Sunday, May 26, 2024

GRICE ITALICO A/Z S

 

Grice e Soria: l’opuscolo della simpatia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lama). Filosofo italiano. La famiglia risiede da tempo a Sant'Ilario in Campo, nell'isola d'Elba. Appartenente alla corrente del sensismo. Insegna a Pisa. Combate Cartesio ed esalta GALILEI. Scrive il saggio Rationalis Philosophiae Institutiones. Direttore della Biblioteca di Pisa. Pubblica a Pisa la Raccolta di opuscoli filosofici e filologici. Il saggio comprende Dell’immaterialità delle nature intelligenti; Della potenza che ha lo spirito umano di determinar se medesimo chiamata libertà; Il virtuoso regime del proprio corpo è un bene indispensabile per la felicità della vita” e Della natural dipendenza della salute corporea dall'ilarità dello Spirito”; “Della simpatia” – “Dialogo tra un cav. francese, e un italiano” e l’”Esame del Giudizio di Monsieur Du Fresnoy circa BUONARROTI”; “Sulle metamorfosi degl'insetti”; “Degl'influssi celesti”; “Dissertazione Accademica sull'Innesto”; “La teoria de' fosfori, e de' loro divarj.” Allievo di GRANDI, segna il passaggio della scuola galileiana verso l'illuminismo. S. individua nello sviluppo economico il centro dell'interesse dell'attività politica. È sepolto nella chiesa di Sant'Andrea a Lama, in provincia di Pisa. Baldini, S. in "Dizionario biografico degl’italiani", Roma, Istituto della Enciclopedia italiana. S. è attestato anche a Livorno ed è appartenuto a una nota famiglia locale.Olschki, Firenze. Treccani Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. O violerei certamente tutte  le Leggi della convenevolezza, fe in mezzo al pubblico brio di quarti lietifftmi giorni invitato A PARLAR DI SIMPATIA, non fosse il mio ragionamento una vivace, e toccante pittura di dolci affetti, e di delicate e tenere immagini, ornate air Attica di ridenti fcherzi, e di vezzofe e follazzevoli piaccevolezze. Tale converrebbe che fotte,   io non lo nego, f ufo eh' io far dovrei di quefto tempo, s' io non par-   latti a Voi; ma avanti un tal Con (ef-   fe, tutt' altro fi vuol da me, tutt' altro io debbo. Vi piace eh' io Jafci alle   Mufe i teneri affetti, le delicate imma-   gini, i lieti fcherzi, ed i ridenti motti. Voi cligete da me, che nella mia   bocca non perda la Filofofia i fuoi diritti neppure in quefti giorni; e volete   cosi, perchè le delizie del voftro cul-   tittìmo, e vivacitfìmo Spirito fon I' in-   dagare, ed il penetrare V intima eflen-   za , e le fegrete cagioni di quelle cofe ,   che maravigliofe fono per femedclime ,   e d' illuftri confeguenze feraci. Or ta-   le fenza dubbio egli è ciò, che Simpa-   tia fi chiama , o prendati quetta voce   nel proprio fenfo litterale, o in fenfo   tropico e figurato. Dunque per fecon-   dare il nobile voftro Filolofico genio,   dell' ona, e dell' altra Simpatia pati-   tamente ragionando, ne rintraccerò la   natura, e le caufe, e gli effetti ; cioè   rammenterovvi ciò, che fu quefti inte-   rettanti Oggetti per Voi medelìmi già   fapetc. La voce Simpatia, prefa in fenfo   non figurato, ma proprio, Tuona Io   lteflb, che unione di genio, vicende-   volezza di affetto, benevolenza fcam-   bievole , le quali efprcflìoni tutte fon   tra di loro (ìnonime. Quindi non può   aver luogo la Simpatia, propriamen-   te detta , fe non tra gli Ellcri fen-   denti , ed intelligenti . Ma i Greci   Popoli , imitati da Latini , e dalle  Lingue che ne fon derivate , eden- \   dendo il lignificato primitivo di quel-   la parola, chiamarono in fenfo trasla-   to, ed analogico Simpatia, la cagione   altresì, per cui dato un Corpo in cer-   te circoftanze, ne fegue un qualche de-   terminato effetto in un' altro Corpo,   fenza che il primo agifea fui fecondo   con immediato contatto* E perchè ave-   vano ofeura , e confufa idea delle Fillche   ragioni , onde tali effetti in Corpi non   toccanti*! accadono; quefte ragioni, o   caufe loro ignote, che Simpatia retto-   ricamente nominavano, sforzavanfi di   fpiegarc, dicendo, che tal forta diSimparia era una vicendevole correlazio-   ne, c quafi cognazione di naturalo   una mutua coordinatone , o un fiii-   co confenfo tra corpo, e corpo in di-   ftanza. Onde a chi aveffe domandato   loro, perchè al Tuonare di una mutlca   corda» le non troppo lontane, purché   temperate all' unifono, o air ottava, o   alla quinta consonanza , rifuonino anch'   eflc,rifpofto avrebbero alia Quiftione,   che ciò avviene per Simpatia , o per una   vicendevole correlazione, e cognazione   di natura tra le corde tefe a quelle ar-   moniche proporzioni; ficcome una fog-   già dì Simpatia, o una 6ftca cognazione, e coordinazion di natura chia-   merebbeii dagli Antichi la caufa, per   cui V Ago magnetico fi rivolge coftan-   temente verfo le Regioni Polari , e   quella per cui 1* acque de' mari più   vicine alla fovraftante Luna, più fi l'ol-   le vano verfo di lei «      f ih      Ora intorno a quefti connetti ef-   fètti tra materie , c materie didatti di luogo , ed intorno alle cagioni vere   onde nafee una tal tìiìca conneifione tra   Fenomeni,* Fenomeni in divertì , e repa-   rati (oggetti* due generali > e (blenni   Verità ignoravanocomunemcntegli An*   fichi , e pochi fon gli Uomini , che noti   le ignorino anch' oggi » La prima delle   quali due verità fi è, chetimi i motid'   ogoi forta, dipendenti dell' eftere da ufi   qualche corpo in dirtanta , o nafeonò   da vero urto , da vera pattfone, originata   da quel corpo dittante , per metto di   qualche frappotta materia * fia vifibite,   fia invitìbile,ofon eonfeguentc neceflarie   di quelle determinate, e colanti Regole   della mutua general Gravità, daltequa-   li neffun Corpo nel materiale Univer-   fo può fottrarlì , ed a norma delle qua-   li deve ogni Corpo, ed ogni fua parte,   fecondo le varie circolante in cui fi   trovi, oftarfi in un perfetto equilibrio di   contrapporle tendente, o tendere prepo-   tentemente piuttotto per un verfo, che   per un' altro , e piuttotto ad Un tal corpo   dittante, che ad un tal'altro, fenta che   urto o pretfìone ve lo fpinga; le quali   regole di moti, chiamanti perciò non      A i mecccaniche, cioè non derivanti da pref-   fioni, e da urti. L' altra delle due pre-   dette Verità, men cognita ancora deli'   cfpòfta, fi è, che non folo certi Feno-   meni , con certi altri determinati", ap-   partenenti ad alcuni corpi, localmente   dilcofti , fon vicendevolmente connetti ,   o dipendenti nclT eiTere , ma tutti quanti   ne fono flati finora nel genere de* me-   ri materiali, e quanti ne elicono in que-   llo momento, e quanti ne fon per cflcre   neir intiero giro de* Secoli , e nella e-   ftenfione intiera del materiale Universo »   tutti han del pari una veriffima cogna-   zion di natura, o tal conneflìone, e tal   mutua correlazione, per cui fi può dire   con rigorofa verità, che fe a cagion di   efempio non nafeeflero dallo itelo di   una Rofa quelle fpine precife, che ne   fpuntano, nelle circodanze nelle quali   nafeono, niente affatto di ciò che fuc-   cede nelle provincie della Terrefrre Fi-   fica fuccederebbe , e fe non fi generarle   nelle circoftanze nelle quali pur genera   quel sì piccolo difpregìato Infetto, che   fugge di occhio, e che in ore anzi che   in giorni , muor decrepito, e Tritavo,      ed in vece di queir Infetto fi generaffc   nelle medclime circoftanze un altra co-   fa, o non fi generale nulla ,( toltoli ca-   fo di un miracolo, da cui li prefein-   de ) il magnifìcentilfimo , V ammirabile   Univerfo intiero fi trasformerebbe in   tutt' altra cofa. Gran Paradotio agli oc-   chi de' Profani, ma grande e fublime   Vero per chi è iniziato a miftcrj dell'   alca Fiiofofia i • - -  Imperciocché non fiam noi certi ,   che quanto accade nell' Univerfo Cor-   poreo , tutto fi fa dalle forze motrici ,   e che tutte le forze non libere, tutti   i non liberi moti, fon* altrettante necef-   farie confeguenze di quelle Finche ge-   nerali Verità, che Leggi de' Corpi fi   chiamano, per le quali poflono, e deb-   bon feguirc, quali preci (amente feguo-   no tutti i Fenomeni, nelle circoftanze   nelle quali fi trovano i materiali fog-   gettiP Bifognerebbe ciTer ben nuovo, e   (rraniero nella faenza Filici per dubi-   tarne . Se dunque , a cagion di efempio, nel fecondo fieno di un Gclfotnino   tede la Natura una piccohffima intie-   ra Pianta feminale , che ricevuta poi   da conveniente terreno, crefee in adul-   ta Pianta di Ge!fomino;cgli avvien ciò,   perchè lcLeggi Filkhc di Natura, pò-   fte le circoftanze in cui fono le remi-   ca! i materie di quel Fiore, forza è, che   quelle materie depongano in quel tal'   ordine da cui ritolta ? etfer Pianta fc-   minale di Gclfomino, anziché di tutt'   altro Vegetabile; e fc colaggiù nelle mi-   niere dell' Oro fi lavora dalla Natura   quel preziofo metallo, anzi che Ferro,   o Diamante; egli è perchè le Leggi de*   moti | nelle circoftanze in cui tono i   principi, ond'è comporlo il bell'Oro,   non poftono a meno di non difporli ,   e combinarli in quel tal predio ordine   in cui confitte V effer Oro piuttofto,   ,che un* altra cofa . V ifteflo vuoili dire   di tutti gli altri materiali Fenomeni.   Dunque tanto è domandare , che un'   «f&tto corporeo nelle circoftanze preci-   fc nelle quali fegue , o non fegua   punto, o fia divedo, quanto è doman-   dare, che le generali Fifichc Leggi dì            Primo- 9      Natura, dette quali è figlio neceflario,   o non efiftan punto, o fien tutt' altre .   Or fe tali non fòflcro, non avrebbero   certamente potuto produrre in veruit   tempo, in verun luogo, neffuno di que-   gli innumerabili effetti , che fo*o rtati   dalla primitiva coftituzionc dell' Uni-   verfo, fino a quefto momento, nè po-   trebbero generarne pur uno di quelli,   che attualmente effe generano in tutta   1' ampiezza delle corporee cofe, e di   quelle, che nederiverannocome naturali   confeguenze loro in tutta la ferie del-   le Età future* Dunque non folo alcu-   ni determinati Fenomeni , con alcuni   altri determinati hanno real conneffio-   nc,o vicendevole correlazione nelT cf-   fcre, ma ciafeuno con tutti gli altri,   comunque fienfi varj, e di tempo», e di   luogo remoti* Perchè quantunque nef-   fun Fenòmeno aver polla ragion di Cau-   fa, odiEffetto, rifpetto a tutti gli al-   tri indiftintamente, ciafeuno però in-   didimamente e una condizion nccefla-   ria all'efifrcnza di tutti gli altri: avendo   noi veduto in pie ni (firn a luce cfler rigo-   rofamentc vera quefta Propofuionc : Che      non            io Ragionamento  non fi può torre , o mutare un Fenomeno,   date le fue circo/lanze , fenza torre , o mu-   tare le Fificbe Leggi di Natura , e però fen-   za tonerò mutare per naturai confeguen*   za tutto il re Ilo nelt intiero Vniverfo cor-   poreo. Ed ecco abbatta nza fpiegate le   ragioni, e 1' eftenfiooe di quella Simpa-   tia, eh* è impropriamente tale, e che   gli Antichi chiamavano conneflìone,   confenfo , cognazione, correlazione di   natura, tra foggetti , e foggetti inani-   mati.  E' tempo ornai, gentilifsimi Udi-   tori, che cedendo alle attrattive, colle    tale aborri-   mento, e diftribuzioae > o difpofizio-   nc di fuoni, allor fi chiana* una bella      Mufica, una beli* Aria, un Concerto   bello, quando quell' afsortimento 9 c   quella diftribuzione di mufiche into-   nazioni produce nell' animo noftro un   diletto. Noi abbiam dunque un' interno Ten-   ta, che chiamar fi può conveniente-   mente fenfo del Bello viiibile, e udi-   bile, del quàl fenfo egli è caratterirtico Attributo il fentirc un diletto, o una   molcftia, qualora vediamo una tale, o   tal' altra fcclta,e difpofizione di parti   di un Tutto vifìbile, ed ascoltiamo un   tale, o un tal' altro aflbrtimento dipar-   ti componenti un Tutto (onoro, o udi-   bile. Han prima gli Uomini guftato   il piacere, che proprio è del fenfo del-   la Bellezza vifìbile, c udibile, di quel   che abbiam faputo quali fieno le midi-   re, quali le proporzioni, e le diftri-   buzioni delle parti, onde piacciono, o   difpiacciono i viiibili, egli udibili Og-   getti • Prima che fi fapclfe ¥ Arte Mu-   fìca, piacevano i canti di Progne, e di   Filomena-, c prima che un qualche Fi-dia curiofamcntc mifurando detcrmi-   nate le proporzioni , e le locali cor-   relazioni delle membra di un bel Cor-   po, le Veneri e f Elene, gli Adoni ed   i Paridi dilettavano i rifguardanti , ed   i Momi,e gli Efopi, e le Gabrine, e   le non fucato Alcine ributtavano.  E perchè come in tutti gli altri (enfi   avviene, cosi è vero altresì del fenfo   della Bellezza, cioè che in tutti gli   Uomini noa fon fabbricati i fenforj   di una fretta maniera; di qui è, che   dilconvengono tra loro non di rado nel   giudicar del Bello , come difeonvengo-   no nel giudicar degli odori, e de* fa-   pori. Non a tutti i nervi olfattori piac-   ciono, o difpiacciono gli fletti effluvi,   producitori di quelle dilettevoli, o mo-   iette fenfazioni , che buoni, o cattivi   odori fi chiamano. L'Organo del Gu-   tto, gli apici de* nervi , cioè, che in   folte fchiere metton capo alla fuperfi-   cie della Lingua, perchè non fono in   tutti gli Uomini di una medefima in-   triofeca ftruttura, perciò non ricevono ió Ragionamento  in tutti ugualmente grate , o ingrate   fenfazioni di fapore dagli ttefiì cibi , c   dalle ftetfe bevande. Per flmil ragione   la Muika, di cut tanto fi compiaccio-   no i Siamefi , ci farebbe correre colle   mani alle orecchie, ed eflì forfè chia-   merebber fraftuoni i rroftri Concerti , e   nojofe Nenie le noftre Arie cantabili.   Il certo fi è, che tutti gli Uomini trag-   gon diletto da qualche foggia di Mufica,   ma non Io traggono ugualmente dalle   iteflc Opere di Mufica inftrumcotalc, e   vocale. Così appunto piacciono agli uni   le brevi dature , e le membra fcarfe e leg-   giere ; preferirono altri le perfone di al-   to taglio, e di gravi, e mafficce fattez-   ze; gli uni fon per l' impatto candido, e   vermiglio della Cute , gli altri pel   brunetto Greco. V* fot* anzi àc' Popo-   li intieri, che dipingono neri velluta-   ti i Gcnj buoni , e desinano a' Dei ma-   li i colori di latte, e di cinabro. Ed   io qualche Regno della più eulta Eu-   ropa, il pallido pagliato non fi chia-   mava egli , non ha gran tempo, il bel   pallido? E non era egli riputato la ver-   nice la più conveniente alle delicate bellezze, onde le Dame, che cava-   vano di piacere , condannavano liete   colle frequenti miflioni di fanguc, ad   una perpetua convalefcenza , per acqui-   fere l'accreditato pregio del pallore,   che nel giallognolo biancheggiava? Ve-   ro è, che folto quel Cielo fteflo non a-   roano ora ie guance, che di carminio,   nè fi contentano del nativo rofato; ma   non perciò diventa falfo, che il dila-   vato pallido non piacele già preferi-   bilmente ad ogni altra cute. Noq fan-   no gli uni faziarfi di ammirar gli oc-   chi neri, e fdruciti di Qiunonc; tro-   vano altri più dolci i cerulei di Teti;   per qucfti fon più toccanti i cefii di   Minerva; per quelli gli feuretti, efein-   tillanti di Venere. Ma per quanto fia   vero, che il fenfo della bellezza è va*   rio in varj, fenfo però della bellezza   corporea in tutti è, ed evvi altrettan-   to per ciafeuno in una corporea bel-   lezza tal mifura, e difpofizioni di par-   ti, e tal colorito di cut*, che a quel-   lo piace, c piacendogli, c dilettando-   lo, ne attrae 1' animo, e in fe lo fitta   dolcemente , c ne defta voglia di rinnovar tal piacere, e cara ne rende la   caufa , che Io produce . Dunque dalla corporea bellezza ,   perchè cagion di diletto, perchè autri-   ce di compiacenza, ed eccitatrice del-   ia voglia di fc, forza è che nafea una   fpecie di affetto; e fc chi lo infpira lo   riceve altresì per fimil caufa dalla flef-   fa perfona in cui V infpira, fi avranno   dunque vicendevolmente cari, lì deae-   reranno V un l'altro, cioè la Simpa-   tia gli unirà. Gli unirà, dico, e ren-   deralli cari, V uno all' altro, fe i dol-   ci fentimenti, che la vicendevole re-   lativa corporea bellezza ecciterà in en-   trambi , non faranno combattuti , o fu-   perati da i ributtanti , ed alienanti affet-   ti, o dalle moiette impreffioni , che ca-   gionano i rincrcfcevoli vizj di mente,   i deformi vizj del cuore, e le maniere   difaggradevoli : cioè la bruttezza dell'   Animo trafpirando fuori, e mofrrando-   fi, o nelle maniere, o ne' difeorfi, o   nelle azioni , non rifpinga da fe co'      fuoi  iuoi odioiì tratti, con forza uguale, o   maggiore di quella con cui ne alletta   colle Tue grate impreffioni la corporea   Bellezza. Dunque perchè qucfta abbia   forza durevole, bifogna che V Animo   non fia brutto, o non il ravvili per ta-   le: nè può la Simpatia eMcr viva, co-   ftanfc, ed alle Regole della beata Vita   conforme, fe dalle bellezze dell' Ani-   mo non tragga, fe non tutto, almeno   pretto che tutto, il foave fuo nutrimento. Ed eccoci infcnfibilmente condot*   ti alla parte ultima del noitro Ragio-   namento, ed inueme alla migliore, e   più potente, e più dolce cagione della   genial Simpatia: poiché tal caufa ap-   punto ella è un,* Anima veracemente bel-   la . Son le bellezze dell' Animo di due   fpecic; T une appartengono all' inten-   dimento, T altre alla volontà, o come   fuol dirli , al cuore. Allora è bella una   Mente , quando forpafla la comune por-   tata; ed è tanto più bella, quanto fo-   no più pregiabili i fuoi talenti nativi ,      B 2 ed acquiftati. Il talento altro non è,   che un' agile, e felice attitudine di a-   ri alizzare, e quali notomizzar collo Spi-   rito tutti i comporti Oggetti della men-   te, e di conoscere al paragone le lo-   miglianze , e le differenze multiplici   delle cole, e le loro meno ovvie con*   neffioni, e i vicendevoli rapporti loro,   quantunque ardui per i mediocri Spi*   riti, meno atti a condurli lungo una   ferie d' incatenati Veri, a confcguenzf   più, e più remote, immutabilmente   connette colle Verità prime, e per fe   flette evidenti . Il talento di difcernere   anche le piccole differenze tra quelle   cole, che alle Menti comuni pajono   le più limili, e di giungere a tali di-   feernimenti, al favore di ordinate pre^   nozioni, e di inanellate indittolubili de*   duzioni di Vero da Vero , fuol chia-   marli Talento Filofottco, e quefto co-   ftituifee il carattere del fublime Genio,   o vogliam dire dell'Ingegno profondo ,   ed inventivo . II talento poi di ravvi*   fare agevolmente, e come in un colpo   d' occhio tra le cofe di dittinoli gene-   re, e fpecie,i lati o gli Attributi limili ,      egli            Primo. ti      egli è il Carattere, per cui chiamali chi   n' è fornito , un' Uomo di Spirito- Un   $1 fatto talento potrebbe convenevol-   mente dirli Poetico, a differenza dell'   altro, che Filolofico nominammo: E   gli conviene il nome di Poetico, per-   chè non può effer fecondo in immagi*   ni, ed in figurate cfpreffioni, chi non   è agile, c deliro in oflcrvarc per quali   lati lì raflomigliano le cofe altronde   varie io natura, ficchè poflano t une,   moftratc da certe facce, fervir d' im-   magini all' altre . Chi quello Poetico   talentò pofTiedc , chiamali Uomo di bel-   la, e do vizio fa, e viva, e brillante Im-   maginazione, la quale fe congiunta iia   col Filolofico talento, o colla franca   attitudine al fublime, e profondo ed *-   fatto pcnfare,ne ritolta daqucfta unio-   nc fortunata, ciò che fi chiama una il-   luti re , e bcIlitTima Mente. Una tal Men-   te è fempre feconda di frutti degni di   fe, vola per ogni lato oltre i comuni   confini, ed ogni giorno più ricca di   Veri , o maraviglio!!, o belli * o inte-   rcalanti, ha f arte di lumeggiarli $\ vi-   vamente, e di prefcntarli fatto imm^      B s gì"*            22 Ragionamento      gini sì nuove , e di ornarli con tali   grazie di eloquenza, e di difporli con   ordine sì regolare , da renderli come   vitibili alle altrui menti, e vifibili in   aria perfuadente inlìeme, e dilettevole .   Una tal -Mente, che fenza incomoda-   re inftruifcc qualora parli, e nuove fee-   rie apre, e nuovi profpetti alla Imma-   ginazione di chi V afcolta, onde appa-   rirono Verità di ogni foggia, adorne   in cento guife fenfatamentc fcelte, ed   2l Tuoi foggetti proporzionate, una tal   Mente, dilli , quanto è ammirabile i   quanto ne piace il commercio i come   ne volano in tal compagnia le ore l quan-   to fe ne deiidera il ritorno. 1 La bella   Mente adunque ha una forza (impanca ,   dolce, e potente forza , che a fe ne   trac. Ma non l'ha certamente minore,   anzi e più potente, e più foave P efer-   cita fopra gli Animi altrui un bel Cuore.  Son le Bellezze del Cuore i belli   affetti, e belli fon quegli affetti, che   rcndon pregiabilc , ed amabile il noftro      morale Carattere ; e la pregiabilità di   quello, e la fua amabilità nafte tutta   dalla confederazione delle Virtù loda-   li , e reali, che abitualmente rifplen-   dano in un' Animo, e ad ogni rifeontro   con tutte le irrefiftibili loro attrattive   fi manifeftino . Le morali Virtù, che   ci fon più care negli Uomini , fon quel-   la Beneficenza, che nafee da compaf-   fìone, e da benevolo fociale affetto, 1'   officiofa Gratitudine , la fedele Amici-   zia, la modefra idea di fe medefimi,   l'obbligante rifpetto per gli altri . Que-   lli Attributi dell' Animo non poffon non   intereffarc ,e non dilettare l'amor pro-   prio di tutti quelli , che in un tal' Ani-   mo si fatti prcgj rifguardano. Piace   troppo il vederci e cari, e rifpettati,   quando ci rifpetta , e ci ha cari un'   Anima illuftre , delle Virtù più deli-   cate, e più amabili poffeditrice e mi-   niftra . Piace troppo un tal' Animo ,   che i pregj proprj ravvifa appena, e ri-   leva gli altrui, e lì compiace in rile-   varli. Troppo diletta un Cuore, da cui   non afpettali giammai nè turpitudine,   nè apatia, un Cuor che fa fua voglia      B 4 dell'altrui voglia , fé Virtù lo permea   te, e che non folo fi pretta a tutti gli   atti benefici, che da lui fi domandano *   ma gode a tali inviti, e quali gli atti*   ra,c i benefici ringentilifce colia ala*   crità, e colla gioja, colle quali fi por-   ta ad effer' utile altrui ; un Cuor final-   mente, che i ricevuti favori incide in   bronzo, e i compartiti oblia. Tale è   il vero Benefico, perchè la bella Be-   neficenza non è figlia dell' interefle ,   non della vanagloria, o dell' orgoglio-   fo Amor proprio, che vuol far fentire   la Tua fuperiorità ad altrui; ma cllana-   fee da un delicato fenfo di gluteamen-   te graduata benevolenza, da una tene-   ra compafsione per 1' Innocenza infe-   lice, e per ogni forta di bifogno al-   trui , e dalla virtuofa abominazione de'   contrari affetti , come intrinfecamen-   te deformi, ed improbi, e di loro na-   tura odiabili, e condannabili. Sì fatte   difpofizioni di Cuore, fe comuni forte-   to tra gli Uomini, il Poetico Secol d'   Oro diverrebbe un' Moria. Che invi-   diabile vita non menerebbefi ! Inten-   de adunque ognuno, per poco che vi penfi , quanto fieno defiderabili in tut-   ti 5 e quanto amabili, e care di natu-   ra loro l'eccellenti morali Virtù, del-   le quali parliamo. Ed ecco perchè di-   letti, ed in confeguenza perchè bello iì   chiami un Cuore, e quanto ila vero*   che un Cuor sì fatto, forza è che fiaua   potente Oggetto della nOftra ammira-   zione > e una dolce Tergente di Simpatia- Nè reftano dentro i confini dell'   Animo le bellezze del Cuore: penetra-   no i raggi loro fui volto, e gli fan*   no acquiftare tal' aria, che ne ricre-   fee maravigliofamente la bellezza , s' ci   l'abbia, o un vi libi 1 pregio gli dà, e   lo rende piacevole , quand' anche fenza   un bell'affetto del cuore efpreffo nel vol-   to , quefto per fe medefimo tìon piaecf-   fe. Chiamali aria del vifo quel compiei   fo di modificazioni vilibili, queirafpet-   to,che nafee dagli interni fentimenti   dell' animo, e che al variar degli af-   fetti fi varia con loro. Ogni affezio-   ne del cuore ha un vii© tutto fuo, una fonomia affatto propria. Altro è il   volto dell' Animo egro, altro quello   del Cuor fcreno, c contento. Si mo-   ftra r Ira ncll' Occhio torvo, e rofleg-   giante, nelle gonfie labbra , neli' accefo   colore, neli' inturgidimento de' mufeo-   Ji, nella irrequieta, e varia agitazione   delle membra. L' invidiofa malignità   impallidire il vifo, illividifcc il lab-   bro, rappiglia le guance, vibra corte oc-   chiate e fuggiafche , richiama ogni mo-   mento alla terra lo fguardo, nè per-   mette che fi alzi libero, ed aperto in   faccia altrui. Porporeggia Tulle guan-   ce IaModeftia al Tuono delle Tue lo*   di, e il guardo inchina, e un movimen-   to di pena conduce fui volto, ma di   una pena che rifpetta chi la produce   co'plaufì, e cogli cncomj . Un vivo de-   fiderio mirto di compiacenza, attacca   gli occhi di chi Io ha in cuore, lui ca-   ro Oggetto, che a fe lo tira, le lab-   bra reIran focchiufe, ferme le mem-   bra , muovonfi lente , ed oblique le pu-   pille, ma fenza deflettere da chi gì' in-   fpira e compiacenza , e voglia. Com-   pone la Gioja Ja bocca al rifo, ed il      co-lor ravviva, diftende il fopracciglio ,   e Io innalza, c gli occhi muove tremu-   li , c brillanti . Egli è dunque innega-   bile, che ogni affetto ha il fuo vifo ,   ha un' aria tutta Tua, e che i belli af-   fetti han V aria bella, come i truci, i   maligni, i pulìllanimi , i tetri, e per-   ciò i difprezzabili , ed i viziofi affetti   han T aria brutta.   Tra tutte le belle arie, quella che   nafee da un' Animo pieno di nobili   {entimemi, di ogni vera battezza, e di   ogni orgoglio fchivi , che amabile mac-   ffà fuol chiamarti, quella della lieta   fcrenità di Spirito, voto di pungenti   cure, e fuor della tempeffa degli affet-   ti , quella della tenera benevolenza , qual   fi moffra all' afpetto di chi ci giunge   carifsimo, e quella della dolce ammi-   razione, fon le più belle, gcneralmen- '   te parlando; e tutte V arie belle del   volto fon' appunto, fe ben vi fi rifletta, quel ciò che comunemente dicefi   un certo non fo che, che piace, e alletta. E fc tutti non trovano in un   mcdctimo volto quel certo non fo che,   che più ne piace , addivien ciò , pcr-   ^ chè non ogni affetto produttore di   qualche beli' aria del vifo, diletta tut-   ti ugualmente; nè ogni beli' aria può   produrre in tutti una ugualmente gra-   ta impresone: poiché il fenfo del Bel-   lo, di cui parlammo già, non è in tut-   ti gli Uomini fomigliantiflimo. jQuin-   di piace più ad uno Y aria cupida, c   4§nguente , ad un'altro la vezzofa e vivàce. Ama piuttofto un terzo la ferenat grande iniieme, quella cioè, che   prender fògltono le Anime grandi; ad   un quarto è più caro 1' afpetto della   bella modeftia. In mezro però a tut-   te quefte differenze, egli è Tempre vero, che per gli affetti belli dei Cuore y   qualche aria bella , e qualche nuovo pre-   gio acquifta il volto, ed in confeguen-   za che le bellezze del; Cuore non folo   ci piacciono per fc medelìme, ma affai   più grata, e più toccante ci rendano-   la bellezza corporea.  Ed ceco epilogate tutte le cagio-   ni fiiìcbe, e morali della perfonal Sim-   patia. Corpo per la bruttura delle mem-   bra, e pel colorito delia cute dilette-   vole agli occhi , c refò ancor più toc-   cante da qualcheduna delle beli' triff   Mente bella, tale cioè che unifica in fc   ftefla il Filofofìco genio, ed il Poeti-   co, o vogliam dire la fublime, e mul-   tiplice ed efatta cognizione delle co-   le , colla doviziofa , e luminofa eloquen-   za ; e finalmente Cuor bello, cioè deU   le amabili, e delicate morali Virtù in*   diffolubile amante , fon tutte quelle   fogge di bellezza , che riunite in una   ftclla perfona lo rendono quali un' Og-   getto di adorazione, una foave delizia   della Vita, un Ben celeftc in Terra.   Che fe pregj sì cari , e sì portenti rin-   con tri od in due , che iì conofcano a   fondo, una Simpatia irreiiftibilc forza   è , che gli aflortifea, e vicendevolmen-   te gli Aringa. Sarà quefta durevole, e felice per   mille, e mille dolcezze, fe i pregj dell'   Animo forpafTano con eccetto tutti i   pregj corporei : farà vacillante, c fu-   gace , e fotto una dolce fuperficie , ama-   ra ed ortica, fe un bel Corpo che in-   vogli, deforme animo, e da vizj infociali macchiato, nafeonda, o Mente   racchiuda (travolta , o abbacinata. Con   tali difetti può bene (lare un' animale-   fca paflione ,una paiTionc bella non già.   Bella, e tenera amicizia vuole un Cuo-   re adorabile, vuole un* efquiiìto buon   fenfo , fe non un'Ingegno, ed uno Spi-   rito trafeendentc il mediocre livello,   e fenza bella, e tenera amicizia non vi   è bella pafsione. Dunque il diletto,   che la corporea bellezza infpira, fol-   tanto inclini il cuore , ma la Ragione   oltre la feorza trapafsi, penetri fino al   centro dell' animo , c tutti gli afcoli   Attributi fuoi curiofa indagatrice, e giu-   dice imparziale rintracci , cmifuri. Non   fupponga credula le intcriori bellezze ,   ma ve le veda in piena luce. Se le vede, approvi la propenfion dell* affetto,   dalla corporea bellezza prima eccitato,   c lafci liberi al cnore gì' innocenti fuoi   moti, che un taf Oggetto n' è degno.   Ma fc al contrario, riguardando l'Ani-   ma, da un vezzofo Corpo velata, quel-   le bellezze non vi ravvifi, che effee   debbono f unica real forgente delle belle   pafsioni, come ne fon la vita, ritenga la   favia Ragione le fconiìgliate inclinazio-   ni del cuore verfo quel Corpo, e come   unaSfinge, un' Arpia, una Circe venefi-   ca, una feduttricc Sirena, fotto mentite   larve quella fallace fuperficial bellezza   rifguardi, e la fugga torto, e la detcfti .   Se Ragione illumini, e feorga a degno   Oggetto il cuore , le Simpatie beata cofa   fono, e dono preziofo del Ciclo. Mafc   gli ertemi fentì guidano foli il cuore a-   gli affetti, e loSpirito cede i dritti fuoi   fovrani a chi non ha conlìglio, la Simpa-   tia è cieca, e corre forfennata colà,   donde dovrebbe fuggire; vola in pre-   da agli affanni, e al tardo pentimen-   to, mentre incauta s' immagina di vo-   lare in braccio alla più invidiabile Fe-   licità.   Giovanni Gualberto De Soria. Soria. Keywords: l’opuscolo, simpatia, simpatia, empatia, simpatia conversazionale, other-love, self-love, benevolenza, helpfulness, cooperation, basis, dull empiriist, enough of a rationalist, quasi-contractualist, relevance breakdown on you, one principle, rationality, cooperation. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Soria” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Sorrentino: Vico italico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Vico. Bordon, La retorica di Vico. VICO e le razze mediterranee, Bulletin italien di Bordeaux. Scrocca. Vico e un suo recente critico: in Rassegna nazionale di Firenze. Keywords: Vico, razza mediterranea, razza aria. Andrea Sorrentino.

 

Grice e Sorrentino: la persona come paradigma di senso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nola). Flosofo italiano. Tra i massimi esperti italiani di teologia filosofica, ma oltre alle letture di carattere teologico-religioso, è anche ideatore di una filosofia autonoma ed originale. -- è infatti convinto che si debba ricercare una connessione tra le varie forme di sapere, spesso rinchiuse nell'ambito dei propri specialismi e pertanto sterili. Studia a Milano. Si laurea in filosofia a Napoli, dove consegue anche la laurea in teologia. Insegna a Salerno. Sviluppa tematiche come il dibattito sulla religione, inteso nel senso di una problematizzazione e di una tematizzazione del religioso nella società a partire dall’illuminismo. Cerca di inquadrare la filosofia relativa all'etica e alla religione. Da qui parte il tentativo di una tematizzazione filosofica della dimensione simbolica. Il motore della ricerca è il tentativo di giungere ad una forma di connessione dei saperi che possa superare le difficoltà e le incomprensioni del mondo contemporaneo, non solo in ambito filosofico.  Altre saggi: La teologia della secolarizzazione: chiesa, mondo e storia; La filosofia della religione, ermeneutica e filosofia trascendentale; Filosofia ed ESPERIENZA religiosa”; “Realtà del senso e universo religioso”; “Per un approccio trascendentale al fenomeno religioso”; “La dottrina della fede”; “Il valore della vita”; “Dialettica”; “Obbedire al tempo”; “L'attesa”; “La dialettica nella cultura romantica”; “Religione e religioni”; “Il prisma della rivelazione”; “Una nozione alla prova di religioni e saperi”; “L'eredità dell'illuminismo e la critica della religione”; “Diversità e rapporto tra culture”; “Le ragioni del dialogo. Grammatica del rapporto tra le religioni”; “Nichilismo e questione del senso”; “Teologia naturale e teologia filosofica”; “La libertà in discussione”; “Le ragioni del dialogo. Grammatica del rapporto fra le religioni, “La persona come paradigma di senso”; “Dibattito sull'eredità di Mounier”; “La teologia politica in discussione” -- Salerno, Giornale di filosofia della religione,. Sergio Sorrentino. Sorrentino. Keywords: la persona come paradigma di senso, H. P. Grice, P. F. Strawson. Luigi Speranza,”Grice e Sorrentino”.

 

Grice e Sorrentino: l’implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Vincenzo Sorrentino.

 

Grice e Sosistrato: la scuola di Locri – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Locri). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to Giamblico. Grice: “What is important to note here is the reference to Locri, because it’s quite a way from Crotona, and let’s not forget this is all part of the Crotona diaspora, as we may call it.

 

Grice e Sozione – la romanità nel circolo dei Sesti -- Roma antica – Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Tutor of Seneca. In glossary to Roman philosophers, in Roman philosophers. Filosofo pitagorico, appartenente alla scuola dei Sestii, e accolge anche motivi etici di derivazione del Portico Vive a Roma all'epoca di OTTAVIANO e di TIBERIO e e tra i maestri di Seneca. Viene da questi citato, a proposito del vegetarianismo di ispirazione pitagorica, nelle Lettere a Lucilio. Non credi che le anime siano assegnate successivamente a corpi diversi, e che quella che chiamiamo morte sia soltanto una migrazione? Non credi che negli animali domestici o selvaggi o acquatici dimori un'anima che un tempo è stata di un uomo? Non credi che nulla si distrugge in questo mondo, ma cambia unicamente sede? Che non solo i corpi celesti compiono giri determinati, ma anche gli animali seguono dei cicli, e che le anime percorrono come un circolo? Grandi uomini hanno creduto a queste cose. Perciò, astieniti da un giudizio e lascia tutto in sospeso. SE queste teorie sono vere, l'astenersi dalle carni ci mantiene immuni da colpa; SE sono false, ci mantiene frugali. Che danno deriva dal credere in esse? Ti privo degl’alimenti dei leoni e degli avvoltoi. Traduzione di Natali in Seneca, Tutte le opere, a cura di REALE, Bompiani. Ferrero, Storia del Pitagorismo nel mondo romano dalle origini alla fine della Repubblica, Torino-Cuneo; Centrone, Introduzione ai Pitagorici, Roma-Bari. Quinto Sestio filosofo romano Ecfanto di Siracusa filosofo greco antico. Sozione pagina di disambiguazione di un progetto Wikimedia. Keywords: il circolo dei Sesti. Sozione.

 

Grice e Sozzini: razionalismo, e moi -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Socinianism. Nacquero in questa casa S. letterati insigni filosofi sommi della liberta di pensiero strenui propugnatori contro il soprannaturale vindice della umana ragione fondarono una celebre scuola precorrendo le dottrine del razionalismo – I liberali senesi ammiratori reverenti questa memoria posero, Fausto. Fausto Sozzini. Lelio Sozzini. Sozzini. Keywords. Refs.: H. P. Grice, “Sozzini, rationalism, and moi”, Luigi Speranza, “Grice e Sozzini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Spadaro: all’isola -- conversazione coll’angelo – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina), Filosofo italiano. Laureato a Messina, entra subito dopo nel noviziato della compagnia di Gesù. Insegna lettere a Roma. Riceve l'ordinazione presbiterale e pronuncia i voti solenni nella compagnia di Gesù. Consegue la licenza in Teologia, il diploma in comunicazioni sociali, il dottorato di ricerca in teologia presso la pontificia università gregoriana di Roma. Completa la sua formazione negli stati uniti d’America, nella Provincia dei gesuiti di Chicago. Comincia a scrivere per la rivista “La Civiltà Cattolica” e entra a far parte in maniera stabile della redazione. Si occupa soprattutto di teoria della letteratura e di critica letteraria, in particolare legata ad autori contemporanei italiani (tra questi, PAVESE, BASSANI, LUZI, TONDELLI. Tra le materie che tratta vi sono anche la musica, l'arte contemporanea, il cinema e le nuove tecnologie della comunicazione e il loro impatto sul modo di vivere e pensare (in particolare su, Second Life, sulla lettura digitale, sui vari social networks, sulla filosofia hacker o sulla cyberteologia).  Ha fondato Bomba Carta, un progetto culturale che coordina iniziative di scrittura creativa, produzione video e lettura anche su internet. È curatore della collana di poesia L'Oblò delle edizioni Ancora. Insegna presso il centro inter-disciplinare di comunicazione sociale della pontificia università gregoriana --  è a capo del comitato scientifico "La sfida e l'esperienza" che raccoglie docenti e manager interessati ai temi della spiritualità e dell'innovazione. Viene incaricato di co-ordinare le attività culturali della compagnia di Gesù in Italia. -- è il relatore principale al primo evento organizzato dai Gesuiti sulla musica rock nel quale riabilita la dignità musicale (non liturgica) del genere nel suo complesso, limitandone la condanna alla valutazione di rari e singoli casi. Diviene Rettore della Comunità dei gesuiti de La Civiltà Cattolica. -- è annunciata la sua nomina a direttore della rivista. Nel numero del 1º ottobre  della rivista è apparso il suo articolo di presentazione nella nuova veste di direttore.  La sua attività in Rete è legata, oltre alla presenza nei social network, anche allun sito personale e di due blog: uno dedicato alla CyberTeologia e uno dedicato a O'Connor. Benedetto XVI lo nomina consultore del Pontificio Consiglio della Cultura e anche consultore del pontificio consiglio delle comunicazioni sociali. Riceve a Caserta il prestigioso premio "Le Buone Notizie Civitas Casertana", uno dei più importanti premi di giornalismo italiani, unico nel suo genere a livello internazionale. Incontra più volte papa Francesco per conto de La Civiltà Cattolica e di altre 15 riviste della Compagnia di Gesù. Il contenuto delle conversazioni è stato pubblicato sotto forma di intervista a settembre  ed ampiamente ripreso dalla stampa internazionale.  Dedicato un articolo all’utopia. L'articolo analizza il significato di  utopia nel contesto culturale italiano, ne analizza la storia, e ne mette in evidenza pregi e limiti.  La sua conclusione è che dalla descrizione e dalle valutazioni compiute comprendiamo bene come  rappresenti un sogno illuminista di descrivere il mondo, che però si scontra con le difficoltà di accreditarsi come compendio di sapere credibile, mantenendo nel contempo anonimato, flessibilità e continua apertura a nuovi collaboratori. Nello stesso tempo questa utopia rovescia il sogno dell'enciclopedia tradizionale, intesa come costruzione autorevole, organica e integrata del sapere. Infatti  è come un organismo vivente: cresce (al ritmo del 7% ogni mese), si ammala, è sottoposta a composizioni e scomposizioni interne, ad accrescimenti e riduzioni continue. Ma soprattutto  nasconde un'altra utopia, a suo modo, ambigua. La democrazia assoluta del sapere e la collaborazione delle intelligenze molteplici che dà vita a una sorta di intelligenza collettiva. Questa utopia potrebbe nascondere una nuova forma di torre di Babele, che ha il suo tallone di Achille non solo nell'inaffidabilità, ma anche nel relativismo. Concede un'intervista a Wikinotizie,  Intervista al gesuita 2.0, nella quale commenta l'articolo e spazia sulle tematiche inerenti  e il mondo della rete internet. Altri saggi: “Tracce profonde. Il viaggio tra il reale e l'immaginario” (Roma, Città Nuova); “Radio on. Tra le colonne sonore  (Napoli, Giannini); “Lo sguardo presente. Una lettura teologica dell’amore” (Rimini, Guaraldi); “Attraversare l'attesa” (Reggio Emilia, Diabasis); “Laboratorio″. La nuova narrativa italiana (Reggio Emilia, Diabasis); “Un'acuta sensazione d'attesa” (Padova, Messaggero di Sant'Antonio); “A che cosa «serve» la letteratura?” Leumann (To)-Roma, Elle Di Ci La Civiltà Cattolica,  Premio Capri per la sezione Letteratura e Premio Crotone sezione Giovane critici italiani); “Lontano dentro se stessi. L'attesa di salvezza” (Milano, Jaca). Connessioni. Nuove forme della cultura al tempo di internet” (Bologna, Pardes); “La grazia della parola. La poesia, Milano, Jaca); Nella melodia della terra” (Milano, Jaca); “Abitare nella possibilità. L'esperienza della letteratura” (Milano, Jaca), “L'altro fuoco. L'esperienza della letteratura” (Milano, Jaca); Alla ricerca del lupo. Genio, tensioni, vanità (Bologna, Pardes); “Nell'ombra accesa. Breviario poetico di Natale (Milano, Ancora); Web 2.0 Reti di relazione, Milano, Paoline,. “Svolta di respiro. Spiritualità della vita” (Milano, Vita & Pensiero). Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete, Milano, Vita & Pensiero); “Lasciami correre via, Padova, Messaggero); “Traversate di un credente, Milano, Jaca); “La dodicesima notte (Milano, Ancora); La freschezza più cara. Poesie (Milano, Rizzoli); Canto una vita immense (Milano, Ancora); “Un Dio sempre più grande. Pregare” (Milano, Ancora). obio, su laciviltacattolica. Saggi su "La Civiltà Cattolica", su antoniospadaro.net. Antonio Spadaro, BombaCarta, su bombacarta.com. accesso=16 agosto.  Antonio Spadaro, L'OblòAncora, su ancoralibri. Orazio La Rocca, I gesuiti benedicono il rock: "La musica di Springsteen & Co parla all'anima", Repubblica. cogliere pienamente la sfida digitale. Cyberteologia, Nomina di consultori del Pontificio Consiglio della Cultura, Rinunce e nomine, su Bollettino della Santa Sede, Bollettino della Santa Sede.  Su La Civiltà Cattolica la mia intervista a Papa Francesco, su cyberteologia, Intervista a papa Francesco. Cyberteologia, sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai. Antonio Spadaro. Spadaro. Keywords: conversazione coll’angelo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Spadaro” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Sparti: il ri-conoscimento – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Insegna a Siena, Pisa, Milano e Bologna. Fonda “Studi culturali. Collabora a "Iride", "Paradigmi", "Rivista di estetica", "Rassegna italiana di sociologia", ed "Intersezioni". Concentra la sua attenzione sull'estetica dell'improvvisazione.  Saggi: Se un leone potesse parlare. Indagine sul comprendere e lo spiegare” (Firenze, Sansoni); Sopprimere la lontananza uccide” “Interpretazione” (Firenze, Nuova Italia) “Epistemologia delle scienze sociali” (Roma, Nuova Italia); “Soggetti al tempo. Identità personale fra analisi filosofica e costruzione sociale” (Milano, Feltrinelli); “Identità e coscienza” (Bologna, Mulino); “Wittgenstein politico” (Milano, Feltrinelli); “Epistemologia delle scienze sociali” (Bologna, Mulino); “L'importanza di essere umani: etica del ri-conoscimento” (Milano, Feltrinelli); “Suoni inauditi. L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana” (Bologna, Il Mulino); “Musica in nero. Il campo discorsivo del jazz” (Torino, Bollati); “Il corpo sonoro: oralità e scrittura nel jazz” (Bologna, Il Mulino); “L'identità incompiuta: paradossi dell'improvvisazione musicale” (Bologna, Mulino); “Sul tango: l'improvvisazione intima” (Bologna, Mulino). Davide Sparti. Sparti. Keywords: identita personale, interpretare, improvvisare nella vita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sparti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Spaventa: l’origine italico dello spirito filosofico – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Bomba). Filosofo italiano. Nasce da un'agiata famiglia borghese. Sua madre èpro-zia di CROCE. Studia a Chieti. Ottenuto l'incarico di docente di matematica, si trasfere a Montecassino. La sua formazione continua a Napoli. Studia i filosofi tedesci in tedesco – Grice: “Which is the right thing to do – and which Ryle, or Strawson, for that matter – are unable to!”  Si avvicina ai circoli liberali e a pensatori come COLECCHI e TARI. Fonda una scuola  di filosofia. Inoltre partecipa alla redazione de “ Il Nazionale”. Dopo l'abrogazione della costituzione da parte di Ferdinando II, e costretto a lasciare Napoli. Si trasferire prima a Firenze, quindi a Torino. Divenne giornalista scrivendo su Il Progresso, Il Cimento, Il Piemonte, Rivista Contemporanea. Si avvicina al pensiero di Hegel. Polemizza con La civiltà cattolica, rifiutando l'idea del sacro come passo necessario per lo sviluppo umano.  In tal modo condivise con altri esuli napoletani gli stessi fermenti patriottici e liberali che avevano nell'idealismo hegeliano il loro motivo ispiratore. In Napoli la filosofia di Hegel penetra nelle menti de' cultori della scienza, i quali mossi come da santo amore si affratellavano e la predicano. Né i sospetti già desti della polizia, né le minacce e le persecuzioni valsero ad infievolire la fede in questi arditi difensori della indipendenza del pensiero. I numerosi studenti raccolti da tutti i punti del Regno nella grande capitale disertano le cattedre, ed accorrevano in folla ad ascoltare la nuova parola. Era un bisogno irresistibile ed universale, che li spinge ad un ignoto e splendido avvenire, all'unità organica dei diversi rami della cognizione umana. I filosofi, partecipavano al general movimento, ed ambivano soprattutto, come gl’antichi italiani, di essere veri filosofi. Chi può ridire la gioia, le speranze, l’entusiasmo di quel tempo? Chi può ridire l’affetto col quale si amano i maestri e gli allievi, e insieme procedeno alla ricerca della verità? E un culto, una religione ideale, nella quale si mostrano degni nepoti dell'infelice Nolano. BRUNO (si veda). “Studii sopra la filosofia di Hegel” (Torino) «Rivista Italiana». Insegna a Modena, Bologna e Napoli. Vuole liberare la cultura filosofica italiana dal suo provincialismo, attraverso la diffusione nella penisola dell'idealismo di Hegel. Sostene una politica laica e legata ad un forte senso di un stato unitario, considerato come sorgente dei princìpi e dei valori ispiratori di un armonioso sviluppo di civilita, da cui la comunità dei cittadini devono trarre l'alimento necessario per una crescita ordinata e corretta. Circola l’idealismo, che dimostra il percorso dinamico della filosofia e il suo ritorno in Italia dove ha origine. Riforma la dialettica hegeliana per salvare l'identità di essere e pensiero escludendo ogni presupposto oggettivo esterno al pensare. Recupera l'aspetto pratico nel processo conoscitivo che evita la caduta in un astratto idealismo. La filosofia italiana del Rinascimento, connotata dal naturalismo e dall'immanentismo, ha precorso la filosofia, giungendo attraverso Spinoza agli idealisti tedeschi Fichte, Schelling, Hegel. il ritorno in Italia della filosofia con la terza Roma e  con la riappropriazione dei filoni spiritualistici europei da parte di ROSMINI e GIOBERTI. Mentre per la critica tradizionale la filosofia italiana e caratterizzata dalla sua ininterrotta fedeltà alla linea platonica, S. cerca di dimostrare, con gli studi dedicati al umanesimo rinascimentale che la filosofia, laica e idealistica, generalmente associata alla riforma in realtà e nata in Italia. Interpreta con chiave di lettura hegeliana questo progressivo passaggio dello spirito filosofico italiano e il suo ritorno, sottolineando la continuità del razionalismo di Cartesio col principio innatistico di CAMPANELLA della cognitio abdita, dell'empirismo di Locke con la campanelliana cognitio illata o nozione acquisita, dell'immanentismo Spinoza col panteismo di BRUNO, del criticismo con la metafisica della mente di VICO. Poi GALLUPPI e ROSMINI si sarebbero riappropriati inconsciamente di quello stesso spirito permeato dal kantismo, come GIOBERTI di quello dell'idealismo. Ripigliare il sacro filo della nostra tradizione filosofica italiana, ravvivare la coscienza del nostro libero pensiero nello studio dei nostri maggiori filosofi, ricercare nelle filosofie delle altre nazioni i germi ricevuti dai primi padri della nostra filosofia italiana e poi ritornati fra noi in forma nuova e più spiegata di sistema, comprendere questa circolazione del pensiero italiano, della quale in gran parte noi avevamo smarrito il sentimento, riconoscere questo ritorno del nostro pensiero a sé stesso nel grande intuito speculativo del nostro ultimo filosofo Hegel, sapere insomma che cosa noi fummo, che cosa siamo e che cosa dobbiamo essere nel movimento della filosofìa, non come membri isolati e scissi dalla vita universale del popolo, nè come avvinti al carro trionfale d'un popolo particolare, ma come nazione libera ed eguale nella comunità universale. Tale, o signori, è stato sempre il desiderio e l'occupazione della mia vita. Prolusione alle lezioni di Storia della filosofia a Bologna (Modena, Tipografia Governativa) Uno dei suoi propositi, giustificato dalla stessa tesi della circolazione della filosofia italiana, e il tentativo di far uscire gli intellettuali italiani dal provincialismo stagnante in cui versavano, apportando loro gli elementi più innovativi del pensiero idealistico d'oltralpe, per dare un fondamento filosofico-culturale al processo rivoluzionario dell'unificazione nazionale. La rivoluzione storica da attuare non e il programma neo-guelfo del primato morale e civile di GIBERTI che ripudia in blocco la filosofia moderna, ma anda intesa hegelianamente come sttoria della libertà, nella quale lo spiritualismo non significa un'involuzione, bensì un riallineamento alle nazioni più avanzate. Son molti ancora in Italia i quali tacciano di astratta e oscura la filosofia alemanna e, reputandola contraria alla natura speculativa dell'ingegno italiano, si accontentano di una maniera di sapere che non ha nessuna connessione con la nostra tradizione filosofica -- è un perpetuo oltraggio alla memoria de' nostri sommi ed infelici pensatori, e la principal cagione del decadimento della scienza tra noi. Costoro dimenticano la storia della filosofia italiana, della quale furono gli eroi e martiri i nostri filosofi. Non ricordano i roghi di BRUNO e di VANINI, la lunga prigionia di CAMPANELLA, e l'umile pietra che, nel tempio de' Gerolomini in Napoli, ricopre le ceneri di VICO, luce del nostro mondo intellettuale. Non i nostri filosofi degli ultimi duecento anni, ma Spinoza, Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, sono stati i veri discepoli di BRUNO, di VANINI, di CAMPANELLA, di VICO, ed altri illustri. – “Principii di Filosofia”. Non si limita a recepire passivamente l'hegelismo, ma da avvio ad una sua profonda revision. Introduce temi originali che cerca di riprendere dalla tradizione autoctona italiana.  In particolare, cerca di rispondere alle critiche di Trendelenburg, il quale non vede come dal primo momento della logica hegeliana, quello dell'essere puro e indeterminato, puo scaturire il divenire dialettico dello spirito, se non tramite un'indebita intromissione dal di fuori. Per dimostrare l'identità dell'essere col spirito, e quindi che l'Idea è intrinseca alla realtà storica, avente come scopo la libertà, sostenne l'esigenza di mentalizzare o kantianizzare» la logica di Hegel, unificando quest'ultima con la fenomenologia, cioè col percorso conoscitivo del singolo individuo umano, che diventa progressivamente auto-cosciente di avere in se stesso, nello proprio spirito, tutta la realtà assoluta logicamente articolata. Riforma così la dialettica hegeliana nell'ottica di Kant e Fichte, ritenendo prevalente l'atto soggettivo (no inter-soggetivo) della coscienza trascendentale rispetto ad ogni presupposto oggettivistico o inter-soggettivistico), valorizzando inoltre il momento finale dello spirito rispetto alle fasi precedenti della logica e della natura, situate fuori dall'auto-coscienza. È lo spirito la protagonista di ogni originaria produzione.  In maniera simile a Fischer, infatti, la deduzione hegeliana, che dalla contrapposizione di essere e nulla faceva scaturire il divenire, venne intesa in senso kantiano e fichtiano dando il primato alla sintesi unificatrice del divenire: è lo spirito, nel suo perenne fluire, che dà luogo all'essere, il quale, originariamente indeterminato e perciò in-concevibile, si rivela un non-essere, essendo posto all'interno dello spirito stesso. Per questo primato assegnato all'atto del concivere, fa da apripista all'idealismo attuale di GENTILE. Per contrastare l'avanzata del positivismo che e penetrato in Italia dopo la raggiunta unità nazionale, di fronte all'esaurirsi delle spinte ideali che caratterizzano il Risorgimento, si impegna nella valorizzazione dell'aspetto pratico del processo spirituale, per evitare la caduta in un «stratto idealismo, che non cura né pregia lo sperimento. In particolare riprende da VICO una concezione pratica e storica della metafisica dell'assoluto, intendendo l'auto-coscienza hegeliana (quale Begierde, cioè appetizione) come umanità, ovvero impeto che agisce nel soggetto umano. Analogamente puo sostenere, nel tracciare LA STORIA DELLO SPIRITO ITALIANO che è il soggetto umano a dare concretezza e coscienza di sè al processo storico. La Riforma della modernità che abolisce i vecchi principi della filosofia scolastica si basa per l'appunto sull'immanenza di Dio e sulla capacità della coscienza umana di auto-determinarsi e di accedere direttamente all'Infinito, come enunciano BRUNO e CAMPANELLA. Il riconoscimento del valore infinito dell'uomo ha ripercussioni anche sulla concezione etico-politica, stimolando studi e interessi sulla filosofia hegeliana del diritto.  Permase una viva concezione etica dello stato italiano, che lo indusse a rinvenire nell'idealismo hegeliano la sintesi tra la corrente post-illuministica, basata sull'arbitrio individuale soggetivo e su una concezione meramente contrattualistica dello stato, ed il cattolicesimo liberale, fondato viceversa sull'arbitrio divino e sull'aderenza dogmatico-confessionale al principio d'autorità. Il suo liberalismo rigetta l'individualismo o soggetivismo che privilegia l'interesse del singolo portandolo a servirsi dell'organismo universale per i propri fini, distruggendo la società. Allo stato italiano spetta dunque la funzione pedagogica di promuovere gli interessi DI TUTTI, di ogni italiano, tutelando la famiglia, in cui si forma l'individuo o soggeto, e al contempo la società civile.  La famiglia e la società civile hanno la loro verità nello stato. Dove lo stato italiano non è altro che famiglia (lo stato patriarcale italiano), o una istituzione di pubblica sicurezza (polizia italiana), non solo lo stato italiano non è il vero stato, ma né la famiglia né la società civile esistono nella loro vera forma. Lo stato italiano è l'unità del principio della famiglia e del principio della società civile (della naturalità umana e del libero volere, del diritto e della moralità). Non è una semplice associazione fondata mediante il libero arbitrio soggetivo, o il patto inter-soggetivo etc, né una associazione puramente naturale. È tutto ciò insieme. È assoluta soggettività etica dei individui.. Assoluta, perché è sostanza; soggettività, perché è saputa e voluta dagli individui liberamente come la loro stessa essenza etica e universalità. Dove manca tale sapere e volere, lo stato italiano non è libera soggettività, e l'individuo non ha vero valore (individualismo moderno). In altri termini, è la sostanza nazionale, conscia veramente e realmente di se medesima; lo spirito del popolo (come tale, come spirito etico) nella sua vera e perfetta esistenza – “Studi sull'etica hegeliana”. Poiché il potere stesso dello stato italiano può essere utilizzato da un individuo o da una classe in vista dei suoi interessi di parte, accetta il modello costituzionale, sebbene non privo di conflitti tra particolarità e universalità, nel quale la personalità dello stato italiano e elevata sopra la lotta sociale. Ripudiando l'astratto cosmopolitismo, lo stato italiano va dunque inteso come l'immanenza di dio, dell'universalità dello spirito italiano calato nella concretezza della nazionalità del popolo italiano, tutti uguali, ratelli dell'umana famiglia. È con Spaventa soprattutto che la filosofia in Italia cessa d'essere esercitazione accademica e vacua speculazione, si avvia a diventare organica visione del mondo, da cui derivi e consegua una morale, si avvia cioè a diventare religione laica, dando inizio a quel largo movimento di distacco di intellettuali dalla chiesa cattolica. -- Arfé, L'hegelismo napoletano e S., in «Società», Firenze. E uno dei maggiori teorici che si sforzarono dare un un'impronta ideale e spirituale al percorso risorgimentale verso l'unità d'Italia, non limitata all'ambito filosofico, come riconobbero in seguito storici e studiosi del Risorgimento. Con lui e SANCTIS e giunta al culmine quella motivazione politica della nazione italiana che e la caratteristica in forza della quale il movimento sorto a Napoli supera i limiti di un episodio regionale. Da noi, gl’italiani, al contrario che in Inghilterra e in Francia, l'hegelismo non è stato solo una filosofia ma un elemento della vita civile della nazione italiana nel momento culminante del suo Risorgimento. Landucci, L'hegelismo in Italia nell'età del Risorgimento, Studi storici, Roma. Influsce profondamente, attraverso la mediazione di JAJA, anche l'idealismo italiano di GENTILE, il quale porta a termine il lavoro di kantianizzazione o mentalizzazione di Hegel avviato da lui, trasformando la sua dottrina in un compiuto attualismo o filosofia dell'atto, basata cioè sul perenne dinamismo dell'atto del pensiero. GENTILE cura inoltre la pubblicazione della spaventiana prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia a Napoli, ri-nominandola significativamente La filosofia italiana, ritenendola un saggio di carattere non solamente storiografico, ma soprattutto fenomenologico, in cui cioè lo spirito della filosofia italiana esprime la sua ritrovata coscienza di sè. GENTILE si confronta ampiamente con lui nella propria riforma della dialettica hegeliana, oltre a raccogliere e sistemare alcuni suoi scritti inediti, tra cui un frammento giudicato uno snodo importante verso la genesi del proprio attualismo, contribuendo alla riscoperta e alla rinascita degli studi intorno alla dottrina spaventiana. Anche l'idealista CROCE, che dopo la morte dei genitori anda a vivere da S., segue le sue lezioni, apprezzandone soprattutto lo spirito profondamente liberale. Altri di suoi scolari, o allievi sono FIORENTINO, MATURI, JAJA, MASCI, TOCCO, LABRIOLA, ed ALFONSO. Nuovi studi sono sorti in occasione del bi-centenario della nascita di S. e SANCTIS. Altri saggi: La filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofia italiana, Tipografica, Torino; Principii di filosofia, Ghio, Napoli; Studi sull'etica di Hegel, Università, Napoli; La filosofia di GIOBERTI, Tasso, Napoli; Saggi critici di filosofia, politica e religione, Bruno, Roma, La dottrina della conoscenza di BRUNO, Università, Napoli; Principi d’etica” (Pierro, Napoli); “La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea” GENTILE, Laterza, Bari. “Logica e metafisica” Gentile, Laterza, Bari. Opere, Gentile, raccolte e aggiornate da Cubeddu e Giannantoni, Classici della Filosofia, Sansoni, Firenze. Opere, saggio introduttivo, prefazioni, note e apparati di Valagussa, postfazione di Vitiello, Bompiani, Milano. Articoli sulla filosofia tedesca (Kant, Fichte, Schelling, Hegel), Petrone, Il Prato,  Edizione critica delle Opere psicologiche inedite Orsi, Lezioni di antropologia, Psiche e metafisica  Elementi di psicologia speculativa, Sulle psicopatie in generale. Cit. in Spaventa, Antologia degli scritti, Vacca, Bari, Laterza. Gentile: la filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, Angeli, Gentile e Spaventa, su treccani.  Il contributo italiano alla storia del pensiero, su treccani. Nel tempo che gl’ustriaci — ‘i tedeschi’ dicemo generalmente in Italia — dimorano non solo nelle contrade lombarde e venete, ma anche in Toscana, io non ho il coraggio di dire: filosofia tedesca. (nota di S.).  Principii di Filosofia, Napoli, Ghio. Le tradizioni filosofiche nell'Italia unita, di Rota.  Perone, Ferretti, Ciancio, Storia del pensiero filosofico,  Torino, SEI, Cit. di Gentile in Della vita e degli scritti di Spaventa, Scritti filosofici” (Napoli, Morano). Altri saggi: “Sulle psicopatie in generale,  o La legge del più forte, in cui si confronta tra l'altro col darwinismo.  Studi sull'etica hegeliana, Napoli, R. Università, Il concetto di nazione (nazionalità) segna in lui un superamento della filosofia hegeliana della storia basata sul susseguirsi di popoli-guida (cfr. Carratelli, Storia e civiltà della Campania (Napoli, Electa); Studii sopra la filosofia di Hegel; Unificazione nazionale ed egemonia culturale, Vacca (Bari, Laterza); Garin, La fortuna nella filosofia italiana, in  L'opera e l’eredità di Hegel, Bari, Laterza; Cubeddu, Da S. a Gentile: Kant e l’idealismo, in La tradizione kantiana in Italia, convegno della Società filosofica italiana, Messina, G. B. M.; La raccolta gentiliana delle sue opere venne riedita e curate da Cubeddu e Giannantoni, e ri-stampata da Valagussa e Vitiello. Coscienza nazionale, treccani. Gentile, S. (Firenze, Vallecchi); Vacca, Politica e filosofia (Bari, Laterza); Bartot, L'hegelismo di S. Firenze, Olschki; Cubeddu, Edizioni e studi (Firenze, Sansoni); Serra, Etica e politica (Roma, Bulzoni); Franchini, Dalla scienza della logica alla logica della scienza” (Napoli, Pironti); Garin, Filosofia e politica, Tognon, Napoli, Bibliopolis; Garin, Napoli, Bibliopolis, Gentile, Coscienza nazionale, Chieti, Noubs; Origo, Perpetuazione e difesa della filosofia italica (Roma, Bibliosofica); Savorelli, Il contributo italiano alla storia del Pensiero Filosofia (Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana); Attualismo Hegelismo Idealismo italiano Idealismo tedesco Treccani. Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Dizionario biografico degl’italiani, Fusaro, “S.: Il far intendere Hegel all'Italia, vorrebbe dire ri-fare l'Italia”.  Gentile e S., su treccani. Scritti filosofici. Gentile. Gli hegeliani di Napoli e il Risorgimento. SAGGI DI S. SAGGI PUBBLICATI DA S. Sulla quantità considerata nella sua espressione, Giornale abruzzese, Napoli]. Allo stato attuale delle ricerche, è il primo saggio pubblicato da S. Un manoscritto dell’articolo — datato: Montecassino, e firmato: B. De Laurentiis — è conservato nella Biblioteca civica di Bergamo. Il saggio non sviluppa argomenti di carattere filosofico; tratta dell'oggetto e dei metodi dell’analisi matematica, richiamando l’attenzione del lettore sulla cosiddetta “serie di Taylor”, introdotta dal matematico Brook Taylor nello scritto Metbodus incrementorum diretta et inversa. Il saggio Sulla quantità è stato ristampato da Orsi nella raccolta degli Scritti inediti e rari di S. Pensieri sull'insegnamento della filosofia, Il Costituzionale, Firenze. È il primo scritto di S., fin quI conosciuto, che tratti di un argomento filosofico. E scoperto da GENTILE dopo la pubblicazione del suo S., sicché non comparve nella riordinata e accresciuta bibliografia inserita nella monografia gentiliana. I Pensieri indicano nella filosofia della storia la dottrina capace di introdurre i giovani ad una retta comprensione della filosofia hegeliana; e costituiscono un documento importante per la ricostruzione del primo “programma” filosofico di S. Sono stati ristampati da Gentile nel Giornale critico della filosofia italiana”, Opere. II Socialismo e il Comunismo -- supplemento alla storia del secolo per Stein Professore in Kiel. Prima versione dell'originale tedesco di S., Il Nazionale, Firenze, Rivista italiana, Torino. È un avviso scritto da S. allo scopo di raccogliere sottoscrizioni per la sua traduzione — forse mai pubblicata — della nota opera di L. von Stein, Der Socialismus und Communismus des heutigen Frankreichs (1842, 1848; ampliata e ripubblicata nel 1850 col titolo: Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich vom 1789 bis auf unsere Tage). Il testo dell’avviso pubblicato nel “Nazionale” di Firenze è stato rintracciato e ristampato da Sergio Landucci, nel saggio S. fra hegelismo e socialismo; quello apparso nella “Rivista italiana” di Torino, è stata, ripubblicato da Orsi, nella sua edizione degli Scritti inediti e rari di S. Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino. In questo estratto sono raccolti due saggi apparsi sulla “Rivista italiana” [Torino], nuova serie, novembre e dicembre 1850. Sono firmati: Bertrando Spaventa; non sono stati mai ristampati integralmente. Gli Studi sono un documento di primaria importanza per intendere la direzione in cui si muovono le idee filosofiche di S. Offrono al lettore, nella prima parte, una “idea generale” del sistema hegeliano, costruita attraverso brevi riassunti delle opere di Hegel; nella parte seconda, propongono una traduzione — che è una parafrasi, e, sia pure in modesta misura, un commento — della Vorrede alla Fenomenologia dello spirito. La rivoluzione e l’Italia: Diritto della rivoluzione -- I filosofi -- Le conquiste della rivoluzione, in “Il Progresso” [Torino], II, nn. 130, 135 e 141; 3, 8 e 15 giugno 1851. Con questa serie di articoli si apre la collaborazione di S. al giornali torinese “Il Progresso”, un foglio di sinistra, del cui consiglio di direzione faceva parte Agostino Depretis. Un primo, importante gruppo di scritti ali S. dedicati alla polemica sulla libertà di insegnamento in Piemonte, e pubblicati sullo stesso giornale, è stato identificato e ristampato da Gentile nel volume La lbertà di insegnamento [108]; nello stesso anno (1920), Gentile ristampava nella rivista “La Critica” le False accuse contro l hegelismo, due articoli del “Progresso” dei quali l’a. aveva annunziato la ristampa, con quel titolo, nella raccolta dei suoi Saggi di critica, interrotta dopo il primo volume [107, 77]. A questi scritti rintracciati da Gentile (il quale, nel 1924, scriveva che molti altri articoli anonimi dello Spaventa sono nello stesso giornale [“Progresso”], facili a identificare per la materia e per la forma”), si aggiungono ora, con La rivoluzione e l’Italia, altri articoli identificati da I. Cubeddu, che rende conto del suo lavoro nello scritto Bertrando Spaventa pubblicista (giugno-dicembre 1851) [275]. Nello stesso articolo (p. 52 sg., nota) sono elencati alcuni scritti del “Progresso” che, per il contenuto e per lo stile, potrebbero attribuirsi a S., ma per i quali non è stato possibile trovare ragioni più persuasive della loro paternità. Gli articoli scritti per il “Progresso” costituiscono il documento più interessante delle convinzioni etico-politiche del filosofo; in quelli identificati da Cubeddu sono più evidenti le tracce della lettura del libro di Stein, Der Socialismus und Communismus, che S. si propose di tradurre. Oltre quella gentiliana, già citata, degli scritti sulla libertà di insegnamento e delle False accuse, si veda, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XLII (1963), pp. 66 sgg., la ristampa, con il titolo Rivoluzione e utopia, della serie La rivoluzione e l’Italia, della serie Le utopie [12], e dell’artiilo Rousseau, Hegel, Gioberti [14]. L’Armonia e l’Assemblée Nationale: I. L'idea, ILL L’uomo, in “Il Progresso” [Torino], II, nn. 137 e 138, 11 e 18 giugno 1851. Scritti in polemica con il quotidiano cattolico torinese “L’Armonia”, questi due articoli sono apparsi anonimi, e non sono stati fin qui ristampati. Il sedicente partito cattolico, in “Il Progresso” [Torino], II n. 143, 18 giugno 1851. Articolo non firmato; non è stato mai ristampato L'Accademia di filosofia italica, in “Il Progresso” [Torino], II, n. 147, 24 giugno 1851. Articolo identificato da Gentile nel suo Bertrando Spaventa [204], p. 38 sg. nota (= Opere, I, pp. 32 sg. n. 2), ma non incluso poi da lui nella biblioorafia degli scritti di S. Non è stato mai ristampato; ma cfr. n. 9. Una riunione dell’Accademia di filosofia italica, in “Il Progresso” [Torino], II, n. 150, 27 giugno 1851. Seguito dell’articolo precedente. Lo scritto è stato ristampato da Gentile nel volume La libertà di insegnamento [108], pp. 135-138 (= Opere, IIL pp. 765-769). La libertà di insegnamento. Gli scritti raccolti sotto questo titolo furono identificati dal Gentile, e da lui ristampati in un volume apparso nel 1920 [108]. Sono tredici articoli, tutti dedicati alla polemica sulla libertà di insegnamento in Piemonte, che apparvero nel “Progresso” del 1851 (anno II), tra il 27 luglio e T'11 dicembre. I primi cinque portano le date: 27 e 31 luglio, 7, 20 e 24 agosto; altri due articoli, destinati Az corzpilatori della “Croce di Savoia”, sono del 3 e 12 settembre; gli ultimi sei, scritti in polemica col giornale “Risorgimento” (Filosofia politico-offaciale), sono del 5, 8, 11 e 30 novembre, e del 3 e 11 dicembre. Sono probabilmente di S. altri tre articoli che riguardano la stessa materia, e che apparvero sul “Progresso” il 12 agosto (Ura lezione ai fautori della libertà di insegnamento), il 4 ottobre (La lbertà di insegnamento e il ministro della Pubblica istruzione) e il 28 ottobre (La lbertà dei gesuiti) dello stesso anno. Cfr. I Cubeddu, Bertrando Spaventa pubblicista [275], p. 52 sg., nota. False accuse contro l’hegelismo [1851]. È il titolo sotto il quale S. intendeva raccogliere e ristampare, nei Saggi di critica [77], gli articoli: L’hegelismo messo in croce, in “Il Progresso” [Torino], II, n. 204, 29 agosto 1851. Lettere filosofiche. Lettera prima, in “Il Progresso” [Torino], 11, n. 239, 9 ottobre 1851. I due articoli, firmati: Uro studente di filosofia, enunciano o riprendono questioni discusse da S. dalle colonne del giornale torinese: la distinzione di socialismo, comunismo e hegelismo; il problema del rapporto tra il cosiddetto “panteismo” hegeliano e la libertà dell’individuo; quello del rapporto di religione e filosofia; l’idea della filosofia “come principio di rigenerazione nazionale”, ecc. Sono interessanti anche perché contengono molti riferimenti a testi di Hegel, di Schelling, di Giordano Bruno, di Karl L. Michelet, ecc. Il primo articolo è una risposta allo scritto di D. Berti: I/ diritto individuale e il panteismo in politica, apparso nel giornale “La Croce di Savoia”, di ispirazione cavouriana. S. non giunse a ristampare questi articoli, che furono ripubblicati dal Gentile nel 1920, con il titolo voluto dall’autore. Le utopie, in “Il Progresso” [Torino], II, nn. 206, 215, 223, 234, 237, 241; 31 agosto, II e 20 settembre, 3, 7 e II ottobre 1851. Si tratta di sei articoli non firmati che, riprendendo da L. Stein la distinzione di “utopie” e “idee storiche”, discutono il significato delle lotte politiche e sociali degli ultimi sessant’anni. La serie è stata ripubblicata nel “Giornale critico della filosofia italiana”, La scienza de’ fratelli della dottrina cristiana, in “Il Progresso” [Torino], II, n. 298, 17 dicembre 1851. Anonimo, mai ristampato [cfr. n. 275]. Rousseau, Hegel, GIOBERTI, in “Il Progresso” [Torino], II, n. 305, 26 dicembre 1851. Pubblicato anonimo, questo articolo è dedicato alla discussione del rapporto che si istituisce tra “libertà oggettiva” e “libertà soggettiva” nelle dottrine di Rousseau, di Hegel e di Gioberti; e contiene interessanti riferimenti, oltre che a testi hegeliani, al Rinzovamento civile d'Italia. Le argomentazioni di S. si sviluppano secondo una linea identica a quella con cui lo stesso tema è introdotto nei precedenti Studi sopra la filosofia di Hegel [4]; lo stesso discorso svolgerà S. nel 1855, in un articolo di risposta al Tommaseo. Lo scritto Rousseau, Hegel, Gioberti è ristampato nel “Giornale critico della filosofia italiana”, Principii della filosofia pratica di Giordano Bruno, in Saggi di filosofia civile, tolti dagli Atti dell’Accademia di filosofia italica, Genova. S. aveva dato pubblica lettura di questo saggio a Torino, la sera del 24 giugno 1851, nel corso di una riunione dell’Accademia di filosofia italica, fondata da T. Mamiani. Il lavoro su Bruno - ispirato alle idee di rinnovamento politico e sociale, che S. sosteneva negli articoli pubblicati dal “Progresso” — è stato ristampato dall’a. nei suoi Saggi di critica Una lunga recensione dei  Princìpî è apparsa nell’Appendice alla filosofia delle scuole italiane di A. Franchi, Genova 1853, pp. 217-243 (la recensione è ricordata da G. Vacca, 141 bis, p. 10). Si legge a p. 217 sg. (e cfr. p. 234 sg.): “il discorso di Spaventa, l’unico in cui la filosofia apparisca trattata da un filosofo, l’unico di cui avrebbero potuto gloriarsi gli At d’un’Accademia, diventa la censura più severa, per non dire la satira più acerba, dell’Accademia italica e della sua filosofia; poiché le dottrine dell’ardito discepolo di Bruno distruggono ad una ad una le teorie monche, zoppe, tisicuzze, eunuche di Mamiani e Boncompagni”. Ma v. anche pp. 235 sgg., dove si nega l'esattezza “storica” del giudizio per il quale principio del cristia nesimo sarebbe l'identità di natura divina e natura umana; Franchi vuol sottolineare la totale divergenza di cristianesimo e “razionalismo”, l’abisso che separa le dottrine teoriche, morali, sociali del cristianesimo e la “democrazia moderna”, figlia della Rivoluzione dell’89 e della filosofia. Frammenti di studii sulla filosofia italiana del secolo XVI, in “Monitore bibliografico” [Torino] Nella sua bibliografia delle opere di S. [204], Gentile segnala che lo scritto era preceduto dalla seguente avvertenza: “L'importante articolo che pubblichiamo è parte di un lavoro dell’egregio filosofo sig. B. Spaventa sopra la filosofia del secolo XVI, particolarmente su quella di Giordano Bruno”. Lo scritto non è stato mai ristampato; ad esso accenna lo stesso S., citandone qualche brano, nella prefazione ai Principi di filosofia. La filosofia neo-cristiana e il razionalismo in Alemagna, in “Il Cimento” [Torino] È il primo scritto di rilievo [ma cfr. n. 35] stampato nel periodico “Il Cimento”, rivista di scienze, lettere e arti diretta da Zenocrate Cesari e pubblicata a Torino dal 1852 al 1856 (anno della fusione con la “Rivista contemporanea”, diretta da Luigi Chiala). Del “Cimento” S. fu assiduo collaboratore: vi stampò, oltre a numerose recensioni, e a polemiche assai note (come quella con la “Civiltà cattolica”), studi di ampio respiro sulla filosofia italiana del Rinascimento. Il saggio La filosofia neo-cristiana e il razionalismo in Alemagna, firmato con la sigla D. L. [De Laurentiis], fu scritto in occasione della traduzione italiana, a cura di Pietro Torre, della Storia della filosofia del diritto di Fr. J. Stahl (Torino, 1853); è importante per il rapporto che S. istituisce tra il pensiero di Gioberti e — attraverso Stahl — gli sviluppi della filosofia classica tedesca. Il saggio è stato ristampato da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 213-245 (= Opere, II, pp. 207-236). Recensione: Studi sopra Gans relativi al DIRITTO ROMANO, di A. Tarchiarulo Napoli 1853; in “Il Cimento” [Torino], 31 marzo 1854, Recensione anonima, non segnalata da Gentile, e attribuita a S. da A. Plebe. Campanella. [Recensione delle] Opere di Campanella, precedute da un discorso sulla vita e le dottrine dell'autore per Alessandro D'Ancona, Torino 1854; in “Il Cimento” [Torino], Recensione, non firmata, dell’edizione D'Ancona delle Opere di Campanella. Nell’indice del fascicolo l’autore della recensione è indicato con la sigla B. S. Lo scritto è stato ristampato da S. nei suoi Saggi di critica [77], pp. 3-32, come introduzione agli altri studi campanelliani [21, 46], raccolti nello stesso volume. Congratulazioni e quistioni alla “Civiltà cattolica”, in “Il Cimento” [Torino], 15 settembre 1854, pp. 370-376. Articolo, non firmato, con il quale si apre la serie degli scritti polemici contro la “Civiltà cattolica”. È stato ristampato da Gentile nel volume La politica dei gesuiti [101], pp. 1-16 (= Opere, Campanella. Teoria della cognizione, in “Il Cimento” [Torino], Dopo la recensione al D'Ancona [19], che intendeva inquadrare la personalità di Campanella nella storia del pensiero moderno, questi saggi sulla gnoseologia campanelliana — apparsi nel “Cimento” con la firma: Bertrando Spaventa — offrono un raffronto della dottrina del pensatore italiano con gli sviluppi della nuova filosofia (in particolare, Cartesio, Kant, Fichte, e Hegel). Lo scritto è stato ristampato da S. nei Saggi di critica [77], pp.33-101. Schelling, in “Il Cimento” [Torino], 15 ottobre 1854, pp. 521-532. Articolo non firmato, scritto in occasione della morte del filosofo tedesco. È interessante come documento delle letture che S. andava utilizzando in questi anni (tra l’altro, lo Hegels Leben [1844] di K. Rosenkranz), e per i riferimenti ai motivi “rivoluzionari” presenti nella filosofia del giovane Hegel e del primo Schelling; infine per il giudizio — negativo - sugli ultimi sviluppi del pensiero schellinghiano. Larghi brani dell’articolo sono citati da Sergio Landucci, Il giovane Spaventa tra begelismo e socialismo [282], pp. 684- 686, 688-690; il saggio è ora ristampato per intero, a cura di D. D’Orsi, negli Scritti inediti e rari di S. [123], PP. 47-58. 23. Recensioni: De immacolato Deiparae semper Vitginis Concepiti Caroli Passaglia e Societ. Jes. Commentarius Pars I, Romae MDCCCLIV (Della concezione immacolata di Maria Vergine ecc.); Elementi di filosofia del prof. Pier Antonio Corte, vol. Etica e storia della filosofia, Torino, Tip. Favale e Comp., 1854; Che cosa è il Diritto, ossia Introd. alla scienza della filosofia del diritto per Antonio Bartoli Avveduti, Firenze 1854. Dispensa 1; in “Il Cimento” [Torino], 31 ottobre 1854, pp. 660-668. Scritti non firmati, ristampati in parte (con esclusione del discorso sugli Elementi di filosofia di P. A. Corte) in La politica dei gesuiti [101], pp. 219-239 (= Opere, Nuove congratulazioni e quistioni alla “Civiltà cattolica”, in “Il Cimento” [Torino], 16 novembre 1854, pp. 689-704. Articolo firmato con la sigla: S.; ristampato in La politica dei gesuiti [101], (= Opere, pp. 763-796). Recensioni: Proposta di alcune difficoltà, che si oppongono alla definizione della immacolata concezione della B. Vergine Maria, Torino, Tipografia del Progresso, 1854; Lettera di un sacerdote cattolico ai Vescovi della Chiesa di Dio per rappresentar loro, che la sentenza dell’immacolata concezione della B. Vergine Maria non può essere definita dottrina di fede cattolica, Torino, Tipografia del Progresso, 1854; in “Il Cimento” [Torino], 16 novembre 1854, pp. 763-768. Le recensioni sono firmate: SS.; e sono state ristampate dal Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 241-252 (= Opere, II, pp. 964-975). Recensione: L’origine e l’ufficio della filosofia dimostrati col fatto da Epifanio Fagnani, Torino 1854, Pelazza, tipografia Subalpina; in “Il Cimento” [Torino], 30 novembre 1854, pp. 866-871. Recensione firmata con la sigla: SS.; non è stata mai ristampata. Recensioni: Questioni di Stato del conte Clemente Solaro della Margarita..., Torino, tipografia Speirani e Tortone, 1854; Della responsabilità dello scrittore, orazione recitata nella ... Università di Torino al 3 novembre 1854 dall'avvocato D. Pier Alessandro Paravia..., Torino, Stamperia Reale, 1854; in “Il Cimento” [Torino], 16 dicembre 1854, pp. 986-996. Queste recensioni, firmate: SS., sono precedute da una breve nota intitolata: Le rostre riviste e la “Civiltà cattolica”. La recensione del libro del Solaro è stata ristampata da Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 253-267 (= Opere, Il, pp. 976-988); sull'argomento della seconda recensione S. ritorna in un numero successivo del “Cimento” [34]. I Sabbati de’ Gesuiti [1855-56]. Si tratta di 29 articoli stampati — anonimi — dallo S. nell’appendice del giornale “Il Piemonte”, quotidiano politico diretto da Luigi Carlo Farini, in due serie, tra il 16 gennaio 1855 e il 28 marzo 1856 (il 30 marzo dello stesso anno, “Il Piemonte” cessava le pubblicazioni). I primi tre Sabbati sono stati ristampati dal Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 179-216 (= Opere, 11, pp. 909- 941); ma l’intera raccolta degli articoli si può leggere ora negli Scritti inediti e rari di S. a cura di D. D’Orsi [123], pp. 213-489. Ci limitiamo qui a riprodurre le date degli articoli: “II Piemonte”, Prospetto filosofico della storia del mondo umano di Cesare della Valle, duca di Ventignano, Napoli, Alberto Detken libraio editore, 1854; in “Il Cimento” [Torino], 16 gennaio 1855, pp. 66-70. La recensione è firmata con la sigla: SS.; è stata ristampata in Da Socrate a Hegel [98], pp. 277-286 (= Opere, II, pp. 265-273). Del principio della riforma religiosa, politica e filosofica, in “Il Cimento” [Torino], 31 gennaio 1855, pp. 97-112; 15 marzo 1855, pp. 369-384; 15 ottobre 1859, pp. 568-577. È un ampio studio, che apparve, firmato, nel “Cimento”, e che l’a. ristampò nei suoi Saggi di critica [77], pp. 269-328, con la data: Torino, 1854-1855. II saggio, che riprende e sviluppa il tema della genesi del pensiero moderno nell’età del Rinascimento, appare interrotto con la terza puntata; nel ristamparlo, S. osservò che esso può considerarsi ancora valido come introduzione alla “moderna filosofia italiana”, e che se ne debbono considerare prosecuzione e compimento le lezioni napoletane del 1861 [68]. Una nota della “Civiltà cattolica” contro “Il Cimento”, in “Il Cimento” [Torino], 31 gennaio 1855, pp. 144-146. Articolo firmato con la sigla: S.; è stato ristampato dal Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 55-61, con il titolo: Lazzenti della “Civiltà cattolica” (= Opere, II, pp. 797- 803). Principi elementari di filosofia morale ad uso delle scuole secondarie, 2a edizione, Torino, tip. Paravia e comp., 1854; in “Il Cimento” [Torino], 31 gennaio 1855, pp. 158-164. La recensione, firmata: SS., non è stata mai ristampata. Del sistema della Curia romana opposto all'autonomia dello stato, in “Il Cimento” [Torino]. L’articolo, firmato SS., fu scritto in occasione della stampa della A/locuzione della Santità di Nostro Signore Pio IX del 22 gennaio 1855, seguita da una esposizione corredata di documenti, ecc., Torino, tipografia Franco, 1855. È stato ristampato dal Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 269-281 (= Opere, II, pp. 989-1005). Ancora dell’orazione sulla Responsabilità ecc. del prof. Paravia; Maria Teresa e Maria Adelaide. Squarci di lezioni del prof. Paravia, Torino, tip. Marietti, 1855; Il governo di Piemonte e la corte di Roma, per Massimo d’Azeglio, Torino, Tip. Franco, 1855; in “Il Cimento” [Torino], 28 febbraio 1855, pp. 336-344. Recensioni firmate: SS. Per la prima, cfr. n. 27. La recensione al D'Azeglio è ristampata in La politica dei gesuiti [101], pp. 283-285 (= Opere, II, pp. 1006-1008). La nostra polemica con la “Civiltà cattolica”, in “Il Cimento” [Torino], 15 marzo 1855, pp. 438-445. L’articolo — firmato con la sigla: S. — appartiene alla serie dedicata alla polemica con la “Civiltà cattolica”. Non fu segnalato da Gentile: lo ha identificato e ristampato Domenico D’Orsi, nella raccolta degli Scritti inediti e rari di S. [523], pp. 189-202. Al D’Orsi (op. cit., pp. 181 sgg.) sembra che il contenuto di questo articolo (e quello di uno scritto successivo, anche questo da lui identificato: cfr. n. Presenti una sostanziale affinità con l’argomento di una “lettera” pubblicata dalla rivista torinese nel 1852 (A/ direttore del giornale “Il Cimento”. Frammento di una lettera sulla “Civiltà cattolica”, “Il Cimento”, I, 1852, pp. 334-338), lettera della quale dovrebbe essere considerato autore lo stesso Spaventa. Corso d’estetica, letto nell'Università di Padova nell'anno 1844-45 dal prof. Vincenzo De Castro, seconda edizione, Milano, Borroni e Scotti, 1855, vol. I; in “Il Cimento” [Torino]. La recensione, firmata con la sigla: SS., non è stata mai ristampata. Opere complete di Emm. Kant tradotte in francese da G. Barni, con introduzioni analitiche e critiche. 1. Critica della ragione pratica ecc. 2. Elementi metafisici della dottrina del diritto, Parigi, 1848-1854; G. Barni (Esposizione critica della filosofia pratica di Kant); in “Il Cimento” [Torino], 16 e 30 aprile 1855, pp. 653-659, 746-752. Recensione, firmata SS., delle traduzioni kantiane di Jules Barni, e dell’ Exazzen des Fondements de la métaphysique des moeurs et de la Critique de la raison pratique dello stesso Barni (Parigi, 1851). Lo scritto è stato ristampato da Gentile nella raccolta Da Socrate a Hegel [98], pp. 123-150, con il titolo: La filosofia pratica di Kant e Jules Barni (= Opere. Alcune considerazioni intorno alla separazione dello Stato dalla Chiesa, del sacerdote Giacomo Margotti, dottore in teologia, Torino, tip. Deagostini, 1854; in “Il Cimento” [Torino], 16 maggio 1855, pp. 849-855. Recensione firmata con la sigla: SS.; ristampata da Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 287-300 (= Opere, Gli scolastici immaginarii della “Civiltà cattolica”, in “Il Cimento” [Torino] Breve risposta alla “Civiltà cattolica” — firmata con la sigla: S. — a proposito della interpretazione delle dottrine politiche di Suàrez e di Mariana. Lo scritto segue immediatamente, nelle pagine del “Cimento”, alla recensione del libro del Margotti (v. n. precedente). Non è stato segnalato da Gentile; lo ha ristampato D. D’Orsi negli Scritti inediti e rari di S. [123], pp. 205-206. Hegel confutato da Rosmini. Saggio primo, in “Il Cimento” [Torino] L’articolo — firmato: B. Spaventa — denuncia i fraintendimenti sostanziali che stanno alla base di alcune critiche di Rosmini alla filosofia di Hegel. La seconda parte del saggio, che avrebbe dovuto illustrare la soluzione — dal punto di vista hegeliano — delle difficoltà sollevate da Rosmini, non fu mai pubblicata. Ma la critica di S. ebbe un seguito in un articolo contro il Tommaseo. Lo scritto su Rosmini è stato ristampato da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 151-191 (= Opere, Storia di uno studente di filosofia, di Giuseppe Piola, Milano, tip. G. Bernardoni, 1855; in “Il Cimento” [Torino], 31 maggio 1855, pp. 951-956. Recensione firmata con la sigla: SS.; è stata ristampata da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 287-298 (= Opere, II, pp. 274-284). Lo scritto ha suscitato di recente qualche interesse, per i severi rilievi di S. alle acritiche osservazioni del Piola sul socialismo (cfr. ad es. i saggi di Berti e di Landucci, nn. 255, 282).  L'Accademia di filosofia italica e Terenzio Mamiani. [Recensione dei] Saggi di filosofia civile tolti dagli atti dell’Accademia di filosofia italica, Genova, Grondona, 1855, vol. 2; in “Il Cimento” [Torino], 16 giugno 1855, pp. 1021-1033. Articolo firmato: B. Spaventa. Contiene, in fondo, un indice dei lavori pubblicati dall'Accademia, che non compare nella ristampa della recensione, inserita dall’a. nei suoi Saggi di critica [77], pp. 343-366. Dell’importanza civile del teatro drammatico, in “Il Cimento” [Torino] Il saggio è attribuito a S. da Domenico D’Orsi, che ristampa l’articolo nella sua raccolta degli Scritti inediti e rari del filosofo [123], pp. 65-88. Alla base dell’attribuzione sta il fatto che l’articolo è firmato con una sigla (= S.), che l’autore soleva apporre ad alcuni scritti pubblicati nel “Cimento”. Il saggio sembra peraltro presentarsi come stravagante, per dir così, nella produzione spaventiana di questo periodo: non tanto per l'argomento trattato, quanto per le idee che vi sono espresse (e, più che espresse, insinuate) e per la forma in cui tali idee vengono offerte al lettore. Il tema non è, di per sé, sconcertante: l’autore vuol sostenere il valore del teatro drammatico come strumento di educazione intellettuale, morale e sociale, in quanto esso è capace di presentare in veste sensibile l “idea”, di avvicinare il “popolo minuto” al mondo del sapere. Ma l’autore, nel giustificare la funzione mediatrice della letteratura drammatica, sembra inclinare verso una convinzione che mi appare alquanto distante dalle tesi difese altrove dallo S., in questi stessi anni: finisce infatti col suggerire la superiorità della “fantasia” e del “sentimento”, del “cuore” e della “fede”, sulla “ragione” e sull’ “intelletto”. E, similmente, il beneficio che la letteratura drammatica può arrecare alla società, vien fatto derivare dalla sua naturale capacità di insegnare le “vedute medie”, di additare una via che è egualmente distante da ogni estremismo. Corso sommario di filosofia razionale, del P. Vittorio Mazzini. Filosofia speculativa e filosofia morale, vol. due, Genova La scienza della lingua di Guglielmo di Humboldt e la filosofia hegeliana, per Enrico Steinthal, Berlino; in “Il Cimento” [Torino] Recensioni firmate con la sigla: SS. Non sono state mai ristampate. Metodo della “Civiltà cattolica” nel rispondere al “Cimento”, in “Il Cimento” [Torino] Articolo firmato con la sigla: SS., e ristampato da Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 63-78 (= Opere, II, pp. Campanella. III. Metafisica, in “Il Cimento” [Torino], 15 agosto 1855, pp. 189-212. L'articolo, che fa seguito alla recensione al D'Ancona e al saggio sulla gnoseologia di Campanella [19, 21], è firmato: B. Spaventa; è stato ristampato dall’autore nei Saggi di critica È un esame della metafisica campanelliana, della quale S. intende cogliere e sceverare gli elementi nuovi, attraverso un raffronto con gli ultimi sviluppi del pensiero moderno. L'analisi viene spinta fino al tentativo di un confronto con il problema della logica e della fenomenologia di Hegel. L’articolo doveva essere seguito da un saggio sulla Teoria della volontà; ma l’ultima parte di questi studi campanelliani non fu mai pubblicata (cfr. Saggi di critica, p. 135 nota).  La nostra polemica con la “Civiltà cattolica”. La teocrazia, in “Il Cimento” [Torino], 31 agosto 1855, pp. 307-314. Articolo firmato con la sigla: SS.; ristampato da Gentile in La politica dei gesuiti [101], pp. 79-96 (= Opere, La logica o il problema della scienza nuovamente proposto all'Italia da Paolo Morello, in “Il Cimento” [Torino] Recensione del libro del Morello (La logica ecc.), pubblicato a Firenze (Barbera, Bianchi e Comp.) nel 1855. È firmata: B. Spaventa; è stata ristampata da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 299-321 (= Opere, Una diversa redazione della recensione è stata rintracciata da P. C. Masini; cfr. Ur “pamphlet” antidemocratica...I trionfi dei gesuiti, in “Il Cimento” [Torino], 30 settembre 1855, pp. 494-500. Articolo firmato con la sigla: AA. È ristampato in La politica dei gesuiti [101], pp. 97-110 (= Opere, II, pp. 837- 848). La nostra polemica con la “Civiltà cattolica”. Gli Scolastici, in “Il Cimento” [Torino], 31 ottobre 1855, pp. 658-669. Articolo firmato con la sigla: SS. Ristampato parzialmente (manca una breve parte introduttiva) in La politica dei gesuiti [Joi], pp. 111-28 (= Opere, II, pp. 849-864). Sopra alcuni giudizi di N. Tommaseo, in “Il Cimento” [Torino], 15 novembre 1855, pp. 730-741. L’occasione a questa risposta di S. venne offerta dalla commemorazione di Rosmini, che Tommaseo aveva pubblicato nel 1855, in più puntate, nella “Rivista contemporanea” di Torino (cfr. ad es., nel fascicolo di settembre, pp. 25 sg., una chiara allusione alle argomentazioni sviluppate da S. in Hegel confutato da Rosmini [40]). L’articolo — che è firmato: B. Spaventa — è importante anche perché ribadisce il raffronto tra Hegel e Gioberti — già proposto dalle colonne del “Progresso” — a proposito dei concetti di legge, volontà generale, ecc. [Rousseau, Hegel, Gioberti: 14]; e perché riprende il motivo dell’accostamento Gioberti-Stahl [17]. Lo scritto è ristampato in Da Socrate a Hegel [98], pp. 193-212 (= Opere, II, pp. 189-206). Gli Scolastici. Suarez, in “Il Cimento” [Torino], Articoli firmati con la sigla: SS., e ristampati in La politica dei gesuiti [101], pp. 129-178 (= Opere, II, pp. 865-907). Gli Scolastici. Concetto e metodo della dottrina tomistica, in “Il Cimento” [Torino] È l’ultimo degli articoli di S., apparsi sul “Cimento”, dedicati alla interpretazione delle teorie politiche dei gesuiti del XVI secolo, in polemica con la “Civiltà cattolica”. Gentile lo aveva ristampato già nel 1905, in Da Socrate a Hegel [98], pp. 51-64 (con il titolo: Concetto e metodo della dottrina tomistica del diritto = Opere, II, pp. 57-68), prima ancora di raccogliere gli altri scritti di S. sull'argomento nel volume La politica dei gesuîti. Dell’amore dell'eterno e del divino di G. Bruno, in “Rivista enciclopedica italiana” [Torino] dispensa prima, Il saggio è dedicato alla esposizione del contenuto degli Eroici furori. È stato ristampato dall’a. nei Saggi di critica La “Civiltà cattolica” e la “Rivista contemporanea”, in “Il Piemonte” [Torino], II, n. 14, 16 gennaio 1856. L’articolo è stato ristampato dal Gentile nell’appendice (Le tribolazioni di B. Spaventa giornalista, pp. 183-193: dove sono riprodotti alcuni documenti delle vicende capitate allo S. in seguito alla fusione del “Cimento” con la “Rivista contemporanea” di Luigi Chiala) del suo Bertrando Spaventa [204], pp. 189-193 (= Opere, Della filosofia dopo Kant, ragionamenti di Michele Baldacchini, Napoli 1854; in “Il Cimento” [Torino] Recensione firmata con la sigla: SS.; è stata ristampata da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 322-337 (= Opere, II, pp. 306-319), con il titolo: La filosofia dopo Kant secondo Michele Baldacchini. Saggi sulla filosofia del Mamiani (Critica dell’infinità dell’attributo), in “Il Cimento” [Torino], febbraio 1856, pp. 122-146. Nell’articolo S. critica l’interpretazione proposta da T. Mamiani — nella prefazione alla traduzione italiana del Bruno di Schelling, a cura di M. Florenzi Waddington [1844] — della dottrina spinoziana della relazione sostanza- attributi. È da collegare agli studi che S. andava svolgendo in questi anni sulla filosofia di Spinoza, e di Giordano Bruno. L’articolo è stato ristampato dall’a. nei Saggi di critica [771], pp. 367-403. La Enciclopedia scientifica, per T. Mora e F. Lavarino, Torino 1856; in “Il Cimento” [Torino], febbraio 1856, pp. 212-220; e in “Il Piemonte” [Torino], II, n. 51, 28 febbraio 1856. Recensione, firmata con la sigla: SS., e pubblicata nell'ultimo fascicolo del “Cimento”, che quindi fu assorbito nella “Rivista contemporanea”. Nel “Piemonte”, lo scritto è firmato con la sigla: Z. Non è stato mai ristampato. Il SENSUALISMO [Recensione di] Études morales sur le temps présent, par E. Caro, prof. ecc. (Paris 1856, Hachette éditeur); in “Rivista contemporanea” [Torino], maggio 1856, anno III, vol. VI, pp. 780-793. Recensione firmata con la sigla: S.; è stata ristampata da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 247-273 (= Opere, Compendio di logica, secondo l’ultimo programma, ecc., del prof. Giuseppe Tesio (Torino, Tip. scolastica di Sebastiano Franco e Comp., 1856); in “Rivista contemporanea” [Torino], giugno 1856, anno III, vol. VII, pp. 173-176. Recensione firmata con la sigla: S. Non è stata mai ristampata. Philosophie sensualiste au dix-buitième siècle par M. Victor Cousin (troisiîme éd. revue et corrigée, Parigi 1856); in “Rivista contemporanea” [Torino], agosto 1856, anno III, vol.; VII, pp. 494-464. La recensione è firmata con la sigla: S. È stata ristampata da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 103-122 (= Opere, Considerazioni sulla dottrina di Socrate del prof. G. M. Bertini (estratte dalle “Memorie della R. Accademia delle scienze” di Torino, serie II, torno XVI); in “Rivista contemporanea” [Torino], settembre 1856, anno IV, vol. VIII, pp. 89-114. Lo scritto, come molte altre recensioni di S., è in realtà un ampio studio; e tratta del pensiero di Socrate secondo i principi dell’hegelismo. A questo articolo — che è firmato: B. Spaventa — doveva seguirne un secondo, mai pubblicato: cfr. le notizie di Gentile premesse alla ristampa del saggio, da lui ripubblicato in Da Socrate a Hegel [98], pp. 1-50, con il titolo: La dottrina di Socrate (= Opere, II, pp. 11-56). Logique, par A. Gratry ... (2 voll., Paris 1855); in “Rivista contemporanea” [Torino] La recensione è firmata: Bertrando Spaventa; non è stata mai ristampata. Della logica o della teoria della scienza, libri tre di Vincenzo Garelli, Oneglia, Tip. Tasso, 1856; in “Rivista contemporanea” [Torino], marzo 1857, anno V, vol. IX, pp. 474-480. È l’ultimo scritto pubblicato da S. nella “Rivista contemporanea”. Non stato mai ristampato. Articoli per la Nuova enciclopedia popolare. L’'editore Pomba prepara una nuova edizione — che cominciò a pubblicarsi in quell’anno, ed ebbe diverse ristampe — della sua Erciclopedia popolare (Torino, 1842 sgg.). A proposito della collaborazione di S. a questa iniziativa, riassumiamo in breve le notizie fornite da Gentile nella bibliografia degli scritti del filosofo inserita nel suo Bertrando Spaventa [204], pp. 204 sg. Quando, con lettera del 7 dicembre 1858, Francesco Predari, direttore dell’opera, propose a S. di collaborare all’Enciclopedia, si stava preparando il materiale relativo alla lettera E. Il primo articolo fornito da S. fu: Ellenismo; l’ultimo — a quanto pare — fu l’importante scritto su Kant [66]. S. collaborò all’Enciclopedia fino ai primi mesi del 1860. Sul verso della lettera d’invito del Predari, S. ha annotato le “voci” — articoli interamente rifatti, oppure corretti sul testo della prima edizione dell’opera — via via consegnate all'editore. Ecco l’elenco delle voci annotate: E/leziszo, Empirismo, Ente supremo, Epicuro, Epitteto, Facoltà dell'anima, Fanatismo, Fantasma, Fatalismo, Fede, Felicità, Fenomeno, Ferecide, Fichte, Ficino, Filosofia, Galluppi (un brano di questo articolo si può leggere in G. Gentile, Bertrando Spaventa [204], pp. 95 sg. = Opere, Ig pp. 83 sg.), Germanica filosofia, Giamblico, Gioberti (corrisponde in parte al capitolo su Gioberti delle lezioni napoletane del 1861: cfr. nn. 68, 99), Giudizio. È probabile, scrive Gentile, che S. abbia anche provveduto alla stesura di qualche altro articolo, compreso tra gli esponenti Giudizio e Kant. Come risulta dalla stessa lettera del Predari, S. avrebbe dovuto compilare anche gli articoli: Italica filosofia, Ermeneutica, Errore, Esegesi, Esistenza, Esoterico, Esperienza, Essenza, Essere, Eudemonismo, Evidenza. Gentile dà notizia, infine, di una lettera di Luigi Pomba allo S. del 2 gennaio 1861, che conteneva un invito a continuare la sua opera per l’Enciclopedia; e di una lettera di Antonio Tari del 28 luglio 1861, che proponeva a S. di trattare per una eventuale sua collaborazione alla stessa opera. La filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofia italiana, estratto dalla Nuova enciclopedia popolare, Torino 1860, pp. 72. Cfr. n. precedente. L’articolo, che si ispira largamente all’interpretazione hegeliana di Kant, contiene un ampio raffronto, assai articolato, degli sviluppi del criticismo in Germania e in Italia. Era stato scritto da S. già nel 1856, come risulta da una sua lettera del 10 dicembre di quell’anno al fratello Silvio (Silvio Spaventa, Da/ 1848 al 1861... [125], pp. 209- 212); ma probabilmente, prima di darlo alla stampa, il filosofo ebbe modo di integrarlo e correggerlo. È stato ristampato da Gentile negli Scritti filosofici di S. [96], pp. 1-79 (= Opere, I, pp. 173-255); il saggio è composto di una breve introduzione, e di tre parti, intitolate rispettivamente: I) Principio speculativo della filosofia di Kant; 2) Il kantismo in Italia (Galluppi e Rosmini); 3) Il CHITICISINO. Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI sino al nostro tempo, prolusione alle lezioni di storia della filosofia nell'Università di Bologna, Modena 1860, pp.39. È la nota prolusione in cui viene proposta la tesi della “circolazione del pensiero italiano” nel pensiero europeo, e vengono offerti i primi risultati dei nuovi studi sulla filosofia contemporanea in Italia, collegati ai lavori torinesi su Bruno e Campanella, e integrati da una nuova valutazione della dottrina di Giambattista Vico. Il discorso di S. è ristampato negli Scritti filosofici [96], pp. 115-152 (= Opere, I, pp. 293-332).Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, 23 novembre — 23 decembre 1861, Napoli 1862, pp. IX214. È il testo che raccoglie i risultati fondamentali delle ricerche di S. intorno al “carattere” e allo “sviluppo” della filosofia italiana dall’età del Rinascimento fino al Gioberti. La prefazione è datata: Napoli, ottobre 1862. Il volume contiene: I) la prolusione Della nazionalità nella filosofia (con una appendice sulla filosofia indiana); 2) le dieci lezioni sulla storia del pensiero italiano, dai filosofi del XVI secolo ai contemporanei; 3) lo Schizzo di una storia della logica, che rende conto dello sviluppo “della filosofia occidentale” (i.e. della filosofia tedesca) considerato “dal punto di vista logico” (sono protagonisti di questa storia Kant, Fichte, Schelling e Hegel). Una nota allo Schizzo contiene un breve scritto su Spizoza e Cartesio, che riprende alcuni temi dei primi studi torinesi su Spinoza (l’interpretazione di Mamiani, la controversia Erdmann-Fischer sul concetto di attributo, ecc.). Per il “manifesto” che annunziava la pubblicazione dell’opera, proponendone la vendita per sottoscrizione, cfr. n. 69. Il volume è stato ristampato da Gentile nel 1908 e, in terza edizione, nel 1926, sempre con il titolo: La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (99 = Opere, IL pp. 405 sgg.). La filosofia di Gioberti, vol. I, Napoli Alla prima parte dell’ampio studio, considerato da molti critici a partire dal Gentile, che lo definì il “capolavoro” di S.) l’opera maggiore del filosofo, doveva seguire un secondo volume, che non fu mai pubblicato. Questo “primo” volume è diviso in quattro libri, che sottopongono a critica: 4) la dottrina della conoscenza di Gioberti; 5) il carattere dogmatico della costruzione della formula ideale: l’ente crea l’esistente; c) il contenuto della formula, identico al contenuto del panteismo (Gioberti = Spinoza); d) il tentativo di Gioberti di ricorrere alla “rappresentazione” religiosa, per scongiurare l'esito panteistico della dottrina. Un quinto libro, che avrebbe occupato l’intero secondo volume, doveva dimostrare il passaggio dell’ultimo Gioberti (soprattutto dell'autore delle Postuzze) all’idealismo. Nella prefazione dell’opera, datata: Napoli, ottobre 1863, l’a. dichiara che i risultati dello studio su Gioberti costituiscono il presupposto e il fondamento delle tesi esposte nelle prime lezioni napoletane [cfr. n. precedente], e che il seguito del suo lavoro sarebbe stato costruito attraverso un raffronto minuzioso tra la dottrina di Gioberti e quella di Ilegel. Della Filosofia di Gioberti usciva, nel 1870, una curiosa “edizione”: Bernardo [sic] Spaventa, La filosofia di Gioberti, volume unico, Napoli, Tipografia del Tasso (le copie del 1863 recavano l’indicazione: Napoli, Stab. tipogr. F. Vitale). Ma in questa “edizione” appare cambiato solo il frontespizio; e lo stesso deve dirsi della “seconda edizione”, Napoli, Domenico Morano, 1886. Come la Prolusione e introduzione [68], e insieme ad essa, la Filosofia di Gioberti fu pubblicata per sottoscrizione, e annunziata con un manifesto, che riproduciamo qui dalla bibliografia gentiliana del 1924 [204], pp. 206-208: “I. La Prolusione tratta della Nazionalità della Filosofia. — Sono possibili, dopo il medio evo e ne’ tempi moderni, tante filosofie nazionali, quanti sono i popoli civili di Europa? O invece quelle che si dicono filosofie nazionali non sono altro che momenti particolari dello sviluppo comune della filosofia moderna nelle diverse nazioni? Si può dire, p. e., che ci sia una filosofia italiana essenzialmente diversa da una filosofia francese, inglese, tedesca, come si dice che ci è stata una filosofia greca essenzialmente diversa da una filosofia indiana? E in generale, il genio proprio originario d’una nazione, il quale si specchia e riconosce così nettamente nella lingua, nella letteratura e nell’arte in generale, e ne’ costumi, deve e può discernersi anche — oggigiorno e in Europa — in quella forma e attività universale dello spirito, che si chiama filosofia? E discernersi in essa, non già come differenza e carattere naturale, letterario o artistico, ma come intuizione universale o pensiero della realtà delle cose: come problema, indirizzo, soluzione? “L’autore, compendiando gli ultimi risultati della storia della filosofia, ed esponendo la differenza essenziale della nazionalità moderna dall’antica, mostra che — se è vero che la filosofia indiana e la greca sono, più o meno, intimamente nazionali — comune, invece, ed unico è il carattere, lo sviluppo e l'indirizzo generale della filosofia ne’ popoli moderni; che, se ci ha una differenza tra il genio filosofico italiano e quello delle altre nazioni, o in altre parole se esso ha o almeno ebbe un privilegio sopra gli altri popoli — questo fu solo l’aver precorso due volte i due principali periodi della filosofia moderna: cioè il cartesiano ne’ filosofi del Risorgimento e specialmente in Bruno e Campanella, e il kantiano in Vico; e val quanto dire il nuovo Nazuralismo e il nuovo Spiritualismo; e che se noi vogliamo ancora e possiamo avere un privilegio, questo è quello di precorrere ed effettuare un nuovo e più largo indirizzo, una nuova e più ampia soluzione del problema dello spirito. Ma ciò a un patto; e questo è di non rigettare tutto quel che si è fatto da un gran pezzo fuori d’Italia o meglio che in Italia, ma studiarlo, comprenderlo, appropriarcelo; e solo così, entrati in più largo orizzonte, conosciuto meglio noi medesimi e ritemperata la nostra vita nella perpetua corrente della vita universale, fare un gran passo innanzi, non nel vuoto, ma colla piena coscienza delle nostre forze, del nostro cémpito, del compito comune. “E posto anche, che ci sia stata o ci sia una filosofia propria italiana, distinta essenzialmente o opposta a quelle delle altre nazioni, quale è e dove si trova ella mai? Si sa, che di libertà filosofica in Italia ce n'è stata sempre poca o niente, e chi se l’ha presa, gli è costato assai caro. Dov'è dunque la filosofia italiana, ne’ libri delle vittime o in quelli de’ persecutori? Il problema più difficile per noi — quello senza la cui soluzione noi non possiamo fare e progredire davvero — è il riconoscere qual sia e dove sia il vero pensiero italiano. Finché non si fa ciò — e il farlo non è cosa così agevole — il gridare nazionalità in ogni cosa servirà bene a eccitare e intorbidare il sentimento e talvolta anche le passioni, ma non produrrà niente di serio nella scienza. “La Introduzione è lo sviluppo e la dimostrazione della intenzione principale della Pro/ustone. L'autore espone il carattere e il progresso del pensiero italiano nei maggiori nostri filosofi dal secolo XVI sino al nostro tempo: Campanella, Bruno, Vico, Galluppi, Rosmini, Gioberti; e dimostra come questo pensiero non solo non si oppone al pensiero europeo, ma concorda schiettamente con esso; che Campanella e Bruno sono i precursori di Cartesio e Spinoza (e in parte di Locke e Leibniz); che Vico, esigendo una nuova Metafisica e fondando la filosofia della storia, anticipa il nuovo antropologismo, quello che il Gioberti chiama trascendente e identico al vero ontologismo; che Galluppi, Rosmini e Gioberti rappresentano in Italia questo nuovo indirizzo; e che Gioberti specialmente non è, come si crede, l’antitesi di tutta la filosofia moderna, ma differisce dall’ultimo gran filosofo europeo in tutt'altro che nel vero principio, metodo e risultato della sua filosofia. “IL Questa breve storia del pensiero italiano, considerato in sé stesso e nella sua intima connessione col pensiero europeo, è come una naturale introduzione alla seconda opera di maggior mole: la Filosofia di Gioberti. “Quest'opera è divisa in cinque parti; la prima delle quali concerne la teorica giobertiana della conoscenza, e le altre quattro il sistema propriamente detto. “Nella prima parte l’autore espone gli elementi del conoscere secondo Gioberti: intuito, riflessione (psicologica e ontologica), parola, sovrintelligenza; e dimostra come il concetto di questi elementi e della loro relazione (del conoscere) cangi e si sviluppi nella mente del Gioberti di maniera, che la teorica sembri una continua contradizione. E pure ciò che pare contradizione non è altro nel Gioberti, che una determinazione sempre più schietta e profonda del proprio pensiero. “Secondo l’autore, ci è nel Gioberti davvero una contradizione, radice di tutte le altre, la quale si manifesta chiaramente nella prima forma del sistema; e tutto il progresso della speculazione del nostro filosofo consiste nel risolverla. Così quel che pare contradizione e non è, è appunto la soluzione della vera contradizione. “Conforme a un tal concetto l’autore espone nelle tre altre parti questa contradizione, e considera il sistema nella sua prima forma. L'ultima parte comprende la soluzione più o meno reale della contradizione, e la seconda forma del sistema. “Tutta questa esposizione — così della teorica della conoscenza come del sistema — è fatta di maniera, che la vera e nuova forma della filosofia giobertiana apparisca come il risultato necessario della critica della prima: come una nuova posizione, che deriva per una dialettica necessaria dall’antica. Quel che nella storia della filosofia si vede comunemente solo nella successione de’ filosofi, cioè che l'uno compia l’altro risolvendo le contradizioni del suo predecessore, qui si vede in uno stesso filosofo: Gioberti nella seconda forma non fa che compiere e quasi ricreare sé stesso. — Tutta l’opera è corredata di documenti, specialmente dove l’interpretazione e la critica possono parere arbitrarie e forse troppo lontane dal modo comunemente ricevuto d’intendere il Gioberti”. 70. Le prime categorie della logica di Hegel, in “Atti della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, I (1864), pp. 123-185. È il testo che racchiude il primo — e assai noto — tentativo spaventiano di interpretazione delle prime categorie della logica hegeliana [cfr., per gli altri scritti di S. sull'argomento, i nn. 76, 93, 103]. Suscitò già qualche interesse in ambiente hegeliano [cfr. n. 1441; doveva essere discusso più tardi da Gentile come documento della nascita del “nuovo idealismo” [cfr. in particolare il n. 103]. Il saggio, preceduto da una breve introduzione, si divide in tre parti: i) Esposizione de’ concetti: essere, non essere, divenire, esserci; 2) Obbiezioni e risposte; 3) Il movimento come primo (Trendelenbnrg). Fu letto all'Accademia napoletana in tre sedute, il 16 agosto, e il 6 e 30 settembre 1863. Un riassunto della memoria fu pubblicato nella “Rivista napoletana di politica, letteratura e scienze”, II (1863), nn. 1-4 (1, 10, 20 novembre, e 1 dicembre 1863). Lo scritto si può leggere ora nella raccolta gentiliana degli Scritti filosofici di S. [96], pp. 185-252 (= Opere, Spazio e tempo nella prima forma del sistema di Gioberti, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, III (1864), pp. 137-163. Nella concezione giobertiana dello spazio e del tempo appaiono manifeste le difficoltà e le contraddizioni della formula ideale, e, quindi, dell’intero sistema. È questo il tema della “nota”, letta all'Accademia di Napoli il 7 agosto 1864, e ristampata più tardi negli Scritti filosofici [96], pp. 153-184 (= Opere, I, pp. 333-365). La dottrina della conoscenza di Giordano Bruno, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, II (1865), pp. 293-348. Ristampato dall’a. nei suoi Saggi di critica [77], pp. 196- 255. Tema centrale dello scritto è l’analisi del concetto di “mente” in G. Bruno: S. si propone di mostrare che non è legittimo identificare l’intuito intellettuale di Bruno con un atto di fede, o con una forma di apprensione nondiscorsiva, mistica, dell’assoluto. Ma il saggio è noto anche perché contiene una importante e assai discussa digressione sul tema della separazione dello stato della chiesa.  Il concetto dell’infinità in Bruno, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori dell’Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, V (1866), pp. 155-164. Sul concetto di infinito in Bruno e Spinoza (e Hegel). L’avvio al discorso di S. è dato da una osservazione contenuta nella Storia della filosofia moderna di H. Ritter: in Bruno vi sarebbe confusione di infinito e indeterminato. Lo scritto di S. risale certamente, nel suo nucleo originario, al periodo torinese: nel ristamparlo nei Saggi di critica [77], pp. 256-267, l’a. vi appose la data: “Torino 1853. Napoli 1866”. 74. Il concetto dell’opposizione e lo spinozismo, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori dell’Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, VI (1867), pp. 89- 98. In Spinoza è già presente l’esigenza di attribuire alla sostanza una negatività interna, che consenta di superare gravi difficoltà della dottrina (il parallelismo degli attributi). Questa esigenza è soddisfatta dalla logica hegeliana, con il concetto di opposizione; il tema è, per l’a., ancora attuale, e viene riferito alle discussioni sul metodo delle scienze comparate. Il saggio fu letto all'Accademia napoletana il 7 luglio 1867; lo ha ristampato Gentile negli Scritti filosofici [96], pp. 277-290 (= Opere, I, pp. 463-476). La Scolastica e Cartesio, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, VI (1867), pp. 102-112. È una nota letta all'Accademia di Napoli il 18 agosto 1867. L’autore l’ha ripubblicata nei Saggi di critica [77], pp. 329-340, in appendice alla ristampa del saggio Del principio della riforma.., nel secolo XVI [30], come “chiarimento” tratto dalle lezioni bolognesi di storia della filosofia (1860- 61), e dalle lezioni napoletane del 1864-65. Principii di filosofia, vol. I, Napoli L’opera, che si pubblicava a dispense, è rimasta interrotta. Comprende una prima sezione (La conoscenza) che riassume parzialmente il contenuto della Feromzenologia (è caduta tutta la parte cosiddetta “storica” del testo hegeliano), e una seconda sezione (La logica), che riproduce liberamente il contenuto della Wisserschaft der Logik, fino alla prima parte della logica dell’essenza (capitolo secondo della prima sezione: la differenza). L'esposizione della logica hegeliana accoglie i risultati del saggio sulle Prizze categorie [70], e si appoggia spesso ai manuali più noti, circolanti in ambiente hegeliano (Kuno Fischer, Karl Rosenkranz ecc.). Nelle “aggiunte” che S. introduce nel corso dell’esposizione sono frequenti i riferimenti e i confronti con i filosofi italiani, anche contemporanei. S. aveva esposto, e continuò ad esporre più volte la Logica di Hegel nei suoi corsi napoletani: secondo una testimonianza di Maturi, raccolta da Gentile, tre volte tra il 1862 e il 1869. In base a un manoscritto affidatogli da Maturi, Gentile poté pubblicare nel 1911 l'esposizione completa della logica di Hegel fatta dallo S. (102 = Opere, III, pp. 1-429). Interessante — e assai nota — la prefazione dei Principi; nella quale l’a. rifà la storia del proprio cammino, e ribadisce le ragioni del suo idealismo, in un clima filosofico ormai mutato o prossimo a mutare radicalmente. 77. Saggi di critica filosofica, politica e religiosa, vol. I, Napoli 1867, pp. VIII-403. L’a. cominciò a raccogliere e a ristampare i suoi scritti in questo primo volume di Saggi, rimasto poi unico. Una “seconda edizione” della raccolta porta la data del 1886; ma anche in questo caso, come per la Filosofia di Gioberti [69], è mutata solo l’indicazione dell’editore (Morano, anziché: Stab. tip. Ghio), e quindi il frontespizio. Nel volume sono ripubblicati, raggruppati sotto quattro titoli, i nn. 19, 21, 46 (con il titolo: Tomzzaso Campanella), 15, 54, 72, 73 (con il titolo: Giordano Bruno), 30 (con il titolo: Del principio della riforma ...), 42 e 57 (con il titolo: Terengio Mamiani) di questa bibliografia. Alle pp. VI-VIII, l’a. ci offre un elenco generale dei saggi che si proponeva di ristampare nei prossimi volumi. Oltre a quelli già compresi in questo primo, avrebbero dovuto essere ripubblicati — raggruppati, anch’essi, sotto diversi titoli — gli scritti che in questa bibliografia compaiono con i nn.: 40, 51 (titolo: Roswzini) 66, 37 (Kant) 68, 71 (Gioberti) 70, 11 (Hegel) 62 (Socrate) 67 (Carattere e sviluppo ecc.) 61, 59, 48, 29, 36, 41, 56, 58, 64, 32, 44, 55, 38, 35 (Scorse bibliografiche). Un ultimo gruppo di nove saggi, sotto il titolo: Polerzica con la “Civiltà cattolica”, doveva comprendere una scelta degli articoli pubblicati nel “Cimento”; ma i titoli forniti in questo elenco non corrispondono sempre a quelli originali. L’elenco dei saggi compilato da S. fornì a Gentile un valido strumento per rintracciare molti scritti del filosofo, ed un primo criterio generale per la sua edizione delle opere del maestro [96]. La raccolta spaventiana dei Saggi di critica è stata ristampata nel 1928 con il titolo: Rinascimento, Riforma, Controriforma [112]. 78. Paolottismo, positivismo, razionalismo, lettera al prof. A. C. De Meis, in “Rivista bolognese di scienze e lettere”, II (1868), vol. I, fasc. 5, pp. 429-441. La “lettera”, che porta la data: 8 maggio 1868, è una chiara testimonianza dell’ “umanismo” di S.;} ed è anche un attacco violento rivolto contro certe alleanze strette in quegli anni tra cattolici e positivisti. Ricca di “sarcasmo heiniano”, come notò il Gentile, ha conservato gran parte della sua freschezza, ed è uno dei documenti che più hanno attirato l’attenzione dei critici. È ristampata negli Scritti filosofici [96], pp. 291-314 (= Opere, I, pp. 477-501), con una serie di note che ne chiariscono la genesi e i numerosi riferimenti. 79. Studi sull’etica hegeliana. L’assoluto, il relativo e la relavione assoluta, in “Rivista bolognese di scienze e lettere”, III (1869), serie II, vol. I, fasc. 4, pp. 911-558. È il “proemio” agli Studi sull’etica hegeliana [cfr. n. seg.], del quale l’a. ha anticipato qui la pubblicazione. Il proemio ha, del resto, una sua autonomia: è destinato ai sostenitori del positivismo, per mostrar loro che nell’idealismo hegeliano sono già accolte, anzi soddisfatte, le esigenze fondamentali della filosofia positiva. 80. Studi sull’etica hegeliana, in “Atti della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, IV (1869), pp. 271-440. Cfr. n. precedente. Libera esposizione dell’etica hegeliana, che ripercorre i motivi centrali della Filosofia del diritto. Occasione esterna dello scritto fu un rilievo di T. Mamiani, il quale osservò che la filosofia di Hegel comporta la negazione della vita morale. L’esposizione di S. si apre con un esame dei presupposti metafisici dell’etica; e contiene, nel suo sviluppo, interessanti riferimenti a questioni attuali (alle polemiche sulla pena di morte, per esempio, e alle difficoltà interne alla monarchia costituzionale). Lo scritto è stato ristampato da Gentile nel 1904 (97 = Opere, I, pp. 595 sgg.). 81. De’ limiti della cognizione, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, X (1871), pp. 71-75; e in “Giornale napoletano di filosofia e lettere”, diretto da B. Spaventa, F. Fiorentino e V. Imbriani, 1872, vol. II, pp. 43-56. Nel “Giornale napoletano” alla ristampa, col titolo Su limiti della cognizione, della nota del 1871 (pp. 43-47) è aggiunta la discussione di un’opera del Savarese del 1856 (pp. 47-56). L’intero saggio è ristampato negli Scritti filosofici [96], pp. 315-332 (= Opere, I, pp. 503-521). 82. Recensione: La vita di Giordano Bruno, scritta da D. Berti, Torino 1868; in “Giornale napoletano di filosofia e lettere”, diretto da B. Spaventa, F. Fiorentino e V. Imbriani, 1872, vol. I, pp. 1-25. Severa recensione dell’opera del Berti; ripubblicata da Gentile in Da Socrate a Hegel [98], pp. 65-102 (= Opere, II, pp. 71-105). 83. Sulle psicopatie in generale, in “Giornale napoletano di filosofia e lettere”, diretto da B. Spaventa, F. Fiorentino e V. Imbriani, 1872, vol. I, pp. 127-136; 186- 192; 321-352; 353-377. A proposito di una lezione di Salvatore Tommasi Sulle psicopatie, il cui testo fu pubblicato nel “Morgagni” [Napoli], luglio-agosto 1871, pp. 445-458. Con questa serie di articoli S. interviene anche nella polemica nata dalle osservazioni di Luigi De Crecchio (pubblicate dallo stesso “Morgagni”), alle quali rispose Tommasi in due lettere che replicano ad altrettanti scritti polemici del De Crecchio. La lezione Sulle psicopatie e le due risposte si possono leggere in S. Tommasi, I/ naturalismo moderno, scritti vari a cura di A. Anile, Bari 1913, pp. 155-170, 171-182, 183-193. La discussione sulla natura delle psicopatie è ripresa da S. sul piano di un discorso che abbraccia il problema generale del rapporto tra fatti organici e funzioni psichiche; il filosofo vuoi mostrare che l’idealismo hegeliano ha già superato le difficoltà “metafisiche” che sembrano rinascere sul piano della scienza. L’anima si distingue certo dal corpo, non però in virtù di una distinzione reale, sostanziale, ma come “funzione” e “processo” psichico, come “senso di sé” irriducibile ad una somma di elementi fisici o chimici: in questo senso le psicopatie non possono ridursi ad una semplice alterazione fisica o chimica dell’organismo. Gli articoli di S. sono ristampati in Da Socrate a Hegel [98], pp. 339-430 (= Opere, II, pp. 321-404). La citata raccolta di scritti del Tommasi contiene in appendice un saggio di G. Gentile, La filosofia di Salvatore Tommasi (pp. 273-298), in cui sono accostate la prolusione del medico-filosofo: Il naturalismo moderno (del 15 novembre 1866), e alcune pagine dei Principi di filosofia di S4 [76]: 84. Note sulla metafisica dopo Kant, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XII (1873), pp. 87-90. È una breve nota che riprende l'argomento già introdotto nel proemio agli Studi sull’etica begeliana [79], e che fu letta all Accademia napoletana il 17 ‘agosto 1873; è stata ristampata da Gentile nella raccolta degli Scritti filosofici [96], pp. 333-338 (= Opere, I, pp. 523-529). 85. La legge del più forte, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XIII (1874), D. 75-85. Saggio breve, ma importante, che discute dal punto di vista idealistico la dottrina di Darwin. Fu letto all'Accademia napoletana il 3 settembre 1874; lo ha ristampato Gentile nella raccolta degli Scritti felosofici [96], pp. 339-352 (= Opere, I, pp. 531-544). 86. Idealismo o realismo? Nota sulla teoria della conoscenza: Kant, Herbart, Hegel, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XIII (1874), pp. 87-97. La breve nota, letta all’Accademia di Napoli il 6 settembre 1874, è stata ristampata negli Scritti filosofici [96], pp. 353-366 (= Opere, I, pp. 545-559). 86 bis. Una delle principali difficoltà della Fenomenologia dello spirito, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XV (1876), pp. 10-14. Riproduce, con lievi modifiche, alcune riflessioni che si leggono in una lettera al fratello Silvio dell’ottobre 1857 (cfr. Silvio Spaventa, Da/ 1848 al 1861... [125], 19232, pp. 239- 87. Gli spaventiani spaventati, in “Fanfulla” [Roma], 26 marzo 1876. È uno scritto satirico, in forma di lettera, documento della polemica nata dalle critiche di F. Acri allo scritto di F. Fiorentino: Considerazioni sul movimento della filosofia in Italia dopo l’ultima rivoluzione del 1860 (1874). La lettera si può leggere in F. Fiorentino, La filosofia contemporanea in Italia [158], pp. 467-471. 88. Kant e l’empirismo, in “Atti della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XVI (1881), pp. 41. È un ampio studio (ristampato da Gentile negli Scritti filosofici [96], pp. 81-114 = Opere, I, pp. 257-291), nel quale si intrecciano motivi tratti da antiche riflessioni, rinnovate a contatto o in polemica con gli sviluppi del “nuovo” empirismo, nato in Germania come revisione o come critica radicale dei risultati della filosofia di Kant. Il saggio anticipa una serie di argomentazioni e di conclusioni che saranno elaborate in un manoscritto del 1881, edito nel 1915 dal Gentile con il titolo: Introduzione alla critica della psicologia empirica [105]. 89. Osservavi ioni del socio Spaventa sulla interpretazione letta dal socio Bonghi di un luogo di Platone (Repubblica, X, 611a), in “Atti della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XVI (1881), pp. 7. Le Osservazioni sono ristampate in Scritti filosofici [96], pp. 367-376 (= Opere, I, pp. 561-569). Nella ristampa, Gentile fornisce chiarimenti sulla discussione sorta attorno alla memoria del Bonghi: Una prova dell'immortalità dell'anima nella “Repubblica” di Platone (pubblicata nello stesso volume degli “Atti”). 90. La sintesi a priori e il nesso causale, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XXI (luglio-agosto 1882), pp. 14-16; e in “Giornale napoletano della domenica”, I, n. 18, 30 aprile 1882. È il sunto di una memoria letta all’Accademia di Napoli il 2 aprile 1882. È ristampato negli Scritti filosofici [96], pp. 379-382 (= Opere, L pp. 573-576); nel pubblicarlo, Gentile osserva che il sunto anticipa in forma contratta gli argomenti sviluppati nel secondo capitolo di Esperienza e metafisica [94], sicché la memoria intera si identifica con quel capitolo dell’opera di S. pubblicata postuma, nel 1888. 91. Un luogo di Galilei, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XXI (luglio-agosto 1882), pp. 5-8. Sunto di una memoria letta all’ Accademia napoletana il 3 luglio 1882; è ristampato in Scritti filosofici [96], pp. 383- 387 (= Opere, I, pp. 577-581). Cfr. le notizie date da Gentile intorno a questo breve scritto: il luogo di Galilei riguarda il rapporto tra intelletto divino e intelletto umano, ed è tratto dalla Giornata prima, in fine, dei Dialoghi sui massimi sistemi; il sunto (e quindi la memoria) ha una evidente relazione con il capitolo XII di Esperienza e metafisica [94]. 92. Un fatto logico e un problema metafisico, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XXI (settembre 1882), pp. 3-10. La logica formale ci insegna che da ogni determinazione del pensiero è possibile derivare sempre una nuova (anche solo formalmente) determinazione; ma è incapace di attingere il principio di questa “generazione”, di cogliere quella “produttività più alta e originaria” che sembra identificarsi con la “produttività del pensiero in generale”: così conclude S. questa nota letta all’ Accademia di Napoli il 4 settembre 1882, e ristampata poi dal Gentile negli Scritti filosofici [96], pp. 389-399 (= Opere, I, pp. 583-594). 93. Esame di un’obbieione di Teichmiiller alla dialettica di Hegel, in “Atti della Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XVIII (1884), pp. 28. Questa memoria apparve negli Atti dell’Accademia napoletana dopo la morte di S., ma era già uscita in estratto — riferisce Gentile, ristampandola negli Scritti filosofici [96], pp. 253-276 (= Opere, I, pp. 439-462) — l’anno stesso della scomparsa del filosofo (1883); il quale ne aveva letto un sunto il io dicembre 1882, che fu pubblicato nel “Rendiconto delle tornate e dei lavori dell’Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XXI (novembre- dicembre 1882), pp. 23-24. La memoria riprende il problema della interpretazione della logica hegeliana, già impostato nel saggio sulle Prize categorie [70], ampliandone e in parte rinnovandone la discussione sotto lo stimolo delle riflessioni, maturate negli ultimi anni, sui progressi delle scienze naturali e della nuova psicologia. L’obbiezione alla dialettica di Hegel, a cui S. si riferisce, è nello scritto Die wirkliche und scheinbare Welt, 1882, dell’herbartiano G. Teichmiller; il quale ricorda lo scritto e la figura dello S. nella sua Religronsphilosophie, del 1886. SAGGO PUBBLICATI DALLA SCUOLA. Esperienza e metafisica. Dottrina della cognizione, Torino. Importante lavoro, pubblicato postumo a cura di Jaja, il quale rende conto dei criteri adottati per l'edizione nella prefazione indirizzata a Silvio Spaventa. Jaja accenna agli ultimi studi di S., che, a partire dal 1870, si interessò esclusivamente della nuova filosofia dell’esperienza (p. VII), e vide e volle mettere in chiaro il concetto di una “nuova” metafisica, che non è quella avversata dai positivisti. Su questa idea e sul problema della nuova metafisica Jaja ritornerà, con un riferimento diretto a S., nella sua prefazione agli Scritti filosofici [96] curati da Gentile. Il manoscritto di Esperienza e metafisica fu elaborato da S. tra il 29 novembre 1881 e i primi di dicembre del 1882; rifluiscono in esso alcuni brevi scritti dati alle stampe in precedenza [cfr. nn. 90, 91]. Nel volume è ristampato, in appendice, l’abbozzo di un saggio su Protagora del giugno- luglio 1880, che ha una evidente relazione, per la data della composizione e per il contenuto, con il frammento sulla dialettica hegeliana edito da Gentile. L’introduzione dell’a. all'opera, per la quale sembra avesse scelto egli stesso il titolo con il quale fu poi pubblicata, è un interessante bilancio della storia della filosofia negli ultimi vent'anni. La domanda, che presenta in forma semplificata il problema implicito in tutte le discussioni e in tutte le polemiche più recenti, riguarda la possibilità di una metafisica, dopo la critica kantiana. Il tema è trattato da S. attraverso una serie di riferimenti a Kant, in primo luogo, poi alla Ferorzenologia e ai problemi della logica hegeliana, a Darwin, a Spencer, a Stuart Mill, e, in generale, alle correnti e alle dottrine che confluiscono nel cosiddetto positivismo; il lavoro appare interrotto in quelle pagine nelle quali l’a. riprende il tema già abbozzato in Ur luogo di Galilei. Una legione di S. (la prima dell’anno 1864-65), pubblicata da Sebastiano Maturi, Napoli. Sul rapporto tra scienza (= scienze particolari) e filosofia (“quella sola che realizza l’umanità del sapere”). La lezione non è stata mal ristampata. SAGGI EDITI DA GENTILE. Scritti filosofici, raccolti e pubblicati con note e con un Discorso sulla vita e sulle opere dell'autore da Giovanni Gentile e preceduti da una prefazione di Donato Jaja, Napoli 1900, pp. CLII-408. Nella raccolta sono ristampati (= Opere) gli scritti di S. ordinati in questa bibliografia.La breve prefazione di Jaja (pp. VII-XVII) condensa in poche pagine una decisa — e chiara, nella sua tematica semplificata — interpretazione della filosofia di S., interpretazione che costituìù per lo stesso Jaja un presupposto del proprio pensiero, e che era destinata a passare nella rielaborazione attualistica della problematica spaventiana. Il punto di partenza della nuova filosofia è nell’idealismo kantiano (preparato da Vico: secondo la “scoperta” di S.); è, chiarisce Jaja, nel tentativo di “spiegazione o intellezione, prima che degli avvenimenti che la storia registra, del grande, unico, perenne e perpetuo avvenimento, che è l’atto stesso dell’intellezione, l’atto del conoscere, il conoscere” (p. IX). Questa è l’eredità, questo il problema dell’idealismo “nuovo” (o “post-kantiano” o “assoluto”). La filosofia si riduce all’analisi della “potenza conoscitiva”; analisi iniziata da Kant, completata, nelle linee essenziali, da Hegel, ma “aperta sempre al pensiero speculativo”, giacché “per la difficoltà sua e per la nuova soluzione che prepara a tutti i problemi della vita, deve essere un farsi e rifarsi perenne nella umana coscienza”. Conclude Jaja: “Se analisi è luce, non poca è la luce di cui si ha bisogno, perché la potenza conoscitiva, così varia e complessa nei suoi elementi e nella costituzione sua, e nondimeno una sempre e identica a se stessa in tutti i periodi di sua storica esistenza, in tutta la sua sterminata esistenza, passi dallo stato iniziale dell’esser suo al suo stadio finale, non sopprimendo alcuno dei suoi interni stimoli, ma dando a tutti una più ordinata e sana e compiuta soddisfazione. Di quest’analisi splendono gli scritti, che in questo volume si ripubblicano, di B. Spaventa, e tutti gli altri suoi” (p. XIV). Il “discorso” di Gentile Della vita e degli scritti di B. S. (pp. XXI-CLII; ristampato con integrazioni e modifiche nel 1924, cfr. 204), che si conclude con la prima bibliografia delle opere del filosofo (pp. CXLI-CLII), è diviso in sette paragrafi. Il primo (pp. XXI sgg.) raccoglie le notizie intorno agli studi e alle vicende di S. fino al 1850; va notato l’accenno all’influsso esercitato da O. Colecchi, il rilievo dato alla figura di S. Cusani (e alla sua “retta” interpretazione del concetto kantiano di categoria), infine l’assunzione delle idee espresse da Silvio S. sul “Nazionale” (“un giornale... politico filosofico arieggiante in qualche modo quelli della sinistra hegeliana tedesca”, p. XXXI) come documento delle prime convinzioni etico-politiche di S. Il secondo paragrafo (pp. XXXV sgg.) tratta degli esordi di S. scrittore a Torino (Studi sopra la filosofia di Hegel, primi lavori su Bruno, ecc.), con qualche riser va sul carattere “tra l’enfatico e il declamatorio” di questi scritti (p. XLII). Agli articoli contro la “Civiltà cattolica” è dedicato il terzo paragrafo (pp. XL11I sgg.): fornisce le notizie essenziali intorno alla polemica, e ai periodici “Il Cimento” e “Il Piemonte”, che l’ospitarono; e qualche indicazione sulle rassegne e sulle recensioni apparse sul “Cimento” e sulla “Rivista contemporanea”, nel decennio torinese di S. (1850-59). G. sottolinea il pregio anche letterario degli scritti polemici di S., nei quali l’a., “ingegno satirico”, Si serve con bravura dell’ “ironia”: un’ironia che coincide con la stessa “ironia della storia”, che veniva “ineluttabilmente trionfando degli antichi pregiudizi e interessi” della “vecchia reazione” contrapposta alle “nuove libertà” (p. LIV). Il quarto paragrafo, il più ampio di tutti (pp. LV-XC), è dedicato alla teoria della “circolazione del pensiero italiano”: che è — giudica ora G. — “il maggior titolo” di S. storico e filosofo (p. LV), un’ “intuizione geniale”, “che è, ripeto, la parte più originale dell’opera sua” (p. LKXXTX). G. distingue due parti o momenti nella costruzione della teoria, analizzandone minutamente l’elaborazione: gli studi sul Rinascimento (Bruno, Campanella, e il loro rapporto con Cartesio e Spinoza), poi quelli su Galluppi, Rosmini e Gioberti (con particolare attenzione al volume del 1863) e la posizione del rapporto Vico-Kant (che, malgrado Jacobi, non ha veri precedenti, e resta una “scoperta” autentica di S.). Nel quinto paragrafo (pp. XC-CXV) G. ricorda le vicende relative alla chiamata di S. a Napoli, introduce una rapida, netta caratterizzazione dell'ambiente napoletano (sono rimaste le pagine su “il tipo del giobertiano di Napoli”: pp. XCIII sgg.), riassume la polemica con L. Palmieri sulla “nazionalità” della filosofia. Passa quindi a trattare dei corsi di S. e dei suoi studi hegeliani, in primo luogo della memoria su Le prize categorie “dove si agita e risolve in maniera originale il problema fondamentale della dialettica hegeliana, che è pure il problema fondamentale di tutta la filosofia di Hegel” (p. CI). Lo studio di S., qui riassunto, è giudicato “assai rilevante”; G. ne richiama i precedenti (K. Werder, K. Fischer), lamentandosi — con Labriola — della scarsa attenzione che questi lavori hanno destato fuori d’Italia. Si occupa poi dei Prizcipi di filosofia e degli Studi sull’etica hegeliana, battendo sul carattere non dommatico dell’idealismo di S. (“non si chiuse mai in quell’astratto idealismo, che non cura né pregia il sapere sperimentale”, p. CVII), ricordando l'affermazione — contenuta nei Principi — del carattere pratico del sapere (“la chiave d’oro della nuova gnoseologia dopo Kant”, già individuata da Marx, e ancora da sviluppare convenientemente, p. CVIII sg.), e riferendo estesamente le discussioni sulla pena di morte e la posizione assunta da S., diversa da quella del Vera (distinto da S., secondo uno schema ormai corrente, come campione dell’ “ortodossia”). Ricorda, G., il corso di antropologia del 1863-64, e conclude: “Di tal fatta erano tutti i suoi corsi. L’anima ispiratrice era sempre l’hegelismo; ma la sentenza hegeliana riceveva il conforto della storia ed era posta a cimento con le più recenti dottrine; infine raffrontata sempre a quelle dei nostri filosofi e come italianizzata e fatta nostra” (p. CXIII). Con le notizie intorno alla fondazione del “Giornale napoletano di filosofia e lettere” e alla lotta contro il “paolottismo” fiorentino si apre il sesto paragrafo (pp. CXVI-CXXXIII); che discute ampiamente lo scritto sulle psicopatie, l’interpretazione del darwinismo (“e anche in questa accettazione del trasformismo naturale il Nostro opponevasi agli insegnamenti di Hegel”, p. CXXII), infine Esperienza e metafisica (con i testi connessi), analizzando la tematica della “nuova metafisica” (il concetto di apriori, del trascendentale, ecc.; interessante, a p. CKXXIII, la saldatura tra questi studi e il saggio sulle Prizze categorie: “Questa sintesi [i.e. la sintesi apriori “presupposta” da Kant] da Hegel è rintracciata nella sua prima origine, nella forma più astratta, indeterminata: nel concetto del divenire dell'essere che è non essere, in quanto è pensiero, come l’autore aveva dimostrato nella memoria sulle Prizze categorie”). L'ultimo paragrafo (pp. CXXXIII-CXXXTX) tratta dello scritto contro Teichmuller sulla dialettica hegeliana, e si chiude con un “ritratto” del filosofo (G. si richiama anche alla commemorazione di Fiorentino: cfr. n. 163) e con una dedica “ai giovani” del volume: che imposta «i problemi fondamentali del pensiero moderno” e offre un sicuro orientamento per il futuro sviluppo degli studi filosofici, riassumendo l’opera di S. “le nostre tradizioni genuine, donde bisogna trarre gli auspici”. Dopo la bibliografia degli scritti di S. — che G. ripresenterà, corretta anch’essa e accresciuta, nella monografia del 1924: cfr. n. 204 — il curatore introduce una breve nota per chiarire i criteri della raccolta, tracciando anche il piano dei prossimi volumi. Gl Scritti filosofici raccolgono per ora i saggi più rilevanti, e “originali”, dell’a., dispersi in atti accademici e riviste non facilmente reperibili. L’elenco dei saggi spaventiani, introdotto dal filosofo nella raccolta del 1867 [cfr. n. 77] costituì per G., oltre che una guida per la ricerca, un criterio di scelta (G. rispetta l’esclusione dalla ristampa degli Studi sopra la filosofia di Hegel, e dei Frammenti del 1852); e un criterio, infine, per l'ordinamento degli scritti. 97. Principi di etica, Napoli 1904, pp. XXIII-181. Ristampa degli Studi sull’etica hegeliana (80 = Opere, I, pp. 595 sgg.). Alle pp. 173-181, G. inserisce due brani tolti dai Principi di filosofia [76]: dalle pp. 94-97 (Concetto della filosofia. Relazione della filosofia con l’esperienza); dalle pp. 65-75 (Il processo dell’autocoscienza riconoscitiva). Nella prefazione (ristampata in G. Gentile, Saggi critici, serie prima, Napoli 1921, pp. 141-158), dopo aver difeso lo stile e il linguaggio filosofico di S., G. si sofferma su due punti di qualche importanza; il rapporto tra diritto e moralità in Hegel (e in S.), il concetto e la collocazione del “sopramondo” (arte, religione, filosofia) nel sistema. Particolarmente interessante l’intervento sulla prima questione: la precedenza — ideale — del diritto (del diritto “astratto”, che non va confuso col diritto positivo, col diritto come legge) rispetto alla morale, come suo elemento costitutivo, non autorizza l’identificazione della dottrina hegeliana con quella “associazionistica”, che fa del sentimento del dovere un semplice effetto della sanzione. La discussione di questo punto consente a G. di toccare la questione dello “stato etico”, e di respingere l’interpretazione secondo la quale Hegel fa dipendere la morale dallo stato. È lo stato, anzi, che si fonda sulla morale; “né può dirsi, che Hegel torni col suo ideale dello stato al concetto pagano, per cui l’uomo esisteva per lo stato, e non lo stato per l’uomo... [perché] uomo e stato sono unu et idem” (p. XIX = Opere, I, p. 607). G. risponde così, senza nominare l’autore, a un rilievo di F. Masci (“Kant aveva considerato lo stato come mezzo, Hegel lo concepì come fine. Retrocesse così fino al concetto pagano, che l’uomo esiste per lo stato, non lo stato per l’uomo...”: La libertà nel diritto e nella storia secondo Kant e Hegel, Napoli 1903, p. 43). 98. Da Socrate a Hegel, nuovi saggi di critica filosofica, Bari 1905, pp. XVI-430. Ristampa (cfr. ora Opere, II, pp. 1-104) degli scritti ordinati in questa bibliografia con i nn. 62, 53, 82, 61, 37, 40, 51, 17, 59, 29, 41, 48, 56, 83. La prefazione di G. (ripubblicata in G.G., Saggi critici, serie prima, Napoli 1921, pp. 167-175) spiega, in primo luogo, il sottotitolo (“nuovi saggi”): la raccolta viene presentata come “compimento” del “disegno dell’autore”, parzialmente realizzato con i Saggi del 1867 [77]. Un volume a sé costituiranno gli articoli ristampati poi sotto il titolo La politica dei gesuiti [101]; altri scritti (le False accuse contro l’hegelismo, 11) non sono stati ancora rintracciati dal curatore; G. dà notizia, infine, della scoperta dello studio Sulla quantità [I]. Non era prevista da S. la ristampa de La filosofia neocristiana e il razionalismo in Alemagna, ma il curatore ha voluto includere l’articolo, per il suo pregio intrinseco, e per la diffusione che ebbe in Italia la filosofia del diritto di J. Stahl, criticata qui da S. Concludono la prefazione alcune osservazioni sulla “forma clandestina” che ebbe l’attività letteraria del filosofo, e l'invito a riannodare, attraverso S., il “filo prezioso” della tradizione filosofica italiana; degna di rilievo la proposta — già introdotta, in forma diversa, nel Discorso del 1900 — di un parallelo S. — De Sanctis: “quello che furono per la letteratura i Saggi critici del De Sanctis, furono per la filosofia i Saggi di critica dello Spaventa” (p. XIV = Opere, II, p. 8). Tra le recensioni, va ricordata quella, positiva, di M. Losacco (Pagine sparse di B. S., “Fanfulla della domenica”, 20 maggio 1906; poi in M. L., Educazione e pensiero, Pistoia 1911, pp. 195-201), che sottolinea l’importanza degli articoli sulle psicopatie (de La frlosofia neocristiana e il razionalismo inAlemagna e di altri scritti spaventiani dedicati a Schelling discorre M. Losacco nella rassegna: La filosofia dello Schelling in Italia, in “La cultura contemporanea” [Roma], V, 1913, pp. 198-212; cfr. in particolare pp. 208-210). Una stroncatura di Giuliano il Sofista [= Giuseppe Prezzolini], in “Leonardo”, III (1905), ottobre-dicembre, pp. 204-209, denuncia il “profondo e fondamentale misticismo, accompagnato da forme teologiche e da espressioni religiose”, della dottrina di Hegel e di Spaventa. La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, nuova edizione con note e appendice di documenti, Bari 1908, pp. XXII-307; terza edizione, Bari 1926, pp. XXIII-307. Ristampa, con il titolo cambiato dal curatore “in quello più determinato che era suggerito dallo stesso argomento del libro”, della Prolusione e introduzione del 1861-62 (68 = Opere, II, pp. 405-719); con l’aggiunta, in appendice, delle lettere (anch’esse del 1861-62) tratte dal carteggio tra Silvio e Bertrando S., e già pubblicate da G. nel 1901 [127]. La prefazione di G. (ristampata con il titolo La filosofia italiana e B.S. in G. G., Saggi critici, serie seconda, Firenze 1927, pp. 197-208) è particolarmente importante, per due motivi. Primo, perché G. ribadisce la continuità tra il programma spaventiano del1862 e il compito attuale della filosofia (sua giustificazione come “sapere assoluto”). La ricostruzione dei momenti attraverso i quali S. conquistò per sé, in queste lezioni, l’unità del punto di vista storico e del punto di vista scientifico (“il libro pare una polemica, ed è una ricerca; pare una mera storia, ed è una fenomenologia dello spirito, cioè vera e propria filosofia”) introduce G. alla discussione (allargata attraverso un rinvio esplicito allo scritto del 1907 I/ circolo della filosofia e della storia della filosofia) del secondo punto: identità di filosofia e storia della filosofia (grande storico è chi realizza, come S., la legge dell’identità di filosofia e storia della filosofia), identità e distinzione di storia delle idee e storia biografica, di storia delle idee e storia della civiltà. Se una riserva si può avanzare contro questa “storia” di S., essa riguarda la denuncia della responsabilità della chiesa cattolica, che avrebbe impedito il libero sviluppo del pensiero italiano del Rinascimento, e determinato il “vuoto” tra Campanella e Vico, tra Vico e Galluppi. Ma la prospettiva storiografica di S. resta, agli occhi di G., salda e valida tuttora. L’edizione del 1926 si avvale di un accurato raffronto con il testo del 1862 e scioglie e rende espliciti molti riferimenti di S. ai filosofi del Rinascimento. Tra le edizioni scolastiche della Filosofia italiana, va ricordata, in primo luogo, quella curata dallo stesso Gentile per la casa editrice Sansoni, Firenze 1937; poi un'edizione a cura di G. Tarozzi, Torino 1937; una a cura di E. Vigorita, Napoli 1938; una a cura di G. Ponzano, Padova 1941; e quella più recente curata da B. Widmar, Roma 1955. 100. Due frammenti di uno scritto inedito di B. Spaventa contro il positivismo (I. La relatività della conoscenza secondo E. Littré; II. La smaterializzazione del cervello), in “La Critica”, VII (1909), pp. 479-484; VII (1910), pp. 67-73. Si tratta di due frammenti dell’Introduzione alla critica della psicologia empirica, pubblicata per intero nel 1915 [105]. La politica dei gesuiti nel secolo XVI e nel XIX. Polemica con la “Civiltà cattolica” (1814-T1), Milano- Roma-Napoli 1911, pp. XXXIV-312. Sono ripubblicati qui, nell’ordine, gli articoli e le recensioni contrassegnate in questa bibliografia con i nn. 20, 24,31, 45, 47, 49; 50,52, 28, 23,25, 21,,33,34; 38(ctr. Opere, II, pp. 721-1020). Molto importante la prefazione (si può leggere anche in G. G,, Saggi critici, serie seconda, Firenze 1927, pp. 173- 196, dov'è ristampata con il titolo Gt scritti politici di B. S.) anche come documento della presa di posizione di Gentile, in questi anni, sulla questione dei rapporti tra lo stato e la chiesa. La prefazione si può dividere in due parti. La prima contiene una analisi delle opposte ragioni che si scontrano nelle polemiche sulla separazione della chiesa dallo stato, in Piemonte, nel decennio di preparazione. Sono due logiche che si oppongono; quella dei gesuiti, più stringente, ma 2456 formale (la logica “della morte”), e quella della politica di Cavour, la logica “della vita”, una logica forse “zoppicante”, ma conforme alla realtà, che “non è così impeccabilmente logica, come la vorrebbe la logica dei gesuiti; e si contenta, anzi vive di contraddizioni che è atta essa stessa a risolvere” (p. XI = Opere, II, p. 727). La vera religione dello Statuto era quella consentita dalla eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la religione dello stato “che non riconosce se non se stesso, e nel cittadino non vuole se non il cittadino: la religione immanente al luogo della cattolica apostolica romana” (p. XII = Opere, II, p. 728). Nella seconda parte, G. chiarisce le occasioni delle polemiche di S., ricostruisce il programma del “Cimento”, traccia un profilo dei suoi collaboratori, e riconosce a S. un gran merito: “B. S. con la sua filosofia diede alla politica cavouriana la coscienza della logica che vi era immanente: che non era propriamente la logica della separazione della chiesa dallo stato, ma della negazione (e conservazione) della chiesa nello stato” (pp. XXIX sg. = Opere, II, p. 742). La fede nella immanenza del divino in tutte le forme della vita, e quindi nello stato, in quanto tale, consentì a S. di muovere, fin dal 1854-55, “in soccorso della politica emancipatrice dello stato”; la lotta non ebbe allora pieno successo, ma dagli scritti di S. è possibile trarre ancora serie indicazioni. “E poiché la lotta non è terminata e c’è sempre una chiesa, in Italia, contro lo stato, e questo ha sempre bisogno di acquistare la coscienza distinta della propria laicità, che è la infinità stessa, di cui parlava lo Spaventa, quel che la sua opera politica non ottenne nel decennio, l’otterrà senza dubbio, senza fretta, lungo il cammino della nostra democrazia nella libertà” (p. XXXII = Opere, II p. 744). Da La politica dei gesuiti edita da Gentile dipendono due edizioni più recenti di questi articoli di S.: la scelta a cura di 2457 F. Fergnani (B. S., Polemiche coi gesuiti, Milano 1951; cfr. n. 249), e quella curata da F. Alderisio (B. S., Lo stato moderno e la libertà di insegnamento, Firenze 1962 [cfr. n. 272]). Agli studi di S. sulle dottrine dei gesuiti, anticipatori, nel secolo XVI, di Rousseau e della sovranità popolare, si riferisce in più luoghi G. Saitta, La scolastica del secolo XVI e la politica dei gesuiti, Torino 1911, pp. XI-311, soprattutto nella seconda parte (pp. 113 sgg.), in cui sono esaminate le dottrine di Suàrez, Bellarmino, Mariana. Va segnalato infine un articolo pubblicato sull’ “Avvenire d’Italia” del 28 febbraio 1935 (I/ domina dell’immacolata e B.S.) che contiene un aspro attacco contro il filosofo (ma anche grossolani errori a proposito del testo spaventiano; cfr. La leggenda dell’idealismo, “Giornale critico della filosofia italiana”, XVI, 1935, pp. 426 sg... 102. Logica e metafisica, nuova edizione con l’aggiunta di parti inedite, Bari 1911, pp. XI-456. Ristampa dei Principi di filosofia (76 = Opere, III, pp. 1- 429) con l’aggiunta dell’ultima parte, rimasta fin qui inedita. Maturi — che ebbe modo di ascoltare più volte, tra il 1862 e il 1869, il corso di logica di S. — fornì a G. una copia dell'intero testo spaventiano. “Così abbiamo finalmente in Italia una esposizione completa di questa logica, e una esposizione magistrale, che viene incontro al bisogno sempre più vivo e sempre più largamente sentito, di essere guidati a penetrare nel segreto processo di questa nuova intuizione del mondo (ancora da conquistare nella sua integrità), che è risoluzione assoluta della natura nello spirito, della realtà nella sua coscienza, dell'esperienza nella logica pura” (p. X = Opere, III, p. 6). 2458 Gentile ha curato anche una edizione scolastica di Logsca e metafisica, Firenze 1933; un’altra edizione per le scuole è quella a cura di E. Vigorita, Torino 1940. 103. Frammento inedito, in G. GENTILE, La riforma della dialettica begeliana, Messina 1913, pp. 45-71; ora in G. G., Opere, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, vol. XXVII, pp. 40-65. Il frammento, come ha stabilito Gentile, risale al 1880- 1881. Riprende, e conclude — anche attraverso riferimenti polemici alla Logigue de Hegel di A. Vera — la discussione sulle Prizze categorie, del 1863-64 [70], correggendo la prima interpretazione o “riforma” della dialettica hegeliana (“prima non appariva bene che il pensare è, per dir così, l’essere stesso dell’essere; appariva quasi come una funzione meramente soggettiva”, Opere, XXVII, p. 63) e richiamando nel discorso altri studi (più recenti, come lo scritto sulle psicopatie [83], pp. 52 sg., e La legge del più forte [85], p. 53; ma anche l’analisi della distinzione giobertiana di riflessione psicologica e riflessione ontologica, pp. 54 sgg). Il testo spaventiano (ora in Opere, III, pp. 431-462) è stato pubblicato da G. in appendice al primo scritto (La riforma della dialettica hegeliana e B. S., con appendice; porta la data: 1912) della raccolta, che da quel famoso studio prese il titolo generale; e viene presentato come il documento che giustifica lo schema di derivazione: Hegel- Spaventa-Gentile. Il frammento presenta una impostazione del problema della dialettica hegeliana molto prossima alla soluzione attualistica (anche nella espressione verbale: “In altri termini, lo spettatore è anco attore. O, come dice Hegel in generale: la categoria non è soltanto essenza o semplice unità dell'ente, ma è tale unità solo in quanto è attualità 2459 mentale. E attualità vuoi dire atto: l’essere è essenzialmente atto del pensare”, pp. 47 sg.; cfr. pp. 55, 60 sg.); nei paragrafi settimo e ottavo del suo studio, G. ripercorre l’intero sviluppo della riflessione di S. sull’argomento, dallo scritto del 1863-64 (dove la soluzione del filosofo sarebbe identica a quella di Fischer) alla risposta a Teichmiiller [93], e, finalmente, a questo inedito che, pur vicino all’attualismo, è gravato ancora da oscurità (cfr. p. 39: “Ebbe lo Spaventa consapevolezza della portata di questa sua scoperta? L’oscurità stessa della sua esposizione fa pensare di no...”). 104. La materia della sensazione, Palermo 1913, pp. 16. È un breve frammento dell’Introdugione 4/la critica della psicologia empirica [105], pubblicato in un opuscolo nuziale. 105. Introduzione alla critica della psicologia empirica, estratto dagli “Annali delle Università toscane”, Pisa 1915, pp. VI-98. È il testo - completo — di un manoscritto che, secondo G., fu composto da S. nell’estate del 1881: come primo abbozzo di Esperienza e metafisica [94], e come sviluppo delle indagini già avviate nella memoria Kant e l’empirismo [88]. Gentile ne aveva già pubblicati alcuni frammenti nel 1909-10 [100] e nel 1913 [104]. Interessante il giudizio di G. su questa — pur non completamente svolta — critica dell’empirismo; nella quale è documentabile l'accostamento dell’a. “alla concezione del formalismo assoluto, ossia dell’impossibilità di postulare una materia fuori dell’atto o forma del conoscere” e quindi l'intenzione sua di “risolvere... la matura, l’antico presupposto dello spirito, nell’atto spirituale... Così gli 2460 ultimi capitoli di questi frammenti cessano evidentemente di essere una polemica, e mostrano come per necessità la psicologia empirica, attraverso la teoria della conoscenza, vada a finire nella metafisica dell'anima come atto” (p. VI; cfr. ora Opere, II, pp. 463-589, e, per il luogo cit. della presentazione di Gentile, p. 469). 106. L’anima e l'organismo, in “Giornale critico della filosofia italiana”, I (1920), pp. 312-321. È il testo delle prime lezioni di un corso di antropologia, tenuto da S. nell’anno 1863-64. Per  l’esposizione dell’antropologia hegeliana — riferisce Gentile — S. teneva conto anche di sviluppi posteriori della dottrina; in particolare della Psychologie dell’hegeliano J. Schaller. Cfr. n. 115 e v. Opere, III, pp. 591-608. 107. False accuse contro l’begelismo, in “La Critica”, XVIII (1920), Pp. 246-253, 312-320. Ristampa dei due articoli ordinati in questa bibliografia con il n. 11. Nella breve introduzione, Gentile pubblica anche una lettera di S. a Eugenio Camerini, dell’11 febbraio 1860; lettera che ha consentito di rintracciare questi articoli nel quotidiano torinese “Il Progresso” (cfr. ora Opere, III, pp. 609-637). 108. La libertà d'insegnamento. Una polemica di settant'anni fa, Firenze 1920, pp. 187. Alle pp. 41-131 sono ristampati (e in Opere, III, pp. 673- 763) gli articoli ordinati in questa bibliografia con il n. lo. Nell’appendice, pp. 135-138, si può leggere l’articolo già 2461 indicato qui con il n. 9; altri documenti della polemica, in gran parte articoli di Domenico Berti, apparsi sui giornali “La Croce di Savoia” e “Il Risorgimento”, sono ristampati alle pp. 139 sgg. I documenti essenziali che servono a ricostruire le polemiche sulla libertà di insegnamento in Italia, dal 1840 fino a questi interventi di S. (1851), sono raccolti e illustrati nell'ampia prefazione di Gentile (pp. 7-40 = Opere, III, pp. 641-672), il quale dà anche importanti notizie sul programma e sui col-laboratori del giornale torinese “Il Progresso”. Una edizione più recente dei tredici articoli sulla libertà di insegnamento ha curato nel 1962 F. Alderisio [272]. 109. Pensieri sull’insegnamento della filosofia e lettere inedite, in “Giornale critico della filosofia italiana”, VI (1925), pp. 91-105. Ristampa (pp. 91-99) dell’articolo ordinato in questa bibliografia col n. 2. Seguono (pp. 99 sgg.) sei lettere o frammenti di lettere di S. a De Meis (cfr. n. 126 e Opere, III, pp. 831-855). D. SCRITTI PUBBLICATI DA ALTRI AUTORI 110. Una prolusione inedita di Bertrando Spaventa a un corso di diritto pubblico, a cura di A. Guzzo, in “Giornale critico della filosofia italiana”, V (1924), pp. 280-296. È il testo della prolusione di Modena del 25 novembre 1859. Alle pp. 293-296 è riprodotto uno schema delle lezioni modenesi, tratto da un altro manoscritto di S. Cfr. n. 122, 2462 111. Lezioni inedite di B. Spaventa, a cura di A. Guzzo, in “Giornale critico della filosofia italiana”, VI (19295), pp. 198-222, 291-295, 360-369. Il primo gruppo di questi inediti (pp. 198-222, 291-295) è costituito dagli appunti — di mano “di uno o più scolari modenesi” — relativi a cinque lezioni sulla filosofia greca dettate da S. per la parte storica del suo corso del 1859-60 (v. lo schema pubblicato da Guzzo nel 1924: cfr. n. precedente). Il secondo gruppo (pp. 360-369) raccoglie gli abbozzi, di mano dello S., di tre lezioni tenute nell'università di Bologna il 10 maggio e il 16 dicembre 1860, e 11 marzo 1861. 112. Rinascimento, Riforma, Controriforma e altri saggi critici, Venezia 1928, pp. 363. Ristampa dei Saggi di critica del 1867 [77] nella collana “Storici antichi e moderni” della Nuova Italia} con l’aggiunta di un indice dei nomi. 113. Uno scritto inedito di Bertrando Spaventa sul problema della cognizione e in generale dello spirito (1858), a cura di F. ALDERISIO, in “Rendiconti dell’Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche”, serie VI, vol. IX, fasc. 7-10, luglio- ottobre 1933, pp. 564-667. . Alderisio descrive e commenta (pp. 564-583) l'importante inedito da lui scoperto in una delle buste dei manoscritti di S. conservati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, identificandolo con l’abbozzo in “parentesi” scritto 2463 tra il gennaio e il marzo del 1858, di cui S. dà notizia al fratello Silvio in una lettera dell’8 febbraio dello stesso anno (cfr. S. Spaventa, Dal 1848 al 1861 [125], 19232, pp. 248 sgg.). Una più recente edizione dell’inedito a cura dello stesso Alderisio è: B.S., Sul problema della cognizione e in generale dello spirito, Torino 1958, pp. XLIII-156 [cfr. n. 266]. 114. Rime satiriche di B. Spaventa sul connubio Sella- Nicotera, in “Rinascita”, XI (1954), p. 32. Queste “rime” sono conservate nel fondo Spaventa della Società napoletana di storia patria. 115. E. GARIN, Felice Tocco alla scuola di Bertrando Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXXIV (1955), PP. 489-495. Si tratta di alcuni estratti di F. Tocco, relativi a lezioni sulla filosofia della natura di Hegel, tenute da S. nel 1863 (i primi appunti sono del 1° gennaio). E. Garin, nel pubblicare questi estratti da lui scoperti, discute anche dei rapporti di Tocco con il maestro. Gli estratti sono stati poi ripubblicati in E. Garin, La cultura italiana tra ‘800 e ‘900, Bari 1962, pp. 67-76. Cfr. anche n. 106. . Un “pamphlet” antidemocratico inedito di Bertrando Spaventa (1880), a cura di P. C. MASINI, in “Rivista storica del socialismo”, II (1959), pp. 304-326. Alle pp. 316-326 è riprodotto — con l’aggiunta di note 2464 esplicative — il testo di un pamphlet scritto da S. nell’agosto 1880 contro Pietro Siciliani; è intitolato: Le conferenze pedagogiche a Firenze. Lettera a Fanfulla di Minchione Chiappanuvole maestro elementare inferiore a Peretola. L’opuscolo, già pronto per la stampa, come risulta dalle bozze corrette rinvenute (insieme al manoscritto originale) nella Biblioteca comunale “Angelo Mai” di Bergamo, doveva essere pubblicato anonimo; rimase inedito per una “indiscrezione dello stampatore’, come attesta una dichiarazione sul frontespizio del figlio di S., Camillo. Presentando il testo spaventiano, che contiene aspre invettive non solo contro Siciliani, ma anche contro De Sanctis, P. C. Masini propone un riesame della collocazione politica di S., “difensore del vecchio ordine culturale e politico di stampo moderat”. Il pamphlet contribuirebbe a rivedere la proposta della “linea” S.-Labriola-Gramsci, lanciata a partire dal 1952, e a smentire il rilievo di una evoluzione dell’ultimo S. verso il positivismo o il materialismo (cfr. in particolare le pp. 310-314). La scoperta dell’opuscolo del 1880 è il frutto di una esplorazione delle carte spaventiane conservate presso la Biblioteca comunale di Bergamo; alle pp. 304-310 sono riportate notizie su manoscritti editi e inediti del filosofo, dei quali M. fornisce un primo inventario. V. su questo l’introduzione premessa a questa bibliografia, pp. 863 sg. Sul lavoro di M. cfr. E. Garin, Un ‘pamphlet’ antidemocratico inedito di B. Spaventa, “Giornale critico della filosofia italiana”, XXXVII (1959), pp. 572-574. Discutendo del testo di S. e della interpretazione di M., Garin rende noto l’annuncio di una traduzione spaventiana dell’opera di L. Stein, Der Socialismus und Communismus 2465 des heutigen Frankreichs, diffuso nel 1850 da una “Stamperia degli artisti tipografi” di Torino [cfr. n. 3]. Interessanti anche i rilievi di Garin sui rapporti di S. con i positivisti (in particolare con P. Siciliani). 117. Il lavoro e le macchine, a cura di D. D'ORSI, in “Sophia”, XXXI (1963), n. 3-4, pp. 254-259; e in “Dialoghi”, XI (1963), n. 3-5, pp. 191-197. Cfr. n. 123. 118. Rivoluzione e utopia, a cura di I CUBEDDU, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XLII (1963), pp. 66-93. Ristampa di dieci articoli, pubblicati nel 1851 nel giornale “Il Progresso” di Torino, e elencati in questa bibliografia con i nn. 5, 12, 14. Cfr. n. 275. 119. L'essenza metempirica del filosofare, a cura di D. D’ORSI, in “Dialoghi”, XII (1964), n. 1-3 (gennaio- ), pp. 39-50. Cfr. n. 123. 120. II Socialismo e il Comunismo in Francia — supplemento alla storia del secolo per L. Stein Professore in Kiel. Prima versione dall'originale tedesco di Bertrando Spaventa, a cura di S. LANDUCCI, in “Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinell”, VI (1963), Milano 1964, pp. 693-695. Ristampa del n. 3 di questa bibliografia. Cfr. n. 282. 121. Uno scritto ignorato e una lettera inedita di B. 2466 Spaventa, a cura di D. D’ORSI, in “Rivista abruzzese” [Lanciano], XVIII (1965), n. I, pp. 4-19. Contiene: un annuncio della traduzione di Stein [3], e una lettera di S. a P. Villari del 14 ottobre 1850 [cfr. 123, 141]. 122. Della libertà e nazionalità dei popoli, a cura di D. D’ORSI, in “Rivista abruzzese” [Lanciano], XVIII (1965), n. 3, pp. 97-114; n. 4, pp. 144-152. Edizione critica della prolusione di Modena (cfr. 110). 123. Scritti inediti e rari (1840-1880, con prefazione e note a cura di D. D’ORSI, Padova 1966, pp. XVI-590. Questa raccolta di testi editi e inediti di S. si divide in tre parti, più un’appendice di documenti. La prima parte (Scritti rari o ignorati o inediti, pp. 1-88) comprende la ristampa dello scritto Su/la quantità [1], un annuncio della traduzione dell’opera di Stein sul socialismo e il comunismo in Francia (3; pubblicato dal D’Orsi anche nella “Rivista abruzzese”, 1965 [cfr. n. 121]), il frammento I/ lavoro e le macchine (già pubblicato dal curatore nel 1963; cfr. n. 117), scritto nel 1851 sotto lo stimolo della lettura di Stein (v. p. 34), l'articolo su Schelling del 1854 [22], e finalmente un articolo sul teatro drammatico apparso anonimo nel “Cimento” [43] e qui attribuito a S. Nella seconda parte (pp. 89-178) sono raccolti tre scritti filosofici inediti: una Fenomenologia del 1865 (pp. 101-152; pubblicata contemporaneamente in “Sophia”, 1965, pp. 349-366, 1966, pp. 344-368; e v. sopra, p. 864), uno scritto del 1880, Esperienza e coscienza (pp. 157-162), e uno del dicembre 2467 dello stesso anno, L'essenza metempirica del filosofare (pp. 169-178), tratti entrambi dalle carte Spaventa della Biblioteca Nazionale di Napoli (le prefazioni del curatore a questi tre inediti erano state già pubblicate nel 1965 [285], il testo dell’ultimo inedito nel 1964 [119]). La parte terza (Scritti polemici ignorati e rari, pp. 179-489) raccoglie: due articoli pubblicati nel “Cimento”, del 1855 [cfr. nn. 35, 39], e i ventinove articoli della serie I Sabbati dei gesuiti, pubblicati nel “Piemonte” [cfr. n. 28]. Nell’appendice (pp. 491 sgg.) sono riportate trentasette lettere di S. [cfr. n. 141]. Delle singole prefazioni ai testi spaventiani, è da vedere in particolare quella dedicata alla Ferorzerologia del 1865 (pp. 93-100), un testo che, secondo D’Orsi, “finirà col modificare il tradizionale canone esegetico, invalso dal Gentile, secondo cui la lettura dell’ultimo Gioberti avrebbe indotto lo Spaventa a mutare o estinguere i suoi più radicati e appassionati interessi per la Ferorzenologia di Hegel e per le conseguenti interpretazioni via via formulate dagli esegeti tedeschi della destra hegeliana” (p. 95; sull'importanza che il curatore attribuisce al testo spaventiano, cfr. anche pp. 99 sg.). Nella prefazione generale alla raccolta, D’Orsi anticipa le linee di una sua lettura di S., molto distante dalle interpretazioni più recenti, e dalla stessa interpretazione di Gentile (si può qui segnalare l'utilizzazione di testi spaventiani nel volume di D’Orsi Lo spirito come atto puro in Giovanni Gentile, Padova 1957). Il curatore intende rivalutare una fondamentale dimensione “spiritualistica” del pensiero di S., il quale risulterebbe, nell'intero arco della sua attività, un “moderato”, sia in politica che in filosofia. Nelle polemiche contro i gesuiti, S. combatte le “esagerazioni pratiche” dell’ortodossia (dommatismo, fanatismo), non il principio cattolico (p. XII sg.); la suapolemicapuòdefinirsi “anticlericale”, ma “non antireligiosa o, peggio, ateistica” (p. 2468 XIV; per i Sabbati, cfr. p. 208: essi “stimolano la riflessione sui problemi della Politica e della Religione e assicurano come un duplice antidoto agli opposti inconvenienti della fragile fede e dell’intransi genza dommatica”; cfr. inoltre la prefazione alla terza parte della raccolta, pp. 181 sgg.). Nella prefazione a I/ lavoro e le macchine, pp. 33 sg., dichiarando la dipendenza dello scritto dall’opera di Stein, D’Orsi parla di un “chiaro atteggiamento etico-politico che, per equilibrio e serietà d’indagine, può ritenersi, nell’ambito della vexatissima questione sociale, ‘una voce di ragione tra tante grida”” (con questo titolo apparvero sul “Lucifero” di Napoli, nell’aprile-maggio 1848, alcuni articoli firmati con la sigla: Sp., che il D’Orsi attribuisce senz’altro a S.; sul “Lucifero”, giornale moderato e giobertiano prima del 15 maggio 1848, e, in seguito, conservatore, cfr. A. Zazo, I/ giornalismo politico napoletano nel 1848-9, “Archivio storico delle province napoletane”, XXXI [1947-1949], pp. 252, 289). D’Orsi rende nota (p. XVI) la sua intenzione di portare a compimento una edizione critica di tutte le opere, edite e inedite, di S., a cui seguirà la pubblicazione di una monografia sul filosofo napoletano. A p. 88 n. è annunciata intanto la prossima pubblicazione di un volume che raccoglie le Lezioni inedite di Filosofia del diritto (1859- 1860). Su questi Scritti inediti e rari curati dal D’Orsi, cfr. P. Piovani in “Giornale critico della filosofia italiana”, XLVI (1967), pp. 160-161. 124. Un articolo inedito di B. Spaventa circa l’unità organica della filosofia di Bruno e circa l’attinenza di questa con la filosofia di Spinoa, a cura di F. ALDERISIO, in 2469 “Giornale critico della filosofia italiana”, XLV (1966), pp. 218-225. Alle pp. 222-224 è riprodotto il testo fin qui inedito dell’ “avvertenza” di S. a un suo articolo su Giordano Bruno, mai pubblicato. Il manoscritto dell'articolo non è stato rintracciato. Secondo A., 1’ “avvertenza” è del 1870-1872; insieme all’articolo, avrebbe costituito l’ultimo lavoro di S. dedicato a Bruno, scritto, probabilmente, per il “Giornale napoletano di filosofia e lettere”. E. CARTEGGIO 125. S. SPAVENTA, Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti pubblicati da B. CROCE, Napoli 1898, pp. TX-314:; Bari 1923?, pp. XII-373. I rinvii alle pagine si riferiscono alla seconda edizione. Fondamentale raccolta di materiali — lettere, articoli, frammenti di studi ecc. — che illuminano le vicende personali e la biografia politica e intellettuale dei fratelli S. I documenti sono collegati da brevi narrazioni, chiarimenti e giudizi di Croce, che spesso riguardano da vicino anche B. S. Una aggiunta all’avvertenza del curatore nella seconda edizione — notevolmente accresciuta — porta la data: agosto 1917, Di B. S. sono riprodotte nel volume: quarantadue lettere al fratello, la prima del 22 dicembre 1847, l’ultima del 16 dicembre 1861 (p. 361, nota 2); una lettera al ministro sardo Cristoforo Mameli, del 1850 (p. 76 sg., n. 3); una lettera a Mamiani del 15 settembre 1854 (p. 210 sg., n. 2); una lettera al padre del26maggio1859 (p. 298 sg.); due lettere alla moglie, dell’8 e 10 novembre 1860 (p. 356 sg.). A p.5, n. I, 2470 si legge un brano di una “confessione” del filosofo (1876), a proposito della sua ordinazione sacerdotale. Le lettere di Silvio al fratello sono più di ottanta, e vanno dal 30 settembre 1849 al 28 ottobre 1860. Si segnalano in particolare le lettere “filosofiche” (sul pensiero italiano del Rinascimento, su Rosmini, Gioberti, sulla Ferorzenologia di Hegel, ecc.) che i fratelli si scambiarono tra il 1854 e il 1858 pp. 176-188, 202-215, 231-268). La raccolta comprende anche: una lettera di P. Villari a B. S., dell’ottobre 1850 (p. 77 sg., nota); due lettere allo stesso di Antonio Ciccone (11 luglio e 28 [?] luglio 1860, pp. 342 sg., 347); due lettere a B. S. di A. C. De Meis, del 23 luglio e del 10 novembre 1860, pp. 346 sg., 355 sg. Francesco D’Ovidio presentò il libro di Croce all Accademia di scienze morali e politiche di Napoli il 26 giugno 1898, con un discorso che è ristampato alle pp. 86- 96 della raccolta intitolata: Rirzpianti, Milano-Palermo- Napoli 1903, pp. XVI-464. Dal discorso di D’Ovidio si può ricavare qualche aneddoto o qualche coloritura diversa di notizie riguardanti la biografia di B., oltre che di Silvio, e i rapporti tra i due fratelli. Ma sul libro di D’Ovidio v. B. Croce, “La Critica”, I (1903), pp. 218-223. 126. Lettere di A. Camillo De Meis a B. Spaventa, pubblicate da G. GENTILE, Napoli 1901, pp. 32. Quattro lettere, del 9 febbraio e 4 giugno 1868, del 22 gennaio e 6 aprile 1869. Ristampate in G. Gentile, A/bori della nuova Italia, varietà e documenti, parte seconda, Lanciano 1923, pp. 145-167. 127. G. GENTILE, Per la storia aneddota della filosofia italiana nel secolo XIX, in Raccolta di studi critici dedicati 2471 a A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 335-358. Quattordici lettere del 1861-62, tratte dal carteggio dei fratelli S. Le lettere di B. sono undici: del 27 novembre, dell’8, 17 e 28 dicembre 1861, dell’8, lo, 21, 22 febbraio, del 22 marzo, del 16 giugno e I luglio 1862. Vedile anche ristampate in appendice a B. S., La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (99; e in Opere, II, pp. 679-719). Cfr. anche n. 139. 128. Documenti inediti sull’hegelismo napoletano. (Dal carteggio di Bertrando Spaventa), a cura di B. CROCE, in “Ia Critica”, IV (1906), pp. 223-240. Lettere a S. — corredate di notizie e schiarimenti — di F. Hoffmann (12 ottobre 1865: tentativo di promuovere in Italia la divulgazione della filosofia di F. v. Baader), di A. Angiulli (15 dicembre 1862), di H. F. Amiel (24 aprile 1868), di K. L. Michelet (6 agosto 1870), di A. Labriola (1875), di R. Hamerling (19 ottobre 1877), di T. v. Varnbiiler (17 maggio 1879), di G. Teichmiller (9 agosto 1882). 129. Documenti inediti sull’hegelismo napoletano. (Dal carteggio di Bertrando Spaventa), a cura di G. GENTILE, in “La Critica”, IV (1906), PP. 397-410, 483-496. Nella prima parte, una lettera a S. di F. del Zio (30 giugno 1861), lettere e brani di lettere allo stesso di M. Florenzi Waddington, una lettera di S. a De Meis del 13 luglio 1880. Nella seconda parte, lettere e brani di lettere di F. Fiorentino allo S., scritte tra il 1863 e il 1871. Con notizie e 2472 schiarimenti del curatore. I Documenti sono ristampati, con aggiunte, in G. Gentile, Frammenti di storia della filosofia, serie prima, Lanciano 1926, pp. 181-236. 130. B. CROCE, Ricerche e documenti desanctisiani, VII, Dal carteggio inedito di Francesco De Sanctis (5865- 28(9), puntata quarta, pp. 32; IX, Dal carteggio inedito di A. C. De Mess, pp. 36; in “Atti dell’Accademia Pontaniana” di Napoli, XLV(1915). Nel primo fascicolo sono pubblicate, in appendice (pp. 29-32), tre lettere di S. a De Meis, del zo novembre [cfr. n. 133] e del 16 dicembre 1851, del 5 agosto 1855. Nel carteggio inedito di De Meis si leggono (pp. 1-16) dodici lettere di S. allo stesso: del 13 febbraio 1856, dell’11 marzo, 19 e 20 maggio, 13 giugno 1860, del 23 giugno 1868, del 23 febbraio e 3 aprile 1869, del 30 maggio 1870, del lo luglio 1871, del 14 dicembre 1872, del 13 marzo 1874. 131. R. ZAGARIA, Per la biografia di Pasquale Villari, in “La Rassegna” [già “Rassegna bibliografica della letteratura italiana”, fondata da A. D'Ancona], serie III, vol. V, n. 6, dicembre 1920, pp. 333-379. Riporta (pp. 343-355) tredici lettere di Villari a S., le prime dodici scritte tra il 1861 e il 1869, l’ultima del 1881. Cfr. n. 140. 132. G. GENTILE, Bertrando Spaventa, Firenze s. d. [1924], pp. 217. 2473 Cfr. n. 204. Nell’appendice (pp. 181 sgg. = Opere, I, pp. 157 sgg.) sono pubblicate: una lettera di S. a De Meis del 23 febbraio 1856, una lettera di L. Chiala a S. del 4 aprile 1856, due lettere di S. a T. Mamiani (13 luglio e 10 ottobre 1854), due di Mamiani a S. (3 giugno 1852, 12 ottobre 1854). Nel testo: a pp. 55 sg. (= Opere, I, pp. 48 sg.) si legge una lettera di B. al fratello Silvio sull’abolizione delle facoltà di teologia, del io febbraio 1876; a pp. 94 sg., nota 2 (= Opere, I, p. 83) una lettera di De Meis a S. del 2 marzo 1863; alle pp. 162 sgg. (= Opere, I, pp. 140 sgg.) la lettera di S. a De Meis del 13 luglio 1880 [cfr. n. 129], e due lettere di De Ivleis a S.: la prima, s. d., in risposta alla precedente, l’altra del 10 gennaio 1881. Due lettere allo S., di L. Pomba (2 gennaio 1861) e di A. Tari (28 luglio 1861) sono segnalate nella bibliografia, p. 205 (e v. 65). 133. B. S., Pensieri sull’insegnamento della filosofia e lettere inedite, a cura di G. GENTILE, in “Giornale critico della filosofia italiana”, VI (1925), pp. 91-105. Cfr. nn. 2, 109. Alle pp. 99-109, sei lettere o frammenti di lettere di S. a De Meis: del 30 marzo 1850, s. d., del zo novembre 1851 ma cfr. n. 130], del 16 dicembre 1852, del 14 dicembre 1872, del maggio 1880 (= Opere, III, pp. 847-855). 134. S. SPAVENTA, Lettere politiche (1865-1893), edite da G. CASTELLANO, Bari 1926, pp. 185. Continuazione del carteggio pubblicato da B. Croce 2474 [125]. Il nucleo più importante è costituito da circa 140 lettere o brani di lettere di Silvio a B. S., scritte tra il 20 settembre 1861 e il 25 ottobre 1882; contengono interessanti ragguagli e giudizi, oltre che sulle vicende e sugli uomini politici del periodo, su alcuni casi più minuti della vita dei due fratelli (reazioni ai tumulti nell'Università di Napoli, del1862; rapporti col giovane Labriola, nel 1863; ecc.). Sono anche riprodotte dieci lettere di B. S. al fratello: del 13 giugno, del 7 e 25 luglio 1863 (pp. 56 sg.), del 9 aprile e del settembre 1866 (pp. 95 sg., 102 sg., nota), del 2 settembre 1868 (p. 116), del 21 aprile 1869 (p. 120), del 22 dicembre 1873 (p. 128), del 25 maggio e 15 giugno 1874 (pp. 130, 132 sgg.). Interessante la lettera-prefazione (datata: giugno 1925) di B. Croce al curatore, pubblicata anche su “La Critica” (XXIII, 1925, pp. 316 sgg.). Croce dissocia gli ideali politici di Silvio dal “concetto speculativo dello stato” elaborato dal fratello “senza particolare esperienza e intelligenza della materia, estraendo e compendiando la Filosofia del diritto dello Hegel” (p. 7). E intende soprattutto respingere, così, il recente tentativo di “presentare Silvio Spaventa come luomo e il pensatore politico al quale dottrinalmente risalgono la teoria e la pratica del partito ora dominante in Italia” (p.5). 135. A. ROMANO, La vita culturale italiana dopo il 1860 dal car teggio degli hegeliani meridionali, I. Un isolato: Vittorio Imbriani, in “Civiltà moderna”, V (1933), settembre-ottobre, pp. 473-483. Cfr. n. 138. Da un complesso di settantanove tra lettere e biglietti, 2475 scritti dall’Imbriani a S., l'a. sceglie e riproduce brani che contengono notizie sull'ambiente hegeliano tra il 1870 e il 1880. Le lettere riportate vanno dal dicembre 1871 al dicembre 1879. 136. B. CROCE, Voci da un ergastolo politico. Lettere inedite di Silvio Spaventa (1850-1856), in “Quaderni della Critica”, Il (1946), quad. 4, pp. 99-109. Undici lettere di Silvio al fratello, ritrovate fortunosamente dal Croce; integrano la raccolta del 1898, 1923”[.125]; 137. 123 lettere inedite di Antonio Labriola a Bertrando Spaventa, a cura di G. BERTI, in “Rinascita”, X (1953), supplemento al n. 12, pp. 713-736; XI (1954), supplemento al n.,pp.65-87. La prima lettera è del 1870-71, l'ultima del 6 gennaio 1883. Importante l’introduzione del curatore (pp. 713-718): le lettere, che contribuiscono a chiarire i modi e i tempi del passaggio di L. al socialismo, sono la testimonianza di un che corrisponde perfettamente, sul piano delle relazioni personali e private, a un rapporto di “filiazione spirituale”. Gli originali sono conservati nel fondo S. della Biblioteca della Società di storia patria di Napoli. 138. Carteggi di Vittorio Imbriani. Gli hegeliani di , a cura di N. COPPOLA, Roma 1964, pp. 582. Sono pubblicate qui (pp. 34-166) diciotto lettere di S. a V. Imbriani (26 maggio e In novembre 1869, 17 [?], 17 2476 aprile, 27 agosto, 17, 20 e 27 settembre, 7 novembre, 3, 6, 18, 19, 22 e 23 dicembre 1871, I e 6 dicembre 1872, 29 settembre 1878), e settanta circa lettere o biglietti di Imbriani a S., spesso non datati, ma scritti anch'essi a partire dal 1869. Si leggono anche qui, indirizzate allo stesso S., una lettera di F. Tocco, s. d. (p. 99 sg.), una lettera di D. Jaja del 30 novembre 1872 (p. 112 n.), e una di D. Marvasi del 9 gennaio 1875 (p. 143). Le altre lettere indirizzate all’Imbriani sono di Silvio Spaventa, A. Vera, G. B. Passerini, A. C. De Meis, P. Siciliani, F. Tocco, F. Fiorentino, D. Marvasi, A. Tari e F. Toscano. Le lettere qui raccolte fanno parte di un blocco di autografi scoperti da C. nel 1935, e la cui pubblicazione era stata già iniziata in “Accademie e biblioteche d’Italia”, X (1936), n. 5-6, pp. 403-418; XI (1937), nn. 1-2, pp. 79-94, n. 5, pp. 483-494; XIII (1938-1939), n. I, pp. 51-66. Per diversi riferimenti ai fratelli S. cfr. anche Vittorio Imbriani intimo. Lettere familiari e diari inediti, a cura di N. Coppola, Roma 1963, pp. 402. Cfr. n. 135. 139. Lettere inedite di Bertrando a Silvio Spaventa, a cura di V. MASEL-LIS, in “Critica storica”, IV (1965), pp. 691-710. Da un fondo spaventiano conservato presso l’archivio provinciale De Gemmis di Bari sono tratte le dieci lettere qui pubblicate, che portano le date: 25 gennaio, 27 marzo, 21 e 27 settembre 1861, 29 gennaio, 17 marzo, 31 maggio, 28 ottobre 1862, 19 e 31 ottobre 1864. Sono da collegare soprattutto alla raccolta, curata da Gentile, e pubblicata nel 1901 [127]. 2471 140. G. VACCA, Nuove testimoniane sull’hegelismo napoletano, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di scienze, lettere e arti inNapoli”, LXXVI (1965), pp. 26-73. La memoria è divisa in due parti. Nella prima (pp. 26-63) sono riprodotte circa cinquanta lettere o brani di lettere — la maggior parte inedite, o pubblicate solo parzialmente da precedenti editori, soprattutto da Croce [125] — di S. al fratello Silvio, scritte tra il 20 aprile 1857 e il 28 giugno 1881. Le lettere contengono giudizi e informazioni politiche, notizie relative alla attività didattica di S. (soprattutto a Modena), ai rapporti del filosofo con P. Villari (v., a pp. 55- 57, tre lettere di Villari a S. del 19 luglio 1861, del 21 marzo 1862, del 21 luglio 1868; e cfr. n. 131), a un intervento di A. Tari in favore di Labriola (v. una lettera di Taxi a S. del 23 luglio 1861, pp. 45 sg. nota 30), ecc. Nella seconda parte del lavoro (pp. 63-73) sono riprodotte lettere o brani o citazioni tratte da lettere a S. di P. Siciliani (7 giugno 1871, 29 aprile 1877), di F. Masci (1876, maggio 1881, 16 aprile 1876), di F. D’Ovidio (1871-72), di B. Labanca (4 febbraio 1872, 23 maggio e 14 giugno 1880, 26 gennaio, 29 marzo e 24 maggio 1881, 29 dicembre 1882), di F. Del Zio (15 aprile 1861). 140 bis. Dodici lettere inedite di Antonio Labriola a Bertrando Spaventa, a cura di G. VACCA, in “Studi storici”, VII (1966), pp. 757-766. Sono lettere scritte tra il 1867 e il 1882, ritrovate nell'Archivio De Gemmis di Bari [cfr. n. X39]. 141. B. S., Scuitti inediti e rari (1840-1880), con 2478 prefazione e note a cura di D. D’ORSI, Padova 1966, pp. XVI-590. Chin: 123; Nell’appendice di documenti (pp. 491-579) sono pubblicate trentasette lettere di S.: a) sedici a P. Villari (12 luglio, 14 ottobre, 1 dicembre 1850, 11 marzo 1851, 5 agosto [1851?], 1 maggio [1852?], 11 febbraio 1853, 23 marzo 1854, aprile 1854 [?], 14 gennaio 1857, ottobre 1857 [2], 28 giugno, 12 e 14 luglio, 2 agosto e 19 novembre 1869); b) una a F. Le Monnier (23 marzo 1854); c) una a E. Camerini [18562]; d) una a A. De Gubernatis (13 febbraio 1865); e) quindici a V. Imbriani (26 maggio, 11 novembre 1869, 17 [marzo?], 17 aprile, 27 agosto, 17, 20 C 27 settembre, 3 ottobre, 6 novembre 1871, 7 novembre [18712], 18 e 19 novembre, 22 C 23 dicembre 1871; alcune date coincidono con quelle di lettere già pubblicate da N. Coppola: cfr. n. 138); f) tre a T. Mamiani (11 novembre 1869, 5 marzo 1870, 15 marzo 1871). A p. 170, n. 6, è riportato un frammento di lettera (1856?) “ad un amico”, del quale non è indicato il nome. 141 bis. G. VACCA, Gli hegeliani di Napoli nella politica e nella scuola. Carteggi, estratto dagli “Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari”, 1966, pp. 91. Le lettere qui pubblicate sono state ritrovate nella biblioteca provinciale De Gemmis di Bari. La raccolta comprende: otto lettere di Bertrando al fratello Silvio, sei del 1850-54, una del 1859, una del 1862; due spezzoni di lettere del filosofo a Labriola, del 1873 e 1874; una lettera dello stesso a D. Tartaglia, del 1861; una lettera di 2479 Bertrando alla moglie, del 17 novembre 1859. Inoltre: lettere allo S. di T. Mamiani, di P. Villari, di F. Selmi, di D. Marvasi, di A. Ciccone, di S. Tommasi, di D. Tartaglia, di A. Labriola [cfr. 140 bis], di P. Acri, di V. Imbriani, di F. Masci, di F. Tocco, di L. Miraglia, di L. Barbera, di P. Siciliani, di F. Fiorentino, di D. Jaja. Infine, lettere di P. Villari a D. Marvasi, di L. Settembrini a Silvio S., di Silvio S. a E. Pessina, di F. Selmi e C. Monzani a Silvio S., di L. Barbera a R. De Cesare, di F. Tocco a F. Fiorentino, di P. DelGiudice a L. Miraglia, di F. Fiorentino a Silvio Spaventa. 142. Trenta lettere inedite di Bertrando Spaventa al fratello Silvio (1850-1861), a cura di G. VACCA, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di scienze, lettere e arti in Napoli”, LXXVIII (1967), pp. 327-395. Le lettere qui pubblicate (v. pp. 341 sgg.) sono tratte da copie di mano di Giovanni Beltrani, conservate nella biblioteca comunale Giovanni Bovio di Trani. Vanno dal gennaio 1850 all’aprile 1861; il nucleo più importante è del 1854-56, sicché la raccolta integra soprattutto il carteggio “filosofico” dei fratelli S., noto attraverso l’edizione curata da Croce [125]. Le lettere offrono nuovi dati sull’attività di S. nel periodo torinese, indicazioni sugli studi, su lavori inediti e sull'attività giornalistica del filosofo, e contengono giudizi su avvenimenti e uomini politici. I documenti più interessanti sono analizzati dal curatore alle pp. 332-340; importanti i chiarimenti di Vacca sulla complessa vicenda dell'archivio epistolare del filosofo, venduto dal figlio Camillo e solo in parte recuperato da Croce [cfr. anche 136]. 2480 PARTE SECONDA SCRITTI SU BERTRANDO SPAVENTA 143. P. LUCIANI, Del libro di B. Spaventa intitolato “La filosofia di Gioberti”. Considerazioni, Napoli 1864, pp.21. Non è un’analisi minuziosa del libro di S., né vuole esserlo (p. 44); per affrontarla, l’a. aspetta la pubblicazione del secondo volume. Ma intanto, secondo L., va segnalata subito la minaccia di “intedeschimento”. S. accoglie da Hegel gli strumenti della sua critica e finisce col travisare completamente il pensiero di Gioberti. Non ha capito, soprattutto, il significato e la funzione dell’ “intuito”, perché vuol risolvere tutto nel “soggetto”; sicché gli sfugge il senso delle “formula ideale”, e vede dappertutto contraddizioni. Cfr. n. 147. 144. K. L. MICHELET, Spaventa uber Hegel in der Akademie zu Neapel, in “Der Gedanke” [Berlino], V (1864), fasc. 2, pp. 114 117.Recensione del saggio: Le prime categorie della logica di Hegel [70], condotta sul testo del sunto pubblicato dalla “Rivista napoletana di politica, letteratura e scienze”, novembre-dicembre 1863. Nel corso dell’esposizione M. introduce due rilievi particolari. A_p. 115, afferma che è sbagliato attribuire a Hegel, come fa Trendelenburg (e S. seguendo Trendelenburg), l'intenzione di ricavare l'identità di essere e nulla dalla loro indeterminatezza (l’essere è il nulla = l’indeterminato è l’indeterminato); e rimanda, per questo punto, ad un suo intervento pubblicato nella stessa rivista (III [1862], pp. 207-210). A p. 116 osserva ancora 2481 che Hegel ha già posto in rilievo quella “differenza” nella indeterminatezza o identità di essere e nulla, di cui S. è andato in cerca nel suo saggio. Eccellente sembra tuttavia a M. la confutazione di Trendelenburg fatta da S. (da un “non hegeliano”, p. 117); ma il recensore non capisce a quali rappresentanti della scuola alluda il filosofo napoletano, quando afferma che alcuni hegeliani pretenderebbero che l’essere si muova da sé, senza il pensare. La memoria di S. è giudicata assai acuta, e ingegnosa; se tondo M., S. si muoverebbe, in questa sua interpretazione e apologia di Hegel, verso conclusioni simili a quelle raggiunte da K. F. Solger nei suoi Gespriche tber Sein, Nichtsein und Erkennen. 145. [G. SALVIA], La più bella questione surta non ha guari dalla Università di Napoli, in “Il Campo dei filosofi italiani” [Napoli], I (1864), pp. 202-208, 323-328, 389- 399, 469-477. L’articolo non è firmato, ma il nome dell’autore si ricava dall’intervento successivo di M. Tuddone [cfr. n. 148]. La “più bella questione” è quella della “nazionalità” della filosofia. Le prime pagine (202-208) riproducono i tratti essenziali della prolusione di L. Palmieri del 16 novembre 1861, e una prima parte della prolusione spaventiana Della nazionalità nella filosofia [68]; le pp. 323-328 sono dedicate ancora alla esposizione del discorso di S.; nelle puntate successive, sono svolte le considerazioni dell’a. sulle due prolusioni.Sostenerela“nazionalità”dellafilosofia (come fa Palmieri) è questione di logica o di dialettica? Sembra che non ci possa essere “nazional filosofia” con le regole del ragionare, ma solo con quelle del disputare. L’a. vuole evidentemente salvare le argomentazioni di Palmieri, 2482 correggendole tuttavia e riproponendole sul piano della scienza: “Mi viene dunque in mente di cangiare, se io potessi, l'espediente dialettico in argomentazione scientifica, trovando in certa guisa il passaggio dagli argomenti suoi [= di Palmieri], presi 44 borzinerm, e senza più individuati, agli argomenti che vi corrispondono in uso non pur della logica ma della scienza, che val sicuramente generali” (p. 474). E corregge il discorso di Palmieri distinguendo “tre capi” dell’argomentazione: 1° “impronta” e l' “indole nazionale”, le “tradizioni”, e l “atteggiamento non servile” delle arti e delle scienze. Ora, per quel che ci riguarda, l’ “impronta” e l “indole” sono “cattoliche” entrambe. La “tradizione” è quella antichissima “delle ripruove e delle discussioni” (la tradizione degli eleatici). Quanto all’ “atteggiamento non servile”, che nasce dalla piena adesione della coscienza, anche per questo motivo l’hegelismo non può essere importato tra noi (come può Hegel aver detto in coscienza che l’essere è il nulla, il bene male, e il sì no?). 146. T. STRAETER, Briefe tber die italienische Philosophie, in “Der Gedanke” [Berlino], V (1864), fasc. 4, pp. 263-267; VI (1865), fasc. 1, pp. 71-77, fasc. 2, pp. 123-135, fasc. 3, pp. 153-163, fasc. 4, pp. 230-243. Sono, in tutto, nove lettere scritte da Napoli tra il 5 dicembre 1864 e il 20 luglio 1865. La prima (1864, fasc. 4), offre un ritratto dell'ambiente universitario napoletano (si parla anche di F. Tocco, che disserta in sede di esame sulle prime categorie della logica di Hegel). L’a. esprime la convinzione che la filosofia moderna può trovare nuova vita solo a Napoli; indica poi nella teoria della “circolazione” di S. lo strumento più efficace per eliminare dalla coscienza degli italiani i residui di cattolicesimo medievale, e per 2483 favorire la costruzione di uno stato moderno. La seconda lettera (1865, fasc. 1), tratta del Volksgeist napoletano (avverso per sua natura ad ogni forma di assurda e fantastica trascendenza)eparla della prolusione spaventiana del 1861; si conclude con un ritratto del filosofo: “Er ist dabei eine màachtige, imposante Persònlichkeit, gross und stark gebaut und von jenem phlegmatisch kraftigen Temperament, dem Hegel bekanntlich die gròsste Energie und Griindlichkeit vindicirt” (p. 76). Nella terza, quarta e quinta lettera (1865, fasc. 2), l’a. ritorna ancora sull'ambiente napoletano (Vera, S.-Vera, ecc.), e ricorda la prolusione bolognese di S. È nella terza lettera che Strter introduce un raffronto fra Vera e S. (e Tari), assai fortunato (Gentile lo cita nel Discorso del 1900; Croce lo ricorda nel suo panorama della vita letteraria a Napoli dopo il 1860; ecc.): S. e Tari rappresentano a Napoli quella corrente a cui appartengono in Germania K. Fischer e i suoi scolari, e che si orienta verso una revisione della dialettica hegeliana su basi kantiane; Vera è la copia dignitosa, italo-francese, del “vecchio hegeliano” tedesco, degli “ortodossi” di stretta osservanza (p. 123). La sesta lettera (1869, fasc. 3) riassume la “circolazione” del pensiero italiano, loda il saggio sulle Prime categorie, e espone l’interpretazione spaventiana di Gioberti. Le lettere settima, ottava e nona (1865, fasc. 4), sono dedicate agli scritti di S. su Bruno e Campanella. 147. P. LUCIANI, Gioberti e la filosofia nuova italiana, 3 voll., Napoli 1866, 1869, 1872, pp. XXVIII-303, 335, 514. Cfr. n. 143. Tutti gli scritti di Gioberti — le opere “essoteriche” (miranti “più a rinverdire il passato, che a gittare i semi 2484 dell'avvenire”; che riguardano la pratica piuttosto che la teoria, e oppongono il “nazionale” al “forestiere”) e le opere “acroamatiche” (le opere postume: hanno “carattere più scientifico che pratico”; riguardano l “avvenire” della filosofia, della religione, della civiltà, e mirano a “scoprire il nuovo aspetto della scienza e del cattolicismo, la nuova forma civile d’Italia, la dialettica del secolo ventesimo”; vol. III, p. 429) — appaiono composti secondo un disegno ben preciso e trovano una collocazione esatta entro un edificio armonico, perfettamente coerente. Negando che vi sia contraddizione, in Gioberti, tra filosofia essoterica (esposta e analizzata da L. nei primi due volumi) e filosofia acroamatica (studiata nel terzo volume), l’a. intendetogliere alla ricostruzione critica resa pubblica da S. nel 1863 [69] il suo fondamento: non è vero che Gioberti si è arrestato a metà strada, lungo la via che porta a Hegel (di qui deriverebbero le contraddizioni — in realtà, inesistenti — denunciate da S.), ma, anzi, è andato “oltre” Hegel. Se si perde di vista il carattere unitario e armonico del pensiero di Gioberti, se ci si arresta al Gioberti “essoterico” (al Gioberti in apparenza “clericale”, “regressivo”, ecc.) si favorisce lo sviluppo dell’hegelismo in Italia. Se si coglie il vero senso delle Postuzze, si capirà che Gioberti è coerente, non solo, ma supera Hegel nella dottrina di Dio, dell'uomo e dell’universo (vol. III, pp. 456 sg.; e v. pp. 460-468 per un confronto Hegel-Gioberti, che va tutto a vantaggio del secondo; così come è superiore il “moto civile” italiano a quello tedesco). S. ha giudicato Gioberti dall’alto di alcuni presupposti hegeliani (identità di pensiero divino e pensiero umano; dottrina del sensibile e dell’intelligibile, e del loro rapporto, ecc.) e si è preclusa la via al retto intendimento del pensiero giobertiano; S. non capisce la soluzione “platonica” di 2485 Gioberti, non capisce la dottrina dell’ “intuito”, capace di superare lo psicologismo inaugurato da Cartesio (vol. I, pp. 96 sg.) e “concluso” da Hegel (vol. II, pp. 278 sg.), travisa — da psicologista — la distinzione giobertiana di psicologismo e ontologismo (vol. I, pp. 267 sgg.), attribuisce falsamente a Gioberti un’oscillazione tra due diversi concetti di intuito e di riflessione (vol. II, pp. 304-306), non intende l’affermazione di Gioberti: l’ente è concreto (vol. 11, pp. 306 sg.), non intende il concetto di creazione (vol. II, pp. 378 sg.), non riesce a capire quale posto occupi la Protologia nel sistema (vol. II, pp. 379 sg.), stravolge la teoria giobertiana dell’intelligibile (vol. II, pp. 320-323). Queste le critiche principali mosse dall’a. a S.; su di esse, e sul giobertismo di L., v. ora G. De Crescenzo, La fortuna di Vincenzo Gioberti nel mezzogiorno d'Italia, Brescia 1964, pp. 569 (la prima parte del volume, Pietro Luciani e il giobertitmo meridionale, è un rifacimento e approfondimento di uno studio pubblicato a Napoli nel 1960, con il titolo Pietro Luciani e il giobertismo). Si legge qui qualche riserva sul tentativo di confutare“speculativamente” Hegel in base al Gioberti; ma “... i lavori  storiografici di Pietro Luciani sul Gioberti costituiscono il validissimo precedente, purtroppo ignorato, di tutta quella odierna storiografia filosofica che ha reagito opportunamente alla artificiosa interpretazione idealistica del Gioberti, la quale, iniziatasi con Bertrando Spaventa, si è poi continuata col Fiorentino, col Gentile, col Saitta, con l’Anzilotti e col Caramella” (pp. 67 sg.). 148. La questione della nostra Università superiormente lasciata a mezzo che si ripiglia qui e si termina da M. TUDDONE, in “Il Campo dei filosofi italiani” [Napoli], 2486 III (1867), pp. 452-479. L’autore del precedente intervento [cfr. n. 145] è G. Salvia. Bisogna dargli un seguito, perché “quello che rende monca finoggi la trattazione, e bisognevole di un supplimento, si riduce a chiosare e discutere in simil guisa, per la logica un poco ma più per la dialettica le cose replicate in contrario [a Palmieri] dallo Spaventa” (p. 453). Per far questo l’a. divide la prolusione di S. in tre parti: “’’esordio con la proposizione” (concetto di filosofia nazionale), la “confermazione” (le prove storiche), la “conclusione” (la vera filosofia attuale è europea). La discussione è molto faticosa, ma la conclusione è chiara: “questo discorso sulla nazionalità della filosofia nostra è un cavalletto ben tormentoso per l’autore; il quale avria certo preferito ad essa ogni altro tema, mettendosi al sicuro dai divincolamenti, che gli convenne sopportare, e più o meno nascondere, questa prima volta che ascendea in cattedra” (p. 455). Per l’hegeliano S., è impossibile accettare l’idea di una filosofia “nazionale” italiana. 149. R. MARIANO, La pbilosophie contemporaine en Italie. Essai de philosophie hégélienne, Parigi 1868, pp. 162. Si occupa di Galluppi, Rosmini, Gioberti, A. Franchi, e, nella conclusione, di A.Vera. Ma nell’introduzione discute (pp. 13-22) la questione della filosofia “nazionale” e la tesi spaventiana della “circolazione” del pensiero italiano, per rigettarla; v. in particolare la lunga nota alle pp. 14-20. S. subordina — falsamente — l’oggetto della filosofia allo spirito nazionale, costruisce un’assurda equazione: Gioberti=Hegel, introducendo un elemento di confusione; 2487 travisa Hegel, non solo, ma la storia della filosofia e la stessa filosofia. A_p. 20 qualche riga sui Princìpi di filosofia [76], appena pubblicati: quello di S. è un linguaggio tortuoso e ambiguo, un hegelismo che non è hegelismo, una logica che vuol essere nuova, ma lo è in modo pericoloso: genera l'equivoco, la confusione e l’indisciplina delle menti. Molti anni dopo, nel vol. X degli Scritti vari (Dall’idealismo nuovo a quello di Hegel, Firenze 1908) M. accenna a S. come responsabile dei nuovi sviluppi dell’idealismo in Italia (cfr. la recensione di B. Croce, in “La Critica”, VI [1908], pp. 204-206). Un tono diverso nei giudizi di M. si coglieva nelle pagine di Uorzini e idee (vol. VII degli Scritti vari), Firenze 1905. A p. 16 sg., S. è elogiato per gli studi su Bruno; alle pp. 313 sgg. (nel “saggio biografico” su A. Vera [Napoli 1887], qui ristampato, pp. 227 sgg.) si legge che S. è stato “un logico e un metafisico di prima grandezza”, sordo alle tentazioni positivistiche, scettiche o neokantiane. La sua figura è inseparabile da quella del Vera; ma non riconobbe lo S., col Vera, il carattere solo universale della filosofia; se è vero che il pensiero moderno nasce col Rinascimento, l’interpretazione di Gioberti è tuttavia audace. Di Uomini e idee scrisse F. Tocco (Fra biografie e quadri storici, “Il Marzocco”, Firenze, 25 giugno 1905), cogliendo l’occasione per discutere dei rapporti di S. col Vera, e per ricordare l’insegnamento del maestro: v. l'introduzione di questa bibliografia, p. 873. 150. F. MORGOTT, Hegel in Italia, in “Il Campo dei filosofi italiani” [Torino], IV (1868), pp. 62-80; V (1869), pp. 16-38. Si ricava da una nota che l’a., allora professore di filosofia a Bichstadt, in Baviera, stava lavorando a una storia della 2488 fortuna di Hegel in Italia, da pubblicare in tedesco. La traduzione dell’articolo è del prof. F. Rossi. La prima parte è un’esposizione del pensiero di Vera (pp. 68 sgg) e di S. (pp. 75 sgg.); per S. l’a. si serve — e lo dichiara — dei Briefe di Straeter [146]. M. si rammarica che ci siano in Italia filosofi che hanno abbandonato la tradizione, abbracciando una filosofia straniera. Segnala tuttavia con o cimento — nella seconda parte — il vasto moto di reazione all’idrillilnto liano guidato da V. De Grazia, da M. Liberatore, dalle riviste “La scienza e la fede” e “Civiltà cattolica”, e, ancora, da T. Mamiani, da N. Toni da V. Di Giovanni, da G. Allievo e A. Galasso, da A. Conti. 151. P. SICILIANI, GX begeliani in Italia, in “Rivista bolognese di scienze e lettere”, II (1868), vol. I, fasc. 6, pp.516-549. È un’ampia rassegna, in cui si discorre dei Principi di filosofia di S. [76], del libro di De Meis: Dopo la laurea, del saggio sull’immortalità dell'anima di M. Florenzi Waddington, del Pietro Pomponazzi di F. Fiorentino, A proposito della “circolazione”, pur respingendo, almeno in soluzioni di S. (la relazione Gioberti-Hegel è estrinseca), l’a. loda l’ “accortezza” e la “prudenza” del filosofo, che ha saputo introdurre l’idealismo assoluto in Italia presentandolo come il frutto della nostra più autentica tradizione. Nel saggio sulle Prizze categorie [70], S. ha certo contribuito a rendere più “logico” il sistema di Hegel, ma non l’ha reso,perquesto, più vero; l’a. si dichiara suo conto incapace di penetrare quel buio dell’ “indeterminato”, da viti vrebbe svilupparsi la logica. Sulle Prize categorie, Siciliani ritorna anche nel libro Su/ 2489 rinnovamento della filosofia positiva in Italia, Firenze 1871, pp. XVII-542, nel quale propone “via di mezzo” tra i due estremi rappresentati dall’hegelismo e dal positivismo, appellandosi a Vico (v., ad es., pp. Il, 31). Per le Prize categorie, cfr. pp. 396 sgg.: quando S. risponde a Trendelenburg, “giusto nel momento che s’hanno a decidere le sorti della logica obbiettiva, giusto nell’istante supremo in cui la logica dee poter rivestire natura e valore di metafisica, egli cangia bruscamente posizione, e invoca il pensiero, invoca l’astraente, invoca l’astrazione, e così dileguatasi a un tratto l’obbiettività, ci fa divagare nel mondo delle pure forme, ed eccoci di bel nuovo ricacciati e ravviluppati per entro alle fitte maglie della tela di ragno!” (pp. 403 sg.). Il libro è da vedere anche per molti altri riferimenti a S.: nell’avvertenza, sul tema del “rinnovamento” della filosofia italiana, è discussa, accanto a quelle di Mamiani, Rosmini e Gioberti, la posizione di S. (specialmente della Filosofia di Gioberti; e cfr. su questa opera anche le pp. 205 sg., 374, 455). Alle pp.115 sgg., 170 sgg., si discute l’interpretazione spaventiana di Vico; sul rapporto Vera-Spaventa, v.. pp, 126 sgg.; sulla “circolazione”, pp. 189 sgg., 194 sgg.; sull’interpretazione di Rosmini 368 sgg. Siciliani fa comparire S. tra gli interlocutori della “giornata sesta” (367-492) de La critica nella filosofia zoologica del XIX secolo. Dialoghi, Napoli 1876, pp. XXXI- 555. Il dialogo si svolge tra rappresentanti, sostenitori e critici di tre scuole: quella dei cuvieristi, quella dei trasformisti e quella degli idealisti. Nel dialogo si colgono allusioni all’intervento di S. nella polemica sulle psicopatie [83], e alla sua discussione sul metodo delle scienze comparate [74]; ma la conversazione investe soprattutto le teorie esposte da De Meis ne I tipi animali; e, più in 2490 generale, il valore metodologico della dialettica hegeliana. 152. A. TAGLIAFERRI, Ur saggio della modestia e serietà filosopra dei nostri filosofi hegelisti, in “Il Campo dei filosofi italiani” Torino], IV (1868), pp. 324-352; e in A. T., Saggi di critica filosofica e religiosa, vol. I, Firenze 1882, pp. 1-28. Lo scritto di T. è una pronta replica alla “lettera” Paolottismo, positivismo, razionalismo [78]. Il tono è indignato e predicatorio; l’a. definisce “indegno” di un filosofo lo scritto di S., respinge l’aggettivo “paolotto”, denuncia l’altezzosità di S. nei confronti di Mamiani, accetta — ma a disdoro dell’hegelismo — la continuità (anzi, per T., l'identità) tra materialismo del Settecento eFiosofiahegeliana, condanna l’adorazione del Dio-stato. Respinge, ancora, il nesso Vico-Kant stabilito da S. (Vico distingueva tra intelletto divino e intelleno umano, e il verumz ipsum factum non è accettabile fuori di quella distinzione), e si duole delle “nebbie teutoniche” trapiantate in Italia. Nelle ultime pagine, si scusa della “vivacità” del proprio intervento, provocata del resto dal tono “beffardo” di S.; e dichiara di riconoscere la parte di vero che c’è in Hegel: “l'universalità e la comprensione del concepire” (ma l’universalità è dall’armonia del cosmo, non dall’unità di Dio e mondo) e la “presenzialità” del divino nel mondo e nell’uomo (che non va intesa, tuttavia, né come assoluta immedesimazione né come assoluta separazione). Cfr. anche n. 156. 153. A. C. DE MEIS, Deus creavit, in “Rivista bolognese di scienze e lettere”, III (1869), serie II, vol. I, 2491 fasc. 5-6, pp. 724-773. È un dialogo, in cui si discute il problema studiato da S. nelle Prize categorie della logica di Hegel [70]; uno degli interlocutori (Giorgio) espone e soomene la soluzione spaventiana. Gentile interpreta il Deus creavit — nelle sue Origini della filosofia contemporanea in Italia  (v. nell'edizione e nel volume citato più avanti [cfr. n. 193] le pp. 61 sgg.) — come una disputa ideale tra i due filosofi; per A. Del Vecchio Veneziani (La vita e l’opera di Angelo Camillo de Meis, Bologna 1921, pp. XXIV-333) il dialogo è nato probabilmente da una conversazione realmente avvenuta (v. pp. 118 sgg.). Il volume della Del Vecchio Veneziani è utile per seguire alcune vicende di S. attraverso la biografia dell’amico (e, per un confronto tra S. e De Meis, v. pp.320 sg.). Due pagine dell’opera di De Meis Dopo la laurea (2 voll., Bologna 1868-69; vol. I, pp. 289 sg.) sono dedicate a un elogio di S.; del De Meis si veda anche il discorso tenuto a Bologna per l’inaugurazione dell’anno accademico 1886-87, Darwin e la scienza moderna (Bologna 1886, pp. 35), in cui l’a. aderisce alla nota tesi spaventiana secondo la quale l’idealismo hegeliano è la “profezia”, cioè l’ “organismo” e la “correzione” anticipata dalla scienza moderna (v. pp. 32 sg.). Cfr. anche nn. 161, 162. 154. L. FERRI, Essaz sur l’histoire de la philosophie en Italie au dix-neuvième siècle, 2 voll, Parigi 1869, pp. IX- 496, 359. S. ha ragione come filosofo, quando cerca di trovare nell’ultimo Gioberti un punto d’incontro con la filosofia 2492 tedesca: questo punto d’incontro, di fatto, c'è (F. ne tiene conto: la discussione dell’ultimo Gioberti fa da introduzione all'esposizione dell’idealisimo italiano; il libro quinto, dedicato ai filosofi idealisti, si intitola: Derrière philosophie de Gioberti). Ma ha torto come storico, perché, come Hegel, procede del tutto apriori; la storia è, per lui, una generazione o genealogia di sistemi; S. predilige le ipotesi e ignora i fatti, l’osservazione dei fatti: di qui la debolezza della teoria della circolazione e della ricostruzione storica proposta nelle prime lezioni napoletane. Nella Filosofia di Gioberti [69] S. non discute le dottrine del filosofo tenendo conto del loro sviluppo storico; le diverse fasi del pensiero giobertiano sono per lui compresenti, e S. ha buon gioco nel moltiplicare le contraddizioni del sistema. A S. sono dedicate in particolare le pp. 193-206 del secondo volume (capitolo terzo del libro quinto). 155. P. SICILIANI, Su/ rinnovamento della filosofia positiva in Italia, Firenze 1871, pp. XVII-452. Choi. 156.A. TAGLIAFERRI, I/ materialismo plebeo e il materialismo aristocratico (1872); in A. T., Saggi di critica filosofica e religiosa, vol. I, Firenze 1882, pp. 73-100. L’articolo è datato: agosto 1872; ma non ho rintracciato indicazioni relative alla prima pubblicazione. È un’analisi della polemica sulle psicopatie [83]. Tra l’idealismo di S., il “semi-materialismo” di Tommasi e il “puro materialismo” di De Crecchio, le differenze sono solo accidentali (quello di De Crecchio è, semmai, un materialismo “plebeo” o “schietto”; il materialismo di S. è “aristocratico” © 2493 “ipocrita”). Gli autori della polemica sono concordi nel riconoscere che l’anima senza il corpo non è, e riducono l’uomo alla sua pura “esistenza fenomenica”: tanto basta a qualificarli. S. critica, e con validi argomenti, il materialismo volgare; ma il suo idealismo non gli fornisce un principio capace di scongiurarne le conseguenze morali, religiose, e sociali (l’a. accenna anche ai “comunisti” di Parigi, che hanno senz'altro ragione, se si nega l’al di là). L'hegelismo ha una parte vera e buona [cfr. n. 152], ma è viziato alla base dalla identificazione di Dio e mondo. Per avvalorare il rilievo della insufficienza della morale idealistica, T. esamina, nelle ultime pagine, la recensione di S. a La vita di G. Bruno scritta da D. Berti [82]. E conclude: “Nel vostro aristocratico materialismo, non vi lasciate vincere di lealtà e sincerità da’ materialisti plebei, che voi combattete, ma che pur sono i vostri fratelli carnali”. Dei Saggi di T. v. la recensione di B. Labanca in “La filosofia delle scuole italiane”, XIV (1883), vol. XXII, pp. 302-314. 157. F. ACRI, Critica di alcune critiche di Spaventa, Fiorentino, Imbriani su i nostri filosofi moderni. Lettera... al prof. Fiorentino, Bologna 1875, pp. 153. Cfr. n. 158. 158. F. FIORENTINO, La filosofia contemporanea in Italia. Risposta... al professore F. Acri, Napoli 1876, pp. XVI-474, Nel volume è ristampato, alle pp. 1-89, il testo italiano di uno scritto di F. del 1874: Considerazioni sul movimento della filosofia in Italia dopo l’ultima rivoluzione del 7860, 2494 già pubblicato in tedesco nel secondo volume del periodico Italia edito da K. Hillebrand (un estratto dell’articolo, che porta la data 19 settembre 1874, e che era probabilmente posseduto dallo S., è conservato presso la Biblioteca civica A. Mai di Bergamo: F. F., Die philosophische Bewegung Italiens seit 1860, Separatabdruck aus K. Hillebrands Italia, Bd. II, Lipsia, s. d., pp. 56). Alla Philosophische Bewegung Italiens replicò F. Acri con una Critica di alcune critiche... [v. oltre; e cfr. n. 157]; a cui F. fa seguire ora, alle pp. 91- 464 de La filosofia contemporanea in Italia, una Risposta al prof. F. Acri. La polemica ebbe ancora un seguito con la pubblicazione dell’opuscolo di F. Acri I critici della critica... [v. oltre; e cfr. n. 159]; nel 1911, Acri ristamperà tutti i suoi interventi nella vicenda, in una raccolta intitolata Dialettica turbata [186]. Nelle Considerazioni sul movimento della filosofia in Italia pubblicate anche in F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica, Napoli 1876, pp. 1-75), l'a. ricorda che la ricostruzione di tutta la storia della filosofia italiana, dal Rinascimento a oggi, è opera di B. S., il cui lavoro “sta a capo di tutto quel movimento storico e critico, che dura tuttavia, e che è il carattere precipuo della nostra filosofia presente” (p. 12). Parla del gruppo dei primi hegeliani, e riassume i risultati dei lavori storici di S., soffermandosi sugli studi bruniani, sulla Filosofia di Kant, del 1860 (“il miglior modello di critica filosofica, che vanti l’Italia contemporane”, p. 23), e sull’interpretazione di Galluppi, Rosmini e Gioberti; la critica di S. a Gioberti è la più ampia e la “più profonda” tra quelle elaborate dal maestro (p. 29). S. non è un ripetitore di Hegel, ma ne ha compreso lo spirito;l’a.accenna all’originalità delle Prime categorie (p. 31), alla valutazione positiva della scuola di Herbart, per la psicologia (p. 32), e al riconoscimento della “ragionevole 2495 esigenza” del positivismo “per lo studio dei fatti storici” (ivi). S., ribadisce Fiorentino, non è un hegeliano ortodosso, e crede in una “nuova” metafisica, i cui caratteri sono delineati nella lettera del 1868 Paolottismo, positivismo, razionalismo. Alle pp. 33 sgg., F. tratta di Vera (e dei suoi rapporti con S.), di Mariano, di Franchi, di Mamiani (e del “mamianista” L. Ferri; l'a. coglie l’occasione per ribattere le obbiezioni a S. contenute nell’ Essai del 1869 [cfr. n. 154]), del Fornari, ecc. Il giudizio decisamente negativo espresso, nelle Considerazioni, sul Fornari (già attaccato da V. Imbriani per la sua “estetica”), e, più ancora, l'adesione incondizionata alle tesi storiografiche di S., provocarono la prima reazione di F. Acri. Nella Critica di alcune critiche (il libro è stato recensito favorevolmente da T. Mamiani in “La filosofia delle scuole italiane”, VII [1876], vol. XIII, pp. 138-142; v. la ristampa della recensione in Dialettica turbata cfr. n. 186], pp. 127-132), Acri sostiene che il panorama delineato da Fiorentino è altrettanto sbagliato quanto lo è la ricostruzione spaventiana della filosofia moderna: l’interpretazione di Galluppi (pp. 9-39), l'interpretazione di Rosmini (pp. 40-68) e quella di Gioberti (pp. 68-113). Acri cerca di mostrare l'infondatezza delle conclusioni di S., contrapponendo ad affermazione negazione e a negazione affermazione (come dice lo stesso a.). Va segnalato anche, in queste pagine, il tentativo dell’Acri di provare che la “lettura” spaventiana di Spinoza discende direttamente dalle pagine della Geschichte der neuern Philosophie di K. Fischer (sull'argomento Acri ritornerà in uno scritto del 1877 edito a Firenze: Una nuova esposizione del sistema di Spinoza, ristampato nel 1911 [cfr. n. 186]; vedine la recensione in “La filosofia delle scuole italiane”, VIII, 1877, vol. XVI, pp. 255-258). Alle pp. 135 sgg. della Critica, Acri si occupa 2496 dello scritto di Imbriani su V. Fornari estetico, apparso nel “Giornale napoletano” del 1872. Nella Risposta di Fiorentino al prof. Acri (La filosofia contemporanea..., pp. 91 sgg.) sono ribattuteuna per una le obbiezioni di Acri a S. (cfr. in particolare pp. 175-329). S. non intervenne direttamente in questa polemica contro Acri; cfr., nella Filosofia contemporanea, una sua lettera a Fiorentino del 10 marzo 1876 (pp. IX-XV; a p. XVI, una lettera allo stesso di V. Imbriani). Nello stesso volume, pp. 467-471, è ristampato tuttavia l’articolo scritto da S. contro Fornari e pubblicato nel 1876 dal “Fanfulla” di Roma [87]. Dell’opuscolo di Acri in risposta alla risposta di Fiorentino [cfr. n. 159]va detto che l’a. racconta, nella prima parte, un sogno, in cui S., Fiorentino e Imbriani compaiono in veste di filosofi che bisticciano (il caposcuola rampogna i discepoli per l’imprudenza dei loro attacchi); nella seconda parte l'argomento è continuato sotto forma di dialogo tra l’a. e un amico. La polemica tra gli hegeliani e F. Acri è ricordata da diversi autori (v. sopra, introd., pp. 871 sg.); ma v. le pagine di Croce ne La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 [cfr. n. 185] e, soprattutto, il volume di L. Russo su F. De Sanctis (nell’ed. cit. al n. 210, pp. 249 sgg.). 159. F. ACRI, I critici della critica di alcune critiche, cioè i professori Spaventa, Fiorentino e Imbriani apparsi in sogno al professore Acri, Bologna 1876, pp. 44. Cfr. n. 158. 160. P. SICILIANI, La critica nella filosofia zoologica 2497 del XIX secolo. Dialoghi, Napoli 1876, pp. XXX1I-555. Christi. dl 161. R. DE CESARE, Bertrando Spaventa, in “Fanfulla della domenica” [Roma], V (1883), n. 9, 4 marzo; ristampato da G. Gentile in “Giornale critico della filosofia italiana”, VII (1926), pp. 378-382, con il titolo: Una notizia biografica di B. Spaventa. Necrologio del filosofo. De Cesare afferma, tra l’altro, che B. collaborò con articoli al giornale di Silvio, il “Nazionale”. Nel ristampare il breve profilo biografico di S., Gentile segnala l’importanza di quella indicazione, ma anche alcune inesattezze dell’a. (p. 382). Qualche anno dopo, Gentile renderà nota la fonte dell’articolo (e delle inesattezze): il testo di alcuni appunti di De Meis, consegnati a De Cesare per la pubblicazione del necrologio (A. C. De Meis, Ricordi di B. Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXI [1940], pp. 279-281). 162. A. C. DE MEIS, Bertrando Spaventa, in “Gazzettadell'Emilia”,XXIX, 23 febbraio 1883. Il testo di questo necrologio è riprodotto a p. XVII n. I della bibliografia degli scritti di De Meis raccolta nel volume di A. Del Vecchio Veneziani [cfr. n. 153]. 163. F. FIORENTINO, Commemorazione di B. Spaventa, letta nell'aula magna dell’Università di Napoli il 22 aprile 1883, in “Rendiconto delle tornate e dei lavori dell’Accademia di scienze morali e politiche” di Napoli, XXII (1883, aprile), pp. 35-59. 2498 È il primo ampio saggio biografico su S.; citato come fonte dal Gentile nel suo Discorso del 1900 [cfr. n. 96]. F. ricorda, oltre alle vicende del filosofo, le sue opere principali, delineando in breve anche la tesi dello scritto, ancora inedito, Esperienza e metafisica [94]. Tratto fondamentale del filosofo, l’ “ingegno critico”, e l'indipendenza del pensiero; doti che ben corrispondono alla fermezza del carattere, alla severità, all’austerità e alla franchezza, talvolta “ruvida”, dell’uomo. La commemorazione è pubblicata anche nel “Giornale napoletano di filosofia e lettere”, febbraio-marzo 1883, pp. 473-499, negli “Atti” dell’Accademia di Napoli, XVIII (1884; con una bibliografia e indicazioni su lavori inediti di S.), nelle Onoranze funebri a Bertrando Spaventa [164], pp. 37-63. Vedila ora in Fiorentino, Ritratti storici e saggi critici, Firenze 1935, PP. 299-319. 164. Onoranze funebri a Bertrando Spaventa, Napoli 1883, pp. 63. Contiene: una premessa di D. Jaja (pp. 3-5), il testo dei discorsi pronunciati da A. Vera (pp. 9-10), da E. Pessina (pp. 11-17), da R. Bonghi (pp. 18-19), da L. Miraglia (p. 20), da D. Jaja (p. 21), da G. Abignente (pp. 22-23), da R. Cotugno (pp. 24-25), da O. Testa (p. 26). A p. 27, il frammento di un discorso di F. D’Ovidio; alle pp. 37-63, la ristampa della commemorazione di F. Fiorentino [163]. 165. K. WERNER, Die ttalienische Philosophie des neunzehbnten fabrbunderts, 5 voll., Vienna 1884-1886, pp. XV-472, XV-426, XIV-424, IX-281, XI-427. 2499 La seconda parte (Die pantbeistischhe Transformation des Ontologismus im italienischen Hegelianismus, pp. 232-333) del terzo volume (Die kritische Zersetzunr, und speculative Umbildung des Ontologismus) è dedicata agli hegeliani. L’a., ricorda le tesi delle prime lezioni napoletane di S.,eillustra i caratteri che distinguono le due principali correnti dell’hegelismo, rappresentate da Vera e S. (Vera ortodosso; S. media Hegel con la tradizione idealistica italiana, e con le esigenze del realismo contemporaneo, antiidealistico). A_S. sono dedicate in particolare le pp. 264-287; per esporne la filosofia, W. riassume gli Studi sull’etica hegeliana [80]. 166. F. MASCI, Relazione per la proposta di un monumento a Bertrando Spaventa, s. 1., s. d. [Napoli 1885 21,pps12. Ribadisce un giudizio sul quale concordano gli scolari di S.: il filosofo napoletano fu soprattutto un ricercatore, uno spirito critico, che non trasmise dogmi ai suoi discepoli, ma volle e seppe sviluppare in loro l’attitudine alla ricerca. S. ebbe il merito di far conoscere all’Italia la filosofia di Kant, e l’idealismo assoluto; agli occhi dell’a., quest'ultimo appare come un semplice momento, certo necessario, ma ormai superato dal “ritorno” a Kant e della “vigorosa ripresa dell’empirismo” (v. in particolare pp. 7 sgg.). Una recensione dello scritto di M. si legge nella “Filosofia delle scuole italiane”, XVI (1885), vol. XXXI, pp. 303-305. 167. M. KERBAKER, Per l'inaugurazione dei monumenti a L. Settembrini e B. Spaventa, Napoli 1886, pp. 24. Nel discorso di K., Settembrini e S. sono riavvicinati e 2500 elogiati: a) per l’ “indipendenza” del loro pensiero (pp. 5 sgg.; in S. “la libera attività del pensiero era più inquisitiva che ermeneutica”; l’a. sottolinea il temperamento socratico, la capacità critica del filosofo; il miglior frutto di questa virtù è rappresentato dalle lezioni sulla filosofia italiana: “comprese pel primo lo Spaventa l’importanza del problema storico, quello cioè di scoprire le vere e genuine tradizioni filosofiche del genio italiano e quindi la sua propria attitudine e vocazione scientifica”, p. 12); b), per “il senno moderato e moderatore, il senso della giusta misura nel giudicare i fatti del mondo reale e trarne le norme regolatrici della civil convivenza”, pp. 15 sg. (cfr. pp. 17 sg.: S. “non credeva che il riscatto morale del popolo italiano fosse compiuto pel sol fatto della sua emancipazione civile e politica. Scorgeva invece e predicava la necessità che si rifacessero faticosamente i materiali dell’edificio, si sostituisse cioè a poco a poco,nellacoscienzapubblica,ilconcetto dello stato organico, operaio, intraprendente a quello dello stato meccanico, stazionario, pacifico”). 168. V. LAUREANI, Giordano Bruno e Bertrando Spaventa, Lanciano 1888, pp. 14. Sembra promettere, all’inizio, un discorso sulle interpretazioni spaventiane di Bruno; ma si esaurisce in un generico profilo del pensiero di S. 169. L. FERRI, Ur Zibro postumo di Bertrando Spaventa. La dottrina della cognizione nell’Heghelianismo, in “Rivista italiana di filosofia”, anno IV, vol. I (1889), marzo-aprile, pp. 129-158; Il problema della coscienza divina in un libro postumo di Bertrando Spaventa, in “Rivista italiana di filosofia”, anno V, vol. I (1890), 2501 maggio-giugno, pp. 257-279. Due saggi su Esperienza e metafisica [94]. Nel primo, F. dichiara di accogliere la critica spaventiana del realismo ingenuo, ma di dover rigettare la concezione idealistica della “natura del vero, ossia della relazione del pensiero con l'essere” (p. 135). S. difende contro i kantiani il concetto dell’ “assoluto metodologico inseparabile dall'andamento del pensiero in quanto esso è guidato... [dalla]... presunta e dimostrabile unità” di “assoluto naturale, dialettico e religioso” (p.. 138); respinge l’idea  spenceriana dell’inconoscibile, il concetto di “posizione assoluta” di Herbart, e la soluzione darwinistica, che poggia “sopra fatti esteriori e dati empirici” (p. 139). Crede di aver dimostrato che l’uomo è “capace di pareggiare col pensiero l'essere”, che è capace di “conseguire il pensiero assoluto, l'assoluto sapere” (p. 141). Ma il timore del dualismo spinge S. “a diminuire da una parte l’ingerenza dell'esterno, e accrescere talmente quella dell'interno nella funzione conoscitiva, che alla fine la seconda rimane sola” (p. 145; e cfr. tutta la discussione di pp. 151 sgg., dove si denuncia l’indebita identificazione idealistica di processi della coscienza e processi della conoscenza, che conduce all'affermazione della presenza dell'essere infinito nell'uomo: F. pensa che si debba mantenere un concetto “ben circoscritto” dell’ “immanenza divina”, per salvare sia la “personalità” divina, sia quella umana, pp. 156 sg.). Per F. si deve continuare a riconoscere la presenza di dati irriducibili all’attività psichica; la relatività della conoscenzanonva intesa semplicemente in relazione alla sua estensione, giacché si fonda sulla “materia” stessa del conoscere (p. 147). Nel secondo saggio, riprendendo il tema, già affrontato 2502 nella prima parte, del rapporto tra pensiero divino (“inconscio”, secondo S.) e pensiero umano (nel quale soltanto si realizzerebbe il sapere come coscienza), F. difende contro S. le ragioni del teismo. 170. S. SPAVENTA, Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti pubblicati da B. Croce, Napoli 1898, pp. IX- 314; Bari 19232, pp. XII-373. Gfr: n.125, 171. G. GENTILE, Della vita e degli scritti di Bertrando Spaventa, in B. S., Scritti filosofici, raccolti e pubblicati... da G. Gentile, Napoli 1900, pp. XXI-CLII. Cfr. n. 96. 172. D. JAJA, Prefazione a B. S., Scritti filosofici, raccolti e pubblicati... da G. Gentile, Napoli 1900, pp. VILXVII. Cfr. n. 96. 173. B. VARISCO, Razionalismo e empirismo, in “Rivista di filosofia, pedagogia e scienze affini”, III (1902), vol. VI, n. 3, pp. 298-315. L’a. si propone di “esporre e di criticare i concetti fondamentali del razionalismo kantiano e dell’hegeliano; e di dimostrare la possibilità d’un empirismo, soddisfacente alle esigenze, che queste due dottrine hanno avuto il merito di mettere in luce”. Nella sua ricerca, V. tiene presenti i saggi spaventiani raccolti negli Scritti filosofici [96]. L’a. 2503 riconosce a S. il merito di aver sostenuto le ragioni del “meccanismo”, di averne ammessa la necessità per la conoscenza dei fenomeni psichici. Ma al di là di alcuni parziali riconoscimenti, va detto che è fallita la “correzione” di Kant, tentata da Hegel e da S. L'esigenza di salvare l’oggettività del conoscere non può ritenersi soddisfatta attraverso la “prova” dell'identità di essere e pensiero, escogitata da S. nelle Prizze categorie. E la radice della difficoltà va ritrovata, in fondo, nello stesso Kant, che ha considerato la sensazione come un fatto soltanto soggettivo, e non come un dato che si “impone” a noi. All’articolo di V. replica prontamente Gentile [cfr. n. 174], rivendicando a sé il diritto di rispondere in nome di S., e ribadendo, tra l’altro, la necessità di riprendere la tradizione rappresentata dal filosofo napoletano. La risposta alle difficoltà di V. è già contenuta nel saggio sulle Prize categorie. Il critico fraintende S.(eHegel), perché confonde fenomenologia e logica, confonde una questione di ordine gnoseologico con una questione di ordine logico © metafisico. Un argomento, su cui Gentile insiste per avvalorare questa sua osservazione, consiste nel rilievo della impossibilità di richiamarsi al principio di contraddizione, nella discussione del rapporto essere-nulla: impossibilità ben nota, oltre che allo S., allo stesso Trendelenburg, ma non intesa da Varisco. Alla risposta di Gentile, V. replica con lo scritto: Per /a critica, sulla stessa rivista, nel fascicolo di ottobre del medesimo anno (pp. 377-399). Gentile chiude la discussione con: Polemica hegeliana, Napoli 1902, pp. 22. I due scritti di Gentile vedili anche ristampati in Saggi critici, serie prima, Napoli 1921, pp. 45-67, 69-87. 174. G. GENTILE, Filosofia e empirismo, in “Rivista di 2504 filosofia, pedagogia e scienze affini”, III (1902), vol. VI, nn. 5-6, pp. 588-604. Cfr. n. 173. 174 bis. N. Lo PIANO, L’begelismo a Napoli, Potenza 1903, pp. 72. Nel saggio sono indicate le ragioni — politiche e religiose, oltre che filosofiche — della fioritura dell’hegelismo a Napoli, e quelle del suo arresto o della sua “mancata diffusione”. Il secondo tema è trattato — tra l’altro — attraverso il ricorso a note argomentazioni (cfr. p. 68: “Alla mente italiana, dotata da natura di forme troppo originali per soffrire qualunque maniera d’imitazione; al pensiero italiano, naturalmente bisognoso di realtà e di vita, mal si convengono le astrazioni, spesse volte, troppo vuote dei Tedeschi”); ma proprio questo taglio del discorso consente all’a. di lodare in S. la figura del mediatore (v. il paragrafo XV, pp. 69-71, Ragioni del maggior credito e fama dello Spaventa rispetto agli altri begeliani; e cfr. p. 69: “Ha seguito Hegel non da noioso ripetitore, né da fedele e servile interprete, ma se ne è assimilato lo spirito più che le formule e le parole. È l’anello di congiunzione tra l’idealismo di Gioberti e quello di Hegel; è un moderatore o meglio il termine medio tra la filosofia esclusivamente nazionale e l’hegelismo puro...”). Nei paragrafi decimo e undicesimo (pp. 45-58) l’a, riassume Ia storia della filosofia italiana elaborata da S., la sua interpretazione delle prime categorie della logica di Hegel, e le tesi di Esperienza e metafisica; in alcuni punti (v. ad es. p. 55, per il parallelo S.-Marx) il saggio sembra riflettere — ma senza espliciti riferimenti — qualche indicazione contenuta nel discorso premesso da Gentile all’edizione degli Scritti 2505 filosofici di S. [96]. 175. G. GENTILE, Prefazione a B. S., Principi di etica, Napoli 1904. Cfr. n. 97. 176. N. SCHIAVONI, Silvio e Bertrando Spaventa, lettera all'avv. Michele Crisafulli (13 dicembre 1903); in Onoranze al prof. Vincenzo Lilla, Messina 1904, pp. 311- 314. È un “ricordo” dei fratelli S.; ma riguarda soprattutto Silvio. 177. G. GENTILE, Prefazione a B. S., Da Socrate a Hegel, Bari 1905. Cfr. n. 98. 178. R. MARIANO, Uorzini e idee (vol. VIII degli Scritti vari), Firenze 1905, pp. 488. Cfr. n. 149. 179. F. TOCCO, Fra biografie e quadri storici, in “Il Marzocco” [Firenze], 25 giugno 1905. Cfr. n. 149. 180. B. CROCE, Giovanni Bovio e la poesia della filosofia, parte prima, in “La Critica”, V (1907), pp. 335- 2506 361. Contiene alcune pagine su Vito Fornari e B. S. (sullo S. v. in partico lare pp. 343-348), ristampate più tardi in B. C., La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, qui le citazioni sono tratte dalla seconda edizione (1921) del primo volume (lo scritto: V. Fornari-B. Spaventa occupa le pp. 379-391 SU 8. v. pp. 385-391). Fornari viene incontrato da C. in “una visita di congedo, se non proprio di riverenza, alla prosa italiana del buon vecchio tempo, con le sue avvizzite graziette e moine” (p. 379). S. Si schierò contro la tradizione dei “linguai e frasaioli” (p. 385), in forza del suo atteggiamento critico (anche rispetto a Hegel), e della sua attenzione alle nuove forme di pensiero. È un merito che gli va riconosciuto, “quale che sia il giudizio che si porti sulla sua filosofia” (p. 385). A Fornari S. oppone l’ “asciuttezza del discorso, che aborre la divagazione e la chiacchiera” (p. 386), e una eloquenza, che è tuttavia “virilmente semplice”. Croce ricorda il vigore polemico del vecchio hegeliano, precisando che il “suo temperamento lo portava non all’ironia, ma al sarcasmo e alla rappresentazione grottesca” (p. 388). Di questo tratto del carattere di S. costituisce un documento la lettera contro Fornari, del 1876, G/ spaventiani spaventati [87]. 181. G. BARZELLOTTI, Due filosofi italiani, Augusto Conti e Carlo Cantoni, in “Nuova Antologia”, 16 luglio 1908, pp. 177-192; e in G. B., L’opera storica della filosofia, Milano, s.d., pp. 305-334. Nelle ultime pagine dell’articolo, B. muove alcune obbiezioni al “programma” degli hegeliani di Napoli — e, in 2507 particolare, di S. — che provocarono una risposta di Gentile [cfr. n. 182]. 182. G. GENTILE, Per la sincerità della critica e per l'esattezza storica. Risposta al prof. Barzellotti, in “La Critica”, VI (1908), pp. 395-400; e in G. G., Saggi critici, serie seconda, Firenze 1927, pp. 209-216 (con il titolo: False accuse contro lo Spaventa. Risposta...). La risposta di G. all’articolo di B. [cfr. n. 181] è una difesa della tesi della “circolazione” e un richiamo a una più corretta lettura degli scritti di S. Secondo B., S. avrebbe voluto trapiantare in Italia il sistema di Hegel, questo prodotto “nazionale” della Germania, senzatenerconto delle differenze specifiche dei due linguaggi e delle due mentalità, italiana e tedesca; avrebbe mostrato, ancora, di mancare affatto di “senso storico” nella sua interpretazione di Rosmini e di Gioberti, e con la sua affermazione del carattere “solamente europeo” della filosofia moderna. Nella sua risposta, G. mostra che le accuse di B. si fondano su di una interpretazione affrettata de La filosofia italiana; e che, in particolare, l’attribuzione a S. del giudizio: la filosofia è solamente europea, nasce da un errore materiale di lettura. 183. G. GENTILE, prefazione a B. S., La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, Bari 1908; terza edizione, Bari 1926. Cfr. n. 99. 184. R. MARIANO, Dall’idealismo nuovo a quello di Hegel (vol. X degli Scritti vari), Firenze 1908, pp. XXXII- 2508 459. Cfr. n. 149. 185. B. CROCE, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, in “La Critica”, VII (1909), pp. 325-351, 405-423; VII (1910), pp. 211-221, 241-262. Ampio panorama (ristampato in B. C., La letteratura della nuova Italia. Saggi critici; qui si cita la sesta edizione, Bari 1954, vol. IV, pp. 267-355) della cultura universitaria e extrauniversitaria di Napoli nella seconda metà dell'Ottocento; con indicazioni ancora preziose sulla vita delle accademie e delle biblioteche, sulle riviste, sul teatro e sul giornalismo; sulla Società di storia patria, ecc. Il nome di S. vi compare più volte, e subito a p. 271 (S. rappresentò “nel modo più visibile” la “trionfante rivoluzione intellettuale”); qui il filosofo è legato al De Sanctis (e al Tari e al Settembrini) con un giudizio (erano, più che insegnanti, “educatori ed eccitatori di tutte le forze morali”, p. 295) che sarà poi ripreso e variamente accentuato da altri studiosi. Le pp. 271 sgg. offrono un quadro assai particolareggiato delle reazioni all’hegelismo di S. da parte dei giobertiani, dei seguaci di V. Fornari, e di alcuni “ultraprogressisti” in filosofia e politica (più o meno influenzati dal Mazzini). Degli scolari di S. (ma la sua scuola fu tutt'altro che una “chiesa”, p. 282) Si discorre alle pp. 281-286. Oltre alle pagine (con richiami alle testimonianze degli stranieri: di T. Straeter [cfr. n. 146], di M. Monnier, di I. Taine, ecc.) sulla vita dell’università napoletana, e sulla sua decadenzadopoil1883-85 (v. pp. 328 sgg.), sono da vedere in particolare quelle dedicate alle riviste (pp. 306-314), che contengono le indicazioni essenziali sugli scritti polemici di hegeliani e 2509 antihegeliani (polemiche di Fiorentino, Imbriani, S., con V. Fornari, F. Acri, ecc.). 186. F. ACRI, Dialettica turbata, Bologna 1911, pp. VIII-262. Nella prefazione l’a. dichiara i sentimenti (assai delicati, e malinconici) che prova nel ristampare i documenti della disputa del 1875-76. Ripubblica qui: 1) con il titolo La 7754 disputa con il Fiorentino e lo Spaventa e l’Imbriani, pp. 1- 103, la Critica di alcune critiche del 1875 [157]; 2) col titolo Un sogno di B. Spaventa, pp. 104-110, la lettera di S. Gl spaventiani spaventati [87], con commenti in parentesi; 3) col titolo: Sogno di F. Acri, e Un dialogo dopo il sogno, pp. 111-122, 123-127, lo scritto del 1876: I critici della critica... [159]; alle pp. 127-132, la recensione di Mamiani alla Critica del 1875 [158]; alle pp. 133-243, la Nuova interpretazione dello Spinoza [158], seguita, pp. 244-262, da: I/ Fiorentino e lo spirito dello Spinoza celato entro una fiammella. 187. G. GENTILE, prefazione a B. S., La politica dei gesuiti nel secolo XVI e nel XIX. Polemica con la “Civiltà cattolica” (1854-1855), Milano-Roma-Napoli 1911. Cfr. n. 101. 188. G. GENTILE, prefazione a B. S., Logica e metafisica, nuova edizione con l’aggiunta di parti inedite, Bari 1911. Cfr. n. 102. 2510 189. B. CROCE, Noterelle di critica hegeliana. I. Il “primo” o il “cominciamento”, in “La Critica”, X (1912), pp. 370-374. La breve nota (ad essa si può collegare, per un riferimento esplicito a S., la discussione dello studio di A. Moni, La dialettica positiva ossia il concetto del divenire, Teramo 1910, apparsa nella stessa annata della “Critica”, pp. 294-310; i due scritti di C. sono stati poi raccolti nel Saggio sullo Hegel, Bari 1913, pp. 177-184, più volte ristampato) precisa in termini chiari e definitivi la distanza che l’a. volle frapporre fra sé e il vecchio hegeliano (per altri giudizi di C. su S., formulati per lo più incidentalmente in pagine non dedicate al filosofo, v. l’introduzione di questa bibliografia, pp. 880 sgg.). C. non attribuisce dignità di problema alla questione del “primo scientifico” o del “cominciamento”, e rifiuta come vana ogni esercitazione, per ingegnosa che sia, sul tema delle prime categorie della logica di Hegel. Dando credito alla richiesta di una “prova” per il principio della scienza, S. ha finito con l’escogitare una soluzione davvero insostenibile: quella che fa nascere la filosofia da un dato immediato epperò non provato (il “primo” della fenomenologia), e che indica poi nell’ “idea”, assunta come maximum di intelligibilità (il “più che intelligibile”), il risultato ultimo del suo processo; sicché può dirsi che S. si muove sul piano di un duplice empirismo, “un empirismo del fenomeno e un empirismo del soprafenomeno o misticismo”. L’errore sta nel continuare a mantenere — pur dopo aver negato l’esistenza di una verità esterna al pensiero — la distinzione empirica o didascalica della fenomenologia dalla logica, e del non filosofo dal filosofo; distinzione che appare, ancora, indebitamente presupposta, quando S. indica nella “risoluzione” del ZIL1 soggetto la possibilità di un cominciamento necessario per la filosofia. 190. G. DE RUGGIERO, La filosofia contemporanea, Bari 1912, p. 485. Sullo S., v. le pp. 399-411 (nella quinta edizione in due volumi, Bari 1947, pp. 137-147 del secondo volume). Qui il giudizio di De Ruggiero è positivo, in linea con l’interpretazione di Gentile. Nelle Prime categorie S. svolge, attraverso Hegel, tutta la ricchezza del cogito cartesiano; della logica di Hegel conserva “lo scheletro”, sviluppandone il significato “più profondo”, intendendola cioè nel suo “motivo storico”, come preparazione dell’ “assoluto psicologismo” o “assoluto empirismo”. S. mantiene, certo, la partizione del sistema, distingue ancora la fenomenologia dalla logica, i.e. la verità “per noi” dalla verità “in sé”, e Si mostra, in questo senso, “platonico”, al di qua del “nuovo” idealismo. Ma c’è anche lo S.immanentista, lo S. della lettera Paolottismo, positivismo, razionalismo, e dell’introduzione ai Principi di etica, che raggiunge l'identità di pensiero in sé e di pensiero in noi, di conoscenza e scienza, e che afferma la coincidenza dell’e eterna soluzione” con l “eterno problema”: un motto, che è “linsegna della nostra vita speculativa”. Da confrontare anche l’articolo di De Ruggiero: Echi platonici nella filosofia italiana contemporanea (in “La Voce”, IV [1912], n. 51 [19 dicembre]), che accetta la linea di sviluppo: Rosmini- Gioberti-Spaventa. A S. sono dedicate le ultime pagine di G. De Ruggiero, I/ pensiero politico meridionale nei secoli XVII e XIX, Bari 1922, pp. 303. Quello di S. (e di De Meis) è “uno stato liberale secondo ragione”, che differisce dalla concezione 4312 che ne ebbe il “classico” liberalismo europeo, fondato sui diritti e la libertà dell’individuo. Ma Y “astratto razionalismo” di S. e De Meis “venne in buon punto incontro alla prassi politica dei ‘patrioti’ e formò la filosofia della Destra liberale italiana. Una dottrina che deduceva l’autorità e la legge dalla libertà, celando in un nembo la dea generatrice, doveva esser propizia all’azione storica di quelle minoranze che compirono l’unificazione ed a cui solo una finzione razionalistica poteva attribuire un titolo di rappresentanza universale. L’energica affermazione dell'autorità dello stato, dedotta dai principi stessi dell’autocoscienza, corrispondeva alla pratica dell’accentramento e della burocratizzazione; il legalismo e il costituzionalismo come criteri superiori per dirimere tutti i conflitti degli interessi particolari, erano le armi appropriate a un ceto di proprietari, cosiddetti liberali, una volta pervenuti al potere” (p. 301). Sicché “la dottrina filosofica ribadiva un complesso d’interessi conservatori e, in certa misura, reazionari”; la “grandezza storica” (compimento dell’unità) della Destra appare “quasi del tutto estranea a ciò che le ha conferito la qualifica liberale” (ivi). Nel volume della sua Storia della filosofia moderna dedicato a Hegel (Bari 1948), De Ruggiero ricorda S. solo per affermare che la sua opera è affatto inutile in un “riesame storico-critico del sistema hegeliano”. S. conserva “L’intonazione teologica” di Hegel, e non importa che il suoteologismoassuma i toni di un teologismo “laico”. La critica moderna rompe l’involucro del sistema hegeliano, per coglierne e svolgerne l’interna ricchezza; S. si muove nella direzione opposta, “verso l’involuzione del sistema” (pp. 278 sg.). 2513 191. V. FAZIO ALLMAYER, I/ compito della filosofia italiana, in “La Voce”, IV (1912), n. 51 (19 dicembre). L'articolo di F. A. è il primo di una serie di scritti su La filosofia contemporanea in Italia, tema a cui è dedicato questo numero de “La Voce” (gli altri contributi sono di G. Gentile, F. Momigliano, A. Carlini, G. Natoli, L. Salvatorelli, G. Lombardo-Radice, B. Croce, T. Parodi, G. De Ruggiero [cfr. n. 190], G. Saitta). L’impianto dell’articolo — scritto con indubbia decisione e chiarezza — riflette le —linee’essenziali del programma spaventianogentiliano (e dell’ultimo Gioberti), accentuando una tematica (necessità di riassorbire la filosofia della natura e la logica nella fenomenologia dello spirito) che l'a. ha sviluppato per suo conto nell’elaborazione del proprio idealismo. Con S. e Gentile, F. A. legge nell’autentica tradizione italiana “la più forte tendenza verso l’immanenza e la libertà”; “noi siamo avviati alla concezione della logica come storia, sviluppo dello spirito umano concreto, e quindi al rifacimento della Feromzenologia dello spirito in cui, oltrepassato il dispiegamento della coscienza particolare riferentesi all'oggetto naturale, mostrata l'identità di coscienza ed autocoscienza fin nel primo atto dello spirito, si abbia il dispiegamento della coscienza umana come atto concreativo della storia umana, del mondo umano, quindi come storia e logica allo stesso tempo. Così riporteremo ai concreti problemi della vita e della storia quell’idealismo che altrove svapora nel misticismo o si deposita nel naturalismo”. Per questo articolo, l’a. fu chiamato in causa nel corso della polemica Boine-Prezzolini; e intervenne con una breve risposta ne “La Voce”, VI (1914), n. 13 (13 luglio), pp. 30 sg. 2514 Il compito della filosofia italiana apre la raccolta degli studi ristampati nel volume di F. A. Ricerche hegeliane, con prefazione di G. Saitta, Firenze 1959, pp. XVI-325; il saggio del 1912 è qui pubblicato con un titolo diverso, (Spaventa e l’hegelismo) e “con alcune lievi modifiche dove era invecchiato per la contingenza di certe affermazioni”. Nelle Ricerche è ristampato anche, con il titolo Genzile e la riforma della dialettica hegeliana, pp. 20-42, uno studio già apparso nel “Giornale critico della filosofia italiana” del 1947 [cfr. n. 243]. Per S. v. le pp. 36-40: la riforma gentiliana non si trova già in S., il quale “è ancora legato alla partizione della Enciclopedia hegeliana e ciò a cui è arrivato è che non ci è categoria senza pensare (mentalità) oggettivo, e che il pensiero oggettivo è presente al pensiero soggettivo, senza di che questo non è pensiero. Si potrà ancora sostenere perciò che per lui c’è una esigenza realistica [qui l’a. introduce un riferimento agli studi spaventiani di F. Alderisio], la quale invece è superata dal Gentile per cui tutta la realtà si identifica con quella vita del soggetto, in cui il mondo vive, e rivive; e rivivere è vivere” (pp. 39 sg.). 191 bis. RODOLAN, Ieri e oggi. Bertrando e Silvio Spaventa, in “La Nazione” [Firenze], 7 aprile 1912. Sulle ragioni che hanno portato lo S. al sacerdozio, e sulla riconoscenza di Silvio per l’ “olocausto” del fratello. 192. G. GENTILE, La riforma della dialettica hegeliana e B. Spaventa, con appendice (1912), in G. G., La riforma della dialettica hegeliana, Messina 1913, pp. 1-71; ora in G. G., Opere, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, vol. XXVII, pp. 1-65. 2919 Cfr. n. 103. 193. G. GENTILE, La filosofia in Italia dopo il 1850. VI. Gli hegeliani. V. La riforma dello hegelismo (Bertrando Spaventa), in “La Critica”, XI (1913), pp. 365-384, 441-463; XII (1914), pp. 34-56, 133-146. Dei saggi gentiliani sulla filosofia italiana della seconda metà dell’Ottocento, raccolti poi dall’a. sotto il titolo: Le origini della filosofia contemporanea in Italia, viene tenuta presente in questa bibliografia l’ultima e definitiva edizione (nelle Opere complete di G. G. a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, voll. XXXI- XXXIV) costruita attraverso il confronto delle edizioni del 1917 e del 1925 (migliorate nello stile, ma mutilate di molti riferimenti ai testi e delle bibliografie) con il testo apparso ne “La Critica” tra il 1903 e il 1914. Il saggio su S. è ristampato nel vol. XXXIV delle Opere complete, pp. 83- 189; ma sono da vedere anche i volumi precedenti: il XXXI, per alcuni riferimenti ai rapporti tra Mamiani (e il mamianista Ferri) e S., il XXXII, che contiene, nelle pagine sul Tommasi, indicazioni sulla polemica intorno alle psicopatie, e notizie sui rapporti di Angiull i e Siciliani con lo S.; infine, nel vol. XXXIII, sono da vedere il capitolo su F. Fiorentino, le pagine su F. Masci e le pagine che introducono alla storia degli hegeliani di Napoli. Il saggio su S. del 1913-14, scritto quando erano oramai acquisiti (soprattutto con la pubblicazione del Framzzzento sulla dialettica del 1880-81: cfr. n. 103) i documenti fondamentali su cui si basa l’analisi di G., fissa in termini conclusivi l’interpretazione avviata nel Discorso del 1900 [96]. Le pagine su Bertrando Spaventa e la riforma dell’hegelismo sono precedute da due capitoli, intitolati: 2516 Pietro Ceretti e la corruzione dell’hegelismo (con paragrafi dedicati a P. D’Ercole, A. Tari, e alla Florenzi Waddington) e: A. C. De Mess e la filosofia della natura (sono da vedere le pp. 59 sgg., sui rapporti De Meis-S., dove si ragiona come e perché il primo non intese “il motivo segreto e le conseguenze” degli studi spaventiani sulla logica hegeliana); e precedono l’ultimo capitolo delle Origizi, dedicato agli Scolari di Bertrando Spaventa, S. Maturi e D. Jaja, da vedere anch'esso, per il rapporto istituito tra maestro e discepoli: Maturi subisce l’influsso anche di Vera, e dà un peso eguale alle due posizioni, distinte anzi opposte nella interpretazione corrente; Jaja “s’afferra al filo che già aveva porto lo Spaventa per uscire da quel labirinto del congegno della logica hegeliana, determinato dal rapporto delle prime categorie” (p. 206) e lavora all’elaborazione della metafisica della mente (p. 208). L’ultimo paragrafo dello scritto su S.riprendeeconclude il giudizio avanzato nella dedica degli Scritti del 1900 [961: la filosofia di S. accoglie e compone “tutte le esigenze varie ed opposte che s’eran venute agitando nel pensiero italiano nella seconda metà del secolo XIX”, dando ad esse “legittima soddisfazione” (p. 187) e additando la via dell'ulteriore progresso. La ricostruzione del “punto di vista spiritualistico raggiunto dallo Spaventa” (p. 186) è preparata, in primo luogo, da una breve presentazione della figura del filosofo ($$ 1-2, pp. 83-85), lodato come “uomo di parte” orientato “verso la concretezza” storica, e opposto, così, all’ortodosso Vera (sui diversi interessi — per la filosofia della natura e della religione in Vera, per la logica e la teoria della conoscenza in S. — dei due filosofi, e per la presentazione della loro opposizione secondo lo schema: metafisica dell’ente-metafisica della mente, v. pp. 140 sgg.) e ai mistici 237 Tari e Ceretti; in secondo luogo ($$ 3-32, pp. 86-129), da una riesposizione degli studi e scritti spaventiani sul Rinascimento, su Spinoza e sulla filosofia italiana contemporanea: soprattutto della Fy/osofia di Gioberti, qui giudicata il “capolavoro” di S. Nel corso di questa riesposizione, e già a proposito dei primi studi bruniani di S., G. osserva che “questa sua storia della filosofia, che qui si viene studiando, non è che una prima immagine della sua filosofia” (p. 109); richiama cioè un problema affrontato nella prefazione a La filosofia italiana [99] già dato per risolto, in quella stessa prefazione, attraverso la costruzione teorica della identità di filosofia e storia della filosofia. Nelle Origzzi, questa teorizzazione riaffiora in più punti, e soprattutto nelle pp. 147 sgg., dove si parla della “perfetta fusione di trattazione storica e filosofica” che solo può realizzare chi, come S., ha interesse di “intendere tutto il processo, come il processo genetico del risultato” (pp. 148 sg.). Ora, approfondito e conosciuto veramente il “risultato” (e cioè “rivalutata” via via la filosofia di Galluppi, Rosmini, Gioberti), è abbandonato da S. l’astratto appello al sistema di Hegel, del 1850: il problema non era più quello “dei rapporti tra i filosofi del secolo XVI e la posteriore filosofia europea” (i.e. l’enciclopedia di Hegel), bensì “quello dei rapporti degli ultimi tre filosofi italiani... con la filosofia tedesca da Kant a Hegel”. La teoria della “circolazione del pensiero” nasce quando il processo della filosofia moderna appare a S. non più “rettilineo e centrifugo, rispetto a noi”, ma anzi “come un moto circolare, che ritorna al suo punto di partenza” (p. 117). Ora, l'abbandono o la correzione del programma del 1850 era reso possibile — sottolinea G. — dall’atteggiamento indipendente assunto da S. nei confronti dello stesso Hegel; “Spaventa, avendo fatto suo succo e sangue la sostanza del 2518 pensiero hegeliano, non pensava né scriveva col modello innanzi, né si faceva dei paragrafi dell’Erciclopedia la regola del proprio giudizio” (p. 129); e G. si compiace di additare almeno un luogo della Filosofia di Gioberti (1863, pp. 48 sg.) in cui S. mostra di avere, del pensiero, “un concetto conforme bensì alla Ferorzenologia hegeliana, ma non forse alla Enciclopedia, in cui il pensiero nostro, libero, personale, presuppone la logica in sé, nella stessa relazione che la riflessione giobertiana ha con l’intuito come sua base autorevole” (p. 131). Il vero significato della “circolazione” sta allora nella critica o meglio “autocritica” del processo storico del pensiero italiano che in S. si compie: “la vera importanza della critica dello Spaventa sul Galluppi, sul Rosmini e sul Gioberti è di rappresentare il progresso del pensiero italiano dopo Gioberti” (ivi). Con questo riconoscimento — e qui G. si discosta dai suoi precedenti studi, e approfondisce un’obbiezione avanzata nella prefazione a La filosofia italiana [99] — cade tuttavia lo stesso concetto della “circolazione”: “concetto, diciamolo pure, alquanto fantastico, implicando quello di una nazionalità come una sfera chiusa di vita spirituale: che, a sua volta, è concetto non sostenibile né storicamente, néfilosoficamente, fondato su una rappresentazione fantastica della nazione, come qualche cosa di esistente in sé, in conseguenza di certi dati naturali” (p. 132). Certo, lo schema “rigido” della “circolazione” fu reso da S. più flessibile con la “scoperta” del nesso Vico-Kant ($$ 36-38, pp. 134-140), anche se il filosofo non riuscì a individuare la vera origine storica della dottrina vichiana (gli sfuggì l “aspetto incontestabilmente kantiano del Deantiquissima”, p. 136) e della esigenza metafisica che pure ad essa riconobbe. Tuttavia, l’obbiezione di G. all'idea spaventiana del “circolo” resta: e viene giustificata, a) sul piano storico, 2519 attraverso numerosi riferimenti (pp. 133 sg.) che mostrano come la “circolazione” sia stata “continua” (p. 134), e h) sul piano filosofico, in virtù dell’equazione: nazione=spirito=universale (“e se la concretezza dell’universale importa le differenze, queste non cancellano mai quello: e la varietà della storia non è che l’eterna variazione dell'uno e l'eterna unificazione del vario”, p. 133). La “circolazione”, per G., è “continua”, perché coincide col dialettismo del pensiero in atto. Le pagine, già richiamate, che chiariscono il rapporto Vera-S. (pp. 140-143) avviano G. allo intelligenza” dell’hegelismo spaventiano. Unico problema di S. quello della logica o teoria del conoscere, sviluppato nella linea della sinistra hegeliana (pp. 144 sgg.) così come l’intende G., nella linea cioè di una ricerca volta all’ “affermazione dell’essere come mente” (p. 141) contro le concezioni imperniate sulla rappresentazione religiosa del logo (p. 145). Ma il “problema della mente” come problema del conoscere diventa centrale in S. non attraverso una mera “riduzione” della filosofia a gnoseologia; è, infatti, sul piano storico — sul piano di quel reale processo storico che va da Kant a Hegel — che la critica del conoscere si è rivelata a S. nel suo valore: non pura gnoseologia, ma metafisica (p. 148). G. ripercorre allora ($$ 44-50, pp. 149-159) le pagine dello Schizzo di una storia della logica [68] dedicate allo svolgimento del problema della conoscenza in Kant, Fichte, Schelling, Hegel; insistendo per suo conto — ma con l’indubbio conforto dei testi — sull'importanza della lettura spaventiana di Kant (della Critica della ragion pura, non della Critica della ragion pratica né della Critica del giudizio; e, all’interno della prima Critica, dell’Analitica piuttosto che della Dialettica, p. 151), che offrì al vecchio maestro un criterio fondamentale per 2520 orientare la sua ricerca teoretica e la stessa sua interpretazione di Hegel. Il Kant di S., il Kant “inteso a dovere” (i. e. il Kant della “vera sintesi a priori”, “unità del senso e dell’intelletto, in cui consiste l’atto deiconoscere”, p. 152), “rimase per lui sempre la vera pietra di paragone dello stesso hegelismo” (p. 151), e di ogni altro idealismo; il cui problema, come è noto, è presentato, nello Schizzo, secondo questo semplice schema di sviluppo: l’unità (di senso e intelletto, di essere e pensiero) richiesta da Kant, “pensata” da Fichte (ma solo “pensata”, come processo formale) e intuita da Schelling (ma solo intuita) come processo reale, fu “provata” da Hegel. O meglio: Hegel si accinse alla “prova” (a “pensare il pensiero come l’in sé della realtà”, p. 159); S., sottolinea G., non ci appare mai persuaso che Hegel fosse riuscito nell’intento attribuitogli, così come non ci appare mai convinto di essere riuscito a condurre a termine la “prova” richiesta (ivi). G. può procedere ormai ($$ 51-58, pp. 159-171) alla individuazione del “vero” hegelismo di S., il quale accenna in più luoghi — e a volte dà inizio — ad un reale progresso da compiere rispetto a Hegel, spesso restando impigliato in difficoltà delle quali gli rimase per lo più ignota la radice (p. 160). Un primo tipo di difficoltà si rende manifesto già nell’ambito delle riflessioni emergenti nello Schizzo, e sviluppate in Logica e metafisica, intorno al tema del “primo scientifico”. La “prova dell’identità” si scinde in S. (come già in Hegel; e per Hegel v. in particolare il $ 55, pp. 165- 167) in due prove, quella della fenomenologia (la “mente” non è semplice soggettività, ma è processo reale, è mente assoluta) e quella della logica (il processo della mente è logico; il logo non è oggetto d’intuito). La distinzione delle due prove comporta la separazione della logica dalla fenomenologia, e rende necessario l'abbandono del pensiero 2921 5 2% fenomenologico per attingere il pensiero logico, l’ “in sé della natura e dello spirito, destinato a non coincidere mai col “per sé” o col “per noi” (p. 165). S. volle certo affermate l’ “unità originaria” di fenomenologia e logica (pp. 166 sg.), e questo è un merito che gli va riconosciuto; ma la particolare soluzione da lui ora proposta (il principio della scienza — il “primo scientifico”, immediato in quanto primo — è mediato, provato, in quanto si identifica con l’ultimo grado della fenomenologia) appare “illusoria” e accolta solo “per effetto d’una mera abitudine scolastica”(p. 163; si ricordi un’obbiezione simile di Croce, che definisce “didascalica” la distinzione accolta da S.: cfr. n. 189). Il rilievo di G., che individua, senza appesantirne le conseguenze, l'accettazione da parte di S. del sistema hegeliano nella sua architettura fondamentale (implicante perciò l'esclusione della Fezorzenologia come semplice “propedeutica”), sembra confortato da un’osservazione precedente, in cui si parla delle “difficoltà insormontabili che [S.] incontrava sempre nel concetto della natura che non è per lui, come il logo, reale soltanto nel pensiero (ossia, analogamente, nel concetto della natura) ma in se stessa, benché non per se stessa” (p. 146). Su questo punto però, G. si affretta a ricorrere ai testi, in particolare alla lettera Paolottismo [78], per documentare l’avversione del filosofo al teismo e al naturalismo, egualmente travolti “dalla sua tendenza al più schietto e assoluto idealismo spiritualistico e umanistico” (ivi). E a gettare una miglior luce su quelle riflessioni di S. intorno al rapporto di pensiero logico e pensiero fenomenologico, interviene l’analisi degli studi sulle prime categorie della logica hegeliana: lo scritto del 1863-64 [70], preparato dalla critica di Gioberti (p. 169), e, soprattutto, il Frazzzzento inedito del 1880-81 [103], dove l'essere è finalmente colto come “atto del pensare”; con 2322 questa “nuova soluzione lo Spaventa toccava il più alto segno a cui era indirizzata fin da principio la speculazione dell’idealismo trascendentale; e iniziava una radicale riforma dello hegelismo, ricollocando la logica al suo natural posto, al fastigio della fenomenologia, ma nella stessa fenomenologia; scrollando dalle fondamenta la nuova fortezza in cui con Hegel s’era andato a chiudere il vecchio ente — il trascendente — sotto nome di logo, sovrastante alla natura e allospirito” (p. 170). Un altro gruppo di paragrafi ($$ 59-70, pp. 171-185), che prepara la conclusione del saggio, è dedicato da G. agli studi di S. sul positivismo, o sul “nuovo empirismo”: l’ultima fatica del filosofo. G. vuoi giustificare la “affinità sorprendente” dell’idealismo spaventiano con l’empirismo “raccomandato” dai positivisti (p. 171); ci ricorda (pp. 171 sgg.) che lo stesso filosofo nella prefazione ai Principi del 1867 si dichiarò positivista, e volle essere riconosciuto come tale, in forza di una concezione dell’uomo (l’ “uomo è essenzialmente storia”) che ha il suo sviluppo più conseguente negli Studi sull’etica hegeliana, del 1869: dove S. oppone alle anime sensibili — a chi si compiace di separare il dover essere dall’essere, la legge dal fatto, e così via — una concezione “rigorosamente immanentista”, che si presenta con un “aspetto pauroso di cruda storicità, ossia di schietto naturalismo” (p. 174). In che senso si muove la critica di S. al positivismo, se il suo idealismo immanentistico toglie l'opposizione di assoluto e relativo, apriori e aposteriori ecc.; se può apparite, come apparve ai difensori della tradizione, una sorta di “materialismo aristocratico”? (p. 171; cfr. n. 156). “Dove s’era dunque cacciato lo spirito coi suoi imprescrittibili diritti”? (p. 176). Alla domanda, osserva G., si può rispondere solo se si sappiano collocare i concetti filosofici nel contesto del loro ptocesso storico: 2523 materialismo, naturalismo e empirismo sono momenti dell’idealismo “vero”, “storico”, introdotto da Kant come “sviluppo” dell’empirismo di Locke e di Hume (e già, per quanto riguarda S., va rilevato che la sua critica dell’intuito fatta nella Filosofia di Gioberti “è, per indiretto, la celebrazione dell’empirismo lockiano”, pp. 177). L’empirismo avversato da S. è quello che non riconosce la propria origine storica (e quindi la propria giustificazione speculativa) nello sviluppo dell’idealismo cartesiano, come critica dei “residui platonizzanti e scolastici” di quella filosofia (p. 178); è l’empirismo che non riconosce più la propria funzione nella critica dell'esperienza, contro la vecchia metafisica dell'ente (p. 179). S. ha contribuito (soprattutto in Kant e lempirismo [88], e negli scritti postumi Esperienza e metafisica [94] e Introduzione alla critica della psicologia empirica [105]) a svelare l'equivoco (astrazione dal processo storico) per cui si contrapponevano ancora, dai contemporanei, idealismo e positivismo; tenendo fede, per suo conto, a quel “principio della certezza del vero o della storicità dell’eterno, che era stato il primo motivo della filosofia cartesiana e l’idea madre del Saggio di Locke” (pp. 181 sg.). Di qui l’interpretazione spaventiana di Galileo (p. 182), ripresa in Esperienza e metafisica, nel contesto della sua critica dell’ “ontismo: della filosofia che concepisce la realtà come ente o enti (materia o idea)”, p. 183; di qui l’affermazione di un “fenomenismo” assoluto (la realtà è “fenomeno a se stessa, fenomenizzarsi eterno”, p. 184), che accoglie e legittima le esigenze del vero idealismo e del vero positivismo. Il “nuovo fenomenismo” di S., conclude G. M 71-73, pp. 185-189), fu “annunziato”, più che “svolto”, nell'opera pubblicata postuma nel 1888; ma qui il vecchio maestro giunse a rivendicare l’ “essenza spirituale del mondo, meccanizzatasi nell’astratto spiritualismo platonico 2524 e cartesiano” (p. 185). Agli occhi di G., S. raggiunse proprio in queste pagine quel “punto di vista spiritualistico” che l’attualismo era destinato a svolgere, sviluppandone coerentemente il principio. Il “preattualismo” di S. è disegnato con estrema chiarezza e decisione: per il “nuovo” fenomenismo, “gli enti son negati nella loro astrattezza, dove non è dato scorgerne se non l’ombra fissa e fallace: ma riaffermati nella vita concreta che essi vivono in seno alla realtà spirituale, come saldi momenti del pensiero. La storia è la teofania di questa filosofia: ma questa storia non è la dura storia che l’uomo si trova innanzi, già realizzata e diventata una necessità che allo spirito simponga come limite naturale; è invece la storia che l’uomo non trova mai innanzi a sé, come un passato, ma che egli realizza, creandola. Tutto quello che è già, è ente. E l'ente come tale nasce dalla riflessione e dall’analisi della vera realtà, che non è, ma diviene, facendosi da sé” (p. 185). 194. M. MISSIROLI, La monarchia socialista. Estrema destra, Bari 1914, pp. 224. Della Monarchia socialista v. anche la seconda edizione, Bologna 1922, pp. 145. Su S. Si veda specialmente il quinto capitolo (I/ pensiero della Destra, prima edizione, pp. 73-83; seconda edizione, pp. 71-79), che ricorda gli scritti sul problema del rapporto dello stato con la chiesa, quello contro Tommaseo sul tema: Rousseau-Hegel-Gioberti [51], ecc. La tesi è riassunta in modo chiaro nella prefazione alla seconda edizione: “lo stato moderno, inteso come stato etico, non è realizzabile, se non nelle nazioni, che abbiano superato l’idea cattolica mediante la Riforma protestante”. S., e con lui De Meis e Gioberti, nell’alternativa: ritorno al puro cattolicesimo e rinuncia alla rivoluzione, oppure 2525 riforma religiosa, ha scelto la seconda via (pp. 4, 10). Cfr. la recensione di G. Gentile alla prima edizione della Monarchia socialista in “La Critica”, XII (1914), pp. 234 sg. 195. Un giudizio di Bovio su B. Spaventa, in A. CARLINI, La mente di Giovanni Bovio, Bari 1914, pp. 183-184. Ristampa di uno scritto (Augusto Vera) pubblicato nel 1885 sul “Giordano Bruno” di Napoli. S. è elogiato da Bovio, come il filosofo che seppe rendere esplicito il “lato nuovo” di Hegel. Il “giudizio” offre nelle prime righe una nuova presentazione del rapporto Vera-Spaventa: “Spaventa, geometra; Vera, dotto...” (nello stesso volume, p. 185, Si legge il testo di un’epigrafe dettata da Bovio per lo Sl 196. G. GENTILE, Prefazione a B. S., Introduzione alla critica della psicologia empirica, estratto dagli “Annali delle Università toscane “, Pisa 1915. Cfr. n. 105. 197. C. CIPRIANI, La psicologia di B. Spaventa, Bologna 1916, pp. 15. Rapida esposizione e analisi delle vedute di S. intorno alle origini della percezione, ai rapporti tra fisiologia e psicologia, ecc.; il saggio segue il testo della Introduzione alla critica della psicologia empirica, pubblicato dal Gentile nel L915:[1051. 2526 198. V. FAZIO ALLMAYER, I/ problema della nazionalità nella filosofia di B. Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, I (1920), pp. 173-190. Ricostruisce, con numerose citazioni dalle opere di S. e molti riferimenti e raffronti con le dottrine dei suoi contemporanei (Gioberti, in particolare, e Mamiani, Luigi Ferri, ecc.), la genesi e lo sviluppo dell’idea di nazionalità in S.: dalla primitiva negazione (contrapposta alla “boriosa” affermazione dei sostenitori di una tradizione propria, perché esclusiva, del pensiero italiano), al riconoscimento della necessità di una filosofia italiana nella lotta per l’unità nazionale; infine, al pieno superamento del concetto naturalistico di nazione (la nazione come “destino”) nell’idea dello “spirito che si crea in una forma determinata”. Un momento decisivo in questo itinerario di S. è rappresentato dalla elaborazione di un nuovo concetto di universale-concreto, che supera ad un tempo le posizioni di Gioberti e di Hegel; Hegel pensava “che il mondo germanico dovesse assorbire la nazionalità in quanto rappresentante della verità, e non intendeva lo spirito degli altri popoli né [la] personalità autonoma di ciascuno di essi”. Sono “indizi luminosi” di questo processo di superamento la riforma della dialettica hegeliana proposta nel 1863 e nel 1880-81, le “lunghe meditazioni sulla Fenomenologia”, il rifiuto della filosofia della natura, la criticadelrealismo e del positivismo in funzione di un idealismo “che è storia, vivezza di problemi, vera ricerca dell’identità del reale col razionale e del razionale col reale...” (p. 188). L’articolo è ristampato in V.F.A., Il problema morale come problema della costituzione del soggetto e altri saggi, Firenze 1942, pp. 131-154. 2527 199 G. GENTILE, prefazione a B. S., La libertà d'insegnamento. Una polemica di settant'anni fa, Firenze 1920. Cfr. n. 108. 200. A. DEL VECCHIO VENEZIANI, La vita e l’opera di Angelo Camillo De Meis, Bologna 1921, pp. XXIV-3 33. Ct. :455, 201. S. CARAMELLA, Il liberalismo hegeliano del Mezzogiorno. I. Bertrando Spaventa, in “La Rivoluzione liberale”, I (1922), n. 28 (28 settembre), p. 105. Il saggio, completato con due articoli su De Meis e Silvio Spaventa già pubblicati nello stesso periodico nel 1923, è ristampato nel volume: La filosofia dello stato nel Risorgimento, Napoli 1947, pp. 90 (lo scritto su S. occupa le pp. 47-55). Come si conciliano la sovranità dell'idea e l’autonomia dell’individuo? Qual è, cioè, “la libertà propria dello stato liberale?”. Questo il problema di S., problema che investe “la legittimità del liberalismo”. Per Hegel resta incerto se lo stato integra o disindividua il singolo. La richiesta spaventiana di una “mediazione tra il singolo e l’universale, tra la storia e l'assoluto” è studiata attraverso la lettura delle polemiche coi gesuiti [101], della Libertà d'insegnamento [108] e dei Principi di etica (97; e C. attribuisce senz'altro a S. un articolo del “Nazionale” del 5 marzo 1848). S. non riesce a conciliare i due termini, e resta fermo alla 2528 conclusione “che l’individuo trova nello stato valori più alti del suo spirito pratico, e nel suo aderire allo stato riconosce in esso raturaliter il suo più vero sé. Si son fatti molti passi innanzi e chiarite molte relazioni: ma la domanda non ha avuto né avrà pià da Spaventa una risposta diretta. Lo stesso conflitto tra libertà e tradizione, stato di diritto e stato di fatto, viene risolto senza nessun riguardo all’individuo (che invece lo sente più che mai), ma solo in rapporto allo stato per sé preso”. Ma S. è anche il critico del costituzionalismo del 1821 e del ‘48; e quando afferma che la costituzione non è uno schema astratto che sisovrappone alla vita dello stato storico, positivo in quanto storico, indica una via che sarà seguita “con più coerenza” dal fratello Silvio. “L'opposizione del singolo e della collettività, della coscienza e dell’autorità, rimasta impigliata nelle maglie della dialettica in Bertrando Spaventa, troncata imperiosamente a favore del secondo termine dal De Meis, appare nel nostro [= Silvio] meno ardua perché storica...”. 202. G. DE RUGGIERO, I/ pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari 1922, pp. 303. Cfr. n. 190. 203. C. CURCIO, I/ pensiero politico di Bertrando Spaventa, Napoli 1924, pp. 62. È una rapida ricostruzione e, per lo pè, nella stessa intenzione dell’a., una parafrasi delle tesi esposte da S. nei Principi di etica [97], nella Politica dei gesuiti [101], nella Libertà d'insegnamento [108], ecc., a sostegno di un ideale di stato liberale, che il C. ripropone in questa forma “per mostrare... quale sia il pensiero di un liberale autentico... 2529 del cui nome si son fatto scudo molti e molti per dire cose assai diverse, nonché tra loro, da quello che fu lo spirito del filosofo meridionale”. 204. G. GENTILE, Bertrando Spaventa, Firenze, s.d. [1924]; pp:217. Nuova presentazione del Discorso premesso agli Scritti filosofici di S. (cfr. n. 96 = Opere, I, pp. 1-170). G. dichiara nella prefazione di ristampare il saggio del 1900 “con nuove cure e parecchie aggiunte, ma senza mutare una linea a quello che una volta dissi, o sapevo dire” (p. 9 = Opere, I, p. 7). L'aggiunta piè rilevante è costituita da un nuovo capitolo (VII. Contro la nuova corruzione italiana, pp. 161-171 = Opere, I, pp. 139-148), costruito con la riproduzione di una lettera di S. a De Meis del 13 luglio 1880, e di due lettere dello stesso De Meis a S., del 1880-81: tre denunce amare — e, a giudizio di G. (p. 162 = Opere,I, p. 140), parziali — del “positivismo” ormai imperante nella vita politica italiana, dopo l’avvento della Sinistra al potere. Va segnalata inoltre, nell’Appendice (pp. 181-199 = Opere, I, pp. 157-170), la pubblicazione — sotto il titolo Le tribolazioni di B. S. giornalista —di documenti relativi alla collaborazione di S. alla “Rivista contemporanea” (una lettera a De Meis del 23 febbraio 1856, un promemoria di S., una lettera a S. di L. Chiala del 4 aprile 1856, infine la ristampa dell’articolo di S. La Civiltà cattolica e la Rivista contemporanea, apparso sul “Piemonte” del 16 gennaio 1856; su queste “tribolazioni” di S. giornalista vanno confrontate ora le integrazioni e precisazioni di S. Landucci, De Sanctis e Tommaseo. Lettere inedite, “Belfagor”, XVII, 1962, pp. 207 sg., nota); e, sotto il titolo B.S. e l’Accaderzia di filosofia italica, la pubblicazione di due lettere di Mamiani 2530 a S. (3 giugno 1852, 12 ottobre 1854), e di due lettere di S. a Mamiani (13 luglio 1854, 10 ottobre 1854). Alle pp. 201-215, la Bibliografia degli scritti di B. S., accresciuta e corretta. Le “nuove cure” e le aggiunte minori (o le variazioni introdotte nel testo del 1900) sono dovute alla pubblicazione di nuovi documenti (come le Ricerche e documenti desanctisiani [cfr. n. 130] di Croce), e alla scoperta dei nuovi testi spaventiani editi dallo stesso G. tra il 1900 e il 1920 (il Framziento inedito sulla dialettica, l’Introduzione alla critica della psicologia empirica, ecc.). Così, si legge ora che la teoria della “circolazione” del pensiero italiano è “uno dei maggiori titoli scientifici del nostro filosofo” (p. 63, e cfr. p. 102 = Opere, I, pp. 55, 90) e non più, senz'altro, il maggiore (com’era detto nel testo del 1900); appare modificato il giudizio sulle Prize categorie (tentativo di soluzione, rispetto al Framzzzento del 1880-81); e così via. Degna di rilievo è infine la prefazione della monografia (pp. 7-9 = Opere, I, pp. 3-7); per la ripresa dell’accostamento S.-De Sanctis (già sottolineato nella prefazione a Da Socrate a Hegel; cfr. n. 98), che si specifica ora nel senso di una preminenza del primo sul secondo (“lo Spaventa, dalla parte sua, ridusse a concetto filosofico quello che in De Sanctis fu intuito largo, comprensivo, luminoso, ma non sempre coerente e fermo”); perle riserve mantenute a proposito della teoria della “circolazione” (cfr. allora i rilievi nelle Origini della filosofia contemporanea in Italia: n. 193; e, prima ancora, i rilievi della prefazione a La filosofia italiana, n. 99); per il compiacimento, infine, con cui G. può annunciare, dopo venti anni, il “successo” della lezione spaventiana. 2531 205. V. PICCOLI, Storia della filosofia italiana, Torino 1924, pp. VII-338. Su S. cfr. in particolare alcune pagine del ventisettesimo capitolo (La lotta delle tendenze, pp. 271 sgg.). Malgrado alcuni riconoscimenti parziali, è respinta la ricostruzione spaventiana della storia della nostra filosofia, il cui carattere fondamentale va ritrovato, afferma l’a., nell’ “esigenza di un trascendentalismo che è, necessariamente, antihegeliano” (p. 282). Il nome di S. è ricordato nel primo capitolo (La tradizione filosofica nazionale); anche qui si leggono analoghi rilievi, che interessano soltanto come documento della più ampia discussione sul problema della tradizione del pensiero italiano. 206. B. CROCE, Documenti di vita italiana. V. Silvio Spaventa, in “La Critica”, XXIII (1925), pp. 316-318. È la prefazione di C. alle Lettere politiche di S. Spaventa, a cura di G. Castellano [134]. 207. C. LICITRA, La storiografia idealistica. Dal “programma” di B. Spaventa alla scuola di G. Gentile, Roma 1925, pp. 224. Nel primo capitolo (I/ programma di Bertrando Spaventa, pp. 21-31), la. ribadisce che lo schema delle lezioni napoletane di S. è ancora valido come “programma di tutta l’attività storiografica e filosofica del nostro secolo” (p. 26); si tratta tuttavia di uno schema, che nasconde in forma contratta i suoi possibili sviluppi. Si veda allora il terzo capitolo (La filosofia italiana attraverso gli studi di Giovanti Gentile, pp. 595-116), in cui si mostra come Gentile abbia ZII portato a compimento il disegno del maestro, superandone le residue incertezze (e, per l'impostazione teorica del discorso dell’a., cfr. il quinto capitolo, Criteri storiografici dell’idealismo assoluto, pp. 133-143). 208. G. SAITTA, Bertrando Spaventa, in “Il Giornale della cultura italiana” [Bologna], I (1925), fasc. 1, pp. 7-8. Scritto dopo la pubblicazione della monografia gentiliana del 1924 [204], il breve articolo mette in rilievo la solidità e la “serietà” del pensiero di S., e l'attualità delle opere del filosofo meridionale. 209. G. GENTILE, Una notizia biografica di B. Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, VII (1926), pp. 378-382. Cfr. n. 161. 210. L. RUSSO, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1860-1885), Venezia 1928, pp. 399. Lavoro fondamentale per la ricostruzione dell'ambiente, degli schieramenti, delle polemiche, delle varie relazioni — scontri, alleanze— tra le diverse “culture” che si incontrano nello sviluppo della cultura nazionale italiana. Dell’opera viene qui seguita la terza edizione, Firenze 1959, pp. XIV- 415. Sono da vedere le pagine della prefazione alla seconda edizione — qui riprodotte, pp. XI-XIV — dove sono indicati i motivi ispiratori e le conclusioni generali della ricerca, in termini suggestivi e ancora stimolanti (De Sanctis riformatore “di uomini, cioè di indirizzi mentali e spirituali”; con lui la “cultura dell’Italia in esilio”, maturatasi 2533 tra il 1848 e il 1860, trionfa a Napoli; collocazione della cultura napoletana nella geografia culturale d’Italia; contributo di Napoli alla formazione di una “cultura nazionale”; ragioni del successo della cultura vichiana napoletana nel Novecento; ecc.). 2534 Nel primo capitolo (La decadenza dell’Università borbonica e la riforma del De Sanctis), alle pp. 30 sgg., sono rievocate le sommosse studentesche contro la nuova università, che toccarono da vicino lo S. Sul carattere dell’insegnamento e sull’ “antiaccademismo filosofico” di S. si vedano le pp. 90-102 del capitolo terzo (La nuova cultura e gli hegeliani); di seguito, alle pp. 202 sgg., è ripreso il tema dell’antitesi Vera-S. Nel sesto capitolo (Gli scienziati e la reazione alla metafisica) è ricostruita — pp. 181-184 — la polemica sulle psicopatie, tra il Tommasi e S. (accostati, poi, a p. 186: l’ “unità scientifica” promossa da Tommasi “poteva dirsi analoga a quell’altra che lo Spaventa realizzava nel campo della filosofia”). S., De Sanctis, De Meis sono riavvicinati fra loro, pp. 197 sg. (nel capitolo settimo: La cultura extrauniversitaria), in virtù del più avveduto e critico “positivismo” (“essi, che agli ebbri gerarchi del nuovo movimento, parevano già filosofi oltrepassati, ‘metafisici estetici’, ‘idealisti’, forse restavano ancora i più illuminati veggenti e teorizzatori e interpreti della nuova filosofia, maestri che, nella coscienza dei limiti di quella, precorrevano già alla sua correzione e al suo svolgimento”); dopo aver ricordato i difficili rapporti degli hegeliani con il “transfuga dell’idealismo”, P. Villari (pp. 214 sgg.), sono ribadite da R. le ragioni “morali” dell’avversione (condivisa dall’a.; v. pp. 195 sgg., 225 sg.) di S. al “facile” positivismo, alleato ai paolotti (pp. 217 sgg.). Il capitolo ottavo (Conflitti tra il vecchio e il nuovo, pp. 227 sgg.) è in gran parte dedicato alla battaglia degli hegeliani contro V. Fornari, e alle polemiche con F. Acri (per gli interventi di S. v. in particolare pp. 252 sgg.). I capitoli nono (Polerziche politiche, pp. 259 sgg.), decimo (Silvio Spaventa e il liberalismo di Destra, pp. 283 sgg.), undicesimo (L'educazione nazionale e il pensiero dei napoletani, pp. 309 2393 sgg.) e dodicesimo (I/ De Sanctis educatore politico, pp. 339 sgg.) sono dedicati alla ricostruzione delle posizioni assunte dagli esponenti della cultura napoletana sul terreno dei conflitti etico-politici; sono pagine che tendono a concludersi con un elogio di quella “medietas” politica che De Sanctis seppe dimostrare (p. 343 sg.), e il cui senso mancò agli altri hegeliani, fatta eccezione per Silvio S. (“il solo napoletano che possa stare accanto a De Sanctis” per l’ampiezza delle vedute politiche, p. 380). Silvio S. è del resto salvato dall’accusa di statolatria, e lodato (come fece già Croce) per la sua battaglia intesa “a frenare l'eccessiva ingerenza autoritaria dello stato” (p. 287). Sul De Meis, e su B. S., per le opinioni espresse da loro sul tema dell'educazione religiosa e del rapporto dello stato con la chiesa, cade un pesante giudizio di “astrattezza” e un’accusa di “confusione”. S. “dialettizzava le relazioni tra la chiesa e lo stato, come fossero due concetti puri, e si trattava invece di due istituzioni storiche; e la separazione giuridica egli interpretava come separazione dialettica...” (p. 318). S. non vedeva “il pericolo dello stato etico” da lui teorizzato: “intesa la dottrina dello stato etico, come s'intende per lo più, come uno stato che dirige, che insegna, che moralizza, che ordina culti, avremmo uno stato pedantesco e autoritario e, in fatto di religione, avremmo lo stato teologo, lo stato calvinista, o, per rimanere nell’ambito della tradizione italiana, una specie di potere temporale, in laico ammanto” (e mazziniani, democratici e neoriformatori avrebbero ragione di considerare loro maestri lo S. e il De Meis, p. 319). Il “senso etico” nello stato moderno appare meglio salvaguardato dai politici che adottarono la formula cavouriana, intuendo (come intuì Silvio S.) che “la migliore soluzione del conflitto” era la “perpetuazione del conflitto stesso”, garanzia a un tempo della libertà religiosa e della 2536 libertà di pensiero (p. 321). Il nome di S. torna ancora nelle pagine conclusive (Napoli e la cultura nazionale, pp. 383 sgg.), che riassumono i caratteri generali della cultura napoletana, “lontana e comune genitrice della nostra presente cultura nazionale” (p. 390). E vi torna in ogni paragrafo: sia che si tratti di ribadire la “tendenza antiletteraria e antiaccademica” di quellacultura(tendenza condivisa da S. nella sua concezione della filosofia come “consapevolezza”, “riflessione di vita”); sia che si tratti di sottolinearne l'esigenza “cosmopolitica” (ma in senso nuovo, e moderno; la scienza e la filosofia diventano veramente nazionali “per la mediazione di una coscienza europea”) o la “tendenza critica e razionalistica”; sia che si tratti infine di lodare 1’ “antiteocratismo” dei vecchi maestri — fondato su una nuova fede religiosa, immanentistica — o il loro “animus critico” (come “senso storico dei problemi”: la “riforma del sistema hegeliano avviene allora più che per trasmutati sillogismi, per energica espressione della sua sostanza storica”, p. 395). Tra le recensioni, si ricorda qui quella di A. Omodeo, in “La Critica”, XXVI (1928), pp. 355-360 (ristampata in A. O., Difesa dei Risorgimento, Torino 1955, pp. 520-526). Omodeo raccoglie e ripete le obbiezioni allo “stato etico”, che può rovesciarsi in stato autoritario; la moralità è, kantianamente, “forma”, che vive nella coscienza dell’individuo. 211. C. MAZZANTINI, Lo begelismo in Italia, in Hegel nel centenario della sua morte, supplemento speciale della “Rivista di filosofia neoscolastica”, XXIII (1931), pp. 1-52. 2351 Nello sviluppo interno del pensiero di S. è prefigurato l’intero svolgimento dell’hegelismo in Italia; di quel movimento che, nato con un orientamento umanistico- storicistico, sembra destinato a rovesciarsi in un positivismo integrale. Come attestano i più recenti sviluppi del neohegelismo: malgrado le resistenze dei maestri (di Croce, con la sua distinzione di teoria e pratica, e di Gentile, con la distinzione di io empirico e io trascendentale), gli ultimi seguaci della dottrina tendono verso un fenomenismo puro o assoluto positivismo. A S. sono dedicate specialmente le pp. 1925. M. richiama i motivi centrali del suo pensiero (la storia della filosofia italiana — che viene respinta, soprattutto l’interpretazione di Rosmini —, la dottrina svolta nelle Prizzze categorie [70], ecc.), e pone in rilievo la naturale convergenza dell’ “umanismo” di S. col positivismo. S. sperò di poter costruire un “positivismo idealistico assoluto su basi hegeliane”, p. 21; ma ci sono, per l’a., antitesi inconciliabili tra idealismo e positivismo, anche se appaiono facili e suggestive certe concordanze (carattere “mondano” del filosofare, ecc.). 211 bis. D. CANTIMORI, Sulla storia del concetto di Rinascimento, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, serie seconda, I (1932), fasc. 3, pp. 229-268. Su S. vedi in particolare il paragrafo sesto (La circolazione del pensiero italiano e l’importanza del Rinascimento per la filosofia europea), pp. 255-261; e per un raffronto col De Sanctis, il paragrafo successivo, pp. 161 sgg. Scrive l’a. che per S. la filosofia del Rinascimento “non è soltanto | ‘aurora’ della Riforma religiosa, vero sole meridiano della civiltà e della filosofia, ma costituisce di per sé la ‘riforma filosofica. L’unilateralità schematica e sistematica dello 2538 Hegel e del Brucker è superata. La valutazione positiva della Riforma infatti è mantenuta, in quanto il Rinascimento acquista il suo valore dal paragone con essa, edèconsiderato come un altro aspetto storico di quella ‘rivoluzione degli spiriti’, che si manifestò come protesta e come Riforma in altri paesi. Così il concetto di ‘Riforma’ è allargato, ed il suo valore non è più derivato dalla sua significazione per la storia ecclesiastica, ma dalla sua importanza per la storia del pensiero” (p. 258). Anche se permangono qua e là, in S., suggestioni hegeliane (il Rinascimento come “germe indistinto e incosciente”, “torbido e inconsapevole”), il filosofo italiano ha colto, meglio di Hegel, l'intimo nesso di riforma religiosa e rivoluzione filosofica; nella storia della filosofia il pensiero del Rinascimento è “equivalente” — e non “subordinato” — alla Riforma: due aspetti di un'unica “rivoluzione spirituale”. Nello stesso paragrafo, utili indicazioni sui riflessi di questa prospettiva e “scoperta” spaventiana nella teoria della “circolazione”, e in tutta la ricostruzione storica del pensiero italiano elaborata dall’hegeliano di Napoli. 212. E. GUASTALLA, Vincenzo Gioberti nella critica di B. Spaventa, in “Archivio di storia della filosofia italiana”, I (1932), fasc. 4, pp. 349-357. Ricostruisce con accuratezza i termini in cui si esprime la critica di S. alla filosofia di Gioberti. Si tratta della nota interpretazione che, dopo aver denunciato la contraddizione tra il principio o contenuto (lo spirito) e la forma o metodo (l’intuito) della metafisica giobertiana, ritrova, nelle Postume, i germi del superamento idealistico del dualismo di ente e esistente, Dio e mondo. A questa interpretazione vengono mossi dall’autrice due rilievi. In primo luogo, S. 2359 sopravvaluta le opere postume, che sono un complesso di appunti frammentari, di materiali disorganici. In secondo luogo S., chiuso come è in una sua “visione unitaria” e semplificatrice dei problemi, perde di vistatutta la ricchezza e la vitalità di quel dualismo, che è certo presente in Gioberti. “Lo Spaventa non intende ‘il fuori’ dello spirito umano, e gli sfugge quell’elemento che si oppone allo schematico dottrinarismo ed è senso naturale e spontaneo, per cui l’Uno si moltiplica ed ha due lati, l'oscuro e sovrintelligibile ed il chiaro e intelligibile: quello oggetto di fede; questo, di ragione” (p. 354). L’idealismo di Gioberti non ha mai abbandonato del tutto “il suo carattere ontologico-obbiettivo”, il riferimento all’essere immutabile, “principio fondamentale del teismo, base della distinzione sostanziale di Dio e mondo”. Il motivo profondo che si esprime nella doppia formula giobertiana è l'affermazione del valore e della necessità dell'’immanentismo e del trascendentismo, al di là di ogni tentativo di concludere per la sola trascendenza o per la sola immanenza (p. 356). 213. S. CARAMELLA, Urnzversalità e nazionalità nella storia della filosofia italiana, in S. C., Senso comune, teoria e pratica, Bari 1933, pp. 129-174. Il saggio era stato già pubblicato negli “Annali dell’Istituto superiore di Magistero di Messina”, 1930-1932. La teoria della “circolazione” è viziata dalla “concezionedella storia della filosofia come concatenazione dialettica di sistemi fondati sul problema della conoscenza e come derivazione di essi e dei loro problemi l’uno dall’altro”. L’a. si dimostra molto sobrio nel porre in rilievo le forzature e gli squilibri cui il disegno storiografico di S. ha dato luogo, e preoccupato piuttosto di sottolineare la necessità, che da 2540 quella critica risulta, di allargare le maglie dello schema spaventiano, tra l’altro rinsanguando la storiografia filosofica con quella politica e culturale; il che consentirebbe di presentare in forma nuova il problema spaventiano del rapporto di nazionalità e filosofia, e di prospettare una più ampia continuità tra Rinascimento e Risorgimento, individuando i caratteri distintivi della tradizione italiana nella storia del pensiero europeo (umanismo e laicismo, ma non antiteologismo, cioè conciliazione, “nel contrasto”, di filosofia e religione; storicismo, coscienza dei valori storici, piuttosto che scientismo, ecc.). 214. G. GENTILE, Hegel e il pensiero italiano, in “Leonardo”, 1933, n. 2, pp. 185-190; e in Verbandlungen des dritten Hegelkongresses vom: 19. bis 23. April 1933 in Rom, a cura di B. Wigersma, Tùbingen-Haarlem 1934, pp. 9-20. È il discorso inaugurale del terzo congresso hegeliano (Roma, 1933); vedilo anche ristampato in G. G., Merzorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Firenze 1936, pp. 205-220. L’a. vuol chiarire in che senso noi italiani siamo hegeliani, “a modo nostro”. E si appoggia alla ricostruzione storica fatta da S. nelle lezioni napoletane del 1861 (la “prima storia della filosofia italiana”), ne ripete le grandi linee, e loda la scoperta di Vico, e la nuova concezione della dialettica introdotta da S. Interessante la presentazione del parallelo S. — De Sanctis, che offre alcune varianti rispetto a precedenti formulazioni del G. “Entrambi hegeliani, sebbene il De Sanctis, ingegno più geniale e robusto, dopo i primi passi si muovesse poi sempre con maggiore originalità e franchezza; ma entrambi sollevati dallo studio di Hegel al concetto della 2541 vita, che fu il nerbo di tutto il loro pensiero”. 215. Uno scritto inedito di Bertrando Spaventa sul problema della cognizione e in generale dello spirito (1858), a cura di F. ALDERISIO, in “Rendiconti dell’Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche”, serie VI, vol. IX, fasc. 7-10, luglio- ottobre 1933, pp. 964-667. Cfr. nn. 113 e 221. 216. T. BARTOLOMEI, Bertrando Spaventa, in “Acta Pontificiae Academiae Romanae S. Thomae”, I (1934), pp. 94-125. Per S. l’uomo “è l’assoluto, l’unico e vero spirito, miscuglio d’eternità e di tempo, d’istantaneo e di successivo, d’intuito e di discorso. È questo il cavallo di battaglia di tutti i panteisti, ma anche il lato debole del loro sistema” (p. 100). Il lato debole consiste nell’ “accozzaglia di attributi contraddittori” (finito-infinito, atto potenziale-atto puro, ecc.). Gliidealisti moderni propongono, sia pure in forma rinnovata, gli stessi argomenti già in uso presso i neoplatonici, presso i panteisti indiani ecc.; e cadono sotto le stesse obbiezioni e la stessa condanna. Alle pp. 105 segg., si legge una critica di S. storico della filosofia. 217. S. CONTRI, Per una nuova interpretazione della storia dell’hegelianesimo in Italia, in “Sophia”, II (1934), pp. 125-127, 305-319. L’a, ricerca le ragioni, storiche e no, dell’atteggiamento 2542 negativo assunto dal neoidealismo italiano nei confronti del problema della costituzione della scienza, per confortare una sua tesi, qui accennata, che concilia e accorda la scienza con la filosofia (i. e. con la metafisica aristotelico-tomistica). In Hegel il problema si presenta come difficoltà del rapporto fenomenologia-logica; di fronte alla soluzione “arbitraria”, “dogmatica” dell’Hegel della maturità (autofondazione della logica o metafisica), S. (su di lui v. in particolare pp. 311 sgg.) scelse una posizione di “centro”, quella per cui si cerca di dimostrare la derivazione della logica dalla fenomenologia, ovvero la “coordinazione in ordine sistematico di gnoseologia e metafisica”. Ma l'esigenza rimase insoddisfatta (Logica e metafisica è una mera ripetizione della logica di Hegel). Gli epigoni imboccarono la strada della “sinistra”: “soppressione della logica a profittodella gnoseologia” (mentre la “destra”insiste nella presentazione “dommatica” della logica). Se è vero lo schema, l’a. spera di aver indicato “il senso di una nuova linea d’interpretazione della storia delle correnti idealiste in Italia”. 218. G. GENTILE, Bertrando Spaventa nel primo cinquantenario della sua morte, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, serie seconda, III (1934), fasc. 2, pp. 165-182. È il testo di un discorso letto nell'aula magna dell’Università di Torino il 31 gennaio 1934 (vedilo anche in G. G., Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Firenze 1936, pp. 121-149). Il discorso ripropone e chiarisce i “concetti originali” introdotti dallo S. nella filosofia italiana: la teoria della “circolazione del pensiero”, la riforma della dialettica hegeliana e il nuovo concetto 2543 dell'esperienza come “esperienza attiva”, raggiunto attraverso il superamento del positivismo e dell’empirismo e naturalismo posthegeliani. 219. E. GUASTALLA, La fortuna di Bertrando Spaventa nell’idealismo attualistico, in “Archivio di storia della filosofia italiana”, III (1934), fasc. 4, pp. 334-346. Richiama i temi e i motivi che giustificano lo sviluppo della linea: Hegel-Spaventa-Jaja-Gentile. Ma l’autrice vuole soprattutto mostrare la necessità di abbandonare l’idealismo mistico o dogmatico per riguadagnare il senso di una problematicità più ricca e articolata (l’a. sembra rifarsi ad alcune indicazioni di A. Banfi, del quale v. l’articolo Lineamenti della tradizione speculativa italiana, in “Archivio di storia della filosofia italiana”, I [1932], fasc. 2, pp. 97- 114). “La lettura attenta e diretta delle opere dello Hegel ci mette di fronte ad una implicita problematicità del reale, che scompare del tutto nello Hegel dello Spaventa, ma è appunto a quella implicita problematicità dello Hegelchedobbiamo volgere l’occhio attento...” (p. 345). 220. A. PASTORE, Sulla “Parentesi” inedita di Bertrando Spaventa, in “Archivio di storia della filosofia italiana”, III (1934), fasc. 4, pp. 273-290; e in A. P., Scritti di varia filosofia, Milano 1940, pp. 197-218. A proposito della recente pubblicazione della “parentesi” del 1858 [cfr. n. 113]. Le riflessioni spaventiane del ‘58, posteriori alla prima edizione della Protologia, costituiscono il primo documento fondamentale della scoperta del vero Gioberti da parte di S. Ma questa scoperta, secondo P., si deve interpretare nel senso che fu proprio la Protologia ad 2544 “aprire la nuova via ai pensiero di Spaventa, destandolo dal suo anti-giobertismo che era un equivoco e sostanzialmente portandolo a prendere maggiore e migliore notizia di sé”. L’a. rivendica la necessità di guardare al pensiero giobertiano come a un tutto unitario; non ci sono due Gioberti, il vecchio, e quello delle Postuzze, ma uno solo: ed è quello che S. cominciò a scoprire nel 1858, scoprendo se stesso. 221. F. ALDERISIO, L'esigenza realistica nell’idealismo di B. Spaventa, in “Archivio di storia della filosofia italiana”, IV (1935), fasc. 2, pp. 99-132. L’autore riprende e sviluppa alcuni temi, da lui già introdotti nella presentazione della Parentesi del 1858 [cfr. n. 113], e che ora vengono approfonditi attraverso l'esame delle ultime opere di S., soprattutto l’Introduzione alla critica della psicologia empirica [105] e Esperienza e metafisica [94]. Nei suoi ultimi lavori, S. si domanda in che senso il pensiero possa ammettersi come causa delle cose. E la risposta è complessa: ci sono per S. “due fasi dell’essere (le mezze cose, e la vera realtà attinta dall’essere rel pensiero e co/ pensiero)”; e c'è anche “un duplice porre la realtà da parte del pensiero (prima inconsapevole enaturaleepoicosciente: sintesi apriori primitiva e sintesi secondaria)” (p. 125). L’attualismo ha avuto il torto di assolutizzare — peccando così di unilateralità — l’ “esatto e importantissimo senso spirituale e idealistico” della soluzione spaventiana; amputandola della affermazione realistica, del riconoscimento della realtà delle “cose”, che S. non avrebbe mai negato, perché riteneva di non poter sacrificare “la innegabile diversità della realtà (il che di essa) dal pensiero”, da quel pensiero che ne ricerca e afferma il cos'è, e che in tal 2545 modo trae il reale alla sua verità (p. 126). S., secondo Alderisio, sarebbe più vicino a Hegel di quanto non faccia pensare la lettura gentiliana: questa convinzione verrà ribadita dall’a. in un più ampio lavoro del 1940 [232] nel quale è ristampato anche il presente articolo. 222.F. FIORENTINO, Ritratti storici e saggi critici, raccolti da Giovanni Gentile, Firenze 1935, pp. VI-361. Cfr. n. 163. 223. A. BRUERS, Pensatori antichi e moderni, Roma 1936, pp. 308. Contiene (pp. 233-237) la ristampa di uno scritto del 1926, nel quale si contesta la soluzione data da S. al problema della nazionalità della filosofia. Il “genio italiano”, dichiara B., è “sintetico”, ed ha una “tradizione specifica” che si esprime nella “formula” del “trascendentalismo”; nell’affermazione cioè della trascendenza come “legame potenziatore di tutte le dottrine e attività umane”. 224. F. ALDERISIO, Revisioni e orientamenti idealistici, in “Archivio di storia della filosofia italiana”, VI (1937), fasc. 3, pp. 201-224. Sono i primi due capitoli di un lavoro, che l’a. continuò a pubblicare nella stessa rivista (1938, 1939), e che ristampò poi in un volume del 1940: l’Esazze della riforma attualistica dell’idealismo in rapporto a Spaventa e a Hegel [232]. 225. P. CARABELLESE, L’idealismo italiano. Saggio 2546 storico-critico, Napoli 1938, pp. 379; Roma 19462, pp. XII-304. Tesi centrale del libro: l’Italia “ha una sua originalità speculativa”, che si manifesta soprattutto nel nostro “idealismo storico”; si tratta di un idealismo “oggettivo” (affermazione dell’ “immanenza dell’Oggetto vero nei soggetti certi”), che si deve distinguere e opporre all’idealismo soggettivo, così come è lecito distinguere e opporre, storicamente, il Rinascimento alla Riforma e Rosmini a Fichte e a Hegel. Per S. va tenuto presente, allora, il capitolo sesto (Caratteri dell’idealismo storico italiano; nella seconda edizione, pp. 85 sgg.) e, in particolare, il paragrafo 36: L’idealismo italiano nella filosofia europea: inversione e integrazione delle tesi di Spaventa. S. ha voluto dimostrare il carattere europeo della filosofia italiana, e si trattava di fare proprio il contrario, di commisurare la filosofia straniera a quellaitaliana; di affermare la “vitalità” del nostro pensiero nel pensiero filosofico moderno, non la “circolazione” del pensiero italiano in quello tedesco. Annotazioni particolari a p. 12 (contro S.: non è vero che dalla Controriforma in poi non ci sia stata libertà filosofica in Italia), a p. 50 (S. e Gentile hanno costruito una interpretazione sbagliata di Vico: il vero Vico sta nel De antiquissima), a p. 118 (sul rapporto S.-Gentile-Croce: nei primi due è presente almeno l’esigenza dell’oggettività, a Croce sfugge persino il senso del problema), a pp. 125 sgg. (sul rapporto S.-Gentile; per C. tra i due filosofi c'è una linea di sviluppo perfettamente coerente). 226. B. DONATI, L'insegnamento della Filosofia del diritto e l’attività didattica di Bertrando Spaventa alla Università di Modena nel 1859-60, in “Rivista 254/ internazionale di filosofia del diritto”, XVIII (1938), pp. 541-571. L'articolo è, in gran parte, frutto di ricerche di archivio. Sono raccolti qui e illustrati i dati relativi al conferimento, a S., della cattedra di Filosofia del diritto nell’università di Modena, al programma del corso e all’attività didattica del filosofo, al suo trasferimento a Bologna e all’insegnamento “interinale” a Modena, in relazione alla nomina del fratello Silvio. Importante l’analisi del discorso inaugurale del 25 novembre 1859 [110], e il rilievo della sua autonomia rispetto alle altre prolusioni di S.: il discorso di Modena è il tentativo di costruire e di sostituire la “biografia della nazione” a quella delle grandi personalità. 227.5. PELLEGRINI, Nazionalità e universalità della filosofia nel pensiero di B. Spaventa, Firenze 1938, pp. 45. Due modi di intendere lo svolgimento storico della filosofia: Hegel e Vico. “In Hegel, la preoccupazione che nella sua filosofia sistematica si esprime col concetto dello spirito obbiettivo dà luogo alla tipizzazione di gradi o momenti o atteggiamenti dello spirito in singole e diverse nazioni. Nel Vico la sistematicità delle forme acquista una sua concretezza nella vita di ciascun popolo” (p. 44). Nel concetto della “circolazione” del pensiero S. fa rivivere la prospettiva vichiana, che sola offre la possibilità di conciliare  l’universalità della filosofia con la sua “nazionalità”. Ma in S. è presente anche (per motivi polemici, e di “accondiscendenza storica”, p. 45) la visione hegeliana; e i due motivi non giungono a fondersi. “In lui c’è la salda preoccupazione di affermare l’elemento universale come costitutivo della filosofia e, nello stesso tempo, lo sforzo di rendere giustizia alla esigenza storicistica che è nel 2548 concetto, si potrebbe dire, nazionalistico della filosofia. Non si può dire che agli abbia potuto dare la vera risoluzione del problema, la quale avrebbe trasceso i limiti generali entro cui è contenuta tutta la speculazione spaventiana. La vera risoluzione suppone una filosofia dello spirito che faccia consapevolmente centro lo spirito come atto, e che in questo veda il determinarsi delle forme che sono della storia effettiva” (p. 42 sg.). La “realtà” della nazione va cioè, attualisticamente, “dedotta” dal pensiero, che solo può presentarla come “fatto necessario”. Sull’opuscolo v. una nota del “Giornale critico della filosofia italiana”, XX (1939), pp. 103-104, che richiama in breve i termini della discussione del problema dal punto di vista dell’attualismo. 228. E. VIGORITA, Bertrando Spaventa, Napoli 1938, Di22 Cfr. n. 229. 229. E. VIGORITA, Gerovesi, Galluppi, Spaventa, Napoli 1938, pp. 173. A S. sono dedicate le pp. 87-173. Lo scritto vuol soddisfare una duplice esigenza: a) quella di “delineare lo svolgimento e illustrare le conclusioni” — “con maggior chiarezza e ampiezza che non si sia fatto fin qui dagli studiosi del filosofo abruzzese” — delle ricerche che condussero alla tesi della “circolazione”; b) quella di mostrare che, se S. non giunse a dare unità sistematica al suo pensiero, ci sono tuttavia nella sua opera “motivi originali” o “originalmente elaborati” che sono ancora da mettere in luce (p. 134). Quanto al primo punto, l’a. trascrive 2549 diligentemente dalle lezioni sulla filosofia italiana, dagli studi su Bruno e Campanella. Per il secondo punto, riassume accuratamente Logica e metafisica, le Prime categorie, il frammento sulla dialettica del 1880-81, i Principi di etica. Ne vien fuori l’immagine di uno S. che non si discosta molto da quello presentato da Gentile, sia nella valutazione della teoria della “circolazione” (equilibrio di “universalismo” e “nazionalità”, pp. 128 sgg.), sia nel giudizio complessivo sull’hegelismo del filosofo napoletano. S. si mostra indipendente da Hegel almeno in quattro punti: 1) rielaborazione in senso attuali neo della dialettica hegeliana; 2) concetto dell’apriori come “attività immanente allo spirito”, i. e. come “potenza umana”; 3) riconoscimento del valore dell’attività pratica dello spirito nel costituirsi della conoscenza; 4) risoluzione del dualismo di logica e fenomenologia sul piano di un «empirismo assoluto”: l'identità di pensiero edessere non è meramente logica, ma “viene ad identificarsi con lo stesso processo genetico della coscienza” (p. 167). Il testo di un opuscolo di V. (Bertrando Spaventa, Napoli 1938, pp. 29) presenta in forma abbreviata il contenuto dei primi tre paragrafi (pp. 89-133) del saggio su S. pubblicato nel Gerovesi, Galluppi, Spaventa. 230. A. BECCARI, Nazionalità e circolazione della filosofia italiana, in “Atti della Società italiana per il progresso delle scienze”, maggio 1939, pp. 549-554. Cfr. n. 231. 231. F. MONTALTO, Carattere nazionale della filosofia italiana nel pensiero filosofico di B. Spaventa, in 2550 “Atti della Società italiana per il progresso delle scienze”, maggio 1939, pp. 555-558. È il testo di una relazione presentata nella ventisettesima riunione della Società italiana per il progresso delle scienze, Bologna 4-11 settembre 1938. S. avrebbe scoperto che “il genio italico è precursore’; l’a. sviluppa questa tesi riferendosi direttamente alla situazione politica italiana del momento (qualche richiamo a S. anche nel libro di Montalto L’intuizione e la verità di fatto, Roma 1930, specialmente nel terzo capitolo). Nello stesso fascicolo è pubblicata una relazione di A. Beccari (Nazionalità e circolazione della filosofia italiana, pp. 549-554), nella quale si afferma che S. non appare libero da pregiudizi universalistici, e dal “fanatismo per gli oltremontani” (oggi “l’esperienza storica... ci ha abituati a rifiutare simili intimità universali con nazioni con le quali preferiamo non identificarci”). S. ebbe anche il torto di affermare che la religione cattolica ha ostacolato il progresso del sapere. 232. F. ALDERISIO, Esazze della riforma attualistica dell’idealismo in rapporto a Spaventa e a Hegel, Todi s.d. [1940], pp. 163; seconda edizione accresciuta, Napoli s. d. [1959], pp.211. Alle pp. 129-162della prima (ma cfr. 224) edizione — che viene tenuta presente qui — è ristampato il saggio del 1935: L'esigenza realistica... [cfr. n. 221]. L’a. si domanda se S. sia soltanto un precorritore dell’attualismo, oppure se il suo pensiero “possa e debba... essere rivendicato a se stesso”, come “riviviscenza” — non come ripetizione — dell’hegelismo, del quale il filosofo 2551 corregge qualche punto, ma intende tuttavia e fa suo e conserva “il motore dialettico” (p. 7). Quello di S. è “il miglior punto di vista filosofico” guadagnato dal pensiero italiano; ma venne frainteso, oltre che da Gentile e dai gentiliani, da Benedetto Croce, del quale l’a. respinge i giudizi negativi (capitoli primo e secondo). Neppure gli attualisti hanno colto l’esatto senso del rapporto S.-Gentile, e cioè il carattere tutt'altro che lineare e pacifico dello “svolgimento” prospettato in quel rapporto. Solo A. Carlini ne ha tentato una revisione, accentuando il peso della trasformazione del pensiero di S. operata da Gentile, ma in un senso per cui il nesso viene pur sempre riaffermato come passaggio “da attualismo ad attualismo” (p. 18). L’analisi delle pagine dedicate da Gentile all’interpretazione di S. conferma, secondo l’a., che ci fu un “rivolgimento del pensiero del Gentile dopo il 1903” (p. 21), che rimane oscuro, ma che non è, in ogni caso, imputabile a S., proprio perché consiste nella trasformazione dell’originario idealismo realistico, hegeliano e spaventiano, a cui Gentile rimane ancora fedele nel discorso La rinascita dell’idealismo (1903), in un idealismo empirico o soggettivistico di stampo berkeleyano. Lo scritto di A. prosegue con un esame della Interpretazione e critica del Gentile al dialettismo hegeliano delle prime categorie (capitolo terzo, pp. 29 sgg.; qui si osserva che il “pensare”, in S. e in Hegel, ha un significato “cosmico, prespirituale e presoggettivo”, che Gentile volle poi negare), passa allo studio della Interpretazione gentiliana del dialettismo del Fischer (quarto capitolo, pp. 51 sgg.), poi alla discussione della Interpretazione gentiliana del dialettismo di Bertrando Spaventa (capitolo quinto, pp. 64 sgg.). Alle pp. 69 sgg., l’a. osserva che Gentile ha “isolato” le pagine di S. da lui analizzate nella Riforzza della dialettica hegeliana sciogliendole dai testi ai quali sono di fatto ZIIR collegate, da Esperienga e metafisica e dall’Introduzione alla critica della psicologia empirica, due scritti nei quali risulta evidente l’esigenza realistica dell'autore [cfr. nn. 103, 94, 105]. Segue un capitolo sul Frazzzzento del 1880-81 (capitolo sesto, pp. 80 sgg.). L'ultimo capitolo (pp. 102 sgg.) si intitola: Senso e valore della memoria del 1864 su le prime categorie. La “dichiarazione” finale di Spaventa in Esperienzae metafisica (1882). Nella “dichiarazione finale” S. riesce a correggere il carattere soggettivistico della soluzione del 1864, mostrando “una intelligenza acutissima ed una rielaborazione e ripresentazione, insieme personale e fedele, del punto di vista della logica di Hegel” (p. 114). Nell’epilogo (pp. 119 sgg.), A. indica le prospettive che vengono aperte da questa nuova interpretazione di S., che ne afferma il “real-idealismo”, e che lascia prosperare tutta la ricchezza del pensiero del filosofo napoletano e di Hegel: l'abbandono dell’equivoca critica alla tripartizione del sistema hegeliano, e la ripresa o la rielaborazione di tutte le “categorie logiche, naturali, spirituali” in funzione della possibile “fondazione razionale di una dottrina tanto della filosofia che della scienza” (p. 119). Nella seconda edizione sono aggiunti: un “discorso preliminare” (pp. 5-18), nel quale l’a. ripercorre la storia dei suoi studi spaventiani, e una “postilla” all’epilogo (pp. 164- 175), che discute testi crociani. 233. A. C. DE MEIS, Ricordi di B. Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXI (1940), pp. 279-281. Cfr. n. 161. 2553 234. M. GRILLI, The Nazionality of Philosophy andBertrando Spaventa, in “Journal of the History of Ideas”, II, 3, giugno 1941, pp. 339-371. Contro le posteriori distorsioni “ultranazionalistiche” dell'idea di filofia nazionale, l’a. avvia qui un tentativo di chiarificazione, seguendo gli sviluppi del concetto di nazionalità della filosofia nel pensiero italiano del Risorgimento, e, in particolare, negli scritti di S. L'articolo riassume le posizioni dei protagonisti della nota discussione (Mamiani, Gioberti, Rosmini, Vera, Silvio Spaventa [riferendosi allo scritto del 1844, reso noto da Croce], Stanislao Gatti, e, infine, Bertrando S.), dopo averne individuato i motivi ispiratori in Herder, Fichte, Hegel (concetto di Vo/ksgeist e sua necessaria relazione al Weltgeist). Una distinzione preliminare guida l’analisi dell’a.: quella che oppone le vedute dei negatori della nazionalità della filosofia (“the universalists”, Vera) alle ragioni dei nazionalisti di stampo giobertiano, e che da entrambe dissocia “the cosmopolitan view”, affermazione della “traducibilità” delle idee pur nel riconoscimento della varietà della loro applicazione nei diversi paesi. L’a. ripercorre le fasi della formazione del pensiero di S. sull'argomento, soffermandosi sulla prolusione bolognese e, soprattutto, sulle prime lezioni napoletane. Il filosofo, sottolinea G., non fa cadere l’accento sulle differenze delle filosofie nazionali, ma cerca di individuare “la speciale funzione assegnata a ciascuna di esse nel contesto del pensiero europeo” (p. 367): la via di S. è quella del cosmopolitismo. “From the national to the international and back again — in the resolution of this dialectical antithesis — Spaventa, the Hegelian, sees the development of philosophy” (p. 369). Era una prospettiva destinata al 2554 successo, efficace; al di là dei limiti in cui si restringe il programma di Mamiani, al di là dell’ “esagerato” patriottismo di Gioberti e della “sterilità” di Rosmini, S. “dared to propose a clear-cut program of thoroughgoing reorganization for the future of philosophic studies in Italy” (p. 371). E nella linea indicata da questo programma si muoveranno Gentile e Croce, consapevoli degli errori di un vacuo universalismo, ma anche della necessità di partecipare al più largo moto della filosofia mondiale (p. 369). 235. F. L. MUELLER, La pensée contemporaine en Italie et l’influence de Hegel, Ginevra 1941, pp. XVII-345. La prima parte del libro (La tradition hegélienne en Italie, pp. 1-28) è dedicata agli hegeliani dell'Ottocento (S., Vera, De Sanctis, Labriola). La seconda (pp. 83-202) e la terza parte (pp. 203-304), rispettivamente, a Croce e a Gentile; l’ultima (Philosopbie et culture en Italie, pp. 305-340) alle scuole di Croce e Gentile, e alle relazioni del neoidealismo con la vita politica e sociale italiana. Su S. si vedano in particolare i capitoli primo (La philosophie è Naples et le Risorgimento, pp. 3-16), secondo (B. Spaventa interprète delaphilosophieitalienne,pp.17-25) e terzo (Spaventa contre le posttivisme, pp. 26-56) della parte prima; che contengono, nell’ordine, una rapida presentazione del filosofo e delle sue vicende, una esposizione delle tesi de La filosofia italiana (che l’a. non intende discutere singolarmente e in modo specifico, cfr. p. 96), e finalmente un riassunto degli studi sulla dialettica hegeliana; qui l’a. consente nel giudicare la soluzione di S. come una“véritableébauche” dell’attualismo. Le opere di S. sono il frutto di uno spirito critico, più che di un pensiero veramente costruttivo; l'originalità del filosofo si manifesta soprattutto nella 2399 ricostruzione della storia della filosofia italiana. A distanza di anni, S. ci appare come un vero precursore, il cui programma risulta pienamente giustificato e confermato dalla rinascita e dal successo del nuovo idealismo, nei primi anni del nostro secolo. 236. M. F. SCIACCA, La filosofia italiana, Milano 1941, pp. 150. Cfr. in particolare i capitoli secondo (La filosofia italiana secondo B. Spaventa e G. Gentile) e terzo (Critica della tesi Spaventa-Gentile), pp. 9-37. Per l’a. “non bisogna commisurare la filosofia italiana a quella europea, ma la filosofia europea a quella italiana, perché siano messi in luce e fissati nei loro momenti inconfondibili e precisi il carattere e il valore del nostro pensiero, la perenne e potente vitalità di esso entro il pensiero filosofico europeo” (pp. 35 sg.; cfr. pp. 39 sgg., dove è discussa la tesi di P. Carabellese [cfr. n. 225]). Il rifiuto degli schemi artificiosi di S. (e di Gentile) e il rilievo dell’antitesii tradizione italiana (anti immanentistica, cristiana) — idealismo tedesco, acquistano un significato più specifico nelle pagine dedicate dall’a, a Rosmini (cfr. p. es.: La filosofia morale di A. Rosmini, Roma 1938, pp. 165; Antonio Rostrini nella storiografia italiana, in AA. V V.,, Studi rosminiani, Milano 1940, pp. 175 sgg.), che respingono l’interpretazione soggettivistica sostenuta da S.- Gentile. Cfr. anche n. 246. 237. G. ALLINEY, I pensatori della seconda metà del secolo XIX, Milano 1942, pp. 423. Nel capitolo terzo (GL hegeliani) della seconda parte (Gt 2556 oncologi) sono dedicati a S. (e al rapporto S.-Gentile) tre paragrafi (7-9), pp. 264-294. Il paragrafo settimo (Bertrando Spaventa) espone gli studi del filosofo napoletano su Kant e sulla filosofia italiana, su Gioberti e sulle prime categorie della logica di Hegel (i saggi sulla dialettica hegeliana documentano, secondo l’a., la persistenza di un’oscillazione tra fichtismo [dialettica del pensare] e hegelismo [“magia” del sistema]). L’ottavo paragrafo (Spaventa e Gentile) richiama le difficoltà — per l’a., insuperabili — intorno a cui si affaticano invano gli epigoni di Hegel: la “condanna” dell’idealismo sta nella perdita dell’ “oggetto” (p. 284). Nel paragrafo nono (Urzanismo dello Spaventa) è respinta la teoria della “circolazione” e, con essa, il giudizio per cui S. riassumerebbe in sé tutta la problematica filosofica del secolo scorso; l’a. richiama i tratti dell’ “umanismo” di S. (il suo crudo storicismo, la sua fede immanentistica) e accentua il rilievo della sua vicinanza alle posizioni dei positivisti. Alle pp. 406-412 è collocata una bibliografia degli scritti di e su S., che non aggiorna completamente la bibliografia gentiliana del 1924 [cfr. n. 204].238. [G. BERTI], Materiali in preparazione del centenario di Antonio Labriola, in “Stato operaio” [New York], II (1942), agosto, pp. 185-189; III (1943), marzo- aprile, pp. 61-63, maggio-giugno, pp. 92-94, dicembre, pp. 122-126. L’a. cominciò a pubblicare questi Mazerzali nel fascicolo di ottobre-novembre, anno I, 1941, di “Stato operaio” (la stampa dei Materiali si arresta col numero del dicembre 1943). Qui sono indicati i fascicoli in cui si discute di S., e del rapporto S.-De Sanctis e S.-Labriola, in una prospettiva che anticipa il disegno dell’ampio studio pubblicato dal B., 2091 nel 1954, sulla rivista “Società” [255]. 239. M. BUCCELLATO, Di un saggio sulla dottrina di Socrate di B. Spaventa, in “Sophia”, XII-XIV (1944-46), ottobre-dicembre 1946, PP. 294-307. Analisi del saggio pubblicato da S. a proposito delle Considerazioni sulla dottrina di Socrate di G. M. Bertini [62]. L’a. sostiene che lo scritto di S. non fornisce nessun contributo originale, giacché dipende direttamente e passivamente dalle pagine di Hegel e, soprattutto, di Zeller (un accenno alla nessuna originalità di S. storico della filosofia si trova nello stesso fascicolo di “Sophia”, in un noto articolo di A. Tilgher sulle fonti dell’attualismo,pp.280-293). 240. A. GUZZO, Maturi, Brescia 1946, pp. 160. Cfr. n. 251. 241. C. PAPA, La storiografia filosofica hegeliana in Italia nella seconda metà del secolo XIX, in “Rivista di storia della filosofia” [in seguito: “Rivista critica di storia della filosofia” ], I (1946), fasc. 3, pp. 301-319. Gli autori studiati nell’articolo sono: S., F. Fiorentino, F. Tocco. All’interno della stessa scuola hegeliana si è determinata una reazione ai canoni  storiografici dell’idealismo, con l’abbandono delle esigenze e preoccupazioni speculative che caratterizzano la posizione di S., e con il maturarsi di una “tendenza filologica” che affiora già in Fiorentino e appare ulteriormente sviluppata da F. Tocco. 2558 242. S. CARAMELLA, La filosofia dello stato nel Risorgimento, Napoli 1947, pp. 90. Cfr. n. 201. 243. V. FAZIO ALLMAYER, La riforma della dialettica hegeliana, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXVI (1947), pp. 101-116. Cfr. n. 191. 244. E. GARIN, Storia dei generi letterari italiani. La filosofia, 2 voll., Milano 1947, pp. IX-3 8 5, VIII-687. Cfr. n. 290. 245. G. DE RUGGIERO, Hegel, Bari 1948, pp. 306. Cfr. n. 190. 246. M. F. SCIACCA, La filosofia nell'età del Risorgimento, Milano 1948; seconda edizione con il titolo: Il pensiero italiano nell’età del Risorgimento, Milano 1963, pp. 494. Su S. v. in particolare le pp. 440-450. L’a. ripete [cfr. n. 236] i rilievi contro l’interpretazione “tendenziosa” di Rosmini, di Gioberti, e, in generale, contro gli schemi della ricostruzione della storia della filosofia italiana proposta da S. Acuta e sottile, ma discutibile, è giudicata l’analisi spaventiana della sintesi apriori; incerta, la riforma della dialettica tentata nelle Prize categorie [70]. Il filosofo 2999 continua a oscillare tra soluzione soggettivistica e soluzione realistica, tra la riduzione della logica a psicologia e il riconoscimento dei diritti della metafisica. 247. F. BATTAGLIA, L'insegnamento di Bertrando Spaventa a Bologna, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXVIII (1949), pp. 339-347. Chiarisce e precisa, in base a documenti d’archivio, le vicende del passaggio di S. da Modena a Bologna, e illustra la sua attività nell’ateneo bolognese; soffermandosi tra l’altro sulla nota prolusione del 1860 [67], che nonfu letta, qui si dimostra, il 10 maggio, come è stato detto per una confusione col discorso proemiale alle lezioni di storia della filosofia. 248. A. L. DE GAETANO, Machiavelli e alcuni discepoli della scuola idealistica. La politica e lo stato dei fratelli Spaventa, in “Italica” [The Quarterly Bulletin of the American Association of Teachers of Italian, Menasha, Wisconsin], XXVII (1950), pp. 214-224. Si vedano le pp. 214-218, per un raffronto tra le teorie politiche di Bertrando S. e quelle di Machiavelli, un autore mai discusso negli scritti del filosofo meridionale. Le conclusioni si leggono a p. 218: “Quanto ai fini, non vi sono divergenze per lo Spaventa e il Machiavelli. Entrambi vogliono uno Stato forte e libero dal clero. I mezzi possono essere anche gli stessi, e Spaventa cerca di giustificarli. Le disparità si riscontrano nel confrontare due concetti diversi della verità, cioè il concetto della verità razionale dello Spaventa col concetto della verità effettuale del Machiavelli”. 2560 249. F. FERGNANI, L’opera e l'eredità di Bertrando Spaventa, in B. S., Polemiche coi gesuiti, Milano 1951, pp. TII-XXXI. Cfr. n. 101. L'introduzione di Fergnani è divisa in due parti. Nella prima (La posizione filosofica, pp. III sgg.), l’autore indica la necessità di allargare l’ “angolo visuale piuttosto ristretto” con cui Gentile guardò al filosofo hegeliano, lasciando “in ombra” la relazione Spaventa-Labriola. S. ci appare sempre orientato verso la “concretezza”, sia quando si tratti di cogliere il nesso di riflessione teorica e situazione storica, sia quando si tratti di considerare lo sviluppo storico della filosofia, o di impostare il problema del rapporto: filosofia nazionale-filosofia europea. Tanto basterebbe per comprendere perché “linsegnamento dello Spaventa sia entrato quale importante coefficiente nella elaborazione del materialismo storico compiuta da Antonio Labriola”. Ma cisono punti di contatto più specifici. Risentono della lezione spaventiana l’ispirazione “strettamente monastica della concezione labriolana della storia”, le critiche di Labriola a E. v. Hartmann e a Spencer, e ancora l'affermazione dell'identità di lavoro e di storia, di teoria e prassi. Nella formulazione dell’identità di “conoscere e fare, e nella critica dell’Assoluto trascendente che lascia fuori di sé il relativo, sono, certo, i motivi più vitali dell’insegnamento dello Spaventa passati nel Labriola e confluiti poi nel ripensamento gramsciano della filosofia della prassi” (p. XV). Solo che S. sembra restaurare nell’ “al di qua” quella trascendenza che la vecchia metafisica aveva collocato in un mondo soprannaturale e sovrintelligibile: è questo il limite dell’ “immanentismo idealistico” di S. Nella seconda parte 2561 (La concezione politica, pp. XVI sgg.), l’autore afferma la profonda unità e continuità tra opere teoriche e opere polemiche di S., e il carattere progressivo della sua concezione dello stato e del rapporto stato-chiesa, politica- filosofia. Per aver innestato “la concezione dello stato etico nelle sue esperienze e convinzioni di liberale del Risorgimento italiano” (p. XX), S. sembra anche in grado di superare i limiti “burocratico-corporativi” della filosofiastatuale di Hegel. La dottrina della eticità dello stato prospetta, naturalmente, una inversione mistificata del rapporto società civile-stato; una inversione che va rovesciata e che sarà rovesciata solo da un movimento “radicalmente innovatore”. Ma allora si renderanno plausibili ed effettivamente operanti le istanze di immanentismo e laicismo assoluto, di organicità ed unitarietà del convivere umano, che sono implicite nella concezione degli S. (p. XX1V). Nelle ultime pagine, l’autore segnala la profonda attualità delle polemiche spaventiane: oggi, dopo la “capitolazione ideologica della borghesia”, la solidarietà dell'ordine borghese con la chiesa cattolica può essere denunciata con le stesse accuse che S. rivolgeva contro la collusione di ancien régime e gesuiti, di chiesa romana e movimenti reazionari. 250. G. ARFÈ, L’begelisno napoletano e Bertrando Spaventa, in “Società”, VIII (195 2), pp. 45-62. Gentile ha deformato la figura di S., lasciando sullo sfondo o travisando il ruolo svolto dal filosofo nella cultura italiana del secolo scorso. La prospettiva gentiliana va rovesciata: l’originalità del filosofo “non è grande”, la sua opera teorica “di secondo piano”, ma importante è la battaglia politico-culturale condotta dal vecchio hegeliano, 2562 che ebbe “alta e sicura fede nella libertà”, fu animato da una “profonda religiosità laica”, e combatté per l’affermazione di un ideale giacobino dello stato, concepito come strumento per la realizzazione delle più moderne e progredite forme di vita sociale. “In Spaventa le formulazioni teoriche restano confuse, ma gli atteggiamenti pratici affermati con appassionata decisione” (p. 49). Se la posizione teorica di S. è ambigua, lo è anche nel senso che poteva dar luogo a sviluppi diversi: Labriola fu «spaventiano di sinistra». 251. Gli hbegelianid’Italia. Vera, Spaventa, Jaja, Maturi, Gentile, a cura di A. Guzzo e A. PLEBE, Torino 1953, pp. XIX-154. Antologia di testi di Vera, S. (pp. 39-72; da Logica e metafisica), Jaja, Maturi, Gentile. La scelta dei testi è curata da A. Plebe, autore anche dei brevi profili di Vera (pp. 3-8), di S. (pp. 33-38), di Jaja (pp. 75-78), di Gentile (pp. 141- 144). Guzzo ha firmato la presentazione di Maturi (pp. 101- 105), la prefazione e la prima parte dell’introduzione (pp. IX-XVIII), conclusa da Plebe (pp. XVIII sg.). Il volume è completato da una rapida nota bibliografica (pp. 151-153). L’antologia è costruita con l’intento di mostrare i tratti originali — e, complessivamente, poco “hegeliani” — dell’hegelismo italiano dell'Ottocento, fino a Gentile. Guzzo ricorda una conferenza di Gentile del 1942, “che purtroppo egli non scrisse” (cfr. l’introduzione alla raccolta La filosofia italiana fra Ottocento e Novecento, scritti di G. Tarozzi, V. Alemanni, A. Carlini, M. Marasca, U. Scatturin, A. Plebe, Torino 1954, pp. XIV-146; cfr. inoltre A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienga idealistica in Italia, Padova 1964, pp. 203: il libro è utile anche per diversi accenni a S., 2563 e ai suoi rapporti con i discepoli), e nella quale fu espressa forse la valutazione più serena di quei pensatori, e della loro importanza per il pensiero italiano: “gli hegeliani nell’ultimo ventennio dell’Ottocento raccolsero dai loro maestri e trasmisero ai loro discepoli alcuni concetti delicati e difficili che, estranei alla mentalità positivistica trionfante, sarebbero andati perduti se essi non li avessero affermati così a lungo da riuscire a dar la mano ai giovani che contribuirono alla rinascita dell’idealismo nel primo decennio del Novecento”. Tra questi concetti, in primo luogo, quello del “trascendentale” (p. XVI; per igiudizidiGuzzo su S., cfr. pp. XIV sg.). Plebe individua due caratteri specifici dell’hegelismo italiano: “il desiderio di studiare Hegel per ‘riformarlo’; l'interesse limitato ad alcuni problemi, che fa sorgere un'immagine convenzionale di Hegel, propria degli interpreti italiani” (p. XVIII; e cfr. p. XIX: abbandono dei “grandi problemi della metafisica hegeliana” — con qualche eccezione in Vera —, attenzione esclusiva per alcuni temi della logica, ecc.). Con questo programma e con questa eredità si spiega la scarsa o nessuna incidenza, nell’Italia del primo Novecento, degli studi di Dilthey, di Lasson, ecc. Nella presentazione di S., Plebe accenna alla discussione di alcuni temi (accettazione, da parte di S., dello schema: Kant- Fichte-Schelling-Hegel; impianto fenomenologico- gnoseologico della logica, ecc.) che sono sviluppati in uno scritto dello stesso anno [cfr. n. 252]. Plebe attira l’attenzione del lettore su una caratteristica oscillazione del vecchio maestro, che si presenta ora come riformatore, ora come ripetitore di Hegel; e sottolinea il forte interesse di S. per il positivismo. Sui rapporti degli hegeliani fra loro, sono da vedere in particolare le pp. 4 sg. (Vera e S.), 75 sg., 78 (Jaja più vicino al gnoseologismo spaventiano), 142 (Gentile erede di S. e dell’hegelismo italiano dell'Ottocento). Le 2564 pagine di Guzzo su Maturi (pp. 101 sgg.) ricordano l’evoluzione del filosofo dal gnoseologismo spaventiano a un idealismo non del tutto concorde con la lettura attualistica di S. e di Hegel. Su questo punto si veda anche il volume di Guzzo Maturi, Brescia 1946, pp. 160; in particolare le pp. 138-144, dove è impostato il problema del rapporto tra Maturi e S., nel quadro di un più ampio discorso che chiama in causa Hegel e Vera, e che è svolto in funzione di una “possibilità di sviluppo critico” del pensiero del Maturi. 252. A. PLEBE, Bertrando Spaventa a Torino, in “Filosofia”, IV (1953), pp. 305-322; Bertrando Spaventa a Napoli, in “Filosofia”, IV (1953), pp. 601-624. Il saggio è stato ripubblicato dall’a. nel volume Spaventa e Vera, Torino 1954 (aggiuntovi uno studio su Vera, a cui si accenna più avanti); e nella raccolta: La filosofia italiana fra Ottocento e Novecento [256]. In queste pagine, P. ha voluto “delineare la figura di Spaventa come hegeliano e come filosofo”, muovendosi al di fuori dello “schema di derivazione” Hegel-S.-Gentile, “che è uno dei non pochi preconcetti inesatti che ancora dominano la storia della filosofia” (p. 624). In base ai risultati raggiunti dall’a., lo “schema di derivazione” appare meno giustificato nella prima parte (l’hegelismo di S. è assai distante dalle intenzioni e dai testi di Hegel) che nella seconda: motivi spaventiani passano senz’altro in Gentile. Ma S. non sta tutto nel Frazzzento inedito del 1880-81 [103], né si può dire che Gentile “abbia ereditato lo spirito e l’anima di Spaventa. Spaventa fu un logico, Gentile un’anima intimamente religiosa; Spaventa amava guardare il positivo, mentre Gentile amava guardare lo spirito puro” (pp. 623 sg.; e cfr. p. 618: Gentile “preferirà ignorare” 2565 quegli aspetti del pensiero dell’ultimo S., che documentano il suo orientamentoversouna forma di “idealismo positivo”, che trovò la sua migliore espressione nell'opera di D. Jaja Sentire e pensare). Le conclusioni di P. sono raggiunte attraverso vari confronti, spesso dettagliati, di scritti di S. con pagine di Hegel, o con pagine di note esposizioni o rielaborazioni del sistema hegeliano. Si tratta di raffronti operati successivamente all’interno di diverse fasi di sviluppo del pensiero di S., e che tendono pertanto a misurare la persistenza di alcuni fraintendimenti, passati definitivamente nel disegno di un idealismo soggettivistico o gnoseologistico, più fichtiano che hegeliano. Il saggio Bertrando Spaventa a Torino si apre con un'analisi degli Studi del 1850. Dalla lettura della Vorrede della Feromenologia (la sola opera di Hegel che, secondo P., il filosofo mostra di conoscere direttamente, in questi anni) S. ricava già un’idea assai personale delle intenzioni dell'autore: l’opera di Hegel sta tutta nella polemica antikantiana e antischellinghiana della Vorrede, e la logicahegeliana è, o sarà, un semplice sviluppo della fenomenologia. Le False accuse del 1851 documentano il persistere e il radicarsi di un’idea mai abbandonata da S.: l’idea “della soggettività dell’essere logico hegeliano”; e registrano ancora, come già gli Studi, l'accettazione convinta dello schema di derivazione: Kant-Fichte-Schelling-Hegel. L'articolo su Schelling (1854) mostra un notevole arricchimento delle letture spaventiane, e segna anche l’inizio di un “caratteristico ondeggiamento per cui Spaventa, da una parte, vuol riformare Hegel, dall’altra si mostra come suo docile e fedele espositore” (p. 310). In una recensione del 1854, non segnalata da Gentile [18], S. manifesta la sua “fiducia illimitata” in Gans e negli altri hegeliani tedeschi. Nello Hegel confutato da Rosmini (1854), 2566 S. appare ormaipadronedella Scienza della logica edell’Erciclopedia, ma la distinzione di Denken e Gedanke, da lui sostenuta, è ancora ispirata da preoccupazioni gnoseologistiche che non possono trovare giustificazione in Hegel. E il gnoseologismo di S. diventa sempre più dominante nella recensione al Barni (37; “Sin da ora egli è convinto della continuità di sviluppo da Kant a Hegel. Che questa sia un'idea molto suggestiva è dimostrato dal successo che ebbe non solo in Italia, ma anche in Inghilterra, ad opera dello Stirling [The secret of Hegel, 1865]; ma che essa sia una via molto pericolosa, che può portare ad un completo fraintendimento di Hegel, è stato mostrato da cinquant'anni in qua, attraverso la pubblicazione degli scritti inediti hegeliani”, p. 311) e, in generale, nelle pagine e negli studi di S. dedicati a Kant. Degli influssi degli hegeliani tedeschi P. tratta diffusamente nelle pp. 313 sgg.; segnalando le citazioni da Werder, da Erdmann, da Weissenborn, Rosenkranz, ecc., le probabili suggestioni esercitate da Karl Philipp Fischer (autore della Speculative Charakteristik und Kritik des Hegelschen Systeras, 1845, e dei Crundgtige des Systems der Philosophie, 1848), e, infine, la utilizzazione, da parte di S., della Logik und Metaphysik (1852) di Kuno Fischer, citata ben diciotto volte in Logica e metafisica, e seguita anche in pagine che semplificano eccessivamente o addirittura travisano la Scienza della logica (P. riporta alcuni esempi, tratti dall’esposizione della dialettica della parvenza, e della dialettica delle forme del giudizio). Di Fischer, S. condivide l'entusiasmo per Kant, e da Fischer accoglie le “forzature” del testo hegeliano che tendono ad attenuare o addirittura a mutare in lode la polemica antikantiana di Hegel. È nota poi l’affermazione di Fischer, secondo la quale la logica “comincia” con il Willensakt des Denkens: qui S. trova una 2567 conferma per il proprio soggettivismo, e qui siamo anche alle origini dell’attualismo gentiliano. A conforto della interpretazione soggettivistica della logica hegeliana, S. trae dai suoi studi sui filosofi italiani (soprattutto Campanella) quella idea della “mente” o “mentalità” che passerà senz'altro nella caratterizzazione spaventiana del problema della filosofia moderna. La seconda parte del saggio (Bertrando Spaventa a Napoli) è dedicata, in primo luogo, all'esame della riforma dell’hegelismo tentata da S.; al tentativo cioè di “chiarire e sviluppare un hegelismo di tipo italiano (cioè di tipo gnoseologico-soggettivistico), sistemandolo con più rigore di quel che fece Gioberti” (p. 601). Persiste anche ora l’oscillazione tra lo S. riformatore e lo S. ripetitore di Hegel, una oscillazione forse inspiegabile, ma che non impedisce, in ogni modo, di ricostruire con chiarezza le linee della singolare impresa di S. L'analisi delle Prize categorie [70] è preparata: 4) da un paragrafo, in cui P. mostra la fedeltà di S. alla “logica del giudizio” (la critica che S. muove a Kant — necessità del passaggio dal giudizio al sillogismo — “non esce essa stessa dalla mentalità diadica ed è una critica rivolta da un punto di vista non meno soggettivistico di quello kantiano”, perché “quel che importa a S., a differenza di Hegel, non è già la circolarità logica, bensì l’attività dello spirito”, p. 603); b), da alcune pagine sull’interpretazione spaventiana della logica dell'essenza, che occupano una posizione centrale nel saggio di P. (pp. 604-608); qui si rende manifesta, nella sua intera misura e nelle sue gravi conseguenze, la distanza che separa la logica di S. da quella di Hegel. Il movimento che conduce dall'essere all’essenza è visto da S. come un processo gnoseologico, e qui è l'origine del fraintendimento radicale: “se ... come voleva Hegel, Spaventa avesse visto il passaggio dall’essere all’essenza 2568 come processo di auto-internamento, di auto-giustificazione dell'essere, il problema delle prime categorie sarebbe passato in secondo piano di fronte a quelli della logica dell'essenza, che ne sono il fondamento” (p. 606). Coerente con questo fraintendimento è l’introduzione dell’attualità mentale nella logica dell’essenza, ravvisabile, secondo P., nelle pagine di S. dedicate al concetto di “esser-posto», alla discussione dell’ “identità” e del “fondamento” (pp. 607 sg.). La fedeltà alla logica del giudizio, l’ “incomprensione” della logica dell’essenza, e l’assunzione dell’ “identità” come “atto” illuminano il significato delle Prize categorie, che confermano il carattere soggettivistico e gnoscologistico della logica spaventiana, di quella logica per la quale il filosofo ha richiesto, fin dal 1850, una fondazione gnoseologica. Le ultime pagine dell’articolo sono dedicate ai rapporti di S. col positivismo (pp. 616 sgg.) e, soprattutto, a Esperienza e metafisica [94]. Due convinzioni sempre più radicate nella mente di S., e già rese pubbliche negli scritti polemici: “l’affermazione dell’assoluta immanenza della ragione (e quindi la sua identificazione con la mente umana), e l’affermazionedella naturalità del principio di ogni cosa.” (p. 616), preparano il maturarsi di un orientamento assai favorevole al positivismo, o almeno a quella forma di “idealismo positivo” che fu poi condiviso da Jaja. Anche questa evoluzione è spiegabile con il particolare impianto dell’interpretazione di Hegel: il kantismo (o neokantismo) e il “fenomenologismo gnoseologico” che stanno a fondamento di Esperienza e metafisica hanno un’origine assai lontana. E l “aporia fondamentale” dell’ultimo scritto di S. (come può giustificarsi una metafisica che deve “stare” al “dato”?) coincide con quella dell’interpretazione spaventiana di Hegel (come è possibile fondare la logica sulla fenomenologia, “lassoluto sul 2569 relativo, l’unità sul dualismo”?; pp. 620 sg.). Se questi rilievi sono esatti, Esperienza e metafisica costituisce il vero “testamento spirituale” di S.; il Frazzzzento sulla dialettica del 1880-81 [n. 103] non aggiunge nulla, secondo P., alla riforma del 1863, anzi oscura in più punti quella soluzione. Che è stata una soluzione feconda, per un certo aspetto (per lo sviluppo dell’attualismo), ma anche piena di pericoli: “Spaventa, identificando l’essere con l’atto del pensare, rende impossibile (senza accorgersene) il consistere delle determinatezze, che vengono tutte affogate nell’unità dell’atto” (p. 623). Dell’a. si veda anche il saggio: AugustoVera,filosofodella mediazione, in “Filosofia”, V (1954), pp. 640-657 (Vera accoglie da Hegel il problema di una mediazione “metafisica” di reale e razionale, che in S. vive solo nella forma ristretta della mediazione “concettuale”; il saggio è ristampato in A. P., Spaventa e Vera, cit.). P. accenna ancora a S. (e a Esperienza e meta-fisica) nello scritto: L’empirismo come filosofia e come antifilosofia, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXXVII (1959), pp. 301-311. Cfr. inoltre di Plebe la voce “Spaventa” in Enciclopedia filosofica, vol. IV, Venezia-Roma 1957, coll. 824-827.253. F. ALDERISIO, Cownoscenza scientifica e conoscenza filosofica, Napoli 1934, pp. 112. Del libro esiste una seconda edizione riveduta e accresciuta, Napoli 1963, pp. 190. Per S. è da vedere soprattutto il capitolo settimo (La gnoseologia vichiana e galileiana nella rivalutazione critica di B. Spaventa, prima edizione, pp. 85-100). L’a. discute in particolare: la “lettera” Paolottismo, positivismo, 2570 razionalismo, del 1868; Un luogo di Galilei, del 1882; Esperienza e metafisica (1888). In questi scritti spaventiani, e specialmente nell’ultimo, “risultano vigorosamente illustrati non solo il vero significato del collegamento gnoseologico tra il Vico e il Galilei, ma anche la verità e il senso più alto che si possa dare all’altro rapporto... tra la gnoseologia e metafisica del Vico e quelle tedesche del periodo da Kant a Hegel”. 254. G. ARFÈ, Labriola e Spaventa, in “Mondo operaio”, VII (1954), n. 7 (aprile), pp. 17-18. È riprodotta qui in breve la tesi già prospettata dall’a. in un articolo precedente [cfr. n. 250]. 255. G. BERTI, Bertrando Spaventa, Antonio Labriola e l’hegelismo napoletano, in “Società”, X (1954), pp. 406- 430, 583-607, 764-791. La tesi centrale dello scritto di B. si lascia riassumere agevolmente: da S. (“la mente filosofica dirigente dell’hegelisrno napoletano”, p. 415) al Labriola si delinea uno sviluppo dello storicismo italiano — certo complesso, ma coerente nel suo interno svolgimento, e conforme alle tendenze già dominanti negli hegeliani più avanzati — che trova il suo naturale punto di arrivo nella prima elaborazione del marxismo, in Italia. Gli intellettuali che si raccolsero attorno a S. e a De Sanctis costituirono un gruppo omogeneo, legato da tre caratteristiche: “lo stretto legame con la vita, con la lotta politica, con la storia”; l’avversione per l’ “idealismo dommatico, ortodosso...”; infine “il tentativo, nel gruppo a tutti comune, di un superamento dell’hegelismo che avveniva in tutti in una ZIFA analoga direzione: dall’astratto al concreto, dalla metafisica delle idee a un tentativo di filosofia dell'esperienza, di filosofia del reale” (p. 411). Nella prima parte del lavoro, B. studia soprattutto le riflessioni di S. sulla “grande questione della filosofia: materialismo-idealismo” (p. 415). Sono riflessioni in cui si rispecchia lo sforzo di comprendere la necessità del passaggio dal “vecchio” al “nuovo” (v. Esperienza e metafisica), anzi lo sforzo di favorire questo passaggio, pur tra incertezze che finirono per arrestare il cammino di S. (e di De Sanctis: sull'indirizzo e sui limiti comuni al De Sanctis e allo S., v. pp. 413 sg.). Il discorso sui “limiti” di S. non è mai abbandonato dall’a. “Dare un giudizio d’insieme su B. Spaventa non è semplice” (p. 428), proprio per le “contraddizioni” che permangono nella sua opera. E come è giusto sottolineare “la contraddizione tra il drastico radicalismo del suo pensiero e il suo moderato liberalismo” (p. 419), così è necessario respingere l’idea di una evoluzione chiara ed esplicita di S. dall’idealismo al materialismo (p. 429). Tuttavia i limiti di S. si collocano ai confini estremi di una posizione già prossima al suo rovesciamento. Allo S. “giacobino”, rappresentante di un “Illuminismo sui gezeris”, di un “illuminismo dopo Hegel”, bastava avvertire “che il prius doveva consistere non nella educazione della plebe e nella sua elevazione a popolo, ma nel cambiamento dei rapporti sociali (che avrebbe esso di conseguenza portato a questa elevazione)”, per trovarsi nella posizione che fu poi di Labriola (p. 421; cfr. p. 420, e, per il “cauto” atteggiamento di S. nei confronti dell'illuminismo francese, pp. 417 sgg.). Allo stesso modo, S. appare assai prossimo al materialismo nella polemica col Tommasi: “è nello studio Sulle psicopatie in generale che Spaventa arrivò alla formulazione ultima della sua filosofia, allorquando, ZITZ criticando radicalmente la definizione spiritualistica della psicopatia del Tommasi, combattendo il concetto di una esistenzasostanziale dell'anima, affermò che lo spirito era ‘nulla senza la materia’, gli parve cioè, lo spirito, materia e nient'altro che materia, ma materia che nega e supera se stessa, ‘ed è quella che è solo in quanto la supera” (p. 424). Lo scritto del 1872 Si colloca nel punto estremo di “un momento decisivo” della evoluzione di S., che ha inizio nel 1864. In questi anni, guidando Labriola, S. “riprese a considerate Feuerbach” (p. 422; e B. ritorna spesso sulle tracce di un incontro Spaventa-Feuerbach, che gioverebbe, tra l’altro, a spiegare le ragioni di un rifiuto, l’identificazione di tutto il materialismo con il materialismo settecentesco). Anche qui, B. nega di voler “puramente e semplicemente instaurare un parallelo storico-filosofico tra Spaventa e Feuerbach”; suggerisce tuttavia che un tale parallelo “sarebbe... forte di molte solide ragioni” (p. 429; e v. anche pp. 605-607). In nessun modo, comunque, sarebbe possibile negare l’energica tendenza del filosofo “a non lasciarsi incasellare... nell’una scuola o nell’altra, sotto l'una o l’altra denominazione. In lui, in altri termini, l'assoluto non era più lo spirito come in Hegel... e ... nemmeno la materia ...: l'assoluto, per lui, era il divenire — ma profondamente differenziato — dell’ ‘una e unica sostanza’. Qui non regge più il paragone con gli hegeliani spiritualisti o con Feuerbach. Qui è Spaventa” (p. 430). La seconda parte del saggio è dedicata alla interpretazione neoidealistica di S. L’a. discute in breve i giudizi incerti — e viziati, in ultima analisi, “da una antipatia preconcetta” — di Croce (pp. 583-586), per affrontare partitamente i tre temi — teoria della “circolazione”, riforma della dialettica, “tentativo di una filosofia dell’esperienza come esperienza attiva” — su cui si sofferma l’interpretazione 2573 di Gentile. Quanto al primo punto: Gentile tendearovesciare la prospettiva spaventiana, attribuendo alla “circolazione” quella priorità che spetta invece al “nesso dialettico vita sociale-pensiero-storia”; sicché l’idea di S. diventa “una banale teoria dei vasi comunicanti” (pp. 589- 591). Secondo punto (pp. 591-601). La riforma della dialettica tentata da S. si costruisce in due momenti ben precisi: a) riconoscimento che “il processo dialettico avviene interamente nella natura”, dando luogo al differenziarsi di spirito e materia come forme distinte di un’unica sostanza; b) su questa base, ma solo su questa base, affermazione dell'autonomia del pensiero e trascrizione “logica” delle leggi del divenire naturale. Dato l’impianto del suo discorso, S. non avrebbe mai potuto concludere, come Gentile, che il divenire è solo divenire del pensare (p. 598; e, per un confronto S.-Engels, v. pp. 599 sg.). Infine: nel concetto di “esperienza attiva” Gentile vede anticipata la costruzione attualistica della identità di teoria e prassi. Ma la forte accentuazione spaventiana del “lato attivo” dell’uomo va interpretata tenendo presenti le indicazioni di Esperienza e meta-fisica: l’esperienza è storia, ed è storia in quanto è lavoro; qui s'incontrano S. e Labriola (pp. 601-605). Nell'ultima parte del saggio, B. richiama, in primo luogo, l’attenzione del lettore sulle dimensioni politiche delle polemiche sostenute da S. negli anni dell’esilio torinese. Sono vicende non trascrivibili interamente sul piano di una storia delle idee; non si intendono appieno, se non si ha presente il quadro dell’ “accerchiamento ideologico e politico”, il quadro delle “generali e minacciose ostilità” (p. 767) che colpirono gli hegeliani meridionali, a Torino. B. ricorda soprattutto l’attacco di Gioberti ai giovani hegeliani (democratici, quindi socialisti, comunisti) dalle pagine del Rinnovamento. La risposta di S. (nell’articolo contro 2574 Tommaseo [51]) è “abile”, se si vuole; ma va notato che mai il filosofo si difende dissociandosi dagli hegeliani di sinistra, e sottoscrivendo una professione di “fede moderata” (p. 768, e cfr. p. 770). Un’altra importante testimonianza di questo atteggiamento è offerta dalla recensione alla Storia di uno studente di filosofia di G. Piola (pp. 768 sgg.; e cfr. n. 41). Sono fatti che trovano la loro giusta interpretazione in Gramsci, e che indicano una diversa collocazione politica degli intellettuali meridionali, rispetto a quella dei liberali piemontesi e lombardi. Da “Hegel gli hegeliani napoletani avevano elaborata tutta una dottrina sulla funzione degli intellettuali ai quali sarebbe spettato il compito di elevare la plebe a popolo e di creare, quindi, le condizioni pregiudiziali per una futura democrazia: che essi vedevano possibile soltanto proiettata in un lontano avvenire” (p. 771). Sarà, anche questo, un limite del loro democratismo; ma intanto sta a indicare la presenza di una ispirazione democratica, che B. trova confermata nel programma politico degli hegeliani nel 1848 (“utopistico, ma non certo conservatore”) e nelle prime formulazioni dello “stato etico” (pp. 773 sgg.). Le originarie convinzioni progressiste di un De Meis non si oscureranno mai del tutto, neppure nel Sovrano; e i Princìpi di etica di S. (pp. 776-779) confermeranno, ancora, la presenza vitale di un disegno rivoluzionario (e sia pure di una “rivoluzione intellettuale”). “Dopo il ‘60 Bertrando più di Silvio sentì la necessità di conservare al liberalismo il suo slancio rivoluzionario, il suo momento di rottura col passato” (p. 780). E mantenne una pur “inconfessata collaborazione” con i positivisti più avanzati, lungo una strada percorsa anche dal Labriola, che seppe distinguerci positivismo da positivismo (pp. 782 sgg.). Anche su questo piano Labriola si incontra col vecchio maestro, e meglio di ogni altro scolaro di S. (p. 785). Le ZITI ultime pagine dello studio di B. (pp. 787 sgg.) fissano le tappe del progressivo distacco di Labriola dallo illuminismo posthegeliano” dello S. e dalla concezione dello stato etico. In una lettera del luglio 1875 [cfr. n. 137] B. individua il momento in cui, agli occhi di Labriola, appare ormai “rovesciata”, con la subordinazione della rivoluzione intellettuale alla rivoluzione sociale, la posizione del maestro. Negli anni in cui Labriola veniva via via precisando il suo orientamento verso il socialismo, non venne mai meno tuttavia l’amicizia per il vecchio hegeliano (come non venne meno, più tardi, l'amicizia per Silvio). Anche questo dato esterno conferma in qualche modo i risultati di tutta la ricerca. Sui rapporti personali di Labriola e S., cfr. le lettere pubblicate a cura di B. [137]. Per alcune pagine dello stesso autore che anticipano il discorso del 1954, cfr. n. 238. 256. La filosofia italiana fra Ottocento e Novecento, scritti di G. TAROZZI, V. ALEMANNI, A. CARLINI, M. MARESCA, U. SCATTURIN, A. PLEBE, Torino 1954, pp. XIV-146. Contiene la ristampa, col titolo Bertrando Spaventa hegeliano eflosofo (pp. 85-126), del saggio pubblicato da A. Plebe in “Filosofia”, 1953[z52]. Accennano variamente a S. i saggi qui raccolti (e anch'essi già pubblicati nella rivista “Filosofia”) di V. Alemanni (Pietro Ceretti, pp. 17 sgg.), di A. Carlini (F. Acri, pp. 33 sgg.), di M. Maresca (I/ pensiero filosofico di Filippo Nasci, pp. 51 sgg.). Cfr. inoltre n. 251. 257. P. SALVUCCI, Di alcuni recenti interessi per i 2576 neohegeliani italiani dell'’800, in “Studi Urbinati”, XXVIII (1954), n. 1-2, pp. 420-423. La rassegna è dedicata all’antologia a cura di A. Guzzo e A. Plebe [251], ai saggi di A. Plebe del 1953 [252], all’articolo di G. Arfè del 1952 [250], allo scritto di F. Battaglia del 1449 [247]. 258. P. TOGLIATTI, Per una giusta comprensione del pensiero di A. Labriola, in “Rinascita”, XI (1954), pp. 254- 256, 336-339, 387-393, 483-491. Per S., si veda il quarto paragrafo (Movimento e crisi del pensiero italiano dell'Ottocento, pp. 483-491). L’a. rileva gli aspetti “contraddittori” della posizione del filosofo (S. afferma che la filosofia nasce dalla storia, ma tenta poi una deduzione logica del processo storico; ci offre una corretta valutazione del naturalismo, e di Darwin, ma resta imbrigliato nell’interpretazione “kantiana” di Hegel e precorre, nelle Prize categorie, l’attualismo, ecc.); ma conclude segnalando quelle pagine spaventiane (in particolare, la p. 138 di Esperienza e metafisica, dove è affermata l’identità di storia e lavoro) che ci consentono di comprendere come dalla scuola del “più grande dei filosofi hegeliani d’Italia” sia potuto uscire Antonio Labriola. 259. F. ALDERISIO, R:presa spaventiana, in “Il Saggiatore”, V (1955), pp. 159-168, 325-365; VI (1956), pp. 157-208. Il saggio di A. (vedilo anche ristampato in volume: Ripresa spaventiana. Considerazioni sull'idealismo assoluto, sul materialismo evoluzionistico e sul materialismo storico,Napoli 1959, pp. 174; in questa edizione “riveduta e ZIaccresciuta” l’aggiunta più notevole è lo scritto: Ri/lessioni di A. Gramsci sul concetto della finalità nella filosofia della prassi, pp. 149 sgg.) è una rassegna assai minuziosa di recenti studi spaventiani. Nella prima parte (pp. 159-168), dopo un breve accenno al giudizio negativo sul filosofo napoletano espresso da G. De Ruggiero nel suo Hegel (1948), l'a. ripropone le linee della propria interpretazione di S., costruita a partire dal 1933 in una serie di scritti ordinati in questa bibliografia con i nn. 113, 221, 224, 232, 253. S., secondo A., non fu, né volle essere, un “riformatore” della dialettica hegeliana, nel senso voluto dall’attualismo; intese semmai proporre una migliore interpretazione della deduzione delle prime categorie della Scienza della logica. Gentile costruì il proprio idealismo attuale indipendentemente da S.; la sua lettura del Frammento inedito del 880-81 è sostanzialmente sbagliata, e costituisce, in ogni caso, un riconoscimento post festum. Nella seconda parte (pp. 325-365), A. discute due scritti: quello di G. Berti, del 1954 [255], e il saggio di P. Togliatti, dello stesso anno [258]. A. respinge la tesi di una evoluzione di S. verso il materialismo, anche nella sua formulazione più cauta (S. avrebbe “vissuto” la contraddizione di idealismo e materialismo). Ma è giusto poi, secondo l’a., rivalutare, nell’opera di S., gli aspetti di un orientamento politico progressista; lo stesso Gentile, individuando nel riconoscimento spaventiano della natura “pratica” dell’autocoscienza la “chiave d’oro” della “nuova” gnoseologia, di Marx e di S., ha fornito una prima indicazione sul carattere “progressivo” di questi sviluppi paralleli di pensiero, nati da una comune ispirazione hegeliana. Su questo punto, l'a. si sofferma nel paragrafo intitolato: Breve indagine sul pensiero etico politico di Spaventa riguardante lo sviluppo storico della coscienza sociale 2578 (pp. 340 sgg.). La terza parte della Ripresa (pp. 157-208) è dedicata allo studio di A. Plebe del 1953 [252]: un saggio, a giudizio dell’a., “troppo denso e forse scarsamente elaborato”, che si riassume “in una critica negativa ed acerba”. Contro le stesse intenzioni del suo a. (rottura dello schema: Hegel-S.-Gentile), lo scritto di Plebe finisce per dar credito all’interpretazione gentiliana di S., solo rovesciando il giudizio di valore sui motivi dell’apprezzamento di Gentile per il vecchio maestro. A. discute e respinge via via le conclusioni di Plebe, difendendo l’autentico hegelismo di S., la sua corretta lettura dei testi e la sua interpretazione del sistema, per nulla ispirata dal proposito di una vistosa “riforma”. Né sembra giustificato, per A., assumere Esperienza e metafisica come il testo di un “idealismo positivistico”. La revisione delle analisi di Plebe, condotta attraverso una ricostruzione diversa ma altrettanto particolareggiata dei testi in discussione, e qui non riproducibile nel dettaglio, si conclude con la riaffermazione della “profonda hegelianità” del filosofo napoletano. 260. N. BADALONI, La filosofia di Giordano Bruno, Firenze 1955, pp. 369. Si veda soprattutto il capitolo quinto (Intorzo alla fama del Bruno, pp. 279-366), nel quale sono ricordati (pp. 310 sgg.) gli studi spaventiani sull’argomento. Gli scritti di S. sono accostati a quelli di Labriola e di De Sanctis (i quali seppero cogliere il “messaggio di liberazione umana” racchiuso nelle pagine del filosofo); ma all’a. sembrano poi viziati da un’analisi svolta in termini speculativi, e sorda alla comprensione del “fondo materialistico” del pensierobruniano. Si vedano anche le pp. 54. sgg. (sull’interpretazione, in S., del mito di Atteone) e le pp. 113 ZIT9 sgg., 186 sg., sulla ricostruzione spaventiana della morale e della politica di G. Bruno. 261. I CUBEDDU, Interpretazioni di Bertrando Spaventa, in “Rassegna di filosofia”, IV (1955), pp. 38-47. Breve resoconto degli scritti di G. Arfè [254], di G. Berti [255; limitato alle prime due parti del saggio], e di A. Plebe [252]. 262. E. GARIN, Cronache di filosofia italiana. 1900- 1943, Bari 1955, 19592; ristampa in due voll., Bari 1966, pp. VII-637. Cfr. n. 290. 263. E. GARIN, Felice Tocco alla scuola di Bertrando Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXXIV (1955), pp. 489-495. Cfr. n. 115. 264. G. FICHERA, Il problema del cominciamento logico e la categoria del divenire in Hegel e nei suoi critici, Catania 1956, pp. 166. I critici di Hegel studiati dall’autore sono K. Fischer, S. e Gentile. Sullo S., v. in particolare il capitolo quarto, L’interpretazione spaventiana, pp. 99-137, che discute le Prime categorie [70] e il Frammento inedito del 1880-81 [103]. Tesi centrale: nell’impostazione del problema del cominciamento c’è, in Hegel, un vizio di fondo, che riaffiora e permane nel discorso degli interpreti. Si vedano le pagine in cui l’autore conclude su S.: “la soluzione spaventiana vale, a nostro avviso, solo a chiarire l’insolubilità del problema del cominciamento logico e l’inconcepibilità dell'Essere, del Nulla e del Divenire come categorie, nella cui determinazione è implicito l'equivoco hegeliano di isolare i momenti strutturali della dialettica’ del pensiero (l’affermazione, la negazione, il superamento), per farne altrettante determinazioni categoriali che, come tali, presuppongono e non pongono il farsi o il dialettizzarsi del pensiero logico. Ecco perché Spaventa, allorché vuol mantenere la posizione hegeliana circa il problema del cominciamento, e parte dall’Essere come il puro Immediato, si avvolge nelle medesime aporie hegeliane di presupporre al processo del pensiero ciò che dovrebbe essere invece un suo prodotto. E quando [= nel Framzzento inedito] chiarisce l'equivoco, assumendo l’Essere come pensiero, deve sostanzialmente abbandonare il problema della deduzione del divenire: il divenire non può essere dedotto, ma è se mai implicito nell’autoriflessione dell'Essere, come pensare, essendo il pensare T'Essere stesso dell’Essere’”” (pp. 136- 137). 265. Sviluppi dello begelismo in Italia. F. De Sanctis, S. Tommasi, A. Labriola. Una antologia dagli scritti a cura di M. Rossi, Torino 1957, pp. CXI-201. A S. sono dedicate in particolare le pp. XVI-XXV dell’introduzione di Rossi, precedute da una ricostruzione dell'ambiente napoletano del 1840-48, in cui sono indicate le ragioni del prevalente interesse dei primi hegeliani per i problemi teoretico-gnoseologici, e quindi per l’interpretazione fischeriana del pensiero tedesco. All’a. la “circolazione del pensiero” appare una veduta “ingenua, semplicistica e unilaterale”, che ha avuto tuttavia il merito di sprovincializzare la nostra cultura, ponendola a contatto col pensiero europeo. Manca però in S. una reale esperienza e quindi una giusta valutazione dell’illuminismo. La riforma della dialettica hegeliana proposta da S. costituisce senz'altro la premessa da cui discende l’attualismo di Gentile. L’a. osserva che “il tentativo estremo di eliminare ogni residuo ontologico oggettivo, per quanto possa sembrare legittimo in quanto si operi sul vuoto e astratto primum che è l’essere”, si allarga fatalmente ad ogni determinatezza. Il tentativo può sembrare giustificato rispetto a Hegel, perché in Hegel c’è, appunto, anche questo aspetto; ma c’è anche l’altro, per cui la dialettica deve provarsi con il contenuto determinato delle scienze, della natura e della storia. Dall’attenzione per il lato formale nasce l’attualismo, dall’attenzione per i contenuti la nuova dialettica, della sinistra hegeliana e di Marx. S. anticipa, dunque, Gentile. Ma non trae tutte le conclusioni della sua riforma, e lascia vivere il sistema. Questa contraddizione, “positiva”, dal punto di vista di R., è il riflesso di un’altra contraddizione: tra lo S. prcattualista e lo S. liberale, l’esule, l’antigesuita, il filosofo attento all’evoluzionismo e al positivismo. L’accoglimento di Hegel corrispondeva alla volontà di uscire dal marasma intellettuale di Napoli. Ma S. “cercava la libertà e incontrò la monotriade dialettica”; “i suoi interessi etici di liberale procedettero paralleli ai suoi interessi teoretici, vi rimasero giustapposti, e con essi non s'incontrarono mai”. Tant'è vero, che nei Principi di etica S. lascia cadere la deduzione della monarchia ereditaria e ignora tutte le pagine reazionarie della Filosofia del diritto: “liberalizza” Hegel sopprimendo — semplicemente — il reazionario (a p. LIX cfr. anche un’annotazione particolare a proposito della polemica sulle psicopatie: S. ci offre una “stranissima soluzione”. che “contamina” il realismo herbartiano con la dottrina hegeliana dell’autocoscienza). Dalla linea S.-Gentile divergela linea De Sanctis- Tommasi-Labriola, la linea “umanistica” dell’hegelismo italiano già proposta da F. Lombardi nel suo Ludovico Feuerbacb (1935) e ribadita in scritti posteriori. Degli Sviluppi dell’hegelismo cfr. la recensione di N. Merher, in “Società”, XIV (1958), pp. 125-132; e, per un successivo dibattito: G. Mastroianni, M. Rossi, N. Mediar, A proposito di alcuni studi recenti sul Labriola, in “Società”, XV (1959), pp. 1011-1032. 266. F. ALDERISIO, Introduzione a B. S., Sul problema della cognizione e in generale dello spirito, Torino 1958, pp. IX-XXXVII. Nuova presentazione dell’introduzione al testo spaventiano del 1858 [113], qui ritoccata e adattata a “finalità didattiche”. L’a. riafferma la “piena e congeniale aderenza” dello scritto di S. “col principio e senso fondamentale dell’assoluto razionalismo di Hegel” (p. XXXIII). 267. V. FAZIO ALLMAYER, Ricerche hegeliane, con prefazione di G. Saitta, Firenze 1959, pp. XVI-325. Cfr. n. 191. 268. F. E. MARCIANO, Storia della filosofia italiana, Romza 1959, pp. VII-425. A S. sono dedicate le ultime pagine dell’ottavo capitolo, che espone il pensiero italiano dell'Ottocento (cfr. in particolare le pp. 334-337). Ma il nome del filosofo è citato spesso nell’introduzione, che riprende e dibatte la questione della “filosofia nazionale”, e quindi del “carattere” della filosofia italiana. La tesi di S. (e di Gentile) vien fatta reagire con quelle di M. F. Sciacca [cfr. nn. 236, 246], di P. Carabellese [cfr. n. 225], e con le vedute di F. De Sarto, che l’a. è incline ad accettate (la filosofia italiana è filosofia dell'esperienza, è sperimentalismo, ha carattere realistico, ecc.). 269. Un “pamphlet” antidemocratico inedito di Bertrando Spaventa (1880), a cura di P. C. MASINI, ir “Rivista storica del socialismo”, II (1959), pp. 304-326. Cfr. n. 116270. E. GARIN, Ur “pamphlet” antidemocratico inedito di B. Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXXVIII (1959), pp. 572-574. Cfr. n. 116. 271. A. BERTONDINI, Irtorno al “Socrate” di Labriola e Spaventa, in “Studi Urbinati”, XXXV (1961), n. 2, pp. 236-248. Dalla lettura dello scritto di Labriola su Socrate è possibile far affiorare il rifiuto della impostazione speculativa che caratterizza l’analisi spaventiana [62] delle Considerazioni di G. M. Bertini. 2584 272. F. ALDERISIO, Introduzione a B. S., Lo stato moderno e la libertà d'insegnamento, Firenze 1962, pp. V- XXXVII. Cfr. nn. 101, 108. L'’introduzione contiene utili indicazioni per favorire una prima lettura delle due polemiche di S., i cui testi — si legge nella “postilla”, pp. XXXVIIT-XLI — ben si prestavano, per la loro “affinità” e “complementarità”, per la “comune ispirazione filosofica ed ideologica,tuttaprotesa verso l'ammodernamento della cultura e dell'educazione e verso il rinnovamento più profondo della filosofia e della vita politica in Italia”, ad essere presentati in un’unica raccolta antologica (tra le recensioni dell’antologia cfr. S. C. Landucci in “Critica storica”, II, 1963, n. 1, pp. 112 sg.; e L. Pinto, in “Il Baretti”, IV, 1963, n. 21, pp. 168-171). 273.S. MAZZILLI, L’hegelismo in Italia, in “Cynthia”, 1962, n. 1-2, pp. 28-32. È l'undicesima puntata di un lavoro, che ha come sottotitolo costante: La problematicità. Qui sono avanzate esplicite riserve contro la teoria della circolazione e contro l’interpretazione spaventiana di Hegel (cfr. il saggio precedente, intitolato I/ divenire Iriadico, 1961, n. 5-6, pp. 39-43: non è vero che Hegel volle “provare l'identità”, come pretende S.; ma v. anche le pagine dedicate a L’attualismo, 1962, n. 4-5, pp. 27-33: è vero che S. ebbe una concezione intellettualistica dell’“atto”, ne vide l'impotenza ad autodeterminarsi; questo, che a Gentile apparve un limite, è per l’a. un pregio della posizione di S., il quale sembra offrirci una confutazione anticipata dell’attualismo). 274. P. ZAMBELLI, Tradizione nazionale italiana e sovranità etica razionale nel’ideologia degli hegeliani di Napoli, in Problemi dell’unità d'Italia, atti del secondo convegno di studi gramsciani (19-21 marzo 1960), Roma 1962, pp. 521-572. Contiene una minuziosa analisi e ricostruzione — con ricchi riferimenti bibliografici - del pensiero etico-politico di S.: dai primi documenti (Pensieri sull’insegnamento della filosofia [2]; l’a. tocca con la dovuta cautela la questione della collaborazione di S. al “Nazionale” del fratello Silvio) ai Principi di elica [97]. La posizione di S. appare all’a. assai “avanzata”, pur nei limiti suggeriti dalla lettura delle pagine dedicateda Gramsci al Risorgimento italiano. Muovendo da una primitiva avversione al Cousin, e dai suggerimenti del fratello Silvio, S. sviluppò il disegno di una storiografia fortemente critica, ispirata da una corretta concezione del nesso che collega la filosofia con il processo storico (va riconosciuto, del resto, che “per la provincia filosofica italiana lo ‘storicismo’ hegeliano non trovò superatori fino al 1895 del primo saggio di Labriola”, p. 535); altrettanto progressive appaiono le vedute di S. sul problema della “nazionalità” della filosofia. Se è lecito riconoscere la disinvoltura “speculativa” dell'equazione: Gioberti = Hegel, assai più importante è individuare e ribadire il valore “pratico”, “efficace”, dell’operazione compiuta da S. (p. 556). Nella Libertà d'insegnamento [108] è disegnato il concetto della moralità autonoma dello stato, i. e. il concetto dello stato-guida, che prepara il momento della libertà, difendendo e promuovendo gli interessi dei cittadini (pp. 537 sg.); ci muoviamo qui su di un piano ben diverso da quello su cui Gentile affermerà il suo ideale dello “Stato forte” (cfr. p. 568: appare equivoca all’a. l'annessione di S. all’attualismo fascista; ai principi di S. si è potuto richiamare il gruppo liberale borghese più avanzato, rappresentato da Gobetti). L'analisi dei Principi di etica consente di concludere che nella prospettiva di S. “i problemi della tradizione nazionale e della autonomia razionale e etica dello stato vengono a convergere con un'impostazione che (se mantiene ovviamente il limite di classe di tutte le ideologie borghesi, che non prendono in considerazione le classi subalterne ed i loro specifici problemi, fittiziamente ridotti e dissolti nell'unità nazionale) pur rappresenta la raggiunta maturità della ideologia liberale in Italia; essa venne condivisa da tutto il gruppo d’opinione che faceva capo ai due Spaventa, a De Meis e a Francesco Fiorentino” (p. 563). Negli scritti della maturità non tornano più le rivendicazioni democratiche (l’appello alla “ragione”, che si identifica con la richiesta del suffragio universale e della gestione repubblicana dello stato) del 1850-51; ma resta e si afferma ancora l’idea dell’ “evoluzione progressiva delle costituzioni” (p. 567). S. Si muoverà certo entro prospettive “borghesi”, e nutrirà forse eccessiva fiducia negli “espedienti” costituzionali; ma vi sono, nel suo pensiero, spunti e riconoscimenti che meriteranno di passare negli scritti e nell’opera del suo allievo Labriola. Nello studio della Z. si dà notizia di una lettera inedita di S. a G. Del Re, del 12 ottobre 1850, che costituisce un altro documento relativo al progetto di traduzione del volume di L. Stein sul socialismo e il comunismo in Francia. 275. I CUBEDDU, Bertrando Spaventa pubblicista (giugno-dicermbre 1851), in “Giornale critico della filosofia italiana”, XLII (1963), pp. 46-65. Lo scritto presenta la ristampa dei testi ordinati in questa bibliografia con i nn. 5, 12, 14 [e cfr. n. 118]. L’autore rende note le ragioni che consentono di attribuirne la paternità allo S. (pp. 50 sg.); riproduce i titoli di altri articoli pubblicati sul “Progresso” di Torino e attribuibili anch'essi, ma con qualche dubbio residuo, al filosofo (pp.52 sg., n. I); indica nello scritto di L. Stein Der Socialismus und Communismus des beutigen Frankreichs la fonte di alcuni articoli spaventiani (pp. 55 sgg.). L'autore conclude (pp. 62 sgg.) con una cauta valutazione di questi testi “democratici” di Spaventa, nei quali il filosofo esprime convinzioni successivamente attenuate o abbandonate. 276. S. LANDUCCI, Di un celebre paragone tra Rivolnione francese e filosofia classica tedesca, in “Belfagor”, XIII (1963), n. I, pp. 88-93. Analisi della formulazione spaventiana del nesso: Rivoluzione francese-pensiero tedesco (in Paolottismo, positivismo, razionalismo, 78), estesa dall’a. all'esame della presentazione del paragone nel discorso di De Meis Darwin e la scienza moderna. L’a. conclude per la derivazione da Heine (fonte anche del Carducci) del paragone spaventiano; e ne individua, attraverso le varianti introdotte da S., gli elementi di originalità. Si legge a p. 93 che S. — con De Meis — volle prospettare e sostenere un “idealismo filosofico” che è “il corrispettivo teoretico delle possibilità pratiche di razionalizzazione dcl mondo, di umanizzazione della realtà, potentemente messe in luce dalla Rivoluzione francese...”. 277. F. TESSITORE, Crisi e trasformazioni dello stato, Napoli 1963, pp. 259. Si veda in particolare, nel primo capitolo (I compiti dello stato), il quinto paragrafo (I/ significato dello stato per Silvio e Bertrando Spaventa, pp. 24-44), che contiene un raffronto delle posizioni di Silvio e di B. sul concetto dello stato libetale e sul problema delle garanzie costituzionali (e cfr., per B., un’osservazione di pp. 30 sg.: lo S. “trascurava, quasi subito, l'interesse generoso di Hegel, che pur a tratti lo attirava, per le manifestazioni ‘oggettive’ del diritto, della moralità, dell’ethos, e seguiva... la via meno certa, meno hegeliana: quella di formulazioni  nell’intimo neogiusnaturalistiche, che ritrovano un’assonanza, certo non fortuita, con lo statalismo di Fichte”). 279.1. CUBEDDU, Berztrando Spaventa, Firenze 1964, pp. 306. Il libro si divide in quattro capitoli. Nei primi due (La nazione vivente, pp. 11-64; Ragione e libertà, pp. 65-118) sono studiati gli scritti spaventiani del 1850-56, dal programma degli Studi sopra la filosofia di Hegel [41] e dei Pensieri sull'insegnamento della filosofia [21], al frammento sulla riforma filosofica, politica e religiosa nel XVI secolo [30]; attraverso gli articoli pubblicati sul “Progresso” nel 1851 (è ripreso qui, pp. 70 sgg., il tema del rapporto S.- Stein), le polemiche con la “Civiltà cattolica”, gli scritti sulla libertà di insegnamento, i saggi su Bruno e Campanella. Un riepilogo (pp. 110-118) di questa prima parte discute l “ampiezza e la struttura specifica... della problematica nella quale si compongono e prendono rilievo gli interessi più vivi del filosofo”, in quegli anni; si allarga “alla considerazione del rapporto di Spaventa a Hegel e agli hegeliani, del significato che è possibile attribuire agli studi sul Rinascimento, e all’atteggiamento genericamente negativo nei confronti dei filosofi italiani contemporanei”; e si conclude “con qualche osservazione sugli orientamenti pratici e politici del giovane filosofo” (p. 110).Quantoalprimopunto,l’a.indica in che senso e entro quali limiti le prime riflessioni e polemiche di S. presentino “uno sviluppo affine alle grandi linee della polemica di Hegel contro Schelling, contro l’empirismo e contro le filosofie della riflessione in genere” (p. 111). Nei saggi sul Rinascimento, viene messo in rilievo un “duplice orientamento” del filosofo, il quale, per un verso, tenta di rielaborare in modo autonomo i temi speculativi individuati in Bruno e Campanella, per un altro verso impegna quegli autori in un confronto esplicito con gli sviluppi dell’idealismo tedesco; con risultati non del tutto convincenti, o non ancora convincenti, prima che S. abbia raccolto i frutti degli studi su Spinoza e Jacobi, e della nuova lettura di Gioberti. I lavori sui Rinascimento vanno ricondotti tuttavia alla “più estesa prospettiva nella quale si inquadrano le esigenze e le convinzioni etico-politiche del giovane Spaventa”, che tenta di cogliere e di elaborare i primi germi di una concezione “organica” della società, nella quale sia dato finalmente “al’uomo di conciliare la propria individualità, la soggettività dei suoi impulsi e dei suoi bisogni, con la necessità della legge” (pp. 115 sg.). In quella prospettiva appaiono all’a. semplicemente riaccostati elementi attinti da diverse matrici (come per es. la critica di Rousseau, che coesisteconlapienaaffermazione della sovranità popolare). All’a. non sembra dubbio, tuttavia, che le formulazioni di S. “non costituiscono né vogliono costituire un vero e proprio programma politico chiaramente e concretamente articolato, e quindi valutabile e criticabile in quanto tale. Il quadro .... programmatico ... di quelle dichiarazioni va trasposto e interpretato su quello stesso terreno sul quale fermentano i propositi di una rigenerazione morale e intellettuale del 2590 popolo, che deve attuarsi attraverso una totale rivoluzione filosofica” (p. 117). Se è possibile ascrivere alla concezione di S. un limite, “che deriva dal carattere parziale della prospettiva in cui si muove il filosofo”, non sarebbe giustificato “svalutare i contributi particolari che Spaventa ha voluto apportare nella discussione di problemi concreti e attuali, come è risultato dall'esame delle polemiche sostenute in questi anni dalle colonne dei periodici piemontesi” (pp. 117 sg.). Il terzo capitolo (Fede e sapere, pp. 119-186) esamina gli scritti spaventiani dcl 1856-59. Tra i lavori studiati in queste pagine vanno segnalati, oltre ai primi saggi su Bruno e Spinoza, l'importante articolo su La filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofia italiana, del 1856-60 [66], un manoscritto inedito di 66 pagine intitolato a Jacobi e qui datato: 1856-57 (per l’analisi dell’inedito, v. pp.151sgg.), e la cosiddetta “parentesi” del 1858, pubblicata da F. Alderisio nel 1933 [113] e qui discussa alle pp. 167 sgg. L’ultimo capitolo (La metafisica perplessa, pp. 187 sgg.) è dedicato all'esame delle prime lezioni napoletane e della Filosofia di Gioberti. [69], il “capolavoro” di S., minuziosamente ricostruito dall’a. (pp. 197-236); segue un ampio paragrafo dedicato agli scritti sulla logica e sull’etica di Hegel (pp. 236-274); le pp. 274-289 sono dedicate a Esperienza e metafisica [94], e agli scritti sulla psicologia empirica. Un riepilogo (pp. 290 sgg.), che discute tra l’altro lo scritto del 1881: Kart e l’empirismo [88], chiude anche questa seconda parte del lavoro. Per una presentazione sintetica delle conclusioni, si vedano le pp. 290-291: “Se volessimo indicare in breve, trasponendo queste considerazioni sul piano di un bilancio complessivo, quale sia il limite che ci sembra risultare dall’analisi della produzione scientifica di Spaventa, dopo il 1860, dovremmo parlare di una riflessione critica che ha spunti e accenti fortemente originali, che abbiamo visto maturarsi sul terreno di una sostanziale armonia con gli interessi e con le esigenze espresse nel programma del 1850, ma che non è riuscita a tradursi — e a placarsi — nella elaborazione di una dottrina altrettanto autonoma e originale. Nel corso dell’ultimo capitolo abbiamo sottolineato di volta in volta quali siano le oscillazioni, le suggestioni, e soprattutto le esitazioni che è legittimo porre in rilievo attraverso la lettura delle opere più fortunate ed anche più mature di Spaventa. La considerazione non ci dispensa dal compito di giustificare, almeno in forma sintetica, il titolo che abbiamo voluto dare all’ultima parte di questo lavoro. In esso si esprime la convinzione che l’interpretazione di Spaventa data da Gentile sia sostanzialmente aderente ai motivi fondamentali e alle esigenze autentiche del pensiero del maestro. Accentuando il tema della perplessità, abbiamo inteso indicare quali e quanti tributi il filosofo ha voluto pagare all’enciclopedia hegeliana, pur continuando a prospettarsi la necessità di prolungarne e di rielaborarne, in forma originale, i risultati e l'insegnamento. Non ci è sembrato proficuo ricercare minuziosamente quali fraintendimenti si frappongano fra l’analisi di Spaventa e il testo di Hegel. L’adesione del filosofo al programma della prefazione alla Ferorzenologia e, più in generale, alle pagine nelle quali Hegel sviluppa con maggiore asprezza la sua critica dei filosofi contemporanei, avrebbe dovuto consentire al maestro — tale era l'intenzione di Spaventa — la ricostruzione della vera ‘enciclopedia giobettiana. Ma il filosofo, a nostro avviso, si è dimostrato consapevole, e fin nelle sue ultime pagine, che questo programma non era giunto al suo perfetto compimento”. I risultati ultimi della ricerca sono resi anche più espliciti nella prefazione (pp. 5- 6): “il proposito di ricondurre a unità l'insieme dei motivi che si innestano nella speculazione di Spaventa, di ricostruirne la fisionomia complessiva e di riprodurne la problematica in un linguaggio non troppo distante dalla nostra sensibilità, riesce a raggiungere il proprio scopo — è una conclusione certamentenonnuova, della quale intendiamo tuttavia assumerci la nostra parte di responsabilità — soltanto accogliendo la critica spaventiana di Gioberti come l’unico strumento che ci consenta di penetrare agevolmente il senso riposto fin nelle pagine più disperse e frammentarie del filosofo, e più lontane, fra loro, nel tempo, dai primi scritti torinesi del 1850 alle ultime polemiche contro il positivismo. Svuotata dei toni e degli accenti ormai estranei al nostro gusto e ai nostri interessi, liberata dalle incrostazioni che costituiscono l’inevitabile residuo nella produzione di un autore dotato di una personalità per molti versi fortemente recettiva, la critica di Spaventa, largamente imperniata sulla polemica con il giobertismo, è in grado di restituirci l’esatta misura dello hegelismo di cui si nutrì il filosofo; il quale seppe mostrarsi hegeliano, per quel tanto che riuscì a tenere insieme le innegabili doti e tentazioni sistematiche con una polemica aderente al “carattere” e allo “sviluppo” proprio del pensiero moderno, italiano e europeo. Questo convincimento implica che si ritenga ancora esatto e accettabile, nelle sue linee essenziali, il giudizio che sull’opera di Spaventa volle dare Giovanni Gentile; il che non significa, ovviamente, accogliere anche le conclusioni teoriche dell’attualismo, ma, più semplicemente, attribuire a Spaventa il merito o la responsabilità di aver avviato — tra incertezze e perplessità che sono pure messe in luce in queste pagine — un’interpretazione di Hegel alla cui storia il suo nome ci appare tuttora indissolubilmente legato”. 2593 279. G. DE CRESCENZO, La fortuna di Vincenzo Gioberti nel mezzogiorno d’Italia, Brescia 1964, pp. 569. Cfr. n. 147. 280. A. GUZZO, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova 1964, pp. 203. Cfr. n. 251. 281. S. LANDUCCI, Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Milano 1964, pp. 512. Cfr. n. 287. 282. S. LANDUCCI, Il giovane Spaventa fra hegelismo e socialismo, in “Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli”, VI (1963), Milano 1964, pp. 647-707. Il titolo non vuole indicare un’incertezza o un’oscillazione che sia da addebitare al giovane S. democratico, collaboratore del “Progresso” e autore degli Studi sopra la filosofia di Hegel. La ristampa degli articoli su La rivoluzione e l’Italia e Le utopie [118], scritti negli stessi mesi in cui il filosofo combatteva dalle colonne del giornale torinese la sua polemica sulla libertà d’insegnamento, offre ormai — secondo L. — il materiale necessario per ricostruire nella sua intera e coerente fisionomia un momento ben preciso della biografia di S.; quel momento in cui si intrecciano, sostenendosi e confermandosi a vicenda, un hegelismo “assai preciso e articolato” (anche se “‘interpretato’ o fortemente sollecitato”, p. 661) e una autentica fede democratica e repubblicana, traducibile in termini di “démocratie sociale, alla francese” (p. 657); per cui gli scritti spaventiani del 1851 vanno a collocarsi “accanto alle opere dei repubblicani non mazziniani fiorite in questi stessi anni e caratterizzate dal continuo riferimento alle vicende francesi” (p. 658). Sullo stesso terreno in cui si incontrano hegelismo, democrazia e socialismo, fermentano i propositi di rigenerazione civile e intellettuale della società italiana, che caratterizzano il primo “programma” di S.; alle discussioni di questo tema L. contribuisce anche ripubblicando un “annuncio” della traduzione spaventiana di Stein [120], rimasto finora ignoto. L’ampio saggio di L. offre al lettore,in sessanta pagine, tante analisi, riflessioni, suggerimenti,non riproducibili qui nei particolari. In generale, il discorso è sviluppato con la preoccupazione di aderire alle varie utilizzazioni — da parte di S. — delle due fonti, Hegel e Stein, nella specifica situazione politica e culturale di quegli anni; sicché il rilievo di residue “astrattezze” non nasce da un impianto già “ideologico” della lettura (cfr. p. es. p. 663: “tutte le rappresentazioni dell’hegelismo italiano che partono da pregiudiziali equazioni ‘ideologiche’ (hegelismo = speculazione, o hegelismo = conservatorismo, ecc.), talvolta non distinguendo sufficientemente neppure tra Hegel e i vari ‘hegeliani’, non possono che fallire il bersaglio”). Nelle prime pagine del saggio, L. difende le convinzioni democratiche e repubblicane di S. (anche contro le riserve di altri interpreti [cfr. n. 275], p. 655; e v. ancora, per questi dissensi interpretativi, pp. 661, 673, 704), accettando la derivazione steiniana degli articoli sul “Progresso” (p. 649), ma rivendicando l’autonomia della lettura spaventiana in molti punti (v. pp. 650, 660, 671, 682). Nel democratismo di S. cè un’ “indubbia precarietà”; c'è una “astrattezza teorica” nella posizione del filosofo che, dopo il 1851, comincia a orientarsi verso un atteggiamento da ultimo conservatore-autoritario. Gioverà tener presenti i due aspetti dell'ideologia di S. (e di molti hegeliani, con lui): l’aspetto, appunto, “conservatore” dello “stato etico”, e quello “giacobineggiante e antidottrinario”, che ha la sue radici nelle polemiche torinesi del 1850-51, e che continuerà ad operare anche dopo il 1860 (pp. 656 sg.). Ma c'è, poi, “astrattezza” e “astrattezza”; c’è il socialismo “escatologico” e “universalistico” di La rivoluzione e Le utopie, c'è il più corposo antidottrinarismo della polemica sulla libertà d'insegnamento, in cui la prospettiva escatologica, a contatto con problemi attuali e reali, si precisa come “tentativo di sollecitare da sinistra un’evoluzione in senso più democratico della politica del Regno sardo” (pp. 681 sg.: e cfr. p. 695). Gli articoli sul socialismo hanno certo un “carattere tutto teorico, ideologico’: “la formula democraticorepubblicana del popolo oppresso” non coglie gli effetti specifici del “meccanismo del profitto industriale” (p. 671); ma da Stein S. mostra di ricavare anche indicazioni sul rapporto tra das Gesellschaftliche e das Wirtschaftliche (ivi; cfr. p. 649). Nella ricerca delle dimensioni reali, storiche, che strutturano gli orientamenti del giovane S., acquistano allora particolare rilievo, per il L., le prime battaglie del filosofo: la sua critica della religione (pp. 652 sgg.; e cfr. p. 654, sull’uso “non speculativo” della dialettica hegeliana dello spirito assoluto), gli scritti sul problema della libertà d’insegnamento (contro le tesi del “Risorgimento”, organo dei cavouriani), e la polemica contro la “Civiltà cattolica”, e contro la critica cattolico-reazionaria dell’hegelismo (matrice del socialismo, del comunismo ecc.; v. soprattutto le pp. 663 sgg.). Se si tiene presente il contesto storico (anche sotto il profilo della diffusione delle idee) da cui emergono questi primi scritti di S., sarà possibile trovare una collocazione reale per il socialismo “astratto” del loro autore; la prospettiva “escatologica”, espressa in termini “ideologici”, “speculativi”, non si traduce mai in mera esercitazione “retorica”: sicché non sarebbe giusto sommergere le formulazioni spaventiane sotto il peso dell’Ideologia tedesca (cfr. pp. 651, 658, 680), né sarebbe esatto, neppure filologicamente, rintracciarne i limiti nel peso esercitato dagli schemi di una filosofia della storia già distorta in senso speculativo. Giacché l’hegelismo del primo S. è tutt’altro che “accademico”; il rapporto filosofia hegeliana-democrazia francese si costruisce, in S., attraverso il richiamo alle pagine più “progressive” di Hegel (e alle pagine della Filosofia della storia, prima ancora che a quelle della Filosofia del diritto): si vedano i rilievi di L. a proposito della concezione della libertà come libertà “categoriale”, dell’ “assunzione estremamente seria, e praticizzata, dei concetti hegeliani di Fresbeitsbewusstsein e di freie Personlichkeit”, della giustificazione delle rivoluzioni in base allo “scarto” tra “ragione” e “esistente”, tra la realtà e le (nuove) idee, tra la realtà e gli istituti giuridico-politici ormai superati (pp. 660-663). Nella critica spaventiana di Rousseau — sviata, in certa misura, dagli equivoci giudizi di Hegel — va dato rilievo all’ “intenzione giacobina, contro i criteri formalistici di rispetto delle forme liberaldemocratiche” (p. 672 sg.). Nella critica degli appelli alla natura va letto il rifiuto di quella “tipica commistione del naturalismo biblico teologico con il naturalismo ideologico della moderna economia politica” che è prospettata nel Rirzovamento di Gioberti (p. 675). “In queste prese di posizioni, non si ha se non un’accentuazione estremamente progressiva della concezione hegeliana della storia: è del tutto superata l’identità settecentesca di ratura e ragione; tra i due termini è istituita una scissione radicale, e quella razionalità reale che domina nella storia universale è considerata foto coelo diversa e opposta alla immediata natura. Questo è il grande acquisto intellettuale ormai raggiunto dallo Spaventa” (ivi). È l'acquisto “vichiano” e “hegeliano” di S., la scoperta del “lato attivo” dell’uomo, nel suo rapporto con la natura; scoperta celebrata da Marx, e da Labriola (p. 676). Tutto questo implica l'abbandono del naturalismo illuministico, in una prospettiva ancora illuministica “se per ‘illuminismo’ si vuoi semplicemente intendere, categorizzando il termine, il particolare radicalismo di una critica razionalistica dell’esistente storico” (p. 677). In che senso le pagine di Hegel riescano a confortare questo orientamento di S. — che si sostiene, tra l’altro, in base a numerosi richiami a Kant, e al Kant della Critica della ragione pratica —, L . lo ricava da un’analisi (pp. 683-693) dell’articolo su Schelling, del 1854, qui largamente riprodotto [22]. Nel necrologio diSchellingvengono alla luce le “origini” della riflessione di S., “l’ispirazione rivoluzionaria, ‘francese’, l'ispirazione della Filosofia della storia... [e la]... polemica contro l’intuizionismo irrazionalistico, la rivendicazione della ragione e delle determinatezze in contrasto col formalismo insieme intellettualistico e mistico’ (i. e. l'ispirazione della Prefazione alla Fenomenologia): i due temi (pp. 690 sg.) che strutturano gli Studi sopra la filosofia di Hegel e che rappresentano i due aspetti di una stessa polemica, contro Gioberti (pp. 692 sg.; alle pp. 687 sg. v. anche alcune osservazioni sulle radici del parallelo Rivoluzione francese — filosofia tedesca in S., per il quale cfr. n. 276). Nell’ultima parte del saggio (pp. 693 sgg.) L. riproduce e commenta l’ “annuncio” della traduzione di Stein, da lui 2598 scoperto [cfr. n. 120]; un testo più “moderato” degli articoli del ‘51, ma che interviene anch’esso a confermare il quadro delle “origini” del pensiero di S.: le — prime — fonti hegeliane (Feromenologia e Filosofia della storia) confluiscono in una Weltgeschichte, la cui prospettiva universalistica appare anche come il riflesso del riconosciuto “carattere internazionale dei fenomeni economici e dei problemi sociali in età moderna” (p. 698). A p. 696 si legge questa osservazione: “In certo senso si potrebbe dire che la lettura dello Stein tenne il luogo, per Spaventa, di quegli studi degli economisti moderni che lo Hegel aveva compiuto in gioventù e dei quali il nostro autore poteva avere qualche sentore solo attraverso la biografia del Rosenkranz”. Ora L. conclude: “Così, attraverso questa presentazione [scil. l’ “annuncio” del 1850], l'interesse di Spaventa per lo Stein appare tutt'altro che estemporaneo nella biografia intellettuale del filosofo: in qualche modo parallelo a quello per Hegel. Da un lato una traduzione dal francese, dall’altro una traduzione dal tedesco; ma traduzioni che volevano essere interpretazioni, non ‘calchi’. Non provincialismo, ma neppure vacuo cosmopolitismo...” (p. 699). Dunque queste “origini” forniscono indicazioni concrete anche rispetto agli sviluppi posteriori del programma degli Stud:: alla teoria della “circolazione” e alle tesi sulla “nazionalità” della filosofia. Resta il problema del passaggio di S. (e deglialtri hegeliani) dal democratismo avanzato degli inizi al più tardo conservatorismo, “certo illuminato ma anche assai chiuso e non di rado arcigno” (p. 703). Lo studio di L. si chiude con un richiamo alle indicazioni di Gramsci sulle ragioni di “classe” che determinarono l'assorbimento nelle file dei moderati di quegli intellettuali democratici. 283. G. OLDRINI, Gt begeliani di Napoli. Augusto 2399 Vera e la corrente ortodossa, Milano 1964, pp. 299. La figura di Augusto Vera merita “la più attenta considerazione e il più attento esame” per “la complessa natura delle intersezioni della sua filosofia con i problemi della società contemporanea lungo tutto l’arco del Risorgimento europeo, in paesi chiave (Francia, Inghilterra, Italia) e in nodi storici culminanti (il 1848, l’unificazione italiana, la Comune, i prodromi dell’imperialismo)” (p. 13). L'impostazione e il metodo della ricerca, che tiene conto delvario e complesso intreccio di prospettive filosofiche e atteggiamenti pratici, sotto la spinta degli eventi via via maturati nella storia italiana e europea, consentono di offrire allo studioso di S. (e della sua scuola) nuove prospettive: in primo luogo, la presentazione del rapporto S.-Vera (del rapporto tra idealismo “critico” e idealismo “ortodosso”) al di fuori dello schema tradizionale, che oppone i due filosofi come rappresentanti di due diversi orientamenti speculativi, in ultima analisi come due diverse “personalità” filosofiche. Interessa lo studioso di S. e della scuola spaventiana soprattutto il secondo capitolo della parte seconda, intitolato: Le lotte filosofiche interne del circolo di Napoli, pp. 164-239. L’unità apparente (e necessariamente apparente, se si bada alle diverse “radici della formazione hegeliana di Vera”, che “non sono le stesse di quelle del gruppo spaventiano dei fuorusciti”, p. 168; ma su questo punto, si veda tutta la prima parte del lavoro, dedicata alla “genesi dell’hegelismo napoletano”, alla “formazione filosofica” e alla “svolta hegeliana” di Vera) che caratterizza il “fronte hegeliano” di Napoli fino al 1863-64, comincia a incrinarsi visibilmente nei primi scontri tra “ortodossi” e “critici” sul problema della nazionalità della filosofia (pp. 167-171); la portata e le ragioni del dissidio che 2600 contrappone l’uno all’altro i due orientamenti si rendono più esplicite attraverso l’analisi delle divergenze rilevabili nella presa di posizione di S. e di Vera sulla questione del rapporto fenomenologia-logica (pp. 172-180; cfr. pp. 177 sg.: dal momento che S. nella fenomenologia “non sottolinea come Vera — o non sottolinea accentuatamente come V era — il momento della denegazione del processo di elevazione della coscienza a scienza in favore dello sbocco nel‘sapereassoluto’, può anche mantenere nei confronti della riforma ‘auspicata da Trendelenburg un atteggiamento molto più elastico e libero... può... scorgere nel ‘movimento’ assunto come ‘primo’ ... il lato realmente attivo, positivo, che lo assimila al ‘pensiero’, poiché anche il pensiero, in se stesso, è movimento: movimento logico”). Il contrasto tra le due scuole si approfondisce sotto la spinta di nuove tendenze (naturalismo, positivismo...) che si impongono come riflesso del “progresso impetuoso dell’attività pratica” (p. 181), e che contribuiscono alla formazione di una “terza scuola” (Siciliani; Fiorentino, Tocco, poi Masci; ecc.), ancora in qualche modo controllata o almeno ispirata da S.; la nuova scuola si presenta come “fronte unico” contro l’ortodossia, e costringe gli ortodossi ad arroccarsi “in una strenua difesa a qualunque costo della filosofia della natura di Hegel” (p. 194). La paura del positivismo e del materialismo spinge sempre più decisamente Vera sulla strada che sbocca nella presentazione della scienza e della metafisica “come rigidi estremi contrapposti” (p. 197). Ma se il destino di Vera e degli ortodossi si consuma, attraverso il progressivo “isolamento” del gruppo, nella totale autodissoluzione della dottrina (pp. 228-239), il profilarsi di una “sinistra materialista” come espressione di una spinta popolare sempre più minacciosa e temuta blocca gli intellettuali borghesi meridionali più avanzati su posizioni di difesa. Per 2601 l’analisi del fenomeno, allargata all’individuazione dei suoi fattori economici e politici, si vedano le pp. 201-215. “Gli intellettuali borghesi meridionali si stabilizzano sulle proprie posizioni egemoniche di classe, cessano di rappresentare, sia nei confronti dell'evoluzione sociale del paese, sia nei confronti della classe borghese in generale, una forza viva, attiva,storicamente progressiva, e preoccupati più di non cedere terreno, di non farsi soverchiare dalla pressione popolare in crescita, che di promuovere una spinta in avanti, perdono in capacità di iniziativa, organizzazione, penetrazione” (p. 207). Matura così la formazione di una “nuova destra” (Maturi, Jaja) nel circolo di Napoli. “Come le pericolose oscillazioni della struttura quanto mai instabile della società spingono la borghesia a puntare sulla dissoluzione dei vecchi partiti politici, così altrettanto, in filosofia, la vecchia destra ‘ortodossa’ e la vecchia sinistra ‘critica’sono travolte e dissolte dal movimento della nuova generazione intellettuale; e come gli ideologi borghesi giustificano l’operazione dell’ ‘endosmosi istorica” e del ‘trasformismo’ col pretesto di sbarrare la via alla marea montante del proletariato e di salvare in questo modo il patrimonio di libertà e di civiltà faticosamente acquistato nei lunghi anni delle lotte risorgimentali, così col pretesto di salvare tutt’intera l'eredità culturale dei vecchi maestri del circolo, di Vera e di Spaventa, la tendenza trasformistica del tardo idealismo filosofico napoletano giustifica il rilancio del loro insegnamento in guisa volutamente così truccata... da presentarne l’apporto in sostanza come identico, come due facce della stessa medaglia” (pp. 215 sg.). Ma né Spaventa né De Sanctis appaiono travolti in questo processo involutivo: si vedano le pagine dedicate al loro “tentativo di un superamento ‘critico’ interno dello hegelismo” (pp. 220- 225), seguite da un paragrafo sulla “eredità spaventiana di Antonio Labriola” (pp. 225-227). Riprendendo, tra l’altro, la proposta di G. Berti [cfr. n. 255], l’a. scrive: “Contro la chiusura filosofica della ‘nuova destra’, contro l’involuzione trasformistica, in politica, della Sinistra storica, De Sanctis e Spaventa attuano in filosofia e in politica, per quanto riescono, rimedi lungo un arco che va, politicamente, dalla fondazione di una ‘giovane sinistra’ costituzionale... alla lotta per la moralizzazione e la riforma dello ‘spirito di consorteria prevalente nell’andazzo di una politica governativa che alimenta discriminazioni e privilegi in favore delle classi agiate, e a una linea programmatica di rinnovamento profondamente democratico del paese, di ricambio dei quadri dirigenti, di irradiazione e diffusione della libertà, della civiltà, della cultura, di una moderna concezione laica del mondo; e che ha d’altra parte il suo correlativo, sul piano delle idee, in un forte movimento di pressione per una svolta anche filosofica a sinistra, inaugurata proprio dal tentativo di Spaventa e De Sanctis di un superamento ‘critico’ interno dello hegelistno, che in loro avviene, come si è detto, nella stessa direzione:dall’astratto al concreto, dalla metafisica delle idee a un assorbimento della metafisica nella ‘filosofia del reale’”” (pp. 22330.) Oltre ai rimanenti, numerosi richiami a S., si veda, a p. 250, il testo di una lettera inedita di Vera a S. sul rapporto di politica e religione, lettera che è l’“unico documento epistolare che ci resta” dei rapporti tra i due filosofi. Di G. Oldrini v. anche La crisi della cultura filosofica napoletana sul declino dell'Ottocento, in “Rivista critica di storia della filosofia”, XXI (1966), pp.141-177, 264-284. 284. B. WIDMAR, Antonio Labriola, Napoli 1964, pp. Viene citato qui soprattutto per il primo capitolo (pp. 393-441) della seconda parte, dedicata a Labriola e i suoi critici; il capitolo presenta un’ampia rassegna di studi, fra i quali il saggio di Berti del 1954 [255], lo scritto di Togliatti dello stesso anno [258], gli articoli di A. Plebe del 1953-54 [252], la Ripresa spaventiana di F. Alderisio [259], gli Sviluppi dell’hegelismo di M. Rossi [265], ecc. Per i rapporti S.-Labriola vedi anche il primo capitolo della parte prima (La giovinezza di A. Labriola, pp. 9-81). L’a. tende ad attenuare il nesso S.-Labriola, rifiutando la tesi proposta da G. Berti (per il rilievo dei limiti della posizione di S., cfr. anche l’introduzione di W. All’edizione de La filosofia italiana, da lui curata [cfr. n. 99], pp. 5-19). 285. D. D'ORSI, Uxa scoperta di notevole importanza; il testo inedito della “Fenomenologia” di Bertrando Spaventa, in “Sophia”, XXXIII (1965), n. 1-2, pp. 138-147. 286. E. GARIN, Antonio Labriola e i saggi sul materialismo storico, introduzione a A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, Bari, 1965, p. VII- 287. S. LANDUCCI, L’hegelismo in Italia nell’età del Risorgimento, in “Studi storici”, VI (1965), pp. 597-628. Alcuni temi già individuati in precedenti analisi [cfr. n. 276, 282] sono ripresi qui e riproposti nel più ampio disegno di “un problema autentico nostro, di noi italiani” (p. 597, n.): un problema di “tradizione”, nei confronti di quell’hegelismo che “non è stato solo un movimento accademico, di professori, ma è stato un elemento della vita civile della nazione nel momento culminante del suo Risorgimento” (p. 615). C'è una duplice “eredità teorica” dello S. La scoperta delladimensione“pratica” dell’autocoscienza, nella rielaborazione della Ferorzenologia (pp. 605 sg.); la rivalutazione del “positivo umano” (pp. 607 sgg.); la reinterpretazione della logica hegeliana nei termini di una metodologia imperniata sulla “definizione genetica” e il disegno di una antropologia filosofica, non naturalistica (p. 610): questa è l'eredità ripresa da A. Labriola. C’è anche l'eredità dell’ultimo S., raccolta da Jaja e da Gentile: la “rivendicazione dell’apriori gnoseologico”, che mette capo a “una forma di umanismo spiritualistico” (p. 611); l’ultimo S. lavora alla “conservazione del sistema [hegeliano]... con modificazioni al suo interno” (p. 614; sul “riformismo” di S. in sede di logica, cfr. pp. 603 sg., e relativa nota). Più complesso appare il discorso sullo S. politico. Per lui (come per De Sanctis, De Meis, ecc.) si “fanno subito avanti problemi di sviluppo ideologico legati allo sviluppo politico del nostro paese”; problemi che non si risolvono registrando -— semplicemente — la “conversione” di alcuni intellettuali democratici a posizioni di moderatismo variamente colorato, o rubricando, per S., le polemiche contro la “Civiltà cattolica” e le riflessioni sul rapporto stato-chiesa sotto la voce: “anticlericalismo” di moda (pp. 614, 627). Dal 1848 l’hegelismo italiano acquistò un vigore “civile” che non andò perduto dopo il 1860. “Se nacque in provincia e finì poi come fenomeno ‘europeo’, nel suo momento di maggior vigore l’hegelismo italiano fu altro: un fatto nazionale — come interpretazione della rivoluzione ‘nazionale’ che s'andava compiendo e sollecitazione per uno sviluppo moderno, avanzato, di essa; e come teoria, in una parola, della connotazione eminentemente politica che avrebbe dovuto assumere il concetto di nazionalità” (p. 616). Riaffiorano ora nel discorso di L. temi già emersi nello scritto sul giovane S. [282]: l’appello alla Filosofia della storia, il motivo hegeliano-illuministico della ragione che “rovescia l'esistente”, il superamento del cosmopolitismo astratto (Vera) e del cosmopolitismo reazionario, controriformistico (Gioberti), nelle prime lezioni napoletane. Nella teoria della “circolazione”, al di là degli schemi e delle forzature, va letto “l’avvertimento di un problema reale, e di ungrande problema, anzi la prima esatta presa di coscienza di esso in senso critico, il problema stesso al quale si ritroverà di fronte anche il Labriola in rapporto al materialismo storico”: il problema della tradizione nazionale. “Che l’hegelismo di Spaventa non sia stato solo teoria della rivoluzione nazionale, ma anche, in connessione, posizione del problema stesso della ‘tradizione nazionale’, comporta di nuovo ch’esso non risulta chiuso nella sua epoca storica, bensì lascia un’altra eredità che attraverso una linea precisa torna a giungere a noi. Inoltre, della concreta ricostruzione spaventiana rimangono indicazioni non più smentite: Bruno, Campanella, Vico” (p. 620). E restano la battaglia contro il giobertismo, contro l’ “abito retorico” e la “mentalità retrograda” dei secoli bui, resta la rivendicazione dell’Italia del “libero pensiero” contro l’Italia “dei carnefici e degli oscurantisti” (p. 621). Le ultime pagine (622 sgg.) ribadiscono il “carattere accentuatamente radicale” che l’hegelismo di S. seppe mantenere anche negli ultimi scritti dedicati alla discussione di questioni etico-politiche; i motivi ispiratori del “giovane” S. continuarono ad operare nella difesa dello stato laico, che trae “la sua legalità dalla sovranità popolare anziché dal diritto storico o da consacrazioni superiori”, e nella delineazione di un “ethos nuovo” (p. 627 sg.). Questa è l'eredità che rimane, malgrado le formulazioni “ideologiche” di cui pur appare rivestita; “se una memoria tragica si è storicamente interposta fra noi e la formula dello ‘stato etico’, ben di qui si impone di riattingere nella sua genuinità il contenuto di quell’eticità reale che allora rivendicarono, quando si costruiva una realtà nuova, i nostri hegeliani” (p. 628). Dello stesso autore va segnalato anche il volume: Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Milano 1964, pp. 512. Il nome di S. è avvicinato più volte a quello del De Sanctis, per indicare i numerosi punti di contatto tra i due autori, sul piano di un comune impegno culturale sviluppato in una direzione “nazionale” e non astrattamente intellettualistica o anacronisticamente  cosmopolitica, con. la piena consapevolezza del compito “politico-pedagogico” che spetta al lavoro degli intellettuali. 288. F. ALDERISIO, Ur articolo ineditodi B. Spaventa circa l’unità organica della filosofia di Bruno e circa l’attinenga di questa con la filosofia di Spinga, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XLV (1966), pp. 218-225. 289. D. D’ORSI, prefazione a B. S., Scritti inediti e rari (1840-1880), Padova 1966, pp. IX-XVI. 290. E. GARIN, Storia della filosofia italiana, 3 voll., Torino 1966, pp. XIV-495, VII+496-954, VII+955-1383. Da vedere l’ “avvertenza” del 1966, per il raffronto tra questa edizione e la precedente [cfr. n. 244]. La seconda edizione presenta integrazioni e correzioni soprattutto nell’apparato delle note, “trasformato in un inizio di bibliografia essenziale ma sistematica”, che rende conto di nuove e mutate prospettive storico-critiche. Le pagine che riguardano direttamente S. appaiono sostanzialmente identiche nelle due edizioni. Si vedano, dell’introduzione del 1966 (vol. I), soprattutto le pp. 10-14 (= 1947, vol. I, pp. 7-10), dedicate alle tesi delle prime lezioni napoletane di S. (con qualche riserva sulla storiografia spaventiana “fatta di precorrimenti”, ma anche col riconoscimento della sua fecondità), nel corso di una rassegna delle diverse interpretazioni e valutazioni della tradizione filosofica italiana nella storiografia illuministica e risorgimentale, fino a Croce e Gentile e agli storici più recenti (su S., cfr. ancora pp. 22-24). Nel capitolo sugli hegeliani italiani, a S. sono dedicate dieci pagine (vol. III, pp. 1229-1238 = 1947, vol. II, pp. 627-636). L’itinerario di S. si snoda, secondo G., senza fratture lungo una linea la cui coerenza risulta soprattutto se si tengono presenti il programma di rinnovamento culturale e i bersagli polemici del maestro; le pagine sulla nazionalità, la tesi della “circolazione”, la ricerca di un hegclismo “autonomo” (S. “intendeva ascendere alla sua logica attraverso una sv4 fenomenologia”) si accordano bene con le ultime indagini sul “valore dell’esperienza”, rivalutata appieno in nome di un “assoluto umanismo”, che è “rigida aderenza all'attualità spirituale nella sua storica concretezza”. Un “epilogo” (rinascita e tramonto dell’idealismo, vol. II, pp. 1261 sgg.) aggiunto nella edizione del 1966, indica già nel titolo il taglio con cui è condotto il discorso sulla filosofia italiana del Novecento. Si conclude accennando a una “problematicanuova”, ispirata alla lezione di Gramsci; e si apre con un richiamo alle reali, autentiche esigenze di S., filosofo “della rivoluzione” negli anni giovanili, aperto più tardi a una problematica ‘positiva’, anche se antipositivistica, mai chiuso entro “limiti provinciali”; interprete, sì, di Galluppi, Rosmini e Gioberti, teorico certo della “circolazione”, ma “sotto la doppia urgenza di un processo politico in atto, e di una presa di posizione polemica all’interno di quel processo politico medesimo”. La figura di S. appare nella sua giusta luce, più che nelle interpretazioni “speculative” dei suoi scritti, nella lettura attenta delle sue pagine polemiche, contro la tradizione platonizzante della filosofia italiana, contro il “rinnovamento” del Mamiani; si disegna chiara nella «più sfumata discussione del positivismo: una discussione, questa, ben consapevole dell’importanza dell’avversario”. Qui, S. si incontra con De Sanctis (vol. III, pp. 1262-1264). Questa insistenza sull’umanismo di S., sul carattere “positivo”, “critico” del suo filosofare; questa nuova presentazione del parallelo S.-De Sanctis (e del rapporto S.- Labriola), rimandano alla lettura di altre pagine di G. Intanto, al primo capitolo delle Cronache di filosofia italiana (nell'edizione del 1966 [Bari], pp. 1-20; cfr., in particolare, pp. 14 sgg.). Poi, allo scritto Antonio Labriola e i saggi sul materialismo storico,premesso a A. Labriola, La concezione materialistica della storia, Bari 1965, pp. VII-LXV. Sono da vedere, qui, soprattutto le’ pp. XXII-XXX, sull’insegnamento di S. dopo il 1862, e sul peso che ebbe, quell’insegnamento, nella formazione di Labriola. Il “rapporto fra Labriola e S., così come l’hegelismo e l’herbartismo coesistenti dialetticamente in Labriola, e il suo atteggiamento tanto duramente polemico contro il positivismo, e poi il suo movimento verso il marxismo, non si intendono se non si restituisce il suo volto al magistero napoletano di S. dal ‘62 in poi, così poco hegeliano ‘ortodosso’, ma anche così lontano dalle vie percorse, attraverso l’esperienza feuerbachiana, dai ‘giovani hegeliani” tedeschi” (p. XXIX). L'incontro S.-Labriola ha avuto un significato decisivo, che va ribadito, non certo “ai fini di più o meno artificiose genealogie (Hegel-S.-Labriola) o di improponibili simmetrie (Hegel-S.-Labriola, corze Hegel- Feuerbach-Marx). Quel che importa sottolineare è altro: è la trascrizione della ‘circolazione’ operata da Labriola sul terreno storico, nel senso che nell’Italia comunale si individua l’avvio della società borghese (‘comincia prima che altrove... e poi si arresta’), ponendosi così il problema dei motivi di quell’arresto, e l’esigenza di una consapevolezza, necessaria per rientrare nel circolo del processo politico europeo” (p. XX sg.). Non basta, però: c’è un passaggio reale, un legame che resta, tra il rigore critico e scientifico del maestro, e quello dello scolaro, avviatosi poi su altra strada. Da S., Labriola eredita l’ “immagine della filosofia come ‘scienza’, come elaborazione di concetti, come coscienza critica”, “contrapponendola alla ‘filosofia scientifica”; con S., Labriola vede in Hegel “un punto fermo, ma non un sistema definitivo”; più tardi, “vedrà analogamente in Marx una conquista in campi determinati, una tappa necessaria, un’acquisizione metodica essenziale, non un’ ‘onniscienza’, una enciclopedia da ripetere per sempre” (p. XXXII). In questa prospettiva si può parlare di un nesso S.-Labriola, presentato qui in pagine che vogliono servire a illuminare la figura e l’opera di entrambi i filosofi. 291. M. A. RASCHINI, Validità e limiti dell’interpretazione spaventiana del Rosmini e del Gioberti, in “Giornaledi metafisica”, XXI (1966), pp. 265-269. “Lo Spaventa afferma che la coscienza o unità originaria del conoscere come puro conoscere, in quanto è sintesi, è relazione tra i termini ad essa immanenti. In questo concetto fondamentale di relazione sta il problema attraverso cui cercare l’incontro; esso è veramente il centro della problematica post-kantiana e, per quel che ci interessa, spaventiana, rosminiana, giobertiana”. Su questo piano, che fissa i limiti entro i quali è autentico l’incontro di S. con Rosmini e Gioberti, può svilupparsi un discorso che indica nel concetto di “relazione” proposto da S., e nella dialettica che dovrebbe esprimerla, la “contrazione di una tesi più ampia”, di una più valida “mediazione” che, in Rosmini e Gioberti (e sia pure con qualche differenza tra i due autori), è aperta alla ricerca di una fondazione ontologica. 292. G. VACCA, Recenti studi  sull’hegelismo napoletano, in “Studi storici”, VII (1966), pp. 159-209. L’ampia rassegna prende in esame tutti gli studi apparsi nell’ultimo quindicennio, ma si richiama anche a lavori e prospettive meno recenti (Croce, Gentile, L. Russo...) per presentare un preciso raffronto delle diverse linee in cui si svolgono, convergendo o divergendo fra loro, le varie interpretazioni. Il discorso critico di V. — sviluppato in forma autonoma nella ricerca condotta dall’a. sul nesso di politica e filosofia nello S. [cfr. n. 295] — è ispirato dalla esigenza di riconoscere nel momento etico-politico e politico-culturale il filo conduttore di tutta l’opera del filosofo napoletano. Tra le opere richiamate o esaminate dall’a. interessa qui segnalare: gli studi di G. Arfè [254], G. Berti [255], P. Zambelli [274], I/ giovane Spaventa di S. Landucci ([282]; ma anche il lavoro su De Sanctis e la relazione del 1965 [287]), lo Spaventa e Vera di A. Plebe [252], i lavori di I. Cubeddu [275, 278] e di G. Oldrini [283]. 293. M. AGRIMI, Bertrando Spaventa e l'eredità hegeliana, in “Trimestre”, I (1967), n. I, pp. 141-153. Ampia nota, che prende l’avvio dal recente volume di G. Vacca [cfr. n. 295], “un lavoro rigoroso e certamente il più completo ad articolato sull'argomento, che inquadra l’accurata informazione critica e la dettagliata e lucida ricostruzione dello svolgimento del pensiero spaventiano in una più ampia prospettiva storiografica” (p. 150). A proposito del libro di Vacca, l’a. conclude: “Una così energica rivalutazione di Spaventa non può comunque non determinare un riesame della linea di svolgimento del pensiero italiano contemporaneo: linea peraltro in più parti indistinguibile o appena tratteggiata. Può muovere da Spaventa un filone di pensiero in direzione di una filosofia della prassi? Non è facile ammetterlo, e comunque si dovrebbe passare per mediazioni e recuperi molto difficili. Ma sono ancora ammissibili ricerche di genealogie filosofiche ‘nazionali’, in cospetto di eventi storici che ci costringono a ‘pensare mondialmente’? Gramsci, come si sa, su questo terreno urtava non di rado in contraddizioni e incertezze...” (p. 152). Per l’a., resta aperto il problema di “stabilire le ragioni per cui, malgrado l'appassionato sforzo spaventiano, l’hegelismo non riuscì a divenire l’ideologia politica e culturale del nuovo Stato nazionale...” (p. 148; cfr. p. 152: “lhegelismo spaventiano esce dalle pagine del Vacca ricco di una carica innovatrice e progressista, che non sembra però incidere sulla vita nazionale del tempo”). Per qualche suggerimento offerto dall’a., si veda, tra l’altro, pp. 148. sg.: la teoria spaventiana della circolazione, l'adattamento dell’hegelismo “all’antica tradizione italiana” finisce col ricongiungersi — o comincia a ricongiungersi — con le intenzioni di uno storicismo pacificatore, che ha perduto il senso della lezione illuministica, il senso della “insopprimibile distanza” e dello “scontro dialettico tra ‘razionale e reale’, tra ‘verità’ e ‘storia’, tra ‘pensiero’ e ‘realtà’, condizione indispensabile di una tensione costruttiva e progressiva rivolta a trasformare la realtà...”. 294. S. ONUFRIO, Lo “stato etico” e gli hegeliani di Napoli, in “Nuovi Quaderni del Meridione”, V (1967), pp. 76-90, 171-188, 271-287, 436-457. Alle pp. 76-90 e 171-188, ampia rassegna degli studi sul pensiero politico degli hegeliani napoletani, pubblicati a partire dal 1920 (l’a. esamina tra gli altri i lavori di De Ruggicro [202], S. Caramella [201], L. Russo [210], il S/vz0 Spaventa di P. Romano [P. Alatri; 1942], gli studi della Zambelli [274] e di G. Berti [255], il volume di G. Oldrini su Vera [283]). Alle pp. 271-287 Onufrio affronta un riesame degli articoli del “Nazionale” (anche in connessione con le indicazioni di G. Vacca [295]); e nelle pagine 436- 457 offre al lettore una analisi degli scritti politici di S. — dagli articoli sul “Progresso” ai Principi di etica — che, pur accogliendo diverse indicazioni dei più recenti studi sull'argomento, si conclude con il rilievo dell’ispirazione sostanzialmente liberale della filosofia politica del vecchio hegeliano. 295. G. VACCA, Politica e filosofia in Bertrando Spaventa, Bari 1967, pp. 301. Tutti gli scritti di S. sono sorretti da “un’intenzione politico-culturale, risalente ad una precisa’ visione dell’unificazione nazionale e della necessaria ricostruzione culturale. La curvatura ideologica con cui Spaventa visse i fatti e le passioni del Risorgimento italiano, si delinea dunque come il filo rosso della sua filosofia”. L'analisi, condotta attraverso il continuo riferimento al terreno in cui si incontrano passione politica e riflessione teorica, restaura la connessione “genetica” dell’ “intero impianto” della filosofia di S. e consente la presentazione di uno S. “modernissimo e ‘europeo’, che andava smarrito nella prospettiva attualistica” (p. 7). La monografia di V. è sviluppata nella linea dei recenti studi, che tendono a recuperare la dimensione etico-politica dell’opera di S. (per una discussione di questi scritti impostata dall’a. del libro, cfr. n.292). V. disegna tuttavia con tratti più decisi la figura del primo S. democratico, ricollegando gli scritti sul “Progresso”, anche quelli ristampati nel 1963 [118], all’attività del “Nazionale”, e restaurando le linee di una “formazione politica militante” dei due S.; e rimette in discussione l’opera dello S. maturo, dello storico, del riformatore della dialettica e del critico del positivismo, che nasconde “a livelli sempre nuovi e a volte estremi di mediazione”(p. 66; cfr. pp. 119, 171), senza però abbandonarla, l’ispirazione e le esigenze originarie (l’ultimo capitolo si intitola: Storicismo e antropologia. La filosofia come fondazione metafisica della prassi). Il primo capitolo (Il “Nazionale” e il ‘48 napoletano nella formazione degli Spaventa, pp. 9-62) si conclude con un’importante appendice (pp. 63-84), in cui l’a. affronta il problema della formazione di B. nel decennio 1840-50, riprendendo l’ipotesi della sua collaborazione attiva al “Nazionale” e alla rivista di Silvio del 1844. È evidente lo stretto rapporto (identità di temi, e finanche di espressioni letterali) che lega gli articoli di B. del 1851 a quelli del “Nazionale”, attribuiti a Silvio. Le origini delle convinzioni democratiche e repubblicane degli S., la fonte — non libresca — del socialismo (si parla però di “una non ben precisa forma di socialismo” a p. 88; e cfr. p. 90 e relativa nota 13, a p. 144) di B., piuttosto che nella lettura del noto libro di L. Stein sul socialismo e comunismo in Francia, vanno ritrovate nell’azione politica dei due fratelli, nella loro appartenenza ad “uno schieramento politico che concepiva la lotta per l'indipendenza strettamente intrecciata alla lotta per l'emancipazione politica e costituzionale, senza ancora una precisa subordinazione della seconda alla prima” (p. 13). Contro il vecchio giudizio di Croce, V. parla dello schietto “liberalismo democratico’. (e non, semplicemente, “progressista”) degli S.; i quali, quando cederanno all'iniziativa piemontese, rimarranno tuttavia sempre fedeli alla loro concezione dello stato come formazione storica destinata ad evolversi sotto la spinta di nuove idee e dì nuovi bisogni (p. 16). AI di là di una prima caratterizzazione degli schieramenti politici e delle varie correnti compresenti, anche contraddittoriamente, nella stessa redazione del “Nazionale”, la ricostruzione della linea seguita dagli S. viene precisandosi attraverso la lettura del giornale di Silvio: V. documenta le “simpatie repubblicane” del “Nazionale” (p. 28 sgg.), ravvisa nei suoi articoli la difesa di una democrazia “piena, politica e sociale’, contro il contrattualismo giusnaturalistico (p. 31), chiarisce il carattere “strumentale” dell’ “albertismo” di Silvio e dell’accostamento al programma neoguelfo (pp.33 sgg.), distingue dall’ “unitarismo” e dal “gradualismo” tattico (p. 36) un complesso di richieste illuminate da principi più avanzati. E l’analisi si concentra su due temi che saranno costantemente presenti nei primi scritti di B. a Torino: l’idea di nazione e di stato, e la sovranità popolare (pp. 36 sgg.). Quanto al primo: il rapporto fra Stato e nazione è costruito secondo una dialettica idea-esperienza, dover essere-essere, che comporta e mantiene una polarità, per cui giammai l'essere annichila il dover-essere” (pp. 39 sg.). E, per il secondo punto, V. spiega la coesistenza della difesa della sovranità popolare con la critica della “volontà generale”, riadducendo quest’ultima non ai paragrafi antigiacobini della Filosofia del diritto di Hegel, ma alla convinzione che la legge del numero, meccanicamente intesa, serve a contrabbandare una forma particolare di volontà, in luogo della volontà del popolo. Emergono ancora, a chiusura del capitolo, tre punti importanti: il rilievo di una prima critica del diritto di proprietà come diritto innato (pp. 43 sg.); quello dell’apertura alle masse popolari, come sostegno indispensabile della rivoluzione; infine, in connessione con il punto precedente, la “formulazione di una teorica politico- pedagogica dello stato — che sarà compito degli Spaventa maturi sviluppare —, nella quale è sempre più chiaramente visibile la preoccupazione di accompagnare la fondazione del nuovo Stato alla fondazione di una reale egemonia borghese” (p. 46). Il secondo capitolo (Politica e filosofia nel primo Spaventa, pp. 85-152), studia gli scritti spaventiani del 1850-51, rilevando il carattere “pratico” dell’hegelismo di S., accolto in origine come strumento di rottura dell’egemonia eclettica operante nel liberalismo moderato napoletano (p. 121). Questa genesi dell’idealismo spaventiano va tenuta presente per una corretta lettura delle pagine “hegeliane” di questi anni. La difesa, dalle colonne del “Progresso”, della democrazia repubblicana e l'affermazione della necessità della “riforma sociale”, condizione anch'essa della pacifica convivenza di libere nazioni, vanno ricondotte ad un’autonoma concezione della storia, in cui è accentuato “laspetto deontologico del principio della libertà e della razionalità del reale” (p. 92). La funzione degli intellettuali così come è prospettata da S. richiama l’immagine illuministica del philosophe, piuttosto che la figura dell’ “eroe” hegeliano (p. 94). La distinzione di “utopie” e “idee storiche”, e la critica delle “utopie”, si sviluppa in virtù di “un criterio di discriminazione fra filosofie teologiche e filosofie scientifiche”, conformemente al “principio di una perfetta rispondenza, sempre, del pensiero con determinate posizioni della vita”(p. 97). Quello di S. è uno “storicismo avanzato”; la realtà è storia in quanto “opera umana”, “lavoro”; e 1° “assoluta mediazione” coincide col processo infinito della prassi (p. 101). La concezione politico- pedagogica dello stato, primo nucleo dello “stato etico”, nasce da una critica degli stati liberali sorti dalle rivoluzioni borghesi; nella polemica spaventiana sulla libertà d'insegnamento è posto in primo piano il problema “dell’eguaglianza materiale delle condizioni sociali dei destinatari dell’insegnamento” (p. 106). S. mira ad “una egemonia ideale laica come portato e cemento di una moderna costruzione pubblica dell’organizzazione della cultura” (p. 114); la richiesta si fonda sulla “concezione della filosofia come coerenza e rigore di principi, come unità logica del pensare e dell’operare degli uomini”: un “dato permanente del ‘carattere’ di Spaventa” (p. 115). La fedeltà a Hegel degli scritti del 1850-51 è apparente; nel processo di “adattamento dell’hegelismo alle lotte rivoluzionarie del Risorgimento” (p. 127). Si determina una elaborazione autonoma di temi hegeliani che tocca questioni di principio e di metodo. L’a. torna ora sulla “caratterizzazione deontologica del nesso reale-razionale” (p. 125), che distingue la filosofia di S. dalle ricostruzioni speculative del processo storico; l'identità di pensiero e essere affermata negli Studi del 1850 implica che la riflessione possa “spaziare fino ad identificarsi con tutta la storia degli uomini, nel senso di costituirne e rivelarne l’unità, l’intercompenetrazione e la conoscibilità da parte dell’uomo, come conseguenza dell’essere quella opera sua” (pp. 132 sg.). La riflessione non è abbandonata al gioco dell’ “astrazione indeterminata”; S. sa che la “concretezza” del nesso delle determinazioni astratte (ma non, appunto, “generiche”) fissate dalla riflessione non riposa su una mera “autoconsapevolezza dell’unità dell'esperienza, che rifiuti, in ultima analisi, la differenza”; lo sa “per un’originaria intelligenza della dialettica come nesso del pensiero come riflessione con l’essere come lavoro umano” (p. 135), come mostrano proprio le sue pagine sul tema del lavoro, visto sempre alla luce di rapporti e relazioni concrete (pp. 135 sg.). Le pagine conclusive del capitolo offrono un primo quadro dei motivi che caratterizzano l’autonomia dell’hegelismo spaventiano (uso determinato della astrazione, consapevolezza del nesso storico di filosofia e vita, critica della metafisica teologica, teorizzazione del primato del fare, rifiuto, in ultima analisi, della “scissione hegeliana degli opposti”, pp. 138 sgg.). I mutamenti che affiorano nel programma di S. dopo il 1851 sono studiati nel terzo capitolo (Etica e politica della maturità, pp. 153-217), che si conclude con un’analisi degli Studi sull’etica hegeliana (pp. 192 sgg.). Negli anni in cui il filosofo dà la sua adesione alla politica ufficiale del Piemonte, va registrato un atteggiamento più distaccato — ma sempre “oggettivo” — nei confronti del socialismo (p. 157). La democrazia difesa da S. perde molti contorni specifici; il riferimento alle lotte sociali in Francia sembra abbandonato per il richiamo a un liberalismo di tipo inglese. È cambiato, del resto, il bersaglio della polemica: ora S. combatte i clericali, i fautori dell’assolutismo, anche a difesa delle “grandi conquiste della civiltà borghese”, ma “senza identificarsi”, sottolinea V., “specie sotto il profilo delle matrici culturali — con i valori della civiltà liberale” (p. 160). S. si mostra del resto ancora un giacobino nella nota discussione del rapporto religione-filosofia, stato-chiesa (e qui V. respinge i rilievi di “astrattezza” avanzati da Croce e da L. Russo [cfr. nn. 206, 210]). S. difende una “concezione dello stato ‘in termini di egemonia’, destinata ad una resa dei conti critica con l'ideologia liberale” e che “non ha nulla a che spartire con le successive ideologie totalitarie” dello stato etico (p. 162; e cfr. pp. 183, 186, 192 sgg.); è in questa prospettiva — di “critica dei limiti formalistici della democrazia liberale” (p. 170) — che vanno letti gli articoli sulla politica dei gesuiti e il rifiuto della rousseauiana volontà generale (pp. 163-170). Ed è ancora questa prospettiva che consente di far riaffiorare tutti i contorni del “disegno politico” implicito negli studi sulla filosofia italiana e sulla filosofia classica tedesca, disegno che presenta ormai in forma molto mediata, ma non stravolta, l’originaria ispirazione democratica del suo autore. “L’unificazione reale della società, che ancor il ‘51 era un compito politico, per Bertrando, è divenuto, al momento dell’unità, un compito di i/luminazione culturale e ideale” (p. 182). S. Si limita ora a “vagheggiare una missione pedagogicopolitica della scienza in quanto tale” (p. 180); elabora temi e affina strumenti “ideali” di unificazione (l’ “unità dello spirito”, della “mente”, 1’ “identità di conoscere e fare”, l “autonomia del pensiero” e la sua “infinità”) che valgono come premesse di una realtà ancora da costruire; ma abbandona, anche, le analisi storiche in termini di dialettica delle “classi”, e accorda la sua preferenza a categorie come “nazione”, “spirito nazionale”, ecc. (p. 183, e cfr. p. 189). Senza riprodurre le numerose osservazioni che riguardano gli altri scritti spaventiani (soprattutto le lezioni napoletane del 1861) vediamo come l’a. si serve di questi rilievi per la lettura degli Studi sull’etica begeliana [80, 97]. La preferenza accordata a certe categorie (la comunità nazionale, identificata senz'altro con la comunità etica) può condurre e di fatto conduce S. ad un uso non corretto della astrazione (assunzione di strutture particolari dello stato nazionale moderno come contenuto “puro” dell’ethos). Un caso macroscopico è offerto dalla deduzione della “eternità” delle classi e della divisione in classi in base allo schema generico della divisione del lavoro. Tuttavia nelle riflessioni sullo stato, ‘organoessenziale del disegno egemonico dello Spaventa” (p. 192), Si assiste “ad una più corretta combinazione del metodo dialettico. con. un uso relativamente determinato dell’astrazione” (p. 197). Lo stato è la “mediazione vivente dei processi storici che maturano nella società civile”, è l’unità-risultato “della più ampia e libera partecipazione dei singoli a formare la volontà politica che nello stato si fa soggetto” (p. 199). La concezione dello stato come funzioneverità della società civile è costruita proprio attraverso la denuncia di una serie di mediazioni mancate: come mostrano, p. es., le pagine sulla “costituzione”, nelle quali si legge la condanna di chi vorrebbe mantenere lo stato al di sopra delle lotte sociali, “mentre il problema è di fondare uno stato etico, capace di interpretare e di tradurre in istituzioni, al limite sempre nuove, tutta l’eticità di un popolo: i suoi bisogni materiali e spirituali, le sue ragioni, le ragioni della sua storia” (p. 200). Certo, l'esigenza di un legame più stretto dello stato con la società civile è in primo luogo, in questi anni, ricerca di un “consenso ideale delle masse popolari italiane al nuovo stato”, su di un piano “culturale” (pp. 202 sg.); ma la critica del contrattualismo e della concezione sostanzialistica dello stato, costruita in virtù di una logica che sa vedere la matrice comune delle opposte teorie, liberale e assolutistica, corrisponde ancora a una concezione democratica: “purché con tale aggettivo si intenda non già riferirsi alle esperienze storiche degli stati liberal-democratici”, ma ad “una forma di stato, se si vuole originale, che abbia una funzione attiva e motrice verso la società civile, nell’intento di superare la propria scissione da essa, prodotta dalla civiltà borghese...” (p. 204). L’ultimo capitolo (pp. 219-295) è dedicato all’interpretazione della “metafisica” di S., i. e. della sua filosofia della “relazione” o “mediazione assoluta”, sviluppata attraverso una critica sempre più approfondita di Hegel e nella prospettiva di una nuova impostazione del rapporto teoriaprassi, scienza-filosofia. Nelle pp. 221-233 sono anticipate le conclusioni generali, attraverso un diretto riferimento ai risultati acquisiti nei capitoli precedenti. La costruzione della filosofia come fondazione metafisica della prassi avviene in varie tappe. La prima è individuata nella cosiddetta “parentesi” del 1858 [113], che studia il rapporto fenomenologia-logica, giungendo tuttavia a un risultato ancora “idealistico” (nel senso dell’idealismo soggettivo: il soggetto è, immediatamente, autocoscienza, e non viene superato il parallelismo di natura e pensiero; pp. 237-240). Le riflessioni sullo stesso tema raccolte nelle prime lezioni napoletane (1861) rappresentano un secondo momento della costruzione: qui S. continua ad avvertire l’insufficienza dell'identità logica di essere e pensiero (tutto è logico, ma la logica non è tutto) e cerca, invano, di uscire dallo schema della mera pensabilità attraverso “il sistema della logica e della fenomenologia, combinate”; invano, giacché la fenomenologia, che dovrebbe fondare la logica, non riesce a fondare neppure se stessa, dato che la coscienza è assunta originariamente come un fatto che non siprova(pp. 240- 244). L'identità (e l'opposizione) immediata — e quindi “inerte” — che si presenta nella coscienza, come fenomeno, si riproduce come tale sulla soglia della logica; Trendelenburg rischia di avere ragione. Tra le riflessioni del 1861 e il saggio sulle Prize categorie (quarta fase) si collocano le lezioni di antropologia del 1863-64, e la Filosofia di Gioberti (1863): in queste pagine V. rintraccia (pp. 244-249) l'acquisizione di un punto di vista (è il “vario sensibile” che “discrimina” l’esperienza del soggetto; il vero immediato-mediato è la natura, non la coscienza; e il rapporto di materia e idea è un rapporto di “continuità e compenetrazione dialettica”, p. 247) che prepara la soluzione delle Prize categorie (pp. 249-253). Qui S. afferma l’ “identità del puro pensiero-essere con il puro pensiero-volere”: autocoscienza, certo, ma come “risultato e espressione formale di quell’eterna mediazione con se stesso che è il soggetto pratico-storico”, cioè come “il più alto attributo” dell’ “uomo storico concreto” (pp. 249, 244). Il pensiero dal quale non si esce, che nella massima astrazione (l’astrazione da sé) ritrova se stesso e la conferma di sé, “non è se non la prova della infinità e della processualità del pensiero come esserci, esistenza, esperienza” (p. 251), la necessità, pensata, dell’infinita attività umana: attività, i. e. “risoluzione”, “deliberazione”, “e non certo solo giudizio” (p. 252). Ai due momenti immediatamente precedenti — che 2622 rappresentano la “fase più acutamente evolutiva” degli studi hegeliani di S. (p. 254) — si ricollega Logica e metafisica: la lettura del manuale (pp. 253-267) conferma la analisi degli scritti sull’antropologia e sulle Prizze categorie. “Le categorie che Spaventa deduce dialetticamente attraverso tutta la logica, partendo dal puro essere, sono quelle delle scienze nei loro diversi gradi e momenti. Tutte queste categorie culminano nella posizione della diade logica per eccellenza: la posizione del soggetto e dell’oggetto; e una volta posta questa, provano di dipendere da essa, che è la posizione del nesso dialettico assoluto capace di comprenderle (produrle) tutte in quanto posizione dell’uomo storico concreto. La logica prova allora la storicità di tutto il sapere, nel duplice senso che esso dipende e riceve senso e valore dalla posizione storica del soggetto umano. E la prassi umana, che è tutto il reale, è veramente tale in quanto si conosce: si fa sistema, logismo, scienza (certezza di sé)” (p. 259). E questa è l “istanza umanistica” di S. “Il suo problema è di costruire scientificamente la certezza umana del mondo in quanto mondo naturale-umano. E tale disegno la sua filosofia esegue provando questa certezza, in ultima analisi, in uno schema logico risultante dalla suprema astrazione di cui il pensiero come tale è capace rispetto a se stesso in quanto determinato” (p. 263). La filosofia come mediazione o “relazione assoluta” è “intelligenza del contesto umano nel quale le scienze particolari ricevono significato” (p. 265); non dissoluzione delle scienze, ma esigenza “di una loro integrazione umanistica, presentata in maniera speculativa” (p. 265); non “sistema” come “riduzione delmondo a filosofia” (= auto-coscienza), ma “sistema dell’esperienza in ogni momento del suo farsi”, “critica della ragione storica e scientifica” (pp. 266 sg.). Come risulta dalla lettura di Esperienza e metafisica, e degli scritti ad essa collegati (pp. 267 sgg.), le riflessioni sul rapporto scienza-filosofia, che caratterizzano l’ultima fase del pensiero di S., confermano i risultati fin qui acquisiti: S. ricerca i “princìpi che presiedono all'elaborazione delle scienze umane nella loro autonomia e distinzione dalle scienze naturali” (p. 270), sul piano di una metafisica delle e idee che non rinnega la continuità-distinzione di physis e psiche, ma solo colpisce le “rozze” metafisiche che vorrebbero ricondurre la psicologia, dal terreno delle scienze storico sociali, su quello del naturalismo meccanicistico. La polemica antipositivistica e antinaturalistica e la critica a Hegel appaiono, del resto, complementari: si vedano (a proposito del rapporto scienza- filosofia) le indicazioni di pp. 267 sg., 272 sg. L'appello a Kant e la difesa del “trascendentale” — in Esperienza e metafisica 6 non’ rappresentano una “ricaduta nell’epistemologismo” (pp. 274 sg.), ma continuano a ribadire “la posizione della conoscenza come assoluta produzione”. In che senso poi le ultime opere di S. accentuino e specifichino la distanza che ormai separa il filosofo da Hegel, si legge alle pp. 280 sgg. Nello scritto contro Teichmiiller, la “negazione” è difesa come semplice “ipotesi” dell’ “unità razionale” di una esperienza non defraudata dei suoi nessi empiricoprammatici (pp. 282 sg.). Ancora: la nota critica a Hegel — che rifiutò l’evoluzione naturale — investe uno dei caposaldi del sistema hegeliano: l’ “opposizione” di natura e spirito (p. 286). Riflessioni altrettanto eterodosse si leggono in Esperienza e metafisica, a proposito di Aufhebung e salto qualitativo (pp. 283 sgg.). Da queste pagine, e da quelle precedentemente esaminate, V. ricava due osservazioni: l'accoglimento del meccanismo, che scongiura la trasfigurazione dei processi naturali in processi ideali, “è la premessa di quel definitivo ripudio della filosofia come sistema analizzato in Esperienza e metafisica”. Ma è anche vero che S. non conclude senz’altro per la risoluzione della filosofia nelle scienze, “senzaresidui”;e continua a mantenere l’hegelismo come termine di confronto con le scienze. Le due osservazioni si fondono e autorizzano una conclusione: “il problema filosofico di Spaventa è sempre più chiaramente quello di provare l’unità razionale dell’esperienza e l’unità critica del sapere” (pp. 286 sg.). “Vi è perciò, in Spaventa, lo sforzo di esprimere nella filosofia il senso della scienza moderna, di rendere esplicito, in quella, l’interno problema di questa” (p. 287). S. ha scritto che la metafisica hegeliana è la “profezia” della “scienza della moderna esperienza”. Ma Hegel “avrebbe certo ricusato una tale lettura della sua filosofia” (p. 288). Tra le pubblicazioni apparse dopo il 1967 ci limitiamo a segnalare qui: BORTOT, L’hbegelismo di Bertrando Spaventa, Firenze 1968, pp. 127; ONUFRIO, Vico maestro di Bertrando Spaventa, in “Nuovi Quaderni del Meridione”, VI (1968), n. 21-22, pp. 238-249; I/ primo begelismo italiano, a cura di G. Oldrini, con prefazione di E. Garin, Firenze 1969 (riproduce testi di D. Mazzoni, G. Passerini, S. Cusani, S. Gatti, F. De Sanctis, A. Vera e B. Spaventa. Di S. sono ristampati i Pensieri sull’insegnamento della filosofia [2] e, in parte, gli Studi del 1850 [4]. Molto. importante l'introduzione, che offre un quadro assai chiaro delle vicende dell’hegelismo italiano nel decennio 1840-1850; ricchissime le indicazioni bibliografiche); B. SPAVENTA, Unificazione nazionale ed egemonia culturale, a cura di G. Vacca, Bari 1969 (nell’antologia sono ristampati: un brano degli Studi sopra la filosofia di Hegel [4], alcuni articoli apparsi sul “Progresso” [cfr. 5, 10, 11, 12], lo scritto I/ lavoro e le macchine [117], una scelta dalla Politica dei gesuiti [101], lo scritto Del principio della riforma [30], brani della corrispondenza tra i fratelli S. [125], la prolusione di Modena [no], lo scritto Paolottismo, positivismo, razionalismo [78], una scelta dai Princìpi di etica [97]. Seguono tre-dici lettere inedite di A. De Meis a B. Spaventa e G. Ricciardi, già pubblicate in “Il pensiero politico”, I, 1968, fasc. 2, pp. 225-251; nella stessa annata della rivista cit., n. 3, pp. 408-437, era già apparsa, con il titolo Introduzione alla riflessione politica di B. Spaventa, l'introduzione all’antologia del 1969); G. VACCA,Lo hegelismo a Napoli, in “Rinascita”, 12 settembre 1969. Alcune Lettere inedite di B. S. a Vittorio Imbriani ha pubblicato A. Pellicani in «Realtà del mezzogiorno», ottobre 1969, pp. 881-891. Pagine di Gentile sullo S. si leggono ora in G. GENTILE, Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, 2 voll., Firenze 1969 (con una notevole introduzione, che discute tra l’altro della interpretazione gentiliana dell’opera e delle tesi storiografiche di S.). Importanti, anche per seguire le vicende della stampa degli Scritti filosofici [96], le lettere di Croce a Gentile (1896-1899) pubblicate nel “Giornale critico della filosofia italiana”, XLVII (1969), pp. 1-100; e i due volumi delle lettere Gentile-Jaja (in G. GENTILE, Opere, a cura della Fondazione Gentile per gli studi filosofici, voll. I-II del Carteggio a cura di M. Sandirocco, Firenze 1969). Si ricordano infine i saggi di E. Garin, Problemi e polemiche dell’ begelismo italiano dell'ottocento (1832-1860), di V. A. Bellezza, La riforma spaventiano-gentiliana della dialettica hegeliana, di I. Cubeddu, B. Spaventa riformatore di Hegel nella cultura italiana del 900, raccolti nel volume Incidenza di Hegel (Napoli 1970), a cura di F. Tessitore (pp. 625-662, 683-756, 757-790; v. anche, nella stessa opera, la bibliografia a cura di G. Cacciatore Hegel in Italia e in italiano, pp. OPERE DI SPAVENTA PUBBLICATE DAL 1970 AL La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, A. MARCHESI (a cura di), Minerva italica, ISTE: Opere, CUBEDDU I. (a cura di), Sansoni, Firenze 1972, 3 vol. Un frammento inedito di Bertrando Spaventa su Vico e Darwin, SAVORELLI A. (a cura di), in “Bollettino del Centro di studi vichiani”, IV (1974), pp. 171-175. La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, P. OTTONELLO (a cura di), Marzorati, Milano 1974. Opere psicologiche inedite, in D. D’ORSI, Contributi alla ricostruzione integrale del pensiero di B. Spaventa: inediti, accertamenti filologici, nuovi itinerari e assetti critici, in “Le ragioni critiche”, IV, (1974), pp. 433-490; V (1975), pp. 54-88; 168-198. Lezioni di antropologia, D. D'ORSI (a cura di), Casa editrice G. D'Anna, Messina-Firenze 1976. Psiche e metafisica, D. D’ORSI (a cura di), Casa editrice G. D'Anna, Messina-Firenze 1978 Una lettera di Bertrando Spaventa a Pasquale Villari, M. T. RASCAGLIA (a cura di), Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 1981. Lezioni inedite di Filosofia del diritto. Modena 1860, G. TOGNON (a cura di), in “Archivio storico bergamasco”, II (1982), pp. 37-60; 275-290. Esperienza e metafisica, A. SAVORELLI (a cura di), Morano, Napoli 1983. Prolusione di B. Spaventa al corso di Filosofia del diritto (Modena, 4 gennaio 1860), G. TOGNON (a cura di), in E. GARIN, Filosofia e politica in Bertrando Spaventa, Bibliopolis, Napoli 1983, pp. 41-89. Nuovi testi di Bertrando Spaventa, in Rivoluzione, partiti politici e stato nazionale, R. DI ATTILIO (a cura di), Giuffrè, Milano 1983. R. H. LOTZE, Elementi di psicologia speculativa, Traduzione italiana di Bertrando Spaventa, D. D’'ORSI (a cura di), Casa Editrice G. D'Anna, Messina-Firenze 1983. Epistolario, RASCAGLIA M., (a cura di), Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1995. Lettera sulla dottrina di Bruno: scritti inediti, 1853- 1854, SAVORELLI A e RASCAGLIA M. (a cura di), Bibliopolis, Napoli 2000. Giordano Bruno [edizioni per la scuola], La città del Sole, Napoli 2001. Sulle Psicopatie in generale. Con appunti e frammenti inediti, D. D'ORSI (a cura di), Cedam, Padova 2001. Studi sopra la filosofia di Hegel. Prime categoriedella logica di Hegel, E. COLOMBO (a cura di), CUSL, Firenze 2001. Le “Lezioni” sulla storia della filosofia italiana nell’anno accademico 1861-1862, F. RIZZO (a cura di), Siciliano, Messina 2001. La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, SAVORELLI A. (a cura di), Storia e letteratura, Roma 2003. La filosofia del Risorgimento: le prolusioni di Bertrando Spaventa, La scuola di Pitagora, Napoli 2005. Saggi di critica filosofica, critica e religiosa, DE GIOVANNI B. (a cura di), La scuola di Pitagora, Napoli, 2008. OPERE SU SPAVENTA PUBBLICATE DAL 1970 AL 2007 R. FRANCHINI, La cultura a Napoli dal 1860 al 1960, in AAVV, Storia di Napoli, vol. X, Napoli contemporanea, E.S.I., Napoli 1971, pp. 159-217, ora anche in I/ diritto alla filosofia, SEN, Napoli 1982, pp. 307-375. Nella prima parte del saggio, dedicata alla cultura filosofica napoletana dal 1860 al 1900, si mostra grande attenzione alla prolusione, con cui iniziò l'insegnamento napoletano di Spaventa, sulla Nazionalità della filosofia. Oltre a ricordare le numerose contestazioni subite da Spaventa orchestrate dall'abate Vito Fornari, da Capocelatro, Mola e Crocchetti, si precisa che l’opposizione al pensiero del filosofo abruzzese era assai forte persino nelle aule universitarie, citando il caso di Tulelli, Professore di filosofia morale ed allievo di Galluppi e dallo stesso Tari, benché legato a Spaventa da una amicizia di vecchia data, per finire con il caso di Vera, hegeliano di prospettive radicalmente differenti da quelle di Spaventa. La superiorità di Spaventa rispetto a questi suoi rivali si manifesta, secondo, Franchini, se si tiene conto della discepolanza del filosofo di Bomba, nella quale si possono annoverare personalità come Angiulli e Labriola, quest’ultimo influenzato poi dalla corrente degli herbartiani. Franchini ricorda anche l’altra figura di grande levatura della tradizione classica napoletana, Francesco De Sanctis, che però non viene mai posto in conflitto o in contrapposizione rispetto a Spaventa. Viene menzionata, inoltre, l’esperienza del “Giornale Napoletano di filosofia e lettere”, diretto da Spaventa, Imbriani e Fiorentino. Il saggio prosegue poi analizzando le altre fasi dello sviluppo culturale della città di Napoli a partire dal periodo 1900-1940, affrontando la prima e la seconda scuola crociata, oltre al tema della filosofia nell'Università tra il 1920 ed il 1960. E. GARIN, La “fortuna” nella filosofia italiana, in AAVV, L'eredità di Hegel dopo due secoli dalla nascita, pp. 77-89, in “Terzoprogramma”, 1971, 3. Nell’intervento di Garin la “presenza” di Hegel viene giudicata non neutrale né accademica (p. 78) e proprio per questa vittima di alterne fortune. Se Romagnosi non esitava a definire nebulosa la nozione di “spirito del mondo”, benché nemmeno Mazzini svalutasse a tal punto l’hegelismo, Spaventa e De Sanctis terranno una posizione diversa, se non addirittura opposta. A ragione si precisa quale fosse l’importanza della Filosofia della storia nella stesura del 1830-31 per la penetrazione del pensiero hegeliano in Italia: da Passerini, che ne curò la prefazione nel ‘40, a Cattaneo, molti intellettuali si accorserodelgenio del filosofo di Stoccarda. All’Hegel rivoluzionario di Napoli, segue, nel percorso spaventiano, una più attenta lettura della Fenomenologia negli anni ‘50, che lo porterà ad una nuova interpretazione della filosofia italiana ed europea: Garin ripercorre con puntualità le tappe di questa evoluzione, dai primi studi del ’50-’53, fino alla prolusione napoletana del °61, passando per le crisi e le svolte del ‘55 (comuni a Spaventa e De Sanctis). L’autentica esigenza di creare una ideologia di supporto alla rivoluzione italiana condusse all’interpretazione della filosofia hegeliana come alternativa al neotomismo in Italia. Garin sostiene che ai tempi eroici dei primi hegeliani si scivolò nell’aneddoto pittoresco: non solo Maturi, ma nemmeno Jaja riuscì a recuperare la forza di Spaventa o De Sanctis. Soltanto grazie a Croce e Gentile Hegel tornò ad essere studiato e commentato, dando vita poi nel corso del Novecento alle correnti più disparato, citato a sostegno sia dell’esistenzialismo, sia della teoria dello Stato etico. L. MALUSA, Bertrando Spaventa interprete della filosofia di G. B. Vico, in AAVV, Saggi e ricerche su Aristotele, Marsilio da Padova, M. Eckhart, Rosmini, Spaventa [etc], Editrice Antenore, Padova, 1971, pp. 71- 108. La rilevanza di Spaventa nel panorama culturale italiano si coglie anche considerando la sua influenza sul modo di fare storia della filosofia. Il suo scontro con Palmieri sul ruolo della scolastica all’interno della tradizione italiana. Venendo all’analisi di Vico, si deve rilevare che l’indubbia affinità con Vico sulle questioni relative alla distinzione del mondo in natura e spirito trovano però un luogo di scontro a proposito del ruolo del cogito, sostenuto da Spaventa e avversato dal filosofo napoletano. Avendo come obiettivo quello di guadagnare grazie all’analisi del pensiero filosofico italiano progressiva indipendenza dall’autorità della Chiesa, non stupisce che Spaventa abbia svalutato il ruolo della grazia e della Provvidenza presente in Vico. Se la linea Vico- Kant-Hegel divenne quasi un dogma della filosofia neohegeliana italiana, ciò è dovuto indubbiamente all'influenza di Spaventa che per primo percorse le tracce di questo rapporto. E. GARIN, Hegel nella storia della filosofia italiana, in “De Homine”, 38-40, 1971, pp. 68-86. Garin rileva il che “il nome di Hegel è indissolubilmente legato alla storia d’Italia” (p. 70), considerando non solo l’hegelismo napoletano, ma anche i successivi sviluppi legati al fascismo. Riferendosi a Orestano, Gentile e Padre Agostino Gemelli, Garin mostra l’influenza della filosofia hegeliana nel dibattito culturale italiano, accennando a quel singolare destino per cui il filosofo di Stoccarda che aveva inteso la filosofia come nottola di Minerva inaugurò quella stagione in cui la filosofia contribuì ad influenzare direttamente gli eventi storici e non solo a comprenderli ex post. Proprio su questo punto decisiva è la figura di Bertrando Spaventa, che rivisitò il sistema hegeliano in chiave antigesuitica. Garin cita anche Passerini come precursore e Villari come compagno dello Spaventa in questa difficile operazione intellettuale: riportando un lungo intervento di Spaventa del 1850 Garin vuole trasmettere il clima di entusiasmo che caratterizzò l'avvento dell’hegelismo nella Napoli prequarantottesca. L'esigenza di un’ideologia del Risorgimento, avvertita da Mamiani e Gioberti, fu soddisfatta proprio da Bertrando Spaventa con l’immagine del “sacro filo della tradizione”, benché Garin rivaluti la posizione di Rosmini e Gioberti rispetto al giudizio negativo di Spaventa, il quale fu molto tentato—a giudizio di Garin — dalla soluzione dell’attualismo ed del soggettivismo. L’articolo prosegue sottolineando l’atteggiamento sarcastico assunto da Spaventa di fronte al tentativo di accostamento di Hegel a Comte: proprio l’importanza del ruolo del positivo rendeva del tutto contraddittoria la posizione del positivismo. L'intervento di Garin termina citando le posizioni di Labriola, Gentile e Croce di fronte al sistema hegeliano. M. QUARANTA, Posttivismo ed hegelismo in Italia, in L. GEYMONAT, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. VI, Dall’Ottocento al Novecento, Garzanti, Milano 1971, in particolare le pagine 215-225. Le sezioni VII e VIII del saggio di Mario Quaranta sono dedicate rispettivamente alla vita e opere di Spaventa e al suo pensiero. Nella prima si analizza la vita del pensatore abruzzese e si elencano gran parte delle sue opere, nella seconda ci si concentra sui tre contributi essenziali: un riesame della tradizione filosofica italiana, in particolar modo con la teoria della circolazione; una reinterpretazione di Hegel tale da escludere qualsiasi intento materialistico o teologico; la proposta di una serie di strumenti concettuali contro il positivismo, attraverso la figura di Kant, al fine di rivalutare umanesimo. D. CANTIMORI, La circolazione del pensiero italiano e l’importanza del Rinascimento per la filosofia europea, in Storici e storia, Einaudi, Torino 1971, pp. 446-254. Il breve capitolo dedicato  all’interpretazione del Rinascimento di Bertrando Spaventa mostra il tentativo di superamento della visione neoguelfa di Gioberti e di maggiore profondità rispetto a quelle di Mazzini e Ferrari. In particolare si evidenzia quanto stretto sia il nesso tra la teoria della circolazione ed il concetto di nazionalità: se è vero da un lato che lo Spaventa definisce la filosofia moderna come europea, ciò non significa l’eliminazione del concetto di nazione, anzi, proprio dal contributo delle diverse nazioni si può parlare della modernità all’insegna dell'Europa. Naturalmente il Rinascimento italiano in quanto per primo ha turbato l’uniformità di pensiero imposta dalla Scolastica. In tal senso si rileva una dipendenza profonda da schemi illuministici più che dalle tesi hegeliane, che continuano comunque ad essere il panorama di riferimento. Il pensiero di Spaventa viene dunque definito come quella consapevolezza di sé che era mancata al pensiero italiano al suo primo sorgere e che fu assunta dal pensiero tedesco grazie alla Riforma protestante. Problema di Spaventa non era solo quello di superare Rosmini e Gioberti, bensì di assegnare un senso e uno scopo alla tradizione filosofica italiana. La rivendicazione dell’Italia come nazione e come tradizione filosofica mirava ad un inserimento all’interno del contesto europeo. G. TARALLI, Bertrando Spaventa tra Stato etico e democrazia, in “Trimestre”, V, 1971, pp. 409-424. Il grande problema del rapporto tra nazionalità e libertà, già posto da Mazzini, tormenta anche il pensiero di Spaventa, con l'aggravante di una piena consapevolezza della debolezza delle istituzioni democratiche, elemento che rese assai difficile il governo della Destra storica. Taralli esponecomechiaveinterpretativa forte l’acattolicesimo spaventiano, derivante senz’altro dalla mondanizzazione dello spirito di matrice hegeliana: le aporie presenti nel pensiero spaventiano dipenderebbero in tal senso dalle tensioni irrisolte tra Illuminismo ed hegelismo; se da un lato è vero che la ragione storica avrebbe dovuto assicurare una risoluzione delle contraddizioni, il conflitto tra Spaventa e la corrente socialista testimonia una tensione irrisolta tra Stato e società, tra governo e rivoluzione. E. GARIN, Rassegna di studi spaventiani, in “Rivista critica di storia della filosofia”, XXVII, 1972, pp. 332- 335. In questo breve intervento Garin sottolinea l’importanza dell’interpretazione del pensiero di Spaventa proposta da autori quali Felice Battaglia, Italo Cubeddu, Sergio Landucci e P. C. Masini, per concludere citando i due volumi del Vacca.. S. ONUFRIO, Lo “Stato etico” e gli hegeliani di Napoli, Celebes, Milano 1972. Il testo ripropone gli interventi di Onufrio apparsi sui “Nuovi quaderni del Meridione”, nn. 1,18,19, 20 (1967), nn. 21, 22 (1968), 24 (1969), nn. 25, 26 (1969) e sulla “Rassegna di Politica e storia” n. 164 (giugno 1969), già parzialmente presenti nella bibliografia di Italo Cubeddu del 1972. Il primo capitolo riepiloga lo status quaestionis, mediante una rassegna delle tesi di De Ruggiero, Santino Caramella, Russo e Tagliacozzo. Il secondo capitolo è dedicato alla storiografia marxista e al tentativo di sostituire a Gentile la figura di Labriola come autentico discepolo ed erede di Spaventa. Il terzo capitolo si concentra sugli sviluppi della concezione dello Stato in Spaventa dall’attività giornalistica piemontese ai Principi di Etica. Il capitolo quarto prende in considerazione il tema dello Stato etico nelle riflessioni della Destra storica. L’ultimo capitolo esamina il rapporto tra Stato e nazionalismo oltre alle reazioni della Destra storica dopo l'avvento della Sinistra storica al potere. Il libro si conclude con tre appendici: G. B. Vico e il liberalismo moderato; Vico maestro di Spaventa; Unificazione nazionale ed egemonia nazionale (commento al testo di G. Vacca). I. CUBEDDU, Bibliografia in B. SPAVENTA, Opere, Sansoni, Firenze 1972, 3 vol. L’amplissimo studio di Cubeddu è suddiviso in duesezioni, la prima è dedicata alle opere edite di Spaventa, la seconda elenca le opere scritte sul pensiero del filosofo abruzzese fino al 1969; si compone di un’ampia introduzione, una prima parte sugli scritti di Bertrando Spaventa ed una seconda parte relativa ai saggi e gli studi sulla figura del pensatore abruzzese. F. TESSITORE, La cultura filosofica tra due rivoluzioni (1799-1860), in Storia di Napoli, vol. IX, Dalla restaurazione al crollo del Reame, E.S.I., Napoli 1972, pp. 225-293. Il saggio di Tessitore si articola in quattro sezioni, la prima dedicata all’eco vichiana in Cuoco, Salfi, Jannelli e Delfico, all'insegna di quella umanologia che tenta di recuperare l’ “uomo intero”, secondo differenti prospettive; alla trattazione dell’eclettismo napoletano legato ai nomi di Manna, Piccolini, Borrelli e Bozzelli, segue una rapida presentazione di Galluppi e del suo rivale Collecchi. La terza sezione si concentra sul passaggio dall’eclettismo all’hegelismo e affronta le figure di Cusani e Gatti, precisando l'influenza francese nella scoperta dell’idealismo tedesco in Italia. L’ultima parte del lavoro è esplicitamente legata all’hegelismo e allo storicismo: un ruolo di primo piano è svolto da De Sanctis, di cui si sottolinea l’esigenza di purismo e la tensione verso la semplicità della lingua, atteggiamenti che lo portarono a respingere, sulla scorta della lezione vichiana, l’apriorismo del sistema ed il panteismo hegeliano. Alcuni brevi cenni alle teorie del Gioberti (che ricevettero la benedizione di Papa Pio IX) introducono la personalità di Bertrando Spaventa, fiero sostenitore di Hegel, tanto da considerarlo una sorta di demiurgo del mondo, in polemica con il Palmieri. N. SICILIANI DE CUMIS, Herbart e Herbartiani alla scuola di Bertrando Spaventa, in “Giornale Critico della Filosofia italiana”, 1973; 52, pp. 517-561. De Cumis non vuole solo mostrare l’ormai indiscutibile legame, confermato da più parti, tra Spaventa e Herbart, ma in particolare anche l’attenzione di cui questi è oggetto anche da parte del Fiorentino e del Labriola, fino a suggerire l'ipotesi che Spaventa sia stato un caposaldo nella formazione del Labriola proprio per averlo introdotto allo studio del filosofo tedesco, quasi vi fosse una “curvatura herbartiana dello hegelimso nel Labriola”. La stessa contrapposizione tra Spaventa e Herbart vorrebbe essere se non attenuata per lo meno sfumata e a sostegno di queste tesi De Cumis indica un’ampia raccolta di luoghi nei quali Spaventa parla esplicitamente delle tesi herbartiane, per sottolineare l’accordo tra i due per lo meno su alcune istanze dell’hegelismo. E. GARIN, Noterella spaventiana, in “Rivista critica di storia della filosofia”, XXVIII, 1973, pp. 342-345. Il testo appare quasi come una recensione delle Opere di Spaventa curate da Cubeddu, sottolineandone anche alcune carenze, come ad esempio il mancato inserimento del testo Esperienza e metafisica. A questo proposito si sviluppa il tema del rapporto tra Spaventa e le nuove scoperte scientifiche del suo tempo, prima tra tutte la teoria della selezione naturale. Per rafforzare la sensazione della problematicità del rapporto si cita il frammento datato 21 luglio 1875. Obiettivo di Garin è mostrare che in Spaventa non si accetta il meccanicismo, ma vi si vuole contrapporre l’idea di disegno, di teleologia, senza con questo dover ammettere l'intervento soprannaturale. G. OLDRINI, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Laterza, Bari 1973. Nel volume di Oldrini il nome di Bertrando Spaventa risulta il più citato dopo quello del De Sanctis. Alcune sezioni del testo, che tuttavia affronta un tema assai vasto, sono dedicate specificamente al filosofo, ad esempio come modello paradigmatico di intellettuale fuoriuscito da Napoli che contribuisce ad alimentare focolai rivoluzionari e liberali nel Piemonte degli anni ’50. Si segnala anche il peso dell’autore nell’evitare qualsiasi compromesso tra hegelismo ed ideologie, nella ricerca di una terza via tra realismo e idealismo. P. PIOVANI, I/ pensiero idealistico, in AAVV., Storia d’Italia, V. 2.1 I documenti,Einaudi, Torino 1973, pp. 1549-1581. La figura di Spaventa viene posta in risalto soprattutto in relazione al primo punto della trattazione, dedicato alla predicazione dell’idea hegeliana e nel terzo, in cui si mostrano i tentativi di superare l’hegelismo in nome del realismo, anche per contrastare lo strapotere del positivismo. Da ultimo, nel quinto punto, si evidenzia la differenza di interpretazione del pensiero spaventiano proposta da Croce e Gentile. G. BROCCOLINI, Vincenzo Finamore e le origini dell’hegelismo in Italia, in “De Homine”, 51-52, 1972, pp. 149-184. Per evitare di conformarsi alla vecchia interpretazione dell’idealismo napoletano secondo cui all’ortodossia di Vera si contrappone il criticismo di Spaventa, si deve tentare, secondo Broccolini, di leggere l'evoluzione della cultura filosofica napoletana indipendentemente dai suoi sviluppi economici e sociali. Broccolini sostiene l’analogia tra la legittimazione hegeliana dello Jurkertum prussiano e quella napoletana della nuova classe egemone; il parallelismo prosegue individuando in De Sanctis, Tommasi, Villari e Labriola gli Strass, Bauer, Feuerbach e Marx napoletani. Il retroterra da cui emerge l’hegelismo napoletano deve essere comunque ricercato nelle vicissitudini del 1799: l’intelligentia partenopea sfrutterà Hegel per “patinare di nuovo l'antico” (p. 160). Non sono risparmiate le critiche alla conoscenza frammentaria di Hegel da parte di Spaventa, di contro alla conoscenza integrale che poteva vantare Vera. L’analisi della Napoli prequarantottesca attraversa le figure di Colecchi, Cubani e Gatti, rispetto ai quali le elaborazioni di Spaventa sono giudicate “tardive” (p. 170). Vincenzo Finamore sl inserisce in questa rassegna e si ascrive immediatamente a questa figura la paternità della teoria della circolazione del pensiero e dell’analisi della logica hegeliana, al fine di mostrare quanti e quali punti oscuri si possono ancora rintracciare nello studio dell’hegelismo italiano. T. SERRA, Oltre la lettura idealistica di Bertrando Spaventa, in “Giornale critico della Filosofia italiana”, 1974; 53, pp. 175-202. La possibilità di un superamento dell’interpretazione idealistica di Spaventa si basa, secondo Teresa Serra, su una rivalutazione storicisticadell'autore.L'ombra nella quale rimase Spaventa anche rispetto a Rosmini e Gioberti non si può spiegare soltanto con la clandestinità della sua attività di pubblicista peraltro giustamente segnalata da Gentile: se è vero che il legame Spaventa Hegel non può essere radicalizzato, d’altra parte non può nemmeno svaporare, eliminando il carattere sistemico e logico del pensiero spaventiano. La versatilità di Spaventa ne fa un precursore dell’attualismo Gentiliano da un lato e un anticipatore del Labriola dall’altro: certamente sottolineare la forte laicità, il rigore scientifico ed il vigore storicistico consente a Teresa Serra di mostrare come il pensiero del filosofo di Bomba si presti a diverse interpretazioni. Spaventa supera l’astratto coscienzialismo, ma senza giungere alle conseguenze che la Serra definisce antispeculative, di Feurbach e Marx. Persino l’ultima fase, legata alla polemica con il positivismo, mira a riproporre l’istanza e la concretezza del sistema. P. OTTONELLO, Introduzione a B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, Marzorati, Milano 1974. Nella breve presentazione vengono sottolineati i caratteri salienti del programma di riabilitazione della filosofia italiana agli occhi del dibattito filosofico europeo: mostrare l'originaria presenza di temi filosofici tipici della modernità europea nel pensiero rinascimentale voleva produrre il duplice effetto di rivalutare la filosofia italiana e di aggiornarla al dibattito europeo. A. SAVORELLI, Ux frammento inedito di Bertrando Spaventa su Vico e Darwin, in “Bollettino del Centro di Studi vichiani”, IV, 1974, pp. 171-175. Il frammento, recuperato nella Biblioteca civica “A. Mai” di Bergamo, testimonia gli intensi studi spaventiani degli anni ’70 attorno a Vico e al problema dellascienza. È Savorelli a segnalare che Spaventa, come ogni buon hegeliano, esclude l’intervento soprannaturale, ma senza con ciò cedere ad una mera dimensione evoluzionistica, da inserire in quella totalità spirituale di cui le scienze naturali fanno parte. Duro è l’attacco verso la critica tradizionalista a Darwin, legata a Vera e alla sua scuola. Del manoscritto di diciotto pagine è riportata soltanto la seconda parte (fogli 7- 11). A. CAMILLERI, Problemi inediti dell'ultimo Spaventa, Scuola salesiana del libro, Catania 1974. Il primo ed il secondo capitolo del libro sono dedicati rispettivamente alla biografia e alla bibliografia dell’autore, mentre il terzo si dedica all’analisi di Esperienza e metafisica all’interno della parabola del pensiero spaventiano, ricordando il silenzio editoriale dal 1870 e la polemica con i positivisti che caratterizzerà i suoi ultimi dieci anni di vita. La rivalutazione del ruolo dello spirito, come attività che ricrea l’oggetto rappresenta l'elemento essenziale del pensiero spaventiano, capace di conciliare, in tal modo, teoretica e pratica. Obiettivo centrale della polemica sono teismo e materialismo, analizzati nel quarto capitolo in relazione alla nuova teoria dell’evoluzionismo: è nota la volontà di conciliare dialettica hegeliana e darwinismo, superando da un lato il dualismo proposto dal teismo, dall’altro l’insano monismo su cui si basa la concezione materialistica. Il problema della conoscenza trova nel quinto capitolo un’ampia trattazione, grazie alla quale si evidenzia l’affinità di Spaventa con la filosofia idealistica ed il suo rifiuto dell’origine biologica e psicologica del pensiero: tale tema impone di ritornare sul rapporto tra darwinismo e metafisica, già nel capitolo successivo. Attraverso un uso abbondante di citazioni da Esperienza e Metafisica Camilleri ripercorre l'itinerario di Spaventa, disposto ad accogliere quanto vi sia di valido anche nella posizione dell’avversario, senza alcun pregiudizio di carattere teoretico. Oltre alla figura di Darwin, obiettivo della critica spaventiana è il positivismo di Spencer, colpevole di concepire l Assoluto come separato dalla realtà e quindi totalmente inconoscibile: il capitolo settimo mostra l’inconciliabilità di questa posizione con l’hegelismo di Spaventa. La prospettiva si allarga sulla critica dell’empirismo in generale, dove emerge la crescente influenza della filosofia kantiana sul pensiero dell’ultimo Spaventa: si tratta quasi di un prologo al capitolo nono in cui si affronta il problema della coscienza e della conoscenza, da intendere all'insegna del processo come attività assoluta. Le considerazioni critiche finali sono precedute da una introduzione al manoscritto inedito dal titolo Che cos'èè il materialismo, riportato al termine del I. CUBEDDU, Bertrando Spaventa. Edizioni e studi (1840-1970), Sansoni, Firenze 1974. Il testo ripropone per intero la bibliografia curata da Cubeddu per l'edizione Sansoni delle Opere di Spaventa, apparsa nel 1972. Si mantengono le stesse scansioni: un’ampia introduzione, seguita da una prima parte sugli scritti di spaventa e una seconda sui testi scritti sulla figura di Spaventa. Si deve aggiungere, inoltre, una appendice dedicata a Spaventa come riformatore di Hegel nella cultura italiana del Novecento, in cui sono presentate le differenti interpretazioni, da quella di Gentile a quella di Vacca, passando per Berti, Garin e Landucci. T. SERRA, Bertrando Spaventa. Etica e politica, Bulzoni Editore, Roma 1974. Il volume, introdotto da una breve presentazione di Negri nella quale si sottolinea l’immanentismo dinamico di Spaventa, mira a ridimensionare il durogiudiziodi Benedetto Croce secondo il quale l’autore abruzzese sarebbe stato soltanto un purus logicus, concentrando l’attenzione sul rapporto conoscere-fare. Innanzitutto un tratto essenziale viene individuato  nell’attenzione al religioso, benché assunto nell’immanenza del divino: per questo la visione logico-metafisica della mente viene valutata senza perdere la ricchezza dell'orizzonte storico. Si vuole rimarcare l’idealismo di Spaventa, avverso ad ogni degenerazione materialista e determinista, senza dimenticare però la sua attenzione per la scienza e la storia. Se troppo spesso il logicismo hegeliano viene interpretato come foriero di una insuperabile staticità del reale, l’interpretazione spaventiana mostra l’insostenibilità di tale tesi. Eterno è il dualismo che genera e assicura una continua evoluzione sul piano storico, scientifico e politico: in questo senso il dualismo dell’autore è contrapposto al monismo del suo più grande divulgatore e allievo (benché indiretto) Giovanni Gentile. La seconda parte del testo è dedicata specificamente a problemi di carattere politico, legati soprattutto alla contraddizione tra Stato etico ed purzanitas: il tentativo di divinizzare lo Stato da parte del filosofo di Bomba non giunge mai ad un profetismo metafisico; si mantiene sempre un atteggiamento di grande umiltà nei confronti della storia. Opere psicologiche inedite, in D. D’ORSI, Contributi alla ricostruzione integrale del pensiero di B. Spaventa: inediti, accertamenti filologici, nuovi itinerari e assetti critici, in “Le ragioni critiche”, IV, (1974), pp. 433-490; V (1975), pp. 54-88, 168-198. Il primo articolo si apre con una presentazione di D’Orsi nella quale si rivendica il profilo antidogmatico del pensiero spaventiano, fortemente debitore nei confronti dell’hegelismo; si evidenzia la discontinuità tra il corso del 1863 sulla Filosofia della natura rispetto a quello del ’63-°64 sull’antropologia, che raccoglieva una serie di appunti e di riflessioni cui l’autore non aveva mai dato una forma sistematica. Elemento essenziale del corso, secondo D’Orsi è la distinzione tra la meccanica ripetitività dell'animale e la possibilità di mutazioni da parte dello spirito. Citando un passo di Gentile, dove si presenta Spaventa come uomo dal pensiero tormentato sino agli ultimi giorni di vita, si sottolinea che l’inesausto tentativo di conciliare analisi e critica concerne non solo il suo ruolo di filosofo e di storico della filosofia, bensì anche quello di pensatore che si interroga di fronte ai progressi del pensiero scientifico. Il primo articolo prosegue riportando la prima parte del testo originale di Spaventa dal titolo L’arnzzza universale (pp. 465- 490); i due articoli successivi, riportano il secondo capitolo Animali e uomo, e il capitolo terzo intitolato Dall’universalità alla particolarità dell'anima. A. ASOR ROSA, La cultura, in AAVV., Storia d'Italia, IV, 2. Dall’Unità ad oggi, Einaudi, Tornino 1975, pp. 821- 1664 e particolarmente pp. 821-999. Spaventa viene citato, insieme a Villari, come uno dei maggiori responsabili della rinascita di Campanella e Bruno (p. 844). Asor Rosa presenta anche un breve estratto di Spaventa tratto dagli Studi sopra la filosofia diHegel(p.852), ma il tema cardine rimane l'influenza dell’autore abruzzese nel dibattito sull’hegelismo all’interno della Destra storica (p. 881-882): alla sintesi speculativa per un certo verso raggiunta tra il sistema hegeliano e il liberalismo di sicuro non seguì una attuazione pratica e politica. M. A. RASCHINI, L’idealismo anglosassone, francese e italiano, in Grande antologia filosofica, vol. XXII, Il pensiero contemporaneo, Milano 1975, pp. 607-614. Spaventa è qui presentato come autore di grande vigore, all’insegna della continuità tra Kant e Hegel, a differenza di Vera. L’opera di Spaventa viene giudicata come fenomenismo che tuttavia non riuscì né a rinnovare il sistema hegeliano, né ad instaurare un proficuo dialogo con il positivismo. L. GENTILE, La Scolastica, Cartesio e Bertrando Spaventa, in “Filosofia” 1975; 26; pp. 139-148. Dal parallelismo tra Cartesio e Spaventa, entrambi contestatori della scolastica, ma altresì allievi dei Gesuiti, Gentile individua proprio nel dualismo intelletto-verità il luogo di dissidio tra Spaventa e la filosofia scolastica. Rivendicando il ruolo attivo del soggetto e l’immanenza del reale, Spaventa critica aspramente la prova ontologica di Anselmo preferendovi quella cartesiana, benché anche quest’ultima risulti imperfetta. Gentile tende a rilevare che il punto di vista dal quale Spaventa polemizza contro la Scolastica prima e Cartesio poi, può inficiare la validità stessa della critica, dal momento che l’idea di Dio come mediazione assoluta non sarebbe accettata da nessuno dei due avversari. V. CAVALLO, Note sulla cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, in “Protagora”, 1976, pp. 7-50. L’ampio articolo di Cavallo tratteggia per sommi capi il panorama culturale napoletano, all'insegna di una rivisitazione del ruolo e della figura del De Sanctis, mediante la quale si rivaluta anche Spaventa, De Meis, Vera, Imbriani e Villari. Concentrandosi sul libro di Oldrini del °73, del quale si sottolinea la visione organica che evita di proporre trattazioni isolate dei diversi autori, un ruolo di primo piano viene ravvisato nell’analisi dell’arretratezza culturale di Napoli nell’ultima parte del XVIII secolo, dovuta alla mancanza di personalità di spicco e ad una ripresa dell’autorità religiosa appoggiatadaiBorboni per evitare il dilagare di movimenti rivoluzionari. Cavallo cita due passaggi di Spaventa sul tema della rivoluzione proprio per rilevarne la stretta relazione con la filosofia hegeliana, presente già negli anni ‘40 e affermata definitivamente solo negli anni ’60. L’articolo si conclude sottolineando la reinterpretazione in chiave speculativa del darwinismo offerta da Spaventa. D. D'ORSI, Introduzione a B. SPAVENTA, Lezioni di antropologia, Casa editrice G. D'Anna, Messina-Firenze 1976, pp. 2-70. Per avvalorare l’immenso lavoro filologico svolto sulle carte Spaventa al fine di correggere in alcuni tratti la versione gentiliana, D’Orsi ricorre ad una vera e propria comparazione dei luoghi in cui sono poste le differenze più significative, con l’intento di rilevare che la tensione al vero, anche in un senso filologico, contribuisce a mantenere aperto il sistema spaventiano. Oltre all’analisi di alcune interpretazioni storiche offerte da Spaventa, l’attenzione si concentra sugli effetti che il materialismo provocava nel filosofo abruzzese, sempre impegnato nell’affermare una discontinuità tra natura e spirito, non certo nell’ottica di una separazione tra le due sfere, ma nella consapevolezza che la nascita della coscienza non potesse essere spiegata in soluzione di continuità rispetto alla natura animale. S. LANDUCCI, Hegelismo e positivismo in Italia, in AAVV., Storia della filosofia contemporanea, vol. IX, Vallardi, Milano 1976, pp. 365-398. L’intervento di Lancucci si apre con una rassegna della traduzione spiritualistica, cui segue la trattazione dell’hegelismo napoletano, capitolo nel quale si nominano oltre a Passerini, Spaventa, De Meis e Vera, anche gli eredi di quella tradizione come Jaja e Gentile. Un'attenzione particolare è dedicata a Spaventa e al suo primo corsonapoletano nel quale viene presentata in forma compiuta la teoria della circolazione. Gli inizi della ripresa del pensiero scientifico sono affrontati proprio attraverso la figura di Spaventa che nel ’67 individua proprio il positivismo ed il materialismo quali nuovi avversari dell’idealismo al posto dello spiritualismo. Si accenna ‘anche alla polemica sull’eredita di Galilei, nominando la figura di Villari e Gabelli. Le sezioni successive sono dedicate al pensiero di Ardigò in connessione alla morale dei positivisti, alla psicologia e all'evoluzione cosmica. Sergio Landucci conclude con la presentazione della cultura positivistica e con il marxismo di Antonio Labriola, di cui si ricorda l'appartenenza alla scuola spaventiana. G. VILLA, Bertrando Spaventa in Piemonte (1850- 1859), in “Studi piemontesi”, V, 1976, pp. 53-68. La breve rassegna del clima culturale del Piemonte degli anni ‘40, in cui si evidenzia la censura di giornali e libri, le difficoltà di Gioberti, il domino incontrastato di Rosmini, contribuisce a mostrare perché l’attività di Spaventa si stata particolarmente tormentata durante il decennio torinese. Lo scontro con il teismo di Bertini farà di Spaventa il campione della nuova filosofia hegeliana, sui principi della quale giungerà a proporre persino una modifica dello Statuto, in nome dell’istanza nazionale. Già negli scritti del ‘54-55 il filosofo abruzzese studia le relazioni tra Risorgimento italiano e idealismo tedesco; individuando nella libertà assoluta il principio della modernità, Spaventa potrà avvalorare la tesi di un pensiero italiano costretto in catene nel XV secolo e rinato in Germania nel XIX secolo. In questa ottica sono collocate le dispute contro la logica di Rosmini, il teismo di Schelling e la disputa con i Gesuiti. L. MALUSA, La storiografia filosofica italiana nellaseconda metà dell'Ottocento, I Tra positivismo e neokantismo, Marzorati, Milano 1977. L’ampio volume di Malusa contiene una prima parte interamente dedicata alla scuola di Bertrando Spaventa e a Francesco Fiorentino. Di Spaventa si parla già nell’Introduzione (pp. 50-54), individuando nella sua opera uno dei maggiori contributi all'elaborazione dell’hegelismo. Degno di nota è il fatto che, insieme a Gentile e Fiorentino, Spaventa è l’autore più citato nel testo di Malusa. I primi due capitoli della prima parte, esplicitamente incentrati su Spaventa (pp. 71-95), lo presentano come il maggior pensatore del Meridione della seconda metà dell'Ottocento: indubbi restano i meriti per aver elaborato la tesi della circolazione del pensiero italiano. Il compito di aggiornare il dibattito e la cultura della penisola per dare vita ad una unità autentica viene considerato sia un impegno speculativo, sia una missione civile. Spaventa, che combatteva senza posa il dilettantismo e ogni tendenza divinatoria, non pretese mai di aver concluso la scienza, ma si sforzava sempre di sviluppare una critica capace di riaprire il sistema. Se è vero che nessun allievo seguì Spaventa sulla via troppo ardua di una storiografia speculativa, si deve ammettere che la serietà speculativa dei suoi discepoli, pur allontanando i consensi, mantenne vivo il suo pensiero, ancorché in un circolo assai ristretto di pensatori. P. PICCONE, From Spaventa to Gramsci, in “Telos. A Quarterly Journal of Radical Thought”, n. 31, 1977, pp. 35-65. Nel tentativo di far risalire le influenze esercitate sul pensiero di Gramsci non più soltanto ad Antonio Labriola, ma all’hegelismo napoletano della seconda metà del XIX secolo, l’autore mostra quale peso abbiano avuto le speculazioni di Bertrando Spaventa sullo storicismo assoluto di Gramsci, poco incline alle grandi astrazioni, incapaci di cogliere la multidimensionalità della vita reale. Dopo una rapida panoramica sulla ricezione di Hegel in Europa, ad esempio in Gran Bretagna grazie ai lavori di William James, Stirling e Green, si sottolinea come in Italia l’hegelismo abbia avuto un impatto non solo accademico, ma socio politico assai profondo. Per sottolineare il legame Spaventa- Gramsci si cita la famosa lettera dell’8 ottobre del 1851 in cui dice di temere di più le idee e l'influenza del papato che non i cannoni austriaci. Il pensiero hegeliano, giunto in Italia grazie alla mediazione francese (viene citato naturalmente il nome di Victor Cousin) fu bollato subito come pensiero della Rivoluzione francese, precursore dell’ateismo e del socialismo: contro questa tesi si è battuto Spaventa, cercando di mostrare la continuità tra il Rinascimento italiano e l’idealismo tedesco. Se è vero che il nazionalismo spaventiano verrà poi strumentalizzato da Gentile e dal fascismo, è anche vero che la tesi della circolazione del pensiero era l’unico modo per non presentare Hegel come pensatore straniero “piovuto dal cielo”, come afferma Piccone. Il parallelismo Spaventa- Gramsci viene ribadito sottolineando che entrambi hanno vissuto il fallimento di una rivoluzione, hanno cercato di interpretare la sconfitta in senso concettuale negli anni successivi, e sono stati apprezzati soltanto due decenni dopo la morte. L'articolo si conclude sottolineando la differenza tra hegelismo ortodosso di Vera e hegelismo critico di Spaventa, continuato idealmente da Gramsci. A. SAVORELLI, Da Darwin a Vaihinger; scienza e filosofia nell'ultimo Spaventa, “Atti dell’Accademia di scienze morali”, Napoli, LKXXVIII, 1977, pp. 57-80. Tema di fondo dell’articolo è la volontà spaventiana di garantire alla metafisica una funzione all’interno dello studio scientifico. Nonostante la fase sistematica si fosse già conclusa negli anni ’60, sarebbe errato interpretare il cedennio successivo se non alla luce di una esigenza di sistematicità. Lo stesso antipositivismo cui si ispira da principio il “Giornale napoletano di filosofia e lettere” non mirava alla rigida contrapposizione, bensì a mostrare lo sviluppo interdipendente di filosofia e scienza. Savorelli sottolineacome gli appunti di Spaventa testimonino la lettura di Leclair, Schuppe, Goring, Bagehot e Vaihinger, quest’ultimo in particolare criticato proprio perché le sue categorie empiristiche potevano essere ottenute mediante un procedimento dialettico. L’esigenza del fenomenismo di Vaihinger di trovare la legge fondamentale della realtà contraddiceva, secondo Spaventa, l’idea della sensazione come posizione assoluta. La rivisitazione persino dell’evoluzionismo in chiave hegeliana mostra un intento preciso: eliminata la trascendenza, si doveva recuperare una prospettiva teleologica per non cedere al mero determinismo meccanicistico. Savorelli segnala come l’attenzione alla scienza verrà segnalata anche dal Gentile, per il quale però soprattutto certe tematiche non costituiscono più motivo di interesse. C. CESA, Hegel in Italien. Positionen im Streit um die Interpretation der  Hegelschen  Rechtsphilosophie, in “Allgemeine Zeitschrift fur Philosophie”, 1978, a. III, n.2, pp. 1-21. A differenza che in Francia, in Italia lo studio dell’hegelismo fu recepito solo all’insegna del rinnovamento della nazione e dell'idea di Sato. La prima traduzione italiana di Hegel apparve in Svizzera e solo nel 1848 i Lineamenti di filosofia del diritto furono tradotti a Napoli, città simbolo degli studi hegeliani in Italia. Dopo aver rilevato che in Spaventa e De Meis la perspicacia speculativa si univa ad una incapacità pratica (ovviamente diverso è il giudizio su De Sanctis), Cesa mostra a quali opere si deve la diffusione del pensiero politico di Hegel. Si sottolinea la l’attività giornalistica di Silvio Spaventa, anche al fine di dimostrare la differenza di opinione dei due fratelli sul concetto di Rivoluzione. Dopo aver analizzato l'influsso e la diffusione del pensiero hegeliano sulla prima generazione (significativi in tal senso gli accenni al pensiero di Vera), ci si concentra sulla seconda generazione, in particolare su Croce e Gentile. D. D’ORSI, Introduzione a B. SPAVENTA, Psiche e metafisica, Editrice G. D'Anna, Messina-Firenze, 1978, pp. VII-CXVII. Nell’introduzione al volume D’Orsi sottolinea le significative variazioni al testo spaventiano in seguito al suo lavoro filologico, anche attraverso una valutazione comparata con i testi editati dal Gentileeutilizzati poi da Cubeddu nella edizione del 1972. Si sottolinea la sfortuna delle vicende editoriali di Spaventa, benché in chiave filosofica si possa interpretare questo fenomeno come tensione che anche a livello filologico e non solo contenutistico contribuisce a mantenere aperto il sistema. Venendo specificamente al testo, Spaventa appariva turbato dal materialismo, a motivo del fatto che l’anima doveva essere mantenuta come garante dell'unità organica e sistemica del mondo spirituale. La continuità scimmia-uomo era un elemento inaccettabile per l’autore abruzzese, sempre preoccupato di opporre al mero meccanicismo l’idea di una unità viva, tipica della concezione organicistica. F. TESSITORE, Bertrando Spaventa e il “Giornale napoletano di filosofia e lettere”, Bibliopolis, Napoli 1978. Presentando le vicissitudini dell’organizzazione si un giornale filosofico a Napoli, tentativo più volte fallito e più volte tenacemente ripetuto fino alla sua definitiva riuscita, soprattutto in risposta alla “Nuova Antologia” nata a Firenze nel 1866, Tessitore si concentra sulle polemiche suscitate dall’articolo piuttosto polemico di Spaventa sulla Vita di Giordano Bruno scritta dal Berti nel 1867. Elemento essenziale per comprendere il senso e l’intento con cui venne fondato il “Giornale napoletano di filosofia e lettere” è comprendere l’espressione di Spaventa secondo il quale si rendeva necessario “ripigliare il sacro filo della nostra tradizione filosofica”. Al termine del volume sono inserite sei lettere di Spaventa (Carte Fiorentino, 8c, busta 63) e quattro lettere di Vittorio Imbriani (Carte Filosofiche, busta B 2/5). G. BRESCIA, Editori e autori dell’idealismo. LL Bertrando Spaventa postumo nel carteggio del fratello Silvio, Donato Jaja e Benedetto Croce, in “Rivista di studi crociani”, XVII, 1, gennaio-marzo, 1980, pp. 68-76. L’articolo rileva come alla complicata vicenda della stesura degli appunti da parte di Spaventa, che secondo Gentile scrupolosamente scriveva i suoi testi senza mai pubblicarli, sia seguita una seria problematica anche nell’editarli. Il Loscher fu editore soltanto di nome, perché l'onere della pubblicazione dei manoscritti di Spaventa fu assunta dal Vecchi di Trani, con il quale si avviò una fitta corrispondenza da parte di Silvio Spaventa, Jaja e Croce. Il travaglio editoriale angustierà Spaventa e Croce per tutto l’87, anche a motivo dello smarrimento della pagina ventuno del manoscritto nella tipografia del Vecchi, puntualmente ricordata da Brescia. R. FRANCHINI, La storiografia filosofica da Spaventa a Gentile, in “Nord e Sud”, 1980, pp. 131-146. Ora in I/ diritto alla filosofia, SEN, Napoli 1982, pp. 229-249. La “Rivista di filosofia” avviata da Silvio Spaventa viene considerata da Franchini come anticipazione della teoria della circolazione che sarà poi affermata con ben altro tenore dal fratello Bertrando quasi vent'anni dopo. Anche Silvio, non solo Bertrando, vedeva una  strettissima connessione tra la rinascita della tradizione filosofica e la rinascita nazionale. Introdurre Hegel all’interno del dibattito filosofico italiano rappresentava un azzardo, a causa delle forti resistenze del neoguelfismo e del neotomismo; l’unico modo per inserire l’idealismo tedesco in Italia, rendendolo accettabile senza farlo percepire come elemento straniero, consisteva nel rivalutare il pensiero rinascimentale italiano come anticipatore degli sviluppi della filosofia moderna. In particolare Bruno come antesignano di Spinoza ed Hegel da una parte e Vico come precursore di Kant dall’altra. Si ricorda anche lo sfortunato episodio del rifiuto dell'editore Le Monnier di pubblicare l’opera di Spaventa su Bruno, nonostante l’influenza e l’insistenza del Villari. Nazionalità e precorrimento sono i tratti tipici del pensiero di Spaventa secondo Franchini. La seconda parte dell'intervento riguarda Gentile e la sua assimilazione del concetto di storia della filosofia mutuato da Spaventa, che tuttavia non viene mai citato esplicitamente: Gentile attribuirà piuttosto molto peso all’influenza di Windelband. Il saggio si trasforma poi in una valutazione del pensiero stesso di Gentile, il cui errore principale, secondo Franchini, sarebbe stato quello di non aver distinto tra teoretica e pratica, tentando di mostrarne la profonda identità. G. MICHELI, Scienza e filosofia da Vico ad oggi, in Storia d’Italia-Annali, 3. Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento ad oggi, Einaudi, Torino 1980, pp. 549-675. Alla figura di Spaventa sono dedicate alcune pagine in cui si tratta la sua critica ai principi della filosofia vichiana sulla scorta del pensiero hegeliano (pp. 582-585). Si accenna anche alla sua teoria della nazionalità della filosofia, rimasta in Gentile. Forse un po’ troppo sbrigativamente si annovera il pensatore abruzzese tra coloro che adattarono il pensiero kantiano ed hegeliano alla cultura napoletana, in parte tradendone gli effettivi contenuti. Brevi cenni sull’attività di Spaventa sono presente anche nella trattazione del rapporto tra Illuminismo e positivismo. A. SAVORELLI, Le carte Spaventa della biblioteca nazionale di Napoli, Bibliopolis, Napoli 1980. Il preziosissimo lavoro di catalogazione delle carte Spaventa eseguito da Savorelli trova una testimonianza editoriale in questo volume nel quale l’autore lamenta l’incompiutezza del lavoro fino a quel momento eseguito sulle carte ed in generale mostra il livello di dispersione dei lavori del filosofo abruzzese, dovuto non tanto, come voleva il Gentile, alla sua attività pubblicistica su giornali e alla mancata pubblicazione in vita dei suoi studi, quanto piuttosto ai litigi occorsi tra il fratello Silvio e il figlio Camillo. Un secondo momento di dispersione riguarda il periodo successivo alla morte del Maturi. Si accenna anche al ritrovamento di alcune carte presso la Biblioteca civica “A. Mai” di Bergamo da parte di Masini nel 1959. Sicuramente, però, la situazione più complessa è legata alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Se si tiene conto del lavoro filologico di Jaja, Masci e Maturi, oltre a quello di Gentile (che sicuramente occupa un posto di eccezione nella riscoperta del pensiero di Spaventa) e quello di D’Orsi nel dopoguerra, risulta frustrante che vi siano ancora delle notevoli lacune nello studio dell’autore: soprattutto per quanto riguarda il periodo precedente al 1850 e il primo periodo di Torino. A. GUZZO, Hegel in Italia, in “Filosofia”, XXXII, 1981, 4, 497-506. Nell’articolo l’importanza del Cousin per la diffusione di Hegel in Italia viene avvalorata dall’interesse del Galluppi per l’intellettuale francese. Non si dimentica la lettura di Hegel da parte di Rosmini e Gioberti, ma ci si concentra soprattutto sullo studio dell’autore tedesco, approfondito a più riprese, da parte di Spaventa: da Torino, a Modena, a Napoli. Guzzo collega la lettura di Spaventa alla nuova corrente europea inaugurata dallo Zeller con la formula “Zurick zu Kant”; in dialogo ed in polemica con questa tesi, Spaventa non accentuò mai le differenze, quanto piuttosto la continuità tra Kant ed il movimento dell’idealismo tedesco. Nella seconda parte dell’articolo l’attenzione si concentra su Gentile e Croce (di cui Guzzo riporta l’incontro con Nyman e Martinetti): le divergenze di pensiero tra i due non intaccheranno la solida amicizia, compromessa solo dopo il delitto Matteotti e la presa di posizione di Gentile a favore del fascismo. G. LANDUCCI, Scienza, cultura e ideologia nello stato unitario, in Storia della società italiana, vol. XVIII, Milano 1981, pp. 201-249. Fin dalle premesse emerge il contributo portato da Spaventa alla riforma dell’università avviata da De Sanctis, precisando l’importanza della prolusione del 10 maggio 1860 e l’opposizione al darwinismo, appoggiata dall’amico De Meis. Due fattori sono individuati come caratteri imprescindibili del pensatore abruzzese: il riferimento alla nazionalità e la strenue lotta contro ogni forma di materialismo. Al positivismo dilagante De Sanctis e Spaventa opposero la validità della critica e della dialettica come metodo del conoscere. La presentazione della riforma intellettuale avviata dal De Sanctis precede una disamina dello scritto postumo Esperienza e metafisica, nel quale si ribadiva il rifiuto ad ogni concezione che affermasse l’inconoscibilità o peggio l'assenza dell’assoluto. Spaventa al termine è definito “l’intelletto filosofico più dignitoso che l’Italia unita aveva avuto” (p. 248). A. SAVORELLI, Alla vigilia di un centenario dieci anni di studi su Bertrando Spaventa (1971-1981), in “Cultura e società”, 1982, pp. 113-118. Nel suo breve articolo Savorelli ripercorre le linee guida della diffusione del pensiero di Spaventa, dominata per tutta la metà del XX secolo dalle tesi gentiliane, criticate soltanto nel secondo dopoguerra da interventi militanti, con l’intento di recuperare la linea Spaventa-Labriola-Gramsci. Il lavoro di Teresa Serra del ’74 mostra già l’infondatezza delle interpretazioni marxiste, mentre la lettura di Oldrini è ricordata a proposito della distinzione tra hegelismo ortodosso di Augusto Vera ed hegelismo critico di Bertrando Spaventa. Si accenna all’articolo di Cumis del ’76 sui rapporti tra Spaventa ed Herbart e alle Lezioni di Antropologia curate da D’Orsi. Al termine Savorelli propone la tesi secondo cui l’originalità ed insieme il limite di Spaventa sarebbe stato quello della rinuncia all’eclettismo in favore di un sistema che tenesse insieme le differenze. G. OLDRINI., L’hegelismo italiano tra Napoli e Torino, in “Filosofia”, XXXIII, 1982, p. 247-270. Volontà dichiarata di Oldrini è mostrare la linea di continuità tra il periodo napoletano prequarantottesco e gli sviluppi torinesi, soprattutto in virtù dello stretto rapporto tra la scientificità come metodologia filosofica e la cultura dell’Italia unita, nel senso che si reputava necessaria una trattazione scientifica del pensiero per farne emergere la nazionalità. Oldrini individua nel coscienzialismo di Galluppi e nell’eclettismo di Cousin il retroterra dello sviluppo dell’hegelismo a Napoli; dopo l’esperienza del “Museo di letteratura e filosofia” di Gatti e Cubani, il tenore culturale della città subì, se non un tracollo, per lo meno una drastica involuzione. Il processo di sviluppo dell’hegelismo continuò a Torino, soprattutto grazie all’apporto degli esuli meridionali tra i quali spiccano Spaventa e De Sanctis. G. TOGNON, Bertrando Spaventa. Lezioni inedite di filosofia del diritto. Modena 1860. (1) e in “Archivio storico bergamasco”, n. 1, anno II, Maggio 1982, pp. 37- 60. L’articolo di Tognon illustra le disavventure della biblioteca dei fratelli Spaventa, trasferita a Bergamo, divisa tra Silvio e il figlio di Bertrando, Camillo, con riferimento alle carte recuperate da Croce e donate alla Biblioteca di Napoli. Si elogia il lavoro di riordino e catalogazione di Savorelli. Si riporta poi il testo parziale delle lezioni di “Filosofia del diritto” e di “Storia della filosofia” tenuti a Modena e Bologna. Alla difficoltà nel ricostruite il calendario delle lezioni supplisce una notevole chiarezza del progetto steso da Spaventa all’inizio dei corsi. Si riporta il manoscritto per i primi sei fogli (MM 760/18). G. TOGNON, Bertrando Spaventa. Lezioni inedite di filosofia del diritto. Modena 1860. (2) in “Archivio storico bergamasco”, n. 2, anno II, Novembre 1982, pp. 275-290. La brevissima introduzione di Tognon ribadisce l’influenza di Hegel sulle lezioni di Spaventa, in particolare l’Hegel della Fenomenologia e dei corsi sulla Filosofia della storia. Spaventa coglie l'occasione per sottolineare che in Italia manca completamente la coscienza del diritto. Secondo Tognon “mai filosofo straniero divenne più italiano di quanto lo fu lo Hegel dello Spaventa”. Segue lo scritto di Spaventa che completa la pubblicazione del Maggio ’82. (MM 760/18 e MM 760/22). A. SAVORELLI, Note sul Vico di Bertrando Spaventa, in “Bollettino del Centro Studi Vichiani”, 1982-83, 12-13; pp. 101-130. Vico costituisce un caso quasi unico di riscoperte e abbandoni continui da parte degli studiosi, ed è in questo senso che Gentile poteva parlare di storia a doppia faccia, di sporadici omaggi in uno sfondo di completa dimenticanza. Merito di Spaventa è quello di aver rivalutato la figura di Vico agganciandola al panorama europeo, in quanto precursore dell’idealismo. Savorelli tende comunque a ridimensionare l’importanza della lettura spaventiana di Vico, in quanto si appoggia in larga misura a canoni e modelli di critica vichiana ottocentesca; la stessa lezione VI del corso del 61-62, dedicata a Vico, sembra inserita di getto in uno schema completamente indipendente ed autonomo. Savorelli riconosce, d’altra parte, il ruolo essenziale che la lettura di Vico ebbe nello sgretolamento delle teorie hegeliane sulla filosofia della storia: nel frammento del 1875 Spaventa giunge a considerare addirittura Vico e non Hegel come filosofo della storia. La crisi dell’idealismo cui Spaventa assiste nell’ultimo decennio della sua vita lo portò a rivalutare Vico, ma non come radicale critica dello Hegel, bensì piuttosto come interpretazione alternativa della filosofia della storia che tuttavia mantiene imprescindibile la distinzione tra mondo della natura e mondo dello spirito. M. BISCIONE, Rinascimento, Riforma, Restaurazione cattolica nel pensiero di Bertrando Spaventa, in “Clio”, XIX, 1983, pp. 277-288. A partire dalla scarsa diffusione all’estero come tratto che accomuna l’opera di De Sanctis e di Spaventa, Biscione tenta una messa a fuoco del personaggio in quanto storico della filosofia, anche per smarcarlo dall’interpretazione in chiave esclusivamente idealistica proposta da Gentile e dominante almeno per tutta la prima metà del Novecento. Se da un lato hanno un valido fondamento le critiche del Croce relative ad una trascuratezza da parte di Spaventa verso i dettagli storici in favore della prospettiva teoretica, bisogna precisare che non si tratta di puro razionalismo, bensì piuttosto di una fede moderna nella storia. Benché si tenda ad accentuare l’influenza di Michelet e di Mazzini, non si può negare una larga concessione nei confronti delle suggestioni hegeliane. La filosofia della storia proposta da Spaventa coincide, in sostanza, con la teoria della circolazione del pensiero italiano: ruolo principale è svolto dalla figura di Campanella, senz'altro tra le più studiate da Spaventa, insieme a quella di Bruno. L’interpretazione che Spaventa propone del Rinascimento e della restaurazione cattolica assume una notevole distanza rispetto alle teorie hegeliane, anzi, per certi versi le sue tesi sulla soggettività liberata anticipano di qualche anno le tesi di Burckhardt. Dal lavoro di Campanella del 1854, che l’autore definisce poco più che una osservazione supportata da alacre speranza, furono necessari anni di studio prima di giungere alla teoria della circolazione intesa come autentica metafisica della storia. E. GARIN, Filosofia e politica in Bertrando Spaventa, Bibliopolis, Napoli 1983. Il testo di Garin si apre con la citazione di una lettera del Labriola che informa Engels della connessione trovata da Spaventa tra hegelismo e darwinismo già nel 1864. Se è vero che negli sviluppi successivi della tradizione hegeliana la nottola lascia il posto alla talpa che trasforma il terreno lavorando nel sottosuolo, risulta inefficace l’idea di Passerini secondo la quale la filosofia della storia di Hegel non tiene conto del futuro: piuttosto lo spirito che si diffonde nel mondo mostra il potere del concetto che vuole ricreare la realtà. Garin precisa che Spaventa non tradì mai il suo autentico maestro, lo Hegel, a differenza di quanto accadde per il De Sanctis, cui Hegel aveva “seccata l’anima”: l’interpretazione originale del pensiero hegeliano, mai allinsegna di una mera ripetizione meccanica, portò Spaventa ad utilizzare gli strumenti della dialettica per ribadire l’importanza dei due soli (Rinascimento italiano e Idealismo tedesco) e per legittimare l’intima affinità tra i due, accomunati da una intrinseca avversione a qualsiasi forma di dogmatismo. In appendice è riportato un intervento di Tognon, la prolusione bolognese, di cui si sottolinea una correzione di data (30 aprile e non 10 maggio come si riporta solitamente) e infine una lettera di Bertando Spaventa al fratello Silvio datata 27 ottobre 1859. G. OLDRINI, U/tizzi contributi alla storia della cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, in “Rivista critica di storia della filosofia”, XXXVIII, 1983, pp. 325-357. Mostrando l’interconnessione tra la storia della vita reale e la storia della cultura nella Napoli dell'Ottocento, Oldrini si sofferma sul centralismo della classe dirigente italiana e sulla malformazione dello sviluppo del meridione come fattori della crisi della città negli anni ’30. Oldrini lamenta numerose lacune della storiografia sulla pubblicistica e sul vichismo napoletano, contestando la tesi di Broccolini, secondo cui Spaventa sarebbe un epigono di Finamore. Veri snodi critici sono i legami tra hegelismo e Destra storica da un lato e ridimensionamento dell’hegelismo e del vichismo in favore del positivismo dall’altro. Per questi motivi si apprezza il monumentale lavoro di Malusa del ‘77, dedicato al positivismo e al neokantismo, benché alcuni limiti siano rintracciati per esempio nell’eccesso di analisi espositive e in alcuni difetti di interpretazione sul pensiero del Fiorentino. R. FRANCHINI, Cozze riscoprire Bertrando Spaventa, Il Tempo, Roma 20/2/1983. Di contro all’interpretazione comune di Bertrando Spaventa come bieco immanentista, Franchini rivendica tutto il criticismo del filosofo abruzzese, sottolineando che “non credette mai all’unicità e alla definitività della costruzione hegeliana”; oltre allo straordinario sforzo di chirificazione del pensiero di Hegel, si deve aggiungere la capacità di elevare il dibattito italiano ai livelli di quello europeo, tratto che dovrebbe delegittimare ogni tentativo di interpretare la sua esperienza filosofica all’insegna del provincialismo. Alla base del pensiero spaventiano Franchini individua l’unità del sapere, esposta nella prolusione del 1862. G. MARTANO, Bertrando Spaventa e la filosofia del Rinascimento, in “Discorsi”, 1983, pp. 266-278. La nomina di Bertrando Spaventa a Professore di Logica e Metafisica dell’Università di Napoli, voluta da De Sanctis, scandalizzò il resto del corpo docente, a causa dell’elogio del panteismo germanico proposto dal filosofo abruzzese: suo autentico obiettivo, d’altro canto, era mostrare l’intima affinità tra il pensiero idealistico tedesco e quello rinascimentale italiano. L’assunzione della realtà soltanto nel suo essere pensata costituiva il nucleo dell’insegnamento spaventiano, per cui Cusano, Valla, Pomponazzi, Telesio e lo stesso Leonardo con il suo richiamo alla “sperienza” dovevano essere visti quali precursori di Kant ed Hegel. Privilegiato fu il rapporto con Bruno e Spinoza, che Spaventa associò tra loro, ma non sulla base di interpretazioni teologizzanti. Da ultimo Campanella viene certamente considerato come filosofo della Restaurazione cattolica, ma non di può dimenticare il suo senzzr di sentire, l’importanza del ruolo della soggettività, benché ancora compromesso da un residuo naturalistico. Il carattere precursore di Vico rispetto all’idealismo tedesco è dichiarato da Spaventa con il preciso intento di mostrarne le affinità nella trattazione del materiale storico. Tutto questo percorso deve essere valutato alla luce della profonda fede che Spaventa nutriva verso il progresso, alimentato da costanti e continui sforzi umani. P. DI ATTILIO, Rivoluzione, partiti politici e stato nazionale. Nuovi testi di Bertrando Spaventa, Giuffrè, Milano 1983. Il primo capitolo del libro analizza la formazione del giovane Spaventa, riferendosi all’influenza di padre Testi al monastero di Montecassino; proprio in quegli anni emerge già una vocazione più pratica del fratello Silvio rispetto all'anima teoretica di Bertrando. Il capitolo secondo si concentra sulla prolusione di Modena del 1859, dove si mostrava la nuova scienza storica in contrapposizione al puro arbitrio della libertà da un lato e alla bieca necessità meccanicistica dall'altro. Nella disamina degli articoli pubblicati sul “Progresso”, all’interno del capitolo terzo, si sottolinea l’importanza e la superiorità delle idee nel creare l’unità, laddove al Dio Cannone veniva contrapposta la Dea Ragione. A. SAVORELLI, Riforma della dialettica, riforma del sistema: crisi e trasformazioni dell’'hegelismo in Spaventa (1861-1883), in B. SPAVENTA, Esperienza e metafisica, Napoli, Morano, 1983, pagg. 7-80. Savorelli sottolinea che la prima fase degli anni ’60 è legata ad un utilizzo della filosofia hegeliana nel senso di una filosofia della storia che attraverso la teoria della circolazione del pensiero italiano consolida su basi metafisiche l'indipendenza e l’unità d’Italia, mentre invece già dalla seconda metà degli anni ’60 sino al 1883 Spaventa dovette affrontare la cosiddetta crisi dell’idealismo (già un quegli anni lo Zeller si faceva promotore dell’esigenza di ritorno a Kant). I temi sollevati dalle teorie di Darwin e dal positivismo imponevano un serio confronto con il sistema della dialettica: il progressivo sgretolamento del sistema comportò per Spaventa non un abbandono del pensiero hegeliano, quanto piuttosto il consolidamento di un nucleo originario di verità metafisiche idealistiche, non certo nel senso di una rigidità dogmatica, quanto piuttosto di apertura del sistema a nuovi sviluppi che tuttavia, lungi dallo smentire, contribuivano a confermare la logica dialettica correttamente interpretata. M. LEOTTA, La filosofia di A. Tari, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1983. In particolare pp. 17-84. L’opera, che analizza il pensiero di Tari secondo una triplice scansione, ossia Metafisica, Estetica e Filosofia della natura, prevede un’ampia Introduzione dove si presenta una biografia molto dettagliata dell’autore: in queste pagine il riferimento a Spaventa è assai frequente. Si ricorda la passione per la matematica che accomunava i due pensatori, l'amicizia nata nel soggiorno a Montecassino nel soggiorno tra il ‘38 ed il ’40, durante il quale Tari insegnò a Spaventa i rudimenti della lingua tedesca ed infine la collaborazione all’Università di Napoli dopo la riforma avviata da De Sanctis. Nell’introduzione sono anche riportate due lettere di Tari a Spaventa, la prima datata 18 luglio 1861 e la seconda 30 ottobre 1973, nelle quali si ringrazia il filosofo abruzzese per l’aiuto offerto in occasione della nomina di Tari rispettivamente a Professore straordinario nel 1861 e la ben più sofferta ed attesa nomina del ‘73 a Professore ordinario. Nell’ultima parte dell’Introduzione si riportano anche alcune parti della lettera con cui Tari raccomandava a Spaventa Antonio Labriola, allora giovane studente di filosofia notato da Tari per la sua vivacità intellettuale. D. D’'ORSI, Introduzione a R. H. LOTZE, Elementi di psicologia speculativa, Casa Editrice G. D'Anna, Messina- Firenze 1983. La prefazione di Antimo Negri elogia D’Orsi come il più fedele studioso di Bertrando Spaventa. L’Introduzione di D’Orsi interpreta il binomio Lotze-Spaventa come anticipazione di quella collaborazione tra filosofo e psicologo tanto comune nel Novecento. Di entrambi si sottolinea l’anticonformismo rispetto al positivismo e al materialismo imperanti negli anni ‘70 e ’80. Lotze in Germania e Maine de Biran in Francia adottano una visione non riduzionistica della mente umana, privilegiando l’impenetrabilità dell’intimità dell'anima. Il recupero di un'ottica speculativa e metafisica, precisa D’Orsi, implica una ripresa della prospettiva teleologica ed una esaltazione della valenza critica della soggettività. L’affinità elettiva e speculativa tra Bertrando Spaventa e Lotze è dovuta al medesimo atteggiamento di rifiuto della trascendenza e insieme di rifiuto del mero materialismo; nel caso di Spaventa D’Orsi sottolinea quanto la vicenda personale di Spaventa, che è stato prete per circa un decennio prima dell’esilio torinese. Questa psicologia speculativa — secondo D’Orsi — appare quale autentico gioiello speculativo. All’Introduzione segue la traduzione di Bertrando Spaventa degli Elementi di psicologia, preceduta da una serie di appunti e preliminari che costituiscono il materiale preparatorio. R. ROMEO, Cavour e il suo tempo (1854-1861), Laterza, Bari 1984, vol. III, pp. 107-109. Nell’ampio studio di Romeo sulla figura di Cavour, articolato in tre libri, alcune pagine dedicate esplicitamente a Spaventa si trovano nell’ultimo volume, dove lo si presenta come autore di una nuova interpretazione di Hegel come filosofo dell’innovazione, contro le tesi che circolavano a Napoli prima del ’48 per cui il filosofo tedesco era considerato filosofo del fatto compiuto. Altri cenni sporadici a Spaventa riguardano la sua attività di scrittore su “Il Cimento”, assieme a De Sanctis (p. 112) ed il suo giudizio negativo sulla situazione piemontese espresso in una lettera al fratello Silvio (p. 381). F. BARONE, Bertrando Spaventa e il positivismo, in “Libro aperto”, A. 5, n. 1 (1984), pp. 25-37. Barone ricorda di aver attraversato il pensiero di Spaventa nei suoi studi sul positivismo, riferendosi in particolare alle opere psicologiche edite dal Gentile. Prendendo spunto dalla famosa lettera del Labriola ad Engels in cui Spaventa viene presentato come conciliatore tra Darwin e Hegel, Barone concorda con l’opinione di Gentile secondo la quale Spaventa fece sempre i conti onestamente con il positivismo, benché lo stesso Gentile svaluti troppo il ruolo ed il peso della scienza nel suo sistema: certamente il gran valore assegnato alle riflessioni politiche e metafisiche contribuisce a porre in secondo piano il rapporto di Spaventa con la scienza. L’elemento che ogni autore tende a sottolineare, da Cubeddu a D’Orsi passando per Vacca, è la volontà di evitare ogni riduzionismo fisiologico a proposito della psichicità, rivendicando la superiorità dell’atto rispetto al fatto da cui prende avvio ogni analisi scientifica. Barone non risparmia critiche  all’interpretazione superficiale dell’evoluzionismo darwiniano proposta da Spaventa, ma concorda sull'efficacia e l’attualità delle analisi critiche di Spaventa ai concetti utilizzati dalla fisiologia. L'articolo confluirà poi nel volume Dalla scienza della logica alla logica della scienza. F. FOCHER, Spaventa di fronte al positivismo, in “Criterio” 1984, pp. 46-61. Dopo aver presentato Spaventa come uno di quegli intellettuali convinti che la propria epoca coincidesse con la piena manifestazione del regno dello Spirito, Focher precisa che le riflessioni del filosofo abruzzese, nel tentativo di rendere popolare Hegel e non volgare, come scrisse al Villari, risultano ancora assai attuali sul piano politico, molto meno su quello scientifico, a causa delle grandi novità della scienza del XX secolo. Per recuperare il valore della critica spaventiana al positivismo, si deve quindi porre in risalto il valore che assume l’uomo nel contesto storico: la storia è positivismo, è l'assoluto fare umano. In questa chiave è possibile vedere in Spaventa un elemento di stringente attualità in quanto esalta l’uomo in quanto essere libero e assoluto. L’articolo di Focher sarà inserito tra gli interventi che compongono il libro Dalla scienza della logica alla logica della scienza. A. SAVORELLI, Hegel e Gioberti: Prime reinterpretazioni e revisioni in Bertrando Spaventa, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, 1984; 14 (4), 1415-1439. Il rapporto tra Spaventa e Gioberti ha subito numerose modifiche nel corso degli anni: Savorelli rileva che al superamento di una lettura e di una comprensione generica dell’hegelismo segue una rivalutazione da parte di Spaventa del pensiero italiano ed in particolare di Gioberti. Se è vero che nel ‘49 Gioberti viene denigrato da Spaventa, già nel ’55 si assiste ad una parziali rivalutazione del suo pensiero, in quanto conciliatore della nuova visione del mondo hegeliana con il cattolicesimo. Nel ’57, tuttavia, Gioberti è di nuovo “un fanfarone” e soltanto negli anni ’60 ‘anche per consolidare la tesi di circolazione del pensiero italiano Gioberti viene definitivamente rivalutato. Savorelli, tuttavia, non accetta l’idea che l'apprezzamento per il teorico del neoguelfismo sia dovuto solo ad una esigenza del momento, ma tende piuttosto ad inserirlo all’interno di una più vasta operazione di aggiornamento del dibattito filosofico italiano. Gioberti verrebbe rivalutato anche come risposta ad Hegel: la stessa riforma della dialettica mira ad un superamento della dicotomia arbitrio/necessità all’interno della filosofia della storia. A questo proposito Savorelli avanza l'ipotesi che anche lo Schelling sia stato utilizzato da Spaventa non tanto per confutare, quanto piuttosto per integrare e consolidare le tesi hegeliane. La medesima integrazione e difesa di Hegel avviene sul campo politico: Savorelli tende a precisare che la soluzione individuata da Spaventa in questo campo è il calco di quella attuata sul piano logico e metafisico. AAVV., Bertrando Spaventa. Dalla scienza della logica alla logica della scienza, Pironti, Napoli 1986. Il volume raccoglie una serie di saggi ed è introdotto da Raffaello Franchini con un analisi sui caratteri del pensiero spaventiano in rapporto al tema della nazionalità. Il saggio di Francesco Valentini riguarda il rapporto Hegel-Spaventa in relazione alla Scienza della logica. L'intervento di Italo Cubeddu si concentra sul binomio Gentile-Spaventa e sull'importanza della circolazione a proposito della riforma della dialettica hegeliana. Vittorio Stella contribuisce a mostrare l'influenza di Spaventa sul pensiero di Gentile e di Croce, pur nella diversità delle loro interpretazioni sulla vicenda del filosofo abruzzese. Arturo Martano presenta Spaventa storico della filosofia, la cui teoria della circolazione si muove all’insegna della fede nel progresso della storia (articolo apparso in “Discorsi”, 1983, vedi sopra). Mentre Valerio Verra approfondisce i nessi tra Spaventa ed il trio di logici tedeschi Trendelenburg- Werder-Fischer, Fulvio Tessitore si occupa del nesso decadenza-rinascenza, evidenziando due linee di continuità, Machiavelli-Lutero e Cartesio-Lutero, nella quale si inserisce anche la figura di Galileo. D’Orsi si sofferma sui criteri ecdotici nella ricostruzione filologica del pensiero di Spaventa. Franco Barone e Ferruccio Focher specificano il rapporto tra Spaventa e la scienza della seconda metà dell'Ottocento (rispettivamente in “Libro aperto” e “Criterio”, 1984, vedi sopra). Girolamo Cotroneo distingue all’interno della scuola spaventiana la direttrice Maturi-Jaja da quella di Tocco e Masci. Roehssen esamina la figura del fratello di Bertrando Spaventa. A questi saggi si aggiungono interventi di Pasquale Socco, Primo Di Attilio, Alessandro Savorelli, Clementina Gily Reda e Giuseppe Brescia. Al termine del volume è presentata una bibliografia di testi scritti tra il 1970 ed il 1983 su Bertrando Spaventa, curata da Savorelli, Rascaglia e Reda, come prosecuzione della bibliografia ragionata di Italo Cubeddu del 1972. I. CUBEDDU, Da Spaventa a Gentile: Kant e il neotdealismo, in La tradizione kantiana in Italia, Atti del convegno della Società filosofica italiana (Messina 15-17 novembre 1984), Edizioni G.B.M., Messina 1986, I, pp. 325-350. Secondo Cubeddu l’interpretazione del pensiero kantiano offerta da Spaventa dipende nelle sue linee essenziali dalle critiche presenti in Fede e sapere, benché il difetto del dualismo e della “tenerezza per le cose del mondo” non impedisca al pensatore di Bomba di ammirare l’idea dell’unità della coscienza e della sintesi a priori. Assai apprezzato risulta il capolavoro su Gioberti, nel quale Kant, pur non essendo un protagonista assoluto, non è mai relegato al ruolo di semplice comprimario. Passando al Novecento, Cubeddu si sofferma sulla posizione gentiliana che aveva proposto un ritorno da Kant a Hegel, ravvisando nell’intrascendibilità del pensare il guadagno comune di entrambi. A tal proposito si cita il saggio sulla Riforzza della dialettica del 1912, dove si tenta di correggere la posizione kantiana mediante l’hegelismo, corretto esso stesso nel Sistema di logica, nel quale si propone una categoria unica del pensare. Cubeddu precisa come Spaventa non abbia mai compiuto quella riforma neohegeliana di Kant, in quanto non considerò la conoscenza come pura unità analitica della mente. P. MARCHI, Spaventa e Popper, in “Criterio”, 1986, pp. 65-76. Molti sono i preamboli necessari a Marchi per introdurre questo insolito parallelismo: nonostante la diversa, per non dire opposta, interpretazione che i due autori offrono di Hegel e dell’idealismo tedesco in generale, l’elemento comune ai due pensatori è il rifiuto di qualsiasi prospettiva riduzionistica. Non è certo necessario precisare quanto Spaventa sia sensibile alle sollecitazioni delle scienze del proprio tempo, senza però mai rinunciare all'importanza dell’analisi critica, possibile solo tramite il pensiero filosofico: le sue tesi contrarie ad ogni riduzionismo dell'anima (del pensiero) al semplice cervello o ad un insieme di elementi materiali sono ben note. A partire da un percorso intellettuale decisamente differente, anche Popper si oppone alla “chiusura del mondo fisico”, dimostrandosi non molto lontano, su questo punto, dallo Spaventa di Psiche e Metafisica. Popper, particolarmente, rinvia all'esistenza di tre mondi, quello materiale, quello della coscienza e quello della cultura, interagenti tra di loro, ma di certo non riducibili al primo. Infine, mediante alcune citazioni dall'opera di Popper Lio e #/ suo cervello, si tende a sottolineare come l’autore sia convinto che l’io possieda il cervello e non viceversa, avvicinandosi molto in tal senso alle tesi spaventiane del “senso di sé” come nucleo profondo del pensare. AA.VV., Gli begeliani di Napoli e la costruzione dello stato unitario, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 1987. Già nell’Introduzione al volume il ruolo svolto dai fratelli Spaventa assume un'importanza centrale nella costruzione teorica e pratica dello stato unitario. Se il lungo intervento di Croce si riferisce spesso alla figura di Bertrando Spaventa, nella lettera di Strater, pubblicata per intero nel volume, appare evidente l'ammirazione nei confronti del filosofo di Bomba per aver posto in relazione pensiero italiano e pensiero europeo. La prima parte dell’opera, curata da Saverio Ricci, sottolinea il declino culturale di Napoli causato dalle emigrazioni degli intellettuali nel ’99 e nel ’21; altro elemento cruciale è la sostanziale inefficacia del tentativo di educazione delle masse che portò alla repressione del ‘49. La seconda sezione, di Maria Rascaglia, mostra quale fosse l’arretratezza del Piemonte in campo culturale rispetto a Napoli e quindi le difficoltà di De Sanctis e Spaventa, costretti all’attività di giornalisti. Ben diversa la situazione al ritorno a Napoli dove ai due protagonisti si aggiunge anche la figura di Vera. La terza parte è dedicata alla scuola di Bertrando Spaventa, in particolare a Francesco Fiorentino e Antonio Labriola. Una quarta sezione è dedicata al fratello Silvio. Il volume si conclude con due appendici di Giampiero Griffo e Piera Russo. A. SAVORELLI, Spaventa e Galileo, in Galileo a Napoli (F. LOMONACO e M. TORRINI a cura di), Guida, Napoli 1987, in particolare pp. 469-481. L’intervento di Savorelli tende a precisare che le letture spaventiane e le sue tesi sui precorrimenti, benché segnate da forti deformazioni e distorsioni, rappresentano un contributo originale e sempre innovatore rispetto al dibattito storico-filosofico dell'Ottocento. Galileo non solo non è un autore classico della trattazione spaventiana, anzi, viene citato raramente nei suoi lavori e solo nel 1882 viene studiato in maniera specifica. Spesso Spaventa attenuò il lato di modernità attribuito dalla critica a Galileo, che fu pertanto escluso dalla ricostruzione del pensiero italiano, in quanto considerato un uomo di scienza piuttosto che un intelletto speculativo; ben nota è la ritrattazione a pochi mesi dalla morte. Essenziale, secondo Savorelli, l’influenza di Natorp nella riscoperta di un Gelileo criticista e non semplice empirista: sotto questa luce Galileo fu assimilato forse troppo frettolosamente da Spaventa alla linea Kant- Hegel, accentuandone alcuni tratti, come ad esempio lo studio dell'a priori che lo distingueva dall’ingenuità dei positivisti della seconda metà dell'Ottocento. Forse eccessive sono le tesi di un Galileo precursore di Kant, anche perché lo studio di Spaventa assume un taglio speculativo più che storico, avendo come obiettivo la confutazione di alcune tesi di Vaihinger. G. OLDRINI, Filosofia e coscienza nazionale in Bertando Spaventa, Quattroventi, Urbino 1988. L’idea che l’assoluto avesse definitivamente perso il proprio carattere trascendente non deve condannare al determinismo immanentista, bensì aprire la strada all’idea della ragione come autentica creatrice di storia. Le due anime che si mostrano in Spaventa, ossia il demone speculativo da un lato e la necessità di una diffusione di Hegel sul piano filosofico e politico, determinano il contrasto con il neotomismo che in quegli anni voleva proporsi, grazie al sostegno di Corinaldi e Liberatore, come autentico erede della tradizione filosofica italiana. Oldrini non manifesta particolare entusiasmo per le continue alterazioni del testo spaventiano dovute a ricerche filologiche proposte da D’Orsi e sottolinea che il cuore del discorso dell’abruzzese era l’affermazione dell’hegelismo di contro al cattolicesimo neotomista. Nel volume sono presenti interventi di Alessandro Savorelli, Franco Ottonello, Luciano Malusa, Guido Oldrini, Giuseppe Tognon, Giovanni Mastroianni e Roberto Racinaro. F. TESSITORE, M:nghetti, Spaventa De Sanctis: le trasformazioni del liberalismo, in AAV., Marco Minghetti statista e pensatore politico dalla realtà italiana alla dimensione europea, R. GHERARDI e N. MATTEUCCI (a cura di), Il Mulino, Bologna 1988, in particolare pp. 47-66. Nella triade citata il nome Spaventa si riferisce al fratello Silvio, ma la perspicacia di alcune analisi lasciano intravedere un pensamento profondo della forma Stato, nel quale non si può non ravvisare l’influenza del pensiero del fratello Bertrando. La posizione di Silvio è riassunta mediante alcune citazioni sull'unità di Italia e la necessità di una forte attività amministrativa, che si conciliava non molto bene con le tesi di Minghetti di restringimento dei compiti dello Stato. Tessitore assegna a De Sanctis il maggior rigore nel trattare la contraddizione tra libertà e governo, nella quale si ravvisa il pericolo della decadenza della cultura e dello spirito d’iniziativa della neonata nazione italiana. F. OTTONELLO, Pasquale Galluppi nell’ “infedele” interpretazione di Bertrando Spaventa, in “Rivista Rosminiana di Filosofia e Cultura”, 1988; 82 (1), pp. 41- 50. L'infedeltà dello Spaventa, “senza cui non si viene a capo di nulla”, è presente anche nel commento alla filosofia del Galluppi, che il filosofo di Bomba strappò dall’oblio in cui era piombato. La critica alla teoria dell’oggettività della sensazione è fondata sull’impossibilità di percepire una esistenza esterna, benché in senso hegeliano si debba parlare di un “oggetto dell’atto chiamato coscienza”. Nella presenza di una sostanza esterna da percepire Spaventa vede ripresentarsi il fantasma del noumeno kantiano: proprio estremizzando i tratti del Galluppi, però, Spaventa riesce a trarne i germi di uno sviluppo futuro; non ripetendo mai in modo meccanico il pensiero altrui, Spaventa riesce a valorizzare le tematiche trattate, come ad esempio nel caso del famoso “luogo d’oro”. A. MARTONE, Lo scarto del linguaggio: eredità vichiane in Bertrando Spaventa, in Furor verba ministrat. Eredità vichiane e Illuminismo in alcune teorie linguistiche della cultura napoletana tra ‘700 e ‘800, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 79-108. Spaventa viene qui presentato come pensatore intimamente legato a Vico, in quanto filosofo della storia, nello sforzo di una riunificazione del sapere e persino nel tentativo di dotare il pensiero filosofico italiano di una propria autonoma tradizione. Vico stesso fu inserito da Spaventa nella sua teoria sulla circolazione del pensiero. Rimane tuttavia una incolmabile distanza tra Vico e Spaventa, il quale sembra non essere molto sensibile alla glottogonia vichiana. A. SAVORELLI, Bruno Tulliano’ nell’idealismo italiano dell'Ottocento (con un inedito di B. Spaventa), “Giornale critico della filosofia italiana”, LXXX (1989), pp. 45-77. Savorelli ribadisce il merito di Bertrando Spaventa di aver dato impulso agli studi bruniani, seguito dai suoi discepoli Felice Tocco e Francesco Fiorentino: lo spiacevole episodio con l’editore Le Monnier testimonia, d’altra parte, l’arretratezza culturale in cui versava all’epoca l’Italia, nella quale non riuscì a trovare spazio il primo studio scientifico sulla figura del Nolano. L’inedito di Spaventa, infatti, rimane il primo saggio che tenti di analizzare il pensiero bruniano in chiave sistematica. Proprio in questo senso assume valore l’attenzione dedicata da Spaventa alle opere cosiddette lulliane o mnemotecniche, che secondo Brucker e Buhle erano da considerare la parte più oscura dei testi di Bruno. Il testo di Spaventa si fonda su una critica del Ritter e su un confronto costante con il pensiero di Lullo, Cusano e Spinoza. Certamente di grande importanza è stata l'influenza di Barholméss, la cui interpretazione indica in Bruno un anticipatore dell’idealismo tedesco: è noto quanto questa tesi sia essenziale anche rispetto alla teoria della circolazione del pensiero italiano. Savorelli precisa che ogni tentativo di porre in luce il misticismo di Bruno è considerato vano ed errato da parte del pensatore abruzzese, che dedica attenzione alle opere lulliane proprio per mostrarne la relazione con la teoria della conoscenza proposta da Bruno. Il carattere di precursore della modernità attribuito al pensatore di Nola, tuttavia, subirà lungo l’itineratio spaventiano anche drastiche limitazioni, dovute, per esempio, alla sua errata comprensione del cristianesimo. Nella trattazione del ’61-’62 Bruno non è più lullista e l’ultimo vestigio lulliano del saggio torinese è un breve saggio dei Principi di filosofia: le differenze sono dovute ai diversi intenti interpretativi secondo Savorelli. Un segno dei tempi è il progressivo disinteresse da parte di Spaventa e De Sanctis nei confronti di Bruno. Al termine dell'intervento di Savorelli si riporta una sezione del Saggio inedito di B. Spaventa su Bruno (1854-1854). Manoscritto 3.6.4 conservato alla Biblioteca nazionale di Napoli. L. MALUSA, L'idea di tradizione nazionale nella storiografia filosofica italiana dell'Ottocento, Tilgher, Genova 1989. La figura di Spaventa è presente in tutto il testo, dedicato nella prima parte all'idea di “tradizione nazionale” nella storiografia filosofica e nella seconda ai rapporti tra la tradizione filosofica italiana e la “Civiltà cattolica”: ben si comprende come la personalità di Spaventa svolga un ruolo di primo piano in entrambe. Nelle pagine centrali della prima parte si sottolinea il ruolo che Spaventa attribuì al genio italico nella distruzione dell’immobilismo cui per secoli la Scolastica aveva costretto il pensiero. Il “primato” della filosofia tedesca nel panorama europeo dipendeva strettamente da quel criticismo che per la prima volta trovò in Italia la propria espressione. Inutile ribadire quali furono i risvolti politici di una tale prospettiva filosofica: il pensiero spaventiano era in grado di assicurare l'immanenza del pensiero, superando le istanze clericali, senza cadere nell’aridità dell'Illuminismo. Si citano le ricostruzioni storiografiche di Garin e la progressiva appropriazione del pensiero spaventiano sulla linea Spaventa-Labriola-Gramsci (e Togliatti), che consentì di sottrarre l’autore abruzzese all’esclusivismo dell’interpretazione attualistica. Nella seconda parte si definisce Spaventa autentica “bestia nera” (p. 69) del periodico gesuita: la critica della filosofia hegeliana, principale obiettivo della rivista, non poteva esimersi da ripetuti attacchi anche nei confronti del pensatore abruzzese, quando ancora questi non aveva elaborato il proprio pensiero in maniera sistematica. Non sfugge all'analisi che all'origine dello scontro si poneva la convinzione che Tommaso d'Aquino e non Hegel dovesse essere il modello della filosofia italiana. G.  MOSSANO,  Bertrando Spaventa e la psicologizzazione dell’a priori nel neocriticismo italiano, in “Accademia di scienze morali e politiche”, volume XCIX, Napoli 1988, pp. 279-304. L'intervento di Mossano analizza la sostituzione dell’incantesimo idealistico mediante l’incantesimo psicologico, ossia quella comprensione della critica kantiana che scivola dall’appercezione trascendentale all’a priori come funzione ordinatrice dell’esperienza. Se ancora in Spaventa il problema critico è inteso come problema della conoscenza sul piano trascendentale, nella generazione successiva molti sono i tentativi di fornire interpretazioni differenti della tesi kantiana. Mossano ricorda come Spaventa avesse cercato ci riassorbire il positivismo nell’hegelismo, dal momento che il soggetto è ciò che letteralmente “fa”, costruisce il proprio oggetto. Dalle analisi del pensiero di Masci, tuttavia, si deduce come già in Spaventa “le forme kantiane siano intese in senso dinamico ed evolutivo, reale e non ideale” (p. 282). Questa tesi viene però corretta attraverso una lunga citazione tratta da La filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofia europea grazie alla quale si vuole dimostrare come la concezione di Spaventa intenda il giudizio non soltanto come formativo, ma costitutivo dell'oggetto. Mossano ricorda come Masci abbia apprezzato il tentativo di sintesi del maestro tra hegelismo e darwinismo, soprattutto nelle opere dell’ultimo decennio di attività. È importante sottolineare come il nuovo empirismo proposto da Spaventa (fondato cioè sul superamento della contrapposizione tra realismo e idealismo) non distrugga il lato attivo e originario della soggettività, ma lo possa riconfermare, in una accezione in cui Kant si incontra con Hegel. Ciò che deve essere tenuto fermo, secondo il pensatore abruzzese, è il carattere non biologico, né psicologico del problema della conoscenza, che è essenzialmente critico. Analizzando il dibattito critico, Mossano individua in Tocco e Cantoni due assertori del limite intrinseco della prima Critica legato alla mancanza di una psicologia nell’architettura kantiana; diversamente Chiappelli tenta una mediazione, cercando quale tendenza psicologica si conformi maggiormente al problema del criticismo. Non mancano i riferimenti, in questo caso, alle tesi di Spencer, contro il quale, però, più volte Spaventa si espresse negativamente. Al termine si citano i giudizi del Gentile sulla errata interpretazione del criticismo offerta dal Masci. In conclusione si torna a ribadire l’esigenza si stabilire una radicale distinzione tra il lato empirico- evolutivo e quello trascendentale, ricordando come solo dopo il 1945 a psicologia si sia affrancata dalla filosofia. M. RASCAGLIA., Venti lettere inedite di Angelo Camillo de Meis a Bertrando Spaventa, in “Giornale Critico della Filosofia italiana”, 1990; 10 (1), pp. 39-74. Nella presentazione di questo nuovo, ennesimo impegno di ricostruzione del carteggio spaventiano, Maria Rascaglia indica come preciso intento la ricostruzione delle vicende biografiche di De Meis e Spaventa, in relazione al ventennio (1861-1882) coperto dalle venti lettere inedite. Molti sono i temi trattati, dove autentico protagonista romane la figura di De Sanctis, oggetto di continue polemiche sia sul piano politico sia sul piano del suo mestiere di critico letterario. Si sottolinea anche la tormentata vicenda della pubblicazione dell’articolo di Spaventa Paolottismo, positivismo, naturalismo: nelle lettere De Meis giustifica le correzioni apportata prima della stampa per ammorbidire almeno in parte i toni e la satira pungente dello Spaventa. Viene posta in risalto dalla Rascaglia anche la lettera del 22 luglio 1869 in cui De Meis si difende dalla accusa dell’Imbriani di “non far deduzione”. Sullo sfondo rimane una sfiducia nella gestione politica dell’unità di Italia, soltanto a volte mitigata da un cauto ottimismo, come in occasione del governo Minghetti del °73. G. OLDRINI, Napoli e i suoi filosofi. Protagonisti, prospettive, problemi del pensiero dell’Ottocento, FrancoAngeli, Milano 1990. Il volume raccoglie una serie di interventi di Oldrini sulla cultura filosofia napoletana dell'Ottocento. Il ruolo di Spaventa appare con grande chiarezza nel VI capitolo, dedicato all’hegelismo italiano tra Napoli e Torino (saggio apparso in “Filosofia” nel 1982) e nel VII capitolo sull’hegelismo ‘critico’ del filosofo abruzzese (apparso già nel 1988). Il capitolo IX, sulle ragioni dello Stato etico, inedito, confronta le posizioni di Vera con quella dei fratelli Spaventa, mostrando la loro progressiva interpretazione dell’hegelismo da supporto alle teorie rivoluzionarie a sfondo teorico del concetto di Stato etico, inteso come ciò che dà direzione, unità e senso alla dimensione economico- sociale. V. VITIELLO, Bertrando Spaventa e il problema del cominciamento, Guida Editori, Napoli 1990. Punto focale dell’interpretazione di Vitiello è il dualismo di essere e pensare che Spaventa eredita dalla tradizione filosofica. Acquisita la novità kantiana di una conoscenza che non è più fatto, bensì attività, Spaventa mostra come Hegel sia la sintesi tra il soggettivismo radicale di Fichte e l’oggettismo schellinghiano. Punto focale proposto da Vitello è l’indeducibilità del pensare dall’essere nella filosofia antica e l’indeducibilità del reale dal possibile nella filosofia moderna (p. 16): la filosofia hegeliana vuole dar ragione a Fichte senza smentire Schelling (p. 18); su questo punto l’interpretazione di Spaventa raggiunge un'intensità che verrà persa nei suoi eredi, persino in Gentile, che rimane chiuso nella logica fichtiana. Il circolo Fenomenologia-Logica deve essere intepretato alla luce della separazione del sapere dal suo contenuto come atto di volontà: il puro essere che ne risulta, come pura relazione a sé del pensare, dovrà mostrarsi capace di dedurre da sé l’intera ricchezza degli enti. Di fronte al pensare si erge dunque un Essere che è prima e fuori del pensare (p. 51). Qui si apre l'enigma della “genesi del No, dopo e nonostante il sì” (p. 61). G. CALABRÒ, La concezione etica dello Stato in Bertrando Spaventa, in Silvio Spaventa (S. RICCI a cura di), Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 1991, pp. 263-274. Il breve intervento di Calabrò riassume innanzitutto il contributo kantiano alla filosofia del diritto, in particolare sul rapporto tra morale e diritto nella cornice dello Stato. Il problema di Hegel, invece, riguarda proprio la conciliazione tra diritto e Stato in ordine al tema della volontà libera del singolo individuo. Spaventa rientra in questa trattazione, come scolaro di Hegel, definito “tutt'altro che inerte”: le sue speculazioni acquistano uno spessore mai più raggiunto dalla tradizione liberale. Spaventa sostiene che l’equilibrio di ragione e storia si trova proprio nella prospettiva dello Stato nazionale, anzi, sostiene esplicitamente che la pluralità degli Stati in quanto espressione della naturalità dovrà essere risolta in una figura ulteriore che non sarà lo Stato degli Stati, bensì è l’umanità, già attiva e perfettamente concreta. Per Spaventa, ancor più esplicitamente che in Hegel lo Stato è delimitato sia dall'alto che dal basso; centrale, sia in Spaventa che nel suo maestro ideale rimane il problema del rapporto tra individuo e Stato. Se da un lato il filosofo di Stoccarda mostra la concretezza della libertà nella prospettiva etica universale, il pensatore abruzzese rimane ad un livello più schematico e astratto, benché egli stesso avverta l'esigenza di una conciliazione tra sovranità statale e libertà individuale. M. MORETTI, Savio Spaventa e Villari, in Silvio Spaventa (S. RICCI a cura di), Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 1991, pp. 303-386. L’intervento di Moretti individua le tappe salienti che hanno caratterizzato il rapporto intellettuale e politico tra Silvio Spaventa e Villari, di cui si hanno notizie dettagliate grazie al loro scambio epistolare. Uno dei momenti di maggiore tensione tra i due si verifica dopo la lettera al De Meis scritta da Bertrando Spaventa nel ’68, tensione che verrà acuita in seguito al progetto di far eleggere Bertrando nel collegio di Gesso Palena nel 1870. Le frizioni tra Silvio Spaventa e Pasquale Villari rientreranno già verso la fine del 1870, mentre il rapporto con Bertrando rimarrà in gran parte compromesso. Il testo prosegue sottolineando le differenti prospettive dei due autori sul problema meridionale, sul ruolo dell'educazione e sulla riforma universitaria. TERESA SERRA, B. Spaventa interprete di Galluppi, in AAVV. Studi galluppiani. Atti del convegno galluppiano di Tropea del 28-30 maggio 1987, Brenner, 1991, pp. 281- Il kantismo del filosofo di Tropea viene individuato da Teresa Serra quale autentico punto di riferimento dell’interpretazione spaventiana: tenendo presente che Galluppi lavora fino al 1831 in totale isolamento dal mondo, ritirato nelle “nuvole filosofiche”, per approdare poi a Napoli nove anni prima dell’arrivo dei fratelli Spaventa, non è difficile supporre una lettura dei suoi testi da parte di Bertrando già prima dell’esillio torinese. La nota ammirazione per il Colecchi porterà ad uno scontro con il filosofo di Tropea, che pure aveva il merito di aver superato un certo provincialismo della filosofia italiana. Già nel 1850 i giudizi su Galluppi non appaiono lusinghieri: l'influenza hegeliana porta Spaventa ad una radicale svalutazione dovuta alla mancata comprensione di Kant ed alla inaccettabile prossimità con Locke. Tale prospettiva sarà sconfessata nel 1860, nella prolusione in cui si annunciano Galluppi, Rosmini e Gioberti quali autentici filosofi italiani, ma le radici di un tale ripensamento devono essere rintracciate proprio nella svolta hegeliana del ’56, che offrì la possibilità a Spaventa di recuperare in una luce innovativa l’intero percorso del pensiero europeo: Galluppi rientra così nella filosofia cristiana, benché i tre autori dell'Ottocento non possiedano l’originalità del loro precursore Vico, di cui rappresentano soltanto una maturazione. La riabilitazione della sensibilità di Galluppi implica un suo riavvicinamento alle posizioni kantiane: in questo consiste, secondo Teresa Serra, la novità dell’ottica spaventiana, che non fu comunque immune da polemiche. N. CAPUTO, Prospettive real-idealistiche per una nuova metafisica, Morano, Napoli 1991. Il testo, suddiviso in sei capitoli e una conclusione, si apre con il problema di rivalutare l’umanesimo, superando il dualismo tra scienza e filosofia, non però in senso fenomenologico, come è stato suggerito da più parti nel corso del Novecento, o mediante teorie crociane, bensì alla ricerca di un umanesimo integrale che riabiliti Vico e Hegel. Il secondo e terzo capitolo propongono una critica serrata delle principali esegesi spaventiane: dal giudizio di Garin, all’'errata comprensione del rapporto tra politica e teoresi proposta da Vacca; non viene apprezzata né l’interpretazione dualistica di Spaventa offerta da Teresa Serra, né quella di Vito Bellezza, dipendente dalla visione gentiliana. Anche il volume di Cubeddu del ’64 viene svalutato. Sui risultati dell’indagine storiografica su Spaventa si citano i lavori di Savorelli sulle riserve antignoseologiche del filosofo abruzzese; le edizioni di alcune opere curate da D’Orsi per mostrare il legame con il pensiero di Lotze, i mutamenti di prospettiva di Cubeddu. Superate, nel quarto capitolo, le interpretazioni sul teologismo di Spaventa proposte da Croce e sul misticismo legate all’opera di De Ruggiero, il capitolo quinto mostra come unica possibilità di intendere il pensiero di Spaventa il real-idelismo di Felice Alderisio, che rivaluta l’unità di realismo e idealismo soprattutto nell’ultima fase del suo pensiero, segnata dal confronto con Kant. L’attualismo gentiliano, le tesi di Guzzo, Carabellese e Calogero sono considerate deviazioni rispetto alla strada tracciata da 2686 Spaventa. L’esame delle teorie di Berti sull’assoluto di Spaventa ed i vari tentativi di interpretazione marxista da parte di Togliatti e Plebe si rivelano insufficienti secondo Caputo, almeno tanto quanto le proposte di analisi dell’hegelismo proposte da Kojève e Vitiello. La polemica contro  l’indirizzo epistemologico di Barone, il convenzionalismo di Geymonat, l’irrazionalismo di Abbagnano e l’antiidealismo proposto da Filiasi-Carcano è affrontata nell'ultimo capitolo. La conclusione propone un superamento di attualismo, marxismo e positivismo facendo riferimento ai testi cardine del pensiero di Spaventa quali Logica e metafisica da un lato ed Esperienza e metafisica dall’altro. G. LANDOLFI PETRONE, Ux inedito di Bertrando Spaventa sul Concetto di Filosofia, in “Studi filosofici”, 1991-92, pp. 195-212. La breve presentazione dello scritto Sopra Kant (Carte Spaventa 1.1.16) di Petrone si concentra sulla novità assoluta della trattazione spaventiana di Kant nel 1851-52, sottolineando che la linea Kant-Hegel rafforza l’idea dell'impronta tedesca della filosofia europea. La tematizzazione di Kant avviene circa tredici anni dopo la prima lettura della Critica della ragion pura, primo testo filosofico cui l’autore si avvicinò nel 1838-39. Spaventa rileva come la dialettica sia già in Kant il tratto centrale della riflessione come insieme di identità e non identità. Petrone sottolinea anche il rilievo dato da Spaventa alla distinzione kantiana tra filosofia e senso comune. Alla recensione segue poi il saggio spaventiano. I. BERTOLETTI, Dialettica del cominciamento. Un 2687 saggio di Vincenzo Vitiello su Bertrando Spaventa, in “Humanitas”, 1992, pp. 122-126. Il commento di Vitiello si concentra sul problema del Primo, diversamente interpretato a seconda che ci si trovi in Fenomenologia o in Logica. Al di là delle singole polemiche con Trendelenburg, nelle quali tuttavia Spaventa dimostra grande padronanza della materia logico-metafisica, l’intervento di Vitiello risulta interessante perché proietta il pensiero di Spaventa oltre lo stesso Hegel, verso un Essere che è prima e fuori dal pensiero. Lungi dall'essere la rivisitazione di un presupposto realistico, Vitiello interpreta questa posizione collegandola alla presenza di un limite del pensiero che è volontà. Esaltata la fecondità del ripensamento di Spaventa offerto da Vitiello, Bertoletti considera le prospettive ermeneutiche che si aprono a partire da questa lettura, prospettando in Spaventa un anticipatore di Wittgenstein e Adorno. F. M. DE SANCTIS, Lorenz von Stein e il giovane Spaventa, in Dall’assolutismo alla democrazia, Giappichelli editore, Torino 1993, pp. 185-197. Il settimo capitolo del testo di De Sanctis mostra l’interesse di Spaventa per il testo di von Stein I/ socialismo e il comunismo in Francia: la petizione per la traduzione del testo in italiano fu sostenuta dall’abruzzese in un articolo apparso sul “Nazionale” di Firenze. Si avanza l'ipotesi che i nuclei teorici dello Stein siano lo sfondo concettuale di molti articoli apparsi sul “Progresso”. E. GARIN, Tra due secoli. Socialismo e Filosofia în Italia dopo l’unità, De Donato, Bari, 1993. 2688 Non molti nomi sono citati quanto quello di Bertrando Spaventa, a dimostrazione dell'importanza e della rilevanza dell'autore nel contesto italiano dopo l’unità. Soprattutto nella prima parte, dedicata agli hegeliani dell’Ottocento, Spaventa occupa un luogo centrale, anche per l’influenza esercitata sul pensiero di Labriola. G. OLDRINI, La “Rinascita dell’Idealismo” e il suo Retroterra Napoletano, in “Giornale Critico della filosofia italiana”, 1994, 73 (2-3), pp. 205-225. Oldrini comincia con il rilevare che il destino comune dei due grandi leader della tradizione classica napoletana, De Sanctis e Spaventa, fu quello di non avere una scuola in grado di continuare e diffondere i loro insegnamenti. La rinascita dei due autori è dovuta, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, all'operato, rispettivamente di Croce e Gentile. Di contro all’atrofia culturale che imperava in quegli anni a Napoli, questi ultimi rivendicano un ruolo decisivo all’idealismo storico, nonostante le differenze, anche radicali, sui singoli temi: in questa ottica sono interpretati da Oldrini anche gli attacchi ai letterati ed eruditi dell’epoca. L’involuzione della cultura napoletana è intesa come conseguenza del parassitismo della classe borghese e della boria accademica, cui l’idea di un idealismo storicistico promossa da Gentile e Croce impresse certamente una svolta. C. TUOZZOLO, Schelling e il “cominciamento” begeliano, Città del sole, Napoli 1995. Significativo è il fatto che i titoli di ben due capitoli su tre 2689 nel libro recano il nome di Spaventa. Il punto di partenza è la valutazione della critica schellinghiana al pensiero hegeliano: da qui si mostra il profondo legame Werder- Fischer-Spaventa, in quanto linea di pensiero che recupera le critiche di Schelling. La tendenza di autori come Spaventa consiste nell’identificare il primo della logica con il Dio di Schelling: non vuoto e astratto cominciamento, bensì atto di volontà pura. Si evidenzia anche  l’interpretazione spaventiana del passaggio dallo Spirito Assoluto presente al termine della Ferorzenologia e l’Essere astratto da cui comincia la Scienza della Logica: l’inizio della logica non è il depotenziamento del risultato della Fezorzerologia, bensì l’essere già ricco di differenze, dalle quali si può effettuare l’astrazione. Il problema concettuale ravvisato da Tuozzolo in Spaventa è l'impossibilità di conciliare la dottrina creazionista di Schelling con l’incrollabile caposaldo hegeliano della identità tra logica e metafisica. Per questo l'operazione di molti studiosi di Hegel, tra cui anche Spaventa, sarà quella di tentare una conciliazione ed integrazione del pensiero di Hegel mediante le ultime speculazioni di Schelling. M.RASCAGLIA, Introduzione a Epistolario, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1995. La premessa di Oldrini è seguita da un intervento di Maria Rascaglia che include un apparato bibliografico relativo alle fonti e alle prime edizioni dei carteggi. Rivendicare l’importanza del patrimonio epistolare come punto di osservazione privilegiato per comprendere la vita e l'evoluzione intellettuale dell'autore assume senso soprattutto nel caso di Bertrando Spaventa, a causa della dispersione editoriale subita dagli scritti. Se nei carteggi, in cui il fratello Silvio rimane sempre un interlocutore privilegiato, si può recuperare lo stile arguto e la vis polemica del filosofo, si deve aggiungere che emergono anche una serie di nuovi progetti editoriali, mai portati a termine, oltre alla ben nota traduzione dell’opera dello Stein. Nelle lettere rivolte al fratello soprattutto è possibile specificare meglio lo stato d’animo di Spaventa nel decennio piemontese e soprattutto le preoccupazioni dovute alle ristrettezze economiche. Maria Rascaglia rivendica l’importanza di uno studio attento dell’epistolario anche per comprendere il legame tra Spaventa e Fiorentino ad esempio, sviluppato su due livelli: al rapporto maestro- allievo ormai conosciuto, si aggiungono anche dettagli importanti sulla collaborazione in campo pubblicistico. Oltre agli attacchi e all’ironia nei confronti della “colonia romana” composta da Berti, Mamiani e Ferri, emergono anche le considerazioni sulla situazione politica e amministrativa in cui Spaventa fu coinvolto, prima come membro della Commissione di indagine del consiglio superiore della Pubblica istruzione, poi come deputato dal "70 fino alla caduta della Destra storica. In realtà molte sono le occasioni nelle quali si possono rilevare atteggiamenti di sconforto e di sfiducia nell’attività politica, rispetto alla quale il fratello Silvio diventa simbolo di una battaglia anche morale. Sulla dispersione dell’epistolario hanno influito certamente la morte prematura dello Spaventa e i diversi orientamenti assunti dai principali allievi della scuola. N. SICILIANI DE CUMIS, Il “tecnico” e l’ “educativo” da Spaventa a Labriola, in “Scuola e città”, 1996, pp. 99- IBS De Cumis affronta da subito la vexata quaestio dei molti e diversi Spaventa proprio al fine di valutare i nessi tra Spaventa e Labriola in rapporto alla “politica immanente”. Evidenziare le conseguenze della lezione spaventiana, proprio a partire da Labriola, di cui si riporta uno stralcio della famosa lettera del ’94 indirizzata a Engels, è essenziale per mostrare la relazione tra i due. La prospettiva tecnica e meccanica in Spaventa si spiega soprattutto in rapporto alla dimensione etico-sociale, che sarà decisiva anche per la dimensione educativa del pensiero di Labriola. In realtà entrambi concordano sul carattere antipositivistico dell'educazione e sulla necessità dell'incrocio di politica e scienza. Pur sottolineando la diversità di esiti cui sarà condotto il Labriola marxista, a motivo del materialismo, della mutata concezione della storia e delle differenti concezioni metodologiche ed epistemologiche, De Cumis nota una certa affinità tra le tesi di Labriola del ’96 e quelle di Spaventa del ‘51. Certamente non si possono dimenticare le influenze del liberalismo sullo Spaventa giovane giornalista de “Il Progresso”, rispetto al diverso orientamento assunto da Labriola, per cui non si può liquidare quest’ultimo semplicemente come “allievo”. Non solo Spaventa già aspira a quella universalità delle intelligenze quale compito essenziale della filosofia politica, ma sul piano etico-politico-pedagogico le sue affermazioni risultano addirittura più ardite di quelle di Labriola: De Cumis precisa che anche Spaventa analizza la dialettica servo-signore in chiave rivoluzionaria, rintracciando in questa dinamica una lotta contro l’egoismo naturale, mentre Labriola si schiera già nell’ottica di una maggiore passività nei confronti della storia, il cui ritmo è già scandito da leggi universali ben individuate. D. LOSURDO, Da fratelli Spaventa a Gramsci: per una storia politico sociale della fortuna di Hegel in Italia, Città del sole, Napoli, 1997. Il testo si compone di sei capitoli nei quali si analizza l’influenze della filosofia hegeliana sul pensiero politico europeo ed in particolare su quello italiano, avendo sempre come riferimento la figura dei fratelli Spaventa. Il primo capitolo si concentra sul declino della filosofia hegeliana e sul suo totale fallimento registrato nel ‘48. Se è vero che Hegel aveva trasmesso al mondo l’assoluta mondanità e politicità dell’uomo, le vicende di Napoli saranno decisive per confutare l’interpretazione di Hegel come filosofo dello status quo. Il fallimento del °48 portò ad un abbandono della politica e ad un ritorno tra le braccia della natura, dal quale poi sarebbe scaturito il positivismo. Il secondo capitolo è dedicato al rapporto tra rivoluzione e nazione, di cui si seguono parallelamente il filone tedesco, con Strauss e Vischer, quello francese di Thiers e Guizot, ed infine quello italiano, proprio tramite i fratelli Spaventa, che mai accetteranno l’idea di una scienza positiva, ma rintracceranno nella storia l’autentico fare positivo dell’uomo, strettamente connesso alla sua nazionalità. Risultato di un tale “nazionalismo” è la teoria della circolazione del pensiero, che da un lato assume lo sfondo di filosofia della storia proposto da Hegel, dall’altro anticipa i germi del moderno, rintracciandoli nel Rinascimento italiano, più che nella Riforma,nonostante le resistenze di neoguelfi e mazziniani. Il terzo capitolo mostra il recupero europeo in chiave politica della tradizione inglese in contrapposizione allo stato etico hegeliano dopo le rivoluzioni del 48, cui si contrappone in Italia un’esperienza liberale che invece ha in Hegel, più o meno consapevolmente, il proprio teorico. Comincia in queste pagine il lavoro di Losurdo teso a smantellare la linea Hegel- Spaventa-Gentile a favore della linea Spaventa-Labriola- Gramsci. Nel quarto capitolo si riassumono i motivi principali dell'opposizione della Chiesa alle tesi hegeliane, contro cui Spaventa dovrà lottare scrivendo numerosi articoli. Soprattutto nelle tesi di Rosmini è rintracciata una teoria che, svalutando lo Stato in favore del ruolo della Chiesa, ripropone le tesi liberiste dello Stato minimo, fieramente osteggiato dai fratelli Spaventa. Il quinto capitolo si concentra sull’adesione di Gentile al fascismo intesa come progressiva separazione proprio dalle idee di Bertrando Spaventa, soprattutto rispetto all’idea del valore assoluto del singolo. Il sesto capitolo contesta alcuni stereotipi secondo cui il pensiero tedesco rappresenta una china che da Lutero giunge ad Hitler, mostrando come, più che Gentile, Gramsci ed il suo “comunismo critico” accolgano l'eredità spaventiana. A. SAVORELLI, Bertrando Spaventa e la via stretta tra Bruno e Hegel, in “Giornale critico della filosofia italiana”, 1998; 18 (1), pp. 33-43. Il confronto Bruno-Spinoza era un luogo privilegiato del dibattito filosofico dell'Ottocento. Spaventa può associare i due sulla scorta della lezione hegeliana, evidenziandone anche i rispettivi limiti, come ad esempio l'eccessivo formalismo e l’assenza del ruolo del soggetto come fonte di movimento della realtà. Anche Fischer influenzò le tesi di Spaventa che, contro Hegel, vide in Spinoza il filosofo della differenza: Savorelli suggerisce di legare questa differente interpretazione alla riforma della dialettica hegeliana, benché rimanga alta la considerazione di Spinoza come superamento del presupposto neoplatonico e naturalista. L’idealismo, rafforzato da questi confronti tra Bruno e Spinoza, permette di affrontare con risultati migliori il positivismo che si diffondeva in quegli anni. Anche Sigwart esprime opinioni simili a quelle di Spaventa sul rapporto Bruno-Spinoza, benché il dibattito che in quegli anni animava la Germania non avrebbe poi trovato altrettanta fortuna in Italia, che pure avrebbe dovuto prestare verso tali autori un’attenzione anche maggiore di quella tedesca. L. MALUSA, I filosofi e la genesi della coscienza culturale della “Nuova Italia” (1799-1900). Stato delle ricerche e prospettive dell’interpretazione, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 1997. Benché la figura di Spaventa sia presente in molti dei saggi di cui il libro è costituito, sono essenzialmente due gli interventi dedicati esplicitamente al pensatore abruzzese. Innanzitutto il testo di Oldrini Bertrando Spaventa e l'Europa (pp. 201-212), che anticipa il saggio del 1998 dal titolo L’idealismo italiano tra Napoli e l’Europa. Al testo si deve aggiungere una breve postilla di Enrico Rambaldi (pp. 213-216). L'altro saggio di Nicola Siciliani De Cumis riprende l'articolo apparso nel 1996 I/ “tecnico” e | “educativo” da Spaventa a Labriola. M. FERRARI, I/ primo volume dell’epistolario di Bertrando Spaventa, in “Giornale critico della filosofia italiana”, 1998, 78 (3), pp. 451-457. Oltre a sottolineare l’indubbio merito di aver raccolto 181 lettere, Ferrari si riferisce soprattutto alla lettera indirizzata al Villari, in cui Spaventa ribadisce l’importanza dello studio del pensiero tedesco. Ferrari sottolinea quale sia il vantaggio che l’epistolario può offrire per ricostruire la vita dell’autore, soprattutto nel caso di una vita particolarmente travagliata e sconosciuta come quella di Bertrando Spaventa. Il corpus dell’epistolario sembrerebbe confermare l’ipotesi dei “molti Spaventa”. G. OLDRINI, L’idealismo italiano tra Napoli e Europa, Guerini, Milano 1998. La figura di Spaventa è presente in quasi tutti i capitoli del libro: si ricorda l'amicizia con De Meis, il rapporto col fratello Silvio, il confronto con il positivismo (suo e del suo allievo Angiulli), l’ultimo capitolo ripropone l’articolo del °94 La “rinascita dell’idealismo” e il suo retroterra napoletano, apparso sul “Giornale critico di filosofia italiana”. In particolare il capitolo quinto è dedicato alla figura di Bertrando Spaventa, nel suo rapporto con l’idea di Europa. Oldrini introduce alcune premesse per analizzare la figura del filosofo abruzzese: innanzitutto l’arretratezza politica e sociale nella quale fiorisce l’hegelismo napoletano; la sfasatura cronologica e il ritardo storico nell’assimilazione dell’idealismo; la necessità di superare il ritardo culturale dell’Italia; l'esigenza di applicare le categorie di Hegel al Risorgimento italiano; la lotta contro il provincialismo ed il materialismo; il confronto polemico con il positivismo. Oldrini critica molte delle interpretazioni del pensiero spaventiano proposte da Gianni Micheli, Asor Rosa, Franchini, Marchi e Vitiello. L'intervento di Oldrini si conclude con l’idea che l’indagine storiografica su Spaventa si trovi in un periodo di stallo e si auspica un rilancio degli studi. M. RASCAGLIA, Bruno  nell’epistolario e nei manoscritti di Bertrando Spaventa, in Brunus redivivus: momenti della fortuna di Giordano Bruno nel XIX secolo, E. CANONE (a cura di), Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa Roma 1998. Maria Rascaglia rintraccia negli Studi sopra la filosofia di Hegel il primo nucleo embrionale della ben nota tesi della circolazione del pensiero italiani, progetto confermato in una lettera a Villari del ‘51: in quelle occasioni Bruno è presente come autore di riferimento ed eroe della libertà del pensiero italiano nella fase rinascimentale. L’idea di uno studio approfondito della figura del Nolano è confermata dalla lettura di Bartholméss e Ritter, benché l’interpretazione hegeliana sarebbe rimasta dominante. Rascaglia analizza in maniera approfondità la relazione tra Spaventa e Mamiani, che comincerà a deteriorarsi proprio a causa dei dissensi sul panteismo, finché Mamiani divenne uno dei bersagli preferiti di Spaventa nelle sue polemiche. Rascaglia mostra come la lettura stessa degli scritti di Bruno segua un preciso ordine logico: il confronto tra Bruno e Spinoza obbliga Spaventa ad anticipare la lettura di De /a causa, principio et uno e di De l'infinito, universo e mondi rispetto al De rzirim0, De mondo e De immenso; tutte queste indicazioni sono essenziali se si tiene conto che l'intento di Spaventa era proprio quello di ricostruire in maniera sistematica il pensiero bruniano. Al progressivo interesse di Villari corrisponde l’indifferenza di Mariani. Dopo aver citato il famoso tentennamento di Spaventa ed il rifiuto di Le Monnier di pubblicare i tre studi su Bruno, Rascaglia precisa che il primo studio sarà pubblicato a Napoli nel 1866, il secondo su “Il Cimento” nel 1856 e l’ultimo sarebbe rimasto inedito. Se nel primo quinquennio dell’esilio torinese la figura di Bruno sarà oggetto di attenzioni sempre maggiori, negli ultimi anni il confronto con Gioberti, la parentesi fenomenologica del ’58 e la riscoperta di Kant e Vico allontaneranno Spaventa dal filosofo di Nola, salvo una sua riscoperta nei primi anni ’60. All’intervento di Rascaglia seguono circa sessanta pagine di analisi dei contributi allo studio di Bruno presenti nei manoscritti di Spaventa, di cui si riportano interi brani. G. CHIMIRRI (a cura di), La filosofia morale italiana tra neohegelismo, attualismo e spiritualismo, Mimesis, Milano 1999. Nella presentazione di Chimirri si fa riferimento all’attualità dell’idealismo senza dimenticare la pluralità di prospettive da cui l’idealismo può essere inteso e sviluppato; dopo aver tematizzato i motivi di frizione tra l’idealismo e la scolastica, si mostra quale sia il ruolo dell’etica nel pensiero dell’idealismo, per concludere con alcune riflessioni critiche. Si riporta, proprio per esemplificare il rapporto tra etica ed idealismo, un brano dai Principi di Etica. C. TUOZZOLO, Dialettica e norma razionale, Giuffrè, Milano 1999. Rispetto alle diverse polemiche sul presunto monismo spaventiano, anticipatore in qualche modo delle tesi gentiliane sulla dialettica hegeliana, Tuozzolo vuole ribadire insieme il carattere di un “pensiero incapace di sfiducia in se stesso”, ma insieme la capacità di Spaventa di non compiere mai il passo, di mantenersi nel guado, approfondendo il nucleo problematico, consapevole che ogni soluzione torna ad essere problema. Si presenta un’analisi dei principali scritti di logica di Spaventa, il saggio su Le prize categorie della logica di Hegel e Logica e Metafisica, per mostrare come progressivamente negli anni ‘70 torni la meditazione sulla scienza e sul ruolo di Kant. La logica e la fenomenologia dell’ultimo Spaventa seguono la linea di interpretazione di Alderisio, secondo cui, se è vero che Spaventa eliminò progressivamente le differenze tra Denken e Nachdenken, non giunse mai alla pura identificazione dei due, come accadde in Gentile. L’ultimo capitolo è dedicato alla presenza di un ineffabile come dimensione precedente al sistema della scienza. A SAVORELLI e M. RASCAGLIA, Introduzione, in B. SPAVENTA, Lettera sulla dottrina di Bruno. Scritti inediti 1853-1854, Bibliopolis, Napoli 2000. La costruzione dell'immagine di Hegel come profeta del nuovo immanentismo è il risultato di un lungo lavoro da parte di Spaventa. L'intenzione di trattare la personalità di Bruno affiora già in una lettera al Villari del 1851, ma verrà iniziato concretamente soltanto nel 1853, grazie alla disponibilità da parte dell’editore Le Monnier di pubblicare un’opera in tre tomi, di cui due dedicati ai testi del Nolano ed uno all’interpretazione spaventiana del filosofo di Bruno. Quello che sarebbe stato il primo studio italiano su Bruno e uno dei primi a livello europeo verrà poi rifiutato dall'editore, e rimarrà sostanzialmente sconosciuto persino alla filologia spinoziana tedesca, da sempre molto sensibile ai precorrimenti bruniani. Le fonti principali di Spaventa furono il manuale del Ritter e il testo Jordazo Bruno di Bartholmèss, ma certamente dominante è la prospettiva hegeliana: obiettivi prioritari di Spaventa furono la ricostruzione del pensiero di Bruno in chiave sistematica e anticipatrice della dialettica di Hegel. In contrapposizione alla storiografia dominante che presentava Bruno come un autore oscuro, Spaventa ne sottolinea i tratti di eroe e martire, marcando le differenze rispetto alla figura di Nicola Cusano. Indugiando sul rapporto Bruno-Spinoza, un classico filosofico dell’Ottocento, se ne rileva l’affinità, di contro all’interpretazione corrente sostenuta da Hegel e Cousin. Gli studi su Bruno si inseriranno poi nella teoria della circolazione, in cui saranno tenute insieme da un lato la continuità del pensiero italiano con quello europeo, dall'altro la valorizzazione della filosofia italiana del XIX secolo, due linee che nell’introduzione, sono definite non sempre convergenti. Da segnalare, infine, è l'evoluzione nel giudizio sulla figura di Bruno: gli studi sulla Ferorzenologia ed il recupero di Kant (soprattutto a partire dal ‘56) non consentiranno più di vedere nel filosofo di Nola una anticipazione, ma soltanto la preistoria della dialettica, analisi sulla quale si verifica una significativa convergenza con la filologia tedesca ed in particolare con Sigwart. Alla presentazione seguono la Lettera sulla dottrina di Bruno (ms 3.6.4 datato 1853-54) e Della coincidenza degli opposti (ms. 3.5.3. pp. 93-122) entrambi presenti nella Biblioteca Nazionale di Napoli. L. GENTILE, Coscienza nazionale e pensiero europeo in Bertrando Spaventa, Edizioni Noubs, Chieti 2000. Il libro si articola in cinque capitoli, il primo dei quali mostra come filosofia e cultura non siano mai disgiunte nel pensiero di Spaventa: la rigorosa riflessione di carattere metafisico sul reale non è mai astratta dai concreti problemi storici e dalla situazione politica. L'analisi del rapporto tra oggettività storica e soggettività filosofica occupa l’intero secondo capitolo, nel quale si tematizza uno dei problemi maggiori dello Spaventa, ossia l'armonizzazione tra genio italiano e modernità europea. Il tentativo di rivalutare la tradizione rinascimentale italiana come anticipatrice degli sviluppi europei fino all’idealismo tedesco non poteva che sviluppare un’avversione nei confronti della scolastica. A proposito della volontà di aggiornare il dibattito filosofico italiano, nel terzo capitolo si mostra l’itinerario spaventiano, dagli studi sulla fenomenologia dello Spirito ai rapporti con Gans e Michelet, per arrivare a Darwin ed Herbart. Nel capitolo successivo si prendono in esame soprattutto le influenze di Werder e Fischer sul pensiero spaventiano, al fine di contribuire alla vexata quaestio sulla riforma della dialettica hegeliana. A conclusione si evidenzia l’attenzione che l’autore nutriva per le nuove correnti come il positivismo, lo scientismo, l’evoluzionismo, nello sforzo di reintrodurre un principio teleologico dopo il definitivo abbandono di qualsiasi fattore soprasensibile, carattere che accomuna tanto la scienza dell’apoca, quanto l’hegelismo. D. D'ORSI, Introduzione a B. SPAVENTA, Sulle Psicopatie in generale. Con appunti e frammenti inediti, Cedam, Padova 2001. L'introduzione avvia una disamina del nuovo materiale ritrovato da D’Orsi, relativamente ai cinque nuovi foglietti recuperati, alle voci dell’Erciclopedia Popolare italiana del 1860 ed altri contributi. Vi è anche spazio per una polemica con Tessitore a proposito della misteriosa figura di Basilio Scalzi, che secondo D’Orsi altro non era che uno pseudonimo di Bertrando Spaventa, mentre per Tessitore si trattava di un epigono della scuola di Spaventa. D’Orsi si occupa anche di stabilire un possibile nesso tra gli studi di Bertrando sulle Psicopatologie e la Psicopatologia generale di Jaspers, dal momento che entrambi si concentrano sul problema dell'unità psichica come autentico problema di carattere filosofico. Il testo include la riproduzione dei cinque foglietti stampati, le voci curate da Spaventa per l’Enciclopedia, alcuni appunti autografi e la riproduzione dei 4 articoli sulla Gita a Montecassino. G. ORIGO, Crisi e trasformazione della metafisica nel maturo Spaventa, Edizioni FERV, Roma 2001. Tema centrale del libro è il testo postumo Esperienza e Metafisica (1888), nel quale Spaventa tenta non solo di arginare la nuova ondata di scientismo che attraversava il suo tempo sotto il nome di positivismo ed evoluzionismo, ma anche di confrontare queste due nuove linee di pensiero con la dialettica e la riflessione speculativa. Origo sottolinea che il tentativo di Spaventa non è arroccarsi nella fortezza della metafisica, quanto piuttosto evidenziare l’ingenuità dei presupposti filosofici. da cui queste nuove correnti dipendono. L’intrascendibilità del pensiero, quella stessa che Spaventa ribattezzerà ‘metafisica della mente” costituisce il patrimonio filosofico di cui l’autore abruzzese non è in alcun modo disposto a privarsi. F. RIZZO, Bertrando spaventa. Le lezioni sulla storia della filosofia italiana nell’anno accademico 1861-1862, Armando Siciliano Editore, Messina 2001. Il primo capitolo del testo analizza la dipendenza dell’interpretazione del pensiero di Spaventa dalle figure di Gentile e Croce, autori delle principali pubblicazioni con le quali l’autore abruzzese venne letteralmente riscoperto tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Pur prendendo in considerazione le critiche relative alla mancanza di valore storico della teoria della circolazione, troppo legata ad un accanimento speculativo, Francesca Rizzo rivendica la possibilità di sviluppare un europeismo più maturo proprio a partire dalla inattualità del pensiero di Spaventa, ingiustamente accusato di provincialismo e di eccessiva dipendenza dal sistema hegeliano. Il capitolo secondo si apre con una contestualizzazione del clima culturale nel quale spaventa tenne la sua prima lezione presso l’Università di Napoli: la trasformazione di ogni nazione in una stazione del progresso dello spirito, il cui agere non abita nessun luogo non comportano il rischio della fantasia al potere, ma si presentano come l’unico modo per evitare di costruire la storia della filosofia quasi fosse un inventario. Il capitolo terzo rifiuta l'accusa di deduttivismo storico e ripercorre le prime lezioni del corso del 61-62, nel quale viene stigmatizzata la dogmaticità del pensiero italiano, capace di soffocare i grandi del Rinascimento. Il capitolo quarto ripercorre le lezioni su Campanella, Bruno e Vico. Molto saggiamente il nome di Galileo è posto tra parentesi, dal momento che Spaventa ne tratterà soltanto in Esperienza e metafisica. Il capitolo quinto è dedicato all’ultima filosofia italiana, in particolare le lezioni su Galluppi, Rosmini e Gioberti, fortemente svalutati rispetto alla genialità delle intuizioni dell’idealismo. Essenziale novità per Spaventa rimane il problema della conoscenza, tema principe della filosofia da Kant in poi. Il testo prosegue con l’analisi delle interpretazioni del pensiero di Vico proposte da Francesco Fiorentino e Giovanni Gentile e si conclude riportando il testo della prima lezione del corso tenuto da Bertrando Spaventa nell’anno 1864-1865. L. LA PORTA, Recensione a G. ORIGO, Crisi e trasformazione della metafisica nel maturo Spaventa, Edizioni FERV, Roma 2001, in “Rinascita della scuola”, 2001; 25, (2), p. 124. La breve recensione tende a sottolineare il rapporto tra criticismo kantiano e neoidealismo italiano. G. GENTILE, Bertrando Spaventa, V. A. BELLEZZA (a cura di), Le lettere, Firenze 2001. L’ampio volume preparato agli inizi degli anni ’70 riporta quasi tutti i testi prodotti da Giovanni Gentile come commenti alle opere di Spaventa in occasione delle varie pubblicazioni. La prima parte raccoglie tre complessi studi sulla figura del filosofo abruzzese: il primo coincide con la biografia inserita anche nella edizione delle Opere del ’72, il secondo riguarda la riforma dell’hegelismo, il terzo è un bilancio a cinquant'anni dalla morte del filosofo. La seconda parte riprende le prefazioni e le note di Gentile a diversi scritti spaventiani, per la maggior parte inseriti già nelle Opere del ‘72. Al termine è inserita una Appendice che raccoglie altri interventi di Gentile. Una breve nota di Vito Bellezza conclude il testo. E. COLOMBO, Introduzione a B. SPAVENTA, Studi sopra la filosofia di Hegel. Prime categorie della logica di Hegel, CUSL, 2001. Il saggio mostra i motivi di scontro con le obiezioni di Trendelenburg che tendevano a mettere in discussione la concretezza del sistema hegeliano. Anche con l’aiuto della logica di Fischer, Spaventa vuole ribadire il nucleo centrale della sua visione ossia che la logica è metafisica. L’autore sottolinea anche il ruolo essenziale che nel pensiero di Spaventa svolge la Fenomenologia quale “ancilla scientiae alla soglia del tempio”. A. SAVORELLI, Gentile editore e interprete di Spaventa. L'ultimo volume delle “Opere”, in “Giornale Critico della filosofia italiana”, 2002, 22(2), pp. 320-330. Savorelli attribuisce la riscoperta di Spaventa a merito esclusivo del Gentile, il quale costrinse gli italiani a cibarsene. La mancanza di una scuola capace di sostenere e diffondere l'insegnamento di Spaventa contribuì ad un inesorabile declino: la polemica tra Gentile e Croce contribuì quantomeno a risollevare le sorti del filosofo abruzzese. È stato Gentile a interpretare in chiave squisitamente filosofica la teoria della circolazione del pensiero, benché la riforma avviata dallo Spaventa sia stata interpretata come inizio dell’attualismo più che come crisi dell’hegelismo. Savorelli aggiunge una appendice sul libro di Francesca Rizzo in cui spaventa è presentato come un classico della cultura italiana dell’unità assieme a De Sanctis, Labriola e Villari. P. DE LUCIA, Donato Jaja e il significato teoretico e storico della filosofia rosminiana, in “Filosofia oggi”, 2002, 25:43) 339-373. L’articolo propone una disamina del rapporto tra lo spiritualismo rosminiani e l’attualismo gentiliano, anche con l'intento di valutare la consistenza della tesi sul presunto carattere cattolico del suo idealismo sottolineata già da Del Noce e Carabellese. Punto focale della ricerca è mostrare la dipendenza degli studi jajani dall’interpretazione spaventiana secondo la quale Rosmini sarebbe il Kant italiano. Elemento centrale che accomuna i due pensatori è la cosiddetta mentalizzazione del fondamento. Spaventa riconobbe a Kant il merito di aver risolto il problema della conoscenza in base ad un principio superiore (l’unità sintetica originaria cui equivale il rosminiano sentimento fondamentale). Spaventa denuncia poi l’imperfezione dualistica che caratterizza tanto Kant quanto Rosmini, Jaja riprende nei suoi studi la critica spaventiana al Rosmini, il quale non colse il superamento kantiano della concezione della estraneità dello spirito rispetto alla realtà esterna. Il Bullia criticherà Jaja per non aver tenuto conto, all’interno di questa sua valutazione, della dottrina della creazione che svolge un ruolo essenziale nella teosofia rosminiana. Rimane dunque la possibilità di istituire un parallelo tra i due sulla base del fatto che per entrambi pensare equivale a giudicare, ma senza dimenticare le differenze nel rapporto con la realtà esterna: il giudizio di Jaja e gi sviluppi gentiliani hanno salde radici, dunque, nella lettura spaventiana. A. SAVORELLI, Introduzione a B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, Storia e letteratura, Roma 2003. Savorelli ricorda che il testo, pubblicato nel 1862, non solo è il più discusso ed il più innovatore degli scritti di Spaventa, ma è anche l’unico che l’autore abbia condotto a termine, date le disavventure editoriali di opere quali Logica e Metafisica e la dispersione dei suoi saggi filosofici. La scelta di Gentile di modificare il titolo originario nell’attuale tende a sottolineare che l’interpretazione storica fornita da Spaventa è innanzitutto una operazione filosofica, anzi, forse l’unica autentica storia della filosofia italiana. Savorelli tenta di ricostruire le fonti cui Spaventa si è ispirato, dai testi di Cattaneo alle tesi di Gatti e Cusani, dovendo però riconoscere che l'apporto di Spaventa in termini di chiarezza e originalità è stato determinante, soprattutto grazie alla conoscenza profonda dei testi hegeliani che i suoi contemporanei non possedevano. Savorelli concentra la propria attenzione su alcuni aspetti decisivi del contributo spaventiano come la capacità di agganciare la filosofia italiana al pensiero europeo e di contrastare le tendenze neoguelfe. Dopo aver messo in luce che l’eroe della Rinascenza italiana è senz'altro Giordano Bruno, Savorelli chiarisce che l'elaborazione di una nuova prospettiva storica mediante la quale comprendere il Rinascimento non segue un percorso lineare, ma subisce una drastica rivoluzione dovuta all’approfondimento del pensiero hegeliano. A motivo della sua sincera ammirazione per l’idealismo tedesco Spaventa, benché rivaluti la filosofia italiana dell'Ottocento a integrazione della sua teoria della circolazione, non smetterà mai di evidenziarne le lacune. Savorelli conclude mostrando come Gentile abbia manifestato un chiaro dissenso su diversi punti rispetto alle tesi spaventiane, in alcuni casi fino a tradire le intenzioni del filosofo abruzzese: vero merito di Spaventa rimane in ogni caso quello di aver fornito all’Italia una chiave di lettura della modernità, o meglio una alternativa al neoguelfismo da un lato e all’empirismo dall’altro. VITIELLO, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica. Guerini e Associati, Milano.Vitiello individua l’hegelismo di fondo di Spaventa nell’attenzione dedicata al problema della relazione. Hegel si pone, nel pensiero del filosofo abruzzese quale risposta ad una domanda: come dare ragione a Fiche senza smentire Schelling? Tale la questione filosofica che coinvolge in realtà l’intero pensiero moderno. La risposta si trova nella reciproca fondazione di Fenomenologia e Logica (benché in realtà profonda sia la differenza tra il “primo” dell’una e dell’altra), fondazione rimasta incompresa tanto da Gentile quanto da Croce. Servendosi anche dei contributi di Fischer e Werder in quanto oppositori di Trendelenburg, Vitiello mostra quale sia lo sfondo storico di quella identità tra pensiero e realtà che si trova oltre la relazione medesima. Alla base della Logica si trova la volontà. L'analisi della contraddizione intrinseca all'essere conduce alla consapevolezza che l’Essere dell'inizio della logica non è interamente riconducibile al pensiero. Qui si avverte l’intima prossimità di Spaventa a quel Prius di Schelling che non è pensiero, bensì volontà. Al fondo rimane l’enigma della vita, senza ragione. ORIGO, S.. Interprete della circolazione filosofica italiana, Edizioni FERV, Roma Obiettivo dichiarato di Bertrando Spaventa era quello di creare un autentico spirito nazionale rifacendosi alla tradizione filosofica rinascimentale e mostrandone il carattere precursore rispetto al pensiero europeo moderno. Il pensiero moderno non è nazionale, ma innanzitutto europeo: nel testo si sottolinea la distanza su questo punto tra Vico e Kant: benché alcune riflessioni del filosofo napoletano possano essere lette come anticipazioni del pensatore tedesco, rimane al fondo una differente consapevolezza, dal momento che Kant è conscio di inserirsi in un dibattito europeo, non così Vico. La dimensione europea del moderno non significa rinuncia, bensì valorizzazione delle componenti nazionali: il carattere della circolazione filosofica italiana è intrinsecamente hegeliano. Il progetto di una connessione tra Rinascimento e idealismo matura progressivamente durante il periodo torinese, ma trova il suo pieno e compiuto sviluppo soltanto nel periodo napoletano, anche grazie alla posizione accademica dello Spaventa, prima costretto a brevi interventi sottoforma di articoli di giornale. Oltre alla necessità di una rivalutazione del pensiero di Rosmini e Gioberti al fine di portare a termine una sorta di rivincita sul genio germanico, essenziale è individuare nelle meditazioni spaventiane un problema di logica della storia per cui furono i fatti a condannare Bruno. A. SAVORELLI, Croce e Bertrando Spaventa, in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”Se già nel 1907, in occasione del confronto diretto con Hegel, Croce “dovette riprendere in mano anche i testi dello zio Bertrando”, la sintonia si deteriorerà progressivamente negli anni, benché secondo Savorelli Croce non sarebbe mai giunto ad una rottura definitiva, né a pronunciare una condanna senza appello. L’ambiguità dell’atteggiamento di Croce è legato da un lato alla critica della dialettica hegeliana che dal 1912 investirà non solo Hegel, ma anche Spaventa, dall’altro alla sostanziale accondiscendenza di Croce all’interpretazione di Vico proposta da Bertrando Spaventa. Nel 1909 Spaventa è ancora un “gagliardo tentativo di alta cultura”, ma dal 1912 si avrà, secondo Savorelli, una accelerazione critica nei suoi confronti: sottolineando le origini “clericali” e la statolatria (presupposto dell’adesione di Gentile al Fascismo), Croce prenderà le distanze dal filosofo abruzzese, benché nel ’48 la rilettura di Hegel passasse nuovamente dagli scritti di Spaventa. A. SAVORELLI, Croce e Spaventa, in A. SAVORELLI, L’aurea catena. Saggi sulla storiografia filosofica dell’idealismo italiano, Le lettere, Firenze.Il testo riprende le tesi dell’articolo apparso sul “Giornale critico della filosofia italiana”, Ja-A23 (1), 42-58. AA.VV, La filosofia del Risorgimento. Le prolusioni di Bertrando Spaventa, La scuola di Pitagora editrice, Napoli Il libro presenta la lezione proemiale al corso di filosofia del diritto letta il 4 gennaio 1860 all’Università di Modena e le due prolusioni alle lezioni rispettivamente al corso di storia della filosofia tenuto all’Università di Bologna nel 1860 e al corso di filosofia teoretica dello stesso anno, tenuto all’Università di Napoli, oltre alla “Nota alla prolusione. Introduzione alla filosofia indiana”. I testi sono preceduti dal già menzionato saggio di Garin Filosofia e politica in Bertrando Spaventa; al termine sono riportati due brevi interventi di T. Stràter e di B. Croce. G. ROTA, La circolazione del pensiero secondo Bertrando Spaventa, “Rivista di Storia della Filosofia”, 2005, n.4, pp. 655-686. Gramsci, che certo non stimava Spaventa, a motivo della sua provincialità e della mancanza di stimoli da parte del suo tempo a pensare in maniera epocale, attribuisce comunque al filosofo di Bomba una certa importanza in relazione alla teoria della circolazione del pensiero. “Siamo arrivati tardi dopo essere stati i primi” è una formula che riassume con incisività e concisione il pensiero di Spaventa, che voleva superare la miseria delle gare di parte che ancora caratterizzavano il dibattito italiano per elevarlo sulla scienza europea. Per attualizzare Hegel in Italia non si poteva utilizzare la figura di Lutero, destinato comunque sempre a rimanere un forestiero. La Chiesa cattolica che per Hegel era ormai passiva nella storia, risultò per Spaventa una zavorra estremamente attiva: abbandonato Lutero, dunque, si guarda a Bruno e Vico. Rota accenna anche alla polemica con Mariano, secondo il quale il genio italico non era un tema che potesse assumere rilievo scientifico. Rota conclude precisando che, sebbene si debba a Gentile la riscoperta di Spaventa, questi non condivideva la filosofizzazione della storia attuata dal suo maestro ideale su due punti: Gentile non accettava la diagnosi di encefalogramma piatto dell’Italia del XVI e XVII secolo, rifiutando altresì la concezione ancora troppo naturalistica del concetto di nazione formulata dal filosofo abruzzese. CAPUTO, S. e la sua scuola. Saggio storico-teoretico, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli. Il libro si divide in tre parti. La prima dedicata alla delicata sintesi che Spaventa tentò di sviluppare tra hegelismo e liberalismo, in cui si sottolinea l’importanza del Collecchi nella formazione del filosofo abruzzese, l’importanza di una esegesi unitaria degli scritti spaventiani, l’importanza dell’attività di pubblicista nel periodo torinese e la parentesi del 1858 sulla logica di Hegel. La seconda parte riguarda la linea mediana tra realismo e idealismo che Spaventa cercò dagli anni ’60 in poi, dove si segnala l’importanza di una interpretazione originale della dialettica hegeliana anche rispetto al confronto con le correnti scientiste dell’epoca, senza dimenticare l’intenso studio sulla politica hegeliana e sul problema del sopramondo. L'ultima parte è dedicata alla scuola di Spaventa, in particolare in riferimento alla crisi dell’hegelismo e al binomio Croce- Gentile, cui l’autore contrappone il real-idealismo diAlderisio. Si menzionano anche le interpretazine materialistica di Labriola e l’hegelismo critico di Sebastiano Maturi, per concludere con una disamina dell’idealismo di Jaja e dello spiritualismo critico di Filippo Masci. M. RASCAGLIA, Paolottismo, positivismo, razionalismo (la stesura originaria di Maria Rascaglia), in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, vol. 2, 2006, n.2, pp. 220-236. Una brevissima introduzione, dove si ricorda l’importanza del riordino dei materiali scompigliati dai bombardamenti del ‘43 nella sede della Società Napoletana di Storia Patria e l’importanza della figura di De Meis nella corrispondenza dei fratelli Spaventa, accompagna il testo della lettera datata 8 maggio 1868, indirizzata prima a Fiorentino e poi in un secondo tempo proprio al De Meis da Bertrando Spaventa. Lettera nota poi con il titolo di Paolottismo, positivismo, razionalismo. Oltre alla versione iniziale della lettera, sono state inserite i passi della minuta che consentono di comprendere il lavoro di revisione compiuto da Spaventa. G. ORIGO, Da Bruno a Spaventa. Perpetuazione e difesa della filosofia italica, Bibliosofica, Roma 2006. Sin dalla Prefazione l’obiettivo dichiarato di Origo è una rivalutazione della filosofia italica, mentre nell’Introduzione si rivendica l’opera di ricomposizione della tradizione italiana operata da Spaventa di contro ad una arbitraria dissoluzione a causa della quale si sorvola troppo spesso sui nessi che legano Bruno, Campanella, Galilei e Vico. Innanzitutto mettere a fuoco il concetto di conato in Bacone e in Bruno consente a Origo di evidenziare subito l’opera di disincantamento attuata da Bruno nei confronti della teologia dogmatica che non compie alcuno sforzo filologico: l’universo come articolarsi che trascende se stesso prepara la via a Galilei, oggetto di studio del secondo capitolo del testo. La medesima volontà di superare le visioni dogmatico- esaustive muove Galilei verso una trasformazione epocale, di portata senz’altro europea: la ricostruzione dello scienziato è sempre anche costruzione, anticipando così la lezione dello stesso Vico; di nuovo l’articolazione discorsiva delle forze costituisce la chiave di lettura del gran libro della natura, benché Origo tenga a precisare come l'equilibrio tra lo scienziato ed il filosofo sia destinato a rimanere precario. L'esigenza di scandagliare ancora più a fondo i contributi scientifici del Rinascimento conduce Origo a esaminare nel terzo capitolo il ruolo di Vico, Bacone e Grozio. Vico è citato non solo per l’idea di mutamento che si realizza nelle tre età della storia, ma anche per la concezione della pubblica giurisprudenza, in connessione con la figura di Grozio e con la sua “destabilizzazione ermeneutica” (p. 99) che conduce ad una preponderanza del diritto umano su quello naturale. A tali studi, come precisa Origo, si ricollegherà Spaventa anche nella sua polemica con i Gesuiti, ulteriore occasione per sostenere l’unità riflessiva di verocerto di contro al monismo scolastico. Prima di affrontare, nel quarto capitolo, il rapporto tra storicismo vichiano e spaventiano, Origo presenta alcune indicazioni per una ricostruzione filologico-giuridica del rapporto Vico- Grozio. L’affinità tra Vico e Spaventa implica sempre, tuttavia, il riconoscimento di una essenziale distanza, dovuta all'influenza hegeliana: il progetto vichiano appare sotto molti aspetti innovativo, ma rimane incompiuto. A conclusione si vuole rimarcare la capacità della filosofia italica di scardinare la dogmatica scolastica di stampo accademico. ORIGO, Bruno visto da S., Bibliosofica, Roma. Nella prospettiva di Origo Spaventa incontra Bruno come l’allievo si imbatte nel vecchio Maestro, ponendo in evidenza in particolare le categorie del precursionismo e dell’eroicità del pensiero. Il parallelismo tra le due figure, non solo su un piano intellettuale, bensì coinvolgendo anche quello biografico, percorre i cinque capitoli in cui si snoda il testo. Essenziale è comprendere, innanzitutto, la posizione di Bruno sulla posizione fede-ragione, laddove 1° “intellego ut credam” è pensato come sforzo e tensione continua del pensiero contro ogni pregiudizio alla ricerca di Dio: già in questa luce è possibile individuare l’eroismo come tratto che caratterizza gli sforzi umani e la vittoria della filosofia sulla teologia, nel senso preciso del dubbio che inquieta il dogma. Il terreno dello scontro, attorno a cui ruota il secondo capitolo, viene individuato nell’ambito accademico, che attraversava una forte crisi in Italia già durante il XIV secolo, proprio a motivo dei contrasti tra teologia e filosofia: di fronte alla rigidità istituzionale imposta dalla Chiesa anche in ambito culturale, Origo vede in Bruno il nuovo “filologo”, capace di analizzare la realtà partendo da punti di vista differenti; inevitabile, anche in questo caso, come in quello della tolleranza accademica, discusso nel terzo capitolo, la ripresa del parallelismo tra Bruno e Spaventa. Origo pone addirittura un parallelismo esplicito tra l'università di Padova del XIV secolo e quelle di Torino, Bologna e Modena del XIX secolo. Superare i limiti imposti dall’autoritarismo accademico accomuna Spaventa e Bruno, presentati come menti “eroiche” nel penultimo capitolo, di contro all’intolleranza prevaricatrice di quei grammatici e pedanti che Bruno non esitava a chiamare asini, assuefatti ed abituati alla stabile quiete del reale, perché incapaci di cogliere la coincidenza degli opposti. Il progresso filosofico, reso possibile appunto da quegli sforzi eroici di pochi pensatori, rivela, all’interno del quinto capitolo, il ruolo della magia come ricerca sconfinata ed inesausta. GARIN, S., Bibliopolis, Napoli. Il testo si compone di una serie di saggi. Oltre al già menzionato Filosofia e politica in Bertrando Spaventa, Noterella spaventiana e Rassegne di studi spaventiani è presente un intervento dal titolo Da ur secolo all’altro, che si apre con la famosa lettera del luglio 1862 in cui si associa Napoli alla filosofia, continuando poi citando l’altrettanto nota lettera del Villari sull'importanza della filosofia per creare l’unità d’Italia. Nel testo Felice Tocco alla scuola di S., l’alllevo è considerato come il maggior storico della filosofia del suo secolo, non solo per la vastità delle sue nozioni ma anche per l’approfondimento su questioni come la logica e l’anima intesa come intimo fonte della conoscenza del reale. A questo intervento si deve aggiungere Ur “pamphlet” antidemocratico inedito di S., incentrato sullo scritto destinato al “Fanfulla”. Di qui l'occasione per approfondire il rapporto polemico tra Spaventa e molta parte della sinistra hegeliana. Di argomento più vasto è lo scritto Filosofia a Bologna fra Ottocento Novecento, dove si mostrano pregi e difetti dell’interpretazione del Rinascimento proposta da Spaventa, anche in polemica con alcuni suoi contemporanei, desiderosi di annunciare la definitiva liquidazione di ogni metafisica. Bertrando Spaventa. Spaventa. Keywords: italianita, Englishry, Englishness, English nation, the English, the English tongue, the tongue of the English, the tongue of the Anglians, the English spirit, the English ghost.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Spaventa” – The Swimming-Pool Library. Spaventa.

 

Grice e Spedalieri: l’implicatura conversazionale dei diritti dell’uomo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bronte). Filosofo italiano. Studia nell'oratorio di Neri di Bronte e nel seminario di Monreale. Insegna filosofia a Monreale. Alcune sue tesi, considerate eretiche a Palermo, sono invece approvate e stampate a Roma con il titolo di “Pro-positionum theologicarum specimen”. Trasfere a Roma. Pio VI gli da il titolo di beneficiato della basilica vaticana che comporta una modesta rendita mensilee l'incarica di scrivere la storia del prosciugamento dell'Agro pontino, “De' bonificamenti delle terre pontine”. Contro l'Enciclopedia degl’illuministi, usce la sua “Analisi dell'esame critico sulle prove di Dio”, il “Ragionamento sopra l'arte di governare”, e “Ragionamento sull’influenza del sacro nella società e nella civilita”.  Scrive la “Confutazione della dottrina della caduta dell’impero romano”, contro Gibbon che imputa la caduta all'influenza negativa del sacro. Nel saggio più importante “Dei diritti dell'uomo”, pubblicata a Roma ma, per volontà del papa, con la falsa indicazione di Assisi, si rifece alla concezioni rousseauiane relativamente alla dottrina di un CONTRATTO sociale come origine della società. Contesta la tesi di un originario stato di *natura* a cui occorrerebbe tornare, perché soltanto all'interno della società e civilta gl’uomini possono realizzare i suoi bisogni di felicità e di perfezione. Lo STATO, a cui è destinato l'uomo dalla natura, è la società e la civilta. Ciò e dimostrato e vuol dire che gl’uomini non possono rinunziare, generalmente parlando, alla società e a la civilita senz’opporsi alla sua propria natura. È parte essenziale della costituzione sociale il principato. Il popolo degl’uomini non ha diritto di disfare il principato. La forma migliore di governo è il principato. Al principe il popolo degl’uomini affida tre facoltà: giudicare, di decretare e di eseguire. Il popolo degl’uomini non può togliergli il principato a suo beneplacito, cioè quando gli pare, per motivi leggieri, senza motivi, perché violerebbe il patto sotto-scritto, a meno che il principe non violi la condizione essenziale del contratto stipulato, il “do ut facias”, a meno che il principe non faccia ciò che si era impegnato a fare in cambio della proprietà del principato, ossia, custodire i diritti naturali di ciascuno degl’uomini del popolo, e dirigere tutte le operazioni del principato alla felicità degl’uomini sudditi e cittadini. Questa è la base del contratto. Se invece il principe prende a distruggere i diritti naturali di ognuno, a sostituire il capriccio alle leggi, e ad immergere nella miseria i poveri SUDDITI, il contratto resterebbe sciolto da sé. Lo scioglimento del contratto non significa che il popolo eserciti per proprio conto il governo, ma che debba investirne un altro con auspici migliori. Ma chi deciderà che il contratto stabilito con il principe sia nullo? Intanto, osserva che il contratto siasi sciolto già da sé stesso, si dee legalmente dichiarare. Prima della quale dichiarazione, a niuno è permesso di sottrarsi dall'ubbidienza del principe. E il diritto di far tale dichiarazione non appartiene a verun privato, né alla unione di alcuni, né anco alla moltitudine. Solo un corpo che rappresenti *OGNI SUDDITO* può dichiarare lo scioglimento del patto con il principe. Questo vero corpo e formato da ogni magistrato, ogni ordine de' cittadini, ogni persona illuminata, proba, e non soggetta all'impeto del momento. La colta nazione italiana nella costituzione fondamentale, che dà a sé stessa, e che inerisce nel contratto che fa con la persona che vuole innalzare al principato, e che questa giura di mantenere, sempre, forma un corpo o sia un collegio che rappresenta permanetutti ogni cittadino. Laonde basta che la dichiarazione si faccia da questo corpo per esser legale. Qualora il principe resista e voglia mantenere il potere non più riconosciutogli, comportandosi così da tiranno. Il corpo di LA NAZIONE ITALIANA mai però un singolo cittadino italiano puo legittimamente giungere fino all'estrema soluzione di condannarlo a morte. Si mostra avverso sia al dispotismo illuminato che rifiuta tanto il principio della sovranità del popolo quanto il primato del sacro nel governo dello stato, sia i princìpi laici della rivoluzione. La garanzia di assicurare i diritti fondamentali di ogni uomo italiano è data dalla natura che ha come princìpi essenziali l'amore e la carità verso il prossimo. Polemizza anche contro i giansenisti che accusa di giacobinismo e di spirito sovvertitore dei troni.  Gli rispose con asprezza TAMBURINI in “Lettere teologico politiche”. Il riconoscimento che la sovranità deriva dal popolo degl’uomini e che questi uomini italiani, attraverso i suoi delegati, possa giungere a rovesciarne il potere, gli procurarono violente critiche e inimicizie da parte dei circoli reazionari e in parte anche moderati, e al saggio, che ha alla sua uscita una notevole diffusione, il divieto di pubblicazione in tutta Italia. Puo nuovamente circolare, anche se in Italia, mutato il clima politico e culturale, venne nuovamente ignorato. GEYMONAT, “Il pensiero filosofico-pedagogico italiano, Filosofi e pedagogisti estranei all'illuminismo in GEYMONAT, Storia del pensiero filosofico e scientifico” (Milano, Garzanti); Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani: o come che sia aventi relazione all'Italia. Milano: Coi torchi di Pirola, Nicolini, op. cit.., Giurintano, Società e Stato (Palermo). Pisanò, “Una teoria comunitaria dei diritti umani: i diritti dell'uomo” (Milano). bronteinsieme Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Melanzio Alcioneo, arcadi. Nicola Spedalieri. Spedalieri. Keywords:gl’arcadii, diritti degl’uomini, polemica con Gibbon, il sacro, il crollo del principato romano, Gibbon.  Refs.: Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Spadalieri sul contratto conversazionale.” H. P. Grice, “A critique to conversational quasi-contrastualism.” Luigi Speranza, “Grice e Spedalieri” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Speranza – implicatura ed implicatura -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Albalonga). Filosofo. Speranza, Ugo -- Speranza, Alessandro -- Speranza, Ettore -- Speranza, Gianni -- Speranza, Paola -- Speranza, Anna-Maria -- Speranza-Ghersi –Ghersi-Speranza, Anna-Maria -- Speranza lui speranza: luigi della --. Italian philosopher, attracted, for some reason, to H. P. Grice. Speranza knows St. John’s very well. He is the author of “Dorothea Oxoniensis.” He is a member of a number of cultivated Anglo-Italian societies, like H. P. Grice’s Playgroup. He is the custodian of Villa Grice, not far from Villa Speranza. He works at the Swimming-Pool Library. Cuisine is one of his hobbiesgrisottoa alla ligure, his specialty. He can be reached via H. P. Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Vita ed opinion di Luigi Speranza,” par Luigi Speranza. A. M. Ghersi Speranza -- vide Ghersi-Speranza. Ghersi is a collaborator of Speranza. Grice: “It’s easy enough to list Speranza’s publications.” Speranza, like Mill, was fortunate to belong to a literary familyand he would read Descartes’s Meditations, which drew him to philosophy. His studies in logic drew him to semanticsHis first love was Oxonian analysis as summarised in Hartnack’s essay on ‘contemporary’ philosophy. One of Speranza’s earliest essays is on Plato’s Cratylus, relying mainly on Cassierer, but also drawing from Austin’s Philosophical Papesr. Spearnza’s idea is that “ … mean …” is a dyadic relation and what’s behind Plato’s theory of forms. This was Speranza’s contribution to a seminar in ancient philosophy. For his contribution on medieaval philosophy, Speranza drew on the modistae, and the Patrologia Latina for the use of ‘intentio’ in various writers, up to AquinoSperanza finds it fascinating that the earliest modistae do find a conceptual link between the ‘intentio’ and the ‘significatio.’ For a seminar on scepticism, Speranza contributed with a paper on Gricedrawing on Sextus Empiricus and Bar-Hillel. It relates to Grice’s problem with the conversational category of fortitude. Speranza concludes that a phenomenalist account is possible, but there are two other options: ‘silence’ (“not to participate in the conversational game”) or the utterance of non-alethic utterances, such as questions and commands. For a seminar on political philosophy, Speranza contributed with an essay on ‘Contractualism’ from Rousseau onwards --. For a seminar on phenomenology and the social sciences, Speranza contributed with an essay on ‘The conversational unit,’ the idea that the emic approach is preferable to the etic approach. For a seminar on argumentation theory on Habermas, Speranza contributed with a “German Grice,” the idea of a ‘strategy’ is a momer. Grice is into co-operative proceduresand those who provide taxonomies of rationality should be made aware of this. For “The Carrollian,” Speranza contributed with “Humpty Dumpty’s Impenetrability.” The idea that Davidson is right and Alice does not mean that there is a knock-down argument, or that she should change the topiche draws on Grice’s collaborator at Oxford, D. F. Pears, for his insights on “Intention and belief.” At the request of the editor of a bibliographical bulletin, M. Costa, Speranza contributed with reviews of oeuvre by R. M. Hare (“Sub-atomic particles of logic”), J. F. Thomson (“if and If”) and work on the English philosopher H. P. Grice (J. Baker, etc.). His review on Way of Words spramg from the same project, and it is an ‘invitation.’ For a congress of philosophy, Speranza presented “On the way of conversation,” playing on Grice’s “way of words”“Surely there’s more than words to conversation.” Speranza focuses on what Grice amusingly calls a ‘minro problem,’ that of expression meaningSperanza’s example: “How do you find Bologna?” “I haven’t been mugged yet” was inspired by a remark of an attendant to the conference. For a congress on conversational reasoning, Speranza contributed with “First time at Bologna?” providing twenty five possible answers“first time in the region, actually.” Etc. Speranza, following Grice, refers to this sort of reasoning as a sort of ‘brooding’to ‘brood’ is to ‘reason’ in a calculated fashion. As an invitation project, Speranza collaborated with “Rational face to rational face: a study in conversational pragmatics from a Griceian perspective.” In his essay “Post-modernist Grice,” he deals with the unary and dyadic connectors. For a congress on “Current Issues,” Speranza presented his “The feast of reason,” three steps in the critique of conversational reason. The first step is empirical, the second is quasi-contractualist, and the third is rational, undersood weakly and strongly. For an essay on relativism, Speranza presented an essay on ‘The cunning of conversational reason.’ Speranza maintains Grice’s jocular references to Kant -- the Conversational Immanuel. For an essay on desirability, Speranza explored the issues connected with mise-en-abyme and self-reflectionsome of these were published. There is published correspondence with members of what Speranza calls the Grice Club. Refs.: The H. P. Grice Papers, BANC MSS 90/135c, The Bancroft Library, The University of California, Berkeley. Speranza, villaThe Swimming-Pool Library, H. P. Grice’s Play Group, Liguria, Italia. Luigi Speranza, “Grice e la storia della filosofia italiana.” Speranza has done crucial research on Griceianism, unearthing some documents by O.Wood, J. O. Urmson, P. H. Nowell-Smith, and many many others – not just H. P. Grice. Vide: The Grice Papers, BANC, MSS. Speranza

 

Grice e Spintaro: filosofia pre-romanica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Teacher – and father – of Aristosseno. Grice: “Oxonians might wonder why Italians are so obsessed with Crotona, Taranto, and the rest of them, but I SEE it: it’s all about the pre-Roman!”

 

Grice e Spirito: la filosofia dello spirito – filosofia fascista – ventennio fascista – i corpi – corpo e corporazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Arezzo). Filosofo. Studia sotto GENTILE. Firma il manifesto dei filosofi fascisti. Teorico del corporativismo. Insegna a Pisa, Messina, Genova e Roma. Tra i principali filosofi a Roma insieme con ANTONI, allievo di CROCE, CALOGERO -- filosofo del "dialogo" -- Cf. Grice – “dialogo” vs. “conversazione” -- e NARDI grande studioso di filosofia di ALIGHERI e medievale. Rinomate sono non tanto le sue lezioni quanto i suoi pomeriggi di discussione del GIOVEDÌ. Tre ore, non di lezione, ma di discussione serrata su un problema filosofico -- uno soltanto per un intero anno. Uno, per esemptio, e dedicato al concetto di sogno. Ai giovedì nell'aula grande dell'istituto di filosofia interveneno tante e diverse persone: gli studenti, i numerosi assistenti e inoltre partecipanti di convinzioni e provenienze. Ascolta tutti, rilancia e guida la discussione verso nuove prospettive interpretative. Pubblica saggi connessi a quei giovedì. Tra le altre: “Il problematicismo”; “La vita come ricerca” (Rubbettino); “La vita come amore”, “Cattolicesimo e comunismo”, fino a l’autobiografica “Vita d’un incosciente”. Volendo indicare un tratto distintivo della sua filosofia, essa consiste nella curiosità e nel rispetto per qualsiasi posizione. Non esiste una parola definitiva. La ricerca della verità dove essere portata sempre ulteriormente avanti.  In questa maniera vanno interpretate le sue riflessioni che spaziano dai campi della speculazione filosofica. Tra i vari livelli di ricerca, spicca la riflessione sulle strutture dello STATO. Allontanandosi nettamente dal liberalismo filosofico, non vede alcuna contra-posizione tra la figura dell'individuo o cittadino e quella dello stato. Con un passo oltre questa interpretazione, che giudica dis-organica e arbitraria, vede LO STATO come figura entro cui i cittadini vieneno a realizzarsi. Il binomio stato/cittadino diventa così un'equazione, in cui il secondo termine viene a risolversi e quindi realizzarsi pienamente nel primo. Caratterizza lo stato non come una semplice sovra-struttura disciplinatrice, ma come un organismo che esprime UN’UNICA VOLONTÀ e compone tutti i dissidi dei cittadini. In questa maniera, l'unica via percorribile nella realizzazione di tale modello è la via corporativa in cui lo stato -- al meno due cittadini -- diventa stato di al meno due produttori. Lo stato rappresenta il luogo in cui interesse pubblico o comune ed interesse privato o soggetivo del cittadino vengono a coincidere. In esso non deve venire annullata quella sorgente di vita che sono i cittadini. Questa concezione è stata definita immanenza dei cittadini nello stato, volta alla mobilitazione dei cittadini nelle e per le strutture create dallo stato. L’economia è politica. Deve garantire la sub-ordinazione alle scelte sociali. Inquadra il ruolo che assegna allo stato in termini di intervento pubblico o comone. Ben lungi dal prospettare una situazione paragonabile al collettivismo, è lontano anche dagli eccessi dis-organici che imputa al sistema liberale. Il funzionario di stato, che in prospettiva dove andare a sostituire il capitalista privato, e giudicato non come un agente del collettivismo o del capitalismo statale -- che sappiamo cosa produce col sovietismo -- ma un semplice delegato tecnico, che si fa garante di una diversa realtà: assicurare socialmente il controllo della produzione e la stessa proprietà dei mezzi produttivi. Altre saggi: “Il diritto penale italiano”; “Il nuovo diritto penale”; “Critica dell'economia liberale, “L'idealismo italiano e i suoi critici” – Grice: “A delightfull read, especially for us Oxonians, since he manages to quote extensively from the Proceedings of the Aristotelian Society, seeing that Ryle hated idealism!” --; “I fondamenti dell'economia corporativa”; “Capitalismo e corporativismo” (Rubbettino); Scienza e filosofia”; Dall'economia liberale al corporativismo, “La vita come arte,  Critica della democrazia” (Rubbettino); “Il comunismo, Dall'attualismo al problematicismo”, Memorie d’un incosciente” (Rusconi, Milano); “Pareto” (Cadmo, Roma); “Critica della democrazia” (Luni, Milano); “Il corporativismo: dall'economia liberale al corporativismo; Rodotà, Passeggiando in bicicletta; Bighellonando dentro il Verano, Corriere della Sera, Stefano, Filosofo, Giurista, Economista, VOLPE Roma, “Individuo e stato”,  NEGRI, “Dal corporativismo comunista all'umanesimo scientifico. Itinerario teoretico” (Manduria, Lacaita); Tamassia, Roma, Russo, Positivismo e idealismo” (Roma); Dessì, “Filosofia e rivoluzione” (Milano, Luni); Russo, “Dal positivismo all'anti-scienza” (Milano, Guerini); Cavallera, “La ricerca dell'incontrovertibile, Formello, SEAM); Breschi, Spirito del Novecento. Il secolo di S. -- dal fascismo alla contestazione” (Rubbettino), Cammarana, Roma, Pagine,  Cammarana, “Teorica della reazione dialettica: filosofia del postcomunismo” (Roma). Pirro, Ricordo, in Studi Politici (Bulzoni, Roma). Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia machiavelliana, Bettineschi, L'esperienza storica e l'intrascendibilità del conoscere. Sul sapere di non sapere,  Rivista di filosofia neo-scolastica,, Problematicismo Corporativismo Fascismo Corporazione proprietaria. Treccani, Dizionario di storia, Dizionario biografico degli italiani, Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   È verità comunemente ammessa die l’econo¬ mia politica o, senz’altro, l’economia sia una scien¬ za sociale. Questo vuol dire ch’essa non studia 1’/ionio ceconomicus e i fenomeni economici, quali si possono immaginare in uno stato presociale o an¬ tisociale, ma considera invece gli aspetti economi¬ ci della vita sociale nella sua organicità essenziale. Ed è chiaro che in tanto può studiarli e inten¬ derli sistematicamente in quanto la vita sociale abbia essa stessa un’unità, un ordine, una di¬ sciplina: sia, in altri termini, non uno stato di natura bensì un organismo politico, uno Stato. Fondamento, dunque, di ogni scienza sociale e del- l'eeonomia in particolare è il concetto di Stato, con il correlativo problema dei rapporti tra Stato e in¬ dividuo. Per intendere la storia dell’economia po¬ litica e le vicende degli indirizzi predominanti (economia liberale ed economia socialista) è ne¬ cessario indagare come le diverse scuole abbiano impostato e risolto tale problema. Se si guarda all'economia classica e in gene¬ re all’economia più comunemente intesa come scientifica, si deve convenire che essa è stata via via costruita e perfezionata dal secolo XVIII a oggi tra¬ scurando, qualche volta in modo assoluto e sem¬ pre in modo essenziale, il problema dello Stato. Dal- reconomia del baratto fino a quella complicatissi¬ ma delle banche e dell’industria contemporanea, tutti i trattati sono stati concepiti in rapporto a una vita economica in cui dello Stato non si sente qua¬ si mai il bisogno di occuparsi, come se fosse real¬ tà estrinseca e irrilevante ai fini di una vera co¬ struzione scientifica. La spiegazione di questo fatto, evidentemente in antitesi con la qualifica di scienza sociale con cui si caratterizza l’economia, va trovata nella partico¬ lare concezione dello Stato teorizzata dalla scienza politica e giuridica dal secolo XVIII in poi, e classi¬ ficata ormai globalmente con l’epiteto di liberale. Essa sorge come reazione ai vecchi sistemi politici, per i quali lo Stato era una realtà diversa dagli indi¬ vidui che lo componevano e sì rappresentava quin¬ di ai loro occhi conte un’autorità meramente arbi¬ traria, con fini propri e opposti a quelli dei sud¬ diti: sorge come bisogno di distruggere un potere estrinsecoedannoso, e con tale esigenza non puòfar altro che rivendicare i sacri diritti dell’indi¬ viduo, nella cui celebrazione si vede l’unico scopo così della vita sociale come della ricerca scientifi¬ ca. Allo Stato, che storicamente appariva come un limite e un ostacolo, anziché come essenza e vita deirorganismo sociale, si opponeva una negazione perentoria destinata a mutare radicalmente non solo i rapporti politici, ma anche i fondamentidi ogni scienza sociale. Si può anzi affermare che, solo in seguito a questa violenta ribellione, il pensiero — 5 — scientifico acquista la libertà indispensabile per uno studio sistematico dei fenomeni sociali, e ciò vale a spiegare perché le cosiddette scienze sociali si rin¬ novino sostanzialmente, si costituiscano e cerchino di organizzarsi tra loro soltanto dopo la prima metà del Settecento. L’esigenza immediata era quella del¬ l’assoluta negazione, dalla quale ci si ritrasse uni¬ camente per le necessità irriducibili di una vita po¬ litica organizzata: il ritorno alla natura non poteva essere altro che il grido nostalgico di un ideologo. Ma se la negazione non poteva divenire totale, essa tuttavia si spinse al massimo limite consentito dai tempi, e, in sede scientifica, alla realtà dello Stato non si riconobbe se non la funzione del tutto estrin¬ seca di salvaguardare le sfere di arbitrio dei singoli individui, Se unica realtà e unico valore sono quelli dell’individuo, se al mondo non c’è altra finalità oltre quella che l’individuo si pone nel suo chiuso egoismo, ne consegue che allo Stato deve spettare 1 unico compito di determinare i confini tra quegli infiniti regni costituiti dai singoli cittadini e di sorvegliare la loro pacifica convivenza: esso non entra nella vita dell’individuo, ma ne resta al mar¬ gine come garante. Ora è chiaro che uno Stato così concepito non deliba trovar posto nella maggior parte delle scien¬ ze sociali: esso è più una realtà di diritto che non una realtà di fatto, e la sua considerazione tende a esaurirsi nelle indagini di carattere giuridico. Va¬ lori e fini sociali sono quelli dell’individuo, che si affermano e si negano indipendentemente dallo Sta¬ to, il quale ha il solo scopo di non farne turbare il libero svolgimento. Di questa funzione di tutore le scienze sociali possono e debbono, dunque, disinte* — 6 — ressarsi, in quanto essa non modifica la realtà dei fatti sociali, ed anzi rende possibile la loro genuina attuazione. A tali presupposti ideologici e politici si deve ricondurre in particolar modo lo svolgimento della scienza economica classica. Facendo sua questa so¬ luzione del problema circa i rapporti tra individuo c Stato, essa dà allo Stato un valore positivo solo in quanto garante della libera concorrenza, ma lo ritiene perturbatore e distruttore di ricchezza ogni volta che intervenga attivamente nella vita econo¬ mica: assume poi ad oggetto della propria indagine 1 unica realtà dell individuo, considerato nella sua vita immediata e mosso esclusivamente dai suoi par¬ ticolari interessi. L homo asconomicus è per defini¬ zione extrastatale. Di qui l’equivoco fondamentale di tutta la scienza economica quale è pervenuta fino a noi. Se la scienza, infatti, non deve studiare l’organismo sociale (lo Stato) perché questo, in quanto organi¬ smo, non ha un significato e un valore proprio, non avrà, per ciò stesso, nulla da dire all’individuo sin¬ golo che di quell’organismo fa parte. L’individuo scisso dall’organismo è per definizione anarchico, e norma della sua vila non potrà essere che il suo ar¬ bitrio affatto soggettivo: la scienza non può inse¬ gnargli niente perché non può saperne niente. Per saperne qualcosa bisogna che un individuo esca dalla sua particolarità, si esprima, entri in relazione con gli altri individui e venga, dunque, a far parte di una vita sociale organica : dello Stato. Solo allora ; solo, cioè, quando Yhomn ceconomicus è diventato cittadino, la sua attività diventa intelligibile e su¬ scettibile d’investigazione scientifica. Ma la scienza economica si è voluta ostinare in questo assurdo, di considerare l’individuo pre¬ scindendo dallo Stato; e non è potuta giungere die a risultati mediocrissimi : le sue soluzioni sono, in fondo, tutte negative, e si riassumono sostanzial¬ mente nel dogma della libera concorrenza. Il quale, se ben si riflette, vuol dire solo cbe la scienza si ri¬ mette all arbitrio degli individui, e che la soluzione più perfetta del problema economico è quella che scaturisce dal cozzo indisciplinato di tutti gli infi¬ niti interessi particolari. Allo Stato la scienza dice: non fare; all'individuo: fa quel che ti pare. Questa l'essenza dell’economia classica. 1 tentativi fatti per uscire dal circolo vizioso del liberalismo tradiscono tutti il bisogno di supe¬ rare una soluzione affatto negativa del problema della scienza economica. Se non che l’incapacità di abbandonare il presupposto individualistico non ha consentito di giungere a una sistemazione scien¬ tifica che non fosse nella massima parte illusoria. E infatti, una volta ammesso il fondamento soggetti¬ vistico dell’economia, null’allro restava da fare al¬ l’economista se non aggirarsi all’infinito in quella contraddizione in termini in cui si risolve ogni ten¬ tativo di conoscere le leggi sistematiche dell’arbitrio. Se al puro e semplice « fa quel che ti pare », lo scienziato ha voluto aggiungere una sola parola di carattere positivo, lo ha potuto fare soltanto illu¬ dendosi di entrare nel mondo ermeticamente chili- so del soggetto. Così si spiegailsorgere della scuola psicologica e matematica, con la quale si è creduto di attingere il maximum della scientificità e si è condotto all assurdo il postulato classico dell'indi- vidualismo. Scuola psicologica : e cioè costrizione dell’anima umana entro schematismi arbitrari, con¬ cepiti da chi non aveva nessuna dimestichezza con gli studi di psicologia; riduzione dell’/iomo cero- nomicus all’edonista, o all’egoista, o all’altruista, e, in ogni caso, a un’etichetta di cui non sì sarebbe potuto dare nessuna giustificazione: livellamento dei soggetti e cervellotica costruzione del tipo, che rendesse uniforme e perciò intelligibile la multi¬ forme vita individuale; negazione, insomma, del vero mondo della soggettività e sostituzione ingiu¬ stificabile di una formula meramente fantastica alla realtà che si pretende conoscere. Scuola matema¬ tica: e cioè quantificazione di quegli stessi elementi soggettivi illusoriamente determinati: comparazio¬ ne di dati incomparabili perché essenzialmente di¬ versi; processo astrattivo sorto su illegittime astra¬ zioni e perciò irriducibile alla concretezza della vita; formule algebriche, dunque, che non potranno mai vestirsi di numeri effettivi. L indirizzo psicologico e matematico, sorto a correzione ed integrazione di quello liberistico, è valso solo a mettere in luce l’errore fondamentale. Gli individui nella loro particolarità sono esseri necessariamente eterogenei: i gusti, i bisogni, gli interessi, le finalilà non sono paragonabili: nessuno potrà mai dire quante volte il profumo di un fiore vale per una signora aristocratica più che per una popolana, ed io stesso, che presumo di conoscermi, non potrò mai dire quante volte il godimento da- tomi da una sensazione corrisponda a quello procu¬ ratomi da un altra, o dalla stessa in un momento diverso. Nessun tentativo dì approssimazione può essere concepito seriamente e perciò tutta la cosid¬ detta economia marginalistica non è suscettibile di alcuna interpretazione di carattere pratico. Conclu¬ dere, come fa 1 economia liberale, che il massimo dell utilità sociale equivale alla somma dei massimi delle utilità individuali significa dire una cosa senza senso, se è vero che di addendi incomparabili — come sappiamo dalla più elementare conoscenza matematica nonè possibile fare la 6omma. Con il tentativo di passare dal massimo benes¬ sere individuale a quello sociale, si chiude il ciclo dell economia classica o liberale, e la vanità del ten¬ tativo ne conferma il definitivo dissolversi. Di un inondo concepito coinè moltitudine caotica di in¬ dividui, vivente ognuno sotto il solo impero del pro¬ prio arbitrio, è insensato voler fare la scienza. Scien¬ za vuol dire disciplina, e l’individuo che non è an¬ cora cittadino è senza disciplina; vuol dire norma, c 1 individuo non può riconoscerne alcuna oltre il suo gusto del momento; vuol dire, soprattutto, co¬ noscenza obiettiva e universale, e l’individuo del li¬ beralismo è soggettività particolare. A tale indi¬ viduo l'economista si volge solo per constatarne la natura e garantirne la primitività: lungi dal gui¬ darlo e disciplinarne gli interessi, lo abbandona al cozzo brutale della domanda e dell’offerta, in cui tutto il suo ideale si riassume. È la scienza dell’a¬ narchia. — 10 All’economia liberale si è opposta quella so¬ cialista. Tutti i presupposti della prima sembrano negati dalla seconda, che all’individuo sostituisce la classe, la società, lo Stato. Ma lo Stato di cui parla il socialismo ha lo stesso difetto di origine di quello liberale: esso, cioè, è sempre considerato come una realtà diversa dall’individuo, come limite dell’attività individuale e sua condizione estrinseca. La situazione si è invertita, ma il problema è ri¬ masto impostato nella stessa maniera, poiché l’anti¬ nomia individuo-Stato in entrambi i casi è risolta sacrificando uno dei due termini all’altro; e, in quanto il termine sacrificato ha conservato un mi¬ nimo di validità, esso rappresenta una limitazione, sia pure necessaria, della realtà del termine iposta¬ tizzato. Limite deirindividuo è Io Stato nel libera¬ lismo, limite dello Stato è l’individuo nel socialismo. L’incapacità di risolvere l’antinomia con l’iden¬ tificazione di individuo e Stato ha condotto il so¬ cialismo a concepire lo Stato burocraticamente. Se lo Stato infatti non è la realtà stessa della Nazione, ma viene entificato e opposto alla Nazione, esso non può concepirsi se non come un organismo a sé e con organi propri. Quando il socialismo nega la proprietà privata e dichiara che i mezzi di produ¬ zione appartengono allo Stato,evidentemente attri¬ buisce a questo una personalità giuridica ed econo¬ mica distinta da quella dei privati: ed è chiaro che, se lo Stato ha una personalità distinta, deve avere i — 11 — anche il motlo di vivere ed agire distintamente, at¬ traverso quei determinali organi che costituiscono appunto la burocrazia. È così che la teoria socia¬ lista, negando l’individuo nello Stato, sostituisce al¬ l'economia individuale quella burocratica e fa dello Stalo, in quanto realtà giuridica diversa dagli indi¬ vidui, il proprietario, il datore di lavoro, il rispar¬ miatore, il distributore, e via dicendo. La critica violenta e altezzosa che reconomia classica ha opposto all’economia socialista è sostan¬ zialmente giusta e irrefutabile. Se contro il libera¬ lismo ha ragione il socialismo in quanto richiama l’attenzione dall’individuo allo Stato, contro il so¬ cialismo ha egualmente ragione il liberalismo clie rivendica la superiorità dell’economia individuale rispetto a quella statale. L’economia statale è per definizione un’economia monca e patologica, poiché essa non solo accentra e quindi limita la vita eco¬ nomica, ma ne affida la direzione a un organo relati¬ vamente estrinseco quale è la burocrazia. Quando il liberale afferma che lo Stato è cattivo ammini¬ stratore, ha perfettamente ragione, perché per Sta¬ to s’intende appunto una realtà sopraordinata e non costruttiva della cosa amministrata. In altre pa¬ role si vuol dire che l’industriale, il quale nasce c vive con la sua industria facendo di essa la stessa ragione della sua vila, farà prosperare la sua azien¬ da indubbiamente meglio del burocrate, che nell’in¬ dustria a lui affidala vede solo la contingente espres¬ sione del suo dovere di funzionario. Ma più che antieconomica l’economia statale è livellatrice e mortificatrice delle attività indivi¬ duali. che lulte sì debbono uniformare al meccani¬ smo burocratico e perdere quella libertà di movi- 12 — menti la quale costituisce la condizione prima della loro iniziativa. La comune opinione del carattere tradizionalista e conservatore della burocrazia è la più evidente conferma della sua incapacità a rinno¬ varsi con quel ritmo acceleratissimo che è proprio della industria contemporanea : l’economia statale tende per sua natura a diventare economiastatica. Il dualismo di individuo e Stato, che ha reso inadeguate le soluzioni dell’economia classica e di quella socialista, non è stato superato neppure dai tentativi compiuti, specialmente in questi ultimi de¬ cenni, per la costruzione della cosiddetta economia nazionale o di Stato (la Volkswirtschaft o Staats- wirtschafi dei Tedeschi). Anche quando tali tenta¬ tivi non si sono ridotti a concepire la vita della Na¬ zione come la somma delle vite dei singoli indivi¬ dui, e si è voluto invece considerare l’organismo so¬ ciale con caratteristiche e finalità proprie, l’econo¬ mia pubblica è rimasta sempre accanto all’econo¬ mia privata e la necessità della loro assoluta iden¬ tificazione non è stata mai dimostrata, né da socio¬ logi né da nazionalisti. I sociologi, infatti, tutti com¬ presi dal compito di descrivere le varie forme della vita, si sono preoccupati soltanto di analizzare le diverse economie, dall’individuo alla famiglia, alla classe, alla Nazione ecc., di classificarle e di studiar¬ ne estrinsecamente i rapporti; i nazionalisti, poi, infatuati dall ideologia della Nazione, non hanno saputo far altro che ipostatizzarla come una realtà — 13 — superiore all’individuo, affermando in conseguenza la superiorità deireconomia nazionale e la subordi¬ nazione a essa di quella individuale. In entrambi i casi lo Stato è rimasto come una delle forme, sia pure la massima, della vita sociale; e l’economia ad esso relativa come una delle forme, sia pure la su¬ prema, delle possibili economie. E in tal guisa il — pensiero scientifico e andato oscillando dall’ideolo¬ gia anarchica del liberalismo a quella statolatria del socialismo e del nazionalismo, senza mai cogliere l’essenza del problema. Respinto a volta a volta dagli assurdi di uno dei due estremi, si è ritratto acriticamente dalle conseguenze ultime delle opposte concezioni,ed è al solito scivolato verso i mezzi ter¬ mini dell’eclettismo: il concetto di Stato è penetrato di straforo nei trattati deireconomia scientifica, e quello di individuo e di libera iniziativa nelle co¬ struzioni ideologiche degli statalisti. La soluzione integrale del problema è delinea¬ ta, se pur non ancora esplicitamente chiarita, nel- Tordinamento corporativo del regime fascista. Si tratta per ora di un’intuizione politica più che di vera consapevolezza scientifica, e anzi la lettera di alctine disposizioni legislative consacra ancora il dualismo di individuo e Stato. Nella stessa formula¬ zione della Carta del Lavoro, alcune espressioni di principi, e soprattutto il famoso articolo 9, legitti¬ merebbero le vecchie interpretazioni liberali e so¬ cialiste, di cui abbiamo discorso. « L’intervento del- — 14 — lo Stato nella produzione economica — dice infatti 1 articolo 9 — ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente 1 iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale inter¬ vento può assumere la forma del controllo, dell'in¬ coraggiamento o della gestione diretta ». Nulla di strano che questo articolo abbia pro¬ dotto i più svariati malintesi nell'interpretazione dell'economia corporativa. I liberali vi hanno visto a ragione la conferma delle loro dottrine, poiché gli stessi classici più ortodossi hanno sempre soste¬ nuto che, per motivi eccezionali o per superiori in¬ teressi politici, lo Stato può e deve intervenire nella vita economica del paese. 1 filosocialisti, insistendo sul maggior intervento statale che la Carta del La¬ voro promuove, 1 hanno legittimamente interpre¬ tata come un passo decisivo verso Tordinamento socialista. Gli eclettici hanno piaudito entusiastica¬ mente. illusi di veder consacrata la solita via dei mezzi termini. Gli economisti della cattedra, infine, hanno dato un'occhiaia distratta e hanno senten¬ ziato senz’altro che Teconomia corporativa non esi¬ ste, risolvendosi essa in una mera prassi politica contingente. E che Leeonoinia corporativa non esista par¬ rebbe, infatti, dimostrato dal fatto che i tentativi finora compiuti per defi nirla e sistemarla scientifi¬ camente hanno condotto alla riduzione del nuovo al vecchio n alle sterili soluzioni di compromesso tra liberalismo e socialismo. Mafortunatamente l’infe¬ lice esito dei tentativi è dovuto soltanto aU’inoppor- tuno zelo degli interpreti, i quali, per malinteso ossequio alla lettera, si sono lasciati sfuggire lo spi¬ rito più profondo della Carta del Lavoro e del fa- seismo in generale. L’imperfetta dizione dell'art. 9 fii spiega proprio per la mancanza di una sistema¬ zione scientifica del nuovo concetto dell’economia e gli interpreti avrebbero dovuto capire che la Carta del Lavoro, per il suo carattere rivoluziona¬ rio, costituisce un punto di partenza più che un punto dì arrivo, e che alla scienza spetta appunto il compito di rendere esplicita e sistematica quella visione che in essa è intuitiva. L’articolo 9, dunque, non può essere considerato come la chiave di volta e il criterio infallibile del sistema, sihbene come una delle proposizioni da interpretarsi e coordinarsi alla luce delle nuove esigenze. Le quali trovano piuttosto la loro esatta formulazione nell'articolo 1. per cui « la Nazione italiana... è una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato fascisla »: nell’articolo 2, per cui « il la¬ voro. solto tutte le sue forme intellettuali, tecniche e manuali, è un dovere sociale e soprattutto nel- 1 arlicolo 7, per cui « l’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse na¬ zionale, l’organizzatore dell’impresa è responsabile deH’indirizzn della produzione di fronte allo Sta¬ to )). È qui il motivo più profondamente rivoluzio¬ nario del fascismo, per cui si afferma l’identità so¬ stanziale di interesse pubblico e privato, di benes¬ sere dei singoli e potenza nazionale. Certo, nella Carta del Lavoro, questa identità alle volte si spezza e riappaiono i due termini dell’antinomia, ma al nuovo bisogna guardare e non al vecchio, con gli occhi ben intenti all’avvenire. Quando l’articolo 7 proclama il privato responsabile di fronte allo Sta¬ to della sua vita economica, vale a dire di ciò che per la tradizionale mentalità politica e scientifica 16 — si ritiene il più geloso attributo della sfera di arbi¬ trio dell’individuo, rende finalmente Fuorno citta¬ dino, lo trasforma in organo costitutivo dello Stato, e distrugge alla radice ogni differenza tra ciò che è privato e ciò che è pubblico. Il cittadino risponde di tutta la sua vita allo Stato cui appartiene, per¬ ché il fine della sua vita è quello stesso dello Stato; e, in quanto ne differisca, in quanto vi si opponga, o anche in quanto si presuma indipendente da esso, è illegittimo. Ma, perché Firnificazione della sfera pubblica e di quella privata sia effettiva e non illusoria, è necessario avere dello Stato un concetto heu più adeguato di quel che non abbiano i socialisti e. tanto meno, i liberali. Chi ritenesse che lo statalismo che propugna la Carta del Lavorosia sostanzialmente sullo stesso piano dell ideologia socialista non sa¬ prebbe poi come spiegare la riaffennazione della proprietà privata. Se questa non è una contraddi¬ zione vuol dire che Ira socialismo e corporativismo, e cioè tra queste due forme di statalismo, v’ha una differenza essenziale che occorre chiarire. E il chia¬ rimento dovrebbe già risultare da quanto è stato detto sul carattere burocratico dello Stato sociali¬ sta, concepito tuttavia come entità distinta dagli in¬ dividui. Il vero Stato è, al contrario, la stessa realtà dell’individuo e sì esprime quindi, non in partico¬ lari organi e istituti, sibbene nella vita stessa di ogni cittadino. La proprietà deve rimanere privata, per¬ ché essa è già assurta a finalità e caratteri pubblici con 1 elevazione del proprietario a organo costitu¬ tivo dello Stato. Credere che la proprietà da privata diventi pubblica solo se essa venga amministrata direttamente dallo Stato, significa identificare lo Stato con la burocrazia, e opporlo all’individuo; si¬ gnifica insomma arrestarsi all’ideologia liberale e socialista. Lo Stato per realizzarsi nella sua integrità non ha bisogno di livellare, disindividualizzare, annien¬ tare l’individuo e vivere della sua ^istruzione: al contrario esso si potenzia col potenziamento dell’in¬ dividuo, della sua libertà, della sua proprietà, della sua iniziativa, della sua peculiare posizione nei rapporti con gli altri individui. E tutto ciò è pos¬ sibile, in quanto 1 individuo non è più un mondo particolare e la sua libertà non si chiama più ar¬ bitrio, ma e individuo sociale che nella prosperità dell’organismo statale vede il proprio fine. I/indi- vidualisino del liberalismo e lo statalismo del socia¬ lismo sono superati, perché sono trasvalutati i ter¬ mini di individuo e Stato che avevano condotto ai due assurdi opposti. Avere coscienza precisa di tale trasvalutazione non è davvero cosa molto facile, soprattutto perché occorre vincere continuamente il pregiudizio tra¬ dizionale che ci porta a entificare lo Stato, a opporlo a noi stessi, a riconoscerlo soltanto in determinati organi e funzioni. La vecchia concezione intellettua¬ listica è ormai così radicata in noi e la stessa termi¬ nologia che siamo costretti a usare è così aderente al concetto dello Stato come personalità trascen¬ dente i cittadini, chenonci riesce agevole sfuggire a tutti i paralogismi del senso comune. E in siffatto modo si spiega l'accusa di metafisicheria che si vuole — 18 — rivolgere, anche da persone non sciocche, all’iden- tificazione di Slato e individuo. Ma bisogna resistere all apparente evidenza di queste critiche e persua¬ dersi che quando un concetto ha davvero fonda¬ mento speculativo è per ciò stesso il più pratico, e vale a risolvere anche quelle difficoltà di carattere tecnico, che invano si cercherebbe di rimuovere con i vaghi concetti del senso comune, se pur questi sembrino agli occhi degli inesperti i più precisi, i più certi, i più assiomatici possibili. Negate infatti questa metafisicheria che è l'identità di individuo e Stato, e vi accorgerete che, volendo precisare sul serio il concetto apparentemente lapalissiano dello Stato e dei suoi limiti, ogni definizione riesce ina¬ deguata. e quella che sembrava una salda realtà di¬ venta un nome senza consistenza. 11 concetto, dunque, fondamentale e sistema¬ tico dell economia corporativa è la statalità di tutti i fenomeni economici. Economia individuale ed eco¬ nomia statale sono termini assolutamente identici. Questa conclusione, così netta e perentoria, sembrerà paradossale e assurda a ogni economista che abbia tuttavia nel cervello i! più piccolo pregiu¬ dizio classicista e individualista: ma, per chiunque voglia riflettervi su, con mente aperta e con buona volonlà, dovrà pure apparire come la verità più lo¬ gica ed evidente. Le obiezioni che si possono sollevare sono prin¬ cipalmente due: Luna di carattere psicologico, la 19 — seconda in particolar modo tecnico-economica. Se¬ condo la più ovvia osservazione psicologica sembra che tra il mio interesse di privato e quello pubblico dello Stato vi sia non solo differenza, ma spesso op¬ posizione. Il cittadino, ad esempio, che investe in un modo piuttosto che in un altro i suoi risparmi, fa gli interessi propri, e le sue decisioni in proposito sono indifferenti allo Stato: il cittadino, poi, che cerca di sfuggire alle imposte fa gli interessi suoi e si oppone a quelli dello Stato. Ecco dunque due economie ben distinte e con finalità differenti: l’una individuale e l’altra statale. Senoncbé basta saggiare appena la fondatezza di queste opinioni per convincersi della loro superfi¬ cialità: e infatti è chiaro che il modo d’investire i risparmi dei cittadini non può essere indifferente allo Stato, perché non può essere indifferente allo Stato che l’indirizzo economico sia tino piuttosto che un altro, che certe industrie siano favorite o neglette, che le forze produttive siano armonica¬ mente finanziate: quanto poi airopposizione dì in¬ teressi individuali e statali che si verifica nel caso del cittadino che si sottrae alle imposte, è non me¬ no evidente ch’esso dimostra soltanto il lato abnor¬ me della vita economica e noii può essere assunta a criterio distintivo di due economie. Non si nega che il dualismo tra individuo e Stato esista, ma si vuole affermare ch’esso rappresenta l’aspetto nega¬ tivo e non quello positivo della vita sociale. Questa, nella sua essenza, importa l’unità dei due termini e può scientificamente studiarsi alla luce di tale uni¬ tà: il dualismo sempre risorgente — e necessaria¬ mente risorgente per la stessa dialettica della vita umana, che è perfezionamento e non perfezione — indica ii Iato patologico, l’ostacolo «la rimuovere, e insomma l’arbitrio fuori della legge e fuori della scienza. Cbi ipostatizza il dualismo e lo legittima facendone il fondamento di due economie, indivi¬ duale e statale, confonde il positivo col negativo, la legge con la sua infrazione, e costruisce infine due simulacri di scienza. L obiezione di carattere tecnico, che sembra legittimo sollevare contro l’assoluta identificazione di individuo c Stato, concerne la possibilità d’inter¬ vento dello Stato nell'economia individuale. Appa¬ re, infatti, evidente che, se lo Stato alle volte in¬ terviene a controllare, incoraggiare, gestire, ecc., e alle volte invece si disinteressa completamente, vuol dire eb’esso rappresenta una realtà diversa da quella su cui esercita il controllo: la possibilità dell intervento è la conferma ad oculos del dualismo. Eppure a una analisi più appropriata del pro¬ blema una simile rappresentazione dei fenomeni economici deve risultare fondamentalmente errata ed equivoca. Se infatti lo Stato non vien concepito in forma mitologica, come un organo o un insieme di organi sui generis, ma come la stessa Nazione nella sua organicità (giuridicità) essenziale, è chia¬ ro ch’esso non può intervenire perché è sempre presente, immanente in ogni manifestazione, sia pu¬ re la più trascurabile, degli individui costitutivi della Nazione. Si può intervenire negli affari degli altri, ma intervenire in quelli propri è cosa senza — 21 — senso. Ogni atto economico da me compiuto s’inne¬ sta nel sistema economico della Nazione cui ap¬ partengo (vedremo poi come nella Nazione entri anche il mondo internazionale) e risulta quindi da esso condizionalo, anche se nessuna particolare nor¬ ma lo regoli esplicitamente. Questa sistematica di¬ sciplina, per cui il mio atto economico si realizza nell’organismo statale, costituisce il così detto in¬ tervento dello Stato, il quale è, per ciò stesso, asso¬ lutamente sostanziale. Pensare che possa esistere un fenomeno economico che si sottragga a questa di¬ sciplina e che viva in un mondo extrastatale, è pen¬ sare l’assurdo. Fenomeni antistatali potranno es¬ servi, e saranno appunto gli atti di arbitrio dell'in¬ dividuo che si oppone alla disciplina statale, ina fe¬ nomeni extrastatali no, perché fuori dello Stato v’c il nulla. Da un punto di vista assoluto, dunque, è illo¬ gico parlare di intervento dello Stato. Ma dell’asso¬ luto — ci oppongono gli empirici — noi non ci oc¬ cupiamo: noi intendiamo spiegarci un fenomeno molto concreto e innegabile, e cioè quello dello Sta¬ to che pone un dazio, un calmiere, sovvenziona una industria e viadicendo: di uno Stato, in altre paro¬ le, che ha una personalità distinta da quella degli individui e che, come soggetto economico diverso, compie degli atti che gli individui non possono com¬ piere. E credono così, codesti empirici, di aver ta¬ gliato la testa al toro, senza accorgersi invece che di ogni problema non ci sono due soluzioni, una filo¬ sofica e lina empirica, una assoluta e una relativa, sibbene una soluzione sola e propriamente quella giusta. La quale, in questo caso, consistendo nell as¬ soluta identità di individuo e Stato, dà a quello Stalo 22 — di cui parlano gli economisti un significato molto meglio determinato ch’essi non pensino, e cioè il significato di una delle particolari espressioni della vita dello Stato. Nessuno si sogna di negare quella realtà di fatto che è lo Stato nell’accezione più co¬ mune del vocabolo: nessuno quindi pretende nega¬ re che esista un’amministrazione centrale con un bilancio proprio (il bilancio dello Stato), con fina¬ lità sui generis, e con fenomeni economici peculiari: si vuol soltanto affermare che questa realtà non è lo Stato, bensì uno degli elementi dello Stato, la cui vita effettiva è nell’organismo integrale della Nazione, ipostatizzare quell’elemento, e vedere sol¬ tanto in esso lo Stato, significa precludersi la via a un’intelligenza adeguata dei fenomeni economici. Gli empirici, al solito, potranno esserci indul¬ genti e concederci di aver ragione circa il modo di intendere il concetto di Stato: ma — essi continue¬ ranno a opporci — sia pure elemento lo Stato di cui parliamo, noi intendiamo discutere appunto di esso quando ci riferiamo al suo intervento nella vita economica. Senonché tale soluzione del problema sarebbe affatto illusoria, come quella che ridurrebbe a una questione di parole la più sostanziale delle questioni. Ammettere, infatti, che lo Stato di cui parlano gli economisti sia un elemento dello Stato e non esaurisca la realtà di questo, significa ricono¬ scere ch’esso è appunto elemento di un organismo dal quale non può scindersi, ovvero ch’esso è coes¬ senziale a ogni altro elemento dell’organismo me¬ desimo.Per tradurre questo concetto nei termini usua¬ li, è facile osservare che il bilancio dello Stato vive in un’unità indissolubile con la vita economica del- — 23 — la Nazione, sì che nessun fenomeno economico sfug¬ ge a un rapporto diretto o indiretto con esso. Quan¬ do lo Stato fissa un’imposta, non modifica soltanto l’economia dei colpiti dall’imposta, ma anche di quelli non colpiti: così quando lo Stato stabilisce un dazio protettore, non muta soltanto le condizio¬ ni dell’industria protetta, ma contemporaneamente quelle di tutte le altre. Ogni intervento dello Stato è globale. Credo che non vi sia ormai nessun economista che voglia contestare una verità tanto lapalissiana: ma purtroppo da essa non si è tratta ancora in ma¬ niera veramente esplicita la conseguenza inevita¬ bile, e cioè che lo Stato, per il fatto stesso di essere, interviene sempre; e che discutere quindi si può su questa o su quella forma di intervento, ma non sulla legittimità ed economicità deirintervento. Tutti gli infiniti tomi che si sono dedicati alla discussione del problema circa il valore economico dell’intervento statale, e tutta la secolare opposizione dei liberisti a ogni forma di intervento, riposano su un colossale equivoco, dipendente appunto dall’errato concetto di Stato. Discutere se sia lecito o no l’intervento dello Stato e nello stesso tempo riconoscere la ne¬ cessità del bilancio dello Stato —- vale a dire, per l’Italia, di un movimento annuo di decine di mi¬ liardi — è un assurdo che può non risultare sol¬ tanto alla cecità degli economisti puri. I quali non sanno quel che si dicano quando affermano che 1 i- deale della vita economica sarebbe quella della più perfetta libera concorrenza. Se una Nazione è tale in quanto è Stato, la libera concorrenza, quale è concepita dagli economisti, non solo non è raggiun¬ gibile, ma è negata nel modo più perentorio. Per — 24 — conseguire que! presunto ideale bisognerebbe spez¬ zare 1’organismo. negare lo Stato e tornare al cozzo violento dell’anarchia di natura. 11 progresso di una Nazione, al contrario, è segnato dalla sua organi- cita sempre maggiore, e cioè dalla sempre più con¬ sapevole realtà dello Stato; il quale, in conseguen¬ za, tende a diventare sempre più immanente alla vita degli individui e sempre più costitutivo di ogni loro manifestazione. L’intervento dello Stato, in al¬ tri termini — se ancora d’intervento può parlarsi — è di fatto, e tende a diventarlo anche nella co¬ scienza comune, la realtà stessa della vita econo¬ mica. E se la scienza dell’economia auspica il trion¬ fo dell ideale opposto, è troppo palesemente fuori di strada. Allorché la Carta del Lavoro, dunque, dice all’articolo 9 che « l’intervento dello Stato nella pro¬ duzione economica ha luogo soltanto quando man¬ chi o sia insufficiente 1 iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato»,parla, evidentemente, un linguaggio d’altri tempi. Se lo Stato interviene sempre, perché è sem¬ pre presente e i suoi interessi politici investono tutta la vita della Nazione con cui si identifica, è chiaro che tutta l’economia tradizionale deve spo¬ stare il suo centro di indagine e trasformarsi fin dalle fondamenta. Il suo problema era, infatti, quel¬ lo della libera concorrenza (economia individuale), e della convenienza o meno, in certi casi, dell’inter¬ vento statale (economia prevalentemente monopo* listica): oggi diventa quello delle forme statali del- l’intervento e della organizzazione dell’economìa, nazionale. 11 binomio di libera concorrenza e mo¬ nopolio non ha più significato, e i due termini si risolvono in uno solo, quello della unità organiz¬ zata della vita economica, in cui la stessa concor¬ renza viene disciplinata. Cade così l’argomentazione degli economisti, cbe affermano essere tutte le for¬ ine della vita economica riconducibili alle due sole ipotesi della libera concorrenza e del monopolio. La forma è unica ed è quella lìbera e monopolistica insieme, in un’unità tale per cui il concetto di li¬ bertà e quello di monopolio sono radicalmente Ira¬ sformati e resi inintelligibili in quanto distinti. Gli schemi non servono più perché non rispondono a nessuna approssimazione alla realtà, e sono anzi nella loro essenza opposti alla realtà. Liberi sono gli individui, ma nella Nazione, in questo colossa¬ le monopolio in cui la loro concorrenza si effettua: questa è la realtà a cui invano si opporrebbe il tradizionale dilemma. Né si creda di sfuggire a questa conclusione passando dall’economia nazionale a quella interna¬ zionale, poiché la Nazione non va concepita anti¬ storicisticamente come un’entità limitata dai suoi confini e, nei suoi rapporti con le altre Nazioni, alla stessa guisa dell’uomo di natura rispetto agli altri individui. La Nazione include in sé il mondo internazionale, e lutto ciò cbe costituisce la vita di questo mondo non ha altra sede appunto che nel¬ la Nazione, unità suprema di là dalla quale non esiste che l’unità astratta, perché non dialettica, del¬ l’umano genere. Il compito che si deve perciò pro¬ porre la scienza è, sì, la costruzione sistematica del- - 26 — 1 economia nazionale, nia intendendo questa come unità concreta ne] mondo internazionale, che non e, neppur esso, riconducibile alPideologia anarchi¬ ca del liberalismo, in quanto rientra nella discipli¬ na e nel sistema della Nazione. È al sistema che bi¬ sogna tener sempre fissi gli occhi, specialmente oggi che 1 organizzazione della vita economica sta in¬ cendo passi giganteschi e che, dinanzi al rapido pro¬ cesso di unificazione delle industrie, del commer¬ cio, dei mercati e delle banche, diventa sempre più anacronistico e irrisorio lo schematismo individua- listico della tradizionale economia pura. Riassumendo, possiamo ormai determinare i capisaldi della nuova economia, facendoli tutti de¬ rivare dal concetto fondamentale della statalità dì ogni fenomeno economico : 1) Subordinazione di ogni fenomeno econo¬ mico al fine statale (essenziale politicità o storicità dell’economia). 2) Interdipendenza dei fenomeni economici, considerata in funzione del fine statale ( sistematicità o organicità della vita economica). 3) Carattere pubblicistico della proprietà privata e della vita economica individuale. 4) Obiettività dei fenomeni economici data dall obbiettività del fine statale, e quindi loro intel¬ ligibilità scientifica, in contrapposizione alla sogget¬ tività dell individualismo (ofelimità). ■') Critica dei concetti di libera concorrenza — 27 — e monopolio, e affermazione di un’effettiva epiù profonda libertà economica (negazione del liberi¬ smo anarchico e del vecchio statalismo burocratico). 6) Carattere internazionale della Nazione e unità essenziale del mondo economico. Questa Veconomia corporativa o senz’altro la economia. Poiché è bene intendersi una volta per sempre, ed escludere perentoriamente quel mostruo¬ so tentativo di concepire la scienza economica come una forma astratta, da adeguarsi a una qualunque delle infinite ipotesi economiche. L’ipotesi è nna sola e, cioè, quella interpretativa dell’effettiva realtà sto¬ rica: il resto non è che fantasia di puristi, abituati a scambiare le formule con la vita. La scienza dell’e¬ conomia non può essere che una, perché una è la vita ch’essa studia: e non ha bisogno dì aggettivi. Quando contrapponiamo l’economia corporativa a quella liberale o socialista o nazionalista, non inten¬ diamo dichiarare una nostra preferenza rispetto a questi possibili sistemi economici, ma vogliamo pro¬ prio affermare la scientificità della prima rispetto al carattere ideologico ed arbitrario delle altre: l’ag¬ gettivo corporativa , che noi aggiungiamo all’econo¬ mìa, ha il solo scopo di distinguere la vera dalla falsa economìa, e non un’economia da un’altra. Che poi essa si chiami corporativa e non altrimenti, vuol dire non ch’essa si identifichi immediatamente — e perciò in modo contingente — con l’ordinamento corporativo, ma soltanto che in questo ordinamen- — 28 — lo la consapevolezza delle sue verità si è resa più esplicita ed evidente. Che lo Stato sia costitutivo essenziale della vita individuale non è verità che si instauri col regime corporativo, né è limitata alla vita politica deiritalia di oggi : ma mai come nel¬ l’Italia di oggi questa verità è stata esplicitamente affermata : mai si è concepita la vita economica na¬ zionale come un’unità così saldamente organica. L’epiteto di corporativa non è dunque arbitrario, né menoma comunque la dignità della scienza a cui si applica oggi ai soli fini polemici contro il libera¬ lismo, il socialismo, il nazionalismo ecc. Poiché, se 1 economia corporativa è senz’altro l’economia, Io stesso non si può dire, ad esempio, di quella pre¬ sunta economia pura che è la quintessenza dell’eco¬ nomia liberale. A chi, seccato della qualifica di libe¬ rale attribuita al suo metodo scientifico, ha prote¬ stato di volersi porre al di là dei particolari indirizzi e di voler fare solo della scienza, oggi è possibile da¬ re una smentila categorica. E la smentita suona così: — fino a quando sulla prima pagina dei trattati di economia non figurerà, a guisa di postulato fon¬ damentale, il concetto di Stato, sarà vano parlare di scienza e sarà stolto negare il preconcetto seco¬ lare del liberalismo individualistico. La scienza, abbiamo detto, è una: e tutti gli indirizzi scientifici dal mercantilismo alla scuola fisiocratica e dal liberismo allo storicismo, al so¬ cialismo, al corporativismo non sono che i momenti del suo unico processo storicamente determinato. L economia corporativa vuol rappresentare soltanto lo sladio più avanzato del processo, in cui tutti i precedenti debbono risolversi trasvalutandosi. A chi fosse troppo preoccupato del pericolo di subordi- — 29 — ilare la scienza a fenomeni politici contingenti, pos¬ siamo rispondere che la politica non profana la scienza quando a essa ci s’avvicini con la fede dello scienziato e non con l’anima del politicante. TI pa¬ vido si ritrae per falso pudore, e nega l'obiettività della scienza col volerla troppo salvaguardare: il ricercatore spregiudicato non teme, invece, di fissar gli occhi nella realtà di cui viviamo, e di scoprire l’eterno nel contingente. II L’IDENTIFICAZIONE DI INDIVIDUO E STATO La difficoltà maggiore, che si è incontrata nel¬ la comprensione della tesi dell’identità di indivi¬ duo e Stato, è derivata generalmente dal non aver approfondito i concetti di individuo e di Stato che si ponevano a fondamento del rapporto di identifi¬ cazione. È chiaro che. prima di discutere sulla va¬ lidità di tale rapporto, occorre rendersi conto del significato dei termini che siconfrontano, perché, se si suppone noto il significato stesso, si insiste evi¬ dentemente in quella concezione dell’individuo e dello Stato, che ha condotto, nello sviluppo storico del pensiero, airantinnmia da noi contestata. Stori¬ camente, vale a dire nel processo della attività spe¬ culativa come di quella pratica e politica, è certo che lo Stato si è configurato a guisa di un ente con¬ trapposto e sovrapposto all’individuo: e si è par¬ lato, quindi, di autorità di fronte a libertà, di sovra¬ nità di fronte a sudditanza, di arbitrio politico di fronte a interesse economico, e via dicendo. Lo Sta¬ to, insomma, era una sovrastruttura, sia pur neces¬ saria, della vita degli individui, e si esauriva nel compimento di particolari funzioni, dette appunto — 31 — statali. Ne derivava che lo Stato poteva individuarsi in determinati organi e in determinate persone, cui erano attribuiti determinati compiti, entro una sfe¬ ra esplicitamente circoscritta e non coincidente che in minima parte con la sfera d’azione degli indivi¬ dui. A questo Stato, così concepito, gli economisti negavano e negano tuttora la possibilità di un inter¬ vento benefico nella vita economica degli individui. Ed avevano ed hanno perfettamente ragione; così come hanno torto quegli altri economisti che, senza persuadersi del mutato concetto di Stato, accedono tuttavia ecletticamente all’opinione della possibi¬ lità benefica di un certo intervento statale nell’eco¬ nomia individuale. Se lo Stato trascende, sia pure ri¬ spetto a una zona soltanto, il campo d’azione del- l’individuo, esso non può non turbarne Tequilibrio ogni volta che vi porti un mutamento. Ammettere la possibilità di un intervento benefico, di un solo, di un transitorio, di un limitatissimo, del più pic¬ colo tra tutti gli interventi immaginabili, significa ammettere la possibilità che lo Stato alteri vantag¬ giosamente con quel suo intervento tutto il sistema generale dell’equilihrio economico della vita degli individui, e cioè faccia coincidere, non limitatamen¬ te all’oggetto del particolare intervento, ma nella totalità delle determinazioni, la propria realtà con quella degli individui. Se si vuol restare nell’ipotesi che Stato e individuo siano due realtà diverse, an¬ che solo parzialmente diverse, la conclusione logica non può essere che una, e precisamente quella del liberismo intransigente: lo Stato non deve interve¬ nire mai e per nessuna ragione; il suo intervento, implicando sempre un’alterazione dell’equilibrio na¬ turale, non può essere che nocivo. — 32 - Se non che la concezione storica dello Stato, che ha dato luogo a tali conseguenze nel campo del¬ la scienza economica, ha cominciato a modificarsi profondamente proprio quando, nella seconda metà del secolo XVIII, i classici dell’economia iniziava¬ no una sistemazione della loro scienza con la consa¬ pevolezza critica del carattere negativo di uno Stato trascendente. Sì che tutta la scienza dell economia si è venuta costruendo sul presupposto dell’antitesi di Stato e individuo, in funzione di quel concetto di Stato che rispondeva alla realtà storica anteriore al processo di trasformazione. E a poco a poco — quasi senza nessuna consapevolezza — si è giunti al paradossale risultato di uno svuotamento progressi¬ vo della scienza delFeconomia, svuotamento non do¬ vuto ad errore nella critica dello Stato trascendente, ma solo aU’illusione di credere ch’esso davvero esi¬ stesse e che esistesse perciò quell’individuo extra¬ statale, su cui la scienza aveva costruito il castello delle sue astrazioni. Il fondamento liberistico di tutta l’economia classica e della migliore economia contemporanea, e l’atteggiamento antistatale che l’accompagna, costituiscono certamente l’interna lo¬ gica e il principio sistematico di questa scienza: e possiamo aggiungere che, se lo Stato fosse quella realtà che gli economisti immaginano e se l’indivi¬ duo fosse quel soggetto economico che la scuola psi¬ cologica ha caratterizzato spingendo all’assurdo il concetto già implicito nelle teorie dei classici, la scienza dell’economia avrebbe raggiunto un grado notevole di perfezione, forse il più alto grado rag¬ giungibile sulla base di tali presupposti. Ma il guaio, o meglio la fortuna è che così quello Stato come qucll’individiio non esistono in realtà, e che col — 33 mancare dei presupposti si vanifica inesorabilmen¬ te tutla la costruzione faticosamente elaborata. È quell ìntimo anacronismo di principi e finalità che caratterizza la crisi della scienza economica con¬ temporanea, sia pure attraverso gli sforzi che da più parti si vanno facendo per superare -— in modo peraltro molto empirico — l'antinomia di cui si comincia ad avere coscienza. Né la colpa può at¬ tribuirsi completamente agli economisti, -se è vero che ancor oggi si stenta ad acquistare familiarità con i nuovi concetti fin nel campo più rigorosamen¬ te speculativo, e solo ìin'infima minoranza di gius- pubblicisti comincia a porsi con qualche precisio¬ ne problemi del genere. Tuttavia è tra gli economi¬ sti soprattutto che si nota la maggiore riluttanza ad occuparsi della questione, o addirittura l'ignoranza della sua esistenza : tra gli economisti che, per tra¬ dizione di specialismo scientifico, disdegnano di va¬ licare in qualsiasi senso gli arbitrari confini della loro scienza e credono di contaminare la purezza della economìa coordinandola con il processo della speculazione, della politica e del diritto. Si spiega perciò come essi possano tener fede dogmaticamen¬ te a concetti tanto controversi, accontentandosi di dar loro un significato empirico rispondente a pre¬ supposti teorici di altri tempi: si comprende infine come possa suonar loro strana, e anzi impertinente, la pretesa di chi chieda loro il significato dei con¬ cetti di Stato e di individuo. L’economista — essi rispondono — non pre¬ tende porsi e risolvere scientificamente questi pro¬ blemi; egli accoglie questi termini nel significato corrente e a tutti noto, e su essi costruisce i teoremi deH'economia. Che poi il significato corrente non 3 - Sunna — 34 — sia rigoroso e sia anzi suscettibile di critiche più o meno radicali, è questione cbe reconoinista non di¬ scute, perché relativamente indifferente alla sua scienza: a lui hasta richiamarsi con quei termini a una realtà di fatto riconoscibile facilmente da chiunque. ') E il ragionamento non farebbe una grinza se potesse esserci veramente un significato comune precisamente determinato dei concetti di Stato e di individuo, se, cioè, noi potessimo sul se¬ rio sostituire mentalmente a quelle parole una qua¬ lunque realtà di fatto a confini netti. Ma, al contra¬ rio, è facile accorgersi cbe. quando ciò si volesse fare con sincerità, ogni sicurezza vacillerebbe, e a poco a poco all’illusione della certezza subentrereb¬ be la certezza dell’illusione, i termini diverrebbero ambigui e la presunta realtà di fatto andrebbe allar¬ gandosi o restringendosi arbitrariamente fino a com¬ prendere tutto o a ridursi a un misero moncone. Sottigliezze — si obietterà ancora incredulamente, — questioni di lana caprina, da cui resta turbato soltanto chi è abituato a spaccare in quattro il ca¬ pello, ma che non possono preoccupare sul serio ehi guarda alla realtà nelle sue manifestazioni es¬ senziali: se tutti parliamo di Stato e c’intendiamo perfeLtamente, vuol dire che, in sostanza, sappiamo *) Questo è, in sostanza, l'appunto che mi fece il Gotitii nel eno (apporlo al Congresso di Bolzano (settembre 193(1). o Lo Sialo, si disse, non può intervenire in un dato momento, perché è presente sempre. Ma non bisogna prendere la parola intervento in senso di¬ verso da quello che ormai è di uso comune » (Il procedimento spe¬ rimentale dell’economia corporativa, in « Giornale degli econo¬ misti», otlohre 1930, pag, 8741. La risposta alle obiezioni del Gobbi dovrebhe risultare abbastanza chiara da lutto il contenuto di que¬ sto capitolo, che vorrei porre come pregiudiziale di ogni ulteriore discussione sulla validità dei principi della scienza economica. — 35 — tutti che cosa esso sia. o per lo meno che cosi crediamo che sia. Ebbene, a rischio di apparire banali, abban¬ doniamo per un momento il terreno più propria¬ mente scientifico della discussione, trascuriamo cioè le attuali controversie dottrinarie, e scendiamo an¬ che noi a quel senso comune cui ci richiamano pe¬ rentoriamente alcuni economisti, quasi avessimo perso il contatto con la terra per la velleità di cor¬ rere inutilmente per i cieli. Scendiamo, dico, a ra¬ gionare all ingrosso e a determinare su per giù que¬ sto comunissimo concetto dello Stato: vediamo, in¬ somma, se è possibile giungere a una conclusione pralica qualsiasi, che ci autorizzi poi a rimanere fedeli a ciò che gli economisti dicono quando parla¬ no di Stato e individuo, di intervento, di libera concorrenza, di monopolio, ecc. Se vi perverremo, se potremo comunque pervenirvi, ogni ragione di dissenso sarà tolta, e ognuno potrà proseguire in pace il suo cammino; ma se, per avventura, ciò non fosse possibile, bisognerebbe pure che gli econo¬ misti si decidessero ad affrontare tutte le conseguen¬ ze e a mettere cioè in discussione tutti i principi della loro scienza. Tra le diverse risposte che potrebbero darsi alla domanda: «che cosa è lo Stato?», credo che un economista finirebbe col preferire quella che si ricollegasse al concetto di bilancio dello Stato: Stato è 1 ente il cui bilancio si chiama appunto bi¬ lancio dello Stato. E sarebbe ima risposta precisa, — 36 — inequivocabile., perfettamente individuata nell’or- ganismo di un sistema scientifico, sì cbe ogni ulte¬ riore discussione sulla sua legittimità dovrebbe ap¬ parire inutile. Ma se gli economisti danno allo Sta¬ to questo significalo ristretto di amministrazione centrale, non è certamente a esso che si limitano quando parlano di intervento statale nell’economia individuale. Nessuno infatti crede di dover distin¬ guere l’intervento dello Stato strido sensu da quel¬ lo, ad esempio, della provincia, o del comune, o di un ente pubblico in genere: e nessuno pensa a un rapporto necessario tra intervento politico e bilan¬ cio dello Stato quando si stabilisce, ad esempio, lina riduzione del numero delle osterie. Ci deve essere, dunque, un altro criterio per determinare i confini di quella realtà cbe gli economisti chiamano Stato, e studiano in rapporto ai fenomeni della libera concorrenza. A tal riguardo, oggi Stato in Italia sono senza dubbio anche l’organismo corporativo e il partito nazionale fascista, che di gran lunga tra¬ scendono la particolare vita del bilancio statale, e da cui nessuno potrebbe senza arbitrio prescinde¬ re per spiegarsi l’attuale vita economica della na¬ zione. E dunque lo Stato si allarga necessariamen¬ te, anche se ci limitiamo a questa prima considera¬ zione empirica del problema, daH’ammiiiistrazione centrale a quella periferica, da pochi organi deter¬ minati a una molteplicità indefinita di poteri rego¬ latori. Sì che l’economista deve tornare a porsi il problema da capo e andare alla ricerca di un crite¬ rio comprensivo di questa più vasta realtà cui deve riconoscere la qualifica di Stato. Non più tecnicamente rilevabile attraverso un particolare fenomeno economico come quello del - 37 — bilancio statale, la distinzione di Stato e individuo deve a questo punto trascinare l’economista di là dai confini della sua scienza, e indurlo a ricercare nel campo del diritto e della politica quel concetto di Stato che gli è necessario per costruire scientifi¬ camente una teoria degli effetti economici dell’in¬ tervento statale. Lo sconfinamento è, al solito, in gran parte inconsapevole e la soluzione del proble¬ ma resta, nella letteratura della odierna scienza eco¬ nomica, affatto indeterminata ed equivoca. All’in- grosso si può dire che l’economista contrappone Stato e individuo intendendo contrapporre governo e governati. E anche questa distinzione potrebbe reputarsi precisa e perentoria, se fosse possibile in realtà individuare non arbitrariamente il concetto di governante; se fosse possibile, in altri termini, distinguere di fatto i governanti dai governati, os¬ sia la volontà e 1 azione economica dei governanti dalla volontà e dall’azione economica dei governa¬ ti. Se lo Stato, in effetti, è sinomino di governo, l’in¬ tervento statale non potrà concepirsi se non come quello esercitato da un’autorità governativa, ma, anche qui, nessun economista può essere tanto in¬ genuo da identificare tale autorità con la persona del sovrano e con il gabinetto. Anche qui è neces¬ sario scendere dal governo strido sensu al potere governativo esteso a tutte le autorità centrali e pe¬ riferiche, da quelle dei ministri a quelle degli enti locali, delle federazioni, dei sindacati, del partito, ecc. E il problema di nuovo si allarga in modo in¬ definito, senza che alEeeonomia sia possibile em¬ piricamente raggiungere i limiti dell’attività gover¬ nativa e degli uomini che la impersonano. Di gerar¬ ca in gerarca si scende tutta la scala dell’ organismo 38 — sodale, senza die sia mai possibile arrestarsi e tro¬ vare sul serio l’individuo che sia governato senza governare. Quando anche si sia scesi fino al fondo della scala e si sia raggiunta la massa degli indivi¬ dui che sembra non abbia altro compito sociale se non quello di lavorare e di obbedire, si deve pur riconoscere, e lo Stato moderno lo riconosce di fat¬ to, che la massa stessa si articola, si eleva, si spiri¬ tualizza e fa cioè sentire la sua volontà. In quanto essa è qualche cosa nel mondo sociale, è azione, e cioè governo, così come lo stesso ordinamento giu¬ ridico riconosce allorché a essa affida il compito di votare, vale a dire di porsi a tu per tu con la supre¬ ma autorità governativa, e riconoscerla o discono¬ scerla, darle o toglierle il governo, e quindi condi¬ zionare e disciplinare tutta l’azione governativa. Governo e governati vengono perciò a fondersi nel circolo della vita polìtica, e gli ultimi toccano i pri¬ mi, in un organismo unico armonicamente costitui¬ to. Quest’organismo, che tutti li comprende e che si esprime in una volontà unica, è appunto e sol¬ tanto lo Stato, con il quale l'individuo, in quanto animale sociale, non può non coincidere assolu¬ tamente. A questo nuovo concetto e a questa nuova real¬ tà dello Stato, per cui l’antinomia di Stato e indi¬ viduo si è venuta via via risolvendo, si è pervenu¬ ti a traverso un processo storico che qui non è il caso di illustrare in modo particolare. Basti dire ch’esso è il processo dello spirito umano, del pen¬ siero del secolo XÌX e dei primi decenni del XX, 39 — della critica della vecchia trascendenza e dell’ul- tima sua forma concretatasi neìl’individualisino il¬ luministico : è il passaggio del liberalismo dalla sua forma irrazionale e anarchica a quella organica e disciplinata, è il trasformarsi dell’opposizione più o meno radicale all’autorità e alla realtà dello Sta¬ to nel riconoscimento del suo universale valore im¬ manentistico. Naturalmente le fasi dello sviluppo non si possono individuare con facilità e anzi di esse non è dato aver coscienza, se non quando si sia pervenuti alla piena comprensione dei risultati rag¬ giunti: sono fasi riconoscibili solo dall’occhio esper¬ to del cultore di studi storici e filosofici, che sa ri¬ salire alle fonti del nuovo orientamento speculati¬ vo e determinarne la necessità logica, ragione del- rineluttabile shocco nella vita pratica. E allo sto¬ rico solo è, quindi, consentito di volgersi con piena consapevolezza alla presente realtà politica per adoperare in senso non occasionale termini ed espressioni relativi a un’esperienza anch’essa non occasionale. Quando si parla, non ciarlatanesca¬ mente, di economia corporativa, non s’intende par¬ lare né di una speciale forma di economia relativa a una contingente esperienza politica, né di una esperienza politica arbitraria da ordinare scientifi¬ camente. S’intende, invece, riconoscere storicamente e scientificamente un ulteriore sviluppo della scien¬ za economica, ossia l’erroneità di certi suoi presup¬ posti e la necessità di sostituirli con altri: e s’inten¬ de, insieme, riconoscere la razionalità di uno svi¬ luppo politico, dovuto agli stessi motivi spirituali dello sviluppo scientifico e tutt’uno con esso. Stato corporativo ed economia corporativa sono, in altri termini, frutti imprescindibili dello spirito moder- — 40 — no ed espressioni del massimo livello da esso rag¬ giunto : qualunque sia la forma clic verrà assumen¬ do 1 idea eorporativa, è eerlo che essa, per il su¬ periore concetto di Stato che rappresenta, informe¬ rà tutta la scienza e la politica deH’avvenire. Ma perché la previsione non riesca fallace è necessario saper discernere bene ciò che vi ha di essenziale nel movimento corporativo, e non con¬ fondere la sua realtà positiva con le particolari for¬ me, con i molteplici tentativi e anche con le inevi¬ tabili deviazioni della complicata prassi politica. Il che vuol dire che non bisogna considerare i fatti nella Ioto immediatezza indistinta, bensì valutarli alla stregua di un criterio storico che ne spieghi la necessità logica. Se essi sono frutto della storia non possono intendersi se non attraverso la storia, os¬ sia attraverso lo sviluppo del pensiero che nella storia si esprime, e debbono essere avviati verso quegli ulteriori ideali che sorgono dalla consapevo¬ lezza storica e scientifica. Allora l’idea corporativa può venire sul serio individuata e resa intelligi¬ bile, cioè elevata alla considerazione scientifica, non a titolo di nuovo oggetto di studio, ma come ra¬ gione interna dello stesso processo scientifico. Allo¬ ra l’idea corporativa esce dalla vaga formulazione propria di un’esperienza politica in rapidissimo movimento e si riconosce in una verità storica che è frutto di una secolare elaborazione dottrinaria e pratica : l’identità di Stato e individuo. Ora, se guardiamo all’ordinamento corporati¬ vo da questo superiore punto di vista, dobbiamo convenire che il suo effettivo significato storico sta appunto nel tentativo di rendere sempre più con¬ creta l’organicità statale della vita della nazione, e 41 — cioè di rendere lo Stato sempre più immanente alla vita dell’individuo. Nel regime corporativo lo Stato è destinato a perdere la caratteristica di un ente tra¬ scendente, a non contrapporsi, cioè, agli individui che sono soggetti alla sua autorità, ma ad estendere via via i propri confini scendendo dal vertice alla base e ricomprendendo senza residui tutta la realtà sociale. L’autorità dello Stato non è più una disci¬ plina che si impone ai cittadini dall’esterno, ma è la stessa disciplina con cui lo Stato si organizza nel suo interno: poiché nella corporazione si incontrano di fatto Stato e individuo, e reciprocamente si tra¬ sformano in un rapporto dialettico che dà significato a entramhi i termini. Cosi nel diritto come nell’eco¬ nomia rincontro, naturalmente, si esprime con la identificazione progressiva del pubblico e del pri¬ vato, e basta guardarsi intorno per convincersi del¬ la radicale e rapidissima trasformazione die questi concetti vanno subendo in tutti i rapporti della vita sociale. Parlare oggi, ad esempio, di proprietà pri¬ vata, senza riconoscere anche ad essa un sostanziale carattere pubblicistico, è un assurdo che risulta evi¬ dente a ogni giurista non fossilizzato. E, se dal con¬ cetto base della proprietà scendiamo agli altri infi¬ niti che a esso si ricollegano, tanto dal punto di vi¬ sta giuridico quanto da quello economico, è facile ac¬ corgersi che tutti acquistano un significato statale al quale nella realtà non possono sottrarsi. Costi, prez¬ zi, salari, iniziative, imprese, banche, negozi, com¬ merci, ecc., tutto è ormai, non solo implicitamente come sempre, ma anche con progressiva consapevo¬ lezza ed esplicita volontà, subordinato a una disci¬ plina statale di cui sarebbe assurdo voler segnare i confini. Ed è proprio questa impossibilità che or- mai rende chiaro, anche sul terreno della realtà politica, il progressivo svuotamento delle locuzioni tanto abituali nella letteratura della vecchia eco¬ nomia. Che cosa può mai significare oggi intervento statale nell economia individuale, quando si è reso esplicito anche ai più ciechi che non esiste alcun atto economico che non sia condizionato dall’or- ganisnio statale? Finché lo Stato si personificava in un ente e si esauriva nell opera di una burocrazia, esso poteva intervenire in una realtà che era fuori dell ente e della burocrazia: ma oggi che Io Stato non è, neppure in apparenza, un ente, né si limita a una huroerazia, perché si estende attraverso la vita sindacale a tutti gli individui, oggi finalmente è scomparso il soggetto stesso dell’intervento facendo scomparire con sé tutte le proprie particolari ma¬ nifestazioni. Per chi continuasse a sorridere scetticamente sarà opportuno portare un esempio molto noto: quello del calmiere. Non so se molti hanno riflet¬ tuto sulle vicende che ha subito il calmiere in Ita¬ lia in questi ultimi anni: a chi non lo avesse fatto e si domandasse 6e oggi in Italia esistono tuttavia dei calmieri, dovrebbe apparire chiara una sola ri¬ sposta e cioè che oggi in Italia la parola calmiere non ha più significato, è diventata anacronistica e ha seguito la sorte di quella concezione politica ed economica che il fascismo viene liquidando. An¬ cora fino a qualche anno fa si parlava di bardature economiche e della necessità di sopprimerle, an¬ cora si contrapponeva l’intervento alla libertà e si discuteva quindi sulla legittimità o meno dei cal¬ mieri. Oggi la questione è superata, non risolta né nell’uno né nell’altro senso, ma vuotata di conte- — 43 — mito attraverso la consapevolezza acquisita dell’as¬ soluta unità della vita economica italiana. Che si¬ gnificato dar piu alla parola calmiere quando in po¬ chi giorni prezzi e costi sono mutati in tutto il paese in virtù di una sola parola d’ordine? Quando con¬ tratti collettivi, stipendi, salari, prezzi di vendita all’ingrosso e al minuto, ecc., sono tutti legati da una ferrea disciplina nazionale? Che non è, si compren¬ de bene, una disciplina arbitraria e quindi antigiu¬ ridica e antieconomica, ma, almeno nella sua realtà migliore, il disciplinarsi stesso, e dairinterno, della vita economica d^l paese vista in funzione di un unico fine statale^ È lo Stato che coincide con l’indi¬ viduo e lo risolve nella propria organicità : è l’indi¬ viduo che vede nello Stato la sua ragion d’essere e lo risolve nella propria volontà. La tesi dell'identità di Stato e individuo, che teoricamente e storicamente si è venuta delineando, può ancora andare incontro — come si è già accen¬ nato — a una obiezione di carattere empirico, fon¬ data sulla constatazione di un reale contrasto tra l’attività e le finalità economiche dell’individuo e quelle dello Stato. È vero — ci si può opporre e ci si oppone in effetti da più parti — che in teoria, ossia, idealmente. Stato e individuo coincidono, ma nella concreta vita sociale è pur vero che l’opposizione o almeno la differenza c’è, e con il suo solo esserci non può non smentire la teoria. O voi dunque — si continua — vi contentate di restare in un’atmosfera — 44 — di pura idealità io cui la teoria si esaurisce com¬ piutamente in se stessa, e allora potrete avere an¬ che ragione: o voi invece volete che la teoria si ade¬ gui alla realtà e serva ai suoi fini, e allora dovete riconoscere che la vita è radicalmente diversa da quella che voi andate teorizzando. Nel primo caso fate una metafisica, nel secondo lina cattiva economia. Prima di rispondere esplicitamente a questa obiezione, sarà opportuno ricercare le ragioni effet¬ tive del contrasto indubbiamente esistente e sempre risorgerne nella vita sociale tra fine pubblico e fine privato. Tale contrasto — diciamo anche noi — c’è e sarebbe stolto negarlo o porlo comunque in dub¬ bio, tanto evidente esso è nella vita di ogni giorno e nella coscienza intima di ognuno di noi. Se diminui¬ scono gli stipendi e io sono uno stipendiato, posso logicamente convincermi della necessità e quindi dell’utilità economica nazionale della riduzione, ma, se mi fosse lecito sottrarmi alla legge comune, e ot¬ tenere che il mio stipendio sfuggisse al provvedi¬ mento generale, con molta probabilità sarei lieto dell’eccezione e agirei perché essa si verificasse. Il che vuol dire che in realtà tra il mio fine indivi¬ duale e quello stalale c’è un contrasto esplicito e che l’agire economico mio non è identificabile con quello dello Stato. Ma se così è, non bisogna tuttavia arre¬ starsi al riconoscimento e occorre spiegarsi la con¬ traddizione Ira ciò che sarebbe logico e ciò che è reale. E basta appena porre il problema in questi termini per accorgersi che la ragione dell’indiscu- libile fatto è appunto contraria alla logica, è essen¬ zialmente. profondamente illogica. Il contrasto, in altri termini, c’è, ma è dovuto a una deficienza, a — 45 — una negatività; esso rappresenta il lato patologico dell’effettiva realtà sociale, ossia l’elemento disgre¬ gatore e non quello unificatore della società. Se poi volessimo renderci conto della radice del male e ricercare in'quale dei due termini del rapporto Stato-individuo si verifica la ragione del contrasto, dovremmo riconoscere che non a uno solo di essi può limitarsi la colpa, poiché a fon¬ damento di entrambi è sempre una attività umana suscettibile di degenerare nelFegnismo antisociale, l’identità si spezza o almeno si attenua ogni volta che l’individuo si fa diverso dallo Stato: ogni volta insomma che lo Stato diventa sopraffattore o che l’individuo diventa ribelle. Alcune brevi osserva¬ zioni potranno chiarire il duplice modo del sorgere dell'antitesi. E cominciamo dallo Stato, contro il quale ge¬ neralmente si appuntano le critiche degli economisti, insofferenti del contrasto soltanto quando l’azione statale ne sia la fonte. Chi può negare un qualsiasi fondamento alle critiche dei liberisti contro gli in¬ terventi dello Stato nel campo dell'economia indi¬ viduale? E se non è possibile una negazione pe¬ rentoria, come si spiega il verificarsi di interventi dannosi e antieconomici? Per rispondere in modo scientificamente esatto bisogna convenire che l’azio¬ ne economica statale è nociva soltanto quando lo Stato non è veramente tale, e cioè quando rinnega la sua realtà universali zzatrice e si parti eoi arizza in determinati individui o in una determinata classe. Il modo, poi, in cui il particolarizzarsi dello Stalo può effettuarsi è duplice, a seconda che lo Stato si differenzia dalla nazione per ignoranza o per inte¬ resse. Nel primo caso lo Stato — o, per non equi- — 46 vocare, il governo in senso stretto, o, meglio ancora, gli individui che lo impersonano — interpreta ar¬ bitrariamente la volontà della nazione e agisce in senso antieconomico perché rompe l’organismo so¬ ciale, imponendo una volontà affatto individuale, disgregatrice di quella universale. È il governante che vuole agire per lo Stato, ina che in effetti opera contro lo Stato per l’incapacità di dare valore uni¬ versale alla propria volontà. Nel secondo caso, in cui il governante agisce per interesse proprio, non solo manca la capacità di universalizzarsi e di assurgere veramente a Sta¬ to, ma c è addirittura la volontà di particolarizzatsi anteponendo dolosamente la propria individualità allo Stalo. È il caso del tiranno o della classe diri¬ gente che abbassa la nazione a strumento dei propri fini particolari. Ora, è chiaro che tanto nel primo quanto nel secondo caso la tesi dell’identità d’individuo e Stato, lungi dall essere scossa e compromessa, è lumino¬ samente confermata nella sua assolutezza. Il duali¬ smo infatti è possibile in entramhi i casi non per la contemporanea esistenza di due realtà distinte che sarebbero l’individuo e lo Stato, nia per la inesi¬ stenza di una vera volonlà statale. Sono individui (Stato) che si contrappongono a individui (sudditi) in un contrasto anarchico di fini particolari: l’unità di individuo e Stato non può effettuarsi, perché inanca quella realtà universale in cui i due terniini debbono incontrarsi e sintetizzarsi; manca — rigo¬ rosamente parlando — lo Stato. E l’individuo si oppone allo Stato non perché veda in esso uno vo¬ lonlà e un fine universali contrastanti con la propria volontà particolare, ma solo perché vi scorge una — 47 volontà anch essa particolare che non ha alcuna ragione intrinseca di prevalere. Queste stesse osservazioni, fatte per dimostrare 1 origine patologica del dualismo di Stato e indivi¬ duo, valgono, presso a poco negli stessi termini, per il caso che la colpa di esso debba attribuirsi all’in¬ dividuo. È vero che 1 individuo spesso concepisce il proprio fine e il proprio interesse come contrastanti con quelli dello Stato, ma la ragione va trovata an¬ che qui o nell'ignoranza del valore del fine statale o nella volontà di sopraffare lo Stato abbassandolo a strumento del proprio interesse particolare e vio¬ lentando la volontà degli altri individui. In entram¬ bi i casi la sua condotta non si spiega con l’esistenza di due realtà distinte: individuo e Stato, ma solo con la negazione di uno dei due termini. È rindividuo che non riconosce lo Stato. Se per poco lo riconosces¬ se, se ne ritenesse giustificata l’esistenza e lo sentisse come valore da difendere, diverrebbe sua preoccupa¬ zione quella di conformare la propria volontà alla volontà dello Stato, di coordinare cioè il proprio mondo con quello dello Stato in un'unità superiore in cui i due termini si risolvessero. E insomma an¬ cora una volta si deve concludere che se di Stato può propriamente parlarsi, se lo Stato non è un nome ma una realtà effettiva, esso non può che coincidere con l’individuo. L’antinomia sussiste e sempre sussisterà, ma come il male nel processo dello spirito, vale a dire come la volontà di negare ciò che ha valore uni¬ versale, di sopprimere o di menomare lo Stato. Forse neppure dopo l’analisi del contrasto tra Stato e individuo possono ritenersi definitivamente combattute le obiezioni che si fanno alla tesi della identità dei due termini. Ebbene — ci si potrebbe ancora dire — sia pur giusto quanto voi sostenete e sia pur vero che il contrasto denota soltanto la man¬ canza o la menomazione della realtà dello Stato, ma intanto, comunque, il contrasto c’è ed è fonda- mentale, sì che da esso non è lecito prescindere, sen¬ za abbandonare la realtà concreta e smarrirsi dietro un utopistico ideale. Noi dobbiamo fare la scienza della vita quale essa storicamente ci si presenta, e non quella di un mondo astratto, fosse anche il più celestiale dei mondi possibili. A evitare ogni timore di tal sorta potremmo richiamarci al carattere radicalmente storicistico del nostro assunto: nessuno più di noi può aver l’in¬ tenzione di aderire alla realtà e di trovare in essa e soltanto in essa la norma scientifica. E perciò sarà opportuno dichiarare senz’altro perentoriamente che nessuno più di noi è convinto deH’esistenza del contrasto; che nessuno più di noi è disposto a rico¬ noscere l’impossibilità dell’eliminazione totale, sia pur fantasticata nel più lontano futuro, del contrasto stesso. L’antinomia c’è e sempre risorgerà, perché essa è nella dialettica della vita, sì che sopprimerla davvero per sempre significherebbe sopprimere con essa la vita. La quale non è perfezione ma processo I ; di perfezionamento, e perciò non identità statica dì individuale e universale, vale a dire non conquista definitiva del valore, ma sforzo continuo di adegua¬ mento dell’individuale all'universale, ossia conqui¬ sta di valori sempre più alti. Per adeguarsi allo Sta¬ to l'individuo deve vincere se stesso, superare la propria particolarità, dominare gli impulsi, rinun¬ ciare all’arbitrio, disciplinarsi insomma attraverso una serie di sforzi, in cui il dualismo riaffiora continuamente e non può mai dirsi risolto per intero. Ma se questa è legge di vita, anzi la vita stes¬ sa nel suo svolgimento, occorre poi saper distin¬ guere entro il processo i due termini dialettici e non confondere il negativo con il positivo. L’individuo è veramente tale, è cioè una realtà positiva o un valore spirituale solo per quel tanto che riesce a universalizzarsi nello Stato: per quel tanto invece per cui resta al di qua dello Stato egli è non valore, irrazionalità, mero arbitrio disgregatore della real¬ ta sociale; è particolarità chiusa in se stessa e inca¬ pace di divenire comunque termine di rapporto, lira, è chiaro che un soggetto il quale sfugga alla possibilità di un rapporto con gli altri soggetti — se non sfuggisse, la sua particolarità sarebbe con ciò «lesso superata, e quindi l’ipotesi negata — è asso¬ lutamente negativo, ossia assolutamente inintel¬ ligibile. Volerlo considerare oggettivamente, fa¬ cendolo assurgere a contenuto di scienza, è im¬ presa tanto disperata e assurda, quanto quel¬ la di voler fare scienza dell irreale: e purtroppo in questa assurda fatica si è cimentata finora la scienza dell’economia per quel tanto per cui ha vo¬ luto tener fede ai suoi presupposti e assumere veste ^ • SniJTtì 50 — sistematica. 11 così detto homo aeconomicus è ap¬ punto l’ipotesi astratta dell’individuo visto, non in un particolare aspetto della sua attività di uomo — come erroneamente è stato ritenuto dagli econo¬ misti —, bensì nella mera negatività del soggetto considerato come particolare. Esso, dunque, non è un’ipotesi scientifica — per astratta cbe la si vo¬ glia pensare — ma proprio l’ipotesi negativa della scienza: se esistessero di fatto gli homines aecono¬ mici, il loro agire, per definizione, non sarebbe su¬ scettibile di sistemazione scientifica. Per quel tanto, invece, per cui l’uomo entra in rapporto con gli altri e supera la propria parti¬ colarità nell’opera di collaborazione, per quel tanto appunto esso diventa intelligibile e logicamente considerabile. La sua azione trascende, infatti, l’ar¬ bitrio e si razionalizza, il suo procedere si discipli¬ na secondo norme determinate e la sua soggettività si risolve neH’organismo della vita sociale, nello Stato. Per quel tanto, insomma, per cui individuo e Stato si identificano, il soggetto economico — In Stato cbe è individuo o l’individuo che è Stato — diventa una realtà positiva, e l’azione economica diventa suscettibile di considerazione scientifica. O si fa scienza e si riconosce l’identità sostanziale dei due termini, o si ipostatizza l’individuo consideran¬ dolo positivo nella sua particolarità e si rinuncia alla scienza. Ogni via di mezzo è fatalmente desti¬ nata all’equivoco e all’errore. A illustrare l’argomentazione potrà forse valere un esempio tratto da altre discipline: la gramma¬ tica o la sintassi. Sono discipline cbe ci indicano le leggi del parlare e dello scrivere; leggi non fis¬ sate arbitrariamente, ma ritrovate nella realtà di coloro die parlano e scrivono. Se non che, così co¬ me nel rapporto tra individuo e Stato nella vita economica, anche qui l’individuo non si adegua sempre all universale della legge e comunemente sgrammatica. Anche qui il parlar secondo gramma¬ tica è un ideale che di fatto non è mai raggiunto, né sarà mai raggiunto; eppure a nessuno viene in mente di fare la grammatica dell’individuo e di porre a fondamento di essa l’arbitrio di parlare co¬ me si desidera. Se si vuol fare scienza occorre pur considerare l'elemento positivo e non quello nega¬ tivo: occorre cioè determinare l’universale in cui gl'individui convengono e non il particolare che non riescono a superare. Ora, la scienza deH’economia ha mirato proprio a fare la grammatica dell’indivi¬ duo, e, quando non è stata arrestata lungo la china dalla forza imperiosa della realtà, è precipitata ad¬ dirittura nell unica conseguenza possibile, quella dell ideale della libera concorrenza, che, mante? nendo ancora il paragone, vai quanto l’ideale del lihero parlare, ossia del parlare senza gram¬ matica. Mapotrebbe forse osservare a questo punto I economista a fondo positivisteggiante — noi non vogliamo indicare norme di vita. Noi vogliamo, cioè, indicare nella libera concorrenza non un ideale economico, ma un ipotesi economica : se si raggiun¬ gesse I ideale della lihera concorrenza quali feno¬ meni si verificherebbero? — ecco il problema. Eb¬ bene, rispondiamo ancora una volta, l’ipotesi non ha senso come non avrebbe senso lo sforzo del gram¬ matico che volesse studiare la grammatica di un ipotetico paese in cui ognuno parlasse un linguag¬ gio proprio. 0 la libera concorrenza ha una qual- siasi disciplina e si compone nella vita statale, e al¬ lora si può analizzare entro l’ambito di tale disci¬ plina; o la libera concorrenza è davvero l’incontro irrazionale di soggettività particolari, e allora non può essere cbe abbandonata a se stessa. Nelle osservazioni che precedono si è cercato di dare un concetto preciso della tesi dell’identità di individuo e Stato, e di mostrarne il carattere sto¬ ricistico, che la pone non a fondamento di una qual¬ siasi opinione scientifica, bensì come principio in¬ formatore necessario della nuova scienza economica, in quanto la si renda adeguata al livello speculativo e politico della vita contemporanea. A quali conse¬ guenze il nuovo principio conduca nella costruzione sistematica dell’economia non è possìbile illustrare se non costruendo appunto la nuova scienza; tutta¬ via deve già a questo punto risultar chiaro che le conseguenze non possono essere di carattere acces¬ sorio o particolare, ma tali da trasformare radical¬ mente la fisionomia della dottrina economica. Spo¬ stare il soggetto economico daWhomn cecoiwmicus, ossia dall’individuo particolare, all’individuo visto nella sua identità con lo Stato, significa mutare nb imis i concetti di valore, di utilità, di benessere, di bene economico, di ricchezza, di libera concorrenza, di monopolio, di intervento statale, ecc. : di tutti i concetti fondamentali, cioè, dell’economia quale si è venuta costruendo da secoli. Sarà una trasfor¬ mazione lunga e faticosa, e tanto più ardua quanto— 53 — piu ci si andrà avvicinando alla trattazione dei prò- blem, particolari, in cui è facile smarrire la coscien- za c ei presupposti e degenerare in un falso tecnici¬ smo. Ma sarà una trasformazione assolutamente ne- cessarla, alla quale converrebbe che aprissero fin da ora gli occhi quegl, economisti che si cullano tutta- via nella illusione di possedere leggi e teoremi di inoppugnabile certezza. BENESSERE INDIVIDUALE E BENESSERE SOCIALE Uno dei problemi fondamentali dell’economia, in cui la tesi dell’identità di individuo e Stato può Irovare la conferma del suo valore critico e rico¬ struttivo, è certamente quello del benessere. Preoc¬ cupazione costante della scienza è stata la ricerca delle condizioni necessarie per il raggiungimento del massimo benessere individuale e del massimo benessere sociale, e a questo supremo fine si può dire siano subordinate tutte le particolari teorie e indagini degli economisti, anche quando essi ri¬ pudiano come antiscientifico il concetto di disci¬ plina normativa. Se essi confrontano, infatti, le di¬ verse ipotesi economiche e ne studiano, sia pure astrattamente, le peculiari conseguenze, debbono avere, per il fine stesso che si propongono, un cri¬ terio di confronto, e debbono poter esprimere un giudizio comparativo di valore (economico). Vero è che Feconomista, a cui oggi si domandi se sia mi¬ gliore il regime di libera concorrenza o quello di monopolio, risponde di non potersi pronunziare in merito dovendosi limitare scientificamente a espor- — 55 — re 1 andamento dei fenomeni economici nei due casi indicati, ma è pur vero che tali fenomeni — presi almeno a uno a uno, — non possono chiarirsi e determinarsi se non in funzione di un concetto quantitativo (più o meno utile, maggiore o minore reddito, aumento o diminuzione della produzione, ecc.) che è implicitamente valutativo o normativo. Si potrà non concludere in favore dell’uno o del- 1 ahro regime, ma ciò dipenderà esclusivamente dal¬ l’impossibilità di sommare con esattezza tutti i prò e tutti i contro delle diverse ipotesi, non dal¬ la rinuncia a determinare i singoli prò e i sìngoli contro. Così, quando l’eoononiista afferma che la moneta cattiva scaccia la buona, condan¬ na, limitatamente al fenomeno preso in esame, la emissione di moneta cattiva, anche se poi, tenendo presenti altri fenomeni, riconosce che in determi¬ nati casi l’emissione di moneta cattiva possa essere necessaria. E deve allora risultare chiaro che la rinunzia dell economista a far diventare normativa la sua scienza va attribuita unicamente all’incapa¬ cità di una visione sistematica dei fenomeni eco¬ nomici e all impossibilità di decidersi fra regimi economici non bene determinati in tutte le conse¬ guenze. Un’economia veramente sistematica, seb¬ bene fondata su un principio affatto negativo, era 1 economia rigorosamente liberistica, che assumeva a fondamento logico della scienza la libera concor¬ renza e vedeva in essa l'ideale normativo della pras¬ si politica. Ma quando la negatività del principio si è andata a poco a poco rivelando anche ai più orto¬ dossi, il rigore sistematico si è affievolito e la scien¬ za è scivolata inavvertitamente nel frammentari¬ smo di indagini contradditorie. La ricerca è diven- — 56 — tata più complessa e meno dogmatica, e in tal senso sì è accostata maggiormente alla vita e alle esi¬ genze dello storicismo, ma, per l'incapacità di domi¬ nare il mondo in la] guisa allargato, è caduta in un relativismo scettico scientificamente disorganico e praticamente inutile e dannoso. Si che, se oggi ci 6Ì volgesse intorno e si domandasse agli economisti quale sia la strada da percorrere per giungere al massimo benessere individuale e a quello sociale, non si potrebbero ascoltare che risposte monche, indeterminate e, peggio ancora, evasive. Gli uni ci direbbero che il problema riguarda la distribu¬ zione e non la produzione, e tenderebbero perciò a convertire il problema economico in un proble¬ ma di politica economica, per lavarsene le mani e rimettersi al prudente arbitrio delluomo polìtico; allri ci risponderebbero che la soluzione teorica è sempre quella della lihera concorrenza, la quale in aslratto garantisce il massimo di ofelimità indivi¬ duale e SQciale: ma poi aggiungerebberoche tale soluzione teorica ha bisogno, per una quantità di ragioni determinabili o indeterminabili, di correttivi più o meno radicali; altri ancora distinguerebbero tra benessere individuale più propriamente econo¬ mico e benessere sociale, determinato, invece, da motivi in gran parte di natura extraeconomica : al¬ tri, infine, si smarrirebbero nella casistica del con¬ tingente e accumulerebbero risposte su risposte, senza venire a capo di nulla. Ma tutti poi eviterebbero di affrontare o sommariamente ri¬ solverebbero il problema fondamentale di determi¬ nare sul serio il concetto di benessere individuale e sociale, e quindi tutti si porrebbero nell’impos¬ sibilità di dare una risposta scientificamente rigo- — 57 — rosa. Poiché, al solito, l’incapacità degli odierni eco¬ nomisti di dar veste sistematica alla loro scienza sta proprio nel sorvolare sui presupposti della costru¬ zione e nell impelagarsi in una congerie disastrosa di questioni oziose o addirittura inesistenti, smar¬ rendo la nozione stessa del problema che pur si vuole affrontare. E perciò ancora una volta occorre fermarsi al limitare, e domandarsi con precisione che cosa vuol dire benessere individuale, che cosa benessere sociale, e che cosa infine il rapporto tra le due specie di benessere. Vediamo anzitutto quale significato hanno pre¬ teso di dare e quale significato hanno effettivamen¬ te dato al concetto di benessere gli economisti indi¬ vidualisti o liberali, nel tentativo più sistematico da essi compiuto per la soluzione di questo pro¬ blema. Vogliamo riferirei in particolar modo alla interpretazione soggettivistica del concetto di uti¬ lità, e quindi alla cosiddetta ofelimità massima indi¬ viduale e statale. Credo che, anche limitando a que¬ sta teoria la nostra indagine critica, nessun econo¬ mista vorrà accusarci di unilateralità, perchè nessu¬ no potrebbe sul serio affermare resistenza nella scienza economica contemporanea di una conce¬ zione più comprensiva del problema in esame. Con il concetto di ofelimità la teoria classica dell economia individuale ha raggiunto il massimo rigore che le era consentito. Se il soggetto econo¬ mico è 1 individuo singolo con finalità proprie estra- nee a quelle degli altri individui, la nozione oggetti¬ va di utile va necessariamente cangiata in quella soggettiva di ofelimo: nessuno potrà affermare in astratto Futilità di un bene, perché beni per se stessi utili non esistono, essendo la loro utilità in funzione dei gusti e dei relativi bisogni degli individui, L u- tilità di un bene varia perciò da indivìduo a indivi¬ duo da momento a momento della sua vita: quello stesso bene cbe oggi è al sommo delle mie aspira¬ zioni e cbe m’induee a sacrifici notevolissimi, può diventare domani affatto irrilevante e tale da co¬ stringermi addirittura a nuovi sacrifici per disfar¬ mene. Vano era dunque il tentativo dei vecchi eco¬ nomisti di determinare il valore dei heni e di spie¬ gare obiettivamente le ragioni della loro utilità: utile è soltanto Fofelimo, vale a dire ciò cbe ri¬ sponde al gusto contingente e arbitrario di dii com¬ pie la scelta economica. Tutta la cosiddetta economia marginalia ha preso le mosse da questo presupposto fondamen¬tale e si è trascinata fin qui nell'illusione — non sempre cieca e totale — che nel puro soggettivi¬ smo fosse tuttavia possibile alla scienza di porre un certo ordine, frazionando idealmente in unità ele¬ mentari i vari beni di un individuo e confrontando le unità ultime di ciascun bene tra loro. Se sog¬ gettivo è il concetto di utile, entriamo pure nell’ani¬ ma del soggetto e facciamo la sintesi delFeeonomia e della psicologia: così hanno pensato i più coerenti tra gli individualisti, giungendo infine alla conclu¬ sione alquanto lapalissiana che di veramente certo nella logica di ogni indivìduo non v’è che il biso¬ gno di procurarsi beni economici in quantità tali da rendere eguali le soddisfazioni procurate dalle uni- 0 — 59 — tà ultime dei diversi beni. Il ragionamento, a prima vista impeccabile, si è svolto in questi termini: se io vado al mercato a comprare pane e vino è chiaro che comprerò tanto pane e tanto vino da far coin¬ cidere il piacere che potrà procurarmi l’ultima parte del mio pane con quello che potrà venirmi dall’ulti¬ ma parte del mio vino. Se l’ultimo boccone del mio pane avesse per me maggiore o minor valore dell’ul- timo sorso del mio vino, la mia opera sarebbe illo¬ gica, perché rinuncerei senza ragione al massimo di utilità possibile, facendo acquisto di troppo vino o di troppo pane. Estendendo il ragionamento a tut¬ ti i miei beni e misurando la quantità di ognuno posso giungere a determinare il valore relativo di essi: posso cioè avere una nozione sperimentale del mio equilibrio economico. E se infine dalla mia persona passo a quella degli altri individui che for¬ mano la collettività, posso sempre sperimentalmente e oggettivamente giungere alla nozione di un equili¬ brio generale, che è tuttavia la risultante di molte¬ plici mondi assolutamente soggettivi. Si compie in tal guisa il miracolo della trasformazione di un’eco¬ nomia psicologica in un’economia matematica, e ciò che sembrava l’espressione di un arbitrio inaf¬ ferrabile e indeterminabile diventa elemento rigoro¬ samente determinato in una formula algebrica. Ma la matematica è in questo caso una cattiva consigliera e conviene aver la forza di resistere al suo fascino, per non essere trascinati in un mondo tanio più fantastico quanto più tecnicamente per¬ fetto. E dalle sue equazioni vogliamo per un istante ritrarre lo sguardo per ritornare all’mdividuo eco¬ nomico e vedere se tanta scienza possa comunque illuminarlo nel suo cammino e se, soprattutto, pos- ea comunque illuminargli la strada che gli altri individui percorrono con lui. Ora è chiaro che l’economia marginalista non può dare all’individuo nessun criterio orientativo nel mondo economico, poiché l’azione economica, qualunque essa sia, è sempre, per definizione, la migliore possihile. Se vado al mercato, compro quel hene, in quella quantità, e a quel prezzo che rispon¬ dono nel modo più infallibile all’unico criterio logi¬ co eh io possa in queiristante seguire: al criterio cioè del mio gusto e del mio bisogno. Fare libera¬ mente una cosa che non piaccia è evidentemente una contraddizione in termini, e se dunque fonda¬ mento dell’economia è l’ofelimità, ogni atto eco- mico, in quanto compiuto senza costrizioni, e ne¬ cessariamente perfetto. E se perfetto è ogni atto, perfetto sarà pure il sistema degli atti ossia tutta la vita economica, si che ogni individuo, che agisca lìberamente, non può non vivere lina vita rispon¬ dente al più allo ideale economico e non esser sem¬ pre nello stato del massimo benessere possibile. Se non che una perfezione così a buon mer¬ cato ha già dato qualche sospetto a taluno degli economisti più intelligenti e c’è stato chi, sia pure di sfuggita, dando uno sguardo più profondo alla vita del soggetto, si è accorto nientemeno che le ofe¬ limità marginali non sono confrontabili tra di loro, neppure nello stesso individuo e neppure nello stes¬ so istante. E poi si è notato che il marginalismo im¬ plica la possibilità per lo meno ideale di frazionare in unità elementari ogni bene economico e che in¬ vece tanti beni economici sfuggono necessariamen¬ te a tale procedimento. Obiezioni queste che, ag¬ giunte a molte altre, hanno cominciato a scuotere la — 61 — fede che dai pm si aveva nel rigore del principio escomi» \f a non tanto si sarebbe avvertita lL- surdita della posizione, se non si f osse tornali al p . aggio, dapprima inconsapevolmente ritenuto le- fanello* dall’equilibrio individuale a quello collettivo e cioè dal benessere del singolo a quello della società. Posto, infatti, l’individuo a centro del sistema, il massimo di ofelimità gene¬ rale non ai e potuto trovare che nella somma deimassimi delle ofelimità individuali, e allora logica¬ mente il p rmin problema è sparito, in quanto rias- ?.°. r lt0 Senza ^e ® 1 l du, nel secondo: ogni individuo ubero raggiunge il suo massimo e con ciò stesso rag- giunge la somma massima la società di cui egli fa parte. Al a scienza non resta da far altro che pren- der atto del migliore dei mondi possibili. Se la scienza volesse comunque uscire da que¬ sto suo atteggiamento dì completa passività di fron¬ te al problema del massimo benessere individuale e sociale, il primo scoglio contro cui i suoi sforzi do¬ vrebbero necessariamente infrangersi sarebbe quello del confronto tra il benessere di due individui di- yersi. Abbiamo già accennato allbbiezione di chi ha dichiarato inconfrontahili le ofelimità margina- h di due beni per uno stesso individuo, ma in quel caso si era tuttavia nell’ambito del soggetto econo¬ mico e la possibilità del paragone restava in qual¬ che modo suscettibile di discussione. Ma quando si tratta di confrontare il benessere di due individui e lo stesso presupposto psicologico soggettivista che nega a P” 01 ; 1 °8 ni senso alla ricerca ed esclude la possibilità di un qualsiasi risultato. E basta appena accennare a questa conseguenza della teoria per ac¬ corgersi che la presunta soluzione del problema è affatto verbalistica e vuota. Se dire massimo di be¬ nessere sociale vuol dire somma di massimi indivi¬ duali, questa somma deve pur concepirsi possibile e gli addendi debbono pur potersi confrontare. Ma confrontare vuol dire conoscere il rapporto quanti¬ tativo della soddisfazione che un medesimo bene procura a due persone diverse e tale rapporto è pur¬ troppo impossibile per definizione. Dunque? Dun¬ que il circolo vizioso èsenza uscita di sorta e occor¬ re impostare diversamente il problema. Né, d’altra parte. l’economista potrebbe rinun¬ ziare al confronto, attenendosi per astrazione a un tipo medio di uomo, che rendesse omogenei gli ad¬ dendi da sommare. In tal caso, infatti, l’unica so¬ luzione del problema sarebbe di eguagliare tutti i redditi individuali e di presumere in tal guisa rag¬ giunto il massimo benessere sociale. Il che, oltre tutto, sarebbe in netta antitesi con il criterio di li¬ bera concorrenza, che è a fondamento, assoluto o relativo, dell’economia marginalista. Ma il guaio peggiore di questa ingarbuglia- tissima situazione viene a porsi in evidenza allorché l’economista è costretto a passare dall’economia in¬ dividuale a quella della collettività (Stato, enti pub¬ blici, sindacati, società, ecc.) L’agnosticismo dello scienziato trova qui un limite assoluto ed egli non può più evitare di rispondere con precisione ai pro¬ blemi che scaturiscono dalla coesistenza delle due economie. Se lo Stato deve stabilire un’imposta, qua¬ li industrie e quali redditi colpirà e con quale cri¬ terio? È chiaro che il criterio economicamente non può essere che uno e cioè quello del massimo be¬ nessere sociale: ma intanto tale massimo può con¬ cepirsi solo in regime di libera concorrenza e Firn- posta è estranea per definizione a tale regime, e slugge necessariamente alla logica del suo sistema. imposta Sara scelta esclusivamente con criteri ex¬ tra-economici e l’economista, al solito, non solo non potrà dire la sua parola, ma non riuscirà poi in al¬ cuna maniera a misurare gli effetti di un imposta dal punto di vista del benessere sodale: egli non potrà, cioè, giudicare né a priori né a posteriori del¬ la bontà di un’imposta. Lo stesso ragionamento può ripetersi a propo¬ sito di qualsiasi intervento statale nella vita econo¬ mica del paese: anzi lo stesso problema dell’inter¬ vento acquista una nuova fisionomia e rende vanaogni attività dello scienziato in questo campo. Quan¬ do gli economisti si sono poco o molto allontanati dalla tesi rigorosamente liberista e hanno ammes¬ so la possibilità, in determinate condizioni, di un in¬ tervento statale economicamente vantaggioso, han¬ no dato, senza avvedersene, un colpo mortale alla teoria dell’ofelimità, rendendo oggettivo ciò che avevano perentoriamente affermato come soggetti¬ vo, e confrontando, sia pure in astratto e in linea di mera ipotesi, il benessere procurato da due si¬ tuazioni economiche diverse. 0 si tien fede al ca¬ rattere soggettivo della ofelimità e allora bisogna lasciare 1 individuo arbitro incondizionato della sua vita economica e giudice incontrollato del suo be¬ nessere; o si ammette, anche per un attimo e con ogni sorta di limitazioni, la confrontabilità delle soddisfazioni, e allora si deve rinunziare a costrui¬ re la seienza sul fondamento della scuola psicologi¬ ca. Ma intanto convien pure riconoscere, con i sog¬ gettivisti, che il benessere procurato da una sterlina a un povero è maggiore di quello procurato a un ricco e che, in tesi generale, uno stesso bene procu¬ ra soddisfazioni diverse a diversi individui; come pure bisogna riconoscere, contro i soggettivisti, che qualunque indagine relativa ai problemi economici implica inesorabilmente la determinazione obietti¬ va di un rapporto tra diversi stati di benessere: e ingomma è necessario concludere che tra soggetti¬ vismo e oggettivismo economico esiste un'antinomia radicale, sulla quale non si è fatta la debita luce, e che perciò rende infecondi tutti gli studi e i tenta¬ tivi compiuti dagli economisti per giungere a una costruzione veramente sistematica. Il problema che vien fuori dalle considerazio¬ ni precedenti è, dunque, quello di trovare un crite¬ rio con il quale superare Tantinomia di ofelimo e utile, ossia di soggettivo e oggettivo, e dare in con¬ seguenza un significato intelligibile e non contrad¬ ditorio ai concetti di massimo benessere individuale e massimo benessere sociale. La via da seguire deve essere naturalmente quella prescelta dagli stessi economisti che hanno posto la nozione di ofelimità a fondamento della scienza, vale a dire l’analisi psicologica del soggetto economico. E non sarà cer¬ tamente colpa nostra se i confini della particolare scienza economica saranno valicati, come non è sta¬ta colpa dei puristi che sono scesi su questo terreno, anche se oggi fanno la voce grossa a chi osa parlare di rapporti tra scienza e filosofia. La distinzione tra ofelimo e utile domina ormai tutta la scienza eco-— 65 — nomica e ne spiega 1 attuale struttura: se non si vuol dunque accoglierla come le colonne d’Èrcole dello scienziato, bisogna pur che i tecnici si abbas¬ sino a discuterla, lasciando per un poco di ammi- rare e perfezionare i maestosi castelli matematici che vi hanno fondato sopra. 3 ) La teoria soggettivista considera l'individuo economico, che fa una scelta, come dominato im¬ mediatamente da un gusto o da un bisogno che è quello che è: essa non si rende conto né si vuol render conto del perché di quel gusto, né del rap¬ porto tra un gusto e un altro dello stesso individuo. Vero è che di tale rapporto si parla quando si con¬ frontano tra loro le utilità marginali dei diversi be¬ ni acquistati da un individuo e si afferma ch’esse sono eguali, ma il rapporto si limita a una scelta economica puntualizzata in un dato momento della vita di un individuo e non vale in alcuna maniera a chiarire il passaggio da un equilibrio di gusti a un altro equilibrio di gusti, o, più semplicemente, da un gusto all altro. Inoltre, anche quando il rappor¬ to lo si supponga puntualizzato in una data scelta, esso non può tradursi in un’eguaglianza quantita¬ tiva se non attraverso Tarhitrio dello scienziato, per- che di fatto l’ofelìmità dei diversi beni non è con¬ frontabile dal soggetto, se per definizione questo si intenda dominato da una mera molteplicità di gu¬ sti. Per dosare un gusto e il bene atto a soddisfarlo è necessario rendersi conto di rapporti logici deter- v-u L V n S Ca de “ dlst,nzi .°. ne è stala da noi fatta nel saggio Tr ' r ?oi°n P * j 610 ’ m L, ‘ crltlca dell’economia liberale, Milano, re\es, Ì9ó0. Ad essa quindi rimandiamo il lettore che volesse ap¬ pio on ire. la questione: qui ci limitiamo a presupporla e inten¬ tino insistere invece sui criteri ricostruitivi cui essa dà luogo.* - — 66 — minabili con criteri che non possono ridursi al gu¬ sto stesso: in guanto semplici gusti, il gusto di un profumo e quello di un colore non sono confron¬ tabili. E fin qui è arrivato lo stesso Pareto. Se oggi vado al mercato e acquisto una deter¬ minata quantità di beni, in tanto posso far questo consapevolmente in quanto pongo un ordine nei miei gusti, e li determino e li graduo in una visione complessiva della mia vita. Così non mi abbando¬ nerò al primo capriccio cbe ini verrà in mente e non esaurirò il imo avere nella soddisfazione del primo bisogno apparentemente imperioso, ma va¬ glierò 1 oggi e il domani, i bisogni che mi è lecito soddisfare e quelli al cui appagamento debbo ri¬ nunziare, i capricci e i doveri, e insomm 3 mi spie¬ gherò la ragione dei miei gusti e agirò con la coe¬ renza logica che avrò saputo raggiungere. Sarà buo¬ na o cattiva la mia logica, ma pensare che i miei gusti possano guidarmi a caso, senza alcuna logica che li leghi, è pensare l’assurdo. Ma dire logica, significa già dire soggettività non immediata né irrelata: significa dire vita unificata e universale, significa vedere i miei gusti in rela¬ zione con quelli degli altri cbe con me vivono. Lungi daH’essere inconfrontabile, ogni mio gusto si spiega soltanto in funzione degli altri miei gusti e dei gusti degli altri, e nelPintimo della mia co¬scienza è un continuo confronto attraverso cui i miei gusti sorgono e si modificano. E vado allora al mercato e compero dei beni economici che servonoper me e per i miei, perché è anche un mio gusto e un mio bisogno che i miei soddisfino i loro gusti e i loro bisogni: e la mia scelta economica, allora, sarà certamente mia e in rapporto aH’ofelimità che — 67 — i diversi Leni per me rappresentano, ma io non sono più il soggetto che immaginano gli economisti, chiuso in una sfera assolutamente impenetrabile, bensì un individuo in rapporto ad altri individui e perciò attore di lina vita economica che si svolge in virtù di tale rapporto. Se poi cerchiamo di determi¬ nare meglio la natura del rapporto e di precisarne i limiti, ci accorgiamo ch’esso non solo lega la mia persona alla mia famiglia, ma anche agli amici, ai compagni di lavoro, alla classe, al paese e infine allo Stato in cui la mia vita si disciplina e sì potenzia. Nel mio agire economico, come in tutto il mio agire, mi propongo, dunque, un fine che è mio e che risponde ai miei gusti, ma questo fine non è ar¬ bitrario e si spiega solamente inquadrandolo nella vita dello Stato; sì che, se altro fosse lo Stato, altre sarebbero le condizioni di vita in esso esistenti, al¬ tri i gusti dei cittadini e altro, insomma, il fine che ciascuno di essi potrebbe porsi e in effetto si por¬ rebbe. Se io non sono un ladro o un farabutto, se cioè il mio agire economico non ha un valore ne¬ gativo, il fine che io ho in vista deve essere in ar¬ monia con quello dello Stato, e non perché lo Stato me lo comanda dall’esterno, ma perché la mia stessa vita individuale non ha significato senza lo Stato, e tanto più significato ha quanto più con lo Stato si identifica. Appena l’uomo supera la mera animalità e diffe¬ renzia i suoi gusti da quelli della fiera, sorgono bi¬ sogni che hanno un’origine affatto sociale: nessuno dei tanti beni economici che si son venuti creando nella storia dell’uomo sarebbe stato mai prodotto senza il fondamento della collaborazione. E collabo- rare vuol dire appunto tendere a un medesimo fine — 68 — e cioè avere un medesimo gusto e un medesimo bi- sogno. Se 1 utile economico fosse veramente l’ofeli- mo, nessun bisogno potrebbe soddisfarsi, che, se mi viene il gusto di avere un’automobile, h soddisfa¬ zione di esso mi è possibile solo in quanto lo stesso insogno e stato inteso dalla società in cui vivo e in cm esistenza delle automobili, perciò, si è resa pos¬ sibile. h S e, al contrario, l’utilità delle automobili rappresentasse soltanto una mia particolare ofeli- mita, nessuna forza al mondo potrebbe valere ad ap- pagare il mio gusto, perché nessuno coìlaborerebbe con me al raggiungimento del fine propostomi. An¬ che quando da me solo, estraneo a tutti, mi costruissi un oggetto atto a soddisfare un mio specialissimo gusto non potrei rinnegare la natura sociale di esso e porlo m rapporto al giudizio di approvazione o disapprovazione degli altri individui, che sono sem¬ pre presenti nella mia coscienza di uomo, nonostante il mio proposito di prescinderne assolutamente. So¬ no quel che sono in forza del processo storico che m me s individua, e la mia azione deve avere sem¬ pre il carattere di universalità che è proprio della stona. Utile e ofelimo coincidono nel modo più ri¬ goroso e 1 illusione della loro differenza può sor¬ gere soltanto considerando l’aspetto negativo del- I uomo che si oppone alla logica della vita, e quindi allo Stato che di quella logica è l’espressione con¬ creta. Ma in quanto si oppone alla logica, l’ofelimo, al solito, non può essere oggetto di scienza e resta a indicare il limite della scienza come il limite della vita. L antinomia tra soggettivismo e oggettivismo economico si risolve negando ogni positività al sog¬ gettivismo che non coincida con l’oggettivismo, e cioè al procedimento puramente arbitrario e irre- — 69 — lativo dell’individuo. I gusti e i bisogni di cui l’eco¬ nomista può e deve occuparsi sono quelli cbe si rendono intelligibili nell organismo della vita sociale e cbe rispondono quindi a finalità essenzialmente sociali: gli altri non sono veramente gusti né biso¬ gni, bensì piuttosto manifestazioni patologiche di un attività antisociale e vanno perciò considerati unicamente da questo punto di vista. Parlare in un Iratlato di economia dell ofelimo in quanto diverso dall'utile vai quanto occuparsi del furto o del ri¬ catto come mezzi razionali di produzione. Risolta l’antinomia tra individuo e Stato, ossia Ira ofelimo e utile, è possìbile tornare al problema del massimo benessere senza incontrarsi nelle diffi¬ colta che rendevano assurda ogni soluzione. Il con¬ cetto stesso di benessere si sposta dalla soddisfazio¬ ne del gusto immediato a quella di un gusto consa¬ pevole e logicamente determinato: il benessere non è più in relazione a uno stato naturale cbe va appa¬ gato per il fatto stesso di essere, ma in relazione a un fine da raggiungere e da far valere nell’organi- smn della vita statale. È quindi dallo Stato, e non dall’individuo in quanto concepito senza lo Stato, cbe occorre prender le mosse per intendere quale significato possa avere la ricerca del massimo be¬ nessere individuale e sociale. Non dallo Stato, tut¬ tavia, concepito come somma di individui, bensì dallo Stato cbe è volontà unica e unica finalità, ogni giorno storicamente determinata e in continuo pro¬ cesso di superamento. Ma domandarsi che cosa sia e come si raggiunga il massimo benessere dello Stato vai dunque quanto chiedersi che cosa sia e come si raggiunga il massi¬ mo ideale dello Stato stesso: ed è chiaro che a un tale quesito non nuò seguire che una sola risposta, e cioè che l’ideale di una Nazione è esso stesso pro¬ cessuale e diventa più grande e più alto via via che 10 si raggiunge, così come il massimo benessere che una Nazione può proporsi non ha limiti di sorta e s ingigantisce via via che il benessere aumenta. Se non che non ci si potrebbe arrestare a questa con¬ statazione, che pur è Tunica logica e incontroverti¬ bile, senza eliminare addirittura il problema da ri¬ solvere e senza eludere quel tanto di legittimo che pur si cela nella affannosa ricerca delle vie per rag¬ giungere il massimo benessere. Occorre, dunque, che quesla stessa constatazione si traduca in termini di scienza economica, dando una risposta non effimera a un problema sia pur malamente impostato. Se muoviamo dal concetto dell’unità dell’orga- nisnio statale, possiamo agevolmente convincerci che 11 valore dei beni economici varia, aumenta, dimi¬ nuisce, o addirittura si annulla, col variare del fine dello Stato. Se una legge stabilisce l’uso di una mer¬ ce considerata pressoché inutile fino alla formula¬ zione della legge stessa, quella merce acquista im¬ provvisamente un valore economico che nessuno prima si sarebbe mai sognato di attribuirle. È lo Stato, che con un atto di volontà ha creato un va¬ lore economico, e conseguentemente ima ricchezza già prima esistente, ma non come ricchezza. Le quali considerazioni, si badi bene, non hanno una por- 71 tata ristretta al caso di una legge vera e propria, ché anzi con il termine legge si vuol significare ogni espressione della vita sociale, sia cli’essa giunga alla determinatezza di una norma giuridica, sia ch’essa si limiti alle vaghe linee di una opinione, di un uso, di una moda, di una convenzione, ecc. Basta assistere a una vendita all’asta per accorgersi delle vicende, a volte stranissime, dei beni economici: ciò che un tempo rappresentava un grande valore, è caduto in disuso e buttato via come cosa inutile, o di nuovo è tornato in gran pregio rispondendo a diversi bisogni spirituali. Ma è chiaro che questa vicenda non è l’espressione di un arbitrio indivi¬ duale, sibbene di un processo storico che ha una logica. Anche la moda più strana e più insulsa non si afferma se non risponde direttamente o indiret¬ tamente a un’esigenza dell’epoca e delle particolari condizioni in cui fa la sua apparizione. Quest’esi¬ genza è appunto la legge che dà vita ai valori eco¬ nomici, come a tutti i valori della vita, e fa nascere gusti e bisogni che non sono individuali senza per ciò stesso essere collettivi. Ne deriva che tutti i beni pennoniici, e quindi la ricchezza di una nazione, sono concepibili e sono determinabili unicamente in funzione della volontà e del fine statale. Nulla esiste che sia un bene economico in sé, bene è solo in quanto tale lo fa essere la volontà dello Stato; e la ricchezza di una nazione, quindi, può variare e varia in effetti continuamente, anche senza che muti la quantità dei beni esistenti. Il che, espresso in al¬ tri termini, vai quanto dire che non esiste una na¬ zione povera o una nazione ricca in senso assoluto, ma povera o ricca ogni nazione diventa a seconda del valore attribuito ai Leni ch’essa possiede o che — 12 — essa è in grado di produrre. In questo senso ogni nazione può essere ricca, perché la ricchezza di¬ pende esclusivamente dalla sua volontà. Ora, se si conviene in queste considerazioni, e in parte almeno di esse convengono, sia pure in¬ direttamente, molti economisti, il quesito circa la via per raggiungere il massimo benessere sociale può ricevere una risposta precisa anche dal punto di vista più particolarmente economico. E la via da seguire è appunto quella che vien rivelata dalla de¬ terminazione storica dell ideale economico della nazione: determinazione cui si perviene studiando il problema economico in rapporto al problema po¬ litico e che si esprime perciò in un programma non aprioristicamente fissato una volta per sempre, ma in continuo sviluppo e perfezionamento. Il pro¬ gramma naturalmente si concreterà in un indirizzo d insieme e in direttive particolari ben precisate, e tutti i suoi aspetti si integreranno a vicenda in modo sistematico, sì che le diverse manifestazioni dell’at- tività economica non abbiano a contrastare tra di loro. E l’indirizzo potrà essere, ad esempio, preva¬ lentemente agricolo o prevalentemente industriale, tendente all incremento o alla limitazione demo¬ grafica. favorevole o contrario all’emigrazione, e via dicendo; tutto in relazione all’avvenire del paese, alla sua individualità e alle sue condizioni: le quali consentiranno poi di determinare in qualche manie¬ ra le direttive generali che dovranno essere seguite nell'attuazione delle tante iniziative della vita eco¬ nomica e come in ognuna di esse debba aversi sem¬ pre di mira il fine comune. Si comprenderà, in tal guisa, come e perché siano da favorirsi certe indu¬ strie e da vincolarsi certe altre, siano da potenziarsi 73 — al massimo le industrie più specificamente nazio¬ nali e siano da trascurarsi quelle più rispondenti ai fini e alle risorse di altri paesi; siano, infine, da crearsi gusti, bisogni diretti ai beni economici che più conviene produrre. Poiché bisogna ben convin¬ cersi che il problema del massimo benessere socia¬ le non si risolve solo creando il modo di soddisfare al massimo i gusti e i bisogni esistenti, ma soprat¬ tutto modificando, correggendo, creando gusti e bi¬ sogni in relazione all’ideale economico — ed eco¬ nomico in quanto politico — della nazione. E si comprende che quest’opera non deve svolgersi uni¬ camente entro i confini dello Stato, ma divenire il programma della stessa politica economica interna¬ zionale, che soprattutto airestero conviene far na¬ scere il gusto di ciò che è prodotto dell’industria na¬ zionale: possibilità questa di cui purtroppo gli Ita¬ liani hanno parecchi esempi in casa loro, dove tan¬ ti usi stranieri si son lasciati attecchire e con essi l'importazione di tante merci che fanno passare in seconda linea le nostre. Né questo solo aspetto, più propriamente pro¬ duttivo. va considerato del problema, che anzi ad esso è strettamente collegato quello distributivo, in quanto in un’economia dinamica — e può esistere un’economia non dinamica? — ripartizione dei red¬ diti e determinazione della produzione sono pre¬ cisamente la stessa cosa. È chiaro che in un’econo¬ mia nazionale ben consapevole la ripartizione dei redditi avverrà favorendo gli uomini e le industrie la cui attività produttiva sarà più in armonia con l’ideale economico del paese. Questo ideale deter¬ mina il valore dei beni e questo stesso ideale deve determinare la scala dei valori umani, clie sono in — 74 — rapporto con quei beni. Beni e uomini che ven¬ gono perciò ad acquistare un significato economico solo nel] organismo statale di cui sono espressioni, e che perciò possono essere valorizzati davvero solo se nell organismo statale sia chiara la consapevolez¬ za della loro particolare funzione e la volontà che essa si adempia nel miglior modo. Se poi, dal problema de] massimo benessere sociale, passiamo a quello del massimo individuale, la soluzione ci dovrà apparire logicamente impli¬ cita nel già detto. Sì è visto che ogni individuo vive la sua vita individuale come vita statale, e che an¬ che ciò che sembra più proprio della sua persona¬ lità ha un significato e un valore in quanto è in rap¬ porto con l’organismo sociale. Ne deriva, dunque, che il fine di ogni individuo — così politico come economico — non può essere che quello di poten¬ ziare al massimo la propria personalità in funzione del fine politico ed economico della nazione. Se sono un buon cittadino, vale a dire se la mia attività non è antisociale e negativa, il mio massimo ideale è quello di esser degno della mia nazione e di fare lutto il possibile per esserne degno. La ricchezza cui tenderò non sarà in antitesi con questo ideale, ma la consacrazione delFessermi reso degno, più dei non ricchi, della mia nazione. Se cosi non fosse, tenderei alla ricchezza senza preoccuparmi del mez¬ zo, vi tenderei soprattutto col furto. Ma se così è, le condizioni per raggiungere il mio massimo benes¬ sere individuale non possono essere che due, e cioè in primo luogo la mia decisa volontà di adeguarmi al fine statale e di contribuire nel modo migliore alla realizzazione di esso: in secondo luogo, poi, il rico¬ noscimento sociale della mia attività e il relativo — 75 — compenso proporzionato. Sì che volendo giungere a una definizione : imissimo benessere dell’individuo è quello che gli proviene dall adeguazione perfetta del compenso della sua opera al valore della sua personalità vista in funzione del fine supremo dello Stato. Se poi volesse conoscersi come e quando il mas¬ simo benessere individuale possa effettivamente conseguirsi, sarebbe da osservarsi che, di fatto, esso è sempre raggiunto perché ogni individuo ha quel che si merita, dato l’ideale consapevole cui è per¬ venuto il suo Stato, ina che poi non è mai raggiun¬ to una volta per sempre, in quanto il livello spiri¬ tuale dello Slato è in continuo sviluppo e con esso la capacità di riconoscere più adeguatamente In¬ pera dell’individuo. Se, ad esempio, ci proponessi¬ mo il problema di conoscere se gli attuali stipendi dei professori rispondono al massimo benessere in¬ dividuale di questi, dovremmo convenire eh essi rispondono perfettamente alla consapevolezza che lo Stato ha del valore di questa funzione in rappor¬ to alle altre della vita sociale, ma dovremmo altresì augurarci, e contribuire con la nostra opera a rag¬ giungere, la realizzazione di uno Stato, in cui la funzione culturale fosse maggiormente valorizzata e perciò meglio compensati fossero i professori a confronto di altre categorie di lavoratori. C’e sem- pre uno St a to reale e uno S ta to ideale nella 3iaiet - tica della storia, e il p roblem a del massimo bencs- sere, c osì social e come individuale, d eve av ere una soluzione che viva in questa dialettica. — 76 — Basta impostare in tal guisa il problema del massimo benessere per accorgersi del significato che nella sua soluzione può avere lo Stato corporativo; il quale si differenzia dallo Stato liberale così co¬ me dall’economia liberale si differenzia la nuova economia. La soluzione scientifica non può diffe¬ rire da quella politica perché scienza e politica non possono essere che le manifestazioni di una stessa vita spirituale. Allo Stato liberale non poteva ac¬ compagnarsi che l'ideale scientifico dell’uomo ceco- nomicus, del massimo benessere sociale come som¬ ma dei massimi individuali, dell’ofelimità che si differenzia dall’utilità; allo Stato corporativo deve dar significato il principio dell’identità di individuo e Stato, del massimo benessere sociale come mas¬ simo benessere nazionale e individuale, deH’utilità che si identifica con l’ofeìimità. LA LIBERTÀ ECONOMICA 11 problema della libertà non può avere che un unica soluzione, sia che lo si consideri dal punto di vista filosofico, politico e giuridico, sia che lo si traduca in termini di scienza economica. Coloro che parlano della libera concorrenza come di una ipotesi scientifiea apolitica da porsi accanto alla opposta ipotesi del regime monopolistico, anch’essa - apoliticamente considerata, dimostrano soltanto di aver smarrito completamente la nozione storica dei concetti che adoperano, e soprattutto dei concetti di individuo, di Stato, di benessere individuale e so¬ ciale, sui quali la scienza economica deve poggia¬ re come sui suoi fondamenti primi. Avendo già di essi largamente discusso, basterà farli riaffiorare nel¬ la determinazione del concetto di libertà, quale può venir dato dall esame il più immediatamente ade¬ rente alla vita effettiva della socielà economica. Il modo comune di intendere la libertà è quel¬ lo individualistico di arbitrio, per cui ogni uomo si considera veramente libero quando ha la possibi¬ lità di fare lulto ciò che desidera, senza subordinare o comunque legare la sua volontà a quella di qual- — 78 — siasi altro. Perché ciò sia logicamente possibile è necessario che 1 individuo, per dirla in termini rous- seauiani, sia unità intera e non unità frazionaria : occorre cioè che egli non faccia parte di un orga¬ nismo sociale, ma viva allo stato selvaggio, soddi¬ sfacendo da solo a tutti i suoi bisogni. Ne deriva, dunque, che l’usuale nozione di libertà si adegua soltanto all idea presociale dell’uomo-fiera. Facciamo invece il caso di due uomini o di piu uomini che, insoddisfatti dì una vita puramente animale, decidano — e anche qui restiamo nei ter¬ mini di Rousseau — di legarsi in società, divider¬ si il lavoro, e migliorare con l’unione delle forze il tenore della vita. Allora la situazione cambia ra¬ dicalmente e i collnhnralori debbono anzitutto porsi il fine comune da raggiungere, a esso subordinando le singole attività. Se prima, ad esempio, l’uomo svegliandosi al mattino poteva andare a caccia o restare ili riposo rinunciando per un giorno al cibo, ora, invece, a caccia deve andarvi in ogni caso, per¬ ché il sistema piu perfezionato di ricerca e cattu¬ ratone degli animali esige ch’egli sia al suo posto pronto ad aiutare gli altri individui con i quali si è unito in società. S’egli restasse a riposare, gli altri dovrebbero rinunziare alla sua collaborazione, e la società si spezzerebbe, perché il fine comune per cui si è costituita non potrebbe essere raggiunto. Il pas- saggio dalla fiera all’uomo implica dunque: 1) la costituzione di un organismo sociale; 2) la determi¬ nazione di un fine comune; 3) Fideiitità di questo fine comune con ì fini dei singoli; 4) l’elevazione del fine comune a legge della società e la subordina¬ zione a essa dei singoli membri; 5) la conseguente necessità dell’attuazione della legge e la trasforma- — 79 — zione dell’organismo sociale in Stato; 6) l’identità del benessere individuale e di quello statale; 7) la rinunzia definitiva alla libertà intesa come arbìtrio. Si apre a questo punto un dilemma, al quale non vedo come si possa seriamente sfuggire: o la vita civile non è conciliabile con la libertà o della libertà occorre formarsi un concetto che non sia quello di arbitrio individuale. Prima di risolvere il dilemma, occorre elimi¬ nare ogni dubbio circa la possibilità di un terzo ter¬ mine. e precisamente di quel terzo termine escogi¬ tato dalla stessa teoria contrattualistica, secondo cui il necessario vincolo imposto dalla vita sociale do¬ vrebbe essere il minimo possibile e tale da lasciare la più ampia sfera all’arbitrio dell’individuo. È que¬ sta la teoria ebe è a fondamento dello Stato liberale e, secondo essa, l'unico arbitrio vietato al singolo sarebbe quello dell invadenza nella sfera di arbi¬ trio degli altri individui: il contenuto sociale o sta¬ tale sarebbe appunto la garanzia dei particolari ar¬ bitri. Ma e chiaro che questa teoria, equivocando sui termini di società e Stato, sposta il problema, ponendolo in termini affatto fantastici: io Stalo vien concepito come un ente distinto dalla società e la legge è ridotta al significato formale e negati¬ vo di limite. Se riportiamo, invece, la questione nei termini concreti dell’agire economico, è facile con¬ vincersi che la legge non è un limite formale, bensì una esplicita norma di produzione e di distribuzio¬ ne. che non si esaurisce in un divieto di sconfina¬ mento. ma impone un determinatissimo lavoro. Se voglio far parte della società, debbo in modo asso¬ luto occupare il posto che mi spetta e fare tutto quello che il mio posto esige. Quando sono entrato — 80 — in società con il mio simile, non Tho fatto per di¬ videre la mia sfera dalla sua e segnare i confini della mia proprietà (legge limite, Stato carabiniere, ecc.) ma l'ho fatto per condurre con esso una vita mi¬ gliore, per produrre più e meglio, per raggiungere risultati impossibili alle mie sole forze (legge di azione, Stato etico). Sì che il confine posto tra la pro¬ prietà mia e quello degli altri non ha neppure esso un valore négàlivojjfi^pura“difesa''tjrrisTTpi^e^de'- ter ni ina li va-del-campo _in cui esercitare la mia ope¬ ra di collaborazione: non indica la sfera del mio arbitrio, ma il mio posto di lavoro. Né quello che io faccio, vincolato dalla società, può stare comunque accanto ad altro ch’io fac¬ cia all’infuori di questo vincolo, perché all’infuori del vincolo io non ho altra realtà oltre quella dell’a¬ nimale, e tutto quanto daH’aniinale mi distingue ho conquistato nella società, collaborando, ossia sotto¬ mettendomi alla legge del fine comune. Se oggi v’è apparentemente la possibilità di separare un’atti¬ vità libera da un’altra obbligatoria, ciò avviene solo per un equivoco di valutazione, che consiste nel considerare alcuni elementi sociali scissi dalla vita da cui sono stati originati. Ma, a guardar bene, biso¬ gna pur convincersi che nulla della nostra condotta sfugge alla legge della convivenza sociale e che an¬ che nelle questioni propriamente personali, noi agiamo secondo una volontà comune, individuale e sociale insieme, in piena identità di termini. Se mi vesto, posso apparentemente abbigliarmi come mi detta la fantasia, ma in realtà debbo pur seguire le leggi, gli usi, le tradizioni, il gusto, ecc., della so¬ cietà in cui vivo; e se, ad esempio, posso mettermi una cravatta rossa ovvero una grigia, anche questo — 81 — arbitrio non è un arbitrio, ma un operare entro quel¬ la legge che nell’attuale momento storico impone varietà di colori nelle cravatte. Questa è la realtà della vita sociale, e, quanto più progredita e complicata essa diviene, tanto più ferrea è la disciplina cbe la governa e die deve ren¬ dere possìbile l’armonia di tanti elementi disparati. Le leggi, i regolamenti, le mode, gli usi, le conven¬ zioni, gli orari ecc. ecc., investono sempre più me¬ todicamente tutta la nostra vita quotidiana, da un minimo cbe è lasciato alle forme rudimentali di vi¬ ta (vita dei campi) a un massimo elle caratterizza l’azione dei maggiori esponenti della politica, della cultura, dell’industria e del commercio. Sì che as¬ senza di arbitrio e massimo di civiltà divengono via via termini equipollenti, e la vita del più civile uomo di domani non può immaginarsi se non attra¬ verso un’adeguazione sempre più perfetta della vita e della volonlà del singolo a quella dello Stato. Ma, dunque, si potrà obiettare dai nostalgici del liberalismo vecchio stile, la vita deve diventare una schiavitù, un procedimento meccanico e ineso¬ rabile, al quale non sia possibile sottrarsi a nessun costo, per rivendicare la spensierata felicità di chi si leva al mattino arbitro incondizionato della pro¬ pria giornata? È dunque questa la vera civiltà o non conviene buttar tutto all’aria e tornare all’imme¬ diatezza della natura? Questione vecchia cotesta, almeno quanto l’o¬ pera di quel Rousseau cbe ci ha dato In spunto per discuterla : e, appunto perché vecchia, orinai risolta e superata, se pur la soluzione non abbia ancora avuto modo di pervenire agli orecchi degli econo¬ misti. Essi amano indulgere tuttavia al miraggio di d ■ Spinila — fe¬ lina libertà individualisticamente intesa, e non si sono neppure domandati se ormai occorra, o se sia comunque possibile, che la scienza economica dia anch'essa un altro significato al termine tradiziona¬ le. Poiché di un altro significato deve ben potersi parlare, dato che al dilemma sopra proposto non si può rispondere, evidentemente, eoi negare addi¬ rittura la libertà. Notiamo anzitutto che la libertà dei liberali è. per loro stessa eonfessione, una libertà a mezzo, la quale lia sempre qualcosa da invidiare alla com¬ pleta libertà dello stato di natura. A quell’assoluto arbitrio si è dovuto rinunziare per necessità di vita e per sicurezza reciproca, ma intanto di una rinun¬ zia pur sempre si tratta, che fa assaporare con vo¬ luttà quel giorno felice in cui, per il superiore livel¬ lo della comune moralità, sarà possibile abolire lo Stato e la sua funzione di inutile gendarme. La li¬ bertà del liberale, dunque, nessuna maggiore pro¬ fondità e spiritualità acquista con lo svolgersi della storia, che anzi essa ha lasciato alle sue spalle il pro¬ prio modello perfetto e immodificabile. Basterebbe questa considerazione per farci diffidare della giu¬ stezza della comune soluzione del problema: se li¬ bertà è sinonimo di valore, la sua realtà non può essere che nel suo approfondirsi e spiritualizzarsi continuo, sì che il suo modello possa brillare della luce dell’ideale da instaurarsi e non perdersi nel buio della preistoria. — 83 — La giusta soluzione, dunque, dovrà ricercarsi nel concetto di una libertà che non si è persa, ma cbe si deve conquistare; di una libertà non sei- vaggia, ma identificabile addirittura con la vita ci¬ vile. E la via ci è indicata dalla stessa ipotesi con¬ trattualistica, da cui volutamente abbiamo preso le mosse per restare nell’ambito dei problemi cari agli ideologi del liberalismo. Quando due o più uomini deliberano di unirsi in società per migliorare le loro condizioni, liberamente si sottopongono alla legge del comune lavoro, e questa legge diventa, per ciò stesso, il contenuto del loro atto di libertà. Libertà e legge, lungi dairescludersi, si identificano senza residui. Ma la loro identificazione, si badi bene, non è accidentale, bensì essenziale, perché, se contenuto dell atto di libertà non fosse la legge, la libertà stes¬ sa tornerebbe ad essere arbitrio. Quel che distingue infatti la liberta dall arbìtrio è appunto l’univer¬ salità della prima di fronte alla particolarità del se¬ condo: il selvaggio può agire in un qualsiasi modo; 1 uomo civile, invece, deve agire secondo una volontà che, pur essendo sua, abbia insieme un valore uni¬ versale {la legge). Costitutivo, insomma, del nuovo concetto di li¬ bertà deve essere la sua identificazione con la legge, ossia la identificazione della volontà particolare con quella universale, dell’individuo con In Stato. Né si creda che il libero processo secondo cui gli individui si costituiscono in società si esauri¬ sca nell’atto della costituzione — il quale anzi non esiste ebe nella fantasia dei contrattualisti — poiché esso si perpetua in tutta la vita sociale e ne ca¬ ratterizza ogni momento. La legge cbe lega gli indi¬ vidui nel comune lavoro non si determina una volta 84 — per sempre meccanicizzando l’attività da essa rego¬ lata, ma si rinnova continuamente in virtù della stessa forza d’iniziativa che l’ha fatta sorgere. Ogni individuo, infatti, è indotto a perfezionare l’organi¬ smo sociale ed escogita nuovi procedimenti e ricerca nuove vie, sempre insoddisfatto dei risultati conse¬ guiti e sempre pronto a conseguirne di nuovi. Ma si comprende che in questo processo ogni iniziativa del singolo deve inserirsi nel processo unitario della vita sociale: la sua volontà deve diventare la vo¬ lontà di tutti e la sua libertà di attuarla deve coin¬ cidere con la legge che ne impone l’attuazione. Che se l’iniziativa restasse particolare e si giustapponesse a infinite altre iniziative ancli’esse particolari, tutte si intralcerehbero a vicenda spezzando l’organismo della socielà e portandolo fatalmente alla disgrega¬ zione aiomistica. Questa identificazione iniziale e processuale della volontà e libertà del singolo con l’universa¬ lità della legge risulta molto evidente dalla consi¬ derazione del funzionamento di una qualsiasi as¬ sociazione. Anche se prendiamo ad esempio il caso limite dell’associazione a delinquere, dobbia¬ mo convenire ch’essa si costituisce con un atto di libertà dei singoli membri, volonterosi di sottoporsi alla sua disciplina; che i singoli tendono al benes¬ sere dell’associazione vedendo in esso il proprio; che ogni particolare iniziativa di un membro è su¬ bordinata all’approvazione degli altri; e che insom¬ ma l’associazione tanto meglio vive, ed è capace di conseguire il fine che i singoli si sono proposti nel formarla, quanto più unitaria è la sua volontà e quanto più rigorosa la sua disciplina. Ma se dall’e¬ sempio di una singola associazione, passiamo a quel- 85 — 10 della grande società che è lo Stato, l’evidenza della identità si attenua, i termini del problema diven¬ gono indecisi e la questione arbitrariamente si spo¬ sta dando luogo agli equivoci propri dell’individua¬ lismo liberale. Ogni cittadino nello Stato, come ogni delinquente nell’associazione di cui abbiamo di¬ scorso, 6arà tanto più degno di appartenere alla so¬ cietà quanto più saprà far coincidere la sua libera volontà con quella sociale. Che se nel caso del citta¬ dino par ci sia differenza tra il benessere proprio c quello dello Stato, la ragione va trovata solo nel fatto che, per la maggiore estensione e complessità dello Stato rispetto all’associazione a delinquere, più facilmente il cittadino smarrisce la coscienza dell’or¬ ganismo e più facilmente è indotto a frodare gli al- Iri membri della società cui appartiene. Ma per ciò appunto il contrasto tra le due volontà rappresenta 11 lato negativo e non quello positivo della vita dello Sfato e tutte le forze debbono essere impegnate a eliminarlo. Anche nell’associazione a delinquere uno dei membri può sottrarsi alla disciplina sociale e averne i vantaggi senza gli oneri, ma egli sarà ap¬ punto il prepotente, l’elemento disgregatore della società e finirà col fare il danno di essa e quello proprio. In tal guisa considerata la libertà, si compren¬ de come si sia decisamente sorpassata l’ambigua so¬ luzione del problema data dal liberalismo. Il citta¬ dino non si sdoppia più in due attività opposte, nell una delle quali si conserva la libertà originaria dell' uomo di natura e nell’altra invece si riconosce Tobbligatorietà della legge: il cittadino è libero in ogni sua manifestazione a patto che tale libertà sap¬ pia conquistare dimostrando il valore dei suoi atti e facendo 1 ! perciò riconoscere dalla società di cui fa parte. La libertà per esser vera deve costare, e il suo costo è dato appunto dallo sforzo necessario a trasformarla da volontà particolare in volontà uni¬ versale. Abbiamo ora gli elementi cbe ci sono indispen¬ sabili per discutere il tormentatissimo problema del¬ la libera concorrenza e del monopolio. Secondoi termini tradizionali la libera con¬ correnza si esercita Ira individui cbe cercano il massimo benessere individuale, senza alcuna preoc¬ cupazione del fine sociale. L'ideale della perfetta concorrenza è appunto quello dì un giuoco di for¬ ze individuali autonome, la cui autonomia o irre¬ latività sia assoluta, 6Ì cbe il fenomeno economico scaturisca dall’incontro indisciplinato di interessi diversi e opposti. Ogni limite sociale, ispirato dalla visione di un fine che trascenda quello dell’arbitrio dei singoli, è considerato come una menomazione della concorrenza e come una forza antieconomica. Si consacra in tal modo nel campo delFeconomia l’assolutezza del principio della libertà come arbi¬ trio, cbe aveva dovuto trovare un limite nel ricono¬ scimento della necessità giuridica dello Stato. Quando tuttavia da questa concezione ideolo¬ gica ritorniamo all’analisi dell’effettivo processo del¬ la vita sociale, dobbiamo riconoscere cbe un tal mo¬ do di intendere l’ideale economico è intimamente incongruente. Se la società, infatti, è costituita al fine di collaborare, essa implica, come abbiamo vi- sto, una disciplina comune, una legge che neghi gli arbitri dei singoli, e cioè i loro interessi individuali in quanto altri da quelli sociali. Ne viene di conse¬ guenza che o bisogna ripudiare la libera concorren¬ za come un fenomeno essenzialmente antisociale o bisogna intenderla e promuoverla in un senso ra¬ dicalmente diverso da quello comune. Per rendere più evidente la questione sarà opportuno ritornare un momento all’esempio del- l’associazione a delinquere, e vedere in questa for¬ ma rudimentale di società il sorgere della concor¬ renza e il suo adeguarsi al fine unico della colletti¬ vità. Determinate le mansioni dei sìngoli membri, a qualcuno di essi può sembrare dì avere attitudini speciali per un compito assegnato a un altro. In tal caso egli fa la proposta di mettere a confronto le due capacità e di decidere chi dei due debba essere adibito a quel compito o anche se debbano esservi dedicati entrambi. Si inizia così nell’ambito della società un fenomeno di concorrenza, ma esso ha il peculiare carattere di essere voluto dalla società stessa e per un fine sociale: volontà e finalità che ne costituiscono l’intima legge e l’unica ragion d’es¬ sere. Lungi dall’affermarsi come un contrasto di in¬ teressi particolari, esso si realizza e sì giustifica in virtù del criterio fondamentale della società, per il quale ogni atto dei singoli membri è integralmente libero e insieme integralmente necessitato. Né diverso deve apparire l’opposto caso del monopolio, che, secondo l’interpretazione corrente, rappresenterebbe l’antitesi netta della libera con¬ correnza, perché toglierebbe ai singoli la libertà di far valere i propri interessi particolari. Ritornando anche qui all’esempio dell’associazione a delinquere, è facile dimostrare che, quando uno dei suoi com¬ ponenti abbia rivelato qualità speciali per Tadempi- mento di una funzione, l’attribuirgliene il mono¬ polio è atto libero di tutti, e, né più né meno della libera concorrenza, fondato sulla comune volon¬ tà. Libera concorrenza e monopolio, dunque, visti nella loro effettiva origine e giustificazione, si ri¬ velano dotati della stessa libertà e della stessa neces¬ sità, e nessun elemento essenziale può comunque ca¬ ratterizzarne una differenza logica. La molteplicità dei concorrenti nell’un caso e l’unità del monopoli¬ sta nell’altro sono affatto apparenti, poiché la vo¬ lontà che agisce in entrambi i casi è quella di tutti, e identici ne sono gli effetti. Questa tesi, teoricamente ineccepibile, può ap¬ parire smentita dalla realtà della vita economica, in cui concorrenza e monopolio troppo evidente¬ mente si differenziano nei caratteri costitutivi e nel¬ le conseguenze immediate. È esperienza molto ele¬ mentare quella che ci insegna il diverso determinar¬ si dei prezzi nei due casi, né alcun ragionamento potrà mai riuscire a convincerci che si tratti di un unico processo. Bisogna trovar, dunque, la ragione della differenza e vedere in che modo essa possa conciliarsi con i risultali cui siamo pervenuti. Caratteristica della libera concorrenza è l’ar¬ bitrio dei singoli non vincolati da alcuna necessità, caratteristica del monopolio la necessità eliminatri- ce di ogni libero procedimento : due fenomeni op¬ posti, entrambi in antitesi con il carattere fondamen¬ tale della società, quale è stato fin qui chiarito. Il che può subito farci avvertiti che i due fenomeni, in quanto si differenziano, non rispondono al regolare effettuarsi della vita sociale, ma ne rappresentano — 89 — la radicale alterazione e trasformazione. Libera concorrenza e monopolio sono i casi limiti, patolo¬ gici e assurdi, della normale vita economica caratte¬ rizzata dairidentificazione della libertà e della legge. La prova più evidente della contraddittorietà e anormalità dei due fenomeni opposti può esserci data dalla constatazione della impossibilità di una loro effettuazione integrale. Anche il liberista più convinto è oggi d accordo nel ritenere che una vera libera concorrenza non è mai esistita né potrà mai esistere e, anche guardando ad essa come al perfetto ideale, egli si arresta alla solita soluzione a mezzo del liberalismo politico, che in tal guisa riaffiora in economia attraverso questo riconoscimento di fatto : è tutto il mondo della necessità che grava suH’arbi- trio dei singoli e finisce col distruggerlo o con Tele- vario alla vera libertà. Né altrimenti avviene per il monopolio, costretto sempre a far i conti con una concorrenza potenziale, sempre limitato dalla for¬ za della legge o dalla pressione delTopinione pubbli¬ ca, spesso evitato per vie traverse o collaterali. È la realtà effettiva che reagisce sulle sue deformazioni e lentamente o violentemente finisce con Taverne ragione. I$|W La libertà economica, dunque, non può conce¬ pirsi se non come la perentoria negazione degli op¬ posti arbitri rappresentati dalla libera concorrenza e dal monopolio, ovvero dalTanarcbia e dalla tiran¬ nia economica. E basta porre in questi termini rigo¬ rosi il problema per comprendere tutta la vanità de¬ gli sforzi compiuti dagli economisti per riportare i loro teoremi a quelle due ipotesi scientifiche. Lungi dall’essere scientifiche, quelle ipotesi esprimono la più radicale istanza antiscientifica e conducono ne- — 90 — cessariamente a una generale, continua miscompren- sione dell’essenza della vita economica. Né vale op¬ porre che tali ipotesi sono soltanto schemi irreali ed astratti, ai quali lo scienziato perviene per intende¬ re fenomeni economici in prima approssimazione: ciò che a quegli schemi si rimprovera non è l’astrat¬ tezza, bensì la netta opposizione alla realtà effettiva dei fenomeni economici sociali, i quali si svolgono normalmente fuori di quelle ipotesi e vi tendono solo in quanto degenerane*. Perché la scienza econo¬ mica possa darci il tipo astratto del fenomeno eco¬ nomico occorre che abbandoni decisamente la via finora percorsa e, al di sopra dei concetti negativi dj libera concorrenza e monopalio, ponga quello evi¬ dentissimo e concretissimo di collaborazione , Resta ora da esaminare come l’ideale della vera libertà economica debba intendersi nelle sue deter¬ minazioni pratiche e quale via debba seguirsi per la sua più profonda attuazione. Se il nuovo concet¬ to è fondato stili identità di liberta e di legge, è chia¬ ro che instaurare una maggiore libertà economica vuol dire rendere sempre più rigorosa tale identità e cioè considerare 1 individuo sempre più identico allo Stato, così nei fini della vita come nei mezzi per raggiungerli. L ideale della vita economica e di quel¬ la sociale in genere dovrà condurre a una lotta più consapevole contro tutte le forme dualistiche ten¬ denti a separare il mondo dell’individuo dalla real¬ tà dello Stato, e dovrà insemina imporre il capo- — 91 — volgimento delle ideologie individualistiche del li¬ beralismo politico e del liberismo economico. Il che nel campo più strettamente economico si traduce nell'istanza scientifica e pratica di combattere con ogni mezzo 1 individualismo che ispira il dogma del¬ la libera concorrenza e insieme lo statalismo che per 10 più è a fondamento delle forme, monopolistiche. Consentire ancora che gli individui si esauriscano in una lotta destinata al soddisfacimento di parti¬ colari interessi, e non ricondurre la lotta stessa ai fini dello Stato, significa indulgere tuttavia alla più immorale e antieconomica forma di vita politica, riaffermando inconsapevolmente il trionfo del più egoistico arbitrio. Se lotta deve esserci e rimanere a fondamento del progresso, occorre ch’essa si im¬ pegni per la conquista di un più alto fine statale, e sempre con la coscienza di tendere a un benessere individuale che sia il benessere sociale: non lotta dunque di individui contro individui per il trionfo degli uni sugli altri, bensì lotta tra gli individui per 11 trionfo di un unico fine che rappresenti il massi¬ mo bene di tutti. Non si tratta di eliminare la con¬ correnza, ma di intenderla nel solo significato giu¬ sto, che è quello dell’affermazione dell’iniziativa in¬ dividuale nella ricerca del bene comune. Essa deve svolgersi nello Stato e per lo Stato, con ì limiti, la disciplina e la volontà dello Stato: la statalità deve costituirne l’essenza e il fine. Ma se convien combattere l’individualismo tra¬ dizionale della lihera concorrenza occorre poi eli¬ minare con non minore energia tutte le forme sta¬ tali che tendono a differenziarsi dagli individui. Come 1’individiio degenera nell’egoismo, così lo Sta¬ to degenera nel particolarismo della classe o degli — 92 — uomini dominanti: allora esso diventa lina forza contro altre forze, un’entità contro altre entità, e il dualismo di benessere individuale e benessere sta¬ tale si riafferma come differenza di arbitri e di egoismi. Così si spiega e si giustifica incontroverti¬ bilmente la critica del liberalismo alle forme sta¬ tali monopolistiche o comunque di intervento. Quan¬ do il monopolio, o l’azione economica delloStato, è ispirato da una volontà trascendente quella dei cittadini, quando lo Stato si differenzia dalla Na¬ zione e diventa burocrazia o governo o oligarchia o comunque un ente particolare con volontà autono¬ ma, allora 1 intervento statale è antieconomico e il monopolio distruzione di ricchezza. All’arbitrio de¬ gli individui abbandonati nella lotta egoistica si so¬ stituisce l’arbitrio di un governo che impone un pro¬ prio fine altrettanto egoistico : e in entramhi i casi la libertà economica è radicalmente legata. Il perfe¬ zionamento della vita economica non potrà essere che in forme sempre più unitarie di collaborazione, con il progressivo allargarsi degli organismi produt¬ tivi e il disciplinarsi delle varie forze nell’unico si¬ stema statale. Questa è l’intuizione fondamentale dello Stato corporativo, destinato a realizzare con progressiva consapevolezza la compenetrazione e identificazione assoluta di individuo e Stato, ossia della volontà e dell’iniziativa dell’individuo con il fine supremo dello Stato. ECONOMIA NAZIONALE ED ECONOMIA INTERNAZIONALE La critica dell’econoinia liberale e la tesi del¬ l’identità di individuo e Stato, che di quella critica è la inevitabile conclusione, hanno condotto a una impostazione radicalmente diversa dei problemi tra¬ dizionali. E la differenza fondamentale va trovata nella sostituzione del concetto di molteplicità di sog¬ getti economici — gli individui o gli homines (Econo¬ mici, arbitri del proprio mondo particolare, limita¬ to solo dalle sfere di arbitrio degli altri individui — con quello di organismo economico unico, con unica volontà e unico fine, quello statale. Nell’economia liberale la molteplicità degli individui è sostanziale e costituisce il valore base della costruzione: l’uni¬ tà del mondo economico risulta solo dalla giustap¬ posizione e conciliazione estrinseca delle diverse vo¬ lontà e dei diversi fini. Nell’economia nuova, invece, l’unità dell’organismo politico è il presupposto im¬ prescindibile, e la molteplicità degli individui è ri¬ solta in essa senza dualismi di alcuna sorta. Si nega, cioè, che oltre al fine statale abbia ragion d’essere un qualsiasi fine economico individuale. Naturai- — 94 — mente questa differenza teorica tra le due economie ha una conseguenza pratica anchessa fondamenta¬ le, che può, all ingrosso, determinarsi contrappo¬ nendo al concetto di concorrenza e di lotta, che do¬ mina la vecchia economia individualistica, quello di collaborazione e di organizzazione che è caratteri¬ stico della nuova. La concorrenza e la lotta sono an- ch essi concetti trasvalutati : non cozzo violento di interessi diversi e contrastanti, ma sforzo e compe¬ tizione per il miglior raggiungimento deirinteresse unico. La stessa nozione di equilibrio viene ad essere intimamente corretta, in quanto non si pensa più ad una risultante meccanica, ma a un processo in¬ telligentemente voluto e guidato. Dove i soggetti sono molti, Limita è secondaria e fatale: dove il soggetto è uno, l’unità è originaria e intelligente. Ma ima grave obiezione può sollevarsi a que¬ sto punto, ed è stata difatti sollevata a difesa del¬ l’economia individualistica. Ammesso pure, si dice, che la concezione unitaria del soggetto economico si dimostri giusta e irrefutabile, quando si consideri a fondo la realtà di un'economia nazionale, non per questo il ragionamento può estendersi all’economia internazionale. Se Stato e individuo si identificano, facendo con ciò diventare unico il soggetto economi¬ co, resta tuttavia sempre una molteplicità di stati, che non possono non concepirsi come molteplicità di soggetti economici. Ne consegue — si conclude perentoriamente — che, se l’economia individua¬ listica non ha più valore per lintelligenza dei feno¬ meni economici nell’ambito di una Nazione, essa è. ciò non ostante, l'unica che ci consenta di compren¬ dere i fenomeni dell’economia interstatale. Gli sta- I — 95 ti, infatti, diventano essi individui economici e la toro azione va considerata alla stessa stregua di quella degli individui dell’economia liberale, Crite¬ ri fondamentali per l’intelligenza della loro vita eco- nemica saranno quelli di concorrenza e di lotta : secondaria e necessaria sarà l'unità della vita econo¬ mica: meccanico e fatale l’equilibrio delle diverse forze contrastanti. E il ragionamento, a prima vista, sembra im¬ peccabile, sì da rendere vana o almeno solo parzial¬ mente valida la tesi dell’idemità di individuo e Sta- to: la struttura dell'economia liberale e individua¬ listica resta quella che è, almeno per ciò che riguar¬ da la vita internazionale. Ma fortunatamente il ra¬ gionamento non resiste a un’indagine più accurata e profonda, e la stessa critica rivolta all’individuo cittadino finisce per valere per l’individuo Stato- I economia individualistica non può reggere in nes¬ sun caso, perché non può reggere il principio natu¬ ralistico su cui essa è fondata. Per chiarire adeguatamente la questione è ne¬ cessario approfondire il concetto di Stato e di rap- porto interstatale quale si è venuto delineando at¬ traverso la speculazione e il diritto pubblico con¬ temporaneo, Occorre precisare alcuni presupposti teorici c e servano a illuminare la concreta prassi nella vita economica. Di organismo economico inteso come unità es¬ senziale, se pur in modo affatto meccanicistico, si è — % - già parlato dai sociologi, i quali, muovendo dall’in- dividuo isolato, son passati alle diverse forme dei gruppi sociali (famiglia, tribù, società, comuni, re¬ gioni. nazioni, umanità) tutti ponendoli su di un unico piano ed eliminando ogni differenza qualita¬ tiva tra i gruppi stessi. E si parlato, quindi, di eco¬ nomia individuale, familiare, nazionale, sociale, mondiale, ecc., riconoscendo la possibilità di tante economie quante sono le forme sociali o di un unica economia che tutte le comprenda. Pur ammessa, perciò, la necessità di considerate i fenomeni eco¬ nomici nell’organismo della vita sociale, sembrereb¬ be. dal punto di vista della sociologia, affatto in¬ giustificata Videntificazione di individuo e Stato, e la riduzione dell’economia a economia statale. Per¬ ché mai arrestarsi o sollevarsi allo Stato per ricono¬ scervi il fondamento della scienza economica, se è possibile concepire una vita economica sia di grup¬ pi inferiori allo Stato sia dell’umanità che gli Stati tutti comprende? L’obiezione, anche qui, sembra inconfutabile e decisiva ; e finisce per congiungersi all’altra dell'e- conomia individualistica, in quanto riconosce, essa pure, la molteplicità degli individui sociali, o come persone fisiche o come gruppi di persone. Al solito, l’esigenza sociologica antindividualistica, e perciò antiliberale, è condotta dai suoi presupposti natu¬ ralistici agli stessi risultati della tesi che vuol su¬ perare. Ma l’obiezione, anche qui, è destinata a ca¬ dere definitivamente quando si abbia la forza di sollevarsi a un punto di vista più alto, dal quale e le persone e gli enti possano essere considerati nella loro vera essenza unitaria. Unità che non può esser data né dall’individuo particolare, in quanto uno — 97 — Ira ì tanti, né dall’umanità, in quanto sommaNi^^ wU tanti, bensì dallo Stato in cui l’individuo e Fuma- nità acquistano la loro effettiva concretezza. Il superiore punto di vista nel quale occorre metterci per giungere a questo risultato è dato dal¬ la concezione storicistica o dialettica della vita so¬ ciale, per cui allo Stato e soltanto allo Stato è con¬ sentita quella vera individualità ebe coincide con la vera universalità. E la ragione è questa: che tut¬ ti gli individui (persone o enti) che sono nello Sta¬ to, vivono, appunto, nello Stato, e sono perciò in esso risolti come momenti della sua vita; laddove al di sopra degli stati non può concepirsi un’umanità che sia organismo unitario (Stato o superstato) sen¬ za annullare, per ciò stesso, il concetto di Stato. Lo Stato, infatti, ha questo di caratteristico rispetto a tutte le altre unità sociali storicamente esistenti: di essere la suprema unità dialettica della storia, in quanto è unità differenziata rispetto alla moltepli¬ cità degli stati e non ha al di sopra nessuna unità differenziata. Lo stato-umanità è una contraddizio¬ ne in termini in quanto unità senza molteplicità, e perciò unità statica, indifferenziata e indifferenzia¬ bile, sottratta a ogni dialettica spirituale. Lo Stato non può essere che unità-molteplicità, ossia vera¬ mente sovrano, per il fatto di avere una sovranità riconosciuta dagli altri stati: se non ci fossero gli stati a riconoscere lo Stato, Io Stato non sarebbe perché non avrebbe coscienza della sua sovranità, non avendo ragione di essere sovrano. In tanto lo Stato può dettar legge ai cittadini, in quanto deve fonderli in un unità che viva e si affermi nella mol- leplicità: che, se questa molteplicità non esistesse, lo Stato non avrebbe un fine suo, ma vivrebbe per i " ■ Svinilo — 98 — fini degli elementi che lo compongono: non sarebbe perciò sovrano ma strumento, e la vera sovranità competerebbe agli organismi (persone o enti) cbe vi¬ vono nello Stato; sollevati al grado di vero indivi¬ duo, unità-molteplicità, o unità dialettica. Questo primo risultato della nostra indagine ci consente di rifiutare ristanza sociologica di più eco¬ nomie sociali, a seconda delia qualità dei gruppi considerati, o di un’unica economia sociale, coinci¬ dente con l’economia dell’umanità. La vera unità storicamente concreta è quella dello Stato, e perciò l’economia scientifica non può essere cbe statale. Ma, se ! istanza sociologica è superata, non altrettanto sembra quella individualistica, cbe si fonda appunto sulla molteplicità degli stati. Che, anzi, questa se¬ conda obiezione pare rafforzata dal riconoscimento esplicito die abbiamo fatto della molteplicità degli stati, e addirittura del carattere essenziale e impre¬ scindibile di tale molteplicità. Se non cbe, guardan¬ do più a fondo, si deve convenire cbe il nostro rico¬ noscimento non può avere lo stesso significato di quello su cui si fonda l’obiezione individualistica, per il fatto cbe nel caso nostro si tratta di nna mol¬ teplicità essenziale soltanto ai fini deirunità. E la unità è lo Stato, ossia l’individuo concreto, in cui gli stati, in quanto molteplicità, si risolvono senza residuo. Per intendere con precisione questo carattere di interiorità degli stati rispetto allo Stato, occorre m — 99 — ritornare al concetto di sovranità, cui abbiamo pri¬ ma accennato. Perché lo Stato sia sovrano è neces¬ sario che tale sovranità sia riconosciuta dai cittadi¬ ni, ma è necessario insieme che venga riconosciuta dalla molteplicità degli stati. Il che vuol dire che la sovranità ha due aspetti egualmente impresce- scindibili: uno interno e 1 altro esterno, rispetto ai cittadini e rispetto agli stati. E se di fronte ai primi la sovranità si esprime con ridentificazione dei fini individuali col fine statale, è necessario che anche di fronte ai secondi la sovranità abbia la stes¬ sa ragion d’essere. In altri termini, nella vita inter¬ nazionale lo Stato deve vedere negli stati altrettanti elementi del proprio organismo unitario, vale a dire altrettanti strumenti del proprio fine. Il che, si badi bene, non va inteso nel senso assurdo di un nazio¬ nalismo cieco, bensì in un senso affatto spirituale e perciò il più internazionalistico possibile. Come i cittadini, invero, sono strumenti dello Stato, non sacrificando i propri fini particolari a quello dello Stato, bensì riconoscendo che i primi si identificano col secondo e lottando per un sempre maggior ri¬ conoscimento di tale identità, così gli stati debhono trovare nel fine dello Stato gli stessi loro fini par¬ ticolari e dare incremento a una vita che, se è po¬ tenziamento dello Stato, è, per ciò stesso, potenzia¬ mento della collaborazione internazionale. Se così non fosse, se cioè lo Stato non fosse so¬ vrano così verso i cittadini come verso gli stati, non si avrebbe sovranità di sorta, perché la stessa sovra¬ nità, esercitata sui cittadini non sarebbe sovra¬ nità, in quanto necessariamente condizionata dalla realtà degli altri stati. Il che sanno bene quei giu¬ risti i quali non ammettono che il diritto interna- — 100 — zionale sia un diritto superstatale, di natura diversa dal diritto interno. Due modi, insoninia, ni sono di intendere la vita internazionale: uno, che può dirsi liberale o individualistico, per cui esistono gli stati nella loro molteplicità atomistica, legati da un rap¬ porto estrinseco concepito come risultante della coesistenza degli stati stessi; un altro, invece, che potremmo denominare idealistico o storicistico, per cui esiste Io Stato nella sua unità assoluta, che ri¬ solve in sé dialetticamente la molteplicità degli stati, legati da un rapporto sostanziale e intrinseco che è il fine stesso dello Stato. Da una parte una vita in¬ ternazionale che è quella che è, bruto incontro di forze eterogenee e di fini particolari contrastanti; dall’altra un organismo internazionale che ha un fine consapevole e un unico centro : lo Stato. Ora, se applichiamo questo concetto dello Stato e della vita internazionale alla scienza dell’econo- mia, possiamo ripetere in questa sede la critica già svolta a proposito deireconomia liberale o indivi¬ dualistica. 0 si accetta la concezione atomistica della vita internazionale, e allora bisogna riconoscere che una scienza deireconomia non può esistere, in quan¬ to i fenomeni economici internazionali hanno la stessa illogicità (itnprevedibililà) dei fenomeni eco¬ nomici dell’individuo soggettivisticamente inteso e non possono sottrarsi alla sfera del puro arbitrio ; o, invece, si crede che una scienza deireconomia possa esistere, e allora bisogna riconoscerne il fon¬ damento in un organismo intelligibile, che è, così nella vita economica nazionale come in quella in¬ ternazionale, lo Stato nella sua concretezza storica e nella sua consapevole attualità. E lo Stato in nes¬ sun caso può venir superato o sostituito, come prin- 101 — cipio primo della scienza, senza annullare la scien¬ za stessa nella sua possibilità teorica e nella sua validità pratica. Ancora una volta l’identità di in¬ dividuo e Stato segna il punto di arrivo delle scien¬ ze sociali in genere e deireconomia politica in par¬ ticolare. Risolto il problema dei rapporti tra economia nazionale ed economia internazionale, riconducen¬ dolo al più vasto problema del concetto dello Stato, occorre ora mostrarne le conseguenze più partico¬ larmente economiche e vedere in quale senso le con¬ clusioni cui finora è pervenuta la scienza vadano rivedute e corrette. È opportuno anzitutto precisare il significato che per la scienza tradizionale ha il concetto di eco¬ nomia interstatale. Purtroppo tale precisazione non può avere che un carattere tulio negativo, in quanto a rigore per reeonomia classica un problema eco¬ nomico interslatale non può neppure sussistere. Da¬ to, infatti, il concetto di homo ce conomicus come presupposto fondamentale della scienza, tutta l’in¬ dagine si esaurisce in un’economia individualistica nella quale non v’è posto alcuno per lo Stato. Quan¬ do lo Stato ha fatto sentire la sua esigenza impre¬ scindibile, airesigenza stessa si è tentato soddisfare individuando lo Stato in un ente particolare, con un fine e una vita economica propri, diversi da quelli degli individui. Ne è derivata, nella migliore delle ipotesi, una sottoscienza sui generis cui si è dato il nome di scienza delle finanze. Ma lo Stato vero, quello che si identifica con l’individuo, e ne costituisce la vita logica, quello non è entrato mai in questione e i fenomeni economici sono stati stu¬ diali in quanto fenomeni interindividuali. La vita economica naturale esclude lo Stato e si esprime tutta nella libera concorrenza delle forze partico¬ lari, sì che rintervento statale può essere studiato lutt’aì più come causa di deviazione dal corso na¬ turale, ossia come uno degli ostacoli alla libera estrinsecazione delle forze in contrasto. E questa conclusione non varia col passare dall’economia na¬ zionale all’economia internazionale, per il fatto stes¬ so che lina nazione o uno Stato come unità econo¬ mica è negato a priori nel modo più categorico. Come neirambito dello Stato i fenomeni econo¬ mici si svolgono indipendentemente dallo Stato, così si svolgono pure quelli che si verificano nel più vasto mercato mondiale. Non sono, infatti, gli stati che contrattano fra loro, sibbene gli individui o i gruppi di individui che ne fanno parte, e che agi¬ scono economicamente così quando si trovano ad appartenere a una stessa nazione, come quando so¬ no cittadini dì stati diversi. I fenomeni economici che ne risultano sono precisamente gli stessi, e la scienza non ha ragione di porre un qualsiasi pro¬ blema al riguardo. Problemi diversi nascono invece quando tra slato e stato si elevano delle.barriere che distìnguo¬ no il mercato interno da quello esterno. Sono le barriere doganali, espressioni tipicamente statali, che alterano tutti gli scambi facendo sorgere, anche nell’economia classica, la specifica teoria del com¬ mercio internazionale. Tuttavia bisogna star bene attenti alla natura del problema, e non credere che 103 la scienza tradizionale abbia con ciò abbandonato o comunque menomato il presupposto individuali¬ stico. Lo Stato di cui, anche qui, discorre la teoria, è sempre quello che è oggetto della scienza delle finanze e cioè un ente a sé con particolari fini e fun¬ zioni. E la scienza in tanto lo prende in considera¬ zione in quanto esso fa deviare l'economia naturale dal suo libero corso. Se, infatti, si analizzano le co¬ muni teorie del commercio internazionale, è facile avvedersi come tutto il loro contenuto si risolva, per un verso, in un’istanza negativa, implicita o espli¬ cita, contro l'intervento degli siati (soppressione delle barriere doganali), e, per un altro verso, nel¬ l’indagine delle conseguenze che il sussistere delle barriere doganali ha nell economia degli individui appartenenti ai diversi stati. In ogni caso si resta ligi al presupposto d eWhomo ceconomicus , unico centro e ragione della vita economica, e si resta con¬ seguentemente ligi al vecchio concetto di Stato, in¬ teso come una superfetazione, sia pur necessaria, e un limite più o meno grave della libera vita dell’in¬ dividuo. Una vera economia internazionale può nascere solo col sorgere del concetto di Stato, come organi¬ smo economico di carattere universale ; lo Stato, cioè, come soggetto economico in cui si fonde tutta la vita economica dei cittadini. In che cosa consista la differenza essenziale dei due concetti di Stato nella concreta prassi economica potrà risultare molto agevolmente da un esempio notissimo. In Italia si produce meno grano di quel che non si consumi: non solo, ma io posso trovar convenienza a rinun¬ ziare alla coltivazione del grano e a importarlo dal- 1 estero. Secondo la dottrina liberale, della conve- — 104 — nienza economica di produrre grano o di importar¬ lo, sono giudice assoluto io solo: lo Stato è tenuto a disinteressarsene completamente. Nel caso di un suo intervento, questo è dovuto o a ragioni politiche concepite come extraeconomiche o al bisogno di provvedere, mercé i proventi di un dazio doganale, alle spese inerenti alle sue peculiari funzioni. 0 un problema politico, dunque, o un problema di scien¬ za delle finanze: e l’economia scientifica, in ogni caso, non ne è toccata, racchiusa come essa è nel- Tindagine dello scambio tra me, produttore e consu¬ matore, e il produttore straniero. Ma quando lo Stato cessa di essere un ente particolare per dive¬ nire la stessa nazione nella sua unità, il problema del grano diventa problema economico solo in quan¬ to problema nazionale. E come quello del grano 6Ì impostano tanti e tanti problemi — a rigore tutti i problemi economici — che non hanno significato al¬ cuno per l’economia fondata sul presupposto del- Vhomo ceconomicus. Che significato, infatti, posso¬ no avere per una concezione individualistica pro¬ blemi come quelli della ruralizzazione o industria¬ lizzazione, dell’incremento demografico, deH’emigra- 5 ) Quando considero la scienza delle finanze lucri dell'economia politica non intendo parlare di un'estraneità assoluta, bensì rela¬ tiva al particolare concetto di Stalo sul quale la scienza delle fi¬ nanze finora è stata costruita. Dato uno Stalo —- essa dice — else ba particolari funzioni (pubblica sicurezza, giustizia, esercita, ecc.l, esso deve pur avere un proprio bilancio; e le sue entrale e le sue spese, come pure la loro influenza sulla vita economica dei citta¬ dini, devono esser studiate dalla scienza economica: tuttavia la vita economica dello Stato è altra cosa dalla vita economica dei citta¬ dini, sì che scienza delle finanze ed economia politica non coinci¬ dono. Cbi invece crede allo identità di indivìduo e Stato deve ne¬ cessari ante me intendere tale identità come fondamento di quella di scienza delle finanze ed economia. Ma sul problema della riforma della scienza delle finanze avremo modo di tornare in altra sede. — 105 — zione, ecc.? A ognuno, secondo i suoi gusti e le sue capacità, risponde Peconomia pura, perché per essa tali problemi sono tanti quanti gli individui. Ognuno al suo posto secondo il fine unico dello Stato, ri¬ sponde la nuova economia, perché per essa tali pro¬ blemi si risolvono in uno solo. E i gusti si educano e le capacità ci creano: sì che al posto di tanti cen¬ tri economici se ne mette soltanto uno, e all’incon¬ tro di tanti mondi si sostituisce un organismo con¬ sapevole. Organizzazione: ecco la grande realtà della vita civile in genere e della economia in particolare; ma organizzazione vuol dire organismo e l’organismo non può essere che unico: lo Stato. V’è poi l’organizzazione internazionale e sem¬ bra vi sia anche un organismo internazionale. E di¬ fatti esso esiste, ma in un senso diverso da quel che comunemente si crede. Se lo Stato ha un fine da raggiungere, risolve a suo modo tutti quei pro¬ blemi economici cui abbiamo prima accennato, ri¬ solvendo la vita economica dei cittadini in quella della propria unità. Ma è chiaro che il fine non sa¬ rebbe raggiunto se lo Stato non operasse egualmente con gli stati, che tutti, direttamente o indirettamen¬ te, entrano in rapporto con esso. Scendendo anche qui a un esempio concreto, possiamo notare come l’Italia per industrializzarsi deve importare alcune materie prime e trovare i mercati di esportazione per i manufatti. 11 che è possibile solo in quanto altri stati siano disposti a darci quelle e a comprare questi; vale a dire a divenire strumento di raggiun¬ gimento del fine che ci proponiamo. Ora, le condi¬ zioni necessarie perché gli altri diventino mezzi per il nostro fine sono essenzialmente due. Prima: che il fine che ci proponiamo sia davvero propo¬ sto, e cioè sia un fine consapevole; seconda: che si abbia la capacità di far divenire tale fine il fine economico degli altri stati. Perché la prima con¬ dizione si verifichi è necessario che lo Stato si iden¬ tifichi con l’individuo, ossia con la nazione, e sia organismo unico, soggetto economico unico. Perché si verifichi la seconda è necessario che lo Stato si identifichi con Tumanità, ossia con la vita interna¬ zionale, risolvendo nel proprio organismo l’organi¬ smo internazionale. La forza dunque che ci può consentire di raggiungere il nostro fine è forza or¬ ganizzativa di noi e degli altri, ossia la forza di col¬ laborazione, in cui la lotta e la concorrenza vengano risolte come momenti dialettici. Vi sono, infatti, due modi di concepire la lotta e la concorrenza economica — come, in genere, ogni sorta di lotta —: l’uno per il quale il fine della lotta è la distruzione dell’avversario, l’altro, invece, per cui il fine è l’unificazione delle volontà. TI pri¬ mo è puramente negativo e infecondo, il secondo, momento necessario di ogni sviluppo e progresso. Ora, nel campo economico internazionale una lotta intesa nel primo senso non potrebbe avere alcuno scopo intelligibile all’ìnfuori di quello del distrug¬ gere per il distruggere. E ciò non può lasciar dub¬ bio di sorta se si pensa che lo stesso effetto della distruzione sarebbe raggiungihile senza il minimo sforzo chiudendo i confini e facendo divenire l’eco- nomia nazionale un’economia chiusa. Se i confini restano aperti, è segno che gli altri stati non sono ostacoli da abbattere, ma forze da utilizzare, e uti¬ lizzare vuol dire coordinare le proprie forze per procedere in un’unica direzione. Allora la concor- 107 rema diventa — così come nel campo nazionale — voluta, disciplinata e subordinata al fine nazionale da raggiungere: il suo scopo non è più quello di eliminare delle forze avverse, ma di convertirle a una funzione che risulti più rispondente ai bisogni dell’organismo. 11 che si ottiene non lasciando che i concorrenti si urtino a vicenda seguendo i propri fini particolari, ma regolando la competizione verso la più opportuna divisione di lavoro. Che le conclusioni, cui siamo pervenuti, noti siano arbitrarie e utopistiche, lo dimostra, a chiun¬ que abbia gli occhi per vedere, la trasformazione sempre più rapida del mondo economico nella di¬ rezione indicata. All’interno il processo di unifica¬ zione della vita economica ha fatto passi gigante¬ schi e tutto fa pensare che il cammino sarà an¬ cora più notevole nel prossimo avvenire. Il concetto di organismo economico va sostituendosi, nella real¬ tà ancor prima che nella scienza, a quello di indi¬ viduo o di homo o economicus, tra svalutando soprat¬ tutto i concetti di monopolio e di libera concorren¬ za. Sul terreno internazionale poi le intese e gli ac¬ cordi economici sono sempre più frequenti e l’esa¬ sperazione della lotta doganale va richiamando sem¬ pre più l’attenzione generale sulla necessità di una organizzazione più salda e profonda delle forze eco¬ nomiche dei diversi stati. E anche qui la concorren¬ za va di fatto mutando i caratteri arbitrari di una volta, per rientrare nel circolo di un sistema dalla — lofi - cui logica unità viene incanalata e corretta. È una disciplina certamente più ardua e instabile, data la immensità del mercato e la molteplicità degli ele¬ mentida controllare, ma solo i ciechi potrebbero negare 1 abisso che corre tra l’atomismo economico di alcuni decenni fa e l’ingranamento odierno d’in¬ finiti centri economici in giganteschi organismi a ca¬ rattere internazionale. Né l’urto e l’esasperazione di tanti nazionalismi sorti o rafforzati nel dopoguerra riescono ad arrestare questo processo di collabora¬ zione internazionale, che è, d’altronde, l’unico stru¬ mento di un nazionalismo non illusorio. L’economia individualistica o liberale ha fatto il suo tempo e la realtà ce lo insegna additandoci le necessità della vita economica dentro e fuori i confini. Al dogma del liberismo e alla fede nella lotta incondizionata degli arbitri dei singoli va sostituendosi la convin¬ zione critica dell’apriorità dell’organismo economi¬ co coincidente con la realtà dello Stato. E con la realtà deve ormai procedere la scienza, che, non avendo più a suo oggetto una molteplicità caotica e inintelligibile come quella presupposta dal liberi¬ smo. può cominciare a veder chiaro nella logica del- 1 organismo economico e trovare quei fondamenti sistematici che ha invano perseguito per due secoli. LIBERISMO E PROTEZIONISMO Dopo aver precisato il concetto di libertà eco¬ nomica e i rapporti tra economia nazionale ed eco¬ nomia internazionale è possibile procedere all’ana¬ lisi della secolare antinomia tra liberismo e prote¬ zionismo. Nessun problema della scienza economica e stato tanto dibattuto come questo e l immensa let¬ teratura sull argomento continua di giorno in gior¬ no ad arricchirsi di nuovi saggi, che sostanzialmente si esauriscono nella ripetizione dei motivi fonda- mentali addotti dai fisiocrati in poi in favore del- 1 una o dell altra tesi. Ma, nonostante tutta questa mole di studi, sta di fatto che l'antinomia è rimasta teoricamente e praticamente insoluta, sì che liberi¬ sti e protezionisti continuano tuttavia ad accusarsi a vicenda di sproposilare nel campo scientifico e di rovinare, in pratica, l’economia della nazione. La soluzione classica del problema — confor¬ me al motivo fondamentale della scienza dell’econo¬ mia quale si è venuta configurando dal secolo XVI1T a — è quella rigorosamente liheristica. Muo¬ vendo dal presupposto del carattere naturale della vita economica, si è giunti a fil di logica alla eonclu- sione che. così negli scambi interindividuali come in quelli internazionali, le varie forze vadano la¬ sciate affatto libere nel loro giuoco e che il risultato dell’anarchico incontrarsi e scontrarsi sia quello della loro più perfetta composizione. A tale teoria naturalistica degli scambi internazionali ha dato poi — come si è detto — nuova forza la scuola psicolo- gico-matematica, che, giungendo, col Pareto, al con¬ cetto di ofelimità e frantumando, in tal guisa, il giudizio della economicità delle azioni nella molte¬ plicità dei soggetti economici postulati, ha sottratto alla sfera di competenza dello scienziato e a quel¬ la dell’uomo politico la stessa possibilità di un giu¬ dizio obiettivo di valore. Intervenire negli scambi non si può perché si ignorano in modo assoluto le utilità soggettive di coloro che scambiano. L'opposta tesi protezionistica, invece, non ha mai trovato un fondamento ideologico così deciso e preciso e, sebbene confortata dal costante esem¬ pio storico di una politica più o meno antiliberisti- ca, è rimasta nel campo scientifico in condizioni di evidente inferiorità. Il che spiega come essa nella maggior parte dei casi non abbia assunto le carat¬ teristiche di una vera e propria teoria, ma si sia li¬ mitata a contemperare il rigore della concezione li- beristica, mettendo capo a varie forme interme¬ die. E il compromesso ha finito, in sostanza, col trionfare nella letteratura scientifica più recente, sia per l’impossibilità di eliminare in modo assolu¬ to i motivi della tesi protezionistica, sia per la sem¬ pre maggiore coscienza storicistica dei cultori del¬ l’economia, costretti, volenti o nolenti, ad avvici¬ narsi alle nuove concezioni speculative. I tentativi di conciliazione si possono raggrup- — Ili — pare intorno a due tipi principali. Gli ortodossi bau- no mantenuto fede al postulato Veristico limitali- dosi a confinarlo nel campo della così detta econo¬ mia pura. Da un punto di vista astrattamente eco¬ nomico, essi dicono, resta incontrovertibile che ogni dazio protettore distrugge ricchezza: ciò non vuol dire, tuttavia, che in pratica sia da eliminare sem¬ pre e dovunque ogni sorta di barriere doganali; possono esservi, infatti, altre ragioni di carattere politico che consiglino l’intervento protettivo non ostante il danno economico da esso prodotto. Ma accanto agli ortodossi vi sono ormai parecchi esem¬ pi di economisti che, nello stesso ambito dell’eco¬ nomia pura, ammettono la possibilità di un dazio proficuo. Secondo essi, l'economia pura non può stabilire a priori se un dazio sia economicamente vantaggioso o dannoso: in certi casi la protezione, lungi dal distruggere ricchezza, è condizione neces¬ saria per il suo accrescimento. A chi, direttamente o indirettamente, segua le tracce della vecchia economia sembra verità di ca¬ rattere addirittura lapalissiano che con le soluzioni del problema ora prospettate si siano esaurite tutte le alternative possibili. 0 liberismo, o protezioni¬ smo o forme intermedie di compromesso: e la ve¬ nta va cercata eliminando due di queste soluzioni. Ma chi ormai ci ha seguito nella critica della scien¬ za economica e nella riduzione dei diversi indi¬ rizzi a quello classico liberale, può agevolmente 112 rendesi conto dell’impossibilità di giungere a un risultato davvero conclusivo accettando i termini della questione e limitando l’indagine a una sem¬ plice scelta. Se il problema ha messo capo a queste tre alternative e fra di esse si è dibattuto per due secoli, è segno cb'esso è rimasto aderente a una de¬ terminala concezione scientifica e cbe è vano ten¬ tare ancora di risolvere l’antinomia, senza superare quella concezione e porre la questione in termini affatto diversi. Ma perché il superamento non sia illusorio e perché l’antinomia appaia nella sua as¬ soluta irriducibilità, è necessario anzitutto chiarire la sostanziale identità dei due termini opposti. Oc¬ corre, in altre parole, dimostrare che liberismo e protezionismo non sono due soluzioni cbe si ripor¬ tano a due diverse concezioni della vita economica, sì che l’errore dell'uno possa significare o per lo meno possa non escludere la verità dell'altro, ben¬ sì che l’uno e l’altro scaturiscono da uno stesso prin¬ cipio informatore e rappresentano Tantinomia in¬ terna di esso. L’errore dell’uno è lo stesso errore dell'altro, ed entrambi si spiegano con l’errore del principio di cui sono espressioni. Il principio, s’intende, è quello solito dell’in¬ dividualismo economico. Si parte dal presupposto che le forze reali siano gli indivìdui nella loro au¬ tonomia e si pretende ch’essi soddisfino i loro bi¬ sogni nel libero giuoco della concorrenza, Nel caos in cui si scontrano le infinite forze individuali ognu¬ na salvaguarda come può i propri interessi e cerca di trarre il massimo profitto possibile. Così come per la naturalistica legge della selezione, i migliori si affermano e trionfano, i peggiori sono travolti e soccombono: né mai altro equilibrio o compo- - 113 — sizione delle forze si instaura che non sia quello de¬ rivante dall urto disorganico e disordinato. Ora, in questa concezione liberistiea o individualistica del- 1 economia, la teoria protezionistica, se appare co¬ me una contraddizione alle leggi di natura e però sostanzialmente illogica dal punto di vista scienti¬ fico ortodosso, è tuttavia escogitata per servire allo stesso sistema della concorrenza di cui apparente¬ mente è la negazione. Quando un’industria chiede un dazio protettore lo faesclusivamente per vince¬ re la concorrenza, e il dazio si risolve in un aiuto a una delle forze concorrenti e non in una forza eli- minatrice della concorrenza. Anche nel caso di un dazia proibitivo il fine ultimo è quello dì spostare e non di eliminare la concorrenza: i dazi, insonuna, non sono che altrettante forze gettate sul mercato per meglio resistere allumo e vincere nella lotta. Ma, con o senza dazi, la vita economica resta sem¬ pre quella primitiva o naturale di una bruta molte¬ plicità di elementi contrastanti. Nel mercato inter¬ nazionale come nel mercato interno si incontrano soggetti economici diversi, reciprocamente estranei fino al momento deH’incontro e che dal solo atto deirincontro debbono trarre norma per l’ulteriore difesa di propri fini particolari. Ragione della con¬ correnza è quindi il persistere di una molteplici¬ tà atomistica incapace di unificarsi, e il mercato, che è appunto la classica espressione delFeeonomia liberista, rappresenta il campo di lotta di individui (persone o nazioni) fino allora chiusi in mondi non comunicanti. 8 ■ Ambita — 114 Il carattere primitivo della vita economica fon¬ data sul principio della concorrenza (compreso in questo termine l’intervento protezionistico) è do¬ vuto, dunque, alla sua disorganicità o irrazionalità. Come il liberalismo politico di cui è la necessaria conseguenza, essa è il punto di partenza per il cam¬ mino della civiltà e non l’ideale della civiltà stessa. Il trionfo assoluto della concorrenza, lungi dal rap¬ presentare, come pensano i liberisti, un ideale da raggiungere allorché sarà superata ogni sorta di pregiudizi antiscientifici, è soltanto una realtà che si perde nella notte del primitivo stato di natura, in quello stato precontrattuale che vagheggiava la mente del ginevrino. Il carattere irrazionale della vita economica fondata sulla concorrenza e sul protezionismo è da¬ to appunto dalla irrelatività primitiva degli uomini e dei paesi, i quali rimangono gli uni fuori degli altri e non possono o non vogliono fondersi in un organismo unico. Credere che ogni forza economica possa rimanere autonoma e tuttavia ottenere il mas¬ simo di utilità possibile nello spontaneo equilibrio di tutte le altre forze, significa cadere nella più grossolana delle contraddizioni, in quanto si pre¬ tende far derivare la razionalità da un processo non razionale. Se razionalità vuol dire universalità, os¬ sia unità di volere e di fine, è chiaro che il modo migliore di raggiungere il fine non potrà esser quel¬ lo di ignorarsi reciprocamente e di procedere per vie diverse. La scienza deH’economia che finora ha — 115 — teorizzato la libera concorrenza o la protezione è caduta in un errore che ha tutto compromesso.’in quanto ha cercato di dare le leggi di ciò che è ex ege.. e ha lasciato fuori proprio la vita economica razionale. Libera concorrenza e protezione sono al di qua di ogni norma per il fatto stesso che sono al di qua di ogni organismo: esse rappresentano rat¬ inino, la natura, il male, il frammentarismo, la ne¬ gatività, msomma, della vita; e fare scienza di esse vai quanto fare scienza del caso. La vera vita eco¬ nomica e quindi la vera scienza può sorgere soltan¬ to allorché si comincia a uscire comunque dalla ir- relatività e a unificare i mezzi e i fini da raggiun¬ gere. Se, in apparenza, la vita degli individui e quella delle nazioni è stata finora denominata dalla concorrenza e dal protezionismo e tuttavia ha pro¬ ceduto nel cammino della civiltà, ciò è dovuto in realtà al fatto che, di là da ogni liherismo e prote¬ zionismo, si è andata sempre più affermando una intesa e una collaborazione di forze completamente sfuggita alla miopia degli scienziati. Accordo, collaborazione, organismo: ecco ì termini del problema, una volta superato il pre¬ supposto irrazionale deH’individualisnio. E tanto più è necessario porsi per questa via quanto mag¬ giore è lo sviluppo della vita economica e dei suoi elementi essenziali. Se, infatti, si resta nei limiti di iorze individuali o quasi, la cieca competizione dà luogo a danni meno appariscenti e profondi: ma quando, come nella vita contemporanea, gli orga¬ nismi economici sono diventati tanto complessi e grandiosi, andare avanti ignorando quel che fa¬ ranno gli altri significa esporsi a crolli improvvisi e spaventevoli. Superate in gran parte nella vita — 116 — economica interna le forme dell’individualismo e divenute normali le forme delle società anonime, delle banche, dei trust , ecc., continuare a tener fe¬ de all’individualismo nei rapporti internazionali di¬ venta sempre più assurdo e pericoloso. La crisi eco¬ nomica mondiale è l’espressione più evidente e con¬ vincente di tale assurdo. Dunque: né liberismo, né protezionismo; nes¬ suna, insomma, di quelle soluzioni che presuppon¬gono l’autonomia radicale delle forze economiche. Anche qui l’obiezione più facile sarà quella che deriva da una grossolana ipostasi della lotta e della dialettica della vita. Ma, anche qui, è facile rispondere che c’è lot¬ ta e lotta, e che il camminodella civiltà sta appunto nel rendere sempre più elevata e spirituale la com¬ petizione e sempre più abnorme ed eccezionale la guerra. E della guerra e non della competizione han¬ no proprio i caratteri la concorrenza economica e la protezione, in quanto tendono a sopraffare e non a collahorare con l’avversario. La competizione che si deve instaurare è quella che ha per fine l’incie- mento dell’organismo e si svolge quindi nell’ambito deU’organismo, non quella che ha, invece, per fine l'incremento dell’individuo (persona o nazione) visto nella sua particolarità irrelata. Dalia tesi teorica è molto facile scendere alla pratica applicazione nella vita politica. La realtà urge da tutte le parti e sta già facendo giustizia dei vecchi dogmatismi scientifici. Dobbiamo renderce- - 117 — ne 9empre più consapevoli e affrettarne il procedi¬ mento. Le forme concrete di realizzazione sono na¬ turalmente quelle die tendono all’unificazione del- 1 organismo economico mondiale. In primo luogo, lo studio internazionale delle forze economiche dei diversi paesi e delle vie più adatte alla loro colla¬ borazione e fusione. E, in conseguenza, la politica degli accordi industriali e commerciali atti a rea¬ lizzare quella fusione. La traduzione in pratica della tesi non avver¬ rà tanto facilmente, né mai in forma assoluta. Ma, se questa è la mèta cui tendere, bisogna die il pe¬ riodo di transizione sia informato alla coscienza del punto d arrivo. Voglio dire che nell’organizzare l’e¬ conomia della nazione occorre dalle fin d’ora quella fisionomia che più risponde alla sua funzione spe¬ cifica nel sistema dell’economia mondiale. Elimi¬ nando, per quanto è possibile, ogni sterile concor¬ renza, deve cercarsi un’affermazione dell’industria che assuma un’importanza essenziale nella vita del nostro e degli altri popoli. 11 nostro orizzonte deve allargarsi e non si può più pretendere di giovare alla nostra economia senza con ciò stesso giovare al- 1 economia degli altri. Questa è la legge di ogni or¬ ganismo e a questa legge deve essere informata an¬ che la politica economica di un paese che voglia guardare sul serio all’avvenire. V è, abbiamo detto, una concorrenza superiore a quella comunemente intesa; ed essa si vince oggi ponendosi all avanguardia nel processo dell’unifica¬ zione. La grandezza economica di una nazione si instaura col darle un posto di primo ordine nell’or¬ ganismo internazionale: chi ha la consapevolezza — Ufi — della via da seguire può concorrere più decisamen¬ te degli altri alla creazione di un organismo in cui far valere al massimo le proprie energie. Ma a que¬ st'azione politica internazionale va accompagnata, s intende, una trasformazione adeguata della vita interna in modo da porla all’altezza di quella vita mondiale del cui rinnovamento ci si fa promotori. Per uscire dai termini generali e scendere al- 1 esempio pratico del nostro Paese, che dei fonda¬ menti della nuova economia ha tentato prima e più degli altri una concreta attuazione, è facile preci¬ sare alcune conseguenze imprescindibili da cui trar¬ re norma per l’avvenire. L’Italia è la prima na¬ zione — si può aggiungere la Russia, ma per essa dovrebbe farsi altro discorso — cbe ba proceduto alla formazione di un sistema economico nazionale, attraverso l’ordinamento corporativo: ma i suoi sforzi, per quanto innovatori e fecondi, non posso¬ no raggiungere un risultato decisivo finché il suo sistema rimarrà un centro organizzato in mezzo a una vita mondiale disorganizzata. La vera vittoria del fascismo o del corporativismo si avvererà il gior¬ no in cui avremo fascistizzato o eorporativizzato tutto il mondo. Fino a quel giorno avremo la pos¬ sibilità di resistere un po’ meglio degli altri ai ma¬ rosi dell’oceano, ma rimarremo in gran parte in ba¬ lìa di essi. Primo compito, dunque, quello di per¬ suadere il mondo della verità dell’economia corpo¬ rativa e di farsi iniziatori di un sistema corporati¬ vo internazionale. Ma questo fine, a sua volta, im¬ plica la necessità di considerare fin d’ora il sistema corporativo italiano, non come un sistema a sé, chiuso e sufficiente nella sua autonomia, bensì co¬ me il sistema in cui si risolve tutta la vita econo- — 119 — mica mondiale. E alla realtà di questo più ampio sistema bisogna volgere gli occhi per la soluzione degli infiniti problemi propri della nostra nazione. Se, per esempio, nella soluzione del problema del grano consideriamo il sistema economico na¬ zionale come un sistema chiuso, è chiaro che spin¬ geremo al massimo la produzione fino al punto da non importare più un quintale dall’estero; ma se, al contrario, badiamo al sistema corporativo mon¬ diale, i nostri sforzi tenderanno a raggiungere una produzione massima per ettaro coltivato, ma insie¬ me a ridurre progressivamente la superficie colti¬ vata. È evidente che una produzione che per reg¬ gersi ha bisogno di un dazio di 75 lire a quintale oltre a varie altre provvidenze legislative, e che non può sperare di modificare sensibilmente que¬ ste condizioni nell avvenire, deve rappresentare uno stadio provvisorio nel processo dell’organismo mon¬ diale. Ben diverso è il problema dell’industria si¬ derurgica e delle industrie meccaniche nella cui soluzione non si può affatto convenire con i teorici del liberismo. (Tanto è vero che l'economia corpo-, rativa è di là da ogni liberismo o protezionismo). Le industrie siderurgiche e meccaniche sono al fon¬ damento di tutta la più alta industria moderna, e una nazione che vi rinunci, si suicida. Ma anche qui occorre non perdere d’occhio il sistema mon¬ diale e quindi indirizzare tali industrie verso quelle forme superiori in cui il tecnicismo (preparazio¬ ne e ingegno dei dirigenti e bontà della mano d'o¬ perai diventi fattore di produzione predominante fino a rendere trascurabile il maggior costo delle materie prime. — 120 - Alla visione dell’avvenire, verso cui certamen- te si cammina a gran passi, contrasta la politica dell’oggi con altissime barriere doganali e con la sfrenata concorrenza. Ma se la logica è dell’avveni¬ re -— ci dicono ancora gli scettici — intanto come si va innanzi? Dobbiamo togliere le barriere e dar ra¬ gione ai liberisti, ovvero dobbiamo elevarne anco¬ ra e difenderci a tutti i costi? La vita economica sociale, si è detto, è cono¬ scibile scientificamente solo in quanto razionale e organica. Se il problema resta posto nei termini consueti della concezione individualistica, nessuna risposta può darsi ebe abbia valore di norma. Li¬ berismo e protezionismo sono le soluzioni di uno stato di guerra, di un urto violento e indisciplinato; e in guerra, si sa, ci si difende come si può. Se un individuo viene affrontato, deve uccidere o deve corazzarsi? Tutte e due le soluzioni sono buone, ma certo sarebbe meglio che i due casi fossero eli¬ minati e ebe gli avversari si dessero la mano, ri¬ solvendo in modo logico la ragione del contrasto. E così oggi nella vita economica internazionale: cerchiamo di affrettare il processo di razionalizza¬ zione, e intanto andiamo avanti con o senza bar¬ riere doganali, secondo l’urgenza del momento e le particolari condizioni economiche e politiche. L'ORDINAMENTO CORPORATIVO DELLA NAZIONE E L’INSEGNAMENTO DELL’ ECONOMIA POLITICA (Lettera operici di Rodolfo Berlini al prof. Ugo Spirilo) Chiarissimo Professore, Intorno ai problemi dell’Economia corporativa ai è formala in breve tempo una vasta letteratura, ma di ca¬ rattere — oom Ella afferma — piuttosto giornalistico, mentre i tentativi di rigorosa sistemazione scientifica della nuova materia sarebbero scarsi o poco notevoli. Di tale condizione di cose Ella chiama responsabili gli eco¬ nomisti della cattedra, i quali evitano di parlare di quei problemi, considerandoli pertinenti ad un indirizzo an¬ tieconomico e, per ciò stesso, estraneo alla scienza. Richiesto cortesemente del mio avviso, non voglio chiudermi in un silenzio che potrebbe essere interpretato come un adesione al modo di fare e di pensare, da Lei attribuito ai miei autorevoli eollegbi. Veramente, il mio tacere avrebbe avuto piuttosto lo scopo di prender tem- po, innanzi di esporre un’opinione molto radicale, la cui elaborazione non è forse arrivata a termine nel mio pro¬ prio pensiero. Ma, se non è arrivata a perfetto termine, essa ha già fatto tal cammino, che il discorrerne non parrà intempestivo o inopportuno. Le persone di spirito non la troveranno neppure irritante. Io consento in quasi tulle le riflessioni da Lei svolte — 124 — nell’articolo: «Verso l’Economia corporativa» 11 — ma vado più diritto alla sede del male. Dico dunque, senza ambagi, che alcuni economisti fanno dell'Economia teo¬ rica una mezza scienza. Non « mezza » nel significato po¬ co riguardoso di scienza superficiale, dalle conclusioni mal cucite alle premesse; ché anzi (io lo riconosco vo¬ lentieri) da certe cattedre fluiscono ragionamenti, i quali partecipano del rigore delle matematiche. Dico mezza scienza nel significato dimensivo dei termini, ossia dot¬ trina che nelle sue premesse fondamentali non ha gettato il seme diquestioni che pur le appartengono; questioni di vita della stirpe o di potenza della Nazione; questioni di interventi o non interventi dei poteri pubblici nei rap¬ porti d’interesse privato; questioni anche di scuole o di parLiti economico-politici. Certo, ogni buon professore sa trattarne, e spesso ne tratta in apposite lezioni dedi¬ cate alla politica economica, alla storia delle dottrine, ecc.; ma altro è che ne discorra fuori sistema, per la col¬ tura generale de’ suoi allievi, senza sentirsi obbligato a farlo dalla forza delle premesse; ed altro è che ne di¬ scorra, perché così esige lo sviluppo logico degli enun¬ ciati, previdentemente inseriti in uno schema introdut¬ tivo della disciplina. Ora, il problema dell’ordinamento corporativo, al pari di altri consimili, non è discusso affatto (a quanto sembra) o è discusso « fuori sistema » a titolo semplice¬ mente informativo. Esso appartiene alla... seconda metà della scienza — quella che non s’insegna come scienza, ma piuttosto come storia — e invano ne cercheremmo nella prima metà i cardini d’attacco o i motivi prenio- nilorii. Ciò dipende anzitutto, a mio avviso, dalla ripugnan¬ za che provano non porhi economisti ad accogliere nei loro preliminari scientifici il concetto dello Stato, quale fattore della produzione. Tale disposizione d'animo non si giustifica menomamente. Il processo della ricchezza è la risultante di due fasci di forze componenti : l’attività individuale, singola o associata, e l’attività dell’organiz- ’) Cfr. La critica dell'economia liberale. Milano, Treves, 3930, pag. 730. — 125 — zazione politica, di cui lo Stato è l’espressione suprema. I punti d'applicazione di queste forze (diciamoli cosi per completare la similitudine coi fatti della meccanica) son da ricercare nella stessa ricchezza esistente al momento iniziale del processo — ricchezza in gran parte d’origine ereditaria, cioè prodotta da anteriori generazioni. Fa della scienza a metà colui che si ferma alla prima com¬ ponente e tace della seconda o l’assume come « costante » lungo tutta la linea di condotta della sua disciplina. Lo Stato, che provvede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giustizia, alla viabilità, all'istruzione, ecc., e trasfor¬ ma così buona parte della ricchezza privata in potenza collettiva (che rigenera ricchezza), è un produttore con¬ tinuo di beni, servizi e ordinamenti aventi carattere di stretta complementarità coi beni, servizi e ordinamenti dell’iniziativa privata. E come questi secondi si svilup¬ pano in quantità e varietà, col progredire dell incivili¬ mento, e fanno luogo a rapporti viepiù complessi o dif¬ ferenziati tra gli individui o i gruppi, così i primi, cioè i loro complementari forniti dallo Stato, non hanno co¬ lonne d’Èrcole che li fermino ad un punto obbligato. Lo Stato è coevo all’uomo, ché la prima famiglia umana fu in embrione un impero. I caratteri di necessità e immanenza, che gli son proprii, non ammettono che si prescinda da esso per astrazione, come se fosse una circostanza secondaria, accidentale o di semplice pertur¬ bazione. Basterebbe un momento d’incertezza nella vita dello Stato per rompere tanti fili nel tessuto della so¬ cietà, da gettare il disordine in ogni specie di operazioni. Voler vedere in esso anzitutto un elemento perturbatore dell’attività spontanea dei privati e dei loro calcoli edo¬ nistici, è generalizzare solo a suo carico difetti di funzio¬ namento che non sono né più rari, né meno gravi presso i singoli individui. Si può invece assumere lo Stato come una « costante )) fin che l’assunto giovi alla soluzione di problemi in prima approssimazione; ma per conclusioni più aderenti alla realtà è mestieri rivedere da vicino il valore della costante. E allora si scorge che costante non è. Lo Stalo è un organismo in evoluzione, ad immagine degli uomini che lo compongono e soprattutto ad imma¬ gine degli uomini più rappresentativi di interessi, dì 126 ideali, di temperamenti, che esercitano una influenza sulla legislazione e si avvicendano al potere. Qui cessa d’esser valida la similitudine presa dai fatti della meccanica. Nelle scienze l’uso dei trafilati, che sono spedienti proprii delle belle lettere, vuoisi fare con cautela e sobrietà. Coloro invece che vi insistono a fondo, trattando le forze evolutive dell’uomo, come se fossero le forze rigide della fisica, non scrivono Teconomia del- 1 homo sapiens, ma dell’uomo-macchina, tutto ruote den¬ tate e molle di precisione. Può l’eeonomista addurre a sua scusa che Io studio della componente « Stato » appartiene ad altre discipli¬ ne? T.’eccezione d’incompetenza sarebbe irricevibile. Ad altre discipline spetterà di considerare lo Stato ir rela¬ zione ad altri scopi della vita, che non siano la costitu¬ zione della ricchezza; ma per questo particolare scopo, che implica la conoscenza di due variabili essenziali e interdipendenti, l’egoismo individuale e lo spirito di so¬ lidarietà nella sua più imperativa espressione che è lo Stato, sarebbe strano che il più interessato ad averla, non la volesse avere che per una delle variabili e chiamasse « pura « anziché « incompleta » la teorica innalzata su base siffatta. Ho insistito varie volte su questo punto: non esserci Ira 1 homo oer.onomicus e il cittadino ( civis ) soluzione di continuità. La moda di oggigiorno è quella di separare una figura dall altra. Ma se c’è qualità che non si possa isolare dal soggetto dell’Economia politica se non per un capriccio dialettico, è proprio quella del cittadino. Essa lo segue come l’ombra il corpo. L’individuo può essere dotto o indotto, credente o miscredente, originale o imitatore, padre o non padre di famiglia; ma cittadino lo è sempre. E come tale spiega un'influenza più o meno grande sulla formazione del costume e su quella del Di¬ ritto. L’àomo ceconomicus, dunque, inseparato dal cit¬ tadino, è creatore del Diritto. Ecco scoprirsi alla nostra veduta l’aspetto genuino della questione. Tutti veniamo al mondo con un patrimonio eredita- — 127 — to, che può variare da zero a qualche miliardo di no¬ stra moneta; ci presentiamo alla carriera della vita, come ad una gara di corsa, movendo da posizioni iniziali van¬ taggiose o svantaggiose. La distribuzione dei corridori in posti di partenza diversamente avanzati rispetto al tra¬ guardo, non è per anco entrata nelle regole «sportive» ma certamente fa regola nel mondo economico. Anzi, il pri¬ missimo capitolo da scrivere in Economia — dopo la de¬ finizione e un po’ di nomenclatura — dovrebb’essere pro¬ prio quello delle posizioni iniziali più o meno avanzate (leggasi: distribuzione più o meno equa della proprietà) che la sorte e la legge ci assegnano al nostro nascete, per¬ ché da esse dipendono molte cose: educazione d’ambien¬ te, modi di sentire riguardo al valore dei beni e dei ser¬ vigi, professioni preferite, capacità di resistenza nei con¬ tratti, possibilità (grazie al diritto successorio e al feno¬ meno dell’interesse del capitale) di far vivere una discen¬ denza « infinita » su una quantità « finita » di ricchezza. E così via. Ond’è con meraviglia che vediamo gran parte degli economisti e l’autore stesso della felice similitudine « posizioni iniziali » relegare la premessa in capitoli terminali dell’insegnamento o in separata sede; insom¬ ma, fare dell’Economia teorica una costruzione senza la chiave di volta, che le è necessaria per reggersi in piedi in tutta la sua interezza. I fatti dimostrano che l’uomo (chiamisi pure l’uomo economico) venuto al mondo senza i favori della sorte, cioè in posizione iniziale svantaggiosa, si industria come cittadino, a modificarla in meglio per sé o per la sua clas¬ se, influendo, come può, sulla legislazione; e se ci venne in posizione favorita s’industria, come cittadino, a con¬ servarla. Le armi a ciò non sono tutte dell’arsenale eco¬ nomico, perché una delle parti in campo, già per ipo¬ tesi non ne possiede; se le possedesse in pieno, vorrebbe dire che disuguaglianza di posizioni non c’è, e non c’è la ragion del contrasto. Le armi, allora, sono quelle del cit¬ tadino: la scheda elettorale, la lega di resistenza, lo scio¬ pero, ecc. ; e le chiamo del cittadino, in quanto presup¬ pongono il riconoscimento di libertà e diritti che a poco a poco fanno mutare ilviso e l’animo al legislatore. Or si domanda: questo giuoco di azioni e reazioni potendo — 128 — riuscire pericoloso alla collettività, ossia agli stessi com¬ battenti e ai semplici spettatori, a chi toccherà di rego¬ larlo nell interesse della pacìfica collaborazione delle classi? A chi, se non allo Stato, a cui fanno capo tutti i problemi attinenti alla coesione sociale? Ed ecco come dalla considerazione del cittadino — qualità inseparabile dal soggetto dell’Economia politica — arriviamo al regolamento dei contrasti di classi, come ufficio di competenza dello Stato. Che il regolamento sia bene o male idealo, che il servizio valga o non valga quello che costa, sarà questione subordinata da risolvere in Economia applicata, se l’altra Economia teme di per¬ dere della sua purezza. Il fatto che il regolamento im¬ plichi un costo, non costituisce motivo perché si debba riguardarlo come un affare antieconomico ed estraneo alla scienza. Chi afferma questo, dimentica che i beni, i servizi, gli ordinamenti che lo Stato crea, non li crea ex nihilo ; il rapporto in cui stanno coi beni, servizi, ordi¬ namenti prodotti dall’iniziativa privala è di stretta com¬ plementarità, complementarità ebe deve intendersi nel duplice rispetto, delle utilità e dei costi. Gli economisti, che vedono nell'aumento di spese ge¬ nerali delle aziende una ripercussione, a tutta perdita, dell’assetto corporativo della Nazione, si mettono da un punto di vista unilaterale, quello degli imprenditori; ed anche in questo riducono la loro scienza ad una mezza scienza. L’assetto corporativo fu pensato nell’interesse di ambo le parti: imprenditori e lavoratori; meglio ancora, fu pensato nell'interesse generale del paese. La disciplina restituita al lavoro, lo spirito di concordia che va infor¬ mando ogni giorno più i contratti collettivi e il valore morale della magistratura che veglia sulla loro osservan¬ za e sui mutamenti delle condizioni del mercato, sono vantaggi, che non si misurano in moneta, come non si misurano in moneta quelli di una efficace organizzazione della giustizia, della sicurezza, dell’istruzione o della difesa nazionale. Si ripensa forse con nostalgia ad un’economia pret¬ tamente individualista? Senza dubbio essa, limitando al- 1 estremo le funzioni dello Stato, riduceva al minimum le spese dell’azienda pubblica e di riflesso alleggeriva il 129 — carico alle private imprese; ma lasciava esposti ad un maximum di rischio i buoni rapporti delle classi, Che le poche funzioni attribuite allo Stato erano giusto quelle desiderate dai cittadini delle posizioni favorite, ai quali faceva comodo che la macchina collettiva da produrre il diritto e la forza esecutiva del diritto, lavorasse a con¬ servarle. Ma era inevitabile che gli altri cittadini rumi¬ nassero a farla lavorare altrimenti, prendendone in ma¬ no le leve, di forza o di sorpresa. Quindi lotta aperta o insincera collaborazione di classi. Molti molto si aspettano da un sistema collettivista. \ogliono, dunque, un maximum di funzioni dello Stato, il sistema implicando la trasformazione, graduale o di impeto, dei servizi oggi resi dalla privata proprietà e dalla libera concorrenza in servizi pubblici. Ma quel ma¬ ximumsiaccompagnerebbe ad un minimum di rendi¬ mento del lavoro e delle libere iniziative. Tale la previ¬ sione più ragionevole. D'altronde lo sfruttamento del- 1 uomo per l’uomo, cacciato dalla porla rientrerebbe dalla finestra, perché esso è un fenomeno generale, non del- 1 officina soltanto, ma dell’ambiente stesso della famiglia, di quello delle amicizie, dei partiti politici, ecc.; ha ra¬ dici nella natura umana. 11 sistema socialistico ne svi¬ lupperebbe in un senso la fioritura, come il sistema in¬ dividualistico la sviluppava in un altro senso. L’assetto corporativo nazionale si tiene egualmente lontano dai due estremi: mira ad attuare un maximum di rendimento del lavoro con un minimum di attriti fra le classi sociali e di ritardi per il progresso civile della Na¬ zione. Se non è il sistema perfetto, è perfettibile. Avrei altro da dire, ma la lettera aperta vuol essere chiusa. Le sono quasi grato, caro professore, d’avermi indotto a scriverla. Che, alla mia età, si può anche pro¬ mettere un trattato di Nuovi principiì, ecc.; ma difficile e mantenere la promessa! Devotissimo Rodolfo Benini 5 - S m bit* La lettera che precede fu pubblicata in Nuovi Studi di diritto, economia e politica (1930, fase. 1, pp. 45-50) ed era seguita da un articolo di Massimo Fnvel su L’individuo e lo Stato nella scienza econo¬ mica (pp. 51-6 7) in cui si discutevano alcune mie af¬ fermazioni. Al Bellini e al Fovel rispondevo con le pagine seguenti: LA RIFORMA DELLA SCIENZA ECONOMICA E IL CONCETTO DI STATO 11 tentativo compiuto da questa rivista per un primo orientamento nello studio dell’economia corporativa comincia a dare i suoi frutti, e già si veggono chiarite alcune posizioni fondamentali, che consentono una certa disciplina nell’ulteriore ricerca. I due scritti pubblicati in questofascicolo — la lettera aperta del Benini e l’articolo del Fovel — sono due sintomatici documenti di quella svolta decisiva nella storia della scienza economica che de¬ ve ormai risultare evidente a chiunque abbia una mentalità non irretita da pregiudizi dogmatici. Ma il risultato raggiunto è soprattutto notevole perché il significato della svolta è stato reso esplicito e ìne- quivocahiìe, ed è stato posto il criterio fondamen¬ tale per le nuove costruzioni scientifiche. Si è usciti — ìai insomma dallo stato dì disagio proprio di chi, pur insofferente del vecchio, non conosce ancora la nuo¬ va via da intraprendere ; e si è posto un quesito che non può più restare senza una risposta categorica. Rodolfo Benini, con squisita ironia e con una critica che va anche al di là delle sue affermazioni esplicite, ha accusato senz’altro l’economìa teorica di essere una mezza scienza, e mezza « nel signifi¬ cato dimensivo dei termini, ossia dottrina che nelle sue premesse fondamentali non ha gettato il seme di questioni che pur le appartengono; questioni di vita della stirpe o di potenza della Nazione; que¬ stioni di interventi o non interventi dei poteri pub¬ blici nei rapporti d’interesse privato; questioni an¬ che di scuole o di partiti economico-politiei. Certo, ogni buon professore sa trattarne, e spesso ne tratta in apposite lezioni dedicate alla politica economica, alla storia delle dottrine, ecc. ; ma altro è che ne discorra filari sistema, per la coltura generale de’ suoi allievi, senza sentirsi obbligato a farlo dalla forza delle premesse; ed altro è che ne discorra, perché così esige lo sviluppo logico degli enunciati, previdentemente inseriti in uno schema introdutti¬ vo della disciplina ». « Ciò dipende », continua il Benini, « anzitutto dalla ripugnanza che provano non pochi economisti ad accogliere nei loro preli¬ minari scientifici il concetto dello Stato, quale fat¬ tore della produzione. Tale disposizione d’animo non si giustifica menomamente ». E non si giustifica perché « lo Stato è coevo all’uomo », perché tra 1 homo (Economicità e il civis non ci può essere so¬ luzione di continuità, perché infine solo « per un capriccio dialettico » è possibile isolare la qualità del cittadino dal soggetto dell’economia politica. — 132 — Né meno categorico è l'atteggiamento del Fo- vel, il quale prende atto « che la scienza — ripe¬ tiamo ancora: la scienza nel suo stato più puro — è negativa di fronte alle scelte statali, le esclude da sé, non le mette neanche, a rigore, nel novero delle scelte, è, insomma, negativa di fronte allo Stato. Ciò può essere venuto per le origini antista¬ tali della scienza economica stessa; oppure per un incolpevole e vergine oblio teorico: oppure insom¬ ma (sia detto con la massima prudenza) per un er¬ rore, che la ha viziata fin qui. Lasciamo andare: il nascere del fatto poco ei importa. E ci importa, in¬ vece, il fatto stesso, che è questo: per la scienza l’ipotesi statale, o, meglio, lo Stato-ipotesi è (op¬ postamente aH’individuo-ipotesi) la non economia; e lo è solo, e solo perché la scelta statale implica per definizione, la non libera scelta individuale ». 11 quesito, dunque, che si pone oggi alla scien¬ za può formularsi brevemente così : — È lecita ed è scientificamente giustificabile una costruzione si¬ stematica dell’economia pura che prescinda dal con¬ cetto dì Stato e dal rapporto tra Stato e individuo? E in caso negativo, in quale senso tale concetto va introdotto nella scienza e a quali conseguenze teo¬ riche deve condurre? Questo, il punto di partenza per un’intelli¬ genza critica dell’economia corporativa, e ci sem¬ bra ormai che nessuno onestamente possa eludere il problema con una fin de non recevoir. Finché il corporativismo s’intende come una mera espe¬ rienza pratica, i puristi possono disinteressarsene, chiusi come sono nel loro preconcetto dualistico dei rapporti tra scienza e politica, ina quando esso si traduce in una perentoria istanza teorica, bisogna — 133 — pur decidersi ad accogliere o a respingere critica- mente. E noi ci auguriamo di avere dall’esperien¬ za dei maestri un valido aiuto all’attuazionedel no¬ stro programma. Una volta posto il problema in siffatti termi¬ ni, il primo punto da chiarire e da precisare con¬ cerne, naturalmente, il significato stesso da attri¬ buirsi al termine Stato e, correlativamente, al ter¬ mine individuo. E su tale punto conviene insistere con molta perseveranza, soprattutto perché il con¬ cetto di Stato sembra a prima vista il più semplice ed evidente che ci sia, sì da poter su di esso co¬ struire senza preoccupazioni di sorta; ma la sicu¬ rezza, poi, con cui si procede su tale terreno viene subito a mancare appena si cessi dal presupporre noto il conceLto e si tenti di determinarlo effettiva¬ mente. 11 che ci sembra di poter dimostrare alla lu¬ ce degli stessi scritti sopra accennati. 11 Benini parla dello Stato, come di chi « prov¬ vede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giu¬ stizia, alla viabilità, all’istruzione, ecc. », e altrove osserva che « il processo della ricchezza è la risul¬ tante di due fasci dì forze componenti: l’attività individuale, singola o associata, e l’attività della organizzazione politica, di cui lo Stato è l’espres¬ sione suprema ». Ora, questo linguaggio implica un dualismo irriducibile di Stato e individuo, e per quanto il vigile senso di concretezza che ispi¬ ra il Benini lo conduca a concepire i rapporti di complementarietà delle due forze nel modo più in- 134 timo e indissolubile, sussiste tuttavia una radicale contrapposizione di funzioni e di finalità che com¬ promette il sistema, Tanto è vero che il Benini av¬ verte infine il bisogno di mettere in guardia contro la tendenza di attribuire « un maximum di fun¬ zioni [allo] Stato », perché « quel maximum si accompagnerebbe ad un minimum di rendimento del lavoro e delle libere iniziative ». L’assetto cor¬ porativo sarebbe ottimo sol perché « si tiene egual¬ mente lontano dai due estremi ». Inutile dire che la critica contro il colletti¬ vismo, ripetuta dal Benini e mossa da tutta l’eco¬ nomia lihcrale a quella socialista, è esatta nella dia¬ gnosi e nella conclusione, ma occorre tener presente che il socialismo è superato sol perché è superato  il concetto di Stato ch’esso implica, e che è quello stesso del liberalismo, dal quale non riesce a stac¬ carsi neppure il Benini. Lo Stato, cioè, è circoscrit¬ to a un ente immaginario, in limiti imprecisabili, e con personalità essenzialmente distinta da quella degli individui che lo compongono. Si cambia cioè 10 Stato con un organo centrale, relativamente estra¬ neo alla vita della nazione e perciò sopraffattore delle energie individuali. Di quest’organo — che è poi la burocrazia — a ragione si diffida e giusta¬ mente si protesta contro l’attribuzione che a esso si voglia fare di un maximum di funzioni. Ma questo è lo Stato ancien regime, al quale 11 fascismo deve opporsi con tutte le sue forze, perché essenzialmente contrario al suo spirito; lo Stato non deve essere, non è, un organo fuori del- Torganismo, una sovranità opposta ai sudditi, una realtà sui generis diversa dal cittadino: lo Stato, insomma, non è più quello contro cui insorgeva il — 135 — secolo elei lumi e che si è trascinato come misero residuo nella storia del liberalismo. Lo Stato s’iden¬ tifica con l’individuo, in una sintesi idealmente as¬ soluta, e, di fatto, sempre più realizzabile e realiz¬ zata. Se noi cercassimo infatti di precisare i confini dello Stato ci accorgeremmo subito di questo pro¬ gressivo suo immedesimarsi nella vita della nazione. Dallo Stato alle provincie, ai comuni, agli enti pa¬ rastatali, agli enti morali è tutto un lento compe¬ netrarsi della vita pubblica in quella privata, sino all’esperienza rivoluzionaria del fascismo che, pri¬ ma sul terreno più strettamente politico dell orga¬ nizzazione del partito , poi, e ben più radicalmente, su quello dell’organizzazione sindacale, ha posto decisamente l’esigenza di un combaciamento assolu¬ to della sfera dell’attività statale e di quella indi¬ viduale. Lo Stato contro il quale nacque il liberali¬ smo è veramente morto eoi morire dello Stato pro¬ pugnato dallo stesso liberalismo. E continuare oggi a discutere dello Stato, illudendosi di poterlo in¬ dividuare entro quei limiti in cui lo si individua¬ va nel Settecento, significa perpetuare un equivoco di gravissimo pregiudizio per tutte le scienze so¬ ciali. Il potere dello Stato non ba limiti e chiunque tentasse di determinarne le funzioni resterebbe fa¬ talmente a mani vuote: ogni determinazione della sua sfera rispetto agli individui sarebbe fondamen¬ talmente erronea. Ritornando ora alle esemplificazioni del Belli¬ ni è facile spostare i termini del problema: uno Stato comequello concepito dal fascismo, non prov¬ vede soltanto « alla difesa nazionale, alla sicurez¬ za, alla giustizia, alla viabilità, all istruzione, ecc. )), ma provvede a tutto perché è immanente a tutto. Ed — 136 esso perciò non può rappresentarsi come un fascio dii forze da aggiungersi all’altro delle attività indi¬ viduali, bensì come le stesse forze individuali nella loro vita solidale. Di quest unica vita sono manife¬ stazioni tutti i poteri pubblici e privati, centrali e periferici: e, nel campo economico, il bilancio dello Stato, quello degli enti pubblici, degli enti para¬ statali e morali, delle organizzazioni di partito e sindacali, e infine di tutti i cittadini, che tutti nello e per lo Stato vìvono. Ogni barriera che si volesse porre a un punto della serie sarebbe affatto arbitra¬ ria e irragionevole. E si comprende, dunque, come 1 ideale del corporativismo non debba esser quello dì rimanere egualmente lontano dai due estremi (sopravvento dell’iniziativa privata o della pubbli¬ ca), bensì di rendere insussistente il problema eli¬ minando ogni differenza tra l’essenza delle due ini¬ ziative. Certo, se per Stato s’intende la burocrazia, affi¬ dare ad essa l’economia nazionale non può non es¬ sere una mostruosa utopia: ma lo sforzo del fa¬ scismo deve essere appunto quello di sburocratiz¬ zare lo Stato, elevando ogni cittadino al grado di funzionario pubblico. Il processo di trasformazione non è dei più facili e dei più rapidi: v’è anzi il pe¬ ricolo di periodi di transizione in cui il fenomeno burocratico si aggravi, e dia luogo a nuovi inconve¬ nienti. Si pensi che l’organizzazione sindacale e cor¬ porativa, prima di aderire in modo soddisfacente alla realtà, è destinata in gran parte a pesarvi su come una soprastruttura — vale a dire come una burocrazia. Ma gli ostacoli non debbono arrestare ilcammino, anzi debbono porre la necessità di ac¬ celerarlo, sì da superare con energia sufficiente gli inevitabili punti morti. E per accelerare il ritmo, a me sembra che uno dei mezzi {ondamentali deb¬ ba essere fornito dalla scienza, la quale deve sgom¬ brare il terreno dai pregiudizi teorici che arrestano, con la forza della tradizione, la stessa mano del¬ l’uomo d’azione. L immedesimazione assoluta della vita dello Stato con quella dell’individuo dà il criterio pre¬ ciso della riforma della scienza economica, la quale, dunque, non è « mezza scienza nel significato di- mensivo dei termini )), vale a dire nel senso di es¬ sersi occupata dell’individuo (una delle componen¬ ti) e non dello Stato (l’altra componente), ma mez¬ za proprio nel significato deteriore di scienza fon¬ data su premesse erronee, e propriamente sull’ipo¬ stasi di un individuo e di uno Stato inconcepibili, o concepibili soltanto come manifestazioni patolo¬ giche (individuo anarchico e Stato tiranno). ÀI quale ulteriore concetto sembra accennare il Fovel nella chiusa del suo articolo quando dice che per colmare l’iato tra le scelte dette libere del¬ l’individuo e le scelte dette non libere dello Stato (( si può tentare di mostrare che anche le sedicenti scelte libere dell’individiio non sono libere, ma eco¬ nomicamente imperative, quanto quelle statali; e ciò perché sono esattamente prescritte dalle scelte pure libere degli altri individui, ossia dalla società economica. Oppure si può tentare di mostrare che anche le cosidette scelte non libere dello Stato sono libere, né più né meno che le scelte individuali; - 138 — e questo perché anche le scelte dello Stato non sono altro, anch’esse, che scelte di individui nella società economica ». Senonché per il Fovel, Stato e individuo hanno ancora una loro particolare per¬ sonalità, e lo Stato conserva una fisionomia cor¬ pulenta, che rende estremamente difficile il processo di risoluzione della sua autorità nella libertà degli individui e viceversa. Quando l'iato sarà effettiva¬ mente colmato, il vero concetto di libertà economica apparirà in tutta la sua luce e le forme stereotipate della libera concorrenza e del monopolio, che re¬ stano a fondamento della costruzione del Fovel, si risolveranno in uno schema economico ben altri¬ mentiadeguatoalla realtà.II SE ESISTA, STORICAMENTE, LA PRETESA REPU- GNANZA DEGLI ECONOMISTI VERSO IL CON¬ CETTO DELLO STATO PRODUTTORE Alla lettera sopra riportala del Benini rispose anche L. Einaudi con il seguente articolo pubbli¬ cato in Nuovi Studi (1930, jasc. V, pp. 302-314). Caro Renini, 1. Mi è accaduto solo adesao di leggete, una tua sug¬ gestiva lettera aperta pubblicata nel lasci colo di gen¬ naio-febbraio di quest’anno dei Nuovi Studi-, suggestiva, perché costringe a pensare e a dubitare. Le questioni « di interventi o non interventi dei poteri pubblici nei rapporti d’interesse privato; questioni anche di scuole o di partiti economico-poi itici », sarebbero di quelle questioni che dagli economisti sono discusse «fuori si¬ stema » ; apparterrebbero a quella « seconda metà della scienza, quella che non s’insegua come scienza, ma piut¬ tosto come storia ed invano ne cercheremmo nella pri¬ ma metà i cardini d’attacco o i motivi premonitorii ». Quale la spiegazione del fatto? fecondo te, eaao « dipen¬ de anzitutto dalla ripugnanza che provano non pochi economisti ad accogliere nei loro preliminari scientifici il concetto dello Stato, quale fattore della produzione ». E benissimo aggiungi: «Tale disposizione d'animo non — 140 — si giustifica menomamente. Il processo della ricchezza è la risultante di due fasci di forze componenti : l’atti¬ vità individuale, singola o associata, e l’attività dell’or¬ ganizzazione politica, di cui Io Stato è l’espressione su¬ prema... Fa della scienza a metà colui che si ferma alla prima componente c tace della seconda o l’assume come « costante » lungo tutta la linea di condotta della sua disciplina. Lo Stato, che provvede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giustizia, alla viabilità, all’istruzinne, ccc., e trasformacosì Intona parte della ricchezza pri¬ vala in potenza collettiva (che rigenera ricchezza), è un produttore continuo di beni, servizi e ordinamenti aventi carattere di stretta complementarità coi beni, ser¬ vizi e ordinamenti dell’iniziativa privata ». 2. Chiudo qui la citazione, perché, altrimenti, do¬ vrei riprodurre tutta la tua bella lettera. Né la chiudo, per ridiscutere il problema della parte avuta dallo Stato nella produzione della ricchezza; ma esclusivamente per porre un problema di storia: chi sona quei cotali economisti (non pochi, dici tu, e dal contesto del di¬ scorso sarebbero i più, sicché occorre affermare con¬ tro di essi, quasi come teoria nuova, la tesi dello Stato come fattore necessario e inscindibile della produzio¬ ne), M i quali repugnerebbero ad accogliere nei loro pre- J ) Appunto perché non intendo menomamente intervenire nella sostanza della discussione aperta Ira te ed il prol. Spirito : ma soltanto porre un dubbio storico su ehi e quanti siano coloro ■ quali reputarono alla tesi da te posta, così non discuto la critica che a queeta tesi muove lo Spirito: implicare dessa, sebbene mate¬ riata di realtà, un « dualismo irriducibile di Stato ed individuo » oramai superato dalle nuove concezioni dello Stato, le quali iden¬ tificano lo Stalo con l’individuo «in una sintesi idealmente ssso- Ima, e, di latto, sempre più realizzabile e realizzata ». Vero è che, incidentalmente, lo Spirito afferma ebe il suo dualismo è implicito nel « linguaggio a da le adoperalo. Il che porterebbe a chiedersi se, per avventura, non si traiti di un contrasto — Ira la tua (e quindi fra quella degli economisti ebe io tento di dimostrare essere identica alla tua) e la tesi dello Spirito — più di linguaggio — di terminologia, che di parole. Se io possedessi la meravigliosa facoltà «he in sommo grado aveva il compianto amico Vadali di tradurre una qualunque teoria dal linguaggio geometrico in quello algebrico, da quello edonista in quello della morale kantiana, dalla termino- — 141 — limiaari scientifici il concetto Hello Stato come fattore della produzione? La domanda non è impertinente. È rosi suprema¬ mente difficile sapere chi, in economia, ha detto o non detto qualcosa, ei è dichiarato fautore od avversario di un certo indirizzo, o teoria, soxT-attutto è cosìstraordi¬ nariamente difficile riprodurre, anche usando il massi¬ mo scrupolo, esattamente il pensiero altrui che forse, penso, sarehhe opportuno non citare mai nessuno e non attribuire ad altri, neppur ricordati genericamente, un qualunque pensiero. 3. La mia impressione è che di codesti negatori o dimentichi dello Stato, non ce ne siano oggi e non ce ne siano stati mai tra gli economisti. Non bisogna scam¬ biare per negazione o repugnanza atteggiamenti men¬ tali profondamente diversi. Se l’economista intendeva compiere una ricerca del tipo che diceBi « astratto » — ed i classici conseguirono i loro maggiori successi per tal via — era ovvio ragionassero sulla base di premesse semplici, ridotte talvolta ad una sola, e giungessero a conseguenze vere nell’ambito delle premesse fatte. Se tra le premesse non aveva luogo lo Stato, sarehhe illo¬ gico tuttavia affermare che essi lo negassero o vi repu¬ gnassero. Anzi, il loro stesso procedimento logico di- logia economico pura normativa in quella applicala precettistica, potrei tentare di ritradurre la pagina dello Spirilo nella formuli- allea tua, orna economialica classica. Sarebbe un esercizio feconda, simile a quelli di cui racconta Loria, da lui intrapresi in gioventù; di RBporre 6uccessivamenie una data dimostrazione economica prima in linguaggio di Adamo Smith, e poi di Ritardo e quindi di Mar», di Stuart Mill e di Cairnes. Ma sono esercizi che vanno, come fa¬ ceva Loria, dopo fatti, ripoBti nel cassetto. Giovano ad ingegnate la umilio ad ognuno di noi, quando per un momento ci illudiamo dì aver visto qualcosa di nuovo. Perché se questo novità poteva essere stala delta con le loro parole e inquadrarsi nel pensiero dei vecchi, segno è che quel qualcosa era contenuto in quel pensiero. Ma non posaono né devono impedire cheogni generazione usi quel linguaggio che meglio si adatta al modo suo di pensare e d’inlen- dere il mondo. Si riscrive la Binria ; perché non si dovrebbe riscri¬ vere la scienza economica, prima in termini di costo di produzione, e poi di utilità e quindi di equilibrio statico e poi di equilibrio dinamico? — 142 — mostrava che essi affermavano la esistenza dei fattori esclusi e riservavano ad allra indagine il tenerne conto. Si può criticare il metodo, si può cercare di dimostrare che con quel metodo non si può giungere alla scoperta della verità; non si può tuttavia dire, senza offesa alia verità storica, che a causa della adozione di quel me¬ todo essi negassero la esistenza dei fattori da eui in prima approssimazione astraevano. Tanto poco negava¬ no o repugnavano che, per lo più, quando esei dall’in¬ dagine astratta si voltavano alla concreta, dalla costru¬ zione di schemi ipotetici passavano allo studio dei pro¬ blemi reali, ossia complessi e vivi, essi per lo piò face¬ vano nelle loro discussioni gran parte allo Stato. 4, Si può ammettere, sebbene storicamente si deb¬ ba andare assai guardinghi nel fare affermazioni ge¬ nerali in proposito, che gli economisti, a partire dai membri della « setta » fisiocratica, attraverso allo Smith sino allo Stuart Mill non compreso (e cioè gros¬ so modo, dal 1750 al 1850), siano stati contrari all’inter¬ vento dello Stato e favorevoli al laissez faire, laisser passar. Ma fu già dimostrato (c(t., per le fonti, una mia recensione del libretto The end oj laissez-faire del Kev- nee, in La Riforma Sociale, 1926, p, 750 e eegg.) che sif¬ fatta contrarietà non era teorica, ma puramente contin¬ gente. l 'avversione all’intervento dello Stato non ave¬ va cioè alcuna connessione logica necessaria coi postu¬ lati fondamentali della dottrina economica, non faceva corpo, come dici tu, con i cardini d’attacco della scien¬ za; ma discendeva da ragioni contingenti. L’osservazio¬ ne degli effetti dannosi delle vecchie corporazioni d’arti e mestieri, e del vincolismo economico e doganale spie¬ gano abbastanza il liberalismo di Adamo Smith e dei classici. Dopo le ricerche di Nicholson in A Project oj empire (di cui il concetto dominante è che per lo Smith la considerazione delTacquisto della ricchezza deve ce¬ dere dinnanzi aquella della difesa ossia della grandezza dello Stato: de.je.nce is oj much more impor lance than opulence)-, dopo Laureo libretto dello Schùller, Les éco- nomistes classiqu.es et leurs adversaires fin cui viene di¬ mostrato, testi alla mano, che la accusa rivolta agli eco- — 143 — Doratati di avere creato un fantoccio (il eosidetto homo rp.conomicus] avulso dai luoghi, dai tempi, dalla storia, c di aver dato ad un puro strumento di indagine figura di realtà concreta o storica, è una invenzione gratuita dei loro avversari socialisti, socialisti della cattedra, eco¬ nomisti storicisti, ecc. eec.], non è più lecito attenersi ad una tesi dimostrata. all’iiifuori di ogni dubbio, contraria alla verità storica. Quegli stessi economisti, i quali affer¬ mavano i danni di certe determinate maniere di inter¬ vento dello Stato reputate feconde di male, altrettanto recisamente affermavano la necessità rii quell’azione (« azione » e non « intervento », ae la parola intervento implica il concetto che lo Stato si immischi sempre in cose non sue] nelle maniere che reputavano più con¬ facenti all’indole dello Stato e più vantaggiose alla col¬ lettività. 5. S'intende che sempre, prima e dopo il 1850, fu d’uopo non occuparsi degli imitatori, dei pedissequi, dei sicofanti i quali colgono a volo le idee che corrano nel¬ l’aria ed impasticciando scienza e pratica, un po’ di sen¬ so comune e molti pregiudizi correnti, si gittano dalla parte che è alla moda e dimentichi oggi di quel che avevano asseverato ieri, oggi sono liberisti e domani, in¬ differentemente, interventisti. Costoro non sono scien¬ tificamente nulla, sebbene siano i maggiori fabbricanti di scuole, di conventicole protezioniste, interveniste, li- beriste, cattedratiche e delle vane ingiurie che i rispet¬ tivi adepti ai scagliano l’un l'altro. 6. Dopo il 1850, la caratteristica fondamentale del pensiero degli economisti in questo particolare campo (naturalmente essi si occuparono sovratutto di problemi più difficili, che dai laici sono detti, per dispregio, tecni¬ ci e che sono e probabilmente sempre saranno i proble¬ mi economici specifici) è stato un approfondimento vie maggiore del problema dei rapporti fra Stato, indivi¬ duo, società, gruppi sociali. Da Stuart Mill a Marshall, da Marshall a Pigoli è tutta una indagine minuta e deli¬ cata, la quale talvolta diventa un ricamo tenuissimo, ri¬ volta a precisare, a limitare, a scrutare i metodi di mas- — 144 — situi 77 azione della ricchezza, del benessere, della felici¬ tà, della potenza degli uomini organizzati in società. Come è accaduto in tutte le scienze progressive, ogni passo innanzi si innesta su perfezionamenti precedenti ed è preludio a perfezionamenti successivi. Nella nostra chiesa non è di moda la parola superamento, che veg¬ go assai usata tra ì filosofi; ma ben potrebbe tale parola eesere usata ad indicare gli stadi successivi del pensie¬ ro economico, di cui ognuno non nega ma contiene e trasforma gli stadi precedenti c sarà contenuto e tra¬ sformato negli stadi fuluri. 7. Perché, caro Benini, non ricordare il contributo che taluni italiani colleghi tuoi e miei maestri hanno dato a queata meravigliosa ascesa della scienza econo¬ mica? Per ragioni scientifiche di divisione del lavoro, è toccato a quella sottospecie degli economisti, la quale studia ed insegna la cosiddetta scienza delle finanze, di occuparsi dello Stato e dell’indole teorica del suo ope¬ rare. Piace anche a me il pensiero che supera Stato ed individuo ed insieme li fonde; ma piace non meno e per la difficoltà dell’impresa soddisfa intellettualmente di più lo sforzo di coloro che hanno tentato di ficcare lo sguardo in fondo all’azione dello Stato ed hanno tenta¬ to definire in che cosa consistesse la sua azione. Scarta¬ ta la concezione errata dì uno Stato il quale interviene a cose fatte, a ricchezza prodotta e preleva l’imposta per consacrarla, ossìa distruggerla, sia pure per altis¬ simi fini pubblici (ed un ultimo vaghissimo ricordo di questa concezione lo vedo nelle tue stesse parole, lad¬ dove parli di uno Stato, il quale (( trasforma buona par¬ te della ricchezza privata in potenza collettiva », dove l’errore involontario sta nel supporre che esista una ric¬ chezza « privata » da trasformare, dopoché essa è stata prodotta, in qualcosa di collettivo, mentre la realtà è che la ricchezza che lo Stato trasforma in potenza col¬ lettiva, non fu mai privata, ma fin dall’inizio era prodot¬ ta dallo Stato, se per prodotta intendiamo cosa che non sarebbe nata se lo Stato non fosse esistito e non avesse operato secondo l’indole sua), i teorici italiani intorno al 1890 assai discussero intorno all’indole dell’apporto — 145 — od azione dello Stato. Tu bene bai scritto, continuando, che nella atessa maniera come i beni, i servizi e gli or¬ dinamenti delTiniziativa privata « ai sviluppano in quantità e varietà, col progredire dell’incivilimento, e fanno luogo a rapporti viepiù complessi e differenziati Ira gli individui o i gruppi, così i [beni, servizi ed ordi¬ namenti] loro complementari forniti dallo Stato non Iranno colonne d’Eicole che li fermino ad un punto ob¬ bligata ». Quarantanni fa Ugo Mazzola aveva già scrit¬ to: c (pp. 78-79). Che il Croce non comprenda l'accusa di anti¬ storicismo da me rivolta alla scienza economica, non deve certo meravigliare chiunque legga i perio¬ di ora riportati. L’economia come l’arilxnetiea non cangia quale che sia il corso della storia : l’economia è matematica anch’essa, e quattro e quattro hanno fatto e faranno sempre otto. Con quale entusiasmo accoglieranno queste parole ì nostri economisti ma¬ tematici, che giurano sulla purezza della loro scien¬ za 1 Ma che queste parole avessero dovuto suo¬ nare con tale durezza anche sulla bocca di un filo¬ sofo e di uno storico, non ci saremmo davvero aspettato. Oh, dunque, anche per il Croce la distin¬ zione tra economia pura ed economia politica è ovvia? Che ovvia sia sembrata e sembri a tanti eco¬ nomisti — non a tutti — è cosa fuori dubbio, ma non crede il Croce che io, aprendo quei tali trattati cui egli allude, abbia già dimostrato come, in real¬ tà, la distinzione non stia né in cielo né in terra, e sfugga immediatamente dalle mani, appena si cer¬ chi comunque di precisarla? Ecco, io non vorrei ritorcere l’accusa di scarsa conoscenza delle opere degli economisti, ma non so proprio come spiegar¬ mi questa fiducia illimitata che il Croce ha sull’e¬ sistenza effettiva di un’economia pura e, peggio an¬ cora, di una economia matematica che non abbia fondamenti illusori. Non si lasci intimidire dall ap¬ parente rigore delle ben collegate serie di formule, penetri un poco in questo mondo di superiore tecnicismo e veda se gli sia possibile trovare un ten¬ tativo sistematico di economìa matematica — nella possibilità e opportunità del metodo matematico — 196 — nella determinazione dei rapporti di alcunifeno¬ meni economici non ci può esser dubbio — che non poggi su basi di creta e non si riattacchi a presup¬ posti affatto arbitrari e verbalistici. L articolo del Croce si chiude con un esempio, che dovrebbe provare ad oculos la riduzione allW surdo dell’economia attualizzata. Ma l’esempio — oltre la poco simpatica e poco generosa ironia ver¬ so un uomo che merita tanto rispetto — riesce a provare soliamo una cosa, vale a dire la poca co- scienziosilà di un critico che pretende di far giusti¬ zia di un tentativo scientifico, artificiosamente ridu- cendolo a una sua particolare espressione. Poeti giorni prima che uscisse il fascicolo de La Critica era apparsa sul Giornale critico della filosofia ita - liana la mia recensione del libro di Emilio La Boc¬ ca [Abbozzo di una interpretazione idealistica del¬ la economia politica , Perugìa-Vcnezia. «La Nuo- va Italia », 1930, pp. vm-295): che io non intenda a quel modo l'identità di scienza e filosofia, al Cro- ce avrebbe dovuto risultar chiaro, e che nel libro dei La Rocca io veda Io stesso pericolo che vi vede il Croce, anche questo avrehhe dovuto essere evi¬ dente a chi si fosse accinto alla discussione con animo sereno. Ma di serenità oramai il Croce non è piu capace e prima di ogni altra cosa egli cerca di convincersi che le nostre « manipolazioni pseudo- dottrinali siano più o meno direttamente a servigio di equivoci ideali », che lo autorizzino a diicuter- uè in maniera astiosa e ingiusta. Terreno, questo dell ingiuria, nel quale sarebbe vano seguirlo, sia che si cercasse di pagar della stessa moneta eia che si tentasse di persuadere dell’errore. In chi lavo¬ ra con fede, trascurando frutti che pur sarebbe fa¬ cile (e quanto facile!) raccogliere, la ripetuta insi¬ nuazione del Croce può gettare solo un’ombra di tristezza: forse un giorno, ritornando con altro ani¬ mo su queste discussioni e avendo altri elementi per giudicare gli uomini di oggi, egli sentirà il rimorso dell’ingiustizia commessa. Ed ecco la recensione del libro del La Rocca : È un audace tentativo di dominate nelle sue grandi linee tutta la scienza economica da un punto di vista rigorosamente idealistico : un tentativo che va conside¬ rato con molta attenzione da quanti sono persuasi della necessità di porre in primo piano il problema del rap¬ porto tra scienza e filosofìa. 11 La Rocca, dopo aver ac¬ cennato al principio fondamentale dell’attualismo, cer¬ co appunto di chiarire nel secondo capitolo il concetto di scienza in generale e di scienza empirica in partico¬ lare, e conclude « che se non può proprio parlarsi di identificazione perfetta tra quella che è l’attività del filosofo e quella che è l’attività dello scienziato, non deve potersi escludere tra esse una parentela molto stretta che, mutate talune circostanze, potrebbe diven¬ tare quasi tra esee una vera e propria identificazione » (pp. 19-20). In verità, questa soluzione, così schemati¬ camente riassunta, non può non apparire alquanto in¬ decisa e problematica, né tutte le argomentazioni che la precedono e la seguono valgono a farci superare ef- fettivamente lo stato di dubbia da casa ingenerato. L’Au¬ tore ai oppone con malta efficacia a una concezione ne¬ cessariamente naturalistica della scienza, ma quando si tratta di giungere alla estrema conseguenza di tale critica arretra un po’ perplesso e ripristina il dualismo che voleva eliminare: la distinzione di scienza e filo¬ sofia, dialetticamente negala con acutezza non comune, ai riafferma infine in modo categorico e nel senso forse più pericoloso. « Ma », osserva infatti il La Rocca, « se una distinzione rigorosa Ira le due non si può avere perché non può nel fatto aver luogo, non è mica detto che una distinzione dedotta dal diverso oggetto o fine che entrambe perseguirebbero non si possa avere. Si può avere di fatti, consistendo la prima nella risolu¬ zione nello spirito della realtà universale, e l'altra nella risoluzione in esso di un aspetto particolare della realtà universale » (pp. 33-34). Dove è. chiaro che la realtà universale viene abbassata a oggetto e che la filosofìa si concepisce ancora al vecchio modo intellettualistico. La soluzione non molto rigorosa del problema ha avuto le sue necessarie conseguenze nella scelta dei cri¬ teri seguiti per determinare i principi fondamentali del- 1 economia. La filosofia come scienza della realtà uni¬ versale è rimasta un presupposto di fronte all’economia che è scienza di un particolare aspetto di quella realtà, sì che la ricostruzione filosofica dell'economia è stala intesa nel senso di ricondurre ì principi scientifici alle categorie filosofiche. E il La Rocca ha potuto perciò avvicinarsi all’economia dall'esterno c tradurre i prin¬ cipi scientifici in termini altualisticì, senza preoccupar¬ si troppo della fecondità di un tale procedimento, desti¬ nata a esaurirsi in una zona di confine tra la scienza c la filosofìa, intese al vecchio modo. Concepito in tal guisa il problema, la prima preoc¬ cupazione del La Rocca è stata quella di individuare il principio primo della scienza economica, e l’indivi¬ duazione naturalmente e stata da lui cercata non sul ter¬ reno storico dell’origine c dello sviluppo della econo¬ mia, bensì sul terreno filosofico della dialettica dello spirito. L a priori è stalo inteso non nell’attualità dell’e¬ sperienza scientifica, ma come la determinazione pre- scientifica del principio della scienza. E il principio è diventato allora un momento assoluto della dialettica dello spirito, astoricamente concepito. «Ma», dice in¬ fatti il La Rocca, parlando del rapporto tra economia ed etica, « se per quel che riguarda la sua legittimità filosofica esso si identifica perfettamente col principio dell’eticità, non si deve concludere insieme, che non possa avere un suo oggetto speciale c inconfondìbile pur sulla base della sua realtà etica. Es90 può ben af¬ fermare un suo originale compito: quello della spiritua¬ lizzazione-materializzazione, deH’acquisizione-alienazio- ne, della valorizzazione-degradazione, il quale non è certo il compito della eticità che, se lien l’occhio al primo termine, non lo tiene, nello stesso tempo, ad entrambi » (pag. 131). Tale procedimento dialettico non si limila alla de¬ terminazione del principio primo, ma si estende a tutti i concetti tradizionali della scienza economica, e il La Rocca tenta di dedurre apeculativamente anche i ter¬ mini di produzione, circolazione, distribuzione e con¬ sumo; e finisce infine con l’idealizzare la figura dell im¬ prenditore identificandolo addirittura con il soggetto economico. Ma per quanta fede e calore l’Autore pon¬ ga in siffatta ricostruzione, l’astrattezza del procedi¬ mento non può non colpire l’attento lettore, che vede, pur attraverso l’esigenza giustissima di cui il La Rocca è tra i primi sostenitori, il grave pericolo di un ritorno all’hegelismo o al filosofismo antiscientifico. Ho voluto insistere più sul lato negativo che su quello positivo del libro del T,a Rocca — che pur è ricco di belle pagine e di acutissime critiche — perché ritengo necessario e urgente sgombrare nettamente il campo di tutti quei preconcetti filosofici e scientifici ohe non consentono ancora di giungere all’assoluta con¬ vinzione di un’unica forma del sapere e alla conseguen¬ te ricostruzione storicistica della scienza. L idealismo attuale ha dato il colpo di grazia al concetto intellet¬ tualistico di categoria, che è vano voler fare risorgere comunque in una malintesa determinazione di prin¬ cipi assoluti. I principi di tutte le scienze non possono che ricercarsi sul terreno concreto dell esperienza sto- sebbene egli siTuìa^ R ° CCa ’ w problemi filosofie-; ■■ narnn •of.ro « MMh> (atelier,„ (1 ]i M "r iivemlno^ne 0110 ■ mente sinonimi. — lv enlano necessaria- d 1'~ » '•*.Srrjiar * »- IL METODO MATEMATICO IN SOCIOLOGIA E IN ECONOMIA In un articolo, Verso Veconomia corporativa , pubblicato nei Nuovi studi (1929, pp. 233-252: ora riprodotto nel volume La critica dell’economia li¬ berale, Milano, Treves, 1930) ebbi occasione di oc¬ cuparmi del professor de Pietri Tonelli e di ac¬ cennare agli errori metodologici delle sue teorie di politica economica. Esemplificando in una nota, scrivevo : « Rinviando la critica della concezione ebe il de Pietri Tonelli ha della scienza della po¬ litica economica a quando sarà pubblicato il tratta¬ to che I A. annunzia, ci limitiamo qui, in via d’e¬ sempio, a riferire una delle presunte leggi della nuova disciplina. Nella prolusione citata {Di una scienza della politica, in Rivista di politica econo¬ mica, 1929, fase. 1) si afferma perentoriamente che « gli impulsi non si possono creare, né distrugge¬ re «, che, « se gli impulsi esistono, si trovano in proporzioni diverse in tutti gli uomini, dello stesso tempo e di tempi diversi )), ecc. Non ci meraviglie¬ remmo se tutto ciò, prima o poi, fosse tradotto in termini matematici e additato come una delle eipiesaioni della scienza più pura ; ma la facilità che cobi bì dimostra di trasportare sul terreno scien¬ tifico i termini più empirici e indeterminati non può non rendere diffidenti contro le leggi dell'eco¬ nomia razionale. La mentalità è sempre la stessa, e cioè — piaccia o non piaccia l'aggettivo essen¬ zialmente dogmatica, come potrebhe riconoscere anche il de’ Pietri Tonelli, qualora provasse a do¬ mandare a uno studioso di psicologia e se Raffermare che gli impulsi non si creano né si distruggono pos¬ sa avere un qualsiasi significato men che banale » (pagg. 235-236). Come risposta a questa critica il de' Pietri Tonelli non ha trovato di meglio che recensire con troppo evidente acrimonia il volume in cui Parti- colo è stato riprodotto (Rivista di politica economi¬ ca, 31 dicembre 1930, pp. 1014-1015). Ma a una recensione che si limita a una filza di improperi non è il caso di ribattere : la polemica diventerebbe per¬ sonalistica e quindi estranea ai fini di una discus¬ sione scientifica. Sarà piuttosto opportuno prende¬ re in esame quel trattato che allora il de Pietri Tonelli ci annunciava e di cui recentemente è ap¬ parso il primo volume (Corso di politica economi¬ co, voi. I, Introduzione, Padova, Cedam, 1931, p. 216). Purtroppo le previsioni contenute nella mia nota sono state confermate dalla realtà, e sarà sufficiente qualche assaggio perché chiunque vo¬ glia giudicare con animo sereno se ne possa con¬ vincere. Dopo aver discusso in generale dell'oggetto della politica economica, 1\A. determina gli elemen¬ ti fondamentali dello studio. « Per limitare », egli scrive, « o meglio, per delimitare, il campo della ricerca politica che ci interessa e metterlo alla por¬ tata della mente dello studioso, si può cominciare con lo sceverare e considerare, in sé, e nelle loro reciproche relazioni, tre elementi fondamentali della realtà sociale, cioè della vita delle cerehie so¬ ciali. Insieme coi fatti di natura, questi clementi formano la vita deU’universo. Tali elementi sono precisamente: 1) gli impulsi, che indicheremo con I, cioè i moventi, o le determinanti, o gli stimoli, ecc., quali i bisogni, i sentimenti, gli interessi, le passioni, il raziocinio, ecc., assai vari e che si con¬ viene debbano effettivamente esistere e operare, per indurre gli uomini ad agire e ad esprimersi ; 2) gli atti, che indicheremo con A, cioè le azioni, di diversa specie, a cui si ritengono indotti gli uomini, soprattutto dagli I; 3) le espressioni, che indiche¬ remo con E, cioè le manifestazioni di linguaggi, ge¬ stiti, verbali e scritti, riguardanti appunto gli I e gli A » (pag. 7). Tutta la costruzione del sistema è impostata su questa tripartizione della realtà sociale, sì che convien fermarsi al limitare e domandarsi quale sia il carattere e la validità scientifica di tali pre¬ supposti. È chiaro che una distinzione fra impulsi, atti ed espressioni non può avere valore sistematico se non si giustifica alla luce di tm criterio scientifi¬ co, ed è chiaro che un tale criterio non può trovar¬ si se non nella disciplina che si occupa ex professa di tali fenomeni. La distinzione, in altri termini, ha bisogno di una giustificazione logica che le ven¬ ga dalla psicologia: ogni allra giustificazione sareb¬ be di carattere empirico e però irrilevante ai fini di un sistema scientifico. Ma, intanto, dal punto di vi¬ sta psicologico, nessuno potrebbe dare un qualsiasi valore a quella distinzione, affatto arbitraria aia per la scelta degli elementi, sia per la loro defini- zione, sia per l’interferenza dei rispettivi campi, bolo chi non ha alcuna dimestichezza con questi studi può illudersi di dare un significato critico a termini così radicalmente antiscientifici. . Si P° lr ehbe, a questo punto, porre una pregiu- disiale perentoria a tutto il sistema escogitato dal de Pietri Tonelli e chieder conto di tali presuppo¬ sti, esihiti senza alcuna garanzia della loro legitti¬ mità. Ma noi vogliamo far credito all’À. e ammet¬ tere che si possa accettare, su un terreno meramen¬ te astratto, una classificazione ottenuta con un gros¬ solano senso comune. Se non che, riconosciuto nel senso connine o nell’opinione il fondamento della distinzione, è possibile pervenire da essa a risulta¬ ti che trascendano la sfera del senso comune e dell’opinione? In altri termini, se la distinzione ha carattere empirico, può da essa ricavarsi una qual¬ siasi conclusione non empirica? La risposta non do¬ vrebbe esser dubbia, e il lettore dovrebbe aspettar¬ si che nel resto del volume si continuasse a discu¬ tere mantenendosi sullo stesso terreno sul quale poggiano gli elementi fondamentali. Ma le cose, purtroppo, procedono ben diversamente, perché, appena esposta la distinzione delle tre classi, le classi stesse vengono ipostatizzate e si comincia a giuncare con esse come con quantità esattamente definite. Le tre classi a loro volta si suddistinguono m classi minori, in cui l’arbitrio della definizione e sempre più palese, ma nelle quali la rigidità del metodo appare via via più dogmatica. La molteplì- cita delle classi acquista corpulenza numerica, e tra lettere e numeri si trova subito il materiale per una trasformazione in termini matematici. Dopo poche pagine le grossolane definizioni si sono cangiate in entità aritmetiche c dalla penna tecnicamente formidabile del de Pietri Tonelli cominciano a scaturire le formule algebriche. Per chi volesse de¬ libare la bontà del metodo riportiamo il seguente periodo: « Così ad es., in 5a la ed Iy possono, ne¬ gli individui e quindi nelle C. accentuarsi, palesan¬ do individui e C materialistici; in 82 , Ix ed le pos¬ sono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi palesando individui c C spiritualistici; in II 2 , Ih ed le possono, negli individui c quindi nelle C, ac¬ centuarsi, palesando individui e C aperti alle no¬ vità nel campo spirituale; in 122 , Ih ed Iy possono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi, pale¬ sando individui e C aperti alle novità nel campo pratico; in 22 , la ed Ih possono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi palesando individui e C inclini a rinnovarsi nel loro interesse, poiché co¬ loro i quali hanno lai ,2 ed Ib son coloro che voglio¬ no salire nel campo economico e in quello politico e son disposti alle mutazioni necessarie » (pp. 39 - 40.) Son cose che farebbero sorridere ironicamen¬ te, se poi non atterrissero con la conseguenza di duecento pagine irte delle più complicate formule matematiche, sotto le cui lettere e i cui numeri si celano le elucubrazioni psicologiche e sociologiche del professore de’ Pietri Tonelli, ad ineffabile gau¬ dio dei suoi studenti. Non è il caso, naturalmente, di dimostrare ciò che ha solo bisogno di esemplificazione: casi simili di aberrazione scientifica si spiegano solo con mo¬ tivi di carattere patologico che fanno smarrire ogni contatto con la realtà e con quello stesso buon sen- so con cui la imitazione vorrebbe iniziarsi. E tanto più grave diventa la sensazione del patologico, quanto più l’A. insiste sul carattere obiettivo delle sue ricerche, facendo amene riserve sulla loro at¬ tendibilità. Come non rimanere addirittura scon¬ certati leggendo, dopo non poche costruzioni mate¬ matiche relative agli impulsi, che « ancora non sap¬ piamo se gli I siano una nostra astrazione, per co¬ prire la nostra ignoranza, non esistendo di fatto che gli A; ovvero se gli 1 siano effettivamente una realtà finora poco o nulla conosciuta »? (pag, 44). Le constatazioni ora fatte a proposito del li¬ bro del de 1 Pietri Tonelli non vogliono limitarsi a un caso particolare, ma dal caso particolare, in cui l’assurdità giunge alla massima evidenza, debbo¬ no estendersi un po’ a tutti i tentativi di mateinatiz- zare i fenomeni sociali e alla stessa economia mate¬ matica quale è comunemente intesa. L’unione della psicologia e della sociologìa con il metodo matema¬ tico è una delle espressioni più gravi della menta¬ lità antiscientifica che domina nel campo delle scienze sociali: e non è ormai lecito ritenere comun¬ que valido uno solo dei tentativi compiuti in tal senso. Il che, si badi bene, non è dovuto a una im¬ possibilità costitutiva di applicare la matematica a siffatti fenomeni, bensì all’incapacità di ridurre a unità matematiche ì fenomeni stessi. E l’incapaci¬ tà si spiega eoi fatto che, se gli studiosi i quali si cimentano nell’impresa hanno una preparazione matematica sufficiente, non hanno poi alcuna pre¬ parazione scientifica alla intelligenza dei fenome¬ ni psicologici e non si sono resi conto delle critiche mosse alla sociologia dalla speculazione moderna. Sì che, assumendo a fondamento delle proprie ri¬ cerche concetti scelti e definiti arbitrariamente, scambiano l’oggettivo col soggettivo, il determina¬ to con 1 indeterminato, e matematizzano indifferen¬ temente tutto, senza preoccuparsi di raggiungere l’effettiva quantificazione degli elementi posti nel¬ le loro formule. L’errore del procedimento appare con maggio¬ re evidenza nel campo delle ricerche sociologiche, dove 1 incongruenza stessa delle conclusioni basta a far giustizia dell inutile fatica degli studiosi che tuttora vi insistono. Ma purtroppo nel campo della cosiddetta economia matematica l’illusione è più saldamente radicata e le conseguenze dell’errore, meno manifeste, sono e diventano sempre più pe¬ ricolose. Siccome a nessuno può venire in niente di negare l’opportunità e la necessità di servirsi della matematica nella analisi dei fenomeni econo¬ mici, il senso del limite si smarrisce agevolmente e messici per quella china si sdrucciola a poco a poco dalla matematica utile all’economia all’economia ma¬ tematica, che è la negazione dell’economia. Per comprendere la differenza che passa tra l’uso lecito della matematica nel campo delle scien¬ ze economiche e la cosiddetta economia matemati¬ ca, è necessario distinguere la matematica come mezzo di ricerca dalla matematica come sistema in cui le ricerche vanno composte e fissate una volta per sempre. Ora, la validità del primo criterio non dimostra affatto la legittimità del secondo, che è fa- talmente destinato a fallire. La matematica come sistema, infatti, implica la necessità di quantificare non solo i fatti economici, ma anche la ragione di tali fatti; e il processo di oggettivazione, perciò, investe illecitamente il mondo della soggettività. Basta riflettere un poco sui risultati dell’econo- mia matematica del Pareto per accorgersi delle mo¬ struose conseguenze cui dà luogo rillegittimo bi¬ sogno di presupporre quantificato o comunque quantificabile ciò che condiziona lo stesso processo di quantificazione. Perché gli economisti possano una buona volta uscire dal vicolo cieco in cui si sono andati a ficcare, occorre che si decidano ad abbandonare la loro psicologia da dilettanti e a di¬ stinguere nettamente il fatto dall’atto, vale a dire ciò che è necessario considerare in veste di numero e ciò che del numero è condizione. Allora final¬ mente si accorgeranno che l’economia matematica non è possibile, per il semplice fatto che il numero è nella vita, ma la vita non può essere numero. Per chi lavora, desideroso soltanto di allarga¬ re gli orizzonti e di aver la certezza di andare in¬ nanzi nel cammino della scienza, vi sono dei dis¬ sensi che hanno perfino maggior valore dei con¬ sensi. E sono i dissensi dei cattedratici, che, allar¬ mati e disorientati dai colpi inferti agli schemi tradizionali della loro scienza, scendono in campo uno dopo l’altro a difendere il loro regno perico¬ lante, non senza gratificare di burbanzose parole chi osa ficcarvi lo sguardo un po’ a fondo. Ne ven- gon fuori delle confutazioni, le quali, o raggiun¬ gono 1 effetto contrario per la inadeguatezza dei vecchi criteri di giudizio relativamente alle nuove teorie da combattere, o addirittura sbagliano il ber¬ saglio per la mancanza di quel tanto di buona vo¬ lontà che occorrerebbe per scorgerlo davvero, e per la fretta di liberarsi di qualcosa che inconsciamen¬ te s intuisce come un grave pericolo. Effetto con¬ trario, dico, in quanto tali critiche finiscono col fa¬ re insuperbire chi ne è oggetto e col far trascurare, in conseguenza, anche ciò che di valido può essere al fondo di siffatte negazioni globali e violente. 0 come non insuperbire, infatti, considerando lo sforzo compiuto dal prof. Aldo Contento ’) at¬ traverso ima quarantina di pagine dedicate a di¬ fendere P homo (Bconomicus dalle, mie critiche.' 1 Come non insuperbire di fronte a tanta ingenuità di argomenti e a tanta incomprensione della mia tesi? Ma è un malinconico insuperbire, come quel¬ lo di cbi pur vorrebbe convincere e far sì che la propria certezza, sempre più consapevole e salda, diventasse la certezza degli altri. Il che purtroppo non è neppur da sperare di fronte a chi troppo evi¬ dentemente è su una strada affatto diversa e parla un linguaggio che non consente la discussione. La risposta non può avere valore che per i terzi, vale a dire per quelli che, affacciandosi più spregiudi¬ catamente alla questione, sono in grado di vedere obbiettivamente e di fare quello sforzo di buona volontà che è indispensabile per comprendere ciò che si vuol giudicare. Prendendo lo spunto da quanto affermarono Alfredo Rocco e Filippo Carli nel congresso della Associazione Nazionalista del 1914, che non vè « forse un’azione economica che l’uomo compia sotto la spinta del puro interesse economico, cioè sotto l’impero del principio edonistico », il Con¬ tento giustamente fa osservare che Vhomo cecarw- micini è una astrazione scientifica per nulla com¬ promessa dall’affermazione dei nazionalisti, con la quale non si può non concordale. Dal punto di vi¬ sta scientifico una sola cosa importa ed è la preci- J ) Albo Contento, Dilesa dell'ut homo cBconomicus ». L'ahomo (Bconomicus » nello Staio corporativo, in « Ginnialo degli economi¬ sti ■», luglio 1931, pp. 485-522. sazione del concetto di homo cecanomicus : preci¬ sazione alla quale 1 A. vuole addivenire dopo aver convenuto con me che « molta dell'incertezza che domina nello svolgimento e nelle conclusioni della scienza economica, derivi da una mancata defini¬ zione di quel postulato, cui si assegnano valore e li¬ miti più o meno diversi » (pag. 487). Senonché rac¬ cordo si arresta a questa constatazione, dopo la quale le vie divengono sempre più divergenti, per non incontrarsi mai più. E, per cominciare, il Contento attribuisce anche a me la mancata precisazione del concetto, quasi che fosse possibile precisare ciò che si nega in quanto imprecisabile. Io ho affermato che l’uomo osconnmicus non può valere come ipo¬ tesi scientifica, perché è un termine scientificamen¬ te tutt altro che rigoroso e determinato: chi pensa il contrario ha il dovere di mostrare la possibilità di ima definizione valida, ma non può pretenderla da me. Alla definizione, per conto suo, si è accinto il Contento, eliminando in via preliminare i comuni concetti di egoismo, edonismo e utilitarismo. Que¬ sti concetti non sono adatti a caratterizzare Y'homo (Bconomicus ed è stato un errore degli economisti aver fatto implicitamente o esplicitamente una ta¬ le confusione. La dimostrazione che ne dà l’A. non appare, in verità, gran che persuasiva, fondata cont essa è sulle definizioni dei vocabolari dello Zingarelli e del Tramatter: comunque possiamo dare per buona la conclusione e passare all'analisi del concetto che si vuol sostituire a quelli ritenuti errati. « Richiamandoci al pensiero », scrive il Con¬ tento, « di quelli che fecero dell’fi. ne. il postulato fondamentale, o la base di tutto l’edificio scienti- fico, può dirsi deva intendersi, con tale designa¬ zione. 1 individuo immaginato nella sua pura con¬ dotta economico, la quale, nei moventi e nei fini, si ritiene informata, generalmente, ad un tipo uni¬ forme corrispondente alla ricerca della massima soddisfazione col minimo di sforzo cioè all'appli- « azione integrale del principio del minimo mezzo » (pag. 488). Si comprende bene come dopo questa defini¬ zione l’A. non sappia giustificare la critica che si fa dell 5 *. ck., né sappia vedere alcuna incompatibi¬ lità tra Vh. 03. e la concezione corporativa dell’eco¬ nomia. Un individuo che cerchi di seguire il prin¬ cipio del minimo mezzo non solo è perfettamente a posto qualunque sia l’ambiente politico in cui vive, ma è anche Punico individuo concepibile nel¬ la sfera della normalità. Il che riconosce esplicita¬ mente lo stesso Contento quando afferma: « Ogni uomo vivente tende a comportarsi da h. ce., cioè misurando la convenienza dei mezzi al fine, non pure nel rampo stoltamente economico , ma in ogni campo della sua esistenza, e affermiamo che, se co¬ sì non fosse, se ognuno non cercasse di condursi, sempre, seguendo il principio della economicità, danneggerebbe, alla fine, non pure se stesso, ma la società tutta intera. Chi così non facesse, sistemati¬ camente, darcbhe prova non tanto di non essere un egoista , quanto di essere... un incosciente! » (pa¬ gina 494). E allora? Relegate nella sfera delFinco- scienza le azioni non subordinate alla legge del minimo mezzo, l’uomo è sempre Vh. ce. non pure nel campo stoltamente economico, ma in ogni cam¬ po della sua esistenza [il corsivo è mio], né resta dunque modo di distinguere mediante tale princi- pio le azioni economiche dalle non economiche. Il presupposto fondamentale della scienza economica si dissolve in una vuota generalità e la fictio del- 1 h. ce. si rivela ancora una volta assolutamente ina¬ datta a servire da ipotesi scientifica. Ex ore tuo iu- dico te: e non v’è bisogno di aggiungere altro alla confutazione che il Contento ha fatto involontaria¬ mente della sua definizione. Inutile dire che con ciò stesso viene a mancare ogni ragion d’essere alla critica mossa al Rocco e al Carli — con la quale pur avevamo convenuto — tendente a mostrare il carattere astratto dcll’ft. re.: se Yh. re. è colui che segue il principio del minimo mezzo, h. re. è l’indi¬ viduo concreto nella pienezza della sua realtà, in ogni momento. Dato un concetto così anodino di li. re., si com¬ prende come il Contento non sappia spiegarsi il suo necessario collegamento col liberalismo politi¬ co. Qualunque sia la concezione politica dell’eco¬ nomista, l’astrazione dell’/i. re. resta nella sua as¬ soluta integrità, perché rispondente a un rapporto di mezzo a fine che non muta per il mutare del fine. V’è Yh. re. nel regime liberale, come in quello auto¬ cratico come nel democratico, e Yh. re. adatterà la sua condotta all’ambiente in cui vive seguendo tuttavia in ogni caso il principio della economicità. Di qui scaturisce la seconda accusa che il Con¬ tento muove alle mie affermazioni circa l’intervento dello Stalo e il rapporto Ira individuo e Stalo. Per l’A. esistono due modi d’intendere lo Stato e, in particolare, lo Stato corporativo. « Secondo alcuni, die partono dal vecchio e normale concetto dello Stato, quale ente rappresentativo degli interessi ge¬ nerali dei cittadini, creato come organo ad essi su¬ periore, la figura dello Stato corporativo è una con¬ cezione che evitando i mali dello stretto individua¬ lismo, o liberalismo, come quelli del completo sta¬ talismo, riunisce di tali principi i vantaggi, crean¬ do nuove forme d'organizzazione politico-economi¬ ca, nelle quali le varie categorie ed i vari ed oppo¬ sti interessi sociali si riuniscono e con temperano, consentendo al progresso della vita civile un più armonico e intenso sviluppo. Secondo alcun altTo. come, e specialmente, lo Spirito, la differenza con¬ sisterebbe in ciò, che la nuova forma, non pure av¬ vicina e unisce, ma chiaramente accomuna e imme¬ desima Stato e cittadino, in modo da renderli un unico ente » (pag. 506). Alle due diverse teorie il Contento fa seguire i seguenti perentori giudizi: «La seconda delle ri¬ cordate concezioni è, a nostro avviso, inconsistente per lo Stato corporativo, come per ogni altro Sta¬ to. Se pur corrispondesse alla realtà, e sarebbe, evi¬ dentemente, per qualunque Stato, ciò avrebbe im¬ portanza dall aspetto filosofico, più che economico. La prima invece, fondamentalmente vera, parte da un presupposto errato, quale quello della sempli¬ ce condotta negativa dello Stato nella organizza¬ zione liberale)) (pp. 506-507). E il Contento conti¬ nua mostrando come anche lo Stato liberale sia sem¬ pre intervenuto, in misura maggiore o minore, nell’e- conomia della Nazione e abbia quindi influito sulle economie individuali. Con l’economia corporativa non si è mutato il problema, e l’intervento dello Stato è rimasto sostanzialmente della stessa natura. L’unica questione viva è quella dei limiti di tale intervento, e i limiti sono stati certamente spostati, richiedendo nìf individuo una limitazione più am¬ pio alla sua condona economica. Ld ecco come 1"A. può concliiudere ripetendo ancora una volta la concezione dello Stato contrattualista-liberale per cui questo, « pur frenando l’arbitrio individuale », concede all’uomo ({il massimo di libertà compati¬ bile in lina civile convivenza » (pag. 522).Ma, intanto, scartata come meramente filosofi¬ ca (che cosa mai il Contento intenderà per filo¬ sofia?) la teoria dell’identità di individuo e Stato, mito il ragionamento ha preso altra direzione e la mia tesi, che pur si voleva confutare, non è stata neppure sfiorata. Io volevo contrapporre Stato libe¬ rale e Stato corporativo in quanto il primo è con¬ cepito come Stato limite delle libertà individuali e il secondo invece come Stato potenziatore delle libertà stesse: volevo contrapporre al dualismo di individuo e Stato, e alla conseguente distinzione di economia individuale ed economia statale, l'unità dei due termini e la negazione dell economia indi¬ vidualisticamente concepita: volevo insomma ne¬ gare, insieme alla vecchia concezione economico- politica dello Stato, quel concetto di homo cecono- micus che il Contento si affanna a difendere. Ma la risposta dell'A. lascia assolutamente impregiu- dicala la questione, perché gira, senza affrontarlo, proprio il principio fondamentale della mia cri¬ tica, vale a dire quello che dà significato e valore a tutte le particolari conseguenze. Quell’ indivi¬ duo che vive nello Stato senza essere lo Stato e che perciò può venir limitato nella sua liher- tà dallo Stato stesso; quell'individuo che ha finì propri, realtà propria e diversa, sia pure in parte, dall’organismo di cui è espressione; quel- 1 individuo è appunto l’esponente del liberali¬ smo politico e del liberalismo economico, in net¬ ta antitesi col corporativismo come è stato da me teorizzato. Quell’individuo si è scientificamente dimostrato irreale, e con lui è venuto a mancare ogni fondamento alla ficiio dell’homo oeconomicus di cui è il presupposto necessario. Non avendo in¬ teso né avendo comunque analizzato questa nega¬ zione perentoria, il Contento è rimasto anche lui sulle orme del vecchio liberalismo, precludendosi la via a ogni comprensione del significato rivolu¬ zionario della concezione politica del fascismo e del corporativismo. Al quale proposito il Contento crede di scoprirmi in grossolana contraddizione, quando io, pur avendo riconosciuto proprio di ogni Stato il carattere dì immanenza all’individuo, af¬ fermo esplicitamente che solo l’economia corpora¬ tiva pttò dirsi sul serio scientifica. « Confermato così, anche su questo punto », dice infatti l’A., « il carattere di congiunzione, o di derivazione, dello Stato corporativo da quello liberale, non possiamo spiegarci come lo Spirito, che asserisce non potersi separare, nel campo economico, la concezione della vita dello Stato da quella delle economie indivi¬ duali, dato che lo Sialo interviene sempre in que¬ ste, sostenga poi che soltanto l’economia corpora¬ tiva sia degna del titolo di scientifica, scrivendo; « che lo Stato sia costitutivo essenziale della vita individuale non è verità che s’instauri col regime corporativo, né è limitata alla vita politica dell’Ita¬ lia di oggi: ma mai come nell’Italia di oggi que- sta verità è slata esplicitamente affermata, inai si è concepita la vita economica nazionale come una unità così saldamente organica ». — 11 semplicismo di questa conclusione è troppo evidente per dover¬ vi insistere. — Sarebbe come dire che soltantoquello del 1928 fu degno del nome di inverno, per¬ ché mai come allora ci si accorse del freddo ! » pa¬ gine 514-515). Ma semplicistica, a ver dire, è la osservazione del Contento ed egli stesso dovrà con¬ venirne se rifletterà sul senso preciso delle mie parole. Che la concezione copernicana del mondo sia la sola scientifica non vuol dire che prima di Copernico il mondo fosse governato da altre leg¬ gi; allo stesso modo con l’economia corporativa, o, per essere più esatti, con l’economia che riconosce l'identità di individuo e Stato (il corporativismo essendo solo l’espressione teoricamente realizzante- si di questa identità), si giunge alla consapevolezza della vera realtà dello Stato e ci si pone in grado di eliminare quegli errori teorici e pratici che osta¬ colavano la libera affermazione deH’individuo. Tra la libertà del liberalismo e quella del corporativi¬ smo bene inteso, v’è appunto la stessa differenza che passa tra Vhomo mconomicus e l’individuo vi¬ sto nella sua identità con lo Stato. RIFORMISMO 0 RIVOLUZIONE SCIENTIFICA? In «n recente articolo (1/economia corpora¬ tiva, l’individuo, lo Stato e una polemica, in Po¬ litica Sociale, maggio-giugno 1931, pp. 479-494) Massimo FoveI cerca di chiarire in qual senso egli consente e in qual senso dissente dalle tesi da me sostenute. E conclude con questa pagina che è op¬ portuno trascrivere per intero: « Identificazione ideale, dunque, fra individuo e Stato. D’accordo. Ma per quale via? Qui si affaccia la terza cosa, che si deve dire allo Spirito. Essa è che, se la sua po¬ sizione del problema è perfetta, la soluzione che egli ne dà è, dal punto di vista della scienza econo¬ mica, imperfetta. Dal punto di vista della scienza economica, noti bene Io Spirito, e non già da un altro diverso, per esempio, quello genericamente storico. Ma però, noti ancor meglio lo Spirito, dal punto di vista della scienza economica toni court. e non già di quella detta liberale. E dove sta Firn- perfezione? Non si può certo qui. nello scorcio di quest’articolo, già troppo lungo, neanche deliba¬ re la questione. Indichiamo soltanto la grande di- rettivi! di marcia. Eccola. Spirito tenta la idenli- ficuzione ideale dell'individuo e dello Stato, risol¬ vendoli entrambi in una terza nozione, che è la Nazione. Ora ci chiediamo noi. forse, qui, se questo tentativo può, scientificamente, riuscire? Ossia se la nozione di Nazione sia esprimibile in termini quantitativi? No. Si può anche aggiungere che non siamo troppo diffidenti in proposito. 0, almeno, non vi crediamo molto meno di quello che crediamo al- l'esprimibilità quantitativa dell’individuo. Ci limi¬ tiamo invece a dire clie, tentando questa via. Spi¬ rito tenta ab imis una nuova scienza economica. E che noi invece pensiamo che la identificazione pos¬ sa avvenire, estendendo allo Stato lutti i dati for¬ mali dell’individuo (e viceversa), cosi come oggi la scienza economica lo concepisce. E che, così facen¬ do, la identificazione voluta si realizza attraverso una espansione energica, ma non eversiva, della scienza economica, quale oggi si presenta. È un me¬ todo. È un metodo anche questo — esso consiste nell'innestare nuove teorìe sui vecchi principi ria¬ nalizzati e rifecondati, e che chiameremo riformi¬ sta — che ha i suoi vantaggi. E che, tralasciando quelli teorici che ci trascinerebbero nel cuore della questione, ha i vanlaggi pratici seguenti. Metten¬ dosi per questa via si potrebbe marciare, almeno per un bel tratto, fianco a fianco con altri molti stu¬ diosi; quelli che anche in altri paesi pensiamo soprattutto alla nuova scienza economica dinamica americana — lavorano a rinnovare e a ricostruire, senza ripudiarla, la scienza economica accettata. Si utilizzerebbero, agli effetti della penetrazione delle nuove teorie nello spirito pubblico e sopratutto nel¬ le élites, quei sedimenti, che la tradizione sdentili- ea forma sempre, ravvivandoli senza distruggerli » (pp. 493494). Massimo FoveI, dunque, d’accordo con me con la tesi fondamentale di ricostruire la scienza eco¬ nomica alla luce del principio della identificazio¬ ne di individuo e Stato, non erede che ciò debba farsi operando una vera rivoluzione scientifica e propone un metodo riformista ebe concilii il nuo¬ vo col vecchio e utilizzi i sedimenti della tra¬ dizione. Ora, lasciando da parte i vantaggi pra¬ tici che sono e debbono essere fuori questione, bi¬ sogna riconoscere che una scienza, qualunque essa sia, non può progredire che su se stessa, svolgendo e perfezionando i principi che ne costituiscono il fondamento. È questa una verità ormai lapalissia¬ na, specialmente per chi riconosce nello storicismo il carattere precipuo della nuova scienza. Chi si proponesse a un bel tratto di arrestare il corso del¬ le cose, e ricominciare daccapo, dimostrerebbe per lo meno una grande ingenuità e sarebbe costretto suo malgrado a smentire con i fatti la sua pretesa verbalistica. Anzi, v’ha di più: a guardare bene a fondo, ogni scienza coincide con la sua storia, e in¬ tenderla e perfezionarla non si può senza intende¬ re e continuare il suo processo di formazione. E se questo avviene in generale per ogni scienza, tanto più deve verificarsi per le scienze sociali e per le- conomia politica in particolare: scienze in cui l’a¬ derenza alla vita storica è più immediata e palese e in cui le vicende politiche sono più manifesta¬ mente condizioni del sorgere e dello svilupparsi di certi problemi teorici. Né ad altro, in fondo, ha miralo lutto il lavoro eia me compiuto, con cui ho cercato di porre in chiaro il delincarsi delle nuove esigenze scientifiche alla luce de] processo storico che in esse è sboccato trasvalutondosi. Ora, è chiaro che. se questo è il nostro pro¬ gramma e il carattere fondamentale della nostra critica, porre il dilemma se convenga meglio una revisione riformistica o un’opera rivoluzionaria non può avere il significato che a] dilemma stesso si da accennando all utilizzazione dei residui tra¬ dizionali. Nessun dubhio infatti che tutto il pas¬ sato vada utilizzato e inverato, e non superficial¬ mente o rapsodicamente, bensì nella sua realtà in¬ tegrale e imprescindibile. Nessun dubbio, dunque, che si debba trattare di riforma e non di negazione pura e semplice di quanto è stato fatto nel campo di questi studi: di riforma, e cioè di ulteriore pro¬ cesso che viva dell’esperienza già fatta e la conduca a nuovi e più profondi risultati. Se non che c’è riforma e riforma: quella che si svolge nel ritmo normale della vita di ogni gior¬ no e cambia il mondo quasi inavvertitamente po¬ nendo pietra su pietra; e quella, invece che segna un punto di arresto e di ripresa, perché nel lento processo di trasformazione ci si accorge a un trat¬ to che la via presa non è proprio la più adatta e che, se non si vuol precipitare, eonvien volgersi in altra e più giusta direzione. V’è, insomma, la tra¬ sformazione ordinaria e quella straordinaria, sen¬ za che tra l’una e l’altra ci sia iato o contraddizio¬ ne, che anzi il lento modificarsi delle condizioni crea a poco a poco mia nuova situazione, la quale all’improvviso si svela ed esige un nuovo orienta¬ mento. Abbiamo allora la rivoluzione, che non è, si comprende, neppur essa negazione, bensì pro¬ cesso accelerato e rapido dissolvimento di tutto il negativo che via via era andato affiorando. Una ri¬ voluzione degna di questo nome non è eversiva, non distrugge nulla che non sia già distrutto, ma toglie via le macerie perché il lavoro proceda senza im¬ pedimento. e il nuovo si affermi in tutta la sua pie¬ nezza di vita. A chi ci domandasse, a questo punto, se nella revisione della scienza economica occorra oggi una opera riformistica o rivoluzionaria, potremmo si¬ curamente rispondere, senza timore di essere frain¬ tesi. che la crisi di questa disciplina è giunta ormai a un punto culminante e che vano sarebbe aver fiducia in soluzioni non assolutamente radicali. Ma si deve, poi, aggiungere, che la rivoluzione da noi auspicata acquista un carattere storico sui generis e quasi in apparente contraddizione con quanto è stato fin qui detto. È una rivoluzione, infatti, che nega, in un certo senso, la scienza economica quale si è venuta svolgendo da due secoli a questa parte e che tende a far riprendere il cammino ex nova, per vie finora non tracciate. Contraddizione apparente, dico, perché anche qui la negazione non è sterile negazione, e cioè an¬ nullamento di qualcosa che abbia una realtà posi¬ tiva, bensì riconoscimento esplicito dell’inesistenza di ciò che si nega. E quel che si nega è addirittura la dignità di scienza airecnnomia costruita da Smith in poi: si nega, in altri termini, che sia esistito un economista capace di superare l’empiricità delle ri¬ cerche particolari per assurgere a un sistema infor¬ mato a un principio unico e organico; si nega che la sistematicità dei più famosi trattati di economia sia più che estrinseca e formale; si nega, infine, che ci sia un solo concetto fondamentale dell’economia (valore, utile, bene economico, gusto, homo ceco- nomicus, libera concorrenza, ece.) cui si attribuisca un significato non intimamente contradditorio. Si comprende bene come un’affermazione così perentoria, così grave e paradossale, debba provo¬ care il dissenso e anzi lo sdegno di ehi, educato a questi studi, ha imparato a venerare come sommi maestri Smitli e Ricardo, Stuart Mill e Pareto; ma bisogna pure una buona volta spezzare l’angusto cerchio in cui l’economista si chiude, geloso del suo tecnicismo, e reinterpretare i classici alla luce del loro tempo, dei loro presupposti speculativi e delle esigenze loro fondamentali. Occorre, insomma, far scendere gli dèi dall’olimpo in cui sono stati posti con scarsa consapevolezza storica e procurare di giudicarli con criteri più larghi e comprensivi, sen¬ za farsi deviare dall’esagerato rispetto di fame con¬ solidate troppo esotericamente. Ma perché questa opera dia i suoi frutti, è necessario pure che coloro i quali sono urtati nelle loro convinzioni o nelle loro opinioni abbiano la forza di considerare senza intolleranza i risultati che loro si offrono, e soprat¬ tutto si dispongano a sceverare ciò che nelle loro convinzioni è frutto di ricerca personale da ciò che vi si confonde come presupposto acquisito e indi¬ scutibile sol perché non discusso. Certo, agli occhi loro deve apparir strano ed assurdo che si possa du¬ bitare del valore scientifico di una siffatta discipli¬ na e che scrittori ritenuti classici nel senso più alto della parola siano di punto in bianco riportati a una non aurea mediocrità; ma essi debbono pur convenire che tutto è relativo e che con un occhio solo si è re nel inondo dei ciechi, sì che chiudendo¬ si nel mondo dell'economia non v’è da meravigliar¬ si se diventino luminosissimi soli le semplici lan¬ terne del più vasto mondo della cultura. 0 che for¬ se avrebbero nozione della loro piccolezza i lillipu¬ ziani se non conoscessero altro che il paese di Lilli¬ put? Né, d’altra parte, è lecito pretendere che i giganti di Lilliput siano presi sul serio fuori del lo¬ ro regno. E 1’economia non è un regno che possa vivere in una beata solitudine. Uno degli esempi tipici del consolidarsi di una fama esageratamente superiore alla realtà dei me¬ riti effettvi è quello di Adamo Smith, il cosiddetto fondatore dell’economia scientifica. ) Mezzo empi¬ rista e mezzo huonsensista, incline per educazione alle vaghe ideologie, con troppa abbondanza colti¬ vate nelle sfumature di una etica inconsistente, lo Smith era certo la persona meno adatta a dar for¬ ma scientifica a una disciplina come l’economia. >) Vero è rbe ormai i migliori Ira gli storici dellVonomia met¬ tono per lo meno in dubbio tale qualifica, ma ciononostante Smith reeta sempre in altissimo loro e in lulti i modi si certa di gon- tiare ciò che a Smith non appartiene o ciò che, a lui appartenendo, non è certamente esempio di particolare prolondilà. Tra labroAdamo Smith è diventalo il classico ohbligalorio per chi si presento agli esami di concorso per l’insegnamento dell’economia politica nelle scuole medie. A quale titolo? Sta di fatto che i candidali non lo Studiano e gli esaminatori girano al largo. Evidentemente ne gli uni nò gli altri riescono a entusiasmarli per una sì grande □para. Non sarebbe tempo di finirle? Ma, intanto, se il suo nome, per quel che rigirarti 1 etica, è stato completamente offuscato dai colossi della speculazione, a cominciare dal suo maestro ed amico David Humc, Leu altra è stata la sorte della sua opera sulla ricchezza delle nazioni, assur¬ ta, non certo per meriti superiori a quelli della sua etica, a pietra miliare o addirittura iniziale della storia della scienza economica. E il più strano è che tra le lodi più comunemente rivolte allo Smith v’è appunto quella di aver sistemato in un organismo unitario ciò che prima di lui era frammentario e disperso. Ora, se v’è cosa che salta subito agli oc¬ chi a chi legga 1 opera dello Smith, è proprio la sua radicale incapacità a porre unità nelle sue consi¬ derazioni e a dare una qualsiasi veste sistematica alle sue aprioristiche affermazioni da esscryist. Se poi dall unità passiamo alle singole teorie, la stessa indeterminatezza di limiti e di formulazione si ri¬ vela, anche là dove l’espressione verbale sembre¬ rebbe più categorica e decisiva; e da indetermina¬ to a indeterminato, si scende giù giù fino alla fine dell opera senza aver mai agio di poggiar su un ter¬ reno di una qualche solidità. Comunque — valore sistematico a parte — quale la parola nuova dettaci da Smith? Vano sarebbe cercare una risposta nella sua opera, ma anche vano cercarla negli storici e negli apologeti che ne hanno consacrato la fama. La letteratura in¬ torno a Smith è immensa, ma tutta fondamental¬ mente viziata dal pregiudizio di trovare ciò che non c’è: nulla di strano dunque che ancor oggi si di¬ scuta se Smi ili abbia seguito il metodo deduttivo ovvero quello induttivo, se la sua economia sia con¬ ciliabile con la sua etica, se l’interesse personale 15 - Spunto — 226 — faccia a pugni con la simpatia, e via dicendo: re¬ stando sempre, come Fautore di cui si discute, nel campo di un’economia a base di opinioni. Che se poi si tenta di fare di Smith il teorico del libera¬ lismo economico, lo si solleva, sì, nel campo della storia, dandogli finalmente una fisionomia ben de¬ terminata, ma si commette una grande ingiustizia verso i fisiocrati che in modo ancor più perentorio e genuino erano giunti prima di lui alle stesse con¬ clusioni. Figura scialba e inconsistente, mentalità antiscientifica c mnralisteggiante, Adamo Smith è tuttavia oggi onorato come il padre o uno dei pa¬ dri dell’economia: non è certo questa una grande garanzia per la serietà di una scienza. Ma l’esempio di Smith non è un'eccezione nel¬ la storia dell’economìa, che anzi il fatto che egli stia ancora a godere una fama pressoché incontra¬ stata è la dimostrazione più evidente del livello spe¬ culativo al quale sono rimasti gli economisti poste¬ riori. Sviluppatasi sempre fuori o ai margini del movimento idealistico, l’economia politica ha rice¬ vuto a volta a volta l’impronta di filosofie di secon¬ do ordine, rese ancora più superficiali dal contat¬ to con i fenomeni empirici presi a trattare. Empi¬ risti, storicisti, scettici, positivisti, sociologi, ideolo¬ gi dell’umanitarismo, e simili, si son conteso il campo, costringendo la realtà viva dei fatti econo¬ mici entro gli schematismi aprioristici di vieti dog¬ matismi. E la realtà è stata svisata e resa irricono¬ scibile, ora in nome della scienza, ora in nome di una astratta idealità sociale, senza mai uscire dal¬ l'astratto che si postulava e senza mai accostarsi alla vita per intenderla davvero e dominarla con una scienza che non fosse una pseudoscienza. Non è qui il caso di continuare in una esemplificazione che saia data in forma organica in altra sede: tan¬ to più che a questa conclusione non è opportuno arrestarsi considerando solo gli economisti che han¬ no fatto la scienza, ché anzi dagli economisti con- vien passare alla scienza per vedere se il lavoro di molti non ahhia potuto compensare la mediocrità dei migliori. Al di là della consapevolezza dei sin¬ goli. la scienza può venirsi costruendo in modo pressoché anonimo, col lento fondersi e integrarsi dei contributi degli studiosi, e quella concezione che non è stata mai chiara nella mente di ciascuno scienziato, tutt’assorto nel suo lavoro particolare, potrchhe rivelarsi all’occhio dello storico abituato a guardare dall’alto e a comprendere il molteplice nell’unità. Ma purtroppo v’ha nella storia dell’eco- nomia un vizio di origine che ha tolto finora a que¬ sta scienza la possibilità di giungere a un organi¬ smo logico e non contradditorio. È un vizio sui ge¬ neris, in quanto più che infirmare la perfezione della scienza, ne ha addirittura vietato la nascita: è un presupposto assolutamente negativo che ha sbarrato il cammino prima che si avesse modo di incamminarsi. Si è detto che si cercherebbe invano nella sto- iia dell economia un sistema informato a un prin¬ cipio unico e sistematico. Ma se questo è vero in senso positivo non è altrettanto vero in senso ne¬ gativo; e a tutti è noto, infatti, come la storia del¬ l’economia coincida in modo quasi assoluto conla — 228 — storia del liberalismo economico, anche se questo, velato da un apparente obiettivismo scientifico, sia rimasto celato agli occhi di molti economisti. Un principio informatore c’è stato, dunque, e sistema¬ tica perciò deve essere stata la scienza che ad esso si è attenuta. Il che è tanto evidente da non poter temere smentita, soprattutto da parte di chi quel principio ha cercato e cerca di mettere nella mag¬ gior luce possibile, ad esso riportando anche quelle conseguenze teoriche che ai più non sembrano ne¬ cessariamente connessevi. Ma il fatto è che quel principio lungi daH’essere un principio costruttivo è meramente negativo e distruttivo, sì che proprio ad esso si deve Timpossibilità in cui l’economia si è trovata di assurgere a vera scienza. Per intendere la negatività del principio è op¬ portuno confrontare la storia dell’economia con quella del diritto, dal secolo XVIII in poi. E il con¬ fronto si rende necessario per il chiarimento di quel concetto di individuo, che è alla base di tutte le scienze sociali quali si sono svolte in questi ul¬ timi due secoli. Presupposto, infatti, di queste scien¬ ze, che, alimentate dalle ideologie illuministiche, hanno poi avuto il loro massimo sviluppo col positi¬ vismo sociologico, è l’esistenza di un individuo con¬ cepito come un microcosmo, un individuo, cioè, fine a se stesso, con volontà autonoma, con libertà di arbitrio, e insomma come un mondo chiuso in sé, col sacrosanto diritto di rimaner chiuso e di re¬ gnare indisturbato entro la sua sfera d’azione. È il presupposto liberale, ormai superato da una cri¬ tica perentoria e inconfutabile, in nome di una libertà ben altrimenti profonda e coerente. Ma in¬ tanto a quel presupposto bisogna risalire per spie- garsi il valore e i limiti delle scienze sociali nella loro attuale struttura. Ora, da una libertà intesa in senso atomistico è chiaro che non può, a rigore, derivare alcuna scienza, se è vero che una scienza è tale in quanto studia dei rapporti obiettivi. Una scienza sociale può esistere solo a patto che la società costituisca un organismo e cioè un’unità intelligibile. Ma quando si sostiene a priori che la vera unità è l’in¬ dividuo e che i rapporti sociali sono disciplinati al solo fine del benessere individuale, l’oggetto della scienza si frantuma nella molteplicità di individui, per definizione irrelati e inconfrontabili. L’unica scienza che si salva è il diritto: e il perché è evidente. Se la società si costituisce e vive non per un fine sociale bensì per la salvaguardia dei fini individuali, l’unico contenuto della società sarà la difesa dei diritti reciproci e Tunico conte¬ nuto della scienza sociale sarà Io studio dei limiti delle sfere individuali: il diritto. Sarà anche que¬ sta una concezione formale ed estrinseca del dirit¬ to, inadeguata alle superiori esigenze oggi manife¬ statesi, ma intanto è certo che un contenuto speci¬ fico e positivo la scienza del diritto lo ha pur re¬ stando nell’ambito di una teoria prettamente in¬ dividualistica. E un contenuto positivo ha il dirit¬ to perché ha lo Stato cui propriamente quella fun¬ zione compete, e che in tanto lia una realtà in quan¬ to ha lo scopo di garentire le sfere degli arbitri in¬ dividuali. Si spiega, dunque, molto bene come la scienza giuridica ahhia potuto tanto svilupparsi in questi ultimi due secoli; e si spiega anche prescin¬ dendo dal fatto che al mondo giuridico si sono af¬ facciati scienziati e filosofi di ben altra forza specu- lativa che non quella dei più illustri economisti. Si può dire anzi che nel diritto si conchiude ed esau¬ risce teoricamente tutto il mondo sociale illumini¬ sticamente inteso, senza alcun margine per altra scienza che non sia affatto descrittiva. Trasportato questo stesso principio nel cam¬ po deH’economia, esso si è necessariamente mu¬ tato in principio distruttore della scienza. E, infat¬ ti, logicamente lasciata in disparte la realtà dello Stato — realtà affatto giuridica con l’esclusiva fun¬ zione di determinare i confini interindividuali — o relegata in una particolare scienza detta scienza delle finanze, l’economia ha ipostatizzato l’indivi¬ duo, rendendolo assolutamente irrelato attraverso l’astrazione dell’/tomo veconomicus. Ma una volta fatta oggetto di scienza una molteplicità irrelata, nessuna via era aperta per la determinazione di un qualsiasi rapporto entro la stessa molteplicità. 0 Yhomo (Economicus è veramente arbitro e allora la relazione tra gli homines si potrà soltanto consta¬ tare a posteriori, o la relazione è in qualche modo scientificamente determinabile e allora l’arbitrio dell’individuo è negato. E la scienza economica per gran parte è stata fedele al principio individuali¬ stico giungendo a conclusioni meramente negati¬ ve (libera concorrenza), e quando se ne è scostata è caduta in una serie di contraddizioni che hanno rotto l’unità del sistema, o ne sono rimaste al margine. Peggio è avvenuto quando l’economia, raffina¬ ta metodologicamente e spinta da esigenze di mag¬ giore sistematicità, ha voluto togliere al proprio liberalismo la veste di mera ideologia politica, tra- ducendn il presupposto individualistico in termini di pura scienza. Ne è venuta fuori la scuola psico¬ logica e matematica, sboccata in quel fuoco d’arti- tìzio cbe è la teoria dell’equilibrio economico ge¬ nerale. Non è il caso di ripetere qui quanto si è detto altrove e ripetutamente di questa scuola: basterà porre in rilievo l’antinomia irriducibile tra l’esi¬ genza di scientificità che l’ispira e l’impossibilità di soddisfarla per la natura stessa del presupposto da cui muove. Tutta la storia dell’economia è giun¬ ta al suo logico plinto di sbocco e ha segnato il fal¬ limento di una scienza costruita su una base illu¬ soria. Alla debolezza speculativa degli uomini si è aggiunta la contradditorietà del principio informa¬ tore e l’economia ha invano tentato per due secoli di sollevarsi a un grado veramente scientifico. La scienza dell economia è ancora una speranza del- l’avvenire. Ma cbe cosa è oggi, dunque, la scienza della economia? Credo che migliore risposta non pos¬ sa esservi di quella data da Luigi Einaudi parlando della storia delle dottrine economiche, nelle pa¬ gine riportate in questo volume. Per lui tale storia « dovrebbe occuparsi solo di quelle che sono dot¬ trine economiche proprie, ossia postulati, assiomi, teoremi, corollari enunciati dagli economisti come tali e non come filosofi, o politici, o religiosi, o in¬ dustriali. Quei teoremi o corollari non sono moltis¬ simi e si chiamano prezzi di monopolio o di con¬ correnza, o dei beni congiunti, costi comparati, di- stribuzione dei metalli preziosi fra i diversi paesi del mondo, rendita del produttore, del risparmia¬ tore, del consumatore, equilibrio economico, equa¬ zione degli scambi, rapporto fra moneta propria¬ mente detta e surrogati della moneta, elasticità del¬ le curve di domanda e di offerta, traslazione e capi¬ talizzazione dell’imposta, doppia tassazione nella tassazione del risparmio, e simili astruserie, fortu¬ natamente noiose per la comune degli uomini e poco appetitose per gli uomini storici, politici, pra¬ tici esercenti banca o commercio o industria, seb¬ bene atte a formare l’unica e suprema delizia degli economisti di professione. Da qualche secolo gli economisti faticano per costruire, in questo campo chiuso, un beH’edificio astratto di teorie logiche e coerenti. Sono lontanissimi dalla meta e questa non sarà mai raggiunta, perché ad ogni passo compiuto, nuove mete, nuovi teoremi attraggono la loro at¬ tenzione. Per tanto tempo si erano industriati a creare schemi astratti statici, rappresentazioni atte a raffigurare un meccanismo in equilibrio in un dato momento. Disperavano, per la imperfezione degli strumenti di ricerca da essi posseduti, di riu¬ scire mai a creare schemi atti a raffigurare il « mo¬ vimento » da un equilibrio a quello successivo ; os¬ sia a trasformare i loro schemi astratti relativi ad un momento del tempo in schemi pure astratti, ma relativi al susseguirsi dei momenti del tempo. Da qualche anno si sono gettati su questo terreno ver¬ gine e, nonostante la difficoltà dell’impresa, non dobbiamo disperare che un giorno un uomo di ge¬ nio, capitato a prediligere la dinamica economica, abbia da dire qualcosa ai filosofi cd ai politici che quei campi del movimento, ossia del reale e del vi- vo, hanno sempre, a modo loro e giustamente a modo loro, coltivato. Per ora, non sarebbe bene che noi confessassimo di non essere riusciti in tan¬ te generazioni adorne di qualche uomo di genio e di molti ingegni di prim’ordine, i quali avreb¬ bero onorato, se ci si fossero dedicati, i più illu¬ stri campi della matematica pura, della fisica, della chimica e delle altre scienze, ad uscire dal regno del ■Se, dell ipotetico , dell irreale? Non per mancanza di buona volontà; ma per sordità della materia, la quale appena ora si piega, in mano a sottilissimi statistici armati di tutti i più penetranti strumenti del calcolo, a fornire qualche pallidissima luce, per ora diffusa attraverso schemi astratti, intorno al reale, che è vita e movimento )). Confessione di fallimento, dunque, e riduzione della scienza alla molteplicità di alcuni postulati, teoremi e corollari. E questa è la parola di uno di quegli economisti che, rifiutando la qualifica di liberali, credono ancora alla saldezza scientifica di teoremi alla concezione liberale pur intrinseca¬ mente connessi. Vano sarebbe per lui fare una sto¬ ria dell economia, che fosse la storia di un principio della molteplicità delle sue derivazioni. Soltanto alla molteplicità deve badare lo storico e ricercare 1 atto di nascita dei vari teoremi che mette conto d’illustrare. Al di là dei teoremi non c’è il sistema e tanto meno la storia del sistema. E la scienza dunque non c’è se non come giustapposizione di ri¬ cerche particolari. La diagnosi è precisa, ma non altrettanto pre¬ cisa ne è l’interpretazione. La scienza non c’è per¬ ché è fallito quel principio liberistico che la negava nell atto stesso rEinformarla : oggi non sono rimasti che gli scarsi frammenti (postulati, teoremi, corol¬ lari) che vanno finalmente intesi e rifusi alla luce di un principio ricostruttivo positivo. E, se è vero che il nuovo principio deve rappresentare il supera¬ mento del vecchio, contrapponendo alla pura nega¬ tività di un individuo irrelato la positività e la con¬ cretezza deiridentificazione di individuo e Stato, non può trattarsi evidentemente di un procedere sulla via già percorsa se non nel senso di ripren¬ dere il cammino con la consapevolezza del fallimen¬ to avvenuto. Nulla di quanto si è fatto deve essere negato: e nessuno potrebbe in buona fede cancel¬ lare i tanti risultati raggiunti nella soluzione di par¬ ticolari problemi (molti, se non tutti, tra quelli ci¬ tati daH Einaiidi, e altri ancora non meno impor¬ tanti); ma soli risultati limitati a fenomeni ridotti a termini matematici, o illustrati da una sapiente sta¬ tistica, o descrittivi di momenti storici determinati: non sono la scienza, l’organismo, il sistema, in cui la luce e sempre unica perché unico il principio c il fine. Quel che si nega è appunto la scienza che non c’è, e non ci potrà essere fino a quando non sarà compiuta quella rivoluzione scientifica di cui fin qui si è discorso. CRITICHE DI FILOSOFI Tra le tante critiche rivolte alla tesi della iden¬ tità di filosofia e scienza nell’applicazione fattane nei problemi della scienza economica, meritano di essere considerate a parte quelle che ci provengono dai cultori della filosofia. Curiosa posizione, invero, la nostra, di fronte a scienziati, che loro malgrado sono indotti a occuparsi, sia pure di sbieco, di filo¬ sofia, per rispondere alle critiche di principio che loro moviamo; e di fronte a filosofi, costretti a scivo¬ lare, con evidente senso di disagio, nel campo scien¬ tifico, per salvare la filosofia da una presunta con¬ taminazione. Curiosa, perché ci troviamo a dover discutere con illustri scienziati, i quali, per evi- dente inesperienza di studi filosofici, vengon fuori con ingenuità sconcertanti e gettano un’ombra non lieve sulla stessa scienza che professano; e con non meno illustri filosofi, i quali immaginano una scienza che non esiste e con essa fanno i conti senza voler uscire dal guscio di quella pseudo uni¬ versalità di cui si ritengono depositari. E gli uni e gli altri, naturalmente, ci combattono in relazione a quella filosofìa o a quella scienza che non cono¬ scono e concordano a priori nella conclusione di ritenerci pseudofilosofi o pseudoscienziati. Ma non è colpa nostra se, stando nel mezzo, ci punge il de- siderio di sollevarci sulla reciproca incomprensione di cui gli uni e gli altri danno prova, e di dimo¬ strare come quell’universalità cbe i filosofi difen¬ dono sia verbale e apparente e come il rigore si¬ stematico di cui gli scienziati sono orgogliosi abbia la stessa consistenza delle affermazioni filosofiche che si lasciano sfuggire. A noi non resta cbe invi¬ tare ancora una volta a porsi da questo più com¬ prensivo punto di vista, dal quale è possibile una visione precisa di quel cbe siano la falsa filosofia e la falsa scienza. Armando Carlinicomincia con l’avvertire, in linea di massima, cbe « bisogna vincere il pre¬ concetto, ancora molto diffuso, cbe ci siano dei principi da riformare nelle scienze con criteri filo¬ sofici, per poi procedere alla riforma di esse. I principi sono immanenti al lavorio scientifico, il quale procede riformandosi da sé: l’enunciazione dei principi avviene dopo, non prima ». Se non che tale modo d’impostare il problema presuppone già un dualismo dogmatico di scienza e filosofia che preclude inevitabilmente la strada alla com¬ prensione del nostro tentativo. Se principi scienti¬ fici e criteri filosofici son cose diverse, se 1 enun¬ ciazione dei principi vien dopo, se il lavorio scien¬ tifico procede riformandosi da sé, vuol dire cbe la lesi dell’identità di scienza e filosofia resta fuori discussione e che rammonimento va a coloro i quali 5 ) CIr. la sua recensione del mio libro su Lo critica dell'econa- mia liberale, in Leonardo, agosto 1931, pp. 354-455. mescolano una scienza e una filosofia intese Alla vecchia maniera. Per conto nostro non possiamo aver la pretesa di riformare i prìncipi delle scien¬ ze con criteri filosofici perché non conosciamo cri¬ teri filosofici che non siano i principi stessi delle scienze: ammettiamo che il lavorio scientifico pro¬ ceda riformandosi da sé per la semplice ragione che non conosciamo alcun altro lavorio oltre lo scien¬ tifico: e infine non possiamo ammettere che l enun- ciazione dei principi avvenga dopo per la stessa ragione per cui non possiamo ammettere che av¬ venga piìma essendo i principi, come ben osserva il Carlini stesso, immanenti al lavorio scientifico. Ma il Carlini non si arresta a queste osserva¬ zioni e riafferma il dualismo in modo ben più pe¬ rentorio. « La vita », egli scrive, « nella filosofiagentiliana è pura spiritualità e personalità del sog¬ getto: per lo scienziato, è nel divenire storico della realtà eh egli studia, e a questa cerca di adeguare i suoi concetti. La scienza, se non procede così, con questa mentalità, non è più scienza. Introdurre nella scienza una questione morale (la consape¬ volezza che quel mondo della scienza ha dei limiti, e che in noi è una ragione di vita che lo supera) è distruggere il prohlema proprio dello scienzia¬ to ». Dove è da osservare che la vita del soggetto è appunto il divenire storico della realtà ch’egli stu¬ dia; che il mondo della scienza non ha limiti, bensì li ha ogni scienza vista nella sua particolarità ; e infine che lo scienziato, il quale non avesse la con¬ sapevolezza dei limiti della sua particolare scienza, non sarebbe scienziato. Del resto, il dualismo cui si arresta il Carlini è più un residuo di vecchie teorie che non una pre- cisa convinzione. Tanto è vero ch’egli ammette la « bontà » dei miei saggi e la spiega « non con gli schemi dellTntroduzione ma con quanto l’autore vi porta di conoscenza concreta dei problemi di¬ battuti, e soprattutto con quel vivo senso della sto¬ ricità di questi problemi ch’è, nel campo della cul¬ tura in generale, specialmente per noi italiani, una delle conquiste fondamentali dell’idealismo con¬ temporaneo ». Ora, è chiaro che il senso della sto¬ ricità dei problemi discussi è appunto la consa¬ pevolezza dei limiti delle affermazioni scientifiche e sta a dimostrare, in atto, l’identità di scienza e filosofia. Che poi l’Tntroduzione si riduca a schemi irrilevanti ai fini delle affermazioni scientifiche contenute negli altri saggi, è cosa per lo meno di¬ scutibile: comunque ciò non denoterebbe la natu¬ ra filosofica dellTntroduzione in contrasto con la natura scientifica dei saggi, bensì lo scarso valore filosofico e perciò lo scarso valore scientifico della Introduzione stessa. In altri termini, in essa per¬ marrebbe alcunché di quell’astrattismo filosofico che noi ci proponiamo di combattere non meno del correlativo astrattismo scientifico. Il dualismo di scienza e filosofia è presuppo¬ sto in modo ancor più perentorio da Giulio Cola¬ marino, *) che ripetutamente ha voluto dimostrare 3 ) G. Col AM arino, Scienze e filosofìa, in Nuovi problemi, di¬ cembre 1930, pp. 97-116; recensione di U. Spirito, La eritrea della economia liberale, ibid,, gennaio-febbraio 1931, pp. 93-98; Scienze sociali, filosofia e scienze economica, ibid., luglio-settembre 1931, pp. 481494. 1 autonomia della scienza dando come unica legitti¬ ma una scienza non filosofica e perciò a lui. stu¬ dioso di filosofia, affatto ignota. « Ma peggio sa¬ rebbe certamente », egli osserva, « se l’idealismo assoluto volesse entrare nel dominio della scienza per migliorarla e renderla più rispondente alla vi¬ ta — come appunto sostiene il libro di cui parlia¬ mo. Non potendo la filosofia dettar legge alla scien¬ za. né costruirla come una finzione intellettuale che le rimarrebbe sempre estranea, potrebbe acca¬ dere che, col concorso di circostanze che non oc¬ corre specificare, l’invocato connubio tra scienza e filosofia, segnasse in Italia l’inizio di un periodo di grande confusione, se non nel mondo della cultu¬ ra, per lo meno in quello della scuola » (recensione cit., pag. 95). E qui, al solito, si parla di una filo¬ sofia che dovrebbe entrare nel mondo della scienza, e di un connubio di scienza e filosofia, laddove la tesi che con ciò si vuol combattere è quella di una scienza che è filosofia e che filosoficamente progre¬ disce correggendo i suoi principi. Non si tratta di unire due mondi, bensì di riconoscerne l’identità. Al che il Colamarino, finché rimarrà sulla via in¬ trapresa, non potrà certamente giungere per l’ine¬ sperienza da lui dimostrata degli studi scientifici in genere e deireconomia in ispecie. Chi dubitasse di questa mia affermazione non avrebbe che a leggere le osservazioni che il Colamarino fa sulla mia cri¬ tica del Pareto, e riflettere in particolare sul se¬ guente passo, in cui si cerca di svalutare il mio giu¬ dizio giudicandolo meramente filosofico. « Bisogna concludere perciò », egli scrive, « che di uno scien¬ ziato è troppo vano e tardivo fare la critica filo¬ sofica, dopo che tale critica si è già esercitata sulla forma del sapere scientifico, e che quella critica è poi anche fuor di luogo se deve valere per gli scien¬ ziati. Se Pareto non avesse scritto il Manuale, tutti i suoi libri pseudostorici e sociologici non sareb¬ bero valsi a ricordarlo agli scienziati, e quindi lo Spirito non avrebbe sentito il bisogno di occuparsi di lui. Ora, parlare di Pareto, come egli ha fatto, svalutando il Manuale, e concentrando tutto Tinte- resse sullo scetticismo sorto nell’animo paretiano nel vano tentativo di combinare insieme la sociolo¬ gia con l'economia, significa rimanere ai margini dell’argomento, rinunciare a parlare di scienza per eccessivo attaccamento alla filosofia » (ibid., p. 97). Se il Colamarino avesse letto davvero il Pareto e si fosse reso conto delle mie critiche, non avrebbe certamente scritto queste righe che sono la confer¬ ma decisiva dell’impossibilità in cui egli si trova di discutere il problema dei rapporti tra filosofia ed economia. Il Manuale ch’egli contrappone ai li¬ bri pseudostorici e sociologici è proprio il libro del Pareto in cui le ideologie sociologiche e pseu¬ dofilosofiche prendono il sopravvento sulla scien¬ za economica più aderente alla tradizione rappre¬ sentata dal Cours, e mettono capo a leggi e teoremi privi di qualsiasi rigore logico. Lungi dal rinun¬ ciare a parlare di scienza per eccessivo attaccamen¬ to alla filosofia, io ho voluto dimostrare Tinconsi- stenza scientifica della costruzione del Pareto do- vuta al suo impelagarsi nella filosofia (che è, s’in¬ tende bene, una cattiva filosofia). Se il Colamarino ritiene che scientificamente il Manuale rappresenti qualcosa di altro e di meglio di ciò che è stato da me filosoficamente criticato, lo dimostri, e si finisca ima buona volta dì contrapporre al mio Pa- reto un Pareto scienziato che nessuno dà prova di conoscere e di saper difendere contro un giudizio che ne investe i principi fondamentali. E qui mi occorre di dare un consiglio ai con¬ traddittori, filosofi o economisti, che siano, ma so¬ prattutto se economisti: non continuino a oppormi inutilmente vaghi filosofemi e opinioni approssi¬ mative sulla possibilità o impossibilità del mio as¬ sunto, ma cerchino di saggiare in concreto la vali¬dità deile critiche particolari e dei criteri ricostrut¬ tivi. Allora soltanto la discussione potrà riuscire feconda ed esser liberata da quel filosofismo di cui sono purtroppo infetti i miei accusatori. Delle tan¬ te pagine che il Colamarinn mi ha dedicate non in¬ teressano certo quelle che pongono una pregiudi¬ ziale filosofica: non interessano e perciò non le di¬ scuto. Interessano invece, e vorrei quindi discute¬ re, le osservazioni circa i problemi concreti della scienza economica, ma purtroppo di queste vi ha molta scarsezza negli articoli citati. L’unico punto un po’ determinato è quello che concerne l’ipotesi dell homo cp.canomic.ua, dal Colamarino riproposta a fondamento della scienza economica. Contro il Contento, ch’era della stessa opinione, e che ave¬ va definito Yhoìno mconomicus « l’inividuo imma¬ ginato nella sua pura condotta economica, la quale, nei moventi e nei fini, si ritiene informata, gene¬ ralmente, ad un tipo uniforme corrispondente alla ricerca della massima soddisfazione col minimo sforzo, cioè all’applicazione integrale del principio lfi - Suino — 242 — del minimo sforzo », avevo opposto che, se tale è l’ homo cp.conomicus. l’uomo è sempre economico, in ogni campo della sua esistenza, perché sempre tende alla massima soddisfazione col minimo sfor¬ zo, e che dunque « la fictio dell’/i. ce. si rivela an¬ cora una volta assolutamente inadatta a servire da ipotesi scientifica )). Ora, su questo ragionamento, « impressionante nella sua semplicità », come dice lo stesso Colamarino, si trova modo di sofisticare distinguendone la validità scientifica da quella filo¬ sofica e concludendo che il principio si estende, sì, a tutti i campi deH'attività umana, ma acquista un particolare significato allorché si parla di econo¬ mia politica. « E qual’è », continua il Colamarino, C( l’economicità sulla quale si erge l’edificio della scienza economica? È indubbiamente l’attività che sì esercita nella produzione, nello scambio, nel con¬ sumo dei beni materiali, misurabili, trasferibili, o riducibili comunque a nozione quantitativa. E Yho- mn oeconnmicus non è altro che l’individuo che esercita tale attività: individuo che non è certo l’Io della filo sofia e neppure tutto l’individuo sociale (che allora la economia sarebbe tutta intera la scienza sociale), ma che è appunto quell’astrazione, quella fictio necessaria alla scienza dell’economia » (Scienze sociali ecc., pp. 490-491). Ma con ciò il Colamarino conferma appunto che la definizione del Contento, e di tanti altri prima, è errata, per¬ ché generica, e che il vero homo ceconomicus è in¬ vece Vindividuo che esercita la sua attività nella produzione, nello scambio, nel consumo dei benimateriali, misurabili, trasferibili, o riducibili co¬ munque a nozione quantitativa. Filosofica o scien¬ tifica che fosse, la mia obiezione era dunque vali- da e la definizione è stata cambiata. Che poi la nuova formula non abbia, neppur essa, alcun va¬ lore scientifico, è cosa che dovrebbe risultare ab¬ bastanza evidente dopo tante discussioni in pro¬ posito, ma non sono alieno dal tornarvi su, se al Colamarino, o a qualche altro in sua vece, venisse il desiderio di maggiori delucidazioni. Ciò che im¬ porta è di discutere su questa piano, senza conti¬ nuare a domandarsi se si tratti di scienza ovvero di filosofia, e cercando, semplicemente, di ragio¬ nar bene. LA NUOVA SCIENZA DELL’ECONOMIA SECONDO WERNER SOMRART À coronamento della sua grande opera di sto¬ ria economica. Werner Sonibart ha voluto com¬ piere un tentativo di sistemazione scientifica dei principi fondamentali dell’economia, e ha scritto un’opera (Die drei Nationalókonomien, Miinchen und Leipzig, Duncher und Humhlot, 1930, pagi¬ ne xii-352) intenzionalmente rivoluzionaria, che non potrà non destare scandalo presso tutti gli eco¬ nomisti convinti dell'assolutezza e infallibilità del¬ le loro leggi. Ai cattedratici ortodossi che si com¬ piacciono della solidità di quel corpo di dottrine economiche messo insieme dai classici e via via per¬ fezionato dagli scienziati puri pervenuti al rigore delle discipline matematiche, il Somhart getta riso¬ lutamente in faccia l’accusa di radicale incongruen¬ za e di cieco dogmatismo. Lungi dal rappresentare una scienza esatta, l’economia si trova oggi in una « situazione disperata » (verzweifelle J.u&tand un- serer Wissenschaft) che il Somhart non teme di rappresentarsi con le fosche tinte di uno spaven¬ toso caos. Naturalmente il giudizio è confortato dallanalisi dei motivi e dalla dimostrazione inop¬ pugnabile della indeterminatezza dei principi su cui la scienza delFeeonomia è stata fondata. Si tratta di un imprecisione che ha involto lo stesso concetto di economia e poi lutti i metodi di ricerca e tutta la terminologia scientifica. Criteri estrinseci di classificazione, interferenza di motivi disparati, delimitazioni arbitrarie, presupposti infondati e concetti equivoci hanno portato la confusione nel campo degli studi economici, facendo smarrire ogni senso dei suoi confini e delle sue caratteristiche peculiari. « L’economia si è accontentata fin qui di concetti che a guisa di vagabondi si sono aggirati tra 1 confini dei vari paesi, senza Leu sapere dove avessero diritto di cittadinanza. Con tal genia er- rante e vagabonda l’economia ba voluto riempire i quadri del suo esercito di concetti: valore, biso¬ gno, bene, piacere, pena, utilità, eco., e ha persino concesso a questi vagabondi la dignità di concetti fondamentali. (Grundbegriffe) » (pag. 247). Non si tratta dunque di eliminare errori o di colmare lacune, bensì di trasformare ab imis tutta la scienza economica mediante l’assunzione di prin¬ cipi affatto diversi e a confini ben determinati. Non v’è uno solo dei concetti di cui ] a scienza eco¬ nomia oggi fa uso che non sia di carattere empi- ri co e perciò suscettibile delle infinite interpreta¬ zioni giustificate dalle contingenze del suo uso. Aver la pretesa di far della scienza rimanendo su un terreno così poco stabile è un assurdo che il Somharf riesce a mettere efficacemente in luce, mostrando l’urgenza dei rimedi. Ed egli senz’altro’ afferma, con simpatico orgoglio, di aver appunto intenzione di recare « un po’ d’ordine in questo caos )) ( p. 19) e di dar finalmente rigore scientifi¬ co a una disciplina che con troppa evidenza ha di¬ mostralo di non averne affatto. Con questo libro una nuova epoca dovrebbe, dunque, iniziarsi nella storia della scienza economica. Per chiarire la sua posizione di fronte a tutti gli altri indirizzi scientifici, il Sombart compie fin dalle prime pagine una generale ripartizione dei sistemi di economia in tre grandi tipi, caratteriz¬ zati dal metodo di ricerca: il metafisico o normati¬ vo (Tirhtende Nationalokonomie), il naturalistico o classificatorio o descrittivo (ordnende A lational- Òknnomie) e infine lo spiritualistico o critico (vpt- slehende Nationalokonomie). Del primo sarebbe rappresentante tipico Sau Tommaso, del secondo il Pareto, del terzo il Sombart (das « meinige »). E tutto il libro quindi vien ripartito in tre parti, due delle quali volte alla critica dei sistemi giudicati inadeguati (metafisico e naturalistico) e l’ultima invece destinata a porre i fondamenti della nuova costruzione spiritualistica. L’economia normativa non ba lo scopo di stu¬ diare il mondo nella sua effettiva realtà, ma di in¬ dicare ciò ch’esso deve divenire: non si riferisce all’essere ma al dover essere, e in quanto tale pone le direttive della condotta umana per l’instaurazio¬ ne dell’economia giusta. I concetti su cui essa si fonda sono perciò concetti sociologici come classe o mestiere; concetti di giustizia come giusto prez- zo, giusto salario o giusta distribuzione; concetti di valore come sfruttamento, ecc. I suoi fini sono quelli di determinare i valori assoluti, di riconnet- tcre ad essi le proposizioni scientifiche, di tradurli nella pratica della vita e di segnalare le deviazioni della realtà dall’ideale. Dopo aver esposto i vari tipi di questa econo¬ mia normativa, l’Autore si domanda se essa sia scientificamente ammissibile e se possa quindi rap¬ presentare il vero canone metodologico dello stu¬ dioso. Nella risposta si rivelali d’un tratto tutti i limiti dell’orizzonte speculativo del Sombart e si iniravvedono le difficoltà che egli dovrà superare per liberarsi, almeno in parte, dai pregiudizi della ideologia da cui prende le mosse. Ancora fedele al concetto positivistico di scienza e alla conseguente critica antifilosofica, egli distingue in modo cate¬ gorico il mondo dell’esperienza dal mondo dei va¬ lori, la scienza dalla filosofia, e alla prima ricono¬ sce la possibilità di una verità obbiettiva laddovealla seconda consente un significalo esclusivamente soggettivo. L’economia, in quanto scienza, non può indicarci l’ideale di una maggiore produzione, per¬ ché tale ideale implica la soluzione di un problema non semplicemente economico, ma totale o meta¬ fisico, quale è quello del fine sociale: implica, cioè, una particolare visione del mondo una Weltan- schauung, che trascende assolutamente i meri dati scientifici. Né è possibile, secondo il Sombart, che tale concezione integrale informi comunque di sé una scienza particolare, perché la differenza fra la parte e il tutto, ossia tra la scienza e la filosofia, non è soltanto quantitativa, bensì anche qualita¬ tiva. La filosofia è da lui intesa come intuizione re- ligiosa, come conoscenza personale e soggettiva: se essa si insegna, i] suo insegnamento non può con¬ siderarsi come 1 introduzione a una verità, ma co¬ me una suggestione personale del maestro sull’a- lunno, come un invito alla lede del maestro. La conoscenza filosofica, perciò, è essenzial¬ mente relativistica e può rivelarci un solo aspetto della realtà, mutando legittimamente da persona a persona, con pari validità per ognuno. Alla fede scientifica, originariamente positivistica, il Sombart può giustapporre, senza timore di ledere la sicu¬ rezza obiettiva dell’esperienza, una filosofia rela¬ tivistica e scettica, fornitagli a troppo buon mer¬ cato dall’indulgente Simrnel. E allora dalla scien- za si dà il bando a tutti i giudizi di valore, che. in quanto personali, non possono costrìngere logica¬ mente, ma debbono rimanere fuori dell’esperienza e dell’evidenza. 11 loro fondamento è Femore: per i valori 1 uomo vive e muore, ma i valori non co¬ nosce: essi appartengono alla sfera filosofica o reli¬ giosa, nella quale dunque può solo rientrare tutta l’economia normativa. In tal guisa vien liquidato dal Sombart uno dei tipi fondamentali della scienza economica, e il lettore non può non rimanere sorpreso dalla facilità e diciamo pure — superficialità, con cui si ripetono monotonamente la istanza scientifi¬ ca del positivismo, l’affermazione dogmatica della validità di un’esperienza e di un’evidenza logica non meglio definite, l’accusa di relativismo alla fi¬ losofia, e 1 impossibilità scientifica di un qualsiasi giudizio di valore. Se dovessimo arrestarci a que¬ sta prima parte del libro, non avremmo che a con¬ cludere in modo affatto negativo, perché se il Som- bari avesse sul serio mantenuto fede a tale pozio¬ ne iniziale, nessun motivo nuovo e nessuna nugoli esigenza sarebbero scaturiti dalla sua ricostruzione. 1] dualismo di conoscenza e fede, di fatto e valore, di oggettivo e soggettivo, ci appare finora così radi¬ cale e grossolano, da far ritenere completamente fallito il tentativo e da far per lo meno dubitare della serietà di un effettivo riordinamento della scienza economica. Più che la rozzezza dei motivi critici^ meraviglia vedere in un uomo di tanta cul¬ tura l’assoluta incapacità di prender atto dello svi¬ luppo del pensiero contemporaneo e delle infinite istanze critiche sollevate d’ogni parte al massiccio credo positivistico, cui il Sombart sostanzialmente serba ancora fede. Lo stesso Pareto, del quale egli ricalca fin qui le orme, aveva detto queste cose in ben altra e più nuova maniera: né si capisce come vi si possa ancora tanto insistere, senza porre in campo argomenti nuovi o senza impostare diversa- mente la logora questione. Si tratta, oltre tutto, an¬ che di sensibilità e di gusto. Ma fortunatamente il Sombart. pur portando attraverso tutto il libro il peso di tali presuppo¬ sti, sa presto sollevarsi a un altro livello e affac- ciare esigenze in netta antitesi con le prime affer¬ mazioni. Da una parte si affina in lui il concetto di esperienza, dall altra si attenua fin quasi a scom¬ parire il crudo dualismo di scienza e filosofia. E già nell analisi del secondo tipo di sistemi econo- mici, quello classificatorio o descrittivo, si comin¬ cia a delineare una forte istanza critica rispetto al¬ la comune concezione naturalistica della scienza. Caratteristiche della scienza della natura so¬ no la validità universale e l’assoluta obiettività dei principi e delle leggi: ma questo risultato, che è il risultato più grande raggiungibile dalla scienza, è possibile solo a patto di rimanere in una zona me¬ ramente formale. Se analizziamo, infatti, le propo¬ sizioni delle scienze naturali, ci accorgiamo ch’es¬ se si riferiscono a fenomeni morii, già realizzati fìssati e resi calcolabili attraverso un processo di elementarizzazione. Il tutto, l’essenza della natura sfugge completamente e va relegato nei campi della metafìsica: ciò che resta oggetto di scienza sono i particolari aspetti, i fatti semplici, i fenomeni mi¬ surabili, i quali vengono raccolti e ordinati secon¬ do principi formali estrinseci (concetti generali, schemi, leggi, uniformità). « La conoscenza, come viene intesa nelle moderne scienze naturali, è una comprensione esteriore delle cose; è una conoscen¬ za dal di fuori, o, come fu anche detta, particolare, vale a dire ch’essa si limita a un solo carattere: la quantità (Gròsse). Fornendoci solo la misura o il numero delle proprietà dei fenomeni, le scienze naturali hanno sostituito un rapporto formale e unilaterale all’unità complessa )) (p. 112). Ora, v’è un modo di costruire la scienza del- reconomia, che si ispira appunto a tali criteri na¬ turalistici, poco preoccupandosi del valore conosci¬ tivo dei risultati. E il Sombart giustamente ravvisa nei seguaci di questa ordnende Nationalókonomie non solo i teorici delFoggettivismo, ma gli stessi sog¬ gettivisti, gli psicologi, i marginalisti e i seguaci delle — 251 — teorie dell’equilibrio. Egli non si lascia ingannare da un presunto soggettivismo e. dopo aver osservato (pagg- 110-111) cbe esiste un modonaturalisticodi fare la scienza dell’anima e dello spirito, giunge fino a rilevare il carattere equivoco del principio di ofe¬ limità del Pareto (p. 128). Una critica condotta in termini sì efficaci e ri¬ gorosi della concezione naturalistica della scienza basta a farci comprendere come la posizione piat¬ tamente positivistica dell’altra critica alla richtende Nationalókonomic non fosse sufficiente per indivi¬ duare il livello speculativo cui il Sombart è perve¬ nuto. Qui si rivela una coscienza abbastanza esatta e approfondita di tutto quel movimento di reazione idealistico alla scienza che ha caratterizzato gran parte del pensiero filosofico e scientifico degli ultimi decenni, e si dimostra a chiare note una radicale in¬ soddisfazione per rinfallibile obiettività e assolu¬ tezza di cui presumevano avere il monopolio i po¬ sitivisti. Se, quindi, si volesse nuovamente definire, limitandoci a questa seconda tappa, la concezione speculativa del Sombart. occorrerebbe cercarne i li¬ miti in quella stessa critica alla scienza cbe caratte¬ rizza le filosofie contemporanee antintellettualisti- che. E i lìmiti allora si ritroverebbero nel dualismo di natura e spirito, cbe pesa purtroppo sulla scien¬ za e sulla filosofìa come dualismo delle stesse disci¬ pline, e che fa ritenere tuttavia a molti insupera¬ bile la concezione naturalistica delle scienze natu¬ rali. L’accusa che il Sombart muove alla scienza della economia non riguarda, per sua esplicita con¬ fessione, la scienza della natura, la quale è e deve essere naturalistica, e necessariamente degenera nel¬ la metafisica quando voglia supeiare il proprio ca- — 252 — ratiere meramente formale (p. 119): il che vuol dire che scienza naturale e scienza sociale sono as¬ solutamente eterogenee, e che alla prima competono metodi di ricerca affatto diversi da quelli seguiti dalla seconda. La conseguenza ultima sarà che la scienza sociale per quel tanto che interferirà con la scienza naturale diverrà per definizione impossibile e assurda, come appunto confermerà nell’ultimo svolgimento del suo pensiero lo stesso Sombart. Egli, al solito, non sospetta che la critica alla scienza ha il solo valore di una critica alla concezione natu¬ ralistica della scienza e non pensa neppure che la scienza della natura possa farsi con altri criteri che non siano quelli estrinseci del positivismo : dalla sua critica perciò egli non perviene a una nuova visio¬ ne della scienza, in generale, bensi soltanto a un distacco arbitrario delle scienze sociali, che vorreb¬ be sottrarre alla metodologia propria delle scienze naturali. È questo certamente un passo innanzi ri¬ spetto alla comune critica alla scienza, ma è un passo fatto a costo di un dualismo che compromet¬ terà inevitabilmente la nuova costruzione. Dall’analisi compiuta della richtende Nationa- lókonomie e della ordnende Nationalókonomie so¬ no scaturiti per contrasto i caratteri che do¬ vrà avere la vera scienza dell’economia, la ver- stehende Nationalokonomie. E il problema viene a porsi in termini almeno apparentemente rigo¬ rosi, quando il Sombart affaccia l’esigenza di un cri- terio conoscitivo che sfugga per la sua obiettività al relativismo di una metafisica soggettività e non si esaurisca d altra parte in una sistemazione affatto estrinseca e classificatoria dei fenomeni sottoposti a indagine. La nuova scienza dovrà giungere alla essenza della realtà economica, pur non abbando¬ nando mai il terreno concretissimo dell’esperien¬ za. Per giungere a questo risultato il Sombart com¬ pie il maggiore sforzo speculativo che gli è possibile assumendo entusiasticamente a guida indiscussa il pensiero del nostro Vico, dal quale appunto trae argomento per ipostatizzare il dualismo, cui abbia¬ mo accennato, di scienza della natura e scienza so¬ ciale. (( lo sono disposto )), afferma risolutamente il Sombart, « a riconoscere in Giambattista Vico il pa¬ dre delle moderne scienze dello spirito e di un rela¬ tivo particolare metodo di conoscenza. Egli è. a mio modo di vedere, il primo che nei tempi moderni ab¬ bia contrapposto con coscienza le scienze storiche alle scienze naturali e abbia dimostratolanecessità perle prime di un metodo d indagine diverso dal¬ l’usuale)) {p. 156). E che il Vico sia proprio il padre della « verste- bende » sociologia il Sombart vuol dimostrare tra¬ scrivendo addirittura nel testo italiano il noto passo della Scienza nuova: «Questo mondo civile certa¬ mente egli è stato fatto dagli uomini: onde se ne possono, perché se ne debbono, ritrovare i Principi dentro le modificazioni della nostra medesima men¬ te umana. So che a chiunque vi rifletta sopra, deve recare una somma maraviglia, come tutti i Filosofi seriosamente si studiarono di poter conseguire la Scienza di questo Mondo naturale, del quale, per¬ ché Dio egli il fece, esso solo ne ha la Scienza ; e tra- — 254 — scurarono di meditare su questo Mondo delle Nazio¬ ni, o sia Mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la Scienza gli uomini ». Ora, la scienza dell’economia, come tutte le scienze sociali e la sociologia in genere — il Som- bart preferisce ancora questo termine a quello di storia — riguarda appunto il mondo fatto dagli uo¬ mini, vale a dire non il mondo della natura, bensì quello dello spirito o della Kultur : quel mondo che noi possiamo conoscere veramente perché costruito da noi. « Noi e noi soltanto siamo i creatori della cultura e ci muoviamo in questo piccolo mondo co¬ me Dio in quello grande. In questo nostro mondo noi siamo in effetti il Dio onnisciente e onnipoten¬ te » (p. 199). Intesa in tal modo la cultura come tutta l’opera umana in contrapposizione alla natura, si compren¬ de bene come il Sombart possa concepire una scien¬ za dell’economia spiritualistica e al tempo stesso sperimentale e obiettiva. Metafisica era la richtende Natianalòkonomie perché presumeva di conoscere un mondo trascendente il nostro pensiero: forma¬ listica era la ardnende Nationalòkonomie perché vo¬ leva arrestarsi nel campo delle scienze sociali agli stessi criteri validi per le scienze naturali : ma non più metafisica né formalistica sarà la verstehende JSationalókonomie, che potrà giungere all’essenza delle cose, senza tuttavia sconfinare in un mondo trascendente. Essa potrà divenire veramente una Erfahrungxwi.'isp.nschaff, quando sarà concepita come una Geistwissenschaft nel senso di Kulturtcissen- schaft. - 255— Con l’affermazione della verstehende Nationnl- ofconomie come sociologia il Sombart raggiunge il più alto livello che gli è consentito dai suoi presup¬ posti filosofici: e alla luce di essa ci è ota possibile ritornare alle critiche delle due prime forme scien¬ tifiche dell’economia e intravederne quel più pro¬ fondo significatico intuitivo che mal ci è apparso attraverso la rigorosa riduzione in termini logici che ne abbiamo fatto. Perché adesso ci è dato ca¬ pire come la critica grossolanamente positivistica rivolta alla richtende Natiflìialakonomie non stava a dimostrare una meschina adorazione del fatto, vi¬ sto fuori della vita dello spirito e della storia, bensì piuttosto l’insofferenza per ogni forma di scienza moralistica, volta a determinare aprioristicamente i fini dell’attività umana in genere e di quella eco¬ nomica in ispecie. Se in quella critica predominava senza dubbio il vecchio pregiudizio positivistico di un’esperienza intesa in modo affatto oggettivo, è pur vero che a esso si accompagnava una coscienza sto¬ ricistica di ben altro valore, tendente non all’elimina¬ zione dei valori spirituali, bensì al loro spostamento dall’astratto campo della metafisica moralistica alla salda e concreta realtà della storia. Che è poi la 6tessa esigenza che induce il Sombart a svalutare le scienze naturali e insieme il modo naturalistico dì costruire la scienza economica. Non che egli non creda utile una sistemazione formale dei dati dell’econoniia, che anzi ne conferma in questo stes- so libro l’opportunità e addirittura la necessità, ma non ritiene che in essa possa esaurirsi il compito di una scienza destinata allo studio di una realtà viva e progrediente quale è l’attività umana creatrice della storia. Gli economisti tanno finora oscillato tra un arbitrario moralismo e un formalismo tautolo¬ gico enon hanno mai saputo assurgere a una effet¬ tiva comprensione dei fenomeni che volevano spie¬ garsi: il Sombart ne ha visto efficacemente le ragio¬ ni ed è salito a lina forma superiore di storicismo. Lo storicismo del Sombart, infatti, è molto di¬ verso da quello tradizionale della scuola storica e si comprende come egli non ami troppo la parola, che pur è la più adatta a caratterizzare la sua po¬ sizione. Al vecchio storicismo il Sombart è giusta¬ mente contrario e la diagnosi che ne compie coglie proprio il segno. Se la scuola storica aveva avuto rintuizione delle complessità e varietà dei fenomeni economici, non aveva poi saputo elevarsi fino al loro dominio ed era finita neH’irrazionalismo : lo storicismo, come descrizione empirica dei fenomeni visti nella loro caotica molteplicità, non è la scienza ma la negazione della scienza. Lo storicismo del Sombart, invece, penetra al fondo della mutevole realtà e vuol coglierne la lo¬ gica del movimento: e questo può fare, perché, gra¬ zie a Vico, ha compreso che quella logica è la logica stessa del nostro pensiero. Ma se così è, necessaria¬ mente ne deriva che in tanto è possibile intendere un qualsiasi fenomeno della realtà — e nel caso particolare, un fenomeno economico — in quanto lo si riconduce al sistema integrale di quel pensiero che gli ha dato origine dando origine a tutto il mondo della cultura. Vano e assurdo è ogni ten- — 2S7 — tativo di determinare un qualsiasi principio scien¬ tifico nel campo dell'economia, se non si tiene ben presente che il fatto economico è intelligibile sol¬ tanto in funzione di tutti gli altri aspetti della realtà in cui esso sorge e si svolge. E il significato stesso dei termini cbe si adoperano dagli economisti non è definibile se non in rapporto alle diverse condi¬ zioni storiche, continuamentevariando con il va¬ riare di queste; sì che soltanto con un atto di ar¬ bitrio ingiustificato è possibile agli economisti fis¬ sare una legge sciertifiea di presunto valore asso¬ luto, trascendente il tempo e lo spazio. L’errore più grave della scienza economica quale si è svolta fin qui è stato appunto quello di ipostatizzare alcuni termini e alcuni principi, obliando il nesso loro imprescindibile con la concreta vita storica dalla quale termini e principi avevan tratto alimento. Anche le parole di significato più generale e appa¬ rentemente affatto libere da legami con una parti¬ colare epoca storica — ad es. scambio — in effetti non significano nulla, e per diventare davvero in¬ telligibili hanno bisogno di una determinata qua¬ lificazione storica — lo scambio presso i primitivi, nell’epoca capitalistica, ecc. Il che implica che la scienza dell’economia va ricostruita ex novo, come scienza storica che utilizzi concetti storici e si pon¬ ga perciò in grado di superare l’attuale stato caotico dovuto al giustapporsi di principi originati da di¬ verse situazioni storiche e tuttavia messi su di uno stesso piano, con la pretesa di farli corrispondere a qualsiasi situazione storica. Si continuano oggi a ritenere scientifiche tante leggi dell’economia clas¬ sica, e non ci si accorge che quelle leggi non hanno più valore perché i termini in cui sono espresse 17 - Srum — 258 — hanno cambiato di significato, senza che Leconomi- sta ahhia riflettuto sulla portata di tale mutamento. E a poco a poco l'economia è diventata un lavoro di mosaico, in cui ogni pietruzza sta per conto suo, senza che neppure in tale indipendenza possa avere una fisionomia sua, suscettibile com’è di infinite co¬ lorazioni, alle diverse luci che la illuminano. 11 Somhart ha visto come pochi questa essenziale inor¬ ganicità e incongnienza della scienza economica e ha saputo scoprirne la piu profonda ragione. Senonché il Somhart non può raccogliere tutti i frutti della sua concezione per i limiti stessi entro cui rigorosamente la circoscrive arrestandosi alla dottrina dì Vico. Se l'aver riallacciato il nuovo sto¬ ricismo al pensiero del grande filosofo italiano co¬ stituisce il più gran merito del Somhart, l’aver poi creduto che si possa ancor oggi, dopo due secoli di intensissimo travaglio speculativo,impostareil pro¬ blema proprio negli 6tessi termini, è purtroppo tale un errore da compromettere in modo irrimediabile il risultato di ogni ricerca. L’errore — come si è già accennato — consiste nel dualismo vichiano di mondo umano e mondo naturale, considerati l’uno come fattura dell’uomo e l’altro di Dio. Poiché si può essere dualisti quanto si vuole, ma bisogna pur rendersi conto che, se esi¬ stono due realtà, esiste per ciò stesso il problema del loro rapporto. Ora, tale rapporto è sfuggito in gran parte alla mente del Vico, ed è appena analiz¬ zato dal Somhart che lo concepisce in modo molto estrinseco e a posteriori. Egli non si preoccupa, in¬ fatti, di ricercare 1 unità originaria dei due mondi, sì ch’essi possano rendersi intelligibili alla luce di un unico fine, ma si limita a constatarne i rapporti — 259 — di coesistenza e il reciproco influsso: le due realta restano presupposte e la soluzione del problema si trasforma in un mesebino modus vivendi. Se l’uomo fosse davvero costretto a creare — secondo le parole del Somhart — il piccolo mondo della cultura lasciando nel mistero della sua essenza il grande mondo della natura creata da Dio, eviden¬ temente il grande non potrebbe non soffocare il pic¬ colo e renderlo affatto illusorio. Se viviamo nella natura, se natura siamo noi stessi venendo alla luce, se la nostra vita fisica e spirituale è costretta a svol¬ gersi nelle determinate condizioni fissate dalla na¬ tura, com’è poi possìbile comprendere l’essenza di quel che facciamo ignorando l’essenza di quel che troviamo? Se esistono due mondi, l’uno nostro e l’altro di Dio, è pur necessario che il primo sia su¬ bordinato al secondo e adegui il proprio fine a quel¬ lo dell'altro; ma se è così, o l’uomo conosce il fine di Dio, vale a dire l’essenza della natura, e allora può agire seguendone le tracce, o non lo conosce, e allora procede alla cieca senza aver coscienza della direzione del proprio cammino. E la scienza, del cui rinnovamento il Sombart giustamente si preoc¬ cupa, deve ormai decidersi ad affrontare il proble¬ ma nella sua integrità, diventando storicistica nel senso più rigoroso della parola e cioè intendendo per storia dell’uomo la storia stessa del mondo, e riconoscendo in tal guisa l’identità assoluta di sto¬ ria e di filosofia.Scienza storicistica e scienza filo¬ sofica non possono essere altro che sinonimi. Da questa conclusione rigorosa e perentoria il Sombart si è ritratto per un residuo di positivistico odio contro la filosofia e per il conseguente agno- ticismo metafisico ; ma s’egli si informasse più ade- — 260 — ^natamente dei risultati del movimento idealistico italiano finirebbe forse eoi convenire cbe, se ancora di metafisica resta traccia nella filosofia contempo¬ ranea, è proprio in cotesto agnosticismo positivisti- co, il quale, proprio perché nega la possibilità di conoscere l’essenza della natura, ammette niente¬ meno l’esistenza di un mondo trascendente e si pre¬ clude la via a una conoscenza effettiva della realtà. Perché si possa parlare di scienza è necessario cbe il nostro conoscere non abbia limiti insuperabili e cbe il mondo di Dio sia lo stesso mondo nostro: fino a quando nel concetto tedesco di cultura non sarà risolta anche la natura, esso non potrà carat¬ terizzare l’umana realtà nella sua più profonda consapevolezza. Che tale sia veramente il limite della concezio¬ ne del Sombart basterebbe a dimostrarlo la parte ricostruttiva della sua teoria, nella quale dovreb¬ bero essere tracciate le linee maestre della nuova scienza economica. Putroppo questa è la parte più scadente e irrilevante del libro, dove l’insostenibi- lità del dualismo viebiano finisce col rivelarsi a ogni passo in continua ed evidente contraddizione, e do¬ ve l’urgenza dei motivi più disparati non consente una visione organica del problema. Tutto ciò ch’era stato negato e relegato nel mondo della filosofia o della metafìsica, viene ora bruscamente fuori a riaf¬ fermare esigenze imprescindibili, e il Sombart lutto accetta rifacendo un posticino alla filosofia deH’eco- nomia, alla richtende ISationalòkonomie, alla dot¬ trina dei valori, ece., senza che nella molteplicità degli elementi giustapposti sia più possibile discer¬ nere un criterio direttivo rigorosamente determina¬ to. È la scienza che deve servire alla vita e cbe deve perciò riconciliarsi in qualche modo, attraverso una serie di compromessi, con il mondo naturale e il di¬ vino incautamente trascurato. Ma intanto Punita della visione si spezza a causa della molteplicità dei punti di vista e la scienza diventa la somma ano¬ dina di infinite constatazioni. L’esigenza storicistica è tradotta in termini po9tivistici e si muta nel bi¬ sogno di tutto includere oggeltivisticamente nel gran pozzo della scienza, dove tutto il bene e tutto il male va buttato a pari titolo per il fatto stesso di esistere. E la così detta W'ertefreiheit torna a essere ancora una volta — sia pure attraverso qualche timida smentita — il più alto ideale scientifico. Se vogliamo ora trarre le somme di quanto 6Ì è detto e indicare brevemente il risultato del tenta¬ tivo compiuto dal Somhart di giudicare tutta la scienza economica classica e contemporanea, e di gettare le fondamenta della nuova costruzione, dob¬ biamo concludere che l’istanza critica dell’opera supera di gran lunga il breve abbozzo sistematico e che il lato veramente positivo si riduce in effetti a una mera esigenza. Quel che v’è di saldo e peren¬ torio nel volume è la diagnosi, spietata ma giustis¬ sima, delle attuali condizioni della scienza. La erisi è presentata nelle sue effettive proporzioni e soprat¬ tutto nc sono indicate con grande precisione le ra¬ gioni più notevoli: dogmatismo, antistoricismo, in¬ determinatezza di principi e di terminologia, asiste¬ ma licita, metodo naturalistico, moralismo. Sono ac¬ cuse di cui gli economisti non riescono a persuader- — 262 — si, ma che pure ormai dovrebbero richiamare una più profonda attenzione ed essere esaminate con mentalità più sgombra da preconcetti. A noi in par¬ ticolare, che da quattro anni andiamo precisando questa diagnosi nei Nuovi studi di diritto, econo¬ mia e politica, non può non esser gradita l’analogia dei risultati cui è pervenuto il Sombart; e tanto più interessante e fecondo sarebbe raccordo se potesse estenderei al lato più propriamente ricostruttivo del sistema. Poiché se la diagnosi della economia attuale basta a dimostrare la necessità di una visio¬ ne storicistica della scienza, non è sufficiente di ner sé sola a chiarire la peculiare forma che deve avere il nuovo storicismo. F a noi pare che il Sombart, per gli stessi presupposti speculativi da cui prende le mosse, è fatalmente destinato ad arrestarsi ad una forma di positivismo vichianeggiante in cui la vita vera della storia 9Ì frange e si acqueta tuttavia nell’eclettica stasi contemplativa della sociologia. Ugo Spirito. Spirito.Keywords: stato/cittadini, pathos romantico, romanticism e nuovo ordine, sindicalismo, fascismo da sinestra, filobolcevicco, corporativismo, attualismo, stato fascista, equilibrio liberta/autorita, gentile e spirito, i filosofi fascisti, filosofia e revoluzione, romanticismo, proprieta, filosofia come pedagogia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Spirito” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Spisani: la contestazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrara), Filosofo. Si laurea a Padova con una tesi di sull'attualismo italiano, Natura e spirito nell’idealismo attuale” (Milano, Fabbri). In seguito collabora a Urbino. A Bologna fonda “Rassegna di Logica”  e il centro di logica. In una lettera Carnap critica una sua decisione di non pubblicare un'opera. Morì suicida. Altri saggi: “Neutralizzazione dello spazio per sintesi produttiva” (Bologna, Cappelli); “Implicazione, endo-metria e universo del discorso” (Bologna) e “Introduzione alla teoria generale dei numeri relativi, con ingresso dei numeri moltiplicatori e divisori, legati alla logica e alla matematica trascendentale” (Bologna, Centro di logica e scienze comparate, analisi matematica). C'è una relazione divisoria che ipotizza il valore “M,” numero logico trans-infinito all'origine della neutralizzazione dello spazio trans-finito. “ℵ” va verso successivi aumenti. Ma è la relatività dei numeri, espressa nel calcolo per valori di posizione, che ne individua la direzione inversa. Spiega le sue scoperte in forma di dialogo. Tra gli interlocutori la misteriosa figura della piovra Clipso.  Logo-fenica.  Altri saggi: “Il numero nell'istanza ontologica del rapporto d'identità” (Imola, Galeati); “Logica ed esperienza” (Milano, Marzorati); “Logica della contestazione” (Bologna, Cappelli).  Sulla storia della pubblicazione della Teoria generale, importanti ricerche erano già pronte. Allora, dice: “Ne discuto con Carnap. Carnap sottopone i risultati dell'indagine. Carnap spiega anche le ragioni che mi induceno a non diffonderne le conclusioni. Carnap risponde che quella scelta gli sembra affatto ingiustificata: l'operas crises non poteva rimanere nel silenzio. Tuttavia non cambiai parere. Non avrei pubblicato, e glielo confermai. “Dai numeri naturali ai numeri relativi, moltiplicatori e divisor”. Gallo, “Un uomo genial”, Nuova Ferrara, L'ha vegliato prima di suicidarsi, di Gulotta, la Repubblica, sezione Bologna, Archivio. Franco Spisani. Spisani. Keywords: il concetto di numero, numero naturale, numero relativo, logica auto-genetica, numero relativo moltiplicatore, numero relativo divisore, opposto, contradittorio, regole e segni, contestazione, esperienza, limiti della metafisica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Spisani” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Spurio: lettere da Corinto – Roma antica – Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Fratello di Lucio Mummio, vincitore di Corinto, partecipa con SCIPIONE (si veda) Emiliano e con Lucio Metello CALVO (si veda) a un’ambasciata politica in Oriente e così puo stringere più stretti rapporti con Panezio di Rodi. Scrive lettere in versi e orazioni. CICERONE lo pone tra i IV interlocutori del "De republica." Oratore. I suoi discorsi hanno, per la loro aridità, impronta del Portico. Coltiva gli studi giuridici. A Roman soldier and writer. A legatus of his brother, and a close friend of SCIPIONE EMILIANO. This friendship garners his entrance into the Scipionic Circle. Politically, he is an aristocrat. He writes satirical and ethical epistles, describing his experiences in Corinto in humorous verse. According to the Encyclopædia Britannica, these letters, are the first examples of a distinct class of Roman poetry, the poetic epistle. "Mummii". Mek.niif. hu. Mummius M, Mortgage, ed. Peck, Harpers Dictionary of Classical Antiquities. Perseus tufts, Chisholm, ed.  "Mummius, Lucius" . Encyclopædia Britannica. Cambridge. Stub icon This article about an Ancient Roman writer. Categories: Ancient Roman writersm Romans, writers Mummii Ancient Roman people stubs European writer stubs When we turn to Rome we find that letter writing becomes a Roman literary art under Greek influence and is speedily nationalised as is the dialogue. We know that the epistolary form is used by S., who appears in CICERONE’s de republica as an intimate friend of SCIPIONE the younger. He receives a education  in the Porch, and accompanied his more famous brother to Corinto as a legatus. From Corinto he sends a number of poetic epistles to his friends. These do not receive general publicity, but are preserved in the archives of the family where they are read by CICERONE, who praises their wit. Keyword: philosophical epistle. Spurio Mummio. Grice e Mummio: il portico romano – lettera da Corinto – Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Mummio Spurio. Portico. A distinguished orator. Writes a number of letters on ethical issues.  A Roman soldier and philosopher. He was a legatus of his brother Lucio Mummio in Corinto and a close friend of Scipione (si veda) Emiliano. This friendship garns his entrance into the Scipionic Circle. Politically, he is an aristocrat. He writes satirical and ethical epistles, describing his experiences in Corinto in humorous verse. According to the Encyclopædia Britannica, these letters, which were still popular, are the first examples of a distinct class of Roman poetry, the poetic epistle. References  "Mummii". Peck, ed. "Mummius". Harpers Dictionary of Classical Antiquities.  Chisholm,. "Mummius, Lucius" . Encyclopædia Britannica, Cambridge. Authority control databases Edit this at Wikidata InternationalVIAF NationalGermany  Stub icon This article about an Ancient Roman writer is a stub. You can help Wikipedia by expanding it. Fratello di Lucio Mummio, vincitore di Corinto, partecipa con SCIPIONE (si veda) Emiliano e con Lucio Metello CALVO (si veda) a un’ambasciata politica in Oriente e così puo stringere più stretti rapporti con Panezio di Rodi. Scrive lettere in versi e orazioni. CICERONE lo pone tra i IV interlocutori del "De republica." Oratore. I suoi discorsi hanno, per la loro aridità, impronta del Portico. Coltiva gli studi giuridici. A Roman soldier and writer. A legatus of his brother, and a close friend of SCIPIONE EMILIANO. This friendship garners his entrance into the Scipionic Circle. Politically, he is an aristocrat. He writes satirical and ethical epistles, describing his experiences in Corinto in humorous verse. According to the Encyclopædia Britannica, these letters, are the first examples of a distinct class of Roman poetry, the poetic epistle. "Mummii". Mek.niif. hu. Mummius M, Mortgage, ed. Peck, Harpers Dictionary of Classical Antiquities. Perseus tufts, Chisholm, ed.  "Mummius, Lucius" . Encyclopædia Britannica. Cambridge. Stub icon This article about an Ancient Roman writer. Categories: Ancient Roman writersm Romans, writers Mummii Ancient Roman people stubs European writer stubs When we turn to Rome we find that letter writing becomes a Roman literary art under Greek influence and is speedily nationalised as is the dialogue. We know that the epistolary form is used by S., who appears in CICERONE’s de republica as an intimate friend of SCIPIONE the younger. He receives a education  in the Porch, and accompanied his more famous brother to Corinto as a legatus. From Corinto he sends a number of poetic epistles to his friends. These do not receive general publicity, but are preserved in the archives of the family where they are read by CICERONE, who praises their wit. Keyword: philosophical epistle. Spurio Mummio. Mummio Spurio. 

 

Grice e Sraffa: la mia implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). An Italian noble -- Vitters, and Grice --  L.cited by H. P. Grice, “Some like Vitters, but Moore’s MY man.” Vienna-born philosopher trained as an enginner at Manchester. Typically referred to Wittgenstein in the style of English schoolboy slang of the time as, “Witters,” pronounced “Vitters.”“I heard Austin said once: ‘Some like Witters, but Moore’s MY man.’ Austin would open the “Philosophical Investigations,” and say, “Let’s see what Witters has to say about this.” Everybody ended up loving Witters at the playgroup.” Witters’s oeuvre was translated first into English by C. K. Ogden. There are interesting twists. Refs.: H. P. Grice, “Vitters.” Grice was sadly discomforted when one of his best friends at Oxford, D. F. Pears, dedicated so much effort to the unveiling of the mysteries of ‘Vitters.’ ‘Vitters’ was all in the air in Grice’s inner circle. Strawson had written a review of Philosophical Investigations. Austin was always mocking ‘Vitters,’ and there are other connections. For Grice, the most important is that remark in “Philosohpical Investigations,” which he never cared to check ‘in the Hun,’ about a horse not being seen ‘as a horse.’ But in “Prolegomena” he mentions Vitters in other contexts, too, and in “Causal Theory,” almost anonymouslybut usually with regard to the ‘seeing as’ puzzle. Grice would also rely on Witters’s now knowing how to use ‘know’ or vice versa. In “Method” Grice quotes verbatim: ‘No psyche without the manifestation the ascription of psyche is meant to explain,” and also to the effect that most ‘-etic’ talk of behaviour is already ‘-emic,’ via internal perspective, or just pervaded with intentionalism. One of the most original and challenging philosophical writers of the twentieth century. Born in Vienna into an assimilated family of Jewish extraction, he went to England as a student and eventually became a protégé of Russell’s at Cambridge. He returned to Austria at the beginning of The Great War I, but went back to Cambridge in 8 and taught there as a fellow and professor. Despite spending much of his professional life in England, Vitters never lost contact with his Austrian background, and his writings combine in a unique way ideas derived from both the insular and the continental European tradition. His thought is strongly marked by a deep skepticism about philosophy, but he retained the conviction that there was something important to be rescued from the traditional enterprise. In his Blue Book 8 he referred to his own work as “one of the heirs of the subject that used to be called philosophy.” What strikes readers first when they look at Vitters’s writings is the peculiar form of their composition. They are generally made up of short individual notes that are most often numbered in sequence and, in the more finished writings, evidently selected and arranged with the greatest care. Those notes range from fairly technical discussions on matters of logic, the mind, meaning, understanding, acting, seeing, mathematics, and knowledge, to aphoristic observations about ethics, culture, art, and the meaning of life. Because of their wide-ranging character, their unusual perspective on things, and their often intriguing style, Vitters’s writings have proved to appeal to both professional philosophers and those interested in philosophy in a more general way. The writings as well as his unusual life and personality have already produced a large body of interpretive literature. But given his uncompromising stand, it is questionable whether his thought will ever be fully integrated into academic philosophy. It is more likely that, like Pascal and Nietzsche, he will remain an uneasy presence in philosophy. From an early date onward Vitters was greatly influenced by the idea that philosophical problems can be resolved by paying attention to the working of language  a thought he may have gained from Fritz Mauthner’s Beiträge zu einer Kritik der Sprache 102. Vitters’s affinity to Mauthner is, indeed, evident in all phases of his philosophical development, though it is particularly noticeable in his later thinking.Until recently it has been common to divide Vitters’s work into two sharply distinct phases, separated by a prolonged period of dormancy. According to this schema the early “Tractarian” period is that of the Tractatus Logico-Philosophicus 1, which Vitters wrote in the trenches of World War I, and the later period that of the Philosophical Investigations 3, which he composed between 6 and 8. But the division of his work into these two periods has proved misleading. First, in spite of obvious changes in his thinking, Vitters remained throughout skeptical toward traditional philosophy and persisted in channeling philosophical questioning in a new direction. Second, the common view fails to account for the fact that even between 0 and 8, when Vitters abstained from actual work in philosophy, he read widely in philosophical and semiphilosophical authors, and between 8 and 6 he renewed his interest in philosophical work and wrote copiously on philosophical matters. The posthumous publication of texts such as The Blue and Brown Books, Philosophical Grammar, Philosophical Remarks, and Conversations with the Vienna Circle has led to acknowledgment of a middle period in Vitters’s development, in which he explored a large number of philosophical issues and viewpoints  a period that served as a transition between the early and the late work. Early period. As the son of a greatly successful industrialist and engineer, Vitters first studied engineering in Berlin and Manchester, and traces of that early training are evident throughout his writing. But his interest shifted soon to pure mathematics and the foundations of mathematics, and in pursuing questions about them he became acquainted with Russell and Frege and their work. The two men had a profound and lasting effect on Vitters even when he later came to criticize and reject their ideas. That influence is particularly noticeable in the Tractatus, which can be read as an attempt to reconcile Russell’s atomism with Frege’s apriorism. But the book is at the same time moved by quite different and non-technical concerns. For even before turning to systematic philosophy Vitters had been profoundly moved by Schopenhauer’s thought as it is spelled out in The World as Will and Representation, and while he was serving as a soldier in World War I, he renewed his interest in Schopenhauer’s metaphysical, ethical, aesthetic, and mystical outlook. The resulting confluence of ideas is evident in the Tractatus Logico-Philosophicus and gives the book its peculiar character. Composed in a dauntingly severe and compressed style, the book attempts to show that traditional philosophy rests entirely on a misunderstanding of “the logic of our language.” Following in Frege’s and Russell’s footsteps, Vitters argued that every meaningful sentence must have a precise logical structure. That structure may, however, be hidden beneath the clothing of the grammatical appearance of the sentence and may therefore require the most detailed analysis in order to be made evident. Such analysis, Vitters was convinced, would establish that every meaningful sentence is either a truth-functional composite of another simpler sentence or an atomic sentence consisting of a concatenation of simple names. He argued further that every atomic sentence is a logical picture of a possible state of affairs, which must, as a result, have exactly the same formal structure as the atomic sentence that depicts it. He employed this “picture theory of meaning”  as it is usually called  to derive conclusions about the nature of the world from his observations about the structure of the atomic sentences. He postulated, in particular, that the world must itself have a precise logical structure, even though we may not be able to determine it completely. He also held that the world consists primarily of facts, corresponding to the true atomic sentences, rather than of things, and that those facts, in turn, are concatenations of simple objects, corresponding to the simple names of which the atomic sentences are composed. Because he derived these metaphysical conclusions from his view of the nature of language, Vitters did not consider it essential to describe what those simple objects, their concatenations, and the facts consisting of them are actually like. As a result, there has been a great deal of uncertainty and disagreement among interpreters about their character. The propositions of the Tractatus are for the most part concerned with spelling out Vitters’s account of the logical structure of language and the world and these parts of the book have understandably been of most interest to philosophers who are primarily concerned with questions of symbolic logic and its applications. But for Vitters himself the most important part of the book consisted of the negative conclusions about philosophy that he reaches at the end of his text: in particular, that all sentences that are not atomic pictures of concatenations of objects or truth-functional composites of such are strictly speaking meaningless. Among these he included all the propositions of ethics and aesthetics, all propositions dealing with the meaning of life, all propositions of logic, indeed all philosophical propositions, and finally all the propositions of the Tractatus itself. These are all strictly meaningless; they aim at saying something important, but what they try to express in words can only show itself. As a result Vitters concluded that anyone who understood what the Tractatus was saying would finally discard its propositions as senseless, that she would throw away the ladder after climbing up on it. Someone who reached such a state would have no more temptation to pronounce philosophical propositions. She would see the world rightly and would then also recognize that the only strictly meaningful propositions are those of natural science; but those could never touch what was really important in human life, the mystical. That would have to be contemplated in silence. For “whereof one cannot speak, thereof one must be silent,” as the last proposition of the Tractatus declared. Middle period. It was only natural that Vitters should not embark on an academic career after he had completed that work. Instead he trained to be a school teacher and taught primary school for a number of years in the mountains of lower Austria. In the mid-0s he also built a house for his sister; this can be seen as an attempt to give visual expression to the logical, aesthetic, and ethical ideas of the Tractatus. In those years he developed a number of interests seminal for his later development. His school experience drew his attention to the way in which children learn language and to the whole process of enculturation. He also developed an interest in psychology and read Freud and others. Though he remained hostile to Freud’s theoretical explanations of his psychoanalytic work, he was fascinated with the analytic practice itself and later came to speak of his own work as therapeutic in character. In this period of dormancy Vitters also became acquainted with the members of the Vienna Circle, who had adopted his Tractatus as one of their key texts. For a while he even accepted the positivist principle of meaning advocated by the members of that Circle, according to which the meaning of a sentence is the method of its verification. This he would later modify into the more generous claim that the meaning of a sentence is its use. Vitters’s most decisive step in his middle period was to abandon the belief of the Tractatus that meaningful sentences must have a precise hidden logical structure and the accompanying belief that this structure corresponds to the logical structure of the facts depicted by those sentences. The Tractatus had, indeed, proceeded on the assumption that all the different symbolic devices that can describe the world must be constructed according to the same underlying logic. In a sense, there was then only one meaningful language in the Tractatus, and from it one was supposed to be able to read off the logical structure of the world. In the middle period Vitters concluded that this doctrine constituted a piece of unwarranted metaphysics and that the Tractatus was itself flawed by what it had tried to combat, i.e., the misunderstanding of the logic of language. Where he had previously held it possible to ground metaphysics on logic, he now argued that metaphysics leads the philosopher into complete darkness. Turning his attention back to language he concluded that almost everything he had said about it in the Tractatus had been in error. There were, in fact, many different languages with many different structures that could meet quite different specific needs. Language was not strictly held together by logical structure, but consisted, in fact, of a multiplicity of simpler substructures or language games. Sentences could not be taken to be logical pictures of facts and the simple components of sentences did not all function as names of simple objects. These new reflections on language served Vitters, in the first place, as an aid to thinking about the nature of the human mind, and specifically about the relation between private experience and the physical world. Against the existence of a Cartesian mental substance, he argued that the word ‘I’ did not serve as a name of anything, but occurred in expressions meant to draw attention to a particular body. For a while, at least, he also thought he could explain the difference between private experience and the physical world in terms of the existence of two languages, a primary language of experience and a secondary language of physics. This duallanguage view, which is evident in both the Philosophical Remarks and The Blue Book, Vitters was to give up later in favor of the assumption that our grasp of inner phenomena is dependent on the existence of outer criteria. From the mid-0s onward he also renewed his interest in the philosophy of mathematics. In contrast to Frege and Russell, he argued strenuously that no part of mathematics is reducible purely to logic. Instead he set out to describe mathematics as part of our natural history and as consisting of a number of diverse language games. He also insisted that the meaning of those games depended on the uses to which the mathematical formulas were put. Applying the principle of verification to mathematics, he held that the meaning of a mathematical formula lies in its proof. These remarks on the philosophy of mathematics have remained among Vitters’s most controversial and least explored writings. Later period. Vitters’s middle period was characterized by intensive philosophical work on a broad but quickly changing front. By 6, however, his thinking was finally ready to settle down once again into a steadier pattern, and he now began to elaborate the views for which he became most famous. Where he had constructed his earlier work around the logic devised by Frege and Russell, he now concerned himself mainly with the actual working of ordinary language. This brought him close to the tradition of British common sense philosophy that Moore had revived and made him one of the godfathers of the ordinary language philosophy that was to flourish in Oxford in the 0s. In the Philosophical Investigations Vitters emphasized that there are countless different uses of what we call “symbols,” “words,” and “sentences.” The task of philosophy is to gain a perspicuous view of those multiple uses and thereby to dissolve philosophical and metaphysical puzzles. These puzzles were the result of insufficient attention to the working of language and could be resolved only by carefully retracing the linguistic steps by which they had been reached. Vitters thus came to think of philosophy as a descriptive, analytic, and ultimately therapeutic practice. In the Investigations he set out to show how common philosophical views about meaning including the logical atomism of the Tractatus, about the nature of concepts, about logical necessity, about rule-following, and about the mindbody problem were all the product of an insufficient grasp of how language works. In one of the most influential passages of the book he argued that concept words do not denote sharply circumscribed concepts, but are meant to mark family resemblances between the things labeled with the concept. He also held that logical necessity results from linguistic convention and that rules cannot determine their own applications, that rule-following presupposes the existence of regular practices. Furthermore, the words of our language have meaning only insofar as there exist public criteria for their correct application. As a consequence, he argued, there cannot be a completely private language, i.e., a language that in principle can be used only to speak about one’s own inner experience. This private language argument has caused much discussion. Interpreters have disagreed not only over the structure of the argument and where it occurs in Vitters’s text, but also over the question whether he meant to say that language is necessarily social. Because he said that to speak of inner experiences there must be external and publicly available criteria, he has often been taken to be advocating a logical behaviorism, but nowhere does he, in fact, deny the existence of inner states. What he says is merely that our understanding of someone’s pain is connected to the existence of natural and linguistic expressions of pain. In the Philosophical Investigations Vitters repeatedly draws attention to the fact that language must be learned. This learning, he says, is fundamentally a process of inculcation and drill. In learning a language the child is initiated in a form of life. In Vitters’s later work the notion of form of life serves to identify the whole complex of natural and cultural circumstances presupposed by our language and by a particular understanding of the world. He elaborated those ideas in notes on which he worked between 8 and his death in 1 and which are now published under the title On Certainty. He insisted in them that every belief is always part of a system of beliefs that together constitute a worldview. All confirmation and disconfirmation of a belief presuppose such a system and are internal to the system. For all this he was not advocating a relativism, but a naturalism that assumes that the world ultimately determines which language games can be played. Vitters’s final notes vividly illustrate the continuity of his basic concerns throughout all the changes his thinking went through. For they reveal once more how he remained skeptical about all philosophical theories and how he understood his own undertaking as the attempt to undermine the need for any such theorizing. The considerations of On Certainty are evidently directed against both philosophical skeptics and those philosophers who want to refute skepticism. Against the philosophical skeptics Vitters insisted that there is real knowledge, but this knowledge is always dispersed and not necessarily reliable; it consists of things we have heard and read, of what has been drilled into us, and of our modifications of this inheritance. We have no general reason to doubt this inherited body of knowledge, we do not generally doubt it, and we are, in fact, not in a position to do so. But On Certainty also argues that it is impossible to refute skepticism by pointing to propositions that are absolutely certain, as Descartes did when he declared ‘I think, therefore I am’ indubitable, or as Moore did when he said, “I know for certain that this is a hand here.” The fact that such propositions are considered certain, Vitters argued, indicates only that they play an indispensable, normative role in our language game; they are the riverbed through which the thought of our language game flows. Such propositions cannot be taken to express metaphysical truths. Here, too, the conclusion is that all philosophical argumentation must come to an end, but that the end of such argumentation is not an absolute, self-evident truth, but a certain kind of natural human practice. Sraffa. Keywords: la mia implicatura. Refs.: H. P. Grice, “Il gesto della mano di Sraffa.” Speranza, “Sraffa’s handwave, and his impicaturum”; Luigi Speranza, “L’implicatura di Sraffa,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Stabile: critica della ragione borghese – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sapri). Filosofo italiano. Laureatosi a Napoli con una tesi sulla filosofia del valore, divenne ricercatore a Salerno. Pubblica saggi in "Prassi e teoria", "Aut Aut", "Studi di filosofia politica e diritto", "il Centauro", "Ombre rosse", riviste tra le più prestigiose nel panorama della pubblicistica filosofica italiana. Collabora alla direzione della collana di testi e studi "Relox" di Bibliopolis di Napoli. Salerno gli dedica un convegno di studi: "La saggezza moderna. Temi e problemi”. Il fondo rappresenta sua biblioteca. Alcuni volumi sono in possesso di Salerno. I volumi del fondo sottolineano l'interesse verso la critica marxista -- moltissimi i volumi degl’Editori Riuniti. Degni di attenzione alcuni esemplari caratteristici come ad esempio quelli della collana "I gabbiani" del Saggiatore o ancora la collana quasi completa degli "Opuscoli” della Feltrinelli, i volumi della collana "Biblioteca di nuova cultura" della Mazzotta, e quelli della "Scienza nuova" della Dedalo -- collane radicalmente trasformate nei successivi anni o sostituite da altre. Talora nate solamente per offrire testi economici che rispondessero ai bisogni di una maggiore diffusione culturale. Sono presenti anche dei volumetti allegati a periodici di partito -- PCI e PSI -- e le pubblicazioni dell'istituto di filosofia a Salerno. Altri saggi: “Valore morale e società” (Salerno); “Soggetti e bisogni” (Firenze, Nuova Italia); “Saggezza e prudenza: studi per la ricostruzione di un'antropologia” (Napoli, Liguori); “Piccolo trattato sulla saggezza” (Napoli, Bibliopolis); “Umanesimo e rivoluzione” (“Prassi e teoria: rivista di filosofia della cultura”), “La saggezza moderna” (Napoli, Edizioni scientifiche italiane). Storia della filosofia, Salerno. Charron Storia della filosofia,  Salerno. Giampiero Stabile. Stabile. Keywords: Grice’s ‘Needs, need, bisogno, bisogni, bisoin, complex etymology, durf, tharf, ragione borghese -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Stabile” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Stasea – Roma, o della virtù – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. The first lizio to take up residence at Rome. He defends the position that virtue (andreia) is not sufficient for happiness – a position on which some Lizians were prepared to compromise, in order to achieve a conciliation with the ethics of the Portico. Keywords: Lizio.

 

Grice e Statilio: Roma -- ogni uomo  è  stolto o pazzo -- Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Amico di CATONE. L’orto. Satura e farsa filologica. Penna. Secondo un'ipotesi allettante, con S., amico di CATONE e morto a Filippi con BRUTO. In questo contesto forse non è del tutto inutile notare che una filosofia è presente. S. being sollicited by BRUTO to make one of that noble band, who struck the god-like stroke for the liberty of Rome, refuses to accompany them, saying, that: all men are fools, or mad, and do not deserve that a wise man should trouble his head about them. Keywords: ‘All men are fools, or mad’ -- Giardino, horti epicuri – hortus epicuri. Garden. Friend of Catone Minore and Marco Bruto and a staunch opponent of Giulio Cesare.

 

Grice e Stefani: “senso composto” – semantica filosofica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pergola). Filosofo italiano. Grice: “I may well say that my idea of a propositional complex owes much to Stefani’s obsession with ‘sensus’ simplex or ‘divisus, and ‘sensus compositum’ –“ “The opposite of ‘com-posito’ is de-posito, though!” --  Grice: “I like his diagrammes; The Boedlian has loads of his mss!” Grice: “He has a figure for the ‘figura quadrata,’ –“. Grice: “He has a figure for ‘suppositio.’” – Il membro più noto di una famiglia di insegnanti marchigiani. Avviato alla carriera ecclesiastica nella città natale, ma presto si trasfere a Venezia. Il suo saggio più importante è il “De sensu composito et diviso”. Insegna a  Rialto. Altri saggi: “Dubia in consequentias Strodi,” “In regulas insolubilium,” “De scire e dubitare,” “Compendium logicae,” “Logica,” “Tractatus de sensu simplice, sensu composito, et sensu diviso”, Dizionario biografico degl’italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fonte: Dizionario di filosofia, riferimenti. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Stefani. Keywords: senso semplice, senso composito, senso deposito, senso diviso, dialetttica, grammatica filosofica, semantica filosofica, loquenza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Stefani.”

 

Grice e Stefanini: l’inter-personalismo contro l’idealismo filosofico – filosofia fascista – veintennio fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Grice: “Italians are obsessed with personalismo; I am with interpersonalismo!” “L’essere è personale.” “Tutto ciò che non è personale nell’essere ri-entra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione della persona e di *comunicazione* o conversazione *tra* due persone,” “La mia prospettiva filosofica. Attivo nelle associazioni e nei movimenti cattolici del trevigiano, iscrivendosi a gioventù cattolica dove assume presto l'incarico di presidente diocesano. Qui svolge la vocazione di educatore, seguendo, in particolare, gli insegnamenti contenuti nell'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII -- opera pure nel sindacato cattolico dei lavoratori. Dopo il diploma presso il liceo classico Canova, dove ha fra gl’altri ROTTA come insegnante di filosofia, si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia a Padova. Nell'ateneo patavino, la corrente del positivismo è tra le più seguite. In controtendenza, decide di scrivere la propria tesi sull’inter-personalismo, avendo ALIOTTA come relatore, con cui si laurea in filosofia . Nel periodo di studi padovano, inizia a frequentare anche il circolo di ZANELLA e inizia a insegnare. Mentre completa gli studi universitari, inizia già a respirarsi aria di guerra in Italia, ma come molti giovani, pur favorevole ad una posizione di neutralità nei confronti della guerra, viene comunque chiamato all’armi. Terminato il conflitto, uscendone con il grado di capitano e una croce al merito di guerra, studia l’estetica di GRAVINA. Eletto consigliere del comune di Treviso ma, la violenza dello squadrismo fascista investe anche il trevigiano. Si oppone con fermezza a tale ideologia, dimettendosi e dedicandosi completamente all'insegnamento, che ora è la sua occupazione principale e che conduce sempre secondo una pedagogia ispirata ai principi cristiani, costantemente attento e sensibile sia ai bisogni che agl’interessi degli studenti. Si dedica con scrupolo alla stesura di apprezzati testi didattici di storia e filosofia. Conseguita la libera docenza, ottiene, per incarico, l'insegnamento a Padova. Oltre ad iscriversi al partito nazionale fascista, affianca l'insegnamento nelle scuole pubbliche a quello universitario fino a quando, vinto l'ordinariato, ha una cattedra di storia della filosofia a Messina che tiene fino a quando si trasferisce a Padova. Al contempo, tiene per incarico l'insegnamento di estetica a Padova e quello di pedagogia a Venezia, nonché sarà preside della facoltà di lettere e filosofia dell'ateneo patavino.  Nel dopoguerra, riabilitato alla propria cattedra e all'insegnamento universitario, si dedica prevalentemente allo studio e la ricerca, ma partecipando anche alla ri-organizzazione della filosofia italiana, in particolare promuovendo incontri, convegni e riunioni all'Istituto Aloisianum dei padri gesuiti di Gallarate, che divenne poi il centro di studi filosofici di Gallarate, per primo diretto da GIANON. Socio corrispondente dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, nonché socio effettivo dell’accademia patavina di scienze, lettere ed arti, ricevette il premio della r. accademia d'Italia per le discipline filosofiche, e il premio Marzotto per la filosofia, nonché è membro dei consigli direttivi della società filosofica italiana e del centro di studi filosofici di Gallarate. Fonda a Padova la “Rivista di estetica”, della quale dirigere solo il primo fascicolo e a cui gli subentrerà PAREYSON. Gli saranno intitolate delle scuole medie statali di Treviso e Padova, nonché l'ex istituto magistrale di Mestre. Uno dei maggiori rappresentati dello spiritualismo, ri-esamina storicamente e criticamente diverse correnti della filosofia, fra cui lo storicismo, la filosofia dell'azione, l’idealismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo, lungo il corso della storia della filosofia, da FIDANZA ed AQUINO a GIOBERTI, ROSMINI ed altri, sulla scia della sua prima formazione incentrata su uno stretto connubio fra prospettiva storica e dimensione teoretica.  Interessato pure all'estetica, su cui scrive molti saggi, il contributo più importante è frutto della sua costante riflessione su personalismo e spiritualismo, grazie alla quale il rapporto soggetto-oggetto viene interpretato in termini di alterità, di altro da sé, prospettiva questa che permette di concepire il singolo individuo come membro di una comunità. Questo rapporto soggetto-oggetto, da un tale punto di vista, è concepito come il momento fondante di ogni comunità di esseri umani in relazione fra loro. Le più importanti problematiche connesse a questi principi di base, sono affrontate nella “Metafisica della persona” – cf. Strawson, “The concept of a person” -- e “Inter-personalismo”. Strettamente connesse a queste tematiche filosofiche, poi, sono quelle didattico-pedagogiche aperte e portate avanti pressoché durante l'intero suo periodo di attività, dai primi anni formativi, in continuo ripensamento e progressiva ri-visitazione.  Per quanto concerne poi la sua vasta produzione, ricordiamo solo che dà alle stampe le seguenti, notevoli saggi: “L'esistenzialismo” “Spiritualismo”, “Il dramma filosofico”; “Metafisica della persona”; “Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico”; “Inter-personalismo”; “Estetica”; “Trattato di estetica. Viene pubblicata la raccolta di scritti intitolata “Inter-Personalismo”. Dizionario Biografico degli Italiani. L. Corrieri, “Un pensiero attuale” (Prometheus, Milano). Citando sue testuali parole. L’opera di Blondel è più arte che filosofia. I passaggi più ardui superati con immagini ardite, anziché con logiche dimostrazioni; affermate le più inconciliabili anti-tesi affinché queste rendano vivo e tragico il contrasto; i mezzi dialettici atti più a trascinare che a convincere: tutto ciò ci conferma pienamente nella nostra interpretazione. L'opera del Blondel è, più che una dottrina filosofica, un romanzo psicologico che descrive l’esitazioni e l’incertezze, le vane pretese e le supreme aspirazioni dell'umana volontà, che alfine si appaga e riposa nel divino. Per ciò che al di là del filosofo si riesca ad afferrare l'uomo, al di là del sistema si riesca ad afferrare il programma generoso del credente, la filosofia dell'azione può essere efficacemente educativa, può esercitare nella coscienza contemporanea l'influsso salutare che essa si era proposta. “L'azione” (Padova). Il quale, a sua volta, prende le mosse dalle concezioni personalistiche mounieriane e giobertiane; cfr. Piaia, cit. Altri saggi: “Il problema della conoscenza in Cartesio e GIOBERTI” (Torino, Sei); “Il problema religioso in Platone e FIDANZA: sommario storico e critica di testi” (Torino, Sei); “Idealismo cristiano” (Padova, Zannoni); Platone (Padova, Milani); “Il problema estetico nell’Accademia” (Torino, Sei); “Imaginismo come problema filosofico” (Padova, Milani); “Problemi attuali d'arte” (Padova, Milani); “La Chiesa Cattolica, (Milano-Messina, Principato); “GIOBERTI” (Vita e pensiero, Milano, Bocca); “Metafisica dell'arte” (Padova, Liviana); “La mia prospettiva filosofica” (Treviso, Canova); Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico. Esposizione e critica costruttiva” (Padova, Milani); Aubier, Estetica (Roma, Studium); Trattato di Estetica”; “L'arte nella sua autonomia e nel suo processo” (Brescia, Morcelliana); Personalismo educativo (Roma, Bocca). Dialettica dell'immagine. Studi sull'imaginismo di S., a cura dell'Associazione filosofica trevigiana (Genova); Caimi, Educazione e persona” (Scuola, Brescia); Cappello, Dalle opere e dal carteggio del suo archivio, Europrint, Treviso, Per una antropologia in S.: metafisica, personalismo, umanesimo, Cappello, ER. Pagotto, Padova, Lasala, Una ragione vivente. L'immagine e l'ulteriore, in  Frammenti di filosofia contemporanea, I.v.a.n. Project, Limina Mentis, Villasanta, Boni, Le ragioni dell’esistenza. Esistenzialismo e ragione (Mimesis, Milano); Rigobello, Scritti in onore (Liviana, Padova). Rivista Rosminiana, treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Luigi Stefanini. Stefanini. Keywords: inter-personalismo, io e l’altro, l’altro da me, altro da se, alterita, other-love, self-love. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Stefanini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Stella: iustum/iussum, o la causa dell’anormale come l’ implicatura d’Honorè – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sernaglia). Filosofo italiano. Grice: “What is it with Italian philosoophers that they are all into what at Oxford we would call jurisprudence?” Grice: “It seems like all Italian philosophers are like Italian versions of H. L. A. Hart!”. Studia a Treviso e Milano, sotto CRESPI. Insegna a Catania e Milano. I suoi saggi si diregeno su alcune tipologie di reati, successivamente sugl’elementi strutturali del reato.  Il suo contributo filosofico più noto, presso gl’operatori del diritto penale e la comunità accademica, è “La spiegazione causale dell’azione umana” (Milano), in cui  ricostruisce il problema del nesso di causalità prospettando il criterio della sussunzione sotto una *legge* come strumento per la soluzione di casi dubbi. Solo mediante una legge di copertura, atta a spiegare il rapport causale fra la condotta dell’attore ed il effetto e possibile formulare un giudizio sulla responsabilità dell’attore. Ad es., solo dopo aver dimostrato, sulla base di una legge, che l'ingestione di un determinato farmaco determina casualmente malformazioni del feto, e possibile imputare alla ditta produttrice il reato di lesioni gravissime, colpose o dolose. In difetto di questa spiegazione causale non puo formularsi alcuna responsabilità a regola di giudizio dell'"oltre ogni ragionevole dubbio" trovasse applicazione anche in un processo. Il principio venne accolto in tema di nesso causale dalla corte suprema di cassazione, anche a sezioni unite. Oggi è norma codicistica. Dirige riviste giuridiche di diritto penale ed è fra i curatori di raccolte normative di largo successo presso la comunità forense. S’interessa anche nella teoria generale del diritto e la filosofia del diritto, mediante saggi maggiormente agili rispetto ai saggi penalistici. Esercita la professione di avvocato, partecipa in qualità di difensore d’alcuni imputati, al processo del petrolchimico di Porto Marghera, dove fa applicazione, dal principio della spiegazione causale. Altri saggi: “L'alterazione di stato mediante falsità” (Milano);  “La descrizione dell'evento” (Milano); “Giustizia” (Milano); “Dei giudici” (Milano); “ll giudice corpuscolariano” (Milano); “Le ingiustizie” (Bologna); “il galantumo del diritto”, Corriere della Sera. Grice’s implicature: ‘only abnormal cases require a cause’ (Teoria causale della percezione). Federico Stella. Stella. Keywords: Grice, implicature della descrizione d’azione umana, H. L. A. Hart, Honoré, J. L. Austin, responsibity, aspets of reason, alethic reason. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Stella”.

 

Grice e Stellini: de ortu morum -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cividale). Filosofo italiano. La sua fama è dovuta soprattutto al “Saggio dell’origine e del progresso de’ costume e delle opinion a’ medesimi pertinenti – con quale ordine si sviluppassero le facolta degl’uomini, ed appetite ne uscissero loro connaturali” (Siena, Porri). La sua concezione morale è di stampo liceale -- e sotto alcuni aspetti può essere considerato uno dei precursori della sociologia. A lui è stato dedicato il liceo classico di Udine e che nella sua biblioteca contiene gli scritti autografi. Enciclopedia Treccani, su treccani. Dizionario biografico friulano, su friul. Stellini. Keywords: liceo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Stellini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Stenida: Romolo, il primo re – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Locri). Filosofo italiano. A Pythagorian, cited by Giamblico – sometimes as “Stenonida.” Stobeo preserves a fragment of a work on kingship attributed to him. Keywords: re, regno, principe, Romolo.

 

Grice e Sterlich: i georgofili -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Chieti). Filosofo italiano. Studia a Napoli nel collegio dei nobili, gestito dalla compagnia di Gesù. È proprio questa esperienza che lo porta a concepire la sua profonda ostilità verso i gesuiti, che è uno dei tratti caratteristici della sua filosofia. La cura dei beni ereditati dal padre, di cui era l'unico figlio maschio, lo portano a dover compromettere le sue aspirazioni letterarie. Ma la filosofia rimase sempre la sua prima passione e per superare l'isolamento culturale che gli venne imposto dal dover vivere a Chieti, comincia a costituire la sua biblioteca. Questa cresce in misura esponenziale di anno in anno, divenendo così una delle migliori biblioteche del regno. Il suo intento e di mettere la stessa a disposizione di Chieti per la sua crescita culturale. Sfortunatamente il suo desiderio è reso vano dall'incuria di chi gestì la stessa dopo la sua morte. Cospicue parti della biblioteca sono stati individuate in tutta Italia: nelle biblioteche di Pescara, Chieti, Napoli, etc. Aggiornatissimo sui dibattiti filosofici e commentarista di Montesquieu, Rousseau, Voltaire, e di altr’illuministi. Di questa partecipazione all’illuminismo  è testimonianza un copioso scambio di lettere con GENOVESI, BATTARRA, LAMI, BIANCHI, e TORRES. Questo carteggio è un documento prezioso per delineare l’illuminismo. Lascia anche alcune testimonianze della sua filosofia anche in due dialoghi di fra' Cipolla e la nanna. In essi trova largo spazio la sua antipatia per i gesuiti. Tramite la solida amicizia con LAMI, e membro della crusca e uno dei georgofili. L'illuminismo nell'epistolario (Sestante, Bergamo). Dei marchesi di Cermignano. Romualdo de Sterlich. Sterlich. Keywords: illuminismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sterlich” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Stertinio: il tutore di filosofia – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Portico. Tutore di Damasippo. Keywords: Damasippo.

 

Grice e Steuco: la filosofia perenne di Pitagora, Cicerone, Ovidio, Virgilio, e Plinio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Gubbio). Filosofo italiao. Acuto esegeta dei testi e profondo conoscitore della lingua romana, si oppone tenacemente alla riforma protestante e prende parte al concilio di Trento. Entra nella congregazione dell'ordine dei canonici agostiniani a Bologna, poi a Gubbio. Inviato a Venezia, dove, per l'ampia conoscenza della lingua romana e l'acume filologico, gli èaffidata la biblioteca di Grimani, della quale una buona parte del patrimonio librario è appartenuto a PICO (si veda). Pubblica saggi contro Lutero (come VIO – si veda) ed Erasmo, accusandoli di fomentare la rivolta contro la chiesa cattolica romana. Questi lavori rivelano il solido sostegno che dà alla tradizione della prima Roma. Parte della sua saggistica include un intenso lavoro filologico sull'antico testamento, culminato col “Veteris testamenti recognitio”, per il quale egli si basa su manoscritti della biblioteca Grimani, utili a correggere GEROLAMO (si veda). Nel revisionare e spiegare il testo, mai devia dal *significato letterale* e storico.  Contemporanea a quest’esegesi e la composizione di un saggio d'impianto enciclopedico, la “Cosmopœia”. La sua filosofia polemica ed esegetica destarono l'attenzione favoravole di Paolo III, e questi lo ordina  bibliotecario della collezione papale di manoscritti e stampe del vaticano. Si reca a Lucca con Paolo III e Carlo V. Adempe attivamente con scrupolo il suo ruolo di bibliotecario del vaticano. Nel frattempo a Roma redatta i commenti al vecchio Testamento riguardanti i salmi di Giacobbe, aiutando ad annotare e correggere i testi di parte della Vulgata alla luce degl’originali ebraici. A questo periodo risale la composizione del celeberrimo saggio, “De perenni philosophia” nella quale mostra che molte delle idee esposte dai filosofi italici antichi – l’orfismo italico, la scuola di Crotone, Parmenide e i velini della scuola di Velia, Plutarco, Numenio, gl’oracoli sibillini, i trattati ermetici e i frammenti teosofici -- e essenzialmente correto. Questo saggio contiene una polemica indiretta a margine, poiché elabora un numero di quest’argomenti per sostenere molte posizioni poste in questione in Italia da riformatori e critici. Come umanista ha un profondo interesse per le rovine di Roma, e nell'operare un rinnovamento urbano dell'urbe. A tal proposito, degne d'essere menzionate, sono una serie di brevi orazioni in cui raccomanda di ri-sistemare l'acquedotto Aqua Virgo, in modo da supplire adeguatamente il fabbisogno di acqua fresca per la città. Mandato da Paolo III a presenziare il concilio di Trento, che doveva celebrarsi a Bologna, affidandogli il compito di sostenere l'autorità e le prerogative papali. Muore a Venezia durante un periodo di sospensione del concilio. “De perenni philosophia” -- concilio di Trento Esegesi biblica ermetismo (filosofia) Teosofia. Treccani Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Guido Steuchi.  Stucchi. Guido Steuco. Steuco. Keywords: Crotone, i velini – I crotonensi --. Cicerone, ovidio, Virgilio, plinio, roma, aqua virgo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Steuco” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Stilione: principe filosofo. – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tutor to Severo Alessandro, the emperor.

 

Grice e Stilone: il proloquio del cielo -- il tutore di filosofia -- Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lanuvio). Filosofo italiano. Appartenne all'ordine equestre. Segue nell’esilio QUINTO METELLO (si veda) NUMIDICO. A Roma, è maestro e scrive discorsi per altri. I suoi discepoli più insigni sono CICERONE e VARRONE. Conoscitore sicuro della coltura latina, èil primo rappresentante notevole della scienza grammaticale o grammatica filosofica. Saggi: "Interpretatio carminum Saliorum"; "Index comœdiarum Plautinarum", "Commentarius de pro-loquiis" -- uno studio sulla sintassi di impronta del Portico. Inoltre, cura edizioni di saggi altrui. Gli è stata attribuita un’opera glossografica. The text of Svetonio (Gramm.) provides a list of the first Roman philosophers who more or less exclusively are devoted to grammar. Instruxerunt auxeruntque ab omni parte grammaticam L. Aelius Lanuvinus generque Aeli Ser. Clodius, uterque eques Romanus multique ac vari et in doctrina et in re publica usus. The first refers to the philosopher Elio Stilone, a native of Lanuvio, tutor of Cicerone and Varrone. From Gellius it is possible to gather some information about his linguistic and philological studies on PLAUTO, then resumed and developed by Varrone. In a proper linguistic field, some fragments testify to an interest for archaism, investigated both in the carmen Saliare and in the XII Tables, as well as in the ancient Italic languages. GELLIO also reports the title of a ‘saggio’ by S.: “Commentarius de proloquiis” in which, as GELLIO himself informs us, “pro-loquium” is used to render the “axioma”, a technical term of the dialectics and philosophical grammar of the Porch which indicates a simple sentence, complete in all its parts. GELLIO adds that Varrone borrows ‘pro-loquium’ from his tutor and uses it in the XXIV book of the “De lingua Latina.” Therefore, Varrone is indebted to Stilo even with regard to the syntactic terminology. However, the grammatical field in which the dependence of Varrone from S. is more widely recognised is etymology. Dahlmann, recalling a hypothesis by  Reitzenstein, suggests that in V-VII of “De lingua Latina”, VARRONE largely makes use of a  Etymologicon, of the Porch, rendered into Latin by S. VARRONE himself acknowledges his dependence on S., often quoting his master for the etymologies. Out of  CI certain fragments of Stilo's collected by FUNAIOLI, IX are quoted by VARRONE. One being ‘cælum’ < ‘celare’ since its antonym is 'to reveal,’ which makes use of a method of S. --the antiphrasis, by means of which the sense of an expression is explained by its antonym. A teacher of Varrone. A highly accomplished scholar. He was the philosophy tutor of both CICERONE and VARRONE, amongst others. Lucio Elio Stilone. Keywords: Varrone Quinto Elio Stilone. Keywords: Portico, proloquium, axioma, Cicerone, Varro, Stilone, Gellio, Svetonio.

 

Grice e Stobeo: l’anticuario della filosofia – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. An anthologist whose work is an invaluable resource for antiquarians. Giovanni Stobeo.

 

Grice e Svetonio: il commentario alla repubblica, più vasto dalla repubblica – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Best known for his account of the lives of the first XII emperors, his output amounts to much more than that. He writes a lengthy commentary on Cicerone’s “Republic,” which Cicerone liked ‘even if it is longer than my ‘Republic’!” Keywords: Cicerone, repubblica.

 

Grice e Suda: il saggio e il saggista -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Long thought to be an Italian philosopher, ‘Suda’ was apparently the title ‘Suda’ gave to his book! Keywords: Suda.

 

Grice e Sura: il corpo e l’animo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A successful politican and general, as well as a philosopher. He was a close friend of PLINIO (si veda) Minore – Plinio Maggiore was dead by then. Plinio once infamously consults him on whether (or not) ghosts exist, citing the example of Ottaviano’s tutor, who discovered that the house he had purchased at a low prize was haunted, ultimately to find out that this was due to a corpse buried in the backyward with chains to his arms and legs. Plinio Minore was not a philosopher but knows Sura is, and wants to have a philosophical explanation of the whole debacle. Lucio Lucinio Sura. Keywords: Roman for ghost, Ottaviano, scatologia romana, corpo, animo, anima.

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