Thursday, June 6, 2024

Grice e Pascoli

 



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BENEDETTO  CROCE 


GIOVANNI  PASCOLI 


STUDIO   CRITICO 


NUOVA    EDIZIONE   CON    AGGIUNTE 


BARI 
GIUS.  LATERZA  &  FIGLI 

TIPOGRAFI-EDITORI-L1BRAI 

1920 


PROPRIETÀ    LETTERARIA 


MAGGIO   MC'MXX- 55614 


AVVERTENZA 


La  buona  accoglienza  fatta  alla  ristampa  in  vo- 
lume separato  del  saggio  sul  Carducci  ci  muove  a 
ristampare  nella  stessa  forma  il  saggio  che  sul  Pa- 
scoli il  Croce  pubblicò  nel  1907  e  raccolse  poi  nel 
1915  nel  quarto  volume  della  Letteratura  della  nuova 
Italia. 

Abbiamo  fatto  seguire  ad  esso  la  risposta  che 
nello  stesso  anno  1907  il  Croce  fece  ai  suoi  critici, 
e  due  scritti  pubblicati  nel  1919  e  nel  1920,  nei  quali 
egli  ritorna  sul  suo  vecchio  giudizio  per  ribadirlo  e 
particolareggiarlo.  In  appendice  è  un  cenno  e  un 
saggio  delle  discussioni  sollevate  di  recente  sul  Pa- 
scoli, a  proposito  di  questi  scritti  del  Croce. 

L'EDITORE. 


I 

GIOVANNI  PASCOLI 

I. 

Leggo  alcune  delle  più  celebrate  poesie  di 
Giovanni  Pascoli,  e  ne  provo  una  strana  impres- 
sione. Mi  piacciono?  mi  spiacciono?  SI,  no:  non 
so.  Non  mi  smarrisco  per  questo,  e  non  me  la 
prendo  né  con  la  insufficienza  mia  né  con  quella 
del  poeta.  So  bene  che  il  giudizio  dell'arte,  ben- 
ché si  fondi  sulla  ingenua  impressione,  non  si 
esaurisce  nelle  cosiddette  prime  impressioni,  e 
che  Ruggero  Bonghi  fraintese  quando  scambiò 
e  criticò  Tuna  per  le  altre,  la  logica  della  fan- 
tasia per  la  illogica  del  capriccio.  E  so  bene  che 
artisti  assai  energici  disorientano,  alla  prima,  il 
lettore:  s'impegna  come  una  lotta  tra  l'anima 
conquistatrice  e  un'altra  che  non  vuole  —  eppur 
vuole,  —  lasciarsi  conquistare:  lotta  di  amori 
estetici,  arieggiante  quasi  quella  dei  sessi  che 
corre  attraverso  tutto  il  mondo  animale  e  che 
testé  il  De  Gourmont  ci  ha  descritta  in  un  suo 

B.  Croce,  Giovanni  Pascoli.  1 


2  I  -  GIOVANNI   PASCOLI 

libro  popolare.  Dunque,  non  mi  smarrisco,  mi 
rimetto  all'opera,  rileggo  e  rileggo  ancora.  Ma, 
per  quanto  rilegga,  per  quanto  torni  a  quella 
lettura  dopo  lunghe  pause,  la  strana  perplessità 
si  rinnova.  Odi  et  amo:  come  mai?  Nescio:  sed 
fieri  sentio  et  excrucior. 

Non  è  poeta  grande  colui  che  ha  concepito 
/  due  cugini?  I  due  bambini  giocano  tra  loro, 
e  si  amano:  quando  si  vedono,  corrono,  anzi 
volano  l'uno  verso  l'altro,  con  tale  impeto  di 
gioiosità  infantile  abbracciandosi,  che  i  loro  ber- 
retti cascano  e  i  capelli  biondi  mescolano  i  ric- 
cioli. Ma  quei  giuochi,  quegli  amori  sono  spez- 
zati: l'uno  dei  due,  il  maschietto,  muore: 

appassi  come  rosa 
che  in  boccio  appassisce  nell'orto. 

E  l'altra  resta  legata  a  lui:  è  «la  piccola  sposa 
del  piccolo  morto  ».  La  bambina  cresce:  si  cresce 
rapidamente  in  quegli  anni:  si  fa  giovinetta,  già 
quasi  donna.  Ma  l'altro  no:  si  è  fermato:  colà 
dove  l'hanno  deposto,  non  si  cresce.  Sembra  che, 
quando  rivede  la  sua  cuginetta,  che  si  svolge  e 
fiorisce  col  misterioso  irrefrenabile  impulso  della 
vita  e  del  sesso,  egli  le  stia  innanzi  tra  mera- 
vigliato, smarrito  e  umiliato: 

col  capo  non  giunge 
al  seno  tuo  nuovo,  che  ignora. 

Quella  l'ama  sempre:  sempre  le  par  di  udir  in- 
torno a  sé  «  la  fretta  dei  taciti  piedi».  Ma  il 
morto  non  le  sorride:  la  giovinetta  fiorente  non 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  6 

è  più,  per  lui,  la  compagna  di  una  volta;  sente 
che  gli  è  sfuggita,  che  non  gli  appartiene  più: 

piangendo  l'antica  sventura, 
tentenna  il  suo  capo  di  bimbo. 

Movimenti  ed  immagini  di  grande  bellezza,  cer- 
tamente. Ma,  per  un  altro  verso,  già  nel  metro 
adottato,  la  terzina  di  novenari,  si  avverte  qual- 
cosa non  saprei  se  di  ballato  o  di  ansimante, 
che  stona  con  la  calma  sospirosa  e  dolorosa  del 
piccolo  idillio  triste.  La  struttura  generale  è 
spiacevolmente  simmetrica:  divisa  in  tre  parti, 
che  paiono  le  tre  proposizioni  di  un  sillogismo. 
Il  principio  è  un  ex-abrupto,  non  libero  di  enfasi 
o  di  teatralità: 

S'amavano  i  bimbi  cugini; 

l'immagine,  che  segue,  è  leziosa: 

pareva  l'incontro  di  loro 
l'incontro  di  due  lucherini. 

L'insistenza  è  soverchia,  e  anche  di  effetti  tor- 
bidi. È  stupendamente  detto: 

Tu,  piccola  sposa,  crescesti; 
man  mano  intrecciavi  i  capelli, 
man  mano  allungavi  le  vesti. 

E  il  crescere  veduto  realisticamente,  ma  soffuso 
di  gentilezza:  non  ci  vorrebbe  altro.  Ma  no:  il 
metro  continua  per  suo  conto: 

Crescevi  sott'occhi  che  negano 
ancora;  ed  i  petali  snelli 
cadevano:  il  fiore  già  lega: 


4  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

fatica  di  paragoni,  che  ottenebra  e  non  potenzia 
l'immagine  già  perfettamente  determinata.  E  il 
metro  continua  ancora,  come  un  cavallo  che, 
nonostante  gli  abbiate  fatto  sentire  il  morso,  vi 
trasporta  per  un  altro  tratto  di  via,  che  non  si 
doveva  percorrere: 

Ma  l'altro  non  crebbe.  Dal  mite 
suo  cuore,  ora,  senza  perchè, 
fioriscono  le  margherite 

e  i  non  ti  scordare  di  me; 

dove  quel  «  senza  perchè  »  mi  sembra  davvero 
senza  perchè;  e  la  fiorita  sulla  tomba  è  roba 
vieta,  resa  più  vieta  ancora  dalla  romanticheria 
di  quei  «  non  ti  scordare  di  me  » ,  che  cascano 
mollemente  formando  la  chiusa  del  paragrafetto. 
Ahi!  lo  specchio  tersissimo  si  è  appannato:  il  ca- 
polavoro è  rimasto  a  mezzo, 

come  rosa 
che  in  boccio  appassisce  nell'orto. 

Valentino  è  un  altro  bambino.  Solo  un  occhio 
di  poeta  può  scoprire  e  far  valere  un'immagine 
tanto  graziosa.  È  un  contadinello  tutto  vestito 
di  nuovo,  ma  a  piedi  scalzi:  la  madre,  che  lo 
ha  visto  tremar  di  freddo  durante  il  gennaio, 
ha  messo  da  parte  a  soldo  a  soldo  un  piccolo 
gruzzolo;  e  il  gruzzolo  è  bastato  per  comprare 
il  panno  della  veste  e  non  già  anche  per  la  spesa 
delle  scarpe:  il  grande  sforzo  di  quella  veste  lo 
ha  esaurito: 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  5 

Costa  :  che  mamma  già  tutto  ci  spese, 

quel  tintinnante  salvadanaio: 
ora  esso  è  vuoto,  e  cantò  più  d'un  mese, 

per  riempirlo,  tutto  il  pollaio. 

Un  solo  aggettivo  ben  collocato  è  atto  a  sugge- 
rire una  serie  d'immagini:  quasi  si  vede  la  po- 
vera donna,  che  scuote  e  fa  «tintinnare»  il  rozzo 
salvadanaio  di  creta,  per  accertarsi  del  tesoretto 
che  vi  ha  accumulato  con  tanto  stento: 

é  tu,  magro  contadinello, 
restasti  a  mezzo,  così,  con  le  penne, 
ma  nudi  i  piedi  come  un  uccello... 

La  figura  si  raggentilisce  in  questo  sorriso,  fatto 
d'intenerimento:  il  contadinello  è  magro,  diventa 
leggiero,  si  associa  naturalmente  all'immagine 
dell'uccello.  Come  un  uccello,  egli  non  prova 
impaccio  né  sente  il  ridicolo  del  suo  abbiglia- 
mento a  mezzo: 

come  l'uccello  venuto  dal  mare, 
che  tra  il  ciliegio  salta,  e  non  sa 

ch'oltre  il  beccare,  il  cantare,  l'amare, 
ci  sia  qualch'altra  felicità. 

Capolavoro?  Neppur  qui.  Io  ho  riferito  versi 
e  strofe  singole,  trascegliendo  nel  piccolo  com- 
ponimento. Ma,  se  ve  l'avessi  letto  intero,  ve  ne 
avrei  dato  forse  un  concetto  assai  minore.  Lascio 
stare  il  lungo  ricamo  che  il  Pascoli  fa  sul  partico- 
lare dei  piedini  nudi.  «  Piedini  nudi  »,  dice  tutto; 
ma  il  Pascoli,  invece,  non  senza  giuoco  di  parole: 

solo  ai  piedini  provati  dal  rovo 
porti  la  pelle  dei  tuoi  piedini... 


6  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

E  non  si  contenta: 

porti  le  scarpe  che  mamma  ti  fece, 
che  non  mutasti  mai  da  quel  dì, 
che  non  costarono  un  picciolo... 

Insopportabile  è,  che  faccia  poi  un  simile  ricamo 
anche  al  pollaio,  che  aveva  cosi  bene  e  sobria- 
mente evocato: 

e  le  galline  cantavano:    Un  cocco! 
ecco  ecco  un  cocco  un  cocco  per  te! 

Il  delicato  poeta  si  è  messo  a  rifare  il  verso  ai 
polli!  E  si  resta  con  quel  grido  fastidioso  negli 
orecchi,  che  pur  non  fa  dimenticare  del  tutto  il 
«tintinnante  salvadanaio». 

Non  meno  originale,  ossia  poetico,  è  il  Sogno 
della  vergine.  Anche  la  donna  che  non  ha  avuto 
figli,  la  vergine,  è  una  madre,  madre  in  potenza: 
esistono  non  solo  i  figli  che  sono  nati,  ma  i  «  tigli 
non  nati»,  bella  immagine  che  il  Pascoli  ha,  a 
quanto  credo,  creata  lui,  e  che  ritorna  in  molti 
suoi  versi.  La  vergine  dorme,  e  la  madre  che  è 
in  lei  sogna  in  quel  sonno:  il  sangue,  che  scorre 
per  le  sue  membra,  le  si  trasmuta  e  addolcisce 
come  in  latte: 

Stupisce  le  placide  vene 
quel  flutto  soave  e  straniero, 
quel  rivolo  labile,  lene, 

d'ignota  sorgente,  che  sembra 
che  inondi  di  blando  mistero 
le  pie  sigillate  sue  membra... 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  7 

La  vaga  aspirazione  si  concreta  in  un  piccolo 
essere:  il  sogno  s'intensifica:  accanto,  ella  sente 
un  alito,  un  piccolo  vagito: 

Un  figlio!  che  posa  sul  letto 
suo  vergine  !  e  cerca  assetato 
le  fonti  del  vergine  petto  ! 

E  com'è  materno  quel  sogno!  Il  bambino  non 
sorride,  trionfante  di  vita:  il  bambino  ha  bisogno 
della  difesa  di  sua  madre,  che  tanto  più  lo  sogna 
e  l'ama  quanto  più  le  par  di  doverlo  difendere: 
egli  «piange  il  suo  tacito  pianto  >.  Tacito:  è  un 
pianto  veduto  nel  sogno. 

Ma  come,  d'altro  canto,  è  lungo  quel  compo- 
nimento, la  cui  sostanza  poetica  sta  tutta  nelle 
poche  immagini  ora  ricordate!  È  diviso  in  cinque 
parti:  vi  si  descrive  in  principio  la  vergine  dor- 
mente e  il  lume  che  vacilla  nell'ombra  della 
stanza:  quasi  che  tale  messa  in  iscena  possa  pre- 
parare in  alcun  modo  la  poesia,  la  quale  comincia 
solo  con  l'immagine  del  sangue  che  si  fa  latte. 
Il  Pascoli  non  se  ne  sta  alla  espressione  delle 
«pie  membra  sigillate»:  spiega: 

le  gracili  membra  non  sanno 

lo  schianto,  non  sanno  l'amplesso... 

e  la  spiegazione  ridondante,  in  materia  così  sca- 
brosa, era  da  evitare.  Neppure  sta  pago  ad  escla- 
mare, all'improvviso  sorgere  del  bambino  che 
brancola  cercando  avidamente  il  seno  della  madre: 

0  fiore  d'un  intimo  riso 
dell'anima! 


8  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

che  è  forse  già  un  comento  piuttosto  eloquente 
che  poetico;  ma  coraenta  il  comento  e  dà  in  ar- 
gutezze o  agudezas: 

o  fiore  non  nato 
da  seme,  e  sbocciato  improvviso  ! 

Tu  fiore  non  retto  da  stelo, 
tu  luce  non  nata  da  fuoco, 
tu  simile  a  stella  del  cielo, 

del  cielo  dell'anima... 

Il  bambino  è  allontanato  dal  fianco  materno  e 
riposto  fantasticamente  in  una  culla.  E  la  culla 
assume  una  grande  importanza,  tanto  che  le  si 
rifa  il  verso  come  altra  volta  al  pollaio: 

Si  dondola  dondola  dondola 
senza  rumore  la  culla 
nel  mezzo  al  silenzio  profondo; 

il  che  è  inopportuno,  ma  chiaro.  E  al  Pascoli  non 
par  chiaro,  e  aggiunge  un  paragone: 

cosi  come  tacita  al  vento, 
nel  tacito  lume  di  luna, 
si  dondola  un  cirro  d'argento. 

E  vi  ha,  nel  resto  del  componimento,  esortazioni 
al  bimbo  perchè  sorrida  un  istante;  e  vi  si  narra 
il  sorgere  dell'alba  e  lo  svanire  del  sogno  :  narra- 
zione per  lo  meno  altrettanto  esuberante,  quanto 
prima  la  descrizione  della  stanza  e  della  lampada 
da  notte. 

Il  padre  del  Pascoli  fu  assassinato,  una  sera, 
sulla  via  campestre,  mentre  tornava  alla  sua  casa. 
La  mattina  di  quel  giorno  d'inenarrabile  strazio 
e  terrore,  l'ultima  volta  che  i  suoi  lo  videro  vivo, 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  \) 

è  ricordata  in  ogni  minimo  particolare:  con  quel 
perduto  dolore  dell'animo  che  dice:  —  potevamo 
non  lasciarlo  andar  via,  quel  mattino,  e  sarebbe 
ancora  tra  noi!  —  E  la  memoria  scopre,  o  l'illu- 
sione fa  immaginare,  particolari  quasi  profetici. 
Il  padre  stava  per  salire  sulla  carrozza,  circon- 
dato dai  suoi,  dalla  moglie,  dai  figliuoli  grandi 
e  piccini,  usciti  sulla  strada  a  salutarlo.  Ma,  nel- 
l'appressarsi  ch'egli  fece  al  suo  cavallo: 

la  più  piccina  a  lui  toccò  la  mazza. 

Gli  prese  il  bastone,  come  per  tirarlo  indietro, 
e  ruppe  in  pianto.  Non  voleva  ch'egli  andasse 
via:  non  voleva,  così,  irragionevolmente,  come 
bimba  che  era;  ed  egli  dovette  ingannarla,  per 
acchetarla:  farle  credere  che  rientrava  in  casa, 
ed  uscire  da  un'altra  porta.  Quella  manina  di 
bimba  è  indimenticabile.  Si  sfiora  quasi  la  genia- 
lità propria  dell'artista,  che  coglie  con  un  sol 
tratto  un  mondo  di  sentimenti.  Ma  si  sfiora  sol- 
tanto, e  si  perde  daccapo.  Che  cosa  diventa  quel 
tocco  affettuoso  e  spaventato  di  debole  manina 
presaga? 

E  un  poco  presa  egli  sentì,  ma  poco 
poco  la  canna,  come  in  un  vignuolo, 
come  v'avesse  cominciato  il  nodo 
un  vilucchino  od  una  passiflora... 

Diventa  Io-Studio  di  una  presidi  manojnfantile. 
Al  quale  segue  lo  studio  della  mano: 

Sì:  era  presa  in  una  mano  molle, 
manina  ancora  nuova,  così  nuova 
che  tutto  ancora  non  chiudeva  a  modo. 


10  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

Andiamo  innanzi:  i  bambini  attorniano  il  padre, 
chiamando  com'è  lor  uso: 

Egli  poneva  il  piede  sul  montante; 
e  in  un  gruppo  le  tortori  tubarono, 
e  si  senti:  —  Papà!  Papà!  Papà! 

Quell'episodio  commovente  è  accentuato  in  tal 
modo,  e  cosi  materialmente,  nelle  sue  minuzie, 
che  ogni  commozione  sfuma.  Tanto  che  io  mi 
distraggo,  e  mi  par  d'avere  udito  altra  volta  un 
simile  vocìo  bambinesco,  ma  in  un'arte  più  alle- 
gra; sì,  per  l'appunto,  in  un'opera  buffa  napole- 
tana, emesso  da  un  gruppo  di  bambini  che  at- 
tornia il  papà  che  li  ha  condotti  a  una  fiera.  Solo 
che  i  bambini  dell'opera  buffa  cantano  bene,  per- 
chè si  tratta  di  opera  buffa;  e  quelli  del  Pascoli, 
nell'angoscioso  ricordo,  stonano. 

E  poi,  se  altro  non  fosse,  basterebbe  anche 
qui,  a  turbare  tutta  l'ispirazione,  il  metro  ado- 
prato:  un  metro  quasi  epico,  lasse  di  dieci  en- 

»  decasillabi  con  assonanze.  —  Lo  stesso  sbaglio 
fondamentale  è  nell'altro  episodio  della  medesima 
tragedia   domestica:   La   cavalla  storna,  svolto 

^jiel  metro  di  un'antica  romanza.  Eppuxe.  c'è  l'ab- 
bozzo, o  il_nòcciolo,  di  una  grande  poesia!  La 
madre,  rimasta  priva  del  marito  vilmente  am- 
mazzato da  uno  sconosciuto,  ha  sempre  fisso  il 
pensiero  in  quel  caso  d'orrore.  Chi,  e  perchè, 
gliel'ha  ucciso?  Nessuno  era  presente;  ma  l'uc- 
ciso aveva  con  sé  la  sua  cavalla  prediletta,  una 
cavallina  storna,  che  riportò  verso  casa  il  corpo 
sanguinante  del  suo   padrone.  Quella   cavallina 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  11 

è  sempre  là,  nella  scuderia:  ha  visto,  sa,  un  mi- 
racolo potrebbe  farla  parlare.  E  la  donna,  con 
quel  pensiero  in  capo  e  con  quegli  atti  quasi 
da  folle  che  accompagnano  il  dolore,  va  a  notte 
silente  nella  scuderia,  e  si  pone  accanto  alla  ca- 
vallina, e  le  parla  e  piange  e  supplica:  e  vuole 
aiutarla  a  significare  ciò  che  sa.  Pronuncia  un 
nome,  il  nome  che  ella  sospetta:  lo  pronuncia 
solennemente:  «alzò  nel  gran  silenzio  un  dito:... 
disse  un  nome...  ».  Ed  ecco  s'ode  subito,  alto,  un 
nitrito  di  conferma!  —  La  poesia  si  trascina  non 
senza  fastidio  con  la  solita  descrizione  iniziale, 
con  l'allocuzione  verbosa  della  madre,  ripartita 
in  quattro  parti  e  pause.  Ma  l'ansia  della  povera 
dolente  è  resa  con  tratti  di  grande  efficacia.  Sotto 
quell'ansia,  sotto  quell'implorante  confidenza,  la 
cavallina  si  umanizza,  diventa  una  persona  di 
casa,  cara  tra  i  suoi  cari,  partecipe  della  comune 
sventura: 

la  scarna  lunga  testa  era  daccanto 
al  dolce  viso  di  mia  madre  in  pianto: 

quadro  d'infinita  commozione.  E  la  donna  incalza 
nella  sua  preghiera,  presa  dalla  brama  furiosa 
di  sapere,  di  veder  chiaro: 

stava  attenta  la  lunga  testa  fiera... 

Essa  l'abbraccia  come  si   fa  a  un   figliuolo  nel 
'-momento  che  è  stato  vinto  dalla  parola  affet- 
tuosa e  sta  per  confessarsi: 

mia  madre  l'abbracciò  sulla  criniera. 


12  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

La  madre  muore  anch'essa,  e  la  voce  della 
morta  il  Pascoli  la  risente  come  di  chi  chiami 
il  suo  nome,  il  suo  nome  nel  diminutivo  fami- 
liare e  dialettale,  per  parlargli  di  cose  ed  affetti 
domestici.  Non  è  difficile  intendere  che  quel  di- 
minutivo familiare  e  dialettale  non  può  essere 
ripetuto,  nell'alta  commozione  lirica,  cosi  come 
par  di  sentirlo  nella  realtà.  Perchè  ciò  che  deve 
entrare  nella  lirica  è  il  valore  sentimentale 
di  quell'invocazione,  il  suo  accento  intimo  e  fa- 
miliare, che  la  riproduzione  fonica  delle  sillabe 
contraffa  e  non  rende.  Il  Pascoli  ha  un  inizio 
spontaneo,  commosso  e  vivo:  ~ 

C'è  una  voce  nella  mia  vita, 
che  avverto  nel  punto  che  muore: 

voce  stanca,  voce  smarrita, 
col  tremito  del  batticuore: 

voce  d'una  accorsa  anelante, 
che  al  povero  petto  s'afferra 

per  dir  tante  cose  e  poi  tante, 
ma  piena  ha  la  bocca  di  terra. 

È  questa  veramente  l'immagine  della  madre  nel 
suo  gesto  d'abbandono  al  petto  fidato  del  Aglio, 
per  isfogare  ciò  che  le  preme  sul  cuore:  della 
madre,  così  come  riappare  attraverso  la  morte 
e  il  cimitero,  deturpata  dalla  morte,  bagnata  di 
pianto.  Ma  il  Pascoli  riattacca: 

tante  tante  cose  che  vuole 
ch'io  sappia,  ricordi,  sì...  sì... 

Ma  di  tante  e  tante  parole 
non  sento  che  un  soffio...  Zvani...  (l). 


(*)  «  Giovannino  > ,  in  dialetto  romagnolo. 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  13 

E  codesta  è  una  profanazione,  che  non  accrescerò 
col  mio  comento:  come  l'accresce  per  suo  conto 
l'autore,  che  aggiunge  altre  sei  parti,  della  me- 
desima lunghezza  della  prima  che  ho  trascritta, 
e  tutte  sei  finiscono  con  quel  nome,  con  quel 
Zvani.  Il  soffio  della  voce  della  morta  si  è  vol- 
garizzato in  un  ritornello!  Pure,  il  ritornello,  così 
malamente  scelto,  non  soffoca  del  tutto  il  suono 
di  quella  voce  di  morta: 

voce  stanca,  voce  smarrita, 
col  tremito  del  batticuore... 

Ai  suoi  morti  è  dedicato  ancora  TI  giorno  (\,p,i 
morti,  cosi  pesantemente  sceneggiato  e  dram- 
matizzato, in  cui  ciascuno  dei  morti  parla  a  sua 
volta  compiangendo  e  lodando  sé  stesso.  Vi  sono 
accenti  commossi:  il  padre,  ammazzato  a  tradi- 
mento, dice: 

0  figli,  figli!  vi  vedessi  io  mai! 
io  vorrei  dirvi,  che  in  quel  solo  istante 
per  un'intera  eternità  v'amai. 

Ma,  pronunziate  appena  quelle  parole,  par  che 
ne  resti  come  affascinato,  e  le  volta  e  rivolta  in 
varia  forma: 

In  quel  minuto  avanti  che  morissi 
portai  la  mano  al  capo  sanguinante, 
e  tutti,  o  figli  miei,  vi  benedissi. 

Io  gettai  un  grido  in  quel  minuto,  e  poi, 
mi  pianse  il  cuore:  come  pianse  e  pianse 
e  quel  grido  e  quel  pianto  era  per  voi. 

Oh  le  parole  mute  ed  infinite 
che  dissi!  con  qual  mai  strappo  si  franse 
la  vita  viva  delle  vostre  vite... 


14  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

affinando,  dunque,  quel  grido  perfino  in  un  bistic- 
cio e,  in  un'allitterazione. 

Il  ciocco  è  un'altra  delle  ispirazioni  profonde 
del  Pascoli,  che  pur  lascia  mal  soddisfatti,  guar- 
dando alla  composizione  e  al  complesso  della  poe- 
sia. La  prima  parte  è  stata  biasimata  pei  tanti 
oscuri  vocaboli  del  contado  lucchese  che  l'autore 
vi  ha  introdotti,  e  che  hanno  resa  necessaria  nelle 
nuove  edizioni  l'aggiunta  di  un  glossarietto.  Ma 
non  sarebbe  poi  gran  male  se  fossimo  costretti 
a  studiare  qualche  centinaio  di  vocaboli  per  giuri 
gere  all'intendimento  di  un'opera  bella.  Coraggio, 
pigri  lettori!  ben  altre  fatiche  di  preparazioni 
godimenti  artistici  sogliono  richiedere.  Senonchè 
quella  taccia,  come  accade,  ne  nasconde  un'altra, 
che  è  la  vera,  concernente  rejccesaiva_preoccu- 
pazione  dell'autore  per  inezie  di  costumi  e  di  re- 
la  ti vj_ej^rjssioni,  inconciliabile  col  motivo  fonda- 
mentale, della,  poesia,  che  si  svolge  nella  seconda 
parte,  in  cui  l'anima  si  eleva  nella  contempla- 
zione del  cielo  stellato.  E  anche  questa  seconda 
parte,  che  ha  tratti  assai  felici,  offende  per  le 
immagini  incongrue  o  troppo  dilatate,  e  per  le 
ripetizioni  stucchevoli.  Così  gli  astri,  che  girano 
pel  cielo,  suggeriscono  al  Pascoli  un  sottile  pa- 
ragone con  le  zanzare  e  coi  moscerini,  che  girano 
intorno  a  una  lanterna  accesa,  penzolante  dalla 
mano  di  un  bambino  che  ha  perduto  una  mone- 
tina in  una  landa  immensa  e  la  va  cercando  e 
singhiozza  nel  buio.  Al  supremo  momento  lirico 
si  giunge,  quando  alla  mente  del  contemplatore 
si  affaccia  il  pensiero  della  morte  avvenire  delle 


le,     1 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  15 

cose  tutte,  la  fine  dell'uni  verso;  e  nel  suo  cuore 
sorge  una  deserta  angoscia  pel  morire  non  già 
dell'individuo,  ma  della  vita  stessa:  per  l'indi- 
viduo che  muore  senza  che  altri  faccia  splendere 
accanto  a  lui,  riaccesa,  la  fiaccola  della  vita: 

Anima  nostra!  fanciulletto  mesto! 
nostro  buono  malato  fanciulletto, 
che  non  t'addormi  s'altri  non  è  desto  !  ' 

felice,  se  vicina  al  bianco  letto 
s'indugia  la  tua  madre  che  conduce 
la  tua  manina  dalla  fronte  al  petto  : 

contenta  almeno,  se  per  te  traluce 
l'uscio  da  canto,  e  tu  senti  il  respiro 
uguale  della  madre  tua  che  cuce... 

Il  sentimento  di  questa  inquietezza  e  di  questo 
quietarsi  puerile  è  compiutamente  espresso.  Che 
si  possa  continuare  ancora,  indefinitamente,  nel- 
l'enumerazione o  nella  gradazione  ascendente  e 
discendente  di  tutti  i  segni  di  vita  che  valgono 
a  rasserenare  un  fanciullo  nella  sua  paura  della 
solitudine  e  a  farlo  addormentare  tranquillo,  nes- 
suno dubita:  ma  la  lirica  non  è  enumerazione. 
Il  Pascoli  non  sembra  di  questo  parere,  e  pro- 
segue: 

il  respiro  o  il  sospiro  :  anche  il  sospiro  : 
o  almeno  che  tu  oda  uno  in  faccende 
per  casa,  o  almeno  per  le  strade  a  giro  ; 

o  veda  almeno  un  lume  che  s'accende 
da  lungi  e  senta  un  suono  di  campane, 
che  lento  ascende  e  che  dal  cielo  pende... 

Si  fermerà  a  quest'ultimo  verso,  del  quale  evi- 
dentemente, cantandolo,  si  è  compiaciuto?  Ta- 


16  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

cera  contento  di  quest'ultima  dolcezza  che  lo 
sazia?  Non  ancora:  ha  ripreso  il  <  sospiro»,  e 
riprende  il  «  lume  »: 

Almeno  il  lume,  e  l'uggiolìo  d'un  cane: 
un  fioco  lume,  un  debole  uggiolìo: 
un  lumicino:  Sirio:  occhio  del  Can.e 

che  veglia  sopra  il  limitar  di  Dio! 

Ora,  almeno,  ha  finito?  Neppure;  perchè  più 
oltre  ripiglia  lo  stesso  motivo,  rimandolo  in 
quartine. 

Potrei  non  finire  neppur  io,  e  addurre  altri 
esempi,  facilissimi  a  moltiplicarsi;  e  da  tutti  usci- 
rebbe la  stessa  conclusione:  la  perplessità,  in  cui 
gettano  l'animo  le  poesie  del  Pascoli,  che  sem- 
brano perpetuamente  oscillare  tra  il  capolavoro 
e  il  pasticcio,  senza  che  le  parti  belle  vincano 
e  facciano  dimenticare  le  brutte,  ma  anche  senza 
che  le  brutte  facciano  dimenticare  le  belle;  dando 
al  lettore  e  al  critico  quel  tormento,  al  quale  ho 
accennato  in  principio. 


II. 


Artisti  che  mescolano  più  o  meno  nelle  loro 
opere  il  bello  e  il  brutto,  la  lirica  e  la  retto- 
rica,  l'impeto  e  lo  stento,  la  semplicità  e  Ya,f>\&* 
fettazione,  sono  caso  assai  frequente;  e  rari  sono 
invece  coloro  la  cui  opera  complessiva  si  pre- 
senta con  carattere  di  perfezione  e  di  sceltezza,-*/** 
perchè  hanno  lavorato  solo  nei  momenti  di  piena 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  17 

interna  armonia,  o  hanno  esercitato  tale  vigi- 
lanza sopra  sé  stessi  da  tener  celate  o  da  sop- 
primere le  cose  loro  imperfette.  I  più  affidano  la 
cernita  al  tempo  galantuomo  e  alla  critica. 

E  la  critica  suggerisce  a  questo  propositojiue 
procedimenti,  che  più  volte  i  lettori  mi  hanno 
visto  adoperare  in  queste  pagine.  Il  primo  è  di 
tentare  una  divisione  nel  tempo,  e  il  secondo  di 
tentarla  (per  cosi  esprimermi)  nello  spazio.  Vi 
sono,  infatti,  artisti  che  da  una  torbida  e  diva- 
gante produzione  giovanile  giungono,  nella  ma- 
turità, al  possesso  di  sé  medesimi;  o  che  a  una 
produzione  geniale  fanno  seguire  l'imitazione  di 
sé  medesimi,  e,  volendo,  validius  inflare  sese, 
come  la  rana  di  Fedro,  rupto  iacent  corpore; 
e,  in  tali  casi,  si  possono  distinguere,  con  limiti 
cronologici,  le  loro  varie  personalità.  Ma  ve  ne 
ha  altri  i  quali,  durante  tutta  la  lor  vita,  alter- 
nano le  varie  personalità,  e,  per  esempio,  nel 
periodo  stesso  che  cantano  commosse  poesie 
d'amore,  ne  compongono  altre  falsamente  eroi- 
che e  politiche.  Essi  posseggono  due  strumenti, 
l'uno  sinfono  e  l'altro  asinfono,  per  dirlo  nobil- 
mente in  greco,  o  l'uno  accordato  e  l'altro  scor- 
dato, per  dirlo  umilmente  in  volgare,  e  suonano 
ora  sull'uno  ora  sull'altro;  e,  forse,  di  quello 
scordato,  su  cui  si  travagliano  e  sudano,  si  van- 
tano assai  più  che  non  di  quello  accordato  e 
docile  alle  loro  dita.  Per  costoro  la  divisione  si 
deve  condurre  secondo  i  motivi  d'arte,  gli  spon- 
tanei e  gli  artificiosi,  che  muovono  la  loro  pro- 
duzione. 

B.  Croce,   Giovanni  Pascoli.  2 


18  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

Al  Pascoli  si  è  cercato  di  applicare  ora  l'uno 
ora  l'altro  procedimento;  e,  per  cominciare  dal 
primo,  si  è  detto,  e  si  è  scritto  anche,  che  chi 
voglia  avere  innanzi  a  sé  il  Pascoli  vero,  il  Pa- 
scoli poeta,  deve  lasciare  in  disparte  la  sua  pro- 
duzione degli  ultimi  anni,  e  risalire  a  quella  più 
vecchia,  ai  Poemetti,  alle  Myricae,  quali  com- 
parvero in  pubblico  nel  modesto  volumino  del 
1892.  E  poiché,  si  sa,  le  opinioni  variano,  si  è 
anche  manifestato  il  parere  inverso,  che  il  Pa- 
scoli vero  non  bisogni  cercarlo  nelle  poesie  gio- 
vanili, ma  nelle  ispirazioni  della  piena  maturità, 
culminanti  nei  Poemi  conviviali  e  negli  Inni. 

Ed  io  mi  provo  a  seguire  l'una  e  l'altra  in- 
dicazione; e,  dapprima,  risalgo  ai  Poemetti  e  alle 
Myricae.  Rileggo  la  Senignja,  che  è  tra  i  più 
pregiati  e  pregevoli  dei  poemetti:  prima  parte 
di  un  «poema  georgico  »,  come  è  stato  chiamato. 
Accostarsi  a  quei  versi  e  respirare  l'aria  della 
campagna,  aspirarne  gli  effluvi,  vedere  il  caso- 
lare, i  campi,  le  opere  domestiche  e  rurali  dei 
contadini,  udirne  i  discorsi  infiorati  di  proverbi 
e  di  sentenze,  sentire  dappertutto  il  profumo 
agreste  delle  cose  e  delle  anime;  è  un'impres- 
sione immediata.  Il  poemetto  s'inizia  con  un  ri- 
sveglio mattinale  in  una  casa  di  contadini:  una 
delle  fanciulle  apre  l'imposta,  i  rumori  della  vita 
ricominciano  e  vi  sono  orecchi  che  li  raccolgono: 
la  cappellaccia  manda  dal  cielo  il  suo  garrito, 
la  gallina  raspa  sul  ciglio  di  un  fosso,  il  cane  di 
guardia  s'alza,  scuote  la  brina  scodinzolando,  con 
uno  sbadiglio:  si  odono  per  la  campagna  i  pennati 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  19 

che  squillano  sul  raarrello.  La  fanciulla  si  accosta 
al  davanzale,  monda  le  piante,  coglie  una  spiga 
d'amorino;  e  poi,  a  quel  davanzale  stesso,  co- 
mincia a  ravviarsi  i  capelli,  come  contadina, 
alla  grande  aria,  in  faccia  al  sole: 

or  luce  or  ombra  si  sentia  sul  viso; 
che  il  sol  montando  per  il  cielo  a  scale, 
appariva  e  spariva  all'improvviso. 

Così  è  descritta  l'intera  giornata.  Il  fruscio  stri- 
dulo delle  granate  passa  e  ripassa  per  la  casa, 
che  ha  ormai  tutte  le  imposte  spalancate:  si  ri- 
governa la  cucina,  dove  le  stoviglie  paiono  ris- 
sare tra  loro  nel  silenzio  del  mattino.  Più  tardi, 
si  apparecchia  il  desinare  per  gli  uomini  che 
lavorano  nei  campi: 

sul  tagiier  pulito 
lo  staccio  balzellò  rumoreggiando. 

Il  bianco  fiore  ella  ammucchiò  :  col  dito 
aperse  il  mucchio,  e  vi  gettava  il  sale 
e  tiepid'acqua  dal  paiolo  avito. 

Poi  ch'ebbe  intriso,  rimenò  l'uguale 
pasta  e  poi  la  parti:  staccò  dal  muro 
il  matterello,  strinse  il  grembiale; 

e  le  spianate  assottigliò  col  duro 
legno,  rotondo,  a  una  a  una;  e  presto 
sì  le  portava  al  focolare  oscuro. 

Via  via  la  madre  le  ponea  nel  testo, 
sopra  gli  accesi  tutoli;  e  su  quello 
le  rigirava  con  un  lento  gesto  : 

né  cessava  il  rullìo  del  matterello. 

Tutti  i  gesti,  tutti  gli  oggetti,  tutte  le  colloca- 
zioni spaziali,  sono  individuati  con  nitidezza  non 


20  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

facilmente  superabile.  —  E  si  assiste  così  anche 
alla  cottura  degli  erbaggi  all'olio: 

Ora  la  madre  ne  la  teglia  un  muto 
rivolo  d'olio  infuse,  e  di  vivace 
aglio  uno  spicchio  vi  tritò  minuto. 

Pose  la  teglia  su  l'ardente  brace, 
col  facile  olio,  e  solo  intenta  ad  esso 
un  poco  d'ora  l'esplorò  sagace. 

L'olio  cantò  con  murmure  sommesso; 
un  acre  odore  vaporò  per  tutto. 
Fumavano  le  calde  erbe  da  presso, 

nel  tondo,  ch'ella  inebriò  del  flutto 
stridulo,  aulente;  e  poi  nel  canovaccio 
nitido  e  grosso  avviluppava  il  tutto. 

E  Rosa  in  tanto  sospendea  lo  staccio, 
poneva  i  pani  sopra  un  bianco  lino, 
stringea  le  cocche,  e  v'infilava  il  braccio. 

Tornò  Viola  e  furono  in  cammino. 

La  scena  ci  sta  innanzi  agli  occhi  come  in  un 
quadro:  è  larverà  vita  campestre.  Sì:  ma  e  l'in- 
tonazione, cioè  il  significato  estetico,  cioè  l'anima, 
di  queste  descrizioni  e  dell'intero  poemetto?  Il 
Pascoli  non  compone  egloghe  più  o  meno  alle- 
goriche, come  nel  medioevo  e  nel  Rinascimento; 
non  vuol  rinfrescare  le  sensazioni  erotiche  im- 
mergendole nella  vita  della  campagna;  non  si 
accosta  ai  contadini  per  curiosarne  le  goffaggini, 
come  nelle  nostre  vecchie  poesie  rusticane,  dalla 
Nencia  del  magnifico  Lorenzo  giù  giù  fino  ai 
Cecchi  da  Varlungo  degli  epigoni  e  tardi  imita- 
tori del  Seicento.  Se  non  m'inganno,  il  suo  pre- 
cedente ideale  è  piuttosto  in  quel  rifacimento 
dell'intonazione  omerica,  che  già  gli  studiosi  di 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  21 

Omero  nella  Germania  della  fine  del  secolo  de- 
cimottavo  tentarono,  e  che  consigliò  a  Volfango 
Goethe  lo  Hermann  und  Dorothee.  L'intonazione 
omerica  si  sente  non  solo  in  certi  collocamenti 
di  epiteti  (il  primo  verso  dice:  «Allorché  Rosa 
dalle  bianche  braccia»:  leucolena,  dunque,  come 
Hera),  e  in  certe  ripetizioni  e  minuterie,  ma  in 
tutto  l'andamento.  Il  metro  non  è  l'esametro,  ma 
la  terzina,  col  serrarsi  deciso  dell'ultimo  verso 
di  coda,  alla  fine  delle  brevi  riprese: 
/    t. 

A  monte  a  mare  ella  guardò  :  guardato 
ch'ebbe,  ella  disse  (udiva  sui  marrelli 
a  quando  a  quando  battere  il  pennato)  : 

aria  a  scalelli,  acqua  a  pozzatelli. 


Domani  voglio  il  mio  marrello  in  mano: 
che  chi  con  l'acqua  semina,  raccoglie 
poi  col  paniere;  e  cuoce  fare  in  vano 

più  che  non  fare.  Incalciniamo,  o  moglie. 

L'intonazione  omerica,  trasportata  alla  vita  umile 
e  alle  umili  cose,  ha  del  gioco  letterario;  come 
si  può  notare  finanche  nella  meravigliosa  ope- 
ricciuola  del  Goethe.  Ma  presso  il  Pascoli  vi  si 
mescola  altresì  qualcosa  ora  di  fine  e  squisito: 

(l'aratro  andava,  ne  l'ombrìa,  pian  piano: 
qualche  stella  vedea  l'opera  lenta... 

una  campana 
si  sentiva  sonare  dal  paese: 
non  più  che  un'ombra  pallida  e  lontana); 

e  ora  di  affettato,  come  nel  racconto  che  il  cac- 
ciatore fa  della  fiaba  della  cinciallegra,  soldato 


22  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

di  guardia  degli  uccelli;  o  nella  preghiera  del- 
l'Angelus: 

Tu  che  nascesti  Dio  dal  piccolo  Ave, 
da  la  sorrisa  paroletta  alata: 
(disse  la  voce  tremolando  grave) 

tu  che  ne  l'aia  bianca  e  soleggiata 
eri  e  non  eri,  seme  che  vi  avesse 
sperso  il  villano  da  la  corba  alzata; 

ma  poi  l'uomo  ti  vide  e  ti  soppresse, 
t'uccise  l'uomo,  o  piccoletto  grano; 
tu  facesti  la  spiga  e  poi  la  messe 

e  poi  la  vita... 

o  in  quest'altro  suono  di  campane: 

Era  nel  cielo  un  pallido  tinnito: 
Dondola  dondola  dondola/  A  nanna 
a  nanna  a  nanna!  —  Il  giorno  era  finito. 

Ed  il  fuoco  accendeva  ogni  capanna, 
e  i  bimbi  sazi  ricevea  la  cuna, 
col  sussurrare  de  la  ninna  nanna. 

E  le  campane,  A  nanna  a  nanna!  l'una; 
l'altra  Dondola  dondola!  tra  il  volo 
de'  pipistrelli  per  la  costa  bruna. 

A  nanna  il  bimbo,  e  dondoli  il  paiuolo  ! 

Il  poemetto  parrebbe  legato  da  un  filo  sottile, 
una  storia  d'amore:  Rosa  ed  Enrico  il  cacciatore 
s'innamorano.  Un  amore  che  prova  pudore  a 
mostrarsi:  appena  accennato  nel  pensiero  di 
Rosa,  che  non  può  pigliar  sonno  e,  quando  s'ad- 
dormenta, sogna: 

Pensava:  i  licci  de  la  tela,  il  grano 
de  la  sementa,  il  cacciatore;  e  Rosa 
lo  ricercava;  dove  mai?  lontano. 

In  una  reggia.  E  risognò...  Che  cosa? 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  23 

Similmente,  nella  seconda  parte  intitolata  l'Ac- 
cestire, è  significato  l'amore  del  giovinotto: 

E  la  sua  strada  seguitò  pian  piano, 
e  ripensava  dentro  sé:  che  cosa? 
ch'era  gennaio...  ch'accestiva  il  grano, 

ch'era  già  tardi...  ch'eri  bella,  o  Rosa! 

È  un  episodio  nel  quadro;  ma,  come  si  è  notato, 
non  è  l'afflato  animatore  del  tutto.  Cosi  anche 
questo  poemetto  ci  lascia  perplessi:  è  nitidissimo 
alla  prima  specie,  e  tuttavia  non  lo  compren- 
diamo bene.  Ora  ha  dell'esercitazione  letteraria, 
ora  della  lirica  tormentata:  il  tono  ora  ci  sembra 
quasi  scherzoso,  esagerato  di  proposito  nelle  mi- 
nuzie come  a  prova  di  bravura,  ora  grave  e  so- 
lenne. È  di  un  poeta?  è  di  un  virtuoso?  Dove 
finisce  il  poeta?  dove  comincia  il  virtuoso? 

Se  dalla  Sementa  risalgo  ancora  più  su,  alle 
prime  Myricae,  trovo,  tra  l'altro,  un  intero  ciclo 
di  piccoli  componimenti  di  dieci  versi  ciascuno: 
L'ultima  passeggiata,  che  si  può  dire  la  prima 
idea  del  poemetto  ora  esaminato.  La  figura  di 
fanciulla,  che  vi  è  accennata,  «  la  reginella  dalle 
bianche  braccia  » ,  è  una  sorella  di  Rosa,  anzi  è 
Rosa  medesima.  Sono  quadretti  minuscoli:  l'ara- 
tura, la  massaia  con  le  sue  galline,  la  via  fer- 
rata e  il  telegrafo  che  percorrono  le  campagne 
recando  l'impressione  della  rumorosa  vita  lon- 
tana, le  comari  che  ciarlano  in  capannello,  l'oste- 
ria campestre  sull'ora  del  mezzodì,  il  partir  delle 
rondini,  l'apparecchio  e  cottura  del  pane  di  cru- 
schello, la  ragazza  che  aiuta  la  madre  nelle  fac- 


24  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

cende  domestiche  e  fa  da  piccola  madre  ai  mi- 
nori fratelli  e  tiene  le  chiavi  del  cassone  della 
biancheria  odorata  di  lavanda,  e  vede  accumu- 
larsi colà  dentro  il  corredo  che  fa  presentire 
prossime  le  nozze.  E  sono  quadretti  perfettamente 
intonati:  non  v'ha  niente  di  ciò  che  stride  o 
appare  incerto  nei  poemetti.  Arano: 

Nel  campo  dove  roggio  sul  filare 
qualche  pampano  brilla,  e  dalle  fratte 
sembra  la  nebbia  mattinai  fumare, 

arano  :  a  lente  grida,  uno  le  lente 
vacche  spinge,  altri  semina:  un  ribatte 
le  porche  con  sua  marra  paziente: 

che  il  passero  saputo  in  cor  già  gode 
e  il  tutto  spia  dai  rami  irti  del  moro  ; 
e  il  pettirosso:  nelle  siepi  s'ode 

il  suo  sottil  tintinno  come  d'oro. 

Le  comari  in  capannello: 

Cigola  il  lungo  e  tremulo  cancello 
e  la  via  sbarra:  ritte  allo  steccato 
cianciano  le  comari  in  capannello  : 

parlan  d'uno,  eh' è  un  altro  scrivo /scrivo, 
del  vin,  che  costa  un  occhio,  e  ce  n'è  stato; 
del  governo;  di  questo  mal  cattivo; 

del  piccino;  del  grande  ch'è  sui  venti; 
del  maiale,  che  mangia  e  non  ingrassa  — 
Nero  avanti  a  quegli  occhi  indifferenti 

il  traino  con  fragore  di  tuon  passa. 

Di  poesie  come  queste  sono  ricche  le  prime  My- 
ricae,  e  ce  n'e  anche  nella  serie  di  quelle  altre 
che  ne  continuano  la  maniera,  aggiunte  nelle 
posteriori  edizioni.  Un'impressione  di  campagna, 
mentre  soffia  il  vento  freddo  e  agita  un  piccolo 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  25 

bucato  di  bimbo,  messo  ad  asciugare  presso  un 
tugurio: 

Come  tetra  la  sizza,  che  combatte 
gli  alberi  brulli  e  fa  schioccar  le  rame 
secche,  e  sottile  fischia  tra  le  fratte! 

Sur  una  fratta  (o  forse  è  un  biancor  d'ale?) 
un  corredino  ride  in  quel  marame: 
fascie,  bavagli,  un  piccolo  guanciale. 

Ad  ogni  soffio  del  rovaio  che  romba, 
le  fascie  si  disvincolano  lente, 
e  da  un  tugurio  triste  come  tomba 

giunge  una  dolce  nenia  paziente. 

Una  fanciulla  cuce  il  suo  abito  di  sposa;  a  un 
tratto  leva  la  testa  e  ride: 

Erano  in  fiore  i  lilla  e  l'ulivelle; 

ella  cuciva  l'abito  di  sposa  ; 
né  l'aria  ancora  apria  bocci  di  stelle, 

né  s'era  chiusa  foglia  di  mimosa: 
quand'ella  rise:  rise,  o  rondinelle 

nere,  improvvisa:  ma  con  chi?  di  cosa? 
rise  così  con  gli  angioli:  con  quelle 

nuvole  d'oro,  nuvole  di  rosa. 

In  queste  poesiole,  nemmeno  le  onomatopee 
di  voci  d'uccelli  e  di  altri  suoni  e  rumori  offen- 
dono j3iù.  Perchè,  a  mio  parere,  hanno  avuto 
torto  i  critici  quando  per  quelle  onomatopee 
hanno  aperto  contro  il  Pascoli  uno  speciale  pro- 
cesso: le  cosiddette  onomatopee  sono  legittime 
o  illegittime  secondo  i  casi;  e  quando  il  Pascoli 
le  adopera  fuori  luogo  (ed^èu-JL-dir  vero,  il  caso 
pijij[requen.te),  l'error  suo  è  una  delle  tante  forme 
di  quella  tendenza  all'insistere  eccessivo,  alla 
minuteria,  alla  riproduzione  materiale,  ossia  di 


26  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

quell'affettazione  e  disposizione  asinfonica  che  è 
in  lui.  Ma  quando,  nelle  prime  Myricae,  scrive 
per  la  prima  volta  l'ormai  famigerato  scilp  dei 
passeri  e  viti  videvitt  delle  rondini,  io  non  trovo 
luogo  a  scandalo,  perchè  in  quel  caso  il  Pascoli 
mantiene  un'intonazione  bassa  e  pacata;  nota 
l'impressione  immediata  della  cosa,  e  aggiunge 
un'osservazione  quasi  riflessiva: 

Scilp:  i  passeri  neri  sullo  spalto 
corrono  molleggiando.  Il  terren  sollo 
rade  la  rondine  e  vanisce  in  alto: 

vitt,  videvitt.  Per  gli  uni  il  casolare, 
l'aia,  il  pagliaio  con  l'aereo  stollo; 
ma  per  l'altra  il  suo  cielo  ed  il  suo  mare. 

Questa,  se  gli  olmi  ingiallano  la  frasca, 
cerca  i  palmizi  di  Gerusalemme: 
quelli  allor  che  la  foglia  ultima  casca, 

restano  ad  aspettar  le  prime  gemme. 

E  non  può  scandalizzare  il  rosignolo,  che  ripete 
l'aristofaneo  nò  xió,  topoid  XiX(£;  o  bisogna  aver 
dimenticato  che  la  poesiola  del  Pascoli,  da  cui 
è  tolto  il  particolare  tante  volte  citato  come 
esempio  di  stravaganza,  è  un  apologo  scherzoso  : 
il  rosignolo  è  allegoria  del  poeta,  le  ranocchie 
del  grosso  pubblico.  Comincia,  infatti,  cosi: 

Dava  moglie  la  Rana  al  suo  figliuolo. 
Or  con  la  pace  vostra,  o  raganelle, 
il  suon  lo  chiese  ad  un  cantor  del  brolo... 

In  tale  apologo,  in  siffatta  intonazione,  la  cercata 
reminiscenza  aristofanesca  sta  perfettamente  a 
posto  e  conferisce  grazia. 

Il  risultato  medesimo  si  ha  ove  si  confrontino 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  27 

altri   poemetti,  quelli   di   contenuto   filosofico  e 
morale,  con  le  Myricae  di  simile  contenuto.  Il 
Libro  vuol  far  sentire  l'ansiosa  e  vana  ricerca 
del  vero,  che  l'uomo  persegue:  un  libro  (l'im- 
magine deve  essere  stata  attinta  a  un  noto  luogo 
del  Wilhelm  Meister,  circa  i  drammi  dello  Sha- 
kespeare), un  libro,  aperto  sul  leggio  nell'altana, 
e  le  cui  pagine  sono  rimescolate  dal  vento,  sug- 
gerisce la  presenza  di  un   uomo   invisibile  che 
frughi  e  frughi  e  non  trovi  la  parola  che  cerca.  " 
Ma  l'impressione  solenne,  che  si  vorrebbeotte-  • 
nere^è  impedita  dalla  realtà  determinata  di  quel 
libro,  sul  leggìo  dfquercia,  roso  dal  tarlo,  di  quel 
rumore  di  fogli  voltati  a  venti  a  trenta  a  cento, 
con  mano  impaziente,  «  avanti  indietro,  indietro 
avanti  »;  e  dalla  freddezza  allegorica  onde  il  vo- 
lume così  determinato  si  trasfigura,  in  fine,  nel 
«libro  del  mistero  »,  sfogliato  «sotto  le  stelle». 
Nei  Due  fanciulli,  malamente  si  lega  alla  sce- 
netta dei  due  fanciulli,  che  litigano  e  si  graffiano 
e  che  la  madre  manda  a  letto,  ed  essi  nel  buio 
si  cercano  e  si  rappaciano  e  dormono  abbrac- 
ciati,  l'ultima    parte,   che   dà    l'interpetrazione 
allegorica  della  scenetta   ed   esorta   gli   uomini 
alla  concordia:  il  quadretto  idillico  impiccolisce 
l'ammonizione    solenne,   questa   appesantisce   il 
quadretto.  Ma  i  versi  gnomici  delle  Myricae  sono, 
nella  loro  tenuità,  incensurabili.  Li  ravviva,  an- 
che nella  loro  tristezza,  un  lieve  sorriso.  Il  cane: 

Noi,  mentre  il  mondo  va  per  la  sua  strada, 
noi  ci  rodiamo,  e  in  cuor  doppio  è  l'affanno, 
sì,  che  pur  vada,  e  si,  che  lento  vada. 


28  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

Tal,  quando  passa  il  grave  carro  avanti 
del  casolare,  che  il  rozzon  normanno 
stampa  il  suplo  con  zoccoli  sonanti, 

sbuca  il  can  dalla  fratta,  come  il  vento; 

10  precorre,  l' insegue;  uggiola,  abbaia. 

11  carro  è  dilungato  lento  lento, 

e  il  cane  torna  sternutando  all'aia. 

Parrebbe  dunque  che  dicano  bene  coloro  che 
soltanto  nel  Pascoli  delle  prime  Myricae  ritro- 
vano un  poeta  armonico  e  compiuto.  Ma  si  os- 
servi: che  cosa  sono  quelle  poesie?  Sono  pensieri 
sparsi,  schizzi,  bozzettini:  un  albo  di  pittore,  che 
può  essere  di  molto  pregio,  ma  che  rappresenta, 
piuttosto  che  l'opera  d'arte,  gli  elementi  di  essa. 
Le  Myricae  sembrano  spesso  pochi  tratti  segnati 
a  lapis  da  un  pittore  che  vada  in  giro  per  la 
campagna  : 

Lungo  la  strada  vedi  sulla  siepe 
ridere  a  mazzi  le  vermiglie  bacche: 
nei  campi  arati  tornano  al  presepe 

tarde  le  vacche. 
Vien  per  la  strada  un  povero  che  il  lento 
passo  tra  foglie  stridule  trascina: 
nei  campi  intona  una  fanciulla  al  vento: 
—  Fiore  di  spina!... 

E  lo  schizzo  ha  la  sua  attrattiva,  ed  anche  la 
sua  compiutezza:  quasi  una  compiutezza  dell'in- 
compiutezza. Sono  anch'io  dell'avviso  che  nelle 
prime  Myricae  soltanto  il  Pascoli  abbia  la  calma 
dell'artista.  Ma  bisogna  essere  pienamente  con- 
sapevoli di  ciò  che  così  si  afferma,  e  che  è,  né 
più  né  meno,  questo:  che  il  meglio  dell'arte  del 
Pascoli  è  nella  sua  riduzione  a  frammenti,  nel 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  20 

suo  sciogliersi  negli  elementi  costitutivi.  Di  fram- 
menti stupendi  sono  conteste  anche  le  poesie  che 
abbiamo  ricordate  e  criticate  come  deficienti  di 
fusione  e  di  armonia:  solo  che  nel  contesto  ar- 
tificioso perdono  la  loro  naturale  virtù. 

E  già  nelle  prime  Myricae  l'arte  del  Pascoli, 
non  appena  tenta  maggiori  voli,  scopre  il  suo 
solito  difetto.  In  alcune  saffiche,  ma  specialmente 
poi  nei  sonetti,  egli  è  ancora  sotto  il  freno  e  la 
disciplina  del  suo  grande  maestro  Carducci,  sic- 
ché, tolta  la  costrizione  di  quel  modello,  non  ha 
scritto  più  sonetti.  Ha  continuato  invece  le  odi- 
cine  tra  l'agreste  e  l'oraziano,  tra  la  campagna 
e  la  letteratura,  che  formarono  il  ciclo  Alberi  e 
fiori,  al  quale  alcune  nuove  sono  state  aggiunte 
fin  nell'ultimo  volume  di  Odi  e  inni.  In  qualche 
altro  breve  componimento,  c'è  un'ispirazione 
er.ojifa:  come  nel  Crepuscolo,  in  cui  egli  celebra 
il  doppio  momento  del  giorno,  l'alba  e  il  tra- 
monto, quando  la  bella  si  snoda  dalle  sue  braccia 
«e  con  man  vela  le  ridenti  ciglia»,  o  l'accoglie 
nelle  braccia,  «  e  il  dolce  nido  come  suol  pispi- 
glia ».  La  «  reginella  dalle  bianche  braccia  »  non 
è  guardata  con  occhio  indifferente,  come  la  Rosa 
degli  anni  più  tardi.  C'è  nei  versi  a  lei  dedicati, 
in  mezzo  alle  reminiscenze  dell'omerica  Nau- 
sicaa,  un  calor  di  sentimento,  che  fa  di  quelle 
tre  poesiole  alcune  delle  migliori  pagine  delle 
Myricae. 

Felici  i  vecchi  tuoi;  felici  ancora 
i  tuoi  fratelli  ;  e  più,  quando  a  te  piaccia, 
chi  sua  ti  porti  nella  sua  dimora, 

o  reginella  dalle  bianche  braccia! 


30  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

Il  poeta  si  raffigura  non  senza   trepidazione  le 
prossime  nozze: 

Quella  sera  i  tuoi  vecchi... 

quella  notte  i  tuoi  vecchi  un  dolor  pio 

soffocheranno  contro  le  lenzuola. 

Per  un  momento    sogna    di   esser   lui  lo  sposo 
felice: 

Al  camino,  ove  scoppia  la  mortella 
tra  la  stipa,  o  ch'io  sogno  o  veglio  teco: 
mangio  teco  radicchio  e  pimpinella. 

Al  soffiar  delle  raffiche  sonanti 
l'aulente  fieno  sul  forcon  m'arreco 
e  visito  i  miei  dolci  ruminanti: 

poi  salgo  e  teco  —  o  vano  sogno!... 

Vano  sogno:  lo  scolaro  è  costretto  a  tornare  al 
suo  latino  e  al  suo  calepino. 

Ma  io  sento  in  questa  lirica  amorosa  l'eco 
dell'Idillio  maremmano  del  Carducci,  e  più  an- 
cora della  poesia  di  Severino  Ferrari;  la  quale 
giustamente  è  stata  più  volte  ricordata  negli 
ultimi  anni,  a  proposito  del  Pascoli  (1).  A  ogni 


(l)  Sul  Ferrari,  si  veda  il  volume  secondo  della  Lettera- 
tura della  nuova  Italia,  pp.  280-9.  Lo  stato  d'animo  dei  due  poeti 
(le  prime  Myricae  e  la  prima  ampia  raccolta  dei  Versi  del  Fer- 
rari furono  pubblicate  entrambe  nel  1892)  era,  per  molti  ri- 
spetti ed  anche  per  molte  circostanze  estrinseche,  simile.  Gli 
autori  infatti  si  dimostrano  scolari  del  Carducci  nella  predi- 
lezione per  le  forme  della  poesia  trecentesca  e  popolare,  in 
certe  movenze  di  stile,  in  quel  piglio  robusto  e  semplice  in- 
sieme, che  fece  già  lodare  la  poesia  carducciana  come  la  più 
«  parlata  >  di  tutte  le  nostre.  Erano,  inoltre,  quasi  compaesani, 
con  le  medesime  fonti  materiali  d'ispirazione:  i  paesaggi,  i 
costumi,  le  consuetudini  di  vita,  cui  alludono  nei  loro  versi, 
sono  gli  stessi   nel   poeta    di   San   Pietro  a  Capofiume  e  in 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  31 

modo,  il  Pascoli  non  ha  più  ripreso^  codesti  mo- 
tivi: anzi,  dalle'posteriori  edizioni  delle  Myricae 
la  lirica  «  Crepuscolo  »  è  stata_espunta.  Ed  egual- 
mente ne  è  stato  espunto  un  sonetto,  in  cui  il 
poeta  prendeva  atteggiamento  e  nome  di  ribelle 
di  fronte  a  un  principe;  come  non  ha  mai  rac- 
colto i  versi  rivoluzionari,  pei  quali  era  noto  tra 
i  suoi  condiscepoli  di  Bologna  e  dei  quali  conosco 
alcuni,  che  credo  inediti  e  che  cominciano: 

Soffriamo!  nei  giorni  che  il  popolo  langue 
è  insulto  il  sorriso,  la  gioia  è  viltà! 
Sol  rida  chi  ha  posto  le  mani  nel  sangue, 
e  il  fato  che  accenna  non  teme  o  non  sa. 

Prometeo  sull'alto  del  Caucaso  aspetta, 
aspetta  un  hel  giorno  che  presto  verrà; 
un  giorno  del  quale  sii  l'alba,  o  Vendetta! 
un  giorno  il  cui  sole  sii  tu,  Libertà!... 


quello  di  San  Mauro,  nel  campagnuolo  dell'estremo  bolo- 
gnese e  in  quello  della  confinante  estrema  Romagna:  en- 
trambi sbalzati  come  insegnanti  nelle  più  lontane  regioni 
d'Italia,  e  portanti  nel  cuore  l'uno  il  piccolo  borgo  «dove 
non  è  che  un  argine,  cinque  olmi  e  quattro  case*,  e  l'altro 
«sempre  un  villaggio,  sempre  una  campagna»,  il  paese  do- 
minato dalla  «  azzurra  vision  di  San  Marino  » .  E  furono,  infine, 
coetanei,  condiscepoli  ed  amici,  e  si  scambiavano  versi,  e  l'uno 
ricordò  l'altro  nelle  proprie  poesie.  Per  la  comunione  d'anime 
che  si  forma  tra  giovani  fervidi  di  disegni  e  di  speranze, 
alcuni  atteggiamenti  artistici  doverono  passare  dall'  uno  al- 
l'altro; né  è  detto  che  il  «  succubo  »  fosse  sempre  il  Pascoli, 
quando  già  nel  Mago  il  Ferrari  celebrava  l'amico  come  l'ar- 
tista «dalla  lima  d'oro»,  dalle  «fresche  armonie,  dai  baldi 
voli  »,  e  simboleggiava  l'arte  di  lui  nel  canto  di  un  lieto  coro 
di  «  giovani  capinere  e  usignuoli  ».  Accade  quindi  che,  alcune 
volte,  leggendo  il  Ferrari,  par  di  leggere  il  Pascoli  della 
prima  maniera.  Cosi  in  certe  impressioni  di  campagna:  «C'è 
un  zufolar  sì  tremulo  che  viene  Di  fondo  ai  fossi...  »;  in  certe 


32  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

Ma  da  questo  Pascoli  amoroso  e  ribelle,  da  questo 
Pascoli  «  preistorico  » ,  tornando  allo  «  storico  » , 

\  dicevamo,  dunque,  che  nelle  prime  Myricae,  e 
soprattutto  nella  serie  che  le  seguì,  già  si  vede 

ì  com'egli  si  sforzi  ad  una  poesia  più  complessa 
e  personale  ed  intensa,  e  come  dia  subito  in 
disarmonie.  Il  buon  piovano,  che  passa  pei  campi 
salutando  e  benedicendo. tutti,  è  una  figura  che 
ha  tocchi  esagerati.  Benedice 

anche  il  falco,  anche  il  falchetto 
(nero  in  mezzo  al  ciel  turchino), 
anche  il  corvo,  anche  il  becchino, 

poverino, 
che  lassù  nel  cimitero 
raspa  raspa  il  giorno  intero. 


visioni  di  opere  agricole:  «Anco  per  poco  ondeggerete,  o 
chiome  De  la  canapa  verde...»;  in  certi  interni  di  case  ru- 
stiche e  di  cucine  :  «  Là  splendeva  co  '1  giorno  nei  decenti 
Costumi  la  virtù  della  massaia...  »;  e  finanche  nella  descri- 
zione della  vita  degli  uccelli,  nei  pensieri  dei  rosignuoli  o 
negli  amori  delle  capinere:  «Come  un  argenteo  tinn  di  cam- 
panello... » 7  D'altra  parte,  nel  Pascoli  si  risentono  accenti  del 
Ferrari:  «  Cantano  a  gara  intorno  a  lei  stornelli  Le  fiorenti 
ragazze  occhipensose...  »;  «  Siedon  fanciulle  ad  arcolai  ron- 
zanti...». Ma  la  poesia  del  Ferrari,  se  mostra  una  cerchia 
di  pensieri  e  di  sentimenti  più  ristretta  di  quella  del  Pascoli 
ed  è  alquanto  inferiore  a  questa  per  maturità  di  forma,  è  poi 
fortemente  dominata  dal  sentimento  d'amore,  che  manca 
quasi  affatto  nel  Pascoli: 

Se  corso  d'acqua  o  ben  fiorito  ramo 
6  strepito  di  venti  o  di  bell'ale 
chieda  l'onor  del  breve  madrigale, 

non  l'ottiene  però  se  una  gioconda 
forma  di  donna  a  la  romita  scena 
non  dia  '1  senso  d'amor  ond'ella  è  piena. 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  33 

L'affettazione  è  già  nel  Morticino: 

Andiamoci  a  mimmi, 
lontano  lontano... 
Din  don...  oh  ma  dimmi: 
^on  vedi  ch'ho  in  mano 
il  cercine  novo, 
le  scarpe  d'avvio?... 

e  nel  Rosicchiolo  (la  madre  morta  ha  accanto 
un  pezzo  di  pane,  serbato  pel  figlio),  tutto  rotto 
e  ansante  di  esclamazioni: 

Per  te  l'ha  serbato,  soltanto 
per  te,  povero  angiolo;  ed  eccolo 
o  pianto! 

lo  vedi?  un  rosicchiolo  secco. 
Moriva  sul  letto  di  strame; 
tu,  bimbo,  dormivi,  sicuro. 
Che  pianto  !  che  fame  ! 
Ma  c'era  un  rosicchiolo  duro... 

e  in  altre  molte.  Già  vi  sono  le  inopportune  ma- 
terialità. I  versi  Scalpitio: 

si  sente  un  galoppo  lontano 
(è  la...?) 

che  viene,  che  corre  nel  piano 
con  tremula  rapidità; 

non  sono  da  riprovare  (come  è  stato  fatto)  per 
l'ardimento  metrico,  ma  perchè  la  previsione 
della  Morte  che  sopraggiunge  è  diventata  in  essi 
qualcosa  di  prosaico,  quasi  di  un  treno  che  ar- 
rivi; e  il  verso,  lodato  per  bellissimo:   «con  tre- 

B.  Croce,  Giovanni  Pascoli.  3 


34  I  -  GIOVANNI   PASCOLI 

mula  rapidità»,  è  di  una  precisione  sconcordante 

col  soggetto;  come  sconcordante  è  il  triplice 
grido  ultimo:  «la  Morte!  la  Morto!  la  Morte!», 
che  ricorda  quello  del  madrigale  di  Mascarille: 
«  Au  voleur!  au  voleur!  au  voleur!  au  voleur!  » . 
Lo  strafare  appare  già  per  molti  segni.  Alla 
breve  poesiola:  II  cuore  del  cipresso,  sono  state 
aggiunte,  nella  seconda  edizione,  altre  due  parti 
per  rincupirla  e  renderla  enfatica;  con  raffinati 
giochetti  come:  «l'ombra  ogni  sera  prima  entra 
nell'ombra»,  e  con  interrogativi  a  più  riprese: 
«E  il  tuo  nido?  il  tuo  nido?...».  Finanche  la 
ottava  quasi  in  tutto  bella  delle  prime  Myricae: 

Lenta  la  neve  fiocca  fiocca  fiocca: 
senti:  una  zana  dondola  pian  piano. 
Un  bimbo  piange,  il  piccol  dito  in  bocca; 
canta  una  vecchia,  il  mento  sulla  mano. 
La  vecchia  canta:  Intorno  al  tuo  lettino 
c'è  rose  e  gigli,  tutto  un  bel  giardino. 
Nel  bel  giardino  il  bimbo  s'addormenta. 
La  neve  fiocca  lenta  lenta  lenta; — 

è  stata  esagerata,  non  potendosi  altro,  nel  titolo. 
S'intitolava  semplicemente:  Neve,  e  fu  poi  inti- 
tolata: Orfano;  laddove  è  evidente  che  nessuna 
ragione  artistica  costringeva  a  privar  dei  geni- 
tori quel  caro  piccino,  che  piange,  «  il  piccol 
dito  in  bocca  »  ! 

Allorché,  dunque,  nelle  Myricae  si  prescinda 
da  ciò  che  è  eco  o  incidente  passeggero  o  sem- 
plice schizzo  e  quadretto  minuscolo,  vi  si  trova 
in  embrione  il  Pascoli  con  le  sue  virtù  e  coi  suoi 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  35 

difetti.  Le  Myricae  contengono  i  motivi  da  cui 
si  svilupperanno  i  Canti  di  Castelvecchio  e  i 
poemetti  georgici  e  morali;  i  quali  danno  poi  la 
mano  ai  Poemi  conviviali  e  agli  Inni. 


III. 


È  da  vedere  perciò  se  non  convenga  seguire 
l'altra  indicazione,  che  ci  è  stata  offerta:  che 
cioè  il  Pascoli  vero  sia  da  cercare  nella  sua 
poesia  ultima  e  degli  anni  maturi,  neLJPascoli 
«  maggiore  »  contrapposto  al  «  minore  » ,  in  quello 
delle  solenni  composizioni  in  terzine  e  in  ende- 
casillabi sciolti.  È  da  vedere  se  di  quei  difetti, 
di  cui  è  libero  nelle  prime  Myricae  perchè  si 
appaga  del  piccolo,  non  sia  riuscito  poi  a  libe- 
rarsi anche  e  meglio  per  altra  •  via,  lavorando 
in  grande,  componendosi  un  gran  corpo. 

E  poiché  non  diletta  sfondare  porte  aperte, 
lascio  da  banda  gl'Inni,  che  per  comune  e  con- 
corde giudizio  sono  la  parte  più  debole  della  sua 
produzione  ultima,  e  vado  difilato  ai  Poemi  convi- 
viali. Nei  quali,  a  tutta  prima,  sorprende  un'aria 
di  compostezza,  una  facilità  ed  egualità  d'into- 
nazione, onde  par  di  avere  innanzi  un'altra 
persona,  o  tale  che  si  è  sviluppata  cosi  improv- 
visamente e  magnificamente  che  non  lascia  ri- 
conoscere l'antica.  Che  cosa  è  mai  accaduto?  Il 
Pascoli,  oltre  che  poeta,  è  anche  umanista:  con- 
forme alla  tradizione  della  nativa  Romagna  (clas- 
sicheggiante, più  forse  che  altra  regione  d'Italia 


36  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

nel  secolo  decimonono),  e  all'indirizzo  della 
scuola  del  Carducci.  Non  è  un  pensatore,  e 
nemmeno  propriamente  quello  che  si  dice  un 
dotto,  perchè  la  sua  solida  cultura  letteraria  non 
è  orientata  verso  la  ricerca  scientifica  o  storica, 
ma  verso  il  godimento  del  gusto  e  la  riprodu- 
zione della  fantasia.  Perciò  ha  qualcosa  di  an- 
tiquato rispetto  al  modo  moderno  della  filologia; 
e,  insieme,  qualcosa  di  raro  e  di  sorprendente.  Da 
scolaro,  faceva  meravigliare  i  condiscepoli  che  di- 
cevano ch'egli  attendesse  a  mettere  in  prosa  attica 
l'autobiografia  del  Cellini;  e  ancora  si  narrano 
le  sue  prodezze  di  versificazione  latina  e  greca. 
Ha  presentato  più  volte  poemetti  latini  alla  gara 
internazionale  di  Amsterdam,  e  più  volte  ha  ri- 
portato il  primo  premio.  Ha  compilato  antologie 
di  poesia  latina,  e  postovi  introduzioni  critiche, 
nelle  quali  si  trovano  brani  e  pagine  descrittive, 
—  gli  aedi,  Achille  morente,  l'agone  tra  Omero 
ed  Esiodo,  Solone  vecchio  che  vuol  imparare  un 
canto  di  Saffo  e  morire,  ecc.  —  che  ricompaiono 
nei  Poemi  conviviali  (*).  Ora,  in   questi   poemi 


(*)  Un  esempio.  «  L'aedo  viaggia  per  l' Hellade  divina  e 
per  le  isole.  Si  aggira  spesso  lungo  il  molto  rumoroso  mare 
per  trovare  una  nave  bene  arredata,  che  lo  tragitti:  egli 
paga  i  nocchieri  con  dolci  versi,  se  è  accolto...  Ma,  se  è  re- 
spinto, maledice...  Così  a  tutti  si  rivolge  l'aedo,  che  a  tutti 
canta,  uomini  e  dei:  entra  come  nella  casa  dei  re,  così  nella 
capanna  del  capraio  ;  chiede  con  la  maestà  del  sacerdote  sì 
ai  pescatori  che  tornano,  sì  ai  vasai  che  accendono  la  for- 
nace ;  e  canta.  Qualche  volta  dorme  sotto  un  pino  della  cam- 
pagna: qualche  volta,  sorpreso  dalla  neve,  vede  risplendere 
in  una  casa'ospitale  la  bella  fiammata,  che  orna  la  casa  come 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  37 

egli  sposa  la  sua  ispirazione  poetica  alle  forme 
della  poesia  greca,  nella  cui  riproduzione  ha 
acquistato  pratica  meravigliosa.  Come  nei  poe- 
metti presentati  alle  gare  olandesi  parla  latino, 
e  in  latino  dà  i  primi  abbozzi  o  le  varianti  del 
Ciocco,  dei  Due  fanciulli  e  di  altre  sue  compo- 
sizioni italiane,  così  nei  Poemi  conviviali  parla 
greco:  greco  con  parole  italiane,  ma  con  tutte 
le  inflessioni,  i  giri,  i  sottintesi  di  chi  si  è  a  lungo 
nutrito  di  poesia  greca.  Il  libro  è  un  trionfo'  della 
virtù  assimilatrice,  un  capolavoro  di  aultura 
umanistica.  Questo  linguaggio  greco,  adottato 
dal  Pascoli,  conferisce  alla  sua  nuova  o/pera  un 
aspetto  meno  agitato  e  dissonante. 

Ma,  quando  si  afferma,  com'è  stato  affermato, 
che  nel  passare  dalla  lettura  dell'  Odissea  a  quella 
dei  Poemi  conviviali  non  si  avverte  diversità  di 
sorta,  bisogna  rispondere  di  star  bene  attenti  a 
non  lasciarsi  ingannare  dalle  apparenze.  Sotto 
l'acqua  limpida  e  cheta  si  muove  la  corrente  '  'jf  /) 
turbinosa  e  torbida.  Pascoli  è  Pascoli  e  non'l^y»*/ 
Omero:  è,  anzi,  la  sua,  quanto  di  più  dissimile  )J^ 


i  figli  l'uomo,  le  torri  le  città,  i  cavalli  la  pianura,  le   navi 
il  mare».  (Epos,  p.  xxi).  Si  ascolti  ora  II  cieco  di   Ohio: 

Io  cieco  vo  lungo  l'alterna  voce 

del  grigio  mare;  sotto  un  pino  io  dorino 

dai  pomi  avari;  se  non  se  talora 

m'annunziò,  per  luoghi  soli,  stalle 

di  mandriani,  un  subito  latrato; 

o,  mentre  erravo  tra  la  neve  e  il  vento, 

la  vampa  da  un  aperto  uscio  improvvisa 

nella  sua  casa  mi  svelò  la  donna, 

che  fila  nel  chiaror  del  focolare. 


38  I  -  GIOVANNI   PASCOLI 

si  possa  pensare  dalla  poesia  omerica:  questa 
così  ingenuamente  umana,  quella  cosi  sapiente 
nella  sua  umanità,  cosi  sorpresa  e  stupita  della 
sua  ingenuità  che  sta  a  guardarla  e  a  riguardarla 
in  viso,  e  ad  ammirarla;  e  non  le  par  vera! 

Si  può  scegliere  a  piacere  qualsiasi  dei  suoi 
poemi,  giacché  il  loro  valore  press 'a  poco  si  equi- 
vale. Anticlo  è  nato  da  due  versi  e  mezzo  del- 
l'Odissea.'. Anticlo,  nel  cavallo  di  legno,  sta  per 
rispondere  alla  voce  di  Elena  che  contraffa  quella 
della  moglie  di  lui,  quando  Ulisse  gli  caccia  la 
mano  nella  gola  (1),  Il  Pascoli  comincia  con  l'ese- 
guire variazioni  intorno  a  questo  motivo.  Le  due 
prime  parti  del  poemetto  sono  quasi  ripetizioni 
l'una  dell'altra:  un  granellino  di  poesia  è  diluito 
in  molta  acqua: 

E  con  un  urlo  rispondeva  Anticlo, 
dentro  il  cavallo,  a  quell'aerea  voce, 
se  a  lui  la  bocca  non  empia  col  pugno 
Odisseo,  pronto... 

La  voce  dilegua  chiamando  ancora  .per  nome, 
finché  non  s'ode  più  nulla: 

finché  all'orecchio  degli  eroi  non  giunse 
che  il  loro  corto  anelito  nel  buio; 

così  come,  all'ora  del  tramonto,  mentre  essi  se 
ne  stavano  chiusi  nel  gran  cavallo,  udirono  lon- 
tanare i  cori  delle  vergini;  e  poi  si  fece  sera,  e 


(4)  ''AvxikX,05  5è  aé  y'  0X05  à[igCi|>ac8ai  èjiéeaaiv 

fj8EXv,  àXV  'Oòvaaevq  è:tl  nàaxaxa  xeQoi  Jite^ev 

VO)X8|léa)5   KQaT8QTÌ<Jl. 

Odiss.,  iv,  286-8. 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  39 

nella  sera  si  udì  una  voce  che  chiamava  intorno 
al  cavallo,  una  voce  dolce  che  aveva  la  più  pos- 
sente attrattiva  sui  cuori.  —  E  siamo  a  questo 
modo  ricondotti  alla  situazione  del  primo  verso, 
che  viene  chiarita: 

Era  la  donna  amata,  era  la  donna 
lontana,  accorsa  in  quell'ora  di  morte, 
da  molta  ombra  di  monti,  onda  di  mari  : 

e  tutti  correvano  già  come  a  rientrar  nelle  loro 
case,  rispondendo  all'appello;  ma  si  contennero 
al  cenno  d'Odisseo.  Anticlo  no:  egli  più  di  tutti, 
tra  le  fatiche  e  le  glorie  della  guerra,  nutriva 
in  cuore  la  nostalgia  della  casa;  e  aprì  la  bocca 
a  rispondere  e  strinse  con  la  bocca  il  pugno  di 
Odisseo.  Non  solo  la  narrazione  è  così  girata  e 
rigirata  (direi  che  il  poeta  non  procede  oltre, 
ma  vi  si  culla  dentro):  è  anche  infiorata  di  non 
poche  preziosità.  Si  sarà  notato  quel  «  corto  ane- 
lito »  degli  eroi  nel  buio,  bellissimo  di  evidenza, 
ma  che  ci  mostra  la  consueta  ipersensibilità  del 
Pascoli  per  le  impressioni  minute  e  piccine;  e  si 
noteranno  ancora  «  la  voce...  che  suonava  al 
cuore  Come  la  voce  dolce  più  che  niuna,  Come 
ad  ognuno  suona  al  cuor  sol  una»,  e  Anticlo 
che  «  era  forte  sì,  ma  per  forza,  e  non  avea 
la  gloria  loquace  a  cuore...  »,  e  simili.  L'impres- 
sione, che  prova  Anticlo  alla  voce  che  lo  chiama 
per  nome,  è  resa  con  un  balenio  d'immagini 
leggiadre: 

come  udì  la  voce 
della  sua  donna,  egli  sbalzò  d'un  tratto 
su  molta  onda  di  mari,  ombra  di  monti; 


40  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

udì  lei  nelle  stanze  alte  il  telaio 
spinger  da  sé,  scendere  l'ardue  scale; 
e  schiuso  il  luminoso  uscio  chiamare 
lui  che  la  bocca  apri... 

Nelle  altre  parti,  il  poemetto  si  svolge  allo  stesso 
modo,  tra  fine  e  prezioso.  Anticlo  è  ferito  a  morte 
e  prega  che  venga  a  lui  Elena,  a  rifargli  la  voce 
della  sua  donna.  Sentite  di  nuovo  la  preziosità 
nell'incesso  di  Elena: 

E  così,  mentre  già  moriva  Anticlo, 

veniva  a  lui  con  mute  orme  di  sogno 

Helena.  Ardeva  intorno  a  lei  l'incendio, 

su  l'incendio  brillava  il  plenilunio. 

Ella  passava  tacita  e  serena, 

come  la  luna,  sopra  il  fuoco  e  il  sangue. 

Le  fiamme,  un  guizzo,  al  suo  passar,  più  alto: 

spremeano  un  rivo  più  sottil  le  vene... 

E  il  finale  è  a  sorpresa:  il  Pascoli  ha  composto 
un  poemetto  senz'essere  fortemente  posseduto 
da  un  sentimento  detepminato.  Anticlo,  al  ve- 
dersi accanto  la  raggiante  beltà  di  Elena,  mentre 
ella  schiude  la  rosea  bocca:  «No  (disse),  voglio 
ricordar  te  sola  ».  E  un  epigramma  sulla  bellezza 
di  Elena. 

La  cetra  d'Achille  (il  canto  dell'ultima  notte 
dell'eroe,  a  cui  la  morte  è  sopra)  si  risolve  in 
una  sequela  di  descrizioni:  la  decorazione  soffoca 
la  situazione.  Si  resta  ora  col  barbaglio  nell'oc- 
chio di  particolari  troppo  minuti: 

sbalzò  attento  Achille 
su  dal  suo  seggio,  e  il  morto  lion  rosso 
gli  raspò  con  le  curve  unghie  i  garretti...; 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  41 

ora  con  la  romba  nell'orecchio  di  versi  che  suo- 
nano quasi  musica,  se  anche  non  creano  l'im- 
magine: 

Passava  il  canto  tra  la  morte  e  il  sogno. 

Similmente,  l'Ultimo  viaggio:  si  ricordano  squi- 
sitezze moltissime  di  particolari,  come  quei  vec- 
chi marinai  compagni  di  Ulisse  che  si  rimettono 
al  remo  al  comando  del  loro  vecchio  duce  e 
cantano  : 

cantavano,  e  il  lor  canto  era  fanciullo 
de'  tempi  andati:  non  sapean  che  quello... 

e  tanti  e  tanti  altri;  ma  Ulisse,  così  nitido  nel- 
V Odissea,  è  diventato  una  figura  evanescente.  — 
Nel  primo  dei  Poemi  di  Aie,  la  descrizione  del- 
l'omicida inseguito  da  Ate  è  l'amplificazione  di 
una  sensazione:  l'uomo  corre  tentando  invano 
di  sfuggire  alla  vecchia  Ate,  che  gli  vien  dietro  : 

Ma  tristo  e  secco  gli  venia  da  tergo 
sempre  lo  steso  calpestio  discorde, 
misto  a  uno  scabro  anelito... 
...  dietro  di  se  picchierellare  il  passo 
eterno  con  la  sùbita  eco  breve. 

Le  Memnonidi  è  una  lunga  allocuzione  lam- 
biccata dell'Aurora  ad  Achille,  che  le  ha  ucciso 
il  tiglio  e  al  quale  essa  predice  la  morte.  Co- 
mincia con  un'antitesi: 

Disse:  —  Uccidesti  il  figlio  dell'Aurora: 
non  rivedrai  ne  la  sua  madre  ancora; 


42  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

continua  variando  artificiosamente  di  metro,  con 
troppo  abile  progressione;  intesse  immagini,  de- 
gne di  un  poeta  decadente  e  non  della  dea  Au- 
rora: 

Io  ti  vedeva  predatore  impube 
correre  a  piedi,  immerso  nella  tua 
anima  azzurra  come  in  una  nube; 

e  lunghe  descrizioni  come  quella  dell'Aurora  che 
desta  gli  uomini  alle  opere  di  vita;  e  finisce  con 
un  rifacimento  verboso  del  dialogo  di  Achille  con 
Ulisse  nell'Ade.  Il  Sogno  di  Odisseo  ci  dà  l'esem- 
pio del  ritornello  —  in  versi  sciolti:  tanto  le 
forme  metriche  non  sono  qualcosa  di  superfi- 
ciale, e  non  si  può  sperar  di  coglierne  il  valore 
tenendosi  alla  superficie.  E  di  ritornelli  chi  abbia 
orecchio  fine  ne  trova  in  tutte  le  pagine  di  questi 
poemi,  che  si  perdono  spesso  in  una  vaga  musica- 
lità verbale:  il  ritornello,  non  meno  qui  che  nelle 
poesie  del  Pascoli  rimate,  serve  (come  è  stato  da 
altri  bene  osservato)  a  dare  un'unità  estrinseca 
a  ciò  che  altrimenti  si  disgregherebbe  perchè 
privo  di  vera  complessità  e  di  unità  intima. 
In  Alexandros  dovrebbe  essere  svolto  il  con- 
cetto leopardiano  che,  conosciuto,  il  mondo  non 
cresce  anzi  si  scema;  ma  Alessandro,  giunto  al 
confine  della  terra,  non  suggerisce  al  poeta  se 
non  argutezze  di  pensieri  e  fragori  d'immagini, 
con  alternativa  di  estrema  determinatezza  ed 
estrema  indeterminatezza: 

E  così  piange,  poi  che  giunse  anelo: 
piange  dall'occhio  nero  come  morte, 
piange  dall'occhio  azzurro  come  cielo; 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  43 

che  si  fa  sempre  (tale  è  la  sua  sorte) 
nell'occhio  nero  lo  sperar,  più  vano; 
nell'occhio  azzurro  il  desiar,  più  forte. 

Egli  ode  belve  fremere  lontano, 
egli  ode  forze  incognite,  incessanti, 
passargli  a  fronte  nell'immenso  piano, 

come  trotto  di  mandre  d'elefanti. 

Ma,  a  questo  punto,  lo  stento  e  lo  sforzo  cedono; 
e  il  Pascoli,  con  un  «intanto»,  congiuntivo  o 
avverbiale  che  sia,  emette  la  sua  nota  lirica: 

Intanto  nell'Epiro  aspra  e  montana 
filano  le  sue  vergini  sorelle 
pel  dolce  assente  la  milesia  lana. 

A  tarda  notte,  tra  le  industri  ancelle, 
torcono  il  fuso  con  le  ceree  dita, 
e  il  vento  passa  e  passano  le  stelle. 

Olympiàs,  in  un  sogno  smarrita, 
ascolta  il  lungo  favellio  d'un  fonte, 
ascolta  nella  cava  ombra  infinita 

le  grandi  querce  bisbigliar  dal  monte. 

Eppure  no:  anche  in  queste  terzine  possono  in- 
sieme vedersi  il  pennello  di  un  gran  pittore  e 
un  pennellino  più  delicato,  che  si  tinge  in  qual- 
cosa che  è  simile  al  belletto. 

Cosi  il  difettivo,  e  pure  ricco  di  fascino,  libro 
dei  Poemi  conviviali  ci  rida  l'ansia  che  suscitano 
le  opere  anteriori  del  Pascoli:  anche  in  esso  i 
particolari  sono  sentiti,  troppo  sentiti,  troppo  ac- 
carezzati, e  la  sintesi  è  deficiente.  I  maggiori 
lodatori  di  questo  libro,  nel  quale,  secondo  essi, 
il  Pascoli  ha  toccato  le  cime  dell'arte,  hanno 
tuttavia  avvertito  che  «  forse  nessuno  dei  singoli 
canti  che  lo  compongono  è  perfetto  ».  E  l'osser- 


44  I  -  GIOVANNI   PASCOLI 

vazione  è  giusta,  e  .la  confessione  importante. 
Un  gran  libro  dunque,  composto  di  singoli  canti 
imperfetti:  come  mai?  Gli  è  che  la  bellezza  è 
dei  frammenti,  e  dal  libro  se  ne  raccolgono  tanti 
e  tanti,  che  sorge  l'impressione  della  ricchezza 
e  della  grandezza.  E  con  acume  è  stato  racco- 
stato questo  poema  ellenico  del  Pascoli  al  poema 
ellenico  del  D'Annunzio,  alla  Laus  rÀtae,  libro 
di  un  altro  poeta  frammentario  per  indole,  ben- 
ché diversamente  frammentario:  di  un  sensuale, 
che  non  può  mai  dominare  il  dramma  umano, 
il  quale  invece  dal  Pascoli  è  sentito  bensi,  ma 
solo  in  guizzi  e  rapidi  bagliori. 

Per  ragioni  di  compiutezza,  bisognerebbe  dare 
uno  sguardo  a  un'altra  delle  manifestazioni  cro- 
nologicamente ultime  del  Pascoli:  al  Pascoli  pro- 
satore, che  stende  ampie  prefazioni  alle  sue  rac- 
colte, fa  discorsi  e  conferenze,  scrive  saggi  critici. 
La  sua  prosa  è  tutta  riboccante  d'intenzioni  sot- 
tolineate, che  si  sforzano  tanto  ansiosamente 
verso  l'effetto  da  non  raggiungerlo.  Vi  abbondano 
gl'interrogativi,  seguiti  subito  dalle  relative  ri- 
sposte, su  questo  tipo:  «  Come?  Col  contentarci  »; 
«Tu  sarai  più  lieto,  sai  perchè?  Il  perchè  è...»; 
«E  questa  tela  che  sarà?  Quella  del  pensiero 
umano...  ».  Il  tono  è  spesso  di  chi  parla  a  bam- 
bini: «  La  prima  capanna  che  uomo  costruì,  di 
terra  seccata  al  sole,  alla  sua  donna,  gli  insegnò 
una  coppia  di  rondini  a  costruirla.  Ciò  fu  al 
tempo  dei  nomadi  » .  Vi  s' incontrano  le  riprodu- 
zioni foniche  di  suoni,  come  héTIé^pòèsie :  «Quel 
campaniletto  c'è  stato  tempo  in  cui  non  lo  sen- 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  45 

tivamo  annunziare  la  festa  del  domani?  Dindon... 
din  din  don  din  din  don...  ».  «  Gli  sgriccioli  che... 
parlano  romagnolo?  dicono  magne,  magne,  ma- 
gne?...». Vi  s'incontrano  le  piccinerie  d'imma- 
gini, come  nei  versi.  Discorre  della  giustizia  so- 
ciale: «No,  non  si  possono  aggiustare  l'anima  e 
la  vita  umana,  una  volta  rotte:  bisogna  non  rom- 
perle prima.  E  bisogna  che  ciò  si  sappia  e  si  veda, 
che  ci  son  cose  che  non  si  possono  riparare.  Se 
non  ci  fossero  i  concini,  chi  sa?  si  romperebbero 
meno  stoviglie  » .  Mettete  d'accordo  il  padre  uc- 
ciso e  la  giustizia  sociale  con  le  stoviglie  rotte 
e  coi  concini!  Parla,  nientedimeno,  di  Garibaldi; 
e,  rivolgendo  il  discorso  ai  giovani  siciliani,  co- 
mincia: «  Egli  si  è  addormentato  nella  sua  isola. 
Due  bambine  sue  gli  fanno  compagnia.  Il  mare 
instancabile  si  muove  azzurreggiando  intorno  a 
quell'immobilità,  e  s'alza  e  s'abbassa,  e  s'alza 
ancora  e  sempre,  come  per  vedere  che  è.  Nulla  ! 
Nulla!  E  il  mare  non  cessa  mai  di  parlare  intorno 
a  quel  silenzio,  sciusciuliando  (come  dite  voi) 
sulla  sabbia,  e  gemendo  tra  le  scogliere...  ». 
Mettete  d'accordo  il  mare  di  Caprera  con  lo  sciu- 
sciuliare del  dialetto  siciliano!  —  Questa  è  la 
prosa  del  Pascoli;  la  quale  di  rado  diventa  sem- 
plice e  armonica,  e  forse  soltanto  in  alcune  delle 
pagine  introduttive  alle  antologie  dei  poeti  romani. 
In  qualunque  modo  la  si  tenti,  la  divisione 
critica  dell'opera  del  Pascoli  mercè  delimitazione 
cronologica  si  chiarisce  ineseguibile.  Si  può  am- 
mettere che,  in  alcuni  dei  suoi  volumi  ultimi, 
siano  componimenti  che  mostrano  i  suoi  difetti 


46  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

cresciuti  a  tal  grado  da  rasentare  la  stravaganza: 
nei  Canti  di  Castelvecchio,  un  ritornello  piglia 
a  rifare  onomatopeicamente  il  vagito  del  neonato 
(Ov' è,  ov'è?);  nei  Poemetti  aggiunti,  è  quell'orrida 
ltaly,  col  gergo  angloitalico  degli  emigranti  re- 
duci dall'America;  negli  Inni,  l'inno  Per  le  bat- 
terie siciliane]  Ma  bisogna  dire  anche  che,  se 
negli  ultimi  volumi  crescono  i  suoi  difetti,  cre- 
scono anche  i  suoi  pregi:  il  cammino  percorso 
dalle  piccole  Myricae  ai  Canti  di  Castelvecchio 
e  ai  Poemi  conviviali  è  considerevole.  Il  seme 
dell'affettazione  si  è  svolto  in  pianta  rigogliosa; 
ma  anche  la  virtù  immaginativa  ed  espressiva 
del  Pascoli  ha  avuto  il  suo  rigoglio. 

Proviamo  ora  se  sia  applicabile  l'altro  proce- 
dimento critico,  pel  quale  la  parte  schietta  viene 
separata  da  quella  artificiosa,  nell'opera  di  un 
artista,  secondo  il  vario  carattere  del  contenuto 
al  quale  l'artista  si  è  ispirato  o  ha  cercato 
d'ispirarsi. 


IV. 


La  concezione  che  il  Pascoli  ha  della  vita 
è  stata  considerata  come  una  forma  di  roman- 
ticismo, e  tratta  a  paragone  di  somiglianze  e 
differenze  con  le  concezioni  del  Manzoni  e  del 
Leopardi.  Ma  romantica  essa  non  è  mancando 
dell'essenza  stessa  del  romanticismo  sentimentale, 
il  disquilibrio:  manzoniana  nemmeno,  perchè  la 
rassegnazione  manzoniana  ha  per  suoi  rappre- 
sentanti fra  Cristoforo  e  Federico  Borromeo,  di- 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  47 

sposti  «a  spiegar  l'unghia  e  insanguinarle  labbia», 
a  lottare  sempre  che  si  debba.  L'ideale  del  Pascoli 
invece  è  antiromantico,  perchè  chiaro  e  deter- 
minato; e,  d'altra  parte,  esclude  la  lotta.  Perciò, 
considerando  in  genere,  non  può  definirsi  altri- 
menti che  ideale  idillico. 

La  disposizione  idillica  è  appunto  questo:  il 
rifuggire  dalla  pienezza  della  vita,  l'aborrire  il 
mare  con  le  sue  tempeste  e  tenersi  alla  terra. 
Non  già,  beninteso,  ch'essa  riesca  ad  escludere 
del  tutto  quella  lotta  da  cui  rifugge:  se  volesse 
escluderla  del  tutto,  si  muterebbe  in  un  ideale 
di  morte,  laddove  è  pur  sempre  ideale  di  vita. 
Ma  ideale  di  una  vita,  nella  quale  la  lotta  e  l'agi- 
tazione siano  ridotte  al  minimo,  conservandone 
solo  quel  tanto  indispensabile  al  carattere  stesso 
della  vita:  la  fatica  che  fa  assaporare  la  dolcezza 
del  riposo,  il  dolore,  senza  cui  non  è  possibile 
confortarsi  nel  superamento  del  male  e  trepidare 
nel  ricordo;  o  (come  dice  il  Pascoli  stesso,  con 
le  solite  sue  immagini  alquanto  materialotte)  «  la 
passeggiata  per  la  viottola  del  dolore,  che  dà  un 
giovanile  appetito  di  gioia  e  fa  parer  buon  cibo 
anche  una  crosta  ammuffita  e  una  scodella  di 
legumi».  L'anima  idillica  non  è  quella  ascetica 
che  si  astrae  dalle  cose  contingenti  ed  entra  nel 
chiuso  agone  dove  combatte  sola  con  Dio;  e  non 
è  neppure  l'anima  del  gaudente  placido,  che  si 
restringe  egoisticamente  in  sé  stesso,  a  coltivare 
i  suoi  piaceri  e  capricci.  Essa  ama  le  cose,  ama 
il  mondo;  ma  le  piccole  cose,  un  piccolo  mondo, 
mutevole  il  meno  possibile  o  il  meno  rapidamente: 


48  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

non  si  sottrae  ai  doveri,  ma  chiede  quelli  semplici, 
ben  determinati,  regolari,  privi  di  grosse  burra- 
sche. Perciò  anche  il  sentimento  idillico  si  mostra 
congiunto,  nel  corso  delle  sue  manifestazioni  sto- 
riche, con  l'aspirazione  alla  vita  rustica  dei  pa- 
stori, dei  contadini  o  dei  pescatori:  a  quella  vita 
che,  aspra  e  feroce  che  sia  nella  sua  realtà  ge- 
nuina, appare,  per  ovvie  cause,  all'  immaginazione 
dell'uomo  culto  (esperto  di  ben  altri  contrasti), 
ricca  di  armonia  e  di  pace,  d'innocenza  e  di 
bontà. 

Se  dunque  si  vuol  riattaccare  il  Pascoli  a  una 
famiglia  di  spiriti  affini,  si  lascino  da  parte  e 
Leopardi  e  Manzoni,  e  altre  anime  siffatte,  ener- 
giche e  tumultuose  e  grandiose  pur  nella  depres- 
sione della  tristezza  o  nella  calma  della  religio- 
sità, e  si  operi  il  ricongiungimento  con  la  serie 
dei  poeti  idillici.  Il  Pascoli  ha  ragione  nel  pro- 
testare contro  coloro  che  lo  hanno  chiamato  ar- 
cade; l'arcadia  è  la  rettorica  dell'idillio,  come 
il  sentimentalismo  è  la  rettorica  del  sentimento, 
la  romanticheria  dell'amor  passionale  e  del  dolore 
passionale  e  del  dolore  universale,  il  patriottar- 
dismo  del  patriottismo;  e  il  suo  sentimento  idillico 
non  è  rettorico,  ma  profondo.  Minore  ragione, 
per  altro,  egli  ha,  quando  afferma  che  il  suo 
ideale  di  vita  è  ideale  di  forza:  «forza  ci  ho  messo, 
non  avendo  nel  mio  essere,  semplificato  dalla 
sventura,  se  non  forza  da  metterci  » .  Come  mai 
forza,  se  è  un  ideale  che  aborre  le  forme  stesse 
onde  la  forza  si  manifesta?  Il  Pascoli  vorrà  dire 
che  la  sua  aspirazione  morale  è  pure  una  forza, 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  49 

la  sua  lotta  contro  la  lotta  è  pure  una  lotta;  ma 
bisogna  star-bene  attenti  a  non  farsi  illudere  da 
giuochi  di  parole,  pigliando  un  vocabolo  mede- 
simo in  doppio  significato. 

Senonchè,  la  disposizione  idillica,  l'amor  della 
quiete,  si  colora  variamente  secondo  la  varia 
proporzione  degli  elementi  di  gioia  e  di  dolore 
onde  è  contesta  quella  breve  cerchia  di  vita  in 
cui  l'animo  si  è  chiuso  e  a  cui  fortemente  si 
attacca.  Sono  infinite  gradazioni,  che  vanno  dal- 
l'idillio gaio  di  chi,  come  si  suol  dire,  privo  di 
ambizioni,  favorito  dalla  sorte,  vive  tra  i  suoi 
cari,  i  suoi  vecchi,  la  sua  consorte,  i  suoi  bambini, 
i  suoi  fratelli,  esercitando  un'attività  sana  ed 
eguale,  appena  turbata  dalla  malinconia  di  qual- 
che ricordo  e  dal  timore  della  futura  perdita  di 
alcuna  delle  cose  amate;  via  via  sino  alla  dispo- 
sizione idillica  di  chi  è  giunto  alla  calma  dopo 
angosce  terribili,  e  gusta  una  pace  su  cui  stende 
ancora  le  sue  ombre  il  dolore.  A  questo  estremo 
della  serie  sta  il  Pascoli,  la  cui  concezione  della 
vita  è  un  idillio  doloroso,  o  una  «  georgica  tra- 
gica >,  come  è  stata  argutamente  chiamata. 
E  l'idillio  di  un  animo  piagato;  è  una  pace  di 
conquista,  non  di  natura. 

La  casetta  e  la  famigliuola,  che  sono  le  imma- 
gini consuete  dell'idillio,  hanno  accanto  a  sé, 
nella  visione  del  Pascoli,  un'altra  casa  e  un'altra 
famiglia  in  cui  egli  vive  non  meno  che  in  quelle 
in  cui  trascorre  la  vita  materiale:  il  cimitero,  e 
i  fantasmi  dei  suoi  morti.  Questi  morti  sono  sem- 
pre con  lui:  tornano  sempre  a  quelle  pareti  do- 

B.  Croce,  Giovanni  Pascoli.  4 


50  I  -  GIOVANNI   PASCOLI 

raestiche  da  cui  furono  crudelmente  strappati: 
toccano  e  riconoscono  le  loro  masserizie,  i  loro 
abiti,  le  tele  che  tesserono  e  cucirono,  i  figliuoli 
che  generarono  e  lasciarono  bambini,  i  fratelli 
coi  quali  divisero  le  prime  gioie  brevi  e  i  primi 
pungenti  dolori.  Immagini  di  morti,  che  si  tirano 
dietro,  nell'animo  del  poeta,  altre  immagini  affini: 
mendichi,  vecchi,  ciechi,  bambini  deboli  e  pian- 
genti. È  un  idillio,  irrigato  di  pianto:  il  tesoretto 
domestico,  sul  quale  egli  vive,  è  formato  dal 
ricordo  dei  mali  e  delle  angosce  sofferte.  L'ere- 
mita (del  poemetto  cosi  intitolato),  nello  scendere 
lungo  il  fiume  della  morte,  grida: 

Signore,  fa  ch'io  mi  ricordi! 

Dio,  fa  che  sogni!  Nulla  è  più  soave, 
Dio,  che  la  fine  del  dolor;  ma  molto 
duole  obliarlo;  che  gettare  è  grave 

il  fior  che  solo  odora  quando  è  còlto. 

Da  questa  contemplazione,  fatta  fine  e  abito  di 
vita,  sorge  una  forma  di  serenità:  l'animo,  non 
più  interiormente  dilaniato,  può  volgersi  al  mondo 
esterno,  e  guardare  ed  osservare  e  comentare,  in 
un  modo  per  altro  sempre  intonato  alle  sofferte 
vicende:  calmo,  sì,  ma  non  gaio:  sereno,  ma  non 
agile  e  leggiero. 

E  sorgono  insieme  le  gioie  modeste:  l'attitu- 
dine a  godere  delle  cose  piccole,  del  riposo  gior- 
naliero, della  mensa,  della  passeggiata,  dello 
studio;  a  scoprire  in  esse  un  sapore,  una  virtù 
ascosa,  che  altri,  più  fortunati  o  più  sfortunati, 
non  vi  scoprirebbero:  come  nel  fior  d'acanto,  che 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  51 

le  api  regali  disdegnano,  le  api  legnaiole  trovano 
il  miele  e  la  contadinella  sugge  il  nettare  ignoto. 

A  te  né  le  gemme  né  gli  ori 
forniscono  dolce  ospite,  è  vero; 
ma  fo  che  ti  bastino  i  fiori 
che  cògli  nel  verde  sentiero, 
nel  muro,  sulle  umide  crepe 
dell'ispida  siepe. 

Non  reco  al  tuo  desco  lo  spicchio 
fumante  di  pingue  vitella; 
ma  fo  che  ti  piaccia  il  radicchio, 
non  senza  la  sua  selvastrella, 
con  l'ovo  che  a  te  mattutina 
cantò  la  gallina. 

Questa  disposizione  d'animo  è  stata  dal  Pa- 
scoli, negli  ultimi  tempi,  innalzata  a  una  teoria 
etico-sociologica,  che  egli  non  si  stanca  di  pre- 
dicare in  tutte  le  occasioni:  tanto  che,  per  questo 
rispetto,  stiamo  per  avere,  anche  noi  italiani,  il 
nostro  Tolstoi  (purtroppo,  solo  il  Tolstoi  che  filo- 
sofeggia!). La  natura  è  una  madre  dolcissima  che 
sa  quel  che  fa,  che  ama  i  figli  suoi,  e  dal  male 
ricava  per  essi  il  bene.  La  vita  è  bella,  o  sarebbe, 
se  gli  uomini  non  la  guastassero.  Ma  gli  uomini 
avvelenano  ogni  cosa  con  la  discordia,  con  l'odio, 
con  la  guerra,  e  con  la  cupidigia  insaziabile,  che 
è  il  movente  riposto  e  ultimo.  Bisogna  dunque 
dichiarar  guerra  alla  guerra;  non  ammettere  di- 
visioni fatali,  esser  di  nessun  partito,  addetti  so- 
lamente alla  causa  dell'umanità:  non  ridere  delle 
parole  carità  e  filantropia,  ma  accettarle  meglio 
che  quelle  di  socialismo,  individualismo  e  simili; 


52  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

il  vero  socialismo  è  il  continuo  incremento  della 
pietà  nel  cuore  dell'uomo.  Tutte  le  cose  buone 
sono  identiche,  o  s'identificano:  il  patriottismo 
non  sta  contro  il  socialismo,  e  viceversa:  il  so- 
cialismo dev'essere  patriottico,  e  il  patriottismo 
socialistico.  Tutto  è  affar  di  cuore,  di  dolcezza, 
di  pietà.  Anche  la  scienza  e  la  fede  non  debbono 
rissare:  la  scienza  deve  tener  della  fede  e  la  fede 
della  scienza.  Codesta  non  già  transvalutazione, 
ma  adeguazione  o  depressione  di  valori,  è  sug- 
gellata dalla  virtù  del  contentarsi:  contentarsi 
del  poco,  perchè,  se  il  molto  piace,  il  poco  solo 
è  ciò  che  appaga.  «  Uomini,  contentatevi  del  poco 
(assai,  vuol  dire  si  abbastanza  e  sì  molto:  filosofia 
della  lingua!),  e  amatevi  tra  voi  nell'ambito  della 
famiglia,  della  nazione  e  dell'umanità».  —  Una 
filosofia,  che  è  già  bella  e  criticata,  quando  si 
è  mostrato  che  nasce  da  uno  stato  d'animo  in- 
dividuale; e  del  resto,  il  Pascoli  stesso,  pratica- 
mente, come  uomo,  la  contradice  quando,  appena 
qualcuno  tocca  ciò  che  gli  è  caro  (la  sua  arte, 
o  i,  suoi  convincimenti  critici),  corre  alle  difese 
e  alle  offese;  non  esita  a  chiamare  «stolti»  o 
«  sciocchi  »  i  suoi  accusatori  (si  veda  la  prefa- 
zione ai  Poemi  conviviali))  e,  insomma,  conserit 
proelia,  viene  alle  mani:  di  che  non  lo  biasimerò 
io  certamente,  perchè  mi  par  naturale  che  ognuno 
protegga,  come  può,  le  cose  che  ama. 

Nasce  da  uno  stato  d'animo  e  ci  conferma 
questo  stato  d'animo,  che  è  quello  che  abbiamo 
definito  come  una  varietà  del  sentimento  idillico. 
Ora,   il  sentimento  idillico  è  costante  in   tutta 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  53 

l'opera  letteraria  del  Pascoli:  involuto,  e  qua  e 
là  lievemente  sorridente,  nelle  primissime  Myri- 
cae,  chiaramente  spiegato  nelle  poesie  posteriori. 
Non  fanno  eccezione  i  Poemi  conviviali,  il  cui 
contenuto  sono  la  natura,  la  morte,  la  bontà,  la 
pietà,  l'umiltà,  la  poesia;  e  la  poesia  e  la  morte 
più  d'ogni  altra  cosa:  pensieri  tristi  e  delicati, 
che  risuonano  sulle  labbra  dei  personaggi  del 
mito,  della  leggenda  e  della  storia  ellenica.  Per 
bocca  dell'antico  Esiodo  parla  sempre  il  Pascoli: 

E  sol  com'ora  anco  è  felice 
l'uomo  infelice:  s'egli  dorine  o  guarda:  N 
quando  guarda  e  non  vede  altro  che  stelle, 
quando  ascolta  e  non  ode  altro  che  un  canto; 

il  Pascoli  stesso  è  effigiato  in  Psiche,  che  solitaria 
nella  sua  casa  intende  l'orecchio  al  canto  di  Pan: 

Eppur  talvolta  ei  soffia 
dolce  così  nelle  palustri  canne, 
che  tu  l'ascolti,  o  Psiche,  con  un  pianto 
sì,  ma  ch'è  dolce,  perchè  fu  già  pianto 
e  perse  il  triste  nel  passar  degli  occhi 
la  prima  volta; 

o  nell'aedo  Femio,  che  parla  ad  Ulisse  e  dice 
della  poesia,  quel  che  già  era  stato  detto  nelle 
varie  allegorie  ed  apologhi  delle  Myricae: 

Un  nicchio  vile,  un  lungo 
tortile  nicchio,  aspro  di  fuori,  azzurro 
di  dentro,  e  puro,  non,  Eroe,  più  grande 
del  nostro  orecchio;  e  tutto  ha  dentro  il  mare, 
con  le  burrasche  e  le  ritrose  calme, 


54  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

coi  venti  acuti  e  il  ciangottio  dell'acque. 
Una  conchiglia  breve,  perchè  l'oda 
il  breve  orecchio,  ma  che  tutto  l'oda; 
tale  è  l'aedo.  Pure  a  te  non  piacque. 

La  medesimezza  dell'ispirazione  nei  Poemi  con- 
viviali, e  nelle  Myricae  e  Poemetti,  è  stata  con- 
cordemente riconosciuta;  e  in  questo  senso  si  è 
bene  affermato  che  il  Pascoli  ellenico  è  un  elle- 
no-cristiano. 

Diversa  opinione  è  stata  manifestata  per  gli 
Inni',  e  si  è  detto  che  il  Pascoli  vuol  tentar  in 
essi  la  corda  eroica,  e  fallisce.  E  gli  si  è  dato 
sulla  voce,  consigliandolo  (per  parlare  col  suo 
poeta)  a  meditare  silvestrem  musam  tenui  avena, 
ad  attenersi  al  deductum  Carmen,  al  calamos 
inftare  leves,  se  non  voglia  stridenti  miserum 
stipula  disperdere  carmenì  Ma  gl'inni,  nel  loro 
complesso,  contengono  nient'altro  che  la  predi- 
cazione del  solito  vangelo  pascoliano:  si  ricordino 
quelli  sull'anarchico  assassino  dell'imperatrice 
Elisabetta,  sul  negro  di  Saint-Pierre,  sulla  ucci- 
sione di  re  Umberto,  sul  Duca  degli  Abruzzi 
e  la  spedizione  al  Polo,  sulle  stragi  civili  del 
maggio  1898. 

E  si  deve  concludere  che  non  vi  ha  luogo  a 
distinguere,  nell'opera  del  Pascoli,  filoni  diversi 
di  pensieri,  correnti  diverse  di  sentimento,  e  ad 
assegnare  la  parte  geniale  della  poesia  di  lui 
all'una  delle  correnti,  e  l'artificiosa  all'altra.  Si 
deve  concludere  che  anche  il  secondo  dei  due 
procedimenti  critici,  che  abbiamo  ricordati,  si 
chiarisce  inapplicabile  al  caso  suo. 


GIOVANNI    PASCOLI  55 


V. 


E  così  l'arte  del  Pascoli  par  che  serbi  sempre 
l'aspetto  di  un  problema.  La  genialità  e  l'artificio, 
la  spontaneità  e  l'affettazione,  la  sincerità  e  la 
smorfia,  appaiono  uniti  negli  stessi  componimenti, 
nelle  stesse  strofe,  talvolta  in  un  singolo  verso. 
Il  male  attacca  la  lirica  nelle  sue  radici  e  nelle 
sue  fibre  più  intime,  nel  metro;  talché  in  mol- 
tissime poesie  del  Pascoli  la  mossa  metrica  è 
come  staccata  dall'ispirazione:  quasi  si  direbbe 
che,  appena  sorto  il  germe  di  vita,  un  microbio 
vi  si  sia  precipitato  sopra  a  contaminarlo.  L'im- 
pressione del  lettore  è  quella  che  io  ho  notata  in 
principio:  l'attrattiva  e  la  repulsione,  il  rapimento 
e  il  disgusto  si  avvicendano.  Abbiamo  insieme 
un  poeta  ingenuo  e  uno  bambinesco;  un  lirico 
del  dolore  e  un  «  assassinato  di  dolore  » ,  come 
avrebbe  detto  Pietro  Aretino;  un  commoso  can- 
tore della  pace  e  un  predicatore  alquanto  untuoso; 
un  uomo  santo  e  un  sant'uomo,  uno  spirito  re- 
ligioso e  un  prete.  Stiamo  a  momenti  per  gridargli 
entusiasmati:  Quae  Ubi,  quae  tali  reddam  prò 
Carmine  donaci,  e  donargli  la  nostr'anima  (unico 
dono  degno  che  possa  farsi  ai  poeti);  ma,  nel- 
l'istante seguente,  lo  slancio  del  donatore  resta 
sospeso.  E  il  critico  è  messo  in  imbarazzo:  press'a 
poco  nella  situazione  di  Gargantua,  quando  gli 
nacque  il  figlio  e  gli  mori  la  moglie,  che  non 
sapeva  se  dovesse  ridere  o  piangere:  *Et  ledóbufe 
qui  troubloil  san  en  tende  meni  esloit  assavoir 


53  I  -  GIOVANNI    l'AS 

mon  s'il  devoit  pleurer  poùr  le  deuil  de  sa 
femme,  ou  rire  pour  la  joie  de  son  filz.  D'un 
coste  et  d'aulire,  il  avoit  argumens  sophistiques 
qui  le  suffoquoient,  car  il  les  faisoit  tres  ìnen  in 
modo  et  figura,  mais  il  ne  les  pouvoit  souldre. 
Et,  par  ce  moyen,  demeuroit  empestrè  cornine 
la  souris  empeigée,  ou  un  milan  pris  au  lacet». 
Ma  il  critico  non  vuole  escogitare  «  argumens 
sophistiques»:  vuol  vederci  chiaro,  e  non  gli 
riesce. 

Non  è  una  consolazione  osservare  che  questa 
incertezza  si  ritrova  nell'opinione  generale  con- 
cernente il  Pascoli.  Coloro  che  più  ponderata- 
mente hanno  scritto  della  sua  opera,  mostrano 
sempre,  in  modo  espresso  o  tra  le  linee,  una  tal 
quale  insoddisfazione:  e  ora  concludono  che  il 
Pascoli  non  giunge  alla  creazione  spontanea  e 
^geniale;  ora  riconoscono  quel  che  c'è  d'imper- 
fetto nelle  sue  più  belle  creazioni;  ora  lo  consi- 
derano piuttosto  come  precursore  che  come  ar- 
tista compiuto  in  sé  stesso;  ora  lamentano  che 
nel  Pascoli  ci  sia  l'imitazione  di  sé  medesimo, 
il  pascolismo.  Più  volte  ho  potuto  osservare  che 
alcuni  dei  maggiori  estimatori  e  lodatori  di  lui 
non  sanno  celare  la  loro  dubbiezza  e  cercano 
come  di  essere  rassicurati  sulla  legittimità  della 
loro  ammirazione;  o  alcuni  dei  più  risoluti  avver- 
sari non  si  sentono,  nella  manifestazione  del  loro 
dispregio,  in  completa  buona  coscienza. 

Tanta  è  questa  incertezza,  che  si  ode  lamen- 
tare non  essere  stato  finora  il  Pascoli  giudicato 
degnamente  perchè  la  critica  italiana  è  inferiore 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  57 

al  compito  suo;  ed  altri  scusano  la  critica  con- 
siderando l'arte  del  Pascoli  come  un'arte  dell'av- 
venire, che  solo  in  una  nuova  fase  spirituale 
potrà  essere  compresa  a  pieno.  Sarà  dunque  così? 
Fallimento  della  critica?  o  rinvio  all'avvenire? 

Ma,  prima  di  ricorrere  a  codeste  ipotesi  da 
disperati  (da  disperati,  perchè  non  verificabili), 
bisogna  esaminare  un'ipotesi  più  semplice.  La 
quale  è,  che  ciò  che  si  presenta  come  problema 
sia  una  soluzione;  che  ciò  che  sembra  una  do- 
manda, sia  già  una  risposta  ;  che  questa  mia  cen- 
sura critica,  che  finora  sembra  tutto  un  prologo, 
sia  già  una  conclusione. 

Il  Pascoli  è,  per  l'appunto,  quale  lo  siamo 
venuti  osservando:  uno  strano  miscuglio  di  spon- 
taneità e  d'artifizio:  un  grande-piccolo  poeta,  o, 
se  piace  meglio,  un  piccolo-grande  poeta  (cosi 
come,  in  una  delle  sue  poesie,  la  terra  a  lui  appa- 
risce un  «  piccoletto-grande  presepe  »  !).  In  lui, 
anche  dopo  le  prime  Myricae,  sono  sorti  motivi 
poetici  felicissimi,  anzi  più  ricchi  forse  e  più  pro- 
fondi dei  suoi  primi;  ma  codesti  motivi  non  ven- 
gono padroneggiati  e  ridotti  a  unità  artistica,  e 
non  acquistano  quell'intonazione  armonica,  che 
è  la  manifestazione  dell'unità.  Era  uno  squisito 
poeta  nelle  prime  Myricae,  restio  a  scrivere  e  a 
stampare,  tanto  che  si  denominava  da  sé  «  Be- 
lacqua»,  e,  sfiducioso,  non  cercava  la  fama.  Ma! 
la  fama  l'ha  raggiunto,  e  lo  ha  eccitato  a  una 
produzione  abbondante  e  artificiale.  Spirito  poe- 
tico qual  egli  è,  non  riesce  mai  a  diventare  del 
tutto  un  retore;  ma  non  riesce  neppure  alla  poe- 


K 


58  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

sia  compiuta,  e  s'indugia  in  una  semi-poesia. 
Perciò  anche  egli,  ora,  non  vede  nessun  termine 
alla  sua  produzione:  smarrito  il  senso  della  sin- 
tesi artistica,  di  ogni  commozione  fa  una  lirica, 
prima  che  sia  diventata  veramente  tale:  la  sua 
produzione  si  è  resa  facile  e  meccanica.  «  Quanto 
più  di  numero  vorrei  che  fossero!  (scrive  nella 
prefazione  di  Odi  e  inni,  che  pure  son  troppi 
e  troppi).  Io  sento  di  non  avervi  ancor  detto  nulla 
di  ciò  che  avevo  per  i  vostri  cuori.  E  temo  di 
andarmene,  volgendomi  disperatamente  addietro 
per  dirvi  ciò  che  non  dissi,  e  che  è  sempre  e 
ancora  il  tutto.  Bisogna  affrettarsi,  ora.  Gli  anni 
non  vengono,  ora:  vanno  ».  Perciò,  non  s'acqueta 
in  nessuna  delle  sue  creazioni.  Ogni  materia  di- 
venta per  lui  inesauribile.  Il  tragico  fato  del 
_padre  gli  è  fonte  perpetuajd^__pjoesia^,appunto 
perchè  nessuna  perfetta  poesia  ne  è  nata.  Egli 
sente  nell'aria  il  rimprovero  per  quel  suo  inces- 
sante verseggiare  i  casi  della  propria  famiglia;  e 
si  difende:  «Io  devo  (il  lettore  comprende)  io 
devo  fare  quel  che  faccio.  Altri  uomini,  rimasti 
impuniti  o  ignoti,  vollero  che  un  uomo  non  solo 
innocente  ma  virtuoso,  sublime  di  lealtà  e  bontà, 
e  la  sua  famiglia,  morisse.  E  io  non  voglio.  Non 
voglio  che  siano  morti  » .  E  non  si  tratta  di 
questo:  i  lettori  non  l'accusano  di  parlar  troppo 
di  suo  padre,  ma  di  non  parlarne  abbastanza 
poeticamente;  ed  egli  forse  insiste  nel  tema,  non 
perchè  spinto  da  dovere  domestico,  ma  perchè 
avverte,  sia  pure  confusamente,  che  non  è  giunto 
ancora  a  concretare  il  suo  sentimento  nelle  im- 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  59 

magini.  Quella  tragedia  familiare  gli  sta  dinanzi 
come  un  grosso  blocco  di  marmo,  che  non  sa 
come  lavorare:  ne  fa  con  lo  scalpello  saltare 
qualche  scheggia,  ma  non  v'incide  una  volta  per 
sempre  la  statua  o  il  gruppo.  Per  la  stessa  ra- 
gione, infine,  la  sua  opera  poetica  ha  l'aria  di 
una  poesia  dell'avvenire:  i  motivi,  che  vi  sono 
abbozzati  e  non  perfettamente  elaborati,  paiono 
aspettare  e  provocare  l'artista,  che  li  ripiglierà. 


VI. 


Come  dal  suo  stato  d'animo  idillico  il  Pascoli 
ha  tratto  una  filosofia  che  è  la  conferma  di  quel 
suo  stato,  cosi  dalla  sua  arte  imperfetta  ha  tratto 
un'estetica  e  una  critica,  che  è  il  riflesso  teorico 
di  essa,  e  insieme  una  conferma  dell'analisi  che 
si  è  tentata  in  queste  pagine.  Il  poeta  jegli  dice 
ed  io  compendio),  il  poeta  vero  è  un  fanciullo: 
è  l'anima  che  ama  il  poco,  le  piccole  cose,  la 
campagna  piccola,  il  campicello,  l'orto  con  una 
fonte  e  con  un  po'  di  selvetta,  il  cavallino,  la 
carrozzina,  l'aiolina.  E  l'ama  con  la  dolcezza  della 
pietà:  perchè  il  poeta  non  solo  è  il  fanciullo,  ma 
è  anche  il  poverello  dell'umanità,  spesso  cieco 
e  vecchio.  Per  conseguenza,  in  quanto  poeta,  è 
sempre  ispiratore  di  buoni  e  civili  costumi,  d'amor 
patrio  e  familiare  e  umano:  è  sempre  socialista, 
perchè  è  umano:  esclude  l'impoetico,  e  alla  fine 
si  trova  che  l'impoetico  è  quello  appunto  che 
la  morale  riconosce  cattivo  e  l'estetica  dichiara 


60  I  -  GIOVANNI   PASCOLI 

brutto:  l'esclude  non  di  proposito,  non  ragionando, 
ma  cosi  istintivamente,  perchè  ne  ha  paura  o 
schifo.  Ciò  che  esce  fuori  di  questo  amore  pel 
piccolo)  non  è  poesia.  Le  armi,  le  aste  bronzee, 
i  carri  di  guerra,  i  lunghi  viaggi,  le  traversie, 
sì,  perchè  sono  cose  che  il  fanciullo  ricerca  con 
avida  curiosità,  e  le  vagheggia  palpitando  di 
gioia.  Ma  tale  non  è  l'amore,  l'eros;  tale  non  è 
tutta  la  moltitudine  irosa  delle  altre  passioni. 
Ciò  il  Pascoli  chiama  non  più  elemento  poetico, 
ma  drammatico;  non  più  poesia  pura,  ma 
applicata;  non  più  di  sentimento,  ma  di  fan- 
tasia. Con  l'introduzione  dell'elemento  erotico, 
l'essenza  poetica  diminuisce:  le  figure  omeriche 
sono  più  poetiche  di  quelle  della  tragedia  ellenica: 
Rolando  della  Chanson  è  più  poetico  dell'Orlando 
innamorato  e  furioso  dei  romanzieri  italiani.  La 
Comedia  dantesca,  come  tutti  i  grandi  poemi,  i 
grandi  drammi,  i  grandi  romanzi,  è  poesia  ap- 
plicata: è  un  gran  mare,  nel  quale  di  tanto  in 
tanto  si  pesca  una  perla,  un  prodotto  di  poesia 
pura;  com'è,  per  esempio,  nel  Purgatorio  la 
descrizione  dell' «ora  che  volge  il  desio  ai  na- 
viganti ■» . 

Questa  estetica  è  la  base  della  sua  critica 
letteraria.  Di  Omero  mette  in  mostra  l'intona- 
zione fanciullesca:  «  descriveva  i  particolari  l'uri 
dopo  l'altro,  e  non  ne  tralasciava  uno,  nemmeno, 
per  esempio,  che  le  schiappe  da  bruciare  erano 
senza  foglie.  Che  tutto  a  lui  pareva  nuovo  e  bello, 
ciò  che  vi  aveva  visto,  e  nuovo  e  bello  credeva 
avesse  a  parere  agli  uditori.  La  parola  c  bello  * 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  61 

e  '  grande  '  ricorreva  a  ogni  momento  nel  suo 
novellare,  e  sempre  egli  incastrava  nel  discorso 
una  nota  a  cui  riconosceva  la  cosa.  Diceva  che 
le  navi  erano  nere,  che  avevano  dipinta  la  prora, 
che  galleggiavano  perchè  ben  bilanciate,  che 
avevano  belli  attrezzi,  bei  banchi;  che  il  mare 
era  di  tanti  colori,  che  si  moveva  sempre,  che 
era  salato,  che  era  spumeggiante...».  L'Eneide 
di  Virgilio  diventa  pel  Pascoli  quasi  un  duplicato 
della  Georgica:  l'Eneide  canta,  si,  guerra  e  bat- 
taglie; ma  «  tutto  il  senso  della  mirabile  epopea 
è  in  quel  cinguettìo  mattutino  di  rondini  o  pas- 
seri, che  sveglia  Evandro  nella  sua  capanna,  là 
dove  avevano  da  sorgere  i  palazzi  imperiali  di 
Roma».  Nelle  sue  introduzioni  aXY Epos  e  alla 
Lyra,  il  Pascoli  evoca  la  Grecia  primitiva  coi 
suoi  aedi  e  mendicanti,  ricchi  di  meravigliose 
storie,  fanciulli  parlanti  ad  altri  fanciulli,  o  ri- 
sveglianti  nell'uomo  adulto  il  fanciullo:  evoca  il 
Lazio  primitivo,  con  la  sua  vita  agreste  piuttosto 
che  guerresca. 

È  da  notare  un'altra  dottrina  letteraria  del 
Pascoli,  che  si  lega  alla  precedente.  Egli  afferma 
che  per  la  poesia  vera  e  propria  agli  italiani 
manca,  o  sembra  mancare,  la  lingua;  e  che  bi- 
sogna riproporsi  il  problema  posto  e  studiato  dal 
Manzoni:  il  problema  della  lingua.  La  lingua,  che 
si  adopera,  è  troppo  generica  e  grigia.  «  Pensate 
ai  fiori  e  agli  uccelli,  che  sono  de'  fanciulli  la 
gioia  più  grande  e  consueta:  che  nome  hanno? 
S'ha  sempre  a  dire  uccelli,  si  di  quelli  che  fanno 
tottavì  e  si  di  quelli  che  fanno  crocrol  Basta 


62  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

dir  fiori  o  fioretti,  e  aggiungere,  magari,  vermigli 
e  gialli,  e  non  far  distinzione  tra  un  greppo  co- 
perto di  margherite  e  un  altro  gremito  di  cro- 
chi?». Ed  insegna  ai  fanciulli  il  segreto  per  di- 
ventar valenti  in  poesia:  «Chiedete  sempre  il 
nome  di  ciò  che  vedete  e  udite;  chiedetelo  agli 
altri,  e  solo  quando  gli  altri  non  lo  sappiano, 
chiedetelo  a  voi  stessi,  e,  se  non  c'è,  ponetelo  voi 
il  nome  alla  cosa  » .  Anche  questa  dottrina  è  base 
ai  suoi  giudizi  critici.  Esamina  il  Sabato  del  vil- 
laggio del  Leopardi,  e  trova  indeterminato  e  vago 
il  verso  «un  mazzolin  di  rose  e  di  viole»;  & 
avrebbe  desiderato  maggiore  precisione  per  es- 
sere in  grado  così  di  stabilire  a  quale  mese  del- 
l'anno si  riferiva  il  poeta  con  la  sua  descrizione: 
corregge  altrove  il  Leopardi,  che  accenna  al 
canto  degli  usignoli,  notando  che  nella  valle  di 
Recanati  si  odono  invece  le  cingallegre;  l'Elogio 
degli  uccelli  gli  suggerisce  l'esclamazione  :  «  mai 
un  nome  di  uccelli:  tutti  uccelli,  tutti  can- 
terini! ». 

Ora  è  evidente,  per  quanto  riguarda  la  dot- 
trina estetica,  che  il  Pascoli  ha  equivocato, 
scambiando  e  confondendo  in  uno  l'ideale  fan- 
ciullezza, che  è  propria  della  poesia  la  quale 
si  libera  dagl'interessi  contingenti  e  s'affisa  ra- 
pita nelle  cose,  —  la  fanciullezza  che  è  imma- 
gine della  contemplazione  pura,  —  con  la  rea- 
listica fanciullezza,  che  si  aggira  in  un  piccolo 
mondo  perchè  non  conosce  e  non  è  in  grado  di 
dominarne  uno  più  vasto.  E  l'equivoco  lo  ha 
menato  diritto  a  negare   carattere  d'arte  pura 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  63 

a  quasi  tutta  l'arte;  a  distinguer  l'arte  dalla 
fantasia  confinandola  al  sentimento,  e  a  muti- 
lare il  sentimento  stesso  confinandolo  a  quel  solo 
sentimento  che  non  sia  erotico  o  passionale,  al 
sentimento  idillico. 

La  sua  dottrina  sulla  lingua  ha  stretta  affi- 
nità con  quella  di  Edmondo  de  Amicis  e  degli 
altri  linguai;  vale  a  dire,  si  riduce  in  fóndo  al- 
l'eretismo delle  piccole  cose,  agli  alberi  che  im- 
pediscono la  vista  della  selva.  Dice  il  Leopardi 
nella  Vita  solitaria: 

Talor  m'assido  in  solitaria  parte 
sovra  un  rialto,  al  margine  d'un  lago 
di  taciturne  piante  incoronato. 

E  un  De  Amicis  o  un  Pascoli  a  domandare  ;  — 
Piante?  ma  quali  piante?  di  quale  specie  e  sot- 
tospecie e  famiglia  e  varietà?  Qui  c'è  l'indeter- 
minato e  l'impreciso!  —  quasi  che  Leopardi 
dovesse  essere,  in  quel  momento,  non  già  un'anima 
assorta  nel  problema  del  dolore  e  del  fine  del- 
l'universo, ma  un  dilettante  di  botanica;  come 
prima,  nel  caso  degli  uccelli,  non  un  filosofo  pes- 
simista, ma  un  cacciatore,  esperto  a  riconoscere 
lo  voci  e  le  forme  degli  uccelli,  a  cui  mirerà 
con  lo  schioppo! 

La  critica  del  Pascoli,  infine,  è  unilaterale 
ed  esagerata.  Dove  egli  s'incontra  con  poeti  e 
con  situazioni  poetiche  che  rispondono  al  suo 
proprio  ideale  e  alla  sua  angusta  teoria,  li  sente 
e  interpreta  bene,  e  vi  fa  intorno  osservazioni 
assai  fini.  Ma,  trovandosi  più  spesso  innanzi  a 


64  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

un'arte  diversa,  è  costretto  o  a  tacere  o  a  ri- 
durla sofisticando  alla  sua  personale  visione.  Rare 
sono  le  eccezioni,  dovute  allo  spontaneo  irrom- 
pere di  un  più  compiuto  senso  dell'arte.  Ma  è 
veramente  l'Eneide  quella  che  egli  ci  presenta 
nel  giudizio  riferito  di  sopra?  E,  per  esempio, 
il  passionale  episodio  di  Didone,  cosi  importante 
e  significante,  come  si  concilia  con  la  veduta 
georgica  dell'essenza  del  poema?  E,  veramente, 
lo  stile  di  Omero  quello  che  il  Pascoli  ci  ha  de- 
scritto, o  non  è  di  un  Omero  reso  da  lui  alquanto 
puerile?  Anche  i  saggi  di  traduzione  che  il  Pa- 
scoli ci  ha  dati  dei  poemi  omerici  destano  i  me- 
desimi dubbi.  Non  istituirò  sottili  confronti  con 
l'originale,  convinto  come  sono  che  la  poesia, 
rigorosamente  parlando,  non  si  traduce;  o,  come 
è  stato  detto  di  recente  e  assai  bene  da  un  critico 
d'arte  tedesco,  che  chi  traduce  con  la  pretesa  di 
sostituire  l'originale,  fa  come  uno  che  volesse 
dare  a  un  innamorato  un'altra  donna  in  cambio 
di  quella  che  egli  ama:  una  donna  equivalente 
o,  su  per  giù,  simile;  ma  l'innamorato  è  inna- 
morato proprio  di  quella  e  non  degli  equiva- 
lenti. Né  contesterò  l'utilità  grande  che  avrà 
per  la  cultura  italiana  il  possedere  un  Omero 
messo  in  italiano  da  un  profondo  grecista  e 
da  un  espertissimo  letterato,  quale  il  Pascoli: 
anzi  affretto  coi  miei  voti  il  compimento  del- 
l'opera. Ma,  considerando  quelle  traduzioni  per 
sé,  come  opere  d'arte  che  stiano  da  sé,  a  me 
pare  che  tra  l'Omero  alquanto  rimbambinito 
del  Pascoli,  e  quello  un  po'  enfatico  e  accade- 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  65 

mico,  ma  pur  grandioso,  di  Vincenzo  Monti,  chi 
legga  per  mere  ragioni  di  godimento  artistico 
preferirà  sempre  il  secondo: 

Elena  dunque  venire  vedevano  verso  la  torre, 
e  l'uno  all'altro  parlava  parole  dall'ale  d'uccelli  : 
—  Torto  non  è  che  Troiani  ed  Achei  dalle  belle  gambiere 
da  sì  gran  tempo  per  tale  una  donna  sopportino  il  male... 

Il  Monti  ha  soppresso  le  ali  di  uccello  e  le  belle 
gambiere,  sentendo  che  il  loro  valore  si  falsifica 
nella  letterale  versione  italiana;  ha  aggiunto 
qualche  suo  tocco:  ne  è  uscito  un  quadro  o  una 
statua  alla  David  o  alla  Canova,  ma,  a  ogni 
modo,  una  pagina  d'arte: 

Come  vider  venire  alla  lor  volta 

la  bellissima  donna,  i  vecchion  gravi 

alla  torre  seduti,  con  sommessa 

voce  tra  lor  venian  dicendo  :  —  In  vero 

biasmar  né  i  Teucri  né  gli  Achei  si  denno 

se  per  costei  si  diuturne  e  gravi 

sopportano  fatiche... 

Il  fanciullesco  non  c'è  più;  ma  c'era  veramente 
in  Omero?  L'omerico  neanche  c'è  più;  ma  si 
poteva  rendere?  e  l'ha  reso  poi  il  Pascoli?  — 
Parla  Achille  ad  Ettore  caduto: 

Ettore,  tu  lo  credevi  spogliando  il  mio  Patroclo  morto, 
d'esser  salvo,  e  di  me  ch'ero  lungi,  pensier  non  ti  davi 
bimbo!  ma  in  parte  da  lui  c'era  un  molto  più  forte  com- 
pagno 
presso  le  navi  cavate,  c'ero  io  dietro  ad  esso  rimasto, 
che  i  tuoi  ginocchi  snodai!  I  cani  e  gli  uccelli  da  preda 
strascicheranno  ora  te;  lui  seppelliranno  gli  Achei! 

B.  Croce,  Giovanni  Pascoli.  6 


66  I  -  GIOVANNI   PASCOLI 

Anche  qui  mi  pare  che  sia  più  facile  gustare  il 
Monti,  che  traduce  nello  stile  neoclassico,  non 
senza  qualche  svolazzo  accademico: 

Ettore,  il  giorno  che  spogliasti  il  morto 
Patroclo,  in  salvo  ti  credesti,  e  nullo 
terror  ti  prese  del  lontano  Achille. 
Stolto!  restava  sulle  navi  al  mio 
trafitto  amico  un  vindice,  di  molto 
più  gagliardo  di  lui:  io  vi  restava, 
io,  che  qui  ti  distesi.  Or  cani  e  corvi 
te  strazieranno  turpemente,  e  quegli 
avrà  pomposa  dagli  Achei  la  tomba. 

Comunque,  la  critica  del  Pascoli,  quando  non 
può  interpretare  in  modo  rispondente  al  suo 
ideale  di  vita  le  opere  poetiche,  divaga,  come 
può  vedersi  nei  citati  discorsi  introduttivi  alle 
raccolte  dell'Epos  e  della  Lyra,  i  quali  sono  i 
suoi  migliori  lavori  critici:  serie  di  note  sugli 
aedi  dell'Eliade,  sulla  condizione  dei  poeti  nella 
primitiva  società  romana,  sulle  leggende  di  Roma 
confrontate  con  quelle  dell'epos  ellenico,  su  Enea 
e  Odisseo,  su  questioni  biografiche  e  cronologi- 
che, sulle  varie  redazioni  del  testo  dell'  Eneide, 
e  simili,  che  non  stringono  dappresso  il  problema 
critico. 

Nella  sua  inesatta  idea  dell'arte  è  anche  l'ori- 
gine di  quella  singolare  opera  critica,  che  sono 
i  parecchi  volumi  da  lui  dedicati  dall'esegesi 
dantesca.  Il  Pascoli  non  sembra  ancora  investito 
dello  spirito  della  critica  moderna,  per  la  quale 
il  pensiero  poetico  e  la  grandezza  di  Dante  non 
sono  riposti  nelle  allegorie  e  nei  concetti  morali. 


I  -  GIOVANNI    PASCOLI  67 

La  sua  Minerva  oscura  (prendo  questo  libro 
come  esempio)  discute  ancora  con  gravità  e  come 
di  problemi  di  alta  importanza,  se  il  sistema  delle 
pene  e  dei  premi  sia  il  medesimo  nell'Inferno, 
nel  Purgatorio  e  nel  Paradiso;  se  delle  tre  fiere 
la  lonza  rappresenti  l'incontinenza,  il  leone  la 
violenza,  la  lupa  la  frode;  se  il  messo  del  cielo 
sia  Enea;  perchè  il  conte  Ugolino  stia  nell'An- 
tenora  e  non  nella  Caina,  e  via  dicendo:  questioni 
di  nessuno  o  di  assai  scarso  significato  non  solo 
per  l'intelligenza  artistica  di  Dante,  ma  anche 
per  la  conoscenza  della  vita  medievale  e  delle 
intenzioni  e  dei  sentimenti  appartenenti  alla  bio- 
grafìa di  Dante  :  inezie,  che,  di  giunta,  sono  per 
lo  più  questioni  insolubili,  per  mancanza  di  dati 
di  fatto  sufficienti;  onde  rendono  possibile  quel 
raziocinare  all'infinito,  che  piace  ai  perditempo, 
e  quell'acume  a  buon  mercato,  che  piace  ai 
vanitosi. 

Ed  ecco  il  Pascoli,  per  le  scoperte  del  genere 
accennato,  «  raggiante  di  solitario  orgoglio  » . 
«Aver  visto  nel  pensiero  di  Dante!...  (dice  nella 
prefazione  alla  Minerva  oscura).  Io,  la  vera  sen- 
tenza, io  l'ho  veduta!  Si:  io  era  giunto  al  polo 
del  mondo  dantesco,  di  quel  mondo  che  tutti  i 
sapienti  indagano  come  opera  di  un  altro  Dio! 
Io  aveva  scoperto,  in  certo  modo,  le  leggi  di  gra- 
vità di  quest'altra  Natura;  e  quest'altra  natura, 
la  ragione  dell'universo  dantesco,  stava  per  sve- 
larsi tutta!».  Sembra  anche  qui  Edmondo  de 
Amicis,  quando,  dopo  aver  veduta  e  toccata  a 
Granata  la  cassetta  delle  gioie  d'Isabella  di  Ca- 


68  I  -  GIOVANNI    PASCOLI 

stiglia,  si  guardava  le  mani,  esclamando  come 
incredulo  o  trasognato:  «Io  l'ho  toccata,  con 
queste  mani!».  Ma  il  Pascoli  si  ricorda,  subito 
dopo,  del  doveroso  sentimento  di  modestia:  scac- 
cia via  con  piglio  risoluto  l'orgoglio,  benché,  nello 
scacciarlo,  gli  accada  (disavventura  in  cui  incap- 
pano di  solito  i  modesti)  di  accentuarlo  più  for- 
temente: «Cancelliamo  quelle  superbe  parole! 
Mi  perdoni  chiunque  ne  sia  rimasto  scandalizzato! 
Oh,  se  la  gloria  è  ombra  di  vanità...  Via  dal 
cuore  cosi  perverso  fermento!».  Il  che  non  im- 
pedisce che,  qualche  anno  dopo,  egli  non  sappia 
tenersi  dal  contare  la  sua  scoperta  e  la  sua  gloria 
ai  fanciulli  delle  scuole  d'Italia:  «  E  io  vi  dico, 
o  fanciulli,  che  il  tempio  (la  Divina  Commedia) 
è  ancora  in  piedi,  e  che  è  bello  dentro  e  fuori, 
e  più  bello  nel  suo  complesso  che  nei  suoi  par- 
ticolari che  sono  pur  bellissimi,  e  che  nel  tempio 
e  si  gode  molto,  per  la  grande  bellezza,  e  s'im- 
para molto  per  la  ingegnosa  verità;  e  che  vi  si 
può  entrare,  perchè  la  chiave  si  è  trovata.  E  se 
vi  soggiungessi  che  l'ho  trovata  io,  mi  direste 
superbo?  Quanti  trovano,  figliuoli  miei,  una 
chiave,  in  questo  mondo,  e  non  sono  detti  superbi 
se  dicon  d'averla  trovata  e  la  riportano!  E  poi, 
sapete  dove  l'ho  trovata?  Nella  serratura.  Era 
nella  toppa,  la  chiave  del  gran  tempio!  Era  lì, 
e  bastava  appressarsi  un  poco  per  vederla  e  gi- 
rarla ed  entrare!  Ma  nessuno  s'era,  a  quanto  pare, 
appressato  assai  »  (Fior  da  flore,  prefaz.).  E,  an- 
cora qualche  tempo  dopo,  con  rapida  mutazione 
di  stile,  rivolgendosi  ai  critici,  e  alludendo  ai  suoi 


I  -  GIOVANNI   PASCOLI  69 

volumi  danteschi,  scritti  e  da  scrivere:  «Essi 
furono  derisi  e  depressi,  oltraggiati  e  calunniati  ; 
ma  vivranno.  Io  morrò:  quelli  no.  Così  credo, 
cosi  so:  la  mia  tomba  non  sarà  silenziosa.  Il 
genio  di  nostra  gente,  Dante,  la  additerà  ai  suoi 
figli  ». 

In  questi  giubili,  in  questi  vanti,  in  queste 
stizze,  in  questa  virtù  che  si  nasconde  ma  se 
cupit  ante  videri,  abbiamo  innanzi,  veramente, 
non  il  fanciullo  divino  e  poetico,  ma  il  fanciullo 
realistico  e  prosaico.  E  neppure  nelle  poesie  del 
Pascoli  c'è  solo  il  divino  infante.  Anche  colà, 
come  nella  sua  dottrina  estetica  e  critica,  i  due 
esseri,  così  all'apparenza  simili,  così  nel  profondo 
diversi,  sono  abbracciati  e  stretti  in  un  amplesso 
indissolubile.  Questo  amplesso  del  poeta  ut  puer 
e  del  puer  ut  poeta  è  forse  il  simbolo  più  ade- 
guato dell'arte  di  Giovanni  Pascoli. 

1906. 


II 


INTORNO  ALLA  CRITICA 

DELLA  LETTERATURA  CONTEMPORANEA 

E  ALLA  POESIA  DI  G.  PASCOLI. 


Il  mio  giudizio  sul  Pascoli  ha  suscitato  —  e 
me  le  aspettavo  —  vivaci  opposizioni  e  contro- 
versie. E  a  proposito  di  esso  si  è  ripreso  a  di- 
scutere di  quel  che  sia  o  debba  essere  la  critica 
letteraria,  e  dei  vantaggi  e  degli  inconvenienti 
di  questo  e  di  quel  metodo,  e  del  metodo  in  ge- 
nere. Ecco  dunque  buona  occasione  per  meglio 
chiarire  le  idee  non  ancora  del  tutto  chiare  (seb- 
bene molto  meno  confuse  di  quanto  fossero  alcuni 
anni  addietro)  sull'ufficio  della  critica,  e  anche 
per  aggiungere  qualche  cosa  circa  la  poesia  del 
Pascoli. 

Quale  sia  il  metodo  di  critica,  che  si  professa 
in  queste  pagine,  può  compendiarsi  in  poche 
parole,  quasi  in  un  catechismo.  È  una  critica 
fondata  sul  concetto  dell'arte  come  pura  fantasia 
o  pura  espressione,  e  che  per  conseguenza  non 
esclude  dalla  cerchia  dell'arte  nessun  contenuto 


72  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

o  stato  d'animo,  sempre  che  sia  concretato  in 
un'espressione  perfetta.  Fuori  di  tale  concetto, 
quella  critica  non  ha  alcun  altro  presupposto 
teorico,  e  rifiuta  come  arbitrarie  le  cosiddette 
regole  dei  generi  e  ogni  sorta  di  leggi  letterarie 
e  artistiche.  Per  giudicare  d'arte  non  conosce 
altra  via  che  quella  d'interrogare  direttamente 
l'opera  stessa  e  risentirne  la  viva  impressione; 
e  a  questo  fine,  e  solo  a  questo  fine,  crede  am- 
messibili,  anzi  indispensabili,  le  ricerche  che  si 
chiamano  storiche  o  filologiche,  le  quali  hanno 
valore  ermeneutico  e  servono  a  trasportarci, 
come  si  dice,  nelle  condizioni  di  spirito  dell'au- 
tore nell'atto  che  formò  la  sua  sintesi  artistica. 
Ottenuta  la  viva  impressione,  ossia  il  congiun- 
gimento con  lo  spirito  dell'artista,  il  lavoro 
ulteriore  non  può  esplicarsi  se  non  nel  deter- 
minare ciò  che  nell'oggetto  che  si  esamina  è 
schietto  prodotto  di  arte,  e  ciò  che  vi  si  contiene 
di  non  veramente  artistico,  come  sarebbero,  per 
esempio,  le  violenze  che  l'autore  fa  alla  sua 
visione  per  intenti  sovrapposti,  le  oscurità  e  i 
vuoti  che  lascia  sussistere  per  ignavia,  le  gon- 
fiature e  fiorettature  che  introduce  per  far  colpo, 
i  segni  dei  pregiudizi  di  scuola,  e  tutta  insomma 
la  varia  sequela  delle  deficienze  e  viziature  ar- 
tistiche. Il  risultato  di  questo  lavoro  è  l'esposi- 
zione o  ragguaglio  critico,  che  dica  semplice- 
mente (e,  nel  dir  ciò,  ha  insieme  giudicato)  wie 
es  eigentlich  gewesen,  «  come  sono  andate 
propriamente  le  cose  »,  secondo  la  definizione, 
geniale  nella  sua  semplicità,  che  Leopoldo  Ranke 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  73 

dava  della  storia.  Perciò  critica  d'arte  e  storia 
d'arte,  a  mio  vedere,  s'identificano:  ogni  tenta- 
tivo di  critica  d'arte  è  tentativo  di  scrivere 
una  pagina  di  storia  dell'arte  (intendendo  la 
parola  «  storia  »  nel  suo .  senso  alto  e  compiuto, 
cioè  nel  suo  senso  vero).  La  critica  distingue  e 
caratterizza  le  forme  prese  dallo  spirito  artistico 
nel  corso  della  realtà,  che  è  svolgimento  e  storia. 
Mi  ha  recato  dunque  meraviglia  leggere  su 
pei  giornali  che  questo  metodo  vuol  «  misurare 
la  fantasia  e  l'estro  di  un  poeta  col  metro  di 
preconcetti  pedanteschi  » ,  o  che  esso  applica 
all'arte  «  i  criteri  logici  che  sono  propri  della 
critica  della  scienza  » ,  o  che  si  fonda  sui  «  ca- 
ratteri estrinseci  »  dell'opera  d'arte;  —  quando 
vero  è  proprio  l'opposto,  cioè  che  esso  è  sorto 
per  discacciare  preconcetti  pedanteschi  e  abitu- 
dini di  confusione  tra  arte  e  scienza,  e  per 
ricondurre  lo  sguardo  dall'estrinseco  all'intrin- 
seco. E  non  so  che  cosa  si  voglia  dire  con  l'ac- 
cusare quel  metodo  come  «sistematico»,  giacché, 
per  quel  ch'io  so,  la  mente  umana  è  sistema, 
vale  a  dire  ordine;  e  si  potrà  censurare  come 
imperfetto  un  particolare  sistema,  ma  non  perciò 
sopprimere  mai  l'esigenza  sistematica,  la  quale 
conviene  a  ogni  modo  appagare.  Non  potrei  nep- 
pure ammettere  che  il  metodo  da  me  professato 
sia  bensi  buono,  ma  che  «  accanto  ad  esso  ve 
ne  siano  altri  egualmente  buoni  per  giudicare 
dell'arte  »,  perchè  non  intendo  come  una  fun- 
zione dello  spirito  umano  possa  avere  altro 
metodo  che  non  sia  quell'unico,  che  le  è  proprio; 


74  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

e  resto  stupito  quando  poi  leggo,  che  «  di  un 
metodo  in  critica  non  si  dovrebbe  neppur  par- 
lare», perchè  rispetto  troppo  il  mestiere  che 
qui  faccio  per  considerarlo  come  cosa  capricciosa 
e  priva  di  metodo,  cioè  di  giustificazione  e  di 
valore. 

Ma  confesso  che  la  meraviglia  maggiore  è 
nata  in  me  dal  timore  manifestato  dal  Gar- 
gano ('):  che  questo  metodo,  risolvendosi  in  un 
«formolario  »,  metterà  «  d'ora  innanzi  alla  por- 
tata di  tutti  l'esame  di  ogni  produzione  letteraria, 
di  coloro  specialmente  che,  sforniti  della  dote 
essenziale  del  critico,  cioè  del  gusto,  crederanno 
in  buona  fede  di  poter  giudicare  applicando  se- 
veramente i  principi  della  logica  ».  Lasciando 
stare  l'ovvia  risposta  già  da  altri  anticipata  al 
Gargano  (che  di  qualsiasi  metodo  si  può  abusare 
dagli  incapaci),  io  osservo  che  la  vecchia  critica, 
fondata  sulle  regole  e  i  modelli,  quella,  sì,  era 
facilissima  e  «  alla  portata  di  tutti  »  ;  perchè  non 
ci  voleva  molto  a  sentenziare:  «  la  tale  opera 
non  risponde  alle  regole  della  tragedia,  e  perciò 
merita  condanna»;  ovvero:  «  il  tale  personaggio 
si  conduce  in  questa  situazione  precisamente 
come  il  pius  Aeneas,  e  perciò  merita  lode  di 
decoroso  eroe  da  epopea».  Ma  la  critica  mo- 
derna, richiedendo  insieme  idee  filosofiche  sul- 
l'arte, cultura  storica,  sensibilità  estetica,  acume 
di  analisi  e  forza  di  sintesi,  è  difficile.  Tanto 
diffìcile  che  io  non  l'ho  vista  mai  attuata  se  non 


(i)  Nel  Marzocco  di  Firenze,  del  31  marzo  1907. 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  75 

a  tratti  e  lampi;  e  non  conosco  se  non  un  sol 
critico  (l'ho  detto  già  molte  volte),  che  l'abbia 
degnamente  esercitata  sopra  un'intera  lettera- 
tura: il  De  Sanctis.  Per  quel  che  concerne  me 
che,  in  mancanza  di  altri  volenterosi,  mi  sono 
provato  ad  adoprarla  per  la  contemporanea  let- 
teratura italiana,  io  sono  di  continuo  travagliato 
dal  dubbio  (igienico  dubbio)  della  mia  inade- 
guatezza all'alto  ufficio.  Faccio  del  mio  meglio, 
m'invigilo,  procuro  di  correggermi;  ma  non  ho 
mai  la  sensazione  di  correre  un  campo  libero  di 
ostacoli,  o  di  scivolare  come  in  islitta  sul  ghiaccio. 
Se  altri  prova  questo  godimento,  beato  lui! 

Ma  come  mai  l'enunciato  metodo  critico,  che 
è  il  più  liberale  che  sia  stato  mai  concepito,  il 
più  rispettoso  verso  tutte  le  infinite  individua- 
zioni artistiche,  il  solo  che  non  prenda  il  passo 
sull'arte,  viene  ad  assumere  agli  occhi  di  molti 
aspetto  minaccioso  di  forza  e  di  prepotenza, 
tanto  da  spingerli  alle  proteste  e  alle  accuse 
malamente  formolate  con  le  parole  di  «  siste- 
matismo  »,  «  logicismo  »,  «  preconcettismo  pedan- 
tesco», e  simili?  Chi  non  ignora  che  le  mede- 
sime accuse  sono  state  date  ai  metodi  dei  più 
vigorosi  filosofi,  e  le  lodi  contrarie  largite  in  copia 
ai  filosofi  molli  e  contradittorl  e  inconcludenti, 
chi  rammenta  di  quanto  odio  siano  stati  prose- 
guiti Spinoza  o  Hegel,  e  di  quante  simpatie  Mill 
o  Spencer,  non  dura  grande  fatica  a  spiegarsi 
il  caso.  La  ragione  delle  accuse,  non  potendo 
essere  fondata  nella  qualità  di  quel  metodo,  deve 
cercarsi  nelle  disposizioni  degli  animi  e  degl'in- 


76  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

telletti  degli  accusatori:  in  quelle  tendenze  che 
io  soglio  riassumere  con  la  parola  «pigrizia». 
È  l'umana  pigrizia  che  fa  preferire  un  metodo 
più  comodo,  o  almeno  rivendica  il  diritto  di  un 
metodo  più  comodo  e  benigno  accanto  all'altro 
troppo  severo;  la  pigrizia,  che  rifiuta  il  peso  e 
scansa  la  responsabilità  del  concludere,  e  tenta 
di  eludere  il  problema,  girandolando  intorno 
all'arte,  cogliendone  solo  qualche  lato,  divagando 
leggiadramente  o  sviandosi  in  questioni  estranee. 
L'orrore  di  molti  cosiddetti  «  eruditi  »  per  la 
cosiddetta  «critica  estetica»  è  l'istintiva  paura 
per  un  esercizio  troppo  aspro  e  periglioso.  Met- 
tere insieme  la  cronaca  dei  pettegolezzi  di  Re- 
canati è,  si  sa,  molto  più  facile  che  non  analiz- 
zare il  Canto  del  pastore  errante. 

La  pigrizia  per  altro  è,  nella  critica  della 
letteratura  contemporanea,  rafforzata  da  motivi 
particolari.  Quella  critica,  a  dir  vero,  conside- 
rata intrinsecamente,  non  ha  problema  diverso 
da  ogni  altra  forma  di  critica,  che  concerna  le 
letterature  più  da  noi  remote  nel  tempo;  e  an- 
ch'essa, come  si  è  detto,  consiste  nel  tentativo 
di  scrivere  una  pagina  di  storia  letteraria.  E  se 
vi  s'incontrano  condizioni  sfavorevoli,  che  non 
si  trovano  nella  letteratura  più  remota,  presenta 
altresì  alcune  condizioni  favorevoli,  che  mancano 
nell'altro  caso:  se  nella  letteratura  contempo- 
ranea è  assai  malagevole  cogliere  il  carattere 
e  il  valore  di  certi  processi  che  sono  ancora  in 
fieri  o  si  sono  appena  conclusi,  laddove  per 
l'antica  si  hanno   innanzi  serie   di   svolgimenti 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  77 

compiuti  e  nitidamente  assegnabili,  d'altro  canto 
per  la  letteratura  contemporanea  si  ha  una  age- 
volezza d'interpretazione  e  comprensione,  che 
nella  più  antica  si  ottiene  di  solito  con  grandi 
stenti  e  solo  in  parte.  Vantaggi  e  svantaggi,  in- 
somma, su  per  giù  si  compensano,  e  gli  uni  e 
gli  altri  sono  poi  affatto  contingenti.  —  Ma  la 
cosa  non  sta  allo  stesso  modo  circa  le  condizioni 
soggettive,  o  meglio  i  sentimenti  e  le  passioni 
individuali;  le  quali,  a  dir  vero,  nella  lettera- 
tura contemporanea,  operano  assai  di  frequente 
una  vera  pressione  psicologica  per  impedire 
la  posizione  esatta  e  la  soluzione  giusta 
del  problema  critico. 

Vi  hanno,  per  esempio,  tra  gli  autori  di  versi 
e  prose  letterarie,  personaggi  o  ragguardevoli 
per  situazione  sociale  o  rispettabili  per  altre 
forme  della  loro  attività  o  attraenti  e  cari  per 
la  loro  bontà  e  amabilità,  la  cui  opera  artistica 
non  risponde  in  modo  degno  alle  altre  loro  forze 
e  virtù.  Il  che  più  o  meno  tutti  avvertono,  ma 
tutti  o  quasi  tutti,  come  per  tacito  accordo,  si 
propongono  di  non  dire.  A  questo  intento  si 
ricorre  a  una  sorta  di  critica  diplomazia,  la  quale 
o  si  perde  in  vani  suoni  o  gira  il  problema  o 
somiglia  al  linguaggio  di  Alete,  pieno  di  strani 
modi,  «  che  sono  accuse  e  paion  lodi  ».  Si  lasci 
balenare  il  più  lieve  accenno  di  critica  seria 
innanzi  a  codesto  tessuto  di  frasi  abili  e  sfug- 
genti, e  ne  nascerà  uno  scompiglio,  come  io  stesso 
ho  potuto  sperimentare  in  più  occasioni  pei  miei 
giudizi.  Per  esempio,  ho  mostrato  che  nei  volumi 


78  II  -  INTORNO    ALLA    ORITIOJ 

di  un  egregio  uomo,  scrittore  di  versi,  vi  ha 
cultura,  elevatezza  di  pensieri  e  d'intendimenti, 
pratica  dello  scrivere,  ma  difetta  quasi  del  tutto 
la  sostanza  poetica,  l'intimo  ritmo  e  il  canto. 
Ed  ecco  una  schiera  di  amici  a  scandalizzarsi 
e  a  darmi  sulla  voce.  «  Quello  scrittore  è  una 
nobile  personalità».  D'accordo;  ma  non  è  poeta. 
«  Quello  scrittore  sta  solo  in  parte,  intatto  dal- 
l'applauso volgare  » .  Ciò  vorrà  dire  che  è  uomo 
dignitoso,  ma  non  che  sia  poeta.  «  Quello  scrit- 
tore ha  un  aspetto  tra  di  monaco  e  di  guerriero, 
e  avrebbe  potuto,  se  fosse  vissuto  nel  secolo  de- 
cimosesto, comandare  una  galea  in  battaglia 
contro  i  turchi  ».  Sarà,  quantunque  sia  difficile 
provarlo;  ma  non  è  poeta.  «  Quella  sua  poesia 
attinge  il  più  alto  segno  della  poesia  degli  acca- 
demici e  professori  » .  Il  che  vorrà  dire  che  gli 
accademici  e  i  professori,  in  quanto  tali,  debbono 
astenersi  dalla  poesia;  ma  non  già  che  quegli 
sia  poeta.  «  Se  verrà  tempo  che  non  si  guarderà 
più  a  un  libro  di  poesia  da  un  punto  di  vista 
estetico  secondo  la  moda  corrente,  il  suo  libro 
sarà  studiato  come  un  interessantissimo  docu- 
mento psicologico».  E  ciò  conferma,  per  l'ap 
punto,  che  non  è  poesia,  ma  semplice  documento 
biografico.  — Sono  giudizi  codesti  che,  per  quanto 
strani,  potrei  tutti  documentare,  coi  nomi  degli 
autori  e  con  le  altre  relative  citazioni;  ma  prego 
i  lettori  di  dispensarmene  per  non  allontanarci 
troppo  dalla  questione  che  sola  ora  c'interessa. 
Sembra,  in  verità,  che  il  problema  che  i  più 
cercano  di  risolvere,  sia  di  trovare  il  modo  di 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  79 

non  fare  critica,  pur  dandosi  l'aria  di  farne.  . 
Innanzi  a  siffatto  proposito,  tenace  quantunque 
spesso  inconsapevole,  di  nascondere  la  verità 
come  a  un  malato  si  nasconde  la  gravità  della 
sua  malattia,  il  critico  ingenuo,  che  ripeta  il 
vecchio  e  arrogante  «  Hic  Rodhus,  hic  salta», 
il  critico  che  cerchi  determinare  chiaramente 
se  una  data  opera  è  o  non  è  poesia,  il  critico 
che,  insomma,  voglia  adempiere  il  dover  suo, 
desta  fastidio  e  impazienza  come  personaggio 
importuno,  e,  non  sapendosi  come  combattere  i 
suoi  giudizi,  si  rifiuta  addirittura  il  suo  «  me- 
todo»: quel  metodo  che  procede  o  si  accinge  a 
procedere  in  guisa  tanto  indiscreta.  Guai  a  chi 
si  prova  ad  accendere  una  luce  sfolgorante  dove 
si  desidera  l'ombra  o  la  penombra. 

Ma  il  contrasto  del  metodo  da  me  professato 
con  quello  che  è  consueto  nelle  trattazioni  della 
letteratura  contemporanea,  e  la  parvenza  di  ri- 
gidità e  violenza  che  il  primo  assume,  possono 
avere  origine  anche  da  altre  cagioni.  La  più  parte 
degli  scritti  sulla  letteratura  contemporanea  sono 
meramente  occasionali;  concernono  questa o  quel- 
l'opera di  uno  scrittore,  non  il  complesso  della 
sua  attività;  e  provengono  da  persone,  che  di 
solito  propugnano  o  avversano  l' indirizzo  di 
quello  scrittore  o  di  quella  scuola.  Non  dico  che 
per  ciò  siano  privi  di  buona  fede  e  di  qualsiasi 
verità;  e  anzi  concedo  che  offrano  sovente  osser- 
vazioni delicate  o  sottili  e  giudizi  giusti.  Ma  sono 
di  necessità  unilaterali,  come  unilaterale  sarei 
io  stesso  se,  per  esempio,  amico  ed   estimatore 


80  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

del  Pascoli,  seguendo  il  mio  desiderio  o  l'altrui  in- 
vito, scrivessi  l'annunzio  di  un  nuovo  volume  di 
questo  poeta  :  unilaterale  e  non  bugiardo  o  falso, 
perchè  mi  basterebbe  spigolare  nel  volume  mo- 
tivi e  strofe  e  versi  di  molta  bellezza  (dei  quali 
nel  Pascoli  è  sempre  abbondanza),  per  conciliare 
in  qualche  modo  i  miei  sentimenti  personali  con 
la  verità:  tacendo  sul  resto,  ossia  schivando  il 
vero  ed  intero  problema  critico.  Messa  a  para- 
gone di  quegli  scritti  occasionali  e  polemici,  la 
parola  di  chi,  come  me,  è  costretto,  per  la  qua- 
lità stessa  del  suo  assunto,  a  esaminare  tutta 
l'opera  di  uno  scrittore  (la  peggiore  e  la  migliore, 
il  periodo  di  genialità  e  quello  di  artifizio  o  de- 
cadenza), e  a  determinarne  tutti  gli  aspetti  per 
darne  giudizio  compiuto,  sembra  ora  troppo  se- 
vera, ora  troppo  indulgente.  I  lettori  equanimi 
e  bene  informati  se  ne  sentiranno  soddisfatti  ; 
ma  gli  autori  di  quelle  recensioni  e  annunzi 
(e  chi  non  è  autore  di  qualche  recensione  o 
annunzio?),  no.  Per  ciascuno  di  essi,  a  volta  a 
volta,  il  critico  è  stato  ingiusto:  una  metà  di 
essi  invoca  il  panegirista,  l'altra  metà  il  carne- 
fice. Così,  pei  dannunziani,  io  che  ho  definito  il 
D'Annunzio  un  «dilettante  di  sensazioni»,  sono, 
a  stento,  il  «  migliore  tra  i  critici  volgari  del 
D'Annunzio»,  incapace  di  penetrare  nel  pro- 
fondo idealismo  della  sua  arte;  ma  dagli  anti- 
dannunziani, avendo  io,  com'era  mio  dovere, 
riconosciuto  le  bellissime  cose  che  il  D'Annunzio 
ha  prodotto  nella  sua  ristretta  cerchia  d'ispira- 
zione, mi  odo  invece  proclamare  un   «  bollente 


II  -  INTORNO   ALLA    CRITICA  SI 

dannunziano»,  il  più  «gran  dannunziano  sotto 
la  cappa  del  sole  ».  Ho  parlato  con  sincera  sim- 
patia dei  versi  di  Severino  Ferrari;  ma  ciò  non 
basta  a  chi  è  stato  amico  del  Ferrari  e  della 
sua  poesia  si  è  fatto  una  predilezione  o  un  sacro 
ricordo;  ed  ecco  che  di  quelle  mie  pagine  lau- 
dative, ma  non  ditirambiche,  non  si  sa  dare  pace 
qualche  cuore  tenero,  che  sul  Ferrari  ha  stam- 
pato opuscoli  col  titolo:  Il  rosignolo  di  Alberino, 
e  vede  con  isdegno  che  io  considero  il  valente 
Severino  come  un  uomo  e  non  come  un  augello. 
E  via  discorrendo,  perchè  gli  esempi  si  potreb- 
bero accrescere.  Che  cosa  fare?  Io  non  me  ne 
dolgo,  perchè  non  mi  dolgo  dell'inevitabile;  e 
poi  ci  ho  fatto  la  pelle;  e  poi  ancora  ho  qualche 
compenso,  non  solo  nella  mia  coscienza  («  co- 
scienza »  è  parola  rettorica,  e  non  bisogna  pro- 
nunziarla!), ma  anche  nelle  inaspettate  e  dolcis- 
sime manifestazioni  che  ho  ricevute  da  parte  di 
alcuni  degli  autori  da  me  liberamente  criticati, 
i  quali  mi  hanno  ricambiato  col  farmi  l'amiche- 
vole confidenza  delle  loro  lotte  e  dei  loro  dubbi 
e  dei  loro  scontenti,  quasi  ad  illustrazione  e 
conferma  di  quanto  io  aveva  spregiudicatamente 
osservato. 

Ancora  un'altra  cagione  che  fa  apparire  ri- 
gido ed  eccessivo  il  metodo  da  me  adoperato, 
sta  nel  fatto  che  la  prolungata  consuetudine 
con  la  letteratura  del  giorno  tende  ad  alterare 
il  senso  della  grande  arte  e  a  deprimere  lo  stan- 
dard of  faste,  il  livello  della  vita  estetica.  Di 
questo  pericolo  io  sono  consapevole,  e  per  mia 

B.  Croce,  Giovanni  Pascoli.  6 


82  II  -  INTORNO   ALLA   CRITICA 

parte  cerco  premunirmene,  rileggendo  di  tanto 
in  tanto  i  classici  e  giovandomi  di  tale  lettura 
come  di  un  esercizio  spirituale  (di  una  praepa- 
ratio  ad  missam)  pel  mio  ufficio  di  critico.  Non- 
dimeno, penso  che  i  miei  saggi  critici  sulla  lette- 
ratura contemporanea  siano  alquanto  indulgenti, 
e  che  tali  saranno  giudicati  da  chi  li  rileggerà 
fra  un  mezzo  secolo.  Ma,  se  io  forse  non  sono 
abbastanza  esigente,  oso  dire  che  i  più  dei  miei 
colleghi  in  critica,  sempre  tuffati  nella  letteratura 
del  giorno,  hanno  addirittura  fatto  l'abito  a  con- 
tentarsi di  poco.  Odo  frequenti  parole  sulla  «  di- 
vina bellezza  »  della  forma  del  Pascoli.  Chi  dice 
questo,  quanto  tempo  è  che  non  rilegge  un'ottava 
di  messer  Ludovico?  Il  D'Annunzio  ha  osato 
ricordare  V Aiace  sofocleo,  a  proposito  del  suo 
ultimo  dramma.  Ma  ha  egli  avuto  ben  presente 
la  tragedia  di  Sofocle?  Quanto  a  me,  avendola 
ripresa  tra  mano  dopo  aver  letto  la  prefazione 
al  Più  che  l'amore,  giunto  appena  alle  parole 
di  Odisseo:  èTCotxteipw  Sé  viv,  ecc.,  balzai  dalla 
sedia  e  mi  sorpresi  a  gridare  dantescamente  al 
D'Annunzio:  «  Fa',  fa'  che  le  ginocchia  cali!...  ». 
E,  come  il  senso  della  classicità,  nella  consue- 
tudine con  la  letteratura  contemporanea  si  smar 
risce  sovente  quello  della  storia,  ossia  della  len- 
tezza e  faticosità  dello  svolgimento  e  della  rarità 
del  prodotto  veramente  geniale: 

Tu  che  '1  diamante 
pur  generi,  lenta,  in  tua  mole, 
tu  sai  su  l'eterno  quadrante 
quante  ore  di  secoli,  e  quante 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  83 

vigilie  e  che  doglia  si  vuole, 

o  laboriosa  gestante, 

per  dare  un  cervello  di  Dante, 

o  un  cuore  di  Shelley,  al  tuo  sole! 

La  letteratura  italiana  (che  è  una  grande  lette- 
ratura) in  sei  secoli  non  offre  dieci  o  quindici 
veri  poeti;  e  si  sarebbe  preteso  che  io  ne  ritro- 
vassi una  cinquantina,  se  non  addirittura  un 
centinaio,  nel  periodo  di  un  quarantennio  o  di 
un  cinquantennio,  che  è  quello  che  sono  andato 
investigando.  Quale  meraviglia  se,  per  la  mag- 
gior parte  degli  scrittori  che  hanno  avuto  voga 
e  riputazione,  il  mio  giudizio  è  o  negativo  o 
circondato  da  molte  restrizioni?  Ripeto:  anche 
per  tale  rispetto  credo  di  essere  piuttosto  indul 
gente  che  severo;  e  sono  indulgente  perchè  com- 
prendo le  angosce  dell'arte,  e  tengo  conto  anche 
delle  approssimazioni  al  segno  non  raggiunto,  e 
persino  ho  qualche  simpatia  per  le  disfatte  non 
inglorioso.  Chi  nei  secoli  venturi  riscriverà  la 
storia  letteraria  dello  stesso  periodo  trattato  da 
me,  avrà  (oh,  non  dubitate!)  la  mano  assai  più 
ruvida  e  pesante  della  mia. 

Per  queste  e  per  altre  cagioni  simili  a  queste, 
che,  non  volendo  andare  per  le  lunghe,  lascio 
di  enumerare  e  illustrare,  il  metodo  critico  da 
me  professato  sembra,  e  non  è,  violento.  Ma  per 
un'altra  cagione  sembra  poi  talora  sbagliato:  per 
l'incompiuta  preparazione  mentale  della  maggior 
parte  dei  critici  che  trattano  di  letteratura  del 
giorno.  I  quali  sono  di  solito  (avverto  che  non 
faccio  allusioni  e  non  penso  a  nessuno  in  par- 


84  II  -  INTORNO   ALLA   CRITICA 

ticolare)  o  persone^  che  hanno  tentato  infelice- 
mente l'arte  e  hanno  poi  smesso  (peggio  se  con- 
tinuano a  farne,  perchè  in  tal  caso  sono  tratte 
a  preparare  a  sé  medesime  l'ambiente  della  com- 
piacenza); o  uomini  di  gusto  che,  leggendo  poesie 
per  proprio  diletto  e  acquistando  cosi  esperienza 
e  pratica  dell'arte,  via  via  passano  dal  discor- 
rerne oralmente  allo  scriverne  sui  giornali,  e 
diventano  per  tal  modo,  senz'averci  mai  pensato, 
critici  di  professione.  Ma  a  costoro,  pur  tra  molte 
belle  qualità  particolari,  manca  quello  studio  e 
quella  annosa  meditazione  sui  problemi  dell'arte 
e  della  critica,  e  quelle  cognizioni  di  storia  della 
critica  d'arte,  che  spesso  si  provano  indispensa- 
bili; e  ciò  li  mena  a  confondersi  innanzi  a  certi 
casi,  pei  quali  il  gusto  naturale  e  il  semplice 
buon  senso  non  sono  bastevoli.  Talvolta,  essi  non 
riescono  a  intendere  esattamente  nemmeno  i 
termini,  che  adopera  il  critico  addottrinato  e 
meglio  informato  dell'odissea  secolare  della  sua 
disciplina. 

Se  ne  desidera  qualche  esempio?  E  io  ne  darò, 
restringendomi  a  quelli  che  mi  vengono  forniti 
dalle  dispute  intorno  al  mio  saggio  sul  Pascoli. 

Nel  quale  aveva  scritto  tra  l'altro,  di  passata, 
che  «  il  pensiero  poetico  e  l'importanza  di  Dante 
non  è  nelle  allegorie  e  nei  concetti  morali  ».  E  un 
fervente  ammiratore  del  Pascoli  (*)  mi  redargui- 
sce:  «Le  allegorie  e  i  concetti  morali  non  son 


(!)  Lettera  aperta  del  prof.  Pietrobono  a  È.   C.  sulla  poesia 
di  G.  P.,  nel  Giornale  d'Italia,  del  1°  aprile  1907. 


II  -  INTORNO    ALLA   CRITICA  85 

tutto  Dante,  lo  sappiamo:  ma  senza  quelle  e 
questi  Dante  non  è  più  lui.  Chi  rinunzia  a  render- 
sene ragione,  rinunzia  semplicemente  a  capirlo. 
Ora  qual  critico  mai  s'è  sognato  d'insegnare  che 
il  pensiero  dei  poeti  non  importa  conoscerlo?». 
E  qui,  un  argomento  irresistibile  :  —  Se  si  tol- 
gono le  allegorie,  l'arte  di  Dante  si  riduce  a 
frammenti;  resta  una  ruina,  sebbene  una  nobile 
ruina.  —  Ora,  come  spiegare  in  quattro  parole 
al  mio  contradittore  che  il  pensiero  artistico 
non  ha  che  fare  col  pensiero  allegorico  o  extrar- 
tistico,  e  che  la  sintesi,  l'elemento  unificatore,  è 
data  nell'arte  di  Dante  dalla  sua  possente  fantasia 
e  non  già  dalle  sue  escogitazioni  di  moralista  e 
di  teologo?  Questa  distinzione  di  pensiero  arti- 
stico (intuizione)  e  di  pensiero  extrartistico  è 
una  delle  più  sudate  conquiste  della  scienza  este 
tica.  E  come  spiegargli,  in  quattro  parole,  che 
la  critica  è  stata  impotente  a  comprendere  la 
grandezza  di  Dante  fintanto  che  ha  insistito  sulle 
sue  allegorie  e  sulle  sue  intenzioni,  e  ha  fatto 
un  gran  passo  solo  quando  (nel  periodo  roman- 
tico) ha  guardato  Dante  non  come  un  dotto  e 
un  filosofo,  ma  come  un  poeta  dell'anima  pas- 
sionale, quasi  uno  Shakespeare  in  anticipazione? 
e  che  perciò  il  Pascoli,  che  crede  di  poter  assi- 
dere  su  più  solide  basi  la  grandezza  di  Dante 
scoprendo  la  sua  ìmdvota,  il  suo  pensiero  riposto, 
è,  nella  storia  della  critica,  un  ritardatario,  anzi 
un  fossile? 

Un  altro  esempio  ci  è  fornito  dalla  questione 
che  è  stata  mossa:  se  valga  la  pena,  nella  critica, 


86  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

di  far  tutte  le  fatiche  che  io  faccio  per   «  clas- 
sificare »  e  mettere  nel  «  casellario  »   gli  scrit- 
tori, che  bisogna  invece  soltanto  gustare  e  far 
gustare.  Dapprima,  a  questa   opposizione,  sono 
cascato    dalle    nuvole.   Classificare?   casellario? 
Ma  se  io  non  classifico  mai!  Ma  se  sono  il  più 
radicale    avversario    delle   classificazioni   e   dei 
casellari  (dei  generi,  delle  arti,  della  rettorica, 
e  di  quanti  altri  se  ne  conoscono  di  questa  sorte), 
che  sia  mai  comparso   nel  campo   estetico!   8e 
mi  rifiuto  perfino  a  raccogliere  gli  scrittori,  di 
cui  tratto,  in  gruppi  di  lirici,  drammaturgi,  ro- 
manzieri, e  via  dicendo  !   Ma,  poi,  ho  capito  :  i 
miei  contradittori  avevano  confuso  Vintelligere 
col  classificare,  la  comprensione  col  casellario, 
tra  i  quali  due  procedimenti  c'è  un  abisso,  perchè 
il  secondo  è  la  morte  della  critica  e  il  primo  il 
suo  ufficio  proprio.  Anche  qui,  come  spiegare  in 
poche  parole  una  differenza,  che  non  si  può  giu- 
stificare se  non  risalendo  alle  teorie  fondamen- 
tali della  logica?  Prendiamo  il   sonetto:    «  Solo 
e  pensoso  i  più  deserti  campi  ».  Se  io  dico  che 
è  una    «  lirica  » ,  l'ho  classificato   in   uno  degli 
schemi  delle  vecchie  istituzioni  letterarie;  se  dico 
che  è  un  «  sonetto  » ,  l'ho  classificato  secondo  la 
metrica.  E  quella  lirica  o  sonetto  rimane  ancora 
criticamente  intatto.  È   bello  o  brutto?  e  quale 
stato  d'animo  esprime?  La  classificazione,  facen- 
dosi per  caratteri  esterni,  è  impotente  a  rispon- 
dere a  queste  domande.  Ma  se  si  determina  la  si- 
tuazione psicologica  del  Petrarca  (e  determinarla 
non  si  può  se  non  ricorrendo  a  concetti,  giacché, 


II  -  INTORNO   ALLA    CRITICA  87 

per  sentirla  così  com'è,  non  c'è  da  far  altro  che 
leggere  il  sonetto  stesso),  e  se  si  mostra  come 
quella  situazione  si  è  svolta  nelle  varie  parti  del 
sonetto,  e  come  tutto  bene  si  accordi  ad  essa  e 
bene  l'esprima,  non  si  classifica,  ma  si  cerca 
di  comprendere  il  sonetto,  cioè  di  farne  la  cri- 
tica. Ora,  bene  o  male,  questo  e  non  altro  io  mi 
sono  sforzato  di  fare  pel  Pascoli  e  per  gli  altri 
scrittori,  che  sono  andato  esaminando.  Il  «  clas- 
sificare »  non  c'entra;  e  la  confusione  tra  i  due 
procedimenti  è  di  quelle  in  cui  possono  cascare 
soltanto  le  menti  non  abbastanza  disciplinate. 
A  talun  altro  il  modo  della  mia  critica,  in 
fondo,  non  dispiace;  ma  gli  sembra  troppo  freddo 
e  ragionatore  e  polemico,  e  preferirebbe,  per 
esempio,  il  calore  e  l'eloquenza  di  Giuseppe 
Mazzini.  E  ciò  andrebbe  bene,  se  io  fossi  Maz- 
zini; ma,  essendo  Cecco  «come  sono  e  fui», 
non  posso  discorrere  se  non  nel  tono,  che  è  pro- 
prio al  mio  temperamento.  Così  il  De  Sanctis, 
educatore  e  maestro  nell'anima,  non  poteva  scri- 
vere di  critica  al  modo  del  Carducci,  poeta  nel- 
l'anima. Voglio  dire,  che  non  bisogna  confondere 
il  metodo  della  critica,  che  dev'esser  uno,  coi 
temperamento  dei  critici,  che  non  può  non 
esser  vario;  e  non  bisogna  (codesto  ci  manche- 
rebbe!) mettere  tra  i  requisiti  della  critica  un 
particolare  temperamento.  All'osservanza  del 
metodo  tutti  sono  obbligati;  ma  nessuno  è  tenuto 
a  sforzarsi  a  un  tono  a  lui  estraneo:  che  anzi 
ciò  gli  è  assolutamente  vietato  sotto  pena  di 
cadere  nell'artifizio,  nella  rettorica  e  nella  l'ai- 


b»  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

sita.  Amo  grandemente  il  De  Sanctis  e  ne  accolto 
le  idee  fondamentali;  ma  mi  sarebbe  impossibile 
imitare  il  suo  stile,  e  mi  guardo  pur  dal  ten- 
tarlo. Mi  si  prenda  dunque  come  sono,  con  la 
mia  simpatia  per  gli  schiarimenti  e  le  digres- 
sioni filosofiche,  con  la  mia  tendenza  alla  pole- 
mica e  alla  controcritica,  col  mio  tono  prosastico 
e  talvolta  sarcastico,  col  mio  dilettarmi  talvolta 
Bioneis  sermonibus  et  sale  nigro,  perchè  posso 
bensi  correggere  i  miei  errori  quando  me  ne 
accorgo,  ma  non  posso  e  non  debbo  mutare  il 
mio  essere.  —  Così  anche  non  so  come  si  sia 
potuto  far  questione  di  bontà  di  metodo  pel  fatto 
che,  nell'esaminare  il  Pascoli,  ho  esaminato 
altresì  le  opinioni  dei  critici  intorno  a  lui:  dico 
«  anche»,  perchè  non  è  vero  che  quello  sia  stato 
il  mio  punto  di  partenza:  il  punto  di  partenza 
(e  l'introduzione  stessa  del  mio  scritto  ciò  mostra 
chiaro)  fu  l'impressione  diretta,  prodottami  dalla 
lettura  dei  versi  di  lui.  Vi  ha  questioni  vessate 
o  pregiudicate,  perchè  già  molte  volte  tentate 
e  trattate;  e  lo  scrittore  (che  si  riattacca  sempre 
agli  scrittori  precedenti  e  con  essi  dialoga)  non 
può  non  tenere  conto  di  quanto  altri  intelletti 
hanno  osservato  e  pensato  intorno  al  suo  argo- 
mento, non  solo  per  trarne  aiuto,  ma  anche  per 
conoscere  verso  quali  punti  deve  orientare  la 
sua  esposizione  critica. 

E  basti  di  ciò.  Mi  sembra  di  aver  difeso  il 
metodo  da  me  professato  contro  gli  appunti,  in 
verità  non  gravi,  che  gli  sono  stati  mossi,  e 
posso  concludere  con  tanto  maggiore  sicurezza 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  89 

e  franchezza,  che  quel  metodo  è  buono,  in  quanto 
esso  non  è  mia  privata  invenzione  e  possesso, 
ma  è  il  risultamento  della  storia  della  critica. 

So  bene  che  mi  si  osserverà:  —  Tu  hai  difeso 
il  metodo,  ma,  nel  caso  del  giudizio  circa  il 
Pascoli,  non  si  tratta  di  metodo,  sibbene  di  appli- 
cazione. «  Il  padre  Zappata  predicava  bene,  ma 
razzolava  male  » ,  mi  proverbia  il  Gargano  in 
un  secondo  suo  articolo  (*);  senonchè,  nel  primo, 
aveva  invece  rifiutato,  mi  sembra,  il  metodo  e 
non  l'applicazione,  o  questa  solamente  come 
effetto  di  quello.  Dunque,  procediamo  per  divi- 
sione. Di  metodo  non  si  parla  più?  Il  metodo  è 
buono?  Si?  Questo  mi  premeva  soprattutto.  E  la 
questione  è  terminata;  e  siamo  d'accordo. 

E  possiamo  ora  passare  all'  «applicazione», 
ossia  al  caso  particolare  del  mio  giudizio  sul 
Pascoli. 

Dove  mi  si  para  innanzi  una  pregiudiziale, 
perchè,  a  detta  di  taluno  dei  miei  contradittori, 
a  me  sarebbe  accaduta  una  piccola  disgrazia, 
per  la  quale  potrei  bensì  utilmente  discettare  in 
teoria,  ma  non  potrei  accostarmi  ai  casi  parti- 
colari. «  Il  Croce,  grazie  alla  prolungata  rifles- 
sione e  al  ripensamento  della  filosofia  hegeliana, 
non  si  trova  più  nello  stato  di  fresca  ver- 
ginità, di  docilità  amorosa,  che  è  necessaria  per 
seguire  i  poeti  nelle  loro  fantasie...  »  (2).  Vera- 


ci) Nel  Marzocco,  del  7  aprile. 

(2)  G.  A.   Sartini,   nella  rivista    Studium,   di   Milano,   30 
aprile  1907. 


90  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

mente,  una  siffatta  verginità,  che  consisterebbe 
nel  non  meditare,  non  che  io  l'abbia  perduta, 
non  l'ho  mai  posseduta;  e  sono  per  questo 
rispetto  in  condizioni  gravi,  quasi  direi  nelle 
medesime  condizioni  di  quella  Quartina  sacer- 
dotessa, che  esclamava  appo  Petronio:  Junonem 
meam  iratam  habeam,  si  unquam  me  memine- 
rim  virginem  fuisse.  Ma  conosco  e  posseggo 
un'altra  «verginità»,  che  si  rinnova  ogni  qual 
volta  il  mio  animo  corre  a  dissetarsi  nella  poesia: 
una  verginità,  che  potrà  somigliare  alquanto  a 
quella  di  Marion  de  Lorme  (come  si  vede,  non 
intendo  esaltarmi  mercè  i  personaggi  coi  quali 
mi  paragono): 

Ton  soufflé  a  relevè  mori  àme. 
....  Près  de  toi  rieri  de  moi  n'est  reste, 
et  ton  amour  m'a  fait  une  virginité! 

Ma,  naturalmente,  concedo  subito  che  io  possa 
avere  sbagliato  nel  giudizio  sul  Pascoli;  anzi 
questa  concessione  è  già  implicita  in  quel  che 
ho  detto  di  sopra  circa  le  difficoltà  della  critica 
d'arte.  E  non  solo  per  ciò  che  riguarda  il  Pascoli. 
Ho  esaminato  finora,  nei  miei  saggi,  l'opera 
complessiva  di  parecchie  decine  di  contempora- 
nei scrittori  italiani;  e,  quantunque  abbia  ado- 
perato ogni  diligenza,  se  pensassi  di  non  essermi 
mai  distratto,  di  aver  semptre  reso  esatta  giusti- 
zia a  tutti  quegli  scrittori  e  a  tutte  le  singole 
loro  opere,  sarei  un  fatuo. 

E,  se  avessi  sbagliato  circa  il  Pascoli,  certo 
me  ne  dorrebbe,  e  ne  proverei  una  qualche  con- 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  91 

trarietà  e   mortificazione  di   amor  proprio;  ma 
stia  tranquillo  il  dottor  Rabizzani,  che  ha  pub- 
blicato testé  un  bell'articolo  sul  Pascoli  ('),  nel 
quale,  tra  l'altro,  si  dà  pensiero  della  possibilità 
di  un  mio  «postumo  pentimento»,  e  mi  ricorda 
sin  da  ora,  per  incoraggiarmi,  il  nobile  atto  di 
contrizione  che  lo  Chateaubriand  recitò  pel  suo 
giudizio,    nientemeno,    sullo   Shakespeare  :  —  ho 
fiducia  che  troverei  in  me  la  quantità  di  corag- 
gio necessaria,  e  saprei  consolarmi,  pensando  che, 
costretto  io  a  lacerare  cinquanta  delle  non  poche 
mie  pagine  di  prosa,  l'Italia  avrebbe  assodato  io 
cambio  la  gloria  di  un  suo  forte  e  perfetto  poeta. 
Ma  ho  poi  sbagliato?  Temo  di  no,  a  giudicare 
anzitutto  dai  modi  tenuti  nelle  loro  risposte  dai 
miei  avversari.  Uno  dei  quali,  il  Gargano   (un 
critico  con  cui  in  altre  questioni  letterarie  ho 
avuto  il  piacere  di  andar  d'accordo),  in  un  primo 
articolo,  in  luogo  di  difendere  il  Pascoli,  assalì 
il   metodo   in  genere,  che,  come   si   è    visto,    è 
affatto   incolpevole;  in   un   secondo    articoletto, 
cercò   di   farmi   passare  per  uno  che  sfuggisse 
alla  discussione  (laddove  il  vizio  del  quale,  se 
mai,  debbo  correggermi,  è  l'opposto);  in  un  terzo, 
finalmente,  cavò  fuori  uno  strano  pensiero  :  che 
cioè    «  sembra  avere  io  ora  scelto  come  bersa- 
glio dei  miei  colpi  i  poeti  più  celebri  dell'Italia 
di  mezzo  »  (2):  il  che  suona  un  appello,  vero  e 


(!)  Nella   Nuova  rassegna  di  Firenze,  aprile-maggio  1907, 
pp.  457-479. 

(2)  Nel  Marzocco,  del  21  aprile. 


92  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

proprio,  alle  brutte  passioni  del  campanilismo. 
E  mi  pare  perciò  che  l'affetto  pel  suo  poeta  gli 
abbia,  questa  volta,  mosso  nell'animo  sentimenti 
di  stizza  verso  chi  è  di  avviso  alquanto  diverso 
dal  suo:  e  la  stizza  (ecco  un  adagio  ben  trito) 
non  giova  alla  causa  che  si  difende. 

Vediamo,  a  ogni  modo,  le  controcritiche  ;  le 
quali  si  sono  aggirate  quasi  sempre  sui  parti- 
colari delle  analisi  che  io  ho  date  di  alcune 
poesie  del  Pascoli  per  illustrare  il  mio  giudizio 
generale  sull'opera  di  lui. 

Nella  poesia  La  voce  ho  mostrato  come  quel 
«Zvani»,  che  fa  da  ritornello,  rompa  brutta- 
mente la  delicatezza  dell'ispirazione.  Il  prof.  Pie- 
trobono  (*)  dà  al  mio  giudizio  questo  significato: 
che  io  non  ammetta  l'uso  del  dialetto  nella  poesia 
e  nella  prosa  colta;  e  mi  ricorda  il  miscuglio  dia- 
lettale omerico,  con  erudizione  alquanto  remota, 
quando  poteva  semplicemente  citare  ciò  che  io 
stesso  ho  scritto  più  volte  (2)  per  difendere  il 
dialetto  e  il  miscuglio  dei  dialetti.  Ma  no:  quel 
«  Zvani  »  mi  spiace  come  mi  spiacciono  di  fre- 
quente le  onomatopee  ornitologiche  del  Pascoli, 
non  perchè  dialetto,  ma  perchè  mi  sembra  un 
modo  alquanto  comodo  e  semplicistico  di  risolvere 
il  problema  artistico,  offrendo  la  materialità 
della  cosa  invece  del  suo  spirito.  Come  mai  il 
Pascoli,  che  freme  e  trema  alla  voce  della  morta, 


(i)  Si  veda  la  citata  Lettera  aperta  del  rev.  prof.  Pietrobono. 
(2)  Si  veda,  tra  l'altrev   a  proposito  del  Di  Giacomo,  in 
Letter.  d.  nuova  Italia,  in,  97-100. 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  93 

alla  voce  di  sua  madre,  può,  nel  medesimo 
istante,  mettersi  freddamente  a  contraffare 
quella  voce  e  rimodulatia  dilettautescamente 
dentro  di  sé?  Quella  voce  dovrebbe  sentirsi 
dappertutto  nella  lirica,  e  non  lasciarsi  mai  fis- 
sare nella  sua  determinatezza  estrinseca  e  nel 
suo  contorno  preciso.  È  un  «  infinito  >  di  ango- 
scia e  di  nostalgia,  che  non  bisogna  rendere 
finito  e  tascabile.  Il  mio  contradittore  afferma 
che  «quel  Zvani...  ci  sta  d'incanto,  specie  se 
si  pronunzia  a  dovere»;  e  così  scopre  egli 
stesso  la  sollecitudine  di  salvare,  per  virtù  di 
pronunzia,  l'effetto  di  quel  ritornello.  Che  cosa 
dirgli?  Io  mi  provai  a  pronunziarlo  in  tutte  le 
più  varie  intonazioni;  me  lo  feci  perfino  leggere 
da  un  amico,  valente  lettore  di  versi:  e  la  stona- 
tura mi  parve  e  mi  pare  sempre  gravissima. 
Forse,  se  lo  sentissi  pronunziare  da  lui,  sarei 
vinto,  e  qualche  lacrima  mi  sgorgherebbe;  ma 
anche  in  quel  caso  mi  resterebbe  il  dubbio  di 
avere  reso  omaggio  non  alla  virtù  del  poeta,  ma 
a  quella  del  bravo  declamatore,  che  sa  come  si 
tappino  i  buchi  o  si  scivoli  sulle  asprezze  del- 
l'espressione poetica. 

Si  dica  lo  stesso  del:  «  Papà,  papà,  papà  » 
dell'altra  poesia  Un  ricordo.  Qui  il  Gargano 
anche  osserva  che  io  mi  son  «  fatto  lecito  di 
associare  ad  una  delle  più  soavi  elegie  pasco- 
liane  il  ricordo  di  una  canzonetta  napoletana 
volgaruccia  anzi  che  no  » .  Mi  son  fatto  lecito? 
Si  posseggono  non  so  quante  parodie  di  Omero 
e  di  Dante,  anzi  quasi  non  c'è    verso   di  quei 


94  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

grandi  che  non  sia  stato  parodiato  e  cui  non 
sia  appiccato  un  ricordo  buffo;  eppure  non  mi 
accade  mai  di  ricordarmene  quando  leggo  Omero 
e  Dante.  Quella  reminiscenza  di  opera  buffa  mi  è 
stata  suscitata,  e  comandata,  a  quel  punto,  dal  Pa- 
scoli stesso,  per  l'imperfezione,  pel  vano  sforzo, 
in  quel  punto,  della  sua  arte.  Che  poi  (come  nota 
il  precedente  contradittore)  «  Un  ricordo  e  la 
Cavalla  storna  seguiteranno  a  commovere  i  let- 
tori anche  quando  noi  saremo  fatti  vecchi,  ecc.  », 
sarà  e  non  sarà:  ma  sono  affermazioni  con  le 
quali  il  dibattito  non  fa  un  passo  innanzi. 

Per  dare  un  piccolo  e  curioso  e  quasi  scher- 
zoso esempio  del  modo  in  cui  il  Pascoli  tende 
a  strafare,  ho  notato  il  mutamento  del  titolo 
dell'ottava  Neve  in  quello  di  Orfano.  Il  Gargano 
risponde:  «  Quel  bimbo  non  è  soltanto  ora  diven- 
tato orfano;  lo  era  già  prima,  quando  lo  cullava 
sempre  quella  vecchia,  che  neppure  allora  era 
sua  madre».  Perchè?  La  situazione  della  poesia 
è  nel  contrasto  tra  lo  squallore  nivale  della  realtà 
e  il  bel  giardino  della  fantasia,  la  dura  vita  reale 
che  quell'essere  umano  dovrà  una  volta  affrontare 
e  l'illusione  in  cui  viene  cullato.  La  vecchia  può 
essere  la  nonna  o  la  balia,  e  lasciar  presupporre 
vivente  o  morta  la  madre.  Tutto  ciò  non  cangia 
nulla  all'essenza  poetica  dell'ottava.  Il  nuovo 
titolo  lagrimoso,  che  richiama  una  sventura  al- 
quanto contingente  e  individuale  del  bambino, 
mi  sembra  che  impicciolisca  e  non  rafforzi. 

L'altro  contradittore  mi  fa  notare  che  io  ho 
sbagliato  nel  parlare,  a  proposito  della  poesia 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  95 

Il  sogno  della  vergine,  della  culla  come  di  una 
culla  reale,  laddove  è  una  culla  metaforica.  E 
ha  ragione,  e  lo  ringrazio  di  avermi  fatto  accorto 
della  svista  in  cui  sono  incorso  nello  stendere 
i  miei  appunti;  come  anche  di  avermi  avvertito 
(altra  svista)  che  le  strofe  di  Un  ricordo  sono 
composte  di  dieci  e  non  di  nove  versi.  Correg- 
gerò. Ma  ciò  non  tocca  il  punto  sostanziale  della 
mia  critica,  che  sta  nel  notare  la  soverchia  accen- 
tuazione data  alla  figurazione  metaforica  o  no 
che  sia  (e  peggio  ancora  se  metaforica)  della 
culla:  «Si  dondola,  dondola,  dondola»  ecc.,  e 
l'eccessiva  dilatazione  in  una  lunga  poesia  di  un 
motivo  (i  figli  non  nati),  del  quale  un  gran  poeta 
avrebbe  fatto  appena  un  incidente  e  un  tocco, 
che  in  questa  sua  rapidità  sarebbe  rimasto  indi- 
menticabile. —  Così  nella  poesia:  /  due  cugini,  io 
credo  che  dopo  la  strofa: 

Tu,  piccola  sposa,  crescesti: 
man  mano  intrecciavi  i  capelli, 
man  mano  allungavi  le  vesti,  — 

l'altra  che  segue: 

Crescevi  sott'occhi  che  negano 
ancora;  ed  i  petali  snelli 
cadeano:  il  flore  già  lega; 

sia  uno  stento  d'immagini,  che  ottenebra  e  non 
potenzia  le  immagini  della  strofa  antecedente. 
Il  mio  contradittore  vuole  che  il  Pascoli,  in  quella 
seconda  strofa,  faccia  sorgere  accanto  alla  bam- 
bina   «l'immagine  della   madre,   con   quel   suo 


96  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

sentimento  di  grande  delicatezza,  ond'è  mossa 
a  desiderare,  come  tutte  le  mamme,  che  la  figliuola 
le  resti  sempre  piccina  »,  sentimento  che  «  fa  eco 
e  si  sostituisce  al  desiderio  inespresso  e  ormai 
inesprimibile  del  piccolo  morto».  Sarebbe  un 
parallelismo  artifizioso  e  una  lambiccatura;  e, 
a  ogni  modo,  si  veda  se  tutto  ciò  è  poi  detto 
con  la  frase  oscurissima  : 

Crescevi  sott'occhi  che  negano 
ancora... 

Il  metodo  ermeneutico  qui  adoperato  dal  mio 
contradittore  mi  ricorda  quello  di  un  erudito 
campano,  il  quale,  una  trentina  d'anni  fa,  inte- 
stato che  Pier  della  Vigna  fosse  nato  a  Caiazzo, 
avendo  trovato  colà  alcuni  frammenti  di  marmo 
con  le  lettere  nus  M.,  aul,  reas  f.  r.,  coraggio- 
samente integrò:  «  Dominus  Magister  Petrus  de 
Vinea  Magne  Imperialis  Aule  Protonotarius 
Edes  Marmoreas  Fecit  Restituii  »  ;  e  pretendeva 
aver  ragione  contro  il  Capasso,  che  non  gli  me- 
nava buona  la  troppo  abbondante  integrazione. 
—  Vuole  ancora  il  mio  contradittore  che  «  il 
cadere  dei  petali  snelli,  della  fiorita  d'ali  che  la 
rassomigliava  a  un  lucherino,  esprima  un  nuovo 
dolore  per  il  morto,  che  vede  cadere  quello  che 
in  lei  principalmente  amò  »  :  come  se  il  pasticcio 
di  metafore,  onde  le  metaforiche  ali  diventano 
petali  di  fiori,  accresca,  e  non  piuttosto  confonda, 
le  belle  e  dirette  immagini  dell'intrecciare  man 
mano  i  capelli  e  dell'allungare  man  mano  le 
vesti.  Vuole,  inoltre,  che  «  la  pennellata  sobria 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  97 

e  pudica  del  '  fiore  che  lega  '  dica  come  la  fan- 
ciulla cominci  a  diventar  donna  e  annunzi  quel 
c  nuovo  seno  '  che  il  bimbo  ignora  »  :  come  se, 
sempre  dopo  la  prima  bellissima  strofetta,  ci 
volesse  il  vieto  paragone  del  fiore  per  fare  inten- 
dere il  formarsi  della  bambina  a  donna.  —  Ma 
perchè  non  essere  schietti  e  non  confessare  la 
semplice  e  prosaica  verità?  Al  Pascoli,  dopo  la 
prima  strofetta  uscitagli  di  getto,  mancò  la  vena  ; 
e,  non  sapendo  come  riempire  la  seconda,  che 
pure  il  prefisso  schema  strofico  richiedeva,  con- 
tinuò alla  peggio  nella  primitiva  redazione: 

Crescevi,  come  erba  nel  prato. 

I  petali  dai  ramoscelli 

già  caddero,  e  il  fiore  ha  legato  (')• 

Questa  strofetta,  assai  scialba  e  sciatta,  non 
poteva  contentarlo;  e  procurò  di  rabberciare, 
sostituendole  quella  che  abbiamo  or  ora  esami- 
nata. Ma  il  lavoro  di  rappezzo  poetico  non  gli 
riusci,  come  non  riesce  ora  il  rappezzo  critico 
al  suo  difensore. 

E  lascio  d'inseguire  altri  particolari,  e  mi 
restringo  ad  osservare  che  il  mio  contradittore 
ha  frainteso  il  mio  pensiero  circa  i  metri,  quando 
ha  creduto  che  io  volessi  stabilire  che  un  soggetto 
non  può  essere  trattato  se  non  in  una  determi- 
nata forma  metrica,  mettendo  in  rapporto  i  metri 
in  astratto  e  i  soggetti  in  astratto.  Tutti  sanno 


(!)  Con  questa  variante  la  lirica  1  due  cugini  fu  pubblicata 
la  prima  volta  nel  Marzocco,  a.  i,  n.  20,  14  giugno  1896. 

B.  Ckocb,   Giovanni  Pascoli.  7 


98  II  -  INTORNO    ALLA   CRITICA 

c;he  io  ho  sostenuto  sempre  l'opposto,  e  ho  negato 
ogni  valore  alla  dottrina  metrica  come  fonda- 
mento di  giudizio  estetico  (').  Io  ho  inteso  sempre 
parlare  della  disarmonia  di  molte  poesie  del 
Pascoli,  la  quale  dalla  disannonia  nel  metro  si 
stende  a  quella  nelle  proporzioni  del  componi- 
mento e  nelle  accentuazioni  delle  immagini,  alle 
materialità  inopportune,  e  via  dicendo;  e,  se  ho 
parlato  di  queste  cose  come  distinte,  l'ho  fatto 
per  semplice  espediente  espositivo  o  didascalico. 
L'osservazione  enfatica  che  «  Dante  nella  terzina 
ha  gittato  il  bronzo  di  Farinata,  l'odio  di  Ugo 
lino,  la  timida  preghiera  della  Pia  e  il  volo  del- 
l'aquila portata  da  Cesare  »,  può  fare  effetto  sui 
profani,  ma  lascia  freddo  chi  come  me  ha  sempre 
affermato  che  non  solo  ogni  terzina  è  diversa 
da  ogni  altra  terzina,  ma  ogni  verso  da  ogni 
verso,  anzi  ogni  parola  da  ogni  altra  parola, 
anche  quelle  che  il  vocabolario  pone  come  iden- 
tiche: l'«  amore»  di  Francesca,  nelle  terzine: 
«Amor  che  a  cor  gentil»  ecc.,  (dice  benissimo 
il  mio  amico  Vossler)  non  è  una  stessa  parola 
tre  volte  ripetuta,  ma  sono  tre  parole  diverse. 
Tanto  il  Gargano  quanto  il  Pietrobono  e  il 
dottor  Rabizzani  si  meravigliano  che  io,  dopo 
avere  approvato  come  belle  alcune  descrizioni 
nei  poemetti  georgici  del  Pascoli,  resti  perplesso 
sull'insieme  e  mi  domandi:  «Dov'è  il  mondo 
interno   del  poetar».   «Ebbene,  in  questo  caso 


(!)  Si  veda,  per  es.,  Problemi  di  estetica,  pp.  163-66. 


II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA  99 

(scrive,  e  più  efficacemente  degli  altri  due,  il 
Rabizzani,  a  cui  do  la  parola)  il  mondo  interno 
del  poeta  è  proprio  il  mondo  che  sta  fuori  di 
lui  e  che  solo  per  opera  d'intuizione  vien  ripro- 
dotto. Dinanzi  alla  cosa  veduta  c'è  l'occhio  che 
vede  e  modifica  inconsciamente  e  sceglie  scien- 
temente eliminando  la  scoria  delle  impressioni 
inutili  per  far  luogo  solo  a  quelle  che  possono 
determinare  la  sua  visione.  Così  la  descrizione 
è  obbiettiva  per  gli  elementi  che  la  costituiscono, 
ma  subiettiva  per  il  modo  nel  quale  sono  costi- 
tuiti. Ed  è  inutile  cercare  dietro  ad  esso  una 
corrispondenza  morale  propria  del  poeta;  tanto 
varrebbe  cercare  i  regni  celesti  oltre  la  zona 
fisica  del  padiglione  costellato.  C'è  nella  nostra 
coscienza  estetica  un  residuo  di  simbolismo  per 
il  quale  la  natura  ha  diritto  di  vivere  nell'arte 
solo  a  patto  che  un'allegoria  la  giustifichi  •» .  Per- 
fettamente d'accordo  nel  principio  che  non  biso- 
gni cercare  nelle  poesie  l'allegoria,  e  che,  se  un 
residuo  di  allegorismo  resta  in  fondo  alla  coscienza 
estetica,  occorra  liberarsene,  io  non  sono  poi 
d'accordo  nel  credere  al  valore  delle  descri- 
zioni oggettive  in  poesia.  Se  una  descrizione 
non  è  soggettiva,  ossia  non  ha  afflato  lirico  (e  s'in- 
tenda pure  la  lirica  in  tutte  le  sue  gradazioni  fino 
alla  ironia  e  allo  scherno),  non  ò  poesia.  E  poiché 
questo  afflato  lirico  non  manca  in  molti  punti 
dei  poemetti  georgici  del  Pascoli,  io  li  ho  ammi- 
rati; e  poiché  non  li  investe  tutti  (pel  solito 
difetto  che  è  in  lui  di  perdersi  nei  particolari 
e  nelle  sottigliezze),  ho  notato  in  quei  poemetti 


100  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

il  miscuglio  di  un  poeta  vero  con  un  verseggia- 
tore e  descrittore  meramente  virtuoso. 

Nel  giudizio  sui  Poemi  conviviali,  anche 
il  Pietrobono  riconosce  esatta  la  caratteristica 
da  me  data  dell'atteggiamento  spirituale  tutt'al- 
tro  che  omerico,  anzi  sommamente  raffinato,  del 
Pascoli;  e  solamente  crede  che  io  faccia  di  ciò 
un  rimprovero  al  Pascoli,  il  che  non  mi  è  mai 
passato  pel  capo.  Io  ho  insistito  invece  sul  modo 
di  concezione  e  composizione  di  quei  poemi,  che 
sembrano  mucchi  di  frammentini  delicati:  è  tutta 
carne  molle,  e  manca  l'ossatura;  di  qui  la  scarsa 
loro  efficacia.  Chi  ripensi,  per  esempio,  ai  Sepol- 
cri del  Foscolo,  intenderà  ciò  di  cui  lamento  la 
mancanza  nel  Pascoli.  E  quando  il  mio  contra- 
dittore  si  duole  che  né  io  né  altri  abbia  osser- 
vato «  che  lungo  e  che  grande  amore  debba  esser 
costato  al  Pascoli  la  ispirazione  di  quei  suoi 
Poemi  conviviali,  in  cui  rinovera,  analizza  e 
rivive  a  una  a  una  ordinatamente  le  età  di  Omero 
e  di  Esiodo,  quella  dei  tragici  greci  nei  Poemi 
di  Ate,  quella  dell'arte  plastica  in  Sileno,  i  pen- 
samenti di  Platone  nei  poemi  di  Psiche,  e  ci 
denuda  l'anima  dell'età  di  Alessandro,  di  Tiberio, 
dei  popoli  di  Oriente  in  Gog  e  Magog,  e  final- 
mente canta  l'annunzio  dell'era  novella  cristiana, 
nella  quale  tutte  le  altre  si  assommano  e  con- 
fluiscono a  produrre  la  civiltà  moderna  »,  —  sono 
costretto  a  rispondere  ancora  una  volta,  che  egli 
dimentica  un  principio  di  critica,  pel  quale  la 
ricchezza  di  erudizione,  l'ordine  storico  sapiente, 
la  giustezza  del  colore  storico,  e  via  dicendo, 


II  -  INTORNO   ALLA    CRITICA  101 

sono  cose  tutte  estranee  all'arte  ;  tanto  vero, 
che  si  trovano  anche  in  poeti  mediocri,  i  quali, 
incapaci  di  scrivere  dieci  bei  versi  d'amore, 
sono  poi  resistentissimi  nel  comporre  trilogie 
e  decalogie  di  drammi,  cicli  di  poemi  e  leg- 
gende di  secoli,  con  relative  annotazioni  stori- 
che dottissime. 

Senonchè,  qual  è  poi  il  giudizio  complessivo 
e  conclusivo  che  i  miei  contradittori  hanno 
opposto  a  quello  da  me  proposto  e  dimostrato 
intorno  all'opera  del  Pascoli?  Ho  innanzi  a  me 
i  parecchi  articoli,  che  si  sono  pubblicati  a  pro- 
posito del  mio  studio;  e  cerco  una  conclusione 
diversa  dalla  mia,  e  non  la  trovo.  Ecco  il  Rabiz- 
zani,  che  si  dava  pensiero  di  una  mia  possibile 
e  probabile  conversazione:  «  Pur  non  accettando 
le  conclusioni  a  cui  giunge  il  Croce  nella  crudità 
della  formola  e  nel  rigore  dello  spinto,  dobbiamo 
ammettere  il  carattere  frammentario  dell'opera 
pascoliana.  Il  poeta  ha  uu  grande  mondo, 
ma  non  è  ancora  riuscito  ad  esprimerlo 
compiutamente.  Per  ora,  la  sua  sovranità 
è  nell'abisso  della  sua  mente.  E  quand'an- 
che non  riuscisse  a  farnela  uscire,  noi  gliene 
daremmo  il  merito,  sebbene  l'Amiel  abbia  detto 
che  le  genie  latent  rìest  qu'une  prèsomption: 
tout  ce  qui  peut  étre,  doit  devenir,  et  ce  qui 
ne  devieni  pas  n'ètait  rien».  Mi  pare  giudizio 
assai  più  severo  del  mio;  e,  se  mai,  ho  paura 
che  il  dottor  Rabizzani  dovrà  fare  una  penitenza 
più  grossa  della  mia.  Ecco  la  Rivista  di  cultura 
di    don    Romolo    Murri,   non    certo   avversa  al 


102  II  -  INTORNO    ALLA    CRITICA 

Pascoli  e,  a  ogni  modo,  assai  equanime»:  Non 
dividiamo,  a  proposito  del  Pascoli,  il  giudizio 
recentemente  datone  dal  Croce:  giudizio  giu- 
sto nella  sostanza,  se  riguarda,  nell'in- 
sieme, l'opera  e  l'ispirazione  poetica  del 
Pascoli,  ma  ingiusto  per  rapporto  a  molte  par- 
ticolari poesie.  E  vogliamo  dire  questo:  che  il 
Pascoli  non  ha  una  così  ricca  e  possente 
ispirazione  poetica  che  non  gli  venga  mai 
meno  nel  suo  molto  versificare,  né  un  cosi  fine 
e  sicuro  gusto  da  non  dare  al  pubblico,  della 
molta  opera  sua,  se  non  quello  che  è  Anito  o 
perfetto;  ma,  dall'altra  parte,  quello  che  il  Croce 
concede  di  strofe  e  di  brani  di  poesie,  che  sono 
di  un  vero  e  grande  poeta,  noi  pensiamo  si  possa 
raramente  estendere  a  poesie  intere  »  (i).  Non 
dividiamo;  ma,  viceversa,  dividiamo.  Un  altro  e 
temperato  critico  affaccia  un  dubbio,  ma  comin- 
cia col  concedere:  «Il  Croce  ha  messo  il  dito 
sulla  piaga:  lo  smarrirsi  dell'ispirazione  univer- 
sale nel  mare  dei  particolari  è,  presso  il  Pascoli, 
un  caso  non  infrequente.  Ma  non  sarebbe  questo 
un  segno  de'  tempi,  non  sarebbe  la  parte  caduca 
dell'arte  pascoliana,  la  quale  vivrà  egualmente 
ne'  secoli  ad  onta  di  tutti  i  suoi  difetti,  ombra 
appena  percettibile  a  petto  ai  suoi  grandissimi 
pregi?»  (2).  Perfino  il  Pietrobono  non  sa  dire 
altro  circa  il  carattere  generale  della  poesia  del 
Pascoli   se  non   che   quella   è   «  una  gran  bella 


(1)  Rivista  di  cultura,  19  maggio  1907. 

(2)  F.   Pasini,  nel  Palvese,  di  Trieste,   del  14  aprile  1907. 


II  -  INTORNO    ALLA   CRITICA  103 

poesia»;  lode  che,  nella  sua  indeterminatezza, 
potrei  concedere  anch'io.  Perchè,  se  alla  poesia 
del  Pascoli  non  avessi  riconosciuto  valore,  e 
molto  valore,  non  le  avrei  fatto  (questo  è  ben 
chiaro)  l'onore  di  un  lungo  esame,  e  di  questa 
non  breve  discussione,  che  ora  gli  ha  tenuto  dietro. 

1907. 


Ili 

DODICI  ANNI  DOPO 

1. 

Ancora  sulla  poesia  del  Pascoli  (*). 

Da  una  dozzina  d'anni  non  avevo  letto  quasi 
più  nulla  del  Pascoli,  saziato  dallo  studio  che 
un  tempo  feci  delle  cose  sue  per  scrivervi  in- 
torno un  saggio,  il  quale,  quando  fu  pubblicato, 
nel  1907,  parve,  peggio  che  severo,  ingiusto.  E 
con  curiosità  ho  tolto  tra  mano  la  scelta  che 
delle  poesie  di  lui  ha  testé  curata  il  Pietrobono 
{Poesie  di  Giovanni  Pascoli,  con  note  di  Luigi 
Pietrobono,  Bologna,  Zanichelli,  1918);  con  cu- 
riosità (prego  il  lettore  di  credermi)  assai  bene- 
vola, animata  dal  desiderio  di  scoprire  nel  Pa- 
scoli, dopo  tant'anni,  aspetti  che  allora  potevo 
non  avere  scorti,  e  di  giudicare,  dopo  tant'anni, 
con  mente  rinfrescata,  non  solo  la  poesia  di  quel 


(»)  Dalla  Critica,  XVII,  1919,  pp.  320-28. 


106  III  -  DODICI    ANNI    DOPO 

poeta,  ma  lo  stesso  giudizio  mio.  Il  Pascoli  non 
è  più;  e  tra  il  tempo  ch'egli  ancora  viveva  e  il 
presente  sono  accaduti  tanti  straordinari  avve- 
nimenti, che  hanno  respinto  assai  indietro,  nel 
remoto,  gli  anni  anteriori  al  1914,  comprimen- 
doli in  un  periodo  già  chiuso,  quasi  con  lo  stesso 
cangiamento  di  prospettiva  che  la  Rivoluzione 
francese  fece  per  gli  anni  anteriori  al  1  789.  Ho 
levato  dunque  gli  occhi  verso  il  Pascoli  come 
verso  un  autore  del  vecchio  tempo  (del  «  buon  » 
vecchio  tempo  ?),  pel  quale  non  si  può  non  esser 
disposti  a  simpatia;  e  perfino  l'averlo  criticato 
nei  giorni  lontani  accresceva  il  sentimento  di 
simpatia,  perchè  anche  questo  mi  formava  un 
legame  con  lui,  anche  questo  me  lo  faceva  parte 
di  una  parte  della  mia  vita  passata.  S'aggiunga 
che  il  compilatore  del  volume,  il  Pietrobono,  ha 
molto  amato  il  Pascoli  ed  è  colto  e  fino  inge- 
gno, e  m'invogliava  perciò  a  rileggere  quelle 
poesie  sotto  la  sua  guida  bene  informata,  esperta 
ed  affettuosa;  e,  a  dir  vero,  per  questo  riguardo, 
non  mi  è  toccata  alcuna  delusione,  e  credo  che, 
posto  che  giovi  adornare  di  comento  le  opere 
del  Pascoli,  non  si  poteva  eseguir  tale  compito 
in  modo  migliore  di  quello  tenuto  dal  Pietro- 
bono, che  non  può  esser  tacciato  se  non  forse 
di  sottigliezza  e  ingegnosità  eccessive,  effetti  di 
eccessivo  amore. 

Ma,  pel  resto,  ahi,  ahi,  come  la  mia  buona 
intenzione,  la  mia  mite  e  sentimentale  e  malin- 
conica disposizione  d'animo,  è  stata  presto  tutta 
sconvolta!  Come   mi   son  sentito  riprendere  di 


Ili  -  DODICI   ANNI    DOPO  107 

colpo  dall'antica  ripugnanza,  e  risospingere  al- 
l'antica riprovazione,  fotta  più  acuta  e  più  vio- 
lenta dalla  stessa  serenità  con  la  quale  mi  ero 
messo  a  riconsiderare,  dalla  stessa  aspettazione 
che  avevo  carezzata  di  poter  temperare  il  mio 
antico  giudizio  o  integrarlo  col  riconoscimento  di 
alcune  cose  belle  di  quella  poesia!  E  la  riprova- 
zione si  è  volta  in  isdegno,  ricordando  di  aver 
letto  su  pei  giornali  letterari,  che  è  ormai  ve- 
nuto il  tempo  d'introdurre  il  Pascoli  nelle  scuole 
italiane,  a  modello  o  incitamento  stilistico  per  la 
nuova  generazione.  Oh,  no!  Noi  non  abbiamo  il 
diritto  di  propagare  nella  nuova  generazione  le 
malsanie  e  i  vizi  nostri;  non  abbiamo,  in  ogni 
caso,  il  diritto  di  toglier  d'innanzi  ad  essa  quelli 
che  la  tradizione  dei  secoli  ha  consacrati  classici, 
per  surrogarvi  gl'idoli  delle  nostre  fuggevoli 
esaltazioni,  dei  nostri  morbosi  sentimentalismi, 
e  dei  nostri  capricci. 

Ciò  che  altra  volta  ebbi  a  notare,  ciò  che 
sempre  mi  era  sommamente  spiaciuto  nei  versi 
del  Pascoli,  e  mi  aveva  fatto  dubitare  della  sua 
virtù  poetica,  mi  s'è  ripresentato  subito  agli 
occhi,  appena  aperto  il  volume,  alle  prime  pa- 
gine. È  quasi  la  caratteristica  della  sua  arte  :  il 
dissidio  tra  ritmo  e  metro  :  il  ritmo  del  sentimento 
che  richiede  un  certo  andamento,  che  s'intrav- 
vede,  si  presente,  si  attende,  e  il  metro  che  gliene 
dà  un  altro.  Donde  anche,  introdotta  questa  prima 
scissione  nell'inscindibile,  il  compiacersi  nel  par- 
ticolare per  sé  fuori  della  nota  fondamentale,  e, 
per  un  altro  verso,  caricare  il  tono  per  ottenere 


108  III  -  DODICI   ANNI    DOPO 

l'effetto  cercato  :  disarmonia  ed  affettazione.  Vedo 
che  il  comentatore  insiste  su  ciò,  che  la  poesia 
del  Pascoli  è  poesia  di  dissidio;  e  teorizza 
che  €  il  dubbio  è  uno  stato  d'animo  anch'esso, 
e  il  poeta  che  n'è  vittima,  e  vuol  essere  sincero, 
bisogna  pure  che,  come  sente,  così  si  esprima, 
e  non  rifugga  dall'apparire  nel  tempo  stesso  ot- 
timista e  pessimista,  ecc.  » .  E  starebbe  benissimo, 
e  non  ci  sarebbe  niente  da  ridire,  se  si  trattasse 
solo  di  contrasti  psichici;  ma  i  contrasti  psichici 
debbono,  in  arte,  essere  composti  in  armonia 
estetica:  ciò  che  l'uomo  divide,  e  ciò  che  divide 
l'uomo,  la  dea  dell'arte  congiunge.  Che  è  poi  per 
l'appunto  quel  che  al  Pascoli,  per  infelicità  d'in- 
gegno, non  veniva  mai  fatto. 

Si  tagliò  da  una  siepe  —  era  un  mattino 
triste  ma  dolce  —  il  suo  bordone,  e,  volta 
'  la  fronte,  mosse  per  il  suo  cammino. 

Si  sente  che  lo  scrittore  vorrebbe  esser  sem- 
plice, ma  la  terzina,  invece,  si  gira  e  si  dondola, 
come  compiacendosi  di  sé  stessa.  Si  noti  quel 
«volta  la  fronte»,  che  atteggia  il  personaggio 
come  un  attore,  che  prende  a  rappresentare  la 
sua  parte.  E  non  pago  di  aver  dato  quest'at- 
teggiamento, lo  scrittore  vi  calca  sopra: 

SI:  mosse. 

Al  che  il  comentatore  :  «  Si  accorge  di  aver  ado- 
perata una  parola  forse  superba,  e  la  ripensa 
come  per  correggerla;  ma  trova  invece  che  non 
la  sua  superbia,  ma  la  verità  glie  l'ha  posta  sulle 


Ili  -  DODICI    ANNI    DOPO  109 

labbra,  e  la  conferma  » .  Ora,  veramente,  non  si 
vede  qual  superbia  ci  sia  nel  «  moversi  per  il 
proprio  cammino»;  ma  ben  si  vede  che  il  Pa- 
scoli ha  «  ripensata  »  la  sua  parola,  ossia,  al  so- 
lito, l'ha  vezzeggiata,  compiacendovisi. 

E  quella  era  la  siepe  folta 
d'un  camposanto,  ed  era  il  camposanto, 
quello,  dove  sua  madre  era  sepolta. 

Affettazione  di  semplicità  che  s'impaccia  nelle 
ampie  pieghe  del  verso  e  della  strofa,  e  affet- 
tazione di  sentimentalità,  in  quella  fantasia  del 
bordone,  tagliato  dalla  siepe,  e  proprio  da  quella 
del  camposanto,  e  proprio  del  camposanto  in  cui 
giaceva  la  madre  morta. 

D'allora  ha  errato.  Seco  avea  soltanto 
il  suo  bordone.  E  qua  tese  la  mano, 
e  qua  la  porse.  E  ha  gioito  e  pianto. 

Solennità  apparente,  vuoto  sostanziale,  tutte  frasi 
generiche  che  paiono  dire  grandi  cose  e  dicono 
nulla.  E  le  frasi  generiche  continuano  nella  ter- 
zina che  segue: 

E  vidi  il  fiume,  il  mare,  il  monte,  il  piano: 
tutto... 

Sì,  tutto,  perchè  non  ha  visto  niente  di  parti- 
colare e  di  significante. 

e  a  tutto  era  più  presso  il  cuore 
di  quanto  il  piede  n'era  più  lontano. 

Sentimento,  che  potrebbe  esser  vero,  ma  è  reso 
in  forma  di  antitesi,  e  perciò  falsato  in  un  gio- 


110  III  -  DODICI    ANNI    DOPO 

chetto.  Invece  di  sentirci  riempire  l'animo  da 
quel  sentimento,  ci  soffermiamo  ad  analizzare, 
con  lo  scrittore,  il  giochetto. 

Così  si  va  innanzi  sino  alla  fine:  peggiorando, 
perchè  il  bordone  mette  poi  foglie,  germina,  ra- 
dica, e,  senza  diventare  simbolo  vivente,  s' in- 
goffisce in  cattiva  allegoria. 

Il  secondo  componimento  del  volume  è  quello 
de  Le  ciaramelle.  Chi  non  sente  come  liquefarsi 
l'anima  al  loro  suonoj^Jfla  appunto  chi  questo 
-Tret*ter~c1:uè  preso  da  un  soave  palpito  al  riudire 
le  ciaramelle,  palpita  così  perchè  non  è  lui  una 
ciaramella,  ma  un'anima,  che,  ormai  diversa  e 
matura,  è  riportata  alle  immagini  e  alle  com- 
mozioni della  fanciullezza.  Ricordo  la  vigilia  di 
"Natale,  evocata-  dal  Di  Giacomo  in  una  sua  li- 
rica d'amore:  la  Napoli,  verso  sera,  tripudiente, 
rumoreggiante,  piena  di  lumi,  guardata  dal  poeta 
dal  mezzo  della  collina,  che  le  sovrasta.  Ci  sono 
anche  le  zampogne: 

Saglieva  'a  dinto  Napule,  nzieme,  cu  tanta  voce, 
cunfusa  'int'  a  na  nebbia  na  luce  'e  tanta  lume: 
sentevemo  'e  zampogne,  c''o  suono  antico  e  ddoce 
jenghere  ll'aria,  e  tutti  sti  voce  accumpagnà... 

Ma  il  Pascoli  si  fa  lui  ciaramella,  e  ciaramel- 
leggia  con  esse: 

Udii  tra  il  sonno  le  ciaramelle, 
ho  udito  un  suono  di  ninne  nanne. 
Ci  sono  in  cielo  tutte  le  stelle, 
ci  sono  i  lumi  nelle  capanne. 


Ili  -  DODICI    ANNI   DOPO  111 

Sono  venute  dai  monti  oscuri 
le  ciaramelle  senza  dir  niente; 
hanno  destata  nei  suoi  tuguri 
tutta  la  buona  povera  gente... 

Una  filastrocca  tutta  ripetizioni  di  concetti,  ar- 
guzie, insistenze,  affanno,  piagnucolamento  :  una 
bruttura. 

E  sorvolo  sul  terzo  componimento  {La  voce) 
—  quello  di  «  Zvani  »,  —  perchè  l'altra  volta  già 
ne  mostrai  la  sconvenienza  e  sconcezza  ;  e  libo 
appena  il  quarto,  in  cui  l'abbaiar  di  un  cane  a 
notte  alta  è  chiuso  in  istrofe  di  questa  sponta- 
neità: 

là  nell'oscura  valle  dov'errano 
sole,  da  niuno  viste,  le  lucciole, 

sonava  da  fratte  lontane 

velato  il  latrare  d'un  cane; 

e,  in  tanto  artificio  e  scontorcimento  e  ballon- 
zolamento,  il  cane  abbaia  davvero,  fa  bau-bau: 

Va!  va!  gli  dice  la  voce  vigile, 
sonando  irosa  di  tra  le  tenebre... 

E,  infine,  incontrandomi  nel  quinto  compo- 
nimento {Valentino)  —  con  le  galline  che  schia- 
mazzano: «  Un  cocco!  Ecco  ecco  un  cocco  un 
cocco  per  te!  » ,  —  mi  arresto  e  non  procedo  oltre. 

Cioè,  smetto  di  percorrere  ordinatamente  il 
volume  e  lo  sfoglio  qua  e  là;  e  su  qualunque 
cosa  poso  l'occhio,  ritrovo  le  stesse  affettazioni. 
Ecco  il  tanto  celebrato  Aquilone:  nel  quale  lo 
scrittore   vorrebbe  ritrarre   un   momento   della 


112  III  -  DODICI    ANNI    DOPO 

propria  vita  di  fanciullo,  risvegliatosi  noi  suo 
ricordo  alla  vista  di  una  bella  mattina,  piena  di 
sole,  che  lo  riconduce  ad  altra  simile  di  quei 
tempi  lontani.  Ma  la  sua  incapacità  a  fecondare 
un  motivo  poetico,  si  che  produca  la  propria  for- 
ma, si  dimostra  qui  chiara  dal  suo  ricorrere  (cosa 
che  è  sfuggita  al  Pietrobono)  a  una  forma  bella 
e  fatta,  all'Idillio  maremmano  del  Carducci. 
Il  canto  del  Carducci  comincia: 

Col  raggio  del  mattin  novo  eh'  inonda 
roseo  la  stanza,  tu  sorridi  ancora 
improvvisa  al  mio  cuore,  o  Maria  bionda! 

E  il  Pascoli,  sebbene  col  solito  tono  di  appa- 
recchio e  d'affettazione,  comincia  allo  stesso 
modo: 

C'è  qualcosa  di  nuovo  oggi  nel  sole, 
anzi  d'antico:  io  vivo  altrove,  e  sento 
che  sono  intorno  nate  le  viole. 

Son  nate  nella  selva  del  convento 
dei  cappuccini... 

Il  Carducci  termina: 

Meglio  era  sposar  te,  bionda  Maria! 

Meglio  ir  tracciando 

Meglio  oprando  obliar 

E  il  Pascoli: 

Meglio  venirci  ansante,  roseo,  molle 
di  sudor,  come  dopo  una  gioconda 
corsa  di  gara  per  salire  al  colle! 

Meglio  venirci  con  la  testa  bionda, 
che  poi  che  fredda  giacque  sul  guanciale, 
ti  pettinò  co'  bei  capelli  a  onda 

tua  madre...  adagio,  per  non  farti  male. 


Ili  -  DODICI    ANNI    DOPO  113 

Ma  le  parole  del  Carducci  sono  schiette,  il  tono 
eguale;  e  quelle  del  Pascoli  una  sequela  di  abi- 
lita da  virtuoso,  frigidissime:  versi  troppo  vi- 
brati non  si  sa  perchè,  specie  il  terzo  di  ciascuna 
terzina;  versi  che,  non  si  sa  perchè,  fanno  spicco: 

tra  le  morte  foglie 
che  al  ceppo  delle  quercie  agita  il  vento; 

immagini  leziose,  come  l'aquilone  che  s'innalza: 

s'innalza;  e  ruba  il  filo  dalla  mano, 
come  un  fiore  che  fugga  su  lo  stelo 
esile,  e  vada  a  rifiorir  lontano; 

e  falsità  di  ritmo  e  leziosaggini,  che  impedi- 
scono alle  più  gentili  immagini  di  acquistare  la 
loro  musica: 

Si  respira  una  dolce  aria  che  scioglie 
le  dure  zolle,  e  visita  le  chiese 
di  campagna,  ch'erbose  hanno  le  soglie  (bello!): 

un'aria  d'altro  luogo  e  d'altro  mese 
e  d'altra  vita:  un'aria  celestina 
che  regga  molte  bianche  ali  sospese  {troppo 

[cincischiato  !)... 

E  tutto  il  componimento  ha  un  aspetto  di  con- 
gegnato, di  preparato  («Sì,  gli  aquiloni!  È  que- 
sta una  mattina  Che  non  c'è  scuola...»),  direi, 
di  ginnastico,  alienissimo  della  vera  poesia. 

E  a  proposito  del  Carducci  e  del  Pascoli.  Mi 
fu  raccontato,  da  chi  v'era  presente  (uno  dei  nostri 
più  fini  artisti),  che  un  giorno  il  Carducci,  trat- 
tenendosi in  casa  di  amici  e  trovato  sul  tavolino 

B.  Croce,  Giovanni  Pascoli.  8 


114  III  -  DODICI    ANNI   DOPO 

un  volume  del  Pascoli,  ne  lesse  qua  e  là  ad  alta 
voce  alcune  pagine,  e  poi,  richiudendolo  d'un 
colpo  e  posandovi  su  la  mano,  ammoni  gli 
astanti:  —  Questa,  non  è  poesia!  —  La  stessa 
sentenza  mi  sale  dai  precordi,  dopo  avere  rias- 
saggiato le  composizioni  del  Pascoli.  Gridate 
contro  di  me  quanto  vi  piace:  questa,  non  è 
poesia. 

E  se  non  è  poesia,  eppure  ha  avuto  tanta 
voga,  ed  ha  ancora  tanti  ammiratori,  donde  la 
ragione  della  sua  fortuna?  Credo  da  ciò,  che 
essa  giunse  opportuna:  la  grande  poesia  italiana, 
mercè  i  diversi  ma  del  pari  alti  esempì  del 
Manzoni  e  del  Leopardi,  era  stata  salvata  dallo 
scompiglio  romantico,  e,  mercè  quello  del  Car- 
ducci, dalle  mollezze  dell'ultimo  romanticismo. 
E  l'esempio  del  Carducci  operò  anche  sul  D'An- 
nunzio (non  solo  nel  giovanile  Canto  novo,  ma 
anche  qua  e  là  di  poi)  come  freno,  e  come  freno 
operò  nel  primo  e  nel  miglior  Pascoli  (le  prime 
Myricae):  ma,  più  tardi  nel  D'Annunzio  e  più 
presto  nel  Pascoli,  quel  freno  s'allentò,  e  proruppe 
in  essi  la  letteratura  decadente,  che  era  in  ag- 
guato dietro  le  loro  anime,  e  l'uno  e  l'altro  di- 
ventarono precursori  e  avviatori  del  futurismo. 
Il  Pascoli,  meno  vigoroso  del  D'Annunzio,  il  quale 
ha  avuto  una  sua  forza  di  gioia  sensuale,  che  è 
stata  la  sua  sanità  e  si  è  guastato  soprattutto 
con  l'intellettualismo  dell'eroico  e  ora  del  reli- 
gioso; il  Pascoli,  che  era  disposto  al  sentimen- 
talismo, doveva  più  gravemente  soggiacere  al  de- 
cadentismo e  futurismo,  alla  spinta  analitica,  alla 


Ili  -  DODICI    ANNI   DOPO  115 

disarmonia,  al  disgregamento,  alle  smorfie  e  alle 
sconcezze  dell'impressionismo  inconcludente.  E 
poiché  la  sua  corruttela  estetica  prendeva  per 
materia  la  pietà,  la  bontà,  la  tenerezza,  la  tri- 
stezza, la  morte  (diversamente  dal  D'Annunzio 
il  quale  si  compiaceva  di  altre  cose,  che  davano 
scandalo  ai  timorati),  al  Pascoli  è  stato  possibile 
soddisfare  in  modo  decente  quel  ch'era  di  mal- 
sano nelle  anime  timorate,  e  persino  nei  preti  : 
—  come,  per  un  altro  verso,  il  Fogazzaro  è  stato 
il  D'Annunzio  dei  cattolici,  ed  ha  scritto  per  le 
famiglie  cattoliche  il  Piacere  e  il  Trionfo  dello 
morte  sotto  i  titoli  di  Daniele  Cortis,  di  Ma- 
lombra e  di  Piccolo  mondo  moderno. 

Con  quali  aspettazioni  abbiano  accolto  il  Pa- 
scoli i  cattolici  si  può  vedere  dalla  prefazione 
stessa  del  Pietrobono,  che  è  preso  da  quella  con- 
dizione di  lui  tra  la  fede  e  l'incredulità,  interpe- 
trandola  quasi  presentimento  di  cielo,  quasi  per- 
secuzione che  il  Signore  faceva  di  un'anima,  che 
ancora  gli  riluttava.  E  da  essa  si  può  vedere 
quanto  potere  il  sentimentalismo,  lo  spirito  di 
pietà  e  di  carità,  il  desiderio  e  le  esortazioni  alla 
pace,  della  quale  il  Pascoli  si  era  fatto  professio- 
nale rappresentante,  abbiano  avuto  sui  cuori  te- 
neri, a  segno  da  far  dimenticare  che  tutto  ciò  in 
poesia  non  vai  nulla  se  non  diventa  poesia,  ed 
è  addirittura  odioso  quando  procura  di  surrogare 
al  mancante  valore  di  poesia  materiali  valori  di 
sentimento. 

Così  ora  i  decadenti,  gli  stilisti  (che  sono  poi 
decadenti,  perchè  sol  essi  pensano  allo  «  stile  »  : 


116  III  -  DODICI    ANNI   DOPO 

i  grandi,  i  classici  lo  hanno  e  non  vi  pensano), 
vorrebbero  introdurre  la  poesia  e  la  prosa  del 
Pascoli  nelle  scuole,  nelle  scuole  classiche,  come 
ideale  di  finezza  artistica;  e  i  cuori  teneri,  nelle 
scuole  elementari,  come  educatrici  a  gentili  af- 
fetti, e  i  preti  nelle  loro,  perchè  non  vi  si  parla 
di  amore  (di  quell'amore  che  è  persino  nel- 
Y Adelchi  e  nei  Promessi  sposi]).  Ma  per  le 
scuole  elementari  è  proprio  indispensabile  il 
Pascoli?  Non  c'è  di  più  vecchio  e  di  meglio? 
Non  c'è  il  poeta  che  facevano  leggere  a  noi  ra- 
gazzi, e  imparare  a  mente,  il  buon  canonico 
Parzanese,  gloria  di  Ariano  di  Puglia?  Se  è  ne- 
cessaria per  certi  usi  una  poesia  non  poetica, 
una  poesia  pratica,  quella  del  Parzanese  fa  sem- 
pre perfettamente  al  caso  ;  e  quasi  mi  vuol  parere 
che  essa  dia,  per  questa  parte,  la  realtà  di  ciò 
che  il  Pascoli  invano  si  sforzò  di  raggiungere. 
Volete  onomatopee? 

Suona,  o  campana,  suona,  o  campana, 
suona  vicina,  suona  lontana. 
Tu  sei  la  musica  del  poveretto, 
che  nel  sentirti  piange  d'affetto; 
ei  sol  comprende  la  tua  parola, 
quando  sonora  per  l'aria  vola. 

Dig  din,  dog  don, 

T'allegra,  o  povero,  questo  è  il  tuo  suon! 

Volete  riproduzioni  di  movimenti? 

Dote  non  ho  né  panni, 
e  pur  vo'  farmi  sposa. 
Passati  son  tre  anni 
che  la  mia  man  non  posa. 


Ili  -  DODICI   ANNI   DOPO  117 

Ma  il  tempo  via  sen  va, 

e  il  caro  dì  verrà 

che  tanto  il  ciel  sospira; 

Filatoio,  gira,  gira. 


Volete  ninna-nanne? 

Dormi.  La  bella  luna 
prende  del  ciel  la  via; 
passa,  e  sulla  tua  cuna 
un  bianco  raggio  invia. 
Pe'  poveri  Iddio  vuole 
che  splenda  luna  e  sole. 
Dormi,  fanciullo  mio, 
dormi,  ti  veglia  Iddio. 

Volete  figurini  di  curati? 

Zitto!  Cessi  lo  strepito  e '1  baccano: 
che!  non  vedete  il  nostro  buon  pievano? 
8' inoltra  passo  passo  il  vecchierello: 

traetevi  il  cappello. 

E  di  poverelli? 

Se  vedete  un  vecchierello 

d'occhi  cieco  e  d'anni  stanco, 

senza  scarpe  né  mantello, 

che  alla  figlia  appoggia  il  fianco, 

nel  recinto  del  castello 

date  loco  al  vecchierello... 

E  di  sventurati?  Chi  non  ha  lagrimato   per  la 
cieca  del  Parzanese? 

Non  mi  dite  che  torna  il  mattino 
a  svegliare  le  cose  dormenti  ; 
non  mi  dite  che  d'oro  e  rubino 
sono  i  lembi  del  cielo  ridenti. 
Il  mio  ciglio  il  Signor  non  aprio... 
Deh!  sia  fatto  il  volere  di  Dio. 


118  III  -  DODICI    ANNI    DOPO 

Ed  era  molto  gentile,  quella  cieca: 

Quando  sento  il  profumo  d'un  giglio, 
voi  mi  dite  ch'è  bianco  qual  neve. 
Com'è  il  bianco?  — In  pensier  lo  somiglio 
a  quel  senso  che  l'alma  riceve 
quando  ascolta  sull'ala  del  vento 
d'un  liuto  il  lontano   lamento... 

Che  cosa  mai  sono  venuto  recitando?  Vecchi 
suoni  dell'  infanzia,  anche  questi  ;  ma,  al  tempo 
stesso,  cosette  modeste,  adatte  al  loro  pratico 
intento,  ben  intonate,  che  mi  ridanno  quel  senso 
di  equilibrio,  che  gli  spasmodici  ritmi  del  Pa- 
scoli mi  avevano  tolto:  del  Pascoli  che  (per  dir 
tutto  in  una  parola)  in  arte  era  un  atassico,  ossia 
non  coordinava  i  suoi  movimenti. 

«  Quiconque  ne  sent  pas  ce  defaut  est  sans 
aucun  goùt  ;  et  quiconque  veut  le  justifier  se 
rnent  à  lui  mérne.  Ceux  qui  m'ont  fait  un 
crime  d'étre  trop  sevère,  m'ont  force  à  Vétre 
vèritablement  et  à  n'adoucir  aucune  véritè  » 
(Voltaire,  commento  sul  Corneille). 


2. 
Il  «  Paulo  Ucello  »  (1). 

Il  Pascoli  lesse  nel  Vasari  che  Paolo  di  Dono 
dipingeva  storie  di  animali,  «  de'  quali  sempre 
si  dilettò,  e  per  fargli  bene  vi  mise  grandissimo 


(i)  Dalla  Critica,  XVIII,  1920,  pp.  60-64. 


Ili  -  DODICI   ANNI   DOPO  119 

studio,  e,  che  è  più,  tenne  sempre  per  casa  di- 
pinti uccelli,  gatti,  cani,  e  d'ogni  sorta  ani- 
mali strani  che  potette  avere  in .  disegno,  non 
potendo  tenerne  de'  vivi  per  esser  povero;  e 
perchè  si  dilettò  più  degli  uccelli  che  d'altro,  fu 
cognominato  Paulo  Ucello  >  (Vite,  ed.  Milanesi, 
II,  208).  Lesse  e  fraintese,  perchè  il  biografo  non 
volle  punto  dire  che  Paolo  amasse  gli  uccelli  e 
gli  altri  animali  e,  non  potendo  farne  acquisto,  im- 
pedito da  povertà,  se  li  dipingesse  per  suo  gaudio 
sulle  pareti  di  casa,  ma  che  amava  dipingere 
uccelli  ed  altri  animali  (compresi  leoni  e  ser- 
penti e  ogni  sorta  di  brutte  bestie)  e  che,  non 
essendo  in  grado  di  possederne  i  vivi  modelli, 
aveva  adunato  in  casa  sua  quanti  disegni  po- 
tesse procurarsene.  La  notizia,  data  dal  Vasari, 
si  riferisce  alla  comune  vita  degli  artisti,  ed  è 
psicologicamente  comprensibile  e  naturale;  ma 
lo  stesso  non  si  può  affermare  della  interpetra- 
zione  o  fraintendimento  del  Pascoli,  perchè  (si 
rifletta  un  istante)  a  quale  verità  psicologica 
risponderebbe  questa  surrogazione  del  dipingere 
al  possedere?  Chi  desidera  un  uccellino  reale, 
desidera  qualcosa  di  pratico,  e,  non  potendo  ot- 
tenerlo, si  dorrà  o  si  rassegnerà;  ma  non  tro- 
verà mai  un  equivalente  o  un  sostituto  omo- 
geneo a  quell'oggetto  nell'attività  artistica,  che 
trascende  l'uccellino  come  realtà  vivente  e  si 
compiace  nel  proprio  creare.  Chi  ama  una  donna, 
ama  quella  donna,  la  desidera,  .la  brama;  ma, 
se  si  mette  a  dipingerla,  l'abbassa  a  materia  o 
modello  che  si  chiami,  e,  in  quell'atto,  trascende 


120  III  -   DODICI    ANNI    DOPO 

il  suo  amore  e  ogni  altra  cosa  terrena,  ed  è  Inna- 
morato, non  più  di  una  donna,  ma  di  un'idea. 
Tanto  vero  che  raccoglitori  e  amorevoli  curatori 
di  animali  domestici  non  sono  mai  i  pittori  di  ani- 
mali, ma  le  vecchie  signorine  e  i  vecchi  celiba- 
tari; e  il  pittore  Dalbono,  famoso  in  Napoli  per 
la  sua  mania  di  riempirsi  la  casa  di  gatti,  non 
dipingeva  gatti,  ma  festosi  paesaggi  di  Napoli. 
Ma  forse  il  Pascoli  non  fraintese  per  isvista 
di  lettura,  e  volle  deliberatamente  fraintendere, 
ossia  sul  testo  del  Vasari  ideò  quella  sua  im- 
maginazione di  un  Paolo  Ucello,  desideroso  di 
avere  uccelli  in  casa,  e  sfogantesi  nel  ritrarli, 
e  tuttavia  tornante  sempre  al  suo  desiderio. 
Perchè?  Perchè  quell'immaginazione  gli  parve 
commovente,  leggiadra,  tenera.  Pensate  un  po'! 
Un  gran  pittore,  che  passa  pel  mercato,  vede 
un  fringuello  in  gabbia,  rosso  in  petto  e  nero  il 
mantello,  che  gli  somigliava  un  fraticino  di  san 
Marco,  vorrebbe  portarselo  a  casa,  ma  non  ha 
un  grosso  per  comperarlo,  e  tira  innanzi  con 
quel  mortificato  desiderio  nel  cuore,  e  va  alla 
sua  opera  della  giornata,  ma  la  sbriga  il  più 
presto  che  può,  per  tornare  a  casa  e  aggiungere 
ai  tanti  uccelli  che  ha  già  dipinti  sulle  pareti, 
ai  tanti  suoi  desideri  insoddisfatti,  là,  sopra  un 
ramoscello  di  melo,  quel  «monachino  rosso». 
Quanta  gente  non  si  lascia  subito  prendere  da 
queste  immaginazioni  leggiadre,  tenere,  commo- 
venti! Quanta?  Moltissima:  tutta  la  legione  dei 
pascoliani,  che,  da  alcune  settimane  in  qua, 
stanno  dando  prova  dei  gentili   sentimenti   che 


Ili  -  DODICI    ANNI   DOPO  121 

siffatte  immaginazioni  educano  negli  animi,  e  li 
dimostrano  nelle  loro  mansuete,  francescane  pa- 
role, indirizzate  a  Sorella  Critica!  Ma  quella 
moltissima  gente  è  anche  di  facile  contentatura; 
e,  come  si  compiace  nel  verso  che  suona  e  non 
crea,  così  sdilinquisce  per  le  immagini  che  paiono 
attraenti  e  sono  vuote,  vuote  di  schietto  e  pro- 
fondo sentire.  Che  vi  sia  o  non  vi  sia  una  realtà 
psicologica  nell'atto  attribuito  a  Paolo  di  Dono, 
essa  non  cura  :  si  attiene  alla  superfìcie  e  scatta 
in  entusiasmi,  che  altro  non  chiedono  e  non 
aspettano  che  di  scattare. 

Comunque,  ideata  quella  prima  arguzia  o 
acutezza  sentimentale,  il  Pascoli  non  si  fermò. 
E  perchè  avrebbe  dovuto  fermarsi?  Con  lo  stesso 
metodo,  e  con  lo  stesso  buon  successo,  poteva 
foggiarne  quante  altre  voleva.  E  immaginò  che 
Paolo  Uccello  fosse  terziario,  e  che  nel  suo  irre- 
frenabile desiderio  di  un  possesso  terreno,  fosse 
anche  di  quello  -tenuissimo  di  un  uccellino,  pec- 
casse; e  che,  dunque,  san  Francesco  gli  appa- 
risse, là,  sulla  parete,  tra  la  sua  pittura  o  dalla 
sua  pittura,  e  lo  rimproverasse  e  lo  ammonisse, 
e  lo  purgasse  di  profani  desideri,  e  poi,  andando 
via,  attingesse  dallo  scollo  del  suo  cappuccio 
briciole  di  pane  e  le  spargesse  per  la  campa- 
gna, e  gli  uccelli  volassero  a  quel  lieto  convito, 
e  Paolo,  quetato  alfine,  si  addormentasse  nel  suo 
sogno.  La  poesia  s'iunalzava  così,  a  suo  credere, 
a  idealità  francescana. 

Tale  fu,  per  chiunque  abbia  qualche  pratica 
di  poeti  e  poesia,  la  genesi  di  questo  Paulo  U cello, 


122  III  -  DODICI    ANNI    DOPO 

lodatissimo  tra  i  componimenti  del  Pascoli.  Ed  è 
chiaro  che  non  fu  una  genesi  poetica,  ma  senti- 
mentalistica, come  di  solito  in  quel  tempo  della 
produzione  pascoliana,  quando  l'autore  si  era 
dato  tutto  in  balia  a  certe  sue  impoetiche  ten- 
denze, incoraggiato  e  traviato  da  false  lodi,  specie 
da  quelle  di  amici,  che  par  si  fossero  proposto  di 
addensargli  intorno  un  velo  e  fargli  perdere  il 
senso  della  realtà,  e  un  po'  lo  vagheggiavano  at- 
traverso quel  velo,  un  po'  celiavano  sulle  sue 
bizzarrie.  Senonchè,  la  poesia  non  può  nascere 
da  intenzioni,  per  gentili  che  siano,  perchè  tutte 
le  intenzioni  sono,  in  questo  caso,  aride,  unilate- 
rali, astratte;  ma  nasce  dalla  piena  umanità  com- 
mossa, come  suono  tra  i  suoni,  accordato  con  gli 
altri  suoni,  non  mai  tutta  tenera  o  tutta  gentile 
o  tutta  leggiadra.  Anche  la  poesia  dell'idealità 
francescana;  della  quale  uno  dei  più  vivi  esempi 
che  mi  vengano  ora  a  mente  è  un  verso  e  mezzo 
di  Tommaso  Campanella,  in  un  suo  duro  e  no- 
doso sonetto,  dove,  ritratto  l'orrore  dell'umano 
egoismo,  le  lotte,  le  insidie,  le  calunnie,  e,  più 
di  tutto,  gl'infingimenti  interiori  per  cui  l'uomo 
«  sé  stesso  annichilando  si  converte  alfine  in 
istìnge»,  improvvisamente  esclama,  come  se  gli 
si  spieghi  innanzi  un  lembo  di  paradiso: 

Tu,  buon  Francesco,  i  pesci  anche  e  gli  uccelli 
frati  appelli!... 

E,  se  si  vuole  un  esempio  più  a  noi  vicino,  ri- 
corderò il  sonetto  del  non  professionale  france- 
scano Carducci,  quel   sonetto,  in   cui   il   poeta, 


Ili  -  DODICI   ANNI    DOPO  123 

alla  vista  della  fertile  costa  che  pende  dal  Su- 
basio,  considera  commosso  su]  piano  laborioso, 
che  al  sol  di  luglio  risuona  di  canti  d'amore, 
Santa  Maria  degli  Angeli: 

Frate  Francesco,  quanto  d'aere  abbraccia 
questa  cupola  bella  del  Vignola, 
dove  incrociando  a  l'agonia  le  braccia 
nudo  giacesti  su  la  terra  sola!... 

Poiché  la  genesi  non  fu  poetica  ma  intenzio- 
nale, o,  come  io  dico,  intellettualistica,  il  Pascoli 
non  potè  indovinare  la  forma  poetica,  la  quale 
è  tutt'uno  con  l'ispirazione,  e  nell'ispirazione  è 
già  delineata  e  mossa.  E  prese  a  stendere  il  suo 
estratto  quintessenziale  di  tenerezze  e  dulcitudini 
e  francescanerift  in  una  forma  artificiosa  ed 
estrinseca,  che  è  subito  dimostrata  tale  dalla  mo- 
notonia dell'  intonazione,  dalla  semplicità  troppo 
semplice,  che  in  essa  si  osserva.  Si  desiderano 
prove  di  ciò?  Come  darle  a  chi  non  ha  orecchio 
per  sentire  il  tono  falso?  Come  fissare  in  alcune 
parole  ciò  che  è  diffuso  in  ogni  snodatura  e  spez- 
zatura della  sintassi,  in  ogni  inflessione  della 
voce?  La  critica  (l'ho  detto  tante  volte)  ha  un 
limite  o  un  presupposto  che  si  chiami:  il  presup- 
posto che  si  abbiano  occhi  per  ben  vedere  e 
orecchi  per  ben  udire.  Tutt'al  più,  essa  può 
aiutare  con  qualche  indicazione: 

Dipingea  con  la  sua  bella  maniera 
sulla  parete,  al  fiammeggiar  del  cielo. 
E  il  monachino  rosso,  ecco,  lì  era, 

posato  sopra  un  ramuscel  di  melo. 
Che  la  parete  verzicava  tutta 
d'alberi.. 


124  III  -  DODICI    ANNI    DOPO 

0  anche: 

Oh!  non  voglio  un  podere  in  Cafaggiolo, 
come  Donato:  ma  un  cantuccio  d'orto, 
sì,  con  un  pero,  un  melo,  un  azzeruolo. 

Ch'egli  è  pur,  credo,  il  singoiar  conforto 
un  capodaglio  per  chi  l'ha  piantato!... 

Ma  un  rosignolo  io  lo  vorrei  di  buono... 

Un  altro  aspetto  di  questa  forma,  senza  in- 
timo freno,  senza  intima  sua  legge,  e  che  ha 
accattato  una  legge  dall'esterno,  da  un  proposito 
della  mente,  da  uno  sforzo,  da  uno  stento  di  vel- 
licare i  cuori  teneri  e  tenerli  in  dolce  spasimo, 
è  il  frazionamento  nei  particolari,  le  lungherie, 
le  materialità  inopportune.  Il  Pascoli,  anche  in 
questo  caso,  non  ci  risparmia  né  le  nomenclature 
di  uccelli,  né  le  sensazioni  fìsiche,  per  es.,  dei 
becchi  che  beccano  le  miche  sparse  (  «  E,  come 
un  bruscinar  di  primavera,  Rimase  un  trito  bec- 
chettio sonoro»),  né  il  solito  usignuolo  onoma- 
topeico, che,  alla  dipartita  del  santo,  canta  chie- 
dendo «dov'era  ito...  ito...  ito...». 

E  conseguenza  di  ciò  è  la  perplessità  nel  let- 
tore, che  non  sa  se  il  poeta  scherzi  o  dica  sul 
serio,  se  sia  in  un  momento  di  festevolezza  o 
non  piuttosto  di  accoramento,  se  voglia  dilettare 
con  un  rifacimento  arcaico  che  susciti  un  sor- 
riso, o  se  esprima  un  suo  serio  sentire.  Che  cosa 
è  quel  san  Francesco,  che  favella  con  vocaboli 
e  formole  tolte  di  peso  ai  Fioretti  e  gestisce  con 
attucci  che  mal  traducono  le  pitture  trecentesche? 
È  una  figurina  grottesca,  una  caricaturina,  un 
follettino,  da  divertir  bimbi,  o  il  santo  del  gran 


Ili  -  DODICI    ANNI   DOPO  125 

cuore,  che  deve  riempirci  di  riverenza?  No:  nella 
figurazione  del  Pascoli  egli  non  mi  riempie  di 
riverenza  e  di  amore,  ma  non  posso  dir  neppure 
che  mi  diverta.  E  quale  impressione,  dunque,  mi 
suscita? 

Buona  è  codesta,  color  foglia  secca, 
tale  qual  ha  la  tua  sirocchia  santa, 
la  lodoletta,  che  ben  sai  che  becca 

due  grani  in  terra,  e  vola  in  cielo,  e  canta... 

E  sminuiva,  e  già  di  lui  non  c'era, 
sui  monti,  che  cinque  stelline  d'oro... 

Quale  impressione?  Non  altra  che  quella,  poco 
piacevole,  della  poesia  stentata  e  sbagliata. 

Sbagliata,  ho  detto;  ma  sbagliata  dal  Pascoli, 
e  non  già  da  un  qualsiasi  arfasatto:  dal  Pascoli 
che  non  solo  era  un  letterato  studiosissimo,  ma 
era,  o  almeno  era  stato  una  volta,  poeta,  il  poeta 
idilliaco  e  triste  delle  primissime  Myricae,  e  di 
tempo  in  tempo  aveva  come  un'apertura  di  cuore 
verso  la  campagna,  gli  uccelli,  le  modeste  opere 
agricole  e  casalinghe,  e  un  senso  di  gioia  e  di 
malinconia  schiette.  Di  questo  fondo  spirituale 
di  lui,  guasto  da  sovrapposte  cattive  tendenze  e 
dal  cangiamento  dello  spontaneo  nel  professio- 
nale, si  scorgono  le  tracce  anche  nel  Paulo  V cello, 
particolarmente  nel  modo  simpatico  in  cui  egli 
ritrae  (e.  2)  la  parete  dipinta  da  Paulo,  quella 
parete  che  verzicava  tutta  d'alberi,  d'erbe,  di 
fiori,  di  frutta,  e  qua  vi  si  vedevano  zappe  e  là 
falci,  e  qua  l'aratura  e  là  messi  biondeggianti, 
e  due  bovi  messi  in  prospettiva  che  parevano 


126  III  -  DODICI    ANNI    DOPO 

grandi  ed  erano  più  piccoli  di  un  leprotto  che 
fuggiva  nel  primo  piano.  Peccato  che  anche  qui 
la  lamentela  del  tono  turbi  l'effetto,  e  la  troppa 
semplicità  tolga  semplicità. 

E  questo  è  quanto  si  può  onestamente  dire 
intorno  al  Paulo  U cello.  A  coloro  che  oggi  lo 
esaltano  come  un  «  capolavoro  » ,  come  il  «  ca- 
polavoro dei  capolavori  pascoliani  » ,  una  «  pu- 
rissima >,  una  «divina  poesia  francescana  > ,  e 
insolentiscono  contro  di  me  perchè  l'ho  passato 
sotto  silenzio,  e  mi  tacciano  di  non  «  sentire  la 
poesia  » ,  di  poca  «  sensibilità  *  (o  di  poca  mor- 
bosità),  mi  contento  di  rispondere:  —  Eh,  via! 


APPENDICE 


Da  qualche  accenno  che  è  nelle  noterelle  critiche 
raccolte  nella  terza  parte  di  questo  volume,  i  let- 
tori avranno  agevolmente  inferito  che  anch'esse  fecero 
scandalo  e  suscitarono  un  uragano  di  proteste  e  d'in- 
vettive, maggiore  e  peggiore  di  quello  che  si  ebbe 
nel  1907,  quando  fu  pubblicato  il  saggio  ristampato 
in  primo  luogo.  Cosa  naturalissima:  nel  dodicennio 
corso  fra  le  due  date  si  era  maturato  e  svolto  a 
pi^no  il  «futurismo»,  del  quale  il  Pascoli  è,  a  mio 
avviso,  da  considerare  precursore  e  promotore,  nella 
nostra  letteratura;  e  la  reazione  contro  il  mio  giudi- 
zio, dopo  tanta  devastazione  e  perversione  prodotta 
nel  gusto,  doveva  essere,  come  fu,  violentissima. 

Una  delle  accuse  che,  in  quel  gridìo,  risonava 
come  un  ritornello  contro  di  me,  concerneva  la  mia 
«insensibilità».  Confesso  candidamente  che  dap- 
prima non  compresi  di  che  cosa  mai  si  volesse,  con 
questa  parola,  lamentare  in  me  l'assenza.  Ma,  con 
pazienza  filologica  ravvicinando  i  testi  (e  quali  testi  !), 
e  cercandone  l'interpetrazione,  ho  poi  non  solo  com- 
preso, ma,  quel  ch'è  meglio,  mi  sono  trovato  affatto 
d'accordo  con  gli  accusatori.  Mi  si  tacciava,  in  fondo, 


128  APPENDICE 

di  essere  «  insensibile  »  alle  seduzioni  del  pascoli- 
amo, del  semifuturismo  e  del  futurismo.  Insensibilis- 
simo: sono,  per  questa  parte,  addirittura  un  pezzo 
di  marmo. 

Dopo  di  ciò,  non  avrei  niente  da  aggiungere,  non 
parendomi  che  quella  critica  d'opposizione  abbia 
apportato  lume  alcuno  allo  schiarimento  dei  problemi 
artistici  da  me  trattati.  Ma,  poiché,  per  fortuna  una 
rivista  letteraria,  La  ronda  di  Roma,  fu  invogliata 
dalle  mie  noterelle  critiche  ad  aprire  una  discussione 
o  referendum  sul  Pascoli,  che  venne  inserendo  nei 
suoi  fascicoli  tra  il  1919  e  il  1920  (a.  I,  nn.  7  e  8, 
a.  II,  n.  1),  mi  piace  rinviare  i  curiosi  e  gli  stu- 
diosi a  quelle  pagine,  che  contengono  molte  cose 
istruttive  e,  nel  complesso,  confermano  il  mio  giu- 
dizio. Anzi,  come  saggio  di  queste  cose  istruttive, 
trascriverò  qui  alcuni  brani  dell'articolo  di  uno  di 
coloro  che  presero  parte  alla  discussione,  il  Gargiulo, 
il  quale  ebbe,  tra  l'altro,  il  buon  pensiero  di  spre- 
mere il  succo  dei  principali  studi  sul  Pascoli,  pub- 
blicati dopo  il  mio  del  1907,  e,  diversamente  dal  mio, 
intonati  ad  ammirazione,  o  addirittura  a  commossa 
tenerezza,  pel  poeta  romagnolo. 

«  È  recente,  solo  di  qualche  anno  fa,  —  scrive  dun- 
que il  Gargiulo  —  lo  scritto  che  cominciò  a  pubblicare 
nella  Voce  l'Onofri,  sotto  forma  di  commento  estetico 
perpetuo  alle  poesie  del  Pascoli.  Fu  arrestato  a  mezzo 
delle  Myricae.  Quando  mi  occorse  di  leggerlo,  tempo 
dopo,  io  dovetti  candidamente  domandare  all'autore 
come  avrebbe  fatto  a  continuarlo,  e  qual  vantaggio 
si  sarebbe  ripromesso  per  la  fama  del  poeta,  nel 
proseguire.  Da  quel  che  se  ne  vide,  la  negazione 
risultava  pressocchè  totale;  d'altra  parte,  nel  modo, 
talvolta  perfino  un  po'  ingenuo,  con  cui  rari  versi 
restavano  additati   all'ammirazione,  non  si   ricono- 


APPENDICE  129 

sceva  punto  l'Onofri,  che  pur  aveva  dato  prova  di 
possedere,  oltre  quella  sensibilità  che  conosciamo 
investita  direttamente  in  saggi  di  poesia,  scaltrite 
facoltà  critiche.  Discussi  alquanto  con  lui  anche  i 
rari  versi  e,  se  mal  non  rammento,  urtai  infine  con- 
tro un  atteggiamento  di  resistenza  passiva,  se  non 
d'indifferenza.  Ma  certo  conclusi  che  per  lo  meno 
era  passato  dall' Onofri  il  quasi  entusiastico  momento 
di  fiducia,  che  gli  aveva  dato  lena  per  proporsi  quel 
lunghissimo  lavoro  destinato  a  discriminazione  e 
volgarizzamento  delle  bellezze  pascoliane. 

«  Di  R.  Serra  —  del  quale  non  mi  esagero  il  valore 
critico,  ma  riconosco  alcune  buone  per  quanto  disgre- 
gate disposizioni,  —  richiamiamo  un  po'  il  saggio 
sul  Pascoli,  del  1909.  È  da  notare  che  il  Serra,  giu- 
stamente, fu  detto  un  temperamento  pascoliano;  e 
forse  quel  saggio,  da  solo,  basterebbe  a  provare  le 
affinità.  Ora,  in  tutta  la  parte  negativa,  che  è  ampia, 
le  osservazioni  giuste  abbondano,  né  certo  l'amor 
dell'argomento  riesce  ad  attenuarne  l'acutezza.  Si 
porta  all'evidenza,  nella  parte  positiva,  la  «  man- 
canza di  forma  »  del  Pascoli,  che  sarebbe  la  «  forma 
propria»  di  lui:  i  versi  del  poeta  non  si  cantano, 
non  si  ricordano,  non  si  citano,  se  non  forse  :  Roma- 
gna solatia,  dolce  paese,  (  che  veramente  è  un  bello 
e  dolce  verso  '.  c  E  se  noi,  richiesti,  dovessimo  offrire 
in  uno  o  pochi  versi  rappresentata  quasi  in  iscorcio 
la  virtù  propria  di  lui,  ci  rifiuteremmo;  per  quanti 
ce  ne  potessero  passare  innanzi,  sappiamo  bene  che  di 
nessuno  saremmo  contenti  a  pieno.  Anzi,  dicendone 
e  mostrandone  ad  altri,  mi  par  che  sempre  si  senta 
il  bisogno  di  soggiungere  a  ogni  tratto:  a  questo  non 
badar  troppo,  non  ti  fermare  su  quel  particolare; 
che  il  poeta  non  è  lì '.E  dov'è  mai?  —  dimandiamo 
al  Serra,  caduto  in  così  profondo  oblio  del  proprio 

B.  Croce,  Giovanni  Pascoli.  9 


130  APPENDICE 

cosidetto  umanesimo?  È  nelle  cose:  c  La  poesia  del 
Pascoli  consiste  in  qualche  cosa  che  è  fuori  della 
letteratura,  fuori  dei  versi  presi  a  uno  a  uno;  essa 
è  di  cose,  è  nel  cuore  stesso  delle  cose  '.  Ed  è  lo 
stesso  Serra  che  in  altro  scritto,  in  difesa  della  forma, 
o  della  letteratura,  ebbe  questo  scatto:  c  Le  cosel 
tutto  quello  che  c'è  in  me  di  meno  ingrato  si  rivolta 
dispettosamente.  Nulla  è  così  vago,  goffo,  incon- 
cluderite,  retorico,  come  le  cose  '.  Le  cose  dunque; 
ed  anche  la  persona;  cioè,  il  Pascoli  bisognava 
vederlo:  'È  un  poeta.  Ogni  timore,  ogni  inquietu- 
dine che  la  lettura  poteva  aver  lasciato  dietro  di 
sé,  subito  cade;  in  lui  non  c'è  falsità,  maschera, 
posa,  artifizio.  Tali  cose  non  esistono;  non  possono 
aver  luogo  in  quest'  uomo  eh'  io  vedo.  Altri  potrà 
giudicare,  pesare,  classificare...  \  C'è  altro  ancora, 
e  forse  di  peggio,  che  tralascio,  nello  scritto  del 
Serra;  ma  non  mi  è  mai  accaduto  d'incontrarmi 
nella  condanna  di  un  artista  concepita  in  una  forma 
più  cruda  e  radicale  di  quella  che  trascrivo:  «  Questa 
è  la  sua  gran  forza  e  la  sua  gran  debolezza.  Secondo 
che  l'uomo  accetti  la  poesia  di  lui  per  quello  che  è 
o  per  quello  che  vuole  essere.  Poiché  se  io  accetto 
la  poesia  di  lui,  col  significato  ch'essa  ebbe  per  lui 
quando  la  fece,  se  mi  trasporto,  come  altri  direbbe, 
nel  suo  punto  di  vista,  allora  il  valore  ne  diviene  in- 
commensurabile: non  è  valore  di  cosa  d'arte,  ma  di 
cosa  viva  ». 

«  Dove  si  arriva?  Eppure  il  Pascoli  del  Cecchi, 
del  1912,  ha  queste  parole  nell'epilogo,  che  non  sono 
meno  preoccupanti  di  quelle  ora  riferite  del  Serra: 
f  Bisogna  rifondere  gli  aspetti  torbidi  e  contrastanti, 
nei  quali  questa  poesia  viene,  mano  a  mano,  rive- 
landosi, in  un  misterioso  aspetto  solo  nel  quale  le 
sue  contraddizioni,  le  sue  incertezze,  i  suoi  errori, 


APPENDICE  131 

bì  siano  stratti  all'ardore  del  nostro  affetto,  della 
comprensione  nostra  '.  Osservavo,  in  una  recen- 
sione che  feci  del  libro  nella  vecchia  Cultura,  che 
in  tale  giudizio  è  c  come  una  confessione  al  lettore, 
la  quale  suona:  l'aspetto  misterioso,  in  questo  libro, 
è  rimasto  misterioso;  il  mistero  non  è  stato  svelato  '. 
Di  quello  studio  dicevo  in  genere  (mi  permetto  di 
autocitarmi,  perchè  resto  precisamente  a  quel  punto 
ora  che  l'ho  riletto)  :  c  È  animato  dalle  più  benevoli 
e  indulgenti  intenzioni;  ma  riesce  ad  una  condanna, 
quasi  tutta  esplicita,  in  minima  parte  implicita,  del- 
l'opera pascoliana.  Pare  che  il  Cecchi  abbia  impe- 
gnato in  questo  suo  studio  tutta  la  propria  sensibilità 
inventiva,  che  è  molta,  e  i  residui  di  un'antica  sim- 
patia pel  poeta,  che  doveva  essere  ingenua,  non  criti- 
camente illuminata.  Pure,  il  risultato  è  quello  che 
è,  vale  a  dire  negativo  '.  Non  mancai  di  rilevare 
la  sproporzione  tra  la  parte  negativa  e  quella  che 
voleva  essere  positiva:  c  Egli  non  si  è  neppure  accorto 
che  uno  studio  costituito  in  massima  parte  da  una 
violenta  negazione,  e  diretto,  nel  tempo  stesso,  ad 
una  affermazione  energica,  doveva  essere  assai  più 
svolto  nella  parte  affermativa,  anche  sotto  il  rispetto 
che  sembra  puramente  materiale,  del  numero  delle 
pagine.  Il  Pascoli  è,  pel  Cecchi,  un  poeta  coperto  da 
una  corazza  di  falsità?  Ha  sotto  la  corazza  una  emo- 
tività delicatissima  e  nuova?  Ebbene  bisognava  che 
lo  studio  critico  riuscisse  solidamente  poggiato  ed 
equilibrato  sulla  parte  affermativa  '.  Concentravo 
naturalmente  l'attenzione  sulla  parte  del  libro  che 
voleva  essere  di  sicura  affermazione,  dedicata  c  alla 
definizione  della  particolarissima,  intima  ispirazione 
pascoliana,  di  cui  poi  quasi  tutta  l'opera  del  poeta 
sarebbe  una  deformazione  '.  Tale  ispirazione  centrale 
si  risolveva  pel  Cecchi  in  una  disposizione  iniziai- 


132  APPENDICE 

mente  sensuale,  oggettiva,  di  pura  dedizione  alle 
cose,  attraversata  poi  dal  brivido  del  dolore  e  del  mi- 
stero. E  dovevo  concludere:  c  Lo  sforzo  grande,  ma 
vano,  del  critico  consiste  nel  rendere  questo  brivido  '. 
c  Ma  ecco  che  il  Cecchi,  invece  di  svolgere  e  scio- 
gliere fino  all'evidenza  l'asserito  sentimento  di  dolore 
e  di  mistero,  il  quale  resta,  nei  termini  indicati, 
ancora  sotto  una  forma  schematica,  dura  ed  ambigua; 
invece  di  trarlo  alla  vita  piena,  immergendo  in  esso 
le  opere  del  poeta;  impegna  tutta  la  sua  sensibilità 
inventiva,  ed  anche  tutta  la  sua  industria  stilistica, 
nel  ridurre  quel  dolore  e  quel  mistero  alle  più  fugaci 
ed  inafferrabili  espressioni  :  ad  un  brivido,  un  attimo, 
un  baleno,  e  via  dicendo  '.  Il  critico  aveva  paura 
di  fermare  il  brivido;  le  poche  citazioni  restarono 
anch'esse  sorde  all'invito  di  rivelarlo.  Sulla  poesia 
che  ha  il  privilegio  del  più  lungo  commento,  la 
Digitale  purpurea,  io  avrei  ora  curiosità  di  sentire 
da  capo  il  giudizio  del  Cecchi  >. 

Così  il  Gargiulo.  —  Del  resto,  la  lode  ottenuta,  e 
in  parte  ancora  mantenuta,  dalla  poesia  pascoliana, 
e  la  difficoltà  di  far  prevalere  un  diverso  e  più  pa- 
cato giudizio,  richiamano  moltissime  altre  vicende 
consimili  della  storia  letteraria.  Ci  vuol  pazienza 
innanzi  alle  asserzioni  dei  poco  perspicaci  e  dei 
fanatici  : 

A  voce  più  ch'ai  ver  drizzan  li  volti, 
e  così  ferinan  sua  opinione 
prima  ch'arte  o  ragion  per  lor  s'ascolti. 

Così  fer  molti  antichi  di  Guittone, 
di  grido  in  grido  pur  lui  dando  pregio, 
fin  che  l'ha  vinto  il  ver  con  più  persone 

(Purg.,  XXVI,  124-6). 
Marzo  1920. 


INDICE 


Avvertenza  dell'editore Pag.  vii 

I.  Giovanni  Pascoli »  1 

II.  Intorno  alla  critica  della  letteratura  con- 

temporanea ed  alla  poesia  di  G.  Pascoli.  »  71 

III.  Dodici  anni  dopo »  105 

1.  Ancora  sulla  poesia  del  Pascoli     .     .  »  105 

2.  Il  «Paulo  Ucello» »  118 

Appendice »  127 


EDIZIONI   LATERZA 


zii:\  i::c 


(Estratto  del  Catalogo  Settembre  1920) 


SCRITTORI  D'ITALIA 

A  cura  di  FAUSTO  NICOLINI 

ELKGANTE     RACCOLTA     CHK     81    COMPORRÀ     DI     OLTRE     SEICENTO     VOLUMI 
DEDICATA   A    S.  M.  VITTORIO   EMANUELE   III 


ARETINO  P.,  Cartéggio  (Il  I  libro  delle  lettere),  voi.  I  (n.  53). 

(Il  II  libro  delle  lettere),  parte  I  e  II  (n.  76  e  77). 

AMENTI  (degli)  S.,  Le  Porretane,  (n.  66). 
BALBO  C,  Sommario  della  Storia  d'Italia,  voli.  2  (n.  50,  60). 
BANDELLO  M.,  Le  novelle,  voli.  5  (n.  2,  5,  9,  17,  23). 
BARETTI  G.,  Prefazioni  e  polémiche,  (n.  13). 

—  La  scelta  delle  lettere  familiari,  (n.  26). 
BERCHET  G.,  Opere,  voi.  I:  Poesie,  (n.  18). 

Voi.  II:  Scritti  aitici  e  letterari,  (n.  27). 

BLANCH  L.,  Della  scienza  militare,  (n.  7). 

BOCCACCIO  G.,  Il  Contento  alla  Divina  Commèdia  e  gli  altri 

scritti  intorno  a  Dante,  voli.  3  (n.  84,  85,  86). 

BOCCALINI  T.,  Ragguagli  di  Parnaso  e  Pietra  del  paragone 
politico,  voli.  I  e  II  (n.  6,  39). 

CAMPANELLA  T.,  Poesie,  (n.  70). 

BARO  A.,  Opere,  voi.  I  (n.  41). 

COCAI  M.  (T.  Folengo),  Le  maccheronee,  voli.  2  (n.  10,  19). 

Commedie  dei  Cinquecento,  voli.  2  (n.  25,  38). 

CUOCO  V.,  Saggio  storico  sulla  rivoluzione  napoletana  del 
1799,  seguito  dal  Rapporto  al  cittadino  Carnot,  di  Fran- 
cesco Lomonaco,  (n.  43). 

—  Platone  in  Italia,  voi.  I  (n.  74). 

DA  PONTE  L.,  Memorie,  voli.  2  (n.  81,  82). 


2  Editori  GIUS.  LATERZA  &  FIGLI  -  Bari 

DELLA  PORTA  G.  B.,  Le  commedie,  voli.  I  e  II  (n.  4,  21). 
DE  SANCTIS  F.,  Storia  della  lettor,  ital.,  voli.  2  (n.  31,  32). 
Economisti  del  Cinque  e  Seicento,  (n.  47). 
FANTONI  G.,  Poesie,  (n.  48). 

Fiore  di  leggende.  Cantari  antichi  ed.  e  ord.  da  E.  Levi,  (n.  64). 
FOLENGO  T.,  Opere  italiane,  voli.  3  (n.  15,  28,  63). 
FOSCOLO  IL,  Prose,  voli.  I,  II  e  III  (n.  42,  57,  87). 
FREZZI  F.,  Il  Quadriregio,  (n.  65). 
GALIANI  F.,  Della  moneta,  (n.  73). 

GIOBERTI  V.,  Del  rinnovamento  civile  d'Italia,  voli.  3  (n.  14, 
16,  24). 

GOZZI  C,  Memorie  inutili,  voli.  2  (n.  3,  8). 

—  La  Marflsa  bizzarra,  (n.  22). 

GUARINI  G.,  Il  Pastor  fido  e  il  compendio  della  poesia  tra- 
gicomica, (n.  61). 

GUIDICCIONI  G.  -  COPPETTA  BECCUTI  F.,  Rime,  (n.  35). 

IACOPONE  (fra)  da  TODI,  Le  laude  secondo  la  stampa  fio- 
rentina del  1490,  (n.  69). 

LEOPARDI  G.,  Canti,  (n.  83). 

Lirici  marinisti,  (n.  1). 

LORENZO  IL  MAGNIFICO,  Opere,  voli.  2  (n.  54,  59). 

MARINO  G.  B.,  Epistolario,  seguito  da  lettere  di  altri  scrit- 
tori del  Seicento,  voli.  2  (n.  20,  29). 

—  Poesie  varie,  (n.  51). 

METASTASIO  P.,  Opere,  voli.  I-IV  (n.  44,  46,  62,  68). 

Novellieri  minori  del  Cinquecento  —  G.  Parubosco  e  S.  Erizzo, 

(n.  40). 

PARINI  G.,  Prose,  voi.  I  e  II,  (n.  55-71). 

Poeti  minori  del  Settecento  (Savioli,  Pompei,  Paradisi,  Cer- 
reta ed  altri)  (n.  33). 

—  (Mazza,  Rezzonico,  Bolidi,  Fiorentino,  Cassoli,  Mascheroni, 
(n.  45). 

POLO  M.,  Il  Milione,  (n.  30). 

PRATI  G.,  Poesie  varie,  voli.  2  (n.  75,  78). 

Relazioni  degli  ambasciatori  veneti  al  Senato,  dei  secoli  XVI, 

XVII,  XVIII,  voli.  I,  II,  IIIi-ii  (n.  36,  49,  79,  80). 
Riformatori  italiani  del  Cinquecento,  voi.  I  (n.  58). 
Rimatori  siculo- toscani,  voi.  I  (n.  72). 


Editori  GIUS.  LATERZA  &  FIGLI  -  Bari  3 

SANTA  CATERINA  DA  SIENA,  Libro  della  divina  dottrina, 
volgarmente  detto  Dialogo  della  divina  provvidenza,  (n.  34) 

STAMPA  G.  e  FRANCO  V.,  Rime,  (n.  52). 

Trattati  d'amore  del  Cinquecento,  (n.  37). 

Trattati  del  Cinquecento  sulla  donna,  (n.  56). 

VICO  G.  B.,  L'autobiografia,  il  carteggio  e  le  poesie  varie, 
(n.  11). 

—  Le  orazioni  inaugurali,  il  De  italorum  sapientia  e  le  po- 
lemiche, (n.  67). 

VITTORELLI  I.,  Poesie,  (n.  12). 


Prezzo  di  ogni  volume  <   . 


brochure    .     L.    8,50 
legati  in  tela      »    14,00 


Si  fanno  ABBONAMENTI 

a  serie  di  dieci  volumi  degli  «SCRITTORI  D'ITALIA» 
a  scelta  dell'acquirente. 

Prezzo  d'abbonamento:  L.  75  per  i  volumi  in  brochure  e  L.  130 
per  quelli  elegantemente  legati  in  tela  e  oro. 


SCRITTORI  STRANIERI. 

CAMOENS  L.,  I  Sonetti,  traduzione  di  T.  Cannizzaro,  (n.  10). 

CERVANTES  M.,  Novelle,  traduzione  di  A.  Giannini,  (n.  1). 

Drammi  elisabettiani,  traduzione  di  R.  Piccoli,  (n.  9). 

ECKERMANN  G.  P.,  Colloqui  col  Goethe,  traduzione  di  E.  Do- 
nadoni,  voli.  2  (n.  4,  6). 

ERASMO  DA  ROTTERDAM,  Elogio  della  pazzia  e  Dialoghi 
famigliari,  traduzione  di  vari  a  cura  di  B.  Cuoce,  con  il- 
lustrazioni di  H.  Holbein,  (n.  8). 

GOETHE  W.,  Le  esperienze  di  Wilhelm  Meister,  traduzione 
di  R.  Pisankschi  e  A.  Spaini,  voli.  2  (n.  7,  11). 

Il  Cantare  del  Cid,  con  appendice  di  romanze,  traduzione  di 
G.  Bortoni,  (n.  3). 

PAPARRIGOPULOS  D.,  Opere,  traduzione  di  C.  Cessi,  (n.  2). 

POE  E.  A.,  Opere  poetiche  complete,  traduzione  di  Federico 
Olivero,  (n.  5). 

Prezzo  di  ogni  volume  L.  7,50. 


4  Editori  GIUS.  LATERZA  &  FIGLI  -  Bari 

OPERE  DI  BENEDETTO  CROCE. 

Filosofia  dello  spirito.  —  I.  Estetica,  come  scienza  dell'espres- 
sione e  linguistica  generale  (4*  edizione)     .     .     .  L.  18, — 

II.  Logica  come  scienza  del  concetto  puro  (3*  edizione  rive- 
duta dall'autore) 15,— 

III.  Filosofia  della  pratica.  Economica  ed  etica  (2aediz.)  15,— 

IV.  Teoria  e  storia  della  storiografia  (2a  ediz.)    .     .     .  12, — 
Saggi  filosofici.  —  I.  Problemi  di  estetica  e  contributi  alla  sto- 
ria dell'estetica  italiana 16,— 

II.  La  filosofia  di  Giambattista  Vico 12,— 

III.  Saggio  sullo  Hegel,   seguito   da  altri  scritti  di   storia 
della  filosofia 15,— 

IV.  Materialismo  storico  ed  Economia  marxistica  (in  ristampa). 
Scritti   di   storia   letteraria  e  politica.  —  I.  Saggi  sulla  lette- 
ratura italiana  del  Seicento 15,— 

II.  La  rivoluzione  napoletana  del  1799  -  Biografie,  racconti  e 
ricerche  (3a  edizione  aumentata) 16, — 

III.  La  letteratura  della  nuova  Italia -Saggi  critici,  voi.  I  15, — 

IV. voi.  II 15- 

V. voi.  IH 15,— 

VI. voi.  IV 15,— 

VII.  I  teatri  di  Napoli  dal  rinascimento  alla  fine  del  secolo 
decimottavo 12,— 

VIII.  La  Spagna  nella  vita  italiana  durante  la  rinascenza  12, — 
IX-X.  Conversazioni  critiche.  Serie  I  e  II.  Voli.  2  .     .30,— 

XI.  Storie  e  leggende  napoletane  (in  ristampa). 

XII.  Goethe 12,— 

XIII.  Una  famiglia  di  patrioti  ed  altri  saggi  storici  e  cri- 
tici       12,— 

XIV.  Ariosto,  Shakespeare  e  Corneille 16,50 

Scritti  varii.  —  I.  Primi  saggi 8, — 

Breviario  di  estetica  (Quattro  lezioni),  (2»  edizione).     .    3,50 
Gli  scritti  di  Francesco  de  Sanctis  e  la  loro  varia  fortuna, 

saggio  bibliografico 4, — 

Montenerodomo,  Storia  di  un  comune  e  di  due  famiglie  3,50 


Editori  GIUS.  LATERZA  &  FIGLI  -  Bari 


CLASSICI  DELLA  FILOSOFIA  MODERNA. 


BERKELEY  G.,  Principii  della  conoscenza  e  dialoghi  tra 
Hylas  e  Filonous,  trad.  da  G.  Papini,  (n.  7)  (in  ristampa). 

BRUNO  G.,  Opere  italiane,  con  note  di  G.  Gentil»  —  I.  Dia- 
loghi metafisici,  (n.  2)  (in  ristampa). 

IL  Dialoghi  morali,  (n.  6) 16, — 

-III.    Candelaio 12,— 

CUSANO  N.,  Della  dotta  ignoranza,  testo  latino  con  note  di 
P.  Rotta,  (n.  19) 8,50 

DESCARTES  R.,  Discorso  sul  metodo  e  Meditazioni  filosofiche, 
traduzione  di  A.  Tilgher,  voli.  2    (n.  16)       ....  24,— 

FICHTE  G.  A.,  Dottrina  della  scienza,  tradotta  da  A.  Tilgher, 
(n.  12) 12,— 

GIOBERTI  V.,  Nuova  protologia,  brani  scelti  da  tutte  le  sue 
opere,  a  cura  di  G.  Gentile,  voli.  2  (n.  15)  .     .     .     .  24, — 

HEGEL  G.  G.  F.,  Enciclopedia  delle  scienze  filosofiche  in  com- 
pendio, tradotta  da  B.  Croce,  (n.  1)  (in  ristampa). 

—  Lineamenti  di  filosofia  del  diritto  ossia  Diritto  naturale  e 
scienza  dello  stato  in  compendio,  tradotta  da  F.  Messineo, 
(n.  18)      . 16,— 

HERBART  G.  F.,  Introduzione  alla  filosofia,  tradotta  da  G.  Vi- 
dossich,  (n.  4)      . 12,— 

HOBBES  T.,  Leviatano,  tradotto  da  M.  Vinciguerra,  voli.  2 
(n.  13) 24,— 

HUME  D.,  Ricerche  sull'intelletto  umano  e  sui  principii  della 
morale,  tradotte  da  G.  Prkzzolini,  (n.  11)    .     .     .     .  12, — 
JACOBI  F.,  Lettere  sulla  dottrina  dello  Spinoza,  (n.  21)  10,— 
KANT  E.,  Critica  del  giudizio,  tradotta  da  A.  Gargiulo,  (nu- 
mero 3)  (in  ristampa). 

—  Critica  della  ragion  pratica,  trad.  da  F.  Capra  (n.  9)  (2*  edi- 
zione)   7,50 

—  Critica  della  ragion  pura,  tradotta  da  G.  Gentile  e  G.  Lom- 
bardo-Radice, voli.  2  (n.  10)  (2a  edizione)     ....  24,— 

LEIBNIZ  G.  G.,  Nuovi  saggi  sull'intelletto  umano,  tradotti 
da  E.  Cecchi,  voli.  2  (n.  8) 20,— 

—  Opere  varie,  scelte  e  trad.  da  G.  Db  Ruggiero,  (n.  17)  12, — 
SCHELLING  F.,  Sistema  dell'idealismo  trascendentale,  tra- 
dotto da  M.  Losacco,  (n.  5) 12,— 

SCHOPENHAUER  A.,  Il  mondo  come  volontà  e  rappresen- 
tazione, traduzione  di  P.  Savj-Lopbz,  voli.  2  (n.  20).  18,— 


6  Editori  GrUS.  LATERZA  &  FIGLI  ■  Bari 

SPINOZA  B.,  Ethica,  testo  latino  con  note  di  G.  Gentile, 
(n.  22) 15,— 

VICO  G.  B.,  La  scienza  nuova,  con  note  di  F.  Nicolini,  voi.  I 
(in  ristampa). 

Voli.  II  e  III 35,- 


FILOSOFI  ANTICHI  E  MEDIEVALI. 

ARISTOTELE,  Poetica,  traduzione,  note  e  introduzione  di 
M.  Valoimigli L.  10, — 

—  Politica,  traduzione  di  V.  Costanzi 12, — 

D'AQUINO,  TOMMASO  Opuscoli  e  testi  filosofici,  scelti  ed 
annotati  da  Bruno  Nardi  (voli.  3) 3B, — 

EPICURO,  Opere,  frammenti,  testimonianze  sulla  sua  vita, 
tradotti  da  E.  Bignone 15,50 

PLATONE,  Dialoghi  -  Voi.  IV:  Eutidemo,  Protagora,  Gorgia, 
Menone,  Ippia  maggiore,  Ippia  minore,  Ione,  Menesseno,  tra- 
dotti da  F.  Zambaldi 15,— 

Voi.  V:  II  Clitofonte  e  la  Repubblica,  tradotti  da  Carlo 

Oreste  Zu retti 15, — 

Voi.  VI:  Timeo,  Crizia  e  Minosse,  tradotti  da  C.  Giar- 

ratano 6,— 

ANNO  XVIII  1920 

LA  CRITICA 

RIVISTA  DI   LETTERATURA,  STORIA  E  FILOSOFIA 
(serie   seconda) 

DIRETTA    DA 

BENEDETTO  CROCE 

(Si  pubblica  il  giorno  20  di  tutti  i  mesi  dispari) 


Abbonamento  annuo:  per  l'Italia  L.  15;  per  V Estero  Frs.  18; 
un  fascicolo  separato  L.  3. 

L'abbonamento  decorre  dal  20  gennaio  e  si  paga  anticipato. 


Sono  disponibili  le  annate  III  (seconda  edizione)  e  VII  a 
XVI  al  prezzo  di  lire  quindici  ciascuna.  Della  prima  e  seconda 
annata  (1903-1904)  è  esaurita  anche  la  seconda  edizione,  ma 
saranno  ristampate,  come  anche  le  annate  IV,  V,  VI,  XIII, 
XVI  e  XVII  non  appena  si  avrà  un  numero  sufficiente  di  ri- 
chieste. 


Editori  GIUS.  LATERZA  &  FIGLI  -  Bari 


BIBLIOTECA  DI  CULTURA  MODERNA. 

ABIGNENTE  G.,  La  riforma  dell'Amministrazione  pubblica 
in   Italia,  (82) L.  10,— 

ALLASON  B.,  Caroline  Schlegel,  (n.  91) 6,50 

ANILE  A.,  Vigilie  di  scienza  e  di  vita,  (47)  (in  ristampa). 

BALFOUR  A.  J.,  Le  basi  della  fede,  (19) 6,50 

BARTOLI  E.,  Leggende  e  novelle  de  l'India  antica,  (74)    6.50 

BERGSON  E.,  Il  riso,  (84) .     .     6  50 

BORGOGNONI  A.,  Disciplina  e  spontaneità  nell'arte,  saggi 

letterari  raccolti   da   B.  Croce,  (60) 6,50 

CARABELLESE  F.,  Nord  e  Sud  attraverso  i  secoli,  (16)  6,50 
CARLINI  A.,  La  mente  di  Giovanni  Bovio,  (77).  .  .  6,50 
CARLYLE  T.,  Sartor  Resartus  (2*  edizione)  (15),  (in  ristampa). 
CASTELLANO   G.,  Introduzione  allo  studio  delle  opere  di 

B.  Croce,  (93)       7,50 

CESSI  C,  La  poesia  ellenistica,  (56) 8  50 

CITANNA  G.,  La  poesia  di  Ugo  Foscolo  (99)  ....     6,50 
COCCHIA  E.,  Introduzione  storica  allo  studio  della  lettera- 
tura latina,  (78) 8.50 

CROCE  B.,  Cultura  e  vita  morale,  (69) 6,50 

—  Giosuè  Carducci  (95) 5,50 

-Giovanni  Pascoli  (98) 6,50 

CUMONT  F„  Le  relijr.  orient.  nel  pagane1*,  romano,  (61)     6.50 

DE  COURMONT  R.  Fisica  dall'amore,  (8) 9,50 

DENTICE  CECILIA  DI  ACCADIA,  Il  razionalismo  religioso 

di  E    Knnt,  (96) 6,50 

DE  LOLLIS  C,  Letteratura  francese,  (97) 14,50 

DE  LORENZO  G.,  India  e  buddhismo  antico,  (6),  (ristampa). 
DE   RUGGIERO   G.,   La  filosofìa  contemporanea  (2*  edizione 

con  aggiunta  di  un  appendice)  voli.  2  (59)     ....  15,— 

—  Storia  della  filosofia  -  Parte  I:  La  filosofia  greca  -Duo  vo- 
lumi, (89) 12,— 

DE  SANCTIS  F.,  Lettere  a  Virginia,  (87) 5,50 

DI  SORAGNA  A.,  Le  profezie  d' Isaia  figlio  d'Amoz,  (83)  7,50 
EMERSON  R.  \V\,  L'anima,  la  natura  e  la  saggezza.  (Saggi), 

(49),  (in  ristampa). 

FARINELLI  A.,  Hebbel  e  i  suoi  drammi,  (62)      .     .     ,  7,50 

FERRARELLI  G  ,  Mem.  milit.  del  Mezzog.  d'Itali*,  (45).  5.50 

FESTA  G.,  Un  galateo  femminile  it.  del  Trecento,  (36).  5  50 

FIORENTINO  F.,  Studi  e  ritratti  della  Rinascenza,  (44)  8,50 

FORMICHI  C,  Aovaghosa  poeta  del  Buddhismo,  (54)  .  8,50 


8  Editori  GIUS.  LATERZA  &  FIGLI  -  Bari 

GALIANI  (Il  pensiero  dell'Abate).  Antologia  di  tutti  i  suoi 

scritti  editi  ed  inediti,  (29) 8,50 

GEBHART  E.,  L'Italia  mistica,  (40) 6,50 

GENTILE  G.,  Il  modernismo  e  i  rapporti  tra  religione  e  filo- 
sofia, (35),  (in  ristampa). 

—  Bernardino  Telesio,  (51) 4,50 

—  I  problemi  della  scolastica  e  il  pensiero  italiano,  (65)  6,50 

—  La  riforma  dell'educazione  (94) 6,50 

GIOVANNETTI  E.,  Il  tramonto  del  liberalismo,    (86)  .  6,50 

GNOLI  D.,  I  poeti  della  scuola  romana,  (63)  .     .     .     .  5,50 

HEARN  L.,  Kokoro  (22) 8,50 

—  Spigolature  nei  campi  di  Buddho,  (25),  (in  rist). 
IMBRIANI  V.,  Studi  letterari  e  bizzarrie  satiriche,  (24)  8,50 

—  Fame  usurpate,  3a  ediz.  a  cura  di  B.  Crock,  (52)     .  8,50 

KOHLER  G.,  Moderni  problemi  del  diritto,  (33)  .     .     .  4,50 

LABRIOLA  A.,   Socrate,  (32)  (in  ristampa). 

LACHELIER  G.,  Psicologia  e  Metafisica,  traduzione  di  Guido 
De  Ruggiero,  (76) 6,50 

MARTELLO  T.,  L'economia  politica  e  la  odierna  crisi   del 
darwinismo,  (57) 10,— 

MARTIN  A.,  L'educazione  del  carattere  (2a  ediz.),  (5).  10,— 

MATURI  S.,  Introduzione  alla  filosofia,  (60)    ....    5,50 

MICHAELIS  A.,  Un  secolo  di  scoperte  archeologiche,  (55)  8,50 

MISSIROLI  M.,  La  monarchia  socialista.  (Estr.  destra),  (72)  6,50 

MORELLI  D.  -  DALBONO  E.,  La  scuola  napoletana  di  pittura 
nel  secolo  decimonono  ed  altri  scritti  d'arte,  (75)      .    6,50 

NIETZSCHE  F.,  La  nascita  della  tragedia,  (23)  .     .     .  7,50 

NITTI  F.,  Il  capitale  straniero  in  Italia,  (80)      .     .     .  4,50 

ONORATO  R.,  L'Iliade  di  Omero,  (90) 6,50 

PARODI  T.,  Poesia  e  letteratura  (81) 8,50 

PETRUCCELLI  DELLA  GATTINA  F.,  I  moribondi  del  pa- 
lazzo Carignano,  (68) 5,50 

PUGLISI  M.,  Gesù  e  il  mito  di  Cristo,  (53)     ....    6,50 

REICH  E.,  Il  successo  delle  nazioni,  (11) 6,50 

RENIER  R.,  Svaghi  critici,  (39) 8,50 

RENSI  G.,  Il  genio  etico  ed  altri  saggi,  (50)  .         .     .    5,50 

ROHDE  E.,  Psiche,  voli.  2  (71) 20,— < 

ROYCE  J.,  Lo  spirito  della  fllos.  moderna,  voli.  2  (38)   .  15,— 

—  La  filosofia  della  fedeltà,  (48) 6,50 

—  11  mondo  e  l'individuo,  voli.  4  (64) 27,00 


Editori  GIUS.  LATERZA  &  FIGLI  -  Bari  9 

SAITTA  G.,  Le  origini  del  neo-tomismo  nel  sec.  XIX,  (58)  6,50 

SALANDRA  A.,  Politica  e  legislazione.  Saggi  raccolti  da 
G.  Fortunato,  (79) 10,— 

SALEEBY  C.  W.,  La  preoccupazione  ossia  La  malattia  del 
secolo,  (26) 7,50 

SOREL  G.,  Considerazioni  sulla  violenza,  (31)  (in  ristampa). 

SPAVENTA  B.,  La  filosofia  italiana  nelle  sue  relazioni  con 
la  filosofia  europea,  (30) 7,50 

—  Logica  e  metafisica,  (46) .     .     8,50 

SPAVENTA  S.,  La  politica  della  Destra,  (37)  ....    8,50 

SPINAZZOLA  V.,  Le  origini  e   il  cammino  dell'arte,  (7)  (in 

ristampa). 

STEINER  R.,  La  Filosofia  della  libertà,  (92)   ....     6,50 

TARI  A.,  Saggi  di  estetica  e  metafisica,  (42)  ....     7,50 

TOMMASI  S.,  Il  naturalismo  moderno.  (Scritti  varii),  (67)   6,50 

TONELLI  L.,  La  critica  letteraria  italiana  negli  ultimi  cin- 
quantanni, (70) 8,50 

TREITSCHKE  E.,  La  Francia  dal  primo  Impero  al  1871. 
Saggi  tradotti  da  E.  Ruta,  voli.  2,  (85) 15,— 

—  La  Politica,  voli.  4,  (88)       25,— 

VOSSLER  K.,  Positivismo  e  idealismo  nella  scienza  del  lin- 
guaggio, traduzione   italiana  di  T.   Gnoli,    (27)     .     .     7,50 

—  La  Divina  Commedia  (studiata  nella  sua  genesi  ed  inter- 
pretata), voi.  I,  parte  I:  Storia  dello  svolgimento  religioso 
filosofico,  (34-i) 7,50 

Voi.  I,  parte  II:  Storia  dello  svolgimento  etico- politico , 

(34-n) 7,50 

Voi.  II,  parte  I:  La  genesi  letteraria  della  Divina  Com- 
media, (34-in) 7,50 

ZìjMBINI  B.,  W.  E.  Gladstone  nelle  sue  relazioni  con  l'Ita- 
lia, (73) 7,50 


LIBRI  D'ORO. 

I.  LIIOTZKY  H.,  L'anima  del  fanciullo,  (3»  ed.)   .    L.  6,50 

II.  —  Il  libro  del  matrimonio,  (3*  ed.) 6,50 

III.  HIPPIUS  A.,  Il  Medico  dei  fanciulli  come  educatore  8,50 

IV.  ANILE  A.,  La  salute  del  pensiero,  (3*  ed.)  .     .     .  6,50 

V.  DUBOIS  P.,  L'educazione  di  se  stesso,  (2»  ed.)     .  7,50 

Legati  L.  2,50  in  più 


10 


Editori  GIUS.  LATERZA  &  FIGLI  -  Bari 


PICCOLA  BIBLIOTECA  FILOSOFICA 

ARISTOTELE,  Dell'Anima,  passi  scelti  e  contentati  da  V.  Fa- 
zio-Allmayer,  (n.  2) 4,50 

—  Il  principio  logico,  a  cura   di  A.  Carlini,  (n.  3).     .    4,50 

—  L'Etica  Nicomachea,  a  cura  di  A.  Carlini,  (ri.  6)      .     6,50 

—  Introduzione  alla  filosofia  a  cura  di  A.  Carlini.     .     10,50 

BACONE,  Novuin  Organuni,  estratti  a  cura  di  V.  Fazio-Ai.l- 
mayer,  (n.  4) 3,50 

CARTESIO  II.,  Discorso  sul  metodo,  tradotto  e  comentato  da 
G.  Saitta,  (n.  1) L.  3,50 

KANT  E.,  Pensiero  ed  esperienza,  a  cura  di  G.  De  Ruggiero 
(n.  6) 3,50 

ROSMINI  A.,  Il  principio  della  morale,  a  cura  di  G.  Gentile, 
(n.  7) 6,50 

OPERE  DI  ALFREDO  0RIANI. 

(Ristampe) 


Vortice,  romanzo  .     . 

» 

3.50 

La  rivolta  ideale 

.    L. 

6,50 

Gelosia,  romanzo  .     . 

i 

3.50 

Fino  a  Dogali      .     . 

» 

5.00 

No,  romanzo     .     .     . 

> 

7.50 

La  Bicicletta  .     .     . 

> 

7,50 

Olocausto,  romanzo 

» 

» 

3,50 
7.00 

Quartetto    .... 

7  50 

il  nemico  (due  volumi) 

Oro  incenso  mirra    . 

t 

6.50 

Fuochi  di  bivacco  .     . 

» 

7.50 

Matrimonio      .     .     . 

» 

6,50 

La  disfatta,  romanzo  . 

» 

7.50 

Gramigne  (Sullo  scog 

io)  » 

6,50 

Ombre  di  occaso     .    . 

» 

6,50  1 

Il  Teatro  (voi.  I)    . 

» 

6,50 

OPERE  VARIE. 

ABIGNENTE  F.,  La  moglie,  romanzo L.     3.50 

AMATUCCI  A.  G.,  Dalle  rive  del  Nilo  ai  lidi  del  «Mar  no- 
stro», voi.  I:  Oriente  e  Grecia 5,50 

voi.  II:  Cartagine  e  Roma 5,50 

—  Hellàs,  voi.  I,  (4a  edizione) 6,50 

Voi.  II,  (3a  edizione)  (esaurito). 

BAGOT  R.,  Gl'Italiani  d'oggi,  (2a  edizione)      ....    4,50 

BALSAMO  CRIVELLI  R.,  Boccaccino 20,00 

BARDI  P.,  Grammatica  inglese,  (5a  edizione)  ....  10,50 

—  Scrittori  inglesi  dell'Ottocento 6, — 

BARONE  E,  La  storia  militare  della  nostra  guerra   fino  a 
...   Caporetto 6,50 


Editori  GIUS.  LATERZA  &  FIGLI  -  Bari         11 

BATTELLI  A.,  OCCHIALINI  A.,  CHELLA  S.,   La  radioatti- 
vità      16,— 

CAMPIONE  F.,  Per  i  germi  della  specie 10,50 

CARABELLESE  P.,  L'e9sere  e  il  problema  religioso  .     4, — 

CECI  G.,  Saggi  di  una   bibliografia  per  la  storia  delle  arti 
figurative  nell'Italia  meridionale 8, — 

CERVESATO  A.,  Contro  corrente 3,— 

CHIMENTI  G.,  Commercial   English   &   Correspondence  (in 

ristampa). 

COTUGNO  R.,  La  sorte  di  G.  B.  Vico 4,— 

—  Ricordi,  Propositi  e  Speranze 1, — 

DE  CUMIS  T.,  Il  Mezzogiorno  nel  problema  militare  dello 
Stato 3,50 

DE  LEONARDIS  R.,  Occhi  sereni,  (novelle  per  giovinette)   5,50 
DE  LORENZO  G.,  Geologia  e  Geografia  fisica  dell'Italia  me- 
ridionale  6,50 

—  I  discorsi  di  Gotamo  Bnddho  (2»  edizione)  ....  35, — 

DEPOLI  G.,  Fiume  e  la  Liburnia 2,50 

DE  SANCTIS  F.,  Lettere  a  Virginia 5,50 

DI  GIACOMO  S.,  Nella  Vita,  novelle  (esaurito). 
FORTUNATO   G.,  Il  Mezzogiorno  e  lo  Stato  italiano,  2  vo- 
lumi      15,— 

FUSCO  E.  M.,  Aglaia  o  il  II  libro  delle  poesie  .     .     .    6,— 

GAETA  F.,  Poesie  d'amore 12,— 

GENTILE  G.,  Il  carattere  storico  della  Filosofia  italiana    2,50 

—  Sommario   di  pedagogia  come   scienza   filosofica,    voi.  I: 
Pedagogia  generale,  (n.  2-i) 6,50 

voi.  II:  Didattica,  (n.  2-n) 6,50 

—  Teoria  generale  dello  Spirito  come  atto  puro      .     .  15,50 

JUNIUS,  Lettere  politiche  (di) 6,50 

LOPEZ  D.,  Canti  baresi 3,50 

LARCO  R.,  La  Russia  e  la  sua  rivoluzione     ....  9,50 

LORIS  G.,  Elementi  di  diritto  commerciale  italiano  6,50 

LORUSSO  B.,  La  contabilità  commerciale  (4»  ediz.)      .  10, — 

MARANELLI  C,  Dizionario  Geogr.  dell'Italia  redenta  8,50 

MEDICI  DEL  VASCELLO  L.,  Per  l'Italia 4,- 

NAPOLI  G.,  Elementi  di  musica 1,— 

NAUMANN  FR.,  Mitteleuropa.  Trad.  di  G.  Luzzatto, 

2  volumi 15t — 

NENCHA  P.  A.,  Applicaz.  pratiche  di  servitù  prediali  .    6,50 


12        Editori  GIUS.  LATERZA  &  FIGLI  -  Bari 


NICOLINI  F.,  «li  studi  sopra  Orazio  dell'abate  «aliani  5,— 

OLIVERO  F.,  Saggi  di  letteratura  inglese 5,— 

—  Studi  sul  romanticismo  inglese 4,— 

—  Sulla  lirica  di  Alfred  Tennyson 4,— 

—  Traduzioni  dalla  poesia  Anglo-Sassone 4,— 

PANTALEONI  M.,  I.  Tra  le  incognite 5,50 

—  IL  Note  in  margine  della  guerra 5,50 

—  III.  Politica:  Criteri  ed  Eventi 6,— 

—  IV.  La  fine  provvisoria  di  un'epopea 7,50 

PAPAFAVA  F.,  Dieci  anni  di  vita  politica  it.,  2  voi.  15,— 

PASQUALI  G.,  Socialisti  tedeschi 7,50 

PLAUTO  M.  A.,  L'anfitrione —  Gli  asini 2,50 

—  Commedie 2,50 

PRATO  G.,  Riflessi  storici  della  Economia  di  guerra  .  6,50 

QUARTO  di  PALO  L.,  La  civiltà 18,50 

RACIOPPI  G.,  Storia  dei  moti  di  Basilicata  e  delle  provi  noie 

contermini  nel  1860 6, — 

RAMORINO  A.,  La  Borsa;  sna  origine;  suo  funzionare .  3,50 

RAMSAY  MUIR,  La  espansione  europea 7,50 

RATHENAU  W.,  L'economia  nuova 3,50 

RICCI  E.,  Versi  e  lettere 3,— 

RICCI  U.,  Protezionisti  e  liberisti  italiani 6,50 

SABINI  G.,  Saggi  di  Diritto  Pubblico 4,— 

SCHURÉ  E.,'1  grandi  iniziati,  (4a  edizione)    ....  16.50 

—  Santuari  d'oriente      .     .     . 10,00 

SCORZA,  Complementi  di  geometria 6,50 

SOMMA  U.,  Stima  dei  terreni  a  colture  arboree      .     .  3,— 

TITTONI  T.,  Conflitti  politici  e  Riforme  costituzionali  7,50 

TIVARONI  J.,  Compendio  di  scienza  delle  finanze.     .  8,50 

—  I  monopoli  governativi  del  commercio  e  le  finanze  dello 
Stato 3,50 

TOSO  A.,  Che  cosa  è  l'Acquedotto  Pugliese     ....  1,50 

WEBER  M.,  Parlamento  e  Governo  nel   nuovo  ordinamento 

della  Germania 6,50 


584  U 


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library 


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