Tuesday, June 4, 2024

GRICE E PIZZORNO

 Avrei dovuto annotarmi il giorno esatto, in fondo cambio la mia vita (se mai si può dire che ci sono giorni che cambiano la vita di una persona), ricordo solo che era l'estate del 1953, e che era la prima volta in assoluto che andavo a un colloquio di assunzione.  Probabilmente ero intimidito, ma non poi moltissimo, anzi, piuttosto distaccato, perché quello che mi stava accadendo, o meglio, che si disegnava come un'assai evanescente possibilità che acca-desse, apparteneva a un mondo cosi diverso da quello cui le mie vicende avevano appartenuto fino ad allora, che il suo realizzarsi o meno non solo lo tenevo per incommensurabile con i riferimenti di cui disponevo, ma non arrivava a suscitarmi nessuna precisa emozione. La stagione parigina per il momento era inevitabilmente da chiudere. Non avevo più lavoro fisso (da un anno non ero più lettore d'italiano ai licei Louis Le Grand e Henry IV, e ci stavamo mantenendo, mia moglie Anne e io, con il suo stipendio di giovane ingegnere in un laboratorio di disegno acronautico e con miei incarichi saltuari e lezioni private). Concluso tra un anno il mio diploma a Hautes Études, cosa avrei poi fatto? Mi avevano offerto un incarico di Histoire et ciilisation italienne all'Università di Algeri. Non avevo detto di no ed ero pronto ad accet-tarlo, un vagabondaggio dispersivo in più, dopotutto, come lo erano stati gli anni di Vienna e di Parigi, ma questa volta assai più per ripiego che per entusiasmo o curiosità; e speravo che mi capitassero altre occasioni. Non erano quelli anni in cui le «occasio-ni» ti capitavano addosso mentre camminavi per la strada, ma una me ne capito.  Il colloquio me lo aveva procurato un'amica dei tempi del-l'università. Olivetti sta cercando giovani laureati, mi scrisse, per aiutarlo a mettere in piedi un'organizzazione culturale. Quando vieni a Torino ti vedrebbe volentieri.  Mi trovai così dall'altra parte di un tavolo al quale era seduto Adriano Olivetti, che mi guardava, in quel modo che poi capii era il suo naturale, non dritto in faccia, ma quasi di sottecchi, con uno sguardo che si muoveva qua e là verso il basso, timidamente, si sarebbe detto, ma di cui si capiva la cura di essere insieme gentile e seriamente interrogativo, e forse celava un'attenzione a non imbarazzare l'altro. Gli raccontavo di quello che avevo fatto a Pari-gi, il lettorato, le ricerche alla VIème Section di Hautes Etudes.  Non ricordo se accennai al lungo lavoro antropologico-teatrale sulla «maschera», frutto di quelle ricerche, e che avevo appena fi-nito. Se non lo feci, malgrado mi stipasse ancora piena la mente, fu forse perché ero trattenuto dall'incongruità di quel tema rispetto al mondo nel quale attraverso quell'intervista mi si prospettava di farmi penetrare. Ma se la ragione era questa sbagliavo.  Non soltanto perché quel mondo, scopri poi, includeva personaggi dai più vari e multicolori trascorsi culturali; ma anche per-ché, in due sensi più specifici, uno facile da intuire, uno invece del tutto imprevedibile, come si vedrà, proprio quel mio lavoro sarebbe stato una sorta di chiave di entrata in quel mondo. Ritenni invece più appropriato raccontargli che nel 1948-49, con lo pseudonimo di Andrea Marini, avevo scritto diverse corrispondenze da Parigi per «Comunità», allora settimanale, e che negli anni suc-cessivi, quando ero a Vienna, per «Comunità» mensile avevo scritto alcuni articoli di critica d'arte. Lui mi chiese se avessi mai sentito parlare di «Economie et Humanisme», la rivista dei domenicani di sinistra, le cui idee, seppi poi, erano molto vicine alle sue. No, non ne avevo mai sentito parlare, e lui, per non imbaraz-zarmi, attenuò subito il rilievo di quella circostanza. Cercò di spiegarmi a quale incarico mi avrebbe destinato se fossi andato a Ivrea. Sarei stato assunto in fabbrica, ma il compito non avrebbe avuto a che fare con le attività produttive, si sarebbe trattato piuttosto di un compito culturale, fuori della fabbrica, non era ancora ben definito, lo si sarebbe definito un po' alla volta. Non siesprimeva del tutto chiaramente, ma pensai che fosse logico per me non capire situazioni così lontane dall'esperienza che avevo avuto fino ad allora, e non feci troppe domande. Invece le ragioni della non chiarezza erano altre, lo avrei capito in seguito, e quando lo capii mi trovai davanti, come dirò, a scelte non facili.  Nei giorni seguenti non dico che dimenticai l'intervista, ma non ci pensai troppo, non contavo che avrebbe avuto seguito, e poi, come succede in questi casi, anche per chi non abbia pratica dell'eserciziario stoico, si mette in marcia la premeditatio malo-rum, quell'operazione mentale che censura ogni pensiero sui possibili eventi desiderabili, in modo da evitare che ci si debba sentire delusi se poi tutt'altro succede. Andai a Roma, dov'erano i miei, che volevo far conoscere a mia moglie, che avevo sposato in Fran-cia, e anche per riuscire io a conoscere qualcuno, dopo anni che di fatto mancavo dall'Italia. Inoltre, avevo mandato a «Nuovi Ar-gomenti», se ben ricordo consigliato da Franco Lucentini, mio compagno di disoccupate riflessioni nei caffè della rue de Tour-non, quel saggio sulla «maschera» di cui ho appena parlato. Mi avevano risposto che il saggio era piaciuto, ma era troppo lungo e poco adatto alla rivista. Era la solita risposta, mi ero detto; ma poi aggiungevano che l'avevano passato a un loro lettore, Bobi Baz-len, il quale ci teneva a parlarmene, eventualmente per consigliarmi cosa fare.  2. Bobi Bazlen  Si è scritto a iosa, a parer mio esageratamente e imprecisamente, sul ruolo che ha avuto per una certa cultura italiana questa sirena ombrosa e misteriosa, si è detto della sua influenza su Montale per la scoperta di Svevo e di altre sue scoperte di scrittori marginali e fuori della via maestra, e del suo gusto per l'inedito, l'anomalo, l'inconsueto, il prezioso. Se ne è scritto molto, dicevo, e negli anni è capitato anche a me di leggerne, ma allora, rientrando in Ita-lia, pur montaliano e sveviano di adolescenza com'ero, questo personaggio mi era sconosciuto. Ne chiesi a Giampiero Carocci (credo che anche a lui fossi stato indirizzato da Lucentini, perché in quei giorni, rientrando in Italia dopo anni, andavo un po'  a ten-  toni, soprattutto fuori da Torino, quanto a incontrare persone in-teressanti); e lui mi parlò con molte, anche se sibilline, esclamazioni elogiative, di questo Bobi Bazlen, delle sue vastissime letture in molte lingue, del suo gusto raffinato e sicuro, della sua intuizione critica e via discorrendo. Concludendo che era certo la persona più appropriata per giudicare il mio saggio.  I grandi elogi che Bobi Bazlen profondeva su quel mio testo, quando, sorridente e cortesissimo, mi ricevette nel suo appartamentino di via Margutta (o era via del Babuino?), per le vaste letture antropologiche che vi trasparivano, di un tipo che nessuno in Italia, diceva, si sognava di fare (ragione per la quale, del resto, era difficile pensare a una rivista nella quale pubblicarlo...), per l'interesse della tesi che esponevo e via discorrendo, mi lusingarono certamente assai; ma, senza sapere veramente il perché, e pur ringraziando ripetutamente e con il dovuto imbarazzo, rimanevo, come dire, un pochino sulle mie. Bazlen aveva letto bene il mio testo - senza darlo a vedere avevo manovrato il discorso in modo da accertarmene -, ma non volle entrare nella discussione del conte-nuto, Il suo, capii, era un apprezzamento di gusto, di pelle. E, forse influenzato dall'impressione di quell'incontro, quando lessi molti anni dopo alcuni suoi scritti, Lettere all'editore (o un titolo simile), mi sembrò di capire che quello era in genere il suo modo di giudicare. Apparteneva, ne dedussi, a quel tipo di persone che leggono voracemente di tutto, senza qualche piano preciso, e hanno la capacità di intuire immediatamente quali siano le cose di qualità e quali le altre, o meglio, quali avranno successo e quali no, ma non sanno articolarne le ragioni. Sanno mostrare, in un testo, dove stia la pepita d'oro e dove la spazzatura, e quando te lo mostrano non puoi che dargli ragione, ma si astengono poi dal tradurre i loro giudizi in un linguaggio critico. Probabilmente perché rifiutano di costringere le loro intuizioni in concetti discipli-nati, concetti, voglio dire, che siano ricevibili da una disciplina cri-tica, e quindi sortoponibili a un uditorio non familiare, in grado, per dir così, di valutarli autonomamente, staccandosi dal dialogo diretto con la persona che li formula. Destinano i loro giudizi a pochi intimi, sottovoce, quasi in a parte, pronti a ritrarsi di fronte a chi li metta in discussione; che poi diresti che si sentirebbero of-fesi, se, ascoltandoli, ti venisse di chiedergli «perché?» perché quel testo lo ritengano di gran valore, e invece quell'altro buttar via; potrai tutt'al più mormorate qualche sfumato accenno didissenso, questo lo sopportano, anche se con esclamazioni di meraviglia per tale inaspettata non concordanza; o con congedante freddezza, se il dissenso dovesse venir reiterato; ma la domanda di spiegazioni no, non puoi farla, perché non saresti più uno dei loro, uno per il quale le ragioni dei giudizi debbono rimanere ov-vie, intese tra affini, sigillanti l'implicita comune appartenenza.  Chi abbia conosciuto Bobi Bazlen meglio di me (io gli parlai a lungo solo quel pomeriggio, e poi un'altra volta, in casa di amici, ma stava in un angolo sorridente e silenzioso, mi accorsi che forse era timido), magari dissentirà da questa mia caratterizzazione.  Ma il tipo che mi sembrava di aver riconosciuto era quello. Ed è un tipo che ritrovo in altri amici miei, pur diversissimi per più di un tratto da Bobi Bazlen. Mi viene in mente, e la collego con il tipo che sto cercando di ricostruire, una indimenticabile performance di Fruttero e Lucentini in sei trasmissioni televisive, di alcuni anni fa. Gli era stato dato l'incarico di commentare per il pubblico televisivo, ogni serata, un certo numero di libri, recenti e no. Lo facevano pantofolando con grande agio e ironia da una stanza all'altra di casa Fruttero, da uno scaffale all'altro, prendendo un libro - potevano essere i Promessi Sposi, piuttosto che la Cousine Bette o Il mondo secondo Garp o invece un romanzo appena uscito - lo tenevano in mano qualche secondo, se lo mostravano scambiandosi esclamazioni di compiacimento, approva-zione, entusiasmo o visibilio appena trattenuto, raccontavano un po la trama, ma non più che in due parole, indicavano quali erano i passaggi più straordinari, da non mancare, e quando avevano riposto il libro su di un tavolo non si era ancora capito perché mai lo dovessimo ritenere un bel libro. Uno spettacolo, fatto di nien-  te, ma a modo suo esilarante.  Uscii contento degli elogi ricevuti, si è sempre contenti quando qualcuno ti dice anche solo di aver letto con interesse un testo che hai appena scritto, e che magari sei insicuro che valga; ma senza che avessi l'impressione, per dirla un po' volgarmente, di aver intascato un granché. Il saggio non mi aveva detto dove avrei potuto pubblicarlo (me ne dimenticai, e solo alcuni anni dopo Edgar Morin, a cui l'avevano dato da leggere, lo passo ai «Cahiers Madeleine Renault-Jean Louis Barrault», che lo fecero tradurre in francese e lo pubblicarono), né mi aveva fatto altre proposte di collaborazione o incontri. Insomma ero al punto diprima. Ripensavo soprattutto, andandomene verso piazza di Spa-gna, a quella specie di elogio della «non professionalità» sul quale Bazlen si era dilungato con esclamazioni e giudizi che mi argomentava e amplificava come se fosse ovvio che dovessi condividerli (e non erano giudizi estetici, in questo caso, ovviamente, ma etici; o forse, è vero, etico-estetici). Essendo al corrente delle mie peregrinazioni fuori d'Italia, ed essendo al corrente di quel mio, dopo tanto andare, essere ancora senza un mestiere (e lo avevo informato che aspettavo una risposta da Adriano Olivetti per una possibile assunzione), credette forse di mostrarmi amicizia dicendo che anche lui era stato sempre senza un me-stiere, perché appena si accorgeva che in qualche modo stava per venire imprigionato nella gabbia anche dorata di un mestiere si ritraeva, come per istintiva renitenza. E cosi che aveva sempre conservato la sua libertà, concludeva. Io sorridevo annuendo, ma senza contribuire con miei argomenti, perché di quel tipo di libertà mi sembrava di aver già goduto in eccesso, e mi sentivo ben disposto a non ritrarmi se si fosse aperta la porta di qualche gabbia dorata, come quella dell'Olivetti, appunto. Ma forse la vera ragione, di fronte al suo elogio della non professionalità, della mia renitenza ad andare al di là di quel mio annuire un po'  stac-  cato, era che quel mio testo stesso su cui ci eravamo incontrati, pur non strettamente accademico, rifletteva per me chiaramente una tensione verso qualche cosa che sarebbe proprio potuto diventare mestiere (anche se poi il mestiere che ho acquisito, o che credo di aver acquisito, è stato un po' diverso), frutto com'era di lunghi mesi di letture concentrate su un preciso tema, giornate intere alla biblioteca del Musée de l'Homme, a pranzare con un panino, storzi di chiarezza nell'esporre una tesi, rigore, o speranza di rigore, nello sceverare la letteratura antropologica attendibile da quella che non lo era. E in fondo ciò cui io ambivo era proprio di impadronirmi meglio di quel mestiere. Sarebbe ora stata interrotta, quella mia tensione, nel caso fossi entrato all'Olivetti? L'incontro con Bobi Bazlen mi aveva lasciato al punto di prima. O così mi pareva. Ma mi sbagliavo, come si vedrà.  Quando si ha, era il mio caso, un gran rispetto per le vie segrete del destino, ci si deve astenere dallo sforzo ibristico di immaginarne le tracce prima di calpestarle veramente.Una settimana o due più tardi ricevetti una lettera che mi convocava a Ivrea. Arrivai in questa città un po' sformata, cosi fuori dal mondo in cui avevo vissuto fino a qualche mese prima, ma che sarebbe stata per tre anni la mia - non so quanto capace, durante quei tre anni, di infondermi il sentimento che vi appartenessi, ma certo anche oggi, dopo più di quarant'anni, rimasta ben distinta e pesante nella mia memoria -, lasciai la valigia all'albergo Dora, che avrei imparato esser luogo celebrato nel folklore del mondo dirigenziale Olivetti per incontri, intrighi, sollazzi e imbarazzi, ritornai sui mici passi, oltrepassai la stazione, per imboccare la ben acciottolata via Jervis, costeggiai la lunghissima facciata di vetro della fabbrica, mi sembrava di scivolare lungo una pagina di «Do-mus» o «Casabella», e salii al Sancta Sanctorum, cioè negli uffici della presidenza. Adriano Olivetti era già da qualche tempo ma-  lato, mi dicono, ma intanto avrei potuto incontrare qualche diri-gente, Mi conduce prima degli altri nel suo ufficio, gentilissimo, Ignazio Weiss, direttore del Servizio pubblicità, e il primo nome che mi fa è, sorpresa! sorpresa!, quello di Bobi Bazlen, suo caro amico, mi dice, il quale gli aveva parlato di me e del bel saggio che avevo scritto. Mi fa i complimenti per i miei studi, si augura che io possa entrare all'Olivetti, ma che stessi in guardia, mi avverte, il lavoro che mi avrebbero assegnato poteva anche non corrispondere alle mie aspettative (non ne avevo), poteva essere più semplice di quello che io ero in grado di fare (e io a quel punto non mi sentivo davvero capace né di fare lavori semplici, né di farne di complicati), ma proprio per questo anche noioso e magari deludente. Incoraggiato da quell'accoglienza che lasciava prevedere un esito positivo del processo dal quale senza merito e senza manifesta volontà ero ormai risucchiato, gli strologai una complicata risposta sul fatto che anche quando i compiti appaiono più facili di quanto si sia in grado di assolvere, rappresentano pur sempre una sfida, perché il passare da impegni difficili a impegni facili può in un certo senso considerarsi cosa difficile, e via cosi in-garbugliando. Spero che abbia creduto che il mio ragionamento contenesse concetti più profondi di quelli che in realtà contene-va, poiché, tradotto in soldoni, credo consistesse nel dire niente più che quando a qualcuno fanno fare un lavoro poco interessan-te è una bella noia per lui accettarlo, e se lo accetta, ma questo punto era lasciato fuori dal concettoso ragionamento, lo fa solo perché lo pagano bene.  Poi passai nell'ufficio di Geno Pampaloni, che allora non sapevo ancora fosse colui che esercitava il vero potere nei rapporti tra il mondo della cultura e Adriano, e cioè la vera eminenza grigia di costui (o era forse soltanto eminenza ligia, come sussurravano gli infaticabili ideatori di maliziosi calembours aziendali?  Ideatori del resto non da poco, avrei ben presto imparato: erano Libero Bigiaretti, Franco Fortini, Egidio Bontante e simili, i quali si divertivano a prendere di mira più di altri proprio il povero e potente Pampaloni). Anche lui assai cordiale (ma la cordialità, si sa, è l'immancabile sigla di questo tipo di incontri), mi disse che si era andato a leggere con attenzione tutti i miei articoli su «Co-munità», che gli erano piaciuti, erano ben scritti, soprattutto le corrispondenze del 1948-49 dalla Francia, aggiunse qualche altro complimento, e poi incominciò a spiegarmi all'ingrosso cosa mi sarebbe stato chiesto di fare nel caso venissi assunto. Il presidente (incominciavo a imparare che a Ivrea questo era il nome con cui designarlo in colloqui ufficiali, «Adriano» quello parlando tra amici) voleva dare impulso a una rete di centri sociali con biblio-techine che andava creando in vari paesi del Canavese, e appoggiandosi su di queste voleva far nascere una specie di movimento culturale - non politico, diceva, anche se naturalmente Olivetti una tendenza politica l'aveva, di sinistra, ma né comunista né de-mocristiana, forse vicina a quella che era stata del Partito d'Azio-ne, e aveva appoggiato Unità popolare contro la legge truffa (era-  no, come sbagliarsi!, le stesse mie posizioni) e poi aveva le sue idee su come trasformare il governo locale, l'idea di piccole comunità, che io del resto conoscevo, e via discorrendo. Pensai che avrei capito meglio quando l'avventura fosse incominciata, e tornai a Ro-ma. Dopo pochi giorni arrivò la notizia che ero stato assunto.  Di fatto. Ma prima sembra che occorresse un ulteriore passaggio formale, e di che natura fosse me lo chiari (ma «chiarire», si vedrà subito, non è il verbo appropriato) un episodio che mi resta ruttora insondabile, e che mi limiterò a raccontare esattamente come è avvenuto (o come me lo ricordo, devo naturalmente di-  re; ma mi sforzerò di mettere all'opera tutta la mia perspicacia mnemonica, facilitato del resto dal racconto che a più di un ami-co feci immediatamente dopo, quando speravo ancora che me lo decifrassero loro). Manca ancora un colloquio con il capo del per-sonale, mi disse Pampaloni, vai nell'ufficio del dottor Z. Il dottor  Z. mi aspettava, mi fece subito entrare, si sedette al suo tavolo, mi fece sedere su di una sedia dall'altra parte del tavolo, io dissi: sono A.P., mi hanno indicato di passare da lei. Sì lo so, rispose, e mi guardò. Aspettavo che mi facesse qualche domanda, mi desse qualche istruzione, o insomma mi dicesse qualche cosa, ma lui si limitava a guardarmi. Aveva sulla bocca un sorriso stereotipato che non capivo bene se significasse incoraggiamento per me, o imbarazzo per se stesso, Io gli restituivo lo sguardo, con un dovuto sorriso timido, ma lui taceva. Cominciai a muovere lo sguardo sugli oggetti del tavolo, sempre mantenendo il sorriso timido, che non avici saputo come mutare, ma lui continuava a tacere e a sorridere enigmaticamente. Adesso mi dirà qualcosa, pensavo, è già passato qualche minuto, e spostavo di quando in quando lo sguardo anche sui mobili o sulle pareti. O forse che gli devo dire io qualcosa, mi chiedevo, ma cosa posso dirgli? I minuti passavano, il silenzio totale continuava. Forse si tratta di un test, mi dissi, vuol veder come reagisco al silenzio, come mi comporto in una situazione imbarazzante (in quei giorni si parlava molto di test strani cui venivano sottoposti futuri dirigenti aziendali, per verificare come si comportavano in situazioni inattese). Ma più che restare zitto non mi sembrava di poter fare. Forse gli devo raccontare qualcosa di me, ma se lui non mi fa domande sarebbe sgarbato da parte mia aprire il discorso. Dirgli che son contento di essere assunto all'Olivetti può essere fuori luogo, perché ufficialmente l'assunzione non si è ancora perfezionata. Così continuavo a tacere.  E taceva lui. Il mio disagio cresceva. Forse anche il suo? Come ca-pirlo, la situazione continuava ad apparire inscrutabile. Passarono diversi minuti. Quanti? Non potevo ovviamente guardare l'orologio. Erano molti, moltissimi, nella mia percezione soggetti-va. Dieci, quindici? Come finirà, mi chiedevo, cercando di rilassarmi interiormente, e aspettando la fine. Che non potrà manca-re, mi ripetevo. La frasetta che pronunciò alzandosi, l'unica, non la ricordo esattamente, sarà stata del tipo «le auguro buon lavo-ro», o «spero che si troverà bene». Mi strinse la mano e mi accompagno alla porta. Il silenzio era finito. Ero assunto alla Ico (In-  gegner Camillo Olivetti) spa. (Gli amici cui raccontai l'episodionon seppero spiegarmelo, e, stranamente, mi sembrò che non gli dessero importanza, Esclusero l'ipotesi del test. Il dottor Z. lo ritrovai anni dopo, in una circostanza anch'essa un po' imbaraz-zante, come racconterò, ma di altro tipo.)  Ero quindi diventato impiegato di un'azienda industriale di gran prestigio, con regolare contratto del settore metalmeccanico.  Quanto era esattamente il mio stipendio? 120.000 lire al mese, poi quasi subito aumentate a 140,000 se ricordo bene (nello stesso periodo sembra ci fossero stipendi, fra i dirigenti, anche cinque o sei volte superiori, e più); ma, fossero state anche meno, si trattava di uno stipendio contrattualmente stabilito, il primo di questo tipo nella mia vita. Tutto ciò senza che potessi dire di aver veramente scelto, o senza che fossi in grado di spiegare, se mi fosse capitato di aprirmi con un amico, la parte che questa vicenda poteva rappresentare in un mio progetto di vita. Forse avrei detto che si trattava di un'«esperienza», termine magico, si sa, che è sempre possibile invocare per giustificare a se stessi e accreditare di fronte agli altri ogni attraversamento di giorni difficili o strani. Almeno per chi - è per lo più il mio caso - è riluttante a sovrapporre lo schermo del «progetto di vita» alla figura velata, ma riposante, del «destino».  4. Lavoro manuale, ma non davvero  Una regola per gli impiegati nuovi assunti, esclusi gli amministra-tivi, voleva che prima di venir assegnati alla loro specifica mansione dovessero lavorare per un mese come operai. Era un modo per far loro imparare a conoscere bene l'oggetto (che allora era costituito dai vari tipi di macchine per scrivere - e che non si dicesse da scrivere, veniva raccomandato - e per calcolo) che l'organizzazione di cui entravano a far parte era impegnata a produrre e vendere. Si trattava di un'esigenza di apprendimento, per dir così terminologico, sapere cosa significavano i termini che designavano le centinaia di pezzi di cui questo o quel tipo di macchina era composto; e naturalmente sapere come funzionavano. Perché sarebbe potuto occorrere che ognuno, nel compito specifico che svolgeva, vi si dovesse riferire. Ma si trattava anche, più o meno esplicita, di un'esigenza moralistica: aver fatto provare a tutti i di-pendenti di che natura fosse il lavoro manuale della «produzione» (parola mitica, questa, del linguaggio aziendale, con connotazioni moralistiche il cui pieno valore avrei ben presto imparato ad ap-prezzare), quello da cui, come impiegati, ricevevano il contenuto ultimo del loro compito, e simbolicamente quindi parificare i lavoratori del braccio e quelli della mente. Era insomma una sorta di rito di passaggio che siglava l'appartenenza di tutti alla stessa comunità, in nome della moralità della produzione.  Cosi fui messo anch'io a lavorare manualmente in un reparto dove si aggiustavano macchine difettose. Me ne stavo seduto a un banco, insieme con qualche diecina di altri operai in un grande stanzone, a smontare e rimontare, macchine, secondo precise istruzioni, senza far nessuna fatica fisica, e semmai, soprattutto all'inizio, con qualche fatica intellettuale perché dovevo sforzarmi di capire le istruzioni che ricevevo su come andavano rimessi insieme tutti quei pezzi. Non c'erano costrizioni temporali per completare la mia parte di lavoro. Avevo anche pochi rapporti con gli operai che lì intorno facevano, meglio di me, il mio stesso lavoro, e l'unica cosa che mi accomunava a loro era la bottiglietta di chinotto, bevanda di cui avevo ignorato l'esistenza fino a quel giorno, e che adesso avevo imparato a tenere sul bancone vicino alla macchina, sorseggiandola di tanto in tanto; e non perché avessi sete, ma perché mi permetteva, facendo finta di bere, ma in realtà limitandomi a bagnare la lingua, di interrompere di tanto in tanto il lavoro. Insomma, non sentivo di essere coinvolto in un esperimento serio. L'unica costrizione, importante è vero, viste le mie abitudini parigine, era quella di entrare in fabbrica e firmare il cartellino alle sette e trenta in punto. La sveglia mattutina, le otto ore di lavoro giornaliero, l'andarmi a coricare presto la sera, la sospensione del lavoro intellettuale, avevano così ben regolarizzato il mio ritmo fisico, che in un mese, ricordo esattamente, ingrassai di due chili (da 60 a 62, o da 62 a 64, non ricordo esatta-mente, ma giù di li). Davvero non un'esperienza stremante.  In quei giorni so che anche in altre fabbriche era d'uso la stessa pratica di iniziazione degli impiegati nella comunità aziendale.  E probabile che da tempo se ne sia perso ovunque, nonché l'uso, il ricordo. Già all'Olivetti quando vi fui sottoposto io era molto discussa per quella vaga tinta di ipocrisia che la colorava. È vero che se fosse stata fatta seriamente avrebbe accresciuto fra gli altrimembri della comunità aziendale la conoscenza delle condizioni in cui lavoravano gli operai. Lavorare al montaggio, per esempio, sotto costrizione di tempo, poteva dar l'idea di che cosa si provasse a fare quel lavoro - ma questo, d'altra parte era difficile chiederlo a impiegati nuovi assunti, che avrebbero ritardato il lavoro della linea (quella che in linguaggio giornalistico si chiamava a quer tempi la «catena») in cui li si tosse inseriti. L'ipocrisia stava nel far credere che chi lavora in un posto sapendo che ci resterà solo un mese, passi attraverso la stessa esperienza di chi lavora a quello stesso posto ma sapendo che ci resterà anni. E inoltre nel voler credere che l'esperienza operaia che contava fosse quella delle condizioni tecnologiche, che si fa durante le ore passate sul luogo del lavoro, e non quella delle condizioni economiche, che si fa sui luoghi della vita, nelle ore dell'intera giornata e degli anni.  Una mattina chiesi un permesso, dissi che dovevo andare in un ufficio lontano, o qualcosa di simile, sarei stato via una mezz'oret-ta, e appena fuori mi intrufolai invece, quasi di soppiatto, nella bi-blioteca, che era proprio li, vicino all'uscita dell'officina dove la-  voravo. Avevo voglia di interrompere quelle ore di forzata assenza di pensiero con un minima parentesi di attenzione intellettua-le. Mi ricordo ancora nitidamente cosa lessi: era il dibattito, in «Nuovi Argomenti» e in un altro paio di riviste appena uscite, tra Ernesto De Martino e i suoi critici, sull'antropologia, se dovesse essere storicistica o meno. Era estraniante leggere di questo dibattito tra un montaggio di macchine e un altro. Ma era estraniante per me anche per un'altra ragione. Negli anni precedenti in cui, a Hautes Études, i miei studi erano stati essenzialmente di antropologia culturale, mai mi ero trovato di fronte a un dibattito di quel tipo, così lontano dalla letteratura antropologica inter-nazionale, così impasticciato di terminologia crociana, preoccupato più di definire i rapporti con Croce che con la ricerca che si sviluppava nelle discipline antropologiche dove queste erano più avanzate e scaltrite. Per cui, scuotendo la testa, tornai in officina, più incerto che mai su cosa sarebbe successo di me in questo sovrapporsi di mondi diversi.  Dopo circa un mese, si avvicinava la fine del rito di passaggio, Pampaloni mi chiamò e mi disse che lo si poteva concludere e che mi avrebbe mandato in giro per il Canavese, sotto la guida di un dirigente locale del Movimento di Comunità, per farmi visitare lebiblioteche comunali che si stavano organizzando, più qualche altra delle iniziative del Movimento. Si sarebbe trattato di una specie di ispezione e alla fine avrei dovuto scrivere un rapporto. Durante questa esperienza di visite «sul campo», che durarono qualche settimana, mi furono presentate altre persone che avrebbero potuto orientarmi sulla realtà sociale della fabbrica. Mi accorsi ben presto che sia l'ambiente dirigenziale, sia quello intellettuale, intorno ad Adriano Olivetti, erano radicalmente divisi. Chi mi prese per mano a farmi percorrere e ricostruire i nervi del governo olivettiano, che Pampaloni si limitava a delinearmi a fior di pel-le, fu Franco Momigliano, che allora reggeva quella che si chiamava la Direzione delle relazioni interne, comprendente Servizio del personale, Servizi sociali e altre funzioni affini.  Momigliano era responsabile sindacale del Partito d'Azione quando conobbe Adriano Olivetti, che lo assunse per occuparsi delle relazioni del personale nella fabbrica di Ivrea, Era un liberal-socialista, di colorazione vagamente marxista, ma senza nessuna ortodossia, semplicemente incline a quella generica concezione economicistica, che più o meno tutti avevamo nella pelle in quel periodo. Le categorie con cui analizzava la situazione della fabbrica e dei rapporti tra proprietà e maestranze mi sembrarono subito molto familiari ed efficaci, le conclusioni dell'analisi, però, ina-spettate. Per spiegare il senso della mia sorpresa sarà utile che io qui ricostruisca l'atmosfera di quegli anni nell'industria italiana.  5. L'eccezionalismo olivettiano  Erano gli anni di quella che si può convenire di chiamare, col gergo allora usato, la «controffensiva padronale». Le elezioni del 1953, con il fallimento della cosiddetta «legge truffa», avevano bloccato il tentativo politico di emarginare le sinistre e di escluderle da ogni interferenza sul governo del paese. Ma l'esigenza di chi guidava la ricostruzione capitalistica dell'economia restava quella di annullare, nei luoghi della produzione, l'autonomia che le maestranze avevano conquistato durante gli anni immediatamente successivi alla liberazione. L'offensiva fallita a livello elettorale si era quindi diretta verso i luoghi dove si concentrava la classe operaia di persuasione comunista. Lo richiedevano le esi-genze del buon ordine produttivo, lo richiedevano soprattutto gli Stati Uniti, che erano indignati, come si sforzava di far capire la famigerata ambasciatrice Vera Luce, che nelle fabbriche italiane, anche quelle che godevano di commesse americane, gli operai fossero rappresentati da sindacalisti comunisti o loro alleati. O così almeno sembrava, e si diceva. Anche se una domanda era lecita: erano veramente gli americani, cioè gli uomini d'affari americani che trattavano con gli italiani, a essere così preoccupati, o non piuttosto gli industriali italiani che volevano far intendere che fossero gli americani a premere in quel senso? Mi ricordo che mi posi la questione un giorno - alcuni mesi dopo che ero arrivato - quando Pampaloni, nel discutere i risultati delle elezioni della Commissione interna, che avevano di nuovo registrato una maggioranza della Cgil, mi disse con tono allusivo, quasi fosse una cosa di cui non bisognava parlare in giro, che questo risultato avrebbe creato difficoltà all'Olivetti con gli americani. Lì per lì rimasi impressio-nato, ma subito dopo mi chiesi se quell'aria di segreto non avesse proprio lo scopo di farmi andare in giro a divulgare la notizia. Ero però, lo sappiamo oggi, più diffidente del necessario, e avrei dovuto credere alle convergenti allusioni di parte padronale e rumorose denunce delle sinistre: il ricatto americano c'era, ed era esplicito e pesante, e operava, fra l'altro, condizionando le commesse alle fabbriche italiane (ma l'Olivetti ne aveva meno bisogno di al-tre) e soprattutto della Fiat, alla loro capacità di eliminare l'ege-monia della Cgil nelle commissioni interne e fra le maestranze!  Sostanzialmente il risultato che si voleva ottenere in quegli anni era quindi la pace sociale nei luoghi della produzione, anche a costo di accettare una limitata forma di condivisione del poterecon l'opposizione nei luoghi istituzionali. Condivisione (si sarebbe chiamata poi, negli anni Settanta, «consociativismo», quando il fenomeno divenne più esplicito) che era inevitabile: la Costituzione repubblicana assegnava al Parlamento un ruolo centrale, così che una minoranza forte, com'era quella delle sinistre già in quegli anni, era in grado, volendolo, di bloccare i lavori parlamentari e quindi l'opera del governo; senza contare il potere di scambio che poteva far pesare sulla bilancia un partito che controllava le regioni rosse. Scambi di favori legislativi e amministra-tivi, al centro e alla periferia, tra maggioranza e opposizione, servivano a smussare il conflitto, che sarebbe diventato drammatico se si fosse messo in opera con coerenza quanto era contenuto nelle premesse dell'ideologia proclamata. Certo, servivano anche per, come dire, ingrassare la macchina della politica, e ci potevano guadagnare gli uni e gli altri, pur a spese della maggioranza dei cittadini, Dapprima limitati e coperti, più tardi, negli anni Settan-  ta, tali rapporti sarebbero diventati la regola.  Nelle fabbriche, invece, gli interessi si contrapponevano con immediatezza e l'offensiva era senza quartiere, probabilmente anche animata da personali sentimenti di vendetta da parte delle dirigenze industriali che, nei non lontani anni successivi alla libera-zione, avevano visto sfidata la loro autorità, quando non anche ferita la loro dignità. Da qui, in molte di esse, il moltiplicarsi di licenziamenti arbitrari di membri di Commissione interna e di attivisti sindacali in genere (fu a proposito di uno di questi casi che udii in quegli anni per la prima volta il nome di un operaio della Riv, che, quindici o venti anni dopo, mi sarebbe diventato collega e molto amico, Aris Accornero), e anche di umiliazioni agli operai comunisti, messi a spazzare i locali quando magari erano vecchi operai abili nel loro lavoro specializzato, e contemporaneamente di corruzione di sindacalisti. Leggendaria in quegli anni era la vicenda del cosiddetto «reparto confino» (ufficialmente  Officina sussidiaria ricambi) della Fiat. La direzione vi aveva raccolto gli operai sindacalmente attivi, quasi tutti comunisti, isolandoli completamente dal resto delle maestranze, obbligandoli, operai qualificati o specializzati che erano, ai lavori più umili e inutili e sottoponendoli ad angherie di ogni genere.  Questi metodi erano possibili sia perché perdurava (e andrà avanti almeno fino ai primi anni Sessanta) una disoccupazioneche, pur decrescente, era sufficiente a mantenere alto, per un ope-raio, il timore di perdere il posto; sia perché, come ho accennato prima, si era formata una separazione tra livello politico e livello sindacal-industriale nella strategia dell'opposizione. Come avrei imparato ben presto, appena entrato in contatto con gli ambienti della Cgil, e come mi era stato invece assolutamente impossibile capire quando vivevo all'esterno del mondo industriale, il Partito comunista si interessava della situazione delle fabbriche meno di quanto i sindacalisti di base, che erano isolati e depressi e in perdita di consenso (era iniziata la serie di sconfitte nelle elezioni per le commissioni interne sui luoghi di lavoro), sentivano di aver bi-sogno. Togliatti viene a Torino e ci parla della situazione interna-zionale, mentre alla Fiat funziona il reparto confino, mi disse un giorno un sindacalista comunista. E ricordo ancora vividamente, alla fine degli anni Cinquanta, quando partecipavo a un semina-tio organizzato dalla Società umanitaria nella sua sede di Meina, con quadri operai della Cgil, il racconto di un operaio comunista che qualche anno prima era stato arrestato dalla polizia di Scelba.  Mi rimane nella memoria la sua particolareggiata descrizione delle torture che la polizia infliggeva agli arrestati: alcuni venivano picchiati, ad altri schiacciavano i testicoli, mi preciso.  In questo clima generale la Olivetti era l'eccezione. Non licenziamenti arbitrari, non reparti confino, non maltrattamenti psicologici di operai, non corruzione di sindacalisti, non interruzione degli incontri regolari tra la direzione e la Commissione in-  terna, nella quale continuava a venir eletta una maggioranza della Cgil, senza che la direzione prendesse provvedimenti repressi-vi, come appunto era comune in altre fabbriche. Assunto in maniera così improvvisa ed enigmatica in questa azienda, ero curioso di capire a cosa fosse dovuta la sua eccezionalità, di cui avevo già sentito parlare. Soltanto alla bontà e onestà del padrone?  Al suo successo economico che sembrava folgorante? I colloqui che avevo con Momigliano (e naturalmente anche con altri «in-  tellettuali di fabbrica», che un po' alla volta venivo a conoscere, soprattutto Michele Ranchetti, che era l'assistente di Momiglia-no, e poi Libero Bigiaretti, Luciano Codignola, Roberto Gui-  ducci, Antonio Carbonaro, Luigi Ortina, che era il capo dell'ot-ficina in cui avevo svolto il mio tirocinio di lavoro materiale, e lui stesso figlio di un imprenditore, e qualche altro), mi permette-vano un po' alla volta non solo di dare una prima risposta all'ingenuo quesito iniziale, ma anche di delineare un quadro per molti versi inaspettato.  La tradizione di buoni rapporti tra padrone e maestranze risaliva ai tempi di Camillo Olivetti, fondatore dell'azienda e padre di Adriano. Ingegnere geniale, imprenditore ardito, padrone bona-rio, di idee socialiste (aveva organizzato la fuga di Turati in Svizzera nel 1926), la sua grande figura barbuta era rimasta leggendaria tra i vecchi operai, e più d'uno, quando cominciai ad andare in giro per la fabbrica per il mio lavoro, mi raccontava in tono affettuoso buffi aneddoti su questo vecchio, morto una decina di anni prima. Adriano, al suo ritorno dalla Svizzera dopo la guerra, aveva ripreso in mano l'azienda (che durante gli anni di guerra era stata diretta dall'ingegner Gino Martinoli, altro dirigente industriale di riconosciuto carisma, fratello della moglie di Adriano) e continuato una politica di buone relazioni con il personale. Adriano aveva, sì, dato un forte apporto innovativo all'azienda nella riorganizzazione degli anni Trenta e continuava a darlo soprattutto con le sue intuizioni originali nel campo pubblicitario e delle relazioni pubbliche, ma la considerava piuttosto uno strumento per i suoi interessi di natura generalmente cultural-politica. O almeno, questo era il rimprovero che dall'interno dell'azienda gli veniva fatto, soprattutto da quello che si poteva chiamare il partito degli ingegneri. Non che costoro fossero nella loro maggioranza reazionari e mirassero ad assimilare lo stile dei rapporti politici interni all'Olivetti a quello delle altre grandi aziende italiane. Si trattava di dirigenti in gran parte selezionati da Camillo, i più vec-chi, o dallo stesso Adriano, o da altri selezionatori che condividevano le sue posizioni. Ma essi ritenevano che Adriano sacrificasse l'efficienza della fabbrica ai suoi scopi di innovatore culturale, e questi li giudicavano un po' troppo grandiosi, sia in relazione alla realtà eporediese (imparai allora che questo era l'aggettivo che si riferiva alla città di Ivrea), che Adriano voleva trasformare facendone un laboratorio esemplare di buon governo locale, sia soprattutto in relazione alle sue ambizioni di giocare un ruolo trascinatore nel mondo della cultura italiana e internazionale.  Chi difendeva Adriano sosteneva che l'attività culturale di Oli-vetti, i suoi rapporti con il mondo dell'arte, dell'architettura e dell'urbanistica, cosi come delle scienze sociali e della letteratura,producevano una tale ricaduta pubblicitaria, che tutto quello che veniva sottratto agli investimenti in fabbrica ritornava dall'espansione di mercato che in quel modo si otteneva. Mi ricordo che un giorno un operaio con il quale parlavo dei progetti di Adriano mi obiettò, non capii se con ingenuità o con cinismo, che tutto quello che si faceva era buona pubblicità che serviva all'azienda, perché in fondo, cosa produceva la fabbrica? macchine per scrivere, no? e chi doveva comprarle, se non quella gente li, gli intellettua-li, insomma! Altri sostenevano che soltanto rendendo la città di Ivrea sopportabile a una borghesia colta si poteva far accettare al tecnici d'elite di cui una fabbrica così avanzata aveva bisogno il sacrificio di abitarvi (non c'erano ancora autostrade in quegli anni e la pendolarità con Torino non era pensabile). Ma erano, come si vede, poco convincenti, o in ogni caso parzialissime, giustificazioni funzionaliste.  6. Dialettica contro paternalismo  L'analisi di Momigliano muoveva da sinistra, ma concludeva su posizioni che lo collocavano in qualche modo sulla stessa linea del partito degli ingegneri. La sua critica era rivolta al paternalismo implicito, anche se accorto e non sfacciato, di Adriano. Adriano, per i suoi fini, a volte dà agli operai anche quanto non chiedono, mi diceva. In questo modo implicitamente li corrompe, desta il sentimento di gratitudine, e per gli operai non è bene sentirsi legati da gratitudine al padrone. Questi operai finiscono per essere non soltanto dei privilegiati, ma anche dei viziati. Mi citò una volta un episodio di alcuni rappresentanti operai della Cgil (di tendenza anarchica, se ricordo bene) che dovevano andare a Torino al funerale di un sindacalista eroe della resistenza. Sai cosa hanno chiesto alla direzione? esclamò: di essere portati a Torino con una macchina dell'azienda! Te li immagini operai anarchici o comunisti di quaranta o cinquanta anni fa chiedere favori di questo tipo al «nemico di classe»!  Occorreva invece, mi diceva, che i dipendenti dell'azienda si ponessero con la direzione in rapporto dialettico (decisamente avrei dovuto riabituarmi all'uso abbondantemente polisemico di questo termine che avevo imparato come servisse ai miei amicifrancesi per ironizzare sul linguaggio politico italiano), attraverso i loro rappresentanti, che questi avanzassero le loro rivendicazio-ni, e se la direzione gliele concedeva, bene; se no, e se se la senti-vano, che entrassero in vertenza. La direzione, d'altra parte, doveva dare quello che il mercato le permetteva di dare, non offrire il non richiesto, soltanto perché in certi momenti il padrone aveva determinati motivi di politica personale per fare il generoso. Il mio compito qui, mi diceva, è di governare il personale facendo gli interessi di questa azienda sul mercato, e insieme rendere possibile ai dipendenti di perseguire gli interessi loro autonomamen-te, assicurando, fino a che mi è possibile, che non vengano alterate le regole del gioco: e cioè impedendo sia ogni forma di repressione sindacale, come quelle che si verificano nelle altre fabbriche italiane; sia ogni forma di corruzione dei dipendenti da parte del padrone. (Fu del resto in uno di questi colloqui che mi accenno alla possibilità, ancora non ben definita, che Adriano intendesse formare un suo sindacato, inglobando, che in termini crudi voleva dire comprando, quello che restava della Uil locale, collegarlo con il Movimento di Comunità e cosi rovesciare l'egemonia della Cgil. In questo caso lui si sarebbe rifiutato di concedere qualsiasi trattamento di favore a questo nuovo sindacato padronale, anche se Adriano, come era probabile, glielo avesse chiesto.) In altre pa-role, Momigliano vedeva il suo ruolo come quello del rigido guardiano delle regole quali l'ordine giuridico del capitalismo le aveva stabilite. All'interno di quest'ordine i capitalisti dovevano fare i capitalisti, gli operai fare gli operai, e formarsi la loro coscienza di classe antagonista grazie al confronto, appunto, dialettico nelle trattative sindacali.  Mentre mi esponeva le sue idee non mi fu difficile riconoscerle come quelle di un lettore assiduo di Sorel (io stesso lo ero sta-to). Glielo dissi, e riconobbe infatti non soltanto che da giovane aveva letto appassionatamente Sorel, ma che suo padre era stato sindacalista rivoluzionario e seguace del pensatore francese. Non gli dissi invece che la sua strategia mi ricordava un'altra figura, di cui probabilmente lui non aveva sentito il nome (e mi sarebbe stato troppo complicato, e non interamente lusinghiero, illustrar-glielo), quella di Bug Jargal, il protagonista di 1793, il romanzo di Victor Hugo sulla rivoluzione di Haiti. Bug Jargal era il capo-ciur-ma dei lavoratori schiavi del maggiore proprietario agricolo delpaese. Esercitava il suo compito in nome del padrone, nella maniera più rigida e crudele, non risparmiava una sola delle fustigazioni o altre punizioni che la legge del luogo prescriveva, e verso la quale in tal modo attirava l'odio degli schiavi. Quando la rivoluzione scoppia, viene alla luce che Bug Jargal ne era l'ideatore e il cape. E il successo della rivoluzione sarà dovuto proprio all'odio contro i padroni stranieri che i modi tirannici di Bug Jargal avevano contribuito ad attizzare tra la popolazione. Non leggo quel romanzo da oltre cinquant'anni, e forse il mio riassunto non corrisponde esattamente alla trama, ma cosi me la ricordo, e cosi è rimasta in me da allora come metafora del dilemma drammatico di chi vuol conseguire il bene passando per il male, e, più precisa-  mente, di chi vuol risvegliare la coscienza di quelli che ama, presentandosi come il male che in tal modo, facendosi odiare, insegna a odiare. Dilemma che si affaccia, anche se copertamente, in più di un rapporto, che voglia essere eroico, di amore e formazio-ne, fra genitore e figlio, per esempio, o fra maestro e allievo, che Nietzsche più di ogni altro ha scandagliato, e che Sorel appunto ha saputo intravedere anche nella costruzione della politica rivo-luzionaria. Naturalmente l'abbraccio in cui scoprivo allacciati gli operai dell'Olivetti e il direttore Momigliano non aveva questa drammaticità. Non solo perché Momigliano non faceva fustigare nessun operaio, né, fosse anche venuto il momento, avrebbe capeggiato nessuna rivoluzione, ma soprattutto perché le regole cui quei rapporti con il personale ubbidivano non istigavano odi né impulsi rivoluzionari. Il merito di Momigliano era appunto quello di saper mantenere i rapporti su quel tono di corretta intransigenza e di osservanza di regole trasparenti.  Ammiravo Momigliano e lo sentivo congeniale quando discu-tevamo. Mi piaceva la sua moralità secca, senza pleonastici ricami ideologici o fervori umanitari, una moralità laica per eccellenza. II realismo delle sue analisi derivava dalle categorie economiche che usava per determinare i moventi dell'agire dei soggetti con i quali aveva a che fare, il realismo delle sue scelte personali derivava dalle categorie giuridiche che usava per definire i ruoli suo e degli altri. Pensavo che fosse giusto il suo modo di vedere la situazione e il modo di muoversi in essa. Che poi occorresse anche prevenire che tra gli operai nascesse gratitudine verso il padrone mi giungeva come un giudizio rivelatore cui non mi era difficile ade-rire in teoria (avevo già a suo tempo riflettuto sul caso Bug Jargal), ma sul quale potevo aver qualche esitazione in pratica. L'opposizione al formarsi di qualsiasi sindacato giallo, invece, coincideva con le mie convinzioni di sempre, e non avevo dubbi che sarei stato dalla parte di Momigliano e contro Adriano se l'evento si fosse verificato (e vedremo che cosi fu).  7. Rifiuto Comunità  Queste analisi della situazione politica della fabbrica influenzavano ovviamente l'animo con cui stavo conducendo il mio compito di ispezione dei centri comunitari del Canavese. Certo non era senza una qualche attrazione per un intellettuale capitare in quel di Aglie o Pavone o Strambino (eravamo, si ricordi, nel 1953) ed entrare in una sala pulita e ben illuminata, con tavoli e seggiole, a volte anche qualche persona che leggeva, e vedere negli scaffali alle pareti allineati i volumi delle edizioni Einaudi o Laterza o Editori Riuniti o altri di quel genere. Ma poi parlavo con il responsabile del centro e mi accorgevo che non molto vi succedeva, che se c'era qualche segno di vita associativa, mostrava ben poca vivacità e autonomia, e che se un significato poteva avere la presenza di quella biblioteca in quel paesetto, era, oltre che di farci venire al sabato qualche operaio della fabbrica che pendolava gli altri giorni con Ivrea, quello di attrarvi qualche giovane che in fabbrica non ci andava ancora, ma sperava di potersi far assumere un giorno proprio grazie al mostrarsi interessato alle attività del centro co-  munitario del suo paese,  Segretario del Movimento di Comunità del Canavese era allora Barolini, uno scrittore colto e gentile, sposato a un'americana, il quale non aveva più voglia di fare quel mestiere e voleva tor-narsene in America (probabilmente, ma non ricordo bene, con una posizione nella Olivetti americana, che si andava sviluppando in quegli anni). Si era mostrato subito cordialissimo con me; capii più tardi, però, scontata la sua naturale gentilezza, il senso di quella cordialità immediata, quando mi accorsi che Adriano, o, meglio, Pampaloni, aveva in mente di offrire a me la sua carica, e Barolini non vedeva di meglio che qualcuno arrivasse presto a so-stituirlo. Ma un po' per le ragioni che ho già detto, un po' per co-me nel frattempo, con l'aiuto di Momigliano e degli altri amici, riuscivo, o mi sembrava di riuscire, ad analizzare la situazione complessiva, e in particolare i rapporti tra il movimento culturale e l'azienda in quanto tale, io andavo rapportando a Pampaloni valutazioni abbastanza negative di quello che osservavo, e quando a un certo punto, dopo qualche settimana, lui mi propose di diventare segretario di Comunità nel Canavese e impegnarmi a risollevare la situazione trovando modi di ravvivare l'attività dei centri, gli risposi che non ero interessato e che preferivo svolgere qualche compito nel quadro dell'azienda vera e propria. Mi ricordo che alla fine di quel colloquio alzò la cornetta del telefono, chiamò Momigliano e gli disse: «Hai vinto tu anche questa volta». Poi continuò dicendo che ora si poneva la questione di assegnarmi qualche mansione nell'organizzazione aziendale e che a questo doveva pensarci la Direzione delle relazioni interne, quindi lui,  Momigliano.  A guardar bene, questa mia vicenda era stata scandita da un doppia finzione. Olivetti mi aveva assunto per un compito che al momento di assumermi non aveva chiarito bene in che cosa con-sistesse, e questo perché non voleva farmi capire che, con uno sti--pendio pagato dalla società, in realtà voleva farmi svolgere un lavoro funzionale ai suoi fini privati, che poi sarebbero diventati, nel lungo periodo, fini politici. Né era stato molto più trasparente Pampaloni quando mi aveva indicato il compito specifico per quelle prime settimane di rodaggio. Io d'altra parte, rifiutando un incarico che si era andato chiarendo dopo che ero stato assunto e assunto con un contratto di impiegato metalmeccanico, mi facevo forte della posizione sicura in cui ero stato messo da quel con-  tratto. Mi sono spesso domandato se avrei avuto lo stesso coraggio di rifiutare nel caso in cui l'alternativa fosse stata non il riassorbimento nell'organizzazione aziendale, bensi il licenziamento e quindi la disoccupazione nuda e cruda. (Vero è che, come racconterò fra poco, la scelta mi si ripresento implicitamente tre anni dopo, e non esitai a scegliere una assai probabile, e poi, ahimè!, realizzatasi, condizione di disoccupato. Ma allora erano passati tre anni decisivi, in cui mi ero rafforzato, avevo acquistato amici che sapevano apprezzare le scelte che facevo, non ero più il tremante studente di Hautes Études, che aveva appena lasciato la buia stanza dell'Hotel Marignan, in rue du Sommerard, nel Cinquième.)In ogni caso presi quella decisione senza troppo riflettere sulle conseguenze. L'unica difficoltà fu nel rimanere fermamente negativo durante il colloquio con Pampaloni, per il quale provavo simpatia, anche se di un tipo del tutto diverso da quella che provavo per Momigliano. Come del resto diversissime erano le due personalità. Di finissima cultura letteraria ed elegante critico, a Pampaloni era del tutto estranea la moralità contrattualistica rigorosa che guidava Momigliano. Non mirava a metterti con le spalle al muro per via di logica, piuttosto a sedurti con allusioni, ed era dovuto probabilmente a questo stile il suo successo con Adriano, del cui cuore tenne in mano per un periodo entrambe le chiavi. Sembrava allo stesso tempo capace di tortuose strategie volte all'accrescimento del suo potere e di autodistruttivi, imbarazzanti coinvolgimenti sentimentali. E l'avversione che poteva provocare il suo machiavellismo veniva coperta dalla simpatia con cui si guardava alla sua ingenuità, in fondo generosa. Cattolico di sinistra tormentato, quasi figura uscita da un romanzo di Berna-nos o di Mauriac, non era chiaro se si trovasse più a suo agio nei nidi di vipere o nei nidi di colombe. Lui, a dir il vero, preferiva dichiarare la sua ispirazione a Péguy, il cui cattolicesimo impegnato e vicino a idee socialiste offriva un modello di più immediato riferimento per il mondo entro il quale Pampaloni in quegli anni voleva muoversi. Ma sia il suo stile letterario - così diverso dal tono alto, a respiri lunghi, di Péguy - sia le vicende politiche e giornalistiche in cui finirà per trovarsi coinvolto, hanno finito per pot-tarlo lontano anni luce dall'immagine eroico-sacrificale che ci è rimasta dello scrittore francese. A lungo rimasi incerto su come va-lutarlo, o, meglio, su come capirlo. Qualche hanno fa vidi in libreria e immediatamente comprai un suo libro, Fedele alle amici-zie, che è una raccolta di suoi articoli ordinati in modo da comporre una specie di autobiografia. Ritrovai la sua prosa sapientemente evocativa, lo stretto controllo di ogni narcisismo, il suo raccogliere le «cose viste» e offrirle come un servizio al lettore. Un lungo pezzo sulla «saga degli Olivetti», impeccabile per le cose che diceva, deludente per quelle che taceva, lui che tanto aveva visto e avrebbe potuto dire, Allora capii qualcosa del suo doppio modo di stare al mondo. Quello di viverne, senza troppo discrimina-re, le strategie, gli intrighi, come anche gli impegni generosi di parte e di amicizia; e quello, invece, di rappresentarlo agli altri at-traverso la letteratura, scegliendo con tocchi leggeri ed evocativi gli aspetti che proteggano il lettore, e in conclusione se stesso, da ogni scavo della realtà che sia un po' meno accessibile di quella che non sta proprio li sotto i nostri occhi. Cosi evita possibili drammatizzanti faccia a faccia con l'inaspettato e il discrepante, e può invece passare alla pagina che segue con il sorriso dell'accomodante e un po' ironica nostalgia. Non so se ho raccolto i frammenti giusti di questa persona che in fondo ho conosciuto assai poco. So però che le due o tre volte che lo reincontrai dopo Ivrea provai una non forzata simpatia, e che quando mi disse che aveva letto alcuni mici scritti e me li elogiò, me ne inorgoglii.  8. Spiegare la fabbrica  Ero rimasto senza compiti precisi e Momigliano ebbe l'idea di af-fidarmene uno nel quale erano falliti, nel corso degli anni, tutti quelli che ci si erano provati: redigere il manuale di fabbrica. Molte aziende americane, e qualche azienda italiana, avevano pubbli-cato, in una forma o nell'altra, e distribuito ai dipendenti, un li-bretto, la cui funzione consisteva nel cercar di far conoscere agli operai la fabbrica nella sua complessità; con l'idea che, al di la di quel settore con cui ognuno si trovava direttamente in contatto per le sue mansioni, l'insieme della struttura produttiva era probabile restasse a molti abbastanza misteriosa. Cosi l'operaio si sarebbe sentito parte della fabbrica, e chissà che anche la produttività non ne avrebbe ricevuto vantaggio. O cosi si immaginava potesse essere. La gran parte delle aziende italiane mancava di questo manuale perché non era interessata, anzi probabilmente era contraria, a che gli operai avessero una conoscenza della fabbrica più ampia di quella strettamente funzionale al loro lavoro specifi-co. I sindacati d'altra parte temevano che l'azienda descrivesse la realtà della fabbrica in maniera diversa da come la descrivevano loro, e gli sottraessero quel monopolio, per dir così, delle definizioni della realtà produttiva che per lo più detenevano. All'Oli-vetti, invece, più di un dirigente, e Adriano stesso, ritenevano utile che l'azienda si fornisse di un simile strumento, ma i timori su come esso si potesse presentare erano molti, e così i timori che i sindacati reagissero negativamente, e ne nascessero grane inutili.Momigliano mi illustrò tutte queste difficoltà, mi raccontò dei vari tentativi andati a male, mi forni una pila di manuali di fabbriche americane di vario genere e di altra documentazione già esistente sull'Olivetti e mi elencò le qualità che il prodotto che mi era stato affidato doveva possedere. Doveva essere assolutamente obiettivo e neutro, senza valutazioni negative o positive di questa o quella situazione lavorativa, doveva descrivere le diverse componenti del processo produttivo e i rapporti di interdipendenza fra di esse, e la loro rispettiva posizione nel flusso della progetta-zione, fabbricazione, montaggio e distribuzione del prodotto.  Linguaggio secco, senza fioriture e tanto meno imbonimenti (di cui abbondavano i manuali americani che mi lessi rapidamente senza troppo frutto) e tecnicamente preciso, ma semplice, alla portata di un operaio comune. Mi son chiesto poi se Momigliano, che già nell'illustrarmi le difficoltà aveva a malapena nascosto il suo pessimismo sulla realizzabilità dell'impresa, non avesse gia deciso che quel manuale era meglio non si facesse, e mi avesse proposto di lavorarci per trovarmi un compito che mi tenesse nella sua Direzione, e nel frattempo mi permettesse di impadronirmi dei dettagli dell'organizzazione aziendale, Avrei infatti dovuto andare in giro per la fabbrica, capire la natura delle lavorazioni e della logica produttiva, parlare con chiunque potesse farmi capire questo o quell'aspetto dell'organizzazione aziendale, ingegneri, capi intermedi e operai (ma con gli operai non avrei potuto parlare senza passare per il capo reparto), e discutere sia del loro lavoro specifico, sia della visione d'insieme che si facevano dell'organizzazione e della posizione produttiva in cui erano collocati.  Di tutte queste informazioni, era il compito, traessi l'essenza e mi mettessi a scrivere un limpido manualetto! Mi fu subito chiaro che, qualunque fosse stato l'esito, il valore di apprendimento che avrebbe avuto per me il compito in cui stavo impegnandomi sarebbe stato assai superiore al possibile valore che il prodotto avrebbe potuto avere se mai fosse arrivato nelle mani di altri.  Avevo tutte le ragioni visibili di mettermi all'opera con entu-siasmo. Se ne aggiungeva però anche una invisibile, che la memoria è ora quasi riluttante a far affiorare tanto si presenta con la parvenza di un'improbabile testimonianza di ingenuità. Ma tant'è, perché ancora una volta non cedere alla sollecitazione maieuticache ogni scrivere del proprio passato esercita sui sentimenti più  remoti?  La ragione cui mi riferisco è questa. Intorno ai sedici-vent'an-ni (spero di non sbagliarmi troppo indicando quell'età) io mi ritrovai a provare un intenso e, ora mi sembra, inspiegabile e quasi incredibile desiderio di capire esattamente, voglio dire, nel dettaglio dei gesti, in che cosa consistessero esattamente gli atti del «la-  vorare». Non avevo infatti mai visto una persona nell'atto di fare un lavoro produttivo. Del resto l'attributo «produttivo» è troppo specifico, e non credo che allora mi fosse presente. Era il lavoro fisico in quanto tale che non sapevo che apparenza avesse. Si noti che a quell'età, differentemente da tanti mici compagni, trovandomi in Eritrea del tutto isolato per molti anni dalla mia famiglia, io avevo già lavorato per guadagno, avevo lavorato come dattilografo in uno studio di avvocato, poi come produttore di una piccola agenzia di pubblicità, avevo fatto il capo-magazzino e capo-  zona in un'organizzazione di lotta contro le cavallette nel bassopiano sudanese, avevo dato lezioni private di storia e filosofia per il liceo. Ma evidentemente non consideravo che quello fosse lavo-ro. Né, prima, consideravo che tosse lavoro quello che vedevo tate a mio padre, o a tutti quelli che lavoravano con lui negli uffici che, quando andavo a prenderlo, visitavo. Si potrebbe quasi dire che avessi - e senza averlo ricevuto dai libri, perché nessuno mi aveva certo spiegato Marx al liceo - un senso innato della distinzione marxiana tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Di che gesti era fatto, insomma, il lavoro materiale? Gli anni passati all'università tra filosofi o a Vienna tra artisti o a Parigi tra antropologi e antichisti non solo non mi avevano ovviamente dato la risposta (eppure era solo un'immagine che chiedevo, non avrei avuto bisogno dopo tutto di vedere più che qualche documentario, ma a quei tempi non ne giravano su questo tema, o erano irreali-stici); ma avevano semmai ispessito l'arcano di quella mia curio-sità. Ecco che ora mi veniva assegnato proprio il compito di descrivere il lavoro materiale dell'uomo, e nella sua forma più mo-derna. Avrei non soltanto osservato la variegata tipologia dei possibili gesti del lavoro, ma avrei imparato che esistono metodi per descriverli e misurarli scientificamente (sarei cioè entrato in contatto con quella sorta di metalavoro che svolgono coloro che operano all'Ufficio tempi e metodi, di cui incominciavo a sentir parla-te come di una realtà misteriosa e dominante); avrei capito, o cercato di capire, i problemi che il lavoro generava per la persona che lo compiva e per chi doveva coordinarlo. Mi tardava di mettermi all'opera.  Pensai di farmi anzitutto un'idea d'insieme dell'organizzazione parlando con qualche ingegnere che fosse in posizione un po' meno specializzata di altri, al quale mi avrebbero presentato Mo-migliano o Ranchetti. La mia ignoranza della realtà di un'azienda era assoluta. Persino apprendere che un'organizzazione aziendale si divideva in amministrazione, produzione, distribuzione, che ognuna di queste componenti dipendeva da una direzione sepa-rata, che la produzione era composta di progettazione, attrezzag-gio, fabbricazione e montaggio; che la progettazione era il cervello dell'azienda, dove lavoravano gli ingegneri più originali e presti-giosi, artisti del disegno di macchine; che l'attrezzaggio, dove si costruivano le macchine utensili, cioè le macchine per costruire macchine, era l'officina dove lavoravano gli operai specializzati, i migliori operai della fabbrica, per preparare i quali, lungo cinque anni di studio teorico e manuale, l'azienda possedeva un apposito severissimo istituto tecnico per meccanici, e che questi operai erano anch'essi da considerare un po' come degli artisti nel loro mestiere, guardati con ammirazione e invidia dagli altri operai, e non soltanto per la loro posizione salariale, ma perché la loro figura appariva quasi come quella di un'élite leggendaria nel folklore aziendale; che la fabbrica era divisa in officine, le officine in reparti, i reparti in squadre - persino queste nozioni elementari, che avrei potuto quasi tutte apprendere dalla lettura di qualche libro di testo di organizzazione aziendale (di cui del resto incominciavo a fornirmi, e che mi proponevano letture, non sto a dirlo, cosi stridentemente discrepanti rispetto a tutte quelle che avevo fatto fino ad allora), erano una scoperta viva per me. Mi inoltravo passo a passo in questo ambiente, che, familiarissimo a tutti coloro che mi attorniavano, si presentava invece a me come una terra incognita e avvincente.  Avvicinavo con apprensione dirigenti di questa o quella divi-sione, capi-officina e, con ancor più interesse, perché erano di origine operaia e avevano asceso la gerarchia aziendale, capireparto e capisquadra - timoroso che le domande che avrei fatto potessero tradire la mia ignoranza, o che addirittura mi venisseopposta preliminarmente l'inutilità del lavoro che andavo facen-do. A volte, essendomi prima informato di chi fosse la persona da cui sarei andato, e avendone ricevuto giudizi di rispetto e notazioni sul prestigio di cui costui godeva in fabbrica, si acuiva il mio interesse a parlarle, ma anche la mia timidezza nel presen-tarmi. In questo modo andavo costruendo un po' alla volta l'ambiente della fabbrica come una cerchia di riconoscimento (per usare un termine che non usavo allora, ma che mi è familiare oggi come appartenente alla teoria nella quale, continuando a pensare a quelle cose, sono andato ingrovigliandomi), cioè come un ambiente in cui le persone si muovevano quasi davanti a sguardi virtuali dai quali si sentivano valutati e dai quali il loro lavoro riceveva senso e ambizione. Un intellettuale senza radici - come mi sentivo certamente io in quel momento, essendo state oramai trascinate via da successivi venti le esili radici che mi avevano tenuto precariamente fisso a questo o quel terreno, negli anni dell'università a Torino o in quelli di Vienna o di Parigi - un intellettuale senza radici, dicevo, è generalmente capace soltanto di immaginare cerchie di riconoscimento che siano pubbliche, che appaiono forti e ambite solo appunto perché pubbliche, cioè sanzionate attraverso comunicazioni che circolano apertamente tra tutti, per giornali, libri, premi, onori, celebrazioni, nomine isti-tuzionali. Più tardi avrei imparato che anche per gli intellettuali esistono, e tali da vincolarli intimamente, cerchie locali, assai limitatamente aperte al pubblico: gli studenti, i colleghi di un'università o di un istituto di ricerca o di un giornale, i propri pari di una determinata disciplina. Ma li trovavo una cerchia che si chiudeva all'interno di una fabbrica e del suo intorno formato da una piccola città più qualche paese, e chiuso in questa cerchia vedevo costituirsi un sistema di moralità forte, in cui le persone, per la qualità del loro lavoro, ma non solo, venivano giudicate, am-mirate, imitate o evitate, fatte oggetto di affabulazioni e leggende e motteggi, cui conseguivano rispetto o disprezzo, deferenza o dileggio o noncuranza, ma senza che tutto questo fuoriuscisse, trovasse corrispondenza in cerchie estranee, si comunicasse a persone non coinvolte. Cosi mi sorprendevo a speculare su come fosse diverso per i Pampaloni, i Momigliano, i Michele Ranchet-  ti, i Libero Bigiaretti, i Luciano Codignola, i Marco Forti, gli Ot-tiero Ottieri, i Giovanni Giudici, il senso di ciò che facevano inquella fabbrica, del prestigio che vi potevano godere, dei riconoscimenti da cui si facevano definire. La loro vera identità si era costituita, o, almeno, mirava a costituirsi, in un mondo diverso, tra intellettuali, cioè tra professionisti del far circolare il nome dei degni di riconoscimento tra una cerchia larga di pubblico anche remoto; quell'identità ognuno di loro avrebbe poi potuto arric-chirla, ma a suo beneplacito, se gli fosse convenuto, con i giudizi che riceveva da quanto faceva nella fabbrica. Come era diffe-rente, voglio dire, il senso dell'attività che costoro andavano svolgendo quotidianamente dal senso del lavoro dell'operaio attrezzista Giovanni Bovero, del caporeparto Giorgio Pautasso, dell'ingegner Carlo Corniglia e così via e così via, tutto racchiu-so, quel senso, nella tensione verso il prestigio che un po' alla volta si era formato fra i compagni di lavoro, fra i superiori, nella loro officina, poi per «voci» nelle altre officine, poi magari tra qualche conoscente fuori fabbrica: ché era questa la realtà che gli permetteva di pensare a se stessi con un po' di orgoglio, pur senza che nulla si trasmettesse a chi era fuori portata di quelle «voci».  E mi sembrava di poter estendere queste considerazioni alla situazione esistenziale dello stesso Adriano Olivetti e all'ambiguità dell'immagine che di lui si disegnava in azienda (in ditta, come si usava dire), al cui riconoscimento in qualche modo egli sfuggiva. per la molteplicità delle cerchie remote, ed estranee alla ditta, davanti alle quali, da gran signore della cultura internazionale, egli andava rappresentandosi. Apparteneva troppo poco a loro, ai suoi dipendenti, intendo, quel personaggio, troppo ricco di un patrimonio simbolico che andava cumulando per il mondo senza che loro vi partecipassero, e neppure ne capissero esattamente la natura, quando pur lui utilizzava il patrimonio materiale che proprio il loro lavoro gli forniva.  Andavo facendo queste riflessioni, o mi sembra che andassi facendo allora queste riflessioni, mentre entravo in contatto con una realtà che chiunque avrebbe considerato delle più normali; ma io mi trovavo in quello stato d'animo stupito e prensile, proprio di chi viaggia per un paese sconosciuto di cui ha sentito a lungo e vagamente parlare e ogni osservazione che va raccogliendo gli offre l'occasione per completare qualche percorso cognitivo già tracciato a casa propria, ma rimasto sospeso fino all'affiorare di questo o quell'inedito frammento di realtà.Ho sottolineato che quelle riflessioni «mi sembrava» che le fa-cessi, perché è probabile che allora non ci fosse nulla di più preciso che il sentimento nebuloso che avrei potuto farle. Soltanto in seguito maturerà lentamente in me la curiosità di capir meglio la vera natura del fenomeno della reputazione, del prestigio, della fama, che è poi a dire, con un termine comprensivo, del riconoscimento con cui gli altri ci definiscono, e dell'effetto che questo riconoscimento, o l'ambizione di esso, hanno su di noi, su quello che miriamo di compiere e sull'idea che riusciamo a farci di noi stessi. In quei giorni tutto restava in nuce, in uno stato d'animo di attenzione acuta, ma insieme di rinvio a sperate, più chiare comprensioni future.  Non potevo parlare con gli operai - «era meglio che non lo fa-cessi», mi era stato detto - per la doppia ragione che non andavano disturbati nel loro lavoro, il quale era quasi sempre a cottimo. cioè pagato per la quantità di produzione completata ogni ora, e ci avrebbero rimesso se li avessi costretti a interromperlo; e poi perché qualunque cosa dicessi avrei potuto esser visto come un membro della direzione che interpellava direttamente un operaio, e così commetteva un interferenza sia nei confronti del capo del reparto in cui quell'operaio lavorava, sia nei confronti dei sindacati, i quali erano l'altro organo autorizzato a parlare in fabbrica con gli operai. Li osservavo lavorare passando lungo le file delle lavora-zioni, dei montaggi, mi soffermavo davanti a questa o quella ope-razione, cercando di mostrare interesse più per la tecnica che per i gesti e il ritmo, ma dedicando attenzione nascosta proprio a quel-  li. Mi informavo poi con i capisquadra, o all'Ufficio tempi e meto-di, dei dati esatti relativi ai ritmi. Purtroppo non li ricordo più ora con sicurezza, anche se in quei giorni me ne ero impressi molti a memoria. Non erano ritmi chapliniani, né alle lavorazioni, né ai montaggi, i gesti sembravano calmi. Unanime poi era l'opinione - confermatami da sindacalisti e da operai con cui in seguito parlai  - che l'operaio preferiva fare operazioni di minor durata, e ripetere sempre la stessa operazione meccanicamente, piuttosto che variare operazione, o farne di più complesse da ripetere soltanto dopo passato un certo periodo di tempo. Le operazioni brevi e sempre le stesse rendevano possibile un atteggiamento meccanico verso il lavoro e assicuravano l'assenza assoluta di impegno mentale, e permettevano di pensare ad altro mentre si compivano quei ge-sti meccanici («penso alle cose da fare a casa» - «penso alla parti-ta», dicevano: le distrazioni generalmente non mettevano a rischio l'esattezza di una operazione). Era l'opposto di quanto andavano scrivendo, su giornali e riviste, gli intellettuali ben intenzionati che proponevano di riformare il lavoro nelle fabbriche. Ed era invece in linea con quanto sostenevano i sindacalisti, soprattutto di estrema sinistra, i quali consideravano che grazie all'esecuzione meccanica dei gesti lavorativi l'operaio manteneva la sua autonomia e il suo non coinvolgimento in quello che faceva, che non costituiva il suo lavoro, ma sempre inevitabilmente il lavoro del padrone. Un altro rovesciamento dialettico su cui meditare!?  Erano tutti d'accordo invece nel sostenere che si doveva affrettare l'eliminazione di quelle operazioni che si prestavano a venire eseguite così meccanicamente da poter essere affidate a una macchina. E infatti, in certi casi potevo osservare che la stessa operazione che in un'officina qualche operaia eseguiva manualmen-te, veniva già affidata a una macchina nell'officina vicina. Un'operaia prendeva da un cestello un bulloncino, lo collocava su di un altro pezzo già preparato nel quale doveva venir incorporato, con una leva spostava la testa di una pressa, col piede azionava un pe-dale, la pressa schiacciava il bulloncino e l'operazione era com-pletata. Erano passati dieci o quindici secondi. E subito l'operaia ricominciava, prendeva dal cestello un bulloncino, lo collocava sul pezzo... e avanti così (questo voleva dire che nella giornata di otto ore quell'operaia aveva ripetuto quella stessa operazione circa duemila volte). In un'officina vicina avevo visto l'identica operazione eseguita non dal braccio di un operaio, ma da un braccio incorporato in una macchina e totalmente automatico, che prendeva il bulloncino, lo collocava sopra il pezzo già preparato e così via. Li un operaio si limitava a sorvegliare diverse di queste mac-chine, e a intervenire solo quando s'inceppavano. Si trattava diuna tase di transizione, mi spiegavano, tutte le operazioni di quel tipo sarebbero state ben presto interamente automatizzate. Lo scopo dell'Ufficio tempi e metodi era proprio quello di ridisegnare il lavoro di fabbricazione e di montaggio in operazioni sempre più elementari, fino al punto che per eseguirle il braccio umano poteva venir agevolmente sostituito da un braccio automatico disegnato all'uopo.  Dopo qualche settimana avevo girato la fabbrica in largo e in lungo e paradossalmente la conoscevo meglio di molti che ci lavoravano dentro da anni e sul serio. Quando arrivavano visitatori illustri mi chiedevano di accompagnarli perché gli spiegassi le varie lavorazioni e funzioni. Avevo oramai parlato con qualche decina di ingegneri, funzionari amministrativi e capi-operai, e con alcuni di essi cominciavo ad avere, relativamente al mio compito, un rapporto di familiarità. Mi accorgevo che alcuni si erano fatta del mio ruolo - al di là dell'impegno che avevo in quel momento di redigere il manuale di fabbrica - un'impressione tutta sbaglia-ta. Non al corrente del mio rifiuto di adattarmi al compito originariamente assegnatomi da Adriano (preludio di ovvia e prossima caduta in disgrazia cortigiana), e vedendomi andare in giro per la fabbrica con la benedizione della presidenza, si figuravano che fossi nelle grazie del presidente stesso, e che questi mi avrebbe de-stinato, dopo una mansione ovviamente di iniziazione, a incarichi dirigenziali importanti. Li lasciavo pensare cosi (a meno che non gli scappasse qualche allusione sul tema, in questo caso smentivo animatamente) e approfittavo della loro buona disposizione per trar vantaggi per il mio lavoro, Malgrado però tale circostanza fa-vorevole, e malgrado avessi letto e riletto manuali di fabbrica i più esotici, e incominciato a buttar giù pagine di questo o quel previsto capitolo, cercando di semplificare, appianare, ammorbidire, distendere, sciogliere la mia prosa, abituata a un anno di attorci-gliamenti intorno al significato delle maschere dei Dogon o della tragedia greca, il lavoro procedeva molto a rilento.  9. Adriano  Intanto era ritornato Adriano. Non mi disse nulla riguardo al mio rifiuto di occuparmi delle sue biblioteche e centri comunitari. Miinvito a qualche riunione con visitatori stranieri che volevano conoscere la realtà aziendale, e due o tre volte, probabilmente su suggerimento di Pampaloni, mi chiese di scrivergli discorsi che doveva fare agli operai o a qualche altro uditorio. È difficile ricostruire ora l'atteggiamento che si andava formando in me nei confronti di Adriano Olivetti mano a mano che lo conoscevo meglio e che si scioglievano i reciproci atteggiamenti iniziali, di cortesia un po' convenzionale da parte sua e di silenziosa deferenza da parte mia. A casa sua, durante qualche ricevimento, o in casa di ami-ci, i Momigliano, i Pampaloni, avevo avuto qualche occasione di parlargli a tu per tu di cose non attinenti al lavoro, ma senza mai andare a fondo degli argomenti avviati. Una volta, a un gruppetto di persone in casa di amici - c'era anche, ricordo, Vasco Pra-tolini, tutto sorridente e sperso in quella realtà per lui nuova e verso la quale si sforzava di mostrare una diligente curiosità di neorealistico visitatore -, Adriano parlava delle sue idee sulla riforma sanitaria, e sosteneva, mi ricordo, che quando gli operai erano in assenza per malattia avrebbero dovuto venir pagati più che con la loro paga solita, perché dovevano sostenere maggiori spese. Gli ascoltatori annuivano tra il cortese e il perplesso, nessuno notava ad alta voce come fosse paradossale che proprio un imprenditore parlasse così, o osservava che in ogni caso la soluzione andava raggiunta con altri mezzi. Quando non parlava a un piccolo pubbli-co, durante i ricevimenti Adriano si sprofondava in un angolo di divano, in silenzio, mentre la gente chiacchierava intorno a lui, guardava nel vuoto tenendo in bocca l'indice di una mano, e ar-cuandolo, probabilmente perché non gli scivolasse via dalla boc-ca, sì che nella guancia gli appariva una sorta di rigonfiamento.  Erano le occasioni in cui provavo per lui una non ben determinabile simpatia, lo vedevo personaggio ricco e famoso e potente e insieme insicuro, tormentato; ideatore di opere capaci di dura-re, ma anche continuamente ansioso di fare più cose di quante gli riuscisse di ben definire; seduttore con il gusto di attrarre a sé e influenzare (e, alcuni dicevano, «intimamente corrompere») le persone che lo incuriosivano, o che gli era capitato di ammirare fuggevolmente, per poi magari sentirsi in diritto di lasciarle scivolar via per i rivoli non importa se fangosi del mercato; e insieme persuaso di essere un incompreso, e quindi timido e sospet-toso; calcolatore machiavellico e insieme compassionevole e ge-neroso; e lo vedevo li su quel divano, circondato da persone, assai poche delle quali gli erano in qualche modo familiari, in verità totalmente solo, forse consapevole che le forze per fare quello che avrebbe voluto fare stavano declinando malattia dopo ma-  lattia, forse incerto se quello che gli restava da fare valesse la pena di essere intrapreso.  Si diceva di lui che fosse rimasto profondamente colpito da giovane dalla preferenza che il padre, fondatore della fortuna fa-miliare, aveva mostrato verso il fratello più giovane, Massimo, dalla personalità geniale anche se labile, e morto precocemente subito dopo la fine della guerra. Si diceva anche che al momento delle leggi razziali la famiglia Olivetti si fosse riunita e il patriarca avesse deciso che uno di loro si sarebbe dovuto sacrificare e iscrivere al Partito nazionale fascista, indicando all'uopo Adriano, il quale del resto legalmente non era definibile come ebreo, la madre essendo protestante (il nonno era un pastore valdese). Così Adriano, pur furioso contro il padre, si era dovuto iscrivere. La leggenda è solo in parte vera. I rapporti di Adriano col fascismo, e più specificamente con la tendenza corporativa di sinistra che faceva capo a Bottai, risalivano ai primi anni Trenta ed erano funzione dei suoi progetti di pianificazione urbanistica e di riordino sociale in genere. Erano parte, cioè, di quell'onda di speranza che aveva avvicinato al regime architetti e urbanisti e altri intellettuali fascisti che si sentivano di sinistra e che immaginavano di poter influire sulle intenzioni corporatiste e pianificatrici intravedibili nel regime in quegli anni. Adriano vi vide qualche segnale di contiguità con le sue idee e ne scrisse su riviste quali «Il Lavoro fa-scista», «L'Ordine Corporativo», e fondò infine una rivista di tendenza corporativista, «Tecnica e Organizzazione», che continuò anche dopo la guerra.  Dopo 1'8 settembre era passato in Svizzera, lasciando la direzione dell'azienda a Gino Martinoli, suo cognato (era fratello di Natalia Ginzburg, oltre che della prima moglie di Adriano), il quale l'aveva diretta con molta abilità e molto consenso tra le maestranze e i dirigenti; tanto che al ritorno Adriano, sempre secondo «voci», era diventato geloso dell'ascendente del cognato e, con l'accordo della famiglia, gli aveva fatto abbandonare la direzione.  Martinoli, che poi conobbi e con cui collaborai in diverse occa-sioni, persona dolcissima e in qualche modo ingenua, ne rimaseassai ferito. Continuò poi una brillante carriera di alto dirigente industriale e, quando in pensione, di generoso organizzatore di ricerche sociali.  In Svizzera Adriano era andato elaborando le sue idee politi-che, aveva redatto un progetto di Stato comunitario che aveva inviato per lettera a una serie di personalità allora rifugiate in Svizzera come lui, e (mi raccontava anni dopo l'allora vicepresidente, e poi presidente, dell'Eni Boldrini, il quale tra gli altri aveva ricevuto la lettera) immaginato persino la bandiera che questo Stato avrebbe dovuto inalberare, non mi ricordo il colore (forse era pur sempre tricolore), ma mi ricordo lo stemma, una campana, la stessa che diventerà poi il marchio di Comunità; ed era disegnata a mano in chiusura della lettera. Verosimilmente quella lettera conteneva l'abbozzo del progetto che Olivetti avrebbe pubblicato subito dopo la fine della guerra nell'elegantemente curato volume  L'ordine politico delle Comunità (dello Stato secondo le leggi dello spirito), uno dei primi della nuova casa editrice da lui appena fondata con l'aiuto di Luciano Fuà. Ne ebbi subito una copia, quando arrivai, e così l'avevano tutti gli intellettuali e semi-intellettua-li, lì intorno, ma tutti ostentavano di non averlo letto, e sorridevano (a meno che non fossero true believer comunitari, e ce n'erano pochi), se uno glielo chiedeva. Come sempre in ambienti che vivono sotto l'ombrello di un personaggio carismatico, circolavano le battute sul linguaggio olivettiano; e così bisognava star attenti, in un salotto di Ivrea, a non informarsi di che misura avrebbero dovuto essere le dimensioni di qualche oggetto, piatto, mobile, edificio, macchina o territorio o altro di cui si parlasse, perché la risposta era già sulla punta della lingua dell'eventuale ben informato interlocutore: «né troppo grande, né troppo piccolo», che era appunto la dimensione che Olivetti insisteva dovesse essereassai ferito. Continuò poi una brillante carriera di alto dirigente industriale e, quando in pensione, di generoso organizzatore di ricerche sociali.  In Svizzera Adriano era andato elaborando le sue idee politi-che, aveva redatto un progetto di Stato comunitario che aveva inviato per lettera a una serie di personalità allora rifugiate in Svizzera come lui, e (mi raccontava anni dopo l'allora vicepresidente, e poi presidente, dell'Eni Boldrini, il quale tra gli altri aveva ricevuto la lettera) immaginato persino la bandiera che questo Stato avrebbe dovuto inalberare, non mi ricordo il colore (forse era pur sempre tricolore), ma mi ricordo lo stemma, una campana, la stessa che diventerà poi il marchio di Comunità; ed era disegnata a mano in chiusura della lettera. Verosimilmente quella lettera conteneva l'abbozzo del progetto che Olivetti avrebbe pubblicato subito dopo la fine della guerra nell'elegantemente curato volume  L'ordine politico delle Comunità (dello Stato secondo le leggi dello spirito), uno dei primi della nuova casa editrice da lui appena fondata con l'aiuto di Luciano Fuà. Ne ebbi subito una copia, quando arrivai, e così l'avevano tutti gli intellettuali e semi-intellettua-li, lì intorno, ma tutti ostentavano di non averlo letto, e sorridevano (a meno che non fossero true believer comunitari, e ce n'erano pochi), se uno glielo chiedeva. Come sempre in ambienti che vivono sotto l'ombrello di un personaggio carismatico, circolavano le battute sul linguaggio olivettiano; e così bisognava star attenti, in un salotto di Ivrea, a non informarsi di che misura avrebbero dovuto essere le dimensioni di qualche oggetto, piatto, mobile, edificio, macchina o territorio o altro di cui si parlasse, perché la risposta era già sulla punta della lingua dell'eventuale ben informato interlocutore: «né troppo grande, né troppo piccolo», che era appunto la dimensione che Olivetti insisteva dovesse esserezione giusta, Olivetti a un certo punto si spazientisse e volesse metter mano alla cazzuola, ma, bloccato al suo tavolo, finisse per ritrovarsi bambino a combinare i cubetti del Lego. Si presentò con il suo Movimento, diventato apertamente politico, e alcuni al-leati, alle elezioni del 1958, e dopo una campagna costosissima ottenne un seggio di deputato, quello del capolista, il suo, invece dei sette-otto, più almeno tre di senatore, che si aspettava. I maligni sussurravano che con metà dei soldi che aveva speso la De di seggi gliene avrebbe dati ben di più. In realtà trattative per presentarsi alle elezioni nelle liste della democrazia cristiana se ne erano avute a più riprese, e la segreteria romana, che era favorevole, aveva dovuto cedere all'opposizione dei democristiani locali che invece non ne volevano sapere (probabilmente anche per timore di dover cedere seggi; questo era soprattutto il caso di Pella, che non voleva vedersi capitare Olivetti nel suo biellese). Adriano, del re-sto, aveva molta ammirazione per Fanfani; e inoltre era recente la sua conversione al cattolicesimo. Da documenti ritrovati dopo la morte si è visto che quella conversione non era soltanto funzionale al matrimonio religioso con la nuova moglie, come molti pen-savano, ma rispondeva a un reale atteggiamento di ammirazione per il cattolicesimo come dottrina di ordine socialet  Dopo qualche mese si stancò di fare il deputato, si dimise e lasciò il suo seggio a Franco Ferrarotti, che aveva avuto il secondo posto nella lista grazie a una campagna elettorale molto attiva e abile nel Canavese.  Negli anni prima di morire Adriano lottò contro la malattia e contro la famiglia che voleva togliergli il controllo della società, temendo che ne sperperasse le risorse per le sue fantasie politiche.  Seppi della sua morte a Teheran, dove mi trovavo per il primo lavoro che mi era stato offerto dopo gli oltre due anni di disoccupazione seguiti al licenziamento dall'azienda. Qualcuno mi disse che era morto viaggiando verso la Svizzera, dove andava a trovare la figlia bambina, e che quando si era accorto dell'attacco al cuore si era trascinato per il corridoio, sballottato per gli urti del treno in corsa, da uno scompartimento all'altro, senza che dapprima i viag-giatori che lo vedevano agitarsi capissero bene di che cosa quell'uomo stesse in quel modo strano andando in cerca.  10. Organizzazione aziendale  o corte del principe?  Armanda Guiducci, letterata pura, era sempre presente e attiva alle nostre discussioni culturali e politiche, ma restava assolutamente estranea a tutto quanto riguardasse la fabbrica e non capiva come invece noi, pur fondamentalmente formati in una cultura filosofica e letteraria, ne potessimo essere coinvolti, mostrandoci appassionati a interpretare quanto vi succedeva. Si stupì assai quando, avendomi chiesto come giudicassi l'esperienza che stavo attraversando, io le dissi che la consideravo fondamentale, un po' come una mia seconda università. Me ne chiese il perché, e le parlai della straordinaria, almeno per me, esperienza che era quella di operare quotidianamente all'interno di un'organizzazione produttiva a vincoli forti, dall'ordine rigoroso, dove ogni mossa è finalizzata a precise e prevedibili conseguenze, dove è necessario entrare in questo gioco di ricostruzione delle aspettative diffuse riguardanti il proprio comportamento se non si vuole che esso risalti subito non soltanto come insipiente, ma come diretto a vuoto, vano, poco serio, egotistico. L'osservazione delle interdipendenze produttive, delle prevedibilità incorporate nel più minuto operare di ogni persona, della coerenza tra ambiente tecnico e mosse umane, mi aveva aperto un mondo che era estraneo, sì, a quello nel quale mi ero formato, ma che si mostrava capace di affascinarmi quanto più mi accorgevo che stava diventando naturale muovermi in esso; quasi si aprisse davanti a me, mi occorse ironicamente di pensare, in maniera analoga a come si erano elettronicamente aperte davanti ai miei passi le portiere che dividevano uno dall'altro i reparti della fabbrica, suscitandomi, la prima volta che le avevo attraversate, una stupita incredulità (erava-  mo, si ricordi, nel 1953), che mi aveva fatto sostare di botto, ritornare indietro, esaminare tutto intorno gli stipiti, poi guardare in alto, riattraversare due o tre volte, improvviso e non mimato Jacques Tati, per fortuna in quel momento senza spettatori, prima di capir bene (ma l'ho mai capita bene?) la diavoleria. E ri-cordo l'infantile vanità di ostentare confidenza con l'ambiente tecnico, durante la visita di un mio vecchio amico parigino che condussi in giro per la fabbrica. Passammo per quelle stesse porte che ci si spalancavano davanti, io con una naturalezza che intendevo sottolineare stando attento a trattenermi dal far com-menti, ché dovevo mostrare come per me fossero superflui, mentre però spiavo con la coda dell'occhio le contenute espressioni di sorpresa dell'amico, che anche lui si trovava per la prima volta di fronte a quel tipo di marchingegno.  Ma c'era di più, nell'esperienza che si faceva all'Olivetti, che non i calcoli dell'organizzazione e gli stupori della tecnica. Almeno per chi girasse negli ambienti della presidenza e dell'alta diri-genza, la Olivetti non era soltanto una per quegli anni modernissima organizzazione produttiva, era anche una corte. A chi mi avesse chiesto come meglio prepararsi per andarci a vivere, prima dei lavori di Herbert Simon o Jim March, gli avrei consigliato di leggersi attentamente il Castiglione o le memorie del duca di Saint Simon.  Un'atmosfera di corte la percepisci ai primi imbarazzi. Ti accorgi che qualcuno si comporta nei tuoi confronti in maniera che non ti aspettavi e capisci, o credi di capire, o credi che ti vogliano far capire, che quel nuovo comportamento va riportato a qualche evento che ha alterato i tuoi rapporti con una terza persona da cui lui e te in qualche modo dipendete. Se tardi a capire, allora è lui che ti ci conduce con qualche innuendo. Se la terza persona cui si allude, cui si sembra alludere, risulta essere «il presidente» - che è come dire «il principe» - gli effetti di questo comportamento inatteso non sono da prendere alla leggera, te li ritrovi addosso per giorni. Vai a parlare con altri, cerchi di capire, sempre il più obliquamente che puoi, se hai proprio visto giusto, se sei irrimediabilmente in «disgrazia», a che cosa ciò possa essere dovuto, se intorno a te gli altri pensano che questa situazione durerà. Rivedo una pagina di diario in cui raccontavo di un amico che si era accorto di essere in disgrazia:  A. mi racconta - scrivevo - dei modi con cui il Presidente gli esprime il suo malgarbo, o scarsa simpatia, oppure indifferenza. Capita che saluta tre o quattro persone in mezzo alle quali si trova lui, e lui lo sca-valca, e poi magari, come ripensandoci, ritorna indietro e gli dà la ma-no, ma assai frettolosamente. Alcuni amici gli hanno riferito che il Presidente si è lamentato con loro perché lui aveva svolto male il lavoro che gli era stato affidato. E evidente che ad A. costa molto parlare con altri, anche suo amici, quale sono io, di questi segni della sua 'disgra-  zia', e che a lungo si è sforzato di tenersela per sé. Mi dice: le racconto a te queste cose perché tu sai di che natura sono, sai che cosa significa 'essere in disgrazia.  Se mi guardo dentro con attenzione - continuavo in quella pagina di diario - mi accorgo di sentire una punta di soddisfazione ascoltan-dolo. Malgrado mi sia amico e lo abbia in simpatia e sia riconoscente della gentilezza che mi dimostra anche essendo io, appunto, in disgrazia [...] mi urta la sproporzione tra quanto lui dà mostra di credere di sé e quanto in realtà vale. Adesso, vederlo riabbassato dalla sua disgrazia lo giudico un riequilibrio dovuto. Ma mi rimprovero immediatamente di questo sentimento, che per fortuna resta tenuissimo e scompare. Occorre dare importanza a giudizi più fondati nei nostri rapporti con gli altri.  Si tratta di una pagina, è chiaro, il cui interesse non sta tanto in ciò che racconta, quanto in ciò che implicitamente rivela; poiché illustra la tortuosità delle situazioni cortigiane: scritta da una persona che si trovava «in disgrazia», come era appunto il mio ca-so, la quale annotava gli stati d'animo di un amico a sua volta «in disgrazia», e osservandoli si faceva tentare da sentimenti di approvazione della disgrazia altrui, subito però vergognandosene e cercando, con più o meno successo, di espellerli.  In simile clima si sviluppavano poi strane tecniche di rapporti burocratici. Ti capitava di essere molto in confidenza con qualcuno, e aver con lui rapporti normali e cordiali. Un giorno lo vai a trovare, ti risponde appena, non ti guarda, se sei nel suo ufficio ti fa capire, o ti dice esplicitamente, che non ha tempo per parlarti e che è meglio che te ne esci. Lo incontri dopo qualche giorno e magari lui è ritornato alla cordialità di prima. Incominci a guardarti meglio in giro e ti accorgi che questa tecnica del caldo e freddo non è sporadica, la scopri in altri casi, la trovi applicata sistematicamente, te la senti, insomma, tutt'intorno come una pellicola che ti si può appiccicare addosso quando meno te lo aspetti e hai terrore di restare poi incapace di spiccicartene.  Capisci allora che si tratta di una tecnica che ha la funzione di permettere a chi pur non sia collocato in posizione gerarchica-mente eccelsa di auto-attribuirsi il potere di determinare «micro-disgrazie» e «micro-fortune», sia facendo credere di possedere autonomamente questo potere, sia alludendo che si tratta di un potere che costui riceve dai suoi contatti con la fonte ultima di tutti i poteri aziendali. E questo ti umilia ancora di più, perché ti rendi conto che a lui non costa nulla comportarsi in quel modo offensivo con te, non teme tue rappresaglie, quindi tu sei poco più che spazzatura, e neppur ha senso che te la prendi con lui, la colpa evidentemente sta in te.  11. L'illuminismo magico  Aggiungi, altro tocco, come dire, rinascimentale, la presenza di una dimensione che ti sfuggiva, nei confronti della quale tutt'al più potevi difenderti ironizzando, una dimensione misteriosa, quella dei riferimenti magico-religioso-junghiani di Adriano. Negli ambienti intorno ad Adriano se ne scherzava, ma si sapeva anche che quei riferimenti, e le tecniche di valutazione umana che ne derivavano, influenzavano i giudizi che Adriano si formava delle persone che lo interessavano, e persino le decisioni su chi assu-mere. Si diceva che Adriano si servisse di due grafologi (non intendo assolutamente affermare che la grafologia sia magia, ma spesso chi bazzica con l'una bazzica anche con l'altra), in due città differenti, e che mandava a entrambi le domande di assunzione di dirigenti e collaboratori vicini (si era imperativamente richiesti di scriverle a mano). I grafologi consultati erano due perché, non si sa se per residuo di spirito scientifico o per diffidenza, Adriano li controllava uno con l'altro. Un giorno, quando Adriano era via, capito che alcuni amici che lavoravano agli uffici della presidenza avessero in mano le chiavi degli schedari dove erano conservate le analisi grafologiche. Vennero da me e da altri a raccontarcelo ri-dacchiando. Avevano visto tra le altre anche la mia. Curiosissimo, chiesi subito cosa conteneva. «E buona, è buona..» - «Ma cosa contiene esattamente?», cercai di insistere. Non me lo vollero di-  re, ripetendo solo «si, si, è molto buona». Ne dedussi che doveva contenere anche qualche malevolo negativo giudizio, ma lasciai andare, oramai i giochi erano fatti, ero già assunto, e da tempo «in disgrazia», in ogni caso.Potrà sembrar strano che una persona come Adriano Olivetti. di formazione tecnica, oltre che di ampia cultura moderna, frequentatore di letterati, filosofi e intellettuali laici in genere, si muovesse poi, privatamente, quasi nascostamente, entro questo «sce-nario magico-religioso», come lo descrive Pampaloni in quel suo ricordo che ho citato prima, nel quale qualche riga dopo definisce Olivetti «uno strano illuminista» («magico»). Ma bazzicando in quegli anni, per ragioni di lavoro, tra la letteratura (libri e liberco-li, riviste, opuscoli) di cui si pascevano i dirigenti industriali e gli imprenditori, mi accorsi che la cosa era poi meno eccezionale di quanto a prima vista si sarebbe potuto credere. Astrologia, erme-tismo, cultura magica varia abbondavano tra le letture dei capi della nostra industria in quegli anni (e oggi?). Cercai di darmene spiegazione congetturando che il grande, incontrollato potere umano (potere sul destino di altri uomini) di cui quella classe di persone arrivava a godere, a volte, per vicende varie, senza esserselo aspet-tato, e quasi sempre senza esservi umanamente e culturalmente preparati - preparati, voglio dire, a capire e osservare le regole che quello specifico tipo di rapporti umani comportava - li lasciasse spesso assai incerti sulla natura di quel potere, e sulla legittima-zione, non soltanto giuridica, con cui giustificarlo. Ne scaturiva un desiderio di spiegazioni facili e rapide (è gente che non ha molto tempo libero, si sa) del mondo in generale (magari dei mondi, ancor più in generale), e quindi anche del loro ruolo nel pezzo di mondo in cui qualche destino li aveva condotti a operare e co-mandare. Quel tipo di letteratura glielo soddisfaceva.  In quel mondo, dunque, o ai suoi margini, mi andavo muo-vendo, cercando di spiegarmi le sue sottigliezze e i suoi giuochi, in termini augurabilmente più razionali di quelli dell'astrologia, non con l'ambizione di teorizzarlo, ma semplicemente per sentir-mi, e apparire, meno impacciato, quando non sapevo se entrare nell'ufficio di un incerto amico o non entrarvi; se salutare il potente direttore amministrativo che faceva finta di non vederti o far finta di non vederlo a tua volta, e rivolgergli, o no, la parola quando stavate quei terribili secondi insieme nell'ascensore; se ritenerti offeso da qualche sgarbo, o invece no, perché in realtà quell'atto nel codice di corte sgarbo non era, e in ogni caso, poi, cosa avresti veramente fatto, una volta che avessi deciso che era sgarbo, e che, si, ti dovevi sentire offeso?Mi resi conto ben presto che anche a capirne il gioco non bastava a liberartene veramente. Fossi rimasto qualche anno ancora, presagivo con un certo, non so quanto palesato a me stesso, spa-vento, anch'io, nel mio piccolo, se devo dir cosi, pur restando, cioè, per quel rifiuto iniziale di collaborare con «Comunità», nella mia situazione di originaria e non superabile cortigiana «di-sgrazia», avrei finito per omologarmi, avrei cioè adottato le stesse superflue strategie, le stesse mosse felpate, le stesse calcolate cau-tele, e sarei stato percorso dalle stesse subitanee agitazioni, e adombramenti segreti, e poi piccole agognate soddisfazioni, che vedevo rivelarsi negli sguardi delle persone attorno a me. Forse è anche per questo, senza rendermene conto chiaramente, che colsi l'occasione di rompere radicalmente con quel mondo quando partecipai alle elezioni del Consiglio di gestione contro il sindacato del padrone. O forse non solo per questo, vedremo, ma, in-  somma, così andò.  12. I primi passi «miei»  Prima però occorre che dedichi qualche riga all'unico lavoro serio che riuscii a portare a termine in quella fabbrica. Stabilito, per ammissione di tutti, che un manuale di fabbrica che accontentasse insieme il presidente, gli ingegneri, i capi, la Commissione in-terna, e servisse poi agli operai, era impresa impossibile, si pose il problema di cosa altro farmi fare. La soluzione, per la direzione, fu semplice. Mi dissero: hai ormai esperienza sufficiente della situazione organizzativa dell'azienda: pensa tu a un servizio che possa essere utile, facci tu una proposta, compila un ordine di ser-vizio, con un buon memorandum che ne illustri le ragioni.  Mi chiusi nell'ufficetto che mi avevano assegnato e mi misi a pensarci su. Si noti che non mi dettero una scadenza, potevo prendermi tutto il tempo che volevo. Ero un po' preoccupato, perché dovevo dedurne che la mia presenza contava poco, era vista come un sopportabile costo e niente più. Ne parlai con amici, che però mi rassicurarono: sappi che l'ingegner B. (uno dei dirigenti carismatici dei «Progetti»), quando fu assunto, anni fa, restò sette-ot-to mesi senza che gli dicessero cosa l'avessero preso a fare. Poi la sua carriera svetto. Sorrisi all'idea che la mia carriera potesse maisvettare, ma pensai che era in ogni caso nel mio interesse avere una mansione precisa al più presto possibile. Mi informai di cosa fosse veramente un «ordine di servizio» mirante a istituire un nuovo ufficio, come dovesse esser redatto, e dopo qualche tempo ne produssi uno con il quale, in cinque o sei pagine, proponevo la costituzione dell'Ufficio studi relazioni sociali (nome un po' barzotto, al quale però si dovette arrivare dopo negoziati e veti vari) - praticamente un centro di ricerca di sociologia del lavoro (ce n'era già uno per le applicazioni della psicotecnica, ma non per ricerche che restassero autonome dalle richieste della direzione del perso-nale). Con mia, e non solo mia, sorpresa (avevo già capito abbastanza di come funzionasse l'organizzazione aziendale per non essermi armato del necessario corazzante scetticismo), la mia proposta fu accolta, e ricevetti persino lodi per come era redatto il me-  morandum.  Mi assegnarono uffici e personale, e non mi sognai di lamentarmi anche quando ben presto mi accorsi che si trattava sia di uffici sia di personale che non si sapeva come altro impiegare. Gli uffici erano nel cosiddetto «convento» (immagino che esista ancora - era appunto stato originariamente un convento), luogo sacro nella tradizione della famiglia Olivetti, poiché era servito da abitazione a Camillo, che da li aveva guidato i primi passi del-l'azienda, una quarantina di anni prima. Nessuno voleva andare a lavorarvi perché era collocato in un posto un po' staccato dalla fabbrica e dalla direzione, e ciò rendeva difficili i rapporti quotidiani con gli altri uffici. Ma a me stava alla perfezione, tre o quattro grandi stanze, in pieno verde, bosco e campi da tennis vicini. dove potevo andare appena finito il lavoro. Quanto al personale, era anch'esso «residuo», per dir così, erano cioè impiegati che nessun altro ufficio desiderava tenersi. La segretaria, mi informarono amici, era considerata una specie di strega (un po' ne aveva l'aria, pur dovendo essere stata una bella donna da giovane), che litigava con tutti e veniva quindi immancabilmente trasferita da un ufficio altro. Ma con me andò d'accordo, fu gentilissima e lavorò senza una pecca, o senza una pecca grave che io ricordi, al-meno. Era la prima volta in vita mia che avevo una segretaria a mia disposizione, e probabilmente ero particolarmente gentile anch'io (ma non è stato diverso negli altri otto o dieci casi in cui mi capito di avere segretarie che hanno lavorato per me). Quanto all'assi-stente, era un impiegato sulla quarantina, laureato credo in legge (e, anche scontando il basso livello delle università italiane del do-poguerra, mi domando per quali mai vie traverse), giudicato da chi lo conosceva, e non se lo voleva vicino, un tipo un po' stram-bo, con vaghe ubbie culturali. Devo dire che non riuscii a utilizzarlo del tutto efficientemente, ma ci andai d'accordo, ogni tanto entrando con lui persino in discussioni culturali, nelle quali mi spiegava le sue teorie del mondo, il quale mondo, mi accorsi una volta, secondo lui esisteva dal 4000 a.C. (la persona, si noti, non era credente). Quando gli obiettai che, a quanto si poteva sapere, esisteva da molto più tempo, mi rispose che intendeva dire che era l'uomo che esisteva da quelle sei migliaia di anni. Debolmente insistei che anche per l'origine dell'uomo la data andava di molto anticipata. Sembrava pronto a negoziare anche la data dell'origine dell'uomo, ma almeno qualcosa che ci fosse soltanto dal 4000 a.C. gli sembrava necessario trovarlo. Il linguaggio? Anche su quello, gli dissi... Infine gli proposi di considerare che quella poteva essere una buona data per fissare all'incirca l'origine della scrittura, e lui sembrò pacificato e pronto a riprendere il ragiona-mento; che non ricordo quale fosse, cioè che cosa mirasse a dedurre da quella datazione, una volta impietosamente sottrattogli il riferimento ad Adamo ed Eva. Avevo insomma di fronte un interessante caso di disordinato provinciale desiderio di sapere - o meglio, bisogno di sistemare un certo scarso numero di disparate informazioni - che si muoveva da un'incredibile assenza di basi culturali elementari, supplita al più da alcune nozioni bibliche ricevute forse in catechismo e non più corrette. Ne dovetti concludere che in ben poche situazioni avrei potuto da lui farmi as-sistere.  Bloccata l'ansia del mio assistente di discutere sull'origine del mondo, negoziai con la direzione (cioè, in questo caso, Momi-gliano, ma credo che lui si consultasse con Pampaloni) il lancio di una ricerca sui cosiddetti «capi-intermedi». In gran parte della letteratura aziendalistica di allora la «questione dei capi» era considerata cruciale per l'andamento di una buona organizzazione aziendale. Costituivano la mediazione indispensabile tra la direzione che dava gli ordini generali e la mano d'opera che doveva eseguire. Se di origine operaia, come era spesso il caso, non conoscevano i metodi nuovi di organizzazione, o non li credevanonecessari. Se di origine tecnica (alcuni capiofficina erano inge-gneri, la gran parte erano periti tecnici industriali) potevano trovare difficoltà ad avere rapporti sciolti con gli operai. La riuscita di eventuali innovazioni organizzative o tecniche (che erano con-  tinue) dipendeva inevitabilmente da loro. E da loro dipendeva anche il cosiddetto «morale» dell'azienda, quell'entità che resta in-  definibile, malgrado gli sforzi definitori della letteratura azienda-listica, ma che è assai facile, passati alcuni giorni in un'azienda a guardare e parlare, capire se sia alto o sia basso:  Lavorai diversi mesi e alla fine consegnai un rapporto di ricerca di una cinquantina di pagine, corredato da diverse decine di pagine di protocolli d'interviste. Credo di aver riletto per la prima volta quel rapporto ieri, dopo - quanti sono ormai? - 43 an-ni! Mi aspettavo di peggio, è ancora leggibile. E ho scoperto persino alcune cose interessanti che avevo dimenticato.  Feci, tutte io (mica potevo fidarmi di mandarci il mio cosmo-gonico assistente), più di 50 interviste (34 scelte con regolare cam-pionamento, le altre a informatori qualificati), a operai, a capi, a dirigenti. Mi si rivelò allora quanto fosse forte in me il gusto del-  l'intervistare. Da allora per anni e anni, a ogni occasione di ricer-ca, mi sono organizzato per intervistare io stesso il maggior numero possibile di persone, e nel corso della mia vita di lavoro sociologico calcolo, all'ingrosso, che avrò fatto, tra l'una o l'altra ri-cerca, da solo o con aiuti, diverse centinaia di interviste. Ricordo l'ultima, quattro o cinque anni fa, insieme con Donatella della Porta, e con solo iniziale imbarazzo, a un politico locale in attesa di sentenza definitiva di condanna per corruzione. Nella situazione di intervista «non strutturata» (così si chiamano nel nostro gergo le interviste in cui non si usa un questionario predeterminato, ma soltanto una traccia che puoi adattare a seconda di come procede il colloquio) ti attrae il gusto di far parlare una persona che non conosci su temi che tu scegli, e su cui magari lei all'inizio non capisce bene di cosa esattamente si tratta, ma dopo un po' ti accorgi che le viene voglia di dire più cose di quanto tu le chiedi, perché si trova di fronte a un'occasione rara: qualcuno che sta ad ascoltarla su argomenti che lei conosce, o crede di conoscere, e che la lascia parlare. Ti si apre così la possibilità di penetrare nella nicchia delle immagini familiari di una persona (pensai una volta di chiamare questa attrazione il «complesso di Asmodeo», ri-cordando il diavolo che scoperchia i tetti delle case, caro a François Mauriac), scavando al di sotto dei riassunti vaghi, che lei di primo acchito sarebbe pronta a darti, ma che tu ti sei preparato a non accettare ciecamente per buoni, delle situazioni che t'interessano, per arrivare ai gesti, agli atti visibili che le hanno create, alle connessioni inattese con altre situazioni; e mentre l'ascolti cercar di trarre da sé il più presentabile di sé, la vedi poi finir per rivelarti ciò che lei stessa arriva a capire mano a mano che ti parla.  La ricerca fece venire alla luce - tra altre cose che ora hanno perduto il loro interesse - che anche in un'organizzazione tanto attenta al cosiddetto «fattore umano», qual era l'Olivetti, i germi dell'autoritarismo erano vivi, e cosi l'insofferenza per esso. Ma la protesta oscura che veniva alla luce non era tanto quella contro l'autoritarismo del comando aspro o ingiusto, piuttosto, invece, quella contro l'esercizio dell'autorità che rende possibile l'indif-ferenza, il non ascolto, lo sprezzo per la collaborazione offerta, il non riconoscimento della tua esistenza. E capivi che quella forma di «potere culturale» (come altro chiamarlo?), di cui si fa forte chi ti tiene condiscendentemente a distanza, si rifiuta di prendere in considerazione ciò che chiedi o che proponi, ti ignora o non ti par-la, ti esclude, mostrando la tua irrilevanza, dalle decisioni che riguardano il modo in cui tu devi lavorare, insomma ti fa «sentire una merda», come mi si diceva, perché non sai quello che solo sa chi sa - era quel potere a creare dispetto, o ribollimento interiore, e umiliazione. Mentre il puro comando gerarchico, prevedibile, apparentemente anonimo, quasi prodotto da una macchina, che non fa emergere responsabili contro cui indignarsi, è uguale per tutti, stabilisce automaticamente chi deve ubbidire e chi corrispondentemente deve comandare, si presenta come assai meno offensivo dell'altro, e tutt'al più provoca risentimenti astratti. Forse in quelle deplorazioni e querele veniva a galla una certa nostalgia dei rapporti paternalistici che avevano retto l'azienda fino a poco tempo prima, e ancora vigevano qua e là, pur perdendo terreno di fronte all'introdursi di rapporti gerarchici più freddi e distanti.  Ma c'è dell'altro, credo, in questo processo dello stratificarsi soggettivo in termini di sapere, che lo fa più escludente e più offensivo di altre forme di distanza sociale. Lo ritroverò quando, anni do-po, condurrò ricerche nelle sezioni dei partiti di sinistra, e me ne rioccuperò con più attenzione.Nello stesso tempo si manifestava, in chi aveva l'età per con-frontare, la consapevolezza che gli atteggiamenti impositivi fossero assai mitigati rispetto a prima della guerra, e che erano assai rari i casi di scortettezza da parte dei capi; anche se si riconosceva che pure durante il fascismo all'Olivetti il rispetto degli operai si era in qualche modo mantenuto. Del resto, durante il fascismo, la dialettica interna di fabbrica, come sembrava di poterla ricostruire dai ricordi di chi era stato operaio allora, non era così linearmente determinabile come ce la si può immaginare sulla base dei luoghi comuni. Il ricordo era che i fiduciari dei sindacati fascisti (e questo mi sarà confermato in colloqui che ebbi altrove con operai anziani della Cgil), quando c'erano controversie con la direzione, intervenivano spesso, non senza effetto, in favore degli operai.  Ritornando all'importanza del possesso di sapere come criterio duro di separazione sociale, mi andavo domandando se il prestigio che all'Olivetti veniva attribuito dall'alto agli intellettuali non percolasse giù fino ai livelli inferiori dell'organizzazione e rafforzasse la separazione tra chi vedeva incluso nei suoi compiti quello di conoscere, informarsi, accrescere il suo sapere, fosse pure non immediatamente funzionale alle sue mansioni, e chi di questa possibilità era privo. Simile atteggiamento rafforzava anche quel contrasto, che è consueto in tutte le organizzazioni, tra line e staff: o volendo italianizzarlo con la più espressiva terminologia milita-re, tra comando e stato maggiore (di cui staff, si sa, è la traduzione inglese). Lo staff include chi dice come si deve lavorare; la line chi comanda che si deve lavorare. Nello staff risiede il sapere, e la responsabilità di accrescerlo; nella line c'è il rapporto tra persone, o, come ci si esprime con un certo orgoglio usando la terminologia militare, il comando di uomini, con relativo possesso del-l'ascendente necessario per farsi ubbidire. E non ci si meravigli se mi servo della terminologia militare; non è soltanto per confronti che ho personalmente avuto occasione di poter fare, ma anche perché si dà caso che lo stesso Adriano Olivetti non trascurasse di notare le analogie tra una fabbrica e un'unità militare. Pensava in particolare alla nave da guerra; tanto che aveva assunto, per farli diventare dirigenti, una certa quantità di ex ufficiali di marina (che nel dopoguerra si trovavano ovviamente in abbondanza sul mercato). Uno di questi, l'ingegner Tufarelli, che arrivò poi ai vertici aziendali non solo dell'Olivetti, ma anche, successivamente,della Fiat a cui era passato, fu assunto lo stesso giorno in cui ero stato assunto io, e restammo a lungo amici, comunicandoci i nostri primi disvelamenti della fabbrica; e mi diceva appunto come Adriano gli avesse sostenuto l'importanza di quell'analogia, perché nave e fabbrica richiedono insieme, per esser guidate bene, sapere tecnico e capacità di comando di uomini.  Per parte mia, mi colpiva una diversa analogia, la quale richiama piuttosto una fondamentale capacità umana, la capacità di investire di valore una situazione che in partenza appare di inferio-rità. Cerco di spiegarmi. L'appartenere allo staff, allo stato mag-giore, proprio per il prestigio del possesso di «sapere» che lo ca-ratterizza, comporta, a parità di altre condizioni, una presunzione di superiorità, e quindi un potenziale atteggiamento di spregio per chi non vi appartiene. Corrispondentemente, lavorare nella li-ne (nel caso dell'esercito, «con la truppa») comporta lo svolgimento di compiti altrettanto indispensabili di quelli dello staff, ma assai meno prestigiosi. Per evitare frustrazioni e malcontenti occorre riequilibrare le attribuzioni di prestigio. Ciò avviene attraverso un processo di reinterpretazione dei significati dei compiti organizzativi. Di quelli che rischiano di venir sviliti si mettono in risalto qualità arcanamente preziose, più innate che acquisibili, la «capacità di conoscere gli uomini», il «saper come si risolvono situazioni umanamente difficili», il «saper motivare i dipendenti», e, in una parola, appunto, il possedere ‹«l'arte del comando di uo-mini». La capacità di distinguersi in quelle posizioni organizzative viene allora apprezzata per un suo valore intrinseco, e genera prestigio, che si può contrapporre allo stesso sapere tecnico, quasi a permettere di tenerlo, o di pretendere di tenerlo, a vile; e chi svolge quei compiti potrà inorgoglirsi. Si capisce meglio, considerando questo meccanismo psicologico, anche il fallimento del fordismo prima maniera, che, nella fabbrica, aveva mirato a ridurre tutti i rapporti gerarchici a rapporti funzionali.  Queste osservazioni trasparivano nei colloqui che andavo fa-cendo, anche se non le ripresi esplicitamente nel rapporto che scrissi.  Nel quale, pur marginalmente, trattai invece di un'osservazione curiosa che, dopo decenni di lontananza da quegli ambienti, mi sono accorto che avevo scordato, e che leggendo il rapporto mi è ritornata nella sua vivezza e nella sorpresa che mi aveva provo-cato: che la capacità o meno di usare il disegno industriale distingueva due classi di lavoratori, e l'accedervi rappresentava l'ambizione maggiore degli operai non specializzati che ne erano privi.  Era quasi commovente ascoltare come tra molti di quegli operai l'idea di imparare un giorno a usare il disegno si ponesse come una meta di emancipazione dal lavoro bruto cui erano in quel momento impiegati. Esser capaci di disegnare una macchina, un meccanismo, un processo produttivo, e operare poi con quel di-  segno, rappresentava la possibilità di avere a che fare con una realtà della mente, invece che con la realtà delle mani, del corpo, con cui aveva invece a che fare il loro lavoro di operai comuni. Era una manifestazione emotiva del riconoscimento di superiorità che l'astratto gode sul concreto. E non era soltanto perché il possederlo poteva rappresentare promozione sociale. Nelle loro parole si esprimeva forte l'esigenza di liberarsi dall'indecifrabilità bruta della macchina, e ridurre a segni ordinati la materia che li so-  vrastava.  Consegnai il rapporto, fu lodato. Occorreva ora, mi si disse, discuterlo in gruppi più ampi, organizzare riunioni con capi e diri-genti. Ma tutto questo non avvenne. Stava succedendo dell'altro.  Per qualcuno, il finimondo.  13. Il finimondo  Il Movimento di Comunità si era trasformato da culturale in politico nel 1954. Nel maggio del 1956 aveva partecipato alle elezioni amministrative, ottenendo una clamorosa vittoria nel Canave-se, e Adriano Olivetti era diventato sindaco di Ivrea. Contemporaneamente viene fondata, col nome di Autonomia operaia (sic!), l'organizzazione sindacale del Movimento, che assorbe la socialdemocratica Uil. Contro il parere di Momigliano, che ne era il superiore diretto, viene allontanato il capo del personale operai, Filiberto Pomo, un ex capo partigiano carismatico, e il suo assi-stente, accusati di porre ostacoli all'introduzione in fabbrica del sindacato di Comunità. A Franco Momigliano vengono sottratte gran parte delle sue competenze (alcuni mesi dopo verrà trasferito a un ufficio studi economici dell'Olivetti a Milano). Luciana  Momigliano Nissim, moglie di Franco, reduce da Auschwitz, pe-diatra, che aveva a lungo diretto l'asilo ed era diventata da poco direttrice dei servizi sociali, viene licenziata. In un'assemblea di fabbrica aveva attaccato la politica di Comunità. Si rovesciavano  amicizie di un decennio.  Mancavano pochi mesi alle elezioni della Commissione interna e del Consiglio di gestione; un organismo, questo secondo, che non aveva potere effettivo di negoziare per le maestranze, ma che conservava un certo valore simbolico, poiché l'Olivetti era una delle poche aziende che l'aveva mantenuto in vita dai tempi della sua diffusa introduzione nel dopoguerra. Si poteva prevedere che la campagna elettorale sarebbe stata assai calda. Non c'era da meravigliarsi che le riunioni allargate per discutere il mio rapporto di ricerca tardassero a venir convocate. Un giorno vennero a trovarmi in ufficio tre rappresentanti sindacali della Cgil; tra di loro c'era quella che nella memoria Olivetti resterà poi come «la mitica Bertolè», un'ex partigiana comunista, dal grande ascendente sugli operai e dall'abile capacità negoziatrice negli incontri con la direzione aziendale. Mi chiesero se accettavo di presentarmi alle elezioni del Cdg con la loro lista. Mi ricordo che non stetti molto a pensarci su, dissi subito di si.  Perché lo feci, e con tanta immediatezza? Forse pesò (come in numerose altre occasioni, quando mi sia capitato di accettare proposte di mutamento di lavoro o di residenza, o anche per decisioni più intimamente personali) l'interiorizzazione di una regola di condotta (chi sa per quali stratagemmi educativi instillatami) che non manca mai di impormisi in questo genere di situazioni, secondo la quale è doveroso, includibile, di fronte a una sfida che ti si presenta improvvisa, rispondere senza stare a pensarci su, senza mostrare di calcolare le conseguenze, ché a indugiare a calcolare ti sembrerebbe mancanza di coraggio, grettezza, non sentiresti più di essere quello che ti eri immaginato di essere. Non la ritengo una qualità positiva. Probabilmente deriva da qualche oscuro timore che a prender tempo per deliberare calcolando non saprei tenere in mano con chiarezza le fila dei criteri con cui determinare vantaggi e svantaggi. E che forse dovrei accorgermi che quei criteri non ci sono veramente e mi sperderei. Naturalmente, per tanta prontezza, che non è, dunque, sicurezza, della decisio-ne, il contenuto ha da non essere disaccetto. Questa volta la scelta rispondeva al bisogno di fare cose di sinistra, dopo avere perdiatra, che aveva a lungo diretto l'asilo ed era diventata da poco direttrice dei servizi sociali, viene licenziata. In un'assemblea di fabbrica aveva attaccato la politica di Comunità. Si rovesciavano  amicizie di un decennio.  Mancavano pochi mesi alle elezioni della Commissione interna e del Consiglio di gestione; un organismo, questo secondo, che non aveva potere effettivo di negoziare per le maestranze, ma che conservava un certo valore simbolico, poiché l'Olivetti era una delle poche aziende che l'aveva mantenuto in vita dai tempi della sua diffusa introduzione nel dopoguerra. Si poteva prevedere che la campagna elettorale sarebbe stata assai calda. Non c'era da meravigliarsi che le riunioni allargate per discutere il mio rapporto di ricerca tardassero a venir convocate. Un giorno vennero a trovarmi in ufficio tre rappresentanti sindacali della Cgil; tra di loro c'era quella che nella memoria Olivetti resterà poi come «la mitica Bertolè», un'ex partigiana comunista, dal grande ascendente sugli operai e dall'abile capacità negoziatrice negli incontri con la direzione aziendale. Mi chiesero se accettavo di presentarmi alle elezioni del Cdg con la loro lista. Mi ricordo che non stetti molto a pensarci su, dissi subito di si.  Perché lo feci, e con tanta immediatezza? Forse pesò (come in numerose altre occasioni, quando mi sia capitato di accettare proposte di mutamento di lavoro o di residenza, o anche per decisioni più intimamente personali) l'interiorizzazione di una regola di condotta (chi sa per quali stratagemmi educativi instillatami) che non manca mai di impormisi in questo genere di situazioni, secondo la quale è doveroso, includibile, di fronte a una sfida che ti si presenta improvvisa, rispondere senza stare a pensarci su, senza mostrare di calcolare le conseguenze, ché a indugiare a calcolare ti sembrerebbe mancanza di coraggio, grettezza, non sentiresti più di essere quello che ti eri immaginato di essere. Non la ritengo una qualità positiva. Probabilmente deriva da qualche oscuro timore che a prender tempo per deliberare calcolando non saprei tenere in mano con chiarezza le fila dei criteri con cui determinare vantaggi e svantaggi. E che forse dovrei accorgermi che quei criteri non ci sono veramente e mi sperderei. Naturalmente, per tanta prontezza, che non è, dunque, sicurezza, della decisio-ne, il contenuto ha da non essere disaccetto. Questa volta la scelta rispondeva al bisogno di fare cose di sinistra, dopo avere pertanto tempo espresso opinioni di sinistra. Aggiungi il sentimento di voler mostrare solidarietà con le persone che in quei giorni venivano colpite, alcune di loro molto amiche; forse il desiderio di acquisire valore ai loro occhi.  Per il Cdg si votava separatamente secondo settori organizza-tivi. Quello in cui mi presentavo io era chiamato «Uffici della pre-sidenza» e contava 61 elettori. Formato da personale scelto o direttamente da Adriano o da suoi assistenti, era ovviamente ritenuto un covo di comunitari. Ma andando in giro per parlare con questo o quel conoscente (non si doveva trattare ufficialmente di propaganda elettorale) mi accorsi che ero guardato con sorrisi di simpatia, e quasi con ammicco. Il giorno successivo al voto il giornale di fabbrica della Cgil, il «Tasto», annuncio che io ero risultato eletto con 31 voti. Il risultato era cosi inaspettato che i comunitari chiesero una riconta, la quale concluse che io avevo ricevuto 30 voti, non 31, e quindi non risultavo eletto. Non me ne preoccupai più di tanto, la carica non era attraente, mi bastava il successo ottenuto, molti venivano a complimentarsi, e del resto complessivamente nella fabbrica il sindacato di Comunità era stato sconfirto. Poi ci ho ripensato: fossi stato eletto, la direzione avrebbe avuto difficoltà ad allontanarmi da Ivrea e poi licenziar-mi. Che invece fu proprio quanto avvenne qualche mese dopo. Mi fu dato un anno di tempo per trovare un altro lavoro e nel frattempo fui assegnato al Centro di ricerca operativa dell'Università Bocconi (era finanziato in gran parte dall'Olivetti) come assistente del professor Francesco Brambilla, che lo dirigeva, spirito geniale e bizzarro dal quale, nell'anno che ci lavorai insieme, imparai un po' di statistica, ma non molta.  Il primo novembre 1956. 'I di dei mort alegher!, caricatici sulla Topolino che avevo comprata a Ivrea di seconda mano, mia mo-glie, mia figlia di due anni, io e un po' di valigie, ci dirigemmo verso Milano. A Rho al sole si sostitui un chiarore lattiginoso sporco, impenetrabile, e, per mesi e mesi, piogge a parte, tale sostanza plano tra il cielo e la città, tanto da convincermi che in quella Milano dai camini ancora non filtrati, quello e nient'altro era da chiamarsi «sole». Ma in qualche giorno di aprile anche il sole come usa nel resto d'Italia riapparve.  Si conclusero così quei tre anni di un'esperienza che più inaspettata per me non avrebbe potuto essere, durante la quale di-ventai, in qualche definizione di questo termine, sociologo, acquisii conoscenze dirette del funzionamento di quella che veniva allora marxisticamente chiamata la struttura dei rapporti di pro-duzione, strinsi amicizie alcune delle quali durarono a lungo. A uno degli amici di allora, l'ingegnere che era stato direttore delle costruzioni dell'azienda, che, malato da anni, usavo andare a trovare quando mi capitava di passare da Milano, una sera raccontai che avevo intenzione di scrivere delle memorie sul periodo all'Oli-vetti. Si mostrò stupito, ma certo voleva leggerle appena le avessi scritte. Sul pianerottolo, dove mi aveva accompagnato con fatica, lo salutai battendogli una mano sulla spalla: «Ciao, vecchio», gli dissi. «Ciao, vecchio? Ciao morto, devi dire» mi ribatté, in una delle sue abituali, esplosive esclamazioni di ironia. Era Roberto Guiducci, il miglior amico tra i sopravvissuti degli anni di Ivrea, eta l'ultima volta che lo avrei visto, gli posso solo dedicare, non far leggere, queste pagine, che non ho scritto in tempo.

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