Monday, June 10, 2024

GRICE E GATTI: LA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

 PASQUALE GATTI    e    . dilosofia del Linguaggio    A    SAGGIO  SULL’ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA    “ Je travaille à me rendre voyant ,,       MILANO - GENOVA = ROMA - NAPOLI  SOCIETÀ ANONIMA EDITRICE DANTE ALIGHIERI    (ALBRIGHI, SEGATI & C.)  193I - IX.                y Spa 9 apart pi  DI x  î 7 STRIP IMRATI OA ss =%  : STABILIMENTO TIPOGRAFICO « LA PERSEVERANZA » — POTENZA + £  :          AI  MIEI DUE FRATELLI  CHE  ANSIOSI E TREPIDI  VISSERO  LE STESSE MIE ANSIE E TREMORI  NELL'AUDACE SOLITARIO MIO ASCENDERE    LE CIME PIÙ IMPERVIE DEL VERO          #4          ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA (*)    La grandezza delle statue diminuisce allontanandosene,  quella degli uomini avvicinandoci ad essi.    Quale necessità di due diversi linguaggi, l'uno del sex-  timento e l’altro dell’ir2/e//etto, per esprimere il comune con-  tenuto della coscienza? « Altro — infatti — è il linguaggio  come linguaggio, ossia come mero fatto estetico — afferma  Benedetto Croce — e altro il linguaggio come espressione  del pensiero logico, nel quale caso esso rimane bensì sempre  linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio, ma è insieme       (*) Il presente scritto — capitolo di un ampio lavoro, di prossima pubblica-  zione, dal titolo: Za /ogica nella dottrina estetica di Benedetto Croce e una  nuova concezione dell’ arte — viene, qui, ristampato del tutto compiuto, oltre che  notevolmente ampliato, trasformato e riveduto, perchè il Direttore della Rivista  nella quale apparve per prima, anni sono, non solo, all’ ultimo momento, credette  di modificarlo a suo modo, e mutilarlo, anche, sconciamente, qua e là, quanto,  altresì, vigendo ancora e sempre, nel mondo della vecchia cultura, il costume  di condannare irremissibilmente lo spirito ereticale di coloro che non si sen-  tono in nessun modo di alimentar d'olio le lampade accese dinanzi ai santi della  Scienza, non mi avrebbe, certo, consentita l’ odierna stesura dello scritto, pur  rigidissimamente composto nella libertà, franchezza e sincerità della sua espres-  sione. Tanto più che qui, ora, essendoci anche occorso di avvalorare magni-  ficamente la tesì che noi opponiamo a quella del Croce con l’ autorità del pen-  siero vichiano, siamo stati costretti, pur senza volerlo, a mostrare, altresì, come  il Croce non sia riuscito a comprendere affatto affatto quel pensiero nell’ in-  timo, verace, sostanziale suo significato. Onde, ad un tempo, — ed è ciò che  a noi essenzialmente preme —, il nuovo abbagliante fascio di luce, che, spri-  gionandosi irresistibile dal fondo della dottrina vichiana, riesce ad illuminarla,  oltre che più intensamente, a pieno, col fugare tutte le ombre che qua e là,  finora, si addensavano in essa, impenetrabili. i          e ua ner!    A          più che linguaggio » (1). Ora, delle due, l'una: o esso, rima-  nendo sempre linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio,  non può, per ciò stesso, non rimanere sempre ed unicamente  intuizione © immaginazione, e, quindi, sinonimo di sola  « fantasia » e « poesia » ; ovvero è, anche, 7% che linguaggio,  e cioè concetto, e, allora, come dirlo, più, sinonimo di sola  fantasia e poesia, e non anche d' intelletto e filosofia ? Ma, in  tal caso, il formidabile scoppio di un'assoluta contradizione,  celata nelle fondamenta stesse dell’ edifizio estetico del Croce,  non manda di schianto tutto in rovina tale edifizio, basato,  appunto, sul presupposto dell’ assoluta identità del linguaggio,  od espressione, con l’arte, od intuizione? Tranne che la frase,  più che linguaggio, non voglia essere, qui, e non sia che  una di quelle espressioni vuote, non rare nell’ opera del  Croce, dirette — secondo la maligna insinuazione, o il perfido  suggerimento di Mefistofele — a mascherare col suono della  parola l'assenza del concetto: Zè dove manca 1 concetto, poni  la parola; il che, d'altronde, usava bene anche Platone,  sostituendo il mito al concetto, ogni volta che non gli riusciva  di cogliere col pensiero la soluzione di qualche arduo  problema.   Ma, in verità, ciò che non permette di dubitare in  nessun modo di quell’ assoluta contradizione è la seguente  affermazione del Croce: « per effetto dell’ ixcarnazione che  il concetto e la logicità ha nell’ espressione e nel linguaggio,  il linguaggio è tutto pieno di elementi logici » ; il che trae  necessariamente a concludere, che: o non è affatto vero che  il linguaggio obbedisce sempre alla sua legge, perchè, per  effetto di tale incarnazione, riesce senz’ altro a violarla,  impregnandosi, e quindi contaminandosi, di elementi logici,       (1) Logica come scienza del concetto puro: p. 75; Laterza, Bari,          ovvero che esso è masura/mente o necessariamente, ch'è lo  stesso, il prodotto non solo della fantasia, ma, altresì, dell’  intelletto, nella loro funzionalità sintetica, e perciò non vi  può essere — come non vi è, di fatto — che un unico  linguaggio esprimente, indifferentemente, il reale concreto od  il reale astratto: e cioè immagini o concetti, ovvero arte e  filosofia.   Quale la vera di queste due conclusioni contradittorie ?  Altrimenti dovremmo credere che in un medesimo vestito  possano bene trovar posto, ad un tempo, due individui, oppure  che un medesimo vestito possa attagliarsi ugualmente bene  ad un fanciullo e ad un uomo maturo, come potrebbero  rispettivamente considerarsi l’immagine intuitiva, assolutamente  alogica, e l’ immagine concettuale, così corpulentemente /ogrca.    Salvo — unica via di scampo — che per l'utilità del  momento — il che non disgrada punto, in simili casi, al  pensiero del Croce — non si voglia scindere il linguaggio    dall’ intuizione, per ridurlo « ad un fatto fisico-acustico,  aderente al pensiero » (1), ovvero, ch'è lo stesso, ad una  mera « guaina » di esso, sì che sia facile, vòlta a vòlta,  alla fantasia ed all’intelletto trovarvi posto, conformandola,  naturalmente, ognuno a modo proprio, vòlta a vòlta. Ma se  ciò è da escludere assolutamente, non rimane, sola conse-  guenza possibile, un unico linguaggio, frutto, naturalmente,  della funzionalità sintetica di tutte le attività fondamentali  dello spirito? Infatti, ogni intelligenza sinceramente ersosa  di scoprire la verità — e non già di far valere, comunque,  un proprio modo di vedere — alla presenza di tanti elementi  logici nel linguaggio, non avrebbe esitato un istante a ricredersi  del proprio iniziale errore, conchiudendo per l'appunto in    (1) Logica: p. 75.    dt                tal senso: ma non è così, purtroppo, che la pensano o  ragionano — almeno presso di noi — i seguaci della dialettica  hegeliana, pei quali, invero, non è punto lo schema mentale,  arbitrariamente preconcepito, che deve conformarsi o risultare  conforme alla realtà, ma, per contrario, è proprio quest’  ultima, che deve, comunque, inquadrarsi in quello schema:  anche se debba ritrovarsi in esso precisamente come nel famoso  letto di Procuste. E perciò mentre noi — seguaci, in tal caso,  della logica di Aristotele — conveniamo bene col Croce che  l'acqua non può dirsi vino, sol perchè in essa è stato versato  del vino (1), egli, a sua volta, non sa in nessun modo convenire  con noi che l’acqua, del pari, non può dirsi, più, neppure  acqua, ma sì acqua mista con vino: e cioè — fuori di  metafora — il linguaggio — come noi sosteniamo —. è pur  vero che non è opera di sola logica, ma non è nè pure  opera di sola fantasia, ma, sì, dell’ una e dell'altra; ed anzi,  per verità, di quella, essenzialmente, più che di questa, come  or ora cercheremo di provare, dopo aver anzitutto liberata  sì fatta quistione, concernente l'origine e la natura del  linguaggio, da una grave pregiudiziale opposta dagli intui-  zionisti in genere, e principalmente del gran maestro dello  intuizionismo, il Bergson: e cioè che il linguaggio, in quanto  prodotto puramente spontaneo e /oz/ours è faire dello Spirito,  è, per ciò stesso, da considerarsi come il flusso perpetuo di  Eraclito, per concludere, poscia, alla inutilità delle forme  grammaticali, non meno che dell'uso o significato costante  della parola, il cui carattere immobile immobilizzerebbe,  naturalmente, ed arresterebbe senz'altro il moto perpetuo  del pensiero, o la vivente fluidità del reale, così come il gelo  arresta lo scorrere od il fluire delle acque di un fiume, Ma  DALIA  (1) Zogica; pag. 75.          veramente la parola, nella sua immobilità, riesce a nascondere  e sopprimere, agli occhi nostri, la vivente mobilità del reale?  Ma, forse, l'idea stessa di fiume, non è l’idea di un’ acqua  che scorre? Ha un bell’ essere immobile, ed anche « solida »,  la parola fiume: essa, tuttavia, non cesserà mai di richiamare  il ricordo e darci l’immagine di un’ acqua che scorre; così,  anche, il Corzidore dello statuario antico ha un bell’ essere  fermo anch'esso: noi sentiamo e vediamo benissimo che i  suoi piedi lo traggon veloce come se avessero l’ ali. Ancora:  l’astronomo che calcola l'orbita di Marte, suppone, forse,  Marte immobile? e l'equazione di un movimento — quello,  ad esempio, della cometa di Halley — si può negare che  corra, anch’ essa, perfettamente come la cometa, con velocità  sbalorditiva attraverso l’ infinito? È ben chiaro, adunque, che  nessuno pretende di fare scorrere il gran fiume del reale con  fiotti gelati, giacchè le nostre idee, ben lungi dall’ essere,  evidentemente, delle forme congelate di esistenza del reale,  sono, per contrario, delle perenni, luminose vibrazioni di  quell’intima essenza del reale, ch'è la consapevolezza della  coscienza umana.   E non è vero, infatti, ch'è proprio a mezzo di esse, o  son esse proprio che, col singolare vibrar luminoso, ch'è  proprio di ognuna, conforme al singolare vibrar dello stato  di coscienza in ciascuna racchiuso, o da ciascuna espresso,  ci attestano la perenne mobilità del reale, o la vivente sua  fluidità, che, altrimenti, noi non potremmo in alcun modo  affermare, in quanto solo a mezzo di esse è a noi consentito  d’innalzarci sul presente e guardar lontano, così nel passato  come nell’avvenire, e scorgere, quindi, in tutta la sua illimite  distesa, il corso evolutivo del reale?   E ciò, intanto, non implica, necessariamente, nella natura  di quest'ultimo, la presenza di alcunchè di essenziale e          permanente accanto a ciò ch'è puramente contingente e  momentaneo? Altrimenti come potremmo dire che il reale  si evolve, e cioè, assume, appunto, forme di esistenza sempre  più nuove e più progredite, senza supporre, naturalmente,  o ritenere, necessariamente, sempre zz0 il soggetto che tali  forme successivamente assume? Se così non fosse, noi non  potremmo parlare di evoluzione, o divenire del reale, ma  solo di un perenne passare di torbidi « flutti di sensazioni »,  perdentisi, senza 77c0rdo alcuno,    ...dans la nuit éternelle emportés sans retour...    E se, adunque, la realtà è sempre zza nella sua essenza,  non ostanti, dirò, tutte le sue mutevoli démarches e i sempre  nuovi suoi /resssaillements, e il pensiero umano, strettamente  conformandosi alla natura di essa, di cui esso medesimo è  parte, non fa che cercare il permanente sotto il successivo,  e cioè, cogliere, costante, l' essenza di essa traverso tutti i  suoi rapporti in cui essa viene a trovarsi in quelle mutevoli  sue démarches, fissando, di conseguenza, in espressioni o  idee sempre nuove la sempre nucva fisonomia che essa viene  ognora assumendo, come dire che il pensiero suppone immobili  o « inerti » i termini tra cui vengono stabiliti quei rapporti?  Immobile, sì, è la legge che governa il divenire del reale  (principio di causa) — e, quindi, la funzione conoscitiva che  mira a coglierne l’ intima essenza (principio di ragione) —  pur traverso le più svariate sue manifestazioni, ma non i  termini di queste, che non possono non essere necessariamente  mobili, dato il perpetuo divenire della realtà : e cioè le sempre  nuove sue relazioni con sempre nuovi soggetti d’ esperienza.  Ma per mobili, però, o mutevoli che tali termini possano  ° essere, non si può, per ciò stesso, ammettere che essi riescano,  | così, ad infirmare l'essenza del reale, chè questo — precisa-  mente come notammo per l’acqua — non viene punto a perdere,             anche a traverso le più stranamente mutevoli sue manifestazioni,  l’intima sua essenza o la sua identità fondamentale.   La rondinella, infatti, che fende l’aria, si sente, è vero,  fuggire nel tempo e nello spazio, ma non è men vero che  essa si sente, anche, sempre la stessa. Salvo che non si  voglia riporre la realtà proprio nella innumere varietà di  toni, o addirittura sfumature del sentimento, quindi proprio  in ciò che essa ha di più accidentale e caduco, ovvero  — ch’è lo stesso -— nel mero cambiamento o nella mera  transizione come tale, più che nel rapporto assolutamente  obiettivo tra noi e le cose, rapporto fondato zx ze, non meno  che in intellectu, posto che l'essere e il pensiero sono parti  solidalmente costitutive del reale. Onde la. conclusione che,  se coscienza vuol dirsi il sentimento perpetuo diun cangiamento,  non è, però, il cangiamento come tale che può dirsi coscienza:  la quale, pertanto, in quanto conserva, evidentemente,  immutabile la sua identità fondamentale, pur traverso le più  svariate ripercussioni del sentimento, che le procurano,  appunto, quei sempre nuovi suoi /ressaz/lements, ci vieta  assolutamente di ritenere le singole espressioni od intuizioni  così assolutamente « individuali » da rimanere per ogni altro  soggetto conoscente, che non fosse il creatore di esse, del  tutto « intraducibili », « inclassificabili », val quanto dire  inesprimibili, almeno adeguatamente.   E perchè affermare, allora, che ad ogni impressione  corrisponde un’ espressione immancabilmente adeguata? Salvo  che non debba dirsi adeguata solo alla particolare impressione  che un medesimo obietto viene a destare in ogni singolo  soggetto, un'adeguazione, quindi, puramente soggettiva, perchè  variabile da soggetto a soggetto conoscitivo: e come mai,  allora, da intuizioni sì fattamente individuali si può pretendere  una conoscenza di carattere urzversale e necessario?       ERE o IO  Da    I, TRO  L. i si          a VR    Il pensiero, infatti, non può rimanere in nessun modo  chiuso negli impossibili limiti di un’ intuizione assolutamente  individuale, come pretende, anche, il Mosè di Vigny: O seioneur,  J'ai vecu puissant et solitaire! giacchè la possanza è unica-  mente nella commozione e vibrazione spirituale estendentisi  a quell’umanità da cui viene e a cui torna l'onda alterna del  pensiero e del sentimento.   E fu, tra altro, precisamente in vista di tal carattere  di universalità e necessità, proprio e inscindibile dall’ attività  conoscitiva, che noi fummo costretti ad escludere dalla coscienza  intuitiva, come particolare ed esclusivo contenuto di essa,  il sentimento, in Quanto precisa e recisa negazione di tal  carattere. E, peraltro, dato, eziandio, pel Croce, la natura  assolutamente ineffabile od incomunicabile del sentimento,  come può egli pretendere, ancora più assurdamente, di  contemplare e gustare le altrui opere d' arte, rivivendole con  le singolari vibrazioni del proprio sentimento ? Ma non ci  disse egli che tali opere, per l'impossibilità, appunto, da  parte nostra, di rivivere identico lo stato sentimentale dell’  artista che le creò, sono, per ciò stesso, assolutamente intra-  ducibili, sì che ogni nostro tentativo di tradurle fedelmente  si risolve, in realtà, nella genuina creazione di una nuova  opera d’arte accanto ad altra opera d'arte? E che, anzi, lo  stesso artista è incapace esso stesso di rifare identica la  propria opera, non potendo rivivere nè pur esso, puntualmente,  quegli stati di coscienza, che trovarono il loro nitido spontaneo  riflesso nella primitiva sua intuizione ?   In verità, io non riesco a comprendere qual gusto possa  mai trovare il Croce nella coquetterie; — che fu anche di  Ernesto Renan — di contradirsi per mille versi, ad ogni    piè sospinto, e non solo nella medesima pagina, ma nella  medesima frase.              Sai ce!  Il maggiore rappresentante dell’ intuizionismo — Henri  Bergson — è vero che attribuisce anch’ egli al sentimento    la possibilità di penetrare l’anima altrui, non meno che delle  cose, ma solo in quanto gli riconosce quel particolare carat-  tere di comunichevolezza che ad esso deriva da « cette  espèce de sympathie intellectuelle, par la quelle on se tran-  sporte à l’ intérieure d’un obiet » (1): ma il Croce non nega  recisamente sì fatta comunichevolezza al sentimento, che, per  lui, è 470 di ogni elemento intellettualistico? E, allora,  come può pretendere di rivivere con le singolari vibrazioni  del proprio ineftabile sentimento l’ ineftabile palpito di vita  onde vibrano le altrui opere d’arte, per contemplarle e gu-  starle ? E, d'altra parte, la stessa simpaia intellettuale del  Bergson, riesce, forse, anch'essa — senza l’aiuto di tutte  le debite operazioni intellettuali — a penetrare a fondo  la vita del reale, fino, addirittura, a « coîncider avec ce que  il a d’unique et d’ inesprimable ? » Ma l’unico e l’ inespri-  mibile, in quanto tali, non sono, per ciò stesso, incomuni-  cabili? Tuttavia, ammessa pure la possibilità di quella coin-  cidenza, noi non diverremmo senz'altro i sosta delle cose, o  le cose stesse, addirittura ? e come, allora, queste sarebbero,  più, uniche? Ma, a parte tali assurdità, come mai la sim-  patia, senza tutte — ripeto — le operazioni della intelligenza,  potrebbe farci penetrare l’anima delle cose? Senza dubbio,  allorchè io seguo — ad esempio — con l'occhio un razzo  che sale dritto verso il cielo, io sento in me un movimento  che imita la brillante sua linea di ascesa, uno sforzo paral-  lelo al suo sforzo: può dirsi bensì, allora, che io simpa-  tizzo con esso; ma, tuttavia, cotal simpatizzare non mi rivela  punto ciò che fassa o accade in quel granello di polvere       (1) Revue de Metaphisygue (Janvier, 1903); il corsivo è dell’autore.          RT nn    (E i ES    ardente. Ancora : quando io scorgo levarsi la luna, e vedo  i suoi raggi tremolar nell'ombra della sera placida e serena,  io, pur sentendo l’anima vibrar simpaticamente con essi, fin  quasi a sentirmi dissolvere di .tenera commozione, al pari  della blanda luce, che da quei raggi, tenera effondendosi,  si perde sulle cose, non riesco, tuttavia, in nessun modo,  pur nella maniera più vaga che si voglia, a penetrare, così,  la vita di quell’astro notturno. Del pari, la viva mia sim-  patia per la primavera, che mi fa, invero, provar nell'anima  tutta la freschezza e verginità di vita di tutte le cose che  alla vita si destano fresche e verginali, e nella persona stessa  come una leggerezza o snellezza di ali di farfalla, può dirsi  riesca mai, anch'essa, a farmi cogliere, così, la vita intima di  quella stagione ch'è la gioventù dell’anno? Ma vediamo, se,  almeno nel mondo umano, la simpatia raggiunga piena e  precisa la sua potenza penetrativa. Io vedo una donna in  lagrime uscir dal cimitero : una tristezza analoga alla sua  invade subito l’anima mia; io simpatizzo intellettualmente  con essa, a mezzo del fersiero della causa che l’affligge : Ja  morte di una persona cara, nel tempo stesso le sue lagrime  tendono a provocare, per sensibile contagio, le mie ; io,  dunque, penetro ben meglio nell'anima di questa donna  che non nelle precedenti forme inanimate di reale. Ma chi  oserà dire che io ho vera e piena la intuizione del suo  dolore? Ma non accadde, forse, al Guyau, come egli stesso  ci narra in una delle sue più belle liriche, di scambiare per  scoppio di riso l’ improvviso singhiozzo di una donna che  tornava dai piedi di una croce levata sur una tomba?    « D’un cété le jardin, de l’autre un cimetier ;   Un seul mur les sépare, et la mèéme lumière   Fait resplendir la feuille inquiète du bois,   nen Les blancs marbres des morts et les rigides croix.       dea a       Il poeta camminava senza meta, gli occhi perduti nel  fogliame, bevendo a lunghi sorsi l’aria della primavera :  nell'ombra di un sentiero, a passi lenti, una donna proce-  deva innanzi a lui; egli non la vedeva che di lontano: i  suoi piedi visibilmente tremolavano, ed egli non sapeva perchè.  D'un tratto un brivido la scosse tutta, e sembrò ch' ella  ridesse di un riso secco e nervoso ; e, per ridere, ella na-  scose la testa fra le dita:   « Quand j’approchai, je vis, légères et limpides   Des larmes qui coulaient entre ses doigts humides :   Car c’était un sanglot que ce rire sans fin,    Et cette femme, errant au fond du doux jardin,  Sortait du cimetière.    Sicchè  Une larme qui tremble,  Un sanglot qui de loin, pour l’oreille ressemble  Au rire, et rien de plus-voilà donc la douleur!  C'est tout ce qu'on peut voir lorsque se brise un coeur.  C'est le sieze fuyant qui, pour un jour à peine,  Révèle 1’ infini d’une souffrance humaine.  Les plaisirs les plus doux, les maux les plus amers  S'expriment par le mèéme ébranlement des nerfs  Que l’air indifferent propage dans l’espace :  Cri de joie ou d’angoisse, il éclate, il s’efface  Et, sans étre compris, glisse sur l’univers (1).    È questa, dunque, la « corncidenza » colle cose che ci  dì la stessa simpatia intellettuale? quella conoscenza « infal-  | libile e perfetta » promessaci dagli intuizionisti? Un mero  «choc en retour di onda nervosa, od anche emotiva ?   R Giacchè, in realtà, la mia coscienza, in quanto tale, pur  essendo così vicina all'altra, rimane, nondimeno, con tutta  D- evidenza, senza punto penetrarla od esserne penetrata :    n Ainsi jaurai vecu près d’elle inapersu,  Toujours è ses cotés et toujours solitaire !    (1) VERS D’UN PHILOSOPHE: Z’ecla/ de rire, Paris, Alcan.          — Mi    Ah!    Que nous sommes loîn l’un de l'autre,  Étant si près!  E, forse, Dio stesso può mai riuscir a sondare le altrui  coscienze come la propria ?    L’oeil était dans la tombe et regardait Cain    ora, se quell’occhio è di Dio, esso pure non può guardare  che dal di fuori; Dio, infatti, non essendo Caino, non può,  di conseguenza, nè sentire nè volere ciò che sente e vuole  Caino, e cioè possedere, appunto, l’anima di quest’ ultimo,   Ciò prova chiaro che la. filosofia non è punto — come  vorrebbero gli intuizionisti — il sentimento di un fiotto mon-  tante di vita interiore, il rapido bagliore di una stella filante,  ma una sintesi razionale e finale di tutta la nostra esperienza,  fondata precisamente sulla determinazione, sempre più ampia  € più precisa, delle relazioni che intercedono tra il nostro  stato di coscienza presente ed il nostro we tutto intero ; fra  il nostro me e gli altri esseri ; fra gli esseri particolari ed  il tutto, perchè il reale è ciò che inviluppa sempre e dap-  pertutto l’ infinito. Di guisa che più noi lo conosciamo, e  più vi scopriamo relazioni multiple, le quali, pertanto, trovano  la più perspicua loro espressione precisamente in quella insu-  perata manifestazione del reale che è l’idea, la quale, adunque,  così può rimanere distaccata dall’ intuizione come i fosfore-  scenti bagliori, che corrono sulle onde del mare ondulato,  dalle onde stesse, che quei bagliori accendono col loro moto.  E poichè, intanto, cosa certa o innegabilmente vera è che  il continuo divenire e perenne trasalir dell’ essere coincide  col continuo divenire e perenne palpitar del pensiero, è  naturale che, in conformità di questa stessa natura peren-  nemente 22 fieri del reale, si debba procedere — per rag-          Prada E       giungere una visione sempre più piena e indefinitamente  integrale della realtà infinita ed eterna —,ininterrottamente  da un'idea all'altra, all'infinito ed in eterno. E come, allora,  potrebb'essere mai lecito rinunziare ai precedenti /ermzini  della nostra coscienza, e cioè alle precedenti nostre intui-  zioni? Ma queste non sono, adunque, le espressioni assolu-  tamente adeguate, e perciò stesso insuperabili ed immutabili,  dell'essenza delle cose, o del caratteristico, che è in ogni  singola forma di reale? E se tali esse sono, e cioè immagini  che attinsero, al fine, preciso, quel limite assolutamente insu-  perabile che è segnato dal rapporto esattamente proporzionale  degli elementi o determinazioni onde risulta l'essenza di  ogni forma di realtà; e donde, appunto, deriva alla cono-  scenza intuitiva il suo carattere o valore universale e neces-  sario, come si può pretendere di andare oltre tali immagini—  limite, senza che la realtà corrispondente non cessi, per ciò  stesso, di essere quella che è ? Giacchè, si sa — l’accennammo  innanzi — l’essenza d'una cosa può trovare la sua espres-  sione o rappresentazione intuitiva veramente adeguata solo  in quelle immagini da cui la conoscenza logica, possa, a sua  volta, derivare immediato e preciso quel concetto-limite che  le variazioni della realtà corrispondente non possono ulte-  riormente superare, senza che questa, naturalmente, non cessi  di essere quella che è. È quanto tuttodì accade in ordine alle  mutevoli quanto fallaci immagini al cui gioco soggiace, in-  genua, la coscienza infantile, ch'è, per ciò, continuamente  smentita e corretta, ad un tempo, dall'esperienza, fino a  quando essa non sia diventata capace di scegliere od assu-  mere come elementi fondamentali od essenziali delle sue  immagini intuitive, quelli, appunto, che, resistendo alla doppia  prova dell'esperienza e della ragione direttrice, rimangono  indici insuperabili per la funzione di assimilazione e differen-       Mento,    marziana    Pa    E |. =         ziazione, ad un tempo, in ordine a tutte le altre possibili  forme della realtà, funzione in cui, notammo, si assorbe e  concentra essenzialmente l’attività conoscitiva.   Infatti, le intuizioni o cognizioni umane — costruzioni  superbamente armoniche del nostro pensiero — non vivono  punto, già, per il colorito emotivo che le riveste, ma, sì, per  l'essenza unicamente ch'è nel loro fondo : quell’essenza, ap-  punto — dicevamo testè — che nessuna variazione della  realtà corrispondente deve in alcun modo riuscir a superare,  E se, dunque, sì fatte intuizioni, in quanto universali e ne-  cessarie, sono, per ciò stesso, immutabili e perenni, come  non dover ritenere ugualmente universali e necessarie, e,  quindi, immutabili e perenni, le corrispondenti espressioni,  in quanto adeguate e insuperabili manifestazioni esteriori di  quell’intimo moto armonico del pensiero, che riesce a indi-  viduarsi o concretarsi precisamente in quelle espressioni ?  Giacchè, si sa, e non si può negare, che quantunque il rap-  porto che lega la lingua al pensiero sia di pura a/tribuzione  e non di z2427a, lo sviluppo dei due procede, non di meno,  assolutamente di pari passo, fino al punto che le imperfe-  zioni della lingua sono imperfezioni del pensiero : il che trae,  di conseguenza, a riconoscere che lo sviluppo del pensiero,  senza l’aiuto della lingua, sarebbe stato del tutto impos-  sibile, in quanto per la coscienza, indipendentemente dalla  lingua, è possibile solo uno sviluppo rappresentativo di na-  tura sensibile, come, ad esempio, le costruzioni geometriche  e meccaniche, il gioco degli scacchi, un motivo musicale,  un'immagine visiva e simili; ma non ostante tutti gli sforzi,  noi non saremmo, certo, mai in grado, senza parlare, di pen-  sare, ad esempio, che bisogna dir sempre la verità. Posso  bene, anche, rappresentarmi un albero determinato senza il  È: nome corrispondente, ma pensare l’albero in generale, senza       È           TI    la parola, è semplicemente impossibile : il che prova che solo  dal concetto e col concetto comincia, per la mente, la mecessità  della parola, e, quindi, Ja conoscenza che si pretende uni-  versale e necessaria, come, appunto, quella intuitiva. E se,  pertanto, può non essere vero che il concetto esista prima  del segno, certo è, però, — come nota lo Hamilton — che  « il concetto ricadrebbe, appena formato, nel caos dal quale  lo spirito l’ha evocato, se il segno verbale non lo rendesse  permanente nella coscienza ». Questo, perciò, è assolutamente  « necessario per assicurare i nostri progressi intellettuali,  per fissare quello che è già acquisito per la conoscenza, e  farne un punto di partenza nuovo per ulteriori progressi.  Un esercito si può spargere sur un paese, ma non lo con-  quista se non vi costruisce delle fortezze. Le parole sono  come le fortezze del pensiero; esse ci permettono di stabilire  la nostra dominazione sul territorio che il pensiero ha già  invaso e di fare di ciascuno dei nostri acquisti intellettuali  una base di operazioni per farne dei nuovi. Ovvero, per  adoperare un’altra immagine, il rapporto fra la parola e il  concetto è quello stesso ch’è tra lo scavare un zu7%e/ nella  sabbia e la muratura. Voi non potete procedere avanti nello  scavare senza fare ad ogni passo una vòlta. Ebbene, il lin-  guaggio è per lo spirito quello che la vòlta è per il tuzzel.   Ogni sviluppo del pensiero dev’ essere seguito imme-  diatamente da uno svilluppo della lingua, altrimenti il primo  si arresta. Dei concetti si possono formare senza la parola,  ma sono scintille che si spengono immediatamente; ci vo-  gliono le parole per dar loro evidenza, per poterli riunire,  per cavar, insomma, una gran luce da ciò che senza di esse  sarebbe stato uno sprazzo di scintille subito spento » (1).       (1) Riportato dal Masci: Logica + p. 80; Pierro, Napoli.             —118 —    E, veramente, la moderna filologia, analizzando e dis-  secando in mille guise il vivente organismo della lingua, è  riuscita a rintracciare nelle radici gli elementi primitivi inde-  componibili, che segnano, con la significazione primitiva, la  prima unità del pensiero con la lingua, donde, poscia, quel  rapporto di dipendenza reciproca — come ampiamente mo-  streremo in prosieguo — in virtà del quale, mentre il pen-  siero, nel suo progressivo sviluppo, e sempre più attivamente  all’inizio della sua produzione, riesce a modificare progres-  sivamente il linguaggio, questo, a sua volta, non manca di  reagire sul pensiero, e dargli un’impronta individuale e col-  lettiva, ad un tempo. Sappiamo, infatti, che è la lingua che  impone alla coscienza individuale la forma mentale della  razza, e cioè la maniera di fissare (nelle sue forme) le abi-  tudini secolari di analisi e di sintesi del pensiero di un  popolo : onde giustamente è da ritenere, con lo Hamilton,  che il pensiero senza la lingua o non avrebbe avuto svi-  luppo, o ne avrebbe avuto uno del tutto limitato, come ce  ne fanno prova i sordomuti, che, senza l'adozione di un sur-  rogato del linguaggio, non arriverebbero, con la loro intel-  ligenza, ad elevarsi affatto, o solo ben poco, al di sopra  della intelligenza animale. Infatti, pur la momentanea man-  canza, per momentaneo oblìo, di una data parola, non è,  forse, da noi avvertita — a parte la sorda immediata inquie-  tudine che altresì ci procura — come un vero ostacolo che  c' impedisce di fissare il corrispondente pensiero, di isolarlo  dagli altri, di porlo con essi in relazione, di riviverlo, in-  somma, necessariamente, onde il senso di vera liberazione  che noi proviamo, trovatala, appena, la parola che cercavamo?  Non solo: ma l’assoluta mancanza, nella nostra lingua, di  date espressioni che valgano a renderci adeguatamente un  dato concetto, non ci costringe a ricorrere ad altre lingue        ni  “       SAS    per le corrispondenti espressioni, come, ad esempio, per la  parola pietas, che noi siamo costretti a mutuare dalla lingua  latina, non possedendone la nostra una che adegui perfet-  tamente il concetto da quella espresso?   E trovato che abbian, dunque, le intuizioni la loro  espressione adeguata, e cioè posto che siano, davvero, cono-  scenza universale e necessaria, come possono, per ciò stesso,  rimanere assolutamente « intraducibili », val quanto dire inat-  tingibili nel loro intimo significato, o nella profonda loro  verità obiettiva ?   E se, pertanto, tali esse rimangono, non è giocoforza  ammettere ch’esse, ben lungi dall'essere, per davvero, intui-  zioni, e cioè precisamente conoscenza universale e necessaria,  altro non sono, in realtà, che particolari espressioni di sin-  golari ineffabili impressioni di un wzico soggetto: quello,  per l'appunto, che sì fatte impressioni riescì a provare ?  Giacchè di assolutamente singolare o insuperabilmente indi-  viduale in una forma di conoscenza veramente universale e  necessaria non vi può essere, al più, — come più innanzi    mostreremo — che quella frangia o alone, a dir così, che,    come ombra il corpo, naturale ed immancabile accompagna  la forma mentis di ogni singolo soggetto conoscente, quale  spirituale riflesso del carattere ch'è proprio di ognuno di  essi, e che prende, comunemente, il nome di stile. Ma cotal  frangia o alone — che serve solo a farci distinguere le crea-  ture o immagini d'una medesima ispirazione creatrice, presso  i più diversi artisti: la yarcesca di Dante da quella di  Silvio Pellico e di Gabriele D'Annunzio, il Neroze del Racine  da quello dell’ Alfieri, dell’Hamerling, del Costa, del Sinkie-  wicz — non toglie affatto nulla alla intelligibilità obiettiva,  e cioè fer tutti necessariamente identica, di sì fatte intuizioni,  che, perciò, restano identicamente valide — come espressione       e:       o conoscenza di quella data forma di reale che ci vogliono  apprendere — fer #uéte le intelligenze assolutamente. Qualora |  così non fosse, potrebbero mai le intuizioni essere, ad un i  tempo, arte e scienza: e cioè immagine estetica e verità  scientifica? La quale, infatti, non si sa, forse, che, allorchè  tale, per davvero, rimane assolutamente identica per tutte le  intelligenze, non ostante la innumere varietà di espressioni  che essa trova presso ogni singolo uomo di scienza? E  cotale identità, qualora non fosse, già, nella immagine intui-  tiva, dove potremmo mai ritrovarla? Infatti non ci disse  innanzi il Croce medesimo che « l’aere spirabile » del con-  cetto non possono essere che « /e iwéuizioni » ? E, in realtà,  qualora quest’ ultimo non fosse in esse, « non sarebbe in  nessun luogo: sarebbe in un altro mondo che non si può  pensare, e perciò non è ». Ed esso « permane come qual-  cosa che è in esse implicito e deve farsi esplicito » : vale  a dire come « l'essenza delle cose ».   Non risulta, quindi, in ogni modo evidente che il valore  universale e necessario della conoscenza non può ritrovarsi .  o appuntarsi che nell’ essenza dell’obietto di essa conoscenza  — il solo elemento, a dir così, per davvero immutabile e  permanente nel divenire perenne della realtà — che non A  può, per ciò stesso, non essere riconosciuto tale recessariamente al  e universalmente, se vero è che di un medesimo obietto la  intelligenza umana non può nè deve avere che wr solo e  medesimo concetto, donde, appunto, il carattere di universalità  e necessità della conoscenza? E alla stregua di cotal principio  logico e gnoseologico — pienamente riconosciuto dalla stessa |  Logica del Croce — come può esser mai possibile la conce-  zione o figurazione di intuizioni assolutamente individuali, —  nel senso da lui propugnato, e cioè del tutto intraducibili  ed inclassificabili? A parte la tangibile contradizione #          adjecto di una conoscenza universale e necessaria, che può,  nondimeno, assumere i più diversi significati non solo pei  singoli soggetti conoscenti, ma eziandio pel medesimo soggetto,  da un istante all'altro — come, appunto, l'intuizione del  Croce — a noi preme soltanto di chiedere se non è sempli-  cemente un assurdo, e, per ciò, del tutto impensabile, quanto  impossibile, l'esistenza di intuizioni, e, quindi, di forme della  realtà, che sfuggano alla connotazione anche dei predicati  più generali, che Aristotele, prima, e Kant, dopo, ci hanno  indicati come assolutamente indispensabili e, ad un tempo,  insuperabili, per la intelligibilità della realtà: come, appunto,  le categorie della somiglianza e della differenza. Infatti, al  di là di tali predicati, o categorie, non rimane — come  sappiamo — che una sola possibile espressione, quella formulata  dalla mistica: ergo faceamus, ovvero — peggio ancora —  seguire il malaccorto consiglio del Nietzsche: « Penche-toi  sur ton propre puits, pour apercevoir tout au fond les étoiles  du gran ciel ». Ma chi non sa che egli, appunto per essere  rimasto tutta la vita sospeso a guardare nel fondo di sè  medesimo, fu preso da vertigini, e le stelle del gran cielo  si confusero ai suoi occhi in una immensa notte? E, in realtà,  l'intuizione — nel senso inteso dal Croce — non è che una  oscura buca, in cui non si può discernere nulla, nemmeno  se stessi. Perciò se tacere o rimaner muti non si vuole, e  tanto meno perderci — come il Nietzsche -— nelle tenebre  della follia, non occorre, di necessità, far capo, per la intelli-  gibilità della realtà, a quelle tanto deprecate categorie del  pensiero, che, in quanto predicamenti od espressioni degli  aspetti e condizioni più generali di esistenza sotto cui a noi  si rivela la realtà, non possono, per ciò stesso, — come,  più oltre, proveremo a sufficienza — non contrassegnare, in  maniera del tutto obiettiva, tutte le possibili forme dell’ essere?             Lg —    E se, adunque, la realtà non può essere da noi concepita  se non sotto la specie di sì fatte categorie — onde, ripeto,  il carattere universale e necessario della intelligibilità che di 3  essa abbiamo — come mai, poi, le intuizioni possono dirsi  od essere 2r/raducibili? Ma la traducibilità di esse non importa .  l’uso di quelle medesime categorie che a noi occorsero per  la loro zntelligibilità? E come, allora, si può ammettere la  intraducibilità? Ad una condizione, sì: che la intuizione e la  espressione fossero due e non una; e cioè che il moto interiore  o intelligibile del nostro pensiero — I’ intuizione appunto —  fosse tutt'altra cosa che l’ immagine esteriore, (parola, suoni,  linee, colori ecc.), in cui tal moto si estrinseca, e cioè /a  espressione. Ma il Croce non avverte reciso ed insistente che _  l'intuizione e l’ espressione sono #4 e non già due, in quanto,   ETA  RION    Ceti,       Di          SE DE    che venga appena espressa la parte iniziale di uno schema,  che subito e infallibilmente il nostro pensiero preconcepisce  l’altra, che completa lo schema (così — come; per quanto —  pure ; tanto — quanto ecc.).   Sicchè la precisione del segno linguistico, e cioè una  forma grammaticale vera, è solo essa che ci dà, rapido e  preciso, il rapporto pensato, senza aggiungere che, anche  quando l’attenzione non si rivolge ad essa, produce ugual-  mente l'idea del rapporto e favorisce, così, lo sviluppo del  pensiero logico: e se ciò, intanto, accade, è appunto perchè  l'idea del rapporto vi è scevra di ogni contenuto materiale :  il che trae a concludere che, come il concetto — espressione  di una vera e propria 7es, anche se è da esso sussunto a  sostantivo una mera qualità o predicato di essa — riuscì a  fissarsi nella parola, trovando nella concretezza ed evidenza  di questa la sua rappresentazione adeguata, così il rapporto,  nell’astrattezza della sua essenza, riescì a trovare nella #m-  materialità della forma la sua espressione adeguata.   Ora, dati sì palpabili rapporti d’' interdipendenza fra la  lingua ed il pensiero, rapporti che risultano, per giunta, una  condizione size gua non per lo sviluppo dell’una e dell'altro,  come si può, seriamente, ritenere mero gioco di artifizio  del pensiero ciò che è, invece, mezzo assolutamente impre-  scindibile per la sua piena esistenza e sviluppo? Ma son,  dunque, un mero gioco di artifizio le naturali incoercibili  tendenze che traggono ogni essere a perseverare nel suo  essere, e cioè pienamente adeguare la propria esistenza alla  propria essenza? Ma non s'è pensato che, se la tendenza  del pensiero all'espressione del rapporto vuoi dirsi o rite-  nersi, per davvero, un artifizio, è da concludere, allora, che  le più artificiose espressioni del nostro pensiero, prima e più    ‘ dei concetti stessi — in quanto senza paragone, notammo,       pnt SII        più ricche e complicate di articolazioni o rapporti logici, in  confronto di questi — sarebbero precisamente le nostre in-  tuizioni. Non solo: ma tutte le più elevate manifestazioni  od espressioni del pensiero umano, dalle prime sue rifles-  sioni, o moti intuitivi, fino alle odierne concezioni dell’ intui-  zionismo e del pragmatismo, — assertori, appunto, di tal  gioco — sarebbero, forse, tutt'altra cosa che un perenne,  vario, gigantesco, e sia pure smagliante gioco di artifizio,  sottilmente intessuto dal pensiero sulle più varie e strane  e innumerevoli vicende della vita dell’uomo, come della vita  universa ? Giacchè, si sa, fuori di ogni rapporto logico, o  priva di ogni rapporto logico, espresso o sottinteso, mon  è concepibile nessuna forma od espressione di pensiero,  sia pure la più semplice, come innanzi vedemmo, altrimenti  dovremmo negare che conoscere — come affermò il Fichte  — significa vedere in relazione: il che sarebbe precisamente  come negare che il sole illumina o riscalda. E provato,  adunque, che la tendenza o funzione essenziale e neces-  saria del nostro pensiero è quella di gorre in relazione,  come può esser lecito, poi, negare che le forme grammaticali,  che corrispondono a questa funzione e la esprimono il più  analiticamente possibile, non siano precisamente la più ge-  «_—nuina e adeguata sua espressione? E, d'altronde, prova o  testimonianza assolutamente inconfutabile e tangibile della  necessità e adeguatezza di tali forme non rimane - vedemmo —  la stessa crescente forza di penetrazione, agilità e rapidità,  che lo sviluppo del pensiero trova, per l’ appunto, nell'aiuto  di sì fatte forme? Ma seguiamo pure con tutta rapidità,  alquanto più da vicino, lo sviluppo del pensiero nei suoi  rapporti con la lingua. Questa, adunque, pur essendo nata  da un bisogno pratico, e, per ciò, tendente immediatamente,           wi       oi £ + ES    cose, si rivelò, tuttavia, in una fase successiva, — col progressivo  affermarsi della intima tendenza del pensiero all’ espressione  del rapporto — un esperimento di pensare, che doveva dar luogo  alla forma: e n'è prova, precisamente, oltre che il tentativo  di combinazione delle parole, l’ altro, sopratutto, di piegare  parole indicanti oggetti a significare rapporti logici. In una  fase ulteriore le combinazioni di parole diventano costanti,  e le parole adoprate ad esprimere nessi cominciano a perdere  il loro significato indipendente. Segue una terza fase, nella  quale le combinazioni delle parole guadagnano di unità: le |  parole, segni di nessi, si aggiungono come suffissi alle parole |  denotanti oggetti ; però il legame non è ancora saldo abbastanza, _  chè i punti di attacco sono tuttavia visibili, l'insieme è un  aggregato, non ancora una unità: dai surrogati di forme si  passa agli analoghi di forme; la lingua è nel periodo di  agglutinazione. Finalmente il carattere formale della lingua  si afferma decisamente, l’ organismo grammaticale si completa ;  la parola diviene un’ unità modificabile — in conformità delle |  sue relazioni grammaticali — solo per un cangiamento di  suono, che costituisce la /fessione. Ciascuna parola è una  parte del discorso determinata, ed ha, insieme, una individua-  lità lessicologica e grammaticale; di più, le parole indicanti  relazioni, perduta ogni traccia dell'originario significato  radicale, che, presente ancora, avrebbe potuto oscurarne la  intelligibilità, rimangono puri segni di rapporti, come i segni |  algebrici, esprimendo, essi, unicamente, ciò che al pensiero  importa che significhino. Si spiega, quindi, perchè le lingue  che hanno vere forme grammaticali procurano al pensiero, |  con una singolare chiarezza e precisione, una singolare  agevolezza e facilità e rapidità di movimento: onde la forma-  zione parallelamente progressiva e, alfine, completa, di due  stupendi organismi: quello del pensiero, nella rigida unità e _          = BR       compattezza delle sue forme logiche, e quello della lingua,  nell'unità, non meno rigida e compatta, delle sue forme  sintattico-grammaticali. E, pertanto, quest'ultima, nella connes-  sione delle parole nella proposizione, nei rapporti sintattici  fra esse, e nel pensiero che quelle connessioni e questi  rapporti esprimono, non rivela o rispecchia, netta, l’ attività  logica del pensiero? Vario, relativo, organico il pensiero,  nel suo moto verso le cose, o verso la conoscenza di esse,  e tale anche la lingua e la parola, mediante l’ articolazione,  Ja flessione, le forme grammaticali, la sintassi.   Ed è naturale: nutrito e cresciuto il pensiero, fin dai  suoi primi moti vitali, insieme con la lingua, non poteva,  nella sua naturale, invincibile tendenza all'espressione del  rapporto, non piegarla od imprimerle tutti gli atteggiamenti  e tutte le movenze del suo procedere essenzialmente discor-  sivo, come innegabilmente ci provano molte parti del discorso,  che non sono infatti — come notammo per altro verso —  che indici di direzione del pensiero, schemi verbali di dire-  zioni logiche (così — come; sebbene — pure ecc.).   E si noti, intanto, che codesto intimo rapporto di dipen-  denza reciproca, che — abbiamo visto — lega indissolubil-  mente lo sviluppo del pensiero a quello della lingua, non è  punto punto smentito o minimamente infirmato dalla dif.  ferenza — talvolta anche sensibile — delle forme gram-  maticali- sintattiche che ci vien fatto di riscontrare anche  presso lingue appartenenti al medesimo gruppo: e ciò anzi-  tutto perchè quel rapporto non è di natura, ma semplice-  mente di aftribuzione, e, poscia, perchè la differenza delle  forme grammaticali dirette ad esprimere le stesse relazioni  logiche non muta il significato o la natura di tali relazioni.  Particolari disposizioni e, dirò anche, particolari riflessi di  natura psicologica, dipendenti dai più varî atteggiamenti del          ,                  a ì:    pensiero, oltre che da forme di sensibilità diverse e variabili,  in connessione, per giunta, con particolari condizioni di vita  e di ambiente le più svariate da popolo a popolo — il tutto.  punto punto determinabile, come non è determinabile la col-  locazione delle forze che impongono alla foglia turbinata |  dal vento quella data direzione — hanno dato origine alle |  più diverse forme grammaticali per l’espressione di un me» |  desimo rapporto. Fatto questo eloquentemente confermato,  oltre che dalla relativa libertà che presiede alla formazione  e trasformazione delle lingue, dalla presenza di radicali di- È  versi in lingue derivate da un medesimo ceppo : infatti cotale |  persistenza della funzione formatrice, anche dopo la separa- |  zione delle lingue, non può essere altrimenti spiegata, che  con l’esistenza di una identica funzione originaria, proprio dl  come la diversa ed anche diversissima sorte che accompagna |  pel mondo, e quasi istrania, i figli mati da un medesimo  padre non può in alcun modo farci negare la comune loro  origine, nè, d'altronde, riesce a distruggere in essi la pro-.  fonda voce ed i vincoli intimamente tenaci del sangue. E, |  peraltro, chi può negare che l'apprendimento e sempre più  facile intendimento di una lingua straniera è largamente.  mediato dalla traduzione $i 0 meno consapevole di essa nella.  nostra ? Il che sarebbe del tutto impossibile se le lingue,  pur nella innumere varietà di forme in cui sono riuscite a  plasmarsi, non dovessero la loro origine ad una tendenza o  manifestazione psicologicamente idezzica della coscienza. Iden-.  tità di tendenza che, frattanto, per le ragioni testè ricordate,  non può, naturalmente, non mostrarci del tutto vano quanto  infondato il tentativo della filologia comparata di rintracciare  il primitivo linguaggio, donde, poscia, tutte le lingue sareb-  bero derivate. Infatti la ricerca filologica si è arrestata, im-.  potente, dinanzi ad una molteplicità che resiste ad ogni.        riduzione, e spinge, quindi, ad ammettere senz’ altro una  molteplicità primitiva, dominata, nelle sue forme somiglianti, i  semplicemente da identità di fattori, senza nessuna causa cla”:  storica di derivazione.   Ma — d'altronde — non manca un modo veramente e,  semplice per convincerci della validità mecessazia di tutti i  sistemi di segni, che l'umanità è riuscita sin qui ad organiz- dh"    PA    zare e far valere come espressione universalmente intelligibile    ht,    di tutti i più intimi moti del nostro pensiero, ed è questo:  spogliate la parola di tutti i rapporti grammaticali-sintattici,    Ned    î annullate tutte le norme inerenti alla prospettiva col solo  capovolgere — ad esempio — un qualsiasi quadro o disegno;  alterate i rapporti armonici fra le note musicali ed avrete,  precisa, quella lingua da futuristi, che è, senza dubbio, meno  intelligibile di quella stessa degli idioti o dei pazzi, ed un È   disegno che non sarà, certo, più espressivo di quella lingua,   ed una musica, infine, od un'armonia al cui confronto quella  dei popoli più barbari potrà dirsi una sinfonia.   E se, adunque, tutti codesti sistemi di segni espressivi  sono wiversalmente intelligibili, e, per di più, universalmente  identici anche nel loro aspetto formale — salvo, in parte,  l’espressione linguistica — ciò stesso non prova ch'essi re- Dez:  cano una validità necessaria, la cui sorgente è da ricercarsi 3  molto, ma molto al di là del capriccio o della volontà indi- pr  viduale ? Infatti perchè tutti i tentativi di creare una lingua ®  universale unica — come, ad esempio, il Volapwk, l’ Esperanto,  l'Interlingua — sono falliti miseramente, ognora? Non, forse,    pa pil S    perchè la lingua, come vero mezzo o strumento di espres-  sione del pensiero, è ben lungi dall'essere così una creazione  arbitraria dell'individuo, consapevolmente compiuta secondo  una piano ordinato a scopi determinati, come il prodotto di P  una spontanea formazione naturale di ogni individuo, così    dui                                                come può dirsi del proprio organismo fisico? E, in realtà,  essa, come riflesso obiettivo — nell’ unità organica delle sue.  espressioni vocali — di quel coerente moto interiore che  anima il nostro organismo spirituale, è meno il prodotto  del singolo che della collettività. Infatti l'individuo non.  riesce a creare, per suo conto, che le singole parti, e cioè |  le singole parole o frasi; ma la lingua, nel senso dianzi  inteso, non può dirsi, certo, tutta lì: e sì che essa richiede.  ben altro; senza dire che ogni singolo atto formativo del  linguaggio, ogni atto di trasformazione, ogni uso nuovo della.  lingua rimane diretto sempre al fatto singolo, mai alla |  lingua come tutto. E poichè, pertanto, la lingua, come mezzo  o strumento di conoscenza, è precisamente e solo nel risul.  tato, o nel suo tutto, e questo tutto è, in sostanza, od  essenzialmente, non solo il prodotto delle influenze mutue |  delle coscienze individuali — più che solo dell’ azione reciproc  dei singoli inventori, che in misura varia lavorano all’ opera .  comune, come taluni vorrebbero — ma eziandio, e sopratutto,  il frutto di una critica sociale che adotta ed elimina — onde.  quella forma d'identità di pensare e di esprimersi tutta propria  di ogni popolo — è naturale ammettere che il contributo  dell’ individuo nella formazione della lingua scema a misura.  che si va dalla parte al tutto, il quale, perciò, deve senz’  altro ritenersi come il frutto, principalmente, di quella che  noi comunemente diciamo azzzza collettiva. La quale, se è pur  vero che, come realtà obiettiva, è non altro che un’ astrazione,  e non può, perciò, al pari dell’ individuo, creare affatto un  mito, un canto, un poema, una religione, è non meno vero,  però, che, al pari, e più dell’ individuo, è dessa che — nella  maniera testè indicata — riesce ad acquistare a quel mirabile  strumento che è la lingua, quella precisa e stabile forma  espressiva universalmente intelligibile, senza la quale qualsias       ‘iii its    ue       canto, o poema, 0 religione, od altra forma che si voglia di  conoscenza estetica od intuitiva, sarebbe, per davvero, nient'  altro che un mito. Onde giustamente il Feuerbach potè  affermare che se l’uomo deve alla natura la sua esistenza,  deve, però, all’ uomo di essere uomo, e cioè soggetto spiri-  tuale, in virtù, appunto, della sua libera partecipazione al  possesso di quella infinita ricchezza spirituale, frutto di sforzi  millenari, che proprio la lingua, traverso la infinitudine dello  spazio e la eternità del tempo, ci conserva e consente di  far nostra, senz'altro limite che la potenza o capacità di  appropriarcela: e di qui precisamente la singolare rapidità  del progresso nella storia umana, in confronto di quel pro-  cedere sì lento della natura, che, davvero, sembra star. Sì  che a buon dritto il Guyau potè chiedersi ed esclamare, ad  un tempo:   D’où vient qu'en chaque mot je cherche une harmonie ?   Je ne sais quelle voix a chanté dans mon coeur!   C'est comme une caresse, et mon oreille épie   Et s’emplit de douceur!   E la ricercata armonia nei nostri accenti, l'eco e la  dolcezza del canto altrui nei DOSE cuori è precisamente  perchè la lingua, — quale iisaltante d' infiniti sforzi indivi-  duali e collettivi, per veder sempre meglio e più a fondo  nell'intimo del reale —, può dirsi governata, nella efficacia  espressiva delle singole sue voci armonicamente connesse  nell’ inviolabile struttura delle sue forme logico-grammaticali,  da norme che ricordano bene quelle stesse che regolano e  determinano l’efficacia espressiva dell'armonia musicale. Nella  quale, infatti, ciascuna nota — come sappiamo — echeggia  nelle altre : tonica, mediante e dominante risuonano nell’ac-  cordo perfetto, e, inversamente, l'accordo risuona in ogni  nota; di guisa che ciò che noi prendiamo per un suono          =                            isolato è, per ontrario, un concerto. E sì fatta legge del.  l'armonia — è noto anche — regola non solo i suoni simul-  tanei, ma ezianlo i successivi, in quanto gli accordi che  seguono vengo ad essere legati in maniera che il primo  si prolunga nell'ultimo. Aveva, quindi, ben ragione il D'An-    nunzio — rivolto agli uomini della sua terra — di affermar    loro: « La mia parola non è solitaria: è l'eco di un coro  che voi non udite e che pure si compone di vostre intime  voci. Avete dinanzi a voi, rivelata, la vostra essenza. Voi  credete che io trasformi tutto in poesia, mentre non altro  io fo se non obbedire al genio cui voi medesimi siete sog-  getti. Voi mi giudicate dissimile, mentre io vi somiglio come  un fratello purificato. » d   Qual mesariglia, quindi, che la lingua, simile, adunque,  nella sua struttira e consistenza — secondo un'altra im na-    gine del Guyau — Ì    LI    à ces votes d’église  Où le moindre bruit s'enfle en une immense voix,    «  I  «i       Ceri                       cosmico che ci dà il tutto nella vita del singolo, e il sine  nella vita del tutto. — Benissimo : ma, allora, il senti ; |  così inteso, è, forse, tutt'altra cosa che della ragione  grosso, a dir così, invece che al dettaglio ? Infatti, sol p  noi non riusciamo, bene spesso, a cogliere tutte, ad una 4  una, le ragioni complesse e profonde che si presenta nol  massa al nostro sguardo interiore, allorchè ci decidiamo  agire, è, per ciò stesso, lecito arguire che noi agiamo,  tal caso, alla cieca, ovvero che il sentimento che ci ha g  dato, sol perchè non ragionato, sia, per ciò stesso, non.  zionale? Ma il sentimento non ha, per caso, la sing  prerogativa — che gli viene, appunto, dalle innume  sue connessioni con le direzioni ancora inconsapevoli de  tenuto della coscienza morale in formazione — di a7  in confronto della ragione, le sue vedute, e di av  quindi, qual termometro sensibilissimo della vita spi  tutti gli abbassamenti o deviazioni della condotta dalla  segnata dall'ideale morale o dal dovere — non anco  tutto chiara alla coscienza riflessa — e, perciò, spin;  consapevolmente il soggetto morale lungo le vie del  Esso, quindi, non è, in sostanza, che luce sotto for  calore, e solo così inteso può avere ed ha un signil  motto famoso di Pascal: 7 cuore ha delle ragioni    ragione non conosce, in quanto tal conflitto non è, vera    pante da tutta la precedente nostra analisi al rigua  non ha nessun contenuto suo proprio,    PES pr                         | Quindi le ragioni del cuore, se veramente ragioni o  sionevoti, non possono, in realtà, rimanere inascoltate o  7 ligibili per la ragione, sempre che questa, a sua volta,  venga presa o intesa in senso astratto, e cioè come  sre meramente raziocinante, e, quindi, affatto « pensosa »  ‘tutti i 422 concreti offerti alla riflessione dall'esperienza  4 esistenza concreta della nostra vita; giacchè tra espe-  A e ragione vi ha, per noi, profonda identità: l’ espe-  ‘enza non è che ragione concreta vivente ed agente, e la  gione non è che l’esperienza stessa, astratta e quasi con-  emplativa delle sue forme essenziali.   È chiaro, adunque, che, per l'umanità, allo stato nor  ale, non può esservi che un solo modo di pensare e di  are: pensare e parlare, non solo in armonia e col con-  degli altri spiriti :    Wie spricht ein Gcist zu anderm Geist,    eziandio, in armonia e col concorso delle cose, e cioè  conformità di quella vera esperienza, che è un tutto ra-  nalmente collegato e stretto ad unità, in quanto le funzioni  nostro pensiero, ben lungi dall'essere — come, cogli  ionisti, vorrebbero anche i pragmatisti — « un apparec-  di forme in certo modo falsificatrici » della realtà, sono,  vece, non altro, originariamente, che il prolungamento, in  delle funzioni o processi del reale, come ci attesta, evi-  te, la innegabile cooperazione e solidarietà tra la nostra  enza e la realtà delle cose. Si sarebbe, sì, potuto cre-  a tutti i Nietzsche e i William James che le forme e  orie del nostro pensiero fossero delle semplici /orgnettes  iali, che noi fuz4iazzo sul reale, solo qualora noi fos-  stati al di fuori o al di sopra della realtà, come un  do di forme vuote, senza contenuto, e cioè fuori di quella          LO  sj                  à    catena causale universale — causa ed effetto e reciprocità |  di tutte le azioni causali — che è l’idea stessa della con-_  tinuità senza iato nè interruzione della vita del reale, secondo L  gli stessi intuizionisti; ma poichè noi facciamo parte di tal  catena, è, dunque, impossibile ammettere che le forme fon» |  damentali del nostro pensiero non si siano formate e non si |  esplichino i funzione, ad un tempo, della nostra propria  natura e della natura delle cose, da cui non siamo separati, —  ma solo emersi per immergerci, conoscitivamente, ogni volta  che ne veniamo fuori. Sicchè a noi non resta che ritenere le i  funzioni o categorie del nostro pensiero come l’ espressione —  delle inzer-azioni fra noi e le cose, e cioè i mezzi, direi, di  prendere coscienza delle più diverse azioni reciproche, a co-  minciare dalla nostra: esse, quindi, non sono solamente la  coscienza della nostra causalità, ma della stessa causalità È  universale ; e poichè la causalità è essenza dell’ essere e la |  sua rivelazione, le categorie non sono che la coscienza stessa  dell'essere, universalizzate sino ad abbracciare tutto l'essere: |  ovvero la diastole e la sistole della vita universa, perchè  nel cuore stesso della realtà, e non già circum praecordia  rerum.   Infatti, senza di esse, noi non potremmo dire neppure  esistenti le cose, e tanto meno dotate di tale o tal altra ma-  niera di esistere, da tutti affirmabile : togliete, invero, —.  dicemmo anche innanzi — l’intelligibilità e l’ insieme dei.  rapporti intelligibili, che formano la realità stessa del reale,  e non resterà di essa che quella inconcepibile astratta poten-  zialità, quella mera 3ivqus del tutto impensabile, che è l'ormai.  famoso atto puro del Gentile. Il che prova inconfutabilmente -  che la realtà è assolutamente inconcepibile, astrazion fatta.  di quanto il nostro pensiero vi mette di suo, precisamente.       2 Age       con le categorie: onde quella sintesi organica di rapporti  logici in cui, conoscitivamente, consiste il reale.   Ora è precisamente questa impossibilità di concepire il  reale senza le forme del nostro pensiero che ci costringe,  inevitabile, a ritenere tali forme come atti intimi della vita  mentale e, ad un tempo, della vita reale immanente alle  cose, a parte anche l’ imprescindibile necessità di ammettere  un'assoluta unità e continuità di divenire o di sviluppo della  realtà; il che, pertanto, viene ad essere confermato, fra  altro, anche da sì fatta inconcepibilità (1). Per ciò, più che  delle forme astratte, o dei modelli vuoti, ovvero dei « punti  di vista » fotografici isolati — come si vorrebbe anche - le  categorie sono delle forme viventi e dei modelli flessibili in  cui la realtà entra senza giammai rinchiudervisi : quindi, come  delle vere démarches delle cose, precisamente come la fun-  zione vitale della locomozione è conforme alle leggi obiettive  del movimento, come la funzione dell’ assimilazione nutritiva  è conforme alle leggi fisico-chimiche delle sostanze alimen-  tari e dello sviluppo vitale. E se è pur vero, intanto, che  le forme della nostra esperienza — come Kant affermò —  dipendono dalla struttura generale dello spirito umano, non  per ciò è lecito all’ intuizionismo ed al pragmatismo di aggiun-  gere, a mo’ di conclusione, che « la struttura dello spirito  umano è l’effetto della libera iniziativa di un certo numero  di spiriti individuali » (2). Giacchè, in realtà, pur potendosi  ammettere che taluni individui, per iniziativa davvero intel-  ligente, ma non già « libera » sì da rimanere sottratta alla  natura delle proprie individuali disposizioni, abbiano introdotto  delle innovazioni, fatte delle scoperte, lasciata la traccia del       (1) V. a tal riguardo, P. GATTI: Una visione teleologica del manda, Pet.  rella, Napoli, 1926. ‘ i  (2) BERGSON : Preface de Verité et Réalité di W. James.          Tosh i                                  loro genio nella tradizione, nella lingua e perfino nel cer-  vello della razza, non per ciò rimarrebbe spiegato il /oxdo  della nostra costituzione cerebrale, e cioè, ad esempio, la  rappresentazione del tempo e dello spazio, il principio di  identità e di causalità. Infatti tali principî non vorranno  dirsi, certo, fortunate ipotesi create da uomini intelligenti o  di genio, dato che essi vengono applicati 6 origine da ogni  intelligenza nel suo spontaneo moto di orientamento spiri.  tuale tra le cose e tra gli stessi stati di coscienza: e la  prova assolutamente inconfutabile ci vien data dalla presenza  od esistenza di essi anche negli animali, che non, certo,  parlano. E, veramente, non pochi di essi — ad un certo  grado di altezza nella scala zoologica — hanno, con tutta  evidenza, più o meno confusa e concreta la rappresentazione  dello spazio e del tempo: tutti, poi, hanno una specie di   credenza pratica e irriflessa nel principio d' identità, in quanto  tutti reagiscono nello stesso modo a delle eccitazioni simili,  e in maniera diversa a stimoli diversi; e tutti, anche, se in  qualche modo capaci di riflettere sulle azioni delle cose e  sulle particolari reazioni da essi opposte, ci danno chiara la.  testimonianza di questa loro credenza vissuta e vivente: che  ogni cosa ha la sua ragion d' essere, onde la loro tendenza  a cercare le ragioni delle cose nella misura in cui tali ragioni  li interessano, e, talvolta, anche per semplice curiosità. Tutti,  ancora, credono ad una realtà indipendente dalle sensazio vo  ed azioni, ad una correlazione determinata tra le loro sen  sazioni ed azioni e questa realtà : il gatto — ad esempio —.  che, sulle mosse di rubare del formaggio, sente che arriv  il padrone e si dà a fuggire per tema del bastone, ha Lalli N  il sentimento della pluralità — costituita da sè medesimo, da  padrone e dal formaggio — ;ha, inoltre, il sentimento de  realtà della pressa del suo padrone, della possibilità dell Si       CATO       battiture e, in fine, della relazione costante tra la scoperta  del furto e la minaccia delle percosse, oltre che, di conse-  guenza, la somiglianza tra l’ avvenire ed il passato. Il gatto,  adunque, è già schiavo anch’ esso delle « categorie » tanto  descritte dai pragmatisti ed intuizionisti? Esso, infatti, si  permette di distinguere il possibile ed il reale, il passeggero  ed il permanente, il fatto e la causa, l'uno e i più, come se  avesse avuto falsato lo spirito dalla lettura dei Dialoghi di  Platone. 3   Il vero è, dunque, che le forme del nostro pensiero sono  innegabilmente dei punti di contatto tra l'essere ed il pen-  siero, dei mezzi per pensar l'essere e far essere il pensiero,  delle identità tra l' intelligibile ed il reale, e tutte si raccol-  gono nella categoria razionale e reale per eccellenza che è  la ragion d'essere, dato che il divenire della realtà non è,  in fondo, che divenire del pensiero. Il che prova che la  realtà è ciò che è, alla volta, obiettivo e subiettivo: l’ unità  delle cose con lo spirito clie le conosce e con l’universo di  cui quelle e questo sono parti costitutive e solidali. È naturale,  quindi, che la filosofia non possa restringersi nè al semplice  sforzo — come pretendeva Augusto Comte — di raggiun-  gere la piena conoscenza del mondo, nè, del pari, all’ altro  — secondo lo Hegel — di raggiungere la piena « coscienza  di sè », perchè i due punti di vista sono veri solo se inse-  parabili. E ciò è provato ad evidenza dal fatto che quanto  più larga e precisa è la conoscenza che noi abbiamo del  mondo che agisce in noi e sopra di noi, tanto più piena è  la conoscenza che noi veniamo ad avere di noi stessi; e,  per converso, quanto più precisa è la conoscenza di quel tipo  di realtà e di intelligenza ch'è in noi, o che siamo noi  stessi — onde la virtù, da parte nostra, di concepire ogni  altra esistenza ed ogni altro pensiero — tanto più perspicua             e più sicura è la nostra conoscenza del mondo nella sua  realtà e intelligibilità. Quindi, qual valore può avere una  filosofia, che, annullando l’aspetto obiettivo della realtà, riduca  quest’ultima all'aspetto puramente soggettivo, o, peggio ancora,  alla mera astratta 3ivaus dell’affo $u70, come dicemmo ?   E questa profonda unità delle cose con lo spirito e degli  spiriti fra loro è provata, in maniera inconfutabile, proprio  da quel comune sentimento che ci fa credere alla verità - la  quale, infatti, si afferma wniversalmente, come tale, precisa-  mente ed unicamente allorchè si manifesta come unità fra il  nostro pensiero e gli obietti rivelati dalle nostre sensazioni,    e, poscia, fra il nostro pensiero ed il pensiero altrui, che ci |    rivela le nostre sensazioni. È naturale, quindi, che le nostre  espressioni 0 idee sian da ritenere fermamente come scrigni,  a dir così, in cui si celano, come collane di diamanti, le  leggi, ad un tempo, del pensiero e della natura: e perciò  non sono da buttarsi via dopo l’ istante della loro creazione;  esse, in altri termini, sono delle verità immobili che noi  cercammo sotto il fluire del reale, o sotto la fluidità delle    "fl    nostre sensazioni. La differenza, infatti, tra una ciliegia — ad    esempio — ed una bacca di belladonna, oltre a non essere  puramente nominale, non è nè pure meramente o individual-  mente soggettiva, com'è provato dal fatto che, mentre la  prima nutre, l’altra uccide il fanciullo che non riescisse a    rt    distinguerla dalla prima. Perciò — ripeto — come pretendere    che i nostri progenitori avrebbero potuto pensare e parlare  a loro talento, secondo la propria comodità? Allora sì che,  per davvero, non ci sarebbe fanciullo, che, piccolo Descartes, |    non si sentirebbe, necessariamente, di yewzeltre loul en question, 138    divenendo, così, essi proprio, i fanciulli, i veri creatori della    lingua, e tanto più quanto più dimentichi o dispregiatori di _    ogni eredità sociale o spirituale, e cioè futuristi ad oltranza.          CRE       Mentre il vero è che, non solo la coscienza comune — e  cioè precisamente di quei grandi fanciulli che sono i popoli  nella loro immensa maggioranza di individui — non sogna  neppure la possibilità di far della filosofia novatrice o crea-  trice — onde la impossibilità, per esso, di yemettre en question  alcunchè di quanto spiritualmente ha ereditato dai suoi ante-  nati, ovvero anche solo di agire alla luce del gran lume  della dea Ragione — quanto, eziandio, gli stessi filosofi,  avendo appreso da Platone e da Kant della naturale origi-  naria limitatezza del nostro sapere, non si attendono mini-  mamente di porre in dubbio simile verità, e, per ciò — con-  trariamente al Nietsche, e sì, pure, a qualche altro odierno  pensatore fra noi — si guardano bene dal ritenere la propria  opinione personale al di sopra delle condizioni universali in  cui essi vivono, e, a meno di esser folli, non pretendono,  certo, di essere dei supermomini.   È, dunque, evidente, che le leggi della grammatica, ben  lungi dall'essere forme arbitrarie del nostro pensiero, sono,  invece, espressioni il più possibile adeguate e indispensabil-  mente zecessarie delle proprie sue leggi, risultanti, tali espres-  sioni, dalla congruenza attiva e costante collaborazione del  nostro pensiero colla natura e col gruppo umano di cui  siamo parte. E, si noti bene, tale collaborazione — onde la  fissità ed universalità del linguaggio, nella immutabilità e  universalità delle sue espressioni e delle sue forme logico-  grammaticali — non riesce punto — come piace di opporre  agl'intuizionisti — a ricoprire i nostri stati d’ animo più  personali come di una guaina impersonale fabbricata dalla  società.   In verità, questa preoccupazione — avvertita prima e  più di ogni altro dal Bergson — è priva di ogni fondamento,  in quanto i rigidi comuni schemi delle forme logico-gramma-             SB) =                                     ticali in cui il pensiero, come contenuto rappresentativo, deve  poter essere constretto, qualora voglia essere, davvero, stru-    mento di conoscenza, se valgono, per l’ appunto, ad acqui.    stargli — in quanto tale — valore universale e necessario —  che altrimenti, abbiam detto, non avrebbe, e non potrebbe  in niun altro modo avere — non riescono, peraltro, ad impe-    dire affatto, anzi nè pure minimamente ostacolare, in quel È  suo moto spirituale verso la conoscenza delle cose, la naturale  incomprimibile sua /endenza alla forma soggettiva. E, in realtà, |  vi ha, per caso, corrente di pensiero che non presenti delle  particolarità che la distinguano nettamente da quella dello  stesso pensiero presso altri soggetti conoscenti? Senza pur  dire che la stessa particolare corrente di pensiero, che è È  propria di ognuno di noi, può, con tutta facilità, variare da  un tempo all’altro. E tali particolarità, che costituiscono  — ‘accennavamo -— come una frangia od alone del pensiero,  possono paragonarsi a quello che sono gli ipertoni rispetto p  al tono, per cui strumenti diversi possono riprodurre diver- 3  samente lo stesso tono: ed il motto comune /o stile è l' uomo  vuol esprimere, per l’ appunto, questa qualità individuale, 0, A  dirò così, particolare colorito espressivo, che il pensiero, pur È  nella medesimezza del suo valore oggettivo, 0 significato —  rappresentativo, tende ad assumere presso le singole menti, —  onde la facilità con cui noi riusciamo a distinguere o rico-  noscere, come se le avessimo davvero incontrate, od avute _  famigliari, oltre che le creature di Dante e di Shakespeare,  e le figure di Leonardo e del Rembrandt, e i motivi di |  Beethoven e del Wagner, le immagini, altresì, rampollate da  una medesima sorgente spirituale d'ispirazione e recanti, |  quindi, una medesima impronta dele, come l’immagine  dell'amore cantato da Dante nella Vita Nuova, e quel  offertaci da tutti gli altri poeti del dolce stil nuovo, non meno       de Tue       che dal Petrarca nel suo Carzorziere e dallo Shelley nel suo  Epipsychidion ecc. Ed, anzi, quanto più netta e rilevata è  la personalità del soggetto conoscente, tanto più chiaro e  inconfondibile è il colorito espressivo delle sue creazioni  intuitive. E poichè, pertanto, tal colorito raggiunge la più  singolare sua tonalità individuale e la più sicura sua espres-  sione caratteristica proprio nell’ àmbito della coltura — dove,  appunto, vige assoluto l’imperio delle forme Jogico-gramma-  ticali, più che nell'àmbito di quella esperienza comune, in  cui, invece, è quasi completa /’assezza di tali forme, ragione  per cui il parlare di due persone volgari od incolte presenta  una uniformità o identità formale di espressione che invano  noi cercheremo nel parlare di due persone colte, e più invano  ancora se, per giunta, di diversa educazione mentale, come  un valente letterato ed un grande scienziato — non è gioco-  forza concludere che le forme logico-grammaticali, ben lungi  dal distruggere o comprimere, comunque, la naturale tendenza  del pensiero alla forma soggettiva, son proprio quelle, invece,  che, mediante, appunto, la infinita loro varietà d'’ intreccio,  ed intreccio infinitamente variabile, offrono al pensiero di  ogni singolo soggetto conoscente la più larga possibilità di  rivelare ed affermare quella sua tendenza, nel tempo stesso  che prendono ad acquistare alle sue intuizioni un valore  universale e necessario ?   Altrimenti come spiegare che cotale tendenza, se non  manca del tutto, è, senza dubbio, punto punto rimarchevole  — come notavamo — nelle espressioni delle persone incolte,  e manca, altresì, nei fanciulli, che, al pari di queste, igno-  rano ancora l’uso delle forme logico-grammaticali? In ogni  modo, non si può negare che pensare significa, in un certo  senso, scegliere: e noi scegliamo, infatti, così nel ragiona-  mento, in cui cerchiamo come il punto di passaggio da un       pensiero all'altro, come nelle intuizioni, cercando — mo-  strammo innanzi — gli elementi necessarî maggiormente  rappresentativi, ed eliminando gli insignificanti. E proprio in  sì fatta scelta, colla genialità della potenza intuitiva del sog-  getto conoscente, si rivela, altresì, e con non minore evidenza,  la particolare tendenza espressiva di esso ; giacchè tale ten-  denza si rivela precisamente nel configurare (e cioè coordi-  nare e subordinare ch’esso fa) quegli elementi alla stregua,  dirò, di un comune denominatore (e cioè dell’ essenza del  reale che è obietto dell’ intuizione, od anche solo di quel  particolare aspetto di esso che si vuole porre in rilievo), e  colorirli, altresì, d'un medesimo zoro (quello offerto od im-  posto dal carattere sentimentale proprio del soggetto cono-  scente). Ed ecco, in tal modo, — per dirla con parole del  Croce stesso — la ballatella di Guido Cavalcanti ed il sonetto |  di Cecco Angiolieri, che sembrano il sospiro o il riso di un È  istante; la Commedia di Dante, che pare riassumere in sè  un millennio dello spirito umano; le Maccheronee di Merlin  Cocaio, che sghignazzano sul Medio Evo tramontante ; la    elegante traduzione cinquecentesca dell’ Ewesde di Annibal  Caro; l’asciutta prosa del Sarpi e quella gesuitica frondosa |  di Daniello Bartoli (1).   Nessuna meraviglia, quindi, che cotal forma di pene.  sare, propria di ognuno di noi, si rifletta persino nei singoli È  frammenti delle nostre serie di pensieri, come non di rado    ci provano quegli elaborati 4 mosaico di qualche alunno, nei  quali la varietà di stile dei diversi autori, i cui brani di.  pensiero concorsero alla formazione di tal mosaico, si mos    (1) Breviario «+ pag. 75.             che noi proviamo all’ improvviso apparire di una parola od  espressione di lingua straniera nella nostra, non devesi, forse,  alla interrotta uniformità di stile o colorito espressivo ? E non  è questa, altresi, la causa della gradevole sorpresa o disgusto,  che, lungo il procedere discorsivo proprio di una scienza, ci  procura così l’ incontro di frasi tutte proprie del dizionario  di un’altra scienza, inserite o non a proposito, come l’uso  di forme di ragionamento estraneo alla sua tecnica logica,  dato che ogni scienza, anche, ne possiede una? E la mesco-  lanza del parlare volgare col letterario non ci procura an-  ch’essa disgusto per la medesima ragione ?   Ora, se cotal naturale e, veramente, insopprimibile  tendenza del pensiero a forme espressive individualmente  caratteristiche o caratteristicamente individuali, pur nella loro  universale intelligibilità, riesce ad affermarsi e raggiungere  le più tipiche o singolari sue forme espressive precisamente  nel campo della coltura, in cui il rispetto alle forme della  grammatica e della sintassi è, come sappiamo, condizione  sine qua non per l'accessit in esso dei soggetti conoscenti,  non si deve, per ciò stesso, riconoscere senz'altro, che sì fatte  norme sono, per lo meno, ben lontane dall’oscurare od assor-  bire, nella loro universale uniformità, il particolare colorito  espressivo di ogni singolo soggetto conoscente ? E ciò stesso  non ci obbliga, d'altro canto, ad escludere, altresì, che esse  possano essere, o siano meri giochi di artifizio, od anche  forme puramente convenzionali da noi arbitrariamente imposte  al pensiero ? Giacchè, senza dubbio, in tal caso -— come  giustamente opinano gl’ intuizionisti — esse sarebbero riu-  scite o bene riuscirebbero — come ne fan prova le forme  artificiose del Volapik dell Esperanto e dell’ Interlingua —  ad impedire l’aftermarsi ed esplicarsi della tendenza del pen-  siero alla forma soggettiva, pur riuscendo questa ad estrin-          i de è;    BYE                          secarsi — è tutto dire — anche nei casi di natura patologica,  I quali, invero, — a dissoluzione compiuta della personalità  normale — ci fanno assistere, con tutta evidenza, alla for- o  mazione di nuove personalità, che, indeterminate dapprima,  si vanno, poscia, progressivamente affermando, fino ad assu-  mere fisonomie del tutto diverse dall'antica, e nei soggetti  ipnotici, poi, l'assunzione di fisonomie nuove si mostra pos:  sibile anche dietro la semplice adozione di un nome. Or tutto.  ciò non deve necessariamente convincerci della naturale ragion  d'essere delle forme logico-grammaticali, onde l'estrema assur-  dità della pretesa di Benedetto Croce di volerle soppresse;  il che egli credette di poter fare vietando, con un tratto  penna, l'insegnamento della grammatica nelle nostre scuole ?  Pretesa che, certo, non sarebbe nè pur balenata alla sua  mente, se questa avesse avuto il potere di accorgersi che sì  fatte forme, oltre che esigenze fondamentali imprescindibili  per la funzione d' intelligibilità del pensiero, sono, altresì, il  fondamento stesso della esistenza di quest'ultimo, in quanto,  appunto, condizioni e termini, ad un tempo, del nostro fersare ?  Infatti, non riuscimmo noi a provare innanzi che le forme  logico-grammaticali altro non sono e non vogliono essere,  in sostanza, che espressioni pure e semplici delle relazioni 0!  rapporti che intercedono tra le cose, o tra i singoli elementi  di esse, così come le singole voci o parole non sono che i  termini puramente drdicazivi di esse cose, o dei singoli loro  elementi? E come potrebbe, adunque, darsi conoscenza i  intuizione di una qualsiasi cosa fuori, appunto, delle  relazioni con altre cose, o dei rapporti che intercedono  i suoi stessi elementi (70%), sì che possa ritenersi, cotalé  intuizione, tutt'altra cosa che una sintesi, appunto, ri  mente coerente di rapporti logici? E se, adunque, cote  rapporti sono, con tutta evidenza, i so/é termini del nos       TORRE        pensare, non è, perciò, da ricercarsi unicamente nella loro  netta distinzione e preciso loro significato, o valore logico,  la più netta e precisa intelligibilità della realtà ? Nessuno,  infatti, ignora la confusione od oscurità che, immancabile,  procura al pensiero la insufficiente distinzione formale del  valore logico-grammaticale di qualche termine del nostro  pensare, come, ad esempio, quella che ricorre nel famoso  responso dell'oracolo a Pirro, che gli aveva chiesto se sa-  rebbe riuscito vincitore nella guerra contro i Romani :    Aio te, Aeacide, Romanos vincere posse.    E ciò — per di più — accade non solo in rapporto  al valore logico delle espressioni, e cioè in tutti i casi che  diciamo di anfibologia, ma in rapporto, altresì, allo stesso  significato intuitivo della parola, e cioè anche nei casi in cui  questa possiede un doppio significato, onde la famosa quanto  ironica lode al debito del Berni: « Debito è fare altrui le  cose oneste ...... dunque fare il debito è far bene ». Non  solo: ma lo stesso ordine delle parole nel discorso non  asconde anch'esso il suo valore logico ? Quante volte, infatti,  il predicato non occupa esso il posto del soggetto, per richia-  mare su di sè l’attenzione e porre, quindi, in vista tutto il  valore in esso riposto dal pensiero? Valgano di esempio le  seguenti espressioni : « Mobile e grande, veramente, la per.  sona del Re ! » ; « e/ix qui potuit rerum cognoscere causas » |  Spesso, ancora, il predicato logico è il soggetto grammati-  cale o l'aggettivo che l’accompagna: « 7% sei l'uomo! » ;  « Tutti gli invitati sono arrivati », per dire appunto che  « gli invitati che sono arrivati sono ## quelli che erano  attesi ». Invece nella frase : « il danaro è dentro lo scrittoio »,  quali dei tre elementi può dirsi preponderante o di maggior  rilievo? Non si sa, perchè potrebbe essere così il primo                           (danaro), come il secondo (dentro), come anche il terzo (scrittoio):  tutto sta nel cogliere od indovinare il pensiero o l' inten:  zione di colui che parla; ma dicendo io: « è dentro ll  scrittoio il danaro », chi non comprende che l'elemento essen-  ziale è, qui, serzitoio ? Ma potrebb’essere anche dezzro.  non ricorriamo, per ciò, in sì fatti casi, e cioè in manca È.  di una qualsiasi specificazione anche in ordine al posto occu  pato dalla parola nel discorso, ad una particolare accentua.  zione 0 zoro, col quale prendiamo ad esprimere o pronunciare  la parola in questione, e cioè, nell'esempio addotto, accen-  tuando la voce su dezaro, dentro, o scrittoto ? E se, adunque  l’ intelligenza ha dovuto ricorrere fino a simili sottigliezze pe  rendere la lingua più che mai duttile e perfettamente obbe  diente ai più lievi moti del pensiero, non è semplicementi  assurdo e ridevole, insieme, chiedere — come fanno gli  intuizionisti — l'abolizione addirittura delle forme sin  tico-grammaticali per l’espressione del nostro pensiero? E  tuttavia, il tentativo di cotal soppressione non è stato, fors  già, magnificamente compiuto dai rappresentanti del futurismo?  E con quale risultato, per la funzione intelligibile del pen       siero, sa molto bene chiunque abbia avuto occasione di ammi  rare qualche saggio dei prodotti artistici di questa nuova  letteratura, il cui merito è precisamente nella mapei  imintelligibilità delle loro espressioni. È  Qual meraviglia, quindi, che, in sì fatto caso, co  espressioni, appunto perchè asso/uiamente individuali ri  gano, per davvero, assolutamente intraducibili ed inclas  cabili? Ma è, dunque, sol perchè zrsntelligibili, come noi.  affrettammo a dichiarare innanzi: onde la conseguenza =  tangibile, ora, — che l'elemento veramente intraducibile  in una forma di conoscenza dichiarata universale e neces  saria, non può essere, e non è, che unicamente e precisi    BOS        mente il particolare colorito espressivo di ogni singolo soggetto  conoscente, val quanto dire unicamente la sua forma mentis,  e non già pure il corzerzto oggettivo delle sue espressioni    »    o intuizioni, come sostiene il Croce. Altrimenti saremmo  costretti a chiedergli perchè egli, pur convinto dell’assoluta  impossibilità di renderci, comunque, anche il significato ideale  delle immagini estetiche, oltre che la loro forma o colorito  espressivo, potè, nondimeno, decidersi al tentativo di darci  la traduzione — sia qualsivoglia il valore di questa — di  talune liriche del Goethe: ed in tal caso a lui non rimar-  rebbe che: o riconoscere semplicemente pazzesco tal suo  tentativo — appunto perchè senza scopo di sorta —; oppure  | confessare il proposito, da parte sua, di darci, a fianco o di È  fronte all'opera d’arte dell’Apollo Musagete della Germania, DI  un’altra opera d’arte non meno grande e perfetta di quella, E  E sia pure: ma perchè, intanto, credette di far passare s0//0  il nome del Goethe il contenuto ideale di quelle sue tradu-  zioni, e non già sozto il proprio suo nome, se vero è che, col i  mutar dell’originaria forma espressiva di un’opera d’arte, pi.  muta, altresì, il proprio contenuto rappresentativo? È se,  pertanto, il Croce credette di attribuire al Goethe e non a  sè i fantasmi ideali o l’ ideale fantastico espresso da ognuna i  di quelle liriche da lui tradotte, non, forse, ciò stesso vuol È  | significare, anzi testimoniare, che l’ intraducibilità è solo della È  forma espressiva e non già pure del suo contenuto rappre-  sentativo, se questo vien senz'altro riconosciuto e dichiarato   dell’azzore e non già del traduttore? Se così, di fatti, non    vaemtetizizo    fosse, con qual miracolo di pensiero, egli proprio, accanito    bi    | assertore e propugnatore di cotal peregrina teoria dell’asso-  luta intraducibilità del pensiero altrui, sarebbe mai giunto,  poi, sino a distinguere addirittura dei « cicli progressivi » «i    SENO    di « prodotti estetici » inerenti ad una « wedesima materia », R          =*    sf  Da  =       LL                                  come — ad esempio — la « materia cavalleresca durante  la Rinascenza italiana dal Pulci all’ Ariosto »? Mentre, a  rimanere strettamente fermi o coerenti con la sua teoria, noi,  non solo non dovremmo assolutamente poter distinguere 7224/%  di nulla in un'opera d’arte, ma neppure la szessa maderia di  un'opera da quella di un’altra; fino al punto che, qualsi  distinzione — come, ad esempio, quella di attribuire il con-  tenuto del Decamerone a Francesco d’ Assisi e quello dei  Fioretti a Giovanni Boccaccio — sarebbe la più naturale e  bene informata di questo mondo, precisamente come la su  contraria ? È questo, infatti, l’assurdo, possiam dire tangibile,  cui direttamente mena » della.  sua dottrina estetica? Il che è tanto vero che proprio io  mancato riconoscimento del valore gnoseologico di tal prin-  cipio ha tratto il Croce — il preteso interprete autorizzato |  della dottrina vichiana : autorizzato a giudizio suo proprio,  o di chiunque si voglia — a non comprendere aftatto nulla  di tale dottrina, posto ch'egli è riuscito non solo a falsarla  nell'intimo e vero suo significato, quanto a spogliarla, altresì, —  di tutto il suo valore filosofico. E mi darò a provare ciò —  rapidissimamente, con l’opera del Vico in una mano, e quella 3  del Croce nell’altra, sì che ognuno abbia modo di convin-  cersi, ancora una volta, come, in realtà, sia proprio nell’  abito mentale di quest'ultimo interpetrare @ suo 2040, e cioè |  nella maniera più capricciosa ed arbitraria — per le ragioni |  più volte dette innanzi — il pensiero degli scrittori di cui |  si occupa, e specie allorquando l’opera di questi rientra più  direttamente, od essenzialmente, nel dominio dell’arte, o delle  dottrine estetiche. Mi affretto per ciò ad iniziare senz’ altro  l'esposizione del pensiero vichiano, rivolgendomi in particolar  modo a coloro che non hanno avuto occasione di leggere ji  la Scienza Nuova ; ragione per cui comincio — proprio come  il Vico — col ricordare loro la necessità o bisogno da questi  avvertito — prima di entrare nella diretta trattazione dell’ |  opera sua — di far notare al lettore come il « sistema Na:  turale del diritto delle nazioni » di tutti e tre i più celebri |  uomini del suo tempo — Grozio, Seldeno e Pufendorfio —  debba — a parere di lui — il suo più grave « difetto » al fatto.  che nessuno dei tre « pensò stabilirlo sopra la Provvedenza  divina » (1). Mentre si sa che, per scuoprire sicuramente |  « le vere e finora nascoste origini » di cotal dritto, che investe    (1) Principi di Scienza Nuova © I, p. 17; a cura di G. Ferrari, Milano, "A  1843. +4    “       67 —       e concerne « religione, lingue, costumanze, legge, società, g0-  verno, domicilio, commerci, ordini, imperj, giudici, pene, guerra,  pace, rese, schiaviti, allianse » (1), insomma duéte le cose divine  e umane, occorre, anzitutto, ed imprescindibilmente, ricercare  ed ammettere / idea di un ordine universale ed eterno (2).  Altrimenti, come spiegare quel « senso comune del genere  umano », o — che è lo stesso — quella « certa mente  umana delle nazioni » (3), che, « usando... per me227 quegli  particolari fini » perseguiti dai singoli individui e « per i  quali... essi andrebbero a perdersi », dispone tai fini, « fuori  e bene spesso contro ogni... proposito » degli individui  stessi, « a un fine wziversale » (4)? Non è, quindi, da me-  ravigliare che cotale /dea, sotto l'aspetto, appunto, di Pyrov-  vedenza ordinatrice di tutto il diritto natural delle nazioni (5),  debba necessariamente rimanere « /a fri2a — o principal  fondamento — di ogni qualunque lavoro » del genere (6), e,  per ciò, essa non manca, e tale « si dimostra per tutta  l’opera » sua (7).   Si noti, però, che, in quanto tale, essa non può, natu-  ralmente, non possedere due « propietà primarie », che sono:  « una /’immutabilità (o necessità ch'è lo stesso) l’altra /’uzs-  versalità » (8); giacchè solo in forza di codeste proprietà potè  venir concesso ad essa « Provvedenza », o « Divina archi-  tetta » di « mandar fuori il mondo delle nazioni colla regola  della sapienza volgare » : e cioè di quel « senso comune —    (1) Ibid. p. 19.  (2) Ibid. p. 20.  (3) Ibid. p. 36.  (4) Ibid. pp. 44 e 45.  (5) Ibid. p. 45.  (6) Ibid, p. 43.  (7) Inid. p. 45.  (8) Ibid. p. 48.                                come dicemmo — di ciascun popolo o nazione, che rego.  la nostra vita socievole in tutte le nostre umane azioni, così  che facciano acconcezza in ciò che ne sentono comunemente  tutti di quel popolo o nazione. La convenienza, — poscia —  di questi sensi comuni di popoli o nazioni tra loro tutte è  la sapienza del genere umano » (1). La quale, per ciò,  mane, evidentemente, come il principio informatore « delle  utilità o necessità umane uniformemente comuni a tutte le.  particolari nature degli uomini » (2): il frutto — avrebbe.  qui detto lo Hegel — dell'astuzia della ragione. Giacchè, n  sostanza, cotal « principio universale », o Divina Provvi-  denza, non è, pel Nostro, che, per l'appunto, « / agwadità  dell'umana ragione in tutti, ch'è la vera ed eterna natu  umana » (3): val quanto dire, più semplicemente, « 2°  dello spirito », il quale soltanto, in verità, è il princi  reale ed assoluto che « informa e dà vita a questo mondo  di Nazioni » (4).   E, poichè, intanto, la lingua è l’espressione più univer.  salmente intelligibile e sicura dell'attività spirituale, è  turale e conseguente ammettere, che, qualora essa voglia  rimaner, davvero, una forma espressiva wrzversalmente e e-  cessariamente intelligibile, debba recare quei due medesir  caratteri, o froprietà primarie, riconosciute all’attività spi  tuale. Onde la necessità — intesa bene dal Vico — di  collegare — com'egli fa — i due motti che per lui voglio  rispettivamente esprimere il carattere di universalità e ne    di  (1) Ibid. p. 46. Cfr. anche Degnità XIII : « Il senso comune è un giudi;  senza alcuna rifessione, comunemente sezzizo di tutto un ordine, da tutto |  popolo, da tutta una Nazione, o da tutto il Genere wmano ».  (2) Ibid. p. 46.  (3) Ibid. p. 178.  (4) Principi di Scienza Nuova Il, p. 226, vol. 2°, Ed. Gaspare Truffi  Milano, 1830.    J  N  i    CI    EPA AR,    i Da        cessità del linguaggio: «a /ove principium Musae » — col   quale, addirittura, egli apre la Scienza Nuova — e « as   gentium, © sia la favella immutabile delle nazioni », a quel-  l’altro motto, espressivo dell'universal principio ch'è lo spirito :   « Jovis omnia plena ».   Ed ecco, così, nell’ « Z4ea tutta chiusa » in questi tre  motti — i*primi due dei quali, già, possono dirsi bene sot-  tintesi, o sinteticamente ricompresi dall’ ultimo — quella  chiave maestra, — l’espressione per immagini allegoriche —,  col suo mirabile segreto, — il carattere di unzversalità —,  che ci consente, senza dubbio, la più coerente e stupenda  visione sistematica di tutto quel complesso di verità e prove   ti di fatto intorno all'origine, essenza e sviluppo della lingua,   che ci rivelò e dette, davvero, una scienza z%ova.   E, in realtà, non si può negare che il carattere o va-  lore intelligibile della lingua o della conoscenza intuitiva,  . ch’è lo stesso, è strettamente dipendente e correlativo alle  « modificazioni della nostra medesima Mente umana » (1).  E poichè questa raggiunge il suo pieno sviluppo a traverso  tre fasi — che preannunziano i #re stati del Comte —, non  sono, per ciò stesso, da ammettere tre diverse forme o gradi  di conoscenza poetica o intuitiva? Quella della prima età,  detta « divina », in quanto « comincia dagli Dei », « con  gli auspici di Giove », e, fatta, per ciò, tutta di « parlari  divini... ritruovati dai Poeti Teologhi », che ben « s' inten-  devano del parlare dei Dei » (2). E quest'età « continuan-  dosi — in un secondo momento — per g/i ZEro:, » dette  luogo alla « sapienza eroica », per ricongiungersi, infine,  « col tempo storico certo delle nazioni » ; tempo in cui si       (1) II p. 178 Vol. I°.  (2) I pp, 193 e 226; II p. 221, Vol. I°.          ù  =  o”).  "    dda                            ebbero, appunto, quei « parlari per rapporti naturali, che  dipingono descrivendo le cose medesime che si vogliono espri-  mere : della qual lingua si ritruovarono già forniti i Dopo  greci a’ tempi di Omero » (1). i   Ora il Croce non ha del tutto schernevolmente quanto  inconsapevolmente negato ogni valore filosofico a codesta |  distinzione del Vico, distinzione che pure involgé od esprime, |  in realtà, la norma e forma, insieme, veramente fondamen-  tale ond'è governato e si esplica lo sviluppo della cono-  scenza, e rimane, altresì, una delle più comuni verità della.  nostra esperienza ? Infatti, che cosa vuol dire, qui, il Vico,  tenendo bene presenti le premesse da noi dianzi a bella.  posta richiamate della sua dottrina ? Semplicemente questo.  — com’ egli, poscia, in lungo e in largo si affretta a chife  rire e dimostrare lungo tutta l’opera sua —: che i primi  uomini, privi ancora di favella, o di par/ari convenuti, non  potevano, naturalmente, intendersi fra loro che ricorrendo  — precisamente come «i Mutoli » — a « cose ed atti che  avevano naturali rapporti all’idee che essi volevano signi  ficare », come, per l’ appunto, ci provano le « cinque parole  reali » con cui Idantura, Re degli Sciti, rispose a Dario  Maggiore, che gli aveva intimato guerra (2) Man man    (1) II, pp. 193 e 226 vol. 1°. E qui, molto acutamente, il Vico nota: e  « avvenne che quasi tutti i popoli della Grecia ognun pretese essere Omero s  cittadino », fu appunto perchè, avendo questi /essuzo i suoi poemi con i mig  parlari di tutta la Grecia, ciascun popolo avvertì in questi poemi « i suoi nai  parlari », onde ritenne Omero della propria terra : il che val quanto dire:  carattere più universalmente espressivo acquistato, appunto, dalla lingua  quest’ultimo in confronto di quella di ogni altro del suo tempo.   (2) Le cinque parole reali furono: una ranocchia, un topo, un uccello,  dente d’aratro ed un arco da saettare. « La ranocchia significava ch’ esso  nato dalla terra della Scizia, come dalla terra nascono, piovendo 1’ està,  ranocchie e di esser figliuolo di quella Terra ; il 4050 significava, esso €  topo dov'era nato, aversi fatto la casa, cioè aversi fondato la gente; /’wece       SME       però, il genere umano, venendo in possesso della favella,  cominciò a sostituire alle immagini yea/ delle cose le im-  magini 272424ve di esse (1). E però — s'intende di leggieri —  queste non sarebbero mai potuto divenire mecessaziamente in-  telligibili fer #/#, qualora non avessero avuto a fondamento  un'idea universale, 0 un « pensiero (a tutti) comune », come,  per l'appunto, « una qualche cognizione di Dio o della Divina  Provvedenza », di cui, certo, essuzo andava privo. E quale  idea o cognizione più generalmente nota, o a tutti comune,  di quella di Giove, dato che «7 primi popoli erano incapaci  d’universali » (2)? Ed ecco, ora, svelato a pieno, e in tutto  il suo valore gnoseologico, il segreto della « chiave maestra >»  dell’opera vichiana: l’idea della divinità, in funzione di cate-  goria dell'uzzversale, pel suo carattere appunto di universalità.  E così « Giove nacque in Poesia naturalmente Carattere Divino    significava, avere in esso gli auspici, cioè.., che non era ad altri soggetto che  a Dio; /’aratro significava aver esso ridutto quelle terre a coltura, e di averle  dome, e fatte sue con la forza, e finalmente l’arco da saeffare significava  ch’esso aveva nella Scizia il sommo imperio dell’armi da doverla e poterla  difendere ». In conclusione, egli, Dario, « contro la ragione delle genti », gli  avrebbe portata la guerra (II, vol. I° p. 265 e I, pp. 230-31).   (1) Veggasi Degnîtà LVII, in fine: « Alla qual FaveZla Naturale (per atti  o scopi, ch’avevano zazzrali rapporti all’ idee ch’essi volevano significare) do-  vette succedere la Zocuzion Poetica per immagini, somiglianze, comparazioni,  e naturali propietà ». Questa Degnità è anche il « Principio dei geroglifici,  coi quali si trovano aver parlato tutte le Nazioni, nella loro prima barbarie »..   (2) II, vol. I p. 185. E cfr. anche Degnità XIII: Zdee uniformi nate appo  întieri popoli tra essi loro #0n conosciuti debbono avere un mwofivo comune di  vero. Ed altrove: « Col carattere divino di Giove, che fu il primo di tutti î  pensieri umani della Gentilità, incominciò parimenti a formarsi la /ineua arti-  colata con l’onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente  i fanciullini: ed esso Giove fu da’ Latini dal Yragor del tuono detto dapprima  Iovis; dal fischio del fw/mine, da’ Greci fu detto Zi03; dal suono che dà il  fuoco, ove brucia, dagli oriertali dovett'essere detto Ur; onde venne Urim,  la potenza del fuoco, dalla quale stessa ragione dovett' a’ Greci venir detto  Odpavés il Cielo, ed a' Latini il verbo Uro bruciare ». E così via ancora, per  lunghe pagine (II, vol. I°: p. 280 e seg. € Ibid. p. 317).    Ù    in    alte pet       ST-PTRE WEST]                      gie                                      tificazione, del segno con la cosa significata, per cui non  da meravigliare sia accaduto che il significato immaginativo  della radice — e noi avemmo testè occasione di convin- |  cercene — sia riuscito a cancellarsi, per non esprimere, poscia,  la parola, che il concetto. Non solo: ma giunto il pensiero.  a sì fatto grado di sviluppo, e cioè a liberarsi da qualsiasi,  schiavità rispetto alle immagini sensibili, e divenuto, per ciò |  stesso, padrone assoluto del materiale della conoscenza, è  naturale che la parola, oltre che ogni traccia del significato  radicale, venga a perdere, anche, ogni autonomia, col pren  dere a significare unicamente ciò che al pensiero importa  che significhi : diventa, cioè, quello stesso che è il segno  algebrico, perchè il concetto rimane, così, definitivamente  fissato nella sua generalità; nè basta ancora: chè essa)  acquista, altresì, la capacità di divenire il soggetto di tutti.  nessi possibili, appunto perchè scomparso in esso quel signi.  ficato radicale, che, presente ancora, avrebbe ciò reso impos=  sibile, o non poco difficile.  Si spiega, quindi, chiaro, adesso, perchè, nell’ascoltari  un discorso — come innanzi osservammo — noi, ben lungi  dal tradurre le parole in immagini della fantasia — il che  darebbe luogo è facile supporre a quale tumulto e confusione  nella mente! — riusciamo ad afferrare immediatamente, e  con tutta precisione € determinatezza, il senso di esso.  Come, quindi, la duttilità della lingua, e cioè la  scente sua perfezione e precisione come strumento d  conoscenza, non devesi essenzialmente all’ intelligenza ?  noti bene il Croce che non è per artifizio, o per la natura tut  propria dell’Aomo faer — come assevera il Bergson —  la lingua diventa, progressivamente, strumento di conosc  o attività veramente conoscitiva, col progressivo  svilu  dell'attività razionale; così come non è per artifizio o       STE       priccio che il bambino pure, coll’affermarsi anche progressi-  vamente del potere della ragione, viene via via dispogliandosi  di tutti i più bassi ed oscuri suoi istinti; ma unicamente e  necessariamente perchè solo a mezzo dell'attività razionale  — e cioè in quanto %omo sapiens : la pensi pure al contrario  il Bergson — è consentito alla coscienza umana di elevarsi  dal mondo della sensibilità a quel mondo di valori, che  è appunto il mondo dello spirito: condizione essa appunto, la  razionalità, di tutti i valori, perchè condizione size gua won  della vita stessa dello spirito.   Ora, poichè l’arte — per affermazione del Croce stesso —  è il fondamento del mondo dello spirito, in quanto, difatti,  non si può revocare in dubbio, che la espressione per 77224-  gini, o « poesia», è, « per necessità di natura »,— e lo provammo  bene innanzi —« la prima operazione della mente umana »,  e per ciò « la lingua materna del genere umano », si può,  eo ipso, concludere col Croce che gli uomini tutti debbono  ritenersi poeti ad un modo?   Eppure, oltre la grave fondamentale difficoltà, che in ma-  niera fix che mai varia, pei singoli soggetti conoscenti,  oppone la insufficiente esperienza, che, in generale, noi si ha  della vita interna delle cose, perchè ci fosse dato di cogliere  ad un modo la individualità vera e propria di esse o della vita  intima del Reale — come innanzi ampiamente mostrammo —,  non, fors’ anche, — giusto l’ altro grave impedimento posto  in luce dal Bergson — « fra la natura e noi (che dico? fra  noi e la nostra coscienza) s'interpone un velo — velo spesso  per gli uomini comuni, velo leggero, quasi trasparente per  l'artista ed il poeta » (1)?   Quel velo che, impedendoci, ‘naturalmente, di farci vedere  e comprendere le cose per sè stesse, ce le mostra, invece,       (1) 7 Riso pp. 142-143; Laterza, Bari; 1916.       ea    DETTO,  \    o   VI   d   *   Y   A  Ti,  A       TRES                                  unicamente sotto « il rapporto che esse hanno coi nostri  bisogni >, e punto, già, nel loro naturale clinanzer, o tendenza |  che le trae a perseverare nel proprio essere. Di guisa che,  di solito, noi non vediamo e sentiamo del mondo esterno |  che solo ciò che i nostri sensi ne traggono per illuminare.  la nostra condotta, e, quindi, essi non ci « danno della realtà |  che una semplificazione pratica », così come noi non cono. |  sciamo, ugualmente, di noi stessi « che quello che affiora alla  superficie e prende parte all’azione, e cioè non altro che È  lo « spiegamento esterno » della nostra coscienza, e non già  «i nostri stati d'animo che si nascondono a noi in quello che i  hanno di intimo, di personale, di originalmente vissuto » (1 e.  Di conseguenza noi saremmo stati realmente « Zulli artisti, »  solo se la realtà avesse preso a « co/pire direttamente i  nostri sensi e la nostra coscienza », e, quindi, fossimo potuto.  «entrare in comunicazione immediata con le cose e noi stessi »,  giacchè, in tal caso, la nostra anima sarebbe riuscita a vibrare  « all’ unisono con la natura » (2).   E come, in realtà, negare che codesto velo abitualmente  ed istintivamente — se non fatalmente e inevitabilmente, secondo  il Bergson — si interpone davvero tra la natura e noi, e fra.  noi e la nostra coscienza, ed è spesso, certo, fra gli uomini  comuni, e leggero e quasi trasparente per gli artisti e poeti,  per non ritenere tangibile, a dir così, l’ assurdità dell’ affe  mazione crociana: che noi si sia #ut: poeti, e ad un modo   E sì che è anche comunemente noto, in quanto cano  fondamentale per l’arte e per la vita di essa, — e dal Cr  per giunta, come da niun altro, forse, di continuo ricordai  — che l’opera d’arte dev'essere spoglia di ogni fine inter       (1) Ibid. p. 145.  (2) Ibid. p. 142.       2190902       sato che non fosse, appunto, la più adeguata e genuina  espressione o rivelazione della vita intima del Reale, ragione  per cui diciamo, a tal proposito: che l’arte uéto fa e nulla  si scopre, se non appunto tale intimità di vita delle cose.   E allora? i   Allora risulta in ogni modo evidente, che se il Croce  — che pure ha scritto un enorme trattato di Logica — avesse  avuto una cognizione chiara ed esatta dei processi logici onde il  nostro pensiero tende — come ampiamente vedemmo innanzi —  ad affermarsi, appunto, compiuto e coerente organismo logico,  indubbiamente, prima stesso di negare ogni valore alle forme  grammaticali del linguaggio, egli si sarebbe ben guardato  di non riconoscere alcun valore alla distinzione delle tre fasi  di sviluppo dell'attività conoscitiva. Fasi, che, in verità, noi  possiamo ridurre senz'altro a due, in quanto, produttrici  entrambe, le due prime, di espressioni per #rasporto o meta-  foriche, la distinzione fra esse viene ad essere, naturalmente,  puramente empirica : e, per ciò, mentre l’una — sintesi delle due  prime — rimane creatrice di « roi poetici »: frutto, appunto,  d’intuizioni per serzgdianza di cose conosciute ; l’altra affermasi  creatrice d'immagini proprie: frutto di diretta intuizione della  realtà.   Ora, con tal riconoscimento, è chiaro che il pensiero  crociano avrebbe evitato senz’ altro di cadere in una posizione  davvero sconciamente contradittoria. Giacchè, mentre, da  un lato, egli ammette bene, col Vico, che alle origini il  pensiero umano, « non saffiendo la causa delle cose, » non  può, di zecessità, non intuire o concepire la realtà che per  immagini (e solo metaforiche, già), ragione per cui l’uomo  non può, originariamente, non essere foeta (e cioè facitore  appunto o creatore d' 272722g7777,come udremo più in là proprio  dal Nostro), dall’ altro, contrariamente al Vico, e, quindi, in    Fi    RARO VAL    ARE    cn    pp o ped Be 5          iti vien ile    x    he Masi RUE ITA TIA RITA  fg AI #i%    Mes E                                      contradizione con tali premesse, prende senz’ altro a con-  cludere che l’arte (frutto, adunque, per quest’ultimo, della  seconda fase di sviluppo del pensiero, o, possiamo dir pure,  del secondo momento dialettico del pensiero, in sintesi, già,  col primo, giacchè solo allora, in verità, esso riesce a creare  le immagini proprie delle cose o della realtà) è « il momento È  della barbarie e ingenuità dello spirito »: come dire quel  tale « persar da bestie », tutto proprio di quel primo momento, —  in cui, « per recessità di natura », — € necessità insupe-  rabile — lo spirito non può creare che per simzglianza di  cose conosciute, e, per ciò, non altro che #raslati. E cioè quei |  tali « #ropi poetici», 0 immagini metaforiche, o figure retoriche,  che nessuno, mai, più recisamente e convintamente del Croce  ha dichiarato « zon arte », anzi addirittura « arzzartistiche » 1   Ed è così che si ragiona? E valeva, allora, la pena,  tanti anni sono, di mettere il mondo a rumore con quella |  crociata, veramente, e così 7zzz0rosa, contro lo studio, nelle  nostre scuole, della retorica, o anche solo contro la più sem-.  plice considerazione generalmente accordata alle immagini  retoriche, se queste, evidentissimamente, sono originarie quanto  necessarie forme successive di sviluppo del pensiero conoscitivo, |  e per ciò frutto proprio del primo momento, quello appunto  di barbarie e ingenuità dello spirito, incapace, com’ esso è  tal momento, sia « d’ intendere il ro delle cose », che —  « appellar (queste) con voci propie » ? Onde un esprimersi,  naturalmente, solo « con metafore attuose, simiglianze ». Quindi, più  eterna di così, in quanto tale, davvero? Giacchè, infatti, « fer  necessità di natura », la mente umana in entrambe le fasi o    (1) I, p. 39.       = it, Za GEA    e IT.    Si Pu —-    =>,    se |  ”    e SVIENE SI e_N II    Cap FA  e    na al    sti RETTE    eeti    sas                           momenti di sviluppo della sua attività conoscitiva, non può |  — abbiamo visto — riescire ad esprimersi altrimenti che dex  immagini. Ma non per questo, però, le due specie d’ imma:  gini, o forme d’ espressione poetica, dei rispettivi due momenti, —  sono senz’ altro da identificare; giacchè le immagini assolu- b  tamente allegoriche — e, per ciò, del tutto fantastiche della | a  « Metafisica poetica » : espressione propria del fr7720 momento ;  — rimangono sempre, pel Nostro, di fronte a quelle del tutto  « ragionate della « Logica poetica » : espressione del secondo  momento — frutto genuino di un « fersar da bestie », ch îa  per ciò appunto, oggidì, afpera intendere si può, affatto imma:  guare non si fuò. Giudichi, quindi, ognuno, con quanto  arbitrio ed insensatezza il Croce ha preso a identificare le  due forme d' espressione, onde di rimbalzo, nel campo de  cultura (dove, purtroppo, per inerzia o per incapacità mentale, È:  si reputa ed usa in genere di pezsare e sapere col giurare  in verba magistri, anche se, talvolta, il maestro è tale, com  non di rado oggidì, cui, a nostra volta, « saria vergogna ess  maestro +) quella orrenda confusione tra Arte e Poesia, pi  cui anche persone dell'altezza mentale, per esempio, di t  Cesareo (che può vantare, fra altro, anche lui la concezia    di un saggio sull’ Arte) è giunto — con un’ ingenuità  dovrebbe essere del tutto impossibile in un uomo di cultu  veramente — sino ad affermare: « quella dell’uomo de    caverne poeta è una figurazione graziosa ma alquanto can- |  zonatoria » (I).  Canzonatoria?!! E perchè, di grazia? Avrebb'egli pretes  per caso, che quell'uomo, più che fer immagini, e come alt  mai sublimi divine — nel senso vichiano, già: e cioè del tu  metaforiche — si fosse espresso per concetti, e magari add    (1) Saggio sull’Arte creatrice : pag. 238, Zanichelli, Bologna.       RIVE, et       rittura nella maniera concettuale dello stesso maestro dell’ 27/0  puro, od anche dei suoi « cuccioli metafisicanti », dato che  a questi riesce in particolar modo impossibile concepire la  realtà per immagini ? Tanto vero, che se, talvolta, vi si pro-  vano, chi non sa — per confessione loro stessa — quali  immagini « plebee » vengon fuori (1)?   Ora tale confusione, e nei domini della più alta cultura,  non prova, evidente, che il concetto di poesia, qual'espressione    x    puramente per immagini, non è stato fin qui, ch'io sappia,    (1) E, in verità, come mai il Cesareo, che, col suo Saggio su 2° Arte  creatrice, ha pur creduto di poter fissare i lineamenti di una nuova Zsfefica  ben diversa da quella del Croce, e pigliando, già, anche lui, le mosse dalla  filosofia del Vico, la quale, al pari del primo, egli pure ha creduto di poter,  qua e là, correggere ed integrare, abbia, nondimeno, finito coll’ intendere anche  lui il concetto vichiano della poesia precisamente a mo’ del Croce, e non già  nell’accezione mille volte datane dal Nostro di immagine allegorica o meta-  forica, io non son riuscito a comprendere. E sì, per giunta, che anche in  questo caso il Vico, come prevedendo l’obiezione del Cesareo — come, già,  l’altra del Croce — non ha mancato nè pure di indicare esplicitamente le ra-  gioni per cui la poesia nacque prima della prosa. « Da tutto ciò — e cioè dalla  prova datane innanzi del carattere origizario e necessario delle figure retoriche,  per cui |’ indistru/tibilità di queste — sembra essersi dimostrato La Locuzione  poetica esser nata per necessità di natura umana prima della prosaica ; come per  necessità di natura umana nacquero esse Favole Universali Fantastici, prima degli  Universali Ragionati, 0 siano Filosofici ; i quali nacquero per mezzo di essi far/ari  prosaici ; perocchè essendo i Poeti innanzi andati a formare la Zavella poetica  con la Composizione dell’ idee particolari, come si è a pieno dimostrato ; da essa  vennero poi i fofolî a formare i parlari da prosa col contrarre in ciascheduna  voce, come in un gezere, le parti, ch’aveva composta la favella poetica ; e di  quella /rase poetica, per esempio, mi bolle il singue nel cuore, ch'è parlare per  propietà naturale e/erza, ed universale a tutto il Genere Umano ; del sangue del  ribollimento e del cuore fecero urna sola voce com’un genere che da’ Greci fu detto  oouazoi, da’ Latini #ra » dagli Italiani co//era. Con ugual passo de’ geroglifici  e delle /eflere volgari, come generi da conformarvi innumerabili voci articolate  diverse, per lo che vi abbisognò fior d’ ingegno : co’ quali gezeri volgari e di  voci e di lettere, s'andarono a fare più spedit: le menti dei popoli, ed a for-  marsi astrattive ; onde poi vi si poterono provenir i Zi/osofi, i quali forma-  rono i gereri intelligibili : lo che quì ragionato è una particella della. Storia  dell’idee » (II, p. 288 e seg. vol. I°).    cita    e e    bd Sa    id  dtt       bici e di  dii    sΠ   #       te    orti Ja    NOI alt    s  Ù  4  î  À  *  »)  5  x  "  A  i    re cs = dee la 7 faro fida: -    0h =                                           compreso mai da nessuno? Giacchè, generalmente, s'è preso  ritenere — come si ritiene — poesia, unicamente le espressi  per versi, strofe, rime ecc., che non solo — udimmo dal Vico —  furono le x/#me espressioni della « Ragion Poetica », quan  altresì, può darsi bene il caso che con tutto ciò, e cioè  più sonori versi di questo mondo, non si riesca punto a f  della poesia, e cioè creare un organismo di immagini (  goriche o proprie che possano essere), e solo, invece,  organismo puro e semplice di concetti (1).    (1) Infatti non si ritiene, forse, poesia, ed essenzialmente tale, da  l’opera capitale di Lucrezio, sol perchè espressa in versi, e punto tale i  loghi di Platone, a' quali possiamo aggiungere quelli del Leopardi, non  che l’opera capitale dello Schopenhauer, in quanto la vincono, e senza  paragone, sulla prima, per ricchezza e potenza espressiva delle immagini?   E, tuttavia, andate a dire nel campo della cultura che queste ultime 0  sono poesia ben più vera della prima, e — cosa più mirabolante ancora —  esse sono, ad un tempo; opera d’arfe, appunto perchè le immagini ond?’e  esprimono la vita del Reale, oltre che singolarmente proprie, nutrite, anci  più che mai di fersiero, invece che di puro senzimento, come dal mondo  turale, in genere, e dal Croce, in particolare, si pretende debbano esse;  immagini dell’arte! Si vedrà alla fine di questa nostra indagine critica a  profonda rivoluzione filosofica ha tratto il nostro pensiero codesto nuovo  cetto dell’arte, nel riesaminare — che a noi, di conseguenza, s’ impose —  stregua di cotal nuovo suo fondamento conoscitivo, tutti gli altri proble  pensiero, che comunemente noi diciamo massimi : rivoluzione, peraltro, implii  idealmente nello stesso pensiero del Vico, inteso, già, nel senso da no:  quì indicato, con le stesse sue parole. Infatti, non escludeva egli, testè,  quivocabilmente, la conoscenza logica quale funzione origizaria, 0  conoscitiva del nostro spirito, non essendo essa, per lui, che una mera  plificazione pratica, od espressione puramente schematica della conoscenza |  tiva? e cioè — per dirla con le stesse sue parole — una forma « co  delle « parti » della favella poetica, in quanto « composizione delle 3  ticolari » (0 note predicative, diremmo noi oggi) delle immagini intuiti  ciascheduna voce, come in un genere » : il corcezfo, appunto ? Il che, d’al  in maniera inoppugnabile mostrammo anche noi, innanzi, per nostro  Quindi forma vera e propria di conoscenza, 0 conoscenza veramente 0  del nostro spirito, unicamente quella iniziva, che raggiunge appunto la.  piena sua adeguatezza e compiutezza nelle immagini proprie, 0 dell’a  ragione per cui, anche, il Nostro credè di darle lo stupendo quanto          af. po       Eppure, fin dai suoi tempi, il Manzoni non solo av-  vertì — come ricorderemo più dltre — che il canto desti-    appellativo di « lingua maferna del genere umano », escludendo eziandio, così,  che, in quanto tale, possa esservene un’altra.   E, poi, la stessa /ogica interna della dottrina estetica del Croce — pur  affermando egli il contrario a parole — non trae, furse, alla medesima con-  seguenza ? Egli ci disse, infatti, innanzi, che il concetto è inconcepibile, fuori  dell’ intuizione, o immagine, perchè quivi soltanto, e « in nessun altro luogo »,  il suo « aere spirabile », salvo ad ammetterlo «in un altro mondo che non si  può pensare e perciò non è ». Non solo, ma chiedendosi anche altrove: « Che  cosa è la conoscenza per concetti x ? risponde: « È conoscenza di relazioni  di cose, e le cose sono intuizioni ». E continua: « Senza 2e intuizioni —  quindi — 207 sono possibili î concetti, come senza la materia delle impressioni  non è possibile l’ intuizione stessa » (Breviario p. 66): onde la conseguenza,  ‘perfettamente i regola: che l’attività logica, dipendendo inevitabilmente da  quella estetica, viene ad essere effettivamente quest’altra attività, serbando,  quindi, in fondo, un’ esistenza puramente putativa o convenzionale. Conse-  guenza — intendiamoci — che deriva direttamente da un principio, e del tutto  bene fondato, affermato dal Croce stesso: « un'attività il cui principio dipenda  da quello di un’altra attività, è, effettivamente, quest'altra attività, e ritiene  su sè un’esistenza puramente $u/afiva o convenzionale » (Brev. p. 78).   Come, quindi, è mai possibile ammettere, logicamente, altra conoscenza  se non solo pulaliva o convenzionale — com'è di fatto la conoscenza per con-  cetti — oltre quella intuitiva o per immagini, e riconoscerle, per giunta, un  « grad » » o valore conoscitivo superiore, a quello stesso di quest’ ultima, col  ritenerla il « secondo gradino » della conoscenza, nel tempo stesso che la  « suprema istanza » del pensiero? Ma se le intuizioni, — s’è pienamente ri-  conosciuto —, quali immagini $rogrie delle cose o della vita del Reale, ci  dànno già una conoscenza perfettamente adegzaza e compiuta del loro obietto,  e, per ciò stesso, di carattere universale e necessario ; e, intanto, codesto va-  lore universale e necessario — val quanto dire essenzialmente /ogico — non  devesi, naturalmente, che al concetto « implicito » in esse, qual’ espressione  appunto dell’« essezza delle cose », tanto più che il concetto non può trovarsi  od esistere « 7 nessun altro luogo » fuori delle intuizioni; è lecito sapere  come e dove si potrebbe e dovrebbe trovare altra e superiore conoscenza fuori  ed oltre di questa offertaci dalle immagini intuitive? Solo, certo, « 72 x altro  mondo che non si può pensare e perciò non é ».   — Ma — potrebbe qui opporre il Croce — la conoscenza logica o per  concetti non è, forse, conoscenza di re/azioni di cose, a differenza dell’ altra  per immagini, ch’ è intuizione dell’essezza delle cose ?   — Sia pure. Ma non è altresì vero che «l’operazione — da parte della  nostra mente — di sciogliere i fatti espressivi (od intuizioni) in rapporti logici       %    an * Ae    Ue rp    i       +0                                             nato a vivere eterno è quello che la lingua trae dal « fe  profondo », quanto, altresì, che « /a poesia contata per nu    — per raggiungere appunto la conoscenza delle relazioni delle cose, e pass  così, dal primo al secondo gradino della conoscenza: e cioè dall’ arte  filosofia — si concreta, a sua volta, — per affermazione sempre del Croc  e ce lo mostrano, peraltro, ix concreto tutte le più grandiose, geniali Wezta  schauungen, o intuizioni della vita del mondo, che noi dobbiamo all'arte —  in un’espressione » ? E l’espressione non è arte, o intuizione, e punto, già, ;  sofia, quindi affatto wferiore grado di conoscenza ?   Ed affermare, intanto, che « il pensare scenzificamente prende di neces.  una forma estetica », non è, semplicemente, una contradizione in fermi  posto che l’espressione od intuizione non può în nessun modo contenere  pensiero scientifico, e cioè quelle astrazioni a cui essa — per dichiarazioni  Croce sempre — « estremamente ripugna, anzi mon conosce nemmeno > #9]   Sono contradizioni, queste, sì stridenti ed insanabili, evidentemente,  cui solo la mente del Croce è in particolar modo capace, come abbiamo vi       sin qui.  Rimane, così, pienamente assodato, che per la stessa /ogica interna de  dottrina estetica di quest'ultimo — e ce ne assicurerà egli non meno de  mente e inconfutabilmente anche più oltre, in più altri modi — non  originariamente, e per ciò stricto sensu, che un’ zziea forma di cono  e suprema istanza, già, essa stessa, del pensiero : la conoscenza per imm  poichè l’altra per concetti è, in realtà, meramente pufaliva o convenziona  il Croce ha creduto di far ammettere anche al Vico un secondo gradino  conoscenza, solo per aver egli preso a scambiare, nell’ interpretare la filo  vichiana, il secondo momento dialettico dell’attività conoscitiva (7r24%i%v4 s  — che, in sintesi col primo (la goesia), ci dà le immagini proprie dell’ar  cioè la forma conoscitiva più adeguatamente piena e compiuta che sia  di raggiungere al nostro pensiero — con un grado per se stesso wlferior  formalmente diverso della nostra attività conoscitiva. i  E sì fatte illusioni di ottica mentale — proprie del Croce, anche — si deb  principalmente a quella gioconda quanto facile sua trovata — per interpreti  suo dire, il pensiero degli scrittori antichi — di quel tale dialogo — di.  parla proprio nell’Avvertenza a La filosofia di G. B. Vico — « dialogo tl  antico e nuovo pensiero nel quale solamente l'antico pensiero viene inte  compreso », col piegarlo, — com’egli usa —, puramente e semplicemi  fargli significare ciò ch'è soltanto nel cervello di lui e punto già nel p  o nella dottrina di quegli scrittori, onde la piena assoluta sua convinzio  aver egli, così, e come altri mai, infallibilmente inteso e compreso il  di quelli, non senza — peggio ancora — far appello, quando occorra, all’    illusioni, proprio come nel caso in quistione.        ,  ri       — 101 —    di sillabe deve finire, rimanendo eterno il suo spirito nella  prosa ».   Ed il Tommaseo, che gli aveva dato sempre ascolto, in  quell'occasione non seppe tenersi > come, in altro modo,  oggidì il Cesareo — dal ribattere : « Il metro, il metro ancora  più che il ritmo, è un bisogno, non tanto del senso quanto  dell'anima umana e della ragione stessa, che, come imma-  gine di Dio, ama le cose in misura ed in numero ».   — « Quale stranezza! — nota, a sua volta, il Borgese —.  Che c’ entra l’infinità di Dio con le dieci o undici dita, coi  numeri della prosodia scolastica e della tombola di famiglia ?...  Lo spirito si espande, elude regole e strettoie; le dighe fra  prosa e poesia cadono; la prosa diventa il grande organo a  mille canne da cui la ragione parla e il cuore canta ».   E con ciò — si noti — nonsi vuol concludere che « la  poesia contata per numero di sillabe » debba necessariamente  perire. Le matematiche sublimi non aboliscono l’ abaco, la  danza delle sfere non prescrive i ballabili, e l’ alto giardi=  naggio ammette i fiori che si contano per numero di petali.  Bene, quindi, può nascere la pagina del cielo di burrasca  sopra il Lazzaretto nel capitolo xxiv dei Promessi Sposi; e  accanto ad essa può sopravvivere, o vivere, il semplice stornello.   E non, forse, lo stesso « Canto » e perfino il « Verso»,  come, già, tutte le figure retoriche, formano, pel Nostro,  parte di « tutta la suppellettile della favella poetica » ? Penul-  tima forma espressiva, infatti, della « agion Poetica » fu  « il canto e per w/timo il verso » (1). Ed è ben noto, invero,  che «i mutoli mandan fuori i suoni informi carzando ; e gli  scilinguati pur cantando spediscono la lingua a pronunziare »(2);  e che, in generale, anche, « gli uomini sfogano le grandi passioni    (1) Degnità LXII.  (2) Degnità LVIII.          — 102 —                                dando nel caz/0, come si sperimenta ne’ sommamente addolorati  et allegri » (1), E però, mentre, in un primo momento, gli |  « uomini mutoli dovettero.... come fanno i mutoli, mandar  fuori le vocali cantando; di poi, come fanno gli scilinguati, 3  dovettero, pur caz/ando mandar fuori l’ articolate di consonanti.  Di tal primo canto de’ popoli fanno gran prova i dittonghi È  ch'essi ci lasciarono nelle lingue; che dovettero dapprima  essere assai più in numero; siccome i Greci e i Francesi, *  che passarono anzitempo dall’età poetica alla volgare, ce  n'han lasciato moltissimi, come nelle Degnità si è osservato; |  e la cagion si è, che le vocali sono facili a formarsi; ma le  consonanti difficili; e perchè si è dimostrato che tai primi La  uomini stupidi, per muoversi a proferire le voci, dovevano  sentire passioni violentissime, le quali naturalmente si spiegano — |  con altissime voci; e la natura porta, ch'ove uomo a/zi assaî |  la voce egli dia ne’ dittonghi e nel canto, come nelle Degrità  si è accennato ; onde poco sopra dimostrammo, i primi uomini.  Greci nel tempo de’ loro Dei aver formato il fri0 verso  eroico spondaico col dittongo ra, e pieno due volte più di  vocali, che consonanti ». E codesto « primo verso.... dovette  nascere convenevole alla Lingua ed all'età degli Eroi, qual È  fu il verso eroico, il più grande di tutti gli altri, e propio  dell’ Eroica Poesia; e nacque da passioni violentissime di spa- 1  vento e di giubilo, come la Poesia Eroica non tratta che Ri #  passioni perturbatissime ». E nacque, anzitutto, « sfondaico » } I,  « dappoi facendosi i% spedite e le menti e le lingue, v’ ammise  il dattilo; appresso spedendosi entrambe vieppit, nacque il Bi  giambico, il cui piede è detto presto da Orazio, come di tali    Ti    n  %   —P  #9  ”  se    (1) Degnità LIX. E continua: « Queste due Degnità, supposto che gli Mai  autori delle Nazioni gentili eran andati ’n uno stato ferino di destie mute; —  e che per quest’ istesso da/ordi non si fussero risentiti, ch’a spinte di violen-  tissime passioni, dovettero formare le prime loro lingue cantando ».          di  i  4    — 103 —    Origini si son proposte due Degrità; finalmente, fattesi quelle  speditissime, venne la prosa; la quale, come testè si è veduto,  parla quasi per generi intelligibili ; ed alla prosa il verso giambico  s'afpressa tanto, che spesso 7ravvedutamente cadeva ai Pro-  | satori scrivendo. Così il canto s'andò ne’ versi affrettando  coi medesimi passi, co' quali si spedirono nelle Nazioni e le  lingue e l’idee, come anche nelle Degwità si è avvisato, Tal  Filosofia ci è confermata dalla Storia » (1).   Ed è perfettamente vero. Perchè noi, pur avendo seguìto  altra via del tutto diversa dalla sua, siamo pervenuti alle  medesime conseguenze.   Non, quindi, ha ben ragione anche il D'Annunzio di  affermare, e del tutto sprezzantemente: « Io sono di continuo  minacciato dal sistema metrico decimale dei pesi e delle misure.  Sono di continuo sospinto verso la bilancia e verso la stadera,  verso l’endecasillabo e verso l’ottonario, verso le clausole  ciceroniane e verso le cadenze predicatorie.   Odo vantare la coscienza, odo celebrare l’ inspirazione,  odo affermare la rivoluzione.   Il mio sorriso persiste; e fa rilucere intorno a me le  carrucole perpetue e le rotaie inflessibili » (2).   Ma che farci, se, pur troppo, — come giustamente asse-  vera il Borgese — non si dà, in generale, verità quanto si  voglia decisiva, che riesca a sradicare del tutto un errore;  fosse pure il più secco e stremenzito? E, di fatti, il rivelarsi  e progredire della verità non raggiunge altro effetto che  quello, soltanto, di rendere più secchi e noiosi gli errori! E  non, forse, perchè codesti errori sono in particolar modo alimen-  tati e mantenuti in vita proprio da coloro che prima e più degli  altri dovrebbero ripudiarli e concorrere a farli ripudiare, in    (1) II, pp. 290 e seg. vol. I°.  (2) Per l’ Italia degli italiani: p. 40 - « Bottega di poesia» - Milano.       VER” g° CE TAI    Py  9  È    ERO POTTER REI TI  Ma i /                                          — 104 —    quanto ritenuti, essi, con qualsivoglia fondamento, maestri — È  del: pensiero, rimangono essi proprio i più tenaci e pervi=.  caci propagandatori fra i proprî discepoli o seguaci? Infatti,  non, forse, proprio Giovanni Gentile — che prima e più calo- È  rosamente di ogni altro, anche, prese a giurare 27 verba  Crucis, coll’ affermare che « il maggiore studio che ci sia i;  intorno al pensiero vichiano » è precisamente quello del    Croce — ha continuato e continua imperterrito ad alimen- È    tare il grave errore in quistione? E come egli, che ha pur  letto e meditato tanto la filosofia del Vico, sia riuscito ad  intenderla e comprenderla proprio nello s/esso modo del Croce  _ come mostreremo altrove — lo sa lui. A_ noi qui, ora,  preme soltanto far notare, che se egli fosse riuscito a cogliere  il significato filosofico e valore conoscitivo della famosa « chia  maestra », o « principio primo » di quella filosofiia, avrebbi  subito compreso, persuadendosi senz’ altro, che se Gabriele  D’ Annunzio — ad esempio — non avesse scritto pur un  verso, ma solo i romanzi a noi noti, egli sarebbe rimast  ugualmente il più prodigioso poeta che abbia mai visto la stes  prima età del genere umano: e cioè il più sublime, divino   quanto inesauribile creatore d'immagini: immagini che em co  gono singolarmente mirabili non solo da brevi insieme di vo  ma quasi, anche, da ogni singola voce, allorchè, almeno, que  sono di sua creazione. E ne abbiamo, tante, in verità, cre  da lui singolarmente immaginose; onde, non a torto, egli  ferma di sè: « #ulto m'è visione, e tutto m'è simbolo ». Ma il  D'Annunzio, però, è anche artista, oltre che poeta, e arti st  non meno possente del poeta, per quella « divina proporzioi  che le immagini da lui create recano insuperabilmente,  insuperabilmente, per ciò, immagini proprie delle forme de  realtà, che esse ci vogliono raffigurare, dato che la «   porzione » — a dire del Croce stesso, che ripete sempi       — 105 —       mente un concetto del Vico — è la caratteristica fondamen-  tale delle immagini deil’ arte (1). Ciò posto, come o donde  la esilarante conclusione del filosofo di Pescasseroli : che l’ arte  può ritrovarsi, anche, in un organismo intellettivo o di con-  cetti, e questo, per ciò, irdifferentemente, può ritenersi arte  o scienza, a seconda che si prenda a cortemplarlo od esami-  narlo nella verità che esso esprime ? Uditelo un pò: « Ogni  opera di scienza è insieme opera d’ arte. Il lato estetico potrà  restare poco avvertito, quando la nostra mente sia tutta presa  dallo sforzo d'intendere il pensiero dello scienziato ed esa-  minarne la verità. Ma non resta più inavvertito quando dall’  attività dell’intendere passiamo a quella del contemplare, e  vediamo il pensiero o svolgersi innanzi limpido, netto, ben  contornato, senza parole superflue, senza parole mancanti,  con ritmo e intonazione appropriati, ovvero confuso, rotto,  impacciato, saltellante » (2).   Il che significa, dunque, nè più nè meno, che /’ immagine  ed il concetto, e cioè un « fantasma lirico, e un « pensiero    (1) Il Vico, infatti, nell’orazione in morte di Angela Cimini, richiaman-  dosi — come di frequente — al concetto proprio della poesia, la quale —  udimmo — raggiunge, per lui, il sommo divino suo artifizio allorchè, a somi-  glianza di Dio, dalla nostra idea diamo l’essere alle cose che non lo hanno,  tiene a chiarire e precisare : quelli’ Idea, però, che impossidil cosa è esserci  venuta in mente jer li sensi mortali (come le nostre proprietà) i quali, quanto  s' intendono di tutt’altre cose de’ corpi #2n/0 z0n san nulla affatto delle certe  misure e proporzioni de’ corpi onde forse per ciò i valenti dipintori che sanno  l’ ideal bellezza in tela ritrarre hanno il titolo di divizi » ve di quì 1’ espres-  sione : «divina proporzione » ricavata dal Croce. Il che vuol dire, in termini  nostri, che solo allorquando noi riusciamo colla nostra mezze, o riflessione, più  che coi sensi, a cogliere l’ espressione propria o caratteristica delle cose, la  quale viene a noi fornita unicamente dalla ricerca dell’ordize e valore logico  delle stesse loro zo/e costitutive — chè questo e non altro vuol significare,  quì, la cera misura e proporzione dei corpi — noi si raggiunge l’immagine e  conoscenza vera e propria di esse cose,   (2) Estetica» p. 30 e Breviario è p. 28.       Bien e    eg    RI 1 *    IT peleee 9 PE    NI sl a RI    IE O IA TIRATI PIPE TINI    de    VIT Lau MARTI    n    Th CAV    ; - 106 —                                    critico » sono la stessa cosa, formalmente e sostanzialmente;  come dire: maschio e femmina la stessa persona.   Infatti il Croce non inizia addirittura la sua Zstetica  proprio col richiamare la nostra attenzione sulla natura @  carattere espressivo assolutamente diverso, che distingue la 272.  magine dal concetto, in quanto la prima è linguaggio del senti-  mento, e per ciò conoscenza intuitiva o dell’ individuale, e l'altro  linguaggio dell’ z72/e//etto, e per ciò conoscenza dell’uriversale 258   Non solo, ma non aggiunge, anche, per maggior distin-  zione, che l'una rappresenta il $ri720 grado della conoscenza  e l’altro il secondo? È.   E, come, allora, — anche sotto tale aspetto — l’ux  può essere, ad un tempo, de, e il due 0? Sono, evidente.  mente, contradizioni e assurdità inconcepibili, che potrebber  nondimeno, sparire solo nel caso che si volesse ammetteri  una precisa distinzione tra forma e contenuto, sì da ritenere.  l’arte non altro, invero, che « mero involucro delle forme.  superiori e complesse » del pensiero. Cosa che il Croce, per  primo, e più recisamente che mai, nega, affermando col De  Sanctis che « il contenuto è la forma e la forma è il con--  tenuto », giacchè l’ intuizione e l’ espressione vengono « l'una  fuori con l’altra, perchè non sono due, ma uno » (1). E poichi  intanto, l'intuizione, od espressione, non può rappresentare.  che stati d' animo, vale a dire nient'altro che « la fassiozali  il sentimento, la personalità, che si trovano in ogni arte e  determinano il carattere lirico », come, per ciò stesso, e  può darci, mai, e, peggio ancora, ad un tempo, il fe  dell'artista e del filosofo, se la contradizion nol consente ?  di fatti, l’attività intuitiva od espressiva, al pari dell’ incoe  cibile potere posseduto dal re Mida di trasformare in oi    (1) Estetica » pag. 12.       — 107 —    tutto quello ch’egli toccava con le mani, non può darci,  inevitabilmente, che 7m2m0agizi, e solo immagini e sempre  immagini, e cioè a7rfe e solo arte e sempre arte.   E non, forse, proprio ciò intende affermare il Croce  stesso là ove dice che « l’espressione non si può neppure  paragonare all’ epidermide degli organismi, salvo che non  si dica (e forse la cosa non sarebbe falsa neppure in fisio-  logia), che 4utto l'organismo in ogni sua cellula e in ogni cellula  di cellula è insieme epidermide » (1)? Onde la conseguenza  inevitabile, e del tutto #2 forma, che noi, come Prometeo  sulla scizia rupe, restiamo sì strettamente ed 7 eferzo incate-  nati al 97120 gradino della conoscenza da non poter neppure  levare gli occhi a mirare, più che raggiungere, il secondo  gradino. Onde l’ assurdità, per altro verso, da parte del  Croce, di porre l'assoluta identità di arte e linguaggio, defi -  mibili luna per l altro — come dire l’arte col parlare per sè  stesso —; giacchè, mentre, da un lato, noi — in forza di  tale premessa — non possiamo raggiungere, in ess wm20do, il  secondo gradino della conoscenza, e cioè diventare scienziati  o filosofi (e, forse, per ciò il Croce non può dirsi filosofo),  dall'altro, in compenso, rimaniamo tutti ver7 e grandi artisti.  Che ve ne pare? (2).   Non senza fondamento, adunque, il Nostro affermò che  la Poesia e la Metafisica « sono naturalmente opposte fra  loro », e per ciò « non fu mai uno stesso valente uomo  insiememente e gran metafisico e gran poeta della specie    (1) Breviario ; pag. 58.   (2) Si noti che questa stessa sorprendente conclusione negativa, cui, contro  ogni previsione e intenzione del Croce, mena direttamente quanto inevitabil-  mente la /ogica interna della sua dottrina estetica, viene indirettamente —  accennai — a confermare anch'essa, e magnificamente, tutto il valore gnoseo=  logico del fondamento teorico di quella tremenda rivoluzione filosofica cui ac-  cennammo innanzi, Si vedrà, si vedrà |    sa       A    bri    L    |  1          NI CITI    NL a    MAREA    ou    Ci EI amo INT TIE    Tapi.    PH  i a    Mi Ò  Vedi  i    Tp,    mi    I  “è    Vi SA al .. e  mid e    il  gua  U    — 108 -                       massima dei poeti nella quale fu frireipe e padre Omero  E potrebb'essere, forse, altrimenti? In possesso com'è  metafisico, o filosofo, della più larga esperienza delle cose,   come potrebb'egli mai concepire la realtà al pari di coli  che è rovesciato nell’ignoranza di tutte le cose, come allorchè  si è nella « fanciullezza », per cui la « mente », tutta piena |  di « pregiudizi », vi si « immerge e rovescia dentro », mentre,    nell'altro caso, « resiste al giudizio dei sensi » e « ne fa  accorti di non fare dello spirito corpo, onde i pensieri sono 4  tutti astratti », invece che « corpulenti », come nel primo caso, |  in quanto non altro che immagiri e metaforiche (1)?   Ora, generalmente, — a cominciare da Giovanni Genti  che, oltre vent'anni sono, l’ oppose proprio a noi, recensen  la nostra opera sul Leopardi — facendosi eco alla interp  tazione. crociana del Vico, tale opposizione tra il poeta e  filosofo non viene intesa sérzcto sensu e illimitatamente?  cioè ritenendosi il poeta non già nel senso vichiano —  cui vera quell’ opposizione — di creatore d'immagini a/leg  riche, e nutrite, già, essenzialmente di « senso », quindi per  nulla verilà, o conoscenza vera, o 72 ze, perchè assolutamen    o frutto di «rz/fessione », e per ciò « arte », come potre  mai essere in opposizione con le « sentenze » o « conce  di quella « mente dritta, ordinata e grave qual a filosofe  conviene » (2), e cioè non valere conoscitivamente nè  nè meno che i concetti stessi, se questi altro non sono c  « l'essenza » astratta od estratta da quelle, onde solo  renza tra essi quella puramente /ormza/e, per cui mentri  prime sono espressioni « particolari, » o « individuate    (1) I, pp. 227-28; II, pp. 197-98, vol. 2°,  (2) II, pag. 200, vol. 2°.    ‘       =       JE. SL e a rta SETE Pr Sad e, È belt    109 —    e quindi concrete, le altre « generali + od « universali », e  per ciò astratte (1)?   Intanto è accaduto — e qui l'origine del disastroso  errore che oggi domina sovrano nel campo della cultura, in  generale, e della conoscenza estetica, in particolare — che,  compiutosi il primo passo sulla via dell’ identificazione della  poesia con l’arte, e cioè annullata ogni distinzione fra le  immagini allegoriche, prodotto di « forte inganno di fantasia »,  (per la mancata conoscenza, ancora, delle « cagioni naturali  delle cose »), e le immagini proprie, « frutto di riflessione »,  (e, quindi, conoscenza vera e propria di esse cose), s'è proce-  duto senz'altro sino in fondo, coll’attribuire a queste ultime  non solo lo stesso corzezzio delle prime, ad esse fornito essen-  zialmente dai « sensi », o dal sentimento, quanto, peggio ancora,  s'è preso, altresì, a ritenerle frutto di mera fantasia, senza nè  pur l'ombra dell’intelligenza o della riflessione, e, di conse-  guenza, senza nessun «» od « aurori  Aurorale una conoscenza che non ignora nè la trasce  medievale, nè la saggia esperienza della vita, non i 74,  menti voluttuosi o la sensibilità animalesca, al pari dell’ eroisn       (1) Breviario * pp. 41-42.  (2) Zbid. p. 90.       — 113 —    e del fersiero della morte; così la commossa dolcezza di un  amore tenero e soave, nello sfondo di una vita tranquilla e  serena, come il grido terribilmente straziante e disperato per  la infinita vanità del tutto: cioè, insomma, nessuno ignora  anche dei più vari aspetti e delle forme tutte, le più diverse,  di esperienza. della vita? E se, adunque, l’arte, pur nella vir-  ginea sua purezza di sentimento, si mostra pregna di ogwz  sapere, compreso quello vo/zttuoso, e, per di più, fornita di  un gusto, che, nella sua bocca eloquente, rivela, chiaro, la  maturità e perfin la corruzione, ed in tutto il suo essere vibra  l’aridezza di una febbre insistente che la spinge smapniosa a  spremere il succo di tutti gli ingannevoli frutti che maturano  lungo il sentiero della vita, al calore della più travagliata  esperienza umana, come si può non convenire assolutamente  col Vico che l’arte, sia per la filosofia che per la séorza,  — come ci disse innanzi — più che il momento di barbarie  e ingenuità dello spirito, è, invece, precisamente l’altro:  quello della maggiore consapevolezza e più compiuta esperienza  della vita del reale? Di fatti è solo in questo momento che è  dato alla mente umana di cogliere l’immagine vera e propria  delle cose, o il loro caratteristico, onde la più piena e per-  fetta conoscenza che, progressivamente, noi si viene ad avere  della realtà. E poichè, intanto, anche pel Croce, codeste  intuizioni che ci danno le immagini proprie delle cose sono  — udimmo — le vere e sole intuizioni estetiche, non è,  per ciò stesso, da convenire che, anche per lui, il momento  dell’arte è proprio questo e non il primo, che in wesswur  modo, invero, può darci immagini frofrse della realtà? Non  solo: ma non arriva, al pari di noi, sino ad ammettere, sia  pure a mezzo di una tremenda contradizione — come  empre allorchè gli vien fatto di scoprire il viso della verità  — che abbiamo anche una grande arte: ed è precisamente       butta sal -4    ITS. le du    dl!    -— 114 —                         quella più che mai nutrita di fersiero o di filosofia, invece | 3  che di sentimento (onde il più completo rovescio della tesi  sostenuta « 27 principio » nella sua £Zstezica? Così — ad  esempio — le « grandi tradedie del bene e del male y si  dello Shakespeare (Otello, Macbeth, Amleto, Re Lear) sono, —  per lui, — come ognuno ricorderà — senza paragone pi  pregevoli, esteticamante, che non quelle di pura ispirazione  storica (Antonio e Cleopatra, G. Cesare, Coriolano), le quali, |  a lor volta, ci attraggono senza paragone più delle « comedie  d'amore », tra cui vediamo pur grandeggiare e splendere,  mirabilmente vive, figurazioni estetiche come Giulietta e Romeo, i  Il Mercante di Venezia e simili, che non la cedono, per  intrinseca bellezza, nè pure ai più grandiosi fantasmi tragi  a dire di lui stesso. E così del Goethe: il possente fantasma  tragico di /azsf, quale espressione, appunto, di quella urgente  e mai appagata ansia dolorosa (die Sehknsucht), o di qu  profondo e segreto travaglio spirituale, che « ange e marti  la coscienza di quelle nobili esistenze, che una volontà, quasi  fatale, sospinge per entro £ profondi abissi alla ricerca deli  dimora delle Madri, e cioè dell’ /4eale, non giudica, egli, se  paragone superiore alla « bella favola di ZAermanz un  Dorothea », che pure fu oggetto del più vivo ertusiasmo,  non solo da parte « dei filosofi e dei letterati »,ma eziandio  di tutta la « brava gente: degli onesti borghesi, delle madri  di famiglia, delle zitelle e zitellone dei maestri di scuola  i quali vi trovavano ciò che essi vagheggiavano e desiderava  una esibizione di onestissimi sentimenti e di sagge opere S  l’amore che si fa subito fidanzamento, la cura dei genitori |    per la felicità dei loro figliuoli...... la virtà disavventurat:  premiata e una ricca copia di osservazioni e massime  quelle che si accolgono dicendo: — è vero — senza sfor.    — 115 —    rente paradosso. È la fortuna che una volta Hegel disse  mancare ai filosofi e abondare ai predicatori, che subito soddi-  sfano e commuovono a edificazione, perchè ripetono cose dî  cui gli spetttatori sono persuasi e che hanno familiari » (1).   Perfettamente vero, adunque, che la grande arte è  quella, proprio, più intensamente nutrita di erszero, invece  che di sentimento, onde non a torto il Manzoni credè nel-  l Urania di cantare :    pncroe sol quaggiù quel canto  Vivrà che lingua dal pensier profondo  Con la fortuna delle Grazie attinga ;    e lo Schiller, a sua volta, quasi a concludere : quello che not  oggi ammiriamo come Bellezza ci verrà incontro domani come  Verità ; onde il fondamento dell'antica credenza che il vate  o poeta fosse indovino (2).   Giustamente, quindi, noi, fin dai primi nostri scritti  sull'arte, affermammo non solo la necessità di rintracciare       (1) V. Goethe - p. 82, Laterza, Bari; e Shakespeare, (in Ariosto Shake-  speare e Corneille) Laterza, Bari.   (2) E se questa è la grande arte, come il Croce in lungo e in largo ha  creduto di mostrarci con l’esame delle due maggiori opere d’arte della lette-  ratura inglese e tedesca, è lecito sapere perchè, poi, la lirica filosofica del  Leopardi, come altra mai, forse, così intensamente nutrita di fersiero, ed  espressa, per di più, come quella di niun altro poeta, #44 per immagini, è,  per ciò stesso, da meno delle sue liriche amorose, anzi, addirittura « z0x poesia »,  contrariamente a quanto egli ha affermato per i due poeti stranieri ? E così,  anche, l’arte di Dante: perchè questa sale, e sale alto, molto alto, con le im-  magini di senlimzento, e cade, poi, cade tanto, fino a diventare anch'essa w0x  poesia, con le immagini di fersiero, sì che Padre Dante finisce col rimanere  al di sotto o da meno di Shakespeare e del Goethe ? Lo sa egli solo, il Croce,  pel quale, per ciò, del tutto erroneamente è stato affermato del divino Poeta ;    A veder tanto non surse il secondo?    Ah! la fede nel « libro tedesco..... inculcata (al Croce) dallo Spaventa e  rafforzata dal Labriola » ! (V. Contributo alla critica di sne stesso : p. 28; Laterza,  Bari). È stata davvero accecante cotal fede per lui! E potremmo dir anche  perchè, ma non occorre : può facilmente supporlo ognuno.       RE:    — 116 —                                 un assoluto criferio di valulazione estetica, quanto, al  tal criterio, invenimmo e fissammo precisamente nel grado d  universalità razionale posseduto o epresso dal motivo is  ratore dell’opera d’arte: e cioè — non si crederebbe  proprio in quell’ elemento o fattore, l'intelligenza, che da tutti  in generale, — per quanto senza piena convinzione da part  di qualcuno — e dal Croce e sua « onrevol gente », in.  particolare, viene assolutamente escluso dalla funzione crea  trice dell’ arte. E però, s' è visto anche, a parole soltanto, chè,  di fatto, colle risultanze critiche dei suoi saggi sul Goet  e lo Shakespeare, come abbiamo visto testè — oltre c  colla logica interna della sua dottrina — riconosce pienament  con noi che proprio la razionalità del motivo — comunque  si voglia, questo, sommerso o identificato colla forma — rimane  la variabile indipendente, — come allora dissi —, alla qu e  si deve la variabile intensità d’irraggiamento o potenza di  attraimento o rapimento che un fantasma d’arte, più che  altro, a parità di perfezione, o dall’ espressione in ciascuno  perfettamente Jr0fr72 o compiuta, esercita sullo spirito umani  che, in quel caso, appunto, per dirla col Goethe, viene  sentir — davvero — l'accordo con sè stesso e col mondo.   E per ciò presi a concludere senz'altro: « le int  zioni estetiche veramente sovrane son precisamente quel)  che ci danno il brivido di quell’oscuro desiderio e di q  muto anelito di redenzione dal male e di liberazione da  gioco degli impulsi inferiori, che fanno gravitare in giù  coscienza umana, soffocata dal peso greve della materia:  che, comunque, dèstino in noi anche la più debole eco di  quel profondo dramma interiore che agita e convelle diutur  namente la coscienza umana, che, affaticata dall’ indigenza.  dell’ infinito, mira al di là del finito, o del limite umano, e cio  au dela de la vie et au dela de la mort. Nessuna meraviglia,    — 117 —    quindi, che le intuizioni estetiche che prendono a celebrare  questa insuperabile antitesi cosmica, e cioè questa perenne  lotta tra l’uomo mouzzenon e l’uomo faenomenon, nel tempo  stesso che cerca d’ indagare il woisterzo eterno dell esser nostro,  riescon più di tutte le altre, o come altre mai, ad esercitare  un profondo e invincibile fascino sullo spirito umano, che,  nelle immagini d’arte espresse da tali intuizioni, vede chia-  ramente rispecchiate le sue più intime lotte e i suoi più  oscuri tormenti, le sue inconfessate debolezze e le sue più  segrete aspirazioni, le sue più dolorose sconfitte e i suoi più  nobili trionfi: e cioè, in uno, l’immagine e il destino della  propria esistenza; di quell’ esistenza, per giunta, di cui noi  stessi, giorno per giorno, ed ora per ora, veniamo liberamente  intessendo la trama e amorosamente disegnandone l’ immagine  morale e spirituale, dato che l’arte — udimmo dal Croce stesso  — altro non è, nè può essere, che espressione della vita del    Reale, e per ciò della nostra esistenza spirituale, sopratutto.    E, pertanto, noi amiamo in particolar modo — si sa — ciò  che, appunto, è frutto dei nostri liberi sforzi, e poichè l’z07z0  libero — per dirla collo Schiller -— ama è legami che lo    guidano, s' intende perchè, poi, noi prediligiamo senz’ altro —    con la stessa infinita tenerezza di un padre verso quello dei  figli, che venne al mondo sofferente — precisamente ciò il  cui possesso fè più dolorosamente, e ad ogni passo, sanguinare  i nostri piedi.   Ricordate, infatti, con quanta commozione, profonda  tenerezza e nobile soddisfazione, ad un tempo, il gentile poeta  di Barga ricorda alla sorella i tempi bui e sconsolati della  lor triste e dolorosa giovinezza?    Tu scis ut doleant gaudia nostra, soror!       — 118—                          E si noti, per di più, che il sentimento che nasce dall:  contemplazione del più arduo e più universale conflitto, al  pari di quello che accompagna e si manifesta nelle forme —  della più alta curiosità intellettuale, è, per ciò stesso, il più —  atto a tradursi in espressioni che sono le più elevate e più.  vere del sentimento estestico, Il quale, infatti, trova un estremo  eccitamento, o il massimo suo eccitamento, precisamente nell  rappresentazione fantastica della lotta impegnata dalla volontà |  e dalla passione contro la necessità dell’ ordine oggettivo.  della natura, cioè nella rappresentazione idealizzata della lotta $  per l'esistenza, val quanto dire completamente trasfigurata |  in lotta morale. Per ciò, quello stesso sentimento che, nel  dominio dell’arte, crea quelle sovrane concezioni — verament  insuperabili nel loro genere — quali sono la Commedi  dantesca e la tragedia shakespeariana, la lirica filosofica di  Giacomo Leopardi e quella della medesima natura di Wolfango br  Goethe — quello stesso sentimento crea, nel dominio della —  morale, l’azione, affermandosi come bisogno di operare, del  sperare, di combattere e soccombere utilmente, onde quell:  sottile voluttà dolorosa: dolendi voluptas, che sospinge, inelut À  tabile, l’uomo a salir d2 collo in collo, e celebrare, pur nell:  rovina e dea morte della sua esistenza Di il priag    l'elemento o fermento perenne dell’ antitesi a cosmica  E, difatti, nella Commedia dantesca, come nella trage  greca e shakespeariana, nella lirica filosofica di Giacom  Leopardi, come in quella di Wolfango Goethe, nelle quali, $;  appunto, — come Yale si accennava — Mii Sonde cosmico o°    MAE EN carl. ra”    Figi x « EI sa  (23) ta Woo sin Lei =J i. ; Pali 71    Pacs it    :—119 —    che l’opprime, celebrando, così, tra le forze avverse o paurose  della natura, e al di sopra di essa e della sua muta eternità,  il suo trionfo; e da ciò, o per ciò, le immortali speranze  che sospingono anelante e senza tregua il genere umano lungo  le vie che conducono al regno della Verità, della Bellezza  e del Bene, e cioè, per dirla in uno, al regno di Dio » (1).   Ora, cotal mondo dello spirito — dato pure che la  lingua fosse riuscita, comunque, a crearne l’ espressione — non  sarebbe rimasto — ammessa la tesi del Croce — nè più  nè meno che un nome vano senza subbietto, ovvero, — per  dirla più esattamente con parole sue stesse — « un'utopia  della specie più stolta, perchè utopia del contradittorio », appunto  perchè in quel 7290 del mondo dello spirito, ch'egli è riuscito  a raffigurarci con la sua Zstezica, base o fondamento di tal  mondo, tutto — come in lungo e in largo abbiamo potuto  constatare — ci viene fatto di trovare, razze, appunto, lo  spirito? Il quale, pertanto, — e ne abbiamo avuto, anche,  ad ogni passo la prova, nell’aggirarci criticamente per tal  regno — mai come nella sua assenza rivela la nececsità della  sua fresenza, precisamente sotto la forma altrettanto imperiosa  | quanto inflessibile della recessità logica, e cioè a mezzo, appunto ,  di quell’imperio universalmente riconosciuto, ch' è proprio del  principio di zo contradizione (2).       (1) P. Gatti: L'arte e la sua funzione creatrice: p. 174 e S€g.; Casa Edit,  Albrighi Segati e C. Veggasi anche, presso la stessa Casa: // fascino dell’ arte  di Dante, nel quale lavoro i principî teorici sostenuti nel precedente volume  hanno trovato la loro diretta applicazione nelle maggiori opere d' arte antiche  e moderne,   (2) E poichè, intanto, la filosofia — pel Croce — è nient'altro che coe-  senza mentale, la quale coerenza « si trova anche in uomini che vivono in una  cerchia assai ristretta d’esperienza e che la sicugggta degli addottrinati chiama  ignoranti, laddove può accadere che, in quel che davvero è sostanziale, 7g70*  ranti siano gli addottrinati e non essi », non si deve, per ciò stesso, concludere  che îl Croce è senz'altro « non filosofo » e « ignorante », insieme ? Chè, in          PS                               Verità, come « non filosofi sono coloro che non soffrono dell’ incoerenza e n  si travagliano nel superarla », così non può non essere « filosofo.... anche colù  che non scriva di filosofia e perfino ignori il nome di questa disciplina, e non-  dimeno abbia compiuto e compia il lavoro di porre ordine nel suo intelletto eu k  di formarsi, come si dice, idee rette sul mondo e sulla vita, e sia aperto ai  dubbi, che hanno sèmpre virtù di renderlo pensoso, e, per vie non scolastic i di  consegua sempre quel tanto di filosofia che gli bisogna. Non senza ragione si  ammira, talvolta, la « filosofia » di certi modesti uomini, e perfino di popolani —  e contadini, che pensano e parlano saggi e posseggono con sicurezza le verità :  sostanziali: non si tratta, in quel caso, di uso metaforico della parola, ma d  uso proprio, e metaforico sarebbe da dire piuttosto l’uso che se ne fa col lar-  girla ai compilatori di tesi e di dissertazioni e ai recitatori di lezioni, deserti  di spirito filosofico ». x 6  « Quando poi l'attitudine filosofica giunge a quella forma ampia e inten   che investe tutti o quasi gli ordini dei problemi di un'età, si ha il filoso  specificamente detto o addirittura il genio filosofico », da non confondersi,  certo, punto punto, cogli « scrittori e professori di filosofia. (Pongo que.  st’avvertenza perchè non vorrei che altri, rivedendo in immaginazione certi  volti e figure non interrompesse col riso quello che vado dicendo »). Quel  genio filosofico, voglio dire, « che sembra così remoto e alto sugli al  uomini e pure è loro così vicino, e raccoglie e unifica i loro sparsi cona =  e converte in precise domande le loro angoscie, e dà loro risposte, che A  se anche non intese dai più o alla prima, si vengono traducendo in comun  convincimenti e sentefize e modificano a poco a poco l’ ambiente sociale  storico. Il filosofo di natura*e vocazione è dominato dal bisogno della coé  renza mentale, e, simile al poeta, anche nelle più vivaci lotte pratiche, e ne  più acerbi dolori, non appena gli accada di avvertire in sè, per effetto di es  un dubbio, una contradizione, una incoerenza, materia a un problema, si astr  e si assorbe nella meditazione, e vi rimane assorto finchè non abbia affermato  o riaffermato il nesso logico che gli sfuggiva; e in tal riassodato possesso ri-  trova la serenità e con essa la forza d’animo per resistere nelle lotte e vincere  i dolori e praticamente operare ». (Cwifica del 20 marzo 1928). = li   Or poichè in forza di codesti principi del tutto bene fondati, fissati dal Croce   stesso, è da escludere senz'altro, adunque, ch'egli, pel primo, sia filosofo, appunto  per la singolare sua insensibilità — diremo — al dolore logico della contradizione,  onde la invincibile sua « incoerenza mentale », — che proveremo, d’altronde, ìî  altre sue opere—, senza pur tenere affatto conto della «superficiale considerazione»  ch’ egli usa nel trattare i problemi che concernono la « vita dello spirito » (Ibid  come spiegare che nel mondo culturale egli é ritenuto, intanto, addirittura della  « classe più alta dei filosofi »; e cioè « filosofo di natura e vocazione », ragione  per cui le sue opere, e l’ Estetica proprio più di ogni altra, hanno avuto il  particolare onore di essere tradotte in tutte le lingue di tal mondo? Non s  potrebbe, a parer nostro, spiegare altrimenti questo fenomeno paradossale che    — 121 —       riconoscendo, davvero del fondamento alla famosa domanda dello Champfort *  « Combien faut-il de sots tour faire un public 2», e col convenire, d'altra  parte, collo Stendhal, che le opere più largamente diffuse e lodate da sì fatto  pubblico sono precisamente « quelle più largamente dosate sul grado di creti-  neria degli spettatori e dei lettori ». |   In ogni modo, questa disfatta del pensiero crociano, — ammessa e rico-  nosciuta, s'è visto, ex ore suo stesso — per essersi immesso in una via senza  uscita, bene può dirsi una disfatta in gloria, più superba di tanti trionfi, in  quanto coll’ ammonirci che ogni tentativo di ricalcare quelle orme sarebbe non  altro che un vano sacrilegio, sia pur da parte di gente inconscia, ci fa ritenere  esecrabile e sacra quella via. Tale, almeno, essa rimane per noi, che da essa  appunto traemmo l’avviso ed ammaestramento, insieme, di percorrere con  tanta più saggezza quanto maggiore consapevolezza la via che abbiam preso  a seguire, coll’ intento di raggiungere con maggiore affidamento quel torturante  segreto connesso col più oscuro e fondamentale, insieme, dei selle eriomi  della vita universa, secondo il du Bois Reymond: 1’ enigma concernente l’o-  rigine del pensiero.      

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