LA MISERIA DEL MONDO ROMANO E LA FORMAZIONE SOCIALE DEI PRESUPPOSTI DEL CRISTIANESIMO. IL ROVESCIAMENTO DIALETTICO DELL'IMPERIUM IN BASILEIA E L'INVERSIONE ONTOLOGICO-SOCIALE DELLA TERRA IN CIELO La filosofia stoica, nata sulla base della violazione sistematica del comune senso del pudore (anaideia), e poi gradualmente “normalizzata” in innocuo sapere del saggio capace di vincere il turbamento (ataraxia), diventò la koiné filosofica più dif- fusa nel mondo ellenistico-romano. E questo non è un caso, perché si passò da una prima fase “politica”, provocatoriamente antischiavistica ed antiproprietaria, ad una seconda fase “apolitica” di semplice cura dell'anima individuale. Il percorso normalizzatore dall’anaideia all'ataraxia è ovviamente mistificato e nascosto dalla manualistica filosofica ordinaria, che lo rovescia integralmente. Tace e censura il momento fondante dell’anaideia, e sostiene al contrario che la teoria della ataraxia è la sola “filosofia politica” delo mondo romano. Se si legge Seneca e Marco Aurelio, tuttavia, si vede che in realtà quello che viene impropriamente chiamato “stoici- smo”, ed invece non lo è per niente, non è altro che la vecchia buona “cura di sé” platonica (ricordo la corretta interpretazione di Alessandro Biral cui ho accennato nel precedente capitolo su Platone), del tutto desocializzata. E vedremo più avanti che proprio la desocializzazione della saggezza sta al centro di quella che Hegel ha chiamato la “miseria del mondo romano”. L'unica definizione filosofica possibile della “miseria sociale”, a fianco ovviamente della povertà materiale della gente (povertà materiale su cui tornerò diffusamente nel prossimo capitolo), è proprio la desocializzazione della saggezza, per la saggezza stessa, non avendo più alcun mandato sociale, non può che avvizzire nell'ampio spettro di posizioni che vanno dallo specialismo alla stravaganza, e cioè dalla filologia universitaria ai punkabbe- stia. Il pensiero stoico ha però “messo in circolo” due elementi filosofici nuovi, e cioè l'universalismo del genere umano (katholikòs) e l’idea di necessità provvidenziale (pronoia). Il primo concetto è ovviamente un derivato categoriale del cosmopoli- tismo prodotto dalle conquiste di Alessandro il Macedone in Oriente, mentre il secondo ha una derivazione “mista”, in parte greca ed in parte orientale. Zenone riteneva che l'universo periodicamente terminasse nella conflagrazione e che gra- dualmente si ricostituisse nello stesso modo. Come il vuoto che lo avvolge, il tem- po è un interstizio cavo fra gli eventi (Leibniz dirà poi qualcosa di simile). I fatti della storia universale ritornano eternamente. Si ripresenterà in futuro un nuovo Socrate per subire un nuovo processo, e ci saranno nuovi Anito e nuovi Meleto 135 CariroLo XIX per accusarlo. Chi sostiene quindi che il concetto di storia universale è nato con il cristianesimo e con la fusione messianica giudaico-cristiana (Karl Lòwith ed altri) a mio avviso sbaglia. Il concetto di storia universale è nato prima in forma ciclico- ripetitiva con lo stoicismo di Zenone, ed è nato sulla base di una provvidenza pu- ramente naturalistica e non divino-religiosa (pronoia), il cristianesimo l’ha incor- porata in una visione messianica e salvifica della storia, e poi la filosofia classica tedesca della storia (Fichte, Hegel e Marx) l’ha rielaborata in forma dialettica. Ma questo punto verrà ovviamente sviluppato più avanti. Al tempo di Zenone, data l'impossibilità di pensare la storia universale con un solo concetto unitario trascen- dentale riflessivo (non possiamo infatti imputare a Zenone di non essere vissuto nel settecento illuministico europeo), era inevitabile che la si pensasse nella forma ciclica della ripetizione. Il pensiero ciclico, infatti, riflette in forma astratta il ciclo delle stagioni che determina l'agricoltura, la pastorizia, l'allevamento e l'uscita in mare dei pescatori, mentre il pensiero lineare-progressivo riflette la fine dei cicli stagionali e l'avvento dell’accumulazione “lineare” del capitale. Ma su questa ov- vietà, naturalmente, ritornerò più avanti in un prossimo capitolo. Lo stoicismo, quindi, passata la fase provocatoria dell’anaideia, consegna al mondo classico posteriore i due concetti di universalismo cosmopolitico e di prov- videnza necessaria (pronoia). Entrambi staranno alla base del cristianesimo. È giun- to allora il momento di parlare delle origini del cristianesimo, di Gesù di Nazareth e di Paolo di Tarso, che ne sono stati entrambi i fondatori a “pari grado”, il primo nella sua dimensione messianica, ed il secondo nella sua complementare dimen- sione di assoggettamento universalistico ad un unico salvatore, codice filosofico già presente da almeno duecento anni nei trattati in lingua greca “sulla monar- chia” (perì basileias). Mentre infatti il primo ciclo della filosofia greca produce innu- merevoli testi sulla natura (perì physeos), natura con cui veniva metaforizzata la so- cietà (Diodoto, ecc.), ora il secondo ciclo della filosofia greca vede la pubblicazione di innumerevoli testi sulla monarchia (perì basileias), con cui veniva metaforizzato l'incredibile bisogno di protezione ed assistenza dei poveri abbandonati allo sca- tenamento selvaggio della crematistica. E chi non coglie questo punto resta fuori dalla storia della filosofia come un amante della musica che restasse fuori dalla sala dei concerti e non potesse sentire che echi musicali vaghi e lontani. Affrontiamo quindi il noto e cruciale problema dell’interpretazione filosofica delle origini storiche del cristianesimo. Si tratta del secondo grande problema teori- co del pensiero occidentale, dopo il primo grande problema che abbiamo affrontato nei capitoli precedenti, quello delle origini e della natura della filosofia greca clas- sica e poi ellenistica. Anche in questo caso, quindi, mi comporterò come mi sono comportato in precedenza per il primo caso, ispirandomi alla genesi storica della deduzione delle categorie del pensiero ed al metodo ontologico-sociale. In estrema sintesi, sebbene mi ritenga più competente per il primo problema che per il se- condo (sono infatti un filosofo che legge correntemente il greco antico ed il latino, non sono per nulla un esegeta biblico e non conosco assolutamente né l'ebraico né l’aramaico), considero l’analisi ontologico-sociale delle origini del cristianesimo 136 La miseria del mondo romano e la formazione sociale dei presupposti del cristianesimo più facile di quanto lo sia l’analisi complessiva del mondo greco. I Greci antichi sono già volati via, infatti, e non sono più fra noi, mentre i cristiani, sia pure “ir- riconoscibili” rispetto ai loro lontani progenitori (e vedremo il perché in questo e nei prossimi capitoli), sono ancora fra noi, e per quanto mi riguarda mi auguro che restino con noi a lungo. Una parentesi. D'accordo con lo studioso di scienze sociali svedese Myrdal, io ritengo che il massimo di “oggettività” possibile nelle scienze sociali ed in filoso- fia, in cui non esiste la matematizzazione, l'esperimento e la verifica dei protocolli sperimentali, sia l’esplicitazione pubblica chiara e veridica delle proprie premesse di valore. Ciò vale soprattutto quando si parla di politica (destra e sinistra, ecc.) e di filosofia (credenti e non credenti, ecc.). E farò anch'io così, interrompendo brevemen- te la mia esposizione. Il lettore, infatti, ha il diritto di sapere bene come la pensa colui che sta leggendo. : Personalmente, sono stato battezzato a pochi giorni di vita nel culto cattolico romano. Ho perso la cosiddetta “fede” nelle discussioni adolescenziali e da allora potrei essere classificato fra coloro che si dicono e vengono detti “atei”. Termine che non mi piace, peraltro, e in cui non mi riconosco, perché non mi piace per nulla che ci si definisca in negativo con l'alfa privativo (a-teo). Da filosofo, preferisco le definizioni in positivo, e non quelle in negativo. Pur non essendo in alcun modo un “credente”, e pur ritenendo (a differenza di Benedetto Croce) che se lo vogliamo e lo riteniamo necessario “possiamo anche non dirci cristiani” (su questo punto Alain de Benoist ha ragione e Croce ha torto), sono tuttavia un sostenitore della necessità sociale della religione. La religione, a mio avviso, è sempre e comunque un katechon contro lo scatenamento della bestialità nichilistica della crematistica nei rapporti sociali ( si tratta di un punto che mi differenzia fortemente dal mio maestro di ontologia sociale Lukécs). Gli atei mangiapreti a mio avviso non lo capiscono, ed è per questo che considero il loro un pensiero dell'intelletto astratto (Verstand) e non della ragione concreta (Vernunft). Dal punto di vista dell'intelletto astratto (Verstand) mi sembra del tutto logico sostenere non solo che Dio non è logicamente “dimostrabile” (vedi la Critica della Ragion Pura di Kant) e che non è logico rappresentarselo come un soggetto progettante antropomorfizzato (vedi l’Etica di Spinoza), ma che siano anche del tutto plausibili le teorie dell'evoluzione darwiniana e delle capacità auto poietiche ed auto-organizzative della materia e dell'energia, da cui deriva la necessaria conclusione per cui “Dio non esiste”. Dal punto di vista della ragione concreta (Vernunft), sono un sostenitore della necessità sociale della religione, che nonostante tutti i suoi difetti e la possibile corruzione venale e pedofiliaca di molti suoi esponenti ( comunque minore di quanto sosten- gono i suoi avversari laici) considero in termini di katechon, e cioè di freno verso una bestializzazione crematistica integrale dei rapporti umani. Sbagliano quindi coloro che contrappongono il bel mondo dei Greci, riletti come atei e materialisti (vedi Nietzsche, Onfray e compagnia cantante) al mondo posteriore superstizioso dei cristiani. Se infatti costoro conoscessero meglio i Greci, che invece non conosco- no e su cui coltivano pittoreschi ed infondati luoghi comuni da scuola media, sa- 137 CaprroLo XIX prebbero che i Greci veri si fondavano sul katechon, ed anche se preferivano quello razional-politico non disdegnavano certamente anche quello religioso. Detto que- sto, e messe bene le carte in tavola, passiamo a ragionare di filosofia.
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