DIEQO RAPOLLA VITA DI CON RAGGUAGLI NOVISSIMI E CON NOTE DIFFUSE SULLA STORIA DELLA CITTÀ DI VENOSA •-'; ' -r: ~ :* ^; ' POR TIOI Premiato Stabilimento Tlpografloo Vesuviano 1892 ■ - \' e;. \* \ 1*1 V *L '*^ ^S^è» «&• •&• «è» «A* «A* «A» «^ •'1^ •e* *-.'» SU'' 'X» i I I i sJ- Sì- I^* •. VITA DI QVISTO OBAZIO FLACCO DI DIEGO RAPOLLA o VITA DI CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON NOTB DIFFUSE SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VE1708A DI DIEQO RAPOLLA MOBILB VKN08IMO CAVALIKSB DELL*0RDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA CITTADINO OMOKARIO DI POSTICI PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB ACCADBMIB PORTICI pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO Corso Garibaldi, 173 1893 L'ijf.S'^ : \ j / Riproduzione e traduzione vietate. Proprietà letteraria dell'autore, che si riserba tutti i dritti che gli concedono le leggi vigenti. 'jfr^j^ **y^sP' ^^i^^'? '%S0^'-'''''*S^ '^S^ Dtnique quid psalterio canorius ? Quod in morem nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc Jamòo CHrrit, nuHC Alcaico personal^ nunc Sapphico tumet, nunc semipede ingreditìtr. 8. SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio Sommo di poesìa mastro e di vita. Pisdnnont*, ad Orazio Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto ! D'un si vivace Splendido colorir, d'un si fecondo Sublime imagjnar, d'una si ardita Felicità secura, Altro mortai non arricchì natura Xetattailo, Canto ad Orazio. Et tenuit mastras Humerosus Horatius aures, DutH ferii Ansonia carmina eulta lyra. Ovidio, Trist. 4. Elegia to. il mastro dei poeti, Orazio La cui lira per tutto manda il suono, E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio. Tansillo, Canto al viceré di Napoli. Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose D'abaisser son cotAurne, et de parler en prose, Voltaire, EpItre à Horace. Sume superbiam Quaesitam meritis VenoBino. AI LETTORI Dauti - /■/. Cult. XIV. // cittadino di Venosa sentir devesi som- mamente orgoglioso per esser nato in così celebre terra, pili antica di Roma: splendida civitas, anche nel tempo dei Romani, splendi- dissima nei medio-evo, e patria, il che più monta, di Quinto Orazio Fiacco. Del grande Venosino smisurate innume- revoli sono state le produzioni letterarie che ne hanno decantato il nome, criticata F opera eterna, postillato e glossato ciascun verso o parola Non havvi paese al mondo che non abbia offerto suir altare del culto della poesia per- fetta di Orazio il suo attestato di reverente omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran- eia, in Inghilterra si son fatti studi prò fondi sulle opere del gran poeta italiano, e bio- grafie e ricerche storiche pregevolissime su tutto quello che riguarda la sua vita, ed i luoghi ove vissse. In Italia, ed in Roma par- ticolarmente, si cmiservano reliquie preziose di severe e dotte lucubrazioni su tal subietto. Duole non poco però che in Venosa, fra tanto lume d ingegni preclari che ha dato quel paese, non vi sia stato scrittore che ab- bia inneggiato ad Orazio con serietà e pro^ fondita, e con opera particolarmente a lui dedicata; ed era un dovere attraverso i se- coli venir lodato Orazio da gente venosina. Neppure un bronzo od una lapide parlava di lui sin oggi. '^ Ed invero il dottissimo cardinale Giovan Battista De Luca venosino perchè nei suoi quaranta volumi in folio non trovò il posto per seguire quello che un S. Girolamo iniziò? Luigi Tansillo, Orazio de Gervasiis, Donato de Brunis, sommi poeti venosini, Giovanni Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di bel- lissimi e maestrevoli carmi (ingeniosa et ve- nustissima carmina scripsit, disse M. Arcan- gelo Lupoli), perchè non composero poema sult immortale loro concittadino ? Che anzi giustamente Francesco Fioren- tino j nelle sue note ai sonetti del Tansillo, redarguisce costui, perchè « discorre di quello ix^che chiamava suo concittadino con un certo « risentimento che non è giusto, perché Ora- « zio non sdegnò altiero il soggiorno di Ve- « nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi (( un certo compiacimento nel ricordare la sua a patria ». Orazio fuggì da Venosa, sia per fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità, sia perchè ogni genio sublitne sorvolando per forza arcana, trova pure in tutto il ter- restre spazio angusto confine! In luogo di e alitare tante vuote lodi ad una componente r aristocrazia di quei tristi tempi di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non poteva il Tansillo toccare la sua lira can- tando di Orazio, stella che illumina il mondo e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy^ ? Hanno voi/ do forse rispettare il suo testa- mento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma non è lecito negligere i sommi. Io, benché non degno di venir noverato fra cotanto senno, ho composto questo lavoro con gran fatica, con gran sudore, con gran reli- gione, essendomi prefisso con esso diradare molte idee oscure circa la vita e le opere di Orazio, riferire coti la maggiore esattezza quanto ad esse si associa, mettere in luce tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che formava pel passato delle lacune negli scritti dei biografi anche più esatti italiani e stra- nieri. Ho pure aggiunto dei cenni storici sulla celebre Venosa, che si commettono con la vita del suo immortale concittadino. Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è venuto » strenuamente compensato col fatto, che ho aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che immarcescibile cinge la fronte sublime del grande italiano. Oggi fra tanto tramestio di sentimenti di- sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo, ri- temprare gli animi alla fonte delle opere lei* terarie immortali come quelle di Orazio, ed il seguirne le norme che da esse emanano, o cittadini^ è quanto di meglio si può fare. Si respira così aura piti pura ; si resta an- negato in un Lete morale dolcissimo: si guar- da con occhio impassibile la vertiginosa corsa del torbido torrente della vita umana, da una sponda secura e tranquilla. Valete. Portici— Granatello 1892. DZE&O BAPOLLA PROLEGOMENI L mondo, questo pianeta, che pare sin oggi abbia il primato sul si- stema universale dei pianeti, perchè in esso vive l'uomo, il re della creazione, avverti , circa duemila anni or sono, una di quelle trasformazioni , uno di quegli avvenimenti, che segnano date incan- 'cellabili, e che forse non più si verificheranno nei secoli futuri, tranne quando avverrà la fine -dell' età. Neil' aria pregna dì densissimi vapori guizzavano folgori rossicce ; reboava il tuono ; poi appariva luce sfolgorante, bian- chissima, divina. Le nefandezze, le turpitudini, la mollezza, la superbia, la degenerazione del genio del bene in quello del male erano giunte all'estremo limite del possibile. Era prossima l'ora delle rivendicazioni, della re- denzione, della riscossa voluta dalla ragione. Era vicina la nascita dell' Uomo-dio , an- nunziato, già da secoli, come apportatore di pace ed amore. Roma, caput mundi, impe- rava. Le aquile svolazzavano in liberi campi, ghermendo prede facili in difficili e remoti paesi. La potenza e la protervia dell'uomo si disegnavano al massimo grado. I grandi ed i piccoli, i padroni e gli schiavi, i senatori al- bagiosi , i cresi onnipotenti ed i gladiatori morituri. Roma già da sette secoli esisteva, quando l'umanità parve potersi paragonare al vapore chiuso in forte e potente recipiente che sem- bra prossimo a scoppiare. La civiltà dei Greci, le gesta ed il ricordo degli altri popoli, come i Cinesi , i Babilonesi ed i Persi , che vanta- vano maggiore e più antica coltura, eran pres- sochè cancellati da questi violenti conati di gente che era barbara e volea divenire inci- vilita. Neir immensa Roma, per la quale po- poli al sommo grado belligeri pugnavano sanguinosamente per potersi dire cittadini romani^ vagavano uomini quasi nudi, ed appena ornati da toghe e preziose porpore, che ne lasciavano scovrire i poderosi garetti e le erculee braccia ; e le altiere fronti pare- vano non use a piegarsi alle volubili e spesso avverse disposizioni del destino. Da Roma partiva quella voce imperiosa che comandava alle schiere invitte la conquista del mondo intero. Tutto pareva nascer gigante in quel tempo, e con l'impronta del misterioso e del sublime. Mario, Siila, Mitridate, Ottavio, Cinna, Giu- gurta, Pompeo, Cesare, Bruto, Antonio, Cleo- patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio, Ti- bullo, Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone, Giovenale , Tito Livio , Orazio , Mecenate , Augusto I Gli uomini, dalla civiltà, che lentamente in- vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva- no la schiavitù più abbietta. Fremevano e le- vavano ruggiti di leoni. E Mario era un leone della foresta : nato da vilissima gente, sorbì sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i potenti ed i gaudenti. Era smilzo, altissimo, nervoso, brutto, di volto terreo, come se quel colore della pelle dovesse indicarne la mal- vagità dell'animo, come dopo molti secoli in Marat. Di quei che vantavansi di nobile stirpe solea far aspro maneggio. Gridava fremente alle turbe spensierate e lussuriose : O voi altri, che vantate imagini lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi; verrà Y ora della rivendicazione sociale. II vostro cammino trionfale sarà arrestato da un fiume di sangue. Le vostre pompe su- perbe saranno oscurate da montagne di ca- daveri deformi 1 Eppure Mario avea sortito dalla natura il genio uguale a quello di Cesare, suo grande nepote. Era guerriero nato. Vinse i Cimbri, aggiogò Giugurta, si unì con Siila. Con Siila stesso si misurò a suo forte discapito. Corse vagolante sulle rovine di Cartagine. Dipoi iniziò la fatale guerra sociale. Morì atterrito da visioni tremende 1 A Siila scorrea nelle vene sangue gentile di patrizio. Avea fierissimo e troculento aspetto; era vendicativo oltre ogni credere, ma celava in petto cuor generoso e forte. Non poche migliaia di Sanniti restarono sgozzati al semplice muovere del suo soprac- ciglio, e nel sangue restò affogato anche lui, che invano entrava nel cotidiano bagno di es- senze per torsi di dosso la miriade di paras- siti e microbi che lo dilaceravano e lo spen- sero. E la lotta ferveva sorda, quasi ne fosse infetto il sangue degli umani, tra i servi e gli strapotenti. I mirmilloni ed i reziarii, nelle barbare e sanguinose lotte, formicola- vano, per appagare la sozza cupidigia di vec- chi lussuriosi e donne ben pasciute e coronate di rose, e briache e spossate dalla crapula e dal piacere. Era il preludio delle guerre servili. Dugentoventimila servi e Spartaco con centoventimila gladiatori produssero uno scoppio ed uno schianto formidabile, come potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave. Licinio Crasso, quegli che rappresentava l'or- pellata repubblica, ne fece crocifiggere sei- mila. ►^( 6 )»►- A spaventoso movimento, repressioni più spaventose. Licinio Crasso fu favolosamente ricco per le opime spoglie e per V oro rag- granellato con la confisca dei beni delle sue vittime e dei milioni di proscritti. Ma quell'oro di nefando acquisto vennegli fatto ingoiare fuso e bollente dinanzi agli stessi suoi figli. E trentamila Romani sgoz- zati dai Parti, ad Harron nella Mesopotamia, furono quelli che espiarono con lui V inau- dita ferocia. Spartaco gladiatore, di razza nu- mida e di regio sangue , morì da eroe nella fiera mischia sulla riva del Sele in Lucania, condottiero di stanche e poche agguerrite schiere di uomini oppressi. Fra Spartaco e Crasso, tra il gladiatore ed il potente, tra quel povero oppresso e quel ricco oppressore, es- servi dovea odio mortale. Perversi però e scelesti ambidue ! Cicerone e Catilina, sommo oratore ma ambiziosissimo l'uno, patrizio romano disso- luto l'altro. Dalla congiura del secondo, che mirava in realtà al nichilismo dei nostri giorni, e dalla fine del primo si videro strani risul- tati. Catilina cadde trafitto nel campo tra le sue schiere pugnaci per un ideale. Cicerone ebbe il capo e le mani mozzi e confitti ai ro- stri del foro romano, e la lingua foracchiata dall' aureo spillone della proterva Fulvia. Splendidi esempii agli ambiziosi I Mentre che alla magnifica Atene non re- stava che il primato nel mondo per le let- tere e per le scienze, e mentre V immensa Roma repubblicana si affraliva e s* incrude- liva tra la mollezza, i vizii, le congiure, i mas- sacri e le guerre , nasceva Cesare. Cesare lo si disse dapprima congiuratore con Catilina. Gli scorreva però nelle vene il sangue vile di Mario. Era rinfocolato da am- bizione smodata e livore. Fu uno dei più grandi uomini che nacquero nel mondo. Lottò da atleta gigante con Pompeo, nato da eque- stre famiglia e partigiano del nobile Siila, e Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani gliene recarono la testa mozza, e volle punita la barbara adulazione. Era letterato di gran talento. Era generoso, ma sotto il mantello di leone ascondeva animo felino , vendicativo, dissimulatore. Catone preferì trapassarsi di propria mano il corpo con la spada, piutto- ^( 8 )»^ sto che rendersi servo di Cesare. Cesare am- biva air imperio, alla tirannia. Vinse i Ger- mani, i Galli e Scipione, ma venne pugnalato. Bruto, il fiero repubblicano, il prediletto di Cesare, s' intinse pure del sangue di lui; si macchiò di parricidio, perchè la dittatura lo premeva come incubo, anelava alla libertà, E tale fu la progenie umana sin da che vide la luce. Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo colla missione di pace tra gli uomini. Fatalmente però gli uomini si mantennero sempre gli ' stessi. Adamo ribelle al Dio creatore; Caino fra- tricida per invidia e per sete di dominio. E da questi a Cesare, a Crasso, a Spartaco, a Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da questi a Tiberio ed a Nerone, che ricreavansi degli spaventosi dirupi di Capri e delle fiaccole umane. *) E da questi ai Torquemada, agli autori degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono Bruno, Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da questi a Luigi XI, il compare di Tristano, ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre ( 9 )»^ aizzava le orde a fare strage, e permise la tre- menda notte di S. Bartolomeo , a Robespierre che allagò il bel suolo di Francia col sangue delle vittime del Terrore ; al prigioniero di S. Elena, che seminò di stragi, rovine e morti buona parte del mondo ; sino a quelli, innu- merevoli, che in questo nostro secolo avven- turoso han messo a soqquadro l'universo con lotte ferocissime. Una è perciò la linea che appare precisa: l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro qualsivoglia supremazia, servaggio od oppres- sione; mista a malvagità ammantata, sia dalla porpora, sia dai cenci; in diverse guise, nel- l'alto e nel basso, tra plebei e nobili, tra so- vrani e sudditi, tra volgo profano e menti elette, e persino tra letterati e tra i sacri mi- nistri delle diverse religioni; il quale odio malvagio personificato potrebbe raffigurarsi quale Encelado premuto dall' Etna. La scala della nequizia in tutti i tempi ha toccato i cieli, come quella biblica. . . . Tale era lo stato del mondo allorché nac- que Quinto Orazio Fiacco; e nelle sue vene scorreva sangue di schiavo. II. LA FAMIGLIA DEL POETA I ELLA vetustissima Venosa [Venu- sid), città situata tra la Puglia e la Lucania 3) , nel dì 8 dicembre dell'anno 689 dalla fondazione di Roma, sessan- tacinque anni prima dell' era cristiana, essendo consoli L. Aurelio Cotta e L. Manlio Torquato , essendo Cesare compro- messo con la prima congiura di Catilina, per- chè sognava la caduta della repubblica e la dittatura, nacque Quinto Orazio Fiacco. Il nome di Quinto se lo appropriò lui stesso nel libro secondo delle satire. Orazio ognuno lo chiamò, ed egli stesso così sempre si nomò nei suoi scritti. Plutarco lo disse Fiacco nella vita di Lucullo, cioè orecchiuto, ed egli stesso, nell'Epodo XV e nella prima satira del secondo libro, così si cognominò. Ma tale soprannome non indicava che avesse orecchie deformi, bensì può riferirsi a lui, quello che egli stesso dice di essere di facilissima audizione, oppure che quelli di sua famiglia fossero distinti con tal no- mignolo, tra le non poche famiglie della tribù oraziana, della quale si discorrerà in appresso. In un antico manoscritto che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che vuoisi opera del dottissimo Jacopo Cenna, venosino, si asserisce che Orazio nacque nelle case dette, al tempo nel quale il Cenna scriveva, dei Plumbaroli, presso le mura della città, e presso certi molini, che in appresso (come rilevasi . nelle note del Cimaglia) ap- partennero ai Pironti venosini, e che oggi son quasi di fronte alla cattedrale, venendo ^( 13 M^ dalla via di^S. Rocco, presso al luogo detto /e Sa/me. Suo padre era uno schiavo fatto libero. La quale condizione se non era tanto miserevole quanto quella dello schiavo, poteva dirsi av- vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il li- berto ripeter doveva quella larva di libertà dal suo antico padrone; come cittadino ve- deasi privato del diritto al suffragio; aspirar non potea agli alti uffizii civili, e neppure a coprirsi le braccia e le dita di anella d' oro perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo stesso matrimonio era per lui limitato nella cerchia dei suoi pari, perchè un liberto spo- sar non poteva sia la figliuola d' un senatore o d* un patrizio, sia altro essere nato libero od ingenuo, come diceasi allora. Viveva il liberto sotto la tutela del passato padrone, e lui malaugurato se a questo si fosse ribel- lato: ridiveniva schiavo. Spesso il suo pas- sato padrone se ne avvaleva per servizii ono- rifici, mediante lieve mercede. Malamente taluni vollero sostenere che il padre d'Orazio fosse libertino nel senso voluto da Svetonio in altri suoi scrìtti, e non nella biografia di -«( 14 ))^ Orazio, cioè figliuolo di liberto o figlio di schiavo fatto libero. Orazio, alludeìtttea suo padre, usa sempre la parola libertinus^ ma nel senso detto dapprima, volendo intendere che suo padre era stato schiavo, ed aveva avuto poi la libertà. Non vi pjiò cader dubbio al- cuno. \ . Il padre di Orazio prestava il servizio di riscotitore di tasse del comune di Venosa e di banditore, era un servus pubKcus; il Che dimostra che il suo passato padrone essere dovea di alto grado sociale, assegnandogli tali uffizii rimunerativi e non bassi, ed a ser- vizio della città. Nel suo stato perciò dirsi potea felice ed agiato, stantechè possedeva presso la Rendina, luogo neir agro di Ve- nosa, un fondicello che gli dava ( sebbene Orazio dicesse esser suo padre macro pan- per ugello) un conveniente provento, e quindi potette unire al suo impiego anche un negozio di salsamentario, o salumiere; e come vuoisi da Svetonio, Tunico biografo, così la- conico, ma purtroppo veritiero, veniva scher- nito il giovanetto Orazio dai suoi compagni di scuola così: Quottes ego, vidipatrem tuum ( 15 ) brachio se emungentem ? ^) Ingiuria solita in quei tempi ai figli di salumaio, e che Cice- rone riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu-- aito se emungere solebat. 5) Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto ciò che Orazio ha scritto sopra i suoi geni- tori, né da altri scrittori suoi contemporanei, compreso lo stesso Svetonio, né il nome di suo padre, né il nome e la condizione di sua madre. Il Fabretto, celebre raccoglitore di iscri- zioni e sigle, riporta un frammento d' iscri- zione che dice leggersi sopra una casetta in Venosa, che erroneamente fu detta esser la casa di Orazio, così concepita: HORATI C. L. Dio .... MlTULLEIAE UX. . . . e che sì è voluta decifrare così: HoRATio DioDORo Caji Liberto MiTULLEjAE Uxori 6) La quale interpretazione importerebbe che il padre di Orazio nomar si dovesse Diodoro o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é questo -«( i6 ))^ un falso indìzio, poiché in Venosa furonvi non pochi che si dissero Grazi, ed a qualcuno di questi è riferibile l'iscrizione funeraria. I due eruditi Grotefend, il Franke nei suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella sua splendida opera The works of Q. Horatius Flaccus illustrateci , opinarono il padre di Orazio poter esser un discendente dell' il- lustre famiglia romana degli Orazii, e che ri- divenuto libero, avesse ripreso, secondo il costume del tempo, il proprio nome. Ma il Mommsen, nella sua opera Inscriptiones Re-- gni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni rin- venute in Venosa indicanti l'esistenza di una tribù Hofatia, colonia romana, nella quale erano allistati gli abitanti della città di Ve- nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que- sta colonia, non discendeva però dalla fami- glia degli Orazii, nel qual caso farebbero op- posizione le continue lamentazioni del figlio di vii nascimento. Né si potea concepire che , fra tanta chia- rezza di prosapia, da darsi pure il lusso di un' iscrizione sepolcrale , Orazio poi non enunziasse neppure il nome di quelli che gli -«( 17 )f^ aveano data la vita. Ed è poi noto, come si vedrà in appresso, che tutto venne confiscato alla famiglia di Orazio dopo la disfatta di Fi- lippi. Era anzi quella gente tenuta in bando, e del tutto sprovvista di mezzi, il che per- metter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi con iscrizioni commemorative. G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo- sophia vetus et nova ad usum scholae, opina che un avo del poeta Orazio, assoldato nel- r esercito di Mitridate, venne nelle guerre del Ponto fatto prigioniero, e tradotto in Roma, e comprato da un questore venosino, dal quale si ebbe la libertà. Ma tale idea fanta- stica, come moltissime venute fuori dalla pen- na del letterato e filosofo del Calvados, non ha fondamento, mancando della parte princi- pale, cioè del nome del prigioniero, schiavo fatto libero, dal quale deriverebbe il padre di Orazio (di cui neppure sa dire il nome), che per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto, non liberto, come era infatti; Orazio chia- mando sempre suo padre liòertinus, non nel senso voluto da Svetonio, e mostrando sem- pre rammarico per tale causa. 3 ( i8) Altri poi (come rilevasi da vecchissime edizioni del gran poeta ) credettero assegnare al padre di Orazio il nome di Tubicino; ma pure questo va chiaramente emendato, stante- che si è voluto confondere il nomignolo del- l'uffizio che il padre di Orazio si aveva in Venosa, cioè di banditore. E siccome i ban- ditori in quel tempo solcano annunziarsi a suon di tuba, diceansi trombettieri ( tubicen^ tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse- rirsi che s'ignora del tutto il nome del padre di Orazio e quello della sua genitrice: se ne conoscono solo del tutto la condizione e lo stato del primo. Orazio disse essere stato suo padre uno schiavo, al quale venne concessa la libertà. Tale origine del suo casato lo mo- lestava acremente. E qui cade in acconcio notare che mentre Orazio non ha mai indi- cato il nome di suo padre e di sua madre, non ha mai nominata la città di Venosa. Con molta lucidità indica il luogo della sua na- scita e ne fa un piccolo cenno storico topo- grafico così concepito: Io non so con preci- sione se son Lucano o Pugliese, perché il colono venosino suole volgere l'aratro tra i ( 19 ) due confini di queste due regioni. E che Luigi Tansillo venosino cosi traducendo imita nel suo canto al viceré di Napoli: Io non so se Lucani o se Pugliesi Siam noiy però ch'il venosin villano Ara i confini d'ambidue paesi..,,. Ed una colonia romana fu spedita in tal luogo, abitato prima da Sanniti, per iscacciar- neli, e per impedir poi che tale infesta gente corresse sopra Roma a molestarla come pel passato. Ed invero i Sanniti furono infesti non poco ai Romani come le storie luculentemen- te asseriscono. E tale colonia romana spedita in Venosa, secondo attesta Tito Livio, formar dovea guarentigia a tutta la regione pugliese e lucana, e mostra ad evidenza V importanza della città di Venosa in quei tempi. Orazio volle con precisione dichiararsi ap- partenente alla colonia ronìana che discac- ciava da Venosa i Sanniti. Eppure i Sanniti furono di razza Sabina, ed Orazio non pensava che la Sabina, cioè la patria prima dei Sanniti, formar dovea la sua seconda desiderata patria, la sua aspira- ^ 20 >»^ zione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana commedia ! Eppure i costumi dei Sanniti furono qual si conviene a popolo belligero, sobrio e buo- no. Governavansi in austera repubblica, ed il sistema democratico formava la base delle loro istituzioni. Pei servigi resi alla patria davan persino le avvenenti compagne e le figlie come premio. O sacrifizio memorabile \ Nelle lunghe guerre coi Romani mostraronsi i Sabini più destri e valorosi. Venne però l'ora definitiva della sconfitta, e nell'eterna guerra tra le genti, il più forte li debellò. I Romani 290 anni prima di Cristo li espugnarono del tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché dice che la colonia venosina, debellati i San- niti, divenne propugnacolo contro le ossi- dioni di tal forte e belligera gente. Convien quindi notare che Orazio per quanto asserì esser nato sul suolo venosino, per tanto sem- bra mostrarsi superbo di appartenere alla co- lonia romana ivi residente: che anzi bisogne- rebbe assegnargli meritevolmente la taccia d' ingratissimo, perchè oltre a non nominare una sola volta in tutte le sue opere la patria •^ 21 )»- sua, come non precisa il nome ( e li avrebbe immortalati) né di suo padre, né di sua ma- dre, bensì il nome del suo primo maestro Flavio venosino e della sua castalda, Fidile^ cosi sacrilegamente si esprime: Sic quod-- cumque minabitur Eurus Fluctibus hesperiis, venusinae plectantur silvae, te sospite..... E Gargallo, quasi arrossendo, in tal guisa traduce, cangiando le venosine selve in lucani boschi: Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^ Ai flutti esperii^ di là ratto il muova A* lucan boschi^ e n'abbi tu bonaccia, 7) E per giunta in tutte le sue opere Orazio non nominando mai, come dissi, Venosa, spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi, TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma- tino, Benevento, e con aspirazione invidiosa Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis- sima Venusia, era bella, com' è tuttora, su- perba, attraente, forte più del suo Tivoli , e dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno tutti gravi e non poche mende, ma bilanciate con le qualità individuali, superiori e rare, -«( 22 )»- vanno cancellate. Salve perciò, o Orazio, sovrano poeta, onore della razza umana! Venosa, la patria tua, perdona tale non- curanza, e tale al certo involontaria irricono- scenza. L' hai ricolmata di gloria imperitura, indicando a chiare note che sorbisti le prime aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò bastar deve per fare scomparire ogni traccia di livore o sdegno verso di te, se pur può albergare nell'animo di alcun tuo concitta- dino livore o sdegno, come invece alberga venerazione e maraviglia ! Salve, sommo poe-. tal Tu certo vivi ancora. Il tuo spirito im- mortale aleggia benefico genio del luogo su quella ancor bellissima terra; oppure da qual- che stella lucente gitta raggio amico che mo- stra la via al viandante in quelle selve lucane, od al nocchiero la via nera dell'antico mare Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an- cora oggi si annega ! Orazio scrisse : Che qual figliuol di libertin trafitto Soft da tutti. 8) Invero Guerrazzi da savio sostiene: La -«( 23 )»- ignobilitàpiù che la chiarezza del Itg^taggio riuscire stimolo acuto a ben meritare; aven- do la natura concesso all'uomo maggiori po- tenze per acquistare, che non per mante- nere. ^^ L'assillo nonpertanto che tormentava Ora- zio era la sua nascita: perché non potendo schermirsi dai vili ma pur tormentosi frizzi della plebe che lo dicea discendente da schia- vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più su si è discusso, che gli bolliva in seno, e che il padre vieppiù incrudeliva, estolle la ma- gnanimità del suo genitore per averlo fatto educare, istruii^e e porre a livello dei giovani di buone famiglie ed agiate. Che anzi con boria e sicumere che mal velava lo struggersi interno, asseriva potersi porre a pari, egli figliuol di schiavo, coi figli dei senatori e dei cavalieri di quel tempo anche nella superba Romal Si vedrà in appresso quanto fosse ampollo- sa questa sua assertiva, allorché si noterà co- me egli stentar doveva per accaparrarsi sia l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei grandi, che un solo fortuito caso gli permise avvicinare, e come molte volte ingiustamente ne restava mortificato, mendicandone le grazie, ed attendendo nove lunghi mesi per meritarsi l'onore di venire annoverato tra i commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi maestro in cortigianeria a parecchi suoi gio- vani amici ed ammiratori ! Non è lecito credersi di più di quello che si è in realtà, né fidar troppo sul proprio me- rito, per quanto incontrastabile esso sia, in questa commedia umana nella quale regna sovrana V ingiustizia ! Il suo orgoglio come poeta diveniva ridevole quando si rivolgeva circa la sua condizione nella società nella quale viveva. Ma quel marchio che al solo presentarselo alla mente lo straziava a morte, il marchio di esser figliuolo di uno schiavo, gli faceva talvolta aver le traveggole. Riesce sublime quando esclama: Io disdegno e allontano Da me il vulgo profano Tacciasi ognun Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o) Egli lodò grandemente il padre, perché -«(25 )»- questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo ove molto era conosciuta la sua origine, e di af- francarsi dalle prepotenze dei ricchi, dei se- natori, dei cavalieri e di ognuno con Y i- struzione, col coprirsi di gloria: e tanto ot- tenne. Orazio nacque, come si accennò, dodici anni prima della congiura di Catilina. Cele- bri erano in quel tempo tra i poeti Valerio Catullo, Licinio Calvo e molti altri. E tra i filosofi Terenzio Vario e Numidio Fegulo. E per l'arte tribunizia Cicerone, Ortensio e Quinto Catulo. In Venosa in quei tempi eravi pure una classe sociale che si distin- gueva dalla volgare, la quale frequentava la scuola di un maestro Flavio, del povero Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar- si di divenir celebre per l'eternità, vedendosi consacrato nel libro di Orazio, che pur non dice il nome del suo genitore, della genitrice, della patria. A questa scuola attinse i primi rudimenti il piccolo Orazio. I suoi compagni lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza col farsi in seguito beffe di essi e dei loro parenti nobili venosini I La povera nobiltà -«( 26 ))^ venosina, ") quella nobiltà che ebbe incisa in pietra pelasgica tale enfatica iscrizione : Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA Aelius Restitutianus Vir Perfectissimus CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN HONOREM Splendidae Civitatis Venusinorum Consecravit ") resta schernita e vilipesa dallo stile del sommo satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed agiate della città di Venosa dovean tenere a vile accumunarsi con Orazio e famiglia, stante che ne conoscevano Torigine. Fu questa una delle ragioni per cui il padre decise condurlo in Roma. Dovette poi notare nel giovanetto un ingegno precoce e svegliato che promet- teva alcun che di grande, e pensò abbiso- gnargli più ampli orizzonti e pabolo più ade- guato e conveniente. Orazio aveva circa otto anni o dieci al massimo, secondo il computo di Andrea Dacier, nella sua Chronologia an- norum Horatii, allorché giunse col padre in Roma, e cominciò a frequentare quelle scuole romane. Ed è caro quel vanto che -«( 27 )»- trasse Orazio quando nei suoi canti, ricor- dando il padre ed i felici giorni della pueri- zia, e sentendosi nella folla della scolaresca deir immensa città susurrare airorecchio di esser creduto di alto lignaggio, dice : Ma d'alti sensi osò condurre a Roma Me fanciulletto^ ad apparar quell'arti Che un cavaliere che un senatore insegna Ai propri figli, Allor se, come avviene In un popolo immenso^ avesse alcuno Gli abiti visto^ ed i seguaci servii Certo creduto avria spese sì fatte A me apprestarsi da retaggio avito 13) La quale ingenua confessione dimostra che il padre di Orazio, sebbene appartenente alla bassa condizione di liberto, non doveva essere scarso a pecunia, anzi bastevolmen- te ricco. Quanti miseri studenti , figliuoli di coloni agiati e signori delle provincie^ non vanno oggi in Napoli o nell'alma Roma ad apprender lettere o scienze ? Ma ben pochi vivono certo vita allegra, vestono panni di lusso, e possono farsi seguire da servi e staffieri con panieri ricolmi di succulenti ma- nicaretti od altre costose leccornie ! Orazio però per generoso e riconoscente sentimento riferisce al padre il potersi istruire con tanta comodità, né può tacciarsi di parabolano o falso, né molto meno di orgoglioso, lui, che abborriva dall'orpellato fastigio, e mordeva con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i centurioni venosini! Sotto l'usbergo d'una morale istintiva covava Tira repressa del figliuol del liberto 1 ni. ORAZIO IN ROMA ED IN ATENE L padre d' Orazio condusse suo fi- " glìo in Roma nel 699 , cioè cin- quantacinque anni prima dell' era cri- stiana, non raggiungendo questi ancora i dieci anni di età. Forte baleno dì or- goglio e di stupore dovette abbagliare il piccolo venosino, ma pur cittadino romano, nel calpestare le aboliate strade della magnì- fica Roma. Ergevasi la città , che imperava allora su buona parte dell' orbe terraqueo, sui dodici celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio, e quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi suoi Quiriti , rifulgono oggi maggiormente nel mondo , perchè dominio di validissime potenze: la tiara, e la monarchia costituzio- nale deir Italia unita e libera. Aveva ponti lunghi e meravigliosi, porte monumentali, mura che potean vantarsi più durature e in- concusse delle ciclopiche o pelasgiche o delle cinesi. Avea più di quattrocento templi ador- nati di colonne preziose, archi trionfali, obe- lischi fatti trasportare con ingentissime spese dalle più remote regioni del mondo onde si fosse palesata la grandezza delle vittorie ro- mane dalle spoglie ricavate dai potenti e riottosi nemici. Se però Roma mostravasi tanto superba e potente alla vista, il che poteva lusingare i sensi del piccolo viaggiatore (il quale poi non proveniva da paese barbaro e povero , bensì da Venosa, caput Apuliae, città monumen- tale e stupenda, siccome attestano le antiche carte e le lapidi che hanno sfidata la corro- sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere ( 31 ) nella sua ampiezza e magnificenza gente av- vilita dalle discordie civili. Pel triunvirato di Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui più sopra si delineò la proterva jattanza), quel popolo, dapprima così forte e generoso, vedeva sfuggirsi, pel libertinaggio prepon- derante, la libertà che offriva ai cittadini la repubblica di Catone, repubblica ormai mo- ribonda. La mollezza ed il mal costume tor- cer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo romano. E perciò Orazio stesso, allorché co- minciò a balenargli in mente il vero, scrisse che le cure del suo buon genitore, che gli fu guida permanente, fra tante grandezze e fra tanto scompiglio morale lo ritrassero dal ca- dere in brutture ed ignominie e dal venir tac- ciato di cattivo cittadino ; che anzi gli procu- rarono la stima dei buoni e dei veramente grandi. Il padre soleva giornalmente condurlo dai maestri più celebri della città, ed ai banchi di quelle scuole famose sedevano con lui figliuoli di senatori e di altre famiglie nobili ed alto- locate dell'alma Roma. Era sicuro il padre che non si sarebbe rinfacciato al giovanetto ( 32 )»- Quinto Orazio la nascita vilissima, perchè s' ignorava donde fosse venuto : Y emporio immenso, oceano nel quale rifluivano tutti i popoli della terra, lo assorbivano. E lo schiavo fatto libero superava per lusso e per criterio sicuro moltissimi ingenui e gentiluomini. Orazio gliene fu gratissimo ; e scrisse che se avesse dovuto rinascere, ed avesse potuto scegliersi un padre, avrebbe scelto quello che gli die natura, non trovando altro uomo più coscenzioso, più perspicace, più amore- vole di questo ! Desta ammirazione e mera- viglia questa confessione, se si rifletta che il padre di Orazio era illetterato, e che era stato soggetto alla schiavitù 1 Ed Orazio nel parlar di suo .padre include pure la madre sua, perchè dice: . ... io pago a' miei (genitori), di fasci E di sedie curuli avoli adorni Saprei spezzar . . . . »S) Le prime lettere gli furono apprese da Pu- pilio Orbilio da Benevento, che, come narra Svetonio, fu dottissimo grammatico in quel tempo e tra i migliori maestri sotto il con- solato di Cicerone. Visse centenario; morì povero , solita fine dei non pochi lavoratori coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e non risparmiò la sua sferza allo stesso Ora- zio, che se lo rammentava con satirica soddi- sfazione. L'uso delle sferzate nella palma delle mani degli scolari, antico più del tempo del quale si discorre , formava sin negli ultimi nostri giorni un genere di punizione che la civiltà invadente va oggi disperdendo, siccome si è tolto il barbaro uso di bastonare e torturare i poveri folli ! Le cure morali debbono sosti- tuirsi a quelle corporali e costrittive. Alla scuola di Orbilio Pupilio cominciò Orazio ad alimentarsi della poesia latina; me- nando a memoria e tratteggiando le scene drammatiche del poeta Livio Andronico ed altri illustri. Come più sviluppavasi negli anni, cominciò ad attingere alle fonti delle lettere greche, che egli stesso poi definì le più pure e che dovevano occupare i dì e le notti degli scrittori. Omero, Anacreonte, Saffo , Archi- loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e non tra- lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che 5 gli fece acquistar gusto alla satira, furono i suoi modelli nel bello scrivere, e da essi ap- prese quell'arte divina , quella melodia am- maliatrice, che lo fecero addivenire il prìftio tra i lirici del mondo. Ed egli solea paì-ago- narsi all'ape industre del monte Matino (ser- vendosi per similitudine del nome d* un monte della sua Puglia, ma non del Vulture *^^ presso del quale spento vulcano ebbe la 'Cuna), cfee svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da ciascuno quel tanto di dolce e poetico da for- mar xumti immortali 1 Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de- rogare l'aurea massima di Ovidio del prin- cipiis còsta, nel senso inverso, per<:hè i primi lampi del genio sogliono ajpparire nei primi anni, e non conviene smorzarli ostando le prime cure degli studii, e rendendo con ciò più malagevole la via della gloria a colui che alimenta in se quella che Orazio stesso disse divinae particulam aurae. Che se non si ottiene la gloria si resta nell' oscurità e neir oblio comune alla maggior parte degli umani ! Pochi possono veramente dirsi im- mortali, anzi pòchissimi. I componenti la ce- lebre accademia parigina vanno pure oggi designati col nome d' Immorfe/s. Ma vera- mente immortale apparve at^traverso i seicoli il grande cittadino di Venosa ! Noff pntftts moriarf Spontaneo sgorgò dal labjbrp ,di Orazio medesimo tale motto fatidicQj Orazio in;tantQ cominciò a coprirsi della toga virile nel sedicesimo anno di età. Er^ijo i primi voli deir^gelica farfalla. Ma le belle lettere non bastano ^ formare r uomo erudito, se vengono scompagnate d^- gli 5tudii filosofici : ed é quindi logico ,che CQpipiuta Orazio la carriera letteraria in Roma, e qon maggior probabilità, per seguire V an- dazzo di quella gioventù, ed essendo più che in JEloma stessa coltivate le scienze in Atene, mentre il padre se ne jimase nel natio luogo alla cura degl'interessi agrarii, a lui convenne recarsi nella capitale della Grecia. Or^io recossi in Atene nel 709 di Roma, cioè di età di circa vepti anni, insieme a bi- bulo, . ^ Valerio Messala, al figlio di Cice^-one e. fid, filtri giovani appartenenti alle ,migli9ri famiglie di Roma. Er^ quindi in compagnia onorevolissima ( 36 )»- ed oltremodo lusinghiera, e ad altro, più che alle sue ricchezze avite, devesi attribuire tale dispendio per bene educarsi; poiché quel viag- gio ed il soggiorno in Grecia in quel tempo era insostenibile da chi poco possedeva, così che Cicerone, in una sua lettera ad Attico, scriveva che la spesa annuale per mantenere suo figlio in Atene ammontavagli all'ingente somma di ottantamila sesterzi , cioè a circa sedicimila lire di nostra moneta, secondo il computo di M. N. Bouillet. Si deve attribuire adunque piuttosto ad una particolare consi- derazione che si ebbe dai suoi maestri pel suo ingegno meraviglioso, ed alla sua attitu- dine e piacevolezza. Atene non valeva certo Roma, caput mun- di, ma dopo Roma era la più magnifica città della vecchia Europa in quel tempo, e per r arte e per le scienze bisognava assegnarle pure il primato. Atene, prima del tempo in cui visse Orazio, fu realmente una potente rivale di Roma. Ma Siila, poco prima che Orazio nascesse, laveva già doma ed aggio- gata al carro della potenza romana. Mitridate era stato disfatto, ed Archelao, suo primo con- -«( 37 )»- dottiero in Grecia, aveva assaporato quanto valide fossero le schiere col vessillo emble- matico deir aquila vittoriosa. Ad Atene restò dell'antica grandezza solo quella che venivale dalle arti belle e dalle scienze filosofiche. Le quali possanze sono più adamantine delle prezzolate aste guerriere. I potenti, lussuriosi e molli romani venivano a ritemprarsi V ani- mo in Atene come in un luogo sacro. Già circa quattrocento anni prima di Cri- sto, Platone aveva ideato quelle celebri ac- colte di filosofi, che nel giardino di Academo coltivavano con fervore religioso la scienza, e ne propalavano con apostolato meravi- glioso i progressi. Atene vantava Speusippo, Senocrate, Palemone, e nel seguirsi delle età Argesilao, Cameade, Zenone, Aristippo, Filone, ed Antioco di Ascalonia, che fé* driz- zar le orecchie al grande aquinate, siccome al ricchissimo Lucullo ed al fiero Bruto I A cosiffatte palestre s'adusò Orazio. Alle dottrine di tali sommi attinse le sue massi- me, la sua fede, il suo ideale. E da tali forti ingegni venutigli trasfusi i sistemi di Democrito e di Epicuro, sceveran- done la bruttura degli eccessi, se ne valse per sistema di vita e per regola della sua csi*^ stenza. Né dee credersi che Orazio sorbisse tali dottrine, siccome sogliono oggidì sor- birsi da taluni quelle demagogiche o dei se- guaci del socialismo, cioè senza freno e senea ponderazione, la qua! cosa importa ohe si rendano travisate e malvage, mentre in realtà conservano in loro stesse grande essenza di moralità. E se ben si considerano le vicende della vita di Orazio, e quello che egli stesso ne scrive ed inculca, quel suo seguire il si- stema d'Epicuro, ed il dirsene con frase tri- viale porcello con cotenna lucente della sua mandria, deve intendersi nel senso che il filo* sofr) francese Pietro Gassendi, nella sua^opera De vita et moribus Epicuri, ed anche più diffusamente nell'altra Syntagma filosopkiae Epicuri, indicava; cioè doversi alludere al- l'insieme della morale epicurea, che.detta.il piacere essere il sovrano bene dell' uomo quaggiù, e savio il cercare ogni mezzo. per ot- tenerlo allorché è onesto. E che per piacere non debbano intendersi solamente quelli idei senso, bensì quelli dell'animo. Edinvero,'Che il creato dall' onnipossente mano offra tanto solletico ai sensi ed offra pure tante svariate forme di piaceri da ricreare il corpo e lo spi- rito, è pure massima cristiana; derivandone da ciò quel risollevare l'animo riconoscente dell'uomo verso il creatore di siffatte peregri- ne bellezze e magnificenze. I piaceri dei sensi, che oggi, con le leggi divine del Vangelo, re- stano rinserrati in limiti minimi, ma pure esistenti, in tempi mitologici, siccome pel dettame di altre religioni che contano ancora numerosissimi adepti, erano fonte di beneme- renze, di olocausti, di premio. Non per nulla UKia dea fu detta Venere, e le si ergeano tem- pli e le si dedicavano misteriose funzioni e riti che oggi susciterebbero scandalo inaudito. Siccome io ho luculentemente dimostrato nella definizione etimologica di Venusia, '7) la Sicca Veneria è di origine caldaica, ed in Caldea solevasi alla colomba mistica er- .gere altari , donde il Succoth - Benoth , e le si sagrificavano vittime; ciò che vien indicato nel secondo libro de' Re nella Bibbia. E Ve- nosa discende in diretta linea da quella gente babilonese ; da essa prese il nome (Benoth- -«( 40 ) Benotsa- Venosa), ne conservò attraverso i se- coli taluni riti e costumi, ed ebbe da.essa in- generato arcanamente quell'istinto sensuale che controdistinse poi i suoi più celebri con- cittadini. L' impudicizia di Orazio è frutto della sua religione, è frutto delle massime di Epicuro, è vero : ma è pur vero che frutto delle massime di Epicuro furono la sua spec- chiata moralità nella vita sociale, la sua so- brietà, la sua modestia tra gli uguali, la sua saviezza estrinsecata in ciascuna parte del suo eterno lavoro, la sua prontezza a sferzare gli uomini che sotto il mantello di vita immaco- lata covano animo di gente perversa, di lupi rapaci, di volgo profano ! Il culto pei Ligu- rini, r addimostrarsi ambidestro, nel senso voluto da Montaigne, come attesta Gargallo, si deve, come ben osservano dotti 'scrittori (e diffusamente il barone Walckenaér nella sua splendida e dottissima opera Histoire de la vie et des poésies d Horace)^ all' andazzo romano, che di tal vituperio non si faceva scorno, anzi fuwi chi pubblicamente ne trae- va vanto. Riesce quindi incontrastabile che tre fatti essenziali costituiscono la base del sistema di vita di Orazio: l'odio sordo ed in- nato trasfusogli dal genitore liberto verso quelli che volevano sopraffare gli altri della stessa specie; le massime filosofiche di Epi- curo che gli vennero imbevute nella sua di- mora in Atene; Tesser nato in Venosa (chec- ché voglia dirsene circa la sua origine roma- na) essendo Venosa la città della Succoth- Benoth, come si accennò, avvalorando tale mia idea il parere di autorevoli uomini e ri- cavandola da documenti antichi. La voluttà che gì' infuse nel sangue l'aura venosina venne fecondata ed ingigantita dalle massime di Epicuro, l'odio istillatogli dal padre li- berto venne cementato dalle arringhe dema- gogiche di Bruto. Orazio conobbe Bruto in Atene, e si asse- risce senza ponderazione averlo seguito da Roma tra lo stuolo dei repubblicani fuggia- schi e decisi a guerreggiare in lontane re- gioni. Orazio del suo soggiorno in Atene non offre nei suoi canti notizie chiare e no- tevoli : fa però comprendere che si trattenne in quella città e si portò in essa pel solo fine di perfezionarsi nelle lettere e nelle scienze. ( 42 ) Erano con lui, come si accennò, il figliuolo di Cicerone ed altri giovani baldi e magnanimi, siccome eravi pure una schiuma di spudorata gente raccogliticcia che Bruto imperatore tra- scinava seco per formar masse, e poter lot- tare anche per forza numerica preponderante con gli Ottaviani e con quelli di Antonio. Orazio aveva superato appena i venti anni. Non era esperto nella milizia. Era in quel tempo delicato e poco appariscente ; era ti- mido e niente atto all'arte tribunizia soste- nuta colla parola veemente. Con tutto ciò si ebbe il comando di una colonna di armati : lo si creò tribuno militare. Sei erano i tribuni militari che comandavano la legione romana nel regime repubblicano, alternando ogni due mesi il comando, al dir di Polibio, di Tito Livio e di altri scrittori latini. Orazio quindi potè trarre vanto con Mecenate, allor- ché ne divenne confidente, di aver coman- data un' intiera legione, più che seimila tra fanti e cavalieri. Cicerone chiamò il tri- bunato militare una magistratura, stantechè soleano i tribuni nelle legioni far da giudici. Dovette ad Orazio accordarsi tale onorifi- cenza all'essere in fama di dotto; ed è logico che l'acuta visione della mente e T ingegno pronto sanno avvalersi od inventare quelle finzioni strategiche che il più delle volte se- gnano il destino delle battaglie. ir-^-ìiT^^.-iir'-y.'a rJ'B'y i giS W^gW'.y'-aiy .?|?^ i*ì,.5lfe'<»t-,l*^*y«.-j=»-t-i'A:--jm.: T?v':gf^ r^^^^i aftmft?a fe? -:afef:afc?i3 fc tafe^a«s:'-i IV. REUCTA NON BENE PARMULA.. I ELLE ampie pianure della Macedo- nia eransi radunate le schiere di Bruto e di Cassio. In una notte dell'au- tunno del 712 di Roma, notte oscura e profonda, la pioggia scrosciava violenta sulle mal difese tende. Bruto stanco e spossato, ma non vinto dalle fatiche del cam- po (allora più che nelle mischie odierne mi- liti e duci soffrivano ugualmente privazioni, disagi e miserie), era assopito; allorché un rumore strano, uno schianto malaugurato lo scossero. Era tuono ? Era fulmine che Giove gli faceva balenar sul capo per incenerirlo? Il suo animo macchiato di non poche scelle- ratezze, prima tra le quali il vile e nefando parricidio, benché baldo ed impavido, restò spaventato. Ma non era che l'apparizione di uno spettro dall'occhio troculento, dal cipi- glio minaccioso. Ed avendo Bruto, esterre- fatto ed impugnando la spada, dimandato chi mai esso fosse. . . . (( Il tuo genio maligno, ci rivedremo a Filippi I » rispose, e scompar- ve fra gli scrosci del temporale nell' oscurità della notte. Bruto corsegli dietro, ma invano. Rientrò nella tenda affranto. La terribile vi- sione lo tenne desto e per molti giorni lo tor- mentò e lo afflisse. Allorché i congiurati ebbero pugnalato Cesare con inaudito tradimento, Marco An- tonio signoreggiò sui Romani. Ma Ottaviano, nipote del grande ucciso, ed Emilio Lepido, maestro della cavalleria sotto la dittatura, do- po sanguinosa messe dei cittadini devoti alla repubblica, tra i quali Marco Tullio, forma- rono, riunitisi in accordo scellerato con An- ^( 47 )»- tonio, che tutto per se avrebbe voluto Tìm- perio, quel novello triunvìrato. Le angarie, le denunzie , le vendette , gli eccidii furono inauditi e feroci. I figliuoli stessi non perdo- navano ai loro genitori. Lepido consegnò alla vendetta di Antonio Suo fratello Paolo: riproduzione del delitto di Caino. Si figuri ognuno se gli schiavi, ai quali si promettea la libertà come compenso, non dovessero de- nunziare per la proscrizione e per lo stermi- nio i loro odiati padroni I Domata così V insurrezione in Roma , le schiere di Antonio e del giovane Ottaviano (il quale vinto da giusto sdegno, veniva tor- mentato dal desiderio di vendicare la morte di Cesare, ed ardeagli in petto la bramosia di poter lui ottenere quello che a Cesare ven- ne negato dalla sorte) volsero a perseguitare Bruto e Cassio , che in Grecia eransi rifugiati, seguiti da molti altri romani e da molta gio- ventù studiosa che popolava Atene , atten- dendo la riscossa. Erano Cassio e Bruto a venir a fatti d' armi per riprendere il soprav- vento, e ridare, secondo essi asserivano, la libertà a Roma , ripristinando la repubblica. e regalando alla patria la loro stessa persona, forse per divenire anche essi tiranni come quelli che volevano scacciare. Ed allo stuolo degli armati per terra contrapposero navigli poderosi in molti luoghi e maggiormente nel Mar di Corinto, ed erano a sufficienza prov- veduti di vettovaglie, danari, munizioni, e quel che più monta di entusiasmo, fierezza e noncuranza della vita, credendo molti di essi pugnare per una causa nobilissima. E tale infatti sarebbe stata, se si fosse trattato di ab- battere la tirannia, e far ottenere la libertà agli oppressi! Con tali procedimenti esser dovea non dubbia la sorte delle battaglie, e aggiunger si deve che doveansi misurare in luogo già da essi esplorato, e dove avean fatto lunga dimora: mentre che gli eserciti di Antonio ed Ottaviano erano in buona parte prezzolati e venivano da lontani lidi all' as- salto. Come dissi, la visione nella notte memo- rabile conturbò Bruto assai , sembrandogli tristissimo presagio. Cassio invano V andava confortando neir ora suprema della mischia, dicendogli che sempre per essi dovesse que- sta riuscir favorevole. Perchè se vincitori pur non fossero stati ed invece vinti, avrebbero sacrificato la loro vita alla libertà, ed il loro sangue avrebbe fruttificato, creando altro ger- me di eroi più destri e fortunati. Orazio comandava appunto una legione, come si accennò. Era tribuno nell'esercito di Bruto. Per quanto fosse stato seguace della pace e dedito solo ai tranquilli studii, non potette restar sordo alle concioni splendide del suo duce supremo, che armonizzavano colle sue idee di vera libertà, non di scom- posta e mal celata licenza e cupidigia di po- tere. L'entusiasmo l'invadeva: figlio di schia- vo, aborrente dalle dittature e dalle mollezze patrizie, egli aspettava l'occasione di vedersi di fronte, armata mano, ai potenti pieni di albagia e di orgoglio. Le prime avvisaglie furono favorevoli ai repubblicani, anzi ad essi tutto arrideva. Bruto vinse i Cesariani, e ne fé' strage. Le triremi romane vennero sconfitte dalle navi degli av- versari. Ma Cassio venne disfatto. I seguaci di Marco Antonio ne sconfissero con inaudita vittoria r armata; e Cassio stesso, secondo 7 ^ 50 )»- che aveva promesso, volle sacrificarsi alla li- bertà. Si fé' recidere il capo (incredibile prova di fierezza) da un littore. Tanto potente era in quei petti il sentimento della libertà e del- l' amore della patria, oppure della simulata ambizione debellata, ciò che è più certo e ve- rosimile per molti di essi. La sconfitta di Cassio giunse fulminea ed inaspettata nel campo di Bruto. Lacerossi le vesti, strappossi i capelli, impallidì per ver- gogna e per paura. Il pugnale che ferì Ce- sare pendevagli sul capo come la spada di Damocle. Sentivasi il collo punzecchiato da esso, e ne smaniava. Quel ferro lo sentiva nelle carni; era roso sin nelle viscere, lui par- ricida I Si vide perduto sebben vincitore. Nel- la notte precedente alla battaglia decisiva della sorte delle sue genti nelle pianure di Filippi, rivide tra le angosce e lo spavento lo spettro minaccioso che gli avea prodotto tanto rovello. Si ricordò della minaccia già fat- tagli: (( Ci rivedremo a Filippi I » Sembrò ine- betito: non si mosse dal luogo ove giacca. Imprecò solo al destino con quelle parole sacrileghe: Virtus nomen inane estl Ma a qual sorta di virtù egli alludeva ? Albeggiava ! Era il 23 settembre, 42 anni prima dglla venuta di Cristo. Le milizie riunite di Antonio e di Ottaviano scagliaronsi impe- tuose sulle spaventate schiere di Bruto. Ne fecero aspra ragione. Il terreno era rosso del sangue degli accaniti e rabbiosi repubblicani. Molti fuggirono, anzi maggiore fu il numero di quelli che visto il certo massacro (e tra essi eravi Orazio) disertarono dal campo, e, ramin- gando, sbandaronsi. Si narra che Bruto, fattasi tener ferma la spada dal suo liberto Stratone, si gettasse velocissimo su di essa, e ne avesse così trapassato il corpo. Questa fu la fine di Bruto imperatore I Questa la sorte della bat- taglia di Filippi, che si combattea da molti pel nobile fine di trarre Roma dal giogo del di- spotismo e degli ambiziosi ! Plutarco, nella vita di Bruto, sostiene che a Bruto ed a Cassio la città di Atene propose si elevassero delle statue di bronzo I Si crede- vano eroi. Si narra pure che Porcia, figlia di Catone e moglie di Bruto, allorché seppe la fine eroica di questo non volle sopravviver- gli. Volle morire anch'essa con eroismo inau- -< 52 in- dite, ingoiando fieramente carboni ardenti ! Antonio volle in Roma la testa di Bruto. La fé' porre a pie della statua di Cesare, del pa- dre tradito. Tristissimo appare Bruto, perchè si avvalse del pugnale e della guerra civile per ottenere il suo intento, per far valere il suo ideale o forse per ambizione sorda e sete di dominio, sete per lo più comune a tutti quelli che agiscono pel proprio interesse, non per quello comune. Triste riesce altresì Ottavia- no, che, dissimulatore esimio ( ed anche co- dardo, perchè non comparve sul campo a pu- gnare coi suoi soldati), dopo le stragi e le rovine del triunvirato, scendeva in lizza per procurarsi l'imperio e per asservire i romani. E tra tanto vituperio il savio venosino, vero seguace dei precetti di Platone, di Democrito ed Epicuro, pensò seguire la maggior parte dei combattitori sventurati, e con essi a salva- mento ritrarsi, niente però impaurito delle conseguenze di quegli avvenimenti: perchè, lo cantò egli stesso con versi divini: Egli è pur dolce ed onorata sorte Per la patria morir Non popolo furente Di colpe istigatore non fier cipiglio ( 53 ;»- Di tiranno può il giusto in sua sentenza invitto Scuoter giammai dal fermo suo consigli j; Con impavido ciglio Se de teiere spere in pezzi infrante L'alta compage piombi Sotto il suo minar fia che s* intombi. «7) Eppoi Orazio era un essere sacro protetto dai celesti, e lo sentiva, e lo scrisse a Pompeo Grofo, suo infelice commilitone: Teco provai guai fosse Filippi Quando ogni ardir si tacque, E 7 folle orgoglio fra la polve giacque. Me di dense aere cinse Tremante e tolse altoste agii Cillenio, Me difendono / numi; ai numi sono Care la mia pleiade e la mia musa, i8) È parere quasi comune di pressoché tutti i comentatori, chiosatori di Orazio, che il re- lieta non beneparmula oraziano si debba al- ludere alla sorte toccata all'esercito raccogli- ticcio di Bruto, ed alla sua rotta disastrosa, non alla persona di Orazio che certamente non era in realtà, né si sarebbe svelato vi- gliacco ai suoi novelli protettori nemici di ( 54 ) Bruto! Anzi l'accennare allo scacco subito dalle armi di Bruto solleticar dovea le orec- chie così delicate di Augusto e farne meglio rilucere la vittoria ! E già dopo la battaglia di Parsala, Bruto stesso, in luogo di sagrifi- carsi, cercò, ma invano, riconciliarsi con Ce- sare ! Taluni sono eroi per necessità o per forza maggiore; o spinti da una forza arcana e superiore, come il grande Napoleone. Tutti sono sepolti nelF oblio i morti di Fi- lippi. Orazio spento, si sarebbe spenta quella che Giovenale disse nella sua prima satira : Lucerna venosma, che illuminar doveva il mondo. DOPO LA TEMPESTA Po»«ti paon ri. (cgoa xo uà > umU, privo del tetto «npic.1, eha Bud«t ■ var»(EUr bnpuko . SctDW col cV»l. Io rad<, Ven. d' Ha ti ri bi; rr'^ ^ MOrtlt. I accennò nei precedenti capitoli come Orazio venne ancora adolescente con- dotto dal padre in Roma, perchè, fornita la sua famiglia di sufficienti mezzi di for- tuna, potesse evitare i frizzi e gli scherni di quei nobili venosini, che forse scor- gendo in lui una superiorità di talento ed un' intelligenza precoce e non comune, l' in- vidiavano e gli rinfacciavano la vile nascita e •^( 56 )»- la permanenza in una bottega di basso com- merciante di salumi. Ed Orazio venuto in Roma ebbe un lampo di stolido orgoglio e pavoneggiavasi veden- dosi coperto di vesti di porpora, seguito dal liberto, che scusavagli il servitore, e sedendo sulle stesse scranne coi superbi figliuoli dei senatori e patrizii romani, che ignari del suo nascimento e lusingati da ingannevole appa- renza esterna, non disdegnarono di amicar- selo. E forse su quelle stesse scranne sedet- tero con lui Vario, Virgilio, Tibullo, Pro- perzio ed altri, che gli restarono amici e lo aiutarono nelle avversità. Horrea formicae tendunt manta nunquam: diceva lo sven- turato esule del Ponto, Ovidio, che sincera- mente ammirò e lodò il Venosino, soggiun- gendo poi: Si tempora fuerint nubila, solus crisi Orazio in fama di ricco e benestante avea trovato amici e favori. La procella della disfatta dellesercito di Bruto pose il poeta nella condizione di desiderare, negletto da tutti, i mezzi di sussistenza pur costretto a salir le altrui scale. È questa la solita condi- zione dei disgraziati nella commedia umana. Se per potenza di ricchezza o per capriccio di fortuna, intorno al nome di un qualsivoglia individuo, sia pur mediocre, si disegna l'au- reola della fama, egli vede raggrupparglisi in- torno uno sciame di adulatori, di parassiti e di fronti curve. Se fato avverso lo copre, resta solo, avvilito, dimenticato; ed è raro che trovi una mano amica che lo tragga dalle onde in- fide alla riva. Il genio solo si estolle sempre, e grandeggia pure nella sventura e tra i sog- ghigni deirinvido volgo ! Orazio, con molti suoi commilitoni, sban- dossi dopo la battaglia di Filippi e la morte di Bruto, e se ne venne con grandi rischi e pericoli in Italia. Giunto appena a Brindisi si rifugiò in Venosa sua patria, come luogo più prossimo al punto di sbarco sulla via di Roma, '^^ e che non avea riveduto da che era giovanetto. Credeva ritrovarvi l'agiatezza antica. Ma rinvenne invece squallore, mise- ria, pianto. Riferisce Appiano che Venosa venne scelta per divenire una colonia, da dividersi ai sol- dati vincitori, come terra conquistata sopra gente nemica. Tutto era stato confiscato a 8 -^( 58 )»- quelli che si credevano partigiani della re- pubblica di Bruto e di Cassio. Il campicello di Orazio, situato nelle ame- nissime campagne che cingono da lungi il Vulture, dove il nume tutelare lo aveva pre- servato dal veleno del serpe, la casetta dove aveva dormito i sonni dell'infanzia felice sul seno della nutrice venosina, e dove nei suoi primi anni aveva imparato ad amare la vita campestre, ed ogni benché minimo vesti- gio di ricchezza dei suoi parenti era sparito. Suo padre stesso, sopraffatto dalla sciagura, erasi spento. Il ricordo di Ofello lo ricon- fortò: e con l'animo affranto, ma sempre im- pavido, fuggì quel suolo sciagurato, e seb- bene profugo ed a malincuore (stante che l'in- golfarsi nella vita romana potea riuscire fa- tale a lui considerato nemico dei vincitori), senza però imprecare né al destino né agli autori di quelle esose misure di proscrizioni e confische. Lo stoicismo lo invadeva e scu- savagli il conforto della religione 1 Cominciava intanto il Venosino a veder più chiaro nel mondo politico di quel tempo. La repubblica ideale, alla quale anelavano gli amanti della vera libertà, gli sembrò un sogno ineffettuabile, scorgendo che manca- vano la morigeratezza, l'ordine, la giusta fede negli dei e nella religione. Molti dei sedi- centi repubblicani eran peggiori dei seguaci del dittatore. Ottaviano valeva Bruto. Già Antonio era corso a soggiogare i Parti che incitati da un legato di Bruto eransi ribellati: ma per fatalità strana, cominciò a restar egli stesso soggiogato dai vezzi e dalle moine della proterva Cleopatra. Ottaviano coadiuvato dal ferreo Agrippa aveva debellato Pompeo. Il suo astro comin- ciava a brillare di una luce sfolgorante. Git- tava le saldissime basi della monarchia. Non aveva ancora il suo fulgore fugate le tenebre fitte delle intestine gare e discordie e delle guerre civili e dei partiti rivoluzionarii nel vastissimo impero. Né avea cominciato a dimostrare lucidamente che la sovranità mo- narchica, quando e retta da mente elevata e forte, suole sempre sovrabbondare di van- taggi straordinarii, più che nei governi retti da moltiplici duci : siccome il cavallo che morde il freno, e che venendo guidato da (6o) una sola mano perita e vigorosa obbedisce e si abbella più che se viene spinto a manca, a dritta ed a rovescio da molte redini fiacche ed impotenti. Orazio povero, proscritto, senza amicizia di potenti, col marchio indelebile di figliuol di schiavo, senza la guida del padre, che, come sovente egli stesso scrisse, lo avea preservato in tempi difficili da pericoli e dan- ni, non ritrovò altro aiuto che nello stilo e nelle tavolette ! Apollo, Mercurio, un iddio qualsiasi, il suo genio lo salvarono. Orazio cominciò a dettare le sue immortali poesie. Vuoisi dalla maggior parte degli scoliasti e comentatori e biografi di Orazio che la sua prima poesia fosse la settima satira del primo libro che oggi si conosce, nella quale sferza uno dei nemici suoi acerrimi, un tale Rupilio, cognominato Re. Era Rupilio un cavaliere romano nato in Preneste, che infingendosi ar- dente repubblicano, ed arrolatosi nelle schie- re di Bruto, militò sotto il comando di Orazio tribuno della legione. Mal soffriva il milite (che era invero di sangue nobile) che un fi- gliuol di schiavo, il giovine Fiacco, lo supe- rasse in grado. Soleva nei tempi perigliosi -«( 6i )j^ della mischia molestarlo con frizzi e dispetti accaniti, e con lui s'univano altri invidi suoi amici. Ritornarono a rivedersi in Roma, e colpita Orazio V occasione di una certa lite tra costui ed un tal Perseo, gli scaraventò furioso la freccia satirica, che termina con un' esclamazione di Perseo che bastò a far le vendette: Pei sommi Numi, esclama, e tu, che suoli Esterminare i re, Bruto, ti prego: Deh ! questo re perchè non strozzi ? Impresa Mal credi pur degna d* un Bruto è questa. 20) Ed in tal modo Orazio soleva stropicciare ben bene con italo aceto ( italus perfusus aceto ) i suoi invidiosi nemici, che non man- cano mai agli uomini, ma che sovrabbondano ai sommi; anzi, come serpi che strisciano in basso, tentano mordere il gigante che son- necchia, e talora l'avvelenano; ma desto lo temono, lo fuggono, e ne lasciano col capo le lingue trisulche schiacciate sotto il forte tallone. Orazio doveva avere ben marcate sul cra- nio la ventesimaseconda e ventesimaterza delle facoltà fondamentali del sistema di -«( 62 )j^ Gali : cioè lo spirito caustico ed umoristico, ed il talento poetico. ^*) Le satire furono le sue prime giostre che ne rilevarono V in- gegno, e ad esse aggiunse i lirici slanci delle prime odi. Abbenchè non sia bene stabilito precisa- mente quando Orazio abbia composta la bel- lissima ode alla nave, e per essa alla repub- blica, siccome sostengono il Cesarotti, il Walckenaèr, ed altri molti, io penso che si possa questa assegnare ai primi fulgori della sua mente, ai primi tocchi della sua lira. La compose quando occupato in Roma a ricer- care un impiego, che ottenne, e conoscendo Vario e Virgilio, sentivasi quasi certo di un'esistenza meno travagliata, accennando ai rischi che correvano altri suoi amici meno chiaroveggenti che volean ritentare la sorte imbarcandosi ed assoldandosi con qualche postumo seguace di Bruto. L'allegoria della repubblica raffigurata nel- la nave, si chiarisce non poco pensando allo stato di Roma nel seguirsi delle vittorie di Ottaviano dopo la battaglia di Filippi e della pubblica quiete che timidamente cominciava ( 63 )) a mostrarsi. La repubblica si annegava. Ora- zio nell'ode suddetta dice: Di gomene già priva la carena, Al nuovo infuriar delt onda negra non piti regge o regger puote appena Ma ai moltiplici suoi detrattori ed invidi nemici fecero contrasto due sommi poeti, che forse risowenendosi degli studii fatti in sua compagnia, oppure attratti dalla fama del suo ingegno, presero ad amarlo e proteggerlo: Vario e Virgilio. Quintilio Vario (che non deve esser colui di cui Weichert ha scritto un cenno biografico col titolo: L. Varii vita et carmina, che molti confondono con Quintilio Vario, ma che no- mavasi Lucio) vuoisi da molti, e la cronaca di Eusebio sostiene, esser di Cremona, com- paesano quasi di Virgilio. Fu censore e giu- dice di poesie, e poeta insigne. Aveva una splendida villa al lato occidentale di Tivoli e prossima a quella che doveva formare la de- lizia del nostro poeta e le cui vestigia pros- sime alla grande magione di Mecenate, sulle pendici del monte Pesciavatori, sono visibili, e hanno dato \ area ad una chiesa che oggi ( 64 ) nomasi Madonna di Quintiliolo. E pressi m ad esse si scorgono i resti della villa dell' a tro poeta Tucca, che legato era pure in am sta con Vario e con Virgilio ed Orazio. O^ gidì si scorge in tal luogo un edifizio rotond che pare esser dovea un piccolo Panteon, lo si noma tempio della Tosse, corruzione e Tucca. Esser dovea Vario quindi ricco e fé lice. Virgilio, il grande mantovano le cui ce neri posano sulle rive del ridentissimo golf partenopeo, a Mergellina, anche lui era stat( provato dalle sventure cadendo sotto le mi sure rigorose della confisca che ne aggiudica vano le vaste proprietà avite ai soldati de triunviri. Ma l'amicizia di Polli one e poi d Mecenate, amicizia cementata dal suo altissi mo ingegno, lo fece rientrare nel dominic della sua fortuna. Conservò per tale ricordo un cuore riconoscente e generoso verso i pii indigenti e percossi dalla medesima pena Amò poi Vario oltremodo: e T ode stupenda che gli diresse Orazio, colla quale tende a con solarlo della perdita di un così dolce amico rende troppo chiaro quanto fossero legat fra loro fraternamente quegli altissimi poeti -«( 65 )»- e quanta parte dovette prendere per proteg- gere e giovare allo sventurato e povero ve- nosino. Orazio dal suo canto non cessava di scri- vere in favore dei repubblicani, veri amanti di libertà, a rischio di perdersi, e sferzava atrocemente i cortigiani vilissimi di Ottavia- no, non osando di scrivere contro questo stesso, sia per giusta prudenza, sia perchè scorgeva in lui una qualche speranza di be- nefizio e di utile ai Romani e non comune va- lentia, sinché poi, come dirassi in appresso, lo innalzò alle stelle, scorgendo nel monarca, padre della patria, un uomo sommo. Galba, Crispo Sallustio, Cupennio Cumano, Tigel- lio ed altri, ebbero da lui fiere rampogne ed ammonimenti dettati da politici scopi e da sensi di alta moralità. Lo stesso Mecenate, al dir del dottissimo Weichert, prima che fosse divenuto suo amico, provò il sale ora- ziano, rimbrottandogli sotto il nomignolo di Malchino la sua effeminatezza , V esuberante prodigalità e Tesser troppo ligio alla tirannia. Orazio non risparmiava alcuno quando non vedeva chiara e netta l'illibatezza dei costumi. 9 (66) Svetonio, il solo antico biografo dì Grazie dice che egli comprò un ufficio di scriba ali questura di Roma, ed Orazio stesso lo ac cenna nelle sue epistole. L' acquisto fu fatt< dai suoi risparmi, dalla generosità dei sud detti suoi amici, oppure ebbe queir impiego quale retribuzione del posto di tribuno ch( aveva perduto ? È quello che non può asserirsi con preci sione. Il certo si è che V impiego di scriba, per quanto onorifico si fosse, non potea pa- ragonarsi a quello d' un comandante di una legione di seimila fanti e quattrocentocin- quanta cavalli, cioè ad un tribuno militare. Eranvi presso i romani diverse specie di cariche onorifiche, il cui titolare diceasi scriba, fra gli altri gli scribi edilizii. In una iscrizione, scopertasi in Napoli nel 1891, pres- so la Porta Nolana, per gli scavi nei lavori del risanamento, si narra che nel 14 settem- bre 71, essendo consoli L. Acilio Strabene e S. Neranio Capito, il consiglio comunale di Napoli, preseduto da Giulio Liviano, propose accordare onori funebri al defunto P. Plozio Faustino, scriba edilizio, che corri- -«( 67 )»- sponde oggi a segretario del municipio. La qualità dell' uffizio ammetteva che i funerali si facessero a pubbliche spese, siccome con pubblico danaro si acquistasse il luogo della sepoltura ed una quantità di profumi; ed il luogo scelto fu presso l'attuale Porta Nolana. I Napolitani erano ascritti alla tribù Marcia, mentre il Plozio, non napolitano, ed appar- tenente ad altra tribù, non avrebbe potuto ot- tener tali concessioni se non per l'importanza della carica che si designava: Scriba publicus Neapolitanorum aedilicius, segretario degli edili: per distinguerlo dagli scribi reipublicae Neapolitanorum cioè dagli scr^i officiaUs e quelli honorati. Appare chiaro però da novelle e precise in- vestigazioni fatte in questi ultimi anni da chiarissimi illustratori di Orazio, che inten- der si debba l' uffizio di scriba occupato dal poeta esser quello accennato da Cicerone nel terzo libro De natura deorum, quando parla del falsario Aleno, che contraffaceva le firme di coloro che diceansi scribae quaesto- rii sexprimi. La quale firma dava ai docu- menti pubblici la necessaria autenticità; per- ( 68 >•- che, essendo gli scribi addetti al contenziose amministrativo, od alla pubblica contabilità, formavano un' autorità speciale, siccome la Gran Corte dei Conti dei nostri giorni. Essi formavano un collegio a parte e la carica era vitalizia ed inamovibile. Dalle antiche iscrizioni scoperte in Tivoli, e presso la via Nomentana in Roma nei pri- mi anni del secolo decimonono, come da altre che vennero con esattezza riportate e com- mentate dal Gruter, da Fabretto, da Donati, da Tommaso Reinesius, nella sua Syntagma inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da Visconti, si rileva appunto l'importanza del- Tuffizio di scriba. Hawene una di un Tito Sabidio Massimo, scriba della questura, ed appartenente al sur- referito collegio, al quale i Tiburtini innalza- rono un monumento in riconoscenza dell'alta protezione accordata da lui a questa città: T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae. Q. SEX. Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici. Salio. Curatori Fani Herculis. Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii. Locus Sepulturae. Datus, •^( 69 )»- VOLUNTATE. POPULI. DECRETO. SeNATUS. TlBURTIUM. Siccome quest'altra seguente iscrizione a Manio Valerio Basso antico tribuno di legio- ne come era stato Orazio, pubblicata nel 1854 nel Giornale di Roma dal comm. Visconti, rende noto che la carica di scriba della que- stura soleva assegnarsi alla miglior classe dei cittadini, e talvolta solevasi contraccam- biare con la carica di tribuno delle milizie, acciocché se qualcuno fosse stato esonerato o per età o per volontà, trovar potesse un appannaggio adeguato al proprio valore, ed un meritato guiderdone: Man. Valerio. Man. F. Quir. Basso. Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q. VI. Primo. Harispic. Maximo. Testamento. Fieri. Iussit. Siri Et. Fratri. Suo. Hs. L. M. N. Arbitratu. Heredum. Erroneamente quindi gli antichi interpreti della parola scriba e dell' impiego ottenuto da Orazio, e molti scoliasti e glossatori e biografi attribuirono solo il senso di copia- tori di pubblici atti, oppure notai o redatt di atti privati, all'ufficio di scriba. Tale dignità elevata, ottenuta solo per ii pegno di altissimi personaggi, rese ad Oi zio più facile V accesso ed il conversare e grandi ed i potenti di queir età, come si \ drà in appresso. U importanza poi di tale impiego ott nuto dal poeta si rileva anche da quello ci egli stesso scrisse nella satira sesta del libi secondo : Quinto , Ti pregano i notai che non ti scordi Di tornar oggi pel noto affare Al collegio d* altissima importanza ... 32) Anche il Gargallo spiega la parola scribi con la voce notato; ma non credo aver voluta egli intendere quello che oggidì importa h carica di notaio, bensì componente il collegio degli scribi questorii suddetti. Il sommo poeta trascorse dunque i primi anni della sua dimora in Roma tra Toccupa- zione che gli offriva tale dignità onorifica e lucrativa e tra i diletti della poesia. Non può asserirsi con piena conoscenza quanto Weichert, uno dei più indefessi il- lustratori del poeta, nella sua opera Poe- tarum latinorum, vuol sostenere, cioè che Orazio avesse solo ventisette anni allorché venne presentato a Mecenate, cioè nel 715 di Roma. La cronologia diventa un mito quando si ravvolge in date così lontane e senza testimoni oculari. Volendo però se- guire tale opinione, adottata pure da Andrea Dacier, la presentazione di Orazio a Mece- nate successe quattro o cinque anni dopo la sua dimora in Roma. E Mecenate, il gran protettore degrillustri letterati di quel tempo, non lo ammise nella propria corte se non dopo averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo e l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato se Vario e Virgilio, che glielo raccomanda- rono, avessero imberciato nel segno propo- nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando era a sua conoscenza che Orazio aveva so- stenuto la carica di tribuno nelle legioni di Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano. Riesce quindi logico noverare la satira quarta del primo libro di Orazio come scritta poco prima che fosse a Mecenate presentato, stante che in essa si scusa con quelli che lamenta- •^( 72 )»- vansi delle sue punture, e gliele rimprove vano come poco coerenti per uno che int( deva guadagnarsi la stima dei grandi. ] egli vuol farsi credere semplice moralista filosofo che castiga, ridendo, i costumi, perciò egli si esprime presso a poco coi Il leggere satire, il veder frizzata la catti gente non riesce certo piacevol cosa a colo che hanno la coscienza poco monda. Ma e è puro ed integro ed onesto, non teme scudisciate del poeta, siccome disprezza calunnie dei malvagi. Poi non soglio io ai dar divulgando le mie composizioni nel piazze, nei trivii, nei simposii od anche nel accademie. Scrivo per semplice diletto, spini da forza arcana e per pura intenzione di ù del bene e purgare la società inondata d; vampiri, dai viziosi, dagli scelesti, dagVinv diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh costarono sudori a generazioni di lavorator Confesso d' aver anch' io dei difetti; ma ci: può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia d'aver calunniato chi merita lode, d'aver scemato il merito, anzi non aver abbastanz; lodato i cittadini eminenti ed onesti? Un uomo che parla così di se stesso me- ritava venire annoverato tra quelli la cui ami cizia è un guadagno, un pregio, un onore. Vario e Virgilio lo presentarono a Me- cenate. IO VI. MECENATE iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la noa. cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu k ÉufanUl pad or nada td kncluopv. Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa AIO Cilnio Mecenate nacque in Arezzo l'anno di Roma 686, e 68 prima di Cristo, ai 13 d' aprile, -■ dalla nobilissima famiglia Cilnia, di- ì scendente dai re dell'Etruria, che erano quei guerrieri etruschi venuti a soc- correre Romolo nella guerra contro i Sabini. Nacque tre anni prima di Orazio. Visse i primi anni legato di amicìzia col giovane Ot- taviano, e fecero insieme gli studii delle h tere e delle scienze in Atene. Egli pure, seguendo le orme degli avi, intrepido guerriero, e seguì sempre il vitt rioso Cesare in tutte le battaglie per demoli la repubblica e difendere Roma dai nemi interni ed esterni. Non fu affetto dal morbo dell' ambizion Allorché Augusto divenne padrone del v stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei i primi onori, i più ampii poteri; ma tutto eg rifiutava. Accolse solo le premure di Augusl di rappresentarlo quando si allontanava e Roma. Preferiva il sistema governativo a regim monarchico assoluto, piuttosto che quell retto a repubblica, e riuscì a far determinar col suo savio consiglio Augusto a conservar quel potere sovrano che per suoi fini particc lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell propria influenza, dei suoi disinteressati am monimenti e del suo credito per rendere Au gusto, imperatore e pontefice, proclive ali clemenza ed a far più manifesto il fastigio della monarchia. Amante del lusso, egli stes ( 71 >- so spronava Augusto severo, economico e restio al grandeggiare, al rendersi sovrano per magnificenza e per sublimi intraprese edi- lizie e monumentali. Sposò Terenzia, donna di grandissima bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudiò: ritornò ad essa sommesso: che non hawi grande uomo esente da mende , principal- mente dipendenti da procacia donnesca. So- stenne lotte atroci per dimenticarla, e non ne ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom ^^^ la dipinge nel vero suo aspetto. Era scrittore forbito, piacevole ed erudito. Compose ( ma non sono giunte fino a noi ) una Storia naturale, la Vita di Augusto, e diverse tragedie e poesie. Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi competere con Lucullo: largheggiava con ma- gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro- verbiale nei secoli si fu \ aver protetto e be- neficato i sommi letterati del suo tempo. Virgilio, Vario, Terenzio, Tibullo, Catul- lo, Marziale ed il nostro grande poeta furono i suoi favoriti. Né la sua protezione si limi- tava a piccoli sussidii, ad inviti ai suoi son- tuosi conviti od a sterili raccomandazioni Bensì soleva rendersi splendido per largi zioni tali da bastare ad assicurare l'agiatezze per tutta la vita del protetto. Pochi sovran si sono succeduti sulla scena del mondo pro- dighi come Mecenate, e tanto avveduti nei dare ed innalzare chi realmente possedeva meriti personali così insigni da immortalare il protettore, considerandolo nei frutti del lorc ingegno. Solo in questi ultimi anni nelle ro- vine di Carseoli nel Lazio si rinvenne un bu- sto marmoreo di Mecenate. Le rovine della splendida sua villa a Tivoli non sarebbero bastate a rischiarare la sua vita e la sua gran- dezza senza la Lucerna venosma, che lo ha fatto rifulgere di luce splendidissima ed eterna. Il vero monumento imperituro a Mecenate glielo ha innalzato Orazio Fiacco venosino. Virgilio nelle Georgiche così decanta il suo insigne protettore: « O Mecenate, o decoro nostro e parte massima della nostra fama. » Ma Orazio si mostra più virile. Ritiene Me- cenate gloria, presidio, sostegno e forte scu- do della sua persona; ma non attribuisce a lui, bensì al proprio ingegno la propria im- -«( 79 )^ mortalità. La superbia Oraziana (superbia derivante dai meritati allori ) non comportava servilità comuni al volgo. Poteva forse il ricchissimo aretino forjiir- gli una sola favilla di quel genio che il gran cittadino di Venosa stesso definì particella di aura divina? Tutti i tesori di Golconda non equivalgono a quegli slanci di lirica sublime che non han- no avuto eguale in nessun mortale quaggiù ! Come si accennò innanzi, Orazio venne presentato a Mecenate mentre vivea occu- pato neir ufficio di scriba questorio, e nel comporre satire ed altre poesie, che aveano già richiamato l'attenzione degli altri eruditi del giorno. E ciò dovette succedere neir an- no 717 di Roma, cioè avendo egli già sor- passato il ventisettesimo anno. Egli stesso così descrive questa presentazione: r ottimo Virgilio Da pria^ poi Vario dissero chi fossi, ' Né me figliuol di genitor preclaro Né me opulento possessor che scorra Suoi vasti campi su destrier pugliese^ Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^ Giusta tua usanza^ tu rispondi: io parto. '«) ( 8o )m^ E dice pure: Fattomi al tuo cospetto, singhiozzando Pochi accenti succiai^ poiché alla lingua Era infantil pudor nodo ed inciampo . . . ^s) Donde nacque mai in Orazio tanta umiltà tanta bonomia e tanta confusione vedendos al cospetto dell' erudito e ricchissimo e pò tente Mecenate, se non dallo scorgere in lu un amico sincero che cordialmente e senzc vedute interessate lo proteggeva, e lo 'ponevc nel novero dei suoi favoriti, ciò che formava l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams di lui, mentre pel contrario molti altri lo di- sprezzavano e lo invidiavano, e per tal fine cercavano fargli il maggior danno possibile? Aggiunger poi si deve che la magnificenza che circondava Mecenate, il suo palagio, la fila dei cortigiani che colle teste curve sino a toccare le lastre marmoree del pavimento, il suo prestigio dovettero colpire Orazio, che, per quanto impavido fosse, dovette risentirne certamente imbarazzo e confusione. Ti è occorso mai, o lettore, di presentarti, dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa nelle anticamere, ad un sovrano? E se sei italiano. ^( 8i )]»- ti trovasti mai alla presenza del gran Re Vit- torio Emanuele ? Quella figura atletica, chiu- sa nella cornice che cinge i re nelle reggie, colla divisa brillante di generale italiano, con quelli occhioni vividi e fieri che ti scendeano come saette sin nelle intime latebre dell'ani- mo, quasi a scrutarne le più riposte idee e sentimenti, non ti produsse alcuna emozio- ne ? Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti avesse di sua mano largita un' alta onorifi- cenza, od una lode schietta, non ti hai sentito sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e compiacimento? Se nulla hai provato, dir debbo che l'animo tuo è insensibile come pie- tra fi-edda di sepolcro! Garibaldi, Cavour, Thiers^ lo stesso Bismark ed il grande taci- turno tedesco ebbero fieri sussulti dell'animo, quando la mano del gran re strinse la loro ! Discordanti ben vero appaiono le opinioni circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da Virgilio e da Vario presentato a Mecenate. Molti sostengono (e si riscontra nelle me- morie dei suoi moderni biografi) che siffatto avvenimento accadde nell'anno 735 o 736 di Roma, così che fanno succedere nel 737 il II •^( 82 )»- viaggio di Orazio con Mecenate a Brindisi e quindi pochi mesi dopo questa data la pub blicazione della satira quinta del libro primo che ne descrive facetamente il viaggio , l evoluzioni, gì' incontri avvenuti ed altri fat terelli piccanti. Ma nella Cronologia del Dacier, che devt stimarsi la più esatta disposizione degli av venimenti e degli anni nei quali Orazio com pose le sue poesie, attenendosi ai diversi con- solati sotto i quali Orazio accenna scrivere, viene indicato il viaggio di Brindisi nel 716, od in quel torno di tempo, cioè quando Ora- zio avea ventinove o trent' anni, e riesce ciò più presumibile. Poiché nelle opinioni con- trarie il poeta avrebbe fatto quel viaggio por- tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri- guardo alla sua salute un po' malandata ed alla circospezione a conservarsi, ed alla sua vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e rifiutava perfino gli inviti di Augusto, non appare verosimile. Sia però come si voglia, certa cosa é che Mecenate riserbossi nove mesi per poterlo ammettere nel novero dei suoi amici stretti. ( 83 ) Orazio, giovane ancora, erudito, giovialis- simo, baldo, perchè adusato agli esercizii aspri della milizia: sperto del mondo, perchè provato dalle sventure e chiaroveggente: a- mante del vivere allegro, buontempone, re- sistente alle libazioni dei cecubi e dei falerni, uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade- scarle col vischio della poesia, dovea venir ricercato nelle brigate e nelle accolte dei dotti e dei viveurs di quel tempo. Era bel giovane, se non bellissimo, e ne menava vanto; ed i malanni della precoce se- nilità (dovuta agli studii indefessi), siccome la cisposità degli occhi ed i reumatismi, non aveanlo ancora reso solibus aptum, né biso- gnevole delle stufe calde di Cuma o delle fredde docce di Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò fé' propendere la bilancia a suo favore. Mecenate, gran conoscitore degli uomini, ed indagatore minuzioso, specialmente trat- tandosi di quelli che doveano essergli sempre vicino e sui quali doveva fidare, lo volle con sé, dopo nove mesi di prove ed indagini, com- mensale ed ospite nelle sue splendide reggie. Si sostenne (al dir di Svetonio) da taluni -«( 84 ) detrattori del sommo poeta, che nel temp in cui Orazio fu presentato a Mecenate, ve nisse pubblicata in Roma una lettera sua i prosa, e dei versi elegiaci supplichevoli, co quali, adulando il ricchissimo Mecenate, n implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms calunnia (e Svetonio stesso lo asserì) apparv più atroce e vile; tutto era apocrifo, si trat tava di libelli infamanti. Orazio non piatì sup plice nessun onore, provando in petto senti menti di fiera libertà; sentiva troppo di sé tanto che in luogo di adulare sferzava i cor tigiani e lo stesso Mecenate sino a dargl dell'effeminato e del Malchino. Il seguirsi de fatti di sua vita e le proverbiali espression di superbia che si notano nei suoi scritti, at testano lalto grado della sua alterigia , fie- rezza ed indipendenza. E non aveva poi h carica autorevole e redditizia di scriba que- storio in Roma ? E a lui, cui bastava tante poco, a lui nemico del lusso e delle albagie boriose dei grandi, come potette addebitarsi tanta viltà ? Molti scrittori dissero Orazio es- sere traduttore dei poeti greci. Frontone chia- mò Orazio memoriabilis poeta, e nient'altro. -«( 85 ) È noto del resto che il gran Venosino nei più antichi tempi non fu tenuto in quella no- minanza altissima, come ora si tiene. *^) Oh che gli uomini sogliono vedere sem- pre il male nel prossimo, e fingono non ve- derne il bene I L'adulazione, gli omaggi resi da Orazio a Mecenate ed Augusto, sono, derivati dal suo animo riconoscente e buono. Mecenate lo colmò di doni e favori. Orazio se l'ebbe a gran fortuna ed insperata, e per aver ester- nata la sua riconoscenza procacciossi la tac- cia di pettegolo e vile adulatore. Gotthold Lessing ^7) così si esprime : « La malizia regna sovrana negli apprezzamenti, come nelle altre cose. Che un letterato espri- ma le proprie idee sulla divinità in maniera da rendersi sublime, esponga le massime più belle sulla virtù, il volgo si guarderà bene dair ammirare il cuore da cui partono siffatti sentimenti, bensì gli si assegnerà la taccia di stravagante. Se poi, al contrario, allo scrittore sfugge il benché minimo biasime- vole fatto , lo si dirà derivante da un cuore cattivo, da un animo perverso. » -«( 86 ) Così giudicano gli uomini! Le massime così morali ed istruttive d Orazio, la sua circospezione, la sua religio ne, la sua integrità, la sua indomita fierezza il suo animo generoso ed affettuoso insieme la sua amicizia, che si svelava sempre sin cera e disinteressata, non furono bastevoli e liberarlo dal dente della calunnia e dai vita perii degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori Quando altro i suoi nemici non potetterc fare, stabilirono la lega del silenzio, creden- do che Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti ben pochi scrittori di quel tempo e soltantc qualcuno dei sommi furono quelli che ricor- darono Orazio. Oh stolti ! Orazio era stella sfolgoreg- giante di propria luce! Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe- dirono certo, perché pregavano Orazio stesso a presentarle, ed Orazio negavasi) suppliche e petizioni a Mecenate per aversi quello che Orazio ottenne per suoi meriti straor- dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne aiutato da Vario e Virgilio, i quali indi- pendenti e sommi non mercanteggiavano ( 87 ) sulla virtù e suiramicizia ! Orazio conservò sempre una virile dignità, né fu mai pa- rassita o cortigiano di Mecenate, ma suo amico fedele, e fedele gli fu sino alla morte che li colpì, per istrana fatalità, insieme ! Svetonio riporta l'epigramma faceto ed amichevole che Mecenate ad Orazio diresse, che molto spiega e rischiara : Ni te visceribiis meis, Morati^ Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm ninno me videas strigosiorem, (( Se io, o Orazio, non continuerò ad amarti più di me stesso, possa tu vedermi ridotto più sfiancato del mio muletto. » ^^) Al cardinale Ippolito d'Este, che non era certo al livello di Mecenate, né per inge- gno, né per ricchezza e potenza, e che ri- volse all'Ariosto quell'esclamazione avvili- ti va: « Donde traeste fuori, messer Ludo- vico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva : Fa che la povertà meno m*incresca^ E fa che la ricchezza sì non m*ami Che di mia libertà per suo amor esca. Quel ch'io non spero aver fa eh* io non bramii Che né sdegno ne invidia mi consumi ... '9) -«( 88 )»- Si noti differenza di sentimenti ! Orazio così risponde al celebre giurecon sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi gliava a celebrare coi carmi suoi immorta] le gesta di Ottaviano : Trebazio di Cesare tinvitto Osa le gesta celebrar^ sicuro Che ne otterrai ricca al lavor mercede, Orazio cedono ineguali A tanto desio le forze inferme. . . . . fuor che in propizio istante . . Mai non Jìa che di Fiacco accento voli, » 30) Ma questa è apologia bella e buona, ch< tu, o profano scrittore, tenti fare del som mo poetai a che tanto ti arrovelli? escla mera qualche pedante al mio indirizzo. Ec io a lui : Il mondo invecchiando peggiora Orazio non ha bisogno di apologisti. Io disdegno e allontano Da me il volgo profano Tacciasi ognun . » 30 COSÌ egli sentenziò. Se dunque parlo pei giustificarlo, io, ultimo tra i suoi ammira ratori e disadorno narratore, lo fo perch< si riferisca ad esempio a tanti, che, non pa -«( 89 ) ragonabili ad Orazio, non son certo dispre- gevoli, ma che sentono nelle carni il pun- golo del sarcasmo dei letterati da dozzina, della vigliacca calunnia, deirimmeritato di- sprezzo . Forse per questi riescirà dolce sentire che il più grande dei lirici del mondo dovette trascorrere ore tristi, perchè qual ci- gnale fuggente, straziato da torme di cani, ritrovava nella satira l'antidoto a siffatto ve- leno. Orazio scrisse : Di giorno in giorno e d'ora in or piti grave Mi preme invidia * . sa) Provati, o lettore, se hai dell' ingegno o dell'estro a sollevarti un tantino sui tuoi stessi talloni: vedrai mille mani adunche che ti si poggeranno sulle spalle e tenteranno ricacciarti in basso. Il solo gigante con po- derosa stretta si libera da tali attacchi peri- gliosi, L' aquila sola librasi nei cieli, e spa- ziando lassù vede la sorda lotta che le si prepara in terra, ed in alto sempre maggior- mente vittoriosa si estolle 1 13 VII. LUSSO E MAGNIFICENZA ; LLORCHÈ vuolsì da Roma andare a Tivoli, seguendo l'antica via Tibur- tina, dopo una salita lunghissima e leg- giera, che vi lascia guadagnar terreno in alto senza che se ne risenta molestia o iatica, si cominciano a goder di quelle prospettive incantevoli, che fanno dei con- torni di Roma i più splendidi luoghi di di- porto d'Europa. Allorché Roma diverrà popolata come Londra, queste vie, questi siti incomparabili riusciranno il ritrovo di quanto ewi di più nobile e ricco nel mondo, e si ritornerà godere di quello che gli antichi romani (vei e profondi conoscitori dei godimenti terre stri) pregustavano e preferivano. Su la via di Tivoli si scontra oggi, fra 1 altre, la villa fatta costruire nel 1549 sui di segni di Pirro Ligorio, dal celebre cardinal Ippolito d'Este, che più sopra citossi, e eh Ariosto ha reso immortale. I panorami eh presentano le terrazze monumentali di tal villa, donde si rispecchiano la campagna re mana, i monti laziali, le terre sabine, e, com mare d'un bell'opalino, si disegna gigant rimmensa ed eterna città, riescono oltre ogn credere maravigliosi e destano maggiore en tusiasmo degli affreschi dello Zuccari e de Muziani. È questa il pregio principale di tal vili moderna, la quale fa correre il pensiero ali propinque rovine della villa che Mecenate s fé' costruire su tale altura, e che era tra 1 più belle, sontuose e magnifiche nel tenjp^ nel quale Orazio visse. Dalla vastità dei ruderi, dalla magnificenz; dei cammini sotterranei, dalle cascate che do vettero artificialmente prodursi, deviando il corso dell' Aniene, la mente si raffigura quan- to gigantesco esser dovea questo palagio e questo dominio da re. Foltissime foreste do- veanlo cingere, che oggidì sonsi tramutate in poderi cospicui, coltivati ed ombreggiati da ulivi e frutteti. In quei tempi i querceti giganti e le al- tissime piante arboree e boschive rendean l'aria balsamica, che richiamavano stuoli di augelli canori, e facean sembrare quei piccoli colli quali gioghi alpini, tanto nericanti e silvestri si addimostravano. Una cacciagione abbondante e regalata e scelta ne rendea di- lettevole e proficuo il disperdersi tra quei sen- tieri ombrosi. Di tratto in tratto dei templi e dei chioschi dedicati agli dei formavano re- cessi tranquilli e devoti. Si scorgono ancora i ruderi del tempio della Sibilla, dell'altro di Vesta e quello di Ercole, la grotta di Nettuno e l'antro muschioso delle Sirene, ed il tempio della Vittoria [fanum Vacunaé), che vi mo- strano come quell'enorme distesa di terra fosse posseduta da munificente signore ed osse- quente agli dei. -«( 94 ) Delineavansi pure nelle callaie del bosco e sotto i porticati e gli ambulacri, statue mar moree d* illustri romani, con lapidi comme- morative, e bronzi istoriati, per ricordo dura- turo ai tardi nepoti. Dei palagi aggiunti all'immenso fabbri- cato servivano per le scuderie che contene- vano le più scelte accolte di cavalli d'ogni razza e paese: da quelle numide od africane , a quelle allevate nelle feconde pascione ro- mane, che anche oggidì forniscono prodotti maravigliosi, che possono gareggiare con le superbe mandre dell' Inghilterra o del Me- klemburgo. E le rimesse contenean le bighe e le qua- drighe, che erano splendidissime e tempestate di pietre rare e preziose, siccome usavasi in quel tempo; e noveravansi pure lettighe che eran di bronzo e legni rari e di argento ce- sellato, e ricoperte di stoffe peregrine, e da purpuree cortine ricamate con tanto lavorio da destare stupore. Degli schiavi negri venian mantenuti pel solo fine di portar sulle spalle tali lettighe, che davano al padrone un' aria nobile e di -«( 95 ) comando, e negli stolidi (e tali erano la mas- sima parte) un'idea di superiorità su quelli che facevano da bestie da soma. Eranvi ninfei, peschiere, bagni e vasche ric- chissime di scelti marmi, e palestre pei giuo- chi del disco, del salto, della corsa e del pu- gillato. Eranvi il teatro, Tanfiteatro, l'ippodro- mo, e portici lunghi e capaci di molto popolo, con filari di colonne d'ordine jonico, od imi- tanti i templi egiziani o babilonesi, che ser- vivano da passeggio nei giorni piovosi. L'interno poi del palagio nobile, nel quale dimorava il signore, era per se stesso una maraviglia. La fuga delle camere ornate nei soffitti da legni preziosi formanti cassettoni e scompartimenti a rilievo, e da bronzi e me- talli artisticamente lavorati, davano le verti- gini. I pavimenti erano formati da mosaici ed intarsi stupendi, e tanto levigati e lisci da pro- durre una lucentezza che abbagliava. La squi- sitezza greca ed il gusto severo e nobile del- l'arte romana gareggiavano a rendere sovra- na quella magione. Le dipinture delle paréti avean fregi vaghissimi, e vedute con capricci -^ 96 )»- nuovi a tocchi arditi, a colori accesi, dei pitt< più insigni del tempo: e negli antiporti, ne| impluvii e nei peristilii si passava di mara^ glia in maraviglia, tanto la mente degli ar sti ed il genio fecondo avean saputo produr accordi fastosi misti a severità magistrale. Pei trìclinii, pei talami, per le gallerie, p le sale dei conviti, sotto i portici interni stesi notavansi prodigi di maestria nell'arte del e pingere e dello scolpire, e scoprivansi mot gliature manifatturate con gai intrecci dì oi argenti, legni e metalli rarissimi e strani. I vedevi un tripode d'argento ove bruciavar aromi odorosissimi: là tazze gigantesche malachite o diaspro orientale. Più in là mei sole di lapislazzoli ed argento con sopravi st tue di oro di cesello greco. E poi anfore fai bricate a Ruvo od a Corinto, con figure ali goriche ed arabeschi artisticamente modell; ti, e con colori vivissimi, e lucernieri d'argent con colubri e serpi e sfingi e grifoni in riliev ricavati con sovrano bulino. E dalle logge sovrastanti ai portici mai morei scorgeansi quegli sfondi e prospetti ( laghetti e fontanelle e parchi ornati da piant esotiche e peregrine, e da statue gigantesche ed obelischi orientali. Tal era la villa di Mecenate sul colle ti- burtino, che gareggiava colle ville dei Luculli e degli imperadori, e superava di gran lunga le altre sontuose dimore degli opulenti ro- mani che decoravano quel punto del mondo, ove convergevano e si accumulavano tutte le mercatanzie dell'universo. Uno stuolo di valletti, ch'eran tutti model- lati da madre natura sulle forme di Antinoo, colle chiome dorate discinte sul collo di cigno; • schiavi pronti a sagrificarsi ad un gesto del padrone; cortigiani che godean l'alta prote- zione dell'uomo potente e munificentissimo; e liberti e donzelle leggiadre, col capo orna- to di rose primaticce e silvestri, e danzatrici e sonatrici seducentissime, e quant'altro può riuscire a ricreare lo spirito ed il cuore, po- polavano quel luogo, ed al grande offérivansi a diletto. Tali e più ricchi debbono considerarsi gli altri ostelli e manieri che possedeva Mecenate in Roma, e particolarmente notevole era il palagio magnifico sul monte Esquilino, dove 13 fecesi (come più tardi Carlo V sotto i voi toni deir Escuriale) innalzare un monumen- tale sepolcro, che racchiuse poi le sue ceneri e quelle di Orazio, come si dirà appresso. In tale palagio dovette ricevere il nostre sommo poeta, ed in queste dimore da re costui divenne familiare, ospite gratissimc e desiderato, tanto che poteva là dentro con- siderarsi come in casa propria. Ad Orazio, accostumato alla parsimonia, alla sobrietà, al « cantentus vivere parvo », dovettero riuscire ributtanti e fastidiose tante grandezze, tanto scialo ed un lusso così smo- dato. Ma Mecenate facevasi perdonare tali eccessi per la sua bontà, per la sua munifi- cenza, e principalmente perchè accoppiava a « tanto bene anche il tesoro della dottrina e proteggeva i letterati e gli onesti ed inte- merati. Orazio, seguace del precetto epicureo del nil admirari, compiacevasi invece di tanta maestà, e ne godeva come se gliene venisse per riverbero alcun bene, e lo ma- gnificava, ed il padrone portava alle stelle con non servile ma riconoscente omaggio. Ma all'uomo fornito di merito incontrasta- bile la fortuna suole non di rado scovrire non avaramente i suoi tesori. Orazio dalle reggie di Mecenate venne introdotto in quelle del sommo Augusto. Mecenate stesso, Pollione ed altri personaggi strapotenti lo presentaro- no con lusinghiere manifestazioni al signore dell'impero. vili. AUGUSTO AucuiTO — Lrtttr» ti 0r4uit, Cakoallo— TmJ. Ji Oriuii. j^:x RA tanto lusso, fra tanto apparato dì '^ grandezza, confuso fra gente awez- t J za ad incensare gli astri fiammeggianti, I ? grandeggiava ÌI sommo poeta forte del I I suo genio. Ed egli spesso fa notare que- " ' sto strano contrasto. Egli, figlio di li- berto, povero, di partito avverso a quello imperante, colla sola forza del suo stile, in- nalzossi su tutti, e si difese dai suoi sordidi ed invidi nemici, che agli uomini dotati di -«( I02 )»- prerogative superiori a quelle comuni, e prin cipalmente a coloro che dal cielo ottennero ingegno Sovrano, sembrano sorgere dinanz ad ogni pie sospinto ; e venne ricercato da più altolocati, e fu ad essi caro. Benvero le sorti di Roma spiegavano ah più ardita. Ottaviano ebbe dal Senato il titolc di Augusto. Era imperatore, tribuno, prò console a vita: lo si diceva padre della patrie e pontefice massimo. Aveva vinto AntoniOj che dai lacci perfidi della regina di Egitto, la formosissima e lasciva Cleopatra, era state arretito. Il vero ed unico padrone dell' im- pero romano era Ottaviano, e Y autorità su- prema, l'autocrazia gli die agio di poter do- mare le rimanenti schiere partigiane, che con moti intestini turbar volevano la quiete che felicitava Roma. Si proibirono le rumorose adunanze, i comizii rivoluzionarii; abolironsi i decreti di proscrizione con alto acume di senno politico e mostra di clemenza. Augusto regalò pure ai suoi soldati vin- citori buona parte delle province italiane e straniere più fertili ed ubertose. Venosa divenne colonia data in guider- -«( I03 )»- doneai veterani delle patrie battaglie, come quella che formava uno dei più splendidi gioielli della corona della monarchia. Così premiavasi il valore in quei tempi. Non è raro il caso oggi di leggere ne- crologie commemorative di veterani di bat- taglie gloriose tra le singole nazioni, che pure mutilati nelle membra, o consumati dalle fa- tiche dei campi, o deperiti per lunghe prigio- nie patite nelle passate tirannidi o per gravi lavori mentali, son restati sepolti nell'oblio, mentre vissero miseramente con modicissimo reddito, e morirono lasciando ai figli, oltre del nome onorato, una povertà dolorosa. Venne stabilita, anche per sicurezza del luogo ove Augusto dimorava, una schiera di soldati pretoriani, che per se sola formava un esercito. Era larghissimo verso il popolo, né mai i Romani videro tanto succedersi di feste e magnifiche giostre e spettacoli nei circhi, ed inaugurazioni di monumenti ed innalzamenti di templi agli dei qual ricono- scenza ed omaggio, come in quel tempo della signoria di Ottaviano Augusto, che lo dis- sero pur divo e gli elevarono statue. -«( 104 )»- I più potenti ingegni del tempo inneg giarono alla sua potenza, al suo splendore Virgilio, Vario, Properzio, Catullo, Tito Li vio e sopra tutti il nostro Orazio, e presso che tutte le menti elette di quel secolo ch< lo disse suo, furono volontariamente soggio gati dalla magnanimità di lui, e ne proclama rono la gloria che addivenne immortale. An* che, però, la vendetta, che col nome di giu- stizia sommaria forma un privilegio del nume, faceva scendere fulmini e pene sul capo dei colpevoli. Ed Ovidio Nasone meditò al Ponte la potenza dell' ira sovrana imitante quella di Giove tonante. Tutto ciò faceva mutar fede ai più incon- cussi. La luce del vero senza orpello né velo balenava nelle menti degl' intelligenti, sicché da cospiratori ed avversarli divenivano se- guaci del nuovo ordine di cose. Ed Orazio fu tra questi. Egli così scrisse: A te bensì vivente ancor^ di culto Noi Siam larghi anzitempo^ e alziamo altari Su cui giuran pel nome tuo, concordi Attestando che nulla unque mai sia nato, Che pari a te non ncucerà mai nulla. 33) ( 105 ) Vide che Augusto giovava alla patria più delle sorde mene ed i vaniloqui e le gesta dei tribuni e degli ambiziosi. Sebbene V imperio venisse dirizzato a si- stema monarchico assoluto, gli sembrava che si godesse maggior libertà che sotto le molti- formi poliarchie della repubblica democratica, la quale sarebbe stata in quel tempo per- fetta (forse quella ideata da Platone), ma nel fatto erasi addimostrata nefasta e per- niciosa per r innata malignità degli uomini, che, per quanto amanti di libertà, sogliono spesso tralignare e lasciarsi vincere dall'am- bizione e dalla sete del dominio, della ven- detta, dcir oro. Nel seguirsi degli anni l'in- nata malignità degli uomini creò pure i ti- ranni che inguinarono le monarchie. Ma la giustizia sociale li falciò come messe adu- sta ed erba parassita, e la tirannide ebbe a lottare contro V ira del popolo e ne re- stò infranta qual vetro contro muro di bron- zo ! Da Tiberio e Nerone sino a Luigi XVI si vede chiara tale lotta ineguale. Poco dopo i fatti accennati, Mecenate, che aveva annoverato Orazio fra i suoi prediletti, 14 ( io6 )i 10 presentò al sommo Augusto. Per quante sublime fosse tale onore, per quanto splen- dida si addimostrasse la corte sovrana, ad Orazio non produsse quel forte imbarazzo che lo vinse allorché venne per la prima volta a Mecenate presentato; sia perchè i suoi nuo- vi ideali lo avevano spinto a venerare Au- gusto, sia perchè senti vasi spalleggiato da Mecenate, sia perchè ormai avvezzo alle reali magioni di questo, che superavano i palagi di Cesare. Che anzi, come si disse, quel po- tente spronava Augusto alla splendidezza ed a quella magnificenza a cui il sovrano pareva poco inclinato. È storia che Augusto usasse vesti dimesse fatte nelle sue stesse stanze, in luogo delle porpore peregrine e preziose de- gli epuloni di quel tempo. Aveasi poi Orazio quel pubblico impiego onorifico di scriba della questura che gli schiudeva le porte della reggia e doveva renderlo bene accetto ad Augusto. Ed Au- gusto era pur letterato e protettore dei let- terati e degli uomini di elevato ingegno. 11 secolo suo fu il più fecondo di poeti, fi- losofi, oratori e scrittori insigni, come si ( 107 ) disse, ed anche oggi nomasi secolo d'Au- gusto quel tempo aureo per le lettere e per gli scienziati. Pure negli scorsi ultimi anni una miriade di gents de lettres ha inondata r Europa, e tra questi non pochi poeti ce- sarei. Ma saranno essi immortali, e daranno r immortalità a quei che decantano ? La co- rona dell' immortalità, i grandi scrittori la danno ai grandi della terra, di rado la ri- cevono. Carlo IX scriveva a Ronsard, che venne proclamato il poeta francese per ec- cellenza: Tous deux igalement nous portons des couronnes: MaiSy roiy je la recus: poite^ tu les danne Che dir poi di certuni, i quali si pascono della beata illusione di divenir celebri sol perchè il loro nome si trova segnato tra le tante voluminose carte che la libertà di stam- pa ha oggi create nel mondo? Sciocchi e ciechi! TI merito vero si pa- lesa da se, e rifulge di proprio splendore, e r opera dell' uomo sol essa rimane salda, se ha tal valore da resistere alla possanza edace del tempo ed all'apatia dominante. Ne ( io8 ) fornisca esempio il silenzio deplorevole e Vellejo Patercolo, che di tutti i grandi e pi( coli letterati dell'aureo secolo parlò, men che di Orazio nostro. La qual cosa non h scemato punto il valore di Orazio nella pc sterità. E qui cade in acconcio far notare che nes sun indovino avrebbe potuto pronosticare a venosino ignoto che un dì il divino Augu sto, r imperatore invitto, il potente sovrane di quasi tutto il mondo, gli avrebbe dirette lettere familiarissime, avrebbe desiderato 1; sua cooperazione, la sua compagnia, 1( avrebbe prescelto fra tutti i poeti esistent e gli avrebbe indettato i carmi più popolar e sublimi, gli avrebbe consegnato il suo sug gello di autorità, gli avrebbe detto ciò ch( Svetonio riporta dai brani delle lettere dal- l' imperatore ad Orazio dirette : « Surne Ubi « aliqutd juris apud me, tanquam si con- (( Victor mihi fueris.... Tuiqualem habeam (( memoriam, poteris ex Septimio nostro au- (( dire: nam incidit ut illa corani fieret a (( me tui mentio... Iratum me tibi scito, quod (( non in plerisque ejusmodi scriptis mecum « potissimiim loquaris. An vereris ne apud -«( 109 )^*^ « fosteros infame tibi sit , quod vtdearis fa- « miliaris nobis esse ?. ... Pertulit ad me « Dionisius libellum tuum, quem ego (ne « accusem brevitate), quantulus cumque est, « boni constilo. Vereri autem mihi videris (( ne majores libelli fui sint, quam if>se, sed c( si tibi natura deest, corpuscolum non « deest. )) Dai quali brani si rileva che Augusto non solo stimava Orazio al massimo grado, tanto da temere che essendo le sue opere immor- tali, non curasse d'immortalarlo in esse, quanto eragli amico intrinseco e con lui so- leva scherzare come con un suo pari. Ed Augusto non addivenne l'erede testamentario del poeta? Sono fatti che riescono incom- prensibili a quelli che non vogliono riflet- tere quanto grande sia la potenza del genio, dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate venosino è un fenomeno che merita uno stu- dio speciale, e non altrimenti possono spie- garsi quelle poesie nelle quali la superbia e lo sprezzo del volgo profano fanno ma- nifesta quella grandezza sua, che chiarissima a lui stesso appariva. ( no ) Di bronzo più durevole Ho un monumento alzato.,.^ Non Jta che basti a chiudere Me breve tomba intero Dair imo suolo alt etere Diran eh* io seppi alzarmi Primier su cetra italica Cigno d* Eolii carmi,,,.. Superba or va^ Melpomene Dei meritati allori Tutto il terrestre spazio È angusto a me confine,... Non io Da r urna e da la stigia Onda sarò ristretto^ Già del figliuol di Dedalo Io spiego ala piti ardita.... Laude fra tardi posteri Farà ch'io, guai per fresca Aura, arbuscel piti vegeto Ognor m^ innovi e cresca..,. La pompa è a me soverchia Che r altrui tombe onora,.,. 34) Colui che si esprimeva in questi termin sentir doveva di essere di gran lunga supe riore a tutto il resto degli uomini, e non rieso incomprensibile che abbia potuto divenire i favorito del potentissimo Augusto, siccom( lo era del generoso Mecenate. E che la superbia di Orazio fosse stafc -^ III )»- sprone ad acquisto di ricchezze ed onori e vuo- ta supremazia sui suoi simili, patentemente vien diniegato dal suo metodo di vita, dalle sue massime radicate di sobrietà e morigera- tezza, dal suo contentarsi del poco e godere della parsimonia. Mecenate ed Augusto po- teaii certo offerirgli più che un podere in Sa- bina, potean delegarlo proconsole in terre lon- tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu- cuUo; ma ciò sarebbe stato un offenderlo, un ferire la sua suscettibilità, un recargli fastidio, un attendersi un reciso rifiuto, perchè non eran questi i voti del venosino. È notorio che Orazio non usò altri di- stintivi di onorificenze se non lanello e gli ornamenti di giudice, ^5) ma valevasene sol- tanto per accompagnare Mecenate nei pub- blici ritrovi, perchè non amava certo che si fosse detto che l'amico del potente signore fosse un figliuol di liberto, bensì un cava- liere che comandato aveva una legione ro- mana! Un poderetto in luogo ameno, salubre, tranquillo e lontano dai rumori della gran città, un tetto sicuro, la certezza di vivere ( 1J2 ) agiato, la vicinanza ai suoi sinceri amici protettori, ai quali dimostrava ad ogni p sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne solo sufficiente ma sovrabbondante, e ne rii graziava le divinità! Ah che daddovero era una grand' anim quella di Orazio venosino ! O divino Verd o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi venti di uomini immortali aborrenti dalla st perba jattanza, e modesti, e cari ai popoli e all'Essere eterno che vi stampò ! Riesce fs cile notare nel passato, fatte le dovute ecce zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual riuscì appena in certa guisa a far risonar pel mondo la tromba della fama, che non pii si appagarono di piccoli poderi o rustich- casette, ma bramarono s'innalzassero monu menti a loro stessi viventi. Vollero onor sommi , castelli , parchi , magnificenza , fra stuono di accademie e di teatri, e scialo à superare i re della terra ! IX. LA VILLA SABINA SvsTomo — Vitt ili Orma L'ooohka eoM ■DgU kiL mlil non ibiHa, Qu«l oh* poHl*d«: PIA qaaL poco i mto^... Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL Gaioallo — Tra4. ili Orati I ell' esposizione della Promotrice del 1878 in Napoli si ammirava un cjuadro ad olio, segnato Orazio in viiia, dell'illustre pittore Camillo Miola, mio amico, autore della Sibilla, del San- sone al torchio, delle Danaidi, del Plauto^ e di altre pregevolissime tele riguar- danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione ita- liana del 16 luglio 1882 faceva elogio som- ( "4 ) mo, dichiarandolo uno dei migliori artii moderni d' Italia. Ed invero chi esamina quel quadro st pendo yien compreso d' ammirazione p l'arte e per la precisione storica che vi nota. Non palagio cinto da portici, o i parco, o da aiuole fiorite, non statue né ca celli con grifoni e sfingi di bronzo; ma ui modesta costruzione nascosta da un altissin albero, sul quale si arrampica un cespo g gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno me roseto; con semplicità di colore, con pi cola corte, con finestrette modeste, da un delle quali pende una gabbiolina con un capinera, e da cui compare il busto di On zio che maschera una vaga donzella, dell quale si distinguono solo le belle fattezz< Ed Orazio da quella finestretta, con un ari da buontempone e da pacifico e contento boi ghese, non con figura arcigna di vecchio bai bassoro, siccome piacque figurarlo da moi ti, 3^) assiste al giocondo tripudio dei sue coloni, delle fantesche dai volti affascinan e procaci e dalle movenze lusinghiere, delle amiche di forme speciose; e dei Ligii ( "5 >- rini e Batillì imberbi con lunghe chiome, che saltellando ed agitando nacchere e tirsi, si versan dalle anfore colme vini prelibati rac- colti nel podere. Una capretta randagia presso il rustico cancello di legno, apparisce spetta- trice innocua di quelle piacevolezze campestri. Basta veder quel quadro per formarsi una idea della proprietà che Orazio si ebbe in dono da Mecenate, unico dono che la sua modestia aggradì, e che confaceva al suo ideale. Orazio cosi enunzia la topografìa del suo podere rustico: Tutto di monti una catena il forma^ Se non che t interrompe opaca valle Ma così^ che sorgendo^ il destro lato Ne copre il sole^ e con fuggente carro Cadendo^ il manco ne vapora. Il clima Ne loderesti »7) Nella terza satira del secondo libro per la prima volta parla di tal dono che gli venne fatto da Mecenate nell' anno 721 , quando cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina il Dacier, nella sua Cronologia delle opere oraziane, tale satira in quel tempo fu scrit- ( ii6 )»^ ta. Ed Orazio ringrazia cordialmente Mece- nate per tal dono che gli giungeva nel suo trentesimosecondo anno di età. La voracità del tempo che ogni traccia di opera distrugge ed oscura, fece del tutto scomparire le vestigia della villa di Orazio in Sabina. Solo la pertinace ricerca dei suoi ammiratori, e la religione che accompagnò i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru- deri di tal fabbricato e podere, guidati dal lume nello stesso Orazio nelle descrizioni che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul- timi anni stabilire il luogo preciso, la con- formazione e r area dove quella villa sor- geva, e dove il gran poeta, al dir di Sve- tonio, visse molti anni nel ritiro fin secessu) e nella quiete. Ch. Guill. Mitscherlich, dotto filologo prus- siano, nelle sue Racemationes venusinae , stampate nel 1827; Obbario, nelle sue no- te sulle epistole oraziane; e principalmente r opera che X illustre letterato abbate Cap- martin de Chaupy pubblicò in Roma nel 1767-69, nel terzo volume, sulla Scoperta della casa di Orazio, possono offrire pre- -«( 117 ) zìose notizie sulle ricerche pazienti e sulle in- vestigazioni profonde e minuziose fatte per dar luce chiara a tale obbietto. Orazio disse che al suo piccolo fondo ba- stavano cinque lavoratori per menarlo a col- tura, i quali andavano a smerciarne le der- rate a Varia, piccola città lambita dall' Aniene, ed avean tutti alloggio nei fabbricati adia- centi a quelli che lui stesso abitava, e dove ciascuno soleva vivere con la propria fami- glia, tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul far della sera, sprigionavansi cinque nuvo- lette azzurrognole che ne indicavano il ru- stico convito (cinque fuochi), ed il soggiorno tranquillo. Si costuma tuttodì dagli agiati proprietarii di terre nelle province meridionali di vivere nel proprio fondo circondati dai rispettivi coloni, e r occhio vigile del padrone non nuoce alla prosperità di esso. Si comincia pure oggi a comprendere dai ricchi possessori di latifondi che la pigra vita delle popolose città non ridonda a vantag- gio della loro fortuna. Si creino pure ca- stelli, e si viva in essi, ma si faccia dimora -«( ii8 ) presso la sorgente, donde si ricavano quel ricchezze che rendono disuguali gli uomii fra loro. Si renderebbe così possibile e pei donabile tale disuguaglianza!.... Il principale castaido di Orazio dovev nominarsi Davo, marito forse a quella Fi dile alla quale dirige consigli savissimi salutari con una sua epistola. Davo esser do veva un cattivo castaido, come lo son per h più quei villici che abituati da tempo a fa da padroni nel fondo, mal vedono un nuo vo signore venire ad imporre ad essi leggi ( dettami ed a sorvegliarli. Orazio lo rimbrotta acremente in una satira, ^s) perchè nelle fe- ste saturnali, solendosi concedere ai subal- terni piena facoltà di esternare i proprii sen- timenti senza poter venire redaguiti dal pa- drone, ancorché gliele cantassero amare, (e tal costume si è conservato sin negli ul- timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino, nel suo sudicio e laido poema, che intitolò // yendemmtatore^vciostvò quanto quella libertà possa degenerare in licenza) svela il suo animo protervo, indocile e poco amante delle rusticane usanze e prosperità derivanti dalle ( 119 )^ buone e fertili annate, e dall' amor del suolo opimo; che anzi si svela amante dei piaceri della città per quanto spregiatore delle gioje campestri, e sotto la veste del campagnuolo si nasconde un guattero tralignato, ed un operajo invido ed infingardo. Davo prima di entrare nel podere aveva servito dei signori romani nell* ufficio di mediastmus. Si figuri il bel tomol Il fondo si componeva di una selvetta ce- dua (dove al poeta successe quel fiero in- contro col lupo, ed un dio propizio lo fé' restare incolume) ricca di elei ed altri alberi ghiandiferi che servivano ad alimentare le piccole greggi. Vi si godeva nell* estate fre- scura e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed un orto, nei quali pruni, susini e cornie ab- bondavano, con diverse altre specie di frutta delicate : né mancavano ulivi; tanto che ben potea dirsi di ritrovarsi a Taranto. La vite poi formava la parte più ricca del fondo, e dalla quale Orazio solea distillare quel cele- brato vinello che non disdegnava far gusta- re al palato di Mecenate. Nel mezzo del fondo scorreva un rivolo ( I20 )»- di acqua freschissima, che ricascando in gt terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi je, formava poi una fonte limpida e crisfc lina da potersi paragonare al celebre fon Bandusia, che versava le sue pure linfe pres; la patria del poeta, e che ancora oggidì qu di Palazzo S. Gervasio chiamano Fontah di Venosa, presso il bosco di Banzi. La fontana D* acqua perenne a la magion vicina,,, '9> è appunto \ attuale fontana degli Oratir presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta press Venosa nella strada che mena a Palazzo £ Gervasio, e X ode ad esso fu improvvisai da Orazio in una gita a Venosa per cacci, o diporto. Erroneamente si confondono queste du< fontane, \ una che irrigava il fondicello d Orazio in Sabina e l'altra più innanzi men tovato. Eranvi dappresso delle valli profonde nelk quali incanalavansi torrenti che solevano spesso trascinarsi dietro le speranze dei po- veri coloni, mentre formavano nella bella ►^( 121 ))D^ stagione paesaggi incantevoli. Il sito era elevato ed oltremodo pittoresco, ma freddo troppo nel verno, ciò che ad Orazio doleva. Contro i venti boreali il podere veniva ri- parato dal Lucretile, monticello che poteva assomigliarsi ad una delle colline che cin- gono Venosa o ad uno dei picchi del Vul- ture. Poco distava dal fondo il tempio alla dea Vacuna, o alla dea della Vittoria, dove Orazio stesso soleva recarsi a passeggio, e dove al rezzo delle piante che circondavano le rovine di quel sacro luogo diresse a Fu- sco Aristio suo amico e confidente quella leggiadra epistola. ^^) Mandela e Varia erano i paesetti più pros- simi al podere del poeta, e la via per ve- nirne da Roma era la Nomentana, quella stessa di cui si serviva Mecenate per trasfe- rirsi alla sua magnifica residenza presso Tivoli. Mecenate, Quintilio Vario ed altri ricchi solean far quel viaggio da Roma nelle cam- pagne di Tivoli trascinati da bighe o qua- drighe comode e sfolgoranti, in men di due ore. Orazio soleva usare per tal viaggio un i6 -«( 122 ))^ muletto con bisaccia a bardosso, che gli al lungava la durata del viaggio dì circa altr due ore, e facetamente berteggiava se stess» per tal modo di viaggiare, che sin oggi in uso in Basilicata e nella campagna ro mana. I massari ed i butteri romani usan< ancora tal genere di cavalcatura. *') Con tali dati sicuri cominciarono negl scorsi secoli le indagini per iscovrire pre- cisamente, fra tanti ruderi di ville nei din- torni di Tivoli, il luogo ove trovavasi la villa di Orazio. Flavio Biondo, nella prima metà del quin- dicesimo secolo, nella sua opera De Um- bria , con le ricerche fatte per tal riguar- do, ammise che la villa di Orazio fosse si- tuata a quindici miglia da Rieti, nel vil- laggio che oggi dicesi Poggio Mirteto. L'as- sertiva erronea sorse dallaver confuso la cit- tadina Vacone, feudo oggi della nobilissima famiglia romana Marini Clarelli, marchesi di Vacone (coi quali mi pregio essere in pa- rentado ^^)), col tempio suddetto della dea Vacuna, e furon molti che in quel tempo se- guirono una tale opinione. Finché nei prin- -•< 123 )»- cipii del secolo decimosesto il celebre geo- grafo di Danzica, Filippo Cluvier (leggasi la sua opera suir Italia antica), con ricerche pazientissime, venne a definire il punto dove trovavasi il paesello Varia, ove i coloni di Orazio andavano a vendere i prodotti del fondo, e Varia è appunto l'attuale borgo di Vicovaro. Tale scoperta produsse un' inesprimibile commozione tra i diligenti archeologi, perchè trovavasi tutto corrispondente a quanto Ora- zio esprimeva circa la sua proprietà in Sa- bina. La vicinanza al Fanum Vacunae, tem- pio di Vacuna o Rocca Giunone (attual- mente il paese Roccagiovine), il ruscelletto attuale la Licenza, che era la Digentia ora- ziana, il monte protettore dai venti e dai calori, il LMcretilis, oggidì monte detto Cor- ghiaietto. E quasi a conferma di tutto ciò era- vi un punto, che nomasi ancora, come voce di antica tradizione, ti colle del poéiello, cht è appunto la collinetta dove sorgeva la casa di abitazione, che formava il centro del podere. Si deve però al celebre Luca Holstenius, nella sua opera Ricerche sulla geografia, -«( 124 )»- 1 667 — Annotazioni a Cluverio, e conte poraneo del Cluvier, l'aver rettificato l'erra del geografo di Danzica, l'aver indicato sere il Lucreiile, non il monte Librei quello alle cui pendici sorger dovea V a tazione del poeta. Holstenius con ricerche accurate rinven a due miglia da Vicovaro il ruscelletto e tuttodì dicesi la Licenza ( Gelidus Digem oraziana) , e presso Roccagiovine le rovi del tempio già al tempo del poeta in ista di sfacelo [putte Vacunae) e che venne Vespasiano riparato, siccome si rileva da u iscrizione ritrovata in quelle vicinanze ci dice: Vespasianus aedem victoriae restitu Fabretto, Lavella, Avati e tutti quasi j archeologi insigni di quel tempo seguiror con interesse tale definizione, che restò ass< data come la vera, e che videsi comprova da novelle . scoverte, e dalle dispute che s< guirono tra altri scrittori ed antiquarii frai cesi ed italiani. Si diedero quindi tutti a fare indagii per iscovrire il sito preciso della casa di On zio, avendone scoverto il punto del poden ( 125 ) Nel bollettino archeologico dell' ateneo francese dell' aprile 1855 si rileva che gran luce apportò alla scoverta di Holstenius riscrizione che si legge nel palazzo baronale dei conti Bolognetti, situato presso il vil- laggio di Bardello, a pochi chilometri da Vicovaro. In essa apparve per la prima volta il nome di Mandela detta oggi G?;^- talupo, che è appunto il « Pagus » di cui parla Orazio; il che riunito al nome della Digentia quae Mandela bibit e del Lucretilis^ Corgnaletto, e del luogo che dicesi ancora collina del poetello, fecero stabilire definiti- vamente e con chiarezza il sito preciso della casa di abitazione del poeta. E si riuscì a tanto e con precisione som- ma, mercè le ricerche attivissime fatte nella metà del presente secolo da Nòel de Ver- ger, in compagnia del valentissimo ingegnere Pietro Rosa romano. Essi formarono una carta topografica dei luoghi sopra descritti, con l'indicazione del sito della villa oraziana. E tale pianta venne inserita dai signori Fir- min-Didot nell' edizione splendida in gran formato del 1855 delle opere di Orazio, di ( 126 ) cui un esemplare si conserva nella bibliotc ^ del Louvre. E il Nòel de Verger ^^^ così enunzia fc posizione, ed io traduco dal francese: Al là del villaggio moderno di Rocca Giovar, seguendo la via antica che si distacca* dalla via Valeria pei condursi da TiVi al tempio di Vacuna^ dopo di aver passa questo tempio, si arriva, montando sempf a una collina chiamata nel paese Colle d Poetello , al di là della quale si ossen un terrapieno artificiale regolare, oggi mes, a coltura, e che manifestamente appare aVi dovuto servire come area ad un edifizi Dei mattoni rotti dair aratro e mescola alla terra del campo sono i soli residui deli costruzione antica restata sul luogo; ma i forma del terrapieno, r averlo spianato, i regolarità dei suoi angoli, indicano il lavof deir uomo, e raffigurano la posizione arch tettonica delle ville romane di cui le peti dici dei monti Albani offrono nei dintori di Frascati, d' Albano, di Lavinia^ un cos gran numero di esempii. Non è piti quell un fondo di valle, è un poggerello elevai -«C( 127 ) in arcem ex urbe removi, ed intanto questa collinetta è perfettamente riparata ad oriente dal moftte del Corgnaletto , le cui vette si ravvicinano, difendendo il poggio dagli ar- dori del sole e dalle piogge che i venti di le-- vante soglioìto abbondare in questa parte del littorale mediterraneo. Ed infatti Orazio scrisse: Con r ameno LucretiU V arcadi collinette Fauno veloce ama cangiar sovente. Ed ei da ventipiovoliy Ognor le mie caprette^ Difende amico e da la state ardente. 44) Né bisogna omettere che molto oscuro era in Italia nel decimoquinto secolo tale punto riguardante la casa abitata da Orazio in Sabina, ed il suo podere. E basta leg- gere quanto il dottissimo Jacopo Cenna, ve- nosino, nella più volte citata cronaca an- tica di Venósa, manoscritto che conservasi nella Biblioteca nazionale di Napoli, nelle breve biografia del poeta dice, e che io tra- scrivo: .... Hebbe uua sua villa dotata di molte ricreai^ della quale ne ragiona nella ^ 128 ) 6* satyra del lib. 2.^ Et in altro loco chù lucretile il Mofite eh' era presso la sua 1 Sabina. Per questo e da saper che uopi Nì lontano da Roma e fnontopoli terra la piazza pubblica e di una pietra durissimi color difierro inselciata naturalmente. Pn di essa viene il Fiume Far faro clic se j scola col Tevere. Questo Fiume e tnolto a no percioche per un gran spatio ch'egli sciato i monti dietro ni scorre per la ce pagna ma di ogfii intomo coverto da beli et frondosi alberi. E le càpagne per doì scorre son tutte eulte. Ne la quale amenissi pianura a man dritta su qsto fiume e bellissimo e gran monasterio chiamato r^ badia a Farfara che signoreggia da dì castelli: Or questa valle causata da Farfc et habitata da tante castelle e quella di hebbe Horatio Venusino la sua desideri villa e presso di essa hebbe una delitic selva; E fu tanto piacevole questa villa Horatio che pare che no si vegga mai sa in molti lochi di lodarla e di celebrarla Da tutto quello che si è sin qui espos deve dedursi che la villa di Orazio non e •^( 129 )»- situata in Tivoli, paese che il sommo poeta decanta, ma in quel di Tivoli, in Sabina ( ru- fis sui Sabini aut Tiburtini, al dir di Sve- tonio ) e presso la selva Tiburtina (luculum Tibumi). La villa oraziana era situata circa venti chi- lometri al nord-est dell* attuale Tivoli. L'in- canto della contrada fa proclamar Tivoli come il luogo desiderato, tal quale oggi si decanta il bel cielo di Napoli da chiunque dimora sia a Pozzuoli che a Portici, a Castellammare, a Sorrento od a Somma ! Le ricerche fatte e tanto felicemente riu- scite accreditano sempre più la fama del gran- de poeta presso tutte le nazioni del mondo. A nessun altro sommo mortale è stata con- cessa tanta venerazione da ricercarne con fa- tica e studii profondi il sito preciso ove passò i suoi giorni, come situata era la sua abi- tazione, come era esposta, come era formata. Come spiegare questo fenomeno d* investiga- zione attraverso i secoli, e sempre fresca, vigilante ed attiva? Si spiega facilmente col ripetere che la vita di Orazio, i suoi costu- mi , il suo modo di vivere eran fondati so- 17 -«( I30 )»- pra meriti acquisiti col lungo studio e co profonda conoscenza della vita umana e e gli uomini, e con criterio rettissimo. Proseguiamo un po' ad investigare la v intima del poeta, le sue credenze, le sue occ pazioni e le sue opinioni particolari cor uomo non come il primo lirico del mond Sarà uno studio fecondo ed istruttivo. ;^.SSv '^AmMm'^"-^ •<%.. X. FILOSOFIA, RELIGIONE, INDOLE, A filosofia di Orazio poggiava sui ' precetti e sulle màssime istillategli dai seguaci di Epicuro e di Demo- J I crito. Si fondavano le sue credenze sul ; [ desiderio di ottenere per quanto più riuscisse possibile una felicità terrena. La qual felicità è pur troppo difficile ad ot- tenersi se si considera nel suo vero senso il valore di questa che ben venne definita commedia umana, poiché la parte che ad ( 132 ) ognuno tocca rappresentare quaggiù può i scire di agevole attuazione: ma può pure facilmente riuscire insostenibile; stante la vita può venire tutta ordita di affanni, serie, pentimenti ed altri maggiori gua per giunta soprammodo attossicata dalla brevità, dallo spettro della morte. Deg'ii anni il breve termine Vieta ardir lunga speme Mentre parliam dileguasi V invida età; a due mani Stringi il dì d' oggi, Non aspettar domani. 45) Dove acciuffare la felicità terrena con 1 prospettive ? Mal s' appiglia però colui che cerca co pensare le pene con le scarse e fugaci gi( che nella vita umana si godono, se non cei la sicura medela nella religione. Risulta fu di dubbio ciò nonostante che savia dottri è cercare di lenire quanto è possibile i doI( della vita: perchè la vita è un perenne f timento. Orazio scrisse dei casi il volgere Meglio è soffrire in pace Ma pazienza mitiga Ciò che non ha riparo. 46) ( 133 ) Né dò è poca cosa, né priva di venire alimentata con giusto e morale criterio. Ed è appunto ciò che detta la filosofia oraziana. Orazio sentenzia che per poter meno sof- ft'ire, fa d* uopo desiderare il meno che si può, ambire quanto meno riesce possibile, contentarsi del poco: non lasciarsi vincere da gioja o dolore, (Vafaraxta di Laerzio, il m7 admirari) Tessere onesto: carpire quello che offre la terra di delizie e di godimenti leciti: non affliggersi del domani, che é una incognita, la quale si risolve per lo più dif- ferente da quanto si era preveduto: pensare che dopo la morte incomincia una novella vita che si rispecchia in quella trascorsa come compenso o pena. Per seguire tale analisi filosofica conviene esaminare quale culto am- mettevasi in quel tempo, e quale credenza coltivavano i Romani che non avevano an- cora bevuto queir elisire di vita del cristia- nesimo, questo battesimo di civiltà e di pro- gresso che apriva vastissimi orizzonti agli umani travagliati e sepolti nelle tenebre. La divinità, questa sfinge enimmatica in- visibile, quest' essenza misteriosa, quest' idea -M ^34 )»- che non cape in intelletto umano, esercitava (come esercita ed eserciterà sempre ) nelle menti di quei popoli un fascino podero- sissimo. I grandi ed i piccoli eran compresi da arcana paura, da terrore strano, da mistici- smo incomprensibile al figurarsi Giove to- nante, al sacrificare a Mercurio, ad Apollo, a Marte ed agli altri dei dell'Olimpo, a pre- gustare quelle dolcezze che circondavano il culto della dea Venere, quella divinità cal- daica raffigurata in una colomba misteriosa, e che pura e bianchissima si facea nascere dalla spuma del mare. E da queste venerazioni elevate e sublimi, quelle menti piccole e misere scendevano sino al basso della superstizione, sino al culto della dea Fortuna, sino allo sporco dio Priapo ed al dio Momo, che Orazio deride e beffeggia. Orazio era amante del culto sebbene scet- tico, apata e niente amico di parere il san- tusse. Se fosse stato cristiano sarebbe stato un credente esemplare, siccome lo fu Dante. Nei sacrificii, nelle feste, egli, sacerdote delle muse, inneggiava ad Apollo, a Mercu- ( 135 ) rio, a Venere. Mischiava il suo canto a quello del popolo pieno di fede: chiedeva protezione ed assistenza ai numi, mentre il volgo se- guiva (come vedesi ancora tuttodì) a piedi scalzi le processioni di penitenza. Nei pericoli che corse nella vita avven- turosa, intravide sempre un essere sopran- naturale che lo traeva a salvamento. Allorché ferveva la lizza di Filippi e ne scampò. Mercurio lo ritrasse incolume e libe- ro. E ritornando egli in patria, la nave sulla quale era imbarcato, s'infranse tra gli scogli sicani di Palinuro. Una divina provviden- ziale potenza lo fé' scampare dal naufragio. Quando- viveva in Venosa ed era fanciul- letto, per negligenza dei suoi parenti, si di- sperse per quelle fitte boscaglie popolate di selvaggi animali e ceraste e vipere. Si as- sopì stanco sotto un fronzuto recesso: nel- r assopimento un serpente volea morderlo; un buon dio lo preservò dal velenoso dente I Quando nella selvetta Sabina venne assalito dal lupo: quando T albero maledetto fu sul punto di schiacciarlo non attribuì forse ad una forza superiore la salvezza? -«( 136 )»- Questo venir prodigiosamente preservato egli decanta spesso, e con ciò si mostra ri- conoscente agli dei protettori. L'idea della vita futura la fa tralucere manifestamente nel suo superbo epifonema a Non omnis mortary>\ cioè morirà il mio corpo marcescibile, ma Y anima mia soprav- viverà I In che cosa si discosta dalle credenze del cristianesimo, se si cangiano i nomi alla divinità che dall' alto dispone, assiste e pro- tegge ? O Jehova, o Dio, o Giove, uno è il prin- cipio, r esistenza d' un essere soprannaturale che tutto vede e dispone, e che premia o punisce. Non è la sommissione buddistica, bensì la virile sommissione ad una forza on- nipotente. Orazio diceva: Che Giove fra celesti Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^ E Vittor Hugo in questi ultimi tempi, ben- ché ammantato di scetticismo volteriano, gri- dava: // est, il est, il est! ■**) A tali credenze religiose mescolandosi la -c< 137 )»^ dottrina che bevve dalle massime di Epicuro, il quale insegnava il piacere essere il sovrano bene deiruomo, ma che intender devesi non solo i piaceri del senso voluti dalla natura, bensì più altamente quelli dello spirito, non poteva Orazio vivere diversamente da come visse, e non poteva la sua vita non riuscir di norma a tutti quelli che intendono tra- scorrere gli anni di questo pellegrinaggio il meno male che loro è concesso. Ed Orazio oltre alle dottrine di Epicuro, cercò seguire i precetti di Democrito, che poneva come principio di sapienza il ridersi stoicamente di tutto quello che quaggiù avviene e delle diverse pazzie degli uomini. Non altro esem- pio tenne presente il gran poeta nel com- porre la satira a Damasippo. È pur troppo vero che nella natura 'umana havvi un' in- nata follia permanente. Orazio diede a sé stesso del pazzo perchè poeta. La follia mor- bosa non è se non un estremo vizioso di quella che neir uomo esiste per natura. I pro- dighi, gli avari, i tiranni, gli ambiziosi, gli asceti, gli atei, i ribelli, gli sciocchi, i codar- di, gli albagiosi, gli analfabeti sono apparen- 18 ( 138 ) temente sani, ma a tutti potrebbe non di- sconvenire r erba di Anticiro. Orazio sferza duramente, e talvolta, con- vien confessarlo, con osceno e ributtante lin- guaggio, coloro che ricercano le ricchezze con mezzi indecorosi. Eranvi, nel tempo nel quale egli visse, vecchie carcasse umane imputridite, che, cariche d'oro, credevano sol per questo dover essere corteggiate e lodate. Egli, seguace di Epicuro e di Democrito, e fervente adoratore della Venus decens , di- sprezza la bruttezza coperta di perle, e rispon- de con disdegnoso rifiuto, con X ottava ode degli Epodi, agli adescamenti perigliosi di siffatta gente. Meglio bellezza e gioventù con poco oro, che deformità e vecchiezza con imagini trionfali e scrigni ricolmi di tesori I Se si esamina bene, il talismano che pro- duce questa continua commemorazione sem- pre entusiastica del poeta venosino, si è lo scovrirsi in lui sotto le spoglie del gran li- rico un filosofo portentoso. Se si seguis- sero nella vita umana del tutto le massime morali oraziane, corrette dalle massime cri- stiane, e depurate degli errori derivanti dal- ( 139 ) r età semibarbara, si avrebbe un completo e perenne secolo d'oro. Né occorrerebbe tra- sformarsi tutti in Cincinnati, che Orazio am- metteva la ricerca dei piaceri leciti e le co- modità della vita per quanto, bastino al be- nessere dell'uomo. U indole del poeta era proclive al retto, al giusto. Il suo naturale, benché disposto air irascibilità, veniva pure frenato dall' edu- cazione e dalla dottrina. I moti dell'ira in lui potevano raffigurarsi alla corda dell'arco, che, scoccato appena il dardo, diveniva lenta e non tesa. Irasci celerem^ tamen ut pia- cabilis essem. Orazio sferzava specialmente con potenti satire, gli avari principalmente, i simulatori ed uccellatori di testamenti e favori con arti insane, ed i sordidi accumulatori d' oro, sic- come i prodighi e quelli che mal fruivano delle loro ricchezze o ne usavano da Na- sidieni, che son proprio quelli che oggi i francesi dicono con bella voce parvenus. Questi gli riuscivano esosi oltremodo. Ca- rissima é quella satira nella quale racconta il pranzo dato da Nasidieno a Mecenate, e -^( 140 )»- rode al liberto Sesto Mena, che era un vii lano rifatto: Quanf è t odio natio Tra i lupi e tra gli agnelli Teco altrettanto è il mio. bei tuoi'tesor beato Benché ten vai bravando Tesor non cangia stato. Per la via sacra quando Con toga di sei braccia Muovi geometrizzando Non vedi guai si faccia Veder libera noja Nel volger d* ogni faccia ? <9) Il mondo non cangia con V invecchiare. Oggi i parvenus riescono più esosi di quelli del tempo dei Romani e pullulano e si mol- tiplicano come microbi. Appena un uomo volgarissimo, portato alle stelle da fortuna cieca o da intrighi o molte volte da nefande azioni, si crea una nominanza od una so- stanza ed abbonda in dovizie, vuol farla da principe di antica stirpe o da borioso pa- scià. Ma gli si attaglia male quellaria e quel fasto orpellato, che appena nasconde come -«( 141 )»- velata la nascita vile e Y agire da uomo doppio e finto. Lo stesso Sallustio, che sul monte Quirinale innalzava palagio da re ed orti maravigliosi, e cumulava ricchezze da Creso, svelava Y origine plebea nella sua immoralità sfacciata, nelle concussioni ma- nifeste. Egli confessava che « ma/e parta, male dilabuntur », ma non ne fu esempio, forse per aver coltivato il suo potente in- gegno che gli fece perdonare quelle insa- nie, e lo preservò da rovina e vendette. Tal quale ad un profumato messere in un circolo di gentiluomini gli si scoprisse sotto il mantello di taglio elegantissimo e di fine stoffa, una camicia bisunta e cenci e rattoppi! Sogliono oggi più di prima tali esseri appa- rir ridevoli, e nelle brigate si segnano a dito e vengono canzonati e conciati pel dì delle feste. Sprechino pure i loro danari in cene, pranzi, cocchi e cavalli; si adornino pure di croci e fasce d' ordini: i manichini unti e rat- toppati ne sveleranno Y origine e la pro- tervia. Gli uomini sommi non cambiano col can- giar della sorte, ma sono sempre eguali. Ora- -«( 142 )»- zio ne è un esempio lampante. Gian Gia- como Rousseau compariva nei fastosi balli di corte di Maria Antonietta in abito di cam- pagnuolo e di erborista. Francesco de San- tis vivea in una modesta casetta, mentre era ministro del regno d* Italia. Agostino De Pretis (per nominar solo italiani illustri contemporanei defunti) ricevette il magna- nimo re Umberto nel terzo piano d'un pa- lazzetto di Roma in un salotto non propor- zionato al più grande uomo politico d'Ita- lia in quel tempo. Onore al merito 1 Gli avari, poi, formavano il bersaglio della satira oraziana. E con gli avari e la gente rifatta Orazio combatteva tutta quella miriade di esseri, i quali nel corso della loro esi- stenza pare non agiscano se non che alla maniera dei bruchi, e tra questi i falsi let- terati e i pedanti. Questi particolarmente bat- teva e ribatteva; e siccome gli si paravano perennemente tra i piedi, come serpi vele- nosi li schiacciava col più fiero sarcasmo. XI. VITA INTIMA _.RA2io non era per abitudine mat- tiniero. Egli stesso dice che get- ^tavasi a dormire senza pensiero di doversi la dimane levare insieme col sole. Gettavasi a dormire, col cuor libero da ogni molestia o rimorso di aver mal fatto, dopo avere in sua casa assaporata, sia la scodella di ceci e lasagne conditi con cipolla, oppure delle buone carni con pingue lardo, o dei raperonzoU od altri -«( 144 ) erbaggi con olio fine delle sue tenute; m molto moderato per ordinario mostravasi parco nel giornaliero vitto. Me ulive^ me cicoria Pascono^ e lieve malva Piace util malva, e pratajuol lapazio, Agna immolata, né di sacri a Termine Del lupo un caprettin tolto allo strazio, so) Né disdegnò pascersi talora di acqua < sale intinto il tutto con olio fine, imitand( quel costume che vige tuttora presso Tin fima classe dei coloni venosini, di nutrirs di un miscuglio di pane, acqua e sale ec olio che vien detto acquasale. E ben, del pan col sale ottimamente Del ventre allora accheterà i latrati. sO Ofello, quell'altro povero possidente di Venosa, al quale furono tolte le terre, per che assegnate in guiderdone ai soldati d Ottaviano vincitore, gli fu sempre maestre in parsimonia e moderazione. Quindi non succulento pranzo meridiane o serotino ( i Romani solevano fare il lorc ^( U5 )»^ pranzo di lusso e smodato nel mezzodì), in cui le vivande aromatizzate e le altre lec- cornie, che tanto bellamente nella sua satira contro i golosi disprezza e morde, gli avreb- bero impedito il sonno tranquillo e leggiero, esprimendosi invece così: La somma voluttà non già nel caro Odor dei ciòi, ma in te stesso annida Tu">(a più dolce salsa alle vivande Procaccia col sudor. 5^) Soleva in compagnia dei suoi familiari ed alle vezzose ancelle od amiche, aggiungere a queste semplici vivande un buon bicchiere di vino schietto e leggiero, che essi mede- simi avevano manipolato dopo la gioconda vendemmia. La sua mensa era linda, lucente, bianca, sulla quale campeggiava un vasello emble- matico ripieno di sale: e V aveva per caro auspicio e quale usanza religiosa. Il sale ha avuto grande importanza in tutti i tempi, persino nei culti. Presso gli Israe- liti serviva per purificare e consacrar la vit- tima nei sàcrifizii. L' acqua santa nostra è 19 ( H6) mista al sale. Questa sua grande mondezza, non lo dissuadeva dall' invitare a convito amichevole, oltre ai suoi amici di condizione eguale alla sua, siccome Torquato, Settimio, LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle donzelle di vita allegra ed avvenenti, come Fillide, Glicera, Cloe, Tindaride, anche il gran Me- cenate, al quale scriveva: n nauseoso lusso ammirar cessa. Grato ben giunger suole Sovente ai grandi il variar di scena. Cerca mensa frugai^ là dove ammessa Non è pompa d^ arazzi^ e non di porpora In pover tetto fa sparir le impronte Che affanno incide in accigliata fronte. Viriti m' è schermo^ ed il seguir m' è pregio Povertà senza fasto e senza sfregio. 53) Ed in tali circostanze straordinarie mo- strar si soleva galante a modo suo. Inco- minciava col prevenir gli amici che se con- servavano vino miglior del suo, Io portas- sero pure alla sua mensa che non se ne sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un bicchierino di soverchio alla salute del do- natore. ( H7 ) Orazio ammetteva che il vino rinfocolasse l'estro poetico, e perciò mal soffriva sedessero al suo desco gli astemii, sostenendo che pu- tirono di vino sin dall' alba le dolci muse. Prometteva ai commensali che li avrebbe collocati nel triclinio ciascuno presso a per- sona che non gli riuscisse antipatica o me- ritevole di troppe cerimonie. Né disdegnava riservare il posto ai più gai, ai più giovani e baldi, presso quelle generose donzelle ro- mane di bellezza e brio regine. La gentilez- za, poi, formava il principale suo pensiere. Così scriveva a Torquato: Già il focolare da un pezzo e le stoviglie Splendon rigovernate a farti onore A bere^ a sparger fiori io già son primo,.,. Che sozza coltre Che sordido mantil non giunga il nc^so Ad aggrinzarti^ che il boccale eh' il piatto Tal non sia che specchiarviti non possa 54) Né gli piacevano numerosi convitati, ma pochi, cari e buoni: Che caprino sentore ammorba i troppo Folti conviti. 55) -«(148 ) Riesce in vero gradito e dilettoso figi rarsi in mente il nostro Orazio, re del coi vito, con quel suo faccione pieno e rose^ ilare, faceto, coronato di rose, levigato terso colla cute, da sembrare un majaletl lustro e pinzo. Levatosi da letto, soleva andarsene a zoi zo per la sua terra, e dilettavasi a smuover glebe e sassi, adocchiare i filari delle vit curare gì' innesti delle piante e degli albei da frutta; della qual cosa solcano ridere vicini, 56) i quali conoscendo come Grazi frequentasse la corte, e che di Augusto e e Mecenate e di altri potenti fosse familiare non poteano persuadersi di questo suo amor per così rustiche e basse faccende campe stri. Non riflettevano essi che nella ment del venosino eravi fisso, incardinato il « m admirari y> secondo l'opinione di Laerzic e di Democrito. Orazio era dotato di « aia raxia » e le grandigie, il fasto, il lusso nor lo lusingavano punto, anzi ne era al somme disgustato, siccome ritrovava diletto in quelle sue. umili occupazioni. Ecco il suo savie consiglio: ( H9 ) Alma al ben fare accorta Tu serbi • inflessibile A V oro abbagliator d* ogni pupilla. 57) E dopo le escursioni nel podere ponea mano a coltivar lo spirito, scrivendo, leg- gendo, meditando. Solca poi di tratto in tratto recarsi nella gran città, in Roma, sia pel disimpegno della sua carica di scriba della questura, sia per altre faccende, sia per coltivare le amicizie di Augusto, di Mecenate e di altri che egli stimava, principalmente versati nelle lettere e nelle scienze. Ma sen ritirava sfinito, perchè la folla dei postulatori, degl'intriganti, dei finti amici invidi e malvagi, degli zingani, dei ciurmatori, ruffiani, baratti e simili lor- dure, e dei molestissimi e garruli falsi lette- rati non lo avevano risparmiato. villa, e quando io rivedrotti^ e quando Potrò dei prischi saggi or fra i volumi Or tra il sonno e le pigre ore oziose Trarre de V egra vita un dolce oblio ì Li fave^ al Sannio, in parentela aggiunte E i buoni erbaggi come va conditi Nel pingue lardo, oh quando avrò sul desco I -«( I50 )»- notti I cene degli dei^ dov* io Presso il mio focolar coi miei m' assido^ E mangio^ ed alla vispa famiglinola Dei servii nati dai miei servii io stesso I già libati pria cibi dispenso! S^) Della sjpa persona soleva avere som cura, perchè quasi giornalmente immerge nel bagno, e dopo ungere si solea di o profumato e finissimo. Nel vestire most vasi dimesso e noncurante, ma non pe privo di gran pulitezza o da potersi dir < dicio e venir fuggito dalle avvenenti e pi fumate donzelle che soleva frequentare, della sua poca cura a farla da zerbino, M cenate amichevolmente soleva rimbrottar! ed Orazio che non la mandava buona a chi chessia, scherniva Mecenate dandogli del n mignolo di Malchino, perchè la sua vest alla foggia dei bellimbusti di quel tempo, addimostrava troppo corta, al segno da m< strare ciò che non è buono che si mosti Soleva fare dei viaggi con amici. Il viaggi a Brindisi fu quello che più lo commoss e se ne vanta perchè trovavasi in comps gnia di Mecenate e dei suoi più cari amie Virgilio, Vario, Tucca. E Mecenate in que ( 151 ) viaggio esercitava T onorifica carica di mini- stro plenipotenziario dell' imperatore. Orazio usava il bagno quotidiano, tepidetto anzi che no, ciò che lo rendeva a lui pia- cevole ed igienico, perchè serviva a tener monda la persona, e fare che dalla pelle at- traverso i pori si scacciassero i germi dei malanni e dei veleni che si respirano nell'aria. Ed Orazio doveva dilettarsi pure dell'arte di Esculapio, siccome gli si affibiò la no- minanza di giureconsulto, al segno che Am- bugero scrisse un' opera intitolandola « De yurisprudentia Q. Horatii Placet » (Lipsia 1740). Il celebre medico inglese Tasker cita non pochi versi di Orazio come ricette, sia per mali nervosi, che per la podagra, pel mal d' occhi e per altri malanni. Avvenne che in quel suo tempo un me- dico della corte di Augusto, un tale Musa, facesse propaganda e ponesse in voga l'uso del bagno nelle acque fredde. Orazio per ri- spetto umano cercò seguire le prescrizioni d' un così alto luminare della scienza: pensò lasciare i suoi cari bagni tepidi. Scrisse ad un suo amico, a Numonio Vaia, chiedendogli -«( 152 ) se lasciando nella state le sue favorite sta- zioni balneari di Cuma e di Pozzuoli e di Napoli, che avean pur tesoro di acque cal- dissime minerali, avrebbe trovato alloggio conveniente e buon vitto, economia e scel- tezza nei commestibili (ciò per lui formava r interesse maggiore) in Salerno, od a Ca- stellammare di Stabia, ove eranvi polle di acque freddissime, meglio che a Chiusi od a Gubbio. Ma fu tanto il suo ritegno ad av- valersi di cosiffatte prescrizioni, che è lecito arguire che appena assaporata siffatta medela per curare i nervi fiacchi, l'avesse abbandona- ta, e ritornato fosse all'antico sistema, for- tunatamente senza incoglierne danno. E qui cade in acconcio lasciare riflettere che non si cangia oggi il metodo ed il co- stume antico. Sonvi le stufe a Pozzuoli ed ai Bagnoli; sonvi le acque freddissime di Te- lese e della Porretta e di tanti altri luoghi d' Italia che richiamano moltissimo popolo. Molti ritempransi in forze e ne ritraggono salute; ma non pochi, malamente consigliati, acutizzano di più i loro malanni, o ne ri- trovan morte. Stolto è colui che incauta- ( 153 ) mente segue i precetti della scienza pel solo fine di seguir la moda o landazzo del giorno ! Aggiunger si deve che Orazio, per quanto basso di statura, era un po' membruto, tar- chiato ed obeso. Augusto gli scriveva, al dir di Svetonio: « Sed si tibi statura deest, cor- pusculum non deest » E Svetonio: « Ha- bitu corporis brevis fuit, atque obesus. » 59) Era soggetto ai reumatismi ed al mal d'occhi. Come cura al primo difetto organico mal si addicea il bagno caldo, mentre pei reumi e per la cisposità il bagno freddo lo avrebbe rovinato del tutto. Ma X accorto venosino cominciò a far capo dai medici quando si vide agguantato dalla precoce vecchiezza. La vecchiezza è per se stessa un morbo, ed Ora- zio cercò curarne le conseguenze con la quiete. Fu questa la sua cura principale. E la rin- venne e gli riuscì salutarissima medela nei campi, nella Sabina. E non volea che gli si togliesse un tanto benefizio; ed a Mecenate che volea distorgliernelo così scrivea: Che non mi rendi Il saldo fianco, e su V angusta fronte Le nere chiome ì Rendimi il soave Mio favellar ^) 20 -«( 154 ) E poi riporta la graziosa favola del topo, che viveasene quieto, tranquillo e pasciuto in una bugna di grano, e la donnola invidiosa volea farnelo uscir fuori. Quel consiglio si- gnificava la sua rovina. Ed alla quiete dello spirito e del corpo Orazio accoppiava la par- simonia nei godimenti, che difendevalo da quelle infermità che sogliono atterrare gli smoderati ed i viziosi. Orazio, tra il guazzabuglio delle credenze pagane, che alla maggior parte dei dotti ap- parivano ridevoli, e da lui stesse venivano disprezzate e derise, conservava con gran ve- nerazione il culto alla colomba mistica, che poi si tradusse in Venere, sorta dalle bian- chissime spume del mare. Tale culto rimontava agli antichi Babilo- nesi, Persi e Caldei e si diffuse in Grecia ed attraversò i secoli sempre rinvigorito e seducente, sino i che il cristianesimo non lo purificò, dannandone il misticismo osceno e sostituendovi un sagramento immacolato. Orazio, nato in Venosa ed istruito in Atene, profondo in tutte le dottrine che arricchivano quei tempi, non doveva ignorare che nella sua patria vigeva la tradizione che nel pe- rimetro di essa, per comodo di tutta la co- Ionia fenicia, o caldaica di quella regione, si fosse eretto il primo famoso Succoth o tabernacolo per la divinità Benoth, dal quale derivò il nome di Venere e quello di Ve- nosa [Benoth, Benotsa, Fienosa), come più volte si è riferito. Quel tabernacolo non era se non quello che oggi si direbbe un luogo di turpissima depravazione superstiziosa. Così lo descrive Michele Arcangelo Lu- poli: (( In 60 enim tabernaculo, qui spurcissimi ritus obtinuertnty piget me Christianum ho- minem commemorare. Una iisdem Babilo- niis lex est omnibus modis foeda. Nampuel-^ lae semel in vita convenire in Veneris ta^ bemaculo solebant, consuetudinem cum adve- nis et externis viris habiturae. Porro in sin- gulis spatiis^ quae funiculis distincta, puel- lae sedebant, corollis redimitae, nec indefas consurgere, et abire, nisi prius hospes ali-^ quis, pecunia in ejus sinum iniecta, et rite venere Mylitta implorata, rem cum ea seor- sum a tempio habuerit. Atque hinc erat, ut -«( 156 )»- quae elagantiori erant adspectu citius disce- derent, quae contra deformi visu per bien- 7itum, vel triennium, aliquando expectarent, quod usque ab abvena quopiam, ad turpe id opus seligeretur, quo putabant Venerem My- littam exptari... » ^^^ E se non vuoisi attribuire a tale uso il ta- bernacolo, così da definirlo « fanum filza- rum )), ben può dirsi che in esso « mulieres ante idolos prostituebantur y> come vuole san- to Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e del Farao. ^^) Non mi è quindi riuscito straordi- nario ed inesplicabile quanto in appresso verrò esponendo circa le consuetudini do- mestiche di Orazio. Nelle molteplici edizioni delle opere del sommo poeta, le quali riportano la sua bio- grafia redatta da Svetonio Tranquillo, ho rilevato che si è tralasciata una notizia in- teressante che riguarda una sua pratica oc- culta, la quale può ben riferirsi al culto sur- riferito di misticismo caldaico. La vita di Orazio composta da Svetonio Tranquillo, che fu V unico che scrisse del gran venosino pochi anni dopo la morte di ( IS7 ) lui, e che fa accrescere certezza alle investiga- zioni fatte neir analizzarne le opere, si com- pone non più di una sessantina di versi di stampa. Tutto è laconico e scritto fugace- mente, come se si trattasse d* un cenno ne- crologico. Sembra che Svetonio abbia vo- luto far notare con certa diffusione Solo l'a- micizia intima che legava Orazio ad Augusto, ed in essa si dilunga, fornendo preziosi brani di lettere. La quale riproduzione di brani di lettere di Augusto ad Orazio dirette forma- vano forse il soggetto che per la maggior parte dei contemporanei destar doveva in- teresse maggiore, e far di Orazio un uomo agli altri superiore per tanto onore. Il brano della biografia che è stato cancellato ( forse per purgarla), V ho rilevato da un' edizione olandese delle opere di Orazio del 1663, pub- blicata dal filologo inglese Giovanni Bond, che la prima volta comparve in Londra nel 1614, e dopo se ne riprodussero diverse al- tre edizioni intere, ed è il seguente : (( Ad res venereas (Horatius) intemperan- tior traditur nani speculato cubiculo scorta dicitur , habuisse disposila , ut quocunque -«( 158 ))•- respextsset, tòt et imago e re f erre- tur....... )) Formava adunque per Fiacco un culto (( / ars Venerea » , ed egli addimostrava- sene tanto fervente, perchè nato nel luogo ove sorse il primo Succoth-Benoth. Nella cennata antica cronaca venosina del Cenna , il quale era pure investito della prima di- gnità del capitolo dell' insigne cattedrale di Venosa, si leggono i seguenti versi che rin- forzano la mia assertiva: « Alcuni, e spe- tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi, vanno dicendo che Horatio Fiacco fusse stato in sua vita di costumi osceni, il che tutto è falsissimo, siccome lo testifica Ludovico Dolce nella vita di esso Horatio. » E Luigi Poinsinet de Sivry, eccelso poeta francese del 1700, nel suo poema. « L Emulation » va all'eccesso contrario, proclamando Orazio (( modéle de bravoure et de chasteté. » Ciò che forma adunque l'addentellato al dispregio di molte produzioni oraziane, viene per tal riguardo distrutto ; considerando che la sporcizia e l'oscenità, non erano poi in quei tempi una qualifica essenziale dell' immora- ( 159 ) lità e della disonestà. Egli stesso ripetuta- mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi- sce gli adulteri, i violatori delle vergini, gl'incestuosi I Eran questi per lui grimmo- rali ed i disonesti. E se non è questo il cor- reggere i costumi, qual altro fondamento di morale, mancando la cristiana, poteva offrir- gliene sostegno ? Egli rampogna acremente i Romani d' ir- religione e lascivia. Egli volle vivere sempre celibe. Del nodo d'Imene aveva tale concetto d' alta responsabilità che non volle allacciar- sene, né restarne tenacemente avvinto. La moglie di Mecenate gli forniva un esempio troppo splendido d* incostanza, infedeltà e disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia abbandonando lo sposo. E non parea conve- niente al sagace venosino far la triste figura di Mecenate, intendendo professare V opi- nione di Seneca a tal riguardo, quando com- pose la biografia del marito dell' infedelis- sima Terenzia. (^^) Il suo celibato vien confermato dal non aver scritto mai carme o verso per donna che fosse stata sua moglie. ( i6o ) E lo dice esplicito e chiaro nell'ode 8* del libro 3^: Te Mecenate il rimirar sorprende Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^ Io cèlibe^ di ?narzo a le calende E fior prepari. <**> E solo ad un celibe sarebbe convenuto far pompa di tante conoscenze di cortigiane e donne allegre. Lagage, Gige, dori, Barine, Foloe, Leuconoe, Noebule, Lidia, Neera, Glicera, Tindaride ed altre dimostrar posso- no, essendo state amanti riamate di Orazio, che se egli non aveva moglie, godeva non poco del benefizio inapprezzabile di essere li- bero e celibe. ìÀjiS^Ì se. "*-Sj XII. GLI ULTIMI ANNI DEL POETA GuOALio — Tml. di Orm , N moltissimi punti delle opere di Orazio appare che nella sua mente elevata si presentava l'immagine della morte, questo indecifrabile, nebuloso, oscurissimo problema, questo fatto in- cognito, pauroso e spaventevole. E dir ch'egli covava in petto un cuor di ferro, e so- steneva che : Con impavido ciglio Se delteteree spere in pezzi infrante ( l62 ) Valta compage piombi Sotto il suo minar Jia che s* intombi, ^^s) Non poteva con tutto ciò esimersi da quella paura istintiva, da quel senso di terrore in- generato dal dover mancare alla vita, dal do- ver brancolare nelle tenebre dell'ignoto. ...... Nato a morir ^ Tutti attende alfin quella profonda Che non conosce aurora unica notte . . Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda . . . Presto rapì t inclito Achille morte E a me ciò farse offrir vorrà la sorte Necessità di morte Getta sovra ciascun Legge crudeli Ma pazienza mitiga Ciò che non ha riparo Tutti spigne tal forza ad ugual meta Che a pugnar seco è mortai forza inabile. 66) Tutta la sua filosofia: le massime di De- mocrito e di Epicuro, che facean precetto essenziale di dispregiare e non curare gli orrori del sepolcro, non bastarono a toglier questo pensiero ftinestissimo dalla mente di lui. In mille maniere lo rimuginava, lo com- mentava, compiacevasi tormentarsene. La lu- ce ed i fulgori delle verità cristiane non gli rischiaravano l'intelletto e non gli molcevano ( i63 ) il dolore, promettendogli una patria lassù, sulle sfere, patria immutabile, bella d' ogni godimento ed allietata dalla vista di quel Dio rimuneratore e buono ed onnipotente. Ammetteva Y Èrebo e Y Olimpo, come so- levansi ammettere quei miti inverosimili ed incredibili, che acchetavano la bramosia di quei popoli privi di una fede consolatrice, che prometteva la beatitudine ventura come compenso alla vita onesta e laboriosa. Dato che il piacere terreno formar do- vesse la meta della felicità, che poteva spe- rarsene dalla vita futura? Il nulla, la distru- zione completa, la particella della materia andava a ricongiungersi alla materia: Noi cadendo Nella notte che non sgombra Più non siatn che polve ed ombra . Degli anni il breve termine Vieta ordir lunga speme: V ombre favoleggiate e la perpetua Notte già già ti preme, 67) Nella distruzione completa del suo essere Orazio ammetteva che soltanto una parte di se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il (J60 frutto dei suoi sudori, il suo monumento: r anima sua. E tale credenza, che non era dubbio, gli scusava la fede nel!' immortalità dello spi- rito umano. L* (( omnis moriar », espressione tanto concisa per quanto chiara, spiega che non eravi dubbio in lui neir immortalità del- lanima. La paura della morte comune a tutti, sebbene con tanta jattanza, dalla maggior parte apparentemente sfidata, più che Ora- zio vinceva il suo protettore , Mecenate. E siccome la paura è attaccaticcia e conta- giosa, Orazio non addimostravasi meno al- larmato di lui. E tal pensiero dominante trapela nelle sue opere, come quell'altro, che lo mordeva sordo, della nascita vile ; né bastavagli a frenargli la lingua, la sua for- tezza e valentia. La paura della morte era così possente in Mecenate da fargli dettar quei versi riportati da Seneca, che non fanno grande onore al valoroso romano: Vita dum superest, bene est Hunc mihi vel acuta Si sedeam cruce^ sustine ! 68 ^ -«( i65 )»- Tanto grave e scoraggiante riusciva per lui tale idea, che avrebbe meglio amato ve- nire inchiodato in croce come l'ultimo dei malfattori e vivere, che farsi tragittar da Ca- ronte nella palude Acherontea. Orazio venivalo consolando con teneris- sime espressioni, perchè Orazio non era co- dardo, né intendea scoraggiarlo maggior- mente. Ma le sue espressioni non appro- davano gran che. Tentò alfine porre in ope- ra il savio consiglio, che la pena gli sa- rebbe venuta scemata sapendolo compagno nel dolore, ed è perciò che gli dice senza essere scevro di paura : , Non piace ai numi Che i tuoi si spengano pria dei miei lumi Un dì medesimo fia d* ambi estremo Ne il voto è perfido, inseparabili Andremo^ andremo. Che pria se muori Pur teco air ultimo comun mi trovi I nostri unanimi fuor S ogni esempio Astri consentono 69) E tale profetica consolazione, per istrana fatalità, si verificò pur troppo. Non è lecito veder tutto con tinte soprannaturali. Buona parte di quello che molti direbbero spirito -«( i66 )»►- profetico attribuir si deve alla paura della morte che premeva così Mecenate come O- razio. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non è vigliaccheria, bensì è innata nella natura umana. Anzi prode è colui che questa paura affronta, e guarda imperterrito quella figura armata di falce, sfidandola sui campi delle battaglie, al letto degli appestati. Se non vi fosse terrore e spavento istin- tivo del morire, quale prodezza, qual valentia sarebbe affrontare impavido la mitraglia e le pesti, il mare irato ed il baleno delle armi nelle tenzoni cavalleresche ? L' amistà che legava Mecenate ad Orazio, il sentirsi quel grande consolato da lui così coraggiosamente lo fecero memore del poeta che l'assisteva nelFora estrema a preferenza degli altri. Nel suo testamento scriveva ad Augusto, al dir di Svetonio: (c Prendete cura di Orazio Fiacco come prendereste cura e terreste memoria di me stesso I » E riesce veramente straordinario come, morto appena Mecenate, che era già soffe- rente e presentiva la propria fine , dopo pochi giorni, un subitaneo malore colpì il ( i67 )»- sommo poeta, da non lasciargli neppure il tempo di dettare in iscritto le sue ultime vo- lontà. Andonne misteriosamente a raggiun- gere r amico neir ima notte, siccome aveva promesso. Orazio morì neir anno di Roma 746, es- sendo consoli Caio Mario Censorino e Caio Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette, due mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27 novembre. Già da qualche tempo varcati i dieci lu- stri, Orazio non senti vasi sano: accusava sof- ferenza ai nervi e malinconia che accom- pagnar sogliono per lo più quelli che tra- scorrono molte ore del giorno a logorarsi la mente coi severi studii. Perchè i visceri si rendono sofferenti per le occupazioni men- tali, e defatigata la mente, la tetraggine invade il cervello , principalmente quando gli anni incalzano. In una lettera che il poeta scriveva ad un compagno d'impiego nella questura, Cel- so Albinovano, suo amico, ma che giunto al- l' apogeo della grandezza, perchè ben ve- duto e careggiato dal giovane Nerone, erede ( i68 dell' imperio, mostravasi altezzoso e superbo (sebbene non manchi la nota sarcastica, ben- ché infermo , per questo favorito di ven- tura) così diceva : Dritto né ameno è di mia vita il corso^ Perché men della mente sano Che delt intero corpo^ udir vo' nulla, Nulla imparar che il morbo sgravi, I fidi Medici fanno orror, gli amici restia Perchè al sottrarmi al rio letargo intesi. 7o) Ed a Mecenate . scriveva : Ma di cor debil troppo e troppo infermo Me conoscendo^ chiederai tu quale Il mio far possa al tuo periglio schermo ?... 70 Col corpo affranto dal peso degli anni, dalla vita trascorsa nelle fatiche mentali e nelle avventure e nei godimenti venerei, sopraggiunse ad Orazio la nuova della mor- tale malattia del suo Mecenate e la fine dì questo. Il colpo fu troppo violento e dovea riuscirgli fatale. La sua fibra debole non poteva resistere. Pomponio Porfirio, che con lo scoliaste Elanio Acrone, dilucida le la- coniche note di Svetonio, circa la vita di Orazio, dice che lo stato suo di salute era ( i69 ) deteriorato assai con gli anni, che non gli conveniva più restar l'inverno nelle monta- gne della Sabina, nella sua cara villa : che svernar soleva a Tivoli (ed egli stesso lo scrisse) come il luogo più aprico: ce Tiburi enimi fere otium suwn conferebat , ibique carmina conseribebat.ì) E Tivoli desiderava Orazio infermo e pensava morirvi là. Così egli scriveva al fido amico Settimio: Oh tregua al vecchio fianco Tivoli dia Quivi piagnente di pietosa stilla Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^) Certuni erroneamente attribuirono la mor- te di Orazio a suicidio, tanto apparve strana la coincidenza della sua con la morte di Me- cenate. Ma deve venire del tutto bandita tale idea per le seguenti ragioni. Orazio dei suicidi soleva fare aspro maneggio, so- leva dileggiarli; e la storia di Empedocle, che ricorda ntìV^rfe poetica, chiaramente lo dimostra. Empedocle per desio di molta vanagloria e prodezza, invano precipitossi neir Etna. Ma la sua pantofola ne tradì la inutile bravura. 22 ( I70 ) Esaminando imparzialmente e con co- scienza la vita di Orazio, si nota che ogni sua cura si volgeva a conservarla, sia che militasse a Filippi, sia che vivesse in Sa- bina. Era poi tarchiato ed obeso, e quindi facilmente proclive all' apoplessia. Che era già fiacco e malandato in salute nel suo undecimo lustro. Che il dolore della per- dita del suo più caro amico e protettore Mecenate (egli così amante degli amici e riconoscente) doveva avergli prodotto tale un rincrudimento dei suoi malanni da dar- gli la morte con colpo apopletico. E son numerosi gli esempii di fratelli od amici ancor forti e vegeti , che, toccati dalla re- pentina disparizione d* un fratello o d' un amico, li han seguiti immantinenti nella tomba sopraffatti da colpo di malore vio- lento. Non altrimenti deve pensarsi di Orazio. E che fu tale il suo genere di morte lo prova poi chiaramente il non avere avuto il tempo di tesser un elogio funebre al suo sommo protettore Mecenate, che aveva assistito negli ultimi momenti, mentre lo fé' con Virgilio e -«( 171 )»-* con altri. Eppoi non ebbe forza di scrivere il proprio testamento. Svetònio dice: (c Quum urgente si va- letudinis non sufficeret ad obbligandas testa- menti tabulas . )) 73) Dovette avvalersi di quello che, dice Giu- stiniano, prescrivevasi dal giure civile di quel tempo, cioè della prova testimoniale di sette cittadini, che dinanzi notaro provarono esser volontà del moribondo Orazio che l'im- peratore Augusto fosse il suo erede, Orazio per decidersi a lasciare erede \ imperatore , che consentì ad accettare \ eredità, doveva esser fornito di non pochi beni di fortuna. Che di fondi, che di valsente doveva aversi senza manco veruno un buon dato, stante la sua parsimonia. E lo certifica Svetònio quando accennando alle largizioni di Me- cenate e di Augusto dice: (( Unaque et al- tera liberalitate locupletavit. » Ma delle sue sostanze rimaste non ap- pare vestigio od accenno, meno della villa e del podere in Sabina, che han formato, come si disse, la paziente investigazione dei dotti archeologi e degli ammiratori ( 172 ) del grande poeta. L' aver lui posseduto po- deri in Taranto, a Tivoli od a Roma, non è che una supposizione dei comentatori delle sue opere, che di. ciascuna sua aspi- razione han formato un dominio. Mentre chiaramente Orazio, nella sua diciottesima ode del secondo libro dice: (c Satis beatus unicis sabinis. » La quale esplicita dichiara- zione formò la base delle rimunerate inve- stigazioni archeologiche del Capmartin de Chaupy, siccome si accennò parlandosi della villa oraziana. Che anzi in Taranto è comune r idea falsa che Orazio si avesse colà un po- dere nel luogo detto ce Le Leggiadrezze ». Ma per quante ricerche siansi fatte dai dotti, principalmente dal Tommaso Nicolò d' A- quino, autore dell'opera Delle delizie Taran- tine, da Giambattista Gagliardo nella sua Descrizione topografica di Taranto, e da Ate- nisio Carducci, illustre letterato tarantino, nella sua versione dell' opera del D'Aquino, con note, non si è potuto affermare che Orazio avesse dominio in Taranto, ma soltanto ohe vi avesse fatto delle brevi escursioni per isvago. In Venosa poi, sua patria, non evvi ( 173 ) vestigio di casa o podere a lui od ai suoi appartenuta, dovendosi credere erronea V as- sertiva di Jacopo Cenna, venosino, nella sua cronaca manoscritta, più volte mentovata, della città di Venosa del 1500, nella quale si dice aver posseduto Orazio una casa presso le antiche mura della città, a levante, forse alludendo a quella che si accennò nei capi- toli precedenti, appartenente ad uno della tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri- zione. E da tale ipotesi lascia derivare che dalle finestre di quella sua abitazione in Ve- nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra vastissime campagne, e da quella veduta venisse ispirato a dettare i versi : « Lauda- turque domus longas quae prospicit agros. » Perché non riferire invece con maggiore pro- babilità air agro Sabino ? Ciò si dimostra chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto ciò che si è riferito nei capitoli precedenti circa la dimora di Orazio in Venosa, ove si trattenne solo adolescente : circa la con- fisca di tutti i beni della sua famiglia, perchè seguace di Bruto, e particolarmente per non averne fatto il menomo indizio in tutte le -«( 174 ))^ sue opere. Venosa ai tempi di Orazio era cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten- sione dei campi asserita dal Cenna è un sogno. Che Orazio abbia fatto in Venosa qual- che rara apparizione , forse per diletto ed in compagnia d'amici, lo lascia desumere soltanto r ode al fonte di Bandusia, che rumoreggiava con polla cristallina ed ar- gentea nei fitti boschi di Banzi , dove es- sendosi recato Orazio a cacceggiare od a merendare, dovette improvvisare quei versi. Ciò a seconda dei pareri dei più dotti illu- stratori delle sue opere. Orazio, come si disse, nacque a dì 8 dicembre del 689 dall' edificazione di Roma, essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lu- cio Manlio Torquato. Morì a dì 27 no- vembre del 746 di Roma, consoli C. Mario Censorino, C/ Asinio Gallo , cioè nell' età di anni cinquantasette. Acrone scambia però, per errore dei copiatori delle sue opere , il numero LXXVII per LVII, assegnando ad Orazio anni settantasette. Ma Pietro Cri- nito asserisce: « Alti supra septuagesimum ( 175 ) annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai- sum existimo. » Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome Svetonio, ritengono con precisione gli anni della vita di Orazio essere stati cinquanta- sette, il primo dicendolo morto nel XXXIV anno di Augusto, il secondo asserendolo morto nelle date surriferite, e riportando i consolati rispettivi sotto cui nacque e morì ; dai quali limiti precisi estremi non è lecito discostarsi. Il suo cadavere venne trasportato , tra il compianto universale, in Roma, (non è indicato da alcuno antico scritto il luogo preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle sue annotazioni alla vita di Orazio di Sve- tonio, che Mecenate possedeva un superbo palazzo suir Esquilino, e presso ad esso una tomba monumentale. In questa ripo- sarono Mecenate ed Orazio. Mecenate ed Orazio vissero amicissimi, intrinseci, vera- mente uniti di pensieri e di amore ; benché l'uno nato di reale famiglia e di sangue purissimo, e X altro figliuol di liberto. -«( 176 ) Una possanza inesplicabile ed onnipotente li fece incontrare, divenire tra loro stretta- mente simpatici, e quindi insieme dormire nello stesso Ietto V ultimo sonno I Di Mecenate i tardi posteri ricorderanno le gesta e la gloria pel suono reboante della tromba della fama procacciatasi col proteg- gere generosamente quella schiera immor- tale di uomini che vissero nel secolo di Au- gusto. Il gran venosino vivrà eterno pel suo nionumento. È tutta sua la gloria che fa semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire l'umanità, e che non cesserà sinché traccia di vita sarawi sul globo. Del sommo poeta non si conservano sta- tue antiche o figure nei monumenti da po- terne precisare la struttura corporale ed i lineamenti. Ma dalle sue opere ne appare tanto chiaro il ritratto, che basta coordinare le parole che si riferiscono al suo fisico, per vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de- scrive con certa vanagloria la lussuria dei suoi capelli d' un bel color d' ebano , che ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma che gli anni e le cure aveano resi argentei. -«<( 177 )J^ Vantava freschezza di tinte ed una carna- gione levigata tanto da farlo andare in sol- luchero. Ammetteva che le donne dovessero amar- lo, più che per la valentia in verseggiare, per la sua amabile figura, pel sorriso che gl'infio- rava sempre il labbro corallino, per la sua gaiezza e per la piacevolissima conversazio- ne, pel tuono soave della sua voce. Tace circa r unico difetto suo, circa l'obesità, che si de- sume dagli scherzi e dai frizzi amichevoli che r imperatore Augusto soleva regalargli, sino a dargli del apurissimum et homuncionem le- pidissimum. Vereri sed si Ubi statura deest, corpusculum non deest. » E chiaramente Sve- tonio dice: « Habitu corporis brevis fuit atque obesus », siccome dinanzi si è accen- nato. Non cela però che aveva gli occhi af- fetti da cispa ed i capelli precocemente inca-r nutiti: che dell' esser detto Flaccus (cioè orecchiuto ) da Plutarco, non giova tenerne conto, potendosi alludere al soprannome scherzoso dato a quelli della famiglia del poeta. Ma cotesti non posson dirsi difetti corporali, bensì malanni che sogliono sopraf- fa -«( 178 )m^ fare gli uomini che hanno logorata la vita sui libri. Ed Orazio stancò la mente con pro- fonde vedute, e parlato aveva col proprio esempio. Egli scrivendo ai Pisoni, disse: Vói giorno e notte con assidua mano Svolgete ognora gli attici modelli Oprò, sudò, gelò, 74) Aveva poi con la milizia aspra, defatigati gli anni più teneri. Tutto ciò lascia chia- ramente definire essere stato Orazio Fiacco un beir uomo, nel più esteso senso della parola, meno per la statura. E mal si appi- gliano quegli autori che ritrassero Orazio alla foggia d'un parruccone piagnucoloso, poco simpatico e stralunato. Orazio non era tale. Non è difficile imbattersi anche oggidì con dei sedicenti sapienti, o dei sapienti dad- dovero, che lasciansi crescere un zazzerino ridicolo dietro la nuca, la barba ispida ed in- colta sotto il mento, e le unghie adunche alle sordide mani, lasciando errare sul pal- lido labbro un perenne risolino di scherno, sempre burberi ed altezzosi, ed atteggian- dosi a pose non dicevoli ad uomo a modo. -«( 179 >- Questi hanno improntata una certa tinta di pazzia benigna, che in luogo di ammira- zione suol destare compatimento, antipatia e ribrezzo. Le cellule del cervello, Y involucro osseo che le ricopre, il corpo umano, non han bisogno di quella veste esterna non naturale, oppur naturale, sian cenci o por- pore, adipe, globuli rossi, magrezza estrema, capelli o calvizie per foggiare un genio od un cretino I Si può essere profondo filo- sofo, saggio come gli antichi della Grecia, e conservar forme aristocratiche, linde, ma- nierose, affabili, con un corpo formato al pari di Antinoo. Orazio ne sia esempio lu- culento, e Foscolo e Byron e Leopardi negli ultimi scorsi anni così difformi tra loro. Assicura Giuseppe Ilario Eckhel, celebre antiquario austriaco, nella sua opera « Doc- trina Nummorum » e lo conferma Masson nella sua vita dì Orazio, nel capitolo inti- tolato « De Horatii effigie », essersi rin- venuti dei medaglioni di metallo, terminati nella loro circonferenza con un cerchio da tre a quattro millimetri di larghezza, e che ( i8o ) possono ben rassomigliarsi alle nostre me- daglie commemorative o di onore, nei quali si vede inciso in un lato un busto , ed intorno ad esso la scritta chiarissima (( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta n' è illegibile e consumata. Il busto anzi- detto è modellato esattamente a tenore di quanto più sopra si è esposto. Uno di essi si conserva nel museo del Louvre. E certo appaiono riproduzione di busti o medaglie d' onore di Orazio vivente, eseguiti nel quarto secolo dell' era volgare. Tale almeno è r opinione del dottissimo barone Walke- naèr. Nessun busto marmoreo, come si disse, « o di bronzo si è rinvenuto che ricordi il gran venosino. Deve però convenirsi che un uo- mo che ha da poco varcati i cinquant' anni, raro è che si renda deforme e barbogio. Anzi la razza umana generalmente suole giungere a questa età ancora atta a buona vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi. Se r aureola che circonfuse Orazio non fu il (( nomen imitile » e neppure X opi- nione che i suoi contemporanei ebbero di lui ( opinione poco proporzionata ai suoi -«( i8i )>9^ meriti, secondo che dottamente asserisce Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe tra i dotti il primo posto, perchè Dante stesso chiamò Virgilio Aquila ed Orazio Satiro), maggiormente risulta la sua vera gloria dal sempre fecondo entusiasmo che per r eternità gli uomini risentiranno per lui Trascorsi appena nove anni dalla morte di Quinto Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri- sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età por- tentosa ! t»**.**^!-*-^*»**-*»*-*^-*-! ^'^-^•S-^-f-fxf-****^»!**-?-^ XIII. L'ETERNO MONUMENTO ORAZIANO Ouao - za. I/I. - Ode XXX. HE dire di Orazio poeta, creatore nella letteratura latina di due ge- neri di poesie del tutto nuove, e che seppe far giungere ed elevare persino I la lettera all' eccelsitudine dì un ge- nere poetico? Quintiliano dice : '*' « Dei lirici Orazio è quasi il solo che merita di esser letto, poiché s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è pieno di dolcezze e di grazie, e nelle varietà -«( i84 )»-* delle figure, delle espressioni, d' una felicis- sima audacia. » E Petronio ^7) continua as- serendo che (( fra i romani Virgilio ed Ora- zio sono accuratemente felici, come Omero ed i lirici greci. Perocché gli altri o non vi- dero la strada che conduce al lirico stile, o non ebbero il coraggio di batterla. » E que- st* opinione distrugge la miserabile assertiva di Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che chianja Orazio Fiacco , siccome accennossi, appena poeta non isprezzabile [memorabilts poeta). Tanto potevano in questo possessore degli orti mecenaziani V invidia ed il livore, . che tra certi letterati sono solite malattie I Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Ti- bullo, Ovidio, Petronio, Sidonio Apollinare, S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio , Giovenale, Lattanzio , Alessandro Severo , Dante, Voltaire e cento altri, a coro una- nime, gridarono le lodi del gran venosino. Moltissimi eruditi si sono occupati di stu- diare precisamente le opere di Orazio. I più celebri fra essi nel mondo, siccome il Bent- lejo, il Masson, il Dacier, il Sanadon, il Passow, il Kirckner, il Franke, il Weber, ( i85 )>9- il Grotefend, THart, il Milmon, lo Stalbaum, il Weichert, il Jahn, il Mitscherlich, il Dab- ner, il Jacòbs, il Leissing, il Margestern, il Walckenaer, il Siringar, il Manso, V O- relli, si avvalsero degl' interpetri antichi delle opere oraziane, Elenio Acrone, Pomponio Porfirio, e dell'altro che prendendo nome dal suo editore, si disse Scoliaste Cruchiano, non meno che di Emilio e Terenzio Scauro. Ciascuno di essi ha cercato desumere con pazienti ricerche il tempo nel quale Orazio scrisse le singole parti del suo eterno monu- mento. Cercherò notare le più interessanti investigazioni. Orazio dapprima scrisse le satire e ne compose il primo libro negli anni di Roma 713-718 , non avendo ancora raggiunto il trentesimo anno. Pare che la prima di tutte sia stata la settima fatta neir inverno del 713-714. In essa, siccome si accennò, irrompe con impeto sarcastico contro un tal Rupilio che con lui aveva militato nell'armata di Bruto, Segue poi la seconda scritta nell' autunno del 714, nella quale parla in generale dei vizii di cui la società romana era infetta. La quarta 24 ^ i86 ) satira fu scritta nell'estate del 715, ed in essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi mostrato un po' virulento nello sferzare la cattiva gente, e secondo il parere di Wei- chert fu questa la satira che i suoi amici Virgilio e Vario presentarono a Mecenate, avendo inculcato al poeta di scriverla per cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse la terza nel principio del 716, ed in essa fa vedere che mentre gli uomini sogliono cri- ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i proprii. Il Vangelo dice : « Tu suoli ve- dere il fuscello nell'occhio del tuo prossimo, e non vedi la trave che è lì lì per acce- carti ? )) Dopo poco tempo da che tale satira venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra i commensali di Mecenate; infatti la satira quinta che descrive con gran lepidezza e pre- cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi, vi fa risaltare la figura di Mecenate come attore principale e come uomo politico, spe- dito dal governo per delicati maneggi a quel luogo di sbarco ad abboccarsi con altri per- sonaggi influenti, e che compagni insepa- rabili di lui furono Orazio, Virgilio, Vario, ( i87 ))^ Cocceio e Tucca. Compose poi la prima satira in omaggio al suo gran protettore, e pubblicando il libro nel 717-718, la pose come principale, perchè a lui dedicata e per testimoniargli la sua stima ed il suo affetto. Scrisse la nona dopo circa un anno per cor- reggere quei miserabili che invidiandogli la protezione di Mecenate, mostravano, .mor- dendolo col dente velenoso della livida in- vidia, di non esserne a parte. La bellissima satira sesta, nella quale pone la virtù come il vero blasone che onora gli umani, e l'ottava con la quale schernisce i superstiziosi e le donnacce, furono scritte, secondo l'opinione di Spohn, nel 719. Il libro degli Epodi era già stato com- posto da Orazio prima del cennato primo li- bro delle satire, ma fu pubblicato non prima del 729. Vuoisi che abbia preso il nome di Epodi dai versi Epodois di Archiloco, che fu l'in- ventore dei giambi, al dir di Diomede gram- matico. Sebbene altri sommi scrittori, com- preso il Gargallo nelle note, ammettano che epodi si dicesse il libro compilato da odi pò- ^ i88 )m^ stume di Orazio, fondandosi sul termine gre- co epodem, che significa sopraccantare. Benteley, Weichert e Jahn sostengono che il secondo libro delle satire sia stato com- posto negli anni 719 a 729. E la terza del secondo libro delle satire sostengono essere stata scritta nella villa Sabina, nel 721, dimo- strando che già poco più che trentenne Orazio avea avuta donata quella proprietà. Riguardo alle odi, furono scritte, se- condo il parere di Butman, del Dacier e di altri dotti, nel 726 al 732 sino al 734, E da quest'anno ed i seguenti sino al 744, cioè nella sua età di anni cinquantacinque, solo l'ultima ad Augusto, come omaggio al più grand' uomo del secolo e suo insi* gne benefattore. Orazio dalla sua villa aveva spedito ad Augusto diversi scritti e molte delle let- tere surriferite, e gliele indirizzò con un viglietto umoristico consegnato ad un Vinio Frontone Asella, che è proprio l'epistola decima del primo libro. Augusto dopo aver letto tali componimenti, gli rispose così: (( Sappi che io sono teco sdegnato , per- -^( 189 )»►- che in molti di cotali scritti (come sono le satire e le epistole) tu non parli principal- mente con me. E forse che temi non ti sia per tornare ad infamia nella posterità, se tu mostri d'essere stato mio amico ?» A questo onorevole ed amorevole rimprovero Orazio rispose colla prima epistola del secondo libro, che è invero un capolavoro nel genere sotto ogni rispetto. Il primo libro delle epistole venne com- posto prima del quarto libro delle odi. Il carme secolare scritto per condiscen- dere al volere di Augusto fu composto nel 737, cioè nel quarantottesimo anno d'Orazio. L'Arte poetica, che deve ritenersi il suo ca- polavoro, e che può dirsi una lettera di- dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni , può benissimo classificarsi come terza nel secon- do libro delle epistole , e venne composta nel 741-742, mentre la prima epistola del secondo libro indirizzata ad Augusto vuoisi essere V ultimo lavoro del poeta, e fu com- posta nel 744, avendo il poeta V età di anni cinquantacinque. Nessun autore al mondo ha ottenuto tanta ^ 190 ))^ pubblicità e diffusione e celebrità dalla sua opera, quanto Orazio Fiacco. È qualche cosa che sa quasi dell' inverosimile. Basta però per convincersene notare il numero straordinario delle edizioni delle sue opere, dacché ci furono tramandate, siansi es- se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti. Nessun erudito scrittore ha saputo sin oggi precisare chi sia stato il primo scopritore dei canti immortali di Orazio, né dove rinven- gasi la prima edizione di essi nei tempi re- motissimi composta. Vuoisi da taluni che in un museo inglese se ne conservi vestigio. Certissima cosa é che da molti secoli, sia in Italia che in Germania, in Francia ed in Inghilterra principalmente, le edizioni delle opere del gran poeta possono contarsi a cen- tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove ne sorgono, unite a nuovi commenti , chiose e note illustratrici. È proprio l'arboscello pro- fetizzato da Orazio : Laude fra tardi posteri Farà ch'io guai per fresca Auray arbuscel più vegeto Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i Quante opere insigni di altri uomini nati in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia ed altrove sono state composte nei secoli scorsi I E sono ignorate o perdute e scom- parse per sempre. E dei monumenti sanscriti di Persia, delle opere eccelse degli arabi che scrissero nei tempi del califfi e dei sultani, e dei codici vetusti dei dottissimi scrittori armeni, che invano i Mechitaristi tentarono illustrare, che cosa rimane ? O sono cadute neir oblio, o hawene un labilissimo ricordo, o giacciono ignorate in fondo a qualche pol- verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha pro- dotto un fenomeno superiore, se pure non uguale, a quello del monumento oraziano. Alle opere di Orazio avvenne un simile me- raviglioso fatto. Sembrarono piccoli granelli di seme, che fruttificando, e dapprima poco curati (che dai suoi contemporanei, come si disse e lo con- fermò Leopardi, non furono tenute in quella stima che meritavano) divennero poi giganti. Le radici dell'albero, ormai reso smisurato, si distesero nelle viscere della terra, per tutte le latitudini, con gagliardia non mai vista. -^( 192 )»- E per disperdersene le tracce, per abbat- tere tale fenomenale vegetazione, bisogne- rebbe che la terra universa andasse in fran- tumi. Dalla nostra Italia, avventurosa patria del poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli, appaiono vestigia del portentoso volume, in tutte le lingue tradotto e glossato. Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta del monumento oraziano è una fronda fre- sca e vegeta che ci ricorda uno dei più grandi italiani. Non era scorso un secolo dopo la morte di Orazio , siccome attesta Giovenale, che già le opere di lui, dai suoi contempora- nei poco apprezzate, servirono in presso che tutte le scuole di Roma come libri di testo, unite a quelle di Virgilio; sicché deve arguirsi che non poche edizioni dovettero farsene in quei tempi remoti. Ma il primo editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba- silio Mavorzio, che nel 527 studiò, con Fe- lice grammatico, sui manoscritti e ne fece redigere non pochi esemplari riveduti e cor- retti. ^( 193 /»- Riuscirà tuttavia interessante Tenumerarne le seguenti edizioni principali antiche e mo- derne, che sono sparse pel mondo, sopra tali esemplari condotte: Edizione primaria, senza luogo ed anno, con 'caratteri romani, di fogli 147, di linee 26, in folio piccolo. Altra che non porta data, né firma del ti- pografo che s' ignora. Si compone di un vo- lume in quarto di a 57 pagine, stampate in lettere rotonde, di forma poco graziosa. An- tichissima. Se ne conoscono solo due o tre esemplari in Inghilterra. Edizione pure senza luogo, senza data e senza tipografo conosciuto. Forma un volu- me in quarto di 125 pagine, pure in caratteri rotondi, ma molto belli, come quelli che si usavano verso la fine del 1400. 1474. — Edizione di Napoli. In quarto per Arnauld de Bruxelles, pagine 168. 1474. — Edizione di Milano. In quarto. Ant. Zarolus. Fatta sopra quella dì Napoli. 1476-1477. — Milano. Filippo di Lavagna. 1477-78-79. — Venezia. Filippo Conda- min. 25 ( 194 ) 1481. — Venezia. Senza nome di tipo- grafo. 1482. — Milano. In folio. Per Antonio Miscomini, col comentario di Cristofaro Lantini. 1482-1491. — Milano. In folio, con co- menti di Antonio Mancinello e degli antichi scoliasti. Edizioni ripetute molte volte. 1495- — Strasburgo. In quarto. Grunin- ger. Opere di Orazio in latino, con testo stabilito sopra manoscritti preziosi antichi. Con molte incisioni. 1501. — La prima edizione Aldina. Ver nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo Manuzio. 146 pagine. Rarissima e preziosa. 1503. — Firenze. La prima dei Giunti in 8.° Filippo Giunti. Rarissima. 1505. — La prima Ascenziana in 8.° 1509-1519-1527. — Venezia. Aldo Manu- zio. Riproduzioni. 1521.-^1^^^11^. In 8.° Paganini. 1553- — Venetiis. In quarto grande, di 228 fogli. Petrum de Nicolinis de Sabio. Con note erudite di Erasmo de Roterda- mo, Angelo Poliziano ed altri. Rara. 1555- — Venezia. Con postille di Gior- gio Fabricio di Basilea in 8.^ Antonio Mu- reto. 1561. — Lione. Due volumi in quarto di Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò magistralmente Orazio, avvalendosi di dieci antichi codici. Edizione ripetuta con molte correzioni ed aggiunte in Parigi nel 1567, in Francoforte nel 1577, ed in Parigi nuo- vamente nel 1577 e nel 1587. 1566. — Anversa. Teodoro Pulman con critiche rinomate. 1577. — Parigi. In 8^ Henry Stefano; anche con critiche. 1578. — Anversa. In quarto. Alfonso Cru- chio. 1597. — Leida. Con lo Scoliaste. Da un manoscritto Blandiniano antichissimo, ed altri della biblioteca dei benedettini di Gand andata in fuoco nel 1568, manoscritto ac- creditatissimo. 1605. — Anversa. Daniele Heinsius. Due volumi in ottavo. 1606. — Londra. Giovanni Bond. Stu- penda, bellissima I -^( 196 )»- 1608. — Anversa. Sevino Torrenzio. In quarto con dottissimo comento. 161 2. — Anversa. Edizione elzeviriana con note di Daniele Heinsius. Con disser- tazione dotta di tale letterato sopra le sa- tire. 1629. — Anversa. Nuova edizione del medesimo, riveduta con note. 1653. — Leida. Variorum, Editore Cor- nelius Schrevelius. 1663. — Lugdunum Batavorum. Ex of- ficina Hackiana. Con comentari sceltissimi di varii per Giovanni Bond. Rara. Corne- lius Schrevelius accurante. Riproduzione. 1670. — Anversa. Variorum. Sulla pre- cedente di Schrevelius, corretta. 1681. — Parigi. In 12.°. Volumi dieci di Andrea Dacier. 1681. — Tolosa. In 8.°. Pietro Rodellio, molte volte ricopiata. 1681. — Parigi. Ad usum Delphini. Stu- penda. 1696. — Parigi. Jouvensy. 1 700-1 728 — Cambridge. Di Riccardo Bentley. ^ 197 )»►- 171 1. — Cambridge. Di Riccardo Bent- ley. Con gli studi i di tale scrittore sopra Orazio. In quarto. Monumento immortale dell'arte critica, lacerato dai contemporanei per livida invidia. Ripetuta l'edizione in Amsterdam nel 171 3 più volte, ed in Lipsia nel 1826. 1729. — Parigi. Due volumi in quarto. Stefano Sanadon, con traduzione delle opere di Orazio molto stimata. 1752, — Londra. Con note del Dacier. Ad usum Delphini. Rarissima e preziosa. 1756. — La suddetta in Amsterdam, ri- ■ veduta e corretta. Otto volumi in ottavo. 1752. — Lipsia. In ottavo di Mattia Ge- snero ripetuta con aggiunzioni di Zeunio e Both nel 1822. 1770. — Parigi. Edizione classica in ot- tavo di Giuseppe Valart. 1774. — Napoli. Michele Stasi, con note di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo. Molto stimata. 1778-1782. — Lipsia. Due volumi in ot- tavo, contenente solo le odi, con note ed illustrazione di Ch. D. Jhan. -^( 198 ) 1783. — Edizione Bipontina. Ripetuta in Milano nel 1792. 1791. — La stupenda edizione del Bo- doni in Parma. 1794. — Londra. Due volumi in ottavo di Ghilberto Wakefield, con critica eccelsa. 1799. — La più stupenda e magnifica si- nora edita di F. Didot. In folio. 1800. — Lipsia. Due volumi in ottavo di Guglielmo Mitscherlinch. Mancano in essi le satire e le epistole, ma sono eruditissimi pomenti e note sulle altre opere e partico- larmente sul carme secolare. 1802. — Lipsia. Di Guglielmo Baxter con note di Gessner e Zeunio. Composta sulla prima edizione dello stesso editore in Londra. 1802-1824. — Lipsia. Ti^ volumi in ot- tavo del Doering. Riputatissima edizione per uso delle scuole. 181 1. — Roma. Due volumi in ottavo di Carlo Fea. Con critica e note riputatissime. Edizione bellissima. 181 2. — Parigi. Due volumi in ottavo di Charles Vanderbourg. Contiene solo le odi e gli epodi. Ma è superba. ^ 199 )«►- 1815. — Breslavia, In ottavo di L. Fed. Heindorf, con conienti eruditi e note. Con- tiene solo le satire. 1820. — Maneim-Baden. Due volumi in ottavo di F. Both. 1821. — Heidelberga. Ristampa dell'edi- zione di Carlo Fea di Roma con molte ag- giunte. 1821. — Heidelberga. Due volumi in ot- tavo di Grevio. Contiene le sole odi. 1823. — F. C. Jahn. Lipsia. Con scel- tissime note ed aggiunte. 1828. — E. F. Schmid. Due volumi in ottavo. Contiene solo le epistole. 1833. — Lugdunum Batavorum. Un vo- lume in ottavo. Edizione di Perlkamp. 1838. — Zurigo, Gaspare Creili. Con biografia di Orazio e note. Libro erudi- tissimo e molte volte riprodotto, e partico- larmente l'ultima edizione quarta, accura- tamente emendata e corretta, sicché con ra- gione può dirsi la migliore. 1838. — Venezia. Premiato con meda- glia d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e con traduzione in versi e note del celebre mar- -^( 200 )>»- chese Tommaso Gargallo. Un volume in ottavo, preziosissimo. Della vita e delle opere di Orazio scris- sero pure con profondità di vedute e som- ma dottrina: Crist. Fred. Jacobs, Lecttones Venusinae, 5 volumi in ottavo. Berlino 1817. Gotthold Leissing, De Horatio, 1 871, Ber- lino. Giovanni Masson, Vita di Orazio. Un vo- lume in ottavo. Leida 1703. Eichstedt , Critica ed osservazioni stille opere di Orazio. Jena, 1810, 181 1. Eusebio Baconiere de Salverte. Osserva- zioni sopra Orazio. Un volume in 8^. Pa- rigi, 1823. Cristofaro Martino Wieland, Traduzione delle opere di Orazio^ con note. Quattro volumi in ottavo, Berlino 1 824-1 827. Morgesten, Le satire e le epistole ora- ziane. Un volume in quarto, Lipsia 1801. E fra tutti primeggiano gli scrittori fran- cesi che convien notare: C. Boudens de Vanderbourg, Traduzione delle odi di Orazio in versi francesi con -«( 201 )l^ biografia ricavata da vecchissimo mano- scritto. Andrea Dacier, Horace. Opera latina-fran- cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi, 1 68 I-I 689. Più sopra mentovata, essa può definirsi una delle più dotte e belle edizioni delle opere del poeta. Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon, Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi- ne, Daru, Ragon, Duchemin, Goupil, Cour- nol, Boulard, De Wailly, Halevy, Michaux, Lacroix, Dabner, Boileau, e l'insigne poli- grafo barone Walckenaèr, che nel 1840 compilò una Storia della vita e delle poesie di Orazio, Parigi, due volumi in ottavo, opera dottissima ed insuperabile. E redizione grandiosa del Didot del 1855 in Parigi, con tavole topografiche e note e biografia, che può asserirsi la più perfetta edizione del secolo. Riproduzione con ag- giunte di quella suddetta del 1799. E tra gr italiani il Metastasio, il Leo- pardi, TAlgarotti, il Corsetti, il Bertola, il Galiani, \ Alfieri, il Cesari, il Tommaseo, il Cesarotti, il Pagnini, Anton Maria Sal- 26 ( 202 ) vini, il Pallavicini, il Colonnetti, il Bindi, il Gligerio Campanella, Emmanufele Rocco, ed altri molti scrittori di comenti e studii e saggi critici. Ma in Italia tra le molte traduzioni delle opere oraziane, la più perfetta e completa è quella del marchese Tommaso Gargallo, e le edizioni ne sono innumerevoli. In essa, facendo risaltare la bellezza della frase ora- ziana, tale ammirevole letterato ha cercato inciderne il concetto, abbellendola con versi armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla musa stessa del gran poeta venosi no. Mi sono avvalso in questa mia opera ap- punto della traduzione del Gargallo, prin- cipalmente in quei passi della storia, nei quali era necessario dar luce alla dicitura con le stesse parole di Orazio, le quali forma- no, al dir del gran Fénélon, uno dei pregi massimi del poeta : « Jamais homme n'a donne un tour plus heureux à la parole Pour lui /aire signifier un beau sens, avec brteveté et deli e atesse. » ^') E perciò ser- vendomi dei versi sublimi frutto del forte ingegno del Gargallo, e dettati in purissima lingua italiana , per illustrare uno dei più grandi italiani, ho creduto far còsa grata ai miei concittadini, ai quali, per questo mio lavoro, chiedo venia e benevola approva- zione. M^ihr^^yr^'-i NOTE «li^^illl^^^l ?^««j&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai'; (i)Da1 Municipio di Venosa nel 1 890 venne emesso il seguente proclama: « L'idea di onorare la memoria < dei suoi grandi e massimamente del gran poeta Quinto ■ Orazio Fiacco, il nome del quale solo basta alla glo- « ria di Venosa, campeggiò e fu sempre viva nella < mente di ogni Venosino. T disparati tentativi fatti < nelle varie e successive epoche, come risulta dai mol- * tissimi documenti che si conservano, a chiare note < dimostrano che questa città, a niuna seconda nei < progressi morali e civili, ebbe sempre a cuore l'idea < di erìgere un monumento al suo immortale poeta, al < più grande dei linci latini. Gli ostacoli che quasi in ■ ogni tempo si pararono d'innanzi, furono mai sempre < d' incaglio all' attuazione nel nobile divisamente; oggi ( però le circostanze sono quanto mai propìzie, e Ve- * nosa, la città che si diceva : * Aut par, aut major, « tt tibi Roma fuit,ì'* Urbs Venusina nitet tantis di' ■ corata sepuleris *, la patfia del Tansillo, del Maranta, ■ del De Luca, del Lavista, ecc. vede con gioja giunto ( 208 )»- il momento di poter attuare la bella idea, per sì lunga pezza vagheggiata. L 'iniziativa venne presa dalPistesso Municipio, il quale allo scopo deliberava la somma di L. 10,000 come base di attuazione del grandioso progetto. Un appello ora ad ogni paese civile, ad ogni uomo amante delle arti e del bello, ad ogni cultore di lettere, /icciò con la vària operosità si venga a quel tale risultato fìnale, perchè sia adeguatamente onorata la memoria del gran poeta, il quale con i i suoi carmi immortali formava il lustro non che di Venosa, ma dell' intero mondo letterario. — // sindaco Dottor Giuseppe Finto. » Sino al tempo della pub- blicazione di questa mia opera non si è ancora inau- gurato il progettato monumento. Ma certo, e bisogna augurarselo, ne è prossima la felice attuazione. Pietro Antonio Corsignani, nella sua opera « De ecclesia et civitate Venusiae—i 72S », così si esprime, ac- cennando al busto che si osserva nella piazza del Ca- stello in Venosa: e lato foro ornata^ ubi Ho- rata Venusini clarissimi poetae statua suspicitur, » G. Batt. Buhamel, con volo fantastico, sul finire del 1600, aveva creato tale simulacro. Ed in Francia, nella celebre guida dell'Italia del sud J. du Pays, Parigi, 1865, alla pagina 449, parlando di Venosa, si legge: < Dans une des rues est une colonne surmontée du buste de Horace, » Ma colui che con massima esattezza scrìsse la storia di Venosa, il sommo M. Are. Lupoli ( Iter Venusinum 1793, pag. 211) così si esprime: < Hic or- tus Q, Horatius Flaccus^ qui nisi a^re perennius sibi monutnentutn vivens exegisset^ frustra quantivts pretii aliquod a civibus recepisset, Enim vero quae ex Tibur* tino lapide in foro posila est statua falso tanto poetae optime de patria merenti, adiudicatur, quum longe sub- •^( 209 )»- sequitam sapiat aetatem^ et nonnisi Benedictinae fami- liae^ ut mihi luculenter visum^ guemdam exprimat pa- trem, » (2) Ormai in Europa è celebratissimo il gran qua- dro del pittore russo Siemirandsky e Le fiaccole di Ne- rane 9, che tanta maraviglia destò in Parigi nell'espo- .sizione del I878i e che venne acquistato per 300000 franchi dal granduca Costantino , zio dell' imperatore Alessandro III. A tale spaventevole idea si fermò il so- vrano artista Siemirandsky nel lumeggiare la tela por- tentosa! Negli orti neroniani si vedono i cristiani cro- cefissi o legati ad antenne, ravvolti in panni impeciati od in altre materie incendiarie. -Le antenne per dileggio vedonsi coronate di rose. Ai piedi di ciascun martire leggesi un cartello « Christianus incendiator urbis ». La folla briaca smania schiamazzando. Seguir dovea lo spettacolo crue^to^ al quale impavido e gaudente assi- steva Nerone: cioè si dava ftioco alle povere vittime Le fiamme nitrici però non purificavano 1' aere pestifero di nefandezze ed orrori. Da quelle fiaccole umane si elevava ai cieli una nuvola nera, dentro la quale pa- reva partissero delle voci, che. invero non erano gridi di vendetta, ma di perdono! (3) Venosa — (Venusia). Le città la cui origine perdesi nella notte dei tempi (quaggiù dove succede una continua trasformazione, sia organica, sia materiale, me- no però, quella naturale e morale, che non può dirsi tra- sformazione, ma progresso) hanno questo di sfavorevole che le sole congetture debbono bastare per accertare il vero. Babilonia, per non citarne altre, fabbricata da Nembrod il gran cacciatore, a seconda delle memorie 27 ( 2 IO )»- più lontane, ed inesplorata e perduta pel resto del mondo tanto da restarne solo una memoria, dai fran- cesi Fresnel e Oppert venne descritta. Essi, dopo averne visitato le poche rovine, da queste potettero arguire con un certo fondamento di certezza, da non parer paradosso, né riuscire inverosimile il sostenere che il suo circuito era di quaranta chilometri: che aveva giar- dini e parchi al paragone dei quali i nostri d'Europa, sian pur quelli elaborati da Le Notre, non son che orti; che aveva cento porte di bronzo artistic&mente model* late; che aveva muraglie altissime da superar quelle di porcellana nella China, e scompartite in duecentocin- quanta torri maggiori, tra le quali la Rock Nembrod^ cioè quella che poi si disse la torre di Babel; che aveva palagi immensi degni dei re dell' Assiria, degni di Sar- danapalo, Baldassarre e Cirol È pur troppo scomparsa la grandissima città e con essa la civiltà che la dominava e le dava vita/ Babilonia è una memoria 1 Venosa è città più antica di Roma, più di Napoli e di Atene; forse una delle più antiche città d' Europa. Atene fu fondata diciassette secoli prima dell' era vol- gare da Cecrope. Roma, 1' eterna città, otto secoli pri- ma di Cristo e cresce ancor oggi in grandezza e ma- gnificenza. Napoli, che si diceva prima Palepoli, cioè la vecchia città*, fu fondata dodici secoli prima di Cristo, da una colonia di Cuma Eolia dell' Asia Minore. Ve- nosa è una città Pelasgica, cioè fii fondata da una tri- bù orientale venti secoli prima di Cristo, e da essa prese il nome, gli usi, la religione. La prova più chiara della sua origine orientale o Giapetica^ ce la fornisce un frammento d'iscrizione sopra pietra durissima, che doveva far parte di un gran monumento eretto in Ve- -*( 211 )»- nosa dagli. Oschi o dai Sanniti o dagli Etruschi, ma certo in tempo molto remoto. Eccone il suo disegno: 1i^(l)r.»IQRhH Le cifre che in esso appariscono sono state dai dotti archeologi e poliglotti copiate cosi : Fkuhtvrtai hit rui K Le quali voci, ricavandolo dalle riduzioni dei bronzi Eugubini, suonano in latino cosi : . Il che dimostra pure chiaramente l'orìgine del no- me di Venosa da * Benoth > deità orientale anteriore r^( 212 y»^ all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che nelle notizie sull' etimologia del nome della città di Venosa si disse da Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome riferiscono Francesco M. Farao, nella lettera apologe- tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Na- poli MDCCXCV), ed il sommo Lupoli, dal quale dovet- tero essere dal primo attinte molte preziose idee, perchè scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del frammento trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa, riportata dal Pratillo, dal Corsignani, dal Lupoli , dal Cimaglia, da Mommsen e da altri storici e raccoglitori di sigle, che viene così tradotta : MbKCUKI tMVIC. 8ACR. pro salute Pbassbmtis mostri Agaris Acnc. Come pure trova riscontro in una pietra di corniola incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente alla famiglia Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen- nata sua opera, che raffigura Mercurio coi calzari alati, con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al disotto la scritta < Marckoa ». Con tali dati precisi un senso di orgoglio invade il cittadino di Venosa; e può bene esso ripetere le robu- ste esclamazioni dello Scaligero : Aut par, aut major^ te tibi^ Roma fuiì dell'accademico venosino Orazio de Gervasiis : vaga città Per cui veggo et invidia Italia tinta e dell'altro sommo poeta da -Venosa, Luigi Tansillo AltOf famoso e celebrato nido t -«( 213 )»- La grandezza di Venosa non deve congetturarsi ri- spetto alla sua magnificenza, che pur ve n*è stata, perchè non forma questo il suo massimo vanto; bensì nella sua antichità storica, nella sua nobiltà di antichissima data. Povera addivenne, ma si mantenne sempre nobile e generosa. I frantumi dei suoi monumenti hanno arric- chito molti or superai paesi, come dalle spoglie opime di case ìnagnatizie si fanno oggi belli molti moderni Epuloni. Paragonare Venosa a Roma, che dominava il mon- do anche molte centinaja d'anni prima del tempo di Orazio, sarebbe cader nelPiperbole, e volerla stoltamente adulare. Ebbe però il suo lustro maggiore sotto i Ro- mani : divenne sede del correttore di Puglia e di Cala- bria; ma trar deve il vero suo massimo vanto all'aver primeggiato e di essere esistita molto tempo prima di Roma, all' essere città Pelasgica. La si dice pure fondata da Diomede trojano, quello stesso che dicesi aver fon- data Benevento ed altre città nella regione meridionale d'Italia. Ai popoli pelasgici occorreva terra ferace, luogo ridente, cielo quasi orientale. E tanto in quel luogo ove dicesi Venosa rinvennero e tale sin oggi si conserva. Tre sono gli scrittori che hanno stampato opere sulla città di Venosa- antica, nei secoli scorsi sino ai nostri giorni, ma nessuno di essi venosino, tranne che non voglia aggiungersi come quarto Jacopo Cenna, il quale si dice autore di una cronaca della città di Venosa, che si conserva manoscritta malamente nella Biblioteca Na- zionale di Napoli. Jacopo Cenna morì nel 1614, secondo che attesta il Corsignani, il quale, pur non menzionanìlo tale sua opera, lo qualifica u vir sapientissimus » e lo dice autore t^( 214 )»- del « Catalogum antistitum suae patriae ». Neil' in- certezza che quel manoscritto sia originale, non accen- nandolo menomamente *nò Corsignani, né Cimaglia, né Lupoli, né altro scrittore autorevole, convien dunque ripetere che tre furono gli scrittori che con profondità di dottrina trattarono diffusamente della città di Venosa. Il più antico fra essi fu Pietro Astonio Corsignani, ve- scovo di Venosa, che nel 1728 pubblicò un libro inti- tolato « De ecclesia et civitate Venuside ». Vien poi Natale Mario Cimaglia, che nel 1757 pubblicò la stu- penda opera e Antiquitates Venusinae ». Ma limassi- mo tra tutti fu Michele Arcangelo Lupoli, che nel 1793 pubblicò l'aureo immortale volume « Iter venusinum ». Il più antico, cioè il Corsignani,' trattando special- mente della città e dei cittadini di Venosa, poco del pro- prio vi ha aggiunto. Si avvale di qualche antico scono- sciuto manoscritto, e di qualche più antico scrittore, che di volo accenna notizie, siccome il Summonte, TUghel- lio, il Caracciolo, il De Luca venosino, il Pratillo ed altri, o forse attinge da qualche prezioso documento che conservar dbveasi nella badia di Cava de' Terreni o nella badia di Montecassino, siccome riporta lo sto- rico Giannone nella sua Storia del regno di Napoli, le quali notizie danno molta luce alla città di Venosa nel decimoquarto e decimoquinto secolo. Il Cimaglia si distende a lungo nel far congetture sul bel paese, e principalmente ha tentato di scoprire (come dalle iscrizioni caldaiche e persiane soleansi de- cifrare le magnitudini dei popoli che ergeano gli obe- lischi) quelle recondite cose e farne tesoro, come fecero il Fabretto, il Pratillo, il Mommsen ed altri tanti, per lacerare il velo fìtto che copre l'immagine d'una città, che del suo antico splendore e della sua magnificenza -«( 215 )»^ conserva ben pochi residui, la maggior parte sepolti ed oscuri. Tal cosa non può asserirsi circa il dottissimo Lu- poli^ che seguendo il cammino per giungere come meta a Venosa, segna ed illustra magistralmente quanto v'ha di antico e di oscuro nei paesi di Cisterna, MarigUano, Cimitile, Bajano, Cardinale, Mugnano, Monteforte, Avel- lino, Atripalda, Dentecane, Mirabella, Grottaminarda , Ariano, Ascoli, Torcila, e T Aufido, oggi rumoroso Ofanto, e persino il luogo che oggi ancora dicesi Rendina^ tra- versato dal modesto omonimo ruscello, e monta poi alla superba Venosa, e giunto in questa città, come la città per eccellenza, che tanto disastroso cammino e fatica gli ha dato, consacra ad essa immortali e stupende pa- gine. Fu tale l'entusiasmo destato dall'opera del Lupoli, da venirgli fatto omaggio di un volume di poesie, stam- pato in Napoli nel 1793, poesie di vari metri e lingue, prin- cipalmente latina, dettate da professori insigni, da som- me autorità ecclesiastiche ed altri letterati di gran fama, fra cui l'illustre Nicola Valletta, il cui sonetto per la sua originalità e finezza e sincerità mi piace qui trascrivere: Vivranno f sì le carte tue vivranno Che non ha dritto sopra lor la morte, Lupuli mio, e il ferreo dente e forte Del tempo edace dispreztar sapranno. Sicure in man (t eternità già stanno ! Solo quei genii ebber dal del tal sorte Ch* alle antiche memorie oscure e smorte Tolgono V ombra e nuova Itice danno. Alza altera per te la fronte ornai Tra V itale città sul mar Tirreno La mia sirena, e vibra lieti rai, m Sembra che dica : Ór son contento appieno, Per falsi dotti ho sospirato assai Toma la gloria a riposarmi in seno. -«{( 2l6 )»^ Ed il Lupoli a tanto coro di ben meritati elogi rispose : Pero poco mi par itaver fat(ora Loco alcuno non fu dov' io non corsi Nel vcmfsino suol presso o Untano, Non umil valle, non di monte dorso Dove fusse vestigio o di Romano di Greco idioma, e questo feci Marmi e memorie in piìi d'un loro sparte Con istudio raccolsi e con fatiche, E di tor ne vergai non poche carte. Chi può mai aver tanta baldanza di accingersi a comporre una storia di Venosa dopo aver letto V « Iter venusinum > di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag- giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò aver piena conoscenza di Venosa antica studii e pon- deri r e Iter venusinum » di cosi eccelso scrittore. Il tradurre in buona lingua italiana tale stupenda opera scritta in latino sarebbe una fatica vantaggiosa e meritoria. (4) Svetonio Tranquillo — Vita Morati, (5) Cicerone. Op. Lib. IV. Atl Herennium. (6) Fabretto. Cap. 9 — Num. 272. Inscrip. (7) Gargallo Tonìmaso — Traduzione delle opere di Q. Orazio Fiacco — Lib. i.®, ode 28.*" (8) Idem Loc. cit. lib. i.* satira 6.* (9) Guerrazzi G. D.— Orazioni. A Cosimo Delfante. r^( 217 )»- (io) Gargallo. Trad. di Orazio, lib. 3* od^ i.* (11) Della nobiltà venosina. — Non è conveniente avvalersi deirautorità del Summonte circa il fastigio della nobiltà venosina, perchè erroneamente si attribuisce al Summonte quel brevissimo e misero accenno sulla to- pografìa e sulle famiglie nobili di Venosa e privilegi annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece inserire dopo Topera del Summonte « Istoria della città e Regno di Napoli » un trattatello intitolato « Raccolta di varie notitie historiche >, mentre con precisa diffu- sione si rilevano ragguagli in altre opere di altri autori. Ed invero, si rileva dal manoscritto antico più volte ci- tato, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale in Napoli, redatto nel terminare del 1500, e che vuoisi opera dell' U. I. D. Jacopo Cenna, venosino, essere stata tradizione dei vecchi, che le mura della città di Venosa, mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che im- portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu- cullo, il celebre milionario del tempo dei Romani, e che fii lui che fece trasportare in Venosa buon numero di statue e preziosi marmi serviti di decorazione ai monumenti di quell'illustre città, sicché videsi creata per la conservazione di tali ricchezze artistiche, una carica onorifica che vien riportata dal Corsignani, dal Lupoli, siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti (non però dal Cenna suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi- stenti in Venosa. Bemusbi . MOMUMRNTUlf. POBLICX . rACTUM D. D. M. . MUTTIBMUS . L. F. C. Vibius . l. F. M. Bfsssius . F. OB F. M. Camillius . HONOREM. . l. F. 28 ( 2l8 >•- M. Mumnius « L*. F. C. Vmn» . L. F. n . Vis . J. D. Statuas . KZ D. D. Rbficivmdas e. Fece pure LucuUo stabilire in detta città, attratte dalla magnificenza, salubrità e bellezza di essa, non po- che nobili famiglie romane, dalle quali poi derivarono quei componenti la nobiltà fiorente, che sino all'inva- sione dei barbari formavano il lustro di quella bellissima terra italiana. Né col seguirsi degli anni quella nobiltà scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1 500 e proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei prìncipii del secolo presente, si vantò in Venosa un ti- tolo di. nobiltà da potersene fregiare con orgoglio. I sovrani che si successero nel regno di Napoli arric- chirono la nobiltà venosina di prerogative straordinarie, tra le quali primeggia quella concessa dall'imperatore Ludovico I con la quale si definiva non poter Ve- nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del regno ( il che poi per la instabilità di fede o per fini politici dei sovrani che si successero, non venne man- tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma restar dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi patrizii illustri, scelti dal popolo. E Ferdinando I di Aragona, che fece lunga dimora in Venosa, vi mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe- derigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai quali poi diresse la seguente lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer- « sitatis et hominibus civitatis Venusii, fidelibus nostri e dilecti. Come altre volte vi abbiamo scritto, noi de- < sideramo grandi mete che queste cacce si cóservino « e guardino per poterci pigliar piacere quando vene- ( 219 ) € remo da q.ste parti. E perciò noi al presente avemo < dato carico allllLmo Don Federigo nostro figlio che € faccia mettere in ordine Tutti questi monti e Vi esor- c tiamo a voler co diligentia eseguire quàto per lui detto e nostro figlio sera ordinato, perchè ni farete servitù < singularìssima. < Datum in Castello Novo Neapoli sexto Februa- € riis MCCCCLXXXVIIII. > E già precedentemente Ludovico II, il giovane, im- peratore d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi- narla dalle soflerte devastazioni; e della sua venuta v*ha memoria in un'antica lapide esistente nell'attuale semi- nario, un dì castello, prima che Pirro del Balzo avesse edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi dello splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ce- neri di Roberto Guiscardo e di altri sommi guerrieri e duci , sovrani e bali dell' ordine supremo di Malta, il che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens Venu- Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì L'iscrizione è la seguente : StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM UftBIS AMICUS DUM FUKHIS Sbupbr Rxgmabis Jums POTKNTEB E nella venuta in Venosa (riporta sempre il Cenna) del cardinal Consalvo, i nobili venosini si mostrarono magnifici e splendidi quanto dir non si può, e formarono un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni ed illustri del regno. In detta accademia presedeva lo stesso cardinal Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo, o MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa -«( 220 )ì9^ Porfido venosina, (volgarmente oggi Montalto) che rap- presentava l'Olimpo. E che la nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita insigne per tutto il regno, convien trascrivere quanto riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista del 1500 per quanto disadorno scrittore : < Dall'antiquità e nobiltà di questa nostra città di Venosa, si estolle il capo per le grandi prerogative ed è più degna delle altre città, per l'amplissime cocéss.** di privilegi] di nobiltà dotata dalli serenis- simi principi che no" vi è città nel Regno di Napoli che sia illustrata di questi honori e prerogative spe- tiali no" eccettuando la città di Napoli capo del re- gno », la quale (soggiunge) ha per vanto 1' appar- tenere ai diversi seggi < ma li nobili della città di Ve- nosa, delli quali m'appajono infìniti privilegi, testimo- nianze e processi, godono per antiqui privilegi in segno della loro nobiltà darseli dall'eccellentia del prìncipe una cinquina la matina del giorno della S."''' Pasqua. Et uno quarto di castrato magliato di tre anni nel giorno di Pentecoste Antiquamente dalli Imperatori Romani questa usanza essere osservata da essi aver avuta orìgine Et solevano distri- buire alcuni pezzi di carne crude, alcun altra volta davano tai doni con misure di grano, et altre volte con danari, et altra volta donarono al Senato, tre- cento scuti.... ecc. ecc. > e così si enumerano molti doni che i sovrani solevano assegnare, per testimoniare fatti di valore e degni di stima e compenso. Trascrivo V elenco delle famiglie nobili venosine riportate dal surriferito Cenna, sino al terminare del 1500, e quelle riportate da Pietro Antonio Corsignani nella sua opera « De Ecclesia et civitate Venusiae — -«( 221 )•- Historica monumenta selecta > edita, come si disse, ^el 1723, che rimontano sino al precedente secolo deci- mosesto: Barbiani. — Dai quali nel 1434 derivò il conte di Cuneo, Alberico Barbiano, gran contestabile del Regno di Napoli, e condottiere di cavalieri venosini, del quale diflusamente parla il Giannone, nel quarto volume della sua Storia civile del regno di Napoli ed altri storici. Deitardis. Gomiti. Plumbaroli. — Da cui nel 1484 derivò un Corrado Plumbarolo , duce preclaro di cavalieri venosini sotto i re aragonesi. Maranta. — Che ebbe tre giureconsulti insigni, lu- minari del foro, nel 1600, e due illustri vescovi, dei quali quello di Calvi, di cui discorre a lungo il Gian- none, nel voi. 5^ lib. 32, in occasione della scandalosa e celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino, agitata nel 16 14 tra i teatini ed i gesuiti. E si dissero Roberto, Lucio, Fabio e Carlo. Cenna. — Da essa derivò quel Jacopo Cenna defi- nito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era U. L D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa, che, manoscritta, si conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Cappellani. — Una Laura Cappellano fu madre del celebre poeta venosino Luigi Tansillo, il cui padre era nobile nolano. Porfidi. — Celebre famiglia fregiata del titolo di conte di Montedpro, ed imparentata con la nobile casa Sozzi di Venosa, che tenea la gerenza del principe di Venosa, Nicolao Ludovisio, nipote di Gregorio XV. Fenice. -«( 222 ))^ Solimene. Casati, Consultnagni. Giustiniani, Caputi, Simone. Moncelli. Costanzo. — Famiglia proveniente da nobili vene- ziani. Fuvvi un Costanzo/ vescovo di Minervino, la cui nipote sposò nel 1641 1' U. I. D. Giustino Rapolla della nubile famiglia Rapolla di Venosa, dei quali il figlio Nicolao fu nel 1693 protonotario apostolico. De Bellis. De Luca. — Da cui derivò queir insigne cardinale Giovan Battista de Luca, onore della città di Venosa, autore di opere preclare in circa quaranta volumi in folio. Bruni. — Donato De Bruni fu celebre poeta ve- nosino. E Giordano Bruno o de Bruni, figlio del nobile Giovanni de Bruni da Nola, intrinseco del Tansillo (Gior- dano Bruno scrisse un epitaffio sulla sepoltura di Gia- copon Tansillo, figliQ del poeta venosino Luigi Tansillo, siccome attesta Minieri Riccio) non è forse da questa famiglia venosina derivato ? Fioriti. Tramaglia. Ttsct. Tommasini. Palogani. Pagani. Balbi. Sperindeo. Berlingieri. Violani. -«( 223 )»^ Gervasiis. — Orazio de Gervasiis fu il più insigne membro della celebre accademia venosina, e poeta fa- moso. Abenanti, Grossi. Protonotabilissimi, Capibianchi, Campanili. Ferrari, Faccipecora, Leonetto Troni, — Antonello Trono fu esimio nella legale palestra. Aloisiis, Rosa. Biscioni. De Vicariis. Rapolla. — Dalla quale derivarono il Clarissimus D. Venanzio U. I. D. vicario generale nel 1663 — Diego ^ U. I. D. Il Corsignani parlando di lui dice : « Romae triginta fere Annis Curiam laudabiliter prosecutus in legali f acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi ex hac vita discessit.^ — Donato U. I. D. — Ed il celeber- rimo D. Francesco giureconsulto, presidente della Regia Camera della Sommaria nel 1760, senatore del S. Con- siglio del regno di Napoli, uno dei settemviri del regio erario. Le sue principali opere furono: De Jureconsulto (1730) Difesa della Giurisprudenza. Risposta all'opera di Ludovico Antonio Muratori (1722) De jure Regni (1750). Opera eccelsa in quattro volumi in ottavo. Vitamore. Moncardi. Lauridia. ( 224 ) De Jura o Thura. Sprioli, Leoparda, Sozzi. Altruda, . — Vito Altruda era cavaliere deirordine di Malta. Delle quali famiglie nobili riportate dal Cernia e dal Corsignani , due sole compaiono tuttavia esistenti in Venosa: la Rapolla e la Lauridia. Della seconda di essa si legge nella cattedrale di Venosa la seguente epigrafe, riportata dal Corsignani. JOANMi Baptistab Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino Et Ammae Fbrrabi Nobili Sbkbmsi Prognato MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS, ThKOLOGICIS ASTIBUS OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB ECCLBSIAB Canonicatu Insignito, humanab salutis Ann. oca. abtatis suab xxyii ad Supbbos Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus Fratbi DIGNI8SIM0 P • E la famiglia Rapolla imparentata sin dal 1 566 con la casa Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi Costanzo nel 1641, con la Sozzi, con T Altruda, iscritta neir ordine di Malta, e con la Lauridia, conserva nella vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare gen- tilizio, che il Cenna bellamente esalta come uno dei più degni di quel sacro luogo, e che appartenne prima alle nobili famiglie de Bellis e Tisci, e nel quale si am- mira un quadro pregevolissimo di S.^ Maria di Costan- tinopoli, e vi si leggono le seguenti iscrizioni : Sull* altare : HOC. S ACRU. BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA.U.LD.BT.HOR. DE . BELLA . A. EF. M. D. EQUES . DE . ORDINE .VICTORIAE .TISCI . EORUM. MATRIS . RESTAURANDUM . CURAVER . BIDCXVI. -«( 225 )»^ àACELL . HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO . VSNO. FUrr . CONCESSO . VENANTIO . RAPOLL A . U . I . D. PRIMICERIO . VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT. SUCCESSO . ET . PATRONI . CONSENSUS . ACCESSIT . ANNO. MDCLXVU. Sotto l'altare: SACELLUM . HOC. NOBIUS . FAMILIAE . RAPOLLA . VENUSIMAB. . IN . VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR . FORMA. RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS . RAPOLLA. Ed in un istrumento redatto da notar Nicola li Frusci di Venosa del dì 28 gennaio 1722 si rileva che dinanzi al magnifico giudice regio della città di Venosa, D. Saverio Compagno, e del vescovo del tempo ed altri molti, nel monastero di Santa Maria la Scala si volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e pri- vilegiato delle monache educande della famiglia Rapolla, e vi si fé* innalzare inciso su pietra in fronte dell* ar- chitrave della porta che dà nel giardino di tal luogo, (e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia Rapolla, la seguente iscrizione: CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO . ABBB. U . I. D . AX.OISIUS . Rapolla . Patritius . Vbmosinus. EkBGI . CUItAVtT . 121 . CRAT1AM . D. MaUAB . AnDRSAB. Rapolla . Momcalis • Profkssas . suak . kx . rmA-ntc. MXPOTXS . OmnOMQUB . SDCCBSSOBUM . DB . FAIIIUAB. UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS . OCCIDBBIT. ANNO DOMINI MDCCXXII. La casa Rapolla poi si è mantenuta sempre no- bilmente, tanto che nel 1807, essendosi recato a visi- tar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie del reame il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran ma- gnificenza per due giorni con tutti i generali e gli altri personaggi della sua splendida corte, dal nobile Venan- 29 •^( 226 )»^ zio Rapolla, al quale rilasciò certificato di sovrano com- t>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo- luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la repub- blica partenopea, e tornato da poco tempo da emigra- zione politica in Francia, accettare titoli, onori od altro compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua opera « Histoire de la vie et des poesies d' Horace^ dice: « La Venouse moderne à, malgré sa faible population , con^ serve quelque chose de plus que son nom et sa position antique^ pouisqu* elle est le siege d' un eveché, » Ormai ò noto, ed il Lavista nel suo opuscolo: Notizie istoriche degli antichi e presenti tempi della città di Venosa^ Po- tenza^ tipi Favata^ 1868 e Frediano Fiamma, rettore del seminario vescovile venosino, nelle sue note alla necro- logia del nobile Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi Giannini 1883) riportano, che essendosi disposto nel 181 8 di tra- sportare la sede del vescovado da Venosa a Minervino, con grandissimo nocumento alla patria di Fiacco, Ve- nanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed agire nella capitale del regno, ove venne trattato l'affare in Con- siglio di Stato, con impegno di illustri avvocati, da far distrarre tale improvvida risoluzione; ed anzi vi spese a tale scopo più di lire ventimila, che non volle per sua generosità gli venissero rimborsate. Veramente no- bile animo ) Splendido esempio di filantropia 1 (12) Riportata da M. A. Lupoli nella sua opera < Iter Venusinum », da N. M. Cimaglia « Antiquitates venusinae », da P. A. Corsignani « De civitate Venusiae », Da Ughellio « Italia sacra », da Mommsen € Inscrip- tiones^y da P. Giannone « Storia civile del regno di Na^ poli^ voi. I. lib. 2. parag. 2.», da Freccia * Sub feu- dis », ecc. ecc. •^( 227 ))0^ (13) Gargallo Tommaso. Trad. di Orazio. Lib. i* sat. 6*. (i4) Della grandezza della città di Venosa — Non conviene esagerare. Il defunto egregio avvocato venosino Antonio La Vista (zio del celebre giovane Luigi La Vista, morto nella sanguinosa giornata del 15 maggio 1848 in Napoli), che diede alle stampe il pregevole opuscolo più sopra cennato, e che s' intitola « Notizie istoriche degli antichi e presenti tempi della città di Venosa », nel terzo capitolo, seguendo la falsa assertiva di altri scrittori, e fantasticando sul noto verso dello Scaligero « Aut par^ aut major ^ te tibi Roma fui », ne ritrasse la conseguenza che Venosa antica fosse stata una città abitata da pa^ recchie centinaia di migliaia di abitanti: che anzi avendo mal definiti i limiti indicati dagli autori, e da Orazio stesso, quando figuratamente parla del Vulture, nei quali limiti restava preclusa la città, assegna ad essa una cir- conferenza che può dirsi superiore a quella della stessa Roma. Perchè (vedi paradosso !) lasciasi partire il limite dalle pendici del monte Vulture, distante, come si dirà diffusamente nella nota riguardante tale vetta o monta- gna un tempo ignivoma, circa quaranta chilometri da Venosa, sino al fonte Bandusia o sin presso la foresta di Banzi, cioè sin presso I' attuale Palazzo S. Gervasio. Torno a dire che non conviene esagerare. Venosa è stata città popolosa, al dir di Dionigi D'Alicarnasso, ma questo scrittore si esprime, parlando di Venosa, così : « Urbem hominum frequentem ». E frequens urbs in latino suona città popolosa. Se voleva dirla popola- tissima , avrebbe detto : Urbem hominum frequentisi simam, I limiti di Venosa erano circoscritti dalle valli e dai •^( 228 )ì9^ piani che cingono le diverse colline, le qus^li si elevano di tratto in tratto in tutto l'agro chiuso dal fiume Oli- vento, e dalle altre derivazioni di esso. E quelle vallate e quei piani si scoprono anche oggi chiaramente dal- l'alto delle torri del castello baronale, dal quale un pa- norama incantevole si ammira. Venosa era cinta da fitte boscaglie, che confmavano col bosco di Banzi, dal quale si proseguiva per le foreste lucane {Lucania da luctis bosco). La gran foresta era segata da via maestra, e nel mezzo di essa si ergea una fontana, dalla quale zam- pillava una polla di acqua freschissima e limpida come cristallo, ed era la fontana di Banzi (fons Bandusia)^ ed oggi nomasi ancora fontana di Venosa. Ma quel luogo era selvoso ed inabitabile, e buono per cacceggiare , né vi si scoprono vestigia di abitazioni. Non così nel pe- rìmetro più sopra indicato, nel quale, sebbene fuori delle mura della città fortificata, si rinvengono vestigia e ru- deri di abitazioni, che lasciano chiaramente arguire es- sere stata abitata da cittadini di Venosa, che per molto tempo si governarono a comune, avendo per istemma un basilisco che si morde la coda, e sottovi la scritta Respublica Venusitia, I popoli che abitavano tali vaste zone avevano diversi nomi , siccome fossero tribù di- sparate, e molti luoghi conservano ancora tuttodì i nomi degli antichi abitatori. Eccone per esempio talune. Presso il fiume Olivento, verso mezzodì, rinvengonsi molte tracce di abitazioni di antichi popoli. Nei secoli primitivi della chiesa cristiana , cioè qualche anno dopo la morte di Orazio Fiacco, venne creato in tal luogo un tempio cri- stiano, forse sull'area o perimetro di un tempio pagano, siccome si costumava allora, che dedicossi poi a San Pietro, e si disse *$". Pietro ad Olivento , che corrotta- mente vuoisi interpretare « Adventum Petti », conget- •^( 229 )»^ turandosi che S. Pietro fosse venuto di persona ad inau- gurarlo, infervorando quei primi cristiani. A levante, a quattro miglia dal castello attuale di Venosa, si scorgono rovine di edifizii, abitati da gente che dicevasi Gervasia, A sei miglia da Venosa, verso nord-est, si scorgono molte rovine di edifizii e quindi di abitazioni di altra gente, ed il luogo si nomava Santo Stefano^ e presso ad esso v' è traccia di sontuoso ca- stello, che per la sua postura settentrionale fu detto Bo- riano o Boriano^ ed oggi forma un vasto podere nomi- nato Santo Stefano Boreano^ appartenente alla nobile famiglia RapoUa di Venosa, dando il nome a tutta la contrada. Ritornando verso il fiume divento, a tre miglia da esso, si distinguono ruderi di abitazioni, e doveva esi- stervi una popolazione che aveva il suo tempio dedi- cato àgli Angeli, e che oggi si dice: Trenf Angeli^ e presso questo luogo scorgonsi tracce antichissime di lava vulcanica, talune di forme gigantesche, che han for- mato un problema indecifrabile per gli scienziati , sic- come si dirà nella nota seguente, parlando del Monte Vulture. E più in là v' è traccia di altro popolo nel luogo che si noma Pantaleo. E poi SanzanellOy poi Mangana o Manganello^ e poi Musanna^ sinché si giunge al luogo popolato da una colonia Albanese di recente venuta con Giorgio Ca« striotto Scanderberg, che dicesi Maschito^ il qual luogo (oggi paesello popoloso, industre e ricco) non ha mai fatto parte della terra venosina, che anzi nella riparti- zione feudale venne quell'agro assegnato al duca d*An- dria, né mai il signor di Venosa o gli abati benedettini del monastero della Santissima Trinità vi ebbero dominio. Da un rapporto spedito al direttore generale del Real Museo e degli scavi d'antichità del Regno di Napoli, da -«{( 230 )>9^ quel preclara gentiluomo, mio defunto genitore, nobile Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di- stretto di Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto parteciparle che non lungi da Venosa un terzo di miglio, mentre si attendeva allo scavo di arena in una grotta messa sul ciglione di una collina verso oriente, sovrastante al fiume che scorre nella vallata sottostante al tempio della Santissima Trinità, si è rinvenuto un lungo corridoio con altre strade la- terali, con una quantità di sepolcri scavati nel tufo, coperti da grossi mattoni antichi, con delle iscrizioni indecifrabili, fra le quali se ne osservano talune, cui soprasta una palma ed un'ampolla > E tale luogo si dice il Piano della Maddalena^ e scovronsi dintorno ad esso dei resti di fabbriche che indicano come un forte nucleo di abitanti viver doveva in tale spianata , che aveva il suo tempio dedicato alla Maria di Magdala, ed in quelle grotte scavate nel masso vi avevano la loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer- tezza arguirsi che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che si estendevano verso le colline, che oggidì diconsi Monte e Montalto sino al fiumicello divento, formava una va- sta città abitata da più di ottantamila uomini. Che ai tempo dei Romani era splendida per monumenti, statue e nobiltà, e conservossi tale sin presso al 1500, quando andò mano mano assottigliandosi per danni solTerti dai tremuoti, dalle pesti, dalle guerre e dall'aprirsi dei di- versi sbocchi a centri che cresceano in importanza, gran- dezza e magnificenza sia in Puglia che in Lucania. E venne tanto assottigliandosi da divenire un tempo un borgo, fortificato però, di poche centinaja di fuochi, sin- ché poi non risorse a novella vita. Quei pochi fieri abi- tanti, che avevano per emblema il basilisco che si morde -«( 231 )»- la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si conservaro- no però sempre eguali a loro stessi ed alla loro origine. In essa nacquero e vissero baldi guerrieri, come si disse, e letterati insigni e sommi giuristi ed eminenti ecclesiastici, sempre altieri, nobili e pieni di genio, de- stinati a grandi imprese. L' antica grandezza lasciò uno stampo in ciascun abitante di tale ameno e forte luogo. Ciascun abitante porta con sé una particella dell'aura divina, che emana da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più belle e feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii antiqui^ sostiene essersi coniate in Venosa delle monete raflìguranti Giove che gitta fulmini. Come esprimere me- glio figuratamente la potenza della città di Venosa ? Oggi Venosa colla libertà e col progresso è nuovamente ri- fiorita, e per ricchezze e lustro non è inferiore che a poche città meridionali d'Italia. (15) Gargallo Tommaso. Traduzione delle- opere di Quinto Orazio Fiacco — Lib. i." sat. 6*. (16) Il Vulture. — I due versi di Orazio nella sua ode quarta del libro terzo < Mefabulosae Vulture in Appulo'Altricis extra limen Apuliae^ ecc. > ed il « pios errare per lucos > han dato campo a non poche dispute tra i dotti e gli antichi scoliasti. Fuvvi tra gli altri per- sino il Bentley, il quale sostenne essere esistita una balia di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno del pargoletto prese parte, tenendolo addormentato in su le ginocchia, fuori la porta della sua casa rurale in Ve- nosa. Gargallo traduce : Da pueril trastullo Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla soglia -«( 232 )»- De r Apula nutrici, amar faruimllo Giaceva sul V\lL?r appulo, di faglie Tutu a nuazi arhuscelli Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^ mmgelli. Ma ben considerando questo bisticcio di Voltar appulo oltre la soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si chiarisce che T Apula nutrice per Orazio era Venosa , usando il tutto per la parte, cioè la Puglia Daunia. Plinio, (libro 2. capo 12.) disse e Dauniorum colonia Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la re- gione del Vultore, mentre il Vulture era situato nella Puglia Peucezia , quindi fuori dei confini della Puglia Daunia, patria di Orazio. Con tale criterio resta dilu* cidato questo passo di Orazio, il certo un po' oscuro per chi ignora la topografìa delia regione pugliese. È certo che Orazio intese parlare, nominando il Vulture , della catena appenninica minore dopo il Vulture, cioè i monti alle cui pendici Venosa era situata, che in quei tempi erano copèrti da fitte boscaglie, come una buona parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte Alto ecc.). Infatti accenna in seguito alla foreste di Banzi, {saltu- sque bandinas\ ad Acerenza {celsa nidum Acherantiae)^ a Forenza {humilis Ferenti)^ che son tutti luoghi che fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra- scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio avesse inteso parlare delle pendici del Vulture, come oggi s' indicano, avrebbe dovuto far cenno di Atella, RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se non esistevano in quei -tempi , certo in tutto il perimetro della pendice del Vulture doveva esistere qualche traccia o zona di terra abitata, come la Rendina attuale, ove la taberna celebre è anteriore all'epoca romana della quale si discorre. I (J33j Del Vulture hanno ampiamente e dottamente trat- tato r abate Tata {Lettera sul Vulture 1778), Dau- beny {Narrative of on excursion to mount Vultur in Apulia— Oxford 1835), il prussiano Ermanno Abich, ^<^c- ed i dotti italiani Tenore e Gussone {Memorie sulle pe- regrinazioni in Puglia nel I834)i Ferdinando Fonseca (Osservazioni geognostiche sul Vulture 1845), ed infine i professori Palmieri e Scacchi che nel 1852 fecero una relazione sul Vulture alla Reale Accademia delle Scienze. In quest'ultima dottissima elucubrazione si rilevano le seguenti cose, che importano pel nostro compito. L* intera periferia del Vulture, vulcano estinto, è di di- ciotto miglia, e V area di dodici miglia quadrate ; e dal luogo ove esistono tracce manifeste di eruzioni vul- I caniche del Vulture, sino a Venosa, circondata da letti di fiumi, formati da grossi ciottoli di selce viva e non scorie vulcaniche, e tra essi il Lapilloso così detto per tale cagione, sonvi circa miglia venti. Nel lato orientale del Vulture si trovano molte colline prolungate sin presso Venosa , che in linea diretta può ritenersi dieci mi- glia lontano dal Pizzuto di Melfi, una delle vette del Vulture. Presso la fontana di Trent* Angeli nel terri- torio di Venosa, e circa dieci miglia dall' estinto cra- tere del Vulture, vi sono grossi strati di conglomerato vulcanico, che non senza grandissima maraviglia si pos- sono quivi vedere a tanta distanza dal vulcano. La cosa che poi desta stupore a vedere si è che tra i pezzi, ve ne sono non pochi di gran mole, ed uno di esso si è trovato del diametro di un metro e mezzo, che dà presso a poco il peso di quattromila chilogrammi. Que- sta circostanza rende assai diffìcile immaginare che essi abbiano potuto essere lanciati a dieci miglia di distanza dalle eruzioni del Vulture , ed ha fatto pure pensare 30 -«( 234 )»- che qualche altro vulcano vi potesse essere stato tra il corso del fiume divento e Venosa. E nella statistica go- vernativa della provincia di Basilicata, redatta dal Man- darini nel 1839, il Vulture è così indicato: « Il Vulture, « vulcano estinto, si eleva tutto isolato in forma gigan- « tesca, signoreggiando il piano venosino, e tutto quel < gran tratto di delizioso paese che si spande sino al- « l'Adriatico, Puglia denominato , avendo una circon- « ferenza di circa ventidue miglia. » Con tali dati certi, come è presumibile che Orazio intendesse alludere a gite o stazioni sul Vulture pro- priamente detto, così lontano, e non della regione mon- tuosa che cinge Venosa, che pure era albergo di serpi e ceraste, e di cignali ed animali selvaggi, come si man- tenne per tanto tempo , e come in piccola parte lo è tuttavia. E poi, quello che spiega, secondo il mio parere, chia- ramente il tutto, sono quelle voci < palumbes fcUm- losae » . Gli augelli idalii son proprie le colombe di Venere. E come ripetutamente si è detto, la colomba mistica formava il culto di Orazio e di tutta la regione Ve- nosina. Nessun chiosatore o comentatore delle opere oraziane sinora conosciuto ha riflettuto a tale fatto rilevante , e non ne ha indicata questa congettura che basta a dilucidare l' oscurità del passo sopra in- dicato. (17) Gargallo Tommaso. Traduzione delle opere di Q. Orazio Fiacco, lib. 3®. ode 3*. (18) Idem, luogo citato, lib. 2*., ode 7*. lib. i®. ode 17*. ^( 235 )»- (19) Una compagnia estera progettava e approntava somme per una linea ferroviaria che avrebbe dovuto se- guire l'antica Via Appia, il che avrebbe arrecato gran benefìzio agl'Italiani (non ancora era ancora Roma la capitale d'Italia) ed accorciato di parecchie centinaia di chilometri la via che da Londra seguiva sino nel cen- tro della penisola italica , favorendo il cammino della valigia dell'Indie. La ferrovia avrebbe traversato anche le città di Presenzano, Benevento, Melfi, Venosa, Gra- vina, Altamura, Gioja, Martina, San Vito, misurando un percorso di 474 chilometri. Con tale ferrovia direttissima da Roma a Brindisi, l' etema città si poneva all' al- tezza della civiltà chiamata dai mutati tempi a grandi e sublimi destini, e si aprivano nuove fonti di ricchezze all'industria ed al commercio , perchè i forestieri e le mercanzie che transitavano per l'Oriente avrebbero pre- ferito tale via brevissima. Si volle per altri fini deviare, e solo nello scorso anno si sentì con giubilo comune presso Venosa il fischio della vaporiera. La quale prov- vida sebbene tarda giustizia resa a così celebri terre, si deve all'azione diligente di molti illustri patriotti, e par- ticolarmente del mio carissimo cugino comm. Giustino dei marchesi Fortunato, deputato al Parlamento italiano. (20) Gargallo Tommaso. Traduzione delle opere di Orazio Fiacco, lib. 1°. satira 7*. (21) Si noti al proposito strano casol Ero ado- lescente. I superiori del collegio dei Nobili in Napoli, dove feci i primi studii, mi condussero, come si usava spesso con tutti gli alunni, dal celebre medico Rama- glia. Venne il mio turno di visita. Non appena seduto, si vide con sorpresa il Ramaglia drizzarsi tutto sulla per- ( 236 ) sona, fare atto di somma maraviglia ed esclamare: Ecco una testa modella pel sistema di Gali. E restai delle ore a soddisfare la curiosità scientifica del dottore e dei suoi as- sistenti. Allorché dimoravo a Parigi, la mia testa produsse lo stesso efletto a molti dotti versati nella craniologia. Non so come chiarire questa mia specialità. Se non che oggi che scrivo, penso a quel Giuseppe de Chenier,il quale pure, come Orazio, scrisse satire ed epistole, e che toccan- dosi la fronte esclamava: Il y a quelque ckose la! « (22) Gargallo Tommaso, loc. cit. lib. i*^. sat. 6*. C23) Meibam I. Vita di Mecenate, (24) Gargallo Tommaso, loc. cit. lib. i®. sat. 6*. (25) Idem loc. cit. lib. i"*. sat. 6*. (26) Leopardi. — Della fama avuta da Orazio presso gli antichi. Discorso igi?. Piane multum miki facetia- rum contulit istic Horatius Flaccus^ memorabilis poeta,.,. Pronto, Epist. ad M. Caesar lib. i"* Ep. i** Pietro Gior- dani soggiunge : Quel menioraòilis poeta non mi pare termine di poca stima , bensì voglia dire degno di es^ sere citato. Ma vi sembra giusto, egregio Giordani, che ad Orazio Fiacco, princeps aeolium Carmen^ si usi solo la cortesia di dichiararlo degno di essere citato? Sa- rebbe lo stesso che dire oggi di Dante , che le opere sue meritano di venir lette, come se si trattasse d* un romanzetto d*un letterato novellino. (27) Gotthold Leissing.— Opere Volume IV. Lettere sulla letteratura. -M 237 )^ (28) Svetonio — Vita Morati. Walckenaer nella sua Histoire de la vie et des poésies d'Horace^ tomo 1°, pa- gina 320, così traduce errando : Si déjà^ mon cher Ho- race^je ne faime plus que mes entrailles^ fiuisses tu 7toir ton ami plus efflanqué que Hinnius i... (29) Ludovico Ariosto. — Satira i*. (30) Gargallo Tommaso. — Traduzione delle opere di Orazio Fiacco, lib. 2'. sat. i'. (31) Idem loc. cit. odi. (32) Idem loc. cit. lib. 2^. satira 4*. (33) Idem loc. cit. lib. 2**. epistola i'. (34) Idem loc. cit. odi. (35) ••• Gittando insegne e anello equestre e toga... Gargallo Tommaso. Trad. di Orazio Fiacco. Lib. 2*. sat. 7*. (36) Nella sala del consiglio della deputazione pro- vinciale di Basilicata, si ammira un bel quadro del ce- lebre pittore venosino, defunto, Giacomo de Chirico, che mi fece dono della fotografìa di esso. Orazio vi appare troppo vecchio e brutto. Non lo dipinse così Barrias nelle sue pregiate tavole incise a Parigi. (37) Gargallo Tommaso. — Traduzione delle opere di Orazio Fiacco, lib. i*. epistola 16*. (38^ Orazio — libro 2.* satira 7.* ( 238 ): (39) Gargallo Tommaso. — Traduzione delle opere di Orazio Fiacco. Lib. 2". sat. 4.* (40) Orazio. Libro 2.** epistola X, (41) Tommaso Niccolò d'Aquino « Delle Delizie Tarantine. Annotazioni del Carducci Atenisio al libro 4*. Napoli 1771 ». Donde ha ricavato il traduttore ed annotatore Cataldantonio Atenisio Carducci, che Orazio soleva venirsene da Venosa a Taranto, a bardosso col fante, di un muletto scodato? (42) L'attuale marchesa di Vacone è D. Marian- na Giusso, dei duchi del Caldo, sorella di D. Maria Teresa Giusso nei Correale dei duchi del Caldo, mia suocera. (43) Noél de Verger — Prefazione alle opere di 0- razio del Didot. Parigi 1855- (44) Gargallo Tommaso. — Traduzione delle opere di Orazio Fiacco,* lib. i*. ode 17/ (45) Idem loc. cit. lib. i.*^ ode 4.' ed ode 2.* (46) Idem loc. cit. odi, lib. i"*. 24. (47) Idem loc. cit. odi. (48) Hugo Religions, (49) Gargallo Tommaso.— Traduzione delle opere di Orazio. Epodi. — ode 4.* -«( 239 )»^ (50) Idem loc. cit. lib. !• ode 31.* (51) Idem loc. cit. lib. 2^ sat. 2.* (52) Idem loc. cit. lib. 2°. sat. 2.* (53) Idem loc. cit. lib. 3*. ode 29.* (54) Idem loc. cit. lib. I^ epistola 5.* (55) Idem loc. cit. lib. p. epistola 5.' ($6) Idem loc. cit. lib. i*. epistola 14.* (57) Idem lib. 4^ ode 9.* ($8) Idem loc. cit. lib. 2^ sat. 6.* (59) Svetonio — Vita Morati, (60) Gargallo Tommaso, loco citato, lib. i». Epi- stola 7.* (61) Lupoli M. A. Iter venusinum. Capo 4.^ Dis- sert. I.* (62) Idem. idem. Farao M. Frane. Lettera apo* logetica sulla Menippea di Pasquale Magnimi, Napoli 1795. (63) Seneca — Vita di Mecenate^ lettera 1 14. (64) Gargallo Tommaso, loc. cit. odi. ( 240 ) (65) Idem loc. cit. lib. 3'. ode 3'. (66) Idem loc. cit. odi. (67) Idem idem. (68) Seneca. Opere (69) Gargallo Tomm. loc. cit. lib. 2*. ode 17*. (70) Idem loc. cit. lib. i"". epist 8*. (71) Idem loc. cit. Epodi, ode i*. (72) Idem loc. cit. lib. 2*. ode 6*. (73) Svetonio. — Vita Morati. (74) Spera ab. cav. Giuseppe. Trad, deU Epistola ai Pisoni di Orazio. Napoli— Morano 1880. A tale esi- mio letterato, lucano, mio amico , professore di lettere italiane nel liceo di Montecassino, fo partire da queste carte un saluto ed un ringraziamento per molte prege- voli sue opere donatemi con dediche lusinghiere. (75) Leopardi G. — Della fama avuta da Orazio presso gli antichi. — Discorso 1817. (76) Quintiliano — Institutiones, i* parag. 96. (77) Petronio Arhitro— Satire. (78) Frontone. Lettera a Cesare^ libro l* satira i'. ( 241 ) (79) Leopardi G. — Della fama avuta da Orazio presso gli antichi, — Discorso, 1817. (go) Gargallo Tommaso. — Trad. di Orazio, lib. 30^ ode 30*. (%i) ¥éné\on—Dialogiu d^Horace et Virgile. 3» INDICE Al LETTORI. I. Prolegomeni II. La famiglia del poeta . . . in. Orazio in Roma ed in Atene IV. Relieta non bene parmula A... V. Dopo la tempesta .... VI. Mecenate pag- VII. Lusso e magnificenza Vili. Augusto IX. La villa Sabina . . X. Filosofia, religione, indole XI. Vita intima Xn. Gli ultimi anni del poeta . . Xin. L'eterno monumento oraziano Note I II 29 45 SS 7S 91 IDI 113 131 143 161 183 207 "■ "* '** UJM.IÉ II. 1..1. J. .t..^^UM.^u .1. ... .1. ... ^ ... >.. ^. .. g .É|..^ ^ .y ^, .ly.., ».^ ..^ ^ ^. | ^^ >.. ^ .L.. ^IfcHiilnlfcjtUlt^ 3 ■^ : '^ '' 7 '3 P PERE DELLO STESSO AUTORE n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag. 250, Tipi Di Angelis — Napoli, 1870. XTobiltà e 1)0rgh68ia — Un volume in 8*, pag. $00, Tifi Tarnese — Napou, 1877. Uemorìe storiche di Portici — 3* edizione — Un vo- lume in 8^ pag. 176 — Stabilimento Tipografico Vesuviano — Portici, I891. Presso Tautore — Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo Dei Conti Sì Bavoja— Un volume, in g*. pag. 109, Tipi Giannini — Napoli, 1886. ì
No comments:
Post a Comment