COLLEZIONE
DI OPUSCOLI DANTESCHI INEDITI 0 RARI DA GT. L. PASSERINI VOLUME QUINTO CITTA DI CASTELLO S. LAPI TIPOGRAFO-EDITORE 1894 CARLO PAGANO PAGANINI CmOSE i IUHI flSOFICI DELIiA DIVINA COMMEDIA RACCOLTE E RISTAMPATE DI GIOVANNI FRANCIOSI CITTÀ DI CASTELLO S. LAPI TIPOGRAFO-EDITOBE 1894 PROPRIETÀ LETTERARIA CARLO PAGANO PAGANINI RICORDATO DA UN SUO DISCEPOLO ... .In la mente m'è fitta, od or m'accora, La cara e buona imagine paterna Di Voi, quando nel mondo ad ora ad ora M' insegnavate come l'uom s'eterna. In/., XV, 82-85. Carlo Pagano Paganini, nell'aspetto e nell'a- nimo, fu come uomo venuto da secoli lontani. Io vedo specchiata nella mia mente, che spesso lo ripensa con riverente affezione di alunno, la sua testa di bellezza antica. Fronte larga e pensosa, naso aquilino, barba e capelli nerissimi, labbra sottili e poco pronte al sorriso, quando socchiudeva gli occhi e chinava il capo medi- tando, era in lui somiglianza più che fraterna col San Paolo della Cecilia raffaellesca; ma, nel- l'atto di alzare lo sguardo e la mano verso gli alunni suoi, sillogizzando, e' rammentava piutto- sto l'Aristotile della Bettola di Atene. Rado e lento al parlare per abito di raccoglimento e per difficoltà di respiro, sopravvenutagli nel col- mo della virilità, persuadeva: la parola viva, stillando quasi dalla forte compagine della sua 6 parola pensata o deW interna stampa, cadeva ad- dentro negli animi anche men disposti a ricever- la, come la goccia, stillante giù dalla roccia, a poco a poco scolpisce orma profonda nel sasso sottostante. Natura di pensatore disdegnoso e chiuso in sé, pochi lo intesero e pochissimi lo pregiarono secondo verità. Cittadino prode, va- gheggiò, lontano dal volgo, un' idea nobilissima di paese sincero, di popolo giusto e sano. Edu- catore potente, ma non ricco di propria virtù creativa, commentò dalla cattedra, come forse niun altro seppe a' nostri tempi, l'alta dottrina di Antonio Rosmini; benché non possedesse le attitudini del divulgatore: recò luce nuova, av- vivò la forza visiva, ma nella mente di pochi. Asceta del pensiero, un po' per indole e un po' per fiera volontà d'espiazione, esercitato in se- vere continenze e astinenze di fantasia e di spirito, non ebbe le geniali divinazioni dell'estro; né quel lampeggiare improvviso di parola ispi- rata, in che s'aprono o s'intravedono lontananze ideali, com'appunto in chiarore di lampo lonta- nanze di mare e di cielo. La sua prosa, nell'an- tica e salda semplicità dell'espressione, rammen- terebbe la linea degli edifici romani, se il pensie- ro non vi apparisse talora frastagliato in minute analisi, in distinzioni sottili, che tengono della scolastica medievale. Tempra di filosofo, mente austera e teosofica. il Paganini nel Poema sacro vide il tempio, ove l'arte umana, ispirata dalla fede, fa sentire l'I- neffabile. Questo egli principalmente dimostra, pur rendendo onore all' ingegno sovrano del Poeta, nel discorso " La teologia di Dante „ ; di- scorso, che qui non si dà, perchè fa parte di vo- lume troppo noto. ^ Ma de' suoi forti studi danteschi fanno, credo, miglior fede le chiose, che qui si danno raccolte e ordinate ; ^ dove, cer- cando, con occhio chiaro e con affetto puro, dentro al fantasma poetico l'occulto e il divino, il Pa- ganini riuscì ad avvertire per la prima volta o a far meglio palesi germi preziosi di verità filo- sofiche. ^ Cosi nelle permutazioni della Fortuna (Inf., VII, 61-69) additò i ricorsi vichiani; e nel sillogismo delle vecchie e delle nuove cuoja (Pa- ' Dante e il suo secolo: Firenze, Cellini, 1865, pag. 515. * Ordinate per ragione di tempo. Soggiungo che questa ristampa fu condotta con amoi'e di sincerità anco nelle mi- nime cose. •'' Ho caro che Tommaso Casini, già mio discepolo nel Liceo di Modena, abbia rammentato tre volte (Inf., IV, 144; VII, 73; Purg., XVIII, 55), sia pure inconsapevolmente, il maestro del maestro suo; e una di queste tre volte (Purg., XVIII, 55) offerto a' letttri della sua diligente esposizione del Poema la stillata sostanza di chiosa paganiniana. Lo Scartazzini, commentando la terza Cantica, cita il Paganini due volte (XXIV, 91-94: XXIX, 46-63), ma la se- conda volta, dopo averlo citato, se ne discosta senza dir perchè; e noi Commento all'Inferno (VII, 73; edizione mi- nore) attribuisce a me, certo per errore di trascrizione, ciò, che il Paganini argomenta suU'apodosi della comparazione dantesca tra gli splendori del mondo e quelli de' cieli. 8 rad,, XXIV, 91-94) il sillogismo della stona, che sì bene armonizza col sillogismo del cosmo e col sillogismo della trinità divina; ^ cioè le tre grandi età della Preparazione a Cristo, àBÌV Avvento di Cristo e della Santificazione in Cristo. Cosi net- tamente distinse, restringendolo alla creatura uomo, l'amore naturale da quello à^ animo ;^ di- chiarò da maestro il verso : " Averroè, che il gran commento feo „ ; segnò il giusto valore della frase " uomo non sape „ là, dove si tocca dell'o- rigine dell'idee, e dimostrò da par suo che cosa valga nel linguaggio degli Scolastici subietto de- gli elementi.^ Le note dichiarative non fanno una grinza : quanto alle altre, io già ne apersi, o diedi a divedere, l'animo mio nel Libro delle Ra- gioni. * Ma, pur dissentendo in parte, riconosco ' Paolo Perez, in una sua lettera al Paganini, scrive: " Intendo assai bene la verità e la bellezza di que' tre sil- "logismi della Storia, della Cosmologia, della Teologia; ar- " monia del creato e dell' increato, che non vidi mai annun- " ziata in forma somigliante „. Lettera di P. Perez al prof. P. Paganini (Nozze Perez-Fochessati), Verona, Franchini, 1884. ■^ Nicolò Tommaseo si dice lieto d'esser corretto dal Paganini, ch'egli giudica uno de' più idonei a scrutare le intenzioni, le dottrine, le origini del verso dantesco; nobil- mente confessa d'avere errato, restringendo ai corpi Vamor naturale, ma insieme consiglia il Paganini di non restrin- gere quest'amore, ch'è Varco fatale nell'inno dell'ordine (Parad., I, 119), entro i confini della creatura intelligente. — Nuovi studi su Dante, Torino, 1865, pag. 27. ^ Il Giuliani in una postilla marginale, ohe Giacomo Poletto riferisce (Dizionario dantesco, VI, 327), volle far suo, credo, il pensiero del Paganini. * Nuova raccolta di scritti danteschi, Parma, Ferrari e Pellegrini, 1889, pag. 83-89; 183-184. 9 volentieri che tutte queste chiose dantesche, co- me i lavori più gravi " Saggio cosmologico su lo spazio „ ' e " Delle più riposte armonie tra la filosofìa naturale e la soprannaturale „ ^ sono bel- lissimo documento d'intelligenza acuta e serena, d'abito di ragionare diritto e spedito, di chiarezza viva di scienza convertita, per lunga meditazione, in nutrimento del pensiero, in forza operosa dello spirito. Se non che la maggiore e miglior parte dell'uomo, secondo me, non si palesò negli scritti e nemmeno nell'atto dell'insegnare dalla catte- dra; si nel conversare casalingo e nel costume. Tra le ricordanze della mia vita di scolaro sempre mi sarà carissima quella de le veglie pas- sate a Pisa in casa Paganini : dove, spogliata la toga del professore, l'uomo appariva in tutta la sua grande bontà d'intelletto e di cuore, e il maestro ci si mutava in consigliere, in amico, in fratello. Quante dispute gentili; quanto fer- vore e quanta allegrezza, nella serenità del con- fidente colloquio, di pensieri e di affetti, sempre accesi nel piacere del vero ! Io penso che la sua natura di educatore per eccellenza ben si pale- sasse allora. Chi lo conobbe solo tra le pareti della scuola dovette averlo in riverenza, ma forse non lo amò; chi lo conobbe in casa, dovette ' Pisa, Nistri, 18G2 (Estr. dagli Annali delle Università toscane). * Pisa, Nistri, 186t. 10 amarlo come padre. Semplicissimo in ogni ma- nifestazione del suo spirito, il Paganini pur ser- bava costante dignità e non cercata eleganza di veste, di portamento, di gesto e di parola. Quan- do lavorava nel suo caro orticello, spampinando la pèrgola, potando qualche pianta o zappettando con fretta allegra, portava zoccoli alla contadi- nesca, rimboccava fino al gomito le maniche della camicia e, se la stagione lo consentisse, stava contento a sommo il petto, come quel del Nerli, a la, pelle scoverta: chi lo avesse veduto di lontano, poteva scambiarlo con un forte, lindo e sollecito massaio delle campagne toscane ; ma da vicino, an- che nell'umile esercizio dell'ortolano, ciascuno avrebbe notato quell'aura, che si diffonde nel vol- to e nella persona da regale nobiltà di pensiero. Uscendo dall'orticello, lasciava gli zoccoli, indos- sava una veste giornaliera, ma (direbbe un anti- co) onesta, ed entrato nel suo studinolo, ripigliava con alacrità nuova il lavoro intellettuale per qual- che ora interrotto. Amico di solitudine, mesto e pensoso per lo piìi, terribile negl'impeti dell'ira, ebbe grande gentilezza di cuore, accorgimenti di bontà materna. Innamoratissimo de' giovani e de' fanciulli, in mezzo a loro si trasmutava come per incanto : sorrideva amabilmente e ama- bilmente parlava, temprando per affetto la sua gagliardissima voce a modulazioni soavi; e l'oc- chio, spesso pieno d'ombra sotto le folte soprac- 11 ciglia aggrottate, si aifissava, tutto schiarato, in quei visi ridenti e lampeggiava d'amore. Edu- catore di sé in gran parte, fidente nella virtù del volere, ^ seppe insegnare a' giovani, che lo avvicinarono, il proposito e l'arte di migliorare il proprio spirito. Io, mi gode l'animo d'aver qui l'occasione di confessarlo, riconosco intero da lui il principio di un'educazione intellettuale, che a poco a poco mi rinnovò, 'distruggendo o morti- ficando i mali abiti della casa e della scuola. Né le meditazioni austere spensero o scemarono nel Paganini il senso del bello, ma lo fecero più delicato, più fine e profondo. ^ Delle arti figu- rative, conoscitore e giudice arguto d'ogni lor passo, molto si dilettò ; e fu egli stesso disegna- tore corretto. La poesia senti come pochissimi ; ^ ' Notabili queste sue parole: "Quello che è difficile, sia pur difficile quanto si vuole, non è impossibile; e quello, che non è impossibile, o prima o poi, o da un uomo o da un altro si fa „. (Cf. pag. 99 di questo volumetto). * Pur negli scritti qui raccolti è qualche vestigid, ben- ché raro e fuggevole, del suo sentire gentile, come là dove accenna l'evidenza pittrice del verbo velare per ventilare (pag. 14) e dove l'armonia della terzina: "Ma ella s'è beata e ciò non ode „ chiama anticipazione di quel nuovo modo d% poesia, che l'Alighieri riserbava al Purgatorio e al Pa- radiio (pag. 47). ' Né soltanto la poesia pensata ed eletta, ma l'improv- visa e campagnuola. Villeggiando sui colli di Pistoia, rac- colse con amore motti e canti popolari, e della Ninna nanna " Quando a letto vo la sera „ disse cose nuove e belle. (Lettera ai giovani Alessandro Morelli e Antonietta Pieranto- ni fatti sposi, Lucca, Canovetti, 18G8.) 12 e due tra tutti i poeti predilesse, perchè meglio rispondenti all'indole e all'educazione del suo spirito: Dante, di cui ho già detto, e Virgilio. Peccato che tante sue belle considerazioni su questi due poeti, onde nel conversare quotidiano non fu punto avaro a' giovani, sieno fuggite con la sua voce, o mutate in seme di troppo diversa germinazione nella mente di chi le ascoltò ! V hanno uomini, che la scarsa loro ricchezza d'intelletto e di cuore spargono subito per mille rivoletti fuori di sé: altri, possessori di grande ricchezza interiore, somigliano a quelle nascoste e profonde sorgenti della terra, che non si veg- gono, ne si odono, ma si argomentano da la più lieta verzura e dal fitto fiorire del terreno sovra- stante. Tra questi ultimi è da porre Carlo Pa- gano Paganini, che molto seppe, molto e bene amò; ma parlò poco e pochissimo scrisse: eppure molti scritti e molti fatti buoni, generati o cre- sciuti dalla dottrina, dal consiglio, dall'esempio di lui, attestano della sua ricca e verace bontà. Roma, il 9 gennaio del 1894. G. Franciosi. Di un luogo del FargatoHo di Dante, che non sembra essere stato ancora dichiarato pie- namente. ^ Eagionando dell'amore, Virgilio, nel canto XVIII del Purgatorio, secondo la naturale filo- sofia, dice: Ogni forma sujtanzlal, che setta - È da materia, ed è con lei unita, Specifica virtude ha in sé colletta, La qual, senza operar non è sentita, Né si dimostra ma che per effetto Come per verdi fronde in pianta vita. Però là onde vegna lo intelletto Delle prime notizie uomo non sape, E de' primi appetibili l'affetto, Che sono in voi si come studio in ape Di far lo mele; e questa prima voglia Merto di lode o di biasmo non cape. Or perchè a questa ogni altra si raccoglia. Innata v'è la virtù che consiglia E dell'assenso de' tener la soglia. ' Da.IV Araldo cattolico: Lucca, 1857, an. XIV, n. 13 (G. P.). '•^ II Pagauini, lo avverto una volta per sempre, nello sue oi- tazioni della Commedia fu solito di serbar fede al testo della Vol- gata; ma, venuto in luco il testo di Francesco da Buti, qualche volta amoreggiò con questo ; come là, dove ai plurali verdi /ronde e primi appetibili sostituì i singolari bellissimi verde fronda e primo appetibile. Cfr. pag. 75-76 (G. F.). 14 Quest'è il principio, là onde si piglia Cagion di meritare in voi secondo Che buoni e rei amori accoglie e viglia. ' E queste cose son dette per soddisfare alla questione proposta da Dante colle seguenti parole: Ti prego, dolce padre caro, Che mi dimostri amore, a cui riduci Ogni buono operare e il suo contraro. Infatti nel canto antecedente Virgilio, trat- tando il medesimo argomento, aveva pronunziato: Né creator, né creatura mai fu senz'amore O naturale, o d'animo Lo naturai fu sempre senza errore; Ma l'altro puote errar per malo obietto, O per troppo, o per poco di vigore. Mentre ch'egli è ne' primi ben diretto, E ne' secondi sé stesso misura, Esser non può cagion di mal diletto; Ma, quando al mal si torce, o con più cura O con men che non dee, corre nel bene, Centra il fattore adovra sua fattura. Quinci comprender puoi ch'esser conviene Amor sementa in voi d'ogni virtute E d'ogni operazion, che merta pene. Ora di quella terzina del primo passo: Or perchè a questa, ecc. trovansi nei commentatori ^ Questo verbo vigliare, che dal Biagioli viene erroneamente confuso con vagliare, e che forse ha tratto origine dal latino, si- gnificando esso pulire il mucchio del grano con una granata o con un mazzo di frasche dalle paglie, stecchi e simili cose senza pregio (lat. viliaj, ce ne fa tornare alla mente un altro, che seb- bene ci paia bellissimo, e sia vivente in bocca dei oampagnuoli, con tutto ciò, a quanto sappiamo, non ha ricevuto l'onore d'essere accolto nei vocabolari. È questo il verbo velare, ohe significa nettare il grano dalla pula, gettandolo contro vento ; e se pure non è una sincope di ventilare, conviene credere ohe i contadini lo abbian tratto pittorescamente dall' imagine d'una vela, che pre- senta la pula fuggendo via portata dal vento. 15 della Divina Commedia tre principali spiegazioni. Una, seguita anche dal Venturi e dal Biagioli, è del Daniello, il quale scrive : l'ordine è: "la virtù che consiglia „, cioè la ragione, " v'è innata „, cioè nata insieme con voi, " perchè „, affìn che ogni al- tra voglia, che nasca in coi, si unisca, accompagni e raccolga a questa virtù, la qual dee tener la soglia, ecc. Un'altra è del Lombardi, il quale cosi interpreta: Or " perchè „, affinchè a questa prima, naturale ed innocente voglia si "raccolga „, si accompagni ogni altra morale e lodevole virtù, " innata v'è „, data vi è fin dal vostro nascimento, " la virtù che consiglia „, la ragione che vi deve con- sigliare e regolare i vostri appetiti. La terza, infine, è del Tommaseo, che, a pag. 406 del Commento, n. 21 [F], esprime il concetto dell'Alighieri in questo modo : Acciocché questo primo naturai de- siderio e intelligeìiza sia quasi centro ad ogni altro vostro volere e sapere acquisito, avete innata la ragione, da cui viene il libero arbitrio ; sicché tutti sieno non men del primo conformi a natura. Qual è il valore di queste spiegazioni? Esaminiamole brevemente. A veder l' improbabilità della spiegazione del Daniello basta considerarla rimpetto alla ragione grammaticale. Nel verso : Or perchè a questa ogni altra si raccoglia dei due pronomi questa e ogn' altra, che essendo ambedue femminili e uniti in un sol membro, ognuno riferirebbe ad un me- desimo nome, egli al contrario riferisce il primo al susseguente virtù, e il secondo al precedente 16 voglia; attribuendo cosi all'Alighieri un co- strutto non solamente ardito, ma pur anco sì strano, che non se ne trova esempio ne pur forse negli scrittori latini, tuttoché la lingua loro con- cedesse tanta libertà d'allontanarsi dall'ordine naturale delle parole. Lo stesso rimprovero può farsi pure al Lom- bardi ; il quale non si diparte dal Daniello se non in questo, che il primo di quei pronomi riferisce a voglia e il secondo a virtìi, cioè mette innanzi quel che l'altro avea messo dopo, e pospone quel che l'altro avea anteposto. Ciò non ostante ne risulta quindi un senso tanto differente, da ren- dere la spiegazione del Lombardi meno impro- babile di quella del Daniello; perchè lascia a soggetto della relazione, accennata da Dante in questo verso, la prima voglia, o V affetto dei primi appetibili, come rettamente si dice, naturale e innocente^ sebbene per termine di essa relazione non si prendano poi le altre voglie od affetti, ma piuttosto le morali e lodevoli virtù. È vero che le morali e lodevoli virtù hanno per natura di dirigere e ordinare gli affetti tutti dell'animo, e che perciò nella espressione usata dal Lombardi sono implicitamente contenuti anche questi, ma ciò non basta a giustificarlo; essendo che qui trattavasi appunto di mostrare come gli affetti diventino virtù e anco vizi, e nella chiosa del Lombardi questa dimostrazione rimane un desi- derio, avendo egli preso, come abbiam detto, per termine della relazione le virtù bell'e formate. 17 Con mente più filosofica ha studiato, come gli altri, così questo passo della Divina Commedia il Tommaseo; ha riferito tutt'e due i pronomi al medesimo nome voglia, che li antecede, e ha scorto fors'anco la vera relazione, che noi cre- diamo essersi inteso dall'Alighieri di porre tra l'aff'etto dei primi appetibili e ogni altro affetto, che di poi si svolga nell'animo nostro, senza che però l'intendimento del poeta resti a pieno il- lustrato. Imperocché, ritenuto per indubitabile che questa valga questa prima voglia, che è in noi naturalmente, e ogni altra valga ogni altra voglia, che in noi possa accendersi nel corso della vita, v'è da risolvere la questione, a cui fa luogo il verbo raccogliersi ; che è quanto dire quale relazione precisamente abbia voluto il poeta espri- mere con esso verbo fra quelle cose. E qual è questa relazione secondo il Tommaseo? È una relazione simile a quella, che i punti d'una cir- conferenza, o i raggi d'un cerchio, hanno col cen- tro, giacché dice : acciocché questo primo naturai desiderio e intelligenza sia quasi centro ad ogni altro vostro volere e sapere acquisito, ecc. E per fermo, raccogliersi significa anco concentrarsi, e più d'un esempio ce ne offre lo stesso Dante. Ma siffatta spiegazione, ci sia permesso di dirlo francamente, non isnuda il concetto filosofico voluto esprimere da Dante, lo lascia involto nel velo della metafora, e però non può essere avuta per sufiiciente. Il poeta nel canto XVII avea fatto dire a }i8 Virgilio che amore è sementa in noi d'ogni virtù e d'ogni vizio: nel XVIII vuol fargli provare la verità di questo dettato, comune alla pagana e alla cristiana sapienza. A tale uopo egli, in persona del suo duce e maestro, risale col pen- siero alla costituzione primitiva dell'essere uma- no : in esso, egli dice, oltre la materia, v'è una forma immateriale, fornita di una virtù o potenza specifica, la quale non si dimostra che ne' suoi effetti, cioè nelle sue operazioni, come per verdi fronde in pianta vita. Questa potenza specifica può considerarsi da due lati, in quanto è passiva e in quanto è attiva : in quanto è passiva è Vin- telletto delle prime notizie, in quanto è attiva è V affetto dei primi appetibili (S, Tommaso, Cantra gent., II, 60 e IV, 19). ^ Quindi non è maraviglia che l'uomo non sappia donde gli vengano siffatte cose, non essendone mai stato privo e apparte- nendo alla sua natura in quel modo medesimo, che all'ape, per esempio, appartiene lo studio, ossia l'istinto, di far lo mèle. Ora quell'affetto dei primi appetibili è senz'alcun merito, perchè non dipende dal libero arbitrio ; il quale soltanto è principio, là onde si piglia Cagion di meritare. Non per tanto esso, non avendo per oggetto altro che il bene conveniente all'umana natura, è un affetto sotto ogni aspetto irreprensibile. Non si può concepire non solo una creatura, ma né meno il Creatore senza amore alcuno; sebbene » In Tece di IV, 19 era da pozze : III, 45 (G. F.)« 1 19 nella creatura ragionevole ne possano essere di due sorte, uno naturale, o istintivo ; e Taltro à^ animo, o deliberato : il primo dei quali è sempre senza errore, perchè è l'opera della stessa sa- pienza divina, mentre il secondo puote errar per malo obietto, O per poco o per troppo di vigore, secondo che dalla libera volontà o è vòlto a ciò che è intrinsecamente male, oppure anco a ciò che è bene, ma senza quella misura che risponda al suo vero pregio. Come accade adunque che sia Amor sementa in noi d^ogni virtude E d'ogni operazion che merta pena? Ciò accade: Imper- ché dal primo amore, che Dio medesimo ha posto nell'uomo, si svolgono altri amori, come dalla forza vegetativa delle piante nascono i ramoscelli e le foglie, che le adornano, e dall'istinto del- l'ape i vari movimenti, coi quali essa sugge l'umor de' fiori, lo converte in miele e lo de- posita nell'alveare; 2° perchè questi secondi amo- ri possono esser conformi a quel primo essenziale all'uomo e rettissimo, ovvero anche difformi, siccome avviene ogni volta che o finiscano in oggetto per sé malo, o non serbino il debito modo ed ordine nei beni ; 3*^ perchè la ragion pratica, o assecondando o promovendo colla sua libera efficacia cotesti amori, fa che la rettitudine loro o la loro malvagità sia imputabile all'uomo, e, divenuti abituali, diano carattere alla sua con- dotta, in altre parole, originino le virtù ed i vizi. E da tutto questo si fa manifesto, che, quel primo amore, si rispetto agli amori secondi, 20 come rispetto alla ragion pratica (convenientis- simamente chiamata da Dante la virtù, che con- siglia, E dell'assenso de* tener la, soglia, dall'uf- ficio a cui è stata destinata), è come una cotal regola od esemplare ; cioè, rispetto agli amori se- condi, perchè non possono esser ragionevoli e onesti se non seguendolo e imitandolo, e rispetto alla ragion pratica perchè deve procurare, che essi nel fatto lo seguano e lo imitino. E dicia- mo UE a cotal regola od esemplare; conciossiachè la naturai tendenza a quel bene, che conviene all'esser nostro, per sé non è che un fatto, e un fatto, in quanto tale, non ha la ragion di regola o di esemplare, ma solamente può parteciparne in quanto è segno d'un'idea (San Tommaso, ^'ttmwa, I* IP* 94, ^ "-della legge naturale^ e al- trove). Se si vuol dunque, commentando questo luogo di Dante, andare al fondo, non bisogna contentarsi di rendere il raccogliersi per concen- trarsi, ma bisogna di più ridurre lo stesso concen- trarsi al suo senso filosofico, il quale non ci sem- bra poter esser diverso da quello, che abbiamo indicato, cavandolo dal valor logico dei concetti, che Dante ha espressi nei canti XVII e XVIII del Purgatorio. Che se il nostro raccogliere è dal latino colligere, e lex è detta, come pensò Ci- cerone, da eligere, ognun vede la profonda con- venienza che quel si raccoglia ha coll'ufficio, che. * Per tutta chiarezza la citazione dovrebb'esser così: Prima secundae S. theol., quaest. 94 (G. F.)- 21 giusta la mente di Dante, noi crediamo di do- vere attribuire al primitivo e immanente atto della parte affettiva dell'anima umana. La in- terpretazione da noi proposta non oontradice adunque quella data dal Tommaseo, ma, se non c'inganniamo, la compie, recandola fino a quel termine dov'egli avrebbe ben saputo recarla, e in maniera a pezza più conveniente, solo che avesse fatto colla riflessione qualche altro passo nella via medesima in cui si era posto. ^ Ma se la nostra interpretazione e quella di Tommaseo si possono cosi accordare, è però vero che in ciò che la nostra piglia a suo fondamento dal canto XVII non si accorda punto colla chio- sa quivi fatta dall'illustre critico. Perocché dove il poeta dice, che creatura non vi fu mai senza amore, o naturale o d'animo, egli spiega l'uno per amor di corpi, l'altro per amor di spiriti ; noi al contrario, come abbiamo accennato di sopra, ' L'OzANAM, che alcuni noa sanno stimare senza esagerarne i meriti, il principale dei quali per noi è di avere coll'opera sua additato agi' italiani che vi è un lavoro da fare, intende ■p&s prima voglia il primo moto o dell'irascibile o del concupiscibile, che i moralisti insegaano esser privo di merito e di demerito. * Dio sa dunque in che strano modo intendeva a collegare colle precedenti la terzina che qvà abbiamo esposto. * Dante et la philos. catholique aa XIII siede fParis, 1872; pag. 207-210). L'Ozanam. a proposito di due luoghi del Convito (IV, 22 e IV, 26) commen- ta: «Il y a trois sortes d'appetits. Le premier, naturel, qui n'a point conscience de soi, et qui est la tendance irrésistible Je tous les ètres physiques a la satl- sfactiou de leurs l>esoins; le second, sensitif, qui a 30n mobile externe dans les choses sensibles, et qui est concupisaiife ou irciscible tour à tour; le troisième, intellectuel, dout l'objecr. a'est appróciable qu'à la pensée. Ces appótités eux-mè- mes peuvent se réduire a un seul principe commun, l'amour. » Ma la prima vogliu di questo luogo del Purgatorio è a lui « premier acte, instantané et irra- fléchi » della virtù speeipcu, «dispositiou «pécitìque, natureUe, qui ne se révèle que par ses eftets » (G. K.) 22 intendiamo pel naturale l'amore istintivo, e per quello d'animo l'amore deliberato. E ci pare che giustifichi questo nostro modo d'intendere il contesto del canto suddetto, e l' insegnamento comune degli scrittori, da cui Dante traeva, fra i quali a noi basti il menzionare san Bonaven- tura, che nel Breviloquio distingue, appunto, due guise di operare delle nostre affezioni, cioè per un moto naturale e per iscelta deliberata. Di- remo pertanto, senza timore di offendere il gran- d'uomo, che la sua chiosa di questo sublime luogo di Dante, il quale può dirsi in germe un intero sistema di filosofia morale, pecca nel punto di partenza, non afferrando la giusta distinzione tra l'amor naturale e gli amori deliberati, e pecca nella conclusione, lasciando qualche cosa d'in- determinato sulla relazione del primo verso coi secondi. Di che però non tanto vogliam fargli biasimo, quanto rendergli giusta lode d'aver sa- puto più addentro d'ogni altro vedere nel pen- siero di Dante. Sopra un luogo della Cantica del Paradiso 1. Beatrice nel canto XXIX del Paradiso^ narrando filosoficamente la creazione delle cose, dice degli angeli: Né giugneriesi, numerando, al venti Si tosto, come degli angeli parte Turbò '1 subietto de' vostri elementi. Tutti gli interpreti, per quanto io mi sappia, per subtetto de^ vostri elementi hanno inteso la terra. Peraltro alcuni hanno inteso la terra co- me elemento j altri la terra come corpo. È de' primi, per cagion d'esempio, Francesco da Buti, che spiega la sentenza di questa terzina colle seguenti parole : Da chi numerasse da uno in vinti non si giungerebbe sì tosto al vinti, come tosto parte delli angeli^ poi che furono creati, in- contanente cadder di deìo in terra, e mutò o vero turbò, secondo altro testo, lo subietto de^ vostri elementi, cioè di voi omini, cioè la terra ' Dall' Istitutore : foglio ebdomadario d' istruzione e degli atti ujjicifdi di essa. Torino, tip. scolastica di S. Franco o figli, 1861, an. IX, n. 32 (G. F.). 24 che è subietto dell'acqua, delVaere e del fuoco, poiché a tutti è sottoposta / e bene lo mutò e tur- bò, imperò che prima era pura, e poi fu infetta. (Così il codice Magli abechiano). De' secondi poi è il Tommaseo, perchè dopo aver dato terra per equivalente di subietto de' vostri elementi^ ag- giunge questa ragione: La terra è soggetto dei quattro elementi^ aria, fuoco, acqua e terra. Do- ve è chiaro che terra la prima volta significa il corpo o globo da noi abitato , e la seconda volta r infimo de' quattro elementi distinti da- gli antichi. Mi sia permesso di dire, che né i primi né i secondi mi paiono aver colpito nel segno. 2. Il nome subietto o soggetto, come sostan- tivo, appartiene alla lingua filosofica, ed ha un senso dialettico ed un senso metafisico. Nel senso dialettico indica uno de' termini del giu- dizio o della proposizione, quello cioè del quale l'altro, che chiamasi predicato, isi afferma o si nega. E di qui, per estensione, nasce un altro senso, esso pure dialettico, quando di questa voce si usa a dinotare ciò su cui verte, non una sem- plice proposizione, ma molti ragionamenti ordi- nati e connessi, siccome sono nella scienza. In metafisica poi subietto ora significa la causa ef- ficiente di qualche cosa, come in quel luogo del Purgatorio, canto XVII : Or, perchè mai non può dalla salute Amor del suo subietto volger yiso, Dall'odio proprio son le cose tute; 26 ora invece significa la causa materiale^ come in questi versi del Paradiso, canto II: Or, come ai colpi degli caldi rai Della neve riman nudo il suggetto E dal colore e dal freddo primai, ecc. E quest'ultimo è il significato, che io credo debba attribuirsi alla parola subtetto nella ter- zina, di cui è questione; cosicché altro non s'in- tenda aver voluto Dante esprimere in essa, se non che alcuni degli angeli, partitisi dal divino volere, colla naturale loro potenza indussero di- sordine nella materia degli elementi, de' quali è composta questa parte a noi destinata del- l'universo. 3. Ciò si parrà chiaro considerando che il nostro poeta parla qui da teologo e da filosofo, uffici ai suoi tempi inseparati, e che ne' tempi posteriori, per grande sventura delle due scienze sovrane, non fu stimato assai di distinguere. Ora che insegna la teologia a proposito degli angeli ribelli a Dio? Ella insegna che ministri, anche dopo la loro caduta, della Provvidenza divina, si aggirano in questo nostro mondo, tri- bolandoci non solo colle malvagie istigazioni, ma eziandio colle tempeste, colle pestilenze ed altri mali di tal genere. Sono notissimi i passi dell'epistola di s. Paolo agli Efesini (II, 2; VI, 12); dove cotesti spiriti sono chiamati principi aventi potestà su quest'aria. Ma i padri, appoggiati ad altre autorità della scrittura ed ai fatti in essa 26 raccontati, ritennero che la potestà loro si esten- desse su tutta, in generale, la materia ed i corpi terrestri. Valga, per ogni altra, la testimonianza di sant'Agostino, lib. II, cap. 23, " De doctnna Christiana „: Hinc enìm fit, ut occulto quodam iudi- cio divino cupidi malarum rerum homines tradan- tur illudendi et decipiendi, prò meritis voluntatum suarum, illudentìhus eos atque decipientibus preva- ricatoribus angelis, quibus ista mundi pars infima secundum pulcherrimum ordinem rerum, divinae providentiae lege, subiecta est. Ora gli scolastici, come ognun sa, non fecero che ripetere le dot- trine teologiche dei Padri, dando loro una forma scientifica, secondo i principii e il linguaggio della filosofìa aristotelica; la quale per essi, al- meno per nove delle dieci parti, era pura e pret- ta verità. Quindi il miscuglio, che trovasi nei trattati di teologia degli scolastici, degl'incon- cussi dommi della fede colle fallaci opinioni del- lo Stagirita. Del qual miscuglio n'abbiamo un esempio in questo stesso argomento, che qui toc- chiamo. Gl-eneralmente gli scolastici dietro ad Aristo- tile pensarono che altra fosse la materia dei cieli, altra la materia, onde è fatto il mondo sul- lunare; quella fosse immutabile e incorruttibile, questa soggetta a mutamento e corruzione; pe- rocché, dicevano, quella è in potenza alla sola forma che ha, questa, al contrario, è in potenza a molte forme e diverse. Dal che san Tommaso di Aquino conchiude che fra la materia de' corpi 27 celesti e la materia degli elementi del nostro mondo non vi ha una comunanza ohe di con- certo: Non est eadem materia corporis coelestis et elementorum, nisi secundum analogiam, secun- dum quod conveniunt ratione potentiae (Summa, p. I, qusBst. LXVI, art. 2). E per questo ap- punto Dante, nel citato canto II del Paradiso, appella preziosi i corpi celesti. Ora, che cosa è, conforme queste dottrine co- smologiche degli scolastici, il subietto degli ele- menti? Il subietto degli elementi è la materia prima del mondo sullunare, subiettata ad una certa forma, prima nei corpi semplici, aria, acqua, ecc., e di poi nei corpi misti, minerali, piante, ecc. Imperocché gli scolastici per materia e su- bietto intendevano la medesima cosa colla sola differenza, la quale trascuravano ogni volta che loro non bisognasse di procedere con tutto il rigore dialettico, che il subietto ha relazione con una forma attuale, mentre la materia ha re- lazione con una forma potenziale. Ista videtur esse differentia inter materiam et subiectum (dice Alessandro d'Ales, In Metaph. Aristotelis, Vili, 13), quia materia dicit rem suam in potentia ad formam, ut transmutabilis est ad ipsam per viam motus et fieri,' et ideo quae sine fieri introducun- tur, non proprie habent materiam ex qua: subie- ctum autem dicit rem suam ex hoc, quod substentat formam; et ideo omne quod substentat formam potest vocari subiectum, licet aliquo modo possit vocari materia. 28 4. Pertanto ciò che Dante, ne' versi rife- riti, chiama il sìibietto de^ vostri elementi, corri- sponde a capello, a ciò che Aristotile, nel libro II, cap. 1, Della generazione e della corruzione, chiama, con parole affatto equivalenti, uTioxsifisvYjv \ìh]v. Nel qual luogo, se il filosofo rigetta l'opi- nione di quelli, che ponevano un unico subietto di tutti gli elementi, è però manifestissimo che la rigetta solamente in quanto quel subietto pre- tendevano essere un cotal corpo separabile e stante da sé, awjAa xe òv xat Xopiaióv. Ed invero, più sotto, divisando l'ordine delle entità, che con- corrono a costituire i corpi primi, ossia gli ele- menti, pone in primo luogo la materia, in se- condo luogo la contrarietà ed in terzo luogo gli elementi: Ma poiché i corpi primi son fatti in questo modo di materia, di essi pure conviene de- terminare qualche cosa, supponendo che una ma- teria inseparabile, ma soggetta a qualità contra- ria, sia il loro primo principio; perocché non è il calore materia del freddo, ne il freddo del ca- lore, ma ciò che sottostà ad entrambi. Laonde primieramente che il corpo sensibile esista in po- tenza, è il principio: di poi vengono le stesse qualità contrarie, come il calore e il freddo: da ultimo il fuoco e l'acqua e le altre cose di tal sorta. E questa ò la costante dottrina degli sco- lastici, e a tenore di questa vuoisi intendere quel- lo che Dante accenna del termine dell'azione perturbatrice degli spiriti perversi. Imperocché da una parte troppo è inverosimile che egli non 29 abbia parlato a tenore di tal dottrina, solendo egli esprimere nei suoi mirabili versi le dottrine filosofiche della scuola e colle stesse formole da lei celebrate: dall'altra, ritenuto che la cosa sia così, dal passo controverso esce un senso, che a pieno si accorda coli' insegnamento teologico cir- ca la presente potenza degli angeli rei. All'op- posto nelle altre due interpretazioni codesta loro potenza si limita a capriccio a farsi strumento dell'odio loro contro Dio e gli uomini la sola terra, o vuoi come elemento, o vuoi come corpo ; né si tien conto del linguaggio filosofico dell'au- tore, quanto è giusto che si faccia, poiché la pa- rola subietto, mi si conceda di ripeterlo, appar- tiene al linguaggio filosofico, e qui precisamente al linguaggio metafisico, nel qual linguaggio su- bietto non significò mai, se la memoria non mi fallisce, un ordine di più cose per la loro collo- cazione nello spazio, siccome sembra che vogliano coloro che hanno subietto de^ vostri elementi per una perifrasi di terra. Finalmente osserverò che coll'assegnare per termine all'azione degli spiriti angelici ciò che di primo si concepisce ne' corpi come corpi, non si attribuisce all'Alighieri un pensiero frivolo da sbertarsi, ma degno delle più serie considera- zioni del filosofo. Il dominio degli spiriti puri sulle cose materiali, e l'origine di certe forze, che su esse si manifestano, sono due grandi mi- steri; i quali forse si compenetrano in uno, e quest'uno è riserbato di vedere svelato, quan- 30 to all'intelligenza nostra è possibile, allorcliè i metafìsici s' intenderanno un po' più di fisica e i fisici di metafisica e tutt'e due di teologia. Pisa, 14 luglio 1861. L*Averroè della DiTina Commedia' È notissimo che Dante fra i saggi sospesi nel primo girone deW Inferno, o per non avere ri- cevuto il battesimo, o per non avere adorato Id- dio debitamente, colloca ancora Averrois, che il gran commento feo. (Inf., o. IV, V. U4). Ora l'editore pisano delle Lezioni di France- sco da Buti sulla Divina Commedia a questo verso fa la nota seguente: Averrois, sebbene commen- tasse Aristotile, professò dottrine opposite al greco filosofo; onde i commenti di lui non furono in molto credito appo degV Italiani. Qui dunque " il gran commento „ potrebb' esser anche detto con iro- nia (T. I, pag. 141). Noi non possiamo pregiare la novità di questa osservazione, perchè ci sem- bra mancare affatto di verità. E non intendiamo come il benemerito editore non si sia accorto di un difetto sì grave, quando lo stesso contesto assai chiaramente esclude il disprezzo e lo scherno dell'ironico parlare. Invero, dopo aver detto il ' DaUe Letture di famiglia, tomo III, decade seconda (G. F.). 32 nostro poet<a com'egli, guidato da Virgilio, avesse trovato in quel suo limbo Omero, Orazio, Ovi- dio e Lucano, e come tutt' insieme si fosser mossi alla volta di un nobile castello, Sette volte cerchiato d'alte mura, Difeso intorno d'un bel fiumicello, prosegue il racconto cosi: Questo passammo come terra dura: Per sette porte entrai con questi savi: Giugnemmo in prato di fresca 'verdura. Quali genti abitavano un luogo così distinto* Di cbe condizione erano e di che stima degne? Quali sentimenti suscitò la lor vista nel petto dell'Alighieri? Ecco com'egli esprime tutto ciò: Genti v'eran con occhi tardi e gravi, Di grand'autorità ne' lor sembianti, Parlavan rado con voci soavi. Traemmoci cosi dall'un de' canti In loco aperto, luminoso ed alto. Si che veder si potean tutti quanti. Colà, diritto sopra il verde smalto, Mi fur mostrati li spiriti magni, Che di vederli in me stesso n'esalto. E qui incomincia a enumerare questi spiriti ma- gni, e, fatta menzione di molti, non potendo ri- trarre a pieno di tutti, chiude la sua enumera- zione con Averrois, che il gran commento feo. Chi non vede che tutta l'orditura della narra- zione vieta di pensare che in tali parole si con- tenga un'ironia? Poteva senza dubbio il poeta notar di biasimo qualunque di quei personaggi, 33 che gli fosse parato meritarlo : e un biasimo ge- nerale per tutti è contenuto nella stessa finzione che sieno dannati a vivere eternamente senza speme in desio: ma volendo egli a questo ag- giungerne uno particolare per qualcheduno di loro, la ragione dell'arte richiedeva che ciò fa- cesse o senza veli di parlar figurato, o con veli così trasparenti, che lasciassero tosto intendere a che mirassero le sue parole. Imperocché al- trimenti la mente del lettore, quasi rapita oltre dalla corrente del contesto, non avrebbe potuto soffermarsi a considerare nulla di specialmente riprovevole in quei personaggi; anzi non ne avrebbe potuto concepire nemmeno il più leg- gero sospetto. Ora questo sarebbe stato un pec- cato contro una delle regole supreme dell'arte, la chiarezza; la quale è di tanta importanza, che dove manchi al parlare, questo non vai nulla più del tacere, e sotto un aspetto può dirsi che valga anco meno. Adunque, incontrandosi in questo passo dell' Inferno delle parole di lode per alcuno dei grandi uomini quivi nominati, non devono intendersi dette se non seriamente e col proposito di rilevare un suo merito : e però come si prende a questo modo il titolo di maestro di color che sanno, che vi è dato ad Aristotile; cosi conviene che si prenda al modo stesso il gran commento, che vi è ricordato, dell'arabo filosofo, cioè per cagione di onore e non di vituperio. E che la cosa sia cosi, si conferma ancora dal gran conto, in cui altrove l'Alighieri dimostra 34 di tenere questo filosofo. Egli ne riporta le sen- tenze a conforto delle proprie nel lib. I De Mo- narchia, e nel Tratt. IV del Convito : e là pure, dove per amore del vero, norma sovrana d'ogni suo detto, gli è forza di contraddirgli, lo fa con bella libertà di filosofo, ma lo fa insieme con tali parole, che danno a vedere com'egli, appunto perchè filosofo, sa accoppiare nell'animo suo la riprovazione dell'errore, di cui quell'arabo si era fatto maestro, alla venerazione ed alla gratitu- dine che, si era meritata, illustrando con faticoso commento, meglio che per lui si fosse potuto, le opere dello Stagirita. Infatti si osservi in qual maniera Dante ne parli nel e. XXV del Pur- gatorio. Stazio aveva preso a spiegare al nostro poeta il mistero della umana generazione, ed esposto, come, secondo lui, si formi la parte ani- male del feto, a un tratto si arresta; e per rav- vivare l'attenzione dell'Alighieri e fargli acco- gliere ciò che gli rimane a dire della formazione della parte razionale, con quell'apprezzamento, che rispondesse alla difficoltà e all'importanza della cosa, esce in queste parole: Ma come d'animai divenga fante Non vedi tu ancor: quest'è tal punto, Che più savio di te fé' già errante. ' • Francesco da Buti commenta cosi questo verso: "Che, cioè lo quale punto, più savio di te, cioè lo filosofo Averrois, o vero alcuno altro filosofo più savio di te Dante,/*' già errante, cioè fece errare „. L'editore pisano invece di Averrois pone aiictoris. Dato anche ohe cosi stia scritto nei due codici Magliabecliiano e Riccar- diano, dond'è tratta la copia, che ha servito alla pubblicazione delle 35 Si che per sua dottrina fé disgiunta Dall'anima il possibile intelletto, Perchè da lui non viddo organo assunto. Apri alla verità che viene, il petto, ecc. Si badi alla forza di quel più savio di te messo in bocca di Stazio, il quale già doveva aver posto il suo affetto nell'Alighieri e conce- pito di lui un'alta opinione, avendogli detto Vir- gilio che anch'egli professava poesia (e. XXI), e avendo visto in che onore era avuto per le sue nìwve rime da' poeti contemporanei (e. XXIV), e si parrà chiarissimo quello che noi abbiamo affermato de' sentimenti di Dante a riguardo di Averroè. E chi un poco conosce la storia della Filosofia, sa che questi sentimenti a riguardo di Averroè, come commentatore delle dottrine ari- stoteliche, non furono di Dante solo, o di po- chi; ma universali posson dirsi nella Europa uscente dalla barbarie dell'età di mezzo. Gli scrittori dei secoli XIII e XIV, come solevano, citando Aristotile, dire il filosofo, cosi solevano dire il commentatore, citando Averroè. Queste sole antonomasie comuni basterebbero a provare la rinomanza e l'autorità, di cui allora godettero ambedue questi scrittori. Lo stesso S. Tom- maso di Aquino, che torse le armi della sua po- lozioni del buon Batese, ci pare ohe si sarebbe dovuto correggere il manifestissimo errore degli antichi amanuensi: e questo vo- gliamo aver detto ancora per molti altri luoghi, dove la diligenza dell'editore, essendo scompagnata dalla critica, ci pare che dege- neri in una cotale idolatria di ciò che non ha altro pregio, che di esser stato messo sulla carta un 400 d'anni fa. 36 tente dialettica contro il domma averroistico della unicità dell'intelletto negli uomini, come contro il massimo e più pernicioso errore del suo tempo, in altre questioni allega i detti di Averroè, non escluse le questioni della più elevata Teologia. Anzi Tolomeo da Lucca afferma che da Averroè aveva appreso il S. Dottore quel nuovo e sin- goiar modo di spiegare Aristotile, che lo loda di avere adoperato a Roma sotto il pontificato di Urbano lY, che là l'aveva chiamato a que- st'uopo (MuBATORi, Ber. Ital. Script., voi. XI, col. 1153). Ben presto poi la stima e la rive- renza verso il grande commentatore in molti si mutò in una specie di superstizione : e questa superstizione durò si lungamente, che ancora nel secolo XVI troviamo che Giovan Lodovico Vi- ves lamenta che egli sia pareggiato ad Aristo- tile ed anteposto al Dottore di Aquino (De causis corrupt. artium, lib. V): e Melchior Cano attesta di più di aver conosciuto egli stesso una molti- tudine di teologi così impazzati, qui Philoso- phiam Evangeliis praeferunt, quibus Averrois Paulus est, Alexander Aphrodisaeus Petrus, Ari- stoteles Christus, Plato non divinus sed Deus (De loc. theol., lib. IX, cap. IX). Né di tali deliranti fu scarso il numero neppure nell'Italia nostra; che anzi, dice quell'illustre prelato, che i più erano Italiani, in Italia praesertim (loc. cit.). E il male era di origine tutt'altro che recente. Imperocché, vivente il Petrarca, com'esso ci fa sapere nelle lettere intorno alle cose senili, gli 37 averroisti già si erano moltiplicati tanto fra noi, che li paragona ad un formicaio : Surgiint his diebus dialectici, non ignari tantum, sed insani ; et quasi formicarum nigra acies nescio cuius cariosae quercus e lateribus erumpunt, omnia doc- trinae melioris arva vastantes (Ep. Rer. Seuil., lib. V, ep. III). E nelle lettere senza titolo ve n'ha una ad un giovane di belle speranze, cui egli ama singolarmente, nella quale, dopo averlo esortato con calde parole a coltivare la mente e l'animo: Extremum quaeso, gli dice, ut cum primum perceneris quo suspiras, quod cito fore confido, contra canem illum rahidum Averroim, qui furore actus infando contra dominum suum Christum, contra cathoUcam fidem latrat, collectis undique hlasphemiis ejus, quod ut scis jam coe- peramus, sed me ingens semper, et nunc solito major occupatio, nec minor temporis quam scien- tiae retraxit inopia, totis ingenii viribus ac ner- vis incujnbens, rem a multis magnis viris impie neglectanij opusculum unum scribas, et m,ihi illud inscribas, seu tunc vivus ero, seu interim obiero (Ep. sine titulo, ep. XVIII). Dai quali passi del Petrarca e da altri, che tralasciamo per brevità, si comprende che sin d'allora non solo si era incominciato ad apprezzar più del giusto i la- vori dell'arabo filosofo, che aveano per iscopo di facilitare l'intelligenza delle dottrine di Ari- stotile, ma di più s'era incominciato a far buon viso agli stessi errori di lui in materia di fede, o meglio già numerosi i seguaci di questi errori 38 andavano attorno per pervertire le menti, sber. tando la cristiana religione come una goffaggine da gente grossolana. Questo accadeva in Italia quando era forse più di un secolo da che vi correvano per le mani degli studiosi alcuni scritti di Averroè ; giacché ci sembra probabile la con- gettura del signor Renan, ' che alcuni scritti di Averroè insieme con altri di i^ristotile, voltati gli uni e gli altri in latino da Michele Scoto, si contenessero in quel pacco filosofico, che Pier delle Vigne mandò alle Università Italiane, d'or- dine di Federigo II, nella prima metà del XIII secolo (Vedasi, nel lib. Ili delle Epistole di Pier delle Vigne, i'epist. LXTX). Il dono di questo strano principe di casa Svevia fu accolto con grato animo ; l'aristotelismo e dietro a lui l'aver- roismo presto s' insignorirono delle nostre scuole: a Napoli, a Bologna, a Ferrara, e massimamente a Padova, i commenti d'Averroè sul testo di Aristotile presto divennero come il testo di al- tri commenti, che talora mettevano a pericoloso contrasto la ragione e la fede degli affollati udi- tori. Che maraviglia che coll'andar del tempo in molti la fede soccombesse, e la ragione si mettesse poi a cercare fuor di loro delle nuove vittorie? E che maraviglia che i guasti, che me- nava l'averroismo, si accrescessero tanto, che la ' Averroes etl'Averro'isme: essai Mstorique, pag. 161, 165. Nello scrivere questa pagina di storia noi ci siamo giovati principal- mente di questa ricca raccolta di notizie sn Avorroè e l'aver- roismo. 39 Chiesa ne fosse commossa, e a cessarli soleime- merxte da ultimo li condannasse in un concilio ecumenico, come fece sul principio del pontifi- cato di Leone X? Mal si appone dunque l'edi- tore pisano anche allora che assevera i com- menti di Averroè non essere stati in molto cre- dito appo degl'Italiani. Egli poi dà per ragione di questo fatto im- maginario l'avere Averroè professato dottrine op- posite a quelle di Aristotile, sebbene desse vista di non far altro che l'espositore di esse. Il fatto vero, giusta quello che abbiamo esposto di so- pra, è che fra gl'Italiani ci furono pure gli assennati, che non trasmodarono nel pregiare Averroè, e che si studiarono di vantaggiare il loro sapere coi lavori di lui, prendendone quel che credevano buono e rifiutandone quel che credevano cattivo. Ora con che criterio face- vano essi questa cerna? Era la relazione di conformità o di difformità dei detti di Averroè rispetto a quelli di Aristotile, che acquietava la loro ragione in questi giudizj? Certo eglino ve- neravano grandemente Aristotile e per poco lo tenevano per la voce della stessa Filosofia. Quindi, nel combattere le dottrine averroistiche, s'inge- gnavano di mostrare che erano sovversive delle dottrine aristoteliche, si ccomepuò vedersi nel- l'opuscolo XVI (XXV) di San Tommaso di Aqui- no, De unitate intellectus cantra Averrhoistas, dove per primo il Santo dottore si fa a provare posi- tionem praedictam (de unitate intellectusj emft 40 ( Arisfcotelis) verbis et sententiae repugnare omnino. Ma: 1", Aristotile poteva essere interpetrato di- versamente, e infatti diversamente lo interpe- travano gli avversarli, i quali avevano pure la pretensione di esser dalla sua; 2°, l'autorità di Aristotile ad ogni modo non era un principio atto a finire il piato, perchè egli poteva essersi ingannato sul punto in questione, come si rico- nosceva e confessava che si fosse ingannato su certi altri. Il piato non poteva esser finito che o per rationes, o per documenta /idei, secondo che la cosa era discussa o sul terreno della Fi- losofia 0 su quello della Teologia. E cosi in- fatti adopera l'Aquinate nell'opuscolo ricordato ; che, dopo avere opposto agli Averroisti varie sentenze dello Stagirita e dei suoi seguaci si greci come arabi, avverte di aver tenuto questa via, 7ion quasi volentes ex philosophorum aucto- ritatibus reprobare supra positum errorem, sed ut ostendamus quod non solum latini, quorum verba quibusdam non sapiunt (ecco i fanatici delle dot- trine aristoteliche manipolate dagli Arabi), sed et graeci et arabes hoc senserunt, quod intellectus sit pars, vel potentia, sive virtus animae, quae est corporis forma. Ma, pervenuto a questo pun- to del suo esame, tutt'altro egli pensa che di averlo compito : egli scrive presso a poco altret- tante pagine ancora, investigando per rationes quid circa hoc sentire sit necesse, e con questa investigazione, nella quale spiega tutta la po- tenza della sua mente, pon termine all'opuscolo. 41 La ragione principale adunque di resistere al- l'autorità di Averroè, in coloro che non lo se- guitavano alla cieca, ma prima di seguitarlo vo- lean sapere, e con ragione, dove li conducesse, non era l'opposizione dei suoi insegnamenti agli insegnamenti di Aristotile, sì la loro opposizione 0 ai principj razionali o ai dommi rivelati. Finalmente l'editore pisano pronunzia, ci pare, troppo recisamente sulla relazione fra la filosofia aristotelica e l'averroistica. Aristotile, come si sa, nel oap. V del lib. Ili DelVanima, distin- crue due intelletti : l' uno che si fa tutte le cose, l'altro che fa tutte le cose. Questa dot- trina è stata interpe irata in differenti manie- re. Alessandro di Afrodisia ha detto che l'in- telletto che fa tutte le cose, o agente, è Dio; e cosi nelle sue mani la dottrina di Aristotile sulla umana cognizione s'identifica in sostanza con quella del nostro Vico. È chiaro che, se- condo questa dottrina, l' intelletto agente è uno solo per tutti gli uomini, anzi per tutti gl'in- telligenti. Averroè invece sostiene l'unità del- l'intelletto, che si fa tutte le cose, o possibile, o anche passivo. Ma queste due espressioni, che i commentatori prendono come sinonime, po- trebbero esser prese anche per eteronime. Im- perocché veramente in questo famoso capitolo da prima s'incontra l'intelletto possibile, prima generalmente indicato colle parole : touto 5è ó ;ràvTa O'jvocjas'. èxetva, e di poi specialmente colle parole : voO? xw xàvia ytveaS-a'., e l' intelletto agente 42 del pari prima colle parole étepov oè xò al'T'.ov xaì 7io:Y]Ttxòv, xò) Ttcerv Tcàvxa, ecc., e di poi colle parole : ó Ss xw Travxa 7ro',£tv, o)? e ^i? xt,?, ecc. E dopo avere toccate le nobili proprietà di que- st'ultimo, fra le quali, che è libero d'ogni pas- sione, nomina sulla fine del capitolo un intelletto paziente, clie, a differenza àoiVagente, dice che perisce e non intende che per esso : ó 5é uatì-yjx'.xòc voùS cpQ-apxo?, xat (2v£'j xoOxou o\ì%'h voti. Ora, pren- dendo l'intelletto paziente per una cosa distinta dall'intelletto possibile, siccome fa il Rosmini (Y. Aristotile esposto ed esaminato^ pag. 616 e segg.), di guisa che per il primo s'intenda un oggetto indeterminato del pensiero, in quanto è determinabile in tutti i possibili modi; e perii secondo il soggetto stesso pensante questi vari modi della sua determinazione (in quanto lo pensa senza tali modi e nella sua semplicità, se- condo questa interpetrazione, sarebbe esso stesso l'intelletto agente, almeno in senso soggettivo); l'affermare uno l'intelletto paziente sarebbe con- tro la mente d'Aristotile e contro la verità, ma non punto l'affermare uno l' intelletto possibile. Noi non pretendiamo sostenere, che l'arabo com- mentatore abbia analizzato ed inteso precisa- mente in questo modo il testo aristotelico; ma, sapendo che l'errore suol nascere da una imper- fetta veduta della verità, che lascia luogo ad una esagerazione o nell'affermare o nel negare, opiniamo ohe ad Averroè, meditando sulle pa- role di Aristotile, qualche raggio risplendesse di 43 quella verità, cou cui tende ad accordare le pa- role di Aristotile l'accennata interpetrazione del Rosmini : quindi la famosa tesi della unità del- l' intelletto e l'ostinazione in mantenerla. E ci sia permesso di aggiungere ancora che, se le di- sputazioni de' buoni scolastici poco profittarono agli Averroisti, crediamo di non andare errati riputandolo pure all' imperfetta analisi, che quelli facevano del fatto dell'umana conoscenza. Con- cedevano agli averroisti che est unum quod in- telligitur a me et a te, l'essenza o quiddità delle cose; ma s'affrettavano ad aggiungere sed alio intelligitur a me, et alio a te, idest alia specie intelligibili (San Tommaso di Aquino, opusc. cit.). Or questa specie intelligibile che era? Nient'al- tro che una finzione della mente non pervenuta ancora a sciogliere il fatto della cognizione uma- na nei suoi veri elementi, una bastarda entità in parte subiettiva e in parte obiettiva ; ' peroc- ché specie intelligibile non vuol dire per loro ne l'essenza intesa puramente, né puramente Vatto d'intenderla, ma un che di mezzo, che parteci- passe d'ambedue, cioè l'essenza intesa unita al- l'atto d'intenderla, o questo unito a quella. In tal modo, tenendo unito quello che dall'analisi ' Per esempio in quanto era obiettiva predicavano di lei l'ìini- versalltà, e in quanto era subiettiva l'essere dell'accidente ; e cosi si trovavano costretti a dire che i'universale non è che un acci- dente dell'anima, od altro simili cose, che dimostrano quanto sia facile anche a' migliori pensatori lo scambiare l'elovarsi sopra il senso comune, studio del filnsofù, coli' opporsi al senso comune, arte del sofista. 44 doveva esser diviso, impedivano a sé stessi la piena e chiara vista del vero, e agli avversari lasciavano sempre in mano qualche arma per tornare all'assalto. Ma di questo ora a bastanza, E tornando al primo proposito concludiamo og- gimai, poiché ci sembra di poterlo fare, l'Aver- roè della Divina Commedia essere un personag- gio onorando per i grandi servigi da lui renduti alla Filosofia, commentando le opere del maestro di color che sanno, sebbene anch'egli abbia er- rato in qualche passo più difficile della scienza. E poi concludiamo ancora, senza disprezzare le fatiche di nessuno, neppur quelle che altro per avventura non mostrassero che buon volere, l'uf- ficio d'illustrare la Divina Commedia essere uno dei più difficili dell'uomo di lettere, perchè non v'ha forse altro libro, che per essere debitamente illustrato richieda maggior suppellettile di sva- riate cognizioni ed uso di critica insieme sa- gace e temperante. Pisa, 18 agosto 1861. Alcune osservazioni sulla Fortuna di Dante' 1. La personificazione, che Dante fa della For- tuna nel canto VII àoiìVInferno, è uno dei be' passi di questa Cantica, nei quali più debba es- sere ammirato il nostro grande poeta. Gli ele- menti di questa personificazione son tratti da lui in parte dalla religione, in parte dalla sto- ria e in parte dalla cosmologia ; ma gli elementi religiosi principalmente, non difettosi come gli storici, né falsi come i cosmologici, di cui si servi, danno pregio all'opera della sua immaginativa. Quanta differenza tra la Fortuna della mitologia greca e romana, e la Fortuna della Divina Com- media ! Quella, come dice Pacuvio presso l'Au- tore de' Retorici ad Erennio, lib. II, . . . tnsanam esse et caecam et hrutam perJiibent philosophi, Saxoque illam instare globoso praedicant volubilem; Ideo quo sajMin hnpulerit sors, cadere eo fortunam autamant. Caecam ob eam rem esse iterant, quia nihil cernat quo sese ap- plicet : ' Dall'Araldo cattolico, Lucca, 1862, anno XIX, nuova serie, n."ll (G. P.). 46 Insanam autem ajunt, quia alrox, incerta, instabilisque sit: Brutam, quia dignum atquc indigntim neqneat internoscere. La Fortuna dell'Alighieri all'opposto è una di quelle nobilissime sussistenze, in cui Dio per sua bontà adunò il suo raggiare quasi come in i specchio (Farad., e. XIII) ; è uno di quegli elet- ti amori , in cui piacque all' eterno Amore di aprirsi, e ne fece la cima del mondo, non avendo prodotto in essi che puro atto (Ih., e. XXIX); insomma è un angelo, che, secondo una legge datagli dalla sapienza divina, presiede ai beni caduchi della terra, e li concede, li ritoglie, li permuta di uomo in uomo, di famiglia in fami- glia, di popolo in popolo. Ma udiamo dalla boc- ca stessa dell'Alighieri chi sia e a qual ufficio destinata la Fortuna: Colui, Io cui sajDer tutto trascende, Fece li cieli e die lor chi conduce, Si ch'ogni parte ad ogni parte splende, Distribuendo igualmente la luce: Similemente al li spender mondani Ordinò general ministra e duce, Che permutasse a tempo li ben vani Di gente in gente, e d'uno in altro sangue, Oltre la difension de' senni umani. Perchè una gente impera e l'altra langue Seguendo lo judicio di costei. Che v'è occulto, come in erba l'angue. Vostro saver non ha contrasto a lei: Questa provvede, giudica e persegue Suo regno, come il loro li altri dei. Le sue permutazion non hanno triegue: Necessità la fa esser veloce. Si spesso vien che vicenda consegue. Questa è colei che tanto è posta in croce 47 Pur da color, che le dovrian dar lode, Dandole biasiuo a torto e inaia voce. Ma olla s'è beata e ciò non ode : Con l'altre prime creature lieta Volge sua spera e beata si gode. Questo contrapposto fra l'arrabattarsi e lo schiamazzare degli uomini contro la Fortuna, per solito tanto più scontenti quanto più favoriti, e l' impertubabil quiete, onde ella lascia che sfo- ghino le insane loro ire, e Con l'altre prime creature lieta Volge sua spera e beata si gode; è come una cotal moralità della favola, che la compie in modo inaspettato : e i be' versi, che l'esprimono, sono con altri pochi di questa Can- tica un'anticipazione, per dir cosi, di quel nuovo modo di poesia tutta gentile e soave, che l'Ali- ghieri riserbava all'altre due Cantiche: ingegno ammirabile anche per questo magistero di va- riare lingua e armonia secondo la varietà da' subietti. Se non che non è nostro intendimento di fare una disamina estetica di questo luogo àeìV Inferno; ma solo di provarci a renderne i sensi più chiari ed aperti, e a farne precipua- mente rilevare il pregio, considerandolo in or- dine alla Filosofia della Storia. Ripigliamo adun- que da capo la riferita descrizione, e a parte a parte illustriamola, come per noi meglio si possa. 2, Colui, lo cui saper tutto trascende. È manifesto che qui si vuole indicare per perifrasi Iddio. Ma perchè si dice che il suo 48 saper tutto trascende? Quando si è detto che Dio sa tutto, che altro resta da aggiungere per esprimer l'ampiezza della scienza divina? Se fuor di tutto non c'è nulla, e solo il qualche cosa può esser oggetto del sapere, il dire che il sa- per di Dio trascende tutto, non equivale a dire che la scienza divina abbraccia quel che è pos- sibile e quel che è impossibile sapere? Questa scempiaggine non si può attribuire a Dante: dunque bisogna dare al tutto un altro significato non assoluto, ma relativo, sicché non importi se non il complesso di tutte quelle cose, che hanno una reale esistenza nell'universo. Allora la sentenza di questo verso non è una scem- piaggine, ma una verità teologica e filosofica : ed è il medesimo che dire, che Dio conosce, non solamente tutte quelle cose, che hanno una esi- stenza reale, ma eziandio tutte quelle che hanno semplicemente un'esistenza ideale o possibile. E la sentenza stessa, che esprime la Bibbia con potente immagine quando dice di Dio, ch'ei chia- ma del pari le cose che sono e le cose che non sono. Ne la parola tutto nell'accennato senso è punto una novità. Anche nel Timeo di Platone Toù Traviò? cpùa'-? è la natura del mondo, mostrata dal Demiurgo alle anime seminali messe negli astri (Timeo, p. 41, E.). E Lucrezio attribuisce ad Epicuro la gloria di a\er perlustrato colla mente e coll'animo om,ne immensum, intendendo cosi significar l'università delle cose (De Rerum Natura, lib. I). 49 3. Fece li cieli e die lor chi conduce. Si allude qui alla simultanea creazione dei cieli e degli angeli, insegnata dalla scuola tomistica, a cui il poeta nostro suole aderire, sul fonda- mento e della Scrittura, clie dice Dio aver creato tutte cose insieme, e della ragione, la quale con- siderando che Nulla pars perfecta est a suo toto separata, e che Angeli sunt qiiaedam pars uni- versi, ne conohiude, che Non est probabile ut Deus, cujus per feda sunt opera, ut dicitur Deu- teron. XXXII, creaturam angelicam seorsiim ante alias creaturas creaverit (S. P. I. quaest. LXI, art. III). La quale argomentazione è sott'al- tra forma riprodotta da Dante nel e. XXIX del Paradiso, considerando cioè i cieli come capaci di moto passivo e gli angeli come capaci di moto attivo. Perocché questi cieli capaci di moto passivo, e questi angeli, capaci di moto attivo, sono pur parti di un tutto ; di quel tutto, cioè, in cui il moto esiste in atto, e dove perciò tro- vano gli uni e gli altri la loro rispettiva per- fezione. Né è inopportuno forse por mente an- cora a questo, che la frase chi conduce è atta per sé a significare, tanto una singolare intelli- genza motrice solamente, quanto tutte le intel- ligenze motrici in generale ; che il contesto, se- condo che a noi pare, non contiene nulla, che tolga la libertà di prenderla o nella prima o nella seconda significazione, e forse nemmeno il complesso delle dottrine teologiche sparse dal- 50 FA-lighieri nelle diverse sue opere. Prendendola poi nella prima significazione, chi conduce li cieli sarebbe una intelligenza creata, siccome tutte le altre intelligenze motrici dei cieli, ma suprema nella loro gerarciiia ; la quale colla sua virtù im- mediatamente moverebbe il primo cielo, e me- diatamente, cioè per mezzo delle intelligenze mo- trici ad essa subordinate, gli altri cieli inferiori. 4. Si, ch'ogni parte ad ogni parte splende Distribuendo igualmente la luce. Noi abbiamo per certissimo che questi due versi non siano altro che una maniera artificiosa di rappresentare il movimento circolare de' cieli, com'è una maniera artificiosa di rappresentare il movimento di un uomo, che va per un piano ascendente, quel famoso verso del canto I del- V Inferno : Sì, che il pie fermo sempre era il più basso. Che i cieli si muovano circolarmente nel si- stema astronomico, seguitato da Dante, è fuor di questione. Quello che può essere in questione si è, se un tal moto in questi versi si esprima o no. Per risolverla dunque due cose sono da con- siderare: 1°, il valore delle particella sì che, e 2", il valor delle parole ohe vengono dopo: ogìii parte ad ogni parte splende, Distribuendo igual- m,ente la luce. Quanto al Sì che dico, che queste particelle connettono talmente le parole seguenti colle an- tecedenti, che queste, esprimendo una causa di 61 moto (chi conduce), quelle devono esprimere l'ef- fetto di essa causa, cioè il moto con certa qua- lità che lo specifichi. Quanto poi bìV ogni parte ad ogni parte splende, Distribuendo igualmente la luce, dico, che specifica appunto il moto pro- dotto ne' cieli dalle intelligenze separate; e che importa che questo moto sia circolare e non al- tro. Hanno visto ciò quegl'interpreti, i quali hanno inteso che ogni parte del cielo splenda ad ogni parte della terra, per la rivoluzione che tutti i cieli compiono continuamente intorno alla terra, come a lor centro; ma hanno sbagliato, in quanto che non v'è sistema astronomico, in cui ogni parte del cielo splenda, o sia visibile, ad ogni parte della terra. Bisogna dunque riferire tutte e due le volte la parola parte ai cieli, ed intendere che gli angeli li muovano si fatta- mente, che ogni lor parte risplenda ad ogni lor parte. Distribuendo igualmente la luce. Ora, af- finchè questo si avveri, è necessario che i cieli si muovano circolarmente. Imperocché fa d'uopo rammentare che, secondo i concetti astronomici del nostro Poeta, il solo cielo empireo è tutto luce (Farad., e. XXVIII) : gli altri ad esso infe- riori non cosi, ma più o meno rifulgono, secondo che sono più o meno vicini all'empireo (Farad., eie XXVIII). E in che consiste il loro splen- dore? In quello dell'astro o degli astri, che loro appartengono, e donde prendono il nome. Af- finchè dunque ogni parte di ogni cielo splenda, bisogna che il corpo, o i corpi lucenti di ciascun 52 cielo si muovano, occupando successivamente tut- te le parti di esso ; ed affinchè ogni parte di ogni cielo splenda ad ogni parte di ogni cielo, bisogna che i detti corpi si muovano circolarmente, per- chè, soltanto data in loro questa specie di mo- vimento, è possibile si continuino a illuminare vicendevolmente tutte le parti di tutti i cieli. La quale spiegazione è confermata dall' ultimo verso di questo passo : Volge sua spera e beata si gode y,; quasi dica: la Fortuna, non ostante tutti i clamori e i corrucci dei mortali, prosegue a rotare la sua sfera^ come fanno rotare la loro le altre prime creature. E cosi di fatto intende Francesco da Buti questo passo, come vedremo più sotto. 5. Similemente alli splendor mondani Ordinò general ministra e duce, Che permutasse a tempo li ben vani Di gente in gente, e d'uno in altro sangue, Oltre la difension de' senni umani, ecc. Ci pare indubitabile, che quello che il poeta dice della Fortuna nell'apodosi della compara- zione, cioè del permutare cKella fa a tempo li ben vani di gente in gente, e d^uno in altro san- gue, si debba intendere giusta la protasi della comparazione stessa. Quindi, siccome nella pro- tasi è detto che Dio ha preposto un'intelligenza motrice, o delle intelligenze motrici, a tutti i cieli, colla legge di muoverli perpetuamente in circolo; cosi nell'apodosi deve intendersi che si- milmente egli abbia dato in potere di una in- 53 telligenza i vani beni di quaggiù siffattamente, che distribuendoli fra le genti debba far loro percorrere un circolo perpetuo; cioè, da prima farle più e più progredire nell'acquisto di quei beni, finche arrivino al culmine della terrena prosperità^ e poi dar volta, e di infortunio in infortunio ritornare alla primitiva miseria e squallore, e così sempre. Se il poeta avesse vo- luto esprimer soltanto, che il possesso e il go- dimento dei beni mondani non fu lasciato da Dio in balia del caso, ma che lo regola un eterno consiglio della sua sapienza, non vi era ragione nessuna di mettere nella prò tasi quel Si, ch'ogni parte ad ogni parte splende, Distribuendo igualmente la luce; cioè di esprimervi la qualità del moto cagionato nelle sfere celesti dai celesti motori; ma sarebbe bastato il dirvi, che il moto di quelle dipendeva dalla virtù di questi. Ora, essendovi espressa la qualità del moto, ed espressa con una forma non comune di parlare, che non può non suscitare grande attenzione, o bisogna dire che ciò non ostante è questa una parte nel discorso di Dante priva d'importanza, lo che varrebbe quanto dire che qui l'arte gli fece difetto, o bisogna dire che qualche cosa vi deve corrispondere nell'apodosi, o espressa o sottintesa, e questa non può esse- re altra dall'accennato periodico fiorire e deca- dere delle genti. Francesco da Buti, commen- tando l'ultimo verso di questa personificazione, 54 consente a pieno con noi. Ecco le sue parole: " Alla Fortuna figurativamente li poeti diedero la rivoluzione della ruota, a dimostrare come si mutano circularmente (li mondani beni), come si può vedere in un uomo alcuna volta e tal- volta più. Ma nelle città e nelle provincie ma- nifestamente si vede questa rivoluzione; impe- rocché quando le provincie sono venute, per le mutazioni della fortuna, in povertà, diventano umili, l'umiltà dona pazienza, la pazienza dona pace, la pace ricchezza, la ricchezza superbia, la superbia impazienzia, la inipazienzia guerra, la guerra povertà, e la povertà poi umiltà, e così si va in circulo „ (T. I, pag. 214). Se non che quello che noi teniamo essersi voluto significare da Dante, non ci sembra essersi voluto altresì significare dagli antichi poeti, come pensa Fran- cesco da Buti, colla finzione della ruota data da essi a rivolgere alla loro Fortuna. Perocché, se ben si guarda a ciò che dicono di questa Dea Virgilio (Eneid., lib. XI), ' Orazio (Odi, lib. I, od. 34 e 35, e lib. Ili, od. 29.), Ovidio (Trist, lib. V, eleg. 9), * Seneca (Tieste, v. 694^ e segg.), e gli altri, non vi troviamo l'intenzione d'espri- mere altra idea fuor di quella della instabilità de' suoi amori e de' suoi odi. ^ Onde noi, non » Aggiungi : V. 43 e v. 108 (Q. F.). 2 Correggi: elegia Vili, e aggiungi: vv. 15-18 (G. F.). 3 Correggi: 596 (G. F.). ♦ Il Tommaseo noi suo bel Commonto riporta questo passo di S. Agostino: "Quelle cause che dioonsi fortuite, non lo diciamo nulle, ma latenti, o le recliiam.o alla volontà o del vero Dio o 55 de' costoro versi, ma solo di quelli di Dante di- remo (ed è, se non c'inganniamo, una nuova e non piccola lode da aggiungersi alle tante altre del nostro Poeta), che contengono il germe della dottrina dei ricorsi delle cose umane, che cam- peggia in tutta la Scienza Nuova del Vico, e ne forma il carattere più luminoso. 6. Si mise il grande nostro pensatore a me- ditare sulle storie, che potè avere alla mano: confrontandole, trovò e raccolse molti elementi somiglianti, e di essi tentò costruire una storia ideale eterna dell'umanità. Ora, secondo tale sto- ria, egli credette che l'umanità si muova mai sempre in circolo, sicché mai sempre ritornino sulla scena del mondo i medesimi casi, sebbene in sembianze diverse. Ma rapito in ammirazio- ne alla vista di tanta similitudine di leggi, d'i- sfcituti, di fatti, distanti per secoli gli uni dagli altri, non fece materia di studio le differenze, che corron tra loro; e cosi gli sfuggi di mano una parte del vero, che cercava con si lungo studio ed amore sì grande. Rammentata la fondazione de' regni cristiani, e le guerre guerreggiate da essi per causa di religione, col riscontro di fatti simili delle storie antiche dei Gentili, " È ma- d'altro spirito „ De Civ. Dei, lib. V. Le quali ultime parole di- inoatrano, cosi il Tommaseo, come l'idea del commettere ad uno spirito il ministero de' beni mondani, non sia capriccio del Poeta, ma abVjia fondamento in religiose tradizioni ; o come la sfera, che volge la fortuna ilantesca, non sia già la volubile ruota della dea favolosa, ma voramonto una sfora di lume celestiale." A pag. 109, ed. di Milano del 1856. 56 raviglioso „ , esclama egli nel V libro della Se- conda S. N., "è meraviglioso il ricorso di tali cose umane civili de' tempi barbari ritornati „. Quindi, proseguendo a svolgere il suo pensiero, dice : " Ohe come gli antichi araldi nell'intimare le guerre, essi evocabant Deos dalle città .... onde credevano che le genti vinte rimanessero senza Dei, cosi i barbari ultimi nel prendere delle città non ad altro principalmente attendevano, ch'a spiare, trovare e portar via dalle città prese, fa- mosi depositi o reliquie di santi; ond'è che i po- poli in que' tempi erano diligentissimi in sot- terrarle e nasconderle Di più, perchè fin dal 400 cominciando ad allagare l'Europa, ed anco l'Africa e l'Asia, tante barbare nazioni, e i po- poli vincitori non sint'endendo co' vinti; dalla barbarie de' nemici della cattolica religione av- venne, che di quei tempi ferrei non si trova scrittura in lingua volgare propria di quelli tem- pi, o italiana, o francese, o spagnuola, o anco tedesca, e tra tutte le nazioni anzidette non si trovano scritture che 'n latino barbaro, della qual lingua s'intendevano pochissimi nobili, che erano ecclesiastici; onde resta da immaginare che in tutti que' secoli infelici le nazioni fos- rero ritornate a parlare una lingua muta tra loro. Per la quale scarsezza di volgari lettere dovette ritornar dappertutto la scrittura geroglifica del- l'imprese gentilizie, le quali per accertare i do- mini, come sopra si è ragionato, significassero di- ritti signorili sopra, per lo più, case, sepolcri, 57 campi ed armenti. Ritornarono certe spezie di giudizi divini, che furono detti purgazioni cano- niche, de' quali giudizi una specie abbiamo so- pra dimostrato ai tempi barbari primi essere stati i duelli, i quali però non furono conosciuti dai sacri Canoni. Ritornarono i ladronecci eroi- ci, de' quali vedemmo sopra che, come gli eroi s'avevano recato ad onore d'essere chiamati la- droni, cosi titolo di signoria fu quello pur di corsali. Ritornarono le ripresaglie eroiche, le quali sopra osservammo aver durato fino a' tempi di Bartolo. E perchè le guerre dei tempi bar- bari ultimi furono, come quelle de' primi, tutte di religione, quali teste abbiam veduto, ritorna- rono le schiavitù eroiche, che durarono molto tempo tra esse nazioni cristiane medesime; per- chè, costumandosi in que' tempi i duelli, i vin- citori credevano che i vinti non avessero Dio, come sopra, ove ragionammo de' duelli, s'è detto, e si li tenevano niente meno che bestie . . . Ma sopratutto maraviglioso è '1 ricorso cbe 'n que- sta parte fecero le cose umane, che in tali tempi ferini ricominciarono ì primi asili del mondo an- tico, dentro i quali udimmo da Livio essersi fon- date tutte le prime città. Perchè scorrendo dap- pertutto le violenze, le rapine, l'uccisioni, per la somma ferocia e fierezza di que' secoli barba- rissimi, né, come si è detto nelle Degnità, es- sendovi altro mezzo efficace di ritener in freno gli uomini prosciolti da tutte le leggi umane che le divine dettate dalla religione, naturai- mente per timore d'esser oppressi e spenti, gli uomini come in tanta barbarie più mansueti, essi si portavano da' vescovi e dagli abati di quei secoli violenti, e ponevano se, le loro famiglie e i loro patrimoni sotto la protezione di quelli, e da quelli vi erano ricevuti; le quali sugge- zione e protezione sono i principali costitutivi dei feudi „. Quindi appresso passa il Vico ad altri confronti, e colla fiducia nell'animo di aver posto nelle mani del lettore la chiave per in- tendere tutta la storia, conchiude l'opera con al- cune belle considerazioni sulla Provvidenza, co- me suprema e sapientissima moderatrice del mondo umano. 7. Noi invece dicemmo che una parte del vero che cercava gli sfuggì di mano, e che que- sto gli avvenne per aver trascurato l'esame delle differenze, che accompagnano i ricorsi delle umane cose. Si noti bene però, che altro è trascurare d'osservare e investigare le ragioni di una cosa, altro è negarla. Il Vico non negò nulla : il Vico vide quelle differenze con uno sguardo sintetico e confuso, come tra gli altri luoghi lo dimostra la fine del lib. V, e se ne contentò. Avrebbe dovuto analizzarle, riconoscerle distintamente, indagare le ragioni del loro continuo soprav- venire alle cose umane che ritornano, stabilire almeno una formola, che esprimesse quel che c'è di costante e caratteristico nel continuo variare della relazione tra gli elementi simili e gli ele- menti diversi nelle umane cose: il non averlo 59 fatto è il solo suo peccato, peccato ben perdo- nabile, chi ripensi quanto, per la naturale limita- zione della nostra intelligenza, sia facile arre- stare l'attenzione a un lato delle cose, quasi che esse non ne avessero altri, e consumare, in deli- ziandosi di quello, il tempo e la forza, che avreb- be dovuto usarsi a considerare anche gli altri, per- chè tutta la verità loro si manifestasse. È per questo che la storia di tutte le discipline ci pre- senta press'a poco un medesimo andamento: pri- ma si scopre una parte di vero, e poi un'altra ed un'altra finche qualche ingegno più fortunato compia la scoperta delle parti e ne faccia quel- la sintesi, che sola può soddisfare all'esigenze della ragione. Il peggio si è quando la parte di vero, che si conosce, si pretende che sia tutto il vero, come pur troppo spesso interviene, sicché le altre parti del vero stesso rimangano non solo ignorate, ma pur anco negate: che allora all'al- tre cause, che posson ritardare il progresso della scienza, s'aggiunge l'errore, potentissima di tutte, e la scienza, nel travaglio di superar questo osta- colo corre il pericolo di perder non solo anni, ma secoli. Questo non fece il Vico nel costruire la Scienza JSuova : egli, come abbiam detto, non negò cosa alcuna : ond'è che la dottrina de' ri- corsi è più presto da dirsi difettosa che falsa. Le quali parole, se contengono una censura, con- tengono anche una lode di chi l'ebbe il primo esposta e raccomandata allo studio dei sapienti. 8. Non può dirsi lo stesso della dottrina con- trarla del Condorcet e degli altri, i quali han- no sognato che il genere umano progredisca di continuo di bene in meglio, di guisa tale che il suo movimento possa simboleggiarsi colla li- nea retta. In questo sistema non manca sem- plicemente quella parte di vero, che risplendette alla mente di Dante e del Vico ; ma questa parte di vero vi è negata, essendovi negato che nel movimento del genere umano ai progressi si av- vicendino i regressi, lo che importa essenzial- mente la dottrina dei ricorsi. E bisogna essere acciecati davvero dall'amor di sistema per non riconoscere per esempio, che la ignoranza e la ruvidezza dei secoli di mezzo segna un deplora- bil regresso nella storia. Siano stati pure quei secoli nel tempo stesso una lenta e segreta pre- parazione di uno stato dell'umanità ben diverso, qual'è quello che noi vediamo oggi fiorire e frut- tificare in modo maraviglioso ; ma i fatti ante- cedenti non vanno confusi coi susseguenti, qua- lunque sia la loro relazione, e la ignoranza e la rozzezza non saranno mai e poi mai gentilezza e sapere. Dal che si raccoglie che la scienza della storia, se non vuol fallire al suo ufficio, non può negare ne il progresso né il regresso: ella deve ammetterli tutti e due nel movimento del genere umano ; né basta che ve li ammetta come fa il Vico, secondo il quale sembra che questo movimento s'assomigli a quello de' pia- neti intorno al sole, che corsero e correranno sempre per la stessa ellissi, finché durerà la pre- 61 sente figura del mondo. Imperocché è un fatto dallo stesso Vico confessato, comeccliè non se ne giovi, che, ragguagliando due epoche di civiltà, la civiltà anteriore, per es., e la civiltà posteriore al medio evo, la posteriore si trova men lontana dell'anteriore dall'ideale della civiltà. Onde più appropriato simbolo e più vero del movimento del genere umano è quello proposto dal Fichte, il quale stima che il genere umano si muova come per una spirale ; sicché ad un tempo si avveri, e che nulla avvenga mai di nuovo sotto il sole, e che le cose non si riproducano mai le medesime in tutto, come va persuaso il senso comune degli uomini. (V. Destino del i^ uomo ^ Ca- ratteri del secolo presente, e Lezioni sulla Poli- tica di questo scrittore). " Tuttavia il principio del Filosofo Tedesco (osserva, a noi pare, molto giustamente il Ro- smini) rimane ancor troppo poco determinato; convien diffinire di che spirale si parli, e per qual direzione la società umana in essa si muo- va „. E soggiunge: "La mia opinione adunque si é, che l'umana società, sostenuta dal cristia- nesimo, si muova, quanto agli sviluppi intellet- tuali e agli ordini sociali, per una spirale, le cui rivoluzioni sempre più si allarghino, di maniera che il suo movimento cominci vicino al centro e si continui in ispire del continuo maggiori, senza potersi assegnare al loro ampliamento al- cun limite necessario. Con qual legge poi le spire vengano così amplificandosi, ecco una gran- 62 de questione per la storia dell'umanità „ (FU. della Polii., pag. 437), Ci si perdonino queste molte parole; ci si perdonino in grazia dei nomi cari e venerati ad ogni Italiano, che esse rammentano, e dello scopo principale, che esse hanno, di richiamare l'atten- zione de' dotti sopra un nuovo titolo di gloria, che ci pare di avere scoperto nell'Autore della Divina Commedia; che e di avere, cristianeg- giando la Fortuna della Mitologia, preluso alla Scienza l\'uova del Vico. Sopra un luogo del canto XXIY del Paradiso^ I due grandi uomini, com'è noto, che nei tempi moderni principiarono a filosofare sulla storia, sono il Vico e il Bossuet. E sebbene il secondo sia meno erudito del primo, ciò non ostante lo vince per la elevatezza del punto di vista, donde ha preso a ricercare la connessione de' fatti, e può dirsi che sia stato il primo a dimostrare nella loro congerie, simile in appa- renza al caos della greca e romana mitologia, un'altissima unità, che ne fa un tutto di stu- penda armonia e magnificenza. E diciamo a dimostrare e non a scorgere; perocché questa unità era additata nelle sante Scritture, e mi- gliaia e migliaia di menti vi avevano fissato sopra i loro sguardi, migliaia e migliaia di boc- che l'avevano ripetuta nel mondo cristiano. Se non che pochi avevano veduto, distintamente almeno, l'uso che se ne potea fare per dar forma 1 TfeiW Araldo cattolico, 1862, an. XIX, n\ 43 e 46 (G. F.). 64 di sistema alla storia del genere umano e nes- suno poi, non eccettuato il sommo Agostino, quantunque avesse considerato nella Città di Dio i fatti umani in un modo sostanzialmente iden- tico a quello del Bossuet, si era applicato a fare un sì importante lavoro. Ora fra quei pochi, certo da onorarsi assai come precursori dell'im- mortale autore del Discorso sulla storia univer- sale, sembra a noi che debbasi annoverare Dante Alighieri, e a mettere in chiaro questo diritto destiniamo le seguenti brevi osservazioni sul canto XXIV del Paradiso. Dopo avere il nostro divino poeta descritto nel canto XXIII della terza cantica com'ei vide il trionfo di Cristo, racconta nel XXIV che cosa rispose al principe degli apostoli, mosso a esa- minarlo dalle preghiere di Beatrice intorno de la fede, per la <iual ei su per lo mare andava. E in prima, avendogli san Pietro domandato che cosa sia la Fede, Dante gli rispose colle parole di san Paolo, essa essere sustanzia di cose sperate, ed argomento de le non parventi. San Pietro approva a condizione che Dante in- tenda bene, perchè l'apostolo delle genti abbia riposta la fede tra le sustanzie e poi tra g^li ai'gomonti. Onde il nostro poeta è obbligato a dar ragione 65 dell'una e dell'altra cosa. Lo che fatto, cosi prosegue la sua narrazione: Appresso usci de la luce profonda, Che li splendeva: Questa cara gioia, Sopra la quale ogni virtù si fonda, Onde ti venne? Ed io: La larga ploia De lo Spirito Santo, ch'è diffusa In su le vecchie e 'n su le nuove cuoia, E sillogismo, che la m'ha conchiusa Acutamente si, che 'n verso d'ella Ogni dimostrazion mi pare ottusa. Io udi' poi: L'antica e la novella Proposizione, che si ti conchiude, Perchè l'hai tu per divina favella? Ed io: La prova che '1 ver mi dischiude, Son l'opere seguite, a che natura Non scalda ferro mai, né batte ancude. ' Risposto fummi: Di', chi t'assecura Che quell'opere fusser? Quel medesmo Che vuol provarsi, non altri, il ti giura. Se il mondo si rivolse al cristianesmo, Diss'io, senza miracoli, quest'uno E tal, che li altri non sono il centesmo: Che tu entrasti povero e digiuno In campo a seminar la buona pianta, Ohe fu già vite ed ora è fatta pruno. Finito questo, l'alta corte santa Risonò per le spere un Dio lodiamo Ne la melode, che lassù si canta. In questo bel passo, se si considera a fondo, trovasi sottintesa una dottrina storica, secondo la quale la gran tela degli umani avvenimenti dividasi in tre parti. Nella j)rima di esse al- l'umana famiglia scaduta della primitiva sua no- biltà e grandezza è prenunziato un divino E.ipa- » Scalda e batte tolso il Paganini dal suo da Buti, ma ritenne il né della Volgata (G. F.). 66 ratore; nella seconda questo comparisce sulla terra e compie in se tutte le cose predette da' profeti; nella terza l'umanità camminando nella fede di lui si santifica e raggiunge il suo alto destino. La prima è contenuta, per ciò che ha di più sostanziale, ne' libri storici del vecchio Testamento; la seconda nei quattro Evangeli e negli Atti degli apostoli; la terza nell'Apocalisse di san Giovanni, che lentamente viene commen- tata e spiegata dal corso degli eventi, e singo- larmente da quelli che rivelano lo stato morale e religioso dei popoli e che costituiscono la ma- teria propria della storia della chiesa. Ora queste tre grandi epoche della storia universale, giusta il concetto dell'Alighieri, non si aggiungono già l'una all'altra, come una parte si aggiunge al- l'altra in quegli ammassi inorganici di materia, ne' quali non vi ha altra unità fuor di quella, che impresta loro la intelligenza nel percepirli; ma compongono un tutto, dove la moltiplicità è ridotta ad unità mediante un organismo sì per- fetto, che rende immagine di quello del sillogi- smo. Invero come nel sillogismo la terza propo- sizione discende dalle prime due, cosi l'epoca della nostra santificazione nella fede di Cristo di già venuto discende dalle due epoche prece- denti, dall'epoca di Cristo annunziato come ven- turo da' veggenti d'Isdraello e da quella stessa eterna Giustizia, che cacciò i primi nostri geni- tori dal paradiso terrestre, e dall'epoca di Cristo predicante la sua sublime dottrina ed offerente 67 se stesso in sacrifizio di espiazione e di propi- ziazione per il genere umano. E come la ra- gione di ciò, che la conclusione afferma, giace nelle premesse, sicché privata di queste, quella resterebbe senza verità; così la condizione, a cui è stata innalzata l'umana natura per virtù del Redentore, quei nuovi miracoli di virtù, che essa presenta nella storia dei tempi cristiani, quella sete dell'infinito, che caccia si rapide le menti sulle vie del sapere e le fa sì infaticabili nelle ricerche e sì felici nelle scoperte, quella ten- denza a far prevalere sempre più la giustizia ai pregiudizi e alle abitudini invecchiate negli or- dini civili delle nazioni, quell'amor vicendevole, che si va o riscaldando o accendendo in esse e le porta a rispettarsi, a soccorrersi, a conside- rarsi praticamente come tante membra di una sola gran famiglia, tutto ciò non trova la sua spiegazione che nei tempi precorsi, e ne' fatti che in tali tempi si sono consumati, e se da questi SI distaccasse per ipotesi, rovinerebbe ne- cessariamente fra gl'impossibili. Ben dunque a ragione l'Alighieri, qual rappresentante dell'uma- nità costituita nell'ultima delle tre dette epoche, rappresentanza che gli antichi commentatori, più solleciti dei moderni di trarre dalla Divina Com- media de' morali documenti, in essolui riconob- bero comunemente, pronunzia: la larga ploia De lo Spirito Santo, ch'è diiFusa In su le vecchie e 'n su le nuove cuoia, È sillogismo. 68 Si è ammirato ai dì nostri Giorgio Hegel per la novità e la profondità de' suoi filosofemi, fra' quali è parso novissimo e profondissimo quello che dice tutto essere sillogismo. Senza dubbio non altri che un pensatore straordinario poteva veder questo. Ma il sillogismo hegeliano è di- struttivo della verità, perchè riduce tutte le categorie dell'essere ad una, e quest'una poi lascia al tutto senza ragion sufficiente, né più né meno di quello che avevan fatto il Fichte e lo Schel- ling del punto di partenza dei loro sistemi. Quindi per l'Hegel il sillogismo di Dio e il sil- logismo della natura non son due sillogismi, ma un solo e medesimo , non essendo Iddio e la natura nuU'altro che momenti diversi della evo- luzione necessaria di un'idea indeterminata, che non é niente e si fa tutto. Da ciò s'intende che unità debba esser quella, che il filosofo di Stuttgarda colloca nella storia. La storia è il racconto delle vicende, attraverso alle quali lo spirito, cioè in sostanza quell'idea indeterminata, impara a conoscere sé stesso, e acquista la co- scienza della sua libertà, che è quanto dire, giusta la dottrina dell'Hegel, della sua essenza. Ora per tre gradi lo spirito ascende allo stato di co- scienza della sua libertà, cioè pel singolare, pel particolare e pel generale; epperciò tre sono le epoche della storia: l'epoca della infanzia del- l'umanità, in cui dagli uomini associati si attri- buisce la libertà ad un solo di loro, mondo orien- tale; l'epoca della gioventù e della virilità, in 69 cui la libertà si estende a molti, ai quali altri pia molti son destinati a servire, mondo greco o romano; e l'epoca dell'età matura, in cui la li- bertà si riconosce in tutti, la qual epoca ebbe principio col cristianesimo, ma il suo carattere non si è a pieno avverato che nella Riforma, mondo delle genti germaniche. A che deve poi riuscire un travaglio si lungo e penoso dello spirito, come spirito dell'umanità? A ravvisare la sua identità collo spirito assoluto, con Dio, coir idea, con che avrà abolito e ridotto al nulla tutte le determinazioni nelle quali si era impli- cato. Dopo ciò ciascun vede quanta differenza separi il concetto della storia di Dante dal con- cetto della storia dell'Hegel. L'unità della storia nella mente di Dante è ugualmente vera che la sua raoltiplicità, e il fine di lei, rispondendo alle più nobili aspirazioni dell'umana natura, la riem- pie d'ineffabil conforto : l'unità sola della storia nella mente dell'Hegel è vera, la moltiplicità non è che una serie di vane apparenze, dopo l'ultima delle quali non resta che la spaventosa solitudine del nulla. Ci sia ora permesso di fare un passo più là, aggiungendo alla dottrina sottintesa, che sin qui abbiamo esposta, un'altra dottrina pur sottintesa che con quella si connette, ma la sua connes- sione nell'alta mente del nostro poeta forse ri- mase inavvertita del tatto. Le cose create, in quanto poste nel tem'po o in quanto successive, hanno un ordine fra loro, 70 il quale fa di esse un tutto, e sul quale, come si 8 mostrato, si assomigliano al sillogismo. E questo è un sillogismo ohe, come pure si è visto, si ritrova collo studio profondo della storia; e perciò si può convenientemente chiamare il sil- logismo della storia. Ma le cose create hanno un ordine fra loro eziandio in quanto poste nello spazio, o meglio in quanto coesistenti, ed anche sotto questo aspetto considerate devono rendere immagine dell'organismo sillogistico. La qual relazione spetta alla cosmologia io svelare ed il- lustrare, dovendo essa trattare del mondo, for- mato dal concorso di tanti e tanto diversi enti, come di un individuo. Cosi, oltre il sillogismo della storia, vi ha ancora il sillogismo della co- smologia; i quali insieme fanno vedere la perfe- zione dell'ordine delle medesime cose, ma guar- date da due lati differenti della loro esistenza. Se non che cotesta perfezione, si luminosa da colpire le intelligenze stesse dei volgari, deve avere una ragione e deve averla fuor del com- plesso delle cose create. E qual è questa ragio- ne ? La perfezione stessa di Dio ; il quale, essendo l'autore del mondo, e la causa necessariamente imprimendo sull'effetto una similitudine di se, non potè trarre il mondo all'esistenza senza or- narlo insieme di questa similitudine. Qua appar- tiene quel notissimo e bellissimo passo del canto primo del Paradiso: Le cose tutte quante Hann'ordine tra loro, e questo è forma, 71 Che ruiiiverso a Dio fa simigliante. Qui veggion l'alte creature l'orma De l'oterno valore, il quale è line, Al quale è fatta la toccata norma. Ne l'ordine ch'io dico sono accline Tutte nature, per diverse sorti Più al principio loro e men vicine; Onde si muovono a diversi porti Per lo gran mar dell'essere, e ciascuna Con istinto a lei dato che la porti. Ora da tutto questo esce, quanto spontanea altrettanto irrecusabile la conclusione, che vi è pure un sillogismo della Teologia^ un sillogismo che le più sublimi investigazioni della mente umana, confortata e diretta da un celeste lume, devono rinvenire nel mistero della stessa essenza di Dio ; un sillogismo, nel quale giaccia l'ultima spiegazione del sillogismo della cosmologia ; un sillogismo in fine, il quale, comecché congiunto agli altri due ed intimo ad essi, sia compitissi- mo in sé e da sé stante, in una parola, assoluto. È questo quell'altissimo sillogismo, a cui alludono spesso i versi dell'Alighieri, singolarmente nella terza cantica; della quale ci piace di ricordar qui due passi, come quelli che esprimono appunto i due accennati modi di considerarlo. L' uno è quello del canto XIV, dove Dio è detto: Quell'uno e due e tre, che sempre vive, E regna sempre in tre e due ed uno, Non circoscritto e tutto circoscrive ; le quali ultime parole rilevano il legame del sil- logismo teologico coi sillogismi storico e cosmo- logico. L'altro dell'ultimo canto si riferisce al 72 sillogismo teologico, riguardato nella sua assoluta e indipendente natura, ed è il seguente: Nella profonda e chiara sussistenza De l'alto lume parvemi tre ^iri Di tre colori e d'una continenza; E l'un dall'altro, coma iri da iri, Parea riflesso, e '1 terzo parea fuoco. Ohe quinci e quindi igualmente si spiri. E poco dopo, da queste più artificiose analogie, passando il divino poeta a quelle che tengon luo- go di linguaggio proprio e rigoroso, soggiunge: O luce eterna, che sola in te sidi. Sola t'intendi e da te intelletta Ed intendente te ami ed arridi. Qui forse alcuni dei nostri lettori, che più se- riamente ci abbiano seguito in queste osserva- zioni, prenderà vaghezza di domandarne in che facciamo consistere precisamente ciò, che abbia- mo chiamato il sillogismo della cosmologia e il sillogismo della teologia. Ma noi, chiedendo loro perdono del non soddisfarli col presente scrit- to, perchè bisognerebbe che esso si convertisse in un libro, li preghiamo di ripensare fra sé e sé le cose che abbiam dette, e di vedere che fonte di elevatissimi e nobilissimi concetti siano le sante scritture ai forti ingegni, che ci vadano sopra meditando, senza spogliare, come si è fatto in Germania, le parole di esse del loro sopran- naturale e divino significato. Dì un luogo filosofico della Divina Commedia' L'argomento di questo discorso è un luogo filosofico della Divina Commedia. Io m'inge- gnerò di stabilirne il vero senso, mostrando l'as- surdità di quello che gli viene attribuito in un recente libro di filosofia, ^ che io per altro ap- prezzo, e prima di tutto per non essere mac- chiato di certo nuovo genere d'ipocrisia, che si studia a ostentare persuasione di tutto ciò che più offende il comun senso degli uomini. Anzi appunto perchè io lo stimo assai e lo credo de- gno della sorte che ha avuto di essere accolto in molte delle nostre scuole, mi sono risoluto di togliere in esame l'interpretazione che vi si dà, a un notabilissimo passo del Purgatorio^ pa- rendomi non pur contraria alla mente del som- mo nostro poeta, ma ancora ingiuriosa, certo con- tro l'intenzione di chi ha scritto il libro di cui parlo, all'onore di lui. Questa interpetrazione » Dal Propugnatore, 1871, voi. II, pag. 176-197 (0-. P.). » Filosofia elementare a uso delle Scuole del Regno ordinata o compilata dai professori A. Conti e V. Sabtini. Firenze, G. Bar- bòra, 1869. 74 si trova sulla fine di un capitolo, ^ dove me- diante una esagerazione d'uno scrittore di tanta autorità, quanto Dante ne gode presso di tutti e deve goderne singolarmente presso i giovi- netti, che da poco tempo hanno incominciato ad ammirarlo studiandolo, si vuole indurre in loro la opinione, che la ricerca dei primi principii della ragione è una delle più difficili, per con- chiuderne poi, che essa non appartiene alla fi- losofia che dicesi elementare. Si afferma dun- que che Dante tenne per opera impossibile il definire come si abbia la cognizione dei detti principi e, a provare che ei la sentisse vera- mente cosi, si citano i due seguenti versi del canto XVIII del Purgatorio : Però là, onde vegna lo 'ntelletto Delle prime notizie, uomo non sape. * Ecco il punto, sul quale io prego il lettore di raccogliere tutta la sua attenzione: a chi ha fatto il menzionato libro di filosofia par chiaro ' Gap. XV: Della Percezione intellettiva. * Il senso, ohe neUa nuova interpretazione di questi versi si ascrive aUa frase intelletto delle prime notizie, se non è certo, pare anche a me almeno il più probabile, quantunque fra gli antichi commentatori della Divina Commedia io non ne abbia visto uno, ohe lo proponga come il solo vero. Ma gli antichi commentatori, com'è noto, furono tutti uom.ini ijrivi di studii proporzionati al- l'ufficio di dichiarare le parti filosofiche della Divina Commedia: e se sono da stimarsi, e alcuni ne sono invero degnissimi, i loro pregi derivano da tutt'altro fonte. Fra i cinquecentisti intende queste parole di Dante, corno le intendiamo noi, il Varchi, Lezio- ni sul Dante e prose varie, la maggior parte inedite, ecc. Firenze. Tip. di L. Pezzati, 1841, voi. I, pag. HI; e fra i più recenti il P. Lombardi a q. 1. del suo Commento e il P. Cesari, Bellezze della Commedia, T. II, paig. 320 della ediz. originale. 75 che con queste parole l'Alighieri pronunzi che all'umana intelligenza è negato di scorgere il fonte, donde le derivano i principi di ogni suo ragionare, e a me par chiaro al contrario che l'Alighieri ciò non pronunzi e intenda di espri- mere tutt'altra sentenza. E innanzi tutto per ben vedere il senso dei versi in questione, è da richiamare alla mente il luogo, ove giacciono, e il proposito al quale sono volti insieme con quelli, che li precedono e li seguono prossimamente. Avendo dunque Virgilio ridotto a una cagione unica ogni ope- rare dell'uomo, per cui egli è lodato o biasimato, cioè all'amore, Dante sul principio di questo XVIII canto del Purgatorio chiede al suo caro maestro, che gli spieghi che cosa è amore. E Virgilio infatti prontamente gli soddisfa ; ma per- chè colle sue parole gli aveva dato materia di maggior dubbio, per isciogliergli questo e fare che potesse acquietarsi del tutto nella dottrina espostagli intorno all'amore, da più alto prin- cipio movendo, prende a dirgli così: Ogni forma sustanzìal, che setta È da materia ed è con lei unita, Specifica virtude ha in sé colletta; La qual senza operar non è sentita, Né si dimostra ma' che per effetto, Come per verde fronda in pianta vita. Però, là onde vegna lo 'ntelletto Delle primo notizie, uomo non sape, E del primo appetibile l'affetto; Che sonij in voi, si come studio in ape Di far lo mele: e questa prima voglia Merto di lode o di biasmo non cape. 76 Or perchè a questa ogni altra si raccoglia, Innata v'è la virtù che consiglia, E dall'assenso de' tener la soglia. Quest'è '1 principio, là onde si piglia Cagion di meritare in noi, secondo Ohe buoni e rei amori accoglie e viglia. Ora, se bene si osserva tutto questo discorso di Virgilio, si vede che quivi non s'intende di par- lare se non che dell'uomo considerato nel na- turale svolgimento delle sue potenze razionali e ne' limiti, in cui rimane ristretta la sua co- gnizione, finché la libera volontà non s'impa- dronisce di esse potenze e non dà loro quella piega che più le piace. In conseguenza di tali limiti l'uomo non sa, donde gli venga la no- tizia che pure ha ed usa continuatamente di primi principi, e l'amore, dal quale del pari con- tinuamente è mosso, dei primi beni, cioè di beni che possano renderlo appieno pago e contento. E poiché questi beni si riducono a uno, cioè al bene infinito, parmi assai verosimile la lezione del primo appetibile seguita da Francesco da Buti, in luogo di quella dei primi appetibili, di- venuta comune forse per la materiale simme- tria del discorso. Oltre di che il singolare, me- glio che il plurale, parmi che qui si riscontri con altri luoghi paralleli del nostro Poeta, quali sono, quello del canto precedente : Ciascun confusamente un bene apprende, Nel quale si quieti l'animo, e desira ; Perchè di giunger lui ciascun contendo; e quello del canto II del Paradiso: 77 La concreata e perpetua sete Del deiforme regno cen' portava Veloci, quasi come '1 ciel vedete. Ma checché sia di ciò, se l'uomo considerato nel modo che io ora diceva, non sa donde gli venga la notizia dei primi principi (ometto l'amore del primo appetibile, come quello che non appar- tiene alla presente ricerca), neppur sa di non saperlo : onde, tranquillo e pieno di fiducia in quei principi, si lascia da essi condurre nelle va- rie operazioni razionali, ohe gli accade di fare, e più non cerca. Solo il filosofo, l'uomo cioè, che con un uso della riflessione superiore d'as- sai al comune, tende al conoscimento delle ra- gioni supreme delle cose, è quegli che, accor- gendosi che ogni operazione razionale è diretta da certi principi universali, si fa ad investi- garne l'origine e non quieta fintantoché non sia arrivato a formarsi intorno a ciò una opinione, che abbia almeno il sembiante della verità. Ora che fa la nuova interpretazione, che ho preso ad esaminare ? Estende al filosofo ciò che da Dante é detto dell'uomo, o meglio estende, ciò che da Dante è detto di una condizione intel- lettuale da principio comune a tutti gli uomini e nella quale ancora la maggior parte rimangono per tutta la vita, ad una condizione intellettuale molto diversa, alla quale solo pochi faticosa- mente si sollevano e che diviene tutto propria di loro. Ma se Dante avesse voluto dire, che rispetto all'origine de' primi principi tanto ne 78 pa altri quanto altri, essendo una insuperabile ne- cessità di natura il rimanerne affatto al bujo, egli che dalla logica aveva ben imparato a di- si inguere le proposizioni, che insieme con un fatto ne affermano la necessità, ^ egli si accu- rato sempre nel parlare, anzi si ammirabile per la precisione con cui esprime fino i più astrusi concepimenti del pensiero filosofico, non avrebbe o espressamente nominato i filosofi, perchè dal più si argomentasse il meno, o formato il discorso in maniera che non lasciasse pensare possibile alcuna eccezione a ciò che con esso affermava? Invece egli dice soltanto : Però, là onde vegna lo 'nfcelletto Delle prime notizie, uomo non sape; e cosi fa intendere, che il soggetto del suo di- scorso è l'uomo in quello stato di mente e di conoscenza, in cui sogliono essere comunemente gli uomini, senza escludere che alcuni si trovino come in uno stato privilegiato, nel quale si av- veri tutto l'opposto di quello che qui egli pro- nunzia. Adagio, si dirà; anzi quel nome uomo, di cui Dante si serve in questi versi, contiene la giu- stificazione della nuova interpretazione, che tu impugni; perocché esso, come qualunque dei no- mi, che i grammatici chiamano comuni, innanzi ad ogni altra cosa significa un'essenza o natura determinata, e di questa si afferma dall'Alighieri 1 Primi Analitici, I, 2; e Paradiso, oaato XIII. 79 che non sape là onde vegna lo 'ntelletto delle pri- me notizie. Or ciò vuol dire, che una tale igno- ranza, secondo l'Alighieri, è una delle naturali od essenziali limitazioni dell'uomo, e quindi una di quelle, che gli è impossibile per qua- lunque sforzo ch'ei faccia, di trapassare. Per ciò, solo che si conceda che anche il filosofo è uomo, ne viene per indeclinabile conseguenza che anch'egli, come ogni altro uomo, non sappia là onde vegna lo intelletto delle prime notizie. Vero, io rispondo, i nomi comuni innanzi ad ogni altra cosa significano un'essenza o natura determinata. Ma che perciò ? Non è anco vero, che ciò che è significato da siffatti nomi, quando sono il soggetto del discorso, non ha sempre la medesima relazione con ciò che è significato dai verbi, che reggono, e dai loro compimenti, e che questi verbi e questi compimenti talora si- gnificano una relazione necessaria e invariabile e talora una relazione accidentale e invariabile? Ora che della seconda maniera e non della pri- ma sia la relazione significata nelle parole di Dante col non sape e con quello che ne di- pende, non solo è, come mi par risultare dalle cose dette, il senso che prima si affaccia alla mente di chi le legge senza preoccupazione e che secondo i canoni dell'ermeneutica deve ritenersi, semprechè non vi sia qualche ragione per ab- bandonarlo, ma è ancora quell'unico senso, che per ogni altra considerazione sia permesso di lui dare. 80 E valga il vero. Glie il nostro Poeta in fi- losofia sia un Aristotelico, è ciò che ogni let- tore della Divina Commedia, ancorché non in- formato da nessuna storia degli studi e delle opinioni dell'Autore, può congetturare come molto probabile fin dai primi canti, quando intende che il filosofo di Stagira è il maestro di color che sanno, e che gli altri filosofi Tutti l'ammiran, tutti onor gli fanno: cosicché gli stessi Socrate e Platone debbono riputarsi a grande ventura di stargli innanzi agli altri più presso. ^ Pro- cedendo poi nella lettura del divino Poema, quasi ad ogni pie sospinto incontra argomenti che gli convertono il probabile in certo, se egli un poco si conosca delle dottrine professate da quell'antico saggio ; e nota, forse non senza una certa meraviglia, se abbia di più l'abitudine di osservare un po' sottilmente le cose, come tanto più di là tragga quanto più alto si leva. Ora nell'aristotelismo (e chi noi sa ?) la questione dell'origine del sapere era una delle principa- lissime, e la soluzione, che le si dava, formava una delle differenze più profonde di questa scuola dalle altre ; e perciò una delle differenze più vigorosamente sostenute da essa e dalle al- tre combattute. Come può credersi che Dante, ' Inferno, canto IV. Il medesimo concetto di Aristotile tro- vasi espresso in altra forma nel Convito, Tratt. Ili, cap. 5, quando si dice che a lui " la natura più aperse i suoi segreti „.* * Dante gli dà anche maggior segno d'onore, chiamandolo ìiiaestro e duca della ragione umana. — Conv., IV, 2 e 6 (O. F.). 81 in un punto di tanta importanza, mancasse di fede al suo maestro in filosofia, e non solamente modificasse quello, che da lui era stato inse- gnato, lo che poteva essere conciliato coll'alta venerazione, in cui ai tempi di Dante egli era universalmente avuto, ma risolutamente gli con- tradicesse abbracciando la opinioJie, che del mo- do onde in noi nasce e si svolge la cognizione delle cose non si può dir nulla, perchè per ne- cessità di natura tutti aggrava intorno a ciò una eguale ignoranza ? Ma questo non è tutto. Dopoché nei paesi più colti d'Europa fu conosciuta la esposizione, che delle dottrine Aristoteliche, riguardanti le parti pili interne e quasi direi vitali della filo- sofia, aveva fatta l'Arabo Ibn Roschd, noto sotto il nome alterato di Averrois o Averroè, e dopo- ché a cotesta esposizione che, togliendo via la vera relazione tra l'intelligenza dell'uomo e l'in- telligenza di Dio, distruggeva quasi di un bel colpo il vero essere dell'uno e dell'altro, fu con- trapposto da fra Tommaso d'Aquino una esposi- zione che i detti dell'Arabo mostrava ripugnanti ad un tempo alla verità dei fatti ed alla autorità di Aristotile, il campo della filosofia aristotelica restò diviso in due parti. Da una parte Aristote- lici, che si attenevano all'esposizione di Averroè: dall'altra parte Aristotelici, che si attenevano all'esposizione di fra Tommaso d'Aquino : quelli invero assai meno numerosi di questi, ma con- cordi, tenaci, infaticabili per prevalere, se fosse stato possibile. Ora Dante per l'altezza stessa del suo ingegno poteva bene stimare assai Averroè, e difatti assai lo stimò, come cbiaramente testi- moniano i due luoghi della Divina Commedia, dove ne fa menzione;^ ma non poteva affatto esser dei suoi seguaci. Le sue meditazioni sulla na- tura dell'uomo e le sue persuasioni in materia di religione armonicamente lo spingevano verso San ToDimaso, ed egli gli si aderiva con tutta la potenza dell'animo suo. Il canto X del Paradi- so, dove rumile fraticello apparisce nel Sole al nostro Poeta insieme con altri grandi sapienti dei due Testamenti, e i canti seguenti, nei quali lungamente ragiona con lui e, libero ufficio dì dottore assunto, come Dante si esprime altrove in simil proposito, ^ risponde ai dubbi sorti nella sua mente ; bastano anche soli a mostrare, quan- to egli attribuisse al sapere dell' Aquinate e si per esso come per la sua santità, di cui erano an- cora cosi fresche le memorie, gli fosse cordial- * Inferno, canto IV, e Purg., cauto XXV. Nel seo. XVI la mala semenza delle dottrine averroisticlie non era ancora venuta meno nella Università degli studii di Padova, dove principalmente era stata coltivata: e il Fracastoro, celebre alunno di qael la ce- lebre Università, adoperava l'ingegno e l'arte in adornarle di nobili versi, come ben mostra il segnente frammento, cbe leggesi nella ediz. cominiana delle poesie di lui del 1739 voi. IL a pag. 160 : .... Olita divina super mens Aatat, magna, micans : cujìia radiata nitore, Quae fuerant ohacura pius simulacra, repente Fiunt coram anima, claraque in luce refulgent. Non aliter quam quae caeca sub nocte tenentur, Sì feriat rutilum Solia jubar, omnia late Splendescunt, pulchraque petunt in luce videri. * Paradiso, oanto XXXTT. 83 mente ossequioso. ' Alla autorità dunque di Ari- stotile si aggiungeva anche tutto il peso di quella del Dottor di Aquino a rendere il nostro Poeta, come sollecito di mantenere alla questio- ne dell'origine della cognizione umana quel luo- go, che godeva nella filosofia Aristotelica, cosi avverso ad una soluzione meramente negativa di essa questione, quale è quella che ora si vuol trovare nei versi: Però là onde vegna, etc, at- tesa massimamente la controversia, che allora ferveva cogli Averroisti. Imperocché una solu- zione di tal forma, se riusciva una taccia di va- na presunzione per gli Averroisti, che poneano distinto nell'anima l'intelletto possibile, cosicché a loro senso un solo e medesimo intelletto era che intendeva in tutti quanti gli uomini; riu- sciva un egual laccio anche per coloro, che li im- pugnavano, e interdicendo a quelli di professare una qualunque dottrina positiva sulla origine del- l'umano sapere, li riduceva nell'impotenza di ri- portare una piena vittoria delle assurde ed em- pie esagerazioni di quelli. E per fermo la vit- 1 È massimamente da ponderarsi a questo proposito l'imma- gine, che Dante al principio del canto XIV del Paradiso dice essergli venuta in mente, quando ebbe udito Tommaso di Aquino e trovato il suo parlare cosi somigliante a quello di Beatrice. Questa immagine fu quella dell'acqua, ohe Dal centro al cerchio e si dal cerchio al centro Muovesi in un ritondo vaso. Secondo oh'è percosso fuori o dentro. Questo manifestamente vuol dire, ohe egli trovava la medesima sapienza nei detti dell'una e dell'altra, o, per uscire del tutto fuor di figura, clie egli riveriva l'Aquinata come l'ottimo degli inter- petri della Sapienza. 84 toria sopra una falsa dottrina non può mai esser piena, finche nel suo luogo non sia stata posta una dottrina vera e bene stabilita. E qui chiedo mi si permetta di accennare in poche parole la via, per la quale il dottor di Aquino e i filosofi che insisterono nelle sue or- me nell'intelligenza delle dottrine Aristoteliche, spiegavano l'origine delle nostre cognizioni. Co- me Ippocrate aveva gettate le fondamenta della vera medicina con quel detto sapiente, che la natura è la medicatrice dei malori dell'uomo, e il medico non deve essere altro che un inter- prete e un ministro di lei ; cosi il fondamento della vera filosofia era stato gettato , allorché dapprima si pensò a trar luce per le specula- zioni filosofiche da quel detto della stessa sa- pienza fattasi sensibile agli uomini: Uno è il vostro Maestro, Cristo. ^ Il greco Apologista del Cristianesimo, Giustino, ha questo merito singo- lare, ^ D'allora in poi quel pensiero non fu più mai abbandonato, e nella Chiesa Greca e nella Latina forti ingegni mostrarono coi loro scritti quanto esso fosse fecondo di ottimi risultamenti per la scienza umana in ogni sua parte di mag- giore importanza. Così si originò e perpetuò nella Chiesa una specie di tradizione scientifica, e da questa ricevette anche Tommaso d'Aquino l'indirizzo nel filosofare. Per lui adunque, come 1 Mattbo, Gap. XXIII, v. 10. * Seconda Apologia, nn. 8, 10. 85 per tutti gli altri grandi dottori cristiani, Iddio è il Maestro universale degli uomini anche nel- l'ordine naturale, e coloro, che siamo soliti ono- rare di questo titolo, non insegnano propriamente la verità, ma altro non fanno che aiutarci dalFe- sterno col suono della lor voce a profittare delle lezioni, che internamente ci porge Dio stesso mediante quel lume che ha inserito nella nostra ragione. Ma questa dottrina voleva essere così esposta, che acquistasse per così dire il diritto di cittadinanza nel regno della scienza umana e non potesse oggimai da nessuno essere rigettata. A tal uopo l'Aquinate, secondo che portavano i tempi suoi, ebbe ricorso alle dottrine d'Aristotile, e fra queste ne trovò che a meraviglia si presta- vano a dimostrare quella tradizionale dottrina. Essa era, che ogni insegnamento ed ogni appren- dimento, fatto per via d'intelligenza, ha origine da una cognizione precedente. ^ Se ciò è vero, e l'osservazione lo chiarisce verissimo, risalendo di cognizione in cognizione o bisogna andare all'infinito, lo che non è lecito perchè distrugge- rebbe ciò che si ha da spiegare, o bisogna arre- starsi finalmente a una prima cognizione, che sia come il fonte comune di tutte quelle, di cui l'uomo può arricchirsi. Ora questa prima cogni- zione è la cognizione dei primi principi, cioè di quelle cognizioni universali, che entrano in ogni * Haaa cìiSaaxaUa xaC nàaa fia&rjai^ Siavoijrixì) sx nqovn'xq Xovarj^ yCt'STat yyujasio?, — Secondi Analitici, 1, 1. 86 concezione che la mente può formarsi di cose comunque determinate e che con autorità di leggi assolute ne governano i giudizi e i ragio- namenti. Ma se queste concezioni sono ciò che la mente primieramente conosce, non sono per altro ciò che forma la mente stessa, ossia l'atti- vità stessa dell'intendere. Questo è il lume a tal fine dato da Dio nell'anima nostra. Ecco le parole stesse di S. Tommaso : " Nel lume dell'in- telletto agente ci è originalmente innestata in certo modo ogni scienza mediante le universali concezioni, che col lume dell'intelletto agente tosto si conoscono, per le quali come per uni- versali principi giudichiamo delle altre cose ed in quelle le preconosciamo „. * E per questa ra- gione e in questo senso il Dottore d'Aquino am- mette di buona voglia il dogma platonico, che ciò che impariamo, ci era già noto. Ma che co- sa è mai per l'Aquinate questo lume, fonte esso pure dei primi principi, come i primi principi sono essi pure di tutte le cognizioni susseguenti? E una certa partecipazione del lume divino, una certa similitudine dell'eterna Verità, che in noi si riverbera. Al che serve di commento quello che egli ragiona intorno alla natura del nostro intelletto. Imperocché quanto alla natura di Dio dalla considerazione delle creature, che non esibi- scono in se altro che un essere finito e perciò re- lativo, egli veniva ricondotto a quella defìnizio- > Qnaest. Disput. 2>e Mente, quaest. VI. 87 ne, quanto semplice altrettanto sublime, di Dio che si legge neìV Esodo : ^ ^ Io sono l'Essere „ cioè l'Essere, che essenzialmente ed assolutamente è. Quanto poi alla natura dell'intelletto umano egli, confrontandone le operazioni con quelle del sen- so, che solo coglie gli esterni accidenti delle cose, veniva a ravvisare che l'operazione sua propria è circa l'essenza delle cose; e poiché quelle es- senze ci riducono all'essere in comune coll'ag- giunta di varie determinazioni, il suo proprio og- getto consiste appunto nell'essere in comune. Ora se da un lato l'essere, in quanto è essenzial- mente ed assolutamente essente, è Dio, e dall'al- tro, in quanto è appreso universalmente, è l'og- getto proprio dell'intelletto umano, è piano come l'Aquinate potesse dire, che il lume dell'intel- letto umano sia una certa partecipazione o simi- litudine di Dio o dell'increata verità. Io non credo, debbo pur dirlo si per non essere frain- teso e si per amor di schiettezza, io non credo che Tommaso di Aquino giungesse mai a ren- derai cosi esplicitamente ragione di ciò che in tanti luoghi delle sue opere ripete sulla natura del lume dell'intelletto e sulla sua attinenza con Dio. Ma qualunque siano state le cause, che ne lo impedirono, certo è che questa spiegazione giace implicita nel complesso delle sue dottrine e si fa innanzi quasi spontanea a chiunque pro- fondamente le mediti e senza la stolta paura • Etodo, oap. Ili, V. 14. 88 che alcuni dei suoi studiosi oggi paiono avere, di dire una parola di più oltre quelle dette da lui, come se la scienza potesse star tutta rac- chiusa nelle parole di un sol uomo. Del resto la storia dell'umano intelletto, giusta il modo on- de Tommaso d'Aquino se la rappresenta, è in sostanza la seguente. L'intelletto umano è un'at- tività, che ha due movimenti; coU'uno si costi- tuisce come potenza di conoscere, coli 'altro si svolge e perfeziona. Col primo, onde si costitui- sce come potenza di conoscere, incontra l'essere in universale e l'apprende. Da tale apprensione in cui sono virtualmente contenute tutte le ap- prensioni e tutti gli altri atti, che in queste si fondano, incomincia il secondo movimento del- l'intelletto e in esso si possono distinguere tre principali momenti, per ciascuno dei quali nel linguaggio della scuola tomistica vi' è una frase particolare, che ne esprime il carattere distinti- vo. Imperocché innanzi tutto nell'apprensione dell'essere in universale sono virtualmente con- tenuti i sommi principi della ragione, che si ri- solvono nei concetti universali dell'^wo, dell'e- denticOj dell'assoluto e cosi via. Ora questi con- cetti si fanno attuali nell'intelletto, quando gli è somministrata una materia di conoscere, lo che è ufficio proprio del senso. Allora l'intelletto mediante quei concetti : l** illustra i fantasmi cioè la materia somministratagli dal senso, per- cezione intellettuale dei sensibili ; 2" astrae dai fantasmi le specie intelligibili, concezione per via 89 di riflessione delle idee astratte delle cose, ossia delle specie e dei generi ; 3" compone e divide le t^pecie astratte, giudizi e raziocini, coi quali la riflessione, comparando le idee astratte, si viene formando una scienza più o meno perfetta delle cose, secondochè discopre più o meno delle loro relazioni. Ma in qualunque di questi momenti della sua evoluzione si trovi l'intelletto nostro, è pur sempre vero, che tutto quello che egli conosce, conoscendolo per la verità dei primi principi, e quelli essendo come i primi raggi di quel lume che fa di lui una potenza intellettiva; e questo venendo da Dio, anzi essendo una certa parte- cipazione del lume stesso di Dio a noi in parte comunicato, ne segue che pur nell'ordine natu- rale " Dio solo è quegli, che internamente e principalmente ci ammaestra come è anche la natura quella che principalmente risana „. Cosi l'Aquinate nelle Questioni Disputate de Magi- stro, ' dove anche stanno quell'altre belle paro- le : " Che alcuna cosa si sappia con certezza, av- viene per il lume della ragione divinamente in- fuso, col quale Iddio in noi favella „ ; "^ parole, colle * Quaest. I, nel corpo dell'articolo in fine. * Ivi, nella risposta all'obiezione 13. Si considerino bene quelle frasi dell' Aquinate : " Utiiversales conceptiones, quaruni co- gnitio est nobìs naturaliter insita „ (Qiiest. cit. de Magistro nella, risposta alla obiez. 5) — " Lumen rationis .... per quod principi» cognoscimus „ (Tbid., nella risposta alla obiez. 17) — '^ Mediantibas tmiversalibus conceptionibus, quae statim lumine intellectus agcn- tis cognoscuntur „ (Quest. cit. de Mente, nel corpo dell'articolo in fine): e poi si dica, se secondo la mente di S. Tommaso d'Aquino 90 quali si pone espressamente una cotale rivela- zione naturale, come rimota preparazione a quella soprannaturale rivelazione, che si fa nell'anima del Cristiano. Io m' immagino, ohe mentre veniva cosi nar- rando in compendio i pensieri del nostro grande filosofo sulla questione dell'origine del sapere, la mente del lettore mi abbia spesso abbando- nato e sia volata ora a questo ora a quel luogo della Divina Commedia, dove si leggono sotto forma poetica dei pensieri somiglianti. E se ciò è veramente accaduto, naturai cosa è che si sia intanto rafforzata in lui la persuasione, che il nostro gran Poeta nei versi, che danno argomen- to al mio dire, non può avere avuto l'intenzione di esprimere la impossibilità, da cui neppure il filosofo vada essente, di scorgere la sorgente, donde viene l' intelletto delle prime notizie. Certo è che codesti pensieri somiglianti nella Divina Commedia vi sono e, ciò che ora io de- sidero che si avverta e che importa al mio pro- posito sommamente, i più somiglianti si trovano appunto nel passo del Purgatorio, che altri ha interpretato cosi diversamente. In vero, se non si guarda che alla sostanza della soluzione di Tommaso d'Aquino, egli in- segna che la cognizione dei primi principi, don- de proviene ogni altra cognizione dell'uomo, è il lume dell'intelletto o della ragione possa esser altro ohe un massimo universale, come appunto dimostra che è il Eosmini nel Nuovo Saggio sulla origine delle idee e in altro sue opere. 91 una cognizione in lui innata, in quanto che in lui è innato il lume della ragione, per il quale tali principi conosce. E non ripete Dante in sostanza il medesimo nei terzetti del canto XVIII del Purgatorio, che furono riferiti da principio ? Infatti quivi egli dice: 1" che la specifica virtù dell'anima umana, forma sostanziale che nel tem- po stesso è scevra di materia ed unita con lei, è la virtù del conoscere e la virtù dell'amare ; 2" che ciascuna di queste virtù ha i suoi propri oggetti, cioè la virtù del conoscere certe prime notizie, che la dirigono nelle sue particolari ope- razioni e la virtù dell'amare certi primi appeti- bili, che similmente la muovono e la guidano nelle sue particolari operazioni, e che 1' intelletto di tali notizie e l'affetto di tali appetibili pre- cedono perciò di loro natura tutte le particolari operazioni di esse virtù ; 3" che queste due virtù per una legge generale, a cui sottostanno tutte le forme della stessa specie dell'anima nostra, sempre si rimarrebbero occulte, se uscendo nelle loro particolari operazioni non si facessero in queste sentire e per queste non si dimostrassero, come per verde fronda in pianta vita; 4° che conseguentemente, quando l'uomo opera o col- l'una o coll'altra di queste virtù, gli si rende bensì sensibile e gli si dimostra quella, con cui opera, ma non anche quell'atteggiamento prece- dente di essa, per il quale è causa al tutto pro- porzionata e pronta al suo operare, quindi non anche l'intelletto delle prime notizie nell'epe- 92 rare della seconda; 6" finalmente che quest'in- telletto e quest'affetto, solo discopribili nel se- greto dell'anima all'acuto sguardo d'una tarda riflessione filosofica, sono tanto connaturali al- l'anima, quanto le sono connaturali le specifiche virtù, delle quali non sono che proprietà, e da paragonarsi perciò agli istinti, che differenziano le varie classi di animali, allo studio per es. che è nell'ape di far lo mèle. Lascio il resto, perchè non legato strettamente col tema del mio discor- so, e dall'esposto raccogliendo quel che ne se- gue, dico : che tanto è lungi che l'Alighieri nel passo riferito del Purgatorio dichiari insolubile la questione della origine delle umane cognizioni e più precisamente dei primi principi, che al- l'opposto egli proprio in quel passo stesso ne dà una soluzione, e questa sostanzialmente è quella che già ne aveva dato il Dottore di Aquino. Che se vi ha qualcuno che non consenta meco nel modo d'intendere o la dottrina filosofica del- l'Aquinate o quella corrispondente di Dante o tutte e due, io ora non gli contrasterò. Intenda egli pure a suo talento coteste dottrine; a me basta finalmente che riconosca il fatto , che in questo canto del Purgatorio Dante una ne pro- fessa, qualunque ella sia. Imperocché, ricono- sciuto questo fatto, bisogna risolversi ad una di queste due cose : o bisogna tener Dante per uomo di tale grossezza e stupidità di mente da non accorgersi della contraddizione, in cui cade, sen- tenziando, come pretende la nuova interpretazio- 93 ne, che all'uomo non è dato di sapere là onde vegna lo intelletto delle prime notizie^ e nell'atto stesso esponendo, sebbene brevemente, una dot- trina intorno a questa questione : oppure bisogna rifiutare la nuova interpretazione, e credere la intenzione di Dante lontana le mille miglia da quella sentenza. In verità io non so, se oggi neppur un Bettinelli prenderebbe il primo par- tito. A questo punto mi pare eh' io potrei tenere per sodisfatto il mio debito e quindi far fine. Pure mi piace di aggiungere due altre conside- razioni che mi sembrano attissime a far sentire sempre più quanto sia iuammissibile la discussa interpretazione. Si consideri dunque in primo luogo che Dante, comecché uomo straordinario, tanto che possa dirsi di lui quello che egli disse di Omero, cioè che sovra gli altri com' aquila vo- la, ciò non ostante è un uomo del secolo XIII, e tutti si riscontrano in lui i caratteri generali degli uomini dei tempi suoi. Uno di essi è la fede, presa questa parola nel senso j)iù ampio ; cosicché, oltre la fede soprannaturale propria del Cristiauo, abbracci pur quella meramente natu- rale dell'uomo, per la quale egli fortemente as- sente a tutto ciò, che la ragione gli mostri co- me vero o come buono. I fatti pubblici e pri- vati, le lotte delle fazioni politiche, le dispute delle scuole, i monumenti sacri e profani, i libri, che si leggevano a istruzione o a trastullo, tutto in una parola ciò che appartiene a quei tempi 94 concorre a farci intendere, che un uomo, che non credesse con fermezza, sarebbe stato allora quasi un assurdo. Per questo fra i diversi modi di pensare, che anche nell'età di mezzo regnavano nelle scuole, restò ignoto del tutto quello, che torna in fine in distruzione d'ogni scienza e dello stesso pensiero, voglio dire lo scetticismo. Ora che altro è che puro e pretto scetticismo il dire là onde vegna lo 'ntelletto delle prime notizie, uomo non sape, se questo si ha da togliere nel senso che la nuova interpe trazione propone? Imperocché le prime notizie son pure quelle, sulle quali, come su fondamento, s'innalza tutto il sapere dell'uomo; onde il dubitare del suo va- lore si fa inevitabile a chiunque s'attenta di pas- sar i confini della riflessione volgare, se la ori- gine delle prime notizie è impossibile a disco- prirsi. Imperocché come potrebbe egli abban- donatamente affidarsi a principi d'origine non pure ignota, ma avuta da lui per inconoscibile ? Non potrebbero essere altrettante misere illusioni della sua mente? E per qual via liberarsi di questo terribile sospetto, se tutti i giudizi della mente si fanno a norma di quei principi? S'im- magini pure chi vuole maestro di dubbio il no- stro grande Poeta: io per me non potrò mai farmi un' immagine tale di nessun uomo dei suoi tempi e dell'Alighieri anche molto meno, se l'Ali- ghieri è quello che lo dicono le storie e che lo manifestano tutte concordemente e le sue prose e i suoi versi immortali. Appoggiato invece a 95 questi documenti certissimi, dai quali tanta fede traluce nella ragione e nella scienza umana, io me lo immaginerò pieno di sdegnoso disprezzo per cotesto genere di mendace filosofia, quale egli si mostra nella prima cantica della Divina Commedia, quando, entrato appena nella città di Dite incontra l'anime triste di coloro, Che visser senza infamia e senza lodo. Mischiate. ... a quel cattivo coro Degli Angeli, che non furon ribelli, Né fur fedeli a Dio, ma per sé foro. ' Non è già, ed eccomi all'altra considerazio- ne, non è già che Dante creda illimitata la sua ragione umana o che ne esageri comecchesia il potere: no, egli riconosce i suoi confini e al di- sopra di questa naturale sorgente di cognizione ne pone un'altra soprannaturale, la fede, desti- nata per dono grazioso di Provvidenza ad esten- dere e compire, quanto quaggiù è possibile, la cognizione derivata dalla prima. Però egli am- mette due scienze distintissime, corrispondenti a quelle due potenze o principi subiettivi del nostro sapere, la filosofia e la teologia; e come, menato dall'istinto d'un animo eminentemente poetico, che tutto contempla nella forma del bello, pren- de Virgilio come simbolo della filosofia, così Beatrice prende per simbolo della teologia. Quin- • Inf., canto III. 96 di quelle parole, che servono d'introduzione ac- concissima ai ragionamento, con cui Virgilio nel canto XVIII del Purgatorio si fa a dissipare diffi- coltà sorte nella mente di Dante : quanto ragion qni vede Dir ti poss'io: da indi in là t'aspetta Pure a Beatrice, ch'è opra di fede. Ora in questa introduzione sta appunto una nuova buona ragione per riprovare la interpe- trazione, che fa dire a Dante indefinibile per umano ingegno là onde regna lo intelletto Delle prime notizie. In vero qual era precisamente lo scopo, a cui mirava il ragionamento di Virgilio? A Dante, non avendo inteso bene il principio da cui era partito il suo Maestro nel ragiona- mento antecedente, con cui questi aveva voluto spiegargli la natura dell'amore, era venuto a tur- bargli la mente e ad impedirgli di comprendere come l'amore potesse essere la radice di ogni merito o demerito dell'uomo che opera, questa obiezione : Ohe se amore è di fuori a noi offerto, E l'animo non va con altro piede, Se dritto o torto va, non è suo merto. Ora Virgilio, perchè la mente di Dante ve- desse chiaro come il merito e il demerito del- l'operare dell'uomo stesse insieme con quello che egli aveva detto circa il principio del suo operare, cioè circa l'amore, non doveva aggiun- 97 ger nulla di nuovo, ma solamente ritornare sulla natura dell'amore e più spiegatamente dirgliene l'origine. E questo infatti è quello che egli fa, quando, dopo averlo avvertito che da lui non si aspetti che quanto in questa materia può sa- pere la naturale ragione dell'uomo, prende a dirgli: Ogni forma sustanzial, con quel che se- gue. Ora qui è da riflettere, che conoscere e amare sono cose cosi connesse, che un subietto privo di conoscenza è impossibile che ami, e privo di amore è impossibile che sussista ; perchè col solo conoscere non sarebbe intero, e un subiet- to non intero è lo stesso che un frammento di subietto. Dante la sapeva bene questa con- nessione strettissima dell'amare e del conoscere, che era uno dei più comuni insegnamenti dei filosofi dei suoi tempi e dei più incontroversi; onde, se la opinione sua quanto al conoscere fosse stata, che non se ne può sapere l'origine, si sa- rebbe sentito obbligato a professare un'opinione simile anche quanto all'amare, e per conseguen- za in questo luogo del Purgatorio non avrebbe indotto Virgilio ad ammonirlo : Quanto ragion qui vede Dir ti poss'io, ma questi gli avrebbe dichiarato a dirittura e senza andare in troppe parole, che non poteva dirgli nulla, perchè nulla la ragione ne vede, e che per tutta questa bi- sogna gli conveniva aspettare i più alti ammae- stramenti di Beatrice. Pertanto quell'womo non sape del luogo esa- minato del Purgatorio non è da intendersi se- 98 condo la nuova interpetrazione, ma si in quello stesso stessissimo significato che lia l' noni, non se n^avvede in un altro luogo della medesima cantica, dove il nostro Poeta, esprimendo una delle più note leggi dell'attenzione intellettiva, dice: Quando per dilettanze ovver per doglie Che alcuna virtù nostra comprenda, L'anima bene ad essa si raccoglie; Par che a nulla potenzia più intenda, E questo è contra quell'error, che crede. Che un'anima sopr'altra in noi s'accenda. E però, quando s'ode cosa o vede, Che tenga forte a sé l'animo volta, Vassene il tempo, e l'uom non se n'avvede. Ch'altra potenzia è quella, che l'ascolta, Ed altra è quella, che ha l'anima intera; Questa è quasi legata, e quella è sciolta. In ambedue i luoghi ci significa la mancanza di una cognizione propria della riflessione; ma ne l'una né l'altra cognizione manca all'uomo per un invincibile ostacolo, che stia nella sua stessa natura, bensì per una accidentale condi- zione in cui si trova. Onde, finche egli rimane in questa condizione, necessariamente rimane anche privo di quella cognizione; ma egli può pure uscirne e il potere uscirne non consiste in altro, che nel potere riflettere su di se e su quel- lo che in sé avviene. Fin qui i due casi, a cui si riferiscono i due luoghi del Purgatorio, sono eguali del tutto; la loro dififerenza comincia solo a mostrarsi, quando si prende a considerare la 99 natura dell'oggetto, del quale si tratta d'acqui- star cognizione per via di un ripiegamento del pensiero su noi stessi. Perocché nel caso con- templato nel canto IV quest'oggetto è lo scor- rer del tempo, e nel caso contemplato nel canto XVIII è invece la provenienza delV intelletto delle prime notizie. Or chi non vede, che il ri- piegare il pensiero su noi stessi per avvertire la successione delle nostre modificazioni e il mo- vimento del tempo, è assai più facile che il ri- piegare il pensiero su noi stessi per risalire fino all'origine prima di ogni nostro conoscimento? Chi non vede, che d'ordinario ogni uomo adulto, eccettuate le circostanze di breve durata, a cui l'Alighieri accenna nell'esporre il primo caso, è capace di fare e fa realmente quella semplice riflessione, che è necessaria per accorgersi del tempo che passa; ma che all'opposto pochissimi degli stessi uomini adulti, o per nativa ottusità di mente, o per difetto di conveniente educa- zione intellettuale, o per impedimento posto dai casi e negozi della vita, sono capaci di fare le molte riflessioni e complicate ed astruse, colle quali soltanto è possibile di elevarsi fino a quel fatto primo, in cui s'inizia la potenza stessa del conoscere? Ma quello che è difficile, sia pur difficile quanto si vuole, non è impossibile; e quello, che non è impossibile, o prima o poi, o da un uomo o da un altro si fa; e cosi si va effettuando quella idea di progresso, che, se per i singoli uomini ha il valore di una legge mo- 100 rale, per tutta insieme l'umana famiglia ha quel- lo d'una legge ontologica, voglio dire d'infalli- bile necessità. E a chi quest'idea, in sui primi albori della civiltà moderna, più che al nostro Poeta illuminò la mente e die potenza a operare? Luoghi del Poema di Dante CHIOSATI O CITATI DAL PAGANINI. Jnf. I, 30. y, III, 35-39. « IV, 144. VII, 73-96. Pura. IV, 1-12. XVII, 91-96, 127. XVIII, 46-66. XXI, 28. XXIV, 49-54. XXV, 63. Par. I, 103-126. Par. II, 19, 107, 140. X, 82-139. XIII, 58. XIV, 1-9, 29. XXIII, 25-30. XXIV, 91-94. XXVIII, 54. XXIX, 49-51. XXXII, 2. XXXIII, 115, 124. Autori 0 libri allegati nelle chiose. Agostino (S.), pag. 26, 54, 64. Aristotile. 26, 27, 28, 33, 34, 35, 37, 38, 39, 40, 42, 43, 80, 81, 85. Alessandro Afrodisiaco, 36, 41. Alessandro d'Ales, 27. Apocalisse, 66. Atti degli Apostoli, 6'i. Averroè, 31, 33, 35, 36, 38, 39, 41, 44, 81, 82. Bartolo da Sassoferrato, 57. Bettinelli Saverio, 93. Biagioli N. G., 14, 15. Bonaventura (S.), 22. Bossuet, 63, 64. fiuti (Da) Francesco, 13, 23, 34, 52, 53, 76. Oano Melchior, 36. Cesari Antonio, 74. Condorcet (de) M. G., 60. Conti Augusto, 73. Daniello Bernardino, 15, 16. Epicuro, 48. Esodo, 87. Evangeli, 60, 84. Fichte G. T., 61, 68. Fracastoro Girolamo, 82. Giustino Martire, 84. Hegel Giorgio, 68, 69. Ippocrate, 84. Livio, 57. Lombardi Baldassarre, 15, 16, 74, Lucrezio, pag. 48, Muratori Lodovico, 36. Cenerò, 93. Orazio, 54. Ovidio, 54. Ozanam A. F., 21. Pacuvio, 45. Paolo (S.), 25, Petrarca, 36, 37, Platone, 36, 48, 80. Renan Ernesto, 38. Retorici ad Erennio, 45. Rosmini Antonio, 42, 61, 90. Sartini Vincenzo, 73. Scoto Michele, 38. Schelling Peder. Gugliel- mo, 68. Seneca, 54. Socrate, 80. Tolomeo da Lucca, 3G. Tommaseo Nicolò, 15. 17, 21, 24, 54, 55. Tommaso d'Aquino (S.), 18, 20, 26, 35, 39, 40, 43, 49, 81, 83, 84, 85, 86, 88, 89, 90, 92. Varchi Benedetto, 74. Venturi Pompeo, 15. Vico Giambattista. 41, 55, 58, 59, 60, 61, 62, 63. Vigne (Delle) Piero, 38. Virgilio, 54. Vives Gian Lodovico, 36. INDICE Cablo Pagano Paganini bicordato da un suo di- scepolo Pag. 5 I. Di un luogo del Purgatorio di Dante, che non sembra essere stato ancora dichiarato pie- namente „ 13 II. Sopra un luogo della Cantica del Paradiso . „ 23 III. JuAverroè della divina Commedia „ 31 IV. Alcune osservazioni sulla Fortuna di Dante. „ 45 V. Sopra un luogo del canto XXIV del Paradiso. „ 63 VI. Di un luogo filosofico della divina Commedia. „ 73 Tavola dei luoghi del Poema di Dante chiosati o citati dal Paganini „ 101 Tavola degli Autori o libri allegati nelle Chiose. „ ivi
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