Friday, June 28, 2024

Grice e Lecaldano

 !LE DISCIPLINE FILOSOFICHE 

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Eugenio Lecaldano (Treviso, 1940), è ordinario di Storia delle dottrine morali al- 
l'Università «La Sapienza» di Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli 
XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di David Hume (1971), all’edî- 
zione italiana delle Lettere a Serena di John Toland (1977), all’ampia antologia L’ily- 
minismo inglese (1985), al volume Hume e la nascita dell'etica contemporanea (1991). 
All’etica contemporanea ha dedicato, tra gli altri, i volumi Le analisi del linguaggio 
morale (1970) e Introduzione a George Edward Moore (1971). 


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Eugenio Lecaldano 


ETICA 


STEAS 


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TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A. 
Corso Italia 13 - 20122 Milano 


© 1995 UTET, corso Raffaello 28, 10125 Torino 

Proprietà letteraria riservata. Senza il permesso scritto 
dell'Editore, sono vietati la riproduzione, la memorizzazione 
elettronica e l'adattamento anche parziali, in qualsiasi forma 

e con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotoscatiche) 
Edizione su licenza della UTET 

dal volume ITI della Fi/osoffa, diretta da Paolo Rossi 


Prima edizione TEA settembre 19%6 


Ristampe:1 2 3 4 5 6 7 8 9 
1996 1997 1998 1999 2000 


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ETICA 


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Sommario. - 1. Introduzione. - 2. La natura dell'etica. 2.1. Meta-erica e meta-morale, 2.2. La conce- 
zione dell'edonismo egoistico. 2.3. L'etica come insieme di comandi divini. 2.4. L'etica come co- 
mando di una qualche autorità. 2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale. 2.6. L'etica come pre- 
scrizione universalizzabile, 2,7. La negazione dell'etica: libertà e determinismo. - 3. Fondazione, 
giustificazione e spiegazione: l'epistemologia dell'etica. 3.1. Dalla meta-etica all'epistemolegia. 3.2. 
La conoscibilità della legge divina. 3.3. La fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale. 
3.4, La natura umana come fondamento dell'etica: la via metafisica. 3.5. La natura umana come 
fondamento dell'etica: la via empirica. 3.6, L'appello a una ragione universale come via per la fon- 
dazione dell'etica. 3.7. LI ricorsa a una facoltà morale per la fondazione dell'etica. 3.8. La giustifi- 
cazione procedurale delle opzioni etiche: il contrattualismo, 3.9. Il non-cognitivisma e la giustifica. 
zione logico-argomentativa del punto di vista etico. 3.10. Dalla giustificazione alla spiegazione del- 
l'etica. 3.11. I problemi centrali per Ia fondazione della morale; «legge di Hume» e possibilità di 
una «logica delle norme». - 4. Le etiche normative: concezioni in contrasto. 4.1. Etiche conseguen- 
zialiste e deontologiche: principi, mezzi è fini nell’etica. 4.2. Il valore intrinseco nell'etica. 4.3. 
L'etica giusnaturalistica e la legge naturale. 4.4. L'etica contratrualistica e le sue forme. 4.5. Un'etica 
dei diritti. 4.6. L'etica kantiana e la persona umana. 4.7. Le etiche utilitaristiche. 4.8, La scelta ra- 
zionale come criterio normativo, 4.9, Pluralismo, tolleranza, relativismo, irrazionalismo etico. - 5. 
Dall'etica teorica all'etica pratica. 5.1. Dall'etica teorica all'antropologia: motivazione e obbliga. 
zione, 5.2. Il ruolo dell'identità personale nell’etica. 5.3. Erica del carattere 0 dell'azione. 5.4. La 
svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata. 5.5. I principali campi dell'etica applicata. - 6. Le 
dimensioni dell'etica. 6.1. La morale e le relazioni personali. 6.2. Il diritto e i sistemi codificati. 6.3. 
La politica e i fini del governo. 


1. Introduzione. 


Con il termine etica ci si riferisce all'insieme di scritti e discorsi nei quali si 
presentano riflessioni sui problemi che si pongono per gli esseri umani 
quando agiscono e cercano regole e principi da seguire nelle diverse dimen- 
sioni della loro vita pratica. Fa parte integrante di questa ricerca la valuta- 
zione delle regole e dei principi già disponibili o fatti valere da altre persone. 


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8 ETICA 


Affronteremo più volte nel corso del saggio la questione di quanto l'etica as- 
sorba in sé e si distingua dall'economia per fare valere in generale una pro- 
spettiva tesa a tenere distinte concettualmente etica ed economia. In questo 
senso ‘etica’ occupa lo spazio semantico che nella tradizione dotta italiana si 
collega a ‘filosofia morale’. L'etica in questo senso ampio comprende dunque 
tutta una serie di più determinate specificazioni che riguardano di volta in 
volta i problemi morali, quelli di pertinenza del diritto e della legge e quelli 
che più propriamente rientrano nel campo della politica o dell’azione del go- 
verno. Usando un altro linguaggio si può dire che l'etica riguarda l'universo 
dei valori e delle norme complessivamente inteso e dunque in questo senso sia 
la morale, sia il diritto e la politica. È chiaro che, invece, gli aspetti più tecnici 
e specifici del diritto e della politica, quali, poniamo, la teoria dell’ordina- 
mento giuridico o le varie tecniche da adottare per rendere efficaci le san- 
zioni, o ancora le riflessioni sulle varie forme di governo e i rapporti tra i vari 
poteri non sono di pertinenza dell'etica come qui intesa. Verranno dunque 
brevemente trattate le questioni relative al diritto e alla politica solo per indi- 
viduare con più precisione gli ambiti specifici di problemi pratici in gioco in 
queste aree dell'etica, La pretesa per quanto riguarda queste sezioni è di col. 

locarle con chiarezza nel campo più generale dell'etica piuttosto che affron- 
tare partitamente i loro problemi specifici. La scelta concettuale fatta com- 
porta che si lasci completamente da parte la pretesa di occuparci dell'etica 0 
della morale in un senso più sociologico, ovvero come insieme di costumi di 
un popolo, o in un senso più psicologico, ovvero come stili di vita 0 inclina- 
zioni e abitudini a determinati tipi di associazione mentali effettivamente rico- 
noscibili nella biografia di esseri umani concretamente esistenti. L'etica nel 
senso in cui ce ne occuperemo coinvolge piuttosto la riflessione e il pensiero 
impegnati nella caratterizzazione, critica, difesa e revisione del costume o 
delle pratiche effettive. 

La scrittura di questo testo è stata orientata da due linee guida. Da una 
parte si è cercato di fare valere l'ottica di chi scrive alla fine del secolo XX. 
Anche se probabilmente una partizione che prenda troppo sul serio lo stacco 
tra secoli va incontro a forzature, si muove, comunque, da una prospettiva 
che è largamente influenzata dalla considerazione di quei problemi morali che 
nel nostro secolo si sono dovuti affrontare, e si stanno ancora affrontando, per 
la prima volta, quali ad esempio le questioni della bioetica, o dell'etica am- 
bientale, del trattamento degli animali ecc. (cfr. infra $$ 5.4 e 5.5). In secondo 
luogo chi scrive assume la prospettiva fatta valere da Derek Parfit secondo la 
quale una vera e propria etica nel senso moderno può essere vista nascere solo 
con il XVII secolo. Ma un'etica che unisca insieme la consapevolezza della 


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INTRODUZIONE 9 


sua autonomia e un certo impegno in senso professionale riguarda solo la se- 
conda parte di questo secolo (Parfit, 1989: 574-575). Ed è dunque a questa 
etica moderna e contemporanea più che a quella antica e medievale che in 
questo scritto si farà principalmente riferimento per dare spessore storico alle 
distinzioni e conclusioni che si avanzeranno. 

Anche se l'etica si presenta come una disciplina già consolidata e con una 
tradizione di sapere costituito, si può indicare una strada che permette di ac- 
cedere ai problemi di cui si occupa muovendo dall'esperienza comune e quo- 
tidiana. Infatti la pretesa dell'etica — come del resto di quasi tutti i rami della 
riflessione filosofica — è quella di occuparsi di problemi che tutti gli uomini 
affrontano e incontrano nella loro vita. Nel caso dell'etica teorica è frequente 
— anzi — trovare affermata la pretesa di essere più vicina e direttamente ri- 
levante per la vita delle persone di quanto siano altri ambiti della filosofia, 
quali poniamo la gnoseologia (con la sua elaborazione teorica sulla conoscen- 
za), 0 l'epistemologia (con le sue riflessioni sulla teoria della verità) ecc. 

Questa pretesa di una più stretta vicinanza con la vita di tutti si accompa- 
gna spesso nelle elaborazioni teoriche nel campo dell'etica con un'ulteriore 
pretesa per cui tali elaborazioni vengono presentate come la parte più impor- 
tante delle riflessioni filosofiche 0 comunque come quella che ha priorità e 
centralità regolativa rispetto alle altre. 

Nella vita quotidiana si presentano numerose situazioni problematiche che 
possono essere considerate come punti di partenza per la riflessione etica. 
Suggeriamo di classificare queste situazioni problematiche ricorrendo a due 
distinte tipologie, quella dei conffitti e quella dei disaccordi. Casi di conflitto 
— per così dire il versante privato o soggettivo dell'etica — sono quelli in cui 
noi stessi non riusciamo a trovare una soluzione valida a un problema etico 0 
perché i nostri principi tradizionali risultano inadeguati o perché non riu- 
sciamo a risolverci appunto tra differenti principi egualmente rilevanti. Casi 
di disaccordo — per così dire il versante oggettivo o pubblico dell'etica — 
sono quelli, molto frequenti e diffusi nelle nostre società complesse, in cui 
petsone diverse tendono a fare valere principi etici contrastanti per risolvere 
la stessa situazione moralmente rilevante, î 

Il cammino verso l'elaborazione di un'etica più riflessa sembra aprirsi non 
già quando le regole e i principi tradizionali rispondono alle nostre esigenze, 
ma piuttosto in una situazione in cui gli esseri umani incontrano difficoltà nel 
campo delle loro scelte e decisioni pratiche. Se, infatti, la vita pratica procede 
in modo del tutto ordinato all’interno di una routine consolidata non vi è 
quella base necessaria per un'elaborazione critica, Il presentarsi di una diffi. 
coltà nell'applicazione dei codici normativi tradizionali è, in genere, il punto 


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10 ETICA 


di partenza per l'elaborazione dell’etica nel pensiero moderno e tale quadro 
problematico è diventato costitutivo della teoria etica nel pensiero etico con- 
temporaneo. 

La stretta connessione della riflessione etica con situazioni di conflitto e di 
disaccordo sembra voler suggerire che proprio all'etica in quanto tale spetta 
di proporre una soluzione e che quindi rientra negli obiettivi specifici del- 
l'etica teorica prescrivere esplicitamente ciò che è bene o giusto fare in situa- 
zioni particolari. Una pretesa che nel corso della nostra ricostruzione delle 
varie posizioni riconoscibili nell’etica moderna e contemporanea avremo l’oc- 
casione di valutare criticamente. 

L'elaborazione etica di cui renderemo conto in modo più sistematico in 
questo scritto si colloca in un quadro generale individualistico. A monte in- 
fatti della nostra rivisitazione dell'etica vi è l’assunzione filosofica che in gene- 
rale i problemi con cui si ha a che fare riguardano individui ovvero persone 
umane. L'etica così intesa si muove in un contesto — che può essere conside- 
rato come proprio del pensiero moderno da Cartesio in avanti — in cui i pro- 
blemi di fronte ai quali ci si trova sono problemi che nascono per esseri umani 
particolari e finiti. Anche se nei primi secoli della ricerca moderna la rifles- 
sione era volta a fissare il campo dell'etica tenendo conto della natura umana 
complessivamente intesa, fin dal secolo XVII essa muoveva da problemi pra- 
tici di individui ben determinati. Il lettore troverà dunque privilegiata nel- 
l'esposizione seguente una tradizione empiristica e naturalistica nella quale, 
tra il XVII e il XXX, si sono collocati tra gli altri: Thomas Hobbes (1588- 
1679), John Locke (1632-1704), David Hume (1711-1776), Adam Smith 
(1723-1790), Jeremy Bentham (1748-1832), John Stuart Mill (1806-1873), 
Henry Sidgwick (1838-1900). La riflessione sulla morale di Immanuel Kant 
(1724-1804) malgrado non rientri in questa tradizione sarà tenuta presente 
per la sua capacità di far valere l'ottica di una responsabilità individuale auto- 
noma nella vita morale, Esponenti del neoempirismo e della filosofia analitica 
hanno contribuito nel corso del XX secolo a questo approccio più generale 
nei confronti dell’etica — e il loro contributo sarà largamente presente nelle 
pagine seguenti —, che è stato più recentemente caratterizzato esplicitamen- 
te come «individualismo metodologico». Una linea di ricerca ampiamente 
percorsa — anche se non senza differenze — in Italia, ad esempio, da Er- 
minio Juvalta, Nicola Abbagnano, Giulio Preti, Uberto Scarpelli e Norberto 
Bobbio. 

È vero che i casi in cui gli esseri umani individuali e le persone si trovano 
effettivamente di fronte a problemi etici quali quelli che rendono possibili la 
serie di riflessione di pertinenza dell'etica sono probabilmente più rari di 


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LA NATURA DELL'ETICA 1l 


quanto in genere si ritenga. Ma la rinascita dell'etica e il fiorire della rifles- 
sione pratica a cui abbiamo assistito nella seconda metà del secolo XX (dai 
disaccordi pubblici sulle questioni di giustizia distributiva e di discrimina. 
zione che hanno caratterizzato gli anni Settanta, ai conflitti che negli anni Ot- 
tanta ci hanno coinvolto tutti sui principi e le regole da far valere di fronte alle 
nuove condizioni del nascere, morire e curarsi degli esseri umani) mostrano 
l'ampio radicamento nella vita comune di questa dimensione filosofica. Pro- 
babilmente riflessioni e decisioni si svolgono in modo meno esplicito e più 
impersonale (attraverso la meditazione della discussione pubblica intersogget- 
tiva) di quanto risulterà dal taglio individualistico di questo saggio. Ma nelle 
pagine seguenti, senza la pretesa di tutto abbracciare o risolvere, renderemo 
conto in modo sistematico e critico delle diverse concezioni elaborate per 
avere a che fare con quelle scelte individuali che sono influenzate da ragioni 
etiche. 


2. La natura dell'etica. 


2.1. Meta-etica e meta-morale. — La riflessione sulla natura dell’etica ha 
una priorità logica una volta assunta la prospettiva riflessiva e critica alla cui 
genesi abbiamo fatto riferimento nel paragrafo 1. Si tratta infatti, in primo 
luogo, di capire l'ordine di problemi intorno a cui si riflette e conseguente- 
mente di individuare quali siano i criteri cui si può ricorrere per risolverli 0 
mettere alla prova la validità delle soluzioni alternative che ci si presentano. 

Un esempio particolarmente rappresentativo di questo percorso logico 
troviamo delineato da George Edward Moore nei suoi Prircipis Ethica 
(1903). Moore chiarisce che il problema centrale dell'etica — a suo parere, 
l’unico problema dell'etica — è quello di fornire una definizione delle princi- 
pali nozioni che ricorrono nei nostri discorsi morali, ovvero le nozioni di 
buono, giusto, obbligatorio, dovere ecc. Moore sostiene poi che tutte le no- 
zioni etiche sono riducibili, in modo più 0 meno diretto, a quella fondamen- 
tale e primaria di «buono». Ecco quindi quanto scrive Moore: 


Ciò che ‘buono’ significa è in effetti, a parte il suo contrario «cattivo», il solo oggetto 
semplice di pensiero che appartenga peculiatmente all'etica. La sua definizione, di con- 
seguenza, è il punto essenziale nella definizione dell'etica; e inoltre un errore su questo 
punto porta con sé un numero di giudizi errati di gran lunga più grande che qualsiasi 
altro errore in materia. Se questa domanda preliminare non è pienamente compresa è 
non se ne vede chiaramente la risposta, tutta il resto dell’etica ha un valore praticamente 
nullo dal punto di vista della conoscenza sistematica [...] in ogni caso, è impossibile che, 


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12 ETICA 


finché non si conosca la risposta, si possa sapere quale è la prova richiesta per un giudizio 
etico qualsiasi. Ma il principale obiettivo dell'etica come scienza sistematica è dì fornire 
ragioni corrette per pensare che una cosa 0 un'altra è buona; e se non si risponde alla 
nostra domanda tali ragioni non si possono dare (Moore, 1964: 48-49). 


Secondo l’impostazione di Moore dunque — che faremo nostra — i me- 
todi di prova e confutazione che hanno efficacia in etica potranno essere iden- 
tificati solo dopo che avremo capito la natura dell'etica, ovvero il tipo di pro- 
blemi di fronte ai quali ci troviamo laddove è in gioco la parte morale della 
nostra esistenza. 

Cominciamo quindi con il passare in rassegna criticamente le più impor- 
tanti concezioni sulla natura dell'etica. In filosofia è corrente una nozione per 
riferirsi a questa parte della ricerca e, specialmente in questo secolo, ci si è 
molto dilungati sulle diverse meta-etiche o meta-morali (assumiamo qui que- 
ste etichette in un senso generico e che le rende equivalenti senza investire la 
distinzione tra etica e morale su cui invece ci soffermeremo nel $ 6). Una de- 
terminata concezione meta-etica o meta-morale si colloca sul piano conosci- 
tivo e logico. Essa si propone infatti, prima di tutto, di farci capire qual è la 
natura dell'etica e quali sono i metodi di prova e dimostrazione in essa in vi- 
gore. Tutto ciò è preliminare e solo dopo si ritiene possibile passare a sotto- 
scrivere una determinata soluzione. La riflessione meta-etica viene quindi non 
solo concepita come preliminare o logicamente prioritaria, ma in genere come 
del tutto neutra da un punto di vista normativo, Si tratterebbe dunque, per 
usare formule che piacciono molto ai filosofi, di identificare preliminarmente 
ciò che è comune a tutti i punti di vista etici in quanto etici, per eventual- 
mente passare poi a sottoscrivere una determinata etica a preferenza di altre. 

Naturalmente vi sono anche pensatori che negano che una meta-etica neu- 
trale e del tutto priva di implicazioni normative sia possibile. In questa linea 
troviamo un autore di tendenze analitiche come Scarpelli che sottolinea la na- 
tura prescrittiva di tutte le scelte a monte della costruzione di una particolare 
meta-etica (Scarpelli, 1982: 102-112). Ma anche autori del filone postanalitico 
come Hilary Putnam e Donald Davidson che negano la validità dell'assun- 
zione che distingue tra forma e contenuto, distinzione a monte della tesi della 
neutralità delle teorie meta-etiche (H. Putnam, 1985; D. Davidson, 1992). 
Questa controversia riguarda però più propriamente il modo di intendere il 
lavoro filosofico e il modo di concepire le relazioni e connessioni tra analisi 
concettuali e logiche e opzioni valutative e normative e dunque in questa sede 
la lasciamo da parte. Così come non affrontiamo esplicitamente la questione 
di quale si debba considerare l'oggetto proprio delle analisi meta-etiche. Se 


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LA NATURA DELL'ETICA 13 


cioè esse debbano vertere esclusivamente sulle parole e il linguaggio morale 
— come ha sostenuto una parte dei filosofi di questo secolo e specialmente gli 
esponenti della filosofia del linguaggio ordinario come ad esempio Charles 
Leslie Stevenson, Richard Mervyn Hare e Patrick Horace Nowell-Smith (si 
veda C. L. Stevenson, 1962; R. M. Hare, 1968; P. H. Nowell-Smith, 1974), o 
possano essere caratterizzate in modo meno ristretto. Più recentemente, ad 
esempio, Bernard Williams ha suggerito di considerare come oggetto proprio 
delle analisi sulla natura dell'etica — in coerenza con una concezione più li- 
berale dell'analisi filosofica — non solo i discorsi, ma anche esperienze, 
azioni, emozioni ecc. (B. Williams, 1987). Tenendo conto del livello generale 
di questo scritto potremo fare tesoro di questa proposta liberalizzatrice e con- 
siderare come campo della meta-etica o della meta-morale l'insieme delle di- 
verse dimensioni della vita etica degli uomini. 


2.2. La concezione dell'edonismo egoistico. — La via più ovvia per identi- 
ficare la natura generale dei problemi che sorgono quando stiamo scegliendo 
o decidendo tra differenti alternative che ci stanno di fronte è quella di soste- 
nere che in realtà siamo esitanti solo perché non ci risulta chiaro cosa ci con- 
viene fare di più. Ovvero — lasciando da parte la questione di una differenza 
tra le più specifiche caratterizzazioni di che cosa intendiamo con la formula 
«ciò che ci conviene di più» —-ciò su cui stiamo deliberando è solo l'indivi- 
duazione del corso di azione che farà maggiormente il nostro proprio inte- 
resse, 0 ci darà più piacere o ci farà guadagnare di più ecc. Questa concezione 
meta-etica riconduce quindi le azioni in gioco in questa dimensione della no- 
stra vita pratica all'interno di un contesto che riguarda le azioni umane in 
generale: tutte le azioni umane sono rivolte a ottenere il proprio personale 
piacere e a evitare il dolore. Si tratta di una concezione che riconduce l'etica 
all’interno di quel quadro dell’edonismo egoistico che — con una certa ap- 
prossimazione interpretativa — viene attribuito a pensatori come Epicuro e 
Hobbes. Troviamo ad esempio che Hobbes negli Elements of Law Natural 
and Politic (1640, Elementi di legge naturale e politica) sostiene: «Ogni uomo, 
dal canto suo; chiama ciò che gli piace ed è per lui dilettevole, bene; e male 
ciò che gli dispiace; cosicché, dato che ognuno differisce da un altro nella co- 
stituzione fisica, così ci si differenzia l’uno dall’altro anche riguardo alla co- 
mune distinzione di bene e male. Né esiste una cosa come l’agaton aplos, vale 
a dire il bene assoluto» (Hobbes, 1985: 50-51). 

Questa concezione della natura dell'azione umana in generale in realtà 
porta a negare che vi sia una dimensione etica nella vita degli esseri umani. 
Infatti ci troviamo di fronte a una posizione che propone di tradurre tutti gli 


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14 ETICA 


enunciati 0 giudizi etici in questioni che hanno a che fare esclusivamente con 
valutazioni, pro 0 contro una certa linea di azione, sulla base di un criterio 
esclusivo che è quello del proprio personale tornaconto. La natura dell'etica 
non viene certo caratterizzata in questa direzione da tutti coloro che presen- 
tano delle teorie meta-etiche o meta-morali. Infatti al di lì delle diversità da 
un punto di vista epistemologico, gnoseologico, psicologico 0 genetico, tutte 
le diverse concezioni concordano nel presentare, in termini contenutistici e 
sostantivi, il campo dell'etica come quello che ha a che fare con scelte e valu- 
tazioni che hanno come punto di riferimento degli obiettivi che vanno al di là 
del solo interesse personale. 

Naturalmente una caratterizzazione dell'etica che insiste sulla natura non 
interessata, imparziale e generale del punto di vista che essa coinvolge pone 
come questione preliminare quella più propriamente empirica e psicologica 
della possibilità che gli uomini effettivamente agiscano mossi da motivazioni 
non strettamente egoistiche. Vedremo più volte nelle pagine seguenti (cfr. jn- 
fra $$ 3.3, 4.8 e 5.1) che una delle grandi questioni intorno a cui sono conver- 
gentemente confluiti gli sforzi di melti pensatori è proprio quella di riuscire a 
salvaguardare nel comportamento umano uno spazio per le azioni mosse da 
ragioni etiche e dunque non strettamente egoistiche. In questa sezione ci limi- 
tiamo dunque a fissare in via del tutto preliminare il punto su cui convergono 
le diverse concezioni sulla natura dell'etica e della morale di cui renderemo 
conto in questo paragrafo. 

In modi diversi le numerose concezioni meta-etiche cercano di rendere 
conto di un fatto considerato più o meno acclarato ovvero che nella vita degli 
esseri umani esiste una sfera di azioni, scelte, valutazioni che è di pertinenza 
dell'etica e della morale. Questa sfera ha a che fare comunque con valori, 
principi, criteri, norme, regole che riguardano la condotta degli uomini ove la 
si veda come non esclusivamente indirizzata verso la realizzazione di obiettivi 
strettamente egoistici ponendosi dal punto di vista di ciascuno degli agenti. Vi 
è cioè secondo le diverse teorie meta-etiche che ora passeremo in rassegna 
una dimensione sovraindividuale e intersoggettiva (se non addirittura univer- 
sale) coinvolta nelle azioni umane e che sarebbe appunto quella di pertinenza 
dell'etica. Sulla base di questa premessa comune le meta-etiche si differen- 
ziano poi per il modo di rendere conto di questa dimensione e conseguente- 
mente delle vie per fondare e giustificare scelte e giudizi etici corretti. 


2.3. L'etica come insieme di comandi divini. — Una delle teorie meta-eti- 
che più antica e fortunata è quella che ritiene che al centro dell’etica vi siano 
una serie di doveri e di obblighi che ricavano la loro origine, validità e forza 


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LA NATURA DELL'ETICA 15 


dal fatto di essere comandi di un’autorità superiore. In genere poi all'interno 
di questa concezione meta-etica si tende a identificare l'autorità i cui comandi 
vengono messi in pratica nell'etica con una qualche divinità, si tratti del Dio 
di una delle diverse religioni positive, o piuttosto l'Autore della Natura della 
religione naturale, o ancora qualcuna delle divinità minori delle religioni po- 
liteistiche. 

Nel mondo moderno una tale concezione meta-etica è stata presentata 
nella forma più chiara dai teorici del giusnaturalismo provvidenzialistico del 
XVII secolo e in particolare la si trova difesa approfonditamente da Locke 
negli Essays on the Law of Nature (1660-1664, Saggi sulla legge naturale). Si 
tratta di una concezione meta-etica che proprio per il riferimento essenziale ai 
comandi di una autorità sovrannaturale considera primarie e centrali per ren- 
dere conto di questo campo della vita umana le nozioni di legge, obbliga- 
zione, dovere e mette, dunque, in secondo piano altre nozioni quali quelle di 
buono, giusto, diritti, virtù ecc. In questa prospettiva l'etica è poi strettamente 
connessa con la religione. Infatti se tutto ciò che è in gioco nelle nozioni eti- 
che è un qualche comando o legge di un’autorità divina che rende obbligatori 
i suoi dettami attraverso sanzioni a cui nessun essere umano può sfuggire al- 
lora un'etica così intesa dipenderà fortemente dalla disponibilità di prove del- 
l'esistenza dell'autorità divina presupposta e andrà incontro a insormontabili 
difficoltà nel momento in cui entra in crisi la credenza nell'esistenza di un 
essere che trascende la natura. I fautori della concezione che vede nell’etica 
una serie di comandi o leggi o ordini di una qualche autorità divina, giunti a 
questo punto o riterranno scomparsa l'etica dall'orizzonte della vita degli uo- 
mini 0 dovranno indicare una qualche autorità terrena da cui fare dipendere 
la validità dei principi etici 0, infine, dovranno abbandonare del tutto la meta- 
etica che rende conto dei principi morali come di comandi di una qualsiasi 
autorità. Una trasformazione del genere fu al centro della riflessione di Hob- 
bes portando inizialmente a una forma implicita di positivismo giuridico. Ma 
più in generale guardando alla riflessione morale dal XVII secolo ad oggi, con 
una qualche semplificazione, si può rendere conto dell'etica moderna e con- 
temporanea come un processo di progressivo allontanamento della meta-etica 
in termini di comandi di una qualche autorità distinta dal soggetto che sceglie, 
decide o giudica eticamente. 

Laddove si istituisce il collegamento tra l’etica e la legge divina si aprono 
le due diverse possibilità dell’intellettualismo e del volontarismo. Chi ritiene 
che l’etica non sia altro che un insieme di comandi divini può infatti ritenere 
che Dio comandi ciò che è bene perché lo riconosce come tale oppure — alla 
luce di una concezione volontarista — può concludere che ciò che è buono è 


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16 ETICA 


tale proprio in quanto è Dio a volerlo. Non ci soffermeremo sulle difficoltà 
presenti in queste due distinte vie teoriche. In particolare l’intellettualismo 
sembra andare incontro alta difficoltà di rendere in qualche modo il bene pre- 
cedente e superiore a Dio. Viceversa il volontarismo si scontra con la teodicea 
ovvero con la questione dell’esistenza del male nel mondo e dunque con la 
necessità di ammettere un qualche limite alla potenza di Dio di fronte ad esso. 
Si può ipotizzare che proprio le difficoltà incontrate — una narrazione di 
queste difficoltà si può trovare nei volumi di S. Landucci (1986)e M. E. Scri- 
bano (1988 e 1994) — nel corso del XVII secolo nel delineare in modo coe- 
rente e accettabile queste diverse strategie per fare dipendere il bene morale 
dalla legge divina, hanno segnato una delle cause del crollo della concezione 
meta-etica che stiamo esponendo. Sulle macerie di questa concezione si sono 
andate consolidando le meta-etiche che ritengono costitutiva per una ricostru- 
zione adeguata di questo campo il pieno riconoscimento dell'autonomia del- 
Petica. 

Cerchiamo di delineare sia pure sommariamente le principali argomenta- 
zioni che giustificavano questo sforzo di ricondurre l'etica alla legge divina. 
Nella sezione successiva ricostruiamo invece il tentativo di connettere comun- 
que l’etica ai comandi di un'autorità, non già però sovrannaturale, ma solo 
terrena e positiva. 

Come si è detto la biografia intellettuale di Locke è particolarmente signi- 
ficativa per chi sia interessato a una riflessione critica sulle ragioni pro e con- 
tro un’etica del comando divino. Lo sforzo di Locke era quello di conciliare 
questa concezione meta-etica con ragioni che potessero essere accettate an- 
che, al di fuori della metafisica innatistica del pensiero medievale e cartesiano, 
da chi si muoveva accettando un’epistemologia empiristica. Vi erano alcuni 
vantaggi a favore di una concezione della morale e dell'etica come una legge 
divina presente nella natura umana. Quest'impostazione permetteva di risol- 
vere in modo semplice le complesse questioni della motivazione propria della 
condotta etica e dell’universalità ed eternità dei principi morali. Locke mostra 
con chiarezza che questa concezione meta-etica veniva abbracciata in defini 
tiva proprio in quanto permetteva di rendere conto di un'etica in cui i prin- 
cipi venivano appunto considerati come eterni e universali e obbligatori per 
tutti gli esseri umani. Infatti come insistentemente ripete Locke — e non solo 
negli Essays on the Law of Nature, ma anche in An: Essay concerning Human 
Understanding (1690, Saggio sull'intelletto umano) e negli scritti pubblicati 
dopo il 1690 — un'adeguata filosofia morale deve riuscire a delineare le con- 
dizioni che rendono vincolante principi e regole, ovvero la legge naturale, per 
tutti gli esseri umani in qualsiasi epoca. Ma il punto decisivo è che l’obiettivo 


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LA NATURA DELL'ETICA 17 


di una filosofia morale non è solo mostrare che un certo principio è vincolante 
e obbligante, ma anche che ciò che esso ci comanda va fatto perché noi rico- 
posciamo che è giusto. Tutto ciò possiamo realizzarlo solo concependo la 
legge naturale al centro dell'etica come un comando di Dio. Solo questo in- 
fatti garantisce che il comando sarà giusto, direttamente presente în tutti gli 
esseri umani e vincolante in modo efficace in quanto tutti sanno che qualsiasi 
defezione alla legge sarà punita da Dio senza scampo in una vita eterna. 

Locke nella sua presentazione della natura dell'etica come una legge natu- 
rale non solo si sforzava di insistere sulla natura obbligante di questa legge 
facendola derivare da un comando divino, ma di rendere possibile la conosci- 
bilità di questa da parte della coscienza umana senza doverla presupporre 
come innata o ammettere un consenso universale non riscontrabile empirica- 
mente. Proprio il fatto di fare derivare la conoscenza della legge naturale da 
un processo che univa senso e ragione portava Locke a considerare tale legge 
come costitutiva della natura umana. Locke finiva dunque con il congiungere 
la concezione che vede l'etica come il campo dei comandi divini con un’altra 
concezione che vede piuttosto l’etica come l’esplicitazione di quelli che sono i 
caratteri necessari della natura umana. Nelle sue analisi Locke non distin- 
gueva tra due strategie radicalmente diverse, quella che concepisce la legge 
morale naturale come un comando divino che ci viene direttamente comuni- 
cato da Dio o da un suo interprete autorizzato e quella che invece vede la 
legge naturale come qualcosa solo indirettamente scopribile ricostruendo le 
leggi morali incorporate nella condotta umana. 


2.4. L'etica come comando di una qualche autorità. — L'insistenza sulla 
tesi che la natura propria dell'etica può essere colta solo mettendo al suo cen- 
tro principi morali che sono obbliganti e vincolanti in quanto comandati è 
presente anche in un’altra linea di caratterizzazione meta-etica e meta-morale. 
Si tratta di quella concezione che, negata la possibilità di riconoscere una au- 
torità sovrannaturale e divina, mantiene pur tuttavia l'apparato concettuale 
dell'etica religiosa per cercare di rendere conto in termini mondanizzati della 
natura vincolante della morale. Questa strategia di traduzione dell'etica del 
comando divino nella meta-etica che definisce comunque le nozioni morali in 
termini di imperativi o comandi sia pure di una autorità terrena e umana fu 
percorsa già nel corso del XVII secolo, ad esempio secondo alcuni studiosi di 
etica da Hobbes. Ma l'interpretazione di Hobbes in questo senso è contro- 
versa e dunque risulta dubbia la possibilità di rendere conto della sua con- 
cezione della legge etica o morale considerandola come una concezione che 
la riduce al comando di un'autorità positiva riconosciuta. Né ritengo che, di- 


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18 ETICA 


versamente da quanto pensano altri studiosi di storia dell’etica (ad esempio 
M. A. Cattaneo, 1962), una concezione del genere si possa ritrovare nell'opera 
del fondatore dell’utilitarismo Jeremy Bentham in quanto è chiaro da un 
punto di vista concettuale che per un utilitarista il criterio decisivo dell'etica 
non è il rinvio a qualcosa che è comandato — secondo procedure ricono- 
sciute idonee — ma direttamente a ciò che è accettabile in termini di utilità 
generale. Tale concezione può dunque essere più correttamente attribuita ad 
autori come John Austin o, per venire al secolo XX, ai sostenitori del positi- 
vismo giuridico come Hans Kelsen. Si tratta di una concezione legalistica del- 
l'etica; ciò che ha una validità etica può essere obbligante solo se vi è un’au- 
torità che è in grado di fare rispettare, con opportune sanzioni, la legge o le 
regole codificate. Tale impostazione non solo esige una qualche codificazione 
dell'etica, ma richiede anche che vi sia una autorità in grado di fare rispettare 
i suoi decreti. 

Numerose sono le obiezioni che sono state mosse a questa concezione le- 
galistica dell’etica e in generale a una concezione come quella che sarà svilup- 
pata sistematicamente dal positivismo giuridico che tenta di ricondurre la to- 
talità del valore etico ai comandi di un'autorità positiva in grado di fare rispet- 
tare con l'uso della forza i suoi decreti. Già nel XVII secolo viene messa a 
punto un’ampia batteria di critiche. Esse rendono difficile accettare questa 
concezione come in grado di spiegare la natura dell’etica in generale e fini- 
scono con il delimitarne la portata esplicativa, eventualmente, al solo diritto 
positivo strettamente inteso (cfr. infra, $ 6.2). 

Ricordiamo alcune di queste critiche. Il punto decisivo sta nel fatto che 
ricondurre l'etica a un insieme di comandi non permette di discriminare 
— come ha mostrato nel dettaglio ad esempio F. Snare (Snare, 1992: 13-30) — 
tra tre situazioni che sono concettualmente distinte. 1) Una posizione è quella 
di chi accetta un comando in quanto teme l'eventuale sanzione di chi pro- 
mulga il comando, ovvero quella di chi considera il comando obbligatorio e 
vincolante in quanto prevede che chi lo ha emesso ricorrerà a una forza effi- 
cace coercitiva per farlo rispettare. 2) Completamente diversa è poi la posi- 
zione di chi accetta un comando in quanto riconosce un'autorità a chi pro- 
mulga il comando. In questa posizione ricadono non solo i fautori — di cui 
abbiamo già detto nella sezione precedente — di un legalismo religioso alla 
Locke che vedono il comando divino come obbligante non potendosi non 
avere «fiducia» nell’autore della natura che non può regolarsi in modo di- 
verso da quello proprio di un padre buono. Vi ricadono anche i fautori del 
positivismo giuridico (per una presentazione ed una critica di questa posi- 
zione sono utili Bobbio, 1965; Scarpelli, 1965} che ritengono di non potere 


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LA NATURA DELL'ETICA 19 


non obbedire alle leggi promulgate da un'autorità che riconoscono come le- 
gittima in quanto rispetta le procedure costituzionalmente previste per pro- 
mulgare leggi. 3) Infine del tutto diversa è la posizione di coloro che accettano 
un comando in quanto discriminano tra comandi giusti e comandi ingiusti e 
dunque rispettano le leggi del loro paese fino a quando le considerano etica- 
mente accettabili. Si tratta di tre situazioni ben distinte e una meta-etica che 
non riesca a mantenere autonoma l'obbligatorietà della morale dalla mera ac- 
cettazione di un comando legittimo o dal timore di una qualche sanzione data 
da un potere che ha la forza di costringerci risulta una meta-etica inadeguata. 

Le critiche alle concezioni religiose o legalistiche della natura dell’etica 
sono una chiara via pet giungere a cogliere l'autonomia dell'etica. L'autono- 
mia che così viene in primo piano è quella di decisione di ciascun soggetto 
individuale responsabile. L'etica ha a che fare con decisioni autonome di in- 
dividui che non possono ritenere risolti i loro problemi meramente facendo 
appello a una qualche autorità che comanda loro che cosa fare. In realtà resta 
sempre aperta da un punto di vista etico la domanda che conta ovvero se ob- 
bedire o meno al comando riconoscendolo giusto. Il senso peculiarmente 
etico di tale domanda ci si rivela laddove comprendiamo che con essa ci si 
chiede non tanto se l'autorità che ci sta di fronte sarà in grado di scoprirci o 
punirci ove non rispetteremo i suoi comandi, quanto piuttosto se il comando 
è giusto o meno, ovvero se è o no moralmente accettabile. 

Le concezioni legalistiche dell'etica e il positivismo giuridico non riescono 
dunque a discriminare tra potere giusto e ingiusto. Collocandosi al loro in- 
terno non trovano una spiegazione tutte le situazioni — su cui ha molto insi- 
stito Ronald Dworkin (Dworkin, 1990) nella sua critica al riduzionismo meta- 
etico del positivismo giuridico — quali quelle in gioco quando ci si rifiuta di 
obbedire a un comando ingiusto (le forme di totalitarismo del XX secolo 
hanno di continuo fatto sorgere per gli esseri umani dilemmi del genere}. Ma 
più in generale partendo da una concezione meta-etica del genere non si rie- 
sce a spiegare proprio la genesi di istituzioni quali la giustizia e il governo. 
Naturalmente intendiamo riferirci a una genesi che cerchi sul piano logico- 
critico le ragioni della validità morale di un certo governo e della giustizia, 
non già a una genesi che si contenti di qualche risposta di ordine storico 0 
fattuale. Le concezioni che riconducono la validità dei principi morali a co- 
mandi vincolanti dati da una qualche autorità tendono infatti a considerare 
che l'unico problema in gioco laddove ci interroghiamo sulla genesi della va- 
lidità del potere di un certo governo o di determinate regole di giustizia non è 
altro che il mero interrogarsi sul fatto storico se questo governo esiste o meno 
e se queste sono o meno le leggi che vigono nel nostro paese. Chi riduce 


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20 ETICA 


l'etica ai comandi di una qualche autorità non riesce più a rendere conto del 
perché distinguiamo tra governi e leggi giuste e governi e leggi ingiuste. In 
questo quadro legalistico non ha nemmeno molto senso porsi il problema, che 
pure sembra centrale per l'etica moderna e contemporanea, dello spiegare 
quali sono le basi per cui si debba obbedire a una qualche norma anche 
quando si sa che non c’è nessuna autorità in grado di osservare il nostro com- 
portamento e dunque premiarci o punirci per la nostra fedeltà o la nostra de- 
fezione. Se l'unica validità di una legge etica è data dalla forza che chi la co- 
manda ha di farla rispettare, è evidente che non c’è nessuna ragione di seguire 
una norma etica quando l’autorità non è in condizione di raggiungerci con le 
sue sanzioni, Questa concezione meta-etica dunque non solo non spiega il 
passaggio da una situazione priva di etica a una in cui vi è un qualche princi- 
pio etico, ma finisce con il lasciare sempre aperta — in definitiva come fisio- 
logica e legittima — la possibilità di defezionare dai comandi dell'etica ove 
si sia in condizione di sfuggire al controllo dell’autorità che li ha promulgati. 


2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale. — Un'altra concezione sulla 
natura dell'etica che ha una lunga storia dietro di sé è quella che identifica il 
bene e il giusto con ciò che è naturale per gli uomini ovvero con ciò che è 
razionale per essi. Le derivazioni della morale in termini di ragione umana e 
in termini di natura umana rappresentano certamente due diverse concezioni 
meta-etiche se le si vede da un punto di vista contenutistico; infatti è ben di- 
verso presentare come un tratto definiente del bene e del giusto la natura o la 
ragione umana. Per una lunga parte della storia dell’etica però le due vie sono 
state fatte coincidere e fino al XVII secolo la natura umana è stata appunto 
presentata principalmente come natura razionale. Solo nel XVIII secolo si 
sono andate divaricando le due diverse strategie che hanno ricondotto l’etica 
o ad aspetti della natura umana non strettamente razionali (i sentimentalisti e 
Hume) o proprio alla parte razionale in quanto non influenzata da desideri e 
passioni (Kant). Per quanto riguarda queste concezioni che riconducono 
l'etica alla natura o alla ragione umana va rilevato che diversamente da quanto 
accade nel caso dell'etica del comando divino la definizione del campo pro- 
prio del bene e del giusto non viene data rinviando a realtà al di sopra o al di 
là degli esseri umani, quali sono appunto i comandi di un Essere Supremo. Ci 
troviamo infatti di fronte a concezioni che ritengono di potere rendere conto 
del campo della morale ricavandolo integralmente da ciò che è interno all’uni- 
verso della vita umana. Si viene così a superare una concezione eteronoma 
dell'etica nel senso di una concezione che rinvia a qualcosa che è al di sopra o 
al di fuori della natura e ragione umana. Non tutte però le concezioni che 


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LA NATURA DELL'ETICA 21 


collegano l'etica alla natura o ragione umana — e che potremmo caratteriz- 
zare in un senso molto generale come naturalistiche o immanentistiche — ne 
riconoscono pienamente l'autonomia, e non mancano fino al XVIII secolo 
concezioni riduzionistiche che tendono ad assimilare l'etica a tratti generali 
della vita o della natura umana niente affatto peculiari. Alle concezioni meta- 
etiche di Hume e Kant possiamo fare risalire il pieno riconoscimento dell’au- 
tonomia dell’etica pure nell’alveo di spiegazioni che fanno ricorso alla natura 
o alla ragione umana. Nel senso più radicale di collegamento dell'autonomia 
dell'etica con le scelte e le decisioni individuali dobbiamo invece guardare a 
un processo che si è sviluppato solo nel XIX e XX secolo. 

Cerchiamo di individuare i tratti distintivi di questa concezione meta-etica 
o meta-morale rendendo brevemente conto delle tradizioni che l'hanno mag- 
giormente sviluppata. In primo luogo la tradizione naturalistica che ha guar- 
dato — e guarda tuttora — all'etica nei termini metafisici e ontologici propri 
della filosofia di Aristotele con le trasformazioni e manipolazioni più o meno 
profonde operate dalle filosofie tomistiche e neotomistiche. In secondo luogo 
la tradizione razionalistica che possiamo fare coincidere con il giusnaturali- 
smo razionalistico del XVII secolo. Come si è detto vanno tenute distinte da 
queste due strategie meta-etiche che potremmo caratterizzare come riduzioni- 
stiche quelle che pur rinviando alle nozioni di natura o ragione umana rico- 
noscono uno spazio del tutto autonomo per la morale o l'etica. Così va consi- 
derata a parte la forma di naturalismo presente nelle opere di Hume che rico- 
nosce nell’etica una dimensione del tutto peculiare della vita umana della 
quale non si può rendere conto nei termini di una generale ricostruzione on- 
tologica e metafisica della natura umana complessivamente intesa. Va ugual- 
mente tenuta distinta dalle concezioni riduzionistiche dell'etica la ricostru- 
zione che della morale realizza Kant. Infatti questi, pur ammettendo lo stretto 
collegamento tra razionalità ed etica, salvaguarda l'autonomia del campo della 
morale distinguendo nettamente tra il piano della ragione pura conoscitiva e 
quello della ragione pratica. 

Presenteremo dunque quattro distinte caratterizzazioni dell'etica: nel 
senso di un giusnaturalismo ontologizzante e metafisico; nel senso dell’estrin- 
secazione di un'unica Ragione ontologicamente radicata; nel senso di un col- 
legamento con una natura umana universalmente intesa al cui interno si cer- 
cano però tratti che consentano di salvaguardare l'autonomia del campo della 
morale; e infine nel senso dell'estrinsecazione di una razionalità pur sempre 
sovrastorica e universale ma che viene connotata in una dimensione specifica- 
mente pratica distinta da altre dimensioni. 

In Aristotele troviamo chiaramente formulata la tesi che la virtà e il bene 


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22 ETICA 


consistono per gli uomini nel realizzare il comportamento che è proprio della 
loro natura. L'essere umano è dunque naturalmente etico (come del resto è 
naturalmente politico), e l'etica nella sua realtà può essere derivata solo dalla 
conoscenza dell'essenza stessa della natura umana. Una prospettiva che tra 
l’altro rende praticamente impossibile distinguere il piano dell’analisi meta- 
etica da quello delle analisi normative: identificare lo spazio dell'etica coincide 
con l’identificare il bene che gli esseri umani sono naturalmente inclini a rico- 
noscere. Nell’Etica Nicomachea (Aristotele, 1979) Aristotele presenta la più 
chiara formulazione di una concezione che ricava la definizione dell'etica 
dalla definizione della natura umana. L'elenco delle virtù umane e la loro ge- 
rarchia viene infatti derivata da una preliminare conoscenza di quella che è la 
natura sostanziale dell'uomo. Anche se in Aristotele si riconosce come propria 
della vita pratica una dimensione di indeterminatezza e probabilità che la 
rende del tutto diversa dal sapere teorico in cui si possono attingere sia la 
certezza, sia la conoscenza dimostrata, poi non troviamo tale indeterminatezza 
quando si passa a delineare i fondamenti dell'etica. Che per gli uomini la virtù 
somma stia nella vita contemplativa e che la giustizia rappresenti la virtù 
suprema della vita associata viene derivato logicamente dalla definizione del- 
l'essenza dell’uomo come appunto animale razionale propriamente adatto al 
sapere teorico e al vivere in società. Vi è nell’etica aristotelica non solo una 
derivazione della definizione dell’etica da quella che si ritiene la natura essen- 
ziale e sostanziale dell'uomo, ma anche una particolare strategia teleologica 
per rendere conto della vita etica in modo tale da salvaguardare l'impianto 
dinamico e progressivo della vita pratica. In Aristotele infatti il bene per 
l’uomo e quindi l'orizzonte di realizzazione dell'erica non rinvia a qualcosa di 
già dato e posseduto, ma richiede piuttosto l'impegno dell'uomo a realizzare 
quello che è lo scopo ad esso più proprio. 

Questo impianto teleologico dell'ontologia aristotelica permette alla filo- 
sofia di Aristotele di venire riproposta nel tomismo e nel neotomismo come 
struttura portante della concezione mediante cui il cristianesimo elabora il suo 
peculiare tentativo di ridurre l’etica alla natura umana (si veda Maritain, 
1971). Nella tradizione cristiana non è necessario percorrere la strategia che 
riduce l’etica direttamente ai comandi divini: si può infatti percorrere anche la 
strada che vede la natura umana come di per se stessa fornita di caratteri etici 
imprescindibili. L'Autore della Natura con la sua bontà e provvidenza ha 
creato la natura umana in modo tale da fornirla intrinsecamente di quel par- 
ticolare te/os che le permette di realizzare la felicità e i risultati migliori per gli 
uomini. Realizzare i fini propri della natura umana diventa così un comanda- 
mento anche per la religione cristiana in quanto appunto nella natura umana 


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LA NATURA DELL’ETICA 23 


sono rintracciabili chiaramente i tratti distintivi propri della vica etica. Ciò che 
è innaturale risulta negativo e malvagio e nello stesso ordine naturale delle 
cose possiamo rintracciare la regola di ciò che è buono e giusto. 

Ma questa via di ricondurre l'etica a qualche tratto tipico della natura 
umana viene percorso nel pensiero moderno e contemporaneo anche su basi 
diverse da quelle metafisiche e ontologiche proprie dell'etica aristotelica. Se il 
carattere comune în base al quale caratterizziamo una meta-etica come natu- 
ralistica è quello di ricondurre i tratti distintivi dell'etica a qualcosa che è pe- 
culiare della natura umana allora numerose meta-etiche naturalistiche sono 
state presentate anche dal Seicento in avanti. Ma queste forme moderne e 
contemporanee di naturalismo rifiutano poi di irrigidire la natura umana alla 
luce di una concezione sostanzialistica e di conseguenza non percorrono la 
strada che presenta l'etica come qualcosa di ontologicamente o concettual- 
mente necessario per una definizione della natura umana ed evitano anche di 
ricorrere alla strategia finalistica 0, nella versione cristiana, provvidenzialistica, 
per fondare il campo della morale. Presentiamo alcune di queste meta-etiche 
naturalistiche delineate nella cultura moderna e contemporanea e alcune cri- 
tiche ad esse mosse. 

Abbiamo un filone di meta-etiche naturalistiche, inaugurato dalla filosofia 
di Anthony Ashley Cooper Shaftesbury, che pone al centro dell'etica un qual- 
che istinto 0 sentimento originario e irriducibile ad altro: un «senso morale» 
proprio di tutti gli esseri umani, Qui ci troviamo non solo di fronte a una 
meta-etica chiaramente immanentistica, ma anche a una concezione che non 
deriva la definizione dell’etica da una caratterizzazione di tipo essenzialistico 
della natura umana, ma da una ricognizione empirica degli esseri umani. Re- 
sta poi vero che attraverso questa procedura empirica si ritiene di potere in- 
dividuare qualcosa che è comune a tutti gli uomini e quindi come tale proprio 
della natura umana e almeno nel caso di Shaftesbury, e dopo di lui di Francis 
Hutcheson, anche qualcosa di originario. Va sottolineato che l'etica viene qui 
collegata alla disposizione da parte degli uomini a reagire alle cose del mondo 
sulla base di qualche sentimento o senso piuttosto che in termini meramente 
intellettuali o razionali. Ancora per tutto il secolo XVILI vi è stata una meta- 
etica riconducibile a una forma di naturalismo sentimentalistico. L'etica in- 
fatti ha a che fare con sentimenti e emozioni proprie di tutti gli uomini anche, 
ad esempio, per Hume e Smith. Nel caso di Hume tale caratterizzazione in 
termini naturalistici dell'etica risulta temperata, sia dalla portata complessiva- 
mente ipotetica delle sue spiegazioni filosofiche, sia dal presentare i senti- 
menti e le emozioni proprie dell’etica come in larga parte non originarie, ma 
piuttosto come il risultato di un processo artificiale di sviluppo della natura 


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24 ETICA 


umana. Di conseguenza da una parte l'etica si presenta come qualcosa che ha 
a che fare con un risultato artificiale e non originario della vita umana, ma 
dall'altra questo stesso artificio è presentato come del tutto naturale per gli 
uomini nel senso che Hume ne ricostruisce la genesi ricorrendo a cause natu- 
rali. Tale concezione naturalistica è stata così vista — ad esempio da M. Ruse 
(1986) — come un precedente di quella evoluzionistica elaborata da Charles 
Darwin e che si trova sviluppata poi a un livello filosofico (non privo di incli- 
nazioni assolutistiche) in Herbert Spencer. Nel naturalismo evoluzionistico 
l’etica viene considerata come un insieme di istinti e abitudini cooperative ac- 
quisite dagli uomini nel corso dell’evoluzione, ma una derivazione evolutiva 
dell’etica non esclude che essa venga considerata — specialmente laddove si 
insiste sulle sue radici biologiche — come propria di tutta la specie umana. 

‘Tutte queste diverse forme di meta-etica naturalistica sono state sottoposte 
a critiche radicali lungo due linee convergenti, tra la fine del XIX secolo e la 
prima metà del XX. Da una parte si è obiettato, come ad esempio fa J. $. Mill 
nel primo dei suoi Three Essays on Religion (1874, Tre saggi sulla religione) 
dedicato alla natura (Mill, 1972: 13-52), mostrando la vaghezza e genericità 
della nozione di natura che come tale è del tutto incapace di fornire un qual- 
che criterio preciso per avere a che fare con i problemi etici, dato che sta le 
azioni più crudeli sia quelle più generose rientrano nella Natura latamente in- 
tesa. Dall'altra si è obiettato, come fa ad esempio G. E. Moore nei Prircipia 
Ethica (Moore, 1964: 91-120) che da un punto di vista logico e concettuale il 
naturalismo cade nella cosiddetta «fallacia naturalistica» riducendo appunto 
a naturale ciò che non lo è (cfr. oltre $$ 3.4 e 3.11). 

Malgrado queste critiche nel XX secolo concezioni naturalistiche dell’etica 
sono state pur tuttavia riproposte, sia in termini evoluzionistici (ad esempio 
nel caso della sociobiologia, specialmente da E. Wilson, 1975), sia attraverso 
forme aggiornate di neoaristotelismo (ad esempio P, Foot, 1978 e A. Mac. 
Intyre, 1988). 

In contrasto con queste meta-etiche naturalistiche vanno viste quelle con- 
cezioni che rendono conto dell’etica non tanto riconducendola alla natura 
umana, in generale, quanto piuttosto collegandola strettamente, in modo più 
specifico, con la ragione umana. Tale strategia è stata percorsa lungo due di. 
verse linee, Da una parte i razionalisti etici del XVII secolo, quali ad esempio 
i giusnaturalisti Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, consideravano questa ra- 
gione umana come una facoltà ontologicamente garantita in grado di cogliere 
l'essenza stessa dell’uomo e dunque i suoi obiettivi più propri (Bobbio, 1963). 
Questa concezione della ragione è rintracciabile anche alla base dei numerosi 
tentativi nel corso del XVII secolo di dare vita a un'etica dimostrata, un com- 


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LA NATURA DELL’ETICA 25 


pito verso cui tendono pensatori per altri versi molto differenti quali ad esem- 
pio Hobbes, Baruch Spinoza, Locke e Samuel Clarke. L'idea era quella di 
presentare una morale che derivasse le leggi del comportamento umano da 
principi o auto-evidenti, o assunti come validi per definizione, o radicati nella 
struttura metafisica del mondo. 

Il razionalismo etico è stato però successivamente elaborato anche al di 
fuori di questo quadro metafisico, essenzialistico o dimostrativo. Questa è ad 
esempio la strategia percorsa nel modo più rigoroso ed approfondito da Kant 
nella Kritik der praktischen Vernunft (\788, Critica della ragion pratica), ma 
poi ampiamente ricorrente nella storia dell'etica contemporanea. Nel caso di 
Kant l'etica ha a che fare non più con la struttura essenziale del mondo, 
quanto piuttosto con la forma pura della razionalità umana. Kant precisa anzi, 
salvaguardando la sua meta-etica dalla critica di ridurre il dovere al fatto, la 
morale alla scienza, che la ragione di cui egli tratta nell'etica non è la ragione 
pura conoscitiva ma è la ragione pratica. L'etica secondo Kant non ha un con- 
tenuto diverso dai principi generali che presiedono alla possibilità stessa di 
una razionalità pratica per gli uomini, ed è in questo senso che l'etica ha a che 
fare con una dimensione trascendentale che riguarda la volontà umana in ge- 
nerale. L'etica fissa e precisa le leggi che presiedono al funzionamento di qual- 
sivoglia volontà umana che non si proponga questo o quell'obiettivo partico- 
lare, ma piuttosto di conformarsi alla sua struttura generale. L'etica rende così 
esplicita la struttura categoriale della razionalità pratica umana. Vedremo nel 
paragrafo 4.6 quali sono i contenuti normativi precisi a cui Kant giunge muo- 
vendo da questa concezione meta-morale; qui ci limitiamo a sottolineare al- 
cuni tratti della meta-etica kantiana. 

Nel caso della caratterizzazione della natura della morale fornita da Kant 
risulta del tutto salvaguardata l'autonomia dell'etica rispetto alle dimensioni 
della conoscenza empirica e della fede religiosa (Landucci, 1993): la raziona- 
lità pratica umana è infatti in grado da sola di fondare la validità della vita 
morale. Anzi nella concezione kantiana gli stessi contenuti principali della re- 
ligione sembrano presentarsi come risultati dell’azione della razionalità pra- 
tica umana in quanto suoi postulati che garantiscono la validità della vita mo- 
rale. Nell’approccio kantiano l’esigenza di non ridurre l'etica a qualche altra 
cosa viene dunque salvaguardata sia attraverso l'affermazione della netta di- 
stinzione tra ragion pura conoscitiva e ragion pura pratica, sia con la nega- 
zione della riconducibilità dell'etica a sentimenti ed emozioni naturali degli 
uomini. Rifiutando di assumere un qualsiasi sentimento o emozione partico- 
lare degli uomini come in grado di rendere conto della natura della morale, 
Kant ritiene anche di poter giungere a garantire l'universalità della legge mo- 


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26 ETICA 


rale. Questa teoria meta-etica ha come sua conseguenza un pregiudiziale ri- 
fiuto rigoristico di considerare come bene una qualunque cosa che possa sod- 
disfare un sentimento, un'emozione 0 un desiderio individuale. 

Malgrado l'impegno con cui Kant si è sforzato di salvaguardare l’autono- 
mia dell’etica non sono mancate nei confronti della sua meta-etica le critiche 
di coloro che vi trovano una forma di riduzionismo non diversa da quella pre- 
sente nell’etica naturalistica. Si insiste dunque che in Kant il dovere etico è 
ridotto a quella che è la legge e la struttura della volontà. E ancora che nei 
suoi scritti vi è la riduzione di tutte le ragioni pratiche dei singoli esseri umani 
finiti a una razionalità universale e assoluta. Si rileva poi che l’uso di una no- 
zione come quella di trascendentale è una traccia del permanere di tentazioni 
di tipo ontologizzante ed essenzialistico. Va segnalato che — come avremo 
modo di documentare ulteriormente — l’impostazione kantiana ha avuto co- 
munque una grande fortuna nel corso del XX secolo. Autori su posizioni filo- 
sofiche molto diverse — quali ad esempio J. Rawls, H. Putnam, K. O. Apel — 
la ripropongono in nuove vesti. La tendenza è quella di depurare l'imposta» 
zione kantiana dalle tentazioni di ordine metafisico e considerare l'etica come 
qualcosa che ha a che fare non tanto con la struttura di fondo della razionalità 
pratica quanto con le condizioni stesse della comunicazione umana in gene- 
rale o con le presupposizioni della vita civile. Coloro che elaborano il modello 
della razionalità pratica kantiana giungono così per quanto riguarda la natuta 
dell'etica a conclusioni non molto diverse da quelle raggiunte da alcuni teorici 
del prescrittivismo non cognitivistico di cui renderemo conto nella prossima 
sezione. 


2.6. L'etica come prescrizione universalizzabile. — Nel corso del XX se- 
colo il tipo di concezione dell'etica che ha avuto la prevalenza è quella preoc- 
cupata principalmente di rendere conto della vita morale in modo tale da se- 
gnarne una netta autonomia e differenziazione rispetto al piano della cono- 
scenza empirica e scientifica; potendosi oramai ritenere già del tutto acquisito, 
sul piano teorico, il processo che ha portato a segnare il distacco dell’etica 
dalla religione. La distinzione dell'etica rispetto al campo della scienza e della 
conoscenza empirica è stata poi tracciata su basi molto diverse, rimanendo 
dunque costante la tendenza a definire la natura dell'etica come campo del 
tutto irriducibile e peculiare della cultura umana. 

Così proprio all’inizio del XX secolo Moore consolida in modo definitivo 
la tendenza a segnare una completa autonomia dell'etica rispetto alla cono- 
scenza empirica 0 metafisica, anche se poi egli legava le principali nozioni eti- 
che con una forma di conoscenza intuitiva del tutto peculiare. Conclusione 


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LA NATURA DELL'ETICA 21 


quest'ultima che verrà rifiutata da coloro che più rigorosamente negheranno 
che l'etica abbia a che fare con una forma qualsiasi di conoscenza, ovvero da 
quei teorici del non-cognitivismo preoccupati piuttosto di salvaguardare la di- 
mensione prevalentemente normativa o prescrittiva al centro della morale. Ma 
la soluzione di Moore era quella di indicare nelle proprietà oggetto dell’intui- 
zione etica — ovvero nel bene e nel dovere — delle proprietà del tutto uniche 
e irriducibili ad altri tipi di proprietà naturali, presentandole quindi come pe- 
culiari e indefinibili qualità non-naturali. Tutte le meta-etiche che non ave- 
vano riconosciuto l’indefinibilità e l'irriducibilità delle proprietà etiche se- 
condo Moore avevano compiuto, in generale, l'errore logico da lui chiamato 
«fallacia naturalistica», errore consistente prima di tutto nel ridurre ciò che 
non è naturale al naturale. 

Su basi diverse all'analoga conclusione dell’affermazione di una netta di- 
stinzione tra conoscenza empirica o scienza e ambito della morale arriveranno 
anche quei neo-positivisti che —— come ad esempio Alfred Jules Ayer in Lan- 
guage, Truth and Logic (1946, Linguaggio, verità e logica) — allargavano la 
loro analisi verificazionista del discorso fino a presentare conclusioni a propo- 
sito della natura dell'etica. La tesi generale di Ayer era quella dell'impossibi- 
lità di rendere conto dei giudizi morali con le stesse concezioni esplicative che 
rendono conto delle normali asserzioni empiriche e scientifiche. Ma Ayer non 
si limitava a tracciare una distinzione tra l'ambito delle asserzioni empiriche e 
l'etica. Egli infatti concludeva sulla base della generale teoria del significato 
accettata dai neo-positivisti — secondo la quale solo le proposizioni empirica- 
mente verificabili, sia pure in linea di principio, hanno un significato — che 
l'autonomia dell’etica è data dal fatto che i suoi enunciati, proprio per l’uso di 
nozioni quali buono, giusto e dovere non sono verificabili in termini empirici 
e dunque sono privi di senso. Ayer non si limitava però alla conclusione nega- 
tiva, ma aggiungeva anche una caratterizzazione in positivo dell’etica. Ayer in- 
fatti riconosceva alle proposizioni dell'etica un ruolo loro proprio: quello di 
esprimere le emozioni di chi parla e di suscitare emozioni in chi ascolta. Pro- 
prio sulla base di questa caratterizzazione emotivistica della natura dell'etica 
Ayer finiva con il sostenere sul piano epistemologico che non esistono modi 
razionali per cercare di superare il disaccordo in morale (cfr. srfra, $ 3.9). 

Anche Stevenson salvaguardava in Ethics and Language (1944, Etica e lin- 
guaggio) l'autonomia dell'etica collegandola agli atteggiamenti, mentre le altre 
specie di discorso hanno a che fare principalmente con le credenze. Gli stru- 
menti teorici generali di Stevenson erano però quelli del pragmatismo e non 
già quelli del neopositivismo, e proprio perciò permettevano di delineare una 
ricostruzione meno rinunciataria e negativa del discorso etico. Infatti secondo 


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28 ETICA 


Stevenson l’etica è costituita da un insieme di giudizi in cui chi parla espone 
appunto i propri atteggiamenti e cerca di provocarne di analoghi anche negli 
altri. Rispetto all'analisi riduttiva di Ayer, in quella dell’«ernotivismo mode- 
rato» di Stevenson viene riconosciuto il ruolo peculiare del discorso etico 
come pienamente significante sia pure collocandolo su dì un piano non cono- 
scitivo. Rispetto al neopositivismo (ma anche all'intuizionismo di Moore) il 
punto di svolta sta nel riconoscimento che non solo le conoscenze sono signi- 
ficanti. Rispetto a quanto era stato fatto dalla riflessione meta-etica precedente 
quello che per Stevenson e i non- cognitivisti diventa centrale non è solo riu- 
scire a rendere conto di quanto l'etica sia distinta dalla conoscenza, ma anche 
specialmente dello stretto collegamento che essa ha con l'azione e la pratica 
effettiva. Su questo piano diventa prioritario nella riflessione meta-etica la sal- 
vaguardia della distinzione tra l'è di cui appunto si occupa la conoscenza e il 
deve che è di pertinenza della morale. 

I fautori della meta-etica non-cognitivistica si impegnano particolarmente 
lungo una linea analitica rivolta a rendere esplicito il collegamento del discor- 
so etico con l’azione fissando in termini di regole precise e non già di espres- 
sione di emozioni questo ruolo del linguaggio umano. In questa direzione 
sono stati elaborati numerosi tentativi di caratterizzazione. Tutta la riflessio- 
ne europea sull'analisi del linguaggio morale nel periodo successivo alla fine 
della seconda guerra mondiale è dedicata principalmente a questo obiettivo. 

Rendiamo qui conto della più fortunata tra le concezioni non-cognitivisti- 
che, quella di Richard Mervyn Hare, già delineata fin dal 1952 con The Lan- 
guage of Morals (Il linguaggio della morale) e poi ripresa e sviluppata, prima 
sul piano epistemologico nel 1963 con Freedom and Reason (Libertà e ragione) 
€ poi su quello normativo nel 1981 con Mora! Thinking. Its Levels, Method 
and Point (Il pensiero morale). 

Secondo Hare l’etica è caratterizzata dalla presenza di nozioni la cui fun- 
zione è tale che non può trovare realizzazione in nessuna altra parte del di- 
scorso umano: la funzione propria del discorso etico è quella di dare voce a 
«prescrizioni universalizzabili soverchianti». Tutti questi tratti dell'etica ven- 
gono spiegati dettagliatamente da Hare nei suoi scritti. Le impostazioni filo- 
sofiche generali di L. Wittgenstein e di J. L. Austin gli forniscono gli stru- 
menti per dare corpo alla sua meta-etica. Con il sottolineare la natura prescrit- 
tiva dell'etica Hare salvaguarda quello stretto collegamento delle nozioni 
morali con le azioni effettive di chi esprime una propria posizione e di chi 
ascolta. Si tratta di quel nucleo proprio dell’etica per cui essa è necessaria- 
mente collegata con una qualche motivazione ad agire, e per cui si imparenta 
con i comandi e con gli imperativi e include il ricorso alle nozioni di dovere e 


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LA NATURA DELL'ETICA 29 


obbligo. Si tratta appunto di quel nucleo prescrittivo che veniva perso di vi- 
sta da quelle concezioni meta-etiche — quali l'intuizionismo sostenuto da 
Moore — che tendevano invece a rendere conto dell'autonomia e specificità 
della morale in termini di una conoscenza peculiare. In realtà l'etica non è in 
alcun modo una conoscenza di ciò che è, ma è un insieme di prescrizioni ri- 
volte a ciò che deve essere. 

Un altro punto importante della concezione meta-etica di Hare è quello 
che insiste sul farto che i nostri discorsi morali non solo sono prescrittivi, ma 
in realtà trasmettono prescrizioni universali, ovvero prescrizioni che si riten- 
gono valide per tutti i casi simili. Il riconoscimento di una universalizzabilità 
dei giudizi morali così come affermata dalla meta-etica non-cognitivistica 
vuole rendere conto di un'esigenza peculiare di coerenza e strutturazione pro- 
pria della vita morale, per cui i giudizi dell'etica si distinguono dai giudizi di 
gusto 0 di preferenza relativamente ai quali tale esigenza non viene abitual- 
mente fatta valere. Una distinzione tra giudizi morali e giudizi di preferenza 
della quale invece non riuscivano a rendere conto le meta-etiche emotivisti- 
che. Attraverso questa via dell'universalizzabilità Hare e i non-cognitivisti re- 
cuperano e includono nelle loro spiégazioni un tratto dell'etica che è stato 
fortemente richiamato e sottolineato da Kant ed è centrale per coloro che ne 
riprendono la concezione della morale. Non diversamente come un tentativo 
di rendere conto di un'etica che ha molti dei tratti della moralità così come 
già la presentava Kant, va visto l'ultimo carattere che Hare riconosce come 
proprio dell’etica nel suo modello non-cognitivistico: il fatto di essere sover- 
chiante. Ciò significa riconoscere che l'etica è costituita non solo da prescri- 
zioni universalizzabili, ma anche che in quanto «soverchianti» sono gerarchi- 
camente preordinate rispetto ad altre prescrizioni. 

Il non-cognitivismo di Hare è stato ampiamente discusso nella seconda 
metà del secolo XX come tentativo fertile di cogliere la natura propria del- 
l'etica, La concezione dell'etica come insieme di prescrizioni universalizzabili 
soverchianti è stata fatta propria anche dai teorici tedeschi dell'etica del di- 
scorso come K. O. Apel e J. Habermas (Apel, 1977; Habermas, 1985). Non 
sono mancate le critiche a questa concezione che è stata considerata — ad 
esempio da B. Williams (1987) — non tanto come una spiegazione o un’ana- 
lisi neutra di quella che è l'etica per noi, quanto piuttosto come una posizione 
che cerca di imporre una ben precisa concezione, rigida e superata, della 
moralità. Altre critiche hanno rilevato come tale meta-etica sembri volere ne- 
gare, sul piano logico, la possibilità — invece del tutto aperta a ogni essere 
umano — di restare al di fuori di una vita etica così intesa. Hare ha cercato di 
rispondere a questo ultimo tipo di critiche precisando che la sua tesi non so- 


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30 ETICA 


stiene che non si può fare a meno di sottoscrivere nel corso della propria vita 
prescrizioni universalizzabili soverchianti, quanto piuttosto che non si può 
rendere conto in modo logicamente corretto della natura dell'etica e della 
morale fuoriuscendo da questo quadro esplicativo. 

Altri problemi aperti riguardano dimensioni ulteriori della meta-etica non- 
cognitivistica e avremo occasione di fermarci su di essi nei prossimi capitoli. 
Proprio in quanto la meta-etica non-cognitivistica si presenta, secondo chi 
scrive, come quella più adeguata e fertile si tratterà di completarne l'esame 
affrontandone anche le altre implicazioni, relative alla genesi dell’etica (cfr. 
$ 3.10), alle forme argomentative ad essa proprie fcfr. $$ 3.9 e 11) e ai suoi 
eventuali suggerimenti normativi (cfr. $ 4.7). 


2.7. La negazione dell'etica: libertà e determinismo. — Nel rendere conto 
delle posizioni che si sono occupate in generale della natura dell'etica dob- 
biamo soffermarci su quelle concezioni che hanno negato che in realtà vi sia 
uno spazio per le scelte etiche degli uomini. Per quanto riguarda queste posi- 
zioni — molto differenziate e sempre più diffuse nel secolo XX — distin- 
guiamo tra coloro che negano decisamente che gli uomini possano mai agire 
realmente in modo libero e dunque essere imputabili di una qualche respon. 
sabilità, e le posizioni che invece, pur ammettendo che gli uomini possano 
agire liberamente, negano che possano essere effettivamente motivati dalla ri- 
cerca di obiettivi non strettamente personali. Le negazioni dell'etica dell'ul- 
timo tipo nascono da quelle teorie psicologiche che non ammettono che gli 
esseri umani possano essere mossi ad agire da prospettive imparziali o valori 
più o meno universali. 

Le concezioni che negano qualsiasi spazio per una libera scelta da parte 
dell'uomo sono chiamate abitualmente deterministiche. Va subito precisato 
però che qui ciò che è in gioco non è tanto la questione su cui sembrano con- 
trapporsi deterministi e non- deterministi se vi possano mai essere per gli es- 
seri umani azioni del tutto immotivate e dunque arbitrarie, quanto piuttosto 
la questione se gli uomini possono scegliere liberamente di fare le azioni che 
vogliono fare sulla base delle ragioni e motivazioni a cui sono più sensibili, 
comprese le motivazioni e ragioni specificamente morali. Nella lettura che noi 
proponiamo dunque la questione della libertà e della responsabilità etica degli 
uomini non si colloca nel quadro di discussione sul determinismo e indeter- 
minismo proprio della filosofia medievale, incline a identificare la libertà degli 
uomini con un irrealizzabile libero arbitrio, ovvero con una libertà di volere in 
assenza di qualsiasi motivazione. In alternativa va invece accettata l’imposta- 
zione delle analisi sulla questione libertà-necessità dell'agire umano fatte va- 


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LA NATURA DELL'ETICA 31 


lere nella linea empiristica da Thomas Hobbes, John Locke, David Hume. 
Secondo questi pensatori è del tutto compatibile (0 se si vuole addirittura es- 
senziale) con il riconoscimento di una libertà e responsabilità morale nelle 
azioni umane, una posizione che considera le azioni umane sempre determi- 
nate o motivate da una qualche causa o ragione (W. K. Frankena, 1981: 155- 
162). Il punto decisivo nella diatriba non è dunque se le azioni umane siano o 
no sempre motivate da ragioni o cause, ma se gli uomini possano 0 meno sce- 
gliere liberamente di fare le azioni per le quali hanno motivi o ragioni. In que- 
sto senso la libertà delle azioni umane non si contrappone tanto all’esistenza 
di motivi o ragioni che determinano la volontà, quanto al fatto che gli esseri 
umani sono costretti a fare certe azioni da altri esseri wmani o che vi siano 
comunque delle cause — che essi non possono in alcun modo controllare — 
che li costringano a fare delle azioni che, ove fossero liberi, non farebbero. Si 
è costretti a concludere che gli uomini non sono liberi € l'etica non ha alcuna 
possibilità di sussistere laddove si ritenga non tanto che tutte le azioni umane 
abbiano {o debbano avere) dei motivi, delle cause o delle ragioni, ma si ri- 
tenga che tali cause e motivi agiscano necessariamente anche laddove gli uo- 
mini credano di avere altri motivi e ragioni per agire. Dunque non sussiste 
uno spazio per l'etica quando si abbraccia una concezione che ci porta a rite- 
nere tutte le azioni umane come effetto necessario di cause esterne ai diffe- 
renti individui umani esistenti, cause sulle quali né ciascuno di questi esseri 
umani singolarmente né in collegamento con gli altri può avere una qualche 
influenza. 

Esistono numerose concezioni che specialmente nel corso del XIX e XX 
secolo hanno insistito sulla completa assenza di spazio per una libera scelta 
nelle azioni umane nel senso che abbiamo appena definito. Non possiamo qui 
rendere conto di tutte le concezioni del genere; ricordiamo solo quelle più 
importanti e certamente inquietanti per chi crede a una qualche realtà ed ef- 
ficacia delle distinzioni morali. 

Già Darwin, nei primi appunti stesi in collegamento con le sue prime ri- 
flessioni tra il 1833 e il 1840 sulle sue scoperte intorno alle trasformazioni 
delle specie viventi, suggeriva le implicazioni per la morale di una concezione 
evoluzionistica (Desmond e Moore, 1992: 293-320). Tutto il processo evolu- 
tivo è dominato dal caso e dalla sopravvivenza dei più adatti in termini mera- 
mente biologici e sessuali. Come risulta chiaro poi la lotta per la vita in ter- 
mini evolutivi riguarda non già i singoli individui, ma le specie nel loro com- 
plesso. In questo quadro tutte le azioni umane si presentano come frutto di 
cause che riguardano complessivamente la specie umana. Questa prospettiva 
biologica sulla vita degli uomini è stata sviluppata e approfondita da autori 


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32 ETICA 


che hanno elaborato quella che è chiamata sociobiologia (Wilson, 1979). A) di 
là delle opzioni apparentemente libere che si presentano alle scelte umane, in 
realtà tutte le azioni umane sono casuali e soggette a condizionamenti in ter- 
mini di ciò che è vantaggioso per la sopravvivenza della specie complessiva- 
mente intesa. Così se identifichiamo l'etica con la presenza di una dimensione 
cooperativa nelle azioni umane, tale dimensione non è altro che un effetto 
dell'evoluzione biologica naturale e le azioni che ne conseguono sono del 
tutto istintive e sottratte al nostro controllo. Del tutto illusoria è dunque la 
prospettiva dell'etica che vi siano dei contlitti, disaccordi e scelte drammati- 
che di fronte agli uomini e che essi possano responsabilmente e liberamente 
dare ad esse una soluzione. La vita umana è sottoposta alle leggi generali della 
vita e del tutto casualmente si realizzano processi e trasformazioni, i quali tutti 
vanno dunque al di là di qualsiasi libera scelta individuale. 

Un'altra concezione che sembra negare qualsiasi spazio alle scelte libere e 
responsabili di cui tratta l'etica è quella che viene considerata come una con- 
seguenza dell’accettazione dell’impostazione psicanalitica di Sigmund Freud. 
È dubbio che una tale schematica concezione sia presente in Freud, che, se 
leggiamo opere come Das Unbebagen in der Kultur (1929, Il disagio della ci- 
viltà) sembra piuttosto impegnato a rendere conto della genesi della coscienza 
morale all’interno della sua generale teoria sulla dinamica psichica, senza vo- 
lersi dunque impegnare su di un piano essenzialistico (Freud, 1978). Ma vi è 
comunque una vulgata che considera una conseguenza dell’impostazione psi- 
canalitica la tesi che le azioni umane individuali non possono essere viste 
come frutto di scelte consapevoli, ma sono il risultato piuttosto di motivazioni 
inconsce che sfuggono a qualsiasi controllo individuale. Quando noi rite- 
niamo di avere di fronte determinate alternative tra le quali scegliere razional- 
mente la migliore, in realtà siamo spinti a percorrere una certa strada da pul- 
sioni profonde (amore- odio ecc.) che sfuggono completamente al nostro con- 
trollo consapevole e che dettano — anche tenendo conto della nostra storia 
psicologica personale — i nostri comportamenti in modo necessario. Una 
analoga riduzione delle motivazioni consapevoli ad altre più profonde cause si 
troverebbe nella concezione di Carl Gustav Jung e in tutte quelle dottrine che 
elaborano una qualche tipologia o caratteriologia. 

Rispetto a questi approcci alle azioni umane che negano all’etica un qua- 
lunque ruolo va mossa una critica preliminare. Queste tesi hanno un valore se 
sono presentate come ipotesi scientifiche, ma se vengono presentate come tali 
la loro validità non può essere estesa appunto al di là di quella propria di 
spiegazioni empiriche per un campo ben determinato di comportamenti 
umani. Rendere conto delle azioni umane secondo una spiegazione evoluzio- 


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LA NATURA DELL'ETICA 33 


nistica non può essere presentato — pena l'abbandono del piano scientifico di 
discorso — come l’unica e necessaria spiegazione di qualsiasi azione umana, 
come una sorta di caratterizzazione essenzialistica e sostanzialistica della na- 
tura delle cose. Gli stessi teorici, metodologicamente più avvertiti, dell’evolu- 
zionismo — come ad esempio Richard Dawkins (Dawkins, 1992) — non 
hanno mancato di temperare in vari modi questa semplicistica negazione del- 
l'etica. Da una parte hanno così insistito sull'incidenza solo statistica e non 
necessaria delle cause evolutive. Dall'altra hanno anche riconosciuto una ca- 
pacità degli esseri umani, non solo di essere consapevoli dei processi evolutivi, 
ma di sottrarsi proprio sul piano procreativo ai meccanismi dettati dall’evolu- 
zione, Infine si sono impegnati ad elaborare spiegazioni che rendono conto 
della superiorità, sul piano evolutivo, di quelle culture che realizzano al loro 
interno un equilibrio selettivo stabile intorno ad abitudini cooperative, ri- 
spetto alle culture dominate dal completo egoismo individuale. 

Una estensione dunque su di un piano ontologico o metafisico dell’evolu- 
zionismo risulta effettivamente incompatibile con qualsiasi altra spiegazione o 
interpretazione delle azioni umane, ma in quanto tale rappresenta una fuoriu- 
scita dal piano del discorso scientifico e la trasformazione dell’evoluzionismo 
in una religione. Non diversamente si può ritenere indebita la generalizza 
zione del modello esplicativo proprio della psicanalisi a tutte le situazioni in 
cui gli uomini scelgono, decidono e deliberano. La fertilità della psicanalisi è 
indubbia laddove è presentata come una spiegazione di ben precise azioni e di 
situazioni patologiche del comportamento umano. Ma non si può se non im- 
propriamente estenderla in modo tale che essa pretenda di spiegare tutte le 
azioni umane in qualsiasi situazione con le forze e pulsioni inconsce su cui 
richiama l’attenzione, 

Un'altra strada è stata percorsa sempre più insistentemente negli ultimi 
due secoli per negare qualsiasi spazio all'etica. Si tratta qui di quella posizione 
che sostiene che gli uomini sono in definitiva mossi solo da motivazioni del 
tutto personali ed egoistiche e che dunque cercano sempre e solo la soddisfa- 
zione dei loro interessi. È poi molto diffusa la tendenza a caratterizzare questi 
interessi in termini strettamente economici. La negazione dell'etica in questo 
senso deriva da una concezione essenzialistica dell'azione umana che identi- 
fica come unico movente di tutte le scelte la realizzazione del massimo vantag- 
gio da un punto di vista economico. Secondo alcuni — ad esempio Louis Du- 
mont (Dumont, 1984) — è questo il tipo di prognosi sulla civilizzazione 
umana nell'Occidente che troveremmo già in Bernard de Mandeville (Mande- 
ville, 1987) e in Smith e che dovremmo realisticamente fare nostra. La tesi 
generale è che la realizzazione e il consolidarsi delle società dominate dalla 


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34 ETICA 


logica del mercato rende praticamente impossibile la ricerca da parte di cia- 
scun essere umano di obiettivi non strettamenté autointeressati. Vi sarebbe 
quindi, paralletamente al progressivo consolidarsi delle strutture delle società 
di mercato, una vera e propria morte dell’etica. In luogo di una spiegazione 
pluralistica — ancora legittima nel secolo XVII — dell’azione umana che la 
riconduceva a ragioni etiche, economiche, di moda ecc. ora saremmo dunque 
costretti a fare nostra una spiegazione monistica per la quale le uniche ragioni 
delle scelte e decisioni sono economiche, e tra l'altro quasi mai sotto il con- 
trollo dell'individuo. Secondo questa filosofia della civilizzazione sono dun- 
que del tutto scomparse le condizioni che permettono azioni mosse da ragioni 
etiche, altruistiche 0 universalistiche. Ancora una volta una spiegazione che 
può avere una sua fertilità se tenuta su di un terreno del tutto limitato finisce 
poi con il risultare inaccettabile una volta estesa su di un piano essenzialistico. 
Tutte queste concezioni contestano la possibilità dell'etica sulla base di 
una pretesa ingiustificata di caratterizzare in termini sostanziali ed essenziali 
l'azione umana. La ricostruzione che dell'azione umana viene offerta da chi 
ammette l'incidenza delle ragioni etiche è una delle possibili spiegazioni che 
restano aperte nella nostra cultura. Certo non l’unica, forse nemmeno quella 
più importante e significativa, ma di sicuro una spiegazione fertile sul piano 
esplicativo e non priva di forza prognostica. Se si cerca di rendere conto delle 
azioni umane sulla base dell'assunzione che gli uomini sono mossi ad agire 
anche da ragioni etiche si riesce — come ha recentemente in vari modi mo- 
strato Amartya K. Sen (Sen, 1986, 1988, 1992, 1994) — a rendere conto di 
alcuni comportamenti effettivi e a prevedere alcune situazioni future in modo 
non diverso (e non meno esteso) di quanto accade con le altre spiegazioni. 


3. Fondazione, giustificazione e spiegazione: l’epistemologia dell'etica. 


3.1. Dalla meta-etica all'epistemologia. — La ricerca rivolta a identificare 
la natura della morale, il senso delle nozioni che operano nell'etica, rappre- 
senta un passaggio preliminare prima di affrontare un altro genere di que- 
stioni decisivo per l'etica, quello relativo alle vie disponibili per fondare, giu- 
stificare, o eventualmente spiegare, le scelte e i giudizi normativi. Sapere che 
tipo di domande ci poniamo quando siamo alla ricerca di ciò che è bene © 
giusto fare in una data situazione è appunto preliminare — da un punto di 
vista logico e concettuale — per arrivare a individuare le procedure mediante 
le quali si può trovare la risposta adeguata. 

Rendiamo dunque conto in questo paragrafo delle diverse linee lungo le 
quali si è risposto al problema dei modi in cui si possono conoscere, fondare 0 


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L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 35 


giustificare le norme e i valori con cui l'etica ha a che fare. Nel corso del se- 
colo XX vi è stato, prima, uno spostamento deciso dal problema di come 
sono conoscibili i valori etici, a quello di come sono fondabili i nostri giudizi 
normativi e le nostre decisioni pratiche. Successivamente l'elaborazione filo- 
sofica ha visto affermarsi una prospettiva che in luogo della tesi della fonda- 
bilità delle conclusioni etiche ha preferito limitarsi a sostenere la possibilità di 
giustificarli o di argomentare pro o contro i valori in gioco. In questo para- 
grafo renderemo anche conto di un altro approccio che si è andato sempre 
più consolidando nella riflessione etica del secolo XX rivolto non più a fon- 
dare o giustificare le conclusioni normative, quanto piuttosto a spiegare la ge- 
nesi dell'etica e delle distinzioni che in essa vengono istituite. Quest'ultimo 
approccio che abbandona le pretese di elaborare criteri gnoseologici ed epi- 
stemologicì per passare ad un'analisi propriamente esplicativa non coinvolge 
solo le posizioni (di cui abbiamo reso conto nel $ 2.7) di coloro che negano la 
validità delle distinzioni etiche. Un analogo approccio esplicativo troviamo in 
chi occupandosi dell'etica filosofica si rifiuta di passare sul piano più diretta- 
mente prescrittivo e normativo, fissando così i limiti dell'intervento riflessivo 
nella determinazione della natura dell'etica, dei tipi di procedure gnoseologi- 
che ed epistemologiche che essa coinvolge e dei meccanismi genetici che 
l'hanno costituita. 

Nel rendere conto dei diversi modelli gnoseologici ed epistemologici rico- 
noscibili nell’etica moderna e contemporanea mescoleremo ancora la prospet- 
tiva storica con quella critica e teorica. Per procedere con questo bilancia- 
mento delle due prospettive le partizioni di questo paragrafo non seguiranno 
l'ordine di quelle esposte nel precedente paragrafo, né riprenderanno in 
modo esclusivo le distinzioni già fissate a livello di meta-etica. Dal punto di 
vista gnoseologico ed epistemologico alcune delle partizioni fatte valere sul 
piano meta-etico risultano infatti o troppo strette o troppo larghe, nel senso che 
un approfondimento analitico permette di riconoscere diverse procedure epi- 
stemologiche alla base della stessa concezione meta-etica o procedure episte- 
mologiche analoghe laddove siamo costretti a tracciare delle distinzioni sul pia- 
no meta-etico. Il lettore si accorgerà che il quadro precedentemente delineato di 
concezioni meta-etiche trova comunque un riscontro in questo paragrafo. 


3.2. La conoscibilità della legge divina. — Come si è già avuto modo di 
sottolineare il secolo XVII rappresenta un punto di riferimento essenziale per 
chi voglia rendere conto dello sviluppo dell’etica teorica nel senso in cui ne 
stiamo trattando in questo scritto. Numerosi pensatori riconoscono che le so- 
luzioni a proposito dell'etica devono essere tali da poter essere accettate da 


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36 ETICA 


esserti umani, finiti razionali, che siano in grado di ripercorrere la strada che 
viene ad essi indicata per superare coniflitti e disaccordi. Questa prospettiva di 
ricerca sull’etica e sulle sue basi epistemologiche e gnoseologiche è ad esem- 
pio del tutto operante in Cartesio, che però non la percorre arrestandosi alla 
sua soglia. Infatti Cartesio non sottopone anche le verità etiche all’analisi in 
termini di dubbio e di ricerca della certezza a cui egli sottopone le altre verità, 
e proprio in quanto non intraprende tale indagine si arresta a quella che lui 
stesso chiama una «morale provvisoria». Una morale assunta acriticamente 
dalla tradizione e che andrà confermata o sostituita dopo che si sarà percorsa 
sisternaticamente la strada della ricerca critica sulle verità morali. Questa ri- 
nuncia dichiarata a percorrere una strada fondazionale non esclude, del resto, 
la presenza nell'opera di Cartesio di una vasta ricerca sulle basi antropologi- 
che della vita morale e una rivisitazione, per molti versi scettica, delle conce- 
zioni tradizionali di virtù e felicità (Canziani, 1980). 

Una ricerca sulle basi razionali dell'etica viene invece esplicitamente av- 
viata, nel secolo XVII, da pensatori come Hobbes e Locke. Negli scritti di 
Locke troviamo in realtà percorse diverse strategie gnoseologiche ed episte- 
mologiche per l'etica e il suo problema fondamentale fu proprio quello della 
conoscibilità della legge morale e degli articoli della fede religiosa (Colman, 
1983; Fagiani, 1983). Locke dunque affronta sistematicamente la questione di 
come sia conoscibile la legge morale naturale in un contesto che assume che la 
legge naturale è un comando divino. Dopo avere ricostruito analiticamente 
diverse strategie alternative mediante le quali si potrebbe giungere a cono- 
scere tale comando Locke finisce poi però con il dichiarare la loro inadegua- 
tezza. Possiamo quindi ricavare dai suoi scritti sia una indicazione delle di- 
verse procedure epistemologiche a cui può fare appello chi accetta la tesi che 
l’etica sia in definitiva un insieme di comandi divini, sia l'indicazione dei limiti 
propri di queste procedure e dunque la difficoltà complessiva di dare una 
base razionale al tentativo di derivare l’etica da tesi di ordine religioso. 

Una prima strategia consiste nel legare la conoscibilità e autorevolezza della 
legge morale quale comando divino ad alcuni testi in cui tale legge è rivelata. 
Locke si mostra petò consapevole dei limiti presenti in questo appello ai testi 
rivelati. Egli riconosce, ad esempio in The Reasonableness of Christianity, as de- 
liver'd in the Scriptures (1695, La ragionevolezza del Cristianesimo), che il ricorso 
ai testi sacri per la tradizione cristiana può al massimo valere sul piano peda- 
gogico e retorico. Argomenti analoghi possono essere fatti valere per tutte le 
religioni positive. Il ricorso ai testi sacri e rivelati può rappresentare un aiuto e 
una facilitazione per chi si preoccupi di convincere 0 persuadere altri, ma non 
può però rappresentare una via adeguata per giustificare una conclusione etica 


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L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 37 


per tutti gli esseri umani, Il collegamento della verità etica conoscibile con la 
lettura di qualche testo in cui la divinità ha espresso i suoi comandi — oltre il 
problema della molteplicità delle interpretazioni possibili della lettera del testo 
— comporterebbe l’assurda conseguenza di considerare tutta quella parte del- 
l'umanità che è vissuta prima, 0 vive al di fuori, della rivelazione come del tutto 
priva di etica. Una ulteriore conseguenza assurda: considerare del tutto privi di 
morale coloro che sono in disaccordo con noi su alcuni dei punti caratterizzanti 
la religione rivelata che noi accettiamo. 

Lo stesso Locke fa valere una obiezione più generale nei confronti del ten- 
tativo di ricondurre la base di validità di una tesi etica al fatto che si tratti del 
comando di una certa divinità. Si tratta di una critica contro il volontatismo di 
quei teologi che considerano invece questa strategia come in grado di fondare 
la moralità. La critica generale presente negli scritti di Locke — già negli Es- 
says (Saggi) del 1664 (Locke, 1973) — è che il fatto di trovare un certo co- 
mando espresso in un testo che — più o meno fondatamente — crediamo 
espressione della volontà divina è del tutto irrilevante sul piano etico; su que- 
sto piano il problema che si pone non è tanto se ci si trova di fronte ad un 
comando di qualcuno, quanto piuttosto se ciò che viene comandato è giusto. I 
sostenitori dell’origine divina dell’etica hanno sempre considerato come ne- 
cessaria e sufficiente la coincidenza tra volontà divina e legge morale, ma la 
riflessione moderna e contemporanea ha invece fatto valere sempre di più 
l'autonomia dell'etica. Questa autonomia viene affermata già a livello concet- 
tuale distinguendo nettamente le nozioni etiche dalle nozioni che fanno rife- 
rimento a ciò che è comandato da qualcuno, sia pure l'Autore della Natura. Il 
riconoscimento di tale autonomia ha poi un riflesso sul piano epistemologico 
e gnoseologico e porta a fissare con precisione la diversità delle procedure 
gnoseologiche con cui si conosce la volontà divina rivelata nei testi sacri ri- 
spetto a quelle con cui si conosce la legge morale valida. 

Prima di illustrare le vie percorse in positivo da Locke per cercare di fon- 
dare razionalmente le conclusioni etiche soffermiamoci invece su una strada 
da lui rifiutata. Si tratta di quella concezione che indica in una particolare 
coscienza 0 facoltà morale il modo più sicuro per arrivare a conoscere diret- 
tamente i comandi mortali della divinità. Una strategia per fondare e cono- 
scere l'etica tuttora molto frequentata e cara ai fautori di una riduzione del- 
l'etica alla religione. Per quanto riguarda Locke nel I libro dell’Essay nega che 
alla «coscienza» ci si possa appellare come a una prova valida in morale e la 
nozione di coscienza viene fatta rientrare nell'armamentario delle assunzioni 
innatistiche che non possono avere alcun riscontro sul piano empirico (Locke, 
1971; 92-93). La concezione che Dio stesso ci comanda direttamente — senza 


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38 ETICA 


per questo servirsi della rivelazione — la legge morale, e che noi abbiamo una 
cognizione diretta di tale legge attraverso la nostra coscienza, è stata svilup- 
pata, nel secolo XVII, da alcuni neo- platonici di Cambridge, e in particolare 
da Herbert di Cherbury con la sua dottrina delle notiones comsmunes. La 
stessa linea fu poi riproposta nel secolo XVIII su basi nuove da intuizionisti e 
sentimentalisti che conservavano un quadro provvidenzialistico. Così Joseph 
Butler legava la conoscenza delle verità etiche all’attività intuitiva di una pe- 
culiare «coscienza» capace di obbligare e fornita di autorevolezza, e Hutche- 
son indicava nel «senso morale» la base di quel particolare sentimento che ci 
fa cogliere la virtà in un mondo ordinato dall’Autore della Natura. Contro la 
tesi che Dio ci rende noti direttamente nella coscienza i suoi ordini morali vi 
sono alcune argomentazioni già formulate da Locke. L'appello alla coscienza 
non può essere certo un criterio definitivo in etica perché dovremmo disporre 
di almeno altre due ulteriori specificazioni. In primo luogo un qualche criterio 
che ci permettesse di discriminare quei dettami della nostra coscienza che 
sono affidabili da quelli che sono errati. In secondo luogo un qualche fonda- 
mento che ci autorizzasse a ritenere — laddove sorgessero disaccordi — che 
ciò che ci fa conoscere la nostra coscienza è veramente la legge morale per 
tutti gli uomini, anche per quelli che con i loro discorsi e con le loro azioni 
testimoniano di non trovare nelle loro coscienze principi analoghi ai nostri. 
Rifiutata la via della coscienza Locke invece si impegna positivamente nel 
cercare di conciliare una concezione che vede la morale come caratterizzata 
da comandi divini con una strategia empiristica. L'accettazione di una episte- 
mologia e gnoseologia empiristiche porta Locke ad elaborare una strada indi- 
retta di fondazione e giustificazione della legge morale naturale come co- 
rando divino. Secondo questa via di fondazione indiretta noi giungiamo ad 
accettare il comando morale divino espresso nella legge naturale dopo avere 
percorso un ragionamento che ci porta a risalire a Dio come all'Autore della 
Natura buono che ha creato gli esseri umani in modo tale che essi effettiva- 
mente siano in condizione di ottenere la loro felicità. Ovviamente questa stra- 
tegia comporta l’assunzione che ciò che Dio comanda non può che essere il 
bene per gli uomini, un passaggio verso l'accettazione dell’intellettualismo 
etico che non vede più nella volontà divina l'unico fondamento del bene e 
rende del tutto secondario il valore dei testi rivelati. La strategia di giustifica- 
zione della validità della legge naturale morale avanzata da Locke comprende 
diversi passaggi: in primo luogo trovando un ordine o un disegno nel mondo 
si risale a un autore della natura; poi si postula una natura divina buona e 
razionale per cui l’autore della natura non può che volere la felicità degli es- 
seri umani; ancora si crede che l’autore della natura non solo abbia trasmesso 


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L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 39 


agli esseri umani un insieme di leggi naturali, universali ed eterne, per realiz- 
zare la loro felicità, ma anche che abbia messo gli esseri umani in condizioni 
di conoscere tali leggi con certezza con il ricorso alle loro facoltà naturali del 
senso e della ragione; infine si assume che conoscere tali leggi naturali equi- 
vale a essere obbligati a obbedire a ciò che ci richiedono. Le lacune e le cir. 
colarità presenti in questi vari passaggi risultavano già evidenti allo stesso 
Locke che nel corso di tutta la sua vita si affannò a cercare di ovviare ad esse. 

In effetti la procedura di giustificazione lockiana della validità delle leggi 
naturali come comandi divini comporta il continuo passaggio dal piano empi- 
rico a quello sovrannaturale, dal piano dell'essere a quello del dovere. Con 
l’aiuto di questa strategia si potrà al massimo disporre di ragioni del tutto ipo- 
tetiche a favore di ciò che noi siamo già giunti ad accettare come un comando 
divino del tutto indipendentemente e prima del ricorso a queste procedure 
gnoseologiche ed epistemologiche. Consapevole di ciò Locke presentava nel- 
l’ultima parte della sua vita il suo tentativo di elaborare un'etica dimostrativa 
come una via per confermare le opzioni morali trasmesse dalla tradizione cri- 
stiana. Una volta che cadono le assunzioni che sorreggono l'argomento del 
disegno e le pretese sulla bontà provvidenziale dell'Autore della Natura que- 
sta strategia sembra crollare, Non c'è più nessuna divinità da cui far dipen- 
dere la validità della legge morale, nulla garantisce che l’autore della natura 
sia buono piuttosto che malvagio, nulla è più in grado comunque di farci su- 
perare l'abisso tra l'eventuale conoscenza di una norma come comando divino 
e il nostro accettarla come obbligante. Locke stesso cercò di superare questo 
abisso, ma legando la validità e l'efficacia della legge morale naturale non 
tanto al riconoscimento che si tratta di un comando divino in sé giusto, 
quanto piuttosto al timore per la sanzione che sarebbe derivata in un'altra vita 
in caso di infrazione verso di essa. Ma questo tentativo di agganciare la vali- 
dità e l'obbligatorietà di un principio etico a una qualche sanzione che segue 
una infrazione verso di esso, è una strategia che non possiamo più percorrere 
— indipendentemente dall’accettabilità o meno delle credenze sull’immorta- 
lità dell'anima e sull'esistenza di uno stato futuro — ove riconosciamo l’auto- 
nomia dell'etica. Fare appello a qualche sanzione ultraterrena infatti al mas- 
simo riesce a giustificare o fondare che noi si faccia qualcosa perché temiamo 
la sanzione o cerchiamo i premi che una certa autorità lega a questi compor- 
tamenti, Ma percorrere questa strada impedisce di vedere che il piano concet- 
tuale investito dall’etica è quello che comporta fare ciò che è giusto o bene 
fare e non già quello che comporta fare una certa cosa solo perché teniamo la 
sanzione di una qualche autorità (per quanto illuminata} ove non dovessimo 
obbedire ai suoi comandi. 


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40 ETICA 


33. La fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale. — Un'altra 
strada percorsa per fondare l'assunzione di un punto di vista etico è quella 
che cerca di riconnettere la ricerca individuale del bene personale con la con- 
siderazione pet il bene comune. Naturalmente non si tratta di quelle conce- 
zioni che sulla base di considerazioni empiriche e a posteriori concludono che 
la ricerca del bene personale risulta essere l’unica via che consente di realiz- 
zare un incremento del bene comune. Una concezione del genere è spesso alla 
base della difesa dell'economia di mercato e viene attribuita a Smith ed è stata 
esposta in modo approfondito da FÀ. von Hayek (Hayek, 1986). Affron- 
tiamo invece in questa sezione la questione se si possa o meno fornire un fon- 
damento razionale all'esigenza di essere morali: dove si considerano razionali 
solo le argomentazioni che rinviano alla soddisfazione di propri interessi o 
piaceri e con «morale» si intende il rispetto di qualche regola generale o 
norma di cooperazione quali — ad esempio — mantenere le promesse, rispet- 
tare i contratti e obbedire alle leggi del proprio paese. 

Questa impostazione è presente in modo del tutto esplicito nelle pagine di 
Hobbes. Così la risposta che Hobbes dà allo «sciocco razionale» nel capitolo 
XV del Leviathan, or tbe Matter, Forme and Power of a Common-wealth Eccle- 
siasticali and Civili (1651, Il leviatano; Hobbes, 1976: 139-143) è rivolta a cer- 
care di mostrare che, calcolando sulla base degli interessi in gioco, la salva- 
guardia di un minimo di principi etici e cooperativi è vantaggiosa per i diversi 
individui. Troviamo dunque nelle pagine di Hobbes il tentativo di elaborare 
una giustificazione di ordine prudenziale a favore del riconoscimento dell'op- 
portunità di rispettare i principi dell'etica. La razionalità in gioco nel calcolo 
prudenziale è stata sistematicamente delineata — nei suoi assiomi e nelle sue 
deduzioni — nel corso del XX secolo dalla «teoria della scelta razionale 0 
teoria delle decisioni» (Axelrod, 1985; Resnik, 1990). Proprio tra i teorici 
della scelta razionale di questo secolo vediamo ripresentarsi il problema di 
Hobbes formulato in un diverso modo (Kavka, 1986). Si tratta cioè di indivi- 
duare se e in che modo sia possibile provare la razionalità dell’accettazione di 
un minimo di regole cooperative anche quando quest’accettazione sembra es- 
sere in contrasto con i nostri interessi più immediati e diretti e ci si trovi in 
una situazione in cui un’eventuale nostra defezione unilaterale potrebbe sfug- 
gire al controllo altrui. 

Già in Hobbes troviamo dunque un tentativo di argomentare a favore 
dell'accettazione di regole © principi etici contro le pretese dello «sciocco 
razionale» di fare sempre e comunque ciò che è per lui più vantaggioso e 
dunque di defezionare o sospendere la propria fedeltà nei confronti della re- 
gola o del principio etico quando ciò è per lui più conveniente o quando 


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L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 41 


comunque può sfuggire alla sanzione altrui. Torneremo su queste argomen- 
tazioni quando — nel $ 4.8 — affronteremo i tentativi di presentare come una 
vera e propria teoria etica normativa la teoria della scelta razionale. La situa- 
zione dello «sciocco razionale» è molto simile a quella di cui si occupano i 
teorici della scelta razionale quando affrontano i problemi posti dal «dilemma 
del prigioniero», e si impegnano nell’analisi del comportamento del free rider. 
Già Hobbes elaborava alcune argomentazioni che insistevano sulla rischio- 
sità di un comportamento di defezione unilaterale e sulla probabilità di rica- 
vare un danno nel momento in cui gli altri — prima o poi — giungeranno a 
scoprirlo. 

Negli ultimi decenni il paradigma hobbesiano è stato in vari modi inter- 
pretato e sviluppato da diversi teorici dell'etica. Particolarmente stringente è 
stato il modo in cui David Gauthier (Gauthier, 1986) ha cercato di fondare la 
preferibilità di avere una morale in luogo di esserne privi all'interno di quella 
posizione che ha caratterizzato come «contrattualismo reale» per distinguerla 
dal «contrattualismo ideale» di Rawls (Rawls, 1982). Secondo Gauthier il 
quadro concettuale di Rawls con l'assunzione in partenza della validità del 
principio di equità implica già l'accettazione di un piano etico e dunque dà 
per dimostrato quella che vorrebbe giustificare. Gauthier cerca di elaborare 
invece una teoria in cui l'accettazione dell’etica e del contratto sociale origina- 
rio che garantisce la vita civile e la cooperazione non viene fatta dipendere da 
condizioni ideali presupposte, ma piuttosto dal beneficio che ciascuno dei 
contraenti ricava in termini di ragioni prudenziali o di utilità personale. 

Il programma di Gauthier è quello di riuscire a mostrare all’interno della 
teoria della scelta razionale come sia più conveniente e vantaggioso essere un 
«massimizzatore vincolato» dall’accettazione di qualche principio etico inter- 
personale, piuttosto che un «massimizzatore diretto» che tende sempre e solo 
alla soddisfazione dei propri interessi immediati. Gauthier elabora tutta una 
serie di argomenti che fanno emergere l’ottimalità dei risultati raggiunti attra- 
verso la via della massimizzazione vincolata, una volta messi a confronto con 
le disponibilità di partenza o con i risultati raggiungibili attraverso la massi- 
mizzazione diretta propria di chi procede come un free rider, 

Gauthier sostiene che il modo in cui un agente delibera influenza le op- 
portunità da lui attese. Così se guardiamo al modo di deliberare proprio di un 
massimizzatore vincolato potremo aspettarci che egli consenta volontaria- 
mente con i termini di un accordo precedente, anche se questo comporta che 
egli così vincoli il diretto perseguimento dei suoi interessi. Ma sulla base di 
tali aspettative il massimizzatore sarà il benvenuto come partner în progetti 
cooperativi reciprocamente benefici. Se invece consideriamo il modo di deli- 


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42 ETICA 


berare proprio di un massimizzatore diretto, da costui non potremo aspettarci 
che consenta con i termini dei suoi precedenti accordi a meno che ciò non 
contribuisca direttamente a soddisfare i suoi interessi. Ma proprio sulla base 
di questa aspettativa sul suo comportamento il massimizzatote diretto sarà 
estromesso come partner nelle iniziative cooperative in quanto non si può ge- 
muinamente avere fiducia in lui. La conclusione di Gauthier è dunque che il 
massimizzatore vincolato può aspettarsi di godere di opportunità che invece il 
massimizzatore diretto può solo prevedere che gli saranno negate. Si tratta di 
una differenza che evidentemente opera a tutto vantaggio del massimizzatore 
vincolato. Sulla base di questa argomentazione Gauthier conclude che si può 
ritenere razionale incorporare nelle proprie deliberazioni i vincoli con cui si è 
razionalmente concordato come filtri tra possibili azioni tra cui scegliere, Ed è 
chiaro che qui razionale significa un calcolo con un saldo positivo a proposito 
della soddisfazione dei propri interessi. 

La teoria di Gauthier si presenta come molto potente in quanto presume 
di potere dimostrare la razionalità dell'assunzione di vincoli etici come mezzo 
per realizzare un surplus di soddisfazione dei propri interessi. Ma l'elabora- 
zione di Gauthier va incontro a una serie di difficoltà che mostrano come sia 
ancora irrisolto il tentativo di fondare in termini prudenziali la preferibilità di 
una vita etica. Infatti da una parte, legando il saldo attivo che ricava il massi- 
mizzatore vincolato alla fiducia di altri nei suoi confronti, Gauthier sembra 
dovere fornire un criterio sicuro per discriminare tra situazioni in cui la fidu- 
cia è bene riposta e casi in cui invece una tale fiducia è errata. Un criterio del 
genere non viene offerto da Gauthier, ma si può ipotizzare che esso non sia 
disponibile e che, nel caso in cui si tratti di fiducia da concedere a un qualche 
partner, si debba oscillare tra una valutazione diretta, caso per caso, 0 una 
assunzione di trasparenza delle motivazioni del partner o una qualche circo- 
larità. L'altra difficoltà di ordine generale dell’argomentazione di Gauthier (e 
più in generale di quelle strategie che tentano di giustificare l’etica in termini 
prudenziali o di salvaguardia dei propri interessi) sta nella pretesa di potere 
dimostrare che il surplus di ottimalità conseguente all'assunzione di un vin- 
colo etico riguardi tutti i possibili contraenti con qualsiasi interesse di par- 
tenza. Gauthier si impegna ad elaborare una concezione non riduzionistica di 
«interessi» (concerns) non definendoli in termini strettamente economici, ma 
lastiandone indeterminato il contenuto mediante un rinvio alle preferenze di 
ciascuno. La cooperazione e dunque l'etica secondo Gauthier rende possibile 
soddisfare con esiti migliori i propri interessi di partenza — di qualsiasi tipo 
essi siano — che vanno quindi vincolati secondo le aspettative degli altri. Re- 
sta difficile da capire come si possa mettere su uno stesso piano interessi che 


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L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 43 


esigono soddisfazioni molto differenziate e, ciò che più importa, vincoli ben 
diversi. È difficile cioè riuscire a capire come si possa assemblare e conside- 
rare vincolabili alla stessa stregua preferenze di partenza per beni diversi (po- 
niamo, beni condivisibili e beni esclusivi). Difficile capire come si possa co- 
struire in modo unitario il «massimizzatore vincolato» tenuto conto che in 
genere gli interessi degli esseri umani — si intende dello stesso essere umano 
in tempi diversi — sono molteplici e probabilmente bisognosi di un qualche 
ordinamento interno. Ma la difficoltà più generale riguarda la pretesa della 
teoria di Gauthier di fornire la mossa vincente per convincere chiunque 
— solo sulla base di un calcolo strettamente interessato — della convenienza 
a interiorizzare una disposizione a rispettare gli accordi. Sembra opinabile che 
questa mossa possa risultare efficace anche laddove per esempio non si avesse 
già una disposizione a rispettare gli accordi o non vi fosse una qualche base 
motivazionale, emotiva o psicologica, sulla quale fare leva per radicarla o raf- 
forzarla. 

Vedremo poi in una sezione successiva (cfr. $ 4.8) un'altra difficoltà intrin- 
seca all'approccio prudenziale o della teoria della scelta razionale. Vedremo 
infatti che per restare coerenti con questo approccio finiamo, in alcune situa- 
zioni, con il tendere a risultati niente affatto ottimali. 


3.4. La natura umana come fondamento dell'etica: la via metafisica. — Vi 
sono però strategie per la fondazione dell'etica molto più antiche di quelle 
che abbiamo appena ricordato e ad esse si continua a ricorrere anche nel- 
l'etica moderna e contemporanea. Ad esempio quelle strategie che ritengono 
che nella natura umana siano rintracciabili dei caratteri e delle proprietà che 
fondano una particolare considerazione e rispetto per gli esseri umani, conse- 
guenza del riconoscimento di uno status privilegiato e unico dell’uomo nel- 
l'universo. Abbiamo visto sopra ($ 2.5) che vi sono cacatterizzazioni dell'etica 
che vedono al suo centro una legge naturale razionale e dunque concepiscono 
il comportamento morale come realizzazione di alcuni tratti propri delia na- 
tura umana. È costitutivo di questa strategia argomentativa il tentativo di de- 
rivare ciò che si deve fare da quella che è la natura umana in quanto tale. 

Due passaggi sono caratteristici di questa strategia sul piano fondazionale. 
In primo luogo questa strategia implica che si abbracci una forma di cogniti- 
vismo essenzialistico e può essere percorsa solo da chi ritenga di disporre di 
una concezione che coglie in modo assoluto e compiuto la natura umana. In 
effetti le etiche che procedono lungo questa strada presentano come loro pre- 
messa una qualche definizione sostanziale della natura umana e in genere ren- 
dono conto del suo posto nell'universo in termini metafisici o ontologici. Tro- 


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44 ETICA 


viamo percorsa questa linea nella tradizione aristotelico-tomistica di cui Jac- 
ques Maritain ha reso conto, nel XX secolo, in modo simpatetico (Maritain, 
1971). In questa strategia il contenuto dell'etica viene derivato da una defini- 
zione dell’uomo concepito come persona con una propria peculiare natura so- 
stanziale che ne garantisce la dignità. La difficoltà per questa strategia sta 
nella discutibilità della caratterizzazione della natura della persona, una na- 
tura della quale linee di pensiero diverse hanno reso conto in termini dei tutto 
alternativi e incompatibili (come argomentano Scarpelli, 1985: 181-203; Preti, 
1989: 63-95). Nell'elaborare la concezione della persona morale si procede di 
solito o impoverendo l'essere umano di tutti gli elementi concreti, o presen- 
tando l'individuo umano in vesti tanto astratte e ideali che una tale rappresen- 
tazione finisce con il non avere alcuna presa sul piano delle azioni concrete. 
Un'altra via che pone al centro della morale una definizione della natura per- 
sonale dell’uomo è quella che connota la persona con una serie di tratti che 
non sono altro che l’ipostatizzazione di assunzioni di ordine ideologico o reli- 
gioso. Una tale costruzione — e conseguente uso — della nozione della per- 
sona come fondamento dell'etica è ad esempio presente nel XX secolo nei 
documenti ufficiali su questioni morali della Chiesa Cattolica. 

Un altro limite di questa impostazione sta nel commettere in modo evi- 
dente l'errore logico di ridurre ciò che deve essere a ciò che è. Si tratta di 
quella «fallacia naturalistica» ovvero di quella offesa alla cosiddetta «legge di 
Hume» sulla quale ritorneremo più distesamente più avanti ($ 3.11). Infatti le 
diverse caratterizzazioni della natura umana in termini ontologici e sostanziali 
non fanno che richiamare ciò che è già proprio di tutti gli esseri umani. Ma 
allora non si riesce a capire in che modo da ciò che è già proprio dell’uomo in 
quanto tale si possa ricavare ciò che l’uomo dovrebbe fare e che in quanto 
dovrebbe ancora realizzare non può logicamente già essere. Proprio questa 
indebita riduzione del dovere all'essere è stata al centro di una serie di conte- 
stazioni contro tutte le forme di riduzionismo dal Settecento in avanti. Tali 
critiche sono particolarmente decisive contro quelle forme di ragionamento 
che presumono di potere conoscere quale sia il bene 0 il dovere per gli omini 
ricorrendo a una definizione di quella che è la loro natura essenziale. In gene- 
rale va quindi detto che chi procede per la strada di una fondazione ontolo- 
gica dell’etica compie tutta una serie di errori logici; il tentativo di ridurre i 
valori a fatti ovvero a realtà empiriche o metafisiche; il non cogliere la pecu- 
liare funzione prescrittiva e normativa che è propria di tutti i giudizi etici; 
l'assimilare le procedure mediante cui si può giustificare o argomentare in 
etica a quelle seguite dalle scienze empiriche o da presunte discipline metafi- 
siche per descrivere o spiegare il mondo come è. 


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L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 45 


3.5. La natura umana come fondamento dell'etica: la via empirica. — Vi è 
stata un'altra strategia che ha cercato di indicare come procedura propria 
della fondazione della morale un esame della natura umana. In questa linea 
non ci si propone di risalire a una qualche definizione metafisica o ontologica 
della natura umana, ma di cercare di cogliere, attraverso l’esperienza e l'osser- 
vazione, quale è per gli esseri umani il comportamento più consono ed ade- 
guato. Anche questa via di fondazione epistemologica dell'etica si presenta 
come destinata al fallimento. Da una parte la ricerca empirica sulla natura de- 
gli uomini ben difficilmente potrà ottenere dei risultati di ordine universale, 
ma finirà sempre con l’identificare la natura umana con alcuni tratti propri 
degli esseri umani in un determinato momento del tempo e in una ben precisa 
cultura. Inoltre questa strategia non può sfuggire alla fallacia tipica di tutte le 
forme di naturalismo che riducono ciò che deve essere a ciò che è. 

Tra le concezioni che hanno cercato di sviluppare sistematicamente il ten- 
tativo di provare attraverso un’indagine empirica che cosa è bene o giusto si 
colloca certamente l'evoluzionismo erede di Darwin, specialmente nella forma 
che esso ha preso con Herbert Spencer. Berirand Russell agli inizi di questo 
secolo negli Elements of Ethics (1910, Gli elementi dell'etica) criticava, in 
quanto riduzionistica, la pretesa di ricavare indicazioni etiche da un presunta 
linea dell'evoluzione umana empiticamente corroborata. Nella concezione 
evoluzionistica, rilevava Russell, la strategia argomentativa procede attraverso 
continui passaggi dal piano del riscontro empirico a quello delle definizioni 
implicite. Così laddove si identifica ciò che è giusto e ciò che è buono con la 
linea evolutiva che si ritiene avere scoperto empiricamente in realtà si è intro- 
dotta una definizione etica per cui ciò che è più evoluto è moralmente supe- 
riore, Proprio per queste difficoltà generali a cui va incontro l’evoluzionismo 
etico dopo l’ubriacatura dei sociobtologi, neo-evoluzionisti epistemologica- 
mente avvertiti come R. Dawkins (Dawkins, 1992; cfr. $ 2.7) rifiutano di pre- 
sentare le loro concezioni come una fondazione dell'etica. Tra l’altro non è 
certo possibile percorrere questa strategia con un minimo di utilità pratica, 
ovvero rintracciare in termini empirici la soluzione a un problema etico con- 
nettendola con un corso di azioni migliore evolutivamente, ovvero che favori- 
sce la sopravvivenza del genere umano o del gruppo di cui facciamo parte 
biologicamente. Non vi sono procedure empiriche che consentono di arrivare 
a confrontarsi con un’aliernativa secca tra ciò che favorisce la sopravvivenza 
del genere umano e ciò che l’ostacola. Non esistono di certo sicuri metodi 
empirici per decidere se una certa linea di comportamento è più o meno in 
contrasto con i bisogni della specie umana. Né può rappresentare una fuoriu- 
scita dalle difficoltà etiche con cui ci confrontiamo, sostenere che però a po- 


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46 ETICA 


steriori può essere poi dimostrato — ammesso che ciò sia possibile — che ciò 
che gli uomini fanno è quanto rende possibile la loro sopravvivenza. Si tratta 
di procedure dubbie perché finiscono con il razionalizzare catastrofi e guerre 
e comunque si tratta di ricostruzioni che vengono date dopo che le azioni 
sono state compiute e che poco dunque possono aiutarci sul piano delibera- 
tivo o della costruzione di una qualche concezione etica. 

Difficoltà insormontabili si presentano per tutti gli altri tentativi di ricon- 
durre il bene e il giusto a delle proprietà del mondo che, non diversamente 
dalla forza e dall’energia, possono essere verificate, misurate e quantificate. 
Ma più in generale e su un piano meno materiale sono destinati al fallimento 
tutti quei tentativi di ricondurre le procedure di fondazione dell'etica a quelle 
in uso in scienze, quali la psicologia e la sociologia, più direttamente rivolte 
allo studio degli uomini. La via di ricondurre l'etica alla psicologia è stata più 
volte percorsa nel corso del secolo XX. Così procedeva Moritz Schlick nei 
suoi Fragen der Ethik (1930, Problemi di etica) quando indicava nel bene ciò 
che è considerato più idoneo ai bisogni di un individuo che vuole mantenere 
l'armonia con il gruppo sociale di cui fa parte. Una definizione che, ammesso 
sia in grado di suggerire un qualche criterio di valutazione, dà per scontata la 
preferibilità — sempre e comunque — dell'armonia rispetto alla disarmonia, 
con ovvie implicazioni conformistiche. Un più recente tentativo di ricondurre 
le procedure della deliberazione etica a quelle in uso nella psicologia è stato 
fatto da Richard Brandt in A Theory of the Good and Right (1979, Una teoria 
del bene e del giusto). Brandt si è sforzato di mostrare come il processo deli- 
berativo dell’etica sia assimilabile alla tecnica usata nella terapia psicologica 
cognitiva per mettere alla prova i desideri e gli obiettivi sulla base di una va- 
lutazione della loro razionalità. Brandt sostiene che nell’etica come nella tera- 
pia cognitiva si tratta di valutare razionalmente se i desideri che abbiamo sono 
o meno adeguati: ovvero tali che li confermiamo avendo tutte le informazioni 
empiriche necessarie, tali che ci propongono obiettivi per realizzare i quali 
disponiamo dei mezzi necessari e infine tali che non comportano delle conse- 
guenze inaccettabili. Questi sono certamente passaggi a cui si può ricorrere 
quando è in corso una deliberazione etica, ma va aggiunto che parte dell’etica 
sembra consistere nel valutare se noi riteniamo che determinati desideri deb- 
bano essere accettati da tutti coloro che si trovino in situazioni analoghe. I 
riscontri empirici ci dicono quali desideri gli uomini hanno, ci presentano le 
distribuzioni statistiche di questi desideri, ma nulla dicono su quali siano i 
desideri da privilegiare e quelli da mortificare, quelli da rafforzare e quelli da 
controllare ad ostacolare. 

Non mancano coloro che non si fanno influenzare da questi dubbi sulla 


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L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 4? 


validità conclusiva in etica di un metodo di deliberazione e giudizio che cerchi 
di controllare empiricamente come stanno le cose per quanto riguarda gli uo- 
mini e le situazioni in discussione. Fautori di un naturalismo ingenuo, sosten- 
gono che noi di fatto già sappiamo che certe azioni sono negative e malvagie 
(per esempio l'assassinio o il furto) e che certe istituzioni (per esempio i con- 
tratti, il mantenimento delle promesse e la fedeltà verso un certo governo) 
sono giuste. Si può ammettere che questa strategia naturalistica aiuti a indivi- 
duare inclinazioni e tendenze ira le più radicate negli esseri umani, ma il 
punto è che tali inclinazioni e tendenze non possono essere giustificate con la 
mera argomentazione che di esse già disponiamo di fatto, o che sono univer- 
salmente presenti tra gli uomini (il che tra l'altro non si riesce a dimostrare). 
Ancora una volta si fa appello a predisposizioni o inclinazioni così generiche e 
indeterminate che il rinvio ad esse ci può essere di scarso aiuto nel risolvere i 
concreti problemi etici di fronte ai quali ci troviamo. Così, ad esempio, nes- 
suna indagine empirica sulla natura umana potrà riuscire a risolvere la que- 
stione se vanno considerati o meno come omicidi alcuni casi controversi (per 
esempio l'aborto nelle prime settimane dal concepimento, o alcuni casi di eu- 
tanasia volontaria). Inoltre forse egualmente naturali e per così dire universali 
si presentano inclinazioni all’aggressività e predisposizioni all’odio, al risenti- 
mento, e alla gelosia che non risultano certamente giustificate per la loro dif- 
fusione e riscontrabilità empirica. 


3.6. L'appello a una ragione universale come via per la fondazione del- 
l'etica. — Un'altra concezione epistemologica per l’etica è quella che fonda 
le sue conclusioni non tanto genericamente sulla natura umana, quanto più 
specificamente sulla ragione umana, ovvero su quello che è considerato il 
tratto più peculiare degli uomini. Così larga parte del giusnaturalismo del 
XVII secolo si presenta come un vero e proprio giusrazionalismo. Grozio e 
Pufendorf si impegnarono, infatti, nel tentativo di edificare il diritto, e più in 
generale l'etica come scienza razionale dimostrativa. Questo stesso tentativo è 
presente anche — accanto ad altre vie — in Locke. La possibilità di edificare 
la morale come scienza dimostrativa viene fatta dipendere da Locke dalla na- 
tura del tutto artificiale delle principali nozioni morali (come egli sostiene si 
tratta di «modi misti»), ciò che permette dunque di stringere con un collega- 
mento logicamente necessario tutti i giudizi in cui ricorrono nozioni morali 
(Locke, 1971: 632-636). Ma questo rigore dell’etica, questa sua struttura di- 
mostrativa, e la sua completa dipendenza dalla razionalità, è possibile solo in 
quanto si sono svuotate di qualsiasi portata realistica le nozioni etiche ricavan- 
dole integralmente da convenzioni linguistiche che permettono di dare vita a 


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418 ETICA 


definizioni essenziali di tipo arbitrario. In generale questa forma di razionali 
smo etico si unisce con una qualche fondazione contrattualistica dei principi 
dell'etica nel senso di un qualche accordo sulla definizione delle sue nozioni 
centrali. Ma la procedura contrattualistica può fondare una validità solamente 
convenzionale — ovvero limitata a coloro che accettano di sottoscrivere il 
patto — e dunque le basi della conseguente scienza etica dimostrativa risul- 
tano del tutto esili (cfr. $ 3.8). 

Il razionalismo seicentesco ha presentato anche tentativi di dare una por- 
tata realistica alle conclusioni etiche scoperte mediante la ragione. Così ad 
esempio in autori come Samuel Clarke e William Wollaston la ragione si pre- 
senta come la facoltà che permette di scoprire la verità in etica. Questo è pos- 
sibile solo in quanto si ritiene che il bene e il male, il giusto e l'ingiusto siano 
identificabili individuando quali sono le relazioni adeguate alle cose in se 
stesse. Nel caso di Clarke il giusto non è altro che una relazione di adegua- 
tezza tra l’azione e lo stato delle cose; per Wollaston il giusto non è altro che 
un collegamento veritativo tra l’azione e lo stato complessivo delle cose (così 
come l’ingiusto è dichiarare, con la propria azione, il falso). Ma questa pro- 
spettiva che riconduce il giusto e l’ingiusto a un giudizio di adeguatezza o 
inadeguatezza tra le azioni e lo stato delle cose comporta due assunzioni che 
saranno fortemente contestate nel pensiero successivo. Da una parte la con- 
vinzione che gli esseri siano ordinati secondo una gerarchia ben definita — la 
grande catena degli esseri — che distingue nettamente tra livelli separati on- 
tologicamente e forniti di valore diverso. Solo sulla base di questa assunzione 
si può ad esempio, all’interno di questa prospettiva, considerare inadeguata 
quella azione in cui l'animale sia preferito a un essere umano, o un essere 
umano trattato in modo inadeguato al suo status ontologico. Questa tesi della 
gerarchia tra gli esseri è contestata decisamente da tutta la ricerca evoluzioni- 
stica del XIX e XX secolo, Non necessariamente la scala evolutiva corri- 
sponde a una scala di valore; non mancano inoltre i casi di confine difficil- 
mente decidibili; nulla vieta di riconoscere valore anche agli esseri che si pre- 
sume siano al fondo della scala degli esseri. La seconda assunzione dei 
razionalisti realisti è che dare un giudizio sulla giustezza o meno di un atto {o 
di un evento) si possa identificare con l’individuare una qualche relazione tra 
le cose. Questa pretesa è criticata e dissolta da Hume che mostra con chia- 
rezza (Hume, 1987: I, 481-497) come un giudizio di relazione tra cose non 
possa in alcun modo esaurire lo spazio di un giudizio morale. È infatti indub- 
bio che relazioni dello stesso tipo di quelle in gioco nell’incesto sono rintrac- 
ciabili tra animali, o che tra le piante ritroviamo collegamenti analoghi a quelli 
che si hanno nel parricidio, eppure non possiamo certo concludere con un 


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L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 49 


giudizio morale sulle «azioni» degli animali e delle piante. La pretesa di ri- 
durre i giudizi morali a formule matematiche o a conclusioni razionali dimo- 
strative risulta del tutto fallace. 

Un tentativo — ma in una forma del tutto diversa dalle precedenti — di 
fondare l’etica sulla ragione è stato anche quello di Kant e di coloro che ne 
riprendono il razionalismo etico. In questo caso si sostiene che è la stessa ra- 
gione pratica o volontà pura, in quanto tale, che implica certi principi morali 
che vanno rispettati se si vuole dare coerenza alle nostre conclusioni etiche. 
Ciò che è bene e ciò che è giusto può essere quindi individuato conformando 
la nostra scelta e decisione alle presupposizioni che vincolano qualsiasi vo- 
lontà umana razionale. La razionalità pratica in quanto tale implica certi prin- 
cipi formali che sono rispettati solo da coloro che compiono le azioni effetti 
vamente giuste o ingiuste (Kant, 1970a; Landucci, 1993). È questa la strategia 
fondazionale seguita da Kant per ricavare le diverse formulazioni dell'impera- 
tivo categorico (si veda $ 4.6) dalle regole trascendentali che presiedono alla 
volontà umana. Critiche alla procedura epistemologica alla base dell'etica 
kantiana vengono mosse su due piani. In primo luogo si obietta che la pro- 
spettiva kantiana in realtà concepisce la volontà umana in termini sostantivi e 
dunque inttoduce fin dall’inizio nelle sue analisi apparentemente formali e 
neutrali del volere umano dei tratti che non possono che portare a un ben 
preciso esito morale. In secondo luogo viene obiettato che un mero appello 
alla coerenza formale è del tutto inefficace in etica perché alla costrizione in 
gioco nell’appello alla coerenza si può sempre sfuggire rifiutandosi di consi- 
derare come effettivamente insostenibile uno stato di incoerenza. 

In questa rivisitazione del razionalismo etico faccio dunque mia la pro- 
spettiva critica che rileva che la ragione in quanto tale può solo permetterci di 
trarre delle conclusioni che si esprimono in quelle che chiameremo deduzioni 
o giudizi analitici. Ma se così stanno le cose ciò che è eticamente rilevante o è 
già dato nelle premesse del nostro discorso — e allora occorrerà spostare la 
discussione su come sono state costruite queste premesse — o non potrà certo 
essere raggiunto ricorrendo al solo aiuto della deduzione razionale. La razio- 
nalità e la ragione umana in quanto tali non solo risultano eticamente vuote, 
ma se si guarda poi alla ragione come facoltà intellettuale questa presenta l’in- 
sufficienza più generale, dal punto di vista fondazionale, di portare a conclu- 
sioni © esiti che non risultano direttamente motivanti. Scoprire che vi è una 
certa relazione tra le cose, o che date certe premesse se ne ricavano per via 
analitica determinate conclusioni è cosa ben diversa dall'essere mossi a fare 
ciò che è bene, giusto, doveroso fare. La ragione può dunque solo aiutarci a 
identificare ulteriori situazioni a cui estendere i nostri principi etici, una volta 


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50 ETICA 


che noi già abbiamo — sulla base delle nostre sensazioni, emozioni e pas- 
sioni — discriminato tra quello che approviamo 0 disapproviamo, apprez- 
ziamo o svalutiamo. 


3.7. Il ricorso a una facoltà morale per la fondazione dell'etica. — Il col. 
legamento con la ragione umana — concepita come la parte migliore e più 
alta, quasi una patte divina, della natura umana — è spesso sembrata la via 
maestra per garantire alle conclusioni dell'etica sia una strategia peculiare sia 
una superiorità rispetto a tutto il resto. Ma nel pensiero moderno e contem- 
poraneo la consapevolezza dell’autonomia della morale ha portato ad abban- 
donare questa strada. Questa esigenza di riconoscere l'autonomia dell'etica 
veniva già raccolta da Kant, sia pure in un quadro generalmente razionali. 
stico, attraverso l'identificazione di una peculiare razionalità pratica. Ma altri 
pensatori hanno preferito incamminarsi sulla strada di una derivazione del- 
l'etica e delle distinzioni in essa in gioco da una facoltà ad doc del tutto pecu- 
liare ed irriducibile sia alla ragione o intelletto sia ai vari sensi che contribui- 
scono a dare agli uomini il bagaglio delle loro esperienze. 

La strada dell'individuazione di una vera e propria facoltà ad hoc per la 
vita morale è stata percorsa in modo sistematico e nel dettaglio da Hutcheson 
(Hutcheson, 1725). Nei suoi scritti infatti egli presenta articolatamente uno 
specifico «senso morale» che permette di cogliere direttamente le distinzioni 
morali e che non è riducibile né alle operazioni dell'intelletto, né agli altri 
sensi. La ricostruzione che Hutcheson fornisce del senso morale come facoltà 
del tutto peculiare che permette di fondare oggettivamente le conclusioni eti- 
che sembra giustificare l'attribuzione a questo pensatore di una concezione 
intuizionistica (Norton, 1982). In definitiva il senso morale di Hutcheson è in 
grado di cogliere direttamente delle vere e proprie qualità delle azioni e situa- 
zioni naturali da giudicare, Hutcheson si impegna anche a ricostruire il modo 
in cui proprietà e qualità etiche sono collegate necessariamente con le altre 
proprietà oggettive e reali delle cose di cui abbiamo esperienza. Dunque in 
Hutcheson possiamo trovare un quadro intuizionistico che vedremo ripreso, 
al di fuori di alcune pretese sensistiche, nel secolo XX. 

Infatti intuizionisti come Sidgwick e Moore {o in parte H. Prichard, 
A. Ewing e D. W. Ross; si veda Hudson, 1980: 74-104) insisteranno nel tro- 
vare nel campo dell'etica la presenza di peculiari proprietà non-naturali, ben 
distinte dalle qualità naturali ordinarie, che solo una intuizione del tutto spe- 
ciale può cogliere. La strategia di fondazione propria dell’intuizionismo etico 
viene criticata in quanto perde di vista che al centro dell'etica non c'è tanto la 
questione di riuscire a cogliere la presenza di questa o quella proprietà non- 


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L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA dI 


naturale — sia poi questa proprietà considerata come sopravveniente o come 
una accanto a quelle naturali —, quanto piuttosto di essere motivati o sentirsi 
obbligati a fare certe cose considerate buone, giuste o doverose. Natural- 
mente questa difficoltà può essere supetata sostenendo che le proptietà non- 
naturali con cui l'intuizione etica ci mette direttamente in contatto si presen- 
tano come costitutivamente motivanti e obbliganti. Ma un aggiustamento del 
genere non sembra nulla di più che uno stratagemma convenzionalistico. 

Per ovviare a questa difficoltà è stata elaborata una strategia — già in parte 
riconoscibile secondo alcuni interpreti negli scritti di Hutcheson — che con- 
cepisce la facoltà in gioco nella conoscenza morale non tanto come uno stru- 
mento intellettuale e conoscitivo di registrazione e individuazione, quanto 
piuttosto come essa stessa emotiva o sentimentale e dunque motivante e ca- 
rica di energia attiva. In questa linea si collocano tutte le analisi sviluppate a 
proposito dell'etica dai sentimentalisti del Settecento come ad esempio Shaf- 
tesbury, Hume e Smith. Ma in questa stessa direzione vanno le analisi di co- 
loro che nel XX secolo sostengono (come è il caso di David Wiggins, 1987 e 
John McDowell, 1981) sia rintracciabile nell’etica una peculiare sensibilità che 
risponde appunto con una qualificazione di valore a certe azioni o situazioni. 
La strategia epistemologica del sentimentalismo sembra però fuoriuscire dal 
quadro fondazionale e muoversi piuttosto in quell'orizzonte più moderata- 
mente giustificativo 0 esplicativo di cui renderemo conto nelle successive se- 
zioni di questo paragrafo. 

Infatti questa sensibilità peculiarmente morale si presenta come qualcosa 
che va ricostruita e delineata nella sua specificità attraverso un esame a poste- 
riori degli esseri umani. L'appello poi a questa base di giustificazione non per- 
mette certo di edificare giudizi etici forniti di quei caratteri di necessità e uni- 
versalità definitiva a cui tendono invece coloro che si muovono in un oriz- 
zonte fondazionale. 


3.8. La giustificazione procedurale delle opzioni etiche: il contrattualismo. 
— Rifiutando la strada di una fondazione assoluta e aprioristica dell'etica vi 
sono alcune concezioni che considerano le opzioni etiche come esiti a cui si 
può arrivare dopo avere seguito una determinata procedura razionale. Percor- 
rono questa strada quei pensatori che sul piano meta-etico considerano l'etica 
€ la morale come un universo di principi e norme frutto di decisioni 0 scelte 
individuali e intersoggettive. Questa linea di giustificazione è propria ad esem- 
pio del contrattualismo etico. Il contrattualismo è stato inizialmente presen- 
tato — specialmente nel XVII e XVIII secolo da pensatori come Hobbes, 
Locke, J. J. Rousseau e Kant — come una teoria mediante la quale rendere 


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52 ETICA 


conto della genesi della società civile e delle istituzioni politiche (Gough, 
1986). Ma il ricorso a qualche forma di contratto è stato spesso presentato 
anche come una procedura in grado di dirimere in generale i disaccordi pub- 
blici su tutti.i tipi di distinzioni etiche. In particolare nel XX secolo il contrat- 
tualismo è stato ripreso e sviluppato, ad esempio da Rawls e Gauthier, come 
la teoria etica e la procedura di giustificazione di regole e principi capaci di 
impostare meglio le questioni di giustizia sociale. In questa sede ci limitiamo a 
presentare sinteticamente le concezioni di Hobbes e di Rawls viste come due 
forme tipiche di tentativi di derivare la giustificazione delle conclusioni etiche 
da procedure contrattuali. In realtà il contrattualismo si lega strettamente alle 
forme di giustificazione prudenziale di cui abbiamo dato conto nel paragrafo 
3.3. Le differenze che qui richiameremo non riguardano il tipo di ragiona- 
mento — in genere appunto prudenziale — che porta ad accettare il contratto 
come una procedura idonea per risolvere i contrasti etici. Le differenze con- 
cemono piuttosto il contesto in cui la procedura contrattuale interviene, le 
sue implicazioni e le conseguenze che se ne ricavano per quanto riguarda il 
carattere vincolante degli esiti. 
Nel caso di Hobbes il ricorso a una procedura contrattuale in etica si svi- 
luppa dopo la presa d’atto dell’impossibilità di trovare una fondazione del 
bene e del giusto in termini di rinvio al piacere di ciascuno e ai desideri e alle 
« passioni individuali. Fare riferimento ai piaceri e desideri individuali non per- 
mette di superare quella condizione di guerra di tutti contro tutti che è pro- 
pria dello stato di natura in cui ciascuno definisce bene, male, giusto e ingiu- 
sto, appunto a suo modo. Se si vuole mantenere uno stato di pace e conver- 
gere su qualche bene considerato comune (che certo comunque non potrà 
essere trattato come un bene assoluto) bisognerà limitare la completa discre- 
zionalità naturale concordando sull’accettazione di una procedura che per- 
metta di realizzare patti condivisi. Secondo Hobbes, dunque, solo un con- 
tratto è in grado di vincolare i singoli individui all'accettazione di principi 
etici che non siano direttamente riconducibili agli interessi egoistici di qual- 
cuno. Nel fare ricorso al contratto come risolutivo Hobbes delineava tutta 
una serie di condizioni che presiedono alla sua genesi e alla sua efficacia. Da 
una parte il contratto incorporava tutta una serie di principi — secondo Hob- 
bes le «leggi naturali» — che venivano considerati giustificati razionalmente, 
in linea esclusivamente strumentale, come mezzi idonei alla conservazione in 
vita dei contraenti e al mantenimento della pace tra loro. Dall'altra parte la 
necessità di rendere vincolanti gli equilibri che vengono identificati mediante 
la procedura di contrattazione porta a un completo trasferimento della forza 
coercitiva a un potere che in nome della sua funzione di garantire il rispetto 


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L’EPISTEMOLOGIA DELL’ETICA 53 


del contratto non è sottoposto ad alcun limite. Anche questa è una conse- 
guenza derivante dalle assunzioni generali di Hobbes che vede appunto gli 
esseri umani come del tutto egoisti e mossi da un irrefrenabile impulso pos- 
sessivo in una condizione di scarsità di beni. Infine va rilevato che laddove in 
Hobbes il potere non può avere limiti esterni, esso ha un ampio limite in- 
terno. Ciò dipende dalla convinzione di Hobbes che leggi contrattualmente 
definite possono valere solo per i corpi di coloro che stipulano il patto, men- 
tre sentimenti, emozioni e pensieri sono al di fuori della portata dell’applica- 
zione di principi e regole create con la procedura condivisa. 

AI modello di contrattualismo hobbesiano sono state mosse numerose cri- 
tiche. In particolare è la sua peculiare derivazione artificialistica dei principi 
etici ad essere oggetto di diverse obiezioni. La prima linea di obiezioni viene 
da coloro che ritengono necessaria una fondazione assoluta dell'etica e che 
rilevano la parzialità e la limitazione di una derivazione da un qualche con- 
tratto di regole e principi etici. Le leggi concordate mediante il patto possono 
valere solo quando si è sotto il controllo di un potere totale e completo come 
quello appunto ipotizzato nel Leviafazo di Hobbes, ma non riusciamo così ad 
escludere defezioni quando il potere è inefficace. Hobbes sembra tentare una 
risposta a queste critiche quando ammette la validità delle leggi naturali anche 
«in foro interno» {Hobbes, 1976: 150-154; ma si veda Warrender, 1974), ma 
risulta difficile capire qual è la base di obbligatorietà in questo caso delle leggi 
naturali. Una seconda linea di obiezioni viene da quei pensatori che — come 
ad esempio Hume — pur condividendo una spiegazione artificiale della ge- 
nesi di principi e regole etiche, prendono poi le distanze da Hobbes e dal suo 
contrattualismo per il particolare tipo di artificialismo razionalistico in gioco. 
L’obiezione in questo caso è che il «costruttivismo razionalistico» hobbesiano 
— il considerate cioè i principi etici come il frutto di una scelta consapevole 
di una serie di individui razionali — risulta del tutto inadeguato quando si 
tratta di rendere conto della genesi di regole e principi etici. Vedremo nelle 
ultime due sezioni di questo paragrafo în che senso il convenzionalismo etico 
di Hume presentava un modello artificialistico di spiegazione dell'etica del 
tutto alternativo rispetto a quello di Hobbes. 

Un altro modello di giustificazione procedurale dell'etica è quello presen- 
tato nel modo più sistematico ed argomentato da Rawls (Rawls, 1982, 1994). 
Si tratta di un modello che viene ora abitualmente chiamato «contrattualismo 
ideale» per distinguerlo da quello di Hobbes e da quello detto «contrattuali- 
smo reale» sviluppato da Gauthier (cfr. $ 3.3), 

Il modello epistemologico del «contrattualismo ideale» sostiene pur sem- 
pre che i principi giusti dell'etica possano essere individuati attraverso ac- 


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54 ETICA 


cordi, ma poi fa valere tutta una serie di vincoli relativamente alla procedura 
considerata idonea per realizzare accordi equi. Rawls delinea tale procedura 
come una «posizione originaria» del tutto artificiale. In primo luogo, gli indi- 
vidui che entrano nella posizione originaria da cui si scelgono i principi di 
giustizia vanno considerati come individui rappresentativi e non già come sin- 
goli individui concreti. In secondo luogo, gli individui rappresentativi scel- 
gono tra le diverse opzioni a loro aperte in una condizione caratterizzata da 
«un velo d’ignoranza», ovvero si immagina che gli individui nella posizione 
originaria non debbano sapere quale sarà la loro condizione effettiva e il loro 
status concreto nella società. Infine Rawls ritiene che le scelte nella posizione 
originaria debbano essere ispirate da un principio generale, che egli chiama 
del maxinmin, secondo il quale si debba sempre preferire quell’alternativa che 
permette di massimizzare le esigenze degli individui rappresentativi dello 
stato peggiore. 

La linea argomentativa di Rawls in realtà non si presenta come un tenta- 
tivo di giustificare o fondare il nucleo centrale dell'etica, ma piuttosto come 
un tentativo di decisione o risoluzione dei conflitti una volta assunta una de- 
terminata definizione della morale. Troviamo che fin dalla delineazione della 
«posizione originaria» sono presenti alcune opzioni morali sostantive che 
vengono incorporate nella procedura prevista per l'individuazione dei prin- 
cipi di giustizia. Ad esempio è fuori discussione fin dall’inizio che le soluzioni 
da preferire saranno quelle più imparziali ed eque. Rawls non spende nem- 
meno un’argomentazione a giustificare queste opzioni di fondo che sono co- 
stitutive del suo contrattualismo. Ancora, in quanto Rawls si preoccupa prin- 
cipalmente di questioni di giustizia sociale o di distribuzione delle risorse, tro- 
viamo che egli fa valere il citato criterio di waxiziz. Contro questo criterio 
numerosi studiosi di etica (ad esempio Harsanyi, 1988: 109-136) hanno obiet- 
tato che esso ha delle conseguenze controintuitive. Infatti il criterio del maxi- 
min ci costringe a preferire sempre e comunque quel corso di azione che può 
migliorare sia pure di pochissimo le condizioni di chi sta peggio senza mini- 
mamente tenere conto di quanto questo corso d'azione peggiori le condizioni 
di tutti gli altri o senza minimamente instaurare un confronto tra i diversi 
corsi d'azione possibili ad esempio sulla base della probabilità effettiva che si 
realizzi ciascuno di essi, 

Dunque la procedura epistemologica a cui si richiama Rawls, ben lungi dal 
giustificare le opzioni etiche, in realtà dà già per acquisita la natura dell'etica e 
il suo ambito. Del resto questo è ampiamente ammesso dallo stesso Rawls che 
ha riconosciuto che la sua ricostruzione della natura dell’etica è adeguata a 
rendere conto delle intuizioni morali di un cittadino di una società caratteri? 


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L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 55 


zata, come quella statunitense, dalle istituzioni liberal-democratiche. Spiega 
Rawls che la sua etica è tale da non avere una portata metafisica, ma che si 
presenta come prevalentemente rivolta a rendere conto di un ben preciso con- 
testo storico e dunque politico (Rawls, 1994: 155-182). La procedura giustifi- 
cativa delineata da Rawls può dunque operare solo presupponendo una serie 
di intuizioni o credenze morali già date. La linea argomentativa del contrat- 
tualismo ideale è rivolta ad ottenere un risultato che Rawls stesso presenta 
come una sorta di «equilibrio riflessivo» tra le nostre intuizioni di partenza e 
i risultati più equi e giusti raggiunti attraverso una correzione delle distorsioni 
e parzialità di tali intuizioni. 

Caratteristico di questo modello è la caduta della pretesa di una fonda- 
zione assoluta e compiuta dei principi etici. Il contrattualismo ideale di Rawls 
in definitiva riesce a generare accordi solo in quanto parte già da un accordo 
dato in partenza tra tutti i membri della stessa società. Nulla può essere fatto 
per convincere ad accettare l'etica da parte di coloro che non sono già citta- 
dini della stessa società ideale che condivide il contratto. Laddove la posi- 
zione hobbesiana sembrava incapace di generare accordi se non presuppo- 
nendo il ricorso a uno strumento extra-teorico quale la forza; la posizione di 
Rawls è sterile perché si limita a ricostruire il modo in cui già di fatto si rea- 
lizzano accordi, nelle società liberal-democratiche, tra coloro che accettano 
politiche progressiste e nulla dice per dirimere i contrasti tra individui rappre- 
sentativi di società profondamente diverse (quali, poniamo, quelle del mondo 
occidentale e quelle dei paesi dell’Africa o dell'Asia). La procedura contrat- 
tualista di giustificazione etica ha sicuramente un ampio spazio laddove con- 
trasti e conflitti sorgano tra individui già vincolati a un certo patto e all’accet- 
tazione di una certa procedura per dirimere i contrasti. Ma poco o nulla può 
offrire laddove si affrontino le questioni più sostanziali: da una parte di come 
giustificare la scelta di avere un contratto da rispettare in luogo di non avere 
nessuna forma di contratto; dall'altra di come giustificare l'opzione di conti- 
nuare a rispettare il contratto, in luogo di defezionare, anche quando ciò dan- 
neggia i nostri interessi personali. 


3.9. Il non-cognitivismo e la giustificazione logico-argomentativa del punto 
di vista etico. — Una teoria della giustificazione © argomentazione etica è 
stata messa a punto anche dai teorici del non-cognitivismo (cfr. $ 2.6). 

Laddove gli emotivisti consideravano del tutto fallace la convinzione che si 
potesse avere una reale discussione su questioni etiche, i teorici del non-co- 
Bnitivismo trovano possibile indicare una serie di procedure come peculiari 
del ragionamento etico. Vale la pena di fermarsi brevemente sulle differenze 


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56 ETICA 


sul piano della giustificazione e dell’argomentazione, dunque sul piano episte- 
mologico, tra le posizioni degli emotivisti e quelle dei non-cognitivisti. Infatti 
lo sviluppo di questa differenza rappresenta una delle vicende centrali del- 
l'etica del XX secolo che viene completamente trascurata da quanti — come 
ad esempio A. MacIntyre (MacIntyre, 1988) — assimilano rigidamente emo- 
tivismo e non-cognitivismo, 

Nel caso degli emotivisti occorre distinguere tra le posizioni di Ayer e di 
Stevenson. È appunto nelle pagine di Ayer (Ayer, 1961) che troviamo la posi- 
zione più radicale che ritiene che l’unico punto di dibattito effettivo in una 
discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come sono 
andate le cose e, per il resto, sia da considerare come del tutto illusoria la 
pretesa di aprire una qualche discussione criticamente valutabile sulla rile- 
vanza etica di ciò che è accaduto, In definitiva connotando eticamente qual- 
cosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali del tutto personali e, come è 
noto, sui gusti non si può certo disputare. La posizione di Stevenson (Steven- 
son, 1962; cfr. qui sopra $ 2.6) è meno riduttiva, ma finisce con il sostenere 
che tutto ciò che possiamo fare da un punto di vista argomentativo o episte- 
mologico in morale è divenire pienamente consapevoli del come usare nel 
modo appropriato, come un potere causale, la forza emotiva presente nelle 
nozioni etiche, vuoi per persuadere altri ad accettare i nostri standards, vuoi 
impedendo che altri ci persuada con il mero ricorso a delle definizioni persua- 
sive, Ma non resta nessuna possibilità pet discutere in una qualche forma ar- 
gomentativa l'appropriatezza etica di un determinato giudizio morale. Lad- 
dove consideriamo l’etica come un linguaggio emotivo — sia pure, come fa 
Stevenson, come un linguaggio guidato da regole nel suo uso — tutto ciò che 
possiamo fare sul piano epistemologico è richiamare l’attenzione sulla pre- 
senza di tecniche di persuasione che possono essere utilizzate sia da una per- 
sona che voglia fare passare dei valori giusti, sia da chi invece voglia imporre 
dei valori ingiusti, L'argomentazione etica, così come ce la presenta Stevenson 
con il suo emotivismo moderato, non ci permette di discriminare tra questi 
valori, ma solo di sostenerli nel modo migliore ed egli quindi riconosce in 
questo campo solo uno spazio per procedure di tipo retorico o propagandi- 
stico. 

Nel caso invece del non-cognitivismo, come sostenuto ad esempio da Hare 
(Hare, 1971 e 1989), troviamo l'impegno a elaborare un'epistemologia per 
l’etica che fornisca criteri di discussione e critica anche per il nucleo peculiare 
di valori che è in gioco nel discorso morale. Come si è già spiegato (cfr. sopra, 
$ 2.6) secondo questa concezione meta-etica la morale è costituita di prescri- 
zioni universalizzabili soverchianti. Partendo da questa caratterizzazione della 


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L'EPISTEMOLOGIA DELL’ETICA 57 


natura della morale un non-cognitivista ha di fronte a sé due problemi di- 
stinti. Si tratta, in primo luogo, di esaminare se vi sono vie argomentative per 
convincere razionalmente a farsi guidare nelle proprie azioni da una morale 
così intesa chi non la vuole fare propria preferendo un completo amoralismo. 
In secondo luogo si tratta di delineare quali procedure argomentative sono 
disponibili per sottoporre a controllo le diverse opzioni mortali possibili al fine 
di individuare, per la situazione in cui ci troviamo, quale è la migliore prescri- 
zione universalizzabile soverchiante. Esponiamo qui di seguito le due diverse 
strategie argomentative così come vengono delineate da Hare. 

Per quanto riguarda il livello di discussione che si apre nei confronti di chi 
non intende in alcun modo ispirarsi a regole morali, sul piano argomentativo 
non c'è molto da fare. Non si può cioè costringere logicamente qualcuno a 
usare il linguaggio della morale; si può solo, una volta che egli lo usi, mostrare 
che lo ha usato in modo inadeguato rispetto alle regole che ne governano 
l'uso. Hare dunque sembra voler fissare come limite invalicabile per l’argo- 
mentazione morale il confine al di lì del quale si collocano tutti coloro che 
non fanno in alcun modo uso del linguaggio morale. Nei confronti di costoro 
si potrà fare qualcosa solo collocandosi da un punto di vista non strettamente 
argomentativo. L'educazione e l’uso della forza sono due diverse strategie cui 
si ricorre per far si che le persone facciano propria la forma di vita che in- 
clude la morale. 

All’interno della prospettiva non-cognitivista di Hare si può invece argo- 
mentare contro chi pretende di formulare giudizi morali ed invece in realtà 
non rispetta le condizioni logiche necessarie perché un proferimento faccia 
parte del linguaggio etico. Come sappiamo un'espressione linguistica farà 
parte del discorso morale solo in quanto si presenta come una prescrizione 
universalizzabile soverchiante. Possiamo identificare con chiarezza coloro che 
pretendono di dare una portata morale alle loro affermazioni, ma compiono 
degli errori logici (oltre che morali}. Le analisi di Hare sono rivolte a delineare 
il tipo di argomentazione che può essere sviluppata contro il più comune 
errore nell'uso del linguaggio morale, quello proptio dei fanatici morali. Le 
posizioni dei fanatici morali nascono in quanto si prescrivono dei principi che 
non vengono fatti valere — come la loro natura di principi morali esigereb- 
be — in modo analogo per tutte le situazioni simili indipendentemente dal 
posto occupato da coloro che sono coinvolti. Un tentativo, coerente con la 
concezione della morale propria del non-cognitivismo, può essere fatto per 
contrastare il fanatismo morale ad esempio nella forma più ricorrente che è 
quella del razzista (Hare, 1971; ma Hare più recentemente ha trattato anche 
del caso di un medico che in nome dei suoi doveri professionali fa proprio 


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58 ETICA 


l’accanimento terapeutico: Hare, 1989). Si tratta di chiedere al fanatico di im- 
maginarsi in una situazione in cui egli occupa il posto di colui nei confronti 
del quale egli vuole fare valere in modo diseriminante i suoi pretesi principi 
morali. Che cosa fa il razzista anti-semita quando una nuova informazione for- 
nisce le prove che lui stesso è di origine ebraica? Il non-cognitivista può con. 
siderare l'articolazione di un esperimento mentale del genere come un’esten- 
sione epistemologica della sua concezione meta-etica. 

Si badi infine che l’argomentazione propria dell'etica che viene individuata 
muovendo dalla concezione della natura dei giudizi morali avanzata da Hare 
non si limita — come nel caso del formalismo kantiano — ad avanzare la ri- 
chiesta di una mera coerenza formale, ma enuncia un requisito contenutistico. 
In linea del tutto pregiudiziale un giudizio potrà essere incluso nell'universo 
dei giudizi propri del discorso morale solo se prescrive un qualche principio 
che si è pronti a far valere in modo analogo per tutti i casi simili indipenden- 
temente dalla propria collocazione nelle situazioni investite. Lavorando su 
questa condizione epistemologica della concezione che vede la morale come 
insieme di prescrizioni universalizzabili soverchianti, più recentemente Hare 
(1989) ha elaborato ulteriori passaggi critici a cui sottoporre le prese di posi- 
zione etiche. Nello sviluppare queste implicazioni epistemologiche si è incam- 
minato lungo una linea che giunge a presentare come adeguate — su basi so- 
stantive — quelle conclusioni che vengono ricavate dall’utilitarismo dell’atto. 
In quanto ci troviamo di fronte ad un’argomentazione che ricava da una me- 
ta-etica una ben precisa etica normativa, ce ne occuperemo in un prossimo 


paragrafo (cfr. $ 4.7). 


3.10. Dalla giustificazione allo spiegazione dell'etica. — Proprio nel no- 
stro secolo la riflessione filosofica sull'etica ha elaborato una serie di analisi 
conseguenti a un radicale mutamento di approccio. L'effetto di questo cam- 
biamento è che anche per quanto riguarda le procedure argomentative in uso 
in morale l’obiettivo cui si tende è di ricostruirne il complesso delineando an- 
che il contesto in cui si sono formate. Con questo approccio non ci si propone 
dunque di fondare o giustificare aleunché 0 di modellare al meglio strutture 
argomentative, quanto piuttosto di presentare spiegazioni complessive rivolte 
a comprendere qual è il posto che l’etica occupa nella nostra vita. In definitiva 
è la prospettiva che Hume aveva sviluppato nella sua scienza della natura 
umana che viene recuperata, tradotta nel linguaggio del nostro secolo e resa 
più rigorosa e determinata. L'etica viene così considerata come un presuppo- 
sto della nostra forma di vita che non tanto va giustificato o fondato quanto 
piuttosto spiegato nella sua concretezza. Si tratta dunque di un programma 


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L'’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 59 


esplicativo che considera l'etica e le sue distinzioni come costitutive della 
nostra esperienza del mondo, con un approccio in parte analogo a quello 
kantiano impegnato a identificare le forme generali della nostra esperienza. 
Ma questo approccio esplicativo non percorre poi la linea aprioristica kan- 
tiana dell'analisi trascendentale, proponendosi piuttosto di avanzare ipotesi 
empiriche sulla natura dell'etica e le forme di argomentazione in essa correnti 
(Preti, 1986). ; 

Questo tipo di ricerca ha avuto nel nostro secolo una notevole espansione 
parallelamente al tentativo della filosofia di trasferirsi dal piano fondazionale 
a quello esplicativo (cfr. Gargani, 1975 e Nozick, 1987). Una prima differenza 
tracciabile in questa linea filosofica, come si è detto, è relativa al tipo di spie- 
gazioni, ovvero alla natura logica delle presupposizioni a cui ci si richiama, 
caratterizzate o in una direzione trascendentale oppure come ipotesi empi- 
riche. 

Su basi kantiane un tentativo di spiegare l'etica è presente nelle analisi di 
Putnam (Putnam, 1991). La tendenza a esprimere giudizi morali è secondo 
Putnam un modo del tutto aprioristico e comune al genere umano di catego- 
rizzare; in modo analogo va spiegata la stessa predilezione sostantiva per certi 
contenuti (benevolenza, giustizia ecc.). Invece sul piano empirico si trovano, 
tra le altre, le seguenti spiegazioni della morale. Da una parte abbiamo una 
concezione come quella di J. L. Mackie (Mackie, 1977) che ritiene che l'etica 
sia una produzione artificiale della cultura umana con cui gli vomini cercano 
di fare affermazioni su specifiche proprietà del mondo, ovvero i valori o le 
qualità etiche; ma queste affermazioni sono tutte false in quanto tali proprietà 
non sussistono realmente. Dall'altra abbiamo le posizioni proiezioniste, quale 
ad esempio quella di S. Blackburn (Blackburn, 1984), secondo le quali invece 
si guarda all’etica come un prodotto della nostra cultura che ci consente di 
fare riferimento a qualità o proprietà quasi reali (le proprietà morali) che noi 
abbiamo proiettato sulle cose e sul mondo. Sono ancora da ricordare le analisi 
sensiste di Wiggins {Wiggins, 1987) e McDowell (1981) i quali ritengono vi- 
ceversa che si debba considerare l’etica come il campo che gli esseri umani 
costituiscono in quanto forniti di un peculiare senso o sentimento che li mette 
in grado di cogliere delle proprietà nel mondo (appunto ciò che rende moral- 
mente rilevante una qualche situazione) che hanno poi su di essi una forza 
motivante e vincolante. Infine in un contesto più evoluzionistico A. Gibbard 
{Gibbard, 1990) indica nella morale un insieme di norme che gli uomini 

anno elaborato nel corso di una loro attività peculiare che li muove a discu- 
tere pubblicamente sul come condurre le loro vite e come sentire a proposito 
delle scelte fatte nel corso delle loro vite. Tutti questi diversi modelli esplica- 


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60 ETICA 


tivi dell'etica e della sua genesi come si può vedere ne rendono conto in ter. 
mini universalistici; l'etica si presenta cioè come un'istituzione del genere 
umano che include al suo interno il ricorso a procedure pubbliche pet con- 
trollare la validità delle opzioni privilegiate. Larga parte di queste concezioni 
esplicative sono rivolte a trovare una collocazione per la credenza che il con- 
trollo fattuale giochi un ruolo importante nella discussione etica. Una cre- 
denza del genere sussiste anche se i fatti morali non esistono, 0 sono solo delle 
nostre proiezioni o tali che noi li cogliamo perché forniti di una peculiare at- 
trezzatura percettiva. 


3.11. I problemi centrali per la fondazione della morale: «legge di Hume» e 
possibilità di una «logica delle norme». — In questo secolo un ampio dibat- 
tito si è sviluppato intorno a due nuclei problematici centrali per chiunque si 
ponga l’obiettivo di una fondazione o giustificazione di conclusioni etiche. In 
primo luogo hanno avuto un’ampia diffusione le discussioni relative alla co- 
siddetta «legge di Hume» che coinvolgono tutti i tentativi di fondare una 
conclusione etica su basi scientifiche, osservative o empiriche. Il punto di par- 
tenza per questa linea di riflessione viene indicato in un passo del Treazise di 
Hume (Hume, 1987: I, 496-497), il cosiddetto «is-ought paragraph», in cui si 
richiama l’attenzione sulla differenza tra proposizioni in cui è presente la co- 
pula è {:5) e quelle in cui compare la nozione deve (ough)). A questo passo si 
sono richiamati tutti coloro che hanno criticato come logicamente inaccetta- 
bile la derivazione di una conclusione normativa, e in generale etica, da pre- 
messe descrittive, assertive o in generale non-etiche (cfr. Hudson, 1969; Car- 
caterra, 1969; Oppenheim, 1971; Scarpelli, 1982: 165-178; Celano, 1994). Sul 
piano storico occorre precisare che è molto probabile che Hume non fosse 
direttamente impegnato a formulare un vero e proprio principio logico rela- 
tivo all’inderivabilità del dovere dall'essere, quanto piuttosto a segnare con 
precisione la «grande divisione» concettuale tra conclusioni con l'è e quelle 
con il deve. Importa però qui richiamare che nel XX secolo invece si fa rile- 
vare che proprio da un punto di vista strettamente logico-formale e sintattico 
si deve ritenere del tutto scorretto qualsiasi ragionamento o argomentazione 
che pretenda di ricavare una decisione, una scelta o un giudizio etico da con- 
siderazioni che riguardano lo stato dei fatti o delle cose. 

Questa posizione è stata ampiamente sostenuta nel corso del XX secolo 
con articolazioni lievemente diverse. Così ad esempio Max Weber insisteva 
con decisione sulla differenza di piani tra fatti e valori e dunque tra conclu- 
sioni avalutative e scientifiche sulla natura e sulla società e decisioni o assun- 
zioni di responsabilità intorno a ciò che si deve fare (Weber, 1958; Rossi, 


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L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 61 


1971: 249-315; Hennis, 1991). Partendo dalla stessa tesi della inderivabilità 
dei valori o doveri dai fatti si sono rifiutate numerose concezioni spesso accu- 
sate di essere cadute nella «fallacia naturalistica» (Moore, 1964; cfr. $$ 3.4 
e 3.5). Così da una patte vengono denunciate come frutto di un errore lo- 
gico tutte quelle posizioni riduzionistiche o conformistiche che concludono 
che ciò che si deve fare è o ciò che è naturale per l'uomo o ciò che è già 
indicato dai valori accettati più o meno diffusamente nella società. Non diver- 
samente viene considerata fallace quella specie di argomentazione etica pro- 
pria dell'approccio consequenzialista che considera come completamente ri- 
solvibile un qualche problema morale ricostruendo con precisione —— am- 
messo che tra l'altro questo sia fattibile — quali sono le conseguenze delle 
diverse opzioni tra cui dobbiamo scegliere. In realtà sapere con precisione 
quali sono le conseguenze delle alternative che ci sono davanti non basta per 
ricavare una conclusione su ciò che dobbiamo fare perché una tale previsione 
— se attendibile — ci dirà solo ciò che ci sarà nel futuro, ma nulla ci dice sul 
punto se certe conseguenze che ci saranno vanno poi preferite o meno ad altre 
e dunque approvate o disapprovate. Tra l’altro era proprio questa l’argomen- 
tazione che faceva valere Hume nella sua Exquiry concerning the Principles of 
Morals (1751, Ricerca concernente i principi della morale; Hume, 1987: II, 302) 
contro i tentativi di derivare le distinzioni etiche dal principio di utilità. 

Contro l’uso di questa critica come ghigliottina decisiva per numerose 
concezioni etiche si sono schierati quei pensatori — particolarmente nume- 
rosi nell'ultirna parte del XX secolo — che hanno negato che si potesse net- 
tamente distinguere un piano di descrizioni neutrali del mondo da un piano 
di opzioni valutative su di esso. Questo tentativo di superamento del quadro 
concettuale che sorregge la cosiddetta «legge di Hume» è stato principal 
mente rivolto a contestare la concezione della scienza dei neopositivisti che 
sembra sorreggere una forte divaricazione tra fatti e valori, essere e dovere. 
Questa divaricazione è stata criticata e giudicata superata da numerosi pensa- 
tori pragmatisti, tra i quali in particolare Putnam (Putnam, 1982 e 1985). 

In secondo luogo indubbiamente rilevante per il problema della fonda- 
zione e della giustificazione dell’etica è tutto il dibattito — specialmente vivo 
nella seconda metà del XX secolo — relativo alla possibilità di costruire una 
logica delle norme. Collocandosi dunque sul piano della ricerca di una sin- 
tassi di un discorso etico che voglia fare valere al suo interno principi di coe- 
renza e non-contraddizione è stata contestata la stessa possibilità di enunciare 
una logica delle norme. Una posizione del genere è presente nelle conclusioni 
a cui era giunto H. Kelsen nell'ultima parte della sua vita (Kelsen, 1985). Ri- 
levando che le norme sono, dal punto di vista del significato, dei comandi, e 


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62 ETICA 


che dunque come tali non possono essere valutati in termini di verità e falsità, 
Kelsen negava che si potesse costruire un sillogismo logico in cui premesse e 
conclusioni fossero degli asserti normativi. Le implicazioni della sintassi logica 
possono valere solo in presenza di proposizioni empiriche o asserzioni scien- 
rifiche, ovvero laddove premesse e conclusioni si collocano sul piano della ve- 
rità e dunque da premesse vere (o false) si traggono conclusioni vere (o false). 
Ma un enunciato normativo non è in alcun modo vero 0 falso e dunque non 
può funzionare da premessa di nessuna conclusione logicamente derivata, 
Così se presentiamo nella premessa maggiore un enunciato normativo di ca- 
ratrere universale, laddove nella premessa minore troviamo l'individuazione 
di una fattispecie rilevante sulla base della norma generale enunciata nella 
premessa maggiore, secondo Kelsen non siamo autorizzati a presentare come 
una conclusione logicamente necessaria una qualche azione o omissione {con 
relativa sanzione). Coloro che contestano la possibilità di una logica delle 
norme obiettano infatti che comunque il linguaggio normativo esige sempre 
che ci sia un qualche comando effettivo ripetuto subito prima del compi- 
mento di qualsiasi azione. 

Sia le «legge di Hume» sia le obiezioni alla possibilità di elaborare una 
«logica delle norme» risultano particolarmente rilevanti nei confronti di chi si 
muove all’interno di un contesto fondazionale e pretende dunque di dare una 
qualche fondazione assoluta o conclusiva dell'etica. Ma se ci collochiamo sul 
piano dell’argomentazione o della giustificazione (per non dire del piano della 
spiegazione delle procedure effettivamente adottate) le cose risultano più 
complesse. Per quanto riguarda, ad esempio, la cosiddetta «legge di Hume», 
sembra difficile non ammettere l'efficacia di quelle critiche rivolte al tentativo 
di ricavare le proprie conclusioni etiche semplicemente da una ricostruzione 
dei fatti in gioco, o da una mera raccolta di informazioni, o dall’accumulo di 
una congerie più o meno estesa di previsioni. Dovrà introdursi prima o poi la 
nostra preferenza per un qualche principio da fare valere in modo analogo in 
tutte le situazioni simili, una preferenza che sia radicata nelle nostre emozioni 
e che siamo pronti a mettere in pratica quando starà a noi agire facendola 
prevalere su nostre opzioni non strettamente etiche. Questa ammissione di 
una qualche frattura, divisione o salto tra il piano delle ricostruzioni empiri- 
che della situazione e quello di una valutazione — e conseguente decisione — 
delle diverse opzioni che ci stanno di fronte non deve essere spinto però fino 
ad esiti eccessivi. Così risulterà insostenibile sul piano metodologico una rico- 
struzione della natura dell’indagine empirica e scientifica che non tenga conto 
di quanto le nostre osservazioni e le nostre esperienze siano dipendenti dalle 
teorie, ipotesi e opzioni (anche valutative) da cui muoviamo. Né sarà accetta- 


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LE ETICHE NORMATIVE 63 


bile un divisionismo spinto fino all’estremo di non riconoscere la rilevanza 
— in un certo senso come condizione necessaria anche se non sufficiente di 
un’argomentazione etica — dell'impegno sia a verificare come stanno real- 
mente le cose nella situazione in esame, sia a immaginare quali conseguenze 
seguiranno una volta incamminatici lungo l’uno o l’altro corso di azione. 

Non diversamente a proposito della questione della possibilità di costruire 
una logica delle norme è difficile negare la nostra capacità sia di squalificare 
certe prese di posizione etiche perché in contraddizione con principi già as- 
sunti, sia di estendere i nostri principi a situazioni nuove sulla base della tesi 
logica che esse sono del tutto simili a quelle che abbiamo già giudicato. È 
probabile che nel riconoscere questo ci muoviamo a un livello che non è esat- 
tamente quello della sintassi logico-formale, ma piuttosto — come ha sugge- 
rito Nowell-Smith (1974: 86-91) — delle implicazioni di una logica pragma- 
tica che dà vita a una valutazione dei giudizi in gioco in termini di «stranezza 
logica». Ma la rilevanza e la portata di strategie di tipo sintattico o logico resta 
innegabile se si abbandona la pretesa di muoversi sul piano di un'etica dimo- 
strata in modo assiomatico e geometrico. 

Va, infine, sottolineato che — malgrado le obiezioni di fondo dei puristi 
della logica — larga estensione hanno avuto nella seconda metà del XX secolo 
i tentativi di elaborare simbolismi e formalismi idonei al trattamento di 
norme. Ben al di là dei tentativi o delle enunciazioni di principio si sono spinti 
tutti coloro — da G. H. von Wright (1968) a C. E. Alchourron e E. Bulygin 
{1971) — che si sono impegnati a elaborare la logica deontica e la logica delle 
norme. I risultati raggiunti con tutta la loro complessa articolazione mostrano 
la fertilità di un tentativo di dare vita a un trattamento simbolico della sintassi 
delle norme e di inserire in un contesto logico le relazioni tra obbligazioni eti- 
che. Difficile peraltro che tali modelli di linguaggi perfetti o ideali per le norme 
o le valutazioni etiche possano essere di aiuto per ciascuno di noi quando, nella 
vita comune, siamo alle prese con i nostri problemi etici concreti. Tali linguaggi 
invece illuminano certamente il lavoro di giuristi, politici, scienziati sociali im- 
pegnati nel mettere a punto sistemi di norme più o meno stabili, efficienti, chiari 
e comprensibili da tutti coloro per cui tali norme debbono valere. 


4. Le etiche normative: concezioni in contrasto. 


4.1. Eriche conseguenzialiste e deontologiche: principi, mezzi e fini nel- 
l'etica. — Quando si tratta di classificare le diverse concezioni etiche pos- 
siamo ricorrere a differenti criteri formali che si intersecano. È quanto faremo 
n questo paragrafo, esponendo le differenti concezioni normative esistenti 


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64 ETICA 


usando diverse strategie di classificazione. In primo luogo distingueremo le 
etiche normative in generale sulla base di una loro struttura di fondo che col. 
lega la valutazione etica 0 a un riferimento a principi 0 a una considerazione 
delle conseguenze. Renderemo così conto della differenza tra etiche deonto- 
logiche o tuotanti intorno a principi ed etiche teleologiche o rivolte principal- 
mente alle conseguenze, e accenneremo anche ad alcuni tentativi di elaborare 
etiche miste. Passeremo poi a rendere conto delle diverse etiche normative 
classificandole sulla base di un diverso criterio formale che ritiene essenziale 
la distinzione tra etiche che fanno uso di una nozione di valore intrinseco, in 
quanto contrapposta a quella di valore estrinseco, ed etiche che invece rifiu- 
tano tale distinzione. Esamineremo, infine, alcune concezioni normative che 
identifichiamo come le più diffuse e vitali nelle discussioni di etica teorica nel 
secolo XX. Ovviamente di pari passo con l’esposizione cercheremo sia di for- 
nire le ragioni delle inclusioni ed esclusioni nella lista, sia della nostra prefe- 
renza critica per una di queste etiche. 

Un modo ricorrente per distinguere tra le diverse concezioni normative è 
dunque quello che contrappone l’etica che ruota intorno a un appello ai prin- 
cipi a quella che tiene piuttosto conto delle conseguenze dell’azione. Si tratta 
di una distinzione che è centrale, ad esempio, nella riflessione di Max Weber, 
che però se ne è valso non tanto per distinguere due tipi diversi di etica 
quanto piuttosto per richiamare l'attenzione su due piani diversi della vita 
etica: quello proprio del moralista che fa appunto appello alla rilevanza dei 
principi e quello di chi — come il politico o chi sia comunque impegnato in 
una dimensione tecnico-pratica — invece, muovendosi nel quadro di un'etica 
della responsabilità, deve badare principalmente alle conseguenze dei diversi 
corsi di azione in cui si impegna (Weber, 1966). Dietro queste due diverse 
strategie possiamo anche ritrovare — come subito vedremo — un diverso 
modo di considerare il rapporto mezzi-fini nella vita pratica. 

Sono state presentate concezioni deontologiche dell'etica diversamente 
strutturate. Avremo così diversi tipi di etiche dei principi a seconda che pon- 
gano al loro centro uno o più principi, e a seconda che concepiscano tali prin- 
cipi o come assoluti e aprioristici o come ricavati dall'esperienza e in generale 
rivedibili. È così chiaro che l'etica kantiana si presenta come un'etica deonto- 
logica che ruota intorno a un solo principio di fondo, assoluto e a priori, dato 
dall'imperativo categorico, e le diverse formulazioni offerte, dell'imperativo 
categorico, non presentano in realtà principi diversi (Kant, 1970a). Nel caso 
di alcune etiche del comando divino (come ad esempio l’etica cristiana o car- 
tolica) vi è invece una tendenza a presentare come costitutivi della vita morale 
diversi principi tutti assoluti (i vari comandamenti divini o le norme che co- 


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LE ETICHE NORMATIVE 65 


stituiscono la legge naturale). Un'etica deontologica pluralista si trova di 
fronte al problema (quasi mai invece affrontato esplicitamente in queste eti- 
che) della necessità di disporre di un criterio chiaro per ordinare i diversi 
principi e risolvere quei casi in cui più principi assoluti entrano tra di loro in 
conflitto. Ma una concezione etica deontologica non è logicamente costretta a 
considerare i principi al centro della vita morale come assoluti, immutabili e 
di derivazione non empirica. Non mancano infatti analisi della vita etica (ad 
esempio quella dell'evoluzionismo filosofico di H. Spencer — H. Spencer, 
1893 — o di certe forme contemporanee di intuizionismo — si vedano ad 
esempio W. D. Ross, 1930 e A. C. Ewing, 1948) che pur ritenendo costitutivo 
della vita morale l’appello a principi, non rendono conto del costituirsi di 
questi principi lungo l’asse dell’impostazione kantiana o di quella religiosa. I 
principi dell'etica vengono piuttosto considerati o come regole fissatesi nel 
corso dell'esperienza quali abitudini o come assunzioni — più o meno con- 
venzionali — preliminari, o anche come ipotesi più o meno rischiose da avan- 
zare in situazioni risolvibili difficilmente con gli strumenti ordinari. 

La questione centrale per una valutazione critica delle etiche deontologi- 
che è quella di chiederci fino a che punto le si possa seguire nella loro assun- 
zione che i principi e la coerenza sono il criterio determinante della vita mo- 
rale senza che st debba tenere conto delle conseguenze di un'applicazione di 
questi principi. Le etiche deontologiche incontrano in realtà difficoltà insor- 
montabili in quanto si presentano come la struttura di riferimento di tutte le 
forme di fanatismo morale, ovvero di quelle concezioni che ritengono che 
l'unico modo per elaborare decisioni e giudizi eticamente validi sia quello di 
dedurre coerentemente le implicazioni suggerite da principi considerati come 
indiscutibili e non modificabili. Il fanatismo nasce laddove si spinge la fedeltà 
ai principi fino a non tenere in alcun conto le eventuali conseguenze disa- 
strose di questa fedeltà. Le etiche deontologiche partoriscono quindi spesso 
moralisti che riaffermano continuamente vecchi principi che, in realtà, non 
sono più in consonanza con la vita effettiva degli esseri umani, Paternalismo e 
rigidità sembrano essere sul piano pragmatico alcune delle possibili implica- 
zioni delle etiche deontologiche. Tali conseguenze sono evitate attraverso l’im- 
pegno a formulare elaborate casistiche che prevedono un'ampia gamma di 
condizioni in cui si può fare un'eccezione alle regole, Mentre sul piano psico- 
logico non è infrequente che tali etiche generino forme più 0 meno estese di 
ipocrisia per cui regole e principi assoluti sono enunciati solo verbalmente e 
in pubblico, ma non seguiti nelle scelte effettive e in privato. 

Proprio come correttivo di questi eccessi formalistici e rigoristici sono 
state presentate come più adeguate le teorie etiche che mettono al centro della 


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66 ETICA 


vita morale una considerazione delle conseguenze delle azioni. Si tratta di eti- 
che in cui è centrale la considerazione per la dimensione della responsabilità. 
In luogo di una stretta fedeltà ai principi l'atteggiamento etico è quello di chi 
è impegnato in una continua valutazione dei risultati. Si tratta di quelle con- 
cezioni dell'etica che già nel mondo antico, ad esempio con gli stoici, richia- 
mavano l’importanza della prudenza per rendere conto del nucleo centrale 
della vita morale, Queste posizioni conseguenzialiste hanno avuto un grande 
sviluppo dalla fine del secolo XIX in quanto sono divenute la struttura por- 
tante delle etiche utilitaristiche. Sul piano logico non è però corretta un’assi- 
milazione tra conseguenzialismo e utilitarismo. Infatti l'utilitarismo è una 
delle varie forme che può prendere il conseguenzialismo, quella che considera 
come criterio di valutazione dei risultati la realizzazione del massimo bene per 
il maggior numero. Altre forme di conseguenzialismo possono assumere, 
come criteri di valutazione dei risultati, concezioni del bene o del valore da 
realizzare del tutto alternative rispetto a quella felicifica dell'utilitarismo. 

Però proprio la possibilità di distinguere tra utilitarismo e conseguenziali- 
smo richiama quella che sembra essere la difficoltà principale delle concezioni 
conseguenzialiste, ovvero la loro incompletezza. Infatti una concezione che 
mette in primo piano per la valutazione morale la considerazione delle conse- 
guenze delle nostre azioni non sembra in grado di rendere conto pienamente 
del giudizio etico, in quanto tale giudizio non può limitarsi a esaminare quali 
saranno le conseguenze di certe scelte, ma dovrà anche valutarle sulla base di 
ben precisi criteri di valore. Ci troviamo dunque di fronte alla difficoltà che 
già richiamava Hume (Hume, 1987: II, 301-311), ovvero che una considera- 
zione delle conseguenze può informarci solo relativamente ai mezzi e resta poi 
da valutare del tutto indipendentemente l'accettabilità dei fini. Ma per quanto 
possa essere incompleta, un'etica conseguenzialista richiama su quello che è 
un passaggio necessario per le nostre valutazioni e decisioni; la considerazione 
appunto di ciò che la loro accettazione comporta. Anche se poi questo ap- 
proccio non può esimerci da una valutazione dell’accettabilità o meno dei ri- 
sultati che si raggiungeranno. La concezione conseguenzialista dell'etica riesce 
a rendere conto delle nostre valutazioni su ciò che è giusto o ingiusto ed esige 
di essere integrata con una teoria della bontà o del valore dei risultati. 

Per quanto riguarda poi l’uso della distinzione tra mezzi e fini in etica va 
anche detto che specialmente nell'ultimo secolo varie forme di naturalismo 
etico si sono impegnate nell’approfondire e render meno semplicistica una 
considerazione esclusiva dei mezzi come passaggio obbligato verso i fini, riflu- 
tando così di considerare i mezzi come una dimensione incompiuta della vita 
pratica. In questa linea si collocano le analisi di John Dewey nella sua Theory 


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LE ETICHE NORMATIVE 67 


of Valuation (1939, La teoria della valutazione) che ha insistito nel richiamare 
l'attenzione sul processo mediante il quale gli stessi mezzi possono trasfor- 
marsi in fini e nel mettere quindi in crisi una concezione che vede i fini come 
un risultato finale, per sostituirvi una prospettiva che nella condotta umana 
trova un conzinuute di azioni che da mezzi si trasformano in fini che a loro 
volta si trasformano in mezzi ecc. Dall'altra parte vi sono stati teorici che 
hanno concepito il conseguenzialismo come autosufficiente laddove non si 
considerino i fini come valori intrinseci o valori in sé, ma piuttosto come va- 
lori estrinseci (cfr. $ 4.2). 


42. Il valore intrinseco nell'etica. — Dal punto di vista normativo le di- 
verse etiche possono essere differenziate anche sulla base del ricorso o meno 
alla nozione di valore intrinseco. La nozione di valore intrinseco trova un uso 
centrale nell’etica di Moore, ma anche ad esempio sul versante fenomenolo- 
gico nell'opera di F. Brentano e poi di Max Scheler (Scheler, 1944: 121-130). 
Nella seconda metà del XX secolo l’uso di tale nozione nella teoria etica è 
stato più volte fatto oggetto di critiche in particolare da pensatori pragmatisti 
{su questa discussione è da vedere G. Pontara, 1974, che presenta anche una 
difesa dell’uso in etica di tale nozione). Vi sono stati altresì tentativi di de- 
lineare una nuova caratterizzazione della nozione ad esempio da parte di 
R. Nozick (Nozick, 1987). 

La nozione di valore intrinseco è legata al tentativo di dare all’etica una 
dimensione oggettiva. Infatti in questo senso Moore (1964) collegava la no- 
zione di valore intrinseco con quella di «unità organica». Le cose fornite di 
valore sono uniche in quanto presentano una unità organica che non è defini- 
bile riducendo l’intero alle sue parti. In questo senso il valore intrinseco è la 
contropartita a livello ontologico della tesi gnoseologica che riconosce nel 
bene una qualità del tutto unica, semplice e indefinibile. D'altra parte il rife- 
rimento al valore intrinseco fa sì che si consideri il bene come qualcosa che 
viene conosciuto come presente nel mondo oggettivo e non già come un 
modo di sentire soggettivo. In questo senso Moore riteneva che le proprietà 
etiche avessero una loro realtà e sussistessero indipendentemente dall'essere 
percepite, 

La tesi che vi sono degli interi forniti di valore intrinseco (come ad esem- 
pio per Moore le relazioni personali e le cose belle) permette di identificare il 
normativo e l'etico con qualcosa che ha uno statuto peculiare e che dunque 
non può essere ridotto a nessuna altra realtà. La posizione che ammette l’esi- 
stenza del valore intrinseco nega che ogni azione possibile sia fornita solo di 
valore estrinseco e strumentale e che possa essere sostituita da qualsiasi altra 


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68 ETICA 


azione. La concezione del valore intrinseco si accompagna dunque all’elabo- 
razione di una teoria normativa che riconosce l'autonomia dell’etica e ritiene 
anche che vi sia un modo compiuto e definitivo per fondare le conclusioni 
dell'etica. 

Anche Nozick (1987) usa la nozione di valore intrinseco come mezzo teo- 
rico per arrivare a riconoscere alle realtà al centro dell'etica un'oggettività e 
una forza vincolante indipendenti dalle motivazioni individuali. Nozick, come 
Moore, collega la nozione di valore intrinseco con quella di unità organica e 
anzi propone una gerarchia delle realtà sulla base del diverso grado di valore 
intrinseco, nel senso che sarà fornito di maggiore valore intrinseco quell’inte- 
ro che connette in modo più organico, ovvero più stretto e unitario, un 
maggiore numero di parti differenti. In questo senso la nozione di valore 
intrinseco secondo Nozick può essere attribuita a un gran numero di esseri e 
permette misurazioni e graduazioni. La moltiplicazione di esseri forniti di 
valore intrinseco nella teoria etica di Nozick è confermata dalla tesi che 
questo valore può essere creato o costituito (in quanto «valore contributivo» 
alla totalità di valore intrinseco già esistente nel mondo). Nozick poi delinea 
una precisa lista di realtà fornite di valori, suggerendo che in particolare sono 
le persone e i sé ad avere una maggiore quantità di valore intrinseco e a 
poterne creare di nuovo. Riprendendo la gerarchia degli esseri della tradizio- 
ne aristotelico-tomistica Nozick indica nella persona umana il vertice tra le 
realtà fornite di valore intrinseco nel senso che i sé personali possono sceglie- 
re di costituire unità organiche molto originali e strette, unificando l’insieme 
molto differenziato di parti rappresentato dal fluire delle loro vite. Nozick 
sembra dunque essersi impegnato a riproporre su una base laica e empiristica 
la concezione religiosa e spiritualistica che indicava negli esseri personali 
realtà fornite di un valore intrinseco e non sottoponibili a una valutazione 
strumentale. 

Un'etica che faccia uso della nozione di valore intrinseco va incontro alla 
difficoltà di coinvolgere chi la sostiene in una serie di pretese metafisiche dif 
ficilmente accettabili una volta sottoposte a controllo empirico. Così nel caso 
di Moore la nozione di valore intrinseco in definitiva rinvia a una struttura 
essenziale e sostanziale delle cose buone che può essere direttamente cono- 
sciuta solo ricorrendo a una intuizione niente affatto empirica. Nozick riesce 
in parte a depurare la sua utilizzazione della nozione di valore intrinseco da 
queste implicazioni ontologizzanti e metafisiche in quanto colloca tutta la sua 
teoria non già su di un piano fondazionale, ma piuttosto su quello esplicativo, 
Ma procedendo per questa strada non si capisce più perché sia strettamente 
necessario usare in etica la nozione di valore intrinseco. Infatti se rale nozione 


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LE ETICHE NORMATIVE 69 


viene introdotta solo per spiegare alcune assunzioni e intuizioni che si dà per 
scontato siano presenti nel nostro modo di vivere la dimensione etica, po- 
tremmo rifiutarla negando di trovare in noi tali assunzioni e intuizioni, oppure 
sottoponendo le assunzioni e intuizioni presupposte a una critica che ne fac- 
cia risultare l’artificiosità e l’inaccettabilità. 

La nozione di valore intrinseco può avere un suo uso nel campo dell’este- 
tica quando si tratta di spiegare il valore di cui una certa opera d’arte come un 
tutto è fornita, valore che non è riconoscibile nelle diverse parti che la 
costituiscono. Ma sembra difficile accettare come pacifica un'estensione di 
tale nozione alla vita morale, In realtà affermando l'imprescindibilità dell'etica 
dalla nozione di valore intrinseco si ripropone sotto una nuova forma l’obie- 
zione che contro le concezioni conseguenzialiste muove — come abbiamo 
visto — chi fa appello all’ineliminabilità dei principi. Il sostenitore dell'etica 
dei principi rimarca che la considerazione delle conseguenze esige comunque 
una loro valutazione ticorrendo a principi. In modo analogo chi ritiene 
ineliminabile dall’etica l’uso della nozione di valore intrinseco rimarca che 
una considerazione etica in termini di valore strumentale rinvia sempre a 
qualcosa che è fornito invece di valore intrinseco 0 finale. Con questo lessico 
la critica al conseguenzialismo si carica di allusioni ontologiche, metafisiche e 
oggettivistiche che è difficile possano avere un riscontro sul piano dell’analisi 
empirica, 


4.3. L'etica giusnaturalistica e la legge naturale. — Passando al piano più 
sostantivo un'etica normativa chiaramente identificabile è quella giusnaturali- 
stica o della legge naturale. Abbiamo già avuto modo (cfr. $ 3.4) di sostenere 
come il giusnaturalismo e la concezione della legge naturale vadano incontro a 
profonde difficoltà epistemologiche, ma resta fermo che anche nel corso del 
XX secolo — benché con minore fortuna che nel passato — sono riconosci- 
bili dei sostenitori di un concezione giusnaturalista o della legge naturale (ad 
esempio Finnis, 1983), Si tratta di quella posizione etica che ritiene che gli 
uomini hanno per natura determinati doveri e obblighi e che tali doveri e ob- 
blighi siano determinabili prima e indipendentemente dal costituirsi di qual- 
siasi istituzione giuridica o politica. 

La tradizione giusnaturalistica ha avuto, dopo la presentazione da parte di 
Tommaso d’Aquino di un’etica cristiana della legge naturale, una ripresa e 
una formulazione sistematica nel corso del XVII secolo da parte di autori 
come Grozio e Pufendorf. La concezione della legge naturale è stata poi varie 
volte ripresentata nei secoli successivi e tuttora costituisce l'etica prevalente 
nelle visioni cristiane e religiose. Le concezioni della legge naturale ruotano 


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70 ETICA 


intorno al riconoscimento di una serie di obblighi e di doveri propri della na- 
tura umana. Proprio conseguentemente a questo riconoscimento i teorici 
della legge naturale fanno ampio uso del linguaggio dei diritti, anzi possiamo 
ritenere che la diffusione nell'età moderna e contemporanea di tale linguaggio 
sia una ricaduta del giusnaturalismo del XVII secolo. Va però sottolineato 
come sia del tutto differente il ruolo che i diritti hanno nelle concezioni giu- 
snaturalistiche rispetto a quello che essi hanno nelle teorie etiche dei diritti 
propriamente dette. Infatti i diritti affermati da un'etica giusnaturalistica non 
sono mai illimitati e assoluti, ma trovano una delimitazione nell’obbligo o 
dovere che occorre comunque rispettare facendo valere il proprio diritto. Le 
diverse classificazioni dei diritti rinviano quindi a un contesto di leggi, doveri 
e obblighi che resta primario. 

I teorici della legge naturale concordano nel ritenere che gli uomini in 
quanto tali hanno tutta una serie di diritti e doveri paralleli: ad esempio, l’esi- 
stenza di un diritto alla vita da parte di qualcuno sì accompagna al dovere del 
rispetto della vita di costui da parte degli altri. Tra gli obblighi più frequente- 
mente richiamati dai teorici della legge naturale ricordiamo i doveri verso se 
stessi, i doveri verso gli altri (distinguendo in questo ambito tra i doveri verso 
i propri familiari e i doveri verso i propri concittadini) e i doveri verso Dio. I 
doveri verso se stessi sono spesso identificati con tutta una serie di massime di 
tipo prudenziale, sulla base di un più generale principio che considera la vita 
umana — più specificamente la propria vita — come non disponibile. All’in- 
terno del quadro delle etiche giusnaturalistiche infatti il suicidio è general 
mente considerato inaccettabile. 

Per quanto riguarda poi la dimensione dei doveri verso gli altri una prima 
proposta è quella che distingue tra i doveri in senso più stretto nei confronti 
dei propri familiari e i doveri in senso più generale verso i propri simili. 
Un'altra distinzione ricorrente tra i teorici del giusnaturalismo è quella tra 
doveri perfetti e imperfetti. Ci si trova di fronte a doveri perfetti laddove a 
questi doveri non si può disattendere in quanto sono legati a un corrispon- 
dente diritto da parte degli altri e dunque con una qualche codificazione. Così 
in questa classe rientra il dovere di non ledere gli altri o di ottemperare a una 
promessa o patto sottoscritto. Nella nozione di lesione si fa spesso rientrare 
non solo il danno fisico, ma anche il danno relativo ai beni ovvero alla 
proprietà. Vi sono invece tutta una serie di doveri imperfetti: essi riguardano 
azioni che non siamo sempre tenuti a realizzare perché gli altri non le possono 
pretendere da noi come un loro diritto (ad esempio le azioni mosse da 
generosità 0 beneficenza); oppure si tratta di doveri speciali legati al partico. 
lare posto che si occupa, ovvero al ruolo professionale, o al ruolo nella 


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LE ETICHE NORMATIVE 71 


famiglia (padre, madre, figlio ecc.), o alla carica che si ricopre nella società. 
Non mancano tentativi fatti dai teorici della legge naturale specialmente 
nel XVII secolo con Grozio, Pufendorf, Althusius e Thomasius (Bobbio, 
1980) di esporre in forma compiuta e sistematica tutto il codice di obblighi e 
doveri. 

I teorici della legge naturale riconoscono uno statuto del tutto peculiare al 
dovere nei confronti del governo o dello Stato, ovvero al dovere di obbe- 
dienza 0 lealtà nei confronti delle leggi del proprio paese. Ma proprio la rifles- 
sione intorno a questo dovere, alla sua assolutezza o ai suoi limiti, segna nel 
corso del XVII secolo il processo di crisi per l'etica della legge naturale. In- 
fatti Hobbes mette in luce la difficoltà di conciliare all'interno di un'etica 
della legge naturale due distinte esigenze entrambe considerate essenziali: da 
una parte il dovere di obbedienza al governo e dall'altra un qualche diritto a 
resistere al governo ingiusto. Hobbes indicava la soluzione nel rimettere al 
governo attraverso il patto tutti i diritti e dunque complessivamente anche il 
diritto di resistenza, lasciando però all'individuo la possibilità di salvare con la 
fuga la propria vita quando in pericolo. 

La concezione giusnaturalistica dunque è entrata in crisi non solo sul 
piano epistemologico (cfr. $ 3.4), ma anche per la sua incapacità di fornire 
soluzioni pratiche effettive ai problemi etici che di volta in volta si sono pre- 
sentati agli uomini. Quanto più le condizioni di vita degli esseri umani sono 
andate collocandosi in un ambiente artificiale, tanto meno il richiamo alla na- 
tura è risultato decisivo e chiaramente comprensibile. Non solo il dovere di 
resistenza del cittadino nei confronti dei governi ingiusti o delle guetre ingiu- 
ste è risultato inderivabile da una presunta legge naturale, ma molti dei doveri 
a cui rinviava la legge naturale sono apparsi desueti o inutili o lacunosi 
quando le condizioni di vita si sono andate trasformando radicalmente nel 
corso di un processo di civilizzazione che ha segnato il prevalere di condizioni 
artificiali di vita. Si pensi, ad esempio, alle profonde trasformazioni che hanno 
subito le relazioni familiari. Da queste trasformazioni deriva la vuotezza di 
quelle concezioni che pensano di potere risolvere i conflitti facendo appello a 
ciò che è naturale. Le questioni legate alle relazioni familiari o ai rapporti tra i 
sensi non trovano certo più una soluzione ovvia e condivisa rinviando a una 
presunta famiglia naturale ideale o a un comportamento appropriato e lode- 
vole secondo un qualche modello naturale di padre, madre, figlio e dei rispet- 
tivi doveri. Ancora, per cogliere le difficoltà a cui va incontro il giusnaturali- 
smo si pensi come al suo interno sia arduo trovare risposte per i problemi che 
nascono con le nuove professioni o le nuove responsabilità etiche (pensiamo a 
chi si occupa di gestione o trasmissione delle informazioni o delle imma- 


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72 ETICA 


gini, o a chi si occupa di terapia delle malattie mentali). L'etica della legge 
naturale pretende di trovare nella natura umana da sempre e per l'eternità 
doveri e diritti relativi a condizioni e situazioni che solo cinquant'anni fa 
erano inimmaginabili. Né una riduzione a una presunta essenza della condi- 
zione umana può risolvere queste difficoltà in quanto per questa via le norme 
ricavate dalle leggi naturali si presentano con una formulazione tanto astratta 
e generica da risultare del tutto inefficaci. Proprio perciò la tradizione giusna- 
turalistica si è andata sempre più svuotando della sua forza pratica e l'appello 
alla legge naturale è divenuto solo uno strumento retorico e ideologico, unito 
alla reiterazione di regole (spesso del tutto incapaci di guidarci) molto gene- 
rali quali «non uccidere», «non rubare» ecc. 


44. L'etica contrattualistica e le sue forme. — Il contrattualismo come 
teoria etica fu elaborato inizialmente nel corso del XVII secolo proprio come 
superamento del giusnaturalismo cristiano e medievale. La possibilità di indi- 
care nella natura umana un fondamento adeguato per l’etica veniva messa in 
crisi da Hobbes indicando la completa assenza, nella natura originatia degli 
uomini, di tendenze che rendessero possibili la pace, l'ordine e la coopera- 
zione sociale. Proprio in quanto la natura umana immaginata in uno «stato 
di natura» è incapace secondo Hobbes di dare fondamento alla distinzione 
tra il bene il male, tra il giusto e l'ingiusto, queste distinzioni vanno collegate a 
una procedura artificiale che coincide con il contratto. Il contratto fu am- 
piamente usato nel corso del XVII secolo come criterio etico decisivo da 
autori — molto diversi tra loro — come Hobbes, Pufendorf, Spinoza e Locke 
{Gough, 1986). 

Un tratto tipico comune del contrattualismo del XVII secolo sta nel fatto 
che il contratto è presentato come un criterio che può riuscire a fondare solo 
una parte del contenuto dell'etica — quello che ha a che fare con le leggi 
giuridiche e con le istituzioni politiche —, ma non la totalità dell'etica e în 
particolare non può rappresentare un criterio adeguato per fondare la morale 
nel senso stretto in cui ne trattiamo in questo scritto. Proprio perciò i teorici 
nel XVII secolo, al di lì dello spazio garantito dal contratto, rinviano a una 
diversa base come fondazione per la morale propriamente detta. Ad esempio 
nella teoria di Hobbes troviamo che o — secondo la maggior parte dei suoi 
interpreti — vi è una completa assenza di morale nello stato di natura e prima 
del patto che dà vita all’ordine civile, oppure — ad esempio secondo H. War- 
render (1974) — la morale viene fatta dipendere dagli ordini di Dio, o infine 
— ad esempio secondo Bobbio (1989) — la si fa dipendere da un calcolo 
prudenziale. Pufendorf e Locke invece ritengono che il contrattualismo per 


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LE ETICHE NORMATIVE 73 


quanto riguarda l'obbligo giuridico e politico possa (e debba) essere accom- 
pagnato dall'accettazione del giusnaturalismo per quanto riguarda l’obbliga- 
zione morale propriamente detta. Una prospettiva che restringe la portata 
della procedura artificialistica del contratio è presente anche in un autore 
come Jean-Jacques Rousseau che pure indica, nel contratto sociale (Rousseau, 
1966), l’unica via per correggere le distorsioni generate dalla corruzione pro- 
dotta dallo sviluppo della società e ricostituire così condizioni etiche più con- 
sone alla natura degli uomini (Rousseau, 1988). 

Solo con il XX secolo il contrattualismo si è presentato come criterio etico 
generale non ristretto alle situazioni di pertinenza del diritto e della politica. È 
infatti con Rawls e la sua «teoria della giustizia» (Rawls, 1982) che la conce- 
zione contrattualista viene proposta come strategia adeguata per individuare i 
principi etici in generale. Va però rimarcato che il «contrattualismo ideale» di 
Rawls riesce a funzionare da criterio generale per l’etica solo in quanto si de- 
linea come una procedura che ha incorporato in sé un altro requisito ritenuto 
caratteristico dell’etica: quello dell’imparzialità o dell'assunzione di un punto 
di vista generale. Abbiamo già indicato (cfr. $ 3.8) i limiti del contrattualismo 
di Rawls per quanto riguarda le procedure epistemologiche a cui si richiama; 
sul piano normativo va rilevato che tale criterio è in grado di indicare solu- 
zioni — ad esempio nella distribuzione dei beni disponibili — solo in quanto 
tutti coloro che sono coinvolti accettano già alcuni vincoli. Perché la proce- 
dura contrattualistica possa risultare decisiva bisogna, dunque, ritenere che ci 
sia già un qualche accordo nel considerarsi cittadini di una stessa comunità; 
oppure, in alternativa, bisogna ritenere che ci sia un’armonia prestabilita (un 
residuo del provvidenzialismo settecentesco) che garantisce la confluenza de- 
gli interessi individuali nel bene generale. Proprio come correttivo di queste 
limitazioni Gauthier ha presentato una procedura delineata come una forma 
di «contrattualismo reale» (Gauthier, 1986). Questa strategia si sforza di mo- 
strare che un certo esito identificato come un equilibrio di contrattazione ri- 
sulta per tutti coloro che sono coinvolti più conveniente in termini di soddi- 
sfazioni personali. Resta però da dire che in questo caso il criterio etico deci- 
sivo sembra presentarsi — al di lì del contratto — in una sorta di «egoismo 
razionale» che accetta i vincoli di una contrattazione come mezzo migliore 
per l'ottimizzazione di risultati anche dovendo fare conto su eventuali soste- 
gni o ostacoli da parte degli altri (cfr. $ 3.3). 

In generale dunque il contrattualismo presenta un criterio normativo che 
non è in grado di esaurire nella sua interezza lo spazio dell'etica, ma che ha 
bisogno di rinviare a criteri aggiuntivi (imparzialità o egoismo razionale) ove 
lo si voglia fare valere al di là del piano giuridico e politico. 


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74 ETICA 


45. Un'etica dei diritti. — Anche l'etica dei diritti si è andata svilup- 
pando nella cultura moderna e contemporanea come un correttivo della con- 
cezione giusnaturalistica. Una prima fase dell'etica dei diritti nel corso del 
XVII secolo fu la via attraverso la quale si cercò dì garantire la sfera di auto- 
nomia delle persone nei confronti dell'intervento della legge e del potere po- 
litico. I diritti che vengono fatti valere sul piano etico si presentano dunque 
prevalentemente come diritti negativi e di libertà contro l’ingerenza di un po- 
tere esterno. Così, da una parte, autori come Hobbes e Locke si fermarono a 
lungo sui diritti negativi alla autoconsetvazione e alla proprietà dei beni ed 
altri autori — come ad esempio Anthony Collins (1990) — e in generale i 
free-tbinkers — cercarono di far valere il diritto alla libertà di pensiero. Il pro- 
cesso teso a garantire i diritti negativi ebbe esito sul piano storico con le varie 
Dichiarazioni dei diritti degli Stati Americani (1776-1789) e con la Dichiara- 
zione dei diritti della Rivoluzione francese (1789; cfr. Cassese, 1988). 

Nel corso del XIX secolo e nella prima metà del XX vi è stata una conte- 
stazione della teoria etica dei diritti, da una parte dagli utilitaristi sul piano 
epistemologico e, dall'altra, dai marxisti sul piano di una critica storico-so- 
ciale. Ma — come rileva Brenda Almond (Almond, 1991} — una ripresa del- 
l'etica dei diritti si è avuta dopo la seconda guerra mondiale in particolare 
come reazione alla soluzione finale e al penocidio voluto dai nazisti. Si è così 
assistito a un progressivo ampliamento dell'etica dei diritti fino al punto che 
Bobbio ha potuto indicare come adeguata per la nostra epoca l’espressione di 
«età dei diritti» (Bobbio, 1990). Infatti più recentemente hanno fatto ricorso 
al linguaggio dei diritti anche quelle concezioni che in precedenza lo avevano 
criticato, come ad esempio l’utilitarismo — che l'aveva riftutato come del 
tutto privo di sensatezza — o l'etica cattolica — che l’aveva attaccato come 
espressione del trionfo di una mentalità moderna anarchica e priva di eticità. 
Nella seconda metà del secolo XX si è altresì assistito a una espansione della 
sfera dei diritti affermati come degni di salvaguardia. Infatti la più recente 
etica dei diritti non si limita più a rivendicare i tradizionali diritti negativi ma 
ha esteso le pretese anche a tutta una serie di diritti cosiddetti positivi (ad 
esempio alla salute, all'educazione, ad un lavoro ecc.). Ma in questa sede non 
possiamo limitarci a prendere atto della larga diffusione a livello di opinione 
pubblica del linguaggio dei diritti; dobbiamo piuttosto impegnarci a identifi- 
care e valutare criticamente le concezioni teoriche che hanno visto nell’affer- 
mazione dei diritti il criterio etico fondamentale. 

Nel corso del secolo XVII laddove i sostenitori della legge naturale prefe- 
rivano richiamare sul piano etico il primato dei caratteri essenziali della na- 
tura umana intesi in modo complessivo, o per così dire olistico, i sostenitori di 


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LE ETICHE NORMATIVE 75 


un'etica dei diritti — pur conservando la convinzione di una legge naturale o 
divina che fonda in modo assoluto l’etica — facevano proprio — sia pure in 
modo grezzo e schematico — il quadro teorico dell'individualismo metodolo- 
gico. Muovendo da questa prospettiva, almeno per una parte della storia del- 
l'etica dei diritti possiamo accettare il quadro esplicativo proposto da autori 
come L. Strauss (1990) e C. B. Macpherson (1973) che identificano questa sto- 
ria con quella della lotta di una nuova classe in ascesa — la borghesia 0 ceto 
medio, ovvero il ceto di produttori — per giungere a un ticonoscimento delle 
sue esigenze da parte della legge o del potere politico. Dunque una prima fase 
dell'affermazione dei diritti fu rivolta a far valere pretesi diritti naturali degli 
uomini contro lo strapotere della legge e dello Stato. Si tratta di quella fase 
che possiamo ritenere conclusa con le Rivoluzioni americana e francese in cui 
si affermano i diritti negativi alla vita, alla libertà, all'autonomia, alla resi- 
stenza, alla proprietà ecc. In questo quadro, oltre ai teorici del liberalismo 
settecentesco, possiamo collocare anche autori che, come Rousseau, sono im- 
pegnati a recuperare una serie di esigenze naturali degli uomini contro le li- 
mitazioni progressivamente delineatesi nella storia della corruzione umana. 

Nel corso del XX secolo invece i fautori dell'etica dei diritti hanno cer- 
cato, sempre su un piano morale o pregiuridico e prepolitico, di argomentare 
a favore del riconoscimento di una serie di esigenze minime che gli esseri 
umani avrebbero in quanto tali e che le collettività dovrebbero garantire con 
le loro istituzioni e forme di vita organizzate. Tra questi diritti positivi rien- 
trano ad esempio quelli alla salute, al lavoro, a una casa o più genericamente 
alla liberazione dalla povertà o addirittura al benessere o alla felicità. Laddove 
nella prima fase erano i diritti dell’individuo o del cittadino che si cercava di 
considerare come criterio decisivo dell'etica, nella fase più recente si pren- 
dono a guida piuttosto i diritti della persona umana più ampiamente intesa. 
Va però rilevato che ci si trova di fronte a una sorta di contrasto 0 incompa- 
tibilità tra l'affermazione dei diritti negativi e quella dei diritti positivi. Come 
ha più volte sottolineato Bobbio (1990) l'espansione dei programmi di difesa 
dei diritti sociali o positivi (a parte le difficoltà di concordare una lista precisa 
dei diritti da includere in questo programma e di convergere su una loro ge- 
rarchia) non può che essere realizzata dando al potere politico e giuridico una 
qualche autorità per limitare eventualmente i diritti negativi individuali che, 
se illimitati, non permettono il raggiungimento per tutti i membri di una so- 
cietà dei diritti sociali. 

Dal punto di vista teorico nel nostro secolo l'appello ai diritti è stato col- 
legato, sul piano fondazionale, non solo con la legge naturale, ma anche con 
altre strategie etiche. Non è mancato chi ha cercato di fondare i diritti in un 


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76 ETICA 


quadro generalmente contrattualistico (ad esempio Rawls, 1982), o di recupe- 
carne un qualche riconoscimento anche in un quadro utilitaristico (ad esem- 
pio Hare, 1989), anche se in queste concezioni i diritti non hanno più una 
collocazione primaria e originaria ma solo un ruolo sussidiario e derivato. 
Non sono poi mancate profonde divaricazioni per quanto riguarda il tipo di 
tradizione etico-politica al cui interno sono state calate le affermazioni dei di- 
ritti. Da una parte si è fatto ricorso alla tradizione liberale che ha piuttosto 
insistito sui diritti negativi degli individui nei confronti della società civile e 
spesso contro lo Stato (così da I. Berlin, 1989, fino alle posizioni anarchiche di 
R. Nozick, 1981). Dall'altra si colloca la strategia — che ha trovato espres- 
sione nei movimenti democratici e socialisti e in forma più totalitaria nei re- 
gimi comunisti — che in nome della realizzazione dei diritti sociali dei citta- 
dini ha proposto limitazioni più 0 meno estese delle libertà negative. 

Una storia del progressivo espandersi e modificarsi delle rivendicazioni dei 
diritti può essere una strada molto fertile per ripercorrere la storia della mo- 
rale e del costume sociale nelle società occidentali, ma non permette di arri. 
vare a identificare un preciso criterio etico. In questa direzione già Bentham 
mostrava le fallacie e le insufficienze di una teoria etica dei diritti che a suo 
parere non poteva che confluire in un'etica della legge naturale e dunque in 
una forma di etica autoritaria o dell’ipse dixit {Bentham, 1981). Un'alternativa 
alle concezioni giusnaturalistiche che può essere percorsa dall’etica dei diritti 
è quella che, secondo alcuni interpreti, sarebbe propria di Hobbes, il quale 
identifica i diritti con le prerogative che ciascuno individuo si trova di fatto ad 
avere a ragione delle sue condizioni storiche, del suo status sociale, delle sue 
capacità, forza ecc. Una impostazione che però rende praticamente impossi- 
bile un qualche bilanciamento dei titoli che qualsiasi individuo può far valere 
come decisivi. Ovviamente si presentano qui come insolubili pretese conflig- 
genti di diritti in una condizione come quella umana nella quale per la scarsità 
delle risorse e i vincoli emotivi degli esseri umani non sono contemporanea- 
mente soddisfacibili tutte le esigenze di tutti. 

L'etica dei diritti manifesta la sua maggiore inadeguatezza sul piano critico 
e teorico proprio nella seconda metà del XX secolo, quando realizza il mag- 
giore successo dal punto di vista della sua diffusione come forma di discorso 
prevalente nell'opinione pubblica. Infatti proprio in questo periodo vi è stato 
un fiorire di nuovi diritti ed un indubbio processo di democratizzazione (ov- 
vero di allargamento della base di coloro che avanzano le pretese di diritti), 
fenomeni che ben lungi dal risolvere problemi etici ne hanno fatto sorgere di 
nuovi. Abbiamo assistito, proprio come conseguenza del prevalere della 
forma di rivendicazione etica che fa appello ai diritti, a un riacutizzarsi dei 


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LÉ ETICHE NORMATIVE 77 


contrasti in campi quali quelli della nascita, della morte, della cura, dell’am- 
biente, del trattamento degli animali, della considerazione delle generazioni 
future ecc. Da un punto di vista puramente descrittivo — e lasciando sospeso 
il giudizio di merito su questi fenomeni — si può rilevare una crescita espo- 
nenziale di nuovi soggetti di diritti e di diritti che ciascun soggetto avanza con 
la pretesa che siano riconosciuti da tutti e salvaguardati dalle istituzioni poli- 
tiche e giuridiche. Dietro questo diffondersi delle pretese ai diritti, invece, da 
un punto di vista teorico e fondazionale restano valide le strategie del passato 
con cui si era già cercato di giustificare il primato dei diritti presentandoli, di 
volta in volta, come una pretesa di verità (White, 1984), uno strumento emo- 
tivo particolarmente persuasivo (Hagerstròm, 1953), una sorta di «asso di bri- 
scola» (Dworkin, 1982), un titolo richiamato come valido (Nozick, 1981), Ma 
il tentativo di costruire una qualche etica dei diritti come risolutiva va incon- 
tro a difficoltà insuperabili quando si tratta di fornire criteri sicuri per deci- 
dere quali nuovi diritti riconoscere effettivamente come meritevoli di codifi- 
cazione giuridica o di tutela morale. Non diversamente, il contesto teorico 
dell'etica dei diritti non è in grado, di fronte a casi concreti, di offrire una 
strada argomentativa per superare contrasti e conflitti proprio relativamente a 
diritti da riconoscere convergentemente. Per questi suoi limiti epistemologici 
l’etica dei diritti si presenta, più che come una teoria valida e coerente, come 
una retorica pubblica largamente usata oggi nella nostra cultura. 


4.6. L'etica kantiana e la persona umana. — Un modello del tutto pecu- 
liare di etica normativa è quello che si trova negli scritti di Kant. Come ha 
sottolineato Frankena, nel caso di Kant ci troviamo di fronte a una ben pre- 
cisa forma di «deontologismo della regola» {Frankena, 1981). L’universalità 
richiamata dall’etica kantiana si collega, su un piano epistemologico, con una 
forma di intuizionismo che attraverso la via del trascendentalismo sfocia in un 
realismo etico che esclude la possibilità di conciliarlo con una meta-etica non- 
cognitivistica. Va così rifiutato il tentativo di Rawls {Rawls, 1980) di trovare in 
Kant un'etica sostanzialmente costruttivistica e puramente procedurale. 

La legge etica di fondo dell’etica kantiana — ovvero l'imperativo catego- 
rico «agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere nello stesso 
tempo come principio di una legislazione universale» (Kant, 1970a: 167) — si 
presenta come decisiva e capace di indicare le soluzioni dei diversi conflitti e 
disaccordi etici. Ma è proprio questo universalismo dell’etica di Kant che è 
stato più frequentemente criticato. L'etica kantiana si presenta secondo i cri- 
tici come una mera etica della coerenza formale e propria di una volontà che 
per rendersi il più universale possibile si depotenzia, si svuota di contenuti e si 


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78 ETICA 


rende del tutto incapace di incidere in qualche modo sulle effettive opzioni 
presenti nelle situazioni reali. 

La comprensione della proposta etica kantiana passa attraverso una più 
precisa individuazione della natura dell'imperativo categorico. In Kant si 
tratta di una massima che è universalizzabile solo se può essere voluta senza 
contraddizione come legge universale, cioè se e solo se qualcuno può volere, 
senza incoerenza nella volontà, che ognuno adotti questa massima e agisca 
secondo essa. L’universalizzabilità in questo senso «è la prova dell’accettabi- 
lità morale di una massima dell’azione e conseguentemente della condotta» 
(cfr. M. G. Singer, 1985: 55). Per Kant l’universalità è un principio morale e 
come tale non ha molto a che fare con l’universalizzabilità che Hare riconosce 
come carattere proprio dei giudizi morali, in quanto tale carattere, almeno 
nelle prime affermazioni che ne fa Hare (cfr. $ 2.6), si presenta come una tesi 
sulla logica del discorso morale. 

Ma per rendere conto adeguatamente dell’etica normativa kantiana non ci 
si può limitare alla componente universalistica. Vi sono altri tratti che la ren- 
dono storicamente riconoscibile, e almeno altre due tesi ne rappresentano il 
nucleo essenziale: il complessivo approccio rigoristico a preferenze, desideri e 
passioni umane; l'affermazione della centralità morale della persona. 

Nel caso dell’etica kantiana la legge morale e gli imperativi categorici na- 
scono proprio negando — in nome della libertà — interessi egoistici e desi- 
deri individuali e non già rendendo possibile, con il fare valere punti di vista 
imparziali e generali, una loro conciliazione. Uno degli aspetti caratteristici 
dell'etica normativa kantiana sta nel riprendere il discorso delle etiche asceti- 
che cristiane che indicavano un'incompatibilità tra la ricerca del proprio be- 
nessere e il piano morale. In questa linea l’etica kantiana non si spinge solo a 
fissare una distinzione tra il cosiddetto piano prudenziale e il piano etico, ma 
procede fino a prescrivere la salvaguardia di un piano morale che nega recisa- 
mente — contrapponendovisi — tutta l'impostazione delle etiche eteronome 
che fanno del benessere il fine delle azioni umane. Proprio in questo senso 
l'etica di Kant si presenta come un'etica del dovere e della scelta responsabile 
e razionale della legge universale, in contrasto con qualsiasi tendenza a consi- 
derare la felicità individuale come obiettivo finale dell'etica. La posizione kan- 
tiana si presenta, dunque, come del tutto alternativa rispetto a quella fatta va- 
lere sempre più decisamente nella tradizione empiristica — da Hume all’uti- 
litarismo, al prescrittivismo universale — secondo la quale solo desideri, 
sentimenti e preferenze sono in grado di motivare le scelte (etiche o non eti- 
che) e la ragione invece risulta inefficace su questo piano, Non bisogna per 
dere di vista questa componente dell'etica kantiana che rende del tutto eccen- 


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LE ETICHE NORMATIVE 79 


trici aleuni tentativi contemporanei — ad esempio quelli di J. Rawls e R. M, 
Hare — di conciliare l’universalismo kantiano con un bilanciamento dei desi- 
deri e delle preferenze effettive di coloro che sono coinvolti. 

Kant rifiutava tutte quelle etiche che facevano discendere la determina- 
zione della moralità da motivi diversi da quelli propriamente etici. La sua teo- 
ria è del tutto in linea con l'affermazione nella cultura moderna e contempo- 
ranea dell'autonomia della morale. In particolare Kant rifiutava come etero- 
nome tutte quelle etiche che assimilavano il bene morale a qualcosa che 
dipendeva o dall'educazione (Montaigne), o dalle leggi civili (Mandeville), o 
dal sentimento fisico (Epicuro), o dal senso morale (Hutcheson), o dalla per- 
fezione oggettiva (Wolff e gli stoici), o dalla volontà di Dio (Crusius e altri 
moralisti teologici; Kant, 1970a: 178). Secondo Kant l’amore di sé, i senti- 
menti e le preferenze personali non sono in grado di costituire il punto di 
vista morale: laddove l’azione è motivata da questi scopi essa è chiaramente 
eteronorna e dunque non morale. Solo una legge della ragione può motivare 
autonomamente. Nel primo caso si hanno solo imperativi ipotetici e precetti 
prudenziali, mentre nel secondo caso si giunge agli imperativi categorici mo- 
rali nella loro peculiarità. 

La concezione etica kantiana infine riconosce un posto centrale alla per- 
sona. Kant presenta una caratterizzazione della persona umana in termini es- 
senzialistici e semplici ovvero come qualcosa che ha una sua realtà sostanziale 
continua e inconfondibile {tra l'altro che sopravvive alla stessa morte}, anche 
se questa realtà sfugge alia nostra conoscenza e si presenta come collocata sul 
piano noumenico. Ecco ad esempio una definizione dell’essere umano, non 
priva di implicazioni assiologiche, offerta da Kant nella Axtoropologie in prag- 
matischer Hinsicht abgefasst (1798, Antropologia dal punto di vista pragmati- 
co): «Che l’uomo possa avere una rappresentazione del proprio io, lo innalza 
infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. Perciò egli è 
una persona e, grazie all'unità della coscienza in tutti i mutamenti che subisce, 
una sola e stessa persona» (Kant, 1970a: 547). Malgrado alcune limitazioni 
epistemologiche nell’affermazione di un personalismo essenzialistico Kant 
considera decisamente come tratto definiente della persona umana — che è 
l'unico soggetto-oggetto dell'universo morale — la sua razionalità. La centra- 
lità della nozione di persona nell’etica kantiana risulta esplicita in una delle 
formulazioni dell'imperativo categorico che suona: «agisci in modo di trattare 
l'umanità nella tua persona come nella persona di ogni altro sempre come fine 
e mai soltanto come mezzo» (Kant, 19704). Proprio sulla base della persona è 
fondata la tavola dei doveri presentati in Die Merapbysik der Sitten (1797, La 
metafisica dei costumzi). Kant riprendeva le distinzioni avanzate dai giusnatura- 


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80 ETICA 


listi (in particolare Pufendorf e Thomasius) tra doveri positivi e negativi (che 
si intreccia con quella tra doveri verso Dio, verso gli altri e verso se stessi), 
riformulandola come una distinzione tra doveri perfetti {quelli verso se stessi 
stabiliti da massime universali per le quali persare un'eccezione equivale a una 
contraddizione) e doveri imperfetti (doveri verso gli altri in cui la contraddi- 
zione si presenta laddove vogliazzo un'eccezione) (Kant, 1970b: 269-374). 

Le critiche alla concezione kantiana dell'etica sono state mosse lungo di- 
verse linee. Ricordiamo quelle che ci sembrano più decisive: la mera forma 
dell’universalità o è vuota 0 può essere soddisfatta dalla coerenza e fedeltà 
verso qualsiasi valore anche negativo; l’uso dell'autonomia dell’etica in chiave 
rigidamente rigoristica rende del tutto astratta e ininfluente la norma kantiana 
che non potrà includere nessuno dei desideri effettivi di esseri umani concreti. 
Inoltre, l'ancoraggio dell'etica da parte di Kant alla persona razionale com- 
porta per la sua prospettiva alcuni limiti: non può essere estesa a rendere 
conto di situazioni etiche in cui siano presenti esseri non razionali (animali, 
ambiente ecc.); resta pur sempre un residuo di colorazione egoistica in una 
prospettiva che si muove esclusivamente in un contesto di persone in qualche 
modo distinte e separate l'una dall'altra. Quest'ultima critica è stata fatta va- 
lere in particolare da Parfit (1989). La tesi è che solo un quadro concettuale 
che — come quello elaborato da Parfit — dia una spiegazione riduzionistica e 
complessa per quanto riguarda la natura dell'io e della persona potrà permet- 
tere di non considerare le singole persone umane come unità di misura finale 
pes l'etica. Dunque solo chi sappia liberare la morale dai confini ontologici 
della persona umana potrà porre le basi per la costruzione di un'etica effetti- 
vamente universalistica e altruistica. 


4.7. Le etiche utilitaristiche. — Una concezione etica molto diffusa e for- 
tunata è quella utilitaristica. Si può trovare un appello generico all’utilità 
come criterio di scelta etica in molti pensatori dall’antichità ai giorni nostri. 
Ma prendendo in esame l’utilitarismo propriamente detto facciamo riferi- 
mento a quelle concezioni che riprendono da Bentham lo sforzo di svilup- 
pare, in termini precisi e rigorosi, un criterio di scelta e valutazione morale 
con al centro l'utilità, a sua volta definita ricorrendo a nozioni quali piacere- 
dolore, felicità-infelicità, soddisfazione di preferenze ecc. La storia dell’utilita- 
rismo, anche in questo senso più stretto e determinato, è molto ampia e non si 
può qui ripercorrerla se non in modo sommario limitandosi a delineare alcuni 
dei filoni principali in esso riconoscibili. 

Nel rendere conto delle varie forme di utilitarismo proviamo a differen- 
ziarle sulla base della diversa caratterizzazione che viene offerta della nozione 


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LE ETICHE NORMATIVE 81 


del bene che alla fine si deve ottenere. La nozione di utilità è, infatti, sempre 
ricondotta ad una più determinata nozione di bene che identifica con più 
precisione in che cosa risiede l'utilità che va massimizzata. Un'altra linea di 
distinzione che sviluppererno in questo paragrafo è quella tra le concezio- 
ni che applicano il criterio utilitaristico alle singole azioni o agli atti partico- 
lari e quelle che viceversa fanno valere tale criterio per le regole o norme in 
generale. 

Occorre precisare preliminarmente — una precisazione particolarmente 
necessaria in una cultura come quella italiana in cui l’utilitarismo, ben lungi 
dall'essere studiato e discusso, è aprioristicamente liquidato e stigmatizzato 
come una forma di egoismo del tutto inconciliabile con la moralità (è ancora 
l'atteggiamento avanzato da Alessandro Manzoni nelle sue Osservazioni sulla 
morale cattolica nel 1819 a fare testo) — che l'etica utilitaristica va tenuta net- 
tamente distinta dalle cosiddette concezioni egoistiche. È tipico dei fautori 
dell'etica utilitarista fare riferimento a un’utilità che non riguarda mai il sin- 
golo agente, ma che riguarda — a seconda della formula privilegiata — la 
massima utilità generale, l’utilità del maggior numero, l’utilità di tutti, l'utilità 
di tutti coloro che sono coinvolti ecc. Si possono individuare diverse conce- 
zioni dell’utilitarismo anche tenendo conto della prospettiva sottoscritta per 
quanto riguarda l'universo dei soggetti da tenere presente nel calcolo utilita- 
ristico. Vi è la tendenza a considerare la massima utilità che va cercata come 
coinvolgente tutti coloro nei quali può essere rintracciato il tipo di stato men- 
tale che va massimizzato, che si tratti di piacere, dolore, preferenze, desideri o 
altro. Proprio in questo senso è tipico dell'utilitarismo il presentarsi come una 
concezione della morale che estende la sua portata anche al di là dell’ambito 
delle persone umane, fino a coinvolgere tutti gli esseri viventi in cui si trovi lo 
stato mentale (ad esempio la sofferenza o il piacere) che il criterio deve mi- 
nimizzare o massimizzare con il corso di azione prescelto. Già in Bentham 
{Bentham, 1970: 282-283) era presente quell'apertura a una considerazione 
etica del mondo animale che troviamo poi largamente sviluppata nell’utilita- 
rismo contemporaneo. 

Per quanto riguarda la caratterizzazione del bene che va massimizzato una 
differenza classica è quella tra concezione edonistica che distingue tra i piaceri 
solo su basi quantitative e quella che riconosce differenze qualitative. Così in 
Bentham troviamo sviluppata l’idea che la misurazione quantitativa del pia- 
cere € del dolore è l'unico criterio in grado di dare una base esterna, valida e 
pubblicamente discutibile, alle prese di posizione etiche. Bentham quindi cri- 
tica tutte le etiche alternative all’utilitarismo in quanto inclini a far valere un 
criterio del rutto arbitrario in morale. La formulazione di un criterio di misu- 


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82 ETICA 


razione della quantità del piacere, in gioco in corsi di azione che coinvolgono 
più esseri senzienti, non è priva di difficoltà. Proprio sull’inadeguatezza, ad 
esempio, del criterio offerto da Bentham si sono concentrate le critiche degli 
avversari dell’utilitarismo. Si è rilevata tra l’altro l'impossibilità di ridurre a 
una base unica piaceri diversi e l'impraticabilità di quei confronti interperso- 
nali di piacere e dolore che sarebbero necessari. Resta poi anche costante la 
critica che la ricerca del solo obiettivo della massimizzazione dei risultati sem- 
bra lasciare completamente da parte le esigenze di una distribuzione giusta 
del bene massimizzato. Considereremo eticamente preferibile un corso di 
azione che realizza un incremento della quantità di piacere, anche se questo 
risultato si accompagna a una distribuzione del tutto iniqua di tale piacere o 
benessere e addirittura accentua la distanza tra individui che ottengono 
grandi quantità di piacere e individui che ne ottengono una ridottissima. 
Dunque vi sarebbe un’opacità di fondo dell'utilitarismo rispetto a questioni di 
giustizia distributiva, e più in generale a questioni di diritti. 

Una diversa forma di utilitarismo fu delineata da John Stuart Mill in Ut 
litarianism (1863) in parte già come risposta a queste critiche e difficoltà del 
particolare edonismo di Bentham (Mill, 1981b). Le variazioni più significative 
riguardano l’introduzione di una distinzione qualitativa tra piaceri e un'insi- 
stenza sul principio che ciascun individuo è sovrano nella determinazione 
delle proprie gerarchie di piacere e che le sue opzioni — laddove non procu- 
rino danno agli altri — vanno incorporate nel criterio utilitaristico. Mill nei 
suoi scritti non si limita ad assumere come rilevante la distinzione qualitativa 
tra piaceri più elevati e più bassi, ma sviluppa anche una tecnica con l’aiuto 
della quale risolvere eventuali contrasti, e ciò che più conta usa questa distin- 
zione per proporre sostanziali innovazioni del costume morale a proposito del 
trattamento delle donne, della questione dei lavoratori manuali, della povertà 
e della scelta responsabile delle nascite. Per quanto riguarda i contrasti relativi 
ai piaceri qualitativamente diversi coinvolti Mill ritiene che essi possano essere 
risolti facendo appello all'opinione — che si esprime nella discussione pub- 
blica con l'approvazione o la disapprovazione morale — di coloro che cono- 
scono tutte le forme di piacere in gioco. La posizione di Mill per quanto ri- 
guarda la distinzione qualitativa dei piaceri è stata spesso criticata e denun- 
ciata come contraddittoria, in quanto mescolerebbe due differenti criteri di 
valutazione (cfr. Musacchio, 1981). Occorre ammettere che Mill presenta 
un’etica mista, ovvero che unisce due diversi criteri di scelta e di decisione, 
ma non.va data come ovvia e scontata l'inaccettabilità di una posizione nor- 
mativa che cerchi di conciliare due distinti principi ad esempio facendoli 
valere a diversi livelli etici. 


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LE ETICHE NORMATIVE 83 


Ma la grande svolta nella storia dell'utilitarismo è segnata da quel mo- 
mento in cui il criterio passa a prendere in considerazione non tanto le com- 
ponenti del piacere e del dolore, quanto, più genericamente, le preferenze di 
coloro che sono coinvolti nelle situazioni in esame. L'utilitarismo delle prefe- 
renze che si sviluppa in particolare nel secolo XX realizza uno spostamento 
decisivo del criterio che non pretende più di fare riferimento a una unità di 
misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto accettando 
come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti coinvolti e dun- 
que identificando come giusto quel corso di azione che massimizza la soddi- 
sfazione delle preferenze quali che siano. Le preferenze possono tendere 
verso oggetti completamente diversi e dunque l’utilitarismo delle preferenze 
dispone di uno strumento di valutazione etico più flessibile, recuperando e 
ampliando — in un senso ancora più liberale e individualistico — quell’esi- 
genza di pluralismo fatta valere da Mill contro il riduzionismo oggettivistico e 
paternalistico dell’utilitarismo di Bentham (Harsanyi, 1988 e Hare, 1989). 

L'utilitarismo delle preferenze è stato poi elaborato nel tentativo di trovare 
una risposta per numerose questioni dell’etica teorica; in particolare sono stati 
messi a punto criteri per distinguere preferenze di ordine diverso, quali quelle 
antisociali di un sadico e quelle benevole o altruiste. Così John Harsanyi (Har- 
sanyi, 1985: 75-126} ha considerato rilevanti per l'etica solo le preferenze be- 
nevole considerate imparzialmente, mentre Hare ha identificato come etica- 
mente significative le preferenze universalizzabili (Hare, 1989). Infine non 
sono mancati utilitaristi che hanno proposto complesse tecniche di valuta- 
zione critica delle preferenze: ad esempio Brandt ha proposto di accettare, 
dopo averle sottoposte a una sorta di vaglio terapeutico, le sole preferenze 
razionali ovvero basate su desideri non egoistici e pienamente informati 
(Brandt, 1979). Anche la storia dell’utilitarismo mostra dunque come, a livello 
teorico, prevalga l’elaborazione di concezioni miste. Nel caso specifico al cri- 
terio della massimizzazione si affianca quello della selezione delle preferenze 
in base alla loro universalizzabilità formale o imparzialità sostanziale. 

Malgrado questi tentativi di evitare il riduzionismo, l'utilitarismo è stato 
insistentemente attaccato (Smart e Williams, 1985; A. Sen e B. Williams, 
1984) contestando la legittimità di un approccio che considera come decisive 
le preferenze che di fatto un certo individuo si trova ad avere. Procedendo in 
questo modo l’utilitarista non terrebbe conto che le preferenze esistenti pos- 
sono essere indotte dall'esterno o comunque niente affatto adeguate ai bisogni 
reali degli individui che di fatto le rivelano. In particolare A. Sen (1986) ha 
obiettato che la mera registrazione delle preferenze rivelate finisce con il con- 
solidare le distribuzioni di beni inique di fatto già istituzionalizzate. Gli utili 


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84 ETICA 


taristi hanno cercato di rispondere a queste critiche indicando che l'esigenza 
della massimizzazione delle soddisfazioni delle preferenze può essere ottimiz. 
zata solo laddove si accetti l’esistenza di una soglia per ciascun individuo al di 
là della quale un incremento della soddisfazione delle sue preferenze realizza 
risultati meno validi di quelli realizzabili incrementando la soddisfazione delle 
preferenze di individui che stanno peggio (Pontara, 1988). 

Nella storia dell’utilitarismo, specialmente nel XX secolo, si è proceduto 
anche su di un altro piano nel cercare un correttivo che permettesse di fare 
valere nella massimizzazione una qualche regola o principio distributivo. In 
questa linea si sono sviluppate ad esempio varie forme di utilitarismo della 
norma © della regola. Sul piano storico vi è stata una tendenza a considerare 
Bentham come un tipico esponente dell’utilitarismo dell’atto e a trovare in- 
vece in Mill una posizione che anticipa le esigenze dell’utilitarismo della re- 
gola o della norma (J. Urmson, 1953). Il problema principale affrontato da 
questa parte della riflessione teorica interna all’utilitarismo è stato quello della 
possibilità o meno di ricondurre l’utilitarismo della regola all’utilitarismo del- 
l’atto. Nel caso poi in cui si è concluso per la specificità dell'utilitarismo della 
regola, la questione è stata se una teoria che fa valere un qualche riferimento a 
regole, principi e norme non comporti una fuoriuscita dal quadro conseguen- 
zialista proprio dell’utilitarismo (Lyons, 1965). Nella riflessione sulla possibi- 
lità di conciliare l'accettazione primaria dell’utilitarismo dell’atto con un rico- 
noscimento di un qualche ruolo nella vita etica a principi e norme, partico 
larmente interessante risulta un tentativo come quello di Hare. Hare ha 
presentato una teoria dei due livelli di pensiero etico: uno, più intuitivo e 
di senso comune, all’interno del quale valgono le regole e le norme, e l'altro 
— che si colloca invece sul piano della riflessione critica — nel quale, vice- 
versa, si applica ditettamente alle singole azioni il criterio utilitaristico della 
massimizzazione della soddisfazione delle preferenze di tutti coloro che sono 
coinvolti (Hare, 1989). Più fertili sono da ritenere però quei tentativi di pre- 
sentare un utilitarismo della norma e della regola come itriducibile — sul 
piano normativo — all’utilitarismo dell'atto. Così ad esempio procede Brandt, 
che ha più volte fatto valere la sua posizione come una forma di utilitarismo 
della norma ideale. In questa teoria il criterio etico decisivo è quello che iden- 
tifica le soluzioni rappresentandosi le norme da accettare in una società idea- 
le rivolta a soddisfare massimamente i desideri razionali dei suoi cittadini 
(Brandt, 1992). 

Nel rendere conto delle varie specie di utilitarismo va infine ricordato 
quell’utilitarismo che è sembrato preoccupato non tanto di realizzare un saldo 
attivo di piaceri, quanto di minimizzare le sofferenze e i dolori (R, N. Smart, 


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LE ETICHE NORMATIVE 85 


1958). Questo tipo di utilitarismo negativo è stato spesso criticato — ad esem- 
pio da J. J. Smart (Smart, 1985) — come paradossale in quanto implica che 
la soluzione migliore è quella che riduce al massimo il numero di esseri sen- 
zienti esistenti, in quanto per questa via si procede certamente a una ridu- 
zione della quantità delle sofferenze. Ma se si va al di là del piano speculativo 
sul quale si muove l’etica teorica sembra chiaro che proprio il criterio di una 
riduzione delle sofferenze inutili ha avuto un ruolo decisivo nei dibattiti più 
recenti sull’etica pratica. È stata questa la via principale mediante la quale si è 
allargato l'ambito del discorso etico anche alle questioni del trattamento degli 
animali ed ancora è questa la via mediante la quale — riprendendo le critiche 
di Bentham nei confronti delle etiche ascetiche — si continua a fare emergere 
l'inaccettabilità di quelle soluzioni fittizie ricavate dall’imposizione di antro- 
pologie astratte. 


4.8. La scelta razionale come criterio normativo. — Consideriamo poi 
quella concezione normativa che sostiene che ciò che è bene o giusto fare, in 
una qualsiasi situazione che ci presenta diverse alternative, può essere deciso 
cercando ciò che è razionale o ragionevole fare, nel senso di ciò che soddisfa 
massimamente i propri interessi e bisogni. Una concezione etica della scelta 
razionale è riconoscibile in particolare negli scritti di alcuni teorici che difen- 
dono l'economia di mercato, sostenendo che proprio la ricerca da parte di 
ciascun individuo della massima realizzazione delle proprie esigenze consente 
di ottenere i risultati migliori per la società nel complesso (Arrow, 1977 e 
Buchanan, 1989). Naturalmente un punto decisivo per questa concezione 
normativa sta nell'impegno a definire con maggiore precisione la natura di ciò 
che è razionale massimizzare nella ricerca di una soddisfazione personale. In 
questa luce si presentano come nettamente distinte: da una parte, una posi- 
zione che tende a ritenere razionale qualsiasi scelta che ciascuno consideri 
come massimizzante la propria utilità interpretata in termini di benessere o 
vantaggio economico personale — una teoria etica che muove dal riconosci- 
mento di una qualche sovranità del consumatore; dall’altra una posizione che 
interpreta la scelta razionale come quella che massimizza, ad esempio, i biso- 
gni più profondi ed elevati della persona che sceglie. 

La teoria che ritiene eticamente preferibile come criterio per le scelte pub- 
bliche il comportamento che tende a massimizzare l’utilità attesa da ciascuno 
degli agenti negli ultimi decenni è stata attaccata lungo due linee: una rivolta a 
mostrarne le difficoltà interne laddove venga presentata come teoria norma- 
tiva da adottare per identificare l'alternativa di azione ottimale; l’altra rivolta a 
farne risaltare la scarsa portata analitica e esplicativa. 


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86 ETICA 


Il primo ordine di difficoltà si esprime specialmente osservando che, col. 
locandoci all’interno della teoria della scelta razionale e regolandoci non di- 
versamente da giocatori che cercano di vincere la partita contro avversati 
egualmente razionali, finiamo con il trovarci di fronte al ben noto dilerzizza del 
prigioniero (Axelrod, 1985 e Resnik, 1990). Se più individui razionali in una 
situazione che li coinvolge in competizione si fanno guidare per decidere la 
via da seguire dalla ricerca del migliore risultato prevedibile — sulla base del. 
l'attribuzione di un calcolo eguale agli altri individui — saranno costretti a 
privilegiare corsi di azione che porteranno a un risultato niente affatto otti- 
male. Ll risultato migliore a cui tenderà ciascuno cercando di garantirsi la mas- 
sima utilità attesa, presupponendo anche da parte degli altri un analogo com- 
portamento, non garantirà affatto quel buon esito che si potrebbe realizzare 
solo introducendo l'accettazione di qualche vincolo cooperativo da parte di 
tutti gli individui presenti nella scena. 

L'altro tipo di critica — avanzato ad esempio da Sen (1986) — è rivolto a 
mostrare i forti limiti esplicativi presenti nella teoria della scelta razionale in 
quanto risulta del tutto incapace di rendere conto di tutte le nostre scelte in 
situazioni che coinvolgono beni pubblici. Infatti se pensiamo a scelte che ri- 
guardano la disponibilità di beni quali strade, servizi ecc. ci rendiamo conto 
che ciò che di fatto facciamo laddove privilegiamo una decisione che porti alla 
creazione o all'uso regolato di uno qualunque dei beni pubblici — creazione e 
uso regolato che risultano costitutive della nostra forma di vita — non può 
essere in alcun modo spiegato come esito di una scelta ispirata dalla teoria 
della scelta razionale. Infatti ispirandoci a tale criterio dovremmo sempre tutti 
regolarci come free riders, ovvero come battitori liberi che si preoccupano 
esclusivamente dei propri interessi, e ciò renderebbe impossibile la conver- 
genza sulla creazione e l’uso regolato di un bene pubblico, Tale teoria non 
riesce dunque a rendere conto dell’esistenza di una larga fetta della nostra 
realtà sociale. 

Va però segnalato che i teorici della scelta razionale sono tuttora impe- 
gnati a elaborare modelli, coerenti con le loro assunzioni, con cui rispondere a 
tutte queste obiezioni. In particolare si sono sforzati di mostrare come nel 
quadro teorico della cosiddetta teoria della scelta razionale o dei giochi — ov- 
vero in una situazione in cui sono presenti più agenti razionali con obiettivi in 
competizione — è possibile spiegare l'insorgenza di norme e regole coopera- 
tive che permettono di convergere sui risultati ottimali. In questa linea si è 
mosso ad esempio R. Sugden {Sugden, 1986) che ha molto lavorato nel cer- 
care di mostrare come una teoria della scelta razionale che preveda scelte ri- 
petute, con la ricerca da parte degli agenti di un aggiustamento reciproco in 


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LE ETICHE NORMATIVE 87 


vista di un equilibrio più stabile, permette di arrivare a rendere conto dell’ac- 
cetrazione sociale di norme con un minimo di contenuto cooperativo. Questo 
modello cerca di rendere conto dell'ordine sociale in generale sviluppando 
alcuni tratti della ricostruzione della genesi delle istituzioni cooperative già 
presente in Hume (Magri, 1994). Questi modelli esplicativi valgono solo in 
quanto a posteriori rendono conto di quello che si è già realizzato, ma è dif- 
ficile usarli come criteri normativi per scegliere comportamenti rivolti al fu- 
turo. I modelli della scelta razionale sono stati adottati in modo indubbia- 
mente fertile per rendere conto, all’interno di un generale quadro evoluzioni- 
stico, di come tra gli animali superiori si rafforzano abiti cooperativi in 
alternativa a quelli o del tutto egoistici o assolutamente benevoli (Dawkins, 
1992). Ma questa teoria nulla può dirci quando si tratta di decidere quale, tra 
le differenti alternative di comportamento che ci sono davanti, dobbiamo 
scegliere. 


4.9. Pluralismo, tolleranza, relativismo, irrazionalismo etico. — L'esistenza 
di differenti concezioni etiche — il loro conflitto sempre risorgente — non 
solo fa nascere la questione della disponibilità o meno di criteri per affrontare 
razionalmente i contrasti, ma fa sorgere anche il problema di come conciliare 
la presa d'atto di una pluralità di concezioni etiche con il riconoscimento al- 
l'etica di una qualche validità. 

In primo luogo il riconoscimento del pluralismo etico sembra essere ineli- 
minabile nella società attuale. Non solo si tratta di una constatazione di fatto, 
ma il pluralismo etico è considerato anche un valore. Viene cioè considerata 
più apprezzabile una società pluralistica che una società che in forme più o 
meno coercitive impone il prevalere di una sola etica. Quest'ultima assun- 
zione valutativa non è però condivisa dalle cosiddette concezioni comunitarie 
(Ferrara, 1992) che invece privilegiano società in cui si realizzi una forte con- 
vergenza sui valori e anzi al limite siano caratterizzate da un'unica morale 
{MacIntyre, 1988). Ma al di là dei timori per un pluralismo etico eccessivo e 
delle tentazioni per una società segnata da una forte uniformità, vi sono argo- 
mentazioni e distinzioni che sorreggono una preferenza per situazioni caratte- 
rizzate da una pluralità di etiche in competizione. 

Tutta la tradizione liberale trova nella fioritura pluralistica una condi- 
zione che favorisce lo sviluppo di tutte le differenti potenzialità creative 
presenti nella natura umana. Tale posizione — presente ad esempio in 
pensatori come W. von Humboldt (Humboldt, 1974) e J. S. Mill (Mill, 
19814) — ritiene che solo un'effettiva libertà per gli esseri umani di vivere 
Îl tipo di vita che essi ritengono giusta, libertà garantita anche accentuando 


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88 ETICA 


le differenze, permette che vi sia una piena realizzazione e un progresso 
delle capacità umane. L’uniformità porterebbe invece a una completa atro- 
fizzazione di queste capacità. 

Una posizione a favore del pluralismo etico presuppone che si riescano a 
tenere ben distinte due dimensioni dell'etica: da una parte, quella che ri- 
guarda quel minimo comune denominatore di principi e regole cooperative 
che sembrano essere una condizione necessaria perché vi sia una qualche sta- 
bilità della vita associata; dall'altra parte invece quella che ha a che fare coni 
modelli e gli ideali che ciascuno può assumere per quanto riguarda lo stile di 
vita da preferire. Proprio sul piano che riguarda i valori e gli ideali etici un 
confronto tra progetti anche alternativi può segnare un arricchimento e uno 
sviluppo della cultura umana. Sul piano più ristretto dell'etica minima in 
gioco laddove si tratta delle basi della convivenza è invece difficile ritenere 
adeguato un pluralismo di fondo. Ritorna qui dunque una distinzione già pre- 
sente nella tradizione giusnaturalistica tra il piano dei diritti o doveri perfetti e 
quello dei doveri imperfetti. 

Questa posizione di apprezzamento per un contesto sociale e culturale 
segnato dal pluralismo etico o pluralismo dei valori va tenuta però distinta da 
una concezione che sottoscriva un completo relativismo. Va, infatti, tenuta 
chiaramente distinta una posizione che, sul piano descrittivo, prenda atto che 
si confrontano diverse concezioni etiche, dunque tutte relative e non assolute, 
da una posizione che assuma da un punto di vista normativo le conclusioni 
del relativismo. Il relativismo normativo infatti sostiene che non abbiamo 
ragioni per ritenere che nelle questioni etiche sia preferibile una posizione a 
un'altra. Il relativista dunque, in definitiva, non riconosce alcuna validità alle 
distinzioni morali o etiche tra bene e male, giusto e ingiusto. È invece carat- 
teristico del nostro tempo il fatto che si riesca a sostenere con decisione e 
forza di convinzione la propria soluzione etica ai problemi pur rispettando è 
tollerando quelle diverse dalla nostra. Ma in questo caso l'ammissione di altre 
posizioni etiche non equivale a ritenere che l’una vale l’alira. Come si è ben 
detto (in particolare da parte di Berlin, 1989 e Rorty, 1989, ma a livello 
teorico la posizione era stata già illustrata da Juvalta, 1945 ed è stata più 
recentemente derivata da una meta-etica non-cognitivista, da Scarpelli, 1982) 
la situazione è — per paradossale che possa sembrare — quella di chi si 
impegna con decisione a fornite ragioni a favore del proprio punto di vista 
etico pur riconoscendo, ammettendo e rispettando un interlocutore che fa 
valere un altro punto di vista e differenti ragioni. La consapevolezza che il 
proprio punto di vista etico non è quello assolutamente giusto e buono 
consente di tollerarne altri. Ciò non toglie che, comunque, è il nostro punto di 


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LE ETICHE NORMATIVE 89 


vista a valere di più — ad essere più buono e più giusto — fin quando non ci 
verranno presentate ragioni o non faremo esperienze che ci costringeranno ad 
abbandonarlo. 

Le distinzioni che stiamo suggerendo partono dal presupposto che si sia 
completamente abbandonata la pretesa di un'assolutezza dei valori in ge- 
nerale e dunque anche del proprio punto di vista etico. Una condizione 
propria del nostro tempo che M. Weber esprimeva con l’espressione «po- 
liteismo dei valori» (Weber, 1958). Viceversa risulterà impossibile conciliare 
pluralismo, relativismo empirico, tolleranza e impegno per il proprio punto 
di vista se si muove dalla convinzione che l’etica deve avere a che fare con 
qualcosa di assoluto. Ma quest’ultima prospettiva nel XX secolo è larga- 
mente inattuale e perdente, in quanto certamente non può essere conciliata 
con una meta-etica che pretenda di avere dalla sua una qualche verità e 
capacità di rendere conto della nostra effettiva esperienza morale. Proprio 
la persistenza di questa prospettiva assolutistica dell'etica continua a gene- 
rare confusione e conflitti e contrasti etici spinti fino a mettere in pericolo 
la coesistenza, in quanto mossi da forme di fanatismo morale che non 
tollerano le differenze. La trasformazione che stiamo vivendo con il pas- 
saggio da un contesto etico caratterizzato dall’aspirazione all’assolutezza ad 
uno che accetta la finitezza e mutevolezza dei punti di vista morali può 
essere vissuta in due diversi modi. Da una parte ci sono i nostalgici che 
vivono il tempo e la società presente come caratterizzati da una perdita e 
da un regresso; sono coloro che identificano il passaggio da valori assoluti 
a valori frutto delle scelte umane come l’atto di nascita di un completo 
nichilismo e di una cultura del tutto irrazionalistica. Per costoro non vi è 
alternativa tra un fondamento assoluto e la più completa irrazionalità e 
mancanza di senso. Dall'altra — e chi scrive si riconosce in questa seconda 
linea — vi sono coloro che vedono la nuova condizione come un guadagno 
in quanto ci si è finalmente liberati di miti e illusioni. La credenza in va- 
lori assoluti è stata, ed è tuttora, all'origine di pericolosi e insanabili con- 
trasti. L'alternativa non è il nulla o la perdita di senso della nostra esisten- 
za ma piuttosto un'etica che muove da un piano più realistico e empirica. 
mente fondato. I valori derivano quindi da scelte e decisioni che gli uomini 
assumono responsabilmente tenendo conto delle loro emozioni, delle loro 
limitate capacità intellettuali e delle loro condizioni effettive. Credere que- 
sto non equivale ad avere perso qualcosa, ma viceversa ad avere puada- 
gnato una prospettiva che permette agli esseri umani di muoversi, su un 
piano di parità, verso soluzioni realizzabili e adeguate per i loro problemi 
pratici. 


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90 ETICA 


S. Dall’etica teorica all'etica pratica. 


5.1. Dall’etica teorica all’antropologia: motivazione e obbligazione. — La 
storia dell'etica è ricca di pensatori che uniscono alle tesi normative, specifi- 
che concezioni antropologiche relative alle motivazioni, i bisogni, i desideri e 
gli interessi degli esseri umani. Potremmo anzi sostenere che è comune che a 
un'etica teorica si accompagni un’etica antropologica, ovvero una psicologia 
della morale che su basi più o meno empiriche pretende di descrivere come 
gli uomini sono fatti e procedono nelle loro scelte. Questa commistione tra 
piano normativo e piano descrittivo ed empirico risulta largamente praticata 
specialmente dal secolo XVII in avanti, dopo che è entrata in crisi Ja conce. 
zione innatistica della legge naturale, che riteneva la legge morale natural- 
mente obbligante in quanto presente originariamente nella coscienza di tutti 
gli esseri umani. Il quadro filosofico del XVII secolo segna il tramonto di que- 
sta soluzione innatistica nel collegamento tra legge morale obbligatoria e base 
motivante negli esseri umani e dunque per l’etica moderna e contemporanea 
diventa essenziale non solo la questione di ciò che è bene o giusto, ma anche 
di ciò che rende effettivamente obbligante per gli uomini il bene e il giusto 
(cfr. Fagiani, 1983). Si avvia quindi una ricerca sistematica sulla motivazione e 
la base psicologica che rende obbligatoria una condotta etica, 

Nel pensiero moderno è ricorrente, per quanto riguarda la motivazione 
morale, una concezione che nega che ciò che viene scoperta 0 trovato con 
l’aiuto della sola ragione possa avere di per sé forza obbligante o motivante, 
Un residuo di attribuzione di forza obbligante alla ragione in quanto tale {cfr. 
$ 2.5) si può trovare nella concezione di giusnaturalisti come Grozio (Grozio, 
1625) o in quei pensatori che — come ad esempio Joseph Butler (Butler, 
1970) — nel corso del Settecento indicano nella coscienza non solo un prin- 
cipio in grado di trasmettere la consapevolezza della legge morale, ma anche 
di obbligare ad essa. Ma la via percorsa dai teorici dell'etica è piuttosto quella 
alternativa di negare alla ragione la capacità di motivare all’azione e dunque di 
negare forza obbligante alle norme e leggi scoperte attraverso l’uso del solo 
intelletto. Muovendo da questa premessa è dunque necessario procedere a 
uno studio empirico della natura umana e in particolare della condotta per 
vedere che cosa muove ad agire. Viene così ampiamente ripresa nel corso del 
XVII secolo la tesi edonistica secondo la quale solo il piacere e il dolore muo- 
vono all'azione (cfr. $ 2.2). Sia Hobbes che Locke, quando fanno riferimento 
al piacere e dolore come cause motivanti guardano, in modo del tutto esclu- 
sivo, alla persona che agisce. Proprio su questa base tanto Hobbes quanto 
Locke sembrano appoggiare la forza obbligante della legge naturale esclusiva- 


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DALL'ETICA TEORICA ALL'’ETICA PRATICA 91 


mente sul potere di sanzione. Nel caso di Hobbes il potere sanzionatorio 
viene legato a un calcolo prudenziale relativo ai benefici e ai danni che nel 
corso della vita terrena si ricevono uniformandosi alle leggi naturali. Locke 
lega invece il potere sanzionatorio della legge naturale, e dunque la sua forza 
obbligante, alla considerazione del premio e delle pene che si potranno otte- 
nere in un’altra vita (Locke, 1971). La concezione che lega la forza obbligante 
e la capacità di motivare della morale e dell'etica in generale a qualche san- 
zione viene spesso riproposta nel pensiero moderno e contemporaneo, ad 
esempio rinviando alla forza sanzionatoria data da qualche piacere o dolore 
fisico comunque in gioco. Erede di questa tradizione può essere considerato 
Bentham con il suo tentativo di agganciare al potere sanzionatorio del sovrano 
la forza della legge giuridica. Non diversamente in questa linea va collocato il 
positivismo giuridico del secolo XX. 

Proprio l’approfondimento della conoscenza della natura empirica degli 
uomini porta tra la fine del XVII secolo e la metà del XVIII a elaborare una 
concezione della forza obbligante dell’etica che, pur non riconducendola a 
una capacità automotivante della ragione o delle facoltà intellettuali, non la 
tiduce però al sanzionamento in termini di piacere e dolore fisici, generica- 
mente intesi. Questa ricerca di una base specifica di motivazione per la morale 
è già presente alla fine del secolo XVII in Shaftesbury, che proprio dall'osser- 
vazione empirica degli uomini fa derivare la scoperta di un peculiare «senso 
morale» che non solo porta gli uomini ad approvare le azioni virtuose, ma 
anche a sentirsi spinti a compiere tali azioni e ove tali azioni non sono com- 
piute a provare emozioni di disagio e sradicamento da ciò che è più proprio 
del genere umano, È dunque la struttura passionale degli uomini a presentare 
un'inclinazione — in parte già colta dall’antropologia aristotelica — a com- 
piere azioni in generale cooperative. 

Questa stessa linea analitica verrà sviluppata ancora nel corso del XVIII 
secolo da Hutcheson e Hume. Il nucleo distintivo di questa ricostruzione 
della forza obbligante del comportamento etico sta nel mostrare nella psico- 
logia degli esseri umani una base motivazionale del tutto autonoma e specifica 
che spinge a fare azioni eticamente rilevanti. Questi autori poi si differenzie- 
ranno tra loro in quanto presenteranno o meno come motivazione universali- 
stica tale base psicologica. Così mentre da una parte troveremo pensatori 
come Shaftesbury, Hutcheson e Smith che rinviano a un altruismo o benevo- 
lenza più o meno universali, dall’altra troveremo chi, come Hume, ricono- 
scetà come motivante solo una benevolenza limitata che si estende piuttosto 
ai legami familiari. L'idea di tutti questi autori è comunque comune. Il senso 
morale approva determinate azioni perché esse risultano motivate non solo da 


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92 ETICA 


un esclusivo amore di sé, ma da una benevolenza più o meno estesa. La stessa 
approvazione del senso morale costituisce poi una motivazione aggiuntiva al 
comportamento virtuoso. 

Risulta dunque chiaro in questa strategia analitica che la condotta etica 
trova una sua base motivazionale in inclinazioni naturali degli uomini per una 
forma più o meno estesa di altruismo e interessamento per gli altri. Un 
aspetto teorico significativo per il quale questi autori si distingueranno sarà il 
loro modo di rendere conto della naturalità della motivazione etica. Accanto a 
coloro — come ad esempio Shaftesbury o Hutcheson — che considereranno 
la motivazione a fare azioni cooperative come originaria per la natura umana, 
vi saranno coloro che la presenteranno piuttosto come risultato o prodotto di 
un processo evolutivo o di civilizzazione piuttosto lungo. Nel corso del XVIII 
secolo la spiegazione delle basi motivazionali del comportamento morale sarà 
inserita sempre di più in un quadro artificialistico ed evolutivo, 

Una spiegazione genetica evoluzionistica e artificialistica della motivazione 
alla condotta etica è, ad esempio, già presente in Mandeville e viene svilup- 
pata estesamente da Hume e poi — in una direzione ancora più ampia — da 
pensatori come J. J. Rousseau, A. Smith e A. Ferguson. Questi ultimi sono 
impegnati nel progetto, che sembra centrale per gli intellettuali del XVIII se- 
colo, di ricostruire la storia della civilizzazione umana avvalendosi della teoria 
stadiale, ovvero di quella concezione che scandisce in quattro stadi diversi 
(della caccia e pesca, dell’allevamento, dell’agricoltura, e del commercio) la 
storia dell'umanità (Meek, 1981). La prospettiva impegnata a delineare il pro- 
cesso artificiale attraverso il quale gli uomini giungono a disporre di una base 
psicologica e motivazionale specifica per il comportamento etico (0 coopera 
tivo) viene realizzata nel corso del XVIII secolo anche lungo una diversa linea 
associazionistica. In questa chiave il costituirsi delle motivazioni propriamente 
etiche viene spiegato come un risultato di ripetute associazioni. Significativo 
— anche per un lettore del XX secolo — il contributo analitico di David 
Hartley, il cui associazionismo è propriamente fisiologico, e poi di alcuni 
esponenti dell'Illuminismo francese (ad esempio Claude-Adrien Helvétius, 
Etienne Condillac, Paul Heinrich Dietrich D'Holbach ecc.) e ancora di utili 
taristi come James Mill e J. S. Mill. Nel XIX secolo la genesi delle motivazioni 
cooperative sarà collocata in un quadro più esplicitamente evoluzionistico 
da Darwin e Spencer (Ruse, 1986). Questa linea di spiegazione evoluzionistica 
— che coinvolge il livello biologico — della genesi di una base motivazionale 
ad hoc per il comportamento morale è stata ampiamente ripresa nel corso del 
XX secolo. Abbiamo così chi, come E. Wilson (1975), ha presentato una vera 
e proprio concezione socio-biologica, o chi, come K. Lorenz (1990), si è piut: 


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DALL'ETICA TEORICA ALL’ETICA PRATICA 93 


tosto impegnato a mostrare analogie e differenze tra gli istinti cooperativi pre- 
senti negli uomini e quelli rintracciabili negli animali. 

La ricerca rivolta a individuare una base motivazionale nella natura emo- 
tiva degli uomini a cui agganciare l'obbligazione etica si estende ben al di là 
delle concezioni che abbiamo appena delineato. Non sono mancati coloro che 
hanno indicato come carattere distintivo della specie umana la capacità di es- 
sere motivati a compiere azioni degne di apprezzamento per il solo gusto o 
senso del dovere da compiere, e dunque per il solo essere richiamati da ciò 
che vale: una strategia che risulta percorsa da Kant e da coloro che a lui si 
richiamano come ad esempio K. O. Apel {Apel, 1977). Al polo opposto si 
colloca la strategia di analisi, scettica e riduzionistica, che ha del tutto negato 
che negli uomini sia rintracciabile una qualche capacità di auto-motivarsi o 
scegliere liberamente, e dunque tanto meno una inclinazione a partecipare ai 
piaceri e ai dolori degli altri esseri umani. 

Nel XX secolo entra in crisi la pretesa di disporre di una antropologia uni- 
versalistica che sia in grado di indicare con nettezza passioni e sentimenti pre- 
senti in tutti gli uomini o viceversa di negare agli esseri umani generalmente 
intesi una qualche motivazione. L'analisi antropologica, piuttosto che rinviare 
a una base motivazionale comune, si impegna ad elaborare più strategie me- 
diante le quali si può spiegare la forza obbligante delle regole morali. Risulta 
pur sempre difficile riuscire rendere conto del ruolo obbligante dell'etica lad- 
dove si ritiene che gli esseri umani siano mossi dal più rigido egoismo; stanno 
a dimostrarlo la crisi e le difficoltà a cui è andata incontro la teoria della scelta 
razionale (cfr. $ 4.8). In positivo, dunque, risulta del tutto acquisito che — per 
dirla con B. Williams (Williams, 1990: 302-322) — nessun discorso può riu- 
scire a rendere motivante per un essere umano un principio etico cooperativo 
se nella struttura emotiva di questo essere umano non è già presente (proba- 
bilmente come frutto della sua formazione e iniziazione alla cultura umana) 
un minimo di interessamento per i piaceri e i dolori di un altro essere urnano. 
Da questa prospettiva come da altre il contesto dell'etica coinvolge diretta- 
mente non solo la capacità di chi agisce di presentarsi come essere fornito di 
una sua identità, ma anche di riconoscere l'identità degli altri. Passiamo dun- 
que a rendere conto della portata delle analisi sulla natura dell’identità perso- 
nale nell’etica teorica. 


5.2. Il ruolo dell'identità personale nell’etica. — Nell’etica medievale il 
rinvio all'anima sostanziale rappresentava un fondamento e un preciso criterio 
per risolvere le questioni morali. Infatti, da una parte, proprio al fondo della 
sostanza spitituale si presentavano le norme da applicare in etica e dall'altra 


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94 ETICA 


l'individuazione dell'universo di esseri forniti di sostanza spirituale metteva a 
disposizione un chiaro criterio di applicazione ed estensione dell’ambito mo. 
rale. Questa concezione semplice dell'etica che ruota intorno a una sostanza 
che è la persona umana e che non è riducibile ad altro, nello stesso tempo 
oggetto e soggetto esclusivo della vita morale, è entrata in crisi tra il XVII e il 
XVIII secolo quando l’identità personale non è più risultata riconducibile a 
una sostanza. 

Alla filosofia di Locke prima e a quella di Hume poi si può far risalire il 
superamento critico della concezione sostanzialistica della persona umana e 
dell'identità personale e l'avvio di quell'approccio che concepisce tali realtà 
come complesse e cerca di spiegarne la natura riconducendola a qualcosa 
d'altro. Ma sulla strada dell’elaborazione delle concezioni complesse e ridu 
zionistiche dell’identità personale si presenta la difficoltà di riuscire a rendete 
conto del soggetto morale con quel minimo di stabilità necessaria per dare 
una base a nozioni essenziali per l'etica — quali responsabilità, merito, deme- 
rito ecc. Un altro problema a cui vanno incontro le concezioni riduzionistiche 
e complesse dell'identità personale sta nella difficoltà con cui riescono a ren- 
dere conto del valore morale senza farlo dipendere esclusivamente da una 
considerazione degli atti di per sé stessi, ma riuscendo a collegarlo anche con 
una considerazione del carattere e dei motivi dell'agente. La connessione tra 
la considerazione del carattere e dei motivi e i giudizi morali è al centro, ad 
esempio, dell’analisi delle virtù e dei vizi delineata da Hume e Smith e sembra 
tanto profondamente radicata nel senso comune morale da non poter essere 
soppiantata da una qualche teoria che indica come eticamente rilevanti le sole 
azioni. La riflessione di marca empiristica e analitica sulla natura dell’identità 
personale si è dunque sempre più impegnata dal Settecento a oggi nell’elabo- 
razione di una spiegazione della continuità e stabilità dell’io che, senza dover 
ricorrere alla nozione sostanzialistica e semplice di io, fosse conciliabile con 
l’uso di categorie centrali del linguaggio etico-giuridico quali responsabilità, 
merito, demerito, punizione, condotta virtuosa ecc. 

Un’estensione dell'analisi complessa e riduzionistica dell'Io anche a livello 
di ricostruzione della vita morale — oltre che sul piano conoscitivo — viene 
avviata da Henry Sidgwick nel 1874 con i suoi Methods of Ethics (I metodi 
dell'etica), ed è stata poi sistematicamente realizzata nella seconda metà del 
secolo XX da pensatori come Nagel, Parfit, Nozick ecc. Si può ipotizzare che 
questa recente fortuna di un'analisi dell'etica che muove da una concezione 
complessa dell'identità personale sia un riflesso, a livello filosofico, di quel fe- 
nomeno più generale a cui si allude sinteticamente con l’espressione «perdita 
del Soggetto». La rapidità delle trasformazioni nelle società occidentali, la 


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DALL’ETICA TEORICA ALL’ETICA PRATICA 95 


grande quantità di novità che quotidianamente ciascun essere umano deve 
raccordare con l’esperienza passata e con i punti di equilibrio in essa raggiunti 
hanno reso sempre più frammentaria la continuità della vita interiore e diffi- 
coltosa l'operazione di recuperarne una qualche stabilità. Va peraltro sottoli- 
neato che le concezioni complesse e analitiche dell'identità personale più che 
essere impegnate in lamentele e declamazioni sulla «Perdita del Soggetto» 
cercano di elaborare una concezione dell’essere umano eticamente responsa- 
bile che sia adeguata alle trasformazioni culturali degli ultimi secoli, trasfor- 
mazioni che hanno reso il rinvio a un qualche Soggetto sostanziale solo un 
mito privo di qualunque fondamento empirico. 

Le analisi di Parfit sfociate nel volume del 1984 Reasons and Persons (Ra- 
gioni e persone) presentano lo sforzo più approfondito di sviluppare gli spunti 
presenti nell'opera di Sidgwick e di ridefinire, muovendo da una nuova con- 
cezione — appunto riduzionistica e complessa — dell’identità personale no- 
zioni come quelle di responsabilità morale, merito e demerito ecc. Se tuito ciò 
che troviamo dietro la soggettività e l'identità di una persona umana è una 
qualche continuità psicologica più o meno stretta, ne consegue che i nostri 
giudizi morali © giuridici dovranno essere del tutto a posteriori e investire in- 
terrogativi quali: «quanto la persona che ci sta di fronte è la stessa di quella 
che ha compiuto l’azione? », «quanto l’azione che la persona ha compiuto si 
inserisce nel flusso più continuo e stabile delle sue abitudini e del suo carat- 
tere e quanto invece ne rappresenta una rottura?» ecc. L'approccio empiri- 
stico all’identità personale comporta dunque non già l’eliminazione delle no- 
zioni etiche tradizionali dal nostro lessico morale, ma una loro ridefinizione in 
modo tale da presupporre connessioni più deboli e meno definitive: tra le 
azioni e la persona che le ha compiute; tra la persona come attualmente è e la 
sua storia passata; tra il tipo di intervento che possiamo fare sulla persona 
attuale e la sicurezza che, utilizzando determinati mezzi, potremo ottenere 
certi risultati che coinvolgono il suo io futuro. In generale ci si muove verso 
una concezione meno assolutistica e necessitante dell'etica di quella che ac- 
cetta chi crede nella persona come sostanza. Ed è ovvio che una prospettiva 
del genere risulta del tutto in linea con l’epistemologia empiristica, ma — e si 
tratta di ciò che più conta — anche forse, oggigiorno, fertile sul piano espli- 
cativo e predittivo, 

L’approccio all'identità personale che la considera come una successione 
di io che hanno tra di loro una connessione psicologica più o meno stretta è 
ben lontano dall'essere diventato «senso comune» e ranto meno sembra cor- 
rispondere intuitivamente a quella concezione della persona che troviamo ra- 
dicata nella parte morale del nostro «senso comune», una parte che tende a 


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% ETICA 


trasformarsi con più lentezza e prudenza di quella intellettuale. Vanno però 
messe in luce le implicazioni normative che accompagnano le analisi di tipo 
complesso e riduzionistico dell'identità personale, anche se per ora occorre 
confinatne la portata solo alle premesse intellettuali di un sistema morale che 
pretenda di essere costruito su credenze vere. 

Un approccio all'identità personale che metta in secondo piano una con- 
cezione sostanzialista e semplice della persona umana favorisce anche un 
complessivo riassetto normativo. In primo luogo questa linea epistemologica 
porta al rifiuto di una concezione statica e sostanziale del bene morale, la 
presa di distanza da un modo di intendere la responsabilità morale come le- 
gata a colpe, peccati o meriti che solo un Essere Assoluto, in grado di cono- 
scere la struttura sostanziale della persona e i più riposti pensieri degli esseri 
umani, può giustamente distribuire. La responsabilità morale in questa pro- 
spettiva ha invece a che fare non già con riposte intenzioni, ma principal. 
mente con ciò che effettivamente si compie in un campo di azioni pubblica- 
mente osservabili. 

In secondo luogo poi tale approccio contribuisce anche a scalzare le basi 
analitiche che sorreggono l’impianto normativo dell’egoismo razionale. An- 
cora a Parfit si devono dettagliati argomenti che mostrano, una volta assunta 
la prospettiva complessa e riduzionistica dell'io, quanto risulti ingiustificata 
una preferenza per le parti future della propria vita nei confronti delle vite 
attuali di altri esseri umani. La ragionevolezza ed evidenza di una preoccupa- 
zione esclusiva — su base egoistica e prudenziale — per i nostri io futuri non 
risulta affatto giustificata una volta che si diventi consapevoli della comples- 
sità di passaggi che muovendo dal nostro io attuale porta ai nostri io futuri 
laddove non si postuli più la persistenza di una stessa sostanza semplice. Tra il 
nostro io attuale e quello che saremo fra numerosi anni vi sono connessioni 
più dubbie — e dunque relazioni più deboli — rispetto a quelle che possiamo 
istituire oggi con i Sé degli altri esseri umani. L'impegno nella costruzione di 
un'etica più imparziale e meno rigidamente egocentrica sembra dunque avere 
tutto da guadagnare dalla revisione dell'identità personale intrapresa dalla fi- 
losofia empiristica. 

Infine risulta del tutto indebolito il ruolo della nozione di persona come 
categoria essenziale per la determinazione dell'universo di esseri per i quali 
valgono le nozioni etiche. Se ciò che conta in morale non è più solo la pre- 
senza di qualche peculiare sostanza semplice di natura spirituale, ma gli atti 
che si compiono più o meno responsabilmente, nulla vieta che divengano eti- 
camente rilevanti anche atti che non coinvolgono persone umane. Passando 
attraverso atti responsabilmente connessi con dimensioni quali la sofferenza e 


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DALL’ETICA TEORICA ALL'’ETICA PRATICA 97 


il danno o il piacere e la soddisfazione di bisogni e desideri, possono diven- 
tare rilevanti per l’etica gli animali, o gli oggetti che costituiscono l’ambiente, 
o realtà — di certo non personali nel senso di essere effettivamente presenti 
ora come sostanze semplici con una loro propria individualità — quali, ad 
esempio, i membri di generazioni future molto lontane. È questa dunque la 
via epistemologica che porta ad abbandonare quella concezione ristretta del- 
l'etica che si ha quando si è costretti a passare sempre attraverso la cruna 
d'ago fornita dalla persona. In particolare sono le etiche utilitaristiche e con- 
seguenzialiste che si sono impegnate in questo sforzo di fornire indicazioni 
normative congruenti con le concezioni di derivazione empiristica dell'iden- 
tità personale e dell’universo degli esseri moralmente rilevanti. 


5.3. Etica del carattere 0 dell’azione. — Come abbiamo visto le diverse 
concezioni etiche si distinguono sulla questione di quale sia da considerare 
l'oggetto proprio di una valutazione. Su questo piano la differenza più rile- 
vante è quella tra chi ritiene che l’unico oggetto peculiare di valutazione etica 
sono le azioni e le loro conseguenze e chi invece ritiene essenziale il riferi 
mento al carattere 0 comunque a qualche qualità interna (intenzione ecc.) di 
chi agisce. Le due diverse concezioni hanno entrambe dei punti a loro favore. 
Si può anzi suggerire che la concezione più adeguata sia quella che non ri- 
corra in modo esclusivo o all'uno a all’altro approccio — o azione o tratti del 
carattere — ma piuttosto sappia integrare entrambe le esigenze. 

A favore della concezione che ritiene esclusiva l’attenzione per le azioni vi 
è l'esigenza — fatta valere in modo decisivo non solo dall’utilitatismo, ma an- 
che dal garantismo giuridico (Fetrajoli, 1989) — che ciascuno possa essere 
ritenuto responsabile solo di quello che ha effettivamente compiuto e non 
possa essere giudicato negativamente sulla sola base di presunte predisposi- 
zioni 0 inclinazioni ad agire, che tra l’altro rinviano a una pretesa capacità di 
cogliere l'essenza o vera natura di una persona. Il riftuto della concezione so- 
stanzialistica della persona umana è tra l’altro accompagnato dallo sforzo di 
ricollocare l'etica su un piano più esterno e comportamentale. La considera- 
zione prevalente delle azioni effettivamente compiute segna anche il tramonto 
di valutazioni che investono i piani del peccato o della colpa. 

Considerando come positivo il superamento di un approccio etico che 
pretenda di presentare valutazioni assolute basate su di una presunta cono- 
scenza finale del carattere o della natura di una persona, va però segnalato un 
limite di questo approccio. Un'etica che pretenda di derivare in modo esclu- 
sivo le sue valutazioni dalla considerazione dei comportamenti esterni degli 
esseri umani sarà costtetta a omologare azioni criminose e incidenti colposi e 


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98 ETICA 


non sarà comunque in grado di discriminare tra azioni compiute in contesti 
motivazionali e intenzionali differenti. La valutazione etica non sembra potere 
prescindere dall'esame di quanto le azioni in gioco siano responsabili e dun- 
que frutto di intenzioni e non del tutto casuali o determinate da costrizioni al 
di là della portata di chi agisce. 

Proprio la necessità che l'etica riesca a coinvolgere anche la responsabilità 
delle azioni considerate rappresenta un argomento a favore delle concezioni 
che pongono al centro della loro considerazione il carattere di chi agisce. In 
questo si sono impegnate le cosiddette etiche della virtà. Una tradizione 
che — diversamente da quanto è stato recentemente sostenuto (MacIntyre, 
1988) — non è certo confinata alla cultura antica e medievale, ma ha trovato 
anche nella cultura moderna e contemporanea dei sostenitori. 

La concezione dell'etica che ritiene centrale la considerazione del carattere 
sembra salvaguardare alcune esigenze essenziali per una adeguata teoria della 
valutazione morale. Anche questo approccio ha però bisogno di correttivi, 
ÎNon solo risulta dubbia un'attenzione per il carattere tanto esclusiva da giu- 
dicare una persona condannabile per il solo fatto che ha determinate inten- 
zioni, ma una considerazione etica esclusivamente attenta al carattere può 
portare a considerare virtuoso anche chi si limiti a manifestare certi principi o 
convinzioni etiche e poi di nascosto agisce in modo completamente diver: 
gente. Un’etica dell’intenzione può anche portare a ritenere giustificati atti 
gravemente dannosi rinviando a presunte intenzioni benefiche di chi li com- 
pie. Un'etica dell'intenzione o del carattere corre il pericolo di sottoscrivere 
posizioni morali esclusivamente predicatorie o addirittura ipocrite, alle quali 
comunque non corrisponde alcun effettivo comportamento. 

Nella conciliazione, tutt'altro che semplice, delle due concezioni sull’og- 
getto della valutazione morale sono impegnati in particolare i fautori dell’uti- 
litarismo della regola o delle norme (cfr. $ 4,7). Nel senso di un'integrazione 
delle considerazioni etiche sugli atti con quelle relative ai caratteri e alle inten- 
zioni vanno anche molte delle discussioni di casi concreti nelle quali si sono 
impegnati — specialmente nella seconda metà del secolo XX (cfr. $ 5.4) gli 
esponenti dell'etica contemporanea. 

Ad esempio, larga parte della discussione etica contemporanea su situa- 
zioni concrete quali quelle legate alla nascita — e in particolare all'aborto — € 
alla morte — e in particolare all’eutanasia — è legata alla riflessione sul ruolo 
più o meno decisivo delle intenzioni in gioco. Proprio la tesi di un ruolo es- 
senziale delle intenzioni nelle valutazioni delle scelte relative all'inizio e alla 
fine della vita umana ha portato ad elaborare la dottrina del «doppio effetto» 
(Anscombe, 1958 e Foot, 1978). Con questa dottrina si è ritenuto di potere 


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DALL’ETICA TEORICA ALL'’ETICA PRATICA 99 


distinguere tra diverse ricorrenze della stessa azione, considerandola rispetti- 
vamente o come una conseguenza diretta e voluta dell'intenzione di ottenere 
questo risultato o viceversa come effetto secondario e non direttamente vo- 
luto dell'intenzione rivolta a un risultato benefico. Laddove l'effetto diretto 
della nostra intenzione è, ad esempio, garantire la nascita di un bambino, solo 
un doppio effetto non voluto è la morte della madre; o — all’altro confine 
della vita — laddove effetto diretto della nostra intenzione è l’azione rivolta a 
un'attenuazione delle sofferenze di un morente, è solo un effetto secondario 
non direttamente voluto la morte della persona, quale conseguenza dell’uso di 
farmaci per attenuare il dolore. Ma questa concezione va incontro a un’insor- 
montabile difficoltà di ordine epistemologico, in quanto ovviamente non sono 
disponibili procedure affidabili per discriminare tra una dichiarazione di in- 
tenzione del tutto ritualistica o ipocrita e una dichiarazione veritiera. In que- 
sto senso la prospettiva che ruota intorno alla centralità dell’intenzione si pre- 
senta come il residuo di una fase in cui l’etica teorica era impegnata a far va- 
lere per il giudizio sulle azioni umane un punto di vista ideale o divino. 
Un'’etica fatta su misura per le esigenze della specie umana, pur riconoscendo 
la rilevanza delle motivazioni delle azioni, indebolisce però la portata delle 
intenzioni considerandole come componente aggiuntiva e sussidiaria del giu- 
dizio etico e non già come aspetto decisivo ed esclusivo. 

Fa parte della riflessione sull’oggetto proprio delle valutazioni etiche an- 
che la discussione sulla possibilità di distinguere nettamente da un punto di 
vista assiologico tra azioni e omissioni. Questa distinzione viene considerata 
sempre meno influente per l'etica (Glover, 1977; Singer, 1989) proprio da 
quelle concezioni che — come l’utilitarismo — hanno messo al centro della 
valutazione le azioni e la considerazione delle conseguenze. L’utilitarismo 
contemporaneo fa propria in realtà una nozione non riduttiva di azione, data 
la quale risulta chiaro che il non fare qualcosa quando si ha la possibilità di 
farlo è eticamente rilevante non meno del compimento effettivo di un atto. 
Ciò che conta è la nostra responsabilità — che si agisca o non si agisca — per 
conseguenze nella situazione futura, in quanto esse dipendono comunque da 
nostre scelte e decisioni. 

Si può avanzare l’ipotesi che nel corso degli ultimi secoli della storia della 
cultura occidentale la struttura del nostro discorso morale si sia trasformata 
nel senso di un'estensione della portata del lessico legato primariamente alle 
azioni e di una correlativa riduzione dell'incidenza di quella parte del lessico 
legato a emozioni, sentimenti, stati d'animo, intenzioni, caratteri ecc. Da que- 
sta ipotesi si ricava che per quanto forte possa ancora essere, al livello della 
predicazione, la riaffermazione di un’etica di tipo agapistico o dell'amore uni- 


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100 ETICA 


versale (un’etica cristiana genericamente intesa), tale etica risulta poi in se- 
condo piano, quando ci si impegna in una riflessione critica rivolta a indivi. 
duare regole e principi etici concreti a cui ispirarsi. L'appello a sentimenti 
quali l’amore o una benevolenza universale sembra essere del tutto irrilevante 
quando siamo impegnati a identificare il migliore comportamento effettivo 
nelle situazioni eticamente rilevanti che ci sono di fronte. Certamente tale ap- 
pello può continuare a mantenere un ruolo decisivo laddove siano in gioco 
concezioni super-erogatorie e ideali sul dovere (che coinvolgano ad esempio 
la santità e l’eroismo), che hanno però un ruolo sempre più marginale nella 
morale di senso comune di società altamente complesse e popolate come 
quelle nelle quali viviamo. La nostra ricerca etica è piuttosto rivolta a regole 
più modeste e limitate che incidano però effettivamente sulle azioni o omis- 
sioni della nostra vita quotidiana, in modo tale che le conseguenze dei nostri 
stili di vita siano benefiche — o quanto meno non disastrose € dannose — per 
le generazioni future. 


54. La svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata. — Nel corso del 
XX secolo l'orizzonte di riflessione che muove dai problemi pratici concreti 
degli esseri umani è stato riafferrmato come primario e decisivo da una serie di 
pensatori che hanno contestato l'utilità di una ricerca esclusivamente meta- 
etica e astratta. Si è soliti fare riferimento a questa svolta, realizzatasi nella 
riflessione sulla morale specialmente a partire dagli anni Settanta, con 
l’espressione «l'irruzione dell'etica applicata» (De Marco e Fox, 1986). Que- 
sto appello all'etica applicata è stato fatto valere, successivamente, con due 
diversi obiettivi critici. In un primo periodo l'appello era rivolto a fare sì che 
punto di partenza e punto di arrivo della riflessione etica fosse considerato 
non già la conoscenza della natura della morale e delle forme di ragionamen- 
to in essa valide, ma la ricerca di soluzioni normative. In un secondo periodo 
— a partire dagli anni Ottanta — si sono contestate le stesse risposte norma- 
tive offerte dalle opere sistematiche degli anni Settanta e la richiesta avanzata 
è stata che in luogo di criteri normativi generali validi per tutte le questioni 
etiche la riflessione critica fosse rivolta a delineare soluzioni più determinate e 
settoriali in grado di risultare rilevanti per una delle diverse dimensioni pro- 
blematiche riconoscibili all'interno dell'etica pratica. 

La prima esigenza fatta valere negli anni Settanta è stata dunque quella di 
trasformare la teoria etica in modo tale che in essa l’obiettivo principale fosse 
non già quello logico-conoscitivo di mettere a punto una meta-etica e dunque 
una conseguente epistemologia, quanto piuttosto lo sviluppo sistematico di 
un risposta esplicitamente normativa. Il neo-contrattualismo di J. Rawls e 


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DALL'ETICA TEORICA ALL’ETICA PRATICA 101 


D. Gautbier, il neo-utilitarismo di }. Harsanyi e poi di R. M. Hare e R. Brandt, 
le diverse teorie dei diritti di R. Nozick e di R. Dworkin ecc. — tutte conce- 
zioni a cui abbiamo già fatto riferimento specialmente nel paragrafo 4 — sono 
alcuni dei tentativi più influenti di elaborare teorie etiche impegnate prevalen- 
temente sul piano normativo. 

Le differenti teorie etiche normative presentate nel corso degli anni Set- 
tanta sono, di volta in volta, la riproposta sotto una nuova veste di opzioni già 
formulate a partire dal secolo XVIL Il neocontrattualismo di Rawls e Gau- 
thier tiene largamente conto dell'elaborazione contrattualista precedente da 
Hobbes a Kant. Il neo-utilitarismo ha largamente discusso e riproposto le pre- 
cedenti impostazioni di J. Bentham e J.S. Mill. I teorici dei diritti non hanno 
mancato di tenere conto delle analisi di Locke ecc. Restano dunque in larga 
parte operanti le stesse concezioni che nel corso dell'età moderna e contem- 
poranea sono state indentificate come utilizzabili da chi fosse alla ricerca di un 
criterio generale per risolvere i problemi pratici degli esseri umani. Al livello 
dei principi o procedure più generali non sembra si possa segnalare la nascita 
di nuove etiche, ma si assiste solo allo sviluppo e all'approfondimento delle 
linee etiche normative già disponibili. 

La novità principale nell’«etica teorica» {e qui si intende una teorizza- 
zione etica con obiettivi esplicitamente normativi) del XX secolo sta dunque 
nelle forme che prendono le diverse concezioni normative, una trasforma- 
zione che in realtà era stata già anticipata da H, Sidgwick con i suoi Methods 
of Ethics (Sidgwick, 1963). In primo luogo le diverse proposte normative non 
fanno più parte di una ricerca filosofica generale. Chi si occupa di etica e con- 
tribuisce ad essa non colloca la sua ricerca in una più ampia prospettiva che 
ad esempio affronti questioni generali sulla conoscenza umana, la natura 
umana ecc. Si parte dando per scontata una sorta di specializzazione per cui 
chi si occupa di etica e di problemi normativi guarda esclusivamente a questi. 
I teorici dell'etica contemporanea sono dunque eredi dei professori di filoso- 
fia morale come Hutcheson o Smith, più che di filosofi come Hobbes, Locke 
€ Hume (per non dire che nulla hanno a che fare con personalità quali quelle 
dei fondatori di morali come Cristo, Budda o Gandhi}. Laddove Hobbes, 
Locke e Hume — ma ovviamente anche Kant — collocavano la loro atten- 
zione per i problemi etici in un contesto filosofico generale, i teorici dell'etica 
contemporanea limitano invece le loro analisi ai soli problemi pratici. Questo 
si accompagna non solo con la specializzazione che abbiamo sottolineato, ma 
anche con un più limitato orizzonte critico che viene fatto valere nelle pro- 
poste etiche contemporanee. Tutti i diversi teorici dell'etica muovono nelle 
loro analisi assumendo la validità di tesi più generali sulla conoscenza, la ra- 


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102 ETICA 


gione ecc. In questo senso le diverse etiche teoriche acquistano senso solo vi. 
ste sullo sfondo delle diverse prospettive filosofiche generali elaborate dai 
pensatori — che abbiamo più volte richiamato — del XVII e XVIII secolo, 

Questa più marcata limitazione del contesto dell’etica teorica contempora- 
nea è in molti di questi pensatori esplicitamente riconosciuta e programmati. 
camente affermata anche per quanto riguarda il piano dei valori di riferi. 
mento. Così molti dei teorici dell’etica contemporanea ammettono di muo- 
versi in contesti storici e culturali ben definiti identificando lo sfondo che dì 
validità alle loro teorie normative con quello delle credenze etico-politiche 
condivise nelle società liberal-democratiche occidentali (Rorty, 1989; Rawls, 
1994). Emerge dunque in molti teorici contemporanei la tesi che l’etica è una 
riflessione critica che non solo muove da intuizioni 0 credenze morali di par 
tenza che sono già date, ma che in realtà non può operare al di fuori di un 
qualche contesto di credenze condivise. Questo orientamento segna di fatto 
non solo una specializzazione dell’etica teorica, ma anche l'abbandono in essa 
del quadro universalistico in cui si muovevano i filosofi del XVII e XVIII 
secolo. 

Parallelamente con questo restringimento della base del discorso dell’etica 
teorica troviamo viceversa — e specialmente nelle opere sisternatiche elabo- 
rate negli anni Settanta — uno sforzo di approfondimento analitico molto più 
marcato, con la pretesa di realizzare un'elaborazione coerentemente sistema- 
tica e un’argomentazione persuasiva di ampio respiro. Se ci volgiamo infatti 
alle opere principali dell'etica teorica contemporanea vediamo che la loro. 
mole e complessità rispetto agli scritti dell'etica tradizionale è fortemente cre. 
sciuta. La base di partenza è più ristretta ma la pretesa di approfondimento 
analitico è maggiore. Le nozioni che la tradizione etica precedente trovava del 
tutto comprensibili vengono ora sottoposte ad analisi dettagliate. In questa 
direzione contributi del tutto nuovi vengono offerti, ad esempio: o con una 
dettagliata tassonomia — dovuta in particolare agli utilitaristi — delle diverse 
forme di preferenze; o con una classificazione — che troviamo principalmente 
negli scritti dei neo-contrattualisti e dei teorici dei diritti — delle principali 
differenze tra bisogni e interessi; o con lo scavo — e qui sono i teorici della 
scelta razionale ad offrire il maggiore contributo — delle diverse forme di ra- 
gionamento con cui possiamo valutare le linee di azione che coinvolgono con- 
seguenze future più o meno lontane e più 0 meno sicure. Ll terreno dell'etica 
teorica appare dunque certamente come più limitato e ristretto — un campo 
che si cerca di tenere distinto da quelli confinanti — ma esso viene scavato 
con una profondità maggiore che nel passato in tutte le sue parti. La convin- 
zione che muove questo approccio è che le radici delle questioni etiche pos- 


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DALL’ETICA TEORICA ALL’ETICA PRATICA 103 


sano essere raggiunte non già derivandole da un altro campo di ricerca, ma 
andando sempre più a fondo nello scavo dell’area dell’etica considerata come 
autonoma e autosufficiente. Quello che lascia particolarmente insoddisfatti è 
che i tratti generali del paradigma della ricerca si trovano messi in pratica e 
ripresi acriticamente senza nessuna elaborata valutazione della loro adegua- 
tezza. Né vi è una sensibilità per la questione — a mio parere decisiva — di 
come la vicenda dell'etica teorica contemporanea possa essere raccordata 
— acquistando con questi raccordi senso e rilevanza — con i lasciti e i residui 
della passata elaborazione. 

Molto più accentuata che nel passato è poi la pretesa di sistematicità e di 
coerenza interna, così come della massima completezza possibile. In questo 
senso l’etica teorica si muove prendendo a modello le teorie scientifiche in 
generale. Proprio per questo tentativo di strutturarsi in analogia con gli uni- 
versi scientifici prevale tra le diverse concezioni normative una tendenza al 
monismo etico e nello stesso tempo assistiamo ad un progressivo allargamento 
dell'ambito di casi e fenomeni investiti. Una tendenza verso il monismo nor- 
mativo era presente anche nelle etiche tradizionali che insistentemente anda- 
vano alla ricerca di un solo principio fondamentale. Una volta caduto l’oriz- 
zonte fondazionale il monismo etico si presenta come la ricerca di un unico 
criterio di decisione per tutte le situazioni problematiche nella convinzione che 
la presenza di più criteri non può che originare conflitti e disaccordi insanabili. 

Nei sistemi normativi degli anni Settanta troviamo infine approfondito lo 
sforzo di argomentare in modo persuasivo e convincente a favore della posi- 
zione fatta valere. La dimensione per così dire retorica e persuasiva diviene 
esplicita e diventa primario l'impegno a fornire già all'interno di ciascuna teo- 
ria una risposta alle critiche avanzate dalle concezioni alternative. Prevalgono 
quindi nell’etica teorica contemporanea le esigenze di una discussione pub- 
blica. Le diverse etiche si presentano infatti in primo luogo come discorsi si- 
stematici e razionalmente giustificati nel modo più compiuto, sviluppati per 
convincere gli interlocutori nella discussione pubblica a proposito della pre- 
feribilità delle opzioni normative proposte. Questi tratti spiegano nello stesso 
tempo, da una parte la maggiore concretezza delle etiche teoriche contempo- 
ranee rispetto a quelle tradizionali e, dall'altra, il loro minore respiro e la loro 
collocazione in un contesto storicamente più limitato. 


5.5. I principali campi dell'etica applicata. — Ma come si è detto un’ulte- 
riore svolta ha segnato l'etica teorica a partire dagli anni Ottanta. Vengono 
contestate ora le stesse teorie impegnate nella presentazione di grandi sistemi 
normativi, denunciando la loro astrattezza e la loro irrilevanza per i problemi 


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104 ETICA 


pratici effettivi. L'impegno in una riflessione etica che abbandonasse il piano 
delle concezioni astratte veniva a caratterizzare sempre di più gli anni Ot- 
tanta. Anzi in questa direzione era la medicina a salvare l'etica — come si 
esprimerà Toulmin {$. E. Toulmin, How Medicine saved Etbics, in De Marco e 
Fox, 1986: 265-281) — nel senso che i nuovi problemi etici generati dagli svi- 
luppi della medicina e della biologia ponevano in modo urgente una richiesta 
di soluzioni che non poteva essere soddisfatta dai grandi sistemi normativi 
classici o contemporanei. Laddove infatti i sistemi normativi degli anni Set- 
tanta avevano al loro centro i problemi della giustizia sociale e della cittadi- 
nanza, le questioni della guerra giusta e delle relazioni internazionali, vice- 
versa i nuovi problemi posti dalle mutate condizioni nella nascita, morte e 
cura degli esseri umani coinvolgevano dimensioni etiche completamente di- 
verse, 

Inizia così un processo di articolazione e sviluppo di una miriade di settori 
nuovi nell’etica applicata che, in parallelo con la tendenza della cultura ame- 
ricana alla specializzazione e alla professionalizzazione, porta al consolidarsi e 
istituzionalizzarsi di vari campi dell'etica pratica considerati come autosuffi- 
cienti. Compare così la nuova figura professionale dell’eticista, ovvero del- 
l'esperto dei problemi di un particolare settore. Certamente la riflessione etica 
guadagna così in concretezza, ma una ricerca esclusivamente impegnata nel- 
l’evidenziare i criteri ed i principi etici validi per specifici e peculiari problemi 
applicativi va incontro ai limiti del settorialismo e della iper-specializzazione. 
Dopo lo sforzo di scomposizione e di indagine ravvicinata dei singoli campi 
problematici che ha accompagnato il fiorire delle varie dimensioni dell'etica 
pratica è ora auspicabile un lavoro di sintesi e di ricomposizione che identifi- 
chi i principi e i criteri etici validi in generale e che sappia fornire visioni d'in- 
sieme della vita etica. 

La maggior parte dei diversi settori dell'etica applicata consolidatisi negli 
ultimi decenni del secolo XX ha a che fare con i problemi pratici del tutto 
nuovi che sono sorti con lo sviluppo della tecnologia e detta ricerca medico- 
biologica. Tutta una serie di azioni e pratiche umane che risultavano neutre da 
un punto di vista etico o che comunque erano affidate quasi integralmente a 
processi naturali e biologici, e dunque considerate al di là delle decisioni re- 
sponsabili, sono entrate a far parte dell’universo di eventi influenzati dai di- 
versi criteri per discriminare tra scelte giuste e ingiuste. 

In primo luogo si sono andate consolidando come aree largamente indi- 
pendenti dell’etica applicata alcune dimensioni problematiche già colte dalla 
riflessione del secolo scorso, Laddove nel Settecento trovavamo solo degli ac- 
cenni in Bentham sulle sofferenze degli animali, nella seconda metà del XX 


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DALL’ETICA TEORICA ALL'ETICA PRATICA 105 


secolo si è assistito al fiorire di una vera e propria etica impegnata nel realiz- 
zare la liberazione degli animali (Singer, 1992). St sono sviluppate diverse con- 
cezioni generali rivolte a giustificare un trattamento non discriminante per le 
sofferenze degli animali: da posizioni mistiche o religiose, a quelle utilitaristi- 
che a quelle che ruotano intorno all'elaborazione di una teoria dei diritti an- 
che per gli animali (T. Regan, 1990). In questo caso la presentazione di una 
risposta normativa alla questione del trattamento degli animali va di pari 
passo con una ridescrizione della loro condizione. I libri dei teorici della libe- 
razione animale sono infatti insostituibili per la ricchezza di dati e esemplifi- 
cazioni che forniscono sulle pratiche invalse — il più delle volte inutilmente 
crudeli — per quanto riguarda l'uso degli animali nella ricerca medica e far- 
maceutica, nell'industria cosmetica a dell’abbigliamento, nella produzione in- 
dustriale di cibo ecc. (Singer, 1992). 

Una grande fioritura, in quest'ultima parte del XX secolo, hanno avuto i 
tentativi — già presenti ad esempio in uno scritto del 1869 di J. S. Mill su The 
Subjection of Women (La soggezione delle donne) — di affrontare in modo 
esplicito e sistematico i problemi etici legati al differente trattamento — nelle 
istituzioni e nelle pratiche sociali — di persone di sesso diverso. Il dibattito 
critico sulle discriminazioni legate alle differenze sessuali ha assistito non solo 
a una ricerca rivolta a ricavare soluzioni giuste dalle diverse concezioni nor- 
mative disponibili, ma anche alla presentazione di tesi femministe che hanno 
insistito sulla radicale inconciliabilità tra l’elaborazione di un'etica delle 
donne e le concezioni tradizionali. Così da una paste si è discusso sull’alterna- 
tiva tra l’universalismo che sarebbe proprio dell'etica maschile e l'assunzione 
delle differenze di genere come orizzonte decisivo che è proprio dell'etica 
femminile {Irigaray 1985). Dall'altra si è insistito sulla tesi che il recupero del 
punto di vista femminile farebbe emergere valori del tutto peculiari e in luogo 
di una centralità del valore della giustizia tipicamente maschile segnerebbe 
l'affermazione del valore della cura (Gilligan, 1982). 

Molti altri tradizionali problemi etici sono stati rivisitati alla luce della si- 
tuazione contemporanea e coloro che se ne sono occupati hanno dato vita a 
un'ampia produzione specialistica. Tra i campi più significativi per la costitu- 
zione di un'ideale «Enciclopedia Pratica» del nostro tempo ricordiamo le ri- 
flessioni dedicate a: le guerre giuste e l'uso — lecito o no — della violenza 
{Walzer, 1990); le particolari regole che governano le relazioni internazionali 
tra stati (Bonanate, 1992); le questioni più strettamente legate alle discrimina- 
zioni di tipo razziale e culturale (Walzer, 1987); i problemi del trattamento 
della povertà anche riconoscendone le articolazioni geografiche (Sen, 1981); il 
tuolo della pena nel diritto (Ferrajoli, 1989). Una ben precisa area di etica 


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106 ETICA 


degli affari si è costituita per i problemi morali posti dall'attività economica e 
produttiva, e qui i maggiori avanzamenti sono venuti dall’uso di una tecnica 
del tutto nuova fornita dalla «teoria della scelta razionale» (Sacconi, 1991). 

Infine un incremento notevole hanno avuto le riflessioni morali — già pre- 
senti in Ar Essay on the Principles of Population del 1798 di Thomas Robent 
Malthus (Saggio sul principio di popolazione) e nei Principles of Political Eco- 
nomy del 1848 di J. S. Mill (Prizcipi di economzia politica) — relative alla que- 
stione etica di una procreazione responsabile. Tali riflessioni hanno forte 
mente approfondito le questioni collegate al contesto di decisione costituito 
dall’intreccio tra le previsioni sullo sviluppo demografico e quelle sulla dispo- 
nibilità di risorse. Tutta questa tematica ha portato ad elaborare una vera e 
propria etica delle generazioni future. Le questioni della giustizia tra genera- 
zioni, della regolazione delle nascite in previsione della presenza nel 2050 di 
oltre dieci miliardi di esseri umani, dei rischi dello sviluppo tecnologico per 
gli esseri umani futuri sono al centro di riflessioni che hanno anche contri- 
buito a modificare il quadro complessivo delle etiche tradizionali (Parfit, 
1989; Jonas, 1990). 

Del tutto nuovi sono invece due settori di etica applicata. Da una parte 
abbiamo il consolidarsi e determinarsi della bioetica come disciplina auto- 
noma che affronta sistematicamente i problemi etici posti dallo sviluppo della 
medicina e della biologia. Non possiamo qui fare altro che accennare ai prin- 
cipali tra questi problemi del tutto nuovi che coinvolgono la nascita, la morte 
e la cura degli esseri umani: la fecondazione artificiale ix vitro: l'uso nei re- 
parti di terapia intensiva di strumenti vicarianti le funzioni essenziali della 
respirazione, alimentazione e idratazione; il ricorso ai trapianti; la diagnostica 
prenatale; la ricerca sul DINA e l’ingegneria genetica; l’accresciuta conoscenza 
dello sviluppo embrionale e la possibilità di realizzare in laboratorio le prime 
fasi di questo sviluppo con eventuali conseguenti sperimentazioni ecc. Vita 
umana, persona umana, sanità, malattia, benessere, diritti dei malati, dignità 
della morte, doveri dei medici ece. sono solo alcune delle nozioni che ven- 
gono sottoposte a riesame nella riflessione bioetica che si è concretizzata in 
una sterminata letteratura e nella nascita di una ben precisa disciplina. Nel 
corso di questa ricerca sono emerse tendenze a far valere alcuni nuclei tema: 
tici specifici come nucleo della discussione (ad esempio la contrapposizione 
tra un’etica che si impegna principalmente nel sostenere la non disponibilità e 
sacralità della vita umana e un'altra che ritiene invece centrale la preoccupa 
zione per una buona qualità della vita umana; Kuhse, 1987), o a enucleare 
principi più specificamente rilevanti per le problematiche della nascita, morte 
e cura degli esseri umani (in questo senso è, ad esempio, frequente il richiamo 


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LE DIMENSIONI DELL'ETICA 107 


a un principio di beneficenza o ad un principio di autonomia: Engelhardt, 
1991, ma anche Gracia, 1993). 

Infine le conseguenze devastanti che sull'ambiente hanno avuto gli svi- 
luppi scientifici e tecnologici e l'incremento demografico a livello planetario 
hanno reso eticamente rilevante una serie di azioni umane con effetti più o 
meno diretti, immediati o futuri sulla natura. La riflessione di etica ambientale 
è stata caratterizzata da una molteplicità di concezioni (Bartolommei, 1989): 
quella più religiosa e sacrale rivolta a dare un valore intrinseco alla natura; 
quella utilitaristica tesa a calcolare le differenti conseguenze (in termini di 
danno e beneficio) sull'ambiente di differenti strategie operative; quella che 
cerca di estendere il linguaggio dei diritti anche a oggetti naturali ecc. 

Non abbiamo fatto altro che elencare le differenti dimensioni dell'etica ap- 
plicata. Infatti dalla prospettiva complessiva da cui muoviamo dobbiamo limi- 
tarci a rilevare la fertilità di questo recente dibattito, sia nel senso di un arric- 
chimento delle nostre conoscenze sui problemi pratici effettivi degli esseri 
umani, sia nel senso di un incremento del processo di democratizzazione del- 
l'etica (al centro di tutti i diversi settori dell'etica applicata troviamo individui 
umani che affrontano autonomamente i loro problemi). Il pericolo che sta 
dietro questo specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi dell'etica ap- 
plicata è quello della frammentazione. Ciò che fa questione non è tanto il fatto 
che ciascun individuo elabori da sé la propria etica, quanto piuttosto quella 
confusione che nella vita pratica di ciascuno può derivare dall’appello, in si- 
tuazioni diverse, a principi o criteri etici differenti come risolutivi. Una fram- 
mentazione in questo senso può spingersi fino a esigere dallo stesso individuo 
comportamenti incompatibili. In contrasto con questa tendenza l’obiettivo di 
una unificazione richiede un recupero di tutte le diverse dimensioni dell'etica 
teorica di cui abbiamo reso conto nei paragrafi precedenti. Un contesto uni- 
tario per le riflessioni etiche può infatti essere offerto da teorie generali che — 
sul piano meta-etico, epistemologico e normativo — identificano quel nucleo 
comune valido per qualsiasi approccio o discorso che pretenda di farsi valere 
come etico. 


6. Le dimensioni dell'etica. 


6.1. La morale e le relazioni personali. — Nel corso dei paragrafi prece- 
denti abbiamo reso conto dei problemi generali al centro dell'etica in modo 
unitario non tracciando distinzioni al suo interno. Così finora in modo unita- 
rio si sono affrontate le questioni di una caratterizzazione, definizione, giusti- 
ficazione o fondazione, applicazione e formulazione sistematica dell’etica. Ma 


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108 ETICA 


le norme e i valori con cui ha a che fare l’etica complessivamente intesa ven- 
gono in vari modi distinti in campi più o meno nettamente differenziati nei 
nostri discorsi e nelle forme di vita. In questo paragrafo renderemo conto bre- 
vemente della distinzione più comune e consolidata che vede l'etica compren- 
dere i diversi piani della morale, del diritto e della politica. 

Ricorrendo all'aiuto della storia dell'etica possiamo rilevare che nell’età 
moderna e contemporanea vi è una certa convergenza nel discriminare tra 
morale, diritto e politica, mentre notevoli differenze vi sono per quanto riguar- 
da i criteri a cui ci si è richiamati per tracciare queste differenze. I differenti 
criteri risultano — come vedremo nelle pagine seguenti — in definitiva funzio- 
nali alle diverse opzioni meta-etiche, epistemologiche e normative da cui sono 
mossi coloro che hanno proposto una ricostruzione dei campi dell'etica. 

Un primo modo per caratterizzare il campo dell'etica che proponiamo di 
chiamare morale in senso stretto è quello di considerarlo come quel settore in 
cui sono in gioco principi e norme che guidano, 0 dovrebbero guidare, azioni 
che producono negli altri conseguenze positive o negative diverse dal danno 
in gioco con le azioni di rilevanza giuridica e dai benefici o danni provocati 
dalle azioni di rilevanza politica. Proprio in quanto diverso è il raggio di in- 
fluenza con cui ha a che fare la morale strettamente intesa essa ha anche a che 
fare con una sanzione del tutto particolare che va tenuta distinta da quella in 
gioco con la legge giuridica e con quella politica: una sanzione semplicemente 
in termini di disapprovazione pubblica piuttosto che di concrete pene 0 multe 
o di allontanamento dalla cittadinanza politica. Questa caratterizzazione dei 
vari campi dell’etica è largamente corrente tra gli utilitaristi ed è stata deli- 
neata già nel 1859 in On Liberty di J. S. Mill (Saggio sulla libertà). 

La caratterizzazione così avanzata della natura delle regole e dei principi 
specificamente morali — ovviamente nel senso meta-etico di cui qui ci occu- 
piamo — è in realtà pur sempre carica di normatività in quanto si presenta 
come una ridefinizione stipulativa. Alcuni avvertiranno in questa caratterizza- 
zione un limite dato dal fatto che essa esclude comunque una qualunque rile- 
vanza etica per quelle regole e principi che riguardano stati d'animo o azioni 
del tutto privati, ovvero tali che non hanno nessun tipo di conseguenza — né 
benefica, né negativa — sugli altri. Possiamo offrire un chiaro esempio di que- 
sto campo di azioni del tutto private e che non sarebbero di pertinenza della 
morale così intesa rinviando ad atti di auto-erotismo o al modo in cui impie- 
ghiamo il nostro tempo libero. 

È così chiaro che stiamo proponendo una caratterizzazione della morale 
più stretta rispetto a quella a cui giungono coloro che, muovendosi all’interno 
di una tradizione spiritualistica e giusnaturalistica, trovano l'etica complessi- 


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LE DIMENSIONI DELL'ETICA 109 


vamente intesa come un insieme di doveri verso Dio, se stessi e gli altri. An- 
che all'interno di questo approccio all’etica, comunque, il livello della mora- 
lità per così dire del tutto privato si presenta come diverso rispetto a quello 
della moralità che coinvolge altri; nel complesso poi l’insieme della morale va 
tenuto distinto dalle azioni con cui hanno a che fare il diritto e la politica. Il 
piano delle regole morali del tutto private e personali può essere considerato 
come campo di applicazione di principi e regole super-erogatorie che hanno a 
che fare con una vita santa, eroica o perfetta (Urmson, 1958): una forma di 
vita che solo cedendo al fanatismo può essere prescritta universalmente. La 
morale super-erogatoria va dunque tenuta distinta dalla morale che ha a che 
fare con azioni di benevolenza o generosità che per quanto considerate dove- 
rose e obbligatorie non lo sono certo nello stesso senso delle azioni che evi- 
tano il danno fisico per gli altri. Vediamo così ricomparire una distinzione tra 
diversi piani della vita etica, sia pure su basi differenti. 

Muovendoci all’interno dell'approccio utilitaristico già delineato sugge- 
riamo però di collocare al di fuori dell'etica generalmente intesa non solo le 
azioni strettamente interessate a obiettivi economici, ma anche molte azioni 
del tutto indifferenti moralmente che ciascuno di noi può compiere nel modo 
che preferisce laddove queste non coinvolgano in alcun modo gli altri. In que- 
sto senso questa concezione dell'etica si presenta come fornita di limiti anche 
per quanto riguarda l'ambito della moralità strettamente intesa (Williams, 
1987). i 

Possiamo dunque collocare l'ambito della morale nel campo delle azioni 
benevole e generose che non siamo tenuti a compiere con la stessa coercività 
dei nostri obblighi giuridici e politici. La morale cioè ha a che fare con un 
universo di azioni — che saranno poi distinte in buone e cattive a seconda dei 
diversi valori sottoscritti — che gli altri non si aspettano da noi come soddi- 
sfacimento di loro diritti giuridicamente o politicamente riconosciuti. Le no- 
zioni di obbligo, dovere, diritto possono avere un uso nel contesto della mo- 
rale, ma con un significato che va tenuto nettamente distinto da quello che tali 
nozioni hanno nel contesto giuridico e politico. Molte confusioni e conflitti 
sociali nascono dall’incapacità di tenere distinti questi diversi livelli dell'etica, 
In un campo della morale così inteso le diverse concezioni dei valori potranno 
confrontarsi presentando appunto diversi modelli e stili di vita virtuosa. La 
vita virtuosa si distinguerà poi, da una parte, dalla vita santa o eroica e dall'al- 
tra da quel tipo di vita che è richiesto a ciascuno di noi dalle leggi del suo 
paese e dalle regole politiche della sua società. : 

In un approccio del genere diventerà decisivo riuscire ad individuare, e 
tenere ben distinto, un ambito di danno o offesa che è coinvolto dalle azioni 


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110 ETICA 


di pertinenza della morale strettamente intesa. Si tratta di sviluppare l’idea 
— messa a punto dagli utilitaristi e più recentemente da H. L. Han (Hart, 
1963) e Joel Feinberg (Feinberg, 1985) — che ci sono alcune aree delle nostre 
azioni interpersonali in cui non sono in gioco danni di rilevanza giuridica, ma 
solo danni e offese morali. Gli altri si aspettano da noi un certo comporta- 
mento anche se questo comportamento non è sanzionabile mediante l’inter- 
vento della legge. Il piano di questi obblighi morali coinvolge principalmente 
le relazioni più strettamente personali ovvero quelle relazioni che riguardano i 
rapporti familiari, i rapporti tra persone di sesso diverso, le relazioni tra per- 
sone di diversa età, le relazioni collegate a diverse responsabilità professionali 
o di status sociale ecc, Tutta un'area di relazioni personali coinvolgono per 
ciascuno di noi obblighi relativi al suo status (figlio, padre, marito, amico, me- 
dico, docente ecc.) che non fanno riferimento a danni giuridici, ma a danni 
morali. Possiamo provare a suggerire l'estensione e l’importanza di un ambito 
della morale così determinato pensando al rilievo che nelle relazioni umane 
hanno le promesse che non siano state codificate in un contratto, o alle aspet- 
tative che ci legano con gli altri esseri umani con cui abbiamo istituito più 
strette relazioni personali. Proprio quest'ambito della moralità è quello che 
rende possibile la convivenza civile. Infatti laddove cerchiamo di ancorare la 
permanenza di una qualche forma di società civile o ordine sociale al ricono- 
scimento di obblighi e danni esclusivamente legali non riusciamo a rendere 
conto di niente altro che di uno stato di polizia. Senza basi morali la convi- 
venza può essere garantita solo da uno Stato ossessivamente preoccupato che 
nessuna azione dei suoi cittadini sfugga al controllo delle sue sanzioni. E si 
tratterà comunque di uno stato di polizia la cui accettazione come legittimo 
da parte di coloro che si riconoscono come suoi cittadini risulterà del tutto 
incomprensibile a meno che — con un ragionamento circolare e vizioso — 
non si voglia fare appello alla autorità derivata dalla sola forza. 


6.2. Il divitto e î sistemzi codificati. — Un ambito dell'etica completamente 
diverso da quello in gioco nella morale è quello in gioco nel diritto e nell'in- 
sieme delle norme giuridiche. Qui — come peraltro con la politica — ci muo- 
viamo nel campo dell’etica pubblica, laddove con la morale abbiamo a che 
fare con l’etica privata (Veca, 1989). Largamente condivisa è la tesi di una 
marcata differenza tra piano delle regole morali e piano del sistema giuridico, 
nel senso che quest’ultimo rinvia necessariamente a un momento di codifica- 
zione. Anche i teorici del giusnaturalismo, che pur vedono la sfera giuridica 
come strettamente correlata con la legge morale naturale, accettano Ja distin- 
zione — sia pure cronologica 0 tecnica — tra il piano naturale della morale € 


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LE DIMENSIONI DELL'ETICA 111 


quello civile proprio delle procedure che caratterizzano il diritto e la politica, 
Significativa in questa luce la posizione espressa da Locke nel 1690 nei Two 
Treatises of Government {Due trattati sul governo; Locke, 1960: 244-246). 
Locke vede già presente nello stato di natura il diritto di punire come dirit- 
to di ognuno, ma individua nel passaggio alla società civile la realizzazione 
di una completa delega di questo diritto a un magistrato che potrà usare 
— unico autorizzato — la forza e fare rispettare le sue decisioni, che non sa- 
ranno più caratterizzate dagli inconvenienti che accompagnano nello stato di 
natura l’uso del diritto di punizione da parte di ciascuno. 

Uno dei grandi problemi al centro dell'etica è proprio quello delle connes- 
sioni tra morale e diritto. La questione preliminare è quella di spiegare in che 
senso le norme del sistema giuridico — ovvero le norme che si occupano della 
giustizia penale e pubblica e che sono sanzionate con l’uso della forza — sono 
collegate con le norme morali (ovvero pre-giuridiche o non-giuridiche). La 
soluzione più semplice è quella del positivismo giuridico che ritiene che di 
vero € proprio diritto non si possa parlare se non dopo il costituirsi di un 
governo riconosciuto, legittimato e autorizzato a promulgare norme giuridi- 
che. Queste norme saranno poi valide giuridicamente laddove siano state pro- 
mulgate osservando le procedure previste nello Stato — dalla Costituzione o 
dalle sue leggi fondamentali — per l’amministrazione della giustizia (Scarpelli, 
1965). La posizione del positivismo giuridico non è priva di difficoltà in 
quanto confonde due nozioni etiche concettualmente diverse, ovvero la legge 
promulgata correttamente, e cioè nei modi previsti dalla Costituzione, e la 
legge giusta (cfr. $$ 2.3 e 2.4). Norme del tutto in regola dal punto di vista 
della validità formale richiesta dal positivismo giuridico — come quelle pro- 
mulgate dal regime nazista — possono risultare del tutto ingiuste e tali da 
esigere un obbligo di resistenza da parte dei cittadini (Dworkin, 1982). 

Alcune posizioni che si presentano come alternative al giusnaturalismo si 
distinguono dal positivismo giuridico proprio in quanto riconoscono un col- 
legamento tra morale e diritto. Questo è ad esempio vero per l'utilitarismo fin 
da Bentham. Infatti Bentham riconosceva l’ineliminabilità di questa connes- 
sione rappresentando la morale e la legge come due sfere concentriche, l'una 
più ristretta costituita dal diritto e l’altra più ampia costituita dalla morale. 
Questa immagine permette di capire sia in che senso la morale condiziona la 
sfera giuridica, sia in che senso l'ambito del diritto debba essere considerato 
più ristretto di quello proprio della morale. Questa stessa linea di analisi è 
stata elaborata in modo compiuto da J. $. Mill, 

I collegamenti tra queste due dimensioni dell'etica — la morale e la legge 
giuridica — sono complessi e ineliminabili, Non solo i limiti di applicazione 


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112 ETICA 


della legge giuridica — ovvero la distinzione tra l'ambito di pertinenza della 
sanzione giuridica e quello in cui c'è completa libertà dalle sanzioni e in cui 
dunque vale la sola critica che si manifesta nella discussione pubblica —, ma 
le stesse procedure mediante le quali vanno accertate le azioni che sono rile- 
vanti dal punto di vista della responsabilità giuridica e infine gli stessi modi in 
cui va articolata la sanzione e la pena giusta esigono un rinvio continuo a con- 
siderazioni di ordine morale (Ferrajoli, 1989). Il riconoscimento di un’effer- 
tiva responsabilità giuridica rientra anch'esso in un discorso che esige il ri- 
corso ad assunzioni di ordine morale. Non diversamente assunzioni di ordine 
morale sono in gioco laddove si discute la questione della pena adeguata o 
giusta o meritata pet un determinato reato. Tutta la discussione sull’uso della 
tortura, della pena di morte e dell’ergastolo da parte di sistemi penali sta lì a 
mostrare questo intreccio. 


6.3. La politica e i fini del governo. — L'ambito dell’etica che invece pos- 
siamo denominare «politica» è quello che rinvia ai principi e alle norme che 
all’interno di una società riguardano non tanto i rapporti giuridici, quanto 
l’azione del governo e il riconoscimento della sua legittimità. Una parte della 
dottrina etica che coinvolge la politica riguarda dunque l'individuazione dei 
principi che sono in grado di dare ai governanti l'autorità per governare, e 
conseguentemente gli obblighi di lealtà dei cittadini nei confronti dei loro go- 
vernanti (e di riflesso gli obblighi dei governanti nei confronti dei loro citta- 
dini) e infine l’esistenza o meno (e in quali limiti) di un diritto dei cittadini a 
resistere alle leggi dello Stato. 

Basta volgersi alla riflessione di filosofia politica del secolo XVII per ve- 
dere quanto già in quell'epoca fosse centrale la ricerca di una base morale che 
desse validità alla pretesa dei governanti di avere un'autorità sui loro cittadini, 
Il primo dei Tivo Treatises di Locke rappresenta un chiaro tentativo di conte- 
stare la pretesa avanzata da Filmer nel Patriarca che i sovrani potessero rica- 
vare il loro diritto ad un'autorità assoluta sui loro sudditi da una investitura 
diretta da parte di Dio ad Adamo che era poi stata trasmessa — secondo una 
linea diretta, di successione — ai suoi eredi. La cultura filosofica del secolo 
XVII presenta non solo l’attacco più radicale alla concezione assolutistica del 
potere politico come di origine divina, ma anche i primi decisi tentativi di 
ricavare da principi più mondani il potere dei governanti. Così Hobbes e 
Locke percorrevano la strada del contratto come base del potere politico, ma 
le due forme di contratto a cui si richiamavano erano tali da condurre a due 
diversi tipi di potere politico, l’uno totalitario ed illimitato e l'altro invece de- 
terminato e limitato dal rispetto di una serie di diritti che comunque il citta- 


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LE DIMENSIONI DELL'ETICA 113 


dino deve salvaguardare. Perciò, mentre Hobbes non sembra riconoscere un 
vero e proprio diritto di resistenza, Locke lo accetta, come del resto dopo di 
lui faranno tutti i teorici dello stato liberale. 

Quasi tutta la filosofia politica contemporanea, da J. Rawls a R. Dworkin, 
da A. Downs a R. Dahl, si muove elaborando le basi etiche di una teoria libe- 
ral-democratica (Brown, 1986). È oramai fuori discussione che solo l’investi- 
tura popolare mediante votazioni democratiche può giustificare il potere po- 
litico. Così come è largamente accettata la convinzione che il potere politico 
deve limitarsi nelle sue leggi in modo tale da non toccare i cosiddetti diritti 
negativi dei suoi cittadini. Non viene nemmeno posto in discussione — spe- 
cialmente dopo l’esperienza dei regimi totalitari del XX secolo quali il nazi- 
smo e lo stalinismo — il riconoscimento del diritto dei cittadini di resistere ai 
comandi ingiusti dei loro governanti, anzi addirittura viene riconosciuto il 
loro dovere di boicottarli e di lottare contro di essi. 

Per quanto riguarda poi la riflessione etica sugli scopi del governo essa ha 
subito a partire dal XIX secolo una radicale trasformazione laddove si è con- 
siderato come uno dei compiti primari dei governi garantire ai cittadini non 
solo la pace sociale, la vita, la salvaguardia dei diritti di proprietà, ma anche il 
benessere, la salute, la qualità della vita ecc. Quando sono entrati in gioco 
quelli che si considerano più propriamente i diritti positivi (cfr. sopra, $ 4.5) 
dei cittadini si è posto il problema di quanto si dovesse ritenere autorizzato 
il potere di un governante che, ad esempio, ponesse dei limiti ai diritti 
negativi dei suoi concittadini al fine di far progredire i diritti positivi della 
maggioranza. Si tratta di questioni etiche che la riflessione sul potere po- 
litico si è trovata davanti in particolare all’interno della questione sociale e 
sulla base delle lotte sostenute dalle classi operaie e dal movimento socia- 
lista (Bobbio, 1990). 

Molte delle questioni etiche in gioco nella politica coinvolgono diretta- 
mente le relazioni internazionali tra Stati. È oramai del tutto superata la posi- 
zione considerata ovvia nel XVII secolo per esempio da Hobbes, ma anche da 
Locke, che riteneva i rapporti tra Stati come costitutivamente collocabili nella 
sfera di uno «stato di natura». Nel corso dell'età moderna e contemporanea 
non solo è cresciuta l’esigenza di una valutazione etica delle motivazioni che 
ispirano le azioni internazionali dei governanti (Bonanate, 1992), ma si è an- 
che affermata sempre più la spinta a far valere anche tra Stati una serie di 
principi consensualmente accettati che garantissero, nei limiti del possibile, la 
pace. È stato Kant {Kant, 1956: 283-336) che ha fatto valere con decisione 
l'esigenza di estendere anche alle relazioni internazionali quel requisito della 
pace che si riteneva necessario per i rapporti all'interno della società civile. Le 


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114 ETICA 


riflessioni etiche sull'uso della forza nelle relazioni internazionali tra Stati nel 
XX secolo hanno poi dovuto affrontare le questioni nuove segnate dalla crea- 
zione di armi nucleari. Molto insistita è stata la conclusione che l’uso di armi 
che, come quelle nucleari, mettono a rischio l’esistenza della stessa umanità, 
non può essere giustificabile al di lì della sola funzione deterrente (Kavka, 
1987; Pantara, 1989). 

Anche sul piano delle relazioni internazionali si è poi ripresentata in que- 
sto secolo una riflessione etica che non investe solo quei fini dei governi esclu- 
sivamente rivolti a salvaguardare o difendere i diritti negativi dei cittadini del 
mondo, ma ancor più i cosiddetti diritti positivi. In particolare l'incremento 
della popolazione mondiale, una differenza sempre più incolmabile tra qualità 
della vita nei paesi ricchi e sviluppati dell'Occidente e povertà nei paesi sot- 
tosviluppati dell’Africa, dell'Asia e dell'America del Sud hanno posto come 
problema etico primario per la politica la questione di quanto si debba rite- 
nere obbligatoria una qualche forma di giustizia sociale internazionale (Pon. 
tara, 1988; Singer, 1989; Sen, 1994), 

Da un punto di vista teorico generale, così come si è assistito a un allarga- 
mento dello spazio per l’etica nel senso di una progressiva democratizzazione 
delle responsabilità e decisioni che essa richiede in modo paritario a tutti i 
cittadini del mondo, si assiste altresì a un analogo allargamento di questo spa- 
zio nella direzione di un incremento delle questioni che ad essa si demandano. 
L’ipotesi che avanziamo — ovviamente carica di un’opzione normativa — è 
che ci si muova verso un allargamento delle aree problematiche che vengono 
affidate alla discussione pubblica e dunque a una regolamentazione pacifica- 
mente concordata, sottraendole al terreno in cui si fa ricorso alla forza. Così 
sul piano internazionale vediamo sempre più riconosciuta — almeno al livello 
del dover essere — l'esigenza di un governo mondiale — democraticamente 
costituito e rispettoso della libertà dei suoi membri — impegnato a garantire 
pace e giustizia sociale a livello planetario. Oggigiorno sembrano quindi pri- 
vilegiate quelle teorie etiche normative in grado di rendere conto in modo 
adeguato delle nuove estensioni problematiche presenti nella situazione sto- 
rica degli esseri umani, Una competizione con le sole armi dell’argomenta- 
zione razionale e della conoscenza tra concezioni normative può favorire l’in- 
dividuazione di soluzioni giuste ed efficaci. In generale poi una richiesta di 
maggiore riflessione sull’etica può trovare una sua giustificazione in quanto 
questa riflessione — sia pure in modi più o meno indiretti — contribuisce a 
rendere più realizzabili gli obiettivi della pace, della libertà e della giustizia 
sociale per l'insieme dell'umanità senza dovere ricorre alla forza delle armi 0 
alla violenza. 


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INDICE DEI NOMI: 


I numeri in corsivo rimandano alla Nota bibliografica 


Abbagnano N., 10. Cooper A.A., v. Shaftesbury. 
Alchourron C.E., 63, 116. Crusius C.A., 79. 
Almond B., 74, 116. 
Althusius J., 71. Dahl R., 113. 
Anscombe G.E.M., 98, 116. Darwin C., 24, 31, 45, 92. 
Apel K.O., 26, 29, 93, 1i6. Davidson D., 12, 117. 
Aristotele, 21.2, 115. Dawkins R., 33, 45, 87, 117, 
Arrow K., 85, 116. De Marco J.P., 100, 104, 117. 
Austin J., 18. Descartes R., 10, 36. 
Austin ].L., 28. Desmond A., 31, 117, 
Axelrod R., 40, 86, 116. Dewey J., 66, 117. 
Ayer A.J., 27-8, 56, 116. D'Holbach P.H.D., 92. 

Downs A,, 113, 
Baier A., 116, Dumont L., 33, 117. 
Bartolommei S., 107, 116. Dworkin R., 19, 77, 101, 111, 113, 117. 
Bentham ]., 10, 18, 76, 80.5, 91, 101, 104, 

111, 115. Engelhardt H.T., 107, 117. 

Berlin I., 76, 68, 116. Epicuro, 13, 79. 
Blackburn S., 59, 116, Ewing A.C., 50, 65, 117. 
Bobbio N., 10, 18, 24, 71-2, 74-5, 113, 116. 
Bonanate L., 105, 113, 116. Fagiani F., 36, 90, 117. 
Brentano F., 67. Feinberg J., 110, JI7. 
Brown A., 113, Î16. Ferguson A., 92. 
Buchanan J.M., 85, 116. Ferrajoli L., 97, 105, 112, I17. 
Buddha, 101. Ferrara A., 87, 117. 
Bulygin F., 63, 116. Filmer R., 112. 
Butler J., 38, 90, 115. Finnis J., 69, 117. 

Foot P,, 24, 98, 117. 
Canziani G., 36, 116. Fox R.M., 100, 104, 117. 
Carcarerra G., 60, 116. Frankena W.K., 31, 77, 117. 
Cartesio, v. Descartes R. Freud S., 32, 115. 
Cassese A., 74, 116. 
Clarke S., 25, 48. Gandhi M.K., 101. 
Collins A., 74, 115, Gargeni A., 59, 117. 
Colman J., 36, 117. Gauthier D., 41-3, 52-3, 73, 101, I17. 
Condillac (Etienne Bonnot de), 92. Gibbard A., 59, 117. 


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122 


Gilligan C., 105, 117. 

Glover J., 99, 117. 

Gough J.W., 52, 72, 117. 

Gracia D., 107, 117. 

Grozio U., 24, 47, 69, 71, 90, 115. 


Habermas J., 29, 117. 

Hagerstròm A., 77, II7. 

Hare R.M., 13, 28.9, 5G-8, 76, 78-9, 83.4, 
101, 117. 

Hart H.L.A., 110, 117. 

Hartley D., 92. 

Hayek F.A. von, 40, 117. 

Helvétius C.-A., 92. 

Hennìs W., 61, 117. 

Herbert di Cherbury, 38, 

Hobbes T., 10, 13, 15, 17, 25, 31, 36, 40.1, 
51-3, 71-2, 74, 76, 90-1, 101, 112.3, 115. 

Hudson W.D., 50, 60, 117, 

Humboldt W. von, 87, 115. 

Hume D., 10, 20-1, 23-4, 31, 44, 48, 51, 53, 
58, 60-2, 66, 78, 87, 91-2, 94, 101, 115. 

Hutcheson F., 23, 38, 50-1, 79, 91.2, 101, 
115. 


Irigaray L., 105, 118. 


Jonas H., 106, 118. 
Jonsen A., Iî8. 

Jules A., 27. 

Jung C.G., 32. 

Juvalta E., 10, 88, 118. 


Kant I., 10, 20-1, 25.6, 29, 49.51, 64, 77-80, 
93, 101, 113, 115. 

Kavka G.S., 40, 114, 118. 

Kelsen H., 18, 61-2, 118. 

Kuhse H., 106, 118. 


Landucci S., 16, 25, 49, 118. 

Locke ]., 10, 15-8, 25, 31, 36-9, 47, SI, 72, 
74, 90-1, 94, 101, 111-21, 115. 

Lorenz K., 92, 118. 

Lyons D., 84, 118. 


INDICE DEI NOMI 


Mackie }.L., 59, 118. 

Macpherson C.B., 75, 118. 

Magri T., 87, 118. 

Malthus T.R., 106, 115. 

Mandeville B. de, 33, 79, 115. 

Manzoni A., 81, 115, 

Marirain J., 22, 44, 118. 

McDowell J., 51, 59, II8. 

Melniyre A., 24, 56, 87, 98, 118. 

Meek R., 92, 118. 

Mill J., 92. 

Mill J.S., 10, 24, 82.4, 87, 92, 101, 105-6, 
108, 111, 115. 

Montaigne M. de, 79. 

Moore G.E., 11.2, 24, 26-9, 31, 50, 61, 
67-8, 115. 

Moore J., 117. 

Musacchio E., 82, 118. 


Nagel T., 94, 118. 

Norton D.F., 50, 118. 

Nowell Smith P.H., 13, 63, 118. 
Nozick R., 59, 67-8, 76-7, 94, 101, 118. 


Oppenheim F.E., 60, 118. 


Parfit D., 8-9, 80, 94-6, 106, 118. 
Pontara G., 67, 84, 114, 118. 
Preti G., 10, 44, 59, 118. 
Prichard H., 50. 

Pufendorf F., 24, 47, 69, 71-2, 80. 
Putnam H., 12, 26, 59, 61, 118. 


Rawls J., 26, 41, 52-5, 73, 75-7, 79, 100.2, 
113, 119. 

Regan T., 105, 119. 

Resnik M.D., 40, 86, 119. 

Rorty R., 88, 102, 119. 

Rass W.D., 50, 65, 119. 

Rossi P., 60, 119. 

Rousseau J.J., 51, 73, 75, 92, 115. 

Ruse M., 24, 92, 219. 


Sacconi L., 106, 119. 
Scarpelli U., 10, 12, 18, 44, 60, 88, 111, 118. 
Scheler M., 67, 116. 


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INDICE DEI NOMI 


Schlick M., 46, 119. 

Sen A.K., 34, 83, 86, 105, 119. 

Shaftesbury (A.A.Cooper, conte di), 23, 51, 
91.92, 116. 

Sidgwick H., 19, 50, 94-5, 101, 116. 

Singer M.G., 78, 119. 

Singer P., 99, 105, 114, II9. 

Smart J.J.C., 83, 85, 119. 

Smart RN., 84, 119. 

Smith A., 10, 23, 33, 40, 51, 91-2, 94, 101, 
116. 

Snare F., 18, 119. 

Spencer H., 24, 45, 65, 92, 116. 

Spinoza B., 25, 72. 

Stevenson C.L., 13, 27-8, 56, 119. 

Strauss L., 75, 119. 

Sugden R., 86, 119. 


Thomasius C., 71, 80. 


123 


Tommaso D'Aquino (S.), 69, 
Toulmin S., 104, 118. 


Urmson J., 84, 109, 119. 


Veca S., 110, 119. 
Viano C.A., 120, 


Walzer M., 105, 120. 

Warrender H., 53, 72, 120. 

Weber M., 60, 64, 89, 116. 

White A.R., 77, 120. 

Wiggins D., SI, 59, 120. 

Williams B., 13, 29, 83, 93, 109, II9, 120. 
Wittgenstein L., 28. 

Wolff C., 79. 

Wiollaston W., 48. 

Wright G.H. von, 63, 120. 


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INDICE DEL VOLUME 


. Introduzione 

. La natura dell'etica .. si ci 

. Fondazione, giustificazione e spiegazione: 
l’epistemologia dell'etica .............. CRA ERA 

4. Le etiche normative; concezioni in contrasto ART: 

5. Dall’etica teorica all’etica pratica .............. 


Di 


6. Le dimensioni dell'etica ............. 


Nota bibliografica... 


Indice dei nomi .. 

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