Sunday, June 2, 2024

GRICE E REALE

  L’ECLETTISMO ACCADEMICO A ROMA   CON CICERONE E CON VARRONE    1. La posizione filosofica assunta da Cicerone — Come Filone e An-  tioco sono i più tipici rappresentanti dell’Eclettismo greco, così Ci-  cerone è il più caratteristico rappresentante dell’Eclettismo romano.!   Antioco si colloca decisamente a destra di Filone, diremmo con  metafora moderna, mentre Cicerone prosegue piuttosto sulla linea  di Filone. Il primo elabora un Eclettismo decisamente dogmatico,  il secondo un Eclettismo cautamente e moderatamente scetticheg-  giante.   Non c’è peraltro dubbio che, dal punto di vista speculativo, Ci-  cerone resti al di sotto sia dell’uno che dell’altro, non presentando  alcuna novità che sia paragonabile alle formulazioni del probabilismo  positivo del primo o alla sagace critica antiscettica del secondo.   Se, in sede di storia della filosofia greca e romana, ci occupiamo di  Cicerone è soprattutto per motivi culturali più che speculativi.    ! Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino. Si accostò fin da giovane alla filo-  sofia, che coltivò con interesse e costanza. Tuttavia l’amore della filosofia fu lungi  dall’assorbire per intero tutte le energie e gli interessi di Cicerone. Egli, infatti, si sentì  prevalentemente portato alla vita pubblica, alla vita forense e alla vita politica. Perciò  la sua scelta di fondo fu per la retorica, ossia per l’oratoria. La sua carriera oratoria  inizia già nell’81 a.C. e ne 76/75 a.C. inizia la sua attività politica, con la sua elezione  a questore. Da allora in poi Cicerone legò spesso il suo nome a clamorosi processi e a  importanti avvenimenti politici. Morì nel 43 a.C., ucciso dai soldati di Marc’ Antonio.  Dei suoi maestri di filosofia abbiamo già detto, e diremo ancora nel testo. Le numero-  se opere di filosofia di Cicerone pervenuteci furono da lui scritte nell’ultimo periodo  della sua vita. Nel 46 scrisse i Paradoxa Stoicorum; nel 45 gli Academzica, due dialoghi  intitolati a Catullo e a Lucullo, di cui fece una seconda redazione, in cui compariva-  no come interlocutori Attico e Varrone (degli Acaderzica priora ci è rimasto il libro  II Lucullus, degli Academica posteriora il libro I e frammenti). Del 45 è anche il De  finibus bonorum et malorum. Nel 44 furono pubblicate le Tusculanae disputationes, il  De natura deorum e il De offictis. A queste opere vanno inoltre aggiunte: il De fato, il  De divinatione, il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia. Da ricordare, infine,  sono le opere politiche De re publica e De legibus. Del De re publica ci sono giunti i  primi due libri, non completi, frammenti del III, del, IV, del V e gran parte del libro  VI, che già nell’antichità ebbe vita autonoma col titolo Sorzziuzz Scipionis. Diamo  dettagliate indicazioni nello Schedario, s.v. Per i rapporti fra Cicerone e Platone, cfr.  l’eccellente raccolta di testi in Dòrrie, op. cit., Bausteine 25-31, pp. 212-258.    1508. LIBRO VI - SCETTICISMO, ECLETTISMO, NEOARISTOTELISMO E NEOSTOICISMO    In primo luogo, Cicerone offre, in certo senso, il più bel paradigma  di pensiero eclettico, che è come dire il più bel paradigma della più  povera delle filosofie, e, in certo senso, la più antispeculativa delle  speculazioni.   In secondo luogo, Cicerone è di gran lunga il più efficace, il più  vasto e il più cospicuo ponte attraverso il quale la filosofia greca si è  riversata nell’area della cultura romana e, poi, in tutto l'Occidente. E  anche questo è un merito non teoretico, ma di mediazione, di diffusio-  ne e di divulgazione culturale, e comunque di altissima classe.   Ciò non toglie, però, che Cicerone abbia intuizioni felici e anche  acute su problemi particolari, specie su problemi morali. Il De officiis  è, probabilmente, la sua opera più vitale. Inoltre, presenta anche ana-  lisi penetranti. Tuttavia, si tratta di intuizioni e di analisi che si colloca-  no — per così dire — a valle della filosofia; sui problemi speculativi che  stanno a monte egli ha poco da dire, come del resto in questo ambito  hanno poco da dire quasi tutti i rappresentanti della filosofia romana.   Già i maestri frequentati da Cicerone indicano chiaramente la ge-  ografia del suo pensiero. Da giovane udì l’epicureo Fedro e, più tardi,  anche Zenone epicureo; sentì anche le lezioni dello stoico Diodoto,  conobbe a fondo il pensiero di Panezio e allacciò stretti rapporti di  amicizia con Posidonio; fu influenzato da Filone di Larissa in modo  decisivo e, inoltre, udì per un certo tempo anche le lezioni di Antioco  di Ascalona.   Inoltre, lesse Platone, Senofonte, le opere pubblicate di Aristotele,  alcuni filosofi della vecchia Accademia e del Peripato, ma sempre con  i parametri della filosofia del suo tempo.   Da tutti prese e in tutti cercò conferme su determinati problemi,  eccettuati forse i soli Epicurei, coi quali polemizzò accesamente.   Egli stesso si autodefinì espressamente come «Accademico», e  come Accademico della corrente filoniana: anche per lui, infatti, /a  probabilità positiva è alla base della filosofia.   Nell’operare la fusione eclettica delle varie correnti, dunque, Cice-  rone non diede contributi essenziali, perché tale fusione era già stata  operata dai maestri che egli aveva udito. Cicerone si limitò a ripropor-  la in termini latini e ad amplificarla non qualitativamente — giacché  questo non era possibile — ma quantitativamente.    2. Il probabilismo eclettico ciceroniano — Dicevamo sopra che Cice-  rone respinge il tipo di eclettismo di Antioco e assume, invece, una  posizione simile a quella di Filone di Larissa: il «dogmatismo ecletti-    CICERONE 1509    co» di Antioco gli sembrava alquanto incauto, mentre il «probabili-  smo» filoniano lo appagava pienamente.  Come avevano fatto molti dei nuovi Accademici, Cicerone adotta il  metodo della discussione del «pro» e del «contro» su ogni questione.  Questo metodo gli offre grandi vantaggi:    1) in primo luogo, gli offre la possibilità di far conoscere le varie  posizioni dei filosofi in materia, facendo largo sfoggio della sua eru-  dizione;   2) in secondo luogo, gli offre la possibilità di valutare la consisten-  za delle opposte tesi;    3) in terzo luogo, il raffronto di opposte idee gli offre la possibilità  di scegliere la soluzione più probabile;    4) infine, da buon oratore e avvocato, trova che questo metodo  costituisce un perfetto esercizio di eloquenza.    Dunque, il raffronto non deve portare alla «sospensione del giudi-  zio», bensì al ritrovamento del «probabile» e del «verosimile» e anche  all'esercizio retorico.   Ecco le precise parole del nostro filosofo che mettono bene a fuoco  questo punto:    A me è sempre piaciuta la consuetudine dei Peripatetici e degli Ac-  cademici di discutere in ogni problema il pro e il contro: non soltanto  perché questo sistema è l’unico adatto per scoprire in ogni questione  l'elemento di verosimiglianza, ma anche per l'ottimo esercizio che ciò  costituisce per la parola.    Ma il passo ci permette di fare anche un’altra riflessione.   Cicerone pone e risolve i problemi filosofici sempre in chiave pre-  valentemente culturalistica e mai direttamente, ossia in maniera pura-  mente teoretica. Le questioni che egli imposta sono quelle che già altri  hanno sollevato, e anche le soluzioni che sceglie sono per lo più quelle  già proposte in tutto o in parte da altri.   E così si spiega perfettamente come il suo «moderato Scetticismo»  — per sua stessa confessione — non derivi tanto dalle difficoltà che in-  trinsecamente sollevano i problemi della conoscenza e del criterio del-  la verità (per esempio gli errori dei sensi, e simili), quanto dalle diffi-    2 Tusc. Disput., II, 3,9=1, 18, 3 Dérrie; traduzione di A. Di Virginio.    1510 LIBRO VI- SCETTICISMO, ECLETTISMO, NEOARISTOTELISMO E NEOSTOICISMO    coltà che scaturiscono dal dissenso circa le soluzioni di quei problemi  che sono state proposte dai vari filosofi.   Di conseguenza, risulta anche chiara la ragione per cui, da un lato  il «dissenso» dei filosofi sconcerti Cicerone, mentre dall’altro lo con-  forti in pari modo il «consenso», quando ci sia, al punto che egli non  esita a fare di tale consenso ur criterio di probabilità.   Il «vero», dunque, è irraggiungibile, come prova il dissenso dei  filosofi; tuttavia restano il «probabile» e il «verosimile», che sono se  non il vero stesso, ciò che tuttavia al vero più si avvicina.   Dice Cicerone nel De natura deorum:    Non siamo di quelli che negano in assoluto l’esistenza della verità:  ci limitiamo a sostenere che a ogni verità è unito qualcosa che vero  non è, ma tanto simile a essa che quest’ultima non può offrirci alcun  segno distintivo che ci permetta di formulare un giudizio e di dare il  nostro assenso. Ne deriva che ci sono delle conoscenze probabili le  quali, benché non possano essere compiutamente accertate, appaiono  così nobili ed elevate da poter fungere da guida per il saggio.’    Nel De officiis Cicerone ribadisce:    Mi si chiede però, e proprio da uomini di lettere e colti, se io creda  di agire con sufficiente coerenza, quando, mentre osservo che nulla può  essere conosciuto con certezza, tuttavia e soglio disputare di altre que-  stioni e in questo stesso momento cerco di dare regole sul dovere. A co-  storo vorrei che fosse abbastanza noto il mio pensiero. Giacché io non  sono di quelli il cui animo vaga nell’incertezza e non ha mai un principio  da seguire. Quale sarebbe infatti la nostra mente, 0, piuttosto, la nostra  vita, quando fosse tolta ogni norma non solo di ragionare, ma anche  di vivere? Come gli altri affermano la certezza di alcune e l'incertezza di  altre cose, noi invece, dissentendo da loro, sosteniamo la probabilità di  alcune cose e l’improbabilità di altre. Che cosa, dunque, mi può impedi-  re di seguire ciò che mi sembra probabile e di disapprovare ciò che mi  sembra improbabile, e di fuggire così, evitando la presunzione di recise  affermazioni, la temerarietà, che è lontanissima dalla vera sapienza?*    E a questo «probabile» si perviene non legandosi dogmaticamente  ad alcuna Scuola, ma restando liberi di scegliere ecletticamente ciò  che pare più verosimile. Nelle Tuscolazze leggiamo:    } De nat. deorum, I, 5, 12, traduzione di U. Pizzani; cfr. Acad. pr., II, 31, 98 e ss.  4 De offictis, II, 2, 7-8, traduzione di Q. Cataudella.    CICERONE 1511    Esiste libertà di pensiero, e ognuno può sostenere ciò che gli pare;  per me, io mi atterrò al mio principio, e cercherò sempre in ogni que-  stione la probabilità massima, senza essere legato alle leggi di nessuna  scuola particolare che debba per forza seguire nella mia speculazione.”    Il «probabilismo» di Cicerone è, in tal modo, strutturalmente con-  giunto col suo «eclettismo»: l’uno sta a fondamento dell’altro e vice-  versa, e ambedue hanno radice, più che teoretica, culturale e storica,  come sopra dicevamo.   Questo ben spiega — tra l’altro — come, a seconda dei problemi  che Cicerone tratta, il probabile si assottigli fino a diventare dubbio,  oppure, per contro, si consolidi fino a diventare quasi certezza.    3. Logica: il criterio della verità - Anche Cicerone, come tutti i filosofi  del suo tempo, ritiene che il compito precipuo della filosofia consi-  sta nello stabilire il «fine dell’uomo», e quindi la natura del «sommo  bene», e che, per poter far questo, occorra stabilire quale sia il criterio  del vero:    Queste sono le questioni massime in filosofia: il criterio della verità  e il fine dei beni, né può essere sapiente chi ignori o il principio del  conoscere o il termine dell’appetizione, così da non sapere da dove si  debba partire o dove si debba arrivare.°    Iniziamo dall’esame del «criterio del vero», che è il punto di par-  tenza.   In primo luogo, Cicerone accoglie positivamente la testizzonianza  dei sensi.   Non l’accoglie a livello di certezza assoluta, ossia a livello di cer-  tezza tale da meritare l’assenso totale, ma 4 livello di probabilità (si  ricordino le posizioni di Filone e di Antioco). L'evidenza dei sensi e  dell’esperienza è, dunque, un primo criterio: chi nega queste eviden-  ze, sovverte la possibilità stessa della vita.”   Un secondo criterio Cicerone lo trova nel «senso comune», nel  «consenso universale degli uomini» (nonché nel consenso dei dotti).  Egli usa anzi espressioni che riecheggiano una certa forma di «inna-  tismo», che si rifà, molto alla lontana, all’innatismo platonico e, più    > Tusc. disp., IV, 4,7.  6 Acad. pr., II, 9, 29.  ? Cfr. Acad. pr, II, 31,99.    1512. LIBROVI- SCETTICISMO, ECLETTISMO, NEOARISTOTELISMO E NEOSTOICISMO    da vicino, alla dottrina della «prolessi» che — come abbiamo visto — è  comune sia al Giardino sia al Portico.   Così Cicerone — per limitarci all'ambito che maggiormente inte-  ressa — ammette non solo che la natura umana ci abbia dato serzina  innata delle virtù, cioè naturali disposizioni alla virtù, ma che abbia  altresì ingenerato size doctrina notitias parvas rerum maximarum, per  raggiungere le medesime virtù.   Ed è precisamente questo generico innatismo la vera motivazione  che gli fa ritenere come probante il senso comune e il consenso di tutti  gli uomini.   Naturalmente, Cicerone non ci sa dire di più a questo proposito:  risale dal «senso comune» e dal «consenso universale» a nozioni da-  teci naturalmente, cioè «innate», e con questo crede di aver raggiunto  un criterio dotato di evidenza tale da non aver bisogno di ulteriore  fondazione.    4. Fisica — Per i problemi «fisici» — cioè per il grosso dei problemi  cosmo-ontologici che le filosofie ellenistiche includevano nella dot-  trina della physis — Cicerone mostra pochissimo interesse. Ciò è ben  conforme al sentire squisitamente romano, il quale solo se vede una  precisa valenza pratica si interessa ai problemi speculativi.   Naturalmente, egli fa eccezione per i problemi di Dio e dell’anima,  che sono strettamente legati all’etica, nel senso che condizionano, in  ultima analisi, il senso ultimo della medesima.   Per quanto concerne la soluzione dei problemi metafisici e ontolo-  gico-cosmologici egli nutre uno scetticismo molto più spinto che per  tutto il resto. Non li sa impostare e risolvere, soprattutto per il motivo  che non gli interessano esistenzialmente. Perciò gli è anche più como-  do affermare che sulla natura delle cose è molto più facile dire corze  non sia la verità che non come sia, e che tutto è circonfuso di tenebre  che non si possono squarciare:    Tutte queste cose ci restano nascoste, occultate e circonfuse di  dense tenebre, al punto che nessun acume di umano ingegno è così  grande, da saper penetrare nel cielo o entrare dentro la terra.!°    Tuttavia egli prudentemente non ritiene che siano da bandire del  tutto le questioni fisiche, perché la considerazione della natura è, in    8 Tusc. disput., III, 1,2.  ° De finibus, V, 21, 59.  !0 Acad. pr., II, 39, 122.    CICERONE 1513    ogni caso, cibo e sostentamento della mente, forza che ci sorregge e  che ci porta in alto e, portandoci così in alto, ci permette di guardare  con nuova ottica le cose umane e quindi di ridimensionarle. Consi-  derando le cose celesti e sublimi, si comprende come le cose terrestri  siano piccole e meschine. Senza contare, poi, la gioia spirituale che noi  proviamo allorché ci imbattiamo, se non nell’irraggiungibile vero, in  qualcosa di verosimile:    Non penso [...] che si debbano bandire queste questioni dei fisi-  ci. Infatti la considerazione e la contemplazione della natura è come  naturale pascolo degli animi e degli ingegni. Ci innalziamo, ci sembra  di diventare più grandi, disprezziamo le cose umane, e pensando alle  cose superiori e celesti, disprezziamo queste nostre come piccole e  vili. La stessa indagine di cose grandissime e occultissime ci dà dilet-  to. Se poi accade che qualcosa ci sembri verosimile, allora l’animo si  riempie di piacere umanissimo.!!    Come si vede, è sempre in chiave etica e antropologica che Cicero-  ne affronta i problemi.!?    5. Pensieri teologici — Sull’esistenza di Dio Cicerone non sembra nu-  trire dubbi. Il consenso di tutti i popoli è per lui la prova più solida:    Quanto all’esistenza degli dèi, la prova più solida che se ne possa  addurre è questa, a quel che pare: non c’è popolo, per quanto barba-  ro, non esiste uomo al mondo, per selvaggio che sia, che non abbia  nella mente almeno un’idea della divinità. Sugli dèi molti hanno delle  convinzioni errate, e questo fatto normalmente è dovuto all’influenza  corruttrice dell’abitudine: ma tutti quanti credono nell’esistenza di  una forza e di una natura divina, e questa convinzione non è effetto di  un precedente scambio di idee fra gli uomini e di un accordo generale,  né ha trovato appoggio in istituzioni o leggi: ora, in ogni questione, il  consenso dei popoli si deve considerare legge di natura.!    Analogamente, Cicerone non ha dubbi sulla Provvidenza: sia le  cose esterne dimostrano di essere state finalizzate in funzione dell’uo-  mo, sia la forma e la struttura dell’uomo stesso e dei suoi organi ricon-  fermano una organizzazione finalistica.   E dire organizzazione finalistica è dire Provvidenza.!*    !! Acad. pr., II, 41, 127.   1° Ibidem.   3 Tusc. disput., 1, 13, 30.   14 Cfr. De nat. deor., passim.    1514 LIBRO VI- SCETTICISMO, ECLETTISMO, NEOARISTOTELISMO E NEOSTOICISMO    Nulla ripugna a Cicerone più della concezione meccanicistica pro-  pria dell’atomismo epicureo: un casuale e meccanico accozzamento  delle lettere dell’alfabeto non potrà mai — dice sensatamente Cicerone  — generare gli Arzali di Ennio:!    Come non provare meraviglia, a questo punto, se qualcuno ritiene  che corpi solidi e invisibili siano trascinati dalla forza del loro peso  e che dalla loro fortuita unione sia derivato il mondo con tutti i suoi  splendori e le sue bellezze? Chi fosse disposto ad ammettere una cosa  del genere non vedo perché non dovrebbe anche ritenere che, se si  raccogliessero da qualche parte in un numero molto elevato di esem-  plari le ventuno lettere dell’alfabeto foggiate in oro o in altro materiale  e le si gettassero a terra, dovrebbero ricostituirsi tutti gli Armati di En-  nio ormai pronti per la lettura: un risultato che il caso non riuscirebbe  forse a realizzare neppure limitatamente a un solo verso. !    Più incerto si mostra, invece, Cicerone quando deve prendere po-  sizione circa la natura di Dio.   Egli, in primo luogo, crede all’unità di Dio. Ma come concepire-  mo, dal punto di vista ontologico, questo Dio-uno?   Chi fin qui ci ha seguito non può aver dubbi sul fatto che alla do-  manda non potremo avere se non risposte ambigue e oscillanti fra spi-  ritualismo e materialismo. E, questo, non già per ragioni contingenti,  ma per motivi strutturali. In effetti, o si recuperavano i risultati della  «seconda navigazione» platonica e il senso del trascendente, oppure  le affermazioni sulla spiritualità di Dio dovevano rimanere senza alcun  fondamento teoretico. Nelle Tuscolane leggiamo:    E la divinità stessa, quale noi ce la rappresentiamo, non può essere  concepita che come uno spirito indipendente, libero (vers soluta qua-  edam et libera), e privo di ogni elemento corruttibile: uno spirito che  tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta dotato di eterno movimento.!$    Ma l’espressione «7ens soluta quaedam et libera» non ci deve trar-  re in inganno, perché questa z2ers soluta et libera non può essere pen-  sata da Cicerone in funzione della categoria del soprasensibile, tant'è  che egli finisce per accettare l’ipotesi stoica che si tratti di aria e fuoco,  oppure anche dell’aristotelico etere.!”    5 De nat. deor., II, 37,93.  16 Tusc. disput., 1, 27, 66.    CICERONE 1515    6. Idee sull’anima — Analogamente egli non dubita dell'immortalità  dell’anima, giacché è la natura stessa che ha posto in noi questa con-  vinzione, tanto è vero che tutti si preoccupano di quello che sarà dopo  la morte.!8   Questo è per Cicerone il più valido argomento a favore dell’im-  mortalità, anche se non esita a riprendere, di rincalzo, le tradizionali  prove di estrazione platonica.! L'anima è ciò che ci congiunge a Dio  ed è quasi il punto di tangenza che l’uomo ha con Dio:    Niente di quello che sta sulla terra può spiegare l'origine dell’ani-  ma, perché in essa non c’è nulla che sia misto o composto, nulla che  si possa considerare derivato o formato dalla terra, nulla che abbia la  natura dell’acqua, dell’aria o del fuoco. In effetti, nella composizio-  ne di questi elementi, non rientra nulla che abbia la proprietà della  memoria, dell’intelligenza, del pensiero, che possa ritenere il passa-  to, prevedere il futuro, abbracciare il presente: questi sono attributi  esclusivamente divini e non si potrà mai trovare per loro altra prove-  nienza che non sia la divinità. L'anima, insomma, ha un’essenza e una  natura del tutto speciali, e ben distinte da quelle degli altri elementi  comuni e a noi noti. Pertanto, qualunque sia la natura di quell’entità  che sente, che conosce, che vive, che agisce, essa deve essere necessa-  riamente celeste e divina, e di conseguenza eterna. E la divinità stessa,  quale noi ce la rappresentiamo, non può essere concepita che come  uno spirito indipendente, libero, e privo di ogni elemento corruttibile:  uno spirito che tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta dotato di  eterno movimento. Di questa specie e di questa medesima natura è  l’anima umana.?    Naturalmente, anche a proposito del problema della natura dell’a-  nima si notano le stesse incertezze e le stesse oscillazioni che abbiamo  notato a proposito del problema della natura di Dio. E la radice di  queste incertezze è la medesima: la natura dell’anima è filosoficamente  determinabile solo in funzione della categoria del soprasensibile; altri-  menti si cade inesorabilmente nel materialismo.   E, infatti, poco prima del passo letto, Cicerone scrive:    E certo, se la divinità è aria o fuoco, come lei è fatta l’anima  dell’uomo: quella sostanza celeste non ha in sé né terra né liquido, e    ! Cfr. Tusc. disput., I, 26, 65.  18 Tusc. disput., 1, 14,31.   19 Tusc. disput., I, 12, 50 ss.  20 Tusc. disput., I, 27, 66.    1516 LIBROVI- SCETTICISMO, ECLETTISMO, NEOARISTOTELISMO E NEOSTOICISMO    questi due elementi sono egualmente assenti dall'anima umana. Se poi  esiste una quinta essenza, quella introdotta da Aristotele, essa rientra  sia nella divinità sia nell’anima.?!    Ma aria, fuoco e la stessa quinta essenza sono, appunto, sempre e  solo materia.    7. Pensiero morale — La parte della filosofia che di gran lunga più  interessa Cicerone — come abbiamo già rilevato — è l’etica. E non è  quindi senza ragione che le sue due opere più vive siano quelle Suz  doveri e Sul fine dei beni e dei mali.   Più che mai è vero per Cicerone che non la aristotelica pura attività  contemplativa, ma la attività pratica e sociale è regina. Ecco un passo  molto eloquente:    Ritengo siano più conformi alla natura quei doveri che promanano  dal sentimento sociale, che non quelli che promanano dalla sapienza,  e questo può essere affermato dal seguente argomento, che, se a un  uomo sapiente toccasse una condizione di vita tale che, affluendo a lui  le ricchezze più varie, egli potesse dedicarsi in piena tranquillità allo  studio e alla contemplazione di tutte quelle cose che sono degne di  essere conosciute, tuttavia, se la solitudine fosse così grande che non  potesse vedere nessun uomo, egli preferirebbe morire [...]. Infatti,  la conoscenza e la contemplazione (della natura) sarebbero in cer-  to modo manchevoli e imperfette, se non dovesse seguir loro alcuna  attività concreta; e questa attività si manifesta specialmente nell’assi-  curare l’utilità degli uomini; riguarda, dunque, la società del genere  umano; perciò questa deve essere anteposta alla scienza.”    Ma, anche in questo ambito specifico, si cercano invano delle no-  vità di fondo in Cicerone.   Egli discute le etiche dei sistemi epicureo, stoico, accademico e pe-  ripatetico; respinge in blocco la morale epicurea e procede a eclettici  accomodamenti fra le altre.   Da un lato, egli è portato ad ammirare soprattutto la morale stoica,  da un altro lato fa concessioni alla morale accademica e a quella peri-  patetica (che egli considera sostanzialmente identiche).    21 Tusc. disput., I, 26, 65.   2 De offictis, I, 43, 153 (nel passo omesso dopo i puntini Cicerone parla della  superiorità della sophia sulla phroresis, ma autocontraddicendosi in modo impres-  . ) p  sionante).    CICERONE 1517    Cicerone non può, infatti, accettare il principio stoico che solo il  sapiente è buono e tutti gli altri sono viziosi, perché — egli rileva — la  sapienza dello stoico sapiente è tale che «alcun mortale ancora non ha  raggiunto», e perciò egli propone di considerare ciò che è nella con-  suetudine e nella vita comune, non quello che è nelle pure aspirazioni  e nei puri desideri.”   Anche per lui il principio fondamentale della morale è seguzre la  nostra natura individuale nel rispetto della generale natura umana.   Questo richiamo alla natura dell’uomo, che è anima e corpo, per-  mette a Cicerone di temperare la morale stoica e rivendicare anche  i diritti del corpo, giacché è necessario vivere biologicamente, ossia  soddisfare alle esigenze del corpo, proprio per poter ulteriormente  soddisfare alle esigenze della ragione. E, così, per questo aspetto, egli  si schiera dalla parte dei Peripatetici, come già Panezio e Posidonio  avevano in parte fatto.   Ma poi torna agli Stoici nel riportare la virtù interamente alla ra-  gione, dissentendo dalla tipica concezione aristotelica della virtù etica  come via di mezzo fra opposte passioni.   E come gli Stoici, egli ritiene la virtù «autosufficiente» e bastevole  per la vita felice. E sembra allearsi con gli Stoici anche nel concepire il  saggio come privo di passioni e imperturbabile.   Infine, anche le rivendicazioni dell’umana libertà nell’opera Su/  Fato vanno ben poco oltre la pura affermazione di una libertà intui-  tivamente colta: i moti volontari dell’anima non hanno cause esterne  ma dipendono da noi, nel senso che ne è causa la natura stessa della  nostra anima.    8. Conclusioni sul pensiero ciceroniano — Quando Cicerone dai prin-  cìpi scende all’analisi dei «doveri intermedi» (quelli che gli Stoici chia-  mavano kathekonta), allora mette in evidenza tutta la sua intelligenza  e assennatezza pratica.   Ma qui siamo, ormai, non più nel campo della filosofia in senso  stretto, ma piuttosto in quello della fenomenologia morale.   D'altra parte è inevitabile che tutte le notazioni e i rilievi originali  che si ritrovano in Cicerone nell’ambito delle analisi morali non va-  dano oltre il piano fenomenologico e restino teoreticamente in certo  senso un poco informi.    ® De amicitia, 5,18.  24 Cfr. De officiîs, I, 31, 110.    1518. LIBROVI- SCETTICISMO, ECLETTISMO, NEOARISTOTELISMO E NEOSTOICISMO    Le ambigue risposte ai problemi ontologici e antropologici dell’E-  clettismo non gli permettono — proprio per ragioni strutturali — di  spingersi oltre.   Come giustamente ha scritto il Marchesi, «Cicerone non ha dato  nuove idee al mondo [...]. Il suo mondo interiore è povero per la ra-  gione che dà ricetto a tutte le voci».   Il suo contributo maggiore sta, dunque, nella fusione e divulgazio-  ne della cultura antica e, in questo ambito, egli è veramente una figura  essenziale nella storia spirituale dell'Occidente. «Anche qui — è ancora  il Marchesi che scrive — si manifesta la forza divulgatrice e animatrice  dell’ingegno latino: perché nessun Greco sarebbe stato capace di dif-  fondere, come ha fatto Cicerone, il pensiero greco per il mondo».    9. La figura di uomo dalle conoscenze enciclopediche di Varrone —  Uomo di vaste conoscenze filosofiche come Cicerone, fu anche Var-  rone Reatino. Egli fu propriamente un enciclopedico: già i suoi con-  temporanei lo giudicarono il più colto dei Romani.   Più che di una filosofia di Varrone si può parlare di implicanze  filosofiche della sua cultura generale.   Contrariamente a Cicerone, che come abbiamo visto segue Filone  di Larissa, egli si schiera dalla parte di Antioco, e gli resta in larga  misura fedele.   La sua concezione dell’anima come «pneuma» e del Divino come  «Anima del mondo» sono in perfetta sintonia appunto con l’Ecletti-  smo stoicizzante antiocheo.   E le sue idee morali non presentano novità di rilievo.   La dottrina filosofica per cui egli è più noto consiste nella distin-  zione delle tre forme di teologia (una distinzione che ha radici molto  antiche):    a) la «teologia favolosa o mitica» dei poeti;  b) la «teologia naturale» propria dei filosofi;    c) la «teologia civile», che si esprime nelle credenze e nei culti delle  Città.    5 C. Marchesi, Storia della filosofia latina, Milano 19718, I, p. 317. Per uno sta-  to della questione, una dettagliata analisi del pensiero filosofico di Cicerone e per  aggiornamenti bibliografici, si veda l’opera citata supra, p. 1481, nota 23, capitolo  VI, che contiene la trattazione del nostro autore a cura di G. Gawlick e W. Gòrler,  pp. 991-1168.   26 E nato a Rieti nel 116 a.C. ed è morto nel 27 a.C.    VARRONE 1519    È fuori dubbio che Varrone ritenesse la seconda forma di teologia  come la più vera.   Tuttavia, il Boyancé rileva quanto segue: «da tempo alcuni filosofi  si sforzavano di dare un posto alla teologia dei poeti e delle Città. Si  trattava della tradizione storica dei Greci e di Roma e Varrone aveva  un rispetto tutto romano di questa tradizione. L’erudito, in lui, rispet-  toso in particolare della storia delle parole, credeva di poter fonda-  re la verità dei filosofi. [...] Tutto ciò non avveniva in Varrone senza  esitazioni, dubbi e scacchi, di cui aveva consapevolezza. Ma egli era  sostenuto dal fervore delle sue convinzioni e dalla vastità delle sue  conoscenze»?    2? P. Boyancé, Les implications philosophiques des recherches de Varron sur la re-  ligion bumaine, in «Atti del Congresso Internazionale degli Studi Varroniani», Rieti  1976, I, p. 161. Cfr. Schedario, s.0    PARTE XX 

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