. 49-50.! 692 G. B. Vico, La metafisica
del 1710, a cura di A. Corsano, Adriatica, Bari 1966, p. 111. 693 Ibidem. 694
Ivi, p. 114. ! 219! una forza creativa che aiuta l’immaginazione
dei poeti e la loro capacità inventiva. La fantasia come qualità dei poeti, la
trasformazione dell’uso della metafora dalla sua precedente valenza filosofica
a quella prettamente artistica. Lo studio della sapienza poetica volta da una
vivida fantasia, segno di passionalità e sublimità del linguaggio della poesia
che, tuttavia, deve essere ben distinta da quel tipo di sapienza che invece
caratterizza il pensiero filosofico. Grassi avverte la possibilità di
interpretare attraverso la lente del progresso razionale l’ingegno e la
fantasia ma sposta l’attenzione verso l’ambito più originario della formazione
del mondo umano. Egli asserisce che “si potrebbe sostenere che Vico attribuisca
al discorso fantastico e metaforico solo il significato di un parlare
improprio, che diventa appropriato solo attraverso la logica, poichè egli
restringe l’uso del parlare metaforico e fantastico a un primo periodo della
storia. Noi possiamo rispondere a questa osservazione guardando ai fatti, cioè
chiarendo la relazione tra l’attività ingegnosa e immaginativa e senso comune,
o esaminando più profondamente il concreto dominio in cui l’ingegno e la
fantasia sono capaci di costruire il mondo umano”695. Con la fantasia,
l’ingegno e il senso comune è in gioco il tema della fondazione della civiltà
che tocca anche l’ambito del mito. IV. XI. L’ora di Pan e la morte di Pan: mito
e arte come genesi del mondo umano L’analisi del linguaggio poetico come fondazione
della comunità politico sociale ci consente di comprendere l’estensione del
discorso grassiano sul mito. In linea con l’interpretazione di Gentili dobbiamo
interpretare il ruolo politico che il mito riveste in Grassi alla luce della
relazione tra mito e poesia. Nella Introduzione al testo di Grassi Arte e Mito
edito per la prima volta in tedesco nel 1957696, ristampato nel 1990, frutto di
una rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 con il E. Grassi, La priorità del senso comune e
della fantasia: l’importanza di Vico oggi, cit., in Id., Vico e l’umanesimo,
cit., pp. 50-51. 696 Id., Kunst und Mythos, Hamburg, Rowholt, 1957; seconda
edizione riveduta e ampliata E. Grassi, Kunst und Mythos, Frankfurt a. m.
Suhrkamp, 1990. ! 220! titolo Mito e arte in “Rivista di
filosofia”, Gentili affronta il problema del mito in Grassi quale evento
originario che fonda una catena di relazioni, che dà inizio ad una serie. Il
lavoro condotto da Grassi sul mito è inquadrabile all’interno di una prospettiva
di demitizzazione che non è omogenea a quella di razionalizzazione. “Nella
misura in cui – Grassi – legge il mito alla luce delle sue relazioni, porta
allo scoperto il nesso intrinseco tra mito e demitizzazione”697. Come
interpretare allora la relazione complessa e articolata tra il mito e i suoi
prodotti alla luce del nesso mito-demitizzazione? Grassi analizza il mito quale
atto di fondazione originario, arcaico, indeducibile, attraverso le relazioni
che lo stesso mito fonda: relazioni retoriche e poetiche, religiose e anche
filosofiche. Tuttavia la filosofia interpretata come sapere dedotto e non
originario non può avere il ruolo di fondazione che solo la poesia riveste. Per
Grassi il “mito fonda (begründet) il logos, quindi il mondo indicativo quello
dimostrativo”698. Nella ricostruzione grassiana il mito ha una duplice valenza:
esso è il racconto che è alla base delle arti imitative: non solo della
tragedia o della commedia, ma persino della musica, della danza – ma è anche
l’unità del significato di mito come storia sacra e di mito come fabula.
Leggiamo in Arte e mito che “il mito esige di sottomettere la molteplicità dei
fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria ed onnicomprensiva,
costituendo in questo modo un kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà
ordine”699. L’essenza del mito va collocata nell’ambito della formazione umana
di un mondo dotato di un’unità strutturale e ciò che esso rivela è la
temporalità dell’esistenza umana. Si tratta della prima formazione culturale in
cui si dispiega la coscienza temporale umanistica poiché nel mito “domina il
tempo che costantemente ritorna”700. Il filosofo italiano, anche sulla scorta
dello studio di Malinowsky, Kerényi, W. F. Otto, individua due significati
fondamentali del mito701: Id., Arte e
mito, tr. it. a cura di C. Gentili, La città del Sole, Napoli 1996, p. 27. 698
Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 85. 699 Id., Arte e mito, cit., p. 150.
Corsivi nostri. 700 Ivi, p. 166. 701 Id., Mito e arte, cit., p. 162. !
221! -! il mito come favola e creazione artistica -! il mito come
realtà religiosa esemplare Nel primo significato – il mito come favola e
creazione artistica – Grassi si rifà ad Aristotele e all’analisi condotta nella
Poetica sul mito come “sintesi delle azioni” in cui è sovrapponibile la sua
valenza di fatto con quella di composizione di fatti. Accanto all’idea di mito
come realtà vivente, sacrale, in cui la temporalità infinita è sospesa in un
orizzonte chiuso e circolare compare il tema dell’arte come favola, racconto,
mito, composizione dei fatti. Qui occorre sottolineare un aspetto di non
secondaria importanza. L’arte si pone come demitizzazione poiché “nasce
nell’istante in cui l’ordine assoluto – espresso dalla realtà religiosa – viene
infranto. Nel momento in cui ci si distoglie dall’ordine eterno e in sua vece
si manifesta l’ordine possibile, sorgono i progetti umani, individuali”702.
L’arte si pone come articolazione specifica di una possibilità intrinseca al
mito – il suo divenire possibilità umana – e non come razionalizzazione della
dimensione mitico-sacrale originaria. L’arte prorompe laddove si crea uno
strappo, una lacerazione, una rottura: la temporalità e la spazialità sacre
dell’universo mitico si disintegrano, facendo spazio a quelle profane del mondo
artistico. Nel secondo significato il mito appare come realtà sacrale,
religiosa ed esemplare. Per Grassi “questo mondo mitico è sostanzialmente
distinto da quello profano, in quanto il profano presuppone una temporalità,
una caducità, un essere-sempre-diversamente [...] perciò lo spazio profano non
è neppure mai chiuso, ma si perde in una dimensione sterminata e senza
confini”703. Tra il mito e l’arte dunque ritroviamo una differenza che si situa
innanzitutto nei due tipi di temporalità e spazialità vissute. Eppure mito e arte
hanno in comune l’esigenza di riunificazione della molteplicità dei fenomeni
sensibili sotto un ordine, una legge, un kosmos. Scrive Grassi che “il mito
esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima,
originaria, onnicomprensiva, costituendo in questo modo un Ivi, p. 158. 703 Id., Arte e mito, cit., p.
159. ! 222! kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine. Stando
a questa concezione, il mito racchiude gli elementi eternamente esistenti
dell’esistenza umana e li rappresenta: ciò che esso rivela è l’eternamente
presente”704. Nel mito viviamo quella connessione con il mondo circostante –
l’ora di Pan di cui abbiamo già parlato in relazione all’esperienza
sudamericana di Grassi – che appare a Grassi come “l’ora in cui la realtà
frammentaria quotidiana si trasforma in una unità ed attualità terribile, fuori
del tempo. Nel mito domina la pienezza di una realtà che incombe sul singolo e
non lo lascia più sfuggire”705. Se il mito in cui l’uomo si trova, come
l’animale immerso nel cerchio funzionale simbolico, è esemplificato con la
metafora dell’ora di Pan, l’arte è rappresentata invece come la morte di Pan,
come “l’infrangersi del mito”706. Di fronte alla disintegrazione del mondo
mitico-sacrale per il pensatore “l’uomo ricorre ai ritrovati tecnici” – l’arte
come poiesis e come techne – “quando ha perso di vista i riferimenti a una
realtà fuori dal tempo. Propriamente in questo istante sorge l’empeiria, la
necessità di trovare un guado attraverso il fiume delle impressioni sensibili
che si sono staccate dall’ordine originario”707. L’emepiria va interpretata
come una realizzazione del logos (non inteso come ragione o intelletto) e non
in senso materialistico. Secondo il filosofo si tratta della prima fase di
ordinamento dei fenomeni sensibili. “L’empeiria è il primo passo
nell’ordinamento dei dati sensoriali, non è passività, non è impressione”708.
Nell’azione di conferimento di unità, di selezione e ordinamento dell’empeiria
possiamo rintracciare i caratteri dell’arte. Infatti il filosofo giunge a
chiedersi se l’arte e l’empeiria non si identifichino in questo aspetto
ordinatore. Tuttavia la differenza fondamentale risiede nel carattere di
produzione insito dell’arte. Ivi, p.
150. 705 Id., Mito e arte, cit., p. 150. 706 Ivi, p. 151. 707 Ibidem. 708 Id.,
Arte e mito, cit., p. 92. ! 223! Se con l’emepeiria siamo di fronte
ad una constatazione, per quanto ordinata, dei fenomeni – il termine usato da
Grassi è fest-stellen in riferimento all’empeiria709 – con l’arte siamo di
fronte alla produzione di un modo umano a partire dal mondo frantumato resoci
accessibile attraverso l’empeiria. “L’empeiria sembra avere la sua radice nella
necessità di ordinare i fenomeni sensibili, ma non è in grado di conferire
ordine complessivo. Essa comunica di volta in volta un mondo frantumato, nei
cui frammenti noi vediamo rispecchiato un kosmos in mille parti rilucenti”710.
La potenza dell’arte invece risiede nella sua capacità di produrre un cosmo, un
mondo ordinato dotato di un’unità significativa. L’arte come il mito è “il
progetto universale delle possibilità umane”711 e soprattutto la poesia assurge
per Grassi a evento privilegiato della relazione uomo-essere. Ma è possibile
attraverso la poesia esprimere e dire in modo immediato il mito? Oppure la
dimensione poetica in Grassi è una forma della ricezione mitica, una forma
demitizzata del mito? Per comprendere l’essenza e il valore di fondazione del
mito non dobbiamo prestare attenzione al passaggio dal mito al logos – dove il
mito appare come una prestazione arcaica della ragione e il logos come un mito
razionalizzato – ma al nesso tra mito e demitizzazione. Si tratta di un
movimento tutto interno al mito e che si intreccia al tema della fondazione. Il
mito in quanto “topos atopos” è premessa, origine che non può essere conosciuta
ma detta attraverso la poesia. Grassi parte da una idea di mito come fondazione
origine e inizio, come prestazione fondativa (Begründung). “In questo senso il
mito – sia come realtà religiosa esemplare, sia come creazione artistica e
quindi come favola – può venir considerato come il principio instauratore
originario di una comunità [...] con l’ordine – che pone una molteplicità di
movimenti entro un’unità – si preannuncia la realizzazione dell’aspetto
sociale”712. L’interpretazione grassiana della Poetica di Aristotele pone in
luce l’aspetto di Ivi, p. 90. 710 Ivi,
p. 94. 711 Ivi, p. 168. 712 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 224!
secolarizzazione insito nel mito: il mito disvelando “l’ampia scala delle
possibilità umane”713 corre il rischio di generare un’arte secolarizzata:
l’estetica714. Come sottolinea Amoroso, in Grassi l’individuazione di una via
di accesso al mito, alla poesia e all’arte “in rapporto al concreto operare
della storia”715 avviene attraverso il ripercorrimento della filosofia
dell’umanesimo che nell’arte avrebbe espresso uno svelamento, una Lichtung
dell’essere. IV. XII. La funzione trascendentale dei concetti di Wahn e
Langweile nelle meditazioni leopardiane Nel corso della trattazione sono emersi
due concetti chiave: quello della fondazione della civiltà e quello del
disvelamento: si tratta delle questioni supreme a cui Grassi dedica gran parte
della sua indagine storico-filosofica sui temi dell’Umanesimo. In questo
orizzonte teorico due figure capeggiano sulla scena filosofica descritta da
Grassi: Vico – come abbiamo già visto – e Leopardi, su cui la critica poco si è
soffermata. Entrambi appaiono in veste di filosofi delle origini del mondo
umano attenti alla ricerca dei fattori primi di umanizzazione e di fondazione
politico-civile i cui plessi teorici si inseriscono a pieno titolo nel percorso
grassiano di ricostruzione dell’antropologia delle origini, della fondazione
civile e del disvelamento. La fondazione fantastica e il disvelamento vichiani
e la funzione trascendentale dell’illusione e il ruolo metafisico del pathos
della noia come sentimento dell’apertura originaria in Leopardi rappresentano
le tappe fondamentali di una ricerca onto-antropo- logica che in Grassi si
concretizza come formazione del cosmo umano attraverso la fondazione mitica.
Nel corso della sua lunga ed operosa esistenza filosofica Grassi si è spesso
misurato con le riflessioni e la personalità di Leopardi. Tenendo presente la
centralità che il concetto di pathos assume all’interno del pensiero di Grassi
è possibile comprendere come il filosofo dedichi pagine concettualmente dense
al poeta di Recanati, istituendo confronti prima con Freud ed Epicuro (sugli
Id., Arte e mito, cit., p. 183. 714 L. Amoroso, Da Aristotele a Vico. A proposito
di Grassi e il mito, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp.
61-76, p. 62. 715 Ivi, p. 64. ! 225! argomenti del piacere e del
dispiacere; del principio di realtà e del principio di illusione; dell’edonè)
poi con Schopenhauer (sui concetti di realtà e illusione, di noia e dolore). In
questa sede si è ritenuto di non soffermarsi sulle relazioni interessanti con
il padre della psicoanalisi e con i filosofi greco e tedesco poste a tema dal
Grassi, quanto piuttosto di prendere in considerazione le suggestioni teoriche
che il poeta sollecita nel cammino di pensiero del filosofo nella
consapevolezza dell’originalità e discutibilità delle tesi grassiane su
Leopardi che, come vedremo, non seguono i dettami del “filologicamente
corretto” ma piuttosto fanno interagire Leopardi con i concetti chiave del suo
sistema onto-antropo-logico. Quale ruolo può avere Leopardi all’interno
dell’iter di pensiero grassiano e qual è il valore della teoria dell’illusione
a cui il pensatore conferisce tanta importanza da giungere a definire il poeta
italiano teoreta dell’illusione716? Il filosofo sottolinea quanto l’approccio
leopardiano sia distante dal razionalismo della metafisica astratta del “secol
superbo e sciocco” insistendo soprattutto su quei concetti, quali illusione e
noia, piacere e dolore, natura e passione in cui Leopardi assume un
atteggiamento critico verso l’ottimismo razionalistico e il tema della
civilizzazione. Il Leopardi grassiano come critico del tempo moderno e delle
devastazioni dell’intelletto segue un percorso nuovo e inesplorato, che si
iscrive nel solco della tradizione umanistica di cui il poeta e Vico
costituiscono gli “ultimi rappresentanti”. Accanto all’operazione ermeneutica
di analisi dell’idea di illusione si situa anche il convincimento che Leopardi
può essere considerato come una delle ultime manifestazioni dell’umanesimo. Si
tratta di due temi – il “Leopardi umanista” e il “Leopardi teoreta
dell’illusione” – strettamente connessi perché consentono di fugare l’idea che
la lettura grassiana possa essere considerata come un tributo, l’ennesimo, al
grande genio poetico del recanatese e fanno emergere una interessante
prospettiva esistenzialistica sul Leopardi critico del moderno. Se prendiamo in
considerazione i passi in cui è presente il poeta di Recanati constatiamo che
egli appare in forma sparsa e asistematica già a partire da I primi scritti
1922-1946. La lettura dei saggi risalenti
E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 46. ! 226! al
periodo compreso tra gli anni ‘30 e ‘40 mette in luce la presenza di Leopardi e
delle tematiche dello Zibaldone, che resta il preponderante testo di
riferimento delle note grassiane sul poeta. Confrontando le citazioni di
Leopardi e i contesti teorici di riferimento registriamo che esse compaiono
sempre in relazione all’analisi dei concetti di formazione (Bildung), di noia,
di illusione: idee centrali se consideriamo quanto essenziale sia la formazione
nel nuovo ideale di umanesimo, la noia e l’angoscia nella sua analitica
esistenziale, e l’illusione come fattore antropogenetico insieme al mito e al
linguaggio nell’analisi antropologica grassiana. In Il confronto con la
filosofia tedesca in Italia del 1941 si fa cenno a Leopardi nell’ambito della
tematizzazione della Bildung degli studia humanitatis che coinvolge una
questione ben più ampia della mera educazione filologica717. Per il filosofo
infatti occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a
sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota
come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione. Egli afferma che “il
filosofare italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma
con il problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la
parola antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...]. Ricordo solo che il
compito umanistico della mediazione della parola antica si realizzò
essenzialmente su un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla
scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si
legava al contempo l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e
con il problema della formazione si affrontava un problema essenzialmente
filosofico. Si stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo
non può essere dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì
dall’unità del testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella
parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non
significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì
sviluppare l’essenza dell’uomo”718. La distinzione tra Bildung e Erziehung
mostra come la posta in gioco nella nuova idea di umanesimo sia la messa in
discussione dell’essenza dell’uomo, della sua condizione, che accomuna, secondo
il filosofo, le figure di Bruno, Vico e Leopardi. Così come per Bruno “ogni
rapportarsi Id., Il confronto con la
filosofia tedesca in Italia, pp. 871-886, in Id., I Primi scritti 1922-1946, La
Città del Sole, Napoli 2011, p. 882. 718 Ivi, p. 881. ! 227!
originario nei confronti della realtà, sia nel senso politico come in
quello concettuale o poetico, scaturisce dall’esperire, dal patire qualcosa di
originario e indeducibile, che riveli mondi differenti”719 anche per Vico e Leopardi720
la funzione trascendentale del pathos consente un rinnovamento del concetto di
filologia. Il co-estendersi dei temi filologici e antropologici implica una
rivalutazione del concetto di pathos da parte di Grassi che tuttavia non
indulge ad una forma più o meno celata di irrazionalismo illogico. Anzi il
valore logico della sua ricerca emerge laddove egli tenta di proporre un
concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si rivela nella
sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e
della sua esperienza. Nella sua prospettiva il pathos è sempre già connotato
ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente
sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung
e dell’evento della differenza ontologica. Secondo il filosofo nel pathos
“l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”721: esso è “passione
abissale”722 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo
sottrarsi. Nella prospettiva grassiana il pathos metafisico è ciò che Leopardi
chiama illusione e natura. “Le passioni hanno un carattere trascendentale, esse
sono cioè condizione delle esperienze e da esse non deducibili”723 e per il
poeta indicano il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si
impone e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello.
Grassi afferma che “l’espressione illusione, che Leopardi usa in questo senso,
ha, rispetto alla terminologia tradizionale Ivi, p. 882. 720 Ivi, p. 883. 721
Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 722 Ivi, p. 40. 723 Id., Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, pp. 156-175, in AA. VV,
Tradizioni della poesia italiana contemporanea, Edizioni Theoria, Roma 1988, p.
166. ! 228! che si serve della espressione a-priori, il grande
vantaggio di esprimere il carattere esistenziale del trascendentale”724.
Nell’esperienza patica rintracciata dal filosofo nello Zibaldone l’uomo si
trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia – che nelle
“meditazioni leopardiane” è sostituita dalla noia – in cui “questo vanificarsi
della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima
volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe
sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria
alterità e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si
mostra come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della
possibilità di pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge
la possibilità di trascendere l’ esistente nella sua totalità rendendolo
possibile termine di domanda”725. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo
l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso tempo di realizzare ordini di
realtà, progettazioni e creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui
l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti.
L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo a cui il filosofo
fa riferimento sono il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni
coordinata, ogni orientamento. Egli asserisce che “in quest’esperienza siamo di
fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione,
ci paralizza”726 e ancora che “qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi
fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in
mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del
precipizio”727. Ivi, p. 168. 725 Id., Il
problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti,
cit., p. 329. 726 Id., Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma, pp.
217-247, p. 226 727 Ibidem. ! 229! A caratterizzare maggiormente
l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica:
nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un
significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che
la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non
possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire
il significato di ogni ente”728. Essa consente di prendere coscienza
dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come
schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. É proprio questo
concetto metafisico di pathos che Grassi ritrova nel tema leopardiano
dell’illusione a cui si accosta per la prima volta nel saggio Sul problema
della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione
italiana del 1942. Si tratta di una lettera scritta all’amico Walter Otto il
cui centro teorico è la domanda circa il rapporto sussistente tra il singolo
(l’individuo) e il comune (l’oggettivo) che secondo Grassi trova una risposta
nella tradizione umanistica italiana attraverso la disamina del problema della
parola come massima espressione della vita individuale, la quale però “non ha
proprio nulla a che fare con l’individualismo [...] – ma – conduce alla
questione sistematica dell’essenza del comune”729. La ricerca grassiana sulle
modalità di configurazione del problema della parola nella tradizione italiana
e sulla sua correlazione al tema dell’essenza dell’uomo, “non irrigidendosi in
una teoria individualistica ma – al contrario – rischiarando il problema di ciò
che è comune”730 ha come esito la convinzione che l’individuale sia un concetto
molto distante dal soggettivo e dal relativo, da ciò che è “riferito
all’io”731, ma sia invece legato all’oggettivo, a “ciò che dischiude il
comune”732. Id., Il dramma della
metafora, cit., p. 131. 729 Id., Sul problema della parola e della vita
individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, in Id., I primi
scritti, cit., p. 903. 730 Ivi, p. 907. 731 Ivi, p. 909. 732 Ibidem. !
230! L’insistenza sul tema dell’oggettivo, l’autenticamente originario
che si fa incontro all’uomo e non giace davanti in qualità di objectum, conduce
Grassi verso la teoria leopardiana dell’illusione come l’a-priori, il
trascendentale che conferisce ordine – infatti Grassi parla di bella illusione
– e che come la meraviglia, all’origine del nostro impulso a sapere, si impone
come necessaria, essenziale e comune prassi umana di trasformazione del
reale733. Anche Il reale come passione e l’esperienza della filosofia del 1945
dedica una sezione molto significativa al poeta in riferimento al concetto di
noia e passione. Afferma il pensatore che per Leopardi “la noia si rivela
inaspettatamente come passione [...] poiché la vita è sempre nella sua essenza
impulso alla compiutezza e alla felicità [...] così l’uomo non può mai
sprofondare nell’assoluta insensibilità e indifferenza”734. La noia come morte
della vita, vita non vita, vita dell’indistinto e dell’indifferente tuttavia è
pur sempre passione, sia pure nel senso del più basso gradino dell’esistenza.
Siamo venuti ai temi principali che animano la lettura grassiana di Leopardi
presente nei saggi più sistematici dedicati al poeta: Wahn, Natur und die
Kritik der modernen Verstandeswelt (1949), Introduzione a Giacomo Leopardi,
Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit735; Passione e
illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle
illusioni Ivi, p. 914. 734 Id., Il reale
come passione e l’esperienza della filosofia, in Id., I Primi scritti, cit., p.
1027. 735 Id., Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt. Si
tratta di una introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und
Kritik der modernen Zeit, Verlag, Bern, 1949, pp. 9-34. Tradotto in italiano da
R. Copioli con il titolo, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale
moderno, cit. ! 231! (1987)736; Der italienische Schopenhauer
(1987)737; Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? (1989)738. Il
testo del ’49 è una scelta di passi tratti dallo Zibaldone, considerato da
Grassi come lo strumento per gettare uno sguardo “all’officina poetica di
Leopardi”. Fu pubblicato per la collana Überlieferung und Auftrag che nasce
dall’intenzione di porre a tema determinati problemi della tradizione
umanistica, che, come è noto, per Grassi sono quelli della rivalutazione della
poesia e della retorica, della fantasia e dell’ingenium. Nel saggio
introduttivo a Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit tradotto
in tedesco da Joseph Partsch Grassi prende le distanze dall’impostazione
crociana della interpretazione di Leopardi, accolta anche dal Vossler 739.
Contro la negazione del Croce del valore filosofico del poeta di Recanati
Grassi ha come scopo dichiarato quello di rivalutare l’aspetto teoretico
contenuto nell’opera, al di là dei limiti del pessimismo leopardiano che, sulla
scia di De Sanctis740, si è imposto all’attenzione critica. L’idea centrale che
ha ispirato la scelta editoriale di selezionare i passi zibaldonici non tenendo
conto del loro effettivo ordine cronologico è quella di restituire la genuina
antropologia leopardiana attraverso la focalizzazione sul concetto di
illusione. Secondo Grassi “generalmente le tesi pessimistiche del
Leopardi, Id., Passione e illusione. Il
principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni in
“Nuovi Annali della Facoltà di magistero dell’università di Messina”, 5 (1987),
pp. 69-82, presentato in redazione differente al Congresso su Leopardi a Roma
nel 1988. pp. 37-47, contenuto ora in E. Grassi, La metafora inaudita,
Aesthetica, Palermo 1990. 737 Id., Der italienische Schopenhauer, pp. 125-138,
in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper Munchen 1987 a cura di
Volker Spierling. 738 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o
schizofrenica? In AA. VV, Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C.
Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 23-36. 739 Cfr., Id., Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., pp. 158-159. Cfr., le
affermazioni crociane contenute in B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla
letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946. Croce dopo aver
asserito che “la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre
intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia ad uso privato”, ivi, p. 99, afferma
che “Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite, non
sistemate”, ibidem. 740 Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e
A. Perna, Einaudi, Torino 1960. Per la storia delle interpretazioni del
pensiero di Leopardi e delle sue immagini in qualità di ottimista (critica
fascista), pessimista, e progressivo (critica marxista) cfr. S. Lanfranchi, Dal
Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della critica
marxista, pp. 247-262, in “Laboratoire italien”, 2012, Lione. !
232! così come esse, per esempio, hanno ricevuto la loro formulazione
nelle cosiddette Operette morali, sono note: il nostro compito non potrebbe
essere quello di elaborare questo lato del pensiero leopardiano, ma soprattutto
quello di delimitare il concetto filosofico dell’illusione nel suo significato
sistematico, etico, sociale e storico”741. Lo scopo è esplicitato con tutta
chiarezza: Grassi si propone di rendere oggetto di discussione non il Leopardi
pessimista, non il Leopardi letterato, ma il Leopardi “antropologo”. Il legame
tra antropologia e illusione è al centro dei saggi Passione e Illusione, Lo
Schopenhauer italiano, e Leopardi e Freud. Legare antropologia e illusione non
sembrerà una mossa azzardata se colleghiamo il tema del Wahn (illusione, mania,
pazzia) con quello della Leidenschaft (passione). Nei due saggi dell’‘87, Lo
Schopenhauer italiano – che qui proponiamo in traduzione italiana – e Passione
e illusione, si analizza l’idea di schönen Wahn – anche definito illusione
ingegnosa742. La caratura antropologica dell’illusione è del tutto evidente se
si prendono in considerazione le affermazioni grassiane sui concetti di ordine,
di costruzione del mondo etico-politico, e di scena. Egli afferma in Lo
Schopenhauer italiano: “il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la
scena della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco
inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori ammessi. Dal
momento che l’originario è indeducibile, e perciò non è spiegabile in fondo
attraverso il ragionamento analitico, esso deve essere così riconosciuto come
illusione, come ossessione. Sicuramente l’illusione è generatrice di ordine,
poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione
storica”743. La teoria dell’illusione è in netta contrapposizione alla ragione.
Per il filosofo “Leopardi si oppone al predominio della ragione ed
esplicitamente alla filosofia tedesca razionale astratta”744. Il riferimento è
al passo zibaldonico sulla povertà di immaginazione dei tedeschi745, in cui
Grassi crede di trovare traccia del proprio filosofare noetico-non metafisico,
che si identifica con una teoria del nous o dell’ingenium in cui “la priorità
della natura [...] si esprime attraverso la passionalità come E. Grassi,
Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, p. 157. I corsivi
sono nostri. 742 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?,
cit., p. 33. 743 Id., Der italienische Schopenhauer, cit., p. 134. Traduzione
nostra. 744 Id., Leopardi e Freud, cit., p. 31. 745 G. Leopardi, Zibaldone, 5-6
ottobre 1821. ! 233! illusione”746. Dall’angolo teorico dal quale
il filosofo guarda allo Zibaldone “il mondo umano non è una costruzione della
ragione, del logo, ma è il prodotto di ciò che Leopardi chiama – in antitesi
alla ragione – ingegnosa illusione, cioè la sofferenza dell’abissale appello
della natura [...] Leopardi contrappone così non solo alla ragione ciò che egli
chiama illusione – perché razionalmente non deducibile– ma identifica questa
con l’attività ingegnosa”747. Attraverso l’illusione la physis originaria,
l’Abissale, realizza la storia, accade il mondo, avviene la parousia della
realtà, il suo phainesthai. Altre riflessioni teoriche degne di nota presenti nella
lettura di Leopardi sono quelle relative ai concetti di natura e vita. Il
filosofo giunge ad affermare che “i concetti di vita, natura, passione e
illusione coincidono”748 . La vita – che sin dagli esordi greci della filosofia
è stata interpretata come energia ed entelechia, come ciò che ha in sé il
lavoro, il limite e il fine, l’ergon e il telos – in Leopardi diviene qualcosa
di intimamente connesso al vuoto, al nulla. Questi ultimi concetti non hanno
carattere negativo ma sono contraddistinti da una positività originaria
generatrice di ordine, di mondo: il nulla prima di generare disperazione e
dolore749 entra in contatto con la noia. Nei saggi “leopardiani” di Grassi la
Langeweile assume quel ruolo liminare che l’Angst ha nei Primi Scritti: quello
di chiusura mondana in cui l’uomo è gettato – il suo fondo animale – e allo
stesso tempo di apertura mondana possibile solo su quella chiusura. La noia è
l’aperto, la Lichtung nella quale l’uomo fa esperienza della propria vita che è
innanzitutto temporalità. La noia in quanto esperienza dell’uniforme e
dell’indistinto, è il contrario della vita. La vita invece è esperienza della
distinzione e della singolarità. L’esperienza della noia in Leopardi secondo
Grassi è caratterizzata da una positività originaria che la rende ben più
profonda di una semplice tonalità emotiva. Del resto che il pathos avesse una
costituzione metafisico-trascendentale ben più profonda rispetto alla
componente soggettivistica appare evidente già dalle riflessioni su Stimmung e
sulla E. Grassi, Leopardi e Freud, cit.,
p. 32. 747 Ivi, p. 33. 748 Id., Illusione, natura e critica del mondo
intellettuale moderno, cit., p. 165. 749 Ivi, p. 160. ! 234!
Leidenschaft. La noia nel suo carattere esperienziale assurge a “facoltà di
patire”. Afferma Grassi che “l’indifferente, l’uniforme, li possiamo cogliere e
di essi possiamo avere esperienza, solo se si manifestano in modo finito, e la
noia – nella misura in cui noi la sopportiamo – ci evidenzia come noi non
possiamo vivere nel non limitato e nell’indifferente. In altre parole: se tutto
ciò che è e di cui parliamo può presentarsi solamente a condizione che si
mostri entro certi limiti – cioè come qualcosa di definito e distinto – allora
anche la noia può essere colta solamente in quanto impossibilità di esistere
nel non-limitato, nel non-dipendente”750. Nella prospettiva che abbiamo cercato
di delineare emerge che nella noia è coinvolto lo stesso tema della léthe e
dell’illatenza: il gioco di svelamento e nascondimento, insito nel cuore della
manifestatività, che decide dell’umano. La noia leopardiana come facoltà di
patire allora diviene un principio storico-culturale che solo secondariamente
scade a povertà di azione e pigrizia ma si erge a condizione trascendentale del
mondo storico dell’uomo. Essa è la Lichtung, il nome kat’exochèn dell’essere e
del mondo, in cui l’avvento dell’umano accade innanzitutto linguisticamente.
Qui si installa un altro tema centrale della lettura grassiana: la critica del
mondo moderno presente nelle annotazioni zibaldoniche che mette in luce anche
la qualità umanistica del poeta. Come leggiamo in Heidegger e il problema
dell’umanesimo, Grassi afferma, ponendo una netta demarcazione tra il proprio
modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, che “gli
studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella
riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei
problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto
originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo
mondo”751. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come
una forma più o meno larvata di antropocentrismo tout court, è la
problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema dell’Aperto, del
contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si
declina come ricerca sulle strutture del mondo umano. Ivi, p. 161. 751 Id., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, Guida, Napoli 1985, p. 26. ! 235! Alla metafora
fotica nell’accezione heideggeriano-grassiana sopra delineata fu sensibile già
Leopardi, che fin da Memorie del primo amore e poi via via nel Discorso di un
Italiano intorno alla poesia romantica, nello Zibaldone, nelle Operette morali
e nei Canti mostra un timore irrequieto nei confronti della luce diretta e
accecante – sia essa lunare o solare – che genera un guardare piacevole e
sublime. Grassi non sottolinea l’importanza della metaforica della luce né
l’attenzione alla connessione vita-apertura752 pur presente nello Zibaldone,
privilegiando il tema dell’illusione nelle sue molteplici sfaccettature
storiche e fondative, nel convincimento che in quel concetto sia esplicato un
accesso alla filosofia non pregiudicato da una metafisica razionalistica
latente. Leggiamo nello Zibaldone che “per lo contrario la vista del sole e
della luna in una campagna vasta e aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole
per la vastità della sensazione”753; e ancora : “per lo contrario una vasta e
tutta uguale pianura dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né
ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima”754. La priorità
trascendentale della radura sulla luce che si offre, si dà in un atto di
donazione (l’Es gibt) in cui si co-estendono luce ed essere, è viva anche in
Leopardi, il quale usa dei termini molto cari a Grassi – e al suo maestro
Heidegger – ma anche a Vico: sylva755, luce756, critica della metafisica757,
rivalutazione della poesia. Temi G.
Leopardi, Zibaldone, “Io credo che tutti questi tali verbi sieno
originariamente fatti da altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo, hisco
dal noto hio, e altri tali di questa desinenza in sco. E lo credo perché, come
vivesco significa divenir vivo, cioè divenir quello che dal verbo vivo è
significato essere, cioè esser vivo, e come hisco significa aprirsi, cioè
divenir aperto, mentre hio significa essere o stare aperto, ec.; così tutti i
detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non
si conoscono gli originali, significano però divenire, incominciare a essere o
a fare quella tal cosa o azione”, 14 ottobre 1823 [3689]. 753 Ivi, 20 settembre
1821 [1745]. 754 Ivi, [1746]. 755 Ivi, 2-5 luglio 1821 [1276 e segg.]. 756 Ivi,
20 settembre 1821 [1745]. 757 “Perché la mancanza delle vive e grandi illusioni
spegnendo l’immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale come
l’antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà
delle cose, la meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra
astratta metafisica, e derivante più dalla verità, dalla filosofia, dalla
ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie naturalmente della
immaginazione primitiva. Come è quella dei settentrionali, massime oggidì, fra’
quali la poca vita della natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul
pensiero, sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze,
sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto
che fare colla matematica sublime che colla poesia”, Ivi, 14 ottobre 1820 [276]
! 236! fondamentali, questi, che corroborano l’idea, in altro modo
proposta da Grassi, di un Leopardi filosofo dell’esistenza umana interpretata
come oltrepassamento dell’immediatezza e allo stesso tempo come natura che si
apre alla storia. Come abbiamo visto, l’indagine grassiana, accanto
all’attenzione all’ambito ontologico, si concentra sulla dimensione ontica
delle concrete Lichtungen, che si converte in analisi del linguaggio. Per il
pensatore “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione,
è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono
trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con
la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di
interpretazione del linguaggio [...]. Il problema del linguaggio solleva la
questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res.
Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola
(verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”758. Con l’umanesimo, secondo
il filosofo non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto logico
tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del
verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia
casa dell’essere e non una sua prigione. Egli, infatti, distingue la cosa
dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si
interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per Grassi occorre abbandonare l’idea
di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile
per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita
l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica
dell’umanesimo, di cui Leopardi fa parte secondo Grassi, è capace di restituire
la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio
attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate
sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono “cose
separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...]
l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione
umana”759. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela
nell’azione, nella e con la praxis”760. E. Grassi, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 26. 759 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione
della retorica, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 80 760 Ibidem. !
237! Infatti, per il filosofo milanese, la forma sostantivata pragma
esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa
attraverso la praxis umana. Entra sulla scena assieme al concetto di prassi e
di parola quello di situazione. Eccoci giunti ad un nodo concettuale di grande
spessore che coinvolge la figura di Leopardi: la co-estensione del mondo
(l’oggettivo) e dell’uomo – che si consuma in un rapporto pratico (la
fondazione politico-culturale) e linguistico che eccede i limiti dell’omologhia
e dell’adaeguatio e sconfina verso la polisemia – si ritrova nel poeta di
Recanati e nella sua teoria dell’illusione che si apre ai temi centrali per
Grassi della situazione, della circostanza e dell’occasione. Per Leopardi
“attraverso la priorità dell’occasione, della circostanza, della situazione, noi
dobbiamo corrispondere all’appello riconoscendo il significato sempre
differente degli enti”761. Qui entra in gioco l’illusione nella sua identità
con l’ingenium. Per Grassi con la teoria dell’illusione “di cui con estrema
lucidità ha riconosciuto la necessità e la vanità, [Leopardi] ha compreso che
il problema dell’uomo è quello di essere sempre gettato in una situazione
concreta, quello di trovarsi sempre sospeso sul precipizio del qui e dell’ora,
che gli pongono domande a cui non è possibile dare una risposta razionale,
universalmente astratta, ma solo passionale”762. Con il poeta italiano abbiamo
una riconfigurazione del tema antropologico che implica una svolta linguistica
e ontologica. Siamo di fronte ad una Kehre verso un logos polisemico che restituisca
la multilateralità e polidimensionalità di un reale che si dà
fenomenologicamente per scorci, occasioni, circostanze. Siamo di fronte ad una
Kehre verso un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di
manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi e forme
dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico, poiché il metapherein, la
trasposizione, è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della
realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il
reale. 761 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit.,
p. 33. 762 Id., La metafora inaudita, cit., pp. 45-46. ! 238! La
metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad
altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come
possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, Il dramma della
metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale
del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è
anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il
kairòs, l’istante giusto”763 in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico
dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio
questo: “annotazione dei segni indicativi”764 provenienti dal “colloquio con l’
abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere
silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia
perché vivremo l’indeterminato”765. Anche in Leopardi Grassi intravede le
tracce di un colloquio mai interrotto con l’Abissale, l’Originario, l’Essere in
cui si gioca la nostra esistenza: è il senso stesso dell’illusione come
ingresso nel ludus dell’esistenza, come reazione all’agorafobia primordiale.
“Nel gioco giocato dell’esistenza (e del linguaggio in cui quel gioco viene
parlato) si liberano molteplici possibilità, ognora rinnovate, imprevedibili, e
dunque tali da frustare qualsiasi tentativo di prevederne razionalmente il
senso. Ma che cos’è l’illusione di Leopardi se non, appunto, un in-ludersi, un
entrare nel ludus, uno stare al gioco dell’esistenza?”766. Come è emerso da
queste considerazioni il “Leopardi di Grassi”, teoreta dell’illusione, è il
Leopardi portavoce di una filosofia umanistica che si traduce nell’idea di una
antropologia che contiene in sé i temi del linguaggio e dell’essere. Afferma
Grassi in La metafora inaudita che “Leopardi insegna [...] che l’unica
filosofia in grado di tentare questa spiegazione”767, il gioco dell’esistenza,
“è una filosofia dell’esistenza; una filosofia cioè che, senza pretendere di
risolvere il 763 Id., Il dramma della
metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina Tipografica, Napoli
1992, p. 165. 764 Ivi, p. 14. 765 Ibidem. 766 Id., La metafora inaudita, cit.,
p. 46. 767 Ibidem. ! 239! problema razionalmente, prenda atto
dell’abisso su cui ogni passione ci sospende”768. La focalizzazione sui temi
dell’illusione e della natura, della noia e della passione, che solo
marginalmente toccano l’ambito del pessimismo, ha svelato il legame con il
grande tema antropologico della costruzione del mondo umano. Che cos’è l’uomo e
quale sia il suo posto nel mondo: sono questi i quesiti che agitano l’onto- antropo-logia
grassiana e l’interpretazione dello Zibaldone di Leopardi che diviene ulteriore
occasione fortunata – insieme a Cicerone, Quintiliano, Ovidio, Bruni, Valla,
Graciàn, Vico, Ungaretti – per una meditatio sull’uomo che permea la sua
prospettiva neo-umanistica. Il Leopardi grassiano può essere interpretato,
allora, come pretesto per ribadire ancora una volta che l’umanesimo autentico
come pensiero poetante, come meditazione noetica e non metafisica, ha ancora
una possibilità di essere esperito a partire da una tradizione a cui non è
stata conferita la dovuta importanza. La traccia leopardiana nell’iter
grassiano ha fatto emergere, attraverso il concetto di ingegnosa e bella
illusione, che l’antropogenesi fa tutt’uno con l’antropo-poiesi: la nascita dell’uomo
avviene con le produzioni umane della civiltà, della storia, della cultura.
Solo illudendoci sperimentiamo la nostra forza, la nostra umanità, come insegna
Leopardi, e diveniamo artefici del nostro mondo. La filosofia dell’esistenza
proposta da Leopardi diviene un experimentum vocis, una poesia pensante o un
pensiero poetante. La )&0&*& '*&2o"& descritta da
Platone nella Repubblica769, l’antico dissidio tra poesia e filosofia, viene
ripensato da Grassi da un angolo prospettico differente: non da quello di una
epistemologia o gnoseologia – in cui il poetico per sua stessa natura incline
al vago ed indefinito, come insegna Leopardi, è votato irrimediabilmente al
fallimento – ma da quello di una antropologia delle origini del mondo umano in
cui la connessione poetico-fantastico-ingegnoso fonda la correlazione
umano-civile-politico. 768 Ibidem. 769 Platone, Repubblica, 607 b. !
240! Come è noto il plesso disegnato da Grassi di
metafora-fantasia-ingegno ha un valore teoretico- conoscitivo e solo secondariamente
poetico-letterario. Si tratta di facoltà che appartengono a quella topica che
sempre precede nella storia del mondo, come in quella dell’individuo,
l’operazione mentale della critica, l’arte del giudicare. Memore delle
riflessioni vichiane della Scienza Nuova e delle teorie barocche dell’ingenium
di Graciàn e Peregrini, Grassi affida all’ingegno la capacità di sintesi e
connessione del molteplice empirico fino al punto di farne la caratteristica
specifica dell’uomo. E non poteva mancare di sottolinearne l’importanza teorica
e pratica presente in Leopardi770. Ingenium come capacità di ritrovare;
fantasia come facoltà di visione delle somiglianze; metafora come atto di
trasferimento del significato e quindi creazione di una pertinenza semantica –
e non come tropo linguistico, sia esso di sostituzione o di comparazione –
concorrono a delineare i prolegomeni per un’idea di neo-umanesimo in cui la
storicità dell’umano si dispiega tra razionalità e fantasia. Quest’ultima si
rivela come facoltà di attivazione di procedure di formalizzazione concettuale,
vera e propria facoltà di apprensione del reale attraverso una struttura
pato-logica, o un’intelligenza senziente – per usare un’espressione di Zubiri,
collega di corso in Germania di Grassi. Essa è il catalizzatore
dell’umanizzazione del mondo. Concentrandosi sugli aspetti figurativi,
simbolici e semantici del logos Grassi non rinuncia mai tuttavia alla
filosofia: la filosofia deve mutare le sue vesti e divenire noetica non più
metafisica. “Se l’aspirazione profonda del filosofare tradizionale è di
giungere a una chiarificazione logica razionale, oggettiva che parte da
un’ontologia che culmina in una metafisica”771, quella di Grassi ha come scopo
l’elaborazione di un’idea di nous – dove nous si identifica con ingenium772 –
che ha come oggetto il G. Leopardi, Zibaldone, 1 luglio 1821 [1254]. 771 E.
Grassi- E. Hidalgo, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don
Chisciotte, Congedo, Lecce 1991, p. 15. 772 Ivi, p. 20. ! 241!
reale, “l’ontologia non logica ma situazionale”773 in cui la metamorfosi del
mondo non può che trovare espressione in un orizzonte di dicibilità che è
metaforico. L’antica lotta tra poeti e filosofi supera la secca alternativa tra
un tentativo di purificare la lingua da ogni ridondanza poetica e l’impresa di
epurare la theoria dal concetto. Nella prospettiva grassiana l’opposizione può
trovare una soluzione attraverso una rinnovata idea di umanesimo contrassegnato
da un filosofare che sia pratica esistenziale, non sterile sapere erudito privo
di vitalità e utilità. In questa ricerca di un’idea autentica di umanesimo
Leopardi riveste un’importanza fondamentale poco sottolineata, a nostro avviso,
dalla critica, che si è maggiormente concentrata sul Grassi lettore di Vico e
Heidegger. La svolta verso un filosofare noetico non metafisico si poggia su un
ripensamento, da un lato, della filosofia – sostituzione della metafisica con
l’ontologia non statica ma dinamica, non logica ma situazionale; ripensamento
del tema della verità connessa alle sue espressioni storiche – dall’altro,
della filologia, che non si riduce a “una mediazione delle opere antiche” ma è
una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’ essenza dell’uomo e sulla sua
Bildung a partire dal problema della parola. La ricostruzione di un’essenza
dell’uomo è al centro anche delle riflessioni del Leopardi grassiano teoreta
dell’illusione, il cui significato sociale etico e politico viene ribadito
contro un’“Europa tutta civilizzata”774 in cui “la civiltà, la scienza e
l’impotenza sono compagne inseparabili”775. Viene in mente il mondo vichiano
dominato dalla “boria dei dotti” in cui le forze autentiche dell’uomo, la
natura e le illusioni, hanno perduto la loro virtualità politico- fondativa per
lasciare spazio ad un sapere chiuso nei limiti del mos geometricus. Siamo di
fronte all’idea di tenere insieme linguaggio poetico e linguaggio filosofico
come due tensioni inseparabili e irriducibili all’interno dell’unico campo del
linguaggio umano che tenta di dire non l’indicibile – Ivi, p. 30. 774 G. Leopardi, Zibaldone, 24
marzo 1821. 775 Ibidem. ! 242! l’indicibile non è altro che una
presupposizione del linguaggio – ma il dicibile con cui di volta in volta ci si
misura. L’attenzione grassiana verso il poetico, che restituisce le
circum-stantiae della res attraverso la molteplicità dei verba, va interpretata
come l’ennesimo tentativo di dire la cosa stessa della filosofia, l’autò tò
pragma, ciò che è in questione nella parola e nel pensiero, la res che,
attraverso la parola e il pensiero, è in gioco fra l’uomo e il mondo. “Così
poesia e filosofia stanno l’una accanto all’altra: chi non ha immaginazione,
sensibilità, capacità di entusiasmarsi o facilità a vivere belle
rappresentazioni illusorie, non conoscerà mai la verità, perché ogni analisi
può essere portata avanti solo dove la materia della vita è riccamente
delineata. Non si tratta di riconoscere il mondo a posteriori ma di giungere a
conoscenza dei principi agenti, dai quali innanzitutto può avere origine ogni
mondo, anche quello della filosofia”776. E Leopardi con le sue riflessioni ha
insegnato, contro le devastazioni dell’intelletto, questa filosofia
dell’esistenza che guarda al phainesthai, all’apparire nel quale viviamo, non
con l’occhio della metafisica ma con quello dell’ingegno, l’unico in grado di
cogliere “l’appello che ci chiama da questo abisso”777. L’appello dell’origine.
E. Grassi, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit.,
p. 172. 777 Id., La metafora inaudita, cit., p. 46. ! 243!
APPENDICE I Traduzione di E. Grassi Natur, introduzione a W. Heisenberg, Das
Naturbild der heutigen Physik, Hamburg, Rowohlt, 1955, pp. 133-138. Il nostro
concetto di natura deriva dal termine greco 341*1.!Questa parola proviene dalla
radice phy (latino fio, fui, tedesco bin), di cui indica lo sviluppo. La! 341*1
racchiude tutto ciò che nasce e diviene, e così comprende il cosmo nella sua
totalità. Noi traduciamo!341*1 con il termine “natura”, dalla espressione
latina natura, il cui significato esprime quello della parola greca (nasci,
esser nato, crescere, affine a gignere). Secondo l’originario concetto greco
ciò che è immediato in quanto cresce è visto come una realtà eccellente;
tuttavia occorre ricordare che per i Greci il crescere naturalmente realizza
sempre la legge insita ad ogni sostanza. Pertanto sotto il termine natura, come
principio del divenire, sarà compresa molto spesso l’essenza di una cosa. Il
concetto di natura, la rappresentazione quindi che lo spirito umano si
costruisce attraversa una lunga e movimentata storia. La conoscenza dei
fenomeni naturali muta e di conseguenza cambia anche la concezione della
natura. L’età pre- filosofica della Cosmogonia (sei secoli prima della nascita
di Cristo) – cioè l’epoca del dibattito sull’origine del cosmo, del Tutto, è
pervasa da rappresentazioni mitiche, in cui già sempre la relazione dell’uomo
con la natura gioca un ruolo centrale. Un primo inquadramento non più mitico,
ma filosofico del concetto di 341*1, di natura, si ha nell’età antica con la
Sofistica (Protagora; Gorgia; Ippia e Prodico, i più giovani contemporanei di
Protagora) e la filosofia socratica. Non più l’intera realtà è inclusa in
questo concetto ma ora solo un suo settore specifico. Per prima cosa i Sofisti
hanno messo in gioco la 341*1 contro il!%$μ$1 (legge), hanno posto il
“naturale” solo in ciò che è fissato e posto dall’uomo in sua
contrapposizione.!Socrate nel porsi domande di natura etica professa una bassa
considerazione per una scienza della natura e vi contrappone l’idea di una
scienza dell’uomo. Da una parte c’è dunque la natura, dall’altra l’uomo con la
sua cultura: così di conseguenza agli albori del pensiero occidentale si pone
già il problema se sia più importante conoscere la natura o l’essenza
dell’uomo. Dopo un’importante fase iniziale con gli Atomisti e Platone si
arriva al grande progetto ! 244! finale della filosofia della natura
greca con Aristotele. Non posso ora soffermarmi sull’analisi del contenuto di
questa dottrina a cui si è fatto cenno. Va però ricordato che le scuole peripatetiche
come gli epicurei, gli stoici, i neopitagorici, i neoplatonici, apportarono
variazioni che per noi non sono determinanti. La divisione tra Natura e Spirito
e quindi l’abisso tra la Fisica, da un lato, e l’Etica e la Logica, dall’altro,
si è mantenuta nello Stoicismo e nell’Epicureismo, per quanto lo Stoicismo
abbia costituito l’ultimo e unico tentativo di riconciliazione universale di
entrambi i regni: una lotta gigantesca ma alla fine inutile. Nel Neoplatonismo
alla fine la 341*1 perde del tutto la sua importanza e viene considerata come
una realtà irrazionale fondamentalmente nulla. Il pensiero cristiano dei primi
Padri della Chiesa adotta parzialmente l’originario concetto platonico
aristotelico di natura, per quanto questo suo preciso significato cambi e si
perda giacchè la natura intera non viene più concepita in modo classico ma come
creazione di Dio a partir dal nulla. Anche se nel Medioevo non c’è uno studio
autonomo della natura, tuttavia questa epoca conosce una scienza della natura
caratterizzata dalla volontà di conservare l’antica tradizione, soprattutto
quella aristotelica. Custodi dell’antica tradizione furono in primo luogo i
filosofi e gli scienziati naturalisti dell’Islam. L’apice della scienza della
natura medievale in Occidente è rappresentato da Alberto Magno, il quale
partendo dal pensiero aristotelico propone un quadro della natura completo ed
esauriente. Con l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento sorge una nuova
concezione della natura, che per noi è della massima importanza. L’accesso alla
natura è cercato soprattutto attraverso l’esperimento – un concetto
specificamente moderno che per la prima volta con Leonardo Da Vinci assume una
chiara forma teoretica (i suoi scritti più noti sono il Trattato sulla pittura
e Sull’anatomia dell’uomo). L’esperimento è l’interrogazione della natura
tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se
questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di
partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad
essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella
sua interezza ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e
delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue
capacità. Al concetto dell’esperimento fondato sulla teoria di Leonardo
corrisponde anche la nuova ! 245! fondamentale teoria di Bacone.
Attraverso il suo pensiero emerge un secondo tratto decisivo per la moderna
conoscenza della natura. Conoscenza della natura significa soprattutto il suo
dominio. Sapere è potere. Quindi si impone un aspetto fondamentale della
moderna conoscenza della natura che l’Antichità non conosceva: la tecnica, la
sua azione non nel senso di un sapere teoretico ma nel senso di lavoro. Il
concetto di esperimento si perfeziona con Galileo Galilei e grazie a lui e a
Keplero noi facciamo esperienza del capovolgimento del concetto antico di
Universo. Il grande difensore di questo nuovo concetto di natura e di universo
fu Giordano Bruno. Con lui si assiste ad un ulteriore allontanamento dal
concetto copernicano di mondo: perciò non si tratta solo di contrapporre il
nuovo sistema solare al vecchio sistema geocentrico ma di riconoscere che si dà
non un solo mondo ma infiniti molti. Nonostante la dovuta brevità (di questa
trattazione) qui appare doveroso soffermarmi. Fino all’età moderna il sistema
del mondo vigente traeva origine dalla cosmologia aristotelica, era diffuso
dagli eruditi alessandrini, da Ipparco e infine rappresentato da Tolomeo.
Questo sistema aristotelico-tolemaico vedeva il mondo con approssimazione: la
terra cioè giaceva immobile al centro del cosmo. La terra e l’universo hanno
una forma sferica. I movimenti del globo sono spiegati ipotizzando l’esistenza
di dieci sfere fisse, immateriali e concentriche in cui si trovano le stelle.
La più lontana tra queste sfere regge le stelle fisse, le altre i pianeti. Ogni
pianeta appartiene ad una sfera particolare: queste gravitano intorno alla
terra con i suoi annessi corpi celesti. In contrapposizione a questa immagine
del mondo Copernico sostiene nel suo scritto De revolutionibus orbium
coelestium libro VI che sia il Sole a trovarsi al centro dell’universo e che la
Terra farebbe parte dei pianeti e che questi girano completamente intorno al
Sole fisso, muovendosi da ovest verso est. Ha parteggiato per questa visione
anche Giordano Bruno non limitandosi solo a considerazioni astronomiche ma
soprattutto giungendo alla convinzione filosofica che il mondo non può essere
finito. Nella sua opera De la causa, che si confronta con la filosofia
tradizionale, Bruno insegna che il tutto non ha né centro né confini. Il mondo
che l’uomo conosce diviene così solo uno tra molti altri. Ricordiamo infine
solo il decisivo cambiamento del concetto di natura in Kant. Andando avanti il
problema della natura si risolve nel problema della sua conoscenza. I fenomeni
sensibili, attraverso cui noi facciamo ! 246! esperienza della natura, si
riordinano in noi attraverso le visioni personali dell’uomo (spazio e tempo;
categorie). In questo modo poi si dà un sistema della natura che sottostà
necessariamente alle pure leggi matematiche e fisiche: l’uomo è il legislatore
della natura. Ma di nuovo si presenta il problema dell’uomo e della sua
libertà. Essa si autodetermina in opposizione alla natura nella misura in cui
oltrepassa la necessità causale. Così la natura si limita alle forme di
esperienza dell’uomo e la sua esistenza umana e morale in realtà non rientra
più nel suo campo. Lo sviluppo del concetto di natura nella filosofia
post-kantiana non potrà essere seguito qui in modo approfondito. Certamente il
modo di intendere la conoscenza della natura di Hegel come uno stadio iniziale
della filosofia dimostrabile a priori ha contribuito a sollevare in Occidente
una reazione da parte del naturalismo empirico con il Positivismo e il
materialismo. Tuttavia queste eccessive semplificazioni non hanno avuto lunga
durata. In ambito fisico dall’inizio del ventesimo secolo il mondo va di pari
passo con la matematica o perlomeno può essere descritto solamente attraverso
di essa in maniera appropriata. Ciò rappresenta un fatto determinante. Da un
punto di vista prescientifico e immediato la natura quindi si erge nella forma
in cui l’uomo la coglie attraverso i suoi organi sensoriali. I sensi dunque
restano il meccanismo di osservazione principale ma ora l’uomo nella sua
ricerca non se la cava più senza la tecnica. Così a poco a poco il mondo dei
fisici si allontana necessariamente dal mondo quotidiano dell’uomo. Appena
qualche secolo prima si è guardato alla realtà, a come essa è, al sorgere del
sole. In seguito ciò è apparso come un inganno e non possiamo fidarci più dei
nostri occhi. Siamo arrivati ad un punto tale che il mondo intero a rigor del
vero si è trasformato in un mare di inganni. Scenario dopo scenario noi siamo
arrivati a credere di stare davanti ad un ultimo passo dalla realtà su cui
scorrono solo ombre di elettroni spettrali e inafferrabili. L’intelletto
calcolante ha qui l’ultima parola; il mondo passa dal primo piano della
percezione verso lo sfondo del pensiero. L’opera di Heisenberg richiama
l’attenzione su questo processo, sulla realtà e sul pericolo in cui l’uomo si
trova quando egli risolve la natura nelle strutture del suo pensare e la domina
in modo smisurato. Come all’inizio del pensiero occidentale anche oggi per noi
permane l’ammonimento di riflettere sull’essenza dell’uomo. ! 247!
APPENDICE II Traduzione di Der italienische Schopenhauer, in Schopenhauer im
Denken der Gegenwart, a cura di V. Spierling, München-Zürich, Piper, 1987, pp.
125-138. I. Il Problema Ha un senso, in un volume su Schopenhauer, occuparsi di
un altro autore, e precisamente di uno che proviene da una tradizione e da una
lingua completamente diverse rispetto a quelle tedesche? Non solo: quest’altro
autore è uno dei più grandi poeti del diciannovesimo secolo in Italia, nemmeno
è stato filosofo. D’altra parte, quando si ha il coraggio di affrontare un
lavoro come questo, non dovrebbe esso essere strutturato nella forma tradizionale,
in modo tale che si pongano in luce, da una prospettiva scientifica, i
parallelismi e le differenze tra i due autori – e perché no, in maniera
strettamente meticolosa – che allo stesso tempo implichi una interpretazione di
Schopenhauer? C’è una questione ulteriore: il poeta al quale faccio riferimento
qui è particolarmente noto in Germania per le sue affermazioni poetiche e per
questo è diventato oggetto di indagine e trattazione prevalentemente nel campo
della storia della letteratura. Tuttavia ciò accade non solo in Germania: si
tratta di Giacomo Leopardi. Anche in Italia gli viene negato un significato
filosofico generale, e Benedetto Croce ha affermato in uno studio su Leopardi
che dovremmo rinunciare a vedere in Leopardi “un sommo pensatore, le cui
argomentazioni e dottrine trovino luogo nella storia della filosofia [...] ma
per questa parte, che è quella filosoficamente fattiva, il Leopardi non offre
se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava
disposizione e preparazione speculativa”778. Karl Vossler nel suo libro su
Leopardi si è riallacciato a questo giudizio779. Questa reazione di Croce non è
fortuita: Hegel quasi con le medesime parole si era espresso negativamente
sugli umanisti in quanto filosofi, e precisamente con la motivazione che gli
umanisti italiani si sono B. Croce, Poesia e non poesia, Bari 1942, p. 98. [B.
Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo
decimonono, Laterza, Bari 1946, pp. 98-99]. 779 [Grassi si riferisce al testo di
K. Vossler, Leopardi (1923), tr. it. di T. Gnoli, Ricciardi, Napoli 1925]. !
248! arenati in un pensiero simbolico e non sono giunti fino
all’altezza del concetto. Letteralmente vuol dire: “se si spogliano i concetti
fondamentali dei sistemi che si presentano all’interno della storia della
filosofia di quel tanto che concerne la loro configurazione esteriore, la loro
applicazione a ciò che è particolare e simili, allora si perviene ai diversi
gradi della determinazione dell’idea entro il suo concetto logico”780. Secondo
la concezione di Hegel l’Umanesimo non si accorda in modo adeguato alla
coscienza dell’idea, esso permane molto nel mondo della fantasia, dell’arte,
conficcato nel mondo della metafora: l’arte è per Hegel, come è noto, una forma
insufficiente per rappresentare l’Idea. Qui l’Idea permane nel suo legame
concreto sensoriale, ossia si comporta ora solo come Ideale. A causa
dell’“incapacità di rappresentare il pensiero in quanto pensiero, l’Umanesimo
si avvale di aiuti per esprimersi in forma sensibile”781. Così la filosofia
umanistica, secondo Hegel, appartiene a manifestazioni superflue “che offrono
alla filosofia poco beneficio”782. Perciò sia in Italia, dove per molto tempo
l’idealismo tedesco con Croce e Gentile è stato determinante, sia in Germania,
la concezione poetica come espressione del pensiero filosofico è stata
condannata nel modo più critico. In un lavoro apparso recentemente783 e in una
pubblicazione uscita negli Stati Uniti784 io ho trattato l’intera problematica
della tradizione umanistica, alla quale Leopardi appartiene, e ho motivato e
sviluppato la valutazione completamente errata della tradizione umanistica –
che non parte da una metafisica razionalistica ma dal problema della parola, e
precisamente dalla parola metaforica e di conseguenza poetica. Questa
discussione verrebbe ad essere la giusta premessa per giungere ad una
comprensione filosofica di Leopardi nel suo valore generale. Ma qui si tratta
proprio della relazione Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie,
a cura di H. Glockner, Suttgart 1928, p. 59 [G. W. Hegel, Lezioni sulla storia
della filosofia, a cura di R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 568-569].
781 Ivi p. 121. 782 Ivi, p. 149. 783 E. Grassi, Einleitung in philosophische
Probleme des Humanismus, Wissenschaftlische Buchgesellschaft, Darmstadt 1986
[E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, a cura di L.
Rossi, Tempi moderni, Napoli 1988]. 784 E. Grassi, Heidegger and the question
of Renaissance Humanism, Medieval Renaissance Texts and Studies, Binghamton, N.
Y. 1983 [E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, a cura di C.
Vasoli, Guida, Npoli 1985]. ! 249! tra Schopenhauer e Leopardi. Io
farò riferimento alle tesi di Leopardi senza discutere il parallelismo e la
differenza con Schopenhauer. Gli schopenhaueriani possono prendere i testi di
Leopardi come motivo per un confronto tra entrambi. A giustificazione di un
metodo di analisi di questo tipo sarebbe determinante una parola di
Schopenhauer. Nella scorsa metà del secolo scorso Francesco De Sanctis ha
notato per primo in un saggio785 su Schopenhauer e Leopardi la rilevanza
filosofica del poeta, ma soprattutto ha contribuito a mettere in circolazione
quell’immagine del pessimismo leopardiano, come noi oggi ancora comunemente
pensiamo. Schopenhauer si espresse sul saggio di De Sanctis nel modo seguente
con il suo amico Lindner: “mi devo stupire molto nel vedere quanto questo
italiano (De Sanctis) si sia impossessato della mia filosofia e come l’abbia
capita bene. Non fa come i Professori tedeschi, specialmente Erdmann,
sunterelli ed estratti dei miei scritti, senza vera comprensione e secondo il
numero delle pagine. No, egli li ha convertiti in succum et sanguinem, e li ha
sulle punte delle dita per adoperarli dove occorre”786. Io qui strutturerò i
livelli di pensiero di Leopardi in modo che gli specialisti di Schopenhauer
possano discutere la questione delle affinità e diversità tra i due autori.
Innanzitutto perché è possibile accostarsi a Schopenhauer anche da un’altra
prospettiva, diversa rispetto a quella tradizionale che si trasmette con Kant e
l’idealismo tedesco. I temi di Leopardi – il rigetto della priorità della
ragione, la natura, l’analisi della noia, il significato filosofico delle
passioni, l’illusione, la mania – sono gli stessi di Schopenhauer. Grassi si
riferisce al saggio desanctisiano in forma di dialogo Schopenhauer e Leopardi
che trae origine dalla lettura da parte di Francesco De Sanctis dell’opera di
Schopenhauer all’inizio del 1858. Il saggio di De Sanctis appare in “Rivista
contemporanea”, VI (1858), Vol. XV, pp. 369-408 e confluisce in Saggi critici
(1874). Cfr., F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, pp. 417-467, in Id.,
Leopardi, a cura di C. Muscetta-A. Perna, Einaudi, Torino 1983. 786 GBr, Nr.
454, p. 447 [Lettera di Schopenhauer a Lindner del 23 febbraio 1859, in A.
Schopenhauer, Colloqui, a cura di A. Verrecchia, Bur, Milano 2010, p. 267, nota
220]. ! 250! I passi di prosa che ora prenderò in esame provengono
dal cosiddetto Zibaldone, una raccolta di pensieri e annotazioni. Esso non era
destinato alla pubblicazione nella forma in cui oggi si presenta il testo
originale, nonostante Leopardi lo avesse progettato, per quanto ne sappiamo,
per pubblicarlo in dieci volumi. Lo Zibaldone è un’opera molto voluminosa:
consta di un manoscritto di 4526 pagine. Le annotazioni cominciano a luglio o
agosto del 1817 e terminano il 4 dicembre del 1832. La prima edizione apparve
nel 1898 e fu pubblicata da Giosuè Carducci con commento critico e filologico con
il titolo di “Pensieri di varia filosofia e letteratura” (un titolo che era
tratto da un’indicazione di Leopardi). La seconda versione migliorata, che si
accorda a questa traduzione787, appare negli anni Trenta: G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, 2 volumi, Milano 1938. Io cito dalla
traduzione tedesca di K. J. Partsch. Il punto di partenza della riflessione di
Leopardi è il contrasto tra la ragione e ciò che egli ha chiamato natura,
criticando in tale contesto ogni filosofia che creda di decifrare la realtà
sulla base di principi razionali e perciò tutto ciò che ha a che fare con i
sensi e le passioni, tutto ciò che è metaforico, lo rifiuta nel suo significato
filosofico. In generale questa tradizione concede solo ciò che noi possiamo dimostrare
e dimostrare significa mostrare e determinare qualcosa sulla base di un
fondamento, di un assioma, di un principio. “E qui voglio notare come la
ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui
perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace
di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa
saviezza che par tutta consistere nell’uso intero della ragione”788. Ogni vita
umana ordinata e fruttuosa sembra realizzarsi solo sulla base di fondamento e
dimostrazione. Soltanto in questo modo si ritiene di poter prevedere anche
l’avvenire in generale per poterlo deviare e per potersi mettere a riparo da
esso. Da questo punto di vista l’imprevisto, l’improvviso, il sorprendente, non
solo non vengono presi in considerazione ma cancellati, allorché Grassi fa
riferimento alla traduzione di Partsch Theorie des schönen Wahns und Kritik der
modernen Zeit, Ausgewahlt, geordnet und eingeleitet von E. Grassi, aus dem
italienischen übertragen von K. J. Partsch, Bern, Francke 1949. 788 G.
Leopardi, Zibaldone, 20 gennaio 1820. ! 251! si manifestano, e
giudicati alla stregua di un fallimento delle nostre forze umane e razionali,
delle nostre conoscenze, dei nostri desideri di sicurezza e certezza. Ora da
questo emerge che l’esistenza umana deve scaturire solo attraverso una certezza
sicura e razionale e che tutti i momenti della vita sociale, politica e
spirituale devono derivare da un fondamento di tal sorta: perciò poi anche
l’insegnamento e l’educazione devono non solo chiarire i fondamenti originari
dai quali noi deriviamo le nostre azioni, ma anche prestabilire tutte le
possibilità. Invece Leopardi adduce come argomento (il seguente): “e pure è
certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una
distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla
ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più
ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e
continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli”789. “ Ella
rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si
esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è
vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella
cresce”790. Partendo dalla tesi della priorità del pensiero razionale, ogni
passione, ogni impulso, viene considerato in realtà come un momento da
oltrepassare, come un momento che deve essere corretto o annientato. Di
conseguenza la conclusione dell’importanza del prevedibile, del sicuro, del
giudizio divengono gli ideali a cui poi ci si abbandona: la stessa vita
politica, lo Stato, se assicura la vita umana e vuole contribuire al suo
sviluppo, deve partire da un’impostazione del genere e attuarla. Una simile
concezione della vita, che si prova a dedurre more geometrico, corrisponde a
una tradizione razionalistica contro cui Leopardi assume una posizione, che
analizza progressivamente per mostrarla come causa delle rovine del mondo
occidentale. Ma una concezione di questo tipo non è apparsa e si è realizzata
proprio in precise forme di Stato, di insegnamento, di sapere quando ci si è
allontanati già dall’originaria fonte della vita? Come è considerato l’esito
della priorità della ragione da un punto di vista sociale, politico? “Anche
nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principi, nei
costumi, nel vizio, nell’egoismo etc...Sono tutti uguali e tutti separati,
laddove autenticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle
grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli”791. In un
mondo razionalizzato ogni elemento nuovo, originario, indeducibile e non
anticipatamente dimostrabile e sicuro non ha nessuna possibilità. In ogni forma
già razionalizzata di vita sociale, politica o culturale nulla di imprevisto
può irrompere senza far saltare il contesto esistente. Ma dunque cosa bisogna
opporre alla ragione? La natura forse, l’affermazione delle passioni? “La superiorità
della natura sulla ragione si dimostra anche in questo che non si fa mai cosa
con calore che si faccia per ragione e non per passione”792. Per Leopardi i
concetti di natura e passione collimano: di che natura è il loro rapporto
profondo e da ciò come emerge una comprensione della loro essenza? “ La ragione
è nemica di ogni grandezza: la ragione è nemica della natura”793. “ Qual cosa è
più potente nell’uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai né
pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda né vive con se stesso (se
anche vivesse con gli altri) da vero filosofo”794. In che cosa risiede la potenza, la capacità
della natura con cui possiamo riconoscerla con certezza? A questa domanda noi
riceviamo da Leopardi soprattutto una risposta negativa. Da cosa scaturisce
l’esperienza profonda del nulla, di cui l’autore italiano si occupa così
sistematicamente, e in che misura essa getta luce sui concetti di natura, vita,
che egli pone contro la ragione? La profonda esperienza del nulla appare,
secondo Leopardi, non nel dolore, non nella disperazione, momenti, questi, che
mantengono tutti ancora viva la testimonianza dei valori, ma nella noia. Essa è
il contrario della vita, pertanto ad essa non possiamo abituarci. Così afferma
Leopardi che la noia è l’esperienza del monotono, dell’indifferente,
dell’apatico, che quindi sopraggiunge quando si attenua la capacità di
distinguere qualcosa “Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è
meraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della
vita vitale [...] del resto l’odio della noia è uno di quei tanti effetti
dell’amor della vita [...] e l’uomo odia la noia per la stesa ragione per cui
odia la morte, cioè la non esistenza”795. Così la noia scopre dalla sua essenza
un’insolita, fenomenologica, molto importante incomprensibilità: nel suo patire
deve determinarsi come una passione. Noi possiamo vivere e esperire
l’indifferente, l’apatico, il monotono solo se si manifesta in modo limitato e
la noia, se ne facciamo esperienza, ci rivela che non possiamo esistere nello
sconfinato e nell’indifferenziato. “La noia corre sempre e immediatamente a
riempire tutti i vuoti che lasciano negli anni dei viventi il piacere e il
dispiacere; il vuoto cioè lo stato di indifferenza e senza passione non si dà
in esso animo, come non si dava in natura [...] o vogliamo dire che il vuoto
stesso dell’animo umano e l’indifferenza e la mancanza d’ogni passione è noia,
la quale è pure passione”796. La noia fa parte di quei sentimenti deprimenti
attraverso i quali si manifesta il declino della vita così silenziosamente e
senza emozione. Essa non ha nulla di eroico, è come uno stato d’animo opposto
alla natura, poiché in essa ogni disperazione è già apatica. Secondo l’opinione
di Leopardi in ciò risiede l’essenza della moderna esperienza del dolore che
non ha nulla più di vitale. Si tratta di un’autodistruzione in una perdita di
suoni e parole che si muovono in un silenzio disumano, in cui né odio né
speranza, né tantomeno interesse e partecipazione sono presenti: è l’ultimo
stato in cui si manifesta il naufragio di una cultura, di una classe sociale.
Al suo posto la natura si mostra nella potenza della passione: affermazione,
dunque, della passione contro la priorità del razionale? Prima di rispondere
insieme a Leopardi a questa domanda occorre discutere la funzione e il potere
della passione: “le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre
il desiderio della morte, o anche far morire, ma qual dolore ha più della vita,
anzi massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e
quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella medesima morte prodotta
immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è
sepolcrale, senz’azione, senza movimento, senza calore e quasi senza dolore, ma
piuttosto come un’oppressione smisurata e un accoramento”797. “Ma gli antichi
sempre più grandi, magnanimi e forti di noi nell’eccesso delle sventure, e
nella considerazione della necessità di esse e della forza invincibile che li
rendeva infelici, e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che
potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il
fato”798. Secondo l’interpretazione di Leopardi gli antichi soffrivano, poiché
credevano nella vita, perché la sentivano come un valore; quanto meno ci
rinunciavano tanto più l’affermavano nella disperazione. Si tratta del dolore
di Niobe, per il quale non si danno nessun sollievo, nessuna assuefazione. E
dal momento che per gli antichi la disperazione è allo stesso tempo
un’affermazione della vita, così nel loro animo nasceva l’odio, si accresceva
attraverso il dolore la loro immaginazione, traducendosi in azione,
presentandosi nei miti, i quali non hanno conosciuto ancora nessun
sentimentalismo. “Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non
davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri,
mettevano I dei in comunione della nostra via e dei nostri beni, e quindi gli
stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, non
dubitando che elle non fossero degne della invidia degl’immortali”799. Da
questo punto di vista la vita in ogni suo stadio, sia sensibile che spirituale,
non attinge a ciò che è sicuro, sperimentato, calcolabile, non attinge alla
certezza razionale e dimostrabile, bensì all’ambito del creativo,
dell’imprevedibile, dell’abissale: la prima possibilità dell’esperienza sorge
da qui. Se noi oscilliamo continuamente tra successo e fallimento, se inoltre
siamo disposti alla realizzazione delle nostre capacità, allora qui si radica
la nostra autoaffermazione, che nuovamente richiama l’attenzione all’appello
oggettivo e trascendentale a cui dobbiamo corrispondere. Leopardi pone
l’attenzione sul fatto che tutte le grandi imprese oltrepassano l’ordine
esistente e consueto, infatti dal momento che istituiscono qualcosa di nuovo
non possono essere dedotte dal già noto. Già nella vita quotidiana appare
impossibile vivere in modo puramente razionale e prevedibile. Gli stessi
sentimenti più naturali si mostrano come qualcosa di infondato. Ogni cosa
feconda non è mai deducibile e calcolabile: da ciò proviene la priorità storica
che i popoli naturalmente rivestono, poiché su di essi agiscono le passioni,
ciò che è originario, solamente essi, per questo motivo, trionfano sempre su
quei popoli che sono dominati dal razionale. La natura, nel suo significato già
spiegato, vive e si fa largo. Solo essa suscita tutte le passioni possibili,
solo essa desta i sentimenti naturali che mostrano l’inaspettato. Così Leopardi
passa alla descrizione e approvazione delle passioni del mondo antico. Allora
quelle forze imperanti fanno tutte parte dell’imprevedibile, di ciò che non è
razionalmente deducibile. Si tratta di quelle capacità di mostrare il nuovo
sotto forma di immagine, di linguaggio, di azioni, di miti. Quegli stessi
esercizi fisici, le lotte, le competizioni sportive e le cerimonie favoriscono
la fantasia, destano i miti che non sono il “vero” ma celano in sé il
significato dell’esistenza. “Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano
il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o a eccitare l’amor
della gloria ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor
dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un
corpo debole, insomma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle
nazioni”800. “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo
l’immaginazione umana e vive umanamente cioè abitate o formate di essere uguali
a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le
belle Amadriadi e i fauni, e i silvani e Pane etc..., entrandoci e vedendoci
tutto solitudine, pur credevi tutto abitato”801. IV. L’Illusione Allora
dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi
la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il
teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione
di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori
accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è
spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere
riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è
generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni
grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai
nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra
nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della
storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al
quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di
ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione
irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento
dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per
questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della
legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela
il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca
l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per
interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la
storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la
natura: (seguita però a Ivi, 7 giugno
1820. 801 Ivi, p. 100. ! 257! dovere) essa ci somministra le
illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...]
le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o
quasi affatto, l’uomo è snaturato”802. La potenza dell’illusione colpisce
pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta:
poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma
di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione,
ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso
la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la
consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi
rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria
dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta
in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni,
dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza
(che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie.
Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi
vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto
noto, ciò che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla
cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’
pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel
giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi
diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui
tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per
sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in
ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della
distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla
presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace
ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia
accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo
modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per
esempio mutato affatto da quel che era allora”803. Con la sua teoria
dell’illusione Leopardi non Ivi, p. 34.
803 Ivi, p. 96. ! 258! mette in piedi una indeterminata dottrina
dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile
l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun
modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della
filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un
piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale
pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco
qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire
a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui
ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza
dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più
tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante.
“L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la
minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori
diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che
resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e
costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda”804.
“Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le
illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli
occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza
umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò
nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla
natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero
tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di
qui a cent’anni. Non abbiamo ancora Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la
natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è
categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena”
della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel
quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che
l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il
ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come
ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la
ragione di ogni Ivi, 24 marzo
1821. ! 259! grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione
storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché
questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei
singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è
generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande
azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene
ad essere rappresentata una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché
l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è il sistemare e
distinguere, è ciò che è determinante, e per questo l’affermazione
dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della legalità, ma al
contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela il pezzo di
“scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca l’illusione
della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per interpretare un
ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la storia dei
singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la natura:
(seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel
loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le illusioni sono in natura
inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è
snaturato”805. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e
dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in
cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella
di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è
portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più
intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa
di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro
del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto
emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un
lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso,
dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da
nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in
quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è
dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò Ivi, p. 34. ! 260! che è sempre
uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi
parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella illusione
quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a
che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal
fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par
veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare,
tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola
infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che
tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo
presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale
circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e
dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che
altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era
allora”806. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non mette in piedi una
indeterminata dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò
che rende possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo.
Egli perciò in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della
ragione, l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e
sono ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi
in una deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia
che evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò
non si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che
agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di
esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama
illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti
dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di
quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del settentrione; e quando
questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad
equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni
nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e grandi
illusioni, i 806 Ivi, p. 96. !
261! popoli civili saranno lor preda”807. “Le quali cose se ridurranno
finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a
perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza
intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro
che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto
è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre
più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice
fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non
abbiamo ancora esempio nella passata età, dei progressi di un incivilimento
smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torniamo indietro, i
nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno
posteri”808. Attraverso la lettura dei passi leopardiani da me indicati sorge
una serie di domande riguardo al problema del pessimismo di Schopenhauer: la
conoscenza dell’illusione, dell’ossessione, quale fonte della storia umana, è
tragica dal momento che questa potenza, che fonda l’accadere storico dell’uomo,
non si può definire razionalmente, cioè conoscere in quanto abissale? Oppure:
la conoscenza dell’illusione è tragica per questo, poiché è l’illusione e non
la razionalità, secondo la tesi di Leopardi, quella potenza che lascia apparire
e scomparire il mondo, e perché questa forza trainante misteriosa ha solo
riguardo per lo svolgersi delle più diverse storie, ma nessun interesse per il
destino dell’individuo, quando egli gioca e soffre il suo ruolo in questo
dramma? Dunque l’illusione è solo un’astuzia con cui l’Abissale conduce l’uomo
verso il teatro del mondo? Dove risiede allora l’essenziale identità o
differenza tra la teoria dell’illusione di uno Schopenhauer e quella di
Leopardi? La formulazione e la risposta a queste domande si discostano
radicalmente dall’analisi del pensiero di Schopenhauer, così come tradizionalmente
viene eseguita, quando si parte da Kant e dall’Idealismo tedesco per intendere
Schopenhauer. Per me era profondamente importante qui mostrare il significato
della teoria dell’illusione – che gioca un ruolo così profondo in Schopenhauer
– alla luce di una prospettiva completamente diversa e poterne discutere. Ivi, 24 marzo 1821. 808 Ivi, 18-20 agosto
1820. ! 262! APPENDICE III Traduzione di Vom Vorrang des Logos. Das
Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und
deutscher Philosophie, München, Beck, 1939, pp. 218. La ricerca della verità:
il fondamento oggettivistico della verità, pp. 37-43. Oggetto di indagine
filosofica è la questione relativa alla preminenza del Logos. L’inquadramento
del problema e una definizione più veritiera possibile dell’essenza del Logos
sono questioni che vanno però inevitabilmente rimandate ad un momento
successivo. Ogni indagine filosofica rappresenta in sé una ricerca della verità
che parte da un qualcosa di preesistente che in quanto tale presuppone già un
determinato concetto di verità. Dal momento che però la filosofia non può
presupporre nulla a priori, diventa necessario definire in maniera univoca il
concetto di verità. Ma com’è possibile intraprendere un’indagine filosofica
partendo da un determinato concetto di verità, se evidentemente questo non può
che essere il risultato di una lunga e complessa ricerca? E se la filosofia non
può presupporre nulla come sarà mai possibile verificare se il concetto di
verità così com’è concepito corrisponde al vero? All’inizio di ogni indagine
filosofica ci si ritrova sempre a dover affrontare quella che si rivela essere
la difficoltà principale ossia la ricerca della verità presuppone che si
conosca già la verità altrimenti come sarebbe possibile riconoscerla? In un suo
dialogo Platone enuncia in maniera precisa questa aporia sottolineandone i tre
momenti principali ovvero la possibilità dell’indagine, la possibilità del
prefiggersi un qualcosa e la possibilità del riconoscere la verità che
presuppongono già di per sé una conoscenza della verità. “Come potrai mai
cercare una cosa che non conosci e cosa di ciò che non conosci ti prefiggerai
di ricercare? E nel caso dovessi imbatterti in esso come riuscirai ad
accorgerti che si tratta proprio di ciò che non conosci?”. Tuttavia ammettendo
che la ricerca della verità presupponga, per poter aspirare ad essa, già una
conoscenza, ciò ci conduce inevitabilmente di fronte a una seconda difficoltà
ossia l’indagine filosofica appare superflua. Per quale motivo si dovrebbe
cercare qualcosa che già si conosce? Questa riflessione sembra frenare sin
dall'inizio qualsiasi indagine. Ma andando ad analizzare la questione più nel
dettaglio ci si accorge ! 263! immediatamente che essa in realtà fornisce
già una prima indicazione utile (nell’individuazione del) concetto di verità al
quale riferirsi nella ricerca: a quello che rende possibile l’indagine come
punto di partenza e giusto approccio filosofico. L’aporia non riguarda la
verità in sé ma solo una determinata concezione di essa. Quale? All’essenza
dell’indagine appartiene tutto ciò che ricerchiamo e che in un certo senso è
già esistente e non esistente. L’impossibilità che qualcosa allo stesso tempo
sia e non sia è valida però per tutto ciò che è Ente e che ricade sotto il principio
dell’identità: questo principio è applicabile sono ad un determinato ambito
dell’Ente ovvero laddove esso in quanto oggetto dell’indagine venga concepito
in maniera oggettivistica. Il principio dell’Identità non è applicabile al
Divenire poiché in quanto tale esso ha già la caratteristica di poter essere e
non essere. Da ciò si evince dunque che se il fondamento della verità viene
identificato con l’immediata e concreta semplice-presenza di un qualcosa, la
possibilità della ricerca viene meno. L’oggetto ha dunque solo due possibilità:
la semplice-presenza e la non-presenza. Un tale fondamento della verità non
ammette indagine e l’aporia si rivela come un qualcosa che non va ad
interessare tutte le definizioni di verità ma bensì solo una determinata concezione
di essa. Ma qual è da un punto di vista storico in generale la concezione di
verità che nell’immediatezza della semplice-presenza di un oggetto ne vede il
proprio fondamento? È quella concezione di verità che tradizionalmente per
analogia accettiamo come valida in quanto afferma che la verità è verità logica
essenziale e che in quanto tale appartiene solo al pensiero inteso come
pensiero dell’Essere sia nella forma di oggetto razionale, come le idee di
Platone, che in quella di oggetto sensoriale come nell’espressione dei sensi
(secondo l’interpretazione di Aristotele). Il congiungere, l’atto di unire del
pensiero, che si esprime nella concezione di unità come connexio di soggetto e
predicato, il giudicare, sono veri nel momento in cui uniscono o separano ciò
che si appartiene o non si appartiene, così com’è nell'Essere. In primo luogo è
doveroso sottolineare che sulla base di una tale concezione il fondamento della
verità appare innanzitutto come l’immediato manifestarsi dell'Essere in quanto
oggetto; in secondo luogo che il fondamento della verità del pensiero non si
trova nel pensiero stesso ma al di fuori di esso e che per questo la preminenza
del Logos come pensiero viene negata; in terzo luogo che la definizione del
fondamento della verità ! 264! in una tale concezione deve essere
necessariamente caratterizzata in maniera oggettivistica, indipendentemente dal
fatto che si tratti di un fondamento empiristico o razionalistico.
L’interrogativo circa il dove storicamente questa concezione si presenti
realmente, sotto questa forma, resta dunque ancora da sciogliere. La
semplice-presenza come verità dell'Oggettivismo Analizziamo ora in maniera più
approfondita la concezione oggettivistica del fondamento della verità (così
come della conoscenza) per verificare se essa effettivamente ha ciò che
rivendica. La concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come
della conoscenza) si richiama all’immediato manifestarsi di un qualcosa, alla
sua semplice-presenza. Il fondamento del rivelarsi nel presente di un qualcosa
non si cela però, in una tale concezione, dietro il concetto di
semplice-presenza in sé ma consegue da esso, è l’oggetto, il Faktum empiristico
o razionale. La contraddizione tipica di questa asserzione è che l’essenziale
non viene identificato con il manifestarsi dell’oggetto ma bensì con
l’Essere-per-sé, che viene prima dell’apparire, ma allo stesso tempo si
richiama alla sua immediata semplice-presenza per poter affermare il suo
Essere. Se per poter superare questa difficoltà si identifica il fondamento
concreto della verità con la semplice-presenza del manifestarsi di un qualcosa,
con il quale esso dovrebbe essere raggiungibile (volendo comunque mantenere
ancora l’Essere-per-sè dell’oggetto), l’Essere-per-sè dell’oggetto diventa in
questo modo irraggiungibile e indefinibile. Dal momento che in questo caso
considereremmo l’oggetto solo fino a che esso continui a rivelarsi in e
attraverso una qualsiasi semplice-presenza, non avremmo più alcuna possibilità
di fare riferimento al suo Essere-per-sé, e ciò che appariva solo come un
processo di appropriazione, ossia mediazione intenzionale della
semplice-presenza, diviene il fondamento per il quale un qualcosa può rivelarsi
in quanto tale. Hegel respinge questo concetto dualistico tra l’oggetto e il
processo dell’apparire inteso come mediazione intenzionale affermando, con la
terminologia che gli è propria e che deriva dalla questione al superamento del
dualismo teorico-conoscitivo dell’Essere-per-sé e dell’Essere-per-noi, che: “se
il conoscere è lo strumento per potersi impossessare dell’essenza assoluta
allora è altrettanto evidente come l’utilizzo di uno strumento su un oggetto
non lo lasci ! 265! inalterato ovvero così come esso è per sé stesso ma
bensì porti con sé una forma e dei cambiamenti. Altrimenti il conoscere non
sarebbe più strumento della nostra attività ma bensì, per così dire, un mezzo
passivo attraverso il quale la luce della verità può arrivare a noi, non così
com’è in sé stessa ma così com’è attraverso e in un mezzo. Appare dunque chiaro
che solo mediante la conoscenza del funzionamento dello strumento si può porre
rimedio a questi inconvenienti; poiché tale conoscenza rende possibile
escludere da ciò che si ottiene quella parte di definizione che a partire
dall’assoluto deriva dall’uso dello strumento e conservarne così solo il Vero
puro. Basterebbe questo miglioramento a riportarci nella condizione in cui ci
trovavamo in precedenza. Se a una cosa già formata togliamo di nuovo l’effetto
che su di essa ha avuto lo strumento, quella cosa, qui l’Assoluto, tornerà a
noi così com’era prima di tale superflua premura”. Il fondamento oggettivistico
della verità appare dunque falso. Ma se esso non è in grado di spiegare la
verità può almeno spiegare la possibilità dell’errore? Come può però un
oggetto, così come è stata considerata anche la sua essenza, essere preso per
un altro se esso si manifesta solo nell’immediatezza? Questo vale sia per una
concezione empiristico-oggettivistica del fondamento del manifestarsi sia per
una razionalistico-oggettivistica. In effetti se un qualunque manifestarsi di
un qualcosa viene considerato immediato sarà altrettanto necessario considerare
immediata, e dunque come un qualcosa di non-presente, la sua velatezza. Per
questo motivo non può esserci un passaggio intermedio tra velatezza e
manifestazione, e per velatezza va intesa solamente quella di un oggetto, come
quella di un qualcosa di immediato che supera la nostra ricerca della verità.
Non si può superare questa difficoltà nemmeno affermando di voler passare dalla
non-conoscenza alla conoscenza, basandosi solo sulla porzione di verità che si
conosce e che può far cadere in errore dal momento che si può confondere ciò
che si conosce con ciò che non si conosce. Per questo per la “restante”
porzione di verità che non si conosce resta valida l’originaria aporia che
riguarda il ricercare. Non possiamo né ricercare ciò che non conosciamo né
cadere in errore confondendo ciò che non conosciamo con qualcosa che conosciamo
o con qualcos’altro che non conosciamo. L’aspirazione al raggiungimento della
verità e l’errore vengono considerati attraverso la concezione del fondamento
della conoscenza come un qualcosa di immediato, ! 266! oggettuale, simile
a un’illusione e ridotto ad un niente. In quest’ottica appare anche impossibile
un passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza. Il processo come fondamento
del manifestarsi di qualcosa È necessario dunque sottolineare che due momenti,
quello della possibilità della ricerca della verità e quello della possibilità
dell’errore, sono da considerare come i criteri in base ai quali poter
riconoscere quella verità che cerchiamo. L’interrogativo circa il fondamento
della verità può essere genericamente definito come l’interrogativo sul
fondamento del manifestarsi di un qualcosa e che in quanto tale sin dall’inizio
non può essere considerato come immediato e oggettuale in quanto una qualsiasi
immediatezza oggettivistica non consentirebbe la definizione di un tale
rivelarsi che invece qui deve essere oggetto di indagine filosofica: quel
manifestarsi che rende possibile la ricerca. La questione della verità resta
dunque identificata con l’interrogativo circa l’essenza del manifestarsi di
qualcosa. Attraverso ciò appare subito chiaro come il ricercato fondamento del
concetto più veritiero possibile di verità sia da trovare mediante un processo
assoluto: questo processo deve coincidere in origine con il rivelarsi di
qualcosa, di ciò a cui aspiriamo. Se tale processo del manifestarsi si basasse
su qualcos’altro al di fuori di esso si verificherebbero nuovamente le
difficoltà già esposte in maniera esauriente. Nel caso in cui il fondamento del
manifestarsi di qualcosa mettesse radici in un processo, in un divenire, in un
avere e non avere, bisognerebbe ammettere che ciò che ci appare ci appartiene
dalle origini e allo stesso tempo è celato in noi. Il processo del manifestarsi
deve quindi contemplare anche la possibilità del celarsi e dello scoprirsi: il
processo del manifestarsi, e dunque qualcosa di non ancora divenuto ma in divenire,
è il primo originario. Dal momento che però il manifestarsi di qualcosa non è
un qualcosa che va al di là del processo ma è contenuto in esso, il processo
stesso e quindi il fondamento del manifestarsi non sono che una lotta per
quello che si cela in noi, un ritorno a ciò che abbiamo già, un tentativo di
scoprire ciò che è celato. Solo attraverso la vittoria in questa lotta e la
conquista di un qualcosa che già ci apparteneva si genera la possibilità della
conoscenza, del riconoscere qualcosa da un qualcos’altro, che può diventare la
prima ragione di qualsiasi ulteriore affermazione della verità. Da notare che
nella logica tradizionale l’essenza della ! 267! verità è stata ricercata
nel Logos, nel pensiero come pensato e dunque oggetto, e analizzata nelle sue
forme e nelle sue manifestazioni. L’oggettivismo di una tale concezione si
mostra qui in una doppia veste: il fondamento della verità viene visto come
l’oggettivistico e immediato manifestarsi di un qualcosa e la verità stessa
ricercata nel pensiero come oggetto e nelle forme del pensato. Appare dunque
evidente che qualsiasi tentativo di ricercare in qualcosa di oggettuale, anche
se è soltanto nel pensiero come pensato, il fondamento e le forme della verità
fallirebbe nel suo obiettivo sin dall’inizio dal momento che tutto ciò che è
oggettuale non potrà mai essere il fondamento originario del rivelarsi di un
qualcosa rispetto a qualcos’altro. Allo stesso modo ogni tentativo di trovare
una logica del pensato che consideri il pensiero solo come oggetto si rivelerà
fallimentare in quanto tale logica non va a ricercare l’essenza della verità
nell’ambito originario di un processo o di un atto, nel quale soltanto qualcosa
può apparire in quanto tale e dal quale può prendere origine la verità
oggettuale. Avendo così la logica tradizionale studiato la verità nel pensiero
inteso come pensato, come oggetto nelle sue svariate forme, ed essendo partita
da un tale presupposto per la definizione del problema teoretico-conoscitivo,
motivo per il quale si è potuto identificare il pensiero come momento di
conoscenza dall’Essere, non ci si è più interrogati circa la forma originaria
della verità. L’interrogativo iniziale su come un qualcosa possa essere
fondamento della verità di qualcos’altro viene sostituito dall’interrogativo
sulle forme del pensiero. Per ciò che riguarda in particolare la definizione
del problema da un punto di vista teoretico-conoscitivo, dal confronto tra due
pensati, l’Essere-per-sé e l’Essere-per-noi, per i quali resta valido sempre e
soltanto l’identità come principio dell’Ente oggettuale, appare evidente che
mai si potrà ottenere la verità come processo del passaggio dall’uno all’altro.
! Differenza ontologica e disposizione d’animo, pp. 52-58 Non dobbiamo perdere
di vista il filo conduttore della nostra indagine. Siamo venuti a conoscenza di
un elemento fondamentale ossia che il problema della verità può essere inteso
solamente come ricerca del fondamento del manifestarsi e che ciò non deve
essere inteso come strettamente oggettuale. ! 268! Attraverso ciò siamo
poi giunti alla definizione del problema del Logos: il fondamento del
manifestarsi può essere interpretato unicamente come un processo o un atto che
non è altro che unità, congiunzione, leghein come veniva definito dai greci
sulla base del significato originario del termine. La questione circa la
preminenza del Logos deve essere impostata in modo che né il manifestarsi in sé
né le sue forme, così come l’atto originario dell’unire, del congiungere, del
completare, possano essere predeterminati. Va verificato se il concetto di
svelatezza di Heidegger si celi in una tale concezione del Logos o se, come
sembra, il processo originario, per mezzo del quale l’Essere si manifesta e dal
quale deriva il problema metafisico, affondi le proprie radici nell’irrazionale,
nell’illogico, nell’immediato. Così dicendo si potrebbe pensare che Heidegger
neghi la preminenza del Logos soprattutto se in tale contesto si richiama alla
mente il suo tanto auspicato tentativo di superamento della preminenza della
logica così come le sue asserzioni circa la derivazione del problema metafisico
dalla disposizione d’animo. Per giungere alla corretta interpretazione del
pensiero di Heidegger bisogna innanzitutto chiedersi cosa si intenda con il
fenomeno della disposizione d’animo e se esso sia qualcosa di illogico o se
abbia origine in un atto, in un processo del leghein (come unità, legame
originario). Nella disposizione d’animo, nella paura si genera, secondo
Heidegger, il manifestarsi dell’Essere rispetto all’Ente. Ciascun Ente per
poter essere riconosciuto come tale e dunque nel suo Essere, deve già essere
manifesto in tale Essere. Questa svelatezza dell’Essere, secondo Heidegger, non
è che un separarsi dal nulla e ciò si compie nella disposizione d’animo. Questa
primordiale disposizione d’animo deve essere dunque intesa come momento
determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della
svelatezza? Tale processo è fondamentalmente trascendenza, elevazione dell’Ente
a totalità che attraverso di esso giunge a palesarsi, alla svelatezza: il
dispiegarsi di questa radice originaria come processo contiene in sé già la
possibilità dell’interrogarsi, del perché: poiché la svelatezza è processuale
ed è possibile per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-Essere essa
procede per interrogativi. Così si delinea il problema seguente: su che cosa si
fondano la trascendenza, la disposizione d’animo e la possibilità del perché?
Heidegger prende come punto di partenza per affrontare questo problema !
269! innanzitutto la definizione tradizionale di verità che si orienta
alla proposizione, alla connexio tra soggetto e predicato. Questa a sua volta
rimanda al fondamento e alla ragione. Per tale motivo il problema della verità
è strettamente legato a quello della ragione. La verità della proposizione
(anche verità ontologica) non consente però la comprensione dell’Essere
dall’Ente ed essa stessa è possibile unicamente sulla base di una svelatezza
originaria, definita come verità ontica, una verità sulla base della quale l’Identità
o la Non-Identità di soggetto e predicato possono essere riconosciute. La
stessa verità ontica si fonda nell’affettività istintiva che è legata dunque
alla disposizione d’animo, nell’agire intenzionale che aspira all’Ente; questa
non può però essere mai originariamente accessibile all’Ente se prima non c’è
stata una comprensione dell’Essere dall’Ente. La verità ontologica e la verità
ontica affondano dunque le loro radici in una verità pre-ontologica la cui
natura resta ancora da definire. Heidegger sottolinea come tra la comprensione
dell’Essere pre-ontologica e l’espressa problematica dell’afferrare la
concezione di Essere vi siano diversi passaggi che possono già fornirci un
esempio di una qualsiasi precomprensione dell’Essere originaria. Ad esempio i
principi basilari delle singole scienze, come ad esempio il fondamento del
domandarsi che è proprio ad ognuna di esse, indicano e delimitano un
determinato campo come ambito di una possibile oggettivazione attraverso la
conoscenza scientifica, senza essere loro stessi oggetto di indagine
scientifica. Questo concepire, che è proprio dei principi basilari delle
singole scienze, per la prima volta apre il cammino verso l’indagine e dal
momento che esso stesso non è oggetto di indagine presuppone una determinata
precomprensione dell’essere rispetto all’Ente. Una domanda sorge quindi
spontanea: come va intesa l’originaria comprensione dell’Essere rispetto
all'Ente, che è ciò che rende possibile ogni comportamento all’Ente (e quindi
l’originaria pre-comprensione)? Questo interrogativo assume un’importanza
fondamentale dal momento che se la disposizione d’animo dipende da un modo di
riferirsi all’Ente ed è un ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente, allora con la
risposta all’interrogativo sull’essenza di una qualsiasi pre-comprensione, che
è ciò che consente qualsiasi comportamento all’Ente, dobbiamo necessariamente
ottenere anche lo scioglimento della questione dell’essenza della disposizione
d’animo e dunque dell’origine pre-ontologica della svelatezza rispetto all’Ente.
! 270! Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere è sempre verità
dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dall’Ente è sempre tale del
suo Essere; per questo motivo né l’Essere né l’Ente sono separabili l’uno
dall’altro in quanto l’Ente può manifestarsi tale solo grazie al manifestarsi
dell’Essere e viceversa. Questo legame intrinseco tra unità (dell’essere) e
molteplicità (dell’ente) può essere concepito solo come processo, come atto e
per questo come realizzarsi dell’unità attraverso la congiunzione e la
separazione. Tale atto inteso come fondamento della svelatezza è la differenza
ontologica, laddove essa non si determina precedentemente o successivamente al
manifestarsi di un qualsiasi atto ma bensì nel suo compimento. Heidegger dichiara
che “la così definita e necessaria sdoppiata essenza ontico-ontologica della
verità è possibile solo in unione con l’affermarsi di tale distinzione”. Da ciò
si evince innanzitutto che il fondamento della svelatezza si presenta come atto
e poi che Heidegger definisce tale atto come Logos, come leghein in senso più
ampio, poiché afferma, facendo riferimento alla pre-comprensione originaria
dell’Essere dell’Ente, che esso è “tutto l’agire come processo illuminante
della comprensione dell’Essere in senso ampio”. Il fondamento della svelatezza,
che dunque rende possibile ogni comportamento all’Ente (verità pre-ontologica
che è così fondamento della verità ontica e ontologica e disposizione d’animo
laddove essa è intesa come ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente) è Logos ma non
inteso in senso tradizionale come atto del pensiero che si deve necessariamente
basare su un’originaria semplice-presenza dell’Ente; nemmeno come definizione
di una verità logica che deriva da un’indagine del pensiero come oggetto, bensì
come processo del ricongiungere e del separare, processo del distinguere come
un venire-alla-luce. Il manifestarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro
affonda dunque le proprie radici in un qualsiasi atto originario. Il fondamento
della verità può essere realmente inteso come “svelatezza” e tale termine
mantiene il suo significato metafisico e logico e si contrappone a una
concezione della verità (“come equivalenza”), il cui fondamento è un qualcosa
di imminente e oggettuale. Come si pone questa concezione rispetto alla
precedente convinzione secondo cui la svelatezza dell’Essere dall’Ente trovava
origine nella disposizione d’animo e come si collega ciò alla differenza
ontologica? Abbiamo osservato come la differenza ontologica quale fondamento
della svelatezza dell’Essere ! 271! rispetto all’Ente non sia che
trascendenza: ma cosa dobbiamo intendere qui con trascendenza? Se si verifica
lo svelarsi di un qualcosa in seguito a un processo, a un atto del distinguere,
tra la differenza ontologica dell’Essere e dell’Ente, l'essenza di un qualsiasi
atto deve essere necessariamente trascendenza in quanto in esso prevale già ciò
che si svela. Per questa ragione anche una qualsiasi trascendenza è in origine
fondazione e fondamento di tutto l’apparire che non può essere considerato
separatamente da esso ma che è bensì ciò che lo rende possibile. L’atto della
differenza ontologica, che a seconda della sua essenza porta l’Ente alla
svelatezza, è svelatezza di una molteplicità (dell’ente) contenuta in un’unità,
in un mondo, in un ordine, in un cosmo. L’Esserci trascende, ovvero è
nell’essenza del suo Essere di formare il mondo. Il mondo, come sottolinea
Heidegger, non è dunque inteso come totalità degli Enti esistenti, ai quali tra
l’altro appartiene anche l’Esserci, ma bensì come la totalità degli Enti in cui
e per cui anche l’Esserci è comprensibile. Dal momento che se ciò che si
manifesta non precede o segue immediatamente un atto originario allora una
qualsiasi svelatezza non risulterà altro che quella dell’atto stesso. Ciò
permette di comprendere lo stretto legame esistente tra trascendenza e
disposizione d’animo. Trascendere ovvero Esserci in senso metafisico è così
fondamentalmente un Essere-nel-mezzo-dell’Ente e dunque trovarsi. Da ciò ne
deriva che l’Esserci stesso nella sua essenza e attraverso la totalità degli
Enti ad esso appartenenti è un Essere mediato dalla disposizione d’animo.
L’Esserci si afferma così realmente nell’Ente in questo modo, laddove si
realizza il secondo modo del fondamento. Con disposizione d’animo non va inteso
qualcosa che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa
che presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato
ma bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo.
Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per
mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-essere, e dunque ad essa
appartiene insieme alla trascendenza e la disposizione d’animo anche il perché,
terzo modo del fondamento della svelatezza così come lo definisce Heidegger.
Dunque nell'ottica di un'interpretazione della differenza ontologica come
processo o atto originario, unitario che si compie da sé ne deriva la
comprensione ! 272! della necessità dei tre modi nei quali è insito il
fondamento, e della definizione heideggeriana di verità come svelatezza. La
possibilità dell’errore e la definizione di logos come processo assoluto, pp.
110-111. L’episteme come doxa alethes. Da un’approfondita critica
dell’oggettivismo naturalistico si è approdati a una prima definizione di
leghein in cui compare l’Essere. Nella necessità di una definizione ossia di
un’affermazione generale (giudicare, pensare) si è giunti al superamento del
relativismo e attraverso di essa a una prima comparsa dell’Essere. Tuttavia ciò
non risolve né il problema teoretico del Logos né la questione interpretativa
del testo di Platone. Come dobbiamo considerare dunque nel dettaglio questo
atto inteso come pensiero, come giudizio? E come lo definisce Platone? Ma
soprattutto com’è da considerare una qualsiasi necessità? Come una ricerca di
soddisfacimento al di fuori di essa stessa? È dunque il pensiero solo una forma
esteriore per impossessarsi dell’Essere come suo contenuto e la verità il
risultato dell’equivalenza del pensiero con un Essere ad esso esteriore? Questa
è la questione che partendo da un punto di vista storico e sistematico dovrebbe
portare con la sua risoluzione ad un’ulteriore interpretazione del pensiero di
Platone. Che l’anima abbia un’originaria aspirazione all’Essere che riesce ad
appagare unicamente aspirando per essa stessa all’Essere, non definisce ancora
modi e modalità di alcun processo. Platone dimostra come un atto, un processo
del leghein, che si fonda su un qualcosa di oggettivo, non riesca a spiegare il
fenomeno dell’errore. Fondamentalmente l’errore è strettamente connesso alla
verità; poiché la necessità di affermazione del generale si rivela in modo tale
da rendere la tesi relativistica erronea. L’indagine filosofica così come dovrebbe
essere interpretato il processo, l’atto del leghein, si cela, come vedremo,
dietro il quesito se un fondamento oggettuale del leghein possa spiegare o meno
l’errore. La risposta a questo interrogativo la troviamo nel Teeteto: il
processo del leghein è completo? Ha una fondamento oggettuale? Abbiamo visto
l’Essere ergersi a leghein in una condizione di necessità: leghein significa
essenzialmente portare qualcosa alla sua unità e ciò viene a compiersi in una
condizione di necessità del pensiero e del giudizio. Si tratta quindi di un
rigetto dell’estetica e del presentarsi di un nuovo ! 273! fondamentale
processo. Considerare qualcosa per qualcos’altro sulla base del giudizio, del
pensiero è ciò che il filosofo greco distingueva dall’apparizione immediata e
che dunque deve essere oggetto dell’indagine filosofica. Questa è la ragione
per cui la doxa diventa l’oggetto per Teetèto. Ma a quali doxa, a quale
pensiero ci si riferisce qui? Abbiamo dimostrato in precedenza come la stessa
teoria relativistica sia già un pensiero, un’affermazione generale: dunque
questo nuovo fenomeno è il pensiero. Ma dal momento che non tutti i pensieri
sono veri solo per il fatto di essere tali, la doxa dunque può essere sia falsa
che veritiera. La doxa può essere identificata genericamente con il pensiero ma
non ancora necessariamente veritiero: da ciò ne deriva che il significato
generale di doxa come pensiero non è che quello di un’opinione e non di una
conoscenza motivata, non un pensiero che abbia in sé la garanzia della verità.
Da qui nasce la necessità, dopo aver dimostrato che non si tratta di estetica o
fantasia, di riconoscere una nuova definizione di episteme come “opinione
vera”. “Di’ ancora una volta cos’è la conoscenza. Dire che tutte le doxai, le
opinioni lo siano non è possibile, o Socrate, in quanto ve ne sono anche di
false. Di sicuro però l’opinione vera è conoscenza”. Il problema della lingua e
il suo significato ontologico, pp. 179-189. Legame tra ricerca del fondamento
del manifestarsi e quella del fondamento delle parole e dell’arte. In
precedenza abbiamo definito il fondamento dell’apparire di un qualcosa come
tale un atto o processo del leghein, il cui carattere resta però ancora
piuttosto generico: con esso andrebbe inteso unicamente il congiungere, il riunire,
il circoscrivere attraverso cui un qualcosa può manifestarsi come tale. Abbiamo
elaborato questa tesi in relazione alla concezione heideggeriana della
differenza ontologica intesa come atto del trascendere, origine dei tre modi
del fondare, “Logos in senso più ampio”. Alla luce di ciò abbiamo rigettato
un’interpretazione illogica del fondamento della verità facendo riferimento
alla disposizione d’animo. Quest’ultima non è da intendersi però come un
qualcosa di pre-logico che precede un qualunque processo quale fondamento
originario del rivelarsi di un qualcosa: ciò conferma anche l’interpretazione
dell’affettività. Quando abbiamo però definito la disposizione d’animo come
momento logico in senso ampio non era stato detto ancora nulla circa !
274! il suo rapporto con il Logos inteso come pensiero: non sapevamo
ancora come definire il fondamento del manifestarsi. Solo attraverso
l’interpretazione del pensiero di Teeteto e la discussione su quei problemi
sistematici in esso contenuti siamo giunti a un’ulteriore definizione del Logos
come necessità originaria, che si autoimpone, di affermazione del generale e
dunque del giudicare, del pensare. Il processo dell’originario del leghein
assume così un primo e determinante significato. Diversamente da quanto si ritrova
nel pensiero di Heidegger, esso non è inteso qui come ricongiungere, radunare,
riunire ossia riportare a quell’unità originaria nella quale l’Ente può
apparire come tale, in senso generale, ma bensì come un ben determinato
ricongiungere e riunire: quello del pensiero che si manifesta nella necessità
di affermazione del generale. Come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità
di affermazione del generale si manifesta per la prima volta l’Essere, ciò che
esiste. Il fondamento del manifestarsi è stato da noi riconosciuto nella
parola, nella lingua come un lasciar apparire metafisico di un qualcosa
attraverso il legame con la necessità di affermazione del generale. Questa
necessità originaria si manifesta in una ben determinata forma di
problematicità dell’Ente ogni qualvolta non si sa come intendere una
determinata cosa. Dell’origine di tale atto, dell’impossibilità di dedurlo dal
pensato, così come è inteso da Hegel, abbiamo già discusso nel capitolo
precedente, riassumendo a tal proposito la critica di Gentile al pensiero del
filosofo tedesco. Per quanto riguarda il pensiero di Heidegger, va sottolineato
che fino a quando non riusciremo a stabilire se egli ha assegnato all'atto
della trascendenza (intesa come “Logos in senso ampio) una determinata forma (quella
del pensiero pensante) o se ha lasciato la questione irrisolta, anche la nostra
interpretazione non potrà essere completa. Se però Heidegger nei suoi scritti
avesse in qualche modo iniziato un’implicita dissertazione sulle diverse forme
di svelatezza, senza fattivamente distinguerle, ad esempio in “Hölderlin e
l’essenza della poesia” in cui egli parla della funzione della parola poetica
nel suo carattere di manifestazione, questa non dovrebbe essere assolutamente
trascurata. Tale questione non può essere discussa se prima non si definisce il
carattere fondante della svelatezza. Ci troviamo così di fronte ad un
interrogativo rilevante: il processo originario che si manifesta nella
necessità di affermazione del generale è l’unica forma della svelatezza?
Dobbiamo attribuire al Logos, ! 275! alla parola, alla lingua unicamente
la necessità di affermazione del generale? A questo punto è necessario far
notare che in nessun caso le forme della svelatezza posso essere classificate
sulla base di ciò che appare per mezzo del pensiero pensante. Questo perché nel
momento in cui dovesse emergere una distinzione nelle forme della svelatezza
ciò dovrebbe essere presentato mostrando che oltre alla necessità di
affermazione del generale esistono altre forme del fondamento originario del
manifestarsi e dunque dell’interrogarsi, dell’aspirare all’Ente. Dobbiamo
quindi chiederci se il leghein si impone a noi solo come pensiero pensante e
dunque necessità di affermazione del generale o anche sotto altre forme: ovvero
se la parola, il Logos abbiano solo un significato “logico”. È evidente come un
tale problema si ponga solo se, come nel nostro caso, in precedenza si è
definita in maniera chiara una prima manifestazione della forma del Logos ad
esempio come necessità di affermazione del generale. Ma come possiamo
sviluppare tutti questi differenti quesiti in maniera unitaria ricollegandoli
alla precedente indagine? È necessario chiarire tutte le questioni che si
presentano anche attraverso la presa di posizione di Heidegger chiedendoci se
il Logos come necessità di affermazione del generale costituisca l’essenza
delle parole o se esso si manifesti anche sotto altre forme. Per determinare
l’essenza delle parole dovremmo innanzitutto capire se nel discutere di ciò
Heidegger fosse consapevole del problema; in questo modo potremo determinare
definitivamente la nostra interpretazione del pensiero di Heidegger e la nostra
posizione in merito. Successivamente andremo a verificare le tesi proposte
nella Fenomenologia di Hegel, che si celano in maniera particolare dietro gli
assunti del Teeteto, per discutere del legame tra il problema della parola e il
problema dell’arte. Va notato come la questione se la parola abbia o meno
solamente un significato logico è l’essenza della seconda corrente critica di
Hegel in Italia la quale lega strettamente tale questione con l’interrogativo
se la parola ad esempio in poesia non abbia una propria forma del manifestarsi
dell’Ente. Nella discussione e nel tentativo di risolvere la questione, nella
contrapposizione al pensiero di Hegel, si ritorna di nuovo in Italia al piano
ontologico. Questo dal momento che se la parola, la poesia e dunque l’arte
hanno un proprio manifestarsi dell’Ente rispetto alla parola così come per la
filosofia quale necessità di affermazione del generale ciò ha un doppio !
276! significato: innanzitutto che tra l’arte come forma del manifestarsi
dell’Ente e la filosofia, contrariamente a quanto afferma Hegel, non vi è
alcuna relazione dialettica. Su questa scia la filosofia italiana si oppone
alla caratteristica tesi heideggeriana sulla morte dell’arte nell’era della
filosofia in quanto tale tesi sarebbe espressione della relazione dialettica
tra arte e filosofia laddove l’arte appare come un momento che va scomparendo e
che si conserva nella filosofia. La seconda cosa che emerge è che questo
quesito non è una domanda di estetica ma bensì una metafisica, ontologica in
quanto essa rappresenta il rifiuto della concezione dialettica del fondamento
del manifestarsi dell’Ente: dunque un quesito molto importante. Il problema
ontologico della lingua in Heidegger. Sulla base di una precisa interpretazione
dello scritto heideggeriano “Hölderlin e l’essenza della poesia” andremo a
discutere dell’imporsi del problema della forma del manifestarsi. La domanda se
il Logos come parola, come lingua debba essere inteso solo come unione così
com’è nel pensiero, si pone in questo scritto congiuntamente al problema del
fondamento del manifestarsi dall’Ente. Heidegger afferma: “La lingua per prima
accoglie la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dall’Ente”;
“Solo dove vi è lingua vi è mondo”. Poi ancora aggiunge: “La lingua ha il
compito di permettere all’Ente di manifestarsi come tale nell’opera e di
custodirlo”. Come dobbiamo intendere ciò? Alla parola deve essere attribuita
unicamente la determinazione dell’espressione del generale? Già nello scritto
“Dell’Essenza del fondamento” Heidegger aveva identificato il manifestarsi
dell’Ente come differenza ontologica e dunque trascendenza. È dunque la
differenza ontologica essenzialmente parola e l’essenza della parola
nient’altro che il manifestarsi della verità? Se la parola, la lingua, così
come inteso da Heidegger, sono strettamente legate alla poesia, dobbiamo dunque
ritenere che l'essenza della poesia sia solo verità? E di che verità si tratta?
Quella “logica”? Appare evidente che solo sollevando queste questioni nello
sviluppo del nostro problema nel tentativo di definire il Logos potremmo
prendere una posizione rispetto a quanto asserito da Heidegger. Per questo è
innanzitutto necessario capire se l'intera questione della lingua è stata
spostata da Heidegger su un piano ontologico. Considereremo il suo scritto
proprio da questo punto ! 277! di vista. Dal momento che la discussione
heideggeriana sull’essenza della poesia si sviluppa come interpretazione di un
poeta, in un primo momento la questione appare essere considerata da un punto
di vista che è al di fuori da qualsiasi piano metafisico e ontologico. Che
l’ambito non sia estetico o storico-letterario ma principalmente metafisico si
evince però dalla scelta dei versi di Hölderlin che Heidegger pone alla base
della sua interpretazione. Le posizioni di Hölderlin a cui Heidegger fa
riferimento considerano l’essenza della lingua in congiunzione con l’essenza
dell’uomo. Nella sua interpretazione Heidegger afferma che l’uomo nella sua
essenza “è colui il quale deve dimostrare ciò che è. Con questa affermazione
non si vuole qui intendere un’espressione supplementare e a sé stante di
umanità ma bensì la determinazione dell’Esserci dell'uomo”. Cosa deve
testimoniare l’uomo? “La sua appartenenza alla terra”. Anche questa asserzione
risulta difficile da comprendere in quanto nella nostra comune concezione di
uomo la sua appartenenza alla terra è l’unica cosa che non deve essere
dimostrata dal momento che non dipende dall’uomo stesso. Appare dunque
inspiegabile come essa possa essere considerata un suo compito, un’attività da
compiere che si impone costantemente all’uomo, e come essa si leghi alla questione
della parola. Da ciò si evince però un punto fondamentale: se per Heidegger
l’uomo è tale solo in quanto lo testimonia, ciò significa che la sua essenza
non si manifesta nella semplice-presenza ma bensì in un atto da compiere e
realizzarsi. Tale atto viene definito da Hördelin come testimonianza
“dell’intimità” con la terra. Secondo Heidegger con il termine di Hörderlin
“intimità” è da intendersi ciò che pone in conflitto e allo stesso tempo
riunisce le cose. La “testimonianza dell’appartenenza a tale intimità avviene
attraverso la creazione di un mondo [...] la testimonianza dell’essere uomo e
dunque il suo compimento avviene attraverso la libertà della decisione. Questa
coglie il necessario e si lega ad un ordine superiore”. Come dobbiamo però
intendere l’asserzione secondo la quale l’uomo crea il mondo e in che modo
questa creazione ha a che fare con la poesia, la parola e la sua essenza?
Heidegger afferma che “l’essenza dell’uomo, il suo vissuto è comprensibile solo
come storia e che la storia è possibile solo attraverso la parola.” In ciò
ritroviamo una possibile interpretazione della concezione heideggeriana di una
qualsiasi creazione del mondo in cui vi sia l’essenza dell’uomo (creare che si
lega alla parola). Il ! 278! mondo che appartiene all’uomo è solo il
mondo della parola dal momento che effettivamente si evince che l’uomo si
appropria della realtà esistente così come percepita considerandola il proprio
mondo solo attraverso il “denominarlo”: solo il “mondo denominato” è il suo
mondo, il suo cosmo. Questa appropriazione rappresenta la storia del formarsi
dell’uomo. Interpretare in questa maniera il pensiero di Heidegger sarebbe
sbagliato in quanto come egli stesso afferma che la lingua non ha il compito di
denominare qualcosa che è già esistente per creare un mondo supplementare del
significato, ma bensì è nella parola stessa che si rivela per la prima volta
l’Ente e lo fa solo nella parola. “La lingua non è solo uno strumento che
l’uomo possiede insieme a tanti altri ma bensì la lingua concede innanzitutto
la possibilità di stare nel mezzo del manifestarsi dall’Ente. Solo dove c’è
lingua può esserci mondo”. “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di
manifestarsi nell’opera e di conservarlo tale”. In questo modo la parola
acquisisce un nuovo e determinato significato: essa non è più la parola
pronunciata, il mondo che esprime la fonetica e che ha molte altre possibilità
di espressione ma bensì parola significa qui prima manifestazione dell’Ente:
parola, Logos come fantasia, come apparizione nel senso più originario del
termine. Heidegger aggiunge poi: “La poesia è fondazione attraverso la parola e
nella parola”. Ma cosa significa qui fondazione? Se provassimo a tradurlo in
termini filosofici (termini legati a una determinata problematica teoretico-conoscitiva
e proprio per questo qui evitati da Heidegger) significherebbe qualcosa che non
presuppone l’esperienza, la percezione e che non può essere dedotta da essa a
posteriori ma bensì a priori. Attraverso il denominare dei poeti “l’Ente viene
per la prima volta chiamato e conosciuto come tale [...] ma dato che l’Essere
così come l’essenza delle cose non può essere mai né determinato né dedotto dal
presente, essi devono essere creati liberamente, fissati e donati. Tale libera
donazione è fondazione”. Da ciò si evince che se la poesia fonda l’originaria
manifestazione dell’Ente in essa l’uomo raggiunge il proprio fondamento. Così
come afferma Heidegger: “Il dire dei poeti è fondazione non solo intesa come
libera donazione ma bensì anche come solida istituzione dell’Esserci umano sul
suo fondamento”. La definitiva determinazione dell’essenza della poesia è da
intendersi come ciò che si realizza nella parola, nella lingua nel discorrere,
nel parlare, nell’ascoltarsi e nel comprendersi: il discorrere è possibile però
solo ! 279! sulla base di un qualcosa di condiviso, attraverso il quale
possiamo comprenderci poiché altrimenti ognuno resterebbe bloccato nella
propria lingua, nel proprio mondo. Ogni parola fondamentale manifesta, come
afferma Heidegger, l’uno e lo stesso, qualcosa di duraturo ed esistente e
dunque sempre presente. In questo modo però la lingua si manifesta solo
nell’ambito del tempo. Se però solo in poesia la manifestazione dell’Ente si
realizza originariamente nella parola per poter definire l’intera problematica
dell’essenza della poesia è necessario sottolineare che non è quest’ultima che
deve essere separata dalla parola, dalla lingua ma bensì al contrario l'essenza
della lingua, della parola, dalla poesia: solo così la poesia ottiene il suo
primo centrale significato ontologico. Le nostre riflessioni ci portano a
riconoscere quanto segue: la parola, la lingua, la poesia mantengono negli
scritti di Heidegger una determinazione ontologica ma tuttavia non vi
ritroviamo in essi né una definizione della caratteristica della poesia né
argomentazioni in merito al fatto che ad essa spetti o meno una manifestazione
particolare. La differenza ontologica in sé è valida per qualsiasi
manifestarsi: non vi è però discussione in Heidegger su un problema
determinante ovvero se e come ad esempio il manifestarsi nella sua forma logica
e dunque nella necessità di affermazione del generale così come nel Teeteto, si
differenzi dalla forma poetica del manifestarsi. Ciò è tuttavia di fondamentale
importanza quando si parla di essenza della poesia così come fa Heidegger nel
suo sopracitato scritto. Solo attraverso la risposta a questa domanda la poesia
potrà acquisire una propria forma e necessità e dunque una propria definizione.
Ciò appare evidente nel momento in cui confrontiamo le due opere “Dell’Essenza
del fondamento” e “Hölderlin e l’essenza della poesia”. Nella prima si tratta
essenzialmente della definizione di fondamento della verità ontologica (del
Logos), laddove la differenza ontologica viene intesa come Logos in senso
ampio. Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere “è sempre verità
dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dell’Ente e sempre in un
certo senso anche quella dell’Essere” (“Dell’Essenza del fondamento” pag. 78),
per cui il fondamento della svelatezza si trova nell'atto come differenza
ontologica laddove esso è tutto l’agire come processo illuminante della
comprensione dell’Essere, del Logos in senso ampio” (pag.77). Questo svelamento
si realizza solo per via di tale originario atto del distinguere, così che la !
280! sua essenza sia trascendenza e fondazione (pag. 102) e dunque
fondamento di tutto l’apparire che non può essere dedotto da esso ma che bensì
lo rende possibile (pag. 81). In questo modo, come abbiamo già fatto notare in
precedenza, resta però aperta la questione relativa all’ultimo significato di
un qualsiasi atto. Per questo motivo nella nostra indagine abbiamo anche
sciolto la questione heideggeriana giungendo autonomamente a una definizione il
più veritiera possibile di un qualunque processo sulla base del pensiero di
Teeteto. Nella sua ricerca sulla poesia Heidegger attribuisce dunque alle
parole la manifestazione dell’Essere. Ci è consentito quindi riferirci a questa
identità delle definizioni che egli attribuisce alla parola così come accade in
poesia e nella differenza ontologica. Egli afferma che la lingua “innanzitutto
consente la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dell’Ente”
(pag.7) e che la poesia “è fondazione attraverso la parola e nella parola”
(“Hölderlin e l'essenza della poesia” pag. 8-10). Così come per la differenza
ontologica (origine dei tre modi del fondamento) anche per la poesia si afferma
qui che “essa è nella sua essenza fondazione e dunque istituzione determinata”
(pag.14). Heidegger afferma ancora che: “Solo dove vi è lingua vi è mondo”
(pag.7) e ciò è possibile attraverso la parola, attraverso il denominare l’Ente
come “Ente così conosciuto” (pag. 11). Se dunque la differenza ontologica nella
sua essenza è comprensione illuminante dell’Essere (“Dell’Essenza del
fondamento”, pag.77), fondazione “di un qualunque Ente il quale è svelato
all’Esserci e dunque possibile” (pag.81), e se in conclusione l’atto della
differenza ontologica (il quale svela la sua essenza nell’Ente) “ è nella sua
essenza creatore di mondo” (pag.98) qual è la differenza tra fondazione, mondo,
manifestazione dell'Ente (che è proprio della differenza ontologica come
fondamento della verità ontologica nella sua generica concezione esistenziale)
e poesia come determinato modo di esistere e di manifestarsi? Non vi è forse
alcuna differenza? Fin qui siamo stati autorizzati nella determinazione della
verità ontologica a limitarci alla definizione di Logos in senso ampio. Ora
appare però necessario per poter attribuire alla poesia un significato
ontologico trarre la sua definizione da quella verità ontologica generale
lasciata irrisolta da Heidegger: solo allora potrà essere chiarito anche il
significato di fondazione, mondo, istituzione, manifestazione. Tale problema
relativo alle forme della realtà si è manifestato nel corso della nostra !
281! indagine laddove siamo stati costretti a decidere se attribuire o
meno alla parola solo il significato dell’asserzione generale o anche altri.
Gli equivoci che sono venuti fuori nell’interpretazione dei concetti
heideggeriano di affettività, disposizione d’animo, Essere-nel-mondo e così via
sono dovuti in parte al fatto che la determinazione della realtà come
svelatezza non deriva da una considerazione generale antioggettivistica del
fondamento del manifestarsi. Non troviamo in Heidegger il problema delle
diverse forme della svelatezza nonostante il fatto che egli discuta
dell’essenza della poesia. Questo problema sorge solo nel momento in cui si
attribuisce alla svelatezza una determinata forma poiché solo in quel momento
ci si chiede se questa è l’unica o se ve siano di altre. Già con la definizione
di verità come processo del leghein che nell’asserzione del generale si impone
come pensiero pensante, si realizza il presupposto per sollevare la questione
circa le forme. Con questa affermazione non ci vogliamo porre in maniera
critica nei confronti del pensiero di Heidegger ma solo sottolineare la
necessità che la discussione nelle sue affermazioni tenga conto anche di tali
questioni. Il problema delle forme del Logos, pp. 204-209. Sulla scia del
pensiero filosofico italiano, che prende le mosse da De Sanctis, come si evince
anche in Heidegger, abbiamo attribuito alla parola un significato
essenzialmente metafisico ovvero come manifestazione dell’Ente. Non dobbiamo
però dimenticare che già nel pensiero filosofico italiano contemporaneo, che si
oppone alla visione di Croce, Gentile nega l’esistenza di diverse forme del
manifestarsi poiché ne riconosce una sola: quella del pensiero pensante. Egli
afferma che tutto ciò che può essere definito, differenziato, circoscritto
attraverso l’atto del pensiero, a cui egli attribuisce un significato
ontologico originario, dunque appare. Se ammettessimo diverse forme del
manifestarsi senza riconoscerne la loro unità d’appartenenza ci ritroveremmo
con un insieme di forme diverse considerabili unicamente da un punto di vista
empiristico. Una differenziazione è possibile solo sulla base di un atto
originario nel quale e per mezzo del quale la distinzione appaia come atto del
pensiero. Dimostrazione di ciò è che ad esempio il processo nel quale l’Ente si
rivela all’artista coincide con quello dell’esistere dal momento che per egli
la realtà è ciò che gli si manifesta. Unicamente nel ! 282! momento in
cui egli esce dalla sfera artistica e fa di un qualsiasi mondo l’oggetto del
giudizio solo allora la realtà gli apparirà come un qualcosa di ottenuto, di
soggettivo, come arte e non realtà. “Questa stessa irrealtà e idealità
(dell’arte) diviene realtà viva e presente se la si considera così come la
fantasia la proietta...questa è dunque la realtà che vaga nella fantasia
dell’artista, la realtà assoluta che non può essere separata da quella a cui si
fa riferimento nella vita pratica. Per cui tale è per l’artista, fin tanto che
si tratta di un artista, la vita stessa”. Secondo Gentile l’arte si cela dietro
il sentimento, il soggettivo, è un momento ideale che si ripropone sempre del
pensiero pensante. Non possiamo però approfondire la questione. L’argomentazione
principale con la quale Gentile nega l’esistenza di diverse forme del
manifestarsi è che esse possono essere determinate solo attraverso un atto che
le riunisca: il pensiero pensante. Gentile giunge a tale conclusione
opponendosi al pensiero di Hegel. È innegabile che ogni distinzione sia
possibile unicamente sulla base di un atto nel quale la molteplicità appaia
come una e ben determinata. Va sottolineato che questa conclusione è anche il
senso fondamentale dell’assunto heideggeriano secondo cui il processo del
manifestarsi affonda le sue radici nell’atto, nella differenza ontologica la
cui forma non può essere predeterminata. Allo stesso modo abbiamo poi ritrovato
queste concezioni nella filosofia antica che per prima ha sollevato la questione
metafisica analizzando nel dettaglio il pensiero di Teeteto. Il problema
dell’Essere dell’Ente si ricollegava allora espressamente a quello dell’unità e
della molteplicità. È stato dimostrato che se si considera l’unità
separatamente dalla molteplicità non sarà possibile spiegare l’affermarsi, il
rivelarsi della molteplicità. Abbiamo chiarito che l’unità, come fondamento
dell’apparire, è un processo che si compie da sé, un atto che nel momento in
cui è ben circoscritto non ammette l’errore. Il fondamento della svelatezza
(ciò che Heidegger definisce differenza ontologica) affonda le sue radici, così
come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale.
Laddove la svelatezza dell’Essere viene intesa come conoscenza e questa conoscenza
come pensiero vero dante fondazione. Alla verità dell’Essere, così come Platone
la identifica con il Logos, appartiene essenzialmente la svelatezza del proprio
fondamento. Questa avviene nella trascendenza filosofica, nella conoscenza
dell'essere come conoscenza del proprio fondamento: ! 283! l’ineluttabile
necessità di affermazione del generale. Da questo generale e dalla conoscenza
che ne deriva non è stata ancora mai creata poesia. Nella conoscenza del
fondamento c’è l’essenza dell’atto filosofico. Questa conoscenza riguarda anche
la creazione dell’arte ma da essa non deriva alcun tipo di arte: questa
conoscenza del fondamento non appartiene all’arte in quanto tale tantomeno si
riscontra in essa un inizio di ciò. Questa necessità, che ci costringe alla
conoscenza del fondamento e quindi alla conoscenza come asserzione generale, è
fondamentalmente un qualcosa di diverso da una qualsiasi necessità che spinge
l’artista alla creazione della sua opera. Con l’affermazione di Gentile secondo
cui qualsiasi differenziazione si fonda nell’atto del pensiero non si va ancora
a toccare il nocciolo della questione che ci riguarda. Il problema delle
diverse forme del manifestarsi può essere sollevato o negato solo se non ci si
limita a considerare ogni distinzione come atto del pensiero: se ogni
differenziazione si realizza per mezzo di un atto, il quale per via della sua
origine non può essere né dedotto né motivato (dal momento che esso stesso è il
presupposto di ogni motivazione, domanda o risposta), allora dobbiamo chiederci
se la necessità nella quale si manifesta l’Essere logico come aspirazione
all’affermazione del generale è la stessa necessità per la quale ad esempio si
compie la differenziazione poetica. Ogni atto come fondamento del manifestarsi
di qualcosa è necessariamente fondazione, trascendenza e dunque possibilità di
apparire di una molteplicità, di una differenziazione che non presuppone
l’atto; attraverso ogni atto ci troviamo in una molteplicità ordinata, in un
mondo (Essere-nel-mondo); in ogni atto c’è la manifestazione di un qualcosa
nella forma dell’aspirare, del domandarsi. Si ottiene dunque attraverso il
dubbio, dalla necessità di affermazione del generale una differenziazione
poetica? Si raggiunge il suo mondo? Il poeta “si trova” in un mondo delle
differenze e delle determinazioni che è identico a quel mondo che deriva dal
pensiero? Abbiamo definito l’Essere che si manifesta nel pensiero pensante
essenzialmente come necessità di affermazione del generale. Da ciò possiamo
dedurre che la questione circa la molteplicità delle forme del manifestarsi non
può essere sollevata o risolta se si afferma che ogni differenziazione non è
altro che la realizzazione di un atto del pensiero ma bensì solo domandandosi
se la differenziazione poetica, la determinazione siano da ricondurre alla
necessità di affermazione del generale. Rispetto a che cosa ! 284! misura
il poeta la parola, l'espressione? Non da qualcosa che è all’esterno altrimenti
come sarebbe possibile farlo da un oggetto? Ma bensì da ciò che in esso si
manifesta. Da ciò che è in sé confrontare, scegliere, differenziare, decidere
ed è possibile solo sulla base di una necessità, attraverso la quale il poeta
capisce se l’espressione è adeguata o meno. Solo ciò che è necessario, fisso ed
esistente può essere misurato. Questa necessità che si cela nell’oggetto
poetico si manifesta nell’immediatezza dell’originario, del primo che per
questo deve essere sempre qualcosa di istantaneo e per questo essa si rivela in
un attimo presente e unico. Solo grazie all’attimo, al presente il poeta vede
ciò che è già e ciò che ancora non è. Nell’attimo si schiude la temporalità che
è sempre temporalità di un determinato manifestarsi. Per tale motivo il
processo poetico e il suo paragonare “interiore” per poter trovare l’adeguato
vocabolo poetico non deve essere considerato come “interiorità” psicologica e
romantica ma bensì come qualcosa in cui si realizza una determinata forma di
manifestazione nella quale all’arte, al bello spetta un significato ontologico.
Anche l’uomo pensante non misura la verità delle proprie definizioni da
qualcosa che si trova al di fuori della necessità di affermazione del generale
dato che l’Essere logico è e appare solo in una qualsiasi necessità. Il
pensiero vero è solamente quello che riesce a resistere a qualsiasi necessità e
mai fugge da essa poiché ricorre a una determinazione che in sé non può
giustificarla. In ciò consiste il profondo carattere etico che ogni verità
possiede. Già il riconoscere di non sapere è una risposta all’originaria necessità.
Allo stesso modo in cui l'uomo pensante guarda solo a una qualsiasi necessità
che possa fargli riconoscere la verità della propria determinazione, verità che
si cela con la forza attraverso la quale la necessità si manifesta, così il
poeta paragona e sceglie la parola poetica non paragonandola all’Ente esteriore
ma bensì alla necessità che si manifesta in esso: questo non è però mai un
momento di conoscenza del fondamento. Solo rispondendo alla domanda che ci
siamo posti sulle forme della necessità, sulla base della quale può essere
distinta una molteplicità, si evince, contrariamente a quanto affermato da
Heidegger, che i tre modi del fondamento che egli ha indicato come motivo del
manifestarsi, fondazione (trascendenza), Essere-nel-mondo (affettività) e
possibilità del perché, solo in questo contesto possano essere definiti
chiaramente. È importante precisare che attraverso il carattere originario e !
285! immediato della necessità dell’Essere dall’Ente, il problema delle
forme dell’Essere si cela dietro quello dei diversi attimi per l’ambiguità
della parola tedesca Augenblick che può essere intesa sia come visione e dunque
manifestazione dell’Ente sia come espressione temporale di attimo, momento.
Infatti l’Essere oggetto della nostra indagine che nel dubbio si manifesta
originariamente come necessità di espressione del generale ci offre una ben
determinata visione di svariati Enti. Questa molteplicità in quanto tale è
solamente un momento del compiersi di una qualsiasi necessità. Da ciò si evince
anche un ben determinato arco temporale: poiché sulla base dell'imporsi di una
qualunque necessità si manifesta un determinato “prima” e “dopo”, una visuale
di ciò che vediamo “già” e di ciò che non vediamo “ancora”, un passato e un
futuro. Saggi: “Il problema della metafisica platonica” (Bari, Laterza); “Dell’apparire
e dell’essere”; “Linee della filosofia” (Firenze, Nuova Italia);“Viaggiare ed
errare -- un confronto” (Napoli, Sole);“Arte e Mito” (Napoli, Sole);“Arte come
anti-arte. – il bello nell’eta antica” (Torino, Paravia); “Potenza
dell’immagine – ri-valutazione della retorica, Milano, Guerini);“Potenza della
fantasia” – “Per una storia del pensiero occidentale, Napoli, Guida, “Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, Napoli, Sole, Heidegger e il problema
dell’Umanesimo, Napoli, Guida, Umanesimo e retorica. Il problema della follia,
Modena, Mucchi, La filosofia dell’umanesimo. un problema epocale, Napoli, Tempi
Moderni, La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart,
Novalis, Modena, Mucchi, La metafora inaudita, a cura di M. Marassi, Palermo,
Aesthetica, Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini, Filosofare noetico, non
metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte” (Lecce, Congedo, “Il dramma della
metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, Roma, L’officina tipografica, A
proposito di un Cinquantenario, in «Rassegna Nazionale», Roma; Germania, in
«Rassegna Nazionale», Roma, I giovani e il Partito Popolare Italiano, in
«Rassegna Nazionale», Roma, Il Tragico,
in «Rassegna Nazionale», Roma Scolastica e storia. A proposito di due articoli
di Saitta, in «Rassegna Nazionale», Roma Machiavelli e lo stato, in «Rassegna
nazionale», Roma La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in «Rassegna
Nazionale», Roma La filosofia dell’azione «Rivista di filosofia», Milano
Empirismo e naturalismo «Rivista di filosofia», Milano Sviluppo della
fenomenologia «Rivista di filosofia», Milano Metafisica immanente «Giornale critico della filosofia italiana»,
Milano L’equilibrio come ideale di vita «Rivista di filosofia», Milano Platonismo
«Rivista di filosofia», Milano La filosofia in eta antica in «Rivista di
filosofia», Milano La reminiscenza «Giornale critico della filosofia italiana»,
Firenze “Paideia ed umanesimo”, in «Sophia», Napoli L’eterno ritorno «Sophia»,
Napoli Logo, in «Archivio di filosofia», Roma La nulla «Giornale critico della
filosofia italiana», Firenze La tradizione speculativa in «Giornale critico
della filosofia italiana», Firenze Esistenzialismo e marxismo, in Atti del
Congresso di Filosofia (Roma), Il
materialismo storico, a cura di E. Castelli, Milano, Castellani Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, in Tradizioni della poesia
italiana contemporanea, a cura di R. Copioli, Roma, Theoria, La filosofia nella
tradizione umanistica, in Actas del primer Congreso Nacional de Filosofia, I, a
cura di L. J. Guerrero, Mendoza-Buenos Aires.Il concetto di “realismo
politico”, in Actas del primer Congreso Nacional de Filosofia, III, a cura di
L. J. Guerrero, Mendoza-Buenos Aires, Il fondamento esistenziale dell’Umanesimo,
in «Archivio di filosofia», Umanesimo e Machiavellismo, Padova Il tempo umano.
L’umanesimo contro la “techne”, in Umanesimo e scienza politica. Atti del
Congresso Internazionale di Studi Umanistici (Roma-Firenze), a cura di E.
Castelli, Milano Esperienza europea nell’ambito sud-americano. Il problema di
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Croce, in Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 631-638. D’Acunto G.,
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spazialità del linguaggio metaforico, in Studi in memoria di Ernesto Grassi,
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The Swimming-Pool Library.
Grice e
Grassi: l’implicatura conversazionale -- dove fiorisce il limone – la
giovinezza e il fascismo – parole ai giovani – al senato -- filosofia fascista – filosofia siciliana – filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Mascali). Filosofo. Grice: “I like Grassi; he wrote on Faust!”
Inizia gli studi ginnasiali presso il seminario di Acireale fino alla terza
ginnasiale, proseguendoli poi a Catania, presso il liceo "Nicola
Spedalieri". Assiduo frequentatore
della sala di lettura dell'Catania, conobbe Rapisardi, cui lo legò una profonda
stima ed affinità. Si laurea a Napoli con
“La memoria delle immagini acustica e visiva della parola in rapporto
specialmente al tempo di "fissazione", suggeritagli da Bianchi
(Rivista di Freniatria). Si trasferì a Messina dove divenne assistente di
Weiss. Comincia a provare le prime grosse delusioni per l'inconciliabile
contrasto fra le esigenze pratiche della professione, che rischiavano di
piegarlo a umilianti compromessi, e le alte aspirazioni della sua anima. Muta bruscamente indirizzo, iscrivendosi alla
facoltà di scienze naturali, conseguendo così la laurea con Mingazzini
sostenendo una tesi intorno ai pesci di Ganzirri e Faro, che poi fu pubblicata
su una rivista veneziana. Mingazzini, chiamato a Bologna, era felice di averlo
come assistente. Il suo spirito inquieto cerca altre vie ed altri sbocchi, e
così intraprese a frequentare le lezioni che si tenevano nella facoltà di
filosofia a Catania, nel Palazzo Grassi, a Via Firenze. Prrofondamente
influenzato dalle precedenti frequentazioni messinesi dove campeggiavano figure
come Pascoli, col quale strinse amicizia, Cesca, Barbi, Mancini, Ardigò, Dandolo
e Salvemini. Si laurea in filosofia presso l'ateneo catanese, con “L'unità dei
fatti psichici fondamentali” (Muglia, Muggia, Messina). Insegna a Caltagirone e
Catania. Inizia un'intensa attività che vide tra i suoi maggiori corrispondenti
Gentile eSturzocon i quali intrattenne un copioso carteggio oltre al letterato
Villaroel, Farinelli, Varisco, Majelli, Carabellese e Fassò. Fonda Prisma a cui collabora, tra gli altri,
anche M. Sgalambro. Altre saggi: “Preludi
a un commento alla vita del Faust” (Catania, Studio Moderno); “Commento alla
vita di Faust” (Torino, Bocca); “Preludi storico-attualistici alla Critica della
ragion pratica” (Catania, Crisafulli); “Medico mancato” (Catania, Legione);
“L’assoluto”, Roma, Enciclopedia Treccani); “L’assoluto” Roma, Enciclopedia De
Carlo. “Giornale critico della filosofia italiana” “Logica e metafisica”,
“Goethe in Italia”, “La musica e le idee” – “Esegesi del Fausto” “tramonto di
Occidente”; “REminiscenze e visione paesane”;
“La giovinezza e il fascismo – parole ai giovani” (Senato). “Mazzini”; “Il faust e il tramonto dell’occidente o di
una nuova corrente esegetica del Fuasto in Germania”; “Goethe in Italia”; Membro
della Fondazione GENTILE per gli Studi Filosofici. Un filosofo dall'anima di
poeta, Teoresi Rivista di cultura Filosofica. Da Herbart in poi la psicologi
concepisce una unità al fondo di tutte le manifestazioni della vita psichica; ma
visono tre modi principali di concepirla: l'intellettualismo (rappresentato
specialmente perl'appunto da Herbart), il sentimentalismo (Horwicz,Regalia), e il
volontarismo (Schopenhauer, Wundt, Fouillée ecc.). Questo terzo, è pare,
all'ultima moda. Lo vediamo informare anche il neo-idealismo, che non si
accorge di restringere ancora più la intui rione dal mondo in un piccolo
cerchio antropomorfico. G. esamina le teorie metafisiche dello spirito e le
critica tutte e tre, con Egli conclude per il monismo psicologico: ossia
contrariamente ai riduttori favorevoli all'uno o all'altro elemento fra i tre
fondamentali, si pronuncia per una unità primordiale di tutta la psiche, la
quale unità consta ad un tempo di rappresentazioni, di sentimenti e di tendenze
integrate in maniera indissolubile, ma capaci di assumere per evoluzione sempre
più chiarezza e sempre più distinzione.Cosi G. si connette a due psicologi
italiani insegnanti nello stesso ateneo patavino, ma purtanto dissimili: Bonatelli
e ARDIGÒ, due valori anche disugualmente conosciuti e apprezzati in Italia.
Un'osservazione critica. G. inserisce molte citazioni originali in tedesco, il che
-- oltre a dar luogo a gravi errori di stampa -- induce fatica inutile
nell'animo del lettore. Non si è obbligati, tutti, di sapere il tedesco,
massime quello dei filosofi e metafisici. Il Trieb, il Drang, il Lust, l’Unlust,
il Selbsterhaltung, e simili parolear restano penosamente. È upa ostentazione
di coltura erudita che a scapito della intelligibilità della lettura. Qualche
insolente potrebbe supporre che l'autore, messo di fronte ai testi, imbarazzato
di tradurre in verbo e nerbo italiani i pensieri, si levi d'impiccio col
cominciare periodi e frasi in italiano e col finirle in tedesco. No. Si citi
pure l'originale, ma in nota e nel testo si metta l'equivalente italiano. La
chiarezza non deve essere uccisa dalla pedantesca precisione. RENDA A., La dissociazione
psicologica. Torino, Bocca. La dissociazione, dice l'Autore, è un processo
normale dell'attività mentale:questa non soltanto associa, ma pur dissocia, poichè
distingabile competenza una inne non si può dire per ciò che faccia fica
italiana; tutt'altro! L'argomento, ma molto utile filoso è di cosi alta portata
che riesce in materia. Egli e stato preceduto dal Faggi opera inutile nella
letteratura guardarlo da varie parti e con occhi differenti. E poi , oltre ai
tre indirizzi principali, G. parla anche di alcuni scrittori darii, fra cui
Ward, Ebbinghaus secon giovane, Brentano, Lipps, Masci ecc. Questo scrittore ha coltura estesa anche
nel campo biologico possiamo garantire che darà altri frutii, e succosi e
forti, al, e noi pari del presente volume. Va Uu op.in. RASSEGNA DI FILOS.
“Goethe in Italia” L'opera e scritta in tre momenti successivi. L’Ur-Faust,
influenzato dalle rappresentazioni del Faust di Marlowe a cui Goethe assiste
sotto forma di teatro delle marionette. Si veda Dottor Faustper il personaggio
storico. L'Ur-Faust appartiene culturalmente alla corrente letteraria tedesca
dello Sturm und Drang e venne pubblicato, con alcune aggiunte, sotto il nome di
"Faust. Ein Fragment". Più tardi pubblica un ulteriore seguito, che
già ricade nella corrente letteraria del classicismo, "Faust. Erster
Teil" (Faust. Prima parte. Viene aggiunto il Prologo in cielo e sono
apportate modifiche significative all'Ur-Faust. Così Mefistofele appare a Faust
promettendogli di fargli vivere un attimo di piacere tale da fargli desiderare
che quell'attimo non trascorra mai. In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust
è sicuro di sé: tale è la sua brama di piacere, azione e conoscenza, che è
convinto che nulla mai al mondo lo sazierà tanto da fargli desiderare di
fermare quell'attimo. Mefistofele gli fa conoscere Margherita - detta
Margheritina e Greta - la quale si innamora perdutamente di Fausto,
inconsapevole del fatto che lo slancio (in tedesco Streben) che ispira Faust è
nient'altro che il dominio della materia e la ricerca del piacere. La sorte di
Margherita e tragica. In Faust. Zweiter Teil (Faust. Seconda parte) la scena si
allarga per celebrare l'unione tra letteratura classicistica e mondo classico. Fausto
seduce e viene sedotto da Elena di Troia. L'opera nel suo complesso risulta di
12.111 versi. Fausto. Tragedia di Volfango Goethe, Scalvini e Gazzino,
Le Monnier, Firenze; Fausto, trad. Giovita Scalvini, 2 voll., Sonzogno, Milano
1882-83 e 1905-06; come Faust, Einaudi, Torino 1953 Fausto. Tragedia di W.
Goethe, trad. di F. Persico, Stamperia del Fibreno, Napoli, 1861 Fausto.
Tragedia di Wolfgango Goethe, trad. di Andrea Maffei, 2 voll., Le Monnier,
Firenze, 1869 Fausto. Parte Prima. Erminio e Dorotea di Wolfgango Goethe, trad.
di Anselmo Guerrieri Gonzaga, Le Monnier, Firenze, 1873 Fausto. Tragedia del
Goethe, trad. di G. Biagi, Sansoni, Firenze, 1900 Johan Wilhelm von Goethe,
Faust. Prima parte, trad. di G. E. Vellani, Cogliati, Milano, 1927 Johann
Wolfgang Goethe, Il Faust, 2 voll.: vol. I Versione, pp. 326 + vol. II
Commento, pp. 423, versione integra dell'edizione critica di Weimar,
Introduzione e trad. e commento di Guido Manacorda, Mondadori, Milano, 1932-45;
Collana I Classici Contemporanei, pp. 774, Mondadori, Milano, 1949; ora in
Faust, con un saggio introduttivo di Thomas Mann, testo tedesco a fronte, nota
al testo di Giulio Schiavoni, Collana Classici, BUR, Milano, 2005-2013, ISBN
978-88-17-06698-3. Volfango Goethe, Faust. Tragedia, trad. di Cristina
Baseggio, Facchi, Milano, 1923; Urfaust. Il "Faust" nella sua forma
originaria, Introduzione e trad. e commento a cura di C. Baseggio, Collana I
Grandi Scrittori Stranieri n.20, pp. 224, UTET, Torino, 1932-1944 Faust. Parte
I, trad. di Liliana Scalero, P. Maglione, Roma, 1933; come Il primo Faust, BUR
nn. 39-40, Milano, Rizzoli, 1949, pp.190; Il secondo Faust, ivi (BUR n.
339-341), 1951, pp.371. Faust, trad. di Vincenzo Errante, 2 voll.: vol. I pp.
310 + vol. II pp. 476., Sansoni, Firenze, 1941-1942 Faust, trad. di Enzio
Cetrangolo, pp. 278, Federici Editore, Pesaro, 1942 [scelta] Faust,
introduzioni di Mario Apollonio, note di Renato Maggi, Milano, Bietti. Il
Faust. Versione d'arte con testo critico di Weimar a fronte, introduzione e
commento a cura di Guido Manacorda. Vol. I, Collana Sansoniana Straniera, pp.
424, Sansoni, Firenze, 1949 Volfango Goethe, Faust, trad. e prefazione e note
di Barbara Allason, pp. 450, Francesco De Silva, Torino, 1950, poi Faust,
Introduzione di Cesare Cases, Collana NUE n.53, pp. 377, Einaudi, Torino, 1965,
ISBN 88-06-00331-3 Faust, trad. di Giovita Scalvini, Collana Universale n.16,
Einaudi, Torino, I ed. 1953 - II ed. riveduta su nuovi documenti, pp. 179,
1960; Giovita Scalvini. La traduzione del Faust di Goethe, a cura di B.
Mirisola, Collana Biblioteca morcelliana, Brescia, Morcelliana, 2012 Faust.
Urfaust, versione integrale, 2 voll., Introduzione e note a cura di Giovanni
Vittorio Amoretti, Collana I Grandi Scrittori Stranieri, pp. 459, UTET, Torino,
1950 - pp. 532, 1959 - pp. 588, 1975; in Faust e Urfaust, Collana UEFn.500-501,
Milano, Feltrinelli, 1965; ora in Collana Universale Economica. I Classici
n.2018-2019, 2001-2014, Feltrinelli, ISBN 978-88-07-90068-6. Faust. Seconda
parte, trad. di A. Buoso, Longo e Zoppelli, Treviso, 1962 Faust, Introduzione,
trad. e note a cura di Franco Fortini, testo tedesco a fronte, pp. 1180,
Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1970-2009 ISBN 978-88-04-08800-4;
Collana Biblioteca n.18, 2 voll., Mondadori, Milano, 1980-1987; Collana Grandi
Classici, Oscar Mondadori, Milano, 1992-1997 - Collana Nuovi Classici, Oscar
Mondadori, Milano, 2012 ISBN 978-88-04-52011-5 Faust, a cura di M. Cometa,
Collana Idola, Novecento, Faust, trad. di M. Veneziani, pp. 592, Schena
Editore, 1984 Faust, trad. di R. Hausbrandt, 2 voll., Dedolibri, 1987 Faust.
Urfaust, trad. e cura di Andrea Casalegno, introduzione di Gert Mattenklott,
prefazione di Erich Trunz, Collana I Libri della Spiga, pp. 1462, Garzanti
Libri, Milano, 1990-1995 ISBN 978-88-11-58648-7; prefazione di Italo Alighiero
Chiusano, Collana i grandi libri n.545-546, Garzanti Libri, Milano, 1994-2012
Faust. Testo tedesco, traduzione a fronte e commento di Vittorio Santoli.
Prefazione di Fabrizio Cambi, pp. 472, edizioni aicc castrovillari; trad. di
Vittori Santoli e V. Errante, Gulliver, Santarcangelo di Romagna, 1996 Faust,
trad. e note di Andrea Casalegno, illustrazioni di Eugène Delacroix,
presentazione di Mario Luzi, Collana I Grandi Libri Illustrati, pp. 294, Le
Lettere, Firenze, 1997 ISBN 978-88-7166-347-0. Il Fausto di Gounod. Dimora
casta e pura, dimora si o casta, il mefistofele di Boito. Grice: “I’m not happy
with calling Grassi an Italian philosopher. For one, his selected essays were
published in Sicily in a collection called “Biblioteca Siciliana di Cultura”. Leonardo
Grassi. Grassi. Keywords: dove fiorisce il limone, la giovinezza e il fascismo:
parole ai giovani – senato; Mazzini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grassi” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e
Grataroli: l’implicatura conversazionale e la memoria – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Bergamo). Filosofo italiano. Grice: “I like Grataoroli, the Pope
called him ‘infamous heretic,” which is a good start! He wrote a book on
‘semiotics’ of the times, but it got lost – you cannot understand Bruno unless
you do Grataroli – he philosophised on many subjects, including dreams and
alchemy!” –Di una famiglia benestante dedita al commercio di tessuti di lana
con la città di Venezia. Questa, originaria del borgo di Oneta, frazione di San
Giovanni Bianco in val Brembana, oltre a possedere gran parte della contrada e
dei terreni circostanti (tra cui anche l'edificio che attualmente ospita la
casa di Arlecchino), annoverava tra i suoi membri una folta schiera di
"phisici", tra i quali si segnalarono il nonno di G., fondatore del
collegio dei fisici di Bergamo, e il padre di G., Pellegrino, fisico presso la
città orobica. Publica una dispensa inerente osservazioni sul mondo della
natura. Straparla de le cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la
autorità del papa, nega il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i defunti,
la venerazione dei santi, la presenza del corpo di Cristo nell'eucaristia. Eeretico
pertinace et scandaloso et infame, peste contra la fede. Insegna a Basilea.
Presso l'ingresso dello studio aè presente un suo busto. Noti sono i suoi
trattati sul potenziamento e il mantenimento della memoria, sulle epidemie di
peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e veterinaria. Vi sono anche
alcuni scritti inerenti all'alchimia. Si segnala per la teoria fisiognomica.
Argomenta su Pomponazzi e da indicazioni sia per il mantenimento della salute
che per l'utilizzo dei bagni termali, nonché un saggio in cui vengono
raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai viaggiatori di quel tempo. Saggi:
“De memoria reparanda, augenda ser-vandaque. De salute tuenda. De regimine iter
argentium, vel aequitum, vel peditum, vel navi, vel curru, seu rheda”; “Turba
Philosophorum”; “De literatorum et eorum qui magistratibus funguntur
conservanda praeservandaeque valetitudine compendium” (Perna, Basilea); “Veræ
alchemiæ artisque metallicae, citra aenigmata, doctrina, certusque” (Perna,
Basilea); “De fato, libero arbitrio et providentia Dei” (Perna, Basilea); “Alchemiae,
quam vocant, artisque metallicae, doctrina, certusque modus” (Perna, Basilea);
“De balneis” (Bergamo). Quaderni brembani, Storia di Milano Flavio Caroli, Storia della fisiognomica Arte
e psicologia da Leonardo a Freud M.
Meriggi e A.Pastore, Le regole dei mestieri e delle professioni: A. Castoldi, Bergamo
ed il suo territorio. Bergamo, Bolis, G. Gallizioli, Della vita degli studi e
degli scritti di Gulielmo G. filosofo (Bergamo,
Locatelli); M. Meriggi, Le regole dei mestieri e delle professioni: C. Vasoli,
Le filosofie. del Rinascimento, Bottani
e Taufer, Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento,
Ferrari, Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Napoli, Classici.
Fisiognomica Mnemotecnica Peste. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. “Prognostica naturalia de temporum omnimoda
mtuatione, perpetua & cer- ùjjìma Jigna rerum, quoe in Aere,
Terra, aia Aqua sunt, aut Jìunt , krevìter, & dare, ordine que
alphabetico de scripta per G. P/iy/i- cum y cuni Addinone undcam
fìgnorum Motus Terra, ex Antonio Mi^aldo, Basilea? apud Jacobum Pareum. Ibi-
dem apud Nicolaum Episcopium. Tiguri in 8. Argentorati in 8. apud Iacobum
Ofemianum. L’opera indicata , con le altre due » De Memoria reparanda t e
» De Prje-diclione morum si trovano unite tiell* accennata edizione di
Argentina alli Trat- tati di Chiromanzia , e di Astrologia natu-
rale di Giovanni Indagine , o sia Giovalini Hagen dotto Certosino del
decimoquin- to secolo ? ed al saggio De Sculptura di Gauricio Matematico
Napolitano. Perchè G. non venga tacciato di superstizione o di puerile
credulità a motivo delle cose da esso scritte parlando dei Pronostici
naturali e della Predizione dei costumi, credo cosa necessaria fedelmente
trascrivere la Protesta, o sia Avvertimento al Lettore, che si trova
nella edizione di Devi poi avvertire , che generalmente parlando
le cose dette si verificano nella gente grossolana y vale a dire di coloro
, i quali non sono rigenerati dallo spirito e dalla grazia di Dio ,
perchè di questi è vero ciò che dicesi della depravata natura in »
Adamo , che Naturce fequitur femina quifque fucc » : Ma air opposto i
rigenerati » dallo Spirito Santo mortificano la pro- « pria carne
con i suoi vizj , e con le » sue concupiscenze , sebbene la concu-
» piscenza ed il fomite del peccato vi restino sempre , e da moltissimi , o Dio
, anche pur troppo si riducano alla pratica », A gloria di G.
riporterò anche la sua opinione sopra la causa del flusso e
riflusso del mare r avendo precoAizzato più di due secoli prima quasi
intieramente il sistema del rinomatissimo Ca- valiere Isacco Neuton circa
lo stesso fenomeno : opinione approvata ed insegnata da quasi tutti i
Filosofi posteriori a quel subitine Geometra. l moto periodico della Luna
ha grande predominio sopra li corpi fluidi , quindi fa che il mare s
in- nalzi e si abbassi ^ singolarmente per una particolare di lei
influenza , e ne segua il flusso , ed il riflusso secondo i
differenti aspetti relativi alla medesima , e secondo che questi
accadono nella maggiore o minore forza della sua influenza. Accade
ciò perchè la Luna ha bensì certa in- fluenza coir Oceano , ma non già
coi la- ghi e coi mari di poco estesa superficie . Per la qual cosa
mentre quel Pianeta si muove dall' Oriente verso il mezzo giorno , fa che
la superficie del mare s' innalzi , e che conseguentemente ne segua il
riflusso medesimo . Quando poi si muove dal mezzo giorno verso Y
occidente fa che il mare si abbassi , e però ne nasce il riflusso .
Similmente allorché la Luna si muove dall' occidente verso V angolo
della notte , o sia da settentrione verso V o- i icnte, ne segue
nuovamente il riflusso r> G. Artium > & Mediani?
Docloris de Memoria reparanda, augenda > fervandaque, Liber omnimoda
Remedia > & Pnzceptio- nes continens cujufivis facultans
jhuliofis apprime utilis «, immo maxime necejjlvius , Tiguri ? apud
Andream Gesneruni in 8. , Basilea apud
Nicolaum Episcopium in 8., Lugduni , apud Gabrielem Coterium, Francofurti
apud Joannem Vichelium. Ibidem apud Viduam Petri Fischeri in
12., Argentorati in 8. » Nel frontespizio dell'accennata edizione di
Argentina si trovano queste parole : » Omnia ab An- afore correcla
P ancia finis > 6' ultimo edita «. La stessa Opera » De Memoria re-
paranda » è stata stampata unitamente all' altro libro del G.» De
confervanda Valetudine » da Rantzovio. De Prcediclione morum
naturaque hominum, cum ex infipeclione par* tìum corporis tutu aids modis
«> Anelare G., & Philojopho B ergo mate • Basilea Ti- guri
apud Andream Gesnerum, Lugduni apud Gabrielem Coterium , et * Argentorati
Li tre accennati libri De Memoria reparanda: De Temporum omnimoda
mutatìone Prognofìica: De Prce* diclione morum » furono dati alla luce
per la prima vo ? ta dal G. in Basilea , e dedicati ad Edoardo VI.
Re d'Inghilterra; siccome pure la seconda edizione di tali Opuscoli
fatta nella medesima Città fu consagrata a Massimiliano II. Re di Boemia
lutto questo evidentemente si rileva dal primo periodo della Dedicatoria
medesima al secondo dei com- mendati Sovrani , la quale cosi incomincia
Nello scorso anno, ottimo Re, per le pressanti istanze degli amici e
del- io stampatore > sono stato costretto a dare alle stampe assai
più presto di quello che averei desiderato tre miei libretti
intorno ai quali erano già molti mesi che affatica- va , e perchè
essendo assente , molti er- rori corsero nello stamparli, però
riveduta di nuovo queir opera , non solo ne cor- ressi i difetti ,
ma in oltre impiegando ogni possibile diligenza ed applicazione , e
prestandovi , come si suol dire , V ultima mano , F ho accresciuta di
parecchie belle aggiunte a segno, che la presente edizio- ne è
superiore alla prima siccome lo è un parto di nove mesi a quello di soli
sette ,*7 o pure Toro fino ali* argento • Avevo de- dicata la prima
ad Edoardo VI. Re d' Inghilterra , il quale innanzi anche di aver- ne
notizia , non che di averla potuta ve- dere, fu costretto infelicemente a
cambiare la vita con la morte. Tale Dedicatoria e scritta in Basilea.
Nondimeno non posso accertare in quale città siano stati stampa- ti
li sopradetti Opuscoli la prima volta che dal G. furono indirizzati alli
due già nominati Sovrani . Pejlis Defcrìptio , Caujjoe >
Si- gnu omnigena > & Proefervatio . Anelare G.. Basilea? ;
per Ludovicum Lucium Anno Salutis Humana? Mense Augusto; Lugduni,
apud Gabrielem Coterium. La prima edizione di tale veramente aureo
Trattato fu dedicata ad Ascanio Marzo Ambasciatore Cesareo presso i sette
Cantoni della Svizzera. Personaggio di molte cognizioni e virtù
fornito ed amico di G. ; e questi appunto furono i motivi , che lo
spinsero a sceglierlo per Mecenate con scrivergli : La vostra conosciuta virtù , e la non
volgare vostra mansue- tudine , non meno che il vostro amore per
tutte le sane dottrine , e per la pietà , mi hanno costretto a dedicarvi
quest' opera. Perchè si veda quanto amava le massime di pietà e di
religione conviene notare , che dopo di aver egli prescritti neir
indicata sua opera li rimedj fisici con- tro la Peste , raccomanda con
fervore li spirituali con queste parole. Ma per brevemente indicare
li remedj più forti , più giovevoli e generali , prima di tutto
allontanate da voi la paura della morte , ma non già il santo timore
di Dio. Non perciò doverete amare il peri- colo , né incorrervi
temerariamente , se non sarete sforzati o dalla carità cri- stiana
del prossimo , o dalla gloria di no- stro Signore Gesù Cristo > il
quale devesi anteporre a tutte le cose De Litteratorum > & eorurn
qui Magijlratibus funguntur confermando, proe- fervandaque
valetudine , illorum prcecipue qui oetate confiftentìoe vel non lunge
ab ca ab funt > curn ex probatioribus Auctoribus 3 tum ex ratione ,
& fideli praxi > & experientìa concinnatum . Basilea
apud Henricum Petri in 8., Francofurti in 12. apud Ioanncm Vchel ;
Ibi- dem apud Nicolaum Hofmannum. La stessa opera è stata tradotta
nella lingua Inglese da Tommaso Neuton P e stampata in Londra Tanno. Questa
dottissima opera è riferita dal rinomatissimo Medico Ermanno
Roerhave nel suo » Methodus (ludii Medicorum. De Confervanda valetudine
. Francofurti apud Henricum Randzov. Questa opera fu stampata
unitamente all' ultima registrata dallo stesso Randzov •Re girne n omnium
iter agentium . Basilea? apud Hemicum Petri \66\. Argentorati per Vendelinum
Rihelium 1 s6%. in 12. Colonia? apud Petrum Hofmannum. L’edizione fatta
di tale uti- lissima opera in Argentina fu dedicata dal Grataroli »
alla vera pietà, e nobiltà del chiarissimo Egenolfo Barone , e Signore in
Rapolstein Hochen Ack e Ge- rolzeck in Vassichin » e nel
frontispizio della medesima vi si leggono i seguenti la- tini versi
Ut peregrìnands vita ejl jubjecla procellis Aeris , & varìis undique
prejja malis ; No/ira procelle* fi vario jìc turbine mundi
Volpi tur incertis anxia vita rnodis. 7° Hoc bene
pericolo Jervans prò tempore litro Tutìor utque voles carpe Vìator
iter. De Laudibuj Medicina ejus origine > progrejju ? militate .
Argentora- ti i 5 £3. in 8. De Pefle Thefes. Basilea in 8.
Apud Henricum Petri . De Vini natura , Artificio , & Ufu
, deque omni re potabili . Basilea , Apud Henricum Petri .
XI. Equorum P & Domejlicorum quo- rundam Ànimalium remedia $
senza data in tutti i Cataloghi da me veduti Lapidis Philojbphici
nomendaturoe . Basilea La medesima opera trovasi inserita nel Volume in
foglio stampato in Colonia Tanno da Pietro Orstio , con il titolo Veroe
Alchimia? Scriptores . De janitate menda . Argento- rati 15 6 5.
Trovo quest* opera citata dal Mercklino nel suo Lindenius
renovatus. De Thermis Rhoctias , & Val- lis Tranjc/ierìi Agri
Bergomenjis . Si trova stampata tale opera per la prima volta da
Tommaso Giunti in Venezia Tanno nella sua copiosa raccolta di tutti quelli
y fi che sino alla detta epoca avevano
scritto sopra i Bagni , ed è riportata alla pagina, con questo
titolo G. ad Corradum Gefnerum Medicum Tis'urimim de Thermìs
Jxhoetìcìs Tutti o quelli i quali a mia cognizione hanno
par- lato di questo trattato di Guliclmo , sia neir occasione di
dare il Catalogo delle sue opere , o • sia per semplice erudizione
, e perfino il nostro Padre Donato Calvi , non hanno citata nessun'
altra edizione della stessa opera , che quella dei Giunti % e tutti
ne fecero sempre autore il Grataroli , senza mai mettere in dubbio questo
punto d' Istoria letteraria. Ciò nondimeno non deve recare maraviglia ,
particolar- mente delli scrittori oltramontani , e spe- cialmente
di quelli del decimosesto secolo : ma fa bensì stupore , che siasi
continuato ad attribuire a G. un simile tratta- to , dopo la nitida
e ben corretta edizio- ne fatta dal valoroso Cornino Ventura di tutti i
dotti Medici Bergamaschi , che avevano scritto sopra i Bagni di
Tres^ore ; poiché apparisce , ed è anche evidentemente provato da
quel diligente stampatore , e dagli eruditi e perspicaci fratelli
Licini suoi direttori, che il trattato , che porta quel
titolo , appar- tiene sicuramente a Bartolommeo Albani Medico
Collegiato della Città di Bergamo., scritto dal medesimo, vale a
dire quasi un secolo prima della indicata edizione Veneta di Tommaso
Giunti • Di fatti T Opuscolo dell' Albani termi- na precisamente con
questa data : anno mìllejìmo quadrigentefimo y & feptuagefimo
de menje Julii die vìge fimo Ceptimo . Per ExeelL Artìum & Me dicince
Dociorcm Bartholomceum de Albano. Si fa ancora assai ' più manifesta tale
verità da quanto afferma il Cornino alla decimaquarta pagi- na
della sua edizione degli Scrittori Berga- maschi circa li Bagni
Trescoriani , nella annotazione seguente posta in fine dell* Q-
puscolo del sopracitato Bartolommeo Albani per maggiore sua
giustificazione » Da un antichissimo esemplare manoscritto ritrovato
nella libreria de" Padri Domenicani , il quale si vede eziandio
trasportato nella lingua Italiana , sotto il nome dello stesso
Bartolommeo Albani, nelieCase di Bar- tolommeo Colleoni , lasciato al
Luogo de Ha Pie- tà, conservato sino a questo tempo ». Non si deve
adunque più dubitare , che il ve- ro Autore di quel trattato non sia
Bariolommeo Albani , mentre anche Calvi così ha lasciato scritto nella sua
Scena Letteraria (84) >> Bartolommeo Albano della Medicina
celebre Professore fiorì verso la metà del passato secolo e fu il primo
y che scrivesse sopra i nostri Bagni di Tre- score j leggendosi le
sue degne fatiche con quelle d 5 altri Autori nel saggio De Balneis
Tranfchcrii Oppiai Bergomatis . Bergomi Questa è T accennata edizione di
Cornino Ventura. Si noti in questo luogo , che lo stesso Bibliografo indicando
l'opera di G. sopra io stesso argomento , dopo di avere scritto De
Thermìs Rhoeticis, & Vallìs Tranfche- rii agri ìSergomatis » aggiunge.
Questo si trova nell' opeia Veneta De Balneis. Adunque al Calvi era nota
tanto V edi- zione dei Giunti , quanto quella del Cornino : dopo tutto
questo, in quale maniera si potrà difendere il Grataroli dalla tac- cia
di plagiario y e di un plagio domestico Ma niente dì più facile ,
Ricercato Gulielmo da Corrado Gesnero suo grande amico , che si
chiamava il Plinio dell* Alemagna , perchè gli facesse avere delle notizie
circa le Terme , o Bagni della Rezia , e della Provincia Bergamasca , egli ^per
fare cosa grata ad un amico di tanta rinomanza , prese in mano il
manoscritto dell' Albani, vi aggiunse qualche cosa del proprio , ed
ancora molte cose di quelle che aveva scritto sopra i Bagni di Trescore
il dotto Medico Lodovico Zimalia , levando alcune cose che gli sembravano
su- perflue , o inesatte, con purgato stile la- ^inò , e con veri
termini tecnici rifuse il manoscritto dell' Albani , e cosi
riformato ed ordinato lo spedì all' amico, unitamen- te ad una
erudita lettera relativa alle Ter- me della Rezia e siccome in quei
giorni il Gesnero si trovava in Venezia per de- scrivere i Pesci ,
ed i Crostacei del mare Adriatico , averà consegnato questo scritto
a Giunti s che in quel tempo era occupato a pubblicare la sua
grande edizione di tutti li Scrittori sopra i Bagni e le aque
Termali n siccome ho già di so- pra notato . Indubitata cosa ella è che G.
chiude il suo scritto con queste parole. Ho raccolte brevemente, e
con chiarezza tutte le soprascritte cose a benefizio , e sollievo del mio
prossimo^ io G. : frutto tutto questo delle mie oculari
osser- vazioni , e della lettura di parecchi amichi Medici della mia
patria » . Appunto questa sua protesta dalle persone oneste e
giudiziose deve essere considerata una confessione del fatto , ed ancora
del di- ritto che aveva acquistato di appropriarsi quello scritto;
tanto più che G. nello spedirlo al
Gesnero, lo previene con la seguente onorata e sincera dichiarazio-ne Vi
spedisco l'intiera Descrizione delie Terme Bergamasche , le quali non
sono lontane dalla Rezia più di due giornate di cammino • Di queste niente
sino al presente trovasi pubblicato con i tor- eh) ; onde mi giova
sperare , che diver- ranno celebri anche in avvenire , siccome lo
furono in passato , dopo che Y occul- ta, e quasi intieramente ignorata
loro vir- tù sarà fatta nota con le stampe ; purché non vi
rincresca accoppiare le erudizioni Italiane alle Tedesche. Poteva qui
espri- mersi G. con più candida ,
ed one- sta sincerità ? Confessa di essere semplice raccoglitore
d^gli altrui scritti, mentre dice » Ho raccolto dagli scritti di
altri antichi Medici Bergamaschi » Non chiama sua quella fatica ,
ma dice semplicemente. Vi spedisco T intiera descrizione delle Terme
Bergamasche > delle quali niente sin ad ora è stato pubblicato »
Non si deve dunque condannare di plagiario G. $ e certamente non conviene , che egli
abbia avuto rimorso di avere commes- so una cosi vile, e detestabile
impostura , mentre essendo sopravissuto quasi quindici anni dopo
l'edizione Veneta di queir opuscolo , sicuramente non averebbe mancato di
giustificarsi presso il mondo erudito circa il preteso plagiato . Ecco tutto
quello , si può dire in difesa di questo FILOSOFO sopra tale
inssusistente accusa , né altro posso aggiungere «> se non che
far noto al mio Leggitore , che per quante diligenze abbia usate
«> non mi è giammai riuscito di ritrovare i due citati mano-
scritti , e che in oltre Calvi , a cui era nota Y edizione di Co- rnino
Ventura , non ha nella sua Scena Letteraria dimostrato di sospettare
dell' o- nestà letteraria di Gulielmo G. . Pri- ma di terminare il
presente articolo dei Bagni di Trescore, riferirò il zelante uma-
nissimo Voto, con il quale G. chiude la sua opera stampata dal Giunti Faccia
Iddio , che la Bergamasca Repubblica abbia diligente cura di rimettere
nel primiero loro stato questi saluberrimi Bagni , che certamente lo può
, e lo de- ve fare » . Faccio io pure fervidi e sin- ceri voti ,
perchè abbia effetto tutto ciò che caldamente raccomanda G. ; e per
maggiormente incoraggire la mia Città , ed i miei Cittadini a procurare
al- la patria un vantaggio così rimarcabile , vivamente li supplico
a leggere T erudita ed elegante latina lettera di Lodovico Zi-
malia , premessa al suo dottissimo Trattato dei Bagni di Trescore ,
dedicato al suo magnanimo Mecenate Bartolommeo Colleoni Capitano
Generale degli Eserciti della Serenissima Veneta Repubblica, nella quale
prova con una evidenza che sorprende, e che deve intenerire chiunque
senta amore per la sua patria , che quello famosissimo Eroe deve senza
alcun dubbio essere ugualmente ammirato , e commen- dato sì per le
sue azioni militari , che per le sue virtù politiche , a benefizio «>
ed eterno vantaggio , e decoro di tutta la sua amata nazione
Bergamasca De Notis Antichrìsti, senza data, senza luogo, e senza
nome dello stampatore. Tuttavia nominerò ancor io tra le opere di G. un
libro con tale ti- tolo , ritrovandolo registrato da Calvi , e
dal Papadopoli suo copiatore , ma non dal Frehero , non dal Bayle ,
non dai Maizeaux suo illustratore , non dal Mercilino , non dall' Eloy ,
mentre tutti que- sti si suppone avessero molto interesse di far
autore di un libro Anticattolico Romano un erudito e dotto Italiano -
sic- come era da tutti considerato il Grataro- li. Non però verun
altro Letterato ha posto nel Catalogo delle sue opere V accennato libro • D'
altronde è cosa più che cer- ta, che si può scrivere dei caratteri
dell' Anticristo anche dalla più religiosa e ze- lante penna
cattolica : ed è certo di più , che Calvi , o non averebbe registrato
un così fatto libro , o non averebbe man- cato di scriverne qualche
parola in dete- stazione del medesimo . Ma di più ancora quanto al
Papadopoli , probabilmente questi non averà nemmeno veduta quest’opera ,
essendosi intieramente riportato al Padre Calvi , siccome egli stesso
scrive nella sua storia dell' Università di Padova parlando di G..
Avendo in oltre riportati i titoli delle altre sue opere senza data
, alterati , e confasi no- tabilmente, non sarebbe stato egli il
primo a giudicare di un libro mai veduto, nò letto • A me
stesso è accaduta la medesi- ma sorte y non solo di poterlo trovare
> ma neppure di averne fondata contezza , per quante ricerche
abbia usate non sola in Italia , ma altresì nella Germania e nell*
Olanda. Sostengo finalmente , che se que- st* opera esiste , che io non
credo , o se fu composta da Gulielmo Grataroli , non doveva essere
tanto malvagia e perversa , quanto alcuni senza ragione sospettano
; mentre che tutte le opere di G. è vero che sono poste nell*
indice de' Libri proibiti ? ma con la semplice cautela ; Quandiu
emendata non prodierint. Dal che si è da presumere che se que- sto fosse
stato un libro veramente Eterodosso, Santa Romana Chiesa lo avrebbe posto
nella classe dei libri empj e mal- vagi di prima classe. Confilium de
Proe fervanone a Vcnenis . G. Aucìore . Hamburgi in 8.
Ecco registrate tutte quelle opere che mi è riuscito di
raccogliere, le quali furo- no composte da questo dottissimo Medico
e Filosofo : ora passerò alla seconda classe delle opere tradotte e fatte
stampare dal medesimo. J. Joannis Braccfchi de Alchimia , cum
propofìtionibus 29. Idem argume ri- rum compendiofa brevitatc compleclens
ex Italico Aucloris Autographo in latinum verni -> & edidit
G. Basilea, in folio. Apud Henricum Petri . Non mi è noto
dove sia stata stam- pata la prima volta questa traduzione; ma solo
ne ho trovata un' altra ed zione fat- ta in Amburgo. Chirurgico rum
quorundam Auclo- rum Libros Galiice fcriptos latine reddidit ?
& in cap'-ta difiribuit G. Lugduni in 8. Apud Gabrielem Coterium,
Classe terza delle opere d* altri Scrit- tori fatte stampare con
prefazioni , note y e commenti da G.. I Ve ree Àlchymìce Scriptores
aliquota cum Praefationibus 9 & D celar ationibus col- Ifgit y
& una edidit Gulielmus Gratarolas. Basilea? , apud Henricum Pctri
in folio . II. Vetri Apone njls de Vene ni s eo- rumane
Remediis , cum Additionibus G. . Francofurti , apud Joan- n ìm Velici; Hermannl
a Ncunare de no- vo haclenufque inaudito Germanice morbo ^pompar*
idcft judatoria febre , quern vulgo fudorem Britannicum vócant,
libellus a G. editus. Colonia in 4. Ermanno Ncunare era Conte e Prevosto
della Cattedrale di Colonia . Simeonis Riquinii Judicium do~
clijjimum duabus epijìolis contentimi de fiutato r ice Febris cura t ione
editum a G. Medico > & Philofopìio B ergo mate . Colonia; Joackini
Schdlerii o come altri scrivono Sckilfeni de Pejìe Britannica
Commentariolus aureus a G. FILOSOFO editus . Basilea; Apud Henricum Petri. Alexandri
Benedicii de Pejlilen* tioe Caujjls s Proe fervanone > &
auxiliorum Materia Liber Jingularis : Omnia ex ma- nufcriptis
exemplaribus auxit y & illujìravit Gulielmus Gratarolus Medicus 9
& Pialo- fophus . Basilea? 1559. in 4. Ibidem in folio apud Henricum
Petri .Correcliones , & Additiones ad librum Italicum , falfo
tributum Fallopio 7 infcriptum , Secreta Fallopii . Francofurti
irfoò. in folio , e i6"o£. cum operimi Appendice G.. Girolamo
Mercuriali da Forlì coe- taneo del Grataroli , soprannomato Mercu-
rio e Trimegisto per la vastissima sua medica scienza , nell' erudita
opera : De ratione dijcendi Mediana/?! , edizione di Argentina m
proposito dei libri falsamente attribuiti a Gabriele Fallopio ,
racconta che vi furono alcuni , i quali o per malignità , o per
sordido lucro cacciarono fuori opere sotto il nome del Fallopio ,
che affatto non sono sue , come il libro dei Secreti . Opere
indegne del suo maestro , e soltanto capaci a to- glierli quella
vera , e soda gloria , la qua- le si era acquistata presso i dotti
• Vili. Cenjura & Additiones in Libruni Alexii Pedemontani ,
ubi de Quinta effentia funplici . Per G. Venetiis apud Jun£hs in
12. Conjìha , & Curationes variorum doclijfimorum Medicorum de
Sudore An- glico a G. edita . Colo- nia apud Franciscum Hofmannum. Thaduei
F/orenini , che 1' Alido- sio chiama Taddeo Aledrotto^ &
Guliclnù a Brixia Conjìlia • Colonia, Apud Iranciscum
Hofmannum in 4. Per G. Johannis de Kupecijja de Extra- tione Quinte? ejfentioe
omnium rerum prò u fu Medico . Venetiis apud Juntìas; Theatrum Galeni hoc
est univerjlv medicince a Galeno diffupz *> fpar- f inique
traduce Promptuarium completimi & in
meliorem ordinem redaclum per Lu-> dovicum Luride llum a G. Philojbpho
editimi . Basilea, Apud Henricum Petri in folio «> Hamburgi apud
Joanneni Neumannum > & Georgium Volfium \6j2. in foiio.
Petri Pomponacii de Incanta* tionibus libri in quibus dijficilUma Capita
> & Quefliones Theologicoe , & Philosophicoe ex jana Orthodoxoe
/idei doclrina explicantur > & multis rarìs Hijìoriis >
& Glojfulis illujlrantur . Per G. Philojbpkum Bergo- matem >
qui fé in omnibus Canonica^ Scriptum et Janclorum Dociorum Judicio fubmittit .
Basilea? Kalendis Martii ex Offi- cina Henripetrina in 8. cum
Csesa- rea Majestatis gratia & privilegio. Quesra edizione del
trattato deeli Incantesimi di &4 Pofnponacio
tu consagrata dal Grataroli a Federico Conte Palatino con una nobilissima
, e giudiziosissima dedicatoria impiegata parte in encomj della virtù e meriti
di quel Principe, e parte in difendere Y opera di quel filosofo mantovano
del quale afferma e sostiene che e a torto impugnato e perseguitato; e
che se fosse stadio con prudenza e carità Cristiana trattato, sarebbe riuscito
uno dei più zelanti e forti Apologisti della Chiesa Cattolica, come
riferisce essere avvenuto a Giustino Martire , al grande Agostino , ed a
mol- tissimi altri difensori della nostra santissima religione. Di
fatti Pomponacio per attestato di tutti gli Scrittori della sua vita mori
cattolicamente. Voglio sperare che Pomponacio prima di mandare fuori l’
ultimo suo spirito , siasi per singolare grazia delia divina providenza e
misericordia ravveduto e pentito e che non abbia perseverato neir
ateismo. Imperocché tale essere stato il Pomponacio Y ho udito spesse
fiate a rammentare da Elideo Medico di Forli chiarissimo ornamento
del- la medica scienza , ed uno de suoi più cari discepoli. Ho
ricopiato questo sen- timento dui Grataroli acciocché si conosca quanto
grande fosse Sa sincerità e l’attaccamento verso la Chiesa Cattolica.
Gis- berto Voet , o Voezio ^ dotto Professore di Teologia-, e delle
lingue Orientali neìl' Università di Utrecht , inimico capitale
della Filosofia e di Cartesio , ha parlato con molta lode della suddetta
edizione, dicendo G., li di cui scritti vengono coitimendaci per lo zelo di
pietà e di religio- ne che vi traspirano, e per li encomj de* quali
lo ricolma Teodoro Beza nelle sue lettere , e per li suffragj di molti
altri uo- mini dotti, che lo trattarono nelle sue opere stampate in
Basilea difende Pomponacio contro li suoi caluniatori, ed afferma,
che abbia terminati i suoi giorni assai piamente. Dalla medesima
dedicatoria di Gulielmo da esso scritta un anno solo prima del suo
pae- saggio all'altra vita si rileva, che già dieci anni innanzi egli
aveva fatto stampare r senza che mi sia riuscito di sapere in qua!
parte il Trattato De ìncantationibus di Pomponacio, perchè così scrive al
Principe suo Mecenate. La parte di
questo saggio che tratta delle cause , e degli effetti naturali, o sia
degli Incantesi- u mi fatta da me stampare sono
già più di dieci anni , T avevo dedicata e spedita air
Illustrissimo Principe Ottone Enrico Elettore di felice memoria , e S. A,
non sdegnò di ringraziarmi con lettere di suo proprio pugno » . Mi
è piacciuto di nuo- vamente riportare quanto G. scrive in quella sua
elegante Dedicatoria , perchè dalla premura e zelo da es- so dimostrato
sino agli ultimi periodi del- la sua vita , e dalla universale
estimazione , che hanno sempre costantemente fat- ta palese in faccia di
tutto il mondo tanti letterati del primo ordine, d’ogni nazione e d' ogni
religione, della dottrina, della probità, e dell' amore del vero, e
del giusto , che ha conservato in tutte le sue operazioni , possa
invogliarsi qualche valente ed erudita penna della sua, e mia
patria a tessere , ed in assai miglior modo ordinare una più compiuta
istoria scevra dai difetti, dei quali questa mia pur troppo è
ripiena , di un Filosofo e Medico j che ha impiegati e consagrati
tutti i suoi talenti , e tutti i momenti de' tuoi giorni a benefizio e
vantaggio della languente umanità, ammaestrando ed illuminando il mondo
tutto con le numerose produzioni del sublime suo ingegno, trasportando
nella lingua più universale moltissime opere in diversi altri idiomi composte
da più dotti e famosi scrittori ed in fine illustrando ed arricchindo di
utilissimi riflessi e profittevoli commenti un numero immenso di
interessanti volumi i quali contengono ogni genere di scienze e di cognizioni,
siccome ne forma una evidentissima prova il copioso catalogo delle sue
opere da me coordinato ed esteso. Guglielmo Grataroli. Grataroli. Keywords: sulla
memoria, de balneis, turba philosophorum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Grataroli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grazia: implicatura conversazionale -- il
principio di benevolenza conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Mesoraca). Filosofo italiano. Grice: “Grazia is important to understand
Galileo, whom Italians consider a philosopher!” Grice: “Grazia also wrote about
architecture – a truly Renaissance man!”. Studia a Napoli dove venne condotto,
dalla natia Calabria, da uno zio dell'ordine dei Teatini. Si laurea a Napoli.
Studia filosofia. Si oppose al Criticismo kantiano e all'Idealismo hegeliano in
nome dell'esperienza. Saggi: “Discorso sull'architettura del teatro” (Napoli:
Giordano); “La scienza umana” (Napoli: Flautina); “Logica speculativa” (Napoli:
Gemelli); “Filosofia: eterodossa ed ortodossa” (Napoli: Poliorama);
“Considerazioni sopra 'l discorso di Galileo Galilei intorno alle cose che
stanno su l'acqua, e che in quella si muouono. All'Illustriss. ed Eccellentiss.
Sig. don Carlo Medici (Firenze, Pignonj). “Della vita e delle opera: Dizionario
Biografico degli Italiani. Classe Appetito;Volere.Condizione di ogni appetito è
l'andarsi rinvigorendo con la reiterazione degli atti fino a rendersi dominante
su gli altri appetiti. Condizione della volontà è l'andar con l'esercizio
acquistando maggior potere su imoti del corpo sog Classe- Molori primitivi
della volontà: Tendenza istintiva delle nostre forze all'azione; appetito
istintivo del piacere nella sua triplice forma, e avversione al dolore; amor di
sè stesso co'tre caratteri di concentrazione, di reazione, di espansione
spontanea. Classe- Oggetti dell'amor proprio diconcen nale, onore esterno.
Reazione dell'amor proprio: Emo sentimento. Espansione spontanea. Benevolenza.
Il benessereè certamente oggetto dell'amor proprio; ma nella classe va distinto
dall'amor proprio l'appetito istintivo del piacere, e l'avversione al dolore.
Non è perchè a mi a mono i stessi, che desideriamo il piacere e fuggiamo il
dolore. L'amor proprio si pronunzia nel cercare I mezzi per procurarci l'uno, e
per sottrarci all'altro, fino a contrastare a tale uopo altri appetiti.
L'appetito quindi del benessere, una delle esigenze dell'amor proprio,é
precisamente quel principio, in cui Stewart ha fatto consistere tutto il nostro
amor proprio. Un tale appetito abituale non è getti al suo comando, come
anche su l'attenzione riflessiva. Seconda condizione dell'appetito è l'essere
accompagnato da piacere, quando è soddisfatto; e da dolore, quando essendo
istigato non è soddisfatto. È questo esclusivamente il piacere e il dolore
morale. trazione: Benessere, dignità. perso IL METODO. Classe Stati diversi
dell'appetito: Desiderio, o contento; godimento, o afflizione, o rammarico;
speranza, o timore; pentiinento; disperazione. zione benevola di riconoscenza;
ri invero irreducibile. Ammettendosi in un essere dolori e piaceri,
e ragione e volontà, esso prevedendo le conseguenze delle sue azioni, non
mancherà di formarsi un piano di condotta per evitare il dolore, per pro
cacciarsi il piacere; e la repressione di altri appetiti entrerà come mezzo in
questo piano. Noi intanto a b biamo notato tra fenomeni irreducibili l'appetito
del benessere a sola mira di esibire intero nella 4. classe
ildominiodell'amorproprio. E lapresenteosserva zione basta a far riguardare con
tutto rigore l'addotto esempio di classificazione. Abbiam già completato il
quadro de' fenomeni pri mitivi del pensiero, distinguendolo in tre categorie
corrispondenti a' fenomeni, Sensazione, Giudizio, Volontà ; e tenendo conto
delle condizioni loro comuni. Pria di progredire nel nostro divisamento, daremo
fine a questo articolo con la seguente generale osservazione. La semplicità di
una classificazione di fenomeni primitivi non si dee giudicare su la classe
suprema. Il numero de' princip jignoti è eguale al numero de' fenomeni distinti
nella totalità della classificazione. Può quindi avvenire, che due
classificazioni sieno nel fondo identiche, mentre si offrono sotto aspetti
assai diversi. Se, per esempio, alla prima classe, che comprende i tre fenomeni
-- sensazione, giudizio, volere – si fosseanche ascritta la memoria, esi fosse
distinta nella riproduzione degli atti mentali, e nel riconosciinento; non si
sarebbe nulla cangiato uel nu Inero de' fenomeni irreducibili. Ciò non dimeno
un tal cangiamento non sarebbe del tutto indifferente .Nella classificazione da
noi preferita i fenomeni della prima classe sono i più differenti di natura. Ma
ciò che si riproduce nella memoria non perde la sua natura primitiva. Le idee
astratte si riproducono nella loro perfetta integrità. Le sensazioni perdono
estremarnente di vivacità al riprodursi nella immaginazione. Niente altro
cangiano di loro condizione primitiva. E lostesso avviene nella riproduzione
delle affezioni morali. La memoria quindi, presa nel suo più ampio significato,
non reca fenomeni di natura differente da que' della sensibilità,
dell'intelletto, e della volontà. Queste ultime facoltà somministrano materiali
fra loro differenti, e la memoria è addetta a ritenerli in deposito. Cosi la
prima classe ha potuto segnalare la prima divisione della scienza ne' tre rami
logica, etica, estetica. Non è certamente questo un vantaggio di allo rilievo,
ma non v'era alcuna ragione per disprezzarlo. Si supponga or che
invece di esibire in più ordinii fenomeni primitivi, si fossero enumerati in
una sola lista , come è costume: sensazione, giudizio, attenzione,
immaginazione, reminiscenza, analisi, sintesi, astrazione, generalizzazione. Il
numero de'fenomeni primitivi potrebbe rimanere lo stesso, ma senza esservi
marcata la dipendenza tra I medesimi. L'attendere è proprio dell'intelletto. L’immaginazioneè
una legge della sensibilità. La reminiscenza o riconoscimento è un giudizio.
L'analisi, la sintesi, l'astrazione, la generalizzazione, appartengono
all'intelletto. Una tale dipendenza è una condizione di più nel fenomeno: è
propriamente una ulteriore parziale riduzione. Così per altro esempio, se i
motori della volontà si enunciassero come segue: Tendenza istintiva delle
nostre forze all'azione; appetito istintivo del piacere; appetito
razionale del benessere; appetito della dignità personale; appetito dell'onore
esterno; emozione benevola di riconoscenza; risentimento; benevolenza ; si
avrebbe completo il numero de' motori primitivi, ma niente apparirebbe della
loro dipendenza. L’enunciazione non darebbe ultimata la loro riduzione, non si
esprimerebbe completo, per quanto a noi si scopre, il sistema della natura de'
fenomeni della volontà. Vedula primordial nelle ricerche della origine e della
reulià della scienza umana. Sula ipotetica origine a priori delle idee e IL
METODO IL METODO VELLA SCIENZA DELLA NATURA. primitivi ..realtà delle
conoscenze. delle conoscenze. Si annunziano I principj, trattida osservazioni
parlicolari, su la origine e Classificazione de’ fenomeni primitive. Riduzione
de'fenomeni particolari a' esempio tratto dalla estetica Classificazione delle
scienze nell'ordine logico. Metodo inventivo nelle scienze nat. Metodo
inventivarella scienza delpen Melodo di esposisione nelle varie. Metodo di esposizione
nella scienza del pensiero - poche idee sul metodo Utilità in ultimar le riduzioni
Classificasione delle scienze. ESPERIMENTI DEL METODO PER LA SCIENZA PRIMA.
CORSO PROGRESSIVO DELLA FILOSOFIA PRIMA [cf. GRICE, LA PRIMA FILOSOFIA],
E SUE DEVIAZIONI. Posizioni diverse nella quistione del Metodo. Esemplare
classico del metodo speculativo. Primo esemplare del metodo di pura
osservazione. Deviazioni del metodo nel periodo sco. Metodo di pura
osservazione nella parte psicologica della Filosofia ortodossa. Progresso
della osservazione analitica nella Filosofia, ad onta che i sistemi:
declinassero o al sensualismo, o al’ idealismo. Idealismo assoluto de’
discepoli di Kant. Declinazione della osservazione analitica, e rifiuto de’
suoi prodotti precedenti, surrogandovi una supposta percezione de’.sensi, e una
dimessa ma ra soggettività, e per ultimo rivisioni ontologiche. Sut-nesso
detta discorsa Rassegna ci con la seguente. ESPERIMENTI DELLA FILOSOFIA
SPECULATIVA. SULLA LOGICA DI HEGEL. Su l'identità de’ due contrarii. Le
idee fondamentali dell’ intimo senso Vanno snaturate in ogni panteismo .
Su le categorie, e l'Idea assoluta. . vo nella scienza prima —
tende di continuo ad alterare il genuino valore delle idee fondamentali. SU LA
FILOSOFIA SPECULATIVA. SULLA IMPOTENZA DELLA RAGIONE INDIVIDUALE , SECONDO IL
LAMENNAIS. . ="Sv-t5 EINE DI Dio, DEL cinite, SISI L'ATTO CREATIVO,
SECONDO IL Gro- SERIE input » Sul secondo a della formola. IN. Su Te
altre parti della Formola, cioè T Enie e l'alto creativo. .Sulla Visione
delle idee in Dio indipendentemente dalle altre parti della iu
DETTE IEEE SU LE CONDIZIONI DELLA FILOSOFIA. Sul concetlualismo, perenne
caasa delle deviazioni della Filosofia. Hi. Su i recenti proget di nuova
Filosofia OROCO: cs. iu »
Influenza della sacks tedesca su la Filosofia. Sulle più famose obbiezioni
prodotte da’ moderni contro la Teologia naturale. Riassunto degli articoli
precedenti e conseguenze per le scuole d’insegnamento. ÈNTE IN UNIVERSALE, LUME
PERENNE DELL'UMANO INTELLETTO , SECONDO ZL ROSMINI.. Su i modi dialettici
adoprati da SERBATI nel mostrar conforme al suo sistema la dottrina insegnata d’AQUINO.
Wl, già un anno decorso che uno dei più profondi filosofi di questa Italiana
provincia faceva da noi dipartila ! Niun periodico della capitale fra i tanti
che pur trattano di futilità e di non nulla , o tutt'al piú di celebrità di
teatro, fece alcun motto dilui:ilsolo Omnibus annunziandone la grave perdita,
prometteva una biografia dell'estinto:ma tale promessa insino ad ora non l'ab
biamo veduta recare in atto Noi per mera carità di patria e senza pretenzione
letteraria di sorta, diamo questi pochi cenni per come abbiamo potuti
raccogliergli frugando nella nostra memoria. A quella regione ferace di eletti
ingegni ed in ispecie di grandi filosofi da Pitagora a GALLUPPI (tralasciando
tanli altri illustri nomi) appartenne il nostro FILOSOFO, avendo avuto i natali
verso nell'antica Reazio, oggi Me Ahi sugli estinli Non sorge fiore ove
non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso pianto. . 7 soraca, in Provincia
di Calabria ultra 2. Da baronale ed agiata famiglia. Passa l'infanzia nella terra
natale, ima mostrato avendo svegliato ingegno, fu pensiero di un suo zio, religioso
dello insigne ordine de'Teatini di con durlo in Napoli per fargli apparare
belle lettere e filosofia appo que 'RR.Padri. Quivi dedicandosi alacremente a
talistudi,ebbe a con discepoloilfamoso ex Generale de Teatini, Ventura, che se
tutti ammirano per non comune facondia , per vasto sapere ,per rettitudine ed
illibatezza di costumi, gl’Italiani lo avrebbero a ragione desiderato
continuatore dell'opera progreditrice e liberale da lui cominciata a propugnare.
Con lui G. legossi con tale intima amicizia e scambievole stima , che le m e
morie di quella loro prima età insieme trascorsa, dopo tanto volgere d'anni non
più cancellaronsi ,abbenchè pel diverso stato da essi prescelto, vivuto
avessero quasi sempre l'un dall'altro discosti. Escito il De Grazia da quelle
scuole, diessi con tutto ardore agli studi severi delle matematiche , non pure
tra lasciando qnelli della filosofia , pe ' quali monstrava incli nazione
grandissima. Milita per qualche tempo nel Genio ; m a poscia,smesso il cingolo
militare, esercito professione d'Ingegnere, entrando nel Corpo detto allora de'
Ponti e Stradë. Si nell'una che nell'altra carriera adempi lode volmente ai
doveri della sua carica, e procacciossi giusta estimazione.Ed abbenchè per
lasua indipendenza di pen samenti e per la sua modestia , non venisse adoperato
come avrebbesi dovuto,pure quello che in varie pro vincie per suoi elaborati
disegni in opere pubbliche ed in fatto di edifizi vari, venne eseguito, riusci
di uni versale contentamento,e rivelar seppe la sua valentia, tanto da essere
ricercato e consultato dagli stessi suoi compagni ed emoli nella professione.
Ma nel paese di G. da piú tempo non costruisconsi più quelle opere grandiose da
potersi rivelare il genio artistico di un'ar chitetto;e se pure alcuna fiata
qualche notevole edifizio debbesi costrurre, l'ingegno si rimane frapastoje; perché
condannato a grame proporzioni di una architettura borghese, od a meschine
economie che sovente lasciano le opere pel volgere di più anni
incomplete,ovvero menate a compimento , ma di gran lunga variate dagli
originali disegni. G., omettendo i lavori per Ponti e Strade e smessa ogni
altra cura ed applicazione, si dedica con tutto ardore a quegli studi
filosofici che sempre avea mostrato di molto prediligere. Frutto delle sue
lucubrazioni e speculazioni filosofichefulagrave opera:Saggio sulla realtà
della scienza umana ; lavoro sapiente e profondo , che pubblicossi a Napoli e
che il Silvestri in Milano ed ilFontana a Torino voleano ristampato pe'loro
tipi,ma non vedendosi incuorati da chicchessia a tale pubblicazione
, e la stampa tacendo su di un'opera di tanta mole , ne smisero il pensiero.
Non è scopo nostro venire in disquisizione sul suo si stema filosofico e sulle
opere di lui, secondo che ne fac ciamo qui menzione ,pon sentendoci da tanto,e
lasciando a'profondi pensatori un tale incarico. Solo diciamo, ch'egli
rifuggendo da'sistemi oltramontani e dallaservile imita zione, ha tutte
leproprietà dell'italiano Filosofo, per quella sua maniera di studiare il mondo
esteriore, e per quel pratico senno che loconducono dall'esperienza alla
induzione ,per modo da congiungere sempre l'osservazione di fatto colla
generalità delle idee.In ciò fare egli seguiva in gran parte le dottrine del
sommo Aquinate ,gloria d’l talia e della Chiesa ; senza aver letto ancora Opera
alcuna di questo santo Dottore. Per caso in confutando talune teoriche
dell'altro nostro celebre italiano, SERBATI, il quale in un luogo delle sue
opere ivaesponendo molte sentenze di S. Tommaso in conferma de'suoi detti,sorse
vaghezza a G. di leggere la somma di esso santo; e grandissimo fu il suo
compiacimento in rilevare l'ac cordo delle loro dottrine in ciò che concerne
ilprincipio di rifuggire da ogni ipotesi speculativa, e di ricondurre la
scienza fondamentale al puro metodo di osservazione; e pieno di rispetto e di
ammirazione pel santo d'Aquino, iva seco stesso facendo le più alte maraviglie
del quanto poco abbia progredito la scienza filosofica in questi u l timi sei
secoli. Oltre a molti altri scritti minori , pubblicati in parecchi giornali
specialmentenel Progresso enel Calabrese,altra grave sua Opera è quella
intitolata : Discorsi sulla Logica di Hegel e sulla Filosofia speculativa , ove
adoprandosi dimostrare l'assurditàdi taleLogica,confutaque'filosofi che han
cercato con malizia o senza addarsene d'intede scare la filosofia
italiana. Per chi le Opere di G. punto non conosce, riuscendogli per
avventura nuovo un tal nome, potrebbe di leggieri riputare sospetti i nostri
elogi, se non altro, per troppa carità di patria: noi a renderlo persuaso del
contrario, e che anzi,il lodato resta sempre al disotto delle nostre umili
laudazioni, citeremo l'autorità di un giudice assai competente ed in nulla
sospetto, qual'è il celebre Professore di Heidelberg Mittermaier. Questi nel
suo “Condizioni d'Italia” pubblicato e precisimente nella Lettera di appendice
indiritta al chiaro Mugna, dopo aver parlato delle celebrità letterarie e
scientifiche d'Italia, e m o strando desiderio che le opere filosofiche degl’italiani
fos sero meglio sludiate dagli stranieri ed in ispecie da’ suoi connazionali,
venendo a parlare di Napoli dice. Il genio della filosofia napoletana è la
copiosa e fina analisi dello spirito umano, sempre unito a grande dovizia
d'idee e ad una tendenza pratica. Ad esso appartengono le opere di GALLUPPI e
di G., peculiarmente l'opera di questo: Saggio sulla realtà della scienza umana.
Esaminandol’A. Gli scritti de’ suoi predecessori, non che de’ filosofi tedeschi
ed entrando in minute particolarità intornoa'varipensamenti sulla origine delle
idee,seguesi con piacere lo stesso A. nel suo ingegnoso sviluppo e si ammira la
sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze pure intuitive , e c o
noscenze dimostrative. « Fin qui il Mittermaier.Le parole di un tant’uomo sono
più che sufficienti a testificare sul merito filosofico del nostro concittadino
, ed altre singole illustri testimonianze potremmopurqui addurre;ma le opere di
lui per chi vuole e può leggerle parlano abba stanza.Solo non vogliamo tralasciare
di dire che fu in grand'estimazione tenuto da quell'antico uomo di stato e
scienziato profondo il Conte de’ Camaldoli, Ricciardi,e che ilsuo grand'emulo
il Galluppi (la cui fllosofia era stata in qualche parte di G. confutata perché
non severamente italiana, nè in tutto da lui tro vata scevra di straniere
dottrine) richiesto un giorno del suo parere sul Saggio della realtà
dellascienza umana , rispose: l'opera procede molto bene, secondo il sistema
seguito dall'autore.E qui di volo ci si permetta domandare a noi stessi: chi
raggiun se piú il vero de' due chiari concittadini nei loro rispettivi sistemi?
chi più possedette geniocreatore? A ciòrispondiamo esserpaghidi rilevare
inambidue il positive progresso della filosofia appo noi e possiamo riguardarli
come continuatori delle dottrine sviluppate da' due filosofi calabresi TELESIO
e CAMPANELLA che cercarono di richiamare la filosofia del secolo decimo settimo
a'suoi veri principi facendo appello all'esperienza, alla propria ragione ed
all'esatto studio del mondo ,quale si offre alla osservazione, e sopratutto
cercando di sce verare la filosofia dalle quisquiglie scolastiche del tempo ;
per il che ebbero a sostenere aspra guerra per parte de' loro avversari ,
seguaci delle dottrine d'Aristotile , più in quanto alla forma che alla
sostanza. Or nella gran serie di sistemi de' filosofi di Europa , ognuno dei
quali nasce per distruggere l'anlecedente, e per essere poi a sua volta
distrutto dal successivo,i sistemi seguiti da' due grandi Calabresi, CALLUPPI e
G, sono sistemi italiani, sopratutto quello del secondo , e sopravviveranno
a'posteri assai più,se non c'inganniamo, dell'eccletismo di Francia e del
razionalismo puro di Germania, il quale ultimo sistema argutamente G. chiama:
poema filosofico; abbenchè de' filosofi tedeschiegli faceastima grandissima,
especialmente di Kant, ch'èil primo nella serie di quelli che formano la
moderna scuola, per la mente profonda, vasta e unicamente originale fra tutti i
filosofi di Germania ,per maturo giudizio, fervida imaginazione, esottilissimo ingegno
analitico,ma lamen lava che il suo genio batté la via del eccletismo scettico e
del dommatismo razionale. Ma benché per noi sian grandi tutt'e due inostri con
cittadini, nondimeno sembra rilevarsi dalle suespresse parole del professore di
Heidelberg che nell'opera,da lui citata e da noi di sopra più volte riferita,la
penetrazione filosofica e la fina analisi del nostro G. abbiano richiamato la
sua attenzione assai più che nol fecero le opere filosofiche del Galluppi.
Eppure questi, sebbene tardi, fü almeno ricordato da quel Governo , essendo
stato nominato professore di filosofia nella cattedra della università degli
studi di Napoli e nella morte di lui furon vi pubblich e esequie e recitaronsi
funebri elogi m a G. vive e muore ignorato, e non fu noto che alla
calabraterra, chevidelonascere,edaqualche singola celebrità nostrana e
straniera. Di chi la colpa? Forse de' tempi ? del governo ? o della propria sua
indole? Noi crediamo esservi concorse tutte e tre le suindicate cagioni. Circa
il governo cui appartenne G., il merito non è merce cui è andato per ordinario
ed unquemai in traccia; ma nel tempo presente solo il pensarlo è utopia. E
finalmente l'indole di lui rifuggente dallo adulare potenti, dal cercarmecenati,
dal raccomandare odedicare isuoi scritti achichessia, mantenendosi sempre in
dignità Il secolo che corre: e che appellasi posilivo non ha
altripensieri dominanti che il credito, laborsa,lespe culazioni commerciali, o
tutt'al più qualche progresso materiale da solletitare l'ardente brama del
guadagno (peste della società presente) che di continuo lo stringe ed
arrovella;epperò non è secolo che occupar puotesi di filosofia. e
modestia , coltivando la scienza per abitudine contratta agli studi severi e
per naturale inclinazione del suo genio inventivo e calcolatore, senza avere
unquemai tenuto scuola (che gli scolari molto influiscono alla fama ed a
rendere popolare il nome de’loro maestri)e menando per conseguenza vita
laboriosa e ritirata ; fecer si tutte le cosi fatteragionicheilnome suo rimanesse
ignoto all'universale. Ma qui non possiamo fare a meno di non osservare che in
questa epoca di generale centralizzazione governativa negli stati di reggimento
assoluto sopratutto, ne' quali ė spesso negato a privati di fare puranco il
bene o altra innocentissima cosa, senza previa superiore autorizzazione, o
sovrano beneplacito;ove nullapuossi mandare a stampa senza preventiva revisione
econtro revisione;non rebbe uu richieder troppo da cotali governi se alla mania
di voler lutto sapere ed operare aggiungessero un pò di
buonavolontàedesideriodiconoscerelegrandi intelli genze , tenerne nota ed
applicarle a vantaggio della n a zione. E grata cosa sarebbe riuscita a G., abbenchè
dell'indole qui sopra descritta, e sempre abborrente dalla servitù e dalla
vanità, se il governo in modo qualunque avessegli addimostrato di tenerloin
pregio, o nominandolo professore di filosofia nella Università, dopo la morte
del Galluppi, non essendovi in tutto il reame altri che più diluine fosse stato
degno, omostrandogli dipregiarlo in altra guisa qualunque,ma sempre per moto
spontaneo, essendo stata sua massima indeclinabile che il merito de
sa vesi conoscere volenterosamente dagli altri,senza sforzo di
sorta per parte propria. Sonovi però di momenti nella vita de' popoli in cui
l'opinione pubblica si addimostra regina e manifestasi con tutta la possibile spontaneità.
Un talemomentosifuquando G., non pure senza brigarlo,ma senza avervinemmeno
pensalo,vide ilsuo nome con migliaia di voti sortire dalle urne elettorali,
qual depulato cala brese nel Parlamento napoletano.Molto egli si compiacque per
tale dimostrazione di stima e di fiducia da parte dei suoi concittadini;ed
accetatone il grave mandato, pieno di buon volere e di coraggio si parti con
gli altri deputati per alla volta della capitale. Lusingavansi gli elettori
suoi nella speranza di vederlo presto discendere dalle astrattezze filosofiche,alla
realtà della vita politica:ma tanto non avvenné, Equicisi
permettanoper poco talune reminiscenze, r i andando 'un tempo, che già fu per i
liberali onesti e di buona fede che credevano alla santità ed alla osservanza
di giuramenti e del cui gran numero facevano parle quasituttii liberali
delleprovincie, tra quali G., que' tre primi mesi, con assai più ragione di
quello che uno scrittore francese diceva del suo paese furono giorni
deliziosi,in cui la generazione nostra conobbe quell'allegrezza,quella ‘speranza,
quel non so che si raro nell'umana storia che ci fa dimentichi del peso della
vita. L'avvenire non più rappresentavasitristea’ nostrisguardi,scoprivasiun'oriz.
zonte sconosciuto, tutto era color di rosa,perché crede vasial progresso
indefinitodell'umanità,ealcompimento insperato di tuttele promesse della
filosofia moderna. Quelle notizie sempre succedentisi di libertà di popoli, di
cessazione di ogni dispotismo e tirannide in quasi tutta Europa, d'indipendenza
ed autonomia di nazioni, eccede vano l'immaginazione e faceano degli uomini
tanti inna morati viventi in un'atmosfera inebbrianto. Tempi felici! e che non
più ritorneranno !perocchè a tutte quelle nobili aspirazioni (forse perché non
provegnenti nella gran maggioranza da vero disinteressamento, abnegazione e
pura virtú) sono troppo rapidamente succedute le idee finanziarie e di
materiali interessi, che stan materializzando tutti gli spiriti e dimmergendoli
in un profondo letargo da impedire di addarsi della lenta, ma sempreognor crescente
propagazione del dispotismo; e che per sopras sello invece di farei
indefinitamente progredire, ci ha fatto, e ne sta facendo precipitosamente
indietreggiare. E cio di passaggio. Ma ritornando al nostro Vincenzo, egli era
uno di quei tanti Filosofi che hanno il coraggio del pen. sieroe non quello
dell'azione. Uomo adusato da tanti anni а star chiuso nella rocca della
sua mente per dare corpo e vita a'suoi pensamenti filosofici, riputavasi
vestito del lusbergo delpiùsaldoproposito:ma arrivatoalcontatto della fredda
realità, divenne esangue ed impallidi. Difatto giunto in Napoli, tosto avvidesi
del come furono conce I fatti che vide al primo scio gliersidella Camera de’ Rappresentanti
della nazione, non che nel tempo successivo (da superare financole sue
previsioni e che iscusano la sua condotta inverso chi volle accagionarlo di
timidità) fecero d' allora in poi addive nirlo più solitario e ritirato di
prima. Lui felice ! che p o teva col pensiero allontanarsi dalla triste realtà
che cir condavalo, e vagare tra i nobili e pacifici campi della filosofia. Fu
verso quel torno che rivedemmo per l'ultima volta G., ilquale ci feceaperto
diesser egli tuttoap plicato al compimento di un lavoro già concepito quando
legge la Somma dell'Aquinate. A questonomeglidichia rammo francamente il
desiderio nostro, e di altri suoi amici ancora, che siccome dalle sentenze
filosofiche scelte dalla S o m m a presentar volea la Filosofia d’AQUINO,
coll'esame comparativo delle dottrine del nostro secolo; cosi dalla scelta di
tutte le sentenze politiche, di che ab bonda quell'aureo libro, ci facesse
conoscere la politica di quel santo dottore, in tutto tendente a fare che la s
u prema autorità non trasmodasse in dispotismo e tirran nide, e che la macchina
governativa fosse tutta intesa a formare il benessere della gran maggioranza
della co 48 dute le improvvisate riforme; col suo sguardo scrutatore
s'impossesso della situazione politica del momento, e misurandone tutta la
portata, promise a sé stesso di non porre piede nell'aula del Parlamento napoletano.
e mune Patria; che simili scritti, soggiugnevamo, potrebbero
serviredifrenoalpotere, affinchéne'suoiattinon de generasse in forza brutale.
Al che il nostro Filosofo (cui sembravagli ancora di sentire il fragore delle
artiglierie) mestamente rispose: L'eloquenza della bocca de'cannoni fa
ammutolire ogni lingua, e fa cadere la penna dalle paralizzate mani. E noi dirimbecco:
se il cannone distrugge, la penna può e sa riedificare. Fu dunque che il
cennato suo lavoro col litolo di:Prospetto della Filosofia Ortodossa, venne
stampato in Napoli, in un volume in 8. di pagine 632. Fra le molle lodi che
questo libro ebbe dalla stampa periodicadi di verse parti, furono quelle
tributategli con molto calore dalla perma'osa Civiltà Cattolica connostra
grande maravigliae satisfazione.Ma lamag gior lode che ridondar possa a
vantaggio del De Grazia, si è, che per il primo ha cercato di far rivivere la
Filosofia d’AQUINO, echeilsuo pensieroè statoposcia seguito dalla Università
-parigina e da parecchie di Germania. Era sua intenzione comporre un'opera di
Estetica ed un'altra d'Istituzioni filosofiche, questa sopratutto, per
esservene secondo lui, gran difetto nelle scuole : m a tale divisamento non
potè mandare ad effetto: sonosi tro vati, è vero, de’ manoscritti nella sua casa,
ma forte temiamo che andranno perduti. Ferale morbo mina da più tempo
isuoigiorni,edegli vide approssimare ilsuo fine con la serenità di un fanciullo
e con l'impassibilità di un Filosofo ed il 22 settembre 1857 cessò di vivere.
Fu ilDe Grazia di ordinaria statura e di gracile com plessione; di aspetto
nobile e dignitoso, ed insieme di tratti gentili, e cortesi epperò riusciva
piacevole nella conversazione.Nel suo incesso vedevasi grave e pensoso come se
ruminasse qualcosa col cervello,o talmente era assorto da suoi filosofici
pensieri,da non por mente alle cose esteriori,e da non addarsi degli amici che
passavan gli allato, se questi nol riscuotevano chiamandolo per nome.Visse
sempre celibe.Lasciò un'unico nipole, erede de'suoi beni, mostrandosi pur
generoso nelle ultime dis posizioni verso due suoi antichi compagni ed i suoi d
o mestici. Or un tant’uomo disparve dalla scena di questo mondo senza che
nemmeno un fiore si fosse sparso sulla sua tomba ; senza che nè pietra pè
parola additassero ove han riposolesueceneriericordasseroilnome diluiagli
avvenire ! A voi Italiani,che amate gl'illustri figli della comune sventurata
patria nostra, e che vi distinguete per nobili sentimenti di nazionalità,
abbiamo rivolta la nostra p a rola:inscrivete,per come é debito, il nome di Vin
cenzo De Grazia tra quei grandi nomi che passar denno alla Posterità ! Tu ,
illustre Mittermaier, che nel fare m e n zione in semplice lettera, de'chiari
Italiani, non potesti fare a meno di non dire parole di lode sul merito filoso
fico del nostro Eroe: spendine altre poche or ch'ei è trappassato, por
vendicare l'ingiusto silenzio tenuto dal 20 21 paese ovo
nacque e mori.E tu,o venerando P. Ventura, che non mai dimenticasti il tuo
condiscepolo, abbenché sempre gran distanza da lui ti divise, e che forse
ignori ch'ei non è più , in rilevare la sua dipartita, scrivi alcun motto per
quell'ingegno sdegnoso di ogni schiavitù mas sime se straniera,che co'suoi
scritti fè sempre aperta guerra alla filosofia che non attinge i suoi lumi alle
fonti del Cristianesimo,ciòinfluirànonpocoafarsicheilnome
deltuoanticoamicosiaconto all'universale. Le no stre rozze e disadorne parole
rassembreranno talco o mica inruvida roccia,ma
levostresarannoripetutedagliechi, lontani e renderanno al virtuoso obbliato,
dopo morte quel merito che in vita gli fu negato. Sopra un'amena collina
distante una diecina di chilometri dal mar Ionio è situata Mesuraca,paesello
che conta un due migliaia e mezzo di abitanti.Uno scrittore che sognasse,ve
gliando, gl'irrevocabili portenti della Magna Grecia,nei ru deri che ingombrano
il vicino monte Matonteo, crederebbe di scorgere gli avanzi di un vetusto
tempio , sacro a Venere ; e nel nome tradizionale della montagna non
mancherebbe lo appiglio di ricordare il riso e gli amori , fidi compagni della
vezzosa DeadiAmatunta.Noi,nellanostramodestaprosa, ci contentiamo a più
vicine,e più certe memorie. Egli adunque contava quindici anni meno del suo
illustre compaesano,del Galluppi, ch'era nato
nella stessa provincia di Catanzaro , in una piccola cittaduzza posta
quasi in riva dell'opposto mare;e,vedi caso,era nato anche lui di casa baronale
; sicchè pare che su lo scorcio del passato se colo lo stemma gentilizio non
fosse così ostinatamente avver so agli studi In quel paesello appunto, nasce
quel G., di cui vogliamo esporre la dottrina filosofica. Nasceva di casa
baronale; ma non è quel che ci preme ;nè pare importasse neppure a lui, che
aveva il buon senso di segnare a fronte de'suoi libri il proprio nome e cognome
asciuttoasciutto, e senza nessun prefisso. Ancora lascio, o meglio gli fu fatto
lasciare il paese nativo, e fu condotto a Napoli, e quivi chiuso nel collegio
di San Carlo alle mortelle, dove continuò a studiare,come
sisuole,finoallaprimagioventù. Tra le poche carte,non disperse o
distrutte,dalle quali ho potuto raccogliere qualche scarsa notizia della vita
di lui, avanza una lettera del rettore di quel collegio, certo Misa, concuisiraggua
gli ava il padre della buona riuscita de' pubblici saggi dati dai figliuoli di
lui.Questa lettera giova non tanto a testimonian za del profitto; chè un
baroncino, si sa, fa sempre bene ; e di fatti il buon rettore si lodava non
solo di Vincenzo , m a del l'altro fratello Domenico; quanto ad assodare la
data della nascita . Eugenio Arnoni , che laboriosamente s'ingegna di scrivere
lememorie della Calabria, lofanato il1792: se si dava pubblici esami , quella
data è dunque sbagliata ; e rimane accertata quella che ho trovata scritta io
nel volume su la logica di Hegel , insieme con l'altra concernente la morte di
G.. Il volume appartiene alla famiglia del filosofo,ed
iol'hopotutoavere,insieme conglialtridocumenti,perla cortese premura di Antonio
Serravalle, valoroso giurecon sulto,e caldo promotore della gloria del nostro
paese:qual cuno di casa vi avrà registrato certamente quelle due date. Forniti
i primi studi , diessi a coltivare le matematiche, e divenne ingegnere. Il napoletano
conquistato dalle armi fran cesi,doveva allora,per l'imitazione de'conquistatori,
corre re dietro al mestiere delle armi. Il nostro G. trovavasi arruolato da
sottote nente nel Genio,quando con Decreto Reale comunicatogli da Campredon a
nominato ingegnere aspirante di Ponti e Strade. L'an no appresso, con Decreto,
fu promosso ad ingegnere ordinario di seconda classe. Qui i documenti , che
abbiamo avuto sott'occhio , finisco no;nèsappiamo,se,cessato
ildecennio,eiritirossi disua 2 scelta, o se fu licenziato dal
Borbone restaurato sul trono. Ci è forza saltare. La Società Economica di
Calabria Ultra 2.a lo proponeva a socio: la nomina aveva luogo. Era lentezza,o
si erano incon tratiostacoli? Non sisa, efa meraviglia,come diunuomo di vaglia,
vissuto tra di noi, s'ignorino tante circostanze, che ci aiuterebbero a
lumeggiarne meglio la figura. Vero è che le abitudini del filosofo erano molto
casalinghe, che dalla famiglia ei visse diviso, che per le vie raro si faceva
vedere. E di o mi ricordo, che andato studente a Catanzaro benchè misidicesse
che G. fosse allora, benchèio avessi desiderio di vederlo, non mi venne mai
fatto d'imbattermegli per via. Questa riservata usanza, e'l non
averemaiinsegnato, fe cero sì, che poco si dilatasse la sua fama, e ch'ei
passasse quasi sconosciuto. Quando il Serravalle mandommi le sue carte, credevo
di trovarci copiose notizie,od almeno un frequente carteggio : m'ingannai
:corrispondenze non mantenne,o non conservo ; più facilmente però non
mantenne,perchè non ci sarebbe sta ta ragione di conservare alcune lettere, e
di distruggere le altre.Nè ciòprovenne, aparermio, danoncuranza,ma da
impossibilità; correndo tempi fieramente avversi ad ogni a c comunamento degli
animi, pieni di paure e di sospetti. Due o tre nomine diAccademie
glivennero, chenoiab biamo trovate fra le sue carte,con una certa cura custodite:
una ,a socio onorario dell'Accademia Valentini di Napoli ,che avevaa protettore
il Conte di Siracusa. Una seconda,a socio corrispondente della R. AC cademia
de'Peloritani. Una terza,più tarda, ma non più celebre,a socio onorario della
R. Società Economica della Provincia di Cosenza, sotto la data Ecco gli scarsi
onori fatti ad uomo meritevole di maggior fama ! IlMittermaier,professore
dell'Università diHeidelberg, scrivevaintanto all'ab.Pietro Mugna, cheavevavoltatoin
italianoilsuolibro sulecondizioni d'Italia,quest'onore vole giudizio sul nostro
filosofo : « Il genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina analisi
dello spirito umano, sempre unita a grande dovizia d'idee e ad una tendenza
pratica.Qui appartengono le opere di Galluppi, e di G. peculiarmente
l'ultimadiquesto. Esaminando l'autore gli scritti de'suoipredecessori, anche de
filosofi tedeschi,ed entrando in minute particolarità, intorno a'varî
pensamenti sul l'origine delle idee, seguesi con piacere nel suo ingegnoso
sviluppo,e si ammira la sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze
pure e cono scenze dimostrative ». Così scriveva il giureconsulto tedesco.
L'opera di G., a cui egli alludeva, e che preferiva a quelle dello stesso
Galluppi, e appunto il “Saggio su la realtà della scienza umana” (Napoli). Della
importanza di quest'opera,e della mira che l'autore vi si prefisse,
discorreremo ampiamente : per ora giova a v vertire, che gli stranieri avevano
letto ed ammirato un libro che gl’Italiani di allora quasi ignoravano,e che i
contemporanei, per non far torto ai loro maggiori, continuano ad ignorare.
Escludo da questo numero Ferri, che nelsuo “Saggio sulla storia dellafilosofia
in Italia” lo riporta nel catalogo dei libri filosofici (degnazione non
piccola) ; guardan dosi,beninteso,di accennarne almeno lo scopo.Forse non lo
aveva letto. IlDe Grazia passava ilpiù del suo tempo a Napoli, dove il Galluppi
fin dal 1831 teneva la cattedra di filosofia nella 4. Università,ed
attirava a sè la gioventù si per l'insegnamen to vivo, come per la popolarità
de'suoi elementi .Al De G r a zia mancava l'una cosa e l'altra,perciò non gli
riuscì di ave re seguaci. E che desiderasse farsene, l'ho raccolto da una
lettera che gli scriveva Lorenzo Zaccaro il 3 marzo 1842 . Nel saggio medesimo
da lui pubblicato le allusioni al Gallup
pieranofrequenti;mavelate,esenzacitarlodinome.La fama del suo illustre
concittadino turbava i suoi sonni ; ma all'emulazione non simescevanessunsenso
d'invidia,e molto meno obblique a r t i per soppiantarlo. Tulelli anzi mi ha
raccontato, che,vacando per la morte del Galluppi la cattedra della Università
napolitana, a G. non sarebbe stato difficile ottenerla,se l'avesse chiesta.M o
stratagli questa agevolezza,eiricusò di chiederla,benchè la desiderasse,enon
lonascondesse:offerta l'avrebbe accettata; ma
ilGovernonapoletanoparchenonlovedessedibuon occhio. G., intanto, al pari del Galluppi
sieratenuto ap partato,nè si era mescolato nei rivolgimenti politici:entram
bi,per usare una frase del Bonnet,s'erano fabbricato un ri tiro dentro il
proprio cervello. Galluppi aveva visto le stra gi del 1799 ,gli spergiuri del
1821 , ed aveva continuato tranquillo le sue meditazioni : pubblica, in mezzo a
que rimescolio , i suoi elementi di filosofia. G. non a vrebbe potuto,
per l'età, prender parte ai casi del 1799;a vrebbe potuto, m a nol fece : la
filosofia civile e bat tagliera era finita col patibolo di Pagano ; da indi in
poi,nel mezzogiorno d'Italia,prevalsero le speculazioni soli
tariefattene'penetrali dellacoscienzasubbiettiva. GIOIA (si veda) e Romagnosi
scontavano nello Spielberg il delitto di aver applicato l'ingegno alla
Statistica,ed al Dritto pubblico :nel Napoletano,tra il 1799 ed il 1848, i
filosofi furono esclu sivamente psicologi. Non so se bisogna far eccezione per
quel Pasquale Borrelli, che,sotto lo pseudonimo di Pirro. Trovavasi G. avanti
negli anni, dedito da quasi cinque lustri agli studi filosofici, stimato, se
non cele bre; adatto adunque a rappresentare decorosamente alla Camera la sua
provincia. Pare che questi numeri gli meritas sero isuffragî degli elettori
politici,ed egli riuscì eletto con 5103 voti, terzo fra inove deputati della
provincia di Catanzaro .L'esito gli fu comunicato dal Presiden te Ignazio
Larussa, valoroso giureconsulto ,e scelto Deputato anche lui,con queste parole:
Tal verbale , nell'essere il mandato legale de poteri a Lei conferiti, è in
pari tempo la testimonianza più luminosa del le Sue eminenti virtù. G. però non
fa a tempo di saggiarsi nella vita politica. La mala fede del principe aiutata
dalla inesperienza politica del popolo insanguinava le vie di Napoli e
sgomentava naturalmente l'animo di chi era fatto per la quiete dello
scrittoio,anzi che pei clamori e per le zuffe delle piazze. G., senza infamia e
senza lod e , torna agl i studi. Lallebasque, scriveva aLugano la Genealogia
del pensiero, e che quivi pare balestrato da contrario e prepotente de stino.
Dopo lamorte del Galluppi, contro lacuifilosofiaaveva assiduamente armeggiato
nel saggio,era nel mezzodì inval saquelladel Rosmini e del Gioberti, ed,oltreaquesteita
liane, quella straniera dell'Ilegel: i due ultimi filosofi aveva no
principalmente il sopravvento . Ciò dava molestia a lui, costante e schietto
sostenitore della filosofia della sperienza. Se gli era parsa incauta e
sdrucciolevole quella che il M a miani chiamava la riservatissima filosofia del
Galluppi, è da immaginare quanti pericoli non temesse dalle ardite sintesi del
Gioberti e dell’Hegel. In un volume raccolse adunque le critiche di questi
sistemi, e di quello del francese Lamen nais,e pubblicollo il 1850.
Pur lodando l'impresa del De Grazia,il Padula non gli dis simulava però
che la critica fatta dell'Hegel e di GIOBERTI era scarsa al bisogno : instava,
che ci tornasse sopra,e che raddoppiasse i colpi ; sollecitava da ultimo il
filosofo a pubblicare la Filosofia del pensiero, opera da G. dovu ta accennare come in via di esser
composta. Quest'opera pe rò non venne , nè la critica contro all'Hegel ed al
Gioberti fu rinforzata: venne bensì fuora il Prospetto di filosofia ortodossa.
L'autore fin dalle prime mosse era dovuto p a rere sospetto di sensualismo,e
quindi pericoloso alle creden ze religiose:a lui l'appunto rincrebbe,e si
risolse di scagio narsene . Divisò quindi invocare a soccorso la filosofia
dell'A quinate, valido usbergo a proteggerlo dai colpi frateschi, ed amettere
in salvo la pericolante ortodossia. Il Prospetto, invero, piacque al clero napoletano,
piacque ai Gesuiti; ras sicurò l'autore medesimo,che doveva sentirsi in
disagio. Padula, il solo, credo, che leggesse allora i saggi di G. in Calabria,
gli batteva le mani da Acri, suo paesenativo. Le lettere del Padula G. ha conservate;
gradito applauso in tanto silenzio.Il Padula però gli dipingeva iltrionfo delle
idee giobertiane appresso la gioven tù calabrese, ed in una lettera da Acri, gli
scriveva,non senza un certo sgomento,così : « Sia comunque , l'epopea
giobertiana ha sedotto molti let tori;ed io invano da due anni a questa parte
mi vado adope rando a disingannarli. Altro frutto non colsi, che di essere
chiamato bestia ». A tergo di una lettera del Padula c'è una bozza di risposta
dove G. racconta le liete, e non sose oneste, accoglienze fatte al suo ultimo
libro dal Sanseverino.Ricopio le sue medesime parole: « Oltre l'articolo
inserito nella Civiltà Cattolica , al quale accenna la sua pregiatissima
lettera,un altro forse se ne pub blicherà nel Periodico la Scienza e la Fede.
Eparmichean 8 che il clero napolitano a b bia accolto con favore il
mio piccolo lavoro ;ilche io debbo precipuamente alla imparzialità e dottrina
del regio prof. Don Gaetano Sanseverino, profes sore di filosofia nel Seminario
di Napoli, il quale ha una merita t a riputazione presso il clero anzi detto. È
ben s ì indipendente data l favorevole opinione il suffragio de ' redattori
della Civiltà cattolica ». Ho detto di dubitare, che queste accoglienze fossero
oneste, quanto erano liete . Il clero napoletano allora, e i Gesuiti
specialmente miravano ascalzare la filosofia di GIOBERTI, a denigrarla, ametterla
in mala voce. Gioberti filosofo non era forse la secreta n:ira de'loro strali :
tiravano al filosofo per colpire l'uomo politico : guerreggiavano la costui
filosofia per vilipendere quel senso d'italianità che traspirava da tutte le
pagine dell'illustre torinese. In quella che il Padula aveva chiamata l'epopeagiobertiana,
la filosofia non era se non un episodio solo; e se gran parte de'giovani corse
dietro ai pensamenti di Gioberti, vi cor eso spinta da quel caldo
patriottismo, onde ilfilosofo aveva saputo ravvivarli.Igiovani hanno più
sicuro, che non gli uomini fatti, il presentimento dell'avvenire. I Gesuiti se
n'erano accorti, e festeggiavano l'opera di G., perchè vi trovavano un poderoso
aiuto.Non dico che G. sospettasse le riposte intenzioni de'suoi lo datori; egli
accettava la lode, perché la credeva di buona fe de.Nell'annunzio che ne dà al
Padula,e che noi abbiamo ri ferito,c'è la ingenuità, e direi quasi ilcandore di
un fanciul lo che non ha pratica del mondo . Ecco ora l'intonazione
dell'articolo della Civiltà cattolica : ne cito solo il primo periodo: ex ungue
leonem. Lode al cielo! Mentre tanti italianissimi fanno di tutto per
intedescare la filosofia italiana, intenebrandola colle lar ve di
quell'Assoluto che sfuma nel vacuo del possibile,e colla nullità di una logica
che teorizza la contraddizione, sorge all'estremità d'Italia , nella patria
degli Archita, dei Zenoni, dei Campanella, dei Galluppi un ingegno
sdegnoso di tale schiavitù, che tenta richiamare gli Italiani a pensamenti meno
aerei spezzando gli idoli adorati oggidì dalla filosofia eterodossa, e
congiungendo l'osservazione di fatto colla generalità delle idee». Qui la
frecciata va agli hegeliani ; e'l contrapposto fra ita lianissimi e tedescanti
non poteva essere più abilmente, o più gesuiticamente messo in rilievo : non
basta però a colo rire intero il disegno dell'articolista, ed ecco un 'altra
frec ciata,che mira più addentro. Oh questosì, che potrà dirsiun vero rinnovamento
di filosofia italica! e ne gode l'animo di poter vaticinarealch. A. esito
migliore e maggior riconoscenza per parte dei suoi concittadini , di quella che
sperar possono certi rinnovamenti di filosofia italica, i quali tentano di ri-suscitare
i sogni di Pitagora e di Zenone per fingersi Italiani, mentre in verità altro
non sono che triste imitazioni del protestantesimo tedesco, o dell'eccletismo
francese. Mentre costoro per dare lo scambio agl’italiani vanno nella Magna Grecia
ad invocare la Pitonessa, perchè risusciti dalla tomba i profeti del
paganesimo, all'estremità della Magna Grecia presso la calla del cattolico GALLUPPI
la Provvidenza fa sorgere un ingegno singolare, che passando dalla milizia alla
Scuola sembra con trapporsi al Renato, che abbandonò la milizia per combattere
la Scuola. Finqui il Gesuita. Ordunque, notoio, quando si vuol filosofare alla
tedesca, l'Italia è la patria degli ARCHITA DI TARANTO e di ZENONE DI VELIA,e non istà bene curvarsi
a gioghi stranieri: quando poi sirisale a Pitagora, ch'era stato modello ad Archita,ed
allo stesso Zenone da voi indicato, ecco che questi diventano a un tratto
profeti del paganesimo. Potremo sapere a quali filosofi bisogna ricorrere per
aver il vostro pieno beneplaci to,padre reverendo? La lettura della bella
sua opera mi fa sentire anche più la perdita che io ho fatta;e che sarebbe per
me irreparabile se non mi riuscisse di vederla nelle poche ore che passerò in
Napoli prima di ripartire per Roma. Se in tale occasione p o
tessiriceverel'onorediunasuavisita,mi stimereifelicedi conoscere il Ristoratore
della filosofia ortodossa ». Mi son fermato su questi giudizî,perchè qualcuno
ne ave va indotto,aver G. nel suo saggio cangiato via, ed essersi accostato ad
AQUINO. G., qui come nel Saggio, rimane saldo nella sua dottrina sperimentale:
se di fetto v'ha in lui, è la ripetizione quasi puntuale delle m e d e sime
idee,e delle medesime parole stemperata in molti volu mi;ma cangiamenti non
glisipossono imputare.Quel che si trova dippiù nel Prospetto di filosofia
ortodossa è lo sforzo di far parere tomistica la sua filosofia. Perchè ciò gli
pre messe,non indovino : era per tranquillità della propria co scienza ? era
per capacitare gli altri ? era per aver dalla sua il clero, e col mezzo di
questa cooperazione diffondere la sua dottrina ? nol saprei dire: certo la sua
filosofia rimase quasi sconosciuta, nè le lodi del clero napoletano e
de'gesuiti le valsero allora, e forse le nocquero più tardi : successe di lei
ciò ch'era succeduto di un teatro da lui disegnato,e costruito a Cosenza ; il
quale fu disfatto per impiantarvi un collegio di gesuiti. Ma lasciamolo làil
Gesuita,che non siaccorge,quanto la filosofia di G. possa arrecar di nocumento
alla sua fede:ilcritico non va a cercare tanto per lo sottile,e siap paga
dell'autorità d’AQUINO,e del titolo del saggio: più inlànonvede. Nè più inlàvideilP.Taparelli,contuttala
fama di dotto, perchè in una lettera scritta al nostro G. da Sorrento lo
salutava,senz'altro, ristoratore della filosofia ortodossa. G., saputolo a
Napoli , era stato a fargli visita : non lo aveva trovato , e di Taparelli ,
informatone, gli aveva scritto così. Meritava egli quest'obblio?
Certo che no ; e noi ci studie remo didimostrarlo,facendouna rapidaesposizione dellesue
dottrine contenute ne'libri finora accennati. E primadi tutto:
qualieranolecondizioni filosofiche delle provincie meridionali , quando egli
diessi a filosofare ? Quale fine si propose egli ? Quali mezzi aveva sotto mano
? Queste notizie sono indispensabili per valutare equamente il risulta to delle
sue ricerche. G. ha una coltura matematica ; e, come porta questa coltura, il
suo spirito ne aveva attinto un bisogno di dimostrazioni rigorose,ed
un'avversione alle conclusioni frettolose, ed alle sintesi arrischiate. Da
parec chie testimonianze si raccoglie,ch'ei diessi alla filosofia sui
quarant'anni, quando già la fantasia è manco vivace purne gli uomini che più ne
abbondano . E l'educazione adunque e l'età lo attiravano per quella via piana e
sicura, dove un pie de va innanzi l'altro, senza intoppi, e senza bisogno di
salti. Quando all'incirca eisimise afilosofare, il Galluppi aveva lastricato
quella via, ed additatala ai suoi con cittadini.La filosofia sperimentale era
in voga. Era in voga, ma lestavasempre difronte,temutaavver saria,quella
filosofia che rivendicava all'attività dello spiri to un'attività produttrice
ed indipendente, benchè sotto v a rie forme. Locke nel secolo diciassettesimo
aveva combat tuto l'Innatismo cartesiano,ma era stato alla sua volta com
battuto da Leibniz :l'Innatismo ricompariva sotto altro aspet to.Non
dicogiàchelefiguresianobell'edisegnatenelmar mo, diceva Leibniz; ma il marmo
non è però liscioeschiet to,c'èuna certavenatura,che messa inrisalto siaccosta
as sai alle linee che ti occorrono a figurarle. Bonnot di G. muore a
Napoli, quasi ignorato. E attorno ad altri lavori, fra i quali un’ Estetica, e le
Istituzioni di filosofia. Ma di questi mano scritti forse lasciati a Napoli non
si è potuto avere nessuna notizia. Condillac ripigliava l'impresa del
filosofo di Wrington , e non contento di divolgar lo tale quale, come fa Voltaire,
lo semplifica, lo facilitava,sicchè la sola sensazione faceva a lui
quell'ufficio, pel quale al Locke erano occorsi due coef ficienti : la
riflessione del filosofo inglese era sbandita come soverchia. Condillac aveva,come
suolesuccedere,comincia to con ricalcare fedelmente le orme di Locke , poi
aveva ri fatto a modo suo: e la sua semplicità maravigliosa piacque in Francia
più della circospetta indagine del filosofo inglese. Onde, morto lui, il suo filosofare
continuò, interrotto appena dallo strepito della rivoluzione, che tenne dietro
alla sua morte. Cessato, difatti, il terrore, l'anno appresso i condillachiani ri-apparvero
padroni del campo filosofico, edebberoinmano la Scuola normale,el'Istituto,che
allora sorgeva per Decreto della Convenzione attuato dal Di rettorio.Questo
gruppo detto degl'Ideologi contava nomi celebri: Cabani s il fisiologo della
scuola , Tracy l ' i deologo propriamentedetto,Volney ilmoralista,Garatprofessorealla
scuola normale e difensore del sistema ; e poi con loro altri che dipoi
deviarono,chi più chi meno ,ma che allora stavano per la medesima dottrina. Biran,
Gerando, il La Romiguière. Nel decennio corso fra la cessazione del terrore e
la fon dazionedell'Impero,dal1794 al1804,questogruppodiva lentuomini si adunava
nei giardini di Auteuil, e l'amicizia deglianimi siaccoppiava ne'loro convegni
allaconcordia delle dottrine . Sotto l'Impero , il cielo per loro si annuvolo .
Tutti sanno il dispregio in cui il primo Napoleone teneva l'I deologia; non tutti
ne sanno il motivo. Napoleone non l'odia va tanto come dottrina, quanto come
partito. Il Cabanis, il Volney, il Garat, il DeTracy, che avevan visto di buon
occhio il Nettuno che placava le onde tempe stose della rivoluzione, non furono
più contenti, quando lo videro troneggiare da Giove . Gli tennero il broncio ,
ed ei si 12 vendicò nel rimpastare l'Istituto, scartando la
sezione delle scienze morali, e destituendo l'Ideologia, secondo la frase del
Damiron . Il Villemain racconta gli scoppi della collera napoleonicacontro
quegl'innocenti ideologhi,che poinon lameritavano davvero.All'Ideologia
Napoleone imputava di scandagliare le fondamenta dello Stato col fine di
scalzarle. Vera o falsa che fosse l'accusa, l'Ideologia ne scapitd, alme no
perdendo la veste di filosofia ufficiale, e lo spiritualismo, che ne spiava le mosse,
la soppianto nella scuola normale, dove Collard l'introduceva il1811. Seguace
del keid,questo eloquente filosofo seppe vincere la preoccupazio ne invalsa,
che filosofare liberamente non si potesse fuori della Ideologia;e che quindi o
bisognava accettare lo spirito teologico del De Maistre, o schierarsi tra
gl'ideologi con a capo Tracy. Con Collard l'alternativa e evitata, ed
inaugurata la nuova scuola filosofica della Francia , quella ch'è stata da indi
in poi sempre al potere col Cousin ,col R é musat, col Barthélémy de Saint
Hilaire, col Waddington , colSimon. In Italia lo spiritualismo ,rinfiancato
dall'eccletismo cousi njano,benchè tradotto dal Galluppi,non fece fortuna:
gl’Ita liani o tennero la via degl'ideologi, o se ne scostarono per ben altra
filosofia, che non fosse l'eccletismo. Più che la filosofia del senso comune
proposta dal Reid per fronteggiare lo scetticismo di Davide Hume ,ed accettata
dal Royer -Collard per combattere l'Ideologia,diè da pensare agl'I talianila filosofia
trascendentale di Kant.IlGal luppi se ne mostrava profondo conoscitore fin dal
1819, quando incominciava la pubblicazione del Saggio su la cono scenza umana
;sebbene avesse dovuto studiarla nelle scarse esposizioni di Villers. Più tardi
soltanto, traduce la Critica Mantovani; ma Lallebasque era in grado di STUDIARLA
SULL’ORIGINALE, come dimo stra di saper fare nella esposizione che ne dà nella
sua Intro 13 duzione alla filosofia del pensiero : caso degno
di nota per quel tempo, quando nè la lingua,né la filosofia tedesca era no
divolgate, come oggidì, non dico in Italia, ma neppure nella rimanente Europa .
Leduevieaperte, daindiinquà, furono adunque, almeno per noi, queste due: il
sensismo, ed il criticismo. Tra queste cercava di aprirsi un varco intermedio
il Galluppi ; al sensi smopropendeva ilBorrelli,alcriticismo ilColecchi.Pa
squale Borrelli scriveva e stampava a Lugano, quasi con temporaneamente al
Galluppi, ch'ei conosceva però soltanto di nome .Ottavio Colecchi insegnava
pure in quel torno,ma le sue questioni filosofiche non furono pubblicate, se
non il 1843. Che ilDe Grazia non abbia quindi conosciuto gli scritti del
Colecchi , è certo ; del Borrelli si può dubitare, benchè a certi segni,che
appresso additeremo, si possa credere di averne avuto sott'occhio le opere
.Indubitato è però che siasi formato sul Galluppi,e che siasi prefisso di
camminare su la via dischiusa dal suo gran concittadino, evitando gli svia
menti ,in cui l'altro era incorso ,e tirando più dritto alla meta . Più dritto
e difilato procedette in realtà;ma verso dove ? Parve a G. che Galluppi, scambio
di fondare la filosofia della sperienza, come si era proposto, per incaute
concessioni al Kantismo,era finito con darsegli in preda. Cotesto sviamento ei
combatté a tutt'oltranza ne'primi libri, come nell'ultimo; prima copertamente, e
senza pronunziar ne il nome, poi alla svelata. Onde a menonpiccolasorpresaha
cagionato il giudizio di certi nostri storici e critici ad orec
chio,iqualiconfondonoilGalluppicolDeGrazia,comese professassero la medesima
dottrina. Capisco che iltitolo, comune ad entrambi , di filosofia sperimentale,
ha potut otra rreinerroreiprelodatigiudici;ecompatirei losbaglio,s'ei fossero
dilettanti;ma è da condannare severamente in loro, che si danno l'aria di
scrivere storie e critiche, senza leg gere neppure ilibri istoriati e
criticati. Tornoora a G.. Perdimostrareilprocessostori co de'due opposti
avviamenti, ei ricorre alla sorgiva :rifà quindi la storia de sistemi
filosofici moderni,ed ammaestra to dagli errori altrui ripropone il problema, e
si accinge a risolverlo. Anche qui l'influenza del Galluppi è manifesta, avendo
questi pel primo rimesso in onore appresso di noi la storia della filosofia, e
dato il più lucido esempio d'innestare le ricerche proprie con le indagini
fatte prima da altri sul medesimo soggetto. G tuttavia ritesse la medesima
storia con altro intendimento ;perciò la sua non è ripetizione di quella fatta
dal Galluppi, e vale il pregio di essere esposta e conosciuta in disparte. II.
La filosofia per G. si aggira sul problema della scien
zaumana,nèpiùnémeno,chepelGalluppi:iltitolodelle due opere capitali scritte dai
due filosofi calabresi accusa la medesima intenzione.Il Galluppi scriveva il
Saggio filosofico sulla critica della conoscenza ; G., il saggio su la realtà
della scienza umana . Questa similitudine ha tratto in errore alcuni
storiografi dafrontispizî,perchè dallaintestazionesono corsi,senz'altro, ad
asserire che Galluppi e G. professanol a medesima dottrina.Se non che,questa
volta l'hanno sba gliata ; chè se il problema è lo stesso in entrambi , la solu
zione è diversa non solo,ma opposta. G scrive col manifesto divisamento di
combattere la soluzione gallup piana. Già nella stessa intestazione il filosofo
di Mesuraca accenna a questo punto capitale del suo Saggio , ch'è la real tà
della scienza,compromessa,a parer suo, dalla spiegazio ne accettata dal
filosofo di Tropea. Ma seguiamo ilprocesso storico delproblema,com'è espo sto da
G. Galluppi aveva dato l'esempio di accoppiare alla sua Ancora non gli
eran potute essere note le tre epoche di stinte da Augusto Comte , che par di
non aver conosciuto n e p pure dopo,egiàeglitripartiscela storia dellafilosofia,aun
di presso,con un criterio analogo a quello del filosofo francese. Nella prima epoca
la ragione,baldanzosa per inesperta gioventù,silibra a volo,e tenta costruzioni
metafisiche, te nendo scarsissimo conto della scienza principale,e facendo ne
quasi un'appendice delle sue fantastiche cosmogonie. Nella seconda,ella piglia
per verità le mosse dal proble ma del conoscere; matostolo abbandona, sedottadallame
tafisica. Nella terza,la ragione rinsavita si propone chiaro il suo
cômpito,ed'altronon sibriga;senon che,pur nelle solu zioni del problema
conoscitivo,di quando in quando,fa capo lino ilrazionalismo. Insomma l'esosa
metafisica,lo scapestrato razionalismo sono per G. il vero ostacolo, che non
lascia passar la vera scienza per la sua via. Alle tre epoche egli assegna
questi intervalli di tempo:la prima si stende dai primi abbozzi ionici fino a
Socrate, il fondatore della definizione,e de'ragionamenti d'induzione ; la seconda
da Platone e da Aristotele corre fino a Locke ; in terrotta qua e là dai
tentativi di GALILEI, di Bacone, e CARTESIO;
la terza dura ancora, edènelmeglio delle sue conquiste. 16- dottrina la
genesi storica del problema da lui riproposto ; e sirifàda Cartesio a questa parte,
daCartesiocheperluiè il padre della filosofia moderna .Il De Grazia risale più
in su , fino ai primordî della filosofia greca , senza perder d'occhio però il
problema della scienza. Il suo criterio storico è semplicissimo: v'è due filosofie,
una che ritiene l'osservazione de'sensi,un'altra che l'impugna;e quest'ultima,
comechè si argomenti di ricostruire la impugnata testimonianza,m e ritasempreilnome
dirazionalismo. È mestieri,dice G., distaccardeltutto leme tafisiche
speculazioni dalla scienza del pensiero, per forzar la ragione al metodo di
pura osservazione ». La ragione,secondo lui, ha una tendenza precisamente
contraria; ingegnandosi di rimenare all'ordine a priori quel
chetrovasidatodainduzione.È necessario adunque che la filosofia n e infreni l'
impeto, e ne moderi la foga; e, per non esserviriuscitaancora, lametafisica è rimasta
stazionaria, piena zeppa di ambiziose vedute, non avvalorate da'fatti. Positivo
progresso della filosofia d'oggidì è quello di essersi ridotte le ricerche metafisiche,
che untempo formava no la sterile ricchezza degli scritti filosofici ». La
stessa avversione ha G per lo spirito teologico. L'intervento divino nella
spiegazione de'fenomeni na turali vale quanto la macchina nello scioglimento
del nodo diuna tragedia. Perocchè è ben facile espediente ilriporta re ad una
causa sovrannaturale quegli effetti, che non siè saputo ricondurre alle cause
naturali». Soggiunge innotaunariserva, èvero;dichiaradinon voler impugnare i
miracoli: il punto principale non è mensaldo però, l'esclusione loro dalla
scienza. Qui G., siacheloconoscesse,oche s'incontras se col Comte, si mostra
cosi aperto avversario dell'interven todivino,come
delleipotesimetafisiche:teologia,erazio nalismo sviano dalla vera scienza. Il
tradizionale metodo della filosofia telesiana rivive dopo tre secoli in G.: fondamento
della scienzaèlasolaos servazione;e nondimeno riserva di ossequio verso l'autorità
religiosa,da parte degli autori. G. rivolgeaifenomeni delpensiero quella os
servazione, che TELESIO aveva rivolto a'fenomeni naturali. Il metodo ch'ei si
traccia,e che si studia di seguire,è il se guente:osservare ifenomeni
primitivi,ridurli finoagli ele menti irreducibili. La filosofia intellettuale,
ei dice, dopoaverriconosciuto i fatti attuali di coscienza dee saggiar di
risalire di riduzio ne in riduzione al fatto primitivo,alla pura veduta
intellet Quali sono i fenomeni primitivi del pensiero a cui si fer ma?Sono
tre,lasensazione,ilgiudizio,ilvolere;quindi tre parti principali della
filosofia,Estetica,Logica,Etica. Lasciando di vedere se questi tre sono proprio
i fenomeni irreducibili,certo è però che ilmetodo da lui seguito è pre
cisamente quello tenuto dalle scienze esatte.L'autore non dissimula il bisogno
da lui sentito di applicare alla filosofia ilmetodo dellematematiche,allequali
s'era da prima ad detto, e dal cui studio deriva in gran parte il riscontro che
si può scorgere tra la sua filosofia e quella che nel torno m e desimo si
coltivava in Francia sotto il nome di filosofia po sitiva. Eppure, esclama G.,
non v'è chi passando dalla evidenza delle matematiche alle ricerche filosofiche
non senta irrequieto ilbisogno di sortir fuori delle incertezze, in cui vede
implicato il sistema della scienza ». Come dalla semplice osservazione lo
spirito possa sollevarsi alla riduzione scientifica de’ fenomeni, G. descrive
in modo molto preciso;e tale che merita esser riferi to con le sue stesse
parole. « Ma l'esperienza non è l'osservazione empirica,che si arresta
a'fenomeni isolati.Ilmetodo sperimentale sigiova
dituttiinostrimezziperiscovrirelaconnessione de'feno meni;del ragionamento
astratto,della induzione,delle spe rienze artifiziali, delle ipotesi.Con sì
varî mezzi la fisica la vora alle classificazioni de'fenomeni esterni,a ridurre
i fe nomeni particolari a'generali,a rilevare dal corso della na tura le sue
leggi,cioè le costanti condizioni de'fenomeni,le une costanti e permanenti , le
altre costanti nel cangiar dei fenomeni. In tal divisamento non mira soltanto a
minorar tuale ». l'ignoto,che resta limitato a'fenomeni
irreducibili, ma ad uno scopo più positivo,a quello diprevenir l'esperienza,e
somministrar così preziosi materiali a tutte le arti ». Chi ricorda il motto
del Comte: «savoir c'est prévoir» riconoscerà di leggieri il riscontro de due
filosofi. Nè risalta meno la comune mira di ridurre i fenomeni fino all'estremo
limite, affine di minorare l'ignoto . Trasportandoorailmetodotestedescritto
alleinvestiga zioni filosofiche, il De Grazia procede cosi ; osserva , cioè, i
fatti della coscienza,qual'è attualmente, e di riduzione in riduzione risale
finoaiprimielementi,ond'ellaèstata ge nerata. Egli stesso formola il suo problema
in questi termini: « coi mezzi che sono in nostro potere, ritrovar la generazione
delle verità, di cui siamo in possesso ». Questo metodo ei lo chiama
genealogico; e la parola ed il concetto sitrovano inun altro filosofo italiano,
noto a G., in Borelli,che intitolò la sua filosofia, Prin cipii della
genealogia del pensiero. Fino a che punto s'ac cordino nel loro intento, toccheremo
appresso. Qui basta notare, che la filosofia vera, la filosofia seria per G. comincia
con quest'analisi minuta degli elementi primi del pensiero. Dimodochè sebbene
ei lodi Aristotele di aver a m messo la realtà delle idee universali,e più
ancora di essersi fondato sul senso,nondimeno,poiché lo Stagirita vi arrivo
quasi di lancio,e per un'affrettata generalizzazione,il nostro filosofo non ripigliala
vera storia da lui. Il primo saggio genealogico del pensiero sembra a
lui,essere stato il Saggiosul'intellettoumano di Locke, che pure Galluppi
chiama immortale. Quel Saggio, caduto poi indiscredito, ebbe una meritata
rinomanza; e la fama fu più fondata del discredito. La filosofia inglese mette
capo tutta quanta in esso; la francese del secolo trascorso ne derivò; alla tedesca,
iniziata da Kant, di è il primo urto per mezzo di Hume. Oggidi, appresso di noi.
Il principal merito del filosofo di Wrington era agl’occhi di G. quello
di aver combattuto ad oltranza le idee innate.Ritenere tutte,o alcune idee per
innate,porta ne cessariamente per conseguenza di non ricercarne l'origine; e
quindi impedisce il progresso della filosofia, che tutta si dee travagliare
attorno a questa ricerca. Cartesio e Leibniz, che si credono di averle ammesse,
inrealtàleritenneroco me semplici disposizioni ;e fu per colpa di una
improprietà dilinguaggio se s'imputò a loro diaverle accettate. E qui dava una
toccatina a Galluppi. Ma il sistema lockiano, nel rintracciare la genealogia
del pensiero, omise moltissimi atti mentali che vi concorrono; ed era omissione
scusabile in un primo tentativo, ed in ricerca cotanto complessa. Locke diè, per
dir così, una formola generale, alla quale erano applicabili più valori: Condillac
si avvisa di darle un valore preciso; ma precisando, disvia.Locke,difatti,aveva
riconosciute due sorgenti delle nostre idee,la sensazione,e la
riflessione:quest'ultima non era ben definita,erauna funzione che accoglieva un
po'di tutto,giudizio,astrazione,ragionamento,volontà,era in
definita,siconfondeva con lacoscienza:Condillac dà un va si è piùgiustiversodelmodesto,delsincero,del
pazientissimo Locke ; smessi i superbi fastidî delle sintesi frettolose: al
tempo che scrive G. le invettive
giobertiane erano accolte senza molti scrupoli ; ed al filosofo calabrese fu
gloria non esser se ne lasciato smuovere. Galluppi, come abbiamo visto,lo aveva
pregiato assai,ma i consigli del buon vecchio cominciavano ad aver poca presa
su gli animi de'giovani.Fuori d'Italia l'Herbart faceva tanta stima del Saggio
lockiano,che al Consigliere Clemens,il quale lo ri chiedeva intorno alla
filosofia da insegnare ne’ginnasi, riso lutamente rispondeva : dal maestro di
filosofia ne'ginnasi anzi tutto ed assolutamente richiederei che avesse letto
Locke . ore preciso , riduce tutto alla sensazione , o semplice , o t r a
sformata : sentire è giudicare. G. fa della sensazione e del giudizio due
fenomeni irreducibili ; egli non può dunque nè contentarsi dell'ambiguità della
riflessione lockiana, ne moltomeno
dellasemplicitàdellasensazionecondillachiana. All'osservazione de'fatti gli
pare che il Condillac abbia sosti tuito la tortura del fare sistematico. Gran
merito di Kant è quello di avere scorto l'importanza del giudizio,di questo
fenomeno irreducibile, stato da Condillac confuso con la sensazione. Pel
filosofo di Koenisberg gli ultimi elementi delle nostre idee sono da una parte
le sensazioni,dall'altraigiudizî:idueelementi appunto che al nostro filosofo
paiono indispensabili alla soluzione del problema che si è proposto. Ma con
questo gran merito egli imputa al Kant una gran colpa,la soggettività
de’rapporti; vizio che gli sembra infet tare la filosofia contemporanea. L a
soggettività di Kant però, e G. ne conviene , fu una necessità storica. Locke
aveva detto che tutte le n o stre idee nascono dalla sperienza,e che un'idea
originale semplice non può derivare quindi da un ragionamento : H u me accettò le
premesse, econtinuò: ma l'idea di causa non. Per lui,come per
d'Alembert,lafacoltà distintiva dell'es sere attivo e intelligente,è quella di
poter dare un senso al la parola è:ora Condillac questa distinzione l'ha
distrutta.; i J tà el Se elementi soggettivi, eglinota,simesconoco'dati spe
rimentali,in taleipotesinon conosceremmo quel ch'è nel fattoosservato,ma
quelcheciapparisce esservi;talchese spogliamo ilfattodiciò ch'è nostra proprietà,
la nostra conoscenza svanisce.Si vuol che siano elementi soggettivi le idee di spazio,
di tempo, di sostanza, di causa? Togliete via dunque dagli oggetti esterni e
dal proprio essere siffatti ele menti;e la scienza della natura,e dello spirito
è distrutta », può derivare dalla sperienza ;dunque non c'è.Cosi
tutta la scienza della natura andava in aria,e Reid sirifugiò nel sen so comune
,in una credenza irresistibile,istintiva:Kant a m mise degli elementi aggiunti
dall'attività dello spirito. G. nota con molto accorgimento,che in sostan
zailsensocomune, dicuitantosi compiacciono certi filo sofi anche oggidi,non
salva nulla;che per giunta è pieno di contraddizioni, perchè introduce
classificazioni e distinzioni arbitrarie, mentre si era prefisso di accettare
le comuni credenze tali quali si trovano nella coscienza volgare; che tra Reid
e Kant,per ciò che riguarda la realtà della scienza, non c'è punto di di vario.
Kant nello spiegare il fenomenolosfigura,elascia sco vrireildubbio: lascuolascozzesetiene
occultato il dubbio perchè non imprende la spiegazione del fenomeno. È Bravo G.!
Egli non si lascia appagaredallepa role,e civedebenaddentro;esel'haconKant,saperò
rendergli giustizia,nè condannando lui,assolve quelli che sono intinti della
stessa pece. Ed ora viene ilbuono.Nella dottrina kantiana ei capisce subito,
che non il numero degli elementi soggettivi aggiunti dallo spirito,ma
l'aggiunzione sola,quanta che fosse, era sufficiente a compromettere la realtà
della scienza umana . Certi nuovi critici,che in filosofia credono poter
servirsi dellastadera, han detto,peresempio: Kant ammette in
tuizionipure,categorie edidee,tutte apriori,ilGalluppi, invece, appena appena
dà per soggettivi i due rapporti d'i dentità e di diversità,dunque è lampante
ch'ei sian discosti le mille miglia uno dall'altro. sta dunque la
differenza, in quanto alla realtà delle nostre conoscenze , tra il proscritto
sistema kantiano, e la favorita dottrina della scuola di Reid ! que G. scrive
così:«basta ilsupporre una pura ve duta dello spirito il solo rapporto
d'identità e di diversità, ·apporto fondamentale delle nostre
conoscenze , per ricadere nel realismo empirico del sistema kantiano. Nè
contentoacid, altro verincalzalasua osservazione in questi termini. Mettiamo
ora in disparte il sistema kantiano; cangiamo la sua ripartizione tra gli
elementi soggettivi e gli oggettivi accordando più largamente alla sperienza ;
o anche tutte le idee diciamole derivate dalla sperienza,e riteniamo bensi
solamente che non sono condizioni oggettive i rapporti a n zidetti appresi tra
le sensazioni ; noi ricadiamo apertamen te nel realismo empirico della
filosofia critica. Per G. il kantismo consisteva nell'applicazione di elementi
soggettivi alle sensazioni:dovunque riscontra que sto medesimo processo ei
riconosce ritenuto il fondamento della filosofia kantiana. Ei si maraviglia
anzi che gli altri non siansi accorti di questa medesimezza. La storia nota a
stupore della posterità,che i filosofi tutti hanno accusato d'idealismo il
sistema kantiano, e che niuno aveva avvertito, l'idealismo esser nella supposta
n a tura soggettiva delle idee di rapporto ».(Vol.4,pag.512). Quale sarebbe
stata la maraviglia di G., se avesse vistoche,quando ebbenotatacotesta somiglianzalo
SPAVENTA, contro lui gridarono tutte le oche, vigili sentinelledella rocca
filosofica. Parve denigrazione della filosofia italiana, quella ch'era critica
aggiustata e seria:parve così a coloro, iquali se ne predicavano
sostenitori,quando non l'avevano studiata,e forse neppure letta. Ma torniamo al
De Grazia. Ei non cita il Galluppi in tutto quanto il Saggio, se non una volta
sola ; egli però scrive il libro per combattere la dottrina del suo gran
concittadino,che glipareva derivata a dirittura da quella di Kant.Che però miri
al Galluppi, ap parisce da un'apposita nota al Saggio.La dottrina
degli elementi soggettivi,ei dice,è stata da noi detta soggettivismo per
denotarla qual vizio radicale del metodo filosofico.Puòanche dirsiformalismo, riferendosi
alle forme pure diKant,che sono gli elementi soggettivi. Noi abbiamo preferito
finora la prima espressione per la c o n siderazione, che nelle dottrine
attualmente in vigore si abbraccia l'ipotesi degli elementi soggettivi,e non vi
si parla di forme. E siccome credono alcuni di non incorrere nell'idealismo di
Kant,tuttochè adottano quella ipotesi;noi nel combatterla sotto qualunque
aspetto,dovevamo ritenere il nome or generalmente adottato, quello di elementi
sogget tivi.Se cifossimoinvecediretticontro ilformalismo, po teasi credere che
prendevamo di mira il solo sistema kantia
no.Insostanza,ladistinzionedimateriaediformaintal sistema serve a render più
potente l'idealismo,che si rac chiude nella dottrina degli elementi
soggettivi.Quindi si son messe in disparte le forme kantiane, e si sono
adottati gli elementi soggettivi che Kant appello forme. Ecco come da taluni si
è creduto evitare l'idealismo k a n tiano !» Per G. adunque il divario fra Kant
e Galluppi, ed anche tra Kant e Rosmini,come vedremo appresso, era più
dinomeched'altro.Che cosa ne dirà Acri?checo sa ne diranno tutti quei
ciarlatani grandi e piccini,che sen zaaverlettoneppureifrontispizîdelleopereche
citano,lo mitriarono vindice della filosofia italiana ? Ai ciarlatani è inutile
rivolgere nessuna domanda;al pro fessore Acri domando che cosa voleva
dire,quando scrisse a proposito del Galluppi il seguente giudizio ricavato da
G. Ma perciò che Galluppi e Kant affermano tutt'e due che
questeidee(identitàediversità)sono soggettive es'accor dano
nelleparole,ne vuoi dedurre che Galluppi sia kantia n o ? Il tuo argomento
sarebbe questo nè più né meno: quell'anima le lì è cane; quella costellazione
lì è cane: quello abbaia; dunque quell'altra deve pure abbaiare. Se si
considera ilpensiero del Galluppi su questo argomento,quantunque non molto
lucido e netto, come ha notato quel nostro G. degnodimaggiorfama, sivedesubitochel'idea
diidentitàhavalore oggettivoereale, perchènasce dall'i dentità reale dell'io
come cosa,non altrimenti che l'idea di unità (Acri,Critica). Quando lessi
questa scappata dell'Acri, mi misi a ridere: tralasciai pero di tenerne conto
nella risposta che gli feci, non volendo entrare nella esposizione di G.,che sa
pevodidovere scriveredopo:eccomioraapoternefartoc care con mano la falsità.
Stando all'Acri, adunque,quel nostro G. aveva notato benissimo che per Galluppi
le idee di identità e di di versitàerano oggettive; chesoltantonellaespressioneave
va questi mancato di lucidezza. Ha Acri letto davveroil Saggio di G.? Io credo,
edebbocrederedino, perchè intutt'iquat tro volumi,quel nostro valoroso
concittadino d'altro non biasimail Galluppi,pursenzacitarlodinome,che diaver
accettato dal kantismo la soggettività de'rapporti, segnata mente poi di questi
due d'identità e di diversità. Acri, seavesselettoillibro,non
sarebbeuscitoin quella citazione,inesatta non solo,ma assurda ;chi pensi, che
G. ad altro fine non scrisse,che a rilevare la medesimezza de'risultati, per
rispetto alla realtà della n o stra scienza,si delle forme kantiane,come degli
elementi soggettivi delGalluppi. Capiscocheilprof.Acri potevafar a fidanza con
l'ignoranza assoluta de'suoi ammiratori in fatto di storia della filosofia, ma
egli non doveva contare per niente,dunque,neppure isuoi contraddittori?
Padronissimo di creder lui,che que'rapporti pel Galluppi
sianooggettivi,ma perchè volertirare dallasua anche G. ,che tutta la vita scrisse
appunto per dimostrare il contrario?È un po'troppo,parmi. Finchè visse il Galluppi,
G. non riflni dal com batterneladottrina, congrandeinsistenzaforse, delche si
scusava;ma con profonda convinzione, edopo averne lunga mente ponderato quelli
che a lui parevano inconvenienti gravissimi.Nol nominò però mai,altro che una
volta sola, e per lodarlo. Morto che fu Galluppi , scrivendo egli l'ultima sua
opera col titolo di Prospetto della filosofiaortodossa, smettelaprima
riserva,elocombatte no minatamente .Ripetendo le antiche obbiezioni ,egli
scrive cosi. Su tutto quel che abbiamo qui osservato intorno alla dottrina
della sensazione essenzialmente percettiva, e della
soggettivitàdelleideedirapporto,dobbiamo anoistessiil far noto a'nostri cortesi
lettori,che le stesse osservazioni, più estesamente sviluppate,furono fatte di
ra gione pubblica, e non abbiam poi cessato di riprodurle in parte,e
ripetutamente in varii articoli pubblicati in diversi giornali. Dimodochè
rimane fuori di ogni controversia, che il De Grazia ha inteso combattere la
dottrina del Galluppi su la soggettività de'rapporti,e che ha creduto essere
questa dot trina conforme a quella di Kant . Potrei anzi a g giungere,che la
soggettività de'rapporti parve a G. concedere più di quel che Kant medesimo
ricercasse:«tutto, egli avverte, si accordava a Kant , anzi ancor più di quanto
questiesigea,quando glisiaccordava,che le idee di rap porto sono elementi
soggettivi. E perchè dippiù? Perchè Kant limitava almenoilnumero delle sue
forme; mentre la tesi galluppiana della soggettività spaziava più largamente.
Ecco le strette in cui G. pone questa
filosofia. Finché siritiene,eidice, da'filosofilanatura soggetti
vadelleideedi rapporto, restainconcusso ilprincipio,che isensi non possono altrodarcichenude
sensazioni. Questo principio o rovescia per intero il sistema sperimentale, o
deve ammettersi che tutte le nostre idee sono sensazioni:ad un estremo
èilformalismoassoluto, all'altroestremo è il sensualismo. Nelle forme pure
dello spirito si modella in ideel'informemateriasensibile,dice
ilformalista:tutte le nostre idee sono sensazioni, o primitive o trasformate,
dice il sensualista. O Kant,o Condillac:eccoilbivio della filosofia, secondo il
nostro filosofo. Perchè questo bivio? Perchè due soluzioni sono possibili,
quando non si tien conto di tutti nostri mezzi del conoscere. Questi mezzi sono
due :sentire,e giudica re;ridurli entrambi ad un solo,importa o lasensazione
tra sformata di Condillac,o ilformalismo kantiano. Formalista è dunque il
Galluppi, formalista il Rosmini ; entrambi costretti ad ammettere tutt'igiudizi
come sinteti ciapriori. « Se l'idea di identità fosse un elemento
soggettivo,come essi opinano,e perciò addizionale alle due idee,il nostro
giudizio sarebbe in tutti casi sintetico a priori ».(p.286). Ma
ilGalluppicombatteigiudizîsinteticiapriori,sidi ilcorollario previsto da G. non lo tocca dun que .Così ragionerebbe chi si
fermasse alla buccia delle q u e stioni;noncosì G.,ilquale vipenetraaddentro. È
una contraddizione, eglidice,dicuiilfilosofonon s'èac corto, perchè la vera
dottrina è quella che non dipende dal la intenzione, o dalla professione di
fede che fa un autore, ma quellachesifondanellalogica. Avete un bel dire che
giudizi sintetici a priori non vole 27 rà; « Non si è dunque avvertito,
che son due tesi contraddit torie, il non esservi giudizî sintetici a priori, e
l'essere ele mento addizionale l'idea d'identità ». (loc.cit.). te
ammetterne,quando poisostenete che ogni rapporto è un'identità o totale o
parziale ; e quando soggiungete che questa identità è un'aggiunta dello
spirito. Quale dottrina contrappone ora il De Grazia a quelle del Condillac,e
del Kant ? L'uno diceva : giudicare è sentire ; l'altro, seguito dal Rosmini e
dal Galluppi, diceva:giudicare è aggiungere; G., discostandosi dal primo e dal
secondo, dice:giudicare èosservare. Ma prima d'intendere il significato
nuovo,ch'ei dà alla funzione del giudizio,necessita ricordare com'egli abbia in
teso la sensazione. Né Locke, nè Condillac distinsero abbastanza la sensazio ne
dalla percezione ; Condillac anzi le confuse affatto. Alla stessa confusione fu
sforzato Galluppi.Tralascio le osser vazioni sui primi due,mi fermo a quelle
che vanno dritte contro la spiegazione galluppiana,ch'è lamira principale di G.
Due sbagli commette Galluppi,uno di confondere ilsen - timento con la coscienza;
l'altro di confondere la sensazione con la percezione. « Il sentimento e la
coscienza del sentimento sono nel n o stro spirito cosi abitualmente
congiunti,che più filosofi han confuso i due fatti affermando, che sentire ed
esser conscio di sentire non sono che una operazione medesima dello spi rito. Confondendo
la coscienza della sensazione con la s e n sazione, non si sono avveduti
que'filosofi, che ciò era un confondere il conoscere, il percepire col sentire,
c o n fusione che essi medesimi rimproverano a'sensualisti. Queste due
confusioni erano state fatte veramente dal G a l
luppi,avendoeglicompresosottoilnome disensibilitàin Il simile si
dica della idea dell'ente, che il Rosmini a g giunge ad ogni giudizio; su la
quale torneremo altra volta. Sentire il me sensitivo di un fuordime, glidice
G., è la più forzata contrazione,che potea darsi all'e spressione del fatto di
coscienza. L'industria adoperata dal Galluppi per nascondere questi giudizî
elementari e primitivi proviene,a parer del nostro fi losofo, dal perchè egli
li aveva tenuti per sospetti di sogget tivismo.Questo medesimo motivo lo
indusse ad ammettere le sensazioni oggettive, senza bisogno di spiegare il
passag gio dal sentire al percepire . Leibniz e d'Alembert, entrambi geometri ,
e prima di loro anche il Malebranche, avevano riconosciuto il bisogno di
spiegare il passaggio dal me (cf. GRICE, PERSONAL IDENTITY) al fuor di me: i due
primi avevano anzi proceduto più avanti,additando come mezzo l'induzione; il Galluppi
tagliòcorto,negò ilproblema stesso; affermando non esservi luogo a passaggio, quando
la sensa zione coglie immediatamente l'oggetto. Doppio sbaglioadunque da parte di
Galluppi: primo, aver disconosciuto igiudizî primitivi;secondo,aver
rifiutato,per la conoscenza del mondo esteriore, il soccorso della induzio ne .
Contro i giudizî lo aveva prevenuto la dottrina kantiana de'rapporti soggettivi
; contro l'induzione,il presupposto che nessun'abitudine posteriore avrebbe
potuto fare ciò che un atto primitivo non aveva potuto.Se una prima sensazio ne
non mi fapassare all'oggetto esterno,come, diceva il Galluppi, mi ci potrebbe
abilitare una seconda od una terza? Eppure de'giudizî abituali che si
frammischiano alle sensa zioni aveva toccato prima il Malebranche , poi il
Condillac ; - terna il sentimento e la coscienza del me; esottoil nome di
sensihilità esterna la sensazione e la percezione . Perchè dal sentimento si va
daalla coscienza, edallasen sazionealla percezione ci vuole il giudizio; non il
giudizio galluppiano che aggiunga rapporti soggettivi, ma ilgiudi zio che
osserva,ed osservando distingue i rapporti reali delle cose. e
della forza dell'abitudine Hume ,e della efficacia della in duzione avevano
accennato il Leibniz ed il D'Alembert! G. riassume e tesoreggia isaggi de'suoi
prede c essori , e li compi e così . associazione adunque spiega l'origine :
l'induzione as sicura la realtà; come si può assicurare, beninteso, una ve rità
contingente , la quale non esclude mai la possibilità del l'opposto. Coloro i
quali han posto mente alla sola abitudine fonda ta su l'associazione,han detto
:ma qual garantia ci porge ella della sua realtà ? Così son rimasti nel circolo
descritto da Hume. G. , s chi vale prime e le seconde difficoltà , e formola il
processo genealogico cosi: l'associazione comincia, senza badare alla
realtà;l'induzione legittima ciò che trova, senza doversi brigare del
cominciamento. In siffatta guisa il nostro filosofo fa capitale di tutt'i saggi
parziali tentatiprimadilui,licollega,liordina,licompie uno con l'altro :la
sensazione e igiudizî abituali, intrave duti da Malebranche e da Condillac
;l'osservazione, indefi nitatralemanidi Locke, edalui meglio precisata; lamas
sima aurea del Kant :pensare è giudicare ;la virtù dell'abi tudine,messa a
rilievo da Hume;la induzione accennata da Bacone in generale,additata da
Leibniz e dal D'Alembert a scenze provvisorie. 30 La sensazione dà iprimi
dati, il giudizio osserva i rap portichevisonocontenuti; l'associazione delle idee
ci for nisce leconoscenze prime concernenti ilmondo esterno,in via provvisoria
;l'induzione,più tardi,legittima le cono Gli altri,invece,ponendo mente alla
tardiva comparsa della induzione, hanno osservato, come Galluppi: ma la
induzione vien troppo tardi a farmi passare alla realtà ester na,richiede
troppi congegni,troppe industrie,dicuil'in fante non si può supporre
capace. 31 proposito dellaconoscenzadelleveritàdifatto.Bacone,di
fatti,dicendo:sensus tantum 'de experimento, esperimen tum de rejudicet,aveva
enunciato un canone applicabile piùaifenomeninaturali,chealnostromodo
diconoscerli: l'applicazione speciale alla nostra conoscenza si deve a'due
geometri filosofi, cioè al Leibniz ed al D'Alembert. La storia intanto invece
di attribuire agli anzidetti filosofi la debita lode di essersi accostati
sempre più alla soluzione delproblema delconoscere,ricordalemacchine
artificiose de'lorosistemi ,l'occasionalismo, l'armonia prestabilita,e simili
deviamenti dalla salda filosofia. Galluppi poiagli occhisuoihailtorto non solodinon
aver profittato de'saggi antecedenti, ma di essere indietreg giato anche al di
là di quel che aveva avvertito ilCondillac. Questi aveva ritenuto per
obbiettivo, o percettivo il solo tatto: Galluppi estese l'obbiettività a tutti
i sensi, occultan do la difficoltà invece di scioglierla.La realtà oggettiva de
gli esseri esteriori,ei dice,ha bisogno di essere legittimata: ciò che non
veggono alcuni odierni scrittori,iquali sup ponendo naturalmente percettivid ell'oggetto
esterno i no stri sensi,credono con ciò avere abbastanza legittimata la realtà
dell'oggetto esterno. Galluppi diffidandodituttociòche civieneinorigine per
mezzo de'giudizî,trasporta alla sensazione quanto im mediatamente siapprende
con l'atto del giudizio (pag.316). Ei non s'accorge che c'è una contraddizione
manifesta tra la realtà oggettiva delle idee e la natura soggettiva de'rap
porti Ondechesquadrilaquestione, G. torna,edin
siste sempre su questo vizio radicale della dottrina gallup piana;vizio che
apparve chiaro in Kant,e che in lui rimase occulto per aver dichiarate
oggettive leidee,contraddicendo alla loro provenienza . Nel Galluppi rivive la
tesi del concettualismo , che il n ostro filosofo combatte aspramente;nel
Galluppi,e più anco ranel Rosmini.G. fautore del realismo,non del platonico
però,spende molte pagine nel rilevare gl'inconve nienti del concettualismo
medioevale,e più del moderno;ed in questa disputa,trattata largamente in una
rassegna appo sita pubblicatail1850, eidifende SanTommaso dallataccia di
concettualista, ed impugna la somiglianza che il Rosmini vuol trovare tra la
sua teorica dell'ente possibile, e quella dell'Aquinate. Di questa particolare
ricerca diremo appresso : continuiamo intanto ad avvertire, con la scorta di G.,
le lacune ch'egli addita ne'sistemide'suoi avversarî. La critica dello stato
attuale fu fatta maestrevolmente da Kant. G. è larghissimo di lodi al fondatore
del Criticismo, filosofo per questo verso inarrivabile. Della origine però Kant
non occupossi, dichiarandoaggiunti a prior itutti quegli elementi, di cui gli
pareva arduo rintracciare la ge nerazione. Quanto sitoglieaiverimezzi
diacquistar cono scenze, tutto si attribuisce ad una supposta origine a priori,
a questo vasto serbatoio di tutte le perdite dell'analisi . Cosi , con una
similitudine arguta,ei battezza per vere lacune, per difetto di analisi ogni
forma a priori. Nella stessa maniera han combattuto,dopo di G., l'apriori
ifilosofi po sitivisti.Siricasca inquesto metodo dunque,sempre che,
abbandonatalagenesisperimentale,siricorre allospedien te di addizioni di forme
pure;sia qualunque ilnome con cui si travestiscano. D'accordo con Kant, dice G.,
che la conoscenza risulti da sensazioni e da giudizî; ma giudicare, per me,
semplicemente osservare,e non è punto aggiungere. La veduta èprora quando
siosserva nell'oggetto,non già quando - Ilmetodo daseguire, nelproblema
dellaconoscenza,era questo:esaminare lo stato della coscienza,qual'è attualmen
te;risalirealle origini delle idee che ora vitroviamo;legit timarne la
realtà. O siaggiunge dal soggetto. Aggiunta chel'avretevoi,non è
più da discorrere della sua realtà. Sicché delle tre analisi da fare, Kant fece
benissimo la critica della coscienzaattuale; arrestossi per via nel rintrac
ciare le origini della coscienza primitiva;e conseguentemen te non potè
legittimare la realtà della nostra scienza. La realtà della scienza è collegata
con la dottrina del giu dizio:se questo è una mera osservazione,la realtà è
assicu rata; se,invece,è una funzione addizionale,la realtà non si può a nessun
patto legittimare. Ed ora noi siamo perfettamente in grado dicomprendere,
perchè il De Grazia combatta con tanta insistenza la filoso fia del Galluppi,ed
insieme di valutare,quanto poco la mira di G. sia statas corta da quellichenehannofinora
discorso.Egli ritorna spesso su la critica da noi esposta, con una
prolissità,ch'è stata non piccola causa dell'esser passatainavvertita, perchèdileggereiseivolumidelle
sue opere i più si sono sgomentati. Il significato però di tutta la sua
discussione si può ridurre a quest'alternativa in cui egli trovòimpigliatala ricercadellaumana
cognizione: gliuni avevan detto con Condillac: giudicare è sentire ;gli altri a
vevan ripetuto con Kant :le idee di rapporto sono elementi
soggettivi:egliavevarisposto: èfalsal'una el'altraspiega zione. Ilgiudicarenon èsentire,ma
osservare; irapporti sono oggettivi,non soggettivi. Galluppi intanto ,
destreggiandosi tra le due spiegazioni , aveva di ciascuna ritenuto una
parte.Pur discostandosi dal la dottrina condillachiana, pur distinguendo
ilgiudiziodal la sensazione,aveva però ammesso de'rapporti,iquali era no
sentiti:tali erano il rapporto tra modificazione e sostan za,ed ilrapporto tra
effetto e causa. Similmente,pur promettendo divolersiappartareda Kant, pur
professandosi fedele al metodo sperimentale, aveva accettato due rapporti come
soggettivi affatto,quello d'identi tà,e quello di diversità. La sottile e
giusta critica del De Grazia aveva messo in e videnza le due capitali
contraddizioni della filosofia del Gal luppi.La consapevolezza
piena,profonda,ch'egli ha delle obbiezioni mosse al suo grande avversario , ve
lo fa insistere forse soverchiamente ;ma non senza rivelare una grande
perspicacia di mente nell'applicazione che ne fa alle singole questioni. «
L'idea di azione,di connessione,egli scrive,è idea di
rapporto;eirapportisigiudicano,non sisentono.Sièdi menticato in questa
occasione,che una sensazione non è più che una nostra modificazione, e per se
stessa non può darci altra idea che quella di un particolar nostro modo di
esistere. L'anno appresso,che G. finisce
la pubblicazione del suo Saggio, cioè, un dotto abbruzzese, Colecchi, pubblicava
in due volumi le sue Quistioni filosofi che,e vi rifaceva lacritica
delGalluppi,muovendo da un criterio opposto a quello del nostro De Grazia,ed
intanto somigliantissima nel significato. Il Colecchi segue la filosofia
kantiana nel concetto fonda mentale,ma senediparteinmoltiparticolari.Riduceleca
tegorie tutte quante a quelle di sostanza e di causa;le deduce non già dalle
forme del giudizio, come aveva fatto Kant , ma dalle anzidette nozioni di
sostanza e di causa, congiun te con quelle di spazio e di tempo ; rifiuta lo
schematismo kantiano, che gli parve complicato, e superfluo ; e finalmen te
crede , che la realtà della nostra scienza non ne sia punto compromessa. Colecchi
adunque biasima il Galluppi d'incoerenza per averammesso alcuni
rapportioggettivi,edaltrisoggettivi; senonche, invece disoggiungere com G: dove
vateritenerlituttiper oggettivi, corregge lacontraddizione io galluppiana
in un modo opposto, soggiungendo: dovevate ammetterli tutti per soggettivi.
Tralasciando ora le modificazioni arrecate dal Colecchi alla filosofia kantiana,
eraffrontandolesueobbiezioni con tro il Galluppi in ciò che s'accordano con le
altre antece dentemente mosse dal nostro G., citiamo in compro va testualmente
le parole del filosofo abbruzzese,perchè il lettore ne vegga l'accennata
somiglianza. Dopo aver egli ricordato la soggettività de'rapporti d'i dentità e
di diversità ammessa dal Galluppi contro del Locke , continua così: « Posto ciò
si domanda ora:se rispetto a quelle idee che sono un prodotto dell'analisi che
le separa da'sentimenti, e che sono perciò oggettive,venga lo spirito assistito
o no dalledue ideed'identitàedidiversità?seno,nonpotràegli separarle punto dai
sentimenti;perocchè un bambino puran che ne ha bisogno,per distinguere lasua
nutrice da uno stra niero;e tale distinzione è fuor di dubbio un atto di
analisi : se sì, le due idee d'identità e di diversità devono precedere le sensazioni:sono
dunque per anticipazione,ed anteriori ai sentimenti; e perciò nell'ordine
cronologico delle nostre co gnizioni non possono essere posteriori alle
sensazioni, ne presupporle come condizioni indispensabili.Come dunque so
stenere: che ogni nostra cognizione incomincia con l'analisi, e termina con la
sintesi, se per fare qualunque spezie di a n a lisi,ha bisogno lo spirito delle
due idee d'identità edi diver sità,le quali, per avviso del nostro autore, sono
un prodotto della sintesi che le aggiunge ai prodotti dell'analisi?(Quistioni filosofiche,Napoli).
Potreicitarealtri luoghi,concui il Colecchinota il di un li ne ato 4 1
Biasima inoltre il Galluppi di aver detto che sono sogget
tivesololeideedirapporto,perchèegliammette leideedi
spazio,ditempo,disostanza,dicausa,sottoilnome dileggi della intelligenza,che
sono soggettive,senza essere rapporti. verso valore che debbono
avere nella ipotesi del Galluppi le idee di identità e di diversità quando si
applicano o agli o g getti dellamatematica, o aquelli della sperienza; ma usci
reifuoridelmiotema. Amepremeasso dare chele contraddizioni, in cui s'era
avvolta la filosofia galluppiana per m a n co di coerenza,erano state rilevate
con mirabile acume dal De Grazia e dal Colecchi. Ferri,il quale scrisse due grossi
volumi su la sto riadellafilosofiaitaliananelnostrosecolo,non trovòaltro spazio
per ricordare idue anzidetti nostri filosofi, che que sto,occupato dalle
seguenti parole: « Il faudrait enfin mentionner les écrits de Di Grazia, et de
Collecchi , Napolitains, qui, tout en modifiant,ou en c o m battant Galluppi, n'ont
cependant pas dépassé le point de vue de l'expérience ou de la philosophie
critique ».(Essais sur l'histoire etc.). Certo così il prof. Ferri non si
compromette. En m o d i fiant, en combattant, sono frasi tanto diplomatiche che
par che dicano, e non dicono. G. modifica Galluppi; Colecchi lo combatte: ci ho
gusto : sta bene; ma che cosa han detto? Questo è il punto; e su questo,
silenzio perfetto.E poi ilDe Grazia non l'ha punto modificato, l'ha combattuto
pure : l'avesse combattuto, qual lume si ricaverebbedaquestemezzeparole? Nonerameglioconfes
sare di non averne letto sillaba ? E perchè non occuparsene? Forsechè erandameno
ditanti altri? Io,peresempio,sen za far torto a nessuno , e salvo la disparità
per altri riguar di,trovo più ingegno filosofico in G. e nel Colecchi, che non
nelMamiani.L'ho detta grossa? Chiedo scusa a tutti quelli che ne prenderanno
scandalo ;certo di aver con mecoloro, che sen'intendono davvero; eche
intendendo sene ardiscono dire il proprio parere. Del silenzio sul Colecchi
Ferri si scusa quasi ,scri vendo in una nota così. Les écrits de Collecchi
dispersés dans les recueils litté raires n'avaient pas encore été publiés en un
seul corps il y a quelques années, Pardon, .Ferri: gliscrittidel Colecchi
furono stampati in due volumi, che io ho qui sul tavolo,ed hanno
questaindicazione: Napoli,all'insegnadi Aldo Manuzio, Carrozzieria Montoliveton.
Qualgiro di anni comprendete voi nell'il y a quelques années ? Venticin que non
vi bastano ? E perchè non una parola su G., che doveva es servi noto,poichè ne
registrate ilSaggio nell'indice delle opere filosofiche pubblicate in Italia in
questo secolo ? Forse non entrava nel disegno vostro, ch' era di d e scrivere
il pensiero italiano tutto inteso a cercare ciò che poi ha finalmen te trovato
, l'idealismo temperato ? ed allora perchè accusare
diparzialitàloSpaventa,cheavevatrascuratinon soquali filosofi, indotto dal suo
criterio hegeliano ? Ma passiamo oltre, avvertendo soltanto, poichè siamo su
questo argomento, che il cognome di G. non va scritto “DiGrazia”; e che il Colecchi
non va rinforzato come l'ha rinforzatoilprof.Ferri,che loscrive Collecchi.Sarebbero
minuzie, se non attestassero la poca diligenza nello scrivere la storia. Morto
chefuil Galluppi,ilDeGrazia,benchèricordiqua e là gli sforzi sostenuti nel
combatterne le dottrine, rivolge però altrove la propria attenzione.
Ne'discorsi pubblicati il 1850 ei se la piglia con la filosofia,che in Italia
aveva preso ilsopravvento,echenonsicuravadinascondereildispre gio in cuiteneva
l'esperienza.Oramai non si tratta più di scoprire un Idealismo,tutto studioso
di occultarsi sotto il nome difilosofiasperimentale,com'erastatoilcasodelGal
luppi,ma di combattere un Idealismo che si presentava alla
svelata,eche,sottonomi diversi,s'eraguadagnate lementi della nuova
generazione.IlDe Grazia comprende tutti que 37
stisistemisotto un nome solo,sottoquello difilosofia spe culativa .
Traquestisistemiperò,secondolavaria importanza,al cuni combatte più
acremente,altri accenna soltanto.Accen na pure del consenso del genere umano
del La Mennais,del tradizionalismo del P. Ventura;delprimo un po'più distesa
mente, perchè s'accorda col sistema del Gioberti nel rifiu tare la
testimonianza e l'autorità della coscienza subbiettiva. Quanto al P. Ventura,
poco seguito aveva trovato in Italia, nèmeritavaimportanza, nè G. glienedàmolta.
Mente severa, educata alle scienze matematiche, il De Grazia la giustizia
sommaria di tutti questi sistemi in un fa scio,ai quali a suo avviso mancava e
la base solida, ed il rigoroso ragionamento. «Una
volta,eiscrive,erascrittoall'ingressodellascuo. la:nemo accedat,nisigeometra; igiovanetti
oggi leggono: nemo accedat,sigeometra.E non hanno torto,perché ove si tratta di
creare enti, o di manifestazioni del Dio -Cosmo, e di ispirazioni,e di
intuiti,o di nuove logiche trascenden tali,non può esservi luogo
pe'geometri:non è arena per le loro forze ». Ce n'è per tutti, come si vede, e
non risparmia né i si stemi tedeschi,nè i francesi,né i nostrani ;ma vediamo
quali obbiezioni particolari muova a ciascuno ;e basterà ac cennarle,perchè
oramai abbiamo abbastanza conosciuto il suo criterio. « Più dilettevole
trattenimento ci dà il La Mennais nel ravvisar per ogni dove un riflesso del d
o m m a religioso ; che 38 Contro del La Mennais nota che la ragione
umana collet tivaèun'astrazione,che solo l'individuo esiste;e quindi il
consenso universale non ha altro valore, che quello degl'individui, da cui
proviene. Con non dissimulata derisione trat ta poi le spiegazioni fantastiche
de'fenomeni naturali per mezzo del domma. Punzecchiando
ilGioberti,siricordadelGalluppi,cheper liberarsida ogni molestia sularealtàde'corpi,concepi
ob biettive le sensazioni , e scrive . Le sue celie su la commodità di questi
spedienti sono fre quenti;senoncheglisembra che nègl'intuiti,néleispi razioni ,
nè gli istinti, nè le idee inerenti allo spirito , benchè talvolta simulino
l'evidenza,bastano però a surrogarla pie namente . Se ilDe Grazia tralascia gl'influssi
divini, cið avviene perchè il Mamiani non li aveva ancora escogitati. Ma
torniamo agli appunti ch'ei muove al Gioberti. Come !
eidice,l'intuitoèpresente,enon sivede!È ecclissato,sirepli ca,estabene;ma
comeunmotivofinito basta adecclissarlo? G., per questo inesplicabile ecclisse,
s 'insospet d'altronde doveasi toccare con più rispettoso contegno. Fino ne'
sette colori del prisma scorge il ternario, da che tre soli secondo l'autore
sono iprincipali ». Che cosa avrebbe detto G.,se avesse letto la Vita di Gesù
Cristo dell'abate Fornari ? Il Gioberti si studia di sostenere col ragionamento
la dot trinaquasiispiratadelLaMennais: G. rendegiu stizia al filosofo
italiano,nè lo confonde con l'autor dell’Ab
bozzo.Eccoperòlasommadegliappunticheglimuove. IlGioberti, perlui, esclude ogni analisi
delle idee, eper dispensarci dalle minute inchieste psicologiche, ci accorda l
' immediata veduta delle idee divine. Certamente, ripigli a il De Grazia,eivalmegliocontemplarlenellalorointegritàri
flesse dal lume divino su le parole, che attentarsi di rima neggiarle con
profana analisi ! « Per togliersi da ogni impaccio basta oggi il dire : io
sento i corpi esterni,le mie sensazioni sono percettive de'corpi esterni;ovvero
per risolvere con un solo atto tutte le qui stioni di ontologia e di psicologia
: io intuisco il creato,il creatore,el'atto creativo!»
tiscedellaesistenza dell'intuito.E poi,esso nèsipuòvedere dalla
coscienza,nè dimostrare dalla ragione, come fare dun que a verificarlo ? Nè
piùplausibileèilsussidiochedovrebbearrecarelapa rola, affinchè dall'intuito si
passasse alla riflessione. Il potere della parola, dice G, è misterioso: non
circoscrive l'idea,su la quale non ha presa n è punto nè poco ; e non accresce
la nostra facoltà intellettiva. Sicchè, tutto ragguagliato, ilGioberti
cilasciacon una virtù intellettiva in potenza , e con una riflessione a nude
parole. Dove però G. va più addentro nel sistema giober tiano,è,a parer
mio,nella seguente osservazione. «Ma laricercafondamentale,dicuisièsempre
taciuto, concernelapossibilitàdella visione in Dio. La stessanonè
solamenteunfattogratuitamentesupposto,ma neppurciè dato sapere, se un essere
può vedere le idee di un altro es sere ». Questa obbiezione del De Grazia
equivale a quella dello Spaventa,quando osservava,che l'Ente veduto
dall'intuito giobertiano non può essere uno spirito. Diciamo ora della critica
del Rosmini . Della teorica rosminiana il nostro filosofo s'era occupato nel
Saggio ; ci torna di poi nelle opere posteriori alla morte del Galluppi con più
larghezza. G. continua:vedere le idee in Dio,presuppone
assodato,cheIddioleabbia;ora,cheilmodo dellacono
scenzadivinanonsiaconformealnostro;echequindinon si faccia per idee molteplici
e rappresentative, pare più ac cettato dalla filosofia ortodossa . E qui
riscontra la dottrina giobertiana non solo con quella del Malebranche,ma con
quella di Sant'Agostino,e non la trova somigliante,e quin di non la tiene per
ortodossa. Nel Galluppi il De Grazia aveva combattuto il concettualismo, aveva
combattuto l'asserzione , che le nostre idee non siano rappresentative.A
proposito del Rosmini ripiglia la controversia del concettualismo . Il
concettualismo si fonda su la subbiettività de'rapporti, onde risultano le
idee:contro ilconcettualismo adunque ba sta contrapporre questa sentenza di san
Tommaso : « relatio nem esserem naturae ». Or qual dottrina segue il Rosmini?
Forse quest a dell'Aquinate, fondatasulpiùschiettorealismo? No; nesegueuna
ambigua , e per tal ambiguità cerca tirar dalla sua l'autorità di San Tommaso. L'ente
ideale del Rosmini, dice G., è bifronte; da un lato offre l'idea universale di
esistenza, dall'altro un ente esistente ». Basterebbe questa profonda
osservazione, per dimostrare diquantaperspicaciafossefornitoilDe Grazia;ma
egliva più in là ancora,ed addita un riscontro, che rivela la forza della sua
critica. « M a , ci si dirà, qui non trattasi di una esistenza sostan ziale, o
di accidenti di una sostanza, bensi di una esistenza ideale, qual può competere
ad una idea.Si,ciò ricorda l'Idea di Hegel , con la differenza che questa
contempla sè stessa, e l'idea universale di esistenza è l'oggetto contemplato
da tutte le intelligenze, differenza che gli hegeliani farebbero sparire.Quanto
allanaturadellaesistenza, l'entedelRosmi ni non è meno lucido e trasparente,
che l'Idea hegeliana, perchè altro non è che l'idea di esistenza, o la
possibilità «Sipongaormente,eglidice,cheiduepuntimessia
maggiorrisaltonelnostro librosono:1.che ilconcettuali smo è la causa principale
delle deviazioni della filosofia,e la grande abilitazione de'sistemi
speculativi;2. che l'Aquinate, tenendosi immune dal concettualismo,ha
felicemente seguito il metodo di pura osservazione ». dell'esistenza,come lo
stesso Rosmini ripetutamente va ri cordando a'suoi lettori ». « Se quindi si
ammette una esistenza attuale e indetermi nata;attuale e non reale; se si
ammette la possibilità dell'e sistenza essere un'attuale esistenza,si avrà il
caso proprio di una identità de'due contrari «.(Esperimenti della filoso
fiaspeculativane’sistemi delsecolocorrente -Napoli, Rassegna). Ho notato in
corsivo l'ultima conclusione di G., perchè il lettore rifletta su la
somiglianza da lui additata tra l'Ente rosminiano,e l'Idea dell'Hegel. Quando
lo Spaventa, dopo di G., e senza sapere
forsedelfilosofocalabrese,lecuiopere,specialmente leul time,erano rimaste
sconosciute,mise in rilievo con più larghezza quel riscontro, la cos aparve
strana , e ci si vide uno stiracchiamento forzato de'sistemi in servizio di un
criterio preconcetto.Piùtardi,coloro chesieranoarrogatalarap presentanzadella filosofiaitaliana,
levarono lavoce,epro testarono contro il malvezzo di voler far parere la nostra
filosofiaun'imitazione dellafilosofiatedesca.Sietematti,si disse !il Galluppi
kantiano ! Il Rosmini hegeliano ! Le son cosedaridere:voiconfondeteitipicon
gliectipi;voi non sapete che in Italia c'è un'abbondanza straordinaria di tipi,
e che voi altri li sfigurate barbaramente per poterli tramu tare in ectipi.
Questa brava gente,veramente tipica,ignorava,che ilri scontro era tanto poco
sforzato, da esser apparso manifesto ad un filosofo, il quale non era punto
tenero della filosofia tedesca,e che di tutto si poteva accusare, salvo che
della smania divoler costruire la storiaapriori. G., difatti,aveva a chiare
note,e con grande insistenza,segna latoilkantismonelsistema delGalluppi;econ
menodiffu sione,ma con non minor chiarezza,l'hegelismo nel sistema
delRosmini.Oh!come dunqueivindici,glistoriografi,i rappresentanti
dellafilosofiaitalianaignoravanotuttalacri tica che si era esercitata nel
nostro paese su la nostra filo sofia nazionale ? Ma torniamo alRosmini. IlDe
Grazia, dopo avvertita l'ambigua natura dell'Ente
rosminiano,dopoaverbiasimatoilRosmini dinonaverte nuto fermo in una sola e
medesima sentenza,di averlo una
voltachiamatounlumedatodaDio,un'altravoltaillume divinomedesimo, eidimostra uguale
accorgimento nelrile vare altri difetti. L'origine delle nostre idee è
doppia,una l'idea dell'ente, l'altra lapercezionesensitiva; ma G. s'accorge,
che la vera sorgente,l'unica sorgente rimane quest'ultima, e domanda : « A che
serve il contrarre l'espressione di quanto si vuol che noi percepiamo
immediatamente con una sensazione ? Il participio sostituito al verbo potrà mai
avere ilvalore di nasconderei moltigiudizî, chesicontengono nella formola
«enteagentesuimieisensi»? Il participio sostituito al verbo è difatti il
ripiego della ideologia rosminiana: G. ha colto a maraviglia. La percezione sensitiva, ei continua,è,o no,
un atto del pensiero? Se lo è,siavrà un pensare identico alsentire; senonloè, siavràunapercezione,
allaqualeilnostrospi rito non pensa !O cade in sensualismo, o è nulla pel
nostro pensiero ». La percezione sensitiva adunque non si vede in che diver
sifichi dalla sensazione, posto che in lei non debba concorre re traccia di
pensiero: nè molto proficua è la ragione, che il De Grazia chiama potenza terza
e neutrale. Non è intellet to,non è senso:applica ildato dell'intelletto ai
dati della sensibilità;d'altro non brigasi;ma chimallevaallorala realtà ?Non
l'intelletto che ha da fare col possibile ; non il senso che non può cogliere
altro che nostre modificazioni. « La capacità di sentire e la
facoltà di percepire sono due potenze così differenti,che dee tenersi per ugual
controsenso l' attribuire la percezione alla sensibilità, e l'attribuir la
sensazione all'intelletto ». Rosmini con la percezione sensitiva attribuisce al
senso più che la costui capacità non comporti ; ricasca quindi nel difetto del
Galluppi, che fece la sensazione immediatamente percettiva.A questo sbaglio
ecco tener dietro un altro,che a noi piace riferire con le stesse parole del De
Grazia. « Un'altra opinione sui generis è di ammettere nel fatto la percezione
immediata del nostro essere ,e dell'essere ester no , m a il fatto aver bisogno
di venire autenticato da una idea innata, per quanto concerne la vera
esistenza, perchè altri menti quella da noi appresa nella coscienza potrebbe
dirsi apocrifa ! Meglio non poteasi rilevare la superfluità dell'ente rosmi
niano,dopoaverammesso lapercezionesensitivapercoglie re l'esistenza immediata e
reale. Come impugni G. le interpetrazioni date dal Rosminialsistemadi san Tommaso
vedremoaltravolta; chè tal ricerca non è semplicemente storica,e meglio si
collega allaesposizione della dottrina del nostrofilosofo,ilquale altro non
pretende di aver fatto,che di aver rinnovata la filosofia del sommo
Aquinate,stata per tanti secoli o scono sciuta o frantesa. Venghiamo al
giudizio su l'Hegel. Già pel De Grazia tutt'i sistemi nati in Germania dopo del
Kant sono « romanzi filosofici »;questo d'Hegel fra gli altri, anzi a capo
degli altri. Ignaro della lingua tedesca,egli tanto sa de'sistemi tede schi,
quanto ne ha appreso dal libro di Ott,ch'era stato pubblicato a Parigi. Non è
da recar maraviglia adunque, A G. non isfugge nessuno dei tortuosi giri
dell'ideo logia rosminiana. 45 s'ei qui non possa penetrare sempre
addentro nel pensiero dell'Hegel,come ha fatto coi filosofi francesi, e coi
nostri. Onde,mentre lasuacritica della filosofia del Galluppi,del Rosmini
edelGioberti, benchèprolissaestemperata,abbon da di osservazioni sode e
profonde, la critica dell'Hegel rie sce monca e superficiale. A lui mancava la
cognizione pie na ed esatta del sistema;pur tuttavia di alcuni appunti non
sipuò ameno diammirare lasagacia,elaserietà. Attraverso alle incertezze di una
esposizione,dove trovan luogo metafore più proprie ad abbuiare un concetto,che
a lumeggiarlo,èdifficilecogliere ilsignificato genuinodiun sistema . Così a G.
il divenire hegeliano sembra uno strofinamento dell'essere col non-essere. Par
che baleni il sospetto di qualche alterazione al De Grazia stesso,ma tosto si
ripiglia, ed afferma che « si può esser sicuro che le pro posizioni
fondamentali della Logica hegeliana non valgono in tedesco più di quel che
valgano in italiano o in qualsiasi lingua ».Una tal sicurezza veramente fa un
poco a calci col metodo d'osservazione adottato dal nostro filosofo. Il quale
se avesse conosciuto iltedesco, si sarebbe accorto che non trattavasi nè di
movimento,nè molto meno distrofinamento. L'accusaperò, chemuove
allaLogicahegelianadiessere un sistema di rapporti senza termini,è molto più
fondata. Senonchenella Logica,itermininonsonoenonpossono essere altro,che
relazioni anch'essi ; ma non è vero però, ch'e i siano un mero niente, e che
tutto il processo hegeliano riesca al postutto ad un movimento da niente a
niente. Cotesta esagerazione è in lui derivata dal non aver compreso bene il
valore del Nicht - sein , che non egli soltanto, m a parecchi si sono
incaponiti ad intendere per un bel nulla. Fisso in questa interpetrazione, ei
continua a biasimare questo modo di far della scienzaun tessuto disiedino,
lontano da ogni realtà salda,e solo conveniente a quella fi losofia,che
riduceirapportiapurevedute dellospirito.Qui, come si può scorgere,ei non
vuol lasciarsi fuggir l'occasio ne di scagliare un'altra frecciata alla tanto
combattuta filo sofia del Galluppi, accennando la simiglianza che corre tra la
soggettività de'rapporti e l'Idealismo trascendentale ,che poi siassolvette nell'Idealismoassoluto.
G. confino accorgimento perseguita il suo illustre avversario sino alle ultime
e non sospettate conseguenze del suo principio. « Un rapporto ideale senza
itermini sarebbe appreso dalla. nostramente, sesiammettesse lasupposizione,che
irap porti sono pure vedute dello spirito, alle quali nulla corri sponde nelle
cose ». Hegel è agli occhi di G. un elevato e perspicace pensator , ma il suo
sistema è una perpetua ironia . L a sola istruzione che se ne possa cavare è
quella di capacitarsi della impotenza della filosofia speculativa a cogliere ed
a spiegare la realtà. « Ecco dunque l'istruzione ch'egli (Hegel) ci dà in forme
le più solenni :volete voi passare dal cerchio delle idee astrat te al mondo
reale ? vi è forza porre innanzi tratto, che il reale è lo stesso che l'ideale
! In altri termini : dalle idee astratte non si può derivare la realtà; e
questa massima può servir di lezione pe'tentativi,in cui con minori
proporzioni, o più propiamente, con meno di purità speculativa, si voles se
maneggiare ilmetodo ontologico ». I due principii che lo informano sono
l'Idealismo,e la con traddizione ; dall'uno il sistema hegeliano piglia le
prime mosse;coll'altraprocede avanti.Che cosa se ne inferisce? Questo soltanto,
che il concettualismo è falso; ma la vera filosofia rimane illesa dai suoi
colpi. Il valore che il De Grazia attribuisce ad Hegel è lo stesso, benchè egli
nol dica espressamente, di quello che Socrate ebbe verso la Sofistica. L'ironia
socratica avrebbe svelato le contraddizioni della Sofistica, come l'ironia
hegeliana avreb be tirato le ultime conseguenze del Concettualismo moderno
. Hegel, secondo il giudizio di G., addito il rimedio contro le
forme subbiettive di Kant ,deducendo da quelle pre messe , che dunque « i
fenomeni del pensiero sono la sola v e rità assoluta », Tutta la storia della
filosofia si spiega,adunque, e siran noda intorno al problema della conoscenza.
Tre domande si possono fare: qual è lo stato presente della nostra coscienza ?
qual è stata la sua origine ? qual è la sua realtà ? Il criterio con cui il
nostro filosofo giudica tutt'i sistemi è il seguente : « ciò che la nostra
mente vede in u n fatto o è realmente nel fatto, o la nostra veduta è su tal
riguardo il lusoria ». Da un lato adunque c 'è il realismo, a favore del quale
egli si schiera ; dall'altro lato il concettualismo, che pigli a diverse forme,
finchè non diventi idealismo assoluto, ossia l'iro nia hegeliana, che mette a
nudo le coperte magagne de'siste mi antecedenti,Benchè ilibridi G. sianopiuttostopolemiciche
dottrinali,pure in essi,e nel Saggio principalmente,si scor gono le linee di
una nuova soluzione del problema genealo gico delle idee.Il De Grazia fa
consistere in questa soluzio ne tutta la sostanza della filosofia;m a a lui la
genealogia non ha lostessosignificato,chehaalBorrelli,dalqualetolse
probabilmente ilnome.IlBorrelli,quasi almodo stesso,che fa oggidi l'Herbert
Spencer, studia la genesi del pensiero sotto l'aspetto fisiologico : il De
Grazia si arresta ai tre fe nomeni primitivi del sentire,del pensare,e del
volere,e di quivi soltanto piglia le mosse . Qual è ora per lui l'immediato,o
ilfatto primitivo, sul quale riposa la filosofia sperimentale ? IlGalluppi
aveva risposto :questo immediato è ilsenti mentodelmeedelfuordime; G. risponde:ilve
roimmediatoèil sentimentodelmesolo. Questa prima discrepanza si può dire la
origine di ogni divario che corre tra la filosofia de due filosofi calabresi. E
n trambi vogliono partire dalla esperienza immediata, m a i li miti di questa
immediatezza non sono tracciati al modo m e desimo . «Ilmetodo
d'osservazione,dice G., ciguida a riconoscere,che ilcampo
dellaimmediata percezione di fatti reali è la sola esperienza interna, ove
l'oggetto è in noi , è la nostra esistenza,e quanto apprendiamo nelle nostre m
a niere di essere.Gli oggetti esterni non sono esposti alla immediata nostra
percezione, ma n o i li percepiamo col mezzo di più atti mentali ». Questa
confusione sembra al nostro filosofo tanto più ine scusabile nel
Galluppi,quanto più questi si era chiarito con trario alla tesi della
sensazione trasformata . «Potrebbemaicredersi,eidice,chementre egli(ilGalluppi)
combatte avivamente il principio sensualista, giudicare è sentire, abbia poi
ritenuto, che il sentire è una speci e del pensare? G. scorge manifesti
gl'inconvenienti della spie gazione galluppiana , e li addita così .
«Quandosiammette, chele realtà esteriorisono danoi sentite,e che poi
l'analisi,distinguendo isentimenti che da prima erano confusi,cidàleidee,non
sipuòsfuggirealla conseguenza,che dette idee non sono altro che sentimenti
distinti;poichè l'analisi non ha cangiato la loro natura primitiva; onde tutto
il capitale della esperienza esterna è costituito da ciò che sisente,e da
que'rapporti,che il nostro spirito ha in pura sua seduta,ma che non sono nelle
cose. Si fatte conseguenze vengono poi confermate ed ampliate con
essersidetto,che lacoscienzaèlasensibilità interna, cioè All'acume
di G. non isfuggi la conseguenza,che avrebbe portato il principio galluppiano.
Se la realtà este rioreècoltaimmediatamente, dunque ilsentire è lostesso che il
percepire ; è lo stesso , che il pensare . Galluppi sen'e ra aperto con molta
chiarezza: la sensazione,per lui,suppo ne l'oggetto sentito,come ilpensare
suppone l'oggetto pen sato.Ilsentire era dunque una specie del pensare :sentire
e pensare non erano più due fenomeni primitivi, ed irredu cibili,come G.
sostiene. la conoscenza de'fatti interni è sensibilità. Vedesi
quindi che con questi principî ilsentire non fu distinto dal pen sare ». Gli
estremi , tra cui si studia di librarsi G., son questi due:da una parte quello
che raccorcia la portata del la coscienza;dall'altra quello che la dilata oltre
il convene vole.Chi dice:lacoscienzanon coglielanostraesistenza,e chidice: lacoscienzasiestende
alla realtà esterna, dice u gualmente cosa inesatta ;per difetto, la prima
osservazione; per eccesso,la seconda. IlGalluppi ammetteundoppio immediato,ilme
edilnon me; G. neammetteuno, ilmesolo: dondeproviene siffatto divario ? Eccolo
,con le parole stesse del De Grazia, le quali compendiano e chiariscono la
dottrina galluppiana. « Il dir che partendo dalle nostre modificazioni
sensibili, noi veniam per via di giudizî acquistando la conoscenza del mondo
esteriore, val quanto il dir che lo spirito umano coni suo i propri i elementi
compone il mondo . La filosofia sperimentale di Francia su questo punto va a
coincidere con l'I dealismo di Kant ». E perchè? Perchè il Galluppi non si
affidava ai giudizî per coglierelarealtà;perchèigiudizî,secondo lui,erano pure
vedute dello spirito; di modo ché, se il mondo non ci fosse a p parso dal bel principio
così,come oggi lo apprendiamo , quel lo costruito di poi sarebbe stato una mera
relazione del n o stro spirito,a cui nulla sarebbe corrisposto di reale nella
natura.Diffidente della sincerità de'nostri mezzi di conosce re, il Galluppiquindiappigliossialpartito
delReid,edam mise l'immediatezza della sensazione,confondendola con la
percezione esterna. 51 « Si è quindi detto,osserva il De Grazia,che nel
fatto io sento non è contenuto il proprio essere, e si è terminato d'altra
parte con dire che nel fatto io sento si contiene l'essere
straniero,ilnonio». G. ritienelasinceritàdelgiudizio,ritieneirap porti
come reali,e quindi non alla sensazione,ma ad un pro
cessospontaneodell'intelletto,edalconcorso digiudizîdi venuti abituali ed
indiscernibili attribuisce le idee de'corpi, quali nello stato presente le troviamo
nella nostra coscienza . Esclusa da G. l'immediatezza della sensazione, non per
questo ei mena buoni que'sillogismi, iquali si cre devano più spedito passaggio
dalle nostre sensazioni alm o n do esterno. G. nota che il modello di questi
ragionamenti ri sale fino al nostro Campanella, il quale lo formolò così: Sia
monoichemutiamo: dunquesentiamosolonoistessi, enon giàlecose.Noisentiamo
lecoseesterne,soloperchécisen tiamomutare,manonsiamonoichecimutiamo;dunqueal
tracosacimuta. Questo sillogismo , che , variamente rimaneggiato , è rimasto in
sostanza il gran ponte di passaggio dal mondo interno all'esterno,nonèparsoabbastanzaconcludentealnostro
fi losofo.Le lacune,ch'egliviha scorte,non sipossono logi camente
colmare.Anzitutto :chi vi dice che ilprincipio di ogni nostra mutazione sia la
volontà ? L'associazione delle nostre idee talvolta non è volontaria, ed
intanto è mutazio nenostra. Epoi, poniamo che la mutazione vi additi alcunchè
di esterno, chi vi garantisce che il principio esterno sia un corpo ? A
taliobbiezioninonc'èdareplicare:ilsillogismoèim potente a discoprire un fatto
:esso è utile soltanto a disco prire verità di ragione. Tolta l'immediatezza
della sensazione,tolto il sillogismo, G. torna alle rappresentazioni , come
immagini delle cose esterne,ed alla induzione,la quale,travagliandosi su quelle
immagini,va legittimando la realtà delle immagini complesse,che l'associazione
ha spontaneamente ed abitual mente formate.Non sarà una dimostrazione
necessaria,ma nelle verità di fatto non si dà mai l'assoluta
impossibilità dell'opposto,e bisogna contentarsi della certezza morale.
L'associazione collega insieme le immagini visive e le tat
tili:igiudizîabituali colgonoirapportiqualirealmente e sistono ;noi adunque
venghiamo componendo lo spettacolo del mondo esterno non con vedute
subbiettive,ma con ele menti dati dalla realtà stessa dellecose. Questa è stata
pure la dottrina dell'Aquinate,e ditutta la filosofia ortodossa. Nell'ultima
opera pubblicata col titolo di Prospetto della filosofia ortodossa,ilnostro
filosofo sifaforte dell'autorità dell'Aquinate per tutte le parti fondamentali
della sua dot trina,salvoimiglioramentich'eicredediavervi arrecato, supplendo a
quelli ch'ei chiama desiderata della filosofia to
mistica.IlDeGrazianoneraabbastanzaversato nella filosofia aristotelica , da
accorger s i che il meglio d i quella, che ei battezzava per dottrina
ortodossa,era mutuato da Aristo tele.Vediamo intanto quali principii ei ne accoglie,e
ne te soreggia. Primieramente il De Grazia avverte la differenza che l’A
quinate mette tra isensibili proprî,ed icomuni;differenza, che noi sappiamo
appartenere ad Aristotele. Con molto acume l’Aquinate aveva avvertito di fatti
che isensibili proprî sono qualità,come odori,sapori,suoni,co lori,e simili;e
che isensibili comuni,invece,sono quanti tà o estensiva,o intensiva,o
discreta,come figure,distan ze,movimenti, successione :« sensibilia propria ...
sunt qualitates : sensibilia communia omnia reducuntur ad quantitatem ».
Finalmente cita la sentenza che accenna alla formazione delleimmagini corporee,
echeattribuisce allospirito,enon Dipoi ricorda la dottrina sui
rapporti,che San Tommaso ha riconosciuto come reali, comeresnaturae, enongiàco
me res rationis. giàaicorpi. «Imaginem corporisnoncorpus inspiritu,
sed ipse spiritus in seipso facit ». Alla quale ultima sentenza G. aggiunge
questa avvertenza . E l'avvertenza mira visibilmente a cansare l'equivoco del
le forme soggettive,e degli elementi a priori da lui con gran de perseveranza
combattuti.Lo spirito si compone egli le immagini de'corpi esterni, l'idea del
corpo è un prodotto della sintesi , contro alla opinione del Galluppi, m a in
questo raccoglimento non c'è mistura di elementi soggettivi :tutti idati sono
reali.Inquestosignificato,enonaltrimenti va intesalaproposizione dell'Aquinate,
che ad altri potrebbe parere intinta di kantismo, e che suona così :dat (anima)
eisformandisquiddam substantiaesuae. San Tommaso adunque aveva tracciato le
prime linee di quella filosofia sperimentale, di cui G. si dà per continuatore: i due filosofi cadono
d'accordo sui seguenti ri sultati : 1o che nel senso non v'è altro che il
cangiamento del senso;2ochele immagini de'corpi sivan componendo con elementi
nostri; 3ochenoigiudichiamo, essere icorpi simili a quelle immagini. Se non che
Tommaso s'era fermato qui. G. domanda inoltre:con quali operazioni si son for
mate quelle immagini ? Con qual criterio le giudichiamo si mili ai corpi
esterni ? E alla prima domanda ha risposto : le operazioni sono i giudizî
accoppiati alle sensazioni;l'associazione delle im magini visive con le
immagini tattili: giudizi ed associa zione che si uniscono spontaneamente ed
abitualmente. Alla seconda domanda poi ha risposto: la legittimazione
« Quanto però egli (San Tommaso) enuncia,non lascia dub bio, che nella
formazione delle immagini de'corpi esterni ha inteso non mettersi in opra altri
elementi,che que'del senso e della imaginazione». Quando , difatti,
io applico ai fenomeni della estensione le verità della geometria,e
l'applicazione riesce,allora è chia ro che alla esistenza de'corpi si aggiunge
tutta la forza della dimostrazione induttiva. Mal si è creduto che ogni nerbo
di logica dimostrazione consistesse soltanto nel sil logismo e nelle sue forme.
« Se l'estensione corporea,dice G. ,è reale, la troverò costantemente conforme
alle leggi geometriche,ma se è un'illusione de'sensi,mi sipotrà presentare
nelle vo lubili forme in cuiapparisce ne'sogni.Nella ipotesi affer mativa v'è
la necessità assoluta di trovarsi avverate le ve ritàmatematiche,come
sihanell'esperienza:nellaipotesi negativa, l'evento che ne dà l'esperienza, è
uno degli in finiti eventi possibili. Questo cenno può far presentire, a qual
grado si eleva la pruova induttiva del Leibniz,riguar dandola dal solo lato
delle verità matematiche. Esposta in questi termini la mente del nostro
filosofo, proseguiamo a raffrontare le differenze conseguenti tra la sua
dottrina,e quella del Galluppi. Il Galluppi aveva pareggiata la sperienza
interna con l'e sterna,e quindi ammessa una doppia relazione colta imme
diatamente, quella tra sostanza e modificazione, e l'altra tra
causaedeffetto.IlDeGrazia,invece,distingueleidee pri - si fa non per la
immediatezza della sensazione,e neppure per sillogismo,ma per via
d'induzione,secondo l'addita mento diLeibniz,ediD'Alembert,idue
filosofimatemati ci,mal trascurati dai filosofi posteriori. Non è dimostrazione
apodittica cotesta,certamente : an che un incontro fortuito potrebbe essere
causa di quella cor rispondenza che noi verifichiamo nella sperienza tra i rap
porti quantitativi ideali,eirapporti quantitativi reali dei corpi;ma
aqualestremo siassottiglia questa possibilitàdi un incontro fortuito,e di
quanta forza non s'ingagliardi sce l'ipotesi della realtà de'rapporti tra corpo
e corpo ! mitive dalle derivative ;chiama primitive quelle che sono
ricavate dal fatto immediato della coscienza,da lui circo scritto
nelsoloiosento;echiamaderivativequelleche na scono poi dalla sperienza esterna.
« Si sono messe,ei dice,in una medesima classe,tanto le idee primitive di
numero, di sostanza,e di modificazione, di affermazione e negazione,quanto le
idee derivative di causa,diazione mutua,delcontingente,delnecessario,del
possibile;e non si sono mentovate le idee derivative di spa zio,ditempo,per
essersi supposto venirci date dallasen sibilità senza previo lavoro
dell'intelletto ». L'originale dell'idea di sostanza è dunque ilnostro pro prio
essere:delle modificazioni si dice impropriamente che esistono:ciò ch'esiste è
la sostanza.Però se un essere esi stente non avesse punto di modi,ei non
sarebbe nè in m o to,nèinquiete;nèpensante,nènon pensante,ecisarebbe un mezzo
tra l' esseree d il non essere ; il che è assurdo . Cosi dice egli parlando
delle forme kantiane,e l'appun to si può volgere pure al Galluppi, che alla
sostanza ed alla causa attribuì, come abbiamo visto, la medesima origine. Pel
De Grazia la coscienza è l'lo sento,e in questo fatto permanente della propria
esistenza lo spirito apprende la sostanza, come la modificazione nelle
sensazioni in cui si senteesistere.Ilmododiesisterenon sipuòdispiccaredal
laesistenza, e G. chiama una RIVOLUZIONE filosofica quella avvenuta in
occasione dello scetticismo di Hume , quando si cominciò ad affermare che nel
fatto di coscienza v'èilsolomodo diessere,enon giàl'essere. D'allorain poi si
cercò di supplire a questo difetto supposto per via di aggiunzioni provenienti
da altresorgenti:così ilRosmini suppose che al fatto di coscienza si dovesse
aggiungere l'i dea dell'essere.Pel De Grazia ilfatto della coscienza nella sua
integrità dà l'uno e l'altro; se non che a cogliere questo rapporto non è
attalasensazione, siveramente ilgiudizio. Senza avere sperimentato
il fatto del passaggio da una modificazione ad un'altra,noi non avremmo potuto
affer marlo : dopo la sperienza però,noi essendo in un dato m o do pensiamo la
tendenza di passare ad un altro; e cotesta tendenza chiamiamo forza, la quale è
dunque ciò che han no di costante gli stati successivi della sostanza. Nella
originedell'idea di causa noi abbiamo bisogno di al tri dati. a Non
siavverte,diceilnostro autore,chelacausa che produce le sensazioni è quella che
mette in esercizio la sen sibilità;lacausa cheproduceipensierinon èlapotenzadi
pensare,ma èquellachemetteineserciziolapotenzadi pensare;la causa che produce
ivoleri non è la volontà,ma è quella che mette in esercizio la volontà ». Chi
ricorda ora che a queste tre classi di fenomeni ri duce
eglituttalanostraattivitàspirituale,vede chiaramen te cheperluiselacoscienzaporgeil
modellodellasostan za,non èperòbastevoleaspiegarel'ideadicausa.Qui oc corrono
più sostanze, di cui una determina l'altra. Nella sostanza la mutazione
sopravvenuta è determinata dallostatoanteriore; nellacausaessamutazione èdeter
minata e dallo stato anteriore e dalla mutua azione. G. riassume la sua
dottrina su queste due idee capitali nel seguente modo . « La sostanza persiste
nella suaimmutabile naturaal can giar delle modificazioni. Nell'ordine naturale
nè possono prodursi nuove sostanze, nè leattualiannientarsi. I cangiamenti di
una sostanza sono cosi connessi tra lo ro,cheinogniistanteil suostatoèdeterminatodalsuosta
to antecedente,cioè nel corso de'suoi cangiamenti ha per
modificazionecostanteunatendenzaalcangiamentocheim mediato vaseguendo, equestatendenzaèquelche
noi conosciamo della forza interna di una sostanza.La diversa na tura di queste
forze ci viene manifestata dalla esperienza, cioè dai diversi cangiamenti della
sostanza.Così distinguia mo levarieforzeinternediuna sostanza,elevarieforzein
terne delle diverse sostanze ». « Una sostanza, che trovasi in uno stato
permanente non può da sè stessa,cioè per propria forza,passare ad altro stato
». «Oltre la connessione traicangiamentidiunastessaso stanza v'è anche una
connessione tra i cangiamenti di di verse sostanze,cioè una mutua azione tra le
medesime ». « Tutti gli avvenimenti dell'universo saranno necessarii, e
l'azzardo non è che l'incontro di avvenimenti non con nessi tra loro.Ma questo
incontro medesimo è necessario, in quanto son necessarie le serie
de'cangiamenti anteriori, che han determinato quegli stessi avvenimenti che
s'incon trano ». Ecco la somma della sua dottrina,la quale,intorno alla
causalità specialmente, è la traduzione filosofica delle leggi delmoto
diNewton.Questeleggi,osservailDeGrazia,ed a ragione, non sarebbero vere leggi
degli esseri naturali,se fosse falsa l'ipotesi della mutua azione. Locke
intanto aveva negato l'idea di sostanza, Hume la connessione richiesta dalla
mutua azione nella causalita ; entrambi per lo stesso motivo,che noi cioè non
conoscia mo adeguatamente nè quella,nè questa. Pare al nostro au
torecheilragionamentodiHumesiriducaaquestoentime ma:noinonabbiamoideaadeguata
diazione;dunque non ne abhiamo punto. Le ricerche,dalle quali Hume era stato
indotto a questa conclusione ,la quale troncava i nervi ad ogni attività scien
tifica, si possono brevemente esporre così.L'esperienza non dàconnessione,ma
semplicecongiunzione:ilragionamento non dà idee nuove :l'abitudine non cangia
la natura della 58 prinda percezione,come una serie di zeri è
impotente a co stituire una quantità. Con
lacoscienzacolghiamolemutazioninostre,elegiu dichiamo
appartenereallanostrasostanza:conl'astrazione noi
rendiamogeneralequestaconnessioneinterna.La spe rienza esternadipoicimostrafattiincongiunzione,ma
con tal costanza,che noi ci avvezziamo a riferire un fenomeno alla presenza di
un dato oggetto:noi induciamo,che questa
congiunzionesiaunaveradipendenza.Eperchè?«Unacontraria supposizione, ei
risponde, implica l'assurdo, che due sostanze con le stesse modificazioni sono
condizionate ad e sercitare una mutua azione in un tempo più tosto che in
altro;in un luogo più tosto che in altro luogo. In tal guisa tutte quelle
funzioni del pensiero,che isolate non sarebberostatebastevoliafornircilaconnessionecau
sale,intrecciateabilmente insieme bastano. IlKant,come sappiamo,dallepremesse
diHume,lasciate correre senza contrasto,inferi che dunque l'idea di causa è a
priori ; evitando con questa origine le scabrose ricerche de]l'analisi.Altri
aveva inferito,che ilprincipio di causali tà sia,nongiàsinteticoapriori,ma
analiticoadirittura, come trainostriilGalluppiedilRosmini:ilnostroDeGra zia
riconosce che nella idea dell'avvenimento non è racchiu s a l'idea della sua
causa ; dà ragione alla filosofia critica di averlo sostenuto per sintetico;ma
crede di coglierla poi in flagrante contraddizione nel valore che Kant attribuì
a tal principio. Giovaesaminarequest'ultimo aspetto della questione. G. replicò:altroèil
non avere una ideaadegua ta,ilnonconoscereilcomedell'azione;edaltroilnon a
verne la menoma idea.Vero è inoltre,che nè la sperienza, nè il sillogismo,nè
l'abitudine bastano da soli,ma intrecciati insieme forsebasteranno: epoisièlasciatafuordiconto
l'in duzione,laquale èdiunaiutoinestimabile.Ed eccocome. Kant aveva
attribuito al principio di causalità un'origine
apriori,epoiavevaattribuitoallostessounvalore oggettivo: G. interpet r a
oggettivo nel senso della filosofia sperimentale,ed affibbiaalKant una
contraddizione,che proviene da una poco esatta cognizione della Critica della
Ragion pura. Da una partesiammette,cheinostriconcettieigiu dizî sintetici a
priori hanno un valore oggettivo nella na tura ... Dall'altra parte si sostiene
che la causalità non è legge degli esseri, ma legge de'lor cangiamenti sommessi
alla nostra esperienza ». Per Kant l'oggettivo non era punto nella natura , m a
era semplicemente ciò che si trovava in ogni coscienza,non co me questa o
quella coscienza empirica ed individuale,ma in ogni coscienza umana in
universale,in ogni coscienza uma na come tale. Onde Kuno Fischer esponendo
questa significazione della parola oggettivo nel sistema kantiano scrive
appunto cosi. Nun heisst «verknüpft sein in reinen Bewusstsein soviel als
obiectiv verknüpft sein. Ma di tali inesattezze fu causa non la poca
penetrazione dellamente, sil'averluiignoratolalingua tedesca;ilche lo costrinse
a servirsi di poco sicure traduzioni. Nell'esame del modo, come G. spieg a
l'origine dell'idea disostanza,equella dicausa,noi abbiamo indi cato tutto quanto
il suo processo analitico nella genealo gia del pensiero,perchè la prima idea è
primitiva, la se conda derivativa. Pure di altre principali toccheremo un cenno
per chiarezza maggiore,ma prima alleghiamo testual mente la formola del suo
metodo. « Pura osservazione di fatto nelle idee primitive;pura os servazione di
concetti astratti nelle idee derivative ;ecco i due cardini del presente
Saggio. La natura oggettiva delle idee di rapporto , e i giudizî parte
integrante di alcune idee sono ledue vedute primordialinella quistionedellaorigine
e realtà delle nostre conoscenze. Con questo criterio ora ilnostro filosofo si
fa ad esami nare ilfatto, ediquivi pervia diastrazione, ossiapervia del
giudizio,attinge ogni nostra idea. Percepire ilpossibilevalgiudicare ciò ch'è
possibile, come percepireilnecessariovalgiudicareciòch'èneces s-ario,e
percepire ilgeneraleval giudicare ciò ch'è gene r ale. È una falsa opinione il
credere che la necessità,la pos sibilità,launiversalità,come altresì
laidentità,ladiversi t à non siano contenute tutte quante nella realtà che ci
sta davanti : il giudizio non aggiunge nulla di suo, esso è un puro mezzo di
osservazione, e nulla più. « Il nostro spirito ha la virtù di apprendere
l'identità e la diversità,con cuisioffronoleidee alla nostra percezio
ne:eccoquanto devesi solamentedire dal filosofo». L'infinito non è pel nostro
autore,se non la quantità in finita, e la origine di questa idea è anch'essa
dovuta alla e sperienza. « Partendo dal principio,che ilpositivo dee precedere
il negativo nell'ordine genealogico, abbiamo conchiuso,la quantità che ha
limiti dover precedere la quantità che non ha limiti;ilfinito dover precedere
l'infinito;ilsiavanti al no.L'equivoco ènelcredere,che una quantitàinfinita non
ènegativa». Che sesiosserva,laquantitàinfinitacomprendere in se tutte le
finite, è da osservare altresì ch'essa le comprende non come negazione,ma come
quantità:lanegazione siri ferisce al limite. Tra quelli che San Tommaso
chiamava sensibili comuni c'erano l'estensione e lasuccessione,rapporti
quantitati vi,mentre isensibiliproprîeranoqualità. Oralavorando
Piùcomplicata è la genesi delle idee di spazio e di tempo. sopra questi
due dati,vale a dire considerando come as soluta la posizione de'punti nella
estensione,e degl'istanti nella successione, si ha nel primo caso lo spazio,
nel se condo iltempo. « La pura estensione non è tutta intera l'idea dello s p
a zio :in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi punti . L'idea di
successione non è tutta intera l'idea del tempo : in questo v'è dippiù il
valore assoluto de'suoi istanti ». Che cosa vuol dire questo valore assoluto ?
Ecco:l'estensione consiste nella postura de'punti;e c o testa postura è di sua
natura relativa. Se ora la postura non si riferisce ad alcuni punti soltanto,ma
a tutt'i punti assegnabili, siavrànonpiùunadataestensione, ma lo spa
zio.Cosidicasideltempoperrispettoallasuccessione. C'è successione,se un
istantesiriferisce ad un istante dato : c'è tempo se la relazione si allarga a
tutti gl'istanti a s s e gnabili. Dimodochè lo spazio siha negando illimite
della esten sione finita ; il tempo negando il limite della successione finita.
Ma l'estensione e la successione,si domanderà, donde provvengono? G., che li chiama
sensibilicomuni, ritenendo la nomenclatura tomistica nel Prospetto della
filosofia o r t o dossa,nel Saggio ne attribuisce l'origine non alla sensibi
lità, ma all'intelletto.Egli anzi combatte la dottrina kantiana delle forme
pure della sensibilità,osservando che non si può dare estensione e successione
senza apprendere del le sensazioni come moltiplici,e quindi come diverse, o
meidentiche;sicchènumero,diversità,identitàsono con dizioni dell'apprensione di
questi due nuovi rapporti, che si dicono estensione e successione.Kant che le attribuiva
alla sensibilità non si accorgeva del concorso indispensa bile dell'intelletto
che vi si richiedeva ;ed anzi si contrad CO diceva
ammettendo, che la materia sensibile prende un pri mo
ordinenelleformepuredellasensibilità,echeperesse forme la varietà e la
moltiplicità della rappresentazione ac quista un certo ordine. Questa
contraddizione era stata avvertita dal Borrelli pri ma delGrazia, eforsequestil'hamutuatadall'autoredella
Genealogia delpensiero. Kant,aveva dettoilBorrelli,tie ne percategorie dell'intellettoladiversitàelamoltiplicità:
e d intanto ammette una varietà ed una moltitudine anche nella sensibilità:
come va ciò ? Nè Borrelli, né G. s'accorsero però che il divario tra categoria,
ed intuizione pura consiste non già nel supporre entrambe una moltiplicità;ma
nel diverso m o do dellegamecategorico,edintuitivo. Ma è tempo omai di
giudicare nel suo insieme il tentati v o del nostro filosofo. Propostosi
discoprire lelacunedellafilosofiadelGallup pi principalmente,e di additare i
costui sviamenti dal m e todo sperimentale, egli si studia di evitare ogni
spiegazio n e ,la quale non si desumesse dal fatto reale.La ragione c'è
nonperprodurre, maperosservare:ilpiùchepossafa re èdiastrarre.Per questa
disposizione d'animo gliando a sanguelafilosofia dell'Aquinate, che,foggiatasul'ari
stotelica, gli parve battesse la stessa via.Ripetendo l'an tico
adagioaristotelicocheilpensareèofantasia,onon senza fantasia,l'Aquinate procede
difatti di astrazione in astrazione,ma senzadispiccarsimaidalfattosensibile.Che
cosaèilfantasma? Similitudine dellacosa particolare:Si militudo
reiparticularis. Checosaèl'attodell'intendere? È
laspecieintelligibile,speciesintelligibilis,chesitorna ad astrarre
dalfantasma:un'astrazione adoppiogrado.E che cosavuoldireilluminareifantasmi,equelfamoso
lu me divino, sulqualetantoavevadisputatoilRosmini,seera Dio
stesso,ounsuoriflesso?Per G. nonèaltro,se non l'effetto della attenzione,
che vi si presta. Il giudicare era a lui un fatto irreducibile,da non
confondere con la sensazione, ma insiem e era un puro mezzo di osservazione .
Osservare adunque è la parola che compendia tutta la sua filosofia . Per questo
verso la filosofia di G. è più moderna
di quella del Galluppi, e rasenta assai da presso il Positivis mo
contemporaneo,cheinqueltorno sistavaconcependo. Il Corso di filosofia positiva
dettato da Augusto Comte fu pubblicato in Francia. G. avrebbe potuto averne
notizia,matuttoinduce acredere,ch'ei non
l'abbiaavuta.L'educazioneprimadellasuamente, che al pari di quella del Comte
era stata avvezza alle scien zeesatte, elapocapropensione per lespiegazioni
trascen dentali poteronlo però sospingere per la medesima via. G. al pari
de'positivisti dichiara sconosciute le essenze delle cose, limitata ad una mera
riduzione di feno meni tutta la nostra scienza:crede anche lui doversi appli
care alla filosofia il metodo delle scienze esatte e delle s p e rimentali,e da
qui la grande importanza che attribuisce alla induzione , la scarsa che
attribuisce al sillogismo . Se non che all'osservazione immediata ei
seppe accoppia re l'induzione,ch'è l'osservazione mediata. Della induzio ne
ebbe un concetto preciso,nè lavolle ristretta al sempli ceradunamento
de'fattiosservati,ma ne estese la portata oltre ai limiti della sperienza.In
questo allargamento però essa non genera nell'animo quella evidenza, che
scintilla soltanto dalla osservazione immediata, o dalle verità di r a gione;ma
una certezza morale,laquale ammette la possibi litàdell'opposto.Tutte
lescienzesperimentali debbono te nersi paghi di quello stato, ch'è pure tanto
discosto dal dubbio tormentoso lasciatoinereditàdạHume,ilqualedisco nobbe
l'efficacia della induzione. Ecco difatti alcune sentenze,le quali si
potrebbero cre dere imitate da Augusto Comte. « Il metodo è il
ridurre i fenomeni particolari a'fenomeni generali, e questi ad altri più
generali fino ad arrestarsi a pochi fenomeni irreducibili ». « La riduzione
viene operata a lume delle verità neces sarie da un lato,e dalle accurate
osservazioni dall'altro la to.E un fenomeno generale che resiste agli
incessanti rigo rosi tentativi di riduzione,non è perciò dichiarato assolu
tamente irreducibile alle note forze primarie delle sostanze corporee,note però
negli effetti, e per noi sempre ignote nella loro essenza ». « I nostri mezzi
sono impotenti a scovrir la natura degli ésseri.Tutto quel che può scovrire la
nostra ragione nella scienza della natura è riposto nel classificare i fatti
speri mentali con andarrisalendoda’fattiindividualia'generali, e da questi
a'più generali fino a raggiungere ifatti primiti vi,ov'èforzal'arrestarsi». Ma
allatoaquestesomiglianzetroviamonelDeGraziadei tratti, che lo differenziano dal
fondatore del Positivismo francese;ne addito due come principali. Il Comte
trascura affatto il problema della conoscenza , ed invece questo problema
rimane pel De Grazia ilprimo ed il capitale. Il Comte attribuisce alla
metafisica un valore storico soltanto, G. è per sua soche la metafisica possa
rimanere accanto alla scienza sperimentale.Così,sebbene dichia ri
inconoscibilel'essenzadell'anima,enotasolalasuama nifestazione nel pensiero,non
esita poi di affermare che la metafisica ne ha stabilito la spiritualità,
l'immortalità, la vita futura. Questa oscillazione fra le esigenze del suo
metodo e le tra dizioni di quella ch'ei chiama filosofia ortodossa fa sì che in
lui sipuòravvisareorauntomista,edora un positivista, secondo i casi.Se non che
il tomismo stesso a lui or balena 9 va come riflesso dalla filosofia
aristotelica,or come lume r a g giante dallarivelazionedivina; edellaortodossia
del cre dente si faceva schermo a nascondere gli ardimenti del si losofo .
Noiignoriamoqualiaccuseglifuronomosse,equalirim proveri fatti :certo apparisce
da alcuni luoghi dei suoi li bri che qualcosa di simile ci debba essere stato :
eccone u n o per esempio. « Ci crediamo abbastanza fortunati di aver veduto
protrattii nostri giorni, fino all'istantedirassicurarciche il nostro
comunquedebole lavoroerasottolaguarentigiadel l'Aquinate, contro le avventate
odiose imputazioni ». Ed altrove dice esplicitamente ch'ei ricorre all'autorità
diSanTommaso periscagionarsidellatacciad'incredulita. Lo studio di Aquino, e d
il Prospetto della filosofia ortodossa che ne fu ilrisultato,ebbero adunque per
fine ladifesa della propriadottrina. Meglio forse avrebbe fatto a dispregiare
ilvano cicaleccio delvolgo,che di ogni ri
cercafilosoficas'adombraes'insospettisce;ma l'indoledel nostro filosofo era
dimessa e circospetta, e preferi di ripa rarsi sotto l'egida di un dottore di
santa Chiesa; come se u n altrettalespedientefossegiovato al Rosmini edal
Gioberti. Senza il bisogno di questa apologia della sua dottrina a vrebbe
potuto por mano a quella Filosofia del pensiero, a cui
accenna;imperciocchè,contutt'iseivolumidaluimessi a stampa,ilsuo sistema rimane
appena delineato nel prin cipioenelmetodo;nèdelleapplicazioni alla Estetica,oal
l'Etica si trova più di un semplice accenno: la Logica stessa non vi è di stesa
pienamente, sebbene tutto i'l Saggio non s i occupi di altro che di Logica.
Stando ai brevi accenni noi sappiamo che le parti della filosofia per lui
sarebbero state la logica,l'etica,l'estetica, perchè itre fenomeni irreducibili
del pensiero sono ilgiudi care,ilvolere,ilsentire. Ilsillogismo ègiudizio
pure;ma 66 un giudizio fondato sopra idee astratte, mentre il
giudizio primitivo è la osservazione immediata della realtà concreta. Il
sillogismo è applicabile alle sole verità di ragione. La prova induttivá si
adopera a slargare la cerchia della sperienza immediata :essa però presuppone
la realtà delle idee di numero,identità, diversità, sostanza,modificazione,
necessità,possibilità.Queste idee non si possono ricavare per induzione,
altrimenti ci sarebbe un circolo:sono ricava te per astrazione dalla
osservazione immediata fatta per m ezzo del giudizio. L'associazione è la
sorgente spontanea,ma illegittima del le nostre idee: l'induzione dipoi
legittima, confermandole , quelle relazioni,che l'associazione delleidee aveva
per ipo tesi anticipato. Ecco adunque delineato il compito della logica: analisi
d e l senso comune, e giustificazione delle credenze spontanee che quello
contiene. E dell'Etica ? Solo per intramessa sappiamo,ch'egli,a differenza di
Elvezio , il quale dà per originario il solo desiderio del proprio utile,
ammette appetiti disinteressati originalmente, non credendo che l'abitudine
potrebbe andare fino al punto di snatu rare
laqualitàstessadeldesiderio.Orsenoiabbiamo nella coscienza attuale de motivi
disinteressati, è necessità che questi motivi si fondino sopra appetiti
primitivameute tali. Anchequiadunqueavrebbe G. adottatolostesso procedimento della conoscenza
:lo spirito avrebbe legittima to conlaragioneciòchelanaturaspontaneamenteavesse
in 1 Prima la mente crede, perchè non ragiona ancora ;poi crede,perché
laragione ha legittimato lasuacredenza. Fin chè il dubbio non l'assale,la mente
riposa sicura sui nessi stretti spontaneamente dalla associazione naturale
delle sue idee:quando ildubbio sottentra,la induzione ne la libera,
giustificando la spontanea credenza . origine operato. Se non che,
eglisenerimetteaquella Filo sofiadelpensiero,chepoiononscrisse,ononarrivòsino a
noi. Meno preciso è il disegno, del qua l e si sarebbe dovuto toccare della
Estetica. Noi sappiamo solo, che il Bello è per lui «l'oggetto della percezione,quando
ci riesce piacevole il contemplarlo ». Ma ,oltre a questo effetto prodotto
dalla bel lezza nello spirito contemplatore,invano si cercherebbero altri
schiarimenti . Nei voluminosi libri che scrisse avrebbe il De Grazia po tuto
colorire intero il disegno della sua filosofia, se non si fosse allargato
troppo in polemiche ed in apologie,soventi superflue, e se avesse usato maggior
parsimonia nello stile, ch'èdiffuso,stemperato,eridondante d'interminabiliripe
tizioni. I sei volumi si sarebbero potuti restringere in un solo, o in un paio
al più, senza nessun danno per le idee che
viesprime;eforseconquestoguadagnodippiù,diaverpo tuto trovare maggior numero di
lettori. Dobbiamo in questa occasione ricordare,che il sensua lismo era la
dottrina favorita de'giovani italiani, pria di comparire il Saggio su la
critica della conoscenza, che in parte con la forza del ragionamen to, einparte
con quella autorità che il nostro Galluppi venne mano mano acquistando pel
valore della sua opera, egli riuscì a sradicare l'errore dalle menti
giovanili,ed avviarle a'sani principi della morale e della religione.Quindi le
sue istituzioni di filosofia, del tutto conformi ai suoi principi del Saggio, furono
adottate per quasi tutte le scuole d'insegnamento in Italia.Un tal positivo
giovamento recato alla [G. combatté la filosofia del Galluppi, finché que
sti vive e professa nella Università napoletana: la combattè perchè la credette
sbagliata e perniziosa. Morto che e il suo grande avversario, ei, pur rimanendo
saldo nella sua sentenza, scrive di lui queste parole sua patria è la gloria
maggiore cui aspirar mai si possa da un filosofo. Così G. giudica Galluppi morto nel Prospetto di
filosofia ortodossa. Ed il giudizio ci rivela il carattere integro, leale, generoso
di chi lo porta. Combattendo le dottrine di un avversario, ei rispetta, ei loda
le intenzioni ; ei non disconosce l'utilità che aveva arrecato al suo paese.
Talvolta anzi ei par che non agogni, che non cerchi altra gloria che quella
conseguita dal suo valoroso avversario: dispera quasi di conseguirla vivo, pur
se l'augura dopo morto, non tanto per sè, quanto a pro della sua patria. Ese
non può goderne chi l'ha meritata, pur questa tar da gloria si riflette sula sua
patria, serve disprone a’ suoi concittadini sopra tutto, nella faticosa
carriera filosofica, e riesce di nobile compiacenza per tutti gli spiriti fatti
per a m mirare, per amar la virtù. Chi scrive queste magnanime parole ha
certamente un cuore non minore della mente, e la tarda gloria da lui invocata è
un tributo ben meritato da chi non stimolato da bisogno, non allettato da
premio, passa la vita, non fragliagi ereditati, ma nella faticosa palestra
dello studio filosofico, dove s'invecchia e si muore anzi tempo, ma dove si ha
al meno il dritto di credere che, morendo, non si muore del tutto.Vincenzo Di
Grazia. Grazia. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grazia”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e
Gregory: l’implicatura conversazionale clandestina – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. Fellow of the British Academy. Grice:
“I like Gregory; being a Roman, he studied Roman philosophy in one of the most
interesting epochs: the thirties! Then he explored what he calls the ‘lessico
filosofico,’ which Austin detested – “Why do we need the philosopheer’s ‘volition’
when we have ‘would’??” Si laurea a Roma con Nardi. Insegna a Roma. Direttore
di Ricerche storico-filosofiche. Direttore della sezione di Storia della filosofia
Lessico Italiano. Diresse la collana "I filosofi.” Saggi:“Anima mundi”
(Firenze, Sansoni); “Platonismo” (Roma); “Scetticismo ed empirismo” (Bari,
Laterza); “L'idea di natura”, “La filosofia della natura (Passo della Mendola, Firenze, Sansoni); “L’atomismo”,
“Aristotelismo” “Il genio maligno”; “Il demonio maligno”; “Mundana sapiential”;
“Theophrastus redivivus”; “Erudizione e ateismo” (Napoli, Morano); “Il
libertinismo”; “La filosofia clandestina” (Firenze, La Nuova Italia), “L’Etica
della critica libertina” (Napoli, Guida); “Forme di conoscenza” (Roma, EStoria
e Letteratura); “Lo spazio come geografia del sacro” Della sobria ebbrezza”;
“La terminologia filosofica” (Firenze, Olschki); “Speculum natural” (Roma,
Storia e Letteratura); “Principe di questo mondo”; “Il diavolo” (Roma, Laterza);
“Della modernità, Pisa, Torre); “Vie della modernità” (Firenze, Monnier
Università). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A.
ALIOTTA, A. CAPITINI, P. CARABELLESE ETC., Il problema di Dio, a cura di G.
Savio e G., Roma, Universale di Roma, Raccolta di un ciclo di conferenze
promosse dal Centro Romano Studi presso l’Università degli Studi di Roma
nell’A.A. BRUNO NARDI, Storia della filosofia. Il naturalismo del Rinascimento,
a cura di G., Roma, Universitarie, BRUNO
NARDI, La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano, a cura di G., Roma, La Goliardica, 1951, 95 pp. 4. BRUNO
NARDI, Il problema di Dio nella filosofia medioevale, a cura di G., Roma, La Goliardica,
Sull’attribuzione a Guglielmo di Conches di un rimaneggiamento della
“Philosophia mundi”, «Giornale critico della filosofia italiana»; L’Anima mundi
nella filosofia del XII secolo, «Giornale critico della filosofia italiana»,
BRUNO NARDI, Le meditazioni di Cartesio, a cura di Tullio Gregory, Roma, La
Goliardica; L’idea della natura nella Scuola di Chartres, «Giornale critico
della filosofia italiana»; Cattolicesimo e storicismo. La polemica sulla «nuova
teologia», «Rassegna di filosofia»; Gli studi italiani sul pensiero del
Rinascimento, I. La polemica sul Rinascimento, «Rassegna di filosofia», I, BRUNO
NARDI, Il dualismo cartesiano, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica; Note
sul platonismo della Scuola di Chartres. La dottrina delle specie native,
«Giornale critico della filosofia italiana»; Diventa, corretto e aumentato, il quarto
capitolo di Platonismo medievale insieme ai saggi Note e testi per la storia
del platonismo medievale e Nuove note sul platonismo medievale; Gli studi
italiani sul pensiero del Rinascimento, II. Platonismo e Aristotelismo,
«Rassegna di filosofia», BRUNO NARDI, La filosofia di Dante, a cura di G.,
Roma, La Goliardica; L’ESCATOLOGIA cristiana nell’Aristotelismo latino; Ricerche
di storia religiosa»; Anima mundi”. La filosofia di Guglielmo di Conches e la
Scuola di Chartres, Firenze, Sansoni, («Pubblicazioni dell'Istituto di
filosofia dell'Università di Roma», La
vita e le opere di Guglielmo di Conches; La teologia; L’anima del mondo e
l’anima individuale, L’idea di natura; Gli
ideali culturali della Scuola di Chartres; Indice dei manoscritti; Indice dei
nomi; L’Apologia e le “Declarationes” di Patrizi, in Medioevo e Rinascimento.
Studi in onore diNardi, I, Firenze, Sansoni; Note e testi per la storia del
platonismo medievale, «Giornale critico della filosofia italiana» Diventa,
corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale insieme ai
saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres e Nuove note sul platonismo
medievaleIl maestro interiore nel pensiero d’Agostino, in BRUNO NARDI, Il
pensiero pedagogico del Medioevo, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine-
Sansoni («I Classici italiani della pedagogia»), Il «De magistro» d’Aquino, in
BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze,
Edizioni Giuntine- Sansoni («I Classici
italiani della pedagogia » La «reductio artium» da Cassiodoro a FIDANZA (si
veda), in NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze,
Edizioni Giuntine-Sansoni («I Classici italiani della pedagogia; Le origini.
Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani, a cura di Viscardi,
Nardi, Vidossi, Arese, con la collaborazione di Barni, Brusotti, Luca, G., Ronga, Milano-Napoli,
Ricciardi, («La letteratura italiana. Storia e testi», I capitoli in cui G. ha curato la nota
introduttiva sono: Dalla epistola ad Drogonem philosophum; LANFRANCO DA PAVIA (AOSTA,
si veda) (nota introduttiva), Anselmo di AOSTA (si veda) (nota introduttiva),
Gioacchino da FIORE (si veda) (nota introduttiva) Il volume è stato
successivamente ristampato da Einaudi Nuove note sul platonismo medievale.
Dall’anima mundi all’idea di natura, «Giornale critico della filosofia
italiana», Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo
medievale; insieme ai saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres e Note
e testi per la storia del platonismo medievale Platonismo medievale. Studi e
ricerche, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Studi storici
dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo» Il commento a BOEZIO di
Adalboldo di Utrecht, L’Opusculum contra Wolfelmum e la polemica antiplatonica
di Manegoldo di Lautenbach; La dottrina del peccato originale e il realismo
platonico: Odone di Tournai, Il Timeo e
i problemi del platonismo medievale, Indice dei manoscritti, Indice dei nomi; Nel
quarto capitolo sono raccolti, corretti e aumentati, i saggi Note sul
platonismo della Scuola di Chartres; Note e testi per la storia del platonismo
medievale (Nuove note sul platonismo medievale «Giornale critico della
filosofia italiana». Sulla metafisica di Giovanni Scoto Eriugena, «Giornale
critico della filosofia italiana», Con revisioni e aggiunte è diventato il
primo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi La polemica antimetafisica
di Gassendi. I, «Rivista critica di storia della filosofia», La polemica
antimetafisica di Gassendi, «Rivista critica di storia della filosofia»
Entrambi i contributi sono stati stampati, con numerazione continua, in un
estratto unico: Tullio Gregory, La polemica anti-metafisica di Gassendi,
Firenze, La Nuova Italia Editrice, Mediazione e incarnazione nella filosofia
dell’Eriugena, Giornale critico della filosofia italiana, Con modificazioni e
aggiunte è diventato il secondo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi Scetticismo
ed empirismo. Studio su Gassendi, Bari, Laterza, («Biblioteca di Cultura Moderna»,La polemica
antimetafisica, Scetticismo ed empirismo, Empirismo e metafisica; L’opera di
Nardi, «L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca», Escatologia e
aristotelismo nella scolastica medievale, «Giornale critico della filosofia
italiana», Testo presentato al Convegno “L’attesa dell’età nuova nella
spiritualità della fine del medioevo” e pubblicato negli atti, Diventa il
capitolo di Mundana Sapientia; Platone e Aristotele nello “Speculum” di Enrico
Bate di Malines. Note in margine a una recente edizione, «Studi medievali»;
ESCATOLOGIA e aristotelismo nella scolastica medievale, in L’attesa dell’età
nuova nella spiritualità della fine del medioevo, atti del Convegno del Centro
di Studi sulla Spiritualità medievale (Todi), Todi, Accademia Tudertina, Apparso sul «Giornale critico della filosofia
italiana» Diventa il capitolo 9 di
Mundana Sapientia; Per la Casa Laterza, «Belfagor», Testo della conferenza
tenuta in occasione dell’inaugurazione della Mostra storica della Casa Editrice
Laterza, a Roma; Discussioni sulla doppia verità, «Cultura e scuola», Giovanni
Scoto Eriugena: tre studi, Firenze, Le Monnier, «Quaderni di letteratura e
d'arte» Dall’uno al molteplice, Mediazione
e incarnazione,«Contemplatio teologica» e storia sacra. Il primo capitolo è una
rielaborazione, riveduta e corretta del saggio Sulla metafisica di Giovanni
Scoto Eriugena. Il secondo capitolo è una rielaborazione, riveduta e corretta
del saggio Mediazione e incarnazione nella filosofia dell’Eriugena, entrambi
apparsi sul «Giornale critico della filosofia italiana». Diventano i primi tre
capitoli del volume Giovanni Scoto. Quattro studi Note sulla dottrina delle «teofanie» in
Giovanni Scoto Eriugena, «Studi medievali»; L’idea di natura nella filosofia
medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII,
Firenze, Sansoni, Testo presentato al Terzo Congresso Internazionale di
Filosofia Medievale “La filosofia della natura nel Medioevo” (Passo della
Mendola). Successivamente è stato pubblicato negli Atti del Convegno Diventa
capitolo di Mundana Sapientia; Aristotelismo, in Grande Antologia Filosofica,
diretta da Michele Federico Sciacca, coordinata da Andrea Mario Moschetti e
Michele Schiavone, VI, Milano, Marzorati, Einleitung, in GASSENDI, Opera Omnia,
Faksimile-Neudruck der Ausgabe von Lyon mit einer Einleitung von G., I,
Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, «De Homine». Filosofia e teologia
nella crisi del XIII secolo, «Belfagor», Testo italiano di una lettura tenuta
all’Instytut filozofii i socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia
edito in polacco con il titolo Filozofia i teologia wdobie kryzysu XIII wieku, Mundana
Sapientia; Pierre Gassendi, «De Homine», Opera Omnia; Studi sull’atomismo del
Seicento, Basson, «Giornale critico della filosofia italiana», Goorle e Sennert,
Cudworth e l’atomismo, Genèse de la raison classique; AQUINO, De magistro,
commento a cura di G., Roma, Armando, Aquino già pubblicata nel NARDI, Il
pensiero pedagogico del Medioevo.Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso
d’Aquino, in Per la storia della cultura in Italia nel Duecento e primo
Trecento. Omaggio a Dante nel VII centenario della nascita, «Studi medievali»,
Diventa il decimo capitolo di Mundana Sapientia; L’idea di natura nella
filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. La
filosofia della natura nel Medioevo, atti del Terzo Congresso Internazionale di
Filosofia Medievale, Vita e Pensiero, Milano, Mundana Sapientia; Studi
sull’atomismo del Seicento, II. David van Goorle e Daniel Sennert, «Giornale
critico della filosofia italiana», Basson. Cudworth e l’atomismo. Genèse de la
raison classique; TONELLI, World Soul, in Catholic Encyclopedia, New York,
McGraw-Hill; La saggezza scettica di Charron, «De Homine», Vie della modernità
(si veda 2016, n. 256). Tradotto in francese diventa il quinto capitolo della
Genèse de la raison classiquel Studi sull’atomismo. Cudworth e l’atomismo,
«Giornale critico della filosofia italiana», Il saggio è preceduto da una prima
parte su Sebastiano Basson, Goorle e Daniel Sennert; Genèse de la raison
classique; Filozofia i teologia w dobie kryzysu XIII wieku, «Studia
Mediewistyczne», Testo edito in polacco di una lettura tenuta all’Instytut
Filozofii i Socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia il Traduzione a
cura di Ryszard Palacz e Juliusz Domański. Il testo in italiano è apparso su
«Belfagor» Pierre Gassendi, in Grande Antologia Filosofica, diretta da Michele
Federico Sciacca, coordinata da Michele Schiavone, Milano, Marzorati, Vorwort,
in JOANNES DUNS SCOTUS, Opera Omnia, Reprogr. Nachdruck der Ausg. Lyon, 1mit
einem Worwort von G., I, Hildesheim, Olms, Gli scritti di Nardi, a cura di G. e
Mazzantini, «L’Alighieri. Rassegna Bibliografica Dantesca»,Nardi, «Giornale
critico della filosofia italiana», Due interventi sull’Università, «Problemi»,
Il primo intervento è di Salvatore Valitutti; Vom Einen zum Vielen. Zur
Metaphysik des Johannes Scotus Eriugena, in: BEIERWALTES (Hrsg.), Platonismus
in der Philosophie des Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchges, Das
Opusculum contra Wolfelmum und die antiplatonische Polemik des Manegold von
Lautenbach, in BEIERWALTES (Hrsg.), Platonismus in der Philosophie des
Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Platonismo
medievale. Studi e ricerche Opera e studi di Nardi, «La Provincia di Lucca, NARDI,
Saggi sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento, cur.. Mazzantini, Padova,
Antenore, Tre opinioni sulla riforma. Interviste a Gismondi, G., Spirito, a
cura di Chiusano, «Riforma Universitaria», Gassendi e Galileo, in Saggi su
Galileo Galilei, a cura di Carlo Maccagni, Firenze, Barbéra, Erudizione e ateismo nella cultura – Il “Theophrastus redivivus”, «Giornale
critico della filosofia italiana», Theophrastus redivivus; Abélard et Platon,
«Studi medievali», Comunicazione presentata alla Conference “Peter Abelard” tenutasi presso
l’Istituto di Filosofia dell’Università di Lovanio, atti, Mundana Sapientia; ADORNO,
G., VERRA, Storia della filosofia. Con testi e letture critiche, Bari, Laterza,
Dal Rinascimento a Kant, a cura di G. Considerazioni su «ratio» e «natura» in Abelardo,
«Studi medievali», Colloque Abélard, Pierre le Vénérable”, tenutosi all’Abbaye
de Cluny, atti, Mundana Sapientia, Abélard et Platon, in Peter Abelard,
proceedings of the Conference, Louvain, ed. by Buytaert, Leuven-The Hague,
University Press Leuven; Studi medievali; Mundana Sapientia; Dio ingannatore e
Genio maligno. Note in margine alle “Meditationes” di Descartes, «Giornale
critico della filosofia italiana», Mundana Sapientia, Genèse de la raison
classique; L’idée de nature et de savoir scientifique, in The cultural context
of Medieval learning, proceedings of the First International Colloquium on
Philosophy, Science, and Theology in the Middle Ages, edited with an
introduction by John Emery Murdoch and Edith Dudley Sylla, Dordrecht-Boston,
Reidel Discussion, Mundana Sapientia; Considérations sur ‘ratio’ et ‘natura’
chez Abélard, in Pierre Abélard, Pierre le Vénérable: les courants
philosophiques, littéraires et artistiques en Occident au milieu du XIIe
siècle, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche
Scientifique (Abbaye de Cluny), Paris, Éditions du CNRS, Discussion). Versione
in francese del saggio Considerazioni su «ratio» e «natura» in Abelardo apparso
su «Studi medievali», Mundana Sapientia; Scoto Eriugena, in Questioni di
storiografia filosofica. Dalle origini all’Ottocento, a cura di Vittorio
Mathieu, I, Dai presocratici a Occam, Brescia, La Scuola, L’escatologia di
Giovanni Scoto, «Studi medievali», Colloquio “Jean Scot Erigène et l’histoire
de la philosophie” (Laon). Mundana Sapientia; Scoto. Quattro studi; La
filosofia medievale, a cur. G., Maierù, Franco Alessio, in Storia della
filosofia, diretta da Mario Dal Pra, VI, Milano, Vallardi, La cultura filosofica,
Alberto Magno, la Scuola di Colonia e il neoplatonismo medievale, FIDANZA e
l’agostinismo, Aquino e le origini del tomismo, L’averroismo latino; Bacone e
Raimondo Lullo; Gand, Goffredo di
Fontaines, Egidio Romano, pp. 209-220. Le grandi enciclopedie, Rapport sur les
activités du «Lessico Intellettuale Europeo», in I Colloquio Internazionale del
Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi
Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, Centro di studio per il lessico
intellettuale europeo, Roma. Attività scientifica svolta nel 1975, «La ricerca
scientifica», CNR, Scritture e scrittori del secolo XI, a cura di Antonio
Viscardi e Giuseppe Vidossi; con la collaborazione di G., Nardi e Ronga,
Torino, Einaudi, Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le
origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani, Dalla epistola
ad Drogonem philosophum (note); Lanfranco da Pavia (nota); Anselmo di Aosta
(nota); Scritture e scrittori, a cura di Viscardi e Vidossi, con la collaborazione di Arese, G. e Nardi,
Torino, Einaudi, Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le
origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani; Gioacchino da
FIORE (si veda) (nota). L’eschatologie de Jean Scot, in Jean Scot Erigène et
l’histoire de la philosophie, Colloques Internationaux du Centre National de la
Recherche Scientifique, Laon, Paris, Éditions du CNRS, Studi medievali» con un
apparato di note più ampio ed è diventato il capitolo 8 di Mundana Sapientia; “Theophrastus
redivivus”. Erudizione e ateismo nel Seicento, Napoli, Morano, Collana di
filosofia», Gli dei figli degli uomini, La storia naturale della religione, Le
citazioni di MACHIAVELLI, Erudizione e ateismo nella cultura; VICO, Principj di
una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, Napoli , Roma, Edizioni
dell’Ateneo, G., PETROCCHI, Nardi, con sue pagine autobiografiche, Roma, Casa
di Dante ALIGHIERI; La conception de la philosophie au Moyen Age, in Actas del Congreso
de Filosofía Medieval, Madrid, Editora Nacional; Pour un Thesaurus mediae et
recentioris latinitatis, in Ordo; Colloquio del Lessico Intellettuale Europeo,
atti a cura di Fattori e Bianchi, Roma, Ateneo, Lessico Intellettuale Europeo, Ordo.
Colloquio del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cur. Fattori e Bianchi,
Roma, Ateneo; Gouhier, in Allocuzioni pronunciate durante la cerimonia di
consegna di lauree honoris causa. Allocuzioni di Ruberti, Nardis, G. Muscetta,
Gouhier, Filippo, Roma, Università degli Studi di Roma, Facoltà di Lettere e
Filosofia; Ricerche sul Lessico Intellettuale Europeo, in Atti del Convegno
sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze dell’antichità
(Torino), a cur. di Lana e Marinone, Torino, Accademia delle Scienze; PAGANINI,
CANZIANI, FARACOVI, PASTINE, Ricerche su letteratura libertina e letteratura
clandestina, atti del Convegno di studio di Genova, Firenze, La Nuova Italia; Il
libertinismo: stato attuale degli studi e prospettive di ricerca, in G.,
PAGANINI, CANZIANI, FARACOVI, PASTINE,
Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina, atti del Convegno
di studio di Genova, Firenze, La Nuova Italia, Genèse de la raison classique; Le
biblioteche universitarie, in La riforma universitaria e le biblioteche
dell’Università, atti del Convegno su
“Le biblioteche universitarie e i loro problemi di struttura, coordinamento,
unificazione”, Roma, Roma, Bulzoni, Relazione sulle attività del Lessico
Intellettuale Europeo; Res. Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale
Europeo, atti a cur. di Fattori e Bianchi, Roma, Ateneo, Foreword, in Global
linguistic statistical methods to locate style identities, proceedings of a Seminar,
Gallarate, ed. Busa S.I., Roma, Ateneo; “Omnis philosophia mortalitatis
adstipulatur opinioni”: quelques considérations sur le Theophrastus redivivus,
in Le matérialisme et la littérature clandestine, actes de la table ronde
organisée à la Sorbonne avec le concours du CNRS par le Groupe de recherche sur
l’histoire du materialisme, dirigé par Bloch, Paris, Vrin; Aristotelismo e
libertinismo, «Giornale critico della filosofia italiana», Relazione letta al
Convegno Internazionale di Studi su “Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padova,
atti del Convegno, Vie della modernità, Genèse de la raison classique, La
tromperie divine, «Studi medievali», Table ronde su “Preuve et raisons à
l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie”, organizzata dal Centre
d’Études des religions du livre (Laboratoire associé au CNRS) a Parigi, atti, Mundana
Sapientia Aristotelismo e libertinismo, in Aristotelismo veneto e scienza
moderna, atti, Centro per la storia della tradizione aristotelica nel Veneto, a
cura di Olivieri, Padova, Antenore, Giornale critico della filosofia italiana, Vie
della modernità; NARDI, Dante e la cultura medievale, a cur. di Mazzantini,
Bari, Laterza, Collezione storica, Biblioteca Universale Laterza» La tromperie
divine, in Preuve et raisons à l’Université de Paris. Logique, ontologie et
théologie, actes de la Table Ronde internationale organisée par le Laboratoire
associé au CNRS (Paris) ed. Kaluza eVignaux, Paris, Vrin. Pubblicato su «Studi medievali» Mundana
Sapientia; Temps astrologique et temps chrétien, in Le temps chrétien de la fin
de l’Antiquité au Moyen Age; Colloques Internationaux du Centre National de la
Recherche Scientifique (Paris), Paris, Éditions du CNRS; Mundana Sapientia;
INSTRVMENTA LEXICOLOGICA Instrumenta Latina: verso un «Thesaurus Patrum
Latinorum», «Studi medievali»; Bacon. Terminologia e fortuna, Seminario, Roma, a
cur. Fattori, Roma, Edizioni dell’Ateneo; Architettura in Provincia. Il centro
storico di Sacrofano, a cura di Guidoni e Pascalino, Roma, Kappa, Filosofi,
Università, Regime: LA SCUOLA DI FILOSOFIA DI ROMA, Mostra storico
documentaria, a cura di G., Fattori, Cumis, Roma-Napoli, Istituto di Filosofia
della Sapienza-Istituto per gli studi filosofici; I sogni nel Medioevo,
Seminario, Roma, Ateneo; Il Lessico Intellettuale Europeo, in Lo storico e il
suo lessico. Atti del Convegno di Prato, a cur. di Cicala. Rosa, Società degli
storici italiani, Messina, La Grafica; NARDI, Dante e la cultura medievale,
nuova edizione a cur. Mazzantini, Roma- Bari, Laterza, Biblioteca Universale
Laterza», Collezione storica Laterza; I sogni e gli astri, in I sogni nel
Medioevo, Seminario Internazionale (Roma), Roma, Ateneo, Mundana Sapientia; L’uomo
di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo, atti della Settimana di studio
del Centro italiano di studi sull’alto medioevo (Spoleto), Spoleto, Centro
italiano di studi sull’alto medioevo, Mundana Sapientia; L’importanza dei
filoni tradizionali, in Cento anni Laterza, Testimonianze degli autori, Bari, Laterza,
Trasmissione dei testi a stampa nel periodo moderno, I seminario
Internazionale, Roma, a cur. Crapulli, Roma, Ateneo, Etica e religione nella critica libertina,
Napoli, Guida («Interventi», Il
libertinismo erudito, Il «libro scandaloso» di PCharron, Nota bibliografica, Testi
di due lezioni tenute all’Istituto Suor Orsola Benincasa, riveduti per la
stampa e arricchiti delle note a piè di pagina e della nota bibliografica. Il
volume è stato pubblicato tradotto in polacco con il titolo Etyka i religia w
krytyce libertyńskiej; Vie della modernità, Charron’s ‘Scandalous Book, Atheism
from the Reformation to the Enlightenment, Genèse de la raison classique
Ideologia e programma dell’Olimpiade delle civiltà, a cur. G., Tartaro,
Venezia, Cataloghi Marsilio; Le platonisme; Revue des sciences philosophiques
et théologiques», Paris, Librairie philosophique Vrin; Collège de France, The
Platonic Inheritance, in A History of Twelfth-Century Western Philosophy, ed. Dronke,
Cambridge, Mundana Sapientia; Forme di conoscenza e ideali di sapere nella
cultura medievale, «Archives d’histoire des sciences»; Congresso di filosofia
medievale (Helsinki, “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia
medievale”. Giornale critico della filosofia italiana, atti del Congresso, «Il
veltro» Mundana Sapientia, Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura
medievale, «Giornale critico della filosofia italiana»,, Helsinki, Conoscenza
scientifica e scienze nella filosofia medievale, Archives internationales
d’histoire des sciences, atti del Congresso , «Il veltro», Mundana sapientia, Lessico
Intellettuale Europeo: recherches sur la terminologie intellectuelle du Moyen
Age, in Actes du colloque Terminologie de la vie intellectuelle au Moyen Age,
Leyden/La Haye, edité par Weijers, Turnhout, Brepols; Sémantique, in Image
& Réalité du Vin en Europe, Actes du Colloque pluridisciplinaire sur le vin
et les sciences, Organisé par l’Université Catholique de Louvain, en
collaboration avec l’Institut Italien pour le Commerce Extérieur, Louvain-la-Neuve;
Necessità di programmare le carriere amministrative in funzione della
specificità dei profili professionali. Il ritorno alla selettività e alla
preparazione scientifica, in Memorabilia: il futuro della memoria. Beni
ambientali, architettonici, archeologici, artistici e storici in Italia.
Confronti per l’innovazione, a cura di Clementi e Perego, Bari, Laterza; Vignaux,
«Giornale critico della filosofia italiana», Théologie et droit dans la science
politique de l’Etat moderne” organizzata dall’École française de Rome; Vignaux,
atti; Il calcolatore in lingua, «Il
pensiero informatico»; Ideali di sapere nella cultura medievale, «Il veltro.
Rivista della civiltà italiana»; Conoscenza scientifica e scienze nella
filosofia medievale” (Helsinki, Giornale critico della filosofia italiana» atti
del Congresso, Archives internationales d’histoire des sciences, Mundana
Sapientia; PBRUNO, SVMMA TERMINORVM METAPHYSICORVM, Marburg, Nota e indici di
Canone, Roma, Ateneo; Nardi, a cura di G. e
Mazzantini, in NARDI, «Lecturae» e altri studi danteschi, a cur. Abardo
con saggi introduttivi di Mazzoni e Vallone, Firenze, Le Lettere; Forme di
conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, in Knowledge and the
Sciences in Medieval Philosophy, proceedings of the Congress of Medieval
Philosophy (Helsinki), ed. Asztalos, Murdoch, Niiniluoto, I, Helsinki, Societas
philosophica Fennica, Acta Philosophica Fennica», Giornale critico della
filosofia italiana», Archives internationales d’histoire des idées», «Il
veltro», Mundana Sapientia; Théologie et astrologie dans la culture médiévale:
un subtil face-à-face, «Bulletin de la Société Française de Philosophie»; Prima
comunicazione del saggio che poi diventerà il capitolo 11 di Mundana Sapientia,
dal titolo Astrologia e teologia nella cultura medievale; Missione scienza,
«Ulisse», Etyka i religia w krytyce libertyńskiej, przelozyla Tylusińska,
Warszawa, Polska Akademia Nauk Instytut Filozofii i Socjologii («Renesans i
Reformacja», Versione in polacco del volume Etica e religione nella critica
libertina, Libertynizm erudycyjny, p. 7; II. “Księga skandaliczna” Charrona,
Nota bibliograficzna; Sul lessico filosofico latino del Seicento e del
Settecento, in Lexicon philosophicum. Quaderni di terminologia filosofica e
storia delle idee, a cur. di Lamarra e Procesi, Firenze, Leo S. Olschki; Congresso
Internazionale di studi sull’uso scritto e parlato del latino dal Rinascimento
ad oggi, Roma, Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca;
Per la storia del «vissuto religioso». Gli scritti di Rosa. Interventi di
Goichot, G., Liliana Billanovich, Antonio Cestaro, Fulvio Tessitore, Pasquale
Villani, Cosimo Damiano Fonseca, Vicenza, Istituto per le ricerche di storia
sociale e religiosa; L’intervento di G. è stato tenuto per la presentazione del
volume di Rosa Tempo religioso e tempo storico, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 1987, avvenuta a Vicenza, presso la Sala degli Stucchi di Palazzo
Trissino, per iniziativa dell’Istituto per le ricerche di storia sociale e
religiosa, con il patrocinio del Comune di Vicenza; Gli studi di filosofia
medievale fra Ottocento e Novecento. Conclusioni, in Gli studi di filosofia
medievale fra Otto e Novecento. Contributo a un bilancio storiografico, atti
del convegno (Roma), a cur. Imbach e Maierù, Roma, Storia e Letteratura, Speculum
naturale; Vignaux, in Théologie et droit dans la science politique de l’Etat
moderne, actes de la Table ronde organisée par l’École française de Rome avec
le concours du CNRS (Roma), Rome, École française de Rome, Collection de
l’École française de Rome; Giornale critico della filosofia italiana; Cultura
umanistica e istituzioni, «La rivista dei libri; Le discipline umanistiche.
Analisi e progetto, Supplemento al Bollettino «Università Ricerca», Roma,
Istituto Poligrafico Zecca dello Stato; Rapporto finale della Commissione
Nazionale per la formazione e la ricerca nelle scienze umane, del Ministero
dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, redatto dal
Professor Gregory in qualità di coordinatore della Commissione; Mundana
sapientia”. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, saggi sulla storia della filosofia medievale pubblicati
in sedi e anni diversi. Il saggio Astrologia e teologia nella cultura medievale,
Société française de philosophie; Avvertenza, Forme di conoscenza e ideali di
sapere nella cultura medievale; Filosofia e teologia nella crisi; L’idea di
natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele;
La nouvelle idée de nature et de savoir scientifique; The Platonic Inheritance;
Abélard et Platon; Considération sur ratio et natura chez Abélard, Studi
medievali; L’escatologia di Scoto; Escatologia e aristotelismo nella scolastica;
Sull’escatologia di FIDANZA ed AQUINO (si veda); Astrologia e teologia nella
cultura; Temps astrologique; I sogni e gli astri; La tromperie divine; Dio
ingannatore e genio maligno. Nota in margine alle Meditationes di Descartes; L’uomo
di fronte al mondo animale nell’alto medioevo; Indice dei nomi; Charron’s
‘Scandalous Book’, in Atheism from the Reformation to the Enlightenment, ed. Hunter
and Wootton, Clarendon; Etica e religione nella critica libertina; Genèse de la
raison classique; Atti del Convegno di Lecce: prospettive degli studi
cartesiani, in GIULIA BELGIOIOSO, a cur., Cartesiana, Galatina, Congedo, Università
degli studi di Lecce, Istituti di Filosofia. Testi e Saggi; Utopia e scenario
del regime; Ideologia e programma dell’Olimpiade della città, a cura di G. e
Tartaro, Catalogo della mostra (Archivio centrale dello Stato, Rom), Venezia,
Marsilio; Pierre Gassendi explorateur des sciences. Catalogue de l’exposition,
quatrième centenaire de la naissance de Pierre Gassendi (Musée de Digne),
rédigé par Turner avec la contribution de Gomez; préface de G.,
Digne-les-Bains, Musée de Digne; Gassendi, Archives Internationales d’histoire
des sciences, Discorso d’apertura al Colloquio Gassendi (Digne-Les- Bains), Atti
col titolo Pourquoi Gassendi? Giornale critico della filosofia italiana», Genèse
de la raison classique; Gassendi, Giornale critico della filosofia italiana, Colloquio
internazionale Pierre Gassendi (Digne-Les-Bains), Vie della modernità, Archives
d’histoire des sciences», Atti del Colloquio Pourquoi Gassendi? Lessico
Filosofico dei secoli XVII e XVIII. Sezione latina, a cura di Fattori, con la
collaborazione di Bianchi, I, a- aetherius, coordinamento di Canone e Spinosa,
Roma, Edizioni dell’Ateneo; Storia dell’Italia religiosa, a cura di Gabriele De
Rosa, G., André Vauchez, 3 v., Roma, Laterza, Il secondo volume è a cura di G.;
L’eclisse delle memorie, a cura di G., Morelli, prefazione di Salvini,
traduzioni di Morelli, Roma-Bari, Laterza; L’età moderna, a cur. Rosa e G., in
Storia dell’Italia religiosa, a cur. Rosa, G., Vauchez, Roma, Laterza; Pourquoi
Gassendi?, in Quadricentenaire de la naissance de Pierre Gassendi, actes du
Colloque Gassendi (Digne-les-Bains), Digne-les-Bains, Société Scientifique et
Littéraire des Alpes de Haute-Provence; Discorso di apertura del Colloquio.
Pubblicato con un titolo diverso negli «Archives Internationales d’histoire des
sciences» La traduzione italiana è stata
pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana»; Gli studi di
filosofia medievale di Rovighi, in Sapientiae studium. La giornata operosa di Rovighi,
a cur. Sina, Milano, Vita e Pensiero; L’ordine della natura e l’ordine del
sapere, in Storia della filosofia, a cura di Rossi e Viano, II, Il Medioevo,
Roma-Bari, Laterza; Riscoperta della natura e nuove scienze, Speculum naturale;
Considerazioni conclusive in Descartes metafisico, cur. Armogathe e Belgioioso,
Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana; RETORICA E FILOSOFIA IN VICO, Le
INSTITUTIONES ORATORIAE: un bilancio critico, cur. di Crifò, Napoli, Guida,
Conclusioni, in Ricerca e terminologia tecnico-scientifica, Adamo, «Lexicon philosophicum.,
Quaderni di terminologia filosofica e storia delle idee»; Dell’Elefante. Parole
pronunciate in occasione della mostra Res Libraria alla Biblioteca Casanatense
di Roma, Roma, Edizioni dell’Elefante; Opuscolo in edizione limitata.
Pubblicato in Bibliomania Perennis; Università e Beni Culturali, ricerca –
formazione. Relazione della Commissione Nazionale per il Corso d Laurea e
Facoltà in Conservazione dei Beni Culturali, Supplemento al Bollettino
«Università Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, Relazione
finale della Commissione Nazionale per il Corso di Laurea e Facoltà in
Conservazione dei Beni Culturali, del Ministero dell’Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica, redatta da G., in qualità di coordinatore della Commissione; “Fabula
in tabula”. Una storia degli indici dal manoscritto al testo elettronico, a cur.
Leonardi, Morelli, Santi, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto
Medioevo, I «thesauri» dei Padri latini,
«Studi medievali», ADORNO, G., VERRA, Manuale di storia della filosofia, Roma, Laterza.
Cura. Pensiero medievale e modernità, «Giornale critico della filosofia
italiana», Relazione tenuta all’Accademia Nazionale dei Lincei in apertura del
Convegno di studio su “Pensiero medievale e modernità” (Roma) organizzato dalla
Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale, Speculum naturale
‘Natura’ e ‘Qualitas planetarum’, «Micrologus»; Il teatro della natura/The
theatre of nature; Speculum naturale; Album. I luoghi ove si accumulano i
segni, a cur. Leonardi, Morelli, Santi, Spoleto, Centro di Studi sull’Alto
Medioevo; Accademia nazionale dei Lincei-Archivio centrale dello Stato-
Consiglio nazionale delle ricerche; Marconi e l’Italia. Mostra
storico-documentaria (Roma), catalogo a cur. Paoloni e Simili, prefazione di G.,
introduzione di Raffaella Simili, Roma, Accademia nazionale dei Lincei,
Prólogo, in MONTAIGNE, Ensayos (selección), Prólogo de G., Barcelona, Círculo
de Lectores, «Giornale critico della filosofia italiana»; La traduzione
francese, con qualche variante, diventa il secondo capitolo di Vie della
modernità Apertura dei lavori, in Il vocabolario della republique des Lettres.
Terminologia filosofica e storia della filosofia. Problemi di metodo, atti del
Convegno Internazionale in memoriam di Paul Dibon (Napoli), a cura di Fattori,
Firenze, Olschki; Les nouveaux outils d'analyse textuelle, in Le Plurilinguisme
dans la Société de l’Information, Actes du Colloque International (Paris),
Paris, UNESCO Publications, Per una lettura di Montaigne, «Giornale critico
della filosofia italiana», Testo italiano della prefazione spagnola
all’antologia degli Essais di Montaigne; Nel mondo semantico del virtuale, «if.
Rivista della Fondazione IBM Italia»; Bibliotheca encyclopaedica: catalogo del
fondo storico della Biblioteca dell’Istituto della Enciclopedia Italiana
fondata da Treccani, a cura di Mauro e
Menna; presentazione di Rita Levi-Montalcini, Roma, Istituto della
Enciclopedia italiana, Introduzione, in DESCARTES, Discorso sul metodo, Roma,
Laterza; Vie spéculative, vie méditative et travail manuel à Chartres au XIIe
siècle (autour de Thierry de Chartres et des introducteurs de l’étude des arts
mécaniques auprès du quadrivium), Chartres, Association des Amis du Centre
Médiéval Européen de Chartres; Discorso, colloquio ‘Libertinisme erudit’ in
Seventeenth Century France and Italy: The Critique of Ethics and Religion,
«British Journal for the History of Philosophy»,Il libertinismo erudito, Etica
e religione nella critica libertina, Le Dictionnaire de l'Académie Française et
la Lexicographie Institutionelle Européenne, Actes du Colloque (Paris), publiés
par Quemada avec la collaboration de Pruvost, Paris, Champion, Nature, in
Dictionnaire raisonné de l’Occident médiéval, ed. Goffe e Schmitt, Paris, Fayard;
Speculum naturale, restituendo in latino i testi tradotti in francese. Per una
fenomenologia del cadavere. Dai mondi dell’immaginario ai paradisi della
metafisica, «Micrologus», Il cadavere/The corpse, Speculum naturale; Sapor
mundi: scritti sulla civiltà dei sapori da Il Sole 24 Ore, Roma Raccolta degli
articoli di carattere gastronomico, Il Sole 24 ore. Genèse de la raison
classique de Charron à Descartes, traduit par Raiola, préface de Armogathe,
Paris, Presses Universitaires de France, Épiméthée», Sono raccolti in questo
volume alcuni saggi dedicati alle figure e ai problemi appartenenti alla prima
metà del XVII secolo francese e europeo, pubblicati in sedi e anni diversi. Di
seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati.
Indice del volume: Notice de G.,Préface de Armogathe, La première crise de la
conscience européenne; Le libertinisme; Aristotélisme et libertinisme; Ethique
et religion dans la critique libertine; Le livre scandaleux» de Charron; La
sagesse sceptique de Pierre Charron; Perspectives sur Gassendi à l’occasion du
IVe centenaire; Basson; Goorle et Sennert; Cudworth; Dieu trompeur et malin
génie; Vers un «Thesaurus totius latinitatis»: problèmes et perspectives, in
L’élaboration du vocabulaire philosophique au Moyen Age, actes du Colloque
international de Louvain-la-Neuve et Leuven, organisé par la Société pour
l’étude de la Philosophie Médiévale, éd. Hamesse et Steel, Turnhout, Brepols; Informatica
e analisi testuale, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti.
Appendice, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana; I cieli, il tempo, la
storia, in Sentimento del tempo e periodizzazione della storia nel Medioevo,
atti del Convegno storico (Todi),
Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo; Speculum naturale; Il liber creaturarum: dal sacramentum
salutaris allegoriae alla physica lectio, in Le vie del medioevo, atti del
Convegno internazionale di studi (Parma), a cura di Arturo Carlo Quintavalle,
Milano, Electa; Speculum naturale
Scrittura, fondamento di civiltà, in Duemila. Verso una società aperta; Istruzione,
scienza, linguaggio, a cur. Moussanet, il Sole 24 ORE, Milano, Apologeti e
libertini, «Giornale critico della filosofia italiana», Vie della modernità; Per
i cento anni della Casa Laterza. Il sodalizio Croce-Laterza nella cultura
italiana del Novecento, «Accademie & Biblioteche d’Italia», Testo del
discorso pronunciato al Teatro Comunale Piccinni alla presenza del Capo dello
Stato, in occasione delle celebrazioni per l’anniversario della Casa Editrice
Laterza; Come cucinare un filosofo, «l’Erasmo»; CORRADO, Del cibo pitagorico
ovvero erbaceo per uso de’ Nobili e de’ Letterati. Opera meccanica dell’oritano
Corrado; seguito dal Trattato delle patate per uso di cibo, opera del medesimo
autore. Con una introduzione di G. e una nota alle illustrazioni di Abbate,
Roma, Donzelli, Due testi autobiografici di Bruno, in Memoria di Bruno Atti del convegno (Roma) con il patrocinio
dell’Assessorato alle Politiche del Comune di Roma, a cura di Mantello, Roma, VE.GRAF, Dell’Elefante, in
Bibliomania Perennis. Mostre delle Edizioni dell’Elefante. Prologhi e testi di
occasione, Roma, Edizioni dell’Elefante; Res libraria alla Biblioteca Casanatense di
Roma GEORGE TATGE, Al di là del tiglio. Un ritratto di Todi. G., Firenze,
Fratelli Alinari; Il valore di una cultura comune. Il ‘nuovo mondo’ dei dotti
del Seicento, «l’Erasmo», Lo spazio come geografia del sacro nell’occidente
altomedievale, «Giornale critico della filosofia italiana», Centro Italiano di
Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto) sul tema: “Uomo e spazio nell’alto
Medioevo”. atti del Convegno; Speculum naturale; TATGE, Al di là del tiglio. Un
ritratto di Todi, Alinari, Firenze; Experientia. Colloquio (Roma), atti a cur. Veneziani,
Firenze, Olschki Noè ovvero della sobria ebbrezza, in L’ebbrezza di Noè. Sedici
artisti per San Gimignano, a cura di Zattini, Cesena, Il vicolo; Catalogo della
Mostra tenuta a San Gimignano; Lo spazio come geografia del sacro
nell’occidente altomedievale, in Uomo e spazio nell’alto Medioevo: settimane di
studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo (4-8 aprile 2002),
Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo; Discussione sulla lezione
G., Giornale critico della filosofia italiana» Speculum naturale; Nani sulle
spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi nel medioevo latino,
«Studi medievali; Convegno Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli
antichi», Parma, Atti, Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di
ricerca, Speculum naturale; Un cibo da Bengodi. Viaggio nel mondo della pasta,
«l’Erasmo; Istituti culturali e territorio: i problemi della ricerca e della
formazione, «Accademie & Biblioteche d’Italia», Apertura dei lavori, in Informatica
e scienze umane. Mezzo secolo di studi e ricerche, a cura di Marco Veneziani,
Firenze, Olschki; Alle origini della terminologia filosofica moderna:
traduzioni, calchi, neologismi, in «Giornale critico della filosofia italiana»,
Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, Atti del
Convegno, Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca; SIMONAZZI, La malattia inglese. La melanconia
nella tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna, Bologna, Il
mulino; FINOCCHIARO, Dall’Apiarium alla Μελισσογραφια. Una vicenda editoriale
tra propaganda scientifica e strategia culturale, Atti dell’Accademia Nazionale
dei Lincei. Rendiconti della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche,
Roma, Accademia Nazionale dei Lincei; Alle origini della terminologia
filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi in Significare e
comprendere. La semantica del linguaggio verbale. Atti dell’XI Congresso
nazionale, a cura di A. Frigerio e S. Raynaud, Roma, Aracne, Convegno della
Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, Giornale critico della filosofia
italiana, Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca; Origini
della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, Firenze, Olschki; Lessico
intellettuale europeo, Opuscula; Nani sulle spalle di giganti. Traduzioni e
ritorno degli Antichi nel Medioevo latino, Convegno Intemazionale di Studi su
«Medioevo: il tempo degli antichi», Parma, Atti del Convegno, Pubblicata in
«Studi medievali», sSpeculum naturale; Alle origini della terminologia
filosofica latina: traduzioni, calchi, neologismi (relazione presentata al Convegno
Nazionale della SOCIETA DI FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO, Milano, Atti, Giornale
critico della filosofia italiana; Sul LESSICO FILOSOFICO ITALIANO, Congresso di
studi, Roma, Lexicon philosophicum, Referenze bibliografiche, Indice dei nomi,
Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli antichi nel Medioevo
latino, in Medioevo: il tempo degli antichi, Atti del Convegno di studi, Parma,
a cura di Quintavalle, Milano, Electa, Studi medievali, Origini della
terminologia filosofica. Linee di ricerca, Speculum naturale; Vignaux storico
del pensiero medievale, «Studi medievali», Traduzione italiana, leggermente
modificata, della relazione francese Vignaux historien et philosophe, letta in
Sorbona al Colloquio Vignaux citoyen et philosophe; Speculum naturale. Percorsi
del pensiero medievale, Roma, Storia e Letteratura, saggi sul pensiero
medievale, pubblicati in sedi e anni diversi. Di seguito si da l’indice dei
capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Nature au Moyen Âge; Riscoperta
della natura e nuove scienze; Il Liber creaturarum: dal sacramentum salutaris
allegoriae alla physica lectio; Natura e qualitas planetarum; I cieli il tempo
la storia; Lo spazio come geografia del sacro nell’Occidente altomedievale, Per
una fenomenologia del cadavere. Dai mondi dell’immaginario; Nani sulle spalle
dei giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi; Pensiero medievale e modernità;
Cosmologia biblica e cosmologie cristiane; Gli studi di filosofia medievale fra
Ottocento, Gusto del cibo, itinerario storico sentimentale, «L’attimo
fuggente», Presentazione, in SCHINO, LUCCICHENTI, Il cuoco segreto dei papi.
Bartolomeo Scappi e la Confraternita dei cuochi e dei pasticceri, Roma,
Gangemi, Per una Storia delle filosofie medievali. Congresso di Filosofia
Medievale (Palermo) promosso dalla SIEPM, «Studi medievali», Atti. Le acque
sopra il firmamento. Genesi e tradizione esegetica, in L’acqua nei secoli
altomedievali, Spoleto, Fondazione Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo;
Spazio sacro, spazio profano. I confini simbolici nel cristianesimo
altomedievale, in Frontiere. Politiche e mitologie dei confini europei, a cura
di Altini e Borsari, Fondazione Collegio San Carlo di Modena; Cosmogonia
biblica e cosmologie cristiane, in Cosmogonie e cosmologie nel Medioevo. Atti
del Convegno della Società italiana per lo studio del pensiero medievale; Catania,
cur. Martello, Militello e Vella, Louvain-La-Neuve, Brepols; MATTEI, Il CNR e
le scienze umane, Attività della Vice Presidenza Roma, Consiglio Nazionale
delle Ricerche, Allocution, in Remise de l’Épée d’Académicien à Jean-Luc
Marion, par Marc Fumaroli de l’Académie française de l’Académie des
Inscriptions & Belles- Lettres, en Sorbonne, Salon d’honneur de la
Cancellerie; Translatio studiorum, «Quaderni di storia»,Society for
Intellectual History su “Translatio Studiorum”. Ancient, Medieval, and Modern
bearers of Intellectual History (Verona); XXI Secolo-Norme e idee, direttore G.,
Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani), Roma; Dante e la «Commedia»,
in Dante e l’Islam. Incontri di civiltà, Biblioteca di Via del Senato Edizioni,
Milano; Nardi, storico della filosofia. Uno sguardo d’insieme (Convegno di
Pescia), in Per ricordare Nardi, a cur. Varanini, Firenze, Galluzzo; G. incontra
Cartesio, «Le interviste immaginarie», Milano, Bompiani, Ristampato in
appendice alla raccolta di saggi Vie della modernità; Il lessico Intellettuale
Europeo, in Lectio Brevis. Anno Accademico Atti della Accademia Nazionale dei
Lincei, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche. «Memorie», Roma,
Accademia Nazionale dei Lincei, Testo della Lectio brevis tenuta ipresso
l’Accademia dei Lincei, in apertura dell’anno accademico Garin: un ricordo in
Normale, «Quaderni di storia; Leonardi medievista, «Rinascimento. Rivista
dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento», L’ascesa del Poeta è una
vera ‘Rinascita’, «La Biblioteca di via Senato – Milano», Postfazione, in MARIANI,
Farfalla e segno. Poesie, Milano, Crocetti Prefazione, in FOFFO, E le stelle
stanno a mangiare... La Dolce Vita continua, Roma, Sovera; La libraria di
Franchi, in RANCHI, Studiolo Crispolti, cur. Scalmati, Roma, Gangemi, Scoto. Quattro
studi, Premessa di Menestò, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto
Medioevo, Uomini e mondi medievali, Scoto Eriugena Le carte di Lorenzetti,
relazione tenuta presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma, in occasione
dell’inaugurazione della mostra di Lorenzetti; Vi esorto alla Bibbia», in
Bibbia, cultura, scuola. Alla scoperta di percorsi didattici interdisciplinari,
a cura di Vertova, Carocci, Roma; Alle origini dell’etica, in Per un’Etica
civile. Tema di approfondimento culturale a cura di Ferro, Roma, Liceo Classico
Orazio, Natura, in Dizionario dell’Occidente medievale. Temi e percorsi,
Letteratura/e-Violenza, Torino, Einaudi, Il tema della fortuna in Montaigne, Giornale
critico della filosofia italiana»; Il gusto sullo scaffale, in IBC Dossier. Lo
scaffale dei sapori, a cura di Campioni, Bologna, Istituto per i beni artistici
culturali e naturali della regione Emilia Romagna, IBC. Informazioni, commenti,
inchieste sui beni culturali, L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, «Nuova
informazione bibliografica», Il gusto sullo scaffale, in Lo scaffale del gusto.
Guida alla formazione di una raccolta di gastronomia italiana per le
biblioteche, di Pensato e Tolo, con la collaborazione di Blundo, contributi di G.
e Montanari, Bologna, Compositori, Montaigne e la fortuna, Modena, Consorzio
Festival filosofia, 2011 («Paginette»); Quintino Sella, Roma, l’Accademia dei
Lincei, in Le Accademie nazionali e la storia d’Italia, Atti del Convegno
Linceo (Napoli), Roma, Scienze e Lettere Editore Quintino Sella, Roma,
l’Accademia dei Lincei, in Quintino Sella Linceo, a cura di Guardo e Romanello,
Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Per una Storia delle filosofie medievali,
in Universalità della ragione. Pluralità delle filosofie nel Medioevo, Atti
Congresso di Filosofia Medievale (Palermo), Sessioni plenarie, a cura di Musco,
«Schede medievali», Palermo, Officina di studi medievali, «Studi medievali; Les sources oubliées d’une
Introduction à l’Ethica, Giornale critico della filosofia italiana», Quasi una
Prefazione, in FOFFO, Il dolce della
vita, Roma, Sovera; Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente,
Roma-Bari, Laterza («I Robinson / Letture»). La caduta di Lucifero. Apparenza e
realtà, La via del nero, Il principe di questo mondo, Satana e modernità; Translatio Studiorum,
iSGARBI (ed.), Translatio Studiorum. Ancient, Medieval and Modern Bearers of
Intellectual History, «Studies in Intellectual History», Leiden, Brill, Paul
Vignaux, Historien et Philosophe, in Paul Vignaux, Citoyen et Philosophe, sous
la direction de Boulnois, avec la collaboration de Armogathe, Turnhout,
Brepols, Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, «Studi medievali»,
Presentazione, in FINOCCHIARO, La
biblioteca di Trisulti. L’ordine dei codici tra il 14° e 16° secolo, Roma,
Scienze e Lettere, Presentazione, in Accademia nazionale dei Lincei. Inventario
dell’archivio a cura di Azevedo, Roma, Ministero dei beni e delle attività
culturali, Le carte di C. Lorenzetti,
Discorso pronunciato il 24 febbraio 2011 nel Salone Borromini della Biblioteca
Valliceliana in Roma per l’inaugurazione della Mostra “Carte e libri d’artista”
di Carlo Lorenzetti, Città di Castello; Le plaisir d’une chasse sans gibier.
Faire l’histoire des philosophies: construction et déconstruction, «Giornale
critico della filosofia italiana», in apertura dell’incontro promosso a Roma
dall’Institut de Philosophie sul tema “Les relations de la philosophie avec son
histoire”; in italiano diventa il primo capitolo di Vie della modernità il
Lessico Intellettuale Europeo compie cinquant’anni, in Locus- spatium.
Colloquio Intrnazionale (Roma), Atti a cura di Giovannozzi e Veneziani, Roma, Olsckhi Prefazione, in FRANCHI, PICCARI, SCALMATI, Ricette preziose
dal gioiello al pane, Terni; RUBERTI, Le ricette di Luisa. La cucina campana a
modo mio, Firenze-Milano, Giunti; Lorenzetti e il Lessico, in Segno e parola.
Lorenzetti e il Lessico Intellettuale Europeo, Catalogo della mostra (Roma), a
cura di Adamo e Marras, Firenze, Olschki, La rinascita nel dopoguerra, in
Treccani, anni di cultura italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana;
Dubbio, fede e religioni in Montaigne, Giornale critico della filosofia
italiana; Prefazione, in La cultura e il mondo. Aggiornamento della
Enciclopedia Italiana, Nona appendice, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana,Montaigne o della modernità, Pisa, Normale; Variazioni; Translatio
linguarum. Traduzioni e storia della cultura, Firenze, Olschki, Lessico
intellettuale europeo, Opuscula; Vie della modernità, Firenze, Monnier, Centro
di Studi su Descartes, Saggi; Il piacere di una caccia senza preda. Fare storia
delle filosofie: costruzione e decostruzione, Roma, Institut de Philosophie sul
tema “Les relations de la philosophie avec son histoire”, Giornale critico
della filosofia italiana; Montaigne ou le plaisir de la variété; La saggezza
scettica di PCharron, De homine; Il libro scandalosodi Charron; Etica e
religione nella critica libertina; Gassendi, Colloque Gassendi, Giornale
critico della filosofia italiana; Il libertinismo erudito; Etica e religione
nella critica libertina, Aristotelismo e libertinismo, Giornale critico della
filosofia italiana», atti del Convegno di Studi su “Aristotelismo veneto e
scienza moderna; Apologeti e libertini, Giornale critico della filosofia
italiana», G. incontra Cartesio. Commentario (direzione scientifica) in SIDERI e
CALAPODA, Portolano; Roma, Treccani; Ereditare e tradurre, Modena, Consorzio
Festivalfilosofia, 2016 («Paginette»); “La cultura del vino” in MASI, TOLFA,
Signori del vino, prefazione di Petrini, Roma, Rai Eri; L’ambigua dignità
dell’uomo moderno, Quaderni di storia; Considerazioni per una storia del
pensiero scientifico altomedievale, «Studi medievali», Veritates in mensa,
Modena, Consorzio Festival filosofia («Paginette»), La biblioteca dei Lincei:
percorsi e vicende, Letture corsiniane, Roma, Bardi, Fra i miei libri,
«Giornale critico della filosofia italiana», Fra i miei libri, «Voci», Istituto
Enciclopedia Italiana, Sapida scientia. Percorsi gastronomici da Il Sole 24 ore;
Roma, ILIESI; articoli di carattere gastronomico, Il Sole 24 ore. Tullio Gregory. Gregory. Keywords:
implicatura clandestina, clandestino – cognate with celare and occolto -- terminologia
filosofica, libertinismo, filosofia clandestine, il libertino. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Gregory: l’implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Griffero: l’implicatura conversazionale dell’inter-soggetivo
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Asti). Filosofo italiano. Grice: “I like Griffero;
for one, he has a taste for neologisms, like his atmospherelogy – He has
understood that aesthesis, qua sensatio, is the basis for aesthetics, and he
has explored the philosophies of Tarso, Spranger, and Schelling!” Insegna a
Roma. Studia a Torino sotto Vattimo su“L’ermeneutica.” Studia Betti (“Interpretare.
La teoria di Betti e il suo contesto” – Rosemberg,Torino) ed il concetto di spirito
e forma di vita. La filosofia della cultura (Angeli, Milano). Si dedica al
rapporto tra arte e mito, scrivendo poi Senso e immagine. Simbolo e mito (Guerini,
Milano), Cosmo Arte Natura. Itinerari
(Cuem, Milano), nel quale si concentra sulle caratteristiche del
real-idealismo, e infine una ricostruzione dell'apporto dato da questo autore
all'estetica filosofica (Estetica -- Laterza, Roma). La nozione di
"immaginazione transitiva", è invece affrontata in “Immagini Attive:
beve storia dell'immaginazione transitiva (Monnier, Firenze). Ricostruisce la
storia della credenza secondo cui una fantasia particolarmente forte sarebbe in
grado di agire, cambiando o addirittura generando la realtà esterna. In
Realismo e Idealismo (Nike, Segrate) analizza il Pietismo Speculativo. La
corporeità spirituale è il "fine ultimo delle opere di Dio. L'ampia storia
del concetto e esposta in Il corpo spirituale. Ontologie sottili"
(Mimesis, Milano). La ricerca sulla fenomenologia del corpo e della
percezione e l'estetica delle atmosfere è affrontata in “Atmosferologia.
Estetica degli spazi emozionali (Laterza, Roma). Nel libro Quasi-cose. La
realtà dei sentimenti (Mondadori, Milano ) indica e analizza sulla scorta dei
un'estetica neo-fenomenologica i sentimenti atmosferici, il dolore, la
vergogna, lo sguardo, il crepuscono, il corpo vissuto come quasi-cose, entità
aggressive e decisive per la nostra esistenza senza essere riducibili al
paradigma cosale tipico della tradizione occidentale Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica
patica (Guerini, Milano) delinea, a partire dalla nozione estetico-fenomenologica
di “atmosfera”, i contorni di un'estetica orientata non allo gnosico ma al
patico, che non tematizza un oggetto (come una espressione) speciali come le
opere d'arte ma il modo in cui “ci si sente” quando ci si espone, soprattutto
involontariamente, ai sentimenti presenti nell'ambiente circostante. Il
tema è sviluppato, esteso a considerazioni sull'atmosfericità del linguaggio, sulla
presenza e la inter-soggettività re-interpretate in chiave fenomenologica.
Altre opera: Storia dell'estetica (Nuova Cultura, Roma). Quali atmosfere per
quali spazi? Dicendo, con precisione tutt’altro che metaforica (cfr. G.) che,
ad esempio, l’aria si è fatta pesante e il suono opprimente, l’odore penetrante
e il silenzio solenne, ci si riferisce non certo allo spazio locale ma allo
spazio assoluto e predimensionale (più o meno transitorio) delle “isole”
leiblich. Ne viene – ed è ciò che ovviamente più interessa nel nostro più
generale progetto atmosferologico (cfr. Böhme, G. e G. – che lo spazio non
locale del sentimento (Gefühlsraum), permeato cioè da sentimenti o tonalità
emotive (Gefühle o Stimmungen) (cfr. Schmitz), intesi ora come atmosfere, come
quasi-cose caratterizzate (quanto meno nella loro forma 12 Una spazialità a
rigore non solo non tridimensionale, ma neppure bidimensionale (superficie),
monodimensionale (retta) o non-dimensionale (nel senso in cui lo è il punto).
13 L’abitare è per Schmitz, propriamente, cultura-coltivazione dei sentimenti
in uno spazio recintato. 14 La tesi secondo cui «i sentimenti sono spazialmente
estesi [sarebbe inconcepibile o addirittura comica se si riferisse allo spazio
locale», giacché in tal caso «un sentimento sarebbe forse una sorta di sfera o
un triangolo nel ventre o in prossimità della testa» (Schmitz). SpazioFilosofico
prototipica e cioè oggettivo-distonica) da direzioni abissali, costituisce
l’apriori di ogni nostra esperienza, specialmente involontaria. Come le valenze
espressive delle singole cose e persone possono invitarci a fare o respingere
qualcosa, così le affordances dello spazio del sentimento, irriducibili
all’assetto ottico e agli effetti solo pragmatici cui pensa James Gibson,
portano infatti in luce l’articolazione decisamente anisotropa (atmosferica)
della nostra Lebenswelt. Ma, se avvertire un’atmosfera significa avvertire la
qualità affettiva e leiblich “espressa” (un termine da non concepire, in una
radicale Erscheinungswissenschaft, nel senso dell’estroflessione di un interno)
dai nostri “intorni”, occorre da ultimo interrogarsi sulle atmosfere specifiche
dei tre livelli di spazialità menzionati. Allo spazio della vastità c)
corrispondono le atmosfere letteralmente s-confinate delle Stimmungen pure,
come tali alla base dell’intero edificio della vita emozionale. Troviamo qui da
un lato l’estensione piena della soddisfazione, concepibile non come gioia ma
come quieto equilibrio (nel senso, ad esempio, dell’intimità famigliare), e
dall’altro l’estensione vuota della disperazione, concepibile più come la
medioevale acedia o l’ennui (nel senso, ad esempio, della lieve noia che ci
coglie nelle stazioni o al cospetto del graduale impallidire serale delle cose)
che non come un cruccio opprimente. Allo spazio direzionale b) corrispondono,
invece, tre forme di atmosfere vettoriali. Anzitutto b1) le Erregungen pure,
vale a dire emozioni strutturate e tuttavia diffuse e prive di un vero tema
specifico (per questo abgründig per Schmitz), le quali, contrariamente alle
fondamentali direzioni leiblich, possono essere anche centripete, aggredirci ab
extra pur in assenza di una fonte precisa (cosa o quasi-cosa che sia) e quindi
di una “ragione”. E poi b2) le emozioni “centrate”, le cui terminazioni e
condensazioni in un oggetto (quando la Sehnsucht, ad esempio, si precisa come
amore), in quanto tali responsabili della (secondo Schmitz fuorviante) teoria
dell’intenzionalità dei sentimenti15, possono essere unilaterali (esaltanti o
deprimenti), onnilaterali, centrifughe (come la Sehnsucht), centripete (come la
paura e la sfiducia indeterminate), ma anche indecise, come nel caso del
“presentimento”. Allo spazio locale a), infine, corrispondono16 le atmosfere
generate dagli oggetti e dalla loro collocazione, relativa fin che si vuole
nella spazialità locale eppure su di noi intensamente “attiva”, ad esempio in
virtù di qualità espressive che, eccedendo di gran lunga l’ufficio delle
proprietà − in linea di principio accidentali e parassitarie rispetto a un
substrato sostanziale (nei sentimenti atmosferici assente in linea di
principio) −, fungono da vere e proprie “estasi” (cfr. Böhme). Quasi fossero i
“punti di vista” con cui le cose in un certo senso escono da se stesse (cfr.
Griffero) e che appaiono inspiegabili come mera espressione di un interno (qui
propriamente inesistente), le atmosfere o estasi delle cose paiono analoghe a
potenze 15 I presunti sentimenti intenzionali – l’ira, ad esempio − sarebbero
meglio spiegabili, come sentimenti atmosferici centrati, chiamando in causa una
dissociazione tra punto di ancoraggio (lo stato di cose che suscita l’ira) e
zona di condensazione (l’uomo o l’oggetto con cui si è adirati): due elementi
di solito poco connessi sotto il profilo causale o logico (gestalticamente:
figura/sfondo), visto che – ed è forse illogico ma adattivamente funzionale! –
si teme, ad esempio, più la persona che potrebbe ucciderci (condensazione) che
non la morte come tale (cfr. Schmitz). Ma Schmitz qui obietterebbe che, le
atmosfere non essendo per lui intenzionalmente producibili e riducibili a cose
singole (giusta una più generale campagna contro la forma mentis singolaristica
su cui non possiamo qui fermarci), le impressioni suscitate dalle cose non
sarebbero autentiche atmosfere. 352 demoniche (numinose) indipendenti
dalla nostra volontà. Sono, in altri termini, qualità espressive (inviti,
affordances), nella cui manifestazione in certo qual modo le cose si
esauriscono, esattamente come il vento coincide col proprio soffiare (cfr.
Griffero). Sono modi-di-essere pervasivi (cfr. Metzger) che, generando lo
spazio affettivo cui il soggetto accede, danno vita a una co-presenza
(proprio-corporea, anzitutto, ma anche sociale e simbolica) di soggetto e
oggetto, a un “tra” (un tema caro a Böhme) anteriore alla distinzione
soggetto/oggetto, a una relazione che paradossalmente (per la logica ordinaria,
s’intende) dev’essere anteriore ai suoi relati, pena una ricaduta nel dualismo
aborrito.Tonino Griffero. Griffero. Keywords: l’inter-soggetivo, Betti,
ermeneutica, fenomenologia, Vico, il circolo dell’implicatura, implicatura
ammosferica-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Griffero” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Grimaldi: l’implicatura conversazionale anti-peripatetica – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Cava de’ Tirreni). Filosofo italiano. Grice:
“I have spoken of ‘magic’ – “two kinds of magic’ – actually, for Grimaldi there
are THREE: ‘black magic,’ ‘artificial magic,’ and my favourite, ‘natural
magic’!” Nacque da nobile famiglia locale di origini genovesi. Compì i suoi
studi avvicinandosi a Cartesio, di cui fu seguace e fece parte del gruppo
chiamato degli epigoni dell'Accademia degli Investiganti. Consigliere Regio.
Scrive numerose opere, raccolte poi in "Istoria dei libri di don
Costantino Grimaldi, scritta da lui medesimo". Tra quelle più note si
possono elencare le “Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del
Regno di Napoli” (Napoli), le “Discussioni filosofiche” (Lucca), la “Dissertazione
sulle tre magie, naturale, artificiale e diabolica (Roma). Il figlio gli dedicò
"Ragioni genealogiche a' favore della Famiglia Grimaldi del Sig. Cons. D.
Costantino Grimaldi. Colli signori Grimaldi di Seminara, e con quelli patrizj
di Catanzaro" F. A. Meschini, nel Dizionario Biografico degli Italiani, indica
Napoli come città natale. Memorie di un anticurialista del Settecento. Testo,
introduzione note V.I. Comparato. Firenze, Olschki, Biblioteca dell'«Archivio
storico italiano», Franco Aurelio Meschini,
Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Anticurialismo. GRIMALDI, Costantino. –
Nasce a Napoli. Ha come maestro per le belle lettere e l'oratoria Taurini.
Spinto dallo zio, sacerdote secolare, a frequentare le Scuole pie di largo
dello Spirito Santo, vi strinse amicizia con il padre Tommaso d’AQUINO, dal
quale apprese la filosofia aristotelica. Dopo l'anno di logica, al termine del
quale sostenne alcune pubbliche conclusioni, proseguì gli studi non di
metafisica, come avrebbe voluto, bensì, per volere paterno, di legge, sotto
Radesca e Lellis. Lesse poi, per proprio conto, Tesauro, Piccolomini e, per i
casi di coscienza, la summa di Diana e l'opera di Bonacina. Otenne la
laurea. Prese quindi a frequentare il foro, senza tralasciare, tuttavia,
lo studio delle belle lettere sotto la guida del leccese Giordano che lo avviò
alla lettura dei moderni: Capua, Cornelio, Boyle, Gassendi, e Cartesio. Non
trascura i classici, CICERONE e Quintiliano sopra tutti, studia il francese, i
rudimenti della geometria su Euclide e la medicina sotto la guida di Donzelli.
Di lì a poco prese a frequentare il circolo di Valletta e strinse amicizia con
diversi personaggi illustri: Billio, Anastasio, Lucina, Grazini, Greco,
Monforte, Cristofaro, Capasso, Cirillo, Egizio, Vitagliano, Danio,
Stocchetti. È di questi anni l'idea, cara all'ambiente vallettiano, di
una storia universale della filosofia, che il G. concepì in contrapposizione a Benedictis.
Questi, sotto lo pseudonimo di Benedetto Aletino, aveva dato alle stampe a
Napoli le Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della
filosofia peripatetica: cinque lettere indirizzate a personaggi fittizi (ma
facilmente identificabili) e reali dell'ambiente investigante. La necessità di
una risposta al gesuita fu immediata; lo stesso G. fornisce l'elenco di quanti
risposero o manifestarono l'intenzione di rispondere: Lucina, Filippo
Anastasio, Andrea, Greco e Magrino. Da parte sua il G. in un primo momento (è
lui stesso a ricordarlo) pensò di rispondere indirettamente, compilando la
sopra ricordata storia, che avrebbe dovuto seguire lo sviluppo della filosofia
nelle singole nazioni, soprattutto nel suo sorgere presso i Greci, nel
passaggio ai Romani, quindi agli Arabi e infine ai moderni. Quando
apparve chiaro che le risposte attese o annunciate non avevano raggiunto lo
scopo o che addirittura erano destinate a restare allo stato di progetto,
mentre peraltro l'Aletino e i suoi sostenitori continuavano nell'offensiva
contro i moderni, il G. si accinse a rispondere al gesuita. Le tre
risposte del G. videro la luce. Nella prima (Risposta alla lettera apologetica
in difesa della teologia scolastica di Aletino. Opera nella quale si dimostra
esser quanto necessaria ed utile la teologia dogmatica e metodica, tanto
inutile, e vana la volgar teologia scolastica, stampata a Ginevra per
l'interessamento di Musitano, presso Tournes, ma datata da Colonia presso
Hecht), pubblicata anonima, il G. muove dalla distinzione (già in Valletta) tra
una buona e una cattiva (volgare) scolastica: la prima che non si discosta
dalla Sacra Scrittura, dalla tradizione, dai Padri, dai concili, dall'autorità,
la seconda che, al contrario, non fa debitamente ricorso alla tradizione e
pretende di provare le verità di fede con la sola ragione umana, muovendo dalla
filosofia. Cartesio, che secondo uno schema consueto ai novatoresnapoletani
viene accomunato spesso a Gassendi, è presentato come estremamente rispettoso
nei confronti della sacra dottrina, in contrapposizione a quei filosofi che
dialettizzavano la teologia. La Risposta, di cui ben presto si conobbe il
nome dell'autore, procurò al G. notevole fama e apprezzamento anche fuori del
Regno e lo mise in contatto con letterati illustri, tra cui Gravina, Muratori,
Magliabechi, e Mabillon. Nella seconda risposta (Risposta alla seconda lettera
apologetica di Benedetto Aletino. Opera utilissima a' professori della FILOSOFIA,
in cui fassi vedere quanto manchevole sia la peripatetica dottrina), non più
anonima, data la favorevole accoglienza della prima, e stampata realmente a
Colonia "perché trovò le stamperie occupate in Ginevra", sono
affrontati più direttamente i problemi della filosofia aristotelica e del suo
rapporto con la fede e con la dottrina cristiana. Con abile mossa il G.
trasforma questa seconda risposta in un serrato attacco ad Aristotele, proprio
sul terreno più caro all'Aletino, l'affidabilità teologica dello Stagirita.
Sulla base di un sapiente incastro di testi (Patrizi, Ramo, Gassendi, ma anche
gesuiti come Maldonado, Possevino, Elizade o domenicani come Cano) e di abili
argomentazioni, G. dimostra come alla luce dei principî aristotelici diventino
insostenibili i cardini della fede cristiana: la provvidenza, la creazione,
l'immortalità dell'anima; e, sul versante della scienza, la corruttibilità dei
cieli. Diversamente, i moderni, Cartesio sopra tutti, hanno professato dottrine
non in contrasto con le Scritture: ne è esempio l'impegno del filosofo francese
per conciliare la dottrina eucaristica con la sua concezione della res
extensa. Alla terza risposta (Risposta alla terza lettera apologetica
contra il Cartesio creduto da più d'Aristotele di Benedetto Aletino. Opera in
cui dimostrasi quanto salda e pia sia la filosofia di Renato delle Carte e
perché questa si debba stimare più d'Aristotele), stampata questa volta in
Napoli da Rosselli, ma sempre con l'indicazione di Colonia (perché senza la
licenza dell'arcivescovo), è affidata la difesa di Descartes dagli attacchi
dell'Aletino. Questa risposta, più ancora delle prime due, rappresenta uno
fra i più importanti documenti nella diffusione del pensiero e delle opere di
Descartes in ambiente napoletano. G. appare, anzi, come uno dei più attenti, se
non il più attento interprete partenopeo del filosofo francese, sia per la
conoscenza pressoché integrale del corpuscartesiano allora disponibile,
comprese le lettere e gli Opuscula postuma, sia per l'acume interpretativo.
Descartes, "il miglior filosofante di ogni tempo", viene visto
soprattutto muovendo dalla sua metafisica: "È ben noto che non solamente
il metafisico sistema cartesiano s'aggiri tutto intorno alla cognizione d'Iddio
ma il sistema ancor fisico tutto quanto è, suppone necessariamente per fabro, e
regolatore il supremo facitore" sicché "togliendosi per ipotesi il
darsi Iddio, caderebbe e si ridurrebbe a nulla la macchina del Cartesiano
sistema. Questa piegatura metafisica, nuova rispetto a pensatori come Valletta
e D'Andrea e più in generale all'ambiente investigante e a quello
dell'Accademia di Medina Coeli, permise al G. di allontanare da Descartes la
pericolosa accusa di collusione con l'atomismo antico, e di inserirlo
nell'alveo della tradizione di Platone e di Agostino, di cui, in particolare,
Cartesio è detto fido seguace. Tutti i temi e i testi della metafisica
cartesiana, in un discorso che è al tempo stesso giustificazione e
ricostruzione del moto rinnovatore napoletano che da quei testi aveva tratto
alimento, sono passati in rassegna: il dubbio, il cogito ergo sum, il criterio
dell'evidenza (ove grande importanza è data al momento dell'intuitus, il
"guardo"), le dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Esaminata e così
difesa la metafisica, la fisica cartesiana, di cui iG. discute il ruolo delle
ipotesi (diverse dalle supposizioni dei poeti e degli astronomi, spesso impossibili),
appare se non più agevole, certo più sicura. Il G., che difende al tempo stesso
Descartes e Capua, polemizza non solo con l'Aletino ma anche con talune sue
fonti come Daniel e soprattutto l'astronomo Petit, che l'Aletino aveva indicato
come propria guida. Vengono così discusse, cogliendone precisamente i nessi, le
principali concezioni fisiche del filosofo francese: il corpuscolarismo legato
al rifiuto delle forme sostanziali (concetto applicabile solo all'anima
"ragionevole"); la riduzione della materia a estensione e negazione
del vuoto; l'universo indefinito (non infinito come gli attribuiva l'Aletino),
costituito dal moto che Dio ha impresso alla materia; l'accettazione del
principio inerziale, da cui discende che il cosmo è retto dalle leggi del moto
e liberato da ogni visione antropomorfica e finalistica. Con questo cosmo
materiale l'uomo, non più centro dell'universo, intrattiene un rapporto grazie
alle sensazioni e alle passioni, che sono in vista della conservazione e della
salvaguardia del composto anima e corpo. Nel 1703 uscì una replica
dell'Aletino alla terza Risposta di G., la Difesa della scolastica teologia, ed
ebbe inizio anche lo scambio di accuse tra i due presso il Sant'Uffizio, che
diede il via a una serie di relazioni e controrelazioni. Nonostante ciò, il G.
trovò a Roma un clima non del tutto sfavorevole, soprattutto tra i prelati
filogiansenisti, e l'opera poté liberamente circolare; anzi, grazie soprattutto
all'interessamento di Magliabechi (cfr. lettera del G. a Magliabechi, Firenze,
Biblioteca nazionale, Magl.), ebbe una notevole diffusione in Italia e fuori.
G. abbozza le risposte contro la IV e la V lettera del gesuita. Venne colto da
un colpo apoplettico e l'anno dopo l'Aletino (insinuando che il 28 febbr. 1704
s. Ignazio avesse colpito G. perché aveva osato "malmenar" la sua
Compagnia) intervenne nuovamente con una Difesa della terza lettera apologetica
di Benedetto Aletino. La morte improvvisa del gesuita, l'anno successivo (il G.
non mancò qualche anno più tardi di vendicarsi delle insinuazioni dell'Aletino,
collegando la sua morte a una punizione celeste), la sua stessa malattia, la
denuncia alla congregazione romana delle tre risposte, il fatto che altri
avessero risposto alla replica dell'Aletino (Filippo Anastasio diede fuori uno
scritto, che non venne pubblicato, ma il G. ebbe modo di leggerlo), sono tra i
motivi per cui G. non volle dar seguito allora alla polemica; nello stesso
periodo, tuttavia, mise mano a un'Analisi del modo di teologare, il cui
bersaglio era pur sempre la teologia scolastica, che l'autore non portò a
termine perché chiamato (direttamente dalla corte di Barcellona, su consiglio
di Caravita) a difendere gli editti regi in materia di benefici ecclesiastici
nel Regno di Napoli contro la Curia romana. G., che aveva già ricoperto
cariche in seno all'amministrazione (governatore dell'arrendamento dei ferri in
Terra di Lavoro e deputato dell'arrendamento del tabacco), venne chiamato a
questo incarico. La pretesa del re Carlo d'Asburgo, espressa negli editti, di
conferire benefici ecclesiastici solo a regnicoli, contro la pretesa della
Curia romana, venne dunque sostenuta dal G. nelle Considerazioni
teologico-politiche fatte a pro degli editti di s. maestà cattolica intorno
alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli, che furono recensite nel IV
supplemento degli Acta eruditorum . La risposta di Roma non si fece attendere.
La Curia emanò una bolla che colpiva, con le opere di Riccardi ed Argento, la
prima parte del Trattato delle considerazioni teologico-politiche, mentre la
seconda parte veniva raggiunta dalla censura neppure un mese dopo. G., che era
stato nominato consigliere straordinario del tribunale di S. Chiara (diverrà
ordinario l’anno successivo), prepara contro il testo della censura (la cui
stesura si doveva al benedettino Tedeschi) un avviso critico et apologetico
intorno alla bolla, et alla censura fatta a’ saggi intitulati Considerazioni
teologico-politche, che circola manoscritto negli ambienti anticuriali
napoletani. Morto l'Aletino, la polemica con i gesuiti non cessa. In un
processo che li riguardava essi ricusarono G. come giudice, facendo leva sulla
passata polemica con il loro confratello e ottennero poi, con l'appoggio del
reggente Biscardi, l'esclusione di G. da tutti i processi in cui fosse coinvolta
la Compagnia, con una sentenza del Collaterale. G., che cerca inutilmente di
ottenere la revoca del decreto (facendo anche intervenire Muratori presso il
vice-ré Arese, di cui l'abate modenese era amico), ha tuttavia dalla sua parte
Argento e il reggente Rubini. Numerosi consulti negli anni successivi
testimoniano la sua attività di consigliere. In questi stessi anni G. riprese
in mano le risposte all'Aletino con l'intenzione di pubblicarne una nuova
edizione. Le controverse vicende della stampa sono documentate dal G. stesso
nelle sue Memorie, ora pubblicate, a cura di Comparato, con il titolo Memorie
di un anticurialista, Firenze. Terminata la stesura dell'opera G. chiese la
licenza di stampa al Collaterale (non all'arcivescovo, precisa lo stesso G.,
per l'illegittimità, a suo avviso, della licenza ecclesiastica); si rivolse
quindi allo stampatore Parrino, che, iniziata la stampa, la sospese di lì a
poco su pressione di ambienti curiali. A questo punto il G., secondo una prassi
invalsa, ottenuti dallo stesso Parrino i caratteri, continuò la stampa in casa
propria. Gli ostacoli e gli equivoci erano, tuttavia, ben lungi dall'essere
superati: il cardinale Francesco Pignatelli, arcivescovo di Napoli, cercò,
infatti, di far interrompere la stampa, senza però riuscirci; d'altro canto il
viceré, cardinale Michail Friedrich d'Althan, che in un primo momento aveva
fatto intendere che avrebbe gradito che l'opera gli fosse dedicata - cosa che
il G. fece - sollevò mille difficoltà, cui il G. rispose punto per punto,
finché "vidde, ed odorò che il signor viceré non facea più da viceré, le
cui parti altre certamente sarebbero state, ma da ministro di Roma, e da
esecutore delle voglie altrui, non ascoltando altro che gl'impulsi venutigli da
colà. I volumi, già stampati, vennero sequestrati, salvo quelli che il G. aveva
fatto circolare tra gli amici. Tre copie vennero inviate a Roma per il tramite
del cardinale Àlvaro Cienfuegos, ministro plenipotenziario austriaco. Una di
queste venne fatta pervenire direttamente al pontefice. Il 23 sett. 1726 arrivò
la condanna della congregazione dell'Indice, che colpiva sia la prima sia la
seconda edizione delle Risposte. Il G. affidò la sua difesa a un memoriale in
cui rivendicava il fatto che la prima edizione delle Risposte fosse passata
immune per ben tre volte all'esame del Sant'Uffizio. La nuova edizione,
intitolata Discussioni istoriche, teologiche, e filosofiche di Costantino
Grimaldi fatte per occasione della risposta alle lettere apologetiche di
Benedetto Aletino (Lucca), contiene, in realtà, alcune importanti aggiunte, che
danno conto soprattutto delle letture che in quegli anni G. andava facendo e di
nuovi legami maturati anche al di fuori dell'ambiente napoletano: in
particolare Mabillon e Muratori, Jean Le Clerc e Noël Alexandre. Gli interventi
più significativi sono nella prima risposta, con una più convinta difesa del
giansenismo, che è al tempo stesso presa di posizione per un cristianesimo
nutrito delle Sacre Scritture. Ciò significava anche, nel momento in cui veniva
tolta alla ragione la giurisdizione sulla fede, liberare il campo della
filosofia dalle intrusioni teologiche e difendere quella libertas philosophandi
che era stata e continuava a essere la bandiera dei novatores. Le risposte alla
quarta e alla quinta lettera, rimaste manoscritte e ora conservate presso la
Biblioteca nazionale di Napoli, furono redatte in un lasso di tempo che
presumibilmente va dagli anni immediatamente successivi alla pubblicazione
della terza risposta a dopo il 1724. Nella quarta risposta G. attinge a filosofi
come Bayle e Simon, a libertini come Vayer e Naudé, alla cultura investigante,
sempre a Descartes, ma anche a Malebranche. E, tuttavia, è soprattutto
Muratori, con le sue Riflessioni sopra il buon gusto, a rappresentare in questa
fase, in cui la polemica con l'Aletino è ormai piuttosto un pretesto, un punto
di riferimento. La scolastica è attaccata sia nel suo interprete più ortodosso,
AQUINO (si veda), la cui valorizzazione di Aristotele non può servire ai
sostenitori del filosofo greco perché filologicamente non sorretta dalla
conoscenza del greco, sia nel suo ispiratore principe e cioè Aristotele stesso,
di cui G. passa in rassegna gli errori nelle varie scienze. A essi, tuttavia,
G. non contrappone un nuovo corpus dottrinale, bensì, con un atteggiamento caro
ai moderni, il metodo, aprendosi a una vera e propria apologia della
ricerca. Non mancano altresì affermazioni che nella sostanza suonano anti-cartesiane,
soprattutto nella direzione di un certo vitalismo della tradizione
naturalistica meridionale. Nella quinta risposta, Per la scelta d'Aristotele in
maestro contro a' libertini ed atomisti, G. affronta il tema dell'ateo virtuoso
e, per spezzare la relazione tra atomismo e ateismo, cavallo di battaglia
dell'Aletino, ribalta l'accusa di ateismo su Aristotele, che per di più è
giunto in Occidente attraverso la mediazione irreligiosa di Averroè ed è
all'origine sia degli errori di Pomponazzi sia, ancor più, di Spinoza. La
fortuna della filosofia aristotelica, d'altro canto, era nata, secondo G.,
dalla crisi della cultura nel Medio Evo e ora era in declino proprio per
l'avanzamento della verità, grazie, soprattutto, alle scienze
sperimentali. L'opera, che si conclude con un'apologia della ragione e
dell'esperienza, contiene anche i germi di quel riformismo cattolico che
troverà in Muratori più compiuta maturazione: diminuzione delle feste
religiose, superamento della condanna sull'usura, rifiuto del magico e del
diabolico. Rinnovamento che passa - ciò è una costante nelle opere del G. -
attraverso la comprensione critica della storia ecclesiastica, meglio,
attraverso la storia ecclesiastica quale strumento critico della disciplina se
non della dottrina. Dall'uscita di scena del viceré d'Althan all'avvento
degli Austriaci, G. trascorse uno dei periodi più tranquilli della sua vita e
al tempo stesso più intensi per la sua attività politica. Insieme con Garofalo
compila la lista delle proposizioni ingiuriose alla potestà de' principi nelle
Riflessioni morali e teologiche, scritte da Sanfelice contro Giannone, prende
parte al progetto di riforma dell'Università di Napoli, appoggiò la candidatura
di Garofalo a teologo del Collaterale e di Galiani alla cappellania maggiore
del Regno. Il ritorno a Napoli degli Spagnoli con l'avvento di Carlo di Borbone
segna una nuova svolta negativa nella vita di G., nei cui confronti venne
aperta un'inchiesta, ancora una volta in base alle accuse della corte di Roma e
dei gesuiti, in seguito alla quale perse la carica di consigliere, non senza,
tuttavia, che il re riconoscesse il suo valore: gli venne, infatti, concesso
"l'onor della toga e l'intiero soldo". È in questo momento che
il G. pose mano all'Istoria de' libri di Costantino Grimaldi scritta da lui
medesimo, con l'intento di difendere il suo operato; fonte preziosa che
permette di seguire la genesi delle sue opere e delle polemiche in cui fu
impegnato. Per ottenere il passaggio delle sue opere censurate dalla prima alla
seconda categoria dell'Indicedovette adoperarsi con tutte le forze, ricorrendo
agli amici, facendo appello a tutta la Curia romana e giungendo, infine, a una
ritrattazione che, a sua insaputa e con suo disappunto, venne pubblicata l'anno
successivo nelle Novelle letterarie di Venezia. Negli anni successivi
visse appartato, continuando a intrattenere rapporti epistolari con vari
rappresentanti della repubblica letteraria, in particolare G.M. Mazzuchelli. A
questo invierà l'Elogium che gli aveva dedicato il padre Casto Innocente
Ansaldi, insieme con le Discussioni storiche e una versione abbreviata
dell'Istoria de' libri cui aggiunse le notizie relative agli anni successivi e
cenni sulla sua giovinezza, materiali questi che Mazzuchelli utilizzerà per le
Notizie storiche e critiche intorno alla vita e agli scritti di C. G.,
pubblicate l'anno dopo della morte del G. nella Raccolta d'opuscoli scientifici
e filologici di A. Calogerà. G. E ARRESTATO con l'accusa di intrattenere
corrispondenza con gli Austriaci. G. resta in carcere quaranta giorni (Vat.
lat.). Dello stesso anno è una Lettera apologetica indirizzata a Paoli
sull'involuzione della liturgia nel Medioevo (tema ripreso in due lettere a
Mazzuchelli). Polemiche attardate, come quella durante la crisi napoletana del
Sant'Uffizio allorché G. compose il
trattato Sciagura maggiore, rimasto manoscritto, in cui ripropone la lotta
anticuriale a favore del sovrano e CONTRO L’INTRUSIONE DEL POTERE DI ROMA. L'ultimo
scritto di G., pubblicato postumo (Roma, Milano) a cura del figlio, è una
Dissertazione in cui si investiga quali sieno le operazioni che dependono dalla
magia diabolica e quali quelle che derivano dalle magie artificiale e
naturale. G. muore a Napoli. Dei tredici figli gli sopravvissero Gregorio
e Ginesio, Bernardo, chierico e abate di S. Maria della Misericordia a Itri,
Aniceto e Teodosio, monaci olivetani. G. intrattenne un'ampia corrispondenza:
in particolare le sue lettere al Magliabechi sono conservate nella Biblioteca
di Firenze, quelle al Muratori nell'Archivio Muratoriano di Modena, quelle al
Bottari, infine, presso la Biblioteca Corsiniana di Roma. Biblioteca
apost. Vaticana, Vat. lat.: Viri clarissimi G. senatoris Neapolitani elogium
authore P. C.I. A. O.P. [C.I. Ansaldi]; G., Lettera di Claristo Licenteo
[Licunteo] scritta a Grandini, in cui si essaminan due luoghi del signor
Francesco Maradei in persona del regio consiglier d. C. G.; Lettere dal Regno a
Magliabechi, a cura di A. Quondam - M.
Rak, Napoli; G.G. Scarfò, Opuscoli, III, Napoli; Mazzuchelli, Notizie storiche
e critiche intorno a G., in Calogerà, Raccolta d'opuscoli scientifici e
filologici, Venezia; Index librorum prohibitorum, Roma; Delfico-CIVITELLA,
Elogio di C. G., Napoli; Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali
del Regno di Napoli, III, Napoli; Schipa, Il Muratori e la coltura napoletana,
Arch. stor. per la provincie napoletane; Sposato, Le "Lettere
provinciali" di Pascal e la loro diffusione a Napoli durante la rivoluzione
filosofica, Tivoli; Badaloni, Introduzione a VICO, Milano; Boscherini
Giancotti, Nota sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia, Giorn.
critico della filosofia italiana; Ajello, Il pre-illuminismo giuridico, Napoli;
Comparato, Ragione e fede nelle discussioni istoriche, teologiche e filosofiche
di G., Saggi e ricerche, Napoli; Giovanni, "De nostri temporis studiorum
ratione" nella cultura napoletana, in Corsano et al., Omaggio a VICO,
Napoli; Giovanni, Il ceto intellettuale a Napoli e la restaurazione del Regno,
Napoli; Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino; Comparato,
Valletta e le sue opere. Un intellettuale napoletano, Napoli; Ricuperati,
L'esperienza civile e religiosa di Giannone, Milano-Napoli; Lauro, Il
giurisdizionalismo pre-giannoniano nel Regno di Napoli. Problema e
bibliografia, Roma; Osbat, L'Inquisizione a Napoli: il processo agli ateisti; Roma;
Ricuperati, G., Nota introduttiva, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed
economisti, Milano-Napoli, Garin, STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA, Torino; Ferrone,
Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana, Napoli; Torrini,
La discussione sullo statuto della scienza, in GALILEI a Napoli, a cura di Lomonaco
- Torrini, Napoli, Cacciapuoti, Il processo agl’ateisti: dalle discussioni
teologiche al gius-naturalismo, in Dalla scienza mirabile alla scienza nuova.
Cartesio e Napoli, Napoli, Belgioioso, La variata immagine di Descartes. Gli
itinerari della metafisica tra Parigi e Napoli, Lecce; Lojacono, Immagini di
Descartes a Napoli: da Valletta a G., II, in Nouvelles de la république des
lettres. Grice: “There is something to
be said about what Italians, in connection with Grimaldi, call
‘anti-curialismo,’ as opposed to the more general, and more revolutionary,
‘anti-clericalismo.’ My father being a non-conformist, would love Grimaldi on
both counts!” -- Costantino Grimaldi. Grimaldi. Keywords: magica naturale,
magica artificiale, magica diabolica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi:
implicatura peripatetica”– The Swimming-Pool Library.
Grice e
Grimaldi: l’implicatura conversazionale dell’inter-azione – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Seminara). Filosofo. Grice italiano:
“Grimaldi for some reason did some deep research on cynicism – a wonderful
etymology, too!” -- Esponente dell'illuminismo. Fratello minore di Domenico
Grimaldi, filosofo. Nato in una famiglia aristocratica che faceva risalire le
proprie origini alla nota famiglia di Genova, dei principi di Monaco, ricevette
la prima educazione dal padre, il marchese Pio Grimaldi, un uomo colto che
aveva cominciato a introdurre criteri di conduzione innovativi nelle sue
proprietà terriere (peraltro non molto estese). Inviato a Napoli, conosce
Genovesi. Comincia a interessarsi alle vicende culturali e politiche della
Repubblica di Genova: volle anch'egli essere iscritto fra i patrizi di Genova,
esprimendo la convinzione che l'aristocrazia genovese avrebbe dovuto riprendere
la funzione, svolta nei secoli precedenti, di classe dirigente della
Repubblica. Studia il diritto testamentario romano. Fu pertanto fautore del “fedecommesso”
istituzione risalente a Roma antica e prediletta dalla classe
aristocratica. Maestro venerabile della
loggia massonica di Genova. Partendo dalla filosofia romana, cerca di
analizzare l’interazione umana. Al di fuori della società l'uomo, in balia dei
"sentimenti fisici", diventerebbe “un vero bruto” – “como Romolo” --.
Tali riflessioni saranno approfondite nel "Saggio sull'ineguaglianza
umana”. Sostenne che, in natura, gli uomini non sono uguali e che le
differenze, sia fisiche che morali, ha origini soprattutto ambientali (per es.,
il clima, la diffusione delle malattie). La inter-azione non e uno stato di corruzione, ma lo stato
"naturale" dell'uomo. La struttura gerarchica dell'Ancien Régime era
giustificata dall'ineguaglianza degli uomini. L’educazione non sarebbe riuscita
ad appianare tale disuguaglianza. Scrive gli Annali del Regno di Napoli. Fa una
Descrizione de' tremuoti accaduti nella Calabria. Altre saggi: “De
successionibus legitimis in urbe Neapolitana systema. Pars prima in qua ius
Graecum Neapolitanum vetus, et ius omne Romanum a 12 tabulis ad Iustinianum vsque
absolutissime expenditur” (Napoli: Simoniana); “Lettera sopra la musica
all'eccellentissimo signore Agostino Lomellini già doge della serenissima repubblica
di Genova (Napoli); “La vita di Ansaldo G. patrizio genovese, illustrata con
riflessioni politiche, e morali, e con una brieve narrazione del governo
politico della Repubblica di Genova dalla sua origine” (Napoli: Raimondi); “La
vita di Diogene Cinico” (Napoli: Vocola); “Riflessioni sopra l'ineguaglianza
fra gli uomini” (Napoli: Vocola). (Franco Crispini, Vibo Valentia: Sistema
Bibliotecario Vibonese) Annali del Regno di Napoli dedicati a Ferdinando IV. re
delle Due Sicilie. Epoca I. Dal primo anno dell'edificazione di Roma sino alla
fine del quarto secolo dell'era Cristiana” (Napoli: Porcelli); “Annali del
Regno di Napoli” -- Epoca II. Dall'anno 409. dell'era volgare, sino all'anno
1211” (Napoli: Porcelli); “Descrizione de' tremuoti accaduti nelle Calabrie” (Napoli:
Porcelli. (Saverio Napolitano, Bordighera: Manago). La vita di Ansaldo G.
patrizio Genovese” (Napoli: Raimondiana); “De successionibus legitimis in urbe
Neapolitana” (Napoli: Simoniana); “Nico Perrone, La Loggia della Philantropia.
Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio); Fulvio Tessitore, «G. e
l'ineguaglianza». In: F. Tessitore, Nuovi contributi alla storia e alla teoria
dello storicismo, Roma: Edizioni di storia e letteratura, M. Tallarico,
«CESTARI (Cestaro), Giuseppe». In Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Crispini,
Appartenenze illuministiche: i calabresi Salfi e G., Cosenza: Klipper, Dizionario
Biografico degl’Italiani, Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Boccanera,
«G. In: E.Tipaldo, Biografia degl’italiani illustri nelle scienze, lettere ed
arti, e de' contemporanei, compilata da letterati italiani di ogni provincia e
pubblicata per cura di Tipaldo” (Venezia, Alvisopoli)’ CIVITELLA, Elogio di G.,
dei signori di Messimeri, patrizio di Genova e assessore di Guerra e Marina,
Napoli: Orsino (in Opere complete di CIVITELLA, a cura dei Pannella e
Savorini, Teramo: Fabbri). Ubbidiente,
Il pensiero e l'opera dei Grimaldi. Tesi di Laurea in Filosofia italiana. Salerno.
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dell’ineguaglianza
degl’esseri organici. Dell ineguagliang? del [effe , 9 deir età degli ejferf
organici . Della dissimilitudine fisica che vi è traglt nominile gl’altri esseri
organici, Dell' ineguaglianga fisica tra gl’uomini . Dell' ineguaglianza della senfìbìlità
3S» degli esseri organici . Dell’ineguaglianza della senfibilittà tra gl’uomini
. Dell ineguaglianza delle facoltà intellettuali; Dell'ineguaglianza delle
pajjio; Dell’ineguaglianza della volontà; Principio generale intrinseco dell'
ine- * , gli uomini Si sono ritrovati dopo della generale inondavo- Uh cietà
familiari; delle tribù de’ selvaggi; delle nazioni barbare; delle nazioni
civili; dello Sviluppo delle facoltà intellettuali nelle Nazioni civili
relativamente all’arti, ed al. /e fetente; Dello sviluppo delle pajjioni de-
uomini ctvilt; Della maniera come dicare dell’ homo morale nella civile società
. U"T^XEl? ineguaglianza naturale; Della
libertà e della serviti civile; De Governi; Della legge di Natura; Del diritto
delle Genti; Del Diritto Civile; Della maniera come fi giudica da noi; L’ineguaglianza
politica de’ diritti e dell’obbligazioni degli uomini; Questa breve ricordatila
dell’ illustre cittadino, questo semplice monumento alla memoria d’un Uomo
celebre nella Repubblica delle Lettere, questo esempio «i« • l*» ttttmalv m
»!tX4 «m ITlUvl/1C ifflHllU tato dalla sincera e disinteressata amidkia. Possa
egli contribui- re ad alleviare il dolore d’ una perdita nazionale , servire
per ricordo di gratitudine a’ concittadini, per motivo d’imitazione agli Uomini
di Lettere, e somministrare un modello a coloro che bramano di conservar nel
loro cuore i più rispettabili sentimenti, che istillar possono concordi la
Natura e l’ Educazione. Nascita , Grimaldi t 4*4 vi 44 ed 'TT'L nome Grimaldi
contemporanco alla Storia Moderna d’ Europa stat0 scmPrc SECONDO d’ Eroi. Un
ramo di questa illustre Famiglia si trova da più secoli trapiantato in estraneo
suolo, cioè, nella Città di Scminara in Calabria (<z) . Ivi da Pio Grimaldi
e Porzia Grimaldi nacque Francescan- tonìo; Le emigrazioni delle famiglie da
uno stato all'altro in Italia furono frequentissime quando per la debolezza
delle Costituzioni de’ Governi non regnavano le leggi ma i partiti. Genova soffre
forse più lungamente che qualunque altra Città d’Italia queste politiche
concussioni. I Grimaldi Guelfi di partito, hanno de' tempi di disdetta; ma non e
ni per disgrazia ni per delitto che Bartolomeo G. si spatrio. Figlio
sccotiAoeenìio di Ranieri, PRINCIPE DI MONACO, venne colle sue galee in ajuto
del Re Roberto a ri-acquistar la Sicilia, e forma il ramo de’ Grimaldi Signori
di Messirneri. Per più d' un secolo, ciol , fino ai tempi di Giovanna II. essi
si conservarono in grande stato; ma le non insolitejiccnde di famiglia, più
frequenti ancora sotto quel Regno, ridussero i G. in più umile grado di fortune.
Perdute le grandi ricchezze,' e ridottisi -in urta - Città- di Provincia,
conobbero chi vi può sere una grandezza nella virtù che forse frequenta più le
private abitazioni che quelle de' grandi. Piccola consolazione nel
Cinsuperabile ineguaglianzal » -~-4» ionio (a) , che ha accresciuto nuovo
lustro agli allori -de' suoi maggiori. L’onestà, la virtù, e le lettere, che
avevano fatto sempre la principal caratteristica di questa famiglia, fecero
l'educazione di colui che abbiamo per duco. 11 di lui savio genitore, memore
-di partecipare all’autorità suprema d’ una Republica illustre, non conserva
solo nel suo cuore le comuni doti d’ordine degne d’un membro di Senato
Aristocratico t ma nato in una libera monarchia riconosce altre più vere idee
della virtù, che sa imprimere nell’animo di quelli a’quali aveva dato 4'
esistenza. Conosce egli che la severità della virtù passa agevolmente in
difetto quando non è accompagnata da quei sentimenti d’umanità che devono
costituire il benefico carattere dell’uonjo sociale; e che questo
perfezionamento della virtù non si acquista che coltivando lo spirito, e
perfezionando la ragione. Per tal modo quel tavil>«tUirJatJ»***-!r «<*
*mi ri no que’ semi virtuosi , che vennero poi vigorosamente a germogliare.
L’esempio stesso della di lui vita fu per esso una continua lezione di que’
doveri che accompagnano l’ uomo ne’ suoi varj rapporti e situazioni. Qual raro
e piacevole spettacolo è in latti, il vedere un amico genitore occuparsi
gradatamente a perfezionare l’instabile e balbettante lingua de’ suoi fanciulli
e condurli quindi alla conoscenza e varietà de’ linguaggi ; mo- strar «M vili H» Strar. loro ora l’ indole degl’idiomi,
ora le bellezze dello stile t ora la verità de’ fatti ed ora quelle della
ragione! Questa e la vera e rara educazione , che G. ha la sorte di godere. Il solo
padre e il suo istitutore. Nato con una costituzione vigorosa, sana, e di
sanguigno temperamento, ajutato da una educazione corrispondente sviluppa
prematuramente un carattere capace del grande. E siccome sono le circostanze
che determinano 1’attività nostra a tale o tal’altra direzione, così le sue
forze incapaci d’ un’inerzia vergognosa, presto si determinarono al laborioso
miglioramento delle facoltà intellettuali , che duplicano quasi la nostra
esistenza, facendo sviluppare lo spirito e sublimando la ragione. Ciò che si
chiama Corso di Stud) no» fu per esso , come co* illunemente esser suole , una
serie di lezioni consuetudinarie, che invoco di mijlioi—• I— ,p!n»A non famin
rVm deteriorarlo. Egli studia le scienze con quella vera attenzione, che
meditando su le idee e verità conosciute vede sbucciarne delle nuova, e
richiamando per i varj e necessarj rapporti mol te idee a quella che
principalmente si medita, fa quasi sorgere * crea nuove verità , che altrimenti
resterebbero in dubbio retaggio ai secoli futuri. Un’anima cosi elevata da
moltiplicità di cognizioni erra qualche tempo nell’immenso campo delle idee,
ora seguitandone arditamente una serie, ora poggiando su le adire per sentirle
quasi più da vicino j ma noa SÌ stabilisce finalmente e riposa che sopra quelle
, che sono d’ un vantaggio dichiarato per t* nomo. La Morale scientifica e
prattica no , non è per nostra sverrà tura un affar comune e volgare. £' il
risultato di meditazioni profonde, di cognizioni moltiplici , di quantità di
paragoni , che dopo d’averne quasi formato un corso d'esperienze, ritorna alle
cagioni e ne stabilisce i principj . E' la scienza dell» Felicità publica e
privata: fi chiunque non è nuovo nelle scienze converrà facilmente che questa
parte della FILOSOFIA è egualmente grande per l’ importar»»» •»» • p»r hi sue
sublimità. Questa fu , non dirò la prescelta dal nostro G., ma quella verso
della quale egli e trasportato dalla forza del suo intendimento combinata con
quella del suo cuore. I primi saggi infatti del di lui spiritOi anche
indirettamente, fecero subito riconoscerc quésta naturale inclinazione» Un*
-11°— " ra o nell’ immenso caos delle sensazioni i principj di
quell’armonia generale che donò il gusto del Bello ma fra le Belle Arti la
Musica é forse la più vicina e la più dipendente da codesti principj non ancora
interamente rivelati dalla Natura. Perciò allor quando il cuore è più sensibile
e l’anima più armonica è facile il trasporto al gusto musicale . 11 di lui
savio educatore fin dalla prima infanzia profitta di questo stato precoce della
sensibilità del suo allievo. Quindi seppe insinuargli fc fargli nascere il più
sicuro senso dell’ordine, della proporzione, e dell'armouia, coll’isiruirlo nei
principj del Disegno, della a Pittura e della Musica. Non vedeva egli ancora
qua! parta avessero queste istruzioni nell’ istituzione della virtù: onde
seguitò lo studio della Musica per trasporto piuttosto che per ragione. Ma
allorché le altre cognizioni cominciarono ad accu»snidarsi nel di lui spirito -
quando cominciò a travedere ( che la Musica non è solamente un’ arte , ma parte
ancora delle scienze sublimi quando riconobbe gli effetti sicuri e necessar},
della Musica, e che i principi dell' armonia sono immediata- mente dettati
della Natura , non si ritenne più su la semplice esecuzione , nè Sì contentò
della sola parte imitatrice , ma vol- le esprimere le proprie idee , ie
mflhagini, i sentimenti ; e ’l suo istromento rispose perfettamente alle
domande . I suoi progress* furono in breve meravigliosi , giacché il gusto , 1*
esattezza e i’ espressione vi si ravvisavano tanto nell inventare che
neU’esegui- re . Per la perfezione meccanica dell’ arte si richiede un esercì*
zio abituale C Continuo di , ma un taT-nt/. «OH fattO pCt rimanersi alle porte
del tempio della gloria prende delle Belle Arti quella parte che serve al
miglioramento della sensibilità , c trapassa ad altri più utili oggetti . Egli
nondimeno , trasportato k veder tutto per un lato morale, avendo osservato
colla scor- ta degli Antichi -che la Musica ha tante influenza sul cuore e sul
costume , cioè sulla creazione di quei sentimenti fondamen- ti' , che
caratterizzano gl’ individui e le nazioni , volle com- «nunicare al Pubblico le
sue osservazioni, *i-»•«-*«...j j>*•t ** Sono secssoesaeeMieMfleM —* . >
Ono esse contenute nella Lettera sopra la Musica alt Lo- Lettera sopt4 ^
HSK*> cruentissimo Signore Agostino Lomellini (a) . A quest' uo* no degno d’
eterna ricordanza volle G. indrizzare I» sue idee , non solo perchè n’ era un
giudice competentissimo ì ma per attestargli parzialmente quella stima, della
quale L’ Euro» pa tutta r onorava . ' E‘ meraviglioso il vedere come G. in
questa operici ciuola abbia potuto combinare tanta abbondanza d’erudizione è di
ricerche , « tante fona di wgtwaiMBta. — , . __ Egli vede la Musica come una
parte- sublime dalla FILOSOFIA } che ha contribuito all’ espansione della virtù
, alla regolarità de' Governi , alla conservazione del costume > alla
sublimazione de’ sentimenti più convenienti per 1’ uomo - Vede- che in altri
tempi questa ch’era stata la miglioratrice degli animi, concorsi poi jJIk-Wo t»
«rwwf! r i- eroe»a- j zioni dèlia sua sensibilità , attenuò quasi «1 indebolì
finanche la fisica di lui costituzione. Tutti questi varj fenomeni sono
dimostrativamente provati dalla Storia amica , e dalle memorie cd osservazioni
de’ Filosofi contemporanei. La diversità degli e£* fotti pruova quelle delle
cagioni , che il Filosofò ricerca » Eglg incomincia dal distinguere la Musica’
sotto tre forme : la prima " (à) In Napoli 1766. ""l! vx B2 *
che» Digitized by Google 4-4 xii cte chiama Naturale , la
«*rr>nda Armoniea voluttuosa, e la terza Armonica Filosofica . Per quanto
siamo lontani dalla prima esistenza della specie ì pure siamo in istato di
giudicare della sua Musica primitiva t perchè tuttavia esistente . Le
impressioni delle passioni su 1’ or* ^ gauo vocale, la nascita degli accenti ,
la diversa prolusione di essi , la successione ora più stretta ora più larga
degli stessi tuoni , o di pochi di essi ; ecco la prima Musica naturale e
vocale . L' imitazione dei rumori fece nascere l’ istromentale ; e una e 1*
altra semplice e monotona , 1’ una e V altra conservata, nel civ Aizzamento
della Società e nel perfezionamento della Musica , con questa differenza che
quella restò sola presso le Nazioni barbare , ma nelle Nazioni culte restò
quasi per la parte barbara della Nazione. Quindi è che le cantilene volgari
por- tano quasi dappertutto questo cara**ttere primitivo - La Musica Armonica
voluttuosa pare «V»* non H.-hha essct distinta dall’ altra detta Filosofica ,
che per la qualità degli ef- fetti , poiché l’una e l'altra ànno bisogno di
Filosofia nella com- posizione. Ma la prima sembra diretta a soddisfare più 1’
orga- no ecfj&itare le emozioni voluttuose , quanto 1’ altra lo è a far
nascere de’ sentimenti cooperatori della virtù , affinan- do la sensibilità non
per una più estesa facilitazione di sem- plici piaceri corporali^, ma per
rendere la macchina e l’anima stessa armonica , onde sentire agevolmente 1’
Ordine , che deve essere la base delle virtù politiche ed il sostegno degli
Stati. La Filosofia dunque della Musica dovrebbe consistere non solo nel- - lo
Digitized by Google \ , lo stabilire una qualità di Musica assoluta
, i cui effetti fossero» necessar e costanti , ma anche una relativa secondo il
caratte- j re de’ popoli , che o si vogliono richiamare dalla corruzione , o
avviare alla perfettibilità, e secondo l'indole o lo stato deità sensibilità
lora Esaminando però U Storia, «cmlura-ch# qnesta Musica Filoso- fica abbia
albergato poco sul Globo te più culte ne inno fatto più un oggetto di voluttà ,
che di —. costume. Questo però non toglie , che vi sia una verità di prit>
cip), che si palesa negli .Atti. Lm virtù e "i- sentimenti che le
producono, possono avere un’espressione degna di esse : ecco la MUSICA
FILOSOFICA. Questa forse era quella, «olla quale si can- tavano le antiche
leggi, e le gesta degli Eroi ; questa, che det- tava i principi Morale, questa,
che eccitava, i cuori all» gloria , e che nudriva 1’ amor sociale . Ecco perchè
i più illu-. stri fondaifijà.delllumanitfc.|pci.Tl^., Al^nrio . oaio . Cadmo , Chirone
furono tutti stimati inventori della Musica , non solo .perchè la Musica è
l’emblema dell'armonia sociale, ma perchè ne è la conservatrice . Ecco perchè
ancora, i Filosofi di primi ordine o fecero della Musica una parte della
Filosofia, o la ca- ratterizzarono come uno dc^ più veri principi dell’ordine
socia- le, che solo può conservare il costume e la costituzione degli Stati ;
ed ecco infine perchè il nostro Autore si duole che in tanto gTado di
miglioramento morale non si richiamila Musica ai suoi principi , e non si
feccia del piacere una strada alla virtù. Che se lasciasi ancora d’ adoperarla
con vista immediata al pubblico ... b«»e» j giacchi tutte le Nazioni
Vita £Ansal- do G.. <H xiv H»
mesacenomessat>cs>08e»OB<-B>ogs>ocr>opge>saeg>«o«"»aag*»a
tene , può frattanto essere di grandissimo utile agli individui * giacché non
manca in parte di quegli effetti , che decisamente migliorano la nostra
sensibilità. Cosi egli, ad esempio de’ Filosofi antichi , moralizzò quest'
Oggetto , seguendo con ciò la più utile determinazione del suo spirito <e la
migliore applicazione delle proprie cognizioni. L gradimento dell’ illustre
Tìxdoge Lomellini fu grandissimo: Ie maggiore anche il piacer di vedere , che
il nome Gri- maldi fuori del patrio suolo prometteva nuovo splendore alla
Patria ed alla famiglia . La Republica di Genova già ammirava i talenti del
nostro G., quando dovett’essere più contenta nel vedere impegnata la di luì
penna a dimostrar anche da lon- tano il più vero spirito patriotico , solo
retaggio rimastogli dai tuoi antenati . Fu certamente 1’ effetto di questo
sentimento » che 1’ impegnò a pubblicaro 1» Vita -4n**IJ* CrtrrutUi ^4) I Eroe
della Patria e della famiglia. Chi legge questo libro par che non lo trovi
corrispondente alla prima idea che dal titolo ne viene eccitata ; perchè poco
vi si parla della vita d’Ansaldo. Sembrami però . che due fossero le mire
principali dell'Autore , che ben rettificano la sua inten- zione . La prima di
rilevare quelle qualità d' Ansaldo , che gli fanno meritare il titolo di Grande
; la seconda, di rischiarare di- . versi (a) in Napoli «H xv W
versi punti importantissimi delia Storia politica di Genova e di segnare il
carattere della sua vera Costituzione ed i principj veri e regolari della sua
sussistenza. Quest' oggetto rientra tutto nella Storia d’ Ansaldo , non solo
perchè esso fu il Restitutore della libertà e del decoro ma perchè in quel
tempo si scosse- , ro più possentemente i cardini della Republkana libertà e si
sta* •bill la insino allora di Stato è indivisa da quella dello Stato istesso .
Non mancò dunque 1’ Autore se non tenne dietro a quelle particolarità che
occupano ordinaria J. rwna <Wi Biografi, ma pensò di cs* •ere più utile col
sostituire riflessioni s ed alle personalità, donde poi provenivano quelle
vicende, che tenevano lo Stato in continua rivoluzione ; e per quale sue*
cessione di disordini si giunse finalmente all’ordine, che tut- tora vi regna.
E codesta, che interpolatamente contiene le gesta dell’ Eroe , fa la parte
principale dell^Opera . Ma siccome la Sto* ria delle Republiche è stata sempre
la vera miniera delle poli- tiche e morali osservazioni , cosi il nostro Autore
non potè evitare quelle riflessioni che il corso della Storia naturalmente gli
presentava . Esse sono opportunamente collocate , e formano quasi una «rie di
tanti saggi Politici e Morali , ne’ quali ben- ché vacillante Aristocrazia . La
storia dell' uomo interessanti a fatti di poco momento . Egli cosi ha divisa
quest’ Opera quasi in due parti . Nel Testo si fa come' un quadro animato della
Storia Politica di Genova' scritta da vero Filosofo cagioni agli effetti. Fa
veder come la mancanza di Costituzioni e **88* 1.10 . metraggio , cioè,
ravvicinando le thè r uomo non sia
risparmiato , poiché viene mostrato qual' è •chiavo delle passioni c delle
circostanze, G. non lascia d’ indicare nel tempo stesso quei doveri, che in.
ogni circostanza •ono le leggi vere della condotta e della vita • Bisogna
assolu- tamente leggere -quest’ Opera , che sotto semplice titolo contiene
tante nobili idee , e che è impossibile di dettagliare in un cir- coscritto
discorso . Torno per tanto all’oggetto principale, cioè, al Grande Ansaldo. Il
titolo di Grande, che dall’ adulazione è stato consacrato ai distruttori deli’
Umanità, non si deve che ai^uoi Benefattori- La prima qualità per esser Grande
è la Beneficenza. Ansaldo gene- roso , benefico, illuminato, coraggioso ,
sensibile meritò dunque questo titolo d'onore . Non ignoro che la grandezza
consista nella quantità dell’azione, e nell’effètto: ed ecco ciocché si rea-
lizzò in Ansaldo. Come uomo di Stato egli sostenne la Patria col vigore de’
suoi consigli, rolla sublimità de’ suoi talenti , colle ric- chezze ammassate
dalla sua temperanza. Come semplice Cittadino, fu il benefattore di quanti potevano
essere oggetti d’una illuminata beneficenza, cui non si contentò di esercitare
nel ristretto tempo della sua durata , ma volle estendere all'avvenire e che
anco- ra persiste . Non solo vivendo fece codest’ uomo il miglior uso delle sue
ricchezze, ma fece che la sua volontà restasse perpe- tuamente benefica nella
serie de’ secoli. Incominciò egli dal con- tribuirc i mezzi che perfezionando
la Ragione perfezionano si- milmente la Morale , cioè , dal fare assegnamenti
per **l*a publi- '-* ca istruzione , e stabili non solo delle Cattedre di
Scienze , ma som- 4-i xvii
somministrò anche soccorsi a coloro che v’attendevano'. Egli non trascurò
moderatamente i luoghi religiosi , gli ospedali ed altre fondazioni di pubblica
pietà . Egli pensò da uomo libero e non da Aristocratico : volle che tutti
partecipassero della sua beneficenza ; quindi non solo ebbe in mira le opere
dan- neggiate dalle passate guerre , come la darsina , il porto , le mura , i
ponti e i mulini , ma lasciò altre somme considerabili per le ordinarie spese
della Republica ; liberò dai debiti Je ga- belle che già troppo aggravavano il
popolo Genovese » nè gli Stessi agricoltori furono obbUacì nelle sue liberalità
e benefi- cenze • • La pubblica beneficenza non gli chiuse però il cuore ad una
più propria e particolare del suo nome e della sua famiglia . Le risoluzioni
domestiche, si osservano più facilmente nel tem- po che quelle degli Stati .
Ansaldo lo vide ; e considerò che della sorte . Quindi da gran politico
pensando che , nelle Ari- stocrazie specialmente, dalla povertà de’ Nobili
incomincia la corruzione , volle , per quanto potè , prevenire questi tristi
ro- vesci della fortuna , formando nella sua Casa una quantità di beni , che
potesse decorosamente mantenerla , e stabilendo per tutta la famiglia un
Albergo che fosse atto a sostenere senza avvilimento Io splendor del cognome
Fece de’ legati partico- larmente per i Grimaldi che attendessero alle lettere
, con pen- sione che durava per anni otto : volle che le donzelle Grimaldi
avessero nella loro collocazione un conveniente soccorso ; e nel- C le
aeoaeeseueaaysa 4 xviu >4* le annue liberalità che per i poveri
stabili , volle che non fos- sero obbliati quelli del suo nome , che una
rivoluzione sventu- rata poteva in questa classe collocare • Una cosi estesa e
perpetua generosità , un uso cosi giusto delle ricchezze , una liberalità , che
si propagava fino all'ultimo Cittadino » riunite a tutte le altre qualità che
gareggiavano ad ornarlo fece dunque bea meritare ad Ansaldo il’ titolo di Grande
: e più lo merita a’ giorni nostri quando un lusso distruggi- tore à estinto
negli animi ogni sentimento di beneficenza. Ma se dall’ antica veneranda tomba
alzasse il capo il Grande Ansaldo* forse esclamerebbe: O Patria, ingrata
Patria, o Posteri più in- grati alla mia memoria ed ai miei sentimenti ! Io non
feci delle mie ricchezze un Banco di Commercio, ma di Beneficenza Come V
amministraste voi verso quella famiglia , che per virtù e per le circostanze
diveniva la prediletta nella mia intenzione ? Voi nega- ste al vostro sangue ,
al vostro nome stesso quei soccorsi che lo Spirito di Patria , d' Umanità , di
famiglia mi dettò contro i di- spettosi rovesci della Fortuna . Ah ! un nome
illustre non ì che un tormento se è accompagnato dal bisogno L Ma sento da un
cu- • po oscuro Chiostra ì teneri ed acuti accenti di cinque mie figlie , che
rivolte all’ antica Patria ridamano i diritti di quel sangue che loro scorre
nelle vene . Possano queste voci giugnere ai vostri cuori , ed onorarvi di
meritata riconoscenza ! Genova , G., calmate V ombra del vostro Benefattore -1
Il nostro G. fu veramente desiderato molto dalla Re- publica per onorarlo
personalmente e promuoverlo alle su-- iy pren>£ «H x*x preme
Magistrature ben meritate da’ suoi talenti e dalla sua virtù ; ma lé
circostanze Napoletano non gli permisero d’ accettare il meritato invito si
contentò di farsi più denza colla Filosofìa , e l’esercizio di essa con quello
della virtù. ta la Filosofìa par che debba zione, cioè in tutti i rapporti
degli individui fra loro e verso , di famiglia e I» applicazione al Foro e
desiderare, dando a conoscere con diversi Responsi ch’egli aveva saputo
combinare la sublime Giurispru- yjjpRapasserò intanto leggiermente su questa
professione, eh* per qualche tempo ei volle esercitare. Chi considera in1
Avvoca^a - Trattato Le- * astratto la qualità di Cù,reconsulto una migliore
applicazione de’talenti , per che non possa vedere nella Società dove vive.
Tut- servire a questo primo oggetto sociale . La conoscenza del Giusto in tutta
ì immensa sua esten- tutti gli oggetti coi quali sono in relazione , è I’ apice
delle umano ragiuuom_ 1-oaàc—o» .do!-«wo-Adwry, applicarvi le verità di dritto
è la più nobile operazione come ritrovar più i principj d’ una tranquilla della
Ragione. Ma multuose bolge del nostro Foro, ed in no? Quasi ognuno conviene
della deficienza delle nostre leggi della Giustizia , e della perniciosa
mancanza d una vera Approvazione nei Giusdicenti e dei difetti esistenti nell*
amministrazione nei Giureconsulti; e, per un effetto di vera dono di questi
mali c gli altri ne profittano. Quindi si moltipli- cano all’infinito gli
attori di questa scena tragica per la società e per la Morale ; e questo malore
contribuisce sempre più alla C a dete*. ragione fra le tu- quel vertiginoso
frastuo- corruzione, i più ri- . «H xx deteriorazione del costume ed all’
affogamento de’ talenti , che nella loro freschezza rivolgono facilmente , come
le piante , le radici a quella parte ove più abbondantemente possono succiare
gli umori nutritivi 11 Grimaldi cautamente portò il piede su le sponde di code-
ito baratro pericoloso . Senza immergevi nel bujo , vedeva dal- la
circonferenza a quali limiti bisognava rimancrfe . Non cupido d’una gloria
efimera e fugace, non avido di que’ lucri, che di rado sono il premio della
virtù e del valore , egli si contentò dell’ approvazione della Ragione
piuttosto che di quella del vol- go ammiratore Se alcuno volesse dubitare , che
si ritenesse in tali limiti per mancanza di convenevoli talenti , l'Opera legale
che egli ancor giovine molto dettò , potrebbe facilmente sincerarlo . Nell’ e-
là di soli ventiquattro anni egli publicò il libro Dt Succ(s- sionihus
legitimis in urhr Nfapolir.ina (a) - Qual differenza fra questa e tante altre
Opere legali uscite dal nostro Foro , che I opprimono il buon senso ed oscurano
la Ragione ! Tutte le co- gnizioni antecedenti , necessarie a formare non dirò
un Giureconsulto ma un Legislatore, nonmancavanogià a G. in età cosi giovanile.
La Storia e la Filosofia erano cosi amalga- mate nel di lui spirito , che la
conoscenza prattica e teorica dell’ Uomo e delle società gli era sempre
presente per conoscere ( ) lo Napoli 1766. le le cause delle sue idee e de*
suoi movimenti , e per ravvisare quali fossero i piti convenevoli alla sua
destinazione. Egli dun- que vide la materia delle successioni legittime come
provenien- te dai primi dritti della Natura realizzati nelle società collo sta-
bilimeuto della proprietà e dei dominj . Dimostrò come lo staro della
legislazione civile d' una nazione siegua la sua politica Costituzione ; e
quindi in uno stesso popolo la differente ma- niera di considerare gli stessi
oggetti, secondocchè i rapporti si alteravano. Venendo al suo oggetto, cercò
rapidamente 1’ origi- ne deile Consuetudini N«potetene' te rapporto alle
successioni nell’ antico stato Uepublicano di questa Città , nell’ analogia di
governo colle altre Greche Republiche , e con una felice e nuo- va applicazione
ne trovò la filiazione nelle leggi dì Solone. L’ erudizione sparsa in queste ricerche
è ampia , ma non lussu- reggiante ; e cosi procede nel resto dell'esame, cioè
nel mostrare quale fu quecta pwrt* «talli cibilo JcgreUxione net 'SUCCOSsivi
cambiamenti della Romana Repubiica. L’Aristocrazia espressa tutta nella
legislazione decemvirale fissò le agnazioni, e l’esclu- sione delle donne ,
avendo in mira la conservazione e perpetui- tà delle famiglie Aristocratiche .
I progressi alla Democrazia , ne- - cessario frutto dell interno vigore dello
Stato , che liberò i beni dalla schiavitù , che sciolse gli individui dalla
dipendenza dell’ opinione e della servitù personale; che strappò il codice
arbitra- rio dalle mani sacerdotali , cangiò anche questa parte di legis-
lazione : e le donne furono riguardate come parte della specie e della Società
. Tutto cangiò coi cangiamento del Governo ; e si serbarono i nomi
mentre le cose non erano più . Le forinole e le solennità de’ Giudiy , che
costituiscono fino ad un certo ter- mine la libertà civile , cederono a quelli
detti impropriamente di Buonafede, chesembranopiùconvenientiadun Governome- no
complicato , facendo strada a quell’ arbitraggio che è la . , morte della
Civile libertà . Le alterazioni in questa parte della legislazione .si fecero
insensibilmente sotto gl' Imperadori fino a quelli , che con nuova Religione
portarono nuove leggi sul Tronno. Ma qui non è luogo di seguire 1’ Autore in
tutta la serifc. istruttiva delle tante idee utili e nuove , che s’ incontrano
ad ogni passo della sua Opera . Tocca ai profondi Giureconsulti il giudicarne
con dettaglio » e far vedere qual precisione e chia- rezza egli seppe portare
nel pii oscuro legale labirinto, quan- te cognizioni seppe nobilmente combinare
alla dilucidazione del suo oggetto , e quale vera utilità debba produrre la di
lui Opera non solo nel giudicare , ma nel riformare questa importante par-» .te
delle nostra legislazione* Asciò noudimcno 11 G,!malcl‘ <*’ immergersi nelle
cure del gene. JSL*Foro, nonriguardandolocomeoggetto, chedovessein- tieramente
assorbire il prezioso tempo delle sue applicazioni , ed assoggettare il fervore
de’ suoi tajpnti e la forza del suo spirito attirato da oggetti più sublimi e
più generali . Restò egli per alcuni anni nel silenzio, ma non nel riposo ,
poiché l’ attitudine formatasi allo studio ed alla meditazione tira il stato di
piacere iella sua anima vigorosa, che quindi sentiva il più vero bisogno di
Vita di Dio- ‘TìT •H XXXIII K- di pascersi e nudassi d’ idee e
sentimenti analoghi al stio ca- rattere deciso. Questo vigore di sensibilità ,
che sempre accom- pagna i talenti superiori perchè li crea , non permette che
lo spirito resti confinato dalla stretta circonferenza delle idee e delle virtù
comuni • Sorse quindi quel sentimento di perfezione unico scopo del Genio e
della Virtù , che fermentando nelle a- nime sublimi tenta tutte le vie per
aprirsi la strada all’ utile Gloria ed alla verità . V" Nella vecchia STORIA
DELLA FILOSOFIA cioè de’ progressi della Ragione e degli errori , vide I! G. i
grandi sforzi degli amichi filosofi, che non più contenti d'una Morale di
prover- bj , parabole e sentenze , si studiarono di ridurla a princlpj ge-
nerali che potessero condurre 1* uomo In tutto 1’ uso della vi- ta . Ma
esaminando particolarmente la dottrina e condotta loro, vide quanto è difficile
una lunga Epoca della Ragione . Trovò nondimeno fra quegl» antichi Istitutori e
maèstri dBTMorale un FILOSOFO che fissa tutta la sua attenzione ; e questi fu
Diogene del quale volle scrivere la vita . (<r) k Credè alcuno , eh’ egli
imprendesse quasi per giuoco , si, fatto assunto t ma chi ha letto questo
nobile opuscolo , può giudicare della verità della sua intenzione. Egli fece
vede- re in Diogene non quel Cinico descrittoci da Laerzio , non quell'
impudente che ci dipinsero gli altri , nè quello stravagan- te • '^''•'' _,i
(a) in Napoli. , le
che*corrimunemente è creduto.' ;.ma provò ad evidenza che quel FILOSOFO fu il
più conscguente r giacché le azioni .corrispo- sero sempre alla sua dottrina :
e codesta era la più vera , la più utile , la più giusta che fosse ' •* dettata
insind allora . Sinope , Corinto ed altre Città ono la memoria di quell’
illustre uomo coi bronzi e con 1 marmi , ma non poterono salvar la di lui fama
presso l’invida posterità . G. nel Se- colo XVIII. rinnalza Diogene su i
monumenti erettigli da' suoi compatrioti e diviene il Restitutore della di lui
fama , e della di lui virtù . La Morale di Socrate era divenuta puramente
nominale , quando a Diogene sorse il talento di reintegrarla ad uso dell’
umanità . 1! principio della Morale prattica par che consista nella
facilitazione della Virtù . Non basta il dipingerne le bellezIezze , l’
indicar^ le attrattive , ravvivarne il quadro col più vago colorito , se pei ci
sì mostra divisa ed isolata dall' insor- montabile vallo del dolore . Diogene
volle dimostrare , che que- sto divisorio è d'invenzione umana, è creato nella
Società , e che bisogna perciò ravvicinarsi alla Natura. Questa vera
osservazione gl’ indicò la Temperanza per un principio fondamentale della Virtù
. La Temperanza non è un’ dea assoluta : essa ha una gradazione dì beni da un
estremo ali’ altro della 'sua lùtea . L’ uomo , questo animale privilegiato ,
che può vivere in tutti i climi e nudarsi di tutti gli alimenti , ha più
facilità alla sussistenza . E dunque un effetto dell’Educa- zione quello che
gli dà quantità di bispgjù , che non vengono dalla ^xxv^4» - «aaBeMec Seaooeo eeseaaoos MsaeeseeeiMje
Bft dalla Natura . L’ uomo diviene cosi un aggregato di bisogni 6 di
desìdeij,che accrescono m ragion diretta la sua sensibilità al dolore, senta
proporzione relativa al piacere ed alla felicità . Se questo spiacevole
accrescimento di sensibilità è effetto dell’ edu- cazione , esso è opera
dell’uomo , è di creazione sociale; vi è dun. » que tutta la possibilità d’
abolirlo . Si può essere decentemente coperto d’un Pallio senza infelicitarsi
per non avere in dosso le gemme ed i preziosi metalli ; si può vivere bene e
sano senza esser velato dalle leggerissime spoglie dell' Oriente o soffogato
sotto i rarissimi velli del Settentrione : e , se dell’aria comune la più
respirabile è la più libera , si può vivere, e meglio, sen- ta le stanze
ermeticamente chiuse , senza che sieno ricca- mente foderate , e senza
richiamar tutte le arti e tutti i climi ad estenuarci ed estinguerci nella
mollezza • Tutte le eccedenti ricchezze s'acquistarono forse alle spese della
virtù; aveva dun- que egli regione di veder I» Temperanza come la base princi-
pale di essa- Ma se per la Vmù è necessaria quella tal disposizione abi- tuale
dell’ animo che si chiama Tranquillità , questa è simil- mente figlia della
Temperanza: L’animo distratto dalle passioni disanaloghe alla natura dell’ uomo
, cioè non tranquillo , non può essere virtuoso . Diogene non diceva: „ fatti
del dolore la strada alla virtù tristo comando alla Natura umana - Non diceva :
„ divieni apa- to ed insensibile „ altro precetto peggiore e non conducente
alla perfezione morale- Diceva solo: „sii temperante che sarai tran- D
quii- . 4^ xxvi >4* jquillo , ed essendo l’ uno , -e 1* altro
puoi essere virtuoso . „ Finché 1’ uomo è distratto da sensazioni vaghe «
immerso ne’ desiderj , lacerato dalle passioni non sentirà che se stesso ; ma
quando nè i bisogni , nè le idee, nè le immaginazioni tumultua» rie Io
tormentano , egli deve essere necessariamente benefico , cioè , virtuoso . Se
le ricchezze fossero sempre necessarie all’ esercizio della beneficenza , la
virtù sarebbe solo riposta nell’ uso de’ metalli , ed il non ricco non potrebb’
'essere giammai Virtuoso . La virtù , nel sistema di Diogene, non doveva essere
Un fantasma dell’ immaginazione , un’ astrazione per alimenta- re le dispute
de’ Moralisti; ma bensì il partaggio dell’ Umanità» il vero sistema della
beneficenza universale • Se la virtù è nell’ azione , e quest* azione dev’
essere facile , equabile , pronta * Diogene voleva render l’uomo libero dagli
inutili ceppi fabbri- cati a se stesso, per renderlo attivo , benefico ,
virtuoso . Uno aguardo anche passaggiero su la Morale esistente prova la ve-
rità e la profondità delle Ciniche osservazioni Qual era diuresi Ja serie
ragionata e conseguente delle idee morali di Diogene ? Temperanza ,
indipendenza , libertà , tran- quillità , beneficenza ; virtù tutte nascenti 1’
una dall’ altra • tutte conducenti per la più agevole strada alla meta della
Morale • La Vita di Diogene non ismentì i di lui principj . Egli visse libero ,
tranquillo e contento , cioè virtuoso e felice . Apostolo della vtréi e della
virtù , egli non fece che predicarle . Un Re «d un llot^ erano eguali agli
occhi di lui : la verità e la virtù fa-
xxvii $4* ess<se-e»eoes>eoe^oe<==yat=sor=>oot=r»-sot=xì
eeyecaìtjesa faceva egualmente il loro bisogno . Diogene rispettava le leg- gi
e la pubblica Autorità da vero Filosofo , cioè , approvan- do quelle che erano
dirette al pubblico bene , ed indiziando quelle che mancavano di questo fine .
Venerava la Religione ; ma ne abominava l’ intolleranza e l’ abuso , che
conduce sem- pre alia superstizione. Rideva di quei tanti Impostori, che anche
ia q-v «empi sotto vario manto e varie regole dividevansi il culto e le
sostanze de’ divoti . Si vuole che dissuadesse e disap- provasse il vincolo
conjugale ; ma come fargliene un delitto ? Che altro vedeva egli nelle Società
de’ suoi tempi che la trista alternativa di nobili , e plebei , di ricchi e
miserabili , di ti- ranni e di schiavi ? Un FILOSOFO non può amare la moltip
li- catione e la riproduzione di queste razze degenerate dallo sta- to
pteseritto loro dalla Natura. Diogene non morì, come Socrate, martire della
Verità e della Virtù : egli ritornò nel seno della Natura così spontaneamente
come n’ era uscito . La distruzione e la riproduzione dei corpi organizzati è
nelle sue immutabili e costami leggi , che non «paventano il Filosofo , il
contemplatore della Natura , l’ amico della Ragione. La vita di Diogene rettificata
da una etilica imparziale c» mostra un modello di vera vita virtuosa in tutte
le circostanze e situazioni . Non fu dunque nè per giuoco , nè per gloria per
vanità che il Grimaldi imprese a dettagliarne le azioni e la dottrina , ma per
rendere un giusto tributo a quel Filosofo cui ayeva cercato d’ imitare > o
per partecipare al pubblico un vero D a fiJCh , nè xxvm ^ tJtis»oe«cM» eé<Jsae«^Qee=»oeH=>ee^eg=aem^->gceg»oogrg>r'e)gac
modello di filosofica virtù. Egli si dichiara in più luoghi della sua Opera ,
che Io stato attuale delle Società non comportereb- be una vita esteriore come
quella di Diogene propone come un modello, al quale quanto più l’uomo
s’accosta., più s’avvicina alla perfezione . Non altrimenti fa G.. Le virtù di
Diogene sono le sue. Ne chiamo in testimonio gli amici, che lo anno veduto in
tutti i punti della sua vita . La tempe- ranza de’ suoi desideri , la
tranquillità dell’ animo suo , la veri- tà e la sincerità de’ suoi sentimenti ,
la libertà del suo spirito , il coraggio e l’ amore per la verità , la
tolleranza de’mali , 1’ ar- mor della Pubblica Beneficenza , il sentimento
costante de' do- veri, e tutto condito ed addolcito da una sensibilità
purificata, lo resero rispettabile come Diogene , ma più amabile , perchè seppe
combinare i principj e 1’ uso della Virtù, con tutta la de- cenza della vita
sociale, e coll'esercizio di quelle funzioni e do- veri, che formavano la sua
civile esistenza Riflessioni so- FOn sono certamente le idee astratte e le
sublimi nozioni, pra rInegua- glianza. che possono far meritare il. titolo
rispettabile di Filoso- fa . Se la virtù non è posta in azione , se le grandi
idee non diventano di qualche uso , se la fiaccola s’ asconde sotto il moggio ,
non solo si è in colpa , ma si è reo di lesa umanità. colpa che meriterebbe
maggior castigo chel disprezzo e i’obblio. Sentiva Grimaldi nel più vivo
dell’animo questa verità, e per- ciò veggiamo come la sua vita fu ima continua
serie di me- ditazioni e d’azioni tutte coordinate allo stesso fine di
migliorar se . ; ma che egli lo se
stesso , e di essere utile agli altri Quindi i suoi non inter- . rotti srudj e
le continue meditazioni lo condussero alle più estese cognizioni e alle più utili
che si possano acquistare Or quando lo spirito è abbondantemente nudrito d’
idee e di cognizioni varie, quando è gu lungamente abituato al difficile
esercizio di molti e conseguenti raziocinj , quando codesti sono specialmente
diretti verso qualche oggetto particolare , che per- ciò divicu dominante :
l’animo prova una certa inquietezza e quasi un’ oppressione da questa folla di
pensieri , e par che sia costretto a liberarsene . Chiunque ha scritto sopra
qualche og- getto particolare e lungamente meditato , ha dovuto provare in se
questo sentimento penoso . Quindi la volgare espressione dà chiamare le opere
parti dello tpirin , non manca di una ve- rità nella sua origine;- ma non tutti
i parti sono regolari . Ho indicato antecedentemente la predilezione che il
Grimaldi ebbe sempre per le idee morali , e la facilità che aveva di ri-
chiamarle ai principi pid sublimi, e di renderle più attive e fe- conde : ma
dopo d’avere per più lungo tempo estese le sue ap- plicazioni su tali oggetti
li vide in tutta 1’ ampiezza della qua- le sono capaci , e fra tanti fenomeni
Morali che presenta la So- cìtà , fu specialmente colpito da quello , che
stende il suo do- minio su tutti i punti dall’ esistenza , dico della Morale
Ine guagliania A tutti sono note le riflessioni che l’ eloquente Gian-^iacomo
portò su questo punto; ma la ragione trasportata dall’entusias- mo lasciò de’
gran ruoti fra le idee principali , balzò agl’estremi obbliando le idee
intermedie e necessarie, guardò 1' og- getto lateralmente > e quindi fra
molte vere e nobili osservazio- ni ci presentò de’ paradossi in luogo di
tranquilli ragionamenti ed utili risultati . Vide intanto G. di quale utile
fosse il ritornare solidamente a quest’ oggetto > che è quasi la base del-
la Morale e della Politica . Prescélse quindi un campestre ed isolato soggiorno
; e lungi da ogni distrazione , irapenetrabile anche agli amici ed alla
famiglia , concentrato lo spirito in que- sta idea principale , impetrava dalla
Natura la rivelazione delle verità più utili all’ uomo . In codesto stato egli
delineò il piano delle sue Riflessioni sopra VIneguaglianza tra gli uomi- ni
(<*) Le sue prime considerazioni gli scoprirono , che la base dell*
Ineguaglianza è nella Natura . L* Ineguaglianza Fisica la generatrice delle
altre: è dunque legata ad un ordine: è per conseguenza una legge immutabile ed
eterna . Le stesse ricerche preliminari, che fa su questo punto, portano f
espresso carattere della novità . Colla più seria attenzione poi assottiglia il
suo Sguardo per penetrare nei più complicati recessi di quest’ Esse- re sublimemente
organizzato , che si chiama Uomo - I più te- nui rapporti non sono negletti; e
combina una maravigliosa mol- tiplichi di cognizioni per farsi strada all’
oggetto . La Fisica la Fisiologia , la Storia Naturale , quella particolare
dell’ uomo 00 In Napoli 1779-80. è perciò e delle Società , tutto è da esso
ordinatamente richiamato a dare il risultato , che si era proposto , cioè , a
far conoscere 1* essenza reale di questo composto meraviglioso. Incominciando
dal punto principale , cioè, dall’ Ineguaglian- za generale degli esseri
organizzati , passa all’ esame particolare della Ineguaglianza che nasce dalla
diversa destinazione degl'ìnr dividui della stessa specie . Osserva , che la
differenza sessuale si va distinguendo a poco a poco dagli esseri più semplici
9 meno complicati fino ai più composti e perfetti . Che questa differenza porta
per necessiti di natura una Ineguaglianza di- stintissima nel temperamento,
nella forza , nel carattere , nelle passioni , ed in tutto ciò che si chiama
meccanismo e sensi-* biliti. ......, _tv-:• ' Si trattiene poi ad osservare la
dissomiglianza in ge^qfgjp» degli esseri organizzati; e riducendo questo
paragonerai ferenza che vf ha fra IV m+eeanlSrtto delTwnno <fJ»!f$..rR|ljl'*
altri corpi organici ', rileva qual sia l’essenza fisica pbitós’' aefc. la
spezie umana • Si apre quindi la strada ad esaminéft * geograficamente le
differenze, e quindi 1’ Ineguag(^|5- de’ P|po- li e delle Nazioni. Egli scorre
con abbondante." -ed adatyy^fcrvp. . dizione la superficie tutta del Globo
, indicando le cagioni pria- cipali e le concause , che rendono gli esseri
delIiL stessa specie tanto dissimili gli uni dagli altri , e come questa
dissomigliati? za fìsica porti nel tempo la morale . Ha riflettuto e
dimostra^', che la sola differenza di climi non poteva-produrre questo tv*
levantissimo effetto, ma che la situazione locale, la quali$ -delP^- ’-;'
’,aria , xxxii >4 •ria > le
maniere diverse di vivere , di nudrirsi , d' abiure vi concorrono
necessariamente , e sono forse cause ed effetti nel tempo stesso . La Natura ha
prescritto dappertutto la legge dell* Ineguaglianza . Gl’uomini sono ineguali,
come le piante della •tessa spezie in diverso dima ed in diverso suolo, e come
differenti sqno ancora gli alberi della stessa selva . Le cagioni sono qualche
volta impercettibili, ma gli effetti ne manifestano resi- stenza. Da questa
Ineguaglianza più apparente , par che divenga una conseguenza necessaria quella
della Sensibilità . Nel tempo ster- eo che 1’ Autore sbandisce la Metafisica
delle Scuole , tratta i più malagevoli e spinosi punti della Psicologia , e
combattendo ora i sistemi ora le ipotesi e le sottigliezze , si fa strada alla
Realità , . Per una lunga serie di osservazioni egli gradatamente giunge a
stabilire ; Chi la sensibilità negli esseri organici siegue i gradi dfl loro
meccanismo ; e che la differenza che vi è fra il tertiro dell' uomo e quello
degli altri animali cossituisce la ca- -tatteristica essenziale della nostra
seusibiihd paragonata colla ion • Che che ne sia della sensibilità assolutaci
sonode’corpi più « meno conduttori , ma il più d’ ogni altro è 1* uomo . L’
esame particolare degli organi de’ nostri sensi , paragonati con quelli degli
altri esseri sensibili, ne compruova maggiormente 1' assun- to , che anche più
resta dilucidato colla dichiarazione di ciò -che si chiama Senso interno ,
punto centrale della sensibilità e *. *he par che segua la gradazione dd
meccanismo e della sen- sibi-
. eoofesamjwegWBesaoexeBui-^BeSeeeaeeeaaetja sibiliti istessa . Ciocché 1’
Autore ha ridotto nel cap. V. della prima Parte basterebbe per fare un’Opera
illustre. L’esame che egli fa della sensibilità , riducendola quasi agli
elementi primitivi che la formano e la generano , dimostra che essa non può
essere eguale fra gli uomini ; e rileva la dispia-» cevole verità , che il
tuono fondamentale della sensibilità è il dolore : tristo partaggio di quest’
essere , di cui divien prin- cipio di moto , e di sviluppo d’ attività in tutu
1’ esten- sione . 1 Alla sensibilità sicgue ì* intelligenza come l’effetto alla
causa e che per conseguenza deve portar 1* istesso carattere della sua
genitrice. Questa è forse l' Ineguaglianza la piò espressa fra gli uomini ; ma
a dir vero la meno fastidiosa . I piaceri dell’ intel- ligenza sublime non s’
acquistano forse che alle spese dell' esi- stenza e della vita. Ne fu un
esempio funesto il nostro Gri- maldi medesimo Dalla sensibilità e dall’
intelligenza risultano le passioni e no portano il carattere . Chi non ne vede
continuamente l' Inegua- glianza? Due illustri Moralisti Francesi , due nomi
immortali per i progressi dalla FILOSOFIA, Montesquieu ed Helvetius , so-
stennero le cause uniche delle differenze generali fra gli uomi- ni , 1’ uno
rapportando tutto alle cause fisiche , 1’ altro alle morali ; ma 1' amor del
Sistema nascose alla loro vista la chia- ra verità che rivela la Natura. Se la
sensibilità e 1’ intelligenza fanno nascere le passioni sono queste che
determinano la volontà. Tutto dunque è Ine- E gua- xxxiv eoaeeje Beasees aeesoee Beeaaeaoiyaeo
>aiicjaL<ju< quagliatila ; dai primi composti fisici fino ai più
sublimi risul- tati morali, tutto siegue questa legge eterna ed inevitabile
della llatura . Lo stato d’Ineguaglianza morale, cioè dell' uomo come essere
pensante, è estesamente sviluppato nel secondo Tomo di codest’ Opera,
dimostrandovisi che questa Ineguaglianza è in ragion composta delle facoltà
intellettuali dipendenti dai meccanismo particolare degl' individui, e dalle
cause esteriori , che più o meno si combinano o si coordinano a svilupparla. L’
Uomo è in relazione con tutti gli esseri che lo circondano . Ogni sensazione o
piacevole o dolorosa fa una parte della sua vita o della sua esistenza ; e
questo è nell’ ordine eterno della Natura , perchè i rapporti degli oggetti fra
di essi e con f Uomo sono figli di quella Essenza delle cose , che forse la
Natura ci ha velata per sempre ; ma sono quindi necessari co- me la loro stessa
esistenza. , La sensibilità è il mezzo che lega V uomo agli altri esseri :
Questa facoltà che si estende, si nobilita, si sublima , à dun- que varj gradi
relativi a se stessa ed agli effetti che la percuo- tono . Quindi la diversità
de’ bisogni e quindi delle percezioni » delle idee c dei sentimenti, che colle
necessarie attenzioni svi- luppano le intellettuali facoltà . Ora essendo
riconosciuta 1 ineguaglianza della sensibilità dipendente dalla differenza del
parti- colar meccanismo , zie siegue necessariamente , che le impressio- ni
degli oggetti esteriori non sieno neppur simili ed eguali ne- gli individui . Ed
ecco come la diversità di bisogni e di desi- deri , ' Digitized by Google
. xxxv derj, che forma l' ineguaglianza morale fra gli uomini
contemporaneamente questo principio d’ineguaglianza nella Na- tura stessa ,
cioè , nei bisogni relativi alla sensibilità di ciascun individuo . Chiunque
non vede altro nell’ Uomo in ultima analisi che il Sentimento e V Espressione
ravviserà in un colpo la ve- , rità di fatto delle idee dell' Autpre .
Stabiliti tali principi , egli rileva primamente colle più giuste osservazioni
che 1 indicazione dell’ Uomo Naturale è un’ inven- zione gratuita ed erronea è
sempre lo stesso, e allorché diversifica per le circostanze, sono anche codeste
naturali , cioè, nell’ordine della Natura che l’Uo- ; raononàuncaratterease,
maquellocheè loèperlasi- tuazione relativa alle circostanze giacché in esso vi
è altro ,, che la sensibilità modificabile dalle cahse esterne , e circoscrit-
ta dalla forza del meccanismo di ciascun individuo. Che quia- di Io stato
morale di ciascun individuo i relativo alle circo- stanze sociali combinate con
quelle , che sorgono dalla propria sensibilità Con questi principj si apre la
strada all’ esame morale deU’ uomo . Egli lo sottopone all’ esperienza , non
come un semplice Fisico farebbe, ma come il Chimico più esperto e sensato,
sottopo- nendolo all’ operazione di diversi agenti , analizzandolo , ricom-
ponendolo , e combinandolo , per vedere in quale stato possa dare più felici
risultati , risultati che caratterizzino la differenza e 1’ Ineguaglianza
morale degli uomini e delle Società . L’ Uomo solitario è 1’ oggetto di queste
sperienze esposto alla E a sciti— dei Filosofi ; perchè l’uomo per Natura ,
stabilisce ocsfleesaoejeeoooeaooesocsoc Booeaooeaoee'Mtoo
semplice vista ; ma nella Società egli è messo ad un vero ci- mento, giacché
ivi siscuoprono i varj gradi di rapporti, di affi- nità, di coesione Scc. su i
quali si può misurare la sua moralità. Dopo d’ aver considerato che i rapporti
dell’ Uomo solitario sono quasi negativi giacché sente appena i bisogni d’una
sus- , sistenza che non conosce , per passare a considerarlo nello sta- to
<Ii Società, riflette primamente , che la sociabilità è un» qua- lità
essenziale dell' uomo ; cosa dimostrabile per ragionamenti se non fosse una
verità comune , continua e coesistente colla stessa Umanità. Le Società anno
intanto diversi gradi alla per- fezione . Il minimo par che lo conosciamo : ma
il massimo , se vi può essere per 1’ uomo , sarà riserbato ad epoche più felici
. Ma come tutti questi immaginabili gradi di perfettibilità sociale mettono i
componenti in 'rapporti e circostanze diverse , cosi la sensibilità e la morale
saranno del pari differenti . Gli uomini posti vicino alle catastrofi del Globo
dovettero avere de’ senti- menti proprj ad essi , che nelle prime società di
famiglia dovet- tero provare cangiamento ed alterazione . Lo stesso dovè acca-
dere quando le famiglie cominciarono a moltiplicarsi , e la gran selva della
Terra a popolarsi di selvaggi , e poi per successivi e varj gradi prevenire
allo stato di barbarie ancor molto esteso e vergognoso per la specie . Tutti
questi lenti passi dell’ umana perfettibilità sono partico- larmente osservati
dall'Autore , sempre riportando tutto ai suoi principi , e facendo vedere come
naturalmente ne discendano . La gradazione de* bisogni porta quella delle idee
e de’ rapporti, dal- xxxvir .1 KiueBeteaaoeaeoeeaaoc ^>3frC-»o
ccS3g>uce:!>o ysra& dell affinamento della sensibilità , dello
sviluppo delle facoltà in- tellettuali. dell attività dello spirito, e
finalmente della riflessio- ne . figlia necessaria di quell'olio , che
susseguendo ai bisogni soddisfatti > ne vede o immagina gradatamente de'
nuovi . In qnesy varj stati, per i quali passa 1' uomo, egli (à vedere come
nascano l' indipendenza e la libertà , come si alterino e si per- dano, e come
i sentimenti morali cangino d’aspetto al cambiarsi dei rapporti e delle
circostanze. In somma egli fa la Storia mo- rale della specie , se non
comprovata da documenti che devono mancare , almeno qual doveva essere per
necessità di Natura- Scorsa cosi la Storia oscura dell Umanità, dove sempre l'
Ine- guaglianza domina e campeggia , perviene finalmente allo stato di luce ,
all’ epoca della Società civilizzata ed ingentilita . E’ permesso al Poeta ed
all' Uomo fortemente appassionato di riso- spirare le selve al centro del
vortice sodale , come è loro per- messo di evocar le Ombre e le Furie , che io
guidino nel per- petuo albergo dell’obblio . Ma il tranquillo FILOSOFO ,
compassionando gli eccessi della sensibilità e della immaginazione, richia- ma
1’ uomo ai suoi doveri rimostrandogli le beneficenze della vita sociale •
Quando si considerano le Società civilizzate , e la perfettibilità della quale
sono capaci , bisogna aver lo spirito falso per abborrirle , o per preferire ad
esse uno stato naturale, che non esistè giammai in Natura. Nelle Società
solamente si svi* luppano le facoltà morali ed intellettuali deli* Uomo : è
dunque in esse che si purifica o si perfeziona la specie. Diogene vole- va
ravvicinar 1' Uomo alla Natura , non col degradarlo mino- rando
XXXVIII H* »ando la sua esistenza , ma colla virtù accrescendola e
migliorandola ; e questa non è anch’ essa il più nobile ramo dell al- bero
sociale ? E’ vero che nella Società si sviluppa e manifesta maggiormen- te 1’
inegu3gliania morale ; ma in che altro consiste essa che nei gradi di
miglioramento del carattere e dei sentimenti degl individui ! E se anche le
circostanze sociali portano delle catti- ve abitudini, che altrimenti non
esisterebbero, codeste sono mo- derate e ritenute dalle leggi conservatrici. Ma
questo rientra nell’esame dell’ ineguaglianza politica, che 6 1‘ oggetto della
Ter- za Parte. Qual infinita differenza fra 1 selvaggio e 1 uomo civile ! E' la
crisalide trasformata in farfalla . Questa metamorfosi , eh’ è un miracolo agli
occhi volgari , non è che un naturale svilup- po a quelli dell' attento
Naturalista . Tale è 1’ uomo sodale per chi medita la Natura umana . Ma qual
differenza ancora nel seno stesso della Società ! Nel massimo della
civilitazione si trova spesso lo stolto selvaggio ed il barbaro feroce , 1’
uomo di genio e lo stupido , il virtuoso Filosofo , 1 imbecille supersti- zioso
, 1‘ opulenza ed i cenci ; il Frate ed il Militare esistono nella stessa
società e sotto lo stesso Governo. Ma fra i Governi ancora quai triste
differenze ? "Lo stupido Despota da un trono invisibile sacrifica milioni
di schiavi ; mentre un Rè vive da amico col popolo che lo adora . Un Senato
Aristocratico a pas- si lenti e regolari calpesta un popolo che crede degradato
per Natura , e che lo è spesso per sentimento ; mentre una Democrazia ,
sragionando quasi sempre nelle sue risoluzioni opprime , , «M-xxxix h*
sooooeaaecaje e tiranneggia gli altri popoli che le appartengono La tumultua- .
ria libertà è al centro- la schiavitù , e l’ oppressione alle circon- ferenze .
Che strani misti ancora possono sostenersi , senza un contrasto di forze
resistenti l E quali specie di sentimenti nascono ancora sotto queste varia- te
forme! L opinione sostenuta tà il vessillo dei ineguaglianza; e le leggi,
sempre deboli contro • quella dominatrice dell’ Universo, la vedono spesso lor
malgrado de' varj Governi , che non dal potere innalbera in mezzo alla Socie-
trionfare. Ognuno si sforza per avvicinarsi revole; e se tutti gli sforzi non
sono egualmente felici, cosi non- dimeno si scuote l’inerzia fondamentale
dell'Uomo , così esso di’ viene un essere attivo, così si sublima a un grado
superiore a tutti gli altri esseri senzienti . Le circostanze che s' incontrano
, ael corso della vita, determinano gli uomini diversamente in ra- gione della
loro sensibilità ; e quindi nella riunione delle azioni . formano un tutto, non
di parti similari, ma differenti e dissimi- li , che fermentando
necessariamente rigenerano il moto e danno origine a nuove trasformazioni Senza
l’ineguaglianza le Società non sussisterebbero. Non posso» no codeste
distruggerla, ma non per questo essa porta un caratte- re intrinseco di male: e
quando siam persuasi che le idee mo- rali sono tutte relative , e che esse
traggono la loro sorgente dai rapporti immediati dell'uomo, ci bisogna esser
conseguenti iti riconoscere il bene che fa la Società col moderare e rintuzza-
, a quell' insegna favo- .,. 4*4 XL te i disgustosi eccessi dell’
ineguaglianza che viene dalla Natu- ra . Nelle Società sono nate le leggi
protettrici della de- bolezza e direttrici della forza e della Ragione ; e se
le Società non danno sempre quegli effetti che dovrebbero per loro natu- ra,
non parmi che sia per intimo difetto della cosa, ma della Na- tura umana finora
incapace d’ un sublime grado di perfezione Se nondimeno la ragione , la
sperienza e la Storia ci mostrano, che 1' uomo in società è sempre determinato
dalle cagioni e dalle circostanze ; e che queste sono in gran parte in mano del
Legislatore e del Governo , basta far nascere queste circostanze, per far
prendere agl’individui quella determinazione , eh è più atta fare la loro
felicità relativa • Alfonso 1. amò le lettere , fu !’ amico de' valentuomini ,
li premiò , li onorò, e durarono iìno al tempo de’ suoi brevi successori La
legislazione moderna d'Europa manca ancora dima parte, cioè, del premio alla
virtù. Quindi ritieguaglianza divien più do- lorosa , e le leggi non
communicano un moto sufficiente verso la Beneficenza . Chi a caso s' avvia per
questa strada , vi si vede quasi isolato; e non potendo giugnere all’insegna
dell’opi- nione per la gran folla pervenutavi per istrade più brevi, si con-
tenta d’ un piccolo tugurio su la via percorsa , e colà vive da Eremita Bisogna
assolutamente leggere i tre uhimi Capitoli della Parte Terza, per avere le più
giuste e vere idee della Legge di Natu- ra , del Dritto delle Genti e del
Civile . J principj fattizj d’ al- cuniFilosofivisonomodestamenteesaminati,
colmostrareche essi non s’ adattano all’ uso dell’ umanità , e per conseguenza
non sono tratti da quei rapporti coesistenti colla specie , e che non si
cangiano , che nei diversi punti della naturale progres- sione . Le prime leggi
di Natura sono comprese nella teoria della sensibilità tanto bene sviluppata
dall'Autore. Tutti i drit* ti dell'uomo, in qualunque stato, sono una
emanazione di quella qualità inerente alla sua esistenza , e su di essa si
devono misurare . Quindi dimostra infine che non bisogna giudicare delle azioni
morali col rapportarle all’ idea di utile , perchè sa- remo sempre ingiusti ; c
clic I" archetipo al quale si devono ri- ferire è la Giustizia , che vale
a dire, T espressione perpetua ed eterna della morale verità Ecco il secco
scheletro d'un’ Opera pienissima , fatto solo col ravvicinare il più che per me
si è potuto le idee principali dell’ Autore relative al suo titolo , titolo che
forse per sola mo- destia volte Imporle ; poiché *i -parer mìo , è il più
completo corso di naturale Filosofia, essendo tratta dalla vera natura dell’ uomo
, ed il più utile, perchè applicabile a tutta la pratica del- la morale ed alla
teoria della Legislazione . Qual giustezza • qual vastità di spirito ,
qual’estensione di cognizioni e quale su- blimità di genio abbiano avuto parte
à quest’Opera non può rile- varsi in un estratto. I Giornali d'Europa fecero
eco in celebrar- la : e questa e quella di FILANGIERI (si veda), facendo molto
onore alla Nazione , eccitarono le più lusinghiere speranze di ve- der presto
in un nuoyo Codice gir'effetti di questi lumi e di quella libertà che non si
scompagna giammai dalla Ragione e dalla Virtù . Una tale Opera che sarebbe
stata sufficiente per fare la cele- brità d'un uomo, che poteva farne nascere
delle altre utilissime, che non pecca d’ altro che d’ abbondanza d’ idee e
profondità di pensieri , avrebbe dovuto fare riposare lo spirito dell’ Autore ,
se avesse travagliato pel solo desiderio della Gloria . Ma que- sto sentimento
lo tormentava cosi poco , che non potè calmare 1’ attività dello spirito sempre
sollecito d; pensieri utili ed interessanti , e lo diresse ad altr* oggetto ,
che doveva eterna- re la sua memoria colla gratitudine della Nazione. Annali
del TTL sentimento di Patria, soggetto ad estinguersi sotto ‘1 di- Regno JlL,
spotismo , ricomparisce nello spirito e nel cuore sotto di- versi aspetti ne'
Governi moderati. li desiderio della Gloria e del Pubblico bene accompagna
costantemente questo sentimento nel- ie anime ben nate ; e ciascuno brama nel
suo interno , che, la sua Nazione sia la più rinomata e la più felice . La
nostra Nazione è come una illustre antica famiglia della quale si contano tanti
-Eroi nella Storia e le cui glorie sono coeve del tempo htcsso s ma ridotta in
più povera fortuna ed umile stato , riclama solo per suo vanto le imprese c le gesta
de’ suoi maggiori . Vide il G. che nella folla de' nostri Storici Scrittori si
era mancato sempre a quella vista che l' ottimo Storico deve ave- re, 1' utile
cioè dell'umanità e della Nazione in particolare per la qua- XLIII ì*
t<.gaeoaoe3ao(^i)oce9ae5uiryj<xs) 3iitsatii3aae»ioi=>» quale si scrive
. Vide che uu nudo racconto di fatti non sareb- be stato che una inutile
rapsodia atta ad occupare il tempo degli oziosi e degli annojati. Vide che la
Storia non è altro , che la vita morale delle nazioni . Vide che i fatti che
formano il ma- • teriale d' ogni Storia, non sono che fenomeni, che devono
ave-* re delle cagioni . Vide finalmente che la Storia doveva essere d’ un
utile presente . Ecco ciocché gli fece nascere l’ idea di compilare gli Annali
del Regno . L’apparato delle difficolti da scoraggiare qualunque spirito non
fecero arretrare il suo. Quel vigore di sentimento e quella co- stanza ch'ei
portava in tutte le sue intraprese, lo accompagnaro- no similmente in questa
pur troppo malagevole e difficoltosa. Egl’ incominciò dalla Geografia, non col
far una secca no- menclatura o una nojosa discussione critica su i veri nomi a
situazioni delle antiche Città e popoli : ma col dare nettamente in risultato
quello che vi era di piò verificato e che più im- portava di sapere . Un FILOSOFO
vede con occhio differente da! Filologo gli antichi fatti ed i superstiti
monumenti. Così egli non si fermava sn i fatti isolati , ma combinandoli e
riducendoli li richiamava quasi a nuova vita , e per tal modo con .molta fatica
ci ha dato la Storia de’ tempi quasi del tutto ignoti alla Storia, stessa. Egli
ha descritto Io stato barbaro del Regno prima che le Colonie d' oltremare
venissero a civilizzarlo : à fatto vedere 1* azione reciproca d qua.’ popoli
fra loco. , e per effetto delle j varie leggi , 1' avanzamento degli uni e la
decadenza e di$tru-> ' zione degli altri; i progressi della perfettibilità
Fi non sociale j Inforza
teMPOeeOaaoaBoeeesoeieeae BOiuo^eeaooo» non sempre accompagnata dalle
ricchezze : la popolazione o le coltura crescer col commercio e colle arti e
poi divenir preda d’altri popoli più guerrieri. Egli discese fino alla
particolarità di quelle costumanze che allora si chiamavano Religione , feroce
o lieta secondo lo stato e carattere della Nazione. Lo stesso Go- verno
economico e politico non è stato trascurato , mostrando come questi popoli
liberi e divisi sapessero poi formare un uni- tà ed una forza concorde , che
formasse di tanti voleri un so- lo, cioè , quella volontà generale , che è la
legge eterna delle Nazioni . Le arti , 1; agricoltura , le Scienze anno anche
meritato la sua particolare attenzione : e sebbene sembri eh' abbia rab-
bassati troppo i popoli Autottoni d Italia , pure chi considera: attentamente,
troverà, che si è egli voluto attenere più alla ve- rità Storica , che alla
vanità Nazionale In tutto fi corso di questa Storia la di lui penna è sempre
animata dal cuore. La tirannia , il vizio t la superstizione , che entrano pur
troppo spesso nella Storia dell’ uomo , sono mostri che non si stanca mai di
combattere , smascherandoli anche dove li uova coperti e velati , per far via
più campeg- giare la vera gloria e la virtù, sempre rara nel corso de’ secoli.
La libertà , parola volgare , poco ancora intesa , dritto prezioso dell’ uomo e
più prezioso per la Società , è sempre rilevata dall’ animo del vero FILOSOFO ,
che non può far a meno d’ amarla . ' Su questo gusto egli tratta la Storia
de’nostri progenitori . fin- ché essi e l’ Italia tutta non perderotto la
propria esistenza , per diventare nou sudditi ma schiavi di Roma. 4*^ XLV
>4* la forma del Governo cangia il carattere morale de popoli „ Niente di
grande , niente di generoso sema 1’ amor della Patria e sema il sentimento di
libertà . Un lusso distruggitore, il lan- guore dell’ inerzia , la schiavitù e
la spopolazione corteggiano sempre il dispotismo. E questo è il quadro degli
antichi popoli sotto l' Impero de’ Romani I Barbari distruggendo l’Italia la
rigenerarono. Essa non po- teva rinascere che dalle sue ceneri : ma con qual
progresso lento , con quali nuovi errori , con qual nuova strage deli* u- manità
riprendesse questo corso , tutto è attentamente rimarca- to dall' Autore , a
cui nulla sfugge di quanto deve far vergo- gnar 1' uomo delle sue pretensioni o
consolarlo ed istruirlo . Ma è inutile di parlare più oltre di quest’ Opera,
che è nelle mani & ogni onesto cd illuminato cittadino . E' stata vera
disgrazia della patria, che l’Autore sia rimasto a mezzo ’l corso della sua
vita e del più utile prodotto , che potesse dare alla Nazione. Ecco con quali
Opere Fr. A. G. rese immortale il suo nome. Ecco con quali mezzi cercò di
essere un utile e benefico cittadina Ecco quali titoli abbiamo di celebrare e
piangere la sua memoria. La di lui vita si può dire compresa tutta nelle Opere
sue , non solo perchè le idee nuove e sublimi fanno quasi 1’ apice dell’ esistenza
d’ un uomo di lettere e d’ un vero Filosofo ; ma per- chè nelle di lui Opere
morali souo espresse e manifestate quelle idee, e que’ sentimenti ch'egli
esercitò in tutto il corso del suo vi- vere. Tuttavolta il mio cuore sente
ancora il bisogno di parlare, di qualche altra particolare circostanza. Si inno
ordinariamente delle strane idee s» la sensibilità del cuore umano . Si
dispensa e prodiga spesso il titolo di sensibi- le alle anime deboli o alterate
, credendosi volgarmente che la sensibilità non possa esser compagna della
virtù e della ragione. Bisognerebbe essere o stupido o affatto depravato per
rimaner insensibile ai più lusinghieri e naturali sentimenti; ma questi per
essere conformi alla loro destinazione) devono nascere da quella analogia d'
idee , da quella uniformità di sentimenti e da quel- ( la consensibilità di
cuore) che formano la base armonica dell' amore.-Se un uomo sensibile resta
indeterminato a questo sen- timento , non è certamente per mancanza di
sensibilità fonda- mentale, ma dal non essersi ancora incontrato con un cuore v
che possa combaciarsi e quasi amalgamarsi col suo . Rari in- contri , ma
possibili, per consolazione della spezie tonio G. fa abbastanza ragionevole e
fortunato, per collo- care gli onesti sentimenti del suo cuore in quello della
Contessa tratteggiata dall' espressione della virtù c dei doveri , era poi
quasi alluminata Aurora Barnal a. Una fisonomia felice, fortemente da più soavi
e teneri sentimenti del cuore. La dolcezza delle -sue maniere , la facilità della
sua ragione il gusto per , laverità, la superiorità ai pregiudizj desiderj (
virtù rara nel sesso ) faceva parere che fussero tras- fase nella di lei anima
le virtù del suo compagno come spesso , il disinteresse , e la temperanza dei ,
una maschile fisonomia ei conosce in più delicato volto e pren- , de la
morbidezza e ’l carattere del sesso che investe- Con que- ste qualità
fondamentali si potrebbe mai dubitare , se D. Aurora ! Francescan- 4*4 XLVII H
ra facesse la feliciti della sua famiglia , se fosse la più teneri amica del
marito , la più saggia madre delle sue figliuole , la più atta all’incarico
delle domestiche cure ? Non si conosceva intera- mente F. A. G. sema conoscere
ancora qual donna egli s’ avesse assortita . Gli amici e confidenti di lui
erano egualmente j suoi Lo spirito di ragione e ’l gusto ch’essa portava su
varj oggetti, ne rendevano la compagnia egualmente piacevole ed interes- -
sante . la sua casa era quindi il punto di riunione di coloro che ai talenti
accoppiavano le Non è questo il luogo di fare il catalogo dei molti amici del G.
* tutti conosciuti per merito e per probità ; mi non posso trattenermi dal
ricordar colui la cui memoria dovrà esser mai sempre cara alla nostra Nazione ,
dico d’Antonio Genovesi, padre e creatore de’ nostri ingegni Quell’ Uomo
egualmente di . cuore benefico e di spirito sublime aveva assai punti di
rappor- to per esser stretto amico del giovine G., che già in fre. sca età dava
non dubbj segni d’ esser destinato a divenirgli successore nella pubblica stima
, e nella celebrità » Grimaldi era un uomo che abbisognava d'amare per istinto;
sin- cero e semplice nelle sue maniere come ne’ suoi sentimenti , il suo cuore
non era chiuso nè dalla diffidenza nè dal disingan- no . La libertà della- sua
ragione non era mossa nè dallo spiri- tò di dispuu nè dal gusto di primeggiare
: ma aveva il giusto principio di richiamare tutte le idee allo scopo dì
qualche uti- lità morale . Con questa maniera di pensare , oh quanto d’ inu-
tile si trova negli usi ordinar) della vita ! Eppure essa dà il meto- do p iù
lodevoli qualità, del cuore- xlviii >4* do più vantaggioso per giudicare del
bene reale delle cose e del- le azioni . I suoi più prediletti discorsi si
raggiravano su que- sto punto che tanto facilmente ricorre nelle Capitali .
dove la grandetta della scena è proporzionata alla moltitudine degli at- tori .
Così quest’ uomo nel tempo che si sottraeva alle necessa- rie applicazioni' non
si distraeya in inutili trattenimenti , ma in compagnia d’eletti amici rilevava
Io spirito con altre idee era-, gionamenti d’un utilità più ordinaria e
generale. Non solo i nazionali ma gli esteri ancora vollero avere il piacere
-di vedere dawicino quest’uomo illustre, e restavano sor- presi nel riconoscere
in una somma semplicità di maniere quel Filosofo , che in lontananza avevano
altrimenti immaginato. Egli però poco desideroso di essere conosciuto , niente
avida» di gloria letteraria , anzi pieno d’ una vera modestia che ac- cresceva
il di lui merito reale, evitava. le nuove conoscenze, e cercava di tenersi
chiuso eristretto fra’l numero di pochi amici, eh’ egli più che fraternamente
amava . Pareva che non esistes- se veramente fuori della sua famiglia . Cosa
rara nel seco- lo ! Le persone eccentriche ai sentimenti primitivi , che anno
bisogno d’uria esistenza adjettizia, che unicamente vivono in so- cietà
estranee ad essi, o dnno la disgrazia d’aver sonito circo- stanze infelici , o
non esistono che per 1’ ambizione e per la vanità . La prima morale comincia,
dai primi vincoli e rapporti che ci dà la Natura ; e chi non sente questi non
sentirà che in apparenza quelli della società che sono più lenti. Chi non trova
i germi delia sua felicità nella prima società naturale, potrà difficil-
jncu- euere39ee»au(^>jeejeBg3eomjaoiie35e»^><-
c»iwieeao «ente rinvenirli altrove. Quindi egli menava il più che poteva la
vita domestica , e poco si estrinsecava , anche per non inde- bolire i vincoli
del cuore , che si spossano nelle troppo suddi- vise diramazioni . Non potè
però celarsi allo sguardo di chi lo cercava senza conoscerlo. 11 Generale
Afton, desideroso d’avere al suo fianco un uomo , che all’ estesa cognizione
delle Leggi riunisse non ordinarj talenti e le più preziose qualità del cuo-
re, non altrove seppe porre il suo giusto sguardo e fermar la sua scelta che
sopra Grimaldi, già molto conosciuto per nome e per i suoi libri in Europa.
Egli lo rese noto alla Maestà del Sovrano che sempre amante dc'talenti dc’suoi
sudditie voglioso di ricono- scerne il merito , fece che restasse impiegato
nelia delicata cari- ca d’-Assessore de’ suoi Reali Eserciti, avendolo poi in
mira per altre situazioni , dove più utilmente e più estesamente avrebbe
impiegato la forza de’ suoi talenti, e l’attività del suo cuore. Io non devo
estendermi sii! dìsiiBpegno particolare della sii* Carica . Pieno di talenti ,
della più vera rettitudine di cuore , ed esercitato alla virtù chi potrebbe
dubitare se ben l’esercitasse è li Publico ne ha fatto l' Elogio, e lo ha fatto
colle lagrime . Nel rimanente della sua vita privata era lo stesso cogli
estranei e co- gli amicj . Ignorò sempre ciocché si chiama lingua e tuono del
mondo , non essendo stato giammai Cortigiano , nè potendo es- serlo pel suo
carattere . La verità usciva nuda c sincera dalla di lui bocca, e la
espressione di essa gli era cosi naturale come il sentimento» Mai ricercato o
ingegnoso, non isforzava lo .spiri- to per mostrare d’ averne , e le sue
maniere non erano model- G late , L eCJlMSty sooe^fle^oe^e ^nr^anp^sagsg^at x —v^' * s^ey— late sul
gusto o sulla moda , ma spontanee , cordiali e vere . , In tal guisa egli
faceva la delizia di chi aveva la fortuna d' essergli vicino. In questi ultimi
anni però era poco il tempo che poteva con- sacrare all’amicizia. Pieno di
sentimenti di dovere pel suo im- piego , ei s’ occupava in gran parte di quello
e compromesso ; col pubblico e con se stesso per l’Opera degli Annali,
travaglia- va e meditava assiduamente su quest’ oggetto a lui caro . Ru- bava
le ore- necessarie al rinfranca delle perdite giornaliere della macchina per
soddisfare alle intense brame del suo spirito . Ma questa combinazione
eccessiva di fatiche alterò non poco la sua robusta e valida costituzione* Gli
accessi del male che soffrì più volte , furono tanto ferali, che minacciarono
la sua esistenza : ma fatto più per abbandonare se stesso, che disposto a
trascurare in menoma parte i suoi doveri, non si diede mai un serio pansiere
della propria conservazione. La sofferenza che si aveva acquistata per i mali
fisici passava qualche volta in neghittosa noncuranza, nè voleva ricordarsi
della pur troppo stretu dipendenza del no- stro essere dallo stato delf
organizazioue . Le rimostranze che gli si facevano per questo , erano
sufficienti per disturbarlo ; e se qualche volta si ridusse per le amicali
violenze a temperare alquanto le sue applicazioni, e a prendere qualche cura
della sua esistenza , ad ogni piccolo miglioramento ritornava inconta- nente ai
modi usasi . senza badare , quanto la machina, indebo- lita prende con faciliti
le cattive abitudini , che ne portano 1* distruzione .Ma V intemperanza nelle
applicazioni dello spirito,'. è stata in ogni tempo il difetto comune ai grandi
e sublimi ta- lenti. In questo stato d’ assidue fatiche e di spossatezza , un
colpo terribile gli fece risentire la catastrofe , che nel disastro della
Calabria involse anche il luogo della sua nascita . Quel giorno di lutto comune
della Nazione fu terribile per lui, che colla ma- dre perde cinque altri
individui della sua virtuosa famìglia . La ragione non à fòrza di consolare il
cuore destinato a sentire e non ad essere comandato.; e In inaura»*»»*»»» dell»
sensibilità so- no le più distruttive di questa nostra tenue e troppo complica-
ta organizzazione • In mezzo al più vivo dolore il Grimaldi non diede soltanto
sterili lagrime alla Patria . Egli per Sovrano com- mando fu il primo
descrittore di quella fatale sventura , il pri- mo a suggerire le necessarie
viste d’una ben intesa beneficen- za , ed a sollecitare la sensibilità, del
Trono per conservare gli avanzi di quel popolo infelice. Dalle di lui carte ne
nacquero altre molte , che forse quanto inno di esattezza Io devono s quelle ,
eh’ egli per sua modestia non volle publicare Ma forse nè per quel violento
attacco di sensibilità, nè in con- seguenza delle nuove fatiche l’ arressimo
immaturamente pianto, S® il più terribile e fatai colpo non l’avesse
sopraffatto in questo sta'to di salute indebolita . Egli vedeva da più tempo la
diletta compagna del suo cuore, in età giovane ancora, perdere quell*
espressione.ti «alm*. r: -1—lietaunafisonomia. Tutte le attenzioni che
trascurava per se medesimo, volle che fos- sero moltiplicate per lo sospirato
ristabilimento della sua consorte 1 4*i LII >4. td amica-
L’insinuante qualità del male , che già della di lei tersotia si era impadronita,
dava luogo a frequenti alternative di speranze e di timori: ferite mortali
nell'animo di chi ama . Chi è stato anche solo spettatore in si fatti casi
conosce in qua- le stato d’ orgasmo sia un cuore sensibile, ed a quali
lacerazioni sia in necessità di soggiacere . Il male che nel corso di circa due
anni distrusse la vita d’ Aurora Darnaba , fece anche crol- lare quella cfel
suo illustre consorte . Le anime sensibili e non infelici nel sacro nodo
ronjugale possono forse sole immaginare qual profonda acerbissima ferita dovè
farsi nel cuore superstite . Gli amici , che gli erano d’ in- torno, vedevano
espressa su la di lui costretta fisonomia l’ im- mensità del dolore e P
indifferenza alla vita . Il solo amor pa- terno poteva ancora rendergli non
odiosa 1' esistenza ; ma la macchina non resiste alla gravezza de’ mali
dell'animo . ed O T una o l’altro deve soccombere. Gl’incomodi, che prima Pavé-
vano travagliato ad intervalli, divennero continui; le medele a- vevano perduto
la loro attività; la macchina ora indebolita a se- gno , che un colpo solo
tolse la più preziosa esistenza per 1‘ a- micizia e per la virtù. La perdita
del Pubblico e degli amici è irreparabile ; ma le cinque nobili ed afflitte
pupille ànno trovato nei cuori di Ferdinando E Carolina la sensibilità e P
affetto dei loro Geni- tori - Possa «ampie hi BemeficenT» far I’ Elogio de’
nostri adora- bili Sovrani ! Questa è la vera riconoscenza eh’ essi possono
testimoniare alle ceneri dell’ Illustre Cittadino , come queste pO- un >4* poche pagine e questi
sentimenti sono dopo le lagrime l' uniccr omaggio , che 1’ amicizia poteva
consacrare ALLA MEMORIA ETERNA DI FRANCESCO ANTONIO GRIMALDI; v. A. XLU. M. IX Francesco
Antonio Grimaldi. Francesc’Antonio Grimaldi. Francescantonio Grimaldi. Marchese
Grimaldi dei signori di Messimeri. Keywords: compassione, la compassione,
Romolo bruto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi: implicatura ed
inter-azione” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Gruppi – la via italiana al socialismo – filosofia italiana – Luigi Speranza --
(Torino). Filosofo italiano. Grice: “Gruppi is an Italian philosopher; at
Oxford, someone who writes only on politics is not considered usually one!” -- Il
concetto di egemonia in Gramsci Incipit Antonio Gramsci è senza alcun dubbio
quello che, tra i teorici del marxismo, ha maggiormente insistito sul concetto
di egemonia; e lo ha fatto in modo particolare richiamandosi a Lenin. Anzi,
direi che, se vogliamo vedere il punto di contatto più costante, più scavato,
di Gramsci con Lenin, questo mi pare essere il concetto di egemonia. L'egemonia
è il punto di approccio di Gramsci con Lenin.
Citazioni La scienza si ha quando si supera il dato immediato,
l'apparenza; si ha con un salto dialettico. In tutte le analisi che Gramsci
conduce, io trovo la presenza di un filo rosso che le guida, presente in tutti
i Quaderni. G. Il concetto di egemonia in Gramsci, Riuniti, Roma. Gramsci
è senza dubbio quello che allaccia, se così si può dire, congiunge il movimento
operaio italiano agli insegnamenti di Lenin, è giustamente il primo bolscevico
italiano, come disse Togliatti, il primo leniniano del nostro Paese. Attraverso
un processo che fu complicato e che parte dalla sua comprensione non completa,
ma sostanzialmente giusta del valore della rivoluzione d'Ottobre, arriva ad
affermare che la rivoluzione d'Ottobre è una rivoluzione contro Il Capitale di
Carlo Marx, cioè contro un'interpretazione meccanica, schematica del Capitale,
secondo cui bisognava aspettare lo sviluppo delle forze produttive del
capitalismo, ecc. ecc. Già coglie l'importanza dell'elemento soggettivo, della
funzione del partito come guida dei processi rivoluzionari. Gramsci
sempre più si avvicina ad una comprensione del pensiero di Lenin con un
processo che va dal '19 sino al '25-26 e che anche nei Quaderni del carcere è
un approfondimento del pensiero di Lenin. Gramsci si aggancia
direttamente al concetto di dittatura del proletariato come si trova in Lenin,
individuando nella dittatura del proletariato, non solo un profondo mutamento
della struttura economica e politica del paese, ma una profonda rivoluzione
culturale, una profonda trasformazione del modo di pensare degli uomini non
solo in Russia, ma in tutto il mondo. Il pensiero degli uomini non può più
essere la stessa cosa dopo l'instaurazione della dittatura del proletariato in
Russia. La dittatura non è soltanto un fatto politico, ma di cultura e di
pensiero, secondo quello stretto nesso che Gramsci stabilisce tra politica e filosofia
affermando che la filosofia vera di ciascuno sta nel suo modo di agire, sta
nella sua politica più che nelle dichiarazioni teoriche. Da questo egli ricava
che il principio teorico-pratico dell' egemonia (e qui egemonia significa
dittatura del proletariato) ha anch'esso una portata gnoseologica, cioè di
conoscenza, e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico massimo
di Lenin alla filosofia della prassi, cioè al marxismo. Lenin avrebbe
fatto progredire la filosofia come filosofia in quanto fece progredire la
dottrina e la pratica politica. C'è stretto nesso, quindi, tra i due
elementi. In un altro punto dei Quaderni dice: «Tutto è politico, anche
la filosofia o le filosofie. La sola filosofia è la storia in atto, cioè è la
vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato
tedesco erede della filosofia classica tedesca, come aveva detto Engels, e si
può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da
Ilic [Lenin], è stato anche un grande avvenimento metafisico, cioè nel senso di
pensiero generale, non nel senso negativo di filosofia astratta». Il
processo attraverso cui Gramsci nei Quaderni arriva a queste conclusioni è
complesso. Gramsci al tempo dell'Ordine nuovo, già nel '19, parte da una riflessione
sullo Stato che non è una riflessione sullo Stato in generale, ma sullo Stato
borghese italiano, una individuazione della sua specificità. In un
articolo dell'Ordine nuovo, del febbraio del '20, scrive: «Lo Stato italiano
che - secondo un parlamentare - starebbe alla repubblica dei Soviet come la
città all'orda barbarica, non ha mai neppure tentato di mascherare la natura
spietata della classe proprietaria. Si può dire che lo «Statuto
albertino» sia servito ad un solo fine preciso: a legare fortemente le sorti
della corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni che funzionano
nella macchina statale per limitare gli arbitri del governo dei ministri del re
sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. Soltanto qui si
pongono limiti all'esercizio del potere per garantire la proprietà, la libera
iniziativa. Lo «Statuto albertino » non ha creato nessun istituto che
presidi almeno formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà
individuale, la libertà di parola e di stampa, la libertà di associazione e di
riunione, mentre negli altri Stati democratico-borghesi almeno una garanzia,
almeno formale, esiste, in Italia non c'è neanche la garanzia formale.
Negli Stati capitalistici che si chiamano liberal-democratici l'istituto
massimo di presidio delle libertà popolari è il potere giudiziario. Nello Stato
italiano la giustizia non è un potere, è uno strumento del potere esecutivo, è
uno strumento della corona e della classe proprietaria, cioè è agli ordini del
ministro della Giustizia. Si pensi che ancor oggi la nomina del Pubblico
ministero avviene ad opera del ministro della giustizia. La direzione generale
delle carceri, le direzioni particolari, gli agenti della pubblica sicurezza,
tutto l'apparato repressivo dello Stato dipendono dal ministero degli Interni,
si capisce perché in Italia il presidente del consiglio si riservi sempre il
ministero degli Interni, come era tipico nello Stato prefascista, in modo che
tutto l'apparato di forza armata del paese sia completamente nelle sue
mani. Il presidente del consiglio è l'uomo di fiducia della classe
proprietaria - alla sua scelta collaborano le grandi banche, i grandi
industriali, i grandi proprietari terrieri e lo Stato maggiore. Egli si prepara
a conquistare la maggioranza parlamentare con la frode e con la corruzione; il
suo potere è illimitato non solo di fatto - come è indubbiamente in tutti i
paesi capitalistici - ma anche di diritto, il presidente del consiglio è
l'unico potere dello Stato italiano. La classe dominante italiana non ha
avuto neppure l'ipocrisia di mascherare la sua dittatura, il popolo lavoratore
è stato da essa considerato un popolo di razza inferiore che si può governare
senza complimenti, come una colonia africana. Il Paese è sottoposto ad un permanente
regime di stato d'assedio: in ogni ora del giorno e della notte un ordine del
ministro dell'interno ai prefetti può fare entrare in movimento
l'amministrazione poliziesca, gli agenti vengono sguinzagliati nelle case, nei
locali di riunione, senza mandato dei giudici, che sono passivi. In pura via
amministrativa la libertà individuale e di domicilio è violata, i cittadini
sono ammanettati, confusi coi delinquenti comuni in carceri luride e
nauseabonde, la loro integrità fisiologica è in difesa contro la brutalità ed i
contatti, i loro affari sono interrotti o rovinati. Per il semplice ordine di
un commissario di polizia un locale di riunione viene invaso e perquisito, una
riunione viene sciolta, per il semplice ordine del prefetto un censore cancella
uno scritto il cui contenuto non rientra affatto nelle proibizioni contemplate
dai decreti generali [c'era la censura sulla stampa] per il semplice ordine di
un prefetto i dirigenti di un sindacato vengono arrestati, cioè si tenta di
sciogliere un'associazione, ecc.». È un'analisi spietata dei limiti
liberali e democratici dello Stato liberale italiano, della sovrapposizione del
potere esecutivo sul potere legislativo, sul potere giudiziario, è una
descrizione di questo ordinamento che discende dall'esecutivo ai prefetti, ai
questori e sospende in qualsiasi momento ogni libertà. Ora a questa
visione, a questa definizione, a questa analisi dello Stato italiano, Gramsci
ne contrappone un'altra che nasce dal movimento reale. Anche per lui, come per
Lenin, la conquista dello Stato non è puramente un momento negativo, di
distruzione, ma è il processo di crescita di un nuovo tipo di Stato, che si
organizza sin da prima della conquista dello Stato. E la rivoluzione, come per
Lenin, viene concepita come un processo, non come un atto subitaneo che si
compie in un determinato momento. La domanda infatti, che egli si pone
nel ' 19, la domanda da cui parte con tutto il lavoro del giornale, dell'Ordine
nuovo, è precisamente questa: se ci sia in Italia, a Torino, un embrione di
Soviet, un inizio di Soviet, e la risposta è: sì, sono le commissioni interne.
E aggiunge: bisogna trasformare le commissioni interne in qualche cosa di piu,
bisogna far nascere dalle commissioni interne, cioè dall'esistenza dei Consigli
di fabbrica eletti da tutti i lavoratori indipendentemente o meno dalla loro
iscrizione al sindacato. Con rappresentanti quindi per reparti, per officina,
per mestieri, e cosi via, in modo che il Consiglio di fabbrica sia il momento
non solo della difesa dei diritti sindacali o delle conquiste sindacali, ma un
organismo attraverso cui gli operai si impadroniscono del processo della
produzione, della organizzazione del lavoro, intervengono sul processo della
produzione, stabiliscono un potere nella fabbrica, un potere democratico della
fabbrica e un potere che poi dalla fabbrica si irradi alle campagne e salga a
diventare potere nella società e nello Stato. indice I consigli di
fabbrica Gramsci dice che questo trasforma l'operaio da semplice
salariato - schiavo del capitale, non cosciente della funzione storica della
propria classe - in produttore (egli prende da Sorel questo termine), ma esso è
presente anche in Marx quando parla della Comune come l'autogoverno dei
produttori e non più degli operai salariati, cioè dell'operaio che ha superato
ogni limite corporativo, che non ragiona più come mentalità di categoria, di
classe sociale chiusa in sé, intesa solo alla difesa dei propri interessi
immediati di classe, ma che si sente come produttore, protagonista e interprete
degli interessi generali della società e quindi come componente essenziale,
forza dirigente del nuovo Stato che si vuole costruire. Egli scrive
nell'Ordine nuovo: l'officina con le sue commissioni interne, i circoli
socialisti e le comunità contadine sono i centri di vita proletaria nei quali
occorre direttamente lavorare, le commissioni interne sono organi di democrazia
operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai
quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne
limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di
arbitraggio e di disciplina, sviluppate ed arricchite dovranno essere domani
come organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le
sue funzioni utili di direzione e di amministrazione. Cioè bisogna imparare
prima a dirigere le fabbriche se vogliamo abolire il capitalismo. Fin
d'ora gli operai dovrebbero procedere già all'elezione di vaste assemblee di
delegati scelti tra i migliori e più consapevoli compagni sulla parola
d'ordine: «tutto il potere all'officina, ai comitati d'officina », coordinata
all'altra: «tutto il potere dello Stato ai consigli operai e contadini».
Vi è, quindi, un tentativo di risposta alla domanda: come facciamo in Italia a
fare come in Russia, dove ci sono i Soviet? E i Soviet li inventa Gramsci: li
va a cercare nel movimento reale, li va a cercare in quello che già esiste,
cioè le commissioni operaie da sviluppare in organismi con molto più potere e
molta più capacità rappresentativa. A questa concezione di elevamento
della funzione dirigente della classe operaia prima della conquista del potere,
come condizione della conquista del potere, qui Gramsci ragiona già alla
leniniana, a questa sua concezione si contrappone un'obiezione di Bordiga e del
suo giornale, Il Soviet, sul quale egli dice: è illusorio, utopico pensare che
la classe operaia possa avere una funzione dirigente nella fabbrica prima della
conquista del potere, fino ad allora resta subalterna ai capitalisti, solo
quando la classe operaia prenderà il potere essa potrà esercitare il potere
nella fabbrica. Ma Bordiga non risponde alla domanda: il potere come lo
prendi? Questo perché Bordiga vede il processo sociale come il processo
di crescenti contraddizioni dell'economia capitalistica, finché si arriva alla
grande crisi che è il momento fatale della rivoluzione proletaria, a cui il
proletariato e il Partito comunista devono prepararsi mantenendosi puri,
intatti, non contaminando si in alleanze, in compromessi e in cose del genere.
Vi è cioè in Bordiga una visione meccanicistica, di materialismo volgare,
meccanicistico del processo rivoluzionario che ignora la funzione del soggetto,
del partito. Non a caso Bordiga dice che non bisogna partecipare alle elezioni
parlamentari. Il Parlamento è borghese e quindi non interessa il proletariato.
Riprende cioè una tesi di Bakunin e degli anarchici contro cui già Marx ed
Engels avevano polemizzato, come Lenin polemizza inEstremismo malattia
infantile del comunismo contro queste posizioni di Bordiga. Per Gramsci,
invece, ripeto, la rivoluzione è intesa come processo. Non sto ad illustrare
tutte le vicende dell'Ordine nuovo, le grandi lotte del ' 19, lo sciopero
dell'aprile del '20, detto lo «sciopero delle lancette », che poneva proprio la
questione dell'autorità e del potere dei consigli di fabbrica perché il
padronato decise di passare dall'ora legale, usata in guerra, all'ora solare
senza avvertire i consigli di fabbrica. Gli operai arrivarono in fabbrica
e trovarono le lancette dell'orologio spostate e fu lo sciopero. Era in gioco
una questione di principio: il potere democratico del consiglio di fabbrica.
L'ingenuità fu il non aver unito alla questione altre rivendicazioni piu
sostanziose che potessero legare a questa lotta le masse operaie. Fu solo una
lotta di principio che poi fini con una sconfitta grave, dopo di che la classe
padronale passò all'attacco e l'occupazione delle fabbriche fu, è vero, il
momento più avanzato della lotta, ma un momento di difesa. Funzionarono,
però, i consigli di fabbrica, diressero la produzione, tennero la disciplina,
ma nell'occupazione delle fabbriche appare chiaramente un elemento cioè il
movimento dei consigli fallisce per essere rimasto troppo torinese, non essersi
esteso alle altre regioni italiane, per essere rimasto chiuso all'interno della
fabbrica, e anche per una debolezza nel vedere un'alleanza con i contadini e
soprattutto una grave debolezza nel vedere l'alleanza con i ceti medi, tipico
limite dell'Ordine nuovo. Dalla sconfitta, quindi, del movimento dei
consigli con l'occupazione delle fabbriche si pone l'esigenza del partito, come
momento unificante di tutto il movimento a livello nazionale, cosa che Gramsci
aveva visto, ma in modo incompleto, e aveva privilegiato un movimento, aveva
privilegiato i consigli rispetto alla questione del partito stesso.
indice Necessità della ricognizione nazionale La riflessione
di Gramsci, però, va oltre e nel '23, in un articolo: Che fare? scritto per una
rivista di studenti comunisti, si pone l'interrogativo: perché siamo stati
sconfitti? Siamo stati sconfitti perché il movimento operaio non conosce
il proprio Paese, non conosce l'Italia, non è uscito fino ad oggi un libro
sulle stratificazioni sociali, sulle classi in Italia, sulla storia delle
classi, non è uscito un libro sulla storia dei partiti italiani, c'è
un'infinità di domande a cui non sappiamo rispondere: perché in Sicilia i
contadini sono autonomisti e in Sardegna no, mentre in Sardegna sono
autonomisti i latifondisti e in Sicilia non altrettanto, perché dove son forti
gli anarchici sono forti i repubblicani? e così via. Non sappiamo rispondere
perché non conosciamo il nostro Paese. Eppure abbiamo un metodo, il marxismo,
che Marx ed Engels hanno impiegato per conoscere la realtà concreta. Ecco
l'esigenza di usare il marxismo non come strumento di propaganda, ma come
strumento di analisi, di comprensione della realtà. Certo, spiegare la
sconfitta del '20-21 col fatto che non si conoscesse bene l'Italia è
insufficiente, è unilaterale, è polemico, però è senza dubbio uno degli
elementi della verità. Il gruppo dell'Ordine nuovo, alla testa del
partito col '24, cercherà di arrivare ad un'analisi dell'Italia, ad una
conoscenza del processo storico italiano. Le tesi del terzo Congresso di Lione
sono un'analisi del processo attraverso cui si è formato lo Stato unitario
italiano per individuare da questa analisi concreta, storica, le forze motrici
della rivoluzione nella classe operaia del Nord e nei contadini del Mezzogiorno
e delle Isole. Si veda il saggio sulla Questione meridionale, contemporaneo
alle Tesi di Lione. Gramsci riprende un concetto di egemonia che nel '25
aveva già usato in polemica contro Bordiga dicendo: Bordiga non ha capito il
concetto leniniano dell'egemonia, dell'alleanza della classe operaia con gli
altri ceti e soprattutto con i contadini e si è attenuto ad una posizione
astratta per cui la classe operaia deve restare chiusa in se stessa, ha temuto
che ogni alleanza fosse una contaminazione piccoloborghese della classe
operaia, per questo non ha capito l'essenziale di quello che è il leninismo,
alleanza operai contadini, costruzione dell'egemonia. Nella Questione
meridionale inoltre Gramsci pone non solo la questione meridionale come
elemento nazionale decisivo e quindi chiave della egemonia della classe
operaia, ma entra in una definizione pili precisa della egemonia. Che la
questione meridionale sia elemento decisivo della egemonia è un momento molto
importante, perché non aver capito questo aveva reso il movimento socialista
subalterno alla politica della borghesia e di Giolitti, cioè aveva accettato la
politica di Giolitti assai limitata, da un lato, e, dall'altro, riformistica
senza riforme in un certo senso, che però faceva concessioni alle cooperative del
Nord, al diritto di associazione, alla funzione dei sindacati, non interveniva
come Stato nei conflitti del lavoro, ecc., facendo pagare tutto questo al
Mezzogiorno. Nel Mezzogiorno faceva la politica della camorra, degli «ascari»,
cioè dei deputati che andavano in Parlamento per votare sempre « Sì »,
reclutati attraverso le clientele, ecc. Il modo in cui si spezza l'egemonia
della borghesia è il modo in cui si rompe questo blocco industriale e agrario
tra la borghesia capitalistica del Nord e i grandi proprietari terrieri,
latifondisti del Sud, e si salva l'alleanza classe operaia del Nord e contadini
del Sud. A questo proposito Gramsci dice: il proletariato può diventare
classe dirigente e dominante, nella misura in cui riesce a creare un sistema di
alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo
Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, il che significa
in Italia (nei reali rapporti di classe esistenti in Italia): nella misura in
cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse contadine. La
questione delle alleanze, quindi, è vista come questione decisiva per
conquistare il dominio e la direzione, e la questione contadina viene vista
come essenziale. Ma non la questione contadina in generale (tra l'altro non
esiste). La questione contadina in Italia è storicamente determinata, non è la
questione contadina ed agraria in generale, in Italia la questione contadina
ha, dice Gramsci, per la tradizione italiana, per il determinato sviluppo della
storia italiana, assunto due forme tipiche e peculiari: la questione
meridionale e la questione vaticana, cioè il rapporto con i contadini del Sud e
con i contadini legati alla Chiesa cattolica, di ispirazione cattolica.
Ora che cosa si può dire in proposito? Si può dire che c'è un altro passo in
cui egli si richiama alla dittatura del proletariato, che l'egemonia viene
vista come una direzione che si conquista nella società civile e la dittatura
del proletariato è concepita come la forma statale, politica dell'egemonia,
anzi essenzialmente come la forma. statale. Inserisce qui una distinzione
tra società civile e Stato. Nella società civile l'egemonia, nello Stato la
dittatura del proletariato, che però in Gramsci non è così schematica. I due
momenti sono fusi e Gramsci, nei Quaderni, avverte che la distinzione tra Stato
e società civile, società politica e società civile è una distinzione puramente
di metodo, metodologica, non organica, perché in realtà questi due elementi
sono fusi. Società civile e Stato non SI separano nella realtà. Come è
noto la parola egemonia deriva da un verbo greco che significa dirigere,
guidare, condurre. Gramsci usa il termine egemonia non nel significato
tradizionale che sottolinea soprattutto il « dominio », ma nel senso originario,
etimologico, greco: «direzione », «guida ». Trae questo termine da Lenin,
perché Lenin l'aveva impiegato nel 1905 proprio per indicare la funzione
dirigente della classe operaia nella rivoluzione democratico-borghese; Lenin
non lo usa più nel 1917, quando usa ormai il concetto di dittatura del
proletariato. Ma non c'è dubbio che la capacità dirigente della classe operaia
nel processo rivoluzionario congiunge nel '17 strettamente la rivoluzione
democratica alla rivoluzione proletaria, in modo che la dittatura del
proletariato si assume gli obiettivi della rivoluzione democratica, quegli
obiettivi che la borghesia non sa realizzare, e nella dittatura del
proletariato vengono infatti indicati, come obiettivi primi, obiettivi
democratici e non obiettivi socialisti: la terra ai contadini, la
nazionalizzazione delle banche e cose di questo tipo. indice Egemonia e blocco
storico Gramsci riprende nei Quaderni il concetto di dittatura del
proletariato, ma riferendosi alla dittatura del proletariato teorizzata e
realizzata da Lenin. Poiché l'egemonia della classe operaia nella rivoluzione
del 1905 fu sconfitta, significa che Gramsci usa il termine di egemonia nel
senso di dittatura del proletariato, quella teorizzata e realizzata. Ora
Gramsci sa bene che nella dittatura del proletariato c'è il dominio e il
consenso, la coercizione e la persuasione, ma perché la chiama egemonia?
La chiama egemonia perché vuole sottolineare nella dittatura del proletariato
la funzione dirigente, la conquista del consenso, l'azione di tipo culturale e
ideale che l'egemonia deve compiere, non c'è altra spiegazione a questo diverso
uso dei termini. Sottolinea questo elemento, nella dittatura del proletariato,
sia perché era quello rimasto più in ombra, quello che si era capito di meno (si
era sempre intesa la dittatura soprattutto come violenza, limitazione delle
libertà, e non come l'essenziale capacità dirigente, come Lenin aveva sempre
più sottolineato, man mano che veniva avanti la costruzione del regime
sovietico negli ultimi anni della sua vita). Gramsci usa questo termine, la
egemonia, perché egli conduce una riflessione sulle esperienze e si pone ancora
la famosa domanda: perché non abbiamo vinto? Non abbiamo vinto, dice
Gramsci, perché bisogna capire le differenze che esistono tra una società e un
potere politico come quello russo, zarista, e un potere politico in una società
come esiste in Italia e nei paesi capitalisticamente sviluppati. La domanda -
si poteva fare la rivoluzione nel '19 o nel '20? c'erano le condizioni
oggettive? non c'erano? cosa è mancato? - trova in realtà una risposta in
questa analisi di Gramsci. Gramsci dice: in Oriente, cioè in Russia, lo
Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatina sa (ecco il
punto); nell'occidente tra Stato e società civile c'è un giusto rapporto e nel
tremoli o dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società
civile, lo Stato era solo una trincea avanzata dietro a cui stava una robusta
catena di fortezze, di casematte (più o meno diversa da Stato a Stato) ma
questo richiedeva un'accurata ricognizione di carattere nazionale. Ecco la
grande differenza: in Russia lo Stato era tutto, ed era indubbiamente casi, in
una società molto fluida, gelatinosa, non articolata, non robusta, una enorme
burocrazia zarista gestiva ogni momento della vita statale per cui quando lo
Stato andava in crisi o in sfacelo a causa ovviamente della disfatta militare e
durante la guerra del '14-18, dietro allo Stato non c'era più niente che
resisteva. In Occidente è diverso, dietro al tremolio dello Stato, e lo
Stato italiano tremò fortemente nel '19 e '20, c'era però la robusta struttura
della società civile, c'era l'apporto del capitalismo, le sue organizzazioni,
la sua tenuta culturale e cosi via. Questo, secondo me, è un tentativo di
risposta di Gramsci al perché nel '19-20 siamo stati sconfitti, ma è al tempo
stesso una riflessione molto più generale sul modo in cui si pone il problema
della rivoluzione in Paesi capitalisticamente sviluppati. Di qui egli
trae la necessità di una diversa strategia rivoluzionaria, dice in altre pagine
. Mentre in Russia la società civile era fluida ed embrionale, gelatinosa, era
possibile la guerra manovrata, cioè lo scontro di classe rapidamente
risolutivo, in Occidente è necessaria la guerra di posizione, che qui non
significa stare fermi. 'è un altro passo in cui con guerra di posizione Gramsci
indica una relativa staticità dei processi sociali e politici, qui non
significa questo, qui guerra di posizione è la guerra di trincea, per cui vai
all'assalto delle trincee, delle fortezze, delle casematte, cioè individui i
gangli essenziali della vita sociale e statale e conduci quindi una politica
(attualizzando un po') che investe la totalità della società e che tiene conto
di tutte le complesse articolazioni della società. Cioè Gramsci pone l'esigenza
di una nuova strategia rivoluzionaria, di un modo nuovo di concepire la
rivoluzione. Questo è l'enorme passo che egli ha fatto partendo
dall'Ordine Nuovo, attraverso La questione meridionale per arrivare ai
Quaderni, perché il problema dell'Ordine Nuovo era: come facciamo a fare anche
in Italia come in Russia? Ma il problema era fare come in Russia partendo dal
movimento reale, non astrattamente. Nel '26 già individuiamo che cosa
distingue la questione contadina in Italia dalla questione contadina in Russia.
Come noi risolviamo questo problema decisivo della egemonia proletaria che
Lenin risolse in Russia con l'alleanza con i contadini? Qui che cosa è
l'alleanza con i contadini? Qui è questione meridionale, qui è questione
vaticana che l'origina. Nei Quaderni del carcere Gramsci pone l'esigenza
di una strategia, cioè dice: non possiamo fare come in Russia, abbiamo bisogno
di una ricognizione del terreno nazionale, cioè di una analisi concreta della
situazione concreta italiana, di calarci nel processo storico, nella
originalità dei processi sociali, politici e culturali del nostro Paese.
L'interessante è, però, che egli si riferisca a Lenin quando dice: «mi pare che
Ilic [Lenin] avesse compreso che occorreva un mutamento della guerra manovrata)
applicata vittoriosamente in Oriente nel )17) alla guerra di posizione che era
la sola possibile in Occidente», cioè Gramsci attribuisce alla tattica del
fronte unico della classe operaia, proposta dai bolscevichi, da Lenin alla
Terza Internazionale, al suo Quarto congresso del 1922, la individuazione di un
tipo diverso di lotta rivoluzionaria, di lotta di posizione. Fa dire a Lenin, a
mio parere, molto di più di quanto Lenin non volesse dire, forza il suo
pensiero, lo porta oltre. Lo porta oltre però partendo da intuizioni che
in Lenin ci sono, perché vi sono scritti di Lenin che forse Gramsci nemmeno
conosceva in cui Lenin dice: in Occidente tutti i lavoratori sono organizzati,
non è come in Russia dove non c'erano sindacati, dove i partiti avevano scarse
radici, non avevano avuto una vita legale, ci sono cooperative, sindacati,
partiti, municipi, ecc. Cioè Lenin dice: « in Occidente tutti i cittadini
partecipano in qualche modo alla democrazia, non è come in Russia », quindi
Lenin intuisce delle diversità in Occidente e propone una tattica, non una
strategia, diversa, cioè il fronte unico. Gramsci parte da questa
intuizione di Lenin e la porta, secondo me, molto oltre e sottolinea fortemente
la necessità di una ricognizione del terreno nazionale: una classe di carattere
internazionale, cioè il proletariato, in quanto guida strati sociali
strettamente nazionali e anzi spesso meno ancora che nazionali,
particolaristici e municipalistici, come i contadini, deve nazionalizzarsi in
un certo senso, cioè deve calarsi profondamente nella realtà nazionale se è
internazionalista, in quanto è internazionalista, se vuole dirigere i
contadini, gli intellettuali, ecc., deve individuare la specificità del
processo rivoluzionario. Dove si vede che l'egemonia è impensabile al di fuori
della ricognizione nazionale, la egemonia è proprio la capacità di individuare
la specificità nazionale, i caratteri specifici di una determinata società,
l'egemonia è conoscenza, oltre che azione, e quindi è conquista di un nuovo
livello di cultura, scoperta di cose che non si conoscevano. Questo
nazionalizzarsi, questo calarsi nella realtà nazionale e la conquista
dell'egemonia sono in Gramsci strettamente congiunti. L'egemonia è
individuazione della tattica e della strategia nuove che si devono usare in
determinate situazioni. Come nasce in Gramsci l'idea dell'egemonia? Marx
aveva detto nella Ideologia tedesca, del 1845, che le idee dominanti in una
società sono le idee della classe dominante, cioè la classe dominante diffonde
le sue idee, la sua cultura, la sua ideologia in tutta la società. più
esattamente Marx dirà nella prefazione a Per la critica dell'economia politica
del '59, che sono i rapporti di produzione, quindi il modo di proprietà prevalente,
che determinano non solo le istituzioni politiche e statali, ma il modo di
pensare, la coscienza. Il modo di produzione però - i rapporti di produzione e
il loro nesso con le forze produttive - è contraddittorio e quindi questa
contraddizione, la contraddizione che esiste nel modo di produzione
capitalistico, tra classe operaia e capitalisti per esempio, pone in
discussione non solo la politica economica, le questioni sindacali immediate,
ma anche la politica e la cultura delle idee della classe dominante. Non
appena la classe antagonistica nel sistema capitalistico, il proletariato,
assume coscienza del suo antagonismo al sistema capitalistico, elabora non
soltanto delle lotte sindacali immediate, ma anche una linea politica e una
concezione del mondo, il marxismo, l'ideale socialista, una nuova morale che
contrappone ai valori ed alla morale della società dominante. Attraverso un
processo enormemente faticoso, attraverso una piccola avanguardia, poco alla
volta, cerca di strappare all'egemonia ideale e politica della classe dominante
una parte sempre più grande della classe operaia e dei suoi alleati, contadini,
ceti medi, cerca di conquistare gli intellettuali. Ora Gramsci si chiede
come si tiene insieme una determinata società, cioè un determinato «blocco
storico», un nesso di forze politiche e sociali, come si tiene insieme questo
rapporto tra la struttura economica, i rapporti di produzione e di scambio, e
lo Stato, come si può spiegare insomma che un determinato Stato, una
determinata classe dominante tenga insieme e abbia il consenso di forze i cui
interessi sono opposti. Questo «blocco storico» trova il consenso tra gli
operai, tra i contadini, i cui interessi sono opposti a quelli della società
capitalistica, non solo con l'influenza politica, dice Gramsci, ma con
l'ideologia. È l'ideologia che tiene insieme il blocco storico, che lo salda,
che consente di tenere insieme classi sociali non solo di tipo differente, ma
con interessi addirittura opposti, antagonistici. L'ideologia è il grande cemento
del blocco storico, ed è momento della sua edificazione, che non è solo
ideologica, è culturale, è politica in primo luogo, ma non può essere
dissociata dal momento dell'ideologia e delle idee. Noi allora abbiamo un
processo per cui le classi, antagoniste per interessi, sono subalterne
all'origine, Cloe non hanno una propria concezione del mondo, una propria
cultura, ma hanno assorbito la cultura delle classi dominanti, in un modo
eterogeneo, disorganico, passivo. Cosicché, il modo di pensare delle classi subalterne
è privo di organicità, di capacità critica. Le classi subalterne sono però
spinte alla ribellione, ma tale ribellione è un sussulto che non riesce ad
organizzarsi in una politica perché c'è subalternità ideale, culturale. È
necessario tutto un processo perché le classi subalterne diventino autonome, si
diano un partito, una linea politica, una concezione culturale, e allora da
autonome lottano per diventare egemoni, dirigenti. Già prima della conquista
del potere possono diventare egemoni, cioè. diffondere la propria concezione
non solo politica, ma culturale, in tutta la società. L'egemonia si
conquista prima della conquista del potere ed è una condizione essenziale per
la conquista del potere. Il processo di egemonia è quindi un processo di
unificazione del pensiero e dell' azione perché - quando le classi sono
subalterne - può esserci per esempio una insurrezione contadina unita
all'affermazione che i proprietari della terra ci sono sempre stati, e magari
sempre ci saranno, un'insurrezione che spera nel re per sistemare le cose. Può
accadere che gli operai di Pietroburgo, nel 1905, vadano in corteo al palazzo
dello zar perché lo zar intervenga e faccia finire le ingiustizie. E lo zar
pensa bene di farli mitragliare e allora gli operai cambiano idea. Prima erano
subalterni, pensavano che lo zar fosse un «piccolo padre », il padre della
chiesa ortodossa, che la soluzione delle ingiustizie dipendesse da lui.
Gramsci allora dice: c'è nelle classi subalterne una filosofia reale che è
quella della loro azione, del loro comportamento. C'è una filosofia dichiarata
che vive nella coscienza, che è in contraddizione con la filosofia reale.
Bisogna sogna congiungere questi due elementi attraverso un processo di
educazione critica per cui la filosofia reale di ciascuno, la sua politica,
diventi anche la filosofia cosciente, la filosofia dichiarata. Per giungere a
quel processo di unificazione di teoria e pratica, di costruzione di una
cultura nuova, rivoluzionaria, di riforma intellettuale e morale. Le due cose
sono strettamente congiunte per Gramsci. Gramsci riprende questo concetto
di riforma intellettuale e morale ancora una volta da Sorel, ma cambiandone
completamente i contenuti. Riprende anche un tema tipico della cultura italiana
del suo tempo che si ritrova nella destra, in Alfredo Oriani, per esempio, come
nella sinistra, in Gobetti: l'idea cioè che all'Italia sia mancato qualcosa di
simile alla riforma protestante, cioè una riforma della concezione del mondo e
morale che arrivasse in profondità, nel popolo. In Italia c'è stata invece la
controriforma, il distacco della Chiesa dal popolo, la sovrapposizione del
dogma, l'irrigidimento gerarchico della Chiesa, la limitazione della libertà
scientifica, di espressione artistica, c'è stata l'Inquisizione, l'ipocrisia,
che ha viziato profondamente il carattere degli italiani, ne ha fatto dei
cortigiani, ne ha fatto dei servi. È mancata una riforma protestante.
Gramsci dice che non solo è mancata una riforma protestante, ma è mancato
qualche cosa ben di più della riforma protestante; qualche cosa di analogo
all'illuminismo francese del settecento che preparò la rivoluzione francese,
qualche cosa di simile alla rivoluzione democratico-borghese. indice La nozione
di intellettuale Gramsci aggiunge: in Italia i laici hanno fallito il loro
compito che era di diffondere una nuova concezione culturale, un nuovo
umanesimo :fino agli strati più profondi e più incolti del popolo. Come era
necessario fare. Gli intellettuali democratici laici non l'hanno fatto perché
si sono mantenuti come una casta separata, con un suo linguaggio separato, con
una sua vita culturale separata. È mancato l'elemento essenziale della
costruzione democratica e di una riforma intellettuale e morale nel nostro
Paese, cosa che solo la classe operaia può fare, non la Chiesa cattolica,
perché la Chiesa cattolica tiene separati gli intellettuali e i semplici, parla
due linguaggi, uno per gli intellettuali ed un altro per i semplici, ma sta
bene attenta che gli intellettuali non rompano il rapporto con i semplici al
tempo stesso. Gli idealisti, Benedetto Croce, Gentile, hanno fatto una
riforma intellettuale per i grandi intellettuali, non per il popolo. Al popolo
lasciano la religione che è la filosofia di quelli che non hanno filosofia
cosciente. Questo processo di unificazione tra intellettuali e semplici
lo può fare la classe operaia guidata dal marxismo, grazie al marxismo, e
creando nuovi quadri intellettuali, organici alla classe operaia, che sono i
suoi quadri, i suoi dirigenti. Qui muta completamente la nozione di
intellettuale, l'intellettuale non è chi sa il latino o il greco, lo scrittore
o cose del genere, l'intellettuale è il dirigente della società, il quadro
sociale. Un caporale dell'esercito anche se analfabeta è un intellettuale,
secondo Gramsci, perché dirige i soldati, un intellettuale è il capo-lega
bracciante, anche se analfabeta, come tanti lo erano al tempo di Gramsci,
perché organizza i braccianti, perché li guida, perché li educa. Questi sono
gli intellettuali secondo Gramsci, il tessuto connettivo del blocco storico,
gli elaboratori della egemonia della classe dominante la quale senza gli
intellettuali non potrebbe essere egemone, dirigente: sarebbe solo dominante e
oppressiva e le mancherebbe la base di massa, il consenso necessario per
esercitare il suo dominio. La cosa interessante è che Gramsci elabora
queste idee attraverso un'analisi del processo storico italiano. C'è sempre
concretezza nel suo pensiero. Ad esempio analizza come si sia formata in Italia
l'egemonia dei liberali, come i liberali con un'azione molecolare ed empirica
abbiano assimilato, isterilito le forze repubblicane, mazziniane, ecc., e
disgregato il blocco opposto con un'opera, egli dice, di direzione
intellettuale e morale. Gramsci sottolinea l'importanza di questo momento
ideale e morale nella direzione dei liberali moderati. Ed è qui che egli
introduce il concetto di supremazia. Un gruppo sociale, una classe ha una
supremazia in quanto ha la direzione e il dominio, la classe che è
all'opposizione non ha ancora il dominio, ma deve conquistare la direzione,
cioè l'egemonia, se vuole conquistare anche il dominio e una volta conquistato
il dominio deve mantenere la direzione. Come si presenta, quindi, per
Gramsci la rivoluzione? La rivoluzione si presenta in realtà come una c risi di
egemonia, cioè come una crisi di capacità dirigente da parte di coloro che
hanno il dominio perché non riescono più a risolvere i problemi del Paese, non
riescono più a tenerlo insieme con l'ideologia. Pensate ai processi che oggi si
sono compiuti. Lo spostamento a sinistra degli studenti, pur caotico ed anche
pericoloso che sia, contiene molti elementi di individualismo borghese
esasperato - e quindi resta nel quadro dell' egemonia culturale borghese molto
più di quanto non si pensi -, ma è anche il segno della disgregazione di questa
egemonia culturale, una disgregazione che non riesce ad uscire da se stessa,
che si rigira e si tormenta intorno a se stessa. Ma che è il segno di questa
crisi. Basta vedere come le idee del marxismo si sono diffuse e si
diffondono. Qui c'è un allargamento della nozione di rivoluzione.
Marx aveva detto: la rivoluzione si ha quando le forze produttive entrano in
una contraddizione incontenibile con i rapporti di produzione. (Gramsci parte di
qui, ma vede la totalità sociale). Lenin aveva detto: la rivoluzione si ha
quando la classe dominante non riesce più a dominare, quando le classi oppresse
non accettano più di essere dirette e oppresse alla vecchia maniera e abbiamo
una grande ribellione di massa. Gramsci, in modo più preciso, la definisce la
crisi di egemonia, come uno scollarsi tra dominio e direzione, come il venir
meno della direzione, quindi come una crisi che investe tutta la totalità
sociale, in cui il momento culturale, morale, ideale ha un'enorme
importanza. Noi stiamo vivendo un momento di questo genere. Si è rotto il
vecchio blocco di potere che aveva come asse la Democrazia cristiana, è venuta
meno la capacità dirigente del vecchio blocco di potere (che è sempre stata
molto limitata del resto), non si è ancora costruito un nuovo blocco di potere
che possa portare ad un nuovo blocco storico. Blocco di potere è un'espressione
che Gramsci non usa, la usa Togliatti, intendendo la fase di preparazione di un
nuovo blocco storico e di una nuova società, di una nuova base sociale, di un
nuovo tipo di Stato, di un nuovo rapporto tra base sociale e Stato. Il
momento di questa crisi di egemonia è dunque un momento anche di crisi ideale,
di crisi culturale, di crisi morale. Gramsci dà grande valore al momento del
soggetto, della coscienza, delle idee nel processo rivoluzionario. L'egemonia è
iniziativa, è intervento sul processo e guida del proletariato, come già Lenin
aveva detto nel 1905, quando rimproverava ai menscevichi di alterare il
materialismo storico, di deformarlo perché non capivano la funzione dei partiti
i quali, avendo individuato e compreso la realtà oggettiva, intervengono nel
processo per condur1o in una determinata direzione. Lenin diceva: i menscevichi
non hanno capito la prima tesi su Feuerbach, la funzione del rapporto
soggetto-oggetto. Non è a caso che Gramsci chiama il marxismo «filosofia della
prassi», usando una terminologia che fu usata da Gentile. Però Gramsci l'usa in
tutt'altro senso; non la prassi dell'intelletto, come intendeva Gentile, ma la
prassi trasformatrice, rivoluzionaria, unità di soggetto-oggetto, intervento
del soggetto sulla realtà. Attenzione però. Gramsci parla sempre di
egemonia della classe operaia, non del partito, perché Gramsci non ha mai
rinnegato l'esperienza dei consigli di fabbrica e ritiene che la classe operaia
debba darsi una molteplicità di organizzazioni per conquistare il potere. Mai
Gramsci ha pensato che la classe operaia conquisti il potere solo col partito,
essa deve avere altri collegamenti, altre organizzazioni, deve essere presente
nelle istituzioni statali oltre che di massa. Inoltre Gramsci non
mortifica mai il movimento, dice che l'elemento cosciente deve saper depurare
il movimento spontaneo da quanto c'è in esso di contraddittorio, di arretrato,
di reazionario anche, deve depurarlo e portarlo al livello della scienza
moderna, cioè del marxismo. Ma non si deve né disprezzare, né trascurare la
spontaneità, che bisogna però aiutare. Bisogna partire da quello che egli
chiama il senso comune e vedere quanto c'è di sano in questo senso comune,
nelle sue contraddizioni, nelle sue superstizioni, nelle sue posizioni
arretrate. indice Il partito, moderno «Principe» È compito del
partito cogliere questo elemento sano, tirarlo fuori dal guscio (il nocciolo
razionale, direbbe Marx) e portarlo al livello di una coscienza scientifica
della realtà. Il partito è il momento decisivo della formazione dell'egemonia
della classe operaia; non è possibile egemonia della classe operaia senza il
partito, perché esso è l'unificatore dell'azione e del pensiero, della
filosofia istintiva, non consapevole, presente nell'azione, e della filosofia
consapevole che bisogna fare acquisire, dando la prospettiva, dando la visione
dell'insieme. In questo senso egli chiama il partito il moderno principe,
riferendosi al Machiavelli e valorizzando enormemente Machiavelli. Un principe
moderno non più come individuo, perché nella società moderna questo non è più
possibile, ma come intelligenza e volontà collettiva, personificazione di una
grande volontà collettiva: il partito è il moderno principe. Del partito
Gramsci mette molto in rilievo l'elemento della coscienza e della direzione. In
ogni partito, secondo Gramsci, ci sono tre strati: uno di dirigenti, molto
ristretto, a livello nazionale, uno di base che aderisce soprattutto per
entusiasmo o per fede, e uno intermedio che collega questi due elementi. Senza
questi tre elementi il partito non c'è, però Gramsci dice: attenzione, con
l'elemento di base voi non formerete nulla, non formerete mai il partito;
occorre l'elemento dirigente. Ovvero, un esercito non forma il capitano, ma
alcuni capitani formano l'esercito. Per Gramsci la formazione del partito va
dall'alto in basso, come per Lenin, cioè parte dal congresso, parte dal punto
più alto della consapevolezza, il che non è una visione burocratica, ma è una
visione di intervento della coscienza, della direzione sul movimento spontaneo.
Educazione del movimento spontaneo, perché tutta la concezione pedagogica di
Gramsci, dell'educazione come sforzo, come disciplina, dello studio anche come
fatica, ci dice chiaramente come egli intenda la direzione. Il partito è
il grande riformatore intellettuale e morale, quello che supera la vecchia
concezione e ne costruisce una nuova. C'è in Gramsci il superamento del
meccanicismo materialistico tipico di Bordiga, di tutto il movimento socialista
da cui lui veniva. Il suo ragionamento sul blocco storico è un ragionamento
sulla totalità sociale, su gli elementi sociali, politici e culturali:
l'egemonia costruisce un determinato blocco storico e il blocco storico si
tiene insieme grazie all'egemonia, grazie alla direzione. L'egemonia è il
momento di saldatura. Ecco quindi un'egemonia che rompe il precedente
blocco storico. Rompe il vecchio tipo di totalità sociale ormai in crisi e
costruisce un nuovo tipo di totalità sociale, anzi, direi, sociale, politica e
culturale. Dicevo che Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia, non
di più. A mio parere di più non poteva fare negli anni trenta: ha smesso di
scrivere i Quaderni nel '35, quando la sua malattia si era tanto aggravata da
togliergli la forza fisica di scrivere. In questa elaborazione noi siamo
andati avanti, cercando di dare una risposta a che cosa è la strategia rivoluzionaria
in paesi capitalisticamente sviluppati. L'abbiamo cominciato a fare durante la
guerra di Liberazione, parlando di democrazia progressiva, di democrazia di
tipo nuovo, come diceva Togliatti. Secondo Togliatti non ci si poteva più
rifare al modello russo della rivoluzione perché la rivoluzione ha modi e
scadenze diverse a seconda dei paesi, non c'è un unico modello. La ricerca del
nuovo modello avrebbe potuto avvenire attraverso l'azione dei CLN (Comitati di
Liberazione Nazionale) che Togliatti valorizza quando dice: avremmo preso una
strada più rapida e più sicura se avessimo potuto mantenere in piedi i CLN. Lo
afferma al quinto congresso del PCI. Lavorando su questa indicazione di
Gramsci, e non solo, lavorando sulla realtà oggettiva, riprendendo l'esperienza
della guerra di liberazione, siamo venuti costruendo quella strategia che è,
che chiamiamo la via italiana al socialismo. Questa strategia non può
grettamente rinchiudersi in una sola nazione, deve per forza avere delle
convergenze con la strategia di altri partiti, del movimento operaio in altri
paesi capitalistici. Quello che gli altri chiamano euro-comunismo è fatto di
accordi tra noi e il partito comunista francese, il partito spagnolo ed altri
partiti. Abbiamo naturalmente esteso il concetto di egemonia.Per noi
l'egemonia, la capacità dirigente della classe operaia è capacità di realizzare
tutte quelle alleanze che sono indispensabili affinché la classe operaia abbia
accesso al potere in una società di capitalismo monopolistico e di capitalismo
monopolistico statale. Perciò la classe operaia deve andare al di là
dell'alleanza operai-contadini poveri (tra l'altro i contadini oggi sono solo
il 15% della popolazione, comprendendo anche quelli ricchi), ma deve arrivare
ai ceti medi delle città e delle campagne, deve arrivare al settore della
piccola e media industria. Si tratta di un sistema di alleanze assai articolate
e, badate bene, contraddittorio. perché, tra gli operai della piccola e media
industria e il proprietario della piccola e media industria c'è indubbiamente
una contraddizione, una contraddizione che noi dobbiamo indirizzare verso la
contraddizione principale, come direbbe Mao-Tse-Tung, ovvero contro il
capitalismo monopolistico. Ora alleanze sociali cosi ampie non possono
che esprimersi a livello politico, cioè in partiti politici. Questa è una cosa
che Gramsci non aveva presente, per lui un partito solo faceva la rivoluzione:
il Partito comunista. Al Partito socialista bisognava tagliare le radici.
Gramsci non arrivava a questa visione cosi ampia delle alleanze, non ci poteva
arrivare. indice Quale pluralismo Per noi invece questa
visione si esprime in una pluralità di partiti, e d'altra parte le democrazie
popolari ci danno un esempio di pluralità di partiti. In Polonia, nella RDT, vi
sono partiti che hanno una scarsa autonomia forse, ma esistono realmente.
Come mandare oltre questa esperienza? Sviluppando un sistema di alleanze, anche
a livello politico, che è fatto di contrasto, che è fatto di confronto, che è
fatto di lotta. Ad 'esempio, la nostra alleanza col partito socialista è anche
lotta, è anche discussione non priva di asprezze, naturalmente. Questo sistema
lo possiamo chiamare pluralismo, pluralismo sociale e politico, assumendo un
termine che non è nostro, che è estraneo al marxismo, ma che viene dalla
sociologia cattolica e dalla sociologia americana. La sociologia
cattolica intende per pluralismo una pluralità di istituzioni che si
equilibrano l'uno con l'altra: la famiglia, la Chiesa, lo Stato, la scuola e
cosi via. Il suo pluralismo è fondato sull'interclassismo, cioè sulla
collaborazione tra classe operaia e capitalisti e sul superamento della
contraddizione tra l'una e gli altri. La sociologia americana dice: il
pluralismo è una pluralità di istituti che impedisce a una sola forza di avere
l'egemonia, il dominio, la prevalenza. Per noi il pluralismo è invece
un'ampiezza di alleanze sociali e politiche tale da isolare il grande capitale
monopolistico, la sua logica e la logica da cui oggi è dominato il capitalismo
di Stato in questa società, 1ìno a sconfiggerlo. Cosi si realizza il vero
pluralismo, perché noi diciamo che fino a quando esiste il grande capitale il
pluralismo reale nella società non ci sarà mai, sarà sempre apparente. La
nostra Costituzione è pluralistica, ma il pluralismo reale della nostra vita è
apparente. Invece vi è il monopolio dei mezzi di informazione, dell'economia e
cosi via. Ad esempio il pluralismo della società americana nasconde la
realtà di una società in cui il potere economico e politico è al massimo grado
concentrato, e la partecipazione democratica dei cittadini è puramente formale.
In realtà, devono votare per due partiti che si confondo l'un con l'altro, che
si mescolano, non si sa bene che differenza ci sia tra democratici e
repubblicani. A volte i democratici su certe cose sono d'accordo con i
repubblicani, su altre sono d'accordo solo con certi repubblicani. Si può dire
che negli Usa ci sia un pieno trasformismo. Un reale pluralismo si ha quanto
più si batte il capitalismo, quanto più si avviano forme di autogoverno della
società, di partecipazione. Il nostro pluralismo è anche statale, di
istituzioni statali e sociali. L'autonomia del sindacato, poi, è un momento
decisivo. Quando diciamo pluralismo delle istituzioni statali intendiamo parlamento,
regioni, comuni autonomi, comprensori, consigli di quartiere o di
circoscrizione, sino ad arrivare ai consigli di fabbrica che non sono un
istituto statale, ma sono sanciti dai contratti e riconosciuti dallo Statuto
dei lavoratori. Perciò pluralità di istituzioni sociali e politiche.
Inoltrel'autonomia dei sindacati significa che il pluralismo è già dentro la
classe operaia, che esso non caratterizza semplicemente il rapporto della
classe operaia con forze sociali non proletarie e il rapporto del Partito
comunista con partiti non proletari, ma che vive nella classe operaia. Infatti
nella classe operaia ci sono i comunisti, ci sono i socialisti, ci sono anche i
democristiani, c'è anche il sindacato autonomo, c'è il consiglio di fabbrica,
che ha anche esso una sua dialettica nei rapporti col sindacato e coi
partiti. Il pluralismo vive nella classe operaia e per questo può
attuarsi nella società. Egemonia nel pluralismo, dunque, e non: egemonia e
pluralismo, come diceva bene Ingrao, e fra i due termini c'è un rapporto
dialettico. Più egemonia c'è, e più c'è pluralismo, non come confusione di
forze, ma come forma di lotta, la più ampia, la più acuta, la più
caratterizzata dal punto di vista di classe oggi. D'altra parte, senza
pluralismo non si ha egemonia, ma isolamento della classe operaia e suo ritorno
a posizioni subalterne. Di tale nesso dialettica tra i due termini i nostri
avversari ovviamente non capiscono nulla, e dicono: se parlate di egemonia non
potete parlare di pluralismo, e viceversa. Dal punto di vista della
sociologia cattolica e americana hanno ragione, ma noi usiamo questo termine
con tutt'altro significato. Legato a questo si pone anche il tema della
dittatura del proletariato. Come ci collochiamo? Quando i socialdemocratici
escludevano la dittatura del proletariato, e anche Kautsky la escluse dopo la
rivoluzione d'Ottobre, in realtà dilatavano una concezione della democrazia
tale per cui nell'esercizio della democrazia si arriva al socialismo, ma
smarrivano la questione dell'autonomia e dell'egemonia della classe operaia,
concepivano il processo come puramente elettorale e non come un'egemonia che
rompe il blocco avversario, che aggrega e costruisce un nuovo fronte, quindi
un'egemonia fondata sull'iniziativa e sulla lotta. Noi abbiamo parlato di
dittatura del proletariato nella Dichiarazione programmatica del nostro VIII
congresso, nel '56, per sottolineare come cambino le forme della dittatura del
proletariato a seconda dei paesi. Abbiamo mantenuto il concetto, ma abbiamo
sottolineato questo elemento: cambiano le forme. Abbiamo ripreso questo
concetto al decimo congresso, nel '62, per sottolineare che della dittatura del
proletariato emerge sempre di più l'elemento della direzione e del consenso. In
seguito non abbiamo più ripreso questa nozione, l'abbiamo lasciata
cadere. Mi chiedo se sia compito dei documenti del partito affrontare
questa questione tipicamente teorica o se invece non si debba sviluppare la
discussione e il dibattito a livello teorico su questo problema. Ad ogni
modo la mia opinione, che altri possono naturalmente confutare, è che la
nozione della dittatura del proletariato è nella situazione italiana
dialetticamente superata, il che può voler dire assunta ad un livello
superiore. Cosa significa? Significa che la classe operaia deve, at·
traverso tutto un processo (oggi un accordo programmatico, poi un governo
unitario), costruire un nuovo blocco di potere in cui essa sappia avere una
funzione dirigente. D'altra parte, un nuovo blocco di potere o si
costituisce sotto la direzione della classe operaia o non si costituisce.
Blocco di potere certamente contraddittorio dal punto di vista sociale e
politico che dovrà saper risolvere le sue stesse contraddizioni in modo
progressivo se ne sarà capace. L'egemonia si conquista, la direzione si
conquista ogni giorno. Ecco allora che è il blocco di potere ad
esercitare la coercizione sulla società attraverso la legalità dello Stato.
L'elemento della coercizione non può essere eliminato, non si costruisce il
socialismo senza coercizione, anche dura, ma essa viene esercitata dal blocco
del potere, non direttamente dalla classe operaia. Del resto anche nella
concezione di Lenin e nella realtà, la classe operaia ha esercitato la
coercizione contro i nemici di classe e non verso i contadini poveri, non verso
gli intellettuali. Lenin diceva: gli specialisti li dobbiamo conquistare, qui
la coercizione non serve, li dobbiamo convincere a lavorare per noi, bisogna
pagarli molto, ecc. ecc. Anche allora nel blocco di potere c'è un elemento di
consenso e un elemento di costrizione. Se si allarga il blocco di potere,
come da noi deve allargarsi, si allarga anche la sfera del consenso, ma di un
consenso molto travagliato, ottenuto con le lotte, tra contrasti, anche,
tutt'altro che scontato. L'altro elemento è che non solo la classe operaia non
esercita direttamente la coercizione, ma non impone nemmeno il suo modello di
Stato a tutta la società. Nella rivoluzione russa è avvenuto questo: i Soviet,
che sono un istituto tipicamente operaio, nato dal movimento operaio russo, si
sono estesi ai contadini e ai soldati, e poi son diventati l'istituto statale.
La classe operaia ha creato cioè la società a sua immagine e somiglianza, per
riprendere una frase biblica, cioè ha impresso la sua visione statale su tutta
la società. Noi questo non lo facciamo e non lo proponiamo, noi assumiamo
il parlamento dalla storia della democrazia ateniese, noi assumiamo i comuni,
le stesse regioni derivano da una tradizione non nostra, e introduciamo, come
elementi nostri invece, i consigli di fabbrica, il decentramento nei quartieri
e cosi via, i quali sono gli elementi di una democrazia diretta che supera il
parlamentarismo. In questo senso allora mi pare che non si possa parlare
di dittatura del proletariato, perché della dittatura del proletariato cade un
elemento: la coercizione esercitata direttamente dalla classe operaia nelle sue
forme e nei suoi modi. La coercizione resta ma è di tutto il blocco di potere
che esercita anche la direzione sulla società, non sola la coercizione.
Inoltre all'interno del blocco di potere la classe operaia deve sapere
esercitare la sua funzione dirigente per costruire lo stesso blocco di potere,
per tenerlo insieme, per trasformarlo in senso progressivo. Mano a mano che si va
avanti nel senso del socialismo, anche il blocco di potere si trasforma e
diventa più avanzato, più omogeneo dal punto di vista di classe e cosi
via. Allora si mantiene della dittatura del proletariato questo elemento
essenziale: l'autonomia e l'egemonia o direzione della classe operaia,
superando l'altro elemento, lo elemento della coercizione inquadrandolo in un
ambito più ampio. Questa è soltanto la mia opinione in proposito. “C’è
in molti giovani comunisti uno stile di serietà riflessiva, di maturità e di chiarezza
responsabile, che stupisce, se confrontato al tono un pò vacuo, avventato o
ciondolone, che è tradizionale di molta gioventù italiana. Sono giovani che,
usciti dalla dura scuola che i tempi impartiscono – sia pur con diverso
profitto – a ciascuno, son passati alla scuola del Partito, e diventano in
breve dirigenti : acquistano quel piglio, quel polso, quella quadratura, quasi
non avessero fatto altro da molti anni, o come se tutto in loro da tempo
tendesse a farne dei quadri comunisti, o non altro. Un dirigente di questo tipo
è Gruppi, segretario della Federazione di Torino. Laureato in filosofia, e
questa è una delle chiavi della sua personalità, ma proprio in un senso che
smentisce nel modo più assoluto il concetto che dei filosofi s’ha volgarmente.
Tutto in Gruppi è esattezza logica, ragionamento filato, rigore razionale: un
matematico, potrebbe anche essere, se i numeri non fossero entità troppo
astratte per il suo bisogno di concretezza.” Così Italo Calvino, dalle
pagine de l’Unità piemontese, descriveva Gruppi. Mi sembra giusto rendere
onore ad un grande compagno, anche se non ho avuto la fortuna di conoscere se
non attraverso i suoi scritti. Gruppi è stato per lungo tempo il
responsabile della Sezione culturale del PCI e successivamente direttore
dell’Istituto di studi comunisti “Palmiro Togliatti”, la famosa scuola di
Frattocchie. Pubblicato numerosissimi articoli su Rinascita, su l’Unità, su
Critica marxista (di cui è stato vicedirettore), assieme ad altre
pubblicazioni. Il suo lavoro, nel Partito ed all’Istituto, è stato
fondamentale nel costruire quadri e militanti e nello sviluppare quella teoria
rivoluzionaria che a noi, comunisti del XXI secolo, così manca. Una
testimonianza diretta da mio padre Marco. “Conobbi Gruppi alla scuola di
Partito di Frattocchie/ In quel periodo il partito si era impegnato molto nella
formazione dei gruppi dirigenti. Io insieme ad altri giovani compagni della
gloriosa Federbraccianti delle varie regioni d’Italia, fra i venti e i
trent’anni avevamo partecipato, orgogliosamente, a quella settimana di studi e
approfondimenti sulla questione agraria e economica del Mezzogiorno. Ci
colpi’ molto la preparazione e la competenza di Gruppi, ma soprattutto il suo
linguaggio e la sua dialettica, coerentemente alineata a sani principi
etico-morali. E uno che volava alto, ogni tanto si lasciava andare in
ragionamenti filosofici che a noi, ancora politicamente acerbi, sembravano un
pò difficili. Una settimana intensa e ricca che ci forni strumenti di analisi,
di critica e di proposta.” Qualche cenno biografico per i compagni che
non lo conoscono, dal sito biografico gestito dalla moglie Tilde Bonavoglia e
da suo nipote Andrea Bonavoglia http://digilander.libero.it/lucianogruppi/
: Iscritto al Partito comunista italiano. Partecipa alla Resistenza. Dopo
la Liberazione è membro della Segreteria e responsabile della Commissione
giovanile della Federazione di Torino. Responsabile della Commissione
giovanile, poi della Sezione di stampa e propaganda, membro della Segreteria
della Federazione di Milano. Responsabile della Sezione d’organizzazione
e vicesegretario della Federazione di Torino. Segretario della Federazione di
Torino. Fa parte della Segreteria regionale del Piemonte. Membro della
segreteria del Consiglio mondiale del Movimento dei partigiani della pace a
Praga e a Vienna. Vice responsabile della Sezione di stampa e propaganda
del Comitato centrale del PCI. Fa parte della segreteria della Federazione di
Torino ed è capogruppo consiliare al Comune di Torino. Rappresentante del
PCI nel Comitato di redazione della rivista internazionale Problemi della pace
e del socialismo, a Praga. Vice responsabile della Sezione culturale del
Comitato centrale del PCI. Dal ’64 al ’66 responsabile della Sezione per
le scuole di partito. Dal ’66 al ’73 vice responsabile della Sezione
culturale del Comitato centrale del PCI. Vicedirettore della rivista
Critica marxista. Direttore dell’Istituto di studi comunisti Palmiro
Togliatti (Frattocchie). Presidente dello stesso istituto. Membro
del Comitato centrale, Membro della Commissione centrale di controllo. Al
congresso ha chiesto di non essere riproposto per organismi dirigenti del
PCI; Ha restituito la tessera dei Democratici di Sinistra; Iscritto
al Partito della Rifondazione Comunista; Nello stesso sito è possibile
trovare l’importantissimo “La concezione marxista dello Stato”, che riunisce le
lezioni tenute presso Frattocchie. http://digilander.libero.it/ lucianogruppi/concezionedellostato/ la_concezione_dello_
stato.html Per finire, la commemorazione su “L’Ernesto” .marx21.it/rivista/
5142- marx-dalla- democrazia-radicale-al-comunismo-rivoluzionario.html Un
breve estratto da quest’ultimo articolo, ancora oggi attualissimo, di Bianca
Bracci Torsi e Fosco Giannini, che mi sento di condividere in pieno :
“Due propensioni, quella dello studio teorico e della formazione, quanto mai
necessarie ed attuali oggi, in questa fase caratterizzata sia dalla povertà
teorica che segna di sé una parte significativa del movimento comunista che
dalla grave sottovalutazione del valore della formazione politico-teorica ( la
“scuola quadri”) che si manifesta anche in Rifondazione comunista.
Luciano Gruppi, dunque, non solo nel ricordo: ma per il lavoro futuro, come è
destino dei grandi. Grice: “In retrospect, I can imagine that it may have been torture
for my pupils to have to endure my tutorials on ordinary language philosophy, when
none of them ‘parled’ it!” -- Luciano Gruppi. Gruppi. Keyword: la via italiana
al socialismo, egemonia della filosofia del linguaggio ordinario -- Refs.:
Luigi Speranza: Grice e Gruppi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Guastella: l’implicatura
conversazionale della conoscenza – filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Misilmeri). Filosofo. Grice: “Guastella is an interesting
philosopher. A system-builder! He wrote on epistemology and metaphyusics in a
clear style.” Cosmo Guastella (Misilmeri), filosofo. Figlio di Vincenzo
farmacista e da Marianna Piazza, uno dei quattro figli della coppia, ancorché
di famiglia borghese non ebbe un'infanzia agiata. Sudia con l'ausilio di borse
di studio fino a laurearsi a Palermo. È ritenuto il capostipite del fenomenismo.
Insegna a Palermo. Opere: “La conoscenza”; “Metafisica”; e “Il
fenomenismo”. Fonda la Biblioteca filosofica. Dizionario Biografico degli
Italiani, Dizionario di filosofia. Cause empiriche: e cause metaempiriche. La
causa nel senso scientifico. Distinzione tra la causa nel senso metafisico
(causa efficiente) e la causa nel senso scientifico. I filosofi hanno ammesso
generalmente questa distinzione. Impossibilità di provare la dottrina di Comte
sulle cause efficienti. L’ANTROPOMORFISMO. La Filosofia
teologica. La filosofia teologica nel periodo prescientifico.
Funzioni della divinità come principio esplicativo dei fenomeni.
La divinità come principio motore.
La divinità come principio di una spiegazione teleologica dei fenomeni. Le prove dell'esistenza
della divinità.
I concetti della teologia trascendentale. Immutabilità ed extra-temporalità di Dio.
Dio come l'Infinito o l'Assoluto.
Il dualismo e il panteismo nella filosofìa antica e nella moderna.
Il valore delle prove dell'esistenza della divinità
dipende da quello del concetto
di causa efficiente.
L'animismo come spiegazione dei fenomeni biologici.
Osservazioni generali suU'animismo come ipotesi
biologica. La spiegazione animista dei fenomeni biologici.
Estensione del dominio della coscienza in conseguenza
dei principii dell'animismo.
Spiegazione intellettualista dell'istinto. L'ilozoismo.
Osservazioni generali sull'ilozoismo.
L' ilozoismo nella filosofia antica e moderna.
L'ilozoismo nella filosofia contemporanea. Il panpsichismo. Osservazioni generali sul panpsichismo.
La monadologia di Leibnitz. I panpsichìsti moderni. L'idealismo.
Osservazioni generali sull'idealismo. L'idealiijino di
Kant L'idealismo assoluto, dei successori di Kant. Il concetto di causalità dell’antropomorfismo.
Le oda volizionale della causazione e teorie affini.
Osservazioni su queste teorie.
La filosofia meccanica o impulsionista.
Della filosofia meccanica o impulsionista in generale.
Il principio, su cui è fondata la
filosofia meccanica, in Cartesio e i
cartesiani, in Hobbes, in Spinoza, in Newton,
nei primi newtoniani, in Locke, in
Leibnitz, in Clarke, in Huygens, Bernouilli, Eulero, d'Alembert,
Hume, Reid, Dugald-Stewart, Hamilton, GALLUPPI, SERBATI, Cuvier,
nei fisici e filosofi contemporanei. La proposizione
che l’azione a distanza è inconcepibile, assurda e
contraddittoria. Origine e sviluppo dell'idea di causa efficiente.
Le causazioni più familiari ci sembrano spiegarsi da se stesse e potere spiegare tutte le altre.
Proposizioni di filosofi che hanno riconoscinto questo fenomeno psicoloco (di Bacone, Stuart-Mill, Bain,
GiiffopA, Pag.Stallo). L' idea di causa
efficiente deriva, dall' «et sperienza delle
causazioni più famlliani. Le causazioni più
familiari non sembrano, misteriose che
nella riflessione scientifica. Perchè
l’azione volontaria diventa misteriosa Perchè
diventa misteriosa, in generale, l'azionem utua tra lo
spirito e il corpo. Perchè diventa
misteriosa 1' attività interiore dello spirito Perchè
diventano misteriose IMnipulsione e le altre azioni fisiche più familiari.
Conclusione sulle ragioni per cui le
causazioni più familiari perdono la loro intelligibilità. La tendenza
naturale a spiegare le sequenze non familiari riconducendole alle familiari, e
quindi il principio di causalità efficiente nella sua forma primitiva e
spontanea, non possono avere alcun valore obbiettivo Forma secondaria del
principio di causalità efficiente. Il principio di causalità efficiente è
un'induzione incosciente dalle causazioni più familiari. Origine comune e
differenziazione prògressiva dei concetti fisico e metafisico i' deWsL
causalità. La dottrina dbll'inconoscibilb b l'idea di CAUSA EFFICIENTE. La
dottrina dell'inconoscibile come appliéàzìone del principio di causalità
efficiente 'tiella sua forma secondaria. La proposizione che non conosciamo l'essenzal
disile cose il fondamento principale della teoria
dell'ÌDCon<6scibìl'e è il principio di causalità
efficiènte. Questo fóndamente non può pretendere ad alcun calore obbiettivo. Ciò
è provato più chiaramente dalTesame dell'inferenza incosciente di cui è la
conclusion. Noi conosciamo o possiamo conoscere l'essenza delle cose e il modo
essenziale della produzione dei fenomeniLa Forza nel senso metafisico. La
filosofia apriorista. Lo sforzo di ricostruire la realtà a priori è
una delle tendenze più generali della speculazione metafisica. La filo&ofìa
apriorista è sovratutto un'applicazione del principio di causalità
efficiente La filosofìa apriorista in Cartesio,
in Malebranche 4 (ìy-in Spinoza in Leibnitz, in Locke, in
Condillac, in d'Alembert, in Hume, in Kant, in Fichte, Schelling,
Hegel, in Reid, Ehigald-Stewart, GALLUPPI, SERBATI, GIOBERTI, ROVERE, in
Taine e Spencer e in Hartmann.
Le pretese dimostrazioni dei principii della
meccanica. La filosofia apriorista al di
fuori della ricerca della causa efficiente. Dottrine della
filosofia apriorista sulla essenza e la definizione. Dottrine di Aristotile e
di Platone in particolare. Dottrine
analoghe e particolarmente
quella di Cuvier della correlazione organica.
Spiegazioni della filosofia apriorista della costituzione del cosmos (e
particolarmente quelle di Platone e di Aristotile).
L'argomento ontologico come applicazione della spiegazione apriorista. IL
REALISMO DIALETTICO. Perchè si realizzano le astrazioni. Spiegazioni correnti e
precisasione della qaistione. Il realismo, in quanto è
una spiegazione del mondo (realismo dialettico), ha Io
scopo di identificare il rapporto logico
tra il principio e la conseguenza al'
rapporto ontologic tra la causa efficiente e l’effetto. Origine del
realismo degti scolantici. Il sistema di Hegel. Il sisttema di Taine. Realismo
(realizzazione dei concetti) del Taine. Il suo metodo dialettico (cioè di
dedurre i concetti realizzati). L'idea fondamentale di questo sistema è
l’dentificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la
causa efficiente e l’effetto. Il sistema di Platone. Cenni generali sulla
filosofia di Platone. Apriorismo di Platone. Suo metodo puramente
deduttivo. Importanza capitale attribuita al
metodo; universalità della filosofia e sua sìstemftticìtà. Affinità del
metodo dialettico col metodo matematico.C aratteri prepri del metodo
dialettico, per cui differisce dal matematico. Tutte le altre Idee si deducono
da quella del Bene. L'Idea del Bene non è solo il principio logico ma anche il
principio ontologico (la causa produttrice) delle
altreldee, enonne è il principio ontologico che in quanto ne è il
principio logico. La deduzione progressiva delle Idee le une dalle altre é una derivazione
reale delle Idee che si deducono da quelle da cui si deducono. L'Idea del
Bene è la più generale di tutte. Contenuto di quest'Idea. Metodo di divisione e
gerarchia delle Idee. Teoria della definizione.La dieresi è una deduzione in
cui l’Idea divisa funge da principio, e le Idee in cui si divide da
conseguenza. Come la dieresi è una
deduzione, e come si trovino in essa 1 caratteri distintivi del
metodo dialettico. Il metodo indiretto di PARMENIDE DI VELIA. É con questo
metodo che deve dimostrarsi il primo principio (cioè l'Idea del Bene). Un'Idea
generale non è solo il principio logico ma anche ontologico (la causa), clelle
Idee più particolari in cui si divide. L'obbiettivazione dei concetti e il
metodo dialettico hanno per Iacopo l’identiflcazione del rapporto tra il
princìpio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e
l’effetto. n iftiema. Idea generale della filosofia di
Spinoza.Il concetto del parallelismo psico-fisico e suoi sviluppi. Metodo
puramente deduttivo. Identità dello sviluppo logico e dello sviluppo
ontologico. Le cose considerale sua specie aetemitatis. L’essere, secondo
Spinoza, è una serie di astrazioni realizzate che derivano logicamente e
ontologicamente le une dalle altre, in modo che il rapporto tra il principio e
la conseguenza é identico con quello tra la causa (efficiente) e l’efi'etto.
Difi'erenze e omologia fra tutti questi sistemi. Come il realismo dialettico
deriva dalla tendenza naturale del nostro spìrito da cui derivano tutti gli
altri concetti metafisici. NIHIL ORITUR, NIHIL INTERIT. Tendenza naturale a
supporre che il reale nella sua essenza é immutabile. I fisici greci in
generale. Dottrine di Empedocle e di Anassagora. Il sistema degli atomisti.
Dottrine dei fisici che ammettevano una sostanza unica. Dottrina d’Eraclito
dell’identità dei contrari Dottrina degl’Eleati. Spiegazioni meccaniche
dei fisici in generale. Dottrine dei filosofi indiani. Dottrine di BRUNO e di TELESIO.
La teoria meccanica (cioè laridnrione di tutti i fenomeni a quelli
meccanici) nella scienza moderna. Applicazione della teoria alla costituzione
della materia. Ancora della teoria meccanica. Applicazione ai fenomeni
psichici. Spiegazione meccanica dei fenomeni della vita. Il principio
della persistenza delle cose nelle stesse proprietà nell'atomismo metafisico,
nei sistemi monisti, nel realismo, nel criticismo. Dottrine di Herbart e
di CORLEO Dottrina dell’identità della causa e dell'efletto. IL CONCETTO
DELL'ANIMA. L'animismo (sostantificazione dell’anima) è
il prodotto d'una tendenza naturale dello spirito umano. Le prove
della sostanzialità dell’anima. Materialiià deir anima Della forma
primitiva deirÀnìmismo. L'animismo è anch'esso un'applicazione del
principio deirimmutabilità dell'essenza delle cose. Le concezioni moniste si
fondano su questo principio egualmente che le dualiste. È per esso che deve
spiegarsi anche Tanimismo del'uomo primitive. Il concetto dell'immortalità
dell'anima e quello della sua immaterialità sono degli sviluppi naturali della
teoria animista. Il substratum, supposto indisponsabile j dei fenomeni psichici
non è che il fantasma del corpo» La terza forma dell'animismo, cioè la dottrina
che la sostanza dello spirito è un fatto psichico permanente che è il
substratum di tutti gli altri. DOTTRINA DI ROSMINI SULLA SOSTANZA
DELL'ANIMA carte. IMMANENZA DELLE IDEE PLATONICHE.Prove di
qoeatimmanetiixa. I termini designanti le Idee in generale. I
termini designanti ciascen'Idea. carte Il concetto e la
conoscenza generale si riferiscono airidea» La definizione e la
dieresi, che hanno per oggetto le Idee, si riferiscono alle cose considerate
d'una maniera generale ed astratta L'Idea è l’universale, ciò
che è lo steiso in tutti gl'individui del genere.VLa napouoCa, la
(léBe^i^ e le altre espressioni dell'inerenza nelle Idee nelle cose.
Contenenza reciproca tra le Idee generiche e le Idee specifiche. Gli elementi
delle Idee sono anche gli elementi delle cose. Tutto il reale si risolve nelle
Idee. L'essere non 6 fuori del divenire, ma nel divenire stesso. BlMeuMione
degli argomenti contro l’immanenza La sostanzialità delle Idee. La
distinzione fra le Idee e le cose interpretata come una separazione. ni.
Le Idee considerate come esemplari a cui le cose non si conformano che
approssimativamente. Le allegorie del Fedro e del Timeo. La testimonianza
d'Aristotile. IL PITAGORISMO PLATONICO. Cenni snlle dottrine del Pitagorici
e sul pitagorismo di Platone In generale.
I namert ideali carte I due elementi. La forma e
la materia delle Idee. La forma e la materia delle cose. Le entlUi
matematiche (come intermediarie fra le Idee e le cose.
Il pitagorismo nel Timeo e nel Filebo. Motivi deireTolnzione di Platone verso
il pitagorismo. II pitagorismo nel Timeo (Carattere simbolico della cosmogonia
del Timeo e suo significato). La dottrina della setta di CROTONE nel Timeo (il
limite e l’illimitato di questo dialogo). Il pitagorismo nel discepoli di
Platone. Le tre dottrine dei platonici sui numeri carta. La dottrina di
Xenocrate carte La dottrina di Speusippo. DOTTRINE DI PLATONE
SULL'ANIMA E LA DIVINITÀ NEL LORO RAPPORTO COL SISTEMA DELLE IDEE. L'anima e
suo rapporto eon le Idee e eoi fenomeni (l’anima individuale carte l’anima
cosmica carte L'interpretaslone teistica del sistema delle Idee (che le Idee
sono i pensieri della divinità creatrice) liO idee e il pensiero
(Interpretazione di Hegel e di Teichmùller dell'immortalità dell'anima e altre
dottrine connesse. Platone non ammette l’identità dell'essere e del pensiero, e
la sua idea è un’entità puramente obbiettiva. Cosmo Guastella. Guastella.
Keywords: conoscenza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guastella: tra
fenomenismo e noumenismo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Guicciardini: l’implicatura conversazionale dele cose dello stato -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Guicciardini.
Grice: “Guicciardini is what I call an Italian classic; some like Machiavelli,
as Austin used to say, “but Guicciardini is MY Renaissance man!” – Grice:
“There are various topics of interest: the italian of Machiavelli and
Guicciardini in the development of a philosophical political lexicon; there’s
the trope of the centaur –‘all’ombra del centauro.’ – Pure political philosophy
of the type enjoyed by members of the Debating Union at Oxford!” Terzogenito dei Guicciardini, famiglia tra le
più fedeli al governo mediceo. Dopo una prima formazione umanistica in ambito
familiare dedicata alla lettura dei grandi storici dell'antichità (Senofonte, Tucidide,
Livio, Tacito), studia a Firenze seguendo le lezioni di Pepi. Soggiornò a
Ferrara per poi trasferirsi a Padova per seguire le lezioni di docenti di
maggior importanza. Rientrato a Firenze, esercita l'incarico di istituzioni di
diritto civile. Nominato capitane dello Spedale del Ceppo. Inizia la stesura
delle Storie fiorentine e dei Ricordi. Dieci anni prima si chiudono quelle
Cronache forlivesi di Leone Cobelli che espongono le premesse degli avvenimenti
riguardanti Caterina Sforza e Cesare Borgia di cui G. si occupa, nelle sue
Storie, per i notevoli riflessi che hanno sulla politica fiorentina. In
occasione della guerra contro Pisa, venne chiamato a pratica dalla signoria,
ottenendo l'avvocatura del capitolo di Santa Liberata. Questi progressi
portarono G. anche ad una rapida ascesa nella politica, ricevendo dalla
Repubblica Fiorentina l'incarico di ambasciatore presso Ferdinando il
Cattolico. Da questa sua esperienza nell'attività diplomatica nacque la
Relazione, e anche il "Discorso di Logrogno", un'opera di teoria
politica in cui G. sostiene una riforma in senso aristocratico della Repubblica
fiorentina. Fece parte degli Otto di Guardia e Balia ed entra a far parte
della signoria, divenendo, grazie ai suoi servigi resi ai Medici, avvocato
concistoriale e governatore di Modena, con la salita al soglio pontificio di
Giovanni de' Medici, col nome di Leone X. Il suo ruolo di primo piano nella
politica emiliano-romagnola si rinforza con la nomina a governatore di Reggio
Emilia e di Parma. Nominato commissario
generale dell'esercito pontificio, alleato di Carlo V contro i francesi,
matura quell'esperienza che sarebbe stata cruciale nella redazione dei suoi
Ricordi e della Storia d'Italia. Alla morte di Leone X, si trova a
contrastare l'assedio di Parma, argomento trattato nella Relazione della difesa
di Parma. Dopo l'assunzione al papato di Giulio de' Medici, col nome di
Clemente VII, venne inviato a governare la Romagna, una terra agitata dalle
lotte tra le famiglie più potenti. Diede ampio sfoggio delle sue notevoli
abilità diplomatiche. Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propaganda
un'alleanza fra gli stati regionali allora presenti in Italia e la Francia, in
modo da salvaguardare in un certo qual modo l'indipendenza della penisola.
L'accordo fu sottoscritto a Cognac, ma si rivelò ben presto fallimentare; di
questo periodo è il Dialogo del reggimento di Firenze, in cui si ripropone il
modello della repubblica aristocratica. La Lega subì una cocente disfatta e
Roma fu messa al sacco dai Lanzichenecchi, mentre a Firenze veniva instaurata la
repubblica. Coinvolto in queste vicissitudini, e visto con diffidenza dai
repubblicani per i suoi trascorsi medicei, si ritira nella villa G. di
Finocchieto, nei pressi di Firenze. Qui compose due orazioni, l'Oratio
accusatoria e la defensoria, ed una Lettera Consolatoria, che segue il modello
dell'oratio ficta, nella quale espose le accuse imputabili alla sua condotta
con le adeguate confutazioni, e finse di ricevere consolazioni da un amico. Scrisse
le Considerazioni intorno ai "Discorsi" del Machiavelli "sopra
la prima deca di Livio", in cui accese una polemica nei confronti della
mentalità pessimistica dell'illustre concittadino. Completa anche la redazione
definitiva dei Ricordi. Lasce Firenze e ritorna a Roma, per rimettersi di
nuovo al servizio di Clemente VII, che gli offrì l'incarico di diplomatico a
Bologna. Dopo il rientro dei Medici a Firenze, fu accolto alla corte medicea
come consigliere del duca Alessandro e scrisse i Discorsi del modo di riformare
lo stato dopo la caduta della Repubblica e di assicurarlo al duca Alessandro. Non
fu tenuto tuttavia in altrettanta considerazione dal successore di Alessandro,
Cosimo I, che lo lascia in disparte. Si ritira nella sua villa Guicciardini di
Santa Margherita in Montici ad Arcetri. Rriordina i Ricordi politici e civili,
raccolse i suoi Discorsi politici e scrisse la “Storia d'Italia. Morì ad
Arcetri, quando da circa due anni si era ormai ritirato a vita privata. Guicciardini
è noto soprattutto per la Storia d'Italia, vasto e dettagliato affresco delle
vicende italiane tra l’anno della discesa in italia del Re francese Carlo VIII e
il anno della morte di Papa Clemente VII. -- è un monumento al ceto italiano e
più specificamente alla scuola fiorentina di filosofi di cui fecero parte anche
Machiavelli, Segni, Pitti, Nardi, Varchi, Vettori e Giannotti. L'opera
districa la rete attorcigliata della politica degli stati italiani del
Rinascimento con pazienza ed intuito. L'autore volutamente si pone come
spettatore imparziale, come critico freddo e curioso, raggiungendo risultati
eccellenti come analista e filosofo (anche se più debole è la comprensione
delle forze in gioco nel più vasto quadro europeo). G. è l'uomo dei
programmi che mutano "per la varietà delle circunstanze" per cui al
saggio è richiesta la discrezione (Ricordi), ovvero la capacità di percepire
"con buono e perspicace occhio" tutti gli elementi da cui si
determina la varietà delle circostanze. La realtà non è quindi costituita da
leggi universali immutabili come per Machiavelli. Altro concetto saliente del
pensiero guicciardiniano è il particulare (Ricordi) a cui si deve attenere il
saggio, cioè il proprio interesse inteso nel suo significato più nobile come
realizzazione piena della propria intelligenza e della propria capacità di
agire a favore di se stesso e dello stato. In altre parole, il particulare non
va inteso ego-isticamente, come un invito a prendere in considerazione
solamente l'interesse personale, ma come un invito a considerare
pragmaticamente quanto ognuno può effettivamente realizzare nella specifica
situazione in cui si trova (dottrina che collima con quello di Machiavelli).
In netta polemica, Pitti scrisse l'opuscolo Apologia dei Cappucci, a difesa della
fazione dei democratici. E considerato il progenitore della storiografia
moderna, per il suo pionieristico impiego di documenti ufficiali a fini di
verifica della sua Storia d'Italia. La reputazione di G. poggia sulla
Storia d'Italia e su alcuni estratti dai suoi aforismi. I suoi discendenti aprirono
gli archivi di famiglia e diedero incarico a Canestrini di pubblicare le sue
memorie. Furono pubblicati i suoi Carteggi, che contribuirono ad
un'accurata conoscenza della sua personalità. «L’angolo di prospettiva
dal quale si prese a considerare, nella prima metà del secolo XVII,
l’opera guicciardiniana, la posizione di questa nel giudizio dei lettori
secenteschi, sono bene indicati da uno spirito acuto dell’epoca, A. G. Brignole
Sale. “Quindi non per altro, a mio giudizio, porta pregio G. sopra il Giovio,
sol che questi, qual pittor gentile, de’ soggetti ch’egli ha per le mani
colorisce agli occhi altrui con vivacissimi ritratti, senza inviscerarsi, la
superficie, quegli per contrario, qual esperto notomista, trascurando anzi
dilacerando la vaghezza della pelle, vien con l’acutezza della sua sagacità
fino a mostrarci il cuore e il cervello de’ famosi personaggi ben penetrato.” All’affiatamento
con lo spirito dell’opera guicciardiniana si accompagnò, sul piano letterario,
una migliore intelligenza del suo stile, di cui si cominciò ad ammirare,
superando le pedanti riserve linguistiche, la scorrevolezza, l’intima misura e
precisione pur nel tono sostenuto. Tuttavia, proprio dal più accreditato
esponente letterario del tacitismo, Boccalini, fu formulato un giudizio tra i
meno benevoli alla Storia.» Il giudizio di Francesco De Sanctis
Copertina di un'antica edizione della Storia d'Italia Sanctis non ebbe simpatia
per G. ed infatti non nascose di apprezzare maggiormente Machiavelli. Nella sua
Storia della letteratura italiana il critico irpino mise in evidenza come G.
fosse, sì, in linea con le aspirazioni di Machiavelli, ma se il secondo agì in
linea con i suoi ideali, il primo invece "non metterebbe un dito a realizzarli".
De Sanctis affirma:“Il dio del G. è il suo particolare.” “Ed è un dio non meno
assorbente che il Dio degli ascetici, o lo stato del Machiavelli.” “Tutti gli
ideali scompaiono.” “Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene
insieme un popolo, è spezzato.” “Non rimane sulla scena del mondo che
l'INDIVIDUO.” “Ciascuno per sé, verso e contro tutti.” “Questo non è più
corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata,
è l'arte della vita”. E poco più in basso aggiunse. “Questa base intellettuale
è quella medesima del Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto
e lo «speculare» o l'osservare. Né altro è il sistema. G. nega tutto quello che
il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che è più
logico e più conseguente. Poiché la base è il mondo com'è, crede un'illusione a
volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di
asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo
istrumento". Nel Romanticismo, la mancanza di evidenti passioni per
l'oggetto dell'opera era infatti vista come un grave difetto, nei confronti sia
del lettore che dell'arte letteraria. A ciò si aggiunga che G. vale più come
analista e filosofo che come scrittore. Lo stile è infatti prolisso, preciso a
prezzo di circonlocuzioni e di perdita del senso generale della narrazione.
"Qualsiasi oggetto egli tocchi, giace già cadavere sul tavolo delle
autopsie". Altre opera: Scritti autobiografici e rari (Laterza), Storie
fiorentine; Discorso di Logrogno, Considerazioni sui Discorsi del Machiavelli, Ricordi
politici e civili Dialogo del Reggimento di Firenze, Storia d'Italia, Scritti sopra
la politica di Clemente VII dopo la battaglia di Pavia (Firenze, Olschki); Le
cose fiorentine, R. Ridolfi, Firenze, Olschki, Carteggi, presso Zanichelli, Bologna; presso Istituto per gli studi di politica, Firenze;
presso Istituto storico italiano, Roma; presso G. Ricci, Roma. "Donna di
grandissimo animo e molto virile", secondo G. (Storie fiorentine). N. Sapegno,
Compendio di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, A. G.
BRIGNOLE-SALE, Tacito abburatato, Genova, «Or chi non vedescriveva il
Tassoniche questo è uno stil maestoso e nobile, quale appunto conviensi alla
grandezza delle cose proposte e alla prudenza politica dell’Istorico che le
tratta? e che non ostante i periodi sien tutti numerosi e sostenuti, per esser
ben collocate le parole fra loro, e però l’ordine, e ’l senso facile e piano in
maniera che ’l lettore non trova scabrosità né intoppi, come nello stil di Villani,
che va saltellando e intoppando a ogni passo etc. A. TASSONI, Pensieri diversi,
Venezia, Il legame del pensiero politico
tassoniano con quello di G. (incluso, a differenza del Machiavelli, tra gli
storici della «prima schiera» con Comines e Giovio, ossia considerato pari agli
antichi; v. Pensieri) e del Machiavelli è noto: i due fiorentini, come dice il
Fassò, furono «i due poli» a cui si volse la sua riflessione politica.
(Introduz. a TASSONI, Opere, Milano-Roma, T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e Pietra
del paragone politico, I, Bari, Binni, I
classici italiani nella storia della critica: Da Dante al Marino, Nuova Italia,
Testi Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze” (Bari, Laterza); “Historia
di Italia, Pisa, Capurro; Historia di Italia. Libri (Venezia, Angelieri): Scritti
autobiografici e rari” (Bari, Laterza); “Scritti politici” (Bari, Laterza); “Storia
d'Italia” (Bari, Laterza); “Storie fiorentine” (Bari, Laterza); Studi R.
Ridolfi, 'Vita', Milano, Rusconi Treves, Il realismo politico, Firenze, R.
Ramat, “La tragedia d'Italia” Firenze, V. De Caprariis, G. Dalla politica alla
storia, Napoli, (ristampa Bologna, G. Sasso, Per G. Quattro studi, Roma, E.
Cutinelli-Rèndina, G., Roma, Famiglia G.. Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Propositioni, overo Considerationi in
materia di cose di Stato, sotto titolo di Avvertimenti, Avvedimenti Civili,
& Concetti Politici di G., Lottini, Sansovini, Venezia, Presso Altobello
Salicato, Opere illustrate da Canestrini, Firenze, Barbera, Bianchi e Comp., (Bari,
Gius. Laterza); biblioteca italiana. Il principe, che colmezo del suo Ambasciatore
vuole ingannar Paltro, deue prima ingannar l'Ambasciatore, perche opera, en
parla con maggior efficaccia, credendo che cosi sia la mente del fuo Principei,
lche non farebbese credesse essere simulatione, eg il medesimo ricordousi ogn'uno,
che permezo d'altrivuoleper Juaderea un'altro il falso. DAL fareò non fare una cosa
che paiaminima, depende ben spejlo momento di cose importantissime, o però nelle
cosepiccole deue fieffere auuertito, ceonsiderato. FÁCIL cosa è guastarsi un bel'esere
dificile al racquistarlo, però chi si truong in buon grado deue fareogni sforzo
di non lasciar selovscirdimano. E' Pazzia sdegnarsi con quelle persone con le quali
per la grandezza loro, tu non puoi sperare di poter uendicarti, però se bena
pare essere ingiuriato da questi, bisogna patire, e simulare NELLE cose di guerra
nasconoda un'hora à vn'altra infinite varietà, però non fide uepigliare troppo animo
dele nuoue prospere, nè uiltà delle auuerse, perche speso nasce qualche mutatione,
ma questo deue insegnare, che a chi se li presenta l'occasione non la perda, perche
dura poco. COME il fine de mercanti è il piu delle volte il fallire; quello de nauiganti
il fom mergere, cofi spesso di chi lungamente gouerna il fine è capitar male
QYESTI ricordi son REGOLE, che in qualche caso particolare che ha diversa LE cose che sono uniuerfalmente desiderate, rare
uolte riescono, la ragione è cheli pochi sono quelli che communemente danno il motto
alle cose, e a li fini, di che sono contrarij al jaigli appetitidi molti TVTTE
le sicurtà che si possono hauere del'inimico son buone, di fede, di amici, di promesse,
ed'altre assicurationi, ma per la mala conditione degli huomini, e variatione de
tempi nissuna altraè migliore, & piu ferma, che accommodarsi in modo, chel'inimico
non habbia poteftà d'offenderti. Nessuna cosa deve desiderare piu l'huomo in questo
modo, nè attribuirlo piu a fua felicità, che uedere l'inimico fuo prostrato in terrae
ridotto a termini tali, che tu l ' habbia a discretione. Ma quanto è felice a
chi accade questo, tanto deve farsi glorioso conl'ofarla laudabilmente, cioè esser
clemente a perdonare, cofa propria degli animi generofi, & eccellenti:
ragione, ragione, hanna eccettione, ma quali fiano quei casi particolari,
si pofono male insegnare altrimenti, chceon la difcrettione. diuèdicarsi dite, non
lo faccia precipitosamente, anzi aspetti il tempo e l'occasione, la quale senza
dubbio liuerrà di forte, che senzas coprirsi maligno, o appasionato, potrà sodisfareal
fuo desiderio. Chi ha da gouernare Città, opopolieli vogliatenercoreti, Sappia che
ordina riamente basta punire i delinquenti aföldiquindici per lira, ma è necessario
punirli tutti, che in effetto si acustigato ogni delitto, ma si può ben far
qualche misericordia, eccetto delli casi atroci, che bisogna dar essempio. Il
ricordo di sopra, bisogna usarlo in modo chel'acquistarno medinoneser bene.
fattore, nonfaccia, chegl'huomini fugghino, & a questo si prouedefacilmente,
con beneficiar n feuor della REGOLA qualch’ono, perche naturalmente ha tanta si
g noria negl’huomini LA SPERANZA che piuti valerà presso agl’altri, & piu essempio
favno che tu haba bia beneficiato, che cento che non habbino datehauutor emuneratione.
S. Auuertimenti di ingengnate vi di non venire in mal concetto appresso di chi è
superiore nella patria vostra, ne uifidate del buon gouerno del uiuer nostro, che
sia tale, che non pensiate d'hauerglia capitar nelle mani; per che nascono infiniti,
e non pensati casi di hauer bisogno di lui, è conuerso il Superiore se ha voglia
di punire. Tutti gli huomini sono buoni, cioe doue non cauano piacere o utilità
del male, piace piu loro il ben che il male: ma sono varie le corruttele del
mondo e fragilità loro; & spesso perl'interesse proprio inclinano al male. Però
da faui Legislatorifie per fondamento delle Republiche trovato il premio e la pena,
non per violentare gli huomini, ma per che seguiti ng l’inclinatione naturale. Piu
tengono a memoria gl'huomini l'ingiuria, che i beneficij riceuuti, anzi quando pure
si ricordano dei benefici, lo fanno nell’imagine sua minore, che non furiputun
dosimeritar piu che non meritano. Il contrario si fa dell'ingiuria, che duolead
ogniuno E 'laudato appresso gl'antichi ,& è verissimo prouerbio: Magistratus
virumostédit, perche con questo paragone non solo si conosce per il peso che siba,
sel'huomo è d'assai o da poco, ma per lapoteftà, e licenza si scuoprono le affettioni
dell'animo, cioè di che natural'huomo fia, perche quanto altrui è piu grande tanto
manco freno, e rispetto ha ala sciarsi guidare da quel chegl'è naturale. SE li Scrittori
fufero discreti, o gratisarebbe honesto, e debito, che li padroni li beneficiassero
quanto potesero, ma perche sono il piu delle volte d'altr anatura, e quando
fono pieni, o li lasciano, ò li straccano, però è piu vtile andare con loro con
la mano stretta, e trattenendoli con SPERANZA, darloro di effetti tanto che bastia
fare che non si di Sperino. piu, che ragione nol mente non doveria dolere, però
douegl'altri termini. forpara guardate uidi far quelli piaceri, che di necessità
fanno ad un altro dispiacere vguale, perche per la ragione detta di sopra, si perde
in grosso, piu chen on si guadagna., perche per esperienza si vede che gli huomini
non son grati, però nel fare i calcoli tuoi, òneldi segnar disponer degli huomini
fa maggior fondamento in chi ne consegue vtilità, che in chi s’ha da muouer folo
per rimunerarti, perche in effetto i beneficij si dimenticano. che procede da
bron’animo, fi vede, che pur tal volta è remunerato qualche beneficio, e anche spesso
di forte, che ne paga molti, & è credibile che aquella potestà ch'èso pragli
buomini piaccino l'ationinobili, e però non consenta che sia no senza frutto: Ingegnate
vid’hauere degli amici, perche son buoni in tempi, luo ghie casi, che voi non pensarete,
e questo ricordo ben che vulgato, non lo può considerare profondamente quanto vaglia,
achinon è accaduto in qualche fua importanza fen tirne l'esperienza: PIACE
vniuersalmente, chi è dinatara vera e liberă, & è cosa generosa, ma
talvolta nuoce. Ma dall'altro canto, la simulatione è vtile ,ma'è odiata, G
hadelbrut the è necessaria per le male nature de glialtri, però non sò quale si
debba eleggere, Credo però, che si possa vsare l'onaordinariamente, senza abbandonarl'altra,
cioè nel corsotuo ordinario comume vjarla prima in modo, che acquisti no medi
persona libera, non dimeno in certi casi importanti potrai sare la simulatione,
la quale à chi vi ue così è tanto piu vtile, e si crede meglio quanto per bauernome
del contrario, tiè facilmente creduto E INCREDIBILE quanto giouia chi ha amministratione,
che le cose sue fieno segrete, perche non solo i disegni suo qiuando sifanno, possono
eser prenenuti, e interrotti, ma ancora l'ignorare i suoi pensieri, fa che gl'huomini
fanno sempre attoniti. Piu fondamento potete fare invnoc'habbia bisogno divoi, oc'habbia
in qua! Che caso l'interese commune che in vnoc'habbia riceuuto daboi beneficio.
Ho posto i ricordi di sopra, perche sappiate viuere, e riconosciate quelche le cose
possono, non accio che viritiriate dal beneficiare, perche oltreche è cosa generosa,
en PER Le cagioni di sopra, non laudo chi viue sempre con simulatione, &
con arte, mascufo benechi qualche voltal'vja.
$1A certo che se tu desideri, che non si sappia che hai fatto, ò tentato
qualche cosa, che è sempre a proposito il negarla. Perche ancora che il contrario
sia quas iscoperto & publico, tutta uia negandola efficacemente, sebene non
lo persuadia chi hai ndi tij, o crede il contrario, non dimeno per la negatione
gagliardasegli mette il ceruello à partito. A 3 e sospetti, e fofpetti,
aoßeruare le sue attioni. Ed'ogni fuominimo moto, si fannomille commente
ti,& interpretationi, il che glidà gran riputatione, però chi è in tal gradodo
uerebbe auezzare i suoi ministri non solo à tacere le cose che mai sifappino, ma
ancor tutte quel le che non è ptilechesi publichino. Ancora quelli che attribuendo
tutto alla prudenza, o virtů, s'ingegnano escludere la fortunna, o n possono
negare, che non si agrandissi ma forte nascere d quel tempo, o abbattersi a
quelle occasioni, che sienoin prezzo quelle parti,o pirtùinchę tu vali . NON
voglio già ritirar quelli che infiammati dall'amore delta Patriasi metto Ho a
pericolo per rimetterla in libertà, e liberarla da Tiranni; ma dico bene, che
chi cerca mutatione distato per suo intereffe non è sauio, perche è cofa pericolosa,
eli vede cõeffettiche pochissimi trattati sono qui che riescano, e poi quando bene
è successo, fide e quasisempre che nella mutatione tu no conseguisci di gran
lunga quel che tu hai disegnato, & in oltre ti oblighià vno perpetuo trauaglio,
perche sempre tu hai da dubitare, non tornino quelli, che tu hai fcacciatijeti vecidino.
Chi pur puo leattendere'atratati,si ricordi, che nefunacosa lirouinapiucheit
desiderio di volerli condurre troppo fieuri, perchéchi vuolfarperinter ponere
manco tē po, implica piu huomini, e mescola piu cose, dalla qual causa si scopronosempre
fimili pratiche. Et anco è da credere che la fortuna, sotto l'animo di chi son
qoueste cose si j de gniconchi vuolliberarsi dalla potestà fua & asicurarsi,
però è piu sécuro volerli esem quire con qualche pericolo, che controppasicurta.
Non disegnates ù quello, che non hauete, nè spendete fuli guadagni futuri;
perche molte volte non fuccedono, eti troui inuiluppato, & si vede il piu dele
volte, che li mercanti groffifalliscono per quefto, quando per SPERANZA d'vin maggior
guadagno futuro, entrano suo cambi; la moltiplicatione de quali è certa, &
ha tempo determinato, ma li guadagni molte volte,o non nengono, o fiallungano piu
che ildia. Osserva I quando ere Ambasciatore in Ispagna appresso il Re Ferdinan
do d'Aragona Principefauio, & glorioso, che egli quando voleua fare una guerra,
impresa nuoua, ò altra cosa d'importanza, non prima lap ublicaua, e poi la giustificaua,
ma per il contrario vsaua arte che innāzi s'intendesse quellocʻbaueuain animo, er
fi diuulgana il Re douerebbe per letali cagionifar questo in modo, che doppo publicandosi
quelche già pareuagiufto ad ogni unoo necesario, è incredibile con quanta lände
erano riceuute le fue deliberationi. Rcon vi affaticatea quelle mutationi che non
parteris con oaltro, she mutarei viside gl’huomini: perche che beneficio ti recafe
quel medesimo male, o dispeto che ti faccia Pietro ti faccia Giovanni? Jegne,
Tegno, di modo, che quella impresa che tu haueni cominciata come vtile, tiriescedania
nofiffima SE hauete falit openfate la bene, e misurate la bene, tananzi che entriate
inprigio ne perche ancorach'il cafo fusse molto dificile a scoprire, tamen è incredibile,
a quante cose pensa il giudice diligente e desideroso di trovare la verità ,&
ogni minimo spiras glio è bastante a far uenire tutto a luce, o fa tiche. Ma
quelchela fa forse desiderabile ancora all'anime purgate, è l'appetito che
s'had'essere fuperiore agl'altrihuomini, il che è certo. cafa bella &
beata, attesomaffia me ch’innessuna altra cosa ci pesamo assomigliare a Dio
denti subiti de repentini, cosa che agiudiciomio è rarissima pericoli ,&
mai la medesima ragione fa, che quanto piul'huomo inuecchia, tanto pingli per fatica
il morire, e sempre piu conleattioni, e con li penfieri viue, comes ejapesenon ha
weremaia morire. SI CREDE, & anco spesso fe uede per esperienza che le
ricchezz emale acquistate, non passano la terza generatione. Sant'Agoftino dice,
che Dio permette, che chi l'haacquistate goda in rimuneratione di qualche bene,
che ha fatto in vita, ma poi non passano troppo innanzi, perche è giudicio di Dio
ordinariamente, che cosi nada di male larob amale acquistata. Iodiligiàadun Padre,
che ameoccor reua un'altra ragione, perche chi ha acquistata la roba, è communemente
allenato dapouero, l'amascsal'arte di conferuarla, ma i figliuoli che sono nati
& allcuatida ho desiderato come glialtri huomini l'honore & l'otile, &
infinquiper gram tia di Dio è fucceduto sopra il disegno, e nondimeno quando ho
conseguito quelche desiderauo, non uiho ritronato dentro alcuna di quelle cose che
mi haueuo imaginato, ragione, à chi ben la considerasse, che doueri abastare ad
eftinguere affai la fete degli huomini. La grandezza di ftato vniuersalmente è desiderata,
per che tuto il bene ch'èin Jei-apparisce difuori, il male stà dentro occulto, il
quale chinedesse non ebarebbe forse tant anoglia, perche è pienasenza dubbio di
pericoli, di sospetto di mille trauagli. Le cose non prenedute, nuocono senza comaratione
pisa, che le prouifte; però chiama moio animo grande e perito, quelo che regge,
e non si sbigotisce porili Non è dubbio,
che quanto piu l'huomo inuecchia, piu cresce l'auaritia. Si dice communemente esserne
causà, perche l'animo diminuisce, ragione, che amenon è capace, perche è bene ignorante
quel uecchio, che non conosce hauerne minor bisogno, quan ldpiu inuecchia, &
inoltre ueggo, che ne'uecchi s'augmenta per il cotrario la lusuri dico l'apetito
e non la forza la crudeltà, egl'altriuitij però credo, che la ragion ue-:
safia, che quanto piu si uiue, tanto piu l'huom os'habitua alle cose del mondo
o per consequente piu l'amaricchi, A 4 ricchi, non sanno che cosa
sij l'acquistar roba , & non hauendo arte, ò modo di conservarla facilmente
la disipano. Non fi può biasimare l'apetito di hauer figliuoli, perche è naturale:
ma dico bene, che è fpecie di felicità non hauorne, perche etiandio chi gli ha buoni,
e saur,' perdita ditenpošle quali cosesono tenute male neli nostri giudicij, che
l’impossibile, chel'huomo se bene è d'ottimo ingegno, e giudicion a turale posa
aggiugnère s& bene intendere certi particolari, però è necessaria le sperienza,
la qual non altro gli insegna, e questo ricordo lo intenderà meglio, chi ha
maneggiato facende assai, perche con le sperienza medesima ha imparato quantovan
glia, e sia buona l'esperienza. Stretto non toglie à nessuno, pinsono quelli che
patiscono del le grauezze del prodigo, che quelli che hanno beneficio della fica
larghezza: La ragione dunque al mio giudicio è, che neglihuomini puo piu la
SPERANZA che il timore, et piu Sono quelli che ferono coseguire qualche cosa dalui,
che qui, che temono essere oppressi. Auuertimenti di senza dubbi omolto piu
dispiacere di loro, che cosolatione. L'esempio l'ho veduto in mio Padre, che a suoi
dì era essempio a Firenze di padre ben dotato di figliuoti, però pensa
secomestia, chi gli ha di mala forte. Piace senza dubbio piu vn Principe c'habbia
de lprodigo, chevnoo’habbia dello stretto, ő tamendo uer ebbe essere il contrario
perche il prodigo è neceßitato fa reestorsioni, Grapine, lo sha messia sua volontà,
& afuo beneplacito, perche la legge non gli ha voluto dar poteftà di farne gratia,
ma non potendo nei casi particolari, per la varietà delle circostanze darne precisa
determinarione,si rimette all'arbitrio del giudice,cioè alla sua conscienza, che
considerato il tutto, faccia quelche glipare piu giusto, & bonefo, &
chi altija menti l'intendesse, s'inganna, perche la forza della legge lo affolue
di hauerne a dar conto, perche non hauendo il caso determinato, si può sempre scusare,
ma non gli dàf a caltàdi far dono della roba d'altri. Si ved per esperienza, che
i padroni tengono poco conto de seruitori, e per ogn si ua commodità, &
appetito gli mettono da parte. Tolaudoque seruitori, che pigliando essempio da
padroni, tengono più conto dele interesi suoi, che di loro, il che però
consiglio che si faccia, salvando sempre l'honore e la fede. Erra chi crede che
li casi, che la leggerí mette ad arbitrio del giudice, fienorin. Non biasimo interamente
la giustitia ciuile del Turco, che è piu tosto precipitosa, che fommaria: perche
chi giudica a occhi chi usi ragionevolmente, spedisce la meta delle cause giustamente,
e liberale parti daspese, & spesso farebbe piu per chi ha ragione ha uere hauuto
da prima la sentenza contra, che conseguirla doppo tanto difpendio, do ti trauagli,
senza che à per malignità, o per ignoranza delli giudici;ó ancora per oflervanza
delle leggi si fa del bianconero. L’in deui offeruare questa opinione, etiamcon
qualche tua incommodità, & in questo s'ingannano spesso gli huomini, perche
si muovondo a qualche poco di danno, che apparisce, & non confiderano quanto
siano grandi i beni, che non si veggono, perche i sudditi non veggono, e non misurano
appunto quelche tu puoi fare, anzi imaginando si molte voltela potestà tua maggiore,
che non è, credono a quelle cose che tu non li potresti costringerė. Sono
alcuni huomini saui a sperare quello che desiderano, altri che ma i lo crea
dono, in fin, che non neson obensicuri, & senza dubbio piuv tileè sperare in
simili casi poco, che molto, perche la SPERANZA ti fa mancare di diligenza, e
ti dà piu dispiacere, quando la cosa non succede. Quanto bendisse colui. Ducunt
volente sfatano lentestrahunt, se ne veg gono ogni dìtante esperienze, che a me
non pare, che mai cosa alcuna sia icelj imeglio. Saui, che si devgeodere il
beneficio del tempo. L’intendersi bene con li frateli, e con li parenti, fa infiniti
beni, che tu non conosci, perche non appariscono advi per vno, ma infinite cose
ti profitta, fatti hauere in rispetto, però altrimenti è impossibile che lungamente
sia tenuto buono. Chi non sicura d'essere
buono, ma desidera buona fama, bisogna che sia buono. Fuigid d'opinione dinonvedereetiam
col pensare assai, quelche non vedeuo presto: ma conl'esperienza ho conosciuto esere
falsissimo, però fáteuibefe di chi di ce altrimenti. Quanto piu si pensano le cose,
tanto meglio s'intendono, á si fanno: Quando ti verrà occasione di cosa che tu desideri
pigliala senza perdere tempo, perche le cose del mondo si variano tanto spello,
che non si può dire di hauer cofa alcuña, finche non si a in mano. Et quando ti
è proposta qualchecosa che ti dispiace, cerca il diferirla piu che tu puoi, perche
ogni borasi vede che il tempo porta accidenti, che ti cauano di queste difficoltà,
& così s’ha da intendere quel prouerbio, che dicono i ILTIRANNO faestrema diligenza
di scoprire l'anitzetio, ciodseti con tentidel tuostato, consider agliandamenti
Ünnodituoi, concetičaredritesdiertocat chi chi ha autorità, & signoria puo fpingersi,
&flenderla ancora sopra le forze sue. Se tu vuoi conoscere quali fieno i pensieri
de Tiranni, legi CORNELIO TACITO (si veda), quan do fa mentione degloltimi ragionamenti
c'hebbe OTTAVIANO con TIBERIO. Il medesimo CORNELIO TACITO achibenlo considera,
insegnaper eccellenza come s'ha da gouernarechi vine sotto a un tiranno.
Thì CONVERSA teco, e con ragionarte co di varie cofe, & ponerti
domandarti partiti, & parere, però se non vuoi che t'intenda, bisogna che ti
guardi congrandissima diligenza, da mezzi che egli vsa, non vsartermir: A chi
ha conditione nella Patria, efiafotoon Tiranno fanguinofo & beftia le, si posjondare
poche REGOLE, chseieno buone, eccettoiltorso l'esilio M.a quando il Tifanno, o per
prudenza, ò per necessità del suo stato si gouerna con sospetto, on’huomo ben qualificato
deue cercare di essere tenuto da affai, & animoso, ma di natura quieto, nè cupido
d'alteraresenon è sforzato, perche in tal caso il Tiranno ti accarezza, e cerca
dinondarti caufa di farnouità, il che non fariaseti conoscesse in quieto, perche
all’hora pensa in ogni modo che tu non sia perftarefermo, onde è neceffitato pensare
sempreťoccasione di spegnesti. Secondo il termine di sopra,è meglio non esere de
li piu intimie confidenti del Tiranno, perche non solo ti accarezza, ma in molte
cose, famanco asicurtàte co, che conli suoi, cosìtugodilasua grandezza, &
nella rouina sua diuenti grande, ma di questo ricordo non se ne può valere chi non
ha conditione grande nella sua patria. E differenza dhauereli fudditi disperati,
ad hanerli malcontenti, perche quelinon pensa no mai ad altro, che a mutatione di
stato, e la cercano etiam con suo pericolo, questi sébenenon si contentano, e desiderano
cose nuouteamennoninui tanole occasioni, ma aspettano che da seuenghino. Non
posono gouernare i suditi bene senza le uerità, perche la malignità de gli buomini
cerca cosim, asiuvolemescolar destrezza, & fardimostratione, accioche
glihuominicredano,chelacrudeltànon piace,ma che l'usiper necessità, esalute
publica. Si doverij atenderealiefet, inonaledimostrationi,esuperficie,e
nondimancodincredibilequantagratia, cöfauoveticöcilino appresoglihuominileca
rezze, etlahumanitàdiparole. lragionecredochesia, percheogniunosistima,
parmeritarepiuchenonuale, eperòsisdegna',quandonede, chetunontieniquel
contodilui, chegliparechesegliconuenga. Auuertimenti di
chebabbinoadarsospetto, guardandoco meparli, etiamconlintimi tuoi, e
secoragionando, & rispondendodiforte, chenonti poljacauare, i!chetiriuscirà,
setipresupponisempre quel'obbietto, cheegliquanto puoticirconuieneperscoprirti.
E cosa honoreuoleà un'huomonon prometteresenonquellocheuuoleoffer nare,ma
communemente tuttiquelligachituneghi,á giustamente, reftanomalfodif fatti, percheglihuomininon
Jilalanogouernaredallaragione: Il contrariointra uiénea chi promette,percheintrauengonomolticasi,chefannochenonaccadefare
l'esperienza diquello, chetuhaipromello, &
cosihaisodisfattoconlamēteyetsepure s'hadauenireal'atononmancano Spedoscuse, emoltisonofigrofli,
chesilasciano aggirare con parole, nondimeno è fibruttomancareallaparolafua, chequestopre
pondera ogni utilità chesitraggadalcontrario,& peròl'huomosideueingegnaredi
trattenersiquantopuoconrisposte generali, &pienedibuona SPERANZA, manondifor
techetioblighinoprecisamente. percheèpaz giafarsinimico senzaproposito,&
ueloricordo,perchequafiogniunoerrainque ftaleggerezza. Chi entrane' pericolisenza
confiderarequel chepossono,oimportino, fichiama bestiale, maanimosoèquellocheconoscendoipericoliuientrafrancamente,operne
cefftà,operhonoreuolcagione. ranno . mad ti ipopoli, Credono molti, cheunfauio,percheuedetutiipericoli,nonpossaesserea
nimoso: 10sonodicontraria opinione,chenonpossaesseresauiochinonèanimoso, per
che manca di giudicio, chi stima a d auuenire il pericolo, piuc he non si deve,
ma per auuentura questopaso, cheèconfuso, deuesiconsiderare,chenontuttiipericolihan
no effetto, perchealcunineschifal'humo coladiligêza, etindustria, etfrächezzasua,
altriil caso iftesoetmille accidētichenasconoportanouia, peròchiconoscospericoli,no
lideue metteretuttiad entrata, & presupponerechetuttisuccedano,m a
discorrerecon prudenza quelchealtruipuò sperared'aiutarsi, edoueil casoverisimilmenteglipuò
farfauore,farsianimo,nèritirarsidall’impresedirili,&
honoreuoliperpauradituttii pericolicheconosceessernelcaso. Erra chidice che le lettere
e gli studij guaftano ilcervellodegli huomini, perche forseè veroachil'hadebole,
ma doueleletteretrouanoilnaturalebuono,lo fannoperfetto, percheilbuonnaturale congiuntocoʻlbuonoaccidentalefannobuonif
Jima compositione. Livi E sen a comparatione piudetestabileinvn Principe l'avaritia,cheinun
priuato, nonsoloperchehauendopiúfacultà dadiftribuire, priuaglihuominitantopiù:
maetiamperchequellochehavnpriuatoètuttofuo,&perusofuo,& nepuòsenze
giufta querel ad'alcunodisponere,matuttoquellochehailPrincipe,glièdatopervalós
& beneficiod'altri, &peròritenendoloinfe, fraudaglihuominidiquelchedeueloro.Guardate
vI da tutto quellocheuipuonuocereenongiouare,però inpresenzad'altri, nonditemaisenzanecessitàcose,
chedispiaccino, Non furonotrouatii Principipe rfarbeneficioaloro,perchenessunofefareb
bemessoinseruitùgrauiffima,ma perinteresedepopoli, perchefuserobenegouernati,
peròcomeonPrincipehapiurispettoafe,cheaipopoli,nonèpiu Principe Dico che il Principe
chefamercantia,questononsolofacosavergognosa,maè Tiranno, facendo quelloche èoficiodepriuati,
enonde Principi,& peccatantoverfa Auuertimenti di ipopoli, quantopeccherienoipopoliversolui,volendointromettersiinquel
che è oficio solo del Principe. Le cosedelmondosonovarie, edipendonodatanticasi,&
accidenti,chedifficilmē tesipuofargiudiciodelfuturo,&
sivedeperesperienza,chequasisemprele conietture de sanij sono fallaci, però non
laudo il consiglio di quelli che lasciano la commodità d'onben presente, ben che
minore, per paura d'on mal futuro, benche maggiore, se non èmoltopropinquo,etmoltocerto,peichenon
succedendo poispessoquello dichete
meui,titrouipervnapauravanahauerlasciatoquellochetipiaceua,& peròèfauio
quelprouerbio. Dicosanascecosa. Nelle cose dello stato ho vedutospessoerrarechifagiudicio,
percheesamina quello che ragione uolmentedouerebbfearquestoequelPrincipe,etnoconsideraquel
lochefarà,verbigratiail RediFrancia,perchedeuehauerpiurispeto,qualsialana
tura& costumidonFrancese,cheàquellodouerebbefarciascun Principe,prudente,
faggio,& giusto. Ho detto molte volte,
etlodicodinuouo, ch’oningegnocapace, & chesappia
farecapitaledeltempo,nonhacausadilamentarsi,chelauitasiabreue,perchepuò
attendereadinfinitecose,& spendereytilmenteiltempo,gliauanzatempo. Non
èfaciletrouarequestiricordi,maèpiudificileesequirli,perchespesso
l'huomoconosce, manonmetteinatto, peròvolendovsarlisforzatelanatura,e fate
niunbuonhabito,colmezodelquale,nonfolofaretequesti,maancoraviverràfatto
senzafatica, tuttoquellochevicomandalaragione.
sottol'Imperio,cheTiberiohuomotiranno,& superbohaueuaesofa
tantadappocagine. SE hauetemalasatisfattione d'ono,ingegnateuiquantopotete,chenonsen'accor
ga, perche subitofialienaràdavoi, & vengonomoltitempi, &
occafionichevipollo noferuire,
viseruirebbe,secoldimostrared'haverloinmalconcetto, nonvelbauesti giocato,e
ioconmiavtilitàn'hofattol'esperienza,cheinqualchetempohohauuto
malanimoversod'ono,chenonaccorgendosenem'hapožinqualcheoccasionegiouato, com'è
statoamico. L'AM . Non simarauigliardd ell'animobasoeseruiledemoltipopolichileggerain
CORNELIO TACITO che li ROMANI solitiàdominareil mondo& viuereintantagloria,
ferui uanosivilmente. Chi vuoletrauagliare, nonsilascicanaredi possessionedellefacende,
perchedal l'onanascel'altra,siperl'aditochedàlaprimacaufaalaseconda,comeperlariputa
tionechetiportailtrouartiinnegotio ,& peròsipuo.ancoaquestoadattareilprouer
bio:Di cosa nasce cosa. 1 1 & nefas,como ècausad'infinitimali. Peròveggiamocheli
Signori fimilichehannoquestoobiet to,nonhannofrenoalcuna,o
fannounpianodellaroba, & vitadeglialtri, purche,
cosigliconfortiilrispettodelasuagrandezza.
similimodi,hapiulungotrattocheprimanons'haveb becreduto, comeancoraintrauieneadvnoche
muored'eticooditisico,chelasuavi tasempresiprolungaoltra l'opinionechehanno hauutoimedici,colivnmercăteinan
zichefalisca, pereserecõsumatodagliinteresifireggepiutēpo,cbenöeracreduto. M'e
parfasempredificilea credere, che Diobabbiaapermettere, chelifigliuoli del Duca
Lodovico, habbinoagoderquellostato, quandoioconsidero,cheilpadresuo
l'havfurpatofceleratamente,é pervfurparloèstato causadellarouina, seruity d'ITALIA
editantitrauagliseguitiintutta Christianità, a questichelibiasimama
nosonopazzi, perchestarebbefrescala Città,cóloro,seiltirannononhauesseattor
noaltrichetristi. L'ambitione dell'honore, edellagloriaèlaudabile,&
vtilealmondo, perchedacaujaagl’huominidipēsareefarecosegenerose,&ecelse. Nonècosiquel
la delagrandezza, perchechilapigliaperidolo,vuolhauerlaperfas, L'imprese e
cose, chehannodaaccaderenon perimpeto,maperchepri
masiconsumano,vannoassaipiuinlungo,chenonsicredeuadaprincipio,perchegli
huominisiostinanoapatire, apatiscono, lopportanomoltopiu,chenonsisarebbe
creduto. Perùveggiamo, ch'unaguerraches'babbiaa finireperfame,perl'incomodi
tà,per mancamēto didanari,& Favev1beffediquestichepredicano
lalibertà,nondicoditutiman’ec cettuobenpochi, percheogniunodiquestitali,chesperasjehauerepiubeneinvnosta
tostreto,cheinunlibero, vicorrerebbeperleposte,perchequasituttipostponeran
noilrispeto del'intereseloro,esonpochifimiquelicheconoscono quanto vagliala
gloria& l'honore. gottirti, e
coltenereilcapofranconontilassareleuarefacilmente. . Chi conuerfacongrandinonfilafcileuara cauallodacarezzeedimostrationi
fuperficiali, conlequaliefefannocommunementebalzarglihuominicomevogliono,
@affogarlinelfauore. Etq uantoquestoè piu dificile adifendersitantopiudeuesbir
Non potetehauermigliorparte, chetenerecontodell'honore,perchechifaque
ftonontemei pericoli, nefamaicosachesiabrutta, perotenetefermoquestocapo, ú
faraquasiimpossibile, chetuttononvisucceda.bene,expertusloquor. Dico
cheunbuoncittadino,& amatoredella patria, nonfolodeuetrattenersi
coltirrannopersuasicurtà, percheèinpericoloquandoèhauutoinsospeto,maanco
taperbeneficiodelapatria, perchegouernandosicosi,glivieneoccasioneconconsigli,
& conoperedifauoriremoltibuoni, edisfauoriremoltimali Lav
städodimezzotusemprerilieuietuincachisiuoglia. La natura depopoliècomequelladepriuati,
diuoleresempreaugumentaredel
gradoinchesitrouano,peròèprudenzanegareloroleprimecose,chedomandono,per
checoncedendononlifermi, anzigliinuitiadomandarpiu,& conmaggiorinstanza,
chenonfaceuonoda principio,perchecol.darlispessodaberesegliaccresce lasete.
Osservate con diligenza lecosedetempipassati,perchefannolumealle future, cumsitcheilmondofiasempred'unamedesimaforte,&
chetuttoquellocheè, sarà,èstatoinaltro tempo, perchelemedesimecoseritornano,mafotodiuerfinomiz
&
colori,peròogniunononleconosce,masolochièsauio,eleconsideradiligentemente.
LXXXV. SE Oferuatebene, trouateched'etàinetàsimutanononsolamenteiuocaboli,
modideluejlire,eticostumi,maancoraquelcheèpiui gustiel'inclinationidell'arme,
& questadiuersitàsivedeetiaminuntempomedesimodipaeseinpaese,douenonso
loèdiuersità delleinftrutioni,maancoradegustidecibiedegliappetitiuarijdegli huo
mini. Lamětepericolo dellauittoria,ma Auuertimenti di i .Laudo
chinelleguerred'altristaneutrale,chièpotentediforte,hatalconsi
derationedistato, chenonhadatemereiluincitore, perchefuggeilpericolo,elaspesa,
ela Stracchezza, didisordinid'altripossonoparartiqualchebuonaoccasione:fuordi
questiterminilaneutralitàèunapazzia,percheattacãdoticonunadelleparticorriso 9 4
1 Senza dubbiohamigliortempoinquestomondo,piulungavita,esipuochia
mareinuncertomodofelice, chièd'ingegnopiubasso,chequestiintellettieleuati,pero
chel'ingegnonobile,seruepiutostoatrauaglio,&
cruciatodiehil'ha,nondimenol’uno participapiudell'animalbruttoched'huomo, l'altrotrascendeilgradodell'huomo,
s'accostapiuallenature celesti. Inanzi a
nelqualtempol'ambitione,&cecita del Duca
Ludouicoaperselauiaallarouinad'Italia,eranocome ogn'unosaimodidels la
guerramoltodiuersidaquestiloppugnationedellecittà,leuccisioni,iconflitid'ale
traforte,& quasisenzafangueinmodochechihaueuaunostatodifficilmenteglipote
wa effertolto, dipoifiridusse,chechierapadronedellacampagna,haueuauinta laguer
ra, comeinunmomento,s e eranodueesercitiincampagna siueniuainuntrattoale
lagiornata,& eradatalasentêzadela guerra,cosiuedemosenzaromperelanciaper
dersiilRegnodi Napoli,il Ducatodi Milano,econlafortunad'unsologiocarsitutto
lostato deVenetiani.Hoggi il Signor Profpero primo ha dimostrato diuerfo modo
di guerra, checolmettersinelleterrehafoggiogatol'impetodichierapadronedellacamo
pagna, ma non riuscirebbe bene questo, a chi non hauesse dispositione de popoli
fauor e wole, cornehahauutoegliquelladi Milano contra Francesi. Le
medesimeimpresechefattefuorditempo, Sonoštatedificiliseme, òimpoffibile, 1
quando quandosonoaccompagnatedaltempoe dall'occasionesonofacilißime,perònonsiuuo
letentarleattrimenti, perchesetuletentifuor deltemposuo,nonsolonontifuccedono,
maportipericolo, checonl'hauerletentatenonleguastiperqueltempo,chefacilmen
tefarebbonoriuscite,peròsonotenutisauijipatienti. Non ègrancosa,ch'ungouernatorevsandospesoaffrezza,òefetidifeuerità,
sifacciatemere,percheisudditihanno facilmentepauradichilipuosforzare,erouinare,
& viene facilmente all'esecutione, ma laudo io quelli governatori, che con
far poche affrezge, et esecutioni, fannoacquistarsi, &
conferuarnomediterribili. Ricordate vi di quello che altre volte ho detto di questi
ricordi scheno s'hanno ad osseruaresempreindistintamente, mainqualchecasoparticolare,
cheara gionediuerfanonsonobuoni,& quali sieno questi casi,nonsipuocomprendereconrego
laalcuna, nesitroualibrochel'insegni, maènecessario chequestolumetelodiaprima
lanatura, & poil'esperienza. ... .
cu i diseonpopolo, diseveramenteunpazzo, percheeglièunmoftropienodi
tonfusione;ó d'errore,perchelesueopinionisonotantolontandeallauerità,quanto
secondoTolomeo,la Spagna dall'India. Come A miogiudicioinnesjungrado, òantoritàsiricercapiuprudenza,&
qualitàec cellente, cheinvn Capitanod'onoesercito, perchesonoinfinitequellecose,a
cheproue deré,& comandaresinfinitiaccidenti, etcasivarijsched'horainhoraseglipresentano,
inmodocheperamente bisognachehabbiapiuocchid'Argo,e nonsoloperl'importa zafua, maperlaprudenza,
chelibisognareputoinognialtropeso niente. Edifferenzaadesereanimoso,&nonfuggireipericoliperrispetodel'bonore,Psta
noel'altroconosceipericoli,ma quelloseconfidapoterfenedifendere,efenonfusseque
staconfidēzanõgliaspetarebe, questopuoeferschetemapiudeldebitoznèsiafaldo,
perchenonhabbiapaura, maperchesirisolueavolerpintosto ildãnocbe lauergogna. Ho
osseruatowe' mieigouerni, chequandomièvenutainanzivna causa, cheho hauutoper
qualchegiustorispettodesiderio d'accordarla,nonhoparlatod'accordo,ma
folmetterevariedilationi,& ftrachezzehofattochelemedesime partilhannoricer
cato, cosiquello,chesenelprincipioiol'haueßiproposto,sariastatoributtato,s'eridotto
intermine, chequandoèvenuto iltemposuo,ionesonostatopregato. Non
,chechitieneglistatinonsianecessitato,metterlemaninelsangue,madi
cobenechenonsidevefarsenzagranneceßità,& cheilpiydellevolteseneperde,
piuchenonseneacquista,perchenon solos'offendequellichesonotocchi, ma ancorasa
dispiaceall'vniuerfaledeglialtri,efebenetuleuiquelloinimico,oquelloostacola,non
perosenespegneilseme,cumsitscheinluogodiquellosott'entranodeglialtri,&
fpeffo intrauiene,comesidicedell'hidra; cheperognunojnenafcesette. Non possoio,
nesofarmibello, nedarmiriputationediquellecose,cheinperin tànonsonocosi,&
tamenfariapiuvtilefareilcontrario,percheèincredibilequanto giouilariputatione,e
opinionechehannoglihuomini,chetusiagrande. Conquestoru
moresoloticorronodietro,senzachetun'habbiavenireacimento. che
ilpadrone,eproportionatamenteil superiore li sudditi, perche nonsipresentaianzialuitali
qualisipresentanoagl'altri, anzicercanocoprirsialui, &
parered'altrafortecheinverononsono. ,e pericoli, qualfortehabbiapiuadesiderareuna
Città, òdicaderenel gouernod'vno,òdimolti,odipochi. p e r c h e d'hora in hora
nascono occasioni, che egli commette a chi vede, ò a chi gli è piu e propinquo,
che seti hauesse a cercareòaspettarenontisicommetterebbe, e chi perdevnprincipiobenche
piccolo,per despessol'introduttione,e aditaarosegrandi.
fawpusēruitorichefannoilmedesimoversoipa droni,non facendo peracosachesia contralafede,
l'honore. Auvertimenti di Com Ecoluic'haagiutato, òeftatacaufa, cheunosalgainungrado,louuolgouer
nareinquelgrado,giàcominciaa căcellareilbeneficio,chegliha fato,volēdousarper
se,quelcheprimahaoperato,chesiadiquell'altro,eglihagiustacausadinon.com
portarlo,neperquestomerita eserechiamatoingrato. Ron s'atribuiscaalaudedifa, òchinonfaquellecose,
lequalifepotefse,ofa cesjemeriteriabiasimo".DICE
ilprouerbioCastigliano,ilfilsirompedallatopiudebole,semprechepensi venire in
concorrenza è compa ratione di chi è piu potente o rispettato, piu succumbe il
piudebole,nonostante, chelaragione èl'honestà,òlagratitudinevolesseilcontrario,
perchecommunemente;s'hapiurispetoal'interese,chealdebito: Niuno conoscepeggioliferuitorisuoi
velodicodinuouo, lipadronifannopococontodeseruitori,&
perogniinteresse listrascinanosenzarispeto,perosono. Tu chéstaiincortë,&
seguitiongrande, edesideriessereadoperatodaluiinfa cende, ingegnatidiStarlituttaniadinanzia
gl'occhi, pome Concordano -tutieferemeglioreloftatod'vnoquandoèbuono, ibedi
pochiedimolti,o buoni,eleragionisonomanifeste,cosiconcludono,chequellod'ono
piufacilmentedibuonodiuentacattiuo, chegl'altri, & quando ècattivoèpeggioredi
tutti,tantopiuquandovaperfiuèceffione,percheradevolteadunpadrebuono fa uio, succedeunfigliuolosimile.
Perovorreichequestipoliticim'haueJerodichiarato,
consideratetutequesteconditioni Chi
siconoscehauerebuonaforte,puotentarl'impreseconmaggioranimo,maè da auuertire
che la forte non solo pko essere varia di tempo in tempo, ma ancoinunte m
pomedesimopuoelervaria nellecose,perchechiosseruauedràper esperienza,mol
tiesserefortunatiinunaspeciedicoje,&
inun'altraesseresfortunati,etioinmiopar ricolarehohauutoinfinoaquestodàtre di.inmoltecose
bonißimaforte, tamennonPhosimilenellemercantie, one glihonori,cheiocerco
d'havere, perchenoncercandolimicorrono naturalmentedietro,ma come cominciò a
cercarli,pare chesidiscostino . Le cose delmondononstānoferme, anzihannosempreprogressoalcamino,àche
ragioneuolmenteperfuanaturahannodaandare,e finire,matardanospesopiache
ilcrederenostroperchenonlemisuriamosecondolavitanostra,cheèbreue,e non
secondoiltemposuo,cheèlungo, & peròipaffifuoifonopiutardi,chenonsonoino
fri,& fitærdipersuanatura, cheancorachefimouinononciaccorgiamospesode
fuoimoti,e perquestosonofpefjofalsiigiudicij,chenoifacciamo, Ron
sosesideuonochiamare: fortunatiquelli, achivnavoltasipresentavna
grandeoccasione,perchechinonè prudente,nonlafabenevsare,masenzadubbiofo no
fortunatiffimiquelli,aqualivnamedesimagrandeoccasionesipresentadueuol
te,perchenonèbuomocosidappoco, chelasecondavoltanonlasappiavsare, cosi
inquestocasosecondos' hadahauere tuttal'obligationeconlafortuna, donenelpri
mohaluogo-ancoralaprudenza . , cheuiuonoinlibertà, ma queli, neiqualiera
meglioprouiftoallaconferuationedelleleggiedellagiuftitia. fannoinuentionediquel
löches'aspeta,òsicrede,epiuorecchivipreftosefononuouestrauaganti,o'inaspet
tate, perchemancooccorreaglibuominifareinuentioni,òpersuadersiquellochenon
èinalcunaconsideratione,ediquestohovedutoiomolteuoltel'esperienza.Gruan
forteèquelladegliastrologi, cheancora, chelaloroprofeffionefiava Non
hamaggioreinimicol'huomo,chefefteso,perchequasitutiimali,perico li,&
trauaglisuperflui, chehanonprocedonodaaltro,chedallasuatroppacupiditate. L’appetito
dellarobanasceda animo'balo, omalcomposto,fenonside.
fiderasseperaltro,cheperpoterlagodere,ma essendocorrottoilviuere delmondo,co me
èchidefiderariputatione, èneceßitatoàdesiderareroba,perche.coneffarilucono
Levirti,cfono inprezzolequaliinunpouerosonopocoftimate,&
mãcoconosciute. La libertàdelle Republiche
è ministra dellagiustitia,perchenonèfondataadal trofine, senonperdifensione, chel'onononsiaopressodal'altro,peròchipotesseef
soresicuro, cheinunostatod'unoòdipochis'ofjeruajelagiustitia,nonharebbetau
fadidesiderarelalibertà. Questaèlaragione,chegliantichisauij, e FILOSOFI non
laudornopiudeglialtrique'gouerni Quando lenuoues'hanno d'Autoreincerto,&fienonuoueverisimili,d
aspettate,ioliprestopocafede,percheglihuomini facilmente; nito,
Auuertimenti di mità, òperdiffettodell'arte,ofuo,tamenpiufedeglidàvnaverità,chepronostica
no,checentofalsità,é tamenneglihuominiintrauieneilcontrario,cheunabugia, chse a reprobata da vno , a , che s i s tàsospeso a crederli tutte
l'altre verità, & procede daldesiderio grande c'hanno glibuominidisapereilfuturo,dichenonhauendoaltro
modo dihauerecertezza;credonofacilmente ,a chifaprofessionedisaperlolordire,
comeall'infermoilmedico, chelipromettelasalute. ,ò dalla uoluntàdiquelli,chedominano,perchenonhan
uendesiacūbattereconragioniimmutabili,ocon giudicijstabili, nasconoogni dimille
cafi,chefacilmentetisolleuanodachipuopretenderedileuartidiposeso. scarso, perchenessunacosaof
fendepiùl'animo d’unfuperiorecheilparerglichenonlisiahauutoquelrispetoeri
uerenza,chegiudicaconuenirseli.Ë
ognicosapernontrouaruidonesiperde,percheancora,chenonuisia colpaisoftra, nehauetesõprecarico,
nèsipuoandareatuttelepiazzegetbanchiagiu Stificarsi,comechisitrouadouefi vince,
siportasemprelaudeetia Jenzasuomerito. fa
nellecosepriuate,trouarsiinpoffeffioneantica,chele ragioninonfimutano,
imodidegiudityediconsignareilsuofonoordinarü,&fer mi,masenza
cumparationeèmoltomaggiorevantaggioinquellecose chedependo
nodagliaccidentidellistati Fu crudele il decreto de Siracusani,dichefamentioneLiuio,
cheinsinoalledonnenate de tiranni fussero ammazate, ma non però al tutto senza
ragione, perche mă Catoiltiranno, quellicheuiueuanouolentierisottodilui,sepotefjeronefarebbono
un'altrodicera, enonessendocosifacileuoltarela riputationeaun'huomonuouo,si
ritiranosottoognireliquia,chereftidiquello. Peròuna Città, cheescanuouamente
dallatirannide,nonhamaibensicuralalibertàSenonspegnetuttalarazza,& pro
geniedetiranni,dicoperò glimaschi,enonlefemine.. Non
èinpoteftàd'ogniunoeleggersiil grado,elefacende,chel'huomouno le, manonbisognaspessofarquelle,chet'appresentalatuaforte,&
chesonoconfor mialostatoincheseinato, peròtuttalalodeconsisteinfarlasuabene,comeinuna
comedia,nonèmancolodato, chibenrappresentalaperfonad'unferuo,chequelli,a
chisonomeffiindossoipannidelRe,od'altrapersonadegna,ogniunoinefetonel
gradofuopufoarsihonore. E vantaggiocomeognun Chi
desideraeseramatodasuperiori,bisognamostrared'hauerelororispetto,e riuerenza,e
conquestoeferpiutoftoabbondante,che Ogniuno
inquestomondofadeglierrori,daqualinascemaggioreomi
nordanno,secondogliaccidenti,& casicheseguitano,mabuonafortehannoquelli,
ches'abbattonoadevrareincofediminoreimportanza, òdallequalineseguitaman
codisordine. E gran E 'granfelicitàpotereviuereinmodo
chenonsiriceua,nèfifacciaingiuriaad altri,ma chis'adduceingrado, chesianecessitato,oaggrauare,òapatire,deueper
mioconsigliopigliare iltrattoauantaggio,percheè cosigiustadifesa,quella chesifa
pernonesseroffeso, comequella,chesifaquandol'offesatièfatta, èneroche bisogna
bendiftinguericasi, nèpersuperflupaauradarsisenzacausaadintendered'eserene
ceshtatoapreuenire, nèpercupidità, nèpermalignità, doueinverononhainèdeui
hauerefolpetto volerecon allargarequestotimoregiustificarelaviolenza,chetufai.
Ne glihuominie lapatienza, el'impetosono bastantiapartorirecosegranuis perche l'onoopera
conl'urtareglibuomini, esforzarelecose,l'altraconlostraccara li,evineerlicol tempo,
el'occasioni, peròinquellochenuocel'ono,gioual'altro, Grå conuerfo,&
chipotessecongiugnerli,& vsareciascunoaltemposuosarebbediuino,
maperchequestoèimpoßibile, credocheožbuscõputatis, lapatienzaemoderationfi:
landabileinun Principepercõdurremaggiorcoseafine, chel'impetoelapcipit.iticne. Nelle cose dellEconomicailuerboprincipaleèrisecaretutelespesesuper
flue,ma quelloinchemipare, checonsistal'industria,èchifalemedesimespesecon
piuvantaggio, ecomesidicevolgarmente,spendereilfoldoperquattroquattrini. Diceva unpadre,chepiubonoretifaunducatoinborsa,
chediecichene baispesi, parolemoltodanotare,nonperdiventarfordido,nèpermancarenellecose
honoreuoli,e ragionevoli,maperchetifafrenoafuggirelecose superflue. la
malitia,ochenelmaneggiarelecoses'accor gono diquelloharebbono
dibisogno,sicercafardirealiStrumétiquello chel'huomo
vorrebbechedicese,peròquandosonogliinftrumentidicosevostred'importanza,
habbiatepervfarizafaruelilenare subito,& hauerliincasainforma autentica.
Rarissimi sonogliinstrumenti, chedaprincipiosifalsificano,madopo
fatisecondochegli huomiuipensano . Se
benglihuominideliberanoconbuono consiglio,gliefetisonoperòlpelocat
tiui,tantosonoincertelecosefuture,nondimenononsiuuole comebestiadarsiinpicito
daallafortuna,macomehuomoandarcontaragione,& chièSauio,hadacontentar fi, diessersimoltoconconsiglio,
ancorchel'efetosiastatocattiuo, chefeconvácon figliocattivo, hauessehauutol'effettobuono.
Tenete amente, chechiguadagna, sebenpuospenderequalchecosadipiu
chenonguadagna,tamenè pazziaspenderelargamentesul fondamentodeguada
gni,seprimanonhai fatobuonocapitale, perchel'occasionedelguadagnarenondu
rasempre,& fementreessaduranontiseiacconcio, passatacheellaèytitrouipouero
comeprima, edipiuhaiperdutoiltempo, el'honore,percheallafineètenutodipo
coceruello,chihahauutal'occasionebella,& nonl'hasaputausarebene, &
questo ricordotenetelobeneamente, perchehovistoamjeidiinfinitierrori. E Cer
B2 puoalcunauoltamettendoinsiemela gratitudine chesisentedatuttiefere
notabile. Del fareun'operabuona, & laudabilenonsivedesempreilfrutto,peròchi
nonsisatisfafolumdelbenfaredi sesteso, lascidifarlo, nonparendoglitrarneuti
lità, maquestoè ingannodeglihuomininonpiccolo, percheilfarelaudabilmente,se
bennontiportasjealtrofruttoeuidente,spargebuonome,& buonaopinionedite,
laqualinmoltitempi & cafitirecautilitàincredibile. progressoditemposi poche
cofe uerificate, come s i trova a capo dell'anno degli astrolpogei, rche le
cose del mondo sonotroppouarie. Nelle cose importantinonpuofarebuonogiudicio, chinonfabenetuttii
particolari, perche speso unacirconftantias& minima, nariatuttoilcaso, mauidice
bene, chenonhanotitiaadaltro, chedigenerali,& questomedefimogiudicapeggio
intesii particolari, perche chinonhailceruellomoltoperfettoemoltonettodallepaf
fioni, facilmente intendendomoltiparticolarisiconfondeeuaria. Se
d'unos'intendedlegge, chesenzaalcunofuocommodo,èinterefe,ampor. E'eerto, chenonsitiencontodeliseruitijfattialipopoliinuniuersale,
comedi quellichesifannoinparticolare, perchetoccandocolcommune, nessunositienseruito
inproprio, peròchis'affaticcaperlipopoli, &vniuersità,nosperiches'affatichinoper
luiinunsuopericolo,òbisogno, òchepermemoria debeneficij, lafcinounalorocomo
modità, nondimenononsprezzatetanto ilfareseruitioapopolichequandouisipre
sentil'occasionelaperdiate,percheseneuieneinbuonnome,ebuonconcetto, cheè
fruttoasaidela fatica, senzapure,cheinqualchecasogiouaquellamemoria,& rin
mzoneachiè beneficiatosenonsicalda mente,comelibeneficipropri,almancosarà
partediquantosiconuiene, &fonotantiquestiachitocca questalorleggieraimpres
fione,che Chi facessefuun'accidentegiudicaredaun'buomosauioglieffetti,chenasce
ranno,& scriueseilgiudicio, trouerebbetornandoa uederloin Spesso s'inganna,
chisirifoluesuiprimiauuifi,cheuengonodellecoseper ebeuengono semprepiucaldi, &
piuspauentofi, chenonriefconopoiconglieffettin però chino nèneceffitatoaspettisempreisecondi,
edimanoinmanoglialtri. Chi halacurad'unaterra, chebabbiaaesserecombattuta, òassediata,deuefa
repochiffimofondamentointuttiqueirimedij, cheallunganogestimareassaiognico
fachetolgatempo, etiampiccoloaliiniinici,perchespessoundìpiu,o un'borapor
taqualcheaccidente,chelalibera. Non combattere mai con la religione, neconlecosecheparechedependonoim
mediateda Dio, perche questo obietto ha troppa forza nelle menti degli huomini.
ilmale E'buonmezo aguadagnarsi fauoriilmostrareaquelli, dachituduoiguada
gnareilfauoredifarlicapis Quando sifauna cosa, se si potesse saperequelchefarebbeseguito,
senon sifufefatta, sòifussefattoilcotrario,senzadubbiomoltecosesonoda gli huominilau
dati,chenon fariano,anzimeriterebbono contrariasentenza: Accade :molte uolteinunadeliberatione
cheharagionedaognibanda, che ancora chel'huomohabbiadiligentementepenfato,chepoichehafattoladeliberatio
ne, gliparebauerelettola parte peggiore, laragioneè, chepoichetuhaideliberato
tisi rappresentano solamenteallafantasialeragioni, cheeranonell'opinionecontra
riale quali confideratesenz ailcontrapeso dell'altretipaionopiugraui,e pire importanti
Ir i male,cheilbene;fideuechiamarbeftiae, t nonhuomo, poichemanca dell'appetia
naturale , no a fauorire quello, che per altr o harebbono disfauorito NON credete aquestiche predicanocheamano laquiete,
etd'essereStracchi dell'ambitione, & hauerelasjatele.facende, perchequasisemprehanno
nel cuore il contrario, esisonoridottiavita appartata, &
quieta,òpersdegno,òpernecessità, òperpazzia, l'essempioseneuedetuttoildì, percheaquestitalisubito
ches'appres Senta qualchespiragliodi grandezza, abbandonerannolatantalodataquiete,
& nifi mettonoconquelpericolo, chefailfuoco, adunacosafecca. L’inclinationi,
e deliberationi de popoli sono tanto fallaci, & Menatepiuspesso dal caso, chedallaragione,
che chiregolailtrainodeluiuerfuo, non in altro che infüi la speranza d'hauere adesere
grande colpo polozhapocogiuditiosper che oppor si è piutosto venturacbe fenno.
autoridiquellacosa, nella qualen'haidibisogno, perche la piupartede glihuomini,
presida quella uanità, ò ambitione, uisiaffettionanoinmo do, che dimèticatii rispetti
contrari, ancoradepiuragioneuoliepiuurgenticomincia. Infinite sono le varietà delle
nature, da de pensieridegli huomini, però non sipuoimaginarecosa, nèsìstrauagante,
nèsicontraragione, chenonsiasecondo il ceruello d'alcuno, perquestoquando
sentiretedire, ch'altrihabbiadetto, ofattoco. Facche non ui parra uerifimile, nè
che possa cadereinconcettod'huomo, nonuënefat te leggiermente beffe, perche quello
che non quadraate, puo facilmente trouareachi piaccia, òpaiaragionevole. Pare
chei Principi sienepiuliberi,e piu padroni delle loro uolontà, che gli
altrihuominóznonèuero ne Principi che si gouernano prudentemente, perchesonone
cefsitati procedere coninfiniteconsiderationi, rispetti, inmodoche molte voltecat
tiuanoilordisegni, i loro appetiti, el'altre volontà loro,
iochel'hoosseruato,n'ho pedutemolte esperienze. , diriandare tutte le
ragioni, che sono hinc, & inde, perchequeen stoconcorso& contrarietà, che tiapprefentiinanzi, fa, che leragioni chesiconcede
ilano, non ti paiane piu di maggiorpesoso importanzadiquello,cheveramente quando
nelle consulsteono pareri contrarij, se alcuno esce fuora con qual. Che partitodi
mezo, quasiche sempre è approuato,non perche i partiti di mezo, il piu delle volte
nonsier: opeggiori, ma perchei contradittoricalano piuvolentierid quello, che all'openione
contraria, & ancoglialtri, òpernondispiacere, opernonef jerecapaci, si gettano
aquello che parloro, che habbia manco disputa.
Possono malegli huomini priuati, biafimareolo daremoltoleationide
Principi, non solo per non sapere le cose come stanno & per essergli intereffi,
& ilo to finiincognitismi ancoraperchela differenza è dall'hauere auuerzo
il ceruello advsode Principi, adhauerloaurezzoadvsodepriuati,facheancorchelostato,
ifinidelle cose, & gli intereshfulero all'uno noticome al'altro,leconsiderationi
Auvertimentidi portanti, che non pareuanoin anzi, che tu deliberafi: Il rimedio
di liberarsi da questo molestia, èsforzarsi
No huomo, chenonsia prudente, non si puo reggere senza consiglio, nondime no egli è molto pericoloso
pigliar consiglio, perche chi dà consiglio, haspesopiu consideratione all'interesse
suo, che aquello che lo domanda, anzi propone ogni suopicciolo rispetto, &
fodisfattioneall'interesse,benchegrauissimo,a importantijimodiquela l'altro, peròdico,
cheintalgradobifogna, che s'abbatta conamici fedeli,altrimenti porta pericolo di
non far male apigliar consiglio, et male et peggiofa, ànolopigliare. mol
tevolteinterzooquartocaso, chenonfumaiinconsideratione, e che difficilmente
fisar ebbe imaginato, chepoteseesseremolteutoltesitroua ingannato. Non si puo chiamare
infelice vna città, che fiorita lungamente, uieneabal Sezza, perche questo è il
fine delle cose humane, në sipuoimputareinfelicitàlelle resoto postoa quellalegge,
cheècommuneatutiglialtri, mainfelicesonoqueicit tadini,a i quali ha dato la forte
nascere piu presto nella declinatione della sua patria, chenel tempo della sua buona
fortuna. fono. Però Si chi sul far giudicio del futuro vuol pigliare qualchedeliberatione, comespesso calcula, la tal
cosa anderà, ònel tal modo, òneltale.,& suquestodiscorsopigliail suo partito,
perche per la varietà delle cose, ed egli accidenti del mondo, viene il Principe, che volessetorreil creditoagli Astrologi,
chestampanoigiudicij vniuersalmente, non harebbe il piu facilmodo, checomandare,
chequandosistampa ilgiudicioloro, perl'annofuturo,fusseristampato, &
appiccato conessoloroilgiudi ciodell'annopaljato, perche gli huomini rileggendoinquelloquantopoco
fifienoa p posti del passato, farel bono sforzatinonprestarfedealfuturo, &
hauendosidimenti catolebugiedell'annopaljato, la curiosità naturale, che hannogli
huominidisapere, quelchehadaessere,gliinclinafacilmenteaprestarlifede. 1
però sonomolto diuerse, äsidiscorrono le cose con diuerso occhio,
sigiudicano condiversogiudicio,& infine, l'uno le misura con diversa misura
dall'altro. fareogni operapossibile, fachecoluiilpiudelleuoltè cominciaacre
dere, chenonlo voglia seruire; ilcontrariointrauienea chi fa larghezza disperan
2a, &di facilità, perches'acquistapiucolui,
ancorche l'efeto non riesca, cosi si Dede, che chi si gouerna con arte, o
perdir meglio con qualche auuertenza , è piu grato, & piu fa il fatto suo, nè
procede da altro, se non da essere la piu parte degli huomini ignoranti al mondo,
che s'ingannano facilmente in quello che desiderano.onesto ma utilitario, ambi
ziosoepositivo, considerato il dramma della ruina italica, in mezzo al quale si
svolse l'agitata sua esi stenza, voi avrete nelle mani il segreto per giudicare
la sua energia morale anche nelle opere scritte, in cui manifesta l'anima
sua,che vibra d'ambizione, di collera, discoraggiamento, dibeffardo scetticismo
e anche di nobili entusiasmi. e Machiavelli posemano ai suoi Discorsi sulle
Deche diTito LIVIO (si veda), elifinìmolto più tardi: liandò leggendo negli
Orti Oricellari, circondato dai fiorentini,che pendeno ammirati dalle sue
labbra. Egli dice, sin dal principio, di essere stato spinto a svolgere sì alto
argomento dal bisogno di operare quelle cose che crede adatte a recare comune
beneficio a ciascuno. E se l'ingegno povero,la poca esperienza delle cose
presenti, la debole notizia delle antiche, faranno questo suo conato difettivo
e di non molta utilità, daranno almeno la via ad alcuno, il quale,con più virtù,discorso
e giudizio, possa a questa sua intenzione soddisfare. Più apertamente manifesta
questo suo desiderio, concludendo. Benchè questa impresa sia difficile,
nondimeno aiutato da coloro, che mi hanno ad entrare sotto questo peso
confortato, credo portarlo in modo che ad un altro resterà breve cammino a
condurlo al luogo destinato. G. ne accetta l'invito e scrive le sue
osservazioni intorno ai discorsi di MACHIAVELLI, fermandosi a con Machiavelli, nel
proemio al primo libro dei Discorsi. MACHIAVELLI tratta delle origini
delle città e os serva che se trovansi in luoghi sterili, i cittadini d i
ventano energici ed operosi : ma se si stabiliscono in luoghi fertili, cadono
nell'ignavia,se non si cerca con le leggi di correggere il male morale portato
dalla fecondità della terra. Se non che la sterilità dei luo ghi non offre
facile via alle conquiste,e per questo I ROMANI fondarono la loro città in
luogo fertile e adatto a spianare ad essi la via dell'imperio. Al ri manente
rimediarono con leggi severissime, le quali resero armigero il popolo. Su
quest'ultima parte G., che assai ammira l'arte militare dei ROMANI e non troppo
il governo e la politica loro, osserva che Roma e bensìposta in paese fertile, ma
per non avere contado e essere cinta di popoli potenti, e forzata allargarsi
con la virtù delle armi e con la concordia; e questo si discorre non in una
città che voglia vivere alla filosofica, ma in quelle che vo siderare i
primi due libri e appena qualche capitolo del terzo, perchè gli mancò iltempo a
continuare il lavoro intrapreso.In esse spicca la differenza di mente fra G. e
il Machiavelli : questi guarda le questioni da sublime altezza e sotto un
aspetto più generale, abbandonandosi alla sua geniale idealità, nello studiare
l'organizzazione dello stato. G. invece, ricco di tanta esperienza,vero genio
del senso pratico, non segue il suo amico nei voli poetici, ma si ferma
soltanto a rettificare quelle idee del Machiavelli a lui sembrate erronee. In
ciò mostra forza e sicurezza di indagine, conoscenza profonda dei governi. Egli
discute i mezzi di reggere le repubbliche e i principati, ne studia l'indole
per cercare il governo migliore. Parla dei modi di comportarsi coi soggetti e
di aumentare fuori l'imperio degli stati,di condurre le guerre, dell'efficacia
delle religioni sulla civiltà delle nazioni. Ragiona sulla natura umana, dominata
dai due istinti del bene e del male. gliono governarsi secondo il comune uso del mondo,
come è necessario fare; altrimenti sarebbono,essendo deboli, oppresse e
conculcate da’ vicini. Moltissime sono le osservazioni di G. circa le varie
specie di governo, le guarentigie da prendersi per custodire la libertà, le
qualità e condizioni necessarie ad un regime per essere forte.” Degne di studio
sono pure quelle riguardanti il principato,ilgoverno popolare e quello degli
ottimati. Il frutto del governo regio, così
G., è che molto meglio, con più ordine, con più celerità, con più
segreto, con più risoluzione si governano le cose pubbliche quando dipendono
dalla volontà di un solo, che quando sono nell'arbitrio di più. Ma se il sovrano
è cattivo, gl’effetti ne sono pessimi. E però, secondo lui, è necessario farlo
perpetuo, ma limitargli l'autorità, con fare che da sè solo non possa disporre
di alcuna cosa e solamente abbia libertà d'azione in quelle che sono di minore
importanza. Dichiara che nel governo degl’ottimati è il bene, perchè essendo in
più non possono cadere tanto facilmente nella ti rannide, come avviene nel
principato :essendo uomini qualificati governano con più prudenza e intelletto
del popolo.Il male è che favoriscono troppo le cose proprie e opprimono il
popolo: l ' ambizione fa nascere in essi le sedizioni e per via della tirannide
si produce la ruina della città. Se poi, invece del governo degli ottimati, per
elezione o per qualità, che si potrebbe rendere buono con acconci
provvedimenti, si avesse quello degli ottimati per nascita o per eredità,questo
sarebbe il peggiore di tutti. « Nel governo di popolo è di buono che mentre
dura non vi è tirannide ; pos sono più le leggi che gli uomini ; e il fine di
tutte le deliberazioni è badare al bene universale. Di male 1 FEgli, nei suoi
giudizî così temperato, lascia ogni prudenza allorchè parla del popolo che
disprezza,m e n tre il segretario fiorentino lo esalta e l'ama.Intorno alla
ignoranza e malvagità,fondate in sulla invidia, opina « che senza comparazione
il popolo sia più in grato ; perchè, e per essere gli uomini distratti in varie
faccende, e per altre cagioni, manco intende, manco distingue e manco conosce
che non fa il prin cipe ; e quanto alla invidia,cade più facilmente negli
uomini popolari,a’quali ogni grandezza punto emi nente o di nobiltà o di
ricchezze o di virtù o di ri putazione è ordinariamente molesta ; nè cosa
alcuna dispiace loro che vedere altri cittadini che abbino più qualità di loro
e questi sempre desiderano abbas vi è che il popolo,per la ignoranza
sua,non è capace di deliberare le cose importanti. è instabile e desi deroso
sempre di cose nuove e però facile a essere -mosso e ingannato dagli uomini
ambiziosi e sediziosi ; batte volentieri i cittadini qualificati, che gli neces
sita a cercare novità e perturbazioni.» Il G., inchinevole più al governo di uno,
quando sia temperato da savie leggi,anzichè al popolare, si di scosta in ciò da
Machiavelli,che nel popolo ripone grandi speranze : questo è uno dei punti,in
cui la dif ferenza deigiudizî si fa più spiccata fra di essi. Del resto G.
reputa ottima la forma del governo misto di principe,popolo,ottimati,togliendo
da ciascuna specie il buono e lasciando indietro il cattivo, cercando di
conciliare tutti gl'interessi; la qual forma presenta delle somiglianze coi
governi co stituzionali dei nostri tempi,ed è quellalodatapure dal Machiavelli.
I due grandi statisti fiorentini discor rono dei governi secondo le idee di Polibio,
ma G., profondo conoscitore delle condizioni dei suoi tempi,con acume più
pratico parla dei varî re gimi e delle passioni e appetiti che muovono iprin
cipi, i nobili e il popolo ad impadronirsi dello Stato. sare. Crede G. di non saper bene ciò che voglia dire la
questione presentata da Machiavelli, se si deve porre l a guardia della libertà nel popolo o ne'grandi. Se
intendesi discorrere di chi deve partecipare al governo, ciò spetta,nei governi
misti c o m e quello di Rom a , tanto ai patrizî c o m e ai plebei , che
salvarono spesso la libertà della patria. Ma quando fosse necessario mettere in
una città o un governo meramente di nobili o un governo di plebe, è manco
errore farlo di nobili, perchè essendovi più prudenza ed avendo più
qualità,sipotràpiùsperare si mettino in qualche forma ragionevole,che in una
plebe,la quale essendo piena d'ignoranza,di confu sione e di molte male
qualità, non si può sperare se non che precipiti e commetta ogni colpa. Lo
stesso disprezzo per il popolo lo rivela nelle pagine, in cui d i mostra essere
stati i Romani meno ingrati degli Ate niesi verso iloro cittadini più
illustri.Ciò accadeva per chènellanatura dei Romani non fu la leggerezza degli
Ateniesi e anche per la diversità del governo.In Atene poterono i cittadini con
le arti popolari salire presto in potenza e farsi grandi : m a i capi, in
questo g o verno popolare, caddero più facilmente in sospetto e con più
leggerezza e meno considerazione furono oppressi. La plebe romana trova il contrappeso
della nobiltà, poichè nel Senato si trattavano le cose più gravi. La qualità
quindi del governo dei Romani,più tempe rato e prudente, fu causa che
icittadini ebbero meno degli Ateniesi aperta la via alla tirannide e vi furon meno
battuti. Ma quando G. vuol dimostrare che la costanza e la prudenza sono
qualità meno del popolo regolato da leggi e più del principe e degli ottimati
regolati dalle leggi,egli diviene aspro e quasi violento contro il popolo. Perchè
dove è minor numero, èlavirtùpiùunita,epiùabileapro durre gli
effetti suoi ; vi è più ordine nelle cose, più pensiero edesame, ne'negozîpiùrisoluzione;
ma dove è moltitudine,quivi è confusione; e in tanta dissonanza di cervelli,
dove sono varî giudizî,varî pensieri, varî fini, non può essere nè discorso
ragionevole,nè riso luzione fondata, nè azione ferma. Però non senza cagione è
assomigliata la moltitudine alle onde del mare, le qualis econdo i venti che tiranovannoora
in qua ora in là, senza alcuna regola, senza alcuna fermezza.' I principi
e con essi i più eminenti statisti della Rinascenza avevano la convinzione
essere le istitu zioni un trovato dell'ingegno,e da questo unicamente dipendere
senza badare alla responsabilità delle azioni, nè alla violenza che isovrani
avrebbero esercitata so pra i soggetti. Essi non sospettavano che il governo di
un popolo dovesse sgorgare direttamente dal suo spirito e trovare un sostegno
nelle tradizioni del paese. G. soltanto in parte era di ciò persuaso ;
vagheggiava un governo misto, ma inten deva accordare al popolo la minore
ingerenza possibile in esso:pure ilregime desiderato da Firenze,eche era stato
la gloria della repubblica,era il democra tico, malgrado gli errori in cui era
caduto.Tuttavia a lui, osservatore profondo, non sfugge mại la realtà delle
cose e dice che un popolo,uso a vivere sotto un principe, se diventa libero,con
difficoltà mantiene gli ordini liberi:ciò non accade invece ad un altro che sia
stato libero e per qualche accidente abbia perduto la libertà,perchè in questo
caso si possono ripigliare gli ordini liberi, vivendo con chi già li pos
sedette, ed essendo nei cuori la memoria dell'antica repubblica. Afferma anche
la difficoltà di educare un popolo alla libertà se mai non la conobbe :in tal
caso necessita fondare un governo temperato,opprimere i nemici, lasciando
sicuri quelli che vogliono vivere bene.E più avanti:un principe che ha inimico
il popolo,per la oppressione male esercitata, vi rime dierà levando via le
ingiurie e governando giusta mente,ma non vi rimedierà se si trova davanti un
popolo che vuole essere libero per aver mano al go verno,perchè in questo caso
sono vane le dolcezze.? A G., nel meditare sulle vicende storiche del passato,
appariva vana la speranza di ritrovare il buono assoluto nelle forme di
governo,perciò ne cer cava il buono relativo che potesse reggersi in mezzo al
trambusto degli avvenimenti tempestosi che scon volgevano l'Italia,invasa dagli
stranieri.La società trasformatasi manifestava nuove aspirazioni e nuovi
bisogni che occorreva seguire e accontentare : si d o vevano evitare i mezzi
estremi col cercare l'armonia dei varî interessi. Ma, ripetiamo, egli accordava
al popolo una piccola partecipazione al governo,mentre l'aveva avuta
grandissima, e quindi urtava contro le tradizionipatrie:scordava che la natura
delude con le sue leggi il nostro volere e si vendica di chi,col l'intenzione
di dominarla, non cerca innanzi tutto di assecondarla. Nella Considerazione G. mostra
la differenza fra l'indole sua e quella del Machiavelli, il quale assicurava
che in ROMA antica non si puo trovare mezzo più efficace per cementare la
libertà che ammazzare i figli di Bruto. G., rispondendogli, riconosce la
necessità di tuffare a suo tempo le mani nel sangue, tuttavia fa voti perchè «
non desideri la nuova libertà che vi siano figliuoli di Bruto,cioè chi macchini
contro allo Stato, per avere causa di acquistare riputazione e tenere con la
severità ;perchè se bene è necessario in simili casi mettere mano nel sangue,
sarebbe stato meglio non avere avuto necessità, e che BRUTO (si veda) non
avesse figliuoli, che averne per avergli ammazzare.'> Nell'agitare la
quistione sulla bontà dei governi, si discute, dal G. e dal Machiavelli,non
solo intorno ai mezzi di ringagliardire la repubblica,ma anche il principato .
Se un principe, secondo il G., si trova di fronte a un popolo che ami la li
bertà,ilsolo rimedio sarà quello « o di farsi dei par tigiani di qualità, che
siano potenti a opprimere il popolo, ovvero, co l battere e annichilire il
popolo di sorte che non possa muoversi,introdurre nuovi abi tatori e di qualità
che non abbino a avere causa di desiderare la libertà? » Così , senza parere,
egli sembra accostarsimoltoalleidee di Machiavelli, ma tosto cerca di rendere
meno cruda e assoluta la sentenza emessa. « Però bisogna che il principe abbia
animo a usare questi estraordinarî,quando sia necessario; e nondimeno sia sì
prudente che non pretermetta q u a lunque occasione se gli presenti di
stabilire le cose sue con la umanità e co'benefizî, non pigliando così per
regola assoluta quello che dice lo scrittore, al quale sempre piacquono sopra
modo e rimedi estraor dinarî e violenti.?» Il Machiavelli è d'opinione che a
fondare una re pubblica bisogni essere solo e che per questo fece bene Romolo
ad ammazzare ilfratello.A luir isponde G. Non è dubbio che uno solo può porre
migliore ordine alle cose che non fanno molti, e che uno in una città
disordinata merita laude, se, non potendo riordinarla altrimenti,lo fa con la
vio lenza e con la fraude e modi estraordinarî. Ma è da pregare Dio che le
repubbliche non abbino necessità diesserer acconceper similevia, perchè gl’animi degl’uomini
sono fallaci e può uno sotto questo onesto colore occupare la tirannide. Inoltre
bi sogna prima bene leggere e considerare la vita di ROMOLO, il quale sebbene
mi ricordo si dubitò non fosse ammazzato dal senato per arrogarsi troppa autorità.
E mentre il Machiavelli entusiasmato parla della generosità d'animo del suo
principe legislatore, che, compiuta l'opera, senza lasciare lo stato ai
figliuoli, lo affida alle cure vigili del popolo, ecco G. interromperlo e
osservare che questi pensieri che i tiranni deponghino le tirannidi,e che i re
ordinino bene i regni, privando la loro posterità della successione,si
dipingono più facilmente in su'li bri e nelle immaginazioni degli uomini,che
non se ne eseguiscono in fatto. Ammette,col Machiavelli, la frode, la violenza,
l'inganno,per cementare salda mente uno Stato, ma vuole attenuare il fatto, e
ne discorre con parole moderate e suggerite dal buon senso. Così pure non
condivide gli entusiasmi del Machiavelli sull'uomo destinato a dare nuova vita
a un popolo, sebbene egli creda gli uomini meno cattivi di quelloche sono
reputati dal segretario fiorentino. Dimostra Machiavelli che si viene di bassa
a gran fortuna, più con fraude che con la forza ;ma G. osserva : « Se lo
scrittore chiama fraude ogni astuzia o dissimulazione che si usa anche senza
dolo, può essere vera la conclusione sua,che la forza sola,non dico mai,che è
vocabolo troppo assoluto, ma rarissime volte conduca gli uomini da bassa a
grande fortuna.Ma se chiama fraude quella che è proprio fraude, cioè il
mancamento di fede, o altro procedere doloso,credo si trovino molti che hanno
senza fraude acquistato regni e imperî grandissimi. Di questi fu Alessandro
Magno, di questi Cesare, che di cittadino privato con altre arti che di fraude
si 1Presuppone il Machiavelli che tutti gli uomini sono cattivi ed essere
necessario all'ordinatore di una re pubblica infrenarli con le leggi,perchè non
operano mai ilbene se non per necessità.IlGuicciardini è con trario a questa
sentenza eccessiva, e crede la maggior parte degli uomini inchinevoli più al
bene che al male : e se alcuno ha altra inclinazione, è così diffe rente dagli
altri e spoglio dell'istinto che ci porge lanatura,da doversi più prestochiamaremostroche
uomo.È adunque ogni uomo inclinato al bene, ma, essendo la natura sua fragile,
può essere deviata dal retto cammino,dalla volontà,dall'ambizione e dal
l'avarizia: leleggi si devono fare in maniera da impe dirgli di fare il male di
cui sente l'impulso, e nel tempo stesso allettarlo al bene coi premî. Sostiene
il Machiavelli essere sempre la frode un mezzo di in grandimento. G. talora la crede inutile e la vorrebbe lasciata
da parte,non in nome della morale, m a di un ben inteso interesse. Il
Machiavelli sostiene che nel mondo fu tanto di buono in un'età quanto in
un'altra,benchè varino i condusse a tanta grandezza,scoprendo sempre l'am
bizione sua e lo appetito di dominare M a ,quanto alla fraude, può essere
disputabile se sia sempre buono istrumento di pervenire alla grandezza ;perchè
spesso coll'inganno si fanno di molti belli tratti,spesso anche l'avere nome di
fraudolento toglie l'occasione di con seguire gl'intenti suoi.'> Tutti e due
eran d'accordo che l'inganno è necessario per riuscire ad un buon fine, però G.
non accetta in modo asso luto le massime del Machiavelli e dimostra la diffe
renza della sua indole, molto più pratica,se si para gona a quella del
Machiavelli ; più sistematica nel venire a considerare i casi in cui la frode
conduce o non conduce alla meta agognata. Considerazioni al proemio del lib .
luoghi, la qual cosa equivale a dire che sempre nella umana famiglia il bene e
il male si equilibrano. All’incontro G., con mirabile penetrazione, e v o cando
dinanzi a sè le età passate,risponde di no :e anche riconoscendo che l'antica
non è superiore ai tempi che la seguirono e che verranno,afferma che la somma
del bene e del male è differente nelle diverse età e ne porge gli esempî : «
Chi non sa in quanta eccellenza fussino a tempo de' Greci e poi de’ ROMANI la
pittura e la scultura , e quanto di poi restassino oscure in tutto il mondo ; e
come dopo essere state sepolte per molti secoli siano da centocinquanta o
dugento anni in qua ritornate in luce ? Chi non sa quanto a'tempi antichi fiorì
non solo appresso a'Romani,ma in molte pro vincie la disciplina militare, della
quale i tempi n o stri e quelli de'nostri padri e avoli non hanno veduto in
qualunque parte del mondo se non piccoli e oscuri vestigî ? Il medesimo si può
dire delle lettere, della religione, che senza dubbio in alcune età sono state
sepolte per tutto, in altre sono state in molti luoghi eccellenti e in sommo
prezzo. Ha visto qualche età ilmondo pieno di guerre,un'altra ha sentito e go
duto la pace ; dalle quali variazioni delle arti, della religione,dei movimeti
delle cose umane,non èm a raviglia siano anche variati i costumi degli uomini,
i quali spesso pigliano il moto suo dalla istituzione, dalle occasioni,dalla
necessità.?» Per G. è indispensabile ai popoli la reli gione, in ispecie quando
viene usata come elemento di forza nello Stato, e ad esso sottomessa : tuttavia
non condivide col Machiavelli l'opinione che iRomani abbiano dovuto alla
religione una sì gran parte della loro potenza, e dimostra avere le armi
maggiormente contribuito ai trionfi delle aquile latine sulla terra. Alla
questione sulla religione dei Romani si collega Op.cit.,Considerazioni al
proemio del lib. II,pag. 60,61. Op.cit.,pag.26,30. e e 2 particolare
circa l'influenza del papato sui destini d'Italia, in cuii due eminenti pensatori
hanno punti di contatto e altri che li dividono. Afferma Machiavelli avere la
Chiesa cattolica di Roma tenuta l'Italia divisa, ed essere stata causa che non
potesse venire sotto un capo e rimanesse sotto a più principi e signori, dai
quali le venne tanta disunione e debo lezza da cadere preda dei barbari potenti
e di chiun quel'assaltasse. G. Risponde. Non si può dire tanto male della corte
romana,che non m e riti se ne dica più,perchè è un'infamia,un esemplo di tutti
i vituperî e obbrobrî del mondo.» È con vinto essere stata causa la grandezza
della Chiesa che l'Italia non sia caduta in una monarchia. Pure è dubbioso se
il non essersi organata nella monarchia sia stata felicitào infelicità di
questa nostra terra, poichè la divisione sua in tanti dominî, malgrado le
sofferte calamità, produsse le sue glorie comunali. Osservazione profonda e
vera,poichè se l'Italia fosse caduta sotto il dominio di uno solo, le varie
regioni, in cui si divise,non avrebbero prodotto l'energia in dividuale dei
comuni, che creò tanti tesori in molte parti dello scibile e della attività
umana, nei com merci e nelle industrie,preparando gli splendori della
Rinascenza,che furono fiaccola alla civiltà del mondo . G. rimane ad osservare
la realtà delle cose che aveva d'attorno e non voleva seguire lM a
chiavelli,che lanciava il suo guardo di aquila oltre i confini d'Italia, a
osservare il formarsi delle nazioni unitarie , giovani e forti, aventi un vivo
sentimento patrio. Secondo il segretario fiorentino,l'Italia,divisa e
debole,non poteva difendersidalle loro cupidigie d'in grandimento, e già cadeva
sotto i loro colpi brutali, mentre nei secoli passati, senza la piaga del
papato, essa pure avrebbe potuto divenire di mano in mano una nazione unita e
forte sotto i suoi legislatori, ed ora non si sarebbe trovata immersa in tante
infelicità. Nella quistione sulla lotta fra la plebe e la nobiltà, che
agitò ROMA e Firenze,non vanno d'accordo. Machiavelli osserva che le divisioni
di Firenze furono esiziali alla città, perchè la vittoria del popolo porto
larovinadeigrandi:quellediRoma inveceriesci rono di grandezza allo Stato,perchè
ilpopolo,rima sto a combattere sulla via della legalità,si accontentò di
rivendicare isuoi giustidiritti; e,conseguitili,di vise coll'aristocrazia il
governo. A queste giuste e originali osservazioni risponde G.,e com batte la
maniera assoluta con cui sono dette : « Se da principio o non fosse stata
questa distinzione tra patrizî e plebei, o se almanco si fosse data la metà
degli onori alla plebe come si fece poi, non nasce vano quelle divisioni,le
quali non possono essere lau dabili,nè si può negare non fossero
dannose,sebbene in qualche altra repubblica manco virtuosa avrebbero fatto più
nocumento. Laudare le disunioni è come laudare in uno infermo la infermità,per
la bontà del rimedio che gli è stato applicato.?» E ponendo mente all'ambizione
di uominicospicui, che approfittarono delle lotte fra popolo e nobiltà per
impadronirsi del governo, G. dice come APPIO CLAUDIO (si veda) e rovesciato dal
potere non per essersi unito ai grandi a combattere il popolo, mentre doveva
fare altrimenti, ma perchè tenta di rovesciare la repubblica, la quale e allora
governata da ottime leggi, piena di santissimi costumi e ardentissima nel
desiderio della libertà. MANLIO CAPITOLINO, sebbene procedesse contro il senato
con arte meramente popolare, pure fu oppresso dal popolo medesimo, appena capì
che cercava di spegnere la libertà. SILLA occupa la tirannide a Roma elastabili
con l'aiuto della nobiltà; il Duca d’Atene si fece tiranno a Firenze col favore
dei grandi, che non seppe mantenersi fedeli per la sua imprudenza e leggerezza.
GIULIO CESARE si fa signore di Roma col favore della plebe.Così nell'una parte
e nell'al tra si trovano molti esempi e ciascuna parte ha le sue buone ragioni.
« I partiti non si possono pigliare con una regola generale, ma la conclusione
s'ha a cavare dagli umori della città, dall'essere delle cose che varia secondo
le condizioni dei tempi e altre oc correnze che girano. Secondo G. chi ha seco
la nobiltà ha un fondamento più gagliardo di riuscita : chi ha il popolo dalla
sua parte ha più seguaci, ma la potenza sua è meno sicura, per il mutarsi degli
umori della moltitudine. Il principio annunziato dal Machiavelli che sono
lodevoli i fondatori di una repubblica o di un regno quanto vituperevoli quelli
di una tirannide, è dal G, trovato giusto. Però,egli dice con rettitu dine,non
bisogna confondere gli esempî, perchè qual che volta può darsi che le forme
della libertà sieno così disordinate e le città ripiene tanto di discordie
civili,da condurre qualche cittadino,non potendo sal varsi altrimenti,a cercare
la tirannide o ad aderire a chi la cerca. Mentre è detestabile in GIULIO
CESARE, pieno dialtavirtù,ma oppresso dall'ambizione del dominare : accade pure
al governo della plebe di diventare tirannico e allora,dai perseguitati,si
desidera la m u tazione dello Stato. G., quando siferma a meditare sulla storia
di Roma antica, vi guarda dentro con l'occhio del politico,non con quello dello
storico.Non si cura di ricercare se i re sono esistiti veramente ovvero se
simboleggiano le varie età che si succedettero presso la gente romana così
famosa : questi dubbî,già balenati alla mente degli umanisti delsecoloXV, non la
tocca nonemmeno. Egliguarda soltanto ai caratteri della politica romana, e, contro
il parere del Machiavelli, afferma che, eccettuata disciplina militare,
Roma ebbe un governo in molte partidifettoso, come,peresempio,lafacoltà accor
data ad un uomo di fermare le azionipubbliche e le deliberazioni della
città,come feceroiconsoli, anche togliendo ilfreno deltribuno.In potestà dei
consoli fu il diritto di privare dell'autorità senatoria uomini onorandi come MAMERCO
EMILIO. Egli è pure del parere del Machiavelli che la prolungazione degl'imperî
fu occasione grande a chi volle occupare la repub blica, perchè era istrumento
a farsi amici i soldati eseguitocoire. Mailfondamentodeimalifulacor ruzione
della città,la quale,datasi all'avarizia,alle delizie, era in modo degenerata
dagli antichi costumi che ne nacquero le divisioni sanguinose della città,
dalle quali sempre ne'popoli si viene alle tirannidi. Però quando Roma non fu
corrotta,la prolungazione degl'imperî e la continuazione del consolato, che nei
tempi difficili usò molte volte, furono cosa utile e santa. Conchiude che se
non fussino state le pro lungazioni,non sarebbe mancato nè a Cesare nè agli
altri che occuparono la repubblica, nè pensiero ne facoltà di travagliarla per
altra via,essendo la città corrotta? » Non ostante la loro
somiglianza,idue grandi po litici fiorentini avevano tendenze intellettuali
diffe renti, e spesso si trovavano in disaccordo.Nelle m a s sime che
risguardano laguerra, Machiavelli sostiene che si deve fare col ferro e non
coll'oro: ibuoni sol dati soltanto sono il nervo della guerra e non l'oro:
occorrono certo I danari,ma in secondo luogo,essendo impossibile che abbino a
mancare ai buoni soldati. Il Guicciardini, che si attiene alla vita reale del
se coloXVI, incuinonc'eranoarmiproprie,se si eccettua il tentativo fatto in
Firenze sotto il gonfaloniere SODERINI, per impulso generoso del Machiavelli
;CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. il G., ilquale era stato governatore di pro
vincie, commissario generale negli eserciti e cono sceva la venalità dei
capitani e delle milizie, che per il danaro calpestavano la fede giurata e
rinne gavano sin anche la patria,non poteva essere dello stesso avviso,sapendo
per esperienza che occorreva danaro per avere illustri capitani, milizie e
buone fortezze. Del resto, se egli sostiene che il danaro è il nervo della
guerra, non intende che i danari soli bastino a fare la guerra, nè siano più
necessarî dei soldati, perchè sarebbe stata opinione falsa e ridi cola.
All'incontro intese « che chi faceva la guerra, aveva bisogno grandissimo di
danari e che senza quelli era impossibile a sostenerla, perchè non solo
sononecessarîperpagareisoldati,ma per provve
derelearmi,levettovaglie,lespie,lemunizioni e tanti istrumenti che si adoperano
nella guerra ;iquali ne ricercano tanto profluvio,che a chi non l'ha pro vato è
impossibile a immaginarlo. E sebbene qualche volta un esercito scarso a danari
con la virtù sua e col favore delle vittorie li provvede,nondimeno ai tempi
nostri massime sono esempli rarissimi :e in ogni caso e in ogni tempo non corronoidanari
dietro agli eserciti, se non da poi che hanno vinto.'» A questo disaccordo si
aggiunse l'altro intorno alle fortezze e alle armi da fuoco,che ilMachiavelli,
per stare troppo attaccato all'esempio dei Romani, non tiene in nessun
conto,dicendo le fortezze più dan nose che utili. Il G. lo riprende con ragione
e dice : « Non si deve lodare tanto l'antichità che l'uomo biasimi tutti gli ordini
moderni che non erano in uso appresso a’ Romani, perchè la esperienza ha
scoperte molte cose che non furon considerate dagli antichi, e, per essereinoltrei
fondamenti diversi,con vengono o sono necessarie a una delle cose che non convenivano,o
non erano necessarie all'altre.Però se iRomani nelle città suddite non usaronoedificarefor
tezze,non è per questo che erri chi oggidi ve le edifica : perchè accadono
molti casi,per i quali è molto utile avere fortezze. E quella ragione che si
adduce nel Discorso, che le fortezze danno animo a'principi a essere insolenti
e fare mali portamenti, è molto fri vola,perchè se s’avesse a considerare
questo,avrebbe un principe a stare senza guardia, senza esercito, senza armi.
Dipoi le cose che in sè sono utili,non si debbon fuggire, sebbene la sicurtà
che tu trai da loro tipossa dare animo a essere cattivo:verbigra zia,sideve
biasimarelamedicina, perchè gliuomini, sotto fidanza di quella, si posson
guardare manco da 'disordini e dalle cagioni che fanno infermare? Certo si deve
deplorare che queste fortezze il G. l’estimasse utili soltanto ai principi per
guar darsi dai popoli,desiderosi di cose nuove,e tenerli obbedienti col
terrore. Però, come è maraviglioso questo duello tra due ingegni grandissimi
che s'incontrano sul campo del l'antica sapienza governativa:sono due
gigantiuguali di forze, muniti delle stesse armi,che si contendono una gloriosa
vittoria nel più difficile conflitto. Il G., come uomo di Stato, supera d'assai
il Machiavelli,e bastano a dimostrarlole osservazioni che di mano in mano
contrappone ai Discorsi del celebre segretario sulla prima Deca di Tito
Livio,nelle quali, colla fredda acutezza della sua mente calma,colpisce sempre
il lato debole dell'avversario e ne distrugge, colla sua logica implacabile,i
ragionamenti poetici ed entusiastici, mettendone a nudo ora la fallacia, ora la
indeterminata incertezza. Nella storia dei pen satori italiani non si trova una
figura che possa reggergli a paro. È da lamentare che il tempo sia mancato al G.
per continuare il suo esame intorno ai discorsi del Machiavelli sulla prima
Deca di Tito Livio,perchè ci avrebbe rivelato maggior mente la potenza della
vigorosa argomentazione del suo genio pratico di fronte a quello idealista del
se gretario fiorentino. Francesco Guicciardini. Guicciardini. Keywords:
implicatura, il concetto di stato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guicciardini:
l’implicatura particolarizzata” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Guzzi: l’implicatura conversazionale della lingua inaudita -- la lingua
inaudibile, la lingua audita – filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “My favourite is his dictionary of the unheard tongue
– with a foreword like sounds like Blair on newspeak!” - Filosofo. Studia al
Liceo classico statale Giulio Cesare. Direttore dei seminari del Centro studi Eugenio
Montale. La poetica di G., fin dall'inizio, si è concepita come un'esperienza
spirituale, una ricerca di stati più dilatati della coscienza, sulla scia della
linea che da Hölderlin, e attraverso Rimbaud, arriva fino al nostro migliore
ermetismo. La ricerca teoretica di G, ha affrontato, in particolare nel saggio
filosofico La svolta, significativamente sottotitolato "La fine della
storia e la via del ritorno", il tema del cambiamento epocale che a suo
avviso l'uomo è chiamato a conoscere e riconoscere, dentro e fuori di sé. Opere:
Raccolte di poesia Anima in vetrina, Il
Giorno, Scheiwiller, Teatro Cattolico, Jaca, Figure dell'ira e dell'indulgenza,
Jaca, Preparativi alla vita terrena,
Passigli, Nella mia storia Dio, Passigli, Parole per nascere,Paoline, Saggi di filosofia e di religione La Svolta,
Jaca, Rivolgimenti, Marietti, L'Uomo Nascente, Red, Passaggi di millennio,
Paoline, L'Ordine del Giorno, Paoline, Cristo e la nuova era, Paoline, La
profezia dei poeti, Moretti e Vitali, Darsi pace, Paoline, La nuova umanità,
Paoline, Per donarsi, Paoline, Yoga e preghiera cristiana, Paoline, Dalla fine
all'inizio, Paoline, Dodici parole per
ricominciare, Ancora Il cuore a nudo,
Paoline, Buone Notizie, Ed. Messaggero Imparare ad amare, Paoline L'Insurrezione dell'umanità nascente,
Edizioni Paoline, Fede e Rivoluzione,
Paoline Il profilo dell'Uomo di Dio,
Paoline Alla ricerca del continente
della gioia, Paoline “Dizionario della
lingua inaudita” Lingua e Rivoluzione, Paoline. Grice: “Guzzi plays with
‘lingua inaudita’ – literally ‘unheard of’ – but ultra-literally turns his
dictionary into a magical oxymoron! Marco Guzzi. Guzzi. Keywords: lingua
inaudita, lingua audita, lingua e rivoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Guzzi” --- The Swimming-Pool Library.
Grice e
Guzzo: l’implicatura conversazionale -- pagine di filosofi – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I admire Guzzo; he founded
‘Filosofia,’ a philosophy magazine and led a school at Torino, but he selected
‘pagine di filosofi per i giovani italiani.’ He wrote interesting essays on
“Gli hegeliani d’Italia” and Croce versus Gentile – a very systematic
philosopher. The logo of his revista shows Oedipus and thes sphynx – that says
it all!” Si laurea a Napoli, dove fu allievo di Maturi. Insegna a Torino e
Pisa. Fonda "Erma”. Esponente dell'idealismo, si avvicinò all'attualismo
di Gentile. È considerato quindi uno dei più grandi esponenti dello spiritualismo.
Saggi: “Spinoza”; “Kant”; “Verità e realtà”; “Apologia dell'idealismo”;
“Idealisti ed empiristi”; “Aquino”, “Bruno”; “Storia della filosofia”, “L'uomo”
(Brescia, Morcelliana); “L'io e la ragione”; “Moralità”; “Scienza”; “Arte”;
“Religione; “Filosofia” – P. Quarta, “Guzzo e la sua scuola, Urbino, Argalìa; Dizionario
Biografico degli Italiani, Treccani.L’ISAGOGE DI PORFIRIO E I COMMENTI DI
BOEZIO TORINO L’ERMA, ESTRATTO dagl’Annali dell’
Istituto Superiore di Magistero del Piemonte. TORINO - L’Isagoge di
Porfirio e i Commenti di Boezio. Il Commento di Porfirio alle Categorie
di Aristotele. Questioni su le Categorie. L’Isagoge. Il prologo. Il primo
commento di Boezio al prologo dell’Isagoge. Il secondo commento di Boezio. Le
cinque voci. Il genere. La specie. La differenza. La qualità.
L’accidente. Quel che hanno di comune le cinque voci.Comparazione del
genere con le alti e quattro voci. Comparazione della differenza con le
altre quattro voci. Comparazione della specie con le altre quattro voci. Comparazione
della proprietà con le altre quattro voci. Comparazione dell’accidente con
le altre quattro voci. Il primo commento di Boezio alla dottrina delle cinque
voci. Il dialogo premesso al primo commento di Boezio. Divisione della
filosofia. Il secondo commento di Boezio. Conclusione. Queste esposizioni
di antichi testi molto famosi ma poco letti costituirono l’argomento del corso
di Pedagogia da me professato nell’Istituto Superiore di Magistero del
Piemonte, Volevo dare una conoscenza possibilmente precisa di quel che e
l’istruzione e la cultura nell’alto medioevo ed esposi i testi che in
quei secoli sono più meditati lumeggiando, di scorcio, anche lo sfondo
d’idee su cui sorse più tardi, sui primi periodi dell’Isagoge, la disputa
degli universali. Porfirio, che è autore della celebre Isagoge, o Introduzione
alle X Categorie di Aristotele, è anche autore di un meno noto commentario
alle medesime categorie. Sarà utile studiare almeno la prima parte, cioè
la parte introduttiva di tale commentario. Forse si troverà in essa la
spiegazione del punto di vista dal quale si pone Porfirio nell’Isagoge. Questo
commentario ci è pervenuto mancante dell’ultima parte - quella
riguardante le ultime quattro categorie e i post-predicamenti - e assai
scorretto e guasto anche nella parte precedente. Lo si trova in un codice
modenese miniato, in un codice della Marciana, in uno dell’Escuriale, in
uno parigino, in uno della Laurenziana. E' però dimostrato che di tutti
questi codici il primo, da cui tutti gli altri dipendono direttamente, è
quello modenese. Di sul codice parigino il commento e stampato a Parigi apud
Bogardum. Su questa edizione, che è l’edizione principe, del commentario,
e condotta la versione latina di Feliciano, stampata in Venezia apud Scotum.
L’ edizione critica si deve alle
cure ogica che, ad esporli, si può tutt’al più riescire chiari. Ma
avviciuarli alla comune cultura può forse essere utile. Anche questo
corso, che e rimasto inedito, va messo tra i lavori da me preparati per
l’Istituto Superiore di Magistero del Piemonte. Mi sia permesso enumerarli:
Apologia dell’idealismo (Discorso inaugurale), Torino, Paravia;
Introduzione e Commento al i^edone di Platone, Commento alla Repubblica
di Platone, Agostino: dai Contra Academicos al De Vera Religione^Firenze,
Vallecchi; Agostino, Il maestro^ Traduzione, Intro- duzione, Commento e
Appendici, Firenze, Vallecchi; Tommaso d’Aquino, Il maestro, Traduzione,
Introduzione e Commento, Firenze, Vallecchi; Giudizio e azione, Venezia,
«La Nuova Italia»; Agostino e il sistema della grazia, Torino, «L’Erma»;
Il concetto di individuazione e il problema morale (Discorso inaugurale),
Torino, L’Erma; La Summa contra Gentiles, Torino, « L’Erma », 1931 ; I
Dialoghi del Bruno, Torino, « L’Erma] di Busse, nell’edizione dei commenti ad
Aristotele, promossa dall’Accademia Prussiana: Porphyrii Isagoge et
in Aristotelis Categorias commentarium edidit Busse. — Berolini, Typis et
impensis Reimer). Il commento procede per yììx di domanda e risposta. E’,
in londo, un dialogo, ma in cui le persone degli interlocutori non
hanno alcun rilievo ; la domanda parte da uno che non sa e chiede
spiegazioni. La risposta enuncia, evidentemente, la soluzione che
Porfirio crede si possa e si debba dare alle varie questioni. Le quali
se, da un certo momento in poi, riguardano il più giusto significato da
attribuire alla lettera del testo del LIZIO, prima vertono su problemi che
investono rimpianto stesso del piccolo saggio del LIZIO. Prima questione.
“Categoria” in greco vuol dire accusa, denunzia, fatta all’AGORA, o
assamblea. Come mai Aristotele chiama categorie l' I essenza, la II quantità,
la III qualità, ecc.? La risposa è che il filosofo, costretto talvolta a coniar
parole nuove, tal’altra a dare un significato nuovo a parole consuete,
adopra la parola “categoria” per indicare le espressioni enunciative delle cose
(tàc twv Xé^soov twv a'ijjxavttxwv y.arà twv TUpaYixatcov xat-
YjYopta? TrpoosìTcsv). Sicché, ogni semplice espressione
enunciativa, quando sia pronunciata e detta della cosa enunciata, si
dice categoria. Per esempio: se la cosa che vien mostrata è questa
pietra che tocchiamo e che vediamo, quando di essa diciamo: «questa è
pietra», l'espressione «pietra» è il categorèma, giacché indica la cosa e
vien detta di essa. Seconda questione. — Aristotele chiamò il suo
scritto Categorie o, come altri, Le X Categorie? Porfirio risponde
respingendo tanto questo titolo dello scritto quanto gli altri. Prima
della Topica, dei generi dell'essere, dei X GENERI generi. Non Prima della
Topica perché in tal caso sarebbe stato più esatto dire Prima degl’Analitici,
anzi prima dell’interpretazione, chè il saggio delle Categorie è il più
elementare e introduttivo a tutte le parti della filosofìa, E piuttosto
sarebbe Prima della parte fisica della filosofia. Anziché Prima della Topica:
chè è opera della natura l’ I essenza, il quale e simili. Nè il saggio potrebbe
in nessun caso intitolarsi “Dei generi dell’essere” o “dei X generi,” perchè
gl’esseri e i loro generi e le specie e le differenze sono cose e non
voci. Invece, Aristotele, enumerando le X categorie, l’ I essenza, il II quale,
il III quanto e le rimanenti, dice che ciascuna delle dette si dice per
sé stessa, non per attribuzione, mentre l’attribuzione, o affermazione,
avviene mediante connessione di esse tra loro. Or se è la connessione delle
categorie quella che dà luogo all’asserzione, e se l’asserzione consiste in voce
indicativa e discorso dimostrativo (èv oyjaavrix-^ xai àTio^avTixij)), il
saggio aristotelico non può riguardare i generi dell’essere, nè in
generale le cose. Chè non la connessione delle cose costituisce l’asserzione,
bensì la connessione della voce significativa che indica la cosa.
E Aristotele stesso dice che ciascuna delle categorie dette senza
alcuna connessione significa o l’essenza o il quanto, con quel che segue.
Ora, se Aristotele parla di cose, non direbbe “”significa” l’essenza, chè
la cosa NON SIGNIFICA, bensì E SIGNIFICATA. Ciò che SIGNIFICA è la voce, la
parola: di voci, di parole dunque, tratta Aristotele nelle
Categorie. Perchè, poi, debba essere questo il titolo dello scritto, e
chiaro - dice Porfirio - quando si sia dimostrato il contenuto proprio
del saggio. Quale è dunque il contenuto proprio delle
Categorie? Porfirio risponde rifacendosi di lontano. L’uomo - egli
scrive - giunto a indicare e significare le cose circostanti, pervenne a
nominarle con la voce e a indicare con questo mezzo ciascuna di esse. Il
primo uso che egli fa delle parole e rivolto a mostrare ciascuna cosa per
mezzo di voci e di parole; col quale riferimento delle voci alle cose
questo chiama “sedile”, quello “uomo”, quell’altro “cane” e quell’altro “sole”.
E ancora questo colore chiama “bianco”, quello “nero”; e questo chiamò
numero, quello grandezza ; questo “due cubiti”, quello “tre cubiti”; e
cosi per ciascuna cosa stabili parole e nomi significativi di esse e indicativi
mediante determinati suoni della voce. Stabilite dunque per le cose, come
contrassegno, talune parole, l’uomo, passando ad una seconda impresa e
riflettendo sulle parole stabilite, quelle che si uniscono agl’articoli
chiamò nomi, e quelle come « io passeggio, tu passeggi » chiamò
verbi. Di modo che, se nella prima imposizione di nomi questo
chiamò oro e quello sole, nella seconda la voce < oro » chiamò
nome e la voce < passeggio » verbo. Ora il contenuto delle
Categorìe d’Aristotele è precisamente il primo stabilimento delle parole,
quello che mostra le cose: giacché studia le voci significative semplici,
in quanto significative delle cose, distinguendole non l’una dall’altra
individualmente, chè, di numero, le voci sono infinite come le cose che
significano, ma distinguendole secondo il genere a cui appartengono. Ora
l’infinità degl’enti e delle parole che li significano si lasciano
ridurre a X generi: giacché X sono le differenze di genere degl’enti, e X anche
le voci che le indicano. Ma questo fatto che le voci, simili a messaggere,
prendano le differenze dalle cose che annunziano, non toglie che la
ricerca principale sia, nelle Categorie intorno alle voci
significative, e non intorno alle differenze di genere degli enti. X
sono i generi delle parole in quanto significative di cose: ché
significano o l’essere (la I sostanza), ó la II quantità, la III qualità,
la IV relazione, ecc. (i IX ACCIDENTI della SOSTANZA). Due, invece, sono
le parole che significano il tipo a cui appartengono; giacché tutte
le voci sono di due tipi: o nomi o verbi. Alla quale seconda ricerca -
grammaticale, non logica, diremmo noi appartiene anche distinguere la
espressione propria dalla metaforica e dagli altri tropi. Presentata
cosi la ricerca delle Categorie come una ricerca nè metafìsica, nè
grammaticale, nè retorica. Non metafìsica perchè secondo Porfirio, è
incidentale il riferimento ai generi dell’essere, essendo l’attenzione
rivolta ai generi delle parole significative, in quanto appunto
significano questo o quello. Non grammaticale, perchè nelle « Categorie »
non si distinguono tra loro le varie parti del discorso, che è
distinzione tardiva rispetto a quella che distingue le voci secondo ciò
che significano, non secondo che siano proprie, metaforiche, ecc. Porfirio
osserva che, contro la sua interpretazione che intende la ricerca delle
Categorie come una ricerca, noi diremmo, di filosofia del linguaggio, e gl’antichi
dicevano di logica, comunemente identificando col pensiero la sua
significazione verbale, si schieravano tanto quelli che ritenevano
oggetto principale delle Categorie la ricerca metafisica intorno ai
generi dell’essere, quanto quelli che. credendo oggetto delle Categorie
la ricerca retorica delle espressioni proprie e delle figurate,
ritenevano la distinzione aristotelica delle Categorie o insufficiente o
incomprensiva o, al contrario, sovrabbondante. Fra questi ultimi, per
esempio, i seguaci di ATENODORO e di CORNUTO, studiando le
espressioni proprie ed improprie, e volendo sapere a quali categorie
esse appartenessero, non trovando nel saggio aristotelico risposta
a tale domanda, ritennero manchevole e difettosa l’enumerazione
aristotelica, come non comprensiva di tutte le voci significative.
Invece, secondo Porfirio, rettamente intesero lo scritto d’Aristotele POETO nel
suo commento alle Categorie, e più brevemente ERMINIO. Il quale dice che la ricerca non verte nè su
quelli che in natura sono i primi e generalissimi generi nè studia quali
siano le prime ed elementari differenze delle parole, come se la
trattazione riguardasse le parti del discorso; ma piuttosto verte sulla
specie di parole che risulti appropriata a ciascun genere di enti: onde e
necessario toccare in qualche modo dei generi, a cui le parole si
riferiscono -- chè non si intende la significazione propria di ciascun
genere se qualcosa intorno ad esso non s’anticipa. Poiché X sono i generi,
X sono le categorie. E si potrebbe magari anche intitolare lo scritto
aristotelico Dei X generi se con ciò si significasse solo un riferimento
ai X generi, giacché non di essi si occupa principalmente il saggio. Perchè
il libro verte su le « Categorie e
s’inizia con una trattazione su gl’omonimi e i sinonimi? Perchè
queste sono distinzioni delle quali Aristotele deve fare uso in tutto
l’Organo: perciò le premette ad ogni altra considerazione.
Tralasciamo, ora, il seguito del commento Porfiriano; ma ci gioverà
aver visto come Porfirio intende quelle Categorie alle quali s’assunse lo
storico compito di introdurre . La celebre Isagoge di Porfirio tratta del
genere, della differenza (che, entro ciascun genere, distingue
l’una dall’altra le specie), della specie, della proprietà (che caratterizza
ciascun genere e ciascuna specie) e dell’accidente, che, senza essere
intrinsecamente proprio d’una sostanza,
le si attaglia in talune circostanze. La trattazione del
genere è, però, preceduta da una famosa introduzione, nella quale
Porfirio si rivolge a CRISAORIO, patrizio romano suo discepolo, dicendo. oiché,
o Crisaorio, è necessario anche per la dottrina aristotelica delle
Categorie, sapere che sia genere e che differenza, e che sia specie e che
proprietà e che accidente; siccome e per assegnar le definizioni e in
generale per quel che riguarda la divisione e la- dimostrazione è utile
l’indagine di tali cose: io, facendo per te una compendiosa
trattazione, tento brevemente, come a mo’ di introduzione, di
spiegare il pensiero degli antichi, astenendomi dalle ricerche, più
€ profonde e investigando, invece, opportunamente le più semplici. Le
ricerche più profonde, da cui Porfirio professa di astenersi, riguardano
la realtà dei generi e delle specie, in una parola degli universali.
Difatti Porfirio continua. Ora, riguardo ai generi e alle specie, se esistano o
invece c stiano solo nel pensiero e, dato che esistano, se siano
corpi o incorporei, e se separati o esistenti nei sensibili e non fuori
di essi, io evito di dire, profondissima essendo questa questione e
richiedendo essa altra maggiore ricerca. Onde Porfirio conclude dicendo che si
limiterà a cercare d’esporre a CRISAORIO ciò che gli antichi meditarono
intorno a questi argomenti, e tra essi specialmente i Peripatetici. Porfirio,
dunque, tratta dei generi e delle specie senza determinare se siano idee,
cioè enti metafisici, o semplici concetti, esistenti solo nella mente che
li pensa. Ma, per conto suo, per quale di queste dottrine propende? Grià
si è visto che egli considera generi, specie e differenze cose, non voci e
che, in generale, ritiene che le distinzioni logiche trovino la loro
ragion d’esseie in altrettante distinzioni metafisiche di cui si fanno
espressione. Per Porfirio dunque, generi e specie riguardano l’essere, e
se egli prelude alla logica aristotelica trattando d’essi, in fondo egli
ridà alla logica d’Aristotele il fondamento della dialettica platonica,
tutta diretta a distinguere generi e specie e valida, nella filosofia di
Platone, tanto oggettivamente, come metafisica, quanto
soggettivamente, come logica. Questo punto di vista
realistico da cui è scritta l’intera Isagoge non sfugge, nonostante tutto, al
commentatore BOEZIO, il quale torna sulla importante questione cosi nel
primo come nel secondo dei suoi commenti all’Isagoge. È noto che i
due commenti son diversi tra loro in quanto il primo si dirige ai
principianti e quindi evita le discussioni troppo complicate e sottili,
il secondo, invece, vuol indurre i discepoli già provetti a una
ginnastica mentale adatta alle loro forze e alla loro preparazione. Non è
meraviglia, quindi, che la questione degli universali — giacché ormai di
essa si tratta — e impostata diversamente nei due commenti, sebbene
la trattazione giunga a risultati assai affini. Il primo commento
di BOEZIO giunge a interpretare il prologo dell’isagoge solo al decimo
capitolo, e mostra chiaro lo sforzo di ricorrere alle argomentazioni e
dimostrazioni più semplici, affinchè i principianti possano intenderle ed
afferrarle. In verità Porfirio pone e rinvia tre questioni: se generi
e specie esìstano davvero o stiano solo neirintelletto e nella
mente; se siano corporei o incorporei; se siano separati o uniti con
i sensibili. Rispetto alla prima questione, se generi e specie
esistano davvero, o stiano solo nell’intelletto e nella mente, BOEZIO
sembra interpretarla in un modo che forse non coincide interamente con ciò che
intende Porfirio. Questi intende domandarsi: generi e specie sono idee
platoniche, cioè enti, o invece concetti aristotelici, cioè universali
puramente mentali nati nel pensiero e dal pensiero? Se sono idee
platoniche, si intende che sono, non solo incorporee, ma separate. Se
invece sono concetti aristotelici, essi corrispondono, nella mente,
a forme che nella realtà vivono intrinsecate nelle cose sensibili.
La questione, dunque, è : gli universali vanno concepiti platonicamente, ante
rem, o aristotelicamente, post rem, giacché in re essi esistono, ma
intimi alle stesse cose particolari? Se questo è ciò che intende
domandarsi Porfirio, si capisce come egli preferisca rimandare questa
controversia prò Platone o prò Aristotele a un momento in cui il suo
discepolo CRISAORIO sia già innanzi negli studi filosofici. Ma BOEZIO intende
la questione in maniera assai diversa. Egli non intende i generi e le
specie se non come universali mentali post rem, come concetti aristotelici. La
conoscenza si inizia con la sensazione: per sensuum qualitatem res
sensibus subiectas (animus) intellegit. Dalla sensazione lo spirito parte per
concepire le specie ed i generi: et ex bis -- le cose sensibili -- quadam
speculatione concepta, viam sibi ad incorporalia intellegenda praemunit. Così,
quando vede i singoli individui umani, sa d’aver visto uomini, sa che
sono uomini quelli che ha visti. Di qui lo spirito sale a discernere la
stessa specie uomo, incorporea perchè non si concepisce che con la mente
e l’intelligenza. Ma, come movendo dalla sensazione lo spirito giunge a
comprendere le cose incorporee, così, movendo dalle stesse sensazioni, lo
spirito arriva a immaginarsi, per esempio, un centauro, la cui fallace
immagine si compone di elementi della forma umana ed elementi della forma
equina. Or si domanda: generi e specie sono concepiti con verità, sicché
comprendiamo la specie uomo giustamente ricavandola dai singoli uomini corporei,
o invece sono immaginati con finzione mentale pari a quella di cui
parla ORAZIO nell’Arte Poetica, quando dice: « fiumano capiti cervicem
pictor equinam iungere si velit»? Come si vede, BOEZIO non crede che la
domanda di Porfirio sia rivolta a sapere se gl’universali siano reali o
puramente mentali, ma se siano concetti veri o pure finzioni dell’immaginazione.
Il che significa porsi già su terreno prettamente aristotelico, giacché
tutto si riduce a domandare se gl’universali post rem siano rettamente pensati
o fallacemente immaginati, o, con altre espressioni, se siano concetti o puri
sogni e chimere. La risposta che BOEZIO dà a questa domanda è, se
non erriamo, singolarmente infelice. Per lui non è dubbio che i generi e
le specie sono veramente. Difatti, come tutte le cose che veramente sono
senza queste cinque: non possono essere, così non si può dubitare che
anche queste cinque son concepite con verità -- vere intellectas. Che è una strana maniera di presupporre
gl’universali reali nelle cose sensibili, quando proprio la domanda è se
gli universali siano reali o fallaci. Per BOEZIO, genere, specie, differenza,
proprietà, ed accidente, queste cinque distinzioni nelle cose sono conglutinatae
et quodam- modo coniunctae atque compactae. Difatti, perchè
Aristotele parla delle prime X espressioni (sermonibus) significanti i
generi delle cose, o perchè raccoglierebbe le loro differenze e proprietà e
toccherebbe degl’accidenti, se non li avesse visti nelle cose
intrinsecati e in qualche modo riuniti -- in rebus intima et quodammodo
adunata ? In base a questa argomentazione BOEZIO conclude che se è cosi,
non c’è dubbio che siano veramente e sian tenute (le cinque distinzioni)
con giusta riflessione -- certa animi consideratione. Ma si vede
chiarissimo che BOEZIO dà per certa e dimostrata la concezione aristotelica
degl’universali come forme immanenti nelle cose particolari, onde
conclude che lo spirito, pensandoli, è nel vero e non nell’errore delle
pure finzioni immaginarie. Ma se la questione erper Porfirio se gli universali
fossero reali o puramente mentali, e per BOEZIO se fossero concetti veri o mere
finzioni immaginarie, nè la questione porfiriana, nè quella boeziana
possono essere risolte con l’appellarsi alla concezione aristotelica di
universali reali nei particolari, e quindi veri, post rem, nello spirito umano.
Questo è un affermare il temperato realismo aristotelico, non un risolvere
la questione con un procedimento dimostrativo. BOEZIO presuppone dimostrato l’aristotelismo
per decidere in senso aristotelico e su l’autorità di Aristotele la
questione da lui posta. Senonchè BOEZIO trova un’altra conferma
realistica- della sua opinione nell’assenso, per quanto tacito, dello
stesso Porfirio. Giacché, egli dice, Porfirio, come se già fosse risaputa
e provata la realtà degl;universali, domanda se siano corporei
o incorporei. La quale domanda sarebbe troppo frivola e assurda se
non si fosse prima assodata, per gl’universali, quella realtà che ora si
domanda se sia corporea o incorporea. Ma anche qui forse BOEZIO,
neirinterpretare Porfirio, va lontano da quello che egli intende dire.
Porfirio domanda: — generi e specie sono reali o puramente mentali? Se
reali, nel senso platonico, sono enti incorporei; se meramente mentali,
non si può ad essi attribuire altra realtà che nei corpi stessi. Vale a
dire, se reali, nel senso platonico, sono separati: se meramente
men- tali, non possono concepirsi che immanenti nei corpi,
congiunti con essi e da essi inseparabili, tranne che per astrazione
nel pensiero umano. Se questa che qui proponiamo fosse una
interpretazione plausibile del celebre prologo porfiriano, le domande ivi
contenute in realtà non sarebbero tre, ma una sola: gli universali
sono reali, o mentali? vale a dire, sono incorporei, o esistono nei
corpi? cioè, sono separati, o intrinsecati nei corpi e da essi inseparabili?
Ma BOEZIO le intende come tre domande, ciascuna delle quali presupponga
già risolta in un determinalo senso le precedenti. Difatti, egli dice:
solo se alla prima domanda « se gli universali siano reali » si risponde
affermativamente, si può poi domandare se esistano come corpi o come
incorporei ; e parimenti, solo se a questa domanda si risponda affermando
Tincorporeità degli universali, si può domandare se, essendo incorporei,
esistano separati dai corpi o siano da essi inseparabili. Rispetto
alla seconda questione « se gli universali siano corpi 0 incorporei »
Boezio tratta separatamente il genere dalla specie. Quanto al
genere egli dice, « quia incorporeorum prima natura est», può una cosa
incorporea essere madre di una corporea, ma non viceversa, giacché, la
sostanza essendo il genere, e corporale e incorporale le specie, il
genere non può essere corporale, chè, se fosse tale, la specie incorporea
non potrebbe subordinarglisi. Dal che discende che il genere non
deve essere nè corporeo nè incorporeo, si da poter avere per specie così
il corporeo come Tincorporeo. E qui Boezio solleva una questione di
grandissima importanza. Se il genere non può avere nessuna delle
determinazioni che costituiscono le proprietà delle specie e le loro
reciproche differenze, donde nascono nelle specie queste differenze che
nel genere, da cui pure le specie derivano, non ci sono? Non si può
pensare che il genere animale possegga tanto la proprietà della
ragionevolezza quanto quella della irragionevolezza: chè posse- dere in
sè due contrari sarebbe impossibile. Bisogna dunque che, per poter dare
luogo cosi alBuna come alEaltra delle due specie, il genere non abbia nè
Buna nè Taltra delle due differenze specifiche: non sia nè Tuna nè
l’altra specie, pur contenendole entrambe « vi sua et potestate » .
Ed anche questa è, come si deve, una soluzione prettamente
aristotelica della questione: il genere è «in potenza» le sue specie,
senza essere « in atto » nessuna di esse. Ma non è qui il caso di
saggiare la consistenza o la inconsistenza di un simile tentativo di
spiegazione che, non riuscendo a dar ragione del nascere delle
differenze, le presuppone già esistenti, e tuttavia non ancora reali,
giacché sono potenziali, virtuali). Si è visto dunque che per
Boezio il genere non è nè corporeo, nè incorporeo : il che significa, su
questo punto, non rispondere alla domanda di Porfirio, ma sottrarsi ad
essa. E la ragione di tutto ciò è chiara. Porfirio è tutt’ altro che
convinto che gli universali siano puri concetti: ecco perchè egli tende
ad affer- marli reali e incorporei. Ma per Boezio gli universali
sono semplici concetti: e però, per quanto sia anch’egli convinto
con Platone ed anche con Aristotele, che Tincorporeo è, per natura,
prima del corporeo, pure è costretto, dalla sua concezione mera- mente
logica e non metafisica degli universali come concetti e non come idee, a
pensare il genere come privo delle determinazioni che saranno proprie
delle specie: a costo di non sapere più d donde derivino alle specie
queste differenze, che sono estrai alla sola fonte delle specie che è il
genere. Ma Boezio si illude che ammettere la potenziale
presei delle differenze specifiche nel genere sciolga la difficoltà:
( inoltra nella considerazione meramente logica del genere co
semplice concetto, adatto esclusivamente alle classificazi scolastiche
dei concetti secondo la loro estensione, mentre, ] Platone, il genere era
pregnanza di realtà o idea. Quanto alle specie Boezio ne ammette di
corporee e di ine poree: specie corporea l’uomo; incorporea:
Dio. Parimenti le differenze: «quadrupede» è differenza cor rea ;
< ragionevole * differenza incorporea. Cosi anche le proprietà:
corporee di cose corporee; ine poree di cose incorporee. E lo
stesso è degli accidenti: accidente incorporeo è nello s ritolascienza:
accidente corporeo èsul capo la capigliatura cres Insomma per BOEZIO,
solo il genere è neutro, nè corpor nè incorporeo: ma le specie, le
differenze, le proprietà e accidenti sono corporei se appartengono ai
corpi, incorporei appartengono allo spirito. Senonchè, in
questa teoria, lo stesso Boezio, che non potuto riconoscere incorporeo il
genere per la sua conside zione meramente logica di esso, ammettendo
corporee le spe( le differenze, le proprietà e gli accidenti delle cose
corpor rinunzia a considerare specie, differenze ecc. come distinzi
meramente logiche, e non solo le pensa metafisicamente intr secate nelle
cose singole, ma fatte una cosa sola con esse, da ricevere la loro stessa
natura. Torna, bensì, a una considerazione meramente logica
de distinzioni porfiriane, stabilendo, dopo la prima, ora espos una
seconda teoria, che peraltro egli presenta come una teo altrui. Secondo
questa teoria il genere va considerato coi genere, come pura
determinazione logica o concetto. E se sostanza è genere, non dev’essere
considerata come una sostanza, ma come un genere, cioè come qualcosa che
ha delle specie sotto di sè. Cosi pure la specie. Corporeo e incorporeo
saranno specie della sostanza. Ma essi vanno considerati come pure
specie, cioè come concetti che stanno sotto un genere. Pari • menti le
differenze: bipede e quadrupede sono differenze in quanto Puno
contrapposto all’altro : vanno, dunque, considerati non come un bipede e
un quadrupede, ma come pure differenze logiche. Similmente le proprietà
non vanno considerate nel loro contenuto, ma come pure caratteristiche
logiche della specie. Così intesi, generi, specie, differenze e proprietà,
come pure distinzioni logiche, non possono essere, secondo la teoria
che Boezio espone senza aderii-vi, se non incorporei. Mentre gli
accidenti avrebbero la natura delle cose a cui accadono: sareb- bero
quindi corporei o incorporei a seconda delle sostanze. Sia qui
notato subito che questa affermazione metafìsica della incorporeità di
quattro fra le cinque distinzioni porfiriane proprio perchè distinzioni
meramente logiche, è una afferma- zione cosi male impostata da non poter
resistere alla più sem- plice critica. Come semplici distinzioni logiche
esse non hanno nessuna natura: il loro contenuto ha una determinata
natura, non esse: nella specie < uomo », l’uomo è corporeo e
ragionevole, ma € la specie » nè corporea nè ragionevole. Affermare
quindi la incorporeità della specie come distinzione logica, come
con- cetto, è impossibile; per dirla incorporea bisogna
considerarla come idea, come ente metafìsico, non come determinazione
lo- gica. Ma dirla incorporea perchè logica è un abuso inammis-
sibile di pensiero, e, in ogni caso, attesta quel continuo oscillar e tra
logica e metafìsica che è cosi caratteristico nella ti'adizione
aristotelica. Pensati gli universali come concetti, essi non sareb- bero
più suscettibili di nessuna considerazione metafìsica: in- vece
continuano a essere dichiarati, metafìsicamente, incorporei, primi per
natura, ecc., mentre, come puri concetti, essi non sono che vuoti termini
classifìcatorii. Ma Boezio continua a esporre la teoria della
incorporeità delle distinzioni logiche, dicendo che coloro i quali
sostengono tale teoria s’appoggiano all’autorità di Porfirio stesso, il
quale, come se fosse già dimostrata la incorporeità dei generi, delle
differenze, ecc., domanda se siano separati o uniti alle cose sensibili:
chè, se fossero corporei, sarebbe assurdo domandare se siano disgiunti
dalle cose sensibili o congiunti. Boezio, in- vece, dà tutt’altra
interpretazione a questa domanda porfiriana, in quanto la intende come se
suonasse: «gli universali sono sempre separabili dai particolari
sensibili, o a volte inseparabili?», e però non gli sembra che la domanda
porfiriana presupponga, come se già fosse risaputa e dimostrata,
l’incorporeità di tutte le specie, differenze, proprietà, ecc. in quanto
pure determina- zioni logiche. Egli passa perciò a interpretare
direttamente la terza domanda, lasciando da parte la teoria della
incorporeità dei concetti, ed ha l’aria di averla riferita a puro titolo
di infor- mazione, ma ritenendola infondata e insostenibile. Per
lui, dunque, le specie sono talune corporee, talune incorporee. Si
domanda se siano sempre congiunte alle cose particolari, o pos- sano a
volte disgiungersene. BOEZIO, per chiarire la domanda porfiriana,
distingue tre specie di cose incorporee: Cose incorporee affatto
insuscettive di corpo, come lo spirito e Dio; Cose incorporee
inconcepibili senza i corpi, come lo spazio vuoto che è immediatamente
oltre i termini di una figura geometrica ; Cose incorporee che sono
corpi e possono essere senza corpo, come l’anima. Si domanda
se generi, specie, differenze, ecc. siano di quegli incorporei sempre
separati da corpo, o di quegli altri che mai non possono separarsene, o
infine di quelli che a volte si uni- scono, a volte si separano.
La risposta di Boezio è che possono congiungersi e possono
separarsi: che nelle cose corpoi'ee son congiunti a corpo, nelle
incorporee disgiunti da corpo. Ma non bisogna credere che tutte le
specie, le differenze, le proprietà, ecc. siano congiungibili o
disgiungibili dai corpi; al contrario quelle delle cose corporee sono
inseparabili da tali cose corporee, come lo spazio è inseparabile dai
corpi che limita; e quelle delle cose incorporee, come le proprietà
dello spirito non si trovano che nello spirito, che è perfettamente
separato dal corpo. Boezio ribadisce la sua concezione : ci sono due
ordini di realtà: corporee ed incorporee; le incorporee sono per natura e
dignità anteriori alle corporee, e andrebbero considerate come loro
fonte: senonchè Boezio concepisce le corporee e le incorporee come tra
loro coordinate, e le subordina entrambe ad un genere nè corporeo nè
incorporeo, che avrà magari in sè la potenza delle une e delle altre, ma
che intanto, così astratto e sopraordinato ad esse, è il vertice di una
clas- sificazione logica da scuola, non la genesi del reale. Nel
secondo commento di BOEZIO le domande di Porfirio sono presentate ed
interpretate come nel primo: ma ne è diversa la trattazione.
Le questioni « et perutiles et secretae, et temptatae quidem a
doctis viris nec a pluribus dissolutae», non trattate ancora da Porfirio
per non ingenerare oscurità nel lettore impreparato, ma tuttavia
accennate affinchè il lettore, una volta rafforzato dal sapere, sappia
che domandare, sono da Boezio formulate così : Lo spirito 0 , con
Pintelletto, concepisce, afferra quello che realmente esiste in natura e,
con la ragione, lo copia in sé stesso; oppure, con vuota immaginazione,
dipinge a sé mede- simo ciò che non esiste. Si domanda dunque come sia
Pintendimento che noi abbiamo del genere^ della specie, ecc. : se
intendiamo generi e specie come cose esistenti delle quali prendiamo vera
comprensione, o se invece noi stessi ci ingan- niamo immaginandoci con
vano pensiero cose che non sono. Che se si ammette che dei generi, delle
specie, ecc. abbiamo un vero concetto, rimane da determinare se
siano corporei o incorporei: giacché tutto ciò che esiste deve
essere corporeo o incorporeo, e non si intenderà bene cosa siano i
generi e le specie finché non si sappia se porli tra le cose corporee o
le incorporee. Che, se si ammette che generi, specie, ecc. siano
incorporei, rimane ancora da stabilire se, pur essendo incorporei,
esistano nei corpi, o se invece sembrino essere sussistenze indipendenti
anche senza corpi. Giacché ci cono due specie di cose incorporee (qui BOEZIO
sopprime la terza specie da lui distinta nel primo commento: quella delle
cose incorporee che a volte si uniscono ai corpi, a volte se ne separano,
e la fonde senz’altro con la prima specie): ci son cose incorporee
che possono esistere senza corpo e, separate dai corpi, perdurano
nella loro incorporeità, come Dio, la mente, Tanima ; altre cose
incorporee, invece, non possono esistere senza i corpi, come la linea, la
superficie, il numero e le varie qualità, che noi diciamo incorporee
perchè non si estendono nelle tre dimensioni, ma che esistono nei corpi
siffattamente da non poterne essere strappate o separate, o da svanire se
separate dai corpi. Come si vede, le questioni sono impostate come
nel primo commento. Ma qui Boezio si propone di trattarle
altrimenti: < primum quidem panca sub quaestionis ambiguitate
proponam, post vero eundem dubitationis nodum absolvere atque
explicare temptabo. nsomma, prima egli moverà un attacco, che vorrebbe
essere a fondo, contro ogni concezione platonica o aristotelica
degli universali, sia come reali, sia come concetti: poi giustifi-
cherà la concezione aristotelica tentando di dimostrare che son veri, nel
pensiero, gli universali, pur non essendo reali, in natura, se non nei
particolari. BOEZIO scrive: i generi e le specie o sono e
sussistono, o si formano con Tintelletto ed esistono solo nel pensiero,
ma non possono essere generi e specie. Anzitutto, generi e
specie possono essere considerati reali? Una cosa che nello stesso
tempo sia comune a più altre, non può essere una: specialmente se sia
tutta in molte contempora- neamente. Ora il genere dovrebbe essere uno in
tutte le sue specie : e non nel senso che ogni singola specie prenda per
sè una parte del genere, ma nel senso che ogni singola specie ha in
sè tutto il genere. Or questo genere che è tutto in ciascuna delle sue
specie contemporaneamente, come può essere uno? giacché, se è tutto in
più specie, in sè non può essere uno di numero. E se non può essere uno,
non è nulla assolutamente, perchè tutto ciò che è, è perchè è uno. E lo
stesso va detto della specie. Che se si dice che la specie o il genere
esiste, ma molteplice di numero, non uno, non sarà il genere ultimo,
bensì avrà sopra di sè un altro genere, che includa quella
moltepli- cità nella propria unità. E, daccapo, se questo
nuovo genere sarà a sua volta molte- plice, non uno, rinvierà ancor esso
a un altro genere: e cosi di seguito, airinfinito, senza che sia dato
trovare un genere che sia uno di numero pur essendo comune a tutte le sue
specie. Che se si dice che il genere è uno di numero, non
potrà essere comune a molti. Giacché una cosa può essere comune a
molte, ma solo in uno di questi tre casi: — che ciascuna sua parte
si applichi ad un particolare diverso: sicché il genere non stia tutto in
ciascuna specie, ma in ogni specie una sola parte del genere;
-- che più persone abbiano in
comune l’uso di alcunché, ma l’usino, beninteso, ciascuna in tempi
diversi. (Esempio : più persone hanno un solo servo o un solo
cavallo: si capisce che non possono servirsene tutte con temporaneamente,
ma l’una prima, Taltra dopo); — che qualcosa sia comune a
molte persone, ma senza costituire la loro essenza. (Esempio : il teatro
è luogo comune a tutti gli spettatori ; ed anche lo spettacolo è uno e
comune ad essi tutti). Ma il genere non è comune alle specie
in nessuna delle tre forme ora dette : giacché deve essere tutto in
ciascuna specie, deve essere contemporaneamente in tutte le specie, e
deve costi- tuire Tessenza delle specie a cui è comune. Ora,
se il genere non è nè uno (giacché è comune), nè molte- plice (giacché,
se fosse tale, richiederebbe un genere ulteriore), il genere non è per
nulla. E lo stesso va detto delle specie, delle diiferenze, delle
proprietà e degli accidenti. Se genere, specie, ecc. non sono,
resta che siano còlti solo con rintelligenza. Ma di nuovo, ogni concetto
si torma da una realtà o conformemente al suo vero essere o difformemente
da esso. Se conformemente, genere, specie, ecc. esistono non solo
nel pensiero, ma anche nella realtà, e risorge la domanda come possano
essere uni e molteplici ad un tempo, con la conclusione di pocanzi, che
cioè, genere, specie, ecc. non sono. Se difforme- mente, non possono
essere che vani e falsi dei concetti difformi dalla realtà nel suo vero
essere. Conclusione: se genere, specie, ecc. nè sono, nè, quando
son pensati, sono pensati con verità, non rimane più alcun dubbio
che si debba abbandonare ogni discussione circa le cinque distin- zioni
porfìriane, non vertendo esse nè su qualcosa di reale nè su qualcosa di
cui sia possibile farsi un vero concetto. A questa obiezione che
mirerebbe, come si vede, a scalzare tutta intera la dottrina porfiriana
delle cinque primis- sime distinzioni logiche, BOEZIO risponde,
appellandosi all’autoritàdi Alessandro di Afrodisia, di cui accetta e riproduce
Targo - montare. Non è vero — scrive BOEZIO — che sia falso e
vano ogni concetto che si scosti dalTessere reale delle cose. Se la
mente mette insieme elementi di cose disparate fino a formarsi una
immagine non rispondente a realtà, certamente erra e si inganna, come
quando si immagina i Centauri, componendone mental- mente la figura con
elementi del corpo umano e delTequino. Ma quando la mente procede non per
composizione, ma per divisione ed astrazione, il concetto non corrisponde
a nulla di obbiettivo, e tuttavia non è falso. Esempio: — la
linea non è concepibile che in un corpo: staccata da qualsiasi corpo, la
linea non è nulla; e difatti chi potè mai cogliere con un qualsiasi senso
una linea separata da ogni corpo? Ma ciò non esclude che possa separarla
lo spirito e pensarla per sè sola, fuori di qualsiasi corpo. Onde
risulta, nel pensiero, incorporea e separata quella linea che nella
realtà è inseparabilmente unita al corpo e confusa con esso.
Ora, i generi, le specie, ecc. sono proprio cosi fatti: esistono
nei corpi singoli, ma possono essere separati dai corpi, come puri
universali. E come nessuno può dir falso il concetto della linea perchè
si pensa separata da ogni corpo mentre essa fuori dei corpi non sussiste,
cosi non si deve ritenere falso il concetto di genere, specie, ecc.
perchè si isolano come puri universali mentre essi non esistono che nei
particolari. Gtli è che è prerogativa delTintelletto cogliere la
somiglianza dei vari particolari sensi- bili, fissarla per sè sola e
farne una specie; e poi ancora, cogliere la somiglianza delle varie
specie, fissarla e farne un genere. Sicché la specie è un concetto
ricavato dalla somiglianza d’es- senza di individui diversi numericamente
Tuno dalTaltio: e il genere è un concetto ricavato dalla somiglianza
delle specie. Ma questa somiglianza, quando è nelle cose singole, è
sensi- bile; quando nelle universali, è intelligibile. 0, che è lo
stesso, sentita, è nelle cose singole; pensata, è universale. Sicché
generi. specie, ecc. esistono nei sensibili, son còlti e pensati fuori
dei corpi; universali quando son pensati, singolari quando son
sentiti nei corpi in cui hanno esistenza. Rimane cosi risolta
Tintera questione: giacché generi e specie esistono in un modo - nei
particolari - e son pensati in un altro - fuori dei particolari - come se
esistessero per sé stessi e non avessero nei particolari Tesser
loro. Ma questa soluzione è aristotelica, e Boezio Tavverte
espli- citamente: giacché per Aristotele generi e specie son
pensati incorporei ed universali, mentre esistono nei particolari
sensi- bili. Platone invece - BOEZIO ama rammentarlo - ritiene che
generi e specie non solo siano pensati come universali, ma anche siano
tali ed esistano separati dai corpi. E Boezio dichiara espressamente
d^aver presentato la soluzione aristotelica della questione non perché
egli la approvi di più, ma perché un lavoro, come il suo commento,
destinato a servir di introdu- zione alle Categorie aristoteliche, aveva
il dovere di adottare, in questa questione, preliminare importantissimo,
il punto di vista aristotelico. Dopo il prologo del quale si é
ampiamente discorso, l’Isagoge -
alla quale ci conviene ormai ritornare - può intendersi divisa in due
parti: la prima studia separatamente il genere, la specie, la differenza,
la proprietà e Taccidente; la seconda paragona prima il genere alla
differenza, alla specie, alla proprietà e alTaccidente ; poi la
differenza alla specie, alla proprietà e alTaccidente; infine tra loro la
proprietà e Taccidente. Cominciamo ora lo studio delle cinque
distinzioni logiche prese separatamente ad una ad una. Porfirio
osserva che la parola “genere” si usa con significati diversi. Primo
significato é quello per il quale genere (o piuttosto gente) vuol dire
stirpe. Esempi: Oreste è delle gente di Tantalo, cioè discende da
Tantalo; Pindaro è della gente tebana, cioè è tebano di nascita. Nel
primo caso è indicato il progenitore, nel secondo la patria. In entrambi
il termine da cui la stirpe, o gente, o genere proviene.
Secondo significato è quello per il quale il genere (o gente, vuol
dire quella collettività che è stretta da un’origine comune
Esempio: Gl’Eraclidi costituiscono una gente (o genere) perchè
discendono tutti da un comune capostipite: Eracle. Terzo significato è quello
per il quale si dice genere quello a cui si subordinano le specie, la cui
moltitudine esso contiene sotto di sè. Questo terzo significato, che è
quello che la parola “genere” ha per i filosofi, è probabilmente imitato
dai primi due in quanto, in logica si chiama genere quello che in altri
casi si dice piuttosto stirpe, cioè l’origine da cui le specie
derivano, da essa prendendo il nome e con tal nome distinguendosi
da tutte la altre specie che rientrano sotto altri generi. In
questo terzo significato “genere” è quel che si predica di più cose,
differenti tra loro per la specie, e indica cosa esse sono. La quale
definizione ha bisogno di essere chiarita punto per punto. « Quel che si
predica di più cose. Difatti, un predicato (“shaggy”) o si riferiscono ad
una cosa singola o a più cose. Ad una cosa sola si rifere l’individuo,
come quando si dice: «questi è Socrate », “questi e Fido” -- e anche a
una cosa sola si riferiscono: « questi » e « questo ». Invece a più cose
si riferiscono i generi, le specie, le differenze e le proprietà e quegli
accidenti che risultano comuni, non propri di una cosa sola. Esempio
di genere : « animale » . Esempio di specie : « uomo » . Esempio di
differenza (che contraddistingue l’uomo dagli altri animali): «
ragionevole ». Esempio di proprietà (dell’uomo): « la capacità di ridere
» . Esempi di accidenti (dell’uomo) : « bianco, nero, muoversi » .
Ora il genere differisce dall’individuo perchè si predica di più
cose, non di una. Ma la definizione precisa è: « Genere è ciò che si
predica di più cose differenti tra loro per la specie», in quanto
anche la specie si predica di più cose, ma di cose differenti tra
loro per numero, non per specie. Esempio: La specie «uomo» si
predica di Socrate e di Platone, che differiscono numericamente in quanto
Socrate e Platone sono due individui diversi, mentre il genere « animale
» si predica dell’uomo, del bue, del cavallo, differenti tra loro
non solo numericamente, ma per specie. Inoltre: « genere è ciò che
si predica di più cose differenti tra loro per la specie, e indica cosa
esse sono. Giacché anche le differenze si predicano di cose differenti
tra loro per la specie, ma indicano qitali esse sono, non cosa
sono. Esempio: — < se ci domandano che cosa è Puorao, rispondiamo
indicando il genere a cui appartiene, e diciamo: « Puoino è animale >
; ma se ci domandano le qualità dell’uomo, rispondiamo indicando i suoi
caratteri differenziali, la ragionevolezza e la mortalità. Com’è
chiaro, il genere differisce dalla proprietà, perchè questa si predica
d’una sola specie e degli individui di essa, mentre il genere si predica
di più specie. E differisce dagli accidenti comuni perchè, sebbene
questi si predichino di più cose differenti tra loro per specie, ne
indicano la qualità, non Pessenza (come, ad esempio, il color
nero). Ricapitolando: il predicarsi di più cose divide il
genere dagli individui; il predicarsi di più cose differenti di
specie lo separa dalle specie e dalle proprietà; Pindicare la
quiddità 0 essenza lo divide dalle differenze e dagli accidenti
comuni che indicano la qualità. E questa trattazione del genere non
contiene nulla nè di superfluo, nè di manchevole. Anche “specie” ha più significati. Significa « forma »
e significa, in logica, ciò che rientra in un genere (« uomo » è specie
compresa nel genere « animale » ; « bianco » è specie del genere
«colore*; «triangolo» è specie del genere «figura»). Beninteso, come il
genere è genere solo rispetto alle sue specie, cosi le specie sono specie
solo rispetto al loro genere. Genere e specie cioè sono concetti
correlativi. Cosi la specie vien definita: «ciò che è posto sotto il genere, e
di cui il genere si predica per indicarne l'essenza o quiddità » . Ma
questa definizione conviene solo alle specie specialissime che sono
sempre specie e non mai generi, mentre le precedenti definizioni convengono
anche alle specie che non sono specialissime. Sono generi
generalissimi quelli al di sopra dei quali non esiste altro genere, come
ad esempio « I sostanza ». Sono specie specialissime quelle al di sotto
delle quali non esistono altre specie, come, ad esempio, « uomo », che ha
sotto di sè immediatamente i vari individui umani. Tra i generi
generalissimi e le specie specialissime inter- corrono generi subalterni,
come ad esempio « sostanza animata », « sostanza animata sensibile » , «
sostanza sensibile ragionevole. Ciascuno di questi concetti, intermedi tra
«sostanza» e «uomo », è specie rispetto al concetto più ampio nel quale
rientra, è genere rispetto al concetto più ristretto che in esso
rientra. Ad esempio: «sostanza animata» è specie rispetto a «
so- stanza », è genere rispetto a « sostanza animata sensibile ».
Ai due estremi della scala c'è la « sostanza», genere generalissimo
che non è mai specie, e !'« uomo », specie specialissima che non è mai
genere, mentre in mezzo i generi subalterni sono a volte generi, a volte
specie. Ora, mentre le genealogie famigliari, risalendo di
proge- nitore in progenitore, raggiungono il comune capostipite di
tuttele famiglie, Giove, non è dato rinvenire un genere
generalissimo unico, a cui tutti i generi subalterni si lascino ridurre.
Al contrario, secondo Aristotele sono X i generi generalissimi, assolutamente
primi e irriducibili: uno è la sostanza e nove gli acci- denti (qualità,
quantità, luogo, tempo, ecc.). Nè è valida obiezione che se questi X
PREDICAMENTI sono, essi sembrano ridursi ad un genere generalissimo unico,
Ve^%ere\ chè, dice Porfirio, l’esenza si predica in senso assai diverso
della sostanza e dei vari accidenti, sicché Tunificazione delle X categorie
neir^ss^r^ è soltanto nominale, non reale, variando il significato essere
dall’uno all’altro predicamento. Ora, se i generi generalissimi sono X, i
generi subalterni sono di numero assai grande, ma tuttavia finito :
infiniti, invece, sono gli individui che vengono dopo le specie specialissime,
e di essi non si dà scienza. Platone insegna a dividere, mediante
le differenze specifiche, ciascun genere in due, e poi ancora in due fino
a raggiungere le specie specialissime, che si dirompono negli individui.
Chi discende dai generi generalissimi alle specie specialissime
divide, cioè moltiplica l’unità. Chi, al contrario sale dalle specie
specialissime ai generi generalissimi, raccoglie la moltitudine in unità.
Giacché ciò che è singolare divide, ciò che è comune aduna.
Adunque, il genere si divide in più specie e si predica di esse.
Giacché i concetti più estesi si predicano dei meno estesi (il genere si
predica delle specie), i concetti equipollenti si pre- dicano l’uno
dell’altro e l’altro dell’uno (la proprietà di nitrire si predica del
cavallo nella proposizione: «Il cavallo è l’ani- male che nitrisce», e il
cavallo si predica del nitrire nella reciproca: < L’animale che
nitrisce è il cavallo »), ma non mai i concetti meno estesi si predicano
dei più estesi (la proposi- zione : « l’uomo è un animale » non può
convertirsi nella reci- proca: « l’animale è uomo »). Così i generi
generalissimi si pre- dicano di tutti i generi subalterni o specie, delle
specie specia- lissime e degli individui ad esse sottoposti; i generi
subalterni si predicano di tutte le specie ad essi inferiori, delle
specie specialissime e degli individui ; le specie specialissime si
pre- dicano degli individui, e gli individui d’un solo particolare.
Gli individui sono parti della specie, che rispetto ad essi è tota-
lità, mentre rispetto al genere è parte. Si parla di differenza nel
significato comune della parola, in senso proprio, e in senso
rigoroso. Nel significato comune < differenza » esprime la
diversità d’una cosa da un’altra o da sè stessa. Socrate differisce
da Platone e differisce da sè stesso bambino. In senso
proprio, una cosa si dice differire da un’altra quando ne differisce per
un accidente inseparabile. (Accidente inseparabile è, per esempio, avere
il naso curvo, essere ciechi, avere una cicatrice causata da una
ferita). In senso rigoroso una cosa si dice differire da
un’altra quando se ne distingue per differenza di specie. Ad
esempio, un uomo differisce da un cavallo perchè appartengono a specie
diverse, l’uno essendo ragionevole, Taltro no. In generale dunque,
ogni differenza altera ciò a cui si in- nesta: ma le differenze comuni e
proprie si limitano a renderlo alterato, le rigorose lo rendono
addirittura altro. E queste dif- ferenze rigoi-ose che rendono altro ciò
a cui si applicano, si dicono < differenze specifiche » , le altre si
dicono semplice- mente « differenze» . Queste non producono che
un’alterazione o un mutamento di stato (per esempio, il muoversi
rispetto al giacere), quelle, invece, dal genere fanno le specie, le
quali si definiscono appunto col genere e le differenze. Altra
classificazione delle differenze è la seguente: differenze separabili^
come il muoversi e lo star fermi, l’essere sani o malati, e differenze
inseparabili^ come l’avere un naso aquilino 0 camuso e l’essere
ragionevoli o irragionevoli. Le differenze separabili si dividono
ancora in differenze per se e differenze per accidens. Differenza per se
è, nell’uomo, la ragionevolezza, la mortalità, la capacità di apprendere.
Diffe- renza per accidens è l’avere il naso aquilino o camuso.
Le differenze per se entrano nel concetto della cosa e la rendono
altra (la mortalità entra nel concetto di uomo e lo differenzia
dall’altro essere animato sensibile e ragionevole, ma immortale che è
Dio); invece, le differenze accidens, anche se insensibili, non entrano
nel concetto della cosa e non la ren- dono altra, ma solo alterata (il
naso camuso non entra nel concetto di uomo, e altera un individuo, ma non
lo rende altro dai rimanenti uomini). Parimenti le differenze
per se non ammettono aumenti o dimi- nuzioni (tutti gli individui umani
sono uomini egualmente), invece, le differenze per accidens ammettono
aumento o dimi- nuzione (si ha la pelle più o meno bianca, il naso più o
meno curvo, ecc.). Fra le differenze inseparabili per se
talune servono a divi- dere i generi in specie, tali altre, invece, a
specificare i generi già divisi. Differenze inseparabili per se sono «
animato » e < inanimato » , « sensibile » e « insensibile » , «
ragionevole » e «irragionevole», «mortale» e «immortale». Di queste dif-
ferenze, « animato » e « sensibile » sono differenze costitutive della
sostanza « animale » ; « mortale » e « ragionevole » sono, invece,
divisive della sostanza < animale » in quanto per esse si giunge dal
concetto del genere « animale » al concetto della specie « uomo». Senonchè
quelle differenze che son divisive pei generi, sono costitutive per le
specie: difatti, nelPesempio ora addotto, le differenze « ragionevole » e
« mortale » , introducendo una di- visione nel genere «animale»,
costituiscono proprio cosi la specie «uomo». Divisive e costitutive poi
sono tutte le dif- ferenze specifiche, utilissime per le divisioni dei
generi e le definizioni delle specie, mentre a ciò non giovano nè le
dif- ferenze inseparabili per accidens, nè, molto meno, le separa-
bili (sarebbe ridicolo dividere gli uomini secondo che abbiano il naso
aquilino o camuso — differenze inseparabili per accidens — 0, peggio
ancora, secondo che stiano in piedi o a sedere). La differenza
viene anche determinata come quella che la specie ha in più del genere.
L’uomo, ad esempio, ha in più delhanimale Tessere ragionevole e mortale,
qualità che il con- cetto di «animale» non include. (Or si domanda: se il
genere non ha in sè le differenze che caratterizzano le varie
specie, queste donde le traggono? — Giacché le specie non derivano
che dai generi, e questi non posseggono le differenze, nè pos- sono
possederle, chè, se le possedessero, potrebbero riunire in sè differenze
opposte tra loro, come sono quelle che contrad- distinguono runa
dalbaltra le varie specie. La soluzione di questa difficoltà è che non è
necessario ammettere nè che le differenze specifiche nascano dal nulla,
nè che il genere aduni in sè differenze contraddittorie, perchè il genere
ha in potenza le differenze che da esso nascono, senza averle in
atto.) Altra definizione della differenza è: «ciò che si predica
di più cose differenti tra loro per specie, per indicarne la qualità ». -
Infatti, se uno ci domanda: « che cosa è Tuomo? », noi rispondiamo
indicando il genere a cui la specie umana appar- tiene, e diciamo: «
l’uomo è un animale » ; ma se uno ci domanda la qualità delbuomo,
rispondiamo indicando i suoi caratteri differenziali, e diciamo: «L’uomo
è ragionevole e mortale». Porfirio paragona così il genere alla
materia e la differenza alla forma, e dice che come la figura rende
statua il bronzo, cosi la differenza rende specie il genere.
Altra determinazione della differenza è : « ciò che è atto a
dividere le cose che sono sotto il medesimo genere » . Difatti, «
ragionevole » e « irragionevole » sono differenze atte a dividere l’uomo
dal cavallo, entrambi compresi nel genere animale. Altra
definizione: « differenza è quella per la quale differiscono fra loro le
varie cose», giacché per il genere non differiscono. Per esempio: siamo
animali mortali noi e gli irragionevoli: la differenza « ragionevoli »
vale a separarci da essi. E ancora: siamo ragionevoli noi e gli Dei : la
differenza « mortali » ci separa da essi. Definizione più
profonda è la seguente: « Differenza non è una qualsiasi di quelle
determinazioni che valgono a dividere le cose che sono sotto il medesimo
genere ; ma quella determi- nazione che riguarda l’essere ed è parte
dell’essere d’una cosa. » Per esempio: poter navigare, è particolarità
esclusivamente umana, e tuttavia non è differenza che costituisca la
sostanza delPuomo. Differenze specifiche sono quelle che fanno altra
la specie e sono accolte nel concetto di essa indicandone la
qualità. Ci sono quattro sorte di qualità: Proprietà che
convengono ad una sola specie, sebbene non intera, come per Tuomo essere
medico o geometra. (Solo gli uomini sono medici e geometri; ma non tutti
gli uomini sono tali). Proprietà che convengono a tutta una specie,
sebbene non solo ad essa, come per Tuomo essere bipede (sono bipedi
anche gli uccelli). Proprietà che convengono ad una sola specie in
tutta la sua estensione, ma solo in un determinato tempo, come per
Puomo imbiancare nella sua vecchiezza. 4) Proprietà che convengono
ad una sola specie in tutta la sua estensione e sempre, come per Tuomo
poter ridere. (Non importa che non rida sempre: importa che abbia natura
di poter ridere). Sono queste ultime le vere proprietà
giacché possono con- vertirsi con ciò di cui sono proprietà. (Chi è
cavallo, può nitrire ; chi può nitrire è cavallo). Accidente è quello che può essere presente o
assente senza che il soggetto si corrompa. Ci sono intanto
accidenti separabili e accidenti insepara- bili. Separabile è dormire;
inseparabile il color nero. E tuttavia, per quanto inseparabile, rimane
accidente perchè, sebbene corvi e Etiopi siano neri, si può sempre
pensare un corvo e un Etiope bianchi. L'accidente è definito
anche « ciò che può contingentemente esserci e non esserci * ; oppure «
ciò che senza essere nè genere nè specie nè differenza nè proprietà,
tuttavia sussiste in un oggetto » . Determinate ormai tutte e
cinque le distinzioni logiche, bisogna paragonarle tra loro per vedere
cosa hanno di comune e cosa hanno di diverso. Di comune hanno
il potersi predicare di più cose ; ma il genere si predica delle specie e
degli individui ( « animale » si predica dei cavalli e dei buoi, e di
questo cavallo e di questo bue); la differenza similmente delle specie e
degli individui ( « irragionevole > si predica dei cavalli e dei buoi,
e di questo cavallo e di questo bue); la specie degli individui che sono
sotto di essa ( « uomini » si predica solo degli individui umani) ;
la proprietà tanto della specie di cui è propria, quanto degli
indi- vidui di tale specie ( « poter ridere » si predica tanto
deiruomo quanto dei singoli uomini); l’accidente cosi della specie
come degli individui (« nero » si predica cosi della specie dei corvi
come dei corvi particolari, ed è accidente inseparabile; « muo- versi »
si predica deH’uomo e del cavallo, ed è accidente sepa- rabile), ma
anzitutto si predica degli individui, e in secondo luogo delle specie che
contengono gli individui. Ma conviene ora paragonare a due a due le
cinque distin- zioni logiche. Comparazione del genere con le altre
quattro roci. a) Genere e differenza Cosa hanno di
comune: Il genere e la differenza entrambi contengono specie.
Bensì la differenza non contiene tante specie quante ne contiene il genere.
Esempio: la differenza «ragionevole» contiene due specie: uomo e
Dio ; mentre il genere « animale * contiene e le due anzidetto e tutte le
altre specie animali. Quel che si predica del genere come genere,
si predica anche delle specie comprese in tale genere : e quel che
si predica della differenza come differenza, si predica anche delle
specie comprese in tale differenza. Esempi: del genere « animale »
si predica Tesser sostanza e Tessere animato: che si predicano anche
delle specie del genere « animale » e perfino degli individui di tali
specie. Della diffe- renza « ragionevole » si predica Tesser provvisto di
ragione : che si predica anche delle specie comprese sotto tal
differenza [uomo e Dio) e degli individui di tali specie (i singoli
uomini e gli Dei). Tolto il genere o la differenza, son tolte
contempo- raneamente le specie che sono sotto di essi.
Esempio : tolto il genere « animale > , è tolta anche la specie
« uomo » ; tolta la differenza « ragionevole », non ci sarà più nessun
animale provvisto di ragione. Cosa hanno di diverso: E’
proprio del genere predicarsi di più cose che non la differenza, la
specie, la proprietà e l’accidente. Esempio: il genere «animale» si
predica egualmente del- l’uomo, del cavallo, dell’uccello e del serpente,
mentre la diffe- renza « quadrupede » si predica solo degli animali di
quattro piedi, la « specie > uomo solo degli individui umani, mentre
la proprietà del « nitrire » solo della specie cavallo e dei
cavalli particolari, e l’accidente « star in piedi » ancora di più poche
cose. Il genere contiene la differenza in potenza. Esempio :
il genere « animale » si divide in specie animali « ragionevoli » e
specie « irragionevoli » , « ragionevole » e « ir- ragionevole » essendo
le differenze che dividono il genere « ani- male » in specie
diverse. I generi sono anteriori alle differenze poste sotto di
essi: tolti i generi, son tolte contemporaneamente anche le diffe- renze,
ma non viceversa. Esempio: tolto il genere « animale », son tolte
tutte le diffe- renze (« ragionevole » e « irragionevole »); mentre,
tolte tutte le differenze, si può ancora pensare la sostnza animata
sensibile, cioè Tanimale. Il genere riguarda l’essenza (o
quiddità) d’unacosa: la differenza la sua qualità. Esempio:
Cos’è l’uomo? - un animale. Com’è l’uomo? - ragionevole. 5) Ogni
specie ha un sol genere, ma moltissime diffe- renze. Esempio
: il genere dell’uomo è « animale » ; le differenze sono: ragionevole,
mortale, suscettibile di intendere e d’impa- rare. Il genere è come la materia, la differenza è
come la forma. Giacché è la differenza che determina il
genere, come la forma determina la materia. b) Genere e
specie Cosa hanno di comune: Tanto il genere quanto la specie
si predicano di più cose. Entrambi sono anteriori a
quelle cose delle quali si predicano. Cosi il genere come la
specie costituiscono ciascuno un tutto. Cosa hanno di
diverso: Il genere contiene la specie sotto di sè, le specie
sono contenute, non contengono i generi. Giacché sono i
generi che, determinati da differenze spe- cifiche, producono le specie:
onde sono naturalmente ad esse anteriori, e, tolti, tolgono anche le
specie, ma non viceversa, chè, posta la specie, è posto anche il genere,
ma posto il ge- nere, non è posta con ciò stesso la specie. 1
generi si predicano univocamente delle specie: non cosi le specie dei
generi. I generi sono superiori per le specie che
comprendono sotto di sè, le specie per le differenze che le
determinano. I generi possono anche essere contemporaneamente
specie, ma non specie specialissime ; e le specie possono essere
contem- poraneamente generi, ma non generi generalissimi. c)
Genere e proprietà Cosa hanno di comune: 1) — Tanto il
genere quanto le proprietà seguono le specie. Esempio: Se uno è
uomo quanto alla sua specie, è ani- male quanto al genere; e se di specie
è uomo, ha la pro- prietà di poter ridere. Egualmente si
predicano il genere della specie e la proprietà di quelli che ne
partecipano. L’uomo e il bue sono animali allo stesso titolo; e cosi
Catone e Cicerone hanno egualmente la proprietà di poter ridere.
Si predicano univocamente il genere delle sue specie e la proprietà
di quelle cose di cui è propria. Cosa hanno di diverso: Il
genere è anteriore; la proprietà posteriore. Esempio: — Bisogna che
ci sia il genere ahimale, poi sia diviso dalle differenze e dalle
proprietà. Il genere si predica di più specie, la proprietà di una
sola specie, di cui è propria. La proprietà si predica di ciò di
cui è propria, cosi come ciò di cui è propria si predica di essa : mentre
il genere non si converte con nessun suo predicato. Esempio:
La proposizione « L’uomo è l’animale che ride » si converte: esanimale
che ride è l’uomo*. Ma la proposi- zione « l’uomo è animale * non si
potrà mai convertire: c l’ani- male è l’uomo. La proprietà è in tutta la
specie di cui è propria, in essa sola, e sempre: mentre il genere è in
tutta la specie di cui è genere, e sempre, ma non in essa sola.
Esempio: la proprietà di ridere è di tutti gli uomini, solo degli
uomini, e sempre rimane in essi : il genere animale è in tutta la specie
umana, è costante in essa, ma si trova anche in molte altre specie
oltreché neirumana. Poiché la proprietà e ciò di cui é proprietà si
con- vertono, tolta la proprietà é tolto ciò di cui é proprietà,
tolto ciò di cui é proprietà é tolta la proprietà. Esempio:
tolta la proprietà del ridere é tolto l’uomo: tolto Tuomo é tolta la
proprietà del ridere. Al contrario, tolte le specie non sono tolti
i generi. Esempio : tolta la specie umana non é tolto il genere
ani- male. Genere e
accidente Cosa hanno di comune: Si é già detto che ci
sono accidenti separabili^ come il muo- versi, e accidenti inseparabili
come, ad esempio, il color nero: ora, cosi gli accidenti separabili come
gli inseparabili hanno di comune col genere il potersi predicare di più
cose. (Neri sono i corvi, ma anche gli Etiopi e talune cose
ina- nimate). Cosa hanno di diverso : Il genere é avanti
le specie, mentre gli accidenti sono posteriori ad esse, anche se si
tratti di accidenti inseparabili, giacché prima è ciò a cui accade, poi é
Taccidente. Del genere tutte le specie che partecipano, parte-
cipano egualmente; mentre degli accidenti si partecipa più o meno.
Dii accidenti sussistono principalmente negli individui, mentre generi e
specie sono, di natura, anteriori alle sostanze individuali. Il
genere dice quel che è una cosa. L’accidente quale è e come è.
Esempio: - Come è l’Etiope? Nero. Comparazione della differenza con
le altre quattro voci. a) - Differenza e genere
Furono già comparati quando si esaminarono insieme genere e
differenza. Differenza e specie Cosa hanno di comune:
Della differenza e della specie si partecipa egual- mente.
Esempio: Gli uomini singoli partecipano egualmente della specie «
uomo » e della differenza < ragionevole » . La differenza e la specie
sono sempre presenti in ciò che di esse partecipa. Esempio:
Socrate è sempre ragionevole e sempre uomo. Cosa hanno di
diverso: La differenza dice sempre la qualità delle cose, la specie
la loro essenza o quiddità. Esempio: - « Uomo » non è qualità, se
non per le differenze che, determinando il genere animale »,
costituiscono la specie « uomo » . La differenza è in più
specie. Esempio : - la differenza « quadrupede » è in vari
animali di specie differente. La specie è solo negli
individui che sono sotto di essa. La differenza è altra cosa dalla
specie a cui dà luogo. Difatti, se si toglie la differenza «
ragionevole » , si toglie la specie « uomo » : ma se si toglie la specie
« uomo », non si toglie la differenza « ragionevole » , perchè vi è
Dio. Una differenza si combina con un’altra (« ragionevole » e
«mortale» compongono la sostanza deiruomo); mentre una specie non si
combina con un’altra per produrne una terza. (Un cavallo e un’asina
generano un mulo; ma non la specie < cavallo » con la specie « asino *
generano la specie « mulo *). c) - Differenza e proprietà.
Cosa hanno di comune: Della differenza e della proprietà le cose
partecipano egualmente. Esempio: gli esseri ragionevoli
partecipano della diffe-* renza « ragionevolezza » , quanto gli esseri
che possono ridere partecipano della proprietà di poter
ridere. Differenze e proprietà sono sempre presenti nelle cose che
le hanno. Si potrebbe obiettare: se un bipede perde una gamba,
non ha più la sua differenza di essere bipede. Ma l’obiezione non é
giusta: l’amputazione non toglie la natura di bipede al monco. Del resto,
anche la proprietà di poter ridere riguarda la natura' umana, senza che
gli uomini ridano sempre. Cosa hanno di diverso: La
differenza si predica di più specie (ragionevole si dice dell’uomo e di
Dio), la proprietà si predica di quella sola specie di cui è
propria. La proprietà e ciò di cui è proprietà si convertono.
(La proposizione « l’uomo è l’animale che ride » ammette la
reciproca: «l’animale che ride è l’uomo). Mentre la
differenza segue quella cosa di cui è differenza, e non si converte con
essa. (Posto l’uomo, è posta la ragionevolezza; ma, posta la
ragio- nevolezza, non è posto l'uomo, perchè ragionevole è anche Dio).
Differenza e accidente Cosa hanno di comune: Differenza ed accidente
entrambi si predicano di più cose. Esempio: Tanto la
differenza della «ragionevolezza» quanto l’accidente del « muoversi >
si applicano a molte cose diverse. Tanto la differenza quanto gli
accidenti insepa- rabili sono presenti sempre e in tutte le cose di cui
si predicano. Esempio: Tanto la differenza < bipede » quanto
l’accidente inseparabile « nero > riguardano tutti i corvi e li
riguardano sem'pre. Cosa hanno di diverso : La
differenza contiene, non è contenuta. (La ragionevolezza contiene
l’uomo perchè non è solo di lui). Gli accidenti, invece, per un verso,
contengono perchè sono in più cose) il muoversi è più esteso dell’uomo) ;
per un altro sono contenuti, perchè il soggetto aduna in sè parecchi
accidenti (l’uomo, oltre al « muoversi », è anche « bianco », < alto
», ecc.) La differenza non ha aumento e diminuzione, gli accidenti
sì. (0 si è ragionevoli, o no; ma si è più o meno alti). Le
differenze contrarie non possono mescolarsi, bensì si mescolano gli
accidenti contrari. ( < Bipede » e « quadrupede » si escludono ;
ma « bianco > e . « nero » si mescolano a produrre il < grigio »
). Comparazione della specie con le altre quattro voci. a)
Specie e genere Furono già comparati quando si esaminarono insieme
Genere e specie. b) Specie e differenza Furono
già comparati quando si esaminarono insieme Diffe-^ renza e specie.
c) Specie e proprietà
Cosa hanno di comune: Specie e proprietà si predicano Tuna
deiraltra (se è uomo, ha la proprietà di ridere ; se ha la proprietà di
ridere, è uomo) ; giacché le cose partecipano egualmente delle specie a
cui appartengono e delle proprietà che le caratterizzano.
Cosa hanno di diverso: La specie può essere genere ad altre specie
; la proprietà non può essere di altre specie oltre quella di cui è
propria. La specie sussiste prima
della proprietà, poi la proprietà ha luogo nella specie.
Esempio: bisogna essere uomo per avere la proprietà di
ridere. La specie è sempre presente in atto, nel soggetto; la proprietà,
a volte, vi è presente solo in potenza. Esempio: Socrate è sempre
uomo in atto, ma non sempre ride sebbene abbia natura di poter
ridere. La specie sempre è sotto il genere e si predica di più
cose, differenti tra loro numericamente, indicandone l’es- senza 0
quiddità; mentre la proprietà è solo in ciò di cui è propria, e in esso è
sempre, e inerisce a tutta la sua estensione. Esempio: la proprietà
del ridere è di tutti gli uomini, solo negli uomini e sempre negli
uomini. Specie e accidente Cosa hanno di comune:
Si predicano di più cose. Cosa hanno di diverso: La specie
dice il « che > di una cosa, l’accidente il « quale > e il « come »
. Ogni sostanza può partecipare di una sola specie, ma di più
accidenti separabili ed inseparabili. La specie si concepisce prima degli
accidenti, anche se inseparabili (chè bisogna ci sia il soggetto,
perchè qualcosa gli accada); gli accidenti invece sono posteriori e
avventizi. Della specie si partecipa sempre in egual misura, ma
deiraccidente, anche inseparabile, in misure diverse. Esempio: un Etiope
è più nero di un altro. Com/parazione della proprietà con le altre
quattro voci. Proprietà e genere Furono già
comparate quando si esaminarono insieme Genere e proprietà.
Proprietà e differenza Furono già comparate quando si esaminarono
insieme Diffe- renza e proprietà. Proprietà e specie
Furono già comparate quando si esaminarono insieme Specie e
proprietà. Proprietà e accidente Cosa hanno di
comune: Tanto la proprietà quanto Taccidente inseparabile sono
indispensabili a ciò in cui si osservano. Esempio: Come senza la
proprietà del ridere non esiste uomo, cosi senza color nero non esiste
Etiope. Tanto la proprietà quanto Taccidente inseparabile sono
sempre presenti a ciò che li possiede, e in tutta la loro
estensione. Esempio: Tutti gli Etiopi sono neri, e sempre.
Cosa hanno di diverso : La proprietà è presente in una sola specie.
Tacci- dente inseparabile in molte. Esempio: La proprietà del
ridere è solo delTuomo; Taccidente inseparabile del color nero è deirEtiope, ma
anche del corvo, del carbone, deirebano, ecc. Sicché la proprietà
si converte con ciò di cui è proprietà, non cosi Taccidente con ciò di
cui è accidente. Esempio : c L'uomo ha la proprietà di ridere >
si converte in « Chi ride è l'uomo » ; ma « l'Etiope è nero » non si
converte in: «Chi è nero è l'Etiope», perchè anche il corvo, il
carbone, ecc. sono neri. — Della proprietà si partecipa sempre
egualmente, degli accidenti in diversa misura. Si è più 0
meno neri. Comparazione delV accidente con le altre quattro
voci. Accidente e genere Furono già comparati
quando si esaminarono insieme Genere e accidente. Accidente e
differenza Furono già comparati quando si esaminarono Diffe- renza
e accidente. Accidente e specie Furono già comparati quando
si esaminarono insieme Specie e accidente. Accidente e
proprietà Or ora esaminati come Proprietà ed accidente.
L'Isagoge si chiude con Tosservazione che altri elementi comuni o
diversi tra le cinque voci oltre i già notati ci sono, ma quelli notati
bastano a distinguerli e ad intendere quel che hanno di comune.
Tanto del primo quanto del secondo commento boe- ziano abbiamo già
esposto ciò che riguarda il celebre prologo sulla realtà o meno degli
universali. Ci tocca ora dire qualche cosa sul complesso dei due
com- menti, che tanta autorità ebbero in tutto il Medio Evo, e
tanto contribuirono a dare alla mentalità delle nazioni di cultura
latina quella struttura rigorosamente logica che è rimasta loro
caratteristica. Lo scopo da BOEZIO assegnato al primo commento è
assai semplice, giacché non va oltre la illustrazione del testo. BOEZIO
evita di accendere questioni, anche se il testo vi si presti. Solo quando
le obiezioni vengono cosi spontanee che non risolverle vorrebbe dire non
comprendere quel che dice Porfirio, solo allora Boezio interviene per
chiarire il pensiero delPautore, giu- stificare le sue espressioni, e
quindi, sgombrate le difficoltà, tornare alla illustrazione del
testo. Dove Porfirio propone più classificazioni, BOEZIO cerca di
connetterle tra loro, in maniera da renderle più facilmente assimilabili al
lettore. E dove Porfirio accenna appena a teorie assai note fra gli
studiosi, ma forse poco possedute dai princi- pianti, BOEZIO interviene a
rammentare tali teorie, e a trattarle, sebbene compendiosamente, in modo
da fornire al lettore princi- cipiante, al quale il primo commento è
diretto, le nozioni neces- sarie per intendere il testo di
Porfirio. Così BOEZIO torna due volte sulla teoria della
definizione, la quale, facendosi per genus et differentianij è possibile
solo per gli individui (definiti entro la loro specie), per le specie
(definite entro il loro genere!, e per i genej-i subalterni (definiti
entro il genere immediatamente superiore, fino ai generi gene-
ralissimi), ma non per i generi generalissimi, i quali, non avendo nessun
concetto più elevato sopra di sé, non possono essere definiti, cioè
determinati entro Pambito di un concetto più vasto. Onde, non potendosi
definire, possono solo descriversi, con Pindicarne le proprietà. Un
accenno, abbastanza ampio, è fatto da Boezio, come già da Porfirio, alla
teoria platonica della divisione, che da ciascun genere generalissimo,
mediante dicotomia, cioè divisione in due, giunge fino alle specie
specialissime. BOEZIO cerca di rendere più evidente il nesso che
stringe talune classificazioni che Porfirio presenta runa dopo l’altra,
senza unificarle in un solo quadro comprensivo. Questo avviene
specialmente per le classificazioni che riguar- dano le differenze.
Si rammenterà che Porfirio anzitutto classifica le differenze in
differenze comuni, proprie e più proprie o rigorose; comuni, tutte le
differenze per le quali siamo diversi da altri o da noi stessi (tu
cammini, io seggo, oppure: ora io seggo, dopo cammino); 'proprie le
differenze individuali (capelli crespi, occhio cieco, ecc.); rigorose^ le
differenze che riguardano tutta la specie (ra- gionevole, irragionevole,
ecc.). Le quali ultime differenze sono le differenze specifiche, con le
quali si procede a dividere i generi in specie. Ma questa prima
classificazione può semplifi- carsi quando si avverta che tanto le
differenze comuni quanto le proprie si limitano a rendere alterato il
soggetto, mentre solo le differenze specifiche lo rendono altro.
Si può dire dunque che le differenze si dividono in differenze che
rendono alterato il soggetto e differenze che lo rendono altro. A
questa prima classificazione Porfirio fa seguire la seconda; le differenze
sono o separabili o inseparabili. Questa seconda classificazione si può
collegare con la prima osservando che solo le differenze comuni sono
separabili (il sedere, il correre, ecc. sono diff'erenze che non
persistono, e sono quindi separabili dal loro soggetto), mentre le differenze
proprie e più proprie, cioè quelle che riguardano l’individuo persistendo
in lui e quelle che riguardano l’intera specie, sono inseparabili (tanto
un occhio cieco quanto la ragionevolezza sono caratteri differenziali
perma- nenti, e quindi inseparabili dal soggetto che li possiede). Senonchè,
di queste differenze inseparabili, le individuali o proprie alterano il
soggetto, ma non lo rendono altro (la cecità altera un uomo, ma lo lascia
uomo), mentre le specifiche o più proprie rendono altro il soggetto (la
ragionevolezza rende Tuomo altro dai bruti). E inoltre, delle
differenze inseparabili, le individuali sono partecipate in misura
diseguale, le specifiche sempre egualmente. Ad esempio, i capelli biondi
son carattere differenziale di indi- vidui che sono Tuno più biondo,
Taltro meno biondo; mentre la ragionevolezza è carattere differenziale
della intera specie umana, i cui individui, in quanto sono uomini, sono
tutti egual- mente partecipi della ragione. Terza classificazione è
quella per la quale le differenze si dividono in differenze divisive del
genere e differenze costitutive delle specie. Son le medesime differenze
che, prese in modo diverso, risultano una volta divisive del genere,
un'altra costi- tutive delle specie. Se prendiamo le differenze contrarie
« ragio- nevole e irragionevole > , esse dividono il genere
animale; e se, dopo, prendiamo le differenze contrarie « mortale e
immor- tale », esse dividono l'inferiore genere animale ragionevole.
Ma se prendiamo le differenze subalterne < ragionevole » (con- cetto
più ampio) e «mortale» (concetto restrittivo), queste differenze
subalterne costituiscono la specie dell'animale ragio- nevole mortale,
cioè dell'uomo. Cosi la teoria delle differenze si avvia nel primo
commento boeziano a quella matura unità che raggiungerà pienamente
nel secondo commento. Ma forse più di queste particolari delucidazioni,
che tuttavia contribuiscono alla elaborazione della salda logica
medievale, riesce interessante il breve schizzo che del sapere del tempo
BOEZIO premette al suo commento. Nel dialogo filosofico che egli
immagina si fa chiedere dal giovane Fabio una illustrazione e prima una
introduzione all'Isagoge di Porfirio. L'introduzione indicherà delPIsagoge
VintentOy Vutiliià\ se ci sia altro libro ad essa germano; la ragione del
titolo, ed a qual parte della filosofia si riconduca. Sei punti, dunque,
tratterà Boezio, sulle orme di quel che già aveva fatto il greco Ammonio
nel suo commento alllsagoge. \Jintenio è trattare del genere, della
specie, delle differenze, delle proprietà e degli accidenti.
futilità deirisagoge è anzitutto quella d’introdurre alle Categorie
di Aristotele, ma è anche più vasta. Occorre, però, per intenderla,
avere un chiaro concetto di che sia la filosofia. Essa è amor di sapienza,
che, non bisognosa di nulla, « vivax mens et sola rerum primaeva ratio
est. E questo amore di sapienza è illuminazione dello spirito che
conosce da parte di quella pura Sapienza, e in qualche modo è un
richiamo che questa fa deU’animo umano perchè torni ad essa, di
maniera che il desiderio di sapienza è desiderio e amore della
divinità e amore della pura mente divina. È questa sapienza
che riconduce alla forza e purezza natu- rale le anime umane. Da essa
nasce la verità delle specula- zioni e dei pensieri e la santa e pura
castità delle azioni. Il che mena direttamente alla divisione della
filosofia, che è il ge- nere, in teoretica o speculativa, e pratica^ o
attiva. (0 e II sono le due lettere che spiccano su la veste della Filosofia
nel De Consolatione Philosophiae). La teoretica, poi, ha tante parti quanti
sono gli oggetti che considera: si divide quindi in: Teologia o
dottrina di ciò che è sempre uno e me- desimo, fermo sempre nella sua
divinità, non accessibile ai sensi, ma solo alla mente ed all’intelletto:
la quale specula- zione studia Dio e la incorporeità dello spirito;
Dottrina che si occupa di tutte le opere celesti del- la suprema
divinità, di ciò che nel mondo sublunare ha animo più beato e sostanza
più pura, ed infine delle anime umane: tutte cose che, fatte di sostanza
intelligibile, al contatto dei corpi, da intelligibili divennero soltanto
intelligenti, in maniera che possono ora divenire più beate per purezza
ed intelligenza quando si volgano ed applichino alle cose intelligibili
; Dottrina dei corpi, o Fisica, che illustra la natura e le passioni
dei corpi. Di queste tre parti della filosofia teoretica la seconda
è meri- tamente collocata nel mezzo perchè ha da una parte Tani-
mazione e vivificazione dei corpi, dalFaltra la considerazione e
conoscenza delle cose intelligibili. Anche la filosofia pratica si divide
in tre parti: L’Etica che s’orna ed accresce di virtù, nulla am-
mettendo nella vita di cui non possa essere soddisfatta, e niente facendo
di cui debba pentirsi; la Politica, che assumendosi la cura dello Stato
provvede alla salvezza di tutti con la saldezza della sua 'preveg- genza
e prudenza, con Tequilibrio della giustizia, con la sal- dezza della
fortezza e la pazienza della temperanza; L’Economia, che si occupa
del buon andamento della vita famigliare. Alle quali parti
già descritte della filosofia si aggiunge da vicino queirarte che i Greci
chiamano Logica: parte della filosofia 0 suo strumento? BOEZIO
rimette la trattazione di questa questione ad una altra opera, che è poi
il secondo commento. Intanto osserva che questa disputa sul genere, la
specie, la differenza, la pro- prietà e l’accidente prepara la via a
tutto lo studio della filo- sofia. Col dire cosa sia genere e cosa sia
specie ci fa inten- dere che la filosofia è genere, e teoretica e pratica
sono specie. Col dire cosa sia differenza, ci rende possibile di
intendere se la logica sia una specie della filosofia, differente,
quindi, dalle altre specie. Col dire cosa sia proprietà, ci spiega la
na- tura propria di ciascuna differenza della filosofia. Col dire
cosa sia accidente ci guarda dal mettere tra le cose principali ciò
che è secondario. Cosi la conoscenza di queste cinque voci spande i suoi
rami in tutte le parti della filosofia. Utile alla grammatica a cui
insegna che il discorso è il ge- nere e otto sono le sue parti o specie;
utile alla retorica, a cui permette di distinguere tre generi di causa,
ciascuno diviso in specie a seconda dei soggetti: utilissima alla logica,
che nulla potrebbe definire (per genere e differenza) se non
sapesse cos'è genere, cos’è specie, cos’è differenza, ecc. ; nulla
potrebbe dividere se non fosse guidata dalla conoscenza delle cose
che divide (i generi e le specie); e nulla potrebbe dimostrare giacché
la verità delle dimostrazioni sta nei provare ciò che si divide o
qualcos’altro mediante le cose che si son divise. E l’Isagoge di
Porfirio precede tutta la logica aristotelica, perchè senza di essa non
si intenderebbero la sostanza e i nove accidenti di cui è parola nelle
Categorie. Le quali voci significative sono quelle di cui si compongono le
proposizioni, di cui si tratta nel De interpretatione. Le quali
proposizioni sono quelle di cui si compone il sillogismo, il cui ordine,
la cui struttura e le cui figure sono studiati negli Analitici
Primi, perchè sia poi possibile studiare il sillogismo dialettico nella «
Topica * e il sillogismo dimostrativo negl’Analitici Secondi. Cosi l’Isagoge di
Porfirio è la base prima di tutta la logica aristotelica. Come nel
corso del primo commento non sono rare le occasioni in cui BOEZIO è
costretto a notare le imperfezioni e le oscurità della versione di Mario
VITTORINO (si veda), cosi nel secondo commento Boezio presenta una
traduzione propria, che indubbiamente è assai più scorrevole e chiara
dell’altra. La versione è intercalata nella esposizione, che procede meno
pedestre che nel primo commento, e che, specialmente nei primi fra i
cinque libri, mostra un vigoroso proposito di rendere più robusta,
più rigorosa ed organica la trattazione porfiriana. Il secondo
commento si inizia con alcuni paragrafi dedicati alla filosofia in
generale, alle sue parti, alle sue utilità, ecc. Se la filosofia -
dice Boezio - è il più alto bene degli animi, converrà precisamente
muovere dalle facoltà dell’anima. Una forza dell’anima è quella
vegetativa, comune anche alle piante, che non hanno sensi; un’altra è la
sensitiva, che dove sorge assume la prima come sua parte; una terza è la
intellettiva, che non si limita a sentire e a rammentare, ma anche
esplica e conferma, con pieno atto di intelligenza, quel che
Timmagi- nazione sopperisce. La qual potenza della ragione si
esercita a indagare, anzitutto, se una cosa sia, poi che sia, poi quale
sia, infine perchè sia. Ma, perchè il pensiero sia preservato
dal pericolo di cadere nel falso, occorre anzitutto una disciplina che,
studiando le maniere di disputare e gli stessi ragionamenti, possa
additare qual ragionamento risulti ora falso, ora vero, quale sempre
falso quale non mai falso. Della quale scienza - la logica - è
duplice l’uso nell’inventare e nel giudicare: topica e dialettica,
trattate entrambe da Aristotele, ma la prima trascurata dagli
Stoici. Ora, questa logica è una parte della filosofia o è solo
il suo strumento? - Quelli che la considerano parte della filosofia
ragionano così: delle proposizioni, dei sillogismi, ecc. solo la
filosofia si occupa. Dunqne sono oggetto di filosofia. Ma, delle due
grandi parti della filosofia, la speculativa che si occupa delle cose
naturali, e l’attiva che si occupa della morale, nessuna tratta del
discorso, dei giudizi, dei ragionamenti: dunque quella disciplina
filosofica che d’essi si occupa non può non essere considerata una nuova
parte della filosofia; donde la triparti- zione di questa in: logica,
fisica, etica. Coloro i quali invece sostengono che la logica sia strumento
della filosofia, non sua parte, osservano che questa scienza della
ragione è diretta o a conoscere le cose (fisica) o a trovare quei
principi di morale che producono la beatitudine. Dunque, essi, dicono la
logica serve sempre o alla fisica o all’etica. Boezio è del parere che le
due teorie non si escludano a vicenda: niente vieta che la logica sia ad
un tempo parte e strumento della filosofia; parte in quanto ha
innegabilmente un fine proprio, distinto dalla fisica e dall’etica;
strumento in quanto, altrettanto innegabilmente, essa serve così all’una
come all’altra. Del resto, nel nostro corpo, ciascun organo è al tempo
stesso parte e strumento : la mano rispetto all’organismo intero è
strumento; per sè, intanto, è parte. Ma veniamo allo scopo di questa
introduzione porfi- riana alle Categorie di Aristotele. Queste sono i
dieci generi di predicamenti: può intenderli dunque chi sappia che sia il
genere. Di ciascuno di essi si dànno varie specie --varie specie di sostanza,
di qualità, ecc. 00: ed anche ciò presuppone si sappia che sia specie, e
che sia la differenza per la quale ciascuna specie si allontana
dall’altra e l’un genere dall’altro. Inoltre, ogni genere ha le sue
proprietà, mediante le quali può essere descritto. E dei dieci
predicamenti, nove sono accidenti. Donde la neces- sità di saper bene che
sia proprietà e che sia accidente per intendere le Categorie
aristoteliche. Ma Porfirio spesso indica l’utilità della sua introduzione
per le definizioni, le divisioni e le dimostrazioni, oltreché, come
già si è visto, per l’intendimento delle Categorie aristoteliche.
Per le definizioni, perchè bisogna ben distinguere il genere
prossimo e la differenza specifica per fare una giusta definizione;
per la divisione in tutte le varie sue specie, giacché vanno
distinte divisioni dei concetti presi in sè stessi e divisioni
accidentali. Le divisioni dei concetti presi per sè stessi sono di tre
ordini -- divisione del genere nelle sue specie -- distinzione dei vari
significati di una parola; -- partizione d’un tutto nelle sue varie parti.
Le divisioni accidentali sono anche di tre ordini: -- divisione di un accidente secondo i soggetti
che lo ricettano ( c dei beni, alcuni sono nell’anima, altri nel corpo --
divisione di un soggetto secondo gli accidenti (« dei corpi, taluni sono
(bianchi, altri sono neri -- divisione di un accidente secondo altri
accidenti ( « delle cose bianche, alcune sono dure, altre liquide,
altre molli. Per tutte queste divisioni occorre sapere che sia genere
e che sia differenza, quando luna parola abbia un significato solo
univoca e quando più significati (equivoca), e che sia una parte e che
una specie; occorre inoltre ben distinguere sostanze ed accidenti.
Infine, Tintroduzione porfiriana è utile per le dimostrazioni,
giacché queste si fanno o da cose già note, o da cose convenienti, 0 dalle
prime cose, o dalla causa, o dalle cose connesse, o dalle cose inerenti.
In ciascuno di questi casi bisogna sapere che sia genere e che sia
differenza, e che sia specie, giacché sono 1 generi quelli che sono
anteriori per natura alle specie, e quindi di esse più noti, e sono i
generi e le differenze le cause delle specie. Il II libro .tratta
del genere con un manifesto desiderio di porre più rigore nella
trattazione .porfiriana, magari rifacendosi da teorie più vaste, che
sembrano essere presup- poste da ciò che dice Porfirio. Cosi, per esempio, per illustrare i
significati, che Porfirio espone, della parola genere, che si riferisce a
volte al progenitore da cui una gente deriva, a volte al luogo da cui una
gente proviene, BOEZIO richiama la celebre dottrina aristotelica delle
quattro cause, efficiente, materiale, formale e finale, alle quali
aggiunge due principi accidentali, il luogo e il tempo. Quando si parla
del genere dei ROMANI, cioè dei discendenti da ROMOLO, si indica in
costui la causa efficiente della stirpe; quando invece si dice Pindaro
Tebano, si indica in Tebe il luogo da cui Pindaro i proviene. BOEZIO
insiste ancora sulla differenza tra descrizione e definizione: 'il genere non
può essere definito, chè, per essere definito, dovrebbe avere un altro genere
sopra di sè, e, quando avesse un genere sopra di sè, sarebbe specie, non
genere; sicché, non potendo essere definito, il genere è descritto, cioè
ne ven- gono indicate le proprietà, che sono come i colori con i
quali si dipinge un quadro. L’intera teoria del genere, della
differenza, della specie, della proprietà e dell’accidente, è chiusa come
in un prospetto nelle seguenti classificazioni boeziane. Ciò
che si Ciò che si predica predica di di più cose una
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p 02 P m — I a; 'p 03
rQ O .P O ■TP O O (D VP
ce ^ P. P P ce p sostanzialmente
accidentalmente l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO.
BOEZIO prosegue, poi, illustrando via
via i passi poifìriani che traduce e riporta: e le sue sono delucidazioni
speciali, del resto assai utili. (Per esempio : in che senso si dice che
gli uomini differiscono tra loro numericamente? Nel senso che si
dice: « Socrate è un uomo, Platone è un altro uomo. Il III libro tratta delle
specie (e non prima della differenza nonostante che la differenza,
contenendo in sè più specie, sia ad essa anteriore, perchè la specie è
specie del genere, come il genere è genere della specie, epperò
vanno studiati in connessione Puno con l’altra. Le illustrazioni, per
solito, non aggiungono nulla di nuovo. Interessante può essere l’atteggiamento
di osseqio ad Aristotele su le questioni delle dieci Categorie ;
atteggiamento che è di Porfirio e non viene mutato da Boezio. Nè i dieci
predicamenti possono ridursi tutti dXVente, perchè ente ha significati
diversi secondo che s’applichi alla sostanza, alla qualità, alla
quantità, ecc. Vale a dire è un nome di più significati, e non un
genere d’un significato solo. Del resto, come ogni predicamento cosi
ogni predicamento è un predicamento; sicché se ente fosse gen^ e, i dieci
predicamenti avrebbero due generi: ente e uno\ e ciò è assurdo, perchè
non si può appartenere a più di un genere. Il quarto libro tratta della
differenza, ripetendo lo sforzo, visibile già nel primo commento, di dare
organicità ed unità alla trattazione porfiriana dell’argomento col
connettere insieme le varie classificazioni, tutte svolte da una
distinzione fondamentale, tra differenze sostanziali e differenze
accidentali, e col condannare più risolutamente di Porfirio quelle
definizioni che idem per idem definiunt quando dicono che differenza è ciò per
cui una cosa differisce da un’altra», e che non precisano davvero cosa
sia differenza quando la definiscono ciò per cui una cosa dista da un’altra,
potendosi una cosa allontanare da un'altra per qualità del tutto
accidentali che non costituiscono diiferenze in senso proprio. Il
medesimo quarto libro tratta anche della proprietà, rispetto alla quale osserva
che, se Tessere di una cosa è espressa dal suo genere, dalla sua
differenza e dalla sua specie, le sue proprietà non costituiscono la sua
sostanza, ma qualcosa di accidentale, sebbene si chiamino proprietà, e che
quando Porfirio distingue proprietà di quattro sorte, non intende
enumerare quattro specie del genere proprietà, ma indicare i quattro
significati diversi nei quali si parla di proprietà. Il IV libro tratta
infine dell’accidente, condannando, più di Porfirio, la distinzione
puramente negativa, per la quale « accidente è ciò che non è nè genere, nè
differenza, nè speqie, nè proprietà. Il quinto libro illustra la
comparazione che Porfirio istituisce tra le cinque voci senza alcuna
particolare osservazione. Notevole è tuttavia che BOEZIO non lascia
passare la divisione porfiriana delTanimale razionale in animale
razionale mortale (l’uomo) e animale razionale immortale (Dio)
senza notare che ciò si poteva dire quando si ritenevano il Sole e
gli altri corpi celesti animati e divini. Su questi testi si chinarono,
per generazioni e generazioni, gl’uomini del medioevo, come su libri di
profondis- sima sapienza. Se l’Europa uscì dal medioevo cosi
fortemente razionalistica, essa s'era fatta la sua potente quadratura
logica meditando su questi ultimi fra gli antichi, lungamente venerati e
studiati. Grice: “I like Guzzo. For one, he spent a tutorial or two on
the very same ‘tratarello’ I did: Boezio’s latinizing Porphyry!” Augusto Guzzo.
Guzzo. Keywords: pagine di filosfi per i giovani italiani; il Vico di Guzzo, il
Galluppi di Guzzo, il Bruno di Guzzo, Gentile, Gli hegeliani d’Italia, Vera,
Spaventa, Jaja, Maturi, Gentile, dirito, stato, Biblioteca Italiana di
Filosofia, spunti e contrattacchi, Della causa, del principio e del uno,
dell’analisi e la sintesi, autobiografia e scienza nuova per giovani italiani
dei licei classici, il manual di filosofia di Fiorentino. -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Guzzo: tra idealismo ed empirismo” – The Swimming-Pool
Library.
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